Biografie ottocentesche di Giuseppe Parini 9788862278973, 9788862278997, 9788862278980

Dopo una Introduzione generale sugli autori e sulle opere trascritte, seguita da una sintetica nota bio-bibliografica, i

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Biografie ottocentesche di Giuseppe Parini
 9788862278973, 9788862278997, 9788862278980

Table of contents :
SOMMARIO
INTRODUZIONE
ABBREVIAZIONI
CRITERI EDITORIALI
NOTA AI TESTI
LE BIOGRAFIE
COSIMO GALEAZZO SCOTTI
LUIGI BRAMIERI, POMPILIO POZZETTI
FRANCESCO REINA
CAMILLO UGONI
ANTONIO ZONCADA
GIUSEPPE GIUSTI
CESARE CANTÙ
FRANCESCO PAVESI
FILIPPO SALVERAGLIO
GIOVANNI DE CASTRO
VINCENZO BORTOLOTTI
INDICE DEI NOMI

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ED I Z I O N E NA Z I O NALE DEL L E O P E RE D I G I US E P PE PARIN I Istituita dal Ministero per i Beni e le Attività Culturali (D. M. 2 giugno 1999)

d iretta da g io rg io ba roni

Co m m issione sc ie nt ifica Giorgio Baroni, Presidente Franco Anelli (Rettore pro tempore dell’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano) Marco Ballarini · Paolo Bartesaghi Anna Bellio · Davide De Camilli Marco Elefanti (Direttore amministrativo pro tempore dell’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano) Edoardo Esposito · Pietro Frassica · Maria Goffredo (Direttrice pro tempore della Biblioteca Nazionale Braidense), Segretario Tesoriere Bortolo Martinelli · Silvia Morgana · Andrea Rondini Giuseppe Savoca · William Spaggiari · Corrado Viola

Ente che ha chiesto di istituire l ’ edizione

Istituzione conservatrice delle carte pariniane

S e de Biblioteca Nazionale Braidense Via Brera 28, i 20121 Milano, tel. 02/86460907, fax 02/72023910 MINISTERO PER I BENI E LE ATTIVITÀ CULTURALI

BIOGRAFIE OTT O C E N T E S C H E D I G I U S E P P E PA R I N I a cu r a di marco ballarin i e paolo barte s ag h i

P I SA · ROMA FA BR I ZI O SER R A EDI TORE MMXVII

A norma del codice civile italiano, è vietata la riproduzione, totale o parziale (compresi estratti, ecc.), di questa pubblicazione in qualsiasi forma e versione (comprese bozze, ecc.), originale o derivata, e con qualsiasi mezzo a stampa o internet (compresi siti web personali e istituzionali, academia.edu, ecc.), elettronico, digitale, meccanico, per mezzo di fotocopie, pdf, microfilm, film, scanner o altro, senza il permesso scritto della casa editrice. Under Italian civil law this publication cannot be reproduced, wholly or in part (included offprints, etc.), in any form (included proofs, etc.), original or derived, or by any means: print, internet (included personal and institutional web sites, academia.edu, etc.), electronic, digital, mechanical, including photocopy, pdf, microfilm, film, scanner or any other medium, without permission in writing from the publisher. * Proprietà riservata · All rights reserved © Copyright 2017 by Fabrizio Serra editore®, Pisa · Roma. Fabrizio Serra editore incorporates the Imprints Accademia editoriale, Edizioni dell’Ateneo, Fabrizio Serra editore, Giardini editori e stampatori in Pisa, Gruppo editoriale internazionale and Istituti editoriali e poligrafici internazionali. * www.libraweb.net isbn 978-88-6227-897-3 isbn elettronico 978-88-6227-899-7 isbn (rilegato) 978-88-6227-898-0

a gennaro barbarisi

S OM M AR IO 11 43 45 47

Introduzione Abbreviazioni Criteri editoriali Nota ai testi LE B IO GRAF IE Cosimo Galeazzo Scotti, Elogio dell’Abate Giuseppe Parini già pubblico professore della eloquenza sublime e di belle arti nel ginnasio braidense …, Milano, Motta, 1801. [Luigi Bramieri, Pompilio Pozzetti], Della vita e degli scritti di Giuseppe Parini milanese. Lettere di due amici. Seconda edizione riveduta con diligenza, ed accresciuta di Giunte notabili, Milano, Majnardi, 18022. Francesco Reina, Vita di Giuseppe Parini, in Opere di Giuseppe Parini, Milano, Genio Tipografico, 1801-1804, i-vi [trascrizione integrale della Vita, premessa al primo volume]. Camillo Ugoni, Della Letteratura Italiana nella seconda metà del secolo xviii , Brescia, Nicolò Bettoni, 1821, ii, pp. 300-327. Antonio Zoncada, Giuseppe Parini, «Rivista Europea», giugno 1846, pp. 673-720. Giuseppe Giusti, [Discorso intorno alla vita e alle opere], in Versi e prose di Giuseppe Parini, Firenze, Le Monnier, 1846, pp. vii-lxiii. Cesare Cantù, L’Abate Parini e la Lombardia nel secolo passato. Studj, Milano, Gnocchi, 1854, pp. 230-282. Francesco Pavesi, Della vita e delle opere poetiche di G[iuseppe] Parini, (1860 ca.), manoscritto inedito in BAMi, S. P. 6/6 I, 1, ff. 1-11r. Filippo Salveraglio, [Prefazione a] Le Odi dell’Abate Giuseppe Parini riscontrate su manoscritti e stampe, Bologna, Zanichelli, 1881, pp. v-liv. Giovanni De Castro, [Vita di Giuseppe Parini], in Poesie di Giuseppe Parini, Milano, ed. Carrara, 1889, pp. 5-29. Vincenzo Bortolotti, Giuseppe Parini. Vita, opere e tempi con documenti inediti e rari, Milano, Verri, 1900, pp. 1-258; pp. 286-288. Indice dei nomi*

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341 363 399 527

* L’indice dei nomi e la revisione dei testi sono a cura della dott.ssa Maria Luisa Giordano.

INTRODU ZIONE «

L

’ esercizio dell’arte fu per Parini una cosa sola con la fede nel progresso, con la profonda umanità, con la volontà di ricupero dei valori più autenticamente cristiani, con la ferma convinzione di poter agire sulla società attraverso l’educazione e – come allora si diceva – la diffusione dei “lumi”».1 Era naturale, di fronte a questa inscindibile unione di uomo-poetaeducatore, che i primi a custodirne gelosamente la memoria e a tramandarne la fama fossero quanti lo avevano conosciuto e apprezzato come maestro, e lo facessero spesso nella forma dell’elogio, particolarmente adatta a esprimere ammirazione e riconoscenza senza l’urgenza di puntuali verifiche. La qualifica di ‘discepolo del Parini’ sembra quasi costituire la caratteristica fondamentale di Cosimo Galeazzo Scotti, per tredici anni consecutivi fedele uditore del Maestro che si intratteneva con lui, e altri pochi eletti, non solo durante le lezioni, ma anche a passeggio e in casa propria, premurandosi pure di rivederne le composizioni. Anzi «non mai con maggiore alacrità incominciava le sue lezioni, che quando vi interveniva, con altri pochi uditori di merito, il suo prediletto Scotti».2 Ovvia, quindi, la presenza, tra i suoi scritti, di un Elogio dell’Abate Giuseppe Parini. Il genere dell’‘elogio’ fu frequentato con una certa assiduità dallo Scotti, ma non con esiti apprezzabili secondo Tiberio Abbiati: «L’idea che dello stile dell’Elogio aveva è falsa: lo trasforma in un genere gonfio, rettorico, dove esclamazioni e interrogazioni abbondano senza motivo per ingrandire anche le cose più comuni, rendere oscuro quello che non lo dovrebbe essere, simile alle bolle da sapone che belle e radiose, quando si vuole afferrarle, svaniscono».3 Non siamo di fronte quindi a una

1 Gennaro Barbarisi, Giuseppe Parini, in Storia della Letteratura Italiana diretta da Enrico Malato, vol. vi, Il Settecento, Roma, Salerno, 1998, pp. 569-633: 629. 2 Luigi Bellò, Memorie su la vita, e su gli scritti del sacerdote Cosimo Galeazzo Scotti, Cremona, Manini, 1823, p. 15. 3 Tiberio Abbiati, Novelle a spunto manzoniano di un discepolo del Parini professore del Manzoni, Milano, Amatrix, 1927, p. 186. Un giudizio decisamente negativo sul testo dello Scotti fu espresso da Carlo Rosmini in una lettera al marchese Trivulzio: «Ho ricevuto felicemente e l’Elogio di Parini, e la Canzone di Monti, e il libro di Mascheroni, e i versi greci del nostro Padre Fontana, e un Inno sull’Amicizia: di tutto vi ringrazio quanto so e posso. Troppo bene voi avete giudicato dell’Elogio di Parini. Quale sventura che il poeta più originale del sec. xviii, fosse sì maltrattato da questo frataccio che assolutamente par che deliri, che vuol dire molte cose, e non sa farsi intendere, che ostenta erudizione dicendo cose trivialissime e che fan nausea! Lo stile poi è stile da schiavone. Non parlo della tragedia, che assolutamente manca del buon senso. E quest’uomo è un professore d’eloquenza poetica ed oratoria? Poveri i suoi discepoli!» (in Lettere di Carlo Rosmini al marchese Gian Giacomo Trivulzio, da Rovereto, 21 gennaio 1802, nel codice Trivulziano 2033, c. 61r, presso la Biblioteca Trivulziana).

12 introduzione biografia vera e propria, anche se lo stesso Scotti sembra minimizzare lo scarto tra i due generi: «sebbene non abbia questa mia a dirsi propriamente una vita, non parmi che sia molto il divario, tra l’esporre i fatti coll’ordine naturale, ed il distribuirli coll’oratorio artifizio».1 Effettivamente poche, e scarsamente documentate, risultano le notizie biografiche, anche per una imprevista difficoltà – attribuita dallo Scotti al probabile desiderio di scriverne in prima persona – nel reperirle presso coloro che avevano una conoscenza diretta del poeta. Nacque, il Parini, nell’«abbietto» villaggio di Bosisio, terra del milanese presso l’ameno lago di Pusiano; e umili, naturalmente, furono i natali. «Uomo di sottilissimo e rettissimo ingegno»,2 insegnò per sei lustri, dapprima alle Canobiane, riunite poi con le Palatine nel Ginnasio di Brera di cui assunse la «suprema Prefettura». Negli ultimi anni partecipò alla vita politica mostrando sempre umanità e moderazione, in particolare quando fu sparsa la voce di una possibile guerra civile: «Io al sangue, io alle stragi? No, non sarà mai: troppo mi sono cari i miei concittadini, amo troppo la patria» [65]. Morto settuagenario nel 1799, fu sepolto nel cimitero fuori dalla Porta della città e sulla tomba fu messa un’iscrizione dell’abate Calimero Cattaneo, mentre un’altra ne fece apporre l’astronomo Barnaba Oriani sul piedestallo del busto scolpito dal Franchi. Nitido il ritratto fisico, dove tutto concorre a creare «viril venustà» [61] e persino il congenito difetto al piede era stato trasformato in opportunità di un più grave incedere. Naturalmente, trattandosi di un ‘elogio’, l’attenzione si focalizza sulle alte qualità del poeta e del «precettore». Nuova è la satira pariniana, giocata sull’ironia dall’inizio alla fine, in grado di pungere i difetti nella loro totalità, «maestra non meno della virtù, che ministra del pubblico bene» [15]. Imitata e inimitabile; Nicolas Boileau e Alexander Pope possibili punti di riferimento; critiche e malignità vengono puntualmente ribattute. La notizia, in questo caso, è quella di «molte parti eccellenti» della Sera udite dalla voce stessa del Parini. «Straordinario affatto» il precettore. Metafisico profondo, insegnava a ben conoscere la natura dell’intelletto, della fantasia e del cuore, determinando così i principi del retto pensare, del giusto immaginare e del commuovere. Si passa dalle lezioni dettate dei primi anni a un’esposizione più varia, con continui riferimenti ai grandi modelli, con la partecipazione non solo di studenti ma anche di uomini colti e perfino di dotti 1 Cosimo Galeazzo Scotti, Elogio dell’Abbate Giancarlo Passeroni, Cremona, Feraboli, [1804], p. 6. 2 Cosimo Galeazzo Scotti, Elogio dell’Abate Giuseppe Parini, [12]. D’ora in poi, come qui ora, nel trattare di ciascuna ‘vita’, i riferimenti saranno indicati nel testo con il semplice numero di pagina, tra parentesi quadra, sempre in tondo.

introduzione 13 stranieri. Inizia anche il ‘giallo’ del Trattato sopra le Belle Arti, opera diversa dalle Lezioni, composta su richiesta e costata quattro anni di fatica. A lavoro ultimato il ‘committente’ si mostrò del tutto disinteressato, per cui lo scritto rimase inedito e, dopo la morte dell’autore, scomparve. Parini poeta, professore e pure esperto di belle arti, il cui parere era ricercato per l’attuazione di affreschi e di scenari teatrali, non ignaro dei rapporti, in teatro, tra parola, musica e danza. Con le pagine dello Scotti inizia, infine, la costruzione di quel monumento alla personalità morale del Parini che troverà in Francesco Reina un efficace, anche se parzialmente fuorviante, divulgatore. Sincerità di giudizio, compassione e liberalità, lontano dall’adulazione, anche nel bisogno, e dagli eccessi – gli peserà, in anni più tardi, la nota partecipazione alla «brandana» –, dignitoso nel gesto e nella persona, di intatta probità negli scritti e nella vita: al servizio della società come poeta ed educatore, ma anche con l’esempio della sua personale integrità.1 Il primo documento pariniano complessivo è dato dalle Lettere di due amici, l’avvocato Luigi Bramieri e il padre Pompilio Pozzetti che vanno a comporre il volume Della vita e degli scritti di Giuseppe Parini milanese, edito nel 1801, con una seconda edizione «riveduta con diligenza, ed accresciuta di Giunte notabili» del 1802.2 Si tratta evidentemente di un’opera in fieri, come dimostrano la scarsità, genericità e inesattezza delle notizie biografiche che caratterizzano la prima lettera: ignota la data di nascita, genitori «oscuri, ma onorati», nessuna certezza sui precettori, ma certo «assai valenti» [15], lo stabilirsi a Milano del Parini già sacerdote, l’accenno a casa Serbelloni e all’Accademia dei Trasformati. Soltanto nella lettera IX Pozzetti comunica le notizie avute da un amico erudito residente in Milano, con la nascita il 23 maggio 1729 da Angela 1 Oltre all’Elogio dello Scotti si era inizialmente pensato di proporre anche quello di Ambrogio Levati, Elogio di Giuseppe Parini recitato nel giorno 16 novembre 1813 in occasione dell’aprimento delle scuole del Liceo di Milano in Porta Nuova, Milano, Bernardoni, 1813. Ma l’Elogio, pur animato da affettuosa partecipazione, non fornisce dati biografici significativi. Per informazioni su di lui, vedi Emilio De Tipaldo, Biografia degli italiani illustri, Venezia, Alvisopli, 1844, ix, pp. 174-177; Dizionario Biografico Universale, Firenze, 1844-1845, iii, p. 666; Roberta Turchi, Paride Zajotti e la «Biblioteca Italiana», Padova, Liviana, 1974; Giuseppe Acerbi, Paride Zajotti, Carteggio, a cura di Roberta Turchi, Milano, SugarCo, s. a., ma 1976, p. 80; Alberto Cadioli, La storia finta. Il romanzo e i suoi lettori nei dibattiti di primo Ottocento, Milano, Il Saggiatore, 2001, ad indicem. Senza novità il breve profilo del Parini fornito da Stefano Ticozzi nella continuazione di Giambattista Corniani, I secoli della letteratura italiana, dopo il suo risorgimento, Milano, Ferrario, 1832, parte decima, tomo ii, pp. 427-432; Defendente Sacchi, Vita di Giuseppe Parini, «Cosmorama pittorico», 15, 1835, pp. 17-19. 2 Della vita e degli scritti di Giuseppe Parini milanese. Lettere di due amici, Piacenza, dai torchi di Pietro Ghiglioni, 1801; Della vita e degli scritti di Giuseppe Parini milanese. Lettere di due amici. Seconda edizione riveduta con diligenza, ed accresciuta di Giunte notabili, Milano, Mainardi, 1802.

14 introduzione Maria Carpani e Francesco Maria Parini, mercante di seta con qualche fondo in Bosisio, in grado quindi di garantire una vita decente ai quattro figli, tre femmine e un maschio dotato di singolare talento e per questo inviato alle scuole pubbliche di Milano.1 Evidentemente più nota la vita dell’insegnante di retorica alle Scuole Palatine e di eloquenza a Brera, con gli ultimi anni tormentati dagli acciacchi e temperati dall’affetto di scelti amici coi quali discorre di letteratura e religione. Poi la morte, preceduta dalla dettatura del sonetto sul ritorno degli austriaci, e la vicenda delle carte vendute all’asta. Il tratto emergente della figura del poeta è senza dubbio quello della moralità che incide profondamente anche sulla sua produzione letteraria, perché l’elevatezza dello spirito, l’ardore della virtù e il giusto sentire di sé lo indussero a non essere prodigo dei propri versi in ogni immeritevole occasione e gli ispirarono una concezione della poesia che al bello unisse l’utile, sia nella sua forma positiva di promozione della virtù, sia in quella negativa della lotta agli errori e agli abusi sociali. Le pagine conclusive ci mostrano anche un Parini dotato di ingegno penetrante e di squisito discernimento, in grado di discettare sui più ardui temi teologici e meno dotato, invece, di memoria, fino a dimenticarsi di proprie composizioni. Largo spazio occupano le polemiche letterarie con il padre Bandiera e la notissima ‘brandana’, con le diverse opinioni e le reciproche accuse, dove un Parini fervido, e anche leggermente caustico, non eccede, sostengono gli autori, fino alla mancanza di rispetto, e seppellisce infine nell’oblio quell’obbrobrio della letteratura. Non si trascura, parlando di Parini scrittore in prosa, la sua attività giornalistica come autore, nel 1769 su proposta del conte Carlo Firmian, della Gazzetta di Milano. Favorevole fu il giudizio di tanti «saggi», e di Saverio Bettinelli in particolare, su un ‘giornale’ che presentava una gran quantità di libri utili ed era in grado di raggiungere un vasto pubblico. Senza trascurare gli interventi politici: nessuno meglio di Parini, che così attentamente aveva letto e meditato gli scritti di Machiavelli, poteva nobilitare un simile lavoro.2 1 ‘Rivalutata’ non è solo la famiglia, ma anche Bosisio, non più «abbietto villaggio», come si afferma nell’elogio dello Scotti, ma antico fondo dei Conti della Riviera che contava 125 e più famiglie. 2 Al Parini ‘gazzettiere’ si fa riferimento nell’ultima lettera, datata 4 ottobre 1802. Non manca, naturalmente, il racconto dell’aneddoto riguardante la proibizione del canto dei castrati in chiesa da parte di Papa Ganganelli, con le reazioni positive di molti, e in particolare di Voltaire. Per la collaborazione alla «Gazzetta Letteraria» (1772-1776) è sicuramente riconducibile al Parini la segnalazione dell’uscita della seconda edizione del Tableau  de l’Histoire moderne di Guillaume-Alexandre  Méhégan. Parini, che aveva dedicato alla prima edizione un lungo intervento sull’«Estratto della Letteratura Europea» (n. 2, aprile-giugno 1767, pp. 3-27), qui («Gazzetta Letteraria», num. 5, 2 febbraio 1774, pp. 39-40) si limita a riprodurre alla lettera alcune brevissime parti essenziali del precedente «Estratto».

introduzione 15 Concordano, i due amici, sull’importanza della sua attività educativa, non solo come precettore, ma soprattutto come insegnante di Retorica alle Scuole Palatine e poi come «Professore di Magna Eloquenza e di Belle Arti» al Ginnasio di Brera, di cui fu in seguito Direttore [17]. La bellezza e l’importanza di tale insegnamento riesce difficilmente immaginabile a quanti devono limitarsi alla lettura delle pagine rese pubbliche, ritenute, da tutti coloro che ebbero la fortuna di ascoltarlo, eccessivamente sintetiche. Nessun dubbio, naturalmente, sul valore poetico, che fa della sua morte una iattura in tempi di decadenza della poesia e di corruzione del gusto. Lui solo ha saputo usare la satira «con finezza insieme e gagliardia» e a paragone del Giorno impallidisce la produzione di Iacopo Soldani, di Salvator Rosa o di Benedetto Menzini. L’originalità del Parini è confermata anche dal confronto con gli imitatori, a partire da «quel troppo coraggioso Verseggiatore, che si diè a compiere il Giorno, mentre ancor viveva il Parini» [60],1 per giungere ai numerosi componimenti usciti a breve intervallo – come l’Uso, la Moda, la Conversazione – e altrettanto repentinamente dimenticati. Per sostenere l’ironia così a lungo e con tanta capacità di variarla opportunamente occorre un genio, altrimenti il risultato è soltanto la noia. L’altra faccia della medaglia, quanto a originalità, è costituita dall’indagine sui possibili ‘modelli’. Accanto al Riccio rapito di Pope si elencano, per quanto concerne «l’ironico motteggio», anche «le Saccenti di Moliere (sic), la Metromania di Piron, la Vita dell’insulso pedante Scriblero, l’operetta di Swifft (sic) sull’arte di sprofondarsi in poesia» [103] e si accenna poi a un introvabile poemetto intitolato Mores eruditorum2 e al Satyricon di Petronio «uno dei due famosi Autori, ch’ei reputò degni d’ingombrar le tasche e la reminiscenza del suo giovin Signore» [87-88] per concludere che, – in quest’ultimo caso, l’unico veramente degno di considerazione – di emulazione si tratta e non di imitazione pedantesca, resa impossibile, tra l’altro, dai costumi «disparatissimi». L’indagine sulle motivazioni che impedirono di portare a compimento il poema accanto alla salute cagionevole, alla sempre cangiante moda che rendeva inutili da un mese all’altro certi ‘quadri’ già descritti, enumera, a conferma della serietà morale del poeta, anche il timore di dispiacere a qualcuno e il ritenere viltà, «niente men turpe che l’insævire in mortuum», la satira di «una classe distinta, di cui i politici cangiamenti sopraggiunti allora nel proprio paese facean veder manifesta la total decadenza» [47]. 1 Dovrebbe trattarsi di Giambattista Mutinelli, La Sera. Poemetto, [ultima edizione], Venezia, presso Antonio Graziosi, mdcclxvi, edito in seguito insieme ai due poemetti pariniani: Il Mattino, il Mezzogiorno e la Sera. Poemetti tre, Venezia, presso Pietro Savioni, mdcclxxix. 2 Christian Adolph Klotz, Mores eruditorum, Altenburg, Richter, 1760.

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introduzione Puntuale anche l’analisi di pregi e difetti. Il verso pariniano lusinga l’orecchio senza rintronarlo; sempre amabilmente variato, spesso mimetico, si adatta perfettamente all’oggetto e alla situazione che vuole descrivere e ai sentimenti che deve esprimere. L’analisi di possibili difetti è considerata impresa «scabrosissima», ma dovuta alla studiosa gioventù. Scartata l’accusa generica di qualche verso trascurato o cascante,1 sembra più facilmente documentabile la presenza di espressioni prosaiche, di iperbati a volte viziosi, di un’eccessiva frequenza delle apostrofi, oltre a qualche inverosimiglianza o superfluità. Un’accusa particolare è affrontata nella lettera a Egeria Caritea2 dall’avvocato Bramieri. Parini sembra non essere poeta del cuore: amore lo ispira soltanto debolmente, sostiene la destinataria; e poi troppo latino, troppo aspro. In realtà asprezza e oscurità dipendono dal nostro orecchio indolente di italiani abituati alle canzonette di Innocenzo Frugoni e di Pietro Metastasio, e Parini, oltre ad avere amato «di vivissima passione» [127], è eminentemente poeta del cuore se tale si definisce colui che conosce le passioni del cuore umano e sa trarne profitto a favore della virtù.3 Trovano posto, infine, in queste Lettere, anche due problemi che diventeranno centrali per la critica pariniana: quello degli inediti, con l’accenno al ‘sermone chiabreresco’ sulla Colonna infame e ai sonetti per Maria Beatrice d’Este e per la soppressione dei gesuiti, e quello più propriamente filologico con il riferimento all’affermazione dello stesso Parini che avrebbe annotato «sul margine di un esemplare de’ suoi poemetti alcuni miglioramenti da se fattivi, lagnandosi inoltre che taluno si fosse ardito di carpirglieli indiscretamente» [41].4

1 È nota, si obietta, la sua accuratezza nel labor limae; deboli possono sembrare alcuni versi soltanto se presi in se stessi, prescindendo dal contesto. 2 Si tratta della contessa Camilla Montanari, che aveva recitato in Pastorelle d’Arcadia nel 1769. Vedi Carlo Castone della Torre di Rezzonico, Opere, a cura di Francesco Mocchetti, Como, Ostinelli, 1816, vol. iii, p. 321. 3 Questa conoscenza del cuore sembra essere ben documentata oltre che nelle odi Le nozze, Il dono, Il pericolo, A Silvia, anche nell’Ascanio in Alba e dall’elogio di Carl’Antonio Tanzi, dove l’autore sostiene appunto che la vera poesia deve risvegliare i sentimenti e muovere gli affetti. 4 Una recensione della prima edizione – che non poteva quindi tener conto delle Lettere IX-X – apparve nel «Nuovo Giornale dei Letterati» di Pisa (Della Vita e degli Scritti di Giuseppe Parini milanese, Lettere di due Amici. Piacenza 1801, dai torchi di Pietro Ghiglioni in 8.º, «Nuovo Giornale dei Letterati», tomo i, Pisa, dalla Tipografia della Società Letteraria 1802, Articolo xvii, pp. 234-249). L’estensore dell’articolo concorda con i ‘due amici’ nella lode della originalità dei poemetti pariniani, della scelta delle immagini, della forza e singolarità dello stile, ma non risparmia qualche rilievo critico perché vi appaiono, a suo dire, «un certo abbandono, che non diletta; talvolta più la fatica che la forza, più la stentatezza che l’energia» (p. 241). Piuttosto negativo è invece il giudizio sulle Odi, ritenute per la maggior parte componimenti d’occasione, destinati a brillare un solo giorno, «mancano generalmente di un piano esatto, piene di espressioni ora basse e prosaiche, ora inverse e contorte; e prive di

introduzione 17 La seconda edizione delle Lettere di Bramieri Pozzetti era dedicata dallo stampatore Andrea Majnardi a Francesco Reina che si accingeva a pubblicare in sei volumi, tra la fine del 1802 e il 1804, le Opere di Parini, edizione che ebbe un ruolo fondamentale nel diffondere l’immagine di un letterato di robusta tempra morale e civile, sdegnoso di ogni compromesso, animato dalla religione degli studi e da fervidi sentimenti libertari e patriottici; le pagine della Vita, in apertura del primo volume, confermavano infatti il ritratto che, del poeta, veniva tracciato allora dal Foscolo nell’Ortis e dal Monti nella Mascheroniana. A quel Parini guardarono con ammirazione gli amici e gli estimatori, molti dei quali nutriti di spiriti giacobini. Fra coloro che avevano più o meno la stessa età del Reina erano Giovanni Torti, Giuseppe Bernardoni, Giovanni Rasori; tra i più giovani, il diciottenne Manzoni dell’Adda, dove del «buon cantor» Parini si sottolinea «l’irato ciglio e il satiresco ghigno», e poi le generazioni romantico-risorgimentali, dal Leopardi al De Sanctis.1 «Scrissi una Vita semplice, quale se la bramava l’ingenuo autore»,2 sostiene il Reina in una lettera indirizzata il 22 luglio 1801 a Diodata Saluzzo di Roero, e Vita e Opere ricevettero accoglienze molto disparate. In particolare, per quanto riguarda la biografia premessa al primo volume, Pietro Custodi mise in dubbio l’asserita intimità tra allievo e maestro; Giacomo Trivulzio la giudicò «cattiva», pur ricordando che il Bettinelli «la porta alle stelle»;3 in modo ideologicamente e vivacemente polemico si espresse, secondo previsione, il canonico Luigi Mantovani nel suo Diario politico ecclesiastico: Cominciando dal ritratto, egli è perfettamente rappresentato senza alcuna insegna di sacerdote com’egli era. Pare che l’editore non solo abbia avuto in mira di farlo credere al pubblico sacerdote forzato, ma ben anche cattivo cattolico […]. In tutta la sua vita, non si fa altro, che mostrarlo democratico dichiarato, amante del bel sesso, insofferente e caustico con chiunque si scontrasse di quella poetica felicità di stile che lusinga colla magia del numero l’orecchio e il cuore di chi ascolta» (p. 245). D’altra parte anche il severo censore è però poi costretto a sottolineare la «immensa distanza» esistente tra queste Odi – Il Brindisi; Il Piacere, e la Virtù; La Primavera … – e le sue migliori: la Vita Rustica, la Recita de’ Versi, il Pericolo e, soprattutto, Alla Musa, «ove se tolgansi i versi saffici mal cesurati, grandi e frequenti bellezze si vanno incontrando» (p. 249), e A Silvia «perfetta da capo a fondo, se pur si tolga qualche verso cascante e prosaico» (p. 245). Ancora approssimative risultano le conoscenze biografiche, come si vede dalla notizia della morte avvenuta il 15 agosto 1799 «nell’età di 65 ai 70 anni» (p. 249), mentre abbastanza arguto appare il giudizio sulle polemiche letterarie: «Gli scritti polemici, mancando quasi sempre della necessaria moderazione e ragionevolezza, fanno più sovente rider chi gli legge, che non procaccian lode a chi gli scrive» (pp. 239-240). 1 William Spaggiari, Francesco Reina editore di Parini, in Idem, L’eremita degli Appennini. Leopardi e altri studi di primo Ottocento, Milano, Unicopli, 2000, pp. 133-172: 134-135. 2 La lettera è tra le carte parigine (BNF, Mss. It. 1558, f. 231) del Custodi; citata in Spaggiari, Francesco Reina, p. 164. 3 Ivi, p. 139.

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introduzione

non acuto talento, e di men brillante conversazione, ingrato praticamente al suo maestro […]. Sceglie in tutta la vita dell’abate Parini quei fatti, e detti soli, che possono caratterizzarlo deciso democratico. Quindi l’ingratitudine ai nobili, che lo favorirono, la sconoscenza ai magistrati, ed al governo, che lo sussidiarono, e perfino la detrazione più falsa sulle opere virtuose dell’immortale, e grande imperatrice Maria Teresa […]. Un simile poeta meritava certo un lodatore più ingenuo, e imparziale, e non già uno scrittorello fanatico d’illustrare, avvalorare, e spargere le sue massime repubblicane a scapito dell’altrui riputazione.1

Effettivamente il canonico Mantovani doveva sentirsi piuttosto urtato dalla presentazione di un Parini costretto a un’educazione «infelice» com’era quella dei suoi tempi, «istrascinato» dalla volontà paterna alla teologia e al sacerdozio contro ogni suo desiderio, la cui libera fierezza non si sarebbe mai piegata, «senza l’invito altrui»,2 a mettersi al servizio della classe nobiliare, che considera ritrovo «di scioperati ed ignoranti» [XII] i convegni in casa della duchessa Serbelloni Ottoboni e che riconosce come unico pregio a Maria Teresa la generosità, sottolineando insieme che «donare l’altrui non è virtù» [XXI]. Tra le doti morali messe in risalto dal Reina,3 due spiccano in modo particolare: la capacità di amicizia per cui «tutto il suo era comune agli amici […] in tal generosa gara corrisposto» [LVII] e, più ancora, l’amore per la libertà. L’entusiasmo per la libertà cresciuto con la Rivoluzione Francese insieme con la speranza di giorni migliori per l’Italia, divenne «onesto tripudio» in occasione della conquista della Lombardia che vide Parini entrare a far parte della municipalità. Il suo ‘magistero’ in questo ambito si fondò, però, proprio sulla capacità di non cedere al fascino delle novità nemiche dell’ordine e della giustizia per cui, estromesso dal pubblico incarico, avrebbe detto: «Ora sono libero da vero» [LXII]. È uno dei tanti episodi dell’aneddotica pariniana particolarmente abbondante nell’ultima parte della vita del poeta ed esemplarmente organizzata dal Reina attorno alla figura di un Parini custode dell’inscindibile binomio giustizia-libertà. Nella stessa direzione ‘libertaria’ si muove l’apprezzamento del teatro alfieriano e l’apparentamento Parini-Alfieri. Sembrava a Parini che il solo Alfieri avesse penetrato nella Tragedia Greca, il cui scopo si era di rendere abbominevoli per sè stessi tiranni e tirannide naturale 1 Diario politico ecclesiastico, 5 voll., a cura di Paola Zanoli, Roma, Istituto storico italiano per l’età moderna e contemporanea, vol. ii, 1987, pp. 18-19. 2 Francesco Reina, Vita di Giuseppe Parini, in Opere di Giuseppe Parini …, vol. I, [VIII]. 3 Per avviare un semplice elenco: la capacità di moderare il proprio carattere impetuoso in modo da trasformare la «splendida bile» in «socratica ironia»; l’avversione nei confronti dei millantatori, bugiardi e adulatori; la nobile alterezza che deriva dalla coscienza della propria dignità; la fierezza con i potenti accompagnata dall’urbanità con gli infimi e gli uguali; la tenacia che lo induceva a piegarsi solo quando lo richiedeva la ragionevolezza…

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compagna del delitto, e d’infiammare con alti e arditi sensi il Popolo alla vera Libertà. Parini ed Alfieri magnanimi e liberi anche sotto i Re concepirono un’elevatissima idea di Libertà, adeguata ad anime veracemente Italiane, la quale sdegnosi li rendette e feroci contro la insolenza, la rapina, e la ipocrisía mascherate alla repubblicana [XXXII].

Incomincia a delinearsi, intanto, anche la fisionomia culturale del Parini, «acre ed ostinato» [IX] nel lavoro intellettuale; la cui capacità critica è ulteriormente acuita dalle polemiche letterarie; costante nella lettura non solo dei classici ma anche dei migliori italiani, Dante e Ariosto soprattutto, negli ultimi tempi, ma estimatore anche di Machiavelli che insegna a «pensare, parlare e scrivere liberamente» [LIV] e cultore di altre discipline collaterali utili in particolare all’insegnamento. Attorno al Giorno coagulano i problemi dei ‘difetti’ e della ‘originalità’ raggiunta, al di là delle difficoltà incontrate nella creazione di una lingua «famigliare», «innestando la Didattica, e la Drammatica alla Satira» [XIII-XIV], con l’inevitabile corollario del rapporto con ‘modelli’ e ‘imitatori’.1 Discordanti, rispetto alle motivazioni contenute nelle lettere di Bramieri e Pozzetti, risultano i motivi dell’incompiutezza del poema, dato che la causa fondamentale sarebbe da rintracciare, secondo Reina, nella «tema di non parer minore di sè nella pubblica opinione» [XXII]. L’analisi della produzione pariniana, colta nella sua varietà e specificità (gentile e arguto negli scherzi, bizzarro e faceto nei componimenti berneschi, naturale in quelli milanesi), si concentra per quanto riguarda la prosa – nobile, rapida ed energica – sull’importanza dell’insegnamento,2 ritenuto di un irresistibile fascino e insieme di un’assoluta precisione nella distinzione e analisi dei ‘principi’ di lettere e arti.3 1 Costituisce una novità, nel campo dei primi, il riferimento al Femia di Pier Jacopo Martelli, «unica opera che desse a Parini, per propria confessione, alcuna norma del suo verseggiare» [XIV]. Più tradizionali, per quanto riguarda la satira, i riferimenti a Orazio, Boileau e Pope, ma nessuno di loro, si precisa, ebbe l’idea di un poema apparentemente didattico; e se Parini eguagliò Pope e Boileau «per la giustezza de’ pensieri […] li vinse nella giustezza e bellezza delle immagini, e nella fecondità dell’invenzione» [XXXV]. Furono spinti all’imitazione dall’apparente facilità gli autori della Sera, dell’Uso, della Moda e delle Conversazioni che dimostrarono, con i loro mediocri componimenti, quanto gli scrittori originali siano inimitabili. 2 Parecchie osservazioni riguardano il Parini ‘educatore’ che ama l’ingenuità dei fanciulli, stuzzica l’amor proprio dei giovani, è capace di un rapporto intenso con i discepoli e di attenzione nei confronti del popolo, che deve essere convinto con l’istruzione, l’esempio e le buone leggi, senza urtarne la sensibilità e nemmeno i ‘pregiudizi’. 3 Il Reina, devoto raccoglitore di memorie pariniane, doveva necessariamente rimpiangere alcune perdite irreparabili, come quella del carteggio col Frugoni bruciato, insieme con altre lettere, da alcuni «barbari» dopo la morte del Parini e di un trattato consegnato al conte Johann J. Wilzek di cui però non ha mai potuto costatare de visu l’esistenza; mentre, d’altra parte, l’editore lamenta alcuni abusi come quello compiuto da Gambarelli con la pubblicazione di tre componimenti improvvisati e rifiutati dal Parini: Il piacere e la virtù, Piramo e Tisbe e Alceste.

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introduzione La Vita del Reina rimane comunque la «vera carta di fondazione del mito di Parini»;1 da quel ritratto infatti il Foscolo prelevò alcuni caratteri utili a delineare la figura di Didimo Chierico e gli stessi tornarono a fissare l’immagine pariniana in apertura dell’operetta morale dedicata dal Leopardi al poeta del Giorno:

Giuseppe Parini fu alla nostra memoria uno dei pochissimi Italiani che all’eccellenza nelle lettere congiunsero la profondità dei pensieri […]. Fu eziandio, come è noto, di singolare innocenza, pietà verso gl’infelici e verso la patria, fede verso gli amici, nobiltà d’animo, e costanza contro le avversità della natura e della fortuna, che travagliarono tutta la sua vita misera ed umile, finchè la morte lo trasse dall’oscurità. Ebbe parecchi discepoli: ai quali insegnava prima a conoscere gli uomini e le cose loro, e quindi a dilettarli coll’eloquenza e colla poesia.2

A Ludovico Di Breme che aveva definito il Parini adulatore della stessa nobiltà oggetto della sua satira, replicava John Cam Hobhouse proprio facendo notare che dopo quindici anni nessuno aveva ancora osato mettere in dubbio quanto scritto dal Reina sull’eccellenza morale del Parini, che la Vita aveva ormai assunto nell’opinione pubblica il valore di testimonianza storica e che, comunque, se il biografo poteva essersi mostrato impreciso in qualche dettaglio, non si era certamente spinto fino a «trasformare il vizio in virtù e la viltà in magnanimità».3 Intanto molti editori, anche stranieri, riproponevano le pagine biografiche del Reina, magari in versione ridotta, inserendole nei vari Parnasi o nelle raccolte di Vite e ritratti di uomini illustri, consolidando così il mito del Parini.4 1 Spaggiari, Francesco Reina, p. 142. 2 Giacomo Leopardi, Il Parini, ovvero della gloria, in Operette morali, a cura di Ottavio Besomi, Milano, Fondazione Arnoldo e Alberto Mondadori, 1979, pp. 183-184. 3 Spaggiari, Francesco Reina, p. 145. 4 Dopo la prima edizione del 1801 la Vita del Parini viene riproposta identica anche nell’edizione de Il Giorno di Giuseppe Parini milanese, Milano, Mussi, 1811, pp. vii-lviii. Nell’edizione del 1825, in due volumi, Milano, Società Tipografica de’ classici italiani, i, pp. iii-xxxiv, Reina arricchisce la biografia pariniana con una nota polemica – alla p. iii – contro Joseph Bocous, autore della vita di Parini, inficiata da grossolani errori, edita nel vol. xxxii della Biographie universelle ancienne et moderne, Paris, Michaud, 1822, pp. 566-569. Nella Serie di Vite e Ritratti de’ Famosi Personaggi degli ultimi tempi, Milano, Batelli, 18151816, ii, in due pp. n. n., precedute da un disegno di Sergent Marceau, inciso da D. K. Bonatti, alcuni passaggi della biografia pariniana sono riscritti e adattati al mutato clima politico della Restaurazione. Il profilo di Parini, ancora a opera di Reina, occupa il quaderno xviii di Vite e ritratti d’illustri italiani, Padova, Bettoni, 1815-’16, ed è prontamente recensito da Antonio Fortunato Stella nel tomo vi dello «Spettatore», 1816, pp. 12-13. La suddetta biografia, ridotta, compare anche in Vite e ritratti di illustri italiani, Brescia, Bettoni, 1820, ii, numero xlv, fascicolo di 7 pagine non numerate, preceduto dal ritratto di Parini disegnato e inciso da G. Garavaglia. Dai 13 brevi paragrafi, di cui la vita è costituita, sono scomparsi tutti i riferimenti politici.

introduzione 21 «Svolse con mirabile pazienza i libri degli uomini di cui descrisse le vite, e, quando potè, ne vide le opere inedite, ne consultò le epistolari corrispondenze, ne parlò coi viventi che li avevano conosciuti, ed intraprese viaggi per visitare letterati, per interrogare documenti».1 All’origine, dunque, degli articoli inseriti da Camillo Ugoni in Della Letteratura Italiana nella seconda metà del secolo xviii , – opera «animata da una profonda consapevolezza della missione civile e nazionale della letteratura»2 – starebbe questo minuzioso lavoro di documentazione testimoniato, per quanto riguarda Parini, dai riferimenti anche ad autori stranieri come Pierre-Louis Ginguené, Simonde de Sismondi3 e all’articolo «assai giudizioso» [315] di sir Hobhouse.4 Ne scrisse in maniera franca, non passionale, capace di dare «lume e splendore» ai letterati più degni senza nasconderne le debolezze, ordinando le biografie nel modo che meglio provvedesse a varietà e chiarezza. Però le divise in tre parti, ed espose nella prima la vita del personaggio che prendeva ad illustrare, diffondendosi talora con singolare compiacenza […]. Nella seconda parte ne analizzò con sobrietà e precisione le principali opere edite ed inedite, e toccò brevemente delle inferiori […]. Nella terza parte finalmente, studiato l’uomo ne’ sentimenti e negli affetti, ne ritrasse l’indole che cercò anzitutto nelle epistolari corrispondenze […]. Inoltre considerando che la storia delle lettere e delle arti si informa dalla natura dei tempi, […] delineò i personaggi in relazione coll’epoca, e diede risalto all’influenza de’ tempi sugli studi e sulle produzioni degli scrittori: testi-

Ricompare in forma molto sintetica anche in De Tipaldo, 1844, ix, pp. 86-91, cui segue una nota dell’editore (pp. 91-93), responsabile della riduzione (Reina era venuto a mancare nel 1825). I materiali preparatori della Vita sono conservati in BAMi, S/P 6/5, xii, 4 inserto 21. Alcune informazioni raccolte dal Reina sono state lasciate cadere o non sono confluite integralmente nella stampa. Tra le riedizioni moderne si segnalano: Francesco Reina, Vita di Giuseppe Parini, Lecco, Logos, Associazione culturale Parini, a cura di Paolo Bartesaghi, 1999; Francesco Reina, Vita di Giuseppe Parini, Milano, led, a cura di Giuseppe Nicoletti, 2013. 1 Gregorio Bracco, Di Camillo Ugoni bresciano, Brescia-Verona, Tipografia di F. Apollonio, 1868, p. 37. 2 Camillo Ugoni, Della Letteratura Italiana…, vol. ii, pp. 300-327. La citazione è tratta da Criscuolo, La nascita di un mito…, cit., p. 86. 3 Di Pierre Louis Ginguené Ugoni ha presente Histoire littéraire d’Italie par Ginguené, Milano, Giusti, 1820, t. ii, pp. 240-241. Il passo del Ginguené è riportato dallo Ugoni, Della Letteratura Italiana…, ed. cit., 1821, p. 97, nota 1. Di Jean-Charles Léonard Simonde de Sismondi, Della letteratura italiana dal secolo xiv , ii, Milano, Silvestri, 1820, l’Ugoni ha presente il profilo del Parini che lo scrittore svizzero traccia alle pp. 306-309. 4 Il riferimento è a John Cam Hobbouse, Historical Illustrations of the fourth canto of Children Arold containing dissertations on the ruins of Rome; and an Essay on Italian Literature. Nella seconda edizione, riveduta e corretta, London, Murray, 1818, il brano citato da Ugoni, è alle pp. 378-379.

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monio la vita di Alfieri, e per tacere di molte altre, quella di Parini, di Casti, di Filangeri, di Pietro ed Alessandro Verri, e dell’immortale Beccaria.1

Vita, opere e indole sono i tre momenti che ci presentano un Parini ancora avvolto dal manto del Romanticismo, sulla scia di Reina e della sua «gradevole vita», anche se di un romanticismo domestico, assolutamente spogliato di ogni eccesso. Appartenente a quella schiera di illustri ingegni che hanno i loro natali in «poveri tuguri e ignorati villaggi», fu anch’egli costretto dalle «fiere angustie» [301] ad affrontare percorsi contrari al proprio più profondo sentire. Le «fiere angustie» si riferiscono innanzitutto alla povertà – perpetua, secondo l’Ugoni – ma anche alle conseguenze dell’indole schietta e degli altrettanto schietti giudizi che gli «concitarono gran numero di nemici» per cui, alla morte del Firmian «per poco non gli fu tolta la cattedra, nè potè mai ottenere una casa meno angusta necessaria alla sua inferma vecchiaja» [304]. Il racconto corre veloce e lineare: gli studi, le prime esperienze letterarie, il lavoro alla Gazzetta seguito dall’insegnamento, prima alle Palatine e poi a Brera. L’aggregazione alla Società Patriotica e le riforme di Giuseppe II destarono l’interesse politico, che crebbe poi ai tempi delle ‘cose di Francia’, «e ne concepì egli speranze per la sua patria, che poi furon tradite» [305]. Alla Municipalità rimase finché poté operare per il bene pubblico, poco quindi, «e scioltosene fece segretamente distribuire a’ poveri l’intero stipendio» [306]. Morì povero, come era vissuto, mostrando con il proprio esempio quanto sia calunniosa l’opinione di «coloro, i quali dicono tutti i partigiani della pubblica libertà essere partigiani del proprio interesse» [306]. Un’arte non istintiva, la sua, sostenuta invece da continua e profonda riflessione sui moti del cuore umano e da studio indefesso dei classici, con il decoro come ideale fondamentale dello stile. Parini, in realtà, «non aveva men caro il manto filosofico della fronda poetica» e per questo cercò in ogni modo di ricondurre la poesia al suo compito originario «usando dell’arte al miglioramento dei concittadini» [308]. In questa direzione si muove Il Giorno, poema apparentemente didattico, condotto con ironia fine e insieme mordace, «onde il pungolo della satira penetra tanto più velenoso, quanto più è temprato nella lode esagerata» [310]. Lodata, per le Odi, la capacità di trovare il bello in argomenti di morale e di politica mai precedentemente trattati,2 Ugoni si diffonde nell’analisi dei Principi delle Belle Lettere, apprezza la varia fantasia e il gusto finissimo dei soggetti per dipinti, riservando invece una osservazione molto sintetica e per nulla elogiativa alle ‘opere minori’: «Il Parini ci lasciò pure 1 Bracco, Di Camillo Ugoni, p. 39. 2 Ugoni darebbe così avvio al filone «democratico o meglio democratico-sociale», che ebbe ampia diffusione verso la fine del sec. xix (la citazione è tratta da Criscuolo, La nascita di un mito, cit., p. 87).

introduzione 23 prose, elogi, discorsi, novelle e lettere, nelle quali tutte cose nulla vi è d’insigne, onde accrescere la fama di lui» [322]. Conclude la biografia il ritratto di un uomo capace di adirarsi di fronte ai «bassi costumi», dotato di grande spirito di osservazione e di un profondo senso di amicizia («aveva messo tutto il suo cuore negli amici») [325], di cui non si nasconde l’umana debolezza, «sconveniente a filosofo», di fronte alla bellezza femminile. In primo piano tuttavia rimane il ‘classico’ binomio amore della virtù-amore della libertà che gli meritò quel rispetto e quell’autorità di cui forse nessun altro letterato ha mai goduto in Milano e che lo rese guida esemplare della migliore gioventù. In rapporto con Giulio Carcano, Tommaso Grossi, Andrea Maffei, Giuseppe Rovani e Cesare Correnti, stimato da Manzoni e da Massimo d’Azeglio, Antonio Zoncada «come storico della letteratura e critico resta fedele a un onesto conservatorismo».1 Nella presentazione della figura e dell’opera di Parini l’‘onestà’ lo induce anzitutto a polemizzare con gli ‘scolari’ del poeta, autori spesso di più o meno fortunati ‘elogi’, prodighi di aneddoti, ma incapaci di comprenderne lo spirito. Ci pare pertanto opera di buon italiano, il tentare, frugando per entro i documenti di quella età, di ricostruire l’immagine morale di un uomo che il nostro Manzoni nella sua gioventù chiamava il divin Parini.2

In realtà l’analisi dei documenti risulta necessariamente parziale, ma non manca di dare buoni frutti nella lettura delle polemiche linguistiche, la «brandana» in particolare, guerra rabbiosa che può forse stupire se si pensa che si era alla vigilia della rivoluzione di Francia e che in quello stesso periodo il Beccaria si interessava di problemi ben altrimenti importanti, «ma io crederei che finora siasi giudicata troppo leggermente, stimandola non altro più che una questione di municipio» [689]. Invece, nell’ottica risorgimentale di Zoncada, Parini veniva ad anticipare tutto il dibattito che avrebbe attraversato l’Ottocento, in un intreccio tra lingua, storia e società che non a caso lo portava a rievocare per ben tre volte la cinquecentesca polemica Caro-Castelvetro. Alla fine Parini lascia in eredità al nuovo secolo alcune conquiste definitive: le relazioni che hanno le lingue tra loro; il nesso tra lingua, storia e credenze; l’aiuto che dà allo spirito l’apprendimento delle lingue straniere; l’apprezzamento dell’etimologia, soprattutto delle parlate dialettali e, contemporaneamente, l’aspirazione a una visione unitaria della lingua. Idee e principi che sono diventati tanto comuni «che più non sappiamo riconoscere nè manco il merito di chi pel primo li divulgava in Italia» [690]. 1 Cesare Repossi, La cultura letteraria a Pavia dalla Restaurazione alla metà del 900, in Storia di Pavia, Pavia, Banca Popolare Europea, 2000, vol. v, pp. 489-538: 505. 2 Antonio Zoncada, Giuseppe Parini, cit., pp. 673-720: 675.

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introduzione Il necessario rapporto con la società è evidenziato non solo per quanto concerne la lingua, ma per la letteratura nel suo insieme, con la sottolineatura del divario esistente, da questo punto di vista, tra la prosa – che, sollecitata dalle nuove idee provenienti dalla Francia, incominciava «a far lega colla filosofia pratica, a studiare i principii regolatori della umana società» [677] e quindi ad affrontare i problemi posti dalle istituzioni e dal diritto – e la poesia, ancora attardata su posizioni tradizionaliste. A colmare questo ritardo fu proprio Parini che seppe unire allo studio astratto dei libri scritti lo studio concreto del gran libro del mondo, e osò tentare in poesia, con l’arma formidabile dell’ironia, l’opera di riforma iniziata dai nostri prosatori (Pietro Verri, Cesare Beccaria, Gian Rinaldo Carli, Paolo Frisi…), mostrandosi così poeta nel senso più antico del termine, quando la poesia era tutt’uno con la sapienza civile e religiosa. Il successo fu tale da oscurare gli ‘eccellenti autori’ del tempo (Francesco Algarotti, Innocenzo Frugoni e Saverio Bettinelli), destinando insieme a un immediato oblio quanti tentarono di imitarlo. Con la pubblicazione del Mattino e del Mezzogiorno si aprirono le porte della carriera pubblica: gazzettiere prima, e professore di eloquenza al Ginnasio di Brera poi. Pur essendo il ‘corso’ la più «accreditata» delle opere in prosa, il giudizio dello Zoncada rimane molto equilibrato, anche per il confronto con le teorie di Moses Mendelssohn, Johann G. Sulzer, Christoph Meiners e Friedrich Schlegel, decisamente «più profonde», mentre nel Parini vi è maggiore chiarezza, per cui risultò alla fine più utile ai giovani uditori: se da noi «meglio che altrove si coltivò quella che diremo letteratura civile, fu merito in gran parte di queste lezioni» [704].1 L’attenta analisi di alcune risposte a interrogazioni governative comincia a mostrare l’importanza anche del Parini ‘funzionario’. Nei confronti delle idee d’oltralpe, e degli stessi francesi poi, la tradizionale formula di un Parini amante della libertà, ma non della licenza, è superata con la sottolineatura della decisa attività di contrasto messa in opera da chi volle essere «implacabil persecutore dei tristi che facevano mal governo delle pubbliche cose» [711]. La pubblicazione delle Odi consacra il «poeta filosofo», restauratore della poesia civile, che offre al pubblico quasi un «manuale del buon cittadino» [714], proponendosi, in questo modo, come educatore non soltanto dei giovani allievi, ma di un’intera generazione. Permangono, nel ritratto offerto dallo Zoncada, aspetti tradizionali, a volte non verificati, ma accompagnati da particolari sottolineature che 1 Mediocre imitazione del Metastasio è considerato l’Ascanio in Alba; di «elegante semplicità» [707] la descrizione delle feste, mentre i Soggetti per gli artisti denotano una profonda penetrazione nell’arte ‘sorella’ della poesia.

introduzione 25 ne rendono la ripresentazione meno scontata: la dura situazione di chi nasce con un ingegno superiore alla propria condizione sociale; la sensibilità, anche in età avanzata, all’amore «non querulo e molle ma tacito e profondo» [704]; l’episodio del crocifisso1 che si arricchisce di una singolare motivazione: non si deve togliere l’immagine di «colui che primo insegnava la vera uguaglianza agli uomini» [711]; le ‘dimissioni’ dall’attività politica «non potendo più reggere a quello spettacolo, veduta inutile l’opera sua» [712]. Fino alla conclusione, leggermente retorica forse, che ribadisce l’ottica ‘civile’ adottata dallo Zoncada: «Ricordiamoci che Parini è grande appunto perchè a quest’opera di riforma pagò il suo tributo generosamente, perchè il maestro, il filosofo, il poeta furono in lui una cosa sola col cittadino, onde si meritava il titolo di Socrate Lombardo, titolo che ripeteranno i posteri riconoscenti fino a che sarà sacro il nome di benefattore della patria» [720]. L’attenta analisi dell’epistolario ci consente di rilevare il complesso iter compositivo del Discorso2 di Giuseppe Giusti, a partire dal rapporto con gli amici milanesi (Manzoni, Tommaso Grossi, Luigi Rossari e Giovanni Torti soprattutto, che dovrebbe conoscere «vita, morte e miracoli» dell’amato Parini) per la raccolta del materiale, nonostante la decisione di «andare alle corte», senza fermarsi «a ogni osso di formica».3 Non può trascurare, ovviamente, quanto già pubblicato; non lo soddisfa, però, il libretto inviatogli da Le Monnier, al quale chiede, invece, l’edizione integrale del Reina e lo scritto dell’Ugoni. Man mano che il lavoro procede si precisano anche interrogativi,4 modalità e criteri: la scrittura sarà «più da galantuomo che da retore», senza la pretesa di sciogliere tutti gli enigmi, «contento se il lettore arriverà in fondo senza annoiarsi»;5 procederà dando «un colpo qua e un colpo là, pure d’arrivare in fondo e di dire l’essenziale», come avviene nei Saggi di Michel de Montaigne.6 1 Essendo stato tolto il crocifisso dalle aule pubbliche, il poeta avrebbe esclamato: «Dove non entra il cittadino Cristo, non entra nemmeno il cittadino Parini». 2 Giuseppe Giusti, [Discorso intorno alla vita e alle opere], in Versi e prose di Giuseppe Parini…, cit., pp. vii-lxiii. 3 Lettera ad Alessandro Manzoni, da Pisa, gennaio 1846 in Giuseppe Giusti, Epistolario, Firenze, Le Monnier, 1859, a cura di Giovanni Frassi, 2 voll., ii, p. 135. 4 A Cesare Giulini chiede «se è vero che Parini dimettendosi dal suo ufficio facesse dispensare ai poveri una parte della sua paga; se il padre di Parini aveva o non aveva una professione». Lettera del 1846, Epistolario…, cit., ii, p. 170. 5 Lettera a Matteo Trenta, da Pescia, 15 giugno 1846, Epistolario…, cit., ii, p. 168. 6 «Il Giusti – che fu grande ammiratore dei Saggi di Montaigne e che due (Sull’Educazione) ne aveva tradotti da poco col proposito di pubblicarli poi in un periodico di Firenze – volle, nel suo scritto sul Parini, seguire l’esempio dell’autore francese, e credette di raggiungere lo scopo abbandonandosi a divagazioni, per lo più di natura morale, esposte ora con spigliata naturalezza, ora invece con quella affettazione di naturalezza che fu poi uno dei difetti rimproverati alle sue prose» (Egidio Bellorini, Giuseppe Giusti, Roma, Formiggini, 1923, p. 70).

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introduzione Questo procedere senza un piano sicuro in un campo in cui non si era mai avventurato, genera anche il timore di un insuccesso; si scatenerà «un’orchestra di fischi» se qualche santo non l’aiuta: diranno che non vi è nulla di nuovo; i «chiarissimi» troveranno da ridire «perché non è scritto colle regole volute da loro»; alcune opinioni, non essendo ‘di scuola’, «faranno strillare classici e romantici»;1 gli rimprovereranno «d’aver tagliato corto sulle spese minute del tempo e della vita del Parini […]; che io non gli abbia fatto prediche addosso; o avranno dispetto che il panegirico non sia stato cantato sulle solite regole»2 [XIII]. Ci si mette poi anche l’editore a inserire a forza altri testi pariniani, smentendo il discorso introduttivo, e a fargli fretta, togliendogli quasi il libro di mano, impedendo così una ripresa del lavoro a mente riposata. Effettivamente le critiche non mancarono e, tutto sommato, furono quelle previste. «Un articolo d’un Giornale di costà parla di quel mio scritto sul Parini, e comincia dal dire che avrebbe aspettato da me di vedere il Parini presentato in un aspetto nuovo […]. Poi dice che la mia è una miniatura, uno schizzo […]. Finalmente mi ripiglia sulla scelta dello stile di quel lavoro, quasi che lo stile si scegliesse come il panno per farsi una giubba»,3 mentre il solito linguaio «di quelli del conciofossecosachè» gli rimprovera l’uso di una lingua da trivio, zeppa di scilinguature del volgo.4 Ad altri, però, piace. Agli amici di Milano, anzitutto, e Grossi gli scrive, a nome di Sandro (Manzoni), che «la tua prefazione gli è piaciuta, che v’ha trovato ben dipinti i tempi in cui il Parini fiorì, e l’influenza che esso ha esercitato su di qui», per tacere «della vivacità energica e brillante dello stile»5 e delle importanti riflessioni nuove e giuste. In realtà il primo a essere scontento era lo stesso Giusti che, in una lettera incompiuta, lamenta di non aver potuto vedere un volume del ’46 (probabilmente quello di Antonio Zoncada) che avrebbe di certo reso il suo lavoro «più esatto e più copioso».6 1 Lettera a Luigi Capecchi, da Pescia, 28 agosto 1846, Epistolario…, cit., ii, p. 182. 2 Lettera a Emilio Frullani, da Pisa, 28 novembre 1846, Epistolario…, cit., ii, p. 191. 3 Lettera ad Alessandro Manzoni, senza luogo né data, Epistolario…, cit., ii, p. 219. 4 Lettera ad Alessandro Manzoni, dicembre 1846, Epistolario…, cit., ii, p. 222. 5 Lettera di Tommaso Grossi a Giuseppe Giusti, da Milano, 7 giugno 1847 Epistolario…, cit., ii, p. 250. 6 Lettera a ignoto Epistolario…, cit., i, pp. 77-78. Nemmeno potevano essergli d’aiuto (e non solo per motivi cronologici) le poche pagine che Giulio Carcano scrisse su Giuseppe Parini nel 1835, pubblicate in rivista («Il Pungolo», l’anno dopo, pp. 7-10). Brevi riflessioni morali e non ricostruzione biografica. Carcano però usava due espressioni felici, rimaste nella storia della critica. Definiva infatti «socratico sdegno» (p. 8) l’ironia del Parini e racchiudeva la vita del Parini tra questi due estremi: da una parte lo dice «nato nello spregiato casolare del povero», dall’altra sentenzia con sicurezza «morì povero» (ibidem). Bisognerà attendere Filippo Salveraglio e Lodovico Corio per una valutazione diversa della situazione patrimoniale del poeta.

introduzione 27 Pro e contro non mutano di molto con il trascorrere del tempo. Giusti ci ha dato – sostiene Guerrieri-Gonzaga – una lettura intima e bonaria dell’uomo morale, dimenticando che la satira investe i costumi di tutta un’epoca e non può che nascere, quindi, da una coscienza critica, da una consapevolezza teorica che a Parini deriva dalla cultura degli enciclopedisti. Sul piano formale, poi, si tratta del solito abbaglio, da cui devono correggersi per primi gli stessi toscani, di voler scrivere «nella lingua della balia».1 Il lavoro del Giusti risulta in realtà pregiudicato, secondo Giacomo Surra, da preoccupazioni estrinseche: il desiderio di sostituire una prosa viva e scoppiettante a quella ‘pedantesca’ del suo tempo; l’immedesimazione nel soggetto con la conseguente «contaminazione di sè col Parini»;2 la volontà di piacere agli amici lombardi; l’anelito di italianità che fa del Parini solido baluardo «alla lue che cominciava a venirci addosso di fuori e che infettava già gli usi, la lingua, le lettere e la filosofia».3 Non avendo poi la preparazione necessaria per darci un ritratto vivo e vero del poeta se la cava con la furbizia del romanziere che, sul più bello di una storia, ti pianta in asso per iniziarne un’altra. Mancano un ordine, una logica, un progetto preciso e coerente, vi sono troppe divagazioni richiamate a forza da preoccupazioni di forma, di morale, di precettistica per cui l’autore non riesce a evitare una serie di sproporzioni tra quanto promette e quanto effettivamente dà, «tra la forma e la sostanza, tra gli argomenti e le digressioni».4 «E così è risultato uno zibaldone piuttosto che un discorso, una serie di giustapposizioni – più presto che uno svolgimento ordinato di concetti».5 Per una serena valutazione non bisogna dimenticare che si tratta di uno ‘studio introduttivo’ all’opera pariniana e non di una vera e propria biografia. Giusti lascia spazio, è vero, a numerose digressioni di ordine estetico e morale, procede per pennellate larghe e rapide nella presentazione della situazione sociale, politica e letteraria, a volte a forza di nomi o poco più, e non riesce del tutto a darci un Parini in carne e ossa per mancanza di approfondite ricerche in loco. E tuttavia proprio quella scrittura, – giustamente rivalutata – così personale e insieme così capace

1 Anche il Campini biasimò il tono «da perpetuo epigramma»; giudizio sostanzialmente condiviso da Carducci, con Giovanni Frassi, Ferdinando Martini e Carlo Romussi che ripetono più o meno le stesse cose. L’unico a schierarsi sul fronte opposto è il Micheli che al di là dell’iniziale «burlevole familiarità» sostiene che nel resto del discorso «il ragionamento ha un’andatura franca e disinvolta e la precisione e nobiltà della forma corrisponde all’acume delle osservazioni». Cfr. Giacomo Surra, Il discorso del Giusti sul Parini, «gsli», lxii, 1913, pp. 123-143: 129. 2 Ivi, p. 130. 3 Ivi, p. 136. 4 Ivi, p. 139. 5 Ivi, p. 142. Si salva, a parere del Surra, soltanto la trattazione del Parini municipalista dove non ci sono arguzie inopportune, lo stile è svelto e robusto e la figura del poeta «balza fuori da quegli aneddoti viva e interessante, e non si dimentica più» (p. 138).

28 introduzione di profonda sintonia, ha contribuito a rendercelo più umano e accessibile; senza nulla togliere alla sua integrità di uomo e di poeta. Il continuo vivace intervento della prima persona singolare, i vigorosi scorci e profili storici, la presa critica nei valori umani, poetici, stilistici, metrici di Parini sullo sfondo di una storia e di una teoria della satira fortemente personali, direi autobiografiche, che accomunano il descritto e il descrivente in un rapporto di fervido discepolato, fanno di questo saggio un momento importante della nostra coscienza satirica. Scritto poi in una prosa aperta all’uso vivo, perciò ricca di modi parlati e pullulante di richiami e di figure vivaci, ma fedelmente italiana […], innervata da una sintassi memore delle risorse logiche e retoriche della tradizione ma sveltite dall’alternanza di articolazione legata e paratattica, e spesso epigraficamente incisiva, da costrutti nominali, da disinvolte segmentazioni ed estraposizioni, costituisce la più matura e organica estrinsecazione di quell’acuto critico di poesia e teorico di poetica che fu Giusti in rebus suis et alienis.1

L’Abate Parini e la Lombardia del secolo passato2 – «lavoro assai pregevole, ma che lascia tuttavia molti malcontenti e detrattori»3 – si intitola lo studio pariniano di Cesare Cantù, ed effettivamente la Lombardia del secolo xviii, esaminata non solo nelle sue vicende storiche, sociali ed economiche, ma anche nel nascere di una cultura nuova, è la vera protagonista del volume. Si tratta di un’opera composita che riutilizza una massa notevole di dati che ostacolano, a tratti, un procedere più sciolto, ma offrono un quadro solidamente strutturato del Settecento lombardo. E Parini sembra proprio incarnare in maniera esemplare la vicenda della civiltà a lui contemporanea – seguita con maggiore attenzione proprio nel momento conclusivo, nel triennio ’96-’99 che vide il nostro poeta protagonista, amareggiato a volte, della vita cittadina – tanto da offrire spesso la possibilità non solo di una ricostruzione storica, ma anche di appassionate esortazioni a evitare gli errori del passato. Cantù non crede all’efficacia delle rivoluzioni; da buon riformista ritiene opportuno l’ingresso di Parini nella Municipalità, ma ancor più significativa l’opposizione alla demagogia, alle inutili vessazioni, e alla tirannide con la maschera della libertà. Significativa, al riguardo, è la lunga citazione delle pagine dell’Ortis: quelle pagine riflettono, infatti, la delusione sia del Parini sia del Foscolo, a conferma delle idee di Cantù. Il lavoro, pur caratterizzato da una forte soggettività, tanto che «è facile vedere come in più punti il Cantù identificasse il Parini con se stesso 1 Giovanni Nencioni, La lingua in Giuseppe Giusti, in Giuseppe Giusti. Il tempo e i luoghi, a cura di Maurizio Bossi, Mirella Branca, Firenze, Olschki, 1999, pp. 277-298: 286. Sintetico, e fondamentalmente positivo, il giudizio di Mazzoni: nel ritratto di Parini, Giusti (Poesie e prose di Giuseppe Giusti, Bologna, Zanichelli, 1935, pp. 149-151: 149) «si mostra piuttosto buon prosatore che dotto o acuto critico: ma compie con bravura ciò che si era desiderato d’avere, una presentazione dell’uomo e del poeta ai lettori delle opere di lui». 2 Cesare Cantù, L’Abate Parini …, cit. 3 Giuseppe Rovani, Le tre arti considerate in alcuni illustri Italiani contemporanei, vol. i, Milano, Treves, 1874, p. 105.

introduzione 29 e il suo andar controcorrente»,1 non è certamente trascurabile nella rassegna degli studi sulla biografia pariniana per la capacità di non accontentarsi del già detto e di fornire nuovi documenti. Avendo di mira, inoltre, l’illustrazione di un costume attraverso un comportamento esemplare, non può tralasciare il riferimento all’aneddoto, che si infittisce, anzi, negli ultimi anni, quelli in cui l’immagine pubblica di Parini diventa effettivamente modello e punto di riferimento. Per quanto riguarda l’opera poetica, l’attenzione si focalizza prevalentemente sul Giorno esaminato nel suo farsi, in relazione con la vita dell’autore, con una non banale analisi del verso sciolto e di alcune varianti, ma riservando uno spazio privilegiato al contenuto e al suo valore ‘documentario’. Critiche, come spesso gli accadde, ne ebbe dagli opposti schieramenti. Sul versante ‘interno’ «L’Amico Cattolico» si concentrò su alcune affermazioni che sembravano offensive nei confronti del clero e del suo operato,2 mentre la «Civiltà Cattolica» ritrovò nello scritto di Cantù diverse contraddizioni a riguardo dei filosofi francesi, dei nostri intellettuali e del Beccaria in particolare, e della Rivoluzione Francese, riconoscendogli per altro diversi pregi: la libertà di pensiero capace di non inchinarsi agli idoli di moda, il giudizio negativo su un governo che invade ogni spazio sociale e la sottolineatura del compito fondamentale del clero in campo educativo.3 1 Guido Bezzola, Lo studioso dell’età del Parini, in Cesare Cantù nella vita italiana dell’Ottocento, a cura di Franco Della Peruta, Carlo Marcora, Ernesto Travi, Milano, Mazzotta, 1985, p. 211. 2 «Come avviene dei più», si sosteneva, anche il Parini si fece prete «per servire alla volontà altrui, ed ai primi casi». Ma chi autorizza il Cantù ad affermare che la maggioranza del clero sia in questa condizione? si chiedeva il futuro cardinale Ballerini direttore della rivista ed estensore dell’articolo siglato X. Sul tasto dolente dei giudizi sul clero il Ballerini ritornava a proposito dell’abolizione degli ordini religiosi che avrebbe «chiuso uno sfogo alle famiglie numerose». Ma le convenienze domestiche non costituiscono motivo sufficiente per abbracciare uno stato che richiede tante virtù e sacrifici. La soppressione degli ordini religiosi va combattuta non perché priva di uno «sfogo» le famiglie numerose, ma perché priva «d’ottimi educatori i nostri figli, di zelanti catechisti i nostri prigionieri, di pietosi assistenti i nostri infermi, d’infaticabili missionari i nostri campagnoli». L’Abate Parini e la Lombardia nel secolo passato. Studii di Cesare Cantù, «L’Amico Cattolico» 1 (febbraio 1854), p. 107. 3 Col nome di filosofo, scriveva Cantù, si indicava «chi voleva il progresso a norma di certe idee; credeva all’onnipotenza dei libri; conosceva quelli dei filantropi francesi e degli enciclopedisti, traendone tanto amore pei fanti quanto disprezzo pei santi; mostrava dubitar di tutto; sorvolando molte convenienze mondane, e intitolando pregiudizii le credenze e le abitudini avite, in senso poco pacifico ripeteva spesso superstizione, fanatismo, filantropia, ragione, umanità, tolleranza» (L’Abate Parini e la Lombardia nel secolo passato, Studi di Cesare Cantù, «La Civiltà Cattolica» V (17 giugno 1854), pp. 671-682: 674 (la citazione nel volume di Cantù si trova alla p. 184). In realtà però altrove parlava, contraddicendosi, di un regno della ragione che soppiantava la tirannide dell’autorità e di veglie di saggi risultate fruttuose per i sociali interessi. Contraddittorio era pure il giudizio su Beccaria, definito uno dei più originali scrittori, ma aggiungendo poi che, per sua stessa ammissione doveva tutto agli enciclopedisti, a Jean

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Decisamente critico, ma per ragioni ben diverse, a riguardo degli scritti ‘letterari’ di Cantù (su Parini, Monti e Manzoni) si mostra Carmelo Cappuccio: Ma, a ben guardare, e in realtà i titoli stessi lo rivelano, queste sue pagine non si rivolgono alle opere letterarie di cui parrebbe volessero occuparsi. Sono piuttosto ricerche erudite sullo sfondo ambientale in cui operarono gli scrittori presi in esame: vaste raccolte di notizie, certo utili, ma piuttosto affastellate, senza una effettiva giustificazione e una valida prospettiva, e anche valutate secondo un moralismo angusto e aspro. Gli autori e le loro opere diventano un pretesto: e quando finalmente il Cantù ne tratta in modo diretto, si limita a raccogliere notizie e aneddoti biografici sull’autore o a esporre il contenuto delle opere, per darne un giudizio unicamente morale.1

Della vita e delle opere poetiche di G. Parini è il titolo posto in fronte alle diciannove facciate manoscritte che occupano i fogli 2-11 del primo fascicolo del ‘fondo’ Francesco Pavesi.2 L’interesse del Pavesi per Parini e la sua biografia si colloca in un punto ben preciso della fortuna del poeta, quando il mito di Parini poeta civile, divulgato dal Reina e dalla letteratura romantico-risorgimentale, subisce, verso la metà del secolo, i primi significativi ritocchi. Particolare attenzione merita l’esordio in cui dopo l’accenno al Giusti e al Cantù («sommo fra gli storici e i filologi moderni»), uomini «de’ quali è grande ventura il poter seguire anche a lunghissimi intervalli le vestigia», Pavesi afferma di discostarsi dai due sommi, ritenendo che il ritratto più vero di Parini sia quello che egli stesso ha tratteggiato nelle sue poesie, e in particolare nelle Odi, per cui il compito Baptiste D’Alembert, a Denis Diderot, «ad Elvezio, fin all’ignobilissimo barone d’Holbach». Lodava, il Cantù, l’intenzione dei nostri intellettuali che, se avevano troppo imitato «i Francesi e i filosofi della sensibilità, dai quali eransi desunti quegl’impeti di filantropia senza attualità nè sanzione religiosa, lo sprezzo del passato, le idee avventate sul commercio, sul governo, sulla giustizia», avevano però avuto il merito di cogliere il meglio di quella scuola che spargeva insieme «tanti buoni semi quanti micidiali» (p. 675). Ma come avevano potuto cogliere il meglio, si chiedeva perplesso l’estensore dell’articolo, se ne avevano ricavato idee false in campo filosofico, morale e religioso, disprezzo per il passato e giudizi avventati a riguardo del commercio e della giustizia? Contraddittorio sembrava, infine, il giudizio sulla Rivoluzione Francese, condannata dapprima come mancante di uniformità e di certezze perché partendo da supposizioni arbitrarie si dedussero sofistiche illazioni, ma passando poi ad affermare che «con logica inflessibile da santi principi dedusse scellerate conseguenze». Dunque, si trattava di «santi principi» o di supposizioni arbitrarie? E come è possibile dedurre conseguenze scellerate da principi santi «con logica inflessibile?». 1 Critici dell’età romantica, a cura di Carmelo Cappuccio, Torino, utet, 19682 [19611], p. 733. Cappuccio trova poi esplicita conferma del ‘sociologismo’ di Cantù in una sua affermazione che considera «nulla meglio che un esercizio filologico» il «rilevare la bellezza del comporre» del Parini. Dichiarazione che, secondo Cappuccio, denota «una rinunzia preliminare ad una qualsiasi indagine sul valore letterario dell’opera del Parini, e sonava anzi disprezzo per ricerche di tale natura» (p. 734). 2 BAMi, S. P. 6/6 I, 1.

introduzione 31 che egli si assume è semplicemente quello di rimuovere le ombre che inevitabilmente vi sovrappone il trascorrere del tempo, fornendo a chi legge le notizie necessarie per comprendere quanto era ovvio per i primi lettori. Sembra questo il metodo più adatto «a rifornire di soda letteraria erudizione, la mente de’ giovani, assai più che la lettura di certa storia letteraria sulla quale i giovani cervelli […] non fanno che affoltarsi di idee e di giudizj altrui, da scostarsi poi con tanto più di sicumera quanto meno costarono di studio e di riflessione» [2v].1 L’intento è quindi essenzialmente didattico, come confermato dagli appelli ai lettori, e ai ‘giovani lettori’ in particolare, sparsi nelle introduzioni alle singole composizioni. Una didattica che mette opportunamente in primo piano il riferimento al testo, leggendo d’altra parte la poesia pariniana come documento autobiografico, in grado, soprattutto, di illuminare in maniera diretta i tratti fondamentali dello ‘spirito’ dell’autore. Resta comunque da segnalare, al di là di ogni riferimento alla scuola, la riscoperta importanza delle Odi che sottrae il poeta al ‘dorato confino’ nel genere satirico in cui era stato spesso relegato, e la necessità di una critica ‘storica’ previa in funzione di un giudizio obiettivo. Una poesia, quella di Parini, ‘d’occasione’ nel senso più alto,2 e che a quelle occasioni occorre necessariamente ricondurre perché sia veramente compresa. Dei due numi tutelari, Giusti e Cantù, il primo in realtà scompare dalla biografia, per riapparire nel commento a singoli testi con giudizi a volte messi in discussione da Pavesi, mentre al secondo si affianca Giovanni Torti di cui si citano il Sermone primo sulla poesia per esprimere «la splendida bile che gli dovettero commuovere ne’ visceri la superbia prepotente, e il lusso stolto e ingiusto, l’ozio, la turpe mollezza, e la vanità di cuore» [4r] di certo mondo nobiliare; l’Epistola sui sepolcri a testimonianza di 1 Questo non esclude però l’opportunità di una introduzione generale – continua – dove raccogliere in maniera sintetica le notizie disseminate poi nel corso del lavoro, insieme con altre che esulano dalla illustrazione delle Odi e con un «generale apprezzamento delle virtù della poesia pariniana». Quanto affermato nell’esordio diventa ancora più perspicuo ricordando che lo specifico lavoro di Pavesi consiste nella traduzione latina delle Odi, così come fece con le liriche del Manzoni. Questo lavoro però ebbe minor fortuna e si riuscì a dare alle stampe solo La caduta, pubblicata con L’innesto del vaccino di Ilario Cesarotti (Scritti inediti pubblicati dal giornale Il Baretti. La caduta, ode di G. Parini, tradotta e annotata da F. Pavesi col testo a fronte. L’innesto del vaccino poemetto inedito di Ilario Cesarotti, Torino, Tipografia scolastica di A. Vecco e C., 1872). Pavesi non fu certamente l’unico a cimentarsi in questo lavoro di traduzione se il problema delle versioni latine era già stato affrontato, almeno per quanto riguarda il Giorno, da Bramieri e Pozzetti nelle loro Lettere, dove si metteva in risalto la difficoltà di giustificare una simile operazione pur conservandole un margine di plausibilità quale strumento che potesse consentire la fruizione dei testi pariniani da parte di lettori di lingua straniera. 2 «Egli si fu quindi che dall’amaro ghigno di Talia passò tanto spesso e facilmente ai melodiosi concenti di Calliope, quanti furono i casi, le occasioni, le richieste che gliene porsero il destro» [6r].

32 introduzione quanto alte fossero le sue lezioni, lontane da quei «semplici e nudi abbozzi» [5r] raccolti nei Principi di Belle Lettere; e, con abbondanza ancora maggiore, La visione di Parini che documenta il mutamento causato dalle disgrazie della patria: persa l’abituale serenità era diventato irritabile e intollerante di fronte a parole di conforto e di speranza che gli sembravano vane: i tempi miseri, che in peggio Ivan cangiando sempre, aveanmi tutte Le vene infette di cotal veleno, Ch’uom mai più lieto non mi vide, e male Io discernea, cui perdonar dovesse La cieca punta delle mie rampogne [8v].

La lettura ‘documentaria’ delle Odi induce sensibili spostamenti nella valutazione di determinate esperienze pariniane, come accade, ad esempio, per il compito di precettore, non più considerato faticoso peso a cui sottoporsi per necessità, ma espressione di amore paterno e di «pia» sollecitudine nei confronti delle nuove generazioni. E se la presentazione dell’uomo Parini risente in parte della mitizzazione iniziata dal Reina, abbastanza evidente è lo slittamento che ne fa, anzitutto, non il difensore della libertà e delle civili istituzioni, ma dei sani costumi e della migliore tradizione culturale nostrana. L’integrità morale spicca anche in rapporto all’agire politico; al di là del dilemma tra dimissioni per scelta o esclusione dalla Municipalità, davvero pesante è il giudizio che colpisce la Cisalpina definita «società briaca, […] politico manicomio, […] paese in balia al brigantaggio» [7r]. Tale severità non è però indice di una precisa scelta di campo a livello di politica realistica, ma assunzione di un diverso punto di vista, quello della ‘moralità’ appunto, del ‘servizio’ alla patria lombarda, come ribadito in rapporto alla «rioccupazione» della Lombardia da parte degli austrorussi: se in nome della libertà e dell’uguaglianza il paese era stato vittima del dispotismo militare e della licenza dei più vili e perversi, ora, in nome dell’ordine e della religione veniva dato in balia di altri «non meno vili e perversi ai quali il più gran merito e titolo al salire era il non avere mai fatto nulla, nè altro miglior modo soccorreva per far valere l’antica e ritornata devozione loro ai nuovi signori, che lo spioneggiare e il perseguire con atroce perseveranza quanti nelle diverse vicende della patria avevan sempre camminato nella via del dovere e dell’onore» [7v], tra i quali vengono ricordati i deportati del Cattaro e, naturalmente, lo stesso Parini che incorse nel rischio di perdere non solo la cattedra, ma anche la libertà personale, dovendo forse più alla infermità, che non alla specchiata illibatezza del suo carattere, il riuscire a evitare la persecuzione. Tutto questo ha ovviamente una ricaduta sulla sua produzione letteraria.

introduzione 33 Con lui, afferma Pavesi, la poesia ritrova «quell’apostolato civile cui l’aveva educata dalle origini la Musa dell’Alighieri» [4v] e quando l’eccessivo dilatarsi del disegno e il timore di «parere da meno di sé stesso» lo lasciarono assai titubante circa il possibile compimento del Giorno, tornò al primo amore riconducendo «la lirica nostra a quella virilità di concetti, a quella vaghezza, severità e magnificenza di modi e di forme ch’egli cotanto ammirava e gustava negli antichi poeti di Grecia e di Roma» [6r]. Che l’ammirazione faccia parzialmente velo, a volte, all’obiettività è abbastanza comprensibile, ma lascia un poco perplessi qualche cedimento al panegirico che induce a collocare il Giorno «per l’arditezza del concetto e per la generosità degli intendimenti […] ai fianchi della Comedia del sommo Ghibellino» [4r]. La ritrascrizione degli avvenimenti dell’ultima giornata si conclude nel segno della speranza cristiana: «abbandonò la terra colla calma dell’uomo che sa di finire alle porte della vera patria un lungo doloroso esiglio» [8v]. Palpabile è il rincrescimento per la ‘disattenzione’ nei confronti della sua scomparsa, pur con la scusante delle «gravi cure» di quei giorni. Pianto solo dai più intimi, ebbe una semplice iscrizione al cimitero di Porta Comasina; poi, a Brera, il busto voluto da Barnaba Oriani e scolpito da Giuseppe Franchi e il tempietto fatto erigere, a Villa Amalia di Erba, dall’avvocato Rocco Marliani. L’eredità pariniana apparve però da subito bene prezioso alla generazione successiva, sia in campo letterario, sia in campo morale. Evidente fu l’influsso su tanti scrittori di primo Ottocento, ma l’attenzione di Pavesi si concentra, ed è significativo, sul giovane Manzoni, disgustato da tanta poesia svenevole e artificiosa proposta nelle scuole. Si imbatté nei versi del Parini e fu amore a prima vista o, con le parole dell’autore, «quel giorno fu la rivelazione del Genio al Genio» [10r]; è nella poesia pariniana la sorgente più profonda del celebre proposito espresso nel carme all’Imbonati: «Meglio che le lodi del divo Parini ivi ripetute dal giovane poeta, il magnanimo sdegno contro ogni bassezza ed il verso franco, denso di idee, serrato nella forma, e armonizzante coi concetti», [10v] dicono quanta parte dello spirito pariniano si fosse già trasfusa in lui. Al di là del singolo esempio, pur altissimo, che sembra quasi accennare all’avvio di una linea lombarda, Pavesi vede in Parini l’anello di congiunzione che offre alla generazione successiva la possibilità di inserirsi nuovamente nel solco di quella letteratura civile e morale, iniziata da Dante e Petrarca, e fondata sui principi della ‘filosofia perenne’ [11r]. Insomma, con Parini la grande poesia italiana, erede di quella classica, ritrova finalmente ‘l’orma propria’. Una decisa svolta all’indagine biografica è impressa da Filippo Salveraglio, il cui interesse per gli studi pariniani è strettamente legato alla frequenza e all’influsso delle lezioni tenute da Carducci nella metà degli an-

34 introduzione ni settanta. Colte le capacità dell’allievo Carducci ne avrebbe favorito l’avvicinamento a Milano, dove Salveraglio approda però passando attraverso un periodo infelice a Mortara: mortis-ara, commenta.1 È lui stesso, del resto, a sottolineare l’importanza delle lezioni carducciane nella lettera indirizzata al maestro il 5 giugno 1878 [Carteggi Carducci 50, 28341]: Dal canto mio dopo trenta mesi di non facili ricerche intorno al Parini alle quali mi spinsero appunto quelle sue lezioni vorrei, o potrei dire al nuovo Trasone,2 per esempio questa, che i giudizi da lei espressi nella scuola colla consueta libertà e serietà trovano la loro piena conferma nei documenti, i quali mostrano pure in molta parte prive di fondamento le opinioni che dal Reina in qua si sono manifestate intorno ad un poeta che tanta importanza ha avuto nello svolgimento della nostra letteratura.

Le non facili ricerche portarono il Salveraglio nei principali archivi milanesi – Archivio di Stato, Archivio della Curia arcivescovile, Archivio notarile, Archivio civico storico s. Carpoforo, Archivio Sola-Busca – con risultati che non dispiacquero anche all’esigente Carducci, il quale lo raccomandò a Ferdinando Martini come possibile collaboratore al Fanfulla della Domenica: «Non te lo do per un gran bello scrittore; ma per un narratore sicurissimo».3 Con l’aiuto di documenti inediti e con una prosa piana e sintetica ci è raccontata la storia dei primi anni con il passaggio a Milano in casa della vecchia zia; l’esordio in campo letterario e l’entrata nel mondo delle Accademie, con relative polemiche; la frequentazione del mondo nobiliare e in particolare di casa Serbelloni dove continuò a essere, anche quando il duca Gabrio collocò i figli al Collegio imperiale, «tra i meglio accolti e tra i più costanti seguitatori della duchessa Maria Vittoria», con «grandissima utilità per il suo ingegno e pei suoi studi».4 Non mancò neppure qualche – molto contenuta – concessione alla bellezza femminile. Venuta a Milano nell’autunno del 1788, la bella ed 1 Lettera a Carducci, Mortara, 6 giugno 1878 [Bologna, Casa Carducci, Carteggi Carducci, 50, 28348]. 2 Il capitan Trasone è personaggio dell’Eunuchus di Terenzio e rappresenta il tipico soldato fanfarone. Il critico (‘imbecille’, lo definisce Carducci) è Tito Mammoli, di Forlì, direttore della rivista «Ateneo Romagnolo», sul cui numero del 15 aprile-primo maggio 1878, p. 60, erano comparse le accuse, che il Carducci riferisce a Salveraglio, di aver infamato dalla cattedra il Parini, rappresentandolo come un ‘gesuita’ e come uomo ‘venale’. 3 Lettera da Bologna, 14 settembre 1879 [Giosuè Carducci, Lettere, Edizione nazionale, xii, Bologna, Zanichelli, 1949, n. 2494, p. 162]. I possibili «saggi» riguardavano il Parini giornalista, Parini nella municipalità, Parini in casa Serbelloni e, nella lettera del 25 novembre 1879, le due ‘leggende’, dell’evirazione abolita dal Papa e dell’elogio di Maria Teresa. Nel numero del 28 dicembre 1879 del «Fanfulla» comparve effettivamente, alle pp. 2-3, l’articolo Giuseppe Parini e l’elogio di Maria Teresa. Carducci confermava il giudizio anche nella lettera del 19 marzo 1881: «Ho veduto la prefazione e le note alle odi del Parini; son fatte bene, e piene di notizie utili» [Carducci, Lettere, cit., xii, n. 2698, pp. 94-95]. 4 Filippo Salveraglio, Le Odi dell’Abate Giuseppe Parini …, cit., 1882, [XI].

introduzione 35 elegante veronese Silvia Curtoni Verza visitò più volte il Parini e gli scrisse poi qualche settimana dopo il suo ritorno a Verona. Il poeta le rispose con tre lettere da innamorato, ma tutto finì li. Particolarmente rivelatore della ‘ferialità’ e della ‘normalità’ che caratterizzano la figura del Parini proposta da Salveraglio è il brano seguente che potrebbe quasi fungere da ‘sommario’: E così, contento del presente, alieno dalle preoccupazioni che affaticavano le menti dei Verri e de’ loro amici, ricercato dalle dame, alle quali non era avaro di complimenti nè di sonetti ora gravi ora piacevoli, qualche volta piacevolissimi, il poeta della duchessa Serbelloni, della Castelbarco, della Mussi e della Castiglioni viveva tranquillamente e serenamente gli ultimi anni del nobil ceto. E quando la tempesta si rovesciò sulle superbe navi di Pietro Verri, di Gian Rinaldo Carli, del principe Kewenüller che piombarono sommerse, egli con la sua sdruscita barchetta si salvò dal naufragio [XXXII].

Dietro questa sintesi apparentemente irenica sta una documentazione che demitizza la figura del Parini costruita a forza di aneddoti ripetuti senza alcuna verifica. A partire dal discorso sulla povertà, del tutto relativa stando all’elenco di possedimenti, eredità, legati, cui si aggiunse, dalla fine del 1769, lo stipendio di professore. Particolarmente significativa, poi, la ricostruzione di due episodi legati al mito di un Parini libertario integerrimo. Il primo è quello della rinuncia all’elogio di Maria Teresa: le lettere di proposta e di accettazione e i verbali delle adunanze della Società Patriottica mostrano chiaramente che soltanto per impossibilità fisica e con rincrescimento il poeta rinunciò all’incarico, non perché il tema non gli fosse gradito, come affermato dal Reina e ripetuto da Zoncada, Giusti e De Sanctis. Il Parini stesso, del resto, aveva così concluso la sua prima lezione alle Scuole Canobiane: «Avvezzati meco, o valorosa gioventù milanese, su gli eccellenti esemplari alle dolci impressioni del bello e del grande […] e canta su l’epica tromba le virtù di Maria Teresa Augusta, Sovrana tua beneficentissima» [XXIXXXX]. L’altro episodio è quello delle ‘dimissioni’ dalla municipalità. Accertato che il Parini non si dimise, ma fu dimesso con altri sei componenti, «siam costretti a pensare», continua Salveraglio, «che il partito dominante fece congedare il poeta perchè egli non seppe risolutamente separarsi dai suoi vecchi amici e protettori» [XLVI], come mostra anche il fatto che al ritorno degli Austriaci il Parini fu minacciato, ma non perseguitato e anzi, pregato dalla Società dei Filarmonici, scrisse, poco prima di morire, il sonetto Predàro i Filistei l’arca di Dio. Quel che più conta, oltre alla precisa documentazione, è il mutamento complessivo che coinvolge la personalità del poeta, come già sottolineato a suo tempo da Francesco Novati. Nel libro di Salveraglio, affermava, «la figura del Parini, se perde quell’aria di rigida austerità, nella quale molti s’eran piaciuti e si piacciono d’invilupparla, ne diviene in compenso più vivace, più vera. I documenti che il Salveraglio ha raccolti

36 introduzione con amorosa diligenza ci fanno conoscere il poeta, l’uomo qual fu, non quale ce lo rappresentarono spesso: di costumi onestissimi, ma non così diversi da quelli de’ contemporanei»; insomma «un grand’uomo certamente, ma un uomo».1 Giovanni De Castro fu, nel «senso nobile della parola, un poligrafo, o meglio, un uomo versatile, sempre geniale, riuscendo a trattare argomenti svariatissimi e a farsi apprezzare da riviste d’ogni genere».2 La Vita premessa alle Poesie del Parini3 non offre documenti nuovi, materiali inediti che possano veramente approfondire aspetti trascurati o ‘mitizzati’ della vita e della personalità di Parini; mostra, però, una buona conoscenza di tutta la tradizione precedente, sia di casa nostra (Ugoni, Cantù, Giusti, Salveraglio, Carducci…), sia d’Oltralpe ( Joseph GrelletDesprades, Emile Du Bois Reymond, Alexandre Dumas, Auguste von Platen, Paul Heyse), offrendo quasi una iniziale storia della fortuna del poeta anche fuori d’Italia. Una buona sintesi, quindi, con rapide pennellate che tracciano il quadro storico-letterario in cui il Parini si inserisce: la vita delle Accademie (i Trasformati, l’Arcadia, gli Ipocondriaci), l’esordio letterario di Ripano Eupilino, le note polemiche con i padri Bandiera e Branda, affinità e distanze (cosmopolitismo e preferenza per le cose straniere, incuria nei confronti dell’arte e degli interessi spirituali, esaltazione del lusso e del commercio…) con il mondo del Caffè; i rapporti con le Istituzioni e la frequentazione delle grandi famiglie aristocratiche: «Se egli frequentò alcune case magnatizie, non vi lasciò a brandelli la sua dignità, ma vi si tenne a fronte alta e riuscì persino ad ottenere il rispetto di coloro, a cui fu largo di censura» [13b]. 1 Francesco Novati, recensione a Le Odi dell’Abate Giuseppe Parini, riscontrate su manoscritti e stampe, con prefazione e note di Filippo Salveraglio, Bologna, Zanichelli, 1882, «gsli», i, 1883, pp. 120-126: 120 e 121. Effettivamente la corrispondenza con l’editore Zanichelli e con il Carducci conferma più volte la visione, da parte di Salveraglio, dei manoscritti pariniani, allora posseduti da Cristoforo Bellotti. Le tesi del Salveraglio sono seguite e riconfermate da Lodovico Corio. In BAMi, R 205 inf., inserto 6, sono conservati i materiali da lui raccolti per una nuova biografia del Parini per le celebrazioni del centenario della morte del poeta. La documentazione raccolta dal Corio mostra una particolare attenzione alla situazione economica e alle vicende sentimentali. La biografia doveva toccare i seguenti aspetti (si riproduce il sommario di p. 12 del primo fascicoletto, con fogliettini di varia misura): nascita, giovinezza, prete, Casa Serbelloni; Odi Ripano Eupilino; D’Ancona e le fonti delle odi pariniane; Polemica contro il Bandiera – contro il Branda; Il Giorno; Le fonti; Amori; Professore Scuole Palatine; Giornalista; Povertà del Parini. Possedeva due case in Bosisio del valore di £ 3.000 l’una; Cittadino – Magistrato nella Municipalità; L’elogio a Maria Teresa; Morte; Influenza. Secondo il metodo della scuola storica, Corio fonda tutto sulle ricerche archivistiche. 2 Leopoldo Marchetti, Giovanni De Castro nel primo centenario della nascita, «asl», lxiv, 1937, pp. 530-550: 532. 3 Giovanni De Castro, Poesie di Giuseppe Parini…, cit.

introduzione 37 Un limite, dalle radici ben profonde dunque, può essere riscontrato nell’eccessivo credito concesso alla ‘letteratura’, alla poesia come ‘documento’, per cui l’inevitabile capitolo all’Agudio, ad esempio, trascina con sé – trascurando ogni indicazione fornita al riguardo da Salveraglio – il ritorno al quadro tradizionale: dopo la morte del padre Parini si trovò in condizioni economiche veramente precarie, quasi incapace di provvedere all’anziana madre, e soltanto dopo aver ottenuto la cattedra poté condurre una vita relativamente tranquilla. La figura morale è quella di un personaggio integerrimo, sia sul piano intellettuale, sia su quello politico-sociale, incapace di ogni adulazione e pronto ad affrontare difficoltà e fatiche pur di non venir meno alla propria dignità, maestro di libertà e insieme di moderazione. Il ritratto politico è ancora, sostanzialmente, quello del Reina, tolte alcune spigolosità eccessive e alcune interpretazioni ormai improbabili. Come quella, ad esempio, del mancato elogio a Maria Teresa. E tuttavia resta la nostalgia per quel modello idealizzato, soprattutto quando avvolto dall’alone luminoso dell’arte, per cui sarà ancora Foscolo a trasmettere «ai più tardi nepoti una immagine imperitura» [23b] del venerando vecchio. È l’Ortis, quindi, a offrire il ritratto ideale, probabilmente condizionato anche dalla prospettiva storica, in questo caso assolutamente senza sfumature: «Il nembo francese fu sconvolgitore, ma pure valse a purificare l’aria, fugando la grassa nebbia feudale; ma il nembo austro-russo si abbattè sull’Italia per ricondurvi le tenebre barbariche e gesuitiche» [23b]. Tra i noti sconvolgimenti appare come esempio di retto amor di patria un Parini colto sostanzialmente per aneddoti: la fascia tricolore che diventa cappio, il cittadino Parini che non entra dove è stato estromesso il cittadino Cristo … fino alla battuta conclusiva del morire in musica. La ‘novità’ è costituita dalle parole del Parini, conservate dal Prof. Paolo Brambilla1 e comunicate da questi al Cantù che fece riudire la voce del maestro nell’adunanza in cui l’Istituto Lombardo decise di porre una piccola lapide per segnalare l’abitazione del poeta in Brera. Il discorso, raccolto negli Atti dell’Istituto Lombardo del 9 novembre 1865, ha l’efficacia dell’apoditticità posta al servizio della moderazione che vuole la pacificazione e non ulteriori tensioni e sconvolgimenti: bisogna usare indulgenza, dimenticare i torti ricevuti, acciocchè si dimentichino i torti fatti […]. Se avranno senno, la prima cosa negheranno a sè il gusto, agli altri la licenza della riazione, la quale della politica fa maschera alla vendetta o alle ambizioni […]. I cospiratori, i migrati, son buoni per agevolar la vittoria, son sempre tristi per organizzarla […]. Chi perseverasse in azioni sovvertitrici 1 Il prof. Paolo Brambilla, docente di geometria e algebra, era collega di Parini a Brera. A lui Parini, sul letto di morte, la mattina del 15 agosto, dettò il sonetto Predàro i Filistei…, con alcune varianti.

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bene sta che sia represso e punito: ma non confondano coi misfatti il pensiero e la coscienza, quand’anche questa fosse erronea […]. Se così non si farà, passeranno da un disordine senza grandezza a un ordine senza dignità [24b-25a].

Seguono i funerali fatti nel «più semplice e mero necessario, ed all’uso che si costuma per il più infimo de’ cittadini», e poi le ‘onoranze’, scolpite nella pietra o, ancor più durature, edificate dalla poesia: Reina che ne acquista i manoscritti e cura la prima edizione delle opere; i Sepolcri del Foscolo, Monti con la Mascheroniana, il dialogo di Leopardi Il Parini ovvero della Gloria. «Parini, poscia Alfieri, spensero la letteratura delle inezie» è il giudizio del Botta1 che conclude questa biografia il cui pregio maggiore è costituito, insieme con la sicura documentazione, dall’«efficace e limpida prosa»,2 facile alla ‘sentenza’, che conferisce al testo una capacità di immediata sintonia con il lettore. Giuseppe Parini. Vita, opere e tempi, di Vincenzo Bortolotti,3 è certamente il lavoro meglio documentato tra le biografie pariniane ottocentesche, con un gusto perfino eccessivo per l’inedito, come, del resto, chiaramente proclamato dall’autore stesso: Con documenti inediti e rari, precisa nel sottotitolo; e così si rivolge ai lettori nella Prefazione: La vita del Parini non fu presentata sino ad oggi completa e scevra da errori. […] Questo motivo mi condusse negli archivi e nelle biblioteche a rifare la vita del Poeta, e a tessere la storia degli avvenimenti che ebbero con lui relazione. […] S’indovina facilmente ch’io, tutto sollecito della ricerca del vero, abbia scoperto documenti che mettono in luce molte cose nuove, ed ingigantiscono la figura del Parini poeta, professore, municipalista e cittadino.

In realtà giusta soddisfazione e presunzione si mescolano in queste affermazioni, perché se alcuni punti delle vicende pariniane risultano certamente chiariti e approfonditi, il risultato non è tuttavia tale da stravolgere la figura di Parini, in particolare del Parini poeta. Forse dovrebbe essere sfumato il drastico giudizio di Emilio Bertana che in una sua Rassegna bibliografica4 afferma che le scoperte del Bortolotti non sono poi tali «da farne tanto strepito» e che «se anche avesse potuto produrre più copiosi e più importanti documenti, cotesto suo libro, come il lettore vedrà, sarebbe rimasto, per adoperare un’espressione eufemistica, un libro non buono». Le motivazioni sono dette con altrettanta chiarezza: è difficile imbattersi in un libro «peggio condotto e peggio architettato»; la distribuzione della materia «è più materiale che logica, le notizie si seguono senza nesso»; il libro è scritto male, anzi «scelleratamente». In1 Carlo Botta, Storia d’Italia continuata da quella del Guicciardini sino al 1789, Parigi, Baudry, 1822, vol. x, p. 246. 2 Marchetti, Giovanni De Castro, p. 530. 3 Vincenzo Bortolotti, Giuseppe Parini…, cit. 4 Emilio Bertana, Rassegna di studi pariniani, «gsli», xxxvi, (1900), pp. 131-159: 148-152.

introduzione 39 somma, avrebbe dovuto, il Bortolotti, accontentarsi di produrre e illustrare i documenti rinvenuti, ma «voler dare uno studio completo sul P., che ne abbracciasse vita, opere e tempi, lui, così scarso di coltura, di preparazione letteraria, così destituito d’ogni attitudine di mente a un lavoro tanto arduo, fu temerità imperdonabile».1 Segue la rassegna «dei principali documenti nuovi» indicati da Bertana come «le parti migliori dell’opera».2 Degno di qualche attenzione, afferma, per le vicende della ‘brandana’, è il rapporto del capitano di giustizia P. Paolo D’Andriani «da cui risulta che il p. Branda aveva cercato, nella famosa polemica, l’aiuto del governo e che il contratto con il tipografo Galeazzi per la stampa del Dialogo della lingua italiana fu fatto dal canonico Agudio»; l’ordine dato dal conte Firmian al vicario di giustizia G. B. Alessandri di recarsi alla bottega del libraio Giacomo Reycend per il sequestro di alcuni libri irreligiosi, su cui torneremo tra breve; la lettera di Anton von Kaunitz e la relativa risposta del Firmian che permettono di stabilire una più precisa datazione del lavoro del Parini alla Gazzetta di Milano; numerosi documenti riguardanti le riforme scolastiche raccontate ai capitoli V e VI; un documento da cui sembra certo che il Parini non abbia ottenuto il beneficio di S. Maria Assunta in Lentate; il progetto, «se proprio è di pugno del P.», per la costituzione di una R. Accademia d’Agricoltura e, infine, la famosa petizione del 3 termidoro dell’anno IV in cui Parini chiedeva «se la causa della libertà milanese si tratti a Parigi; se si tratti a Milano; se si tratti in ambidue i luoghi: o se veramente si tratti in nessuno dei due luoghi».3 Una delle pagine meglio documentate è certamente quella della riforma scolastica con la conclusiva istituzione del Regio Ginnasio di Brera. Riferimenti precisi emergono dalla corrispondenza Kaunitz – Firmian, dai vari dispacci, dalla Relazione di Giuseppe Cicognini e dalla proposta del Parini per l’istituzione di una Cattedra di Eloquenza, trasformata dal Kaunitz in Cattedra di Belle Lettere con conseguente modificazione del progetto. In realtà la narrazione sarebbe risultata più serrata e compatta rinunciando a una serie di excursus (l’esenzione dei professori dai dazi, il problema della censura, i vari progetti di diversa collocazione delle Scuole Palatine…) che la frammentano in un intrico di deviazioni, come esplicitamente ammette lo stesso autore: «La questione dell’insegnamento pubblico, […] ci ha un po’ allontanato dalla via che ci eravamo prefissa» [89]. 1 Ivi, p. 152. 2 L’attenzione ‘documentaria’ sembra essere tipica di questo fino secolo, complice la celebrazione del centenario pariniano. Per l’occasione era stata allestita una mostra alla Biblioteca di Brera con l’esposizione di interessanti documenti come l’Inventario della sostanza lasciata dal poeta, l’elenco dei libri, una lista dei crediti e dei debiti … Si veda, al riguardo, anche Michele Scherillo, Spigolature pariniane in documenti inediti, Napoli, Giannini, 1900. 3 Ivi, p. 151.

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introduzione Numerose altre digressioni, – come quelle sul progetto, naufragato, dell’Accademia di Agricoltura, sulla biografia del Firmian, sulle riforme di Giuseppe II o la tentata riforma dei teatri, con relativo pubblico concorso ecc. – se molto ci dicono dei tempi del Parini, poco aggiungono alla vita e alle opere. Un uso sovrabbondante di manifesti, mozioni, ordinanze, verbali delle sedute e altro materiale documentario caratterizza soprattutto il periodo della partecipazione alla municipalità sottraendolo al rischio dell’aneddotico, senza però aggiungere nulla di essenziale alla ‘presenza’ del Parini nella vita pubblica di fine secolo, se non qualche precisazione sulle interpellanze da lui presentate. La ricostruzione delle vicende risulta comunque abbastanza puntuale senza impedire, però, che i giudizi generali, sia dal punto di vista storico, sia da quello culturale, risultino più sommari che sintetici. Al buon governo del Kaunitz e del Firmian1 succedono le «mene degli austriacanti»; la libertà francese si trasforma in prepotenza e perpetuo latrocinio; la responsabilità dell’arretratezza culturale della Lombardia è addossata alle conseguenze residue della dominazione spagnola e alla negativa influenza dei «frati», mentre il positivo, anche per il Parini, sembra giungere tutto d’oltralpe, dai philosophes e dagli enciclopedisti. Quando Bortolotti veste i panni di critico letterario confina normalmente i propri giudizi nella generica esaltazione apologetica,2 con arditezze che, effettivamente, un poco stupiscono: davanti al grato spettacolo della bellezza Parini riuscì a «cavar suoni così armoniosamente nuovi e gentili, da superare il Petrarca medesimo» [94], e per quanto concerne la poesia civile è «da paragonare solo a Dante» [118]. L’opportuna attenzione alla situazione storica in cui nacquero le varie Odi finisce inevitabilmente con il condizionare anche il giudizio artistico secondo l’assioma di una bellezza o di una riuscita pari al coinvolgimento personale. Per questo la più bella è La caduta, nata da un profondo disinganno che stampava un’orma indelebile nell’animo sensibile del poeta «e produceva quel cumulo di dolore, che mandava suoni armoniosamente gravi e pungenti» [113], mentre nella Magistratura «manca quella potente ispirazione, che il poeta riceve conoscendo personalmente e molto davvicino l’uomo ch’egli loda» [133]. 1 Sembra risolta, senza dubbi residui per Bortolotti, la famosa questione dell’elogio a Maria Teresa richiestogli dalla Società Patriotica. «La lettera 26 dicembre, che lo stesso Parini scriveva al Firmian; quella del 2 gennaio successivo, che scriveva al Griselini, in risposta ad un’altra dello stesso giorno […]; gli appuntamenti delle adunanze della Società 30 gennaio, 22 marzo, 15 e 20 maggio 1781, dimostrano in modo chiaro e luminoso, che il Parini aveva accettato con perfetta cognizione di causa l’incarico di tessere l’elogio per la defunta imperatrice, e non aveva potuto compierlo per la sopraggiuntagli malattia» [104]. 2 Il Messaggio, ad es., risulta tra le odi più belle «per le sue peregrine finezze letterarie e pei modi coi quali il poeta veste i suoi concetti» [153].

introduzione 41 Categorie fondamentali nella presentazione della poesia pariniana sono, per Bortolotti, quelle di storicità e di verità e il legame con la situazione storica è determinante, naturalmente, soprattutto per il poema. S’egli avesse ingiustamente attaccato la nobiltà del suo tempo od avesse esagerato i suoi attacchi, certamente non avrebbe riscosso gli applausi del pubblico intelligente e della stessa nobiltà, e non avrebbe ottenuto le approvazioni dello stesso conte Firmian. Le frasi ed i versi del Giorno dal poeta furono largamente studiati, ed ogni concetto venne misurato con perfetta cognizione storica delle condizioni dell’ambiente [25].

E un’ode quale Il Bisogno sembra germinare quasi necessariamente dalle condizioni economiche in cui lo stesso Parini si dibatteva, da quelle dell’ambiente, e dalla ferocia dei procedimenti penali del tempo. Anche il progetto iniziale, la sua variazione e la mancata conclusione del Giorno hanno radici, fondamentalmente, in situazioni estrinseche. Nel famoso sequestro di libri irreligiosi presso il libraio Reycend dell’11 aprile 1768, appare il seguente titolo: L’avant diné, Le diné, L’apres diné, in perfetta corrispondenza con Mattino, Mezzogiorno e Sera. Si trattava, in realtà, del Diner du comte du Boulainvilliers, di Voltaire, diviso appunto in tre parti: Avant Diner, Pendant le Diner, Après Diner dove, parlando di filosofia, si ironizza sui precetti della Chiesa. Da lì il Parini, «che conosceva tutte [?] le opere del Voltaire», avrebbe «ricavato la prima divisione del suo carme in Mattino, Mezzogiorno e Sera» [38]. Ipotesi suggestiva, ma chiaramente smentita dalla cronologia perché, annota il Bertana, Le Diner, uscito con la falsa data del 1728, è in realtà del ’67. Anche il progetto quadripartito sarebbe nato in seguito alla pubblicazione, nel 1779, di una Sera anonima come continuazione del lavoro del Parini. Il concetto di poesia ‘storica’ o di ‘poesia-verità’ induce, naturalmente, a utilizzare i testi pariniani come ‘documenti’ – strano comportamento in un archivista –, in particolare nella nota e controversa, dopo il Salveraglio, questione della povertà del poeta.1 Al di là, infatti, dell’assegnazione del beneficio di S. Maria Assunta in Lentate al conte abate Carlo Melzi e non al Parini, a far testo è ancora una volta il celebre Capitolo al canonico Candido Agudio con la situazione miserevole in esso rappresentata. Alla nota questione, diffusamente e a più riprese trattata, si lega l’idea forse 1 Sulla stessa linea interpretativa del De Castro si pone Michele Scherillo: «Come si vede, non eran proprio tali da far invidia le condizioni economiche dell’abate professore! E chi, in questi ultimi tempi, ha creduto di correggere la tradizionale impressione che il poeta della Caduta vivesse e morisse povero, tacitamente o apertamente rinnovando contro di lui la malevola accusa di querulo e di scontento per abitudine e per gelosia di classe, s’è lasciato fuorviare, oltre che da una certa smania di dir cose diverse dalle correnti, pur da alcune cifre che ha con troppa fretta scambiate per denaro corrente» (Le poesie di Giuseppe Parini, a cura di Michele Scherillo, Milano, Hoepli, 19133, p. 77).

42 introduzione fondamentale per l’interpretazione della personalità (e di conseguenza della poesia) del Parini, secondo Bortolotti: quella di ‘stoicismo’. Egli avea sortito da natura, oltre l’ingegno straordinariamente poetico, probità, fermezza, mente lucida e serena, e la coscienza che si ribellava a tutto ciò che offendeva la moralità e la giustizia. Questa fu la chiave che disserrò tutto il suo armadio filosofico e satirico, dal quale si sprigionarono […] que’ versi che, fulminando usi e costumi del passato, sconfissero tutto il convenzionalismo del settecento e sgombrarono la via ai giovani che anelavano altissimi ideali. […] Come avremo occasione di raffermarlo più innanzi, era fornito d’un discreto stoicismo e, in mezzo a tanti insulti alla miseria […], sapea conservare quel certo sangue freddo, tanto necessario nello studio del vizio [4-5].

Ottenuta la cattedra, con relativo stipendio, inizia un secondo periodo nella vita di Parini che, pur senza mutare carattere, si mostra «più riguardoso e più sobrio nel giudicare le umane debolezze», [66] più largo di lodi, attento a non offendere quella classe con la quale intratteneva più frequenti rapporti. «È ben vero che qualche po’ di stoicismo gli resta ancora, ma la fine del Giorno rimane un pio desiderio degli ammiratori del Mattino e del Mezzogiorno» [67]. Anche l’impossibilità di terminare il capolavoro è quindi esplicitamente ricondotta alla nuova situazione e alle preoccupazioni per l’avvenire causate dall’avanzare dell’età e dalla malferma salute; fino a concludere con un’ipotesi radicale, per fortuna non verificabile: se il Parini «avesse goduto dello stipendio sino dal 1760, il Giorno non sarebbe mai stato cominciato», come non lo furono tanti altri lavori che «tra lo scemato stoicismo e le accresciute preoccupazioni» [85] rimasero puri fantasmi. Il cantore della vita rustica, che aveva stigmatizzato le frivolezze del bel mondo «mostrando la sua avversione a quelle disuguaglianze sociali che sono la negazione di Dio» [158] cercava, e otteneva, una vita più comoda che rendeva la sua poesia decisamente «moderata», finché gli si aprì dinanzi il terzo e ultimo periodo della vita «per il quale incedendo non [fece] più udire il suono della sua lira, ma solamente la voce della verità» [159]. L’apprezzabile acribia della ricerca documentaria si accompagna, dunque, nel volume del Bortolotti, a una visione quasi meccanica del legame tra situazione economico-sociale e prodotto letterario che ne denuncia la sostanziale estraneità ai processi e alle modalità della creazione artistica. Qui, sulla soglia del nuovo secolo, si arresta la nostra indagine sulle biografie pariniane approdata, dagli iniziali elogi, alla ‘trasfigurazione’ d’inizio Ottocento che ha consegnato alla storia il mito del Parini modello del poeta civile e del buon cittadino amante integerrimo della libertà della patria (repubblicana). Lo sforzo di uscire dalla mitizzazione e dall’aneddotica induce, da un lato, a maggior precisione e moderazione e, dall’altro, a una più seria ricerca documentaria. Manca ancora, però, allo scadere del xix secolo, nonostante i risultati ottenuti da Salveraglio e Bortolotti, un testo che possa essere considerato ‘la’ biografia del Parini.

ABBR EVIAZIONI a. [Bramieri, Pozzetti] = Della vita e degli scritti di Giuseppe Parini milanese. Lettere di due amici. Seconda edizione riveduta con diligenza, ed accresciuta di Giunte notabili, Milano, Majnardi, 1802. Bortolotti = Vincenzo Bortolotti, Giuseppe Parini. Vita, opere e tempi con documenti inediti e rari, Milano, Verri, 1900. Cantù = Cesare Cantù, L’Abate Parini e la Lombardia nel secolo passato. Studj di Cesare Cantù, Milano, Gnocchi, 1854. De Castro = Giovanni De Castro, Poesie di Giuseppe Parini. Vita e commento di Giovanni De Castro, adorne di 50 incisioni, Milano, ed. Carrara, 1889. Giusti = Giuseppe Giusti, Versi e prose di Giuseppe Parini con un discorso di Giuseppe Giusti intorno alla vita e alle opere di lui, Firenze, Le Monnier, 1846 Pavesi = Francesco Pavesi, Della vita e delle opere poetiche di Giuseppe Parini, ms. del 1860 ca., in BAMi, S. P. 6/6 I, 1. Reina = Opere di Giuseppe Parini pubblicate ed illustrate da Francesco Reina, Milano, Genio Tipografico, 1801-1804, i-vi. Salveraglio = Le Odi dell’Abate Giuseppe Parini riscontrate su manoscritti e stampe, con prefazioni e note di Filippo Salveraglio, Bologna, Zanichelli, 1881. Scotti = Cosimo Galeazzo Scotti, Elogio dell’Abate Giuseppe Parini già pubblico professore della eloquenza sublime e delle belle arti nel ginnasio braidense scritto da Cosimo Galeazzo Scotti C. R. B. stato suo discepolo, a cui si aggiunge una Tragedia intitolata Il Conte di Santillana, Milano, Motta, 1801. Ugoni = Camillo Ugoni, Della Letteratura Italiana nella seconda metà del secolo xviii , ii, Brescia, Nicolò Bettoni, 1821. Zoncada Antonio = Antonio Zoncada, Giuseppe Parini, «Rivista Europea», giugno 1846, pp. 673-720. b. «asl» = «Archivio Storico Lombardo». BAMi Veneranda = Biblioteca Ambrosiana - Milano. BAMi/a = Giuseppe Parini, Odi, a cura di F. Salveraglio, Zanichelli, 1881, segnato IV.Hie.AA.I.66. BAMi/b = Giuseppe Parini, Odi, a cura di F. Salveraglio, Zanichelli, 1881, segnato IV.Hie.AA.I.67. BNBMi = Biblioteca Nazionale di Brera - Milano. BNF = Bibliothèque Nationale de France - Parigi. DBI = Dizionario Biografico degli Italiani, Roma, Istituto della Enciclopedia Italiana, 1960-sgg. ENPM = Edizione Nazionale Opere di Giosuè Carducci, Bologna, Zanichelli, Il Parini maggiore, vol. xvii, 1952 (ed. consultata). ENPm = Edizione Nazionale Opere di Giosuè Carducci, Bologna, Zanichelli, Il Parini minore, vol. xviii, 1953 (ed. consultata). ENPa = Edizione Nazionale delle Opere di Giuseppe Parini diretta da Giorgio Baroni, Pisa-Roma, Serra, 2012-sgg. «gsli» = «Giornale Storico della Letteratura Italiana».

C R ITER I EDITOR IALI opo una Introduzione generale sugli autori e sulle opere trascritte, seguita da una sintetica nota bio-bibliografica ai testi, il presente volume si sviluppa con la riproduzione di undici monografie biografiche. Di queste una sola è inedita (quella di Francesco Pavesi, il cui manoscritto è conservato in Ambrosiana), mentre gli altri dieci documenti sono stati editi nell’Ottocento, sotto forma di elogio (quelli cronologicamente più vicini nel tempo a Parini), o di introduzione a volumi di opere pariniane, o, infine, di biografia vera e propria. La trascrizione segue fedelmente il testo di riferimento, con le note che ricominciano la numerazione pagina per pagina, tranne che per Cesare Cantù che ha una numerazione progressiva (con errata duplicazione della ventesima nota) e ricomincia da 1 a pagina 265 (Fine del Parini). Gli errori di stampa vengono segnalati in nota, tra parentesi quadra, mentre viene posta a lezione la forma corretta. La parentesi quadra indica sempre e solo l’intervento degli editori, espresso in corsivo. Non viene proposto alcun commento, trattandosi di lavoro che ha l’obiettivo primario di offrir insieme documenti non sempre facilmente recuperabili. Le pagine dell’opera trascritta vengono numerate in tondo con l’indicazione del numero messo tra parentesi quadra; quest’ultima precede la parola quando sia spezzata per cambio pagina, segnato da tratto verticale. Vengono ignorati gli ornamenti che, negli originali, talvolta accompagnano il numero di pagina. Ad inizio di periodo il carattere E seguito dall’apostrofo, se identificabile con sicurezza come forma verbale, è stato sostituito da È. Nel testo di Pavesi si segnala l’alternanza tra accento acuto e grave; si uniforma utilizzando l’accento grave. La scelta delle fonti riprodotte si restringe al solo ambito ottocentesco, dall’Elogio dello Scotti – scolaro del Parini ed entusiasta auditore delle sue lezioni –, ad inizio Ottocento, alla Vita del Bortolotti, schivo ed infaticabile ricercatore di documenti inediti, pubblicata proprio nel 1900. Alcuni autori (Ugoni, Cantù) hanno aggiornato, arricchito, sintetizzato o modificato quanto già scritto su Parini. Altri (Giusti, Salveraglio) avrebbero voluto riprendere la monografia iniziale ma non tutti hanno poi realizzato il progetto. Rispetto all’opera nel suo esito finale, posteriore talvolta di diversi anni, abbiamo preferito documentare il momento iniziale, anche perché più rappresentativo del clima culturale della genesi del saggio. Si è quindi stabilito di dare la princeps, tranne che nel caso delle Lettere di due amici, libro a struttura epistolare dovuto a Bramieri e Pozzetti, edito nel 1801 e nel 1802. Nel breve volgere di un anno, il volumetto si arricchisce con l’aggiunta di due nuove lettere. Il libro muta completamente di volto rispetto alla precedente edizione del 1801, e la seconda edizione diventa di fatto il testo di riferimento anche per i lettori del tempo, che lasciano cadere in oblio le Lettere del 1801. Il testo di Pavesi è l’unico basato su di una fonte manoscritta. La prefazione biografica, che Filippo Salveraglio ha fatto precedere alle poche pagine di storia editoriale delle Odi e al testo critico delle stesse, è stata riconsiderata da parte del suo autore, con proposte di modifiche, annotate a pen-

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criteri editoriali

na o a matita, sulle due copie di lavoro conservate in Ambrosiana e qui siglate BAMi/a e BAMi/b. Viene riprodotto il testo base del 1881 (BAMi/b), mentre in apparato sono stati registrati – con la parentesi quadra redazionale – gli interventi successivi del Salveraglio, che ha postillato ora la copia BAMi/a (strumento di lavoro fornito dall’editore Zanichelli con tante pagine bianche: per la sua descrizione si rinvia alla nota ai testi) ora la copia BAMi/b (normale edizione commerciale), in previsione di una riscrittura globale della biografia pariniana, però non realizzata. Infine, per quanto riguarda il testo del De Castro, che si sviluppa su due colonne per pagina, abbiamo indicato con le lettere ‘a’ e ‘b’ le colonne rispettivamente di sinistra e di destra, in aggiunta alla cifra araba che indica la pagina. Solo per motivi contingenti resta escluso dalla presente silloge l’Albo pariniano predisposto da Giuseppe Fumagalli (Bergamo, Istituto Italiano d’Arti Grafiche, 1899) per il primo centenario della morte del poeta: libro di immagini e di riproduzioni fotografiche molto accurate (dovute a Carlo Vismara). Album facilmente reperibile poiché ristampato nel 1979, a cura dell’Amministrazione provinciale di Como. Nella ‘Nota ai testi’ confluiscono: – fonte utilizzata e motivazione della scelta; – biografia del critico: in genere sintetica, diventa più dettagliata (e con qualche nota sulla fortuna critica) per figure meno note (ad esempio Francesco Pavesi) o meno studiate come biografi pariniani (ad esempio Cantù, Zoncada, Giusti e Salveraglio); – bibliografia.

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NOTA AI TES TI 1. Scotti [1801] Fonte Si utilizza: Cosimo Galeazzo Scotti, Elogio|Dell’Abate|Giuseppe Parini|Già Pubblico Professore|Della Eloquenza Sublime|E Di Belle Arti Nel Ginnasio Braidense|Scritto|Da Cosimo Galeazzo Scotti|C. R. B. Stato Suo Discepolo|a cui si aggiunge una Tragedia|intitolata|Il|Conte di Santillana||Milano, MDCCCI|Presso Gaetano Motta Al Malcantone|Con permissione. Contenuto: pp. 3-6: [Dedica] All’avvocato|Giuseppe Beccalossi|Bresciano; Prefazione, pp. 7-10; Elogio, pp. 11-70; Il Conte di Santillana, pp. 71-sgg. Non più ristampato. Vengono riprodotte le prime tre parti (pp. 3-70): dedica, prefazione ed Elogio. Biografia Nato a Merate il 16 marzo 1759, studiò presso i padri Somaschi e poi al ginnasio di Brera, dove seguì le lezioni di eloquenza del Parini. Secondo la testimonianza di un suo biografo, Pietro De Angelis, i genitori lo avrebbero voluto avviare alla carriera forense: sarebbe stato il Parini, suo maestro, ad avviarlo verso la poesia. Ancora ventenne pubblicò una raccolta di Novelle presso l’editore Agnelli ed un certo successo ebbero anche i drammi storici, a partire dal Galeazzo Sforza, duca di Milano, composto per il teatro di società dei conti di Rosate a Brembate inferiore, alle cui decorazioni attendeva Andrea Appiani. Carattere malinconico e scontroso, entrò tra i Barnabiti nel 1792, lasciando il nome di battesimo Giovanni Battista per assumere quello di Cosimo Galeazzo. Insegnò Umanità Superiore alle scuole di Sant’Alessandro; passò poi al Collegio Imperiale dei Nobili (Longone) e nel 1798 vi ebbe come discepolo Alessandro Manzoni – rimasto al Longone fino a luglio 1801 –. Nel suo insegnamento, Scotti applicava i metodi didattici del Parini, da cui aveva imparato a mettere sotto agli occhi degli studenti le parti più importanti delle varie opere letterarie, perché ‘vedessero’ ciò che gli autori descrivevano. È probabile altresì che abbia istillato negli allievi un vero culto per Parini: non si può non prestar fede a quanto raccontava il Manzoni agli amici a proposito della viva emozione che suscitò in lui la notizia della morte del Parini, proprio mentre stava leggendo la Caduta. È probabile che il v. 22 del manzoniano Sermone terzo dedicato al Pagani, con la celebre definizione di «precettor severo» sia riferito allo Scotti. D’altra parte lo Scotti sapeva di essere accusato di rigore da parte degli allievi. In un appunto (latino) conservato presso l’Archivio di San Barnaba, scrive: «So che ogni giorno voi mi accusate presso tutti, specialmente presso i vostri genitori, di eccessiva severità e rigore. A dirvi la verità, questo mi fa piacere, perché tutti hanno da sapere che il vostro profitto è l’unica cosa che mi preme. Se non vi dessi da studiare, che succederebbe? Come potrebbero i vostri genitori e la

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patria contare su di voi?».1 Nel 1801 si trasferì al collegio barnabitico di San Marcellino di Cremona, da dove non si allontanò più e dove assunse l’incarico di docente di eloquenza nel liceo locale. Oltre a numerosi drammi storici e a novelle a carattere morale, scrisse diversi elogi (di Gian Carlo Passeroni, di Carlo Giuseppe Quadrupani, di Giambattista Biffi e di Giuseppe Parini). Senza appello la stroncatura degli elogi da parte dell’Abbiati: «L’idea che dello stile dell’Elogio aveva è falsa: lo trasforma in un genere gonfio, rettorico, dove esclamazioni e interrogazioni abbondano senza motivo per ingrandire anche le cose più comuni, rendere oscuro quello che non lo dovrebbe essere, simile alle bolle da sapone che belle e radiose, quando si vuol afferrarle, svaniscono» (Novelle a spunto manzoniano…, cit., p. 186). Ai tempi fu esaltato dal Bettinelli soprattutto per le sue novelle, composte sulle sponde del Brembo, nella villa Belgioioso, dove si recava per tentare di ristabilirsi dalle precarie condizioni di salute. Da qui nacque la raccolta Le Giornate del Brembo (1805-1809), dai contemporanei facilmente accostate alle Novelle morali del Soave. La soppressione degli ordini religiosi, compreso quello barnabitico (1810), fu da lui subita con disagio e turbò la sua esistenza. Tuttavia, con l’aiuto dei confratelli, poté mantenere il consueto stile di vita. Nel 1817, dopo la soppressione della cattedra di eloquenza, passò ad insegnare la Storia universale e particolare degli stati austriaci, riuscendo ad assolvere con dignità un compito per il quale non si sentiva particolarmente predisposto. Morì d’apoplessia a Cremona il 13 luglio 1821. Una testimonianza importante relativa ai rapporti con il Parini è costituita dalle considerazioni svolte dallo Scotti a proposito dell’ode La Gratitudine, incentrata sulla figura del Card. Durini. Tali giudizi critici sono riportati da Luigi Bellò nelle sue Memorie (vedi infra). Scotti scrisse a Bologna la lunga dissertazione e la inviò a Milano in due esemplari, uno diretto al suo precettore, Giuseppe Parini, e l’altro diretto al cardinal Durini (ivi, pp. 170-207). Doveva essere un primo avvio ad un commento di tutte le opere del poeta di Bosisio. Alla morte del Parini, compose un sonetto reso pubblico in un foglio volante (Bergamo, Stamperia Natali, s. a., ma 1799; copia in BAMi, segnata S.N.D.IV.21/5) introdotto dalla seguente dedica: In morte del celeberrimo poeta,|e pubblico professore di eloquenza, e di belle arti| nel gimnasio di Brera|l’abate d. Giuseppe Parini|d. Cosimo Galeazzo Scotti|professore d’eloquenza|del Collegio imperiale dei nobili di Milano|alla onorata memoria del maestro, e dell’amico.

Nel sonetto, Parini, «dell’Adda il Sommo Genio» (v. 3), viene guidato da Apollo all’Eliso, dove è atteso e conteso dai sommi poeti, filosofi ed artisti del mondo antico. Tutti lo vogliono accanto a sé ma il sommo nume lo designa a «gloria comun» per il «vario ingegno» (v. 14). Sia pure a fatica, dall’impianto mitologico del testo, lo Scotti riesce a far emergere come dominante l’aspetto della molteplicità degli interessi del Parini e della poliedricità del suo ingegno.

1 L’originale latino è in Tiberio Abbiati, Novelle a spunto manzoniano…, cit. in bibliografia, p. 54. Qui ci siamo avvalsi della traduzione di Giuseppe Maria Cagni, Alessandro Manzoni…, cit. in bibliografia, p. 12.

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Bibliografia Biografia universale antica e moderna, a cura di Pietro de Angelis, Venezia, Missiaglia, 1829, lii, pp. 160-161; Luigi Bellò, Memorie su la vita, e su gli scritti del sacerdote Cosimo Galeazzo Scotti, Cremona, Manini, 1823; Tiberio Abbiati, Novelle a spunto manzoniano di un discepolo di Parini professore del Manzoni, Milano, Amatrix, 1927; Giuseppe Boffito, Biblioteca barnabitica, Firenze, Olschki, iii, 1934, pp. 464-473 (con rassegna analitica delle opere) e iv, 1937, p. 440; Il generoso benefattore. Cosimo Galeazzo Scotti, a cura di Renato Marchi, Vigevano, Società storica vigevanese, 1991; Giuseppe Maria Cagni, Alessandro Manzoni allievo dei Padri Barnabiti, «San Francesco», rivista del convento francescano di Lodi, n. 60, a. xxvi, giugno 2013, pp. 9-17. 2. [Bramieri, Pozzetti] [1802] Fonte Della vita e degli scritti|di|Giuseppe Parini|milanese.|Lettere|di due amici.|Seconda edizione|riveduta con diligenza, ed accresciuta|di Giunte notabili, Milano, Mainardi, 18022. Nel 1800, Luigi Bramieri aveva già pubblicato: Lettera intorno l’abate Luigi (sic)|Parini al p. Pompilio Pozzetti, in «Memorie|per servire|alla storia|Letteraria e Civile», anno MDCCCC, primo semestre, parte II, Venezia, Pasquali, pp. 112-123. La lettera, datata 7 agosto 1799, ripubblicata con poche variazioni nelle due successive edizioni del 1801 e del 1802 come lettera iniziale del carteggio, corregge la svista della pubblicazione in rivista e riporta correttamente il nome di Parini (Luigi>Giuseppe). Qui si utilizza la seconda edizione del 1802 e non la prima, pubblicata a Piacenza dall’ed. Ghiglioni l’anno precedente, con solo otto lettere (I-VIII), perché la seconda edizione, pur a così breve distanza di tempo, è profondamente innovativa, più circostanziata nei dati e, soprattutto, si arricchisce delle lettere IX-X, conclusive del carteggio. Nel passaggio dalla prima alla seconda edizione, il testo delle prime otto lettere rimane inalterato. Viene invece modificato l’indice della terza lettera, nella parte riguardante «l’età, in cui venne a morte» il poeta: si rimanda alla lettera IX dove si forniscono indicazioni sicure e precise, raccolte nel frattempo dal Bramieri. Il testo delle Lettere viene riprodotto integralmente, compresa la dedica al Reina, indicato solo come possessore (e non ancora editore) dei mss. del Parini.1

1 Un riferimento esplicito al Reina è nella lettera X, datata 4 ottobre 1802, pp. [215-216]: «Consolatevi colla sicura speranza di vederlo [il sonetto composto per la soppressione dei Gesuiti] fregiare, insieme ad altri parecchi, la scelta raccolta che delle Opere Pariniane ha preparato in Milano il valente ed accuratissimo avvocato Reina». L’allestimento dell’edizione è quindi proceduto alacremente: se non già avvenuta, la pubblicazione doveva essere imminente.

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nota ai testi Biografia (Luigi Bramieri)

Luigi Bramieri nacque a Piacenza il 27 giugno 1757. Nonostante la passione per le lettere fu avviato a studi giuridici prima a Bologna e poi a Parma dove si laureò in utroque iure nel 1780. Nel 1786 ridiede vita all’antica Accademia piacentina degli Ortolani, che ebbe tra i soci anche Romagnosi e Pindemonte. Contemporaneamente fu vicesegretario della Società di filosofia e di belle lettere sorta nel 1784. Mediocre poeta, novelliere e drammaturgo, fu soprattutto critico letterario nelle forme della prosa accademica illustre: l’elogio storico e la biografia erudita. Sulle Memorie per servire alla storia letteraria e civile pubblicò una Necrologia letteraria per gli anni 1793 e 1794 che intendeva offrire un ritratto dei letterati italiani ed europei scomparsi in quegli anni. Nel 1806, venuto a mancare il padre, si dedicò all’insegnamento, prima nelle Scuole di San Pietro e poi nella sezione della università di Parma costituita a Piacenza nel 1814. Tre anni dopo Maria Luisa lo nominò segretario dell’università di Parma e preside della facoltà di lettere. Non ugualmente apprezzato come critico: la sua collaborazione fu rifiutata sia dalla «Biblioteca Italiana» che dal «Conciliatore». Morì per apoplessia a Parma il 6 aprile 1820. Come studioso di Parini, va ricordato anche per il suo tentativo di proporre un’edizione critica del Giorno (Parma, Mussi, 1805), utilizzando in modo diverso le varianti che per primo aveva recentemente raccolte il Reina. Di questa edizione scrisse il Carducci: «In questa edizione Luigi Bramieri intese a ricomporre di tra la moltitudine delle varianti ed emendazioni ed aggiunte cumulate nella stampa del Reina il testo de’ poemetti secondo la mente ultima dell’autore. Il lavoro fu condotto con molto giudizio e quasi in tutto accolto dai recensori più recenti» (ENPm, p. 364; per più dettagli, si veda ENPM, pp. 211-212). In particolare seguirono il Bramieri l’abate Mauro Colonnetti (Poesie di Parini nell’ed. dei Classici Italiani, Milano, 1841) e Cesare Cantù, nell’ed. Gnocchi, Milano, 1854. A differenza di Bramieri però, il Cantù lavorò con gli stessi materiali «ma con più artistico intendimento» (ENPm, p. 369). Se da questi cenni è possibile dedurre un certo apprezzamento di Carducci per Bramieri filologo, non altrettanto può dirsi della sua scrittura. Carducci riporta alcune pagine del Bramieri «per una mostra di quanto sia antica abitudine ai critici italiani, o che lodino uno di scriver bene, o che biasimino un altro di scriver male, lo scrivere sempre pessimamente loro» (ENPm, p. 249). Bibliografia (Bramieri) Emilio De Tipaldo, Biografia degli italiani illustri, Venezia, Alvisopoli, X, 1834-’45, pp. 231-233, a cura di Gian Francesco Rambelli; Pino Fasano, Bramieri Luigi, DBI, 13, 1971, pp. 749-751. Biografia (Pompilio Pozzetti) Nato a Mirandola il 16 gennaio 1760 Pompilio Pozzetti entrò a 15 anni tra i chierici regolari delle Scuole Pie facendo la sua professione l’anno seguente nella pieve di Cento. Dedicatosi allo studio delle umane lettere le insegnò a Cortona e dopo il corso di filosofia e teologia tenne scuola di umanità e retorica nei conventi di Volterra e di Firenze. Divenuto insegnante dell’appena eretto Collegio di Correggio, fu nominato nel 1793 Professore Onorario e Bibliotecario del-

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l’Università di Modena, ma l’anno successivo, venuto a mancare Girolamo Tiraboschi, Ercole III lo nominò Bibliotecario alla Estense. Anche negli anni turbolenti della presenza francese la sua moderazione e prudenza gli permisero di continuare nelle sue occupazioni scientifiche: nel 1800 divenne segretario della Società Italiana delle Scienze di cui stese gli annali. Chiamato nel 1807 all’Archiginnasio di Bologna vi diresse la Biblioteca insegnando contemporaneamente Storia e Diplomatica, cattedra soppressa l’anno seguente. Richiamato a quell’insegnamento nel 1814 da Murat, vi fu confermato dal governo austriaco. Morì il 17 aprile 1815. Oltre a lavori di interesse scientifico e ai molti panegirici di santi, scrisse su Leon Battista Alberti, Lorenzo Magalotti, Aurelio de’ Giorgi Bertola,1 Lazzaro Spallanzani, Francesco Guicciardini, Pietro Verri, Aulo Gellio e Dante. Bibliografia (Pozzetti) Punto di riferimento è Antonio Lombardi, Del Padre Pompilio Pozzetti, in Notizie biografiche in continuazione della Biblioteca Modonese del Cavalier Abate Girolamo Tiraboschi, Tomo III, Reggio, Tipografia Torreggiani e Compagno, mdcccxxxv, pp. 17-185. L’elenco completo delle Accademie alle quali era stato ascritto Pompilio Pozzetti e la bibliografia delle opere e degli elogi da lui composti sono contenuti nei due numeri di «L’Indicatore Mirandolese», a. x., settembre n. 9 e ottobre n. 10, 1886. Ai tempi degli studi per l’edizione critica delle Odi di Parini (1881) Filippo Salveraglio ne ha recuperata una copia consultabile in BAMi, S.P. 6/11 fasc. 7 e 8. 3. Reina [1801-1804] Fonte Viene messa a lezione la Vita posta a premessa al primo dei sei volumi delle Opere|di|Giuseppe Parini|pubblicate ed illustrate|da|Francesco Reina, Milano, presso la Stamperia e Fonderia del Genio Tipografico, 1801-1804, pp. v-lxvi. Biografia Nato a Lugano il 4 marzo 1766, da una famiglia di agiati commercianti malgratesi imparentata coi Bovara e con gli Agudio, dopo i primi studi a Milano, dove ebbe Parini come maestro, studiò giurisprudenza a Pavia, laureandosi nel 1791 durante il rettorato del ‘filogiansenista’ Pietro Tamburini. All’arrivo dei Francesi si mise in evidenza tra i sostenitori di una repubblica italiana, una e indipendente, a base democratica: solo un forte stato unitario, scrisse in un appello a Bonaparte, sarebbe stato in grado di opporsi alle forze nemiche della libertà sollevando gli italiani dalla loro secolare condizione di avvilimento. Invitò, inoltre, a evitare una rigida trasposizione in Italia delle norme costituzionali francesi e a mettere alla base dello stato democratico i diritti e doveri dell’uomo. Nel 1797 fu nominato rappresentante del Dipartimento della Montagna nel 1 Al Pozzetti va assegnata la voce su Aurelio de Giorgi Bertola contenuta in De Tipaldo, ii, 1835, pp. 130-140, a firma di Pomp. Pozzetti: nell’indice il nome viene erroneamente sciolto in Pompeo invece che in Pompilio.

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Gran Consiglio degli Juniori dove la passione patriottica lo spinse a essere particolarmente attivo e, spesso, anche vivacemente polemico. Nel marzo successivo, in occasione del primo colpo di stato della Cisalpina, Reina fu inserito in una lista di deputati da espellere, ma il decreto non ebbe esecuzione. Per poco però: l’esclusione avvenne di fatto in agosto, in seguito al colpo di stato realizzato dall’ambasciatore di Milano Claude Joseph Trouvé. Arrestato e sommariamente processato al ritorno degli austriaci fu trasferito nell’isola di S. Giorgio in Alga e poi al Cattaro e a Petrovaradin da dove poté ritornare solo nel marzo del 1801. Come membro della Consulta legislativa della restaurata Repubblica Cisalpina presentò un proprio progetto di costituzione che prevedeva un ampio elettorato e l’equilibrio tra i diversi poteri, in opposizione all’orientamento centralista e censitario di Bonaparte. Ai Comizi di Lione sostenne però la candidatura di Napoleone a Presidente della Repubblica. Membro del Corpo legislativo della Repubblica Italiana fece parte della ristretta Camera degli oratori che aveva il compito di approvare o rifiutare i progetti di legge trasmessi dal governo. Ancora una volta l’ideale indipendentista lo portò ad assumere posizioni intransigenti, finché Bonaparte decise di non convocare più tale Assemblea, sostituendola con il Senato, decisamente più docile. Ritiratosi allora dalla vita politica Reina poté dedicarsi alla sua passione di bibliofilo e agli amati studi di letteratura. Divennero allora proverbiali la sua biblioteca di 50.000 volumi, lo spirito di indipendenza, la liberalità nel soccorrere quanti si rivolgevano a lui. Per quanto riguarda il suo lavoro letterario alla pubblicazione delle opere del Parini con relativa Vita si devono aggiungere le edizioni di Giambattista Gelli (18041807), dell’Orlando Furioso (1812-1814), delle Opere scelte di Alfonso Varano e Francesco Maria Zanotti (1818), la ristampa delle Rivoluzioni d’Italia di Carlo Denina (1820) e le Vite di Ariosto e Metastasio. «Chiesti e ottenuti i soccorsi della Religione […], cristiano di fatti più che di parole, chiuse gli occhi per sempre il dì 12 novembre 1826» (in realtà 1825): Bartolomeo Gamba, Reina Francesco, in Biografia degli Italiani illustri, a cura di Emilio De Tipaldo, Venezia, Alvisopoli, V, 1837, pp. 491-494: 494. Bibliografia Oltre al Gamba vedi Melchiorre Gioia, Necrologia, «Il Nuovo Ricoglitore», 1825, pp. 834-836; Giuseppe Bernardoni, Reina avvocato Francesco, in Idem, Per Giuseppe Parini considerato specialmente come poeta morale e civile, Milano, Bernardoni, 1848, pp. 83-84; Carlo Frati, Dizionario bio-bibliografico dei bibliotecari e bibliofili italiani dal sec. xiv al xix raccolto e pubblicato da Albano Sorbelli, Firenze, Olschki, 1934, pp. 490-491; Francesco Novati, Per la storia dei deportati del 1799. La “Via Crucis” di Francesco Reina, «La Lombardia nel Risorgimento Italiano», 1 (marzo 1914), pp. 10-23; Pietro Dettamanti, Francesco Reina: un patriota cisalpino amico di Stendhal, «Archivi di Lecco», 4, 1990, pp. 298-334. Su Reina editore vedi William Spaggiari, L’edizione Reina, ed. cit.; Spaggiari, Francesco Reina editore di Parini, in Idem, L’eremita degli Appennini. Leopardi e altri studi di primo Ottocento, Milano, Unicopli, 2000, pp. 133-172; Pierantonio Frare, Dalla “splendida bile” alla “socratica ironia”: Parini e Manzoni, in Le buone dottrine e le buone lettere, a cura di Bortolo Martinelli, Carlo Annoni, Giuseppe Langella, Milano, Vita e Pensiero, 2002, pp. 229-255; Alberto Cadioli, Francesco Reina e la riflessione sull’“ultima volontà dell’autore” nella Milano di primo Ottocento, in Meminisse iuvat: studi in memoria di Violetta De Angelis, a cura di Fi-

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lippo Bognini, Pisa, ets, 2012, pp. 229-242; Alberto Cadioli, La prima serie della collezione dei Classici Italiani, in Dal Parnaso Italiano agli Scrittori d’Italia, «Studi Ambrosiani di Italianistica», 3, 2012, a cura di Paolo Bartesaghi, Giuseppe Frasso, Milano-Roma, Biblioteca Ambrosiana-Bulzoni, pp. 49-64, passim; Vittorio Criscuolo, La nascita di un mito: Parini “poeta civile”, in L’amabil rito. Società e cultura nella Milano di Parini, Atti del Convegno di Studi, Milano 8-10 novembre 1999, a cura di Gennaro Barbarisi, Carlo Capra, Federico Degrada, Fernando Mazzocca, tomo i, Bologna, Cisalpino, 2000, pp. 71-99. 4. Ugoni [1821] Fonte Si è qui messo a lezione l’articolo nono di Della|Letteratura|Italiana|nella seconda metà del secolo xviii .|Opera|di Camillo Ugoni, Brescia, Bettoni, 1821, ii, pp. 300-327. Tale voce è stata riproposta come premessa a Opere di Giuseppe Parini milanese, Milano, per Giovanni Silvestri, 1821 (e successive ristampe), pp. vii-xxxvi. Si è scelto quindi di pubblicare la versione iniziale del ’21, perché è quella che ha orientato la lettura dell’opera omnia del Parini, secondo le edizioni Bettoni, Silvestri e ristampe successive. Le note a piè di pagina sono dell’Autore. Ugoni diede lettura dell’articolo su Parini (oltre che su Ferdinando Galiani e Melchiorre Cesarotti) in una seduta dell’Ateneo di Brescia. Ce ne forniscono notizia i «Commentari dell’Ateneo di Brescia», Brescia, Bettoni, 1821, pp. 20-25. La stessa vita è stata riprodotta nella edizione delle opere pariniane pubblicate a Monza, dall’ed. Corbetta, 1836, pp. vii-xix,1 a cura di C. G., e nella Iconografia italiana degli uomini e delle donne celebri, Milano, Locatelli, 1836-’45, I, 1836, monografia numero 35, pp. i-xii (alcune note sono rielaborate o sintetizzate). Nell’estate del 1822, Ugoni da Zurigo invia il manoscritto del terzo volume al tipografo Bettoni, dopo l’approvazione della censura di Milano. Il quarto ed ultimo volume vedrà la luce postumo, nel 1856-’58, a Milano, presso il tip. Giuseppe Bernardoni, ad opera del fratello Filippo, che vi aggiunge una biografia Della vita e degli scritti di Camillo Ugoni (pp. 439-556) e una Appendice (pp. 557-667), con un utile, anche se parziale carteggio. In questa riedizione (postuma), la monografia dedicata al Parini è inserita nel vol. i, pp. 359-409, completamente rifatta, alla luce anche degli studi di Zoncada, Cantù e Giusti, pubblicati nel frattempo.2

1 Nella nota 1 di p. vii, l’editore corregge l’Ugoni segnalando come l’Appiani sia nato non a Bosisio ma a Milano il 23 maggio 1754 (in realtà: 31 maggio 1754). 2 Per le caratteristiche dell’edizione postuma, valga quanto scritto in generale dalla Petroboni Cancarini, Camillo Ugoni…, cit. in bibliografia: «Delle ventitré biografie dell’edizione postuma, quattro erano gli autori già studiati nell’opera del 1820-22 (G. Baretti, F. Galiani, G. Parini, P. Verri); e Filippo le volle inserire “affinchè il lettore potesse giudicare da essi quanto l’autore avesse esteso la sua dottrina e forse la potenza della sua mente”. E, in effetti si tratta di saggi totalmente rielaborati, «più vasti nell’analisi delle opere e più estesi e precisi nelle parti biografiche» (p. 136). Quest’ultima osservazione è valida però solo per Baretti e Galiani, sui quali Ugoni, in Svizzera e in Inghilterra, aveva potuto raccogliere informazioni anche di prima mano.

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nota ai testi Biografia

Nato a Brescia (8 agosto 1784), Ugoni studia a Brescia, nel convento dei Padri Somaschi. Dopo la soppressione dell’istituto religioso ad opera del governo giacobino, passa al collegio dei Nobili di Parma, dove, nei sette anni di permanenza, mostra interessamento particolare per la letteratura. Nel 1807, in occasione dell’edizione Bettoni dei Sepolcri, conosce Foscolo e ne diventa amico: Foscolo lo esorta a dedicare le sue energie all’arte, mentre riconosce maggior senso politico nel fratello Filippo. Nel 1811 dedica a Napoleone la traduzione – compiuta già nel 1808 – dei Commentari di Cesare. È ben inserito nei salotti culturali di Verona e di Brescia, ma ama anche viaggiare per l’Italia, dove si fa numerosi amici: Pindemonte, Monti, Scalvini, Alessandro Verri, Porro, Confalonieri … Diviene direttore del Liceo di Brescia e nel periodo 1818-1823 presiede l’Ateneo della città. Dopo il fallimento del progetto di continuazione e completamento de Gli Scrittori d’Italia di Giammaria Mazzuchelli,1 raccoglie l’eredità culturale di Giovan Battista Corniani – i cui Secoli della letteratura italiana s’arrestavano alla metà del Settecento – e ne prosegue l’opera con Della letteratura italiana nella seconda metà del sec. xviii , Brescia, Bettoni, 1820-1822, opera che il fratello Filippo avrebbe preferito intitolare Storia dei letterati italiani. È un viaggiatore instancabile: in Svizzera visita le scuole di Pestalozzi, Emanuel Fellenberg e Jean-Baptiste Girard. Tornati in Italia, i due fratelli fondano a Pontevico una scuola sul modello delle scuole di mutuo soccorso, applicato da Fellenberg a Hofwill e dal minore osservante padre Girard a Friburgo. Tali scuole ‘lancasteriane’ verranno chiuse dall’Austria. Nel novembre 1818 assiste alle riunioni fondative del «Conciliatore», di cui condivide lo spirito: contribuisce alla sua diffusione ma non vi partecipa di persona. Coinvolto, sia pure indirettamente, nei moti del 1821, è costretto a fuggire in Svizzera, passando da Tirano. Nel 1822 è a Ginevra, dove incontra Pellegrino Rossi e stringe amicizia con il Sismondi, che era già a conoscenza dell’attività critica dell’Ugoni, avendo avuto modo di leggere e di apprezzare i primi due volumi della sua storia letteraria. Collabora con l’«Antologia» di Firenze con un articolo in francese sulla situazione culturale di Zurigo, di cui ha conoscenza diretta. Tramite anche i buoni uffici del Sismondi, ottiene il passaporto per l’Inghilterra e si ferma dapprima a Londra, dove inizia a tradurre le Vite dei poeti di Samuel Johnson, poi va in Irlanda e in Scozia, dove frequenta Walter Scott. Sperando di rientrare in possesso dei beni di famiglia, compie, inutilmente, una lunga sosta a Lugano, dove si consola con l’ultimazione della traduzione dei foscoliani Saggi del Petrarca. Si trasferisce a Parigi nel 1825, e vi frequenta Pietro Maroncelli, liberato dal carcere; conosce anche Pietro De Angelis, suo futuro biografo. Nel 1836 pubblica a Parigi, presso l’editore Baudry Vita e scritti di Giuseppe Pecchio, a proposito della quale Sismondi scrisse all’Ugoni: «Il était bien de ces esprits sages qui cherchent la liberté dans l’équilibre, qui cherchent des barrières contre la fureur populaire» (Della letteratura italiana…, cit., iv, p. 530, nota 2). In seguito all’amnistia del 12 settembre 1838 concessa da Federico I d’Austria in occasione della sua incoronazione, torna a Milano e vi ritrova gli amici di una vita, tra cui Borsieri, Bellotti e Manzoni. Nel ’39 ritorna a Brescia, presso il cui 1 Vedi il suo Progetto pel proseguimento dell’opera del fu nostro concittadino co. Giammaria Mazzucchelli, Gli Scrittori d’Italia.

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Ateneo si sente oramai un estraneo e va a vivere in campagna, dove coltiva con impegno gli studi di lapidaria e di letteratura greca. Nel 1840 ottiene il titolo di Barone. Si estrania sempre più dalla politica: osserva dall’esterno i moti del 1848. Muore a Pontevico, il 12 febbraio 1855, per un colpo di apoplessia. Alla notizia della sua scomparsa, Manzoni scrive all’abate Zambelli: «Fra gli estimatori dell’ingegno che piangono e piangeranno una tal perdita, nessuno può sentirla più vivamente di quelli che conobbero l’uomo da vicino, e furono onorati della sua amicizia, tra i quali mi onoravo tanto di trovarmi e mi pregerò almeno sempre d’essere stato» (Della letteratura italiana…, cit., pp. 555-556). L’edizione completa, in quattro volumi, di Della Letteratura Italiana nella seconda metà del sec. xviii viene pubblicata postuma dal fratello Filippo, Milano, Bernardoni, 1856-1858. Bibliografia M[ontani Giuseppe], Della letteratura italiana nella seconda metà del secolo xviii , opera di Camillo Ugoni, «Antologia», Firenze, xxix, maggio 1823, pp. 1-50 (l’articolo è siglato: M., che sta per Giuseppe Montani. In particolare si parla di Parini alle pp. 4-6, mentre alle pp. 33-34 si indicano i difetti d’invenzione del Giorno);1 Giuseppe Nicolini, Pietro Zambelli, In morte di Camillo Ugoni, Brescia, Venturini, 1855; Gregorio Bracco, Di Camillo Ugoni bresciano, BresciaVerona, tip. Apollonio, 1868; Michele Lupo Gentile, Un patriota bresciano: Filippo Ugoni, «Rivista d’Italia», febbraio 1910, pp. 295-322 (con lettere di Filippo al fratello Camillo); Laura Seneci, Un letterato patriotta nella prima metà dell’Ottocento, Brescia, tip. Figlie di Maria, 1921; Giuseppe Calamari, Lettere di Camillo e Filippo Ugoni al Sismondi, «Rassegna Storica del Risorgimento», 1938, pp. 629679; Storia di Brescia promossa e diretta da Giovanni Treccani degli Alfieri, vol. iv Dalla Repubblica bresciana ai giorni nostri, Brescia, Morcelliana, 1964, ad vocem; Margherita Petroboni Cancarini, Camillo Ugoni, letterato e patriota bresciano, Milano, SugarCo, 1974-1978, 4 voll. (vol. i: Biografia – il cap. L’Ugoni storico della letteratura italiana occupa le pp. 133-155; voll. ii-iv: Epistolario; sono pubblicate tutte le lettere conservate alla BC “Angelo Mai” di Bergamo e nelle Carte Ugoni dell’Ateneo di Brescia); Ada Novajara, Critici, storici, filosofi, in Storia della civiltà letteraria italiana, Torino, utet, tomo iv, 1992, pp. 487-488; Antonio Fappani, Camillo Ugoni, in Idem, Enciclopedia Bresciana, «La voce del popolo», Ed. Fondazione Opera diocesana San Francesco di Sales, Brescia, 2005, xx, pp. 24-27 (con bibliografia completa e dettagliata); Vittorio Criscuolo, La nascita di un mito: Parini “poeta civile”, cit., pp. 71-100. 5. Zoncada [1846] Fonte Viene messo a lezione il testo edito sulla «Rivista Europea», giugno 1846, pp. 673-720. Oltre che in rivista il saggio venne contemporaneamente edito come volumetto a sé stante. 1 Nella lettera da Zurigo al Vieusseux del 22 ottobre 1822 Ugoni si lamentava del silenzio della rivista sulla sua opera e sollecitava, indirettamente, una recensione che trattasse almeno di Parini, Gozzi e Galiani (vd. Petroboni Cancarini, Camillo Ugoni …, cit., iii, pp. 116-117).

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Nel saggio di bibliografia pariniana, Carducci lo colloca al n. 153, subito dopo l’antologia pariniana del Giusti (ENPm, pp. 351-352), che, uscita nello stesso anno presso Le Monnier, dovrebbe però essere posteriore, sia pure di pochi mesi. Dalla lettera del Giusti al dr. Luigi Capecchi, scritta da Pescia il 28 agosto 1846, risulta che la sua antologia è ancora in fase di stampa. L’ordine di successione stabilito da Carducci andrebbe quindi invertito, dando la precedenza a Zoncada. Già precedentemente Zoncada aveva scritto un profilo biografico di Parini, inserito in Opere scelte dell’Abate Giuseppe Parini, con commentario del Giorno a cura di Egidio de Magri, Milano, tip. Brambilla, 1842, 2 voll., I, pp. vii-xi.1 Nel breve ritratto del poeta che «povero nacque e povero morì» (p. x), Zoncada già avanza la definizione del poemetto come «stupenda ironia, in che ammirasi il poeta, il filosofo, il cittadino» (p. viii), sintesi che ritornerà sviluppata anche nelle pagine, qui riproposte, che successivamente Zoncada dedicherà al Parini. Biografia Nasce a Cologno il 4 febbraio 1813, compie gli studi in seminario, ma lascia l’abito talare all’età di 21 anni. Nel 1834 inizia gli studi superiori all’Università di Pavia. È amico ed estimatore di Giuseppe Pozzone, che lo mette in contatto con Egidio de Magri, ai tempi direttore della rivista «Studi per le donne italiane», con cui collabora nel suo brevissimo periodo di vita (1837-’38). Alla fine del 1837 viene assunto come insegnante nel collegio Racheli. Partecipa attivamente ai moti del ’48. Si dedica all’insegnamento in forma privata (Tremezzo, Vimercate e Calchi-Taeggi), fino a quando, nel 1853 viene nominato supplente di lingua greca e latina all’Università di Pavia, diventando titolare di letteratura italiana dopo dieci anni.2 Muore a Pavia il 15 luglio 1887. È stato critico, poeta e traduttore. Come critico scrisse: S. Benedetto ossia l’istituzione regulare dei monaci in Occidente e s. Gregorio Magno. Studii storici, Milano, tip. Civelli, 1843; Eccellenza della lingua italiana e modo di studiarla, Milano, 1853; I fasti delle lettere in Italia nel corrente secolo, Milano, Gnocchi, 1853, 2 voll. (i Prosa; ii Poesia); Corso di letteratura classica, 4 voll., Pavia, Fusi, 1855-1858; Discorso sulla vita e sugli scritti di Francesco Cherubini, «Rivista ginnasiale», 1857, pp. 1-40; Corso di letteratura greca, Milano, Pirotta, 1858; Dell’ufficio dell’arte nella civile educazione dei popoli, Pavia, er. Bizzoni, 1861; Dante e l’arte in Italia, Pavia, tip. Bizzoni, 1864; I dialetti d’Italia. Lettura pubblica, Pavia, Bizzoni, 1875;3 Clio ovvero i fasti della storia, Torino, Paravia, 1882; 1 Questi due volumi pariniani, stampati dalla tipografia di Luigi Brambilla, fanno parte della “Biblioteca scelta di Letteratura, scienze ed arti” diretta da Antonio Zoncada per volontà dell’editore Paolo Pagnoni. Zoncada, nel manifesto, prevedeva, dopo Parini, le opere minori di Dante, la Divina Commedia, le Lettere a Sofia … con un programma eterogeneo che proponeva opere classiche di letteratura italiana e straniera, storia, geografia, viaggi, scienze, arti e mestieri, scelte da Zoncada. 2 Come ordinario di letteratura italiana comincia a figurare a p. 11 dell’Annuario 1863-’64 dell’Università di Pavia, pubblicato dalla tip. eredi Bizzoni nel 1864. 3 Si tratta di una lettura pubblica tenuta il 21 febbraio 1875 nel teatro anatomico dell’Università di Pavia. Allontanandosi dalle teorie del Bembo, del Varchi e del Davanzati, sostiene che i dialetti non derivano da una supposta corruzione di un linguaggio comune, ma dalla presenza di diverse schiatte che parlano lingue diverse: in un determinato territorio viene infine parlata la lingua della gente che primeggia per cultura e potenza. Questo è avvenuto

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Alfieri e Rousseau, Pavia, tip. succ. Bizzoni, 1883; Le noie d’un poeta, in Studi su Ugo Foscolo, Torino, Chiantore, 1927. Come poeta e prosatore, compose: Saggio di poesie, Milano, tip. Angelo Bonfanti, 1837; Poesie, Milano, tip. Vincenzo Guglielmini, 1843; Tre racconti ad istruzione dei giovinetti, Milano, Gnocchi, 1850;1 Il Castello di Monza. Novella storica del sec. xiv , Milano, 1850; Caprera. Terzine, Pavia, er. Bizzoni, 1861; Canti nazionali, Pavia, Grossi, 1866; Carlo Goldoni a Pavia. Racconto storico, Pavia, Bizzoni, 1866, ristampa 1999, Pavia, ed. Iuculano, a cura di Renato Marchi; La siciliana. Racconto contemporaneo, Codogno, Cairo, 1868; Scanderberg. Storia albanese del sec. xv , Milano, Agnelli, 1874, 2 voll.; Due donne, due epoche, Pavia, Ponzi, 1881; Conferenza sui tempi e sulla vita dell’ab. Giuseppe Pozzone posta come premessa a Alcune poesie (di Pozzone), Milano, Dumolard, 1887. Traduzioni dal francese: Xavier Marmier, Lettere sulla Danimarca, la Svezia, la Norvegia, la Laponia e lo Spitzberg, 4 voll, Milano, Pirotta, 1841; François Guizot, Storia generale della civiltà in Europa, Milano, tip. Angelo Bonfanti, 1841; Mathieu Richard Auguste Henrion, Storia generale della Chiesa, 13 voll., Milano, tip. Angelo Bonfanti, 1843-1850; Louis de Loménie, Biografie d’uomini illustri contemporanei, Milano, Borroni e Scotti, 1845. Tra le opere qui registrate, la più importante è sicuramente quella dei Fasti, corposa antologia in due volumi (I Prosa; II Poesia), che Zoncada curò per gli studenti delle scuole superiori. Opera di alta divulgazione, vuole esplicitamente essere utile dal punto di vista sia didattico sia morale. Ogni genere letterario (dal romanzo alla novella alla poesia…) viene introdotto da ampie prefazioni che ne tracciano la storia fino alla metà dell’Ottocento, indicando pregi e difetti degli autori trattati. La sua predilezione va alla novella, che, meglio del romanzo, sa rapportarsi alla società nei suoi vari momenti evolutivi. Può inoltre, con la sua brevità, offrire più numerosi e vari ‘esempi’. Zoncada rifugge sia da un classicismo esasperato sia da un romanticismo lugubre o vittimistico.

nell’antica Italia con il latino, questo è il processo storico che Zoncada vede progressivamente compiersi con il toscano nell’Italia del Risorgimento. Il frontespizio dell’opuscolo, dopo il titolo, reca l’indicazione: Parte prima. La seconda conferenza fu tenuta il 28 febbraio nello stesso teatro anatomico. 1 Un largo spazio è riservato ai testi educativi nel primo volume dei Fasti. Zoncada scrive pagine molto dense sulla educazione della donna, che compendiano con grande efficacia teorie e prassi educative – rigorosamente conservatrici – dominanti per tutto l’Ottocento e per gran parte del Novecento (pp. 525-526). Estimatore della letteratura per ragazzi del Cantù e seguace delle teorie educative del Lambruschini e del Capponi, è favorevole ad un tipo di educazione formativa e non puramente nozionistica. Le pagine satiriche in cui – nel profilo biografico che abbiamo riprodotto (vedi pp. [679]-[680]) – ricostruisce l’educazione ‘subita’ da Parini alle scuole Arcimboldi dei Barnabiti non sono il frutto di una polemica momentanea di Zoncada, ma si inquadrano in un orizzonte teorico che esalta il Parini proprio per la sua capacità di non appiattirsi sulla ‘cultura’ scolastica. Ed è questa la principale caratteristica che Zoncada richiede all’intellettuale: non limitarsi a rispecchiare il suo tempo, ma andare oltre e cooperare a «scemare il numero dei mali onde l’uman genere è travagliato» (I Fasti, II Poesia, p. 47). Zoncada deriva la descrizione della pessima abitudine scolastica di dividere la classe in eserciti contrapposti dalle memorie ginnasiali del Cherubini, raccolte da Giambattista De Capitani (vedi Discorso sulla vita e sugli scritti di Francesco Cherubini, cit., p. 4, nota 1).

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L’anelito ad una lingua ‘italiana’ e ad una cultura civile, fortemente impregnata di moralità e legata ai valori patriottici, si trasfonde anche nei suoi studi linguistici e nei suoi saggi sul dialetto, coltivati con profonda dedizione e in sintonia con i lavori del Cherubini e del Gherardini, che stima ed apprezza, pur prendendone talora le distanze.1 La critica contemporanea ha colto e valorizzato soprattutto questo ultimo aspetto della sua attività ed anche il suo intervento, del 1875, sui dialetti d’Italia offre una visione equilibrata e ben documentata della questione della lingua nell’Ottocento: la sua adesione alle tesi manzoniane si può dire maturata in concomitanza con la sintesi che Manzoni formalizza nella lettera a Giacinto Carena. Non è un caso quindi che Zoncada, quando tratta del Parini, dedichi ben sette pagine del suo profilo alla disputa con Alessandro Bandiera e con Onofrio Branda. Notando in modo pungente che fino allora tali polemiche linguistiche erano state sottovalutate, scrive che una guerra così rabbiosa può forse stupire quando si pensi che si era alla vigilia della rivoluzione di Francia e che in quegli stessi tempi il Beccaria si interessava di problemi ben altrimenti importanti, «ma io crederei che finora siasi giudicata troppo leggermente, stimandola non altro più che una questione di municipio» [p. 689]. Invece, nell’ottica risorgimentale di Zoncada, Parini veniva ad anticipare tutto il dibattito che avrebbe attraversato l’Ottocento, in un intreccio tra lingua, storia e società, che non a caso, portava Zoncada a rievocare per ben tre volte la cinquecentesca polemica Caro-Castelvetro (alle pp. [687], [691] e [706]). Alla fine, Parini lascia in eredità al nuovo secolo alcune conquiste ideali definitive: le relazioni che hanno le lingue tra loro; il nesso tra lingua, storia e credenze; l’aiuto che dà allo spirito l’apprendimento delle lingue straniere; l’apprezzamento per l’etimologia, soprattutto delle parlate dialettali e, contemporaneamente, l’aspirazione ad una visione unitaria della lingua. Idee e principi che sono diventati tanto comuni «che più non sappiamo riconoscere nè manco il merito di chi [Parini] pel primo li divulgava in Italia» [690]. Sul Parini in modo specifico Zoncada ritorna in alcune pagine del secondo volume dei Fasti, dedicato alla poesia (ii, pp. 46-47), di cui Parini viene considerato il vero riformatore, colui che ha portato la poesia ad incamminarsi sul retto cammino. Parini è il vero poeta del Settecento, che supera di colpo la retorica fastosa e ridondante del Frugoni e nobilita lo sciolto, proposto dagli altri poeti – giusto bersaglio del Baretti – in modo snervato e cascante. Se ci sono dei limiti – e ci sarebbero effettivamente – nella poesia del Parini, questi dipendono da uno squilibrio nella reazione ai difetti altrui: da qui una certa aridità stentata ed oscura per un verso e un eccesso di ricercatezza e di elaborazione (ad es. nell’uso dell’inversione) per l’altro. Ma Parini, sia come poeta che come filosofo e cittadino, è ‘mirabile’ (op. cit., p. 46).2 1 Di Francesco Cherubini e di Giovanni Gherardini parla diffusamente nel primo volume dei Fasti (nel capitolo dedicato a Estetica, Critica e Filologia, pp. 356-358). Molto informato il profilo che dedica al Cherubini nella citata «Rassegna ginnasiale». Commoventi le pagine finali in cui racconta il tramonto dello studioso a Montevecchia, dove Cherubini aveva acquistato un podere con vigna e ulivi e dove era venerato dai suoi contadini come un patriarca. Limitate le riserve di Zoncada sulle teorie linguistiche dell’autore del Vocabolario milanese-italiano, anche se alla fine riconosce la superiorità scientifica degli studi dialettali del Gherardini. 2 Il profilo pariniano si completa con una nota bibliografica, che merita di essere riportata per la rivendicazione di primazia della propria biografia rispetto a quelle del Giusti e

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Se come poeta Zoncada è oggi completamente dimenticato, ai suoi tempi godè di una discreta notorietà e si occuparono favorevolmente di lui critici come Francesco Ambrosoli (sulla «Biblioteca Italiana» del 1827), Cesare Correnti (sul «Narratore», in forma anonima), Angelo Brofferio (sul «Messaggiere») e Carlo Tenca (sulla «Rivista Europea», gennaio 1843). Tenca notava in lui un anelito ad un tipo di poesia universale, che proponesse cioè motivi ed ideali non legati alla contingenza del momento. L’umanitarismo istintivo e filantropico, che emanava dai suoi versi, gradito al Tenca, dispiaceva invece per la sua genericità negli ambienti che gravitavano attorno alla rivista l’«Amico cattolico» e che polemizzarono vivacemente con Tenca e Zoncada stesso. Nella sua narrativa, particolarmente nel romanzo storico Scanderberg, considerato il suo capolavoro, Cesare Repossi individua una «vena ironica e curiosa» (La cultura letteraria a Pavia…, p. 511). Bibliografia ASMi, Studi, p. m., b 873, fasc. 3; Giuseppe Rovani, Le tre arti considerate in alcuni illustri italiani contemporanei, Milano, Treves, 1874, pp. 208-217; Angelo De Gubernatis, Dizionario biografico degli scrittori contemporanei, Firenze, eredi Le Monnier, 1879-1880, pp. 1087-1088; Edgar Radtke, Antonio Zoncada (18131887) und die Wegbereitung der wissenscaftlichen Dialektologie in Italien, in Lingua et Traditio. Geschichte der Sprachwissenschaft und der neuren Philologien. Festschrift für Hans Helmut Chridelistmann zum 65. Geburtstag, hrsg. von Richardbaum u. a., Tübingen, 1994, S. 337-357; Cesare Repossi, La cultura letteraria a Pavia dalla Restaurazione alla metà del ’900, in Storia di Pavia, Pavia, Banca Popolare Europea, 2000, vol. v, pp. 489-538: 504-511; Gianluca Albergoni, Il mestiere delle lettere tra istituzioni e mercato. Vivere e scrivere a Milano nella prima metà dell’Ottocento, Milano, FrancoAngeli, 2006, pp. 278-279 e ad indicem; Marino Berengo, Intellettuali e librai nella Milano della Restaurazione, Torino, Einaudi, 1950, pp. 181 e 325. Le lettere scambiate tra Zoncada e Romildo Gay sono conservate alla Biblioteca comunale di Treviglio, con segnatura G.T. 147-170; una lettera di Tullio Dandolo a Zoncada, datata 1846, è nel Museo del Risorgimento di Mantova, Lettere varie, Busta 8. 6. Giusti [1846] Fonte Edizione utilizzata: Versi e prose di Giuseppe Parini con un discorso di Giuseppe Giusti intorno alla vita e alle opere di lui, Firenze, Le Monnier, 1846, pp. vii-lxiii. del Cantù. «Chi amasse formarsi un giudizio più adeguato della vita e degli scritti di quel sommo Lombardo, consulti la vita che ne scrisse Giuseppe Giusti premessa alle opere del nostro poeta stampate a Firenze (Le Monnier 1850 [in realtà: 1846]); consulti gli studii sul Parini di Cesare Cantù, più volte ristampati e, se ci si perdoni questa piccola vanità di autore, la vita ch’io già ne scriveva per la Rivista Europea, vita che si legge nel detto giornale nell’anno 1846» (I Fasti, i, p. 47). A sua volta il Cantù prende in considerazione i Fasti, ma esprime riserve per la difficoltà di Zoncada ad un discernimento corretto dei meriti e dei valori artistici e letterari, soprattutto quando tratta autori o vicini nel tempo o ancora viventi (Cantù, Storia della letteratura italiana, ed. cit., pp. iv-v).

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nota ai testi Biografia

Nasce a Monsummano presso Pistoia il 13 maggio 1809. Dopo aver conseguito la laurea in legge a Pisa nel 1834, si trasferisce a Firenze, dove entra in relazione con personaggi illustri della cultura e della politica del tempo (Pietro Vieusseux e Gino Capponi). Dopo il 1843 inizia una serie di viaggi fuori della Toscana: a Milano viene ospitato da Manzoni e diviene amico di Giovanni Torti e di Tommaso Grossi, con i quali discute di questioni linguistiche, mentre dal punto di vista politico si accosta sempre più ai moderati. Cominciano intanto a diffondersi con successo le sue poesie, di cui Guido Mazzoni ebbe a scrivere: «Giocose, piene di epigrammi e di motti, in metri che subito accarezzavano l’orecchio e restavano nella memoria, animate di buon senso contro qualsiasi moto inconsulto o esagerazione, e accese d’amore alla patria, erano tali da parer belle, allora, anche dove ci appaiono, ora, meno artisticamente felici. Divennero perciò un’arme; rimangono una testimonianza» (Poesie e prose di Giuseppe Giusti scelte e annotate da Guido Mazzoni, Bologna, Zanichelli, 1935, p. vii). Nel 1846 cura per Le Monnier un’ampia scelta delle opere di Parini, che fa precedere da una prefazione in cui presenta Parini come poeta essenzialmente satirico. Nel periodo turbolento del 1847-’48 partecipa da moderato ai fatti di Toscana, appoggiando i governi di Cosimo Ridolfi e di Gino Capponi, presto però sopraffatti dall’opposizione democratica di Giuseppe Montanelli e Francesco Domenico Guerrazzi. Di queste turbolenti vicende il Giusti è cronista nella Cronaca dei fatti di Toscana, pubblicata postuma nel 1890. Sempre più lontano dallo spirito settario dei rivoluzionari e minato dalla tisi, preferisce passare l’ultima parte della vita nella quiete della casa ospitale di Gino Capponi, a Firenze, dove muore il 31 marzo 1850. In una lettera ad Atto Vannucci del 14 settembre 1844, pubblicata postuma, aveva scritto anticipatamente della sua opera: «in tutto ciò che ho scritto e che ho pensato, non ho avuto di mira che di pagare un tributo al mio paese nella moneta che avevo in tasca, la quale, se non è d’oro o d’argento, credo almeno che non sia falsa» (Mazzoni, op. cit., p. 127). Fu un tributo soprattutto linguistico, che certi spiriti critici comunque gli rimproverarono per l’eccessiva ‘volgarità’. Tra questi il Cantù, che lo accusò di sbrigliare il suo vernacolo «senza tanto rispetto per il tabernacolo» (Cesare Cantù, Storia della letteratura italiana, Firenze, Le Monnier, 1865, p. 647). Tra le sue composizioni poetiche, raccolte in varie edizioni nel 1844, 1845 e 1847, è ricordato da tutti il Sant’Ambrogio, in cui la vicinanza umana al Manzoni si accompagna ad una esplicita fede politica antiaustriaca. Celebri anche Il re Travicello, Il papato di Prete Pero e Il brindisi di Girella. Tra le opere postume, si segnala la raccolta di Proverbi toscani (1853), oltre la già menzionata Cronaca, edita nel 1890. Concordanza tra il poeta e il critico di Parini nota Carducci nel suo discorso su Giuseppe Giusti (ci si riferisce all’ed. La Rinascenza del libro, A. Quattrini, 1910, p. 38). Bibliografia Per la biografia, vedi Egidio Bellorini, G. Giusti, Roma, Formiggini, 1923 (con bibliografia). Per l’inquadramento storico, vedi Riccardo Diolaiuti, Giuseppe Giusti e la nascita del federalismo toscano: analisi storico-politica sulla na-

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scita dell’idea di nazione, Firenze, Le Lettere, 2004, con prefazione di Marino A. Balducci, Enrico Francia; la Vita scritta da lui medesimo, raccolta e pubblicata da Guido Biagi a Firenze nel 1911 è stata riproposta in anastatica da Alessandro Panajia, Ghezzante, Felici, 2009; la Cronaca dei fatti di Toscana (1845-1849) è stata edita da Pietro Pancrazi, Firenze, Le Monnier, 1948 ed è stata riproposta anche da Gaetano Trombatore, in Memorialisti dell’Ottocento, Milano-Napoli, Ricciardi, 1953, I, pp. 377-453; Sebastiano Aglianò, Giuseppe Giusti scrittore senza miti, «Belfagor», maggio 1951, pp. 265-288, e luglio 1951, pp. 383-406 (alla p. 403 il Discorso viene liquidato come «noioso saggio»). Sulla poesia vedi la prefazione di Giosue Carducci a Le poesie di G. Giusti, Firenze, Barbèra, 1859; Benedetto Croce, Poesia e non poesia. Note sulla letteratura europea del secolo decimonono, Bari, Laterza, 1955 (ed. consultata), pp. 164sgg. Fondamentale l’intervento di Luigi Baldacci, in Dizionario critico della Letteratura Italiana, Torino, utet, 1986, ii, pp. 396-402, che si avvale anche del contributo fornito dall’ed. delle Opere del Giusti, curata da Nunzio Sabbatucci per la utet nel 1976. Baldacci aveva curato la sezione giustiana nel tomo II dei Poeti minori dell’Ottocento, Milano-Napoli, Ricciardi, 1963, pp. xii-xxii dell’Introduzione e pp. 751-942 (a p. 756 scrive che le pagine di Carducci premesse all’antologia di Versi del 1859 per l’ed. Barbèra sono «forse le pagine più acute che siano mai state scritte sul Giusti»). Quando si parla di satira, è comune nella critica il rinvio a Luigi Settembrini che nelle Lezioni di letteratura italiana dedica un capitolo alla satira del Giusti, collocato sulla linea che da Dante porta a Parini. Recenti gli studi di Luigi Angeli, Emanuel Carfora, Giampiero Giampieri, Giuseppe Giusti. “E trassi dallo sdegno il mesto riso”, Pistoia, Settegiorni, 2010; Antonio Carrannante, La ‘sanità’ toscana: Giuseppe Giusti e Michele Amari, «Otto/Novecento», maggio/agosto 2010, pp. 37-44. Una nuova messa a punto sui rapporti tra aspetti satirici e componente eroicomica è fornita da Carlo Enrico Roggia, Il Giorno di Parini e l’eroicomico, in L’eroicomico dall’Italia all’Europa. Atti del Convegno, Università di Losanna, 9-10 settembre 2011, Pisa, ets, 2013, pp. 267-284. Per una bibliografia esauriente, anche se datata, rimandiamo al DBI, 57 2001, pp. 173-182, a cura di Zeffiro Ciuffoletti, Domenico Proietti. Quanto alla ‘fortuna’ del Discorso, l’antologia pariniana del Giusti1 viene prontamente recensita da Alfonso Guerrieri Gonzaga sulla «Rivista Europea» del febbraio 1847, pp. 260-262. Stessa impostazione in Alessandro Giuseppe Spinelli, Alcuni fogli sparsi del Parini, Milano, Civelli, 1884, pp. n. n.). Giacomo Surra orienta il suo intervento in modo specifico su Il discorso del Giusti sul Parini, «gsli», lxii, 1913, pp. 123-142,2 con una prospettiva molto severa, seguito anche da Egidio Bellorini, Giuseppe Giusti, Roma, Formiggini, 1923, pp. 69-71. Mazzoni (Poesie e prose di Giuseppe Giusti…, cit., pp. 149-151: 149) scrive che Giusti, nel ritratto di Parini «si mostra piuttosto buon prosatore che dotto o acuto critico: ma compie con bravura ciò che si era desiderato d’avere, una presentazione dell’uomo e del poeta ai lettori delle opere di lui». 1 Giusti avrebbe dipinto Parini «con bellissimi tratti» (Giuseppe Bernardoni, Per Giuseppe Parini considerato specialmente come poeta morale e civile, Milano, Bernardoni, 1848, p. 65). 2 Nonostante il titolo, nulla ha a che vedere con il Giusti critico l’intervento di Liborio Azzolina, La critica del Giusti, «gsli», ix, 1927, pp. 99-118.

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Non condivide le lamentale del Giusti nei confronti di Le Monnier il critico Lucio Felici, La satira e il Giusti, in Storia della letteratura italiana a diretta da Emilio Cecchi e Natalino Sapegno, vii, L’Ottocento, Milano, Garzanti, 1969, p. 1089. Con ‘affettato e imbarazzante’, due attributi inappellabili e definitivi, Nicolò Mineo liquida il Discorso di Giusti su Parini (Il primo Ottocento, in Storia della letteratura italiana Laterza, diretta da Carlo Muscetta, Roma-Bari, Laterza, 1975, p. 203).1 Una lettura linguistica propone infine Giovanni Nencioni, La lingua in Giuseppe Giusti, in Giuseppe Giusti. Il tempo e i luoghi, Firenze, a cura di M. Bossi, M. Branca, Firenze, Olschki, 1999, pp. 277-298. 7. Cantù [1854] Fonte Il presente lavoro si avvale della copia ambrosiana S.O.O.XX.1133 di Cesare Cantù, L’Abate Parini e la Lombardia nel secolo passato, Milano, Gnocchi, 1854. Vengono trascritte le pp. 230-282, con i due capitoli relativi alla biografia del Parini: Vita letteraria del Parini. La rivoluzione e Fine del Parini. Nella terza sezione (Postille) è d’interesse pariniano l’ultimo capitoletto, Cose inedite del Parini, pp. 532-535, in cui Cantù riproduce alcuni componimenti poetici editi da Giuseppe Bernardoni, Versi inediti o rari di G. Parini o a lui attribuiti, Milano, 1841, ma tale capitoletto non viene qui riprodotto non avendo specifica attinenza con la biografia del Parini. Biografia Storico, letterato, patriota e uomo politico, nacque a Brivio (Lecco) il 5 dicembre 1804 e morì a Milano l’11 marzo 1895. Di famiglia molto religiosa, studiò nel collegio di Sant’Alessandro in Milano, da cui uscì presto per iniziare l’insegnamento presso il ginnasio di Sondrio prima e di Como poi. Dopo aver composto un raffinato poemetto d’argomento medievale, l’Algiso (1828), che mette in versi l’epica lotta dei comuni lombardi contro il Barbarossa, si dedicò alla Storia della città e della diocesi di Como (1829-1831), che suscitò l’entusiasmo del Manzoni e che contiene, almeno implicitamente, la strategia della ricerca del Cantù: un comune e il suo santo. Nel 1832 passò ad insegnare nelle scuole di Sant’Alessandro a Milano, città nella quale entrò in contatto con Manzoni e con il suo entourage. Da questa frequentazione nacque la spinta ad un commento storico dei Promessi Sposi, cui diede avvio con i Ragionamenti sulla storia lombarda del sec. xviii , Milano, 1833, sull’«Indicatore». A questo progetto si collega L’Abate Parini e la Lombardia nel secolo passato (1854), seguito più tardi dalle Reminiscenze su Alessandro Manzoni, che con acume critico mostrano analogie e differenze tra Manzoni e Cantù. Segue un lavoro intenso e frenetico di ricerche che trapassano dallo storico al letterario, con continue riprese di opere già pubblicate, parzialmente rifatte o ampliate con nuove acquisizioni archivistiche. Inviso alla polizia fu anche messo in prigione dal novembre del 1833 all’ottobre del 1834. Ottenne la libertà per l’inconsistenza delle accuse ma l’avversione del governo gli rese la vita 1 Dello stesso Mineo si veda: Giuseppe Giusti e il teatro del primo Ottocento, Roma-Bari, Laterza, 1994.

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difficile, per cui, perdendo ogni pubblico impiego, dovette affidarsi alla sua capacità di scrittura. In particolare va ricordata la Margherita Pusterla, romanzo storico scritto tra il 1835 e il 1836 e pubblicato a Milano nel 1838. Alla narrativa vera e propria si affiancano gli scritti a carattere letterario-pedagogico quali Carlambrogio da Montevecchia (1836), Il galantuomo, Il giovinetto drizzato alla bontà e Il buon fanciullo, tutti e tre del 1837. Ma è l’incontro con l’editore Pomba di Torino che gli aprì la strada verso il successo e la notorietà anche all’estero, con i trentacinque volumi della Storia universale (1846). Protagonista decisiva delle vicende narrate è la Provvidenza, con la sua presenza costante e operosa. La Provvidenza che «veglia, guida e giudica uomini, istituzioni, e che col cristianesimo conduce ad opera di pacificazione, di affratellamento, di incivilimento culturale e sociale per tramite della Chiesa e del Papato. Ne risultava chiara l’intima certezza dell’autore che, fidando nelle più sane esigenze di libertà, intravvedeva un avvenire assai meno fosco di quanto non si pensasse, grazie alle promesse del neoguelfismo, inteso nel senso di un grande, universale ritorno della società al cristianesimo» (Paolo della Torre, in Enciclopedia Cattolica, Roma, Ente per l’Enciclopedia cattolica e per il libro Cattolico, Città del Vaticano, 1949, iii, p. 647). È da questa Storia universale che derivano numerose ricerche specifiche quali la Storia di cento anni (1851), la Storia degli italiani, (1854-1856), Beccaria e il diritto penale (1856), le storie delle letterature italiana, latina e greca (1865-1866), Gli eretici italiani (1856), Il Conciliatore e i Carbonari (1878), Monti e l’età che fu sua (1879). Dopo una breve esperienza politica, divenuto nel 1873 direttore dell’Archivio di Stato di Milano, si impegnò personalmente alla risistemazione dell’archivio; fondò l’«Archivio Storico Lombardo» nel 1874 e continuò indefesso la sua attività di poligrafo. Anche poco prima di morire ribadì la sua fiducia nella famiglia e il rimpianto per l’età in cui dominavano la Chiesa e i piccoli comuni. Bibliografia Antonio Vismara, Bibliografia di Cesare Cantù, Milano, Bernardoni, 1896; In morte di Cesare Cantù, a cura della famiglia, Milano, Bernardoni, 1896; Guido Mazzoni, Elogio di Cesare Cantù, in Atti della R. Accademia della Crusca, Firenze, 1899; Giovanni Casati, Cesare Cantù, Milano, Agnelli, 1927; Guido Mazzoni, Cesare Cantù, in Enciclopedia Italiana Treccani, viii, 1930, s. v.; Guido Mazzoni, L’Ottocento, Milano, Vallardi, 19566 (19341), pp. 1090-1095: 1091; Giovanni Battista Viganò, Cesare Cantù, Calolziocorte, Passoni, 1960; Marino Berengo, s. v., DBI, 18 1975, pp. 336-344; Guido Bezzola, Lo studioso dell’età del Parini, in Cesare Cantù nella vita italiana dell’Ottocento, a cura di Franco Della Peruta, Carlo Marcora, Ernesto Travi, Milano, Mazzotta, 1985; Carlo Ossola, Cesare Cantù, in Dizionario critico della letteratura italiana, Torino, Utet, 1986, pp. 504-506; Cesare Cantù e “l’età che fu sua”, a cura di Marco Bologna, Silvia Morgana, Milano, Cisalpino, 2006; Cesare Cantù e dintorni, a cura di Matilde Dillon Wanke, Milano, Cisalpino, 2007. 8. Pavesi [anni 60 ca.] Fonte Viene trascritta la parte biografica di Della vita e delle opere poetiche di Giuseppe Parini, manoscritta in BAMi, S. P. 6/6 I, 1. Essa corrisponde ai ff. 1-11r.

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Nel ms. fanno seguito le traduzioni in latino delle Odi del Parini, ognuna preceduta da introduzione. Qui non vengono riprodotte ma delle introduzioni si è tenuto conto nel delineare il profilo critico di Pavesi. Biografia Francesco Pavesi, nato nel 1806 ai Tre Ronchetti, da famiglia abbastanza modesta, studiò nei seminari milanesi lasciando un grato ricordo nei compagni e ammirazione nei professori per il suo talento negli studi classici.1 Appena ventenne iniziò la sua missione di insegnante nel collegio di Parabiago, passando, dopo diversi anni, al Calchi-Taeggi e poi, in rapida successione, al Liceo di Mantova e alla cattedra di filologia greco-latina e di storia al Beccaria. La passione e la profonda conoscenza della materia del suo insegnamento traspaiono in maniera evidente dalla prolusione tenuta nel 18442 tesa a scongiurare il pericolo che il ‘trionfo’ delle scienze faccia dimenticare la necessità di una cultura organica e complessiva, soprattutto in un giovane, e ricchissima di riferimenti – decisamente sovrabbondanti per un liceo attuale, e non solo – al mondo classico, in particolare a quello greco-alessandrino.3 Nel 1848 pubblicò il carme La battaglia di Legnano, dedicato «Ai generosi e sapienti / che la ricordanza di questo giorno / il più glorioso a lombardi / prima delle barricate / vollero con pompa di civile gaudio / rinnovata / in argomento di concorde animo / l’autore».4 Il testo, in realtà, risaliva a uno dei momenti di bollore giovanile quando, infervorato dagli studi storici, si sentiva ardere di sdegno «nel vedere, colpa di straniera gelosia, cancellati dalla faccia della terra lombarda i monumenti tutti delle glorie nostre passate».5 Bandita ogni prudenza, aveva composto il carme presentandolo a chi di ragione perché fosse rivisto. La reazione fu tale da costringere le povere pagine a invecchiare inonorate per dodici anni in uno scrittoio. Il 27 maggio 1848, anno I dell’Indipendenza Italiana, potevano finalmente vedere la luce, dedicate a coloro che per primi avevano pensato di festeggiare l’anniversario della battaglia di Legnano. Tra la sventura di Custoza e quella di Novara scrisse contro le fazioni che  dividevano il paese raccomandando la concordia in vista della nuova 1 Legato in modo particolare al Prevosto Dr. Antonio Staurenghi nel quale venerava «il maestro e il padre» che, a sua volta, ricordava nel Pavesi «l’alunno che colla sua diligenza, bravura e saggezza faceva onore al maestro». BAMi T 36 inf., c, f. 1v. Testimonia questo legame anche l’Epistola dedicatoria (Admodum reverendo viro Antonio Staurenghio praeceptori suo optimo ac meritissimo) posta a conclusione del De insubrum agricolarum in transatlanticas regiones demigratione. Idyllia Francisci Pavesi mediolanensis praemio aureo in certamine poetico hoeufftiano ornata, Amstelodami, Apud C. G. Van Der Post, mdcccxxviii, pp. 41-47. 2 Francesco Pavesi, La filologia o lo studio universale della classica erudizione considerato in sé e nel suo rapporto col filosofico insegnamento de’ licei, Milano, Società Tipografica dei Classici Italiani, 1845. Dai tre ‘trascendentali’, Bello Vero e Buono, Pavesi fa derivare rispettivamente l’arte creatrice, la scienza speculativa e l’erudizione, con gli imprescindibili punti di riferimento: Omero, Aristotele e Platone, la Scuola Alessandrina. 3 Ne dà notizia anche Ignazio Cantù, «Gazzetta di Milano», n. 167 (16 giugno 1845), p. 763: «Di questi [classici tesori] dà un saggio da lodarsi il prof. Francesco Pavesi che riducendo a volume un discorso detto a’ suoi scolari del Liceo di Sant’Alessandro con dotta economia di parole espone i pregi e i doveri della classica erudizione». 4 Francesco Pavesi, Il 29 maggio 1176 o la battaglia di Legnano. Carme giovanile, Milano, Società tipografica de’ Classici Italiani, 1848, p. 3. 5 Ivi, p. 5.

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riscossa.1 Combatté con il grado di maggiore, confermatogli poi dal Governo Sardo quando, al ritorno degli austriaci, dovette emigrare in Piemonte. Negli intervalli del suo disastroso pellegrinare compose versi e discorsi per giovare alla causa del «Principato congiunto colla libertà», ma l’intervento più significativo del Pavesi poeta-patriota è costituito senza dubbio dai Canti lirici, dedicati in gran parte all’epopea garibaldina.2 La comune sorgente di tutto il filone della poesia ‘risorgimentale’ – le cui tre corde fondamentali sono costituite dal dolore per le sventure della patria, dalla speranza della riscossa e dalla gioia della vittoria – è apertamente ribadito nell’indirizzo al cortese lettore. L’ammirazione illimitata si spiega, forse, anche con le vicende familiari, come si evince da L’addio dell’autore al suo primogenito sedicenne partito colla spedizione Siciliana del Colonnello Cosenz.3 A un più chiaro «intelletto d’amore» le parole di rammarico si mutano in lode e sul figlio scende la benedizione paterna, al momento della partenza come nel giorno della nascita. Le calunnie – accusato di essere ‘collaborazionista’ per aver consigliato «il bene a chi ha il potere del bene e del male»4 – lo fecero profugo anche nella terra d’esilio e gli impedirono di riavere l’insegnamento al Beccaria. Non venne meno però il suo amore per i classici e incominciò anche il lavoro di traduzione in latino delle liriche di Manzoni5 e delle Odi del Parini, accompagnate da un commento e precedute da una Vita dell’autore, qui pubblicata per la prima volta. Al sorgere della Società Agraria in Lombardia ne divenne segretario (1863) assumendosi l’onere della redazione del giornale L’Agricoltura, dimostrando anche in questo campo una competenza non comune. Quando Enrico Hoeufft istituì ad Amsterdam nel 1876 il certamen aperto ai latinisti di tutto il mondo Pavesi vi partecipò, ottenendo la medaglia d’oro, con Hollandia, poemetto di 334 esametri, cui seguivano, l’anno successivo, i Fasti insubrici6 con l’esaltazione della nostra epopea medievale, la lotta dei comuni 1 Sermone scritto a Ivrea e pubblicato a Voghera. 2 Francesco Pavesi, Sicilia, Garibaldi e i volontari. Canti lirici di Francesco Pavesi coll’aggiunta di altre poesie politiche del medesimo, Milano, Tipografia di Giuseppe Redaelli, 1860. 3 Ivi, p. 28. 4 BAMi, T 36 inf., c, f. 4r. Così rispondeva il Pavesi ai «venditori di vituperi»: «Via, proseguite nell’opera vostra nefanda; statevi però certi che quando pure con ciò vi riesca di rendermi più infelice che non sono, non vi succederà mai o di sviarmi dal mio dovere, o di macchiarmi d’infamia», essendo il mio buon nome custodito da migliaia di giovani ormai fatti uomini a cui ho affidato, insieme con gli elementi del sapere, i semi dell’onestà (ff. 4v-5r). 5 Le poesie liriche di Alessandro Manzoni recate in versi latini da Francesco Pavesi col testo a fronte, Milano, Coi tipi di Giuseppe Redaelli, 1858. Con Nobili viro Petro-Aloysio Alexandri F. Manzoni. Epistola noncupatoria e Due poesie originali del medesimo autore nate in relazione al lavoro di traduzione: la Cantica In morte di Felice Bellotti «che pure contiene un voto per la salute di Alessandro Manzoni» e l’Hymnus eucharisticus Ad Sanctum Spiritum pro recuperata Alexandri Manzoni salute «che è ancora più da vicino e più strettamente connesso alla occasione onde il presente libro ha vita e pubblicità» (Avvertenza di p. 137). Di Manzoni il Pavesi tradusse anche Urania, (Urania. Poemetto di A. Manzoni versione latina di Francesco Pavesi, Assisi, Succursale dello Stab. Sgariglia, 1877) e In morte di Carlo Imbonati. 6 Fasti Insubrici. Tetralogia historico-lyrica cum prologo et epilogo. Poema Francisci Pavesi mediolanensis laudatum et sumptu legati hoeufftiani editum, Amstelodami, Apud C. G. Van Der Post, mdccclxxvii. (Con l’appoggio di Documenta historica tratti dalla Historia patriae di Tristano Calco).

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contro il Barbarossa; i due idilli De insubrum agricolarum demigratione1 (1878) in cui narra le vicende, tragiche a volte, dell’emigrazione dei nostri contadini in America (nuova medaglia d’oro); la Consolatio all’imperatrice Eugenia per la morte del figlio Luigi Napoleone2 e il poemetto encomiastico dedicato a Enrico Hoeufft.3 Così il professore emarginato, osserva il collega Carlo Mariani, «sostenne […] presso gli stranieri l’onor nazionale».4 Gli permise di tornare all’amata missione di insegnante la fondazione, cui collaborò personalmente, del Liceo San Carlo dove ebbe la cattedra di lettere latine e italiane per diversi anni. E anche quando l’età e gli acciacchi lo allontanarono dall’insegnamento non smise il lavoro creativo: il canto del cigno furono i 300 e più esametri composti per l’album virgiliano. Il ritratto morale parla di un sentimento religioso tanto forte da renderlo superiore a ogni ingiustizia, di fermezza di carattere e inflessibilità davanti alla voce del dovere alle quali si univano affabilità e cortesia, larghezza di consigli e di aiuto elargiti con grande umiltà che rendevano la sua compagnia desiderata da tutti. Morì il 26 novembre 1882, senza pubblici riconoscimenti, mentre il governo prodiga «lusinghieri onori e lucrosi uffici ai trafficatori della patria che seppero opportunamente barattare coscienza e bandiera».5 Bibliografia Carlo Mariani, Ricordo di Francesco Pavesi Professore, Milano, Tip. L. F. Cogliati, [1826]; Marco Ballarini, Francesco Pavesi e la Vita (inedita) di Parini, in Rileggendo Giuseppe Parini: storia e testi, «Studi Ambrosiani di Italianistica», a cura di Marco Ballarini, Paolo Bartesaghi, Roma, Bulzoni, 2/2011, pp. 25-49 (alle pp. 25-31 le vicende biografiche di Pavesi, qui riproposte in parte). 9. Salveraglio [1881] Fonte Viene messo a lezione il testo della prefazione (Prefazione. I), pp. v-liv, a Le Odi|dell’Abate|Giuseppe Parini|riscontrate su manoscritti e stampe,| con prefazioni e note|di|Filippo Salveraglio, Bologna, Zanichelli, 1881. Copia utilizzata: BAMi/b, rilegata, senza frontespizio e senza la pagina di dedica al conte Andrea Sola,6 con l’indicazione al termine: «Finito di stampare|il dì 28 febbraio 1 De insubrum agricolarum in transatlanticas regiones demigratione. Idyllia Francisci Pavesi mediolanensis praemio aureo in certamine poetico hoeufftiano ornata, Amstelodami, Apud C. G. Van Der Post, mdcccxxviii. 2 Ad Eugeniam Augustam in funere filii Ludovici Eugenii Napoleonis consolatio. Elegia Francisci Pavesi Mediolanensis in certamine poetico anno mdccclxxx laudata et sumptu legati hoeufftiani edita, Amstelodami, Apud Io. Mullerum, mdccclxxx. Dettato da profonda ispirazione religiosa anche In D. Annam|Hymnus, ms. calligrafico in BAMi S.P.II 276, inserto 5. 3 Iacobus Henricus Hoeufft certaminis poetici in urbe amstelodamo auctor. Carmen Francisci Pavesi Mediolanensis in certamine poetico laudatum sumptuque legati hoeufftiani editum, Amstelodami, Apud Ioh. Mullerum, mdccclxxxi. Va ricordato, per quanto riguarda la sua produzione in latino, anche De Pio IX Pont. Max. Leone XIII ad supremum pontificatum evecto. Carmina Francisci Pavesi Mediolanensis, Mediolani. Typographia S. Josephi, 1880. 4 Mariani, Ricordo, p. 7. 5 BAMi T 36 inf., c, f. 8r. 6 Pensava a dedicatari diversi, forse ai Bellotti?

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mdccclxxxi|nella tipografia di Nicola Zanichelli|in Modena». Non vengono trascritte le pp. lv-lxiv dell’introduzione (Prefazione. ii) perché dedicate esclusivamente alle vicende editoriali delle Odi dall’ed. Gambarelli del 1791 all’edizione Barbèra del 1868. Sul dorso della copertina: Parini|Odi. Nella nota finale, qualificata come ‘giunte e correzioni’ (p. 275) vengono segnalate due variazioni, che riguardano p. xvii (prima riga: ‘viso’ da correggere in ‘vivo’) e p. xx (alla riga 25: ‘poi dimenticata’ da trasformare in ‘poco dopo attuata’). Abbiamo provveduto ad acquisire nel testo la prima correzione, perché trattasi palesemente di refuso grafico; abbiamo segnalato invece in nota la seconda, perché trattasi di variante sostitutiva/innovativa. Su questa copia Salveraglio è intervenuto con cancellazione di pagine intere e delle relative note, con correzioni e aggiunte a matita e a penna, alcune in vista già della ristampa/edizione del 1882,1 altre, più radicali, probabilmente per una nuova – non realizzata – edizione verso gli anni novanta.2 Analogo intervento correttorio è stato compiuto da Salveraglio sull’altra copia di lavoro, presente in Ambrosiana con segnatura IV. Hie. AA. I. 66, siglata BAMi/a. Delle correzioni, delle aggiunte e delle cancellazioni di questa seconda copia diamo conto analitico a piè di pagina del testo con l’indicazione della sigla BAMi/a. Nessuna di tali varianti è stata acquisita nella stampa delle Odi conclusasi nel 1882. Quanto all’aspetto materiale di questa copia, sono importanti le indicazioni editoriali: «Questa edizione, differente da una prima del mdccclxxxi per emendazioni ed aggiunte importantissime, sola fa parte della Collezione di Scrittori italiani» e «Finito di stampare il 5 Aprile mdccclxxxii nella tipografia di Nicola Zanichelli in Modena» (annotazioni in pp. n.n. poste in fine, dopo il testo delle Odi. Segue poi un certo numero di pp. bianche da utilizzare per le aggiunte). Il volume è elegantemente rilegato. Sul dorso, la scritta: 1 Guido Bustico, nella sua Bibliografia di Giuseppe Parini, Firenze, Olschki, 1929 ignora l’esistenza dell’edizione del 1881 e registra quella del 1882 (che è la più facile da reperire nelle biblioteche, anche se in genere la data 1882 compare solo in copertina, mentre un secondo frontespizio interno porta la data del 1881). 2 Sulla ristampa/edizione del 1882, si veda il Catalogo ragionato delle edizioni Zanichelli 1859-1959, vol. i, 1859-1905, Bologna, Zanichelli, 1959, p. 139, dove appunto per il 1882 si parla di ii edizione. Per quanto riguarda lo scopo della nostra opera relativa alla biografia pariniana, sottolineiamo l’assenza di divergenze testuali tra la versione del 1881 e quella del 1882. Vanno però segnalate delle differenze che riguardano l’impaginazione, che cambia a partire da p. 60 (al di fuori quindi della introduzione biografica), e le due ultime indicazioni delle ‘giunte e correzioni’ dell’ed. ’81, che vengono inserite effettivamente nelle copie stampate nell’82. Al termine si segnala che si tratta di opera finita di stampare il 5 aprile 1882. Il significativo tempo di stampa, che si stende tra il 1881 e il 1882, con copie diverse le une dalle altre, non è sufficiente però per parlare di una ii edizione nel 1882, priva oltretutto di una base contrattuale con l’editore. Per questo Salveraglio parlerà di ii edizione solo a partire dalla sua proposta all’editore, contenuta nelle lettere del 21 aprile 1894 e del 7 maggio 1894 (Carteggio Zanichelli, 33 e 34) e confermata dalla lettera di Salveraglio a Carducci del 26 novembre 1894: «Mesi sono domandai allo Zanichelli se voleva fare la 2ª ediz. delle odi di G. P. Ma quando gli scrissi per il compenso, non mi rispose più nulla. Io non so se una ristampa sia oggi utile. Se Ella crede di sì, io farei le correzioni ed aggiunte, vi porrei un ritratto, non inciso ancora, di M. Knoller, qualche altra figura, per esempio un bellissimo ritratto dell’inclita Nice ecc. Il povero signor Nicola Zanichelli mi disse che per la 2ª ediz. mi avrebbe dato di più che per la 1ª (era persuaso forse che l’edizione sarebbe rimasta invenduta)» (Carteggi Carducci, 50, 28451).

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salveraglio|----------------|odi|di giuseppe parini. Dopo una pagina bianca, un primo frontespizio, tutto in inchiostro nero: biblioteca di scrittori italiani||le odi|dell ’ abate|giuseppe parini|riscontrate su manoscritti e stampe|con prefazioni e note|di|filippo salveraglio|marca editoriale Zanichelli|bologna|nicola zanichelli|1882. Segue poi una pagina col semplice titolo di: Le Odi|dell’Abate|Giuseppe Parini, con, in basso, l’etichetta che indica come il libro sia entrato in Ambrosiana tramite il prefetto Galbiati. Si presenta infine un secondo frontespizio, con l’alternanza di colore rosso e nero, così composto: le odi|dell ’ abate|giuseppe parini|riscontrate su manoscritti e stampe|con prefazione e note|di|filippo salveraglio|marca ed. Zanichelli|bologna|nicola zanichelli|libraio-editore-tipografo|1881 (con l’uno finale corretto a penna in 2, sì che leggesi chiaramente: 1882). Inoltre tra il nome del curatore e la marca editoriale è stata aggiunta a penna la scritta: Seconda edizione con giunte e correzioni, cancellata a matita. Se si circoscrive il discorso alla parte biografica, questa copia – come quella segnata BAMi/b –, risulta decisiva per comprendere il modus operandi di Salveraglio. Infatti l’editore Zanichelli, su richiesta di Salveraglio, ha fatto predisporre questa copia in modo che ogni pagina della parte biografica iniziale fosse seguita da una pagina bianca, non numerata, per aggiunte, osservazioni e correzioni. Senza interfoliazione è invece il testo delle Odi, alle quali seguono le note, l’errata-corrige, l’indice (tutto come nell’ed. commerciale del 1881) e una trentina di pp. bianche n.n. (solo la prima p. reca 8 aggiornamenti bibliografici – senza annotazioni tutte le altre), con una copertina finale simile nel colore e nei caratteri al primo frontespizio, con l’elenco delle opere della collana ‘Biblioteca di scrittori italiani’. Riguardo alla vita del Parini, posta in premessa, identica a quella del 1881, le correzioni e le aggiunte sono introdotte a penna sulle pagine bianche, interfoliate nel testo, oppure con interventi diretti sul testo. Per i continui riferimenti a matita rossa al commento di Bertoldi – nelle note ai testi e come punto di riferimento per lezioni e varianti diverse –, le annotazioni del Salveraglio dovrebbero essere posteriori al 1890, quando Alfonso Bertoldi pubblica le Odi, a Firenze, per l’ed. Sansoni. Nello stesso anno 1881 Salveraglio pubblica un articolo Il cittadino Parini sulla rivista «I Nuovi Goliardi», periodico mensile, vol. I, fasc. 1, luglio 1881, pp. 4-12. Nello scritto, a carattere prevalentemente biografico, Salveraglio si sofferma sugli ultimi anni della vita del Parini, sulla partecipazione alla Municipalità di Milano, e pubblica per la prima volta La donzella|della sura Silvia|che porta la resposta|all’Autor della canzon|sora el vestii alla guillottina|1795 Milan|con so permess|cant, traendolo dal ms. miscellaneo Ambrosiano S.N.X.IX.8. Al termine riporta documenti del III Comitato della Municipalità, conservati presso l’Archivio civico storico di San Carpoforo. Tra la prefazione al volume delle Odi e l’articolo della rivista non c’è alcuna divergenza né nel racconto né nella valutazione dei fatti. Anche l’allontanamento del Parini dalla Municipalità viene motivato allo stesso modo in entrambe le versioni: il licenziamento di Parini sarebbe dipeso dal mantenimento dei suoi legami con i vecchi padroni (ivi, p. 12). Invece il dialogo a distanza con Antona Traversi invita a spostare in avanti negli anni la revisione radicale della biografia pariniana.

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Il testo qui trascritto da BAMi/b – identico a quello di ogni altra copia commerciale – rappresenta quindi indubitabilmente il fulcro della ricerca documentaria del Salveraglio, a cui egli stesso ha poi attinto per i suoi saggi brevi, pubblicati su alcune riviste del tempo, quali la «Perseveranza» e il «Fanfulla della domenica» (oltre al già citato «I Nuovi Goliardi»). Biografia Nasce a Casale Monferrato il 9 luglio 1852 e si sposta a Bologna, dove frequenta l’Università sotto la guida del Carducci. L’incontro con il Carducci avviene nel 1875-’76,1 alle lezioni universitarie del maestro, alla cui morte curerà, insieme con Giuseppe Fumagalli, l’Albo Carducciano. Iconografia della vita e delle opere di Giosuè Carducci, Zanichelli, Bologna, 1909, ristampa anastatica del 1980, sempre per la stessa casa editrice. Sulla spinta del corso monografico del Carducci, Telesforo Sarti darà vita ad una rivista, «Il Parini», di breve durata (vedi Carducci, EN, Lettere, IX, 1794, p. 222, la risposta del Carducci ai compilatori della rivista, per rifiutare la collaborazione). A Bologna Salveraglio fa parte di quel cenacolo goliardico che annovera, tra gli altri, Severino Ferrari, Guido Mazzoni, Ugo Brilli, Giovanni Pascoli, Giuseppe Picciola, Giuseppe Albini e Giulio Gnaccarini, futuro genero del Carducci. Avevano tutti un nomignolo scherzoso. A Salveraglio il Ferrari affibbia il soprannome di Bianca Cappello, per l’abitudine sua di portare un cappello bianco anche d’inverno. Dopo la laurea, viene indirizzato dal Carducci a Milano perché possa approfondire gli studi sui mss. pariniani, passando però per Mortara, dove resta alcuni anni, dal 1878, con il padre e la sorella. Si impegna in lavoretti di minor conto, quale la pubblicazione di due canti del Cicerone di Passeroni. Dirige la «Rivista Lomellina» e cura anche la pubblicazione, per gli anni 1879 e 1880, della «Strenna Lomellina» (Mortara, tip. Botto), dove fa conoscere testi di Carducci e Pascoli, con inediti di alcuni poeti bolognesi amici, quali Severino Ferrari (oltre ad un’odicina inedita – Primavera – del Pascoli). Dopo un breve periodo di insegnamento, entra come diurnista alla Biblioteca Nazionale di Brera (dal dicembre 1880). Al 1881 risale forse l’opera più significativa: l’edizione critica delle Odi di Parini, riscontrate sui manoscritti posseduti da Bellotti. Per tale lavoro, riceve da Zanichelli il compenso di £. 400 in contanti (con suddivisione in due tranches) ed altre £. 50 in libri.2 Nello stesso anno compare su Mediolanum, II, Vallardi, Milano, pp. 273-309 un documentato intervento dal titolo Archivi e biblioteche, da cui traspare la sua ammirazione per la biblioteca Braidense e per l’Ambrosiana. Nel 1882 diventa assistente non di ruolo prima alla Biblioteca nazionale Vittorio Emanuele di Roma, poi all’Alessandrina e, infine, alla Casanatense. Torna alla Braidense all’inizio del 1885 – dal 1º gennaio dell’anno seguente diventa sottobibliotecario di ruolo di seconda classe –, dove allestisce e organizza la Sala manzoniana, in collaborazione con Isaia Ghiron, che aveva ottenuto da Pietro Brambilla la donazione dei manoscritti di Alessandro Manzoni, da lui posseduti (vedi F. Salveraglio, Isaia Ghiron, «asl», xvi, 1889, pp. 755-770: 760). Mantiene i contatti con Bologna e, saltuariamente, collabora alla rivista «I Nuovi Goliardi». Intanto, presso la tip. Prato, di Milano, pubblica il 1 Salveraglio mette l’attestato di frequenza e di profitto al corso del 1875-’76 tra i titoli per concorrere ad archivista. I corsi universitari del Carducci su Parini erano in genere biennali. 2 Carteggi Carducci, 50, 28451.

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Catalogo della Sala manzoniana di Brera, da lui redatto con grande precisione. Dall’agosto del 1885 il ministero gli affida l’incarico di dirigere la Biblioteca Universitaria di Catania, diventando sottobibliotecario di prima classe alla fine di quello stesso anno. Nel frattempo, sul finire del 1888, viene contattato da Guido Biagi che lo informa che Carducci gli avrebbe affidato l’incarico di un’edizione commentata del Giorno: lavoro per il quale si impegna, ma che non conclude.1 Risale al 1889, anche se senza data, il raro libriccino – solo 50 esemplari – dedicato ad Angelo Solerti in occasione delle sue nozze – in cui Salveraglio ricorda l’amico con la pubblicazione di un frammento pariniano, L’amorosa incostanza – dramma comico, traendolo dagli autografi pariniani in possesso di Cristoforo Bellotti. Il volumetto di pp. 14 è edito a Milano dalla tip. Pagnoni. Pur lontano da Milano, riesce a curare l’edizione di Il Duomo di Milano: e i disegni per la sua facciata, di Camillo Boito, Milano, tip. Marchi, 1889, che correda di un accurato saggio bibliografico.2 Lascia un segno memorabile alla guida della Biblioteca governativa di Cremona, di cui arricchisce enormemente il patrimonio, anche di manoscritti, e che organizza con cataloghi elaborati con criteri moderni. Il 13 maggio 1896 comunica al Carducci di aver dato vita ad un «Giornale dei Giornali», che doveva sempre più assumere la fisionomia di uno strumento di bibliografia generale della letteratura italiana utile sia per i direttori di biblioteche e archivi sia per gli studiosi. Il primo numero esce domenica 19 aprile, con cadenza settimanale, con un indice per materie e un bollettino per la segnalazione dei libri nuovi.3 Per celebrare il ‘giubileo di magistero’ del Carducci, si fa promotore, presso gli scolari cremonesi, dell’invio di una preziosa pergamena miniata (oggi in Casa Carducci). Dopo questo periodo cremonese

1 Nella Biblioteca scolastica di classici italiani per l’ed. Sansoni, il commento delle Odi è curato da Alfonso Bertoldi (1890), mentre il Giorno uscirà nel 1907, con la curatela di Giuseppe Albini. Per tutti questi problemi, vedi Dal Parnaso italiano agli Scrittori d’Italia, «Studi Ambrosiani di Italianistica», a cura di Paolo Bartesaghi, Giuseppe Frasso, 3/2012, MilanoRoma, Biblioteca Ambrosiana-Bulzoni, pp. 336-337. I lavori preparatori di Salveraglio per il Giorno sono documentati dalla copia di lavoro, conservata in Ambrosiana, su cui Salveraglio aveva annotato le varianti dei diversi testimoni (segnata IV. Hie. AA. I. 62, di cui si è già parlato sopra). Attraverso l’epistolario col Carducci si possono fissare alcune date di un iter senza conclusione operativa. Il 15 agosto 1888 Salveraglio scrive a Carducci di aver preso l’impegno di dare alle stampe il Giorno per la fine dell’anno: «Si fa una pubblicazione in 4º illustrata dal pittore Mantegazza» (Carteggi Carducci, 50, 28396). Il 2 marzo 1890 informa Carducci che il progetto si è ampliato. Zanichelli gli propone due volumi, uno per il poemetto e un secondo per le Rime, con un compenso complessivo di 600 lire: 300 per ciascun volume, senza anticipazioni. Salveraglio, rassegnato, scrive a Carducci: «… sono dispostissimo ad accettare la proposta, colla sola condizione di non fissare l’epoca della consegna dei manoscritti…» (Carteggi Carducci, 50, 28416). Il 13 maggio 1896, da Cremona, scrive di aver ricevuto da Biagi l’incitamento a proseguire nel commento al poemetto. «Io potrò compiere il lavoro pel prossimo inverno» (Carteggi Carducci, 50, 28455). Nel 1912 lo sappiamo ancora intento ai lavori pariniani. Poi più nulla. 2 In realtà la bibliografia sul Duomo di Milano e sulla piazza antistante era già stata pubblicata – come contributo patrocinato dalla Società Storica lombarda –, in «asl», xiii, 1886, pp. 894-939, in occasione della «generale aspettazione della scelta d’un disegno definitivo per la facciata del nostro Duomo» (p. 894). Salveraglio veniva così a completare l’intervento di Giuseppe Mongeri, La Facciata del Duomo di Milano e i suoi disegni antichi e moderni, «asl», xiii, 1886, pp. 298-362. 3 Carteggi Carducci, 50, 28455 e Carteggio Zanichelli, 38.

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(fine 1893-ottobre 1901) ritorna a Milano, dove resta fino al 1903, quando passa a dirigere la Biblioteca universitaria di Pavia (su questa fase della sua vita, si veda Cesare Repossi, I direttori, in Il bicentenario della Biblioteca universitaria di Pavia: notizie storiche, Pavia, Biblioteca universitaria, pp. 21-42: alle pp. 36-37, lo si dice erroneamente morto a Pavia invece che a Milano): qui resta fino al 1921, benvoluto da tutti, anche per le iniziative, varate nel periodo bellico, a favore dei soldati ammalati o feriti, e per aver aperto un piccolo ufficio per la corrispondenza tra i civili ed i soldati al fronte. La Società pavese di storia patria lo annovera tra i suoi soci, ma Salveraglio conclude la sua carriera come direttore della Braidense e come soprintendente per le biblioteche della Lombardia. L’incarico è però di breve durata, perché le condizioni di salute lo costringono a mettersi in aspettativa dall’aprile del ’24. La morte lo coglie a Milano il 27 febbraio 1925. Postumo, a cura di Albano Sorbelli, viene pubblicato il suo Elenco delle edizioni principi delle poesie di Giosue Carducci, «Archiginnasio», xxiii 1928, nn. 1-2, pp. 1-41, con ampie notizie biografiche su Salveraglio, pp. 1-9). Bibliografia Francesco Novati, recensione in «gsli», i, 1883, pp. 120-126 (con apprezzamenti sulle novità biografiche, quali la smentita della presunta povertà del poeta e indicazioni di alcuni limiti, quali la mancata chiarezza sui rapporti coi Verri e la mancata descrizione precisa dei mss. autografi); Guido Biagi, Chi è? Annuario biografico italiano, Roma, Romagna, 1980, p. 230; Carlo Frati, Dizionario bio-bibliografico dei bibliotecari e bibliomani italiani, Firenze, Olschki, 2003, p. 510; Giorgio de Gregori, Simonetta Buttò, Per una storia dei bibliotecari italiani del xx secolo: dizionario bio-bibliografico. 1900-1990, Roma, Associazione italiana biblioteche, 1999, pp. 156-157. Sulla sua attività di giornalista, Torquato Barbieri, La “Strenna Lomellina” di Filippo Salveraglio, Firenze, Sansoni, 1960, mentre su Salveraglio responsabile della biblioteca di Cremona, vedi Virginia Carini Dainotti, La Biblioteca governativa nella storia della cultura cremonese, Cremona, presso la Deputazione di storia patria, 1946 (stampa 1947), pp. 155-156. Sintetica ed essenziale la voce che gli dedica il Dizionario bio-bibliografico, in Letteratura italiana. Gli Autori, diretta da Alberto Asor Rosa, Torino, Einaudi, 1991, vol. ii, H-Z, pp. 1571-1572. Sul progetto di Salveraglio per l’ed. critica del Giorno, vedi G. Pari ni, Il mattino. Il mezzogiorno, a cura di Giovanni Biancardi, Edizione nazionale delle Opere di G. Parini, diretta da Giorgio Baroni, PisaRoma, Serra, 2013, pp. 80-82. Fondamentali i carteggi: il carteggio Salveraglio-Nicola Zanichelli, all’Archiginnasio, Biblioteca comunale di Bologna; carteggio Salveraglio-Carducci, con le lettere del Carducci edite nell’edizione nazionale, mentre quelle di Salveraglio si trovano alla Casa del Carducci, Bologna. Lettere di Salveraglio a Renato Soriga sono a Pavia nella Biblioteca Civica ‘Carlo Bonetta’, nel fondo Carte Renato Soriga, Lettere a Renato Soriga. Alla morte del Salveraglio, il comune di Pavia gli dedicò solenni onoranze con commemorazioni In memoria di Filippo Salveraglio. 10. De Castro [1889] Fonte Vengono trascritte le Notizie biografiche di Parini premise a Poesie, Vita e commento a cura di Giovanni De Castro, Milano, Carrara, 1889, pp. 5-29. Poiché il testo

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si sviluppa su due colonne per pagina, abbiamo indicato con la lettera ‘a’ la colonna di sinistra e con la lettera ‘b’ quella di destra. L’anno successivo presso lo stesso editore esce l’edizione scolastica di Odi e poesie minori di Giuseppe Parini, con il commento del De Castro, senza però la prefazione e le 50 incisioni che abbellivano l’editio maior. Biografia Nobile figura di scrittore e di patriota, nasce il 14 agosto 1837 da un noto scrittore istriano, Vincenzo, docente di filologia latina e di estetica all’Università di Padova, dove Giovanni ha appena modo di iniziare gli studi sotto la guida diretta del padre; dal febbraio del 1848 prosegue gli studi a Milano, dove si è trasferito con il padre, destituito dall’insegnamento per aver mostrato eccessiva sintonia con lo spirito libertario e rivoluzionario dei giovani studenti. Durante le cinque giornate, partecipa con altri fanciulli a varie azioni di disturbo delle truppe occupanti, ma, dopo il ritorno degli Austriaci, deve riparare a Genova con la famiglia. Completati gli studi classici prima e quelli giuridici poi, dà inizio alla sua attività di giornalista e, successivamente, di insegnante. Come giornalista collabora a numerose riviste e periodici (tra cui l’«asl», l’«Età presente», di ispirazione liberale, il «Pungolo» di Leone Fortis, «Gente Latina» diretta da Ezio Castoldi, il «Momento» diretto da Benedetto Castiglia) e dirige il «Politecnico», dal 1862 al 1866, mentre il Cattaneo si trovava in Svizzera. Nel pensiero di Cattaneo si immedesima al punto che taluni suoi scritti, apparsi anonimi, vengono inseriti come fossero del Cattaneo nell’edizione curata da Agostino Bertani. Affronta spesso i rigori della censura del governo austriaco, mentre come insegnante presta un’efficace attività presso i principali istituti cittadini, quali il collegio Calchi-Taeggi, il Beccaria, il Collegio Reale delle fanciulle, la Scuola Superiore femminile. Infine gli viene affidato l’insegnamento alla prestigiosa Accademia di Belle Arti di Brera sulla stessa cattedra di Parini, fino a quando nel 1895, con decreto ministeriale, l’insegnamento viene soppresso e subito ricostituito ad personam. Per poco però, perché la malattia lo perseguita. Si ritira a Bellagio, confidando nel clima, ma la morte lo raggiunge il 28 luglio 1897. Numerose le sue pubblicazioni. L’«asl», xxiv, 1897, pp. 192-206, offre un elenco a cura di Antonio Vismara, tra cui spiccano, di interesse pariniano gli articoli: Il ‘giovine signore’ nel Giorno del Parini, «Biblioteca delle scuole italiane», n. 8, 1º febbraio 1891; L’innesto del vajolo, «Natura ed Arte», fasc. xi, 1º maggio 1894, pp. 966-970 (articolo per onorare la poesia di Parini e lo scultore Giulio Monteverde, per il suo gruppo marmoreo in onore di Edoardo Jenner – riprodotto alla p. 969 ed ora esposto alla Galleria d’arte moderna di Roma). Vengono così rapidamente ad emergere – giustamente tenute distinte – le due tappe della prevenzione del vaiolo, rappresentate dall’innesto – con Bicetti de’ Buttinoni, celebrato da Parini – e dalla vaccinazione – con Jenner, celebrato da Monteverde. Anche se si tratta di testo divulgativo, indirizzato ai giovanetti delle scuole serali e domenicali, il libriccino biografico-antologico La morale dell’operaio desunta dalla vita e dai pensieri di Beniamino Franklin, Torino, Paravia, 1874 contiene riferimenti importanti ad una teoria della mobilità sociale basata sullo spirito di intraprendenza personale. Le pagine contro la pigrizia, l’invito ad un lavoro

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metodico per realizzarsi nella società tramite il lavoro costituiscono la falsariga secondo la quale è costruita anche la vita del Parini, di cui De Castro nel profilo premesso alle Poesie scrive: «gli tornava a lode di essere uscito dalla classe benemerita dei lavoratori e di aver saputo coi propri sforzi salire da umile stato ad alto luogo» [p. 5]. «Una parte cospicua dei lavori del De Castro è costituita dalle ricerche di argomento specificamente milanese, orientate secondo una linea che privilegia i valori della tradizione patriottica e unitaria, e nel processo della ricostruzione storica dimostra un interesse particolare, e per l’epoca abbastanza insolito, oltreché per il documento inedito, per documenti ‘popolari’ quali la satira, la caricatura, la canzone» (Alessandra Cimmino, in DBI, 33, 1987, pp. 479-481: 480). Da qui l’importanza data al dialetto, cui dedica uno studio specifico: Dialetto e letteratura popolare (Mediolanum, Milano, Vallardi, 1881, II, pp. 43-76). Parini è visto come uno dei precursori della rivoluzione, mentre Porta ne sarebbe uno dei suoi poeti (op. cit., p. 61, passim). Coerente con questa impostazione è l’inserimento dei quattro sonetti dialettali di Parini nella sua antologia, con alcune pagine introduttive, sintetiche ma illuminanti e ancora oggi gradevoli a leggersi. Tra le opere ‘milanesi’ si ricordano: Milano nel settecento, Milano, Dumolard, 1887; Milano e la Repubblica Cisalpina, Milano, Dumolard, 1879; Milano durante la dominazione Napoleonica, Milano, Dumolard, 1880; La Restaurazione austriaca in Milano, «asl», a. xv, 1888, pp. 591-658 e 905-979; Milano e le cospirazioni lombarde (1814-1820), Milano, Dumolard, 1892. «A questi lavori vanno aggiunti altri, sempre di indirizzo storico: I processi di Mantova, Milano, Dumolard, 1863 (nuova ed. ampliata, I processi di Mantova e il 6 febbr. 1853, ibid., 1899, che ebbe il premio dell’Istituto lombardo di scienze, lettere ed arti); Il mondo secreto, ibid., 1864 (sulle società segrete, tradotto più tardi in inglese The secret societies of all ages and countries, London 1875); ed anche Arnaldo da Brescia e la rivoluzione romana del xii sec., Livorno, Vigo, 1875; Fulvio Testi e le corti italiane nella prima metà del xvii sec., Milano 1875; le biografie: Ugo Foscolo, Torino, Unione Tipografica, 1863; Giuseppe Bianchetti, Milano, Tipografia Parini, 1869; Giuseppe Sirtori, ibid. 1892; e, nella collana storica della Vallardi, Storia politica d’Italia (dal 1799 al 1814), ibid. 1881» (DBI, p. 480). Ma il principio che unifica questa molteplice attività di ricercatore e di studioso – «soldato del bene», come lo definisce Raffaello Barbiera, cit. da Cervesato, p. 421 – è ben riassunto dal De Castro stesso: «La vita pubblica va perdendo ogni idealità; quando i partiti si fondano sull’interesse e sul raggiro piuttosto che su i sentimenti e le convinzioni, mentre la nube dell’affarismo ingombra il cielo e impedisce ai giovani di scorgere quelle alte idealità che sono unico scopo alla vita degli individui e delle nazioni, che altro rimane allo scrittore, all’educatore se non rievocarle e porle come argine alla volgare corrente che trabocca?» (Cervesato, p. 419). Non a caso, sia Cervesato sia Codignola (vedi infra) non esitano a metterlo tra gli ‘educatori’. Bibliografia Necrologi in «L’Illustrazione italiana», 8 ag. 1897, p. 83; «Révue historique», xxii (1897), fasc. 65, p. 238; «asl», xxii, 1897, pp. 189-207 (con bibliografia delle principali opere del De Castro a cura di Antonio Vismara); Giovanni Antonio Venturi, In memoria di G. De Castro, Milano, Tipografia Lombardi, 1899; Car-

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lo Cattaneo, Scritti letterari, artistici, linguistici e vari, a cura di Agostino Bertani, ii, Firenze, Le Monnier, 1948, Avvertenza, p. 207; Idem, Epistolario, a cura di Rinaldo Caddeo, iv, 1862-1869, Firenze, Le Monnier, 1956, ad indicem; Angelo De Gubernatis, Dizionario biografico degli scrittori contemporanei, ed. cit., ad indicem; Dizionario del Risorgimento nazionale, ad vocem; Arnaldo Cervesato, Un educatore - Un precursore. Giovanni de Castro, «Cultura Moderna», xl, 1931, fasc. 7, pp. 417-421; Leopoldo Marchetti, Giovanni de Castro nel i centenario della nascita, «asl», lxiv, 1937, pp. 530-550 (con bibl.); Ernesto Codignola, Pedagogisti ed educatori, Milano, Istituto Editoriale Tosi, 1939, pp. 163-sgg.; Franco Della Peruta, Il giornalismo dal 1847 all’Unità, in Storia della stampa italiana, a cura di Valerio Castronovo, Nicola Tranfaglia, La stampa italiana del risorgimento, Roma-Bari, Laterza, 1979, ad indicem. 11. Bortolotti [1900] Fonte Vincenzo Bortolotti, Giuseppe Parini. Vita, opere e tempi con documenti inediti e rari, Milano, Verri, 1900. Vengono riprodotte le pp. 1-256 e le pp. 286-288. Biografia Riservata la vita di Vincenzo Bortolotti e scarne le notizie biografiche che lo riguardano. Nasce in provincia di Vicenza, a Malo, il 21 febbraio 1853, dal padre Francesco, mentre si ignora il nome della madre. Anche dei suoi studi si sa poco. Pare che si fermi alla licenza ginnasiale, ma a suo favore gioca la conoscenza di due lingue straniere moderne: il francese e il tedesco. La prima data sicura della sua attività lavorativa risale all’aprile 1884, quando viene assunto come collaboratore straordinario all’Archivio di Stato di Torino, dove resta fino al 1894. In quel periodo collabora anche all’Archivio Militare. La prima opera che di lui si conosce e che anticipa le peculiarità delle sue dotte ricerche archivistiche è la Storia dell’esercito sardo e de’ suoi alleati nella campagna di guerra 1848-’49 compilata sopra documenti inediti. Composta da Bortolotti in qualità di Ufficiale nel Grande Archivio Militare di Torino, è pubblicata a Torino, dai fratelli Pozzo nel 1889. Dedicato alla memoria di Carlo Alberto e di tutti i caduti per la libertà della patria, il corposo volume raccoglie le ricerche archivistiche in una sintesi organica che mira ad un doveroso ristabilimento della verità rispetto alle lacune, alle deformazioni, anche involontarie, dei ricordi dei protagonisti, alla tendenziosità di parte degli storici che già avevano trattato lo stesso argomento. Non solo, ma Bortolotti anticipa il suo progetto – destinato a restare tale – di dedicarsi immediatamente a una ricostruzione globale del risorgimento italiano dal 1848 al 1870 (Prefazione, p. x). Il 5 gennaio 1894 viene però trasferito a Parma come collaboratore straordinario dell’archivio di quella città: il suo progetto storico risorgimentale s’interrompe quindi per il mancato accesso diretto alle fonti. Finalmente, il 2 settembre 1896 approda a Milano, sede archivistica cui particolarmente ambiva. Qui lavora in qualità ora di collaboratore straordinario (fino al dicembre del ’96), ora di sottoassistente di prima classe (dal 1896 al 1911), ora di aiutante, fino al 1928, fino a concludere la sua carriera come coadiutore, fino a quando – 6 maggio 1920 – viene messo a riposo a par-

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tire dal primo giugno dello stesso anno. Dopo di allora non si hanno più notizie e non si conoscono né luogo né data di morte. Tra le sue opere, il capolavoro va sicuramente considerato il volume per noi di maggior interesse: Giuseppe Parini. Vita, opere e tempi con documenti inediti e rari, Milano, Verri, 1900, le cui caratteristiche vengono approfondite nella parte introduttiva del presente volume. Qui ci si limita ad osservare che Bortolotti è il primo a riprodurre un documento inedito della polemica Parini-Branda studiata anche dal versante governativo. Francamente non comprensibile invece la frequente polemica con le tesi di Salveraglio. La contrapposizione col Salveraglio nell’esame delle condizioni economiche del Parini porta Bortolotti a ritornare all’immagine tradizionale di un Parini nato, vissuto e morto povero. Alle opere maggiori, vanno aggiunti interventi di minor mole, ma sempre sulla linea della ricerca negli archivi, nel momento in cui si ravviva il dibattito sulla loro organizzazione, così come ci si incomincia a preoccupare di come inventariare il ricco, ma ancora sfuggente, patrimonio di documenti giacenti in famiglie private, in parrocchie. Vale la pena segnalare almeno il titolo di questi interventi: – Gli archivi dei Comuni, Opere Pie, parrocchie, provincie, famiglie, aziende private (rappresentanze, società industriali, banche, società tranviarie, società per l’irrigazione), notarili e di Stato. Loro formazione e ordinamento, Milano, Pirola, 1915; – Gli Archivi dei Comuni e loro ispezioni, «Il segretario comunale», 1916, pp. 34-38; – Archivi comunali disordinati e contraddizioni legislative, «Il segretario comunale», 1916, pp. 96-97; – Indice alfabetico delle deliberazioni del Direttorio Esecutivo della Repubblica Cisalpina contenute nel registro segreto dal 30 messidoro a. 6 al 15 germile a. 7 (18 luglio 17984 aprile 1799), «Annuario del R. Archivio di Stato di Milano», 1916, pp. 137-145. Quest’ultimo intervento, dal titolo all’apparenza così modesto (‘Indice alfabetico’), contiene la segnalazione di documenti della massima importanza, perché Bortolotti porta alla luce per la prima volta le direttive del governo repubblicano. «Date le condizioni di fatto degli atti della Repubblica Cisalpina molti dei quali vennero sottratti all’archivio e in parte distrutti poco prima della caduta del Regno Italico» (p. 137) l’acquisizione di nuovi documenti permette di accostarsi meglio alle vicende drammatiche ma scarsamente conosciute di un periodo storico così importante quale il triennio giacobino. Con la ribadita fiducia nel lavoro sotterraneo ma insostituibile dell’archivista, Bortolotti chiude coerentemente la sua attività, con la biografia di Parini, che resta un unicum, senza apparenti lavori preparatori o riprese successive. Bibliografia Emilio Bertana, Rassegna di studi pariniani, «gsli», xxxvi, 1900, pp. 131-159: 148-152. Come per gli altri contributi usciti in occasione del centenario della morte del Parini, Bertana presenta un’ampia recensione anche al volume del Bortolotti, orgoglioso di aver trovato documenti nuovi che ingigantirebbero la figura del poeta. Bertana però obietta che se anche Bortolotti «fosse stato fortunatissimo nelle sue ricerche, e avesse potuto produrre più copiosi e più importanti documenti, cotesto suo libro […] sarebbe rimasto […] un libro non buono» (p. 149), male architettato nella sua struttura e peggio condotto nel suo svolgimento, con la pretesa di superare il dato archivistico, in sé anche valido, ma con giudizi estetici pretenziosi e retorici (p. 152, passim). Dalla recensione

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nota ai testi

del Bertana veniamo a sapere che Bortolotti fu chiamato a commemorare il Parini, nel 1899, in un Liceo milanese; Luigi Valmaggi, Rassegna bibliografica, «gsli», lii, 1916, pp. 196-228; Maurizio Cassetti, Repertorio del personale degli Archivi di Stato (1861-1918), Ministero per i beni e le attività culturali, Roma, i, 2008, pp. 1-261 (a cura di Elio Lodolini), ad indicem; Annuario dell’Archivio di Stato di Milano, Milano, Archivio di Stato di Milano, 2011, pp. 38 e 51-53.

L E B I OG RA FI E

ELOGIO dell’Abate

G IU SEPP E PA R IN I gia ’ pubblico professore della eloquenza sublime e di belle arti nel ginnasio braidense

SC RI T TO

DA C OSIMO GALEAZZO SC OTTI C. R. B. stato suo discepolo A cui si aggiunge una Tragedia

I N T I T O L ATA IL

C ONTE DI SANTILLANA

MI L ANO. M D C C C I . PRESSO GAETANO MOTTA AL MALCANTONE. Con permissione.

[2] Ingratus qui beneficium accepisse se negat quod accepit: ingratus inquam qui id dissimulat: rursum ingratus qui non reddit: at omnium ingratissimus qui oblitus est. Plaut.

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All’Avvocato

GI U S EPPE BEC C ALO SSI Bresciano L’AMICO SUO.

L’ingenua amicizia che vi legò, mentre visse, al mio illustre Precettore l’incomparabile Parini, così a voi come a me che l’amai e n’era riamato, ne rende tenera insieme, e dolorosa la ricordanza. Diversa però d’assai esser dovea la cagione di questo suo doppio affetto; perocchè amava in voi di certo l’uom singolare d’ingegno, a se nel genio e nel conoscimento conforme delle [4] belle Arti; in me per natural sentimento un discepolo, vedutosi crescer sotto gli occhi dalla puerile età fino alla virile: se non è a dirsi che a qualche merito si degnasse pur d’ascrivermi e la costanza d’udirlo, e l’avidità di far mie proprie le sue dottrine. Ora poichè a tanto pur v’indusse la forza d’amore, ch’un simulacro gli ergeste nello Studio vostro, fra gli altri tanti letterati e poeti che vi si ammirano, con che sapeste inchinar la restia amenità delle Muse, a conversare colla accigliata severità delle leggi; discaro non vi sarà che al ritratto dell’Uom fisico io vengavi aggiugnendo quello dell’Uom morale; e così l’effigie dell’ingegno e de’ costumi suoi, alla effigie s’unisca del volto: mettendo in opra tutte le poche mie forze per farvelo quasi rivivere al fianco. Fu vostro e mio pensiero che senza encomio non si lasciasse la memoria di questo sommo Genio delle Arti. Quantunque per se, e cogli scritti suoi abbia ne’ fasti della immortalità il proprio nome scolpito [5] a indelebili caratteri di gloria, era pur questo un officio che gli doveva e la riconoscenza e l’amicizia. Indi sebbene bastava a lui che i suoi Zoili, siccome quelli d’Omero, negletti e dimenticati dal giudizio dei dotti si rodesser nella propria invidia; mal ne dovevano esser soddisfatti gli amici, se anco non tentassero sconfiggerli ed annodarli al carro de’ suoi trionfi. Se ciò avvenuto siami, a me non appartiene il giudicarlo. Bastami che esclusa ogni inurbana mordacità ho cercato più di persuadere che d’avvilire altrui. Non ho nominato di persona se non chi per se stesso si è pubblicamente enunciato. Ho distinto l’invidioso dal letterato, e la gara erudita dalla volgar maldicenza; nè ho mancato agli emuli suoi della debita lode. Non ho taciuto le mancanze, se alcuna ve ne fu nel mio amico e Maestro; egli è stato Uomo e perciò soggetto, benchè probo e filosofo, alla sempre imperfetta umanità. Così pagando a lui il debito di mia riconoscenza, cercai a qualche guisa di ristorarmi d’una perdita, che mi [6] sarà amarissima per tutta la vita. Studiato mi sono poi di risarcir voi nel modo possibile della doppia ingiuria che vi fece la morte e nel togliervi sì caro amico, e nell’interrompere a lui la presa risoluzione di far voi depositario del prezioso Manoscritto del suo Trattato delle Belle Arti, che a questo fine già aveva cominciato a rivedere ed a ripulire: testimonio verace di quell’alto conto in che teneva non meno il cuore che la mente vostra. Così le mie occupazioni mi lascin tempo di condurre a pieno effetto l’impresa incominciata d’illustrar di note gli inimitabili poemi, e le odi sue, sarà la miglior mercede ch’io dar possa al Maestro, rimunerandolo delle sue dottrine istesse. Proseguite intanto ad amarmi come fate, che se altro merito non ne ho, penso che non sia picciolo quello di non cederla a chi che sia nel pregiarvi al sommo, ed avervi carissimo. Addio.

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P R E FA Z I O N E .

Venuti quasi a gara tra se i migliori Letterati, e Scienziati, ed Artisti della nostra Patria, renderono alla onorata memoria del Parini i più splendidi officj che l’ingegno tributar potesse al merito d’un illustre trapassato: altri colle Iscrizioni si distinse ad onorarne l’effigie, ed il sepolcro; altri a scolpirne, altri ad ergerne il simulacro; altri in fine a redimerne a prezzo gli scritti dal pericolo di andarne o usurpati, o dispersi. Se non che in sì bella e generosa gara restavaci a bramare che da colta, e dotta penna ci si desse un Elogio e del suo genio letterario, e delle sue morali virtù, e così ne fosser compiti i memorabili fasti. Ma appressandosi oggimai il secondo anno della sua perdita, e deluso essendone restato sempre e l’amor degli amici, e l’estimazione degli eruditi, e il desiderio dei buoni, si venne poco meno che a perderne ogni speranza. Al che ripensando io pur con [8] dolore, siccome quegli che della gloria del mio buon Precettore meno di niun altro non ne doveva esser tenero, e forse più che molti altri al suo affetto1 riconoscente, stimolato anche da caro e dotto Amico, mi lasciai nascere in cuore l’ardita brama di provarmi a supplire in qualche parte a ciò, che tanti miei condiscepoli Uomini già di senno maturo e più abili di me, ed altri Letterati avrebber fatto in modo più degno. Tanto più poi mi sentii mosso a ciò intraprendere dalla lusinga, che il mio esempio potrebbe forse altri stimolare, che migliori si sentisser le forze, all’ardue imprese, onde tessuto ne venisse dappoi encomio cosiffatto, che alla perpetuità de’ tempi si rendesse raccomandato. Nondimeno però, se la facondia mia stata fosse corrispondente al nobile soggetto, chi meglio acconcio esser doveva a celebrarne le lodi, di colui che lunghi anni vissuto sotto la sua disciplina, testimonio stato fosse per tanto spazio della sua vita letteraria? Se dunque alcun lume non inutile sperar potessi d’averne [9] prepa|rato alla penna altrui, o dato qualche eccitamento al buon volere, sicchè più ornato Elogio e più ai meriti confacente di quel grande Letterato si vedesse pur apparire; sarebbe questo il frutto migliore che dalla mia fatica ritrar ne potessi. E forse che alcuno ciò appunto abbia in animo: poichè avendo io per altrui, fatto chieder taluni, che seco avean vissuto in famigliare dimestichezza, di alcuni fatti attinenti alla sua vita civile, non m’avvenne mai di poterlo ottenere. Che se non da animo scortese, ma da sì onorevol pensiero ne vennero i rifiuti, in vece di querelarmene come di soverchia durezza, volgomi anzi a pregarli e ad incoraggirli di non lasciarci più a lungo in desiderio di quanto possano essi per avventura più copiosamente far noto, intorno al suo privato tenor di vita. Io rimangomi intanto con quell’interno piacere cui altro a parer mio non agguaglia, di potere essendo beneficato e mostrar l’animo riconoscente, e ricambiar pure in qualche guisa il [10] benefizio: talchè possa anch’io gloriarmi con Tullio: Non est æquum tempore et die memoriam beneficii definire. Ad Quir. Post. Red. 1 [Nel testo effetto].

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ELOGIO DELL’ABATE

G I U S E P P E PA R I N I

G ià erano famose da più secoli molte delle minori città lombarde1 d’alcuno di que’ notabili Poeti, cui al cessar della vita riservata è l’immortalità della gloria; e la Metropoli della Insubria intanto, d’altra varietà d’ingegni assai copiosa, non poteva sorgere per egual pregio a gareggiar con alcuna. Vantava Pavia i suoi Guidi, Cremona i suoi Vida, Bergamo i due Tassi, Ferrara gli Ariosti ed i Guarini, e Milano che poteva ella se non usurparsi un estero Passeroni? Non ardiva mettere a competenza delle altre [12] Cit|tà o un Gaspare Visconti benchè in vero assai delicato Poeta, e meno un Maggi, ed un Balestrieri che nel patrio vernacolo scrivendo avevansi da se, con un linguaggio mal noto al resto dell’Italia, la propria fama circoscritta al breve recinto del lor Municipio. Quando dall’abbietto villaggio di Bosisio2 terra del Milanese uscì tal luce pur finalmente, che per l’Italia ed Oltramonti diffusa, quel luogo per lo innanzi ignoto, al pari di Certaldo ne divenne famoso. Imperciocchè ivi appunto intorno all’anno trentesimo del passato secolo ebbe gli umili suoi natali il grande Autor del Mattino, e del Mezzo-giorno, cui poco più che da un anno la Letteraria Repubblica piange involato a lei dalla morte. Ma la poesia non fu già la sola in cui l’Abate Giuseppe Parini e per raro dono di natura, e per profondità di studio a grado altissimo pervenisse. Uomo di sottilissimo e rettissimo ingegno e discernimento, non meno che fosse d’ogni letteraria dottrina; d’alta penetrazione e di squisito buon gusto era egli fornito in tutto che alla cognizione universale delle Belle Arti appartiene. Onde in Milano, per diritto del lungo soggiorno divenutogli patria, nel quarantesimo anno di sua vita, pubblica scuola ottenne dell’Eloquenza Sublime Oratoria e Poetica: e quindi insieme delle Arti Liberali: intorno a che con sommo applauso le [13] varie e vaste sue dottrine ebbe luogo a far risplendere pel lungo tratto di sei lustri; e fino a che settuagenario il corso venne a chiudere di sua mortal carriera. Sicchè e dalla riconoscenza che gli dobbiamo come a carissimo Maestro; e dall’affetto che pur gli conserviamo come a tenerissimo amico, indotti a rendergli tributo de’ giusti encomj, già cominciamo fin da principio a smarrirci; incapace essendo la tenue nostra eloquenza non che ad illustrare, nemmeno a riferir come conviensi l’altezza e la copia de’ pregi suoi. Nondimeno se la cagione che a quest’opra ne stimola può da saggi meritar qualche scusa al soverchio ardimento, come per noi si potrà meglio, richiamato il coraggio, proporremoci a dimostrare come: e raro e singolare Poeta egli fosse; e straordinario Precettore: e come all’altezza della mente, l’altezza del cuore ben in lui s’accordasse. Ora quanto noi promettiamo di non ricever dall’amore e dalla 1 Lombardia fu chiamata dopo l’occupazione dei Longobardi la Gallia Cisalpina, o Citeriore: che è quella parte d’Italia che è posta tra il Varo, le Alpi, l’Arno, il Rubicone; e ’l piccol fiume Arsa nell’Istria. 2 Bosisio terra del Milanese presso l’ameno Lago di Pusiano, creduto l’antico Eupilis nominato da Plinio. Lib. 3. c. 19.

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gratitudine altra legge, fuor di quella che ne venga e da sincerità e da giustizia; così preghiamo d’esser uditi benevolentemente: confidando di poter anco dileguar dagli animi ogni ombra di prevenzion sinistra, ove a sorte in qualche parte ci si affacci per indebolire il vigore al proposto argomento. A ben comprendere quanto pochi sieno coloro che nella poetica facoltà nome d’Autori a buon diritto si meritino, basta il trascorrere per la serie dei secoli, e l’osservare di tante colte nazioni quanto scarso il numero sia di quegli Scrittori, che dal consenso della venerabile antichità, e della [14] mo|derna critica, siccome esemplari riconosciuti vengano del bello e del grande. Ove il carattere manchi della ingegnosa novità, che l’importante forma e il non comune dell’arte; e questa novità o in tutto l’argomento considerato in se stesso, o nel modo dell’esser maneggiato; onde dalla natural sua bassezza s’elevi a non aver più affatto dell’usitato; ivi non fia mai ch’altri possa ravvisarvi una vera poesia. Nè già gli esteriori colori o delle frasi, o delle rime o d’altre siffatte minori qualità lo fanno cangiar di natura. E a dir vero: qual è che col voto ingenuo della buona Critica, nome di poeti conceda a’ servili versificatori sulla imitazion del Petrarca o d’altro nobile Scrittore, s’altro non faccian questi che porre ogni studio in ricantarci gli altrui modi e frasi; per quanto belle esse si sieno, nulla avendo poi nell’invenzione, nell’affetto, nelle immagini che trapassando la mediocrità, al pregio gli avvicini del mal imitato modello? Componimenti son questi che Orazio chiamerebbe: Versus inopes rerum nugæque canoræ. De Arte Poet. Al che lasciar non si deve d’aggiungere, consister anco in parte la novità d’un Autore, se delle frasi e dei modi del dire così adoperi, che a pari che i grandi pittori assai si distinguon fra se anche dall’arte dell’impasto e del colorito; così esso tali modi abbia e tal uso di frasi suo proprio, che dalla universalità segregandolo, particolare ed unico, ed a se solo il rendano somigliante. [15] Venendo pertanto al nostro Poeta, e la novità e l’importanza de’ suoi argomenti pigliando ad esaminare, qual è che dal tutto e da ogni parte folgoreggiar ciò non vegga da quelle Satire pubblicate col titolo di Mattino e di Mezzogiorno: divenute ormai la delizia e l’ammirazione d’ogni colto ingegno? La Satira che adoperata a mal uso da’ maligni poeti, fa col nome solo a tutta ragione inorridire; alto encomio riceve dai Saggi allora, che risparmiate le parziali persone, i vizj soltanto della universalità degli uomini a morder si piglia. Perciocchè per tal forma migliora la vita civile, emenda la società, e diviene maestra non meno della virtù, che ministra del pubblico bene. Intorno a che qual saravvi che tema d’asserire andar la Satira cosiffatta di pari passo colla moral Filosofia; se non è anco ad aggiugnere che la preceda nella efficacia maggiore della animata poesia sul freddo precetto? La qual cosa così essendo, in qual genere di Satira più importante poteva esso avvenirsi il nostro Autore, di quella che un uso piglia a combattere sì pregiudicievole al più sacro de’ naturali diritti?1 Queste tresche, cui sotto specie [16] di galanteria dà passaggio 1 Non crediamo che alcuno esservi possa di sì corto intendimento, che vedendo il Poeta parlar in singolare, e come ad un solo giovin Signore, così satira personale si pensi esser questa. Nè manco crediamo noi che in un solo od in una sola tutto quanto v’avesse l’apparato dei difetti [16] che esso nota. Il parlar in singolare riduce la cosa più all’evidente, non distraendoci in molti oggetti de’ quali niuno la farebbe da principale per produrre l’unità. Il ra-

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l’odierna costumanza tra donne in matrimonio legate e liberi giovani; che appunto per ciò, come esso nota, al matrimonio si fanno avversi, a quanti e doveri e vantaggi sociali non fan contrasto? Che se vi s’aggiungano siccome in coloro appunto che il Parini piglia a mordere, e gli agi e l’ozio e la potenza; quanto strano fomento a questa fiamma struggitrice cresciuto non venga? Indi come non gli debbon saper grado i Saggi che ciò avendo quasi come principale oggetto contro cui indirizzare i suoi strali, mille altri mostri sa snidare da’ suoi nascondigli: onde quasi a giuoco animosamente assalirli e trafiggerli? Fra gli altri dunque ecco sul campo l’ignoranza d’ogni buon’arte che congiunta sia alla vita sfaccendata di codesti giovani: e il temerario arrogarsi di giudicar d’ogni cosa: e il vile orgoglio di mettersi al di sopra degli altri viventi in grazia d’un nome; che se da niuna virtù acquisti pregio, voto ed ampolloso affatto, anche ne’ Governi da cui questa distinzione s’ammetta, fastidiosi al resto [17] gli rende dei mortali, inutili alla patria, e disonorevoli alla umana natura. (Cicero in Lælio) Non solum ipsa Fortuna cæca est, sed eos etiam plerumque efficit cæcos quos complexa est. Itaque efferuntur illi fere fastidio, & contumacia: neque quidquam insipiente fortunato intolerabilius fieri potest. Ora chi adeguar potrà con parole la sorpresa e l’alta maraviglia di coloro, che formano la porzion migliore della colta Società, quando prima le Pariniane satire apparvero a luce? A chi non venne tosto all’occhio la grandezza dell’argomento non solo, ma la novità in ciò aggiuntavi: che se molti de’ moderni, e degli antichi Satirici alcuna parte s’erano scelta a notare dei difetti dei Grandi, Costui, sotto colore della lor vita amorosa, tutti pigliasse occasione di trargli in iscena, di fargli distintamente conoscere, e di morderli amaramente; anzi ben più amaramente che a niuno, per celebre autor che si fosse, ne’ vicini e ne’ lontani secoli nemmen caduto fosse in pensiero? Perocchè ciascun d’essi lasciatosi accendere dalla bruttezza del vizio, tale ardor di parole e gravità di concetti, quale a tanta deformità reputava esser conveniente, adoperato v’aveva, che venuto era fino a prorompere in calde invettive o in aperta beffa. Costui invece dissimulando ogni fervor di fantasia, e reprimendo ogni apparenza di sdegno, sotto una perpetua ironica forma e d’invenzione, e di presentazione, e di discorso, insidiosamente e con più di acerbità venne a trafiggerli ed a schernirli. [18] Spie|gò a questa guisa un carattere d’ingegno nuovo affatto in sua forza e non più veduto in altrui. Anzi come più sottilmente insidioso non si diede egli a conoscere, dall’ascondere che fa la persona del più pungente censore sotto quella di precettore, e di precettore d’un rito amabile? Me precettor d’amabil rito ascolta. Mattino. Quasichè ad emular si facesse Virgilio, Orazio, l’Alamanni, il Rucellai, o altro tale, che maestri si fecero in poesia d’alcuna util arte. Così sotto nome di cure grandiose le più frivole bagatelle, e i più ridicoli difetti e perniciosi morde pomposamente; e fingendo d’avvilire l’operoso plebeo, e d’aver in lieve conto fin anco le imprese faticose degli Avi di questi berteggiati eroi; colla furberia delle sue antitesi ironiche, ciò che pone per ombra è lume, ciò che per lume è ombra densissima: con che inusitato diletto e delicatissimo riso concilia alla rara novità del suo dunar poi in un solo quanto può essere disperso tra i molti è l’arte del Pittore, che mille parti belle osservando in più persone, e molte deformi, ne vien poi a scegliere ed a comporre, secondo il diverso scopo, il suo bellissimo, o il suo deformissimo.

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satirico scrivere. Ove non è da lasciarsi senza grande riflessione una virtù, del suo ingegno pur tutta propria, della quale non v’era esempio per anco; e questa si è ch’egli sappia senza sazietà, anzi con soddisfazione continuata di chi legge, e con molto vigore del componimento, da capo a fondo condurre l’ironia, che pur fu sempre sotto la considerazione dei Rettorici, e nell’uso degli Autori, una figura del dire che dalla brevità di sua durata piglia forza, e dallo scagliare bene spesso i suoi colpi a modo di freccia improvvisa. Che se questo pregio tutto suo della [19] perpe|tua ironia, e la grazia e la satirica novità, onde il nostro Poeta a tutta ragione nome acquistossi di vero autore e d’inventore, d’uopo abbia, oltre la chiarezza di mia dimostrazione, della testimonianza di un Critico, niente per verità liberale d’encomj, veggasi ciò che il Baretti ne scrisse nella sua Frusta Letteraria. Così parla egli del Mattino (num. 1. p. 7.) che unico per allora era la prima volta uscito a luce. «L’incognito Autore del Mattino è uno di que’ pochissimi buoni Poeti che onorano la moderna Italia. Con una ironia molto bravamente continuata dal principio fino al fine … satireggia … uccella talora con una forza di sarcasmo degna dello stesso Giovenale». Volgendosi quindi all’Autore così gli dice: «Io ti esorto, Abate elegantissimo, a non deluder la speranza che ne dai nella prefazione (detto meglio avrebbe: nella introduzione, e nella esposizione dell’argomento) Quali il Mattino, Quai dopo il Mezzodì, quali la Sera Esser debban tue cure apprenderai. Mattino. Prosegue quindi: «Dacci il quadro finito che te ne avremo obbligo, e contrapporremo senza paura i tre canti del tuo Poema al Lutrin di Boileau, e al Rape of The lock di Pope» Fin quì il Baretti. Potevasi in lungo discorso tesser elogio più splendido al Poema, di quel che venga a fargli con questo solo paragone in un tratto di penna, quel [20] Censor rigidissimo, che risparmiò sì poco fino i nostri più venerabili Padri della poesia, per l’antichità di tanti secoli creduti quasi intangibili? E qual è sì mediocremente nelle cose letterarie versato che non sappia quanto lustro aggiugnessero alla francese, ed all’anglicana letteratura i due insigni poemi del Leggìo, e del Riccio rapito? e potrò ben concludere sull’autorità del rigidissimo Critico: qual avvi sì cieco che non vegga e non ammiri la nuova luce aggiunta all’Italiano Parnasso dalla non più veduta invenzione della satira Pariniana? Che se la composizione del tutto insieme somma lode si merita di novità, le parti istesse, che il tutto formano, hanno pure in segnalata guisa questo pregio, anche osservate di per se. Lasciam le molte bellissime descrizioni; che pur tutto è ipotiposi ed evidenza il poema: La graziosa favoletta d’Amore, e d’Imeneo, oltre le altre che per brevità omettiamo, non è essa tutta sorprendente nella fantastica bizzarria? Se mirisi poi quanto industriosamente parta dal tutto, e nel tutto rientri e vi si leghi, qual è che non veggavi il merito d’un ingegno che tutti gli episodj con arte finissima fa divenir necessarj?1 1 «Tempo già fu ch’il pargoletto Amore/Dato era in guardia al suo fratello Imene» (Mattino).

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Ma se dappertutto soffermar ci volessimo i rari fiori a raccogliere della novità, ch’egli stesso quell’Ingegno creatore ci fa nascere innanzi, onde [21] tessergli corona, quando la finiremmo? Tutto l’encomio non basterebbe all’intento unico del suo poetico merito: e questo non è il solo che a commendar ci pigliammo. Eppur di ciò tanto ancora a dir ne rimane, che non possiamo trapassare in silenzio, senza nota di poco avveduti e d’imperfettissimi Conoscitori del bello, e del grande. Parlo del bello e del grande a gran fidanza; perocchè Orazio mi è scorta colla propria asserzione a mostrar col fatto a qual grado eminente entrambi questi pregi rinvengansi nelle Pariniane Satire. Quell’esimio Precettore nella sua Poetica per contrassegnar l’eccellenza d’una poesia questa prova ne reca: se essa alletti altri ingegni a tentare lo stesso, e dopo molta fatica vani ne riescano i tentativi; sicchè l’egregia poesia rimangasi inimitabile: Ut sibi quivis Speret idem, sudet multum, frustraque laboret1 Ausus idem. Ora sia detto col rispetto debito all’incognito scrittore che pur si dà a conoscere abil poeta, com’esso allettato da nobile coraggio a partecipar della gloria del nostro Autore, nella smaniosa ansietà della Sera, che tuttavia teneva in sospeso l’aspettazion dell’Italia, volle prevenirlo sì, che [22] quel mancante Poema compisse, ed una Sera da se fatta aggiugnendovi, si provasse esso pure coll’utile satira a servire al costume ed alla morale. Oh avesse egli lavorato col proprio pennello quadri di tutta propria fantasia, dacchè si vede averne l’intelligenza e la forza! Qual è che compiendo gli altrui lavori, seguendo i disegni altrui, ed imitando le altrui maniere, possa accordarvisi in modo, che pur non ne traspaja qualche notabile dissonanza? Ma forse che abbia l’Italia, e la Repubblica delle Lettere a dimettere ogni speranza di veder la Sera postuma tener dietro a compire il tuttavia imperfetto Poema? Mercè se n’abbia ad un generoso discepolo dell’Autore l’Avvocato Francesco Reina, che da rurali eredi volle tutti redimerne a prezzo i manoscritti sì di prosa che di verso. Noi a sorte ne udimmo di bocca del nostro amato Precettore molte parti eccellenti. Posson bene per avventura di molti sgorbj rinvenirvisi; poich’esso addottrinato da Orazio usava in se quel documento che dava altrui: cioè che sui componimenti tornar si debba con grande diligenza; nè pregiata scrittura poter esser quella, cui non multa litura coercuit. Ma il fino ingegno di chi quel tesoro possiede giova lusingarsi, che prestando un officio dovuto alla memoria onorata di tanto Precettore, oltre l’esser benemerito dei dotti coll’averci conservato dalla dispersione, e dalla perdita gemma sì rara; con fatica di se degna sia per metterla a suo [23] luo|go, e farla splendere agli occhi del pubblico nell’impareggiabile giojello. Scandagliata l’opera nel suo intrinseco bello, che a dir non ci resterebbe di que’ pregi che nella eleganza sono posti e nella evidenza dell’esteriore dettato? Oltre che i vani tentativi di chi volle pure imitarne l’esterior colorito, ciò provano assai; le accuse stesse onde si pretese di morderlo, il fan troppo chia1 Afferma lo stesso Quintiliano dell’Arte Oratoria. Neque enim aliud in eloquentia cuncta esperti difficilius reperient, quam id, quod se dicturos fuisse omnes putant, postquam audierunt.

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ro. Qualunque ne sia la cagione, che non curiam noi a questo riguardo di cercarla, o di porla in palese; le notabili composizioni non passan mai senza taccia. La Gerusalemme del Tasso n’è pure esempio? È vero che anche i più insigni Scrittori han le loro macchie, dice il più volte citato Venosino; ma in un corpo tutto eleganza e venustà, vorrò io offendermi de’ nei, che vi si trovino a sorte? Sunt delicta tamen quibus ignovisse velimus. … Ubi plura nitent in carmine, non ego paucis Offendar maculis. De Arte Poet. Non passerem dunque senza toccare come gli acerbi Aristarchi caricata chiamasser la maniera ond’egli scrisse. In che o non vollero o non seppero por mente, seppur s’abbia a conceder loro che ciò sia vero, com’esso burlando e beffeggiando colla studiata magnificenza del verso e delle frasi, verrebbe a rendere più ridicolo un oggetto sì spregevole in se stesso e sì deforme. Indi com’è da lasciarsi che pomposa eloquenza era dovuta ad immagini affettatamente pompose? Donde è mai che [24] Gabrina presso l’Ariosto, dalle labbra più severe cavi il riso, se non dal vederla vecchiarda e deformissima nel galante abbigliamento di gentil giovanetta? In fine non è egli in natura, che noi facciam sentire l’ironico delle lodi dalla esagerazione ampollosa de’ vocaboli? Dunque se la fina imitazion della natura è tanto commendata in ogni arte, perchè quì disapprovata venga senza nota d’imperizia o di malignità? Ma quì non si ristanno costoro, e l’uso dell’epitetare Pariniano tacciano di troppo pesato e ricercato. Sia pure ch’egli Scrittore giudiziosissimo gl’inofficiosi epiteti schivasse; quell’aggiunto non sarà mai da lungi cercato che la qualità propria del caso particolare all’oggetto assegni, non la generica, che ad altro non serve se non che ad empir votamente il voto a meschini versificatori; e a dare il galoppo a’ sbrigliati loro versi. L’epiteto solo di magnanimi a que’ lombi onde fa scendere il suo eroe, che non ha di proprio e di calzante? Come non deride dissimulatamente la vanità di chi troppo attribuisce alla serie degli Antenati? Che magnanimità è in questa parte che lo differenzii dal contadino, e dalla ciurmaglia più abbietta? aggiugnerò: che lo distingua dal più vile animale? Così l’intende chi è avvertito: così l’ammira chi tanta estensione di ferita vede farsi da puntura in apparenza sì lieve. Così da tant’altri epiteti di questa acutezza ingegnosissima, che infinita e nojosa cosa sarebbe il quì porre ad esame, chi abbia pur punto di sal critico, s’eleva a venerar quanto [25] me|rita il vigor di sua dizione, e l’inimitabil destrezza di quel sottilissimo ingegno. Che poi non ci convien dire di coloro, che rozzo trovano e duro il suo fino e giudiziosissimo verseggiare? Oh troppo falsificato a’ dì nostri metodo del compor versi! Altri non gli scrive che tutti scorrevoli e facili, seppure alla trascuraggine incomposta nome dar si deve di facilità: ad altri punto non piacciono se non sieno tutti sonori e strepitosi. Forse che i Classici usassero di questa maniera? I giardini d’Armida sono essi in que’ fieri versi presentati, con che descritto è Rodomonte che in Parigi imperversa; o quel terribil Campione è dipinto coi molli ond’è Armida pennelleggiata ne’ suoi amori, e fra l’amenità de’ suoi giardini? La natura stessa non è ella ottima maestra al più rozzo contadino delle molli maniere del discorso, e delle aspre, s’egli abbia ad esprimere col suo discorso ira od amore? Quanto non è grande quella terzina di Dante, che appunto

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per esser fiera e dura, non solo alla vista fa scorgere; ma fa udir all’orecchio lo sgretolar terribile d’un cranio sotto i denti d’un dannato? Quand’ebbe detto ciò, con gli occhi torti Riprese il teschio misero co’ denti, Che furo all’osso, come d’un can forti. Inferno, Cant. 33. Eppure quanti se ne trovano, pel corso massime del suo Purgatorio, di soave o delicato andamento? E questa bella alternativa dalla alternativa del concetto e della immagine dee nascere; che [26] vesti|ta esser vuole di colori anco esterni, che le sieno coerenti. Sicchè se anche possa, oltre la presentazione fattane alla mente, far sentir la cosa non più in immagine, ma con certa qual realtà fino a corporei sensi, onde e la veggiamo e l’udiamo, quanto non viene la poesia ad acquistar d’eccellenza? È celebre il calpestio del Cavallo in Virgilio Quadrupedante putrem sonitu quatit ungula campum. Æneid. È notabile pur soprammodo quel verso d’Orazio, che a metà la vastità d’un monte ingrandisce, obbligandoci a non poter pronunziarlo che a piena dilatazion di bocca; a metà a doverlo dir quasi a chiuse labbra, che ci riduce alla esilità d’un topolino: Parturient montes, nascetur ridiculus mus. Arte Poet. Ora se veggansi segnalati nell’anzidetta imitazione i Pariniani versi, che pochissimi n’addurremo, agio avendo ciascuno di notarli da se, e vederli a suo luogo; chi più tacciarli potrà d’incomposti e di rozzi? Fan le capaci volte echeggiar sempre. Qui il rimbombo de’ clamori è pur chiaro, e la ripercussione dell’eco? Temi le rote Che già più volte le sue membra in giro Avvolser seco, e del tuo impuro sangue Corser macchiate, e il suol di lunga striscia, Spettacol miserabile! segnàro. O io m’inganno, o quì nell’avvolgimento [27] d’una costruzion prolungata senza intralcio di punti, il mormorio prolungato ci suona all’orecchio delle ruote aggirate. Vede l’occhio i corpi colle ruote ravvolti; colar il sangue e dietro sul terreno lasciarsi la striscia. Dall’occhio e dall’udito passa al cuore il terrore. Il terrore misto al dolore non è mai espresso da noi con velocità successiva di parole; quindi l’eccellente ultimo verso a pronunziarsi lento cotanto. Arsenal minutissimo di cose. In vece chi più può ridur le bagatelle alla sua, dirò così, più minuta minuzia? Questo verso è sì affrettato che sfugge dalla lingua e sdrucciola dalla bocca. In che, quant’è pur da osservarsi l’industrioso contrapposto? Arsenale ci prometteva ampie cose – minutissimo ci riduce il tutto al suo gran nulla. Se vero è dunque, quelli esser più perfetti versi, che le cose presentate alla mente, col suono stesso le riducono al senso; e più sensi appagano in una volta: se dalle poche cose osservate veggiam chiaro quanto anche in ciò sia il no-

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stro Poeta felice, che non potrem dire a ragione? E tanto s’esalterà un maestro della musica, se col suono o colle voci liete o dolenti, i lieti o dolenti concetti accompagni, ed esprima: ed un poeta notabile nella versificazione, che pur essa in suo genere a musical metro appartiene, avrà biasimo da ciò che al grado lo pone de’ più eccellenti? E quì resterebbero a difendersi le sue Odi, altro suo parto pregiatissimo, della nota [28] d’oscu|rità e di durezza. È ella l’oscurità e la durezza d’Orazio? Quello che stento è detto, concilia egli gravità e magnificenza? Ciò che arcano sembra, è l’arcano venerabile di Pindaro, in cui mal penetra la vista annebbiata dell’imperito? Avremmo noi a poter dire che mal conoscesi la Lirica sublime? Veggiam Parini Anacreontico, non è egli in tutta la sua composizione chiaro di concetti, facile d’espressione, scorrevole di versificazione? È pur dolce in su begli anni De la calda età novella, Lo sposar vaga donzella Che d’amor già ne ferì. In quel giorno i primi affanni Ci ritornano al pensiere; E maggior nasce il piacere Da la pena che fuggì ec. Ma in brevi detti passar mi piace su questi suoi componimenti, e nol feci delle Satire; perocchè se con questi disputa del primato con molti, in quelle niuno v’ha che seco di contendere ardisca. Ora, e chi potrà senza nausea più udir nuove taccie? È scarso il numero de’ suoi componimenti1 a proporzion della vita? A proporzion [29] del volume scarsissimi sono pur nel Petrarca i magistrali Sonetti, e le Canzoni pur magistrali: vi avrà chi il neghi? Una statua sola od un quadro che ci resti non basta quanto mille a farci conoscere il valor d’un artista? Chi può impugnarlo? La moltiplicità a maggior nostro diletto si brama; non a prova necessaria della perizia dello statuario o del dipintore. Cessi omai, cessi la scornata malignità e l’insulsa ignoranza di disapprovar ciò, che riprodotto da tutte parti fu dai torchi rapidamente; che fu in latino trasportato, e che in oltramontani idiomi le straniere nazioni pur si vollero far proprio. A che minore vorrem noi renderci questo [30] nazional nostro pregio, che gli stranieri sì liberamente confessan nostro, 1 Non si può dire a ragione che poco scrivesse il Parini, se poco egli pubblicò: molte sono le sue opere inedite. Nondimeno tutti gli uomini avveduti molta difficoltà trovano al comporre: o perchè la novità, che vorrebbono in ogni cosa, non sempre rinvenir si può; o perchè severi giudici di se [29] scrupolizzan sul già scritto; o perchè trovano realmente d’essersi ingannati: «Nam neque chorda sonum reddit quem vult manus et mens / Poscentique gravem persaepe remittit acutum» (Hor. Poet.) Il mediocre solo è ad ogni sua opera liberale d’applauso: «Nunc satis est dixisse: ego mira poemata pango» (Ibid.) Sappiamo dal Metastasio quanti giorni di stento gli costassero alcune Ariette che pur pajono cadute spontaneamente dalla penna: veggiamo ne’ Manoscritti dell’Ariosto in quante forme correggesse e cangiasse le sue Ottave, che sembrano un primo tratto di penna. Tutta l’arte è nel non farne dappoi apparire lo stento. Soleva il Parini deridere chi vantato si fosse di scrivere un torrente di versi in brev’ora. Pochi e buoni li reputava copioso frutto d’una giornata. Censurava que’ Raccoglitori che ogni carta agli Autori rinvenuta stampano a man salva. Diceva esser questo un tradimento fatto all’onore degli Scrittori.

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e con nobile invidia quasi ci usurpano? Vergogniamci piuttosto in faccia alle colte nazioni, che d’uopo sia di difese a Colui che con una luce tutta nuova di mente, di tanta gloria la Patria adornò il primo, che elevata l’abbia a pareggiarsi a tante minori Città, che miravanla innanzi con orgoglioso dispregio; e chiara e ammirabile la rendeva così, ovunque in pregio sono e le arti, e gli ingegni. Stabilito con ciò per ogni riguardo il carattere di vero Autore nel nostro Poeta; carattere onde sì pochi fregiati vanno tra i molti, che a questa nobil arte applican l’ingegno; e de’ quali alcuno appena qual nuovo astro nel corso de’ secoli apparisce a bearci del suo splendore; è da passare a tutta mettere in chiaro altra mirabil dote della vasta sua mente, ed a farlo conoscere Precettore, ma straordinario affatto, e fuor dall’uso comune, nell’addottrinare nella eloquenza poetica ed oratoria; e a un tempo stesso nelle Arti tutte che Liberali son dette. E ben fu saggio il consiglio che mosse l’Imperadrice M. Teresa nell’anno mille e settecento settanta a far sì, che non a se solo, nè a render celebre il proprio nome co’ suoi poetici lavori nato egli fosse unicamente; ma a pari di fonte perenne la ricchezza di sue acque diramando a molti ruscelli la compartisse. Nè già com’io credetti lungo tempo, successore egli fu dei Majoragi nella antichissima nostra Cattedra d’Eloquenza; ma come in modo nuovo tutte [31] le Arti riunite esser dovevano in una sola scuola: così egli in una Cattedra collocato venne, a bella posta per lui creata dalla Imperiale munificenza.1 Oh qual adito io m’apro a nuovi argomenti di vasta lode! Men noto per avventura del fin quì detto è ciò, di che a parlar discendo; ma non è per verità meno splendido. Testimonio di lunga serie d’anni di sue profonde dottrine; sotto la sua disciplina allevato da’ primi anni; debitore a lui solo di quanto appresi, giusta la tenue capacità di mia mente; quanto forse questo secondo suo pregio è men noto, tanto maggiore io sento l’impulso di porlo in chiara luce; e mi confido pure di poter dar a conoscere come al primo punto non la ceda nell’esser grande.2 [32] E dagli insegnamenti Poetici ed Oratorj incominciando, che dai precetti delle altre Arti disgiungeremo pure, bench’egli congiuntamente gli desse; tutte riducendo le Arti al principio comune; non è poi a credersi puerilmente, ch’esso Professore di sublime eloquenza, intorno ad oratorie partizioni, o a poetici meccanici metri sterilmente s’aggirasse; cose tutte ch’egli aveva diritto di pretendere apprese nelle Classi minori a ciò instituite. Le menti non fornite ancora delle facoltà almen filosofiche e come potevano elevarsi a penetrar negli arcani delle leggi del Buongusto della doppia eloquenza, ch’egli a tutto sforzo dell’acre suo ingegno discernitore s’adoprava d’instillar nelle menti; con sottigliezza ma giusta, con evidenza ma fina; con una perspicacia soprammodo fortunata, nel trarle dai fonti purissimi della scelta natura? Com’egli con facil mano ne con1 Antichissima è in Milano la scuola di Eloquenza. Vuolsi che S. Agostino ne avesse già il carico, ed i pubblici stipendj. Il Majoragio, o Maggioragio, letterato famoso del secolo decimoquarto, del quale non poche coltissime latine Orazioni ci restano, n’ebbe esso pure la Cattedra. Il Parini lesse la prima volta nelle Scuole della Canobiana, riunite poi in Brera con le Palatine al cessar de’ Gesuiti, che un tempo vi avevano Università. 2 Men noto in ciò, che la più parte non è capace di conoscere qual divario passi da maestro a maestro: che sia material Rettorica, e che sia Eloquenza: in che la fina critica consista e quanto necessaria sia al raziocinio: quanta cognizione erudizione e perspicacia si richiegga per raccogliere le Arti tutte in una sola Scuola, valendosi de’ medesimi precetti, almeno in essenza.

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duceva a ben comprendere in che la natura posta fosse, in che l’arte; e come amichevolmente cospirano insieme questa a produrre, ma quasi a caso, quella a ravvisare ed a trascegliere con grande avvedimento il bello, per trasportarlo agli scritti?1 Era egli [33] quel metafisico profondo, che penetrando nelle viscere più recondite della natura e dell’arte, ivi ne insegnava a ben conoscere l’indole dell’intelletto, della fantasia, del cuore umano; così determinava i suoi principj del retto pensare, del giusto immaginare; del commuovere e dell’essere a ragion commossi: quindi le leggi traeva dell’inventare sul vero o sul verisimile, e di elevar l’invenzione al di sopra assai del comune: le norme dello scegliere tra i molti concetti, o fantasie, o affetti: di conoscere i vantaggiosi, gli inofficiosi, i perniciosi all’intento, e di segregarli: i metodi per dare i gradi opportuni di sviluppo al concetto, di vivacità alle immagini, di fuoco più o meno agli affetti: l’arte in fine di collocare con una distribuzione prudente ogni cosa al luogo che più venisse opportuno; e di ordinar il tutto al suo fine con una successione chiara e naturale, che coll’aumentar sempre più l’importanza dell’argomento, o di prosa o di verso, astrignesse con bella industria l’uditore od il lettore a tener dietro coll’attenzione, avvivata sempre da un’avida curiosità. Cose tutte che con picciolo divario nei modi, e dentro certi particolari confini più o meno estesi, e da lui ben assegnati e ben distinti, chi negar può che non costituiscano così il buon Oratore, come il buon Poeta?2 [34] Che più mi dilaterò io su profondi principj del vero, del nobile, del bello scrivere ond’esso andava le menti imbevendo, ed eccitando gli ingegni, se in pochi versi ciò asserisce il famoso ed integerrimo Passeroni, con ben assai maggiore autorità ch’io non abbia, così di lui favellando nel tomo settimo delle sue Favole Esopiane al Parini intitolato: Voi giovate o d’onor degno, Colla penna e colla lingua; Che l’altrui memoria impingua Di dottrina, e in un l’ingegno ………………………… Voi ne’ giovani stillate L’eloquenza soda e vera. …………………………… Voi cercate di far argine Al rio gusto che serpeggia. Da’ quali due ultimi versi, o qual nuova e larga copia non ci si aprirebbe d’encomio? Come non potrei all’evidenza descrivere gli sforzi suoi generosi per tener ferme nell’arte vera dello scrivere le giovanili menti, che sì di leggieri piegar 1 «Natura fieret laudabile carmen, an arte,/Quæsitum est: ego nec studium sine divite vena,/ Nec rude quid prosit video ingenium. Alterius sic/Altera poscit opem res, et conjurat amice» (Horat. de Arte Poet.), «La Nature sans l’Art est aveugle et téméraire:/L’Art sans la Nature est rude, sterile, et sec» (Dacier., Remarques). 2 Sono in error grande coloro, che la Poesia credono men ragionata in ogni sua invenzione e fantasia, e meno ordinata della Oratoria. Il [34] diva|rio tra le due Arti, quanto al raziocinio ed all’ordine, è in ciò: che l’Oratore li fa conoscere sensibilmente; laddove il Poeta, e massime il Lirico, non gli ha che interni; anzi esteriormente a grand’arte li dissimula, onde non trabocchi l’entusiasmo in un gelato languore. Se fosse altrimenti, poesia non sarebbe, ma uno infuriare da forsennato.

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si lasciano allo stravagante; onde allucinati vengono [35] ad averlo in conto d’ingegnosa novità? Oh com’egli combatteva a tutto petto le massime, ch’esso così chiamava, di letterario libertinaggio, tanto più pernicioso e seducente, quanto che insegnato dagli scritti d’uomini altronde accreditati? Come in somma faceva viril resistenza ad un secolo quanto per le scienze famoso, altrettanto nelle lettere deteriorato, fino a precipitare furiosamente dalla bella semplicità al fucato, al manierato, al falso? Strana vicenda in vero ma naturale; già dagli Eruditi osservata nelle sue cagioni, che le Lettere e le Scienze mai non regnano unite; eppure le une alle altre dan tanta mano?1 [36] Ma forza è pure ch’io passi oltre a far meglio comprendere con quale altra dote della sua inarrivabile perspicacia gli esatti precetti del Bongusto con più d’efficacia, per via de’ segnalati Esemplari alla pratica osservazione riducesse; onde modellati fossero i discepoli su classici Autori, ed avesser a [37] noja l’affettato ed il fallace; sicchè, se fosser da tanto, a pien coraggio camminando le rette vie, non declinasser giammai da ciò che fu e sarà sempre il vero bello della eloquenza. Egli pertanto a guisa di diligente ed esperto Anatomico, il quale fin entro le più recondite e minute, e men osservate parti dell’uman corpo s’interna, e di

1 Le Arti e le Scienze, come l’esperienza ci prova, sono condannate a questa alternativa di spuntare, crescere, e tramontare; succedendosi sempre e non mai splendendo insieme: A misura che l’una di queste due facoltà dell’umano ingegno acquista pregio, tosto prevale all’altra nel concetto universale; ed i giovani avidi naturalmente di gloria, tutti corrono a quella che sale in onore, abbandonando affatto quella che sia meno in conto. Altra buona ragione n’adducono i Critici: dicon essi che i raffinati lumi raffreddan la mente per le arti di puro genio; e lo provano dal numero maggiore di Poeti e di Pittori feraci in fantasia ne’ più ciechi tempi. Da qualunque cagione ciò venga, egli è certo che fino alla metà del secolo recentemente terminato le Lettere rinate dalla barbarie del Seicento erano con felicità coltivate, che poi alle scienze dieder luogo. Quantunque però vero sia che le Arti e le Scienze si dian mano; vero è che i [36] no|stri Letterati antichi poche cose sostanziose ci lasciassero; ed è verissimo altresì, che non pochi degli Scienziati lascianci luogo, per difetto di buona locuzione ed eloquenza, a desiderare chiarezza e pulitezza migliore. Male assai perciò fanno coloro, che per non so quale colore di filosofia, niente ragionando su le qualità del giovanile ingegno, dallo studio li disviano degli antichi Letterati. La prima età è forse capace d’impegnarsi in osservazioni penetrative? Laddove abbondando di fantasia, e tenendo dietro alle invenzioni fantastiche di Prosatori o di Poeti non solo v’apprendono la buona lingua, che è necessario stromento alla eloquenza; ma fecondano altresì questa facoltà della mente assai necessaria. Altronde su’ buoni esemplari di stile Epistolare coltivandosi, i pochi affetti, e i pochi raziocinj loro a sviluppare vi apprendono secondo sua capacità. E come a gradi il Pittore dà allo scolare l’occhio, l’orecchio, la mano, e l’altre più picciole parti dell’uman corpo, onde capace si renda poi di farlo intero; così atto rendesi il giovane a poco a poco, trattenendosi su le picciole cose delle più grandi; a cui concorrerà il lume maggiore delle scienze, e la cognizione delle umane cose che il tempo insegna. Quasi direi aversi a ringraziare la fortunata ignoranza degli Antichi, che tanti sì nobili instradamenti ci lasciarono per questa [37] im|becille età, senza cui non verrebbe poi al buon uso delle cognizioni più sensate, di che può a’ dì nostri far acquisto più perfetto. Sebbene chiamerò io ignorante un Poeta, perchè l’arte sua, che tutto rende sensibile, non tratti di cose astratte che non cadono sotto la sua facoltà? Chiamerò in suo genere le lettere missive poco importanti, sì necessarie come sono all’uso dell’umana vita? Frivola cosa una Canzone ed un Sonetto che sono pur la prova d’un felice ingegno? A questo modo dovremmo dalla Pittura escludere tutto ciò che ci imiti un boscheggiato, un paese, un gruppo di pecore, una miniatura; per ciò che sia più pregievole un quadro d’invenzione storica o favolosa? Tutto ciò che in suo genere è perfetto, in suo genere è stimabile e grande.

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quelle i partiti officj ne indaga, e ne dichiara; da’ Greci, da’ Latini, da’ Francesi, dagli Italiani, dagli Inglesi Oratori e Poeti; e fino dagli Ebraici Salmi o quelle parti scegliendo che più fosser notabili, o talvolta anche il tutto osservando, e spesso dissertandovi per più mesi, il portentoso dell’arte veniva partitameute e minutamente ponendoci sott’occhio. Così come riscontrava l’esecuzione degli Scrittori nelle Leggi della natura; [38] nella natura e nella esecuzione degli Scrittori a’ proprj precetti acquistava e fede ed autorità. E quì aggiugner debbo com’esso oltre la fina cognizione, e la rapidissima facilità nel penetrare e rinvenir tosto il bello più intrinseco dell’arte al primo colpo d’occhio, sortito avesse sì mirabile felicità di spiegare alla evidenza i suoi raziocinj anche più astrusi, e tanta procacciata si fosse copia e facondia d’ornato dire, che disputando all’improvviso, come soleva da ultimo,1 non d’udire, ma di veder le cose paresse in tanta luce, che luogo non lasciasse nè a chiedere, nè ad opporre, nè a rimanersi incerti. Non esagero io no: chi potuto avesse con veloce penna tener dietro al torrente della sua estemporanea eloquenza, e così deporne in iscritto le sottili riflessioni, l’erudizione copiosa, con che gli esemplari interpretava; qual dono prezioso fatto n’avrebbe a’ Maestri, ed alle Scuole? Chi udir potevalo senza certo quale spavento esporre il Canto del Conte Ugolino? Chi [39] senza grande pietà e terrore tenergli dietro per l’Edipo? Chi non s’avvolgea con lui in un sublime patetico, penetrando per entro al grande di Virgilio o di Omero? Chi non era dal maraviglioso commosso della Religione augusta, ove per alcun Salmo conoscer facesse l’Ebraica grandiloquenza? Sì: egli e le menti e i cuori rapiva a quella estasi dolcissima che il bello delle Arti produce, in chi sia condotto a saperlo e ravvisar nelle sue cause, e gustare negli effetti suoi.2 Nel che però d’un notabile perniciosissimo difetto era egli affatto privo, che sì di frequente disonora i maestri, e pregiudica a’ discepoli: di quella scrupolosa, anzi superstiziosa venerazione verso gli Autori, da cui fatti ciechi non sanno alcun vizio in quelli ravvisare; sì che tutto debb’esser fina gemma, anche ciò che di men felice per [40] umana inavvertenza ed impotenza sia trascorso nei loro componimenti, …………………… quæ aut incuria fudit, Aut humana parum cavit natura. Hor. Art. Poet. 1 Ne’ primi anni della scuola soleva dettare i proprj Precetti. Molti vi sono che se li tengon cari e custoditi; assai che gli cercano con avidità. Ma quella Mente eruditissima non potè a lungo starsi ristretta a sì angusti confini, nè gemer nella povertà di sempre replicare lo stesso. Così si pose a disertare come occasione gliene desse l’Autore interpretato; e ciò per l’intervallo d’un’ora, spazio alla sua lezione assegnato. E ben sovente anche dappoi continuava di lungo; massime quando abitando esso fuor di Brera, veniva da fiorito seguito di discepoli alla casa accompagnato. 2 Le Scienze non parlan che all’intelletto: le Arti più al cuore per via de’ sensi. Quindi le Arti debbon essere popolari. Avendo noi i modelli nella natura, chi non sa confrontare il reale coll’imitato? producon esse perciò l’effetto in ogni mediocre intenditore. L’occhio può essere per se sufficiente giudice del bello d’una scultura, e d’una pittura; l’orecchio de’ suoni; come lo è il cuore d’una Tragedia e d’una Commedia. Con tutto ciò non può mai il men dotto averne quel piacere soprammodo grande del vero Conoscitore, che non solo sente per confronto gli effetti, ma per intelligenza tutta vede e nota la segreta macchina dell’artista; con che disposta e maneggiata ha la cosa in guisa che venga a produrne perfettamente quelle sensazioni ch’erano del suo intento.

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Quindi d’audacia notano e d’orgogliosa temerità il Tassoni ed il Castelvetro che sì acerbi fossero col Petrarca, anche là dove il sono pure a tutta ragione. Ma ben lungi da questo error sì nocivo, l’avvedutissimo Parini di coloro condannava l’errore, che giungono perfino a rendere autorevoli i proprj falli, in una pedantesca imitazione di que’ difetti, che pure negli esemplari sommi rendonsi condonabili alla molta luce del bello che in se li nasconde.1 [41] Così egli de’ lumi opportuni fornendo i discepoli a ben assaporare il buono; di fino discernimento a rifiutare il men perfetto; di giusti [42] princi|pj a tentarlo; d’ottimi Esemplari a più assicurarsi in produrlo; o giudiziosi scrittori, o fini giudici per lo meno s’affaticava di renderli. E colla erudizione e facondia del suo ornato dire avveniva che maestro insieme e modello le menti più rapidamente d’ampie cognizioni arricchisse, che far non potessero nelle proprie stanze di per se, con lunghe solitarie meditazioni: dovizioso volume e parlante innanzi agli occhi aperto di tuttocciò che ad ogni maniera di letterario scrivere s’appartenesse. A chi potria dunque sembrare ardito colui che dopo averlo insigne Poeta dimostrato, raro e straordinario Precettore il chiamasse; poi ch’egli era pure da tanto? Chi potranne pigliar maraviglia, che giovani già in alcuna scienza inoltrati, e già dalle scuole scientifiche usciti; e uomini già colti, e dello scriver periti gli facesser corona avidamente; e dotti stranieri per fino, ben sovente nei seggi frammisti ai discepoli; se dalla forma del suo sapere v’erano stati condotti, indi partissero affermando che minore al merito trovata n’avesser la fama. Ma questa maraviglia degli intelligenti quanto dalla profonda sua perizia proveniva nel dar leggi sì fine della Poetica e della Oratoria Eloquenza; altrettanto 1 Insegnava anche con quale giudizioso discernimento abbiasi sugli antichi ad apprendere la nostra lingua. I Pedanti si credono aver trovata una gemma pregiata se gli avvenga di trasportar dal Bocaccio o da altri a’ loro scritti qualche disusato proverbio o qualche rancida espressione. Ripetevaci egli quel d’Orazio; che le lingue anch’esse ricevono modificazione dall’uso, e da’ tempi: «Ut silvæ foliis pronos mutantur in annos,/Prima cadunt: ita verborum vetus interit ætas;/Et juvenum ritu florent modo nata, vigentque» (Poet.). Le lingue trovate a comunicare altrui i nostri sentimenti, potran servire a quest’intento, in quella parte che più da niuno s’intenda? Perchè poi, se, a così esprimerci, il drappo degli antichi ottimo era nel suo tessuto, vorrò io imitarlo anche nel disegno [41] dell’esteriore ornamento o migliorato, o almen variato da noi? È cosa certa che il Bocaccio supponendo la nostra lingua poco dignitosa, essendo essa quasi ancor sul suo nascere, s’ingannò pensando d’elevarla fuor del suo genio proprio ad aver sintassi e trasposizione a modo della latina. Sarà bello il seguirne l’errore? Sarà buono poi che per iscansarlo, oltre l’introdurvi vocaboli non nostri, la priviamo di quella temperata felice trasposizione, che le ne rende il suono armonioso, a preferenza d’altre lingue, in cui sono pure scritte eccellenti cose, ma che mutole affatto sono nel loro andamento; ne hanno questo vantaggio, se sono espressive, d’esser musicali all’orecchio? Perchè vedremo due eccessi così mostruosi: di superstizione per gli antichi, e d’ingiurioso disprezzo? Oltrechè mancanci forse molti temperatissimi e nobilissimi nostri Scrittori, da’ quali pigliar norma; e tali che dal genio nostro presente o di poco si scostano, o non si scostan di nulla? Or siami pure dagli Scienziati permesso il querelarmi d’alcuni di loro, perchè in necessità d’attingere ai fonti stranieri le scientifiche cognizioni, colla utilità di quelle, il danno ci apportano di introdurre nella nostra lingua la barbarie di stranieri vocaboli. E saper pur dovrebbono sotto che rigide leggi Orazio permetta talvolta il servirsi de’ vocaboli d’altre lingue: «si Græco fonte cadant parce detorta» (Poet.). Non intendo materialmente il greco fonte: vi sostituisco ogni lingua colta: ma vi appongo la vera necessità e l’inflessione nostrale.

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era ingrandita da quell’accordo sorprendente, con che riducendo a’ suoi principj le Arti tutte che Liberali son dette, richiamavane il vero gusto sotto gli stessi precetti che l’eloquenza. Non l’aveva già avvisato Cicerone nel suo Oratore; com’esse tutte con un vincolo comune sono insieme accordate e congiunte? [43] Omnis ingenuarum & humanarum artium doctrina uno quodam societatis vinculo continetur. Lib 3. de Orat. In fatti l’essenza delle liberali Arti per se non lo prova? Che altro sono esse, che una perfetta imitazion della natura che produca diletto, e col diletto, più o meno secondo sua indole, accoppii ciascuna il vantaggio: non sono dunque esse tutte ad un medesimo intento dirette? Non variano esse fra se, che nei mezzi pratici o materiali; o variando nell’oggetto, che più all’una che all’altra sia in potenza d’assumere ad imitare; ne’ mezzi teorici ed intellettuali di cui si valgono, come nel fine che tutte propongonsi, non varian certo giammai. Usa lo Statuario lo scarpello ed il rilevato dei marmi; La pittura il Pennello, e rileva coi colori; il Musico i suoni a produr l’armonia; le parole l’Oratore ed il Poeta. Ma a formar la composizione del tutto, non hanno le Arti qualunque d’uopo d’una invenzione, d’una distribuzione, d’un ordine; di raziocinio, d’immagini, di affetti, di espressione, di ornamenti, d’imitazion giudiziosa del vero, del bello, e del naturale?1 L’Architettura [44] istes|sa la più fredda d’infrà le Arti, in ultima analisi cade essa pure sotto tutte, o sotto gran parte di queste Leggi. Inventa, compone, distribuisce, sceglie, orna; e move i suoi affetti giusta i varj ordini che adopra, adattati al semplice, al leggiadro, al maestoso che richiegga il diverso uso del suo edifizio. E per render la cosa anco più sensibile: Il quadro ha pur esso un suo Protagonista siccome un Poema. Questi stassi distinto di luogo, distinto d’azione. I gruppi delle minori figure non servono colle minori loro azioni, che a cooperare all’azion principale; e gli episodj, a così dire, tutti si vanno insieme a concentrare nel tutto. Non è così d’una Orazione? Sua figura principale è la proposizione: gli argomenti ne dilatano, e ne rischiarano l’azione, e la confermano; e tutti col loro giro alla proposizione ne tornan sempre. Troppo lungo sarebbe instituirne l’universale confronto, cui ciascuno può supplire da se agevolmente. Solo questo aggiugnerò:2 non è ella perfettissima quella poesia le cui immagini con facilità possan essere alla pittura, ed alla scultura trasportate: quell’opera scolpita, o dal pennello effigiata, che di leggieri può essere dalla poesia pur colorita?3 [45] Quel poetico affetto, che la musica possa imitare ed esprimer co’ 1 I tempj fabbricati dagli Architetti Greci e Romani davan a conoscere anche al di fuori colla scelta dell’ordine architettonico e degli ornati, a qual Divinità dedicati essi fossero. Leggiadria avevan quelli di Venere e d’Apollo: maestà quelli di Giove: fierezza quelli di Marte e di Bellona. 2 La Poesia ha il vantaggio sulla pittura, e sulla scultura, che quelle non possono presentare che un’azione ed un affetto solo; laddove questa ci conduce per azioni variate ed effetti successivi. 3 La Musica non può imitar che suoni. Gli affetti son l’oggetto massimo ed il più piacevole di [45] sua imitazione: dall’intonar dell’umana voce che gli esprime con parole, agevolmente li modula in semplice suono. Può quindi armonizzar tuoni, burrasche, e tuttociò che sia o suono o romore. La caccia per esempio, in quanto è grido di cacciatori, squillo di trombe, latrato di cani, fremito di fiere, calpestio di cavalli, colpo d’arme, può esser sogget-

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suoni? Che più oltre in ciò m’affatico, che per se stesso è sì chiaro? Negli originarj loro fondamenti essendo le Arti uniformi sotto ai medesimi precetti originarj tutte possono esser raccolte. Il tutto riducesi pertanto alla sola difficoltà ch’il Maestro tanto ne sappia di tutte onde trovarne i rapporti; e che oltre il conoscerle in genere, ben le conosca in ispecie altresì, per assegnarne le teorie accidentalmente varianti. E di [46] ciò appunto il nostro gran Precettore peritissimo essendo; e di quadri, e di statue, e di musica, e di architettura altrettanti esempj addur sapevane, quanti della eloquenza; e così a pari che d’uno scritto sottilmente e felicemente ragionarne, e i pregi mostrarne e le mancanze; e ’l genio ed il carattere diversificar di ciascuno artista; e la prevalenza di tal uno, ed il minor merito di tal altro così come d’ogni Oratore e d’ogni Poeta finamente indicarne. Ora qual è che non veggia quindi quanto vantaggio d’erudizione, di conoscenza, di criterio su l’Arti tutte quelli pure ricever ne dovessero, che alla eloquenza o Poetica od Oratoria attendesser principalmente; e quanto discernimento a giudicar del bello delle Lettere coloro che ad alcuna delle altre Arti unicamente volto avesser l’ingegno? Qual è che non argomenti, come essendo alle Scuole Braidensi unita una fioritissima Accademia d’Arti, grand’agio n’avessero i discepoli copiosissimi di que’ valenti Professori a vie meglio istruirsi delle teorie del comporre e dello inventar con saggezza, onde i languidi confini lasciarsi dietro della povera e meschina mediocrità? Qual è in fine che non comprende il vantaggio della nostra Città sopra altre assai; i cui vogliosi giovani con tanta sicurezza ed avesser mezzo di poter salire fino ad essere insigni, e di propagar la gloria di quel fino gusto che tanto arreca di lustro alle colte Nazioni: e che siccome le armi ne’ tempi di guerra le rendon famose, queste così ne sono [47] l’orna|mento e lo splendore ai dì del riposo e della pace? Quale rimerito n’avess’egli di questa sua e rara perizia e prodigiosa dello insegnare tutte le Arti congiuntamente, chiaro appare in allora che assegnato se ne vide comodo albergo nel recinto istesso Braiense; ch’onorato fu dalla Suprema Prefettura di quel Ginnasio, e che aumentati gli ne furono gli annuali stipendj.1 Oh venissero pur a luce que’ pregiati volumi in che con fatica di lunghi anni le sue dottrine su le Arti esposte aveva? Propagate negli scritti anche dopo ammutolita la facondia del suo labbro, come non se ne perpetuerebbe agli intelletti il giovamento? Ciò di che la morte ogni speranza ci tolse, si è la to di verisimile imitazione. Ma come può unire ciò tutto in verisimile successione, se d’uopo v’è il legarlo con oggetti che vi sien di mezzo, che non cadono sotto il senso dell’udito, ma sotto quel della vista: come lo starsi il cacciatore all’aguato: il tacito uscir della fiera dalla macchia o dal covile; ed altre siffatte cose? Così pure che una intera sinfonia affatto esprimente con chiarezza far non se ne possa; se già non si produca una rivoluzione ne’ sensi, onde e vegga l’orecchio, e l’occhio ascolti? La Musica detta vocale non ci pare propriamente, che una più efficace e più ornata espressione ed accompagnamento d’una poesia; o che per lo meno nelle sinfonie, operando da se sola, ivi meglio in certa guisa la perfezione dimostri del suo potere. 1 Questo suo Trattato sopra le Belle Arti è opera diversa da quella delle Lezioni di cui si disse più sopra. Comandatagli, com’esso dicevami, da certo tale, vi spese, se mal non mi ricorda, quattr’anni di fatica. Ridottala quindi al suo termine ne diè cenno a chi imposta glie l’aveva; da cui freddamente gli fu risposto di pubblicarla. Fu questo il premio e la riconoscenza che n’ebbe. Tenutala sempre privata, era per concederne copia ad un mio dotto amico, ed a me. Ma intanto che a quest’intento la stava rivedendo, mancò di vita.

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disertazione che in animo egli aveva di comporre sulla portentosa Cena di Leonardo.1 Com’egli avrebbe [48] e rilevato e notato minutamente con fina analisi tutto l’eccellente di quel miracolo dell’arte? Fu testimonio l’egregio Professore Giuseppe Franchi, ch’io volentieri quì ricordo e per la sua singolare perizia nel maneggiar lo scarpello, e per la sua antica probità, e per l’amicizia di che m’onora: Egli fu testimonio delle lunghe ore spese dal Parini nel contemplarla estatico; della squisita penetrazion del suo occhio e della sua mente nel tutte additarne le più minute parti del grande e del bello: e fu pur egli, che acceso d’ardente voglia vanamente sospironne da penna sì delicata e da sì acre osservatore la promessa illustrazion ragionata di quell’insigne monumento, di quell’Esemplare impareggiabile, che onora cotanto la Città nostra. Quì aggiugnerò in breve, com’esso e per le scene, e pei palagi norma sovente somministrasse alla pittura: come invenzioni fornisse a’ balli e spettacoli, fino ad essergliene senza dispendio nel pubblico Teatro assegnato il suo seggio: come Maestri in musica valenti al suo consiglio e giudizio s’arrendesser di buon grado. E dopo ciò, sempre onorando il sapere altrui, chiederò quanti additar mi si sappiano in cui e la natura, e l’ingegno, e la fortuna a gara concorrendo cogli straordinarj favori loro, e potessero esser rari Poeti, e sorte avessero d’esser alzati alla cattedra, e di riuscir [49] Precet|tori non solo d’alte cognizioni forniti a dovizia; ma di quella facondia dotati altresì, dalla avara natura conceduta a sì pochi, per cui sì agevolmente, sì chiaramente, e senza contrasto trasportassero il precetto a fecondar l’altrui mente. Risalendo poscia alla unione sì vasta e sì mirabile di tante e varie dottrine in una sola classe ridotte, ed alla semplicità di precetti pressochè uniformi; nulla più dell’ingegno, nulla più del sapere motto facendo, chiederò: s’altri tacciar mi possa d’esagerazione pur punto, quando forse con soverchio ritegno, mi restringo a chiamarlo coll’onorato nome soltanto di straordinario Maestro?2 [50] Ma quì m’avveggio io bene, com’altri appagato del conosciuto straordinario valor di sua mente, scender vorrebbe a conoscerne il cuore: e questa lodevole curiosità di voler tutto intero conoscer l’uom morale, ove alcuna esimia parte ravvisata n’abbiamo, è troppo in noi naturale. A ciò dunque passerò di

1 Di questa Cena, oltre l’Originale, che ha dal tempo patito grave ingiuria, avvene copia diligentissima della medesima ampiezza, che senza audacia dagli intelligenti messa è come a pari [48] dell’Ori|ginale istesso. Ella è di mano di Marco da Oggiono discepolo dell’Autore, e dicesi che Leonardo medesimo la toccasse col proprio pennello. 2 Parer potrebbe a taluno, ch’io troppo al minuto abbia in questa seconda parte dichiarato i suoi metodi; e date prove soverchiamente prolisse della intelligenza, e della capacità del Parini a parlar fondatamente delle Arti. Ma pur troppo vi furon di quelli che chieder solevano: che cosa di più insegnasse egli d’ogni altro ordinario Professor d’Eloquenza; ed io gli udii più volte. Io però non feci che stender colle prove quant’esso medesimo d’insegnar propose nel suo primo Discorso pubblicato nell’aprimento della Cattedra ov’egli così promette. «I principj universali del Bongusto applicabili a tutte le belle arti, fondati sopra la natura, autenticati dalla pratica degli Autori eccellenti, e promulgati dagli insigni Maestri: questi principj medesimi applicabili principalmente a tutta l’Arte del dire, presa nella sua massima estensione: le Opere eccellenti degli Scrittori considerate come eccitanti nell’anima nostra il sentimento del [50] bel|lo: le osservazioni fatte sopra le dette Opere: la regole assolute o relative risultanti da questa osservazione: l’erudizione finalmente che alle dette opere si riferisce… .

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buon grado. Nè già dissimulerò io in lui quella porzione di lieve ed umano difetto, in che possa a caso essere incorso. Ciò darà peso alla mia sincerità; ma punto non temerò per questo, che tale egli non abbia ad apparire per le belle doti, e per la grandezza del cuore, quale per le singolari qualità della mente caro e venerabile si rendette alla posterità più lontana. Se noi vogliamo rettamente considerare onde il più delle volte nasca in noi il buono od il sinistro concetto d’altrui, vedremo bene spesso, più che dalla ragione, dalle particolari passioni aver origine. Posto ciò, confesserò io pure come il Parini nell’odio incorresse di molti; ma per lo più di coloro che a dispetto di Minerva recandosi a voler coltivare o le lettere o le arti, non possono che venire a schifo a chi veggia malmenata l’arte, e bruttamente fatte sordide le carte. Dotato di finissimo criterio qual esso era, a segno di scoprire qualsiasi menomo neo, non che gli errori patenti; [51] avvezzo a contemplar sempre il perfetto degli Autori, ed a riprodurlo negli scritti proprj: e forse un po’ troppo mal capace di dar passaggio al mediocre; era lieve cosa per lui il profferire i suoi liberi giudizj, quando pure da alcuno tentato ne fosse, e massime se il medesimo compositore di ciò nel chiedesse. Ora chi non sa quanti pur troppo nel giudice non si pretendono che un approvator lusinghiero; e se defraudati ne sieno, ingiusta chiamano e maligna la sincerità onorata? Comunque esso forse fortunato abbastanza non fosse per sapersi valere d’una dissimulazione opportuna; non è però d’accusarsi per nulla, se a’ suoi discepoli libero e franco n’additasse la perigliosa altrui eloquenza, o la men felice riuscita nelle arti d’alcuno: che ciò egli doveva pur per officio, e per quella vigile gelosia che è propria d’attento precettore, nel non lasciarli sedurre da perniciosi esemplari. In che di forte animo hassi a dir pure, che reputasse glorioso l’incorrere nella malevolenza di molti, anzichè venir meno alla lealtà d’un dover così sacro. Posto esso dunque come alla necessità o d’esser di soverchio per natura sincero, o di non poter quasi sempre per dovere, passarsela tacito sul vero; non è a dire come e infelici Poeti, e meschini Prosatori, ed Artisti di poco conto, e quelli fin anco d’alcun merito, che non tutta la pretesa lode si pensassero averne riscossa, malmenando l’andassero; come se dell’altrui fama malignamente geloso un idolo pretendesse far di se; cui tutti tributati fossero unicamente e voti ed incensi. [52] O ingiusta non meno che stolida taccia! Perocchè noi conosciam bene l’indole del più degli Uomini di Lettere, che scarsi spesso oltre il dovere nel far conto d’altrui, non sono poi con se stessi tanto sobrj, che ingegnosissimi non sieno a far tali cenni destramente cader nel discorso, che ne vengano ad essere i pieni panegiristi di se medesimi. E vi s’aggiunga pure, come assai di costoro imitando la sanguisuga della Poetica Oraziana: Non missura cutem, nisi plena cruoris, hirudo: recitano e rileggono fino alla noja, non che alla Conversazione, a qualunque in cui s’avvengano per via, le loro composizioni, che è uno spasimo di morte. Ora se a qualche eccesso abbiam pure attribuita la facilità, ond’egli mal sapeva essere dissimulatore del proprio parere; chi potrà tenerne men sicuri se francamente asseriremo: com’egli dal difetto quasi comune di questo seducente orgoglio, e soverchio amor proprio andassse esente del tutto? Perocchè oltre l’esser affatto alieno dal leggere o recitare i suoi componimenti, non che di farne pompa nelle adunanze famigliari; qual v’ebbe dei discepoli suoi, che anche seco in intima famigliarità si vivesse, che pur una volta l’udisse non solo nella scuola al

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cospetto di molti, ma nemmeno nelle private sue stanze in faccia ad un solo, di se o degli scritti suoi dar cenno, come se toccato non avesse mai penna? Eppure ne era egli rinomato dovunque; eppur poteva a diritto Maestro riputarsi ed Esemplare; eppure una onesta soddisfazione di se avrebbe potuto far travedere senza [53] arroganza. Nè io certo d’alcuna parte della sua Sera avrei avuto sorte d’essere uditore, se il P. Pagnini Professore d’Eloquenza nella Università di Parma, uomo delle greche lettere peritissimo, e nella letteraria Repubblica di chiaro nome, trovato non vi si fosse a fargliene preghiera: a che senza nota di rusticità potuto non avrebbe far resistenza. Ch’esso poi lungi affatto fosse da invidia, che di vero niuna aver ne poteva della deplorata mediocrità, e prontissimo a dividere con altrui quel vanto che a torto dicono ch’egli tirannescamente usurpar volesse a se solo; forse che ove alcuno dei rarissimi Genj apparisse, il primo esso non fosse a riconoscerlo in fino con pubbliche lodi? E se i viventi son quelli appunto che più fan ombra e rivalità, non diessi egli a vedere del tutto spoglio di sì vile passione, testimonio rendendo di poetici encomj al valore dell’Italiano Tragico, che elevò il nostro Teatro a gareggiar con quello delle più colte nazioni?1 [54] Perchè poi di malignità notar si potesse a diritto, d’uopo saria produrre una opera sola che senza appoggio di ragione o in parole, o in iscritto ardito avesse censurare. Non dirò quì della giusta taccia da lui data ad uno Scrittore, in altre cose assai pregevole,2 che imitator servile del Boccaccio ad un suo libro di Novelle appose la ridicolosa sesquipedale intitolazione di Gerotricamerone; nè come a rimproverare il prendesse ragionevolmente, perchè pretendendo farsi correttore della semplice e purgata eloquenza del Segneri, un Esordio si credesse emendarne, tutta la bellezza sconvolgendone co’ ricercati suoi modi. Ciò di che par malagevole a trovarsi ragione si è, ch’esso con tanto ardore si ponesse a scrivere in favore del milanese vernacolo contro del P. Branda, il quale in un suo Dialogo, a confronto della Lingua Toscana, schernito l’aveva. Pur [55] ve|desi in quella Lettera lo sforzo del Pariniano raziocinio, che non disputando del pregio maggiore dell’una o dell’altra Lingua, che sarebbe stata sciocca cosa, molti argomenti adduce anche a favore del vernacolo nostro. E3 certo, a dispetto di ciò che parve non voler la natura, l’arte d’un Maggi e d’un Balestrieri seppe valersene a prodigio; fino a giugnere il secondo nel suo Figliuol prodigo a cavar le lagrime, con un linguaggio apposta fatto per far ridere. Ma uscendo dalla letteraria quistione, quello di che non sembra che purgar si possa il cuore del 1 L’Alfieri par che lasci a taluni desiderio d’una dicitura alquanto più rammorbidita: nondimeno niuno negar potrà esser essa molto adattata ad esprimere la terribilità degli affetti, de’ quali più che dei teneri amò servirsi nelle sue Tragedie. Così ad alcuni sembra che, se la tenerezza d’Euripide, o quella, più maschia, di Sofocle avesse al terribile contemperata, una commozione introdotta v’avrebbe che non solo varia con diletto della attenzione, ma che è una passione alla umanità assai più omogenea. Ad ogni modo alcune delle sue Tragedie sono in perfetto grado Esemplari dell’arte. 2 II P. Bandiera fece molte ottime traduzioni dal Latino, e massime delle Orazioni e degli Officj di Cicerone, cui appose giudiziose note; ma con una locuzione lisciata e ricercata studiosamente; e con una costruzione così inviluppata che talvolta rende la traduzione più del testo oscura. Curioso fu oltremodo tal volta nel perifrasare. In una sua prosa chiama sul serio il Cioccolatte «Cameral beveraggio d’americano liquore». Come si poteva dir più facetamente per cavare il riso, da qualche affettato carattere comico? Ci fa dispetto che uomo così erudito, in sì fecciosa caricatura inciampasse. 3 [Nel testo E’].

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Parini, si è dalla nota di sconoscenza; perocchè senza esser esso toccato in nulla, contro quel probissimo e dottissimo Uomo che gli era stato Precettore, e cui doveva grande riverenza, levossi a contrasto.1 Nondimeno, se a scemar questo errore ha [56] pur qualche forza il dire, che una Accademia2 [57] d’uomini valenti, cui esso era pure annoverato, se n’offendesse nell’impugnato milanese vernacolo; quasi alcuno di quegli Accademici punto ne fosse, per ciò che nella patria lingua poetasse: se giova il ricordare come la conformità degli studj e delle età, che strigne le amicizie, il suscitasse a favor de’ compagni: se è qualche sorta di discolpa il rammentare come il fervor della fantasia, che pur durò vivacissimo in lui fino all’ultimo di sua vita, in quegli anni ancor freschi il facesse men riflettere: ed in ultimo se possiamo asserir senza menzogna che questa ossia sconoscenza, ossia piuttosto inavvedutezza, molti anni innanzi al morire fu disapprovata dappoi con noi medesimi a chiari detti, e con ingenuità di lui degna; qual è che non veggia stato esser questo un atto cui l’umana debolezza può andar soggetta con qualche scusa, non però un abito che non sarebbe senza grande vituperio? Ma fino a quì far mi convenne siccome quel cauto nocchiero, che dall’arte instruito, sciogliendo dal porto vassene a lento corso, onde declinare gli scogli, che lasciatisi poi dietro, tutte le vele spiegando al favorevol vento, velocissimo s’innoltra in pieno mare. Che andrò io pur perdendomi dunque nel difender quel cuore, quando [58] ormai libero e franco m’è dato di spignermi a farlo splendere in tutta luce? La compassione de’ mali altrui, e la liberalità che pur della compassione è il testimonio più vero, come tutte proprie non erano di

1 Il Padre Onofrio Branda Barnabita lunga serie d’anni Prof. d’Eloquenza nel Ginnasio Arcimboldi a’ suoi tempi Università, fu Scrittore purgatissimo ed ornatissimo latino e volgare. Compose un libro dell’Arte Rettorica pieno di sottili osservazioni, autorizzate da copiosi esempj Ciceroniani, a profitto degli scolari non meno che dei Maestri. V’appose una giudiziosa raccolta d’Iscrizioni, dalle quali ne dedusse anco le varie regole per comporle. Unì con sommo avvedimento ad uso delle Scuole, una scelta de’ migliori Epigrammi. Scrisse Orazioni d’entrambe le lingue, e si fece nome assai e colla rara sua probità, e col sapere. 2 Fu questa l’Accademia de’ Trasformati; è cosa dolorosa al ricordare l’onore de’ letterarj esercizj dalla nostra Città sbandito affatto colla decadenza della letteratura. Qual avvi cosa più atta a svegliare e stuzzicare i giovanili ingegni ed a ridurli a grado perfetto, di queste assemblee, in cui i Dotti già provetti, e gli Ingegni in gara, servono pure d’eccitamento e d’esemplare alla giovanile avidità, onde correr la via per cui s’ascende alla fama? Sarà sempre benemerito della Repubblica Letteraria l’Imbonati, che del suo palagio e degli averi suoi a quest’uso generoso si valse. Ora più pregevoli stimansi quei giovani tra noi, i quali «longis rationibus assem/Discunt in partes centum diducere. (Hor. Poet.). Quanti fioritissimi Ingegni di là n’uscirono? oltre i molti, ed oltre il Parini, ricordo volentieri, per la sua benevolenza verso me, l’Ab. Teodoro Villa già Prof. d’Eloquenza nella Università di Pavia, che alla Italiana favella varie Opere trasportò dei Greci; molte Latine Orazioni pubblicò, ed alcuni Sonetti, tra le sue Poesie reputati veramente magistrali. Espose poi un Trattato di Eloquenza, tale, che se la sua facondia nello insegnare fosse altrettanto stata felice che la penna, avrebbe per questa parte contrastato d’assai al merito Pariniano. Nè lasciar debbo il famoso Ab. Giancarlo Passeroni, sebbene a tutti è noto il raro suo poetico genio, la felicità della sua penna, la coltura del suo stile; e l’anima sua ingenua, trasfusa da ciascuno si veda nelle tante sue Opere a giovar [57] piacevolmen|te al buon costume. Così all’onorato Vecchio prolunghi ancora il Cielo la vita; e decrepito qual è, ci sia a molti anni serbato ad esempio e delizia di tutti i buoni.

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quel cuor generoso? Chi è che possa enumerar con parole con quanta sollecitudine s’adoperasse a pro d’un suo discepolo caduto giovanetto in povera fortuna; come gli si profferisse a sussidiarlo del proprio; e con qual arte ingegnosa si studiasse di vincerne e deluderne amorevolmente i verecondi rifiuti? Indi non pago di ciò, come tutto il potere delle sue amicizie v’interponesse, onde procacciargli alcun onesto collocamento; e quanto s’affannasse perchè a lungo deluso, e quanto gioisse quando pur fatto gli venne di vedere in qualche guisa la sua pietà appagata? Nè ciò basta: a molti è palese quanto intorno a quel giovane egli spendesse e di tempo e di pazienza e di fatica, onde potesse pur cogli studj emendar la sua sorte. Non pago perciò delle comuni istruzioni della scuola, spesso avealo seco alla stanza ed al passeggio; di libri ottimi il forniva, e tollerante se ne faceva render ragione di ciò che notato v’avesse d’utile, d’inutile, di men buono, e d’eccellente; e sovente usurpando il tempo alle alte letterarie sue occupazioni, sugli scritti di questi, in nulla dalla giovanile imperizia scoraggiato, scendeva fino a segnar di sua mano ove, e come, e perchè necessario fosse l’emendare, il cangiare, il riformar l’ordine, il dare altro aspetto alle cose. Così egli il dover di Maestro cumulava a mille doppj con [59] sa|grifizj nojosi, con fatiche non dovute; così l’amor di Precettore coronava colle liberalità d’uom benefico; così al ben essere di tutta la vita altrui estendeva le sue generose sollecitudini. Nè già intorno a questo solo egli amorevolmente impiegava e l’opera assidua, e la cura indefessa. Quale de’ suoi discepoli, od altro che si fosse, non era accolto da lui con gentili maniere; quale non ascoltato a lungo, quale non consigliato ed assistito in fatto di lettere o d’arti, o di che si fosse, per cui a lui s’avesse ricorso? Disse dunque a ragione il Passeroni di lui: Voi parlate ben d’ogn’arte; E chi a voi vien per consiglio, L’accogliete come figlio, E da voi più dotto parte. E quì che non potremmo noi dire a vanto della sua fortezza d’animo ed elevatezza di cuore nel non far conto quasi delle prospere cose? In mezzo alla gloriosa sua fama; alla vita agiata ch’era il frutto onorato de’ suoi meriti; in mezzo al corteggio di coloro che niuno solevano ammettere alle loro sale ed alle mense loro, se scrupolosamente stato non fosse d’egual condizione; in mezzo al favore fin dei Principi, punto la bassa ed abbietta sua origine posto non s’aveva in dimenticanza. La prima e più segnalata viltà degli spiriti deboli si è pur quella, saliti che sieno ad alcun grado, di recarsi a rossore la propria bassezza? Veggiamo in Orazio a quanto d’orgoglio salito fosse Meca Liberto di Pompeo per la cangiata fortuna [60] (Ode 4. lib. 5.): leggiamo d’uno Imperatore perfino, che tutti coloro togliesse di mezzo, che gli umili suoi natali ricordassero ancora. Ma il nostro Filosofo ben lontano dall’avere obbliato quello che stato era un giorno, con fermezza di se degna, compiacevasi di rammentare altrui: come negli anni suoi giovanili a tanta estremità colla Madre trovato si fosse, di non avere un giorno pur pane di che pascersi. E ben più per questo la sua grandezza d’animo si diede a conoscere in ciò, che toccherem di passaggio, che in mezzo al bisogno, che è pur padre e nutritore della vile adulazione, tanto lungi ne fosse, che i ridicoli dei potenti si pigliasse a gabbo; in che sebbene niuno in ispecie d’oltraggiare intendesse, molti pur di necessità, che involti si trovassero in que’ difetti, avevane a

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lasciar disgustati.1 Come non debbono [61] pertanto vergognarsi coloro che la gravità ed il contegno del volto, ed il rigore maestoso del sopracciglio, e il lento movimento de’ vivissimi sguardi, e la dignità tutta del gesto, e della persona, più che alla compostezza di quell’anima grande ed ai continuati letterarj pensieri, ad alterezza malignamente attribuissero? Non sapeva egli forse nelle festevoli compagnie, con quel riserbo che a tant’Uomo era dovuto, con dignità declinarne? Sì, noi possiamo di lui ridire con Tullio (2 de Orat.) In bonis fortunæ summa laus est non extulisse se … non fuisse insolentem … non se prætulisse aliis. Ora s’io volessi passarmi in silenzio come il pudor di sua penna de’ suoi castigati costumi e di sua rettitudine facesse pur fede, avrei mancato d’assai a quella intatta probità ch’ogni suo scritto, e le sue vereconde satire massimamente rende care ed accette ad ogni saggia persona. E come non avrebbe esso potuto, colle satire appunto che tanto ne darebber luogo, Poeta com’è nel dipinger sì vivo, ogni vanto usurparne a’ novelli seguaci degli Arbitri;2 e così le molli novellette dalla [62] abbiezion delle taverne e de’ lupanari elevare all’onore di muovere i sorrisi de’ vivaci garzoni e delle delicate donzelle; onde iniziarli alle Neroniane voluttà ed alla impudenza delle Messaline? Non ne avrebbe esso avuto quel frutto de’ suoi versi, che Cicerone promette alla malvagità? Ad multorum amicitiam faciliorem aditum habet nequitia (Act. 5. in Verr.). Ma deh come perfino a motivo d’encomio, ingiuriose riescono a quell’Anima onorata siffatte sordide larve! Non veggiam noi con quale avveduta scrupolosa onestà sa declinare tantosto, che l’ordine delle idee in alcuna scorretta dipintura par che corra ad abbattersi? E come avrebbe egli saputo venire a questa deformità, se altamente disapprovandola ai discepoli ne’ casuali episodj degli Antichi, e reputandola uno sfregio fatto non che al costume, alla eccellenza dell’arte perfino; contenersi non sapeva dall’inveire contro la sfrontatezza de’ nostri3 Fescennini Scrittori? Sapeva esso quanto importi al ben essere degli Stati la costumatezza de’ giovani, e qual serie di mali ne ridondi dalla licenza sfrenata, e quanto incentivo a tanti mali ne venga da libertini verseggiatori: Parcat juventus pudicitiæ suæ, ne spoliet alienum; ne effundat patrimonium; ne fœnore trucidetur, ne incurrat in alterius damnum atque [63] famam; ne probrum castis, labem integris, infamiam bonis inferat; ne quem interimat; ne intersit insidiis, scelere careat. (Cic. pro M. Cælio.) 1 Sebbene a guisa di rattratto, per debolezza portata dal nascere nelle braccia, ma più nei nervi delle gambe, dove appunto la gamba al piede congiungesi, talchè nell’alzarlo il piede si vedesse cadere come abbandonato; per cui avveniva non di rado ch’ogni picciolo inciampo nel facesse cadere; pure aveva saputo rendersene quel difetto assai dignitoso, movendosi egli con molta gravità di tutta la persona. Fu egli di statura piuttosto alta, di corpo asciutto e magro. Il volto era di colore olivastro: la fronte spaziosa: il naso, che con giusta proporzione stendevasi all’ingiù dal sopracciglio, nè lungo nè corto ma a bel profilo: la bocca ben formata, i labbri ben fatti; i denti bianchissimi, ed il [61] mento rotondo, incavato in mezzo assai gentilmente. Gli occhi di color suboscuro rosseggiavano, e scintillavano nella commozione del discorso. Tutta la fisonomia era assai propria, e piena di viril venustà; onde veniva ad esserne tanto più grato, e più bel parlatore. 2 Petronio, osceno Poeta, per ciò fu chiamato Arbitro, perchè a niuna voluttà abbandonavasi Nerone, che non venisse da lui approvata e proposta. 3 Fescennini, maniera di versi pieni d’oscenità. Da’ popoli di Fescennia Città della Etruria, ora Città Castellana, n’era stato a Roma trasportato l’uso. Mr. Monchablon.

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E s’egli è osservato al fine, come ogni Scrittore anche parlando d’altrui, e di cose a se estranee scrivendo, un fedele ritratto suol presentare de’ proprj costumi, o buoni o rei ch’essi sieno; in quanta riputazione non deve egli esser tenuto perciò, che testimonianza fanno gli scritti suoi di sua castigatezza pudica? A ragione pertanto fra que’ titoli d’onore che illustrano l’umile sua tomba, l’ingenua probità di lui tra gli altri fasti riluce. Che se i Genj delle arti ci sono dono raro dell’avara natura, più raro questo dono diviene allora, che la Virtù vi si aggiunga, della gloria verace unico fregio e bella corona.1 [64] Ma che più tener dietro a’ pregi del cuore dell’Uom privato, alla modestia, all’amorevolezza, alla compassion de’ suoi simili, alla integrità, alla beneficenza, se forza è che ciò tutto quasi ecclissato rimangasi dal vivissimo fulgore delle virtù dell’Uom pubblico? Di troppo note e recenti cose or io favello perchè d’uopo siami de’ soccorsi dell’arte a metterle in sua natural chiarezza. Vider pure, non la sua Patria soltanto, ma le Città tutte a quella congiunte, un raro e segnalato esempio in lui dell’Uom Magistrato? Schifo d’ogni privata utilità anche onesta, la mente, il cuore, ogni cura, ogni fatica aveva non ad altro rivolta che allo zelo del pubblico bene. Talchè non ritenevasi dal protestare, con quel coraggio che la rettitudine inspirava alla libera coscienza del Console Romano: [65] Omnia quæ a nobis geruntur, non ad nostram utilitatem & commodum, sed ad patriæ salutem conferre debemus. Che se tanta ammirazione e tanto affetto desta pure negli animi la moderazione e la clemenza d’un Cesare,2 rinnovata in quel Prode, ch’or siede il primo tra’ i Consoli a reggere la Francese Repubblica, perchè nel sommo poter d’ogni cosa, l’orror delle stragi e delle morti rimosso, ben di lui più a ragione si può dire, che niun cadesse se non coll’armi contro la Repubblica impugnate; come di questa stessa umanità e moderazione non si diè esso pure a conoscere adorno il nostro Parini, allora che tra noi si temette non forse si venisse al sangue! Non era questa per avventura che volgar voce; ma da torbidi ingegni divolgata; aumentata dai timidi; dai deboli tenuta per vera: bastava a sopraffar quell’animo d’orrore anche il fallace sospetto in cui cader potessero i Magistrati di Robesperiana atrocità. Tanto che assalito esso da convulsione violentissima, come uscito di se pel raccapriccio fu udito prorompere in queste voci: Io al 1 Venne esso interrato al luogo delle pubbliche sepolture fuori della Porta della Città: privatissimi furono i suoi funerali, dicesi per sua propria disposizione testamentaria. Presso il luogo ove giace fu messa la seguente caratteristica e nitidissima Iscrizione, pregevolissimo parto della felice penna dell’Ab. Calimero Cattaneo Pub. Professore d’Eloquenza in Brera. «ios. parini. poeta/hic. qviescit/ingenva. probitate/exqvisito. ivdicio/ potenti. eloqvio. clarvs/litteras. et. bonas. artes/pvblice. docvit. an. xxx/v. an. lxx/plenos. existimationis. et. gratiae/ob. a. mdccxcix». [64] Fu scritto da me in sua morte il seguente Sonetto. «Di Maja il figlio che con scettro alato/Scorge l’alme famose al lieto Eliso,/Dell’Adda il sommo Genio avea guidato/Ove stan l’ombre in lor drappel diviso./L’acre Censor del Lazio, e Quei ch’ornato/Tanto ha Stagira, volanvi improvviso/Gridando entrambi: È mio, segga al mio lato;/E nel giudice Nume il guardo han fiso:/Che sorridendo al nobile certame/Vedrete, disse, e Zeusi e Fidia e Orfeo/Pugnar con voi con le medesme brame./Però spirti immortali, è mio disegno,/Che se a tant’arti onor cotanto Ei feo,/Sia la gloria comun del vario ingegno». 2 Cesare ebbe molte insigni virtù, che tutte oscurò coll’aver posta in servitù la Patria: questi lo splendore s’aggiugne d’aver col valore assicurata la libertà della sua Repubblica.

cosimo galeazzo scotti

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sangue, io alle stragi? No, non sarà mai: troppo mi sono cari i miei concittadini, amo troppo la patria. O terrore onorato, o nobile spavento, che in un’anima, non punto vile, da [66] esso compresa tutto si diffonde ad agitarne ed a scuoterne con grand’impeto i nervi, ed il corpo! Quale testimonianza più sicura dee bramarne la Patria, che tu o Anima eccelsa l’ami di vero amore? Queste non son già le voci della vota ostentazione; se tanto può un solo sospetto, una fama incerta, dirò più, la sola immaginazione di non vederla dal sangue contristata de’ suoi. Tanto sdegno e tanto abborrimento mostrasti privato Poeta, fin de’ capricci d’una moda1 che al sesso inconsiderato pareva render men funesta la rimembranza delle stragi, in allora straniere; qual non doveva, pubblico uomo e Magistrato, strano orrore tutto agghiacciarti, di non esser tu pure nel sospetto involto di godere del civile strazio, e di trionfare calpestando i cadaveri de’ tuoi Concittadini! Quale in fine prova di questa e più chiara e più luminosa, ch’oltre l’ingegno a far grande il tuo nome, oltre la virtù a farti caro e riverito in fra’ privati, di tal mente e di tal cuore t’avessero e la natura e lo studio fornito, che uomo degno fossi di regger uomini, e di dar placide leggi al buon governo de’ popoli. «A majoribus nostris nulla alia de causa leges sunt inventæ, nisi ut suos cives incolumes conservarent» (Cic. in Vat.). [67] Ora venga pure la livida invidia, sì, venga e miri in una mente sola ed in2 un solo cuore tanti meriti e virtù adunate, quante basterebbon divise a farne molti famosi. E ben qui m’avveggio quanto errassi chiamando privati alcuni pregi dell’alto Personaggio, che tutti pure sono pubblici, e in pro tornaron tutti del pubblico bene. Se poeta il miriamo, poeta è siffatto che dalla Società, combattendone i vizj, cerca sbandire a tutta possa il lusso, la mollezza, l’inerzia, l’inumanità orgogliosa. Dà pregio alla operosa solerzia, dall’avvilimento la parsimonia solleva, al vero merito accende ed alla vera gloria non sognata dal fasto. Il consideriam Precettore? Se i giovani sono pure della patria le più belle speranze, e se le Arti sono quelle che fanno fiorir le Città, e nome danno e splendore alle Nazioni; oh in quale impresa magnanima non usa egli le vaste sue Dottrine! Come la Patria esser grata non deve a chi, rendutala chiara co’ nobili scritti, tanti emulatori di se moltiplicarle procura in quanti giovani addestra? E s’è pur vero che il comun bene, e la tranquillità comune dalla reciproca virtù de’ cittadini procacciasi; e che la civil salute, e la fermezza della Repubblica nella umanità, nel disinteresse, nella giustizia de’ Magistrati è riposta; qual è che la sua ingenua probità in tutto il tenor privato della vita, qual è che l’integrità sua non ponga al novero di pubblica utilità, collocato esso ne’ primi seggi ed al maneggio de’ pubblici negozj? Videsi già un Sofocle, l’inimitabile fra i tragici Poeti, militar per [68] la Patria tra le guerriere falangi; videsi un Demostene, un Tullio videsi, principe quegli della Greca, questi della Romana eloquenza, col senno e colle leggi governare in fra’ politici. Qual è che a pari dell’uom di lettere mediti in sui Filosofi i sociali doveri? Quale che negli Storici, osservando alla prova del fatto, le cagioni del fiorire e del decadere delle Città e degli Stati, più fondatamente la politica prudenza ne apprenda? Qual altro da ultimo avvi, che da’ Filosofi, dagli Storici, e dagli Eroi perfino istruito, dalla poetica favola perfeziona1 Ode intitolata: A Silvia, contro la moda del vestir femminile, che imitava l’abito di quelle sgraziate ch’eran tratte a lasciar il capo sotto la Guiliottina; scritta negli ultimi anni di sua vita: piena d’erudizione, e di giovanile entusiasmo; che ben si merita aver luogo tra le sue più felici. 2 [in ripetuto due volte nel testo].

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le biografie

ti, più vivamente dell’Uom di Lettere, di quell’animo virile s’investa, e di quel nobile dispregio che a fronte dell’onore, del dovere della Patria facciagli aver per nulla i comodi, gli averi, la vita? Eccone nel nostro Parini in gran parte rinnovato l’esempio glorioso, e tale che basti a coronarlo di gloria immortale. Quindi quali grazie e quali encomj non sono dovuti a te, o egregio Scultore,1 che in pegno di tua leale amicizia, e dell’alto pregio in che avesti sempre quel sommo Personaggio, vivendo esso ancora, col tuo felice scarpello le genuine forme in marmo ne ricopiaste: e così serbando a noi quella parte che per te si poteva, di quell’uomo immortale, l’esponesti redivivo a lusingar l’amore di chi il piange perduto, ed a saziar la curiosa ammirazione dei posteri; che da’ suoi dotti scritti, e dalla fama invogliati di sue virtù, [69] ver|ranno dopo il tratto di molti secoli a ravvisarlo, come si può meglio, anche di persona! Quante grazie e quanti encomj a que’ saggi2 non son dovuti, che veraci estimatori e del sapere e del [70] merito, in quell’atrio, e sotto quelle loggie, e quegli archi, e quelle volte collocato pur il vollero, che eccheggiarono tant’anni della dotta sua voce! Oh! come l’acre, e profondo, inarrivabile ingegno da quel sembiante maestoso, per virtù dell’arte, a vivi segni traluce; così fosse stato dato allo scarpello di farne travedere la grandezza del cuore! Oh foss’io almeno stato da tanto, che colla mia troppo languida penna potuto avessi supplire in parte almeno a ciò, che non era in facoltà dello scarpello di potervi effigiare. 1 Il già lodato Professore Franchi. 2 Tra questi fu segnalato l’Ab. Oriani Pub. Prof. ed Astronomo di Brera notissimo per le sue singolari dottrine anche oltramonti. Opera sua è la seguente nobile Iscrizione che sul piedestallo della Pariniana Effigie si legge: «iosephvs. parinivs/cvi. erat. ingenivm/ mens. divinior./atqve. os. magna. sonatvrvm/obiit/xviii. kal. sept. a. mdccic». Al Celeb. Prof. Giuseppe Franchi Per la sua scultura del Busto dell’A. P. «Tornar l’anima grande e chi non mira/A folgorar dal maestoso volto?/Chi più dirà che da scarpello è scolto?/Ecco il marmo ha pur moto, ecco respira!/Nè sogna già il pensier ciò che desira:/Parla il labbro facondo ed io l’ascolto,/E veggio ben siccome incauto e stolto/Ebbi a poca ragion la morte in ira./Qual pria beato a’ suoi celesti detti,/Se non tacquer giammai vinti da obblio,/Tornami al core con più vivi affetti./Anzi doppia è la gioja ora che scerno/Il mio Parin vivere ancora, e ’l mio/Franchi nell’altrui vita a farsi eterno».

D ELLA V ITA E DE GLI SC RI TTI DI

GIUS E P PE PARINI MI L A NESE

LETTERE DI DU E A MI C I

SEC ONDA EDI Z I ON E

Riveduta con diligenza, ed accresciuta di Giunte notabili.

MILANO MDC C C II . Nella Stamperia di Andrea Majnardi a S. Mattia alla Moneta.

A L C OLTO C I T TA DI NO AV VOCATO

FRANCESC O RE INA me mb ro e d o r ator e d e l co rp o l e gi slat i vo d e l la re p u b b l i ca i ta l i a na ami co e d e p o si ta r i o d e ’ man o scri tt i d e l l ’ i mmo rta l e

G IU SEPPE PA R INI qu e sta nu ova e d i zi on e d e l saggi o su l la d i lu i v i ta e s c r i tt i LO STA MPATOR E A NDREA MA J NA R D I I N AT T ESTATO DI S T I M A ESI B I SC E E C ONSACR A

S O MMA R IO DI CIAS CUNA L E TTE RA LETT. I. Pag. 1.* Elogio del Parini: originalità della satira da lui trattata: ricerche sui modelli, che ponno avergli giovato: cagioni, per cui il Poema del Giorno è restato imperfetto: notizie della sua vita, del suo carattere fisico e morale, di premj ed onori a lui compartiti, delle opere da lui lasciate: motivi, per cui compose poco: singolarità della sua maniera di verseggiare, e varietà di stile e di ritmo ai diversi generi accomodata: osservazione di alcuni difetti nel suo scriver poetico: cenno d’alcuni suoi Sonetti magici. LETT. II. Pag. 39. Spirito osservatore del Parini, e cause fisiche, che contribuirono a formarlo: risultati di conversazione avuta con esso dall’Autore di questa Lettera: Soggetto d’uno squarcio inedito della sera da lui udito: studio continuo della lingua Italiana fatta dal Parini, e cenno della controversia, che in proposito della Toscana favella e del Dialetto milanese egli ebbe col P. Branda: meditazione del Parini sopra Orazio, onde apprese singolarmente l’arte delle inversioni, e del nobilitamento delle parole meno poeti|che: motivo generoso, per cui a codesti ultimi anni si astenne dal compiere il suo Poema: riflessioni sulla traduzione del Mattino in versi latini. LETT. III. Pag. 56. Somma difficoltà di ben traslatare con lingua morta la pittura de’ costumi moderni: escursione sugli Imitatori del Poema del Giorno: ragioni della costoro infelicità: altre per cui codesto Poema è inimitabile: difficoltà parimenti di continuare e sostenere l’Ironia: contezza del libro rarissimo intitolato Mores Eruditorum, che si sospetta aver potuto in qualche maniera servir di modello al medesimo Poema: squarcio latino di quel libro, version poetica di esso: correzion congetturale circa l’età, in cui venne a morte il Parini, fissata poi con sicurezza nella Lettera IX: cenni sull’arte, che questi aveva di alludere nelle sue poesie alle vicende politiche de’ tempi, ne’ quali scriveva, e di coniare con tutta verità i caratteri delle persone, di cui favella. LETT. IV. Pag. 87. Sospetto, che uno de’ modelli del Poema del Giorno sia il Satirico di Petronio: cenno d’una censura non molto fondata mossa contro lo stesso Poema dall’Autore della Origine, Progressi e Stato attuale d’ogni Letteratura: confronto de’ parecchi tratti del poema medesimo coll’anzidetto Satirico: additamento d’altri Scrittori, che forse ebbe in vista il Parini.| LETT. V. Pag. 104. Estratto dal Tomo II. Parte IV. degli Scrittori d’Italia del Mazzucchelli concernente la controversia avuta dal Parini col P. Banda in proposito della lingua Toscana, e del Dialetto milanese: confutazione d’altra censura fatta al poema del Giorno dall’anzidetto Autore della Origine, Progressi e Stato attuale d’ogni Letteratura: dimostrazione pratica, che un verso, il quale isolato può parer debole, trascurato e cascante, * Il numero di pagina rimanda al testo di [Bramieri, Pozzetti].

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le biografie

non è realmente tale, quando sia sostenuto dal concatenamento, che ha di ritmo, e di numero co’ suoi vicini. LETT. VI. Pag. 119. Confutazione del giudizio inserito ne’ Dialoghi d’Amore sopra le Odi del Parini: cagioni, e giustificazioni, per quanto verità lo permette, della asprezza loro imputata: prove, ch’egli è anche Poeta del cuore, ma in senso retto, e secondo il giusto scopo della poesia, tratte da’ suoi componimenti: Ode finora inedita di Vincenzo Corazza al Parini innamorato. LETT. VII. Pag. 146. Controversia del Parini col P. Alessandro Bandiera, e scritti per questa da ambe le parti emanati. LETT. VIII. Pag. 152. Motivo, che ha indotto l’autore di questa Lettera a porre in campo alcune|censure contro le poesie del Parini: piano difettoso dell’Ode intitolata Innesto del Vajuolo: disapprovazione assoluta di alcune altre: carattere indeterminato della Canzone oraziana: bassezza non rara di locuzione in alcune del Parini: stil medio da lui usato ad arte ne’ soggetti morali: le più recenti sue composizioni men difettose per prosaico andamento, presentano in vece qualche iperbato: censura della Ode intitolata le Nozze: viziosa frequenza di apostrofi nel Mattino: quella al Parrucchiere censurata per più ragioni: alcuni luoghi, ove il Poeta ha obbliata la ironia: episodio, transizioni, iperbole nel Mezzogiorno notate. LETT. IX. Pag. 182. Epoche precise della nascita e della morte del Parini: condizione di sua famiglia: saggio di poesie liriche, ed altri opuscoli da lui pubblicati: novelle prove, ch’egli è Poeta del cuore, tratte da una sua poesia drammatica: nuova confutazione della sentenza a ciò contraria dell’autor di Dialoghi d’Amore cavata dalle stesse di lui parole: Giudizio dei latinismi usati dal Parini. LETT. X. Pag. 205. Dichiarazione di una congettura espressa nella II. Lettera. Varj aneddoti relativi ad altre produzioni ed all’ingegno di Parini.

L ET T ERE

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INTORNO LA VITA E GLI SCRITTI DEL CELEBRE POETA

GIUS EPPPE PARINI

LETTERA 1.1 Al chiarissimo Padre D. POMPILIO POZZETTI C. R. delle Scuole Pie, Bibliot. in Modena. L’Avvocato LUIGI BRAMIERI Piacentino.

O r sì, che le Muse Italiane vestir denno d’atra gramaglia, e pianger di pianto lungo [2] amarissimo! Vi sarà noto, mio valorosissimo e pregiatissimo amico, l’immenso danno, che loro ha la morte recato col rapirsi Giuseppe Parini. Basta pronunziar questo nome, perchè senta ognuno che il nostro Parnaso e la Repubblica letteraria far non potevano nè più grave, nè più acerba perdita, nè più difficile a ripararsi. Io non dubito punto che voi, saggio e ponderato apprezzatore del merito, non siate per consentire al mio lamento. Assai conosco il nobile animo vostro, e mentre fra i molti pregi, onde splendete adorno, il minor non è quello di dettar versi eleganti e dotti, che vi metton presso ai migliori, ravviso in voi pur anche il Poeta scevro felicemente da quel miserabile, perchè cieco orgoglio, che vieta a’ parecchi seguaci d’Apollo il confessare l’altrui superiorità. Sarà forse un giorno non ultima gloria nostra, se ardir posso di paragonarmi in alcun modo a voi, chiarissimo P. Pozzetti, l’aver sentito di noi medesimi così, che non ci togliesse il sentir d’altri giustamente. Osiamo dunque, osiam dirlo, sicuri che molte voci faranno pur eco alla nostra: [3] l’Italia nel giorno 15 di Agosto di quest’anno ha perduto in Milano il maggior Poeta, di cui potesse ora vantarsi. Io non son tale, voi lo sapete, e con voi lo sanno quanti mi conoscono, io non son tale, che Per invidia a i vivi i morti esalti: nè però avviene ch’io creda mancare alla età nostra, comecchè non molto felice, chi possa consolarne di tanta giattura, del troppo manifesto dicadimento della divina arte poetica, e di quella depravazione di gusto, alla quale sforzavasi generosamente, e pur nutriva lusinga il Parini di far riparo, come si scorge da questo tratto dell’Ode sua, la Gratitudine:

1 Questa Lettera, che ha dato principio ed occasione a così esteso carteggio, fu inserita con poche variazioni, ed impressa la prima volta nel Bimestre appartenente al Marzo ed Aprile del 1800 del Veneto Giornale intitolato: Memorie per servire alla Storia Letteraria e Civile. [Nota del Bramieri]

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le biografie Vedrò, vedrò da le mal nate fonti, Che di zolfo e d’impura Fiamma e di nebbia oscura Scendon l’Italia ad infettar dai monti, Vedrò la gioventude I labbri torcer disdegnosi e schivi, E ai limpidi tornar di Grecia rivi, Onde natura schiude Almo sapor, che a se contrario il folle Secol non gusta, e pur con laudi estolle.

[4] Anzi mi conforta dolcemente il veder più d’uno, che d’anni fiorente e di fantasia ne’ voli più franchi il raggiugne, gli contende la palma, e coll’illustre esempio può ancora insegnare a’ giovinetti cigni meno esperti, come si tenga retto sentiero nello slanciarsi a volo sull’ardua carriera pindarica. E nel tentare i dilicati e molli accordi d’Anacreonte, nel tessere di proporzionate e ben distribuite membra il ritroso e troppo difficil sonetto, abbiam pure chi certo il pareggia ed anche il sorpassa. Il verso sciolto, quello, a cui taluno ha dato per capriccioso e non ragionato disprezzo il nome di prosa misurata, è pur trattato da alcuni con arte e maestria, che sanno rivendicargli un posto onorevole tra le classi poetiche. Ma dopo tutto ciò non veggo fra gl’Italici Vati, che ci rimangono, chi ne faccia dono, o almeno ne dia speranza d’un lavoro veramente nuovo, originale e grande, come il Giorno del Parini. Questo è veramente il capo d’opera del secolo moribondo, che fra parecchi lodevoli Poemi non ne ha prodotto veruno da uguagliarsegli nè per singolarità [5] d’inven|zione, nè per eccellenza d’esecuzione; e per esso vien liberata la volgar poesia dalla vergogna di non avere in tanto fastoso e fecondo fiorir suo d’oltre a cinquecento anni avuto finora chi trattasse la satira con finezza insieme e gagliardia, presentando sotto larva di lode nell’aspetto lor vero, e co’ più opportuni colori i pregiudizj e le ridicolosità degli ultimi tempi, e togliendo alle sociali turpitudini con man dilicata e ferma, nell’atto stesso che sembrava spargerlo di fiori, quel velo impostore, che le fa nel così detto bel mondo tollerare non solo, ma sovente applaudire e proporre a modello d’imitazione. Non si dolgano, e stiansi paghi in Eliso della non tenuissima lor gloria il Soldani, Salvator Rosa, il Menzini; perocchè la grossolana loro maniera di satirizzare spiattellatamente piacer potè appena allorquando non avea lo svantaggio d’essere paragonata col raffinato motteggio, col frizzo spiritoso, colla arguta festività del Parini: non ponno essi vantarsi neppure d’averlo preceduto, giacchè nel genere stesso egli batte un cammino del tutto nuovo, e non segnato per anco d’orma italiana. [6] Io sono andato fra me stesso immaginando più volte, che a determinare il Parini a prescegliere l’ironia, qual arme, che nascondendo a primo tratto la intenzion di ferire, non offende che lentamente, e fa non pertanto profonda e durevole impressione, avesse dovuto contribuire moltissimo il Riccio rapito di Pope: nè certo io conosco nissun antico o moderno poema, in cui la ironia sia con più di grazia e di finezza maneggiata di quello, ch’ivi si vede tanto piacevolmente. Parevami che di là più che d’altronde derivata avesse almeno il nostro Poeta quell’arte difficilissima di aggrandire i piccioli, di nobilitare i bassi oggetti, di cogliere destramente i minimi dettagli produttori della massima evidenza, di rilevare maravigliosemente le minutezze, e di dare al frivolo ed al ridicolo

[bramieri, pozzetti]

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un’aria ben sostenuta d’importanza. Ma un ch. amico, cui nomino a cagion d’onore, il Sig. Conte Antonio Cerati, col quale ho il vantaggio d’intrattenermi sovente di cose letterarie, mi ha comunicata, è già tempo, una congettura, alla quale crederete facilmente, ch’egli sa fornire molti gradi di [7] probabilità; e il fa con quella ingenuità di parole, che non lascia sospetto d’impegno veruno in sostenerla. Sventuratamente però siam privi egli, ed io del mezzo, con cui si potrebbe giugnere a quel segno di verità, che in siffatte materie è sperabile. Forse non sarà ignoto a voi, eruditissimo Bibliotecario, e forse1 anche potrete procacciarvelo, il per altro non comune in Italia libretto, che l’encomiato Cavaliere, non senza il consenso pure di un dotto Professor Pisano, presso di cui ebbe il piacer di vederlo, e di gustarne alcuna parte, presume essere stata a preferenza d’ogn’altro il modello seguito dal Parini. Mores Eruditorum n’è il titolo: fu impresso senza data di luogo di stampatore nel 1760, e contiene diversi opuscoletti, lettere, dialoghi, comentarj, che sono altrettante satirette urbanissime dettate colla più nitida ed elegante latinità, e collo spirito più festivo e venusto, onde si trae luminosa idea dell’ingegno dell’Autore, che si crede Alemanno. La turba immensa, dicevami il Sig. Conte, e dannosa degli scioli moderni, che colla impostura e coi raggiri si usurpano la fama e il [8] cre|dito di dotti presso la parte numerosissima del volgo, e della gente superficialmente colta, vi assicuro che vi è sferzata, motteggiata, derisa amabilmente. Ma il breve tratto, che d’uno di tali opuscoli trascritto nel Giornale de’ suoi viaggi egli ebbe la compiacenza di leggermi, se m’invaghì, mi sorprese, e discender mi fece nella sentenza di lui, mi fece anche dolere più vivamente, che non potessimo con più ampio confronto asseverare la scoperta; la quale però con altri passi di quella operetta da lui bene osservati, ma non trascritti egli crede confermatissima. Effetto egli è per ordinario d’una cagione, che tutta non torna ad onore del cuor umano, l’acuir che si fa l’ingegno a rintracciare i modelli, sui quali furono le grandi opere lavorate: quasicchè la natura esausta più somministrare a’ tempi nostri non potesse genj inventori, o da una lontanissima imitazione d’alcuni tratti rimanga escluso il merito di originalità. Ma siffatte indagini tornan pure a giovamento delle lettere e delle arti, mostrando, come gl’ingegni elevati, se felicemente arditi, da picciola scaturigine derivar sanno [9] gran fiumi, e da tenue favilluzza una luce immensa rischiaratrice, un fuoco animatore di provincie e di nazioni. Tale, per verità inestimabile tuttavia, se le congetture del Sig. Conte Cerati e mie cogliesser nel vero, sarebbe il pregio del nostro Parini. Così potuto avess’egli esaudire i voti ferventi d’ogni colta persona, que’ voti, ch’egli sì bene espresse nella Caduta, ponendoli in bocca altrui. Te ricca di comune Censo la patria loda; Te sublime, te immune Cigno da tempo, che tuo nome roda, Chiama gridando intorno; E te molesta incita Di poner fine al Giorno, Per cui cercato a lo straniar ti addita.

1 [Nel testo forsi]

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le biografie

Di compier codesto suo mirabil Poema era desiderosissimo egli stesso, e vi si occupava continuamente; ma una folla di avverse circostanze si è attraversata all’adempimento di sì bello e sì universal desiderio. Se il Mattino e il Mezzogiorno avean potuto fornire tante, tutte leggiadre e sì ben variate situazioni ed aspetti, in [10] cui è presentato il Giovin Signore di moda, se aveano alla fantasia del Poeta somministrato l’agio d’inserirvi i maravigliosi episodj della origine dell’incipriarsi, della transazione stipulata fra Amore ed Imeneo, della Vergine cuccia delle grazie alunna, delle lodi del vitto pitagorico, della invenzione dello sbaraglino, e tant’altri, a quanto più non doveano dar luogo il Vespero e la Sera, altre due parti, in cui diviso aveva l’Autore il suo Giorno, se deggio prestar fede, nè saprei negarla ad un cortesissimo e dottissimo amico del Parini e mio, che pregato mi fu gentile di molti dettagli? Già da più lustri era a finimento condotta una quantità di graziosissime dipinture, nelle quali prendeva l’ammaestrato a un tempo e celebrato Eroe molteplici, opportune, ben disegnate, e vivamente colorite attitudini, nè altro quasi mancava che le pareti, per dir così, a cui si appendessero per formarne una amenissima galleria. Mentre però si accingeva ad ordinarle e collegarle insieme con transizioni e nodi, onde [11] ne risultasse un tutto pieno di vaghezze e di armonia, eccoti che la sempre cangiante moda, le varie sociali ridicolosaggini, solite a collidersi di continuo e a dissiparsi vicendevolmente, rendevano inutile, perchè men vera da un mese all’altro, or questa, or quella dipintura, e poco men che vana la fatica del Dipintore. Per la qual cosa ho io pensato meco stesso più volte, che il Mattino e il Mezzogiorno rischio corressero di perdere fra un secolo o due gran parte di lor sommo valore, poichè ne verrà meno l’intelligenza e che a riparare sì grave danno del Poema e della Posterità sarebbe utile l’illustrare molte parti di esso con istorico comentario, il quale nel darne una sicura e facile spiegazione offrirebbe anche una serie di curiose notizie e gradevoli. Oltre ciò dal darvi l’ultima mano si ha ragion di credere, che ritenuto fosse il Parini da due fortissime ragioni. L’una si fu il giusto timore d’increscere a taluno, cui la pubblica malignità sempre intenta ad ingiuriose applicazioni non prevedute e non sognate mai nè dal comico nè dal satirico Poeta indicava qual Eroe del Poema, e che, se avesse per disavventura quelle [12] in|degne voci ascoltate, prenderne poteva ben aspra e facil vendetta. L’altra derivar si deve dalla sua somma cagionevolezza, dalla diminuzion notabile di forze fisiche, a cui soggiaceva già da molt’anni il Parini, forze mal rispondenti alla energia ed al coraggio dell’animo, e che però non gli consentivano di sostenere un lungo lavoro. Già fin da quando la Imperatrice Maria Teresa pagò alla natura l’estremo tributo, died’egli una prova di codesto suo dicadimento, che ci tolse il vedere, quant’egli valesse in eloquenza, trattando, e non vaglion che i grandi, un vasto soggetto. Aveasi egli assunto di tesserne l’elogio; avea tra le mani gli ampj materiali necessarj; sorridevagli l’argomento; si pose all’opra: ma il sangue in copia soverchia ascesogli al capo per la intensa applicazione lo astrinse con suo rincrescimento e con nostro danno a rinuziarvi. Se avete, amico pregiatissimo, conosciuto di persona il Parini, avrete scorto a prima giunta che quanto la natura era stata con lui liberale di forze intellettuali, altrettanto avea scarseggiato nelle fisiche. Non gli negò nè giusta statura, nè forme di volto gradevoli, espressive, dalle [13] quali traspariva un’anima bella

[bramieri, pozzetti]

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e robusta; ma gli contese fin dalla infanzia la gagliardia ed agilità delle gambe; per lo che dolevasi egli di basi troppo fiacche a sostener la mole del corpo, e cantava al principio della testè citata Ode sulla Caduta: Quando Orion dal Cielo Declinando imperversa, E pioggia e nevi e gelo Sopra la terra ottenebrata versa, Me spinto ne la iniqua Stagione, infermo il piede, Tra il fango e tra l’obliqua Furia de’ carri la città gir vede; E per avverso sasso Mal fra gli altri sorgente, O per lubrico passo Lungo il cammino stramazzar sovente. Ride il fanciullo; e gli occhi Tosto gonfia commosso, Che il cubito o i ginocchi Mi scorge o il mento dal cader percosso. Benchè poi in quella, che ha per titolo la Magistratura, dopo aver cominciato dicendo: [14]

Se robustezza ed oro Utili a far cammino il ciel mi desse,

si corregga e si consoli della sua disgrazia con questo nobil risalto: Che dissi? abbian vigore Di membra quei, che morir denno ignoti, E sordidi Nipoti Spargan d’avi lodati aureo splendore. Noi delicati e nudi Di tesor, che nascemmo ai sacri studj, Noi, quale in un momento Da mosso speglio il suo chiaror traluce Riverberata luce, Senza fatica in cento parti e in cento, Noi per monti e per piani L’agile fantasia porta lontani. Forse codesta fisica debolezza la portò egli dall’alvo materno, donde uscì in Bosisio, terra del Distretto Milanese nelle vicinanze di Pusiano, da lui poscia celebrato nella Ode sopra la Salubrità dell’aria sotto il nome di Eupili: forse ad essa, che non permettevagli il moto, il dissipamento e i tumultuosi piaceri della concitata adolescenza, ei dovette l’essersi dato [15] indefes|samente allo studio per fare a se stesso come un compenso de’ negati divertimenti. Ho tentato invano di sapere con precisione l’epoca del nascer suo; e de’ suoi genitori altro non m’è riuscito di rilevare, se non ch’erano oscuri, ma onorati, forse agricoltori, artieri tutt’al più. Quale e quanto strano scherzo della natura! Dotare di sì mirabile e straordinario ingegno, predestinare fin dalle fasce alla meglio meritata immor-

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talità un vil germe dell’infimo volgo; e lasciar poi ghiri e talpe tanti illustri germogli de’ Sejani, de’ Cresi, de’ Mida? Io mi meraviglio che sì di rado mi ferisca gli orecchi questo lamento: ma un facile riflesso mi corregge ben tosto e dissipa la sorpresa della ammirazione. Neppure de’ Precettori del Parini mi è giunta veruna contezza; ma certo è che dessi erano assai valenti, o egli un prodigio. Quand’egli andò a stabilirsi in Milano, era già Sacerdote, già fornito di moltiplici cognizioni; il suo merito gli ottenne ben presto onorevol ricovero nelle splendide case de’ Serbelloni, e non tardò ad acquistargli fra begli ingegni rinomanza. Fioriva allora grandemente [16] l’Accade|mia de’ Trasformati, ed egli v’ebbe facile accesso, e vi spiegò tai raggi di luce, che ben si previde dover egli poco appresso far degli altri, benchè esimii e per ogni conto ragguardevoli Accademici, quello, Che fa il Sol de l’aurora e de le stelle. Ma il valentuomo era fervido non poco, siccome indicava la sua vivace fisonomia, e caustico anzi che no; laonde trovossi involto in diverse letterarie contese. A me però non è stata distintamente accennata, se non quella, forse più d’ogn’altra considerevole, che fu da lui agitata contro il P. Branda C. R. di S. Paolo, e che produsse varj scrittarelli d’una e d’altra parte mandati in luce colle stampe. Egli il Parini e alquanti valorosi amici suoi dilettavansi di poetare scherzevolmente nel Milanese dialetto; piacere, che a se stessi concesso aveano molto prima altri chiarissimi Letterati, fra quali basta rammentare Carlo Maria Maggi e Domenico Balestrieri; piacere, che ad ottenerlo richiede una scelta ben avveduta di atticismi, una nobilmente popolare modificazione d’idee, [17] e in fine un ingegno tutto proprio e molto pieghevole. Ma siffatto piacere offendeva il toscanissimo Barnabita, che per sostenere ed innalzare la bellezza dell’etrusca favella si diede stortamente a deprimere il vernacolo di Milano, e astrinse il favoreggiatore di questo a tesserne l’apologia. In ogni ben regolato governo non viene agl’ingegni meno giammai l’incoraggimento, e al merito conseguono i premj. Egli è perciò, che Parini salì la Cattedra di Rettorica nelle scuole Palatine; e la celebrità, ch’indi acquistarongli le parti pubblicate del suo Poema ed altre produzioni, quando quelle scuole unite furono alla Università di Brera, lo fè a questa trasportare coll’insigne grado di Professore di Magna Eloquenza e di Belle Arti. In seguito gli fu aggiunto il luminoso titolo di Direttore di quel Ginnasio con notabile aumento di stipendio, col comodo d’un agiato appartamento in quel magnifico edifizio, e con qualche indi a poco pensioncella, di cui furono a suo favore gravati alcuni beni ecclesiastici. Così nè d’onori e distinzioni non mancava egli, [18] nè d’agi discreti; e comecchè potesse di se medesimo senza taccia di vanità o di orgoglio sentire altamente, comecchè la riportata mercede senza sfrenatezza d’ambizione potesse da lui al disotto del proprio non comune valor giudicarsi, pur si dovea pago tenere e contento, massime rammentando la non miglior sorte dell’Ariosto, che soleva sclamare: Apollo, tua mercè, tua mercè, santo Concilio de le Muse, io non mi trovo Tanto nè pur da poter farmi un manto. E qual fu la sorte di Camoens e del Tasso? Poi come obbliar poteva l’arguto Censore de’ costumi moderni, che la età nostra è stata liberal solamente colle Danzatrici, e

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Col canoro Elefante, Che si strascina a pena Su le adipose piante, E manda per gran foce Di bocca un fil di voce? Non fu certo senza il proposito di far [19] pubblici i suoi lamenti, ch’egli compose la spesso memorata Caduta. Dietro le strofe di essa già riportate in parlando del suo Poema vengono queste, che l’animo suo mal contento ne disvelano abbastanza, e cresce forza alla querela il porle sull’altrui labbro: Ed ecco il debil fianco Per anni e per natura Vai nel suolo pur anco Fra il danno strascinando e la paura: Nè il sì lodato verso Vile cocchio ti appresta, Che te salvi a traverso De’ trivj dal furor de la tempesta. Sdegnosa anima! prendi, Prendi novo consiglio, Se il già canuto intendi Capo sottrarre a più fatal periglio. Congiunti tu non hai, Non amiche, non ville, Che te far possan mai Ne l’urna del favor preporre a mille; e di codesta sua scontentezza altri cenni s’incontrano in altri suoi componimenti. [20] D’altronde poi son assicurato che l’essere indegnamente posposto nella collazione d’un Benefizio, cui aspirava, gli mosse tale dispetto ed amarezza, che non seppe giammai spogliarsene interamente. Ma quel vile cocchio, che il sì lodato verso mai non giunse a procurargli, mi richiama al pensiero ciò che nella sua maravigliosa e gustata, credo, da pochi Ode intitolata la Gratitudine in commendazione del celebre Porporato Poeta e Mecenate dei dotti, Angelo Maria Durini, egli narra degli onori da esso Cardinale a se fatti. Che magia di stile non vi bisogna a render poetico il racconto di visite ricevute, ora in casa propria, mentr’era nel bagno, ora alla scuola, mentre spiegava l’Edipo di Sofocle ai discepoli, e del sostegno prestatogli a salire in carrozza? Non vi parrà grave, son certo, amico valorosissimo, nè alieno dal nostro soggetto che alcuno io quì ripeta di codesti tratti:

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Qual nel mio petto ancor siede costante Di quel dì rimembranza, Quando in povera stanza L’alta forma di lui mi apparve innante! Sirio feroce ardea: Ed io fra l’acque in rustic’urna immerso, E alle Najadi belle umil converso, Oro non già chiedea,

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le biografie Che a me portasser da l’alpestre vena, Ma te, cara salute, alfin serena. Ed ecco, i passi a quello Dio conforme; Cui finse antico grido Verso il materno lido Dal Xanto ritornar con splendid’orme; Ei venne, e al capo mio Vicin si assise, e dagli ardenti lumi, E dai novi spargendo atti e costumi Sovra i miei mali obblio, A me di me tali degnò dir cose, Che tenerle fia meglio al vulgo ascose; Io del rapido tempo invece a scorno Custodirò il momento, Ch’ei con nobil portento Ruppe lo stuol, che a lui venia d’intorno, E solo accorse, e ratto Me nel sublime impaziente cocchio Per la negata, ohimè! forza al ginocchio Male ad ascender atto Con la man sopportò, lucidi dardi Di sacre gemme sparpagliante ai guardi.

[22] Qual arte di presentare colla massima nobiltà le idee più comuni! Egli dice tutto ciò che gli pare, non tralascia i minimi dettagli, gli adorna, li veste, e coll’ardir di esprimere cose non dette in verso giammai, sorprende anche là dove meno appaga, siccome alla fine di codest’ultima strofe. Bello è del pari udirlo, quando canta: Me il mio canto rapisce A dir, com’egli a me davanti egregio Uditor tacque, ed al Liceo diè pregio. Quando dall’alto disprezzando i rudi Tempi, a cui tutto è vile Fuor che lucro servile, Solo de’ grandi entrar fu visto; e i nudi Scanni repente cinse De’ lucidi spiegati ostri sedendo, E al giovine drappel, che a lui sorgendo Di bel pudor si tinse, Lene compagno ad ammirar se diede, E grande a’ detti miei acquistò fede. Anche la fecondissima vena del Sulmonese piegavasi agevolmente ad esprimere qualunque pensiero più tenue; ma talvolta [23] riman basso e pedestre anche il suo stile. E nel Parini non si può mai ammirare abbastanza la nobiltà, di cui sa circondare anche gli oggetti, che ne sembrano meno capaci. Che vi par egli di que’ banchi della scuola e di que’ ragazzi, che s’alzano in piede, e arrossiscono alla presenza del Cardinale ed alla modestia, con cui loro si agguaglia? Ora udite quanto codesto Porporato nell’onorare i valentuomini Milanesi così trapassati come viventi, distinguea giustamente il nostro Poeta. Egli ha descritte molte

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particolarità della bellissima villa del Durini, detta Mirabello, posta nelle amenissime vicinanze di Monza, arricchita d’ogni fregio più splendido, e resa un vero Parnaso. Ora a compiere la descrizione ei soggiugne:

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Ed ecco il tempio, ove, negati altronde, Qual da novo Elicona, Premj all’ingegno ei dona, E fiamme acri d’onore altrui diffonde. Ecco ne’ segni sculti Quei, che del nome lor la patria ornaro, Onde sol generoso erge all’avaro Obblio nobili insulti; E quelle glorie a la città rivela, Ch’ella a se stessa ingiuriosa cela. Dove, o Cetra? Non più. Rari i discreti Sono; e la turba è densa, Che già derider pensa I facili del labbro a uscir segreti. Di lui questa a l’orecchio Parte de’ sensi miei salgane occulta, Sì che del cor, che al beneficio esulta, Troppo limpido specchio Non sia che fiato invidioso appanni, Che me di vanti, e lui d’error condanni.

Comento a questa strofe sarebbe, se uopo ne fosse, il dire che l’Eminentissimo Durini tra i busti e i ritratti de’ valentuomini, onde in ogni età fu produttrice Milano, collocato aveva pur quello del Parini. E altri onori non pochi furono resi al raro valor suo così da’ stranieri; come da’ nazionali, così da’ dotti privati, come da’ Principi: ma io troncherò tosto la non breve narrazione, che potrei farne, giacchè niuno sarà, che codesti onori non creda necessarj tributi, che il merito strappa sovente di mano alla cieca [25] ingiu|stizia pur suo malgrado, nè può per essi acquistare incremento la idea, che del Parini grandeggia nella mente di tutte le colte persone. Gli ultimi anni di lui furono tormentati dai mali, che alfin l’oppressero. Le gambe gli erano divenute poco meno che inutili; perduto avea quasi l’uso pur delle braccia e interamente quello d’un occhio; ad un uomo, di cui il corpo è reso sì inerte ed impotente agli uffizj e ai piaceri della vita, non si presenta la morte in quell’aspetto cotanto spaventevole e cruccioso a chi vive sui letti molli odorati di Sibari, E non premute ancor rose cercando, passa dalle delizie alla voluttà. Fosse coraggio e fermezza incontro a quell’istante, che il pusillanime Ottavio Augusto non osava nomare, o fosse lusinga di superare i suoi mali e l’idrope, che il minacciava, era il Parini tranquillissimo: godeasi dal letto, ov’era forzato a giacere, la corona di scelti amici, che gli recavano le notizie del mondo guerresche e [26] politiche, dietro le quali si piaceva fantasticare, e in mezzo a’ suoi dolori, Pur di commercio novellava e d’arti:

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le ore poi solitarie divideva tra i pensieri di religione e di letteratura. La benefica Provvidenza gli risparmiò gli orrori della agonia, e lo tolse di vita, senza ch’egli sen’avvedesse, varcato già l’anno suo settantesimo. La sua fine è stata poco dissimile a quella, che si favoleggia del cigno; perocchè alcuni momenti prima avea raffazzonato e dato a trascrivere un Sonetto composto ne’ giorni innanzi sul ritorno degli Austriaci in Milano. Se è da dolersi grandemente della sua morte, non lo è forse meno del destino de’ scritti suoi. Facciamo, amico prestantissimo, facciamo, de’ voti ben fervorosi che siano caduti in mano di chi sappia conciliare col proprio interesse la gloria dell’Autore1 e il vantaggio della letteraria repubblica. Sono stati venduti all’asta pubblica pel mediocre prezzo di 2200 lire Milanesi, che parve gran cosa ai rozzi Congiunti ed Eredi. Narrasi che taluno [27] di questi maravigliando, come dai compratori venisse a quelle carte attribuito tanto valore, entrò in sospetto, non tra esse rinchiuso e nascosto fosse molto denaro, e si diede a scuoterle fortemente, quasi aspettando che ne cadessero a terra doppie e zecchini. Sia pur codesto racconto una leggiadra invenzione, sempre ne porge argomento della oscurità, dalla quale sì bene emerse il Parini. Del resto colui, che farassi a rendere di comun ragione colle stampe il Mattino e il Mezzogiorno ritoccati, ricorretti, accresciuti dall’Autore assieme a’ pezzi sebben distaccati del Vespero e della Sera, che consistono, per quanto mi viene asserito, in un buon migliajo di versi, colui è ben certo di rifarsi al decuplo almeno della somma sborsata. Or che sarà poi, se vi aggiunga le molte altre Poesie eroiche e berniesche, e alcune pure in dialetto Milanese, che arricchiscono quel preziosissimo acquisto? Passiamo pur sopra alcuni Drammi per Musica editi ed inediti, che non riportarono molto plauso, e sopra le Lettere ad una falsa Divota, di cui nulla so dire, perchè il titolo me ne fu indicato [28] unicamente; e tacendo di alcune operette di minor conto, consideriam solo il valore delle sue Lezioni di Eloquenza, di Belle Arti e di Metafisica. Chi ebbe la ventura di ascoltar Parini ragionante dalla cattedra, partì dolcemente inebbriato e sorpreso ad un tempo dalla copia, finezza e profondità delle sue cognizioni, dalla perspicuità del suo metodo nell’insegnare, dallo spirito insinuante, con cui trasfondeva negli uditori il proprio gusto cotanto dilicato e sicuro. Ed io, riguardando alle sue poesie, al sommo giudizio e convenienza, onde ha sempre i diversi generi trattati, aspetto con impazienza la pubblicazione di codeste sue lezioni, perchè spero di vedere portata e applicata da lui meglio che da pochi altri, i quali il tentarono, la luce della Metafisica alle lettere ed alle arti. Poco scrisse Parini, e pochi versi dettò, se proporzione cercar si voglia fra gli anni che visse, il desiderio de’ dotti e le sue produzioni. Egli stesso previde di poter esserne accusato, e perciò imprese a giustificarsi con nobile alterezza al principio dell’Ode intitolata la Laurea: [29]

Quell’ospite è gentil, che tiene ascoso Ai molti bevitori Entro a’ dogli paterni il vino annoso Frutto de’ suoi sudori; E liberale allora 1 [Nel testo Antore]

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Sul desco il reca di bei fiori adorno, Quando i Lari di lui ridenti intorno Degno straniere onora, E versata in cristalli empie la stanza Insolita di Bacco alma fragranza. Tal io la copia, che de’ versi accolgo Entro la mente, sordo Nego a le brame dispensar del volgo, Che vien di fama ingordo. Invan l’uomo, che splende Di beata ricchezza, invan mi tenta, Sì che il bel suono delle lodi ei senta, Che dolce al cor discende; E invan de’ Grandi la potenza e l’ombra Di facili speranze il cor m’ingombra. Ma quando poi sopra il cammin de’ buoni Mi comparisce innanti Alma, che ornata de’ suoi proprj doni Merta l’onor dei canti, Allor da le segrete Sedi del mio pensiero escono i versi Atti a volar di viva gloria aspersi Del tempo oltra le mete, E donator di lode accorto e saggio Io ne rendo al valor debito omaggio.

E cominciò l’altra già spesso ricordata sulla Gratitudine così: Parco di versi tessitor ben fia, Che me l’Italia chiami: Ma non sarà che infami Taccia d’ingrato la memoria mia. Io lasciando di osservare, che i più grandi forse del secol nostro furono parchi verseggiatori, come Manfredi, Ghedini e qualche altro, e che il saggio ben pensa, non dalla copia, ma dalla bellezza e singolarità delle opere assicurarsi la rinomanza presso la imparziale posterità, lasciando pur a parte le cagion fisiche, le quali conteser sovente al Parini di applicarsi quanto avrebbe bramato, io derivo codesta scarsezza de’ suoi componimenti dal carattere suo morale. Colui, che dotato era di tanta elevatezza di spirito, animato da sì sublime ardore per la virtù, come si scorge in ciascuno de’ suoi [31] componi|menti, colui, che di se medesimo sentiva a ragion sì altamente, che nella Ode sulla Recita dei versi richiesta a mensa romorosa, dopo avere vivamente schernito il vario genio presuntuoso de’ convitati, ebbe coraggio di conchiudere: Orecchio ama placato La Musa e mente arguta e cor gentile; Ed io, se a me fia dato Ordir mai su la cetra opra non vile, Non toccherò già corda, Ove la turba di sue ciance asssorda;

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colui non poteva essere ad ogni volgare occasione, alle troppo frequenti e spesso immeritevoli istanze prodigo de’ suoi versi. Oltre di che se pongasi l’occhio alla meta, ch’egli s’era proposto di raggiungere poetando, ed ha svelata nell’ultima strofa della Ode sulla Salubrità dell’aria: Va per negletta via Ognor l’util cercando La calda fantasia, Che sol felice è quando L’utile unir può al vanto Di lusinghevol canto; [32] se mirasi al nobilissimo suo intendimento di ritornare la poesia alla eccellenza di suo primitivo obbietto, e di farla servire alla pubblica istruzione, non solo proclamando la giustizia e le altre virtù, ma combattendo gli errori, gli inganni e gli abusi della società; si comprende ben tosto, che frequenti esser non potevano le produzioni di tal Poeta. Il rischio di concitarsi lo sdegno de’ Possenti e de’ Reggitori di popoli, come sclamando contro le Risaje poste in vicinanza delle popolazioni, e contro la barbarie di mutilare gli uomini per aprir loro un cammino alla ricchezza, e procacciare agli altri un piacer ben fuggevole, e la difficoltà di trattare soggetti per se stessi ritrosi e indocili, condannano spesso al silenzio chi generosamente disprezza la bassa gloria di piacere alla ignara moltitudine colla canzoncina e il sonettino vuoto d’idee e bagattella canora. Voi siete, mio pregiatissimo amico, sì acuto e fino conoscitore dell’arte poetica, che non vi sarà certo sfuggito l’osservare, come la maniera di verseggiare del Parini è tutta sua propria e particolare così, che [33] non somiglia nè punto nè poco a quella di tanti altri chiari Poeti, onde si vanta a buon dritto la nostra nazione. E quì precipuamente io riguardo al meccanismo del verso, lusingator dell’orecchio senza portare quella orgogliosa armonia, che lo rintrona, sempre amabilmente variato nelle giaciture, spesso mimetico, e costantemente adattato al genere, cui serve. Ma questa qualità la riceve esso tutt’insieme dall’opportuno suo andamento e dal carattere speciale della locuzion, che lo informa. Sentì Parini il bisogno e la convenienza, che i diversi generi hanno, non solo di sentenza e locuzione diversa, ma sì anche di numero diverso: conobbe che la prodigiosa ricchezza e pieghevolezza di nostra lingua colla varia attitudine de’ vocaboli servir poteva non difficilmente all’oggetto: e queste verità dell’arte, la seconda delle quali è forse un fortunato privilegio degli Italiani, note a pochi, per quanto pare, e certo praticate ben di rado, furono le perpetue regolatrici della sua penna sublime. Se non si leggessero nello stesso volume, e a lui solo con sicurezza attribuite, chi crederebbe giammai, che le Odi intitolate il Brindisi, [34] il Piacere e la Virtù, e le Nozze, ove la mollezza più soave di Anacreonte annunzia una mirabile spontaneità di vena, dettate fossero da quella Musa medesima, che temperò poi di gradevol mistura sul gusto di Flacco il facile e dilicato col grave e dignitoso nelle Odi sulla vita Rustica, sul Pericolo, In morte del Maestro Sacchini, e sulla Recita di versi, e volendo poi grandeggiare con più studiata e contegnosa maestà negli argomenti dell’Innesto del Vajuolo, della Laurea, della Magistratura, della Gratitudine, accompagnò la elevatezza delle idee colla maggior sostenutezza di modi, delle invenzioni e delle rime medesime? Chi ravviserebbe nelle Odi l’Autor del Mattino e del Mezzogiorno, dove il grande, il

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dilicato, lo spiritoso, l’arguto, il festivo, il commovente si alternano con maravigliosa proprietà di distribuzione variata, di pensieri, di frasi e di proprio e particolare verseggiamento? E quì bisogna a precipua lode del nostro Parini osservare che, se in altri Poeti s’incontra pure una varietà di stile e di maniere sensibile così, che i componimenti non pajono già tutti, come pur sono, figli della mente istessa, ciò deriva [35] per lo più da una instabilità di gusto non abbastanza formato e maturo, da un ondeggiamento di fantasia, che non ha saputo scegliere, determinarsi, e scorre vagando, cangiando secondo le diverse casuali impulsioni, che riceve coll’istante; mentre per lo contrario codesta varietà è il frutto in lui della meditazione e del genio ben istituito e determinato. Non posso per altro disconvenire dal parere di alcuni, i quali sentono troppo aspre e contorte anzi che no parecchie inversioni da lui usate, e scemata quindi talvolta la sempre necessaria perspicuità. Così pure talvolta egli mesce alle poetiche alcuna frase troppo dissimile e solo conveniente alla prosa: nè di questo io saprei commendarlo; ma ben parmi che dove si guardi attentamente alle cagioni, che ve lo inducono, si troverà pur bella codesta, che certo è colpa in Parnaso: perocchè sempre la sentenza vi compensa del raro e leggiere disgusto; e l’aver tentato di assoggettare a numero non usato, a non usata locuzione di poesia un pensiero indocile e restio porta seco una facile escusazione. Ma non consentirò del pari alla disapprovazione del passar, che [36] ei fa di frequente, colla continuazion del periodo da una strofe all’altra, maniera che i celebri Italiani dopo il risorgimento delle lettere ben pochi usarono, e che anzi a me sembra crescere al componimento grandzza e dignità. Orazio, di cui si scorge chiaramente, che il Parini era pieno, e fatto se n’aveva sostanza e midollo, non senza però volger sovente a suo profitto anche l’ardire, il vigore e le grazie del Chiabrera, Orazio ha famigliari codesti passaggi; e non so intendere come piacendo cotanto nella latina favella, dispiacer poi debbano nella nostra, la quale, come legittima figliuola e fedel seguace delle materne virtù, più è bella, quanto più le rassomiglia nelle fattezze leggiadre, nel maestoso contegno e in tutti i bei modi; e le somiglia in fatti moltissimo; vezzeggiata, adorna e colta, com’è, dal valentuomo, di cui vi ho finora parlato. Oltre le due parti notissime del Giorno e le Odi ristampate tante volte, non abbiamo in luce, che io sappia, altro saggio del poetar del Parini, che le poche rime inserite nel Tomo XIII di quelle degli Arcadi impresso in Roma nel 1780 sotto il nome di Darisbo [37] Elido|nio: ma basta codesto saggio, benchè scarsissimo, a dimostrare ch’egli sapeva, quando ben gli piacesse, avvicinarsi anche colla pura soavità de’ modi e del verso al divino Cantore, che Feo la chiusa Valle sonar di così nobil Musa. Però di questo non più oltre, veneratissimo Padre Pozzetti, chè nojarvi non deggio, e almen nol vorrei. E già sono stato ben malaccorto, per non dir temerario, osando presentare codesti miei riflessi a voi, che potete esserne troppo più profondo e giudizioso Precettore. Incolpatene il trasporto mio verso il Parini e la rispettosa fiducia, che ho nella vostra umanità verso me somma. Non la finirei più nè di stare con voi, nè di parlare di lui. E ancor mi si para innanzi la piacevole singolarità de’ suoi Sonetti Magici, che s’incontrano appunto nel testè accennato volume delle Rime degli Arcadi, e che ponno risguardarsi, se mal non mi appongo, qual nuova specie da porsi vantaggiosamente accanto a’ pa-

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storali, a’ marittimi, a’ polifemici, e lusingano forse [38] più la fantasia sempre vaga del maraviglioso. Ma . . . . . non più . . . . . addio. Sono con la più giusta considerazione e la più tenera amicizia ec. Parma dalla amenissima villa di Carona il dì 7 di Settembre 1799.

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II. al chiarissimo avvocato LUIGI BRAM IERI POM PILIO POZZETTI delle scuole pie Modena 18. Maggio 1801.

Ho riandata con attenzione la vostra lettera impressa recentemente nel giornal di Venezia, intorno la vita e gli scritti di Giuseppe Parini, e mi son confermato nella vantaggiosa idea conceputane allora quando la scorsi di volo la prima volta. Voi trattate quivi il soggetto con tal rettitudine e sapore di critica, che qualunque altro pur volesse tornarvi sopra, non potrebbe scostarsi da tanto senno vostro senza tradire la verità. Se non che nell’indirizzare a me con sì liberali [40] espres|sioni quella produzion vostra elegantissima, e quindi nell’associare i chiari nomi di Parini e di Voi al mio di nissun conto avete mostrato, quanto l’amicizia donatami da molto tempo, abbia in giudicarmi prevaluto sul vostro intendimento. Mi è giunta carissima la notizia del libretto intitolato Mores Eruditorum, donde credete che nel Cantor del Mattino e del Mezzogiorno sia derivato il pensiero di quell’ironica, arguta, amabile e dignitosa maniera di satireggiare, che qualifica i due incomparabili suoi componimenti. Dal poema alemanno di Federigo Guglielmo Zaccaria intorno le quattro parti del giorno, secondo alcuni stimarono, certamente che no, essendo facile ad ognuno l’accorgersi, che questo non ha con quelli la menoma simiglianza, nè quanto al disegno, nè quanto al colorito. Dell’accennatomi latino opuscolo ho io fatto diligenti ricerche in questa Biblioteca ed altrove, ma sempre invano. Sono dunque rimaso col rincrescimento di non mi poter procurare la soddisfazione di un confronto atto a rendermi vieppiù grata un’opinione già da me prediletta, tosto che fu vostra e d’un amico sì degno di Voi, quale si è l’egregio chiarissimo Cerati. [41] Ai motivi poi che, siccome benissimo avvertite, determinaron Parini d’assumere quel poetico lavoro, si può aggiugner lo spirito di osservazione alimentato in lui dalla stessa costituzion sua fisica, per cui essendogli impedito l’uso agevole delle gambe, veniva costretto a rimanersi immobile fra le compagnie, dove trovato si fosse, curioso e comodo spettatore di tutto quanto accadesse alle veglie, alla danza, al corso, ai teatri, ai ridotti, ai tavolieri. Del che assicuravami egli medesimo, allorchè nel Gennaro del mille settecento novantotto aveva il contento di visitarlo sovente in Brera e di trattenermi seco lui in giocondi colloquj, dai quali io partiva ognora istruito e pieno d’ammirazione pe’ suoi rari talenti e pel suo bel cuore. Fu in quel tempo ch’ei mi disse aver notati sul margine di un esemplare de’ suoi poemetti alcuni miglioramenti da se fattivi, lagnandosi inoltre che taluno si fosse ardito di carpirglieli indiscretamente. Dalla sua bocca medesima fummi dato ancora in tal circostanza udire alquanti tratti della Sera posseduta ora in [42] Mi|lano, coi restanti non pochi manoscritti acquistatine, dal coltissimo giureconsulto Francesco Reina. Parmi tuttora di avere innanzi agli occhi il vivissimo quadro, ove con quel suo pennello veramente originale prendeva sul princi-

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pio a delinear le notti degli antichi tempi rappresentatrici di larve e di fantasime spaventevoli alle pregiudicate immaginazioni di quei giovani Signori, e sopra tutti, com’ei si esprime, dell’adultero sospettoso pieno ognora di ansietà e di paure. L’ipotiposi del canapè, che poscia mi venne dicendo, è un tal capo d’opera, di cui l’italiana poesia può andar giustamente superba. Sembravami che quì e dappertutto spiccassero in modo particolare le doti proprie di Parini da voi maestrevolmente annunziate, e sopra l’altre quella nobile, sostenuta, urbana, variata, disinvolta foggia di verseggiare, onde si beano gli orecchi ben avvezzi, checchè in dispregio di tal libera, maestosa ed ardua guisa di poetare scrivesse già il famoso Frustator Letterario, nimico degli Sciolti implacabile, il quale nel render giustizia al Mattino, invitò lepidamente l’autore a darsi [43] l’incomodo di ridurre i suoi versi sciolti in versi rimati. Fra le cose, che mi avvenne allora di raccogliere dal nostro buon Vate, una ed un’altra ve ne partecipo, che mi andarono sopra tutte a grado, e mi rimasero a preferenza scolpite nell’animo. Affermava egli aver ricavato il principal soccorso a vestir poeticamente i suoi soggetti, posti fuor dell’uso ordinario di chi parla il linguaggio febeo, dallo studio regolare e continuo del bellissimo idioma nostro. Ciò mi ridusse alla mente l’insigne Francesco Maria Zanotti, il quale anche negli ultimi anni della sua decrepitezza non lasciava di applicarsi all’ingenua eloquenza volgare sui libri di coloro, che ne sono i depositarj ed i maestri. E da consimili saggi di cognizione profonda, e di franco maneggio dell’italiana favella prese l’Abate Parini le mosse nella carriera Letteraria. Gli opuscoli prodotti da lui nella contesa avuta col Padre Paolonofrio Branda Cherico Regolare di San Paolo, riferita minutamente da Giammaria Mazzucchelli al Volume II Parte IV pag. 2000 de’ suoi Scrittori d’Italia, e quello tra [44] essi in ispecie, che percuote il secondo dialogo sulla Lingua toscana stampato nel mille settecento sessanta dall’anzidetto religioso; questi opuscoli, o io m’inganno, sono dettati con una schiettezza, correzione e discernimento finissimo nella lingua, che tiene la via di mezzo Tra lo stil de’ moderni e il sermon prisco, donde sorge l’impasto legittimo, che si concilia ogni sorta di leggitori e sembra presentire l’immortalità. A somigliante possesso di lingua congiunto al calore di un estro fantastico ed alla squisitezza di un senso veramente Oraziano io penso che Parini dovesse il raro privilegio di nobilitare le parole sebben talora per se stesse non molto elevate, cui usò, e che gli dovesse altresì l’artifizio felicissimo d’un’inversione valevole ad imprimer loro inaspettata energia, inversione che eseguita da chicchessiasi altro men ricco di liberale fervida vena, diverrebbe fertile solo di stento e d’inezie laboriose. È poi mirabile com’egli abbia accomodato in guisa al gusto universale i pensieri e lo stile da rendersi la delizia [45] non tanto dei maestri dell’arte che delle persone di mondo e di mezzana capacità, dell’applauso di cui sappiamo che il Tasso medesimo fu studiosissimo. Ma io non posso rammentare il senso veramente Oraziano tutto proprio di Parini, senza correr coll’animo a quella sua Ode saffica alla Musa, dove più ancora, a parer mio, che nell’altre sue, rivive e trionfa lo spirito stesso del Venosino, e che principia Te il mercadante, che con ciglio asciutto Fugge i figli e la moglie ovunque il chiama

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Dura avarizia nel remoto flutto, Musa, non ama: Nè quei cui l’alma ambiziosa rode Fulgida cura onde salir più agogna, E la molto fra il dì temuta frode Torbido sogna; Nè giovane che, pari a tauro, irrompa Ove a la cieca più Venere piace; Nè donna che d’amanti osi gran pompa Spiegar procace. Sai tu, vergine dea, chi la parola Modulata da te gusta ed imita, Onde ingenuo piacer sgorga, e consola L’umana vita? Colui, cui diede il ciel placido senso E puri affetti e semplice costume, Che di se pago e dell’avito censo Più non presume; Che spesso al faticoso ozio de’ grandi E all’urbano clamor s’invola e vive, Ove spande natura influssi blandi, O in colli o in rive; E in stuol d’amici numerato e casto, Fra parco e delicato, al desco asside, E la splendida turba e il vano fasto Lieto deride; Che ai buoni, ovunque sia, dona favore, E cerca il Vero, e il Bello ama innocente, E passa l’età sua tranquilla, il core Sano e la mente . . . .

Non più; che io da soave forza rapito vi trascriverei quì per intero l’Oda immortale, mentre debbo invece richiamar di nuovo sull’autore la vostra attenzione. E ben volentieri, perchè quanto son per esporvi, onora il candore e la dignità del suo moral carattere. Parlo del motivo presente, dal quale ei protestava d’esser rimosso dal porre in ordine la Sera per divolgarla. A me dunque, che il pregava ad arrendersi al voto comune, [47] toglien|do dall’avaro scrigno quell’auree carte per donarle all’Italia bramosa, replicò risolutamente: sè aver cominciato fin dal decimo quarto giorno di Maggio dell’anno mille settecento novanta sei a riguardare qual pretta viltà, niente men turpe che l’insævire in mortuum, l’acconsentir, dopo tanto procrastinare, all’edizion d’uno scritto, ove si pungono di sarcasmo quelli singolarmente che nel gran corpo sociale formavano una classe distinta, di cui i politici cangiamenti sopraggiunti allora nel proprio paese facean veder manifesta la total decadenza. Di sì luminose prove, che palesano l’integrità, d’un’anima pura e dilicata, giova conservar la memoria nei fasti dei letterati, affine di purgarli il meglio possibile dalle tacce opposte, a cui non senza disdoro dell’eccelsa lor professione vanno essi talvolta soggetti. Permettete adesso, mio caro e valoroso amico, ch’io pur mi rivolga a voi, dell’erudite materie intendentissimo, per sapere qual portiate sentenza intorno una produzione, che è col nostro argomento intimamente connessa. Vi sarà no-

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ta la versione latina del Mattino Pariniano uscita, [48] dieci anni addietro, dai torchi di Francesco Pogliani in Milano col titolo seguente: Hetruscum poema cui titulus il Mattino latine redditum. Per la quale intrapresa, frutto di penna assai esercitata, ebbe l’insubre Poeta uguale il destino coll’Alighieri, coll’Ariosto, col Tasso. Facendo pertanto qualche osservazione sull’indole in genere di simigliante lavoro, ditemi, credete voi che abbia servito all’ottimo gusto ed all’utilità pubblica da quello insegnata, chi sudò a traslatare un componimento classico dalle belle forme native della lingua vivente, in cui fu scritto, entro le mendicate locuzioni d’un’altra, che ora è affatto spenta nel parlar comune degli uomini? Più. Credete voi che codesto latinista siasi appigliato al mezzo sicuro per conseguir l’onesto premio di sua fatica, intendo la riconoscenza de’ posteri? Chi prende oggimai diletto nel leggere i saggi, che della traduzione in esametri latini della divina Commedia di Dante effettuata da Matteo Ronto, ci presentarono gli eruditi? Il Furioso latinamente versificato dal Montacuti, ed il Goffredo in modo pari trattato da [49] Do|menico Zanni giacciono, quale che sia il loro merito, nell’obblivione. All’opera per se malagevole di voltar nella poesia del vetusto Lazio l’originale di Parini accresce ostacoli lo specifico genio della medesima. Imperocchè quivi si dipingono le costumanze, i piaceri, i trattenimenti, i vizj dell’odierno bel mondo, cose tutte assai difformi dalle costumanze, dai piaceri, dai trattenimenti, dai vizj dell’antica Roma, il cui morto linguaggio vuolsi quì costringere non pertanto a renderne con proprietà e con eleganza l’immagine equivalente. A voi tocca decidere, se alla difficoltà del tentativo risponda quivi l’esecuzione. Ove questa sia felice (poichè infine la scelta dell’oggetto, in cui impiegar l’ingegno proprio, sta nell’arbitrio d’ognuno) qualsivoglia anterior riflessione convien che taccia. E per accelerare a voi la soddisfazione di leggere, a me quella di sapere il giudicio vostro, vi metto avanti il tratto seguente della traduzione sopraccennata col suo testo a rincontro, dov’è delineato l’Eroe del Mattino, che in abito artificiosamente negletto esce pedestre di casa. [50]

Fia d’uopo ancor che da le lunghe cure T’allevj alquanto, e con pietosa mano Il teso per gran tempo arco rallenti. Signore, al ciel non è più cara cosa Di tua salute: e troppo a noi mortali È il viver de’ tuoi pari util tesoro. Tu dunque allor che placida mattina Vestita riderà d’un bel sereno, Esci pedestre, e le abbattute membra All’aura salutar snoda e rinfranca. Di nobil cuojo a te la gamba calzi Purpureo stivaletto, onde il tuo piede Non macchino giammai la polve e ’l limo, Che l’uom calpesta. A te s’avvolga intorno Leggiadra veste, che sul dorso sciolta Vada ondeggiando, e tue formose braccia Leghi in manica angusta, a cui vermiglio O cilestro velluto orni gli estremi. Del bel color che l’elitropio tigne Sottilissima benda indi ti fasci

[bramieri, pozzetti] La snella gola: e il crin . . . . ma il crin, Signore, Forma non abbia ancor da la man dotta De l’artefice suo; che troppo fora Ahi! troppo grave error lasciar tant’opra De le licenziose aure in balìa. Non senz’arte però vada negletto [51]

Est opus, ut longis paullum quoque pectora curis Ipse leves, tensumque diu pia dextra remittat Arcum. Nil coelo, mihi crede, est gratius, Heros, Quam tua certa salus, lucrum et nimis utile nobis Vita, tibi parium est mortalibus. Ergo sereno Lumine cum placidum ridebit mane coruscans. Membra salutarem solvas ut languida ad auram, Confirmesque, domo haud renuas exire pedester. Purpureo hinc habeat tibi nobilis alta cothurnus Vincla pedum ex corio, ne limo et pulvere, calcat Quem plebs, turpentur. Te circum splendida vestis Volvatur, quæ se se agitans, et libera tergo Fluctuet, angustis formosaque brachia belle Substringat manicis, quibus ornent serica limbos Textilia, aut rubeis, aut glaucis stamina villis. Pulchri, heliotropium quo tingitur, inde coloris Fascia subtilis tibi tenvia guttura velet: Crinisque . . . . at crinis nondum cati ab arte magistri Formam habeat. Nimium heu! nimium gravis error iniquo Esset opus tantum aurarum liquisse furentum Arbitrio. Sine lege tamen per colla capilli

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Sugli omeri a cader; ma, o che natura A te il nodrisca, o che da ignota fronte Il più famoso parrucchier lo tolga, E adatti al tuo capo, in sul tuo capo Ripiegato l’afferri e lo sospenda Con testugginei denti il pettin curvo, Poi che in tal guisa te medesmo ornato Con artificio negligente avrai, Esci pedestre a respirar talvolta L’aere mattutino; e ad alta canna Appoggiando la man, quasi baleno Le vie trascorri, e premi ed urta il volgo, Che s’oppone al tuo corso. In altra guisa Fora colpa l’uscir; però che andrieno Mal distinti dal vulgo i primi eroi. Ciò ti basti per or. Già l’oriolo A girtene t’affretta. Ohimè! che vago Arsenal minutassimo di cose Ciondola quindi, e ripercosso insieme Molce con soavissimo tintinno!

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le biografie Di costì che non pende? Avvi perfino Piccioli cocchi e piccioli destrieri Finti in oro così, che sembran vivi. Ma v’hai tu il meglio? ah! si, che i miei precetti Sagace prevenisti: ecco che splende Chiuso in picciol cristallo il dolce pegno [53]

Haud jactentur neglecti. Sed nutriat ipsos Aut natura, tibi, aut ignota fronte receptos Ipse tuo capiti cultor celeberrimus aptet, In capite hos pecten comprehendat scite plicatos Et testudineo suspendat dente recurvus. Sic non illepida ut te incuria, compserit artis, Mane novo purum quandoque pedester abito Aera captatum; proceræ et arundine cannæ Innixus dextram, quasi ruptus ab æthere fulgor, Curre vias, cursuque obstans preme vulgus et urge. Culpa alia exire foret, male namque popello Distincti heroes primi graderentur. Id esto Nunc satis. Horarum tibi jam denunciat index Egressum. Heu rerum quæ copia, quamque minuta Hinc nutat, dulci mulcet simul atque repulsa, Tinnitu! Quid non isthinc dependet? Ibi adsunt Curriculique equulique, ita, spirans mollius aurum Exprimat ut vivos. Melius ne at convenit? Ante Venisti ah! sollers mea tu præcecepta: repostum En fortunati jucundum pignus amoris Parva in crystallo fulget. Procul este, profani:

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Di fortunato amor. Lunge o profani, Che a voi tant’oltre penetrar non lice. E voi dell’altro secolo feroci Ed ispid’avi i vostri almi nipoti Venite oggi a mirar. Co’ sanguinosi Pugnali a lato le campestri rocche Voi godeste abitar, truci all’aspetto E per gran baffi rigidi la guancia, Consultando gli sgherri, e sol giojendo Di trattar l’arme, che d’orribil palla Givan notturne a traforar le porte Del non meno di voi rivale armato. Ma i vostri almi nipoti oggi si stanno Ad agitar fra le tranquille dita Dell’oriolo i ciondoli vezzosi; Ed opra è lor, se all’innocenza antica Torna pur anco, e bamboleggia il mondo.

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Huc vobis penetrare nefas. Vos altero in ævo Qui vixistis, avi hirsutique animoque feroces

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Vos hodie vestros visum adventate nepotes. Campestres habitare arces horrentibus armis Cinctos vos juvit, rigidos et labra retortis Usque pilis, oculisque truces circumundique turbas Consuluisse satellitias; tormentaque læto Ore atris munita globis tractasse, superbas Misso et per noctem terebrantia fulmine portas Non minus instructi, quam vos, umbonibus hostis. Ast horologii perbellula pendula tutis Interjecta vacant digitis agitare nepotes Vestri hodie, quorum est, si primus criminis expers Ordo redit mundo, parvusque hic ludit ut infans. Con queste letterarie amenità io vi lascio e mi dichiaro sinceramente. Tutto vostro ec.

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III. al padre POZZETTI l ’ avvocato BRAMIERI

A ssai mi conforta il vedere da voi sì benignamente accolta la mia lettera sulla vita e gli scritti dell’immortale Parini: perocchè di molta autorità emmi il giudizio vostro; e comecchè altri sospettar possa, ed io stesso temer lo deggia con sentimento di piacere e di riconoscenza, aver in esso gran parte la cortese amicizia, di cui mi onorate; confido nondimeno che non potrà discordare interamente quello della Repubblica letteraria. Certo s’io ebbi mai desiderio di emergere dalla nativa mia tenuità, si fu allora che [57] im|presi a tessere codesto qualunque elogio per la Necrologia del Giornal Veneto, e che a voi rivolsi, amico valorosissimo, le mie parole. Voi sarete forse il solo, mercè la modestia vostra, a non avvedervi ch’io ebbi con ciò ricorso ad una innocente industria, tentando avvolgermi nella vostra luce. Ma di ciò basti; onde, se avvenga mai che questo scritto cada sott’occhio altrui, la troppo frequente malignità non abbia a tacciarne d’un vergognoso commercio di adulazione in vece di una onorata corrispondenza d’amichevoli espansioni e di letteratura. Non cesso però di meco stesso allegrarmi, e di rendervi le grazie maggiori che da quel mio picciol lavoro tratta abbiate generosamente occasione di indirizzarmi sì erudita lettera, la quale mi pone in istato di arricchirlo di storiche notizie, e d’altre opportune illustrazioni. A rimeritarvene, se mi lice usurpare questa espressione, io vi affido confidenzialmente una risposta, che diedi, è già tempo, alla antica Signora de’ mie pensieri per iscuoterla dall’inganno, cui bevuto aveva da certi Dialoghi d’Amore, nei quali si ravvisa ben poco il linguaggio della divinità. Poi tosto [58] m’accingo a soddisfare alle graziose vostre interrogazioni, chiedendovi però gentil licenza di spaziare, ove il destro o il capriccio men venga, nel caro e vastissimo argomento. Io credo, e creder credo il vero, per dirvela colla frase di Messer Lodovico, che niuna opera di genio esser non può trasportata da una lingua all’altra senza perdita e danno grandissimo; e veggo che le più celebrate traduzioni favoriscano esse pure la mia, che pur è di molti altri, opinione. Omero e Virgilio, traslatati alla italiana favella da gran maestri, non vi pajon essi talvolta languidi e svenuti in confronto delle originali loro fattezze? Eppure della greca lingua e della latina coloro, che più sanno fra noi, certo non sanno abbastanza per tutta gustarne la forza e la bellezza, sicchè loro non venga meno gran parte del diletto, che dalla Iliade e dalla Eneide traevano Pericle e Mecenate. Di Pindaro e degli altri Lirici di quelle due nazioni non parlo, perchè se non ci è dato conoscere la vera indole, i pregi, e l’arte loro nell’idioma ad essi nativo, è assolutamente disperata cosa il formarsene una giusta idea nelle nostre [59] versioni. Nondimeno l’epico genere e il lirico non presentano al traduttore quelle difficoltà, che oppone troppo maggiori il comico ed il satirico. Se alcuna parte di Orazio può dirsi trasportata in italiano con qualche felicità, quella non è cer-

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to delle sue satire. Giovenale e Persio ebbero fortuna ancor più avversa; e la cagion precipua di questa sventura appunto consiste nella avvisata da voi differenza grandissima de’ tempi e de’ costumi. Ma se svengono agli occhi nostri, e quasi dileguansi, tradotte nel nostro linguaggio le bellezze del latino; se di questo, siccome è vero, sanno sì poco pur coloro, che si estimano saperne moltissimo; quale inganno non è l’applicarsi a trasportare in esso un’opera moderna, insigne, gustata pienamente da tutti gli uomini colti, e più ancora, un’opera tutta propria, unicamente propria de’ tempi nostri? Quale svantaggio, e per l’opera stessa, e per colui, che imprende sì grave e strana fatica! Nondimeno io non so disapprovarlo interamente; e se lo riguardo come un amator zelante della gloria di nostra nazione, io gli so grado ancora moltissimo ch’egli abbia tentato l’unico [60] mez|zo di tramandare agli stranieri le nostre ricchezze e i nostri vanti. Del resto concedetemi ch’io non aggiunga parola sul saggio, che mi offerite della version del Mattino. Io non sono (eccovi una ingenua confessione e rara, oso dirlo, benchè dovesse udirsi più di frequente in bocca di chi professa letteratura) io non sono tal Latinista, che ardir possa di entrare in siffatta discussione. Piuttosto me la prenderei con quel troppo coraggioso Verseggiatore, che si diè a compiere il Giorno, mentre ancor viveva il Parini, mentr’erano ancor vive e verdi, e durarono per ben venti anni dappoi, le care speranze di vederlo da lui compiuto. Io non so darmi pace di siffatta intraprendenza; e giudico francamente potersi a buon dritto argomentare che l’infelice continuatore tutto non sentisse il prezzo del lavoro, tutto non conoscesse il valor del Poeta, a cui osava di avvicinarsi. Quanto sia restato al suo modello miseramente inferiore, non è scolaretto dappoco, che assai chiaro nol vegga . . . . Se non che il mio dispetto si ammorza in parte, leggendo nella dedicazione da lui pur fatta alla moda queste [61] parole: “Gradisci dunque questa piccola offerta; e benchè disadorna de’ necessarj ornamenti non corrisponda la Sera al Mattino, e al Mezzogiorno, non lasciar però di rivolgere a lei cortesi i tuoi sguardi; anzi laudando la sincera volontà di chi l’offre, assicura del pari il tuo primiero gentilissimo Poeta, com’io eccitato mirabilmente dalla bellezza e dalle novità delle idee sue leggiadre, con non biasimevole audacia ne volli imitare l’esempio, mentre per altro in così giocondissima impresa Da lunge il seguo, e sue vestigia adoro. Codesta miserevole Sera fu parto, ivi stesso si dice, di giovine ingegno; e non è perciò da maravigliare, s’ell’ebbe l’audacia per madre, la inesperienza per levatrice, e se di latte poco sostanzioso nodrita provò, a rigor di espressione, che Da la culla a la tomba è un breve passo, cadendo sommersa nel più profondo obblio ben meritato, da cui non giunse a camparla neppure il vantaggio di andar [62] sovente in compagnia di que’ bellissimi e lodatissimi, ch’ella osò di arrogarsi a fratelli. Ma i Poemetti, i quali, dopo che il Mattino e il Mezzogiorno empivano l’Italia di ammirazione e diletto, si susseguirono nel venire in luce con poco intervallo, l’Uso, la Moda, e la Conversazione, sortiron eglino miglior ventura? Figli di generosa emulazione, imitazioni palesi d’un modello di bellezza, d’arte, di perfezione, dietro al quale correvano il plauso e l’entusiasmo d’ogni sorte di lettori, fatiche di Poeti accreditati e maturi, come fu effimera la vostra comparsa, come

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ora vi si ricorda appena! Così infelice destino devesi egli tutto attribuire alla insufficienza degli Scrittori, che con forze troppo disuguali presero ad imitare il Parini? Veracemente si scorge che mancava loro e la fantasia feconda, inventrice, e il colorito nobile, gagliardo, vario, espressivo di verità, e la perizia dell’arte, che si sostiene con sicurezza nel quantunque difficile assunto, e accortamente schiva di produr sazietà, concede alla mente del lettore opportuni riposi, mentre lo alletta ad un tempo e l’occupa, l’invade con ciò che [63] gli dice, con ciò che lascia a lui da pensare. Osservate che inanimati ritratti, che dipinti di triviale composizione e di languidi sbiadati colori vi presentano le Conversazioni! Il ridicolo, che risultar dovrebbe dal turpe delle moltiplici combinazioni ben atteggiate, ben rilevate, rimane snervato, fiacco, e quasi nullo così, che si può dire che il Poeta fa spuntare e poi morir subito il riso sulle labbra de’ spettatori. Nella Moda, e nell’Uso il difetto d’arte è ancor più manifesto: perocchè la ironia, la quale per assunto dovrebbe dominare e reggere il corso di codeste operette, è spesso dai loro autori perduta miseramente di vista, e peggio ancora le si prestano talvolta, e non di rado, pensieri e parole, che punto non le convengono. Oh! dov’è che il Parini l’abbia pur una sola volta dimenticata? Dov’è ch’ei le presti un’espressione, una idea disconveniente? Certo è pieno di difficoltà il fissare i confini di ciò che conviene o disconviene alla ironia, il determinare fino a qual grado ella può spingersi senza svelar troppo apertamente se stessa, fino a qual grado e non oltre le si può concedere di dare al vizio le [64] sem|bianze della virtù, di ascondere il biasimo sotto apparenza di lode; e certo è pieno di pericolo il camminare su così lubrici sentieri. Ma non è ella cosa disgustosissima, e che delude crudelmente al primo cominciar della cercata illusione, il leggere nella Moda (che è pur la copia meno infelice derivata finora da sì gran modello) immediatamente dopo una apostrofe a quella Dea, che i pregi ne esalta e la onnipossente influenza, questi versi? Nel sen d’ogni città vegeta un scelto, Nova specie d’insetti, ordine strano Di Ninfe o Ganimedi, a cui natura De la donna, e de l’uom solo concesse La sembianza esteriore, e moto, e voce, E un non so che, che all’anima somiglia; Nulla di più, fuorchè un fatale istinto Di studiar novi abbigliamenti, e nove Forme creare, o ricopiar di vesti, Di vezzi, e di maniere ognor più strane, E ridicole più, l’ambito vanto Contrastandosi a gara, a chi più sappia Leggiadramente difformar se stesso. Ah! non avrebbe il Parini dipinto codesto popolo con versi così prosaici, nè [65] con|traddetto sì presto a se medesimo con idee ed espressioni sì poco analoghe all’onor d’una Dea un istante prima esaltata, e a cui si fanno conoscere i sudditi e devoti suoi. Dell’Uso poscia, in cui codeste trasgressioni sono frequentissime, e commesse talvolta con istravaganza difficile a concepirsi; in cui altro episodio non s’incontra fuor quello della Venere saggia e della Venere falsa, la quale ultima è consigliata al presunto giovine alunno colla più turpe e sconsigliata ironia; in cui le più grossolane indecenze non acquistano quasi mai dalla cauta

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espressione il vantaggio di essere tollerate; dell’Uso io non farò che scegliere colla miglior fede uno de’ tratti più lodevoli e sottoporlo, amico prestantissimo, al vostro giudizio.

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O delizia del mondo, o libertade! Tuo vanto egli è, se all’ombra tua sicura La fede adesso conjugal riposa. Sol tua mercè de’ più ferrigni tempi Ammollir vide i barbari costumi Nostra felice età. Non più di duro Assedio or premon le tremanti spose I sospettosi rigidi mariti; Nè più le affanna d’indiscreta vecchia La vigil cura, nè d’armati sgherri La feroce custodia, e il crudo ceffo. Per te fra l’ombre de l’amica notte Imbacuccati di funeree cappe, Non più sospesi alle ferrate in alto, O pei sdruccioli tetti brancolando Osan gli amanti cimentar lor vita. Per te non più con lagrime e con doni Della discreta damigella accade L’opra interpor, nè più tentar con l’oro La quadrilustre fedeltà del servo. Al chiaro dì per le patenti porte Tu per man guidi, e su per l’ampie scale Sin ne’ più sacri penetrali adesso La casta turba de’ sicuri amanti; Frena il dover ne le contigue stanze Tue fide guardie, damigelle e servi; Nè mai per entro la segreta soglia Osano porre il temerario piede, Finchè il tintinno della tarda squilla Non li chiami a suo tempo. Ognor prudente, E giusto insieme sui diritti altrui Cede libero il campo, e qual baleno Via sparisce il marito; e lieto intanto, O preziosa libertade, il mondo Or per te vede pudicizia e pace Stabil regnar ne’ talami de’ Grandi.

[67] Qual differenza tra la copia, e il modello! La disgrazia però de’ finor discussi poemetti nasce meno ancora dalla debole mollezza dello stile, dalla incontinenza di esso, che nulla non lascia da pensare ai lettori, dall’andamento del verso poco variato e mal sostenuto, che non dalla malaccortezza de’ loro Autori, i quali non hanno saputo evitare gli immediati confronti, e con troppo arrischiato concorso sonosi dati a dipingere quelle scene medesime, che già tratteggiate avea colla massima evidenza l’animatissimo pennello dell’inimitabil Parini. Sì, lo credo io veramente inimitabile, quanto al Poema preso in tutto il suo complesso, così per la natura dell’argomento, come per l’arte finissima, ond’è

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trattato. E quì ben comprendete, amico eruditissimo, ch’io non escludo punto per impossibile la imitazione anche felice e lodevole nè d’uno o più tratti di esso, nè della avvedutissima maniera del verseggiamento, nè della vivacità e veracità del suo colorito poetico. Sebbene con queste concessioni io temo di essere soverchiamente liberale: mentre guardando ai versi, al [68] colorir dilicato, alla purità e dolcezza de’ modi e dello stile del divino Petrarca, veggo una folla di quantunque esimii scrittori, la quale ne ha dimostrato fino alla massima evidenza, che quando una maniera di poetare è portata a vera sublimità, riesce inimitabile per ciò appunto, che troppo fiacchi e deboli si rimangono gli imitatori al confronto. Nondimeno io intendo dir solo che farà sempre opera d’infelice, e poco men che vano riuscimento, chiunque imprenderà a maneggiare in versi o colla ironia o anche senza i gravi ceppi, ch’ella impone, un soggetto analogo a quello del Giorno. Colla quale opinione ben è chiaro, che se vengono ad essere scusati della somma loro inferiorità gli autori della Sera, dell’Uso, della Moda, delle Conversazioni ed altri, se pur ve n’ha, che sienosi posti sulla carriera medesima, resta però loro mai sempre la taccia del mal sano accorgimento, col quale osaron di porvisi. Abbiate la compiacenza di gettare attentamente l’occhio vostro discernitore acutissimo sopra il Mattino e il Mezzogiorno; poi ditemi per vostra fede: qual è [69] l’as|petto, qual è la attitudine, qual è la combinazione importante e degna di poesia, in cui possa trovarsi un Giovine Signore del così detto bel Mondo, che sia dal Parini dimenticata? Se grave è al vostro desiderio di dover rimanersi nel grado di presunzione, non vi costerà certo la menoma violenza il presumere che all’immortale Poeta niuna del pari non sarà sfuggita attitudine del suo Eroe, nè combinazione propria del Vespero e della Sera. Or di quali e quante, tutte eccellenti, variate e sempre opportune bellezze egli abbia vestita da capo a fondo quella parte, ch’è in poter comune, del suo lavoro, non è da farlo osservare a voi, che per entro vi spingete uno sguardo dottamente linceo, non è da farlo oggimai osservare a veruna, sia pur mezzanamente colta, persona; perocchè io la veggio per le mani di tutti carissima, vagheggiata, prezzatissima, e ascolto dagli ingegnosi giovani che la meditazione vi scopre ognora de’ pregi inosservati, dai maturi uomini, che la ventesima lettura anzichè produr sazietà, genera sempre nuovi diletti, cosicchè nella loro memoria senza che [70] sen’|avvedessero, sonosi scolpiti que’ due Canti assai prima che sia cessato il bisogno di meditarli, e il vantaggio di trarne nuovi piaceri. Ma chi può dunque sperare che in codesto campo già mietuto sì destramente dal Parini, resti pure un manipolo da raccogliere ancora? Le combinazioni, le attitudini d’un Giovine Signor di bel mondo, che a caso avanzino ancora intatte, sono ben poco rimarchevoli. Le già trattate il furono con tanta superiorità di natura e d’arte mirabilmente accoppiate, che non lasciano desiderio di cosa migliore. Non può dunque rimanere neppur la speranza di conseguire gloria verace, maneggiando un analogo argomento. Ben so che la letteraria repubblica ne presenta alcuni singolarissimi gareggiamenti, ne’ quali è indeciso, se vinca l’imitato o l’imitatore; e fra i rari esempi grande si è quello, e da ricordarsi, di Virgilio principe degli imitatori, con Omero nel descrivere la discesa di Enea all’Inferno, e lo scudo pure di questo Eroe Trojano. Ma ben poteva il Mantovano lottare col cieco in assunti ne’ quali era libera la fantasia ad inventare, ad aggiugnere, a sostituire. Che per [71] lo contrario quando si tratta di pingere costumi d’una età qualunque, la immaginazione è limitata, e non può che scegliere fra que’ costumi stessi i più convenevoli e capaci di poesia: e la variazione di codesti costumi sia pur

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ella per cangiar de’ tempi grandissima, siccome la loro base è nelle umane passioni, che sempre sono le istesse, sempre la pittura analoga farà ricorrere il pensiero all’eccellente modello; e il confronto sarà lo scoglio, a cui si frangerà come vetro la gloriuzza degli imitatori. A gareggiare, a lottar con un Genio, qual era il Parini, non vi vuol meno d’un altro Genio. Nè io ripeterò già la stolida cantilena che un Parini non torna più. La natura non è esausta: Dopo Omero nacquero Virgilio e il Tasso; ne sorgeranno de’ nuovi; ma qualunque raro Genio ci nasca ancora, prenderà ben esso ad imitare, ad emulare qualunque più gran Poeta in soggetto, dove possa la invenzione stender libere l’ali, non mai dove i fatti ne circoscrivono il volo. Or la eccellenza dell’arte usata dal Parini sforza ad osservare ancora, come [72] la ironia pur essa d’un vero Genio abbisogna per essere continuata, sostenuta, variamente e sempre con giudizio modificata, come si ammira nel Giorno. Voi vi scorgete un giocondissimo e continuo asteismo pieno veramente di urbanità: la mimesi vi presta alle labbra del giovine alunno il più fino ridicolo: il cleuasmo lo assolve piacevolmente de’ suoi torti per condannarlo con acerbità più sentita dalle anime dilicate: talvolta il diasirmo lo punge con ischerno quasi manifesto, ma gli opportuni carientismi vengon col dolce uffizio di balsamo a temperare la asprezza di quelle rare ferite: nè mai il rodente sarcasmo si affaccia a distruggere la ben armonizzata illusione del tutto. Per questo capo ancora solo un Genio può sentirsi il coraggio di gareggiare col nostro Poeta. Rammento con piacere, amico eruditissimo, che il valentuomo, di cui siete degno successore, si valse d’una ben continuata ironia a rendere in lettera non breve le debite grazie all’audace e mal saggio Annotatore della romana edizione di sua Storia dell’italiana letteratura; e riconosco in codesta ingegnosissima lettera [73] l’unico forse modello, che abbiam di tal fatta nel genere di letteraria controversia? Ma quante minori difficoltà! … Mi accuserete voi forse di portare soverchio scoraggiamento agli imitatori, togliendo loro ogni speranza da un lato, e lasciandola dall’altro tenuissima? Senza la sentita impressione di questo rimprovero io vi aggiugnerei che v’è una sorte di bello, di sublime poetico così raffinato, così tutto proprio di chi ne fu il felice inventore, che non può ricopiarsi, non imitarsi senza l’assoluto inevitabil pericolo di restar troppo al disotto, o di piombare precipitando nelle misere e assai frequentate province del gusto depravato e fallace per raffinamento; e mi darebbe anche l’animo, se troppo già non presumo, di provare che di tal sorta è il bello, il sublime del Poema Pariniano. Ma non abuserò più a lungo della vostra sofferenza: quindi mi reco tosto a soddisfarvi del pochissimo, ch’io posso aggiugnere all’assai poco già dettovi intorno al libretto intitolato Mores eruditorum. Tenendone, per iscrivere a voi, nuovamente discorso col chiarissimo Sig. Conte [74] Cerati, ho inteso che il Pisano Professore, presso cui ebbe la propizia ventura di vederlo, quel dotto si fu vostro Correligioso e celebre Grecista, il P. Antonioli, che per cagion di salute dimorava in Firenze. Non vi sarà forse inutile questo cenno, sebbene la morte pocanzi seguita di quell’insigne Letterato1 sembri dovere qualche ostacolo frapporre alla erudita vostra curiosità. Per colmo di gentilezza mi ha poi l’egregio Cavaliere di nuovo affidato il Giornale de’ suoi viaggi, donde eccovi tutto quan1 Il P. Pozzetti ha poi mandato in luce di codesto suo Chiariss. Correligioso un Elogio degno veramente della celebrità così dell’Encomiato, come dell’Encomiatore.

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to posso raccogliere oltre il già comunicatovi. Gli opuscoli in quel libro contenuti sono precisamente i seguenti: Epistola Poetæ ad amicum Epistola de Itinere in Utopiam Frammenta Zopiri Dialogus inter Burmannum et Christium Prodicia, de vera inclarescendi via, Epistola. [75] Il breve tratto, che ve ne accennai, trascritto gli è questo. Non veggo indizio per dirvi da quale degli indicati opuscolo sia ricavato. Si doctorum quis eruditissimus sit, qui fons et oceanus omnis doctrinæ habeatur, cui maxima juventutis studiosæ pars operam det, intelligere cupis, paucis adverte, docebo. Erecta fronte, et calamistrata coma per plateas volitabit; unguentis affluet; suavissimo odore, quasi totus roseus, mirtœusque, aera implebit; pileolum gustabit sub brachio; argenteo gladiolo cinctus habebit vestem sericam, versicolorem, brevissimam; obvios curvato eleganter tergo, pede dextro ad sinistram retracto, et pileolo usque ad pedes demisso, salutabit; offeret pyxidem pulvere sternutatorio plenam tanta arte, ut invitus etiam annulos in digitis fulgentes videas; singulis momentis horologium longis aureis fibulis ornatum e braccis extrahet; quædam de tranquillitate aeris, et serenitate cœli mira volabilitate dicet; ludet subinde cum canicula; producet acta publica; quid de eruptione hac militum, de illa obsidione urbis sentiat, exponet; multa denique jactatione manuum in viros doctos declamabit. Nate Dea, quæ te tam læta [76] tulerunt sæcula! Fate di berretta, Padre Bibliotecario, che questo è latino: ed ora mi nasce speranza che questa lettera acquisti presso di voi quella dignità, che prima non meritava. Ma che direte di me dopo quello, che da principio osservai in proposito di traduzioni, se ardisco presentarvi quella, che ho tentata di codesto bel pezzo? Alfine poi non è questa che una contraddizione innocente; e me felice e ben privilegiato tra l’umana razza, se non ne commetta mai di più gravi! Or mentre per una parte vi porgo argomento della mia incoerenza, abbiatevi per l’altra una riprova della dolorosa verità, che vi esposi, quando mi son ricusato dall’esaminare la latina version del Mattino.

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Qual fra i dotti dottissimo risplenda, E fontana s’estimi, anzi oceano D’ogni saver, cui dia gli studi e l’opre De’ giovinetti la più bella parte, Se intender brami, odimi alquanto; in breve Io lo t’insegnerò. Con alta fronte, E a ferro e foco inanellata chioma Egli le vie trascorrerà volando. Dolce spirante dilicati unguenti, D’odori soavissimi all’intorno Per largo tratto empierà l’aere, come Tutto rose ei si fosse e tutto mirti; Stiacciato cappellin lieve premendo Sotto l’ascella manca, e il fianco cinto D’un’argentea spadetta, avrà la veste Serica, angusta, corta, e nel colore Pari al collo di tenera colomba. Molle curvato ad eleganza il tergo, Dietro al sinistro con leggiadri moti

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Il destro piede strascinando, e il suolo Quasi toccando con la falda estrema Del dimesso cappel, quanti egli incontra Saluterà. Ne l’offerir la olente Urna ripiena del sottil polviglio, Che per le nari vellicate invia A l’inerte cerébro amica scossa, Uffizioso oprar saprà tal arte, Che tuo malgrado pur l’occhio tu ponga A la candida mano, e a le brillanti Ne le sue dita preziose anella. Ad ogni istante l’oriol di lunghe Catene e fibbie e ciondol’aurei adorno Tratto da calzonetti lo vedrai Ad ogni istante interrogar. De l’aria [78] Dolcemente tranquilla, e del sereno O nubiloso cielo (alto argomento!) Più cose ti dirà con ammiranda Revolubilità di scilinguagnolo; Poi colla vergin sua cuccia scherzando Metterà in campo le gazzette, e quale Di codesta irruzion d’armi, o di quello Tentato assedio ch’ei giudizio porti, Pur liberale ten sarà: per fine Con agitar di mani alto, e di voce Tu contro i dotti declamar l’udrai. Oh progenie di Numi! oh lieto e grande Il secol, che di te fè dono al mondo! Oh! la penna del Parini quanto miglior partito ne avrebbe essa tratto! Se voi, amico indulgentissimo, giudicaste questo mio lavoro su tale confronto, il mio destino sarebbe troppo vergognoso e funesto. Caro fondamento di non temerlo io lo derivo dall’urbanità soavissima, con cui la vostra lettera mi corregge di parecchie omissioni. Io lo sento e con sì viva gratitudine, che supera la forza delle espressioni, ma da un povero attender non si deve che povertà. Quand’io dettava [79] sul|la vita e gli scritti del Parini quelle imperfette mie linee, che voi avete sì generosamente onorate, io me ne stava pur allora beatamente in villa, unica delizia del viver mio, nè mi passò per la mente neppure che la grand’opera, ahi troppo tosto intermessa! de’ scrittori d’Italia del Mazzucchelli avrebbe potuto fornirmi la piena istoria della controversia fra esso ed il P. Branda agitata. Ed ora che voi men fate graziosamente accorto, io son pure in villa, ove del mancarmi l’agio di riparare a quella mia sbadataggine non so quasi dolermi, e pel piacere, che trovo in questa amenissima solitudine, e per la fiducia mia molta nella gentilezza vostra, dalla quale aspetto che a tanti altri mi aggiunga il favore di quelle notizie. Ora pertanto ch’io sono sul confessarvi lo mio peccato, siavi pur noto quest’altro. Io già vi dissi che il Parini, quando cessò di vivere, varcato avea l’anno settantesimo della età sua. La fede, ch’io riponea giustamente nelle autorevoli e pregiate relazioni da un illustre cortesissimo amico ottenute, mi fece obbliare d’aver più volte osservato, come potevasi [80] con maggiore esattezza fissare

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questo punto cronologico. Ohimè! la vita del nostro Poeta fu ben più breve. La sua bellissima Ode intitolala il Pericolo, per asserzione del giudizioso autor delle Note apposte alla prima edizion di Milano, fu scritta nell’anno 1787, nel quale appunto la ragguardevol veneta bellezza, cui è diretta, visitò la più magnifica tra le città lombarde. Ivi però dice il Parini: Ecco me di repente, Me stesso, per l’undecimo Lustro di già scendente, Sentii vicino a porgere Il piè servo ad Amor. Però chi nel 1787 contava tutt’al più cinquantaquattro anni, non poteva nel 1799 aver varcato che appena il sessantesimo sesto.1 [81] Se alcuno osservi con attenta meditazione i componimenti del Parini, gli verrà fatto agevolmente di ritrovare il tempo a un dipresso, in cui furon dettati. L’arte a lui famigliare, e sì nota a pochi di alludere alle vicende politiche e guerresche de’ tempi suoi, somministra questo vantaggio alla curiosità nel mentre che aggiugne a’ suoi versi un grado notabile d’interesse e d’importanza: giacchè gli uomini odono assai volentieri ricordarsi ciò che ha occupato anche per semplice diletto la loro mente e il lor cuore. Vedete nella Ode sulla Vita Rustica indicate le funeste vittorie riportate sui Sassoni nel 1768 dal gran Re di Prussia.

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Inni dal petto supplice Alzerò spesso a i cieli, Sì che lontan si volgano I turbini crudeli, E da noi lunge avvampi L’aspro sdegno guerrier, Nè ci calpesti i campi L’inimico destrier. E, perchè ai Numi il fulmine Di man più facil cada, Pingerò lor la misera Sassonica contrada, Che vide arse sue spiche In un momento sol, E gir mille fatiche Col tetro fumo a vol.

La Ode sulla Recita de’ versi non fu ella composta all’epoca delle ostilità seguite fra gli Olandesi e l’Imperadore per la navigazione della Schelda? V’ha chi al negato Scaldi Con gli abeti di Cesare veleggia, E la vast’onda, e i saldi Muri sprezzati, già nel cor saccheggia 1 È forza dire che l’illustre Annotatore dalla prima edizion milanese delle Odi del Parini prendesse abbaglio. L’epoca precisa della nascita del Poeta s’imparerà dal P. Pozzetti nella Lettera IX.

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De’ Batavi Mercanti Le molte di tesoro arche pesanti. Così schernendo quell’alto e vario tumulto di voci sollevate dai convitati, sa il Parini attribuire a questi il più proprio alla giornata argomento delle ciance lor clamorose. E la Ode sulla Gratitudine chi non intende a qual tempo fu scritta? È superfluo il rammentare che celebra le lodi del Cardinal Durini. [83]

. . . . . onorato ancor sul mobil etra Va del suo nome il suono, Dove il chiaro Polono Dell’arbitro vicino al fren s’arretra; Dove il regal Parigi Novi a se fati oggi prepara, e dove L’ombra pur anco del gran Tosco move, Che gli antiqui vestigi Del saper discoperse, e feo la chiusa Valle sonar di cori nobil Musa.

Che vero e vivo ritratto del Petrarca, sebbene in così rapidi e scarsi tocchi disegnato, Ristauratore delle scienze fra di noi giacenti nell’obblio, e sommo Poeta! Quello che si trova in codesta Ode medesima, di colui, Che la patria onorò, trattando l’arme E le tibie piagnenti, E de le regie dal destin converse Sorti e de l’arte inclito esempio offerse, non ci mostra esso a prima giunta Sofocle? Giacchè de’ Poeti Greci, de’ quali a noi sieno giunte le opere, niuno ha riuniti insieme i caratteri di valoroso guerriero e di tragico Poeta. Questa maestria nel [84] ri|trarre riesce ancor più grata, quando s’impiega in soggetti a noi vicini e notissimi. Nella Recita de’ versi non ravvisate voi tosto i due seguenti, assai dissimili, personaggi? O gran silenzio intorno A se vanti compor Fauno procace, Se del pudore a scorno Annunzia carme, onde ai profani piace, Da la cui lubric’arte Saggia Matrona vergognando parte. Ah troppo è vero che non si poteva abusar più miseramente de’ migliori doni della natura e dell’arte a danno de’ costumi di quello che ha fatto l’Autore delle applauditissime Novelle in ottavarima, e dello or sublime, or bassissimo Poema Tartaro! Ben de’ numeri miei Giudice chiedo il buon cantor, che destro Volse a pungere i rei Di Tullio i casi; ed or, novo maestro A far migliori i tempi, Gli scherzi usa del frigio e i propri esempi,

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[85] Chi è, che non conosca il Cicerone e le Favole Esopiane del chiariss. Passeroni?1 E Voltaire nel Mattino non è egli dipinto con tutti i più convenienti colori? O della Francia Proteo moltiforme Voltèr troppo biasmato, e troppo a torto Lodato ancor, che sai con novi modi Imbandir ne’ tuoi scritti eterno cibo Ai semplici palati, e se’ maestro Di coloro, che mostran di sapere ec. Due tocchi, due tocchi soli, ed eccovi nel Mezzogiorno effigiato Gio. Giacomo Rousseau, il nuovo Diogene de l’auro spregiatore, E de la opinione de’ mortali. E il Conte Alfieri, le sue Tragedie, la sua maniera di condurle, di verseggiarle, [86] come sono mirabilmente coniate di propria impronta e colla debita lode nel Dono, e nel Sonetto, di cui è arricchita la nota corrispondente! Note piene d’affanni Incise col terribile Odiator de’ tiranni Pugnale, onde Melpomene Lui fra gli Itali spirti unico armò. Perchè de l’estro ai generosi passi Fan ceppo i carmi? e dove il pensier tuona, Non risponde la voce amica e franca? Osa, contendi, e di tua man vedrassi Cinger l’Italia omai quella corona, Che al suo crin glorioso unica manca. Ma dove, dove mi son io lasciato trasportare? Freni chi può l’entusiasmo nell’ammirare i pregi moltiplici del Parini. A frenarmi io non ho altro modo fuor quello di deporre la penna. Però senza più mi ripeto con tutto l’animo, ec. Parma dalle delizie di Carona il primo di Giugno 1801. 1 L’Editore anonimo della Scelta di Favole impressa in Bassano avrebbe dovuto usare maggior rispetto al Chiariss. Poeta quì esaltato sì giustamente dal Parini. I saggi però, e gl’intelligenti da quella scelta medesima trarranno argomento di non prezzar gran fatto i giudizj dell’Editore.

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IV. all ’ AVV. BRAMIERI POMPILIO POZZETTI Modena 9. Giugno 1801.

G iacchè le gratissime vostre Lettere m’invitano a scrivere di bel nuovo sopra il Cantor del Mattino e del Mezzogiorno, io non posso, nè voglio tacervi un pensiere, che m’è ito per l’animo, nel riflettere a ciò che voi saggiamente avvertiste circa i fonti primigenj, d’onde forse ha attinto il Parini l’arte di pungere altrui coll’arme finissima dell’ironia. E chi sa, vado fra me dicendo, che non debba tra questi annoverarsi il poema satirico di Tito Petronio Arbitro? A buon conto, quest’è uno dei due famosi Autori, ch’ei reputò degni d’ingombrar le tasche e la [88] reminiscenza del suo giovin Signore affin di riempierne poi sul finir della tavola, così alla spicciolata, le orecchie del convitato Poeta adulatore. Il Parini assiduo nella lettura de’ più rinomati scrittori, e pieno la mente della migliore sostanza loro disponeva a talento delle immense ricchezze, che trovansi per entro ai medesimi, e gli era dato di coglier quivi il germe dei concetti, cui poscia gli fosse piaciuto estendere, avvivare, abbellire, decorare a posta sua. E quando io affermo con voi che Parini fu imitatore, già non voglio intender che ei lo fosse di quella guisa fredda, pedantesca, servile che si strascina a gran fatica sull’orme altrui, ben poco dissimile dal plagio vituperevole, ma di quella imitazion generosa e sublime, propria degli ingegni uguali al suo, atti ad impreziosire in certo modo tutto ciò, a cui si avvicinino, a signoreggiare, a vincere, ad emulare, se il vogliono, qualunque modello; che vuol dire, a produrre con diverse maniere in altrui una soddisfazione superiore a quella, che risvegliaronvi gli scrittori emulati. Mal dunque si apporrebbe chi cercasse uniformità perfetta fra l’antico e fra il [89] mo|derno satirico. Oltre i motivi ad escluderla or ora accennati, oltre la differenza che avvi nel disegno dell’uno, ed in quello dell’altro, oltre la disparità notabile nel genere di ciascheduno, consistente, quanto sia alla menippea d’Arbitro, in una prosa ruvida talora ed incolta, mista a quando a quando con versi di varj metri; era l’Abate Parini necessitato, e chi nol vede? a batter diverso cammino, attesa la natura de’ costumi presi da lui a dipingere, diversi affatto da quelli che venivan derisi da Petronio, o da qualunque altro sotto cotal nome si nascondesse. Costumi io dico, fra se disparatissimi, sia che l’età dell’autore della satira latina, e de’ soggetti quivi messi in beffe, vogliasi con alcuni stabilire ai tempi di Nerone, sia che ne aggradi, e meglio differirla al terzo secolo dell’era volgare. Soprattutto poi essenziale si è il divario costituitovi dalla difformità delle cose e dei colori adoperati ad esprimerle. Il quadro dello Scrittore latino è un composto per lo più di viltà e di brutture; quello dell’italiano palesa la dilicatezza, la circospezione, le modeste grazie, che attesero a sceglierne [90] le immagini e a nobilitarne le tinte e lo stile. Per lo che saravvi forse chi rifiuti l’eccezione appostagli da un insigne letterato, con dire che nei poemetti di Parini l’ironia portata tropp’oltre sembra alle volte che possa alquanto pregiudicare alla buona moralità.

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Ma voi, amico pregiatissimo, siete, me ne accorgo, oramai impaziente di vedere istituito per me qualche confronto, il quale avvalori la mia congettura con alcuna di quelle prove di approssimazione, che sole, conforme notaste ottimamente, si possono sperare in simili materie; ed io senza più mi fo incontro a tale vostro desiderio. L’edizione di Petronio Arbitro, di cui valgomi, è la magnifica d’Amsterdam del mille settecento quaranta tre, promossa e di copiosi comenti arricchita da Pietro Burmanno. Il Satirico latino nella cena, che descrisse, introduce, in aria di scherno, Trimalcione ridicolosamente abbigliato ed avente in minimo digito sinistræ manus (pag. 172.) annulum grandem subauratum; extremo vero articulo digiti sequentis minorem, ut mihi videbatur, totum aureum, sed plane ferreis veluti stellis [91] fer|ruminatum. Et, ne has tantum ostenderet divitias, dextrum nudavit lacertum, armilla aurea cultum et eboreo circulo lamina splendente connexum. E Parini nel Mezzogiorno: Ma se alla Dama dispensar non piace Le vivande, o non giova, allor tu stesso Il bel lavoro imprendi. Agli occhi altrui Più brillerà così l’enorme gemma, Dolc’esca agli usurai, che quella osaro Alle promesse di signor preporre Villanamente; ed osservati fieno I manichetti, la più nobil opra Che tessesse giammai Anglica Aracne. Essendo recato al Trimalcione di Petronio un bicchiere sopra un piatto Corintio, dal vicino pedante Agamemnone attentamente considerato, lo stesso Trimalcione esclama tutto lieto: Solus sum (pag. 230.) qui vera Corinthea habeam … In argento plane studiosus sum (pag. 336.) Habeo scyphos urnales plus minus: quemadmodum Cassandra occidit filios suos, et pueri mortui jacent sicuti vere putes. Habeo capidem, quam reliquit Patroclo Prometheus, ubi [92] Dae|dalus Niobem in equum Trojanum includit. Nam Hermerotis pugnas et Petronatis in poculis habeo: omnia ponderosa: meum enim intelligere nulla pecunia vendo. Un simile trasporto di predilezione inverso le cose forestiere appare nell’Eroe Pariniano: Quanto di nuovo, E mostruoso più sa tesser spola, O bulino intagliar Francese ed Anglo A lui primo concede. Oh lui beato, Che primo può di non più viste forme Tabacchiera mostrar! l’etica invidia I Grandi eguali a lui lacera e mangia; Ed ei pago di se, superbamente Crudo fa loro balenar su gli occhi L’ultima gloria, onde Parigi ornollo… E prosegue per bocca di grave Convitato: Oh depravati ingegni Degli artefici nostri! Invan si spera Da l’inerte lor man lavoro industre; Felice invenzion d’uom nobile degna:

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Chi sa intrecciar, chi sa pulir fermaglio A nobile calzar? chi tesser drappo Soffribil tanto che d’ornar presuma Le membra di signor, che un lustro a pena Di feudo conti? In van s’adopra e stanca Chi il genio lor bituminoso e crasso Osa destar. Di là dall’alpi è forza Ricercar l’eleganza; e chi giammai Fuor che il Genio di Francia osato avrebbe Su i menomi lavori i grechi ornati Recar felicemente? Andò romito Il Bongusto finora spaziando Su le auguste cornici, e su gli eccelsi Timpani de le moli al Nume sacre E agli uomini scettrati; oggi ne scende Vago alfin di condurre i gravi fregi Infra le man di cavalieri e dame: Tosto forse il vedrem trascinar anco Su molli veli e nuziali doni Le greche travi; e docile trastullo Fien de la Moda le colonne, e gli archi Ove sedeano i secoli canuti. Commercio alto gridar, gridar commercio All’altro lato de la mensa or odi Con fanatica voce . . . . .

In quella guisa che Eucolpio, uno de’ commensali di Trimalcione, narra presso Arbitro che all’udire gli sfarfalloni detti a piena bocca dal convitante in punti [94] d’astronomia: Sophos, grida (pag. 240), universi clamamus, et sublatis manibus ad camaram juramus Hipparcum Aratumque comparandos illi homines non fuisse. Affettator di erudizione e di sapere si manifesta in più d’un luogo l’alunno di Parini, per cui questi (l. c.) dileggiandolo, prorompe nelle seguenti espressioni di meraviglia:

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Cotanto adunque di sapere è dato A nobil mente? Oh letto! oh specchio! oh mensa! Oh corso! oh scena! oh feudi! oh sangue! oh avi! Che per voi non s’apprende? Or tu, Signore, Col volo ardito del felice ingegno T’ergi sopra d’ogn’altro. Il campo è questo Ove splender più déi: nulla scienza Sia quant’esser si vuole, arcana e grande, Ti spaventi giammai. Se cosa udisti, O leggesti al mattino, onde tu possa Gloria sperar; qual cacciator, che segue Circuendo la fera, e sì la guida E volge di lontan che a poco a poco S’avvicina a le insidie e dentro piomba, Tal tu il sermone altrui volgi sagace, Finchè là cada, ove spiegar ti giovi

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le biografie Il tuo novo tesor. Se nova forma Del parlare apprendesti, allor ti piaccia Materia espor, che favellando ammetta La nova gemma; e poi che il punto hai colto, Ratto la scopri, e sfolgorando abbaglia. Qual altra è mente, che superba andasse Di squisita eloquenza ai gran convivj . . . . . Se alcun di Zoroastro, e d’Archimede Discepol sederà teco a la mensa, A lui ti volgi, seco lui ragiona; Suo linguaggio ne apprendi, e quello poi, Quas’innato a te fosse, alto ripeti ec.

E poco dopo Ma il mio signor, com’aquila sublime, Dietro i Sofi novelli il volo spieghi. Perchè più generoso il volo sia, Voli senz’ale ancor, nè degni ’l tergo Affaticar con penne. Applauda intanto Tutta la mensa al tuo poggiare ardito. Te con lo sguardo e con l’orecchio beva La Dama da le tue labbra rapita: Con cenno approvator vezzosa il capo Pieghi sovente, e il calcolo e la massa E l’inversa ragion sonino accora Su la bocca amorosa . . . . . [96] Del pari a Trimalcione fe’ dire Petronio: Oportet etiam inter (pag. 232) cœnandum philologiam nosse … Ego autem (pag. 323) si caussas non ago in divisione tamen litteras didici, et ne me putes studia fastiditum tres bibliothecas habeo, unam Græcam, alteram Latinam. Dic ergo, si me amas, peristasin declamationis tuæ. Quum dixisset Agamemnon, pauper et dives inimici erant, ait Trimalchio: quid est pauper? Urbane, inquit, Agamemnon, et nescio quam controversiam exposuit. Statim Trimalchio: Hoc, inquit, si factum est controversia non est, si factum non est, nihil est. Hæc aliaque cum effusissimis prosequeremur laudationibus; rogo, inquit, Agamemnon mihi carissime, nunquid duodecim ærumnas Herculis tenes, aut de Ulixe fabulam, quemadmodum illi Cyclops pollicem condulo extorsit. Solebam hæc ego puer aput (così) Homerum legere. Alla mensa imbandita nel Poema di Parini, il signor che vi siede, ama talvolta recitar versi a memoria, e parlar di famigerati Filosofi. [97]

A lui tu dunque (al Poeta convitato) Non isdegna, o signor, volger talvolta Tu’ amabil voce; a lui declama i versi Del dilicato Cortigian d’Augusto, O di quel che tra Venere e Lieo Pinse Trimalcion. La Moda impone Ch’Arbitro, o Flacco a un bello spirto ingombri Spesso le tasche. Il vostro amico Vate T’udrà maravigliando, il sermon prisco

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Or sciogliere, or frenar qual più ti piace: E per la sua faretra e per li cento Destrier focosi, che in Arcadia pasce Ti giurerà che di Donato al paro Il difficil sermone intendi e gusti. Codesto ancor di rammentar fia tempo I novi Sofi che la Gallia, e l’Alpe Esecrando persegue, e dir qual arse De’ volumi infelici, e andò macchiato D’infame nota, e quale asilo appresti Filosofia al morbido Aristippo Del secol nostro, e qual ne appresti al nuovo Diogene dell’auro spregiatore E della opinione de’ mortali ec. Similmente al banchetto su cui scherza Petronio, Trimalcione, racconta Eucolpio (pag. 349), hæc recitavit: [98]

Quod non exspectes, ex transverso fit Et super nos fortuna negotia curat, Quare da nobis vina Falerna puer.

Ab hoc epigrammate, prosegue a narrare, cœpit poetarum esse mentio, diuque summa carminis penes Morsum Trachem memorata est, donec Trimalchio: Rogo, inquit, magister, quid putas inter Ciceronem et Publium interesse? Ego alterum puto disertiorem fuisse, altero (cioè Publio Siro commediante) honestiorem. Quid ni his melius dici potest? Indi alla pag. 395. Ipse Trimalchio in pulvino consedit, et quum Homeristæ græcis versibus colloquerentur, ut insolenter solent, ille canora voce legebat librum. Mox silentio facto, scitis, inquit, quam fabulam agant? Diomedes et Ganymedes duo fratres fuerunt. Horum soror erat Helena. Agamemnon ilam rapuit, et Dianæ cerva subjecit. Ita nunc Homerus dicit, quemadmodum inter se pugnent Trojani et Tarentini. Vicit scilicet et Efigeniam filiam suam Achilli dedit uxorem: ob eam rem Aiax insanit et statim argumentum explicabit. Hæc ut dixit Trimalchio clamorem, Homeristæ sustulerunt etc. [99] Un vezzo graziosissimo del nostro Parini si è, infra gli altri, quello di rammentare le vecchie usanze per ricavarne, mediante il giudizioso parallelo1 colle moderne, argomento di piacevol puntura. Per atto d’esempio, nel poemetto del Mezzogiorno finora allegato: . . . . . Oh! come i varj ingegni La libertà del genial Convito Desta ed infiamma! Ivi il gentil Motteggio Maliziosetto svolazzando intorno, Reca sull’ali fuggitive ed agita Ora i raccolti da la fama errori De le belle lontane, ora d’amante, O di marito i semplici costumi: E gode di mirare il queto sposo Rider primiero, e di crucciar con lievi 1 [Nel testo paralello]

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Minacce in cor de la sua fida sposa I timidi segreti. Ivi abbracciata Co’ festivi racconti intorno gira L’elegante Licenza: or nuda appare Come le grazie: or con leggiadro velo Solletica vie meglio, e s’affatica Di richiamar de le matrone al volto Quella rosa gentil, che fu già un tempo Onor di belle donne, all’Amor cara E cara all’onestade; ora ne’ campi Cresce solinga e tra i selvaggi scherzi Alle rozze villane il viso adorna.

Così nella satira latina, di cui vi parlo: antea stolatæ ibant, si dice, nudis pedibus in clivum, passis capillls, mentibus puris et Jovem aquam exorabant . . . . . itaque Dii pedes lanatos habent, quia nos religiosi non sumus, agri jacent (pag. 285.) E per non intrattenervi di più, mio carissimo ed ornatissimo Bramieri, quel leggiadro episodio là presso il Parini, della cagnuoletta calpestata dal servo impertinente e subito vendicata coll’irrevocabile commiato del medesimo:

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. . . . Or le (alla Dama) sovviene il giorno, Ahi fiero giorno! allor che la sua bella Vergine cuccia de le grazie alunna Giovenilmente vezzeggiando, il piede Villan del servo con l’eburneo dente Segnò di lieve nota; ed egli audace Con sacrilego piè lanciolla; e quella Tre volte rotolò, tre volte scosse Gli scompigliati peli, e da le molli Nari soffiò la polvere rodente. Indi i gemiti alzando: aita, aita Parea dicesse; e da le aurate volte A lei l’impietosita Eco rispose, E dagli infimi chiostri i mesti servi Asceser tutti, e dalle somme stanze Le damigelle pallide tremanti Precipitaro. Accorse ognuno: il volto Fu spruzzato d’essenze a la tua Dama; Ella rinvenne alfin: l’ira, il dolore L’agitavano ancor: fulminei sguardi Gettò sul servo, e con languida voce Chiamò tre volte la sua cuccia, e questa Al sen le corse; in suo tenor vendetta Chieder sembrolle, e tu vendetta avesti Vergine caccia de le grazie alunna: L’empio servo tremò; con gli occhi al suolo Udì la sua condanna. A lui non valse Merito quadrilustre, a lui non valse Zelo d’arcani ufficj: invan per lui Fu pregato e promesso; ei nudo andonne

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Dell’assisa spogliato, ond’era un giorno Venerabile al vulgo. Invan novello Signor sperò; che le pietose dame Inorridiro, e del misfatto atroce Odiar l’autore. Il misero si giacque Con la squallida prole e con la nuda Consorte a lato su la via spargendo Al passeggiere inutile lamento; E tu, vergine cuccia, idol placato Da le vittime umane, isti superba.

Siffatto galantissimo episodio ha qualche rassomiglianza con quell’avvenimento della cena di Trimalcione esposto in Petronio a questo modo: Cum maxime hæc dicente Gajo (pag. 346) puer Trimalchionis delapsus est. Conclamavit familia, nec minus convivæ non propter hominem tam putidum, cujus etiam cervices fractas libenter vidissent, sed propter malum exitum cœnæ, ne necesse haberent alienum mortuum plorare. Ipse Trimalchio cum graviter ingemuisset, superque brachium tanquam læsum incubuisset, concurrere Medici et inter primos Fortunata crinibus passis cum schypho, miseramque se atque infelicem proclamavit. Nam puer quidem qui ceciderat circumibat jamdudum pedes nostros et missionem rogabat etc . . . . . Tanto è vero che i Poeti di prim’ordine riuscirono ad esser tali perchè indefessi nello studio e nella profonda lettura, nutrice dell’ingegno, e raffinatrice delle naturali disposizioni al sapere. E se foste [103] pur vago di riandare con agio gli Autori, mercè i quali probabilmente nacque in Parini l’idea di elegger l’ironico motteggio ad istromento principal della satira, avreste, io penso, di che pascer l’erudita vostra curiosità, svolgendo, oltre al Riccio rapito di Pope da voi additato, le Saccenti di Moliere, la Metromania di Piron, la Vita dell’insulso pedante Scriblero, l’operetta di Swifft sull’arte di sprofondarsi in poesia, ed altrettali produzioni, che ad un vostro pari è superfluo rammemorare. Sono ec.

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V.

all ’ AVV. BRAMIERI POMPILIO POZZETTI Modena 20. Giugno 1801.

O ra per servire agli incitamenti vostri, amico stimatissimo, riprendo fra mano il tomo secondo, parte IV. degli Scrittori d’Italia di Giammaria Mazzucchelli, e ne traggo le seguenti notizie sulla contesa dell’Abate Giuseppe Parini col P. D. Paolo Onofrio Branda Milanese, Barnabita. Insegnava questi la Rettorica nel Ginnasio di S. Alessandro in Milano, quando nell’Agosto del mille settecento cinquantanove gli venne talento di comporre un dialogo intorno la lingua toscana cui diede [105] a recitare ad alcuni tra suoi discepoli. Avendolo poco di poi mandato in luce col mezzo delle stampe, i concittadini di lui vi notarono cose tali, sì contro i dialetti lombardi e massime il milanese, sì contro di coloro ai quali piace usarlo talvolta in qualche scrittura, sì finalmente contro la propria patria comparata alla Toscana, che non poterono ritenersi dal muoverne gravissime querele. A porre in salvo alquante proposizioni biasimate in quel dialogo, l’Autore appigliossi al partito di stenderne un altro che fu pubblicato in Milano nel mille settecento sessanta. Il nuovo scritto ben lungi dallo spegnere la scintille accese dal primo, suscitò anzi uno strepitoso incendio di guerra letteraria. Nel numero di quelli che uscirono in campo a sostener l’onor patrio vilipeso, come credevasi, dal Padre Branda, segnalossi l’Abate Parini, che immantinente gli oppose un libretto impresso in Milano nell’anno or mentovato. Per ischivar la noja di segnarvi ad una ad una le date tipografiche delle produzioni fioccate da ambedue le parti in simile controversia, dirò che le medesime comparvero tutte dentro lo spazio di sei mesi, cioè dal [106] Mar|zo al Settembre dell’anno mille settecento sessanta coi torchi per lo più di Milano. Tornando subito all’opuscolo di Parini, quello stesso di cui vi feci motto, nella mia prima lettera, soggiungo che il Dottore Giovanni Lami nelle sue Novelle letterarie, Tomo XXI. col. 360., aveva commendati assai i dialoghi del P. Branda, e nulla di meno, nel riferire indi a poco il lavoro dell’avversario, ebbe ad esprimersi in questi termini per lui onorevoli. “Il sig. Abate Parini in questa semplice e modesta lettera accusa il P. Branda che abbia stampate delle proposizioni svantaggiose contro Milano, e contro i Milanesi in un suo dialogo, che ha il titolo della Lingua Toscana. Lo stesso sig. Abate vuole poi che il medesimo Padre non si sia giustificato e difeso in un secondo dialogo, che porta lo stesso titolo, de’ quali dialoghi parlai sopra a col. 360. Si sforza poi di dimostrare con molta modestia e rispetto che lo stesso P. Branda non potrà mai difendersi di avere sotto il pretesto della Lingua Toscana parlato male del terreno, dell’aria, de’ contadini, de’ servi, delle persone civili, delle donne, delle [107] fabbri|che, della lingua, e degli studj Milanesi. Concede che la Lingua Toscana è superiore di gran lunga al dialetto Milanese, ed asserisce che quella, e non questo si deve insegnare nelle scuole, come quella che è la più bella e la più

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universale, com’è cosa chiara da se, ma si lagna che il dialetto Milanese sia tanto strapazzato dal detto Padre, il quale è Milanese ancor esso, benchè questo è un lamento che lo potrebbe fare ogni altra Provincia d’Italia, fuori della Toscana. Ei si maraviglia poi che il medesimo P. Branda, come Maestro di Rettorica, scriva in lingua Toscana con varj difetti, e con affettazione nello stesso tempo, nel quale pretende d’insegnare a ben parlare ed a fuggire l’affettazione stessa; comecchè, caso che ciò fosse, saria perdonabile a persona non Toscana.” Il P. Branda non curando altre censure a lui fatte per ciò, venne senza indugio al riparo di quest’una colla sua Risposta all’Abate Giuseppe Parini Milanese di Bosisio. Ad impugnarla produsse questi bentosto un Avvertimento ec. da cui quegli cercò di schermirsi coll’aggiungere all’anzidetta risposta una [108] Poscritta seguita dalla Lettera d’uno scolaro del R. P. Branda in difesa del medesimo. Imperocchè il Branda non ommise di chiamare in proprio soccorso le penne altresì degli amici: in fatti le due lettere all’Ab. Giuseppe Parini sopra la sua lettera scritta contro l’Autore dei due dialoghi si disser opera del Sacerdote Elia Buzzi. Nè per ciò dal canto suo il Parini si rimase in silenzio, e mandò fuori poco appresso la Lettera in proposito d’un’altra scritta contro di lui dal P. D. Paolo Onofrio Branda. Cresceva intanto il fervor della mischia, quando l’Abate Parini, a rendersi ognora più formidabile e poderoso, strinse lega con altro Antagonista del Padre Branda, cioè con Carlantonio Tanzi, ed unito seco lui, investillo, mediante uno scritto che incomincia: Riverenza. Non può che recare sorpresa ec. A rintuzzare i colpi dei due confederati accorse il Branda coll’ajuto de’ suoi partigiani, e vidersi andare attorno impresse: I. La Risposta alla Lettera stampata che incomincia: Non può che recare sorpresa. II. La Lettera del sig. N.N. al Prete Giuseppe Parini. III. Al sig. Carlantanio Tanzi Lettera di un vero suo amico, nella quale prendesi in considerazione la [109] nuova Antibrandana da lui fatta stampare in Lugano, e divolgata in Milano. Tale e tanta si fu l’acerbità di queste due lettere, ed in ispecie dell’ultima attribuita al celebre P. Grandi Camaldolese, che d’ordine delle podestà civili ne furono ritirate le copie dalla pubblica vendita. E sarebbe appena credibile, ove gli effetti dell’iracondia letteraria non fosser già noti, che in una questione poco più che pretta gramaticale, la licenza dei combattenti fosse proceduta a segno d’esservi mestieri che il tribunale, chiamato del S. Uffizio, vietasse la promulgazione di alquante loro scritture, tra le quali però mi compiaccio dichiarare che niuna ve n’ebbe mai tra le composte da Giuseppe Parini. Discordarono i giudizj degli eruditi intorno una disputa, in cui mi son limitato ad accennar le proposte dello stesso, e le risposte a lui date, onde non entrare in un campo, che ben sessanta sei operette contiene uscite pro e contro, quali in italiano, quali in latino, quali in milanese linguaggio, quali in prosa, quali in verso, quali manoscritte, quali (e per lo più) in istampa. Nel quarto volume delle Nuove Memorie per servire alla Storia [110] letteraria se ne legge un ragguaglio vantaggioso al P. Branda; all’incontro il Giornale di Berna che s’intitola Excerptum totius Italicæ nec non Helveticæ Litteraturæ pro anno MDCCXL. Tomo IV. pag. 243., si diffonde a lodarne i contradditori, e l’Abate Parini distintamente, paragonato il Branda al litigioso Empedocle, le cui inimicizie e lunghi sdegni passarono, come sapete, appo i Greci in proverbio. Nella antecedente mia del 9 vi sarò forse comparso prolisso in addurre stesamente i lunghi passi del nostro Vate, che provano, com’io stimo, aver egli imitato in qualche modo Petronio Arbitro. Ma ciò fec’io a bello studio, vale a dire perchè si renda per voi ragione, ove pur la meriti, ad un dubbio sortomi da gran

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tempo nell’animo intorno la realità di un difetto che nella versificazione di lui notò il dottissimo e giustamente celebre storico dell’Origine, Progressi e Stato Attuale d’ogni Letteratura. Nello stesso luogo della sua opera, che allor vi accennai, riportandone alcune parole, s’incontrano pur queste sui componimenti di Giuseppe Parini: “pochi versi trascurati e cascanti non bene si stanno in un poemetto [111] stu|diato e nobile; ma nondimeno il Mattino ed il Mezzogiorno ci mostrano un gran Poeta il Parini, e debbono annoverarsi fra i migliori pezzi della poesia de’ nostri dì.” In verità però ch’io non saprei a quale sebben piccolo tratto di poemetti di lui fosse lecito applicare a buon diritto somigliante osservazione. Circa la trascuratezza, mi sembra di conoscere abbastanza la natura dell’accuratissimo Parini sofferente, quanto lo son pochissimi, della lima, per esser certo che a tal giudizio rispondesse egli non altrimenti che l’ammirabile tragico Alfieri ad una ugual critica fattagli da Ranieri de’ Calsabigi. Di tutte le parole pregiatissime, ch’ella nella sua amorevol lettera mi dice, la sola ch’io non ricevo è, negletto lo stile, perchè l’assicuro anzi che moltissimo l’ho lavorato ec. Per quello poi che spetta al meccanismo del verso Pariniano, credo di non ingannarmi chiamandolo con voi, lusingator dell’orecchio senza portarvi quell’orgogliosa armonia che lo rintrona e sempre amabilmente variato nelle giaciture. Non ignora il Critico prelodato che mal si pretenderebbe dalla poesia descrittiva quel [112] tono rombante negli orecchi proprio della lirica, il fine particolare di cui si è il canto. Ora egli asserì che il Parini accoppiò alla descrizione l’ironica moralità, lo pose nel numero dei poeti didascalici, ed affermò, che i suoi poemetti, quantunque d’un gusto ben diverso da quelli di Dellisle, di Philips, di Pope, di Thomson e d’altri quivi da lui ricordati, con vaghi e graziosi pensieri, e con leggiadre favolette ed ameni episodj descrivono le cittadinesche usanze di questi tempi. Ed a chi mi obbiettasse che non pertanto que’ pochi versi trascurati e cascanti costituirebbono mancamento per qualunque sorta di composizione, cui piaccia riferirli, io replicherei rispettosamente, pregandolo indicarmi in questo od in quel verso le prove di tal negligenza e languore. Il perchè, voi ben sapete, che nei componimenti sciolti dalla rima convien por mente, affinchè i versi non saltino ognora a piè pari, nè, giusta il detto d’un illustre trattator d’italiana poesia, suonino le campane, bensì affinchè procedano ora gravi, ora leggiadri, ora tardi, ora presti, sicchè si accomodino alle cose ed ai concetti significati, e rendano quella [113] varietà di modi e d’armonia che sfugge l’unisono disaggradevole tanto agli orecchi meglio costumati. Simile artifizio, cui gli antichi Poeti, maestri solenni del Nostro, a maraviglia praticarono, fa sì che i versi lavorati con esso (data ancor un’egual grazia e desterità nel recitarli), generino un suono differente, dove si proferiscano ad uno ad uno, sconnessi, rotti e quasi membri trinciati dal loro corpo, e dove si prendano a dir tutti in complesso e non senza l’opportuno corteggio de’ circostanti. Parrebbon deboli questi versi nel Mattino tolti separatamente, e prescindendo ancora dall’interruzion manifesta dei concetti, «Ma già il ben pettinato entrar di nuovo» ec. «Or dunque ammaestrato a quali e quanti» ec. «Gridar tentasse e non però potesse» ec. «Di coloro che mostran di sapere» ec. «Ho vedut’io le man render beate.» ec. Ma che? Provatevi a fiancheggiare, esempigrazia, il primo con alcuno di quelli che lo circondano, e sentirete mutazione.

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«Ma già il ben pettinato entrar di nuovo Tuo damigello i’ veggo: egli a te chiede Quale oggi più de le bevande usate Sorbir ti piaccia in preziosa tazza» ec.

e il secondo: «Or dunque ammaestrato a quali e quanti Miseri casi espor soglia il notturno Orror le Dame, tu non esser lento, Signore, a chieder de la tua novelle.» e il terzo: «Onde agitata (la Dama) in ansioso affanno Gridar tentasse, e non però potesse Aprire ai gridi tra le fauci il varco.» Così dei rimanenti, e di più altri, che sopprimo per non allungarmi più in recitazioni soverchie. Sperimentate, quando vi resti ozio, altrettanto inverso i tre più forbiti e più splendidi tessitori di versi sciolti, ch’io mi conosca, Annibal Caro, Giambattista Spolverini e Selvaggio Porpora, ossia il Cardinal Cornelio Bentivoglio nella traduzione della Tebaide di Stazio (per tacer degli odierni), e lo stesso, nè più, nè meno, saranne l’effetto. [115] Caro, sul principio dell’Eneide tradotta: «Ma già contezza avea ch’era di Troja Per uscire ec.» e «A tanto ministero ti propose ec.» e «In altra guisa il fio mi pagherai» Spolverini, sul principio della coltivazione del Riso: «Cantar intendo te sopra ogni grano Tanto pregiato più dopo il Frumento.» e «Spiegherò a parte a parte, util per certo ec.» e «Nè men come di questi, alcun, od altro Germe nostral ec.» Selvaggio Porpora, sul principio del secondo libro dell’indicata versione di Stazio: «Ricorreva in quel tempo il dì festivo ec.» e «Per ciò passata avean l’intera notte Senza dormire i popoli feroci ec.» Ma qual diversità, caro amico, se pronuncinsi insieme coi loro compagni! Per amor di brevità mi contento di [116] mostrar|velo solamente nel primo verso di ciascuno dei tre mentovati autori. Caro. «Ma già contezza avea, ch’era di Troja Per uscire una gente, onde vedrebbe Le sue torri superbe a terra sparse,

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le biografie E de la sua ruina alzarsi intanto, Tanto avanzar d’orgoglio e di potenza, Ch’ancor de l’universo imperio avrebbe.» Spolverini.

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«Te, dono almo del ciel, candido Riso, Solo fra tanti in mille e mille carmi Lodati semi, non ancor descritto, Cantar intendo, te sopra ogni grano Tanto pregiato più dopo il frumento, Quanto ad ogni metal, dopo il lucente Oro prevale il puro argento, quanto A minor Astri, dopo il Sol, la Luna. Quinci de’ tuoi Cultor qual esser deggia La fatica, il saper, l’industria, e l’arte; E in qual terra, e in qual acqua apprestar giovi Albergo al seme tuo, sotto quai segni Fidarlo al campo e rimondar da l’erbe; Quando coglierlo poscia, infine tutto De la cultura tua l’ordine, e il modo Spiegherò a parte a parte: util per certo Materia e dilettevole, nè senza Grave danno comun posta in oblio Dal gran Coltivator, ch’Arno produsse, Gallia accolse e rapì, le cui sant’orme Segno da lungi, e riverente adoro.» Porpora. «Ricorreva in quel tempo il dì festivo Segnato già dal fulmine di Giove, Allor che Bacco non maturo ancora Fu dal materno incenerito seno Tratto e riposto nel paterno fianco A terminar di nove Lune il corso.»

Forse però a rimuovere ogni difficoltà dall’arrecata opinione del chiarissimo vivente Scrittore poteva influire la testimonianza di que’ versi di Parini, che servirono a lui stesso di fondamenti sui quali piantarla. Dissi forse, mentre, chi sa poi se alla sentenza del suo pur si volesse arrendere ed uniformare l’udito altrui? Vi è noto esser questo un senso qualificato da Cicerone per superbissimo, giacchè non avvi chi nel medesimo non sia [118] bastevolmente sagace. E questo appunto è il solo titolo per me a sperare il compatimento vostro intorno le cose, che ho quì avanzate sopra l’armonia propria del verseggiare di Giuseppe Parini. Conservatemi la vostra benevolenza, e credetemi ec.

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VI.

AD EGERIA CARITEA gentile e colta ninfa della trebbia L’AVV. BRAMIERI

S ’io potessi sdegnarmi con voi, mia soavissima amica, per certo m’avrebbe mosso un cotal poco di collera l’udirvi proscrivere sì duramente dalla vostra piccola del par che sceltissima biblioteca le odi del Parini. Nè vogliate già darvi a credere che nasca il mio dispetto dal veder manomesso il consiglio portovi di leggerle con meditazione, e di collocarvele. Il sentire così per inaspettato tradita la speranza, che ispirata io vi aveva di trovare in quella lettura grande e finissimo diletto, mi è grave doppiamente; e perchè veggo venir meno alla mente vostra, attissima pur a gustarli, de’ piaceri vivi insieme e delicati; e perchè una antica e dolce [120] abitu|dine mi fa increscere, che a voi non piaccia sempre ciò, che a me piace, e che in qualche parte scemi fra di noi quella cara uniformità del cuore e dell’ingegno: ma non è questo appunto che un rincrescimento, il quale dal riflettere a’ necessarj effetti del tempo e della assenza viene in me senza offendervi diminuito. Il mio dispetto nasce veracemente dalle ragioni addottemi di codesta proscrizione. “Il Parini, voi mi scrivete, non è Poeta del cuore; Amor non lo ispira che debolmente; lo sforzo d’imitare Orazio lo rende per giudizio dell’autor de’ dialoghi di Amore troppo latino, tropp’aspro; se alcuna cosa meritar potesse, ch’io gli perdonassi codesti difetti, sarebbe quell’animo Catoniano, che traspira da tutti i suoi versi, e che a me piacerebbe moltissimo; non gli ascrivo neppure a colpa il somigliar sì poco al Petrarca: ma non ho luogo per esso nella mia piccola scansia, e voi lo riavrete a prima occasione.”1 [121] Ah! voi dunque voi siete pur donna. Perchè aspettare a palesarvi tale, ch’io vi fossi lontano? E avete ceduto alla fievolissima seduzione di que’ miseri dialoghuzzi? Fin chi’io ebbi la sorte di essere il vostro bibliotecario, siffatti libercoli non ottennero mai nè grazia presso di voi, nè posto nella vostra scansia. Gran mele anzi nettare avrete assaporato in que’ colloquj d’Amore, giacchè per essi trovate cotanta asprezza ne’ versi del Parini! Oh donna! … Non posso dimenticare che al primo apparire in luce delle Tragedie del [122] Conte Alfieri alto levossi per tutta l’Italia, e pur nella patria nostra una voce, che lo accusava di rude asperità, e i dilicati lettori ne allontanava. Io, benchè allor giovinetto, assai vi ri1 Madonna ha parafrasato di buona grazia, e raro sarà chi non trovi esser [121] co|deste idee meglio espresse da lei che non da Amore nei citati Dialoghi. Ecco le parole in essi attribuite a quel Nume, che vi parla sempre un linguaggio aspretto anzi che no. «Un gran Poeta (in Milano) talor m’invoca e onora. Ma latino, dietro Orazio, vuol dirsi per l’asperità e lo sforzo nella lingua, e più pel fiero animo Catoniano, e poco a te (al Petrarca) somiglia.» Bisogna però confessare che lo stesso Autor di quei Dialoghi nella Dedicatoria premessa alle sue Lodi del Petrarca medesimo noverando i pochi, ond’era ancor grande l’Italia, concede il vanto d’un nuovo Orazio a Milano. Prenderà chi vuole la briga di conciliare codeste discordanze.

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membra, pur temperato a sentire il bello d’ogni maniera, ed a cercarlo avidamente dove che sia senza arrestarmi alla scorza; io a quella taccia, che pur alcuna aveva sembianza di vero, tanto opposi di ragioni e di grida, sì forte parlai nella Accademia, sì mi adoperai nelle conversazioni con quella mia non ingrata arte di declamare, che giunsi ad accostumare a’ versi e ai modi Alfieriani gli orecchi ancor più ritrosi, e a vincere le menti mal prevenute. Il resto lo fece la beltà vera, intrinseca, somma di que’ mirabili tragici lavori. Già non vi negherò che qualche leggiera asprezza e qualche sorte di oscurità non appaja a prima giunta anche nelle Odi del Parini: ma qual è il saggio, che si arresti perciò dall’ammirarle? Gli scrittori originali hanno una maniera tutta lor propria, che costituisce appunto codesta originalità. Scostandosi per finissimo avvedimento l’Orazio Milanese dal modo comune di [123] verseg|giare spesso vuoto di idee, sempre ridondante d’oziosi aggiunti, e altero d’una petulante e di rado variata armonia, cominciò dal riempiere di non volgari sentenze i suoi componimenti, costrinse la poesia a vestir de’ pensieri, pe’ quali sembrava non avere adornamenti, e le apprese un modulare di suoni adattato così a’ diversi concetti, come ai diversi argomenti. Per conseguire questa palma, non poteva egli non offerire agli ingegni molti oggetti di meditazione disusata, non poteva a meno di dar luogo a parole ed inversioni straniere prima a linguaggio poetico. Ed eccovi la nobilissima origine di quella rara asprezza, di quella qualunque oscurità. Noi italiani, pur troppo indolenti e ritrosi alla fatica, avvezzi al molle solletico, alla vacua facilità delle canzonette del Frugoni e di Metastasio, bellissime nel lor genere veramente, respingiamo da noi ogni altro diletto, che costar debba qualche cosa alle abitudini dell’orecchio, ed alla inerzia della mente. Eppure a chi scuota codesta inerzia gradevole solo alle anime basse, quella pretesa oscurità Pariniana dispare tosto, e [124] si converte in giustissime, benchè rimote allusioni, in tratti pittorici e caratteristici di personaggi e di avvenimenti importanti, in sentenze e giudizj pieni di sublimità per la morale, la politica, la letteratura; a chi resista alcun poco a codesta abitudine, quella pretesa asprezza Pariniana si cangia per lo più in suoni opportuni, adattati, espressivi, dignitosi. E realmente, mia cara amica, l’Autor dell’Odi intitolate il Brindisi, il Piacere e la Virtù, e le Nozze non era egli il padrone, se ben gli parea, di portare in tutti i suoi scritti la mollezza e la facile soavità di que’ componimenti? Ma egli aspirava ad una gloria maggiore, a cingersi d’una corona non riportata che da pochissimi, e a lui bastava che, auspice Febo, gliela imponesse il voto de’ dotti pensatori, non curando le acclamazioni della moltitudine, le quali al fin poi, com’eco impotente a resistere, non tardano a segnare quel voto. Or già preveggo ciò, che potete replicarmi; ebbene, mi dite: colui, che di salir proponga un monte altissimo senza sentiero, e non impresso quasi d’orma veruna, dalla [125] cui vetta è certo poscia di signoreggiare gran parte dell’universo, sarà egli biasimevole, se nel giugnere all’ardua difficil meta inciampa talvolta, ed ansante alcun poco si mostra? Ma permettete ch’io discenda più particolarmente alle altre vostre obbiezioni. Tempo già fu che non v’era discaro l’aver meco de’ lunghi trattenimenti. Siatemi ora del pari indulgente, benchè si tratti di contraddirvi; e sarete anche generosa. Il Parini non è Poeta del cuore? Amore non lo ispira che debolmente? O io non so bene che si vaglia codesta prima espressione (siate giudice voi, s’io lo sappia), o ella è ben destituita di fondamento, siccome la seconda. Riflettete primieramente che per discutere con pienezza queste asserzioni mestier sarebbe d’avere fra mani tutti i versi, ch’egli dettò, mentre non ne abbiamo pur troppo

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che pochissimi, que’ soli che piacque a lui di lasciar correr fuori, e che verisimilmente quelli non sono, da’ quali potrebbe esserne meglio svelato il segreto del cuor suo. Un uomo di senno avrà ben egli concesso a se medesimo lo scriver d’amore, ma di rado [126] permetterà, se vivo, la pubblicazione d’una serie di siffatti suoi componimenti. Nondimeno osservate nel Brindisi già memorato, ch’ei non vi tace il fatto suo. Se già di mirti teneri Colsi mia parte in Gnido, Lasciamo che a quel lido Vada con altri amor. ………………… A Bacco, a l’Amicizia Sacro i venturi giorni: Cadano i mirti, e s’orni D’ellera il misto crin. Che fai su questa cetera, Corda, che Amor sonasti? Male al tenor contrasti Del nuovo mio piacer. ………………… Fugge la instabil Venere Con la stagion de’ fiori: Ma tu, Lieo, ristori, Quando il Dicembre uscì. Amor con l’età fervida Convien che si dilegue: Ma l’amistà ne segue Fino a l’estremo dì. [127] E nel Tomo XIII. delle Rime degli Arcadi da voi posseduto, sotto il nome di Darisbo Elidonio, ond’egli era distinto, troverete alquanti Sonetti di amoroso argomento, ai quali non contese la luce. In fine poi il Parini amò e di vivissima passione. Abbiatene la prova in una Ode assai bella, tuttora inedita, dell’Autore dell’a voi giustamente sì caro poemetto l’Orfeo. Ben fu per me propizia la ventura, che mi fe’ possessore di molte eccellenti poesie del chiarissimo sig. Ab. Vincenzo Corazza Bolognese;1 ed or ne [128] sen|to maggiore il vantaggio, perchè posso con voi dividerlo, e utilmente. Ohimè! Parin, consumati Fiamma d’amore ascosa. Una fanciulla di dolci occhi avvinse 1 Codesto valentuomo morì nell’anno stesso che il suo amicissimo Parini. L’Autore di questa Lettera sta raccogliendo le più belle produzioni già date in luce da Corazza, e medita di unirle a parecchie inedite per far dono al pubblico d’un volumetto di poesie auree e singolari. Dopo il Chiabrera ed il Rolli, che appena tentarono l’Ode in versi sciolti, pareva che questo modo di poetare fosse caduto nell’obblio. Il Corazza lo ha trattato per eccellenza; e i Saggi, che non abbisognano del vivo solletico delle consonanze per sentire le delizie dell’armonia poetica, ne saranno convinti anche dal solo componimento quì inserito. Del resto il progetto non avrà luogo, quando l’eseguirlo potesse parer ingiurioso, o recar detrimento agli Eredi dell’illustre Bolognese.

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Il Cantor del Mattino in ferrei nodi: Ella a sua voglia Tragge l’arguto derisor de’ molli Modi moderni. Tremanti i polsi, e palpita Il core in strane guise; Ti struggi, ed al pallor, di cui la dura Minerva il viso ti segnò, s’aggiunge Trista magrezza; E segni portan di geloso affanno Torbidi gli occhi. Scuoti il giogo, e ti libera Da la mordace cura. Che giova ingegno aver superbo, quando Lo spirto è oppresso da servil catena? Ama, se giova: Un duro core d’ammollir non tenti Mite Poeta. Nè al figlio di Calliope, Nè ad Anfion s’arrese Per dolci versi mai donzella alcuna. Oro, bellezza il femminile orgoglio Abbatton soli: Invan con le Palladie arti si assale Vergine, o Donna. Credi a l’amico, e placido Ricevi il mio consiglio: Del mare esperto, e dagli occulti scogli Conosco l’onda vorticosa, e i venti; Però da l’alto Lido ti chiamo, perchè volga a terra Cauto la prora. Me pel fallace pelago Traeva un’aura infida: Due lune il sonno m’ha fuggito, e avvinto Tennemi un dolce lusinghiero viso; Or sciolti i nodi, Che non ben legan, se non legan dui, Libero canto. Per me sia altera, e mobile A suo talento Fille: Nè a te caglia, Parin, l’amica o infida O non curante. Viviam lieti; e il breve Tempo, ch’è dato, Spazzin le cure i venti, e se le affoghi L’onda marina.

Dopo ciò vi par egli, mia cara amica, che un sommo ingegno, un conoscitore [130] acutissimo della eloquenza universa, un Poeta, che piegava a tutti i generi l’arte sua maravigliosamente, non avrà saputo, volendolo, esser anche il Poeta

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del cuore? La già lamentata scarsezza de’ versi suoi fatti di pubblica ragione me ne fornisce poco più che una prova: ma val ben questa per molte, ove giusto si estimi. La traggo dalla Ode sua sovraccitata le Nozze.

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È pur dolce in sui begli anni De la calda età novella Lo sposar vaga donzella, Che d’amor già ne ferì. In quel giorno i primi affanni Ci ritornano al pensiere; E maggior nasce il piacere Da la pena, che fuggì. Quando il sole in mar declina, Palpitare il cor si sente: Gran tumulto è ne la mente; Gran desio negli occhi appar. Quando sorge la mattina A destar l’aura amorosa, Il bel volto de la sposa Si comincia a contemplar. Bel vederla in su le piume Riposarsi al nostro fianco, L’un de’ bracci nudo e bianco Distendendo in sul guancial. E il bel crine oltra il costume Scorrer libero e negletto, E velarle il giovin petto, Ch’or discende, or alto sal. Bel veder de le due gote Sul vivissimo colore Splender limpido madore, Onde il sonno le spruzzò: Come rose ancora ignote, Sovra cui minuta cada La freschissima rugiada, Che l’Aurora distillò. Bel vederla all’improvviso I bei lumi aprire al giorno, E cercar lo sposo intorno Di trovarlo incerta ancor; E poi schiudere il sorriso, E le molli parolette Fra le grazie ingenue e schiette De la brama, e del pudor.

Voi siete nata fatta per gustar pienamente la squisita bellezza di questi versi; però mi astengo dal farvi un nojoso ed [132] inu|til comento. Solo mi giova osservare che in questi il Parini è Poeta del cuore, s’altri il fu mai, Poeta del cuore umano, qual è realmente nelle sue passioni, ne’ suoi desiderj, negli onesti e più delicati suoi godimenti, non già del cuore artefatto, o contraffatto, che vo-

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le biografie

gliam dire, e guasto dal raffinamento limbiccato degli affetti, e dal folle chimerico eroismo de’ romanzi. Non è egli vero, che quando a conseguir si perviene alfine cosa desideratissima, si affaccian tosto al pensiero tutti gli affanni sostenuti per ottenerla e che la memoria di essi contribuisce ad accrescere il senso della presente felicità? Il sanno gli innamorati, a’ quali è dato fruire le gioje prime nuziali, se all’appressare de’ beatissimi istanti lor palpiti il cuore, e s’agiti tumultuosa la fantasia; e non è bisogno di acuto spirito osservatore per iscorgere ne’ loro sguardi il fuoco del desiderio. Quante cose e tutte belle potuto avrebbe il Poeta collocare fra la terza strofe e la quarta! E al suo pennello dilicato e sicuro non sarebbe mancata l’arte del velo modesto; ma la casta sua Musa, schiva di quelle dipinture, che sono sempre pericolose, si [133] slan|cia pudicamente d’un facil salto dal cominciar della sera allo spuntar del mattino. Che se vi piaccia di riconoscere in quel salto anche un altro intendimento, quello cioè, che corrisponde alla nota apposta dall’Autore della nuova Eloisa alla sua Lettera LV. della parte I., verrete così a confermare viemaggiormente, ch’egli è poeta del cuore per eccellenza. Ben disegnata e ben colorita è la descrizione della sposa addormentata; maraviglioso e veramente Albanesco si è il tocco di quel limpido madore, onde il sonno spruzzò le gote di lei; e la similitudine delle rose, a cui l’aurora distillò le sue fresche e minute rugiade, mentre fornisce una assolutamente nuova e parlante miniatura alla poesia, prova nel tempo stesso la infinita superiorità di questa sull’arte animatrice dei colori: ma quel cercare lo sposo svegliandosi, quell’essere per mancanza di abitudine incerta di trovarlo, quel sorriso, quelle parolette soavi, quelle grazie ingenue della brama e del pudore sono altrettante verità schiette della natura o del cuore amante. Or chi ne presenta sì vivamante codeste verità della natura e del cuore, non ne sarà egli pur anche il Poeta? [134] E perchè mai, mia saggia amica, perchè divietate voi con tanta severità la lettura alle figlie vostre de’ Drammi e delle altre poesie del divino, castissimo, costumatissimo Metastasio? Voi de’ molli affetti dal Cesareo Poeta continuamente agitati temete la funesta e pronta influenza sull’animo pure delle care fanciulle; e coll’accorto e giusto divieto procurate di preservarle dal fatale allettamento, che seco portano le passioni con tanta dolcezza maneggiate. L’ultima non è questa, nè la meno lodevole delle materne virtù vostre. Ma codesto contegno sapete voi, che importi all’argomento finora trattato? Se non è una condanna pel Metastasio, il quale dallo scrivere per la drammatica e per la musica non solo escusato viene abbastanza di quella sua mollezza necessaria, e di quel suo concitamento di affezioni, senza di cui la musica è nulla, ma elogio anzi si merita grandissimo dell’avere con tanta modestia e costumatezza servito a quella necessità, se il vostro contegno, dissi, non è per esso una condanna, è certo un tacito plauso, che si convertirà presto in acclamazione pel Parini. L’arte poetica, voi già l’udiste, e [135] l’ave|te letto più volte, agitar deve le umane passioni, non per accarezzarle, non per blandirle, e colle blandizie dar loro un dannoso incoraggimento, ma per dirigerle, per purgarle, onde all’onesto si volgano, al grande ed al bello, si sollevino, emergano, e seco innalzino dell’uomo la dignità. Se questo è il vero e nobilissimo scopo, che pur è, della poesia, voi ben vedete che per giudicare, se un tale sia Poeta del cuore, cercar non bisognava qualunque rimescolamento d’affetti prodotto da’ versi suoi, ma sibbene osservare, se i suoi versi palesano la conoscenza in lui del cuore umano, e in una parola, s’egli sa trarre profitto dalle passioni a favore della virtù. Quanta conoscen-

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za dell’uman cuore palesino il Mattino e il Mezzogiorno, vostra delizia e mia, vano è ch’io vel richiami alla mente; che già parmi di udire sulle vostre labbra risuonare con impareggiabil dolcezza questo pietosissimo tratto da voi ripetuto sovente con amabile e maliziosa festività in quelle nostre beatissime cenette da me non obbliate giammai: [136]

Pera colui, che primo osò la mano Armata alzar su l’innocente agnella, E sul placido bue, nè il truculento Cor gli piegaro i teneri belati, Nè i pietosi muggiti, nè le molli Lingue lambenti tortuosamente La man, che il loro fato, ohimè! stringea.

Ed io soggiugneavi prontamente con malignuzza allusione, che sorger faceva un presto poi dissipato nuvoletto sul bellissimo sereno de’ vostri sguardi: E sorge intanto Al suo pietoso favellar da gli occhi De la tua Dama dolce lagrimetta, Pari a le stille tremole, brillanti, Che alla nova stagion gemendo vanno Dai palmiti di Bacco entro commossi Al tepido spirar de le prim’aure Fecondatrici. Ma lasciando a parte gli scherzi forse intempestivi, non mostra egli pur quivi il Parini, quant’egli potrebbe, e ciò, ch’ei ricusa a se stesso? Ammirate la difficile temperatura del tenero col gagliardo, e l’immaginoso. Par ch’egli tema [137] d’ammollir soverchiamente il suo stile con quelle lagrimette versate per la bella Vergine cuccia de le grazie alunna, e lo rialza lentamente con una comparazione, giusta e dilicata bensì, ma che lo conduce a sfoggio di eloquenza poetica. Così spesso ei vi mostra pur altrove la sua attitudine al movimento degli affetti, e insieme la sua ripugnanza a moverli, quando ridondar non deggia a vantaggio della virtù, sempre ne’ componimenti suoi proclamata. Ed io credo fermamente ch’egli non avrebbe consentito alla sua penna di scrivere colla già riconosciuta mollezza e soavità quella Ode per Nozze, se non si fosse trattato appunto de’ legittimi ed onesti piaceri, a’ quali è pur utile oggidì l’invitar, l’allettare la troppo schiva e traviata gioventù. La qual mia opinione porto speranza che si vedrà ben confermata, quando il chiarissimo Parini cedendo alfine al supplice desiderio della letteraria repubblica, non ne priverà più de’ suoi tesori poetici. Intanto osservate ancora, com’egli adopra la conoscenza [138] dell’u|man cuore, quando nella Ode intitolata il Dono portando un giudizio avvedutissimo delle già mentovate Tragedie del Conte Alfieri vuole insinuare, che mestier vi sarebbe di temperar meglio il terrore colla pietà. Caro dolore, e specie Gradevol di spavento È mirar finto in tavola E squallido, e di lento

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le biografie Sangue rigato il giovane, Che dal crudo cinghiale ucciso fu: Ma savia lui se pendere La Madre degli amori, Cingendol con le rosee Braccia si vede, i cori Oh quanto allor si sentono Di giocondo tumulto agitar più!

Come nel Pericolo encomiando il valor poetico della veneta bellezza ivi esaltata, descrive nel tempo stesso la passione di Saffo con la massima espressione di verità!

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Che più? Da la vivace Mente lampi scoppiavano Di poetica face, Che tali mai non arsero L’amica di Faon; Nè quando al coro intento De le fanciulle Lesbie L’errante violento Per le midolle fervide Amoroso velen; Nè quando lo interrotto Dal fuggitivo giovane Piacer cantava, sotto A la percossa cetera, Palpitandone il sen.

Non sentite voi la smania della infelice Poetessa di Mitilene nella seconda delle riferite stanze? E che vi pare di codesti ultimi versi, che vi presentano un effetto d’amore sì comune, e pur sì nuovamente espresso per la combinazione de’ palpiti del seno alla percossa cetera rispondenti? Io non andrò più oltre in traccia di prove dell’assunto mio; che pur altre non poche agevol mi sarebbe l’addurne: e compierò la dimostrazione del non potersi al Parini negare il vanto di esser anche Poeta del cuore, con un Sonetto suo, il [140] quale, sebbene da voi possa essere riscontrato nel Tomo XIII. delle Rime degli Arcadi, pur giova di quì trascrivere, perchè tutto insieme appalesa nell’ultimo verso della prima terzina, quale mozion di cuore cercar si debba da un saggio cultor del Parnaso. Che pietoso spettacolo a vedersi! La virtuosa figlia in negro manto Sovra l’urna del Padre amato tanto, Spargendola di lagrime e di versi! E co i teneri sguardi a lei conversi La carità dettarle il dolce canto! E de la pia compagna a se dar vanto Le Muse, e più beate oggi tenersi! T’allegra, o Poesia, che la tua lira Dai giochi de la mente alfin ritorna Del core a i moti, e la virtude ispira

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E di lauro e cipresso il monumento Grata circonda, e ’l cener freddo adorna, Che desta un così nobile lamento. Non lieve debb’essere di questo componimento la forza in voi, che tanto studiosa della gloria del sesso vostro ad esso ne vedete quivi attribuita una assai distinta, [141] e certo ben rare volte meritata dal nostro. E qui farei fine, se il mio dispetto, quantunque sfogato abbastanza, non mi eccitasse pur anco a farvi un cotal po’ di rimprovero. Come avvien mai che sì amica, qual siete della virtù, sì avversa, come vi conobbi mai sempre, alle molli leziosaggini, alle affettate svenevolezze, ed alla vuota garrulità de’ moderni scrittori, non vi sentiate accesa di entusiasmo e di ammirazione per uno de’ pochi, che tutto è midollo e sostanza, senza che la poesia veruno vi perda de’ suoi diritti? Bastar non dovea forse a renderlovi sommamente pregiato e caro la bella, sebbene mal ascoltata, lezione da lui data al vostro sesso nella colta celebre Ode a Silvia?

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……………………………… Lascia, mia Silvia ingenua, Lascia cotanto orrore A l’altre belle, stupide E di mente e di core; Ahi! da lontana origine, Che occultamente nuoce, Anche la molle giovane Può divenir feroce. Sai de le donne esimie, Onde sì chiara ottenne Gloria l’antico Tevere, Silvia, sai tu che avvenne; Poichè la spola e il frigio Ago e gli studj cari Mal si recaro a tedio, E i pudibondi Lari; E con baldanza improvvida Contro a gli esempj primi Ad ammirar convennero I saltatori e i mimi? Pria tolleraron facili I nomi di Teréo, E della Maga Colchica, E del nefario Atréo: Ambito poi spettacolo Ai loro immoti cigli Fur ne le orrende favole I trucidati figli. Quindi, perversa l’indole, E fatto il cor più fiero, Dal finto duol, già sazie, Corser sfrenate al vero.

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le biografie

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E là, dove di Libia Le belve in guerra oscena Empiean di urli e di fremito E di sangue l’arena, Potè a l’alte patrizie, Come a la plebe oscura Giocoso dar solletico La soffrente natura. Che più? Baccanti e cupide D’abbominando aspetto Sol da l’uman pericolo Acuto ebber diletto; E dai gradi e dai circoli Co’ moti e con le voci Di già maschili, applausero Ai duellanti atroci: Creando a se delizia E de le membra sparte, E degli estremi aneliti, E del morir con arte. Copri, mia Silvia ingenua, Copri le luci, ed odi, Come tutti passarono Licenziose i modi. Il gladiator terribile Nel guardo e nel sembiante Spesso fra i chiusi talami Fu ricercato amante. Così, poichè da gli animi Ogni pudor disciolse, Vigor da la libidine La crudeltà raccolse. Indi ai veleni taciti Si preparò la mano; Indi le madri ardirono Di concepire invano. Tal da lene principio In fatali rovine Cadde il valor, la gloria De le donne latine.

Niente dir si poteva di più opportuno sulla malaugurata moda, che le incaute femmine adottarono di vestire alla infame guillottina. E quale intanto non mostra il Poeta profondo e giusto conoscimento delle troppo facili gradazioni, per cui da tenui principj giugne il cuore umano sì tosto e miseramente all’estremo della depravazione? Ma io v’ho detto assai più che non era mestieri, per richiamarvi in proposito delle Odi del Parini al solito vostro diritto giudizio. Quando volete giudicare di qualche poesia, vi esorto, mia cara amica, a fidarvi delle vostre sensazioni, e

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a non sottometterle giammai all’arbitrio e al capriccio de’ critici sovente appassionati e gelosi. Correrete assai minor rischio di [145] rimanere ingannata. Addio. Mantenetemi nella pregiatissima grazia vostra, ed abbiate per fermo, che sono e sarò invariabilmente fino all’ultimo respiro ec. Parma, nell’ora nona, il dì sesto d’Aprile 1796. P.S. Stavami suggellando questi fogli, quando mi giugne la graditissima vostra di jeri col più caro annunzio, che in questo punto potessi da voi ricevere. Maliziosetta! Ciò dunque che scritto m’avete delle Odi del Parini, non è che uno scherzo concertato con quel farfarello di G …… sperando ch’io ne montassi sui cembali? Ebbene; siatene punita dalla lunghezza ed inutilità di queste parole, ch’io non voglio avere vergate del tutto in vano. Vi raccomando però caldamente che del castigo chiamiate a parte lui pure e a leggere lo astringiate, siccome forse il reo principale di codesta beffa crudele. Non però, perch’io sia con esso adirato, gli nego il ricambio de’ miei cordiali saluti. Addio, ancora addio.

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le biografie

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VII.

all ’ AVV. BRAMIERI POMPILIO POZZETTI Modena 17. Agosto 1801.

Non vi sarà discara la notizia, se pur vi giunga nuova, che sono a recarvi, d’una produzione forse non assai conosciuta dell’Abate Giuseppe Parini, la cui vena sì in prosa che in verso è riputata da voi e da tutti i vostri pari grandemente preziosa. Intendo parlarvi della prima fra le due Lettere sopra il libro intitolato: i pregiudizj delle umane lettere, la quale è lavoro di Parini e che uscì alla luce in Milano nella Regia Ducal Corte, [147] correndo l’anno mille settecento cinquanta sei. Il libro in quella preso di mira fu composto e pubblicato l’anno innanzi dal Padre Alessandro Bandiera Senese, prima della Compagnia di Gesù, e quindi passato nell’Ordine de’ Servi di Maria. Tradito quel Religioso da soverchio amore di novità, pigliò in esso a censurare nella lingua e nello stile varj de’ più accreditati Scrittori italiani, fra i quali il P. Paolo Segneri, che il celebre Cardinale Sforza Pallavicini riguardava a ragione fin da giovane come il restauratore della sacra eloquenza. Ricercato il Parini dall’Abate Pier-Domenico Soresi del suo parere circa l’anzidetta opera del Bandiera, gli diresse la lettera, di cui vi favello, e quegli aggiuntavene una propria sul medesimo soggetto, consegnolla al torchio. Assunse quivi l’Abate Parini la difesa del Segneri contro le imputazioni di quell’Erudito, biasimandolo d’aver violate le leggi della modestia e della giustizia col propor che fece al pubblico i componimenti proprj quali esemplari del bello scrivere. Al contrario, dice Parini, essi peccano di affettazione e di poca [148] pur|gatezza nella lingua nostra. Ei dimostra inoltre che il Bandiera per l’importuna voglia di correggere il Padre Segneri e di migliorarlo, ne ha anzi guasto lo stile e stravolti anche talora i pensieri. Convien dire che il nostro Apologista ciò eseguisse in maniera da chiudere al Censore assolutamente la bocca. Imperocchè questi serbò sempre pieno silenzio intorno la causa del Segneri, e si ristrinse a cercare uno schermo dallo svantaggioso giudizio che al principio di questa sua lettera aveva proferito il Parini d’altra fatica dello stesso P. Bandiera intitolata: Gerotricamerone, ovvero Tre Sacre Giornate, nelle quali s’introducono dieci virtuosi e costumati giovani a recitare in volta ciascuno per modo di spiritual conferenza alcuna narrazione sacra. In Venezia 1745. Bettinelli. Fin allora la critica erasi limitata a riprendere modestamente il titolo di quest’opera, pretendendosi da taluni doversi dire in forza della greca espressione anzi Gierotrimerone che Gerotricamerone. Ma Parini la ferì con aperto disprezzo, scrivendo così: La terz’opera chi’io vidi del P. Bandiera, è quella che egli con un nome, per dir così, procelloso e [149] sesquipeda|le ha chiamata: Il Gerotricamerone. Le larghe promesse del Frontispizio mi allettarono ad aprirne il libro ridendo, nè prima cominciai a leggerlo che stomacommi l’affettatissima o storta imitazione del Boccaccio, in mezzo a rancide voci, ed a grammaticali errori, che facean loro un non disconvenevol corteggio. Per la qual cosa io fui costretto di chiuderlo ben tosto; se non che io diedi pu-

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ranco un’occhiata alle proposte del Frontispizio, compatendo que’ valorosi ingegni, che sono di se medesimi così soverchiamente invaghiti. Il P. Bandiera non istimò cosa dicevole al suo decoro il tacersi con un tanto Avversario, e nel mille settecento cinquantasette mandò fuori per le stampe di Giuseppe Galeazzi in Milano la sua Risposta alle Imputazioni opposte contro al suo Gerotricamerone, la quale ha creduto poter esser non inutile per chi a Toscane Lettere attende. Nell’accennato scritto ogni parola dell’esposta Pariniana sentenza è chiamata a minuto esame non senza diligente giustificazione. Questa però non finì di persuadere il P. Giambattista Noghera Gesuita, che sopra di essa recitò nell’Accademia de’ Trasformati di [150] Mila|no una sua cicalata, la quale il Mazzucchelli nel volume secondo, parte prima, pag. 210. de’ suoi Scrittori d’Italia, attesta di aver letta manoscritta, qualificandola per ispiritosa. Ma i Confratelli del Noghera eran pronti a cogliere in fallo il Bandiera, mal contenti di essolui, il quale consideravano non altrimenti che un disertore dalla loro Società, e militante poi sotto cambiati stendardi. Nel calore della mentovata disputa, il nostro Parini che quanto alla parte erudita, diede saggio per testimonianza del Novellista Fiorentino, di molto valore, si lasciò trasportare a qualche asprezza nelle maniere, sicchè nelle Memorie del Valvasense, ove è riferita la lettera di lui, il Relatore non omette di riflettere a questo modo: per altro poi, sebbene il Bandiera si sia fatto un tal ruzzo in capo (di correggere il Segneri), non è però quell’uomo, che molto pretenda, di se, nè è di quell’aria, in cui l’ha dipinto il Sig. Parini. Vedete, dolcissimo amico, ch’io son destinato a farla con voi da storico delle battaglie letterarie dell’illustre Cantore “Delle tre parti in cui si parte il giorno,” [151] ed è questo appunto l’uffizio, che il mio genio pacifico saprebbe unicamente addossarsi in siffatti burrascosi argomenti. Amatemi quanto io vi stimo e sarò da voi sommamente riamato. Tutto vostro ec.

168 [152]

le biografie VIII.

al P. POZZETTI L’AVV. BRAMIERI

La vostra breve, ma sempre cara, e per l’oggetto importante lettera de’ 17. mi giunse in tal punto, che appena potei darle una rapida occhiata; e vi so dire ch’ella doveva essere vostra e parlar del Parini, perch’io le concedessi pur tanto. Io mi trovava allora in situazione affatto simile a quella d’un prigioniero, al quale dopo più mesi di carcere venga annunziata la sospiratissima libertà. Vi lascio pensare, se v’abbia cosa, che possa sull’odiato limitare arrestarlo. Altro io non feci però che compiegare il foglio vostro con due linee al grazioso Editore, e proseguii tosto a formare d’alquanti libri, e de’ [153] miei scartafacci fardello per fuggire in tutta fretta dalla cittadinesca prigionia, e venirmene felicemente agli ozj beatissimi di questa collina. Ora, poich’espulsa la crassa atmosfera di città, m’ho rinnovati i polmoni con quest’aria purissima ravvivatrice, poichè ho pasciuti largamente gli sguardi e l’animo delle variate bellezze di questi luoghi, che fra lo splendore e le grazie dell’arti belle e del lusso signorile mi presentano un moltiforme spettacolo sempre incantatore benchè notissimo; poichè con tante delizie ho riscossi gli spiriti intorpiditi, prendo la penna, e per voi pria che per tutt’altri. Ma non è di questa preferenza, alla quale avete tanti diritti, ch’io pretendo mi abbiate a saper grado: gli è dell’essermi per voi distaccato da codesti balconi, e dalla vista seducente de’ sottoposti prati, orticelli, giardinetti verdi, odoriferi, fiorentissimi, e delle ben architettate e adorne vigne, che coi rosseggianti doni di Bacco rallegrano la speranzata fantasia. Gli è di questo sagrifizio, che voi m’avete proprio a tener conto. Siccome però abborro ogni sorta di usurpazione, e della vostra riconoscenza solo quel tanto mi voglio, che [154] sento di meritare; così non vi taccio ch’io non ho col venire al tavolino tutti perduti i piaceri, e le dilicate voluttà, di cui mi è liberale questo campestre ricetto. Togliendo dalla carta l’occhio, e alzandolo alla finestra, mi godo, pur mollemente assiso, il più maestoso teatro, quello d’una triplice catena di eccelsi monti, che la gradatamente azzurro-cilestra lor veste distendono sugli oscuro-verdeggianti colli, e lasciano spinger lo sguardo assai lungo per l’alveo di due ampi torrenti, che li dividono, e scendono in pochissima distanza di quì a congiungere le loro acque, onde poi bagnano la coltissima pianura inferiore. Quì è, caro amico, dove talvolta ancora mi pare d’esser Poeta, dove dimentico i miei mali, le mie sventure, gli altrui torti ed i miei; quì è dove onorato d’ospizio cortesissimo, e scevro d’ogni importuna formalità, racquisto ogn’anno in seno della più pura e dolce amicizia una vita novella; quì è finalmente, dove sento l’ingegno elevarsi men tardo alla meditazione del bello nelle lettere e nelle arti. Abbiatene tosto una prova, la quale se a ben non riesca, tenete per fermo che [155] la colpa è del mio povero cervello, non atto a tutta accogliere e risentire la benefica influenza di questo clima. Mentre mi accingeva a rescrivervi ed a congratularmi con voi della nuova scoperta, per cui sempre meno manchevole diviene il favellar nostro degli scritti del Parini; nel ripensare alle varie cose dette

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di lui, gravissima sospizione m’è nata che potremmo amendue, non senza qualche apparenza di ragione, venire accusati d’aver anzi da passionati storici ed apologisti che da imparziali critici adoperato. Or questa accusa, sebbene poco molesta a noi, che non sapremmo nè dissimulare un momento l’entusiasmo e il trasporto, onde siamo verso il Milanese Orazio concordemente animati, pur si vuole in qualche modo prevenirla e di qualunque benchè debole fondamento destituire. Del che tanto maggior obbligo a me corre, quanto ch’io più di voi minutamente dato mi sono a rilevare i pregi e le bellezze de’ Pariniani poemi; e non ascondo a me stesso che la mia immaginazione di que’ rari pregi e di quelle sovrane bellezze invaghita può avermi sedotto fino a farmi talvolta eccedere, se non [156] travede|re. Sostenete adunque, mio gentilissimo Pozzetti, ch’ora io vesta non usata severità, e facendo forza a me stesso per appagare il difficil talento di alquanti leggitori, chiami a breve disamina que’ difettuzzi, da’ quali o non seppe o non volle, colpa di fallibile umanità, il nostro gran Poeta astenersi. L’impresa è per me d’ogni parte scabrosissima; ma la debbo a voi, a me stesso, ed alla studiosa gioventù, per cui mi sarebbe d’eterno rimprovero, se mai colle precedenti mie lettere nell’errore indotta la avessi di ammirar tutto ciecamente. E facendomi dalle Odi, mi sento sul bel principio tentato ad osservare che di taluna la orditura e la condotta esser potrebbono oggetto di non mal fondata censura. Nè parlo io già d’alcune, che si vorrebbero a dirittura escluse da quest’aureo volumetto; e certo, che intruse vi fossero, non avrebbelo mai consentito l’autore. Prendete ad esaminare la prima, che vi si presenta, l’Innesto del Vajuolo, lavoro veramente grande, e per molte parti pregevolissimo; e vedrete che i varj slanci del Poeta, quasi tutti uniformi e per via di apostrofe, ora rivolti all’ivi [157] per fallace, però universale credenza detto Genovese, ma certo concittadin mio, Cristoforo Colombo, ora al Bicetti, della cui commendazione si tratta, ora ai pargoletti intatti dalla infezion vajolosa, ora alla celebre Montegù introduttrice nella colta Europa della inoculazione, poi di nuovo al Bicetti, formano un tutto, che altri oserebbe forse tacciare di irregolarità. Ma vien poi meno ogni coraggio alla critica più baldanzosa, quando s’avviene in queste due strofe: Rise l’Anglia, la Francia, Italia rise Al rammentar del favoloso Innesto: E il giudizio molesto Della falsa ragione incontro alzosse. Invan l’effetto arrise Alle imprese tentate; Chè la falsa pietate Contro al suo bene, e contro al ver si mosse; E di lamento femminile armosse. Ben fur preste a raccor gli infausti doni, Che attraversando l’oceano aprico, Lor condusse Americo, E ad ambe man li trangugiaron pronte. De’ lacerati troni [157] Gli avanzi sanguinosi, E i frutti velenosi Strinser giojendo; e da lo stesso fonte De la vita succhiar spasimi ed onte.

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D’altra parte, dov’è una norma, una consuetudine adottata dai migliori, che determini il vero carattere della Ode moderna, le prescriva una indole propria, e le segni de’ confini, come prescritti e segnati sono alla Canzone Petrarchesca, alla Pindarica ed all’Anacreontica? Introdotta fra noi da Bernardo Tasso ad imitazione di Orazio, essa conserva non solo quel grado di libertà, che le fece dapprima godere quell’insigne encomiatore di Augusto, ma ne ha di mano in mano usurpati molti altri. Ella soffre unicamente di essere in uguali strofe e per tutto fra lor somiglianti partita e racchiusa. Del resto, vaga sopra le altre canzoni d’uno stile fiorito e leggiadro, ora s’accosta, e veramente più spesso, al concitamento pindarico, ora prende una più posata andatura, e non è in fine che una specie risultata felicemente dalla mescolanza di più altre, ma quasi assolutamente libera, vagante e pieghevole a tutti i modi, come a tutti i soggetti. [159] Per lo che mi sia lecito notar di passaggio che codesto mescolamento di generi e di specie nella bella letteratura, contro il quale si è tanto declamato a codesti ultimi anni, non è veramente riprovabile, se non allorquando fra mani imperite diviene una vera confusione; e che anzi procurato da ingegni giudiziosi ne fornisce non di rado nuove ricchezze e stimabili prodotti. Io fra questi, e porto speranza che voi, amico prestantissimo, non dissentirete, io fra questi soglio noverare non solo le oraziane Odi sovraccennate, ma la poesia eroicomica, e quel genere di drammatica medio fra il tragico ed il comico, nato in Francia, da poco più d’un secolo, e a grande stima cresciuto colà non meno, che in Alemagna, a dispetto de’ gagliardi e non molto ragionevoli contradditori. Accusa più grave, e di cui non dubbie e non infrequenti prove addur possono gli accusatori contro il Parini, quella si è dell’aver egli dato facilmente luogo ne’ suoi poetici componimenti ad espressioni nudamente prosaiche e talvolta basse e pedestri. Se lieve questa colpa può dirsi quanto al Poema del Giorno; [160] pe|rocchè il didascalico e il satirico, de’ quali è un gradevole composto, non ne sono schivi con tanto rigore, tenendosi finitimi al precettivo ed al comico, i quali amano di parlare un linguaggio nobilmente vicino al comune: non così certo, quanto alle Odi, o Canzoni Oraziane, che vogliam dirle. La lirica poesia fra di noi Italiani vuol essere, generalmente parlando, così dalla prosa alteramente separata e distinta, che offesa al sommo si reputa, ogni volta che le si attribuiscan di questa pur pochi modi. Dove poi debba mostrarsi particolarmente studiosa di fiorita e adorna locuzione, dove debba avvicinarsi al pindarico, non è da dire, se più alto contegno richieda ed ami. Se si scrivono, come non soggetti a misura poetica, i primi versi della Ode intitolata il Bisogno, ne avrete una prosa poco meno che dozzinale. “Oh tiranno signore de’ miseri mortali! oh male! oh persuasore orribile di mali, Bisogno! ec.” E non è già ch’io consenta nella opinione di coloro, i quali sostengono esser manchevole e vizioso ogni tratto di poesia, che scritto nella indicata maniera riesca una lodevole prosa. [161] Ac|cade non rare volte che un andamento prosaico, per le circostanze particolari o del pensiero che si esprime, o del genere che si tratta, o della situazione in cui s’è posto il Poeta, sia pure convenientissimo a poesia: e codesta è anzi una ricchezza della nostra favella, comecchè per alcune altre lingue viventi d’Europa sia una vera povertà; ma nel luogo allegato nulla è, che giustifichi un tale andamento. La stessa censura può muoversi contro il principio dell’Ode sulla Musica: se non che, oltre una riflessione, che soggiugnerò quì presso, mi disarma il seguente squarcio bellissimo contro i barbari padri mutilatori de’ proprj figli.

[bramieri, pozzetti]

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No: del tesor, che aperto Già nella mente pingi, Tu non andrai per certo Lieto, come ti fingi, Padre crudel. Suo dritto De’ avere il tuo delitto. L’oltraggio, ch’or gli è occulto, Il tuo tradito figlio Ricorderassi adulto, Con dispettoso ciglio [162] Dalla vista fuggendo Del carnefice orrendo. Invano invan pietade Tu cercherai; che l’alma In lui depressa cade Con la troncata salma, Ed impeto non trova Che a virtude la muova. Misero! a lato ai Regi Ei sederà cantando Fastoso d’aurei fregi; Mentre tu mendicando Andrai canuto e solo Per l’Italico suolo. Or eccovi due osservazioncelle, che sottopongo, chiarissimo amico, alla avvedutezza del giudizio vostro, e colle quali chiudo il ragionare di questo argomento, di cui già vi dissi altra volta, benchè rapidissimamente ciò, ch’io sento, e a cui vi compiaceste replicare con tanta finezza, nella prima Lettera vostra. Rifletto dapprima, che il Parini trattando direttamente soggetti morali, elesse di proposito quello stile mezzano, che men nimico del prosaico andamento rende più facile ed [163] estesa a molti la voluta utilità ed istruzione, contentandosi di rilevare la continua mediocrità della frase con qualche tratto spiritoso, ad essa però con bell’arte attemperato: lo che mi fa essere colle Odi sulla salubrità dell’aria, sull’Impostura, e sulla Musica indulgente. E osservo poscia colla scorta delle note cronologiche appostevi nella prima edizion di Milano, che le ultime sue composizioni assai più delle precedenti vanno scevre ed immuni da quel prosaico andamento, con cui m’è stato sempre forza di convenire ch’egli offende talvolta gli ingegni ben educati. Intanto però che il Parini coll’andar degli anni e colla maturità della sperienza si allontanava dal notato difetto, astenersi non seppe dall’inciampar qualche volta in un altro, in quello de’ viziosi iperbati. Forse acconsento soverchiamente allo spirito di censura; ma lodevol non parmi la inversione, che s’incontra nella Ode in morte del Maestro Sacchini: [164]

E spesso a breve obblio La da lui declinante in nuovo impero Il Britanno severo America lasciò: tanto il rapìo

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le biografie Non avveduto ai tristi Casi l’arguzia, onde i tuoi modi ordisti.

Dove mi dolgo che divenga così meno perspicua la bella allusione, che con arte famigliare al nostro Poeta, com’ho già altrove mostrato, segna l’epoca, in cui fu dettato codesto bellissimo componimento. Ma niuno sarà certamente, il quale comporti, senza riprovarla, la trasposizione, che trascrivo, da lui usata nel Pericolo: Quale, Se improvviso la candida Mano porgea nel dir? E alle nevi del petto, Chinandosi, dai morbidi Veli non ben costretto, Fiero dell’alme incendio! Permetteva fuggir? Se il Grammatico Arifrade non avesse ne’ verseggiatori biasimate che le trasposizioni [165] di tal fatta, stato non sarebbe da Aristotele svillaneggiato, nè rimandato a scuola col carico di far nuovi studj; perchè la inversione, cotanto utile, anzi necessaria a nobilitare la prosa e il verso col rendere, che fa, la locuzion non volgare, subito che varca i prescritti confini, e trascende l’impostole uffizio di crescere maestà e grazia al discorso, mostrandosi o per ricercatezza affettata, o per intralciamento eccessiva, con che toglie la sempre desiderata chiarezza al concetto, degna diviene di riprovazione e di biasimo veramente. Ma io su questo particolare non discenderò ad ulteriori minutezze; e solo aggiungo che se avvenga a dilicato Lettore d’incontrare in codeste Odi altri iperbati, che lo disgustino, gli avverrà pure, se vi ponga attenzione, e si valga de’ lumi da voi perciò somministrati nella testè citata prima Lettera vostra, di essere sovente costretto ad ammirare l’arte finissima del Parini nel trasporre le parole e le frasi, ed innalzar per tal guisa la poetica favella. E già sarei per ritrarre la mano da questa parte del propostomi penoso lavoro, se non mi arrestasse quella delle [166] Parinia|ne Odi, ch’è più comunemente gustata e applaudita, ed ha per titolo le Nozze. Io già mi valsi, come ben vi ricorda, della prima parte di essa a dimostrare, come il Milanese Orazio è pur Poeta del cuore. Ora mi trovo in debito di osservare, come nella seconda parte di essa ha egli peccato di quella, che i Precettori dell’arte chiamano contrarietà di sentimento. Dopo di avere pudicissimamente descritte e colla massima dilicatezza le gioje d’Imeneo, si volge allo Sposo dicendo: O Garzone, amabil figlio Di famosi e grandi Eroi, Sul fiorir degli anni tuoi Questa sorte a te verrà. Tu domane aprendo il ciglio, Mirerai fra i lieti lari Un tesor, che non ha pari, E di grazia e di beltà. Ma, ohimè! come fugace Se ne va l’età più fresca,

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E con lei quel, che ne adesca, Fior sì tenero e gentil! Come presto a quel, che piace L’uso toglie il pregio e il vanto, E dileguasi l’incanto Della voglia giovenil! [167] Te beato in fra gli amanti, Che vedrai fra lieti lari Un tesor, che non ha pari, Di bellezza, e di virtù! La virtù guida costanti Alla tomba i casti amori, Poichè il tempo invola i fiori Della cara gioventù. Era egli codesto il momento di turbare le delizie dello Sposo, di ammorzare il sì dolce entusiasmo, e il senso della somma sua felicità con una riflessione crudele sulla caducità della bellezza, sulla brevità della gioventù, e suoi tristi effetti della abitudine? Sia pur vero che il Poeta non debba giammai perdere di vista l’utile morale, e certo il rimprovero d’averlo obbliato non si potrà mai fare al nostro: ma assai di morale istruzione e più propria all’istante, poteva egli dal suo soggetto ricavare, parlando della sobrietà necessaria e vantaggiosa ne’ piaceri, del bisogno, che questi hanno del magico velo del pudore ec., senza avvelenare le gioje d’un giovine innamorato, che sta per fruirne legittimamente, coll’intuonargli [168] all’orecchio, e in aria di lamento, quelle dure verità. Che s’egli ha poi cercato di consolarnelo colla idea della virtù, onde, come della bellezza, era fregiata senza pari la Sposa, ognuno ben vede, che sterile consolazione sia codesta, massime per quel tempo, in cui l’uomo è tutto dei sensi, ed ascolta una sentenza lor sì funesta. O i sensi parlano allora in lui un linguaggio imperiosamente esclusivo, ed è perduta presso di lui la fatica di moralizzare; o non parlan sì forte, e dalla importuna morale gli è avvelenata la fonte de’ piaceri, che gli amanti illusi credono inesauribile, immanchevole. Oltredicchè madonna la virtù, di sembianze sempre poco grate alla giovinezza, arriva così inaspettata, che il venir suo non lascia neppur sentire da lei quella consolazione, che meglio preparato poteva arrecare. Vedeste mai, pregiatissimo Pozzetti, vedeste mai nella varia scena del mondo un amante, che tenero passionatissimo per donna di rari pregi così d’animo che di corpo ricca a dovizia, osasse pur di rivolgere sopra di lei uno sguardo censorio, e reprimendo con acerba violenza i [169] sentimen|ti di dolce meraviglia e di beata adorazione, fra tanti doni della natura e dell’arte, fra tante doti dello spirito e del cuore a scrutinar si ponesse per ritrovarvi alcuna cosa men commendevole? Io questo strano spettacolo, ora io ve l’offro in me stesso, mentre assumo di squadernare con critica mano il poema del Giorno. Tra la vergogna del fermarmi alla metà del corso, e il ribrezzo di proseguire, contraddicendo in parte a ciò stesso, che ne ho detto altrove, sono stato ondeggiando più che non crederete facilmente. La prima obbiezione, che mi si para alla mente contro il tessuto di codesto mirabil lavoro, io la derivo dalla soverchia frequenza delle apostrofi. Lascio la generica osservazione, che siffatta frequenza è da tutti gli Scrittori dell’arte bia-

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le biografie

simata, massimamente là, dove il Poeta non può essere nè commosso nell’affetto, nè trasportato dall’estro; situazioni affatto straniere ad un didascalico, comecchè sotto l’ombra degli ammaestramenti si proponga di satirizzare e di pungere. Il Mattino e il Mezzogiorno, per la maniera di trattarli adottata dal Parini, sono già una [170] serie poco discontinuata di rivolgimenti al Giovin Signore di moda, cui si vuole ammaestrare: ora egli è per ciò stesso, ch’io reputo, come portante qualche volta imbarazzo, e sempre nojosa uniformità, quel rivolgersi, ch’ei fa sì spesso ad altri oggetti colla figura medesima, segnatamente nel Mattino, dove sono apostrofati i Valletti, il Parrucchiere, Voltaire, Ninon De l’Enclos, e la Fontaine di seguito, poscia il Genio di Marte e il volgo. Con maggior parsimonia si vede da lui fatt’uso di cotal modo nel Mezzogiorno, e ben si accorge ogni saggio lettore che se in codesta seconda parte del Giorno il nostro immortale Scrittore ha lo studio e la fatica nascosto men che nell’altra, è andato altresì viemeglio esente dalle temute censure. Fra codesti poi troppo iterati rivolgimenti, quello, ch’ei diresse al volubile Architetto di bel crine, parmi per altre non lievi cagioni degnissimo di riprensione. Vi scorgo primamente obbliato il costume della persona, a cui si parla, con questa per se ingegnosissima, magnifica ed acre comparazione. [171]

In cotal guisa Se del Tonante all’ara, o della Dea, Che ricovrò dal Nilo il turpe Phallo, Tauro spezzava i raddoppiati nodi, E libero fuggia, vedeansi al suolo Vibrar tripodi, tazze, bende, scuri, Litui, coltelli, ed orridi muggiti Commosse rimbombar le arcate volte, E d’ogni lato astanti e sacerdoti Pallidi all’urto e all’impeto involarsi Del feroce animal, che pria sì queto Già di fior cinto, e sotto alla man sacra Umiliava le dorate corna.

Questa similitudine parte integrante costituisce della allocuzione del Poeta al Parrucchiere. Ma qual è nella classe di codesti or trascurati, e per la dominante moda inutili artigiani così erudito, che comprender possa tanta grandiloquenza, e cogliere le non volgari allusioni alla mitologia e sentir la argutezza della applicazione? Inoltre il Poeta parla al Parrucchiere in presenza del Giovine suo Signore; e certo non avvi indizio che l’abbia tratto in disparte. Come adunque ha egli obbliata quella simulazione, che si è [172] proposta? Ometto che parer puote un obblio questo precetto: Che più? Se per tuo male un dì vaghezza D’accordar ti prendesse al suo sembiante L’edificio del capo, ed obbliassi Di prender legge da colui, che giunse Pur jer di Francia, ahi quale atroce folgore, Meschino! allor ti prenderìa sul capo! Ch’io ben conobbi de’ giovinastri cotanto scemi da beversi pacificamente codesto sciloppo. Ma quando poi gli fa sperare che colla pazienza giugnerà non solo

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a pacificarlo, ma sì anche a riportarne scuse, lodi e mercede prima d’ogn’altro, soggiugnendo: Onde sicuro sacerdote allora L’immolerai, qual vittima, a Filauzio Sommo Nume de’ Grandi; ovvero, come ho letto in alcune edizioni, Solo Nume de’ Grandi: io non so, quale scimunito reggesse a tale apertissima ingiuria. Dove è da notare [173] che, supponendo codesto grecismo, nel quale tutta consiste la forza, oscuro all’Eroe (e vi sono invero molti de’ nostri Eroi, ossia persone importanti, che lo troverebbero inintelligibile) non si può senza deformità crederlo chiaro pel Parrucchiere. In eguale dimenticanza cadde poco appresso il Parini, favellando al suo alunno: A te quest’ora Condurrà il merciajuol, che in patria or torna Pronto inventor di lusinghiere fole, E liberal di forestieri nomi A merci, che non mai varcaro i monti. Tu a lui credi ogni detto: e chi vuoi, ch’osi Unqua mentire ad un tuo pari in faccia? Invano con quest’ultimo concetto scansar si vorrebbe la assurdità, non essendo verisimile in uomo qualunque tanta sciocchezza da prestar fede a parole, che gli son fatte conoscere menzognere. Doppio obblio fu poi quello, che lo prese nel Mezzogiorno, quando gli disse: [174]

A te sui servi altrui Ragion donossi in quel felice istante, Che la noja o l’amor vi strinser ambo In dolce nodo, e dier ordini e leggi.

Qual è sì stupido, che non si rechi ad offesa lo strano complimento della noja formatrice de’ suoi dolci legami? D’altra parte il Poeta avea già dal medesimo soggetto cantato nel Mattino: Tu volgi intanto A’ miei versi l’orecchio, ed odi or quale Cura al mattin tu debbi aver di lei, Che spontanea o pregata a te donossi Per tua Dama quel dì lieto che a fida Carta non senza testimonj furo A vicenda commessi i patti santi, E le condizion del caro nodo. E qualch’altra forse di siffatte macchiette ritrovar si potrebbe nel Giorno, se l’attimo non rifuggisse dalla ingrata ricerca, per cui bisogna resistere allo splendor seducente di mille e mille bellezze. Sarà sempre oggetto di stupore per chi ne conosce la immensa difficoltà il vedere [175] con|tinuato e sostenuto per tanto

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spazio, per tanta varietà di situazione un parlar figurato di tal maniera, che fa intendere agli uditori il contrario di ciò, che dice a quello, cui è diretto, senza che riesca inverisimile nell’uno e negli altri la doppia ed opposta intelligenza. Chi volesse trovar inoltre a ridire sul Mezzogiorno, occasione trarrebbe, cred’io, primieramente da quella scappata tutta improvvisa e fuor di luogo, che sulla odierna stupidità d’Imenéo fa il Poeta in mezzo alla descrizione del pranzo, mentre la Dama si è posta a trinciare; e le grazie

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Della candida mano all’opra intenta chiamano sopra di sè dal labbro de’ convitati Mille baci di freno impazienti. Ecco, dic’egli al Giovin suo Signore, Già s’arrischian, già volano, già un guardo Sfugge dagli occhi tuoi, che i vanni audaci Fulmina ed arde, e tue ragion difende. Sol de la fida sposa, a cui se’ caro, Il tranquillo marito immoto siede, E nulla impression l’agita e scuote Di brama o di timor; però ch’Imene Da capo a piè fatollo. Imene or porta Non più serti di rose avvolti al crine, Ma stupido papavero grondante Di crassa onda Letéa.

Se il Parini si arrestava a questo bel trovato delle cangiate corone, il suo pensiero rimaneva connesso coll’argomento; ma egli ha proseguito:

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Imene e il Sonno Oggi han pari le insegne. Oh come spesso La Dama dilicata invoca il Sonno, Che al talamo presieda! e seco invece Trova Imenéo, e stupida rimane, Quasi al meriggio stanca villanella Che tra l’erbe innocenti adagia il fianco Queta e sicura, e d’improvviso vede Un serpe, e balza in piedi inorridita, E le rigide man stende, e ritragge Il gomito, e l’anelito sospende, E immota, e muta, e con le labbra aperte Obliquamente il guarda! Oh come spesso Incauto amante alla sua lunga pena Cercò sollievo; ed invocar credendo Imene, ahi folle! invocò il Sonno; e questi Di fredda obblivion l’alma gli asperse, E d’invincibil noja, e di torpente Indifferenza gli ricinse il core.

Qaesto episodio dettato bensì con tutta la forza di frase e la vivacità di comparazione, pieno infine di tutti i pregi, che ad uno squarcio poetico conciliano ammirazione, è nondimeno interamente slegato, nè combacia in verun punto col tessuto delle idee precedenti.

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Codesta transizione delle insegne, che Imeneo, ed il Sonno hanno fra lor somiglianti oggidì, poco felice, perchè, secondo i più giudiziosi precetti dell’arte, troppo vicina al metodo prosaico, il quale con una proposizione sta unito alle cose già dette, e coll’altra prepara a ciò, che vuol dire, codesta transizione m’invita ad osservarne un’altra, sol d’un breve passo lontana. Teco son io, Signor; già intendo e veggo Felice osservatore i detti e i moti De’ semidei, che coronando stanno, E con vario costume ornan la mensa. [178] Era inutile tutto ciò. Il Giovine Signore ben sapeva che il Poeta gli era presente, se un istante prima udito lo avea presagirgli che per lo innanzi sarebbegli ceduto Il trinciator coltello, Che al cadetto guerrier serban le mense. Nè bisogno eravi che gli soggiugnesse d’aver osservati minutamente i semidei del convito, giacchè bastava mostrarlo col fatto, slanciandosi a parlar di loro colla opportunissima interrogazione: Or chi è quell’Eroe, che tanta parte Colà ingombra di loco? ec. È forza confessare che tra le molte figure, le quali servono alla modificazion del discorso la Metabasi non è delle più facili a maneggiarsi acconciamente: perlocchè non è poi tanto da maravigliare, quanto da dolersi che l’immortal nostro Poeta lasciasse distaccati e disgiunti i quadri, che dovriano comporre la galleria della sera. Il variare le tante transizioni, che gli erano a tale composizion necessarie, richiedeva di studio e di fatica troppo più, [179] che non comportavano gli ultimi suoi anni sì cagionevoli. Infine io non temo d’andar molto lungi dal vero, quando reputo viziosa per superfluità di sentimento quella leggenda, che pare al Poeta pronunziata dalla cera vermiglia, ond’è nella base improntato il bicchier della Dama. Lungi, o labbra profane: al labbro solo Della Diva, che quì soggiorna e regna, Il castissimo calice si serbi: Nè cavalier con l’alito maschile Osi appannarne il nitido cristallo, Nè Dama convitata unqua presuma Di porvi i labbri, e sien pur casti e puri, E quant’esser si può cari all’amore. Nessun’altra è di lei più pura cosa. Chi macchiarla oserà? Le Ninfe invano Dalle arenose loro urne versando Cento limpidi rivi al candor primo Tornar vorrieno il profanato vaso, E degno farlo di salir di nuovo Alle labbra celesti, a cui non lice Inviolate approssimarsi ai vasi,

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le biografie Che convitati Cavalieri e Dame Convitate macchiar coi labbri loro.

Mi è noto che la iperbole quivi adoperata [180] non abbisogna punto, che il somigliato agguagli in verità il somigliante, e viceversa; ma è però necessario che corra fra di loro una tale corrispondenza, da non offrir nulla nè di strano, nè di soverchio a chi ascolta. Ora la sproporzione di codesto tratto colla moderata estensione, che bastata sarebbe al pensiero, senza che nulla perdesse nè della sua forza nè della sua bellezza, quella si è, che lo porta fuor di misura, e lo rende alquanto freddo e manchevole; lo che avvien sempre, quando la iperbole insiste più del dovere. E quì depongo la penna, ch’io stesso chiamerei temeraria, e condannerei con questi mal vergati foglj alle fiamme, se purissima intenzione non la avesse guidata. Indi a te mi rivolgo, o benedetto ed onorato spirito del Parini; dinanzi alla indefettibile tua luce vivissima mi prostro umilmente, e ti prego e scongiuro a guardar con pietade questo lavoro. Tu dal beato soggiorno di verità ben vedi l’animo mio; tu sai che niuno de’ tuoi ammiratori non ebbe giammai più di me cara e sacra la tua gloria: che se fui tanto ardimentoso da portar sull’opere tue la languida face, di cui mi ha fatto dono la [182] critica, deh! riconosci ch’io ho tentato in tal guisa di renderle alla studiosa gioventù modello, qual sono, più fedele o sicuro di poetiche perfezioni. Le fatiche a tal oggetto sudate da troppo in vero più valenti uomini sugli scritti di Omero, di Virgilio, d’Orazio, del Petrarca, del Tasso, portarono all’arte incremento, senza che punto scemasse, anzi più chiara facendosi e grande, quella fama immortale, che tu hai con essi comune. Oh mio caro Pozzetti! Io era ben lungi dal prevedere che i graziosi vostri incoraggimenti condotti m’avrebbon tant’oltre. Le nostre lettere, dolce alimento di privata, per me onorevolissima corrispondenza, e dettate dapprima con tutt’altro intendimento, presto saranno sotto il difficil occhio del pubblico. S’io non isperassi alle mie sostegno, come ebber già lume dalle vostre . . . . Ma il pentirsi da sezzo nulla giova. Addio. Continuate ad amarmi, e credetemi sempre colla più giusta considerazione ec. Parma, dalla amenissima Carona il 21. di Agosto del 1801.

[bramieri, pozzetti] [182]

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IX.

all ’ AVV. BRAMIERI POMPILIO POZZETTI Modena 28. Maggio 1802.

Stava io appunto per assoggettare al finissimo giudizio vostro qualche pensiero sortomi or ora nell’animo relativamente alle poesie dell’immortale Parini, in continuazione di quanto si è già scritto da noi su tale argomento; quando un erudito Amico mio, dimorante in Milano, si compiace farmi dono d’alcune notizie, appartenenti all’origine ed alla nascita del nostro Poeta, le quali io prendo subito a comunicarvi. Giuseppe Parini vide la prima luce in Bosisio, correndo il vigesimo terzo giorno di Maggio dell’anno mille settecento ventinove. Ebbe a genitori [183] Fran|cesco Maria Parini, ed Angela Maria Carpani amendue natii di quella Terra. Ed eccovi tosto renduto pago intorno a ciò che nella prima Lettera vostra sopra il medesimo soggetto annunziaste aver tentato invano di sapere con precisione, e che neppur si trova specificato nell’elogio prodottone l’anno scorso dal benemerito Padre Cosimo Galeazzo Scotti Barnabita, stato un dì suo discepolo. Appare inoltre così non esservi altrimenti voi dipartito dal vero, siccome poscia temeste, nello scrivere, che Parini morì, compiuto l’anno suo settantesimo. Egli infatti l’oltrepassò di due mesi e di ventidue giorni. Ma che direte, se in virtù delle cognizioni recentemente acquistate, io affermi non sussister poi la promulgata bassezza ed abbiezione dei natali di Parini? Per obbedire adunque alla verità, idolo dei cuori ben fatti, non perchè alligni in me il pregiudizio, sì giustamente deriso dall’Arpinate e dal Venosino, di creder la nascita dell’uomo, illustre per meriti proprj, bisognosa di tali apologie; in grazia, lo ripeto, della verità la quale or mi si appalesa, vi soggiugnerò, che il padre del Cantore del giorno, non era no [184] uno dell’infimo volgo, bensì un negoziante di seta, posseditor di alcuni fondi nel Comune di Bosisio. Col provento di questi, egli ebbe agio, anche dopo avere, pel fallimento di un suo Corrispondente, abbandonato il traffico, d’apprestare onesto sostentamento alla sua famiglia composta di tre Figlie, oltre l’unico Maschio, che è il Valentuomo di cui vi parlo. Era l’abitazione loro assai decente, siccome osservasi ancora oggigiorno, che vien goduta da un Nipote di Sorella del nostro Poeta. I singolari talenti, che manifestaronsi di buon ora nel giovinetto Parini, indussero l’ottimo Genitore ad inviarlo alle scuole pubbliche in Milano, dove a proprie spese il mantenne, affinchè vi fosse nelle liberali facoltà ammaestrato: sicchè dei frutti preziosi raccolti da tale istituzione avea ragion di asserire l’Abate Parini, come Orazio, in riguardo ad altrettali, procacciatigli dal padre suo, mercè l’averlo condotto ad istudiare in Roma: Caussa fuit Pater his, qui …… …… puerum est ausus Romam portare docendum Artes quas doceat quivis eques atque senator Semet prognatos.

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[185] Lascierò poi che altri veda se a Bosisio convengasi l’aggiunto di abbietto Villaggio attribuitogli, secondo taluni, a torto, nell’elogio dianzi rammemorato. Voi non soffrirete che ci perdiamo a discutere, se, a meritargli un trattamento migliore, basti per avventura il notare, che questa Terra, antico feudo dei conti della Riviera, che vi teneano il pretorio della loro giurisdizione, presenta un complesso di cento venticinque e più Famiglie, le quali formano il numero di circa ottocento abitanti, dediti in gran parte all’esercizio della mercatura. Comunque se ne voglia pensare, Bosisio1 fia quindinnanzi rinomato perchè diede al Parini la culla, a quel modo che lo è il villaggio di Pietole ove nacque Virgilio. Nè quegli schivò mai l’occasione di rammentar la sua Patria, situata presso il Lago di Pusiano, creduto l’Eupilis di Plinio quasi temesse di contrarne macchia ed oscurità. All’incontro la celebrò nell’ode intitolata La salubrità dell’aria, che incomincia: [186]

Oh beato terreno Del vago Eupili mio, Ecco al fin nel tuo seno M’accogli; e del natio Aere mi circondi, E il petto avido inondi. Già nel polmon capace Urta se stesso e scende Quest’etere vivace, Che gli egri spirti accende E le forze rintegra E l’anime rallegra. Però ch’austro scortese Quì suoi vapor non mena, E guarda il bel paese Alta di monti schiena, Cui sormontar non vale Borea con rigid’ale. Nè quì giaccion paludi Che dall’impuro letto Mandino ai capi ignudi Nuvol di morbi infetto, E il meriggio a’ bei colli Asciuga i dorsi molli.

Amò egli inoltre mandar fuori un saggio di alquante sue poesie di varie [187] manie|re, col nome di Ripano Eupilino, cioè di Parino d’Eupili. Fra queste trovansi un’ode e quattordici sonetti impressi nel tomo XIII. degli Arcadi sotto nome di Darisbo Elidonio P. A. della Colonia Insubre. Vi protesto, mio caro Bramieri, che di buon grado mi sarei astenuto dall’intrattenervi di simili minuzie un sol momento, ove per avventura non avessi considerato che di coloro, i quali ottenner grido nel Mondo, piace sapere le più indifferenti particolarità, sembrando che nelle cose grandi nulla esser vi possa di piccolo, e che negli Uomini 1 È celebre Bosisio anche per esser patria del valente Pittore Andrea Appiani.

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egregj abbiasi in onore quello eziandio che importa meno, attesa appunto l’eccellenza che distingue qualunque opera loro. Fu per ciò che voi non isdegnaste chiedermi contezza della disputa sostenuta da Parini contro il P. Branda, sebbene il soggetto di essa, poco più che gramaticale, bastasse ad avvisarvi dell’intrinseca sua tenuità. E tale in processo di tempo ebbe egli stesso il Parini a giudicarla, dichiarando solennemente un tratto, che ei si guardava dal motivare una clamorosa quistione insorta in grazia della poesia [188] in dialetto milanese. Stimava egli allora che l’argomento potesse forse tacciarsi di frivolo, e confessava apertamente la guerra esservisi fatta con tanta licenza che non meritava di venir mai più richiamato dall’obblivione un così fatto obbrobrio della letteratura. I quali sentimenti, assai onorevoli allo spirito rettissimo dell’Autore, mi aprono l’adito a ricordarvi il breve, ma elegante scritto, di cui non si è finora tra noi ragionato, dove sono accolti; intendo il discorso che Giuseppe Parini mise avanti ad alcune poesie milanesi e toscane di Carlantonio Tanzi impresse a Milano nell’anno mille settecento sessanta sei da Federico Agnelli. Voi avete quivi un elogio al Tanzi stesso, pieno di sapere e di accorgimento, e dettato con un’urbanità di stile propria soltanto di coloro che bevvero ai fonti sinceri dell’italiana eloquenza. E poichè son certo non esser voi del novero di que’ fastidiosi, i quali hanno a vile il ministero di traduttore, quasi che fosse possibile esercitarlo a dovere senza le doti di un’anima sovranamente poetica, perciò non resterommi dall’accennarvi la [189] versione, che il Cantor del mattino eseguì dal francese, insieme col P. Mainoni, del penultimo canto della Colombiade notissima di madama du Boccage. Nel qual metrico volgarizzamento spiccò il Parini non secondo a veruno dei prodi Vati che unironsi a compiere l’intera traduzione del mentovato poema, uscita, già son trentun’anni, dai torchi in Milano di Giuseppe Marelli. Passo ora a far parole d’un altro lavoro del nostro Poeta, sopra cui abbiamo fin quì serbato silenzio. Confido che la menzione di esso non sia per tornarvi disaggradevole, essendo che giovi ancora a porre in maggior lume la verità d’una sentenza vostra, che trovo egregiamente stabilita nella lettera per voi diretta alla coltissima Ninfa della Trebbia, Egeria Caritea. E dopo le ragioni da voi quivi esposte con tanto senno, chi vorrà contrastare a Parini il merito di poeta del cuore? Vi assicuro che allora quando mi avvenni a leggere, entro l’anzidetta lettera vostra, quel passo dei Dialoghi d’Amore alle Dame Viennesi, ove si pronuncia che Parini non era che debolmente ispirato [190] dalla famosa divinità ivi dialogizzante, lungi dal saperla io difendere, come vorreste, parvemi incontanente che dal valor medesimo de’ termini, in cui è avvolta simile decisione, trar si potesse il fondamento a rivocarne in dubbio la giustezza. Un gran Poeta, così nel diciannovesimo di que’ colloquj, Amore al Petrarca, l’Abate Parini talor m’invoca e onora. Ma latino, dietro Orazio, vuol dirsi per l’asperità e lo sforzo nella lingua, e più pel fiero animo catoniano, onde poco io l’ispiro e poco a te somiglia. Non so in vero comprendere come possa concedersi il vanto di gran Poeta a colui che nel tempo stesso si definisca privo di sensibilità, mancando la quale credo sia tolta ogni speranza d’incontrar grazia presso le Muse. O io m’inganno altamente, o le opere dell’affetto quelle sono, che determinano a preferenza il carattere di gran Poeta: sicchè tal sarebbe il divino Ariosto quand’anche altro di lui non ci rimanesse fuorchè le descrizioni patetiche, inarrivabili dei casi d’Angelica, d’Olimpia, d’Isabella, di Pinabello ec. E se l’Autore chiarissimo dei citati dialoghi non esitò a [191] met|tere in bocca d’Amore un rimbrotto ad un Prosator

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moderno, perchè mai non pensò all’arte nata dal cuore, e scrive scrive, egli dice, e non sente, come poi decantar Parini gran Poeta, nell’atto medesimo di proferire, che egli talora, poetando, invocava, ma indarno, Amore, e che poco somigliava al passionato Cantore di Laura? Crescono per me le tenebre intorno le accuse di asperità e di sforzo nello stile colà date a Parini, perchè emulatore di Orazio. Se ho da esporvi con libertà quel ch’io ne sento, a me non sembra potersi a buon diritto chiamar duro e stentato il Poeta Parini, solo perchè si volse ad imitare il Lirico del Lazio. Ad imitare, cioè, no i soggetti ed i modi particolari del suo nativo linguaggio, bensì l’andatura, il portamento, l’estro, gli spiriti di essolui, che per la vivezza, per la felicità, per la grazia, tutte sue proprie, formò pur sempre la delizia delle anime gentili. A qual titolo potrebbe il celebre Dialogista dubitare che la imitazione di Orazio fosse naturalmente capace di mettere in ceppi un genio poetico simile a quello che ei [192] ricono|sce in Parini? Esso, il Dialogista, è il medesimo che nel suo bel discorso sopra la poesia italiana lodò a cielo le canzoni di Frugoni, quantunque, a suo giudizio, oraziane. Esso è il medesimo che, nella lettera dedicatoria precedente le sue Lodi del Petrarca, scriveva di consolarsi al vedere, di mezzo all’odierna mediocrità letteraria, sorgere alcuni grandi Esemplari, e tra questi un vero Orazio a Milano, che è quanto dire Giuseppe Parini. E siate certo, Amico veneratissimo, che non per altro fine sono io sollecito di contrapporre alla sovraesposta critica i reiterati encomj, altrove tributati dall’Autore di essa all’Orazio Milanese, se non perchè dorrebbemi assai che alla fama di lui paresse venir meno il continuato favorevol suffragio di tanto Giudice. Perciò godo ridurmi alla memoria ciò che questi ha scritto nella prefazione a’ suoi poemetti in ottava rima, dove per dimostrare che, nel comporre, non evvi moda, o disuso, o partito, che contro al bello ed al buono prevalgono di qual vogliasi vesta s’adornino, se bene sta loro indosso, afferma che l’Autor del mattino e del [193] mezzogiorno farebbe un’epoca nuova anche in un secolo il più svogliato o il più guasto. Ma lasciando ormai di allargarmi in parole intorno ad una causa, la quale già non dimandavane alcuna dopo che fu trattata maestrevolmente da voi, eccovi, senza più, il frontispizio della pocanzi avvisata produzion Pariniana. Ascanio in Alba, festa teatrale da rappresentarsi in Musica per le felicissime Nozze delle LL. AA. RR. il Serenissimo Ferdinando Arciduca d’Austria, e la Serenissima Arciduchessa Maria Beatrice d’Este Principessa di Modena. Milano 1771. Bianchi. Di questo componimento non m’increscerà trascrivervi qualche tratto, onde abbiate sempre maggior motivo di persuadervi, non esser no state a Parini sconosciute e malagevoli le vie dell’uman cuore, nè aver lui sortita un’anima di sì austera ed indomabile tempera catoniana, per cui gli fosse disdetto ognora il movimento delle più dilicate e più soavi passioni. La poesia, disse egli nell’elogio del Tanzi accennato di sopra, la vera poesia dee penetrarci nel cuore, dee risvegliare i sentimenti, dee muover gli affetti. Non è sì energico [194] nell’incul|car certe massime che si vegga inabile a praticarle. Scena seconda Parte prima della suddetta composizione. Ascanio solo. Ma la Ninfa dov’è? Fra queste rive Chi m’addita il mio Bene? Ah! sì, cor mio, Lo scoprirem ben noi. Dove in un volto

[bramieri, pozzetti] Tutti apparir delle virtù vedrai I più limpidi rai; dove congiunte Facile maestà, grave dolcezza Ingenua sicurezza E celeste pudore; ove in due lumi Tu vedrai sfolgorar d’un’alta mente Le grazie dilicate e il genio ardente, Là vedrai la mia Sposa. A te il diranno I palpiti soavi e i moti tuoi: Ah! sì, cor mio, la scoprirem ben noi. Cara, lontano ancora, La tua virtù mi accese: Al tuo bel nome allora Appresi a sospirar. Invan ti celi, o cara, Quella virtù sì rara Nella modestia istessa Più luminosa appar. [195]

Nella scena quarta, Silvia Numi, chi fia Più di me fortunata? O Ascanio! O Sposo! Dunque per Te, mio Bene, L’amoroso disio Si raddoppia così dentro il cor mio? Amo dunque il mio Sposo, Quando un bel volto adoro? Amo lui stesso, Quando mille virtù pregio ed onoro! Com’è felice stato Quello d’un’alma fida, Ove Innocenza annida E non condanna Amor. Del viver suo beato, Sempre contenta è l’alma; E sempre in dolce calma Va sospirando il cor. Nella scena susseguente, Ascanio Cielo! che vidi mai! quale innocenza, Quale amor, qual virtù! come non corsi Al piè di Silvia, a palesarmi a lei! Nella scena seconda della parte seconda, Silvia nel veder da lungi Ascanio, alzandosi ed avanzandosi. . . . . Ah! sì il mio Bene Il mio Sposo tu sei!

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Nella Scena quarta, Ascanio Al mio Ben mi veggio innanti, Del suo cor sento la pena, E la legge ancor mi frena? . . . . . Ah! Si rompa il crudo laccio, Abbastanza il cor soffrì. Se pietà dell’alme amanti O gran Diva il sen ti move, Non voler fra tante prove Agitarle ognor così. E Silvia Infelici affetti miei Sol per voi sospiro e peno, Innocente è questo seno Nol venite a tormentar. Deh! quest’alma, eterni Dei, Mi rendete alfin qual era, Più l’imagin lusinghiera Non mi torni ad agitar.

Che ne dite, ornatissimo Bramieri? Chi sapeva pensare ed esprimersi con tanto di grazia e di candore, non era certo assuefatto a provar le spiacevoli ripulse d’Amore invocato e pur sempre poco arrendevole a’ suoi prieghi. Erasi il Parini in ogni [197] sua composizione prefisso dir cose e non parole; quindi scelse tal rara volta di comparire anzi meno fluido e risuonante che vacuo di concetti, insipido, come tant’altri, inoperoso ed isnervato. A Lui, del pari che al vivente Sofocle italiano, sembrava forse tale l’indole dell’idioma nostro da non paventare giammai in esso la durezza, bensì molto la troppa fluidità per cui le parole sdrucciolano dalla penna a chi scrive. Forse avrebbe potuto anch’egli, a somiglianza del grande Alfieri, citare a’ suoi Censori alcuni de’ proprj versi alquanto aspri ed a prima giunta intralciati, svelando loro ad un tempo la causa per cui elesse di lavorarli così, e pronto a rendere, presso tribunal competente, ragione di ciascheduno. E giacchè siamo in sul rammentar i rimproveri che dalla turba dei critici ebbe anche Parini a sofferire, permettetemi ch’io vi trattenga un istante su quello, che udii farsegli da più d’uno, per lo frequente suo costume di adoperar voci prette latine, riducendole alla desinenza italiana e nulla più. Se ne potrebbero addur parecchie, verbigrazia le seguenti, che mi ricorrono adesso all’idea. [198] Nel Mattino Qual testudo il collo Contragga alquanto . . . . Allo scoppiar delle importune risa Che scoppian da’ precordj. Nel Mezzogiorno. . . . . . dal meriggio ardente il sol fuggendo Verge all’occaso . . . .

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Lieve lieve per l’aere labendo. E dei clivi odorosi a lui blandisce ec. Col reboato dell’aperta tromba. Ho omesso di notar le parole fedo e truculento, la prima delle quali s’incontra nel Mattino Invidiasti il fedo loto ancora, l’altra nel Mezzogiorno . . . . nè il truculento Cor gli piegaro i teneri belati, alla cui lettura vid’io arrestarsi più d’uno, conciossiachè quella abbia un sostegno fortissimo nel Padre della poesia nostra, in Dante, che disse al canto duodecimo dell’Inferno: Da tutte parti l’alta valle feda Tremò sì, ch’i’ pensai che l’Universo Sentisse Amor ec. [199] e la seconda si appoggi all’autorità del Sannazzaro, che nell’ottava prosa della sua Arcadia appellò truculente le orse. E potè farlo, giacchè a niuno accreditato Scrittore debb’esser conteso il trasferire opportunamente nel volgare discorso qualche voce del Lazio. Infatti, che la nostra materna loquela, non altrimenti che la francese e la spagnuola, sia nata dall’alterazione della latina è cosa manifesta ed incontrastabile a segno da non esser lecito a chicchessia il dubitarne. Anzi l’italiana, a preferenza dell’altre due nominate, che vantano con lei comune l’origine, ritiene sì gran copia di latine dizioni, tale ha somiglianza colla madre che vale a produrre due generi di poesia, unicamente proprj di essa, il fidenziano, che la frase latina trasfonde nell’itala composizione, il maccaronico, che la frase italiana converte nella composizione latina. Che più? Giunge a tanto siffatta similitudine, che la lingua figlia scambia a suo talento colla lingua madre, sì in prosa che in verso, il parlare. Son decantate, e forse al mondo sole, le poesie bilingui tra noi, e vi risovverrà in questo [200] propo|sito il sonetto latino-italico a Maria Vergine del Padre Girolamo Tornielli, che principia Quasi rosa pestana in campo aprico; e l’altro riportato dal fu conte Castone della Torre di Rezzonico nel ragionamento da se premesso all’edizion parmigiana, invero troppo voluminosa, delle opere poetiche di Frugoni. Vi prego a ridurveli in mente que’ due sonetti, perchè dessi vi convinceranno altresì vieppiù, non aver l’italiano sermone perduta affatto l’armonia latina, identiche essendo in entrambi i linguaggi le parole, nè perciò generando un parlar disarmonico. In conseguenza scorgerete non ben reggersi il riferito giudizio d’Amore, che di asperità, nella lingua condannò Parini per aver voluto esser, dietro Orazio, latino. Ma ritornando subito in via, mi chiederete dove con tali premesse io voglia poi riuscire? A conchiuder, cioè, che Parini adoperò seconda le leggi del miglior gusto allora quando gli piacque introdur nella viva e fiorente nostra [201] favel|la le ricchezze della latina, donde quella immediatamente discende. Sif-

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fatti modi, la cui scelta esser dee l’opera di quell’esquisito criterio che formò il distintivo della Musa Pariniana, giovano mirabilmente codesti modi a nobilitare e ad ingentilire l’elocuzione, spargendola quasi d’una vernice amabile di antichità. Perciò Orazio sosteneva esser conceduto ai buoni Scrittori dell’età sua d’innestare, con dotta sobrietà, alla lingua di Roma qualche greca maniera; perciò non pareva all’eloquentissimo Baldassar Castiglione regola sana quella di molti, che la volgar lingua stimano tanto più bella quanto meno si accosti alla latina, e bramava all’opposto che gli uomini letterati e di sano ingegno, non temessero di fabbricare nuove parole e nuove frasi, ponendo cura a derivarle sagacemente dai latini. Ne avevan dato gli esempli i tre lumi della lingua nostra, Dante (a larga mano), Petrarca e Boccaccio perfin nelle prose, e li rinnovarono di poi l’Ariosto ed il Tasso, il primo de’ quali non ebbe, voi lo sapete, difficoltà di usar delubri, colubri, multe, accenso, egroto, vestibulo, fragore, naute, celere, crebre, relinque ed [202] altre molte. E quanto non diletta il sentir trasfusa nei versi di Gabriele Chiabrera, non dirò solamente l’anima, or di Anacreonte, or di Pindaro, ma il vederli nobilmente risplendere delle avvenenze prese dalla greca lingua, le quali chi ardisse toglier loro, verrebbe ad arrecare alla maestà ed alla luce di quel suo bello stile gravissimo oltraggio! Similmente io reputo che il vago colore della Pariniana poesia fosse per rimanere offuscato, ogni qual volta ne sparissero quelle voci, quelle maniere, quelle inversioni alla foggia latina, io reputo, sì, mio caro Bramieri, e voi decidete se a torto, che il sostituire a que’ termini latini gli italiani corrispondenti, sarebbe appunto lo stesso che mieter barbaramente in que’ poemetti il vezzo dello stile, a causa del quale ha atteso l’Autore a collocarveli. E ciò importava assaissimo, dappoichè in poesia ogni cosa che è grazia vuolsi cercar diligentemente ed ammettervisi di buona voglia. Che se l’accrescer bellezza e nobiltà ad una lingua vivente e il dilatarne i confini spetta ai profondi conoscitori della medesima, e tra questi, ai poeti segnatamente; a Parini nutrito della sostanza de’ Classici nostri, a [203] Parini ricchissimo, d’apollinea vena dobbiam saper grado di aver usato così de’ suoi legittimi diritti. Per quanto più infatti io piglio a considerare quelle sue tinte e quelle sue forme latine, tanto più ammiro l’industria di Lui che le prescelse e le distribuì per sì acconcia guisa che niuna ve n’abbia, a mio credere, la quale non appaja dimorare come in nativo suo luogo, non palesi una convenienza gradevole colle locuzioni più comunemente ricevute, non cospiri in somma ad infondere nel discorso quel torno insolito, quel genio pellegrino dove consiste in gran parte il singolar carattere Della lingua che in ciel parlano i numi. E accada pure che altri mi accusi, anche per ciò di idolatria letteraria inverso Parini. Lieto io di aver comune con Voi siffatto senso di parzialità, non penserò pure a difendermi; invece mi andrò consolando col rileggere le interessanti lettere vostre sul prediletto argomento, e fia dolce per me il ravvisare le massime di Voi, che son parimente le mie, in accordo con quelle de’ più chiari Letterati, [204] fra i quali godo poter nominare l’Abate Saverio Bettinelli, Nestore omai dell’italiano Parnaso, che esaltò Giuseppe Parini per aver trasportato felicemente, non che dalla lingua greca e dalla latina, dalle viventi eziandio, nella nostra, i poetici tesori. Con pienezza di sincera stima e di leale attaccamento mi raffermo ec.

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X.

all ’ AVV. BRAMIERI POMPILIO POZZETTI Modena 4. Ottobre 1802.

E volete pur che io seguiti a scrivere di Parini? ad infilzar altre notizie intorno le opere e l’ingegno di lui? Io lo farò, giacchè agli incitamenti vostri non posso resistere, e soggiugnerovvi tutto ad un fiato quanto mi è ora avvenuto di raccoglierne dall’erudito mio Corrispondente, professore di eloquenza nel Collegio Calchi-Taegi in Milano. Comincio dal dissipare un equivoco scoperto (e chi sa quant’altri ne rimangono?) nella prima tra le lettere da me indirizzatevi. Allora quando io mostrai quivi di sospettare che il disegno dei poemetti Pariniani fosse per avventura nato [206] dalla società degli Editori del periodico foglio milanese intitolato il Caffè,1 non credetti che si potesse dalle mie espressioni ben ponderate inferire aver l’abate Parini cooperato a quel lavoro. Non ebbi in animo se non di annunziarlo come l’amico della maggior parte dei valentuomini che vi faticavano. Mi eran noti ad uno ad uno i soggetti, i quali celavansi sotto le lettere iniziali apposte a ciaschedun articolo per distinguerne l’autore, nè vedeva tra questi il Cantor del Mattino e del Mezzogiorno. È ciò tanto vero, che se vi prendesse vaghezza di sapere individualmente i nomi di codesti Estensori, sarei pronto ad appagarvi. Abbiateveli senza più. A. C. F. G. G. C. L. NN. P. S. X.

Alessandro Verri Cesare Beccaria Bonesana. Sebastiano Franzi. Giuseppe Visconti. Giuseppe Colpani. Alfonso Longo. Luigi Lambertenghi. Pietro Verri. Pietro Secchi. Paolo Frisi.

Per siffatta cognizione a me non poteva dunque cader in pensiero che Parini uno si fosse del bel numero di questi. All’incontro supposi che egli intervenendo alle letterarie loro assemblee, venisse pure stimolato a pigliar l’armi contro i pre1 L’autore di questa lettera avea scritto nella prima edizion Piacentina: ho io qualche ragion di supporre che il progetto di que’ poemi sia nato in Milano tra quella società d’uomini dotti, cui Parini era congiunto con vincoli di stima e di affetto; la quale poscia mandò in luce varj discorsi nell’anno mille settecento sessanta cinque sotto il titolo notissimo di Caffè. Per tali parole sembrava ad alcuni che si desse a Parini il merito di Cooperatore a quel foglio periodico.

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giudizj cui si volea far guerra, e che nella distribuzion delle rispettive imprese a ciò tendenti foss’ei destinato a sparger di scherno i vizj, che nella classe dei nobili e dei ricchi si diceano predominare. Ma son ora avvertito che il nostro Poeta probabilmente non assistette mai a simili adunanze. Imperocchè ebbe egli sempre l’animo alieno da uno di que’ socj, uom per altro dottissimo, il celebre Pietro Verri; e così non par credibile che Parini [208] cercasse occasioni di conversar seco lui, quasi per formar di que’ congressi scientifici un campo di clamori e di battaglie scambievoli. Ed in tal proposito a me piace oltremodo l’opinion vostra, cioè, che la nimicizia medesima dell’abate Parini col Verri abbia ispirata al primo la emulazione di combattere in versi le massime ed i costumi, cui essi lanciavano in prosa gagliardi colpi; e di soverchiare in tal guisa dei Letterati ai quali dovea piacergli di rimaner, come accadde infatti, superior nell’arringo, attesa appunto l’avversione, che loro nudriva. Che se non deve il Parini annoverarsi tra gli autori dell’indicata produzione, converrà per altro assegnargli una sede illustre fra gli scrittori di giornali, certo essendo che egli ebbe mano nella gazzetta letteraria uscita a luce in Milano pei torchi di Giuseppe Galeazzi nel mille settecento settantadue e continuata successivamente fino al mille settecento settanta sei. Ottenne quest’opera l’approvazione dei Saggi, e per rispetto a certi articoli, quella in modo particolare dell’abate Saverio Bettinelli. Se la gazzetta medesima sia mai venuta sott’occhio a voi, esperto e [209] classico giudice di tal sorta di lavori, avrete fra gli altri pregj, di cui è ricca, ammirato l’industria onde servesi quivi alla varietà de’ gusti coll’annunziar libri di qualsivoglia genere e col trattenersi vieppiù su quelli che seco traggono una diretta utilità e che vagliono a solleticare il genio d’un numero maggior di persone. Or che direte quand’io vi presenti in Giuseppe Parini non solo un Compilatore sagace di foglj letterarj, ma perfino di politici? Così è: vi fu tempo in cui Egli non si adontò di esercitare l’uffizio di gazzettiere, invitatovi dal rinomato conte di Firmian, cui la penna del nostro Professore, dovette sembrare con ragione attissima a renderlo vantaggioso: e se fosse ora possibile di congiungere a tal mestiere qualche favorevol giudizio, vi direi francamente che niun potea nobilitarlo meglio di Essolui, anche perchè aveva Egli (e soleva a buon diritto gloriarsene) ben letti e meditati i libri di quell’insigne Segretario fiorentino, che fu all’Italia il creatore della Politica e lo scrittor filosofo della Storia. Circa la qual gazzetta di Parini, non voglio tacervi il [210] se|guente aneddoto. Non sapendo Egli una cotal volta di che riempierla, si avvisò di promulgare a pascolo della comune curiosità, sotto la data di Roma, che il Papa Ganganelli aveva divietato ai Musici eunuchi l’ingresso nelle Chiese. Siccome avviene, la favoletta circolò per tutti quasi i pubblici fogli, e quel di Leida ebbe la sorte di recar la novella a Voltaire, cui andò sommamente a grado. Questi, che si vantava di negar fede alle più antiche e venerande istorie, credette subito a quel racconto, ed eccitò la festiva sua Musa a compor versi intorno l’evirazione, lodandovi lepidamente il romano Pontefice. Tanto è vero ciò che altrove asserisce il Solitario stesso di Ferney, non esservi, cioè, bello spirito, il quale o tardi, o tosto, non dia prove di soverchia credulità. Ma lasciamo l’Editor di Giornali e di Gazzette, e facciam per un istante ritorno al Poeta. Io voglio quì ricrearvi, trascrivendovi due tratti d’un sermone Chiabreresco e del più fino gusto Oraziano recitato già da Parini a Milano in una pubblica Accademia, e riferiti dal coltissimo [211] Domenico Balestrieri, autore di scelti carmi toscani, e compilator della famosa raccolta di poesie giocose

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d’ogni genere in morte di un gatto. Si trovano in una nota all’ottavo canto della Gerusalemme liberata travestita da Lui in lingua milanese. Alludono alla colonna denominata infame eretta nel mille seicento trenta in Milano presso San Lorenzo, ove l’abate Parini si figura d’incamminarsi, in tal guisa esprimendosi:

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Quando tra vili case in mezzo a poche Rovine io vidi ignobil piazza aprirsi. Quivi romita una colonna sorge Infra l’erbe infeconde, e i sassi e ’l lezzo Ov’uom mai non penetra, perocch’indi Genio propizio all’Insubre Cittade Ognun rimove, alto gridando, lungi O buoni Cittadin, lungi che il suolo Miserabile, infame non v’infetti: Al piè della colonna, una sfacciata Donna sedea, che della base al destro Braccio facea puntello; e croci e rote E remi e fruste e ceppi erano il seggio, Su cui posava il rilassato fianco. Ignuda affatto, se non che dal collo Pendeale un laccio, e scritti al petto aveva Obbrobriosi, e in capo strane mitre Terribile ornamento. Ergeva in alto La fronte petulante, e quivi sopra Avea stampate con rovente ferro Parole che dicean: Io son l’infamia. Io, che virtù seguendo, odio costei, Anzi gloria immortal co’ versi cerco. A tal vista fuggia, quando la Donna Amaramente sorridendo disse ec.

Quì il Sermonatore espone poeticamente quanto si racchiude nell’iscrizione posta di fianco alla mentovata colonna, la qual pure mi giova mettervi sott’occhio. Hic ubi haec area patens est surgebat olim tonstrina Io. Jacobi Morae, qui facta cum Gulielmo Platea Publ. Sanit. Commissario et cum aliis cospiratione, dum pestis atrox saeviret lethiferis unguentis huc et illuc aspersis plures ad diram mortem compulit. Hos igitur ambos hostes Patriae iudicatos excelso in plaustro candenti prius vellicatos forcipe et dextera mulctatos manu, rota infringi, rotaeque intextos post horas sex iugulari, comburi deinde, ac ne quid tam scelestorum hominum reliqui sit, [213] publicatis bonis, cineres in flumen proiici Senatus iussit. Cuius rei memoria aeterna ut sit hanc domum sceleris officinam solo aequari ac numquam in posterum refici et erigi columnam quae vocetur infamis. Procul hinc procul ergo boni cives, ne vos infoelix infame solum commaculet. MDCKXXX. Kal. Augusti. Praeside pub. Sanit. M. Ant. Montio Sen. Praeside Sen. Amplissimo Io. Baptista Trotto. R. Iustitiae Capitan. Io. Baptista Vicecom. Soggiunge poscia il Parini: Così dicea la Donna. E il vil dispregio E mille turpi Genj intorno a lei La gien beffando intanto, ed inframmesso

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le biografie Il pollice alle due vicine dita Ad ambe mani le faceano scorno.

In questi pochi versi qual rettitudine di giudizio, qual vaghezza d’immagini, qual fluidità di verseggiamento! E perchè sempre più restiate persuaso che siffatte mie lodi non partono da idolatria letteraria inverso Parini, riporterovvi un sonetto del medesimo assai conosciuto, quantunque, s’io non [214] erro, finora inedito, dichiarandovi insieme ch’ei non finisce di piacermi, e che nell’andamento dei pensieri e delle frasi ei mi sembra quà e là anzi triviale che no. Sottosegno1 i versi, che mi pajono avvalorare questo mio, quale che egli siasi, ingenuo sentimento. Per S. A. R. Maria Beatrice d’Este Arciduchessa d’Austria. Ardono, il giuro, al tuo divino aspetto, Alma Sposa di Giove, anco i mortali; Tal da le bianche braccia e dal bel petto E da grandi occhi tuoi parton gli strali. E ben farsi oserieno ai Numi eguali Di fuor mostrando il mal celato affetto, Se al fervido desire il volo e l’ali Non troncasser la tema ed il rispetto. Ision che del cor la violenta Fiamma non seppe contenere, or giace Sopra le ruote, e i voti altrui spaventa. Che se il Caso di lui frena ogni audace, Non è però che i pregj tuoi non senta Più d’un’alma gentil che adora e tace. Il ch. Bettinelli esaltò la Principessa medesima, il Poeta, ed il primo [215] quader|nario, che di fatti è il migliore, dell’allegato Sonetto col seguente, il quale s’incontra nel tomo XVIII. pag. 172. delle sue Opere edite ed inedite in prosa ed in versi impresse ultimamente in Venezia presso Adolfo Cesare Oh! te qual Dea dovrem chiamarti omai! Te canta Omero in su l’eburneo legno Sposa a Giove, alle braccia, al petto, a’ rai, Più che all’aquila augusta, al serto, al regno. E non meno di Palla emola vai Pel fecondo parlar, pel pronto ingegno, Onde all’arti, alle Muse, ai dotti fai Del tuo esempio e favor gloria e sostegno. Ma per vezzi leggiadri e accorti modi, Che a Numi accendon vivo foco in core, Dirti ancor Citerea forse non odi? Ah! se dall’alme Figlie e nome e onore Di Madre avesti delle Grazie, or godi D’esser la vera Dea Madre d’Amore. 1 Qui in corsivo.

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Così mi fosse dato regalarvi ora il Sonetto da Parini composto per la soppressione de’ Gesuiti, sotto l’allegoria d’una gran Pianta, un de’ più belli che abbiagli mai dettato la Musa. Consolatevi [216] col|la sicura speranza di vederlo fregiare, insieme ad altri parecchi, la scelta raccolta che delle Opere Pariniane ha preparato in Milano il valente ed accuratissimo avvocato Reina. Per rispetto all’ingegno ed al buon gusto di Parini, si può aggiugnere al fin quì detto che Ei possedeva appieno i Classici Scrittori, greci e latini, benchè non avesse colla lingua de’ primi veruna famigliarità, nè solito fosse di scrivere nell’idioma antico del Lazio. L’ingegno aveva penetrantissimo e sommamente esquisito il discernimento. Quindi Ei giungeva in un attimo là dove altri non pervengono che a forza di studj lunghissimi. Egli, sebben Sacerdote, non avrebbe potuto aspirare alla corona nelle sacre discipline: ragionava non pertanto a posta sua benissimo intorno i più ardui punti teologici: godeva anzi disputarne, e nominatamente col Padre Noghera della Compagnia di Gesù, il quale sovente era costretto a darsegli per vinto. E sì Voi non ignorate che quel Religioso è l’Autore delle riflessioni sui divini caratteri del Cristianesimo, sulla Religion rivelata, sui modi per ben [217] distin|guere la vera Chiesa cristiana, e di altrettali lavori. Grazie a questa mirabile forza e sagacità di mente, potè l’Abate Parini render utili e pregevoli le sue lezioni tuttora inedite, sulle belle arti, quantunque, per non dire che il vero, a riserva della eloquenza e della poesia, non fosse nell’intima conoscenza delle medesime egualmente profondo. All’abbondanza delle sovrannotate prerogative non corrispose in Parini la tenacità della reminiscenza, specialmente di quella che nella ritenitiva consiste delle parole. Arrivava a dimenticarsi delle composizioni medesime da se prodotte, a negar talora di esserne l’autore, come del celebre sonetto sopra Giuseppe II. incamminato a Roma. Quello che dianzi vi ho ricopiato per l’Arciduchessa Maria Beatrice d’Este non valse, in processo di tempo, a distinguere da un altro, sullo stesso argomento, dell’Abate Teodoro Villa, da cui, senza accorgersene, avea derivato il pensiero. Lascio a Voi il far sopra di ciò tutte le psicologiche considerazioni, che l’acume e la scienza vostra sapranno suggerirvi, e non penso più ad altro che a ripetermi ec.

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OPERE DI GIUSEPPE PARINI PUBBLICATE ED ILLUSTRATE DA FRANCESCO REINA. VOLUME PRIMO.

MILANO. Presso la Stamperia e Fonderia del Genio Tipografico. I. Vendemmiatore anno X. 1801.

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V ITA DI GIUS EPPE PARINI.

G iuseppe Parini da Bosisio terra del Milanese situata presso il Lago di Pusiano nacque il 22 maggio 1729 di oscuri, ma civili parenti. Il padre suo, che teneramente l’amava, benchè possessore di un solo poderetto, recossi a vivere in Milano, per dare al vivacissimo ed ingegnoso figliuolo una diligente educazione. Questi applicò alle Umane Lettere, ed alla Filosofia nel Ginnasio Arcimboldi diretto da’ Barnabiti, e gli studj suoi furono, quali da’ tempi volevansi, infelici. Apparve in esso di buon’ora un genio libero filosofico e singolarmente dedito alla Poesía; nè vi si richiese meno della paterna autorità, per istrascinarlo repugnante alla Teología, ed al Sacerdozio. L’inesorabile bisogno, togliendogli i più begli anni de’ sublimi ed utili studj, lo fece scrivano di cose forensi procurategli dal padre. Ostinato nondimeno nella felice sua [VI] inclinazione divoravasi di rado qualche buon libro filosofico, e benchè privo d’interpreti attentamente rileggeva gli amati suoi Virgilio, Orazio, Dante, e Petrarca con Berni, ed Ariosto; il che giovogli forte a sviluppare l’ingegno, se non a perfezionarlo. Nè potevasi astenere dal compor versi, che, sebbene non molto gastigati, spiravano da ogni lato la forza poetica. Gli amici di lui mossi più dal desiderio di giovargli che di renderlo celebre, nel 1752 lo spinsero immaturo a pubblicare varie sue Poesíe in Lugano colla data di Londra, e sotto il nome di Ripano Eupilino, dal vago Eupili suo, antica dinominazione del lago di Pusiano. Gran lode gliene venne; perciocchè traluceva già dalle cose sue quel grande, che fa segnalati gli autori. Quindi egli fu accarezzato a gara da’ colti ingegni, e spezialmente da’ Trasformati, alla cui Accademia venne ascritto, quando vi fiorivano Balestrieri, Tanzi, Salandri, Baretti, Guttierez, Villa, Passeroni, ed altri ragguardevoli scrittori. Egli fu anco invitato ed ascritto all’Arcadia di Roma col nome di Darisbo Elidonio, sotto cui diede alcune Liriche nel vol. XIII. delle Rime degli Arcadi. [VII] Una strana debolezza di muscoli lo aveva renduto dalla nascita gracile e cagionevole; ma la sua prima giovinezza piena di brio, e di alacrità non risentissi punto di quegl’incomodi, che tanto grave gli rendettero la virilità, e la vecchiaja. A ventun anno soffrì egli una violenta stiracchiatura di muscoli, ed una maggiore debolezza; perlochè gambe, cosce, e braccia cominciarongli a mancar d’alimento, ad estenuarsi, e a perdere la snellezza, e la forza sì necessarie agli uffizj loro. Credevasi da principio, che il suo andare lento e grave fosse una filosofica caricatura, ma presto si conobbe proceder ciò da malattía, la quale crebbe in guisa di togliergli il libero uso delle sue membra. Egli è però da avvertire, che tanta era in lui la dignità e maestría del portamento, del porgere, e dello stampar l’orma, che ogni gentile persona era obbligata alla maraviglia, veggendo il suo difetto. Statura alta, fronte bella e spaziosa, vivacissimo grand’occhio nero, naso tendente all’aquilino, aperti lineamenti rilevati e grandeggianti, muscoli del volto mobilissimi e fortemente scolpiti, mano maestra di bei [VIII] moti, labbra modificate ad ogni affetto speziale, voce gagliarda pieghevole e sonora, discorso energico e risoluto, ed austerità di aspetto raddolcita spesso da un grazioso sor-

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riso indicavano in lui l’uomo di animo straordinariamente elevato, e conciliavangli una riverenza singolare. Tali e tante circostanze cospirarono a renderlo accetto e desiderato da’ Grandi. L’angustia della paterna fortuna gli faceva menare una vita duramente frugale, ma senza l’invito altrui la sua libera fierezza non avrebbe piegato verso coloro, da’ quali allontanavalo la disuguaglianza della condizione. Invitato, fu precettore presso le illustri famiglie Borromeo e Serbelloni. Quivi potè meglio soccorrere a’ bisogni della madre cadente, per cui volentieri consumò fino all’ultimo danajo della paterna eredità consistente in un umile abituro, e si ridusse un giorno a mancar di pane egli stesso. Un po’ d’ozio letterario, il consorzio degli uomini grandi, e l’esimia sua inclinazione lo ridussero a’ cari studj suoi, e spezialmente alla Lingua Greca, in cui poco era da prima versato. Aspirando egli all’eccellenza [IX] della poetica facoltà, applicò quindi allo studio severo della Critica, ed alla regolare lettura de’ Classici antichi e moderni; ma si avvide presto, che molto gli rimaneva a compiere la divisata carriera, per essere sfornito delle necessarie filosofiche cognizioni; nel conseguimento delle quali fu acre ed ostinato, finchè non ebbe superata la odiosa mediocrità. Pier-Domenico Soresi nel 1756 eccitollo alla censura del libro di Alessandro Bandiera, intitolato i Pregiudizj delle Umane Lettere: la quale fece egli con una dotta Lettera, in cui difese evidentemente la retta e bella eloquenza del Segneri dalla licenziosa critica del Bandiera. Questa savia operetta congiunta a parecchie Liriche di gusto sodo gli aggiunsero reputazione al segno, che offesi da Onofrio Branda, già maestro di Parini nel Ginnasio Arcimboldi, i Letterati Milanesi con certo Dialogo intitolato della Lingua Toscana da lui composto nel 1759, e contrario al Dialetto Milanese sì celebre per le Poesíe di Maggi, Tanzi, e Balestrieri, elessero Parini medesimo a condottiere dell’aspra guerra, che [X] gli si volle movere. Urbana, a dir vero, e moderata fu la prima scrittura di lui; ma il Branda con tono magistrale e plebeo gli si levò contro, e strascinò nella contesa chi per un lato chi per l’altro una caterva di Letterati. Arsero quindi gli animi, e dalle ragioni si passò alle ingiurie, siccome avvenir suole nelle letterarie quistioni. La guerra si fece con tanta licenza, che Parini soleva chiamarla l’obbrobrio della letteratura, e fu forza, che il Tribunale della Cancellería vietasse di continuarla. Sebbene Parini per impeto giovanile, e per delicatezza rispingesse con molta vivacità le offese, è d’uopo confessare, ch’egli fu il più discreto e contegnoso, e che gli dolse tutta la vita sua della contesa sostenuta contro il proprio precettore. Grandissimo fu il vantaggio, che ne ritrasse Parini. Cercossi ogni via di avvilirlo, ed egli all’opposito soverchiando mille ostacoli aguzzò l’ingegno a quella terribile critica, che vuole proprietà somma di vocaboli, e precisione d’idee; e cominciò a riflettere, che il tempo era pur giunto di segnalarsi con lavori di straordinaria novità e bellezza. Aveva esso già steso, a guisa dell’Arcadia, una favola [XI] pescareccia mista di versi e prose; ma, benchè tal opera smarritasi gli andasse a genio, s’accorse agevolmente, che la medesima non era nè nuova, nè originale. Molto sudò, riflettè molto sulla letteratura Italiana per trovarvi qualche genere intentato, o non bastevolmente illustrato. La Tragedia allettavalo forte a cagione delle sue libere idee; ma non gli sembrarono propizie a tentarla le politiche circostanze. La Satira amica della fine critica, in cui da tempo versava l’animo suo, parvegli un campo comune da rendersi proprio. Egli è vero, per tacere della numerosa

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schiera de’ nostri Satirici pregevoli a qualche risguardo, ma lontani della eccellenza, che il divino Ariosto trattò la Satira Italiana con quella facilità, ed ingenuità, che sono proprie di lui, ma poco fece in tal genere, nè pensò forse mai a rendere la Satira eccellente, siccome il Romanzo. Da molt’anni Parini disprezzava le maniere de’ Grandi; e la vita, che conduceva nelle case loro, gliele aveva rendute ancor più odiose. La colta spiritosissima Duchessa Serbelloni, Ottoboni, della cui conversazione usava egli famigliarmente, aveva numerosa [XII] brigata di costoro, fra quali spiccava Pietro Verri in quella stagione vaghissimo di primeggiare per certo suo talento mirabile; ma toltine pochi il convegno era pieno di scioperati ed ignoranti. Quivi stuzzicavasi sovente la splendida bile di Parini, e gli era forza di sofferire que’ vizj e difetti, che odiava cotanto. Parvegli la vita loro un eccellente soggetto di satira, e vi si provò. Una grave difficoltà ad eseguire i suoi divisamenti nascevagli dallo stile satirico, che, dietro i Latini, derivasi dal parlar famigliare. Nelle Capitali de’ grandi Stati si raccolgono i begl’ingegni delle Nazioni, vi si affina la lingua solenne, e nel tempo stesso quel colto parlar famigliare, che è comunemente inteso e ricevuto dagli uomini educati sparsi nelle varie contrade di essi Stati. Così era a Roma, così è a Parigi ed a Londra: quivi gli scrittori di cose famigliari hanno una sicura norma da seguitare, il fiore cioè di que’ vocaboli e modi proprj e leggiadri, che costituiscono l’urbanità, sia nel giornaliero uso del Popolo, sia nell’opere de’ precedenti scrittori. Non così nella infelice moderna Italia. Distratto da tante incisioni politiche il bel [XIII] corpo di Lei sorsero parecchie popolazioni aventi modi ed interessi diversi, che fecero coltivare a ciascuna il proprio dialetto famigliare. Appena si ricevette da’ Toscani il colto loro volgare, per adottarlo in lingua solenne Italiana, che si ricusò di ricevere parimenti i loro modi proverbiali, e famigliari. Castiglione nel Cortegiano, Cinzio Giraldi, e Bandello nelle loro Novelle, per tacere di tant’altri, assunsero con bello accorgimento alcuni modi famigliari tolti dai varj dialetti Italiani; ma ciò non piacque molto a’ Toscani, onde fu universale la discrepanza degl’Italiani a tale riguardo. Quindi generarono noja al restante d’Italia i riboboli Fiorentini e Sanesi, nè vi s’intesero; ed a vicenda si risero, e forse con più ragionevolezza i Toscani degli insulsi modi, che molti scrittori Italiani trassero da’ loro dialetti, onde costituire un parlar famigliare, che è un barbaro gergo, come può singolarmente vedersi nelle Commedie del Chiari, del Villi, e dello stesso Goldoni, poeta altrimenti pregevolissimo. Così mancammo di ottime Commedie e Satire dal lato dello stile famigliare. Del che s’avvide Parini, ed adoperò in guisa che innestando la Didattica, [XIV] e la Drammatica alla Satira divenne inventore di nuova maniera ne’ suoi Poemetti del Giorno. Finse egli di ammaestrare gli ottimati mentre faceva una terribil Satira de’ loro costumi, e prese quindi una favella nobile ed adeguata alla loro condizione, prescindendo da’ comuni modi famigliari e proverbiali, ed usando meramente la chiarezza, e la piacevolezza naturali al colto discorso; e v’aggiunse una costante finissima ironía, che rende necessaria la nobiltà dello stile, quando in un alto e magnifico soggetto vuolsi persuadere l’opposito di quanto materialmente dicesi, e produrre in tal guisa lo squisito ridicolo, che nasce dalla contraria aspettazione. Il Femia di Pier-Jacopo Martelli, Dramma Satirico, in cui sotto nome di Femia si censurò Scipione Maffei, composizione scritta in eccellenti Versi Sciolti, per mostrare a Maffei, che Martelli sapeva farne da non invidiare que’ della Merope,

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fu l’unica opera che desse a Parini, per propria confessione, alcuna norma del suo verseggiare. Ingenuo com’egli era, amava di ristampare il Femia con una Lettera inedita di Martelli, ed un [XV] suo proprio ragionamento, che lo risguardava, ma trovò fatalmente smarrita ogni cosa. Nè però contento di sè Parini conferì a lungo sull’invenzione dell’opera, e spezialmente sulla tessitura del Mattino con Gian-Carlo Passeroni, che molto ne commendò il pensiero, la condotta, ed il verseggiare. Compiuto il Mattino, lo lesse egli a Francesco Fogliazzi indi ad una brigata di dotti amici, che maravigliandone lo persuasero a pubblicarlo. Era di que’ dì Ministro Plenipotenziario dell’Austria in Lombardía Carlo Conte di Firmian, personaggio di esimie doti morali ed intellettuali, al quale non saranno mai bastevolmente grati gl’Italiani da lui favoriti ed accarezzati in ogni maniera, ed a cui debbono il loro risorgimento presso noi Lombardi le Scienze, le Arti, e le Discipline Liberali, che ci animarono alla libertà. Fogliazzi parlò a Firmian dell’eccellente poesía del Mattino, e della risoluzione di stamparla, benchè vi si mordesse l’ozio de’ Grandi: ottimamente, rispose il Ministro, ve n’ha bisogno estremo. Divolgatosi il Mattino nel 1763, l’Italia tutta fece plauso alla novità ed eccellenza del medesimo, ed affrettò co’ voti il Mezzogiorno, [XVI] che apparve nel 1765, e fu ricevuto con pari lode. Ogni sorta di Poesía scrivevasi allora, per moda, in Versi Sciolti, e tutti gli sfaccendati facevansela da verseggiatori per la soverchia facilità di accozzare pessimi versi liberi da rima e metro obbligato. Il novello cimento di Parini distolse dagli Sciolti molti di coloro, che studiandosi d’imitarlo videro al paragone la somma difficoltà di fargli eccellenti, e quindi la moda de’ medesimi cominciò a svanire. Frugoni Poeta di ricchissima fantasía, e di nobile dizione, ma stemperato ed impaziente di lima, autore a torto troppo lodato, e troppo a torto biasimato aveva di que’ tempi la massima reputazione negli Sciolti. Poffardio! sclamò egli al leggere del Mattino, conosco ora di non avere saputo mai fare Versi Sciolti, benchè me ne reputassi gran maestro: confessione degna di quel valent’uomo. Tale ammirazione trasselo a scrivere a Parini: nacque indi tra loro un pregevole carteggio sull’orditura degli Sciolti, carteggio da Parini stimato assai, e che dopo la morte di lui alcuni barbari abbruciarono col restante delle sue Pistole, a grave danno delle buone Lettere. I colt’ingegni [XVII] d’oltramonti fecero eco agl’Italiani, ed i Poemetti suoi vennero tradotti, benchè male, in varie lingue forestiere. Nè più è da stupire, se Parini con pochi versi divenne il dittatore del Buongusto. La stima, e l’affezione, che gli prese il Firmian, fu tanta, che sempre il voleva seco, e consigliavasi con lui sulle più gravi faccende, e su quelle spezialmente, che risguardavano la letteraria restaurazione. Scontento il buon Ministro delle gazzette nostrali zeppe di bugie e stese senza critica, e senza mirar punto allo scopo filosofico, cui intendevano tutte le sue cure, volle, che Parini scrivesse la Gazzetta avente per motto medio tutissimus ibis. Vi si applicò egli volentieri col soccorso de’ giornali procuratigli in copia grande dal Ministro, che gli permetteva la stampa della medesima senza revisione. Soleva Parini esporre i materiali della gazzetta in una certa nicchia, donde toglievali lo stampatore. Vennero essi una mattina veduti a caso da un sartore, che avendo bisogno di carta, per farne misure, se li prese; nè potendo Parini rifare a memoria l’intero foglio, finse a capriccio una data di Roma, in cui dicevasi [XVIII] con bell’apparato di termini: il S. Padre Ganganelli avere ordinato, che per allontanare dal delitto della castratura, non si ammettessero più castro-

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ni nelle Chiese, e ne’ Teatri dello Stato Romano. Questa bizzarría riferita tosto dalla gazzetta di Leida, e da tutti gli altri giornali si diffuse romorosamente in Europa: grandi elogi ne diedero al Pontefice i Protestanti; e lo stesso Voltaire gl’indirizzò la bella Pistola sur ce qu’il ne veut plus de castrats. La cosa non si avverò per ignominia de’ tempi, e per disgrazia dell’umanità. Intanto il Firmian amando di render utile vieppiù alla Patria il talento di Parini, che aveva ricusato la Cattedra di Eloquenza nella Università di Parma, nominollo nel 1769 Professore di Belle Lettere nelle Scuole Palatine, facendo una nuova Cattedra a dispetto de’ Gesuiti, che malissimo il comportarono. Lesse egli alla Canobiana fino alla loro distruzione, dopo la quale fu dichiarato Professore di Eloquenza nel Ginnasio di Brera. Fino da’ primi anni della Cattedra compose l’aureo Corso di Belle Lettere, che ci rimane. Nominato dappoi Professore dì Belle Arti le andò di mano in mano dichiarando con [XIX] ampio trattato. Avvisò alcuno, che lo scrivesse compiutamente, e ne desse copia al Ministro Conte di Wilzech. In quindici anni, che usai con Parini famigliarmente, non vidi mai trattato simile, nè da esso intesi dire, che lo consegnasse altrui, anzi non avendone sentore veruno la massima parte degli amici suoi da me domandati, conviene reputarlo supposto; del che è sommamente da dolersi. Parmi di avere udito da lui molt’anni addietro, che desse ad un Ministro il Corso di Belle Lettere, del quale era stato richiesto dal Governo, e che ne avesse la vana risposta, che poteva stamparlo. Grande fu il concorso degli uditori d’ogni maniera sì nazionali, che stranieri alle sue Lezioni, i quali scossi da tante utili e libere verità, ch’egli ingegnosamente mescolava ai letterarj discorsi, per ogni verso ammiravano in lui il precettore e l’esempio; e la Patria nostra gli dee la conservazione del Buongusto, e di quella soda cultura, che sì frequente fra noi pose argine in parte alla straniera corruttela. Varj metodi fece egli di pubblico comando per l’insegnamento delle Belle Arti; ed i più valenti artisti d’ogni paese richiedevanlo spesso [XX] di Programmi, e di Giudizj risguardanti l’Arti medesime; delle quali cose conserviamo una ragguardevole collezione. Per l’arrivo di Ferdinando Arciduca d’Austria, Governatore di Milano, e Sposo di Maria Beatrice da Este, il Firmian ordinogli un Dramma Nuziale da rappresentarsi a vicenda col Rugiero di Metastasio. Questo si fu l’Ascanio in Alba, Dramma, in cui Parini, per evitare l’assurdo di sentir uomini cantare fuori della natura, scelse la sua favola da’ tempi eroici, e v’introdusse Dei, e Semidei, de’ quali non conoscendosi l’indole soprannaturale può fingersi proprio il canto, ed ogni altra straordinaria maniera del Dramma Lirico inteso al diletto nascente dal maraviglioso. Se Metastasio fu osservabile per la dolcezza del suo dire, e per la inimitabile sua facilità, Parini meritò assai dal lato della nobile e semplice locuzione, e della convenienza e condotta della favola. Altre volte tentò egli lodevolmente la Drammatica con diverse nitide ed eleganti cantate, e ci lasciò i frammenti di un Dramma serio, e di un altro giocoso, che hanno molta grazia di stile. Abbruciatosi il vecchio Teatro di Milano, per [XXI] innalzarvi il Palazzo di Corte, si commisero a Parini i Programmi, onde ornarlo di Pitture; il che eseguì con leggiadrissime invenzioni. Il giovane Arciduca ostinatamente voleva, che vi si dipingesse nella sala di pubblica udienza il Giudizio di Paride; glielo dissuase egli, e vi sostituì una nobile favola adatta alla maestà del luogo. Fondatasi nel 1776 la Società Patriotica, Parini vi fa ascritto. La Società medesima ordinogli poi di stendere l’elogio funebre di Maria Teresa Imperadrice. Ac-

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cettatone l’assunto non trovò egli mai un più fiero contrasto nelle sue affezioni: quante volte tentò l’opera, tante se ne trovò incapace; e per riescirvi, sollecitato dall’amico Gian-Rinaldo Carli si ridusse in villa; ma indarno: io non trovo, diceva egli, veruna idea soddisfacente, su cui tessere l’elogio della Imperadrice: ella non fu che generosa: donare l’altrui non è virtù. Biasimava inoltre la segreta inquisizione, di cui grandemente si compiaceva la Imperadrice, ed i privati gravissimi disordini della famiglia di lei. L’uomo ingenuo non seppe vincere la propria repugnanza, e si disse incapace dell’impresa, per assoluta smemoraggine. [XXII] Qualunque si fosse da prima la malattía di lui, egli è certo, che la contenzione dell’animo recogli una profonda agitazione, ed una malattia nervosa, per cui fu un intero anno inetto allo studio. L’Italia domandavagli intanto la continuazione del Giorno: vi si provò egli spesso, abbozzò il Vespro, e la Notte, che sostituì all’ideata Sera; ma ne sospese più volte il lavoro: tanto lo rendette difficile la tema di non parer minore di sè nella pubblica opinione. Altra cura mordevalo da tant’anni, e accompagnollo alla tomba studioso ancora di nuove poetiche bellezze nelle composizioni Liriche, cui doveva la prima celebrità. Parevagli, che la ricca armoniosa pieghevolissima favella Italiana, che s’ingentilì cotanto nelle tenere e dilicate forme dell’originale Petrarca, non fosse stata condotta da Bernardo Tasso, e da Chiabrera a quella vaghezza, e grandezza di modi, che sono proprj della Lirica Greca e Latina, cui studiaronsi d’imitare que’ due valorosi Italiani, che non aggiunsero alla severa economia de’ Lirici antichi. Avvertì egli pure, che nessuno de’ nostri [XXIII] aveva saputo come Pindaro scegliere tante elevate verità, esprimerle con grandezza e sublimità d’immagini, e di modi, e luminosamente applicarle al soggetto; nè come Anacreonte toccar l’anima ne’ più intimi e soavi sentimenti, accennando con venuste immaginette e con certi vezzi leggiadri alcune graziosissime idee principali, che mille all’istante ne risvegliano di simili, e fanno ondeggiare lungamente l’anima nella più cara voluttà. Rimanendo ancora libero il campo a grandi cose nella Lirica, la tentò egli da saggio innovatore, e lo studio suo fu nella Lirica vieppiù pertinace che nella Satira. L’Italia applaudì agli sforzi suoi felici nel Sonetto, e nelle Odi, le quali furono l’ultima sua cura; ed il collocò fra’ maestri della Lirica nostra. L’avventura occorsagli per l’elogio di Maria Teresa, e la morte del Firmian diedero armi agl’invidi, onde tentare di nuocergli; e se non era la inveterata sua reputazione, e l’amicizia del Consultore Pecci, egli correva rischio della Cattedra. Ma parvegli anco più duro, qualche anno dopo, che gli amici dalla giovinezza, saliti in eminente fortuna lo perseguitassero, e gli negasser fino una più [XXIV] ampia casa pubblica, necessaria alla sua inferma vecchiaja. Conoscitore ed amator grande della Politica tenne dietro con piacer sommo agli utili cambiamenti di Giuseppe II. Re Cittadino, cui molto commendò egli, e desiderò sempre migliori ministri e consiglieri nelle sue intraprese. Leggendo Belle Arti, inventandone Programmi, e quelli singolarmente de’ Bassi Rilievi del nuovo Palazzo Belgiojoso, coltivando la sua Lirica, e l’amicizia de’ buoni, e de’ pochi Letterati alieni da’ partiti, visse tranquillo fino alla Rivoluzione di Francia. Crebbegli allora il felice entusiasmo di Libertà e nacquegli la speranza di giorni migliori per l’Europa, e spezialmente per l’avvilita Italia costante oggetto de’ suoi voti; e parve che non conoscesse più incomodi di salute, o di declinante età. La politica meditazione delle antiche e moderne cose libere para-

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gonate colle giornaliere, e la lettura di tutti i famosi Giornali Parigini divennero la delizia di lui; ma l’animo suo prudente versava in segreto su gli oggetti amati co’ fidi amici, il Dottor Vincenzo Dadda, ed Alfonso Longo; nè si condusse mai ad azione veruna, che offendere [XXV] potesse la delicatezza de’ suoi doveri qual suddito, o qual precettore. La materiale lettura di Giornali mal impressi gl’indebolì la vista, e gli si appannò da una cateratta l’occhio destro. Succeduto nell’Austriaca Eredità, e nell’Imperio Germanico Leopoldo II. recossi a Milano; e si avvenne in Parini. L’Imperadore osservò fisso questo sciancato, che maestosamente zoppicava, e per maraviglia ne domandò ad uno del corteggio, che dissegli: quello essere Parini. Stupì l’Imperadore, che un uomo sì celebre e venerando si strascinasse pedestre, e comandò, che gli si desse stipendio maggiore. Gli fu allora, per la sollecitudine di Emanuele Kevenhüller, conferita la Prefettura degli studj di Brera con migliori condizioni; e se non era un potentissimo nimico suo, lo stipendio gli si accresceva in guisa di ripararlo, giusta la mente dell’Imperadore, dalle ingiurie degli anni, e della cagionevolezza. Mentre fervevano i terribili avvenimenti politici, e guerrieri, l’Arciduchessa Maria Beatrice da Este, donna di generosa indole, piena di domestiche virtù, ed amica e coltivatrice degli Studj Liberali, desiderò di vedere la Notte di Parini. Egli, che molto [XXVI] reputava la valorosa donna, se ne scusò per la imperfezione della cosa, e promise di offerirgliela sollecitamente stampata col restante del Giorno. Diedesi perciò al pulimento dell’opera, ed aveva già riveduto il Mattino, il Meriggio, e parte del Vespro, e della Notte, quando i Francesi conquistarono la Lombardía. Può ognuno immaginarsi l’onesto tripudio di un uomo nutrito colle idee di libertà, al quale era dato di sperar bene della Patria. Eletto da Bonaparte, e Saliceti al Magistrato Municipale di Milano, presso cui stava la somma delle nuove cose, vi fu accompagnato dai voti e dagli applausi de’ Cittadini. Zelatore instancabile del pubblico bene vi rimase, finchè lusingossi di conseguirlo: indi ottenne un onesto congedo. Sciolto appena dal Magistrato fece segretamente distribuire dal suo Parroco a’ poverelli l’intero stipendio derivatogli dal medesimo. È grave la perdita di cert’egregie narrazioni, che distese egli sulle principali vicende avvenute nel Patrio Municipio a’ tempi suoi, e che ragionevolmente suppongonsi cadute nelle mani de’ Tedeschi. Restituitosi alla domestica quiete seguitò con premura costante [xxvii] gli andamenti politici della giornata. Istruendo dalla Cattedra, lodando e biasimando cogli amici a tenore delle circostanze visse una libera vita privata in mezzo alle fazioni, che miseramente lacerarono questa bella contrada. Intanto meditava egli alcune profonde Lezioni sul famoso Cenacolo di Lionardo da Vinci, una delle più eccellenti dipinture, massimamente per la ingegnosissima sua composizione; ma non le scrisse. Il continuo leggere, che faceva delle cose giornaliere, e lo studio de’ Classici, che non trascurò mai, gli offesero la vista in modo, che gli si appannò alquanto anche l’occhio sinistro; onde risolvette di sottoporre il destro all’operazione della cateratta; la quale riescendogli bene divisava di compiere il Vespro, e la Notte nella state vegnente, ed aveva promesso già di dettarmeli. I Tedeschi sopraggiunsero intanto nell’Aprile 1799, e invadendo la Repubblica Cisalpina sparsero il terrore e la desolazione fra i seguaci della libertà. Parini benchè tale, conscio di essersi sempre condotto onestamente, se ne stette tranquillo: fu minacciato, ma non perseguitato. In questo mentre l’operazione [XXVIII] della cateratta vennegli egregiamente fatta dal valoroso Chirurgo Buzzi. Ma dopo un lungo decubito e la mancanza di esercizio sì necessario ad un

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corpo male articolato gli si manifestò, e forse per precedente indisposizione, un’idropisía di gambe. I medici gli consigliarono la campagna: recossi quindi ad Arluno dall’Avvocato Marliani. Davasi egli colà ad ogni maniera di esercizio; e trastullavasi col buon piovano d’Arluno spezialmente su’ riti superstiziosi di que’ tempi nefandi. Ma l’aria troppo viva, lungi dal giovargli, gli nocque, e gli fu forza di ritornarsene dopo un mese. Sereno nell’animo, e piacevole cogli amici divise con loro gli ultimi suoi giorni, ne’ quali facevasi leggere Euripide, e Plutarco, che soleva chiamare il più galantuomo degli antichi scrittori. Alternando dappoi stranamente la idropisía gli svanì sotto la diligente cura del Dottore Strambi, e più volte gli ricomparve fino al 15 Agosto 1799. Ma prima di narrare gli avvenimenti di quella memorabile giornata, che chiuse la sua vita, ragion vuole che dicasi del carattere letterario, e morale di lui; il che resulta più dal complesso, che dalle cose parziali. [XXIX] Acre, e penetrante ingegno, grande e libera fantasía, cuore energicamente sensitivo inclinaronlo alle Umane Lettere, ed alla Filosofia, e lo trassero a vincere gli ostacoli della povertà, e dell’infelice educazione. Le gare letterarie con Bandiera, e Branda aguzzarongli molto l’ingegno, e lo spinsero ad esser grande, onde superare per ogni verso gli emoli suoi. Solitario nella città astraevasi spesso dalle idee comuni ritirato negli orti, di cui molto dilettavasi. In villa sdrajavasi a leggere o al rezzo di un albero o ne’ freschi antri romiti o in una barchetta. È osservabile, che stese i suoi Poemetti sul Lago di Como a Malgrate da Candido Agudio amicissimo suo, ed a Bellagio dal Conte della Riviera, ove la bella natura di que’ luoghi ameni risvegliavagli l’estro, e l’invitava a poetare. Ma l’estro in lui doveva essere sempre moderato dall’arte. Quindi ostinato studio de’ sommi Critici antichi e moderni, meditazioni sui Classici, osservazione costante della Natura, e spezialmente delle umane affezioni, che l’occupavano in sottilissime indagini necessarie all’artista, che vuole segnalarsi; ed applicazione alle Bell’Arti delle filosofiche [XXX] dottrine. Dolevagli di non conoscere che i primi rudimenti del Disegno, e di non avere atteso quanto si conveniva alla Lingua Greca, che però seppe al segno di fare alcune belle versioni dalla medesima. Era poi in lui tanta la perizia della Latina ed Italiana favella, che conosceva l’intima indole loro, e ne notomizzava ogni vocabolo e forma, per usarne propriamente. E se poco trattò il Disegno, nessuno meditò più di lui su Lionardo, Vasari, Palladio, Borghini, e Bottari, nè svolse le collezioni degli eccellenti disegnatori, ed incisori più di quanto egli fece in compagnía dell’eruditissimo Librajo Domenico Speranza, e del valoroso Scultore Giuseppe Franchi, nè più finamente vi ragionò sopra, talchè chiunque udivalo era forzato a credere che le avesse lungamente professate. Aveva egli parimenti meditato assai sulla Danza con Gasparo Angiolini, e sulla Musica col Maestro Sacchini. La severità della sua Critica divenne terribile a lui stesso: limava egli, cangiava spesso, come ci attestano i molti suoi pentimenti: nè parlava delle cose proprie che per biasimarle, e n’era sempre malcontento. Gli altri lodano le cose [XXXI] mie: io non le posso lodare. Ora che sono vecchio conosco ove sta il bello: se potessi dar addietro di trent’anni, comporrei forse cose non indegne del nome Italiano: memorabili parole di Parini settuagenario. Difficile ed austero esser doveva parimenti il giudizio suo con altrui, e parve, che il fosse di soverchio; ma errò chi sel credette. Fu egli parco, ma opportuno lodatore: gentile con coloro, che amavano le Belle Arti senza professarle, distoglieva dall’esercizio delle medesime quanti vi si davano senza ingegno ed incli-

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nazione: colui, andava egli ripetendo, adulato da me sarà un artista infelice, e riescirà forse altrimenti un uomo di segnalata abilità: non debbo ingannarlo: la mediocrità eccellente nelle fortune è pessima nelle facoltà liberali, ove tutto vuol essere bello ed insigne. E quando vide egli sollevarsi qualche ingegno Italiano lo animò caldamente, e spronollo colla lode e col consiglio verso l’eccellenza dell’arte. Così accadde di Alfieri, che indirizzandogli le sue prime Tragedie col motto: all’Abate Parini Primo Pittor del Signoril costume n’ebbe per iscambio gran lode in un famoso [XXXII] Sonetto, ed avvertimento di riformarne in parte lo stile, cui l’autore studiosamente corresse. Parini riconosceva Alfieri per padre della Tragedia Italiana; ed oltre la precisione, il nervo, e la sublime semplicità dello stile commendava nelle Tragedie di lui la scelta sempre terribile, l’economía, la rapidità, la grandezza della favola; e la maravigliosa unità di affetto, che anima l’intera Tragedia, variando, e crescendo sempre ne’ gradi, ma dentro i limiti dell’affetto divisato; nel che sta l’eccellenza dell’arte. Sembrava a Parini che il solo Alfieri avesse penetrato nella Tragedia Greca, il cui scopo si era di rendere abbominevoli per sè stessi tiranni e tirannide naturale compagna del delitto, e d’infiammare con alti ed arditi sensi il Popolo alla vera Libertà. Parini ed Alfieri magnanimi e liberi anche sotto i Re concepirono un’elevatissima idea di Libertà, adeguata ad anime veracemente Italiane, la quale sdegnosi li rendette e feroci contro la insolenza, la rapina, e la ipocrisía mascherate alla repubblicana. Alcuni sconsigliati uomini dabbene tacciaronli senza conoscerli, e servirono a coloro, che temendoli o invidiandoli, atrocemente li calunniarono. [XXXIII] Gran lode pur diede egli alle Poesíe di Adeodata Saluzzo Torinese, donna di nobilissimo ingegno, Buongusto delicato, e candido cuore; siccome risulta da una ingenua Lettera da lui scrittale, che verrà pubblicata. Parlando della Basvilliana di Vincenzo Monti soleva egli dire: costui minaccia di cader sempre colla repentina sublimità de’ suoi voli, ma non cade mai. Ammirava parimenti nelle opere di lui nobiltà, ricchezza, e splendor sommo di stile. Fu egli pure nella sua vecchiaja largo di ben giusta lode alle belle dipinture del suo compatriota Andrea Appiani, che sì valorosamente sostiene la gloria del nome Italiano. Ma Parini odiava, sopra ogni credere, le Sette Letterarie, che certi mediocri ingegni formano, onde usurparsi una fama passeggiera col favore della vile adulazione: vizio, che singolarmente deturpa i Letterati di alcune contrade d’Italia, mercadanti di falsa lode, ad obbrobrio e danno grave della nostra Letteratura. La sua rigida severità lo fece parco compositore; nè potev’altrimenti accadere a chi [XXXIV] voleva essere originale. Ne’ Poemetti del Giorno vedemmo già come superasse le difficoltà dello Stile Satirico Italiano: esaminiamo ora alcune doti di quelle Satire originali. Orazio fra gli antichi, Boileau, e Pope fra’ moderni maneggiarono il ridicolo della Satira convenevolmente; ma nessuno di loro concepì mai l’idea di un Poema apparentemente Didattico, che constasse di una continovata ironía, fonte principale del ridicolo. La declamazione, il sarcasmo, e il burlevole agiscono sopra di noi con certa forza, ma non mai quanto l’ironía; perciocchè egli è facile il rispingere la violenza, o l’ingiuria, che derivano dal sarcasmo, e dalla declamazione, parimenti facile il rendere la baja; difficilissimo lo schermirsi dalla finezza, con cui l’ironía, sotto l’apparenza della lode, volge in ridicolo le cose, cui siamo più affezionati, con una spezie di sorpresa, che si fa

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all’animo laddove meno se lo aspettava. Ma la somma difficoltà trovasi nella continuazione dell’ironía medesima per l’intero decorso dei Poemetti. È l’ironía, come ognun sa, una figura rapida di sua natura, perchè intesa a deridere intimamente, e quindi a farsi sentire colla [XXXV] massima facilità. Richiedevasi perciò una singolare maestría sì nella naturalezza de’ pretesi insegnamenti, che nella squisitezza dei sali, e nell’aria grave data ai pregiudizj, per non offendere la verosimiglianza della durata dell’ironía medesima. Nè potev’esservi più grata novità del ludibrio sparso su i vizj e i difetti della classe de’ Grandi naturalmente abborriti dagli altri uomini, che ne soffrono il predominio; nè più utile, perchè tendente a correggere una parte tanto considerevole della società. Naturalezza nella condotta, novità, opportunità, grazia negli Episodj, evidenza costante, e graduata importanza di affetti appajono nell’opera, e presentano all’animo quanto vi ha di bello, e di grande proporzionatamente al soggetto, riscaldano tratto tratto l’immaginazione, e suscitano un continuo diletto, che moderatamente esercita, e perciò riesce più gradevole. I Critici avvisarono, che Parini agguagliò Pope, e Boileau per la giustezza de’ pensieri, e che li vinse nella giustezza e bellezza delle immagini, e nella fecondità dell’invenzione. Quanto allo stile mirò egli alla precisione, e proprietà de’ vocaboli, e [XXXVI] spezialmente degli epiteti usate da Orazio; alla varietà imitatrice, armonía, ed eleganza di Virgilio; onde costituì un carattere speziale a’ suoi versi, che di prima giunta si riconosce. L’arte sua recondita ignota al volgo de’ Poeti e vestita di apparente facilità sedusse parecchi all’imitazione de’ Poemetti, per vaghezza di fama. Ma l’autore della Sera, quelli dell’Uso, della Moda e delle Conversazioni mal distinguendo tra il naturale e l’affettato, il grande ed il turgido, il vero ed il falso, imitarono i modi suoi laddove l’eccellenza dell’arte è vicina al pericolo, e privi di belle e giudiziose invenzioni, e di bello stile provarono co’ mediocri loro componimenti, che gli Scrittori originali sono rari e quasi inimitabili. Non mai contento di sè Parini s’accorse, che l’arte facevasi ricordare qualche volta ne’ suoi Poemetti. I pentimenti tutti posteriori all’opera provano bastevolmente, che ne levò que’ modi, e vocaboli, che non erano i più proprj e naturali, in guisa di declinare spesso dalla novità per amore della semplicità e chiarezza. Con simili divisamenti stese egli il [XXXVII] Vespro, e la Notte, ne’ quali, benchè imperfetti, il semplicissimo bello della composizione, e dello stile è giunto a tale, che la felice pertinacia dell’arte interamente si asconde sotto l’apparenza della nuda ed evidente facilità: del qual metodo assai compiacevasi nella vecchiaja. Poche cose trovava egli di questa natura, e perciò gliene piacevano poche. Negli ultimi tempi suoi l’evidentissimo Dante, il semplice e facile Ariosto gli erano sempre alla mano: costoro, diceva egli, più si conosce l’arte, più si ammirano: più si studiano, più piacciono. Io non difenderò i Poemetti da chi sospettolli ingiuriosi alla morale: basta il leggerli per convincersene altrimenti: tanta ne è la decenza, e l’avversione, che ispira al vizio la continovata loro ironía; nè li difenderò da chi vi ha notato versi cascanti e trascurati, senza indicarli, perchè quegli non abbadò forse al ricco e vario andamento del Verso Sciolto, nè all’imitativo verseggiare, nè alla libertà de’ modi richiesti dalla diversa sposizione successiva delle idee per un tale affetto, e per un tal fine. Parini volle poi, che sino dalla invocazione si sentisse l’indole [XXXVIII] ironica e stranamente elevata de’ suoi Poemetti nella sintassi, e ne’ modi alquanto ricercati de’ primi versi medesimi.

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Avrei amato, che quel Critico sottile, il quale trovò viziosi certi rivolgimenti, siccome quello al parrucchiere, il complimento della noja, la digressione sulla stupidità d’Imenéo, e simili, avesse alquanto investigato la strana balordaggine de’ nostri Grandi, i quali parlavano di noja, come di male inevitabile, accarezzavano i parrucchieri ed ammettevangli a’ più alti segreti, e quindi erano liberali co’ medesimi di facezie e piacevolezze; e che non fosse severo al segno di togliere la libertà di una similitudine, e di uno slancio al Poeta, che vuol essere di libera fantasía, e di vaga locuzione. Nè intendo però di biasimare que’ Critici ragguardevoli, che censurarono Parini, ma di rendere, quanto per me si può, più sicuro il giudizio su’ Poemetti di lui. Amo la sana critica, che è la cote dell’ingegno, ed amo singolarmente il modesto contegno dei Critici di Parini. Gli assidui studj, che fece nella Lirica, lo condussero al conseguimento di quelle doti, [XXXIX] che desiderava ne’ Lirici Italiani imitatori degli antichi. Introdusse egli nelle sue composizioni il calore degli affetti, le sublimi verità che sorprendono ed assumono l’abito dell’immaginosa poesía, e que’ graziosi idoletti e sentimenti fecondi di mille gradevoli pensieri; ma i maggiori sforzi suoi si rivolsero allo stile, dal quale derivansi le principali bellezze della Lirica. Proprietà, eleganza, nobiltà, ardire, opportuna novità di vocaboli, e di modi corrispondenti alle idee; e quindi insigni modificazioni, ond’essere elevato e grande nelle grandi cose, vivace grazioso e dilicato nelle medie, piano schietto garbato ed arguto nelle tenui, ravvisansi di continuo nelle Odi, e ne’ Sonetti di lui; nel che imitò egregiamente Orazio sì accurato nel conservare la proporzione dello stile col soggetto, e quasi una spezie di tuono e motivo musico in ogni componimento. In tutte le Odi di lui, e più nell’ultime mirabilmente risplendono, e sono congiunte tali doti alla più ferma facilità. Richiedevasi quindi nella Caduta, e nella Tempesta una velata grandezza propria di quelle Odi profonde e misteriose; e nella Musica, e nel Bisogno argomenti sublimi per sè, e della [XL] comune intelligenza, quella nobile ed evidente semplicità, che è compagna del sublime. Nè contraddisse egli, come avvisò alcuno, alla natura dell’affetto, introducendo nell’Ode intitolata le Nozze quell’utile Ricordo sulla beltà passeggiera sì analogo alla filosofia del piacere, di cui tanto compiacevansi Anacreonte ed Orazio in que’ frequenti loro Ricordi; perciocchè simili avvertimenti invitano a cogliere saggiamente, giusta i dettami d’Epicuro, i fugaci piaceri dell’istante, che perduti una volta sono eternamente perduti. Parini andò oltre col Ricordo, e lo rendette più bello coll’idea della virtù, che ci è sempre cara, e migliora le nostre affezioni. Nè difettuose si possono chiamare le inversioni, che trovansi nel Pericolo, e nell’altra in morte del Sacchini, perciocchè la naturale agitazione degli affetti, che vi si esprimono, domanda uno speziale turbamento, onde simular meglio la verità. Alcuno disse architettata male qualche Ode di Parini; ma non accennò quale siasi, nè come pecchi. È duopo separare dalle sue Odi tre composizioni quasi improvvise, ch’egli rifiutò: il Piacere, e la Virtù; Piramo e Tisbe; ed [XLI] Alceste. Dolsegli amaramente, che Agostino Gambarelli gliele pubblicasse fra le Odi: voi arrischiate, gli disse, di farmi perdere quel po’ di buon nome, che mi meritarono le mie fatiche. Nè io le porrò fra le Odi, essendo mia ferma intenzione di non pubblicare, che le cose da lui già approvate e raccolte in un volume; se tolgansi poche composizioni, che vi volle aggiugnere il severo giudizio di valenti Letterati, e che non si ommetterà di ricordare.

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Gl’imitatori delle sue Odi furono più infelici di que’ dei Poemetti, perchè le dilicate e segrete bellezze dello stile, che stanno spesso nella novità, nella grazia e connessione dei modi, difficilmente si comprendono; ed una nuova maniera opportunamente introdotta, se collochisi altrove, nuoce spesso al bello, e diventa affettazione, o licenza. Altrettanto dicasi di certi vocaboli tolti dal Latino, che Parini maravigliosamente innestò ai nostrali, per indicare tratto tratto gradi di proprietà, o di sentimento, i quali vocaboli vogliono essere permessi solo agli eccellenti maestri, ed usati diversamente rendono le composizioni barbare ed oscure. Quant’oltre sentisse egli poi nello stile risulta ancora dall’esame delle cose tenui di [XLII] lui: havvi gentilezza, ed arguzia ingegnosamente velata dalla schiettezza negli Scherzi, nelle Novellette, e negli Epigrammi: bizzarría, e facezia finissima nelle Poesíe Berniesche; naturalezza nelle Milanesi, di cui fu parco ma leggiadrissimo compositore. Rara dote ma comune alle Poesíe di Lui si è la costante schiettissima pittura, ch’egli fece de’ costumi, e delle usanze de’ tempi suoi, siccome Omero, Orazio, Dante, e Shakespeare, che vivranno sempre nelle bocche degli uomini quai sommi Storici e Poeti. Nè minor lode si dee alle sue prose. I Dialoghi, le Pistole, e qualche Novella di lui sono distese con que’ modi facili ed ingenui, che si convengono allo stile famigliare. Quivi accorto si fu egli nella scelta di quelle dizioni, che sono ricevute ed intese da tutti gl’Italiani, e nel rifiuto delle manierate e volute solo da qualche dialetto speziale. Colti e modestamente ornati sono i Ragionamenti Accademici di lui, e gli Elogi del Tanzi, e del Dadda, che grandeggiano per le cose, e naturalmente conducono a credere vero quanto si espone con bella semplicità, a differenza de’ moderni Elogi, che strani e falsi nello [XLIII] stile c’inducono a diffidare anco delle qualità attribuite alle persone lodate. Aveva egli nella giovinezza imitati gli antichi prosatori Italiani con modi bensì proprj e leggiadri, ma che risentivansi un po’ dell’antica sintassi qualche volta, come ognuno sa, non tanto amica della chiarezza. La licenza Franzese introdottasi da quasi mezzo secolo nel Linguaggio Italiano fece trascurare quelle forme e giaciture, che si confanno all’indole del Linguaggio medesimo, ed alla varia sposizione delle idee. Studiossi Parini di conciliare la peregrina novità coll’indole della Lingua nostra, e colla leggiadría de’ modi nostrali, togliendo le inversioni, dove non sono richieste dalle idee, o dall’uso costante della Lingua stessa, svolgendo in regolari incisi gl’immensi periodi avvilupati, e rendendo ogni cosa facile e spedita, in guisa di allettare gl’Italiani a scrivere naturalmente e purgatamente nel tempo medesimo. E per parlare delle sue scritture di Belle Lettere, ed Arti, che formano la massima parte delle sue prose, giova avvertire, che l’Eloquenza vi è sì spontanea nella scelta de’ vocaboli, e delle forme del dire, e nella loro disposizione; [XLIV] vi è sì nobile rapida ed energica, che risplende singolarmente, e sparge le cose di tale vaghezza, che impegna non solo nello studio dell’esposte dottrine, ma serve d’esempio, onde esercitare l’Arte nell’insegnarla, siccome fecero Cicerone, e Longino. Havvi nelle scritture medesime una nitida e gastigata floridezza, un’artificiosissima sprezzatura, ed una ferma facilità, per le quali ognuno apprende agevolmente le cose, e si presume capace di scrivere in quella guisa, la quale trovasi, alla prova, sì studiata difficile ed originale. Forza, nobiltà, armonía, ricchezza, grazia, scorrevolezza, ed evidenza dominavano vieppiù nel suo discorso, che importantissimo per la grandezza de’ sen-

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timenti, e delle dottrine rapiva gli animi, e faceva, che tutti pendessero attoniti dalla bocca di lui. Tali doti cospirarono a renderlo egregio precettore. Quindi i più ardui dettami della filosofia, e i più fini sentimenti applicati alle Belle Arti e dimostrati da lui vestivano le più evidenti forme. Condiva egli sovente i proprj insegnamenti col garbo Socratico, dialogizzando, e mescolando la più leggiadra urbanità alla precisione della domanda; il che [XLV] invita all’esattezza della risposta. Largo di meritata lode verso gli scolari, e delicato nel velare chi non la meritasse, pareva nel dimostrar nuovamente la cosa mal intesa, che correggesse sè medesimo con bella disinvoltura. Veggendo egli, che gli antichi Critici avevano più sentito che veduto, trattando di Belle Arti, e che lo stesso Aristotele, ed Orazio, che tanto conobbero i principj comuni delle medesime, trascurarono di collocare in lucida serie le Teoriche loro, studiossi di ridurle a’ principj generici ed esatti, e confermò i precetti coll’assidua osservazione della natura, la quale crea negli uomini affezioni costanti, e li guida a gustarle imitate nell’opere delle Bell’Arti. Du-bos, André, Batteux, ed altri avevano già unite parecchie osservazioni comuni alle Belle Lettere, ed Arti, e spezialmente Batteux le aveva ridotte al principio dell’Imitazione dietro gl’insegnamenti di Platone, ed Aristotele. Parini nel suo Corso di Belle Lettere applicato alle Belle Arti divise i principj loro fondamentali, e generali da’ particolari, e proprj di ciascun’Arte; e ne ridusse [XLVI] i fondamentali all’Interesse derivato dalla presentazione, e imitazione della natura, alla Varietà, ed alla Unità; i generali alla Proporzione, all’Ordine, alla Chiarezza, Facilità, e Convenevolezza; ed i particolari, parlando di Belle Lettere, alla Parola, alle Lingue, ed agli Stili: e passò quindi alla Lingua Italiana, all’Indole, ed agli Scrittori Classici della medesima. Grandi ed utilissime verità contiene quell’opera insigne, che intera ci rimane. Ma conobbe egli di non avervi bastevolmente sviluppate tutte le filosofiche osservazioni risguardanti le compiute Teoriche delle Bell’Arti. Mendelsshon, e Sulzer procedettero oltre nelle Teoriche stesse; ma da nudi metafisici passarono ad un’estremità opposta a quella de’ Critici antichi, cioè dal sentir troppo al troppo vedere. È inutile il ripetere tutte le opinioni di Sulzer, e di Mendelsshon cotanto divolgate; basti il dire, che Parini da Filosofo e Letterato sommo si tenne nel mezzo, e ridusse a maggiore verità i principj fondamentali delle Bell’Arti. Non essendovi il trattato di lui sulle medesime tenterò di esporre il metodo, con cui le [XLVII] insegnava. Quanto all’essenza loro non conveniva egli con Sulzer, tampoco con Mendelsshon, che la fa consistere in una perfezione sensibile rappresentata per l’Arte. Egli è vero, diceva Parini, che l’Arte aspira alla perfezione dietro quanto ne accenna sparsamente la Natura, ma non l’ottiene giammai; perciocchè non è degli uomini il conseguirla, siccome ci provano le continue discrepanze, che sorgono fra loro relativamente alle opere delle Arti, che trovansi sempre più o meno difettuose. Se la perfezione costituisse l’essenza delle Bell’Arti, essa dovrebbe necessariamente trovarsi nell’opere delle medesime, siccome vi si trovano sempre i veri loro principj, la Composizione, e la Imitazione, sieno esse bene o male trattate. La perfezione, secondo l’angustia delle umane menti, non è che un sentimento, o tipo ideale superiore ai sensi, che ci presentarono parzialmente idee o immagini, onde comporlo, sebbene non n’esistesse mai l’oggetto compiuto nella Natura. La sola bellezza derivante dalle sensibili proporzioni cade sotto i nostri sensi, e forma lo scopo delle opere dell’Arte, che aspira a perfezionarla. [XLVIII] Parini cominciava dalla Storia Filosofica delle Arti, discendeva poi alla parte risguardante le Belle Arti Architettura, Scultura, Pittura, Danza, Mu-

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sica, Eloquenza Poetica e Prosaica, chiamate tali, perchè generano il diletto per via del Bello. Esponeva quindi i due principj loro generali, la Composizione, e la Imitazione. Gli Elementi della Composizione sono la Semplicità, la Varietà, e l’Unità; nel che consiste il Bello naturale ed artifiziale. Le Belle Arti fanno la loro Composizione, altre colla Realtà, siccome la Musica, l’Architettura, e la Danza; altre co’ Segni Reali delle cose, come la Pittura, e la Scultura; altre co’ Segni Convenzionali delle idee, come l’Eloquenza, da cui deriva ogni maniera di Stile. Gli Elementi dell’Imitazione sono il Vero di Realtà, o di Fantasia, lo Scelto, ed il Perfezionato, che agiscono per l’Economia, la Distinzione, e la Convenevolezza. L’eccellenza poi dell’Imitazione sta in quella delle Umane Passioni, cosa la più atta a commovere gli uomini: ne deriva quindi la dottrina degli Affetti. [XLIX] Questi principj venivano da lui applicati a tutte le Belle Arti, e spezialmente alla Poesía, da cui traeva in maggior copia gli esempj. I più sublimi squarci di Omero, Euripide, Virgilio, Dante, Ariosto, Tasso, l’intero Edipo Re di Sofocle, parecchie Liriche di Anacreonte, e Pindaro, della Scrittura Ebraica, di Orazio, e Petrarca confermavano mirabilmente le sue dottrine. Cominciava egli dall’esaminare il tutto per li generali principj della Composizione ed Imitazione; osservava poi l’ordine particolare delle idee, la verità delle medesime e quella spezialmente delle immagini, la naturalezza e la forza degli affetti, che costituiscono il sommo pregio dell’Arte; e da ultimo fermavasi sulla proprietà della lingua, e dello stile, e sull’armonia imitatrice del verso. Tanta era in lui la evidenza dell’elocuzione, che spesso gli uditori trovavansi rapiti nel Concilio de’ Greci; sbalorditi dall’Omerica Discordia; teneramente commossi allo incontro di Andromaca, e di Ettore; agitati terribilmente nella torre con Ugolino, e co’ suoi figliuoli; soavemente illusi coll’infelice Didone per una graduata serie di [L] affetti, in cui eccellentissimo è Virgilio sì nel tutto che nelle parti del suo Poema. Interpretava egli con singolare artificio l’Edipo Re di Sofocle qual modello il più insigne della Drammatica. Infatti le virtù di Edipo, e la sua fatale scelleraggine scoperta per terribili avvenimenti e punita da lui medesimo generano nell’animo un tale contrasto di affetti, che di continuo crescendo preparano segretamente l’animo stesso a cose maggiori, e non lasciandolo in riposo giammai non l’opprimono, nè lo precipitano nell’orribile, minacciatogli dalla natura de’ casi rappresentati; in modo che il nostro affetto insensibilmente diviene l’affetto di que’ Greci, che agiscono, il più novo, il più contrastato, il più nobile, ed il più terribile, che si fosse mai con immenso nostro diletto, e colla persuasione di quel sentimento utilissimo ai liberi Ateniesi: che il destino maledice perfino le virtù dei Re. La semplicità de’ Greci, ossia la presentazione delle cose, e singolarmente degli affetti eseguita con modi naturali facili ed evidenti in guisa di esercitare e commovere l’animo senza pena, dimostravasi sottilmente da Parini ne’ più sublimi squarci di Omero [LI] da lui chiamato l’autore, che possedesse mai in più eminente grado d’ogni altro lo stile poetico, e la poetica facoltà; doti, che dopo Omero, malgrado i difetti de’ tempi nel nostro Dante sommamente risplendono. Dopo la semplicità de’ Greci ammirava egli forte la ingegnosa loro acutezza particolarmente negli Epigrammi risguardanti soggetti di Pittura, o Scultura fondati per lo più sul vero della fantasía; ma severamente notava quelli, che ad ogni modo peccassero di falso. Egualmente censurava egli Omero, Virgilio, e gli altri sommi Scrittori laddove offesero di rado il Vero, ed il Bello.

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Circa lo studio de’ Classici Greci, che tanto è difficile il gustare negli originali, voleva, che se ne leggessero le buone traduzioni letterali, che conservano, se non altro, le grandi forme degli originali. È cosa facile, diceva egli, il rendere i sentimenti dell’originale amplificando, e trovare l’armonia imitativa di qualche cosa con lungo giro di versi; ma è quasi impossibile d’imitare le cose col suono proprio in pochi versi, e in poche parole naturalmente, e quasi a caso, come pur fanno i Classici, onde nelle opere [LII] loro l’Arte, che tutto fa, nulla si discopre. L’esempio però, che soleva egli più sovente dimostrare, si è la Poetica di Orazio, in cui havvi le doti teoretiche e pratiche congiuntamente. Sudarono molto i Critici, e fra essi l’Einsio per riordinarla: Parini mostrava, che ordinatissima è per sè, quanto esser lo dee una pistola, che è l’immagine del discorso famigliare, in cui per avventura divagasi qualche volta dalle cose primarie; e che è fondata sui principj comuni alle Bell’Arti. Infatti dal verso: Humano capiti cervicem Pictor equinam parlasi della Composizione divisa in varia, semplice, ed una, fino al verso: Non satis est pulchra esse poemata; dulcia sunto dove cominciasi a parlare dell’Imitazione distinta nel Vero, nello Scelto, e nel Perfezionato, coll’applicazione loro ai Costumi, ed agli Affetti Umani; e vi si progredisce fino al verso: O major juvenum quamvis et voce paterna: dopo il quale trattasi di regole generali spettanti al Buongusto fino alla fine. Nè cessava mai dall’inculcare lo studio dell’Italiana favella, che mostrava con finissime [LIII] investigazioni essere la più ricca di modi, la più armoniosa e pieghevole delle viventi. Abborriva egli la ricercatezza, e l’affettazione qual peste d’ogni scrittura, e sofferiva più presto la trascuraggine, e la licenza, quando non offendano la chiarezza, perchè il primo scopo d’ogni discorso è d’essere inteso. Ma nemico della perniziosa novità soleva dire, che chi non conosce la propria Lingua, non può far valere, come si vorrebbe, i suoi pensieri, e che gl’Italiani correndo dietro al falso stile, ed alla confusione de’ vocaboli e modi forestieri arrischiavano di perdere la precisione delle idee. E sebbene commendasse molto le filosofiche istituzioni della Società del Caffè, a cui non appartenne mai, biasimava in maniera di lingua la licenza di molti fra que’ dotti Scrittori, la quale diffusasi per l’importanza delle cose di Beccaria, Verri, e Frisi rendette oscuro, e corruppe assai l’Italiano idioma. Fuggite, diceva egli, gli Scrittorelli Lombardi, ed i recenti Toscani degeneri dall’antica loro grandezza. Al venire della Repubblica Parini consolossi non poco per la Lingua nostra. Se saremo liberi, diceva egli, avremo una Lingua, la [LIV] quale, se non sarà affatto la primiera, sarà però propria espressiva robusta e dignitosa, perchè i Popoli liberi sogliono avere il tutto proprio e segnalato. Per lo che compiacevasi forte della libera divolgazione delle Opere di Macchiavelli: costui, dicevami, t’insegnerà a pensare, parlare, e scrivere liberamente. Nè meno singolari furono le doti morali di lui. Una mobilità somma di nervi, ed una costante agitazione di muscolari irritamenti gli avevano costituito la tempera facilissima alle impressioni e per sè molto inquieta. Queste affezioni, che rendono gli uomini per l’ordinario sagaci osservatori di sè, e d’altrui, spargono di un certo acre ed iracondo il discorso, e di una straordinaria risolutezza

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ed energía le azioni; e ben condotte spingono gli uomini verso gli oggetti utilmente ingegnosi; mal dirette li fanno diventare fastidiosi e maligni. Parini moderò sagacemente, come Socrate, il suo carattere impetuoso: corresse la sua splendida bile, trasformandola nella Socratica ironía, che mescolata coll’ingenuità, col garbo, e col decoro non offende gli uomini, mentre li riprende gentilmente con un [LV] contrasto di modi, che li sorprendono. Se adiravasi egli per avventura, l’ira sua era breve fugace e nimica dell’odio. Alieno dalla malignità non prese di mira i difetti di persona veruna ne’ suoi Poemetti, ma servì alla storia de’ costumi, e delle abitudini de’ tempi suoi, ne scelse i tratti più singolari, e li dipinse al vivo colorandoli con la verità, e la naturalezza, che sono proprie di tutti i tempi e luoghi possibili. Nè mai discese altrove alla satira personale, se non contro uomini assolutamente tristi e licenziosi. Candido e gentile co’ buoni Parini era acre terribile e fiero co’ malvagi. Abborriva egli singolarmente gli adulatori, i bugiardi, ed i millantatori. Un certo Florent parrucchiere nel dargli una parrucca gli disse con baldanza naturale a’ suoi: affè, signor Abate, non aveste, nè avrete mai parrucca sì bella: sdegnarsene, gittarla dalla finestra, non volerla più benchè pagata, fu una cosa sola. La dilicata sua probità accompagnavasi colla nobile alterezza, che deriva dalla coscienza della propria integrità. Conservò egli sempre una certa fierezza con que’ potenti, i quali sogliono arrogarsi l’autorità, che al solo [LVI] merito si concede; nel mentre che mantennesi costantemente dolce piacevole ed urbano cogl’infimi, e cogli eguali. Quest’egregie qualità di Parini sono sì marcate e trasfuse nelle opere di lui, che Vincenzo Monti, senz’averlo conosciuto mai, colla semplice lettura loro mirabilmente le espresse nella sua Mascheroniana. L’arguzia, e la facezia temperavano tratto tratto la severità del suo sembiante, e spesso usavane egli per indicare la fermezza dell’animo, non mai per iscurrilità. Due medici il visitarono ammalato; diceva l’uno: è duopo dar tuono alla fibra; l’altro: conviene scemarle tuono; ed egli: costoro, ad ogni modo, mi vogliono far morire in musica. Tenace del proposito per una bella costanza piegavasi ogni volta, che il volesse la ragionevolezza. Amò, come debbono gli uomini dabbene, la onesta lode, e l’ottima reputazione: abborrì sempre gli encomj volgari, e quelli, che sentissero di affettazione. Nell’ultima età ogni lode gli era quasi indifferente; se quella tolgasi degli amici, che gli fu sempre cara. L’amicizia occupogli ognora l’animo; la [LVII] coltivò egli colla pienezza del cuore. Tutto il suo era comune agli amici per una liberalità, derivata più dal sentimento, che dalla prudenza: ebbe egli però la larga consolazione di vedersi in tal generosa gara corrisposto. L’amico suo Gian-Carlo Passeroni, in cui la ingenuità e candidezza dell’animo vanno del pari coll’eccellenza dell’ingegno, allorchè Parini fu spogliato da’ ladri domestici, corse a recargli tutti i pochi quattrinelli, che aveva. Difficile alle nuove amicizie era egli studiosissimo delle antiche. Cogli amici amò sempre la consuetudine famigliare, e benchè cagionevole da tant’anni strascinavasi tutti i giorni dal librajo Domenico Speranza, e dal Dottore Vincenzo Dadda letterato, e virtuoso Epicureo. Nulla lasciò d’intentato, onde giovare agli amici, pe’ quali discese con altrui fino all’importunità, ed alla preghiera. Le loro sventure lo rendettero inconsolabile lungamente, e quella, sopra ogni credere, dell’aureo suo discepolo Agostino Gambarelli, che per disperata malinconía si trafisse colla spada.

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Grave spesso ed austero cogli uomini nuovi Parini era scherzevole e caramente [LVIII] litigioso cogli amici: simulava con loro aspre dispute e contese, che risolvevansi nel breve giro della conversazione, ma che parevano strane a chi v’intervenisse a caso: tanta erane la bella ed accorta esagerazione, che certi momenti vestiva più le forme della passione, che dell’amicizia. Io tacerò i molti nomi degli amici di lui, per non arrischiare di scordarne parecchj. Amò egli forte l’ingenuità de’ fanciulli, che di continuo osservava, e teneramente accarezzava. Trattenevasi pur molto colla gioventù di forme grandi e rilevate, e d’animo sensitivo e vivace: mal sofferiva quella, che usurpasse i caratteri delle altre età. Stuzzicando l’amor proprio de’ giovani pungevali con festività e baldanza, dava loro la baja, e dilettavasi di que’ moti subiti e veementi, con cui si schermisce la calda gioventù, e prepara l’animo a cose maggiori. Era egli affettuoso e piacevole co’ suoi discepoli, tra cui gli furono singolarmente cari Agostino Gambarelli, Gian-Battista Scotti, l’Obblato Antonio Mussi, Antonio Conti, Febo Dadda, Giovanni Torti, e Palamede Carpani. Complesso d’organi estremamente sensitivi e delicati, vivacissima fantasía, tenero cuore, [LIX] finezza rara di modi, che erano in lui, volevano, che l’animo suo fosse soggetto alla più soave e forte delle passioni. Amò le vaghe e gentili donne, e ne fu spesso riamato. Ma nobile e dignitoso dava un’aria di grandezza alle sue stesse passioni, che mai nol declinarono dalla rigida virtù. Le donne ornate di modestia, di aria ingenua, di patetici sentimenti, e di forme grandemente scolpite avevano il più forte predominio sull’animo di lui. Ma le sue virtù non risplendettero mai tanto, quanto nell’esercizio del Magistrato repubblicano. Maestro di Libertà fin sotto i re ed invincibile nella sua costanza non lasciossi giammai sedurre dalla lusinghiera novità nemica spesso dell’ordine, e della giustizia; biasimò, combattè sempre con alacrità quante violenze volevansi commettere sotto l’arbitrio specioso della Libertà. Non forza d’insidiosi sofismi, non furore di partito, non mali artifiziosamente simulati poterono strappargli di bocca mai una sentenza, la quale si opponesse alla fredda rettitudine, che sempre egli sostenne con fulminea eloquenza. Colla persecuzione, e colla violenza non si vincono gli animi, nè si ottiene la libertá colla [LX] licenza, e co’ delitti. Il Popolo vi si conduce col pane, e col buon consiglio: non si dee urtarlo ne’ suoi pregiudizj, ma vincerlo per sè stesso coll’istruzione, e coll’esempio piú che colle leggi. Così avvisava egli, e sì francamente parlava co’ suoi, e cogli stranieri. Gl’imminenti mali della Patria, per cui volentieri avrebbe sagrificato la vita, il trassero spesso alla segreta amarezza del pianto; il che aggiugnevagli in pubblico lena e conforto. Molti sono i tratti rari, ed insigni di lui qual uomo pubblico, e privato nel tempo repubblicano. Uno di que’ forsennati, che nelle apparenze pongono la Libertà, voleva, che chiunque si presentasse al Magistrato, vi stesse a capo coperto. Un buon alpigiano, che sempre aveva fatto altrimenti, benchè ripreso, non sapeva coprirsi per rispettosa abitudine: allora Parini: copritevi il capo, e guardatevi le tasche. Quando il Generale Despinoy represse il Municipio di Milano con minacce brutali, ridendo Parini, e toccando la ciarpa, che gli pendeva dall’omero al fianco, or ora, disse, ci pongono un po’ più in su questa ciarpa, e ce la stringono. Egli fu nel Municipio, che Parini acremente [LXI] perseguitando coll’indagine certi quali, che rubarono a nome del Municipio stesso, e trovandovisi chi

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con smoderato garrito cercava di travolgere la verità, l’arguto Pietro Verri disse a Parini medesimo: il ladro alla fine siete Voi, che quì rubate il soggetto di una bella Satira. Ripreso Parini, per istrada, da uno sciagurato, perchè facesse la carità ad un Tedesco prigioniere, la fo, disse, al Turco, al Giudeo, all’Arabo, al Tedesco, la farei a te, se tu ne avessi bisogno. Volevasi da un furibondo fargli gridare in pieno Teatro morte agli aristocratici; ed egli: viva la repubblica: morte a nessuno, con voce sì terribile, che l’audace ne ammutolì. Contro i nemici di Francesco Melzi diceva: costoro non si accorgono, che, perseguitando un uomo distinto, lo rendono vieppiù famoso e desiderato. In que’ giorni turbolenti disse a più di un amico: sei tu buono qual jeri? Un censore sì severo non poteva piacere in quella stagione, e fu chiamato uomo di soverchio prudente ed inetto. Il precipizio delle cose gli fece desiderare un congedo dal Magistrato, e nell’ottenerlo mise un [LXII] sospiro, e disse: ora sono libero da vero. Quando le fazioni cesseranno, ed il Popolo assolutamente stabilirà le sue leggi fondamentali, e nominerà i suoi Magistrati, allora occorrendo servirò nuovamente la Patria. La poltica inquisizione, di cui tanto abusavasi in que’ dì, gli faceva, sopra ogni altra cosa, ribrezzo. Scrisse egli a Giovanni Paradisi, che astenevasi dal commercio epistolare, non amando che la purità delle sue Lettere fosse stuprata da qualche mascalzone. Nè giunti i Tedeschi, coloro, che volevano togliergli la cattedra declinarono punto l’animo sicuro di lui. Un amico allora gli offeriva al caso un onesto ricovero; ed egli: andrò più presto mendicando per ammaestramento de’ posteri, ed infamia di costoro. I tempi vogliono un’altra dichiarazione sulle opinioni di Parini. Nemico egli della superstizione, e dell’impostura fu creduto ateo, e nol fu mai; nè poteva esserlo un uomo dotato come lui di fervidissima fantasia. Io mi consolo, diceva egli, coll’idea della divinità; nè trovo veruna norma sicura dell’umana giustizia, oltre i timori, e le speranze di un altro avvenire. [LXIII] Queste doti esimie lo seguirono fino alla tomba. L’ultima sua giornata levossi alle otto del mattino, per inquietudine e caldo eccessivo, e fu tosto salutato da Calimero Cattaneo Professore di Rettorica, e da Paolo Brambilla Professore di Geometría ed Algebra, al quale dettò con voce elevata un Sonetto, che si volle da lui sul ritorno de’ Tedeschi: finitolo disse: vi ho posto un buon ricordo per costoro. Intanto sopraggiunse il Medico Jacopo Locatelli, che richiesto da lui sull’andamento della malattía non disse presente ma vicino il pericolo. Udillo Parini coll’usata serenità, e andato nella vicina Sala ragionò placido cogli astanti Febo D’Adda, Brambilla, Angelo Vecchi, e Giuseppe Airoldi. Agitato poi da lieve vomito, e da vivissimo fuoco, che gli discorreva le spalle: una volta, disse, ciò si sarebbe creduto un folletto, ora non credesi più al folletto, nè al Diavolo; tampoco a Dio, al quale però crede il Parini. Scioltasi alle due dopo il meriggio la conversazione, ritornò egli alla stanza; e giunto dicontro ad una finestra vide una luce inusitata, e disse ridendo al servidore, che non aveva veduto mai sì bene dell’occhio risanato; [LXIV] sentissi una nuova forza, per cui passeggiò dall’una all’altra stanza, senza esservi tratto da altrui, come di solito accadeva. Dopo varie faccende sdrajossi sul letto, torse alquanto la bocca, nè parlò più: momenti dopo placido spirò.

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Privatissimi furono i funerali di lui per lutto de’ tempi, e per ultima sua volontà così espressa: voglio ordino comando, che le spese funebri mi siano fatte nel più semplice e mero necessario, ed all’uso, che si costuma per il più infimo dei cittadini. Calimero Cattaneo pose al tumulo di lui nel Cimetero di Porta Comasina la seguente iscrizione: ios · parini · poeta hic · qviescit ingenva · probitate exqvisito · ivdicio potenti · eloqvio · clarvs litteras · et · bonas · artes pvblice · docvit · an · xxx vixit · an · lxx plenos · existimationis · et · gratiæ ob · a · mdccxcix [LXV] L’Astronomo Oriani, dopo avere inutilmente tentato di onorare in pubblico la memoria di Parini nel decorso dell’Austriaca invasione, restituitasi appena la Repubblica, gli fece a spese proprie collocare ne’ Portici del Ginnasio di Brera un nobile monumento coll’effigie di lui sculta in marmo da Giuseppe Franchi: nel cui Piedestallo scrisse Oriani medesimo: iosephvs · parinivs cvi · erat · ingenium mens · divinior atqve · os · magna · sonatvrvm obiit xviii · kal · sept · a · mdccic L’Avvocato Rocco Marliani, che Parini chiamava il più caro amico della sua vecchiaja, nell’amena sua villa, che sorge presso la terra di Erba, detta Amalia dal nome di sua moglie ugualmente amica di Parini, gl’innalzò un grazioso tempietto col simulacro di lui, e con varj ingegni musicali, sovra di un colle, che specchiasi nel vago Eupili suo. [LXVI] Ma il più bel monumento della sua gloria sta nell’ammirazione de’ posteri, e nel cuore de’ suoi concittadini, che vivo l’amarono, ed ora ne serbano una soavemente trista rimembranza.

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DELLA LETTERATURA ITALIANA

NELLA SECONDA METÀ DEL SECOLO XVIII

OPERA

DI CAMILLO UGONI VOL. II.

BRESCIA PER NICOLÒ BETTONI MDCCCXXI

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Giuseppe Parini Sua vita.

Poveri tugurj e ignorati villaggi videro non di rado nascere illustri ingegni, che risplendettero poi nelle città più cospicue. Tale fu la gloria di Bosisio, terra del Milanese, presso il lago di Pusiano, ove, l’anno 1729 a’ 22 di maggio, venne alla luce il celebre Parini di casa popolare, e dove pure più tardi comparve il grande Appiani di stirpe gentile.1 Il Parini studiò in Milano nel ginnasio Arcimboldi diretto da’ barnabiti; e la natura dell’ingegno suo il traeva alla poesia, ma il paterno comando e il bisogno lo torsero prima ad essere copista di cose forensi, poi alla teologia e al sacerdozio. Ma quando la vocazione della natura è alta e costante suol [301] vin|cere tutti gli ostacoli, che l’altrui volontà e le circostanze oppongono a seguirla. Così questo industrioso furava le ore agli uffici suoi, e donavale a Virgilio, a Dante e al Petrarca. Da questi grandi imparò a far versi, e del 1752 si lasciò indurre dagli amici a pubblicarne un libretto2 il quale, sebbene come l’età sua immaturo, gli procacciò nondimeno dagl’ingegni di sua patria quell’amicizia e quella stima, che si accorda volentieri a chi non per anche può essere segno all’invidia. Però fu ammesso nell’accademia de’ Trasformati, fiorente a que’ dì in Milano, e all’arcadia di Roma. Trasse il Parini gran parte della sua vita in fiere angustie, e fu per fino costretto ad entrare in alcune famiglie come precettore, onde provvedere a’ bisogni proprj, e più a quelli della madre, per sostentare la quale vendette il piccolo retaggio paterno. Delle quali angustie fa cenno egli stesso in que’ versi: La mia povera madre non ha pane, Se non da me, ed io non ho danaro Da mantenerla almeno per domane. [302] Ma ogni volta che poteva pur procacciarsi un po’ d’ozio, tutto lo usava nell’educare il suo ingegno acre e svegliatissimo; e propostosi di trarne gran frutto, era ormai deliberato di non più pubblicare alcun’opera, che non mirasse ad una meta altissima. Quindi avvenne, che soltanto nel 35 anno dell’età sua (1763) diede fuori il Mattino, al quale due anni dopo fe’ succedere il Mezzogiorno. Il conte di Firmian, ministro dell’Austria in Lombardia, che già aveva fatto incoraggiare l’A. a stampare il suo poema, vide allora quanto utilmente potesse adoprarsi questo ingegno a diffondere il buon gusto nella patria; e, dopo essersene giovato alcun tempo per la compilazione d’una gazzetta, del 1769 gli affidò un carico più decoroso e confacente agli studj del Parini, quello di professore di belle lettere nelle scuole palatine in Milano; e dopo la soppressione de’ gesuiti fu egli promosso alla cattedra di eloquenza nel ginnasio di Brera. 1 Parole del Parini nel frammento di un’ode ad Andrea Appiani. 2 Questi versi furono stampati nel 1752 in Lugano colla data di Londra, e sotto il nome di Ripano Eupilino dal vago Eupili suo, antica denominazione del lago di Pusiano.

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Grandissimo frutto recarono in quella vasta città le lezioni del Parini. La letteratura vi ricevè l’impronta del suo ingegno, e fu veduta sorgere in Milano una nuova scuola, che non è ancora al tutto cessata. Il novello professore fu pure aggregato alla Società patriotica fino dalla sua origine, che fu nel 1776. Venne poi meno alla commissione che quella società gli affidò di scrivere l’elogio funebre di Maria Teresa, non tanto per la perfezione ch’egli si proponeva ne’ suoi lavori, quanto perchè il tema non gli [303] pia|ceva.1 A tentare di sdebitarsi di sì fatto carico erasi recato in villa, e la contenzione della sua mente fu tanta, che ne contrasse una malattia nervosa, la quale il fece inetto allo studio per un anno intero. Certo il comporre costava assaissimo al Parini, o che le fonti del suo pensiero si trovassero impedite per affluenza nel primo sgorgo o più veramente che egli venisse costretto alla lentezza dall’alto concetto che aveva del bello, e dal dilicato e difficile suo gusto. Però più volte si accinse al compimento del suo Giorno, e più volte il lasciò cadere dalle mani.2 Tanta severità di critica faceva sì, che mentre tutti lodavano i suoi versi, egli trovava dove censurarli, e si augurava di ringiovanire, perchè, raggiunta omai l’idea del bello, avrebbe sperato, secondo ch’egli diceva, di compor cose non indegne del nome italiano. Quindi non era prodigo di lodi nemmeno agli altri, e soltanto le concedeva ai sommi ingegni, accompagnandole di alcun utile avviso.3 A’ mediocri era inesorabile, [304] e a chi gli parlò un tratto dell’autore4 dell’Uso, pretesa imitazione del suo Giorno, torcendosi fastidiosamente rispose: «so pur troppo di aver fatto de’ cattivi scolari». Un tal rigore di giudicj, la franchezza e l’austerità, con cui pronunciava in pubblico verità santissime, ma tanto più odiose a molti, quanto più erano autorevoli nella bocca di questo poeta cittadino, l’impero che andava acquistando sulla pubblica opinione, e, la ridevolezza, futilità, e burbanza del costume signorile da lui tutta quanta svelata e motteggiata acremente, dovevano concitargli contro e gli concitarono gran numero di nimici. Ma, dove egli diceva le sue sentenze all’aperto, segretamente stillavano questi il loro veleno negli orecchi a’ potenti. E, morto il conte di Firmian, per poco non gli fu tolta la cattedra, nè potè mai ottenere una casa meno angusta necessaria alla sua inferma vecchiaja. Frattanto le riforme, che Giuseppe II andava operando ne’ suoi stati, traevano l’attenzione del Parini verso la politica. Questo affetto per la felicità della cosa pubblica sì [305] connaturale a quanti furono più insigni cultori delle discipline liberali crebbe ancora in lui all’epoca della rivoluzione di Francia, e ne concepì egli speranze per la sua patria, che poi furono tradite. Allora alle consuete letture aggiunse l’assiduissima del Monitore, e d’altri giornali parigini, e la sua vista ne sofferse per modo che appannatosegli anche l’occhio sinistro, si risolvette di tentare l’operazione della cateratta. 1 Il sig. Reina adduce più apertamente la ragione di questo silenzio del Parini. Vedi la Vita che egli ne scrisse. Fac. xxi. 2 Stese i suoi poemetti sul lago di Como a Malgrate da Candido Agudio, ed a Bellagio dal conte della Riviera. 3 Come fece con Vittorio Alfieri, indirizzandogli un sonetto, di cui citeremo alcuni versi più [304] innanzi. – Di Vincenzo Monti soleva dire: «costui minaccia di cader sempre colla repentina sublimità de’ suoi voli, ma non cade mai». 4 L’Uso, poemetto in versi sciolti, diviso in due parti: del conte Durante Duranti. Bergamo, presso F. Locatelli, 1778.

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Le infermità del Parini non valsero a prostrarne il carattere. «Una strana debolezza di muscoli» (così l’avv. Reina nella gradevole vita, che ne scrisse) «lo aveva renduto dalla nascita gracile, e cagionevole; ma la sua prima giovinezza piena di brio e di alacrità non risentissi punto di quegl’incomodi, che tanto grave gli rendettero la virilità e la vecchiaja. A ventun anno sofferì egli una violenta stiracchiatura di muscoli ed una maggiore debolezza; per lo che gambe, cosce e braccia cominciarongli a mancar d’alimento, ad estenuarsi, e a perdere la snellezza e la forza sì necessaria agli uffizj loro. Credevasi da principio, che il suo andare lento e grave fosse una filosofica caricatura; ma presto si conobbe proceder ciò da malattia, la quale crebbe in guisa da togliergli il libero uso delle sue membra». Così sciancato e mezzo cieco com’era serbava pure nel portamento, nel porgere e nello stampar l’orma una dignità maravigliosa, onde altri veggendolo non poteva a meno [306] di non chiedere chi egli si fosse. Il povero vecchio privo d’ogni sussidio non ebbe mai, onde reggere la caduca persona, che il sostegno di un bastone e la invitta forza dell’animo.1 Venuti in Italia i francesi, il Parini fu eletto al municipio di Milano. Durò nella magistratura fin che potè operare il ben pubblico, che si era proposto unico scopo a quel suo novello arringo. Però vi stette poco, e scioltosene fece segretamente distribuire a’ poveri l’intero stipendio, che ne aveva ritratto. A’ 15 agosto dell’anno 1799, settantesimo dell’età sua, morì povero, come visse, e fe’ chiaro col suo esempio quanto sia calunniosa la opinione di coloro, i quali dicono tutti i partigiani della pubblica libertà essere partigiani del proprio interesse. L’astronomo Oriani, Calimero Cattaneo, e l’av. Rocco Marliani posero lapidi e monumenti al Parini. Un poeta italiano mosse gran lamento, perchè la città di Milano non gliene pose alcuno.2 Ma il monumento più invidiabile al nostro poeta è quello che l’amore, la gratitudine e l’ammirazione scolpì [307] ne’ cuori de’ suoi concittadini, e il più durevole è quello, che egli stesso si eresse colle sue opere. Sue opere. Orazio disse di non vedere a che giovi lo studio senza una ricca vena. Sembra a noi di vedere, che giovi talora ad accrescere una vena anche mediocre, e sempre poi a renderla pura ed a ben guidarla. In fatti si potrà forse dubitare, se la vena del Parini fosse ricca, ma non si può dubitare, che collo studio egli non arrivasse a perfezionare uno scarso numero di poemi, ne’ quali tanto maggiore deve argomentarsi la fatica, che pur vi traspare, quanto più grande è la inferiorità di quegli altri, che non sentirono la sua lima.3 L’assidua meditazione su l’uman cuore, l’industria, con cui avvisava ne’ lavori più elaborati degli artisti non tanto la finitezza dell’esecuzione, quanto la forza imaginativa e creatrice posta nel concepimento, e lo studio indefesso de’ classici supplirono in lui a quell’abbondanza di fantasia, che altri ha da natura. Quindi la invenzione de’ 1 «Nè il sì lodato verso/Vile cocchio ti appresta/Che te salvi a traverso/De’ trivj dal furor de la tempesta» (La caduta: Ode). 2 Ugo Foscolo ne’ Sepolcri. 3 L’Auto da fè. Sopra la guerra. Al cons. bar. de Martini. Frammenti del poemetto sulla colonna infame. Tutti quattro componimenti in verso sciolto.

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suoi poemi, quantunque non sia nè vasta nè [308] ardita, è sempre bene proporzionata, e lo stile di lui, quantunque elaboratissimo, è quasi sempre elevato, e non di rado sublime. Però gli effetti dell’arte non pedantesca in niuno si manifestarono più mirabili che nel Parini, appunto perchè, avendo egli sortita una tempra d’ingegno non preoccupata da’ proprj fantasmi, era per ciò stesso meglio disposto all’attenzione ed alle fine osservazioni, nelle quali apparve sovra ogni credere acuto scrutatore. Prima che il Parini sorgesse, i più de’ lirici italiani sembravano rivolgere i loro versi unicamente a far lusinga agli orecchi, e, quando anche avevano uno scopo morale, era vago; esaltavano le virtù e sferzavano i vizj comuni a tutti i tempi, ma non erano quasi mai poeti della loro nazione nè del loro secolo. Il Parini, che non aveva men caro il manto filosofico della fronda poetica, vide e sentì questo difetto, e lo evitò in tutti i suoi versi; laonde fu singolare fra gl’italiani per aver revocata la poesia all’antico suo ufficio usando dell’arte al miglioramento dei concittadini.1 [309] Che se non pervenne a correggerli interamente dalla mollezza, dalla futilità e dai superbi fastidj, li corresse almeno in parte, li fece vergognare a vicenda e ridere essi stessi della loro nullità, e il tempo farà il resto; chè non è opera agevole, nè di pochi anni rivolgere un intero ordine delle città, in cui la infingardaggine è per lunga età radicata, ad occupazioni utili e generose. Frattanto l’A. col poema del Giorno e con poche liriche si è acquistato una fama immortale. Cerchiamone la ragione in queste medesime poesie. Chi dicesse che i poemetti il Mattino, il Meriggio, il Vespro e la Notte non offeriscano invenzione nel piano; perchè lo stesso ordine delle faccende succedentisi in questi diversi periodi del giorno ne fa le veci, direbbe cosa così assurda come il recare a difetto del poeta ciò che è nella natura del poema satirico, il quale non deve inventare i fatti, bensì prenderli dal vero; e d’altro canto tutta quella invenzione, che è comportabile col soggetto, l’A. seppe raggiugnerla, trasformando in vera poesia, mercè la forza del suo pensiero, una materia meschinamente prosaica. Cercava l’A. ad argomento de’ suoi versi soggetto intentato, e lo trovò degno della sua musa corrucciata nella vacuità della vita signorile, nelle false opinioni e nelle arroganze patrizie, nelle raffinate ed effeminate eleganze de’ circoli e delle mense, ove sedeva sovente. [310] Niuno ignora, che il Giorno è un poema apparentemente didattico, ove il precettore viene additando quali debbano essere le cure di un giovine signore, e che l’anima di questi versi è una ironìa fina, dilicata, mordacissima ad un tempo, e sostenuta dal primo fin all’ultimo verso; onde il pungolo della satira penetra tanto più velenoso, quanto più è temprato nella lode esagerata. A far meglio sentire tutto il ridicolo de’ leziosi costumi del suo eroe, l’A. li paragona sovente a’ costumi antichi, e le maschie virtù guerriere e le domestiche degli avi vengono a confronto coll’abbietta mollezza, co’ modi mimicamente eleganti, e colla frivola gravità del nepote. Il poeta descrive assai leggiadramente il primo svegliarsi del giovine signore, la sua conversazione coll’azzimato maestro di ballo e con quello di lingua fran1 «Canta gli Achilli tuoi, canta gli Augusti/Del secol tuo.» e ne’ pochi sciolti al cons. de Martini: «Così, già compie il quarto lustro, io volsi/L’Itale muse a render saggi e buoni/I cittadini miei.».

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cese, la toilette, la visita meridiana, il pranzo, i pubblici passeggi, la conversazione e il teatro. Mirabile e sconfortante è la verità della pittura del serventismo, depravatissimo de’ costumi italiani, del quale se un giorno avverrà, come pare, che l’Italia si purghi, abbattendolo dalle radici, gioverà forse a’ nepoti il cercarne la storia per entro a que’ versi. Ma il sarcasmo che li condisce ed avviva, benchè leggiadro alla fine produrrebbe sazietà in lavoro non breve, se il poeta non avesse avuto l’accorgimento di variare ed interrompere la narrazione con episodj tratti dalle viscere del soggetto, e ad esso felicemente [311] connessi, come sono i patti di pace tra Cupido ed Imeneo, l’origine dell’uso della polvere di Cipri, l’origine poetica della ineguaglianza sociale risultante dalla divisione degli uomini in plebei, ed in nobili, i primi condannati al bisogno ed all’industria, i secondi serbati all’ozio ed al godimento; nel quale episodio la personificazione del piacere e la descrizione degli effetti vitali, che la sua comparsa produce sulla terra, è stupenda cosa. La novella sull’invenzione del tric, trac, la invenzione del canapè ed altri ornamenti sono pure vaghissimi, e sommamente poetici; ma sopra tutto maravigliosi sono i due quadri, dove il Parini ne dipinge la notte antica dei duri ed alpestri avi, e la notte moderna sacra al suo signore. O l’A. desuma comparazioni da’ costumi asiatici ed americani, o le derivi da’ poemi omerici, o da alcuna famosa tragedia de’ greci, o da’ costumi romantici degli epici italiani, il fa sempre con tanta grazia e freschezza, che le stesse situazioni a cui allude ricevono un nuovo aspetto, e percuotono la imaginazione in modo inaspettato anche di coloro, che pur ricordano que’ costumi, e que’ libri. Si vale poi della favola ad accrescere la ironia, perchè, paragonando la persona e le usanze del suo ridevole eroe alle divinità e alle cerimonie mitologiche, lo solleva ad una grandezza vuota, come quella che non si appoggia nè alle opinioni degli uomini nè alla realtà delle cose. [312] Ma dove il Parini pose ancora assaissimo studio e riuscì ad essere insigne, fu nello stile e nell’artifizio del verso. E quanto a ciò che costituisce il carattere fondamentale dello stile, crediamo di poter affermare, che pochi scrittori abbiano meglio di lui seguito il grande principio del decoro. La continua eleganza e forbitezza de’ modi, e se vuolsi anche la ricercatezza risponde mirabilmente alla leziosità delle cose rappresentate, come la sdegnosa brevità in altri luoghi, e lo scoppio improvviso di pensieri forti ed inaspettati nel soggetto palesano ad evidenza il fiero carattere di questo ironico precettore della moda. Che se una tale impronta dello stile derivò in lui da un ingegno che meditò il soggetto, non è per questo ch’egli abbia trascurato gli altri spedienti richiesti da’ retori. Desumendo talora voci e costrutti dalla lingua latina, adoprando parole sempre proprie ed elette, collocandole con opportuna giacitura e usando tali altre arti minute e fine, delle quali è più facile il sentire l’effetto dall’aggregamento de’ suoi versi, che il diffinire in che consistano, procacciò alla sua dizione un nerbo, una dignità, una magnificenza ed una severità non cresciute prima di lui. I poeti nostri, massime la caterva de’ frugoniani, da cui fu gran tempo contaminata la letteratura, peccavano ne’ loro versi per l’affettazione di una monotona sonorità, e di un continuo rimbombo. L’A., che aveva lungamente considerato gli artifizj del [313] ver|seggiamento, sentì, che la più fragorosa armonia non è sempre la più vera. Per meglio servire alla imitazione poetica e alla varietà, ridendosi del giudizio del volgo, il quale reputa fatto a stento ogni verso che non tuoni, ardì spargerne per entro al suo poema alcuni apparentemente ne-

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gletti, imitando in ciò l’accorgimento de’ latini, i quali e più specie di cesure usavano, e frapponevano alla scorrevole facilità dell’esametro il grave spondaico. Questa felice innovazione fece deserta in breve tempo la scuola romorosa del Frugoni, e degli altri due pessimi eccellenti. Fu scritto, essere confessione dell’A., ch’ei desumesse qualche norma del suo verseggiare dal Femia, dramma satirico di Pier-Jacopo Martelli, nel che ravvisiamo più la modestia del poeta milanese, che il vero. E, se questo non ci venisse attestato dal chiar. biografo dell’A. l’av. Reina, noi saremmo tentati di appajare tale opinione coll’altra di quel critico, il quale pretese, che il Parini derivasse il primo concetto e l’idea madre del suo poema da un raro ed oscuro libro,1 in cui viene ritratto il letterato di moda. Nella lettura del Giorno una fonte di piacere sorge dal leggiadro contrasto tra la [314] osten|tata solennità del discorso, e la ridevole milensaggine de’ costumi dipinti, il che dà una tinta eroicomica al poema, la quale invita al sorriso anche le labra de’ più austeri. A non dissimulare però qualche difetto, di cui niuna opera di penna può andare immune, gioverà l’avvertire, che talora v’appare troppo visibilmente il lungo rodere della lima, e qualche rara volta, cosa stranissima in uomo tanto sollecito dello stile! se ne sente il difetto. Eccone un esempio: Di tant’alte doti Tu non orni così lo spirto e i membri, Perchè in mezzo a la tua nobil carriera Sospender debbi ’l corso, e fuora uscendo Di cotesto a ragion detto Bel Mondo, In tra i severi di famiglia padri Relegato ti giacci, a un nodo avvinto Di giorno in giorno più penoso, e fatto Stallone ignobil de la razza umana.2 Nella satira dee prevalere la indignazione, e prevale nel poema dell’A. Non è dunque a cercarsi l’affetto; nondimeno il Parini toccò una volta anche la corda patetica, e vi riuscì, e ne sforza quasi a lagrimare sui casi compassionevoli di quel povero famigliare che dopo vent’anni di fedelissima servitù viene licenziato, perseguitato e ridotto colla sua [315] famiglia alla mendicità solo per aver leggermente battuto la «Vergine cuccia delle Grazie alunna,» che pure lo aveva morso. Il merito sommo del N. P. chiamò a sè l’attenzione anche de’ critici stranieri. Ginguené e Sismondi ne parlarono con lode. E sir Hobhouse ne scrisse un articolo assai giudizioso.3 Ci piace di riferir quì un’osservazione, che egli fa in pro1 «Mores eruditorum: Opusc. quae in hoc libro continentur. I. Epistolae poetae ad amicum. II. Epistola de itinere in Utopiam. III. Fragmenta Zopiri. IV. Dialogus inter Burmannum et Christium. V. Prodicia de vera inclarescendi via, Epistola». 2 Il Mattino. Fac. 26. 3 Historical illustrations of the fourth canto of Childe-Harold ecc . . . . and an Essay on italian literature by John Hobhouse, esq. Saggio della letteratura d’Italia, che serve di commento al iv canto del Childe-Harold di lord Byron. Artic. Parini. The poet conducts his hero to the public walks: the time chosen is the night-fall: he leaves his mistress alone in her carriage, and slipping through the crowd, steals quietly into the carriage of another lady, who has also been abandoned by her Cavalier. Such a scene

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posito della felice opportunità, con cui l’A. imitava i classici e sopra tutti Virgilio: «Il poeta guida il suo [316] eroe ai pubblici passeggi; e presceglie la notte: l’eroe abbandona la sua signora nella propria carrozza, e scorrendo per mezzo alla folla va a salire di nascosto nella carrozza d’altra signora, che fu pure abbandonata dal suo servente. Una tal scena richiede un pennello assai dilicato per non cadere in immagini indecenti; ma il Parini non usò minor arte in questa sua carrozza e in questa notte di quello che facesse Virgilio nell’antro sì fatale alla felicità di Didone. Coll’usata ironia egli invoca la dea delle tenebre, perchè sospenda il suo corso affinchè egli possa contemplare a suo bell’agio i fatti egregi dell’eroe ch’egli ha scelto a cantare». Ma la notte segue Sue leggi invïolabili, e declina Con tacit’ombra sopra l’universo; ec. . . . . . . . e a me di mano Tolto il pennello, il mio signore avvolge Per entro al tenebroso umido velo. Nè i forestieri stettero contenti all’encomiare questo poema, ma il recarono nelle lingue loro, sebbene con avversa fortuna. Coloro, che sono vaghi di paralleli, paragonarono il Giorno del Parini alle Georgiche di Virgilio. E veramente nella squisita finitezza e nel gusto questi due lavori si rassomigliano. Entrambi vestirono di nobilissimi versi una umile materia, dalla quale uscirono entrambi [317] ad ora ad ora per mostrare che avevano vigore poetico da più alte cose, e se nell’incanto dell’armonia il cantor di Milano non potè affatto raggiugnere quello di Mantova, lo superò nell’importare dell’istruzione e nella moralità dello scopo. La stessa forza e sobrietà nello stile, lo stesso artifizio nel verso, la stessa nobiltà de’ sensi, ed anche maggiore di quella che abbiamo lodata negli sciolti, ebbe l’A. nelle odi. Abbandonò interamente le orme de’ lirici italiani suoi predecessori, richiamando questo genere di poesia alla sua vera natura, e al suo vero ufficio, da cui sembrano quelli averla in parte sviata. Nella scelta degli argomenti ebbe sempre di mira la morale e la politica, e trovò il bello colà, dove prima di lui non fu veduto dagli altri poeti italiani. In alcune odi pare, che vinca sè stesso per abbondanza ed originalità di pensiero; ma che poi sia minore di sè nel meccanismo dello stile, peccando talora d’inversioni sforzate e di oscurità. Si propose forse un modello di verso lirico, cui giugneva a grande stento e non sempre. Aspirando alla sostenutezza, offende il lettore con certa scabrosità, che venne classicamente chiamata da un bell’ingegno il ruvidetto romano. Fors’anche l’A. mirava a fuggire quella scorrevolezza ne’ versi, la quale, non soffermando il lettore, non gli concede quasi di considerare la sentenza, che racchiudono.

required some delicacy to pourtray. A loose or a careless poet would hardly steer clear of indecent images: but Parini is not less adroit with his carriage and his night, than is Virgil with the cave and the storm, that were so fatal to the happiness of Dido. He invokes the goddess of Darkness with his usual irony, and prays her to arrest her progress, that he may contemplate at leisure the exploits of his chosen hero. «……… Ma la Notte segue ecc.».

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[318] Però altri sarebbe tentato di rivolgere a lui stesso la sua domanda all’Alfieri: Perchè dell’estro a i generosi passi Fan ceppo i carmi? E dove il pensier tuona, Non risponde la voce amica e franca? È cosa osservabile, che le migliori fra le odi dell’A. furono le composte in vecchiaja, come la Caduta, il Pericolo, il Messaggio, quella in morte del maestro Sacchini, e sopra tutte la bellissima e moralissima a Silvia sul vestire alla ghigliottina. Così cogli anni cresceva l’igneo vigore di quell’ingegno, il quale, pari al cigno della favola, confortava le ore estreme della vita, modulando i più arguti suoi canti. Anche fra’ pochi sonetti, che abbiamo di lui, avvene alcuno felicissimo; ma a rieccitare in Italia il desiderio di questa sorta di poesia converrebbe astenersene per due secoli, tanto ne siamo ingombrati! Ci ha pur lasciato un intero volume di rime piacevoli, pastorali, campestri, pescatorie, drammatiche e milanesi. In taluna di queste abbonda proprietà e schiettezza di lingua e di stile, e vivacità e brio di pensieri, ma di esse può dirsi giustamente: Sunt bona, sunt mala quaedam, sunt et mediocria plura. Sentenza che l’erudito editore dimenticò fatalmente di applicare alla sua collezione prima di pubblicarla. [319] Ma omai dalle poesie passiamo alle prose. Tra queste si presentano come più importanti i Principj delle belle lettere, ch’egli ha divisi in Principj fondamentali, e generali delle medesime applicati alle belle arti, e in Principj particolari delle belle lettere. Ciò che ci sembra meritare lode speciale in questo Trattato è la perspicuità e brevità, colla quale viene dimostrato a’ giovani, come le leggi dell’interesse, della varietà, dell’unità, della imitazione, dell’espressione, della proporzione, dell’ordine, della chiarezza, della facilità e della convenevolezza, non sieno leggi da tiranno, ma sieno bensì fondate nella natura dell’uomo e delle cose, e convenienti a tutte le arti belle, come appare dagli esempi recati dall’A. nelle applicazioni, ch’egli ne va facendo. È fama, che nello svolgere questi principj dalla cattedra egli spiegasse grande estensione d’idee, e varietà e felicità di applicazioni con rapida e calda eloquenza; ma è certo altresì, che nello stato, in cui ci sono presentate, sembrano anzi prime linee di un sistema, e sono ben lungi dal mostrare intero il vasto soggetto de’ principj delle belle arti e delle lettere, come si trova svolto in alcuni moderni scrittori. Posti i principj generali delle belle arti, recasi l’autore, secondo il suo proposto, a trattare de’ principj particolari delle belle lettere, l’esame de’ quali forma la seconda parte del suo libro. [320] Ma dà maraviglia come invece di ragionarne di proposito, si ristringa a far parola della origine del nostro idioma, e a dare qualche analisi de’ principali testi di lingua, e dei progressi che questa fece nel secolo xvi e ne’ seguenti. Finisce con alcune avvertenze generali intorno allo studio della lingua. Molto savj però sono questi giudizj che ne dà dei nostri migliori scrittori; considerati singolarmente quanto alla favella e allo stile. Dopo avere accennati i pregi caratteristici de’ tre sublimi ingegni, che in pochissimo tempo sì grandi ali diedero alla nostra favella, che spintala fuor del ni-

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do, in cui la trovarono, la fecero volare per tutta Italia con faustissimi augurj, e dopo avere esaltati colle debite lodi questi grandi, venendo agli altri, di leggieri si scorge, che le letture da lui predilette erano l’Aminta, le opere del Machiavelli, le vite scritte dal Vasari, e quella di Benvenuto Cellini. Intorno a questi si estende più dell’usato cogli altri: quanto al segretario Fiorentino il fa per confutare false opinioni, e una sentenza del Salviati, in proposito della quale instituisce una sagacissima discussione critica,1 e quanto alle vite del [321] Vasari, per dimostrarne la utilità e il diletto della lettura e raccomandarla a’ suoi discepoli. Fu, a quanto pare, per riverenza ad essi, che l’A. parlò solo per incidenza del Furioso, il quale era pure uno de’ libri a lui più cari, e dove tanto avvi da imparare in fatto di lingua. L’A., che non voleva addormentare la sua patria con lusinghe, inserì in quest’opera le seguenti parole. «Giova inoltre di commendare la giustizia e la generosità delle stesse forestiere nazioni, le quali in una con l’Italia ingenuamente chiamansi debitrici a questo celebre Triumvirato di fiorentini del felice risuscitamento della critica e del buongusto, che prima nascosi giacevano fra le rovine della Grecia, e di Roma. Finalmente conviene a questo proposito avvertire, doverci noi italiani guardare, che mentre ci stiamo da noi medesimi adulando davanti allo specchio delle nostre antiche glorie, noi non venghiamo a fare come que’ nobili, che neghittosamente dormono sopra gli allori guadagnati da’ loro avi, e tanto più degni sembrano di biasimo e di vituperio, quanto nè meno i domestici esempli vagliono ad eccitare scintille di valore nelle loro anime stupide e intormentite: oppure che mentre noi ci vantiamo d’avere i primi col risorgimento delle lettere, delle [322] arti e delle scienze illuminate le altre nazioni, noi non venghiamo a fare come quei mercanti, che dopo aver dato a negoziar de’ proprj fondi a molte famiglie, sono poi per loro mal governo falliti e ridotti a mendicar presso que’ medesimi, che avendo saputo regger meglio i traffichi loro, hanno di gran lunga i fondi loro prestati accresciuto». Taluno osservò, che l’A. in queste lezioni è bensì chiaro, ma non profondo; conviene però sovvenirsi, che egli le scrisse pe’ suoi discepoli, e non per gli uomini maturi e già sperimentati nelle teoriche delle arti, nè mai le pubblicò; che le scrisse l’anno 1775, mentre non erano per anche venuti in luce alcuni libri forestieri, ne’ quali abbiamo veduto a’ dì nostri chiamarsi a nuovo sindacato con grande apparecchio di dottrina e di filosofia principj, che dianzi non si revocavano in dubbio da alcuno. Il Parini ci lasciò pure prose, elogi, discorsi, novelle e lettere, nelle quali tutte cose nulla vi è d’insigne, onde accrescere la fama di lui. Abbiamo ancora dell’A. molti programmi per opere di pittura e di scultura, tutti concepiti con gaja e dilicata invenzione, e che manifestano del pari la varia sua fantasia e il gusto finissimo, che si era formato nelle arti. Non è nuovo nella repubblica delle lettere, ed è poi assai bello questo sodalizio tra i poeti e gli artisti. Così tra gli antichi Polignoto, Panfilo e Timante ricorreano alle [323] poe|sie di Omero, come tra i dipinti italiani il giudizio universale di Michelagnolo, il paradiso del Tintoretto, l’inferno di Lorenzo Costa ritrassero dalle cal1 Si scorge evidentemente da questo luogo, siccome il giudizio del Bettinelli intorno al Segretario Fiorentino, che abbiamo già notato al suo articolo, fu tratto dalle parole del Salviati confutate quì a maraviglia dal Parini. Vedi Opere del Parini: [321] vol. VI, fac. 185-193, ediz. illus. da F. Reina. Questo brano merita di esse letto.

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de tinte della divina commedia. Così il Caro fu utile consigliere degli Zuccari, e d’altri eccellenti dipintori del suo tempo, come appare dalle sue lettere, e Raffaello d’Urbino non metteva mano al pennello, se prima non avevane domandato il Castiglione, e i trionfi del Petrarca svegliarono parecchie fantasie in Tiziano, e il Marino fu cortese di fantasmi pittorici allo Schidone, al Palma il giovane e al cavalier d’Arpino. Così Parini, richiestone, dava spesso agli artisti i soggetti de’ loro lavori, che si osservano in parecchi palazzi di Milano fedelmente eseguiti. Della pratica del disegno sapeva un poco, e forte gli doleva di non saperne di più; ma ne conosceva la teorica e la storia, al che gli giovò pure l’assidua lettura delle Vite de’ pittori, da cui abbiamo veduto quanto piacere egli ritraesse. Le ultime meditazioni della sua vita furono intorno alla maravigliosa composizione del Cenacolo di Lionardo da’ Vinci, della quale si preparava a scrivere una illustrazione, che gli fu impedita dalla morte. Di questa perdita ci ristorò l’illustre suo concittadino e discepolo Giuseppe Bossi.1 [324] Sua indole. Gl’ingenui studi, di che abbiamo parlato, formarono le delizie del Parini fino all’estremo de’ suoi giorni. Dal compiacersi nelle opere della letteratura e delle arti egli venne naturalmente condotto ad affezionarsi a coloro, che egregiamente le professavano. Quindi e Passeroni, e Franchi, ed Appiani ebbero gran parte alla sua intimità. L’amore della virtù era nel suo cuore per modo accoppiato a quello della libertà, che niuno meglio di lui seppe distinguerla dalla licenza, da cui altamente abborriva. Così pure ebbe sempre sospette certe virtù, quando le vedeva disgiunte dall’amore della civile libertà; però che, paragonandole a ciò che dentro sentiva, vedeva quanto fossero usuraje ed ipocrite. Come cogli scritti rivolse la forza dell’ingegno a combattere accortamente la palese indifferenza del secolo per ogni nobile affetto, e l’ansietà verso i piaceri de’ sensi e le più ridenti frivolezze della vita; così il Parini, adempiendo anche coll’opera l’alta sua vocazione, e tutto sagrificando all’entusiasmo del bello morale e del vero, non inchinò mai: «o il falso in trono, o la viltà potente». Indi venne che i liberali esempi della sua vita valsero a temprare fortemente l’animo della gioventù che lo seguiva. [325] Non fu tanto avventurato cogli uomini già maturi, e l’averne pur di continuo innanzi agli occhi i bassi costumi risvegliava in lui quell’acre ed iracondo, che sprizzava sovente da’ suoi discorsi. Questo umore derivava altresì dalla sua poca salute, e dalla mobilissima irritabilità della fibra, che lo rendeva molto agitato. Di quì forse procedeva, che, fatto sensitivo a lievissime impressioni morali e fisiche, non avvertite dai più, egli ne aveva contratto quel bisogno e quello spirito di osservazione, che recava in ogni cosa. Ma quando entrava ne’ crocchi degli amici, il che faceva sovente, a serenare la severità del suo sembiante, usava i giocosi motti e le facezie, e non di rado vi simulava altresì aspre dispute per risvegliare la conversazione, e provocare l’ingegno degli astanti, e se talvolta la

1 Del Cenacolo di Leonardo da Vinci: libri IV, di Gius. Bossi pittore. Milano: dalla stamp. reale, 1810.

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impetuosa natura, che egli studiò e venne a capo di moderare, usciva pure in rapidi lampi d’ira, gli amici suoi, che sapevano quant’ei fosse buono, lungi dall’adontarsene, ne venivano rallegrati. Egli aveva messo tutto il suo cuore negli amici: tutto il suo era ad essi comune, e, ciò che per sè non avrebbe fatto mai, discendeva in loro favore fino alle suppliche. Abbiamo veduto all’art. Passeroni come fosse largamente corrisposto. Quella stessa suscettività, di cui si è parlato, lo fece soggetto alla dolce potenza della più cara e perigliosa fra le passioni, nè il sesso gentile si mostrò trascurante de’ voti e degli affetti del genio. Parve però, che per [326] troppo gran tempo, e con debolezza sconveniente a filosofo, egli umiliasse la sua fronte canuta1 ad una deità, che solo si compiace della gioventù; se non che dobbiamo ricordarci l’adagio di Terenzio: «homo sum; nihil humani a me alienum puto». Chi riassuma col pensiero il complesso di queste qualità non avrà maraviglia, che il Parini acquistasse in patria e fra le procelle politiche il rispetto di tutti i partiti, e quell’autorità, di cui niun altro letterato in Milano ha forse goduto giammai.2 Sappiamo, che un uomo d’ingegno, il quale stimava al pari di noi grandemente il Parini, temette nondimeno, che si potesse [327] chiamarlo un Diogene incipriato, perchè tenne, vivendo, assidua consuetudine con quei nobili, cui poscia mordeva co’ suoi versi. Certo ad un animo leale questo tenore può a prima giunta parere un vero difetto di delicatezza; pure gioverà a mandarne assoluto il Parini la considerazione, che egli parlava tra quei nobili così liberamente, come scriveva. Volendo d’altra parte rivolgere la poesia a dipingere i costumi contemporanei più accarezzati dalla moda, era naturale, che cercasse di conoscere da presso quell’ordine di cittadini, i quali allora stavano in tutto sopra gli altri. Noi stimiamo piuttosto, che tale sua frequenza in alcune famiglie patrizie provi, che anche senz’odio si può ritrarre i difetti e le colpe di una intera classe, quando chi si propone di farlo studia e va indagando attentamente le cagioni, che la deviarono dai proprj uffici. Questo fece l’onesto e libero autore del Giorno.

1 «Ecco me di repente,/Me stesso, per l’undecimo/Lustro di già scendente,/ Sentii vicino a porgere/Il piè servo ad amor:/[…]/Tu dai lidi sonanti/Mandasti, o torbid’Adria,/ Chi sola de gli amanti/Potea tornarmi a i gemiti/E al duro sospirar» (Il Pericolo: ode). 2 È singolare la stranezza de’ pregiudizj, che il volgo si forma intorno al merito de’ letterati. Un uomo di bassa condizione interrogato a Milano, se avesse conosciuto il Parini rispose: chi? l’Abate? Se l’ho conosciuto? quello era un uomo! giocava benissimo al tarocco.

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A N TO N I O Z O N CA DA

G I USE PPE PA R INI

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TR A D I ZI O NI DEL P ENSI ERO ITALIANO

GIUS EPPE PARINI

Una bella sera del mese di dicembre, quali spesso ne abbiamo sotto il nostro cielo lombardo, due uomini per aspetto e portamento diversi, l’uno vecchio venerando, l’altro nel primo fiore della gioventù, dopo aver passeggiato alquanto sotto i tigli, nel sobborgo orientale della città, si assisero sopra uno di quei sedili che quivi si trovano. Colà, non osservati da nessuno, si fecero a comunicarsi l’un l’altro i proprii sentimenti, piangendo entrambi la miseria dei tempi e le deluse speranze. Il vecchio, uomo di austere sembianze, e quantunque curvo per gli anni, pur tutto fuoco negli occhi, parlava con quella solenne posatezza che suol nascere da un convincimento profondo, a cui si accompagni un lungo dolore. Rammentava la storia de’ recenti delitti, il disinganno di un popolo tradito coll’esca di una parola che non doveva aver effetto mai, e tradito, che è peggio, da una genia codarda, piccola perfino nel delitto. Il giovine a quelle parole fremeva: i suoi occhi si accendevano di una [674] terribil fiamma; balzava in piedi, prorompeva in scomposte voci d’ira e di minaccia; ma il buon vecchio sorrideva pietoso a quello sdegno impotente, e senza aprir bocca fissava in volto l’amico, e a sè con dolce piglio lo traeva, perchè tornasse a sedere, e, così rabbonacciatolo, consigliavalo a temperare quel suo furor di gloria che avrebbe potuto forse un giorno trascinarlo dove poi inorridisse egli stesso di esser giunto. Consultasse la storia, gli diceva, e questa gli insegnerebbe nulla doversi aspettare da chi pone e doveri e diritti sulla punta della spada, e là dove col sangue si suggellano le leggi e le istituzioni degli uomini, e così continuava mostrandogli come povero di ricchezze, di cuor bollente non potrebbe essere che vittima incompianta, chè, tant’è, egli solo non rigenererebbe il mondo. Il giovane, non sapendo che rispondere a quelle parole che movevano dal cuore pacate, potenti, come d’uomo che dia un ultimo consiglio prima di uscire dalla vita, dopo un lungo silenzio gridava, desiderare almeno saper morire incontaminato, e il vecchio gli stringeva la mano, alzava gli occhi al cielo, lampeggiando nel volto d’un cotal sorriso onde appariva che le sue speranze erano altrove che sulla terra. Così si separarono; un anno dopo il buon vecchio più non1 era; il giovane vagava per diverse genti tormentato da un desiderio che doveva anzi tempo condurlo al sepolcro. Ora che trascorsero tanti anni da quel singolare colloquio, non è giorno che passando sotto a quelle stesse piante non mi ricorrano al pensiero quei due famosi interlocutori, e non mi suonino nell’anima i versi che più tardi quel giovine scriveva, memore del solenne abboccamento Oh bella musa ove sei tu? Non sento Spirar l’ambrosia, indizio del tuo Nume, 1 [Nel testo con]

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Fra queste piante ov’io siedo e sospiro Il mio tetto materno. E tu venivi E sorridevi a lui sotto quel tiglio Ch’or con dimesse frondi va fremendo Perchè non copre, o Dea, l’urna del vecchio Cui già di calma era cortese e d’ombre. Forse tu fra plebei tumuli guardi Vagolando, ove dorma il sacro capo Del tuo Parini? A lui non ombre pose Tra le sue mura la città, lasciva D’evirati cantori allettatrice, Non pietra, non parola, e forse l’ossa Col mozzo capo gl’insanguina il ladro Che lasciò sul patibolo i delitti.

Sì, quel vecchio era Parini, Parini allora venerato dai buoni, e, quantunque battuto tuttavia dalla fortuna come sempre, pur potente ne’ suoi consigli cercati da quanti avevano caro il nome italiano. Noi, la Dio mercè, non siamo tanto immemori delle nostre passate glorie, che non suoni grande e frequente ancora il nome dell’abate Parini: ma valga il vero, quanti sono che sappiano qual parte egli avesse nella tradizione del pensiero italiano? I più non lo conoscono che come un poeta, nel senso più meschino della parola, che è quanto dire un uomo che coltivò l’arte per l’arte, un trovatore di mirabili armonie, un fino e sottil censore delle umane debolezze: il che è pur qualche cosa, ma fa troppo torto a quel magnanimo petto perchè se ne chiamasse contento, se risorgesse fra noi. Fra quei pochi che vissero a’ suoi fianchi, che si animarono alla di lui parola, che ne respirarono per così dire l’alito, è miracolo se alcuno ne trovi che lo abbia inteso; e però mentre ne ricordano con lodevole amore i tratti più singolari, e interrogano le loro più lontane memorie di un’età sì prossima alla nostra, e pur sì diversa per ridursi alla mente, gli atti, i detti, il fare, e fin l’atteggiamento della persona di quel grande, chi afferra lo spirito che ne dirigeva i pensieri? Ci pare pertanto opera di buon italiano, il tentare, frugando per entro i documenti di quell’età, di ricostruire l’immagine morale di un uomo che il nostro Manzoni nella sua gioventù chiamava il divin Parini. Tutti sanno in che miserabile stato fosse caduta la città nostra sotto il dominio spagnolo; e però non ci fermeremo a farne il quadro per non ripetere quello che fu scritto fino alla sazietà in tanti libri. Ma sarebbe errore il credere che ogni energia si spegnesse fra noi e dormissero neghittose le intelligenze. Durava nella Lombardia un germe latente di forza che nè la boriosa e stupida signoria spagnola, nè l’indolenza delle [676] molti|tudini, che ne fu la conseguenza, valsero a soffocare. Diresti che nel petto dei nostri padri si covasse una fiamma che non aspettava che l’occasione opportuna per prorompere e risvegliare ogni virtù sopita nel nostro suolo. E l’occasione venne quando, levatasi la mano che pesava sulla Lombardia col cessare della dominazione di Spagna, potè quella alzare il capo. Se noi guardiamo al rapido incremento de’ buoni studii in sul principiar del secolo xviii, quando erano ancora sì fresche le memorie del dominio spagnolo, dovrem dire che si volesse compensare coll’intensione il tempo perduto per mettersi a pari colle altre nazioni che in questo mezzo le si erano portate innanzi, quasi approfittando di quel suo forzato riposo. E sia detto a lode delle

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nostre donne, troppo spesso calunniate dallo straniero e talvolta dai connazionali; esse ponno vantarsi di aver dato quasi il primo impulso a questa, diremo, rigenerazione del nostro paese. Una donna, la contessa Clelia Grillo Borromeo, nome ora dimenticato, forse perchè non ebbe la sorte di comparire su più vasta scena, vagheggiò nientemeno che un’era nuova per la nostra Lombardia, a questo dirizzando ogni suo pensiero, con una costanza di che appena si crederebbe capace il più forte sesso. A tal fine volse lo sguardo alle accademie di Firenze, di Bologna, di Pisa, e a quelle ancor più famose di Londra e di Berlino: ne studiò gli statuti, la storia, le cause del loro incremento, per quindi ritrarne come un perfetto modello ad una nuova accademia tutta diretta agli studi positivi. La fama di sì rara donna erasi sparsa sì lontano che non v’era viaggiatore di qualche levatura che venendo a Milano non cercasse ansiosamente di esserle presentato, tanto per poter dire di ritorno fra i suoi di averla veduta. E un’altra donna milanese faceva di sè stupire gli stranieri che traevano alla città nostra. Questa donna era l’Agnesi, nome sacro alle scienze, e di lei scriveva un illustre francese che visitava in quei dì l’Italia, essere una poliglotta ambulante, un miracolo di dottrina paragonabile a Pico della Mirandola.1 L’Agnesi compiva appena il quarto lustro quando il nostro Parini non toccava forse i dieci anni.2 Carissimo al padre, ottimo [677] uomo,3 povero di fortune ma ricco di quel buon senso naturale che supplisce in gran parte alla squisita educazione, frequentava ignoto alla città le scuole del ginnasio Arcimboldi diretto allora dai Barnabiti. Quando poi sbrigatosi dalle pastoje della scuola entrava peritante nel mondo senz’altra raccomandazione che la fiducia nelle proprie forze, la società che lo circondava aveva segnati non pochi passi nella via del progresso, e di molto si era accresciuto il numero di coloro che sentivano il bisogno di far bene. L’amore agli studi si era propagato a più classi della società; studiavansi le lingue, studiavasi la storia, e sopratutto la patria; molti uomini di lettere vantava l’Italia, e sopratutto la Lombardia. Pochi di questi invero si levarono oltre la mediocrità, pochi intesero il vero fine degli studii; ma non pertanto giovarono se non altro a nutrire certa gentilezza di pensieri, certo amore del bello che è pure non ultimo degli elementi della civiltà. E già cominciavano le discipline liberali a prendere nuova piega. Mentre prima la letteratura era segregata al tutto dalla vita reale, come un aringo puramente aperto alla mente per esercitarvisi fuori della sfera del mondo, cominciava allora a far lega colla filosofia pratica, a studiare i principii regolatori della umana società. Questo però avveniva piuttosto nella prosa che nella poesia, che fu certo delle ultime a distaccarsi dalla tradizione antica per camminare colle nuove idee, lanciandosi ad un nuovo avvenire. E però dove i drammi, le commedie, la poesia lirica, la didascalica, meno qualche rara eccezione, si modellavano sugli antichi capolavori della scuola classica con una instancabile imitazione di imitazione, la prosa affrontava arditamente i più vitali problemi, rivedeva i vecchi sistemi filosofici, li raffrontava coi nuovi, studiava le leggi, le istituzioni, il diritto delle genti, investendo di fronte il passato, e stu1 L’Italie il y a cent ans, ou lettres ecrites d’Italie à quelques amis en 1739 et 1740 par Charles de Brosses, ecc. Paris 1836. 2 Era nato a Bosisio, sul lago di Pusiano, l’anno 1729. 3 I biografi del Parini non s’accordano quanto alla professione del padre; chi ne fa un setajuolo venuto quasi allo stremo, per affari andatagli a male, chi un massajo, chi un mercante di bestiame.

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diandosi prevenire e preparare il futuro.1 L’impulso a questo nuovo movimento ci veniva in gran parte d’oltremonte e principalmente dalla Francia che allora colla [678] scuola degli enciclopedisti esercitava come una specie di supremazia morale sull’Europa; e forse questo fu causa che quell’impulso fosse più vasto che potente, più comunicativo che profondo, come suol essere degli impulsi stranieri, che non possono mai connaturarsi cogli animi che debbono per accettarli rinnegare in parte la propria fisonomia e quel, diremo, tipo morale che distingue l’un popolo dall’altro. Ma ad ogni modo, poichè era alquanto assopito il buon seme italiano per quelle tante ragioni che nessuno ignora, non era da disprezzarsi lo straniero. Nel resto se forse il superbo viaggiatore d’oltr’alpe non trovava nei nostri quella fina eleganza di modi, quella studiata disinvoltura di tratto nel ricambio di quei convenevoli che le più volte non sono che garbate menzogne, in compenso non poteva a meno di non lodare una cotal bontà tutta propria dei Lombardi e molta disposizione a ricevere il bene donde che venisse. E i frutti di siffatta disposizione sarebbero venuti più presto a maturanza dove fossero stati men chiusi i cuori, avvezzati dalla sospettosa paura spagnola a concentrarsi in sè, dove fossero stati meno diffidenti l’un dell’altro, men divisi e qui e in tutta Italia. Di che la mancanza di quelle società sì comuni in Francia, le quali se spesso dei belli ingegni ajutano la superficialità, e soffocano talvolta l’originalità dei forti, riducendo tutte le menti ad un livello, giovano però mirabilmente a diffondere col rapido attrito le idee, affrettano la soluzione d’ogni problema col generalizzarne la discussione, condensano per così dire in un punto di tempo quelle forze vitali della società allo sviluppo delle quali appena sarebbe bastato altrimenti il corso di molti e molti anni. Ma anche a questo ostacolo al progresso si cominciava a cercar riparo; già cominciavano a comunicare tra di loro le menti più elette, e ristringendosi insieme, formando quasi una piccola società nella grande, si piantavano innanzi come agli avamposti, sperando bene un dì o l’altro tirarsi dietro la moltitudine ancora riottosa, o indolente. E qui è bello il ricordare come molti di costoro, a svergognare la boriosa inerzia del volgo patrizio d’allora, usciti quali erano di nobil sangue, mostrassero colla santità dei loro studi diretti al comun bene in che fosse da loro riposta la vera nobiltà. Ma dietro quei pochi fremeva dispettosa una turba di superbi ignoranti ai quali ogni novità faceva paura: costoro risguardavano quell’eletta schiera come [679] una gente pericolosa perchè preferiva i conflitti della ragione alla quiete dell’indolenza che dorme sugli errori tradizionali, come una genìa miscredente perchè rovistava per entro le superstizioni secolari, persuasa che Dio non possa compiacersi dell’errore o della menzogna. Quindi una lotta sorda ma continua, un mordersi e calunniarsi a vicenda, un cambiarsi le controversie più indifferenti per sè in lunghe e accanite guerre, perchè da ambo le parti vi si nascondeva sotto quasi che sempre un qualche secondo fine. Una questione per esempio sulla lingua conduceva spesso due scrittori ad odiarsi cordialmente, perchè forse l’uno di essi scorgeva nell’avversario la tonaca del frate, l’altro l’abito del filosofo: avvertenza per mio credere più che necessaria per ben conoscere lo spirito della polemica e d’ogni scritto in generale di quei tempi.

1 Vedi gli articoli del Caffè, gli scritti sull’economia del Verri, il trattato dei delitti e delle pene del Beccaria, le opere del Frisi, del De-Carli, del Giulini, tutti milanesi.

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Ecco qual era la società fra cui ebbe a trovarsi il nostro Parini: una società in poche parole dall’una parte mezzo fracida e presso a sfasciarsi, dall’altra in sul ringiovanire, ardita, rigogliosa, confidente nelle proprie forze e piena di speranze. Nel resto le due società uscivano per così dire dalle mani degli stessi maestri, avevano cioè tuttedue avuta una stessa educazione, gretta, pedantesca, schiava del passato, e per nulla curante nè del presente, nè dell’avvenire. Quelli che un dì avrebbero tuonato contro la tortura imparavano nella scuola a rispettarla, a riconoscerla come un diritto della legge, un valido crogiuolo della verità: quelli che un dì avrebbero prese ad esaminare le condizioni del popolo per farlo partecipare ai vantaggi delle classi privilegiate dalle quali lo divideva tuttavia un abisso profondo, non ne avevano nelle scuole sentito che un nome vuoto nelle memorie di Sparta e di Roma quando ancora vero popolo non esisteva. Di che avveniva che quanto più era stata perfetta l’educazione nel senso dei maestri d’allora, tanto più chi volesse rendersi pur utile a qualche cosa doveva affaticarsi per distruggerne le impressioni e farsene una nuova. E si dovrebbe aver sempre bene in mente questa discrepanza fra lo spirito dell’educazione e quello della società per giudicare rettamente degli scritti di quell’epoca. Meritano adunque doppia lode per quel tanto che fecero e i Verri, e il Beccaria, e i Frisi, e il Passeroni e il nostro Parini, essendo riesciti a sottrarsi al comun giogo. Io m’immagino il Parini sui banchi delle [680] scuole del ginnasio Arcimboldi di mezzo ad una turba tumultuante di scolari divisi in Cartaginesi e Romani, con alla testa i loro consoli, rettori, tribuni e tutta la sequela dei magistrati di Roma repubblicana, e in coda in luogo cospicuo il banco degli asini.1 Entra il Reverendo Padre e tosto succede un movimento generale; si traggon fuori i libri sacri per così dire in quel recinto. La Regia Parnassi, la Regia Oratoria, le eleganze della lingua latina di Aldo Manuzio, l’Arte Retorica del De Colonia, la Grammatica del Poretti, le regole della versificazione latina del Turselino. Qui eccoti il futuro autor del giorno, trepidante dinanzi alla ferula magistrale, simbolo allora dell’educazione, balbettare macchinalmente non so che barbari versi della prosodia, poi definire la figura dell’impossibile, ovvero stabilire qual lunghezza debba avere l’esordio, e con quali figure di rettorica si possono far piangere gli uditori perorando. Finite così le lezioni si dà mano a Virgilio, o ad Orazio, o a Cicerone o a qualcun’altro degli antichi classici latini, ottimi libri, modelli veramente inarrivabili di eleganza, di sobrietà nello stile e nei concetti, ma pedantescamente spiegati, fatti argomento di imitazioni che meglio si direbbero insulse parodie, senza mai un confronto col presente, senza mai un’osservazione sul mutato spirito dei tempi: poi vengono da ultimo i temi pel comporre che ti trasportano chi sa quanti secoli addietro. Che sarebbe stato di lui se troppo fedele ai precetti della scuola non avesse mirato che ad incarnare ne’ suoi scritti le dottrine ivi apprese? Buon per esso che vide per tempo che un uomo tanto vale quanto intende il suo secolo, e ammirando e studiando i capo-lavori dell’antichità sentì però che ogni età ha i suoi bisogni, ai quali non è dato il far parlare il linguaggio dei morti. Così avesse saputo resistere ai desiderii del padre che lo chiamarono per una via non sua, ad un genere di studi tanto discordi colle sue tendenze! Trovatosi sacerdote contro sua voglia ebbe poi sempre a combattere con sè stesso. E in 1 Si allude a certe usanze scolaresche di quei tempi, delle quali tuttavia si ricordano alcuni dei nostri vecchi.

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questo è da lodarsi il Parini che, quantunque portasse un abito che gli pesava, non uscì mai in quei tratti di dispettoso disprezzo delle convenienze che gli imponeva, o di arrogante leggerezza che [681] spesso appare anche negli uomini di più forte ingegno che fallirono la vocazione. Nè fu questo il solo sagrifizio ch’egli ebbe a sostenere: la dura povertà a che lo condannava lo scarso censo paterno, lo obbligava, già avviato al sacerdozio, a farsi scrivano di cose forensi. Guai a chi nasce con un ingegno superiore alla sua condizione: quante lotte non ebbe a soffrire il Parini, quante umiliazioni prima che il mondo imparasse a conoscerlo! Chi lo avesse veduto allora curvo sopra un foglio ricopiare con irosa rassegnazione nojosissimi atti giudiziarii avrebbe osato sospettare in quel giovinetto un tanto ingegno? Ma il coraggio e la speranza non lo abbandonarono mai, e mirando sempre all’avvenire che in mezzo a tanti stenti gli sorrideva, non appena poteva svincolarsi da quelle strette, leggeva e rileggeva le opere di quei grandi scrittori sulle orme dei quali intendeva camminare. Però, conversava più spesso e più volentieri con Virgilio, con Omero, con Orazio, con Dante ed altri sì fatti che coi casisti e coi teologi. Dicevano gli antichi che le muse non amano gli strepiti del foro e fuggono dalle pergamene dei legali: eppure il nostro Parini le incontrava all’uscir del foro che lo accompagnavano all’umile sua cameretta, dove in mezzo ai suoi volumi prediletti dimenticava per un istante di essere nulla più che un povero scrivano. Allora ripigliava con amore la penna poc’anzi maledetta; allora scriveva versi, così come il cuore glieli dettava, inculti sì ma non senza certo qual nerbo che rivelava il futuro poeta. E furono appunto i suoi primi versi che gli aprirono per così dire le porte del mondo elegante e del mondo letterario, men divisi allora che non siano per avventura oggidì. Gli uomini di lettere li troviamo in quell’epoca come in Francia, in Prussia, in Russia, e altrove, così ancora nella nostra Italia nel campo, nella reggia, nei tribunali, nelle società eleganti, da per tutto: non v’è casa di qualche grido che non si faccia un vanto di aprir loro le sue soglie: governatori, ministri, principi, re e imperatori non isdegnano mettersi in carteggio con loro, se li disputano l’un l’altro, li ammettono alla loro mensa. Fu allora che cominciò il Parini ad associare allo studio astratto dei libri scritti, lo studio concreto e positivo del gran libro del mondo, senza la cui cognizione ogni altra dottrina è vana, mancandole [682] l’appoggio della realtà e della pratica, fondamento di ogni bello e di ogni vero. Ma il suo primo presentarsi nel mondo non gli riescì gran fatto felice: di consueto timido e peritante, quando poi gli fosse forza manifestare l’animo suo terribilmente franco ed aperto, d’aspetto severo, nel parlar lento e grave, di solito taciturno, con sì fatte qualità che parevano contrastare coll’età sua giovanile e colla vivacità di due occhi lampeggianti, ti dava non so quale filosofica sembianza che pur troppo lo esponeva ai motteggi d’uomini avvezzi per caricatura a fingere scioltezza. Ma egli, sebbene si accorgesse a meraviglia della non buona impressione che faceva in altrui, non se ne curava più che tanto, con quella magnanima fidanza di sè che fu sempre come il marchio distintivo della sua natura. Obbligato dalla sua complessione gracile e cagionevole a rimanersi immobile nelle conversazioni, e come impassibile spettatore di quanto succedeva a lui dintorno, di leggieri contrasse l’abito, per quanto assicurava egli medesimo l’amico Pozzetti,1 di osservare sottilmente le bizzarrie, 1 Vedi Lettere di due amici sulla vita e gli scritti di Giuseppe Parini, pag. 41.

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le stranezze degli uomini, e quindi una tendenza alla satira sulla quale più tardi doveva fondare il più solido monumento della sua gloria. A poco a poco quella sua ruvidezza diventò per così dire famigliare, che anzi si trovò in essa non so che di originale che piacque; perocchè a lungo giuoco, così sono fatti gli uomini, in ciò che esce dal comune v’ha un prestigio che a sè trae gli animi da prima rifuggenti. Si cominciò a scorgere in esso qualche cosa di più che un povero abate, a farne qualche buon pronostico. Più d’un grande, parlando di lui ebbe a dire con aria di degnazione: è un giovane di belle speranze, come si disse e si dirà di tutti gli uomini di genio, e di tutte le mediocrità felici nei loro primordii. Il giovane intanto guardava, e tacendo, teneva, per così dire, nota nella sua mente di tutti quei tratti che più sentitamente segnassero le fattezze di quella società di scioperati bellimbusti e nulli patrizii fra i quali egli umile figlio del popolo si vedeva ammesso, quasi iniziato ai misteri eleusini. Certo quella beata matrona che corteggiata da una turba di spasimanti cavalieri sorrideva superba alle loro iperboli amorose era lontana dal sospettare che il [683] malizioso abate tenesse fissi gli occhi in lei, e con impercettibile ghigno ne seguisse ogni agitar di ventaglio, ogni porgere di mano, ogni accennar di capo, e più ancora che quella sua gigantesca acconciatura delle chiome ora alla Minerva, ora all’Euridice, o alla Cleopatra, dovesse suggerire più d’una felice pennellata al primo pittor del signoril costume. Quel ricco barone venuto allora allora dalle ultime parti del Nord per dir male dell’Italia, magnificando le meraviglie della Senna maestra d’ogni arte gentile, avrebbe mai dubitato che qualcuno stesse là spiandolo per farne un tipo ideale di una piccante caricatura? Quando al banchetto degli Anfitrioni dell’epoca, gridavasi alto dall’un capo all’altro, come in coro, commercio, commercio, gettando nel fango ogni cosa che non fosse forestiera, chi pensava al poeta che sedeva ultimo forse alla mensa? Quella sua singolare riserbatezza accennava ai più un filosofo, quali ne furono in ogni tempo, razza eccentrica e singolare. Ma i pochi magnanimi pensatori, che volti gli studi all’incremento della patria, cercavano dovunque li ingegni che li potessero ajutare nella nobile impresa, non tardarono a divinare la mente del Parini, e questi lo confortarono con quelle parche ed assennate lodi che senza fomentare l’orgoglio facile a contentarsi risvegliano l’operosità dell’ingegno. Di questi furono il Balestrieri, il Longhi, il Guttierez, il Tanzi, il Baretti, l’abate Teodoro Villa, e più d’ogni altro il Passeroni; ottimi tutti, non tutti gloriosi oggidì, perchè rado avviene che i posteri tengano memoria della potenza della semplice parola, e del vivo esempio della vita, dove non trovi, come di Socrate avvenne, un Platone che la ricordi. A questi il Parini aveva letti con impeto giovanile i suoi primi versi. N’ebbe lodi sincere, e lo esortavano a pubblicarli colla stampa. Ma egli, poco confidente di sè medesimo, non essendo dato che ai mediocri il presumere d’aver raggiunta di lancio la perfezione, pubblicava i versi, ma sotto il pseudonimo di Ripano Eupilino. Piacquero; il mistero dell’anonimo lasciando sospettare come di solito qualche nome già famoso, li fece quasi popolari. Come se ne conobbe l’autore, ne vantaggiò alcun poco la sua sorte, almeno moralmente. I grandi che prima non gli aprivano la porta del loro palazzo, che come ad uomo che prometteva bene di sè, cominciarono a tenersi onorati di averlo fra loro: trovò qualche mecenate: [684] l’Accade|mia dei Trasformati lo ricevette nel suo seno, e l’Arcadia di Roma gli mandò il diploma d’accademico, battezzandolo col nome alquanto strano di Darisbo Elidonio. Grato il Parini a tanta degnazione volle recare anch’egli il suo tributo poetico alla pastorale accademia, e però nel tredicesimo volume

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delle rime degli Arcadi leggonsi pure alcune sue liriche ora dimenticate come le loro sorelle. A dispetto però de’ suoi titoli accademici, a stento si guadagnava di che soccorrere la madre cadente a cui era unico sostegno. Però scriveva al canonico Candido Agudio questi versi che scherzevoli a prima vista pur ti stringono dolorosamente il cuore, se ben li ponderi. . . . . ch’io possa morire, Se ora trovomi avere al mio comando Un par di soldi sol, non che due lire. Limosina di messe, Dio sa quando Io ne potrò toccare, e non c’è un cane Che mi tolga al mio stato miserando. La mia povera madre non ha pane, Se non da me, ed io non ho danaro Da mantenerla almeno per domane. Se voi non move il mio tormento amaro, Non so dove mi volga, onde costretto Sarò dimani a vendere un caldaro. Per colmo del destino maladetto Io devo due zecchini al mio sartore Che già tre volte fu a trovarmi al letto. D’un altro ancor ne sono debitore Al calzolaro, oltre quel poi che ho verso Il capitano debito maggiore. Sono in un mare di miserie immerso; Se voi non siete il banco che m’aita, Or or mi do per affogato e perso. Mai la mia bocca non sarà più ardita Di nulla domandarvi da qui avanti, Se andar me ne dovesse anche la vita. Ma per ora movetevi a’ miei pianti, Abbiate or sol di me compassione: Dieci zecchini datemi in contanti. [685] Pare che questo canonico Agudio, uno de’ suoi più caldi e costanti amici, lo soccorresse assai spesso con animo liberale, poichè gli dice il poeta: Voi siete quello che pietosamente M’avete fino adesso mantenuto E non m’avete mai negato niente. Oh santo petto del Parini come è amaro il tuo riso! E noi poveri scrittorelli ci lamentiamo dell’ingratitudine de’ contemporanei! La missione del poeta filosofo è una dura missione, ma missione tanto più sublime quanto meno ha da sperare dagli uomini. Ciò nullostante Parini non ismentì mai la dignitosa sua indole, nè mai proruppe in quelle fiacche querele che accusano mollezza d’animo. Ma finalmente entrato come precettore nelle illustri famiglie Borromeo e Serbelloni, potè meglio soccorrere quindi innanzi la madre, l’unica persona a questo mondo per cui desiderasse il denaro e per cui vendette fin l’umile abituro lasciatogli dal padre. Questo contrasto della povertà domestica coll’opulenza delle

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case da lui frequentate non è a dire quanto inclinasse il suo cuore a compassionare la sorte del volgo sudante cencioso sopra una terra non sua per mantenerle nel lusso. Ecco perchè ricorrono sì spesso nei versi del poeta i confronti tra i ricchi ed i poveri, perchè s’incontra il mattino del contadino e dell’operajo a riscontro col mattino del giovane signore, a cui si finge maestro dell’amabil rito. Ormai drizzava a più alta meta i suoi pensieri, e sempre più associandosi al generoso proposito dei migliori ingegni d’allora si adoperava a diffondere le buone e feconde idee, a ridestare quella fidanza di sè, che è come la vita morale delle nazioni. Parini si sentiva altamente Italiano, e come tale fremeva vedendo l’Italia un tempo maestra all’Europa, fatta serva imitatrice di quanto in Francia era di men buono, e nella patria di Macchiavelli, di Galileo, di Vico surrogate le quistioni accademiche agli studi severi. Abborriva quindi tutto che servisse a mantenere gli animi nell’inerzia o fiaccarli con puerili inezie e pregiudizi che impedissero la libertà del pensiero. Qual meraviglia dunque che si scatenasse con tanta forza contro gli scritti di certi pedanti che ora non ci parrebbero altro più che [686] ridicoli e degni di oblio! Si dibattevano allora accanite più che mai le eterne quistioni della lingua, quelle quistioni fra le quali l’Italia dopo esser stata la prima a formarsi un idioma suo proprio, dopo aver precedute tutte le nazioni d’Europa nei capolavori della moderna letteratura, si trova ancor ridotta al punto di non sapere come debba scrivere. Dal diffondersi delle idee filosofiche nasceva la necessità di un parlare più sciolto, più franco, più conforme ai logici procedimenti della mente; e si voleva richiamar la lingua alle ambagi del periodo boccacevole, ed alle frasi quando antilogiche, quando già morte da più secoli nella comune intelligenza. E appunto con tale proposito il padre Alessandro Bandiera usciva con un suo libercolo intitolato I pregiudizi delle umane lettere, nel quale con incredibile impudenza, non pago di tagliare i panni addosso al Segneri e presentarcelo come poco meno che all’abbicì della lingua, si accinse a rifare cruschevolmente una delle narrazioni di quel predicatore che più si lodino per maestria di stile. Il Parini, a ciò stimolato dall’abate Pier Domenico Soresi rispose con una lettera a quest’ultimo alle strane asserzioni del Bandiera che aveva osato dire del Segneri o non aver egli mai letto i buoni autori toscani, o, se pure gli aveva letti, non essere mai entrato nel gusto della nostra lingua. La sua risposta chiarì pienamente il pubblico come all’incontro il Bandiera non s’intendesse punto del vero sapore della lingua Italiana, della vera bontà dello stile, la quale non consiste già, come ottimamente notò il Parini, in un ben tornito periodo che per tortuose vie si ravvolga in sè stesso a guisa d’un labirinto, nè tampoco in un zibaldone di rancide voci e di affettate maniere di dire, gittate là col sacco, e mise in piena luce e la profonda cognizione della lingua del Segneri, e la mirabile pieghevolezza di quel suo stile proprio, naturale, vivissimo e alieno sempre dalle affettazioni, e sì fresco che diresti i suoi libri scritti jeri, meno i barbari nostri neologismi, meno i gallicismi strani, meno la perpetua smania di coniar vocaboli astratti che per dir troppo dicono nulla. Venendo poi agli squarci rifatti dal Bandiera mostra a tutta evidenza come l’astioso purista non facesse correzione che non fosse o uno sproposito, o un controsenso, o una caricatura. Ma la più fiera lite che mai avesse il nostro Parini fu quella [687] col padre Onofrio Branda statogli già maestro nel ginnasio Arcimboldi. Fu questa sì arrabbiata che per poco non pareggiò la famosa contesa del Castelvetro col Caro che fu quasi per costar la vita al primo di essi per una magra canzone al re di

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Francia. Aveva il Branda pubblicati due dialoghi sulla lingua toscana, nei quali, non contento di gettare nel fango il nostro vernacolo come il più ridicolo, il più sconcio, il più barbaro che mai si parlasse dai figli di Adamo, faceva man bassa sul carattere morale dei Milanesi, svillaneggiando sopra tutto le nostre donne spigolistre, zotiche, ignoranti, a suo dire, e a riscontro portando a cielo le Toscane come aggraziate sopra quante donne sono al mondo e gentili che nulla più. Notate che per compirne il panegirico asseriva il Branda che le virtuosissime donne di Toscana si formavano al bel parlare sui poemi romanzeschi del Pulci, del Bojardo, del Cieco d’Ascoli ed altri tali che tutti sanno quanto fossero castigati, e fin le tessitrici e quelle che traggono a stento il vitto dall’aspo, dall’arcolajo e dal fuso si odono (sono le sue parole) dolcissimamente cantare e l’Ariosto e il Tasso. Le gentilezze del Branda spiacquero molto ai migliori ingegni della città nostra che doppiamente offesi e per l’insulto fatto al paese, e per credersi presi di mira personalmente come quelli che avevano e sostenuto e scritto il loro vernacolo, nominarono il Parini a loro campione. Accettò egli quell’incarico, non senza ripugnanza, dovendo combattere il già suo maestro, come dichiarò egli stesso più e più volte nel corso di quella lite, e solo indottovi dalla carità del luogo natio. Rispose adunque il Parini al padre Branda con una lettera, piuttosto moderata in complesso, ma nella quale a quando a quando non lasciava di serrarsegli alle costole molto fieramente con certe interrogazioni come queste: Siete voi letterato? siete voi cristiano? siete voi cittadino? Ben tosto si accesero gli animi da ambo le parti e si passò ogni segno, massime dai Brandisti. Il Branda gettava ad ogni terza parola in viso al Parini il titolo di scolaro, maravigliandosi molto che uno scolaro pretendesse passare innanzi in dottrina al maestro. Se avesse il buon padre potuto prevedere il giudizio della posterità! Chi mai saprebbe ora che esistessero quei due dialoghi sulla lingua toscana, se per tramandare il suo nome sino a noi non avesse il [688] Branda inciampato nello scolaro Parini che gli attraversò la via? Tornava questi all’assalto con una seconda lettera nella quale dichiarava che non segue della ragione quel che è degli anni; imperciocchè egli è ben vero che con questi noi non potremmo mai raggiungere chi è nato prima di noi: ma sibbene li giungeremo molte volte colla ragione che essi hanno destata in noi e talvolta gli oltrepasseremo eziandio; però aggiungeva non poter egli scrivere se non rispettosamente come conviensi a civile e costumato uomo, sebbene poi accusasse di pedanteria il Branda. Fu quella lettera come il segnale d’una battaglia a morte: tosto si alzò un nuvolo di scolari del Branda per ischiacciare il Parini il cui genio a loro detta erasi suscitato dal Branda; Risum teneatis amici? Vi fu allora come una specie di congiura: di qua il Branda coi suoi proseliti: di là il Parini, il Tanzi, il Balestrieri, il Villa e quasi tutti gli uomini che or diremmo del progresso: e fu un piovere di lettere, di dialoghi, di poesie d’ogni colore, d’ogni metro, tanto che si computa a sessantasei il numero degli opuscoli usciti in quell’occasione pro e contro, in italiano, in latino, in dialetto milanese, stampati e manoscritti.1 È curioso l’osservare il modo diverso di combattere delle due parti: il far vivace, brioso, popolare dei Pariniani, il far pesante, compassato dei Brandisti; e nei diversi dialoghi composti nei due campi di qua il Rifiorito, l’Accorto, lo Svegliato, l’Ingegnoso, il Sollecito, l’Animoso, l’Intraprendente, ecc., di là i soprannomi più singolari del nostro vernacolo, quali i corrispondenti al Pettinatore, al Menacolpi, all’Arrovellato, all’Attizzafuoco, allo Zoppicante 1 Vedi Lettere di due amici, ecc. p. 109.

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(el Pecenna, el Tizziroeu, el Scanscin, ecc.); di là i testi di Orazio, di Giovenale, di Marco Tullio Cicerone, di Porfirio, e fin dei Santi Padri; di qua i proverbi popolari, i versi del Maggi, del Birago e simili. Le due parti poi si accendono stranamente a proposito delle donne che entrano forse per due terzi nella gran lite; e qui si citano dai Brandisti i padri della Chiesa che dissero tanto male delle donne senza che pur mirassero ad offenderne alcuna in particolare, e il vescovo di Novara Carlo Bescapè, che uno scolaro del Branda non esita punto a preferire a Tucidide: i Pariniani s’affibbiano la giornea per mostrare che le donne lombarde valgono nè più [689] nè meno che le toscane: e quì troviamo i più odiosi confronti tra i due paesi, confronti che mostrano non ispento lo spirito di municipio. Non saprei dire di che non si parlasse in quella lite, perocchè v’ebbe un po’ di tutto, linguistica, morale, teologia e che so io. A proposito della lingua si lodano dai Brandisti (questo si dice star nella carreggiata) i magnifici ponti di Firenze, la via Lungarno, i giardini di Toscana, al confronto dei quali i nostri si chiamano siepi, grillaje, si portano alle stelle le ville, l’aria, il cielo, le acque, la natura tutta di quel paradiso terrestre.1 La lite non si ristrinse dentro le sole mura di Milano, ma si propagò in altre città non poche dell’Italia, come a Firenze, a Parma, a Venezia e si invelenì tanto che intervennero le podestà civili, e perfino il tribunale della Santa Inquisizione a troncarla, vietando la pubblicazione di alcune scritture dei combattenti, tra le quali però (nota il Pozzetti) non se ne trova alcuna dell’abate Parini. Certamente una sì rabbiosa guerra per sì meschino oggetto ci deve far stupore all’epoca di Beccaria e alla vigilia della rivoluzione di Francia: ma io crederei che finora siasi giudicata troppo leggermente, stimandola non altro più che una questione di municipio. La taccia data ai Brandisti di affettazione e di pedanteria cela quella più grave di spirito stazionario, sulla quale più tardi il Parini doveva esprimersi sì chiaramente. Nel resto nel conflitto delle idee ne uscirono alcune, massime dalla parte di Parini splendide di verità e molto nuove pei tempi che correvano allora. Parve difatti ai Brandisti che il Parini insegnasse cose dell’altro mondo, perchè osò dire doversi nello studio delle lingue esaminare la relazione che ha una lingua coll’altra, e ogni lingua col clima, colle abitudini, coi costumi, colle leggi, colle credenze, colla vita pubblica di un popolo, e quindi raccomandare lo studio di più lingue come grande ajuto a molti rami dello scibile umano e sopra tutto alla storia; nè gli si poteva perdonare quando, discendendo al dialetto milanese, faceva sentire il bisogno di investigarne le etimologie per quindi meglio conoscere lo spirito e il [690] ca|rattere del nostro popolo e schiarirne le origini che si perdono nel bujo dell’antichità. Queste idee e questi principii del Parini, che ora sono ricevuti tanto comunemente che più non sappiamo riconoscere nè manco il merito di chi pel primo li divulgava in Italia, erano considerati allora come aguindoli ed arzigogoli (uso le parole di uno scolaro del Branda) e poco men che eresie letterarie. Parve pure gran bestemmia l’aver detto il Parini che le lingue sono tutte indifferenti per riguardo all’intrinseca bruttezza o beltà loro e che ogni lingua è abbastanza perfetta qualora non manchino ad essa quelle voci che si richieggono a poter spiegare l’idea di colui che la parla, e a noi pare proposizione un po’ troppo generica ed esagerata, ma pur vera in gran parte. Quantunque però si affettasse dai ne-

1 Vedi la Cameretta di Meneghitt, i due dialoghi del Branda e le tante lettere de’ suoi scolari e le risposte dei Pariniani, uscite le più in Milano dalla stamperia Malatesta, l’anno 1760.

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mici del Parini di considerarlo come un uom nullo, e gli fossero dette ad ogni tratto delle gentilezze singolari come queste: O signor Giuseppe, chi v’ha insegnate sì strane cose? Che ne dice il signor Abate? Il signor Parini vuol essere lo zimbello non pur dei dotti ma degli scolari ancora, e tira innanzi a questo modo, certo egli è che allora (toccava forse trent’anni) il Parini aveva acquistata molta riputazione e importanza, come ci fanno intendere i suoi nemici stessi parlando ad ogni tratto con ischerno di quello che essi chiamano mondo Pariniano. Ora chi si terrà dalle risa leggendo nella poscritta d’uno scolaro del Branda ad una lettera molto impertinente diretta al Parini le seguenti parole: «Mi rallegro con voi dell’onore che vi vuol fare questo valente scrittore col degnarsi di rispondervi. Sono quasi sicuro che voi non potendovi acquistare l’immortalità del nome con gli scritti vostri, siete per ottenerla per gli scritti del Padre Branda».1 Sia però detto per amor del vero alcuni dei difensori del Parini spinsero la satira oltre ogni limite di convenienza e di decoro come appare principalmente negli scritti milanesi, per altro men che mediocri, dove la naturale petulanza del dialetto rincalza mirabilmente l’animosità degli scrittori, e in [691] certi ragguagli di Parnaso collo strano titolo di Quartuccio Pintone abnipote alla maniera di Trajano Bocalini che si dicono stampati in Bengodi. Quest’ultimo opuscolo, scritto certamente con molto sapor di lingua e con brio, è di una mordacità che appena appena la cede alla famosa apologia del Caro contro il Castelvetro. Così per esempio nel primo di quei ragguagli troviamo Sua Altezza fulgidissima Apollo, che, preso da una strepitosa dissenteria, non avendo il solito forbiculario, si fa dare da Ovidio alcune pagine del dialogo della lingua toscana del padre Branda, cui stava leggendo, applicate le quali alla parte, il povero Dio si trovò stitico per due giorni di seguito. In altro ragguaglio troviamo tutti i medici della consulta raccoltasi per ordine di Apollo ad analizzare la sostanza di quello scritto addormentati per effetto del detto dialogo, onde si viene in sospetto di qualche veleno nascosto nel libro. Altrove appare il Reverendo Padre alla presenza di Apollo, il quale interrompendogli un grazioso complimento alla boccacevole che già già usciva dalla bocca di Onofrio, gli dà una solenne intemerata, rinfacciandogli quante enormità aveva mai dette, con tanta ira, che il buon Esculapio temendo che il Dio dell’armonia non prendesse un riscaldamento con gran danno dell’universo, lo prega ad acchetarsi, e quindi si rimette al Maggi il continuare l’intemerata, come difatti continua ancor più fiera con una specie di crescendo alla Rossiniana. Ma non pare che il Parini avesse mano in quei ragguagli. Chè anzi in un suo così detto avvertimento al Branda usa di una moderazione e dignità veramente conforme all’alto concetto che noi ci siamo fatto di questo sommo italiano. In questo avvertimento è notabile il modo con che risponde alla rinfacciatagli oscurità de’ suoi natali. «Confessa, così egli parlando di sè in terza persona, confessa ingenuamente (il Parini) d’essere nato da poveri ma onesti parenti nella terra di Bosisio, pieve d’Incino, del ducato di Milano, non volendo egli defraudare il Padre dell’onore ch’ei merita per la sua somma diligenza nell’indagare le origini e le patrie degli scrittori del nostro secolo; spera nondimeno che il Padre consultando qualche perito ed esaminando la cosa a mente più chiara, si persuaderà che chi è nato nel nostro ducato può assumere legittima1 Al signor abate Parini, Lettera di uno Scolaro del reverendo padre Branda, canonico regolare di San Paolo, professore di rettorica in Milano, in difesa del medesimo. Milano 1760, nella stamperia di Carlo Ghislandi, vicino a Santa Margherita.

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mente il titolo di milanese.» Più innanzi rigettando la calunniosa taccia di essere nulla più che l’organo di una combriccola [692] con|giurata contro il Branda, dichiara non essere egli stato eletto nè comandato a scrivere da chicchessia, che se volle pur rispondere ai suoi dialoghi tanto egli fece, perchè avendo il padre Branda offesa la sua patria, si credette pur lecito come buon cittadino di prenderne la difesa anche non interpellato o pregato, e conchiude con dire che il prete Giuseppe Parini milanese non ha inteso colla sua operetta dare alla patria che un testimonio del proprio cuore non già di alcuna dottrina della quale confessa essere del tutto sfornito come il padre Branda va ottimamente dicendo e replicando nel suo ultimo discorso. – Oh! qui ci par davvero riconoscere la dignitosa ironia del Parini e la fierezza del suo carattere! Quantunque il Parini si fosse decorosamente comportato in quella lite, pure n’ebbe di poi assai rincrescimento, e in sua vecchiaja pensando agli eccessi dell’una e dell’altra parte soleva chiamarla l’obbrobrio della letteratura.1 Uscito più grande da quella lite, accresciuto di nome e di influenza, sentiva ormai il Parini il bisogno di cooperare efficacemente alla rigenerazione di una patria che tanto amava, e pensò a lasciarle un monumento non indegno di un vero italiano. La società nostra all’epoca del Parini era, come sopra dicemmo, in sul migliorare, e la riforma veniva in parte dalle classi privilegiate. La scuola filosofica di Francia scalzava intorno intorno le fondamenta della aristocrazia, e molti dei più illustri campioni di quella scuola figuravano tra i primi nel blasone del loro paese: quale sotto la maschera dell’allegoria o della favola, quale coi severi ammaestramenti della storia o colle lusinghevoli finzioni del romanzo, quale con audaci sistemi filosofici, tutti miravano a distruggere le ineguaglianze ereditarie e pareggiar gli uomini dinanzi alla legge. Quegli scritti furono nell’alta società i ben accolti; dall’umile gabinetto del filosofo e dell’uomo di lettere passarono nelle profumate aule dei grandi, sui tavolieri eleganti, e fin presso al capezzale delle patrizie spose, e i loro principii, le loro massime divennero come il distintivo di quanti si vantavano uomini di retto senso e [693] amanti del progresso. Da ciò nacque certa tendenza generale di mettere a sindacato le azioni delle classi privilegiate, di esaminarne i portamenti, il contegno, il modo di pensare, parendo naturale che chi pretendeva sovrastare agli altri nei diritti dovesse pure dagli altri distinguersi per altezza di sentire, per magnanime virtù. Ai tempi di che discorriamo nel nostro paese non si era ancor mossa da nessuno la pretensione di tutte pareggiar le classi della società; la moltitudine serbava la tradizionale riverenza agli stemmi gentilizii e ai titoli araldici: ma l’impotenza dei patrizii in genere, la nullità di molti fra loro avevano scemato gran parte di quel prestigio irresistibile che nasce dall’attività e dalla forza: si rispettava più la ricchezza che il titolo e già cominciava a formarsi quella nuova aristocrazia del danaro, che, momentaneamente deviata dal suo corso dalla rivoluzione francese, vedemmo poi sorgere gigante sulle ultime ruine del feudalismo. Gli uomini ben pensanti fra noi non miravano a distruggere la nobiltà ma a rigenerarla; odiavano in essa la dappocaggine, le frivolezze, i piccoli vizi delle anime deboli; desideravano ritemprarla alle maschie virtù dei loro antenati onde dal capo si propagasse alle estreme membra del corpo sociale nuova vita ed energia. Ed 1 Vedi, Lettere di due amici, ecc. Giovanni Lami, Novelle letterarie, tomo XXI. Giammaria Mazzucchelli parte quarta, degli Scrittori d’Italia: Excerptum Italicae nec non Helveticae litteraturae pro anno MDCCLX, tomo IV.

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ecco come nacque in Parini l’idea della sua famosa satira. A voler credere ai più degli scrittori che parlarono dell’autore del giorno risulterebbe che il poeta non si accingesse a quest’opera che per certa sua naturale causticità e vaghezza di volgere in ridicolo ogni cosa, e perchè appunto la satira presentava forse in Italia l’unico seggio che potesse occuparsi con onore. Chi fa tal giudizio del Parini mostra di conoscer poco quanto i tempi influiscano negli uomini d’ingegno. Parini scrivendo la sua satira non fece che rendere il pensiero del proprio secolo con quei mezzi di che lo aveva fornito la natura. Questo è ciò che gli assicura nei fasti dell’Italia un posto più eminente che non il semplice merito letterario, perocchè l’ingegno per sopravvivere al sepolcro deve ben meritare della posterità col farsi raccoglitore del buon senso comune. Il poeta oggimai non può essere un cigno che canti a solleticare le orecchie di gente nojata ed oziosa: deve essere un uomo della storia, la cui esistenza cioè importi alla società di cui si fece maestro ed oracolo ad un tempo. Inezie canore ci saranno sempre perchè non mancheranno mai uomini che si pascono [694] di vento, ma farsi un nome colle inezie canore non sarà più dato a nessuno, perchè il mondo più invecchia più cerca nelle cose la sostanza. Quell’opera pertanto di riforma alla quale si accingevano con sì generosi sforzi i nostri filosofi prosatori come i Verri, i Beccaria, i De Carli, i Landriani, i Frisi, per tacere di quelli fuori di Lombardia, la volle tentare il Parini coi versi. Siccome già buona parte dei nobili si era data ad una maniera di vivere più seria, intenta a giovare altrui, e promovere col proprio esempio le utili discipline, per mettere anche gli altri, che pur troppo erano ancora i più, nel buon cammino, pensò di armarsi contro di loro dell’arma del ridicolo, tanto formidabile. Ardua era l’impresa perchè la piaga che si voleva sanare era antica, profonda, generata in gran parte da lunghe consuetudini servili e dalla mancanza di un vero sentimento nazionale. Quanto più sali in alto tanta più la corruzione è funesta e difficile a vincersi. Quasi in tutta Europa, ma qui più che altrove senza paragone, per quelle cause che ognuno può immaginarsi, la nobiltà non era allora che l’ombra dell’antica aristocrazia feudale, di quella aristocrazia rozza e sanguinaria, ma pure energica e capace di grandi cose ad un bisogno. Nelle alte classi, dove più non sia qualche campo aperto all’esercizio delle più nobili facoltà dell’uomo, in breve gli agi, il vizio coonestato dall’eleganza1 dei modi, agevolato dalle ricchezze spengono ogni energia. Dove il privilegio della nobiltà si riduce all’impunità delle private libidini, e al diritto di far nulla, è pur molto ancora se in essa si conservi una larva di decoro. All’epoca delle crociate, nelle lunghe guerre nazionali coll’Inghilterra, i La-Hire, i Dunois, i Brezés, i Richemonde, i Saintrailles, i Villeneue, i Chateaubriand chiamati a grandi cose diedero degli eroi: sotto Richelieu all’incontro i nobili eliminati per così dire dal governo dello stato, furono o cortigiani faccendieri o molli epicurei; sotto Luigi XIV morirono per far la corte al Monarca, ed egli potè dire al loro cospetto essere la Francia tutta in lui senza che niuno facesse molto; sotto la reggenza e sotto Luigi XV l’aristocrazia alternò gli amori, le gozzoviglie e le orgie eleganti, coi sistemi dei filosofi, libertina di cuore e di spirito, atea per vanità, insolente per debolezza. Qui da noi la corruzione nelle classi privilegiate può dirsi si maturasse ad un tratto. Il povero che non è adulato, perchè le adulazioni si [695] comprano, il povero che deve lottare coi primi bisogni della vita trova nella necessità stessa della fatica un argine contro una totale corruzione: 1 [Nel testo elegenza]

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laddove tutto concorre a corrompere il ricco disoccupato, e si cambiano persino i nomi delle cose perchè non si avvegga del proprio corrompimento. Ecco la gente che il Parini intendeva destare dal suo letargo, e movere a salutar vergogna delle male usate ricchezze e del tempo sprecato a danno della patria comune. Il suo frequentare le case dei grandi nelle quali, oramai, dopo il rumore che aveva menata la famosa guerra coi brandisti, era considerato come una celebrità della giornata, gli diede agio di esaminare a fondo i patrizii bellimbusti della società milanese d’allora. Accorrevano questi numerosi principalmente nelle splendide aule della duchessa Serbelloni, e della Ottoboni, gentili e colte dame che molto amavano il nostro Parini. Qui poco parlando, tutto vedeva e sentiva: non un atto, una smorfia, un gesto di quelle eleganti caricature sfuggiva al suo occhio scrutatore: qui raccoglieva un aneddoto, là un motto: da questo un tratto caratteristico, da quello una frase, una parola e così d’animo posato maturava nella mente il nobile suo concetto. Perocchè non lo moveva a mordere i vizi di costoro bassa invidia, o cupa misantropia, che pur troppo furono la musa di molti scrittori di satire, ma il generoso proposito di far bene alla patria, volenti e ripugnanti traendo a procurarne il lustro e la prosperità. Però la sua satira non doveva essere personale, ma comprendere una classe intera della società per quella parte almeno che più appariva corrotta e infemminita. Ardendo di generosa bile gli parve che una voce gli dicesse: Canta gli Achilli suoi, canta gli Augusti Del secol tuo . . . . . . E quella voce fu come la ricordanza di un dovere che gli correva come a poeta cittadino. Così l’opera sua rimase come un monumento che segna un’éra nella storia del pensiero italiano, e fu egli poeta veramente nel senso antico della parola, quando cioè la sapienza civile e religiosa erano una cosa sola colla poesia. Ma quale aveva ad essere la forma della sua satira? con qual arme presentarsi a combattere il vizio? La satira è fatta [696] pei tempi in che si scrive, e a questi deve quindi adattarsi nella forma. La satira festevole, leggera dell’epicureo Orazio che, come ben disse un moderno critico, prendeva i costumi come Augusto gli uomini, magnificando cioè le virtù antiche ed inclinando ai vizi dell’epoca, quella satira egoista nella quale la virtù stessa non è che un raffinato epicureismo, non era la satira che si richiedesse da una società che corrotta tendeva pure a ritemperarsi. Nè meglio si prestava la satira di Persio; energica reazione di un petto santamente indegnato; essa non si addice che a quelle anime solitarie per le quali, come direbbe Byron, non è la società che un vasto deserto d’uomini, per quelle anime privilegiate il cui guardo, di mezzo al fango della terra, è sempre levato verso di un orizzonte invisibile al volgo. La protesta di Persio fra le frenetiche orgie della Roma imperiale e le mostruose libidini neroniane, quella protesta isolata era il grido della giustizia eterna che attestava la sua esistenza per la bocca di un mortale. A’ tempi di Parini v’era piaga ma non cancrena; si poteva pretender meno appunto perchè quel tanto che si pretendeva poteva condursi ad effetto. Quell’anima indomita di Giovenale s’inferocì alla vista dei sanguinosi delirii dei Cesari svenanti per trastullo gli schiavi al levar delle mense, e solo fra quell’osceno sgavazzar di cinedi, di adulteri, di spie, osò ricordare le virtù dei Fabrizi e dei Catoni ad un popolo per cui que’ nomi erano un mistero, e levò, per così dire, la gonna in sul viso alla gran meretrice del Tevere a mostrarne le turpitudini al mondo, vendicato così nei vizii de’ suoi oppressori.

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All’epoca di Parini v’erano vizii non pochi, niuno mostruoso; debolezze, non delitti; un poeta che avesse gridato coll’impeto di Giovenale sarebbe apparso come un frenetico fra gente di mente sana; uno che avesse alzata cattedra a guisa di stoico dettando iperbolici aforismi di non possibili virtù, come fa Persio troppo spesso, sarebbe sembrato un pedante. Parini, tenne saviamente un di mezzo, fra la troppo facile piacevolezza del Venosino che scherza col vizio più che nol morda (salve qua, là alcune poche, ma splendide eccezioni) e la virulenza degli altri che discendendo a troppo vere e plastiche rappresentazioni del vizio in ciò che ha di più seducente tentano i men forti più che non li giovino. La fiacca, molle, disutile vita del giovine signore ch’egli si proponeva richiamare [697] a più nobili sensi, era più che d’altro degna di riso; e Parini adottò l’ironia, non l’ironia Bernesca, umoristica, che fa d’ogni erba fascio, che ride di tutto, quell’ironia bizzarra, eccentrica che si fa beffe del lettore, e nasconde il concetto di chi scrive, contraddicendosi maliziosamente ad ogni tratto, o traendo dalle premesse le più inaspettate conclusioni, ma quella franca, uguale sempre a sè stessa, movente da un principio vero e ragionato, l’ironia del sapiente che getta sul volto dell’uomo nullo il ridicolo a svergognarlo. Era difficile assunto quello di sostenere siffatta ironia da un capo all’altro del suo lavoro, senza che mai la bile traboccasse: e qui appunto apparve l’ingegno del Parini: in esso l’ironia non è mai insulsa, nè plateale, nè virulenta. Padrone di sè, serba nello scherzo la gravità, il decoro. Lo diresti il sapiente ideale degli stoici che dall’alto guarda le umane pazzie. Egli è bene che sappia tutto il mondo in che il semideo occupi le preziose ore del giorno; e però, non appena avrà quegli aperti gli occhi gli chiamerà d’intorno il maestro del ballo, il precettor del tenero idioma della Senna; lo assisterà alla toletta, uscirà seco lui qualche rara volta pedestre, le più in superbo cocchio in sull’ora del meriggio, gl’insegnerà come debba amare un suo pari, fino a qual punto con nojosa costanza serbarsi fedele alla fida d’altrui sposa a lui cara, guardarsi a tutt’uomo dallo stupido giogo d’Imene, ormai coronato non più di rose ma di papaveri, da che Imene ed Amore vennero a lite tra loro, sicchè poi sempre ebbero diviso il regno. Tratto tratto gli porrà a riscontro l’esempio de’ suoi padri, quando si avventavano in mezzo al fuoco dei bronzi micidiali, nel cuor della battaglia, quando correvano sulle mura nemiche, o dai baluardi pugnavano per salvare la patria. A lui tutto cascante di vezzi e coperto di catenelle e di ciondoli coi quali bamboleggia contrapporrà gli antichi lombardi patrizii che truci all’aspetto, coi sanguinosi pugnali a lato vivevano sospettosi nelle campestri rocche in mezzo agli sgherri. Questo poeta dall’inestinguibile ghigno, vero tipo in quanto ha di ragionevole dello spirito milanese, più inclinato a porre in celia che a fulminare le umane debolezze, questo poeta che conta i vostri passi, vi pesa gli atti, i gesti, le parole, e corre innanzi ad annunciarvi al mondo quasi l’ottava meraviglia, è come un incubo che vi uccide ridendo. [698] Egli ha fermo in cuor suo di segnar con un marchio d’infamia ogni superba fatuità o pecca dei grandi, ma principalmente il serventismo, fomite ed esca della signoril mollezza. Questa turpe consuetudine passata quasi in diritto di que’ tempi, talchè si giunse a porla perfino nei patti nuziali, era ignota sotto i Visconti e gli Sforza, epoca di truci ma severi costumi. Frutto della prima occupazione dei Francesi in Italia, comechè affettasse cavalleresco ossequio e rispetto al gentil sesso, non tardò a degenerare in corruttela, come ne fanno fede quasi tutti d’accordo gli scrittori di quei tempi, storici, poeti, novellatori. L’indolenza ne fece quasi una necessità ad uomini

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morti alle pubbliche cose: l’orgoglio gentilizio, abborrente dagli amori plebei, costrinse i nobili conjugi a reciproche transazioni; mentre voleasi pure che il volgo venerasse come inespugnabile la virtù delle matrone posta sotto l’egida del decoro patrizio. Il serventismo, nato dall’ozio, e nutrito di inezie e di mutui riguardi stabiliti, come legge sacra, da impreteribile etichetta, non aveva radice nel cuore; era non passione profonda, ma pompa di essa, era una menzogna elegante che prendeva le sue ispirazioni nei romanzi, e freddo sosteneva la sua parte nel mondo come gli attori sulla scena: quindi, più ancora che a corrompere, tendeva a snervare, e faceva della virtù un’ipocrisia. Ecco perchè il poeta non gli dà mai tregua, e, svelando ogni sua piega più segreta, lo incalza ne’ suoi ultimi ripostigli, persuaso qual è che l’uomo, il quale può fare sua prima e quasi unica occupazione una passione bugiarda, è inetto ad ogni impeto generoso. Questo giovine signore, che, non adorando che sè stesso, deve per moda non pensare che alla sposa altrui, che ha da seguirla al passeggio, al teatro, da per tutto, che ha da eseguirne i capricciosi comandi, e colla noja in cuore fingere quando tenerezza e quando gelosia, come diventa ridicolo e nullo fra le mani del Parini! Pensando a quella sua codarda servitù tu lo senti misero in mezzo al suo lusso, a’suoi piaceri, a’suoi tesori, e più bella ti pare a paragone la sorte del contadino non costretto a simulare affetti. Tutto concorre a rendere più acuta, più frizzante l’inesausta ironia del poeta; la storia, la geografia, il mito e la tradizione, gli studi severi e gli ameni. Come schermirsi contro i colpi di un siffatto assalitore, che sicuro della giustizia delle sue censure non discende mai a ragionare col suo avversario, ma si rimette [699] al buon senso dei lettori? Forse però la forma da lui eletta, ad onta della fecondità del suo ingegno, lo rende di necessità un tal poco monotono ed uniforme. In Orazio, per esempio, dove non appare una forma precisa, v’è più varietà, v’è più slancio, più libertà di mosse, spesso capricciose e bizzarre, piacevoli sempre. Orazio, nè calza il coturno, nè dà fiato all’epica tromba: non sputa sentenze gravi con Senocrate, non piange con Eraclito, non dà in risa stemperate con Democrito; eppure v’è in lui un po’ di tutto, v’è del filosofo, v’è del sofista concettoso e sottile, v’è sopratutto dell’uom di mondo e del cortigiano. Laddove il Parini cammina sempre d’un passo; tu gli vedi sempre sulle labbra quel suo amaro sorriso, e forse ad onta della inarrivabile eleganza del suo stile, ad onta della copia delle immagini, dei confronti, delle allusioni d’ogni maniera, alla fine quella perpetua ironia ti stanca alquanto. Ma la varietà del poeta latino, che in lui forse si desidera, è compensata per mio credere ad usura dall’unità dello scopo, dall’altezza del concetto, dalla convinzione profonda che gli fa sviscerare il cuore umano. Talvolta ancora la soverchia vaghezza di quel che i retori chiamano decoro, il soverchio studio di ammantare ogni cosa quanto più si può di una veste elegante, gli scema il nerbo, e lo dilunga dalla maestosa semplicità della natura: ma forse alla qualità dell’argomento non si disdice quel fare un tal poco ammanierato, trattandosi di persone tutte cascanti di vezzi, vera caricatura di quella che dissero, credo per ischerno, alta società. Studiò il Parini l’arduo suo tema più che tre anni, e poco confidando nelle proprie forze, consultò gli amici, e massime Passeroni,1 anima candidissima e incapace di adulare. Condotto a termine il Mattino, ne fece lettura a Francesco

1 Vedi la biografia del Passeroni scritta da Giulio Carcano. Rivista Europea. Luglio, 1845.

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Fogliazzi che lo aveva carissimo, quindi a parecchi suoi dotti amici, e tutti maravigliati fecero plauso all’alto concetto del poeta. Il conte di Firmian, ministro plenipotenziario dell’Austria in Lombardia, come seppe dal Fogliazzi che il Parini si accingeva a pubblicare il Mattino, lodò molto quella risoluzione dicendo che ve n’era estremo bisogno. Uscì finalmente nel 1763 alla luce il tanto aspettato poema, e in tutta Italia non fu che un plauso universale. [700] I buoni se ne rallegrarono dall’Alpi al Lilibeo come d’opera di vero cittadino. Nei grandi che si videro fatti favola del paese profondo fu l’astio, profonda l’indegnazione in sulle prime, e più d’uno pensò a vili vendette contro il poeta: ma che potevano contro la voce di tutta Italia? Però se quel frutto riescì loro a prima giunta agro e indigesto, trovaronlo poi salutare quando la riflessione subentrò al primo impeto dell’amor proprio offeso. Allora apparve veramente come la satira, giusta la bella osservazione di Vincenzo Monti, sia un’appendice alla legge per quei morali difetti, che la legge medesima non circoscrive, un supplemento all’umana giustizia per quelle colpe che invola tutto giorno alla pena, o la malizia, o la prepotenza, o la seduzione, o l’intrigo, allora apparve come un fermo incontaminato satirico sia il migliore cooperatore ed amico di ogni accorto capitano di popolo, il ministro, a dir breve, della polizia morale in ajuto della virtù. Parini aveva contro le inezie signorili appellato all’opinione pubblica, e la pubblica opinione coll’unirsi sinceramente a lui ne fece per così dire sacra e nazionale la censura. Fu tale e tanto il successo del Mattino, che l’autore n’ebbe quasi spavento, parendogli impossibile far cosa quind’innanzi che non fosse minore dell’aspettazione comune. Ma quando nel 1765 s’indusse pure a pubblicare anche il Mezzogiorno gli parve miracolo vedersi crescere il pubblico favore, e quantunque modestissimo pur ebbe ad accorgersi che aveva fatto abbastanza per la sua gloria. Credevasi allora che dopo gli sciolti del conte Algarotti, di cui disse assai bene il Denina che fu uomo di bell’ingegno ma poeta poco più di chi non lo è, dopo i versi dell’abate Frugoni lussureggiante fantasia, per soverchia spontaneità votamente pomposa, dopo quelli del gesuita Bettinelli, scipiti e rimbombanti quali si convenivano a chi arricciava il naso alla energica semplicità dell’Alighieri, credevasi, dico, che nulla di meglio si potesse fare in tal genere. Il Baretti, annojato dei tanti, come egli chiamavali, versi-scioltai, voleva bandito al tutto il verso sciolto dal Parnaso italiano, consigliando a scrivere anche le tragedie in ottava rima. Quando apparvero gli sciolti del Parini, i tre eccellenti autori soprannominati (sotto tal titolo vennero appunto pubblicati i loro versi) caddero poco men che nell’obblio. Frugoni, uom sincero, si die’ per vinto ed esclamò: poffardio, conosco ora di non aver saputo mai far versi [701] sciolti, benchè me ne riputassi gran maestro.1 Quanto al Baretti riconobbe bensì il merito singolare dell’autor del Giorno, dichiarandolo uno di quei pochissimi buoni poeti che onorano la moderna Italia; ma non per questo depose al tutto il suo odio ai versi sciolti, esortando il Parini a ridurli in ottave. Eppure il Baretti era allora in fatto di lettere uno spirito forte! Fu gran prova dell’ammirazione che destarono i due poemetti del Parini, la turba innumerevole degli imitatori che fecero pullulare d’ogni parte. Subito dopo il Mattino e il Mezzogiorno si videro uscire alla luce con brevissimo intervallo tra l’uno e l’altro e l’Uso (del gesuita Roberti) e la Moda e la Conversazione (del Bondi) ed altri sì fatti poemetti; parti tutti di mal provvida emulazione, che, comparsi appena, dileguarono come meteora. Oltrechè i mal cauti imitatori non seppero serbare dignità nell’ironia, e 1 Vedi la biografia del Frugoni scritta da G. Torelli. Rivista Europea. Gennaio, 1846.

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non fecero che spigolare nel campo Pariniano quanto quel grande aveva trascurato come indegno della sua sferza, o riprodurne sformati i tipi inimitabili; e resero i proprii concetti con sì fiacchi colori che ne risaltò ancor più bruttamente la meschinità del disegno. V’ebbe perfino chi osò continuare il Giorno, vivente ancora il poeta, dedicando anch’egli il suo lavoro alla moda. L’anonimo autore della Sera che doveva tener dietro al Mezzogiorno, ebbe dell’insensata impresa disprezzo da prima, poi dimenticanza e silenzio. Altro più modesto ammiratore dell’ingegno pariniano si fece a tradurre il Mattino in versi latini, mirabili se guardisi alle tante difficoltà felicemente superate; ma a che pro tanta fatica? Che si cerchi rendere di comun diritto ciò che è proprio di pochi, questo s’intende; ma, come a trastullo di pochi dotti, trasmutare nell’arido e freddo linguaggio dei morti la feconda e calda parola dei vivi è stolido assunto. Poco dipoi il Parini ebbe dal conte di Firmian l’incarico di scrivere la Gazzetta, screditata di que’ tempi oltre ogni dire per l’assoluta mancanza di critica e le bugie madornali di cui era piena zeppa. Fu in questa occasione che una bizzarra sua storiella inserita fra le notizie politiche, cioè che papa Ganganelli (Clemente XIV) avesse decretato non si dovessero più [702] ammet|tere nelle chiese e nei teatri dello stato Romano i cantori evirati, levò gran rumore in Europa, onde piovvero d’ogni parte gli elogi all’inconscio Pontefice, e fra gli altri una lettera in versi del gran patriarca dei filosofi francesi, Voltaire. Poco durò in quell’ufficio il Parini, qual che ne fosse la causa: ma certo la fama di lui ogni dì più allargava le ali, e ormai era riconosciuto come principe dei poeti italiani. Giovani e vecchi autori lo consultavano come un oracolo, ma non sempre da lui si partivano contenti, per quella sua terribile franchezza onde sdegnava di adulare chicchessia, e a tutti cantava sul viso la verità, persuaso che la mediocrità negli ingegni è intollerabile. Tanta fama non l’arricchiva, perocchè in Italia s’inchinò mai sempre ad ammirar tardi e non compensar mai l’ingegno. Parini strisciante e piacentiere avrebbe trovata più amica la fortuna, ma non tramandato ai posteri un nome incontaminato, nè potuto cantar di sè senza arrossire, Me non nato a percuotere Le dure illustri porte Nudo accorrà ma libero Il regno della morte. Offertagli la cattedra di eloquenza nell’università di Parma, l’aveva il Parini ricusata: a compenso di quel generoso rifiuto il conte di Firmian lo nominava nel 1769 professore di belle lettere nelle scuole Palatine, senza por mente ai riclami dei Gesuiti che di mal animo videro piantarsi loro innanzi una cattedra rivale. Sarebbe egli stato abbastanza felice, se la malignità de’ suoi nemici, che odiavano in lui la preminenza incontrastabile dell’ingegno, non gli avesse mossa una guerra sorda, implacabile. E il Parini con quel suo sentire inflessibile, disdegnoso, onde s’ebbe da taluno il titolo di Catoniano, porgeva egli stesso le armi ai nemici.1 1 Vedi Lettere di due amici, ecc. In un curioso dialogo uscito di que’ tempi alle stampe, tra l’Amore ed il Petrarca, così si esprime quel bizzarro nume in proposito del nostro Parini: «Un gran poeta talor m’invoca e onora. Ma latino, dietro Orazio, vuol dirsi per l’asperità e lo sforzo nella lingua e più pel fiero animo Catoniano, ecc.» Altrove in quei dialoghi il Parini è detto il nuovo Orazio, quantunque lo si accusi contro ogni ragione di sentir poco.

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Distrutte le scuole Palatine, [703] che erano presso alla Canobbiana, fu eletto a professore di eloquenza nel ginnasio di Brera. Fu allora che stese il suo corso di belle lettere, la più accreditata di quante opere scrivesse in prosa. In esso è da ammirare la chiarezza colla quale vengono stabiliti i principii del bello e se ne traggono immediatamente i caratteri, è da ammirare la distribuzione sapiente delle parti, la semplicità di uno stile sobrio, limpido, calzante, scevro affatto di vani adornamenti e studiati concetti, quale in somma si conviene ad un filosofo che ragiona. Premessi alcuni come canoni fondamentali che risguardano tutte le arti belle, in quanto che mirano tutte ad un medesimo fine, che è di giovare dilettando, discende a discorrere delle teorie generali. Qui appare manifesto come l’autore miri a collegare la filosofia colle arti belle, sottraendole così all’arbitrio dei pedanti. Il perchè, a sua detta, le condizioni del bello, avvegnachè altre relative, altre assolute, in ultima analisi le derivano tutte dalla immutabile natura dell’uomo, e quindi il bello non può esser figlio del capriccio, o della moda. Ricorrono è vero i più dei principii di Aristotile, quel grande ordinatore d’ogni scibile umano, ma ricorrono più largamente interpretati che non si fosse fatto infino allora. Noi qui non entreremo a sviscerare parte a parte le dottrine pariniane, troppo comuni ormai dove le si accordano col vero, inutili a ricordarsi nei pochi errori che pur vi restano. Solo diremo che se paragonisi questo trattato coi tanti che l’Italia aveva sull’istesso argomento prima di lui, Parini sovrasta a tutti per l’altezza dei principii filosofici dai quali move. Ponilo viceversa a fronte dei trattati che la dotta e paziente Germania ci diede in questi ultimi tempi, e nell’opera del nostro Parini troverai molto a desiderare. Spesso lo vedrai fermarsi a mezza via a certe premesse che vorrebbero appoggiarsi a principii più cardinali e distendersi a più complesse, più vaste applicazioni. Lo studio del bello non può separarsi dalla fisiologia dell’uomo in generale, ove si tratti del bello universale ed assoluto, non da quella di ciascun popolo in particolare dove si parli del bello nazionale e relativo. Ma, quando si pensi ch’egli era forse il primo a sostituire ai soliti canoni convenzionali i principii generali della filosofia applicati al bello, il primo che studiasse le vere cause del sorgere, del crescere e corrompersi delle arti [704] belle, acquisterà non piccolo pregio il suo trattato. Che se in Mendelshon, in Sulzer, in Meiners, nello Schlegel e in altri tali si trovano più vaste, più profonde teorie, nel Parini vi è maggior chiarezza di esposizione, e nessuna di quelle utopie in che troppo spesso si perdono i tedeschi pensatori. Il perchè alla gioventù debbono riescire queste lezioni, per mio credere, più proficue che non i trattati di quei sommi, fondati troppo spesso sopra idee puramente subiettive di difficile e pericolosa applicazione. Accorsero a gara alle lezioni del Parini1 uditori d’ogni maniera sì nazionali che stranieri, che restavano ammirati vedendo in lui sì splendidamente accoppiarsi il precetto coll’esempio; e se fra noi da quindi innanzi si manifestò per avventura maggior squisitezza di gusto nelle belle lettere che non nel resto d’Italia, e meglio che altrove si coltivò quella che diremo letteratura civile, fu merito in gran parte di queste lezioni. Qual prestigio dovettero avere declamati da quelle labbra i miserandi casi dei nipoti di Labdaco! quanto scuotere dal profondo cuore il tremendo fato dei Greci onde suona eterno il lamento di Edipo! Tale l’udiva il cardinal Durini, splendido mecenate del poeta, quando 1 Vedi Reina, Vita del Parini.

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venne un dì a sedersi sui banchi degli scolari che arrossivano pudibondi dinanzi al porporato.1 L’aspetto austero del nostro poeta, il portamento grave e quasi sdegnoso mossero alcuni pochi riflessivi contemporanei non usi avvicinarlo a crederlo uomo di cuor duro e chiuso ai più dolci affetti. Onde una leggiadra scrittrice di quei tempi ebbe a dire: il Parini non è poeta del cuore: amore non lo ispira che debolmente. Tanto è facile lasciarsi ingannare dalle apparenze! Parini amò di un amore, quale suole ardere nelle anime forti; non querulo e molle ma tacito e profondo. Così scriveva ad un amico dalla campagna dove si recava a rinfrancare la salute: «Crederesti tu che nè la lontananza, nè gli oggetti della campagna che sogliono farmi tanta impressione non mi posson punto distrarre dal pensiero tormentoso, che ho meco portato dalla città? Crederesti tu che mille volte mi sento violentato a ritornare; e che mille volte violento me medesimo a non [705] po|terlo fare?» Fu allora che uno dei più dolci amici che avesse il Parini dopo il Passeroni, l’abate Vincenzo Corazza bolognese, gli scriveva esortandolo a uscire dalle catene d’amore, dopo descritta la gagliarda passione del poeta: Scuoti il giogo, e ti libera Da la mordace cura; Che giova ingegno aver superbo, quando Lo spirto è oppresso da servil catena? Ama se giova: Un duro core d’ammollir non tenti Mite poeta. Qual era la fiamma segreta, vereconda onde ardeva il poeta? Una delle figlie del popolo, ovvero una di quelle tante patrizie ammiratrici di quel raro ingegno? Non entriamo in congetture, che non hanno altro fondamento che le audaci dicerie della cronaca galante, congetture spesso maligne, inutili sempre: ci basti di notare che l’Alfieri e il Parini s’assomigliarono in questo, che l’uno il proprio sdegno, l’altro la splendida sua bile temperarono col soave culto della bellezza. E questo culto fu certamente nel nostro Parini nobile sempre, e quale si convenne ad uomo che si sentiva chiamato a correggere i suoi simili. Interpellato il Parini dal Ministro Conte di Firmian sulle cagioni del decadimento delle belle lettere e delle belle arti in Italia a quei tempi, espose egli il suo sentimento in un breve discorso indirizzato allo stesso ministro. In esso, toccato di volo delle cause generali onde declinano tutte le umane cose, e delle particolari onde in Italia spenta la libertà fiorentina, e allargatasi la potenza spagnuola, le belle lettere, non che le arti perdettero ogni nerbo, mostra che i valenti letterati e i bravi artisti derivano dalla propria natura la loro attitudine, senza che occorra una speciale intervenzione o protezione dei governi. «Se in tutte le cose politiche importa, così il Parini, di lasciare ai cittadini per tutto ciò che è onesto, la maggiore attività, e quindi la maggior libertà possibile, ciò molto più importa nelle belle arti. Esse dipendono dalla sensitività dell’animo, dalla forza della [706] fan|tasia, dalla finezza della mente, cose quanto sentite nei loro effetti, tanto poco conoscibili nella lor natura. Come adunque presumerebbe una podestà umana qual che si voglia di ridurre esclusivamente tutti gli ingegni fatti per le belle arti sotto uniformità normale di una sola disciplina, 1 Vedi l’ode del Parini: la Gratitudine.

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di un sol modo di operare, di un sol maestro?» Però a sua detta le Accademie non sono quelle che fanno fiorire nè le arti, nè le belle lettere, come ne stanno a prova le più splendide epoche negli antichi e nei moderni tempi, e quindi, se voglionsi pure Accademie, queste non debbono essere nè un monopolio, nè una servitù, nè il governo le deve proteggere altrimenti che col provvederle di buoni maestri e di opportuni sussidi. «Tutto il resto non è che pompa e magnifica superfluità. Gli artisti per fiorire denno potersi coll’arte loro procacciare guadagno e riputazione: laddove la protezione diretta e i privilegi, dando luogo all’arbitrio ed alla cabala, portano in alto i tristi e respingono i buoni avviliti.» Le scuole regie poi le crede egli decadute affatto per essersi quasi che tutte o formalmente o tacitamente ridotte sotto la direzione dei frati. Osserva in proposito che questi sono inetti sopra tutto ad insegnare la buona eloquenza; ricorda come fin dal tempo del Castelvetro fosse conosciuto e messo in derisione lo stile dei frati.1 È facile immaginarsi, quanto, non appena s’ebbe sentore di questa scrittura, se ne adontassero le Congregazioni religiose e specialmente i Gesuiti, arbitri allora delle scuole italiane. Punti sì al vivo nel loro amor proprio, questi che avevano avuto il primato nell’istruzione in Europa, vollero averne la rivincita: quindi si tentò soppiantare il Parini così pian piano con ispargere sospetti sul conto suo. Ma il Parini stette saldo ai loro assalti, e ne sventò le trame colla dignità de’ suoi portamenti, e la riconosciuta nobiltà del suo sentire che traspariva non pure dagli atti e dalle parole ma dal volto ancora di quel magnanimo. Però sulle prime ebbero sì poca forza contro di lui le armi de’ suoi nemici, che all’arrivo di Ferdinando Arciduca d’Austria, Governatore di Milano e sposo di Maria Beatrice da Este, il Firmian gli ordinava un dramma nuziale da rappresentarsi a vicenda col Ruggero [707] di Metastasio. Gli fu inoltre dato il carico di stendere una descrizione delle feste celebrate in Milano in quest’occasione. Nulla diremo del dramma Ascanio in Alba,2 che così s’intitolava, perocchè non ci presenta nulla di notevole, non essendo che una mediocre imitazione del Metastasio e che pure allora parve bellissima: ma la descrizione delle feste merita che se ne faccia parola per l’elegante semplicità, pel bell’ordine, per la dignità con cui è scritta. In essa si discorre dei nuovi abbellimenti fatti al teatro in quell’occasione in tele e pitture, descrivonsi i varii e diversi spettacoli dati agli sposi, come a dire corse di barberi, cuccagne, serenate, luminarie, fuochi d’artifizio, mascherate, fra le quali il Parini nota principalmente quella detta dei Facchini, o la Facchinata, composta di persone civili addette ad un corpo che chiamavasi la magnifica Badia.3 1 Vedi opere di Giuseppe Parini, edizione del Silvestri dell’anno 1830, dalla pag. 389 alla 398 delle prose. 2 La musica del detto dramma fu composta, così il Parini, dal signor Amadeo Volfango Mozart, giovinetto già conosciuto per la sua abilità in varie parti d’Europa. 3 Questo corpo rappresentava gli abitatori d’alcune valli sopra il Lago Maggiore, parte de’ quali sino ab antico solevano guadagnarsi il sostentamento in Milano in qualità di facchini, e vi godevano di certi privilegi accordati loro dai nostri governatori. Anche l’Abbadia che si proponeva di imitarne piacevolmente il parlare, i costumi, le fogge del vestire, il modo della danza, godeva di alcuni privilegi, e vestiva nel carnovale in un modo suo proprio. Il loro abito (dei socii dell’Abbadia) è d’un panno bigio, così il Parini, con un giubboncino e le calze dello stesso. Il cappello è del medesimo colore ma ornato di grandi e ricchi pennacchi che danno alla figura un’aria bizzarra e pittoresca. Portano alla cinta un grembiale, vagamente ricamato d’oro e d’argento con simboli e figure alludenti al carattere particolare

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Poco dipoi abbruciatosi l’antico teatro di Milano, e sull’area di esso edificatosi il palazzo di corte, ebbe il Parini l’incarico di stendere i programmi pei diversi soggetti di pittura che dovevano abbellirlo, e ben mostrò nelle invenzioni da lui suggerite in proposito come fosse penetrato a fondo nei segreti di quell’arte sorella della poesia! Perocchè in questi suoi programmi oltre la [708] molta dottrina è da ammirarsi un cotal lume filosofico che gli serve di guida nell’immaginare i diversi simboli, emblemi, allegorie che adatta a meraviglia alle diverse parti dell’edifizio, secondo l’uso al quale sono destinate. Così pareva che sempre più crescesse nella grazia della corte, quando un suo sdegnoso rifiuto poco mancò che non gli facesse perdere ogni cosa. La società patriotica, fra’ cui membri era ascritto il Parini, alla morte di Maria Teresa, che avvenne nel 1780, lo aveva eletto a tessere l’elogio funebre dell’Imperatrice. Ponevasi all’opera, e per meglio raccogliersi co’ suoi pensieri, così consigliandolo l’amico Gian Rinaldo Carli, si ritirava alla campagna, quand’eccolo ad un tratto1 dichiararsi inetto a tanto, e non ne fu nulla del tanto aspettato elogio. Questo bastò perchè i di lui nemici lo rappresentassero come uomo di sospetta fede, e se non era l’amicizia del consultore Pecci, avrebbe perduta la cattedra. Venuto al trono Giuseppe II, come ogni altra cosa, mutossi anche la sorte del Parini, che presagiva ogni bene all’Italia dove regnavano tanti Principi filosofi, un Carlo III in Napoli, un Leopoldo in Toscana, un Giuseppe II in Lombardia. Se non che il tutto innovare e qui e altrove destò dei mali umori assai, che, lui morto, in più d’un luogo della monarchia si mutarono in aperta ribellione stantechè niuna riforma si fosse preparata. Le cose degne di lode ch’ei fece, furono molte, ma non forse sempre lodevoli i mezzi. Mal si apponeva emulando Pietro di Russia; che viveva quegli in altri tempi, fra uomini ben diversi. Succedeva a Giuseppe Leopoldo, che venuto a Milano, desiderò vedere il Parini, e di mezzo alla turba gli fu mostrato il poeta che a stento si trascinava sulle malferme piante, pur maestoso e severo nell’aspetto. Parve al principe indegna cosa che un tanto uomo camminasse pedestre, ordinò gli si accrescesse lo stipendio, nominollo Prefetto degli studii di Brera, e più avrebbe fatto, se non che un potente nemico del Parini, di cui ignoriamo il nome, fe’ quasi andar vuota al tutto la generosità di Leopoldo. Intanto nella vicina Francia l’opera della conquista e dei privilegi, abusando la propria forza, giunta al suo colmo, crollava: soverchiava il popolo d’ogni parte: il medio ceto [709] coll’ener|gia che suole avere ogni cosa nuova, sorgeva a ridomandare non più con satirici libelli e filosofiche teorie ma coll’armi in pugno quella porzione di diritti e di potenza che credeva meritarsi. Era scoppiata la rivoluzione inaugurata dalla testa di un re, che buono, ma debole, scontava le colpe de’ suoi antenati. La rivoluzione s’inferocì nella resistenza, minacciata che ciascuno rappresenta, come a dire di piovano, di abate, di dottore, di cancelliere, di poeta, e simili. Recano un sacco in ispalla, ed hanno al viso maschere eccellentemente fatte, raffiguranti fisonomie oltremodo nuove e capricciose, ma nello stesso tempo naturali e secondo il costume. (Descrizione delle feste celebrate in Milano per le nozze delle loro AA. RR. l’Arciduca Ferdinando d’Austria e l’Arciduchessa Maria Beatrice d’Este, fatta per ordine della Regia Corte l’anno delle medesime nozze 1771 da Giuseppe Parini. Milano, dalla Società tipografica de’ Classici Italiani, 1825). 1 Vedi la vita che il Reina scrisse del Parini in fronte alle sue opere; in essa troverai addotte le ragioni per le quali il Parini ricusò poi quel carico.

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da tutti, a tutti gettava il guanto di sfida, combattendo coll’armi e più ancora colle idee che intorno seminava. Schietta nei primordii, delirante nel suo furor di sangue a mezzo il suo corso, prostrata di forze nel suo fine, molte salutari riforme accelerava, ne arrestava molte già incominciate, maledetta dagli uni, portata dagli altri alle stelle, lasciava il mondo incerto tra la meraviglia e lo spavento. La scossa che atterrava in Francia l’edifizio di tanti secoli, rimbalzò nelle nazioni d’intorno, e l’Italia fu delle prime a sentirne. Quelle parole qui, quasi domestica eredità, comuni più che altrove, di consoli, di legioni, di tribune, di popolari assemblee, toccarono profondamente il cuore dei nostri più chiari ingegni. Parve loro imminente il secol d’oro, nel quale sarebbesi avverato quanto e l’Alighieri e il Petrarca e il Machiavelli appena è che osassero vagheggiare in idea. Vedevano sorgere una nuova Roma, una seconda Atene; le menti si foggiavano all’antica, e sulle labbra di tutti, più frequenti che non nei tempi dei degenerati romani dell’Impero, suonavano i nomi pomposi dei Fabrizi, dei Catoni, de’ Cincinnati. Anche fra noi era un gran parlare di quelle novità: i filosofi pensavano nelle loro veglie a nuove leggi e istituzioni civili, i grandi ne discorrevano nelle loro conversazioni, propensi od avversi a quegli strani mutamenti, i più per cieco amore od odio del passato, molti per pompa, pochi per persuasione; il popolo, come di solito, aspettava trepidante, come chi si trovi alla vigilia di qualche misterioso disastro. Il Parini se ne rallegrava, abborrendo però dagli eccessi dei demagoghi di Francia; interruppe per un istante i prediletti suoi studii per seguire mano mano nei più accreditati giornali d’oltremonte le vicende di una rivoluzione, dalla quale credeva in buona fede dipendessero i futuri destini del mondo.1 Ma si guardò bene dall’abbracciare così alla cieca le nuove idee; [710] grave e posato le discuteva fra’ suoi amici più intimi, come il dottor Vincenzo d’Adda e Alfonso Longo, così appunto come il Mably immaginò discorresse l’integerrimo Focione fra’ suoi famigliari della miglior forma di reggimento e dei doveri del cittadino. Finalmente la rivoluzione trabocca anche in Italia: i Francesi, varcate le Alpi, conquistano la Lombardia, che per incanto di Regno trasmutossi in Repubblica: Ugo Foscolo cantava un inno a Bonaparte liberatore, Monti, vero proteo delle lettere, dopo la Basvilliana intuonava un cantico di allegrezza sulla morte di Luigi XVI; l’Alfieri malediceva vinti e vincitori, e diceva quella libertà fescenina, non esser altro che tirannide ed insolenza di semidotti avvocati: Parini taceva ed osservava. Non insultò codardo come fecero tanti ai vinti, non piaggiò i vincitori, nè cercò farsi innanzi intentando contro altri accuse troppo facili in quei tempi. Pure non potè fare che la fama de’ suoi severi costumi e dell’alto suo ingegno non attirasse l’attenzione di Bonaparte, che, plaudenti tutti i buoni, lo volle magistrato nel Municipio di Milano, al quale allora faceva capo la pubblica cosa. «Chiamato tra il gelo, così di lui scrive il Carrer nella vita di Ugo Foscolo,2 e l’incomodo della vecchiezza a mostrare la reverenda canizie a lato le tribune de’ tosati alla Bruto, tutto che consigliò e che disse in quelle adunanze potrebbe scriversi in oro. Dovrebbe la pacata liberalità dell’uomo raro farsi norma infallibile a giudicare della convulsa di certuni che vorrebbero si strozzasse mezzo il mondo perchè respirasse più agiatamente l’altra metà.» Bramoso di una vera e duratura riforma si studiò egli di tempera1 Il Reina qui nota che la materiale lettura di giornali mal impressi gli indebolì la vista, e gli si appannò per una cataratta l’occhio destro. 2 Prose e poesie edite ed inedite di Ugo Foscolo, ordinate da Luigi Carrer, Venezia 1840.

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re, ma invano, la rabbiosa foga di certi mal pratici novatori. Però amando della libertà la sostanza, non la maschera, combatteva animoso le inutili vendette che a nome di essa volevansi esercitare. Un dì che nel teatro un disperato demagogo voleva obbligarlo a gridare: morte agli aristocratici: – viva la repubblica, morte a nessuno, gridò con voce terribile il poeta, sì che l’altro ammutoliva. Pertanto tuonava fra’ suoi colleghi: colla persecuzione e colla violenza non si vincono gli animi, nè si ottiene la libertà colla licenza e col delitto; il popolo vi si conduce col pane e coi consigli; non si deve urtarlo ne’ suoi pregiudizii, [711] ma vincerlo per sè stesso coll’istruzione e coll’esempio più che colle leggi. Narrano che un dì nell’aula del Municipio dove si radunavano i magistrati, si proponesse di levare l’immagine del crocifisso che vi sorgeva, perchè, dicevano, quest’uomo Dio che dalla croce sovrasta a tutti si oppone all’uguaglianza. Messa a partito la proposta, i più vi assentivano, quando Parini levatosi in piè vi si oppose, mostrando con grande eloquenza che anzi si doveva allora più che mai conservar venerata quell’immagine, come di colui che primo insegnava la vera uguaglianza agli uomini, e, vissuto fra il popolo, fu l’uom del popolo per eccellenza e vero cittadino, e la strana proposta cadde a terra. Venne un dì, a presentarsi al Magistrato un buon alpigiano, e poco o nulla sapendo delle nuove leggi si levò il cappello in segno di rispetto, il che allora non doveva farsi come contrario all’uguaglianza. Di che ripreso il dabben uomo più e più volte da un arrabbiato democratico, pur esitava a coprirsi il capo, non gli parendo vero che innanzi ad un’autorità si potesse stare a quel modo. Allora il Parini gli gridò ad alta voce, dando ad un tempo un avviso all’alpigiano e una sferzata alle ladrerie di certi tristi: «copritevi il capo e guardatevi le tasche.» Più volte il Parini diè prova in quei procellosi tempi di civil coraggio e d’animo intrepido. Così quando il generale Despinoy con brutal prepotenza represse il Municipio di Milano, Parini ridendo di quel sorriso arguto che gli era proprio: or ora, disse, questi signori ci allacciano un po’ più in sù questa ciarpa e ce la stringono, e sì dicendo, toccava la ciarpa che gli pendeva dall’omero al fianco. Implacabil persecutore dei tristi che facevano mal governo delle pubbliche cose, non dava loro mai tregua, cercando a nome della legge che si inquisissero severamente. Spesso si alzava contro costoro nel municipio con imperterrito animo, e fieramente insisteva perchè senza umani riguardi la legge fosse adempiuta. Ma era un gridare al deserto: perocchè, tra la prepotenza francese e la tristizia di molti venuti in alto improvvisamente dal fango in mezzo a que’ torbidi, della tanto decantata ugualità non c’era che il nome. Bonaparte lasciava a tutti i popoli a parole piena facoltà di costituirsi con quella forma di reggimento che più loro talentasse: ma quarantamila baionette rendevano illusorio quel diritto. D’altra parte il passaggio a quelle nuove forme di [712] go|verno era stato troppo subito: le nuove autorità non avevano la fede del popolo che riguardava quell’ordine di cose come affatto provvisorio; la mal intesa libertà degenerava in licenza, e la gente illusa, danzando dinanzi al frigio beretto, scambiava troppo di leggeri la sostanza coll’apparenza, e si credeva libera perchè poteva schiamazzare e movere tumulti, salvo poi a dover sempre obbedire agli imperiosi consigli di chi aveva creata quella Repubblica efimera. La moltitudine, nuova alle discussioni, irrompeva insensata nel campo del potere: i tristi speculavano sulla cupidigia francese, che, intenta ad empire i vuoti scrigni del Direttorio, e a satollare gl’ingordi suoi capitani, portava in alto chi la sapesse comprare. L’animo del Parini fremeva alla vista di tante infamie, egli che aveva tutt’altra idea di quella che il Foscolo chiamava cosa non umana, ma divina, e

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piangeva nel profondo del cuore. Finalmente non potendo più reggere a quello spettacolo, veduta inutile l’opera sua, si depose dal suo ufficio, dicendo: «ora sono libero davvero: quando le fazioni cesseranno, allora, occorrendo, servirò nuovamente la patria.» Nè pago di ciò consegnava al suo parroco lo stipendio derivatogli da quell’ufficio, perchè lo distribuisse ai poverelli. Fu allora che fece amicizia con Ugo Foscolo, col quale veniva spesso a discorrere della miseria dei tempi nel sobborgo di Porta Orientale, dove appunto il nostro lettore li avrà incontrati nel principio di queste pagine. Il giovine di diciotto anni e il vecchio quasi settuagenario non avevano che una voce, che un sospiro, disperato nell’uno, nell’altro mestamente dignitoso. Intanto la salute del Parini, che non era stata mai molto ferma, si consumava sempre più fra quelle angoscie segrete. Però di lui scriveva il Foscolo: «tu mi chiedi novelle di Giuseppe Parini: serba la sua generosa fierezza, ma parmi sgomentato dai tempi e dalla vecchiaja. Andandolo a visitare lo incontrai sulla porta delle sue stanze mentre egli strascinavasi per uscire. Mi ravvisò, e fermatosi sul suo bastone, mi pose la mano sulla spalla, dicendomi: tu vieni a rivedere quest’animoso cavallo che si sente nel cuore la superbia della sua bella gioventù, ma che ora stramazza fra via, e si rialza soltanto per le battiture della fortuna. – Egli paventa di essere cacciato dalla sua cattedra e di trovarsi costretto dopo settant’anni di studii e di gloria ad agonizzare elemosinando.» [713] E diceva vero, perocchè poco mancò che il Parini fosse destituito come uomo inetto; nè fu l’unica volta che corresse quel pericolo. E diffatti a che poteva servire una cattedra d’eloquenza italiana, quando la gente che si diceva civile, mentre sapeva elegantemente parlar francese, appena è che intendesse lo schietto toscano; quando i nostri Demosteni disputavano perchè si bandisse con sentenza capitale dalla Repubblica la lingua greca e la latina, e vincevano il partito? In mezzo ad uomini poveri di fama, di coraggio e di ingegno, come ben li disse Foscolo, per non essere sopraffatto in que’ tempi conveniva sopraffare o almeno far la parte del piccolo briccone, e Parini era troppo grande per discendere sì basso. Si raccolse pertanto in un dignitoso ritiro, come uno di quegli antichi cittadini di alto sentire che gemebondi riparavano alla campagna lontani dalla corrotta Roma e dalla solitudine seguivano con animo ansioso e trepidante le vicende della patria infelice. Credesi che in questo suo ritiro attendesse il Parini a scrivere la storia de’ suoi tempi con quel sentimento che ognuno può immaginarsi in uomo sì tenero delle cose patrie, con quel sicuro giudizio che gli avevano formato e la lunga esperienza, e i profondi studii, e l’essere stato testimonio dei fatti che narrava. Ma di quelle pagine, che forse sarebbero riuscite uno de’ più bei monumenti della gloria del nostro poeta, non ci resta che un inutile desiderio, qual che si fosse la causa della loro perdita. Fu in quest’epoca che il Parini pensò a raccogliere in uno e presentare al pubblico ritocche le sue odi, nelle quali come già nella satira riescì creatore di una maniera tutta sua. La poesia lirica in Italia dal Petrarca in poi, meno qualche rara eccezione, aveva perduta la sua naturale grandezza, fattasi sonoramente vuota e ridondante. Nel Chiabrera, nel Filicaja, nel Guidi ammiri talvolta alti, immaginosi concetti, e certa onda poetica che sente l’ispirazione: ma più spesso ti stanca in essi lo stile ampolloso, l’enfasi retorica, il tritume delle idee che nulla lasciano a pensare: in tutti poi la cruda imitazione del latino e del greco soffoca l’ispirazione. Però ben disse il Foscolo: «noi Italiani viviamo nell’affanno e nella confusione dell’abbondanza: ma chi volesse sceverare dagli infiniti nostri can-

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zonieri, da Dante sino all’Alfieri, le poesie veramente liriche, appena ne ritrarrebbe un mediocre volume.» Le passioni hanno in [714] essi un linguaggio fittizio che mai non parla al cuore; perocchè il cuore si accende non per tradizioni ma per veri affetti. Vogliono essi, per esempio, levarsi a maestri di morale nei loro versi? esaltano virtù, sferzano vizi comuni a tutti i tempi: e ispirandosi alle superbe dottrine dello Stoa, fanno della morale un’utopia. Parini si propose richiamare la poesia lirica all’antico ufficio, quando il canto del poeta era l’eco de’ suoi tempi. Però diceva di sè a ragione scrivendo al consultore De Martini: Così già compie il quarto lustro io volsi L’Itale muse a render saggi e buoni I cittadini miei . . . . «Interprete del comune desiderio, cantò la ragionevole indipendenza, così di lui scrive il Carrer, la comunione dei diritti, la santità della beneficenza, le consolazioni dell’amicizia, prima che vi fossero tribuni, comizii e corpi legislativi; il suo alloro non aspettò a crescere che se gli piantasse vicino l’albero dei demagoghi.» V’è tal ode nel Parini che potrebbe considerarsi come un manuale del buon cittadino.1 Quando si leva con energica voce contro le turpi usanze che correvano nella sua Milano a danno della pubblica salute, quando si scaglia contro l’avara crudeltà di que’ padri che la natura sagrificano al diletto, onde gli uomini si cangiano in mostri, giusta l’energica frase del poeta: quando contro le bizzarrie della moda che trasportando nel regno delle grazie le immagini e le memorie del sangue rende famigliare il delitto. Così seppe egli trovare il bello là dove prima di lui non si era neppur sognato. Al nuovo concetto trovò nuova forma: foggiò uno stile immaginoso come si conviene ad un poeta, sobrio e profondamente pensato come ad un filosofo, perocchè Parini fu sempre filosofo e poeta ad un tempo. In lui mirabile è l’arte di accennare più che non dica, di sommovere con pochi tocchi molti affetti, di giungere [715] al suo fine con semplici ma profondi mezzi. Nelle sue odi l’idea s’incarna per così dire nella parola, e il metro diventa l’armonia del pensiero. Temendo non la troppa scorrevolezza del verso impedisca al lettore di arrestarsi a ponderare il concetto, si diletta di certa scabrosità e ruvidezza, la quale se talvolta offende inceppando il pensiero, le più volte però lo rincalza.2 Al pari di Orazio, che pare si proponesse a modello nella lirica, è potente negli epiteti, onde in un attributo raggruppa molte idee; classico nella forma, come in ogni sua cosa, ti riesce sempre moderno nel concetto, imita ma liberamente restando originale, spesso emulando, talvolta superando i suoi modelli. Col 99 gli Austriaci riconquistavano la Lombardia. In quello sbigottimento che suol essere in ogni mutazione politica, fatto egli segno alle ire di molti che forse pochi mesi innanzi lo accusavano di troppo tiepido cittadino, il venerabil vecchio non si turbò, non die’ segno di timore. E prevalse difatti all’odio il rispetto ad un nome ormai fatto sacro. Ma le lunghe veglie, i non interrotti studii, e forse più ancora gli amari disinganni gli avevano ormai logora al tutto la sempre mal certa salute. Avresti detto che quante infermità lo avevano travagliato 1 Vedi per esempio l’Educazione, la Magistratura, Pel vestire alla ghigliottina. 2 È comune opinione che l’estro poetico si svigorisca coll’età: Parini le diede una mentita componendo in vecchiaja le migliori sue odi, come la Caduta, il Pericolo, il Messaggio, e quella bellissima A Silvia sul vestire alla ghigliottina.

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nel corso di sua vita si accumulassero in quei tempi nel povero Parini perchè non gli rimanesse alcun conforto sulla terra. Era egli sempre stato debole di gambe, e allora gli si aggiunse l’idropisia: il tremito febbrile che sempre gli aveva agitati i nervi e i muscoli convertivasi in una vera paralisi: il petto recente da una lunga ed ostinata idrope, era ormai rotto ed affranto; gli occhi che già le tante volte si erano oscurati al sole, torbidi e incerti come stanchi della vita si smarrivano cercando la luce. Invano, a ciò consigliato dai medici, si ritraeva alla campagna ad Arluno, dall’avvocato Marliani, sperando che il puro aere di quei luoghi a lui tanto cari dovesse giovargli. Quell’aria vibrata invece di rinfrancarlo lo abbatteva al tutto. Gli fu forza adunque ridursi di nuovo a [716] Milano, dove costretto a starsene chiuso fra le domestiche pareti, quantunque vedesse imminente la fine, pure non si abbandonava dell’animo, dividendo le ore fra le opere degli antichi, e massime di Euripide e di Plutarco che si faceva leggere, e i discorsi co’ suoi amici. L’idropisia vinta più volte dalla perizia del medico Strambio, suo amicissimo, ricomparve sempre più minacciosa, finchè lo spense. Era il 15 d’agosto del 1799: il Parini levatosi alle ore otto del mattino, perocchè non poteva più reggere all’arsura ond’era tormentato nel letto, dettava con voce franca ad alcuni suoi amici un sonetto allusivo ai tempi, giovanilmente animandosi nel volto. Sopraggiungeva intanto il medico Jacopo Locatelli, che, nulla fidandosi di quell’efimero miglioramento, non gli tacque del pericolo che correva. Di che non si turbò punto il vecchio, e continuò a discorrere pacatamente cogli astanti. Poi, sentendosi scorrere per le ossa come una vivida fiamma, disse sorridendo: «un tempo sarebbesi ciò creduto opera di qualche spirito folletto, ora nè al folletto, nè tampoco a Dio si crede; a questo però crede il Parini.» Quantunque quell’arsura crescesse sempre più, pur egli si sentiva in forze o almeno gli pareva. Così suonavano le due dopo il mezzodì: gli amici si erano da lui accommiatati; il Parini rimaneva solo col suo servo. Apre allora la finestra, alza gli occhi al cielo, e vede con sua meraviglia una luce inusitata, onde dice al servo ridendo, non aver mai veduto sì bene dell’occhio risanato. Ilare più che non si fosse mostrato da gran tempo, passeggia dall’una all’altra stanza, senza bisogno dell’altrui sostegno, cosa rara in quegli ultimi anni. Stanco alla fine, dopo varie faccende, si abbandona sul letto come per prendere riposo: alcuni minuti dopo Parini era morto. Così finiva quel grande con quella serenità d’animo, con quella dignità che non lo avevano mai abbandonato anche nei tempi e nelle circostanze più difficili! Le esequie furono umili, perchè tale era l’ultimo suo volere. Chi pensava al modesto poeta in quei giorni che tutti i pensieri erano volti a Bonaparte e si seguivano ansiosamente i passi di quell’uomo fatale attraverso le alpi? Se però la patria dimenticava un tanto suo figlio, non lo dimenticavano gli amici. Sur un colle che si specchia nell’acque del vago Eupili, divenuto sì famoso ne’ suoi versi, sorge un grazioso tempietto coll’effigie del poeta. È questo un tributo che il più caro amico della sua [717] vecchiaja gli tributava nella sua villa presso la terra di Erba, che disse Amalia dal nome della consorte, amicissima anch’essa del Parini. Più tardi anche la patria, come a smentire l’accusa di un altro sdegnoso poeta, risorta appena la repubblica, ordinava che si ponesse l’effigie dell’autor del Giorno sotto i portici di quel ginnasio dove il Parini pel corso di quasi trent’anni educava la nostra gioventù al sentimento del bello ed alle virtù civili. Noi vedemmo, or fanno pochi anni, innalzarsi a questo come padre della gioventù milanese, di fronte a quello del suo grande contemporaneo, il Beccaria, un più splendido monumento. Tristo de-

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stino degli uomini d’ingegno! In vita la povertà, l’invidia e le persecuzioni; le corone e i monumenti dopo morte. Tale fu la vita di Parini, che, accoppiando l’esempio alla dottrina, ne diede in sè stesso il tipo dell’uomo di lettere cittadino. Iniziatore di una nuova era letteraria in Italia, ebbe il vanto rarissimo di creare una scuola, che, continuatasi fino a noi gloriosa, vogliam sperare durerà lunga pezza ancora a dispetto delle aberrazioni di molti che, avidi di facili applausi, al vigore sostituirono lo sforzo, l’abbagliante al vero. Dà al verso Pariniano un’onda più larga, svariane un po’ più le giaciture, spargivi una tinta più cupa, e n’uscirà il verso di Foscolo: dàgli un’aria più semplice, sfrondane un poco gli ornamenti, e avrai in più ristretto campo il verso di Torti. Chi nei versi dell’abate Pozzone, del quale piangiamo l’immatura morte, non sente l’aura del Parini? Anche il nostro Manzoni, giovinetto, pagava il suo tributo all’autor del Giorno, e pariniani sono i suoi bellissimi versi in morte dell’Imbonati. Primo il Parini fra i poeti nostri, come l’unico Dante, immaginò una letteratura civile; e però vuol essere venerato come ristoratore magnanimo delle cose patrie. Lodavalo un dì il Foscolo della novità e bellezza di alcuni suoi versi. «Oh giovinetto, gli disse Parini, prima di lodare l’ingegno del poeta, bada ad imitar sempre l’animo suo in ciò che ti desta virtuosi e liberi sensi, ed a fuggirlo ov’ei ti conduca al vizio. Lo stile di questa mia poesia è frutto dello studio dell’arte mia, ma della sentenza che racchiude devo confessarmi grato all’amore solo con cui ho coltivati gli studii, perchè, amandoli fortemente e drizzando ad essi tutte le potenze dell’animo, ho potuto [718] serbarmi illibato ed indipendente in mezzo ai vizii e alla tirannide de’ mortali».1 Dal che si vede qual severo concetto dell’arte si fosse egli fatto. Scrivendo al conte di Wilzeck, in occasione che si trattava di istituire in Milano una cattedra di eloquenza superiore, ben dava a conoscere come comprendesse quale abbia ad essere il fine di ogni coltura, e massime dell’eloquenza, che, a sua detta, «deve abbracciare la logica, la metafisica, la morale, spaziando eziandio sopra la poesia, sopra le arti, e su quante opere risguardano il gusto e l’immaginazione, senza far divario di età o di nazione, pigliando esempi del bello ovunque li trovi, assecondare dirigendo i genii nascenti, raddrizzar le menti, correggerne l’intemperanza e la vanità.» «Così, sono le sue parole, si spargono in una città la delicatezza, il buon gusto, la coltura, cose tutte, che Vostra S.ª Illustrissima ben sa quanto influiscono ai costumi di un popolo.» Però, secondo il Parini, le lettere hanno ad essere come una scuola di buoni cittadini, hanno a sminuzzare per così dire il pane dell’intelligenza al popolo, rendendogli cari i sagrifizii richiesti dalle pubbliche e private virtù col prestigio del bello. Nessuna cosa odiava egli tanto quanto le scritture di occasione, che allora infestavano l’Italia, ed è bello il vedere come e nelle prose e nei versi mettesse in deriso quei giovani sonettanti, per nozze, per monacazioni, per nascite illustri o non illustri, i quali sapendo scribacchiare quattro miseri versi si credevano qualche cosa.2 Poco stimava la buona dottrina senza le buone azioni, e però diceva:3 «io sono d’opinione che 1 Vedi Ugo Foscolo, Lezioni di Eloquenza. 2 Vedi la lettera sopracitata, edizione del Reina, vol. iv, pag. 168, e il sonetto «Andate alla malora, andate, andate.» e nota quei versi: «Io non vo’ più sentir queste sonate/Che vestigioni che professioni?/Deh! maledette usanze indiavolate,/Possibil che dottor non s’incoroni,/Non si faccia una monaca od un frate/Senza i sonetti, senza le canzoni?» 3 Vedi Pensieri diversi, Parini, edizione del Reina, pag. 244.

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vi sia più bisogno di eseguire che d’insegnare.» Libero pensatore, non inchinò mai o il fasto in trono o la villa potente; sospettava delle virtù degli animi servili; schietto ammiratore dell’ingegno altrui [719] purchè volto al bene, inclinava sopratutto ad ammirarlo in chi fosse sorto di basso stato, e chiamava sè stesso con compiacenza figlio del popolo1 e diceva dal popolo prendersi lena a ritemprare le società svigorite. Amava di caldo e generoso amore la gioventù, sulla quale avea grande autorità, di che si giovava per insegnarle a rispettare la vecchiaja come santa per sè e più ancora pei pensieri solenni che ispira. Avvenne un dì che fieramente si adirasse con un giovane suo discepolo, di cui eragli stata riferita non so qual grave colpa. Ma che? Poco dipoi l’incontra sulla pubblica strada in atto di sostener le parti d’un vecchio capuccino contro alcuni mascalzoni che per insulto gli avevano dato d’urto. A quella vista il Parini getta le braccia al collo del giovane e gli dice: «poc’anzi io ti credeva un tristo, ora ch’io son testimonio della tua pietà pei vecchi, ti ricredo capace di molte virtù.» Quanto sollecito di confortare l’ingegni che ben promettevano di sè alla patria, altrettanto era severo contro gli inetti, avvisando che la mediocrità eccellente nelle fortune è pessima nelle facoltà liberali, ove tutto vuol essere bello ed insigne. Che s’egli era severo cogli altri, eralo ancor più con sè stesso, come ne fanno fede le infinite varianti che accompagnano il suo Giorno e le altre sue poesie. In lui non era quella ricca vena che Orazio vorrebbe pur nei poeti, non quell’impeto di fantasia, pel quale le immagini lampeggiano improvvise nella mente; lento ma profondo ne’ suoi concepimenti, ispiravasi più colla ragione che coi subiti moti del cuore. Vecchio, canuto, maraviglia a tutti fuorchè a sè stesso, avrebbe voluto ricalcare il cammino della vita per far alcuna cosa degna, diceva egli, del nome italiano; e aveva pur fatto tanto per quel nome! Ma la nuova generazione degli uomini del pensiero che a lui successe nel sublime ministerio qual prò ritrasse dall’esempio di quel grande? Essa ha ben voluto con tarda riconoscenza riparare l’ingiusta noncuranza dei padri coll’innalzargli un monumento; [720] ma non seppe tributargli finora quello che fra gli omaggi della gratitudine è il più solenne, seguirne cioè l’impulso generoso. Sviata dall’egoismo, avida di passeggeri applausi, esitante fra le incomprese tradizioni del passato e i bisogni dell’età presente, si dibatte affannosa nella propria impotenza, inconscia di sè medesima, senza lume, senza guida, errando alla ventura, divisa affatto dalle moltitudini che non l’intendono, perchè non seppe per anco discendere fino ad esse. Che facciamo noi fra tanto mutamento di cose, onde diresti che il mondo si rinnovi? Dov’è il poeta dell’età nostra? dov’è l’educatore del popolo? La missione dell’uom di lettere è vasta, è molteplice, è solenne come l’avvenire. Ricordiamoci che Parini è grande appunto perchè a quest’opera di riforma pagò il suo tributo generosamente, perchè il maestro, il filosofo, il poeta furono in lui una cosa sola col cittadino, onde si meritava il titolo di Socrate Lombardo, titolo che ripeteranno i posteri riconoscenti fino a che sarà sacro il nome di benefattore della patria. 1 Vedi frammento di un’ode ad Andrea Appiani: «Te di stirpe gentile,/E me di casa popolar, cred’io,/Dall’Eupili natio,/Come fortuna variò di stile,/Guidaron gli avi nostri/Della città fra i clamorosi chiostri».

V ER SI E P RO SE DI Giuseppe Parini,

Con un discorso DI GI U SEP P E GI U STI IN TO R N O AL L A V I TA E AL L E O PE RE DI LUI.

Felice Le Monnier, Firenze 1846.

A GI OVANN I TO RTI, A TO M MASO GRO SSI E A LUIG I ROS S ARI, MI L ANESI , PER R I CO R D O D’ AMICIZIA, GI U SEP P E GI U ST I.

[ix]

LET TO RE.

Invitato a scrivere del Parini, farò d’essere piano e sugoso quanto me lo concederanno il subietto e l’ingegno. Chi si dà a tesser vite oggigiorno, pare che le tessa col Lunario alla mano, tenendo dietro ai passi che fece, ai peli che ebbe nella barba l’Eroe, quasi che il sodo della faccenda stesse in queste minutaglie, o avesse preso dai passaporti il modo di designare alla posterità gl’illustri viandanti di questa terra. Da un modo di considerare uomini e cose, largo, pieno e parco a un tempo medesimo, siamo cascati ai lavori d’intarsio, alle sminuzzature, a queste grettezze lussureggianti, e la penna or ora diventa un coltello anatomico. S’usa parimente dai facitori di Saggi sopra li scritti del tale o del tal altro, non di trar fuori dagli scritti medesimi quel tanto che v’è, ma di rovesciare se stessi sul povero scrittore, che ne resta soffocato e sepolto. Sebbene io non mi tenga da tanto di sapermi scansare da questi due scogli, farò il possibile di riuscirvi; e vedrò di passar sopra alle minuzie, di dire ciò che importa piuttosto che di dir tutto, di darti il Parini in carne e in ossa, in luogo d’una figura di mia invenzione. Ma ricordati, che per quanto mi possa studiare di spogliarmi de’ miei per entrare nei panni d’un altro, il recitante sarò sempre io a ogni modo. [X] Giuseppe Parini nacque nel 1729 in Bosisio, piccola terra della Brianza, da onesti popolani che lo vollero abate, forse per iscemare una bocca alla pentola di casa, o forse anco per l’ambizione d’avere il prete in famiglia. Dell’infanzia, dell’adolescenza, e dei primi studi di lui, non ti dirò nulla, perchè i miracoli che si cantano dei vagiti e delle prime scappate degli uomini riusciti sommi, per lo più sono miracoli ripescati e rifritti dopo, profezie che si profetizzano a cose fatte. Di questa roba fanno come del cranio: sino a tanto che nessuno parla di te, dalla tua alla testa d’un ciabattino nessuno vede la differenza; ma appena sentono che accozzi il nome col verbo, ecco tutti a squadrarti gli ossi della fronte, dicendo a una voce: Eh con quella struttura di cranio! … Tanto è vero che del senno di poi ne son piene le fosse. Ora, figurati, sarà stato pronto, vivace, loquace, avventato; ora tardo, mogio, silenzioso, timido o che so io; estremi che si riscontrano sempre o quasi sempre in chi è nato a qualcosa, come puoi vedere venendo giù giù da Adamo fino a questo presente giorno. Dimodochè dai profeti che t’ho detto di sopra, oggi gli sarà toccato di matto, domani di stupido; o avranno detto di lui come fu detto di parecchi altri: che aveva il capo alle ragazzate; che non voleva far nulla; che non sarebbe riuscito mai buono a nulla, o al più al più un poeta, che dicono essere la medesima. Ma comunque sia andata la cosa, salto da queste prunaie al tempo che l’uomo si mostra qual è, e i profeti cominciano a gridare: l’avevo detto. Ma prima vo’ provarmi a dirti così alla lesta, a che termini erano in Italia le lettere e le altre faccende [XI] ai tempi nei quali si mostrò il Parini; perchè i grandi sono pochi in ogni secolo, come generazione per generazione i nonagenari, e per valutarli secondo il merito, bisogna aver l’occhio all’età che li produsse, e vedere a che punto era la moltitudine appetto a loro, ed essi appetto alla moltitudine. Finito il secento, finita su in Lombardia la dominazione spagnola che con altri mille guasti ci avea portato anco quelle bombe del fare e del dire, le lettere,

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dopo lunghi errori, s’erano poste a sedere nelle Accademie, e nelle Accademie tronfiavano, belavano e sfilinguellavano. L’Arcadia spadroneggiava. Tra il secento e il settecento, gli Arcadi, per verità, e tra gli Arcadi il Guidi, lo Zappi, il Menzini, il Filicaia, il Forteguerri e altri, avevano fatto argine alla gora che ci venne sopra dal Marini e dall’Achillini, e dato un fermo a quel po’ di buon gusto che ci rimaneva, nel quale avresti potuto notare tuttavia un sentore degli scartocci e delle scorniciature a stucco dorato, che i Bernini e i Borromini della letteratura aveano introdotto nella poesia e nell’eloquenza. Nota di volo che, morto il Redi, le lettere e le scienze avevano dimessa alquanto della schiettezza paesana, e cominciato a sapere di forestiero: ma il vento allora tirava d’oltremonte. Di lì a poco il Gravina educava il Metastasio al Dramma lirico; il Goldoni educava se stesso alla Commedia; il Varano colle sue nobili terzine rammentava che v’era stato un certo Dante Alighieri, e il Bettinelli, gesuita, detto poi il Nestore della letteratura, recava a questo Dante l’ultimo oltraggio nelle Lettere Virgiliane, e quasi invitasse i giovani a chiudere tutti i poeti stati fin lì, proponeva a modello [XII] delle scuole i Versi sciolti di tre eccellenti autori, cioè i versi del Frugoni, quelli dell’Algarotti, e per giunta i suoi, con rara modestia. Al Bettinelli si faceva contro Gaspero Gozzi, primo a rimettere Dante in onore, e a dare esempio d’arguto scrivere nei Sermoni e in un giornale che pubblicava a Venezia. Ma la stella polare alla quale mirava il branco innumerabile Del servo pecorame imitatore, era Innocenzo Frugoni. Con molta vena, con un ingegno facile e pieghevole, ma portato alla vita di poeta da villeggiatura, il Frugoni scrisse, scrisse e riscrisse di tutto ciò che gli capitò sotto, dalla calata d’Annibale, fino a uno speziale che l’assordiva pestando le droghe.1 Il Monti lo chiama Padre incorrotto di corrotti figli.2 Io avrei le mie difficoltà su questo padre incorrotto, e lo chiamerei piuttosto il Lucilio degli Anacreontici e dei facitori di versi sciolti Quum flueret lutulentus erat quod tollere velles.3 Ciò non ostante, il Frugoni rimetteva in fiocchi e in voga il verso sciolto, che dal Caro in poi o era [XIII] stato lasciato là, o non aveva avuto chi lo trattasse a garbo; e insegnava specialmente a romperlo e a variarne le fermate, cosa di molto momento in un metro che ha del monotono. Contro gli scioltai, contro le pastorellerie e contro le inezie suonanti, delle quali non era penuria, si sbizzarriva il Baretti con quell’acume e con quella sua lepidezza rotta, viva e avventata, che ognuno sa;4 e il Cesarotti, uomo di molto e di vario sapere, collo sbrigliare, forse anco un po’ troppo, e la prosa e il verso e il modo di tradurre, e col darci un primo saggio di poesia nordica nella versione dell’Ossian, rompeva le pastoie della pedanteria, e nettava il campo a chi avesse saputo e voluto camminare colle proprie gambe; e l’abate Chiari di contro, quasi a fare più strano il contrasto, l’abate Chiari, uno dei bifolchi più eunuchi e più svenevoli che abbia avuti l’Ar1 Vedi il Sonetto: «Ferocemente la visiera bruna ec.», e lo Scherzo: «Spezialin che sempre pesti,/Notte e dì tu mi molesti». 2 Nei versi alla Malaspina premessi all’edizione dell’Aminta fatta dal Bodoni. 3 Horat., Sat. IV, lib. I. 4 Frusta Letteraria.

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cadia, tirava via a dare la stura a quelle sue Ballerine onorate, a quelle Turche in cimento,1 e a prose e a versi d’ogni conio, allora braccati dalla facile contentatura di chi leggeva per leggere, ora passati in proverbio. Popolo, non v’era; cittadini, di nome; i nobili, nulli, boriosi, molli, fastosi, pieni d’ozio e di vizi; ma dalla sfera stessa dei nobili sorgevano i Verri, il Beccaria, il Filangieri e altri; nomi che saranno sempre in onore fino a tanto che si onoreranno gli studi, gli ordini e gl’incrementi della civiltà. Le Scienze avevano lo Spallanzani, il Mascheroni, l’Oriani e il Lagrangia; la Filosofia, il Genovesi; la Storia, il Giannone e il Muratori; e primo, e più remoto di tutti, il Vico, che [XIV] stava là come un monte solitario e ronchioso, ove non boschetti d’alloro nè giardini di fiori se vuoi, ma qua e là una gran quercia, e nel grembo vene preziose di solido metallo, che aspettavano d’essere saggiate e volte a profitto.2 La folla giaceva, i pochi erano desti; i principi, allora vaghi di novità più dei popoli, agitavano riforme di proprio moto, o spinti dalla necessità delle cose. Insomma tra molto vanume era molta polpa, e si destavano e si svolgevano da ogni lato i germi d’uomini e di tempi migliori. Taluni chiamano il secolo passato secolo delle rovine; io lo chiamerei il secolo dei diboscamenti, e lascerei dire quei tanti che ne sparlano e non s’avveggono di mordere le mammelle alla balia. Diceva Giovan-Batista Niccolini a uno di questi nipotucci superbiosi e sconoscenti: «Voi fate come il pimmeo, che dopo essersi arrampicato sulle spalle al gigante per vedere le cose di più alto, gli percuote la testa gridando: io ci vedo meglio di te. Al quale il gigante potrebbe rispondere: se tu non mi fossi salito addosso, non diresti così.»3 Il cinquecento fu per noi Italiani l’ultimo chiarore d’un lume che sta per ispegnersi; ma quando nel gran Michelangelo si terminò il campo dell’arte, nasceva per legge di Provvidenza quegli che doveva gettare la vera pietra fondamentale dell’edificio dell’intelletto, voglio dire Galileo. Nel settecento si riscosse la vita da tutte le parti, e se i primi moti parvero incomposti, furono come quei venti che rompono le nuvole e preparano il sereno. Prendi [XV] l’Ita|lia dal 500 al 700, e ti dà immagine di persona caduta inferma nella pienezza della gioventù, che dopo un lungo languire cominci a riaversi sul declinare degli anni, quando il polso batte più lento, e all’affetto prevale il senno, ricco di quella dura esperienza che portano il tempo e i mali sofferti. Il Parini, tuttavia fanciullo, fu condotto dal padre a Milano, ove frequentò le scuole dei Barnabiti, e ove poi dimorò sempre a procacciarsi di che vivere meno strettamente.4 Vivente il padre, dicono che facesse il copista di scritture forensi, e un Capitolo indirizzato al canonico Agudio per avere dieci zecchini in prestito, dice in quali strettezze si trovasse anco da uomo fatto: Limosina di messe Dio sa quando Io ne potrò toccare, e non c’è un cane Che mi tolga al mio stato miserando. La mia povera madre non ha pane Se non da me, ed io non ho danaro Da mantenerla almeno per domane. 1 Titoli di romanzi di questo scompisciatore di carta. 2 S’accenna alla Scienza Nuova, opera principale del Vico. 3 L’illustre scrittore avrà detto molto meglio di me, ma la sostanza è questa. 4 Qui e altrove m’approfitto della Vita scritta da Reina e dei lavori di tutti coloro che m’hanno preceduto. Lo dico per debito, e a risparmio di citazioni.

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Milano veduto a quei giorni, era una cosa tra sozza e superba, ed aveva l’aspetto d’un signoraccio che abbia grandi possessi e grandi debiti, e quantità di decorazioni sopra una giubba logora e sversata. Per tutto i danni e le allumacature spagnole; nei costumi, negli ordini, nelle vie, quel certo che di tristo e di trasandato, che vedi nei campi usciti di mano all’affittuario a breve tempo, il quale sapendo di non essere il padrone legittimo, non ha amore ai luoghi, e tira a sfruttare, niente [XVI] curando che il suolo s’insterilisca. Ora v’è sapienza nel mietere, e la pulizia è grande di dentro e di fuori. Il Firmian, governatore per l’Austria, del quale si lodano i Lombardi d’allora, mosso dalla fama del Parini e dalla lettura del Mattino, dicono che lo avesse caro, e che si consigliasse con lui in cose di grave importanza, e segnatamente in ciò che spettava alla riforma degli studi, che allora stava preparando su in Lombardia quel ministro di Maria Teresa. Trovo che il Firmian, per dare al Parini un primo saggio della sua protezione, gli fece stendere la gazzetta di Milano, esercizio non molto accomodato a un ingegno di quella fatta; ma in quel tempo medesimo Gio. Giacomo Rousseau, per campare, copiava la musica. Raccontano che una volta, smarrite le bozze del Numero che doveva uscire il giorno dipoi, e non sapendo come rifarle lì su due piedi, le rifece di testa, inventando le nuove da darsi, e tra le altre, che Roma aveva proibita l’evirazione,1 praticata in quei tempi anco materialmente; di che ne vennero lodi grandissime da tutte le parti, e una lettera di Voltaire a Papa Ganganelli.2 In seguito fece il pedagogo ai giovanetti di casa illustre, via comodissima per chi sa legare l’asino (per dirla come si dice) dove vuole il padrone, ma piena di spine per chi la pensa diversamente. Alla fine gli fu data la Cattedra di Belle Lettere nel Collegio Palatino, di dove poi, soppressi i Gesuiti, passò in quello di Brera. [XVII] Da queste dure necessità pensano taluni che possa essergliene venuto impedimento all’ingegno. Io penso il contrario; e dico che il Parini fu poeta grande perchè appunto si trovò a repentaglio con ostacoli di questa sorta: i deboli ci si fiaccano, i forti se ne fanno scalino. E di fatto, quell’ira generosa, quella nobile severità, quell’ironia delicata e profonda che spirano le Odi e la Satira, furono effetti di cose vedute, e dispregiate nell’alta e nella bassa gentaglia colla quale si trovò accozzato, e che nella quiete e nell’agiatezza domestica, o non avrebbe inciampate o non avrebbe curate. Compiangerò chi lo lasciò alla carretta, non lui, che anco in quell’aspro tirocinio non ismentì la sua nobile natura. Sulle prime, o per compiacere alla brigata o per aver trovato che il linguaggio nativo era servitore più pronto e più prossimo al pensiero, trattò anco il vernacolo milanese, nel quale in seguito riuscirono a tanta perfezione Carlo Porta e Tommaso Grossi.3 Tentò a riprese il Capitolo Bernesco, la Satira Oraziana, il Sermone, il Dramma, le Versioni dall’antico, e molti altri generi di poesia, tanto serii che da burla, come Idilli, Canzonette, Madrigali e Sonetti di molte maniere. Dico tentò, perchè credo che egli stesso sentisse di non potere mai aver fama 1 Contro questa nefandità che durava tuttavia, inveisce nell’Ode intitolata La Musica. 2 Vedi in questo fatto l’uomo il quale anco nello scherzo mira sempre a un nobile scopo. 3 Vedi l’edizione di Reina. Il Parini passa su in Lombardia anco per uno dei più valenti scrittori di dialetto, e ne fa testimonianza il Porta, giudice competentissimo: «Varron, Magg, Balestree, Tanz e Parin,/Cinq omenoni proppi de spallera,/Gloria del lenguagg noster meneghin etc.» (Porta, Poesie milanesi).

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da queste prove, per quanto nei primi tempi ne pubblicasse un libercolo per esperimento; e penso [XVIII] piuttosto che si lasciasse andare colla penna per quella bramosia di fare che possiede l’animo di chi si sente e non s’è ancora trovato. Nella vita del poeta v’è un tempo nel quale e’ s’accorge d’aver dentro un non so che d’occulto, d’indeterminato, d’impaziente, che da un lato ti spingerebbe ad abbracciare l’universo, dall’altro ti tiene impedito e quasi avviluppato in te stesso. Allora l’ingegno svolazza qua e là, e si sofferma su tutto e non trova posa mai su nulla, un po’, lieto di correre, un po’, mortificato del non sapere ove corra. È il tempo delle letture affollate, delle fatiche improbe e disordinate, rotte da ozi tormentosi e invincibili; delle presunzioni smodate e dei fieri sgomenti, nel quale l’animo, l’ingegno e l’essere intero traboccano da tutte le parti; orgasmo fecondo di più ferma vigoria, e simile a quelle febbri che vedi nei fanciulli, chiamate febbri di crescenza, le quali nascono di troppa salute, e migliorano la complessione quasi martellando la fibra. Come uno che si trova a un tratto possessore d’un tesoro del quale non conosce nè il valore nè l’uso, che lo disperde qua e là in ispese vane e inutili, le quali poi, s’egli ha testa, coll’avvertirlo dello scialacquo, gli insegnano impiego migliore; così fa il poeta, sprecando dapprima ingegno, tempo e inchiostro: ma da quello spreco medesimo finisce coll’avere la misura giusta delle sue forze; e quando meno se lo pensa, una disgrazia, uno di quegli errori che ammaestrano, uno scritto riuscito male o malamente censurato, un mutar di paese, un amore, un libro trovato, te lo mette sur una via nuova, sulla via che era nato a percorrere. A pochissimi vien fatto di pigliarla subito di primo slancio; i più [XIX] la rasentano lungamente avanti d’imbroccarla. Dante fu fatto poeta grande dalla natura, grandissimo dall’esilio; Alfieri, da un amore vergognoso, come ha scritto egli stesso; un amico mio si rifece d’animo e di studi nel libro di Giob; Parini stesso, come ho accennato di sopra, diventò eccellente per aver vissuto in Milano e veduti da vicino i costumi che mise in derisione. Gli scolari del Parini che ne pubblicarono gli Scritti dopo morte, non solamente non ebbero la pia reverenza di Sem e d’Jafet, ma più arditi o più sconsiderati di Cam, si compiacquero nella nudità paterna, e la esposero intera agli occhi della posterità. Raccolsero con iscrupolo superstizioso tutte le bagattelle che gli erano cadute dalla penna, fino a darci una filza di madrigalucci trovati sui Ventagli, sulle Ventole e sui Parafuochi (Albums di quel tempo), e scritti dal Parini per levarsi dai piedi gl’illustrissimi e ignorantissimi importuni, che gli facevano pagare a furia di versi abborracciati l’alta degnazione di riceverlo in casa. Io, a costo di cadere nel peccato contrario (peccato meno dannoso), scarterò questa e altra roba parecchia, contento di darti un buon volumetto piuttostochè un grosso volume infarcito d’ogni pietanza, e mi limiterò a pochi Sonetti, a tre Canzonette, ad altrettanti frammenti, diciannove Odi, il Poema, la Canzone al Barbiere, il Corso di Letteratura, e un’altra prosa per saggio.1 Troverai nei Sonetti buona, dal più al meno, la [XX] sostanza e la forma; nelle Canzonette, grazia senza novità; nei Frammenti, belle mosse di Componimenti che si vorrebbero vedere condotti a fine. Della Canzone al Barbiere e del Dialogo 1 Questa era la volontà dell’Autore del Discorso; ma è sembrato all’Editore che allargando un poco più il campo della scelta, la sua edizione incontrerebbe il gradimento di un maggior numero di lettori. – I componimenti aggiunti sono nell’indice del volume contrassegnati coll’asterisco. Nota dell’Editore.

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Della Nobiltà, parlerò per incidenza quando toccherò delle doti che si richieggono allo scherzo e allo stile familiare; delle altre prose dirò fino d’ora, e per non tornarci su, che sono buone per quello che dava il tempo, ma non valgono i versi.1 Importa principalmente parlare delle Odi e della Satira, che sono i lavori che hanno dato fama al Parini, e pei quali terrà sempre uno de’ primi gradi nella scala dei poeti morali e civili che onorano il nostro paese. Come nell’ordine dell’universo tante e tante forze disparate tendono alla conservazione della legge stessa che le governa, così le facoltà diverse degli uomini, nati a convivere in istato sociale, debbono cospirare al fine della civiltà, fondamento di quello stato. Questa è la pietra del paragone alla quale dobbiamo sperimentare e filosofi e poeti e artefici e tutti, ritenendo per buone e per vere le opere dell’ingegno umano che intesero a quell’ufficio, e per dannose, o almeno per inutili, quelle che a quel fine non s’avviarono. E a questo fine si può giungere, e si giunge, per la via dell’utile, per quella del diletto, e per qualunque altra via li piaccia di prendere, dai racconti della nonna fino a una stesura di leggi, pure d’avere a guida il vero e l’onesto, senza [XXI] di che non vi può essere nulla di buono nè di durevole. Le lettere furono chiamate umane non perchè l’uomo le professa, ma perchè sono fatte al bene dell’umanità: vediamo se così le intese il Parini. È stato scritto che la lirica canta quasi ex officio i Numi e gli Eroi, e che nei tempi scaduti, d’incredulità e d’annullamento civile, la lirica tace. Io direi che la lirica canta tutto ciò che scuote fortemente e subitaneamente l’animo del poeta, e che non la lirica sola, ma e la poesia tutta quanta, e l’eloquenza, e le altre arti dell’immaginazione, si corrompono col corrompersi dei tempi. Ma anco in tempi corrotti, vi sono tali che si serbano netti e interi, e che del solo desiderio di tempi migliori sanno farsi ala per gareggiare nel volo poetico con quei pochi eletti, che dai fatti presenti ebbero cagione d’altissimo canto; e il Parini è di questo numero. Tra l’Ode Pindarica e l’Ode d’Anacreonte vi sono infinite gradazioni, alle quali sarebbe opera perduta l’assegnare un nome; e chi l’ha tentato, l’ha tentato con poco frutto; anzi, per dirla come la penso, non ha fatto altro che avviluppare le leggi dell’arte in una rete di sottigliezze: i pusillanimi vi s’incalappiano, i liberi ingegni sorridono di quei lacci e se ne strigano calpestandoli. Per questa ragione non qualificherò con un nome generico le Odi del Parini, ma dirò che i suoi tempi volgevano tristi per le credenze religiose, e non solo v’era penuria, ma assoluta mancanza d’Eroi; pure intendevasi ai miglioramenti civili, e il Poeta temperava a questo le corde.

[XXII]

Va per negletta via Ognor l’util cercando La calda fantasia, Che sol felice è quando L’utile unir può al vanto Di lusinghevol canto.2

1 Sebbene il Parini non sia prosatore grande, sentiva però molto addentro anco nella prosa, come dimostra la difesa del Segneri contro il Padre Bandiera che aveva presunto di correggerlo, e la stima che faceva del Machiavello. Di questo soleva dire ai suoi scolari: costui v’insegnerà a pensare, a parlare, e a scrivere liberamente. 2 La Salubrità dell’aria.

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E cantò la Vaccinazione, la Salubrità dell’aria, l’Educazione, la Decenza del vestire, e altro di pari importanza. Se questo fosse uno scritto da pubblicarsi staccato dal libro come un articolo di Giornale, io mi darei a passare in rassegna ode per ode, strofa per istrofa, e anco verso per verso; ma siccome il testo è qui a pochi passi, ti rimanderò al testo, e mi contenterò d’accennarti per lievi tocchi i pregi e i difetti delle Odi, e altrettanto farò in seguito rispetto a quella nuova foggia di Satira precettiva. È pregio dell’Ode, e in generale del componimento Pariniano, un certo piglio alto, schietto, austero, maschio anco nella dolcezza, che ti scuote e t’esalta. Vi senti lo studio profondo dei sommi esemplari non iscompagnato mai da quello dell’uomo e del tempo; e se a volte l’armonia di quei versi pare un eco di suoni antichi e conosciuti, il pensiero è nuovo, o a cose nuove felicemente rivolto. Chi cercasse foglio per foglio, troverebbe qua e là alcuni tratti, alcune intonazioni derivanti dai Latini e dai Greci, ma non un solo componimento, non un’intera tessitura di strofa o presa di pianta o lucidata da loro, e molto meno la frondosità, le ampolle, il vuoto e il disutile che infettavano i rimatori di quel tempo, i quali, pochi eccettuati, erano una ciurma di copisti, o sciatti o freddi o ridicoli. Vedi, oltre le Odi accennate di sopra, il Pericolo, il Messaggio, la Caduta, [XXIII] la Recita dei versi, la Musa, tutte splendide di varia bellezza; gravi di senno e di dignità; ricche di sentenze. d’immagini, d’affetto, e di tutti gl’impeti e di tutte le nobili aspirazioni d’un animo caldo del vero e del bello poetico. Nè poteva essere diversamente d’un uomo che volgendosi alla Musa diceva: «Te, o Musa, non ama quegli che per sete di guadagno calpesta i santi affetti di famiglia; nè chi roso dall’ambizione di salire in alto, mena inquieto i giorni e le notti; nè il giovane che simile a bestia s’ingolfa nei diletti del senso; nè la donna procace che osa farsi una pompa del vitupero che la circonda. Sai tu, vergine Dea, chi la parola Modulata da te gusta od imita, Onde ingenuo piacer sgorga e consola L’umana vita? Quegli al quale fu dato dal Cielo placido senso, affetti miti, costumi semplici; che pago di sè e di ciò che possiede, non presume più oltre; che ritraendosi spesso dall’ozio faticoso dei grandi e dai rumori della città, va a godersi l’acre puro e la cara libertà della campagna; e là, in mezzo a pochi amici scelti e dabbene, siede a mensa parca e delicata a un tempo, e deride lieto il vano fasto e la splendida turba. Favoreggia i buoni, cerca il vero, ama il bello innocente, e sano il cuore e l’intelletto, passa tranquilla la vita.»1 Il verso non cammina sempre spedito; la strofa non ha sempre un’onda piena, larga, facile; la trasposizione che egli usò molto con bello ardimento, a volte [XXIV] non solo è arrischiata, ma anco scontorta; per esempio: Queste che il fero Allobrogo Note piene d’affanni Incise col terribile Odiator de’ tiranni Pugnale ec.2 1 Ode Alla Musa.

2 Ode Il Dono.

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E l’altro: E spesso a breve oblio La da lui declinante in novo impero Il Britanno severo America lasciò ec.1 V’è qua e là qualcosa di scabro, qualcosa che sa di ripiego piuttosto che d’artifizio, e l’artifizio medesimo si mostra talora un po’ troppo. M’è parso di vedere che il Parini sia più vibrato, più castigato, più potente nelle Odi di metro serrato, che in quelle di metro più largo. L’ode al Bicetti, quella al Durini, quella per Vicenza, e quella per Laurea di Donna, perdono in gara di bellezza colla Caduta, col Messaggio, colla Salubrità dell’aria e colle altre citate. Gl’ingegni forti sono audacissimi nell’infrangere i ceppi imposti dagli altri, e durissimi poi seco stessi a imporsene de’ nuovi e terribili, quasi stessero in sospetto di traboccare.2 Spesse volte ciò che ai mediocri è pericolo, per essi è un punto d’appoggio, vaghi di scherzare sui precipizi cercati, come fanciulli destri e leggeri, o come audaci giocolatori di corda. Oltre a questo, la difficoltà del metro obbliga il pensiero a raccogliersi in se stesso, come [XXV] persona che voglia passare per un’apertura difficile, mentre tagliando là nell’ampiezza del panno, ti vien fatto di sguazzare colle forbici. Dico di chi ha lombi: gli slombati hanno il De Colonia che sta aperto per loro. È bello e onorevole al Parini il vedere come dalla prima Ode Perchè turbarmi l’anima, scritta nel 1758, alle due ultime Perchè al bel petto e all’omero; ………………………………… Te il mercadante, che con ciglio asciutto scritte nel 1795, il Poeta vada sempre di bene in meglio e quanto alla sostanza e quanto alla forma. Del come si conducesse alla perfezione alla quale si condusse, non terrò proposito, perchè questa tacita operazione della mente che provandosi e riprovandosi acquista al suo fine, è uno dei tanti segreti che è meglio lasciare nell’ombra che tentare di mettere in luce. Ognuno sa sè, dice un dettato; ognuno ha mezzi tutti suoi, tutti voluti dal suo modo d’essere, e dei quali il più delle volte non saprebbe render pieno conto neppure a se medesimo. E vi sono dei Retori che presumono di metterti la penna in mano senza avere mai scritto nulla di buono, e vi sono Poeti e Oratori che avendo fatto bene, hanno poi detto malissimo come si fa a fare. L’arte, chi più la sente, meno ne può parlare, perchè ha troppe cose che gli s’affollano, e perchè Chi può dir com’egli arde è in picciol fuoco.3 [XXVI] Piuttostochè tenere a sindacato il pensiero quando si svolge tuttavia nei laberinti della testa, è più sicuro valutare gl’ingegni a lavoro fatto. Io non dirò che 1 Ode In morte del Sacchini. 2 Vedi Dante, Alfieri e altri di questa fatta. 3 Petrarca, Rime.

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l’arte in noi sia del tutto istintiva, come quella che disegna il nido agli uccelli; ma nell’atto del lavoro, quando l’uomo trasfonde sè nell’opera sua, v’ha un che di recondito, un che di misterioso, che sarebbe vano il tentar di ridire. L’artista stesso, in quel punto solenne, non sa bene se dà o riceve; se assume un peso o si sgrava; se ciò che fa è divinazione o immagine di cose vedute; compreso, agitato, sopraffatto, spronato da dieci operazioni della mente distinte e conflate insieme a un tempo, che vanno come in figura di cono a metter capo in un prodotto comune. Ma queste riescono parole sibilline a chi non è dell’arte, e parole vaghe e manchevoli a chi sente l’arte in se e se nell’arte, che non è un gioco di parole come parrebbe a prima vista. L’arte, l’amore, e tutte le alte e tremende passioni che traggono a se l’uomo tutto quanto, non hanno parola intera quaggiù. Sono forti problemi che egli tenta e ritenta con magnanima pertinacia, argomento della sua nobile natura, e che non risolverà mai pienamente, se prima non è risoluto quello della vita, più forte e più solenne di tutti: ma è tempo di passare al Poema. Volendo rifarsi daccapo a dire come la Satira è cosa tutta nostra;1 come nacque e da chi fu coltivata, prima tra i Latini e in seguito tra noi; questa parte del lavoro soverchierebbe il lavoro medesimo, e diventerebbe un [XXVII] membro sproporzionato al suo corpo. Riserbandomi a scriverne distesamente quando me ne sarà data occasione, accennerò di volo che tra un vespaio di scrittori satirici si distinguono, primo l’Ariosto, poi, a molti gradi di distanza, il Menzini e Salvator Rosa. L’Ariosto è quel che è, nè per parole che ci adoperassi arriverei a dire la decima parte dei pregi che lo fanno singolare dagli altri scrittori anco in questo genere di componimento. Il garbo della lingua, i sali comici, il lasciarsi andare facile, sicuro, elegante, sono mirabilissimi in lui; svelto a cangiar tono nelle Satire come nel Poema; prestigiatore anco in queste più maraviglioso di quelli dei quali ci descrive i portenti nel suo lavoro maestro. Il Menzini è acerbo, stizzoso, violento, ma di rado ha grazia, di radissimo quella lepida urbanità che è l’ultima perfezione della Satira. La lingua è buona, il verso ben coniato, la rima bizzarra e spontanea, ma lo stile ha un che di plebeo, e in generale la satira del Menzini dà in bassezze e in isconcezze d’ogni maniera; è piuttosto cucita che tessuta, e soprattutto manchevole dal lato drammatico. Quelle di Salvatore sorridono d’una certa scioltezza gaia e ciarliera; vi senti il brio pronto e loquace del Napoletano; il fare dell’uomo avvezzo in palco a spassare la brigata: ma io lo scorgo povero in mezzo a quel lusso erudito; declamatore, pieno di lungaggini; si lascia e si ripiglia per tornare a lasciarsi e ripigliarsi cento volte; vanga e rivanga uno stesso pensiero e te lo rivolta da tutti i lati, come se faccettasse un brillante;2 si sente insomma che lo scrivere non era l’arte [XXVIII] sua naturale, ma un di più del suo ingegno. V’è poi l’Alamanni, il Nelli, il Soldani, l’Adimari e altri venti, tutta gente che bisogna leggere perchè così vogliono i letterati, e poi pentirsi più o meno d’averli letti, come accade di parecchi testi di lingua. Ma lo scrittore di Satire come lo scrittore di Commedie, per quanti modelli buoni o cattivi possa aver trovati nelle scuole e negli scaffali, se intende davvero il suo fine (detto oggi missione) sarà sempre figliuolo de’ suoi tempi, non solo quanto alle cose prese di mira, come anco per lo stile e per la lingua. La Satira universale, di tutti i luoghi e di tutti i secoli, è un sogno rettorico come fu un sogno chimico la pietra filo1 Pare che Lucilio fosse il primo a scrivere la satira volante, e che i Greci non abbiano avuto questo genere di poesia. Satira tota nostra est, dice Quintiliano. 2 Vedi per la più corta il principio della prima Satira, La Musica.

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sofale; e vorrei sapere a quale esemplare s’appoggino i maestri che durano a predicarcela, visto che Orazio, Giovenale, Persio, e tutti i Satirici di questo mondo, sono abbarbicati ai loro tempi come l’edera al muro, nè potrebbero esserne divelti senza lasciarvi gran parte delle radici, e rimanerne tutti rotti e sfrondati. La Satira deve esser fatta non alla misura dell’uomo, ma a quella del vizio, a seconda via via delle forme che assume di tempo in tempo; ed è perciò che paragonerei un libro di Satire a una bottega di vestiti bell’e fatti: il sarto non ha tagliate quelle giubbe al dosso di questo o di quello, ma le ha tagliate a seconda dell’uso che corre, lasciando poi che la gente scelga a sua posta, e dica se vuole: questa va bene a me. La Satira ha una breve gioventù, perchè il tempo ogni anno le rintuzza la punta;1 ma può avere lunga vita, e quando ha cessato d’essere uno specchio delle cose che sono, rimanere a documento di quelle [XXIX] che furono, e in certo modo supplire alla storia. Se nasce di puntigli e di risentimenti privati, è libello che lo più nasce morto; se muove dal desiderio del bene, e dallo sdegno di non poterlo appagare, è una nobilissima manifestazione dell’animo, e la direi sorella minore della Lirica. Questa applaude alla virtù, quella svitupera il suo contrario; ambedue partono dalla stessa sorgente, e per via diversa s’avviano a uno scopo medesimo. Di qui deriva, che non è raro vedere riuniti in uno i pregi di lirico e di satirico: testimoni, tra gli altri, Orazio e il Parini. Ma Orazio, maestro grande dell’arte, non fu egualmente di rettitudine; e tolte poche Odi pensate quand’era Romano, tutto il resto palesa un’indole che si volta di mano in mano al vento che tira, e mi sa di roba cortigianesca, scritta con licenza de’ superiori e dei sotto-superiori. Certo non s’astenne Orazio dal porsi Fra lo stuol de’ clienti, Abbracciando le porte Degl’imi che comandano ai potenti,2 e di penetrare in grazia loro nell’aula dei grandi, divertendo di facezie la loro tetraggine.3 Anzi quelle liriche per lo più senza calore, e quel riso senza sdegno, e quell’andare a punzecchiar tutti i viziarelli e mai ferire i vizi organici del suo tempo che piegava alla servitù; e soprattutto le irrisioni amare, crudeli e svergognate contro la setta stoica,4 ricovero solenne ai resti [XXX] magna|nimi della virtù romana, e che allora e poi diè uomini e vittime illustri, e tra queste Elvidio Prisco e Trasea Peto; se non fosse la magia dello stile, me lo avrebbero fatto gettare mille volle nel letamaio. Nè per me lo assolvono quelle sue tirate magnifiche sulla virtù, sulla sapienza e che so io, che nelle Odi, nei Sermoni e nell’Epistole gli hanno dettati qua e là versi passati in sentenza. Per aver la misura della sua buona fede quando scriveva delle virtù che onorano l’umana natura, basti la fine dell’Epistola prima indirizzata a Mecenate, nella quale, dopo aver detto mirabilia della sapienza, conclude: insomma il sapiente è minore a Giove solo; ricco, onorato, bello, re dei re finalmente; soprattutto poi sano, se non quando lo molesta il catarro.5 Questa conclusione è una mera furfanteria; e mi fa sospetto tutto il rimanente. E quando trovai scritto che la fama di lui non fu nè schietta nè grande mentre vi1 Per esempio, le allusioni ai fatti e agli usi del tempo, e anco certi vocaboli e certi modi, sbiadiscono coll’andar degli anni. 2 Ode La Caduta. 3 Ibid. 4 Vedi le Satire. 5 «Ad summam, sapiens uno minor est Jove; dives,/Liber, honoratus, pulcher, rex denique regum:/Precipue sanus, nisi quum pituita molesta est.» (Horat., Epist. I, lib. I).

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veva, non lo detti all’invidia, come hanno fatto certuni, ma ne conclusi che gli onesti erano tuttavia molti a quei tempi, e che i mille pregi dell’arte non valsero a salvare dal debito dispregio questo lusingatore arguto e leggiadro d’Augusto e di Mecenate. E fecero bene coloro che scrivendo d’Orazio divisero l’uomo dallo scrittore; questo notabilissimo, quello riprovevole: e tra gli altri m’è caro distinguere Atto Vannucci,1 giovine egregio, al quale andremo sempre più debitori di scritti utilissimi, se non gli [XXXI] manche|ranno la salute e la fortuna; e quand’anco gli manchino, egli non mancherà mai a se stesso. Nei tempi stagnanti di servitù sonnacchiosa, la moltitudine è nulla, i pochi, o ricchi o potenti o astuti, sono tutto: e siccome dai pochi prendono norma i più, a questi pochi debbono aver l’occhio gli scrittori che intendono a migliorare i loro simili. Il Parini divenuto maestro di giovinetti di casa illustre, poi cercato ai pranzi e alle conversazioni (perchè uno che abbia cuoco e casa spalancata a tutti, oltre all’elegante, al maldicente e al ghiotto, vuole anco il letterato e lo scienziato per adobbarsene le stanze), e avvolto per conseguenza nel turbine delle sciempiaggini patrizie, ebbe luogo di vedere da vicino tutte le ridicolezze di quel modo di vivere, e di ruminarne a lungo lo sdegno e il dispregio. Lo sdegno, che sulle prime scoppia in fiere invettive, quanto più abbonda negli animi alteri, tanto più si fa pieno, profondo, severo, e direi quasi tranquillo. Come l’uomo forte, straziato da acuti dolori, che dopo i duri lamenti e le grida disperate, per la soverchianza dello spasimo, s’atteggia all’impassibilità e spesso finisce col sorridere e col crollare la testa amaramente, così l’animo del poeta, dalle fiere tempeste che lo sconvolgono tutto all’aspetto delle turpitudini, passa velocemente dallo sdegno allo sconforto, e dallo sconforto risorge mesto e pacato a meditare il doloroso spettacolo delle umane vergogne. In questo stato dell’animo, tra mite e addolcito, nasce spesso il sorriso che nasconde una lacrima, e quella ironia senza malignità che è la spada più acuta e più rovente che possa opporre la ragione e la dignità offesa. Ma guai se questa spada non è retta [XXXII] dal|l’amore! Ella deve essere come dicevano che fosse l’asta favolosa di Peleo, che feriva e sanava; deve percuotere ogni male senza mai offendere il bene, senza insanguinarsi mai in nulla di ciò che possa giovare o consolare la nostra natura. Così facendo, quand’anco ti siano ritorti contro taluni degli strali avventati, non ti negheranno il desiderio della virtù per ciò solo che l’avrai rispettata. Il Poema del Parini, oltre all’essere nettissimo da queste macchie, ridonda di tante e tante bellezze, che io mi trovo sopraffatto dall’abbondanza, e non mi risolvo bene a dirti: leggi questo o quell’altro pezzo. Leggilo da cima a fondo, e oltre al trovarvi passo passo maraviglie d’invenzione e di stile, ti parrà di percorrere una galleria di quadri d’ogni maniera, e tutti capilavori. Quella fina e tremenda ironia che vi passeggia da un capo all’altro; quella copia d’immagini e di paragoni pei quali sa ottenere la difficile armonia dei contrapposti; e quel piglio dommatico, quella prosopopea di verso adoperata a particolareggiare le infinite nullaggini e le vane pomposità del vivere signoresco, ti destano nell’animo un sorriso pieno di sdegno e di pensiero; è una lettura dalla quale, se hai fibre nel cuore, non puoi a meno d’uscire maravigliato e corretto.2 E per verità, 1 Vedi la Vita d’Orazio premessa dal Vannucci all’edizione fatta per uso delle scuole. 2 Un uomo molto considerevole per cuore, per impegno e per nascita, m’ha detto mille volte che la lettura del Parini fatta da giovanetto, nei primi anni di questo secolo, era stata per lui una rivelazione, e l’aveva fatto accorto di molte storture.

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le acutezze dell’epigramma non toccano mai tanto sul vivo come se le dici con certa serietà; nè Arlecchino è mai tanto ridicolo come quando te lo piantano [XXXIII] in iscena coi fronzoli di senatore o di re. Se poi tu volessi poesia alta e non più udita, hai qua e là di che appagarti, e tra i mille squarci che potrei riportare, ne scelgo uno per saggio e per tutta lode, nel quale il tramonto è descritto, non co’ soliti cavalli che si tuffano in mare, ma a seconda del sistema Galileiano, a correzione di coloro che dicono, il vero delle cose prestarsi alla poesia molto meno che il favoloso. E anco questa è una novità felicemente tentata, e tale da tenerne conto al Poeta come d’un passo fatto fare alla poesia, o almeno d’un pregiudizio tolto via dalle scuole. Ma degli augelli e delle fere il giorno E de’ pesci squammosi e delle piante E dell’umana plebe al suo fin corre. Già sotto al guardo della immensa luce Sfugge l’un mondo: e a berne i vivi raggi Cuba s’affretta e il Messico e l’altrice Di molte perle California estrema: E da’ maggiori colli e dall’eccelse Ròcche il sol manda gli ultimi saluti All’Italia fuggente, e par che brami Rivederti, o signor, prima che l’Alpe O l’Appennino o il mar curvo ti celi Agli occhi suoi.1 Qui non è un cocchio luminoso che precipita in giù e si nasconde; è un mondo intero che si rivolge, e v’è [XXXIV] moltiplicazione di moto e di vita, e per conseguenza di poesia. Ma, a senso mio, una delle cose che dimostra come in questa Satira il Parini si sia posto al di sopra de’ suoi tempi, oltre allo scherno fiero e acerbo contro il costume d’allora, e l’aver messo in chiaro i perditempi, le falsità e le turpitudini del celibato e del mestiere di servir donne, è il farsi contro e coll’esempio e col precetto alla lue che cominciava a venirci addosso di fuori, e che infettava di già gli usi, la lingua, le lettere e la filosofia. Ora non sarebbe nulla, ma allora fu molto dire a Voltaire, tuttora vivente e tenuto dagli uni in conto di Santo Padre, dagli altri per un Anticristo: O della Francia Proteo multiforme, Voltaire, troppo biasmato, e troppo a torto Lodato ancor, che sai con nuovi modi Imbandir ne’ tuoi scritti eterno cibo Ai semplici palati, e se’ maestro Di coloro che mostran di sapere;2 ed era molto, in quella voga di cose francesi, chiamare Ninon de Lenclos 1 Vedi il Vespro, v. 1-13. – Mi ricordo d’avere udito, anni sono, uno dei miei maestri gridare contro questi versi, quasi contro una specie d’eresia poetica, e deriderne il Parini come d’un fiasco fatto. Tutte le altre osservazioni in contrario che mi farò a ribattere, le ho più udite che lette, perchè sebbene anco la stampa sia audacissima, il chiacchierare ha e avrà sempre le ali più pronte e più facili. 2 Il Mattino, v. 598-603.

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novella Aspasia, Taide novella ai facili sapienti Della gallica Atene;1 e in tanta rilassatezza di costumi, rimproverare a La Fontaine d’aver macchiati i suoi versi d’oscenità;2 e dire [XXXV] arditamente che la folla dei filosofastri d’allora credeva e miscredeva a comodo, come apparisce da questo passo che riporto per intero, e che ti parrà notabilissimo, se riterrai che allora, per gli uomini che niente niente si distinguevano dalla folla, il credere solamente in Dio era tenuto per bacchettoneria. Qui (cioè a tavola) ti segnalerai coi novi sofi, Schernendo il fren che i creduli maggiori Atto solo stimar l’impeto folle A vincer de’ mortali, a stringer forte Nodo fra questi, e a sollevar lor speme Con penne oltre natura alto volanti. Chi por freno oserà d’almo signore Alla mente od al cor? Paventi il vulgo (Rammentati che qui v’è ironia, e che questo volgo non è il volgo vero, ma quello che i patrizii di quel conio debbono chiamare volgo, cioè la parte sana.) Paventi il vulgo Oltre natura; il debole prudente Rispetti il vulgo; e quei, cui dona il vulgo Titol di saggio, mediti romito Il ver celato, e alfin cada adorando La sacra nebbia che lo avvolge intorno. Ma il mio signor, com’aquila sublime, Dietro ai sofi novelli il volo spieghi. Perchè più generoso il volo sia, Voli senz’ale ancor, nè degni ’l tergo Affaticar con penne. Dardo scagliato contro coloro che, senza ingegno e senza studi, spensieratamente sfilosofeggiano. Ma eccoci alla punta più amara che rivela l’alto animo del Poeta, e il [XXXVI] mal vezzo degl’illustri dottorelli d’allora (razza non estinta), che volevano licenza, non uguaglianza. Ma guardati, o signor, guardati, oh Dio! Dal tossico mortal che fuori esala Dai volumi famosi, e occulto poi Sa, per le luci penetrato all’alma, Gir serpendo nei cori, e con fallace Lusinghevole stil corromper tenta Il generoso delle stirpi orgoglio Che ti scevra dal vulgo. Udrai da quelli, 1 Ibid., v. 611-613.

2 Ibid., v. 615-618.

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le biografie Che ciascun de’ mortali all’altro è pari; Che caro alla Natura e caro al Cielo È non meno di te colui che regge I tuoi destrieri e quei ch’ara i tuoi campi; E che la tua pietade e il tuo rispetto Dovrien fino a costor scender vilmente. Folli sogni d’infermo! Intatti lascia Così strani consigli, e sol ne apprendi Quel che la dolce voluttà rinfranca, Quel che scioglie i desiri e quel che nutre La libertà magnanima. Tu questo Reca solo alla mensa, e sol da questo Cerca plauso ed onor.

E qui paragonandolo alle api che traggono il meglio dei fiori e dell’erbe aromatiche, ferisce di rimbalzo quella testa vana, impregnata di boria e di presunzione, che dei libri ritiene il male che gli giova, e scarta il bene che non gli va a sangue. Riporto il paragone, che per dolcezza e snellezza di verso rivaleggia con quello d’Omero e di Virgilio.

[XXXVII]

Così dell’api L’industrioso popolo, ronzando, Gira di fiore in fior, di prato in prato; E i dissimili sughi raccogliendo, Tesoreggia nell’arnie: un giorno poi Ne van colme le patere dorate Sopra l’ara de’ Numi, e d’ogn’intorno Ribocca la fragrante alma dolcezza.1

Il Parini, vissuto nel più forte della mischia tra una generazione che s’ostinava a giacere, e una che voleva rialzarsi a ogni patto, non consentì agli errori e molto meno agli eccessi nè dell’una nè dell’altra, ma delle cose antiche ritenne il buono senza servitù, delle nuove, la libertà non la licenza. E così gli nacque tra mano la più morale e la più alta Satira che abbiano le lettere italiane, nella quale, sotto colore di pungere quella genìa di signorotti, si pungono e si mettono in aperto le storture, le inezie e le falsità di tutto il secolo decimottavo. Si potrebbe anco dire che un povero prete, nato in contado di famiglia popolana, trapiantato a Milano a sudarsi un pane, che osa senza bassezza segnare d’uno sfregio eterno la gente del sangue purissimo, celeste; e che invece d’averne persecuzioni, ne ottiene lode e favore, dà indizio che il sentimento dell’uguaglianza non solo era nato tra noi, ma aveva poste radici ferme e profonde. Dell’accusa data al Parini d’avere scritto il Poema ad personam,2 non credo doverlo difendere, perchè queste accuse sono miserie solite di cervellini stroppiati nel cranio, che misurano tutte le teste al giro del proprio cappello, e che incarogniti nel puntiglio, nel ripicco, e nel pettegolume letterato e domestico, non 1 Il Mezzogiorno, v. 964-1020. 2 Nominano un tale di Milano, famoso elegante di quei giorni, e dicono che per vendetta facesse malamente aggredire il Poeta.

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credono che [XXXVIII] possa essere al mondo uomo che quando piglia la penna in mano, si scordi le punture, i fastidi, le invidiole e le persecuzioncelle che una mano di poveri cuori e di povere teste possano avergli recate. Già il poeta vero sa che prendendo di mira il tale o il tal altro piuttosto che una data forma di vizio in generale, verrebbe a ristringere il cerchio dell’arte, e farebbe danno e ingiuria a se stesso; e poi lo spendere quattro righe sole per vendicarsi di cosarelle quali sono novantanove per cento quelle che riguardano il nostro misero noi, non mi pare che metta il conto. Se non che io penso che taluni abbiano l’arte di tirarsi addosso le frustate volontariamente, perchè il consumare la vita dimenticato non gusta a nessuno, e pure di poter fare un po’ di chiasso, si accetta una fama anco infamissima. Seguitiamo. Fu detto che scritta in rima, quella Satira spiccherebbe di più: io non lo credo punto, per le ragioni dette qui innanzi, quando toccai del contrasto nuovo e bizzarro che fa il verso grave colle cose trattate, e perchè credo che la rima non avrebbe servito spontanea il Parini come lo servì quel metro più libero. Per maneggiare a dovere i metri rimati nei componimenti di stile comico e familiare, bisogna avere la lingua dalla balia, e i soli vocabolari non bastano. Uno scritto in gala, tutti più o meno lo fanno, perchè per gli scritti in gala si fa capitale della lingua dotta, e la lingua dotta sta là ferma ne’ libri, come in tanti barattoli da spezieria; ma uno scritto toccato alla brava, come dicono i disegnatori; uno scritto nel quale lasci sgorgare dalla penna la lingua tutta quanta è, vuol vedere lo scrittore in viso, ed è lì che si scorge davvero chi ha o chi non ha e garbo e dovizia, [XXXIX] chi sa e chi non sa camminare per questo campo, nel quale, appunto perchè è larghissimo, non ti fanno grazia d’un solo passo che tu possa mettere in fallo. Prendi gli scrittori di dialetto da un capo all’altro del nostro paese, che ne ha molti e di molto valore; prendili, dico, quando scherzano nel vernacolo nativo, e mettili a scherzare nella lingua imparata nei libri, e vedrai subito la differenza. Il Parini medesimo è una prova di ciò nella Canzone al Barbiere e nel Dialogo Della Nobiltà. Certo quello Scherzo e quel Dialogo non sono da buttarsi là colle mille inezie che gli furono pubblicate, ma l’orecchio esercitato al vero garbo della lingua rimane in desiderio d’una certa spontaneità, d’una certa grazia, d’una certa negligenza non trascurata, che non pare concessa se non a coloro che maneggiano la favella nella quale snodarono dapprima la lingua. Non dico ciò per ridestare una lite che vorrei sopita per sempre con le altre mille che ci hanno guasti; dico perchè quanto più vo’ innanzi, e più mi par questa la verità, e dico acciò i Toscani, appunto perchè hanno paesana la lingua che, Dio volendo, diventerà comune, si facciano un dovere di non strapazzarla, di non contaminarla, di porgerla a chi ce la chiede arricchita e rinfrescata dei mille modi che al nostro popolo abbondano sulle labbra, e che i nostri scrittori tremano di prendere in mano.1 Che v’è troppa mitologia, lo dico a malincuore, pensando al tempo nel quale il Poema fu scritto; e il farne [XL] rimpro| vero al Poeta sarebbe lo stesso che deriderlo di essersi incipriati i capelli. Con più sicurezza mi pare di poter dire che l’ironia a volte è spinta o ricercata un po’ troppo, come in quel passo:

1 Quando si scriveva come si udiva parlare, salvo qualche lisciatura che lo scrittore fa e farà e ha fatto sempre, nascevano testi di lingua anco in mano ai bottegai; dacchè si scrive come si trova scritto, non si vede altro che copie di copie.

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le biografie Alfin tu da te sciolto, ella dal cane, Ambo alfin v’appressate. Ella dai lumi Spande sopra di te quanto a lei lascia D’eccitata pietà l’amata belva; E fu sopra di lei dagli occhi versi Quanto in te di piacer destò il tuo volto. Vespro, v. 74-79.

A volte si lascia cadere la maschera a disvantaggio, come: Nè d’animali ancor copia vi manca, O, al par d’umana creatura, l’orso Ritto in due piedi, o il micio, o la ridente Simia, o il caro asinello, onde a se grato E giocatrici e giocator fan speglio. Notte, v. 677-681. A volte batte in falso, come nello squarcio citato poche pagine addietro: e sol ne apprendi Quel che la dolce voluttà rinfranca, Quel che scioglie i desiri e quel che nutre La libertà magnanima. Qui in luogo di libertà bisognava dire licenza o altro; diversamente l’ironia non mi pare che colga in pieno. Ma sono cose da nulla; nei, dai quali non potrebbe trarre un breve respiro, non dico l’invidia, ma neppure la mediocrità la più industriosa a riposarsi sui difettoli dei sommi ingegni. A chi dice che il Poema pecca di lunghezza, si [XLI] po|trebbe rispondere che in fatto di componimenti il codice del lungo e del corto nessuno lo ha scritto, e che un buon libro non è mai lungo, come non è mai corto abbastanza un libro cattivo. Dicono che al di là del Mezzogiorno il Poema, se continua a dilettare, non riesce più una novità; che si sa presso a poco le cose che dee dire, e come le dirà, e che l’andare fino in fondo sarà piuttosto uno sforzo dell’ingegno, che una cosa senza la quale il lavoro non potesse stare. Sia pur vero che le ultime due parti, quanto al modo, non riescano nuove come il Mattino e il Mezzogiorno, e che l’ironia a lungo andare non ferisca tanto inaspettata, come ferisce di prima mossa; ma oltre che le cose descritte nel Vespro e nella Notte sono sempre vere e scolpite, i versi, lo stile, e forse anco la sceneggiatura, se non vincono le prime due parti, non rimangono certamente al di sotto, e anzi mi pare che dal lato della scioltezza e della sicurezza il Poema nell’andare acquisti mirabilmente. La descrizione del tramonto citata poc’anzi, quella della notte, del corso e della conversazione, sono vive, spiranti, e toccate da gran maestro. Pare che sulle prime non avesse in animo di farlo se non di tre parti,1 e che poi lo portasse fino a [XLII] quat|tro, per consiglio di tali che forse non sapevano ca1 Vedi le poche parole Alla Moda premesse al’edizione del Mattino: «Se a te piacerà di riguardare con placid’occhio questo Mattino, forse gli succederà il Mezzogiorno e la Sera.» Della Notte non si fa parola, come pure non se ne parla in quei versi del principio: «Quali al mattino,/Quali dopo il mezzodì, quali la sera/Esser debban tue cure apprenderai ec.» (Il Mattino, v. 11-13); seppure qui col vocabolo sera non ha inteso d’abbracciare il Vespro e la Notte.

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pacitarsi come le parti del giorno essendo quattro a rigor di Sole, il Poeta n’avesse a descrivere solamente tre: nè la cosa è nuova. Vi sono certe teste più simetriche che armoniche, le quali perchè avrai cantata la Primavera, trovano d’assoluta necessità che tu debba sfilarle dietro l’Estate, l’Autunno e anco l’Inverno. Guardati, se credi a me, dal dovresti dire e dal dovresti fare di questi tali, e in generale dai consigli e dai suggerimenti di chi non è del mestiere, perchè non v’è la peggio che lasciarsi annacquare la testa col cervello degli altri, prima d’aver messo fuori ciò che v’è dentro. A lavoro fatto, tasta il parere di chi tu vuoi; quando lo fai, non ti consigliare con anima nata, e conversa coll’arte a uscio chiuso, come converseresti colla donna del tuo cuore; perocchè senza solitudine e senza verecondia, non concepisco nè amore, nè arte. Al Parini non incolse male del non aver saputo resistere alla turba molesta che lo incitava di por fine al Giorno;1 ma non tutti sono il Parini: e lo stare a dovere al fianco dei valorosi è cosa saputa da pochi, e meno dai così detti ammiratori, che non ne capiscono nè tanto nè quanto, ma che per averti lodato e detto ai muriccioli che sono dall’infanzia amici tuoi svisceratissimi, ti credono roba manevole, roba tutta loro. Fanno degli uomini che onorano il loro paese come dei monumenti; se ne creano cioè ozio, boria e spettacolo per un po’ di tempo, poi gli tengono là tanto per millantarsene col forestiere, e finalmente a un bisogno . . . . guarda al piè de’ campanili, delle [XLIII] statue e dell’altre glorie di sasso, e vedrai il conto che ne tengono. Al Vespro e alla Notte, secondo l’intenzione del Poeta, manca l’ultima mano;2 secondo chi legge anco con occhio difficile, non parrebbe che mancasse; ma chi oserà misurare la portata di quell’ingegno e dirgli: tu non avresti potuto andare più in là? La perfezione della quale è capace un lavoro di nuova stampa, non la sente che il solo inventore, perchè egli creando il genere, ne crea anco la misura e le leggi: ed ecco la cagione per la quale spesso l’artista, in mezzo all’applauso universale, rimane scontento di se; che ai meschini pare un mostro o un’affettazione, perchè i meschini sono, o almeno dovrebbero essere, la razza più contentabile che si muova sotto la cappa del cielo. Il Parini, che non era di costoro perchè si sapeva ricco e potente, limava e rilimava3 con magnanima incontentabilità, propria dell’uomo che, per quanto possa sentirsi al di sopra degli altri nella via che ha presa, si sente sempre al di sotto dell’arte sua. Di questo lavoro della lima molti si lamentano come di fatica insopportabile, macchinale, che agghiaccia il cuore e insterilisce la mente; altri la sberta come una stitichezza dell’ingegno, che a furia di ritocchi guasta o tormenta l’opera sua. Darò ragione ai primi, quando vedrò le madri non indegne di questo nome, doventare sfaticate o disamorate via via che spendono cure e fatiche intorno ai figliuoli, tanto per allevarli e mandarli ritti; sappiano i secondi che non è fabbro perfetto quello il quale dopo avere ben posto un ordigno a [XLIV] forza di fuoco e di martello, lo peggiora tirandolo a pulimento. L’Alfieri quando chiamò il limare, lavoro aspro che sega l’anima,4 non iscrutò a fondo se stesso, o si fece inganno pei duri contrasti che dovè sostenere usando una lingua imparata tardi: tanto sono tenaci i danni della prima educazione! Orazio, più attento e più sagace di lui, disse: lima labor et mora,5 che un arguto ingegno traduceva speditamente: La faticosa, ritardante lima.6 1 Nell’Ode La Caduta. 3 Vedi l’edizioni che riportano le Varianti. 5 Epistola ai Pisoni.

2 Vedi l’edizione del Reina. 4 Rime. 6 Il Professore Pacchiani.

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le biografie

E che la lima porti fatica e ritardo, lo so; che seghi l’anima, non lo concedo. Il pensiero e la parola sono tanto congiunti, che lo studio dell’una importa studio dell’altro; e chi non sente questa verità, dirò arditamente che ha mezzo cuore e mezza testa. Ma la parola rimane sempre difettiva al pensiero, come la materia allo spirito, perchè sebbene cospirino a un fine, Diversamente son pennuti in ali.1 L’artista vero, consegnando alla tela, al marmo, alla carta le immagini della fantasia, e i pensieri della mente, e le passioni del cuore, non fa altro che sforzarsi di raggiungere coi segni sensibili il concetto intimo, profondo, inarrivabile, che sente e idoleggia in se stesso. Più torna sul suo lavoro, più versa sè nel lavoro medesimo, più s’avvicina al tipo ideale che gli balena davanti; e questo avvicinarsene è un ritrovare se stesso, è il suo [XLV] pre|mio, la sua vita, è cosa piena di voluttà grande, ineffabile, e sto per dire più che umana. Se non ti senti dentro un fremito di gioia e d’emulazione, pensando alle forti compiacenze che debbono aver provate e quest’uomo e i simili a lui lavorando con assidua longanimità, non leggere nè queste nè le pagine che seguono, che sarebbe tempo perduto per tutti. Ed io mi diffondo volentieri in queste materie, perchè parlando dell’arte lodo il Parini, e così la gemma ha il cerchio che le conviene; e perchè in fatto di lettere mi ronzano ogni giorno agli orecchi bestemmie innumerabili, di nuova e di vecchia data. Parlato degli Scritti, diciamo due parole della persona e dell’animo. Per dare a conoscere, come si può, l’aspetto d’un uomo illustre ai posteri che lo desiderano, la sua sarebbe di porne l’immagine in fronte al libro, e fare a meno d’un ritratto a parole, dalle quali poi ognuno che legge si rifà in testa una figura a modo suo.2 Quando avrò detto che era alto e asciutto, che aveva la fronte aperta, gli occhi grandi, neri e distanti, il naso aquilino, la bocca ben tagliata, il colorito tendente al bruno, e via discorrendo, metti dieci a rifarlo in matita dietro questa (per dirlo in gala) ipotiposi, e ti fanno dieci teste, l’una a cento miglia di distanza dall’altra. Una di quelle malattie muscolari o nervose, come le chiamano, gli aveva indebolite e avvizzite le gambe per modo, che era costretto a camminare lento e guardingo; in seguito poi, inasprita per soverchia [XLVI] ap|plicazione, gli offese la vista e gl’impedì per lunghi intervalli di continuare nei suoi lavori.3 Chi lo conobbe dice che fu caldo e impetuoso, ma seppe frenarsi; che ebbe brevi ire senz’odio, e lunghi amori immutabili; che si mostrò fiero coi potenti orgogliosi, mansueto cogli eguali, affabile co’ sottoposti; che fu arguto senza malignità, faceto senza sconcezza, amante del conversare senz’ozio. Fermo nel 1 Dante, Paradiso. 2 Durante la stampa, l’editore si è determinato di dare il ritratto di Giuseppe Parini, che si vede in principio del volume. Nota dell’Editore. 3 Giovanni Torti nell’Epistola a Delio sul Carme di Foscolo e del Pindemonte, così scrive del Parini, del quale era stato discepolo: «E pur l’acerba/Tua giovinezza, e l’invido recinto/Che fu de’ tuoi primi anni a guardia eletto,/Ti vietaro il mirar sovra gl’infermi/Fianchi e l’infermo piè proceder lente./Le altere forme, e il più che umano aspetto/Del venerando vecchio, e le pupille/Eloquenti aggirarsi e vibrar dardi/Di sotto agli archi dell’augusto ciglio».

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proposito, s’arrendeva alla sola ragione; dispregiava altamente i vantatori, i millantatori, i ciarlatani d’ogni conio; gradiva la lode dei buoni, non curando quella del volgo; si dilettava dello scherzare coi fanciulli e coi giovinetti vivaci, arditi e che davano buone speranze; bella lode in un vecchio, come bellissima in un giovane amare i vecchi. Era parco di lodi, e però schietto se lodava;1 biasimava senza perseguitare. Riprese e spronò [XLVII] virilmente l’Alfieri,2 ammirò i voli audaci del Monti,3 spregiò il Casti come scrittore di eleganti lascivie, e credo anco per la giusta ira di vederselo anteposto: forse sarebbe stato meno acerbo con lui se avesse letti gli Animali parlanti, ma non fu in tempo. Entrato in un battibecco tra letterati e letterati,4 presto se ne strigò, e si biasimò poi sempre d’esservisi mescolato, tanto più che v’era di mezzo il suo stesso maestro: cosa che ho voluto dire, perchè allora e poi fu vezzo e perpetua compiacenza dei dotti lo scanagliarsi. Ebbe emuli occulti e palesi che non curò, ed ebbe amici caldissimi coi quali visse lungamente in un dolce ricambio d’affetti, di consigli e di benefizi; e tra questi gli fu caro oltremodo Gian Carlo Passeroni,5 buona pasta d’uomo e di poeta, il quale, sebbene poverissimo, una volta che dai ladri fu spogliata la casa al Parini, lo sovvenne di quel po’ che aveva con un cuore da milionario. Gl’irreprensibili, razza riprensibilissima, riprendono il Parini d’essere stato troppo inchinevole all’amore; e certo, l’ode alla bella donatrice delle Tragedie d’Alfieri, e quella all’inclita Nice, e il Pericolo, e il Sonetto Quell’io che già con lungo amaro carme danno cagione all’accusa, tanto più che v’era il prete di mezzo, e che in quei versi scritti da vecchio spira il calore, l’impeto e la terribilità d’una passione più che [XLVIII] giovanile. Io non lo scuserò citando l’esempio del Bembo, e del Casa, e di qualche altro prelato erotico, chè se ne contano parecchi nel nostro Parnaso; nè dirò che i versi si tirano dietro l’amore quasi per necessità; nè rammenterò che al tempo dei nostri nonni la galanteria era una cosa sine qua non, e che allora, degli abati corteggiatori di donne, ve n’era uno per uscio; ma in luogo di queste magre difese, ti farò osservare che nel Parini l’amore fu temperato sempre dal rispetto dovuto alla persona amata e a se stesso, e quando il cuore lo avrebbe spinto a rivedere le donne che gli aveano suscitate dentro quelle fiere tempeste, seppe far senno e fuggire: Ma con veloci rote Me, quantunque mal docile, Ratto per le remote Campagne il mio buon Genio Opportuno rapì;

1 Impegnato colla Società Patriottica a scrivere l’elogio di Maria Teresa, dopo aver combattuto a lungo seco stesso tanto da averne una malattia, finì col non farne altro, dicendo che in quella Regnante, al di là d’una certa bontà e d’una certa larghezza, che nel Principe sono virtù minime di valore e di costo, non avea trovata materia da Panegirico. 2 Tanta già di coturni, altero ingegno, ec. 3 Soleva dire: Costui minaccia sempre di cadere e non cade mai. 4 Vedi le poesie in dialetto milanese. 5 Autore delle Favole e del Cicerone.

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le biografie Tal che, in tristi catene, Ai garzoni ed al popolo Di giovanili pene Io canuto spettacolo Mostrato non sarò.1

E a chi mormorava di quella sua propensione per la bellezza, ingenita agli animi fatti a sentirla e a riprodurla, così rispondeva con franca alterezza:

[XLIX]

A me disse il mio Genio Allor ch’io nacqui: L’oro Non fia che te solleciti, Nè l’inane decoro De’ titoli, nè il perfido Desio di superare altri in poter. Ma di natura i liberi Doni ed affetti, e il grato Della beltà spettacolo, Te renderan beato, Te di vagare indocile Per lungo di speranza arduo sentier.2

E nell’ode A Silvia, ove la riprende dell’avere adottata la foggia crudele e invereconda del vestire come erano vestiti allora in Francia i condannati nella testa, prorompe così da par suo: «Lascia, Silvia mia, questa orribile costumanza alle altre belle stupide di mente e di cuore: anco una giovane mansueta può divenire feroce per una cagione lontana che nuoce occultamente. Sai tu che avvenne delle donne egregie per le quali Roma crebbe in tanta grandezza? Poichè per loro sciagura si recarono a tedio l’ago, la spola, e le dolci cure, e le caste consuetudini della famiglia; e convennero con improvvida baldanza ad ammirare i saltatori e i commedianti, cominciarono prima dall’assuefarsi ai delitti, agli orrori, alle atrocità delle favole greche, e così pervertita l’indole e fatto il cuore più feroce, sazie oramai d’un dolore finto, corsero al dolore vero con isfrenata compiacenza.

[L]

E là dove di Libia Le belve in guerra oscena Empiean d’urla e di fremito E di sangue l’arena, Potè all’alte patrizie, Come alla plebe oscura, Giocoso dar solletico La soffrente natura. Che più? Baccanti e cupide D’abbominando aspetto, Sol dall’uman pericolo Acuto ebber diletto; E dai gradi e dai circoli, 1 Il Pericolo.

2 Il Messaggio.

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Co’ moti e con le voci Di già maschili, applausero Ai duellanti atroci: Creando a se delizia E delle membra sparte E degli estremi aneliti E del morir con arte. Silvia, copriti il volto e ascolta come passarono tutti i confini della licenza. Il gladiatore, terribile di modi e d’aspetto, fu cercato da esse per amante segreto; poi s’assuefecero ad apprestare veleni occulti; quindi le madri ardirono di concepire invano; e così da un errore lieve dapprima, derivò il precipitare della gloria e del nome latino. Silvia, togli via quella veste esecranda; rammenta l’origine dell’antica licenza, e serbati umana e pudica.»1 Che potremmo dire di più calzante a talune delle nostre leggiadre, che si dilettano tanto dei romanzacci e delle sconce rappresentanze della scuola oltremontana? Ora un poeta che parla così a quelle che l’hanno colpito con la loro bellezza, non è amante volgare nè riprovevole. Come nacque, fu mantenuto povero, nè il verso tanto [LI] lodato2 gli fruttò di che farsi trascinare qua e là in una misera carrozzuccia, vecchio e impedito com’era.3 E ciò perchè avea scritto, e più che scritto, promesso a se medesimo: Me, non nato a percuotere Le dure illustri porte, Nudo accorrà, ma libero, Il regno della morte. No, ricchezza nè onore Con frode o con villa Il secol venditore Mercar non mi vedrà.

La Vita rustica.

Nè aveva saputo piegare l’indole sdegnosa a strisciarsi ai piedi dei grandi, o dei piccini che comandano ai grandi; nè fare vili lamenti della propria miseria; nè aiutare del suo ingegno gli spogliatori del paese; nè ridurre la Musa al mestiere di rea commediante insultando il pudore e solleticando con iscurrilità I bassi genii dietro al fasto occulti.4 Nè già si ritenne dal chiedere soccorso a chi doveva darglielo, forte della gloria acquistata al suo [LII] paese, e carico d’anni e strinto dal bisogno, ma 1 A Silvia, sul vestire à la Victime o à la Guillotine. 2 «Nè il sì lodato verso/Vile cocchio ti appresta,/Che te salvi, a traverso/De’ trivii, dal furor della tempesta.» (La Caduta). 3 Leopoldo Primo di Toscana, passando per andare a farsi Imperatore, aocchiò per le vie di Milano quello sciancato pieno di dignità; e domandato chi era, e saputo essere il Parini, lasciò detto che a spese dello Stato gli fosse mantenuta una carrozza, che il Poeta non ebbe mai. 4 Versi che alludono al Casti allora poeta Cesareo e colmato di favori. Feriscono parimente il Casti quelli dell’Ode intitolata La Recita dei versi: «O gran silenzio intorno/A se vanti compor Fauno procace,/Se del pudore a scorno/Annunzia carme onde ai profani piace;/Dalla cui lubric’arte/Saggia matrona vergognando parte». Ed è contro il Casti il Sonetto: «Un prete vecchio, brutto e puzzolente,/che non si riporta in questa edizione».

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le biografie Chiede opportuno e parco Con fronte liberal che l’alma pinge.1

E se la durezza o la trascuraggine di tali che forse lo ammiravano in cuore, perseverò a voltargli le spalle, e’ seppe farsi scudo della sua costanza medesima,2 beato di vivere senza rimorso. E di fatti, non a una vile moneta, non agli onori vani, nè all’applauso mutabile della folla, dee mirare un libero ingegno, ma al vero, al solo vero, e all’alta compiacenza di poterlo e di saperlo dire; compiacenza che nessuno può toglierti, e che ti compensa largamente della miseria, della noncuranza, e di tutti i mali che ti può partorire l’averlo detto. Perchè, poni da parte i pochi che se ne dilettano e sanno farsene prò, la verità piace a tutti il dirla, a nessuno il sentirsela dire. Nelle case ove fu precettore si contenne con dignità e trattò con amore paterno e con pia sollecitudine i giovinetti che gli furono affidati, sdegnoso forse tuttavia del [LIII] giogo bestiale che rammentava d’aver patito egli stesso i queruli ricinti Ove l’arti migliori e le scïenze, Cangiate in mostri e in vane orride larve, Fan le capaci volte eccheggiar sempre Di giovanili strida.3 Che modi tenesse nell’educare lo dicono i versi a Febo d’Adda, alunno carissimo: Torna a fiorir la rosa, Che pur dianzi languia, dai quali apparisce che egli non era di quei maestri che s’inalberano della vivacità, della irrequietezza, della propensione a folleggiare propria dei fanciulli, nei quali il muoversi e il mutarsi da una cosa a un’altra, è necessità di fibra e d’animo che si svolgono. Diceva anzi, compiacendosi del vedere rinverdire quel tenero germoglio, Vigor novo conforta L’irrequieto piede: Natura ecco ecco il porta, Sì che al vento non cede, Fra gli utili trastulli De’ vezzosi fanciulli.4 Poi volgendosi al fanciullo medesimo, aggiungeva: «O pianta di buona semenza, che cresci a coronare le mie fatiche e le mie speranze, io ho cercato di darti vigore all’animo non meno che alle membra, e t’ho [LIV] educato alla poesia che ispira virtù. Nato a onorare la patria, ricordati che può tutto un animo forte 1 Per tutte queste cose vedi La Caduta. 2 Ibid. 3 Vedi Il Mattino, v. 26-30. 4 E chiamare utili i trastulli del proprio scolare quasi ottant’anni fa, quando per lo più il trastullarsi era caso da nerbo reverendissimo, è cosa da far mettere il busto del Parini in capo di scala a tutte le Sale d’Asili.

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accoppiato a membra robuste, e che la bellezza, il vigore, l’attitudine ai forti esercizi, sarebbero nulla, se non t’ammaestrassi a usarli rettamente. Dall’animo, figliuol mio, dall’animo solo derivano i fatti lodevoli; che se l’animo è fiacco, non lo rialza la chiarezza del sangue. Lascia, mio caro, che altri tenga in pregio l’alterezza della nascita e le fortune superbe, che sono i fregi anco dei vili: chi è cupido di gloria s’appaghi della sola virtù. Onora Iddio che ti guarda dall’alto, ma alzagli nel cuore il primo altare, non contento d’onorarlo apparentemente. Fa che ti stia la giustizia nel petto, e le tue mani siano al bisognoso quell’albero pellegrino che distilla unguenti soavi. Fa che la ragione regga i moti impetuosi dell’animo, e vedrai nascere effetti di somma virtù. Non celare con un velo ipocrita questi bei doni di natura, e lascia apparire nel volto l’impronta dell’animo. L’ardimento, il valore, non ispengano in te la pietà, e quel senso dolce che t’inchina all’amore; questo anzi ti faccia difensore del mendico; questo, amante fedele; questo, amico indomabile.» E la chiusa dell’Ode fa sentire che il giovinetto beveva con grato animo i santi precetti, e i genitori di lui applaudivano al Poeta, che li dettava sotto figura di Chirone che ammaestri Achille. Tal cantava il Centauro. Baci il giovin gli offriva Con ghirlande di lauro. E Tetide, che udiva, [LV] Alla fera divina Plaudía dalla marina.1 Nell’ufficio di pubblico precettore fu largo, amorevole, intento a educare un numero eletto di giovani, che tornati per lui alle vere sorgenti del bello, sapessero onorare la patria del loro ingegno. Vedrò, vedrò dalle mal nate fonti Che di zolfo e d’impura Fiamma e di nebbia oscura Scendon l’Italia ad infettar dai monti; Vedrò la gioventude I labbri torcer disdegnosi e schivi, E ai limpidi tornar di Grecia rivi, Onde natura schiude Almo sapor che a se contrario il folle Secol non gusta e pur con laude estolle.2 E l’ottenne: perchè da quel tempo la Lombardia crebbe in fama di studi; e anco gli uomini che la onorano adesso, sono, a chi ben guardi, splendori accesi di quella luce. Insegnava come le arti dell’immaginazione si danno la mano tra loro; come hanno comuni i principi generali; come tutte debbano cospirare a svegliare e a mantenere in noi i germi della buona morale e della virtù operosa, e come i sommi esemplari della poesia e dell’eloquenza giovino mirabilmente a educare al bello, al vero e al grande, l’animo degli altri artisti tutti quanti.3 Dicono che parlando dalla cattedra s’accendesse della sua stessa parola e del1 Per tutto questo vedi l’Ode intitolata L’Educazione. 2 Vedi l’Ode intitolata La Gratitudine. 3 Vedi le Lezioni.

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le biografie

l’esser lì, come una fiaccola che agitata moltiplica le fiamme, e segnatamente quando [LVI] esponeva le tragedie di Sofocle, e tra queste l’Edipo.1 Sorser le giovanili Menti, da tanta autorità commosse; Subita fiamma inusitata scosse Gli spiriti gentili, Che con novo stupor dietro agl’inviti Della greca beltà corser rapiti.2 Quando nacquero i rumori di Francia, e quando di Francia vennero tra noi le nuove opinioni, o coi fogli pubblici o cogli uomini che erano mandati a disseminarle, il Parini fu di quei tanti che le abbracciarono caldamente, perchè le sentivano concordi all’intimo desiderio, e perchè innestandole anco non volendo a quella immagine di libertà che s’erano figurata leggendo Plutarco e altri, facevano tutta una cosa di Parigi, d’Atene, di Sparta e di Roma, nè s’aspettavano i morsi della tirannide imberrettata.3 Di qui nacque che al primo scendere delle armi francesi in Italia, la parte migliore, voglio dire la gente illuminata, si diè tutta alla speranza di quei beni che dicevano di recare, e poi di lì a poco, vedutala fallire, finì col rivoltarsi contro ai nuovi padroni. Sbozzata alla militare la Repubblica Cisalpina, e scelti agli uffici del nuovo Stato gli uomini più ragguardevoli per sapere, per nascita e per averi (un po’ perchè fu [LVII] stile della Repubblica Francese, e più di Napoleone, dare la preferenza ai capaci; un po’ perchè tutte le dominazioni nuove s’affrettano di tirare a se i sommi, perchè sanno che dietro questi corre il rimanente come branco di pecore), il Parini fu chiamato a sedere tra i Municipali. Prete, poeta, invecchiato tra pochi amici e nelle quiete abitudini dei suoi studi, immagina se ebbe a trovarsi lì come un pesce fuor d’acqua. In tempi di fortune civili (o sociali, come dicono), alla testa delle faccende pubbliche vogliono essere uomini venuti su per le fortune medesime, o se non altro dirotti alle cose di governo; tali da prefiggersi uno scopo, e a quello tendere velocemente con fiera pertinacia, poco o nulla curando dei mezzi che occorrano a conseguirlo. Allora le teorie, piuttosto che recarle agli uffici bell’e fatte, bisogna farsele volta per volta, a seconda dei casi che sorgono, si moltiplicano, s’intralciano, e vanno precipitando con irresistibile continuità. Il Parini invece portava a quella carica un animo retto, casto, bramoso del bene, avverso alle vie oblique o violente, e alle esorbitanze di quel modo di governo, nel quale alle licenze, ai tumulti, alle furie della democrazia, camminavano di pari passo la durezza, la tracotanza, la soverchieria e la rapina militare. Se non era Pietro Verri, municipale ancor esso, che gli stesse al fianco e gli desse lume, egli di sicuro non avrebbe saputo uscire del ginepraio.4 E come 1 «Nè tu la immensa delle sue parole/Piena sentisti risonar nell’alma,/Allor che apria all’ispirata scranna/I misteri del Bello; e rivelando/Di natura i tesori ampi, abbracciava/E le terrestri e le celesti cose». (Torti, luogo citato). 2 Vedi l’Ode intitolata La Gratitudine. 3 Il berretto frigio era il distintivo della Dea Libertà e di tutti i più focosi repubblicani di quel tempo; anzi in certi uffici non si poteva sedere senza averlo in capo. 4 Verri e Parini non se l’erano mai detta molto, o per gara di primeggiare, che può molto negli animi desiderosi di fama, o perchè Parini aveva censurato, quanto alla lingua, i compilatori del Caffè; ma posti lì a quell’ufficio l’uno al fianco dell’altro, scordarono ogni grossezza privata, e si dettero la mano per cooperare al bene pubblico.

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poteva [LVIII] intender|sela con gente sfrenata, un uomo che diceva: «Le persecuzioni non vincere gli animi, nè fondarsi la libertà coi delitti e colla licenza; – Il popolo doversi condurre co’ buoni consigli e col dargli da lavorare e da vivere, e non prenderlo di fronte nelle sue false opinioni, ma educarlo e persuaderlo, più col buon esempio che colle leggi»? – Come poteva piacere, in quei mutamenti continui, egli sempre fermo e intero, che badava a ripetere a questo e a quello: se’ tu buono come ieri? – Raccontano che un giorno, entrato nelle stanze assegnate all’ufficio, e veduto che n’era stato levato un Cristo, domandò: E del cittadino Cristo che n’avete fatto? E volle dire con tremenda ironia: Voi che fate finta d’accogliere tutti come eguali e come fratelli, perchè escludete di tra voi il primo fondatore della fraternità e dell’eguaglianza? – Un’altra volta invitato a gridare quel solito grido: Viva la libertà! morte agli aristocratici! gridò a fronte levata: Viva la libertà, e morte a nessuno! – Rimproverato da un tale d’aver fatta l’elemosina a un Tedesco, rispose fieramente: la farei al Turco, al Giudeo; la farei a te, bisognando. – Essendo un vecchio gentiluomo andato dal Parini perchè gli facesse sbrigare un non so che spettante all’ufficio della Municipalità, questi, sopraffatto dagli affari e dalla gente che aveva d’intorno, prima di tutto lo salutò colle parole d’uso antico: ben venuto, Don Beppe (che allora era un delitto grave di lesa uguaglianza); poi, siccome per servire il gentiluomo di ciò che gli aveva richiesto v’era bisogno d’un ufficiale lì del posto, il Parini, dopo avere squadrati ben bene i ceffi che aveva davanti, tutta feccia di basse combriccole sedicenti repubblicane, adocchiò una [LIX] faccia meno proibita delle altre; e: Almeno di lei, disse, so che suo padre era un galantuomo: dunque mi farà Ella questo servizio. – Udito riprendere un onesto campagnolo, il quale o per timidità, o per abito di cortesia, non sapeva stare dinanzi ai magistrati col cappello in capo, come decretavano i liberi villani d’allora, gli disse con un amaro sorriso: Copritevi il capo e guardatevi le tasche. – Non sapevano costoro che togliendo la reverenza a chi siede al freno delle cose pubbliche, gli si scema la riputazione e la forza; ma presto venne chi ne diè loro un duro ricordo. Un decreto della Magistratura nella quale sedeva non essendo andato a sangue ai conquistatori,1 il [LX] generale Despinois, comandante di piazza, uomo che af1 Questo decreto che fece tanto imbestialire il Despinois, crederesti mai che mirasse ad abolire la nobiltà e i rimasugli feudali? Eccotene una parte: 1º Resta per sempre abolita la nobiltà. 2º Nessuno potrà portare altro titolo che quello di cittadino, o le qualifiche di carica (sic). ………………………………………………………………… 4º Sarà abolita ogni giurisdizione feudale e riserva di caccia. 5º Tutti gli stemmi, livree ec. saranno levate ec. ec. L’atto, consentaneo quanto allo scopo a ciò che predicavano i Francesi, fu detto che non era di competenza della Municipalità, e che questa, emanandolo e pubblicandolo, aveva ecceduti i limiti del suo potere. Ora, non ti dispiaccia che io trascriva qui il proclama che diè fuori in questa occasione il generale Despinois: la lingua, il modo, la padronanza che s’arroga la repubblica mamma sulla repubblica figliuola, sono notabilissimi. «Considerando che da alcuni giorni la Municipalità di Milano oltrepassa i suoi poteri, prendendo degli arresti, facendo degli atti, e dando loro tutta la pubblicità per mezzo degli affissi e della stampa, senz’ordine, partecipazione o approvazione qualunque del Generale Comandante in Milano e nella Lombardia per la Repubblica Francese (qui sarebbe stato bene l’aggiunto di Serenissima); che ella (la Municipalità) cerca di sottrarsi alle autorità superiori giusta le quali ha soltanto il diritto d’agire; avviluppando le sue deliberazioni nell’oscurità; che quella denegazione di potere è una vera infrazione delle leggi della Repubblica Francese e dell’obbedien-

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fettava di mostrarsi più plebeo de’ plebei perchè dimenticassero che era nato nobile, entrato nella sala del Municipio, svillaneggiò i magistrati, e tirata fuori la scimitarra, ne percosse furiosamente la tavola. Il Parini portando la mano alla fuciacca (che era distintivo della carica, e che dalla cintola era stata fatta salire al braccio, da una di quelle teste felici che anco in quei trambusti trovano tempo d’occuparsi di frasche), disse freddamente: Ora [LXI] non manca altro che di farcela salire più su e poi stringerla. V’è chi dice che la sera stessa scrivesse una lettera piena di dignità, nella quale si dimetteva dall’ufficio, protestando che ove regnava la sciabola non v’era più luogo pei magistrati: ma la cosa non è bene appurata. Quello che è certo si è, che questa e altre bruttezze fecero sì che egli di lì a poco si ritirò dalle pubbliche faccende, dicendo: Ora son libero davvero; e fece distribuire ai poveri gli stipendi che aveva riscossi. Nientedimeno protestò, che quando le cose mutassero in meglio, sarebbe tornato a servire il suo paese di libera volontà. Da quel tempo fino a quando morì, visse molto a se o con pochi fidati, deplorando il precipitare delle cose, e astenendosi perfino dal carteggiare cogli amici, acciò la purità delle sue lettere non venisse stuprata da qualche mascalzone, come s’espresse egli stesso. E quando con Bonaparte, passato in Egitto, indietreggiò in Italia la fortuna francese, e la Lombardia fu ripresa dalle armi tedesche, russe e anco turche, i suoi emuli brigarono per fargli perdere la cattedra, ma non lo trovarono nè debole nè codardo. Anzi a un amico che gli si offerse in caso di bisogno, disse che era pronto d’andare limosinando, a esempio dei buoni e a perpetua infamia dei malvagi. Morì il dì 15 d’agosto del 1799, d’un’idrope che gli si manifestava a riprese ora qua ora là. Negli ultimi giorni fu sereno, preparato al suo fine, vago di conversare cogli amici più cari, di farsi rileggere Euripide e Plutarco, barzellettando coi medici che lo visitavano. Io mi consolo, soleva dire, pensando che v’è Iddio, e non trovo altra norma più sicura all’umana giustizia. [LXII] E l’ultimo giorno della sua vita, sentendo un fuoco che gli scorreva per le spalle: Una volta, diceva, ciò sarebbe stato creduto un Folletto; ora non si crede più nè al Folletto, nè al Diavolo, e nemmeno in Dio; nel quale però crede il Parini. E in questi pensieri za che la Municipalità deve alle autorità da quella costituite; richiama la Municipalità di Milano all’osservanza rigorosa di quelle stesse leggi ed ai suoi doveri: le ordina di circoscriversi strettamente nelle funzioni amministrative state a lei delegate; dichiara i suoi atti ed arresti non che hanno ricevuta la sanzione del Generale in capo dell’armata d’Italia, dei commissari del Direttorio Esecutivo o del Generale comandante a Milano e nella Lombardia, nulli e come non seguiti; proibisce a tutti gli abitanti di Milano e nella sua giurisdizione d’avervi riguardo e d’ubbidirli; rende responsabili tutti i membri della detta Municipalità, come pure tutti i corpi amministrativi nella Lombardia, degli atti ed arresti presi in loro nome, pubblicati ed affissi da essi senza l’approvazione diretta e immediata delle Autorità Francesi superiori e legittime (anco legittime!), e li previene che saranno trattati come ribelli in caso di disubbidienza e d’usurpazione di potere dalla lor parte (questo dalla lor parte è una gemma storica). Il presente Proclama sarà pubblicato ed affisso nella Comune di Milano ed in tutti i luoghi della sua giurisdizione a diligenza e sotto responsabilità dei membri della Congregazione di Stato attualmente in funzione a Milano. Despinois.» Tre giorni dopo, Despinois scrisse alla Municipalità lodando il decreto fulminato e invitandola a pubblicarlo. Prima lo vieta, poi lo vuol pubblicato, pur di comandare. – Questa e altre notizie le debbo alla cortesia del sig. Cesare Giulini, al quale mi è caro mostrarmi grato e riconoscente.

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consolanti chiuse gli occhi per sempre, lasciando per testamento, che il suo funerale fosse modesto come quello del più infimo tra i cittadini. Non ebbe sepoltura distinta, vietandolo le leggi d’allora, della qual cosa mosse lamento nobilissimo Ugo Foscolo nei Sepolcri. Così la Lombardia perdè il suo poeta, e non poteva cadere in mente ai cittadini che lo piangevano, di consolarsene nel caro aspetto d’un fanciullo di tredici anni che era allora in Milano, e che di lì a poco fu quell’uomo che tutti sanno. Dico di te, Alessandro mio: nè mi sarà imputato a vanità se ti rendo l’onore che t’è dovuto con quella amorosa dimestichezza che volesti concedermi, della quale mi sento nell’animo un’alta compiacenza, temperata di rispetto e di gratitudine. Riandando le cose discorse, il Parini nacque e morì povero: sopportò il suo stato con fermezza e con dignità: fu d’alto cuore e di sommo ingegno: fu amico del suo paese e non mai d’una piuttosto che d’un’altra dominazione.1 Rialzò la poesia al suo scopo civile, e diè un [LXIII] esempio nuovo di Lirica e di Satira. Ottimo precettore pubblico e privato, amico immutabile, magistrato integerrimo, in lui concordarono lo scrittore coll’uomo e l’uomo collo scrittore; e ciò sia detto a gloria di lui e a vergogna di chi è di due pezzi. Addio.

1 Ecco la cagione del sonetto contro gl’invasori di Francia: «Predaro i Filistei l’arca di Dio», e dell’altro per un Te Deum: «Viva, o Signor, viva in eterno, viva ec., nei quali non vedo il poeta prezzolato che abbaia ai calcagni del vinto e lambe la mano del vincitore, ma l’amico dell’ordine e della giustizia, che dice gl’inganni dei nuovi padroni, e avverte gli antichi di non abusare della vittoria».

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L’ABAT E PA R IN I E LA LOMBARDIA NEL SECOLO PASSATO

Studj di

CE S ARE CANTÙ.

MI L A NO presso Giacomo Gnocchi 1854.

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Vita letteraria del Parini. La Rivoluzione.

Allo scarco delle colline che formano la più deliziosa parte del Milanese, detta il Monte di Brianza, a specchio del lago di Pusiano, uno di que’ laghetti che rimasero dopo che alcun grave accidente naturale, dando uno sfogo alle acque che formavano l’Eupili,1 mise in asciutto il Pian d’Erba, sorge Bosisio, feudo un tempo de’ conti della Riviera, che vi teneano il loro pretorio. Là nacque Giuseppe Parini il 22 maggio 1729 da poveri ma onesti parenti.2 Suo [231] padre che, secondo il paese, mercatava di seta, conosciuto nel figlio un buon ingegno, volle educarlo col poco ben di Dio che aveva, il menò seco a Milano, e vestitolo da abbate, solo modo per non far ridicolo un forese e di bassa portata che studiasse, lo pose nelle scuole Arcimbolde.3 Il padre Branda suo maestro ci attesta che non vi profittò gran fatto: nè farà meraviglia a chi sa come di rado il merito venga a galla di sotto alla disciplina dei pedanti, sia ne’ materiali esercizj di memoria d’allora, sia nella tumultuaria e indigesta enciclopedia d’adesso, alla tirannia del metodo e al tedio de’ precetti inapplicati d’allora e d’adesso. «Io non nego (dice esso Parini) quel che il padre Branda accenna. Pur troppo allorchè frequentai da giovinetto le nostre scuole di Sant’Alessandro, male corrisposi alla diligente cura de’ miei poveri parenti, e poco attesi a quello ch’essi chiamavano studio. Nondimeno, benchè non sia giammai salito tra’ precipui campioni del ludo litterario, non sono per tutto ciò rimasto tra la ingloria turba degl’indisciplinati adolescenti.4 E potrei ancora ad un bisogno mostrarvi i superbi trofei che, d’una in altra classe passando, furono dai comprofessori del padre Branda a me decretati. Egli è bensì vero ch’ei non potrà veder pendere alle pareti de’ portici scolastici il mio nome, accompagnato da qualche ingegnoso emblema e adorno d’una cornice dorata, perchè i miei parenti non ebbero mai danari da gettar via».5 Continuato poi nella filosofia e nella teologia, fu unto sacerdote, non già perchè si sentisse veramente chiamato ad un ministero che esige tante virtù, tanti 1 «Colli beati e placidi/Che il vago Eupili mio/Cingete con dolcissimo/Insensibil pendio …». (La vita rustica). 2 Parole del Parini nel foglietto volante in risposta al P. Branda. Suo padre era Francesco Maria, sua madre Angela Maria Carpani: non ebbe che una sorella. All’Appiani scriveva: «Te di stirpe gentile/E me di casa popolar, cred’io,/Dall’Eupili natio,/Come fortuna variò di stile,/Guidaron gli avi nostri/De la città fra i clamorosi chiostri.//E noi dall’onde pure,/ Dal chiaro cielo e da quell’aere vivo/Seme portammo attivo/Pronto a levarne da le genti oscure,/Tu, Appiani, col pennello,/Ed io col plettro seguitando il bello». 3 Dal luogo ove sono collocate chiamansi Ginnasio di Sant’Alessandro; ma il Parini a ragione amava meglio si dicesse Scuole Arcimbolde «per così tener viva nella nostra patria la memoria di quel buon cittadino, che fu insigne benefattore di essa». Lettera di G. Parini in proposito d’un’altra, ecc. Colà aveva poco prima insegnato il padre Pietro Grazioli, che lasciò una buona opera De præclaris Mediolani ædificiis. 4 E’ contrafà lo stile del maestro. 5 Nella lettera stessa. In esse scuole chi avesse primeggiato poteva farsi fare un quadro con alcun emblema e col proprio nome. Agli altri meritevoli donavasi un trofeo, foglio dov’era stampato un puttino che d’una mano scolpiva sopra un plinto HONOR ALIT ARTES e il nome dello studioso, e dall’altra vi sovrapponeva una corona d’alloro. Il quadro non poteva farsi da chi non avesse quattrini da gettare.

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sagrifizj; ma, come avviene dei più, per servire alla volontà altrui ed ai primi casi. In que’ giovani anni s’ajutava di giorno in giorno a vivere col copiar carte presso un [232] avvocato; pur cogliendo qualche ritaglio d’ora per lo studio de’ classici e per fare alcuni versi. Il Verri, il Longo, il Beccaria trovavansi spianato il calle, una clientela ereditata, comodità di studj, di consigli, di appoggi; ma chi nasce povero e con ingegno e voglie superiori alla propria condizione quanto non ha a lottare prima di trar fuori il proprio nome dai mille ignorati, e farsi perdonare l’ardimento dal volgo patrizio e dai piaggiatori di questo! Viveva allora poveramente a Milano un buon prete che già più volte ci venne nominato, Gian Carlo Passeroni; e forse incontrandosi coll’abatino nelle sacristie, ne conobbe l’ingegno non volgare; e lo presentò ai Trasformati, e seppe indurli a riceverlo nella loro accademia. In questa accademia si solea fare degli appunti sovra le composizioni che alcuno presentasse, e poniam pure fossero frivoli i più, poteano giovarsene quelli che d’una osservazione altrui sanno indagar la ragione ben meglio che lo stesso osservatore. Ivi dunque produceva il Parini le odi che componeva tratto tratto, e di cui la prima raccolta pubblicò a Lugano nel 1752 sotto il nome di Ripano Eupilino, anagramma il primo del suo nome, il secondo dinotante la patria. Lavori da giovane e troppo lontani dalla perfezione; gli valsero però applausi e un diploma dell’Arcadia di Roma. E qui, invece del facile ridere dietro alle accademie e agli istituti,6 noteremo due cose. La prima è il trovare spesso i dotti di quel tempo congiunti fra loro alla dolcezza di colloquj o alla fatica di lavori, non credendo, come oggi alcuno proclama, che la benevolenza uccida l’arte. Quando fu abolita la compagnia di Gesù, il conte Roberti, che c’era vissuto così bene con minestra, nove once di carne, frutta e cacio, e che ne uscì con tre camicie buone e una logora, più di tutto deplorava la perdita della conversazione «ove dieci o dodici ingegni, legati fra loro con vincoli di una carità e d’una amicizia dolcissima, in certe ore felici, in certi congressi geniali, s’irritavano ed elettrizzavano, dirò così, insieme, [233] e gettavano scintillamenti, lumi e vezzi, coi bei motti e colle belle sentenze». Basta poi scorrere i lavori d’allora per sentire come fossero soccorsi, non dico solo dai fratelli di religione, ma da persone fino sconosciute. Lo Zeno, che largamente ajutò al Foscarini e al Fontanini, aveva ideato la raccolta dei Rerum italicarum Scriptores; quando, udito che l’intraprendeva il Muratori, gli cesse i suoi materiali. Altrettanto fece il Baruffaldi al Barotti per le memorie storiche de’ letterati ferraresi. Il famoso soprano Farinelli, metteva una ricca biblioteca musicale a servigio del padre Martini, da lui eccitato a comporre la storia della musica. Alle opere del Sigonio, edite in Milano dall’Argellati, il Muratori prepose la vita dell’autore: eruditi commenti e buone osservazioni vi unirono il somasco Giammaria Stampa, don Gennaro Salinas napolitano, il dottor Machiavelli bolognese, l’avvocato Giovanni Maderni, l’abate Lorenzo Maffei, 6 Il Baretti che giudica col buon senso, cioè retto, ogni qualvolta la passione non lo sgangheri, scriveva al Carcano, appunto a proposito de’ Trasformati: «Le accademie sono buone quand’uno è presente, perchè allora un galantuomo studioso ha sicurezza di trovare, in certe ore, degli altri studiosi galantuomini, ragunati in un dato luogo, coi quali può consumare qualche po di tempo con soddisfazione; a chi è lontano, un’accademia non è nulla».

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l’agostiniano Costanzo Rabbi, il Sassi e un gesuita di grand’erudizione che non volle esser nominato, e che fu il padre Giacomo Ponte, torinese.7 Il Salvini ajutava Filippo Bonarroti nelle ricerche d’antiquaria; Paolo Alessandro Maffei il Sergardi nel comporre le celebri satire. Il Frizzi, che scrivea le Memorie di Ferrara, era in corrispondenza col Zaccaria, coll’Affò, col Verci, con Eugenio Levis, con Francesco Bertoldi, con monsignore Speroni ed altri. Poniam caso che uno di piccola città si accingesse a un lavoro di erudizione: puta G. B. Verci, che a Bassano preparasse la Storia degli Eccelini. E’ si dirige a Padova, e lo ajutano l’abate Gennari che una stupenda raccolta fece di documenti patrj, e «S. E. il signor Gian Roberto Papafava, eruditissimo cavaliere, da gran tempo occupato a scrivere la storia della celebre famiglia Carrarese»; in Treviso il conte canonico Avogaro, «raro soggetto, noto alla repubblica delle lettere per tante opere date alle stampe, avea ricercato tutti gli archivj per scrivere la storia della Marca Trevisana», e ne accomodò il nostro Verci, come fecero il cavaliere conte di Rovero, il conte canonico Trieste, il conte Daniel Concina «valente raccoglitore ed intendentissimo di codici»; in Verona il marchese canonico Dionisi che «quanto sia versato negli studj de’ tempi di mezzo ben lo dimostrano le di lui operette»; oltre G. B. Biancolini «che stampò tanti [234] tomi sopra le chiese di Verona, tutti corredati di bellissimi documenti». A Vicenza trovò che il padre Calvi carmelitano scalzo, possedeva in dodici grossi volumi tutti i documenti di quella città, già raccolti dall’abate Vigna, ed altri dal padre Barbarano. Il canonico Doglioni gli manda documenti bellunesi: bresciani don Giovan Battista Rodella, e Giuseppe Nember, che scrivea la storia di Quinzano: veneziani, il famoso Morelli e il padre Mandelli, editore della Nuova raccolta d’opuscoli scientifici. Il padre Sajanelli l’informava delle cose ferraresi, delle cenedesi il vescovo Gradenigo «versatissimo in questi studj, e che avea consumato gran parte di sua vita in molti archivj della sua religione benedettina»: delle asolane il conte Trieste che «avea per alcuni anni nutrito l’idea di scrivere questa medesima storia». Il marchese Lodovico Andrea, «che sommamente ama le lettere e le belle arti insieme con tutti quelli che le coltivano», gli agevolò le ricerche nell’archivio di Campese: in quei di Mantova il celebre Bettinelli e il conte D’Arco: ne’ friulani il conte di Porzia, ne’ tridentini il cavaliere Ippolito del Paradiso «valente letterato che travaglia già da venti anni intorno alla storia di Trento, e gli riuscì di compilare in ventitre tomi in foglio seimila documenti e più de’ migliori archivj del Tirolo»: a tacere il Tiraboschi, che sapea di tutto. Ed esso Tiraboschi empiva una lunga pagina dei soli nomi di coloro che lo soccorsero, e «qual sorte per me (conchiudeva), anzi qual sorte per l’italiana letteratura è stata che tanti valentuomini siansi uniti in correggere i difetti dei quali io avea sparsa questa mia storia!».8 Ah, questa concordia di studj quanto s’ebbe poi a rimpiangere! L’altra osservazione si dà mano colla precedente, riguardando la docilità con cui gli autori chiedevano ed accettavano consigli, e la generosità di compartirgliene. Il Muratori, dopo pubblicato il primo volume d’Anecdota, fe proposito di non dar fuori nulla se prima non fosse veduto da qualche amico. E in fatto il dottor Pietro Ercole Gherardi modenese, oltre coadjuvarlo nelle ricerche, rileggeva le opere di lui prima di mandarle ai torchj. Il padre Martini, stando preside

7 Vedi Tiraboschi, vol. xii, pag. 1218.

8 Prefazione al T. ix della prima edizione.

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del convito ecclesiastico di Superga, fu da un piemontese ajutato nella traduzione della Bibbia. Il re di Napoli assegna trecento ducati di pensione al celebre antiquario Marzocchi, e questi lo prega di dividerla col giovane Nicolò Yguarra che [235] gli era di sussidio. Le Rivoluzioni d’Italia del Denina furono rivedute dall’abate Costa d’Arignano, che poi fu cardinale, e a lui s’attribuisce l’esser quelle tanto superiori all’altre opere dell’abate. Il Fabbroni sottopose le sue Vite al Cunichio e al Bongiochi; il Bentivoglio al Frugoni la sua versione di Stazio; Pietro Pariati lavorava drammi di concerto con Apostolo Zeno, al quale a vicenda coadjuvava; l’Algarotti dava a ripulir i suoi scritti al Bressani;9 il poeta matematico Torelli rivide minutamente la Riseide dello Spolverini, l’Uccellagione del Tirabosco, e il latino poema sui gelsi di L. Maniscalchi; il Bertola usò lo stesso uffizio coll’Invito a Lesbia del Mascheroni.10 Gaspare Gozzi mandava al Seghezzi le sue opere da stacciare e ripulire; e moltissime sue lettere sono in pregarlo di tale uffizio. L’Alfieri sottoponeva le sue tragedie al Calsabigi e all’abate di Caluso. Il Beccaria si lasciava correggere da Pietro Verri. Ippolito Pindemonte, alla morte del Vannetti, si lamentava perchè più i suoi versi «da lui per farsi rabbellir non vanno»; e al padre Francesco Fontana barnabita milanese scriveva da Verona il 4 gennaio 1782: «Oh quanto la ringrazio, quanto le sono obbligato dell’ultima sua! Così vorrei sempre che mi venisse parlato, cioè con quell’ingenuità unita a quell’acume e a quell’accortezza; cose rare e la cui unione è ancora più rara … . L’amico tranquillo vede assai meglio del compositor riscaldato. Credi di non aver oltrepassati que’ limiti che ti hai prefisso, e t’inganni. Dopo la cara sua lettera, parmi di stimarla e di amarla più ancora di prima». Il secolo nostro darebbe altrettanti esempi di sì fruttuosa umiltà? E il Parini si professava obbligato di buoni consigli al [236] Bale|strieri,11 alla marchesa Castiglioni, al buon Passeroni, dal quale principalmente riconosceva il consiglio di non giuncare i componimenti con parole peregrine e frasi dismesse, e restituire al volgo i riboboli che i vecchi Toscani n’aveano tolti a prestanza. L’abbaruffata col Branda e col Bandiera fece nominare il Parini; il quale poi lesse al Passeroni stesso, a Francesco Fogliazzi, ad altri amici il suo Mattino e, confortato da loro, il pubblicò anonimo nel 1763, e due anni appresso vi fece tener dietro il Meriggio. Più cresceva d’età e di senno, più prendeva soggezione del pubblico; e continuamente limava i proprj componimenti; e quando, nel 1791, permise che Agostino Gambarelli suo ammiratore facesse la prima raccolta delle sue odi, le diede con quelle moltissime correzioni, delle quali tanto pro potranno fare gli studiosi.

9 Gregorio Bressani trevisano (1703-71) coltivò assiduamente la lingua, studiandola sui classici e deplorando il male scrivere degli scienziati; e il suo Discorso sulla lingua italiana può leggersi non men volentieri che il Saggio di filosofia morale sull’educazione dei fanciulli. Ma nel Modo di filosofare introdotto da Galileo ragguagliato al saggio di Platone e di Aristotele (Padova 1753), impugna Galileo e Newton, stupendosi che il mondo siasi lasciato illudere in modo, da preferirli a Platone ed Aristotele, e specialmente svetta [nel testo sverta] il primo dei quattro famosi dialoghi del Galilei intorno al sistema del mondo. L’Algarotti lo menò seco alla corte di Berlino e gli assegnò una pensione. 10 Pindemonti, Elogi. 11 «Io de’ bei detti tuoi nell’alta mente/Facea tesoro, e tu n’hai lode in parte/Se alcun ramo di lauro il Dio lucente/A questo crin comparte».

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Lavorava intanto lentamente alla Sera:12 ma le lodi non alleviavano l’incolpevole povertà di lui, ridotto ad aver una sola cameretta e non bastante pane da divider colla povera sua madre.13 Chi vorrebbe la sapienza disdegnosa e paziente di qualvogliasi traversia, sin della fame, insomma spartana, condannerà non la società costituita in modo che non sempre uno trovi come guadagnar faticando, ma il Parini stesso che ebbe ricorso ad amici e protettori, con lettere che facilmente si direbbero senza dignità; e prodigò sue lodi, non soltanto al munifico cardinal Durini, [237] ma ad uomini che non conoscevano in lui se non l’encomiatore.14 La condizione dei letterati se non fu mai prospera in Italia, meno era in que’ tempi, dove, poco leggendosi, l’autore non poteva invocare per unici mecenati il pubblico e il librajo. A Venezia compravasi due lire e mezzo venete un volume di 200 e più pagine; cinque soldi la Gazzetta del Gozzi,15 onde un nulla doveano pagarsi i manoscritti; le traduzioni tre o quattro lire al foglio; per sei lire furono tradotti il dizionario del Chambers e la Vita di Cicerone del Middleton; la tassa consueta per un sonetto era mezzo filippo; e un’intera collezione per nozze, netta da spese di stampa, 50 zecchini;16 da 300 lire davano gl’impresarj per una commedia al Goldoni o al Chiari; o, secondo Carlo Gozzi, tre zecchini per quelle a soggetto, trenta per le scritte, quaranta per un dramma: il qual Gozzi calcola che, a 12 lire il foglio in-12, un verso era pagato meno d’un punto di ciabattino. Metastasio non ricavò un soldo dalla stampa de’ suoi drammi, le cui dieci edizioni fruttarono diecimila luigi all’editore; non cento luigi il Morgagni dalle sue opere. Sterne, l’autore del Viaggio sentimentale, che a Milano lasciò galanti orme del suo passaggio, volle vedere il Passeroni, e pien di gratitudine e d’amore Lo chiamava suo duca e precettore;17 e vedendolo così poveramente in arnese, «Eppure dovete aver cavato tesori dal vostro Cicerone», gli disse: e stupì nell’intendere che non s’era tampoco rifatto delle spese. Vero è che di rimpatto era accademico Trasformato, Arcade, Fluttuante, Agiato, Affidato, Infecondo, e via là. Il Marelli, il Galeazzi, gli Agnelli libraj erano spesso gli amici de’ nostri letterati, i quali solevano adunarsi nelle loro botteghe; e per cortesia, o per la persuasione di spacciarla, assumevano l’edizione di qualche loro fatica, quando non la pagassero gli amici, gli scolari o qualche signore. Così dovettero compa-

12 «Tanto peggio se il Parini si lascia ire alla pigrizia, e se non viene a darci, dopo tanti anni, la terza parte del suo poema. Intanto ch’egli è giovane, dovrebbe pur adoperar quel suo cervello a far onore alla patria e a se stesso». Baretti, a don F. Carcano, 12 agosto 1778. 13 «Ch’io possa morire/Se ora trovomi avere al mio comando/Un par di soldi sol, non che due lire.//Limosina di messe Dio sa quando/Io ne potrò toccare, e non c’è un cane/ Che mi tolga al mio stato miserando.//La mia povera madre non ha pane/Se non da me, ed io non ho danaro/Da mantenerla almeno per domane». (Capitolo). 14 Il patrizio veneto cui diresse la bella ode del Bisogno quando andò podestà a Vicenza, appena si ricordava che una volta un tal Parini avesse messo una poesia nella raccolta fatta per lui in quell’occasione. 15 La lira è circa 60 centesimi: 8 faceano un ducato, e 22 un zecchino. 16 Quest’ultima notizia l’ho dal Pindemonti nell’elogio del Gozzi: le altre dalle baruffe tra i Gozzi, il Chiari, il Baretti. 17 Cicerone.

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rire le prime scritture [238] del Parini; dal Mattino trovasi scritto ricavasse 150 zecchini, ma abbiamo di che credere che neppur tanti n’avesse.18 Possiamo presumere che qualche patrizio e qualche veterano della gloria avranno incoraggiato il nostro autore, con aria di protezione dicendo ch’e’ dava buone speranze; l’avran chiamato poeta, titolo che racchiude sempre qualche atomo di beffa o di compassione; si saranno degnati di chiedergli un epigramma per i parafuochi,19 [239] un madrigale per un album, un sonetto per qualche raccolta, sicchè talvolta indispettito egli prorompeva: Che vestizioni, che professïoni? … Possibil che dottor non s’incoroni, Non si faccia una monaca od un frate Senza i sonetti, senza le canzoni? … E dalle e dalle e dalle e dalle e dalle Con questi cavolacci riscaldati. Questi erano i compensi al grand’ingegno; ma trovo che i Milanesi (d’allora) repugnavano alla luce sparsa sui loro patrioti, non volendo accorgersi come essa rischiara tutta la cittadinanza. Adunque, se anche non sparlavano d’un autore, lo guardavano pur sempre con un certo fastidio; appena l’avrebbero collocato a paro alle glorie d’un Veronese o d’un Parmigiano, il quale a vicenda da’ suoi 18 Questa lettera, che sta originale nella Marciana, CI. X, cod. 19, servirà molto bene a quelli che (altro luogo comune dei nostri declamatori) van gridando contro l’avidità de’ libraj e la pirateria: Al librajo Colombani, a Venezia. Milano, 10 settembre 1766. Fu per errore che esibii a V. S. Riv. il mio Mezzodì. Il signor Graziosi m’avea scritto raccomandandomisi per esso. Come io tardai molto a rispondergli, mi dimenticai il cognome, e scambiai Graziosi in Colombani. Tuttavia non mi dolgo di questo equivoco, avendo io la medesima stima per lei che ho per il signor Graziosi. Quanto alla mia Sera, io ho quasi dimesso il pensiero; non che non mi piaccia di compiere i tre poemetti da me annunciati; ma perchè sono stomacato dell’avidità e della cabala degli stampatori. Non solo essi mi hanno ristampato in mille luoghi gli altri due; ma lo hanno fatto senza veruna partecipazione meco, senza mandarmene una copia, senza lasciarmi luogo a correggervi pure un errore. Questa Sera è appena cominciata; e io non mi sono dato veruna briga di andare avanti, veduto che non me ne posso aspettare il menomo vantaggio, e probabilmente non proseguirò se non avrò stimoli a farlo. Aggradisco le proposizioni di lei, e su questo proposito le rispondo che sarebbe mia intenzione di fare un’edizione elegante di tutti e tre i poemetti, qualora l’opera fosse compita. Se ella dunque si risente di farla, io mi esibisco di darle la Sera terminata per il principio della ventura primavera, e insieme gli altri due poemetti, corretti in molti luoghi e migliorati. Il prezzo che io ne pretendo, senza speranza di dibatterne un zero, è di centocinquanta zecchini, da pagarsi un terzo alla conchiusione del contratto, e il restante al consegnarsi del manoscritto. Se ella non è di ciò contenta, non s’incomodi a scrivermi più oltre. Io mi sono indotto a risponderle in grazia della pulitezza con cui ella mi scrive; così non ho fatto con molti altri libraj, e fra questi, con due o tre veneziani, i quali hanno ardito di farmi l’esibizioni che fannosi a’ compositori d’almanacchi; alle lettere vigliacche de’ quali io non piglierò mai il disagio di rispondere. Farò il possibile per promulgar l’esito del suo giornale. E con tutta la stima mi protesto, ecc. 19 I versi sulle ventole e sui parafuochi furono fatti per Teresa Mussi, amica del poeta.

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era posposto ai Milanesi; meschini pascoli della mediocrità, che si adombra di chiunque la oltrepassa; pur beato quando non finiscono che in noncuranza o in riso, e non ne segua la codarda calunnia e la combinata persecuzione. Io so che il Beccaria pubblicò il suo libro fuor di paese; e quando alla seconda edizione arrivò a Milano, vi trovò contradditori e peggio; tanto da sgomentare la già vacillante risoluzione dell’autore. Della Storia di Milano Pietro Verri vendette una copia:20 e «Per [240] la fatica di molti anni (lagnavasi), per le molte spese fatte per consegnare nelle mani de’ Milanesi una storia leggibile della loro patria e un libro che senza rossore potessero indicare a’ forestieri curiosi d’informarsene, io non ho avuto dalla città di Milano nemmeno un segno che s’accorgesse ch’io abbia scritto. Ma già lo sapevo prima d’intraprendere un tal lavoro, e conosceva rerum dominos, gentemque togatam. Nella Toscana, nella terra ferma veneta e nella Romagna vi è sentimento di patria e amore della gloria nazionale. Ivi almeno una medaglia, una iscrizione pubblica, un diploma di storiografo, qualche segno di vita si darebbe, se non altro per animare alla imitazione. Ma noi viviamo languendo in umbra mortis. Non si sapeva il nome di 20 Il Baretti scriveva al milanese Carcano il 27 aprile 1765: «Credereste che in Roma caput mundi, e che in Fiorenza caput sapientiœ non ho potuto vendere dieci copie delle mie Lettere e della mia Frusta? Pensate poi negli altri paesi! E poi non avete alcuna idea dei nostri libraj, per le mani dei quali s’ha da passare? … Tratto tratto vien fuori (in Italia) qualche coserella in istampa che fa un po di rumore, ma presto quel romore s’acqueta e non se ne fa altro. Chi vuol leggere qualche cosa, procura di farselo prestare per risparmiarsi un mezzo paolo e se ne lascia passar la voglia: onde non v’è modo di fare ducati sicuramente». E più, tardi: «Delle prose ne vo’ scrivere, ma non in toscano, perchè nessuno me le paga. Delle inglesi sì, perchè ne ho delle ghinee» (26 settembre 1770). E il 3 novembre 1777: «Spiacemi che le ristampe del Cicerone privino il Passeroni di quel po di profitto che gliene verrebbe. Ma quei tanti nostri governi indipendenti gli uni dagli altri non sono troppo favorevoli alle lettere nostre; e aggiungasi a questo infinito malanno quella iniqua disonestà che fiorisce sì bella fra tutta la nostra canaglia, nel qual numero io inchiudo ciascun nostro stampatore». Altrove paragonava la condizione economica de’ nostri letterati cogli Inglesi: [240] «In Inghilterra, e particolarmente in Londra, lo scrivere de’ libri è una cosa ridotta così bene a mestiere, che gl’Inglesi hanno comunissima la frase The trade of an authour, Il mestiere d’autore. Chiunque ha facoltà mentali bastevoli per far comprare una sua opera da sole sei o settecento persone in tutta quella parte dell’isola chiamata propriamente Inghilterra, cosa non molto ardua a farsi colà, ha subito una sicurezza poco meno che fisica di campare onestamente con la sua penna scrivendo un libro dopo l’altro . . . . L’insaziabilissima ingordigia di leggere cose nuove, che tutti gl’Inglesi hanno dal più gran milordo e dalla più gran miledi giù fino al più tristo artigianello ed alla più sciatta fantesca, ha bisogno di continuo pascolo. Quindi è che quattro e più mila penne, in Londra solamente, hanno il comodo di somministrare quel pascolo a quella tanta ingordigia con più di trenta amplissime gazzette, sotto varj titoli con innumerabili panfletti e magazzini e fogli a imitazione dello Spettatore; ed estratti di sacra scrittura e di botanica e di medicina; e dizionarj stampati a quinternetto a quinternetto; e giornali letterarj e critici, e satire e libelli e panegirici e romanzi, e storie e poesie ed altre infinite cose; il tutto venduto a ritaglio di dì in dì, di settimana in settimana, di mese in mese; senza contare assai voluminose opere che vanno pubblicandosi dentro l’anno: cosicchè io crederei non esagerare se dicessi che più si stampa in una settimana in Inghilterra che in tutta Italia in un anno. Basta dire che d’ogni foglio di gazzetta che si vende, si paga al re un soldo sterlino, che equivale circa alla sesta parte d’un paolo, e che da questa piccolissima tassa sono stato assicurato da più persone degne di fede e da supporsi bene informate, che il re cava più di dugento lire sterline il giorno, vale a dire quattrocento zecchini circa dalla sola città di Londra.»

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Cavalieri; la Agnesi è all’ospedale: Frisi e Beccaria non hanno trovato in Milano che ostacoli ed amarezze. Il sommo bene di chi ardisce far onore alla patria è se ottiene la dimenticanza di lei». La storia del letterato si limita al gabinetto, dove egli prosegue [241] gli studj, o dolcemente protetti dal riposo, dall’amicizia, dalla fortuna, o agitato dai bisogni e dalla malevolenza, che spesso fan come il martello che migliora il ferro. E il Parini fu di quelli che, aderenti al patrio terreno come l’edera, non potrebbero staccarsene senza lasciarvi infinite barbe. Quanto ne sono avidi i nostri vicini, tanto noi negligiamo quegli aneddoti, che, se sfrivoliscono la storia, incarnano le biografie. Vive ancora alcun suo scolaro; noi conoscemmo molti suoi amici, ma quanto poco ci seppero dire oltre le futilità! Poche lettere pure ci rimangono: sicchè male possiamo penetrare nella vita sua intima e studiarvi un altro di quei genj artistici che, dallo slancio passionato pel difficile e per l’insolito, passano all’infingarda trascuranza sin delle fatiche ordinarie della vita. Del resto sol chi la assaggiò conosce qual ricompensa destini al letterato la società. Impedito e amareggiato ne’ primi passi dall’emulazione contemporanea e dall’invidia canuta, non una mano lo sorregge, sovente non una voce lo rincora nell’esitanza; vilipeso se tace la verità, sospetto se la dice; non genio, non sventura, non persecuzioni lo salveranno dai vantatori codardi, i quali negano fede a una generosità di cui si sentono incapaci; il dotto e l’elegante volgo dalla bassezza propria sentenzierà quello di cui non arriva ad abbracciar le intenzioni, a indovinare il pensiero, e il colto pubblico crederà alle asserzioni sventate d’un calunniatore anzichè ad una intera vita immacolata alle prove del terrore e delle lusinghe. Blandito e strapazzato, scopo alle celie e alle sevizie, il letterato sentesi solitario in una società, ch’egli dee pur frequentare per non esser eccentrico, e schivare per non divenir frivolo e infingardo: onde, non trovando che repulsione e ironia in un sentiero dov’era entrato pieno d’affetti, o prorompe alla stizza e al sarcasmo, o sconta il proprio genio nell’affannoso desiderio d’amorevolezza e d’intelligenza. In quei tempi calmi dove ciascuno è ridotto a camminare nella carreggiata solcatagli dai primi casi; in una patria dove la vita pubblica manca, nè è dato contribuire al bene di essa e al miglioramento pubblico, l’uom di forte sentire spasima nel vedersi condannato a far nulla; e l’Alfieri esclamava: «All’udire certi gran tratti di quei sommi uomini, spessissimo balzava in piedi agitatissimo e fuori di me, e lagrime di dolore e di rabbia mi scaturivano nel vedermi nato in Piemonte ed in tempi e governi ove niun’altra [242] cosa non si poteva nè fare nè dire; ed inutilmente appena forse ella si poteva sentire e pensare».21

21 Quando l’opera del Beccaria era qui attaccata dal professor Giudici, dal dottor Vergani e da altri, il Firmian scriveva: J’ai lu le livre des Délits et des Peines. Ce qu’on y dit de la question m’a beaucoup plu. Ma vanité en était flattée par ce que mon sentiment a été toujours de même sur ce point. Le livre me parait écrit avec beaucoup d’amour de l’humanité et beaucoup d’imagination. Viglietto del 3 febhrajo 1765. E la risposta alle critiche stampata a Lugano, trovava piena di moderazione, e tale che fa onore alla morale dell’autore. Kaunitz, il 27 aprile 1767, chiedeva ad esso Firmian informazioni sul Beccaria, e «Supposto che in lui prevalgano le buone qualità, non sarebbe da perdere pel paese un uomo che dal suo libro appare avvezzo a pensare, massime nella penuria in cui siamo d’uomini pensatori e filosofi. La considerazione verso i talenti de’ nazionali eccita gli uni dal letargo e dal torpore, e scioglie gli altri dello scoraggiamen-

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Vedemmo come alcuni, alla mancanza di civil libertà cercassero compenso nella economia politica, benchè quella sia stabile e garantita, questa scarsa e precaria. Altro campo rimane fuor de’ maneggiamenti politici: l’educare le menti al vero, al bello, al buono; preparare una miglior generazione, e i patimenti diminuire colla beneficenza. Il Parini in fatto si diede a maestro in casa de’ Borromei, poi dei Serbelloni, coi quali conservò sempre amicizia, e per loro mezzo frequentò le conversazioni signorili, facendovi tollerare la superiorità del suo ingegno e l’arguzia del suo osservare.22 [243] La Gazzetta allora non era una faticosa altalena d’opinioni e di parole, ove abbindolar sofisticherie e travisare fatti per corrompere la morale e il senso comune; ma informava parcamente delle notizie estere; delle cose interne poco ragionava, come avviene in tempi quieti e in governi che, per paura di sentire o critiche o suggerimenti, nè tampoco si curano di propalar il molto bene che fanno. Firmian, vedendo come, essendo essa lo scritto più diffuso, non convenga commetterla che a mani maestre e intemerate, la affidò al Parini, dispensandolo dalla censura e somministrandogli i giornali forestieri. E quando il seppe cercato maestro all’università di Parma, fece nel 1769 eriger a posta per lui una cattedra di belle lettere nelle scuole Canobbiane. Distrutte poi queste e soppressi i gesuiti, il Parini venne chiamato a leggere eloquenza a Brera23 e nell’Accademia delle Belle Arti. Si trovò allora meglio agiato, ma subì la sorte d’impiegato regio; e se non vendette l’anima, imprestò qualche volta la musa a cantare i duchi e l’imperatore; versi fatti con sì poca attenzione che da poi assicurava non esser suo un sonetto per Giuseppe II, e credeva in vece suo uno reclamato da Teodoro Villa. to». E al 21 maggio seguente insiste sulla «necessità di conservare nel paese un ingegno atto ad ispirare eguale spirito ed amore per gli studj filosofici alla gioventù, pur troppo aliena dalle occupazioni serie; occupandosi quella d’Italia per lo più nella sola triviale giurisprudenza del foro, destituita d’ogni erudizione, o in studj frivoli, i quali, se pure servono alla coltura dell’ingegno, nulla però conducono all’emendazione dell’intelletto.» 22 «È ver che questa infaccendata etade,/in panche acculatar, facendo guerra/D’assi, di re, di fanti e di cavalli,/Ed in sempre fiutare orme di donne,/Tempo non ha da decretare i nappi/Dell’infame cicuta, e non isforza/A discacciar dalle segate vene/Filosofiche vite in un col sangue./Ma qual pro? questo secolo apparecchia/Allo speculator de’ suoi costumi/ Altri gastighi. Ove apparisce, ei vede/Tosto facce ingrugnarsi, aggrottar ciglia,/E mostra far d’infastiditi orecchi». (Gozzi). 23 Aveva cento doppie milanesi di stipendio. Gli fu poi cresciuto quando vi diventò prefetto degli studj. Il Kaunitz, viste le prime lezioni del Parini sopra le belle lettere, scriveva al Firmian: «Da questo saggio traspira il buon gusto e il calore da cui è animato l’autore, e ho motivo non solo di compiacermi della scelta di lui, sembrandomi collocato nella vera sua nicchia, ma anche di ripromettermi il vantaggio di chi vorrà mettere a profitto i lumi del professore. In questi sentimenti scrivo all’abate Parini in risposta alla di lui lettera. Ciò non ostante potrà l’eccellenza vostra medesima assicurarlo della mia soddisfazione, per così viepiù animarlo a distinguersi in questa per lui onorifica destinazione». E il Firmian, al 9 gennajo 1770, rispondeva al Kaunitz: «La superiore approvazione da V. E. manifestata per mio mezzo al prof. Parini non potrà se non essere di gran conforto al medesimo per animarlo a faticare e proseguire con ardore la carriera intrapresa». Si hanno in fatto lettere del Parini al Firmian ove lo ringrazia degli «elogi che ei si era degnato invariabilmente di fare ai talenti di lui»; e d’averlo animato «ad esporre le sue circostanze in ogni occasione dove vedesse potergli giovar il suo patrocinio».

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A chi fu mai lecito camminare alla gloria senza il dentecchiare de’ pedanti, i latrati dell’invidia, le vendette de’ compatrioti? Uom di libera sentenza, egli usava quel franco esprimere che tanto facilmente si trae a peggior senso, massime in tempi e paesi di fiacchi [244] caratteri, dove vuolsi l’adulazione sotto tutte le forme, dove la lauta società non tollera attorno a’ suoi godimenti se non eunuchi. Poi aveva piccata nel vivo quella classe spuria che della nobiltà non tiene se non le magagne; qual meraviglia se essa voleva male a chi avea ragione troppo presto? Neppur allora mancava la razza di coloro i quali, col far villania e danno ai buoni e valenti, cercano grazia e lucro a sè malvagi e dappoco. E costoro rapportarono il Parini di pensare antipolitico: ma i governanti non si lasciaron insusurrare dalla viltà concittadina; e il maltalento di coloro che avevano fatto opera di cacciarlo dalla sua cattedra non riuscì se non ad attraversargli ogni miglioramento che gli desse come meglio riposare il capo incanutito nella virtù. Intanto gl’intelletti osservatori si serenarono dapprima, si sgomentarono da poi alla rivoluzione di Francia. Fu aperta in nome dei più sacri dogmi dell’eguaglianza di tutti in faccia alla legge: ma i filosofi che le aveano dato la spinta senza calcolare dove arriverebbe, da sopposti arbitrarj deducendo sofistiche illazioni, non aveano intesa l’origine della ineguaglianza fra gli uomini, nè determinatone i confini; peggio ancora l’intese il volgo, che si figurò una parità di fortune, non di diritti. Da qui una rivoluzione cui mancò uniformità e certezza di scopo; con sapienza intollerante e sterminatrice rinnegò tutta l’esperienza de’ secoli; con logica inflessibile da santi principj dedusse scellerate conseguenze: sicchè al trionfo dell’idea si immolavano le persone; professavasi un amore dell’umanità e della virtù dinanzi al quale perdeano valore i patimenti, il sangue, perfino il delitto; e una nazione audacissima a intraprendere tutto, incapace di nulla finire nè conservare,24 e che sembra destinata ad esser la clinica di tutte le malattie sociali, agli antichi surrogò nuovi delirj, e versò torrenti di sangue per questi come già per quelli. Tanto le idee si alterano nel tradursi in fatti. Non ripeteremo come tra noi la nobiltà fosse una condizione, non uno stato, nè esecrata dai più; e se alcuni di essa, non volendo esser popolo, diventavano volgo, alcuni zelavano il privilegio della gentilezza, del patronato, dello studio. Empietà non s’aveva, nè ancora erasi introdotto quel sensismo speculativo e pratico che le [245] somiglia e che suol nascere dalla prevalenza de’ miglioramenti fisici sopra i morali. I nostri teneano i difetti dello sfrazionamento, idee locali e nessuna generale, gelosie anguste, piccoli disegni: e per un gesuita il quale attaccasse Dante faceano più rumore che per un filosofo il quale attaccasse Dio. Alquanti avvocati e curiosi aveano veduti i libri francesi e l’Enciclopedia, ascoltato i filosofi che respingeano il mondo alla tirannia dell’incredulità, quasi da diciotto secoli la libertà non fosse nata col Vangelo;25 aveano dato il nome di qualche loggia de’ franchi muratori,26 ove predicavansi la filantropia, l’egua24 Les Français sont tout feu pour entreprendre, et ne savent rien finir, ni rien conserver. Rousseau, Confessions. 25 Voltaire a D’Alembert 16 giugno 1773 scriveva che l’Italia anch’essa era piena di persone che pensavano come loro, e che solo per interesse trattenevansi dal palesarsi. Asserto gratuito. 26 La massoneria da molti era tenuta come istituzione onestissima; e perfino l’abate Barruel, accanito a tutto ciò che sentiva di rivoluzione, nella sua Storia del giacobinismo, non ri-

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glianza, lo sprezzo de’ pregiudizj, ma con una gajezza che di fiori e balli e cene copriva la teatrale austerità delle paurose iniziazioni. Aggiungete alcuni ecclesiastici, o ligi a quel bastardo giansenismo, o vogliosi di rompere incomodi voti. Ma i più non concepivano che sgomento di questa rivoluzione che strascinava il re in trionfo per poi strascinarlo al patibolo, e che, abbandonata alle declamazioni de’ retori e al braccio della ciurma, gavazzava nel sangue e minacciava strozzar l’ultimo re colle budella dell’ultimo prete. E benchè si fosse rimessa sulle vie della moderazione, pochi salutarono con fiducia il vessillo tricolore quando lo sventolò dalle Alpi Buonaparte, proclamando venire a rompere i nostri ceppi, e a farci non francesi nè tedeschi, ma italiani. Pure la vittoria e la riuscita affascinano sì che il Buonaparte fu ricevuto fra applausi intemperanti che gli lusingarono allora primamente una superba speranza.27 [246] Subito egli scrisse a Barnaba Oriani: «Le scienze che onorano lo spirito, le arti che abbelliscono la vita e trasmettono i grandi fatti all’avvenire devono nelle repubbliche esser onorate. Conobbi con dolore che a Milano non godono i sapienti la considerazione che meritano; ritirati ne’ gabinetti e nei laboratorj, tengonsi ben fortunati quando i re ed i preti non li molestino. Oggi tutto muta: il pensiero è libero in Italia; non inquisizione, non intolleranza, non dispute teologiche. Invito i sapienti ad espormi il come dare nuova vita alle scienze ed arti belle». Applausero a queste parole i liberalastri, cui pare franchezza anche l’ingiuria invereconda quando in bocca al forte; ma l’Oriani, robusto nella propria semplicità, gli rispondeva che «i letterati di Milano non erano stati negletti nè sprezzati dal governo, anzi godevano un’onesta posizione e stima proporzionata al merito; nella guerra presente, comunque dispendiosa, n’erano stati pagati puntualmente gli assegni, i quali sol da poche settimane cessarono, lo che reca grave costernazione in molte famiglie».

fina di far proteste sopra le intenzioni innocenti di molti franchi muratori, e sull’ignoranza dei fini antireligiosi e antigovernativi mantenuta nel maggior numero degli adepti, i quali nelle logge non cercavano che un passatempo, l’occasione di far conoscenze e di prestare e ricevere sussidj fratellevoli, un’eguaglianza lusinghiera e le agevolezze d’un pratico deismo. 27 «Cittadini milanesi, nell’atto che prendo possesso in nome della Repubblica Francese della città di Milano con sua provincia, vengo in suo nome ad assicurarvi degl’immutabili suoi sentimenti. Questi sono, che ogni individuo della società contribuisca al bene generale; che tutti esercitino i loro diritti sotto la scorta della virtù, che ogni essere, riconoscendo un Dio, eserciti quel [246] culto che gl’inspirerà la propria coscienza; e che questo, qualunque sia, venga rispettato come il primo dritto dell’uomo. La Repubblica farà ogni sforzo per rendervi felici; a voi tocca di contribuire a togliere gli ostacoli. Che il solo merito segni una linea di separazione fra uomo e uomo: in tutto il resto una fraterna eguaglianza formi un sul corpo; e siccome tale eguaglianza è patto della libertà, vi conviene difender questa col proprio sangue. Che ciascun goda delle sue proprietà e di tutti quei vantaggi che accorda una repubblica ben organizzata. Pensate che ogni grand’opera non riesce perfetta col primo getto, e colla moderazione e colle virtù si possono solo correggere i grandi errori». A Sant’Elena egli diceva al dottore Antonmarchi: – Quando prima entrai in Italia, ad ogni mio passo l’aria sonava d’applausi, tutto pendeva da me: dotti, ignoranti, ricchi, poveri, magistrati, preti, tutti a’ miei piedi. Vi confesso, dottore, che questo accordo d’omaggio mi esaltò, m’occupò così che divenni insensibile a tutto quello che non fosse gloria. Invano le belle italiane faceano di sè bella mostra innanzi a me: non le curavo».

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La protezione alle lettere cominciava dunque dall’impoverirle, come la libertà dall’imporre venti milioni: nè noi sappiamo che alcun atto generoso usasse Buonaparte col Parini; cuor sicuro, che, se non erasi curvato ai re, neppur voleva curvarsi al generale. La congregazione municipale che, come avvien nelle rivoluzioni, raccolse le redini cadute al governo, procurò concordare i cittadini nell’unico scopo del pubblico bene, poi al generale di brigata [247] Despinoy, comandante di piazza, inviò supplica perchè l’amministrazione fosse affidata a persone probe, abili e che coi proprj beni potessero garantire il pubblico interesse. Di fatto si elesse una municipalità di trentun membri; e poichè una rivoluzione che non sia già guasta nel nascere dalla briga o dal tradimento sente la necessità di fregiarsi di bei nomi, atterrata l’antica municipalità, figlia dell’arciducal tirannia, nella nuova si chiamarono Pietro Verri e il nostro Parini. Il primo, versato di lunga mano negli affari, al nuovo posto non dovea mostrare nè imbarazzo nè meraviglia:28 l’altro non poteva recarvi se non quell’ingenua confidenza da cui mai non guariscono i galantuomini; ma poichè seconda vita gli era l’amor della patria, conobbe quanto quella patirebbe se, imitando Pomponio Attico, i buoni si tenessero a man giunte in disparte con quella noncalenza che si rimette a ciò che farà il vicino anche in quelle crisi ove de’ buoni occorre maggior bisogno. Chè dei partiti il più tristo è il non far nulla, per darsi il meschino piacere di querelarsi degli uni e degli altri. Coloro che dalla libertà voglion fare il contrapposto del buon senso speravano che il Parini dovesse gettarsi nelle lor gozzoviglie alla scapestrata; egli amico già conosciuto del franco stato e oppugnatore dell’aristocrazia. Ma il pupillo che dalla rigida tutela salta in possesso d’inattesa eredità, inebbriato ne farà scialacquo, non il solerte negoziante che a stenti e a sudori procacciò. Da un pezzo il Parini era pari alle chieste riforme; da un pezzo seguiva nel Monitore francese i casi della gran nazione, e que’ ragionamenti pieni d’errori o d’illusioni, ma insieme d’impeto e vigoria: onde, premunito contro que’ parossismi, non si precipitò alle opinioni estreme che, per quanto speciose, non sono accettabili se non a intelligenze volgari e a cuori pervertiti; non mischiò la sua voce alle tante che o ringhiavano un cianciero eroismo e spettacolose paure, o adulavano all’idolo incensato dai preti, dai re, dai popoli, dalla fortuna, Buonaparte. Poco si tardò a comprendere quanto facilmente si deturpi la libertà allorchè non sia conquista faticata, ma dono, o vendita, o zimbello; e come agli antichi padroni che s’intitolavano re, [248] arciduchi, imperatori, ne fossero surrogati altri che si chiamavano commissarj, generali, direttori, cittadini; e a noi non restasse che pagare le spese del travestimento. Sovrastava a tutti l’arbitrio militare, e pensiero supremo era il vestire e mantenere la gloriosa armata. Il decreto 30 fiorile portava che l’esercito d’un monarca insolente avrebbe operato immensi mali, e invece l’armata repubblicana prometteva rispettar le persone e le proprietà, ma dovendo proseguir le vittorie, imponeva venti milioni di franchi, e suggeriva di levarli sulle persone agiate e sui corpi ecclesiastici. Più che l’enorme aggravio, la capricciosa partizione recò turbamenti, eppure avanti dicembre furono pagati. Ma l’avidità militare moltiplicava imposte ed 28 Una delle prime mozioni di quel virtuoso cittadino fu perchè si onorassero di monumenti Beccaria ed altri illustri milanesi.

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esazioni e contribuzioni, oltre lo sfacciato rubare di que’ commissarj di guerra, contro cui invano fulminava Buonaparte; oltre i doni che bisognava fare a questo e a’ suoi parenti e amici.29 La municipalità, corpo sovrano di nome, stava sotto la vigilanza di tre agenti militari, capo il Despinoy: costoro presentavansi ai municipali, dettando come legge il proprio volere; e se trovassero contraddizione, snudavano le sciabole, e battendole di piatto sulla tavola dove si discuteva, prorompevano in quelle bestemmie e in que’ modi d’inurbana confidenza coi quali allora si credeva esprimere la proclamata elevazione della plebe. Avendo la municipalità milanese abolito i titoli nobiliari, il Despinoy cassò l’editto perchè non firmato da lui; un tratto parvero dunque rinascere le speranze aristocratiche, ma egli dichiarò stare il fatto, non disapprovare che l’usurpazione de’ municipalisti. A’ costui rimbrotti il Parini, impugnando la bandoliera tricolore che prima portavasi a cintura, e che poi (a proposta di qualche autor di mozioni) erasi messa alle spalle, «Perchè dunque non ci tirate ancor più in su questa fascia, e non ce la incappiate al collo?» I voti del popolo, gli esprima o no, sono abbondanza, giustizia, sicurezza. Il milanese poi, nullameno che rivoluzionario, senza coazione aveva obbedito alle leggi, perchè queste aveano il senno di essere poche; sproveduto del resto d’opinione pubblica, del sentimento d’un interesse comune, della cognizione de’ proprj diritti, necessaria [249] per difenderli con fermezza, accettò le feste, le pompe, i fraternizzamenti, le braverie e la comodità del soperchiare, offerta dal cessare d’un governo prima che un altro ne sia stabilito; seguitava la piena, non intendendosene; applaudiva alle catilinarie contro gli aristocratici e i preti; ma non tardò a mostrar repugnanza a uno stato, men tollerabile perchè ostentava libertà. I nobili, da un odio esotico e da non provocate vendette bersagliati non solo nelle sostanze e nei servi, ma negl’insulsi titoli, ne’ vani stemmi, fin nei sepolcri,30 avversavano la tirannia nuova. Nelle plebi apparve la potenza di que’ pregiudizj che pretendeano salvi gli averi, sicura la religione, rispettate le opinioni. Quel che, secondo gli interessi, sublimasi come popolo o si vitupera come canaglia, da per tutto prendeva sin le armi onde protegger il viatico e le esequie dalla derisione e dai divieti de’ giacobini: vedeansi miracoli, e qui in Milano la gente s’affollò sotto un Sant’Ambrogio che stava al canto degli Spadari; dicendo agitava lo staffile per cacciar i Francesi, talchè fu duopo calarlo e asconderlo: in Val Porlezza, in Val Menaggio, in Brianza si tumultuava: il 22 maggio a Como s’insultò l’albero della libertà, e sebbene il vescovo e buoni cittadini a forza d’esortazioni rimettesser la calma, un de’ capi fu passato per l’armi; il 23 fu tumulto a Milano, dissipato dai dragoni del Despinoy: più seriamente insorse Pa-

29 Sulle finanze del triennio, vedasi l’appendice. [qui però non riprodotta] 30 Il Verri sull’avito oratorio in Ornago fe scrivere Petrus Verri stemma abstulit, nomen posuit. Allora furono guasti molti bei lavori, come vedesi in tutte le tombe, principalmente a Sant’Eustorgio e alle Grazie, e anche gli stemmi che ricordavano l’antica nostra indipendenza. I ricchi, ridotti al rifugio de’ partiti soccombuti, le dimostrazioni, tralasciarono d’andar al teatro; e fra i sintomi dell’aristocrazia un giornale d’allora dà: noja dell’altrui allegria; abborrimento degli spettacoli pubblici; poca attitudine alle maniere plebee . . . . Un altro denunzia un piano di nobili, che consisteva nel ritirarsi in villa, non andar più al corso, nè ai giardini pubblici.

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via, dove accorso Buonaparte, pose Binasco a fuoco, la città a sacco e sangue,31 sopra tutto portandone via le campane, il cui martellare spaventava i vincitori di Montenotte. Del che, dando avviso al direttorio esecutivo, il Saliceti scriveva: «Per assicurare maggiormente la calma, ho ordinato si levino le armi di qualunque sorta a tutti gli abitanti della Lombardia senza veruna eccezione, non essendo a [250] fidarsi di alcuno. Tolta la ventesima parte appena, tutti sono affezionati all’antico governo; di questa ventesima parte quei che si mostrano decisamente pei Francesi mi pajono molto ambigui, essendovi spinti dall’interesse o da cupidigia di rimediar agli sconcerti della passata condotta. Gli ho conosciuti, ne cavo quel che posso, ma non mi lascio toglier la mano». E per verità, quanto quel governo durò, dovette lamentarsi di scarso patriotismo e dell’avversione delle plebi, palesata anche con frequenti assassinj ed accresciuta da moltiplicati supplizj;32 ma in tali sconvolgimenti la gran difficoltà consiste nel discernere il popolo dalla ciurma. Le rivoluzioni poi di pensiero non di cuore, improvisate per imitazione o per comando, sogliono operar dispoticamente, anzi che saper accomodare le novità all’indole di ciascun popolo. Delle novità, a tacer quelli che ne faceano bottega, s’invasarono alcuni pochi, e coll’impeto di molte33 sbandate, rivoltaronsi contro l’altare ed il trono prima d’intendere con chiarezza il nuovo sistema, nè concepire le nuove obbligazioni che imponeva; e destri alle schermaglie della rivoluzione, non alle battaglie della libertà, usando talento dov’era necessario carattere, coll’audace franchezza onde aveano rovesciato le prime barriere camminavano innanzi sfrenati, disviando dai principj e dai costumi, in libertà di oltraggio se non anche di delitto. Quando bastavano audacia, ciance e convulsioni, i saccenti si faceano innanzi; gente impacciosa, più abbondante ove è minore la politica educazione, e che con un’attività febbrile aspirando ad esser qualcosa e distinguersi con mozioni e decreti, si mette in prima fila tutte le volte che si tratta di dileticare le passioni del volgo o di adular i potenti. Usciva insieme quella bordaglia che vien a galla in ogni scossa, pronta a gridar viva a chiunque le lasci una settimana per soddisfare un’ambizione, un rancore, una cupidigia; e che si fa merito di martirj che nè tampoco meritò. Usciva la ciurma scribacchiante che, strascinata nel movimento, pretende averlo diretto, e che sieno sue le parole che suonano dapertutto, come se l’eco pretendesse aver lui parlato pel primo; che s’arroga di rappresentare il popolo; che, dopo udite tutte le ragioni, grida ancora come niuno avesse parlato; che non tien conto delle difficoltà nelle sue proposte, ridicole al buon senso, quando [251] anche non sono micidiali alla libertà; scaraventa que’ proclami in cui la sola cosa degna di considerazione è il vederli, sentimenti e frasi, ripetuti in pari circostanze un mezzo secolo più tardi. Allora la foga di mutar mestiere, disfacendosi gloriosamente di quel ch’erasi malamente esercitato; un cattivo prete si rendea politico; uno screditato giornalista, oratore demagogo; un adulator pagato di re, sommovitore di plebi; un serio filosofo inascoltato, libellista leggero; un filologo, finanziere. Così alla democrazia che schiude un esercizio a tutte le forze e capacità, sottentrava quella 31 Fra le vittime furono monsignor Rosales, arciprete nel duomo di Milano, ito colà per metter pace, e lo storico padre Capsoni, affacciatosi a una finestra. 32 Vedansi le prove nell’appendice [qui però non riprodotta]. 33 [Nel testo molle]

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demagogia che si fa sgabello ai nani, che produce apoteosi senza virtù, avanzamenti senza merito, cariche senza cognizione nè probità; dove gli intriganti escludono gli onesti e i pratici; dove la moderatezza, la riflessione, la gravità, che potrebbero temperare o dirigere lo smanioso movimento, sono accusate, svilite in modo che ammutoliscono e si ritirano. Affluiva nella nuova repubblica quanto di più fermentativo conteneva l’Italia. Il Gianni improvvisatore, carezzato da Buonaparte; il Ceracchi scultore, che poi fu vittima d’una congiura contro quel fortunato; il Barbieri architetto romano, il metafisico abate Poli, gli abati Valle e Melchior Gioja, il Valeriani, autore dell’esame delle Dodici tavole, il Galdi, l’Abamonti, il Petracchi, l’erudito Tambroni, il Poggi, il Salfi, il poeta Fantoni che «col linguaggio dei profeti dell’antico testamento parlava della rivoluzione francese e della libertà»;34 il Monti che le sue imprecazioni contro la repubblica volea farsi perdonare con imprecazioni più violente contro i tiranni; quel Ranza vercellese, maestro d’umanità a Torino, che divenne poi l’organizzatore di tutte le feste e di tutte le dimostrazioni, tema prediletto alla retorica di Carlo Botta, faceansi regolatori del paese, più potenti quanto più sapeano umiliarsi ai veri padroni. Ne’ loro giornali, ne’ profusi libelli mostravano tendenze piuttosto che sistemi, dottrine indecise, solenne ignoranza delle grandi quistioni che trattavano, mentre sfoggiando un lusso d’ingiurie e la sciagurata smania di voltar tutto in riso, non v’era persona o cosa che si rispettasse, non violenza che non si suggerisse o si applaudisse; non permettendo se non le verità piacentiere, sulle piazze si bruciavano i libri che opinassero diversamente dalla moda, o i giornali che dessero notizie non volute; supponeansi pericoli imaginarj per giustificare [252] provvedimenti esagerati. Ne’ circoli d’istruzione pubblica gareggiavasi a chi ne scaraventasse di più badiali; il cittadino Sueri vi declamava contro «i frati brodosi, animali assai nojosi»; la cittadina Mattei dissertava sulla privata e pubblica educazione femminile; la cittadina Lattanzi sulla schiavitù della donna;35 la cittadina Sangiorgio esibiva la propria mano a chi le recherebbe la testa del tiranno dei Sette Colli. Tutto andava in partiti; aristocratici e democratici, preti, giacobini, agenti del direttorio, emissarj dell’Austria, Milanesi, Novaresi, Bolognesi, Veneziani formavano altrettante fazioni che si contrariavano, e in altro non pareano accordarsi che nel nuocere alla repubblica. L’indipendenza non era ancora acquistata, e già sull’uso di essa si svituperavano federalisti e unitarj. Reggiani, Bolognesi, Valtellini . . . . chiedendo d’unirsi alla Cisalpina,36 pur voleano riservare privilegi e sgravio del debito comune e perfino l’unicità della religione cattolica; mentre altri chiedeano la fusione, la fusione immediata, e «Buonaparte! Non vi ha più mezzo: conviene unire immediatamente in una sola repubblica tutti i popoli liberi dell’Italia. I popoli il vogliono; tu non puoi, tu non devi più tenere sospesi i loro voti».37 34 Estensor cisalpino, N. 23. 35 Se si scriveva ladramente l’italiano, nulla meglio andava pel francese. La cittadina Lattanzi dedicava a Giuseppina Buonaparte la sua Dissertazione sulla schiavitù delle donne con queste parole: Agréez l’offre que je vous fais d’une mémoire en faveur de notre séxe. L’esclavage des femmes italiennes ne peut être mieux recommandé pour qu’il n’ait pas son terme desiré, puisque vous étes la chére moitié du Libérateur de notre pays. 36 I Veneziani sottoscrissero per la fusione in un libro che fu legato in argento, perchè il libro d’oro era nome esecrato; e lo presentò il cittadino Francesco Battaggia. 37 Estensor cisalpino, N. 2.

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Il Parini, degno de’ nuovi tempi perchè avea parlato di libertà e d’eguaglianza prima che fosse di moda, apparteneva a que’ democratici antichi, quali Socrate, Aristofane, Demostene, che abborrivano il volgo perchè amavano la libertà; e fra i tosati Bruti, che dalla venerazione del poter assoluto passavano di sbalzo all’idolatria dell’indipendenza individuale, non portò un’iracondia di convenzione; e quando il Monti cantava La vittoria ne’ bellici affanni Sta sul brando che i regi ferì; [253] e il Foscolo: piantate Ne’ rei petti esecrandi Infino all’elsa i brandi, e quando veemenza ed enfasi erano in tutti gli scritti, fin de’ più savj, egli osava spiacere agli esagerati, affrontare l’impopolarità, ricusando i deplorabili sagrifizj cui si condanna chi vive d’applauso plebeo. Egli, che spesso aveva derisa l’imbelle fiacchezza de’ suoi contemporanei, dovette esultare al rinnovantesi ardor militare, e a quei primi sperimenti di Bassano, di Faenza, d’Ancona, dove i Cisalpini preludevano al valore che doveano poi mostrare all’Ebro, al Raab, alla Beresina, combattendo e morendo intrepidi, sebbene per una causa che più non era la loro.38 Avrà goduto a quella festa della confederazione che si celebrò nel Lazzaretto, ove i rappresentanti di tutte le frazioni d’Italia venivano a giurare di non formar più che una sola nazione, e dove, tra le indeclinabili are e ghirlande pagane e figure de’ Curzj, degli Scevola, de’ Bruti, leggeansi epigrafi come queste: L’unione dà la forza e sublima il coraggio – Senza costumi non è virtù, nè senza virtù libertà – Il vero cittadino non dispera mai della salute della patria. Ma non potea non istomacarsi quando vedeva, col nome della libertà, piantato il peggior governo, cioè il militare, e questo arrestare i membri dell’antica congregazione di Stato e della municipale, seppellirli in numero di ben sessanta al capitano di giustizia, poi trasportarli in lontane fortezze per molti mesi, «misura di pubblica sicurezza»;39 tra i vanti di democrazia, rubar il pane al povero, togliendo i pegni da esso deposti al Monte di pietà e gli argenti delle sue chiese; tra i vanti di fede pubblica, sospendere i pagamenti del Monte;40 tra l’affettata protezione [254] delle belle arti rubar i capolavori, cari a un popolo che a quelle credeva anche dopo cessato di credere ai re, ai nobili, ai preti;41 quando vedeva 38 Buonaparte, l’uom dalle buone parole e dai tristi fatti, diceva nel nostro consiglio legislativo: «Gli Italiani non giungeranno al posto ch’io loro destino, se non persuadendosi che la forza dell’armi è il principal sostegno degli Stati». 39 Erano delle primarie famiglie della Lombardia; e furono rimpatriati soltanto in settembre. 40 Il 14 maggio 1796. Al 14 germile anno VI fu sottoposto al corpo legislativo un ragionato ragguaglio sullo stato di esso Monte; nel quale si dimostrava un credito di 36,064,078 verso la Camera Aulica. 41 L’esempio era venuto da Giuseppe II, che tolse alla sacristia di San Celso una Sacra Famiglia di Raffaello, compensandola però con sei candellieri e una croce d’argento e due doti annue. Tolti dalla Repubblica Francese furono alle Grazie la famosa Coronazione di spine del Tiziano e il lodatissimo San Paolo di Gaudenzio Ferrari; a San Celso il San Sebastiano di Giulio Cesare Procaccini; alla Vittoria l’Assunta di Salvator Rosa; a San Giovanni

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istituir un comitato di polizia «per abbattere gli sforzi degli inimici della libertà, che tentano da ogni parte di corromper l’opinione e arrestare i progressi dello spirito pubblico», cioè sostituire l’arbitrio dell’uomo alla imparzialità della legge, e raccomandare e onorare lo spionaggio;42 quando vedeva nel [255] Moni|tore, nell’Estensor cisalpino, nel Foglio de’ fogli, nel Giornale senza nome, nel Termometro politico . . . . intaccarsi impudentemente le persone, perseguitarsi le opinioni, denunziare or l’arcivescovo perchè funzionò con pomposi arredi, or il vescovo di Como perchè visitò i paesi svizzeri di sua diocesi senza passaporto, or i preti che andavano a raccoglier lo stato delle anime, or il volgo che festeggiava alla Palla sant’Aquilino o il Crocifisso delle colonne di S. Lorenzo;43 e sanalle Case Rotte le Anime purganti dello stesso; unico quadro restituito nel 1816, e posto a Brera. Dalla Biblioteca Ambrosiana furono levati 13 volumi manoscritti di Leonardo da Vinci, dei quali un solo fu reso nel 1816, quando furono restituiti il Giuseffo Ebreo su papiro, il Virgilio postillato da Petrarca, la cronaca di Martin Polacco, un Dante su pergamena del xv secolo, alcune cose del Galilei e il cartone di Raffaello della Scuola d’Atene. Dalla Biblioteca di Brera 133 rarità, fra cui 108 edizioni anteriori al 1476; nove più non furono rese, tra cui la Biblia Pauperum su tavolette di legno, che precedette le edizioni di Magonza, un Cantico de’ cantici, una Ars memorandi, una Historia antichristi. Dalla pinacoteca di Brera si dovettero più tardi ceder al Museo Napoleone varj quadri, ricevendone altri in cambio. 42 Libertà, Eguaglianza. In nome della repubblica francese, una ed indivisibile. Il Comitato centrale di polizia presso l’Amministrazione generale della Lombardia: Cittadini! L’accusa fu sempre la sorgente della pubblica sicurezza, la salvaguardia della libertà: odiato vizio se serve a garantire un tiranno ed a turbare la pace di quei degni cittadini che rinchiudono un’anima repubblicana sotto il regno del dispotismo; diviene una virtù se è posta in opera per distruggere le sorde trame dei nemici della patria, e per mettere tra le mani dei magistrati le prove onde scoprire ed abbattere i fautori della tirannia. Lungi da voi, o cittadini, l’antico pregiudizio che segna con onta d’infamia gli accusatori. Infami sono coloro che cospirano contro il ben pubblico, che formano dei disegni contro i nostri liberatori e contro i buoni cittadini, che con voci bugiarde ed artificiose cercan di spargere tra il popolo ora il malcontento colle calunnie ora lo spavento con false novelle, figlie de’ loro desiderj e della loro perfidia. Il Comitato centrale di polizia v’invita, o buoni cittadini, a denunciargli tutto ciò che giunger vi potesse a notizia che tendesse a turbare la pubblica tranquillità. Un’urna chiusa a chiave, e posta nella parte esterna del Comitato situato nel palazzo Marini, assicurerà i timidi dal dubbio d’essere svelati, e lì renderà certi che le loro carte passeranno immediatamente nelle mani dei membri del Comitato. Quelli che, senza presentarsi al medesimo, volessero esibire la loro opera per l’assicurazione della pubblica quiete, potranno ivi portare le loro memorie, certi di trovare grata compensa alle loro offerte, se verranno accettate; alle notizie che verranno comunicate, a misura della loro importanza; ed in ogni caso il più inviolabile segreto. Bravi amici della libertà, accorrete alle nostre voci, secondate i nostri coi vostri sforzi e fate che la nostra vigilanza riunita porti un occhio penetrante sull’aristocrazia che cerca avvilupparsi nell’oscurità dell’intrigo: essa, tostochè scoperta, sarà atterrata, e noi con sicurezza potremo correre unitamente alla libertà, dolce meta de’ nostri voti più ardenti. Milano, dal palazzo Marini 14 Brumale anno V della sudetta Repubblica. I membri del Comitato centrale di Polizia Sommariva – Porro – Visconti Abamonti. Segretario. 43 Del resto diceano nel calor della passione quel che, dopo sessant’anni e per raziocinio, ripete uno storico della rivoluzione francese, ammirando la generosità della plebe che scannava quest’infame pretaglia, la quale «stillava goccia a goccia il veleno colla confessione», soccorreva ai poveri per sedurli, avea fin introdotto una divozione dove pregavasi la beata Vergine a liberarci dai mali presenti e futuri. Vedi louis Blanc, Hist. de la Révolution, vol. IV.

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zionare i sospetti del popolo in momenti dove sì facilmente cangiansi in furori, e provocare sempre nuovi rigori, e supporre controrivoluzioni per spingere alle persecuzioni; e quando le commissioni militari mandavano molti alla forca, applaudire al patriotismo ed esortare s’accorciasse ai condannati il tempo del soffrire col non obbligarli a ricever i conforti della religione; e predicare quel comunismo, quella tassa progressiva, quegli opifizj nazionali, che taluno credette aborti nuovi del 1848.44 [256] Ed erano i giornali stessi che annunziavano le edizioni recenti delle Rovine di Volney e delle Novelle galanti del Casti. Che? (avrà egli detto) chiamerò libertà questo turbare il culto, vietando le campane, le processioni, ogni esterna appariscenza? libertà quelle infinite proibizioni di atti innocenti, come il portare gli habits carrés sotto pena d’esser immediatamente arrestati; e che arriva sino al divieto d’uscire dalle porte se non con licenza?45 Libertà l’obbligare i nobili e i benefiziati a ridursi in città, e proibire se ne allontanino; e se i padroni, tassati per l’apparenza del lusso, congedano i servi, rimediar alla miseria e alla desolazione coll’obbligar i padroni a continuare i salarj?46 libertà il frugar i secreti delle lettere? per me cesserò da ogni carteggio, affinchè la [257] purità delle mie non sia stuprata da qualche mascalzone.47 Rido dell’inetto che, buono a null’altro, fa mozioni, organizza dimostrazioni, pindareggia un eroismo che non porta pericolo: ma detesto codesti lanzichinecchi della letteratura, in cui mano la penna è un pugnale. Rido del calzolajo che, pompeggiando come tenente della guardia nazionale, non si crede inferiore al capitano che meritò col sangue i suoi spallini; ma trovo insania l’obbligar i preti, votati a ben altri uffizj, a montar anch’essi la guardia. Intendete l’eguaglianza voi che la spingete fino a ordinar 44 L’Estensore cisalpino, compilato da Giuseppe Poggi, nel N. 14, oltre [256] i quattro primarj diritti dell’uomo in società, Libertà, Eguaglianza, Sicurezza e Proprietà, domanda se non ve n’è un altro, quel di Sussistenza, e risponde che «niuno può dubitarne» e che «in una repubblica ben amministrata tutti debbono ritrovare egualmente i mezzi di sussistere. La società è quella che si rende garante della sussistenza di tutti i cittadini . . . . deve formare de’ pubblici stabilimenti di ogni genere, perchè niuno rimanga privo di travaglio (sic)». «Quanto ai possidenti, «le imposizioni non debbono già distribuirsi in geometrica proporzione . . . . ma in proporzione progressiva; per cui, sebbene i più ricchi saranno sempre di miglior condizione de’ meno ricchi, pure si otterrà sempre d’indebolire alcun poco le gigantesche fortune degli egoisti ambiziosi». 45 Corse allora la bosinata; «Libertaa e indipendenza/Fin al dazi de porta Renza». E più spiritosa quest’altra: «Semm liber ligaa alla franzesa». 46 Ordine 24 maggio della municipalità. All’entrar de’ giacobini questi erano i prezzi de’ generi che si tassavano: Butirro la libbra . . . . . . . . . . . . soldi 20. pane di frumento . . . . . . . . . . . " 16. " di mescolanza . . . . . . . . . " 12. 6 carne di manzo . . . . . . . . . . . . " 16. – " di vitello . . . . . . . . . . . . . . " 13. – legna, cioè bacchette e rotondini forti al centin . . . . . . " 36. – carbone forte al moggio . . . . . " 10. 9 Tutto rincarì ben presto; e per tener bassi i prezzi, si ricorse alle più stolide pratiche, si proibì l’asportazione del grano, ecc. 47 Frase d’una sua lettera a Giovanni Paradisi.

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che, per essa, si assolvano tutti i peccati?48 Intendete il patriotismo voi che dai palazzi e dalle chiese pestate i monumenti che ricordano un’Italia libera e donna? Intendete i diritti voi che ci imponete di giurar odio ai re ed a fratelli nostri?49 Carattere vivace, schietta parola, retto operare, spiacciono in tempi siffatti. Nulla più solito allora che il tacciar uno di avere cangiato; nulla più consueto che i titoli di transfuga e di traditore. L’uomo che in maggio suggerisca di deporre le vesti di lana; poi in settembre dica doversi coprir la persona, lo chiamerete voi incostante? anzi il troverete logico, purchè raggiungiate un principio più elevato, cioè dovere adattarsi gli abiti alla stagione. Uno avrà acclamato alla repubblica, ed uno riverita la monarchia; voi li [258] supporrete avversarj se non vediate che loro scopo era la libertà, aspirazione ben più sublime che non questi arzigogoli governativi. «Amo la libertà, ma non la libertà fescennina» esclamava il Parini, di sotto ai simpatici paroloni ravvisando le prische e peggiori malvagità, e l’insensato orgoglio di certe lepri arrabbiate, e la cecità d’un volgo che ama chi lo inganna, non chi lo serve, e dà ai ciarlatani danaro, ardimento, potere; e le bieche intenzioni degli sleali che ci avevano sporto il berretto rosso perchè lo colmassimo del nostro oro, lo macchiassimo delle nostre turpitudini, e apparissimo degni delle catene che ci battevano coi fasci di Bruto. Gente ancora persuasa, come i filosofi d’allora e come i re filosofanti, che coi decreti si potesse far ogni cosa, ne andavano moltiplicando a furia; onde il Verri ripigliò uffizio di giornalista per ridestare il buon senso, e dimostrava in un apologo come sia falso che un governo possa ciò che voglia. E il Parini ripeteva: «Colla persecuzione e colla violenza non si vincono gli animi, nè libertà si ottiene colla licenza e coi delitti. Il popolo vi si conduce col pane e col buon consiglio; non urtarne i pregiudizj si deve, ma vincerlo coll’istruzione e coll’esempio, meglio che coi decreti». Terroristi non mancano mai, anche dove il vigor popolare non è così prostrato da permettere stabiliscano il terrore. Udendo un di costoro gridar in teatro come una cosa pazza, «Viva la repubblica, morte agli aristocratici», il Parini gli mozzò quel grido esclamando: «Viva la repubblica, morte a nessuno». E uscita fama, che, assecondando la plebe urlante e scribacchiante, si volesse qui pure colla forca tagliar le quistioni che non poteano colle ragioni accordarsi, il Parini domandatone rabbrividì, e fatto convulso esclamava: «Che? al sangue io? io alle 48 Questo veramente fu un ordine della municipalità di Como ai frati paolotti; al qual patto conserverebbe loro il privilegio antico di pescare un giorno dell’anno nel lago. 49 Quest’era la formola del giuramento, prescritta il 26 frimale, anno VI. «Io N. N. giuro inviolabile osservanza della costituzione, odio eterno al governo dei re, degli aristocratici ed oligarchi, e prometto di non soffrire giammai alcun giogo straniero, e di contribuire con tutte le forze al sostegno della libertà e dell’eguaglianza, ed alla conservazione e prosperità della repubblica». L’Oriani dichiarò che non poteva giurar «odio a chi non gli aveva fatto che bene,» e si sottometteva alla legge che lo privava del suo impiego alla specula. Scarpa fu dimesso sul medesimo titolo. Intorno al giuramento a tutti i pubblici funzionarj scrisse pure una lettera un altro milanese di qualche nome, il gesuita Luigi Maria Buchetti (1747-1804). Come maestro di ricchi giovani costui viaggiò assai, conobbe lingue e scienze, fu felicissimo parlatore, si mostrò avversissimo alla rivoluzione e a fatica scampò a Venezia.

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stragi? No, non sarà mai; troppo mi sono cari i miei concittadini, troppo mi è diletta la patria». Nella sala ove s’accoglieva il consiglio stava esposto un gran Crocifisso: e alcuno volendolo levare, giacchè Cristo non aveva a fare colla nuova libertà, «Ebbene (gridò il Parini) ove non c’entra il cittadino Cristo, neppur io non ho a che fare»: ed uscì. E non la perdonava a quegli ecclesiastici che deponeano i segni della lor dignità; e spesso coi segni la dignità: e negli ultimi anni già cieco, quando l’abate Carpani andava a visitarlo, gli palpava il collo per sentire se portasse ancora il collare. Passarono cinquant’anni da que’ tempi; anni pieni di dolorose [259] esperienze, educati da tanta luce di pubblicità, di sapienza civile o di qualche cosa che si presume tale; e se da tanto gridar all’eguaglianza verun che di ragionevole vogliamo dedurre, la riporremo non nel mettere sotto quel ch’era sopra, e abbassare ogni superiorità affine d’allivellarla a chi non ne ha; bensì nel fare che ogni merito, ogni virtù, ogni talento, di qual siano grado e condizione e paese ed opinione, vengano utilizzati a pro della patria. Così la pensava quel grand’avversario delle nocevoli ed insulse aristocrazie, il Parini; e quando alcuno l’affrontava colla superba famigliarità del tu, non dissimulava il dispetto, e «L’eguaglianza non consiste nell’abbassar me al vostro livello, ma nell’alzarvi voi al mio, se tanto valete. Ma, per poterlo, non si vuol ciancie sonanti e urla di piazza, e voi resterete sempre un miserabile, anche intitolandovi cittadino, mentre col darmi questo titolo voi non torrete a me di essere l’abbate Parini». E a un tale che gli apponeva d’aver fatto limosina a un prigioniero tedesco, «La fo al turco, la fo all’ebreo, all’arabo: la farei a te se tu fossi in bisogno». Non risparmiando il vizio indorato o la viltà montata in scanno, a quei parodianti Bruti e a quegli inonesti Fabrizj rinfacciava intrepidamente il lezzo natio e i turpi brogli, l’abusata autorità, la svergognata albagia. E poichè troppo spesso accadeva che operasse da Tigellino e da Verre colui che dianzi ostentavasi un Curio, un Catone, chiese talvolta ad alcuno: «Sei tu ancora buono come jeri?» Un uom del contado, entrato nel consesso municipale per non so qual domanda, tenevasi a capo scoperto, benchè le leggi vietassero siffatti rispetti: onde il Parini, vòltosegli con quel riso austero, «Cittadino, il cappello in testa e le mani in tasca», alludendo alle ladre voglie degli insaziabili mercadanti di libertà. Un sì austero contradittore, un sì tenace amatore del ben pubblico sgradì alla bordaglia tumultuante, agli ambiziosi colleghi e ai despoti mascherati: onde fu congedato. Non già si abdicò spontaneo, come fanno credere le sue vite: e l’ho da un amico di lui che di quei giorni trovatolo gli disse: «Onde, abbate Parini, siete pur uscito da quella congrega. – Uscito? (rispos’egli) m’han fatto uscire».50

50 La municipalità era di trentun membri: il presidente cambiavasi ogni decade; si univano ogni sera, ed erano distribuiti in comitati: Parini e Verri erano del III, cui spettavano il censo, le finanze, gli archivj, gli impieghi, le [260] cause ecclesiastiche, i luoghi pii, la religione, l’istruzione pubblica, i teatri, il commercio. Il primo atto ove trovo il Parini è questo del 14 pratile: «Essendo pervenuta accidentalmente in potere del cittadino Venous, capo dell’LXXXIV mezza brigata, una vettura e due cavalli, questi ha fatto invitare la municipalità di Pavia a ricevere le dette proprietà, perchè, fatte le opportune diligenze, sieno immediatamente re-

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[260] Allora egli fece dal proprio parroco distribuire ai poverelli quanto aveva ritratto dal suo impiego; tornò al silenzio, che è o il pudore della saggezza o il suo disdegno; e consolandosi che il popolo non sono i quattro gazzettieri e i dieci ambiziosi che oppignorano la parola e gl’impieghi, crocifiggendo il senso comune e la libertà, persuadevasi che, quando le fazioni fossero cessate, e il popolo da sè stabilisse le proprie leggi, nominasse i proprj magistrati, sarebbe di nuovo chiesto a ciò ch’è più caro a un buon cittadino, servire a libera patria. Que’ tempi non vennero. L’accorgimento penetrante d’uomo consumato nello studio dell’uomo gli fece avvisare quanto fossero state vane le sue speranze, inutile il suo predicare che la libertà richiede perseveranza per ottenerla, moderazione per conservarla.51 [261] Sono di que’ terribili momenti dove anime triste si vendicano dell’essersi ingannate coll’ingannare altrui; e dove anime oneste, al vedere frutti di servitù maturare dai semi della libertà, disperano della rigenerazione. Allora l’Alfieri che, nel Parigi disbastigliato, avea preconizzata la liberazione del mondo, ruggiva contro la tirannide degli avvocati, e spettorò la peggiore delle sue produzioni, il Misogallo. Allora Ippolito Pindemonte, che con lui aveva applaudito alle prime scene della rivoluzione, imprecò a Voltaire e alla fatal sua penna, mal retribuita di simulacri ed archi, e lo spingeva a lasciar qui il disinganno, e portar seco all’averno il lutto e l’onta. Allora il milanese conte Gorani, che aveva aizzato i popoli contro i regnanti, nella Conversione politica mostrò altrettanta intemperanza di opinioni opposte. Allora Alessandro Verri s’accorgeva che «quella filosofia che distrugge tutto sul suo tavolino, non val gran cosa a formare grandi cittadini e valorosi soldati»: e scriveva a Pietro: «Voi ora mi esprimete una massima da me sommamente gustata e fissata fin da quando trattai in Parigi i filosofi, cioè che la breccia aperta da essi al riparo della religione non è stata supplita con altri mezzi presi dalla medesima, dal che ne proviene che anche nella plebe vi sono giovani senza principio alcuno di moralità. Io non entro nel

stituite al loro padrone. A questo atto di esatta giustizia ne ha aggiunto un altro di generosa umanità spedendo alla stessa municipalità di Pavia lire cento in contante, perchè vengano distribuite a’ poveri bisognosi di quel Comune, che non hanno avuto parte nell’ultima cospirazione contro ai Francesi. «E voi, se ancora uno se ne trova, che malignate contro gloriose armate della repubblica francese, imparate da questo fatto quale sia la giustizia e la sublimità di morale di generosi repubblicani. Imparate, e rimanete nella vergogna e nella confusione». Visconti presidente. – Parini. – Bigatti segretario. Al 17 termidoro, i commissarj del potere esecutivo riducevano la municipalità a 24, e fra questi più non trovo il Parini. «Tutto che consigliò e che disse (il Parini) in quelle adunanze potrebbe scriversi in oro». Quando lessi queste parole nella Vita di Foscolo per Luigi Carrer, io che avevo tanto cercato i protocolli di quelle adunanze, pregai esso Carrer a indicarmi donde ciò avesse. Dovette lasciarmi comprendere che la era una delle frasi retoriche onde si tessono i panegirici. 51 Cessato il governo militare fu messo un direttorio: Giovanni Galeazzo Serbelloni milanese presidente, Pietro Moscati mantovano, Giovanni Paradisi reggiano, Marco Alessandri bergamasco, Giovanni Constabili ferrarese, con cinquantamila lire ciascuno, segretario generale l’avvocato Sommariva di Lodi. Il direttorio spese cinquecento quarantottomila lire per ornar il proprio palazzo, ch’era il ducale. I ministri aveano venticinquemila lire ciascuno: i ducento quaranta membri dei due corpi legislativi, lire 6000. Si conoscono le case insignorite da quel triennio.

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santuario, parlo da cittadino, e dico esser la religione patria un’importantissima parte della costituzione civile; il deridere la quale o lo schernirla colla penna o con le operazioni è atto d’improbità civile. Io ho veduto da vicino i filosofi di Parigi, e il loro tono mi ha facilmente saziato». Un giovane bollente di cuore e incauto d’ingegno vide in que’ giorni il Parini, e scriveva: «Serba la sua generosa fierezza, ma parmi sgomentato dai tempi e dalla vecchiaja. Andandolo a visitare, lo incontrai sulla porta delle sue stanze mentr’egli strascinavasi per uscire. Mi ravvisò e, fermatosi sul suo bastone, mi pose la mano sulla spalla, dicendomi: – Tu vieni a rivedere quest’animoso cavallo che si sente nel cuore la superbia della sua bella gioventù, ma che ora stramazza fra via, e si rialza soltanto per le battiture della fortuna. – Egli paventa di essere cacciato dalla sua cattedra e di trovarsi costretto, dopo settant’anni di studj e di gloria, ad agonizzare elemosinando».52 [262] Però i fiacchi, al vedere i disordini, precipitano dall’estremo entusiasmo all’estremo abbattimento; al cadere del loro idolo esclamano, È disperato per la libertà! è finito per la società! e si rassegnano agli arbitrj che credono necessarj alla quiete. Ma chi studiò la storia, non accetta le speranze impazienti e i repentini acquisti politici; non crede che un paese e un’età cangi per volontà altrui o per decreti; sorride al fanciullesco tripudio dei partiti momentaneamente vittoriosi, alla smania di coloro che nulla vogliono lasciar da fare domani; e confidando nel bene che dal male stesso deriverà, s’attacca alle idee per cui soffre, e non perde la fede neppur dopo perdute le illusioni. Chi al mesto spettacolo di que’ giorni argomentasse che i popoli non devono aspirar alla libertà finchè non sappiano usarne, il Parini l’avrebbe paragonato al semplicione che giurò non entrar più nell’acqua finchè non sapesse nuotare. E certamente la storia di quegli anni sarebbe la peggior satira delle repubbliche ove non si riflettesse che dalla lunga servitù era impossibile imparar quella maturità e quella misura che solo son date dalla pratica degli affari e della libertà; che ai magistrati d’allora mancava [263] la condizione di vita e d’indipendenza, non essendo eletti dal paese, ma da un uomo che potea cassarli appena tentassero resistere; che la costituzione era data, tolta, lodata, ri52 Lettere di Jacopo Ortis, 27 ottobre 1798. E altrove: «Jer sera io [262] passeggiava con quel vecchio venerando nel sobborgo orientale della città sotto un boschetto di tigli: egli si sosteneva da una parte sul mio braccio, dall’altra sul suo bastone: e talora guardava gli storpi suoi piedi, e poi senza dire parola volgevasi a me, quasi si dolesse di quella sua infermità, e mi ringraziasse della pazienza con la quale io l’accompagnava. S’assise sopra uno di quei sedili, ed io con lui: il suo servo ci stava poco discosto. Il Parini è il personaggio più dignitoso e più eloquente ch’io m’abbia mai conosciuto; e d’altronde un profondo, generoso, meditato dolore a chi non dà somma eloquenza? Mi parlò a lungo della sua patria; fremeva e per le antiche tirannidi e per la nuova licenza. Le lettere prostituite; tutte le passioni languenti e degenerate in una indolente vilissima corruzione; non più la savia ospitalità, non la benevolenza, non più l’amor figliale … E poi mi tesseva gli annali recenti e i delitti di tanti omiciattoli ch’io degnerei di nominare se le loro scelleraggini mostrassero il vigor d’animo, non dirò di Silla e di Catilina, ma di quegli animosi masnadieri che affrontano il misfatto, quantunque gli vedano presso il patibolo. Ma ladroncelli tremanti, saccenti … più onesto insomma è tacerne…… «Tacque, ed io dopo lunghissimo silenzio esclamai: – O Coccejo Nerva, tu almeno sapevi morire incontaminato. – Il vecchio mi guardò; e – Se tu nè speri nè temi fuori di questo mondo – e mi stringeva la mano, ma io … Alzò gli occhi al cielo, e quella severa sua fisonomia si raddolciva d’un soave conforto, come s’ei lassù contemplasse tutte le sue speranze.»

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provata dagli stranieri;53 e che il santo nome di repubblica mascherava il despotismo peggiore, il militare. Alla guisa però d’un vascello, spinto innanzi dalla tempesta che sembra volerlo ad ora ad ora sobissare, fra la lotta procedeva la figlia primogenita di Dio, la ragione. Il secolo del quale notammo [264] e i meriti e le colpe, posava sopra la gerarchia; il nostro sopra le ruine della feudalità e del privilegio piantò, ormai inconcussa, la civile eguaglianza. Il nobile, invece di gloriarsi sull’abjezione de’ fratelli, sentì che dal sangue illustre non gli veniva se non l’obbligo di mostrarsi migliore: il popolo apprese che ognuno ha pari diritti nella vita, nella famiglia, ne’ beni, nella patria, nella libertà; e mentre quelli perdevano l’orgoglio della vanità, noi popolo acquistammo il sentimento della personale dignità; ai rancori perpetuati dagl’ingiusti privilegi sottentrarono i nodi d’una comune parentela, d’una virtuosa carità, una democrazia dove non resta più che un popolo di cittadini; e i governi (stentino tra le forme del passato o s’addestrino in quella dell’avvenire) tendono senza distinzioni alla conservazione dell’ordine e allo sviluppo della libertà. Così la dottrina di quell’Uom Dio che agli uomini, divisi dalla più rea fra le distinzioni, quella di liberi e di schiavi, bandì primiero l’egualità e la fratellanza, fu condotta a trionfare dalle acclamazioni e dalle armi di coloro stessi che si erano prefissi di distruggere il vangelo. Tali sono le vie della providenza, acciocchè l’uomo si conforti di speranza buona nel vedere infallibilmente trionfare il vero 53

In nome della repubblica cisalpina una ed indivisibile Milano 15 fruttidoro anno VI repubblicano Proclama dei Consigli legislativi al popolo cisalpino. «Cittadini! Quell’eroe a cui la Francia deve tanta gloria e la Cisalpina la sua esistenza, aveva accompagnato questo primo benefizio con quello d’una costituzione; ma pressato dalle circostanze, chiamato a rendere dei nuovi servigj al suo paese, egli non ha potuto dare alla sua opera la necessaria perfezione; e questo codice politico fu meno un governo definitivo che un saggio preliminare, una specie d’atto provisorio, di cui l’esperienza fece conoscere i difetti. «La disposizione che prescrive il termine di tre anni per farvi dei cambiamenti diventava funesta alla repubblica, se si fosse aspettato fino a quell’epoca a chiudere il precipizio ove essa minacciava di cadere. Sì, cittadini, non vi voleva più che un anno d’un governo senza azione e senza forza, d’una mal intesa divisione territoriale, d’una amministrazione rovinosa, d’uno stato militare nullo ed eccessivamenie costoso, per vedere la Cisalpina senza finanza, senza spirito pubblico, senza leggi, ricadere sotto il giogo dell’estero, o perire vittima di quel furore anarchico che, coprendo la Francia di sangue e di calamità, fu al punto di far retrogradare la libertà, e immergere di nuovo l’Europa nelle tenebre dei pregiudizj e dell’ignoranza. «La Francia ha veduto lo stato infelice della repubblica che avea fondata, essa s’è occupata della nostra situazione, e de’ mezzi di migliorarla. Il suo governo, avendo riconosciuto che la più gran parte dei nostri mali provengono dalla nostra medesima organizzazione, ha incaricato il suo ambasciatore d’indirizzare ai due consigli legislativi alcune modificazioni della nostra costituzione: modificazioni le quali, rispettando pienamente e serbando intatti i veri principj dell’eguaglianza e della democrazia rappresentativa, la rendono meglio adattata all’estensione del nostro territorio, alla misura delle nostre forze e della nostra potenza.» Si sa che la costituzione allora cambiata, ben presto si trovò difettosissima e si cambiò. L’amministrazione della Lombardia, il 6 vendemmiale, anno V, proponeva 200 zecchini di premio a chi sciogliesse meglio il quesito, Qual dei governi liberi meglio convenga alla felicità dell’Italia. La risposta datavi da Melchior Gioja non torna abbastanza a suo onore.

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e crescere il buono; ma insieme impari umiltà nel conoscere come falliscano gli sforzi che vi adoprano gli individui o le singole età. [265]

Fine del Parini.

L’amarezza di chi vede andar in dileguo la più cara illusione della vita, dove forse non c’è di bello che le illusioni, peggiorò la salute del nostro poeta. Sempre mal fermo di costituzione, e peggio da che gli anni faceangli soma addosso, la lettura de’ giornali aveagli indebolito la vista, che al fine del tutto gli si caligò. L’abbassamento della cataratta, operatogli dal valente oculista Buzzi, e la penosa quiete ordinatagli, gli aveano fatto ostinare addosso una malsania sorda e lenta. Nel penoso ritiro egli cercò ancora agli studj quell’obblio delle pubbliche calamità che altri ostenta trovare nel giuoco, nel bagordo, nella lascivia. E rileggeva Dante e l’Ariosto, i quali, più se ne conosce l’arte, e più s’ammirano, più si studiano e più piaciono; e Machiavello che insegna a pensare, parlare e scrivere liberalmente; e Plutarco, il più galantuomo degli antichi scrittori. Gemeva che la letteratura fosse perita per far luogo al giornalismo, cioè alla distrazione e all’audacia; e col Passeroni lagnasi che i detti nostri Beffa insolente il giovin, che pur jeri Scappò via dalle scuole, e che, provisto Di giornali e di vasti dizionarj E d’un po di francese, oggi fa in piazza Il letterato, e ciurma una gran turba Di sciocchi eguali a lui. [266] Ma anche quando prevalevano i giornali, che oggi divorano l’jeri, e saran divorati dal domani; feminea letteratura che consiste nel dir molte parole perchè si han poche idee, credere ingegno il parlar di tutto, e principalmente di ciò che non si sa; egli ebbe fede ai libri duraturi: e, per quel bisogno d’armonia e di squisitezza che nell’anime elette si fa maggiore quanto più il pubblicò ne perde il sentimento, forbiva i suoi versi (le prose non credè mai degne di ritocco), e ne fe di nuovi ed insigni. Dicemmo come nel 1791 avesse permesso al suo Gambarelli1 di far la raccolta delle odi, inesorabilmente levandone intere strofe, che è vergogna il veder inserite in edizioni posteriori;2 e lagnandosi che la benevolenza di questo ne avesse introdotte di meno forbite, e nominatamente le canzonette. Non mirando poi allo scherno, ma all’emendazione, quando vide giganteggiare l’opera cui avea consacrata la sua penna, e cader l’aristocrazia come si sfascia un cadavere alla prima impressione dell’aria, credette inutile uscir con armi più terse a combattere un nemico che più non noceva alla società; e gittò le sue, come Tancredi lo scudo. Mancarono dunque gli ultimi morsi della lima alle altre due parti del Giorno, restando così incompiuto il lavoro forse più squisito della letteratura nostra, il solo tra i moderni che regga a paro delle Georgiche. Fa però onore all’animo del Parini il non essergli rincresciuto di scemarsi la glo1 Questo infelice poco di poi si uccise. 2 Per esempio, questa nella Vita rustica. «Invan con cerchio orribile,/Quasi campo di biade,/I lor palagi attorniano/Acute lance e spade:/Perocchè nel lor petto/Penetra non di men/Il trepido sospetto/Armato di velen».

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ria poetica da che vedeva che questa veniva superflua al civile suo proposito, e aver conosciuto quella che pochi, la dignità del silenzio. Nè per questo abbandonò il lavoro; e incontentabile, come sono sempre i migliori, faceva di continuo aggiunte, concieri, cambiamenti ai due poemetti già stampati e ai due inediti; sicchè fra le sue carte si trovarono sette testi del Mattino e tre del Meriggio [267] corretti di sua mano; il Vespro compito, con due foglietti che ne conteneano le varianti; e sette esemplari della Notte non finita. Le correzioni tendeano sempre più a velar l’arte, togliere le parole meno proprie e meno naturali, accostare a quella semplicità che non è la bellezza, ma alla bellezza aggiunge tanto. Nuovo nembo s’offuscava intanto sulla sua e nostra patria: i recenti conquistatori partivano in isconfitta; e tornavano gli antichi padroni con Russi, con Cosacchi a ripristinare i troni e gli altari; campane e canti sacri benedivano al Signore, e dove prima il berretto e Libertà e uguaglianza, ricompariva l’aquila col motto Sub umbra alarum tuarum sperabo donec transeat iniquitas. Tristi questi súbiti cambiamenti di governo, ove all’uno adula chi non adulò all’altro, quando pure non si blandisca a entrambi, così svilendosi i caratteri! Coloro che aveano veduto prostituita la libertà in nome della libertà, sperarono in questa nuova lezione: e come molti, così il Parini credette che i vincitori ripristinerebbero l’arca di Dio, conculcata o nascosa; ma ricordava ad essi che la restaurazione deve farsi colla giustizia e col buon esempio, se non vogliansi provocare novelli disastri.3 Di rado i vincenti s’accontentano di vincere; e come gli spiriti angusti che si baloccano nell’ora presente, presumendo cancellar il passato e impedir l’avvenire, fanno alla forza dei vili succedere la viltà dei forti; e dimenticano che alle ingiustizie non si ripara colle ingiustizie, nè si pon termine alle rivoluzioni colla provocazione e con quelle vendette che snaturano fin la giustizia. I vecchi signori tornarono qui come in paese riconquistato; e lo diedero in balia a una congregazione delegata e a tre giureconsulti4 che sindacassero i fautori d’un governo che pure essi aveano legalmente riconosciuto, mentre con nuove imposte disanguavano il paese. Allora il solito trionfo [268] dei camaleonti: quei che dalla repubblica erano stati compressi rialzavansi stizzosi: più volea vendicarsi chi meno avea sofferto; e il restauramento degli altari e del trono mascherava izze private e basse reazioni che questo e quelli faceano esecrare; onde poteasi esclamare coi disingannati di Geremia: «Aspettammo la pace, e non recò bene; il tempo della medicina, ed ecco la paura». Il Parini vide gli amici suoi o in male o in avventura, chi destituiti, chi imprigionati,5 chi esulanti, e sè medesimo a pericolo, in un di quei tempi quand’è for3 «Or Dio lodiamo. Il tabernacol santo/E l’arca è salva; e si dispone il tempio/Che di Gerusalem fia gloria e vanto.//Ma splendan la giustizia e il retto esempio,/Tal che Israel non torni a nuovo pianto,/A novella rapina e a nuovo scempio». 4 Drago, Manzoni, Bazzetta: e la pasquinata diceva «Due han di bestia il nome, uno l’aspetto». Cocastelli era il commissario imperiale. Dal maggio 1799 al fin dell’anno si pagarono 70 danari per ogni scudo d’estimo; lo che, su 103,499,176 scudi, faceva L. 30,187,259: oltre le spese militari di 13,346,460. 5 Fra i deportati allora a Cattaro furono il conte Gio. Paradisi, il padre Gregorio Fontana insigne matematico, il conte Caprara, il fisico Moscati, il conte Costabili-Containi, l’ellenista Lamberti, ecc. Su quei deportati si ha un poema in tre canti che comincia: «Muse, ajuto! io vo l’istoria/Di trentotto patrioti/Tramandare alla memoria/Dei tardissimi nipoti». Son

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tuna aver un nome sì oscuro da esser dimenticato, quando il buono fa più ombra che il ribaldo; e chi, facendosi parte da sè stesso, era parso un codardo ai maniaci, pare un sedizioso a chi dà indietro fin all’abisso. Sapeva che un potente malevolo cercava nuocergli, ma sapeva altresì che «il perseguitare un uomo illustre lo rende più famoso e desiderato»: e senza stizzirsi delle calunnie, o piagnucolare dell’ingratitudine, rassegnandosi a che che venisse, diceva: «Andrò mendicando per ammaestramento de’ posteri e infamia di costoro». A chi soffre vien pur confortevole l’idea d’una pace che attende il giusto di là della tomba! E il benvissuto poeta la sospirava; e ve l’avvicinava l’idrope, invano combattuta dagli amici suoi Strambio e Locatelli. Un medico diceva: «Bisogna dar tono alla fibra»; un altro: «Bisogna scemar tono alla fibra»; ond’egli: «Dunque a ogni modo volete farmi morir in musica». E sentendosi un vivo fuoco correre per le spalle, aggiunse: «Altre volte si sarebbe creduto un folletto; or al folletto e al diavolo non si crede più … E nè a Dio tampoco … Ma il Parini vi crede». E soggiungeva: – Mi consola l’idea della [269] divinità, nè trovo altra norma sicura alla giustizia di quaggiù che i timori e le speranze di lassù». Non intermise gli studj neppur nelle ore estreme; poi la mattina del 15 agosto 1799 si alzò, affacciossi a una finestra, consolandosi di vedervi così bene dall’occhio risanato; si compose sul suo seggiolone, e abbandonò la terra colla calma d’uomo che a sera si tranquilla nel pensiero d’una buona giornata. Fu il Parini di statura vantaggiata, corpo asciutto, color olivigno, fronte spaziosa; assai pronunziati i lineamenti del volto, sul quale vivamente si scolpivano le interne impressioni. Per difetto naturale, o per infermità cagionata, si volle dire, da abusati piaceri, restò debole di muscoli, singolarmente alla congiuntura del piede: talchè questo nel mutarlo gli cascava come cosa morta.6 Pure, in quel suo camminare in tentenno atteggiavasi di tal maestà, che fermava l’attenzione di chi l’imbattesse; e Leopoldo imperatore scontratolo il guatò fiso e domandò chi fosse lo sconosciuto che portava con tanta maestà la vita. Bello, franco, efficace parlatore,7 dialettico sottilissimo, arguto eppure non maligno, franco non audace, con voce sonora, con gesto adatto; sorrideva di rado, mostrando allora bianchissima siepe di denti: spesso ti fissava con due grand’occhi bruni, vivaci come il suo spirito e che nel caldo del discorso pareano sfavillare. Non affettava quelle distrazioni che alcuno crede indizj di genio. La mobilità de’ nervi, tormento delle persone che molto occupano il cervello, era nel Parini indicata anche da frequenti guizzi de’ muscoli. Suol esserne conseguenza un’irrequietudine, fastidiosa ai vicini, un’irascibilità permalosa ed egoistica, l’acrimonia ne’ discorsi, la propensione a veder male, l’indispettirsi de’ servigi perchè obbligano a un ricambio, a cui non si sente o voglia o capacità: pure a vedere le Lettere sirmiesi di Francesco Apostoli veneziano, bizzarro scrittore di romanzi, quali la Storia di Andrea, Saggezza nella follia, Lettres et contes sentimentaux de George Wanderson. La sua Rappresentazione del secolo xviii è sì frivola da nulla servire all’intento nostro. 6 Parini io son, d’ambe le gambe strambe. 7 Giocondo Albertolli, quando, più che nonagenario, io lo rimetteva spesso sul discorrere dei valenti coi quali era vissuto, mi ripeteva: «Io non ho mai incontrato un uomo più ingegnoso del Piermarini, nè un più bel ragionatore del Parini». Di man d’un figlio d’esso Giocondo ho un ritratto del Parini, secondo lo stile statuario d’allora. Suo genero Paolo Brambilla matematico raccolse l’ultimo sonetto, dettato dal poeta ormai moribondo.

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vuolsi forza ed esercizio per moderare questo temperamento, chi voglia esserne ajutato ad opere ingegnose e azioni vive, a veder argutamente, eppur compatire, a sentir le offese, eppure perdonarle. [270] Parlava sovente sentenzioso: il qual modo, se si consideri qual lume di giudizio e di sapere foss’egli tra’ suoi contemporanei, non chiamerassi vanità, ma alterezza generosa. Colla precisione della domanda invitava all’esattezza della risposta. E in tutte le sue opere rivela energia di carattere, e morale austerità di pensieri e d’affetti; sicchè ancora nel popolo al nome di lui si associa qualcosa di grave, di argutamente sensato, d’irremovibilmente onesto. Il suo vivere coi ricchi8 ad alcuni puzzò di viltà: ma esso versava tra loro non per mendicare protezione ed oro, ma come uomo che sentesi superiore a quelle apparenze; pronto a lodarne la virtù, e mostrar di conoscerne le debolezze. Amò la società d’amici pochi e provati, e di que’ migliori che faceano bella in que’ giorni la nostra città. Quanto quelli della Albrizzi a Venezia e della Silvia Verza a Verona erano famosi in Milano i circoli della marchesa Paola Castiglioni, dama di rara coltura e di rarissimo spirito. Il Parini non solo si dilettava dei colloquj di essa, e ricreavasi ai sali saporiti e agli arguti ripicchi, che non abbandonarono la marchesa neppur divenuta vecchissima ed esposta all’abbandono di chi sopravive al proprio tempo ed alle prove d’una rovesciata fortuna,9 ma tenea conto (già ’l dicemmo) degli appunti ch’essa faceva ai versi di lui. [271] Anche presso la contessa Serbelloni Ottoboni il Parini trovava gran nobiltà di dame e cavalieri, fra cui Pietro Verri. Corre fama che poco egli si dicesse con questo: ma forse, al modo volgare, si denunziava come rancore qualche dissenso, qualche franca contesa.10 Del resto sarebbe nuova lode al Verri il non avere preterito occasione di lodare nel Caffè l’Orazio nostro, il nostro Giovenale; seco d’accordo operò nella municipalità, e deplorò come pubblica sciagura il vedernelo escluso.11 8 «I dorati scanni/Premea dei grandi taciturno, e intanto/Notava i riti e gli oziosi affanni//E gli orgogli e le noje e i gaudj o il pianto/Del par mentiti: indi ne fea precetto/In quel sublime suo ridevol canto» (Torti, Sulla poesia). 9 Il governatore Firmian, tornando dalla corte di Vienna, le disse: Indovinerebbe, signora marchesa, chi mi ha domandato nuove di lei? E la marchesa: Non ardisco indovinare: ho indovinato? Ottagenaria, cadde malata e a fin di morte. Quando si riebbe, il dottor Locatelli le disse: Marchesa, anche per questa volta ci metteremo una toppa. E lei: A forza di toppe mi manderete in paradiso come un arlecchino. Il Pindemonti scriveva al Pieri: «Dimorai quindici giorni a Milano per due sole persone. La prima metà del giorno io mi stava col Parini, e la seconda con la marchesa Castiglioni». E altrove del Parini parlando: «Sta sempre lavorando senza mai terminar la sua Sera, di cui mi ha recitato alcuni pezzi, bellissimi veramente. Quanto poi ai suoi modi e costumi, egli è un po serio e grave, se volete, ma pieno di urbanità; parla volentieri e bene; non recita a tutti nè senza esser pregato come Orazio, e dice anche sincerissimamente il suo parere delle cose che gli mostrate se ne vien dimandato con candidezza». 10 Io non avrò giammai per nemici coloro che mi sono contrarj nella maniera di pensare. Parini al Branda. 11 Nello scritto inedito altre volte accennato dice: «Alcuni pochi s’eran posti nella Municipalità uomini onesti, ad oggetto di dare qualche apparenza di probità a quell’unione screditatissima. Fra questi l’abate Parini vi si trovò collocato quasi a tradimento. Il pubblico conosce in lui il poeta: chi se gli accosta conosce l’uomo decisamente virtuoso e fermo; e perciò il partito dominante poco dopo lo fece congedare». Verri vi si conservò ancora, ma ben presto improvvisa morte lo colse mentre sedeva in uffizio.

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Il Parini ebbe singolarmente «fin dagli anni suoi più verdi congiunto di virtù, d’amor, di studj»12 il dabben Passeroni, uomo antico, stranio alle gentilezze come ai difetti e ai pregiudizj del mondo. Quando una volta i ladri gli spogliarono la casa, non cercò ricovero altrove che nell’abjetto casolare là presso la porta Tosa, ove il cantor di Cicerone, senz’altra compagnia che d’un gallo, coceva da sè la povera minestra e qualche legume, e rattoppava la giubba semisecolare; e volesse o no, dovette accettare i minuti risparmj di quello, sommanti a dieci zecchini. Il Passeroni sentiva bene la diversità di quella sua facilità dilavata, e gli scriveva: È sparuto il mio stile, il vostro è acuto; Voi v’esprimete in modo spacciativo, Io la metto sovente in sul liuto: I vostri versi toccano sul vivo: Contro il vizio non fanno i miei gran colpo, E curo i mali altrui col lenitivo. Volle che l’ultimo libro delle sue Favole esopiane fosse intitolato al Parini: [272]

Porta il nome d’un gran vate Che impetrò con pochi versi Nerborosi, arguti e tersi Quel che a me, che ho già stampate Tante rime e cento e un canto, Non concesse il Dio del canto.

Se alcuno gli si vantava di comporre versi rapidamente, il Parini sorrideva e taceva. Domandato, e qualche volta anche non domandato, proferiva liberi giudizj sulle opere e sugli autori, e il non sapere farsi piacentiero alle pompose mediocrità gli procacciò molti malevoli, che, non potendo chiamarlo ignorante, l’avranno detto maligno. L’avranno anche chiamato superbo: e facilmente è tale l’uom di genio che si paragona ai circostanti, mentre s’umilia quando si paragoni all’ideale che da sè formò; onde diceva: «Lodano le cose mie; io nol posso: settuagenario conosco dove sta il bello, e se potessi dar addietro trent’anni, farei forse opere non indegne del nome italiano». Delle cose proprie non ragionava se non fosse co’ più intimi o lungamente sollecitato. Il merito riconosceva volentieri, e compartiva quella Lode figlia del cielo, Che mentre alla virtù terge i sudori, E soave origlier spande d’allori Alla fatica, al zelo, Nuova in alma gentil forza compone, E gran premio dell’opre, al meglio è sprone: ma a chi non mostrasse la favilla del genio parlava severamente sincero, dicendo: «Adulato da me, resterebbe un meschino artista: forse per altra via potrà segnalarsi. A che ingannarlo? La mediocrità sta bene nelle fortune; ma nelle facoltà liberali tutto deve essere insigne». 12 Frammento.

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Venne uno per recitargli due suoi sonetti, acciocchè gl’indicasse quale dovesse stampare; udito il primo, senz’attendere esclamò: «Stampate l’altro». Il matematico Mascheroni, autore dello stupendo Invito a Lesbia Cidonia, chiese d’essergli presentato, e nell’entrare a lui che sedeva infermo sul seggiolone, coll’esitanza di chi primamente si accosta a persona ammirata, balbettava, o mio maestro; e il Parini, tendendogli affettuosamente le braccia: «Caro Mascheroni, abbracciamoci, i suoi sono i più bei versi sciolti di questo secolo». [273] A chi lo richiedeva era liberale di consigli,13 e oltre i programmi pei dipinti della corte e pei bassorilievi del palazzo Belgiojoso, sovente diede soggetti di balli e di rappresentazioni sceniche, tanto che gli fu destinata una sedia gratuita nel teatro.14 Predilesse la gioventù, cosa sacra e speranza dell’avvenire; e colla potenza della favella e dell’esempio dominava sugli scolari ammirati.15 «Non è malvagio (diceva egli) se non chi è inverecondo verso la vecchiaja, le donne e la sventura». Stava egli in broncio con un giovane del quale gli aveano riferito non so qual torto: ma [274] incontratolo per via che sorreggeva un vecchio cappuccino, e rimbrottava alcuni che, per mostrarsi filosofi, lo aveano deriso e forbottato, il Parini alzò la voce anch’egli contro costoro; poi gettate le braccia al collo del giovane, gli disse: «Un momento fa ti reputavo un perverso; or che ho vista la tua pietà verso un vecchio, ti credo capace di molte virtù». Piacevasi dei campi: anche quando era in città cercava ansiosamente il verde e l’aria aperta, ora negli orti, ora nella via che suburbana verdeggia fra gli alberi;16 ora scevro dagli altri, al boschetto dei tigli. Quando poi si poteva circondare delle aure libere o nei colli beati e placidi che cingono il suo lago nativo, o nella villa Amalia del Marliani presso Erba, o dagli Agudj a Malgrate, o dal conte della Riviera su quell’incomparabile promontorio di Bellagio, che parte in mezzo il lago di Como, e pare fatto perchè vi si senta tutto il bello della natura, allora più felici concetti gli rampollavano nella mente. Oh! l’uomo che può visitare que’ luoghi, e non sentire accelerarsi i battiti del cuore, non s’accosti alla sacra poesia, non s’accosti (il dirò pure) a nessuna magnanima impresa. Fu appuntato il Parini d’amare eccessivamente le donne. È questa l’accusa consueta di coloro che si dilettano a cercare le debolezze de’ forti, e desiderano trovare scarsa dignità in chi li farebbe vergognare di affatto mancarne. Il forte si rassegna a tale necessità, ricordando la coda del cane d’Alcibiade; e il Parini 13 Di eccellenti ne dirigeva a Giuseppe Carpani nel dialetto patrio: «Alto, andee inanz, studiee sira e matina./La natura l’è lee che fa el prim lett,/Ma l’art l’è quella che tutt coss rafina;/Tra l’una e l’altra ve faran perfett.//Chi tœu consei de tuec no fa nagott;/Chi no ’l tœu de nessun de rar fa ben:/Tuil de quaighedun, ma che ’l sia dott.». 14 Vedasi l’elogio di Galeazzo Scotti. 15 «L’acerba/Tua giovinezza e l’invido recinto/Che fu de’ tuoi prim’anni a guardia eletto/Ti vietaro il mirar sopra gl’infermi/Fianchi e l’infermo piè proceder lente/Le altere forme e il più che umano aspetto/Del venerabil vecchio, e le pupille/Eloquenti aggirarsi e vibrar dardi/Di sotto agli archi dell’augusto ciglio./Nè tu la immensa delle sue parole/Piena sentisti risonar nell’alma,/Allor che apria dalla inspirata scranna/I misteri del Bello e, rivelando/Di natura i tesori ampj, abbracciava/E le terrestri e le celesti cose./E a me sovente nell’onesto albergo/Seder fu dato all’intime cortine/De’ suoi riposi, e per le vie frequenti/All’egro pondo delle membra fargli,/Di mia destra sostegno; ed ei scendea/Meco ai blandi consigli, onde all’incerta/Virtù, non men che all’imperito stile/Porgea soccorso; ed anco, oh meraviglia!/Anco talvolta mi beàr sue laudi». (G. B. Torti a G. B. De Cristoforis). 16 Per l’inclita Nice.

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stesso confessava che nè la canizie, nè il senno fatto rigido dagli anni, gli erano scudo contro le terribili armi della beltà.17 Noi domanderemo se in quelle che insignorì dell’amor suo mostrò vagheggiare la sola bellezza, o non insieme le doti dello spirito e del cuore: se il ribellarono alla virtù: se lo resero anneghittito, o se «il grato della beltà spettacolo» non crebbe piuttosto la nobiltà del suo sentire e l’operosità nel bene: dopo ciò, scagli la pietra chi è senza peccato. Quanto a lui, lodando il defunto Tanzi scriveva: «Nella sua gioventù non odiò il bel sesso: non era così ristretta la virtù di lui che gli convenisse affettare un’avversione non naturale per far credere che egli ne avesse … . Egli unì sempre all’amore anche l’amicizia, con tutto il corredo delle virtù che seco porta la vera amicizia. In rimerito di queste sue belle qualità, anche nell’età provetta fu egli sempre ben veduto dalle giovani donne». [275] Allorchè il Parini morì, correvano di quegl’infausti giorni quando gli animi abbattuti non osano esternare nè lo sbigottimento nè le ammirazioni; e i codardi rialzati, considerando come insulto proprio la lode altrui, frugano fin nella bara, e gli atti non solo ma anche le intenzioni. Il carteggio di lui, e insieme si pretende una storia del triennio, fu, da una falsa prudenza, buttato al fuoco: i manoscritti letterarj venduti per duemila e duecento lire dai parenti, che nella loro semplicità domandavano se vi si trovassero forse carte di valore. Fra pel tempo nero, fra per espressa volontà sua, fu, con modestissime esequie portato al cimitero di Porta Comasina. È però amplificazione poetica che fosse confuso il suo cadavere con quel del ladro, e negatogli un sasso, una parola.18 Calimero Cattaneo gli pose l’epitafio che ancora si legge in quel cimitero,19 e Barnaba Oriani comprò dagli eredi di esso un busto fattogli dal Franchi,20 e lo collocò a sue spese sotto i portici di Brera ove dettava; onorificenza non ancora degradata col volgarizzarla. Tosto in una serie di lettere ricambiate fra l’avvocato Bramieri e il padre Pompilio Pozzetti, segretario della società italiana fondata a Verona [276] poi trasferita a Modena, si analizzarono i meriti dell’ammirato estinto. Vincenzo Monti in quel fiero carme in morte di Lorenzo Mascheroni, ove rivela i vituperj della Repubblica Cisalpina sotto la prepotente dittatura francese e l’avaro broglio de’ nostri avvocati, introdusse il Parini a svergognarli con veementi parole,21 e descrisse il privato monumento che ad 17 Il pericolo. 18 «E forse l’ossa/Col mozzo capo gl’insanguina il ladro, ecc.» (I Sepolcri). 19 «jos. parini poeta/hic requiescit/ingenua probitate/exquisito judicio/potenti eloquio clarus/literas et bonas artes/publice docuit an. xxx./vixit an. lxx/plenus extimationis et gratiæ/ob. an. mdccxcix». 20 Giuseppe Franchi, che non può non collocarsi fra i ristoratori del buon gusto artistico da chi abbia veduto le sirene di piazza Fontana, avea fatto e regalato quel busto al Parini, sul che scrisse una canzone Agostino Gambarelli. L’iscrizione d’esso monumento dice: «j. parinius cui erat ingenium/mens divinior/atque os magna sonaturum/obiit xviii kal. sept. a. mdccic». Nella cattedra gli succedette Luigi Lamberti, rinomato grecista. Il costui discorso inaugurale a me pare poverissimo e pel fondo e per le forme, e oltre modo meschino il cenno che, sul finire, vi fa del Parini. 21 «Dopo il tuo dipartir dal patrio suolo (o Mascheroni)/Io misero Parini il fianco venni/Grave d’anni traendo e più di duolo.//E poi ch’oltre veder più non sostenni/Della patria lo strazio e la ruina,/Bramai morire e di morire ottenni.//Vidi prima il dolor della meschina,/Di cotal nuova libertà vestita/Che libertà nomossi e fu rapina.//Serva la vidi, e ohimè! serva schernita,/E tutta piaghe e sangue al ciel dolersi,/Che i suoi pur anco, i suoi l’avean

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Erba gli avea posto l’amico [277] Marliani. Monumento d’altro genere gli ergeva l’avvocato Reina, il quale, dedicando l’edizione delle opere «del più gran letterato de’ tempi suoi al più grande de’ moderni politici e capitani», chiamava il Parini «nemico acerrimo della tirannide e attivissimo maestro di libertà»: lode che non so quanto dovesse garbare al Buonaparte. Poco poi un poeta di magnanimi e pericolosi esempj, il quale seppe non adular la potenza a cui tutti i letterati invocavano l’onore di far plauso e sostegno, negli stupendi versi sui Sepolcri rimbrottò acerbamente la lasciva città perchè largheggiasse cogli evirati cantori, mentre non poneva un sasso, una parola al Parini. Cessato quel frastuono di guerra che impediva di ascoltare i sentimenti gentili, negli animi disoccupati entrò una molle condiscendenza che si traduceva in iracondie villane e in piacenterie. Allora i portici consacrati dall’unica effigie del Parini, si popolarono di un volgo di monumenti a glorie d’un giorno e d’una consorteria, essendo più facile erger monumenti che meritarne, render lode ai morti che giustizia ai vivi. L’onoranza profusa svilì; ma parve vergogna che ivi mancasse un pubblico monumento pel Parini, e una società di privati vi eresse una statua a lui, una al Beccaria.22 [278] Innanzi a quei sommi noi condurremo la gioventù ad attingere ispirazioni, e nutricare la speranza, dolce istinto di quell’età; ed, O garzoni (diremo) nati a metter il colmo all’edifizio di cui questi posarono le fondamenta, cominciate l’opera dal venerare chi col precetto e coll’esempio v’antecedette. Salomone chiese dal cielo la sapienza; e potere e ricchezza vi tennero dietro. Siate generosamente savj, siate virtuosamente perseveranti; al cospetto della vostra e delle altre nazioni comparite con quella dignità, che è necessaria a tutti, indispensabile a popolo che vuol rigenerarsi. Che oggi manchino i grand’uomini perchè non vi sono i Cosmi ed i Leoni, lasciatelo ripetere a chi cerca una scusa alla pigrizia di cui si vergogna. Qual favore ebbero Parini e Beccaria? Eppure datradita.//Altri stolti, altri vili, altri perversi,/Tiranni molti, cittadini pochi,/E i pochi o muti o insidiati o spersi . . . .//Tal vi trama che tutto è parosismo/Di delfica mania; vate più destro/La calunnia a filar che il sillogismo.//Vile! e tal altro del rubar maestro/A Caton si pareggia, e monta i rostri,/Scappato al remo e al tiberin capestro.//Oh iniqui! e tutti in arroganti inchiostri/Parlar virtude, e sè dir Bruto e Gracco,/Genuzj essendo, Saturnini e mostri . . . .//Vidi il tartaro ferro e l’alemanno/Strugger la speme dell’ausonie glebe/Sì che i nemici ancor ne piangeranno.//Vidi chierche e cocolle armar la plebe,/Consumar colpe che d’Atreo le cene/E le vendette vincerian di Tebe . . . .//Nella fiumana di tanta nequizia/Deh! trammi in porto, io dissi al mio Fattore;/Ed ei m’assunse all’immortal letizia». Il Monti non conobbe il Parini; ma un discorso di questo genere tenne proprio una volta esso Parini con Pietro Verri, presente un signor Villa, galantuomo de’ cui pregiudizj avevano riso più volte que’ filosofi, «E ciò che mi spiace (conchiudeva il Parini) gli è che quella volta ebbero ragione i c . . . . .» 22 Nel 1847 quando sorridea la speranza di rigenerar l’Italia a forza di canzoni e di battimani, fra tante inaugurazioni e riparazioni e ovazioni se ne preparò una anche alla casetta natale del Parini in Bosisio; dal nome suo si intitolò la via che vi conduce, e il 25 ottobre, fra gran concorso, ed elogio e versi e brindisi, si collocò una lapida con questa iscrizione di Achille Mauri: «A Giuseppe Parini/gloria dell’ingegno lombardo/che nuovi sentieri aprì/ all’italica poesia/e la fe potente interprete/d’alti pensieri e di sdegni magnanimi/derisor sublime dei fiacchi costumi/banditor sincero delle verità più utili/maestro d’uno stile pellegrino temperato/che ubbidisce al concetto e gli cresce energia/alcuni estimatori/perche qui dove poveramente nacque/e prima s’inspirò nel riso/di ciel sì lieto/abbia il nome di lui perenne ossequio/p./nel mdcccxlvii».

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gli studj romiti, dall’utile scuola del silenzio, dal conversare coi migliori, dall’osservare; traviati, dal non transigere colla propria coscienza, dedussero arte e coraggio per mettersi colla ragione dove i più stavano col torto. Ma quei grandi amavano la patria e l’umanità non di un amore a fior di labbra, molle, inoperoso, incapace di sagrifizj, esalantesi in sbadiglianti querele od in ditirambiche minacce; non di quello scarmigliato, che si crede forte perchè ha la febbre, mentre si mostra debole perchè sempre vicino ai partiti estremi: ripone vanto nel bestemmiare, nel censurare, nel dir sempre no; e giudica inettitudine la moderazione, pusillanimità il ragionare, servilità la subordinazione, tirannia l’ordine, orgoglio la dignitosa perseveranza: ma sibbene di quello che ricolma i cuori, empie la vita, regola l’attività; vede il bene e lo vuole, e senza presumere che un uomo nè una generazione possa raggiungerlo, v’indirizza ogni azione, ogni pensiero. Tale scaldava il cuore dell’abate Parini: lo perchè noi non credemmo disopportuno il ravvivarne la memoria. I modi su cui egli diresse l’intrepida sua collera, cessarono; rimane la loro radice, una infingardaggine attillata e sprezzante; un’accattata gentilezza, una prudenza epicurea, una fatuità insolente, l’incuria delle grandi cose, mantellata arrogantemente coll’importanza attribuita alle piccole; lo spavaldo adular a noi stessi e ai padri nostri e alla nostra patria; un’avidità di applausi e di rinomanza, accattati col sagrificare o il sentimento proprio o il buon senso ai pregiudizj giornalieri: una smania di levar la sabbia dal piedestallo de’ grandi per buttarla loro in faccia; una letteratura che suona e non crea, [279] che medita sulla confezione della cetra e delle corde, invece di trarne magnanimi suoni, i quali eccitino ad opere generose e confortino nel compirle tra la ciurmaglia scribacchiante, la deleterica conversazione, la violenza de’ persecutori forti e l’inintelligenza de’ persecutori pusilli; rimane insomma l’egoismo. Le arti del bello non pajono frivole se non a chi è tale; nè l’uomo consiste tutto nella ragione, sibbene anche nel sentimento: onde Pitagora voleva per mezzo dell’amor del bello condurre alla scienza, che è evidenza della bontà. E della poesia, che Pindaro chiamava fior della sapienza, materia vera sono la natura dell’uomo, l’enigma del mondo e del cuore, le superne destinazioni. Come dunque potrà dirsi morta finchè sia dato di contemplar l’uomo colle memorie degli antenati e le speranze de’ posteri, e le bellezze ed armonie della natura, e il Dio da cui viene e a cui tornerà, e l’immortale suo avvenire? O rida col Giusti e col Porta, o analizzi col Manzoni e col Parini, o dipinga col Monti, o frema coll’Alfieri, o sprezzi col Leopardi, essa rivela sempre un pensiero elevato e religioso, come l’odor d’incenso annunzia la vicinanza d’un tempio; e la verginità delle classiche bellezze, la rapida armonia, il sorriso della satira, il gemito della malinconia, il fremito della generosità non potranno fondersi tra i pigri allucinamenti de’ gabinetti o della scuola, ma sentendo la connessione fra l’arte e la fede, le dottrine e la cosa pubblica: e interrogando il creato con profondità e convinzione, con nobile concetto della dignità umana, della famiglia, della patria, della religione. Coltivando dunque le arti del bello, prendete animo ad elevarvi al vero; ne’ grandi coll’alto sentire cercate gli impulsi all’alto operare, giacchè del pari la libertà e la bellezza sono movimento nell’ordine: e mentre i fatui implacabili e gli orgogliosi ignoranti imbroncano la via, voi sentendo, amando, credendo, radicatevi in robusta speranza e magnanima pazienza. E se vi annoja un’età di pre-

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suntuose utopie e di inconditi conati, di lavoro sfrantumato e d’intimi sofferimenti, e questo affannoso disaccordo fra le idee, i desiderj, le istituzioni, questo scuotersi convulso d’un momento per sentire l’impotenza e ricascar tosto nello scoraggiamento, il disinganno non vi rechi a disperazione; continuate ad adorare il Dio anche quando la folla diserta il tempio; e in quella solitudine che a molti ispira paura o allontanamento, interrogate le voci del passato. Fra le quali, sotto le volte di Brera vi parrà intendere [280] an|cora le parole, colle quali colà il Parini inaugurava il suo corso, e noi conchiudiamo volontieri il nostro: «Finchè non si giunge a rivolger l’affetto, l’ambizione, la venerazione de’ cittadini ad oggetti più sublimi che non sono la vana pompa del lusso o la falsa gloria delle ricchezze, mai non si destano gli animi loro per accorgersi che vi è un merito, che v’è una gloria infinitamente superiore; mai non si sollevano a tentar cose grandi, a segnalarsi nella lor patria e ad aver la superbia di distinguersi, benchè nudi, fra l’oro e le gemme che circondano altri».

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[f rance s c o pave si ] [ D ELLA VITA E D ELLE O P E R E di G. PAR IN I]

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[1r] Parini

Vita [2r] Della vita e delle opere poetiche

di G. Parini.

D ire ancora chi si fosse Parini, e quali i generi e i modi a lui proprj di poetare, dopo il tanto e sì profictuatamente che ne scrissero, per tacer d’altri molti, il Giusti fra i defunti, e C. Cantù sommo fra gli storici e filologi nostri viventi, avrebbe a parere, non ch’altro, superba presunzione di venire a gara d’ingegno o di accuratezza con uomini, de’ quali è grande ventura il poter seguire anche a lunghissimi intervalli le vestigia. Opera soverchia inoltre ed inutile ripetizione ciò tornerebbe per fatto mio; dacchè con altra maniera da quella tenuta dai valenti or ora citati a cagione d’onore, la materia che dovrebbe essere di questi cenni preliminari, fu per me a parte a parte sparsa nelle illustrazioni premesse a ciascuna delle composizioni pariniane contenute nel pres[ente] volume. Imperocchè io son d’avviso per l’una parte che nissun ritratto di sommo artista vale quanto quello eseguito per lui medesimo; dall’altra, che, come Orazio dice aver fatto il suo predecessore Lucilio, ed egli stesso fece in più parti de’ suoi Sermoni, anche il nostro Parini, da per tutto ma più specialmente nelle Odi ne ha lasciato sifattamente tratteggiati i lineamenti del proprio spirito che chiunque voglia meglio che altramente conoscere quanto s’agitò nella mente, si commosse nell’animo e l’informò ne’ singoli atti del nostro poeta, non ha che a svolgerne e studiarne il modico volume. Ho lasciato, cioè, che il poeta riveli sè stesso, come nessuno il potrebbe meglio, limitando l’opera mia al modesto officio di rimuovere dalla parola di lui le ombre per avventura sovrapporsevi dal tempo, e di renderla così chiara e lucida all’intelligenza de’ presenti come lo fu a quella de’ trapassati, mediante il corredo di quelle notizie che diano ai primi di comprendere e contemplare colla mente ciò che i secondi si ebbero sotto gli occhi. Gli è il metodo che tennero i meglio riputati fra gli espositori ed interpreti delle antiche classiche [2v] scritture; e io intanto mi ci attenni, in quanto che, salvo il debito rispetto di tutti, lo reputo valevole a rifornire di soda letteraria erudizione la mente giovanile assai più che la lettura di certa storia letteraria sulla quale i giovani cervelli non che apprendere la norma e l’abitudine del giudicare con conoscenza delle cose, non fanno che affoltarsi di idee e di giudizj altrui, da scostarsi poi con tanto più di sicumera quanto meno costarono di studio e di riflessione. Con tutto ciò mal saprei dispensarmi dal raccogliere in un corpo le notizie biografiche disseminate nel libro, e dal ricompirle con altre che non poterono aver luogo acconcio ed opportuno nel corso delle illustrazioni; come sembrami debito far precedere un generale apprezzamento della virtù della poesia pariniana, ai parziali concetti e giudizj, ne’ quali il lettore lo vedrà risolversi e sminuzzarsi in presenza de’ singoli componimenti. Nel che farò d’essere piano, parco e conciso, rimandando chi fosse curioso di più larghi e minuti ragguagli alle opere di maggior lena e volume che trattarono questo medesimo soggetto. Giuseppe Parini sortì i natali nel villaggio di Bosisio, in piano d’Erba, alle sponde del lago detto di Pusiano il 22 Maggio 1729., da Francesco M. ed Angela Maria Carpani poveri ed onesti popolani. Suo padre, simile in ciò a quello di

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Orazio, accortosi per tempo del bell’ingegno ch’era nel figlio, lo volle educato per bene e fornito di quegli studi che gli dessero un giorno di uscire dalla angustia della sua nativa condizione. Vestitolo pertanto d’abate, lo condusse a Milano, e lo pose a studio nelle scuole dette allora Arcimbolde dal nome dell’insigne cittadino che le fondò, poscia ginnasio di S. Alessandro, ed ora Ginnasio e Liceo Beccaria. De’ primi studi ivi fatti non vi conterò meraviglie, perchè non mi vennero trovate in alcun luogo, nè in mancanza di reali, mi garba inventarne di mio capo altre imaginarie. Nè altro so, quanto ai superiori da lui percorsi di filosofia e di teologia, se non che al termine d’essi divenne prete, secondo a quello stato aveanlo ordinato i primi casi della vita. Comunque però egli entrasse nel sacro ministero, che non è da noi nè di nessuno il perscrutare i misteri della vocazione sacerdotale, questo è noto ch’egli in tutto il decorso della vita rispettò in se stesso e fece altrui rispettabile l’assunto carattere; tanto che, allorquando venne di moda per la prima volta lo spretarsi e fu la migliore e più agevole scala al salire; il nostro poeta non che lasciarsi vincere dall’esempio de’ fortunati apostati, li prese in dispetto ed orrore non altrimenti che [3r] schifosi ermafroditi; e nel suo pensiero furono così congiunti i segni della dignità ecclesiastica e la dignità stessa, che, al dire di C. Cantù, negli ultimi anni, pressoche cieco, quando l’abate Carpani, uno de’ suoi prediletti discepoli andava a visitarlo, gli palpava il collo per sentire se portava tuttora il soggolo da prete. Ma non anticipiamo i tempi ed i fatti. Gli ordini sacri ricevuti dal nostro poeta non gli diedero nei primi tempi vita più comoda di quella passata da povero scolare; per il che gli fu d’uopo ajutarsi come meglio, copiando carte presso un avvocato: felice se gli avanzava qualche sgocciolo di tempo da dedicare alla lettura de’ suoi classici poeti o alla composizione di qualche verso. Altra somiglianza di vita che fu in lui col poeta cui più s’avvicinò scrivendo, cioè Orazio, al quale era pure avvenuto ne’ suoi giovani anni di dover campare la vita aggiugnendosi agli scribi o menanti a servigio della Questura o Tesoreria pubblica. Aggregato per opera principalmente di quel buono e bravo prete che fu Giancarlo Passeroni, all’Accademia de’ Trasformati, quivi lesse i versi che gli venivano fatti di mano in mano; raccolti poscia ed immaturamente pubblicati a Lugano nel 1752 sotto il nome anagrammatico di Ripano Eupilino. Dai quali, comechè lontani assai dalla perfezione venne molta lode al giovine autore, oltre al diploma speditogli dall’Arcadia di Roma col nome di Darisbo Elidonio, sotto il quale vanno alcune Liriche stampate nel Vol. XIII delle Rime degli Arcadi. Fu di questi tempi nè poco giovò a levare in bella fama d’ingegno e di buoni studi il nostro poeta la censura da lui intrapresa del libro di Alessandro Bandiera intitolato i Pregiudizj delle Umane Lettere, mediante una dotta lettera colla quale restituì ne’ debiti onori l’eloquenza del Padre Segneri indecentemente vilipesa dal Bandiera ed insolentemente tolta a correggere come un lavoro da scolare. Più grido e favore gli valse la celebre abbaruffata che s’ebbe nel 1759 col padre Branda, statogli già maestro nelle scuole Arcimbolde. Aveva questi in un certo Dialogo intitolato della lingua Toscana preso a mordere acerbamente ed a gittare nel fango quelli fra i nostri letterati che poetando nel dialetto vernacolo avevano acquistato maggiore celebrità. Risentitisi dello [3v] ingiusto affronto, questi accomandarono la difesa del proprio nome oltraggiato alla penna del nostro Parini, il quale non se ne cansò, prevalso in lui al rispetto per il maestro, quello che devesi alla verità. Ma uscito egli con una prima scrittura quanto fran-

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ca e vivace, altrettanto urbana e moderata s’ebbe risposta di irose ingiurie rovesciategli addosso senza misura dal Branda, a cui parve poco il rompere e lo scagliarsi contro il suo giovine avversario, se non menava botte da orbo ad altri molti fra i letterati nostri che fin quì non ci avevano punto avuto che fare. Quindi allargarsi la contesa, inciprignirsi gli animi, gli insulti e gli scherni prendere il luogo degli argomenti e delle ragioni, e la cosa procedere tant’oltre e con tanto scandalo che dovesse intervenire l’autorità del Tribunale per farla cessare. Il nostro Parini portato in questa malaugurata briga dall’impeto giovanile, comechè non avesse giammai negli scritti ecceduto i confini della giusta e necessaria difesa, non pertanto mal seppe perdonare dappoi a sé stesso d’avere comechesia preso parte ad una quistione ch’egli chiamava l’obbrobrio della letteratura, e gli dolse tutta la vita di avere battagliato contro il proprio precettore. Se non che di ciò stesso egli venne se non in maggior fama, certo a conoscenza di più molte persone; quindi più d’una fra le più illustri famiglie della nostra città, lo richiese a istitutore de’ proprj giovinetti. Come nobilmente sentisse egli del suo nuovo officio, con quanta dignità vi si contenesse, di che amore paterno e pia sollecitudine circondasse i suoi giovani alunni, con che sante ed utili massime ne andasse ravvalorando l’animo, nel mentre d’ogni più squisito eletto fiore di letteraria gentilezza ne abbelliva le menti; le ti diranno, o lettore, le illustrazioni premesse all’Ode l’Educazione e meglio ancora i versi di quello stupendo carme. Prima del quale parecchi altri ne aveva scritti e prodotti alla luce; e tu ne vedrai a suo luogo indicati il tempo e l’occasione ne’ cenni posti innanzi a ciascuno. Oltre la cara compiacenza, ed i dolci orgogli di che le nuove occupazioni gli giocondavano l’animo da vero precettore, anche quello di figlio amoroso che fu eminentemente in lui ne ricevette non piccolo conforto dai cresciutigli mezzi onde sovvenire ai bisogni della madre cadente, pei quali aveva già speso fino all’ultimo danajo del poco paterno retaggio, e s’era ridotto un giorno a mancare di pane, come scrisse egli stesso nel Capitolo al Canonico Agudio. [4r] Ma in pari tempo chi saprebbe giustamente figurarsi nel pensiero e degnamente esprimere con parole la splendida bile che gli dovettero commuovere ne’ visceri la superbia prepotente, e il lusso stolto ed ingiusto, l’ozio, la turpe mollezza, e la vanità di cuore nemica d’ogni atto egregio onde gli era giornalmente presente lo spettacolo nelle anticamere e nell’aule ove lo portava il suo officio, e dove le convenienze intrattenevanlo suo malgrado? E’ mi pare di vederlo, come ne lo rappresenta il buon Torti, quando i dorati scanni Premea de’ grandi taciturno, e intanto Notava i riti e gli oziosi affanni, E gli orgogli e le noje e i gaudi e il pianto Del par mentiti …… E fu certo allora che gli balenò alla mente la prima idea e di quella vennegli poi crescendo tra mano quel sublime ridevol carme, che è una delle più originali e vaghe produzioni del Genio italiano. Riservandomi di parlarne altrove più estesamente, qui piacemi considerare e porgere all’altrui considerazione non tanto il fatto dal poeta, quanto quello dell’uomo. Voglio dire ch’egli non fu nè piccolo nè mediocre ma arieggiante all’eroico il coraggio civile, con che l’umile nostro pretazzuolo prese il suo campo a combattere una casta d’uomini allo-

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ra onnipotente per territoriale ricchezza e per privilegi e con tale un’arma da cui non v’ha riparo e difesa, quale si è il ridicolo così maestrevolmente maneggiato come no’l fu da nessuno o prima o dappoi. Ed era un levarsi ben al di sopra de’ suoi tempi ciò ch’egli fece esponendo non solo allo sdegnoso riso del pubblico l’insulso fasto, le smancerose inezie, i perditempi, la falsità, le turpitudini di un costume conflato dalla boria spagnuolesca e della licenza francese che aveva intronizzato l’adulterio; ma l’andare eziandio incontro e coll’esempio e col precetto a quella pestifera lue che d’oltremonte già ne veniva sopra a corromperne gli usi, la favella, le lettere e la filosofia. Tanta e sifatta fu l’opera intrapresa e compiuta dal nostro Parini, nel Giorno, il quale se per la più fina ironia continuata per cinquemila versi senza mai stancare si pone in cima ad ogni altro componimento di questo genere per l’arditezza del concetto e per la generosità degli intendimenti può collocarsi ai fianchi della Comedia del sommo Ghibellino. [4v] All’apparire della prima parte del poemetto pariniano, del Mattino, pubblicatosi nel 1763 scoppiarono i plausi da ogni parte d’Italia, e fu una gara di ammirazione e di encomj per parte di quanti letterati erano più in grido di eccellenza. L’iroso Baretti che non aveva mai fatto grazia a’ versi sciolti, si sentì raumiliato davanti a quelli del Mattino; e Frugoni che teneva il primato sui poetanti d’allora in rima e senza, lette le prime pagine del Mattino, sclamò trasecolato: Poffardio! conosco ora di non avere saputo mai fare versi sciolti, benchè me ne reputassi gran maestro. Ma meglio ancora che delle più maschie armonie rimase attonito di vedere pel nuovo fatto del poeta milanese ritornata la poesia a quell’apostolato civile cui l’aveva educata dalle origini la Musa dell’Alighieri. E dall’ammirazioni passato a più cordiali affetti quel valentuomo prese a comunicare per lettere col nostro poeta; di che nacque, per testimonianza di Reina, un carteggio fra loro intorno all’orditura degli sciolti, carteggio tenuto in molto conto da Parini, e vandalicamente bruciato dopo la morte di lui, con grave danno delle buone Lettere. Ai plausi degli Italiani fecero eco i più colti ingegni d’oltremonti; le parti del Giorno mano mano che vennero pubblicate, furono benchè malamente tradotte in varie lingue straniere. Ma chi per ciò significolli più di stima e gli pose più amore si fu il Conte Carlo di Firmian a que’ dì Ministro plenipotenziario dell’Austria in Lombardia. Il quale forse onde rendere a maggiore indipendenza il nostro animoso poeta, certamente poi offeso della miseria in che era caduta presso noi la stampa periodica, pensò di affidare a Parini la cura di stendere la giornaliera ufficiale Gazzetta, dispensandolo dalla censura e somministrandogli i giornali forastieri. Vi attese egli con piacere e diligenza, e durò in questo officio finchè piacque al suo protettore, il quale, quando lo seppe invitato a professare Eloquenza nell’Università di Parma, istituì per conferirla a lui nel 1769 una nuova cattedra di Belle Lettere nelle scuole Canobiane. In queste egli insegnò, finchè, abolita la Congregazione de’ Gesuiti venne chiamato a dettare lezioni di Eloquenza nelle scuole di Brera, e poco dopo anche nell’Academia di Belle Arti. Fu questo il teatro ove splendettero più che mai luminosi i talenti e le attitudini magistrali di Parini; fu quivi ch’egli espose quei principj delle Belle Lettere applicati alle Belle Arti, de’ quali ci rimane l’aureo [5r] trattato. Se non che, come alcuni fra i tuttora viventi possono ricordare d’aver più volte udito dalla bocca del buon Torti, i principj di Belle Lettere, quali si hanno nelle opere di Parini non sono che semplici e nudi abbozzi. Per sapere quanto valesse quel grande maestro, soggiun-

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geva egli, bisognava averlo udito allorchè li commentava dalla cattedra, o li dichiariva ed esemplificava ne’ famigliari colloquii coi prediletti discepoli. E prima nella Epistola sui Sepolcri di Foscolo a Pindemonte così diceva all’amico Decristoforis: Nè tu la immensa delle sue parole Piena sentisti risuonar nell’alma, Allor che apria dalla inspirata scranna I misteri del Bello; e, rivelando Di natura i tesori ampi, abbracciava E le terrestri e le celesti cose. – Ma quale e quanto si fosse su la sua cattedra il nostro Parini, di [che] tenore ne fossero le lezioni e di quai frutti largamente feconde meglio che da altro ha ad apparire alla mente del lettore dall’ode la Gratitudine, intitulata al Cardinal Durini e dalla illustrazione che l’accompagna. Quì aggiugneremo solo che l’aula in cui egli le teneva era d’ordinario affollata di uditori d’ogni maniera sì nostrali sì forestieri, e che tutti ne uscivano scossi dalle tante utili e libere verità mescolate ingegnosamente e con rara facondia ai letterarj discorsi, e compresi d’ammirazione per un precettore che di quanto insegnava mostrava in sé stesso l’esempio ed il modello. Cotanto merito e sì splendidi successi non potevano non turbare i sonni alla mediocrità pretenziosa de’ pedanti, e non destare i ringhiosi latrati dell’invidia. E porgeva più che un’occasione e dava più d’una presa al dente de’ malevoli ed osteggiatori del nostro poeta, quella franchezza di contegno e di parola, che gli era abituale sì in privato sì in pubblico, e della quale non è altro che più offenda in tempi di generale fiacchezza d’animi e di pensieri. Inoltre gli era su le peste molta parte di quella ignobile nobiltà ch’egli avea di sì santa ragione messa alla gogna, a cui non pareva vero di non potere trar vendetta dell’ardito speculatore de’ loro costumi. Fra tanti per diverse cagioni congiuranti contro Parini e la cattedra di lui non mancò chi soffiasse all’orecchio de’ governanti accuse di idee antipolitiche ed avverse all’attuale ordine di cose. Ma questi ne tennero quel conto che si meritavano; e il maltalento che lo voleva balzar dalla cattedra non riuscì che ad impedirgli quei maggiori vantaggi che gli avrebbero meglio confortata la vecchiaja. [5v] Fra i lavori giornalieri del cattedratico esercizio, non pochi altri egli di continuo eseguiva, o comandatigli dalla pubblica autorità, o richiestigli, come spesso avveniva, da valenti artisti di ogni paese. Di questi ultimi sono i Programmi ed i giudizj risguardanti le Arti, de’ quali si ha una ragguardevole collezione. Nè potè negarsi all’invito fattogli dal Firmian di scrivere un Dramma da nozze per l’arrivo dell’Arciduca Ferdinando d’Austria sposo di Maria Beatrice d’Este. A lui similmente furono commessi i Programmi delle pitture, onde aveva ad ornarsi il Palazzo di Corte ingrandito coll’area del vecchio Teatro distrutto dal fuoco. Le quali ideate da Parini ed eseguite dal compaesano di lui Andrea Appiani, sono quanto ha di più pregevole quell’edificio. Il posto fattogli nel proprio seno dalla Società patriottica erettasi nel 1776, per poco non gli tornò funesto. Perocchè invitato dalla medesima poco da poi a stendere l’elogio funebre dell’Imperatrice Maria Teresa n’accettò l’incarico; ma quando vi si accinse trovò nel suo soggetto tali e tante repugnanze al modo suo proprio di vedere e di sentire, che per quanto ei vi studiasse non gli riuscì di rac-

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capezzare, com’egli disse, veruna idea soddisfacente su cui ordire il chiesto elogio, e finì col disdire l’assunto impegno dichiarandosi incapace di ciò per assoluta smemoraggine. Sì però ch’egli tra per la dispiacenza provatane, tra per la durata contenzione dello spirito ne risentisse una profonda agitazione d’onde una infermità nervosa che per un anno intero lo rese inetto ad ogni lavoro intellettuale. Intanto d’ogni parte d’Italia gli venivano continui eccitamenti ad ultimare il Giorno, del quale nulla s’era più veduto dopo la pubblicazione del Meriggio seguita nel 1765. Voglioso di dar compimento al suo lavoro quant’altri si fosse d’averlo fra le mani, si rimise egli all’opera più volte; ma e perché il primitivo disegno gli si era fra l’esecuzione aggrandito, e alle tre parti ch’egli aveva primamente divisato al poema parevagli conveniente aggiugnere anche una quarta, la Notte; e perché mano mano che avanzava nella età, e nel senno, più prendeva soggezione del pubblico, ed entrava in maggior tema di parere da meno di sé stesso; vi lavorava assai a rilento e se ne tolse più volte quasi stanco e infastidito, e lo avrebbe fors’anche abbandonato del tutto, se non era la pressa che gli facevano gli amici ed i lusinghieri conforti che gli venivano da altissime persone, delle quali prima l’arciduchessa Maria Beatrice, donna quant’altre colta e generosa protettrice de’ liberali ingegni; come italiana ch’ell’era, e venuta di Modena celebratissima [6r] allora di buoni studii fra le italiane città. Se non che fra questi accasciamenti medesimi in che ricadeva di tratto in tratto il suo spirito in presenza delle difficoltà attraversate al finale procedimento del Giorno, la mano gli correva a quella lira che si ebbe il suo primo amore a cui andava debitore della sua prima celebrità. Nè ciò gli accadeva solo per quel bisogno di svago che avevano le sue facoltà dalle preoccupazioni di un lungo continuato tema; sibbene e a più forte cagione per quel pensiero e intendimento che era in lui di ricondurre la lirica nostra a quella virilità di concetti, a quella vaghezza, severità e magnificenza di modi e di forme ch’egli cotanto ammirava e gustava negli antichi poeti di Grecia e di Roma. Il qual pensiero lo accompagnò di continuo per tutti gli stadj della sua carriera letteraria, ne fece più pertinace lo studio in questa parte che nella Satira, e gli meritò il titolo e il vanto non che di maestro, di rinnovatore della lirica italiana. Egli si fu quindi che dall’amaro ghigno di Talia passò tanto spesso e facilmente ai melodiosi concenti di Calliope, quanti furono i casi, le occasioni, le richieste che gliene porsero il destro; come puoi vedere nella serie de’ Carmi lirici, dettati i più negli anni suoi volgenti al tramonto, che sono appunto quelli de’ quali ora tocca il presente discorso. La morte del Conte di Firmian lasciava esposto il nostro poeta agli attacchi de’ malevoli contro i quali eragli valso il patrocinio di quel savio Ministro, e se non l’avesse francheggiato una stabilita e più che municipale riputazione e l’amicizia del consultore Pecci, correva rischio di perdere colla cattedra gli appuntamenti de’ quali unicamente campava la vita. Ebbe per altro il rammarico di vedersi dagli amici di sua giovinezza montati in alto negato un pubblico alloggio più conveniente ai cresciuti bisogni della sua acciaccata vecchiaja. Di ciò fattosi più riguardoso e diffidente si richiuse più che mai in se stesso e tutto si raccolse a’ suoi proprj officj, ed a’ geniali suoi studi, e dettando lezioni, inventando programmi d’opere d’arte e quei singolarmente dei bassi rilievi del nuovo palazzo Belgiojoso, mettendo fuori di tempo in tempo qualche lirica composizione, e concedendosi ai migliori e più tranquilli fra gli uomini

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di lettere sbarcò per più anni quietamente la vita. Sopravvennero a toglierlo da queste abitudini di riposato lavoro le notizie della grande rivoluzione di Francia, la quale iniziatasi colla proclamazione de’ più sacri dogmi dell’umana libertà e dell’eguaglianza di tutti davanti alla legge, coll’elevare sopra i pretesi diritti del sangue i [6v] reali dell’ingegno e de’ benfatti, non poteva non ridestare le fiamme del giovanile entusiasmo nel nostro poeta che vedeva tradursi in fatti i più nobili pensamenti da lui confidati alla magica parola della sua Musa, e sentiva quindi rinascersi in cuore la speranza di giorni migliori per l’Europa, e più spezialmente per la diletta ed avvilita sua patria. Epperò con ansia indicibile tenne dietro col pensiero ad ogni passo dato nel nuovo cammino dalla grande nazione; tanto che dall’assidua lettura de’ giornali venuti di là ordinariamente male impressi gli si venne indebolendo la vista ed appanando da una cateratta l’occhio destro. Ma prudente ad un tempo ed ammaestrato dall’esperienza delle antiche e moderne età egli sapeva come l’applicazione delle più sane dottrine fatta senza misura e discrezione riesca funesta alla società non meno di qualsivoglia precedente abuso, non riescendo altramente che a surrogare nuovi delirj agli antichi; e tosto com’ebbe veduto mettersi per questa mala via la Rivoluzione francese non lasciò di versare nel seno degli amici tutta l’amarezza di che gli colmavano l’anima le enormità e scelleranze commesse e moltiplicate all’infinito in nome degli imprescrittibili diritti dell’uomo e delle nazioni. Nè mancò di detestarle in pubblico: ne fa testimonianza la stupenda Ode a Silvia. Sopra tutto poi non si lasciò andare nè ad atto nè a parola veruna, onde potesse ricevere offesa o la dignità del suo carattere, o la delicatezza de’ suoi doveri. Pur nondimeno, quando il general Bonaparte sventolò sulle Alpi lo stendardo tricolore, e vincitore a Montenotte proclamò a Milano cessata in Italia la signoria straniera e resi a se stessi e di proprio diritto gli Italiani con tali parole da doverne rimanere imparadisato ogni vero patriota; Parini credente al bene, come tutti i buoni, tripudiò della libertà impartita alla patria, e abbandonossi alle speranze cui davano cagione quelle sì liberali promesse. E chiamato dagli ordinatori del nuovo Stato, a sedere nella Congregazione municipale di Milano, presso cui stava la somma delle cose, egli accettò di buon grado, non che credesse di potere apportare al suo nuovo officio grandi tesori di scienza amministrativa; ma perchè sapeva che chiunque ami d’amore la patria non può e non deve tenersi in disparte e rifiutare il comune incarico in que’ momenti specialmente ne’ quali v’ha maggior bisogno de’ buoni. E gli era di gran conforto la presenza e vicinanza di quel valente e virtuoso cittadino ch’era Pietro Verri, col quale, scordata ogni grossezza stata per l’addietro fra loro si strinse di quell’affetto che nasce vicendevole in animi concordi nel procurare un medesimo bene. Ma ambedue non tardarono a comprendere come era nulla d’ogni loro buon volere in un corpo, ove troppi erano gli entrativi con altri mezzi, e con altra mente e intenzione da quella ch’essi vi arrecavano, ed a cui sovrastava l’arbitrio arrogante di tre agenti militari, capo d’essi il prepotente e brutale [7r] Despinoy, il quale a colpi di sciabola scaricati sul tavolo della conferenza dettava i suoi ordini al nostro magistrato, cui non restava altro partito che obbedire e bandire in proprio nome gli enormi balzelli comandati ad ogni poco dalla insaziabile avidità de’ proconsoli stranieri. Non si conoscono che per aneddoti gli atti del nostro poeta, durante la sua municipale magistratura, de’ quali piacemi riferire questo solo, colle parole medesime di C. Cantù. In presenza di un nuovo

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sopruso del generale Despinoy «Parini impugnando la bandoliera tricolore che prima portavasi a cintura e che poi (a proposta di qualche autore di mozioni) erasi messa alle spalle, disse: Perché dunque non ci tirate più in su questa fascia, e non ce la incappiate al collo?» Non era punto a supporre che un uomo d’indole sì vivace, di parola sì franca, di così retto operare, come era Parini potesse a lungo essere sofferto in tempi ne’ quali i più rotti a servitù si dicevano da sé i meglio liberali e ne pigliavano argomenti e mezzi da spadroneggiare; nè da una ciurma irrequieta di vigliacchi quanto ambiziosi, di inetti a tutto che non fosse il male. Discordano i biografi nell’assegnare il modo onde il Parini si ritirò dalle pubbliche faccende. V’ha chi dice averne lui chiesto ed ottenuto onorevole congedo; altri invece asserisce che la sera stessa del giorno in che aveva pronunziato le parole testè riferite scrisse una lettera dignitosa colla quale si dimetteva senza più dall’officio, protestando ch’ove regnava la sciabola, non v’era più luogo a’ magistrati. Io credo in ciò a Cesare Cantù, il quale asserendo che Parini non abdicò spontaneo, soggiunge «aver ciò avuto da un amico di lui, che di que’ giorni trovatolo gli disse: Onde, abbate Parini, siete pure uscito da quella congrega? – Uscito? – rispose egli, m’han fatto uscire». Scioltosi a ogni modo, depose egli nelle mani del proprio Parroco l’intero stipendio provenutogli dal pubblico officio per essere segretamente distribuito a poverelli, e tornò quindi al silenzio della vita privata ed alle sue antiche occupazioni, non senza la speranza, che cessate le prime orgie della libertà fescennina, come egli chiamavala, e al mutarsi delle cose e de’ tempi in meglio, avrebbe potuto essere nuovamente richiesto de’ suoi servigi alla patria libera daddovero. Quei tempi non dovevano venire lui vivente giacchè la Cisalpina finchè visse l’efimera sua vita non rendette altra imagine da quella di una società briaca, di un politico manicomio, d’un paese in balia al brigantaggio. Vi poneva mente pur nella quiete del suo domestico santuario, il nostro [7v] poeta; e non è a dire quanto ne rimanesse l’animo più e più sempre costernato. A chi lo vide in que’ giorni parve ch’egli portasse sì tutta la sua generosa fierezza, ma che fosse sgomentato dai tempi e dalla vecchiaja. Di profondo, solenne, e meditato dolore improntavansi le parole eloquenti di tutti i discorsi da lui scambiati cogli amici, ne’ quali era continuo il suo fremere delle condizioni infelici fatte alla sua patria dalle antiche tirannidi e dalla nuova licenza; lamentava prostituite le lettere; tutte le passioni languenti e degenerate in una indolente vilissima corruzione; pervertito col pubblico sentimento anche il costume; sbandeggiata la benevolenza l’amor figliale ogni domestica virtù; le parti tutte della cosa pubblica invase inondate dalla feccia qui colata da tutta Italia; e questa sola nello sbaraglio delle pubbliche e private fortune levarsi in alto e grandeggiare. Ma anche fra codesti rammarichi, e fra il continuo raggravarsi delle senili infermità duravagli costante l’amore e la potenza del lavoro intellettuale. È a lamentare la perdita di una storia del triennio che si vuole da lui scritta in questi giorni, e da una eccessiva prudenza insieme con altro prezioso di lui carteggio, condannata al fuoco. Similmente aveva meditato alcune profonde lezioni sul famoso cenacolo di Leonardo da Vinci, senza poterle scrivere, giacchè a cagione del soverchio leggere gli si era appannato alquanto anche l’occhio sinistro. Attendeva eziandio indefessamente a dar l’ultima mano al Vespro ed alla Notte cui sperava poter dettare nella prossima estate, riuscito che fosse per bene l’ab-

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bassamento della cateratta dell’occhio destro, cui aveva da ultimo acconsentito di sottoporsi. Altri avvenimenti e più funesti alla patria nostra sopravennero a frustrargli codesti disegni, e a colmargli la misura dei dolori dell’anima mentre più insistenti e gravi gli si facevano quelli del corpo. La rioccupazione della Lombardia per gli eserciti congiunti degli Austriaci e de’ Russi, avvenuta entrando il 99 portò seco le tristizie e le iniquità che si accompagnano sempre alle subite rivolture di governo ed alle violente ristorazioni. Come in nome della libertà ed eguaglianza era stato questo nostro infelice paese poco dianzi ludibrio al dispotismo militare dello straniero, ed alla licenza de’ più vili e perversi fra i suoi; ora in nome dell’ordine e della religione veniva alla balia d’altri non meno vili e perversi ai quali il più gran merito e titolo al salire era il non aver mai fatto nulla, nè altro miglior modo soccorreva per far valere l’antica e ritornata devozione loro ai nuovi signori, che lo spioneggiare ed il perseguire con atroce perseveranza quanti nelle diverse vicende della patria avevan sempre camminato nella via del dovere e dell’onore. [8r] I pochi uomini fra i nostri, pei quali la Reppublica Cisalpina sarebbe stata rimessa in senno, se ciò fosse stato possibile alla ragione nello scapestramento di tutte le passioni, e nella onnipotenza della canaglia, questi tali uomini, dico, furono segno alle ire ed alle vendette degli imbelli divenuti eroi in coda agli eserciti vittoriosi, e de’ camaleonti politici d’ogni maniera grado e condizione. Altri d’essi furono destituiti de’ loro officj, altri imprigionati, parecchi deportati alle bocche di Cattaro, non pochi scamparono esulando volontariamente dalla patria. Il nostro Parini capitato anch’esso in tempi ne’ quali ad un governo più cale di gratificarsi i ribaldi che di rispettare i buoni corse il rischio non che della cattedra della sua libertà personale, e più che alla fama della specchiata illibatezza del suo carattere dovette forse alle infermità del suo corpo il non cader vittima della persecuzione di cui per altro fu fino all’estremo minacciato. – Rassegnatosi a che che venisse a lui personalmente, e disposto, com’ei diceva, ad andar mendicando per ammaestramento de’ posteri ed infamia de’ governanti non così facilmente seppe darsi pace della nuova croce a che era posta l’amata sua patria. Fù allora, a quel che pare, che l’abituale sua severità inasprissi di insolita rigidezza, divenne più che mai irritabile e per poco intollerante a’ le parole di conforto e di speranza che gli porgessero gli amici. A ciò allude il buon Torti con queste parole da lui dirette all’antico maestro apparsogli in sogno: … Il volto fatto dispettoso e il torvo Intendere degli occhi e l’adirata Fulminante facondia ahi! ch’atterrito M’ebbero poi dal tuo cospetto! Ah fossi Stato tu meno austero, ed io più saggio! Chè forse me dal petulante volgo Dalla insanità gioventù potevi Scernere e caro ancora avermi e teco. . . . . . . . . . . Ma dimmi or, qual mio fallo, o qual destino a me così ti tolse? Sapevil pur che la temuta voce De’ tuoi precetti aveami ognor dal fero Vortice salvo e dalle colpe . . . .

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Alle quali parole così fa rispondere Parini: [8v]

Io il seppi Dappoi: ma i tempi miseri, che in peggio Ivan cangiando sempre, aveanmi tutte Le vene infette di cotal veleno, Ch’uom mai più lieto non mi vide, e male Io discernea, cui perdonar dovesse La cieca punta delle mie rampogne. –

Condotto a questo stremo di accoramento e di sfiducia d’ogni umana cosa, non è difficile il credere ch’egli sospirasse ardentemente a quella pace che attende i benvissuti al di là della tomba, e della quale nel lungo corso di sua vita intemerata non eragli mai venuta meno la fede e la speranza. E a questo bramato fine de’ terreni travagli s’andava egli più che di passo avvicinando per altra lenta e sorda infermità conseguita all’abbassamento della cateratta operatagli col migliore successo dal valentissimo oculista Buzzi. Perocchè nella penosa quiete e forse a cagione a che fu obbligato per lungo tempo dappoi, di questa, e della mancanza d’ogni moto ed esercizio corporeo, fu soprappreso d’idropisia alle gambe. La quale combattuta con cura diligente ed energica dai medici amicissimi suoi Strambio e Locatelli alter[nando] stranamente le sue fasi, svanita più volte per riapparire indi a poco fino al 15 Agosto 1799 che fu per lui l’ultima giornata. In questa levatosi all’otto del mattino dettò a Paolo Brambilla un sonetto chiestogli sul ritorno de’ Tedeschi; udì coll’usata serenità le parole del Dott.e Locatelli che gli dicevano non presente ma vicino il pericolo: continuò a ragionare placido cogli amici astanti; ritiratisi questi ritornò nella sua stanza da letto, ed affacciatosi ad una finestra si consolò di veder così bene dall’occhio risanato, come non mai prima; quindi senza ajuto passeggiò per alcun tempo d’una in altra stanza e ripostosi da ultimo sul letto abbandonò la terra colla calma dell’uomo che sa di finire alle porte della vera patria un lungo doloroso esiglio. Tal visse e morì Parini; uno de’ più bei nomi di che s’onori questa nostra città che pur di tanti va sì meritamente superba. Le gravi cure che a quei giorni preoccupavano ogni ordine di persone fecero sì che la Lombardia quasi non s’accorgesse d’aver perduto il suo poeta. Modeste, quali egli avea prescritto vivente, [9r] ne furono le esequie, nè altro pianto accompagnonne le esanimi spoglie alla terra dell’ultimo riposo, che quello della più intima amicizia. E fu questa similmente che pose sul tumulo di lui nel Cimitero a Porta Comasina la seguente iscrizione: Jos. Parini poeta heic quiescit ingenua probitate exquisito judicio potenti ingenio clarus publice docuit an. XXX vixit an. LXX plenos aestimationis et gratiae ob. a. MDCCXCIX.

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Più nobile ricordo gli eresse a proprie spese il celebre astronomo Barnaba Oriani, che fece collocare ne’ portici del Ginnasio di Brera il busto di Lui sculto in marmo da Giuseppe Franchi; e scrissevi sotto di propria mano Josephus Parinius cui erat ingenium mens divinior atque os magna sonaturum obiit XVIII Kal. Sept. a. MDCCIC. Nè vuolsi tacere del grazioso tempietto che innalzò alla memoria di lui l’avvocato Rocco Marliani nella amena villa ch’egli ebbe ne’ pressi d’Erba, detta Amalia dal nome di sua moglie; e del quale cantò con sì affettuosi versi l’autore della Mascheroniana. Ma ben più di qualsivoglia monumento valsero alla gloria durevole di Parini le orme da lui impresse nel campo della nazionale nostra letteratura [9v] e sifatte da non si potere sì di leggiere essere cancellate, e i luminosi tratti che lo spirito di lui abbandonando la terra avea lasciato dietro a sè, voglio dire la ricca eredità di nobili esempj che di lui rimaneva e che più presto che da altri raccolta dalla generazione a lui più prossima di età e di luogo aveva tantosto a fruttare nuovo lustro alla bella patria nostra, e nuovi titoli di riconoscenza verso la memoria dell’estinto poeta. Troppo lungo ci porterebbe il ricordare anche solo per nome i non pochi valenti poeti e scrittori d’ogni maniera che illustrarono il nostro paese dallo scorcio dell’ultimo secolo a dì nostri, ne’ quali sono visibili gli influssi di quelle dottrine che il nostro poeta avea a larga mano sparso dalla cattedra ed accreditati col proprio fatto. Basti uno per tutti. Quel grande che prese e tenne per quasi tre quarti del secolo presente quel posto nell’ammirazione de’ suoi concittadini e di tutta Italia che aveva tenuto nell’ultima metà del precedente l’autore delle Odi e del Giorno, quando questi dipartivasi dal mondo, era in età di tredici a quattordici anni. E stavasi a studio in uno de’ collegj allora più riputati, e del fuoco poetico ch’eragli connaturato più che un lampo erane già guizzato a veggente de’ suoi precettori. I quali, non credettero di poter meglio secondare il talento del giovinetto, nè meglio incamminarlo per la via a che pareva irresistibilmente portato, che col porgergli a modello e guida o i versi sciolti dei tre così detti illustri poeti italiani, od altro somigliante florilegio di versi più o meno svenevoli ed artificiati. Se non che il nostro giovinetto Alessandro, non che capacitarsi di alcuna delle tante bellezze che i maestri si [10r] argomentavano di rilevare da’ que’ libri, non che sentire un solo di que’ tanti prelibati savori di che quelli sdilinquivano, ne prendea un mirabile disgusto e fastidio; e spinto a forza verso tal meta, d’onde un prematuro intelletto e discernimento dell’arte fortemente lo ritraeva mal sapeva come e per dove moversi, mentre sentiva di non potersi ristare. A questo punto fu ventura sua e d’Italia nostra che gli venisse alle mani una copia delle poesie dell’abate Parini. Leggerle, innamorarsene, farne la sua delizia fu un punto solo; ma nissuna parola potrebbe ritrarre il sentimento di che fu commosso alla lettura dell’Ode la Caduta. In quella nobile fierezza che spira da ogni verso di quel carme, il giovinetto poeta trovò se stesso qual era inconsciamente e qual voleva essere; quel giorno fu la rivelazione del Genio al Genio. La via cercata e ch’altri mal poteva segnargli egli

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vedevala aperta dinnanzi a sé, e l’esempio di chi l’ebbe sì gloriosamente battuta gli aggiunse animo ed ardimento e poco stante s’udì uscire in quel generoso proposito o di voler «toccare la cima, o di far sì, come egli dice, … che s’io cadrò su l’erta Dicasi almen: su l’orma propria ei giace.» Come non gli fallisse la sospirata altezza, tutti se ’l sanno; ma questo pure non vuole dissimularsi che se da Dio egli ricevette la facoltà di volare, dal divo Parini gli vennero primamente impennate quell’ali che lo dovevano portare oltre i termini toccati dal maestro, senza punto cadere. Chi ne dubitasse non ha che a [10v] rileggere i versi per l’Imbonati e il poemetto dell’Urania, non che gli altri carmi giovanili pur dianzi pubblicati la prima volta, io credo, dall’egregio Prof.e A. Stoppani in coda all’aureo suo libriccino i primi anni di Alessandro Manzoni. Meglio che le lodi del divo Parini ivi ripetute dal giovane poeta, il magnanimo sdegno contro ogni bassezza ed il verso franco, denso di idee, serrato nella forma, e armonizzante coi concetti, ti dicano quanta parte si fosse già in lui trasfusa di quello spirito che aveva governato la penna e la mano del glorioso autore del Giorno. Nè questa è la sola prova dell’ammirazione e del culto prestato alla memoria ed agli scritti di Parini dal giovane Manzoni; chè del non averlo potuto vedere, conoscerlo, e udire vivente, cercò quasi un conforto ed un compenso nella consuetudine di quanti erano stati più accetti e cari a quel grande maestro, e sopratutti si strinse di fratellevole amore al buon Giovanni Torti che n’era stato il discepolo prediletto. Chi saprebbe ridire quante volte l’uno richiese, quante volte l’altro compiacente alla nobile curiosità dell’amico gli venne svolgendo il tesoro di quelle dottrine che egli aveva appreso dalla viva voce del venerando precettore, o sedendo sui banchi di Brera, o assiso alle intime cortine de’ suoi riposi, o facendogli della destra sostegno all’egre membra per le vie frequenti della città? Chi sa ridire fino a qual punto la sapienza pariniana viva tuttora e spirante nella parola dello scrittore de’ pochi ma valenti versi si traducesse nei concepimenti e nei fatti dell’immortale autore degli Inni e de’ Promessi Sposi; quanto il fermo autorevole giudizio del primo valesse, non che altro, a vincere nel secondo quelle esitanze proprie ed abituali al Genio vagheggiante un termine cui troppo spesso mal [11r] possono aggiungere le potenze dell’arte? Ed ecco di qual guisa d’una in altra generazione continuossi fra noi quella letteratura eminentemente civile e morale fondata su quella filosofia perenne che sta fuori di tutti i sistemi, su quel buon senso greco-latino ricompiuto e rinnalzato dal buon senso cristiano, quale avevanla data all’Italia primi Dante e Petrarca, e risuscitatane la tradizione meglio d’ogni altro il nostro Parini. Cessi il cielo però ch’io a più onore del santo della giornata intenda disgradare nel concetto altrui quest’altro più recente lume della patria nostra, facendone nulla più che un seguace, un imitatore dell’altro, nel senso più comune di questa parola.

LE ODI DELL’ABATE

G IU SEPP E PA R IN I RISCONTRATE SU MANOSCRITTI E STAMPE con prefazione e note di

F IL IPPO SA LVE R AG L IO

BOLOGNA N I CO L A Z A N I CH E LLI l ib r a io -e dito re -tip o g r afo 1881

This page intentionally left blank.

I. [V]1 Francesco Maria Parini, negoziante di seta, nato a Bosisio verso il 1690, ebbe da Angela Maria Carpani quattro figli: Giulio, nato nel 1722, Caterina, nata due anni più tardi e maritata nei Corneo di Monastirolo, Laura nata nel 1725 e maritata negli Appiani di Bosisio, e, ultimo, Giuseppe, il quale uscì alla luce in quel ridente borgo del lago di Pusiano ai 23 di maggio del 1729.2 [VI] A Giuseppe Parini insegnò leggere e scrivere il curato del luogo, com’era naturale;3 ma verso la fine del 1738 Francesco Maria condusse il figlio a Milano e lo collocò nella casa della propria zia Anna Parini,4 vedova Latuada, che abitava nella parrocchia di S. Nazaro, e il giovinetto vestito da abatino cominciò a frequentare le scuole di S. Alessandro dirette dai Barnabiti,5 dove l’avevano preceduto di poco il Verri, e il Beccaria, e dove studiò teologia dogmatica, diritto canonico, fisica, logica, matematica, retorica e lingua greca, umanità, grammatica maggiore e grammatica minore; quando nella Congregazione dei Barnabiti e in tutta la Lombardia, come scrisse poi il Verri, erano sconosciuti e gia-

1 [In BAMi/b Salveraglio cancella tutta questa pagina, nota compresa, e sulla precedente pagina bianca propone il nuovo incipit a penna In Bosisio, ridente borgo del lago di Pusiano, vide la luce Giuseppe Parini il 23 di maggio del 1729, da Francesco Maria, modesto negoziante di seta e da Angela Maria Carpani, ultimo di quattro figli. La casa dove nacque il poeta qui si interrompe e rimanda a p. XXXIII dove prosegue: è situata su di un poggio ameno (…) Nava. Inoltre premette a matita il titolo Vita di G. Parini. Sopra il titolo, sempre a matita, esprime il dubbio in 2 colonne?]. 2 «Alli ventitrè maggio mille e settecento ventinove – Antonio, Maria, Giuseppe, Gaettano figlio di Messer Francesco Maria Parino e sign.ra Angela Maria Carpana jugali, nato e battezzato il giorno sud.º da Me inf.º Curato di Bosisio. – Compadre è stato Messer Carl’Andrea Appiano abitante in Bosisio, et in fede – Io P. Carlo Giuseppe Cabiati Cur.º di Bosisio» (Archivio parrocchiale di Bosisio). 3 [In BAMi/b Salveraglio cancella com’era naturale]. 4 Bernardo Parini ↓ ↓–––––––––––––––––––––––––– ↓ Anna Maria Giovanni Battista ↓ ↓–––––––––––––––––––––––––––––↓ Francesco Maria Angela Giuseppe ↓ ↓ ↓ Antonio ↓ ↓––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––– ↓ Giulio Paolo Caterina Maria Laura Elisabetta Giuseppe 1722 1723 1725 1729 [In BAMi/b la nota è cancellata]. 5 [In BAMi/a nell’interfolio della p. VI, Salveraglio ha aggiunto a penna … fondate nel 1609 da mons. G. B. Arcimboldi – Università di S. Alessandro – Scuole Arcimbolde, come preferiva chiamarle il Parini stesso, “per tener viva nella patria la memoria di quel buon cittadino.” (Lettera in proposito d’un’altra scritta contro di lui ecc., Milano 1760, pag. 17.)].

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centi i buoni studi e le belle arti: «una falsa eloquenza latina, uno studio di memoria nella [VII] Teo|logia o nella Giurisprudenza erano le sole occupazioni applaudite». Tre anni dopo Anna Maria morì lasciando al pronipote Giuseppe «un matarazzo ad electione del medesimo pronipote» e al nipote Francesco Maria «la quarta parte di tutti li mobili e suppellettili perchè potesse instruere la casa in Milano» e il chierico Giuseppe potesse continuare gli studi e farsi sacerdote; instituiva anzi a favore di Giuseppe «se continuerà nel stato clericale e vorrà promoversi al sacerdotio» un’annua rendita su beni immobili per una messa quotidiana.1 Messa su casa, secondo l’ultima volontà della zia, non so dire2 se i genitori del Parini venissero subito a dimorare stabilmente in città, o se venisse il solo Francesco Maria. Ad ogni modo il giovinetto proseguì con regolarità gli studi, e nel 1745 lo troviamo scolaro di retorica, corso triennale del P. Branda: nel tempo stesso faceva lezione ai nipoti del Canonico Agudio. Nel 1752, «in tempo, dice egli stesso, che era ogni maniera di letteratura al suo colmo venuta» [VIII] mandò fuora una «piccola parte» delle sue rime,3 un centinaio di componimenti e sacri e morali e amorosi e pastorali e pescatorj e piacevoli e satirici e di molte altre guise, per sapere dal pubblico «giusto e sincero estimatore delle opere altrui, quale ei fosse per riescire nel poetico mestiere, e quindi se dovesse l’incominciato cammin tralasciare e dare alle Muse un eterno addio o esserne animato a salir con più vigore il sacro giogo e procacciarsi qualche fronda di lauro in Parnaso.» Di sè stesso il poeta diceva: Io son nato in Parnaso, e l’alme Suore Tutte furon presenti al nascer mio; E mi lavaro in quel famoso rio, Mercè solo del quale altri non muore. Però mi scalda sì divin furore, Sebben giovine d’anni ancor son io, Che d’Icaro non temo il caso rio, Mentre compro co’ versi eterno onore. [IX]4 So che turba di sciocchi invida e bieca Ognor mi guarda, e con grida e lamenti Sì bel valore a troppo ardir mi reca. Ma non per ciò mio corso avvien ch’allenti; Nè l’età verde alcun timor m’arreca; Ch’anco Alcide fanciul vinse i serpenti.

1 Archivio notarile, Testamento di Anna Parini, Rog.º Marco Antonio Monza, 9 marzo 1739. 2 [In BAMi/b non so dire > non si sa]. 3 Alcune poesie di Ripano Eupilino, Londra 1752, presso Giacomo Tomson. Questo volumetto non fu stampato a Lugano, come credesi, ma a Milano dal Bianchi. Anche il P. Francesco Antonio Zaccaria lo dice «colla data di Londra stampato in Italia» (Storia letteraria d’Italia del sett. 1748 a tutto il 1754, Modena 1754, vol. VI, lib. I); così pure le Novelle della repubblica letteraria di Venezia (per il dì 6 del 1753; Venezia, Occhi). 4 [In BAMi/a sull’interfolio di p. IX Salveraglio ha aggiunto a penna Sev. Ferrari - Le poesie di Ripano Eupilino].

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Quel volumetto ebbe lieta accoglienza. «Sebbene la lingua o penna dell’Autore, osservò un giornale, sdruccioli sovente in materie lubriche, pure il suo ingegno ci dimostra abbastanza ch’egli non è già grosso di legname, E distinguer sa il fieno dallo strame.» Si ammirò la «pronta, facile e naturale maniera di verseggiare, e lo stile colto, acre e faceto»; ed ecco il nuovo poeta nell’Accademia de’ Trasformati di Milano1 e poco dopo in quella degl’Ipocondriaci di Reggio2 e nella Colonia [X] In|subre dell’Arcadia col nome di Darisbo Elidonío, sotto il quale pubblicò poi, fra le rime degli Arcadi, quattordici sonetti e l’ode Su la libertà campestre.3 Raggiunti i ventiquattro anni, età richiesta in chi vuole essere ordinato sacerdote, Giuseppe Parini acquistato non senza difficoltà il diritto di disporre dei beni lasciati da Anna Maria, contestatogli per mal animo dell’esecutore testamentario Antonio Rigola,4 presentati i necessari titoli d’ordinazione5 e sostenuto il solito esame, fu, il 14 [XI] giugno del 1754 dichiarato promosso ad presbyteratum.6 In quello stesso anno andò come precettore in casa Serbelloni; e quantunque il duca Gabrio due anni dopo ponesse i figli nel Collegio imperiale, egli continuò ad essere, con grandissima utilità per il suo ingegno e pei suoi studi, tra i meglio accolti e tra i più costanti seguitatori della duchessa Maria Vittoria, donna, scrisse Pietro Verri,7 «d’animo fermo e buono, corredata lo spirito da una assai vasta coltura, capace d’amicizia, d’animo disinteressato e benefico», che riguardava «non senza compassione»,8 l’ignorante orgoglio di molta parte de’ nobili milanesi, dei quali i costumi e le leggi ella trovava «bien contraires au bon 1 La prima adunanza fu tenuta nella galleria del palazzo Imbonati il 6 luglio 1743; l’ultima il 10 settembre 1768, e fu per onorar la memoria dell’Imbonati. [In BAMi/b questa nota e la successiva sono cancellate]. 2 Fu fondata nel 1747 da «maninconosi ed onorandi Messeri, allo scopo di sollazzare le loro Muse in piacevole geniale accademia, onde col trattare onesti e gioviali soggetti cavarne sollievo nella loro tristezza, dolce intertenimento degli animi loro turbati.» Al Parini toccò il nome di Cataste col quale si coprì scrivendo per una raccolta di poesie dedicata alla famosa Caterina Gabrielli (Milano, Agnelli, 1758) due sonetti ignoti al Reina. 3 Rime degli Arcadi, t. XIII, Roma, presso Paolo Giunchi. [In BAMi/b aggiunge 1786]. Gio. Ambr. Fioroni di Canzo scrivendo il 10 novembre 1754 a D. Giuseppe Ripamonti di Milano, al quale aveva fatto conoscere il Parini, gli dice: «. . . . . Mi consolo di non averle procurato invano il contento, anzi l’onore di trattare con quell’eccellente Poeta che si è il nostro sig. Abate Parino.» [In BAMi/b il testo Gio. Ambr. Fioroni (…) Abate Parino.» è cancellato]. 4 Archivio di Stato: Giudice del Cavallo, 1º febbraio e 10 maggio 1751. [In BAMi/b 5 nota è cancellata]. 5 a) rendita annua di lire 224 sopra i beni lasciati da Anna Maria Parini, e situati nel territorio di Renate – investitura livellaria, rogito Giacomo Antonio Viglezzi di Milano, 25 agosto 1753; b) rendita annua di lire 104, per un legato disposto da Ginevra de’ Nobili maritata Appiani, fondato nel 1614, coll’obbligo di due messe alla settimana nella chiesa di Bosisio. Il Canonico Agudio si rese garante della celebrazione delle messe ordinate da Ginevra de’ Nobili, ove il Parini non dicesse o non facesse dire le messe medesime. (Archivio di Stato, Fondo di Religione; Archivio notarile) [In BAMi/b questa nota è cancellata]. 6 Archivio della Curia arcivescovile, Suddiaconati, Ordinazioni straordinarie 1754. [In BAMi/b le note delle pp. XI-XII sono cancellate]. 7 Da un albero genealogico appartenente alla famiglia Sormani Andreani. Notizia avuta dal sig. A. G. Spinelli. 8 De Gamerra: La Corneide.

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sens et à la saine raison. Viens, scriveva al figlio Galeazzo in collegio a Roma, viens dans ton pays et tu verras dans quel esclavage on vit.»1 Ma nell’autunno del 1762 intervenne al nostro [XII] Poeta un curioso accidente; che lo allontanò per molti anni dai Serbelloni. Egli aveva seguito la duchessa a Gorgonzola, col medico Cicognini e con pochi altri amici. «Un giorno, racconta rozzamente un amico del poeta, la duchessa diede due schiaffi alla figlia del maestro San Martino, la quale voleva portarsi a Milano. Il Parini abbandonò la duchessa e accompagnò la San Martino.»2 Quale sia stata la causa, quali i particolari di questa cavalleresca avventura del poeta di Bosisio, non m’è riuscito di sapere. Vi fu ad ogni modo un certo scandalo, sì che la duchessa scriveva poco dopo al figlio: «…… Je n’ai d’autre consolation que dans les livres, et mème cela est peu fréquent, car je n’en ai pas le temps . . . . . Cicognini est occupé par son métier. J’ai dû me défaire de l’abbé Parini à cause qu’à Gorgonzole il m’a fait une tracasserie bien grande.»3 Prova de’ suoi studi e delle osservazioni fatte sui classici il Parini aveva già data in una lettera [XIII] scritta nel 17564 contro il servita Alessandro Bandiera, che in un opuscolo pubblicato l’anno prima, discorrendo della maniera d’insegnare, censurava nella lingua e nello stile vari scrittori italiani, fra gli altri il Segneri. Il Parini biasima «la troppa estimazione in cui l’autore mostra di tener sè medesimo», nota nelle opere del Bandiera «la costruzione oscura ed intralciata, la cattiva scelta delle parole e delle maniere di dire, assai vocaboli che in buona lingua non reggono»; dimostra in quanto sconcio modo il Bandiera pretenda di correggere il dettato del Segneri, e vuol così disingannare i giovani i quali «per avventura lasciandosi condurre alle parole del Bandiera accetteranno come buone certe maniere storte di ragionare, o seguiran come limpido e purgato stile ciò che non è altro che pretta affettazione lontana da ogni dritta ragion di favella.» E nel 1760, allorquando i letterati milanesi, specialmente gli Accademici Trasformati, si sollevarono [XIV] contro il padre Branda che nei due dialoghi Della lingua toscana tendeva, secondo loro, «all’avvilimento, col mezzo d’odiosi paragoni, delle femine, delle ville, del clima di Lombardia, vilipendendo di più il dialetto milanese, e la scientifica costumanza di comporre in esso con poetico metro, come pure disonorando con termini contumeliosi le donne, le persone inservienti a cittadini, quelle d’inferior classe, e più d’ogni altro li borgheggiani che li orti coltivano alle mura di questa città; in tempo che della Toscana, di Firenze, dell’Arno si esaltavano sino alle stelle le siepi, le vigne, li contadini, le feminuccie, li famigli degli orti, i lettighieri nella perizia del suono, nella leggiadria del canto, nella grazia, nei famigliari ragionamenti, pronti, arguti, mirabili, e si parlava persino di que’ muli fiorentini in guisa di farli quasi credere privilegiati a differenza di tutti gli altri del mondo, quibus non est intellectus»;5 allor1 Archivio Sola – Busca. 2 Il San Martino che «era in Milano il dio della musica» (Bianchi, Elogio di P. Verri, pag. 59), era maestro di cappella a Gorgonzola. 3 [In BAMi/b il testo Ma nell’autunno (…) bien grande.» è cancellato]. 4 Due lettere sopra il libro intitolato I pregiudizi delle umane lettere, Milano, Regia Ducal Corte, 1756. – La prima è quella del Parini, indirizzata a P. D. Soresi; l’altra è la risposta del Soresi. 5 Relazione di Giuseppe Peri al Governatore, 9 settembre 1760. Archivio di Stato.

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quando, dico, gli Accademici Trasformati scesero in campo con lettere, con libri, con poesie, per vendicare il vilipeso decoro della comune patria, dei di lei abitatori, delle disprezzate [XV] magnificenze e del naturale dialetto, il primo a uscire in difesa delle donne e del dialetto milanese fu Giuseppe Parini. Quella polemica fu tumultuosa aspra, irregolare, e più si toccarono gl’incidenti che il merito della questione. Accuse d’ogni sorta furono scagliate: il Parini fu chiamato Nuovo Pitagora sceso giù da Bosisio, milanese di Bosisio, dottorello, maestruzzo, filosofo pedante; le sue asserzioni erano temerarie ed insolenti; gli scritti da lui pubblicati in questa occasione erano nuove ribalderie, stampe obbrobriose, componimenti pieni di sciocco veleno. Il Branda gli dice che la sua riscaldata fantasia cava da ogni cosa veleno. Un altro scrive, rivolgendosi al Tanzi: Eh via, signor Tanzi, non sono mica tutti i milanesi del vostro o del taglio del sig. Abate Parini, vedete. In Milano vi sono dei galantuomini. Ed il sig. N. N. è persuaso che il Parini è matto, e conchiude un suo opuscolo esclamando: Il conto tra me e voi, sig. Parini, è finito: ciò che ne risulta si è che voi siete un vero matto. Il Parini, e il Tanzi, ed anche il Branda e il Preposto dei Barnabiti se ne querelarono al [XVI] Ca|pitano di Giustizia (D’Andriani) ed al Governatore: il Branda fu obbligato a ritirare «le molte divisate ingiurie» contenute in parecchi de’ suoi opuscoli, e a ognuna delle parti contendenti fu imposto perpetuo silenzio.1 Più tardi il Parini nell’Elogio del Tanzi scrisse: «…… questa guerra fu fatta con tanta licenza che non merita d’esser più richiamato dall’obblivione un così fatto obbrobrio della letteratura.» Questa, dal 1752 al 1762, fu pel poeta delle Odi e del Giorno2 l’età dei più forti studi e della più schietta meditazione. La società della duchessa Serbelloni, l’amicizia e i consigli del buon Passeroni a lui per molti anni «congiunto di virtù, d’amor, di studi» e pieno d’ammirazione pel giovine e robusto poeta, egli che i mali de’ suoi contemporanei curava «col lenitivo», specialmente favorirono lo svolgimento dell’ingegno di Giuseppe Parini; il quale, con ben maggiori colpi che non facessero i versi del cantor di Tullio,3 si accinse con una satira acre e potente, con [XVII] novità di forme, a battere sul vivo,4 beffando i gaudii e gli amori dei cavalieri milanesi, E la superbia prepotente, e il lusso Stolto ed ingiusto, e il mal costume e l’ozio E la turpe mollezza, e la nemica D’ogni atto egregio vanità del core. Il Mattino pubblicato nel marzo del 63 e il Mezzogiorno pubblicato due anni più tardi furono letti avidamente dai Milanesi. I letterati applaudirono al poeta, e il foglio ufficioso del governatore austriaco dopo aver detto che l’autore con una ben sostenuta ironia e con uno stile sempre poetico e grave metteva «in vago ridicolo prospetto le deplorabili applicazioni d’un cavaliere alla moda» e faceva una descrizione sì viva di tutte le vane azioni in cui le1 Relazione di Giuseppe Peri, Milano 18 ottobre 1760, Archivio di Stato. [In BAMi/b la nota è cancellata]. 2 [In BAMi/b l’ordine dei titoli è invertito]. 3 [In BAMi/b il cantor di Tullio > il cantore di Marco Tullio Cicerone]. 4 [Correggiamo il testo viso in vivo anche sulla base dell’errata corrige].

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ziosamente ed affettatamente s’occupava, che il ritratto non poteva essere nè più leggiadro nè più espressivo, aggiungeva: «Egli è sommamente desiderabile che questo veramente egregio poeta proseguisca gli altri poemi, . . . . per sempre più porre in ridicolo il depravato costume di questo secolo, che principalmente per comune disavventura signoreggia in chi e per la nascita e per i beni di fortuna sarebbe obbligato a dar [XVIII] buon saggio di sè stesso ed essere un non men esemplare Cristiano, che un utile Patrizio, e procurarne così l’emendazione.»1 Il Parini fu poi sempre caro al Firmian, il quale allorchè il poeta nel 66 fu chiamato alla cattedra d’eloquenza e logica nelle nuove scuole della Paggeria reale di Parma, lo esortò insieme col Wilzek a non partire da Milano «facendogli nascere in cuore delle speranze d’essere adoperato in patria qualora seguisse la riforma degli studi che sin d’allora si prometteva». Il Parini rifiutò quella cattedra ed aspettò; ma vedendo poi come il governo non risolveva nulla scrisse al Wilzeck rammentandogli le fatte promesse, ed esponendo le sue idee intorno all’insegnamento dell’eloquenza:2 sin che verso la fine del 1769 fu nominato professore di Eloquenza nelle Scuole Palatine,3 e per quattro anni fece lezione alla Canobiana. Cacciati i gesuiti e trasportate in Brera le [XIX] cat|tedre palatine, il governo di Maria Teresa, «coll’intenzione di giovare alla perfezione delle Arti del disegno facendo che si promulgassero e si mantenessero ne’ professori e negli amatori di queste le vere idee del buono e del bello secondo gl’insegnamenti e la pratica de’ grandi maestri,»4 alla cattedra d’Eloquenza sostituì quella dei Principii generali delle belle arti, che il Parini tenne fino alla morte e che venne considerata come parte dell’Accademia di belle arti. Dal 1774 in poi ebbe pure l’alloggio nel palazzo di Brera.5 Quando Maria Teresa, con decreto del 2 dicembre 1776, instituì a Milano la Società Patriotica, col fine che l’agricoltura, le arti e le manifatture ottenessero in Lombardia il maggiore [XX] incre|mento possibile, il Parini fu uno dei trentasei 1 Nuove di diverse corti e paesi, Lugano, 25 aprile 1763. 2 Lettera del Parini al Wilzeck, nel Reina (vol. VI). [In BAMi/a, al margine sx scrive a matita IV. Invece in BAMi/b la nota è cancellata]. 3 Lesse il 6 dicembre «avanti S. E. ed un numeroso consesso di Cavalieri e letterati una elegante Prolusione sparsa di dilicata filosofia, la quale si è meritato l’universale applauso» (Nuove di Lugano, 11 dicembre 1769). [Cancellato in BAMi/b]. 4 Promemoria di G. P. alla R. I. Conferenza governativa. Archivio di Stato. [Nota cancellata in BAMi/b]. 5 Da prima l’abitazione del Parini consisteva in una o due camere; più tardi dietro sua istanza gli furono concesse altre camere. «Risulta che l’abitazione del Parini in Brera, collocata a mezzogiorno colle finestre prospicienti l’orto botanico, e composta di una parte di quelle stanze che sono al presente occupate dalla presidenza e segreteria del R. Istituto Lombardo di Scienze e lettere, consisteva nel 1792 in una [xx] stanza per uso di anticamera, in un altra stanza detta a panò (ossia dipinta a cornici quadrilunghe a uno o più doppi e col fondo d’un solo colore), nella stanza del camino, nella stanza da letto, ed in un camerino, poste tutte a piano terreno e fiancheggiate da un portico». (Sull’abitazione del Parini, memoria letta dal preposto Dell’Acqua nell’adunanza 9 novembre 1865 del R. Istituto Lombardo. In quell’adunanza si prese pure la deliberazione, poi dimenticata, di porre una lapide che ricordasse dove fu l’abitazione del Poeta.) [In BAMi/a e in BAMi/b, l’espressione poi dimenticata verso il termine della nota viene sostituita da poco dopo attuata].

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soci ordinari, e con Pietro Verri, Cesare Beccaria, Paolo Frisi, Vicenzo d’Adda, Alfonso Longo ed altri, prese parte ai lavori di quella Società. Verso la fine del 1780 Maria Teresa morì, e nell’adunanza del 23 dicembre il presidente, conte Secco Comneno, nel discorso di chiusura dell’anno sociale mostrò il desiderio che alcuno dei soci pigliasse l’impegno di far l’elogio della defunta sovrana e di recitarlo in pubblica e solenne adunanza. «Fu ad una voce e per acclamazione applaudita l’idea di rendere un sì giusto e per tanti titoli doveroso tributo alla memoria dell’augusta fondatrice, anche come un monumento il quale in ogni tempo facesse testimonianza della riconoscenza della Società e nel quale restassero depositati i sentimenti da cui era stata altamente penetrata in [XXI] questa luttuosissima circostanza». Fu dato tale incarico1 al R. Professore di belle lettere e socio abate Parini «qualora egli volesse assumerlo,» e il segretario partecipò al Parini la risoluzione della società col seguente biglietto: Ill.mo e Chiariss.mo Sign.re La Società Patriotica nella sessione che tenne ai 23 del mese p. p., relativamente al suggerimento del sig. Con. Secco, ha determinato, che in una solenne ragunanza si reciti un Elogio alla memoria immortale dell’Augusta difonta Sovrana, e tutti i soci sono concorsi nel sentimento di appoggiarne l’incarico ai lumi superiori di V. S. Ill.ma. In sequela di ciò mi è stato ordinato di ricercarle se Ella sia, come si desidera, per assumersi tale impegno, e di riferire prontamente la sua risposta al predetto sig. Conte. In attenzione della medesima io sono e sarò sempre con i sentimenti del maggior ossequio Di V. S. Ill.ma Casa 2 gennaio 1781

Umiliss. Dev. Obblig. Servitore

F.co Griselini. Segr. [XXII] Il Parini rispose: Ill.mo Sig. e P.rone Col.mo Mi sono sempre gloriato di ubbidire alla Società Patriotica in tutto ciò che si è compiaciuta ordinarmi. Assai più me ne glorio presentemente, che l’incarico offertomi è per tanti titoli onorevole e prezioso. Accetto dunque l’incumbenza di tesser l’Elogio alla defunta Sovrana, accingendomi ad eseguirla in quel miglior modo, che i miei deboli talenti mi permetteranno di fare. Priego V. S. Ill.ma di render nota alla Società questa mia disposizione, e di ringraziarla vivamente in mio nome dell’onor singolare, che si è degnata di compartirmi. Sono con perfetto ossequio Di V. S. Ill.ma 2 gennaio 1781.

Dev. Osseq. Servitore

Giuseppe Parini.

1 [In BAMi/b, R. Professore di belle lettere e socio abate > Parini. Poi vengono completamente cancellate le pp. XXI-XXIV].

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Nell’adunanza del 30 gennaio seguente il dottor professor Ermenegildo Pini, cui era stata affidata la pubblicazione del primo volume degli atti della Società, propose «che si stampasse l’elogio di Maria [XXIII] Teresa, della composizione del quale era stato pregato a nome della Società stessa il signor professore Parini; e nel caso che ciò fosse determinato, si collocasse tal elogio dopo il proemio». E il Parini, che si trovava presente, aderì «con termini di somma modestia e gentilezza» ai voti degli altri soci, cioè che l’elogio fosse iscritto in detto volume primo degli atti, dopo che lo avesse recitato nella tornata solenne della Società fissata pel 10 maggio secondo che precedentemente erasi deliberato. Nella seduta poi dei 22 marzo, presente pure il Parini, si parlò di ciò che era da farsi nella pubblica adunanza, e si conchiuse che «il segretario reciterebbe (come gli veniva ingiunto dalle Costituzioni) un breve ragionamento relativo ai quesiti de’ quali si era giudicato e a quelli che si sarebbero proposti per gli anni seguenti; «il dottor professore Pini leggerebbe un breve estratto degli atti della Società; «il signor abate Parini leggerebbe l’elogio alla defunta imperatrice». Radunatisi i soci nuovamente il 15 del mese di maggio, il marchese Beccaria, conservatore [XXIV] an|ziano e presidente, espose alla Società che non erasi potuto tenere la pubblica adunanza «a cagione della malattia sovraggiunta al socio signor abate Parini, che doveva in essa recitar l’elogio dell’augusta fondatrice» e soggiunse che siccome egli erasi ristabilito in salute e «credeasi in istato di recitarlo avanti la fine del mese» perciò stimava opportuno di fissare per quel tempo la tornata pubblica «facendone i preventivi già stabiliti inviti». La Società consentì a questa proroga e il segretario scrisse al Parini: «Il sig. Marchese conservatore ha significato alla Società i suoi incomodi e il desiderio suo di protrarre per quindici giorni ancora la pubblica sessione. La Società ben sensibile al di Lei male ha non solo a ciò volontieri acconsentito ma essendo fra quindici giorni il dì dell’Ascensione l’ha protratta sino ai 31 del corrente.» Cinque giorni dopo si tenne una sessione straordinaria, e il marchese Beccaria espose alla Società che l’aveva convocata straordinariamente per una lettera ricevuta dal Parini in cui questi [XXV] pre|gava1 i suoi amici a scioglierlo dal datogli ed accettato incarico «di recitare nella già fissata pubblica adunanza l’elogio dell’augusta fondatrice».2 Diceva in tal lettera che mal ferma era la sua salute quando la Società gli fece l’onore di volgersi a lui per tal elogio; ma che ciò non ostante egli l’accettò sperando di presto ristabilirsi. Non tralasciò di occuparsene, malgrado la poca salute e un pressochè continuo mal di capo, e si lusingò di poter dare in breve compimento al lavoro. Essendo vicino il prefisso tempo se ne occupò più che mai cosicchè il soverchio studio indebolì vieppiù la sua mente; sperò trovar sollievo e forza nell’aria più pura della campagna; ma ivi il male crebbe a segno che disperando di poter servire alle viste della Società, reputò necessario ritirarsi dall’impegno, per non protrarre più lungamente 1 [In BAMi/b il periodo iniziale Cinque giorni dopo (…) pregava > Ma più tardi il Parini, con una lettera indirizzata al Presidente della Società pregava]. 2 [In BAMi/b, incarico (…) fondatrice > incarico].

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l’aspettazione dell’elogio, tanto più che non aveva alcuna speranza di pronta guarigione. Allora la Società1 «sensibile al male del suo illustre socio consentì, sebbene con dispiacere, d’essere priva dell’onore che fatto le avrebbe tal Elogio»,2 e secondo la proposta del marchese Beccaria deliberò si procrastinasse la pubblica sessione [XXVI] sino al settembre, e che non si parlasse più di elogio funebre, il quale sarebbe stato oramai un frutto fuori di stagione. Questi fatti, che sono ricavati dai verbali delle adunanze tenute dalla società patriotica, mostrano quale sia la vera causa per cui il Parini non recitò l’elogio di Maria Teresa. Egli scriveva pure, un mese dopo, al Corniani: «Una lunga malattia di capo che m’ha influito sopra la mente e mi ha cagionato anche dei dispiaceri dell’animo, e della quale appena comincio a riavermi, m’impedisce tuttora di applicare, e i medici mi comandano di non farlo». Ma il Reina da prima, che forse non dimenticava di aver dedicate a Napoleone le Opere del Parini, e poi altri biografi hanno detto e ripetuto che al Parini il tema non gradiva, e che però sul principio mendicò pretesti a ricusare l’ufficio, e, se consentì più tardi ad adempierlo, ciò fece di malavoglia e per solo debito di convenienza; per questo si recò in villa, e dopo aver combattuto a lungo seco stesso da averne una malattia, non seppe [XXVII] vin|cere la propria repugnanza, e finì col non farne altro, dicendo che in Maria Teresa al di là d’una certa bontà e d’una certa munificenza, che nel sovrano sono virtù minime, non avea trovata materia da panegirico. Così il Reina prima, poi lo Zoncada, il Giusti, il De Sanctis; il quale commentando l’ode La Caduta, esclama: «ecco l’uomo che non volle far l’elogio di Maria Teresa, dicendo non aver ella fatto che il suo dovere». Anzi a confermare tali asserzioni il signor Berlan pubblicò, anni sono, la seguente lettera del Parini al Firmian: Eccellenza La Società Patriotica mi ha dato l’onorevolissimo incarico di tesser un elogio alla defunta Sovrana, sua gloriosa istitutrice. Ma quanto l’incumbenza è sommamente consentanea ai sentimenti del mio cuore altrettanto è sproporzionata alle facoltà della mia mente. In tale circostanza da niun altro potrei sperare più benigni, più grandi e più efficaci sussidj, che da V. E. Ardisco dunque di supplicare la singolare umanità della E. V. che voglia aver la degnazione di farmi comunicare quelle cose più straordinarie intorno alle virtù di una tanta [XXVIII] so|vrana, che V. E. giudicherà più opportune, e le quali debbano spezialmente esser note in grazia delle ben meritate e gloriose relazioni in cui Essa è collocata. Chiedo umilmente perdono della temerità mia, e sono con profondo rispetto Di V. E. 26 dicembre 1780.

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Giuseppe Parini. 1 [In BAMi/b, Allora la Società > E la Società]. 2 [In BAMi/b, Elogio», > Elogio». Poi tutto viene cancellato fino a p. XXX, dove viene soppressa anche la nota].

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Ma questa lettera, scritta tre giorni dopo la prima deliberazione della Società Patriotica intorno all’elogio di Maria Teresa e sette giorni prima che il segretario desse al Parini partecipazione ufficiale dell’incarico a lui affidato di comporre quell’elogio, è un’altra prova della buona volontà con cui il nostro poeta s’era «accinto a compiere quella incumbenza». Anche il Pozzetti, scrivendo al Bramieri, dopo di avere accennato all’impegno assunto dal Parini, aggiungeva: «Avea tra le mani gli ampi materiali necessari, sorridevagli l’argomento, si pose all’opra: ma il sangue in copia soverchia ascesogli al capo per la soverchia applicazione, lo costrinse con suo [XXIX] rincrescimento a rinunziarvi». (Lettere di Due Amici, Piacenza, 1801) D’altra parte gli atti della vita di Giuseppe Parini non ci permettono di credere che il poeta delle Odi ripugnasse dal manifestare sentimenti d’ammirazione per quella imperatrice.1 E come Pietro Verri nell’aula stessa della Società Patriotica aveva descritti2 «i felici cambiamenti intrapresi ed eseguiti in Lombardia sotto il regno immortale dell’adorabile sovrana, nelle finanze, nell’agricoltura, nell’industria, nel commercio, nelle scienze, nelle arti e in ogni genere di coltura»; così il Parini stesso avea posto fine alla prima lezione di belle lettere nelle scuole canobiane esclamando: «Avvezzati meco, o valorosa gioventù milanese, su gli eccellenti esemplari alle dolci impressioni del bello e del grande. Apprendi da essi a ben esprimere, a ben imitare il bello, il grande della natura. Il bongusto è un sentimento perfezionato dall’arte; e i sentimenti sono come una catena le cui anella s’intessono. E facile il passaggio dal bongusto alla gratitudine. Quando i grandi esemplari avranno per [XXX] mezzo mio formato il tuo bongusto, ed eccitato il tuo genio, offrine le primizie, vola al sublime, e scrivi alla posterità, e canta su l’epica tromba le virtù di Maria Teresa Augusta, Sovrana tua beneficentissima». Nell’autunno del 1788 venne a Milano Silvia Curtoni Verza, che il Casti chiamava Silvia la platonica, e fu tosto in mezzo a quanto v’aveva di elegante di letterario di principesco.3 La Verza scrive B. Montanari, visitò più volte il Parini in compagnia d’Aurelio Bertola, e quegli volle udir versi di lei e glie ne lesse de’ proprii: l’ode Il pericolo, quella In morte di Antonio Sacchini che aveva composte di recente e alcuni brani della Sera.4 Il Parini fece ottima accoglienza alla bella ed elegante veronese, che venne via da Milano sempre più entusiasta della poesia pariniana. Tuttavia della persona e della maniera di recitare del Parini, la [XXXI] Verza, ottima recitante tragica, notava: – «Ha due grand’occhi poetici, ma brutta figura: la sua maniera di recitare è sì fredda che malgrado della bellezza de’ versi scontenta l’uditore.» 1 [In BAMi/a, alla p. XXIX Salveraglio introduce a questo punto la nota Non aveva egli nel 1777 detta beata la Lombardia per il governo di Maria Teresa? (Per la laurea di Maria Pellegrina Amoretti, str. 14-15.)]. [Evidentemente poi Salveraglio cambia la numerazione delle note di quella pagina]. 2 Discorso recitato nella prima adunanza della Società Patriotica. 3 Paolina Litta Castiglioni era stata prima in Verona, e Ippolito Pindemonte, che le era stato presentato in Milano dal Parini, la fece conoscere a Silvia Verza e ad Elisabetta Mosconi; sicchè Silvia a Milano fu subito in casa Litta. Vedi, per quel che riguarda Silvia Curtoni Verza, Benassù Montanari, Versi e prose, vol. IV. 4 [In BAMi/b, proprii (…) Sera > proprii.].

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Avendo il Bertola, pregato dal Parini, osservato qualche maniera che gli era parsa meno felice, questi rispose: – «Trovi di meglio e son pronto a cambiare.» Nella conversazione le parve un po’acre. Ma scriveva al Vannetti: – «Dopo un viaggio felicissimo e piacevolissimo di due mesi per la Lombardia eccomi di ritorno in patria. Ho conosciuto il bravo abate Parini che ha nel vero due grandi occhi poetici. Ho inteso da lui stesso recitare parte della sua Sera, nulla inferiore al Mattino e al Mezzogiorno. Che penna aurea! che maniere e forme di dire tutte nuove! che vivacità di colori! che verità di costume! Non mi accusate d’entusiasmo; sono lodi ch’egli si merita, voi lo sapete . . . . .» Qualche settimana dopo il suo ritorno a Verona scrisse ella per la prima al Parini, il quale in breve tempo le inviò tre lettere da innamorato,1 e la loro corrispondenza epistolare non andò più in là. [XXXII] E così, contento del presente, alieno dalle preoccupazioni che affaticavano le menti dei Verri e de’ loro amici, ricercato dalle dame, alle quali non era avaro di complimenti nè di sonetti ora gravi ora piacevoli, qualche volta piacevolissimi,2 il poeta della duchessa Serbelloni, della Castelbarco, della Mussi e della Castiglioni viveva tranquillamente e serenamente gli ultimi anni del nobil ceto. E quando la tempesta si rovesciò sulle superbe navi di Pietro Verri, di Gian Rinaldo Carli, del principe Kewenüller che piombarono sommerse, egli con la sua sdruscita barchetta si salvò dal naufragio. Nè il suo stato era così miserando come credono i suoi biografi, anche i più recenti. Fosse anche3 vero che «l’inesorabile bisogno lo fece scrivano di cose forensi procurategli dal padre», secondo il racconto del Reina4 che specialmente della [XXXIII] giovinezza di Giuseppe Parini mostra di saper poco o nulla, ciò che cosa proverebbe? Anzitutto il legato della vedova Latuada a favore del nipote e del pronipote fa vedere che Francesco Maria poteva far fronte alle spese necessarie per la dimora della famigliuola a Milano. Egli possedeva a Bosisio5 due case che secondo una perizia fatta nel 17546 potevano valere circa tre mila lire ma in realtà ne valevano forse il doppio: non ne avrebbe venduta almeno una quando si fosse presentato alla sua porta minaccioso l’inesorabile bisogno, «tiranno signore de’ miseri mortali?» Quella dove nacque il poeta7 è situata su di un poggio ameno e ridente, a ponente del quale si specchia nel vaghissimo e dimenticato lago di Pusiano; a mezzo giorno si ammira la corona dei paeselli e delle colline che si intrecciano con Bosisio; a levante spiccano il Resegone, il Montebarro e i monti di Nava; ed è oggi ancora abitata dagli Appiani discendenti di Laura Parini 1 Le pubblicò il Reina nel volume IV delle Opere. 2 La duchessa Serbelloni nella sera del 4 febbraio 1784 scrive in fretta dal teatro un biglietto al duca Galeazzo per annunziargli che il conte Taverna era riuscito eletto Conservatore degli ordini, contro quattro rivali, e poi trascrive tutto il sonetto che incomincia Il pomo che alle nozze di Peleo, composto di fresco dal Parini. Sembra che la duchessa risponda a una richiesta del figlio poiché non accompagna il sonetto se non con queste parole [nel testo parote]: «Heureusement ma memoire me sert.» (Archivio Sola-Busca). [In BAMi/b, qualche volta piacevolissimi viene cancellato nel testo e viene eliminata tutta la nota].3 [In BAMi/b, anche > pur]. 4 [In BAMi/b, secondo il racconto del Reina > afferma il Reina]. 5 Catastrino dei Possessori di Bosisio: Archivîo civico storico di s. Carpoforo. [Cancellato in BAMi/b]. 6 Archivio della Curia arcivescovile. [Cancellato in BAMi/b]. 7 [In BAMi/b il passo è situata (…) Nava viene anticipato nella pagina iniziale]

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sorella del Poeta. Giuseppe Parini vendette l’altra casa probabilmente [XXXIV] nel 1760, quando, morto Francesco Maria,1 che forse traeva ancor qualche guadagno dal commercio della seta e amministrava i beni lasciati da Anna Maria Latuada, dovette egli da solo provvedere a sè ed alla vecchia sua madre. Sul principio di quello stesso anno scrisse il capitolo al canonico Candido Agudio.2 D’altra parte quando nel 1754 l’abatino chiese di essere promosso al presbiterato domandò pure che gli fosse risparmiata la visita del vicario foraneo ai beni ch’egli possedeva a Bosisio e che offriva come titoli d’ordinazione voluti dalle leggi ecclesiastiche, adducendo le sue povere condizioni, dicendosi «d’assai onorevole in umile stato caduto, carico di genitori ottuagenari e nell’impossibilità di soggiacere alle gravi spese»: tuttavia non parve alla curia arcivescovile tal caso che si dovesse accogliere la domanda.3 [XXXV] Un giorno, è vero, si trovò nella necessità di chiedere in prestito dieci zecchini e descrisse i casi suoi in quelle «singolari» terzine indirizzate all’Agudio:4 La mia povera madre non ha pane Se non da me, ed io non ho danaro Da sostenerla almeno per domane. Se voi non move il mio tormento amaro Non so dove mi volga: onde costretto Sarò dimani a vendere un caldaro. Pure, di quale aiuto gli sia sempre stato largo l’ottimo canonico5 Agudio si legge in quello stesso capitolo: Canonico, voi siete il padre mio, Voi siete quegli in cui unicamente Mi resta a confidare dopo Dio. Voi siete quegli che pietosamente M’avete fino adesso mantenuto E non m’avete mai negato niente… La casa vi darò per cauzione… Io ve la do e dono ad ogni patto, Pur che quest’oggi verso me facciate Quello che tante volte avete fatto. Anzi, in fine al capitolo, il Parini, forse perchè sapeva esser «miracol de’ più rari che i versi producan danari,» aggiunse queste parole: «Canonico carissimo, non lasciate di farmi oggi questa [XXXVI] gra|zia per amor di Dio perchè sono senza un quattrino e ho mille cose da pagare. Verso le 23 e mezzo io andrò in casa Riso 1 Sull’autografo d’un sonetto di G. P. che incomincia Face orribil, se è ver che in ciel ti accendi, scritto per la cometa del 1759, trovasi questa nota di mano del Parini: «Alludo alla morte di mio padre e a qualche altra disgrazia seguitami in quest’anno.[»] 2 [In BAMi/b, Giuseppe Parini (…) Agudio viene soppresso]. 3 Archivio della Curia arcivescovile. 4 [In BAMi/b, in quelle … Agudio > in un capitolo indirizzato al canonico Agudio]. 5 [In BAMi/b, canonico viene soppresso].

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e spero che m’avrete consolato. Non mostrate a nessuno la mia miseria descritta in questo foglio. Il vostro P. che vi è debitore di quanto ha.»1 Ma andiamo in traccia d’un’altra testimonianza, e cerchiamola in un intimo amico del Parini, nella natura schietta ed aperta dell’abate Gian Carlo Passeroni. Il buono ed instancabile traduttore di Giambartolomeo, egli pure poeta, egli pure precettore, egli pure «al servizio dei grandi», nel 1765, da Colonia dove era andato come segretario del nunzio Lucini, scriveva al Parini: Sapete che chi mangia il pane altrui Forza è che sel guadagni col sudore: Ed io forse lo so meglio di vui; dicendo poi di voler accostarsi a quella «sana filosofia» che dovette sicuramente salvare qualche volta da certe angustie il suo giovane amico: Non ho troppo da far; con tutto questo Ho le mie cure, che non mancan mai Ad un che serve altrui quand’è uomo onesto. [XXXVII]

Questa parola spiega pure assai: Tutta la forza io sentone, e sovente In grazia sua mi trovo in pena e in guai. E questi guai mi fan tornare in mente Le parole che voi già mi diceste Quel dì ch’io vi lasciai tristo e dolente, Parole sagge in ver non men che oneste, Ripiene di politica; e con esse nuova Del vostro amor prova mi deste. Quasi io me l’era, come accade spesse Volte, scordate; ma ora v’assecuro Che in cor terrolle vivamente impresse. Se il pan ch’io mangio sarà troppo duro, D’un altro in cerca andrò che tal non sia, E di trovarlo io son quasi sicuro; O contento di far la parte mia Prenderò dodici uova per dozzina, Nè mi darò troppa malinconia: L’acqua lascerò andar sempre alla china, E alla noia che ’l volto mi corruga Ne’ versi troverò la medicina.2

Ad ogni modo3 la sua elezione a professore nelle Scuole palatine, la protezione del Firmian e la benevolenza di potenti amici, ai quali ricorse con molto 1 Fra gli autografi di G. P., in casa Bellotti. 2 Passeroni, Rime, vol. 2, pag. 109. [In BAMi/b, Anzi, in fine al capitolo (…) la medicina viene tutto soppresso]. 3 [In BAMi/b, Ad ogni modo viene cancellato e si inizia con La sua…].

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maggior «prudenza» di quello che la sua [XXXVIII] condizione veramente richiedesse, permisero al Parini di proseguire il cammino della vita con sufficiente agiatezza.1 Comunque sia, l’autore2 del Mattino, del Mezzogiorno e delle Odi, il poeta che aveva recato [XXXIX] nell’arte sua un sentimento nuovo d’uguaglianza e di libertà, dovette certamente aspettare con giubilo l’arrivo di 1 Nel luglio 1767 il R. Vicario, d’ordine di S. A. R., mette «sommariamente e nelle maniere più pronte e spedite» il Parini al possesso dell’eredità (circa 7000 lire) del sacerdote Francesco Carpani, suo zio materno (al quale il Poeta forse allude nel Trionfo della Spilorceria), che aveva disposto di tutta la sua sostanza a favore dell’erezione d’una cappellania nella chiesa di s. Rocco a Proserpio, «disposizione contraria alli ordini contenuti nelle nuove Costituzioni.» Archivio Sola-Busca; Archivio notarile. 1772, 22 ottobre. G. P. viene immesso nel possesso d’un beneficio ecclesiastico nella chiesa dei SS. Colombano e Paolo in Vaprio, conferitogli con indulto arcivescovile 25 febbraio. Il Firmian aveva appoggiata presso l’arcivescovo la supplica del Parini «per trattarsi di persona di cui ne fo molto conto.» Archivio di Stato. 1773. Nuova supplica di G. P. al Governatore. Chiede un impiego migliore o qualche beneficio o pensione ecclesiastica. «Ardisco di scrivere con mano incerta all’E.V. dal letto in cui mi trovo novamente malato di febbre terzana. La mia presente situazione, oltre l’ordinaria cagionevolezza della mia salute, mi fa ora sentire il peso della mia ristretta fortuna; e ciò mi dà occasione di pensare con maggior cautela alla [xxxix] età già avanzata … Stimo prudenza ricorrere ad un padre, che finora per moto proprio mi ha soccorso ed anche onorato…» Aggiunge che il benefìcio ottenuto l’anno prima non rende più di 160 lire annue, e dice di non aver «altri beni che lo stipendio di professore». Autogr. presso il Cav. Damiano Muoni. 1770, 24 giugno. «I ladri perseguitano il sig. Ab. Giuseppe Parini. Fu per la seconda volta rubato e per consimil modo, di tutta la biancheria. Ciò però ha dato motivo ad una nobil azione del sig. Conte (Antonio) Greppi. Il quale accompagnò con graziosissimo biglietto un regalo di due pezze finissime di tela d’Olanda al medesimo sig. Abate.» Gazz. di Milano pel 2º sem. 1778, ms. all’Ambrosiana. 1776, XVII Kal. decembris. Il papa accorda a G. P. una pensione di 50 scudi romani sopra i redditi ed alcuni beni di Carugate e Chiaravalle. Archivio di Stato. 1779. I proprietari dei palchi del Teatro alla Scala nella seduta del 3 maggio assegnano 50 gigliati per ricompensa al Parini, che aveva dato il soggetto del telone (un baccanale) dipinto da D. Riccardi. Archivio di Stato. 1785. Altra supplica di G. P. a Sua Altezza Reale per essere nominato al beneficio di s. Maria Assunta in Lentate [XL] dove si raccomanda per circostanze di servizio, di età, di salute e di fortuna; ed è esaudito. Archivio di Stato. 1791, luglio. Il Parini supplica l’imperatore implorando qualche modica pensione ecclesiastica o qualche discreto aumento del suo soldo di lire 2,300, attesa l’avanzata età d’anni 63, la cagionevole salute ed il trovarsi abitualmente mal affetto per debolezza nelle gambe … Presentando poi, nel successivo agosto, una memoria alla R. Conferenza Governativa il Poeta, «in questa occasione si fa lecito di rispettosamente presentare alla R. Conferenza i suoi vivissimi ringraziamenti per le benigne disposizioni che degnasi mostrare a di lui riguardo, persuaso che a seconda di queste favorirà la di lui supplica a S. M. in modo che, senza uscire dai limiti della moderazione, sia decorosamente provveduto alle sue reali necessità fisiche ed economiche». E nell’ottobre dello stesso anno S. M., su proposta della Consulta governativa «si è degnata di accordare all’Abate Parini oltre alla Cattedra che presentemente copre in Milano … anche la carica di soprantendente superiore delle scuole pubbliche in Brera, coll’aumento di soldo, portandolo a lire annue 4.000». Cusani, Storia di Milano, V, 299. Archivio di Stato. [In BAMi/b tutta questa nota viene soppressa, così come le quattro note successive, fino a p. XLV]. 2 [In BAM/b l’incipit diventa L’autore…].

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quel turbo marzïal che dall’Alpino vertice dispiegò sanguigni vanni; ove distrusse, ove scemò il domino agli abbattuti Italici tiranni. [XL] ed essere lieto che i figli di Lombardia lasciassero L’arti di pace, gli odor, la cipria polve, i liscj, il pettine; e noi possiamo ben credere al Reina quando ci narra che al Parini «crebbe allora il felice entusiasmo di Libertà, e nacque la speranza di giorni migliori per l’Europa e spezialmente ancora per l’avvilita Italia [XLI] costante oggetto de’ suoi voti. La politica meditazione, aggiunge il Reina, delle antiche e delle moderne cose paragonate colle giornaliere divennero la delizia di lui. La materiale lettura di giornali male impressi gl’indebolì la vista e gli si appannò da una cateratta l’occhio destro. Ma l’animo suo prudente, versava in segreto su gli oggetti amati co’ fidi amici Vincenzo d’Adda ed Alfonso Longo; nè si condusse mai ad azione veruna, che potesse offendere la delicatezza de’ suoi doveri qual suddito o qual precettore.» Tanto che Meneghino scagliò contro di lui accuse forse troppo gravi ma certamente non affatto immeritate.1 Tuttavia quando i Francesi ebbero occupata la città, nell’elezione2 suppletoria del 6 pratile3 Giuseppe Parini fu chiamato a far parte della Municipalità di Milano, e prestò in quello stesso giorno il giuramento di fedeltà alle istituzioni repubblicane,4 e portò poi sopra la veste la sciarpa coi tre colori della Repubblica Francese. [XLII] Fece parte del Comitato III, che s’occupava delle finanze, delle cause ecclesiastiche, della beneficenza e della pubblica istruzione;5 nè i suoi [XLIII] 1 Vedi le note all’ode A Silvia. 2 [In BAMi/b, nell’elezione > nella nomina]. 3 [In BAMi/b, 6 pratile > 6 pratile anno IV,]. 4 «In nome della Repubblica francese una ed indivisibile, in questo giorno 6 pratile dell’anno quarto della Repubblica francese, essendosi recati i Cittadini nuovamente [XLII] eletti dal Generale in capo Buonaparte, e dal Commissario Saliceti alla casa del Comune furono invitati a prestare il loro giuramento così espresso: hanno giurato, e giurano nelle mani dell’attuale Presidente di non riconoscere d’ora in avanti che la sola Repubblica Francese, e d’impiegare tutto il loro potere al mantenimento ed alla esecuzione delle leggi che sono emanate o che emaneranno dalla stessa Repubblica: prestato il qual giuramento nelle mani del Presidente si è ricevuto la firma dei Membri rispettivamente eletti e confermati in calce al processo verbale di questo giorno, copia del quale sarà subito consegnata al generale Despinoy…» Seguono le firme autografe degli eletti. Archivio civico storico di S. Carpoforo. 5 Dal Parini fu steso il seguente Avviso: Milano 14 Pratile, Anno IV della Repubblica Francese una ed indivisibile. La Municipalità al Popolo. Essendo pervenuti accidentalmente in potere del cittadino Venous, Capo dell’84 ½ Brigata, una vettura e due cavalli, questi ha fatta invitare la Municipalità di Pavia a ricevere le dette proprietà, perchè, fatte le opportune diligenze, siano immediatamente restituite al loro padrone. A questo atto di esatta giustizia ne ha aggiunto un altro di generosa umanità, spedendo alla stessa Municipalità di Pavia lire cento in contante perchè vengano distribuite a’ poveri bisognosi di quel Comune, che non hanno avuta parte nell’ultima cospirazione contro ai Francesi. E voi, se ancora uno se ne trova che malignate contro le gloriose Armate del-

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malori gl’impedirono di prender parte con assiduità ai lavori dei colleghi: la Municipalità aveva provveduto perchè due uomini potessero portarlo [XLIV] su e giù dalle scale della casa del Comune, dove erano obbligati «a trattenersi tutto il giorno ed anche nella sera a disposizione del municipalista Parini.»1 E quando2 la cateratta gl’impedì assolutamente di lasciare il letto egli non si mostrò alieno dal prestar l’opera sua come poteva meglio pel nuovo governo. Di lui rimane appunto questa lettera, indirizzata al Ministro degl’Interni: Libertà

Eguaglianza Milano, 14 messidoro, a. VI. r.

Cittadino Ministro Ho ricevute le carte, che dal Direttorio Es. mi sono per mezzo vostro spedite da esaminare. Mi spiace che alle altre infermità della mia costituzione e dell’età mia si è aggiunta una cateratta, che mi ha recentemente privato dell’uso d’un occhio, e minacciami anche l’altro. Dico ciò per giustificarmi se mi bisognerà per l’esecuzione qualche giorno più che altrimenti non occorrerebbe, non [XLV] potendo io almeno per ora insistere al leggere o scrivere continuato senza incomodarmi o nocermi gravemente. Vorrei in persona dirvi quanto vi scrivo: ma le mie gambe non mi permettono che brevissimo e lentissimo cammino; e mi rendono impossibile il salire le scale. Del resto sarò sempre pronto ad impiegare in vantaggio della Patria fino alle ultime reliquie de’ miei sensi e della mia mente. Salute e Rispetto. Parini. 3 la Rep. Franc., imparate da questo fatto quale sia la giustizia, e la sublimità [XLIII] di morale de’ generosi Repubblicani. Imparate, e rimanete nella vergogna, e nella confusione. – Sott. Visconti Presidente – Parini – Bigatti Segretario. Nel Protocollo del Comitato III s’incontra parecchie volte il nome del Parini: 15 Pratile. Il Serbelloni presenta la proposta della grande festa da ballo gratuita da darsi nel Teatro Grande. Crespi propone di convertire il denaro in elemosine. È approvata la proposta Crespi, e sono incaricati Vismara e Parini di stendere il corrispondente avviso al Pubblico, restando fissata la somma da distribuirsi in L. 6000. (Vedi il proclama nel Veladini, I, 58). 19 Pratile. Si discute la mozione del Parini, che «proponendosi alla Municipalità affari importanti i quali ammettono dilazione, per meglio accertare il sentimento di ciascun votante, non si passino all’immediata deliberazione ma si aggiornino ad un tempo conveniente.» È approvata con qualche modificazione. [In BAMi/a Salveraglio, in dubbio sulla correttezza del verbale, propone di trasformare i quali ammettono in i quali non ammettono aggiungendo un punto interrogativo dopo l’integrazione]. 11 Messidoro. Mozione del cittadino Parini, che alle ore otto impuntabilmente abbia ad incominciare la sessione della sera coll’obbligo a chi manca di parteciparlo al Presidente. Approvata a pieni voti. 16 Messidoro. Letta dal cittadino Parini la minuta dello steso avviso di diffidazione ai venditori di comestibili, che si rimetteranno in corso le [nel testo la] visite e procedure penali contro li trasgressori degli ordini ed editti – è approvata per la pubblicazione. Vedi pure le sedute 27 messidoro e 1 termidoro rientrante. Archivio civico storico di S. Carpoforo. 1 Archivio civico storico di S. Carpoforo. 2 [In BAMi/b, E quando > E quando più tardi]. 3 Archivio di Stato. [In BAMi/b Salveraglio cancella le pp. XLIV-XLV da Di lui rimane a Salute e Rispetto|Parini. con relative note].

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Se non che una comunicazione (17 termidoro)1 dei Commissari Saliceti e Garrau riduceva a soli ventiquattro membri la Municipalità di Milano «considerando poter bastare al disimpegno delle sue funzioni e di quelle de’ suoi Comitati il numero di 24 individui,» e nominava «in via di conferma quelli che nel detto numero dovevano continuare e dispensava gli altri sette non nominati da tale incombenza.» E la Municipalità ordinava che si registrasse la comunicazione e «si [XLVI] scrivesse un’officiosa lettera ai cittadini Corbetta, Parea, Ciani, Parini, Sangiorgio, Bertololi e Brambilla onde avvisarli della loro ulteriore dispensa dalla carica municipale, ed attestare la pubblica riconoscenza al servizio fin’ora reso alla Patria.»2 Intorno a che siam costretti a pensare, anche per certe osservazioni di Pietro Verri,3 che il partito dominante fece congedare il poeta perchè egli non seppe risolutamente separarsi dai suoi vecchi amici e protettori; e infatti quando nell’aprile del 1799 ritornarono gli Austriaci, e «invadendo la Repubblica Cisalpina sparsero (dice il Reina, che dovette esulare col Moscati e con altri in Dalmazia) il terrore e la desolazione fra i seguaci della libertà, il Parini se ne stette tranquillo: fu minacciato, ma non perseguitato», ed anzi, pregato dalla Società dei Filarmonici che voleva [XLVII] solen|nizzare le vittorie degli Austro-Russi,4 scrisse, quasi vicino a morire, il sonetto Predàro i Filistei l’arca di Dio; sebbene pochi mesi prima avesse fatto parte, col Longo e col Mascheroni, della commissione nominata dal ministro Ragazzi nell’ottobre del 1797 per l’esame dei progetti intorno all’organizzazione dei teatri nazionali.5 Nel maggio di quello stesso anno 1799 il Parini aveva subito l’operazione della cateratta, fattagli dal chirurgo Buzzi. Ma, dice il Reina, dopo un lungo decubito, e la mancanza d’esercizio sì6 necessario ad un corpo male articolato gli si manifestò, e forse per precedente indisposizione, una idropisia di gambe. I medici gli consigliarono la campagna: recossi quindi ad Arluno dall’avvocato Marliani. Davasi egli colà ad ogni maniera di [XLVIII] eser|cizio; ma l’aria troppo viva, lungi dal giovargli gli nocque, e gli fu forza di ritornarsene dopo un mese. Sereno nell’animo e piacevole cogli amici divise con loro gli ultimi suoi giorni, ne’ quali dal servitore facevasi leggere Plutarco, che soleva chiamare il più galantuomo degli antichi scrittori. Alternando di poi stranamente la idropisia gli svanì sotto la diligente cura del dottore Strambi,7 e più volte gli ricomparve sino al 15 agosto. La mattina di questo giorno si alzò verso le otto, dicendo d’avere un gran caldo. Vennero presto a visitarlo Paolo Brambilla e Calimero Cattaneo[.] Pregò il 1 [In BAMi/b, termidoro > termidoro, a. IV.]. 2 Archivio civico storico di S. Carpoforo. Il 15 termidoro [in BAMi/b aggiunge a. IV] i Municipalisti chiedono «un indennizzamento per i tre mesi impiegati senza interruzione» a favore del Governo; e un decreto del giorno successivo concede il chiesto compenso. Al Parini, uscito il 17, toccarono lire 1026,13,4. 3 Storia dell’invasione francese in Lombardia, Ms. all’Ambrosiana. [Soppresso in BAMi/b]. 4 Giornale storico del Governo Austriaco, dall’epoca dell’ingresso delle armate coalizzate nella Lombardia: § 8. – Seguito al Giornale storico della Repubblica Cisalpina dall’epoca della sua Libertà ed Indipendenza. [Soppresso in BAMi/b]. 5 Vedi la Memoria postuma di Melchiorre Gioia sull’organizzazione dei teatri nazionali, comentata e pubblicata da Pietro Magistretti, Milano, Pirola, 1878. [Soppresso in BAMi/b]. 6 [Nel testo si]. 7 [In BAMi/a, Salveraglio scrive a matita sul margine sx Strambio].

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Brambilla a volergli trascrivere il sonetto, composto di fresco, sulle vittorie degli Austro-Russi. Poi vennero Febo d’Adda, Angelo Vecchi, Giuseppe Airoldi, e il medico Giacomo Locatelli, il quale assicurò gli amici che non c’era pericolo di morte. Rimasto solo col D’Adda1 e col Vecchi il Parini fu preso dal vomito; pure, indossata una leggera sopraveste di ciambellotto, continuò a conversare fin verso le due dopo mezzodì. Quando tutti furono partiti egli si fece ricondurre nella propria stanza. Passando vicino a una finestra vide una luce insolita e si rivolse ridendo al servitore, [XLIX] dicendogli che non aveva mai veduto così bene dall’occhio ammalato. Si sentì straordinariamente forte, e passeggiò francamente da una camera all’altra senza alcun aiuto: poi ritornò al letto. Mentre il servitore lo svestiva gli si torse alquanto la bocca, nè parlò più. Spirò qualche momento dopo alla presenza del servitore, del portinaio, della portinaia, e del parroco di S. Marco. L’abate Frapolli, Reggente il Ginnasio di Brera, scriveva tosto al presidente Cocastelli: Eccellenza L’Ab. D. Giuseppe Parini, Professore di Lettere ed Arti in questo R. Ginnasio è morto oggi dopo pranzo alle ore due e mezzo circa. Nell’atto che col più sincero e vivo dolore ne partecipo a V. E. la funesta notizia sono con profondissima venerazione Di V. E. Milano, Brera 15 Agosto 1799. Umil. Dev. Obbl. servo

Cesare Frapolli, Reggente.2 [L] Egli aveva dettate un anno prima le sue ultime volontà al notaio Giovanni Antonio Vimercati: «. . . . . Voglio, ordino e comando che le spese funebri mi siano fatte nel più semplice e mero necessario, ed all’uso, che si costuma per il più infimo dei cittadini. Lascio in via di legato, e di particolare istituzione . . . . . a Francesco Facchetti mio attuale inserviente due terzi del mio spoglio, della biancheria sì da letto che da tavola, dei mobili, suppellettili, cumò, canapè, scagni, quadri ed altro, compresa anche la mia Libreria, ma esclusa sempre qualunque cosa di metallo, qualunque sia il metallo medesimo, che deve rimanere in proprietà agli infrascritti miei Eredi; e l’altro terzo di quanto sopra l’ho lasciato e lascio in via pure di legato e di particolare istituzione come sopra a Benedetta Gavezzari pure attuale mia inserviente. . . . . . Dovranno gl’infrascritti miei Esecutori testamentari apprendere subito dopo seguita la mia morte . . . . . ed assicurare tutta la mia sostanza facendone poi fare l’opportuno inventario . . . . . e far fare contemporaneamente all’inventario anche la stima de’ miei mobili, suppellettili, argenti . . . . .3 [LI] In tutta poi la restante sostanza, dedotti i legati come sopra da me disposti, e soddisfatte da’ miei Esecutori testamentari le spese funebri come so1 [In BAMi/b, D’Adda > d’Adda]. 2 [In BAMi/b, viene tutto cancellato L’abate Frapolli (…) Reggente]. 3 [In BAMi/b, Dovranno (…) argenti viene tutto cancellato].

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pra, come pure soddisfatti li debiti che vi possano1 essere al tempo di mia morte, e le occorrenti spese, ho istituito e istituisco miei eredi universali per una metà li figli, e discendenti maschi da maschio del fu Carlo Appiano del luogo di Bosisio, e per l’altra metà li figli e discendenti maschi da maschio del fu Francesco Corneo del Monastirolo sopra Porcara, i quali Carlo Appiani e Francesco Corneo erano miei nipoti per parte di sorelle, e in mancanza di maschi le femmine discendenti.2 Dichiaro ad ogni miglior effetto di ragione che tutto il danaro effettivo, che si ritroverà al tempo di mia morte, come pure tutti gli argenti, le bigiotterie ed altre cose di valore non che le cose di metallo, qualunque sia il metallo medesimo, comprendendo in questa denominazione anche il rame, peltro, bronzo, e simili, come pure qualunque credito a me spettante per qualsivoglia titolo e causa, [LII] ed altresì li manoscritti delle mie opere debbano essere assolutamente esclusi dal legato come sopra da me disposto a favore dei suddetti Facchetti e Gavezzari, e debbano formar parte dell’Eredità mia a favore degli eredi da me come sopra nominati ed istituiti. In Esecutori testamentari poi di questa mia disposizione ho deputato e deputo il cittadino G. Antonio Vimercati pubblico notaro, di Milano mio conoscente . . . . . ed il cittadino Prete Cesare Frapolli attuale Reggente nelle Scuole di Brera.»3 Fu seppellito nel cimitero di Porta Comasina, dove si legge ancora l’iscrizione che gli pose Calimero Cattaneo: jos · parini · poeta hic · quiescit ingenua · probitate exquisito · iudicio potenti · eloquio · clarvs litteras · et · bonas · artes pvblice · docuit · an · xxx vixit · an · lxx plenos · existimationis · et gratiæ ob · an · mdccxcix. [LIII] Due anni dopo l’astronomo Oriani con una lettera indirizzata al Comitato di Governo domandava ed otteneva di dedicargli nel portico superiore4 del palazzo di Brera, vicino all’aula dove il Parini faceva scuola, il busto scolpito da Giuseppe Franchi, che il poeta aveva tenuto nel suo studio dal 1791 in poi. La lettera di Barnaba Oriani era la seguente: AL COMITATO DI GOVERNO Barnaba Oriani. Un Cittadino Cisalpino ha fatto l’acquisto d’un Busto in marmo di Carrara, opera dell’insigne scalpello del Professore Franchi, e che rappresenta il celebre 1 [Segno di richiamo a margine dx] 2 La sostanza del Parini, non compresi i manoscritti, fu stimata 10987 lire, delle quali 7381 in denaro contante e 465 in libri. [In BAMi/b, discendenti. > discendenti.»]. 3 Archivio notarile. [In BAMi/b, Dichiaro (…) Brera viene tutto cancellato]. 4 [In BAMi/b, superiore > inferiore].

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defunto Professore di Belle lettere Giuseppe Parini.1 Il Busto è fissato sopra un piedestallo di marmo verde Africano, su cui è scolpita in lettere d’oro la seguente iscrizione josephus · parinius cui · erat · ingenium. mens · divinior. atque · os · magna · sonaturum. obiit · xvi · kal · sept · a · mdccic. [LIV] Il detto Cittadino desidera di ottenere per mezzo mio dal Comitato di Governo il permesso di collocare a proprie spese questo piccolo monumento in una delle Nicchie del Cortile delle Scuole di Brera, e di più brama di restare incognito. Ardisco pertanto di supplicare il Governo ad accondiscendere ai desideri di esso, ed a permettere che venga in tale maniera onorata la memoria d’uno dei più grandi poeti italiani, che Milano abbia avuto, e che ha pochi eguali anche nei più belli tempi della Letteratura italiana. Salute e Rispetto. Milano, 27 Vendemmiale anno IX.

Oriani. 2 Solo nel 1836 gli venne innalzato solennemente in Brera un pubblico monumento.3 1 [In BAMi/b, La lettera (…) Parini viene tutto cancellato]. 2 [In BAMi/b, Il detto Cittadino (…) Oriani viene cancellato]. 3 [In BAMi/b, monumento. > monumento, opera dello scultore Monti di Ravenna e collocato a metà dello scalone principale del palazzo di Brera, nel luogo opposto a quello ove è il monumento a Cesare Beccaria].

PO E SI E DI

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[5a] D ice il Parini di essere nato da poveri ma onesti parenti, e altrove di casa popolare,1 e pare si compiaccia di dirlo, e non a torto; gli tornava a lode di essere uscito dalla classe benemerita dei lavoratori e di aver saputo coi propri sforzi salire da umile stato ad alto luogo. Com’è a credere, godesse assai di essere nato a Bosisio (23 maggio del 1729) per aver potuto trascorrere gli anni dell’infanzia fra quelle aure vigorose e liete, per aver potuto accogliere impressioni sì gentili e nove, che valsero ad abbellirgli tutta la vita; sicchè può dirsi che egli cominciò a sentirsi poeta nel desiderio appunto di quegli orizzonti, di quelle dolcezze, di quella pace del paesello nativo. I colli beati e placidi del vago Eupili formarono l’occhio suo ai primi incanti di natura, suscitarono i primi suoi entusiasmi: e, per dire il vero, la Brianza è una delle regioni più amene della Italia; e il declivio del lago di Pusiano, su cui siede Bosisio, ha pregio singolare per varietà d’aspetti, per vivezza di colori e per non so quale armonia che emana dalle cose e che si [5b] insinua nell’animo. L’impronta non andò cancellata; e Parini, pur costretto ad inurbarsi e a frequentare una società al tutto diversa dall’umile consorzio dei villici, mantenne sempre il piglio franco e un po’ risoluto del campagnuolo, conservò dei gusti semplici, e quella schiettezza che mentre nobilita il carattere è principale mezzo e scopo dell’arte. Il Parini fu soprattutto un artista schietto, e una personalità sincera, che vedremo fra poco aggirarsi in mezzo ad una società fittizia: tal quale la Brianza lo produsse Milano se l’ebbe, e il corrotto costume cittadinesco non valse ad alterare l’indole sua paesana, non valse a togliergli quella sua rude fierezza, che non sapeva nè fingere nè adulare. Dell’infanzia sua appena è a ricordare che essendo l’ultimo di quattro figliuoli, e piuttosto graciletto, fu il beniamino di casa, ed ebbe ad esuberanza delicatezze e tenerezze, per privilegio della poca età e della poca salute, e crebbe poi con piena libertà di giochi e corse e mattezze campagnuole; e neppur gli mancò il nutrimento malsano, se volete, ma eccitante la fantasia di assurde fole, sino ad averne spavento. Lo dice egli stesso: Con la bocca aperta e gli occhi E gli orecchi intenti io stava, Mi tremavano i ginocchi, Dentro il cor mi palpitava. [6a]

Al venir de le tenébre M’ascondea fra le lenzuola; Quindi un sogno atro e funebre Mi troncava la parola.

Ma il diletto era più forte della paura: Non di meno al novo giorno Obliavo i pomi e il pane, A le vecchie io fea ritorno E chiedea nuove panzane.2 1 Nel frammento di un’ode ad Andrea Appiani, che dice, all’incontro, di stirpe gentile. 2 Opere, ed. Reina, Milano, Genio tipografico, 1801, III, 25.

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A nove anni il padre, setajolo di professione, lo condusse a Milano, e lo allogò presso una prozia, Anna Parini vedova Lattuada, che abitava nella parrocchia di San Nazaro. Vestiva già da abatino, e lo avevano destinato al sacerdozio, cioè s’era disposto di lui – stile dei tempi – prima che egli potesse conoscere la sua vocazione. Ma si pensava così di emendare il difetto del sangue, cioè della nascita rurale; il sacerdozio era il miglior mezzo per riscattare l’umiltà della nascita e farsi strada nel mondo.1 Però saremmo tentati di chiederci: era proprio quella la carriera che meglio s’addiceva al suo carattere? . . . . Giovinetto, alla rete San Pier m’ha colto papa e pescatore. Cominciò a frequentare le scuole di Sant’Alessandro, dirette dai Barnabiti, scuole che non erano nè migliori nè peggiori di quelle che allora dispensavano un po’ di coltura, pochina davvero, e mal scelta, e mal digesta. S’intitolavano pomposamente Università di Sant’Alessandro, ma è meglio chiamarle Scuole Arcimbolde, per rammentare il generoso fondatore, monsignor G. B. Arcimboldi, che del suo le aperse nel 1609. E il Parini medesimo preferiva chiamarle così «per tener viva nella patria la memoria di quel buon cittadino».2 Avevano sede decorosa, in apposito edificio eretto dai Barnabiti al finire del Seicento, e non era poco il concorso degli scolari. V’andarono anche, un po’ prima del Parini, il Verri e il Beccaria, ma nè essi, nè il Parini, nè altri, che sedettero su quei banchi, serbarono buon ricordo di studii sì faticosi e in parte [6b] vani, nei quali aveva principal parte la memoria, per imparare grammatica e rettorica e arruffate teorie d’ogni specie, e dogmi d’ogni forma e d’ogni colore, ma tutti presentati in modo indisputabile e assoluto. Il Parini ha espresso in più luoghi il suo giudizio sui metodi d’insegnamento del tempo suo, metodi incivili e rozzi anzi che no, se pure non erano emendati dalla virtù e dall’abilità particolare di qualche maestro, capace di cavare dal veleno l’antidoto; e fa eco il Verri ove accenna al languore de’ buoni studii e soggiunge, a proposito delle anzidette scuole: «una falsa eloquenza latina, uno studio di memoria nella teologia o nella giurisprudenza, erano le sole occupazioni applaudite.» Quella sua prozia fe’ in modo che l’abatino non smettesse più l’abito, che lo aveva reso fin dall’infanzia spettabile al volgo, e che a Bosisio, nelle vacanze autunnali, aveva avuto un bel successo. Istituì in punto di morte una annua rendita e regalò anche dei mobili e delle suppellettili perchè il padre Francesco Maria potesse piantare casa a Milano e il dabben figliuolo seguitasse l’intrapresa carriera,3 e forse perciò solo morì contenta! Messa su casa – e doveva essere una casa piccoletta e rustica – venne taluno della famiglia a vivere con lui, probabilmente la madre, mentre il padre alternava il soggiorno fra Milano e Bosisio, e continuava ad attendere all’arte sua, arte caduta al basso e che dava scarso guadagno. 1 Codesto, nota il Cantù, era allora il solo modo per non far ridicolo un forese e di bassa portata che studiasse. 2 Lettera in proposito d’un’altra scritta contro di lui, ecc., Milano, Galeazzi, 1760, pag. 17. 3 Salveraglio, pref. alle Odi, curate con grande coscienza e diligenza da lui, Bologna, Zanichelli, 1882, pag. VII.

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La rendita assegnata dalla prozia fu per certo molto sottile se l’ingegnoso giovinetto, pur frequentando le scuole – ed era stato ammesso al corso triennale di rettorica – principia nel 1745 a dar lezioni, ed anche attende a copiare carte foresi.1 Fra i suoi scolari sono ricordati i nipoti del canonico Agudio, che gli pose affetto grande, e divenne uno dei suo protettori. Nelle scuole superiori di Sant’Alessandro teneva cattedra, nel senso meno amabile della parola, quel padre Branda barnabita «retore arrabbiato e trecentista di tre cotte», provocatore in seguito di una grossa baruffa letteraria. Il Branda non mancò di rimproverare più tardi al suo alunno, già divenuto famoso [7a] ed entrato in quella bega, di aver scarsamente profittato delle scuole; e il Parini si pigliò in pace il rimprovero, anzi confessò francamente di avere male corrisposto alla diligente cura de’ suoi poveri parenti, e poco atteso a quello che essi chiamavano studio. Ma fin dove si può ammettere per vera una simile dichiarazione? «Nondimeno, seguita il Parini, benchè io non sia giammai salito tra’ precipui campioni del ludo letterario, non sono per tutto ciò rimasto tra la ingloria turba degli indisciplinabili adolescentuli.» Notate: piglia a imitare, qui, lo stile pretensioso e boccaccevole del rugiadoso padre! «E potrei ancora ad un bisogno mostrarvi i superbi trofei che, d’una in altra classe passando, furono dai comprofessori del padre Branda a me decretati. Egli è bensì vero che ei non potrà veder pendere alle pareti dei portici scolastici il mio nome, accompagnato da qualche ingegnoso emblema e adorno di una corona dorata, perchè i miei parenti non ebbero mai danari da gettar via».2 Aveva, adunque, meritato l’onore del ritratto, ma per mancanza di quattrini non ebbe questa pubblica e ambita onoranza. Dovette contentarsi dei trofei, cioè di certi fogli con fregi e figure, e la scritta Honor alit artis.3 Se ne deduce che egli primeggiò anche nella scuola, ma forse vi attese meno di quanto avrebbe potuto, e supplì al difetto di volontà la forza dell’ingegno. Però fu un bene che egli non spossasse fin dal principio la mente per amore di una coltura sì incompiuta e vuota di intenti. E possiamo ritenere che egli in gran parte si educasse da sè, specie nello studio dei poeti greci e latini, e sui maggiori italiani. Non si pretenda che egli mettesse straordinario ardore nel mandare a memoria la Regia Parnasi, o la Regia Oratoria, o la Grammatica di Emanuele Alvaro, o le Regole della versificazione latina del Tursellino, od altri libri di questo genere. Ma l’ardore lo mise in quegli studi, che meglio corrispondevano ai suoi gusti. Nota il Reina: «apparve in esso di buon’ora un genio libero filosofico e singolarmente dedito alla poesia; nè si richiese meno della paterna autorità per [7b] istra|scinarlo repugnante alla teologia e al sacerdozio».4 Abatino, studente, precettore, tre stati analoghi e che si sorreggevano a vicenda, i quali ci permettono di figurarci quella vita rinchiusa in sì brevi limiti, piuttosto silenziosa e monotona, senza svaghi, tranne forse qualche 1 Reina, Vita di G. Parini, premessa alla citata ed., pag. VI. 2 Parini, Lett. cit., p. 26. 3 Cantù, L’abate Parini e la Lombardia nel secolo passato, Milano, Gnocchi, 1852, pag. 231, in nota: opera che rimane sempre una miniera di preziosissime notizie. 4 Reina, Vita cit.

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innocente scappatella; che si svolgeva, ad ore determinate e quasi con indeclinabile itinerario, fra casa e scuola e chiesa e con discepoli e scolaretti: e forse da questi gli veniva la distrazione maggiore, e la necessità di studiare meglio, di approfondire alcuni soggetti. Ma già fra tanta regolarità d’abitudini doveva rivelarsi un carattere tutt’altro che servile; uno spirito pronto, arguto, indagatore; una certa insofferenza delle cose comuni, un certo dispetto delle cose volgari; insomma quella superiorità, che tarda talora a mostrarsi negli scritti, ma si manifesta di buon’ora e si perfeziona via via nel carattere e nel costume. È da ritenere che l’estro nativo lo avrebbe spinto prima o poi alla poesia, e piuttosto prima che poi, ma forse quel vivere raccolto tornò propizio al nascente suo genio, e per bisogno di fare e vaghezza di emergere cominciò prestissimo a scrivere versi: e li dava a leggere ai più intimi, fra i quali continueremo a mettere il buon Agudio, se poteva più tardi il Poeta ricordarlo cosi: Canonico, voi siete il padre mio, Voi siete quegli in cui unicamente Mi resta a confidare dopo Dio. Voi siete quegli che pietosamente M’avete fino adesso mantenuto E non m’avete mai negato niente . . . . Aveva già trovato il suo Mecenate, ma un brav’uomo che non vincolava per nulla la sua ispirazione, discreto nel soccorrere, punto esigente: e si deve a lui se Parini fu sottratto a pene e privazioni maggiori e se gli rimase alquanto di tempo da dedicare al culto delle vergini muse. E quali furono i primi frutti? Egli s’avvicinava al suo ventitreesimo anno, e il secolo aveva appena varcato il suo mezzo (1752) quando s’arrischiò a mandar fuori un volumetto di versi, celandosi sotto il nome di Ripano Eupilino, anagramma di Parino, come il poeta ebbe uso di firmarsi per qualche tempo, e onomastico locale, che ricorda subito il bell’Eupili mio.1 [8a] Fu detto e stampato che egli, pubblicando questi versi, cedesse alla solita violenza degli amici: ma il Parini, anzi, dice tutt’altro, e non si sa come abbia preso corso una tale notizia.2 Invece egli affronta con disinvolta fiducia il giudizio del pubblico, e mostra apertamente di tenere in qualche pregio questi suoi primi saggi: «Io non sento, scrive, così bassamente di me medesimo, che non confidi poterci essere in questo libro parecchi lavori che qual colla limatezza, qual colla novità, tale coll’evidenza e tal altro col particolare e novo suo gusto, invece di noia, diletto vi porga.» Che l’animo del Parini fosse fin d’allora rallegrato dalla coscienza del proprio valore, coscienza talora anche trasmodante, si può desumere dal seguente sonetto: 1 Alcume poesie di Ripano Eupilino, Londra, 1752 [8a] presso Giacomo Tomson. Questo volumetto non fu stampato a Lugano, come credesi, ma a Milano dal Bianchi. Cfr. Salveraglio, op. cit., pag. viii; A. G. Spinelli, Alcuni fogli sparsi del Parini, Milano, Civelli, 1884; Carducci, II Parini principiante, nella Nuova Antologia, vol. lxxxiv, pag. 8 e segg. 2 Reina, Vita cit., pag. vi; Ugoni, Della letteratura ital. nella seconda metà del secolo [x ]viii , Milano, Bernardoni, 1856, I, pag. 363 e segg.; Foscolo, Opere edite e postume, XI, pag. 202.

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Io son nato in Parnaso, e l’alme Suore Tutte furon presenti al nascer mio; E mi lavaro in quel famoso rio, Mercè solo del quale altri non muore. Però mi scalda sì divin furore, Sebben giovine d’anni ancor son io, Che d’Icaro non temo il caso rio, Mentre compro co’ versi eterno onore. So che turba di sciocchi invida e bieca Ognor mi guarda, e con grida e lamenti Sì bel valore a troppo ardir mi reca. Ma non perciò mio corso avvien ch’allenti; Nè l’età verde alcun timor m’arreca; Ch’anco Alcide fanciul vinse i serpenti. Condoniamo al divino furore e all’età verde se tanto presumeva di sè, ma oltre che il verso tollera e sorregge siffatti voli, il Poeta, contento dei primi saggi, già si presentiva capace di cose ben maggiori. È vero, però, che egli dichiarava di mandar fuori questo centinaio di componimenti «e sacri e morali e amorosi e pastorali e pescatorî e piacevoli e satirici e di molte altre guise» per sapere dal pubblico «giusto e sincero estimatore delle opere altrui, quale ei fosse per riuscire nel poetico mestiere, e quindi se dovesse l’incominciato cammino tralasciare e dare alle Muse un eterno addio o [8b] esserne animato a salire con più vigore il sacro giogo e procacciarsi qualche fronda di lauro in Parnaso.» Non pare egli si pentisse, neppure in anni molto posteriori, di questa pubblicazione, benchè un biografo suo gli metta in bocca parole di rammarico in proposito,1 giacchè esiste, tra le reliquie delle sue carte, una copia del libretto con emendazioni e rifacimenti:2 e, prova anche più concludente, alcune di quelle poesie giovanili ristampò nel 1780 nelle Rime degli Arcadi.3 E davvero il libretto nemmeno adesso ha perduto tutto il suo pregio; alcune delle poesie in esso contenute meritarono figurare fra gli scritti scelti del Poeta, e compaiono anche in questa raccolta: questi primi saggi ebbero testè l’onore invidiabile di richiamare l’attenzione di un critico eminente, il Carducci, che ne fa esame, riguardandoli importanti per lo studio di quell’ingegno e del suo lungo periodo formativo; e soggiunge: «Tanto più che pe ’l rispetto dell’arte e della storia quei saggi hanno un valore, che i versi immaturi d’altri, anche del Foscolo e del Leopardi, non hanno. Perchè l’apparizione del Parini segna lo spostamento della vecchia tradizione letteraria e l’avvenimento nell’alta Italia della poesia classica, pensata, elaborata, moderna; al momento in cui l’alta Italia era da ragioni storiche e da condizioni politiche ed economiche predisposta

1 «Di nulla mai feci sì lunga e dura penitenza, o giovani, quanto dell’imprudente edizione luganese di certi versi pur troppo miei e oggimai dimenticati.» – Ugoni, Vita cit. 2 Presso il signor Cristoforo Bellotti: di che informa Salveraglio e Carducci, Parini principiante, pag. 11, e Tonti, Studi su Giuseppe Parini, Roma, tip. del Senato, 1875, pag. 14. 3 Roma, Giunchi, 1780, vol. xiii, pag. 139 e segg. Cfr. uno studio di Severino Ferrari nel periodico I Nuovi Goliardi, Firenze, 1877, pag. 56-61.

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e atteggiata a prendere e dirigere ella il movimento della nazione verso la vita nuova. Col Parini insomma comincia quella letteratura lombarda piemontese ligure, che tanto operò nella rivoluzione e nel risorgimento d’Italia».1 Il libretto ha pure qualche valore autobiografico: vi si incontrano alcuni indizi del vivere disagiato del Poeta. L’autore si confida ad un Francesco Manzoni, accademico trasformato, forse della famiglia di una poetessa, che fra poco avrò occasione di nominare, ma [9a] non della casa da cui uscì l’unico Alessandro: Manzon, s’io vedrò mai l’aspro flagello Dell’irata fortuna un dì posarse E ’l cielo che finor nuvol apparse Tornar sopra di me sereno e bello, Udraimi acceso da furor novello Versi cantar… Invidia un pretino di campagna, perchè ha agio di dedicarsi, senza fastidi, alle Muse: E vi godete la vostra quïete E mangiate e beete e poi dormite Quando n’avete voglia e che potete. Voi ne farete pur delle stampite In su quel chitarrone alto e sonoro Che potrebbe trar l’anima da Dite. E sempre intorno il leggiadretto coro Avrete delle Muse, che lontane Se ne stan dagli strepiti del fôro. E scriverete con ambe le mane In prosa e in versi roba sì squisita Da mangiarsela tutta senza pane.2 Non è nominato nel libretto alcuno de’ maggiorenti, sicchè pare proprio il ruvidetto brianzuolo vivesse in disparte; non vi è adulato alcuno: cosa più presto unica che rara, pei tempi che correvano! Il Parini medesimo avverte che il suo libretto usciva «in tempo che ogni maniera di coltura era al suo colmo venuta.» Certo gli ingegni si davano gran moto e molto producevano in Italia e fuori. Fu tempo di iniziative e di innovazioni in ogni dottrina e arte. Un anno innanzi, nel 1751, si cominciò a dar fuori l’«Enciclopedia». Ma di quanto si disputava e apparecchiava oltr’Alpi forse il Parini non aveva notizia; appena sapeva il lavoro letterario, e particolarmente poetico, che si faceva in Italia. Venuto dal contado, guardato forse con insolente sfiducia da chi mal s’adatta a riconoscere talento nei figli di povera gente, deriso forse da qualche saccentuzzo, solito a misurare l’ingegno da menomi indizi esteriori, tardava al Parini di pigliarsi una buona rivincita, e di mettersi di colpo nella schiera dei vati alla moda. Un suo sonetto ribatte appunto con vibrato sarcasmo i motteggi di qualche maldicente da conversazione e da caffè, più fornito di barba che di ingegno: 1 Parini principiante, ecc., p. 12. 2 Per cura del Salveraglio questo prete si è trovato essere Giovanni Ambrogio Fioroni, curato di Canzo nella Valle Assina. – Carducci, II Parini principiante, ecc., pag. 39.

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Poichè sono un fanciullo, un garzoncello Volete dir, ch’io sono un ignorante? Oh guata conseguenza da pedante Che sopra il berretto abbia il cervello. Dove avete studiato? in un tinello, In una galeazza di Levante, Voi che fate di Pindo l’Amostante E non ne siete pur Fante o Bidello? Voi misurate a canna le persone: Se la barba per voi forma il sapiente, Chi sarà più sapiente di un caprone? Io vi concedo che non so niente, Ma perchè siate così gran barbone Voi non siete, alla fe’, troppo valente.

Milano noverava una plejade di uomini di merito. Lasciamo stare gli eruditi che occupano sì degnamente la prima metà del secolo, Muratori, i due Sassi, l’Argelati, con quel corteggio di patrizi che con modestia pari all’ardimento e alla munificenza fondarono, nel 1721, la Società Palatina, per pubblicare voluminose opere storiche. Muratori e Giuseppe Antonio Sassi erano già morti quando Parini cominciava a farsi vivo, e nel 1755 morì l’Argelati. E poi verso costoro il Parini non si sentiva per nulla invitato: egli voleva trionfare nel coro dei poeti. E quanti si facevano chiamare per tali, o per tali erano proclamati e corteggiati! Si dividevano in due schiere. C’erano gli Arcadi, soliti a radunarsi nel bellissimo giardino del conte Carlo Pertusati: gentiluomini e gentildonne, causidici e preti: e fra di loro pigliavano gran diletto, e trattavano i generi e i soggetti più diversi più per gioco che per bisogno d’ispirazione. Però la Colonia Insubrica – così era detta – già languiva, e alcuni fra i suoi più lodati cantori erano morti, come il Ceva, il Puricelli, la Francesca Manzoni di Valsassina, ed altri erano muti da un pezzo. Ben altra schiera era quella capitanata dall’Imbonati, splendido Mecenate, e ordinata da lui nella nuova Accademia dei Trasformati. Quando fe’ capolino il nuovo poeta, l’Accademia esisteva da nove anni. Verso il palazzo Imbonati, sede invidiata di quel cenacolo, il poeta giovanetto spingeva i suoi sguardi. Il nome stesso del nuovo sodalizio conteneva un voto di novità e progresso; ed è naturale che il Parini anelasse a mettersi fra i rappresentanti di un’arte progredita, di un’arte viva e paesana, che, sazia del convenzionale, mirava a ritemprarsi nello studio del vero.1 [10a] Figuravano in quell’Accademia degli ingegni pronti ed arguti, il Tanzi, il Balestrieri, il Passeroni, cultori i due primi della poesia dialettale, e anche solo per ciò meno convenzionali, meno sbiaditi, ma piuttosto coloriti e briosi, e il terzo verboso e negletto, ma famigliare e sincero, senza fronzoli e senza ipocrisie. Anche il Baretti vi fu iscritto nel tempo in cui dimorò a Milano, ma nel 1751 aveva portate le sue tende a Londra. S’intende che il Parini non avrebbe disdegnato gli onori che potessero provenirgli dall’Arcadia di Roma e dalle sue innumerevoli colonie, ma più che altro

1 Carducci, Parini principiante, ecc., pag. 14-22. [10a] – De Castro, Milano nel Settecento, pag. 210 e segg., Milano, Fratelli Dumolard, 1887.

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gli premeva il suffragio dell’Accademia, che vantava i poeti più giovani e più nelle grazie del pubblico.1 E questo suffragio egli lo ottenne completamente. Il Passeroni, natura aperta e cordiale, stese la mano al giovane abate, lo colmò di lodi, e lo presentò ai suoi amici. Accolto fra i Trasformati, molte altre Accademie apersero i loro battenti al cantore novellino. L’Arcadia lo volle pure nel suo grembo, col nome di Darisbo Elidonio. Tra gli Ipocondriaci di Reggio prese il nome di Cataste. Anche i periodici lo lodarono a gara.2 Insomma un vero successo. Le feste e i lutti dell’Accademia divennero i suoi, e quando ne morì il presidente, l’Imbonati, che già gli avea dato da educare il figliuolo suo,3 sentì bisogno di lodarlo con due sonetti,4 di cui mi piace trascrivere il men noto, perchè si scosta alquanto dalla maniera solita di que’ compianti: Che pietoso spettacol a vedersi! La virtuosa figlia in negro manto Sovra l’urna del padre amato tanto, Spargendola di lagrime e di versi! E co’ teneri sguardi a lei conversi La carità dettarle il dolce canto! [10b] E de la pia compagna a sè dar vanto Le muse, e più beate oggi tenersi! T’allegra, o Poesia, che la tua lira Dai giochi de la mente alfin ritorna Del core a i moti, e la virtude inspira. E di lauro e cipresso il monumento Grata circonda, e ’l cener freddo adorna, Che desta un così nobile lamento. Segnalato dai titoli accademici all’attenzione patrizia, Parini fu chiamato precettore del figlio del conte Serbelloni, fratello del duca, e anche dei due figli del duca medesimo; e frequentando quelle case magnatizie potè studiare l’alta società, recandovi indipendenza di carattere e imparzialità di esame, giacchè sappiamo che professò ossequio ai gentiluomini di merito quanto sdegnò inchinare gli immeritevoli, anzi questi fustigò nel Giorno, ma questi soli. L’anno medesimo in cui Ripano Eupilino fece tanto parlare di sè, non increbbe al nuovo accademico di cantare una coppia5 patrizia, segno che egli cominciò subito a sceverare i nobili virtuosi dai viziosi, e non gli parve disdicevole lodare la virtù ovunque gli apparisse. È vero, però, che questa è una poesia d’occasione, e che non potrebbe essere, a stretto rigore, presa a documento nè dell’arte nè del sentire del Poeta in quegli inizi della sua carriera.6 1 Nella poesia Lo Studio (Opere, ed. Reina, III, 173) prodiga elogi a quel sodalizio, che aveva adottato per emblema il platano annoso: «E tu, platan illustre, alle cui grate/Ombre pur or novellamente io seggo…». 2 Storia letteraria d’Italia, Modena, Soliani, 1754, VI, 61. – Novelle della repubblica letteraria, ecc. Venezia, Occhi, 1753. 3 Vedi l’Ode L’Educazione. 4 Nei Componimenti in morte del conte Giuseppe Maria Imbonati, Milano, Galeazzi, 1769, pag. 28. Lo ripublicò lo Spinelli, Fogli sparsi, ecc. 5 [Nel testo copia] 6 Sta nella Raccolta di poetici componimenti per le felicissime nozze di S. E. il signor Tommaso Soranzo e la signora Elena Contarini, Padova, 1752, per G. B. Penada. – Venne ripubblicata dallo Spinelli, Alcuni fogli, ecc.

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Nel 1754, e precisamente il 14 giugno, fu ordinato sacerdote;1 ma continuò a vivere insegnando e poetando; benchè fosse pure assai addentro nelle cose teologiche, e ne tien fede un altro abate, il Pozzetti: «se bene non avrebbe potuto aspirare alla corona nelle sacre discipline, ragionava non per tanto a posta sua benissimo intorno i più ardui punti teologici, e anzi godeva disputarne col padre Noghera della Compagnia di Gesù, il quale sovente era costretto a darsegli per vinto».2 [11a] S’egli godeva di disputare con un padre gesuita, si può ritenere che pur in materia teologica fosse franco ragionatore e non timido amico delle sue opinioni, anche dinanzi quella congrega che verso la metà del secolo teneva tanto arbitrio in Milano e governava le menti dalla sua reggia di Brera. Certo gli tornò propizia e piacevole la frequenza, per alcuni anni, nelle case dei Serbelloni;3 e più a lungo presso il conte, che abitava il palazzo dello stesso nome dov’è presentemente la Galleria De Cristoforis. Anche dopo che il duca Gabrio Serbelloni pose i propri figli nel Collegio Imperiale, il Parini fu tra i meglio accolti in quella società, di cui era raro ornamento la duchessa Maria Vittoria, donna, scrisse Pietro Verri, «d’animo fermo e buono, corredata lo spirito da una assai vasta coltura, capace d’amicizia, d’animo disinteressato e benefico», che riguardava non senza compassione il burbanzoso orgoglio di alcuni nobili milanesi.4 Non solo fu ospite dei Serbelloni in Milano, ma anche sul lago di Como, a Bolvedro, nella villa la Quiete, soggiorno di cui si dilettò ripetutamente e che gli fu largo di belle ispirazioni: e frequente transitava da quei riposi ai convegni della opposta riva bellagina. La tradizione ricorda com’egli sostasse spesso nel Casino dei Quattrocchi, ora atterrato, che faceva parte dell’elegante villa dei Ciceri, già ricordata nel Giovio fra le sontuose del lago. Qui fu commensale dei conti Sfondrati, e poscia di Alessandro Serbelloni, che fece poi sua delizia di quel promontorio fra i due rami del lago. Il quale Alessandro Serbelloni menava vanto dell’amicizia del Poeta, e fe’ porre una lapide commemorativa delle sue frequenti e lunghe visite, lapide che più tardi disparve, non si sa come.5 Piacque nei signorili convegni, oltre che per la fama che cresceva intorno a lui, per l’arguzia dei motti, e la dignità dell’aspetto, del quale il Reina dice così: «Statura alta, fronte bella e spaziosa, vivacissimo grand’occhio nero, naso tendente all’aquilino, aperti lineamenti rilevati e grandeggianti, muscoli del volto mobilissimi e fortemente scolpiti, mano [11b] mae|stra di bei moti, labbra modificate ad ogni affetto speciale, voce gagliarda, pieghevole e sonora, discorso energico e risoluto ed austerità di volto raddolcita spesso da un grazioso sorriso indicavano in lui l’uomo di animo straordinariamente elevato, e conciliavangli una riverenza singolare».6 1 Chiese che fosse risparmiata la visita del vicario foraneo ai beni che egli possedeva in Bosisio e che offriva come titoli d’ordinazione voluti dalle leggi ecclesiastiche, adducendo le sue povere condizioni, dicendosi «d’assai onorevole in umile stato caduto, carico di genitori ottuagenari e nell’impossibilità di soggiacere alle gravi spese». – Archivio della Curia Arciv.; Salveraglio, op. cit., p. xxxiv. 2 Pozzetti, nelle cit. Lettere di due amici, pagina 216. 3 Cit. Lettere di due amici; – Dell’Acqua, Sull’abitazione in Milano di Giuseppe Parini, negli Atti dell’Istituto Lombardo, 9 nov. 1865; – Spinelli, Alcuni fogli, ecc. 4 Notizie raccolte dallo Spinelli e dal Salveraglio. 5 Spinelli, op. cit., pag. 16. 6 Vita cit., pag. ix.

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Nella casa Serbelloni ebbe ad incontrare Pietro Verri «in quella stagione vaghissimo di primeggiare per certo suo talento mirabile».1 Però il Verri faceva parte da sè stesso, e capitanava una schiera di studiosi e begli spiriti, al tutto aliena dal poetare, e con idee e intenti diametralmente opposti a quelli dei Trasformati. Sprezzatori del passato, incuranti quasi a studio della lingua, imbevuti di coltura esotica, specialmente francese e inglese, gli amici del Verri miravano a scuotere il paese dalla sua ignavia e dalla sua mediocrità; badavano più che altro agli interessi materiali, a sradicare i pregiudizii, a guarire il paese della infezione spagnuola. Li vedremo fra poco dar mano alla pubblicazione di un periodico, il Caffè. Mentre il Parini dava molto tempo alle famiglie patrizie, ov’era ricercato quale maestro ed amico e frequente commensale, non disertò l’umile casuccia, e continuò negli uffici filiali, de’ quali, per molti indizi, possiamo credere fosse zelantissimo, e furono quegli anni, dal 1752 al 1762, degli studi più forti e della più feconda preparazione e quindi produzione. L’anno dopo mandò fuori le due odi: La vita rustica e La salubrità dell’aria, ove esprime disgusto per la vita un po’ aulica e cortigiana, che era ridotto a fare, e le antepone quella de’ campi, non per svenevolezza arcadica, ma per desiderio vero e vivo che egli ne aveva. La mitezza, che deve fregiare il sacerdote, fu messa a dura prova nel 1756 e nel 1760 per vanissimi litigi. Fin dalla prima di queste due date, per conforto di Pier Domenico Soresi, prese a confutare il servita Alessandro Bandiera, che in un opuscolo pubblicato l’anno prima, discorrendo della maniera d’insegnare, censurava nella lingua e nello stile vari scrittori italiani, fra gli altri il Segneri.2 Ma [12a] questo fu appena il preludio di una musica, che diede suoni ben più discordanti. Nel 1760 quel padre Branda che oracoleggiava nell’università di Sant’Alessandro, fece recitare ai suoi discepoli un dialogo, ove, nell’esortarli a studiare il toscano, trascendeva contro il dialetto milanese, e faceva un appassionato e non sempre giusto confronto fra la Toscana e la Lombardia. Gli Accademici Trasformati furono i primi a risentirsi, e presero a campione il Parini, che già spiccava fra essi, e che non avendo scritto, fino allora, in dialetto, pareva più adatto a pigliare le difese della lingua e della letteratura paesana. Urbana, per dire il vero, fu la prima scrittura del Parini, ma inurbana oltre ogni dire la risposta del Branda. Gli animi s’invelenirono, e una fitta sassajola di satire e opuscoli colse il malcauto padre barnabita e di rimando i Brandisti pigliano in beffa i Trasformati e il loro duce. Non si fece certo sparagno d’ingiurie. Il Parini fu detto «dottorello, maestruzzo, filosofo, pedante»; le sue osservazioni erano «temerarie e insolenti»; gli scritti da lui pubblicati «nuove ribalderie, stampe obbrobriose, componimenti pieni di sciocco veleno». Gli diedero anche del matto. Il Parini respinge con molta vivacità le offese, ma trasmoda meno degli altri: e, quantunque esagerasse le lodi del dialetto per eccitamento di polemica, trova modo di porgere savi consigli; vorrebbe la scuola, aliena del parteggiare, parlasse prima al cuore e poi alla mente; dice la verità scopo delle lettere e che la vera eloquenza non consiste nelle lascivie del parlar toscano, ma nella robustezza e bellezza de’ concetti; e che 1 Reina, Vita cit., pag. xii. 2 Due lettere sopra il libro: I pregiudizi delle umane lettere, Milano, Regia Ducal Corte, 1756. – La prima è quella del Parini, indirizzata al P. D. Soresi; l’altra è la risposta del Soresi.

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prima scienza è il buon costume, la sincerità, la moderazione. «Che dobbiam noi, soggiunge, altro fare a questo mondo fuorchè cercare d’illuminarci a vicenda? e perchè ne concede il cielo più lungo dì, se non perchè apprendiamo a diventar sempre migliori?» Si fece tanto baccano da mettere il governo nella necessità d’intervenire: il Branda fu obbligato a ritirare «le molte divisate ingiurie» e a ognuna delle parti contendenti fu imposto perpetuo silenzio.1 Benchè al Parini dolesse più tardi di essersi [12b] mescolato in simile baruffa2 è a ritenere che ne ritraesse invogliamento a cose maggiori, per ribattere col fatto le ingiurie; e anco addestrò lo stile a maggiore proprietà ed evidenza. Dice il Reina che egli s’applicò a scrivere una favola pescareccia mista di versi e prose: ma, «benchè tal opera smarritasi gli andasse a genio, s’accorse agevolmente, che la medesima non era nè nuova, nè originale».3 Si vede che egli era tuttavia indeciso, e non era completamente uscito dal cerchiolino arcadico: ma piglia poi risolutamente il suo partito, si applica alla lirica con forte intonazione satirica (L’Impostura) e alla satira propriamente detta (Il Mattino). «La tragedia, continua il Reina, allettavalo forte a cagione delle sue libere idee; ma non gli sembrarono propizie a tentarla le politiche circostanze. La satira, amica alla fine critica, in cui da tempo versava l’animo suo, parvegli un campo comune da rendersi proprio». Gli volgevano anni assai tristi,4 e funestati da sventure domestiche. Nel 1760 gli morì il padre, e se ne afflisse acerbamente. Sull’autografo del sonetto che incomincia Face orribil, se è ver che in ciel ti accendi, scritto per la cometa del 1759, trovasi questa nota, di mano del Parini: «Alludo alla morte di mio padre e a qualche altra disgrazia seguitami in quest’anno». Pare che la dimestichezza coi grandi e le occupazioni scolastiche non lo mettessero al riparo dal bisogno. Mancato il capo di casa, per provvedere da solo a sè e alla vecchia madre dovette vendere una delle due casuccie che la sua famiglia possedeva in Bosisio. Si trovò in grave distretta, e fu obbligato a chiedere danaro a prestanza. Sono di [13a] questo tempo le terzine al canonico Agudio, che continuava ad essergli affettuoso protettore, nelle quali descrive i propri casi e gli chiede in prestito dieci zecchini: La mia povera madre non ha pane Se non da me, ed io non ho danaro Da sostenerla almeno per domane. Se voi non muove il mio tormento amaro Non so dove mi volga; onde costretto Sarò dimani a vendere un caldaro. 1 Relazione di Giuseppe Peri, Milano, 18 ottobre 1760, Archivio di Stato. – Si diffonde il Cantù, op. cit., pag. 51 e segg., coll’usata diligenza. Vedi pure De Castro, Milano nel Settecento, pag. 214-20; Salveraglio, op. cit., pag. 13 e segg. 2 «Gli dolse tutta la vita sua della contesa sostenuta contro il proprio precettore.» Reina, Vita cit., pag. x. – E nell’Elogio del Tanzi scrisse egli medesimo: «. . . . questa guerra fu fatta con tanta licenza che non merita d’essere più richiamato dall’oblivione un così fatto obbrobrio della letteratura.» 3 Vita cit., pag. xi. È parte di questa favola l’idillio pubblicato per la prima volta nel Cimento, Torino, gennaio e febbraio 1856? 4 All’amico Ronna, nelle Op., ed. Reina, III, 311: «Se te savisset,/Car el me Ronna,/Che bozzaronna/Vita foo mi://Te piangiarisset,/Te sgaririsset/La nocc, e ’l dì».

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Da questo capitolo apprendiamo di molte cose; e per chi sa quanto sono rari gli accenni intimi negli scritti del Parini, troverà opportuno tener conto di queste autonotizie. Apprendiamo che più volte si era rivolto al ricco e filantropico Mecenate per aiuto; apprendiamo che era ridotto proprio al verde, e molestato dal sartore, dal calzolaio, e che un debito maggiore aveva verso un capitano, di cui non è fatto il nome; e assicurava di non aver contratti questi debiti con mal fine, ma per ajutar sua madre. Enumera le sue necessità, svela le sue piaghe, non senza vergogna ed umiliazione. Non osa andare a lui, non osa chiedere a viva voce, preferisce il linguaggio discreto e amabile della poesia. È per la madre che prega e stende la mano: Pan, vino, legna, riso e un po’ di lesso A mia madre bisogna ch’io mantenga, E chi la serva ancor ci vuole adesso. Vegliò l’intera notte per scrivere questo capitolo, lunga e sospirosa notte ed ha le membra stanche e rotte. Offre in cauzione la casupola che ancora gli rimaneva in Bosisio, la quale, sia detto per incidenza, non doveva essere tutta sua, ma in comune coi fratelli. Non sa quando potrà toccare limosina di messe. Non parla dei proventi scolastici, forse scarsi e saltuari. Si dice abbandonato da tutti: non c’è un cane che lo tolga al suo stato miserando: non c’è che il canonico Agudio che lo possa salvare: Giacchè il cielo v’ha dato la ricchezza, Siatene liberale ad un meschino Che sta per impiccarsi a una cavezza. Ma sia discreto il soccorso, sì che egli non abbia a celare la fronte. E ancora apprendiamo che aveva finito di scrivere un poema, e che gli aveva antecedentemente chiesto danaro per mandarlo alle stampe, ma non sai se intenda parlare di quella favola boschereccia o del Mattino, che mandò fuori tre anni [13b] dopo. Vedesi, quindi, che anche la stampa dei suoi lavori gli costava danaro; e il guadagno, probabilmente, non era stato pari, fin qui, alle spese. Nell’autografo poi, in fine del capitolo, si legge: «Canonico carissimo, non lasciate di farmi oggi questa grazia per amor di Dio perchè sono senza un quattrino e ho mille cose da pagare. Verso le 23 e mezzo io andrò in casa Riso e spero che m’avrete consolato. Non mostrate a nessuno la mia miseria descritta in questo foglio. Il vostro P. che vi è debitore di quanto ha».1 Non pare che siffatte strettezze lo piegassero a men decoroso contegno verso le case patrizie, che lo ammettevano alla loro famigliarità; e ce ne persuade il seguente aneddoto. Nel 1762 egli seguì la duchessa Serbelloni a Gorgonzola, col medico Cicognini e con pochi altri amici. Un giorno la duchessa, non so per qual litigio, diede due schiaffi alla figlia del maestro di musica San Martino, per la quale il Parini nutriva amicizia ed ammirazione. La fanciulla lasciò immediatamente il palazzo Serbelloni, e il Parini, per impulso del cuore e per obbligo di 1 Tra gli autografi, in casa Bellotti. – Salveraglio, op. cit., p. xxxvi.

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cavalleria, volle accompagnarla. Figurarsi lo scandalo! La partenza del Parini aggravava il pubblico giudizio sulla condotta della duchessa. Poco dopo la duchessa scriveva al figlio, che si trovava a Roma: «J’ai dû me dèfaire de l’abbé Parini à cause qu’à Gorgonzole il m’a fait une tracasserie bien grande».1 Ora è probabile che di simili atti il Parini ne facesse di frequente, e che non sapesse assumere nelle case patrizie, che frequentava più dimesticamente, quell’aria mogia mogia che approva qualunque cosa ivi si faccia o dica. Troppo spiace di doverselo rappresentare in atto umile e compunto dinanzi quella frivola società che, appena a casa, faceva segno de’ suoi frizzi; ma, per quanto sappiamo, se egli frequentò alcune case magnatizie, non vi lasciò a brandelli la sua dignità, ma vi si tenne a fronte alta e riuscì persino ad ottenere il rispetto di coloro, a cui fu largo di censura. Il suo vivere coi ricchi, come non tornò a danno del suo carattere, non fu sterile per l’arte; e solo i malignanti, gli invidiosi che [14a] fosse accolto nelle sale dorate, hanno potuto appioppargli l’epiteto di Diogene incipriato.2 Chi lo conobbe da vicino, chi lo vide fra i nobili parlare il vero, come il vero scriveva, aderisce al giudizio del Torti: I dorati scanni Premea dei grandi taciturno, e intanto Notava i riti e gli oziosi affanni E gli orgogli e le noie e i gaudi o il pianto Del par mentiti: indi ne fea precetto In quel sublime suo ridevol canto.3 Intanto molto studiava la lingua e s’addestrava nel verso sciolto, affinchè il poema, a cui dava mano, si vestisse della forma più eletta e penetrasse più nel vivo mercè la persuasione del ritmo. Il Reina afferma che egli tolse segnatamente a imitare gli scritti di Pier Jacopo Martelli, nel dramma satirico Femia; ma non taceva ad alcuno questa sua preferenza, questa sua imitazione. Che più? Si proponeva di ristampare il Femia con una lettera inedita di Martelli, ed un suo discorso proemiale; ma smarrì le note che aveva predisposte e rinunciò al lavoro.4 Sull’invenzione dell’opera conferì col Passeroni, e compiuta la prima parte, ne diede lettura ad un crocchio di amici. Il governatore Firmian, avuta notizia del lavoro, ancor prima di conoscerlo ne lodò gli intenti, ne incoraggiò la pubblicazione: «Ottimamente, egli disse, ve ne ha bisogno estremo».5 Il Mattino comparve in luce nel marzo del 1763, e levò quel scalpore che ben poteva attendersi. Anche nella parte sana e ben intenzionata del patriziato trovò ammirazione; e non è detto che alcuna porta signorile si chiudesse davanti al censore, che esponeva al ridicolo i lombardi Sardanapali, non uno solo, intendiamoci bene, ma tutti insieme, studiati e forse un pochino esagerati nel ti1 Salveraglio, op. cit., pag. xii. 2 Ugoni, Vita cit. 3 Torti, Sermone sulla poesia. 4 Vita cit., pag. xv. – Il Martelli «seppe spezzare il verso sciolto, variarne i suoni, sostenerlo con una certa novità d’espressione e d’inversioni latineggianti.» Il Gnoli, Quistioni Pariniane, nella Nuova Antologia, vol. xlviii, pag. 423 e segg., fa vedere, con esempi, quanto il Parini profittasse a quella scuola. «Nella storia del verso sciolto spetta all’autore del Femia un posto importante e una gloria più degna che quella d’aver dato nome al martelliano.» 5 Reina, idem.

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po del Giovin Signore. E neppur le dame tennero il [14b] broncio, e sì che parecchie ne avrebbero avuto motivo. L’anno dopo, quasi per ritemprare l’estro umiliato da quella minuziosa critica, compose l’ode L’Educazione; e nel 1765 mandò fuori il Mezzogiorno e le due odi L’innesto del vaiuolo e Il Bisogno. Il Verri e i suoi amici avevano preso a pubblicare un periodico, che visse due soli anni, dal giugno 1764 al giugno 1766, gli anni appunto in cui Parini emerse quale poeta satirico. Avvertirono alcuni un grande accordo d’idee fra il Giorno e le odi del Parini (tutte contemporanee o posteriori al Caffè, tranne le prime due), e gli articoli di quel periodico innovatore.1 E l’accordo, in alcuni argomenti, è troppo visibile per non accorgersene: per esempio, in alcuni passi del Giorno, nelle odi L’Impostura, Il Bisogno, L’innesto del vajuolo. Ma se spingiamo l’esame un po’ addentro, notiamo essenziali differenze. C’è di più. Queste differenze nel modo di pensare avevano innalzata, per così dire, una barriera fra i Trasformati e gli scrittori del Caffè; formavano quasi due scuole, e i due Verri e il Parini non si vedevano di buon occhio. Alle note gare che dividevano questi ingegni, così meritevoli di comprendersi e di amarsi – dacchè lavoravano nello stesso solco – accennano i biografi,2 e ne appaiono indizi nei carteggi,3 e, per chi legge attentamente, nei fogli medesimi del periodico milanese.4 Il Parini non poteva non disapprovare lo scrivere negletto ed esotico degli scrittori del Caffè, quel cosmopolitismo per cui tenevano in non cale il patrimonio e la tradizione letteraria del paese, quell’eccessiva preferenza delle cose straniere, quell’incuria verso l’arte e gli interessi spirituali, mentre le cose [15a] eco| nomiche erano messe al disopra di ogni altro bisogno, di ogni altro voto. E, d’altra parte, gli scrittori del Caffè deridevano i puristi, i classici col nome di pedanti, e mentre Parini sconsidera il lusso, essi lo magnificavano; mentre il Parini vorrebbe rimettere gl’Italiani al culto agricolo, essi invocano le divinità dell’industria e del commercio; mentre l’uno ammira e persino rimpiange il passato, gli altri ponevano a dogma che ogni secolo val più di quello che l’ha preceduto. Ne derivò una guerricciuola sorda, ma viva. Il Parini, per testimonianza del Reina, soleva dire a’ giovani: Fuggite gli scrittorelli lombardi, e nel Meriggio fe’ per avventura la caricatura, in alcuni commensali, dei più esagerati fra i positivisti milanesi – egli idealista sommo –, fra cui Pietro Verri, a cui pone in bocca la declamazione sul commercio, allusiva all’articolo del Caffè: Elementi del Commercio; e ancora s’allude a lui nelle odi La Recita dei Versi e La Tempesta. Però giustizia vuole che si riconosca che il Verri, anche in questa contesa, si mostrò franco e leale. Mentre non seppe trattenersi dallo svelare i difetti che egli ravvisava nel Mattino, e scrisse l’articolo Sul ridicolo, in altri fogli del Caffè son citati versi del Parini, e si fa onorevole menzione di lui: il nostro Orazio, nuovo 1 Zanella, Storia della lett. ital., ecc., nell’opera L’Italia, Milano, Vallardi, pag. 55. – Vedi, fra altri articoli del Caffè, quello sull’innesto del vaccino, il Tempio dell’ignoranza, sull’Ozio, sull’Uomo amabile, sulla Noia, ecc. 2 Ugoni, Giusti, ecc. 3 Lettere e scritti inediti di P. e A. Verri, Milano, G. Galli, 1879, i, 365. 4 Vedi, fra gli altri articoli, Pensieri sullo spirito della letteratura; Degli onori resi ai letterati; I tre Seccatori; Dei difetti della letteratura; Sullo spirito della letteratura in Italia; Ai giovani d’ingegno che temono i pedanti; Considerazioni sul lusso, segnatamente l’articolo Sul Ridicolo, che, senza nominare il Giorno, è la critica più amara del poema pariniano.

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Giovenale, eccellente poeta.1 Il Verri fu un uomo appassionato del pubblico bene, polemista per convinzione non per moventi personali, amico della giustizia e capace di renderla persino agli avversari.2 Nel 1766 gli venne offerta la cattedra di eloquenza e logica nelle nuove scuole della Paggeria reale di Parma. Il governatore Firmian e il ministro Wilzeck lo esortarono a non lasciare Milano, lasciando intravedere che si sarebbe pensato a dargli una cattedra appena si effettuasse la riforma degli studi che si andava appunto preparando. Parini rifiutò la cattedra parmense; ma vedendo che il governo nulla risolveva, scrisse al Wilzeck una lettera, rammentandogli le fatte promesse, ed esponendo le sue idee intorno l’insegnamento dell’eloquenza. Addita qual causa dello scadimento degli studi l’essere ridotte le scuole sotto la direzione dei [15b] claustrali; e in vero, per dire solo di Milano, non esistevano fra noi scuole superiori laiche, ma sì importante palestra era tenuta dai Gesuiti, dai Barnabiti, dai Somaschi.3 Figuratevi le ire di quei sodalizi. Verso la fine del 1769 venne nominato professore nelle Scuole Palatine, e per lui venne eretta una nuova cattedra, quella d’eloquenza, «a dispetto de’ Gesuiti, che malissimo lo comportarono.»4 Non che la cattedra, ebbe per alcun tempo la direzione della Gazzetta di Milano; ma non è facile scoprirvi la sua mano. Gli si attribuisce l’epigrafe, allora introdotta, medio tutissimus ibis. Presto si disgustò di quella briga.5 Per quattro anni fece lezione alla Canobbiana; ma cacciati i Gesuiti e trasportate in Brera le cattedre palatine, il governo «colla intenzione di giovare alla perfezione delle arti del disegno facendo che si promulgassero e si mantenessero ne’ professori e negli amatori di queste le vere idee del buono e del bello secondo gli insegnamenti e la pratica de’ grandi maestri»,6 alla cattedra d’eloquenza sostituì quella dei Principii delle belle arti, che il Parini tenne fino alla morte. Il nemico dell’intolleranza religiosa e della ipocrisia, dovette far buon viso alla soppressione dei Gesuiti, non meno di Pietro Verri e di altri ben pensanti. Invero la pubblica voce gli attribuì un sonetto su questo argomento, tanto che il Reina l’accolse nei suoi scritti;7 il pubblico, mi pare, si è ingannato nell’attribuirgli quel sonetto, ma non sull’indole de’ suoi sentimenti. La sua vita prese andamenti al tutto diversi; non più jugulato dal bisogno, non più astretto a dissipare le forze nell’esercizio8 del privato insegnamento, assicurata con decoro la sua indipendenza, potè consacrare all’arte il meglio dell’ingegno e del tempo. Le posteriori sue querele, rispetto alle sue condizioni economiche, più presto che espressione di reali ristrettezze, si devono attribuire ai pungenti confronti, per i quali vedeva in più comodo stato uomini al tutto mediocri, e non pareva [16a] a lui di essere sufficientemente rimunerato. Del 1 Vol. i, pag. 51, 94, 156. 2 Chi ha visto più addentro in questo argomento è lo Gnoli, Quistioni pariniane, nella Nuova Antologia, vol. cit. 3 Opere, ed. Reina, vol. vi. 4 Reina, Vita cit. 5 Reina, Vita cit., pag. xviii. – Cantù, op. cit., pag. 60. – Vedi note all’ode La musica. 6 Promemoria di Giuseppe Parini alla I. R. Conferenza governativa. Archivio di Stato. – Salveraglio, op. cit., p. xix. 7 Ed. cit., ii, 24. 8 [Nel testo esercicio].

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resto è noto che cumulò benefici ecclesiastici e stipendi suppletori, e che gli fu concesso, fin dal 1774, alloggio in Brera.1 Quella relativa agiatezza e il maturato ingegno resero più fertile la sua musa; sicchè dal 1770 in poi finì il Giorno, scrisse le più disinvolte e originali fra le odi, e poesie di vario genere, e prose, per tacere delle lezioni che sul principio scrisse, poi improvvisò, e, naturalmente, piacquero più quelle che sgorgavano pronte dal suo ingegno, potentemente scosso dal soggetto e dai capolavori che veniva man mano dichiarando ai suoi uditori. Nel 1771, quando venne a governarci l’arciduca Ferdinando, Parini dettò, per quelle feste, l’Ascanio in Alba, musica del giovine Mozart. Ormai era additato all’attenzione dei maggiorenti. Gli chiedevano fin soggetti di pitture, per il teatro di corte, ove sconsigliò dipingere il Giudizio di Paride, e propose miglior favola,2 e suggerì un baccanale per un telone per la Scala,3 e soggetti di balli e rappresentazioni sceniche.4 Fondatasi nel 1776 la Società Patriotica, subito vi fu ascritto. Quel sodalizio ricorse a lui per l’elogio funebre di Maria Teresa (1780). Il Parini accettò l’incarico, scrisse al Firmian per avere notizie, raccolse molti materiali, si ridusse anche in villa per lavorare meglio, per eccitare l’estro, ma non seppe compir il lavoro. Il Reina più che a mal ferma salute attribuisce ciò all’imbarazzo di lodare in ampio ed elaborato lavoro Maria Teresa; gradì sul principio l’ufficio, quindi se ne disgustò, e, alieno dall’adulare, preferì il silenzio. Vorremmo che il Reina dicesse il vero, giacchè sarà sempre indizio d’animo gagliardo e puro l’abborrire da quelle lodi verso i potenti, che possono essere sospettate di mendacio e di venalità. Anzi il Reina mette in bocca al Parini queste parole: «Io non trovo veruna idea soddisfacente, su cui tessere l’elogio dell’imperatrice; ella non fu che generosa; donare l’altrui non è [16b] vir|tù».5 Ma non pare la cosa sia andata così; il poeta fu davvero colto da grave malore, che gli impedì di condurre a termine l’intrapreso discorso; e, d’altra parte, non aveva già lodata l’imperatrice vivente in prosa e in rima?.6 Non si pretenda, del resto, che Parini già concepisse il voto dell’indipendenza dallo straniero, che appena scaldò gli animi dopo il 1814. Letteratura e scuola erano avvezze a presentare, per così dire, le armi, ai governanti, nativi o stranieri che fossero; e l’esotica loro natura non era tampoco avvertita. Gli insegnanti e gli impiegati erano tutti imperiali e regi, per debito d’ufficio. Parini 1 Salveraglio, op. cit., pag. xxxviii e segg. 2 Reina, Vita cit., pag. xxi. 3 Salveraglio, op. cit., pag. xxxix: ebbe per ricompensa 50 gigliati. 4 Oltre al compenso in danaro, gli fu assegnata una sedia gratuita in teatro. – Vedasi l’Elogio di G. P. scritto da Cosimo Galeazzo Scotti, Milano, Motta, 1801. 5 Reina, Vita cit., pag. xxi. Ugoni, Zoncada, Giusti, De Sanctis ed altri, s’attengono al racconto del Reina. 6 Nella chiusa della sua prolusione nelle Scuole Canobiane, rivolgendosi alla valorosa gioventù milanese: «… Quando i grandi esemplari avranno per mezzo mio formato il tuo buon gusto, ed eccitato il tuo genio, offrine le primizie, vola al sublime, e scrivi alla posterità, e canta su l’epica tromba le virtù di Maria Teresa Augusta, Sovrana tua beneficentissima.» Vedi pure il sonetto per l’onomastico di Maria Teresa, ed. Reina, ii, 13. – Questo punto è discusso dal Salveraglio, op. cit., pag. xix e segg. – Potrebbe anche ammettersi che Parini piegasse a breve elogio oratorio e di prammatica, ma ripugnasse da lunga concione adulatoria, e non trovasse materia sufficiente al suo dire: da qui l’imbarazzo, la stanchezza, il rifiuto.

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molto sperava dall’alto, non tanto per sè quanto per il paese; e in una delle sue prose indica i modi con che il governo viennese potrebbe restaurare la letteratura in Italia.1 Probabilmente egli avrebbe scritto più volentieri di Giuseppe II, sovrano secondo il suo cuore, cui accordò lode amplissima in due sonetti; ed anche gli piacque il men precipitoso eppur così liberale ed equo Leopoldo II. Pare non abbia alcun fondamento l’aneddoto, nel quale figura Parini e Leopoldo, che fece una breve ma non infruttuosa comparsa a Milano nel 1791: vede per via il Poeta, che mal reggevasi sulle gambe, e ordina per lui a spese pubbliche una carrozza; ma l’ordine cadde in dimenticanza. Dell’aneddoto medesimo il Foscolo dà questa variante: l’arciduca Ferdinando vedendo il Parini pericolare tra il fango e la obbliqua furia dei carri, comandò al nostro [17a] municipio di apprestargli un cocchio, e quello ricusò. Il Cantù osserva in proposito: «Gratuito insulto al municipio, al quale del resto non si comandava con tanta leggerezza».2 Riteniamo che l’aneddoto non sia che l’esagerazione di una notizia data dal Reina, che è la seguente: «Stupì l’imperatore che un uomo sì celebre e venerando si strascinasse pedestre, e comandò che gli si desse stipendio maggiore. Gli fu allora, per la sollecitudine di Emanuele Kevenhüller, conferita la prefettura degli studi di Brera con migliori condizioni».3 Mancatagli, per il noto incidente, la protezione dei Serbelloni, ebbe l’affetto della casa d’Adda, e in ispecie gli fu caro quel Febo d’Adda, che apprese da lui a poetare non volgarmente. Avvicendava le vacanze a Malgrate nella casa di Candido Agudio o a Bellagio presso il conte Della Riviera o presso Erba nella villa Amalia dei Marliani; e gli fu pur largo d’ogni amorevolezza il cardinale Durini. Dai Belgiojoso ebbe incarico di proporre i bassorilievi per il nuovo loro palazzo. Anche l’arciduchessa Beatrice, moglie del governatore Ferdinando, così grata ai Milanesi per la bontà dell’animo e del costume, teneva in sommo pregio il Parini. Mostrò desiderio di leggere la Notte. Egli se ne scusò, dicendo che l’ultima parte del suo poema non era ancora condotta a buon fine, ma promise che l’avrebbe pubblicata al più presto, ristampando anche le parti precedenti. Affrettò quindi il lavoro di emendazione,4 che già lo occupava da parecchio tempo, ma ne fu ancora sviato da più urgenti cure. Della finezza nel giudicare artisti e poeti, ebbero saggio i suoi scolari o uditori di Brera, fra i quali il Torti5 e lo Zanoia.6 Più che lezioni teoriche, formava il gusto sovra autori eccellenti, leggendoli come sa leggere chi conosce le più segrete ragioni dell’arte, e s’animava moltissimo, e i commenti talora pareggiavano i testi.7 Però la scuola non era affollata; «vivono [17b] ancora quelli che attestano come dieci o dodici persone costituissero l’uditorio».8 1 Del Lungo, Il Parini nella storia del pensiero italiano, nel periodico La filosofìa delle scuole italiane, 1870, pag. 220. 2 Negli Atti dell’Istituto Lombardo, 9 nov. 1865. 3 Vita cit., xxv. – cusani, Storia di Milano, V, 299. – Salveraglio, op. cit., p. xl. 4 Reina, Vita, pag. xxvi. 5 Il Torti loda il Maestro nell’Epistola sui Sepolcri, ecc., nel Sermone a Sofronio (il cav. G. P. Arese), nel Sermone sulla Poesia. 6 Lo Zanoja parla di Parini nel sermone Il Servo. 7 Vedi l’ode La Gratitudine. 8 Cantù, op. cit., pag. 66.

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Alcuni suoi giudizi sono rimasti e rimarranno: il Passeroni è ancora un buon cantore;1 l’Alfieri il fiero Allobrogo; il Casti un Fauno procace; il Monti un ardito volatore, che pericola sempre e non cade mai; il Voltaire è un Proteo multiforme; e preponeva la Pulcella all’Enrico IV, opinione confermata adesso dai migliori critici, ma allora contraddetta. La parte teorica del suo insegnamento è contenuta in una delle migliori sue prose: Principi di belle lettere applicate alle belle arti, traccia più che altro di quel che aveva a dire nella scuola, compendio delle vecchie rettoriche con una certa larghezza di intendimenti che abbraccia non solo le arti della parola, ma del disegno; però non tardò ad accorgersi che quelle generalità estetiche davano piccolo frutto, e allora mutò via, e fece bene. Il Torti lasciò scritto: «Non giudicate da quel tanto che il Parini pose in carta; non sono che le goccie d’un’acqua che sulle labbra di lui tramutavansi in un gran fiume.» Ed a chi gli domandava alcun che sul metodo scolastico pariniano, il Torti medesimo soleva rispondere: «Notava che questa parola o questo modo esprimeva più o esprimeva meno del concetto».2 La viva voce, l’improvvisazione, il gesto, e l’aspetto raddoppiavano la virtù di quel discorrere familiare e caldo sopra i capolavori dell’umano ingegno. Bisognava vedere … il più che umano aspetto Del venerando vecchio e le pupille Eloquenti aggirarsi, e vibrar dardi Di sotto agli occhi dell’augusto ciglio. Nè tu la immensa delle sue parole Piena sentisti risonar nell’alma, Allor ch’apria dall’inspirata scranna I misteri del bello; e, rivelando Di natura i tesori ampi, abbracciava E le terrestri e le celesti cose.3 Ma l’insegnamento nol dispensava solo dalla cattedra, lo concedeva ad ogni richiesta; e niuno che lo potesse accostare per simile fine ne andava digiuno; lo che accenna il Passeroni ne’ versi: [18a]

Voi parlate ben d’ogni arte, E chi a voi vien per consiglio L’accogliete come figlio E da voi più dotto parte.4

In quelli che egli beneficò maggiormente di lumi e di aiuto rimase vivo un senso di filiale tenerezza; valgano a provarlo i sciolti del Foscolo, e questi del Torti: E a me sovente nell’onesto albergo Seder fu dato all’intime cortine De’ suoi riposi, e per le vie frequenti All’egro pondo delle membra fargli 1 Intitolò al Parini il vii volume delle sue Favole Esopiane. 2 Cantù, id. 3 Torti. 4 In vernacolo sprona allo studio e a raffinarsi nell’arte Giuseppe Carpani, Cantù, op. cit., p. 273.

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Di mia destra sostegno; ed ei scendea Meco ai blandi consigli, onde all’incerta Virtù, non men che all’imperito stile Porgea soccorso; ed anco, oh maraviglia! Anco talvolta mi bear sue lodi. Non facile lodatore di certo! E talora ruvidamente schietto. Uno lo vuol giudice di due suoi sonetti, per sapere quale doveva stampare; ode il primo, e senz’altro: «Stampate l’altro».1 Rispetto ai copisti della sua satira: «So di aver fatto cattivi imitatori».2 E al Bertola, che lo aveva richiesto di suo parere intorno a non so quale composizione, rispose reciso: Stimavo meglio di non parlarvene.3 Tra i pochi sinceramente lodati da lui è da ricordare il Mascheroni, che, per grato animo, volle essergli presentato, e gli veniva innanzi balbettante, confuso; e il Parini gli mosse incontro e gli dischiuse le braccia come a confratello: «Caro Mascheroni, i suoi sono i più bei versi sciolti di questo secolo».4 Alla Diodata Saluzzo scriveva: «Non asserisco mai se non ciò che mi sembra vero, e non amplifico mai nè biasimando nè lodando per qualsivoglia motivo».5 Il Pindemonte riconobbe questa sua dote: «dice sincerissimamente il suo parere delle cose che gli sono mostrate, se ne viene domandato con candidezza».6 Benchè non sapesse disegnare, era assai intendente di cose pittoriche, e progettava un [18b] lavoro sul Cenacolo di Leonardo, a proposito del quale diceva che chi era capace di quella composizione era capace di un poema.7 Francamente dissuadeva dall’arringo artistico quelli che gli pareva non vi fossero chiamati: «Adulato da me, resterebbe un meschino artista; forse per altra via potrà segnalarsi. A che ingannarlo? La mediocrità sta bene nelle fortune, ma nelle facoltà liberali tutto dev’essere insigne».8 Dei propri lavori, di solito, era malcontento, e non cessava di limarli:9 «Gli altri lodano le cose mie, io non le posso lodare. Ora che sono vecchio conosco ove sta il bello; se potessi tornare indietro, comporrei forse cose non indegne del nome italiano».10 Nelle amicizie fu davvero indomabile,11 ed ebbe una numerosa e scelta corona di discepoli ed estimatori. Ai già ricordati, aggiungi il libraio Domenico Speranza, C. G. Scotti, che fece un lungo commento dell’ode la Gratitudine, l’ab. Antonio Mussi, Antonio Conti, Palamede Carpani, Calimero Cattaneo, Angelo 1 Cantù, op. cit., 272. 2 Ugoni, Vita cit. 3 Tonti, Vita cit., p. 197. 4 Bernardoni, Per Giuseppe Parini, epistola, Milano, 1848, pag. 77; Cantù, opera cit., pag. 273. 5 Opere, ed. Reina, vol. vi. 6 Benassù Montanari, Vita e opere di Ippolito Pindemonte, Venezia, 1834, pag. 51. – Il Pindemonte ricorda Parini nell’Epistola a Virgilio. 8 Cantù, op. cit., pag. 65. 7 Reina, Vita cit., pag. xxxi. 9 «Se alcuno gli si vantava, dice il Cantù, di comporre versi rapidamente, il Parini sorrideva e taceva.» Fra le sue carte si trovano sette testi del Mattino e tre del Meriggio corretti di sua mano; il Vespro compiuto, con due foglietti che contengono le varianti, e sette esemplari della Notte. Aggiungi le numerose correzioni a tutte le altre poesie, fino alle giovanili. «Le correzioni tendeano sempre più a velar l’arte, togliere le [nel testo la] parole meno proprie e meno naturali, accostare a quella semplicità che non è la bellezza, ma alla bellezza aggiunge tanto.» Cantù, op. cit., pag. 267. 10 Reina, id. 11 Nell’ode L’Educazione.

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Vecchi, Giuseppe Airoldi, lo scultore Giuseppe Franchi, che gli fece il busto mentre era ancora in vita; Giuseppe Bernardoni, che gli tributò lungo ed efficace ossequio; il professore di matematica Paolo Brambilla; quel Gambarelli a cui concesse di pubblicare le sue Odi, e che gli diede poi sì gran dolore trafiggendosi colla spada per disperata melanconia; quel Reina che raccolse per il primo le fronde sparte del maestro. Ma quanto egli era amichevole e gentile coi buoni, altrettanto era acre e terribile coi tristi. Soggiunge il citato Reina: «Abborriva egli singolarmente gli adulatori, i bugiardi e i millantatori. Un certo Florent, parrucchiere, nel dargli una parrucca, gli disse con baldanza: «Affè, signor abate, [19a] non aveste, nè avrete mai parrucca sì bella; sdegnarsene, gettarla dalla finestra, non volerla più, benchè pagata, fu una cosa sola».1 «Non è malvagio, diceva egli, se non chi è inverecondo verso la vecchiaja, le donne e la sventura». Stava egli in broncio con un giovane, del quale gli aveano riferito non so qual torto; ma incontratolo per via che sorreggeva un vecchio cappuccino, e rimbrottava alcuni che, per mostrarsi filosofi, lo avevano deriso, il Parini alzò la voce anch’egli contro costoro; poi, gettate le braccia al collo del giovane, gli disse: «Or che ho visto la tua pietà verso un vecchio, ti credo capace di molte virtù».2 Tra i vizi da lui profligati avvi l’avarizia, quella sucida e lercia avarizia che offende non solo il senso morale, ma anche l’estetico, sicchè gli artisti più forse di ogni altra schiera ne ripugnano, e piuttosto sono inclinati al soverchio spendere. Nel Trionfo della spilorceria3 egli ha ritratto il più ignobile tra i vizi, e si crede che togliesse a descrivere lo zio materno sacerdote Francesco Carpani, che, morendo, diseredò il Poeta, lasciò la sua sostanza alla chiesa di San Rocco, a Proserpio, per erigervi una cappellania; ma per essere quella disposizione contraria alle nuove leggi giuseppine, non ebbe alcun effetto, e Parini conseguì quel modesto peculio.4 Ben altro tipo di sacerdote fu il curato Ciocca, di cui ci offre il Parini una immagine assai viva in uno dei suoi migliori sonetti, fatto di versi milanesi e italiani alternati: … Egli medesmo a pro di questi e quelli Su par i scar de legn fina al quart pian Portava loro gravidi fardelli Tappasciand da on coo all’olter de Milan. Nulla per sè, nulla di proprio avea; Quell poch ben de cà soa e dell’altar Tutto co i poverelli ei dividea…5 Gli spettacoli lontani poco avevano attratto l’attenzione del Parini, già abbastanza intento a sviscerare la società che gli stava intorno; ma quando, in Francia, lo spettacolo uscì completamente dal comune, come non tenervi fissi [19b] gli sguardi! Il Parini se ne interessò da filantropo e da filosofo; ma, mentre approvava alcune massime, che egli avea già bandite molto tempo prima, dissentiva da quegli atti che disonorano la più giusta, la più nobile delle emancipazioni; ed era il dissenso dell’uomo onesto, del cuore retto e gentile. 1 Reina, Vita cit., pag. lv. 2 Cantù, op. cit., pag. 274. 3 Opere, ed. Reina, iii, 151. 4 Salveraglio, op. cit., pag. xxxviii. 5 Opere, ed. Reina, pag. 308. – Barbiera, Le poesie milanesi del Parini, Rivista Minima, 1883, pag. 863.

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I principii dell’89 in massima gli andavano; ma i «baronad de Franza» non gli andavano nè punto nè poco. L’ode Sul vestire alla ghigliottina ce lo prova abbastanza. Rado scrisse in dialetto, eppur vi ricorre per sconsigliare dal libertinaggio delle mode e per volgarizzare il disgusto contro gli eccessi della Rivoluzione, e scrive quel sonetto: El magon dij damm de Milan, che è certo fra i più belli della nostra letteratura vernacola.1 Quando il «turbo marzial» mutò faccia alle cose di Milano, come di molta parte d’Italia, Parini fu tra i speranzosi che un’era felice fosse per spuntare nel nostro paese, e pigliò tale interesse alla vita pubblica, da logorare la vista nella lettura dei giornali, e gli si appannò per cateratta l’occhio destro; di che non daremo solo colpa ai giornali male impressi, come fa il Reina, ma è probabile che il soverchio leggere gli anticipasse quell’alterazione della vista.2 Chiamato a sedere nel nuovo municipio, afferrò con gioia il mezzo di giovare al paese; ma forse gli sarà dispiaciuto di prestare, cogli altri, quel giuramento così servile alla Repubblica francese, nel quale non era cenno d’Italia, e non della Cisalpina, e non di Milano: «Giuriamo di non riconoscere d’ora in avanti che la sola Repubblica francese, e d’impiegare tutto il nostro potere al mantenimento ed alla esecuzione delle leggi che sono emanate o che emaneranno dalla stessa Repubblica».3 E ci aveano promessa l’indipendenza! Il Parini sperò e attese che il meglio si ottenesse un po’ per volta, e offerse largamente l’opera sua per francare al più presto il paese, assestarlo mercè ordinamenti liberali ma savii e temperati; se la intese coi migliori colleghi, per esempio, col Verri. Come sappiamo, prima [20a] si vedevano di sbieco; da che s’incontrarono nelle sale municipali divennero amici. Oh! perchè non avevano avuto prima occasione di vivere un po’ insieme! Rallegravasi degli ordini repubblicani sorvenuti anche nell’interesse della lingua e delle arti: «Se saremo liberi, egli diceva, avremo una lingua propria, espressiva, robusta, dignitosa, perchè i popoli liberi sogliono avere il tutto proprio e segnalato»; e commendava la divulgazione delle opere di Macchiavelli: «Costui insegnerà a pensare, parlare e scrivere liberamente».4 Non prevedeva l’infranciosamento, e la superficialità, che cominciò a piacere nei giornali e fu più facilmente tollerata nei libri; e nemmeno prevedeva l’insolente beffa dei giovani, che, senza nulla aver operato, deridono i vecchi; di che fra poco dovrà far lamento col suo Passeroni: i detti nostri Beffa insolente il giovin, che pur jeri Scappò via dalle scuole, e che, provvisto Di giornali e di vasti dizionari E d’un po’ di francese, oggi fa in piazza Il letterato, e ciurma una gran turba Di sciocchi eguali a lui. Sedette il Parini nel Comitato che s’occupava delle finanze, delle cause ecclesiastiche, della beneficenza e della pubblica istruzione; e pronta ed efficace fu 1 Opere, ed. Reina, iii, 309. – De Castro, Milano e la Repubblica Cisalpina, ecc., Milano, Dumolard, 1879, pag. 45. – Barbiera, scritto cit., pagina 861. 2 Vedi sua lettera, pubblicata dal Cantù, Italiani illustri, iii, 425. 3 Archivio Civico. – Salveraglio, op. cit., pag. lxii. 4 Reina, Vita cit., pag. xliv.

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l’opera sua. Fra gli altri commendevoli partiti, propose che gli affari più importanti non si risolvessero per immediata deliberazione, ma si aggiornassero a tempo conveniente; e la proposta venne, con lievi modificazioni, adottata.1 Senza meno si faceva, almeno sul principio, molto conto dell’opera sua, giacchè, non potendo per i suoi malori recarsi a piedi al Municipio, gli venne assegnata una lettiga a pubbliche spese.2 Nè il solo Municipio si [20b] gio|vava de’ suoi lumi; anche il Ministro degli interni ricorse a lui, per non so quale bisogna, e gli mandava delle carte per esame; ed egli, scusandosi di non poter sollecitamente soddisfare l’incarico per motivo di salute, si protestava «sempre pronto ad impiegare in vantaggio della patria fino alle ultime reliquie de’ miei sensi e della mia mente».3 Ma questa patria, a cui egli era sì devoto, era per molti un podere da sfruttare, o un palcoscenico da figurarvi camuffati alla romana, per mentire o esagerare sentimenti; Genusi e Saturnini, per dirla col Monti, drappeggiati da Bruti e da Gracchi, facevano arrossire o fremere l’onesto che si trovava loro accanto. Il Parini provò disgusto della mala compagnia, ma non celò, per timore o per calcolo, alcun convincimento, e nemmeno frenò l’ira, tutte le volte che gli salì dal petto alle labbra. «Maestro di libertà, scrive il Reina, fin sotto i re, ed invincibile nella sua costanza, non lasciossi mai sedurre dalla lusinghiera novità nemica spesso dell’ordine e della giustizia; biasimò, combattè sempre con alacrità quante violenze volevansi commettere sotto l’arbitrio specioso della libertà».4 Il Poeta portava a quella carica la ponderatezza dell’età, la calma di un uomo che avea molto lottato; quello spirito evangelico che governava e abbelliva, non che l’arte sua, tutte le sue azioni; un senso innato del giusto, dell’eleganza, del decoro; un’avversione decisa alle vie oblique o violente; la bella abitudine di parlare alto tutte le volte si trattasse del pubblico bene. Ed anche il Verri recava, tra quegli energumeni, temperanza di consiglio e civile sapienza. «Non sarò mai schiavo» scriveva al fratello Alessandro. La stessa dichiarazione ripeteva, ad ogni poco, il Poeta per protestare contro quella tirannide, che si adonesta col nome di libertà, e che opprime e punisce fin le opinioni. «Figuratevi, scrive il Verri, che stato è quello di un uomo probo in tale società! Parini, il fermo ed energico Parini, talvolta piange. Io non piango, ma fremo, e lo amo, come uomo di somma virtù».5 E in [21a] altra lettera al fratello, ancora al proposito del Parini: «uomo deciso per la giustizia e fermo contro civium ardor prava jubentium.»6 A chi suggeriva partiti estremi, misure draconiane: «Colla persecuzione e colla violenza non si vincono gli animi, nè si ottiene la libertà colla licenza e coi 1 Archivio Civico. – Salveraglio op. cit., pagine lxiii. 2 «8 pratile IV (27 maggio 1796). – Unito il Comitato 3.º della Municipalità di Milano … Fatta parola della necessità, attesi i noti incomodi di salute del cittadino Giuseppe Parini, che lo impediscono di personalmente portarsi alle diuturne (sic) sessioni senza il mezzo di una portantina che sia determinata a di lui comodo, convenne unanimamente il Comitato che si diano gli ordini a chi conviene perchè ne sia provvista una decente e propria per conto della Municipalità e costituito il proporzionato soldo [20b] giornale (sic) ai due portatori che verranno scelti.» – Archivio Civico. 3 Archivio di Stato. – Salveraglio, op. cit., pagina xlv. 4 Vita cit., pag. xlix. 5 Lettere e scritti inediti dei fratelli Verri, Milano, Galli, iv, 227. 6 Id., pag. 230.

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delitti; il popolo vi si conduce col pane e col buon consiglio; non si dee urtarlo ne’ suoi pregiudizi, ma vincerlo coll’istruzione, coll’esempio».1 Ripetizione in prosa di ciò che avea pur detto in versi, ma, adesso, per dirle certe verità, per sceverarsi dagli scalmanati e dai mattoidi ci voleva arditezza: Un filosofo viene Tutto modesto, e dice: Si vuole a poco a poco Pian pian, di loco in loco, Toglier gli errori del mondo morale: Dunque ciascun emendi Prima sè stesso, e poi degli altri il male. Ecco un altro che grida: Tutto il mondo è corrotto; Si dee metter di sotto Quel che sta di sopra, rovesciare Le leggi, il governare; Fuor che la mia dottrina, Ogni rimedio per salvarlo è vano. Badate all’altro; questi è un ciarlatano.2 Ode in teatro un terrorista: «Viva la repubblica, morte agli aristocratici», e il Parini, con voce anche più alta: «Viva la repubblica, morte a nessuno.» Respinse ogni proposta che sitisse di sangue: «Che? al sangue io? io alle stragi? No, non sarà mai; troppo mi son cari i miei concittadini, troppo mi è cara la patria.» Dispiacevagli il tu, venuto allora di moda, e si indispettiva quando lo usava verso di lui persona immeritevole: «La uguaglianza non consiste nell’abbassar me al vostro livello, ma nell’alzarvi voi al mio, se tanto valete!» Un uomo del contado, entrato nell’aula municipale, si toglie il cappello; ripreso per ciò dai banditori di una nuova creanza, e invitato a coprirsi, pronto il Parini: «Cappello in testa, e mano in tasca.» Taluno si meraviglia che egli faccia la carità ad un Tedesco: «La fo al Turco, al Giudeo, all’Arabo, la farei a te, se ne avessi bisogno.» [21b] Pigliò le difese di Francesco Melzi, che ebbe a soffrire le ingiurie dei demagoghi; e c’era pericolo a proteggere, in quei giorni, un gentiluomo che avesse il grave torto di appartenere al ceto nobilesco. E gli occorse persino, se è vero, di pigliare le difese di Cristo. Levato il crocefisso dalla sala del Consiglio, il Poeta avrebbe detto, appena accortosene: «Ove non entra il cittadino Cristo, non entra Parini».3 Saputo che si violava dai poliziotti francesi il segreto epistolare: «Cesserò da ogni carteggio, per non patire sì grave offesa».4 Il nostro Municipio fu esposto, più che mai alle insolenze dei proconsoli stranieri, nè la gallica provenienza e il carattere di repubblicani scemava l’oltraggio, 1 Reina, Vita cit. 2 Nella novella I Ciarlatani. 3 Nell’Archivio Civico non esiste in proposito alcun documento. 4 Tratti di spirito e insieme di coraggio! Li riferisce il Reina e il Cantù. Son tutti veri? Certo la arguzia pariniana v’è tutta: nè è a credere che il poeta imparasse a dissimulare proprio ne’ giorni in cui tutti parlavano francamente.

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pare anzi dovessimo risentircene di più, venendo da uomini che ci aveano venduta la libertà a contanti. Fra le altre scene, una vuol essere narrata colle parole stesse di un testimonio oculare, P. Verri. «La giornata famosa fu il 13 giugno, tanto più degna di memoria, quanto fu la prima in cui i municipalisti sfoderarono la fascia tricolorata dalla spalla destra al fianco sinistro». Una grave novità anche questa, giacchè per lo innanzi si portava la fascia tricolore a cintola – e parve maggior patriotismo, e cosa da giovarsene il paese portarla più su!1 Il Despinoy, detto per la furia il generale Ventiquattro ore, e che teneva fra noi il primo luogo, era imbestialito per un decreto del Municipio, che mirava ad abolire la nobiltà ed i rimasugli feudali, emanato senza la sua approvazione; ed ecco quel che avvenne: «Entrò Despinoy nella sala e disse: – Non è più sopportabile l’arroganza della municipalità! Voi siete una provincia conquistata dalle nostre armi! Voi osate far leggi indipendentemente da me, che rappresento la Repubblica! Siete tutti arrestati soltanto che io lo dica! Chi siete voi? Meri agenti scelti da noi; un’amministrazione puramente passiva. Se tutto ciò l’avesse pronunciato colla pacata [22a] dignità che conviene a chi si vuol mostrar degno della sua carica, la cosa andava a dovere; ma l’impeto furioso e da ubbriaco, gli urli, lo schiamazzo di Despinoy resero l’esecuzione indegna della maestà della Repubblica».2 Probabilmente fu in quell’occasione che Parini, portando la mano alla fascia, disse freddamente: – Ora non manca altro che di farcela salire più su e poi stringerla.3 Un censore sì molesto non poteva garbare a lungo; nè poteva durare un pezzo in Parini la dolce illusione che l’onestà e il buon consiglio4 soli disponessero del paese. Ne disponevano i proconsoli francesi. I commissari Saliceto e Garray ridussero a soli ventiquattro i magistrati del Municipio milanese; Parini fu tra gli esclusi, o meglio direte fra i ringraziati. Il ringraziamento c’è negli atti.5 Pietro Verri rimase.6 Non si dimise lui, dunque, ma fu congedato, e si ha memoria di parole dette da lui ad un amico in questo senso:7 «Onde, abate Parini, siete pur uscito da quella congrega.» «Uscito? m’han fatto uscire!» Però non gli increbbe, anzi re1 Per suggerimento, dice il Giusti, di «una quelle teste felici che anco in quei trambusti trovano il tempo di occuparsi di frasche». 2 Storia del Milanese alla occasione della invasione dei Francesi Repubblicani l’anno 1796, manoscritta all’Ambrosiana, P. 158, par. sup; pubblicata nella Rivista contemporanea di Torino, 1856; e nella cit. opera Lettere e scritti inediti, iv, 381 e segg. 3 Giusti, Della vita e delle opere di G. P., discorso che precede l’ediz. Le Monnier delle opere scelte di Parini, pag. lvii; – Cantù, op. cit., pag. 259. 4 [Nel testo conglio] 5 Archivio Civico. – Salveraglio, op. cit. 6 «Il pubblico conosce il poeta; chi gli si accosta conosce l’uomo decisamente virtuoso e fermo; e perciò il partito dominante lo fece congedare.» E soggiunge il Verri che egli potè rimanere solo perchè più misurato e prudente nella parola. – Informando il fratello Alessandro dell’accaduto soggiunge: «Mi duole e mi rallegro con lui.» Lettere e scritti ined. cit., ii, 230. E Barzoni: «Infelici! il loro destino doveva essere quello che fu sempre riserbato alla timida e delicata probità.» I Romani nella Grecia, Londra, 1797, pag. 24. – Non timida certo nel Parini! 7 Cantù, op. cit., pag. 259.

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spirò a miglior agio: «Ora sono libero davvero, egli disse: al cessare delle fazioni, se sarò richiesto, servirò ancora la patria».1 Si riferisce2 che l’intero stipendio, col quale vennero rimunerati i servigi da lui resi nel tempo in cui sedette nel Municipio,3 [22b] fosse da lui fatto distribuire ai poverelli di Bosisio; ma non si ha conferma di ciò nei documenti.4 Nell’ottobre del 1797 il ministro Ragazzi nominò una commissione per il riordinamento dei teatri nazionali, chiamandovi il Longo, il Mascheroni e il Parini.5 Non vi si rifiutò il Nostro, segno che non serbava alcun risentimento per essere stato rimosso dall’ufficio municipale, e che era pur sempre desideroso di servire, in ogni miglior modo, il paese. Se non che non poteva approvare gli scompigli e le intemperanze, e men che meno le ruberie, sicchè si mantenne rigido censore; nè valse a ritenerlo dall’esprimere francamente i suoi giudizi il timore di provocare le facili ire dei nuovi governanti; e si dice che, a sfogo dell’animo, piegasse a scrivere la storia di que’ giorni tumultuosi, ma a conferma di questa voce non è rimasto nemmeno un frammento.6 Più che mai gli fu cara la solitudine, appena rallegrata dal consorzio degli amici più cari, Vincenzo d’Adda, Alfonso Longo, Passeroni, Torti, ai quali s’era aggiunto quell’italo-greco di Zante che tanta fiamma accese nell’arte: «Andandolo a visitare, racconta Ugo Foscolo, lo incontrai sulla porta delle sue stanze, mentre egli strascinavasi per uscire. Mi ravvisò, e fermatosi col suo bastone, mi pose la mano sulla spalla dicendomi: tu vieni a rivedere questo animoso cavallo che si sente nel cuore la superbia della sua bella gioventù, ma che ora stramazza per via, e si rialza soltanto per le battiture della fortuna. Egli paventa di essere cacciato dalla sua cattedra e di trovarsi costretto, dopo settant’anni di studi e di gloria, ad agonizzare elemosinando.» Foscolo andava spesso a discorrere col Maestro della miseria de’ tempi nel sobborgo di Porta Orientale, e non aveano che una voce, che un sospiro, e gemevano insieme per l’abbassamento e [23a] l’av|vilimento del paese «Ier sera … io passeggiava con quel vecchio venerando nel sobborgo orientale della città sotto un boschetto di tigli: egli si sosteneva da una parte sul mio braccio, dall’altra sul suo bastone: e talora guardava gli storpj suoi piedi, e poi senza dire parola volgevasi a me, quasi si dolesse della sua infermità, e mi ringraziasse della pazienza con la quale io lo accompagnava. S’assise sopra uno di que’ sedili; ed io con lui: il suo servo ci stava poco discosto. Il Parini è il personaggio più dignitoso e più eloquente ch’io m’abbia mai conosciuto; e d’altronde un profondo, generoso, meditato dolore a chi non dà somma eloquenza? Mi parlò a lungo della patria e fremeva e per le antiche tirannidi e per la nuova licenza. Le lettere prostituite; tutte le passioni languenti e degenerate in una indolente vilissima corruzione; non più la sacra ospitalità, non la 1 Reina, Vita cit., pag. lxii. 2 Reina, Vita cit., pag. xxvi; e lo ripete il Tonti. [Nel testoTonti,] 3 Non più di due mesi e mezzo. 4 Archivio Civico. – Salveraglio, op. cit., p. xlvi. Studi cit., pag. 129. 5 Memoria postuma di Melchiorre Gioja Sull’organizzazione dei teatri nazionali, pubblicata e comentata da Pietro Magistretti, Milano, Pirola. 1878. 6 Cantù, op. cit., pag. 275. «Per nostra mala ventura quelle pagine andarono perdute. Forse l’esagerata paura dell’inquisizione cosacca-austriaca consigliò i parenti e gli amici a bruciare le carte più intime del poeta, la parte forse più viva e più eloquente del suo pensiero.» – Tonti, Studi cit., pag. 132. – Anche questa non è che una vaga supposizione!

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benevolenza, non l’amore filiale – e poi mi tesseva gli annali recenti, e i delitti di tanti uomiciattoli ch’io degnerei di nominare se le loro scelleraggini mostrassero il vigore d’animo non dirò di Silla e di Catilina, ma di quegli animosi masnadieri che affrontano il misfatto quantunque gli vedano presso il patibolo – ma ladroncelli, tremanti, saccenti – più onesto insomma è tacerne. A quelle parole io m’infiammava di sovrumano furore, e sorgeva gridando: Chè non si tenta? morremo? ma frutterà dal nostro sangue il vendicatore. – Egli mi guardò attonito: gli occhi miei in quel dubbio chiarore scintillavano spaventosi, e il mio dimesso e pallido aspetto si rialzò con aria minaccevole: – io taceva, ma si sentiva ancora un fremito rumoreggiare cupamente dentro il mio petto. E ripresi: – Non avremo salute mai? ah se gli uomini si conducessero al fianco la morte non servirebbero sì vilmente. – Il Parini non apria bocca; ma stringendomi al braccio, mi guardava ognor più fisso. Poi mi trasse come accennandomi perch’io tornassi a sedermi: – E pensi tu, proruppe, che s’io discernessi un barlume di libertà, mi perderei, ad onta della mia inferma vecchiaia, in questi vani lamenti? o giovine degno di patria più grata! se non puoi spegnere quel tuo ardore fatale, che non lo volgi ad altre passioni? . . . .» E più innanzi: «Io dopo lunghissimo silenzio esclamai: o Cocceo Nerva! tu almeno sapevi morire incontaminato! Il vecchio mi guardò: – Se tu nè speri nè temi fuori di questo mondo – e mi stringeva la mano, – ma io! [23b] – Alzò gli occhi al Cielo, e quella severa sua fisionomia si raddolciva d’un soave conforto, come s’ei lassù contemplasse tutte le sue speranze».1 Parini più non discerneva barlume di libertà e di bene per il suo paese, e n’era accoratissimo; ma continuava a chiedere all’arte le sue possenti divagazioni, ed attendeva a limare il Giorno e alcune odi. Usciva di rado dai silenzi claustrali di Brera, e pareva opinasse con Michelangelo: Non veder non udir m’è gran ventura; e cercava luoghi spopolati e mesti, la via che fra gli alberi Suburbana verdeggia; oppure col fiero zantioto lento passeggiava e a lungo sedeva sotto i tigli dei pubblici giardini, ove sopravvisse la virtù ispiratrice del suo estro, e il poeta dei sepolcri, riedendo fra quelle piante, ripensò il venerando vecchio e ne trasmise ai più tardi nepoti una immagine imperitura. E Foscolo, quando gli eventi lo cacciarono da Milano, andò a visitare, per l’ultima volta, il Maestro: nel Jacopo Ortis c’è tutta la tristezza solenne di quel congedo, sul quale incombeva presentimento di prossima morte, mentre il giovane discepolo fuggiva una nuova servitù, peggiore dell’antica: «Sono andato a dire addio al Parini. – Addio, mi disse, o giovane sfortunato. Tu porterai da per tutto e sempre con te le tue generose passioni, a cui non potrai soddisfare giammai. Tu sarai sempre infelice. Io non posso consolarti co’ miei consigli, perchè neppure giovano alle mie sventure derivanti dal medesimo fonte. Il freddo dell’età ha intorbidito le mie membra; ma il cuore veglia ancora. Il solo conforto ch’io posso darti è la mia pietà: e tu la porti tutta con te … – Io proruppi in dirottissimo pianto, e lo lasciai: ed egli uscì seguendomi 1 Ultime lettere di Jacopo Ortis.

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con gli occhi mentre io fuggiva per quel lunghissimo corridoio, e intesi che egli tuttavia mi diceva con voce piangente – addio.» Il nembo francese fu sconvolgitore, ma pure valse a purificare l’aria, fugando la grassa nebbia feudale; ma il nembo austro-russo si abbattè sull’Italia per ricondurvi le tenebre barbariche e gesuitiche. Tra i colpiti dai [24a] fu|rori reazionari ci furono degli amici del Poeta; ci fu l’avv. Francesco Reina, colto e sincero amante di libertà.1 Pure i Francesi avevano seminato fra noi tali rancori e odii, che si fe’ plauso ai nuovi venuti; persino si benedisse la spada esotica per l’olivo della pace, su cui l’occhio riposava. Fu inganno anche questo. Sospiroso di pace e di quiete era pure il Parini. «Quando gli Austro-Russi, scrive il Reina, invadendo la Repubblica Cisalpina, sparsero la desolazione fra i seguaci della libertà, il Parini se ne stette tranquillo; fu minacciato, ma non perseguitato.» Un amico gli offeriva al caso un onesto ricovero, ed egli: «Andrò più presto mendicando per ammaestramento de’ posteri, ed infamia di costoro».2 Gli Slavi e Mongoloidi, che formavano il nerbo dell’esercito liberatore, entrarono in Milano il 28 aprile, e nel maggio successivo il Parini sostenne l’operazione della cateratta. Ne rimase illanguidito, e andò a ristorare le forze ad Arluno dall’avv. Marliani.3 Non ebbe alcun vantaggio dall’aria brianzuola. Reduce a Milano nell’agosto, fu ridotto dall’idropisia a triste segno, ma non pareva che la morte fosse imminente. Riceveva gli amici con espansiva giocondezza; ragionava placidamente di poesia e di arte, e nelle ore in cui cessavano le visite, da Francesco Facchetti che gli era più che domestico,4 si faceva leggere quel Plutarco, che soleva chiamare «il più galantuomo degli antichi scrittori.» La politica non era estranea; e come tacerne, dacchè il paese pativa sì fieri rivolgimenti e disinganni? Il prof. Brambilla serbò memoria delle cose udite dal poeta sapiente in quelle ore che oramai gli erano numerate, e seppe più tardi riferirle al Cantù. E il Cantù non permise che andassero perdute; ma in quella adunanza in cui l’Istituto Lombardo deliberò di collocare una lapidetta, per ricordare ai posteri l’abitazione in Brera del poeta, fe’ riudire la voce del Maestro, che segnalava [24b] con angoscia gli errori e supplicava prima di morire migliori destini al suo paese: «Fortunati costoro che ritornano in un momento, quando le esuberanze, cioè le debolezze dei repubblicanti, hanno stomacato le persone serie, irritato le virtuose! Perciò eccoli desiderati, applauditi; e non avrebbero che a tener vivo questo sentimento ed incitarlo; provveder al vero bene d’un popolo, che con falsi beni si sentì ingannato da pochi, e tratto nelle vertigini dall’imitazione e dal gusto dello spettacoloso. «Perchè in quaresima punire dell’essersi mascherato in carnevale? V’è un’atmosfera che tutti respirano, ed è troppa severità il considerare come colpa azioni non immorali. E in queste pure bisogna riflettere come vada intorbidato il senso comune dalla rettorica dei partiti e dall’esempio: e a quanti misfatti spinge il principal movente di questi, la paura. E però anche ai pochi che inganna1 Venne deportato in Ungheria. 2 Reina, Vita cit., p. lxii. 3 «Davasi colà ad ogni maniera di esercizio; e trastullavasi col buon pievano d’Arluno specialmente sui riti superstiziosi di quei tempi nefandi.» Reina, Vita cit., pag. xxviii. 4 Vedi il sermone di Zanoja Il Servo.

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rono, bisogna usare indulgenza, dimenticare i torti ricevuti, acciocchè si dimentichino i torti fatti; tanto più che le tesi e le antitesi della politica son tutte egualmente vere ed egualmente false, come quelle che non hanno in sè la ragione dell’essere, ma secondano la marea sociale, che sempre le avvicenda. Ora i governi periscono per gli eccessi del proprio sistema, e credendosi destinati a tutelare e ripristinar il passato, costoro potrebbero dimenticare che v’ha ruine che il tempo fa, e che nulla più potrebbe ripristinare. «Se avranno senno, la prima cosa negheranno a sè il gusto, agli altri la licenza della riazione, la quale della politica fa maschera alla vendetta o alle ambizioni di chi con subdole suggestioni cerca innalzar sè stesso sulla depressione altrui. Già parmi veder la folla correr alla caccia degli impieghi, degli onori, ogni secondo voler divenire primo, e denigrare e denunziare chi gli sta innanzi, e allegare a titolo di merito la propria inazione, che spesso non derivò se non da inettitudine; e chieder la palma senza avere affrontato il martirio. «Ricordar che alle ingiustizie mal si ripara colle ingiustizie parrà superfluo, giacchè in tal fatto non si pecca per isbaglio. I cospiratori, i migrati, son buoni per agevolar la vittoria, son sempre tristi per organizzarla, e portano a trascendimenti, a personalità. I vincitori d’oggi non vogliono valersi dei ribaldi, perchè n’ebbero servigi, nè perseguitare i buoni [25a] per|chè se li trovarono avversi: sfrattino l’immondo corteggio d’ogni rivoluzione, ed abbraccino il maggior numero; e se i vincitori domandano vendetta, i governanti ricordino che i vinti sono anch’essi cittadini. Anzi il collocarsi coi vinti può indurre riconoscenza, mentre i vincitori non affacceranno che pretensioni. «Di scarsa abilità è la politica che impicca; nè col sangue si termina veruna quistione, nè i partiti si uccidono. Guadagnar essi voglionsi, allettando, non costringendo. Chi perseverasse in azioni sovvertitrici bene sta che sia represso e punito: ma non confondano coi misfatti il pensiero e la coscienza, quand’anche questa fosse erronea; evitino le inquisitorie persecuzioni, che han l’aria di sofisticare i sentimenti anzichè di punirne la manifestazione. Non rendano nemici gli indifferenti collo sparar contro di essi; non s’immaginino che bello spediente di attaccarsi gli uomini sia l’avvilirli. E se non possono amore, ispirino almeno rispetto. «Il malcontento vive di pretesti, ancor più che di ragioni; e quelli bisogna studiarsi di evitare e prevenire. Perciò non buttarsi con alcun partito; farsi centro, non circolo; adoprare l’attività al riordinamento più che alla repressione, e sollecitare il bene, anzichè rimetterlo d’oggi in domani. Il tempo nelle rivoluzioni accelera il passo, e le riforme che lente si introducono in epoche ordinarie, voglionsi a corsa quando tutto il terreno è smosso. Ben è vero che c’è pericolo del pari nel precipitare i cambiamenti, come nel ripudiare ogni novità; ma fra le mille possibilità che agitano gli spiriti è mestieri convincere che si sa quel che si vuole, e che si vuol robustamente l’applicazione delle leggi, pur ricordando che le dottrine non valgono finchè1 in quelle rimangono solitarie. Onde conviene sposare il sentimento istintivo delle moltitudini, e il pensiero meditato dei capi di esse. «Se così non si farà, passeranno da un disordine senza grandezza a un ordine senza dignità. Via quelle opinioni assolute, che hanno il carattere violento della passione e l’instabilità della violenza. Anche i vinti d’oggi ricordino che tutti fummo disgraziati, e di qui ritraggano mutua riverenza e mutuo compatimento. 1 [Nel testo finche]

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«Alcuni si aggavignano a ciò che una volta han creduto o voluto; altri, la prima cosa di cui fan getto nella tempesta sono le proprie convinzioni; segno che erano fiacche, tolte a prestanza dal giornale o dall’amico, anzichè [25b] formate ragionando. Ma per arrivare alla vittoria vuolsi convinzione e buon senso; sperienza e ardore; proposito d’illuminarsi e forza di perseverare. È un codardo chi oggi scompiscia la coccarda di cui fregiavasi jeri; e chi esagerò in un senso, per ammenda obblighi sè stesso a moderarsi nel senso opposto. D’altra parte v’è modo di difendere una causa senza farsene complici. In tempi simili a questi è felice chi può sacrificare all’eco: trarsi in disparte, non questuando dallo Stato nè onori nè profitti, amoroso della libertà ma fedele all’ordine; e sviluppa quel che or tanto si perde, il sentimento della propria indipendenza, il fidar nell’energia personale, anzichè nell’azione del governo; e sente che le circostanze non cambian nulla ai doveri, benchè molto cambino alla condotta. «Ma guaj se si cade nell’apatia di cuore e di spirito! se si mette la felicità, e fors’anche la gloria nell’esser nulla, nel non intricarsi di nulla! guaj se, allorchè1 la casa bruciò, si crede filosofia e fors’anche eroismo il sedersi fra i rottami, atteggiati a dolore e dispetto, o al più rimestando quelle ceneri! Una gente che abbandona la cura de’ proprj interessi, non può [che] andar in una decadenza, della quale si accorga sol quando più non è in tempo di risalir il pendio. «Ma pur troppo io stesso che do pareri, che mi compiacio della preveggenza, sterile soddisfazione degli spiriti accorti, se mi sentissi e forza e gioventù, abuserei come tutti i vincenti, e darei come tutti gli altri la prova, che ogni generazione vuol pagar la sua quota di illusioni, di vittime, di martiri, di delusi».2 Benchè il Parini così amaramente ragionasse, quando gli si fece invito di dettar versi per una Società di Filarmonici, che voleva solennizzare le vittorie austrorusse, non seppe rifiutarvisi.3 Il Reina dice che questa poesia gli fosse imposta;4 ma il Cantù opportunamente soggiunge: «Non credo che il Parini, e colla morte sovrastante, volesse lasciarsi imporre; egli era disgustato delle esuberanze dei venuti su, e aveva esclamato talvolta che doleagli tanto di dover dire che i codini avevano avuto ragione».5 Comunque sia, il [26a] Parini scrisse un sonetto che taluno gli rimprovera, ma pur compiacendo alle opinioni di quella maggioranza che ineggiava il ritorno della metodica e non tumultuosa signoria absburghese, tocca più che altro la religione, da prete, che abborriva l’ateismo e l’empietà; e dà una lezione, non chiesta, e, già s’intende, non ascoltata ai fanatici e prepotenti restauratori: siate giusti! Ma splendan la giustizia e il retto esempio, Tal che Israel non torni a novo pianto, A novella rapina e a nuovo scempio. Che egli abborrisse l’ateismo, è detto dall’arte sua, così ossequiosa al Nume; e, fra le altre sue parole, raccolte dagli amici: «Io mi consolo coll’idea della divinità; nè trovo veruna norma sicura dell’umana giustizia, oltre i timori e le speranze di un altro avvenire».6 1 [Nel testo allorche] 2 Atti dell’Istituto Lombardo, 9 novembre 1865. 3 Salveraglio, op. cit., pag. xlvii. 4 Vita cit., pag. lxii. 5 Atti dell’Istituto Lombardo, pag. 264. 6 Reina, Vita cit., pag. lxii.

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Quel sonetto fu scritto dal Parini la mattina del 15 agosto, l’ultima che egli vide quaggiù. Momenti dopo lo dettò al prof. Brambilla, e se ne mostrò pago; finitolo, disse: «Vi ho posto un buon ricordo per costoro».1 Vennero i medici. L’uno diceva: «Bisogna dar tono alla fibra»; un altro: «Bisogna scemar tono alla fibra»; ond’egli: «Dunque a ogni modo volete farmi morire in musica!».2 E sentendosi un vivo fuoco correre per le spalle, aggiunse: «Altre volte si sarebbe creduto un folletto; or al folletto e al diavolo non si crede più . . . . E nè a Dio tampoco . . . . Ma il Parini vi crede».3 Pur ora il medico Locatelli, richiesto da lui sull’andamento della malattia, aveva detto non presente, ma vicino il pericolo; ma a tali parole non si era mostrato menomamente turbato. Scioltasi la conversazione alle due dopo il meriggio, il Poeta potè passeggiare francamente per le camere, mentre da alcun tempo gli occorreva aiuto; e, affacciatosi ad una finestra, vide meglio che mai dall’occhio testè operato; ne mostrò piacere col fidato domestico. Attese ad alcune faccenduole, ma fu preso da stanchezza, ed era foriera della morte; appena compostosi sul letto «abbandonò la terra colla calma d’uomo che a sera si [26b] tran|quilla col pensiero di una buona giornata».4 Privatissimi furono i funerali di lui, per lutto de’ tempi e per ultima sua volontà così espressa: «voglio, ordino e comando che le spese pubbliche mi sieno fatte nel più semplice e mero necessario, ed all’uso che si costuma per il più infimo de’ cittadini».5 I suoi manoscritti furono venduti al Reina, che ne fece l’uso migliore, per duemila e duecento lire dai parenti, che, nella loro semplicità, domandavano se vi si trovassero forse carte di valore.6 E le onoranze commemorative furono sul principio scarse, e non per pubblico voto, sibbene per privata iniziativa; non più di una lapidetta, con iscrizione di Calimero Cattaneo, venne posta nel luogo di sua sepoltura, nel cimitero di Porta Comasina. Nel 1801 l’astronomo Oriani chiese al governo di collocare, a spese di un cittadino che desiderava di restare incognito, il busto scolpito da Giuseppe Franchi, che il Poeta aveva tenuto nel suo studio dal 1791 in poi, aggiungendovi analoga iscrizione.7 Il busto venne messo in una nicchia del portico inferiore del palazzo di Brera.8 Il cittadino incognito è lo stesso Oriani. Foscolo, per conformità al soggetto, risguardante il vantaggio delle tombe distinte per gli uomini segnalati e la vergogna e il danno delle tombe promiscue, dipinse sinistramente la negletta sepoltura del Parini. Non si può [27a] negare 1 Reina, Vita cit., pag. lxiii. 2 Cantù, op. cit., pag. 268. 3 Reina, Vita cit., pag. lxiii. – Cantù, id. 4 Cantù, op. cit., pag. 269. – De Castro, Milano e la Repubblica Cisalpina, ecc., pag. 269. 5 Reina, Vita cit.; il Salveraglio pubblica i brani più notevoli del testamento, op. cit., pag. l e segg. 6 Cantù, op. cit., pag. 275. – È singolare, dice l’Ugoni, la stranezza dei pregiudizj che il volgo si forma intorno al merito dei letterati. Un uomo di bassa condizione interrogato a Milano se avesse conosciuto il Parini rispose: Chi? l’abate? Se l’ho conosciuto! quello era un uomo! giocava benissimo al tarocco. – Vita cit. 7 È composta, letteralmente, delle parole colle quali Orazio, lib. i, sat. iv, v. 43, 44, designa il vero poeta: «josephus · parinius/cui · erat · ingenium/mens · divinior/atque · os · magna · sonaturum/obiit/xvi · kal · sept · a · mdccic». 8 «Vicino all’aula dove il Parini faceva scuola» dice il Salveraglio, op. cit., pag. liii.

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che la salma del Poeta venisse inumata nella fossa comune, fra plebei tumuli; ed era anche possibile che le sue ossa andassero confuse con quelle de’ ladri e degli assassini, non però con quelle de’ giustiziati, i quali venivano sepolti in luogo speciale, per cura della Compagnia di San Giovanni Decollato.1 E però Foscolo dice il vero, od almeno il verosimile, tranne questo particolare dei giustiziati; ma non si rimproveri l’esagerazione all’autore dei Sepolcri; l’animo e il tema e i freschi ricordi milanesi e l’alto compianto per il cantore, che egli venerava quale sacerdote dell’arte più perfetta, giustificano abbastanza la concitazione con cui Foscolo dirigeva quel fiero rimprovero ad una parte della cittadinanza milanese.2 Gentile onoranza sovra tutte fu quella ideata dall’avvocato Rocco Marliani nella sua villa presso Erba, detta Amalia, dal nome della consorte; collocò l’effigie del Poeta in un tempietto, e nella lapidetta fece incidere i noti versi: Qui ferma il passo, e attonito Udrai del tuo cantore Le commosse reliquie Sotto la terra argute sibilar. E fu il busto brianteo cagione di onoranza anche maggiore, quella funebre melode che è fra le più sentite cose del Monti: I placidi cercai poggi felici, Che con dolce pendìo cingon le liete Dell’Eupili lagune irrigatrici; E nel vederli mi sclamai: Salvete Piagge dilette al ciel, che al mio Parini Foste cortesi di vostr’ombre quete, Quand’ei fabbro di numeri divini L’acre bile fe dolce e la vestia Di Tebani concenti e venosini, [27b]

Parea de’ carmi tuoi la melodia Per quell’aura ancor viva, e l’aure e l’onde E le selve eran tutte un’armonia. Parean d’intorno i fior, l’erbe e le fronde Animarsi, e iterarmi in suon pietoso: Il cantor nostro ov’è? chi lo nasconde? Ed ecco in mezzo di recinto ombroso Sculto un sasso funebre che dicea: Ai sacri Mani di Parin riposo.

1 Questo punto è esaurito dall’Antona Traversi, Studi su Ugo Foscolo, Milano, Brigola, pag. 209 e segg. 2 «Io del Parini ho spesso esagerato anche i meriti. L’atrocissimo abborrimento e le calunnie codarde, e poi le persecuzioni apertissime di molti patrizi milanesi – e ne dicevano anche il perchè – a che mi vennero? Da ciò solo: correvano medaglie battute al Marchesi, cantante eunuco loro concittadino, ed io rinfacciava ad essi che lasciassero le ossa del loro concittadino Parini giacenti per avventura presso a’ ladroni mandati in uno de’ cimiteri plebei dal carnefice.» – Foscolo, Lettera apologetica, nelle Prose politiche, pag. 529.

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Da privato l’avv. Francesco Reina fece più di ogni altro: raccolse in sei volumi le opere del venerato maestro, e ne dettò la vita, con abbondanza di particolari e d’affetto: e piace vedere fra i nomi dei soscrittori Vittorio Alfieri, Vincenzo Monti, Ugo Foscolo, Alessandro Manzoni.1 Vero è, che il Reina ammise nella raccolta scritti che era meglio giacessero in obblio; ed è anche vero che attribuì al Parini delle poesie, che è provato ora essere di altri:2 ma fece, ad ogni modo, opera da letterato e da amico. E non meno da lodare è il poeta Giuseppe Bernardoni, che mandò fuori nel 1814 le Poesie scelte del suo duce e maestro, nel 1841 Versi inediti o rari, e gli fe’ omaggio nel 1848 di un carme: devozione semisecolare verso un poeta, che ben n’era meritevole. Il Monti introduce Parini nella Mascheroniana a svelare le turpitudini e i brogli della Prima Cisalpina: e lo fa parlare, come è fama ragionasse col Verri, presente un signor Villa, che riferì quel discorso al Monti stesso,3 il quale ebbe la disavventura di non accostare il Parini: eppure lo onorò tanto!4 Il principe Emilio Belgiojoso ordinò, nel 1826, che la casetta attigua al suo palazzo venisse, [28a] con disegno dell’architetto D. Gioachimo Crivelli, dedicata al Parini coll’apporvi sulla facciata il di lui ritratto a rilievo, scolpito in marmo, fiancheggiato da due Fame in pietra arenaria, che sostengono le mensole del balcone: ciò fece, e come ammiratore dell’immortale poeta, ed anche per togliere quelle dicerie sparse in Milano che il principe Alberico, suo padre, tenendosi offeso personalmente dalla satira del Mattino, avesse fatto minacciare il Parini, che se voleva bene alla propria vita, si guardasse dal dar alle stampe il Meriggio, altrimenti non vedrebbe la sera.5 Leopardi, nel dialogo Il Parini ovvero della Gloria, mette in bocca al Parini pensieri, che, senza svogliare dalla gloria, ne additano i travagli: ragionamento che non disdice all’animo del supposto interlocutore, tranne il pessimismo, tutto leopardiano. Nel 1827, alcuni egregi cittadini, zelanti del patrio onore, mandarono fuori un manifesto d’associazione per onorare di monumento Beccaria e Parini: «Le private onorificenze dall’egregio marchese Giulio Beccaria consacrate al culto della memoria paterna, ed il busto che il cavaliere Oriani dedicò sotto i portici di Brera al nome del suo amico Parini, non possono sdebitare questa città di quel solenne tributo che le spetta di porgere con pubblica testimonianza d’onore al

1 Manzoni soleva dire: «più leggo Parini e più mi cresce sotto mano.» Ne fa ricordo nell’ode all’Imbonati. – Avanti al Parini, ed. Reina, Manzoni trascrisse queste parole di Pindaro: «Il canto vive più lungo dei fatti, il canto che, propizie le muse, la lingua tragga da una mente profonda». Così, con parole altrui, Manzoni esprimeva la grande stima che egli nutriva per il cantore del Giorno. – Vedi Manzoni, Op. inedite o rare, Milano, 1885, II, pag. xiv. 2 Fra le altre, l’ode La forza d’amore è di Raffaele Arauco. Venne pure falsamente attribuito, per alcun tempo al Parini, il sermone dello Zanoja Sulle pie disposizioni testamentarie. – Vedi in proposito le postille del Bossi ai sermoni di Zanoja, Milano, Mussi, 1809, e Bernardoni, Per Giuseppe Parini, ecc., Milano, 1848, pag. 48 e 83. 3 Cantù, op. cit., pag. 276. 4 Anche nelle Lezioni d’eloquenza e nella Proposta. 5 Dell’Acqua, cit. memoria negli Atti dell’Istituto Lombardo.

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più profondo, al più filantropo, al più benemerito de’ suoi pensatori, al più dignitoso, al più sublime, al più filosofico de’ suoi poeti».1 Solo nove anni dopo venne sciolto il debito, e, per quel che riguarda Parini, il suo monumento, lavoro del ravennate Monti, venne innalzato in Brera. Il 25 ottobre del 1847 si volle associato il suo nome ai prodromi del risorgimento, ponendo a Bosisio un’iscrizione, dettata dal Mauri, sulla sua nativa casetta: occasione, questa, di patriottico convegno e di carmi inaugurativi.2 Queste le onoranze marmoree: delle moltiplicate edizioni de’ suoi versi discorre la bibliografia;3 solo alle principali lodi [28b] tribu|tategli non basterebbe un volume:4 il Botta ha detto così robustamente di lui, che meglio non si saprebbe; e ne giudichi il lettore: «Parini fu il primo a ritrarre la trascorsa letteratura italiana verso il suo principio, ed a ritrarla, nel tenero al far petrarchesco, nel forte al dantesco; ma qui veramente ancor per la natura sua sapeva [più] di Dante che di Petrarca. Sublimi e retti pensieri avea, sublime e pura lingua usava, un terribile staffile maneggiava. La toaletta, e i sofà, e i ventagli, e i letticciuoli morbidi rammentava, non per lodarli, ma per fulminarli. Grande e robusto uomo fu costui, nella satira il primo, nella lirica ancora il primo. Ti fa vedere che senza le nebbie caledoniche, che senza le smancerie galliche, e consistendo nella vera lingua e nel vero stile italiano, si potevano creare opere in cui colla purità si trovava congiunta l’energia. Più che poeta, più che sacerdote d’Apolline, fu maestro di virtù, ed i molli costumi ad una virile robustezza ridusse, l’eunuca età a più maschio spirito eresse. Tanto potenti furono i suoi detti, tanto potenti i suoi scritti! Precursore di libertà fu, ma predicando andò una libertà corretta, la quale maggior forza d’animo [29a] ri|chiede certamente ancora in chi la dà o la riceve che la corretta. «Forse, chi sa, un giorno verrà quando gli Italiani avran dimesso il mestiere di voler far i pedissegui degli stranieri così in letteratura che in politica, in cui maggiormente il suo esempio ed i suoi altissimi versi frutteranno. Eglino intanto debbono aver cara ed onorata [29b] sempre la memoria del Parini, di quel Parini che dal lezzo li sollevò, e dalle insipide erbe purgò il sentiero che mena all’eletto monte, ove la virtù e le divine suore albergano. Parini, poscia Alfieri, spensero la letteratura delle inezie».5 1 Biblioteca Italiana, 1827, pag. 315 e segg. 2 Nel nostro Museo del Risorgimento havvi una lettera manoscritta del poeta Arnaboldi, che descrive per minuto quella festa di così alto e simpatico significato. 3 Giuseppe Bernardoni, nelle note al carme in [28b] onore del Poeta (Milano, Bernardoni, 1848), Tonti, cit. Studj, in calce, e Salveraglio, op. cit., pag. Lv e segg. 4 Benchè poeta essenzialmente locale, la sua gloria andò all’estero; ebbe traduttori in Francia, Desprades, nel 1776, Reymond, nel 1827; e più recentemente un Dumas si applicò a studiarlo (Parini, sa vie, ses ceuvres, son temps, Parigi, 1878); e la traduzione tedesca di alcuni brani del Mattino comparve a Vienna, sono molti anni, nella Rivista Ginnasiale del Bolza. Il Platen, raffrontandolo ai vati maggiori, gli porge una lode in ogni sua parte compiuta ne’ versi che trascrivo; e il raffronto fu trovato sì opportuno che in Germania si suol chiamare Parini il Dante lombardo: «L’alto Allighier antichi anni ritrasse/D’Italia; e vago, amabile,/Di Ferrara il cantor le età più basse.//Tu dipingi, o Parini, Italia nuova;/Quanto scaduta, il mordere/Di tua squisita irrisïon n’è prova.//Pur l’esser figlio a secol sì leggiero/Lode a te fia, non biasimo;/Splendesti de’ tuoi dì vate più vero». Il novelliere Heyse (Berlino, 1889) ne traduce alcune odi e il Dialogo sulla nobiltà, non che la vita che ne scrisse il Giusti. 5 Storia d’Italia, ecc., lib. l al fine.

VINCENZO BORTOLOTTI

G IU SEPP E PA R IN I V I TA , O P E RE E T E M PI C ON DOCUMENTI I N EDI TI E R A R I

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ALLA CAR A MEMOR I A DEL MI O D I LETT I SS I MO

MA N L I O R AP I TOMI A X ANN I NEL D Ì XI AGOSTO MDC C C XC VI I I N MI LAN O.

PRO PRIET À LET T ERARIA

L’Editore, avendo adempiuto a tutti i doveri, si riserva tutti i diritti per la proprietà letteraria.

Milano – Tip. Giussani e Manzoni, Via S. Simpliciano, 5.

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P RE FA Z I O N E .

L a vita del Parini non fu presentata sino ad oggi completa e scevra da errori. Certo si è tenuto conto, con qualche riguardo alla storia, delle condizioni d’ambiente e delle relazioni corse fra il Parini e il Governo locale, ma qualche cosa fu tralasciata, e qualche altra non fu detta con esattezza. Questo motivo mi condusse negli archivi e nelle biblioteche a rifare la vita del Poeta, e a tessere la storia degli avvenimenti che ebbero con lui relazione. In questo modo spiegai la tendenza artistica del Parini, che si svolgeva nell’unisono coi pochi intellettuali del suo tempo, e così spiegai l’origine e il senso recondito dei migliori suoi lavori, sovra basi storiche e documentate. S’indovina facilmente ch’io, tutto sollecito della ricerca del vero, abbia scoperto documenti che mettono in luce molte cose nuove, ed ingigantiscono la figura del Parini poeta, professore, municipalista e cittadino. Confesso che anch’io potrei essere incorso in qualche inesattezza, seguendo dei brani storici già pubblicati, a malgrado tutte le cure per evitarla. Ma intorno alle cose inedite la cura fu tale, che la coscienza a questo riguardo mi lascia pienamente tranquillo, tanto più che nel riassumere manoscritti ufficiali usai, in omaggio alla verità, parole e frasi in quelli contenute, sebbene non risciaquate nell’Arno. Molti documenti inediti e rari fanno parte della narrazione, e parecchi si pubblicano in appendice, a maggior comodo dei lettori, insieme con alcune odi, nella spiegazione delle quali mi scostai da quanti mi precedettero. E qui termino ringraziando tutti quelli che mi coadiuvarono in questo lavoro, compreso il signor Editore che lo apprezzò, e non tralasciò spesa, affinchè l’edizione riuscisse degna del soggetto. Vincenzo Bortolotti.

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[1]

I.

Nascita e famiglia del Parini – Sua educazione – Anna Maria Parina e suo testamento – Il Parini sacerdote povero – Primi versi – Occupazioni ed accademie – Sue relazioni coi Serbelloni – Cause del suo indirizzo artistico – «La Vita rustica» – Il IX canto della Colombiade – «La Salubrità dell’aria» – Il Beccaria e l’igiene degli agricoltori.

A ntonio Maria Giuseppe Gaetano, figlio di Francesco Maria Parino e di Angela Caspana (non Carpana o Carpani, come erroneamente è stato pubblicato più volte), nacque a Bosisio il 23 maggio 1729, e fu battezzato il giorno stesso da quel curato, Don Carlo Giuseppe Cabiati. Bosisio, tutti ormai lo conoscono, è quell’ameno villaggio della Brianza, che si specchia nel lago di Pusiano, dal poeta salutato coi versi: Oh beato terreno Del vago Eupili mio,

pieno d’aria, di luce e di splendore. Il nostro Giuseppe nacque ultimo; il primo fu Giulio, che morì giovane; la seconda Caterina, maritata in un Corneo di Monastirolo; la terza Laura, maritata in un Appiani di Bosisio. Il padre, nato pure in Bosisio nel 1690, facea il negoziante di seta; sua madre attendea alla casa ed avea un fratello prete, [2] don Francesco Caspano, morto nel 1767, il quale lasciava circa settemila lire, che poi toccavano al nostro poeta.1 Francesco Parino non era ricco; possedeva a Bosisio due case che valevano circa cinquemila lire, e dovea supplire al mantenimento della famiglia coi magri guadagni che gli procurava il commercio della seta. Il nostro giovinetto, d’ingegno vivacissimo, apprendeva il leggere e lo scrivere dal curato del luogo. Forse dietro i consigli dello zio don Francesco Caspano e della prozia Anna Maria Parina, vedova Latuada, che abitava in Milano sotto la parrocchia di S. Nazaro Maggiore, egli venne dal padre condotto in questa città e collocato a studiare nel Ginnasio Arcimboldi, ora R. Liceo Beccaria, dove conobbe la prima volta il suo condiscepolo conte Pietro Verri. Nel Ginnasio Arcimboldi insegnavano allora i padri Barnabiti, e siccome i metodi d’insegnamento erano ben lontani dalla perfezione, così anche gl’ingegni più svegliati imparavano assai poco, e il nostro poeta dovette a sè medesimo se apprese qualche cosa di più degli altri. Il 16 marzo 1739 la prozia faceva testamento, che oggi ancora si conserva nell’Archivio Notarile di Milano, in Atti del notaio Marc’Antonio Monza, e al pronipote, già chierico, fra le altre cose, lasciava i mobili per arredarsi un alloggio. Quando poi egli fosse ordinato sacerdote avrebbe avuto il diritto di godere il beneficio della cappellania laica, che la prozia istituiva col predetto testamento nella chiesa di S. Antonio dei padri Teatini. Questa cappellania [3] consisteva in una messa quotidiana, alla quale andava unito un capitale, livellato sopra beni in Renate, di annue milanesi lire 224. 1 Ciò è affermato dal Salveraglio nel suo volume: Le Odi dell’Abate Giuseppe Parini.

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Oltre a questo, il nostro chierico otteneva un’altra rendita annua di lire 104 d’un legato di Ginevra de’ Nobili, maritata Appiani, per la celebrazione di due messe settimanali in Bosisio. Nel febbraio 1751 Francesco e Giuseppe Parino, con istanza rivolta a Sua Eccellenza il ministro plenipotenziario, e da questo mandata il giorno 20 al Giudice del Cavallo, domandavano che Antonio Riccola, esecutore testamentario della defunta Anna Maria Parina, rendesse i conti, poichè ad essi richiedenti premeva avere il quantitativo della sostanza, onde «il chierico, che è in istato di promuoversi al sacerdozio, possa farsi una rendita bastevole per esser ordinato sacerdote».1 Questa ordinazione avvenne il 14 giugno 1754. Anche in quel tempo le condizioni economiche del Parini non erano floride, ed è nota la sua domanda alla Curia Arcivescovile, perchè gli fosse risparmiata la spesa della visita del vicario foraneo ai beni che possedeva in Bosisio, domanda che venivagli respinta. Nel 1752 il nostro poeta pubblicava un volumetto di poesie a mezzo dello stampatore Bianchi di Milano, mentre il libro portava la data di Londra, presso Giacomo Tomson, e così le accademie gli aprivano le porte. Quella de’ Trasformati fu la prima, nella quale entrò in relazione con i letterati del tempo; quella degli Ipocondriaci di Reggio fu la seconda; la Colonia Insubre dell’Arcadia la terza. [4] Il divertimento, la distrazione ed anche un po’ la vanità, avevano dato forma e splendore a queste accademie, dalle quali gli animosi, esercitatisi nelle lotte letterarie, uscivano poi a dar battaglie campali in prosa ed in versi, come, quasi senza volerlo e senza farne mostra, toccava al medesimo Parini. Egli avea sortito da natura, oltre l’ingegno straordinariamente poetico, probità, fermezza, mente lucida e serena, e la coscienza che si ribellava a tutto ciò che offendeva la moralità e la giustizia. Questa fu la chiave che disserrò tutto il suo armadio filosofico e satirico, dal quale si sprigionarono, contorti nell’impeto dell’ira, piani e distesi nella serenità del riposo, leggiadri e smaglianti nel pungente sorriso, que’ versi che, fulminando usi e costumi del passato, sconfissero tutto il convenzionalismo del settecento e sgombrarono la via ai giovani che anelavano altissimi ideali. Egli ebbe onorevole ricovero nelle splendide case de’ Serbelloni, e fu anche educatore del figlio del conte Serbelloni, fratello del duca, il quale, come ci ricorda il Dell’Acqua, abitava la casa dello stesso nome in Corsia de’ Servi, all’altezza della Galleria De Cristoforis. Quantunque l’abbiano molti ripetuto, non risulta che fosse precettore in casa Borromeo, e di ciò abbiamo l’assicurazione verbale del conte Carlo e del conte Renato, come ci affida il cav. Biancardi con una nota manoscritta in margine dell’opuscolo del Dell’Acqua. In essa il Biancardi soggiunge che il Reina, primo biografo del Parini, ricordando i Borromeo, deve aver alluso alla famiglia D’Adda, parente di questi, essendo stato il nostro poeta precettore di don Febo D’Adda.2 [5] In causa di queste relazioni egli passava più d’una sera e qualche ora del giorno o presso una famiglia patrizia, o presso un’altra, e seguivale anche in campagna, sbarcando alla meglio il lunario. Come avremo occasione di raffermarlo più innanzi, era fornito d’un discreto stoicismo e, in mezzo a tanti insulti 1 Non si è trovato nell’Archivio di Stato il mazzo di carte del Giudice del Cavallo, che dovrebbe contenere l’istanza, ricordata dal defunto archivista Cossali. 2 Vedi opuscolo: Dell’Acqua Sac. Luigi, Sull’abitazione in Milano di Giuseppe Parini, ecc.

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alla miseria e allo sperpero di grosse somme al giuoco, egli, sprezzatore del fasto immorale, sapea conservare quel certo sangue freddo, tanto necessario nello studio del vizio. Più d’una volta avrà pensato che al povero desco de’ suoi genitori mancava quasi il necessario; più d’una volta avrà visto gittare a manate il denaro dietro alla moda e a capricciose dame; e più d’una volta avrà provato la stizza, il dispetto e la nausea del veleno, che dallo stomaco salivagli alla bocca. In vece di togliersi da quello spettacolo, preferiva seguirlo e, aguzzando lo sguardo nel bersaglio preso di mira, lanciavagli contro il suo verso fra gli applausi universali. Questa però non fu l’unica cagione che mosse la sua musa per nuovissime vie, ma un’altra vi si aggiunse d’indole affatto storica, che dimostra l’indirizzo del poeta nel primo periodo della sua vita. Tutti sanno che l’Italia sotto la dominazione spagnola discese sino all’ultimo gradino delle nazioni civili. La Spagna considerava le provincie italiane terre da spogliare, e il ducato di Milano una preda dei governatori, i quali taglieggiavano le popolazioni, infischiandosi della moralità e della giustizia. La rapacità fiscale elevata a sistema di governo, l’arbitrio anteposto alla legge, la superstizione alla religione ed alla scienza, spento ogni principio di onestà e di rettitudine, era logico e naturale che la più bella ed ubertosa terra italiana diventasse una contrada [6] povera ed incolta, schiava della tirannia militare, della malvagità dei castellani, della crudeltà dei giudici e dell’ignoranza di tutti. Subentrato nel principio del secolo xviii al dominio spagnolo il governo austriaco, il paese, dopo qualche tempo, parve rivivere. Gli animi si rinfrancavano e guardavano con fiducia nell’avvenire, non temevano più i potenti soverchiatori, e la grossa parte del pubblico cominciava a respirare a larghi polmoni un’aria più sana. Però due secoli di dominazione spagnola non si cancellano così facilmente; certe impronte caratteristiche rimangono; tanto è vero che l’alterezza spagnola della classe privilegiata non è ancora del tutto scomparsa. Così d’un tratto non potevano certe idee dileguarsi; il vecchio tempo ritornava alla memoria dei maggiorenti che avevano perduto la facoltà di spadroneggiare; e l’ira, la stizza ed anche il dolore della spenta autorità di abusare delle leggi, facevano a cotali persone odiare qualsiasi novità. In simile condizione si trovava quasi tutta la classe del patriziato milanese, che nel giuoco, nei divertimenti e nel cicisbeismo riponeva la sua felicità. Il Parini non nobile e ricco, cresciuto in un’epoca nella quale poteva apprezzare il governo provvido e saggio dell’imperatrice Maria Teresa e biasimare il passato, la pensava assai diversamente, e con lui si trovavano d’accordo altre persone, alcune delle quali appartenevano allo stesso patriziato. I compagni del Parini, che si posson dire anche emuli suoi, non erano numerosi, ma valenti e costituivano un’eletta schiera, sufficiente ad imprimere un segno indelebile di vero progresso nella seconda metà del settecento. Fra i più noti si contavano Pietro Verri, Cesare Beccaria, Paolo Frisi e Alfonso Longo, i quali tutti erano [7] animati dalla nobile emulazione del bene, quantunque si trovassero circondati dalla folla dei boriosi e degl’ignavi. Questa folla costituiva anche sotto l’impero di Maria Teresa la parte più grossa della classe dirigente, e quantunque fra quella si trovassero persone valorose, amorevoli, pie e non prive d’ingegno e dottrina, queste tuttavia, a cagione del loro attaccamento alle vecchie idee, non facevano progredire d’un palmo il benessere della società, e combattevano in vece le aspirazioni delle nuove intelligenze.

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Tutto questo dispiaceva in sommo grado al governo imperiale che, per mezzo del cancelliere principe Kaunitz, a Vienna, e del ministro plenipotenziario conte Firmian, a Milano, cercava tutti i modi di svegliare dal sonno l’addormentata Lombardia austriaca, imprimendole quel moto regolare e progressivo di benessere, che avea fatto tanto cammino in altre provincie dell’impero. Affinchè in Lombardia questo moto potesse sortire benefici effetti, dovea cominciar lentamente, per non urtare di soverchio nei vecchi pregiudizî; ed il governo, a questo fine, dovea giovarsi in giusta misura delle nuove intelligenze, affinchè lo aiutassero a condurre il paese fuori dalle miserie in cui avevalo abbandonato la Spagna. Così si maturarono le grandi riforme delle Scuole Palatine e dell’Università di Pavia; così si migliorò l’amministrazione; così s’incoraggiarono le industrie, i commerci e l’agricoltura; così si abolirono inutili corporazioni religiose; così furono tolte alla potestà ecclesiastica molte attribuzioni civili; e così finalmente il sentimento della moralità e della giustizia trovò il suo corollario nella soppressione dell’Inquisizione e nelle riforme dei codici. Le nuove intelligenze, cioè il Parini e i suoi [8] compagni od emuli, avevano accolto nel loro cervello, simile ad un terreno fertilissimo, l’insieme di moralità e di giustizia che era già scaturito dalle opere dei filosofi e degli enciclopedisti francesi, lo avevano sceverato, disciplinato, maturato nel loro pensiero, e poscia tradotto nelle loro produzioni letterarie e scientifiche. Questa è la principale cagione che mosse la musa pariniana alla conquista dei nuovi allori, spinse il genio del Beccaria a strappare alla tortura ed al patibolo tanta gente più infelice che colpevole, e il genio del Verri a rompere le pastoie della finanza. Come si vedrà più innanzi, tutto ciò è verità storica confermataci dai pochi documenti che dei tempi di Maria Teresa ancor ci rimangono, e non pare inverosimile il credere, che il Parini ed i suoi compagni trovassero per ciò molti ed accaniti oppositori. Le nuove idee dei filosofi e degli enciclopedisti francesi, malgrado le divisioni di classe, avevano inoculato nei nostri intellettuali l’amore universale, il progresso delle umane discipline e l’emancipazione degl’individui dai pregiudizî religiosi e sociali. E quasi a compimento del biblico adagio deposuit potentes de sede et exaltavit humiles, i nuovi tempi si schiudevano a glorificare l’umile condizione del coltivatore della terra, attaccavano coll’ironia e col sarcasmo la boriosa ignavia dei grossi possidenti, assalivano gli antiquati diritti delle primogeniture e dei fidecommessi, lottavano contro la censura ecclesiastica e civile, ed alle crudeltà dei giudizî penali anteponevano il sentimento umanitario il quale, più che a punire, insegna a correggere i colpevoli. Infiammato da questi nobili ideali, il Parini scriveva le odi: La Vita rustica, La Salubrità dell’aria, L’Impostura, Il Bisogno, la sua più bella satira Il [9] Giorno, e tanti altri componimenti che lo rendevano immortale. Questi medesimi sentimenti erano professati anche dal Beccaria, il quale promoveva una rivoluzione nel diritto penale, chiamava il diritto di proprietà terribile, forse non necessario, perorava il miglioramento economico dell’operaio dei campi, biasimava la indolenza del grosso possidente e procurava i miglioramenti dell’industrie e dei commerci. Insieme con questi due, animati dai medesimi sentimenti, procedevano Pietro Verri, Paolo Frisi, Alfonso Longo e parecchi altri, come ci è testimonio il giornale Il Caffè; e lo stesso ministro plenipotenziario, conte di Firmian, e il cancelliere dell’impero, principe di Kaunitz, approvavano ed accordavano al Parini ed a’ suoi emuli e compagni onorifici impieghi.

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In mezzo a sì lieta evoluzione del pensiero, sorgeva spontanea nel Parini l’ode Su la Libertà campestre (La Vita rustica), pubblicata nel 1758, scritta però qualche tempo prima, che gli apriva il cammino a diventar il vero poeta civile. L’argomento scelto dinota la semplicità dell’animo suo, lo spirito nuovo, l’orrore del vizio e delle passioni. Alla quiete ed alla libertà della vita campestre contrappone la inquietudine e la oppressione del ricco. I versi: Me non nato a percotere Le dure illustri porte Nudo accorrà, ma libero Il regno della morte,

mentre ci attestano la gioventù del poeta, contrastano un poco con l’età matura, nella quale picchiò più d’una volta alle illustri porte, com’egli d’altronde ricorda nell’ode La Caduta: Quando poi d’età carco Il bisogno lo stringe, Chiede opportuno e parco Con fronte liberal che l’alma pinge.

[10] In questa ode incominciamo a intravedere nel poeta il sommo filosofo che discende col villano a ragionar di agronomia, secondo le nuove idee, che la sua mente illuminata allora presentiva, più di quello che sentiamo noi medesimi dopo un secolo e mezzo di cammino, come si avrà occasione di dimostrare più innanzi. Nell’anno medesimo 1758 madama du Boccage, autrice del poema La Colombiade, giungeva da Parigi a Milano, assai festeggiata dagli accademici de’ Trasformati, i quali, per offrirle un tributo della loro stima, tradussero in versi sciolti i dieci canti del poema francese. Pietro Verri, col nome arcadico di Midonte Priamideo, tradusse il I canto; l’abate Pier Domenico Soresi, il II; don Francesco Fogliazzi, il III; don Giuseppe Casati, il IV; don Francesco Tommaso Manfredi, il V; il conte Nicolò Visconti, il VI; Giuseppe Pozzi, il VII; Giulio Piombanti, l’VIII; il Parini e il padre barnabita, Francesco Antonio Mainoni, il IX; il conte Giorgio Giulini, il X; e il padre Frisi scrisse la prefazione. Ecco un saggio della traduzione del Parini, la preghiera di Colombo: Dunque vuoi tu, Signor, ch’io l’Angiol sia Sterminator, che per punir la terra, Entro all’Assirio campo armato venne De la folgore tua? non basta forse Paventarne il furor, che ancor sia d’uopo A la nostr’arte d’emularne i colpi Per distrur tante genti, a quante vita Diè il tuo poter? se le tue leggi sante Loro aperte non son, tu lor le scopri. Muta la sete lor di sangue amica In amor de la pace. Il tuo gran nome Fa che s’annunci in questi liti; e fama Segual de le tue grazie, e chiaro il renda.

[11] La traduzione di questo poema, per motivi che non si conoscono, venne stampata in Milano, da Giuseppe Marelli, dopo ben tredici anni, cioè nel 1771.

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Nel 1759 scriveva il Parini l’ode La Salubrità dell’aria, argomento che ci rivela il progresso della mente del poeta verso l’ideale accarezzato. Dopo di aver decantato la purezza dell’aria che spira dai colli che circondano l’Eupili suo, ricchi di sole, d’erbe e di piante, esclama: Pera colui che primo A le triste oziose Acque e al fetido limo La mia cittade espose; E per lucro ebbe a vile La salute civile.

Anche questa imprecazione giustissima faceva allora parte del patrimonio filosofico dei tempi nuovi e corrispondeva al sentimento umanitario di pochi eletti ingegni, ai quali strappava amare riflessioni sull’ingorde brame del ricco agricoltore, che coltivava a marcite ed a risaia il terreno, fin sulle porte di Milano. Sorprende la verità dei versi: E la comun salute Sacrificossi al pasto D’ambizïose mute; Che poi con crudo fasto Calchin per l’ampie strade Il popolo che cade.

Che in que’ tempi i cavalli attaccati alle carrozze dei ricchi venissero spinti a corsa sfrenata, sino a calpestare la gente che sorprendevano sulla via, è semplice storia. Qui però non alludeva il poeta solamente a questo fatto, ma guardava più in là, e additandoci il popolo che cadeva estenuato dalle [12] febbri malariche, ricordava che la salute pubblica veniva sacrificata al pasto dei cavalli dei ricchi. E senza accennarla facea toccar con mano la strana anomalìa di certo indirizzo economico, seguendo il quale, si sprecavano, per mero lusso e divertimento, dietro ai cavalli, somme favolose, in vece di spenderle nel miglioramento della razza umana che, in Italia, avea allora tanto bisogno di essere rigenerata economicamente e moralmente. Per comprendere con maggiore agevolezza i sentimenti che allora animavano il poeta, è mestieri ricordare come sullo stesso argomento la pensavano gli uomini non pregiudicati dalla spagnolesca tradizione del tempo, tra i quali il Beccaria. In un manoscritto di lezioni di economia politica di questo insigne personaggio, leggesi una lunga dissertazione sulle condizioni igieniche dell’operaio dei campi, che fa il paio col pensiero del Parini, a proposito dei languenti cultori del riso. Il Beccaria, dove parla degli agricoltori, dimostra che si avea poca cura della sanità di quella classe laboriosa, sia per la natura dei cibi, dell’alloggio e del vestito, come per il frequente abbandono dei soccorsi più necessarî nelle malattie. Un pane ruvido e nero, un rancido e putrido grassume per condimento, l’acqua sovente torbida e limosa, alcune gocce di vino o acido o immaturo formano l’alimento dell’agricoltore. Descritto lo stato miserando del vestito, prosegue: «Questo è il destino dei nostri fratelli, a ciò li condanna una ferrea necessità per nutrire le nostre sdegnose e frivole voglie, e per rendere pomposa ed insultante d’oro e di sete, e pingue di sazievoli cibi l’annoiata inutilità nostra».

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E dimostrando quindi di non credere a certe [13] utopie, e di non essere un esageratore platonico dell’eguaglianza, dice che si tratta non d’ammollire le robuste membra de’ contadini, ma di alleviare que’ dolori e que’ mali, che mietono le generazioni e impoveriscono la campagna di braccia, e perciò aumentano la fatica, senza aumentarne il prodotto. Poscia rivolgendosi ai ricchi esclama: «Uomini ricchi e potenti non limitate le vostre mire al passaggero presente, portate l’occhio indagatore sulla successione del tempo; rendendo migliore la condizione de’ vostri agricoltori voi vi procurerete dei corpi vegeti e robusti; una popolazione più spessa ricompenserà colla diminuzione del prezzo del lavoro, colla facilità e prontezza dell’esecuzione, ciò che la benefica vostra mano avrà saggiamente distribuito nelle squallide abitazioni del povero, e l’ilarità e la pace che avrete sparsa sui volti abbattuti degli umili vostri servi ritornerà sulle ridenti e feconde vostre campagne».

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II.

Polemiche col Bandiera e col Branda – Il canonico Agudio e il Parini – Sue condizioni economiche – I Belgioioso – «L’Impostura» – «Il Mattino» – Condizioni morali ed economiche dell’ambiente.

M algrado tutto questo, il Parini non era ancora universalmente conosciuto, e parecchi diffidavano di lui, quando, essendo apparso in luce il volume I pregiudizî delle umane lettere del padre Alessandro Bandiera, che attaccava specialmente il Segneri, scese egli in campo con una bellissima lettera sull’argomento medesimo, diretta all’abate Pier Domenico Soresi, difendendo lo stile e la locuzione del celebre quaresimalista. Rifulse poi di maggior luce nella lotta letteraria contro il padre barnabita Onofrio Branda, uno de’ suoi precettori nel Ginnasio Arcimboldi, che in quella occasione lo pagava di alunno poco profittevole. È nota la parte avuta dal Parini, da Pier Domenico Soresi, da Carlo Antonio Tanzi e da Domenico Balestrieri in questa ardente polemica. Leggendo oggi quelli scritti ci sentiamo trasportati in un mondo affatto nuovo, dove vediamo tutti i Barnabiti d’Italia abbracciare la causa del loro padre Branda, e ritenere le offese a lui fatte, come [15] indirizzate all’intiero ordine; dove invano cerchiamo la mansuetudine insegnataci dal Vangelo; e dove i Barnabiti non vogliono essere confrontati coi Gesuiti. Di questa polemica il signor Giuseppe Peri, eseguendo li supremi veneratissimi ordini governativi, il 18 ottobre 1760, facea ampia relazione a S. E. il conte Carlo Firmian, ministro plenipotenziario, lunga ben novantasei pagine manoscritte, nelle quali, dopo la storia della polemica, seguiva una serie di citazioni da Plutarco a S. Tommaso d’Aquino, per avvalorare i giudizî sulle parole incriminate. Sopra reclamo dei Barnabiti, venne interrogato, il 20 luglio 1760, il tipografo Galeazzi intorno ad una incisione in rame che metteva in caricatura il Branda, e sopra l’autore del libro intitolato: Dialogo della lingua toscana, stato da lui stampato contro il Branda medesimo (Vedi Documento N. 1). Il Galeazzi rispondeva all’ufficiale di polizia, che il rame era venuto da fuori ed egli non lo avea adoperato; che il canonico Agudio avea fatto il contratto per la stampa del detto libro, il quale fu stampato ed approvato dai superiori; e che a questa stampa avea-

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no assistito gli abati Parini e Bellotti, e qualche volta anche il Tanzi. Che in questa polemica sia intervenuto anche il canonico Agudio? Che sia egli forse intervenuto a fare solamente il contratto per venire al coperto di qualche credito verso il Parini, oppure per adempire un incarico avuto all’Accademia de’ Trasformati? È fuori di dubbio che intorno a quel tempo il nostro poeta versava in cattivissime condizioni economiche. Mortogli nel 1759 il padre, egli dovea pensare seriamente alla vecchia madre, non avea denari, nè sapeva in qual modo guadagnarne, e ricorreva [16] sovente alle tasche degli amici e conoscenti. Una delle due case era già venduta, e un giorno del 1760 si rivolgeva al canonico Agudio con una preghiera in terzine, chiedendo in prestito dieci zecchini. Esaminando queste terzine, la lettera 12 dicembre 1768, ch’egli indirizzava a Pellegrino Salandri a Mantova, e quella 5 dicembre 1773, rivolta al conte Firmian, delle quali ci occuperemo in seguito, risulta provato che il nostro poeta non godeva più l’annualità della messa quotidiana di L. 224 e neppure il legato di L. 104 dell’Appiani per due messe settimanali, e viveva assai poveramente. Chi dice, che il suo stato non era così miserando come credono i suoi biografi anche i più recenti, afferma una cosa non vera. Fino al 1769 il Parini fu poverissimo, poichè si trovò costretto per vivere ad alienare le due case che possedeva in Bosisio, a vendere un manoscritto e il Femia del Martelli, e a rimanere perfettamente al verde in seguito alle visite fattegli dai ladri. Tutto questo appartiene alla storia, e non si può mutare per alcuna causa. Nello stesso anno 1760, durante il quale imperversava la polemica col Branda, il Parini, per la nascita del primogenito di don Alberigo Belgioioso e di donna Anna Ricciarda, principessa d’Este, componeva l’anacreontica, allora pubblicata in una raccolta di Applausi Poetici. Questi versi, da poco tempo ristampati, dimostrano che il Parini sin d’allora tenea cordialissime relazioni con la famiglia Belgioioso. Simili cordiali relazioni lo legavano pure con altre famiglie dai nomi aristocratici, presso le quali facea la conoscenza del Giovin Signore, di quella gente inamidata, profumata e slombata, che consumava il giorno fra un vizio e l’altro. [17] Chi passasse oggi dalla piazza Belgioioso, in via S. Paolo, vedrebbe ancora al sommo della porta della casa, segnata col N. 26, un medaglione rappresentante il Parini, fattovi apporre nell’anno 1826 dal principe Emilio Belgioioso. Questo ammiratore dell’immortale poeta avea fatto collocare quel medaglione, non solo per onorare il Parini, ma anche per togliere le dicerie sparse in Milano, che il principe Alberigo, tenendosi offeso personalmente dalla satira del Mattino, avesse fatto minacciare il Parini, che, se voleva bene alla propria vita, si guardasse dal dare alle stampe il Meriggio, altrimenti non vedrebbe la sera. Errarono quindi coloro che quel medaglione riguardarono come prova, che ivi in que’ tempi abitasse il nostro poeta.1 Chi conobbe il Parini potè assicurare, che non fu mai ingrato, e tanto meno lo poteva essere coi Belgioioso e colle altre famiglie patrizie da lui frequentate, verso le quali non mancava mai di rispetto. S’egli disprezzava certa gente incipriata, lo facea unicamente per colpire il vizio a cui quella si teneva avvinghiata, e per questo non era avversato dai patrizî che, virtuosi o no, erano costretti, almeno per salvare le apparenze, a lodare la virtù, biasimare il vizio ed applaudire 1 Vedi opuscolo: Dell’Acqua Sac. Luigi, Sull’abitazione in Milano di Giuseppe Parini, ecc.

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chi lo sferzava di santa ragione. La satira era pungente, ma cortese, ed il poeta, che a tutti sovrastava per intelligenza e integrità di carattere, rifuggiva dalla doppiezza e dalla ipocrisia. E questo è così vero, che nel 1761 recitava in pubblica adunanza nell’Accademia de’ Trasformati l’ode La Impostura, che pungeva a sangue gli uomini doppi ed ipocriti, senza riguardi alla loro condizione sociale. [18] Ma tutto questo era nulla in confronto di quello che il Parini andava meditando, componendo e limando, in compagnia di qualche fidato amico, specialmente del Passeroni, che gli fu sempre largo di consigli e di aiuti. Da questa epoca incomincia nel nostro autore a farsi sentire un nuovo modo di poetare; il verso risponde meglio alla sua volontà, e la satira trabocca più recisa e insieme più carezzevole e pungente. Le sue opere, specialmente quelle che datano da questo punto, gli accordano più che mai il titolo di poeta civile, di filosofo e di pensatore profondo, che intravede la via dei futuri miglioramenti sociali. Nell’anno 1763 il Parini pubblicava Il Mattino, quel poemetto in versi sciolti che tutta Italia oggi ammira, e col quale pungea il poeta il Giovin Signore del suo tempo, e lo consegnava ai posteri in un modo ridicolo. Dopo tale pubblicazione, dopo quella del Mezzogiorno, del Vespro e della Notte, sorsero i critici a difendere la vittima; a dire che il Parini avea esagerato, e la nobiltà del suo tempo non avea meritato le scudisciate del poeta satirico. Aveva torto il Parini o l’avevano i critici? Pietro Verri, giudice non sospetto, dichiarava di aver venduto a Milano un solo esemplare della sua storia, «ma lo sapeva prima d’intraprendere un tal lavoro, e conosceva rerum dominos gentemque togatam». E altrove dicea del suo paese: «Comparve Paolo Frisi, e si dovette rifugiare nella Toscana; comparve Gaetana Agnesi, e si dovette occultare in un ospedale; comparve C. Beccaria, e se non avesse avuto la precauzione di far stampare a Livorno l’opera sua e tenerla in principio da Milano lontana, sicuramente sarebbe stato vittima dell’amor cittadino». [19] Il 6 aprile 1761 scriveva: «Il nostro delitto è quello di voler vivere fra di noi e non mischiarci colla vita comune; hanno tanto senso anche i volgari per accorgersi che questo prova che non li stimiamo, vorrebbero mostrare di disprezzarci, nel mentre che ci odiano e temono». Il 15 ottobre 1762, fra le altre cose scriveva: «Si maravigliano gli Inglesi ed i Francesi che ora l’Italia sia addormentata; ma io mi meraviglio che vi sia ancora l’arte di leggere e scrivere. Da noi non si può sperare stima dal pubblico, non si possono sperare impieghi, non onori, non soldi, non si può nemmeno sperare di comparire in faccia al pubblico colle stampe senza mille amarezze e vessazioni, onde concludo che è uno sforzo della natura che ci ha dato dell’ingegno se qualcuno può avere la costanza di non diramarlo nella cavillosità del foro o nella teologia sulla corrente degli altri, o non disperderlo nella frivola occupazione della nostra società piena di doveri, di officî, di formularî, ecc.». In oltre nel 1764 egli stesso pubblicava Il Mal di milza, ch’era una satira contro la nobiltà oziosa. Cesare Beccaria, altro giudice non sospetto, scriveva in quel tempo: «Il mio paese è tuttora immerso nei pregiudizî, lasciativi da’ suoi antichi padroni. I Milanesi non la perdonano a coloro che vorrebbero farli vivere nel secolo xviii. In una capitale che conta centoventimila abitanti, appena trovereste un venti persone che amino istruirsi, e che sagrifichino alla virtù od alla verità». In una lettera, che si troverà più avanti, la celebre Bandettini Landucci, dal nome arcade di Amarilli Etrusca, scrivea assai più tardi da Milano: «Quanto mai

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conoscete il genio di questa metropoli! Essa è [20] qual la pingete; i suoi abitatori sono veramente epicurei, segnatamente nella tavola. Se io avessi l’abilità di cantare alle tavole, come solevano gli antichi Greci, che sì ch’avrei sbalorditi ancora gl’idolatri della crapula? Ma era duopo cangiare il nome alle divinità; per esempio chiamare – riso giallo Apollo, busecca Clio, Giove salame, e così di mano in mano formare una saporita e grassa genealogìa di questi numi tutelari». Questo concetto era ribadito più tardi dal Foscolo coi versi immortali, a proposito del . . . . Sardanapalo Cui solo è dolce il muggito de’ buoi Che dagli antri abduani e dal Ticino Lo fan d’ozi beato e di vivande.

Tutti questi giudizî sono già pubblicati e conosciuti dagli studiosi, come è pur conosciuto il seguente brano del Verri, scritto il 27 aprile 1796: «Da noi tutto il bene che è accaduto gli anni scorsi si è fatto per volere assoluto del Sovrano, e con dispiacere universale del popolo, che avrebbe voluto conservare inclusivamente le barbarie della tortura e il supplizio della ruota». Altri giudizî possiamo aggiungere, tuttora inediti, che saltano agli occhi di tutti in questo lavoro, ma tralasciandoli per non cadere in soverchie ripetizioni, si accennerà soltanto un brano di lettera del conte Firmian, indirizzata al principe Kaunitz il 9 maggio 1767, che riguarda il Beccaria. «Il cavaliere, scrive il Firmian, di cui si tratta è uno tra i non molti che amano gli studî, e la sua applicazione l’ha tenuto lontano dal frequentare le conversazioni di passatempo. Questo genere di vita per sè stesso plausibile, non lo rende però il più accetto a’ suoi concittadini. [21] Il Clero particolarmente si allarmò contro il suo libro De’ delitti e delle pene, e vi fu chi prese a confutarlo con molta acrimonia. La risposta dell’Autore a propria difesa fu piena di moderazione, e fece onore alla sua morale. Ciò non ostante i Preti non hanno deposto quel sospetto che in detta occasione concepirono d’una certa libertà di pensare che gli venne attribuita».1 Come apparisce da tanti giudizî, l’ambiente satireggiato dal Parini era tutt’altro che sano. È ben vero che non tutti i nobili nuotavano ne’ vizî; più d’uno si teneva fuori dal brago, ma i virtuosi erano assai pochi e costituivano una piccola eccezione, che dava maggior valore alla regola generale. Ciò è riconosciuto anche da Felice Calvi nel suo volume Il Castello Visconteo-Sforzesco nella Storia di Milano, nel quale ha pagine che danno pienissima ragione al Parini. Lo studio dei filosofi e degli enciclopedisti francesi avea generato nel nostro poeta una insolita2 amabilità, una urbanità e una cortesia affatto eccezionale nel riprendere il vizio. Osservandolo sotto questo aspetto, ci si affaccia il poeta circonfuso di quella rosea freschezza che lo rende simpatico anche a’ suoi nemici. Si potrà discutere finchè si voglia sulla robustezza oraziana delle sue odi, sulla semplicità de’ suoi sonetti, sulla vastità de’ suoi precetti letterarî ed artistici; ma ciò che non si discute più e si accetta, come verità chiara ed affascinante, è quella vena di sentimento umanitario d’ogni età e paese, che sgorga abbondante fra un verso e l’altro del Giorno. Nella coscienza del Parini la giustizia avea

1 Vedi autografi del Beccaria – Archivio di Stato.

2 [Nel testo insolità]

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messo [22] profon|dissime radici; gli facea lodare il bene e biasimare il male davanti a qualsiasi persona, e gli procurava lodi e congratulazioni, miste qualche volta a mal celata stizza di chi sentivasi colpito sul vivo. Quando Il Mattino vide la prima volta la luce, fu salutato dagli applausi universali perchè rappresentava una bell’azione. Non v’ha dubbio alcuno, che a far risaltare questo lavoro concorse in sommo grado l’arte raffinata dell’autore, che sconcertò il Frugoni, stimato fino allora il maestro de’ versi sciolti. In questo poemetto, il Parini profuse a larghi rivi quel sentimento che non perdona alle ingiustizie umane di godere i loro trionfi coll’abbassamento e col sacrificio degli umili, secondo le teorie che allora primeggiavano fra gli ammiratori degli enciclopedisti. Il contrasto, assai bene equilibrato tra gli usi e i costumi della compagnia sardanapalesca e quelli del semplice villanello ed operaio, procede con somma efficacia e sicurezza dal principio sino alla fine del poemetto, suscitando ad ogni verso l’umor gaio dei lettori. Quando il Parini scrivea Il Mattino, a Milano non si stava male; gli uomini vivevano e lasciavano vivere, e il governo locale facea di tutto per alleviare, come allora si poteva, le miserie umane; non aggravava di tasse inique ed insopportabili i contribuenti, e la statolatrìa non esisteva.1 In que’ tempi l’istruzione pubblica non era così popolare come ai nostri giorni, ma poichè allora le industrie e i commerci non assorbivano tanta popolazione, così i veri studiosi erano in bel numero, e le cure della vita [23] non provocando la febbrile attività e le convulsioni moderne, godevasi quella certa tranquillità d’animo, che tanto giova alle scienze, alle lettere ed alle arti. Queste condizioni di cose favorivano assai il successo della satira; il pubblico rideva, si sbizzariva nell’indovinare le vittime ed approvava i tagli delle forbici. Per capire sino a qual grado di mollezza e di oziosità era discesa la classe dirigente ai tempi del Parini, non si può dimenticare quel periodo storico che, dal principio del secolo xviii, si chiude coll’anno 1746, nel quale scomparvero affatto gli Spagnoli dal Ducato di Milano. I nobili milanesi sopportavano a malincuore la dominazione austriaca; rimpiangevano la Spagna, sotto la quale avevano amministrato anche a loro profitto il Ducato, e congiuravano onde favorire il ritorno de’ loro antichi padroni. Naturalmente in questo periodo si trovavano in preda ad una febbrile attività; non avevano quel certo tempo da consumare nelle gozzoviglie e nell’ozio; ma, quando nel 1746 la dominazione austriaca si rassodò definitivamente e dileguaronsi le più lontane speranze sul ritorno degli Spagnoli, la nobiltà si trovò subito in balìa di un ozio forzato, che generò la storica mollezza. Scrive a questo proposito il Calvi: «Certi costumi turbolenti e facinorosi ereditati dal seicento, vanno scomparendo; le abitudini si fanno più mondane, più socevoli: la vita cittadina prende un’aria sciolta: si va all’altro eccesso. Non più signorotti braveggianti ne’ villaggi; ma invece pastorelli arcadi sempre pronti a andare in estasi per dei nonnulla; manierosi cavalieri serventi, cascanti abatini, sdolcinati cicisbei, volteggiano gaiamente nei ritrovi patrizî, fioriti di smorfiose damine, di appariscenti matrone in [24] guar|dinfante, che parlano in punta di forchetta, e raccolgono le prelibate tradizioni meneghino-aristocratiche di donna

1 Gianrinaldo Carli affermava che in quei tempi il Ducato di Milano era il meno tassato fra gli Stati civili d’Europa.

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Quinzia, per tramandarle a donna Paola. I Clerici; i Biglia; i Serbelloni; i Visconti-Borromeo-Arese, a cui succedono i Litta; i Belgiojoso-Este; i Simonetta, a cui succedono i Castelbarco-Visconti; i Pallavicino; i Doria-Sforza di Caravaggio; i Resta; i Bolognini-Attendolo; i Durini; gli Archinti per non dirne altri, hanno addobbato lussuriosi e artistici quartieri in vasti palazzi, dove accolgono la società milanese, avida di spassarsi col gioco, con la danza, la musica, il faceto ed espansivo conversare». Il cicisbeismo non era una piaga che affliggeva la sola città di Milano, ma bensì tutte le città d’Italia; però a Milano, dove la ricchezza andava congiunta all’ozio e all’epicureismo, divenuto di moda, facea numerosi proseliti, e poche dame dell’aristocrazia erano prive del cicisbeo. Il giuoco poi costituiva un’altra piaga che portava la desolazione e lo scompiglio fra non poche famiglie aristocratiche. Si giuocava al teatro e nelle sale della nobiltà; fra una barzelletta ed un sorriso della dama si perdevano al faraone colossali fortune con una leggerezza affatto singolare. La divisione di classe era profondamente sentita anche in seno della stessa nobiltà; dove il primogenito godeva fortune e diritti speciali e dove l’autorità paterna pesava inflessibilmente sui figli. Appunto in quel tempo Pietro Verri fu minacciato di prigionìa dal padre, e più tardi Cesare Beccaria, sopra istanza del padre, fu tenuto nella propria casa in arresto tre mesi continui e sotto la sorveglianza del Capitano di giustizia, perchè non si volea che si ammogliasse con la figlia del colonnello Blasco. Da questa profonda1 divisione di classe la nobiltà saliva a’ suoi [25] do|rati quartieri, la plebe discendeva agli umili abituri della città e della campagna, ed il nobile dalle sue altezze, simile all’aquila dall’alto delle cime alpine, guardava il villano e l’operaio come una quantità trascurabile. Nel 1772 la società delle Cappe Nere, cioè dei servitori nè primi nè ultimi della nobiltà milanese, avea presentato domanda all’arciduca Ferdinando, per godere l’esenzione del pagamento entrando nel teatro ducale in servizio dei padroni. In questa curiosa domanda le Cappe Nere lamentavansi di esser state escluse in passato dall’ingresso gratuito in platea, e per ciò costrette a starsene fuori all’aria insieme alla vile plebalia tutto il tempo dell’opera per attendere li ordini dei loro rispettivi padroni. Se i servitori tanta stima avevano del popolo, dal quale erano usciti, figurarsi quanta ne professavano i padroni.2 Era assai naturale che il Parini, conoscitore perfetto del suo tempo, e non da paragonarsi a quel vaso di terra costretto a viaggiare insieme coi vasi di ferro, lanciasse il suo dardo pungente contro un bersaglio ben determinato, e non si perdesse a combattere contro i mulini a vento. S’egli avesse ingiustamente attaccato la nobiltà del suo tempo od avesse esagerato i suoi attacchi, certamente non avrebbe riscosso gli applausi del pubblico intelligente e della stessa nobiltà, e non avrebbe ottenuto le approvazioni dello stesso conte Firmian. Le frasi ed i versi del Giorno dal poeta furono largamente studiati, ed ogni concetto venne misurato con perfetta cognizione storica delle condizioni dell’ambiente.

1 [Nel testo drofonda] 2 Vedi Archivio di Stato – Teatri – Busta N. 34. Questa domanda è stata anche pubblicata dal Dr. Antonio Paglicci Brozzi nel volume: Il Regio Ducal Teatro di Milano, ecc.

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III.

La famiglia Imbonati – «L’Educazione» – Da quali idee l’autore fu guidato a comporla – «L’Innesto del vaiuolo» – «Il Bisogno» – Idee che spinsero l’autore a quest’ode – Sue relazioni coi fratelli Pietro ed Alessandro Verri – «Il Mezzogiorno» e le lodi del Governo – L’origine del Giorno – Le Diner di Voltaire – La Sera.

N el maggio 1764 il Parini componeva, per la guarigione del giovinetto Carlo Imbonati, un’ode che si conosce sotto il titolo L’Educazione. Nella storia di Milano è assai nota la famiglia Imbonati, ed il conte Giuseppe Maria fu il restauratore dell’Accademia de’ Trasformati, padre del giovinetto Carlo e grande amico del Parini. Marito ad una poetessa, Francesca Bicetti de’ Buttinoni, fu ammesso al patriziato milanese per decreto del Consiglio Generale 17 febbraio 1756, e nominato decurione; morì nel 1768. Il giovinetto Carlo era nato il 24 maggio 1753, avea condotto i suoi primi passi sotto la guida del Parini, e nel 1771, quando il poeta insegnava belle lettere nelle Scuole Palatine, ne frequentava le lezioni. Il conte Carlo Imbonati divenne celebre non solo per l’ode dedicatagli dal nostro poeta, ma anche, perchè essendo amico di Giulia Beccaria, madre di Alessandro Manzoni, la sua morte fu compianta dall’autore de’ Promessi Sposi con un carme immortale. [27] Era logico e naturale che il Parini, appena il suo alunno fosse guarito dal vaiuolo, salutasse il ritorno delle rose sulle guancie del giovinetto; ma per qual motivo egli mise in campo il centauro Chirone, educatore di Achille? Ai tempi del Parini, cioè sino al 1769, l’istruzione pubblica nel Ducato di Milano versava in condizioni tristissime, in causa principalmente della poca cura che di essa avevano le autorità governative. La vigilanza delle pubbliche scuole veniva esercitata dal Senato, il quale, quantunque fosse composto di persone assai rispettabili, tuttavia e per le molte incombenze che lo intrattenevano e per le opinioni che incarnava, costituiva un inciampo all’incremento ed al progresso dei pubblici studî. In tutti i collegi e scuole di Milano insegnavano i frati, e la giovane nobiltà milanese veniva mandata a studiare anche fuori dello Stato, come a Parma; dov’era assai rinomato il collegio dei nobili. Il conte Firmian, resosi convinto che il Senato non aveva nè competenza, nè buona volontà di occuparsi delle pubbliche scuole, nel 1765 con dispaccio reale toglievagli qualsiasi potestà sull’insegnamento, e ne incaricava invece una Deputazione degli Studî. È noto che il Parini, come si avrà occasione di accennarlo più innanzi, non vedeva di buon occhio l’istruzione in mano dei frati, specialmente dei Barnabiti, sotto i quali avea studiato, e ne avversava i sistemi, ch’egli riteneva fatali nell’insegnamento della eloquenza. Questi sistemi favorivano di soverchio le cose piccole, frivole, leggere; obliavano la formazione del carattere individuale; diventavano tanti coefficienti dell’ozio, dell’epicureismo, dell’intolleranza e dell’alterezza delle classi privilegiate nella metà del secolo xviii; e costituivano una delle tante cause della decadenza del pensiero italiano. [28] Il Parini mirava a rompere questa perniciosa tradizione, e per questo motivo svolgeva il tema dell’educazione con la figura del centauro Chirone, educatore di Achille, seguendo idee affatto nuove e robuste, secondo il precetto

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mens sana in corpore sano, dalle quali il sentimento pedagogico sgorga limpido e sereno, e con tal vena di classica eleganza, che ci lascia oltremodo meravigliati e contenti. Intorno all’Educazione ci sarebbe da scrivere un volume, poichè quest’ode ci conferma nell’opinione che il Parini avesse, sebbene indiretta, non piccola parte nelle grandi riforme scolastiche, già tentate nel 1757, e riprese con maggior lena nel 1765. Nella Deputazione degli Studî primeggiava l’illustre medico Cicognini, che qualche volta avea per collaboratore Pietro Moscati, e l’uno l’altro erano amici del Parini. La grandiosa idea svolta dal Cicognini, di cui ci occuperemo più innanzi, di abolire l’Università di Pavia e le Scuole Palatine, e d’istituire in Milano, nel Palazzo Brera, la più grande Università d’Italia, assoggettando tutte le scuole ad una rigorosa vigilanza governativa, o è uscita dalla mente del Parini, o fu da lui vivamente caldeggiata. Di ciò non solo troviamo la causa nell’amicizia che legava insieme questi tre personaggi, ma il Parini medesimo lo fa intravedere co’ pensieri sparsi nelle sue opere, che si accoppiano meravigliosamente ai giudizî coi quali il Cicognini disapprovava i sistemi, che adoperavano i frati nell’istruzione dei giovani. Il Parini, oltre del conte Giuseppe Maria Imbonati, era pur amico del dottor Bicetti de’ Buttinoni, medico assai valente e studioso. Da parecchi anni il vaiuolo menava stragi nella popolazione d’Europa, e facea molte vittime anche nei dorati quartieri delle [29] famiglie patrizie; anzi, leggendo i giornali di quel tempo, siamo condotti a credere, che le morti d’uomini celebri fossero assai numerose. Di fronte alla insistenza del morbo, i medici andavano a gara nello studio della cura, ed appunto per questo il dott. Bicetti de’ Buttinoni pubblicava in Milano, nel 1765, le sue Osservazioni su questa malattia, alle quali il Parini premetteva una sua ode bellissima su L’Innesto del Vaiuolo, che fu molto apprezzata e gustata. Questa però nella storia letteraria passa quasi inosservata, mentre l’altra ode, Il Bisogno, che nello stesso anno, o forse prima, il Parini componeva e dedicava al signor Wirtz, pretore per la Repubblica Elvetica, riempie co’ suoi consigli e precetti veramente civili una grande lacuna nella storia del pensiero italiano di quel tempo, ed echeggia mirabilmente col grido di guerra, che Cesare Beccaria lanciava ai paladini della pena di morte e della tortura. Il Wirtz si era acquistata lode straordinaria nell’amministrazione della giustizia, e più di tutto nel saper prevenire i reati, e nell’emendare i colpevoli. Questo fatto nella mente altissima del Parini aveva assunto una importanza singolare, poichè l’amministrazione della giustizia nel Ducato di Milano sentiva ancora tutta la barbarie spagnola, ed i parrucconi del Senato erano lieti non di emendare i colpevoli e di prevenire i reati, ma d’inferocire sulla povera gente, più disgraziata che colpevole. L’origine dell’ode Il Bisogno è quella medesima che metteva le armi in mano a Cesare Beccaria per combattere i partigiani della pena di morte, della tortura e della disuguaglianza dei castighi non proporzionati alle colpe. L’ode Il Bisogno dispiegava il suo volo contemporaneamente al libro Dei delitti [30] e delle pene, e si facea leggere dal pubblico con una certa avidità, mentre la sorridente indifferenza dei mediocri continuava la sua via, non curandosi delle nuove intelligenze che attaccavano le fortezze del pregiudizio e della barbarie. Per capire la mostruosa ferocia delle procedure penali, allora vigenti, e delle condanne sorpassanti i limiti della più elementare giustizia, basta ricordare quanto scriveva Pietro Verri, il 9 febbraio 1767, a suo fratello Alessandro, a Londra. Fra le altre cose

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diceva: «L’Inglese è più grande quando si fa impiccare, di quello che lo sia un nostro giudice quando condanna ad essere impiccato». Eppure anche in Inghilterra in que’ tempi le condanne a morte fioccavano per delitti, che oggi sono punibili con qualche anno di carcere; ma la procedura non era mai cosi barbara e così insensata, come in Italia. È ben vero che nel ducato di Milano non aleggiava più quello spirito feroce, ignorante e superstizioso, che sotto la dominazione spagnola avea condotto a processi raccapriccianti e a condanne di morte scelleratamente inique, contro i supposti untori al tempo della peste, ma l’influenza fratesca pesava ancora sulle coscienze poco illuminate, scagliavasi con grande fracasso contro Cesare Beccaria, e lo accusava di attaccare le credenze religiose. Tutto questo aveva profondamente scosso il Parini, il quale animato da un vivo ed illuminato sentimento di giustizia, mirava con orrore lo svolgimento di quei processi che tante volte mandavano sul patibolo individui, le colpe dei quali ricadevano sull’intiera società. Nel pensare a que’ processi l’animo suo si volgeva al pretore svizzero, e ne rimaneva grandemente consolato, osservando che il Wirtz [31] sen|tiva pietà degl’infelici, li faceva uscire dal carcere, li aiutava ed insegnava coi fatti, che i reati si prevengono senza gastighi. A’ giorni nostri c’è ancora della gente la quale crede che tutto questo non sia altro che un’utopìa, e non crede inoltre che i poveri, quando si vedono strappare dalla bocca un tozzo di pane, l’ultimo tozzo che deve sfamarli, per opera dell’incettatore che arricchisce sulle altrui miserie, non debbano sentirsi provocati, non debbano rivoltarsi contro le leggi perseguitando, saccheggiando e forse anche uccidendo l’arricchito incettatore. Questa gente incredula rappresenta precisamente il ventre pieno che non crede a quello vuoto, e non possiede il più elementare criterio per considerare sino a qual segno di degradazione il bisogno spinga la classe povera de’ lavoratori. Il Parini faceva un’ode sul bisogno che gravita sul capo dei meschini, perchè si era formato un concetto assai chiaro e preciso di quali e quanti mali sia persuasore il bisogno, il quale concetto non derivava semplicemente da ragionamenti ch’egli andava facendo, ma bensì dalla voce della sua coscienza, che internamente gli sussurrava parole arcane, che la sua mente soltanto era in grado di capire. Quali fossero e qual significato avessero tali parole non ci è dato di conoscere, ed argomentando dalle condizioni economiche nelle quali il poeta versava, non possiamo altro che immaginarle. Il Parini era povero; avea venduto ambedue le case che possedeva; il danaro ricavato lo aveva già speso per campare; il legato della messa quotidiana non lo godeva più; e ritraeva il suo sostentamento da qualche limosina di messe, da qualche lezione che impartiva a’ giovanetti, e dal magro provento della [32] stampa de’ suoi versi. Sappiamo inoltre che per mangiare più d’una volta dovette ricorrere a’ suoi amici, come ce lo potrebbero affermare il Passeroni, il canonico Agudio e l’abate Teodoro Villa, quello appunto che avrà fatto qualche volta compagnia al Parini a stomaco digiuno. A chi dicesse che tutto questo è soverchiamente esagerato, si potrebbe rispondere colle parole dello stesso conte Firmian, quando nel settembre 1769 scriveva al principe di Kaunitz, di aver accordato il posto di professore di eloquenza nelle Scuole Palatine al Parini, perchè si trovava pressato dal bisogno. Per capire con più agevolezza sino a qual segno il poeta si trovasse pressato dal bisogno, conviene ricordarsi che nel 1769 si guadagnava pur qualche soldo compilando la Gazzetta di Milano, per conto dello stampatore Richino Malate-

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sta; ciò che c’induce a credere che nel 1764-65 il poeta si agitasse in condizioni economiche assai più dure perchè non godeva allora il provento della gazzetta. È quindi assai chiaro e logico, che il Parini venisse a comporre l’ode Il Bisogno dalle stesse condizioni economiche fra le quali dibattevasi, dalle condizioni dell’ambiente fra le quali viveva, e dalla ferocia dei procedimenti penali dell’epoca sua. Ed applicando a sè medesimo il precetto oraziano si vis me flere, dolendum est primum ipsi tibi, traeva dalla sua lira suoni di nobilissimo sdegno in difesa de’ bisognosi, e si compiaceva che il pretore Wirtz seguisse i suoi consigli a favore dei1 colpevoli incalzati dal bisogno. Con questi componimenti poetici la fama e la considerazione del Parini diventavano sempre maggiori, e i suoi amici ed ammiratori n’andavano lieti [33] ed orgogliosi. Ciò malgrado non mancavano gl’invidiosi, ed alcuni che avrebbero dovuto per i loro principî stringersi intorno a lui, non si sa per qual motivo preciso, non tralasciavano di scemargli la stima. Fra questi si contavano i due fratelli Pietro ed Alessandro Verri, e pare che si siano staccati dal Parini per questioni insorte nell’Accademia de’ Trasformati, forse a cagione del Baretti. Una sera del 1762, facendosi parola d’uno scherzo scritto d’Alessandro Verri, e pubblicato anonimo, sopra un lavoro sulle monete che dovea dare in luce il Beccaria, il Parini non credendolo fatto a bella posta, diceva che meritava quello sciocco curiale che l’avea scritto, la berlina, ed era un vitupero che simili scioperatezze si pubblicassero. Il 16 dicembre 1766 Pietro Verri cominciava a romperla col Beccaria, e, scrivendo a suo fratello Alessandro, si esprimeva così: «Il suo cuore (del Beccaria) differisce per alcuni gradi dai Parini e dai Baretti.» Alessandro Verri, rincarando la dose, il 23 dicembre 1767, mandava da Roma al fratello Pietro: «Io scrissi al Parini e suoi compagni, e dimenticai che scriveva al pubblico, il quale non è composto di Parini; ed animali come costui sono rari assai al mondo, per quanto io ho veduto».2 Certamente queste guerre in famiglia nuocevano a tutti, ed erano una conseguenza dello spirito battagliero dei letterati di quel tempo, fra i quali il Baretti si mostrava più violento ed aggressivo. Dopo parecchi anni Pietro Verri e il Parini si riconciliarono, ed in seguito avremo occasione di constatare [34] la grande stima che nell’interesse del paese si professavano ambedue. Dopo la pubblicazione del Mattino, veniva il Parini incoraggiato ed incalzato a scrivere ed a pubblicare Il Mezzogiorno, al quale intento s’adoperava a tutt’uomo, fidando che l’avvenire gli sorridesse e gli sgombrasse la via dai triboli del bisogno. Egli medesimo sentiva che nell’ambiente letterario di Milano spirava un’aria insolitamente frizzante, che scuoteva gli spiriti più rammolliti e ravvivava speranze che, qualche anno prima, sarebbero state vere pazzie. Tutto compreso nel suo lavoro, nell’anno 1765 incaricava lo stampatore Galeazzi a chiedere al governo la privativa dell’edizione del Mezzogiorno per tre anni. Questa privativa vennegli concessa con lettera 21 luglio, rivolta al Capitano di giustizia, una specie di questore, che avea l’obbligo di sorvegliare anche la stampa, l’introduzione e lo spaccio nel Ducato di Milano di libri e di altri lavori stampati. Tutte le lodi che vengono tributate in questo curioso documento al poeta, sono l’espressione sincera della grande stima in cui tenevalo il conte Firmian, ministro plenipotenziario. Anche questo poemetto, come Il Mattino, fu 1 [Nel testo del] 2 Vedi le lettere dei fratelli Verri, pubblicate dal Dr. Carlo Casati.

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sommamente gustato dai letterati di professione, e da tutti quelli che avevano in pregio le muse, e gli elogi ai quali fu fatto segno, non rallentarono mai di spontaneità e di efficacia. Dopo tutto quello che si è detto intorno al Mattino, null’altro si può aggiungere riguardo al Mezzogiorno, senza ripetere le medesime cose. Lo svolgimento di questo poemetto non è che una storica narrazione delle grandi vicende che ingombravano gli animi della turba sardanapalesca durante quelle poche ore che trascorrono dal mezzodì al vespro. [35] Fe|delissima è la pittura degli usi e dei costumi, ed il rilievo degli episodî copiati dal vero, rappresenta uno di que’ lavori degni di grandissimo artista. Tanto Il Mattino, quanto Il Mezzogiorno corsero da un capo all’altro d’Italia; in ogni città non si parlava che del Parini, si magnificavano la squisitezza del sentire, l’eleganza dei versi, la singolare amabilità della satira, e la critica non possedeva armi buone per attaccarla. Il conte Firmian, che avea imparato a conoscere il Parini e seco lui s’era di sovente rallegrato della fama che andava acquistando, cercava tutti i modi di allargarla, fuori del Ducato, affinchè spirasse anche da oltre i confini quel soffio vitale, che destasse dal letargo l’oziosa maggioranza della nobiltà milanese. In questo modo il Parini veniva conosciuto nei più grandi centri d’Europa; e se la sua fama non volava sull’ali della fortuna, come quella del Beccaria, invecchiando aumentava sempre più, ed a’ nostri giorni sorvive così vigorosa d’assicurarci che non morrà. Il padre Pompilio Pozzetti, nella sua lettera 4 ottobre 1802, indirizzata a Luigi Bramieri,1 manifesta l’opinione che la inimicizia del Parini coi Verri abbia ispirato al primo l’emulazione di combattere in versi le massime ed i costumi, contro i quali i Verri medesimi lanciavano in prosa nel giornale Il Caffè, colpi gagliardi. L’opinione è assai giudiziosa e coglie nel segno, ma non però in quanto riguarda Il Caffè, che nacque verso la metà del 1764, un anno [36] dopo che il Parini pubblicasse Il Mattino. L’emulazione venne ispirata al Parini da Pietro Verri, suo condiscepolo in tenera età nelle scuole dei Barnabiti di S. Alessandro, collega nell’Accademia de’ Trasformati, e collaboratore nella traduzione del poema, La Colombiade, di madama du Boccage. Finchè il Verri recitava o pubblicava qualche poesia, certamente al Parini non facea ombra; finchè dava alle stampe nel 1751, in Milano, La borlanda impasticciata con la concia e trappola dei sorci, satira contro i pregiudizî del tempo, e metteva in luce nello stesso anno l’altra satira Il Collegio delle Marionette per ben educare le chicchere femmine, alla quale faceva seguire un opuscolo inedito Sur la Galanterie, e nel 1758 pubblicava a Milano e a Pisa Il Gran Zoroastro, almanacco satirico, ed altri simili componimenti, il Parini non se ne curava. Ma quando il Verri, tornato dal servizio militare, si accingeva nel 1761 a studiare e a trattare profondamente la questione del commercio e del bilancio dello Stato, e nell’anno successivo dava in luce il suo primo lavoro sulle monete, ch’eccitava, con quelli di suo fratello Alessandro e del Beccaria, sul medesimo argomento, le ire del Carpani e di tutti gli uomini del vecchio stampo, intuì il Parini ch’era giunto il momento da non lasciarsi soverchiare da’ suoi emuli, e combattendo per un medesimo fine, ma con diverso metodo, era mestieri far qualche cosa di più 1 Vedi il volume: Della vita e degli scritti di Giuseppe Parini, milanese – Lettere di due Amici – Seconda ediz. ecc. Milano, 1802 – Stamperia Mainardi.

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grande, che le solite odi e i soliti sonetti; lanciare un canto immortale che spiccasse il volo ad altezze non conosciute. E che cosa egli dovea cantare? tutta la parte frivola e ridicola della vita della nobiltà milanese, additando al pubblico la grande e dolorosa [37] disugua| glianza sociale, come avea fatto il Goldoni, difeso e lodato dal Verri. Il Parini, nella sua giovinezza, si era già addestrato nel porre in ridicolo l’alterezza della classe privilegiata, col dialogo in prosa Della Nobiltà, ma questo suo primo lavoro avea l’aria di un esercizio accademico e nulla più. Egli l’avea studiata questa nobiltà, sapeva apprezzarne i meriti; ma, pur tacendone i grandi vizî, era mestieri svelarne la parte più goffa e ridicola, nella quale i colpevoli si rispecchiassero ed emendassero. E in qual modo dovea cantare? … In que’ tempi era di moda il verso sciolto, pieno, sonoro, ampolloso; occorreva sfrondarlo, rinvigorirlo, renderlo amabilmente satirico, energicamente fiero, a cadenze variamente misurate, onde l’ombra o piuttosto la fuggevole immagine dell’idea si delineasse, si fermasse e si ripercotesse nei lettori, come un colpo di martello che non si dimentica più. Trovato il soggetto, le idee principali, il verso, era pur mestieri determinare in modo chiaro e preciso il titolo, la forma e la divisione delle parti del nuovo carme. L’11 aprile 1768 il ministro conte Firmian ordinava al Vicario di giustizia, Gio. Batta. Assandri, a recarsi nella bottega del libraio Raissant (Reycend), e a sequestrare i libri dei quali univa la lista, recante il titolo di uno così descritto: L’avant diné, Le diné, L’apres diné, perchè, secondo il ministro, offendevano con sommo scandalo la religione. Il 12, il Vicario, eseguito l’ordine, riferiva al Firmian tra le altre cose: «Interpellato poi (il Raissant) se avesse od avesse avuto alcuno degli altri libri descritti nella nota compiegatami da V. E., ha risposto che rispetto al libro L’avant diné, ecc., non ne ha mai avuto, nè venduto, e crede, che questo possa essere un libro [38] fatto stampare dall’Abbate Parini, ma non lo sa di certo per non averlo neppure veduto.» Il 13, il Firmian rispondeva al Vicario di giustizia a proposito dei provvedimenti da prendersi intorno agli altri libri, ma del libro in questione e dei dubbi del Reycend sul Parini non facea parola.1 Da ciò si vede che il titolo L’Avant diné, ecc., corrispondente al Mattino, Mezzogiorno e Sera del Parini, avea indotto il Reycend ad attribuire il libro a quest’ultimo, mentre il nostro poeta non n’era l’autore. A dir il vero, il titolo indicato dal Firmian non sembra preciso, suonando invece così: Le Diner du comte de Boulainvilliers, par M.r St.-Hiacinte, 1728, ed appartiene al Voltaire. Questo libro è diviso in tre parti: Avant Diner, Pendant le Diner, Après Diner, nel quale, con un dialogo assai piccante fra l’abate Couet, il conte, la contessa e il signor Fréret, si parla di filosofia e si mettono in canzonatura i precetti della Chiesa. Il Parini conosceva tutte le opere del Voltaire, e per conseguenza anche Le Diner, e non è cosa inverosimile il credere, che dalle tre parti, in cui si divide questo libro, egli abbia ricavato la prima divisione del suo carme in Mattino, Mezzogiorno e Sera, come rilevasi nella dedica alla Moda, che precede Il Mattino, e leggesi nei primi versi del Mattino stesso. Davanti a questo fatto si domanda: perchè mai il poeta non seguì scrupolosamente questa divisione, e dopo parecchi anni invece che la Sera compose Il Vespro e La Notte? 1 Vedi busta: Libri e Librai, ecc. Sezione storica – Archivio di Stato.

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Conviene osservare che i due poemetti, già [39] pub|blicati, Il Mattino e Il Mezzogiorno, avevano sollevato una grande curiosità nel pubblico, il quale volea conoscere la fine della satira, che il Parini, per motivi, che verranno esposti più innanzi, non credette di pubblicare. Questa curiosità avea assunto una cert’aria d’impazienza morbosa a segno tale, che nell’anno 1779 un poeta, il quale volle rimaner celato, scriveva e pubblicava la Sera in continuazione del lavoro pariniano. Questo poeta diceva al pubblico nella prefazione: «Gradisci dunque questa piccola offerta; e benchè disadorna de’ necessarj ornamenti non corrisponda la Sera al Mattino, e al Mezzogiorno, non lasciar però di rivolgere a lei cortesi i tuoi sguardi; anzi laudando la sincera volontà di chi t’offre, assicura del pari il tuo primiero gentilissimo Poeta, com’io eccitato mirabilmente dalla bellezza e dalla novità delle idee sue leggiadre, con non biasimevole audacia ne volli imitare l’esempio, mentre per altro in così giocondissima impresa Da lunge il seguo, e sue vestigia adoro» Ecco i primi versi della Sera: Qui sì che Febo, e le canore muse Al suon de le dorate argute corde Devon temprar con regolata legge Armonici concenti. Altro più vago S’appresta ordin di cose, e più divini Arcani ascosi al Vulgo vile io deggio Or cantar su la cetra al nostro Eroe.

L’avvocato Luigi Bramieri, nella sua lettera 1 giugno 1801, indirizzata a Pompilio Pozzetti, dice che cotesta miserabile Sera venne subito dimenticata. Ciò non è esattamente vero, poichè per molti anni di seguito e sino alla morte del Parini, venne stampata in diverse edizioni, fuori del Ducato di Milano, [40] uni|tamente al Mattino e al Mezzogiorno, e scomparve solamente quando l’avvocato Reina pubblicò Il Vespro e La Notte. Ora immagini il lettore la sorpresa, la meraviglia e la stizza del Parini nel vedere così profanata l’opera sua. Per ragioni assai ovvie, che si tacciono per brevità, egli trovavasi in una situazione stranissima; non poteva più compiere il Giorno, secondo l’ordine prestabilito; conveniva mutarne la fine, e per questo motivo compose Il Vespro e La Notte.

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IV.

Del Femia del Martelli, lettere del Manzoni e del Parini – Egli è invitato a Parma – Sua lettera al Wilzeck – I giornali e la Gazzetta di Milano – Come diventò giornalista – Clemente XIV e gli evirati cantori – Intorno all’ode «L’Evirazione» – Gli evirati della Cappella Ducale e del Teatro – Come cessarono.

A lessandro Manzoni scriveva nel 1809 all’avvocato Reina: «Quando io mi pigliai la sicurtà di farle chiedere contezza del Femia, non ardiva già sperare ch’Ella si sarebbe compiaciuta di privarsi per me d’una di quelle carissime copie. Devo alla spontanea sua gentilezza il piacer d’aver soddisfatto alla curiosità che da lungo tempo mi tormentava di vedere questa operetta, ch’io (male interpretando quanto Ella ne dice nella bellissima Vita del Parini) stimava essere il modello del Giorno. Ma questa mia voglia fu ben piacevolmente contenta, quando

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vidi che intatta restava l’originalità d’invenzione e di stile, e, direi quasi, del verso, dell’immortale nostro Parini».1 Questa affermazione non poteva essere nè più solenne, nè più autorevole, e noi dobbiamo esser grati [42] al Manzoni che mise in luce questa verità, senza della quale i meriti altissimi del nostro poeta forse avrebbero potuto subire qualche mutilazione, a cagione del Reina che si credette in obbligo di ricordare una confessione del Parini, Dio sa come detta e come intesa. Traendo ragione da questo fatto non dobbiamo punto meravigliarci se, coll’andar del tempo, i nostri critici si sono lambiccati il cervello per trovare un modello, sul quale il Parini avesse foggiato Il Giorno. Fortunatamente la scoperta è ancora un pio desiderio, malgrado le molte chiacchiere che si son fatte, ed è questa un’altra prova che ribadisce l’originalità d’invenzione, di stile e del verso dell’immortale poeta. Ma qui non è tutto, e questa volta è il Parini medesimo che corregge il Reina, suo biografo. Il 12 dicembre 1768 egli indirizzava una lettera a Pellegrino Salandri, a Mantova, e intrattenealo, a proposito del Femia del Martelli, con queste parole: «Il Femia del Martelli non fu altrimenti stampato a Lugano, come voi supponete, e come io aveva veramente intenzione di fare già è parecchi anni. Voi sapete meglio di me che la prima edizione del Femia fu fatta in Milano per mezzo dello Argelati, al tempo che il Martelli viveva. Ne furono poi per prepotenza del Maffei fatte sopprimere il più che si potè le copie, talmente che sono divenute rarissime. Erami capitata una lettera inedita del Martelli assai lunga, nella quale si raccontavano le vicende del suo Femia, e la condotta de’ suoi emuli per rispetto ad esso. Deliberai adunque di far ristampare il Femia, e con esso alcune note che servivano di chiave, fattevi già dall’Abate Quadrio, manoscritte sopra una copia stampata ch’egli possedeva. A questo unendo [43] la lunga lettera del Martelli, io faceva conto che mi dovesse riuscire un volumetto di una mole convenevole. Il capitano Fe, che voi avete conosciuto, s’incaricò di farne fare la stampa a Lugano: ma dopo di aver da me ricevuto il manoscritto, tirò tanto in lungo la cosa ch’io me ne stancai. Dopo qualche tempo mi propose egli se io gli voleva vendere il manoscritto quale si stava: ed io, che come sapete, ho sempre più avuto bisogno di vendere che di comprare, gliel vendetti. «Questo capitano non istà più a Milano già da più anni, e per quel che io so, non ha più pensato a pubblicare si fatto manoscritto. Vo facendo pratiche per trovarne una copia o stampato o m. s. di esso Femia: ma sono oggimai mancati quei pochi che qui facevano professione di seguitar le Muse, e non c’è più chi goda di conservare simili opere. Tutto vi è divenuto politica e filosofia; e mio danno se dico una bestemmia, credo non ci sia nè Muse, nè politica, nè filosofia».2 Il rumore sollevato dai due poemetti il Mattino e il Mezzogiorno era penetrato anche nel Ducato di Parma, dove il ministro Du Tillot, intento a migliorare l’istruzione pubblica, mirava a circondarsi d’uomini insigni. A questo effetto nel 1766 avea invitato il Parini a recarsi in quella città, offrendogli la cattedra di Elo1 Vedi opuscolo: Una Lettera Inedita del Poeta Giuseppe Parini, del prof. Enrico Paglia – Mantova – Tip. Mondovi, 1881. 2 Vedi opuscolo: Una Lettera Inedita del Poeta Giuseppe Parini, del prof. Enrico Paglia – Mantova – Tip. Mondovi, 1881.

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quenza e di Logica nella Università.1 Quando il conte Firmian, lo seppe, incaricò subito il consigliere conte Wilzeck, affinchè facesse [44] intra|vedere al Parini la speranza di occupare una cattedra a Milano, ciò che venne ricordato dallo stesso Parini in una lettera senza data, che però deve essere del novembre 1768, diretta al conte Wilzeck.2 In questa lunga lettera ricorda il poeta al consigliere le promesse che gli faceva prima di partire per la campagna, e le novelle che si spargevano in città, e proseguendo dicea: «Fino da quando io fui invitato a Parma per esservi impiegato nella lettura di Eloquenza e di Logica, come a V. S. Ill. è ben noto, Ella ebbe la degnazione di farmi nascere in cuore delle speranze d’esser adoperato in Patria, qualora fosse seguita la riforma degli studî, che fin d’allora si prometteva. Si compiacque d’insinuarmi più volte ch’io non partissi di Milano, interrompendo qualche volta alle proprie insinuazioni anche il nome di S. E. (Firmian), e assicurandomi inoltre, che io non mi sarei trovato malcontento dall’essermi trattenuto in Patria…» «Nell’inverno di questo anno passato poi il signor Consigliere Pecis si compiacque d’accrescer le già da me concepite speranze, col propormi, con intelligenza, cred’io, anche di S. E., una Cattedra d’Eloquenza Superiore, in caso che questa Cattedra fosse di quelle che si destinavano per Milano…» Siccome egli temeva che tale Cattedra, come ne correva nel 1768 la voce, non si fondasse più, così coglieva l’occasione d’impinguare la lettera con una lunga dimostrazione sull’importanza che avrebbe avuta una Cattedra d’Eloquenza Superiore in Milano. Pare che questa sia stata una buona idea, poichè, [45] dopo circa un anno, egli venne nominato professore di Belle Lettere nelle Scuole Palatine. Ma prima che avvenisse questa nomina, cioè due mesi dopo che avea scritto la ricordata lettera al conte Wilzeck, il Parini diventava giornalista, ed ecco in qual modo. Prima di tutto conviene por mente che il giornalista d’allora non può essere confrontato con quello d’oggi; allora le gazzette a Milano non erano così numerose, non trattavano di politica, come ai nostri giorni, ed i giornalisti o, per chiamarli meglio, gli stampatori, sotto l’imperatrice Maria Teresa e sotto i governi degli altri Stati italiani, non godevano di quella libertà che gode oggi la stampa nei paesi liberi. A Roma, a Firenze e specialmente a Venezia, la pubblica stampa era più in fiore che a Milano, e il rinomato giornale Il Caffè, che si occupava più di cose scientifiche, e nel quale scrivevano i Verri, il Beccaria, il Lambertenghi, il marchese Longo, il Frisi ed altre persone ragguardevoli di Milano, si stampava a Brescia, nel dominio della Repubblica Veneta. Altri giornali si pubblicavano a Lugano e a Leida, e venivano diffusi a Milano, ma anche questi erano pochi, ed uscivano una o due volte per settimana. Nel 1772 lo stampatore e libraio Galeazzi di Milano pubblicava pure la Gazzetta Letteraria, nella quale si diceva scrivesse anche il Parini, mentre non era vero. Codesti giornali, oltre d’esser pochi, avevano anche un piccolissimo formato, e la Gazzetta di Milano, ch’era privilegiata, misurava appena la grandezza di un foglio di protocollo. Que’ giornali naturalmente non potevano aver l’articolo 1 Alcuni hanno ripetuto che quella Cattedra appartenesse alla Scuola Paggeria Reale, ma le informazioni, assunte all’Archivio di Stato in Parma, lo negano in modo assai chiaro. 2 La data di questa lettera venne desunta da varie circostanze accennate nella lettera stessa.

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di fondo, le corrispondenze telegrafiche e gli scritti polemici; ma tutto si [46] riduceva a una compilazione sommaria di notizie, distinte le une dalle altre secondo il luogo di provenienza. Queste notizie, senza citarne la fonte, venivano copiate, parafrasate o tradotte da altri giornali, o venivano date dal governo, o fornite, come le notizie di cronaca, da qualche abate o frequentatore di famiglie aristocratiche o di accademie. La Gazzetta, prima che il Parini ne assumesse la compilazione, cioè prima del 1769, era intitolata semplicemente Ragguagli di varî Paesi, usciva ogni mercordì, e solamente col primo numero dell’anno 1769 assumeva il titolo di Gazzetta di Milano, con in mezzo ad esso l’aquila imperiale. Nel secondo numero scompariva l’aquila, che veniva surrogata da un disegno ornamentale, avvolgente l’intiero titolo, e sul quale spiccava il motto Medio tutissimus ibis. Fra i documenti che si conservano nell’Archivio di Stato in Milano, relativi ai giornali che si pubblicavano prima dell’invasione francese, non uno parla dell’incarico dato dal Firmian al Parini, e solamente si rileva che il principe Kaunitz, cancelliere di Maria Teresa, si lagnava allora del modo con cui veniva compilata la Gazzetta. A questo proposito il principe Kaunitz scriveva, il 24 novembre 1768, al conte Firmian una lettera con la quale, dopo aver accennato alla Gazzetta di Mantova, si sfogava contro la Gazzetta di Milano (Vedi documento N. 2), che chiamava cattiva, e delle più meschine tanto per il suo stile, che per i suoi ingredienti. Il Firmian, rispondendo il 6 dicembre al Kaunitz, «Convengo, egli scrivea, con V. A. che questa Gazzetta sia delle più insulse e malamente scritte di quante se ne stampino in questi contorni. Ne ho [47] più volte fatto avvertire il Gazzettiere, ma siccome per risparmio della spesa si serve di un suo Manuense, le cose sono sempre andate sull’istesso piede. Ora penserò a far salariare dal medesimo Gazzettiere una persona idonea, e di massime rette per togliere in tal modo, che non accadano le inconvenienze passate; che è quanto posso per ora significare su questo argomento a V. A. in risposta della pregiatissima sua de’ 24 del passato e mi raffermo con insuperabile ossequio». Da tutto questo risulta in modo luminoso, che prima del 6 dicembre 1768 il Parini non compilava la Gazzetta, e che la persona idonea e di massime rette, cui alludeva il Firmian, era appunto lui. Da ciò si capisce che nessun documento di Stato facesse parola del Parini, il quale veniva pagato privatamente da Richino Malatesta, stampatore della Gazzetta. Leggendo il primo foglio 11 gennaio 1769, col motto Medio tutissimus ibis, sentiamo subito che alla penna d’oca, che scrivea i numeri anteriori, era subentrata la penna d’aquila. Le notizie poi venivano esposte con proprietà dì locuzione e stile semplice, da innamorarne qualsiasi amatore della nostra lingua. Sia che narrasse un avvenimento di Corte, un combattimento tra Francesi e Côrsi, o tra Polacchi e Russi, un arresto di qualche padre gesuita, od una trattativa diplomatica, il Parini mostravasi sobrio ed elegante.1 [48] Esaminati poi i numeri della Gazzetta, che tuttora si conservano nella Biblioteca Ambrosiana, dal 1769 al 1774, durante il pontificato di Clemente XIV 1 Il Salveraglio narra a pag. 215 del suo volume: «La verità è che il Firmian, verso la metà dell’anno 1769, essendo venuto a mancare improvvisamente l’estensore dell’officiosa Gazzetta di Milano, non sapendo così subito chi surrogargli, pregò il Parini ad accettare quell’ufficio e a compilar la Gazzetta almeno per un po’ di tempo e finchè non si fosse provveduto altrimenti». Ciò non è esatto; lo provano i documenti riportati in copia, e la lettura della Gazzetta del gennaio 1769.

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(Ganganelli), non abbiamo trovato alcun cenno relativo ai castroni, fatto nel modo indicato dal Reina. Invece nel foglio 16 agosto 1769, sotto la rubrica di Roma, 2 agosto, si legge un lungo riassunto di notizie attinte alla Corte Romana, tra le quali la seguente: «… adunque il papa ha permesso che si aprano i teatri anche in altre stagioni che le solite. A questo proposito si vuole che il prudentissimo pontefice permetterà che recitino nei teatri di Roma anche le donne, prevenendo con savie leggi l’abuso che ne può nascere. Si vuole ancora che sia per escludere dalle sacre funzioni i musici castrati, impedendo così dal canto suo la maggiore e la più esecrabile depravazione che far si possa dell’umana natura, contraria alle leggi divine ed ecclesiastiche. Quando si pretende d’indurre gli uomini a lasciare una cosa malfatta, a cui sono chiamati dal loro interesse, non basta proibirla colle leggi sotto pene temporali e spirituali: bisogna fare in modo che non abbiano più interesse di farla…». Questo brano di notizie romane corrispondeva pienamente alla verità delle cose, ed appunto in quel torno di tempo il Parini deve aver composto l’ode L’Evirazione, con la quale, acceso d’ira grandissima, si scagliava contro la società del suo tempo e la colpiva col suo dardo terribilmente austero. Egli esclamava: Ahi pera lo spietato Genitor che primiero Tentò di ferro armato L’esecrabile e fiero Misfatto onde si duole La mutilata prole! Tanto dunque de’ grandi Può l’ozioso udito.

[49] E per capire tutto il peso della maledizione, che il poeta scagliava con quest’ode all’infame costume che si pascea di questi delitti, convien sapere che la castrazione si facea quando gl’insegnanti di musica si accorgevano che i loro alunni avevano la voce necessaria, cioè quando erano giunti all’età di oltre quindici anni. Naturalmente la voce non basta per cantar bene; conviene educarla, ci vuole orecchio, occorre talento musicale; ed in causa appunto di tante circostanze avveniva che, di venti evirati, appena uno fosse in grado di cantare con un certo successo. Oltre il vituperio, anche il danno consigliava l’allontanamento degli evirati dai teatri e dalle chiese, per togliere la spinta al delitto dell’evirazione; e quantunque si fossero fatte leggi punitive, a queste non si ricorrevano, se non quando il delitto diventava clamoroso, o veniva denunziato dalle parti interessate. Dalla Cappella del palazzo ducale gli evirati sparvero assai tardi. Nel 1767 i ruoli dei musici comprendevano due soprani, Giovanni Negri e Giovanni Antonio Grandati; e tre contralti, Paolo Romolo Rainone, Stefano Valcamonica e Francesco Bonaguzzi. Gli evirati poi che cantavano sui teatri sfiguravano i caratteri dei personaggi che rappresentavano, come lo accenna il Parini medesimo nel componimento in terzine, Il Teatro, ed erano talmente petulanti ed insolenti, che non si poteano sopportare. Certe femmine lascive e laide dell’aristocrazia, per non correre il pericolo di apparire pubblicamente disonorate, andavano a gara nel preferirli agli uomini.1 [50] Il Parini, che aveva un ideale altissimo della dignità umana, apostrofa così il padre che mira a crearsi una fortuna evirando il figlio: 1 Vedi anche le Memorie sulla riforma dei Teatri del 1798 – Archivio di Stato.

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le biografie Misero! A lato ai regi Ei sederà cantando Fastoso d’aurei fregi; Mentre tu mendicando Andrai canuto e solo Per l’italico suolo: Per quel suolo che vanta Gran riti e leggi e studi, E nutre infamia tanta Che agli Affricani ignudi, Ben che tant’alto saglia, E ai barbari lo agguaglia.

Ben detto! ben definito! grideranno in ogni luogo e tempo i galantuomini di questo mondo. Con tutto ciò l’evirazioni non cessavano, e se negli anni 1717 e 1718, fra gli evirati della Cappella di Corte, si contava anche il contralto sacerdote Don Sebastiano Vianova, nel 30 marzo 1784 l’arciduca nominava il musico soprano Antonio Priora al posto del defunto Gio. Antonio Grandati, e nel 1789, a 76 anni, pensionava il contralto Francesco Bonaguzzi. A maggior vituperio di quell’età certo Pasquale Zaccaria, nelle sue Decisioni Morali, sosteneva che i padri avean diritto di mutilare i figli per conservarne o svilupparne la voce, e ci voleva proprio il furor cisalpino che, colla riforma dei teatri, desse un fiero colpo agli evirati cantori della scena, e licenziasse quelli dell’ex-Cappella ducale. Il Baretti dichiarava che gl’Italiani venivano distolti dall’istruir nella musica le loro ragazze per la sregolatezza di costume de’ migliori cantori e maestri nostri. Gli evirati [51] can|tori de’ teatri erano in gran parte anche compositori di musica, e cantando pezzi meschinamente musicati, riscotevano grandi applausi, perchè sapevano infiorarli di volate, che facevano andare in visibilio il pubblico. Ma quando comparve il Rossini e volle che la sua musica magistrale fosse cantata quale l’avea egli scritta, la femminea gola ebbe il sopravvento, e gli evirati, verso la metà del nostro secolo, scomparvero affatto.1 [52]

V.

Le Scuole Palatine – La Deputazione degli studî – Progetti di riforme – Cicognini, Parini e Moscati – Progetti di trasportare l’Università di Pavia a Milano – Il Parini è proposto professore nelle Scuole Palatine – Progetto del Parini per la Cattedra di Eloquenza – Suo stipendio – Privilegi dei professori e studenti – La censura dei libri – Le Scuole Canobbiane – Secondo periodo della vita del Parini – Sua prolusione – Elogi del Kaunitz – Prima lezione del Parini – Le medaglie per la ristorazione delle Scuole e il Parini – La Biblioteca Pertusati – Affollamento delle Scuole Palatine – Chiacchiere sui nuovi professori e lettera di Giorgio d’Adda – La riunione delle Scuole – L’abolizione dei Gesuiti – Il Parini collocato in pianta stabile.

I l conte Firmian s’era gettato a corpo perduto nel mare magno delle riforme, e spingeva sulla via del progresso la Lombardia austriaca affidata alle sue cure. 1 Vedi anche: Musici della Cappella di Corte – Culto – Archivio di Stato.

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Il sogno ch’egli accarezzava era la istruzione pubblica, che tanto ancora risentiva della dominazione spagnuola, e da vario tempo avea potuto raffermarsi nell’idea, che le scuole non corrispondevano all’esigenza dei tempi. Nel 1764 le Scuole Palatine si componevano di sei cattedre. Il professore Croce insegnava le Istituzioni; Silva, il Diritto provinciale e municipale; Porta, l’Eloquenza greca e latina; Frisi, la Matematica; Valcarenghi, la Medicina [53] teorico-pratica-razionale; ed ancor vacante era l’insegnamento della Pratica criminale.1 Queste cattedre, dove il professore si limitava a leggere le sue lezioni agli studiosi che venivano ad ascoltarle, costituivano una piccola appendice della Università di Pavia. Le Scuole Palatine allora si trovavano in locali annessi alla Loggia degli Osii, ed anzi vi si aveva l’accesso dalla Loggia medesima, nella quale agli scolari era lecito passeggiare, finchè arrivassero i professori. Il Firmian, valendosi del consiglio dei dotti e del favore che le sue proposte trovavano a Vienna, pose mano alla riforma di queste scuole con quello studio, diligenza, assiduità ed arditezza che gli venivano e dal posto che occupava, e dall’interesse e dall’amore che nutriva verso il paese alle sue cure affidato. Con questi intenti modificò ed accrebbe il numero delle cattedre, ed aumentò i professori; quindi assai più numerosi accorsero gli scolari, e quantunque per circostanze speciali una o due cattedre rimanessero senza uditori, la frequenza delle altre, per mancanza di locali, diventava imbarazzante. Queste novità incominciarono a manifestarsi con molto interesse nel 1765, e fino dal 7 febbraio il principe Kaunitz scriveva al conte Firmian una lunga lettera (Vedi documento N. 3) colla quale accompagnandogli il regolamento sull’istruzione pubblica, [54] allora vigente in Vienna, dimostrava il più intenso desiderio che si affrettasse la grande riforma de’ pubblici studî nella Lombardia austriaca. Il conte Firmian, il giorno 16 successivo, accusava ricevuta del regolamento o piano avuto, e fra le altre cose scriveva al Kaunitz: «. . . . . riferirò l’occorrente per quelle opposizioni che potranno incontrarsi dalla parte del Senato, avvezzo da lunghissimo tempo a regolare con indipendenza l’Università di Pavia, in virtù delle facoltà ad esso attribuite dalle Nuove Costituzioni, nel titolo De Senatoribus». Per togliere quindi a questo corpo fossilizzato qualsiasi ingerenza nei pubblici studî, col reale dispaccio 24 novembre 1765 venne nominata una Deputazione per la direzione degli studî. Essa si componeva del conte Gian Rinaldo Carli, presidente del Supremo Consiglio di Economia; di don Nicola Pecci, senatore; di don Michele Daverio, regio economo; di don Giuseppe Pecis, consigliere del Consiglio suddetto; di don Giuseppe Cicognini, dottor fisico; e di Giuliano Castelli, segretario; presiedevala lo stesso Firmian. Il principe Kaunitz, nel mandare al ministro plenipotenziario il dispaccio accennato, dimostravagli la sua grande contentezza perchè si applicava «seriamente alla riforma degli studî, di cui tanto abbisogna lo Stato di Milano, il quale da specchio che era della buona letteratura ne’ secoli trasandati, per un vizio intrinsico alla legge provinciale eccita al giorno d’oggi, considerato general1 Le Scuole Palatine sono di origine antichissima; vuolsi che discendano dalle pubbliche scuole, esistenti in Milano ancor prima dell’imperatore Ottaviano, delle quali fossero alunni Virgilio, Valerio, Catullo ed Ovidio, e dove poscia insegnasse S. Agostino. Queste scuole, cadute in deperimento, vennero ristorate dal primo duca Giov. Galeazzo Visconti, e collocate dal di lui figlio Gio. Maria nel Palazzo in Piazza dei Mercanti.

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mente, la compassione degli stessi Dominj circonvicini. I vari particolari milanesi, che si distinguono nella purità e solidità del sapere, sono tanto più d’ammirarsi, quanto più da principio si trovarono destituiti di mezzi per [55] giungere ad un tal grado di merito; e non si può che compiangere il tempo da essi perduto nell’empirsi di pregiudizj, e poi nel liberarsene, che mediante una buona istituzione avrebbero potuto lodevolmente impiegare a pubblico benefizio». Il Kaunitz, il 15 settembre 1766, chiedeva fra le altre cose al Firmian: «Desidero di sentire il savio parere di V. E. sopra la questione: Se l’Università di Pavia potrà sussistere colle Scuole Palatine di Milano, o se più tosto converrà abolirle». Il giorno 27 successivo rispondevagli il Firmian: «Quanto alle Scuole Palatine, se queste cioè debbano ritenersi separate con diminuzione del fondo annuo dell’Università, non si è per ora esaminata la questione; ma per quello che ne penso, l’abolire affatto simili scuole in Milano sarebbe un motivo di dispiacere pubblico, senza un notabile profitto, ma basterà di ridurre le sue cattedre ad un ristretto numero, com’erano in passato, e conservare solamente le più necessarie…». In questo modo il Firmian evitava lo scioglimento della questione come avvisava il Kaunitz, e si apparecchiava, contrariamente alle suddette affermazioni, all’accrescimento delle cattedre delle Scuole Palatine. La Deputazione degli Studî, il 23 settembre 1767, aveva presentato un piano di riforma dell’istruzione in generale, e riguardo alle Palatine avea proposto di aumentare due cattedre, compresa quella di Scienze Camerali, alla quale veniva poi chiamato Cesare Beccaria. Prima però della presentazione del piano, il medico Giuseppe Cicognini avea inoltrato alla Deputazione degli Studî una relazione d’interesse straordinario, intorno ad una radicalissima riforma di tutto l’insegnamento. Per capire l’importanza della proposta del Cicognini, è d’uopo ricordare prima di tutto [56] ch’egli era uno dei medici più celebri di Milano; legato d’amicizia colle più illustri famiglie, possedeva anche la confidenza del Parini, ed aveva per collaboratore in più occasioni Pietro Moscati. Fra questi tre nobili ingegni più d’una volta deve essere corsa parola intorno ad una riforma radicale degli studî, e siccome le proposte del Cicognini toccavano questioni scolastiche, al cui scioglimento il Parini aveva dimostrato nell’ode L’Educazione e dimostrava in seguito, sotto l’aspetto generale dell’influenza fratesca, le medesime idee del celebre medico, così esce fuori spontanea la supposizione, che il nostro poeta non fosse del tutto estraneo al lavoro del Cicognini medesimo. Scriveva questi nella citata relazione le seguenti testuali parole: «Sono passati quattro secoli senza che l’Università di Pavia abbia mai avuta una forma costante di Leggi e di Costituzioni, valevoli a mantenere regolarmente il governo politico, la economia e la disciplina scolastica della medesima. Dalla mancanza di queste leggi riconosce l’Università di Pavia il suo deperimento, e riconosce la Lombardia la totale perdita delle scienze e delle lettere. Il decadimento dell’Università regia, ridotta alla condizione di un pedagogio, destituita di ogni assistenza, di macchine, di teatri, di biblioteca, di osservatorio, di orto botanico, e degli altri sussidj necessari per la culta istituzione della gioventù, ha incoraggito i Gesuiti ed i Barnabiti ad aprire e moltiplicare nelle loro case le scuole non solo minori, ma anche di teologia, di morale, di matematica, di gius canonico; e questo decadimento con egual modo ha pure incoraggiti i Collegi, i Corpi e le persone ad abusare del titolo di Conti Palatini, conferendo gli onori accademici, e [57] prostituendo le lauree e dottorati. Di più i collegi stessi

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delle Facoltà sonosi sottratti dal formare corpo con la Università, divenendo Corpi Civici e di Ordine Equestre. Finalmente il vescovo di Pavia alle funzioni di cancelliere dello studio, ha aggiunto l’esercizio di altre giurisdizioni, le quali dovevano essere unicamente riserbate alla Università, perchè sono di rito accademico; ed ha perfino eretto un Collegio Teologico di Gius privativo episcopale, escludendo li professori dell’Università.» «Nel totale abbandono, in cui è rimasta pel lungo corso d’anni la Università di Pavia, i geometri, gli idrostatici, gli ingegneri, i notai, i causidici ed i teologi, non solo si sono sottratti dal frequentare le regie scuole, ma di più nell’esercizio delle loro professioni sonosi mantenuti con tale indipendenza dalle leggi scolastiche, e con eguale indipendenza si sono finora conservate le case e collegi di convittori ed alunni studenti.» «Da tutto questo è nato, che la Lombardia austriaca, in oggi popolata di un milione d’abitanti, somministra all’Università di Pavia, mantenuta a spese regie, appena ottanta studenti sudditi, frattanto che più centinaia di scolari frequentano le scuole de’ frati, e frattanto che le doviziose e comode famiglie fanno emigrare i loro figli nelle Università de’ vicini Dominj, preferendo così di allontanarli dalla Patria e di spendere fuori dello Stato, piuttosto che determinarli a frequentare le Scuole Regie, conoscendo che queste sono, non solo decadute da ogni lustro, ma di più, che in esse mancano i principali mezzi, per ottenere una lodevole pubblica educazione». Chiudeva quindi il Cicognini la sua relazione proponendo l’abolizione dell’Università di Pavia e [58] delle Scuole Palatine, e la fondazione in Milano, nel palazzo Brera, di una grande Università, sottomettendo alla legge comune tutti gl’istituti di educazione, che si trovavano alle dipendenze dei frati. Il progetto era arditissimo e promettente di splendidi risultati, ma appunto per questo e per non sollevare un vespaio, a cagione di tanti interessi che si sarebbero con quello offesi, venne abbandonato. Il principe Kaunitz invece, il 16 novembre 1767, avuto il piano di riforma, non si mostrava molto contento del medesimo, per la selva di progetti che conteneva, e subito metteva innanzi il quesito, quasi contemporaneamente al Cicognini, se si doveva portare l’Università di Pavia in Milano. Egli era entusiasta di questo trasporto, ed assai lo caldeggiava, appoggiandosi ad una serie di considerazioni che avevano molto peso e valore. Appena la città di Pavia s’accorse del sovrastante pericolo di rimanere priva dell’Università, pose in moto i decurioni e gli altri corpi civici, i quali tanto fecero ed influirono, che il Firmian, il 12 dicembre successivo, rispondeva al Kaunitz, essere essenziale che l’Università rimanga a Pavia. Intanto, fra un progetto e l’altro, il tempo passava; e fino al marzo 1769, quantunque si avessero aumentate di parecchie cattedre le Scuole Palatine, non si pensava ancora al collocamento del Parini. Il Firmian, il 23 settembre successivo, scriveva al Kaunitz di essersi dimenticato nella precedente lettera 29 agosto di rassegnare la nota delle nuove cattedre dell’Università di Pavia e delle Scuole Palatine, e testualmente soggiungeva: «Per la cattedra di eloquenza e di storia avevo in vista l’abate Parini e l’abate Villa, l’uno e l’altro milanesi. Se due devono [59] essere queste cattedre, avrei proposto il primo per Milano e il secondo per Pavia. Si tratta di due uomini di talento, conosciuti ambedue per qualche saggio dato al pubblico del loro sapere, e pressati dal bisogno di un impiego». Il 5 ottobre rispondevagli il Kaunitz: «Non è qui sconosciuto l’abate Parini, autore del Mattino e Mezzogiorno, che certamente pare uomo di spirito e di ta-

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lento. Vorrei però che alla cattedra proposta per esso da V. E. esistendone già una a Pavia sotto il nome di Eloquenza, ne fosse dato un altro più esteso, e che annunciasse lo studio della letteratura greca e latina, come sarebbe quello di Filologia». Il Firmian scriveva al Kaunitz in proposito il 17 ottobre: «Si degnerà pure l’A. V. d’osservare il penultimo articolo della stessa parte del piano che appartiene alla cattedra di Eloquenza nelle Scuole Palatine. Questo è stato preparato dall’abate Parini, a cui l’avevo già commesso prima di ricevere il poscritto di V. A. alla lettera de’ 5 del corrente; e però quanto a me pare, si è approssimato all’idea di questa cattedra che in esso poscritto si è degnata di accennarmi». Intanto avendo il Firmian mandato a Vienna il ruolo de’ professori, fra i quali era compreso il Parini collo stipendio annuo di milanesi lire 2000, il Kaunitz, il 30 dello stesso mese, faceagli osservare: «Quantunque io veda con molto piacere trovata una conveniente nicchia per i due valenti soggetti abate Villa e abate Parini, e trovi pure espediente l’impiego del dottor Vincenzo D’Adda alla cattedra dell’Arte Notarile, parmi però, attesi lo stato dei due primi, le proprie facoltà, ed altro impiego del terzo, e finalmente il quantitativo delle lire 1500 fissato in regola per gli stessi secolari nazionali, atteso tutto [60] ciò, dissi, parmi troppo forte il soldo di lire 2000 proposto per cadauno de’ suddetti tre individui. Ritenute l’enumerate circostanze, io sono quasi certo, che tutti e tre si sarebbero contentati di meno; e si verrebbe così a guadagnare e la possibilità e la soddisfazione di aumentare i loro rispettivi stipendj a misura de’ maggiori meriti». E più innanzi, a proposito del piano degli studî, soggiungeva: «Ripassando frattanto detto piano ho osservato l’articolo spettante alla cattedra d’Eloquenza nelle Scuole Palatine in sè stesso molto eloquente, e scritto coll’eleganza famigliare all’abate Parini, sia molto dilatato, e convenga meno col titolo di Eloquenza, che con quello delle Belle Lettere. A questa osservazione si riduce tutto ciò, ch’io trovo da ridirvi; ma non vi è gran male, piacendomi anzi tale estensione del soggetto, poichè così abbraccia esso anche l’Arte Critica e quasi tutta la Filologia». «Torno dunque a dire un’altra volta all’E. V. che facendosi comunemente poca differenza fra lo studio dell’Arte Rettorica, ch’è meramente elementare, e quello dell’Eloquenza, il titolo di questa potrebbe forse allettare auditori fra le persone adulte in Milano; e al fine di essa sembra bastante la cattedra già fissata in Pavia. Secondo me alle Scuole Palatine in Milano converrebbe sempre più la stessa cattedra, ma sotto il nome di Belle Lettere; nella quale si dessero i principj, i precetti e gli esempi del buon gusto in tutte le parti delle Facoltà spettanti all’immaginazione, all’erudizione, all’antichità, alla critica, insomma a tutto il complesso della Filologia, appunto dietro l’idea divisata, e disposta dall’abate Parini nel suddetto articolo». Dopo la firma, il Kaunitz scriveva il seguente [61] po|scritto: «Se l’E. V. concorre nell’idea, ch’io mi sono fatta della cattedra destinata all’abate Parini, la prego di voler fare da esso riadattare il suo articolo del piano in modo, che questo non si riferisca principalmente all’Eloquenza, ma allo studio della Critica e Filologia o sia delle Belle Lettere». Non si sa, per mancanza di documenti, come sia andata a finire la questione dell’articolo del piano del Parini; ma riguardo allo stipendio, il Firmian, l’11 novembre 1769, rispondeva al Kaunitz: «L’abate Parini è affatto sprovveduto di patrimonio, e nello stesso grado è l’abate Villa, il che mi credo in obbligo di rap-

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presentare all’A. V. nel caso le supposte facoltà dell’uno e dell’altro siano il solo motivo di riputare soprabbondante ai loro bisogni il soldo di lire 2000. Del rimanente mi rimetto a quanto piacerà all’A. V.». Il Kaunitz rispondeva, il 22 gennaio 1770, al Firmian in proposito: «Quanto io scrissi a V. E. nella mia P. S. del 30 ottobre dello scorso anno in ordine al soldo assegnato nel Ruolo a tre nuovi professori, abate Parini, abate Villa e dottor d’Adda, era piuttosto una considerazione nata dal confronto col piano de’ soldi per gli altri Professori, che una difficoltà tendente a minorare l’assegnamento de’ medesimi. Che se in vista del merito dei soggetti, e del consultato da V. E. e prima, ed ora nuovamente nell’ultima sua del 9 corrente mi rimetto per rapporto al quantitativo delle lire 2000, crederei però, e credo tuttavia, che non vi ha nè titolo, nè bisogno di portare l’assegno in questione al di là di questa somma, come la citata dell’E. V. sembra insinuare. Si tratta di Professori nazionali, e impiegati per la prima volta nelle Professure, de’ quali per [62] conse|guenza conviene vedere l’incamminamento, e il successo. Il soldo fissato per essi è certamente discreto. V. E. mi ha assicurato, che di quelli tre soggetti due erano in prima del tutto sprovvisti, e il terzo è altronde sufficientemente provveduto. Pare quindi che nessuno di essi possa con ragione lagnarsi; e pure l’E. V. sa, che secondo la massima presa da S. M. si riserba la medesima successivamente a premiare i meriti di ciascun de’ Professori, che anderanno distinguendosi, e segnalando la loro applicazione con utili produzioni». Il 3 febbraio successivo il Firmian faceva noto al Kaunitz: «I nuovi professori Parini, Villa e d’Adda, da me tosto avvisati della beneficenza di V. A. si sono mostrati non meno riconoscenti verso la medesima, che appieno soddisfatti del soldo di lire 2000 loro assegnato: e certamente lo devono essere, dappoichè non potevano essi ragionevolmente sperarne uno maggiore; siccome io pure, avuto riguardo non meno alle loro circostanze, che al piano dei soldi per gli altri professori, ho creduto quanto desiderabile per una parte, che il soldo loro giungesse alle lire 2000, altrettanto per l’altra ragionevole che non le oltrepassasse».1 E qui termina per ora la questione dello stipendio, di cui i lettori, quantunque manchino parecchi documenti in proposito, si avranno fatta un’idea abbastanza chiara. Non pare che i professori allora nominati godessero l’immunità o il privilegio dell’esenzione dal [63] dazio civico sul vino, sulle carni e sulla macina, non avendone trovato cenno fra i documenti. Fino all’anno 1767 questo privilegio esisteva non solo per la persona del professore, ma anche per la sua famiglia, e ciò non oltre le sei bocche. Nel determinare il numero delle bocche si aveva riguardo allo stato civile e alla condizione sociale del professore e della sua famiglia, e l’esenzione di questo dazio si traduceva in atto col pagamento di un’annua indennità al professore medesimo. Nel 1764, come risulta dagli atti relativi, questo privilegio dei professori, compreso il bidello, delle Scuole Palatine era rappresentato tra un massimo di lire 1735 ad triennium, ed un minimo di lire 173. Un secolo prima i professori, oltre queste immunità, godevano anche l’esenzione dal pagamento delle tasse sui fondi, case, ecc., che poi cessò. Anche gli alunni delle Scuole Palatine godevano 1 Per tutte le notizie sulla riforma degli studî e sulla nomina del Parini vedi buste: Provvidenze Generali – Università di Pavia – Archivio di Stato.

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i privilegi come gli studenti dell’Università di Pavia, tra cui il privilegio di scontare il carcere, in caso di condanna, nel proprio domicilio.1 Negli anni precedenti al 1769 il Firmian si era occupato di una grossa questione, che aveva una certa attinenza con la pubblica istruzione e rappresentava una grande conquista del potere civile su quello ecclesiastico. Prima dello stesso anno la censura dei libri veniva fatta dall’Arcivescovo, dall’Inquisizione e dallo Stato, e mentre l’autore di un libro, o lo stampatore, si trovava impacciato a superare queste tre barriere, avveniva di sovente che le tre censure si trovassero fra di loro in conflitto. E tralasciando di narrare il caso toccato al Baretti [64] nel 1762, che non potè pubblicare i fogli de’ suoi viaggi, per divieto del governo ed a cagione delle pretese del ministro di Portogallo, è d’uopo riportare un brano di una lettera inedita di Pietro Verri, per far conoscere in qual modo funzionava la censura dell’Inquisizione. Il 19 febbraio 1765 scriveva il Verri, tra le altre cose, al conte Firmian: «Mi resterebbe di esporre rispettosamente all’Eccellenza Vostra come dall’Inquisizione si contrasti il permesso d’introdurre la Difesa del Libro dei Delitti e delle Pene, con qual ragione non saprei immaginarlo, tanto più che già nel Paese si vedono le accuse: Ma siccome mio Padre ne ha parlato e che l’affare non è deciso, così mi riserverò questa Quaresima a ragguagliarne ovvero a supplicarne l’Eccellenza Vostra alla quale con profondo rispetto m’inchino». Nello stesso giorno il Firmian rispondevagli: «… Rispetto al libro, per cui V. S. Ill. incontra qualche contrasto presso l’Inquisizione, attenderò che il suo Sig. Padre si restituisca alla città, per parlare col medesimo di questo affare…». Dopo lunghissimo carteggio coll’Arcivescovo e coll’Inquisizione per un amichevole componimento della vertenza, riuscito vano per l’ostinazione della potestà ecclesiastica, il Firmian ottenne dall’imperatrice un dispaccio, riassunto dallo stesso Parini nella gazzetta 11 gennaio 1769, nel seguente modo:2 «Maria Teresa ad oggetto di conservar la dottrina cattolica nella sua purità e l’illibatezza della sana morale e della polizia de’ costumi, come [65] altresì l’indennità de’ diritti competenti alla podestà suprema del principato, dopo avere inutilmente invitati, com’Ella degna di esprimersi, il Cardinale Arcivescovo e l’Offizio della Inquisizione a Milano a concorrere seco ad un fine egualmente interessante la Chiesa e lo Stato, ha con dispaccio del 15 dicembre rivendicato alla Suprema Podestà Legislativa la Censura de’ Libri, come un ramo della civile polizia ed una dipendenza della Pubblica Istruzione». Questa decisione fu accolta con manifesta soddisfazione dai dotti, e segnò il primo passo della separazione della potestà civile dalla ecclesiastica. Intanto i locali delle Scuole Palatine, annessi alla Loggia degli Osii, non bastavano all’accresciuto numero dei professori e degli scolari, ed il Firmian dovette pensare a servirsi di altre aule. Era costume in que’ tempi che quando un professore, per la rigidezza della stagione o per altro plausibile motivo, non poteva recarsi a far lettura nell’aula, veniva autorizzato a rimanersene a casa, purchè ivi continuasse le sue lezioni e si raccogliessero gli scolari ad udirle. Seguendosi questo sistema, venne approvato che i professori Croce, Visconti, Bigoni, Lampugnani, Beccaria e Boscovich, approfittando della libertà loro 1 Vedi documenti Scuole Palatine – Archivio di Stato. 2 Vedi documenti: Censura, Dispacci Reali e Corrispondenza colla Regia Corte – Archivio di Stato.

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concessa, facessero le lezioni nelle rispettive loro abitazioni, e nelle ore più favorevoli, affinchè gli alunni potessero intervenirvi. Per gli altri sei professori, essendo impossibile fissare nella sola aula delle Scuole Palatine le ore a tutti egualmente comode, venne approvato l’uso della cattedra delle Scuole Canobbiane, che si trovavano sull’area dove ora sorge il teatro Lirico; e così i professori D’Adda e Parini [66] lessero ivi, e l’aula delle Palatine rimase libera ai professori Porta, Silva, Frisi e Longo.1 E qui, per meglio spiegare la vera cagione che spinse il Firmian a valersi dei locali delle Scuole Canobbiane, si ricorda che, nell’anno 1770, tra il governo, l’amministrazione dello Spedale Maggiore che teneva i fondi dell’eredità Canobbio per l’esercizio di quelle scuole, e il Collegio de’ Nobili Giurisperiti che le amministrava, erasi convenuto dopo lunghe trattative d’incorporare le Canobbiane nelle Scuole Palatine. Questa incorporazione autorizzava il governo ad aumentare la Cassa degli Studî coi fondi delle Scuole Canobbiane, ed il Collegio de’ Nobili Giurisperiti a nominare per terna gl’insegnanti alle cattedre delle scuole incorporate. Questa convenzione venne approvata dall’imperatrice Maria Teresa con dispaccio 3 novembre 1770. Il Parini, divenuto professore e provveduto di un conveniente stipendio che non gli lasciava mancare le cose più necessarie, divenne subito più riguardoso e più sobrio nel giudicare le umane debolezze, ma non mutò carattere. Da questo punto egli, come lo attestano i suoi lavori, compose la sua musa a quella moderazione che, pur lasciando dire la verità, non recasse onta o dispetto a quella certa classe di persone, che, forse in qualche modo, poteva danneggiarlo, facendogli diminuire presso la Corte la stima in cui lo si teneva. Nella sua nuova condizione di professore trovavasi più di sovente a contatto coi nobili e coi patrizi; più di sovente frequentava le loro case, e qualche volta si lasciava illudere o lusingare dalla bellezza o dai modi squisitamente gentili di qualche dama. [67] Da questo momento egli entra nel secondo periodo della sua vita; le lodi agli uomini e alle donne non si lasciano da lui molto desiderare; è ben vero che qualche po’ di stoicismo gli resta ancora, ma la fine del Giorno rimane un pio desiderio degli ammiratori del Mattino e del Mezzogiorno. Decisamente nel passaggio dal primo al secondo periodo della sua vita, il Parini ha qualche punto di somiglianza con gli studenti delle nostre Università, i quali, compiuti gli studî, si dedicano ad un impiego. Nella Gazzetta di Milano 13 dicembre 1769 leggiamo: «Il sig. Abate Giuseppe Parini, nuovo Regio Professore di Belle Lettere in queste Scuole Palatine, aprì la mattina del giorno 6 del corrente mese il corso della sua lettura con un discorso italiano sopra l’influenza delle Belle Lettere nel progresso, e nella perfezione di tutte le Belle Arti. Sua Eccellenza il sig. Conte Ministro Plenipotenziario l’onorò della sua presenza, come pure v’intervennero varj membri della Regia Deputazione degli studj, ed altra scelta Udienza in molto numero». Questo modestissimo annunzio fu compilato dal Parini medesimo, che allora scriveva la gazzetta. La prolusione del nostro professore, che fu poscia pubblicata dal Reina, al momento della lettura era già stampata, poichè il Firmian il 16 dicembre ne spediva a Vienna al principe Kaunitz alcune copie. Il Kaunitz, il 28 dello stesso me1 Vedi documenti Scuole Palatine – Archivio di Stato.

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se, rispondeva al Firmian con una bellissima lettera che cominciava così: «Corrisponde pienamente alla mia aspettazione il discorso dell’abate Parini, pronunziato nell’aprimento della nuova sua Cattedra di Belle Lettere, del quale [68] V. E. si è compiaciuta rimettermi alcuni esemplari con una sua d’offizio de’ 16 corrente». Gli elogi che il Kaunitz prodigava al Parini non diminuivano punto nell’avvenire, ed aumentavano invece la grande stima che il governo imperiale avea del celebre poeta e professore, sebbene non mancassero a Milano i soliti invidiosi, intenti a farlo apparire d’ingegno affatto comune. Nel giorno 8 gennaio 1770 il Parini, alle ore 12 precise, leggeva la sua prima lezione nell’aula delle Scuole Canobbiane, mentre alla medesima ora, nell’aula delle Palatine, leggeva pure la sua prima lezione il teologo marchese Longo, professore di Diritto pubblico ecclesiastico. Nel primo anno scolastico il Parini contava ventitrè uditori, tutti milanesi, meno due, uno di Bobbio ed uno d’Asti; alcuni appartenevano alla nobiltà ed alcuni altri alla borghesia, e primeggiavano su tutti, per numero, gli abati. Questa affluenza di uditori ritenevasi assai considerevole in proporzione degli uditori di alcune altre cattedre, ch’erano pochissimi. Il 9 settembre 1770, il principe Kaunitz, a proposito dei professori e dei libri di testo, partecipava al conte Firmian: «Più libertà si deve accordare al professore delle Belle Lettere abate Parini, per essere tanto vasti i confini della sua sfera, quanto lo sono quelli del buon gusto; e certamente non è facile suggerire un libro classico da prescriversi, sebbene n’esistano assai buoni in ogni lingua; osservo però anche nel di lui piano una predilezione per l’eloquenza». Il 30 marzo 1771, il conte Firmian scriveva al professore Don Giuseppe Croce, speciale delegato delle Scuole Palatine, «di trovar bene che [69] dall’Uni|versità si rendano le grazie a S. A, il sig. Kaunitz per il dono fatto a professori delle medaglie coniate in memoria della ristorazione delle medesime» e proseguiva dicendogli: «Potrà Ella adunque unire questi professori, i quali faranno la formale deputazione nell’Abate Parini, qual professore d’Eloquenza, a presentare in una lettera al sig. Principe li riconoscenti sentimenti del Corpo delle Scuole Palatine». Accettato ed eseguito l’incarico, il Parini rispondeva al conte Firmian: «Eccellenza. – In adempimento degli ordini di V. E. e della Deputazione in me fatta dal Corpo dei Professori sottometto umilmente alla superiore ispezione dell’E. V. la compiegata lettera; e supplico a nome dei Professori medesimi che V. E. si degni d’inoltrarla ov’è destinata. – Sono con profondo rispetto – di V. E. – Milano 8 aprile 1771 – Umilis.mo Serv.re Giuseppe Parini».1 Il Firmian, ricevuta la lettera del Parini, ne faceva tirar copia (Vedi documento N. 4), e mandava l’originale al principe Kaunitz. In questo importantissimo documento esterna il professore i più sentiti ringraziamenti all’imperatrice ed al suo cancelliere, e nello stesso tempo ricorda con compiacenza il reale dispaccio 18 febbraio 1771 con cui Maria Teresa, fra le tante cose disposte a favore del1 Questa lettera del Parini e la precedente del Firmian dovrebbero trovarsi nell’Archivio di Stato, fra le carte Provvidenze Generali della Università di Pavia, unitamente alla copia della lettera del Parini spedita al Kaunitz, ed invece trovansi presso il signor Carlo Vambianchi, raccoglitore d’autografi. Il prof. E. Bertana ne trasse copia che pubblicò nella Rassegna Bibliografica della Letteratura Italiana, N. 3 e 4 – 1898.

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l’istruzione, confermava di destinare a comodo universale della città di Milano la biblioteca Pertusati, acquistata nel 1763 dalla Congregazione dello Stato, per farne dono [70] al|l’arciduca Ferdinando, futuro governatore della Lombardia austriaca. L’acquisto della biblioteca, già appartenente al conte Pertusati, presidente del Senato, nella cui casa si raccoglievano gli arcadi dell’Insubria, ha una importanza grandissima nella storia letteraria. Nel 20 novembre 1762 il conte Firmian aveva scritto al Kaunitz in proposito, ma, a cagione della guerra colla Prussia e della penuria di danaro, non si aveva nulla conchiuso. Il 30 marzo 1763 il principe Kaunitz riferiva finalmente all’imperatrice, che la detta biblioteca conteneva una copiosa raccolta delle cose più rare in ogni genere di letteratura; che da principio voleva acquistarla il re di Portogallo, indi il pontefice Clemente XIII desiderava d’averla in Roma, e tendea a farla rilevare dal generale degli Agostiniani; e che da ultimo il ministro Du Tillot, a nome del duca di Parma, insisteva nell’acquisto sino allo sborso di 17 mila zecchini. Per distogliere dalle trattative il terzo acquirente, venivagli significato, che in paese era sorta l’idea di non permettere l’estrazione della biblioteca, per comperarla e farne dono al futuro governatore della Lombardia, l’arciduca Ferdinando. A questo scopo appunto il Firmian si era adoperato per farla acquistare dalla Congregazione dello Stato; avea interessato anche i decurioni, ma con esito dubbio. Egli quindi accaparratasi l’adesione dei Consigli generali e delle Congregazioni del patrimonio delle altre provincie, ritornava alla carica, e facendo intravedere che la biblioteca verrebbe provvisoriamente riposta nel palazzo ducale, e che al soldo del bibliotecario avrebbe provveduto il bilancio camerale, otteneva la sera del 4 maggio il voto unanime della Congregazione dello Stato. Il contratto fu steso il [71] 1º giugno fra il conte questore Luca Pertusati e la Congregazione; il prezzo fu stabilito in L. 240 mila, pagabile in sei rate di L. 40 mila, la prima in settembre 1763 e le altre in dicembre degli anni successivi. Allora soltanto il padre benedettino Massa, incaricato dal Du Tillot, e venuto espressamente da Parma a Milano, capì ch’era tutto finito, e così ebbe principio l’attuale Biblioteca Braidense.1 Era già terminato il primo anno scolastico delle Scuole Palatine riformate ed ampliate, quando con Cesareo dispaccio 3 dicembre 1770, il governo imperiale di Vienna determinava in modo assoluto, che nessuno potesse essere ammesso ai pubblici impieghi, se non avesse ottenuto o la laurea o la licenza dall’Università di Pavia, e, per gl’impieghi minori, se non avesse superato quel corso di studî relativi all’impiego stesso nelle Scuole Palatine. In conseguenza di ciò il numero degli uditori in tali scuole andava continuamente crescendo a tal segno, che il Parini nel 1773 ne avea già cinquantotto. Di questo aumento il Firmian preoccupavasi moltissimo, anzi il 2 ottobre dell’anno medesimo esprimeva tale preoccupazione al Kaunitz, trovando opportuno di differire la legge sull’obbligo di frequentare quelle scuole per l’ammissione agl’impieghi, fino a che le medesime fossero tutte in pubblico luogo riunite. Egli desiderava inoltre che fosse riconosciuta l’abilità dei professori, onde avere nell’avvenire impiegati nudriti di sodi e veri studî, e non guasti da principî falsi, od impinguati d’idee sconnesse. Riguardo ai professori ecco le parole precise che rivolgeva al Kaunitz: 1 Vedi documenti Biblioteche e Corrispondenza colla Regia Corte – Archivio di Stato.

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[72] «Niun saggio abbiamo ancor avuto del valore dei Professori Palatini, e prima d’averlo non vorrà V. A. che sia canonizzata dalla legge la loro incerta abilità. Il Pubblico finora dubita d’una gran parte di essi, ed il dubbio d’un Pubblico, se non merita di essere affermativamente determinato, merita almeno d’esser esaminato e conosciuto».1 Tra i professori, di cui il pubblico dubitava, c’era anche il Parini; ma questo pubblico non poteva mai esser quello immaginato dal Firmian; si costituiva invece d’una cricca di pochi individui, che nel valente poeta satirico, nell’eccellente scrittore della Gazzetta di Milano e nell’insigne professore di Belle Lettere vedeva un ingegno che volava sovra gli altri, il quale godeva la stima e la simpatia del Firmian, che non l’avrebbe mai depresso per innalzare quei della cricca. Ed affinchè si veda qual fosse l’opinione del pubblico riguardo al professore Longo, amico del Parini, tanto per avere un’idea delle solite chiacchiere intorno alle novità scolastiche delle Palatine, riporterò qui un giudizio di monsignor Giorgio D’Adda, Prefetto della Segnatura in Roma, togliendolo da una lettera pubblicata da Felice Calvi nel suo libro: Curiosità Storiche e Diplomatiche del secolo xviii . Il D’Adda, il 31 gennaio 1770, così scriveva da Roma a suo fratello marchese Paolo Camillo, in Milano: «Da M. Dugnani ho ricevuto una carissima vostra con la prolusione del Marchese Longhi, opera veramente da par suo, cioè da ciarlone ignorante, e [73] senza Religione, che ha indistintamente preso da autori protestanti, e cattolici quello che conferiva al suo intento, senza sapere le risposte che a’ medesimi sono state date tante volte e che troncano netto la difficoltà. Il Papa dopo averla letta disse: Si vede che questo è un Prete poco dotto, e meno religioso, e niente politico. L’opera non può essere nè più scandalosa, nè più insolente, nè credo li si permetterà di dettare in Cattedra alla Gioventù certe questioni che non sono trattabili da persone della corta sua capacità, tuttochè non avesse promesso di sostenere le proposizioni già da Papi proscritte, e da Concilii anatemizzate». Nel 1772 al Longo fu data la cattedra di economia politica, già tenuta dal Beccaria. La riunione delle Scuole Palatine assorbiva tutte le cure del Firmian, ed a Vienna il principe Kaunitz ne spianava la via, conciliando l’esigenze degli studî con quelle dell’economia. Le prime notizie della riunione di queste scuole risalgono al 1769, e riguardano il progetto di collocare nel Collegio Petellano2 la biblioteca insieme con le pubbliche scuole. Nel 1770-71 fu pure ventilato il progetto di occupare per questa riunione le Scuole Canobbiane, unendovi una casa delle monache di S. Margherita e l’oratorio dei Disciplini di S. Marta. Si propose pure l’acquisto della casa Rovida, sul corso di Porta Tosa, ma nel 1772 venne più d’ogni altro accarezzato il progetto della riunione delle scuole in quelle dei Barnabiti, in S. Alessandro, accordando a questi padri una soddisfacente indennità. Chi volesse tener dietro coi documenti alla mano a tutte le vicende per le quali passò la complessa questione delle modificazioni, riunioni e dotazioni [74] delle scuole, si troverebbe in un grande imbarazzo. Prima di tutto mancano parecchi documenti, e quelli conservati sino al giorno d’oggi vennero ordinati in principio del secolo con criterî affatto empirici, cioè vennero sconnessi e distri1 Vedi documenti Scuole Palatine e Ginnasio in Brera – Archivio di Stato. 2 [Così nel testo, invece di Patellano]

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buiti sotto voci diverse, da rendere impossibile la loro unione coi fatti che si sono svolti. Non potendosi ora rimediarvi, conviene accettare i documenti quali si presentano, e procurare almeno di metterli in armonia cogli avvenimenti cui si riferiscono. E proseguendo quindi con ordine di data, troviamo che, il 6 maggio 1772, il Firmian facea una lunga relazione al Kaunitz sull’istruzione pubblica, la quale cominciava così: «Tratta il pregiatissimo foglio di V. A. delli 26 decorso marzo d’un affare del giorno ed importante, qual’è quello d’una stabile dotazione de’ studj pubblici di questo Stato, ed in altro suo veneratissimo foglio de’ 30 dello stesso mese mi accenna che sarebbe desiderabile che la dote della Cassa degli Studj, compreso tutto, potesse portarsi alle 130 mila o 140 mila lire. Riassume in questa occasione le Sovrane intenzioni intorno alla riduzione de’ Lateranensi, Gerolamini, ed Olivetani». E continuando a trattare l’abolizione di questi conventi, il Firmian si leva a voli sublimi; accenna al bisogno immediato che ha di danaro la Cassa degli Studj, e dimostra che l’oggetto principale, che si è prefisso e tanto interessa il bene pubblico, è quello di ridurre l’eccessivo numero di frati, di preti e di monache. In questo modo, egli prosegue, si eguagliano riguardo alle imposte i chierici ai laici, si aboliscono le odiosissime esenzioni accordando un equo compenso al clero secolare, e si erigono e si [75] sussidiano alberghi dei poveri infermi, degli orfani e degli impotenti, invece di tenere in vita tanti inutili conventi e monasteri. Ma pare che il Firmian non si sia limitato a questa sola relazione, poichè il 20 luglio dello stesso anno il Kaunitz gli scriveva: «Tra i molti articoli da V. E. toccati nella lettera 4 corrente relativa alla estinzione di molti Ordini Regolari nella Lombardia, vi è anche il desiderato suggerimento del luogo, nel quale si può collocare la Biblioteca e le Scuole pubbliche di Milano. Ella ha posto l’occhio sulle Scuole di S. Alessandro presentemente occupate dai Padri Barnabiti, perchè ben fabbricate, e collocate nel centro della Città. Alle Scuole poi de’ Barnabiti giudica, che si possano facilmente destinare alcune case adiacenti al Collegio Imperiale. Quando i vantaggi da V. E. accennati si verifichino, non può certamente esservi luogo migliore di questo. Conviene però che se ne procuri l’esecuzione con tutta la buona grazia, ed armonia. Conviene trattare coi Barnabiti ed indennizzarli, non tanto del sagrifizio, che faranno, quanto ancora di tutte le nuove spese, alle quali devono necessariamente sottoporsi per l’adattamento delle indicate case ad uso di pubbliche scuole».1 Le pratiche per la riunione delle scuole pubbliche in S. Alessandro erano poste su buona via, quando, dopo lunga tempesta, uno scrosciar di fulmine spalancava le porte del Palazzo Brera, con la soppressione dell’Ordine de’ Gesuiti. Come lo ricorda una lettera del 21 marzo 1771 del principe di Kaunitz, i Gesuiti di Brera fin da [76] quell’anno temevano sulla loro sorte, ed aveano fatto presentare all’imperatrice Maria Teresa un ricorso, il quale diceva aver essi inteso dalla pubblica voce, che, in conformità degli ordini sovrani, si avrebbe loro levata una parte delle cattedre, che occupavano in quel collegio, chiamato Università di Brera. Osservavano eglino, che quel collegio era stato aperto col gradimento del sovrano per istruire la gioventù, tanto nella dottrina cristiana, quanto nelle scienze, secondo la bolla di fondazione di papa Gregorio XIII, e se1 Vedi documenti Scuole Palatine – Archivio di Stato.

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condo l’arbitrio de’ loro superiori, giusta le intenzioni dell’arcivescovo S. Carlo. Facevano pure risaltare i loro meriti nel pubblico insegnamento, e, promettendo di sottoporsi a qualunque cambiamento che l’imperatrice avesse introdotto nell’istruzione, chiudevano dimostrando la sinistra impressione che avrebbe esercitato sullo spirito pubblico una repentina abolizione delle loro cattedre. Nel febbraio 1772 (Vedi documento N. 5), il Kaunitz dimostrava al Firmian l’utilità dei Gesuiti, specialmente riguardo all’insegnamento della fìsica e dell’astronomia, e raccomandavagli di assicurarli sulla loro sorte, solennemente dichiarando, che l’imperatrice Maria Teresa non si era mai associata alle pratiche delle altre Corti contro i Gesuiti. Il Firmian quindi, abolito l’ordine, mantenne quasi tutti i professori gesuiti al loro posto in Brera, promovendone alcuno all’Università di Pavia. E qui dobbiamo riconoscere che il Kaunitz ed il Firmian avevano ragione, poichè anche allora fra i Gesuiti si annoveravano ingegni sommi nelle scienze, ed a Milano, per tacer d’altri, basta ricordare il celebre astronomo, padre Boscovich. Con dispaccio reale 5 luglio 1773 venivano [77] ap|provati i ruoli, ossia la pianta stabile, di parecchi uffici e delle Scuole Palatine, le quali comprendevano ben quattordici cattedre, mentre prima della riforma degli studi non ne contavano che sei (Vedi documento N. 6). Con questo dispaccio il Parini da professore straordinario passava in pianta stabile, dopo tre anni di prova lodevole, e con piena soddisfazione del conte Firmian e del principe Kaunitz.

[78]

VI.

Conseguenze dell’abolizione dei Gesuiti – Le scuole in Brera – Riforme scolastiche del Firmian e idee del Kaunitz – Allusioni al Parini – Sua lettera al Firmian per un miglioramento economico – Sue condizioni finanziarie e il negatogli beneficio di Lentate – Preoccupazioni per l’avvenire e suo stoicismo – Lavora in due commissioni – La morale e l’educazione del clero.

L ’imperatrice Maria Teresa, con dispaccio 7 settembre 1773, accordava l’Exequatur per la pubblicazione del breve pontificio 21 luglio, sulla soppressione de’ Gesuiti, e lo accettava in quelle parti non contrarie alla sua sovranità. E benchè nella circolare, spedita da Roma a tutti i vescovi, fosse loro ordinato di prendere in nome della Santa Sede possesso de’ beni della estinta compagnia, il pontefice tuttavia aveva fatto dichiarare dal nunzio, in Vienna, a Maria Teresa, che tale commissione non si dovea attendere dai vescovi dell’impero, per essere contraria all’intelligenze e alle dichiarazioni corse fra il papa e l’imperatrice. Questa perciò autorizzava il governo di Milano, a dare istruzioni necessarie per tutte quelle caute misure, tendenti a prevenire la dispersione degli archivî, corrispondenze, conti, e a prendere in possesso tutti i beni de’ Gesuiti della Lombardia austriaca, e raccomandava di colmare tutte le lacune, che per la [79] soppressione dell’ordine si verificassero, coll’impiego de’ beni e delle rendite, e coll’istruzione della gioventù, secondo l’opinione della Giunta Economale e di tutti gli altri uffici sino al Kaunitz. Con questa soppressione le scuole vennero riunite in Brera, ed il Firmian dovette anche provvedere a quelle ch’erano tenute dai Gesuiti, affinchè non ne

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scapitasse la pubblica istruzione. Quindi nel 1773, verso la fine di novembre, le Scuole Palatine vennero concentrate nel nuovo palazzo, nell’aspettazione di una generale riforma che, per le mutate condizioni scolastiche, pienamente corrispondesse ai desiderî del governo ed ai bisogni della popolazione. In questa circostanza apparvero il grande animo e la intraprendenza del Firmian da un lato, e dall’altro brillarono gli ardimenti e l’energie del Kaunitz, il quale, dobbiamo confessarlo, mise in luce concetti amministrativi e didascalici così vasti e corrispondenti alla realtà delle cose, da emulare, sotto questo aspetto, il più grande uomo di Stato. «Trattandosi però d’una generale riforma, egli scriveva al Firmian il 22 novembre 1773, io sono convinto che convenga ben maturarla. L’esperienza mi ha reso molto cauto sulle mutazioni, l’effetto delle quali non è sempre quello, che si aspetta, quando non siano esaminate tutte le circostanze, e comparate con quelle degli altri paesi, ben conosciuti i principj e pesate con tutto lo scrupolo le conseguenze». «Inoltre una generale riforma richiede unità di principio, nè può facilmente dirigersi sulle diverse viste, e separati piani dei rispettivi maestri, forse non bene istruiti delle massime generali che si vogliono seguìte». «Di più il talento per ben eseguire un sistema [80] è pur troppo diverso da quello necessario per formarlo. Pochi sono gli uomini capaci di prevedere, e superare tutte le difficoltà, che la sola esperienza, la meditazione, la cognizione intima delle forze dell’intelletto e della macchina umana può far evitare». Che il principe Kaunitz avesse ragione a scrivere in tal modo, non c’è dubbio alcuno. In queste poche linee stavano i germi delle riforme scolastiche, che doveano approdare a glorioso porto. Per collaborare in questa riforma e in questo piano o progetto che si stava preparando, il Kaunitz interessava il Firmian a giovarsi dell’ingegno e dell’esperienza d’uomini capaci, con queste precise parole: «Pare egualmente necessario d’eccitare qualche soggetto di conosciuti lumi, versato nelle parti della letteratura e delle scienze, a suggerire quale via sia preferibile nel metodo da stabilire. Tra codesti uomini di lettere forse vi sarà chi, e per cattedre sostenute, o per saggi pubblicati, relativi a tutto ciò, possa esser capace di soddisfare utilmente all’incarico». Qui vediamo fatta chiarissima allusione al Parini, come infatti più innanzi avremo occasione di assicurarcene. Intanto volevansi inaugurare solennemente le Scuole Palatine in Brera, le quali con le nuove riforme cambiavano titolo con quello di Regio Ginnasio di Brera. Il conte Firmian quindi invitava il consultore Pecci a far sospendere le solite prolusioni, affinchè in loro vece venisse recitata, con l’intervento delle autorità civili ed ecclesiastiche, una orazione di circostanza. Il Pecci aderiva subito, e soggiungeva che «qualora si stimasse opportuno di far solennemente nel venturo mese (dicembre) o in gennaio l’orazione del prefato R. Stabilimento, potrebbe S. E. [81] degnarsi di darne l’incombenza all’abate Parini professore d’Eloquenza…».1 Ecco quindi dimostrato un’altra volta il grandissimo concetto che si avea del poeta. Onore e gloria sorrideano al Parini nel modo più luminoso; ma la borsa, ahimè, la borsa era sempre vuota! È ben vero che non si trovava più nelle strettezze 1 Vedi documenti Ginnasio in Brera – Archivio di Stato.

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degli anni passati, quando non avea pane; tuttavia anche il 5 dicembre 1773 non versava in condizioni tanto floride, e raccomandavasi in vece con molto calore al conte Firmian, come ce lo attesta questa lunga sua lettera. «Eccellenza, «Ardisco di scrivere con mano incerta all’E. V. dal letto, in cui mi trovo novamente ammalato di febbre terzana. «La mia presente situazione, oltre l’ordinaria cagionevolezza della mia salute, mi fa ora sentir maggiormente il peso della mia ristretta fortuna; e ciò mi dà occasione di pensare con maggior cautela all’età già avanzata. Io ho sempre riconosciuto in V. E. l’autore spontaneo della mia, qualunque sia, sorte presente: e se io non la godo migliore, non è certo dipendente dal cuore troppo magnanimo dell’E. V., ma da un certo mio stoicismo, e dalla conoscenza del poco mio merito che mi ha renduto o modesto o meno attivo di quel che sarebbe convenuto al mio bisogno. Che sarebbe di me quando il giro delle cose umane portasse che V. E. dovesse felicitare colla sua presenza altri paesi? Io mancherei di sostegno in quel tempo appunto che più mi bisognerebbe, [82] cioè nella mia vecchiezza. Stimo dunque prudenza ricorrere ad un padre, che finora per moto proprio mi ha soccorso ed anche onorato, rappresentandogli il mio stato, acciocchè quando se ne dia occasione, si degni d’averne quel riguardo, che dalla grandezza del suo animo gli verrà suggerito. «Io non ho altri beni in questo mondo, che lo stipendio di Professore e il piccolo Beneficio, che per la protezione di V. E. ottenni l’anno passato. Ma questo contro l’intenzione di V. E. e contro l’aspettazione mia, è riuscito così piccola cosa che quasi mi vergogno di dirlo, che non rende di più di centosessanta lire l’anno. Dall’altra parte, presentemente è caro ogni cosa: ho le prime necessità, a cui supplire; ho quelle che porta la mia poca salute; e quelle finalmente in cui mi pone la mia comunque umilissima condizione. Io non oserò suggerire a V. E. i mezzi con cui migliorare la mia fortuna. Troppo bene Le verranno indicati dalla penetrazione della sua mente, renduta anche più perspicace dal suo connaturale amore della beneficenza. «Io ho l’onore d’esser conosciuto dall’E. V. ed Ella vedrà come ciò si possa meglio conseguire, o con un impiego migliore, o con un accrescimento d’impieghi, o con qualche benefizio o pensione ecclesiastica. Guardimi il cielo ch’io avessi intenzione con quanto ardisco esporre a V. E. d’importunarla oltre il rispetto che Le si deve. Io non desidero altro per ora, se non che questo foglio serva d’una memoria presente all’E. V. in caso che Le si offrisse luogo di farmi sentire ulteriormente l’influenza della sua protezione. «L’umanità che V. E. si è sempre degnata di dimostrarmi, e quella massimamente, che mi mostrò pochi giorni sono, quando ebbi l’onore di [83] presentar|mele, sono i motivi che, oltre l’esposte mie circostanze, m’hanno indotto alla temerità di importunarla scrivendo, e a pregarla inoltre di ritenere nel solo suo discretissimo cuore questi miei sentimenti. Chieggo all’E. V. umilmente perdono di quanto ho ardito di fare: e sono con profondo rispetto, ecc.»1 1 Questa lettera fu copiata dagli autografi già posseduti dal fu Damiano Muoni, ufficiale all’Archivio di Stato, e pubblicata nel 1866, dal prof. Francesco Berlan. Anche questa lettera dovrebbe far parte dell’Archivio di Stato.

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Da questa lettera intanto viene confermato che il Parini non godeva più il legato delle messe di S. Antonio, di milanesi L. 224, nè quello di Bosisio di L. 104, come fu detto a pagina 16. Egli dunque non usufruiva che del beneficio di Vaprio, di lire 166 annue, e dello stipendio di professore, di lire 2000; cioè di complessive lire italiane 1754,46, oltre l’alloggio gratuito in Brera, concessogli dall’arciduca Ferdinando, come si può vedere dal documento N. 7. È inutile far commenti, egli era povero. La povertà e l’agiatezza sono due punti culminanti, che vanno considerati sotto tanti aspetti, ed appaiono o più alti o più bassi, secondo il luogo dal quale si osservano. Il Parini, rispetto agli uomini coi quali trattava, era veramente povero, e questa povertà in mezzo a tanti ricchi gli tornava sempre ad onore, poichè non lo piegava mai oltre quel certo limite, sino al quale può arrivare qualsiasi galantuomo, senza vendere la coscienza. Non sappiamo poi se il conte Firmian siasi adoperato, od abbia ottenuto qualche cosa a favore del Parini, ma, argomentando dal passato, crediamo che abbia tentato qualche via che ci rimane tuttora ignota. [84] Il pontefice Pio VI, con bolla 15 novembre 1776, accordava al Parini un’annua pensione di cinquanta scudi sui redditi dell’Abazia di Carugate e Chiaravalle, posseduta dall’abate Antonio Odescalchi dei duchi di Bracciano. Con tutto ciò, il Parini non era ancor tranquillo delle previsioni che andava facendo sul suo avvenire economico, poichè nel 1783, cinque volte di seguito supplicava l’arciduca Ferdinando di nominarlo al benefizio semplice, sotto il titolo e nell’oratorio di S. Maria Assunta di Lentate, pieve di Seveso, rammemorandogli le sue circostanze di pubblico servigio, di età e di salute; ma questo benefizio, non sappiamo per qual causa, non gli venne concesso, e fu dato in vece nell’ottobre 1784 all’abate conte don Carlo Melzi.1 La preoccupazione per l’avvenire, da cui il Parini era tutto soggiogato, deve averlo un po’ abbattuto, ed anzi temiamo che la medesima abbia esercitato sul di lui animo una cattiva influenza, ed abbia privato la nostra letteratura di molti insigni lavori, di cui egli l’avrebbe arricchita. Lasciando da parte la cagionevolezza della sua salute e l’età avanzata, è fuori di dubbio che il suo stoicismo, candidamente confessato al conte Firmian, lo avrebbe condotto, per vie molto diverse, ad altezze non intravedute, dalle quali col forbito suo verso avrebbe fulminato le viltà del secolo che moriva. E il Mattino e il Mezzogiorno non sono forse i [85] due più belli poemetti ch’egli abbia composto? E il nerbo, la grazia e l’arguzia della satira non l’attinse dallo stoicismo, che tutto l’invadeva prima di diventare regio professore? E l’ode Il Bisogno non la scrisse forse quando non aveva pane? Riflettendo su tutto questo siamo costretti a credere, che se il Parini avesse goduto dello stipendio sino dal 1760, il Giorno non sarebbe mai stato cominciato, come non vennero cominciati tanti altri lavori, che gli saranno passati davanti alla mente, simili a galoppanti fantasmi, tra lo scemato stoicismo e le accresciute preoccupazioni di salute e di età, che sciaguratamente lo sottraevano ai voli più arditi.

1 L’asserzione del Salveraglio, in nota a pag. XXXIX e XL del suo volume, che il Parini fu esaudito, non è veritiera. Il beneficio fu dato al Melzi nell’ottobre 1784, e nell’aprile 1785 fu spedito il R. Beneplacito alle Bolle di Roma, come da documenti sotto il N. 8.

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Come sopra osservammo, il Kaunitz, raccomandando al Firmian la riforma e il piano degli studî, gli metteva sotto gli occhi, senza nominarlo, l’abate Parini, il quale, appunto nell’aprile 1774, fu chiamato a far parte di una Commissione incaricata di formare un piano per le basse scuole e per le lettere umane, insieme coll’ex-gesuita Agudio e col somasco padre Soave. Nel mese di luglio egli entrava pure in un’altra Commissione letteraria sulla riforma dei libri scolastici (Vedi documento N. 9), e sul metodo da proporsi per lo studio della storia e per i sussidiarî della geografia e cronologia. Egli aveva per colleghi Gianmaria Bossi, Francesco Soave e Teodoro Villa.1 Il lavoro di questa Commissione intorno [86] al piano fu calorosamente approvato dal principe Kaunitz, il quale, il 24 gennaio 1775, così scriveva al conte Firmian: «Ho ricevuto dall’E. V. con lettera del 9 corrente il piano che la Commissione destinata per la riforma de’ libri scolastici le ha presentato. I principj seguiti in esso sono giusti, e sono i più proporzionati al naturale sviluppo delle facoltà ne’ giovani studenti. Meritava perciò questo lavoro l’approvazione che V. E. vi ha data. Tale ancora è il giudizio di un valente professore al quale ho qui fatto comunicare il detto piano. L’essere stato dall’E. V. così ben ricevuto il prospetto dei libri, dovrebbe incoraggiare gl’individui della Commissione a corrispondere all’aspettativa nostra, giacchè in tal caso non rimarranno senza compenso». Una parte delle lodi del Kaunitz ridondava ad onore del Parini; ma qui non è tutto, poichè la Commissione, ancora nel 2 marzo 1776, continuava il suo lavoro; avea compilato una grammatica latina; stava facendo una grammatica greca; ed era giunta alla lettera B di un vocabolario. Intorno alle umane lettere, che venivano trattate specialmente dal Parini, così il Bossi scriveva il giorno 2 al conte Firmian: «Parimente l’Introduzione agli Elementi delle Umane Lettere contiene il tipo de’ principj, dell’analisi e della esposizione didascalica di quanto, rispetto a questa materia, si è lavorato e si sta lavorando». Il 14 giugno 1777 il conte Firmian rispondeva al Bossi: «Applaudisce la R. Corte alli saggi trasmessile del lavoro intrapreso dalla Commissione Letteraria; loda la sollecitudine, in cui è stato condotto quasi al suo termine, e spera che al venturo anno scolastico potrà esser posto in uso. Nel tempo stesso, in [87] cui palesa i prefati suoi sentimenti di elogio, vuole incoraggiare gl’individui della Commissione Letteraria, colla speranza che la loro impresa non sarà senza ricompensa».2 Mentre queste lodi ed incoraggiamenti davano un’armoniosa intonazione alle cure, che il governo dimostrava negli affari scolastici, il principe Kaunitz vigilava con occhio d’aquila l’insegnamento della morale e della filosofia nel Ginnasio di Brera. A questo proposito il 7 aprile 1774, fra le altre cose, scriveva al Firmian: «L’incarico poi di dare Istruzioni di morale cristiana, non va bene, che sia addossato ad un ex-gesuita, per il pericolo, che non vi mischi i principj della 1 Nella supplica, senza data, protocollata il 15 agosto 1777, il sacerdote Tommaso Bonsignori, chiedendo una ricompensa qualunque a S. A. R. per lavori fatti per la Commissione Letteraria, dichiarava «che la compilazione dei vocabolari era devoluta al Bossi; l’Arte Oratoria e Poetica all’abbate Parini; la Grammatica Greca all’abbate Villa; e finalmente la Grammatica Italiano-Latina al padre Soave». Vedi Autografi del Parini – Archivio di Stato. 2 Vedi Autografi del Parini – Archivio di Stato.

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pregiudicata morale della soppressa compagnia; e se qualche vescovo vi ha dato mano, ciò che al Papa dispiace, almeno il governo non dovrebbe recarne esempio colle sue disposizioni. Egli è vero, che l’Imperatrice Regina ad istanza di questo signor Cardinale Arcivescovo, ha usata in principio molta indulgenza in questa parte; ma S. M. non lo fa più, e ne pensa anzi al riparo, dacchè ha fatto interpellare il Papa del suo sentimento. Qui (a Vienna) poi non si ammettono gli ex-gesuiti nemmeno ad insegnare la metafisica, per timore, che sino nelle dottrine di essa non facciano entrare qualche cosa de’ loro principj». Più tardi, l’8 luglio 1782, scriveva ancora: «Dalla proporzione, che vi è fra i studenti della Teologia, e quelli della Filosofia, si dovrebbe credere, che una parte de’ primi non abbia fatto il corso di questa seconda facoltà. Si osserva ancora, che [88] al|cuno nello stesso tempo frequenta la Scuola di Logica, e quella di Teologia, lo che conferma l’accennato sospetto.» «Nell’anno scorso fu da me fatta una simile osservazione, ed ho insinuato di dare in conformità di quanto è prescritto nell’art. IV, § 44 del piano di Disciplina, un ordine, che non si ammettessero allo studio della Teologia, se non quelli, che proveranno di aver studiato le parti della Filosofia.» «Se quest’ordine è stato dato effettivamente, forse non si osserva come converrebbe, e sarà necessario rinnovarlo col prescrivere al Prefetto del Ginnasio, ed ai Professori teologi di non ricevere nelle loro scuole, chi non produrrà attestati de’ Professori della Classe filosofica sia in Milano, o in altre città, ove c’è studio pubblico di Filosofia: i quali testimoniali facciano fede, che i Studenti hanno successivamente fatto il corso delle loro lezioni.» «Se vogliamo che il Clero divenga più dotto, e per conseguenza, più utile, e più rispettabile, è necessario usar fermezza in ciò, e far esattamente osservare gli ordini, che si danno, acciò non siano ammessi giovani immaturi, o non abbastanza istruiti delle cognizioni umane allo studio delle scienze sacre, per così dire, illotis manibus».1 Questo brano di documento dimostra più del necessario, che allora il principe Kaunitz marciava alla testa del progresso intellettuale, e desiderava che tutti gli altri lo seguissero, mentre all’opposto nel Parini e ne’ suoi compagni solamente trovava quella pronta adesione, ch’era follia sperare dagli alti papaveri che rimpiangevano il passato. [89]

VII.

Matrimonio dell’Arciduca – L’Ascanio in Alba – Parini descrive i festeggiamenti nuziali – Rappresentazione dell’Ascanio – Incendio del Teatro – Il sipario del Teatro la Scala – L’ode «La Laurea» e lettera di Pellegrina Amoretti – A proposito di poesie amorose del Parini – Suoi amori, le donne e l’ambiente – Rivelazioni pariniane sull’agricoltura.

L a questione dell’insegnamento pubblico, che dal Firmian e dal Kaunitz veniva snodata in un modo meravigliosamente semplice ed armonioso, affatto ignoto a’ nostri giorni, ci ha un po’ allontanato dalla via che ci eravamo prefissa. D’altronde come si può mai trattare del Parini, regio professore nel Ginnasio di Brera, senza toccare le vicende di quelle scuole? 1 Vedi documenti Ginnasio in Brera – Archivio di Stato.

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E ritornando in carreggiata, non dobbiamo dimenticare che l’arciduca Ferdinando, terzogenito di Maria Teresa, dovea unirsi in matrimonio con Maria Ricciarda Beatrice d’Este, unica erede del Ducato di Modena, Reggio, Massa e Carrara. A Maria Teresa assai premeva che quelle nozze venissero festeggiate da tutto il popolo, e a tale scopo fra il Kaunitz ed il Firmian fu combinato un progetto molto semplice ed originale. Al Firmian piaceva anche l’idea di far [90] rappresen|tare, per quelle nozze, sul Teatro di Corte, un’opera nuova che, per l’autore del libretto e per quello della musica, contribuisse in grado eccellente a rendere storica la data delle nozze medesime. Si volse egli al Parini, il quale subito si pose allo studio, e in breve tempo compose un dramma semplice, chiaro e assai piacevole, intitolato Ascanio in Alba. Il Firmian ed il Parini dovettero accordarsi anche col maestro di musica, che venne subito trovato nella persona di Volfango Amedeo Mozart. Nello stesso anno 1771 il Parini veniva pur incaricato a narrare le feste celebratesi per quelle nozze, narrazione che riunì in un opuscolo, pubblicato per la prima volta in quell’anno, e la seconda nel 1825, dalla prosa semplice, scorrevole e nella quale non viene dimenticata l’elegante e pura elocuzione. Nella sera 17 ottobre si rappresentò con molto lusso nel Teatro di Corte il dramma del Parini, che conteneva una perpetua allegoria, relativa alle nozze ed alle insigni beneficenze compartite dall’imperatrice. L’esecuzione venne affidata alle signore Maria Girelli Aguilar e Falchini, ed ai signori Manzoli, Tibaldi e Solzi. Il ballo era del coreografo Giovanni Favier; scenografi i fratelli Galiari, e le spese venivano sostenute dalla R. Camera. «Se la rappresentazione teatrale, narra il Parini, della sera antecedente (Il Ruggiero del Metastasio) era riuscita magnifica e grandiosa, questa seconda incontrò pure il gradimento de’ Principi e del pubblico per la sua nobile e variata semplicità. I cori di genj, di pastori e di ninfe, e i piccioli balletti ad essi obbligati che interrompevano di tanto in tanto il corso de’ recitativi e delle arie, formavano nello stesso tempo un continuo e vario legamento [91] d’og|getti, atto a conciliare alla scena notabile vaghezza. La decorazione poi tutta, e la pittura delle scene spezialmente molto adattate al soggetto ed al carattere pastorale del dramma, davano, non meno delle altre cose, grazioso risalto alla rappresentazione». Gli abati Parini e Soresi, col titolo di poeti, figuravano nell’elenco di coloro che potevano frequentare gratuitamente il Teatro in occasione delle feste, ed i loro nomi, per un capriccio della sorte o per invidiosa malignità, venivano dopo quelli del chirurgo del Teatro e del suo aiutante. La mattina del 25 febbraio 1776, il Teatro di Corte, a cagione di un incendio sviluppatosi la notte del sabato grasso, era già un mucchio di cenere. Il Firmian volle allora costruire due nuovi teatri, e così sorsero la Canobbiana e la Scala, per il quale ultimo si occupò anche il Parini, sviluppando l’idea della pittura del sipario. Il Teatro della Scala venne inaugurato il 3 agosto 1778, ed i proprietari dei palchi, nella seduta 3 maggio 1779, assegnarono per ricompensa al Parini cinquanta gigliati, pari a lire milanesi settecentocinquanta. Da questo fondo venivano prese L. 728.25, colle quali il signor Pietro Bellinzaghi, per commissione degli stessi palchettisti, acquistava una tabacchiera d’oro e la regalava al Parini. Così pure ebbe in dono una tabacchiera d’oro, del valore di L. 743.6.6, l’abate Forlani, che gli fu spedita a Parma, per la sua idea sul disegno del Teatro della Canobbiana.1 1 Vedi documenti Teatri Scala e Canobbiana – Archivio di Stato.

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Nel giugno 1777 il Parini pubblicò l’ode Per la laurea di Maria Pellegrina Amoretti, cittadina di Oneglia, che, sotto gli auspicî dell’arciduchessa Maria [92] Ricciarda Beatrice d’Este, ottenne la laurea in ambe le leggi. Festeggiata dalla stessa arciduchessa e dal conte Firmian, fu onorata di moltissime poesie e dell’ode del Parini, più conosciuta sotto il titolo La Laurea. A voler dire il vero le lodi prodigate alla signorina Amoretti sorpassavano di molto le sue cognizioni letterarie, che, come si vedrà dalla seguente lettera inedita, che l’Amoretti stessa scriveva nel 1782 al conte Wilzeck, ministro plenipotenziario, successo al Firmian, non erano assai profonde. «Vostra Eccelenza, «La raguardevole carica di commissario Imperiale in Italia, che degnossi S. M. Cesarea unire nella persona di V.a Eccel.za coll’altra, che ivi già gloriosamente sosteneva di suo Ministro Plenipotenziario, siccome sempre più luminosi spiega in faccia al mondo i suoi meriti sublimi, così sempre più viva aumenta la consolazione in coloro, cui toccò già la bella sorte aver per Protettore un Personaggio si benemerito del gran Cesare; Memore sempre quale io mi ritrovo dei segnalati favori di cui mi vole a parte l’impareggiabile generosità di V. E. allorquando in codesti Cesarei fortunatissimi stati, godendo de suoi luminosi auspici ebbi perfin la sorte d’inchinarla più volte di presenza, non saprei esprimere quanta sia la consolazione, onde esultò il mio cuore sulla notizia dei recenti suoi luminosissimi avanzamenti. In congiontura si fausta la piciolezza del mio merito mi rispingeva d’avanzare questo piciolo contrasegno di mia riconoscente gratitudine; ramentando però le degnazioni graziosissime, con cui altre volte si compiacque V. E. corrispondere alla sincerità delle [93] mie riconoscenti espressioni, non esitai a ricredermi sarebbe questo mio ben umile foglio ad incontrare avventurosa la stessa sorte, da che non hà altro oggetto che d’essere sempre considerata, quale ne sensi della più alta stima, e del più profondo ossequio fo’ mia gloria sottoscrivermi «Di V. E. Oneglia li 31 maggio 1782. «Uma Devoma Serva vera «Pellegrina Amoretti».1 Dopo tutto, in que’ tempi, anche uomini di maggior grido, professori, avvocati e magistrati, non sapevano scrivere poche linee senza spropositi; invece gli abati trattavano la nostra lingua assai più degnamente. Malgrado tanti lavori, superbamente belli, che volano come falchi sprigionati ad altezze infinite, il nostro poeta sebben canuto, piegò davanti alla carezza della donna. I versi Le Nozze, che furono stampati sulla fine del 1777, per le nozze del marchese Carlo Malaspina e della contessa Teresa Montanari, in Verona, ci offrono co’ loro pregi letterarî l’immagine della prima notte d’amore di una sposa che si sveglia il mattino dopo il matrimonio. Il Brindisi, composto nell’anno successivo, è pur foggiato sulle vecchie idee di Bacco e di Venere, e, come i versi precedenti, l’orma che lascia nella modernità del sentire è sempre quella d’amore. Anche il Parini avea il suo tallone d’Achille, ma non dobbiamo per questo biasimarlo, ed anzi riconosciamo che di fronte ad altri poeti ed artisti si mantenne 1 Vedi Autografi dell’Amoretti – Archivio di Stato.

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serio, e seppe più tardi, davanti al grato [94] spettacolo della bellezza, cavar suoni così armoniosamente nuovi e gentili, da superare il Petrarca medesimo. È inutile illuderci; chi ama la bellezza dell’universo e s’innalza colla mente a contemplare ed a scrutare il grande segreto della vita, deve per necessità di cose sentirsi agitare il petto da un nume, e il sangue, riscaldato da un fuoco invisibile, fluire con vertiginosa velocità entro le vene. In simile stato basta la più piccola distrazione, perchè il filosofo e l’artista venga ferito dalla freccia del fanciullo Amore, come toccò a Dante, a Parini e a tutti i più grandi uomini della terra, i quali per ciò avranno anche detto delle corbellerie. Ma altro è palpitare d’amore, ed altro è rimanerne soggiogato al punto da obliare le grandi finalità umane, come hanno fatto parecchi artisti, che chiusero miseramente la loro carriera. A questo segno non discese mai il Parini, e sia che amasse la bellissima Caterina Azzalino, locandiera a Doro, o la famosa Gabrielli, o Teresa Mussi, o Francesca Castelbarco Simonetta, o la Verza, o la Tron, o la Bandettini Landucci, o qualche altra che forse abbiamo dimenticato, il Parini non perdette mai il lume dell’intelletto. A questo proposito conviene ricordare che il Parini era abate, che quasi tutti gli abati appartenevano a facoltose famiglie, i quali per non dissipare la loro sostanza col fasto famigliare, avevano scelto la vita ecclesiastica dell’abate perchè potevano così divertirsi a piacimento e amare le belle donne, senza scandolezzare la gente, la quale era ormai abituata a vedere gli abati incipriati, inamidati e profumati, accorrere al teatro a braccetto con le loro belle. Gli abati in quel tempo erano così galanti, che oggi non [95] possiamo farcene un’idea, e tanto per approssimarci alla verità, riportiamo un sonetto pubblicato dallo Spinelli. Questo sonetto fu presentato alla nobilissima dama contessa Innocenza Casati Arconati, dopo la sua confessione, dal padre Anton Maria Perotti, frate carmelitano di S. Giovanni in Conca, vero bohèmien del suo tempo, che meriterebbe uno studio, nel quale la vita monastica e galante del secolo scorso farebbe le spese di un’allegra lettura. Ecco il sonetto: Siete inver l’Innocenza, e confessato Voi gli altrui falli, e non i vostri avrete, Cioè d’un Abatino, e d’un Curato, Che sembrano d’amor dentro la rete. Innocente cagion voi certo siete D’un qualche loro affetto inordinato, Ma v’avrà detto in confessione il Prete, Che la bellezza non fu mai peccato. Materia non trovò d’assoluzione In voi, che di virtù sol siete amante, E vi diede la sua benedizione. O donna in bene oprar sempre costante, Lasciatevi baciar per divozione, Che si lascian baciar le cose sante.1 1 Vedi l’opuscolo: Alcuni Fogli sparsi del Parini, pubblicato nel 1884 in soli cinquanta esemplari dallo Spinelli, per le nozze Maria Herly-Alberigo Longoni.

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E tutto questo è ancor poco, in confronto di quello che si tace e i documenti ricordano di quegli anni rumorosamente allegri, nei quali gli spensierati abati faceano stampare alla macchia, e quindi distribuire certi fogli scurrili, coperti di un velo, a quadrettini così vuoti e così larghi, da vederci dentro tutto l’animo sudicio dell’autore. [96] Data questa condizione di cose, dobbiamo anzi consolarci col Parini medesimo che seppe schivare lo sconcio esempio che gli veniva dall’ambiente, e sollevandosi a più spirabil aere, seppe mantenere il nobile fine del poeta civile. Il conte Firmian, negli ultimi anni di sua vita, dimostrava una decisiva tendenza e una fenomenale attività nel promuovere e conseguire il benessere materiale e morale della Lombardia austriaca; ed una delle principali sue cure era anche quella di favorire l’agricoltura, l’industria e il commercio. Egli capiva assai facilmente, che il governo non poteva e non doveva in proposito agire di sua iniziativa e coi soli mezzi che si trovavano a sua disposizione; era necessaria invece l’iniziativa e la cooperazione della classe più colta, intelligente e ricca dei cittadini. Spettava poi al governo infondere in questa iniziativa l’alito vitale, riscaldare la cooperazione privata, porla, come una locomotiva, sopra solide rotaie, e spingerla a tutto vapore a recare in ogni luogo dello Stato quei miglioramenti consentiti dallo spirito innovatore del tempo. Per raggiungere questi intenti egli dovea intendersi coi ricchi patrizî e cogl’ingegni più eletti di Milano, fra i quali ultimi primeggiava il Parini. Alla lor volta tutti questi uomini insigni doveano intrattenersi fra di loro, discutere e deliberare sul da farsi, e riferire le prese deliberazioni al conte Firmian. In questo modo solamente si spiega la compilazione di un progetto, avvenuta nel 1773, per la istituzione di un’Accademia di Agricoltura, anima della quale doveva essere il Parini. Naturalmente questi non era solo, e riunendo fra loro alcuni fatti che narreremo più innanzi, indoviniamo subito che i di lui [97] com|pagni doveano essere il consigliere conte Secco, Gian Rinaldo Carli, Serbelloni, Verri, Beccaria e tanti altri, che poi incontreremo tra i personaggi più noti della Società Patriotica, i quali, deposte le antiche personali antipatie, concorrevano insieme a promuovere il benessere economico del paese. Questa eletta schiera studiava, progettava e tendea a dar corpo ad una società che, appena entrata nel dominio del pubblico, prendesse il nome di Reale Accademia d’Agricoltura di Milano. Uno dei capi di questa Accademia in erba era appunto il nostro Parini, il quale possedeva idee talmente giuste, semplici e chiare intorno al miglioramento agricolo, alle quali oggi non si presterebbe fede, se non fossero state scritte tutte di sua mano; tanto sono moderne. Intorno all’agricoltura il Magistrato Camerale, e specialmente il Beccaria, membro autorevolissimo, s’era occupato con molto ardore, come si può rilevare da un Promemoria e d’altri scritti, che si conservano nell’Archivio di Stato, i quali si attribuiscono al Beccaria medesimo. Il lavoro compilato di propria mano dal Parini è intitolato Le Costituzioni Fondamentali della Reale Accademia d’Agricoltura in Milano; composte delle Avvertenze Preliminari e delle Costituzioni Fondamentali. (Vedi documento N. 10). Questo importantissimo documento, il quale come tanti altri che compongono il presente lavoro, viene in luce la prima volta, fu da me scoperto fra le carte della Società Patriotica nell’Archivio di Stato in Milano. Esso rimase costantemente sconosciuto, quantunque fosse passato per diverse mani di provet-

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ti archivisti. Naturalmente di tutto questo non mi vanto; e mi preme invece che si sappia quali miracoli sia [98] in grado di fare l’amore delle patrie memorie, sebbene scompagnato da un’intelligenza superiore e da quei segni convenzionali che la confortano davanti alle leggi e ai regolamenti. Il Parini amava l’agricoltura con affetto intenso, come lo attestano molti versi dell’ode La Libertà campestre e parecchi altri del Giorno; e coll’agricoltura amava tutti quelli che ad essa si dedicavano, e col sudore della fronte ritraevano dalla terra, fonte di ricchezza e di benessere sociale, quei frutti che si ripetono nella estensione de’ secoli. [99]

VIII.

L’industria, il commercio e l’agricoltura – Dotazioni relative – Fondazione della Società Patriotica – I primi soci e il Parini – Il patriotismo del Kaunitz – Parini accetta l’incarico di scrivere l’elogio della defunta imperatrice Maria Teresa – La malattia glielo impedisce – Suo sonetto in morte dell’imperatrice – Il Parini socio dell’Arcadia di Roma – Morte del Firmian – Giudizio del Kaunitz sui Milanesi.

Q uesto progetto di un’Accademia di Agricoltura nel 1774 era già morto e se-

polto, perchè non corrispondeva pienamente ai desiderî del principe Kaunitz.1 Sulle rovine di questo progetto sorgeva invece nel medesimo anno un altro, più vasto, che abbracciava, oltre l’agricoltura, anche le arti. L’11 maggio vediamo occuparsi di questo argomento il Magistrato Camerale con lettera diretta al conte Firmian e sottoscritta da Gian Rinaldo Carli, Pellegrini, Schreck, Secchi, Beccaria, Rogendorf e Rottigni, segretario. Con questa lettera si trattava dell’utilità di distribuire qualche annua somma, in via di premio, a favore delle arti [100] e dell’agricoltura e, in via di gratificazioni, per incoraggiare e promuovere la perfezione delle arti e delle manifatture. E qui è d’uopo ricordare che, con dispaccio 21 luglio 1773, l’imperatrice Maria Teresa ordinava che il prodotto della tassa d’uscita della seta e dei cascami venisse incamerato, a cominciare dal 1772. Questa tassa era prima destinata a soddisfare le spese per soccorrere e favorire l’industria nazionale, ma poi, per semplificare l’amministrazione, entrava intieramente nelle casse dello Stato. In suo luogo col suddetto dispaccio venivano assegnate L. 90,000 a favore dell’industria e del commercio; 20,000 a favore delle manifatture; 10,000 a favore dell’Accademia di Belle Arti; ed altre 60,000 a favore del commercio e dell’agricoltura. L’annuo frutto poi dei capitali, restituiti dai fabbricanti Latuada e Clerici,2 veniva impiegato a supplire le spese di una scuola d’agricoltura. Il principe Kaunitz, il 28 novembre 1774, scriveva al conte Firmian sui mezzi atti a promuovere l’agricoltura, l’industria e il commercio, in base a quanto erasi stabilito in detto dispaccio, e sul modo di fissare la generale eguaglianza dei pesi e delle misure nello Stato di Milano. 1 Per tutto ciò che si riferisce all’Accademia di Agricoltura e alla Società Patriotica, vedi gli atti di quest’ultima nell’Archivio di Stato. 2 Non si è potuto rintracciare la vera origine di questi capitali; tuttavia pare ch’essi siano stati parecchi anni prima affidati dal Governo ai fabbricanti Latuada e Clerici, affinch’eglino promovessero le manifatture e il commercio agrario, a vantaggio del pubblico.

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Il Magistrato Camerale, il 31 dicembre 1774, era già stato consultato dal conte Firmian sulla proposta delegazione di persone nobili e civili della città e dei borghi, coll’incarico di proporre quanto [101] stimas|sero più conveniente, per migliorare i fondi paludosi, e per altre simili vantaggiose operazioni a beneficio dell’agricoltura e del commercio, secondo era stato determinato nel dispaccio di Maria Teresa. Il Magistrato Camerale, l’11 febbraio 1775, non trovando corrispondente allo scopo tale delegazione di persone sparse e divise, ed essendo esso medesimo distratto d’altri affari, proponeva al Firmian, per dare esecuzione all’imperiale dispaccio, la formazione di una deputazione centrale. A capo di questa desiderava che si trovassero il consigliere conte Secchi o Secco e il Regio Visitatore Generale conte Odescalchi, e venisse assistita dall’abate don Giacomo Cattaneo, dal padre Eraclio Landi da Siena, ispettore agrario, e dal Lumachi. E dopo altre proposte, che per brevità si tralasciano, il Magistrato Camerale auguravasi che su tali principî si potesse, senza grave spesa ed apparato, dar forma e consistenza a quella società economica che si vorrebbe sostituita alla proposta di quell’Accademia, le di cui costituzioni, come sappiamo, erano già state compilate dal Parini. Tali proposte venivano raccolte dal Firmian e trasmesse, il 25 maggio, al principe Kaunitz, il quale, dopo di averle attentamente esaminate, il 21 luglio rispondeva con una lunga lettera, ch’era necessario fondare un vigoroso istituto sulle orme delle Società Patriotiche della Slesia e di Londra, che si occupasse dell’agricoltura, delle arti e delle manifatture, ed acchiudeva il piano relativo. Egli, contro le sciocche teorie accentratrici delle burocrazie moderne, a cagione della natura di tali società, escludeva ogni superiorità d’uomo che vi presiedesse come ministro del Principe. «Forse anche in tal modo, scriveva, [102] si riuscirà a scuotere la nazione, che pare lenta, ed a risvegliar un ben inteso spirito di patriotismo per l’utile e pel grande che finora non vi è conosciuto». Il principe Kaunitz proponeva inoltre, quale segretario della Società, l’abate Griselini, autore di un rinomato giornale agricolo, uomo assai dotto e pieno di senso pratico, che in quel tempo trovavasi nel Bannato di Temeswar, per la diffusione degli studî agricoli, e stabiliva che la residenza della Società fosse nel Palazzo Brera. In tal modo si gittò le basi della Società che, come quelle della Slesia e di Londra, assunse il titolo di Società Patriotica. Nell’abbozzo del relativo progetto di costituzione il Kaunitz aggiungeva che, per dare in principio credito alla Società stessa, era mestieri aggregare con agevolezza le persone più note per nascita, ricchezza e talenti, sino al numero di diciotto o venti. Raggiuntosi questo numero, si dovea usare più rigore per le nuove ammissioni di soci, seguendosi le orme della celebre Società Patriotica di Londra. Le definitive costituzioni della nostra Società vennero quindi compilate sull’abbozzo trasmesso dal Kaunitz, e il conte Pier Francesco Secco, consigliere del Magistrato Camerale, avendone fatta, il 22 settembre 1776, relazione all’arciduca Ferdinando, con la medesima presentava una lista di ventiquattro candidati a soci sedenti. Tra i primi troviamo il conte Verri, il cav. Litta, il duca Serbelloni, il marchese Recalcati, il marchese d’Adda, il r. visitatore Odescalchi, il r. professore abate Parini, il conte Resta, il conte Anguissola, il marchese Cesare Beccaria, il r. professore Vincenzo d’Adda, Landriani, ecc. Il principe Kaunitz, che aveva ricevuto le nuove [103] costituzioni e la lista dei candidati, il 2 dicembre 1776 partecipava che alla Società, costituita col dispaccio

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di Maria Teresa, di pari data, era stato accordato l’annuo assegno di lire novemila. Contemporaneamente esprimeva le meraviglie che fossero stati inclusi nella lista troppi nomi di alti funzionarî e di regi professori, che, o non avevano tempo di occuparsi di cose della Società, od erano estranei alla missione della medesima. Invece insisteva che si aggiungessero i nomi dell’abate Frisi, del canonico Fromond, del padre Molina, dei Sangiorgio padre e figlio, del macchinista Meghele, del conte Francesco d’Adda, del marchese Moriggia, del marchese Menafoglio, del marchese Ferdinando Cusani e di don Giuseppe Tanzi. In questo modo, riformata la lista dei candidati, e rispettate le prime proposte, col dispaccio prima ricordato, venne definitivamente costituita la Società, la quale così annoverava, compreso il consigliere Secco, trentotto soci sedenti. I tre primi, il conte Pietro Verri, il duca Serbelloni e il marchese Moriggia, si chiamavano conservatori, e tenevano la presidenza; e gli abati Griselini e Giacomo Cattaneo fungevano da segretari. In progresso di tempo si nominarono anche i soci corrispondenti, fra i quali troviamo Lazzaro Spallanzani, Alessandro Volta e Beniamino Franklin. Il 12 gennaio 1778 il principe Kaunitz trasmetteva al conte Firmian tre medaglie d’argento, tre di rame e tre di metallo bianco, fatte appositamente coniare a Vienna in ricordo della istituzione della Società, e pregava che gli venisse indicato quante medaglie ancora occorressero per distribuirle ai soci. Alle sedute della Società il Parini interveniva ogni volta che altre occupazioni più importanti non glielo [104] vietassero, o le solite febbri, cui andava soggetto, non lo trattenessero nelle sue stanze. In questa Società si lavorava seriamente; i più ricchi, come il Serbelloni, mettevano fuori anche i denari, stabilivano premi a favore dell’agricoltura, delle arti e delle manifatture, miravano a propagarne i benefici effetti, e procuravano, come il Parini, ad accrescere il numero dei soci, coll’aggregare alla Società uomini illustri e benemeriti della patria. Il 22 giugno 1780 il Parini fu nominato membro della deputazione, incaricata di raccogliere e pubblicare il primo volume degli Atti della Società. Il 29 novembre 1780 moriva l’imperatrice Maria Teresa, che aveva istituita la Società Patriotica. Nell’adunanza dei soci del 23 dicembre, il presidente conte Secco leggeva un tributo di compianto alla defunta imperatrice, e l’assemblea incaricava il Parini, assente, a tessere l’elogio di Maria Teresa. La lettera 26 dicembre, che lo stesso Parini scriveva al Firmian; quella del 2 gennaio successivo, che scriveva al Griselini, in risposta ad un’altra dello stesso giorno, con la quale gli si affidava l’incarico di compilare l’elogio in discorso; gli appuntamenti delle adunanze della Società 30 gennaio, 22 marzo, 15 e 20 maggio 1781, dimostrano in modo chiaro e luminoso, che il Parini aveva accettato con perfetta cognizione di causa l’incarico di tessere l’elogio per la defunta imperatrice, e non aveva potuto compierlo per la sopraggiuntagli malattia. La risposta, che il Reina afferma aver dato il Parini a Gian Rinaldo Carli, il quale sollecitavalo a scriver l’elogio: «Io non trovo veruna idea soddisfacente, su cui tessere l’elogio della imperatrice; ella non fu generosa: donare l’altrui non è virtù» [105] dev’essere inventata di sana pianta, contrastando solennemente con le opinioni del poeta intorno a Maria Teresa. Tutto questo venne riscontrato sui documenti originali e non temiamo alcuna smentita. Alle obbiezioni però che potrebbero muoverci alcuni, i quali, nella rinuncia del Parini a tessere l’elogio, vogliono vedere l’animo deliberato del poeta perchè dalle autorità non gli venne mai accordato il tanto promesso mi-

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glioramento economico, rispondiamo che ciò non si può ammettere, per due ragioni importantissime. La prima, che il Parini non fu mai vendicativo, come ce lo attesta tutta la sua vita; la seconda, che le autorità se ne sarebbero con agevolezza accorte e l’avrebbero punito o col togliergli la cattedra, o col serbargli un contegno assai diffidente e freddo. È ben vero che nell’anno 1784 gli venne negato il beneficio semplice di S. Maria Assunta, in Lentate, Pieve di Seveso, ma d’altronde è pur chiaro che ciò accadde, perchè aveva un formidabile competitore nella persona del conte abate don Carlo Melzi, come abbiamo visto nei documenti N. 8. A sfatare fin l’ultima ipotesi serve mirabilmente il sonetto, che il Parini compose In morte dell’Imperatrice e Regina Maria Teresa, com’è indicato nel manoscritto «Poesie dell’Abate Don Giuseppe Parini» depositato nella Biblioteca Braidense, che fa parte dei codici Morbio. Poichè la gran Teresa i serti frali Sciolse, al vero affrettando eterno alloro, Altro duolo improviso estese l’ali Sovra la terra e sovra il mar sonoro. [106] Le genti che da’ suoi genj reali Ebber fida difesa, alto ristoro Piangean, mille additando opre immortali, La protettrice, anzi la madre loro. Piangea l’Europa l’auspice bontade, Che i nodi della pace e dell’amore Al discorde compose empio Emisfero. Piangea l’orbe universo il suo splendore, E il raro sopra i troni esempio altero Di fede, di giustizia e di pietade.

Si potrebbe porre in dubbio che il sonetto sia del Parini, ma allora bisognerebbe dubitare di tutti i sonetti che vennero stampati col suo nome.1 In mezzo a queste cure il Parini, ch’era membro della Colonia Insubre dell’Arcadia, col nome di Darisbo Elidonio, veniva dall’Arcadia di Roma annoverato fra i suoi componenti. Sensibile il Parini a tanta cortesia, scriveva al Pizzi, custode generale di quell’Associazione, la seguente lettera: «Ill.mo Sig.re Sig.re Pad.ne Col.mo, «L’onor singolare, che cotesto illustre Corpo dell’Arcadia si è degnato di farmi: e l’espressioni di gentilezza e di bontà con cui V. S. Ill.ma me ne porge la notizia, formeranno sempre una dolce compiacenza per il mio animo, atto a rendermi più cari i giorni della vita che sopravvanzano. Egli è vero che io mi sento un interno rimorso, che nasce dalla coscienza ch’io ho di non meritare una sì nobile [107] dimostrazione a mio riguardo: e di doverla anzi alla graziosa prevenzione di alcuno, che per troppa amicizia mi ha rappresentato all’Arcadia per un sog1 Questo sonetto fu pubblicato, senza indicarne l’autore, da Gio. De Castro nel vol. Milano nel Settecento, ecc., che lo copiò da un manoscritto trovato nell’Archivio Storico Municipale.

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getto troppo più degno di quel, che io non mi sento di essere. Ma io non amo di discutere questa cosa con V. S. Ill.ma; sì per non meritarmi la taccia di poco rispettoso, e di poco riconoscente verso quelli, che hanno contribuito a decorarmi così altamente; come anche per non essere accusato di affettata modestia, nel mentre che non intendo di fare altro che esprimere gl’ingenui sentimenti del mio animo. Mi ristringo adunque a ringraziare quanto io posso tanto V. S. Ill.ma, quanto il Sig, Abate Goudar, e gli altri, che si sono adoperati a mio favore: e prego Lei specialmente di rappresentare in mio nome all’illustre Ceto, a cui ora appartengo, la grandezza della mia riconoscenza, e del mio rispetto. Sono colla più distinta stima o col più distinto ossequio «Di V. S. Ill.ma «Milano, 17 maggio 1777.

«Dev.mo e Obb.mo Serv.e «Giuseppe Parini.»

L’abate Luigi Godard era allora vice-custode dell’Arcadia e poscia custode generale. Fino dal 10 maggio 1769 il Parini trovavasi in relazione col Bettinelli, allora gesuita, al quale scriveva, pure il 24 e 27 febbraio 1779, a proposito del suo sonetto per l’arciduchessa Maria Beatrice d’Este – Ardono, il giuro, ecc.1 [108] Più tardi, nel 1782, doveva coglierlo una grave sciagura, la morte del suo benefattore, il conte Carlo Firmian, ministro plenipotenziario. Siccome di lui abbiamo frequentemente parlato, così non sarà discaro ai lettori di apprendere alcune note biografiche di un uomo, che tanto influì sulla sorte del Parini e sul benessere della Lombardia austriaca. Egli era nato nel 1716 a Deutschmetz, nel Tirolo, aveva studiato ad Erthal, ad Innsbruck ed a Salzbourg. Frequentata l’università di Leyden, viaggiò la Francia e l’Italia, ove col buon gusto attinse grandissimo amore per le belle arti. Reduce in patria, applicossi ai pubblici affari, fu inviato da Maria Teresa ministro plenipotenziario a Napoli, e nel 1758 in Lombardia, presso il Serenissimo Amministratore duca di Modena, col grado anche di generale sopraintendente della regia posta d’Italia, luogotenente e vice-governatore dei ducati di Mantova e Sabbioneta, e del principato di Bozzolo. A Milano avvantaggiò gli studî, raccolse libri, manoscritti, stampe, quadri, intagli e medaglie; amò la compagnia dei dotti e formò un eletto circolo in casa propria, fra i membri del quale si annoveravano l’Imbonati, il Tanzi, il Quadrio, il Pecis, il Guttierez, il Balestrieri, il Giovenale, il Sacchi, Guido Terani, Giuseppe Raccagni, Bernardino Ferrario, Carlo Castelli, Giorgio Giulini ed altri ancora, che per brevità si tacciono. Ebbe fama di uomo colto, ma non è esatto, come dice il Muoni, ch’egli fosse mediocre nel maneggio degli affari, perchè il Kaunitz rilevava frequenti inesattezze ed oscurità in varî suoi lavori, come da una sua nota 28 giugno 1772. Ciascuno è in grado di comprendere benissimo, che l’opera del Firmian si svolgeva in Milano dietro i [109] consigli degli uomini più saggi; ed era chiara, semplice e richiesta dal progresso delle idee, mentre a Vienna non tutto si giungeva a capire, e si aveva troppo riguardo ai piccoli dettagli.

1 Vedi lettere del Parini, pubblicate dal prof. E. Bertana nella Rassegna Bibliografica della Letteratura Italiana, N. 3 e 4 – 1898.

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Nel 1768 adoperossi anche per l’abolizione delle private carceri dell’Inquisizione, destinate ai regolari; diminuì le soverchie elemosine che alimentavano più il lusso che la devozione; vegliò all’amministrazione dei luoghi pii, delle chiese, dei conventi, dei monasteri e delle confraternite; fondò accademie e scuole, e volse ogni cura a mettere in fiore l’Università di Pavia, che arricchì d’una biblioteca, d’un giardino botanico, d’un laboratorio chimico, dei musei di storia naturale e di anatomia. Istituì nuove cattedre di scienze e d’arti; chiamò senza distinzione di patria a sedervi i più chiari ingegni, Giambattista Borsieri, Augusto Andrea Tissot, Giacomo Rezia, Lazzaro Spallanzani, Giuseppe Nessi, Bassiano Carminati, Gregorio Fontana, Luigi Cremani, Pietro Tamburini, Vincenzo Palmieri, Giuseppe Zola, Angelo Teodoro Villa, Alessandro Volta e molti altri. E ben a ragione per questo Lorenzo Mascheroni nell’Invito a Lesbia cantava: Ma fra queste cadenti antiche torri Guidate, il sai, da la Cesarea mano L’attiche discipline, e di molt’oro Sparse, ed altere di famosi nomi Parlano un suon, che attenta Europa ascolta.

E faceva quella meravigliosa descrizione dell’università di Pavia e dei suoi insegnamenti, che resterà imperituro monumento dell’opera del Firmian. A Brera, dopo la soppressione dei Gesuiti, diede impulso all’orto botanico, affidato alle cure del padre [110] Fulgenzio Witman, e alla specola, illustrata dal Lagrangia e dal Boscovich. Lodato da tutti, morì lasciando una biblioteca di 40,000 volumi, fu tumulato in Milano nella chiesa di S. Bartolomeo, da molti anni demolita, la quale si trovava sull’angolo di via Annunciata con via Manzoni, vicino agli archi di Porta Nuova, dove oggi si vede un negozio di salumaio. La bella lapide che ornava la sua tomba scomparve nella devastazione cisalpina, ma ebbe miglior fortuna, poichè fu salvata dall’ingegnere Carlo Gallarati, fabbriciere di S. Bartolomeo, il quale la conservò nella propria casa di Vimercate; nel 1816 venne ricollocata a posto dal governatore Saurau, e dopo la demolizione della chiesa, venne murata nell’altra chiesa omonima di via Moscova, verso i Giardini Pubblici. Il Firmian lasciò morendo circa novecentomila lire di debiti, che vennero pagati dal di lui successore conte Wilzeck, in seguito alla liquidazione della sostanza del Firmian stesso. Di questo, a giusto titolo, grande ministro, si potrebbero narrare piccanti curiosità, che porrebbero in vera luce il di lui grand’animo, e solo dispiace ricordare, che tanti storici non l’abbiano studiato come sarebbe stato desiderabile. Per questa cagione essi hanno nociuto moltissimo alla di lui fama, e non hanno saputo interpretare giustamente qualche avversione dei Milanesi, ancora schiavi in gran parte della boria e dell’ignavia spagnuola, alle di lui opere, ispirate a quei principî, allora patrimonio di pochi uomini eletti. Il principe Kaunitz, con P. S. alla lettera 22 settembre 1783, a proposito del Firmian, scriveva al Wilzeck: «I Corpi Civici di Milano, che hanno [111] sempre saputo spendere con prodigalità, e rare volte a proposito per oggetti, che interessano il Pubblico, avrebbero ben potuto pensare a lasciare ai Posteri una prova della loro riconoscenza per un ministro che ha contribuito in tante maniere al vantaggio del Paese; alla di cui perdita hanno fatto conoscere la loro sensibilità con sole momentanee e sterili dimostrazioni.

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«Io sono d’opinione, che la memoria d’un personaggio di sì insigne benemerenza presso il Pubblico meriti dopo la sua morte d’essere celebrato dal medesimo assai più di quello d’un Religioso Straniero all’occasione che in Roma viene d’essere dichiarato Santo, quale il P. Lorenzo da Brindisi, in di cui onore si è fatto recentemente nella Chiesa dei Cappuccini di Milano tanta solennità con incredibile concorso del popolo, e coll’intervento de’ Regj Dicasteri, e de’ Corpi della Città per il poco giustificato titolo d’essere egli Taomaturgo nella medesima. Veramente pare che in questa parte la sana filosofia faccia pochi progressi in Milano, e che l’entusiasmo ivi prevale alla giusta sobrietà nel culto dei nuovi Santi, stante la forte influenza, che i Frati hanno tuttavia sullo spirito e l’opinione del popolo».1

[112]

IX.

«La Recita dei versi» – Origine dell’ode «La Caduta» – Origine dell’ode «La Tempesta» – Giudizî del Parini – «L’Auto da fe» e l’Inquisizione di Milano – La guerra.

S i dice che la marchesa Paola Castiglioni Litta avesse, fra l’anno 1783 ed 84, pregato il Parini a comporre un brindisi od altra poesia, da leggersi in fin di tavola. Il poeta rispose mandandole l’ode «Sopra l’uso di recitare i versi alle mense» (La Recita dei versi), che è tutta una satira molto bene riescita dei discorsi che allora tenevano, come tengono ancor oggi, i convitati. In questa occasione scudiscia il Parini l’intenti del Casti, che demoralizzano, e liscia quelli del Passeroni, che tendono a migliorare la gente. Nella vita umana si contano certi quarti d’ora, detti comunemente storici, nei quali l’uomo vede davanti a sè una dura verità che, come una barriera, gli ferma il passo; più la rimira e più ne rimane sorpreso. Questa verità, che chiameremo disinganno, cioè la conoscenza dell’errore nel quale può trovarsi un individuo qualunque, produce nell’uomo dall’intelligenza elevata, dal cuore largo e dalla coscienza [113] in|temerata e pura, un sentimento di dolorosa impressione, che difficilmente si cancella. Così davanti al Parini il disinganno non poteva certamente passare inosservato; ma si fermava, e nell’animo suo, teneramente e nello stesso tempo fortemente sensibile, stampava un’orma indelebile e produceva quel cumulo di dolore, che mandava suoni armoniosamente gravi e pungenti, i quali davano vita immortale alla sua più bella ode, La Caduta. Sappiamo che questo sublime lavoro fu scritto nell’anno 1785, quando il sommo poeta provava uno di que’ amari disinganni che non si dimenticano. Il governo austriaco in Lombardia, dopo la morte dell’imperatrice Maria Teresa e dopo il passaggio del Firmian alla seconda vita, non era più quello di prima; lo spirito innovatore di Giuseppe II si spandeva in un modo troppo brusco; urtava con troppa forza contro gli ostacoli che incontrava per via, ed invece di operare come i ruscelli che recano colle loro placide acque vita e vigore all’erbe dei prati, aveva il fare di un torrente impetuoso, le cui onde colmano di ghiaia il terreno coltivato. Da queste cause che agitavano l’opinione pubblica nasceva, come ap1 Vedi documenti Morte del Firmian – Archivio di Stato.

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punto nasce dall’acqua agitata in un recipiente chiuso, un fenomeno comunissimo, la schiuma, la quale, invece di dileguarsi, rimaneva costantemente a galla. E qui, per uscir di metafora, dobbiamo intendere che la schiuma era allora rappresentata dalla parte meno pura della classe dirigente della società, da quella certa gente ignorante ed ambiziosa che si attorcigliava, come l’edera, intorno al governo di Milano, e più di tutto alla pianta più elevata e robusta dell’arciduca Ferdinando. Questo principe non era sprovveduto, come taluni credono, d’ingegno, al quale [114] sapeva accoppiare anche un sano umorismo1 ed uno spirito veramente benefico, che però non tutte le volte si mostrava misurato e giusto. Naturalmente in simili faccende, e in tante altre che si riferivano all’amministrazione della cosa pubblica, la solita schiuma inquinava l’ambiente direttivo, e la solita edera impediva il regolare svolgimento dell’amministrazione stessa, e ne derivava quel mal celato malcontento, che nell’ultimo decennio della dominazione austriaca si convertiva in una specie di odio, contro il principe Ferdinando e il suo governo. All’apparire di simili circostanze, nel 1783, il Parini chiedeva con quattro domande, rivolte una di seguito all’altra al prefato arciduca, di essere nominato al beneficio semplice sotto il titolo e [115] nel|l’oratorio di Santa Maria Assunta di 1 Affinchè si abbia un’idea dell’umorismo dell’arciduca, si riporta una sua lettera, indirizzata al conte Firmian, credesi nel 1779, tradotta dall’originale francese, che si conserva nella Corrispondenza colla Regia Corte – Archivio di Stato. «Caro Conte Firmian! Avendo osservato che domani è il giorno destinato agli esorcismi degl’indemoniati in Duomo, ed avendo già da due anni l’ordine espresso di S. M. di non permetterli, così vi prego di render noto, come si è fatto due anni or sono, al Cardinale o a chi meglio giudicherete, che nel caso vi sia qualche indemoniato lo si conduca in una delle cappelle e lo si esamini, dopo eseguita la funzione, s’egli sia o no posseduto dal demonio, affinchè in quest’ultima ipotesi venga punito come impostore. Io sono certo che, se voi farete secondo il mio avviso, non vi saranno più indemoniati, parendomi che questi signori del Duomo abbiano una grande autorità sul diavolo che non grida se non quando essi lo permettono. Addio, credetemi per tutta la vita Vostro fedele e sincero amico Ferdinando.» Non è stato possibile trovare alcuna traccia di quell’indemoniati; però qualche cosa si è trovato intorno agl’indemoniati di questo secolo. Nel 1828, in Milano, conviveva con la famiglia una giovane, d’anni 29, sarta, nubile, la quale, essendo probabilmente affetta da isterismo, fu creduta indemoniata, e venne esorcizzata dai preti della parrocchia. Tralascio di narrare le scene seguite, gli ululati, i sibili, i contorcimenti dell’isterica, e dirò solo che nel primo esorcismo venne, secondo le dicerie corse, liberata da tre diavoli che si erano stabiliti nella testa. Nel secondo ed ultimo esorcismo venne pur liberata d’altri quattro diavoli che alloggiavano nel resto del corpo, e in questo modo rimase affatto libera. Ogni diavolo aveva il suo bravo nome, lo si distingueva dal suono della voce che usciva dall’indemoniata, e ciascuno esercitava una speciale influenza diabolica. Dei sette diavoli sopra indicati, vennero conosciuti i seguenti: Lupeto, diavolo contro la fede, che faceva il verso del gatto; Zaina, contro la carità, che facea il verso del cane; Zavaul, contro la carità, la fede e la speranza, che facea il verso dell’asino; Riondo, contro l’umiltà, che facea il verso del bue; Renoch, che significa superbia, che facea il verso dell’oca; Cleest, contro i sacerdoti, che facea il belato dell’agnello. L’ultimo diavolo, forse più furbo degli altri, non ha voluto dare nè nome, nè spiegazione. Tutto questo si apprende dalla relazione 9 maggio 1828, N. 9252, della Direzione Generale di Polizia, che dovette intervenire in questo affare diabolico, relazione che si conserva nella Sezione storica dell’Archivio di Stato.

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Lentate, Pieve di Seveso, come si può verificare nei documenti sotto il N. 8. Naturalmente forse al Parini avrà sorriso la speranza di vedere appagato il suo desiderio, in considerazione che le circostanze di pubblico servigio, di età, di fortuna e di salute, militanti a suo favore, avrebbero molto influito sull’animo del principe stesso. L’eterna questione della povertà del Parini è già conosciuta da tutti; il nostro poeta in quell’anno non era assolutamente povero, lo sentiva egli medesimo; ma a cagione della sua vecchiaia e della sua cagionevole salute, egli guardava l’avvenire con raccapriccio e spavento. Il timore di trovarsi un giorno o l’altro [116] impo|tente a muoversi e costretto a guardare continuamente il letto, gli metteva i brividi e gli poneva davanti agli occhi lo squallore della sua cameretta, dov’egli solo e privo di soccorsi, sarebbe dimenticato da tutti. Per riparare a simile sciagura, allora immaginaria, ma che poscia poteva diventare una realtà, egli non vedeva altra via di salvezza che ottenere dal governo ducale un miglioramento delle sue condizioni economiche. Il suo stipendio era ancora di sole lire milanesi duemila, al quale non poteva aggiungere che i proventi del beneficio di Vaprio, circa centosessanta lire1 e i cinquanta scudi dell’abazia di Carugate e Chiaravalle. Con queste somme gli era impossibile racimolare il più piccolo risparmio, da metter da parte per la vecchiaia o per giorni più tristi; tutto quello che riscuoteva egli lo spendeva senza prodigalità e senza avarizia. Voler uscire da simili strettoie in tali condizioni era assolutamente impossibile; occorreva quindi chiedere al governo, picchiare continuamente o alla porta dell’arciduca o a quella del ministro [117] ple|nipotenziario conte Wilzeck. Tutto questo spiega assai chiaramente le domande che il Parini rivolgeva all’arciduca, per ottenere il beneficio di Lentate, nella certezza che gli venisse concesso. Quel beneficio invece, nell’ottobre 1784, veniva accordato all’abate conte Carlo Melzi e nell’anno successivo, com’è confermato nei documenti sotto il N. 8, veniva spedito il Placet alle bolle di Roma, ed il Parini rimaneva con un palmo di naso. Quale disinganno egli abbia provato, e qual dolore lo abbia assalito è più facile immaginare che descrivere. Dopo questo rifiuto non poteva starsene tranquillo, ed anzichè coprire di pietoso oblìo i torti che gli si recavano, preferiva combattere apertamente tutti quelli che, indegnamente saliti in alto, gli chiudevano l’adito al suo miglioramento economico. E fingendo di essere caduto lungo la via, all’amico umano, ma non giusto che, sollevandolo da terra, gl’insegnava i modi obbliqui coi quali in ogni età e in ogni luogo i corrotti, gli scaltri e i parassiti salgono in fortuna, facea recitare per filo e per segno tutta la 1 Quel beneficio gli fu concesso in seguito a lettera 18 febbraio 1772 del conte Firmian al cardinale arcivescovo Pozzobonelli, del seguente tenore: «Il Sacerdote Giuseppe Parini, Lettore di Belle Lettere in queste Scuole Canobbiane, credendo valevole la mia interposizione presso di V. Em.za per riportare qualche benefizio semplice di quegli lasciati dal defunto Canonico Sormani, m’ha pregato di presentarle questa di lui supplica. Benchè sappia di non aver io tanto merito per riportare grazie da V. Em.za, ad ogni modo facendo tutto il fondamento sopra l’animo generoso dell’Em.za V., e per trattarsi di persona di cui ne fo molto conto, m’avvanzo a pregarla di esaudirlo, che unirò questa nuova obbligazione alle moltissime che le professo per comprovarmi in tutte le occasioni quale col maggior rispetto, ed ossequio mi protesto».

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storia di quelle persone raffigurate dalla schiuma e dall’edera, che sotto le grandi ali dell’imperatore Giuseppe II e dell’arciduca Ferdinando facevano a Milano la pioggia e il bel tempo. In questo modo nacque e si svolse l’ode La Caduta, e in questo concetto ci confermano i versi relativi alla musa che insulta il pudore, e allusivi all’abate Casti, il quale dopo di aver goduto lodi, favori e doni alle Corti di Pietroburgo e di Berlino; a Vienna, dall’imperatore Giuseppe II veniva lodato, accarezzato ed insediato con 3000 fiorini di stipendio nel posto di poeta cesareo, resosi vacante per la morte del Metastasio. Questo rappresenta assai [118] apertamente il colmo della misura che spingeva il Parini a scagliare il suo dardo contro coloro che lo tenevano chiuso nelle strettoie della povertà, lui poeta civile da paragonare solo a Dante, professore sommo che volava sovra tutti, come la regina dell’aria, mentre quelli stessi che non lo curavano, aprivano i tesori dell’abbondanza ad Un prete brutto, vecchio e puzzolente

che finiva i suoi giorni crepando d’indigestione. Ed a recare maggior luce intorno alla verità di queste asserzioni, ci soccorre il poeta medesimo co’ suoi versi che, sotto un certo aspetto, sono la vera narrazione storica delle sue domande, per ottenere il beneficio di Lentate: Quando poi d’età carco Il bisogno lo stringe, Chiede opportuno e parco Con fronte liberal che l’alma pinge; E se i duri mortali A lui voltano il tergo, Ei si fa contro a i mali Della costanza sua scudo ed usbergo. Nè si abbassa per duolo Nè s’alza per orgoglio.

Queste linee erano già scritte, quando la lettera 7 settembre 1799 di Luigi Bramieri, indirizzata a Pompilio Pozzetti, cadutaci assai tardi sott’occhio, venne a darci pienissima ragione.1 [119] Nell’autunno 1786 il Parini componeva l’ode La Tempesta, della quale invano si tenterebbe cercare l’origine, senza por mente alla storia di quel tempo. Anche qui ci troviamo nel campo delle riforme di Giuseppe II, che non venivano accolte di buon grado, poichè tagliavano le ali a parecchi personaggi, e congedavano altri, destando così un malumore fra i sudditi, abituati alla vita patriarcale e tranquilla del governo di Maria Teresa. Alcuni biografi del Parini credono che l’origine della Tempesta si debba ricercare in queste riforme, ed invocano, in proposito, quanto scrisse il Cusani, a pagine 104 e seguenti del vol. IV della Storia di Milano, intorno a Gianrinaldo Carli, all’abate Passeroni, a Pietro Verri e all’arciduca Ferdinando. Questa narrazione del Cusani non è esattamente vera, specialmente riguardo al Carli e al Passeroni. Il primo era caduto in disgrazia dell’imperatrice Maria Teresa sin dal novembre 1780, e con lettera del 13 scriveva all’arciduca: «L’estremità del dolore che mi 1 Vedi il volume Della vita e degli scritti di Giuseppe Parini, Milanese – Lettere di due amici – Seconda Edizione – Milano, 1802 – Stamperia Mainardi.

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condusse nelle attuali circostanze sino quasi alla disperazione, è provenuta dal tormentoso dubbio, di essere io considerato indegno della grazia di V. A. R. e del dovermi distaccare dal servizio di S. M. la di cui grand’anima ho adorato sempre con tutto il trasporto del mio cuore, e adorerò unitamente all’Augustissima Famiglia, sin che a Dio piacerà di lasciarmi in vita». Veneto d’origine, presidente del Magistrato Camerale con 20,000 lire di stipendio, scienziato allora di molto grido e tenuto in gran pregio da ogni ceto di persone, la sua caduta dispiacque. Gli vennero offerte dall’arciduca e dal Firmian la direzione degli Archivi Lombardi e la presidenza dell’Accademia di Belle Arti, che rifiutò. Avuta [120] la pensione intera, nel 1781 gli fu ridotta ad un terzo; la Repubblica Veneta lo richiese a mezzo di Cecilia Tron, ma non si mosse da Milano, non si tolse dallo studio, e salito al trono Leopoldo II, riebbe la pensione intiera. Morto nel 1795 in Milano, fu sepolto nel villaggio di Cusano. Giancarlo Passeroni era stato pensionato col reale dispaccio 9 aprile 1770. Egli avea fatto giungere all’imperatrice una supplica, nella quale accennando motivi di età avanzata, di cagionevole salute, d’angustia, di studî e di fatiche durate nella composizione del suo Cicerone, pregava gli venisse accordata una tenue pensione. La marchesa Maria Teresa, vedova Lucini, dalla quale era stato assistito per la utile opera da lui prestata nell’educazione dei due predefunti suoi figli, aveva goduto una pensione di trecento zecchini, ed era morta lasciando fra le strettoie del bisogno il Passeroni. Questi, nella sua supplica, accennata la suddetta pensione, pregava che su la medesima si continuasse a corrispondergli l’implorato sussidio. Informata di tutto questo l’imperatrice, col citato dispaccio gli accordava una pensione di cinquecento lire milanesi annue. Questa, essendo affatto gratuita, gli veniva tolta con lettera di Corte 8 ottobre 1781, ed in compenso l’arciduca gli concedeva due benefici ecclesiastici nel Cremonese. Da questa narrazione risulta chiarissimo, che nè il Carli, nè il Passeroni hanno a che fare con l’ode La Tempesta del Parini, scritta nel 1786. Il poeta, rivolgendo il discorso al suo amico Alcone, ed accennandogli il mare in tempesta e i miseri legni travolti dalle onde, allude alle riforme precipitate di Giuseppe II, e mette in evidenza il naufragio di tanti grossi impiegati, vittime delle riforme [121] stesse. Fra questi accenna il più superbo per ornata prora, Pietro Verri, presidente del Magistrato Camerale, successo al Carli, assai potente, dinanzi al quale tutti s’inchinavano. Il Verri cantava inni a Nettuno, all’arciduca Ferdinando, governatore della Lombardia austriaca, e lo adulava, fra le altre cose affermando che di lui non era maggior superno Giove, l’imperatore Giuseppe II, suo fratello. Invece Nettuno cogli altri legni trasporta e aggira anche quello del Verri, che viene il Iº maggio 1786, per effetto del nuovo sistema, pensionato colla diminuzione di due terzi dello stipendio, che da lire 20,000 discende a lire 6666.03.4. Ahi qual furore il mena, grida il poeta, Pur contro noi d’ogni avarizia schivi; e ben a ragione, poichè Nettuno, dopo di aver scomposto ed abbattuto la grande nave del Verri, minaccia d’ingoiare nelle sue onde La sdrucita barchetta che accoglie il poeta ed Alcone. Infatti, dopo le riforme del Magistrato Camerale, vennero subito quelle delle Scuole, in causa delle quali il Parini e il suo amico Alcone, Vincenzo d’Adda, professore d’Arte Notarile, corsero pericolo di perder la cattedra, come effettivamente la perdettero il Silva, il Lampugnani e il Bossi, tutti professori in Brera. Nelle decisioni 18 agosto 1786 della Commissione ecclesiastica e degli studî, sotto il N. 15, leggesi riguardo al Parini quanto segue:

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«N. 15. La facoltà pertinente alla cattedra del professore Parini nelle Scuole Palatine di Milano non si ristringe alla mera Eloquenza, o Letteratura». «Essa, giusta le istruzioni già date su tal proposito dalla Reale Corte, è destinata a promovere il buon gusto in tutte le Belle Arti affine d’impedirne la corruttela ed accrescerne la perfezione, così nei [122] protettori di quelle, come negli artisti; gli uni egli altri de’ quali abbondano nelle grandi Capitali». «Il professore pertanto ha l’obbligo di trattare i principj generali e comuni a tutte le Belle Arti; e di esporne le regole dell’imitazione, dell’invenzione e della composizione, non solo assolutamente: ma anche rispettivamente alla natura, ai generi, ai mezzi, ai fini particolari di ciascheduna di esse arti». «Inoltre deve per mezzo dell’esemplificazione tolta dalle seguenti arti dimostrare le virtù, o i difetti provenienti dalla cognizione, o dalla ignoranza de’ principj, dalla osservanza, o dalla inosservanza delle regole comuni alle arti medesime». «Dee finalmente colla contemplazione degli eccellenti modelli sia nella Letteratura, sia nelle Arti e con l’opportuna erudizione storica-mitologica-poetica far conoscere i fonti delle ulteriori cognizioni, necessarie agli artisti, arricchire l’immaginazione, facilitar l’invenzione ed unire praticamente il sentimento del vero Bello: cose tutte essenziali ad ottenere giudiziosi protettori delle Belle Arti, ed eccellenti artisti; i quali ultimi nella presente età sorgendo per l’ordinario dalle inferiori classi del popolo, ed essendo privi di lettere, non sanno nè possono altronde ottenerle; e sono perciò costretti di rimanere nella rozzezza, o nella mediocrità». «In tal guisa il professore Parini ha trattato la sua facoltà per il corso d’anni diciassette, con perpetuo e spontaneo concorso di uditori». «La Commissione pertanto ha riconosciuto, che merita di essere stabilmente conservato in impiego l’ab. Parini per i suoi conosciuti talenti: epperò ha creduto che si potrebbe aggiungere all’Accademia delle Belle Arti, perchè insegni il gusto delle [123] me|desime in tutta la estensione, obbligandolo anche a pubblicare le lezioni già da esso fatte per la cattedra di Eloquenza, e quelle, che dovrà fare a comodo, e per il più rapido progresso delle Belle Arti: questa combinazione sarebbe analoga alle intenzioni di S. M. dirette a promovere que’ stabilimenti, che interessano il progresso e la perfezione delle Belle Arti com’è l’Accademia in Milano». Ponga mente il lettore a questo estratto di documento dal principio fino a tutto il penultimo capoverso, e di leggeri si accorgerà dallo stile, dalle parole e dalle frasi di trovarsi davanti a uno scrittore provetto che dovrebb’essere il Parini medesimo. Infatti nella minuta originale del documento stesso, il N. 15 delle decisioni comincia coll’ultimo capoverso, e tutta la parte antecedente è aggiunta in margine, in seguito forse ad osservazioni, scritte dal Parini, e da lui presentate alla Commissione ecclesiastica e degli studî.1 Dopo quest’aggiunta, la Commissione correggeva ed accomodava l’ultimo capoverso, com’è qui riportato.

1 Queste linee erano già scritte, quando m’accorsi ch’esiste il manoscritto, cui alludo, del Parini nella collezione degli autografi del Muoni, e da questo pubblicato nel 1859, senza alcuna indicazione, nel suo volume Collezione d’Autografi, ecc. Tale documento dovrebbe appartenere all’Archivio di Stato.

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In questa occasione venne approvata anche l’abolizione della cattedra dell’Arte Notarile, occupata dal professore Vincenzo D’Adda, il quale però venne conservato nell’impiego, come il Parini, con passaggio alla cattedra delle Istituzioni Civili, già tenuta dal Birago, giubilato. Il principe Kaunitz, partecipando al conte Wilzeck la superiore approvazione delle suddette decisioni, [124] dichiarava il 18 settembre: «Al 15. Sono molto ben dettagliate le incombenze d’un pubblico Professore della Scienza Estetica ad uso delle belle arti, specialmente di quelle dipendenti dal Disegno: ed io sono persuaso del vantaggio che potrebbero ritrarne gli Scolari di codesta Accademia dall’insegnamento pratico di detta Scienza. Se poi a fine di saper applicarla all’Instruzione degli Artisti, l’Abate Parini ne posseda cognizione pratica della Pittura, Scultura e Architettura, io devo rimetterne il giudizio a V. E. non essendomi noto l’abate Parini, se non qual uomo di talento, bravo poeta ed eloquente … Per altro comprendo bene, che in vece di lasciare inoperosi e colla pensione normale simili rari talenti, conviene meglio, anche per riflesso economico, tirarne partito nella maniera che si può, a vantaggio pubblico». Questa narrazione spoglia d’ogni velo l’ode, e fa vedere il Parini e il D’Adda, amici e coetanei, d’ogni avarizia schivi – Che sotto i sacri ulivi della pace, in Brera, insegnano e riscuotono uno stipendio. La strofa che comincia: Alcon, che più s’aspetta? ci fa credere che l’ode fosse composta prima che venisse conosciuta l’approvazione imperiale, comunicata dal Kaunitz al Wilzeck il 18 settembre, la quale fu notificata al D’Adda e al Parini il 10 ottobre, altrimenti il poeta non avrebbe esclamato: Lascia che il flutto copra La sdrucita barchetta; E noi nudi salviamci al sasso in vetta.1

[125] In ogni modo ormai è posto in sodo che il Parini scriveva l’ode La Tempesta perchè egli medesimo veniva trasportato ed aggirato da Nettuno, e siccome la sua barchetta era troppo piccola, così metteva davanti la gran nave del Verri, il naufragio della quale aveva fatto tanto rumore. Dalla tempesta il Parini uscì non solamente vestito, ma l’anno dopo ebbe anche l’aumento di lire trecento sullo stipendio. Il conte Carlo Bettoni, bresciano, assai benemerito delle lettere e delle arti, aveva depositato presso la Società Patriotica cento zecchini, quale premio per venticinque novelle, dirette all’istruzione dei giovani. Tratte dal vero o dal verosimile, interessanti per soggetto e condotta, scritte con purgato stile, ma senza affettazione, queste novelle dovevano esser tali da eccitare vivamente i giovani all’amore e alla pratica delle virtù sociali e all’abborrimento dei vizî, e d’avvezzarli per tempo all’uso di una prudente riflessione nel governo di sè medesimi e nelle loro relazioni cogli altri. Il Parini dalla Società Patriotica fu incaricato il 14 giugno 1787, insieme coi padri Raccagni e Soave, ad esaminare e giudicare intorno alle novelle che venissero presentate. Questo incarico gli fu confermato il 12 giugno 1788, e così per varî anni di seguito, sino al 1793, in cui si chiuse il concorso. Nel 1789 tre novelle solamente vennero trovate degne di premio, delle quali si riconobbe autore il 1 Riguardo al Parini e al D’Adda vedi documenti Scuole – P. G. – 1786 – Archivio di Stato.

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medico di Magenta, dott. Annibale Parea. Nell’anno successivo fu accordato il premio ad un’altra novella dello stesso autore; altre quattro si reputarono degne del premio nel 1793, e, per conchiudere, venne deliberato di stamparle tutte otto, ed incaricato il Soave, [126] nel caso fosse necessario, a darvi l’ultima mano, ed a premettervi l’elogio del defunto Bettoni. In occasione dell’esame delle novelle, il Parini s’intrattenne pure sulle favole presentate al concorso dal signor Perego, pronunziando intorno alle medesime un giudizio favorevole, che il Reina pubblicò nel V volume delle opere del nostro poeta. A proposito di certi giudizî del Parini non dobbiamo dimenticare affatto quelli pronunciati sul decadimento delle Belle Lettere e delle Belle Arti in Italia, pubblicati pure dal Reina. Questi giudizî e quell’altro sull’Eloquenza derivavano logicamente da quelle stesse cagioni, in forza delle quali compose il Parini l’ode L’Educazione. In questi giudizî si raccoglie un’altra prova ch’egli in materia scolastica la pensava precisamente come il suo amico dottor Cicognini, che mise a nudo la povertà dell’insegnamento, durante gli ultimi tre secoli, nel Ducato di Milano. In questi giudizî infine troviamo la via che ci conduce a credere, che il Cicognini nella sua opera di membro della Deputazione degli studî non fosse solo, ma avesse per compagno anche il nostro poeta. Son noti altri giudizî del Parini sul Principe del Machiavelli, già pronunciati molto tempo prima dal celebre filosofo Bacone, ed oggi rigettati. Altro giudizio egli espose intorno all’Inquisizione coi versi sciolti intitolati L’Auto da fe, ma non pare che quello si riferisca all’Inquisizione di Milano, e tanto meno fosse scritto dietro pagamento e comando del Firmian, essendo tale svarione contrario alla storia. L’Inquisizione a Milano non era libera di agire a suo piacimento; il governo austriaco la invigilava, [127] il 9 marzo 1769 ne aboliva le carceri, e il 7 agosto successivo ne aboliva anche i crocesegnati, ossia le guardie. Il cardinale Visconti, nunzio a Vienna, presentava a nome del pontefice, il 22 giugno 1774, una memoria all’imperatrice sulla necessità e convenienza di conservare nello Stato di Milano il Tribunale dell’Inquisizione. L’imperatrice all’opposto, con dispaccio 9 marzo 1775, determinava che non venissero più surrogati gl’inquisitori allora in carica, laonde, l’8 marzo 1779, colla morte dell’ultimo inquisitore, padre Giovanni Francesco Cremona, Milano fu liberata dal santissimo tribunale, le cui rendite vennero devolte a scopi di beneficenza. Le carte relative ai processi furono abbruciate il 2 giugno 1788, dopo pranzo, nel cortile dei padri Domenicani delle Grazie. A Milano l’Inquisizione era ben veduta da pochi parrucconi del Senato e dai frati; il resto delle autorità e della popolazione l’amava come il fumo negli occhi; quindi non potevasi sentire la necessità o l’opportunità di farla biasimare dal Parini, affinchè il nome di tant’uomo trascinasse anche gli altri. Intorno alla guerra espresse pure il nostro poeta giudizî che non mutò mai; sferzò il militarismo, condannò lo spirito di conquista, dichiarò che il valore sta nella difesa della patria e non nell’offesa dei paesi altrui, e infine chiamò tristi gli eroi che militavano nei vittoriosi eserciti francesi del 1798. Dal dì che compose i versi sciolti, diretti all’amico Fogliazzi a Parma, sino al dì che cominciò l’ode A Delia, dimostrò il Parini di volere quella civiltà, che è sospiro dei veri galantuomini.

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[128]

X.

«In morte di Antonio Sacchini» ed origine dell’ode – «Il Pericolo» – Elisabetta Caminer-Tura e «La Magistratura» – «Il Dono» – Il Parini domanda una pensione o un aumento di stipendio – Viene nominato sopraintendente del Ginnasio in Brera – Nuovo metodo per l’insegnamento delle Belle Arti – Sue attribuzioni – Discussioni in proposito alla Conferenza Governativa.

S ul finire di ottobre 1787 compose il Parini una bellissima ode in morte di Antonio Sacchini, valente suonatore di violino e compositore rinomato. Nato in Napoli il 23 luglio 1734 da poveri pescatori, fu ammesso giovinetto al Conservatorio di Sant’Onofrio, ove studiò il violino, e poscia, discepolo del Durante, apprese l’armonia e il contrappunto insieme col Piccini e col Guglielmi. Morto il Durante, lasciò il Conservatorio, si diè all’insegnamento del canto e compose operette che rivelarono i suoi talenti. Nel 1762 fu a Roma, dove scrisse per l’Argentina; passò nel 1768 direttore del Conservatorio dell’Ospedaletto in Venezia, rivaleggiando col Galuppi e, datosi alla musica sacra, riuscì sommo. Il Burney lo conobbe a Venezia nel 1770, e lo condusse a Londra che gli prodigò denari e fama; se non che, per l’eccessive spese [129] cui si era abbandonato, lasciò l’Inghilterra e giunse a Parigi senza fortuna, dove si rifece coll’Isola d’Amore. Sostenute aspre lotte coi seguaci del Piccini e del Gluck, aveva intenzione di abbandonare Parigi, ma invece ivi coglievalo la morte, il 7 ottobre 1786. Ai suoi funerali assistettero tutti gli artisti, e venne subito ammirato da tutti i suoi nemici. Nel Giornale Enciclopedico, del Bouillon, 15 dicembre 1786, il Framery pubblicò un bellissimo elogio e l’elenco delle opere del Sacchini. In qual modo il nostro poeta conobbe il celebre compositore napoletano? È noto che il Parini cantò più volte la famosa Gabrielli che fu a Milano varî anni, dal 1755 al 1763; e questa celebre cantante erasi perfezionata appunto nell’arte sua sotto la guida del maestro e dell’amico Antonio Sacchini, che forse sarà venuto seco lei sulle sponde dell’Olona. Nel maggio 1766, nel teatro ducale venne rappresentata una Olimpiade, esecutori il Manzoli, il Tebaldi e Camilla Matoe; nell’estate seguente e cogli stessi artisti, Le contadine bizzarre; nel 1775 Armida, con Maria Girelli Aguillar, Giuseppe Millico e G. B. Zonca; nel 1773 Il finto pazzo per amore, coi medesimi artisti; tutte opere musicate dal Sacchini, il quale di certo in tali occasioni dev’essere giunto a Milano più di una volta, ed ancor prima di recarsi a Londra. In tali occasioni egli deve essersi intrattenuto col Parini e con altri, di lui deve aver parlato prima e assai bene la Gabrielli, e per questi motivi il poeta potè conoscerlo, stimarlo e da ultimo piangerne la morte con un’ode immortale. Ed ora troviamo il segreto delle strofe che cominciano Fra la scenica luce, e terminano Sol avido a bear gli umani petti. [130] Secondo un resoconto degli spettacoli, datisi nel 1769 nel teatro ducale, vennero pagate alli virtuosi di Musica le seguenti somme: Al Sig. Giovanni Manzoli, 1º omo, con alloggio. Alla Sig.ra Domenica Casarini, 1ª donna » . Al Sig. Angiolo Amorevoli, tenore » . Alla Sig.ra Maddalena Caselli, 2º omo » .

L. » » »

11,250 8,750 7,750 2,200

vincenzo bortolotti Alla Sig.ra Giuditta Fabbiani Sciabra, 2ª donna, senza alloggio . . . . . . . . . Alla Sig.ra Ghiringhelli, ultima parte, senza alloggio.

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2,500 675

»

1,500

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1,935

»

2251

onorari ai maestri di musica. Al Sig. Pietro Pulli, maestro di cappella, senza alloggio, per aver posto in musica il Demetrio . . . Al Sig. Baldassarre Galluppi detto Buranello, maestro di cappella, con alloggio, per aver posto in musica la seconda opera, intitolata Semiramide riconosciuta, comprese L. 135 di regalo fattogli per la prestezza usata nella composizione della musica . . . Al Sig. Giuseppe Torti, maestro di cappella, per aver posto in musica li recitativi della prima opera intitolata Demetrio . . . . . . . . .

Con la scorta di queste cifre possiamo farci una idea della superbia degli evirati cantori che spadroneggiavano sulla scena, e dell’avarizia delle cantatrici che ammagliavano il pubblico. In paragone della loro retribuzione, quella dei compositori di musica era assai meschina, e porgeva al poeta l’occasione di mettere in evidenza i meriti di un celebre maestro, qual’era il Sacchini. [131] Quest’ode ha relazione strettissima con quella intitolata L’Evirazione, intorno alla quale ci siamo intrattenuti, dimostrando, fra le altre cose, la cagione che conduceva gli evirati cantori a riscuotere fragorosi applausi dalla folla. L’arte musicale dagli evirati veniva prostituita al gusto depravato di gaudenti sciocchi, ed appunto per questo motivo il poeta lodava il suo amico Sacchini, che innalzava la bell’arte sua a beare di liberi diletti i veri intelligenti della musica, fra i quali il Parini medesimo. L’anno seguente venne a Milano la bella veneziana Cecilia Tron, che invaghì il nostro poeta a tal segno, da farlo palpitare d’amore, quando la sua chioma era già deforme di canizie. Per la Tron il Parini compose l’ode Il Pericolo, un bel monumento artistico de’ suoi sospiri amorosi. Abbiamo visto il Parini membro dell’Arcadia di Roma, alla quale partecipavano le donne, che venivano celebrate dagli arcadi con tratti squisitissimi di gentilezza. In quel tempo apparteneva all’Arcadia la celebre veneziana Elisabetta Caminer, poetessa, grande protettrice dei letterati, e assai favorevolmente conosciuta a Milano per le sue traduzioni di commedie francesi, come ce lo narra la Gazzetta Letteraria del 1772. La Caminer era nata a Venezia nel 1751, aveva preso per marito l’ottimo medico Antonio Tura, ed era venuta seco lui ad abitare in Vicenza. Rimasta vedova ancor giovane, continuava a tener circolo in casa sua, dove accorrevano i letterati di quella città e dintorni, con molto dispiacere delle gravi dame, che guardavano con una certa aria di disprezzo la bella veneziana, perchè sapeva cogliere nella sua rete amorosa tanta gente. Si vuole che nell’anno 1784 sia stata anche onorata di una [132] visita del Göthe, e tanta fama

1 Queste notizie vennero raccolte anche da documenti inediti sui Teatri – Archivio di Stato, ed il resoconto degli spettacoli venne preso dal volumetto: Il R. Ducal Teatro di Milano, del Dott. Antonio Paglicci Brozzi.

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ella seppe spargere di sè medesima fra i letterati, che nessuno di essi, giungendo a Vicenza, avrebbe mancato di farle omaggio. Nell’anno 1788 il veneziano Camillo Gritti, podestà di Vicenza, lasciava quella carica per un’altra più onorifica nella sua città natale. Anche il Gritti era poeta, e godette pure un giorno di celebrità, poco dopo il suo arrivo a Vicenza, per un sonetto, piuttosto scurrile, col quale dipingeva sè medesimo. D’indole affatto tranquilla, le lodi non lo commovevano di soverchio, ed anzi a questo proposito il Manzoni ci rammenta, che avendolo un giorno incontrato, e fattogli i suoi complimenti perchè di lui avesse cantato il Parini, rispondeva con la massima indifferenza, ricordare difatti che, quando andò podestà a Vicenza, un abate Parini aveva composto una canzone o un sonetto. Che il Gritti frequentasse la casa della pastorella d’Arcadia era la cosa più naturale di questo mondo; ch’egli fosse entrato nelle grazie della bella veneziana è una verità assai chiara; e ch’egli si fosse reso benemerito della città è riconosciuto da tutti. Venuto il giorno di doversi allontanare da Vicenza, la vedova Caminer-Tura, addolorata per tanto abbandono, scriveva a tutti i letterati suoi conoscenti, invitandoli a mandarle poesie, per onorare la partenza del Gritti, e tramandare ai posteri il grande avvenimento. Naturalmente ella scrisse anche al Parini, fornendogli ampie notizie di Vicenza e del Gritti, e così nacque l’ode La Magistratura, che fu stampata in una raccolta di poesie nella tipografia, che la medesima Caminer-Tura si aveva allestito. Questa raccolta, della quale ancora si conservano [133] pochi esemplari, è intitolata Il Trionfo della verità, e contiene vari componimenti, miranti a celebrare le virtù domestiche, civili e religiose del Gritti. Oltre il Parini, ornarono quella raccolta de’ loro nomi il Cesarotti, il Corniani e il Bertòla. Da questa breve e semplice narrazione è d’uopo tirare la conseguenza, che il Parini scrisse l’ode per commissione, cioè per fare cosa grata alla pastorella Caminer-Tura, senza conoscerla personalmente ed ignorando del tutto la persona del Gritti. In questa ode il poeta, dopo aver accennato che sarebbe andato a Vicenza, se il denaro e la salute glielo avessero permesso, dopo di aver ricordato l’invito della pastorella, salutata Vicenza e descrittine gli ornamenti, i costumi, le leggi e la libertà cittadina, intuona le lodi al Gritti sulle note musicali fornitegli dalla Caminer-Tura. Per necessità in questo componimento manca quella potente ispirazione, che il poeta riceve conoscendo personalmente e molto davvicino l’uomo ch’egli loda, ed anzi le lodi tributate al Gritti, quantunque dal poeta rivestite di splendida forma, mandano un odore di convenzionalismo, che si sente assai lontano, e costituiscono invece quell’aurea collana di virtù, che dovrebbe ornare qualsiasi magistrato.1 Nell’aprile 1790, ricevendo il Parini in dono dalla marchesa Paola Castiglioni un esemplare delle tragedie dell’Alfieri, stampate in Parigi, scrisse l’ode intitolata Il Dono. Vuolsi che l’Alfieri mandasse le tragedie perchè fossero consegnate al nostro poeta, ch’egli chiamava primo pittor del signoril costume, [134] ma dubitiamo di questa versione, che se fosse stata vera, la signora marchesa non avrebbe mancato di renderne consapevole il Parini, il quale nell’ode avrebbe pur trattato con maturo e più esteso giudizio dei lavori dell’Alfieri. 1 Vedi in proposito un lavoro dell’abate Morsolin, pubblicato negli Atti dell’Istituto Veneto – 1884.

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Malgrado l’aumento di lire trecento annue ch’ebbe nel 1787, il Parini non si trovava in buone condizioni economiche, laonde nel luglio 1791 indirizzava una supplica all’imperatore, chiedendo o qualche modica pensione ecclesiastica o qualche discreto aumento alla sua retribuzione. Questa domanda era avvalorata dalla sua avanzata età di anni 63, dalla cagionevole salute, e dal ritrovarsi abitualmente affetto da debolezza alle gambe. La supplica fu spedita alla R. Corte, che nell’agosto la trasmise alla R. Conferenza Governativa, affinchè deliberasse in proposito. La Conferenza, compenetrata dei meriti singolari, dei particolari talenti e della soda riputazione che il Parini si aveva acquistata co’ suoi lavori letterari, ed avuto anche riguardo all’anzianità del di lui servizio sopra tant’altri professori, non poteva disinteressarsi della di lui sorte. E mirando quindi al modo di appoggiare la domanda del poeta presso l’imperatore, ricordavasi che questi, col motu proprio 16 giugno dello stesso anno, aveva riconosciuto utile lo stabilire un sopraintendente o superiore delle Scuole Pubbliche di Brera, per il qual fine aveva invitato la Conferenza a proporgli la persona che coprir dovesse quel posto. Da questa narrazione si potrebbe dedurre che il Parini fosse stato avvisato del motu proprio o dal conte di Wilzeck, col quale trovavasi in ottime relazioni, o da qualche suo amico della R. Conferenza, ed [135] abbia perciò scelto questo momento per innalzare la supplica all’imperatore. Siccome egli in altra occasione aveva accennato di poter rendere più utili le sue lezioni, così venne invitato il 18 agosto dalla R. Conferenza ad esporne il modo, poichè essendo essa disposta a secondare la moderata istanza per l’aumento del soldo, desiderava prendere misure più accertate e convenienti, onde riuscire nell’intento. (Vedi documento N. 11). Il Parini di sua mano scrisse il metodo che si proporrebbe di seguire nelle sue lezioni (Vedi documento N. 12), e lo mandò il 26 agosto alla R. Conferenza. Questo interessantissimo documento inedito non aveva sinora richiamato l’attenzione degli studiosi, poichè essendo stato tolto dalla sua natural sede e collocato fra gli autografi del Parini, senza alcuna annotazione che ne indicasse l’origine, non potea offrire quell’interesse, che realmente contiene. In questo documento l’autore, dopo di aver fatta la storia della sua cattedra, propone per sommi capi ciò che avrebbe intenzione di fare nell’avvenire, al fine di rendere più utili le sue lezioni. Qualsiasi artista che ponga mente a questo singolare documento, di leggieri troverà occasione di ammirare le bellissime idee espostevi dal Parini, che appagano i più vivi desiderî degli amatori delle Belle Arti, poichè è forza riconoscere che, nello sviluppo di quelle idee e nella loro seria applicazione non è stoltezza lo sperare un nuovo rifiorimento delle arti stesse. Appena il metodo venne comunicato alla R. Conferenza, il consigliere Albuzzi stese la relazione (Vedi documento N. 13), che fu approvata dal Kevenhüller, [136] dal Wilzeck e dall’arciduca Ferdinando, con la quale venivano appagati i desiderî del Parini. Il 18 ottobre 1791, la R. Conferenza con sua accompagnatoria (Vedi documento N. 14) umiliava la domanda del Parini all’imperatore Leopoldo e, trattenendo il metodo che doveva prima riportare l’approvazione della Commissione ecclesiastica e degli studî, pregavalo a nominare il Parini Sopraintendente o Superiore delle Scuole Pubbliche in Brera, in base al motu proprio 16 giugno, coll’annuo soldo di quattromila lire.

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Il principe Kaunitz, appena ricevette la domanda del Parini e l’accompagnatoria relativa, presentò tutto all’imperatore con parere favorevole. Questi non fece altro che approvare, e la determinazione sovrana, il 3 novembre, fu partecipata dal principe Kaunitz alla R. Conferenza, la quale rimase incaricata di dare le disposizioni per l’effetto corrispondente, e così il Parini cominciò subito a godere dello stipendio aumentato, prima ancora che il suo metodo venisse approvato, e si fissassero le sue attribuzioni. Per determinare queste attribuzioni la R. Conferenza aveva già scritto alla Commissione ecclesiastica e degli studî, che rispose secondo le vedute dello stesso Parini. In questa risposta della Commissione, in data 14 dicembre 1791, è notevole il brano seguente che si riferisce alla cattedra di Belle Lettere, che è utile conoscere: «I principj generali delle belle arti, lo sviluppo delle regole dall’oratoria, la loro applicazione coll’analisi de’ capi d’opera in questo genere degli antichi e moderni scrittori, le leggi necessarie a seguirsi in ogni sorta di poesia, compresa l’epica e la [137] dramma|tica per arrivare al bello ed al sublime cogli esempj più atti a far conoscere le traccie seguite e le risorse trovate dai più illustri Poeti, il quadro de’ canoni prescritti da Orazio, illustrati e messi alla portata anche de’ meno istruiti, dovevano formare il soggetto dì questa cattedra, che non poteva essere occupata da un Professore più abile e più capace di far brillare il suo genio, il suo giudizio e le molte sue cognizioni». Più lusinghiero elogio di questo non potea ricevere il Parini, ma il consigliere Albuzzi, non accontentandosi ancora, coll’intendimento di regolar meglio la cattedra stessa, secondo la nuova posizione creata al Parini medesimo, credette opportuno e ragionevole di sentirlo personalmente. Dalle risposte riassunte in breve spazio si capisce: 1) Che il Parini non di spontanea sua volontà, ma eccitato dalla Conferenza avea presentate alcune sue idee, tendenti a render più utile la sua cattedra. 2) Che da tali sue idee risultava, che una diminuzione nel numero delle lezioni avrebbe portato maggior profitto alla pubblica istruzione, con maggiore impegno di studio e di responsabilità nel professore. 3) Ch’egli era indifferente o ad esercitare le incombenze della sua cattedra, secondo le nuove idee da lui proposte, o ad attenersi all’antico metodo osservato finora. 4) Che a di lui parere, per rendere più elaborate ed utili le sue lezioni, potrebbesi diminuire di un terzo l’attuale loro numero, ascendente a circa centottanta all’anno; ma che volendole estendere tanto all’oggetto delle Belle Arti e del Disegno, quanto a quello delle Belle Lettere, converrebbe [138] ren|dere biennale il corso delle dette sue lezioni, delle quali al principio di ciascun anno scolastico s’indicherebbe il riparto, lasciando altresì luogo a sperare di adattarsi a che fossero stampate e messe alla pubblica luce. 5) Che convenne nell’espediente di accollare al segretario Bianconi l’insegnamento della mitologia colle iconologie stampate e colla spiegazione delle figure, onde così impiegare in qualche modo utile questo soggetto. Da queste risposte, così riassunte dall’Albuzzi medesimo, apprendiamo che le lezioni del Parini ascendevano al bel numero di centottanta, quante quelle di un maestro elementare. Questo era assolutamente incompatibile col profitto che se ne dovea ricavare, ed avea ragione il Parini a chiedere che venissero diminuite, affinchè riuscissero più utili alla pubblica istruzione e maggiormente impegnassero lo studio e la responsabilità del professore.

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In seguito a ciò il consigliere Albuzzi dichiarava nella seduta 8 febbraio 1792 della Conferenza Governativa, che le proposizioni del Parini procedevano di concerto con quelle suggerite dal Magistrato Politico Camerale, ed opinava che si potessero accogliere anche dalla stessa Conferenza, qualora la medesima non credesse di doverle previamente innalzare alla superiore approvazione della R. Corte. E qui entrava in scena il Kevenhüller, per sollecitudine del quale, secondo il Reina, fu conferita la Prefettura degli studî al Parini. Il consultore Kevenhüller dubitava della convenienza di diminuire col numero delle lezioni il lavoro di un soggetto quantunque benemerito, a cui si avea già notevolmente aumentato lo stipendio, e [139] facea riflettere se non fosse più opportuno il differire la risoluzione di questo oggetto, fino a che, sopravvenuto il consigliere Signorini, da S. M. specialmente destinato anche agli studî provinciali, avesse egli potuto prenderlo in cognizione, ed esternare il proprio sentimento. Come si vede questa era opposizione velata sì, ma sempre opposizione al Parini, all’interesse dell’istruzione ed al buon senso che consigliava, in modo evidentissimo, la riduzione del numero delle lezioni, affinchè tornassero più utili a chi le udiva. Il ministro plenipotenziario conte di Wilzeck, che del Parini avea una stima altissima, diceva che l’affare non essendo nuovo, ma trovandosi già in corso, sarebbe da rimettersi fin d’ora alla Corte Imperiale. Soggiungea che, quanto al merito della cosa, si dovrebbero secondare le proposizioni del Parini, esimio conoscitore della materia, uomo d’altronde laborioso, tutto giorno occupato dal solo studio, e che, proponendo di diminuire il numero delle sue lezioni, avea la mira di renderle più utili, e non già di rendere a sè stesso meno laborioso il suo impegno. Tale dichiarazione era appunto quella che spianava la via al naturale scioglimento della questione, ma non piaceva all’arciduca Ferdinando il quale, per combinare le diverse opinioni, era di parere che si trasmettessero alla Corte Imperiale le proposte medesime, affinchè o venissero approvate o fosse dichiarato dalla stessa Corte di aspettare la venuta del consigliere Signorini, per aver anche il di lui parere. Approvata quest’ultima proposta ed inviatala a Vienna, il principe Kaunitz, il 12 marzo, lodando gl’intenti del Parini, dichiarava che si attendesse la venuta del Signorini, il quale arrivato il 3 [140] mag|gio 1793, e avendo chiesto al Magistrato Politico Camerale tutte le informazioni possibili, relative al R. Ginnasio in Brera, per mancanza di documenti s’ignora che cosa abbia proposto e che cosa sia stato approvato.1 Quello che si conosce con certezza è che la carica di Sopraintendente alle Scuole di Brera equivaleva ad una sinecura, ed il Parini non ha mai voluto pavoneggiarsi di tale innalzamento, ed anzi in qualche occasione pare non amasse di farsi conoscere col grado di Sopraintendente. Il 27 ventoso anno VI (17 marzo 1798) dovendo, per non so quale motivo, dichiarare al governo della Repubblica Cisalpina il suo grado e stipendio, scrisse di suo pugno quanto segue: 1 Vedi documenti Professore Parini, Ginnasio in Brera – Archivio di Stato. Pompeo da Mulazzo Signorini, già auditore e segretario del diritto in Firenze, fu nominato con dispaccio imperiale I febbraio 1792 consigliere e referente alla Conferenza Governativa sugli affari ecclesiastici, studî, università, ginnasi e scuole.

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«Il Cittadino Giuseppe Parini, già da trent’anni Professore Teorico di Lettere ed Arti nelle Scuole Scientifiche di Milano, attualmente in Brera, esercisce anche al presente il suo impiego con lo stipendio ossia indennizzazione di Lire quattro mila di Milano. «Giuseppe Parini».1 [141]

XI.

Il cardinale Durini e il Parini – Considerazioni sull’ode «La Gratitudine» – Il Parini domanda un aumento dell’alloggio e l’ottiene – Altre concessioni – Sue relazioni col ministro Wilzeck – Teresa Bandettini Landucci e il Parini – Lettera della Bandettini sui Milanesi – Lode del Parini a Casa Savoia.

P el cardinale Angelo Maria Durini scrisse il poeta nei primi mesi del 1791 l’ode intitolata La Gratitudine, in cambio dei favori che il cardinale gli aveva prodigato. Quest’ode fu pubblicata la prima volta dal Marelli nell’aprile dell’anno medesimo. Il cardinale Durini è assai noto; amico del fasto, della galanteria e inclinato alla beneficenza, si mostrava cultore delle belle lettere senza possederne il genio, era molto ospitale, specialmente dei letterati, che invitava nelle sue splendide ville. Creato cardinale da Pio VI nel 1776, morì a ottant’anni nella sua villa di Balbiano, poco tempo prima che i soldati della repubblica francese entrassero in Milano. Fu cantato dal poeta Domenico Balestrieri, amico del Parini, in molti componimenti, e col nostro poeta dev’essersi mostrato assai benefico, come apparisce dalla seguente lettera, che si ritiene appunto contemporanea all’ode La Gratitudine: [142] «Eminenza, «Io scrivo momentaneamente fra l’agitazione del sentimento che V. E. ha destato nel mio animo col ricordarsi della mia così piccola persona nel modo che ella si degna di farlo. Io non ho bisogni nella mia mediocrità; ma come potrei essere così ingrato da non accettare quello che proviene dalla E. V., tanto ingenuamente, dirò quasi, tanto impetuosamente benefica? Ma come significarle la mia riconoscenza ed ammirazione? Non posso altro fare che citare in testimonio il presente stato del mio cuore. V. E. si contenti per ora di queste tumultuose espressioni. E col più profondo rispetto ho l’onore di protestarmi Umiliss. servitore «Giuseppe Parini». In quest’ode il poeta accenna a quello stoicismo, già candidamente confessato al conte Firmian colla sua lettera 5 dicembre 1773, ma come lo corregge nell’occasione presente! Io non per certo i sensi miei scortese Di stoico superbo Manto celati serbo, Se propizia giammai voce a me scese. 1 Vedi autografi del Parini – Archivio di Stato.

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Ma l’ultima strofa che chiude l’ode, e colla quale il poeta rivela con generoso impeto i secreti del suo cuore, è ancor la più bella: Lunge, o profani. Io d’importuna lode Vile mai non apersi Cambio; nè in blandi versi Al giudizio volgar so tesser frode. [143] Oro nè gemme vani Sono al mio canto: e dove splenda il merto Là di fiore immortal ponendo serto Vo con libere mani: Nè me stesso nè altrui allor lusingo Che poetica luce al vero io cingo.

A questa chiusa bisogna credere, e se qualche volta il poeta si lasciò trascinare dal dio bendato a cantar qualche donna che non meritava il dolce suono della sua lira, dobbiamo perdonargli, tanto più che certi amorosi sospiri non erano destinati a quella pubblicità, nella quale li hanno lanciati i suoi poco scrupolosi ammiratori. Il 2 aprile 1792 il Parini presentava la seguente lettera al conte Wilzeck: «Eccellenza, «L’um.mo serv.re di V. E. il Prete Parini trovasi già da più d’un mese obbligato continuamente a letto per incomodo di podagra.» «In tale situazione sente più che mai la necessità d’avere qualche stanza al di più delle quattro, che ora gode, massime per tenere presso di sè il domestico, che lo assista.» «Altronde si risovviene con sentimento di riconoscenza dell’umanissima disposizione mostratagli da V. E. per fargli assegnare questo comodo ulteriore.» «Quindi ardisce di supplicare la medesima E. V. che si degni di commettere al sig. Conte Pertusati che visiti e concerti ciò che sarà opportuno affine di accrescere qualche stanza al Parini senza ingiuria nè scomodo di verun altro, che abiti legalmente in Brera.» [144] Il ministro Wilzeck, il 9 aprile, rimetteva la suddetta domanda al Magistrato Politico Camerale, affinchè si appagasse il desiderio del petente, ed a cominciare da questo giorno venne cercato ogni mezzo per soddisfarlo colla maggior possibile sollecitudine. Tutti si misero in moto a questo fine, il Magistrato Politico Camerale, il conte Pertusati, la R. Conferenza Governativa, commissioni, professori e inservienti, tanto più che non appariva così agevol cosa combinare il modo di assegnargli una o due stanze, contigue a quelle da lui abitate. Per questo motivo il tempo passava infruttuosamente, ed il Parini, onde affrettare una deliberazione, il 9 agosto scriveva, pare, al conte Pertusati: «Illmo Sigre e Pron Colmo Il Parini ummo servre di V. S. Illma ha presentito che dal Magistrato siasi fatta consulta alla Conferenza Governativa sul noto affare della ulteriore abitazione da esso domandata. Egli si prende perciò la libertà di supplicar V. S. Illma a dare opera, per quanto da lei dipende, affinchè la detta Conferenza Governativa si degni di sollecitamente e deffinitivamente risolvere intorno a ciò. La giornale neces-

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sità che ha il Parini di maggior abitazione; l’utilità della stagione per l’adattamento di essa; e la imminente vacanza delle scuole, che porterebbe l’assenza di quelli che hanno relazione nei cambiamenti, che possono occorrere, rendono importuno e forse presuntuoso il Parini medesimo, il quale nell’atto che chiede perdono, ha l’onore di dichiarare a V. S. Illma il suo distinto ossequio. «Di casa 9 agosto.» [145] In seguito a questa domanda la Conferenza Governativa concretava le sue determinazioni, il Magistrato Politico Camerale emetteva il decreto 28 agosto 1792, N. 3408, col quale si assegnavano al Parini due altre stanze; e il conte Pertusati, nella sua qualità di R. Consigliere Sopraintendente alle fabbriche, il 17 settembre, riferiva al Magistrato medesimo che «colla dovuta sollecitudine ebbero il suo effetto le ordinate commutazioni senza alcuna spesa e carico del R. Erario, cosicchè il Vice-Reggente in Brera passa ad abitare la parte superiore del Quartiere, altre volte goduto dal macchinista Meghel, il sagrista di quella chiesa passò nelle due stanze finora abitate del Vice-Reggente, ed all’abate Parini rimase l’uso delle due stanze rese libere colla traslocazione del sagrista, e con accesso mediante l’apertura nella prima stanza; avvertito che in esse due stanze non può esservi camino». In tal modo il desiderio del Parini rimase appagato coll’usufruire di altre due stanze, onde collocarvi il domestico, e così il suo alloggio si componeva di sei stanze, di un gabinetto, di una cucina e di un piccolo vestibolo separato dal resto dell’abitazione, il tutto a pianterreno, come risulta dalla visita fattavi dall’incaricato governativo il 21 maggio 1795. (Vedi documento N. 7). Secondo le prescrizioni stabilite, le scuole dovevano allora aprirsi nei primi giorni di novembre; ma il Parini, avendo constatato nel corso di venticinque anni, che gli scolari non si presentavano alla scuola fuorchè verso il giorno di Santa Caterina, – scriveva, il 6 novembre 1793, al consigliere Pompeo Signorini: [146] «Illmo Sigre e Pron Colmo «Per il corso d’anni venticinque io sono sempre stato presente al momento dell’apertura delle scuole, ma inutilmente: perchè la costumanza del nostro paese non somministra scolari massimamente alle scuole superiori fuorchè verso il giorno di S. Caterina. Questa esperienza mi dà coraggio di supplicar V. S. Illma che voglia interporsi affinchè mi sia conceduto di rimanermi in villa sino al detto giorno, pronto sempre di rendermi in città al menomo cenno. «Spero dalla gentilezza di V. S. Illma un tale ufficio, e dalla benignità superiore questa grazia; mentre che con distinto ossequio ho l’onore di confermarmi «Di S. Illma «Vaprio, 6 novembre. «Devmo Obbmo Serre «Giuseppe Parini.» 1 Il Signorini, che fu appunto relatore in seno alla Conferenza Governativa, opinò «che attesa non meno l’esperienza allegata dal ricorrente, che la qualità della 1 Questa lettera e le due precedenti si conservano fra gli autografi del Parini – Archivio di Stato.

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cattedra sostenuta dal Parini, la quale non avendo circoscritto un corso di lezioni, che potesse restare interrotto dall’assenza di alcune giornate, fosse da secondarsi la domanda». La Conferenza approvò quindi la relazione, il ministro Wilzeck ne informò il Magistrato Politico Camerale, e così il Parini potè godersi gli ozî di Vaprio sino al 25 novembre. [147] Tutto questo non avrebbe una notevole importanza, se non servisse a porre in rilievo un fatto assai significante che, malgrado la morte del Firmian, il Parini godeva tutta la stima e la deferenza del governo, il quale in qualsiasi occasione cercava di appagare i desiderî del nostro poeta. Cadono quindi tutti i sospetti di persecuzione e il pericolo incorso dall’insigne professore di perder la cattedra, insieme con tutte le dicerie pubblicate dal Reina. Non dobbiamo poi dimenticare, che la morte del Firmian fu una perdita grave sino a un certo punto, poichè il Parini nel successore conte Wilzeck trovò più che un mecenate, un amico sincero. Intorno a questo tempo la celebre poetessa lucchese Teresa Bandettini-Landucci, assai nota sotto l’accademico nome di Amarilli Etrusca, avea visitato molte città italiane improvvisando, declamando e cantando nei teatri, nelle accademie e nelle case private. In questo giro attraverso la penisola conobbe quasi tutti i nostri letterati, i quali andavano a gara nell’offrirle omaggi, poesie, elogi; e lo stesso Bettinelli, che la Bandettini con ingenua famigliarità chiamava «il mio buon Bettinelli», n’era entusiasta. Che la tanto celebrata poetessa fosse capace di trascinarsi dietro un esercito di ammiratori e di adoratori non vogliamo metterlo in dubbio, specialmente quando, dopo di aver lette le sue lettere, ci siamo fatta un’idea della sua gaiezza e vivacità. Nella primavera del 1793 venne a Milano, diede diversi trattenimenti nelle più colte adunanze della città, in casa del conte Wilzeck, ed una solenne, la sera di venerdì 31 maggio, nel salone della Società Patriotica in Brera. Era naturale che anche il Parini [148] si accendesse di ammirazione per la celebre improvvisatrice e le dedicasse un sonetto. Non sembra però che questo sia sbocciato spontaneamente, ed anzi risulta in modo certo, che è stato scritto per commissione dello stesso Wilzeck, ma non abbiamo mezzo di constatare se si tratti del sonetto già pubblicato dal Reina o di un altro tuttora sconosciuto. Infatti nel dicembre 1793 il Parini con una lettera, che il 20 dicembre 1830 fu passata alla I. R. Direzione Generale degli Archivi, da spedirsi a Vienna alla Biblioteca di S. M., inviava un sonetto al conte Wilzeck e questi, il giorno 9 dello stesso mese, rispondevagli: «Ho ricevuto il sonetto in lode della signora Bandettini che V. S. Illma mi ha accompagnato col suo foglio. Io ne la ringrazio moltissimo anche per il modo con cui ha eseguita questa commissione, perchè non poteva farmi cosa più grata che di combinarla co’ riguardi ch’Ella deve alla sua salute per la quale m’interesso sommamente».1 E qui non dobbiamo dimenticare, che anche il conte Wilzeck era diventato entusiasta della Bandettini, come ne fa testimonianza una sua lunga corrispondenza, continuata per alcuni anni di seguito con la celebre poetessa, e l’aver ri1 Vedi autografi del Parini. Riguardo al Bettinelli, ecco un brano di lettera 15 gennaio 1795, che la Bandettini scriveva al conte Wilzeck: «. . . . . Io mi tratterrò ancora in Modena qualche tempo, ma dovrò cedere all’istanze che mi vengono fatte d’andare a Mantova, molto più che desidero rivedere il mio buon Bettinelli e gli altri miei amici …» Questa lettera si trova in copia fra gli autografi della Bandettini – Archivio di Stato.

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cevuto in dedica dall’Arcadia di Roma la Raccolta delle Lodi, ivi recitate in onore di Amarilli Etrusca. Prima di congedarsi da lei, ci sia lecito di riportare una sua lettera così indirizzata: [149] Al nobil uomo il signor Marchese N. N. CREMONA. «Milano, 4 maggio 1793. «Pregiatissimo Amico rispettabilissimo. «Voi vivete in inganno: m’avete creduta sana, mentre sono stata malissimo per l’incostanza della stagione in una città soggetta, per quanto mi vien detto, a risentirne tutti gli effetti; un raffreddore ostinato è stato mio compagno un intero mese, ne è del tutto svanito. Ora andatevi a fidare dell’apparenza! Ogni regola ha la sua eccezione: quella che voi avete adottata alla prima è stata fallace, onde da qui in avanti sarà bene che prima di decidervi passiate a me parola. Quanto mai conoscete il genio di questa metropoli! Essa è qual la pingete; i suoi abitatori sono veramente epicurei, segnatamente nella tavola. Se io avessi l’abilità di cantare alle tavole, come solevano gli antichi Greci, che sì ch’avrei sbalorditi ancora gl’idolatri della crapula? Ma era duopo cangiare il nome alle divinità; per esempio chiamare – riso giallo Apollo, busecca Clio, Giove salame, e così di mano in mano formare una saporita e grassa genealogia di questi numi tutelari. Fuor di celia, io piaccio, nè ho di che lagnarmi; i dotti m’applaudiscono, gli sciocchi sbadigliano, ma gridano: Oh brava! Lo dicono alcuna volta fuor di tempo; io però ho la cura di porre a loco i loro applausi, acciò non vadano a vuoto. Il fanatismo per l’accademia pubblica cresce. Se vedeste come io facevo la svogliata! Sembro proprio una smorfiosa a cui nausea un qualche odore; eseguisco a puntino [150] la vostra lezione, sicura d’un buon esito. Giovedì cantai in casa del Presidente Carli; il crocchio era di letterati; ho goduto ancor io, perchè ben di raro m’arrivano tali fortune. Domenica sono in casa Soncino. Mi vien fatto credere che la padrona abbia talento; buon per me se ciò è vero, giacchè, a dirvela come la intendo, queste signore, benchè per proprio interesse lo dissimulino, gustano le mie poesie nel modo stesso che io gusto il loro enorme busto. Ove è mai, dico tra me sovente, la intelligente contessa Archinto? Possibile che fra tante teste non ve ne sia una architettata, almeno in parte, su quel gusto? Ma io ho un bel dire, un bel ricercare sul viso a queste belle un segno che l’anima s’appaghi ed occupi. I loro occhi nulla dicono; il fazzoletto rigonfiato sopra il loro petto le interessa più d’un pensiero omerico, e il cappellino della loro vicina richiama tutta la loro attenzione. Voi direte che sono satirica, che troppo esigo dalle donne, che esse devono servire alla moda per servire alla società: sopra ciò con voi sono d’accordo; ma quando vi è qualche cosa di meglio perdersi in picciolezze non è una crassa ignoranza? Umiliate i miei complimenti all’amabilissima signora contessa Archinto. Il non trovare in Milano una copia di essa mi rende vie più sacro l’originale. Bramo essere rammentata al signor Isidoro di cui sono estimatrice. Amatemi alla vostra usanza, che sarà quella della sensibilità. Addio, caro il mio amico. Sono la vostra affezionatissima «Amarilli.»1 1 Questa lettera fu presa dagli autografi del Muoni, pubblicati dal prof. Berlan.

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[151] Non si dimentichi il lettore, che il Parini scriveva molto di sovente sonetti per commissione degli amici, e devesi ritenere, che in quelli il poeta si lasciasse piuttosto trasportare dalla fantasia verso le intenzioni amiche di chi lo pregava a scrivere i versi. Questo è il motivo principale che dimostra come tali componimenti qualche volta non rispecchino del tutto l’animo suo; ed i critici, che si sono sforzati a leggere sempre in essi il libero pensiero del poeta, sono caduti in errore. Ogni tratto di tempo vengono alla luce, come inediti, alcuni di questi lavori eseguiti dal Parini per altrui commissione, o da lui spontaneamente composti, però è assai difficile stabilire, se siano assolutamente inediti, poichè non si può conoscere in modo certo, se nell’occasione in cui furono scritti, non siano stati pubblicati. Per citare un esempio, il sonetto del Parini composto per il ritratto in marmo dell’Arciduchessa Maria Ricciarda e da lei donato alla figlia Teresa, duchessa d’Aosta, che comincia col verso: Questa che le mie forme eterne rende, da tutti creduto inedito, invece fu pubblicato nell’occasione per la quale fu composto, come ne fa fede un esemplare posseduto dal signor Paolo Corbetta, assistente all’Archivio di Stato di Milano, allora stampato insieme coll’altro sonetto, pubblicato dal Reina, che comincia col verso: Ben ti conosco al venerando aspetto. Il sonetto creduto inedito è la risposta che dà l’arciduchessa madre alla figlia, la quale allora, come lo indica la dedica, era divenuta duchessa d’Aosta, avendo preso per marito, il 25 aprile 1789, il principe Vittorio Emanuele. Era naturale quindi che il [152] Parini lodasse l’antica Casa di Savoia coll’ultima terzina, dove la madre dice alla figlia: Tale il ciel ti donò splendido esempio In questa ove tu sei Reggia d’Eroi D’ogni eccelsa Virtude asilo e tempio.

Dopo questa terzina segue l’indicazione dell’autore, così stillata: Di Giuseppe Parini P. P. delle Scuole Palatine

[153]

XII.

Considerazioni sulle odi «Il Messaggio» e «Alla Musa» – Le mutate condizioni economiche del poeta – Considerazione sull’ode «Sul vestire alla ghigliottina» – Origine di tal moda – Il Parini entra nel terzo periodo di sua vita – L’elogio di Vincenzo d’Adda, pubblicato, non è quello scritto dal Parini.

N ell ’ anno 1793 il poeta componeva per l’inclita Nice l’ode Il Messaggio.

Quantunque l’autore non amasse che fosse indicata la persona cui era diretta, tuttavia voglion taluni, che il Parini la scrivesse per la signora Castelbarco, la quale, nell’antecedente inverno, avea mostrato premura di mandare ambasciate al poeta. Quest’ode, a giusto titolo, è annoverata fra le più belle, per le sue peregrine finezze letterarie e pei modi coi quali il poeta veste i suoi concetti, cioè per gli abiti medesimi che coprono così graziosamente le belle forme di Nice.

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In quest’ode subito ci accorgiamo che il poeta si è molto cambiato, ed ha lasciato da banda quel certo fare che sapeva, sebben da lontano, dell’aspro e dell’arcigno, per seguire invece la dolcezza e la [154] serenità nella placida calma di un tramonto autunnale. In questo concetto ci conferma l’ultima ode Alla Musa, scritta nel 1795, pel marchese Febo d’Adda, già suo alunno, ode sulla quale conviene intrattenersi insieme coll’altra, dal titolo Il Messaggio. In questa il poeta esclama con severo lirismo: A me disse il mio Genio Allor ch’io nacqui: L’oro Non fia che te solleciti, Nè l’inane decoro De’ titoli; nè il perfido Desio di superare altri in poter: Ma di natura i liberi Doni ed affetti, e il grato De la beltà spettacolo Te renderan beato, Te di vagare indocile Per lungo di speranze arduo sentier.

Per capire intieramente il significato di queste due splendidissime strofe, è necessario osservare, che questa è la prima ode composta dal Parini, dopo che le sue condizioni economiche vennero migliorate coll’assegnatogli stipendio di lire quattromila. È naturale quindi che il genio faccia gustare i liberi doni ed affetti, e il grato spettacolo della bellezza a lui, che ha picchiato a tante porte ed ha nutrito tante speranze di miglior fortuna, vagando fra l’imperatore, l’arciduca e il ministro Wilzeck. Chi ha lo stomaco pieno, non sente più timore dell’incerto domani, e non lo turba il pensiero della moglie e dei figli, può dedicarsi alla poesia e scriver bellissimi versi senza bramar altr’oro, altri titoli, o rodersi dall’ambizione di potere. In questo caso si [155] trovava appunto il nostro poeta, quando tra la quiete ed il riposo cantava nell’ode Alla Musa: Te il mercadante, che con ciglio asciutto Fugge i figli e la moglie ovunque il chiama Dura avarizia nel remoto flutto, Musa non ama.

Dedicando l’ode a don Febo D’Adda, ricco, tranquillo, modesto che passava la luna di miele senza tramonto in compagnia della moglie e di pochi, ma scelti amici, poeta esso pure dalle tendenze semplici e tranquille, era logico e naturale che il Parini tenesse un simile linguaggio. Ma d’altronde, in qual modo avrebb’egli mai potuto tesser versi con sì pacifici ed affettuosi intenti, se l’animo suo si fosse continuamente abbeverato di fiele e di veleno? Il suo miglioramento economico, quale conseguenza dell’accresciutogli stipendio, non solo lo guidava per altra via, ma gli faceva ancor cader di mano il dardo satirico ch’era solito nel passato a lanciare contro il vizio signoreggiante. Luigi Bramieri, il 7 settembre 1799, scriveva al padre Pompilio Pozzetti, che il motivo il quale trattenne il Parini dal proseguire il Giorno lo si debba attribuire alla cangiata moda, al dissiparsi di certe ridicolosaggini che cambiavano da un mese all’altro, al timore d’increscere a taluno (il Belgioioso), cui la pubblica ma-

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lignità indicava qual’eroe del poema, e alla cagionevole salute. Tutto questo è in parte vero, ma non pienamente. Parini non si decise a compiere il Giorno sino da quell’istante che divenne regio professore, per non dar ombra a nessuno di metterlo in cattiva parte presso il governo locale. Egli continuava bensì [156] a comporre e corregger versi sul Vespro e sulla Notte, e sebbene manifestasse qualche volta l’intenzione di darli alle stampe,1 tuttavia si tratteneva dal farlo, per quei certi riguardi che sono facili a capirsi. Se la riluttanza a compiere e stampare il Giorno era insuperabile nel Parini semplice professore, doveva essere affatto insormontabile in lui sopraintendente del regio Ginnasio in Brera. Inoltre nel nostro poeta echeggiava più che mai il sentimento di pietà verso gl’infelici, ed appunto in quei giorni ch’egli dedicava l’ode a don Febo D’Adda, gl’infelici cominciavano dai nobili, che sentivano vicino l’odio della borghesia e della plebe, come risulta dall’ultima strofa dell’ode stessa, nella quale la musa dice: Uscirò co’ bei carmi, e andrò gentile Dono a farne al Parini, Italo cigno Che a i buoni amico alto disdegna il vile Volgo maligno.

Nell’animo del Parini ripercuotevasi di sovente il verso di Lucano: «Victrix causa diis placuit sed victa Catoni»

e di fronte ai vinti ed ai perseguitati dalla rivoluzione francese, l’animo suo si conformava ai sentimenti del celebre romano. Di questi suoi slanci del cuore abbiamo un’altra prova nell’ode da lui [157] com|posta nel 1795, che in principio fu intitolata Sul vestire alla ghigliottina, e più tardi A Silvia. Questo poetico componimento è riboccante di consigli educativi e morali sulla donna, nel quale con lievi tocchi storici, dimostra il poeta a qual punto di degradazione può discender la donna, seguendo l’andazzo di certe mode che ripugnano alla morale. Al poeta di placido senso, al nemico dell’oro e dell’ambizione, all’amante della giustizia e all’odiatore della violenza, l’immagine della scure fatale che aveva sparso tanto sangue metteva raccapriccio, tanto più che le chiacchiere sull’origine del vestire alla ghigliottina, facevano allora parte delle più strane e favolose invenzioni. Durante il governo del terrore, le condannate a morire sotto la ghigliottina erano costrette indossare una veste che lasciava nudo il collo, il petto e le spalle, onde la scure non trovasse impaccio nelle sue alte funzioni. Seguire la moda d’indossare abiti scollati, pareva un simpatizzare per la ghigliottina, attribuendole un significato altissimo in onore delle vittime, ed anzi si giungeva a stringere il denudato collo con fettuccia di seta rossa, quale segno del taglio fatale. Quindi le collane rosse, gli scialli rossi ed i capelli rasi divennero la gran moda

1 Il 18 novembre 1791 il Parini scriveva al celebre Bodoni a Parma, ringraziandolo del volume delle sue poesie, allora stampate, che gli avea regalato. Egli sperava nella primavera successiva di mandare al Bodoni perchè fossero stampati i due poemetti il Vespro e la Notte, e prometteva che il Mattino e il Mezzogiorno uscirebbero corretti ed accresciuti. Vedi lettera pubblicata dal prof. E. Bertana nella Rassegna Bibliografica della Letteratura Italiana – N. 3-4, 1898.

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nei balli «a la victime», ai quali non potevano intervenire se non i parenti dei morti sul patibolo. Come ognuno può accorgersi, in questa narrazione la fantasia spazia oltre i confini naturali, perchè tutti sanno che la moda del vestire alla ghigliottina venne messa in pratica, forse senza saperlo, da quelle signore che avevano interesse di esporre in pubblico un bel collo e due belle spalle. Circa quel tempo a Milano comparve una fra le belle dame [158] ad un pranzo del generale Stein, vestita in modo che restavano scoperte le punte degli omeri, ed i capelli erano annodati di dietro sì alti, che il collo si vedeva tornito da tutte le parti. Il generale al primo incontro le disse: Madame, il paroit que vous soyez habiller1 à la guillotine. La riflessione fece ridere la brigata, ma l’abito della bella dama piacque tanto alle altre, che subito vollero imitarla, e per dare un nome alla cosa, lo chiamarono alla Guillotine. La poesia non fu niente affatto dedicata a Silvia Curtoni Verza, o fatta per essa, che in quel tempo non si trovava neppure a Milano. Il Reina dice che Silvia è un nome immaginario, e Ippolito Pindemonte scriveva a Benassù Montanari di aver conosciuto in Milano colei, che aveva adottata l’acconciatura alla ghigliottina, e dato occasione all’ode pariniana. Il nostro poeta avea incominciato il primo periodo della sua gloriosa carriera, cantando la vita rustica, lanciando il suo verso contro le frivolezze dell’età sua e mostrando la sua avversione a quelle disuguaglianze sociali che sono la negazione di Dio. In questo primo periodo il Parini non andava scevro da stoicismo, ma quando veniva nominato professore lo stoicismo un po’ alla volta perdeva di vigore e di asprezza, e finiva da ultimo con lo scomparire affatto. Dal giorno della sua nomina di professore egli entrava in un secondo periodo di vita meno stentata, che migliorava sempre più, sino a diventare, verso la fine, vita comoda. Era quindi logico e naturale, che in questo secondo periodo egli informasse a moderazione la sua musa, rendesse omaggio alla nobiltà virtuosa nella persona di don Febo D’Adda, [159] e colpisse col suo dardo il volgo maligno. Da questo momento gli si apre innanzi il terzo periodo, per il quale incedendo non fa più udire il suono della sua lira, ma solamente la voce della verità. Per comprendere questo terzo ed ultimo atto della grande commedia pariniana, è assolutamente necessario porgere un’idea delle mutazioni dell’ambiente, sopravvenute coll’invasione francese, poichè in queste mutazioni soltanto troveremo le cause, che foggiarono i pensieri e le azioni del grande cittadino che tanto predilesse la moralità e la giustizia. Prima di chiudere questo capitolo è mestieri far menzione di un fatto, che sinora non raccolse tutta l’attenzione del pubblico più illuminato. Nell’anno 1793 era morto Vincenzo D’Adda, amico intimo del Parini, suo collega nel Ginnasio di Brera e nella Società Patriotica. L’usanza volea che si recitasse in seno della Società medesima l’elogio del socio defunto, e così il Parini ben volentieri si assunse l’impegno di tessere e recitare quello dell’amico. A cagione della malferma salute, il nostro poeta potè compiere l’incarico assunto solamente nel 1795, ed anzi non fu in grado d’intervenire all’adunanza dei soci, tenutasi il 24 marzo, dove il segretario Amoretti, per l’assenza del Parini, fu costretto a leggere l’elogio medesimo, che fu ascoltato con piacere, fu molto 1 [così nel testo].

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applaudito, e si deliberò che venisse pubblicato nel Tomo IV degli Atti. Così dice il verbale relativo.1 Questo tomo sgraziatamente, in causa del precipitare degli avvenimenti, che condussero a morte la Società coll’invasione francese, non venne più [160] pub| blicato, e dell’elogio scritto dal Parini non si ebbe alcun’altra notizia. Il Reina invece, a pagine 15-19 del suo IV volume, pubblicavalo quale lavoro integrale del Parini, e come tale fu costantemente ritenuto e pubblicato in altre edizioni successive, nessun dubbio della sua autenticità essendosi da quel tempo sino ad oggi manifestato. Quando all’opposto lo si legge con un po’ di attenzione, specialmente dopo una certa dimestichezza fatta con le prose del Parini, di leggeri ognuno si accorge che quell’elogio è una ben misera cosa. Se per qualche parola o per qualche frase possiamo anche credere che sia stato scritto dal Parini, ce lo vietano in modo assoluto di crederlo cecamente e la debole legatura delle singole parti e il meschino intreccio dell’insieme, che il Parini in ogni suo lavoro curava a tal segno, da riuscir sommo per eccellenza. Inoltre non devesi dimenticare, che l’elogio in seno della Società fu letto dall’Amoretti, e fu ascoltato con piacere e molto applaudito. Se il Parini fosse stato presente, si direbbe che l’applauso fosse suonato come un omaggio all’autore e non all’opera affatto convenzionale, ma il Parini essendo stato assente, è mestieri riconoscere che l’applauso fu sincero perchè appunto tale lo meritava l’elogio. Per confermarci in questi dubbi, anzi per farci credere che il preteso elogio del Parini, pubblicato dal Reina, non sia quello che realmente fu letto dall’Amoretti, vengono in soccorso i due seguenti documenti. Il 13 fiorile anno 9.º (3 maggio 1801) il ministro dell’interno della Repubblica Cisalpina, Pancaldi, scriveva al cittadino Amoretti, altro de’ Bibliotecarj dell’Ambrosiana e già segretario della [161] pree|sistita Società Patriotica di Milano, la seguente lettera: «Il cittadino Reina, altro dei deportati dall’Austria, ed ora membro della Consulta Legislativa, sta disponendo un gran presente alla Repubblica Letteraria con una Edizione completa delle opere dell’immortale nostro Parini. Egli ha fatto acquisto de’ di lui manoscritti dagli Eredi, e non lascia intentata pratica alcuna, o diligenza per rintracciare se altre produzioni esistano della mano maestra, che non siano per anco conosciute generalmente, o finora inedite. Fra queste si conta l’elogio del fu Professore Dottor Vincenzo D’Adda recitato da Parini alla Società Patriotica. Non potendosi avere altronde il detto elogio, io v’invito, Cittadino Bibliotecario, a consegnare al sunnominato Consultore Reina il detto manoscritto per l’uso sovraindicato, ritirandone voi una ricevuta da consegnarsi negli Atti della Società». Il cittadino Carlo Amoretti, il 28 successivo, rispondeva al ministro nei termini seguenti: «Appena ebbi il venerato vostro foglio, Cittadino Ministro, in cui mi s’ingiungeva di ricercare fra le carte della preesistita Società Patriotica l’elogio scritto dal fu Prof. Parini pel Prof. D’Adda, e consegnarlo al C. Reina, andai col custode, dianzi Bidello, Pratesi, ove le carte si serbano, e tornandovi più volte, tutte le visitai senza poterlo trovare; avvedendomi però che le cartelle, in cui prima del 1797 io aveva ordinate le carte tutte, erano state non so da chi, giacchè pas1 Vedi Appuntamenti della Società Patriotica – Archivio di Stato.

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sarono in più mani, visitate, e talora sconvolte. Ad esaminar quelle carte ajutommi pure il Prof. Brambilla, dianzi Vice Segretario della Società medesima.» [162] «Sapendo che alcuni, al tempo che fu recitato quell’elogio, ne avevano fatta copia, a loro l’ho chiesto, e non dispero affatto d’averlo. Intanto avendo trovato fra le carte, e negli appuntamenti alcuni scritti e parecchie notizie relative al Prof. Parini medesimo, mi son fatto premura di comunicarle al C. Reina summentovato, come mi son fatto un piacere di dargli qualche produzione sua originale, che era presso di me». «Mi spiace di non aver potuto eseguire pienamente gli ordini vostri, Cittadino Ministro, ma quanto ho fatto per secondare le commendevoli viste del C. Reina, può esservi argomento della sincera mia premura di ubbedirvi».1 Da questi due documenti appare chiaramente che il 28 fiorile non si avea ancora trovato l’elogio, scritto dal Parini. È stato trovato più tardi? E quello trovato non potrebb’essere una copia abbozzata in fretta, o piuttosto un riassunto dell’elogio medesimo? [163]

XIII.

Il Parini e la rivoluzione francese – Repressioni e cospirazioni – Arrivo dei Francesi e la Municipalità – La Società Popolare – Nuove contribuzioni – Il Parini municipalista – Il «Termometro Politico» ed il Parini.

E ra vario tempo che il Parini andava correggendo e limando il Mattino e il Mezzogiorno; avea terminato il Vespro e stava lavorando dietro la Notte. Se non che i tempi precipitando e le novità affollandosi una sull’altra, non trovava tregua o riposo; la rivoluzione francese gli si affacciava gravida di timori e di speranze, e la cagionevole salute continuamente lo martellava. Egli avea sortito da natura animo libero dalle pastoie sociali, desiderava l’uomo differente da quello che lo aveva fatto la società, e idolatrava l’abbassamento degli incancheriti papaveri e l’innalzamento degli umili rigenerati. Quando ai primi lampi della rivoluzione francese tenne dietro il grande temporale con la gragnuola di teste cadenti dalla ghigliottina, egli, che rifuggiva dal sangue, s’arrestò titubante e stette a guardare, più che giudice, spettatore tormentato. Circa un anno prima che cominciasse la guerra delle Alpi, le polizie degli Stati d’Italia vigilavano, [164] si partecipavano le scoperte d’immaginarî convegni e congiure, la stampa era tenuta pel collo, parecchi giornali venivano soppressi, gli arresti si facevano sempre più numerosi, le spie si moltiplicavano, e per la paura del terrore rosso francese, il terrore bianco imperava a Milano e suoi dintorni. Eppure il 17 aprile 1791 partiva da Torino per Milano sui carrettini del Barisone una balla di libri spedita colà dalli Bonafus, e proveniente da Ginevra che conteneva più copie delle opere di Rousseau, ed anche alcune copie di libri relativi agli affari correnti di Francia. Così diceva un biglietto del ministro sardo Hauteville al Wilzeck, che portava anche le indicazioni della balla, ed assicurava che in un’altra, proveniente pure da Ginevra, si trovavano quattro copie del volume: Le Manifeste, ou la Monarchie Françoise retablie dans ses loix primitives et constitutionelles. 1 Vedi autografi del Parini – Archivio di Stato.

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Nella primavera 1792 la Francia era rappresentata a Genova dal ministro Semonville, quello che fu causa della dichiarazione di guerra tra Francia e Sardegna. Il Capitano di Giustizia a Milano sapea tutto ciò che faceva quel ministro, dove andava e chi riceveva. A Milano sapeasi pure che l’abate Pompeo Della Porta era partito dalla Corsica e diretto in Lombardia, quale incaricato dal generale Pasquale Paoli, a spargere massime per sollevare i popoli. Sapevasi pure che dalla Toscana erano stati espulsi arruotini francesi, che seminavano fra il popolo, come dicea il Capitano di Giustizia, «principj di fanatica libertà ed irreligiosi». Dalle Marche venivano lettere informative sul contegno dei Francesi, e il Munarini, ministro del duca di Modena, si compiaceva che a Modena e a Reggio regnasse la quiete, ma [165] aveva paura dei Grigioni, e chiedeva informazioni al Wilzeck. Però la bestia nera era sempre il Semonville, ministro di Francia a Genova; è di là, scriveva il Munarini, che viene il veleno; è di là, scriveva il barone Brentano, console austriaco, al Wilzeck, che il Semonville fa parlar molto di sè; è di là che si propagano le notizie di rivoluzioni politiche a Portomaurizio, mentre sono dimostrazioni di poche persone per la fabbrica di una chiesa; da per tutto si vedono emissarî francesi, e l’oro francese crea i rivoluzionarî. Tutte queste fandonie erano scritte con la massima serietà da uomini che avevano l’obbligo di respingerle, come ciarle di donnicciuole da villaggio. E mentre si temevano gli emissarî francesi provenienti da Genova, dalla Corsica, dalla Toscana e dalle Marche, lo Stato di Milano cominciava a formicolare di patrioti, che tenevano corrispondenza a Parigi con un milanese di nascita e di provenienza spagnuola, il Salvador; e dal Lago Maggiore a quello di Como s’era formata una catena di cospiratori. Il Semonville, se crediamo alle relazioni che si facevano sul di lui conto, specialmente a quella che l’Acton, ministro borbonico a Napoli, spediva al Wilzeck il 27 maggio 1792, avea ideato un piano comunicato al ministro Dumourier a Parigi, che alla sua volta lo avea presentato al Direttorio, consistente nella conquista di Genova. Di là dovea sprigionarsi la rivoluzione verso il Piemonte e la Lombardia, appoggiata da un esercito francese, mentre un altro dal Nizzardo sarebbe disceso in provincia di Cuneo, ma non si fece nulla.1 [166] Mentre ferveva la guerra delle Alpi, a Milano si pregava il Dio degli eserciti a conceder la vittoria, o lo si ringraziava per la vittoria concessa alle armate Austro-Sarde. Quando le sconfitte si fecero irreparabili e si temette che i Francesi venissero a cambiare gli ordini sociali, si ricorse anche alla Madonna di S. Celso e alle reliquie di ciascuna parrocchia, ma tutto fu inutile. Il 9 maggio 1796 partiva l’Arciduca, e il 12 il Vicario di provvisione avvisava di non usare le campane che per le solite funzioni della Chiesa, proibito qualunque altro modo di suonarle che potesse dare inopportunamente allarme. Dopo la vittoria del Bonaparte al ponte di Lodi, la Congregazione Generale dello Stato autorizzava tutte le comunità a fornire alloggi e somministrazioni alle truppe francesi. Il 14 maggio, giunto il Massena a Milano, intascò danari e ordinò una requisizione di cavalli; i patrioti alzarono il capo e costituirono la Società Popolare; fu impiantato l’albero della libertà, ed issato in Piazza del Duomo uno stendardo nero, sul quale campeggiava lo scritto Diritti dell’Uomo. Arrivato il 15 il generale Bonaparte, andò ad abitare in casa Serbelloni, sul Corso di Porta Orientale; ricevette il giuramento di fedeltà dalle autorità civili ed ecclesiastiche; il 30 fiorile 1 Queste notizie vennero raccolte in gran parte fra gli Atti della Sezione Militare, cartelle della guerra austro-franca 1792 – Archivio di Stato.

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(19 maggio) chiese venti milioni di lire, comprese le requisizioni in natura; abolì la Giunta di Governo, il Magistrato Politico Camerale e il Consiglio dei Decurioni; lasciò sussistere la Congregazione dello Stato; e incaricò tre agenti militari, Morin, Reboul e Patraud insieme con la Municipalità, a capo della quale era il comandante di piazza generale Despinoy, a governare la Lombardia. Il Despinoy, in tale sua qualità, [167] eserci|tava militarmente l’alta polizia e tutte le funzioni delegate dalle leggi francesi ai comandanti delle piazze in istato d’assedio. A formare la Municipalità vennero chiamati Francesco Visconti, Antonio Caccianino, Galeazzo Serbelloni, Felice Latuada, Carlo Bignami, Antonio Corbetta, Fedele Sopransi, Gaetano Porro, Pietro Verri, Giuseppe Pioltini, Gio. Battista Sommariva, Paolo Sangiorgio, Antonio Crespi, Cesare Pelagatti, Carlo Ciani e Carlo Parea. La sera 19 maggio alla Scala si diede un grande spettacolo, il teatro fu illuminato a giorno, e così la città per ordine del generale Despinoy. Frattanto tra i democratici e gli aristocratici era un continuo calunniarsi; la libertà vera non era conosciuta, quindi non potevasi apprezzarla; il popolo si mostrava troppo giovane; inabile a reggersi da sè, a discernere il bene dal male, rimaneva vittima della solita schiuma, che nei grandi sconvolgimenti politici ha la forza di rimanere costantemente a galla. Di fronte alla spudorata spogliazione del Monte di Pietà, il cittadino Serbelloni, presidente della Municipalità, il 2 pratile (21 maggio) pubblicava il seguente manifesto: «Cittadini: La nuova Municipalità ha la consolazione di annunziarvi, che saranno rilasciati alli rispettivi Proprietarj i pegni anche consistenti in Capi d’Oro e d’Argento, che trovansi sul Monte di Pietà, il valore de’ quali non ecceda la somma di lire cento moneta di Milano, senza alcun obbligo di pagamento, essendo la Municipalità a ciò autorizzata dal Cittadino Saliceti Commissario del Direttorio Esecutivo presso alle Armate d’Italia e delle Alpi.» «Riconoscerete o Cittadini in questa [168] determina|zione, che il favorire la Classe più indigente è l’oggetto, che sta più a cuore alla Repubblica Francese, ed alla Municipalità, la quale ha ordinato la pubblicazione, ed affissione di questa sua disposizione per gli corrispondenti effetti». Quando cominciarono le requisizioni dei cavalli, la violazione delle pubbliche casse e la spogliazione del Monte di Pietà, un insolito fermento invase il popolo che si scatenò in sommossa a Pavia, e a Binasco. E dopo che a Pavia e a Binasco si era spenta nel sangue la rivolta, si volle a Milano abbagliare i meno abbienti colla restituzione dei pegni del valore sino a cento lire milanesi, onde togliere l’occasione immediata della sommossa. Ma fu illusione, poichè, il 23 maggio, a Porta Ticinese e in altri luoghi della città l’irritazione giunse al colmo, il giorno successivo si tentò di abbattere l’albero della libertà, e la sommossa fu soffocata nel sangue. Ed affinchè si conosca meglio come fossero avviate le cose in seno della Municipalità, riportiamo la lettera 2 pratile, anno primo della Libertà Lombarda (21 maggio 1796): «La Società Popolare alla Municipalità di Milano». «Cittadino Presidente, Cittadini Municipali. La Società popolare ha colla più viva gioia intesa la scielta che vi ha chiamati alla pubblica Amministrazione degli Stati dell’inaddietro Lombardia Austriaca».

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«Ella viene per nostro mezzo a farvi sentire il suo piacere, ben persuasa che i vostri lavori dimostreranno a tutti che meritate la confidenza che il Pubblico vi ha accordata». [169] «Cittadini Municipali, i Popoli hanno fissi gli occhi sopra di voi, ed aspettano dalla vostra giustizia, dalla vostra energia la loro rigenerazione. L’amor della patria, che vi guida: il degno Cittadino, che con tanta saviezza vi regola, e presiede alle vostre operazioni ce lo promettono, l’approvazione, che danno i Popoli alle vostre operazioni ce l’assicurano». «La Società popolare verrà in aiuto delle vostre operazioni; ma voi Padri della Patria siete ancora suoi Figli, e tocca a voi di protegerla. Voi sapete quali sono i di lei principj, Essa ve li ripete: giustizia, virtù e salute del Popolo sono le immutabili basi, su cui raggira i suoi lavori, e se sarà da voi secondata non potrà a meno di ottenere la pubblica felicità». «La Società spera che qualcuno di voi si porterà giornalmente nel di Lei seno, e vi fa tutta la premura di portarvi quando lo stimerete ne’ suoi Comitati di Vigilanza e di Segretezza, i quali sono in oggi riuniti». Il Comitato Riunito di Segretezza e d’Invigilanza Salvador, Presid. Tordorò, Segret.1

Nella seduta dello stesso dì 2 pratile, la Municipalità ringraziava la Società Popolare della lettera, e contemporaneamente proponeva una commissione composta del Serbelloni, Porro e Visconti, affinchè si recasse a ringraziare il Saliceti e il Bonaparte della nomina della Municipalità stessa. Inoltre fu [170] proposta l’imposizione di 14 denari sopra ogni scudo d’estimo sulle case e fondi della Città e dei Corpi Santi di Milano, all’oggetto d’introitare la somma restituibile alla Repubblica Francese e per supplire ad altri istantanei bisogni. Tale proposta fu adottata a titolo d’imprestito d’aversi riguardo ai censiti in occasione di pubblicazioni di altre imposte. Con avviso del giorno seguente vennero prescritte le modalità da seguirsi per l’esazione. In quella stessa seduta si discusse pure sulla sovraimposta di venti milioni richiesti dal Bonaparte, da esigersi secondo le norme adottate per l’imposizione precedente. Nella seduta 3 pratile fu deliberato anche di prender denaro per un milione e mezzo, da riscuotersi in tre rate dai signori: Carlo Archinti, Mellerio, Greppi, Francesco Clerici, Pezzoli, Pietro Vandoni a S. Antonio, D. Macchi, Gio. Antonio Parravicini ai Bossi, Antonio Visconti, Patelano, Stefano Sangiuliani, Lodovico Belgioioso, Ambrogio Forni, Miconi ab., Cozzi, Luigi Perego, Dott. Magrini a S. Protaso, Antonio Somaglia, Giorgio Teodoro Triulzi, fratelli Fe, Pietro Annone, Arconati, Andreani, Resta, Busca, Biglia, Confalonieri, Soncini, Daverio ab., Carlo Frisiani, Ottolini a S. Ambrogio, Carlo Scotti, Costanzo Taverna, Francesco Pertusati, Carlo Albino, Dott. Milesi.2

1 Vedi Atti dei Municipalisti – Archivio Storico Municipale. 2 Le notizie sulle deliberazioni dei Municipalisti furono desunte dai verbali della Municipalità – Archivio Storico Municipale – ad eccezione di quelle, che cominciano col Iº termidoro, che si conservano nell’Archivio di Stato. Ciò per norma riguardo alle deliberazioni, delle quali si farà cenno in seguito.

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Il 4 pratile, preludiando al manifesto del [171] gene|rale Bonaparte del 6, che minacciava di abbruciare i villaggi ribelli, e dichiarava che la Repubblica Francese non fa la guerra ai popoli, la Municipalità dicea in un suo manifesto di porgere l’ulivo di pace ai cittadini mentre che le Armate Francesi penseranno a dissipare con la forza i rivoltosi, che sono i veri nostri nemici. A questo punto erano giunte le cose pubbliche, quando il 5 pratile (24 maggio), per accrescere il numero dei municipalisti, il Parini veniva nominato dal Bonaparte e dal Saliceti, membro della Municipalità, insieme con Paolo Brambilla, Michele Vismara, Ottavio Mozzoni, Angelo Pavesi, Giovanni Tordorò, Giacomo Battaglia, Michele Reale, Giuseppe Merlo e Carlo Nicoli. Con questi vennero pur nominati Sigismondo Ruga e Francesco Picciotti, i quali avendo la propria sostanza nello Stato Sardo, nè sapendo quali trattati fossero stati conchiusi, tra quel re e la Repubblica Francese, domandarono tempo a determinare. Una eguale eccezione fece pure il cittadino Francesco Vandoni, per avere i suoi fondi sullo Stato Mantovano, allora in potere degli Austriaci. Invece Ottavio Pusterla, pretore a Gallarate, prestò giuramento separatamente, ed intervenne alle adunanze, finchè lo si elesse Capitano di giustizia.1 Per questo motivo il 16 pratile (4 giugno), in sostituzione dei quattro ultimi accennati, furono eletti i cittadini Giovanni Bazzone, Carlo Prandina, Francesco Buzzi e Giuseppe Agnelli, tutti della Società Popolare. Per ottenere con più agevolezza lo scopo, le [172] au|torità francesi si servivano dei municipalisti i quali, preludiando ad altro decreto del Bonaparte del 9 pratile, che conteneva le minaccie di nuove stragi ed incendi, il giorno 5 deliberarono di obbligare i padroni «a continuare a mantenere la propria servitù dimessa dal giorno dell’entrata dell’armata francese in Milano, e di requisire le armi dei trafficanti della città». Rivolgendosi al popolo di Lombardia, il 10 pratile, domandava il Saliceti: «I Francesi, dopo un uso così moderato delle loro conquiste, dovevano essi aspettarsi in un paese vinto tanta perfidia?» Era la ripetizione della favola del lupo e dell’agnello. E qui si tralascia di accennare le minaccie del Despinoy, comandante di Piazza, la requisizione delle armi da lui ordinata, entro 24 ore, e tutti gli altri fronzoli deliziosi che guarniscono i soliti manifesti durante lo stato d’assedio, compresi i numerosi arresti dei patrizi milanesi. Sotto questi auspicî il Parini, insieme coi colleghi nominati lo stesso giorno, prestava giuramento, da lui sottoscritto il 6 pratile e, date le sue opinioni e il suo carattere, è mestieri confessare che si mostrava fornito di molto coraggio per entrare in un ambiente che non approvava. A cagione delle condizioni affatto straordinarie in cui versava in quei giorni la città dì Milano, le deliberazioni che venivano prese dai municipalisti, acquistavano la più grande importanza ed erano di una gravità estrema. I municipalisti doveano piegarsi alle esigenze del generale Despinoy e del commissario Saliceti, la cui giacobina astuzia non conosceva limiti, per tirar fuori le castagne dal fuoco con la zampa dei municipalisti stessi. Il Municipio era niente, quando credeva di far da sè; era tutto, quando [173] era piegato a fare ciò che volevano i francesi giacobini. Costretto a camminare su questa via, il Municipio dovea anche pagare ai signori ufficiali le stoviglie, le guarnizioni da tavola, i pranzi, il caffè, i liquori e il concerto musicale perchè potessero fare deliziosamente il chilo. 1 Vedi Atti dei Municipalisti – Archivio Storico Municipale.

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La nota amena veniva fornita da Giuseppina Beauharnais, moglie del Bonaparte che, venuta a Milano, andava ad abitare nel palazzo Serbelloni, al mantenimento e al divertimento della quale pensava e pagava il Municipio. Quasi ogni giorno due o tre municipalisti si recavano a trovare la moglie del generale, e poi affrettavansi alla sera a riferire le notizie, all’adunanza dei colleghi, sullo stato di madama, come aveva dormito la notte precedente, e in qual maniera aveva passato il giorno.1 Pel sollecito e regolare disbrigo degli affari, i municipalisti si divisero in vari comitati, ed il Parini fece parte del terzo, insieme con Pietro Verri, col Visconti e parecchi altri. In questo comitato si trattavano gli affari relativi al censo, alle finanze, agli archivî, agli impieghi, alle cause ecclesiastiche, ai luoghi pii, alla religione, all’istruzione pubblica, ai teatri ed al commercio. Nell’adunanza di questo comitato, tenutosi l’8 pratile, «fatta parola della necessità attesi i noti incomodi di salute del cittadino Giuseppe Parini, che lo impediscono di personalmente portarsi alle diuturne sessioni senza il mezzo di una portantina che sia determinata a di lui comodo, convenne unanimamente il comitato che si diano gli ordini a chi [174] conviene perchè ne sia provvista una decente e propria per conto della Municipalità, e costituito il proporzionato soldo giornale a due portatori che verranno scelti». A questo proposito dobbiamo pure ricordare che, nella seduta 6 messidoro tenutasi dai municipalisti, il cittadino Vismara «fa presente l’istanza di due uomini della Municipalità in servizio del Parini, all’oggetto di portarlo su e giù dalle scale della casa del Comune, che dovendo trattenersi in essa tutto il giorno e alla sera a disposizione del Parini, desideravano di avere qualche altra incombenza per rendersi più utili ed avere uno stabile assestamento di cui hanno bisogno». Il N. I del giornale il Termometro Politico, 7 messidoro, anno IV (25 giugno 1796) pubblicava: «I lumi che precedono sempre l’aurora della libertà e della pace, facevano desiderarla ed amarla. La massa di questi lumi era ben cresciuta per opera del Beccaria, Longhi, Verri, Parini … Si aspettava la occasione di adoperarla e di goderne i vantaggi». E più innanzi: «Alle voci de’ patrioti che sono gli amici del Popolo, si atterra l’antica Municipalità figlia dell’arciducal tirannia, ed ogni avanzo si abbatte dell’influenza di essa. Sulle ruine di questa si crea una nuova Municipalità, i cui individui erano per la più parte conosciuti o pe’ loro lumi o per le loro virtù patriottiche. Crespi, Serbelloni, Sopransi, Parini, Verri ed altri sono di questo numero». E più innanzi ancora: «Se i lumi di Beccaria, di Verri, di Gorani, di Frisi, di Parini, della Società del caffè hanno servito o ad accrescere la luce o a diradare le tenebre de’ paesi lontani, qual’impressione attivissima non dovevano particolarmente [175] co|municare all’atmosfera milanese, nel cui seno felicemente nascevano e si combinavano, come i raggi originarî della luce, per indi comunicarsi e diffondersi per tutto intorno?» I lettori si ricordino bene che il Parini non avea alcuna relazione col Termometro Politico, il quale era l’eco fedele dei più esaltati giacobini. [176]

XIV.

Parini, Sopransi e Vismara eletti ad illuminare il popolo – Come lo illumina il Parini – Le solite ruberie e reclamo dei municipalisti – Si istituisce un ufficio per ricevere 1 Vedi Atti dei Municipalisti – Archivio Storico Municipale.

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le denuncie segrete – Parini abbatte in parte questa istituzione – Risposta del Saliceti ai reclami dei Municipalisti – Il primo lampo dell’unità d’Italia – Gioia dei Municipalisti e del clero – Parini e Vismara distribuiscono beneficenze – Le solite ruberie – Despinoy prepara un colpo di mano sugli ori ed argenti delle chiese – Questione grossa coi Municipalisti e parole del Parini.

N ella seduta 9 pratile, sulla proposta di Cesare Pelagatti, veniva nominata una commissione, composta del Parini, Sopransi e Vismara «per mettere in attività tutti i mezzi che si credono necessari per illuminare il popolo, avuto riguardo alla costituzione fisica e morale dei lombardi». Che cosa abbia fatto la commissione per illuminare il popolo, in verità non lo sappiamo. Se crediamo al Reina, il Parini insegnava che «colla persecuzione e colla violenza non si vincono gli animi, nè si ottiene la libertà colla licenza, e co’ delitti. Il Popolo vi si conduce col pane, e col buon consiglio: non si dee urtarlo ne’ suoi pregiudizj, ma vincerlo [177] per sè stesso coll’istruzione, e coll’esempio più che colle leggi». Questi virtuosissimi insegnamenti e tutti gli altri ricordatici dal Reina, anche se non fossero stati pronunciati dal Parini, abbiamo ragione di credere che trovassero in lui medesimo un forte campione, ogni sua opera essendo guidata da queste massime. Narra il Reina: «Uno di que’ forsennati, che nelle apparenze pongono la Libertà, voleva, che chiunque si presentasse al Magistrato, vi stesse a capo coperto. Un buon alpigiano, che sempre aveva fatto altrimenti, benchè ripreso, non sapeva coprirsi per rispettosa abitudine: allora Parini: copritevi il capo, e guardatevi le tasche». Ecco in qual modo si doveva illuminare il popolo lombardo, invaso dai ladri più celebri del mondo civile. E che fosse allora moda di rubare, ce lo dice lo stesso commissario Saliceti col manifesto 11 pratile, che comincia così: «Considerando: che malgrado l’ordine stabilito dalle leggi della contabilità e dell’amministrazione; malgrado le inibizioni date dal Generale in capite e dal Commissario del Governo a qualunque persona, fuorchè l’Ordinatore dell’Armata, di fare delle requisizioni; alcuni individui senza carattere si presentano nanti la Municipalità, conforme a ciò che essa espone, muniti di istanze per farsi accordare cavalli ed altri oggetti: «Considerando esser questo un attentato alle proprietà pubbliche, e private,» ecc. Ma oltre questi furti, altri ne avvenivano colla provata connivenza delle autorità militari. I municipalisti, stanchi di questo andazzo, il 10 pratile, compilarono una memoria, presentata al Saliceti, nei termini seguenti: [178] «I. I Luoghi Pii, quantunque sembrino essere sotto l’ispezione e vigilanza della Municipalità, l’Agenza Militare se ne avvocò l’intera direzione, pretendendo che li deputati debbano da essa dipendere, ed anche per questo titolo la Municipalità viene impossibilitata a soccorrere l’indigenza, quantunque sia a ciò continuamente eccitata da generali comandanti. «II. Il Monte di Pietà, che anche in forza di un decreto del Commissario Saliceti dovrebbe dipendere dalla Municipalità, dipende ora dall’Agenza Militare, la quale ordinò ai deputati nuovamente eletti di non riconoscere altra superiorità che quella dell’Agenza medesima. «III. Li deputati del Luogo Pio della Misericordia sospesero il Cassiere dal suo esercizio per provate infedeltà; l’Agenza Militare contrasta tale facoltà ai depu-

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tati suddetti, ed ordinò loro d’astenersi dal dipendere per tutto ciò che riguarda il detto Pio Luogo dalla Municipalità».1 A questa memoria deve aver preso parte il Parini stesso, riferendosi essa a materia che veniva trattata dal comitato III, al quale egli apparteneva. Non risulta però che abbia influito a modificare il contegno degli spogliatori, poichè i furti continuavano allegramente, frammischiati a qualche atto onesto, che per la sua singolarità veniva lodato con pubbliche manifestazioni, come possiamo imparare da un manifesto del 14 pratile, firmato dallo stesso Parini, col quale si loda il cittadino Venous, per un atto generoso da lui compiuto. Intanto la sicurezza della proprietà lasciava molto [179] a desiderare, l’avversione contro i Francesi giornalmente cresceva, e l’opera dei municipalisti si rendeva sempre più difficile. In simili condizioni, nella seduta 9 pratile, il cittadino Gaetano Porro faceva la mozione «di comporre un comitato di vigilanza, che senta le relazioni segrete in sito opportuno ed appartato, coll’abilitazione di dare li provvedimenti relativi e di premiar quelli che fossero utili colle sue relazioni, e quelli che procurassero degli arresti». Si convenne in massima nella proposta, e restarono delegati i cittadini Porro, Mozzoni e Corbetta a presentare, nel termine di 24 ore, il relativo piano. Non abbiamo rinvenuto questo piano, che deve essere stato approvato; quindi è impossibile formarsi un esatto criterio sul modo col quale ha funzionato, ma non dubitiamo che sia stato un’arma terribile in mano dei giacobini, per isvelenirsi contro i loro avversari. Le delazioni devono aver creata anche un’enorme confusione di attribuzioni, come accadrebbe nei giorni nostri, se simil piano si attuasse, specialmente tra gli impiegati, che così vendicherebbero i torti subìti accusando i loro superiori. E pare che questo sia accaduto, poichè il Parini nella seduta 13 messidoro (1 luglio) parlò in modo da far cessare quello stato di cose, e propose che «d’ora in avanti non possano farsi alla Municipalità da’ suoi individui verbalmente, che i soli rapporti delle commissioni avute ufficialmente dai superiori, soprasedendo su tutti gli altri di semplice confidenza, ad oggetto di evitare per tal modo il pericolo di compromettere la Municipalità e le sue risoluzioni». Questa proposta venne approvata e così cessò una parte dei lamentati inconvenienti. Ma siccome il dado era tratto, e l’avversione contro [180] i Francesi e loro complici andava continuamente aumentando, insieme con le ruberie, così, più tardi, dopo che il Parini uscì dalla Municipalità, si costituì un Comitato di Polizia, composto di Gaetano Porro, Francesco Visconti e Giuseppe Sommariva, che continuò a ricevere le accuse segrete. Quando i municipalisti si presentarono al Saliceti con la memoria, già ricordata, del 10 pratile, tennero con lui discorso sull’andamento della cosa pubblica, ma la volpina astuzia del Commissario, lungi dal far conoscere i suoi intendimenti, metteva innanzi le più belle promesse, fatte apposta per sedurre i giovani e gl’ingenui. Infatti, sotto il N. 8, fra gli allegati della seduta 11 pratile, troviamo: «Fatto rapporto dai cittadini Corbetta e Sommariva sugli riscontri avuti dal Commissario del Direttorio Esecutivo, Saliceti, in seguito alla delegazione avuta dalla Municipalità contenente li seguenti capi: «1.º Viene permesso il riapprimento della zecca per coniare monete d’argento nazionali alla bontà, e valore intrinseco dello scudo, mezzo scudo, quarto e 1 Vedi Atti dei Municipalisti – Archivio Storico Municipale.

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sesto d’esso coll’impronto da una parte la statua della libertà, e sottoposte le lettere Libertà Eguaglianza, all’intorno Stato di Milano, e dall’altra il valore della moneta coll’anno del seguito conio. «2.º Di alleggerire il popolo, togliendo l’imposta mercimoniale, e la metà del testatico, dovendo servire il pagamento della residua metà ad intiero beneficio delle rispettive comunità. «3.º Promessa di tutto l’interessamento a favore di questo Stato presso la Repubblica di Venezia, per l’estrazione delli bovi, indicando a chi stia nell’urgenza del caso di permettere siffatta estrazione. «4.º Raccomandazione di avvicinar bene colla [181] Repubblica Svizzera per l’interesse anche di questo Stato, dandole i grani di cui vi sia una discreta abbondanza, e promettendole quello che potrà essere prodotto a misura del raccolto. «5.º Di commerciare direttamente colla piazza di Lione, ed altre di Francia, oggetto importantissimo di speculazioni, e di vantaggio alla navigazione da ravvivarsi col passaggio per gli Svizzeri, onde evitare ogni altra indipendenza. «6.º Progetto della notificazione di tutte le merci di ragione degli Inglesi, e fatto un calcolo, qualora ne convenga la rappressaglia, promessa della metà del valore di esse a questo Stato, e l’altra metà passerà alla Repubblica Francese, prevedendosi che senza anche di questa misura verranno rappressagliati dall’Inghilterra tutti gli fondi appartenenti a cittadini di questo Stato. «7.º Promessa di diminuzione di prezzo de’ sali, e de’ tabacchi a misura del contegno del popolo verso de’ bravi e generosi repubblicani francesi. «8.º Assicurazione che non si faranno imposizioni maggiori delli 20 milioni già richiesti, e che in questi s’intenderanno comprese tutte le requisizioni di generi, bestie, robba e massime di panni, come pure di quelle armi che saranno trattenute come da munizione. «9.º Invito ad ogni cittadino a presentare sia con pubblica rappresentanza, sia con segreta denunzia ogni disordine, che potesse avvenire, massime in materia di male versazione di generi, od altro, a danno dello Stato e della Repubblica Francese, promettendo immediata provvidenza con esemplare gastigo, ed altro segreto, ove occorra; desiderandosi anzi schiarimento sulla grandiosa diversità del numero de’ [182] ca|valli requisiti, trovandosene a favore della Repubblica N. 600 circa, quando se ne sono dati N. 1300, e ciò per gastigare chi si conviene. «10.º Promessa di lasciare intatte tutte le bestie da lavoro di campagna. «11.º Invito a riflettere che se tutta l’Italia si unisce in una sola repubblica potrebbe gareggiare con la francese in tutti i rapporti per la felicità dell’universo. «Rispetto poi a tutto ciò che riguarda: Armi, di cui venne sporta una nota di dettaglio per gli analoghi provvedimenti, si risponderà a ciascun punto rimettendo alla Municipalità il riscatto in iscritto. «Si accolse il rapporto con sentimenti di vera gioia, e furono abilitati li cittadini Relatori a scrivere lettere di conformità al Commissario Saliceti». Era naturale che tante belle promesse e il roseo fantasma di una grande repubblica italiana riempissero di allegrezza i nostri municipalisti, compreso il Parini; ma erano semplici promesse che non venivano mantenute; anzi le contribuzioni enormi e le angherie aumentavano sino allo sfacelo del colosso napoleonico. Che l’allegrezza abbia invaso in un modo strano i nostri municipalisti, lo prova il fatto che nella medesima seduta 11 pratile (30 maggio) fu approvato, nel-

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l’occasione che il Serbelloni con alcuni suoi colleghi dovea recarsi a Parigi a presentare i voti della nazione lombarda ed i suoi sentimenti per la libertà, di mandare in dono al Direttorio Esecutivo cinquecento forme di formaggio del più scelto del paese. Non abbiamo potuto stabilire con sicurezza, se il Parini abbia preso parte a questa deliberazione; [183] forse l’avrà anch’egli approvata, e non dobbiamo meravigliarcene, poichè l’ambiente era così imbellettato d’un artificiale entusiasmo, che avrebbe tradito anche i più astuti. A proposito di questo artificiale entusiasmo, non dobbiamo dimenticare la lettera pastorale, 31 maggio, dell’arcivescovo Visconti, nella quale dice: «Vorremmo far passare negli animi di tutti i nostri figliuoli in Gesù Cristo que’ vivi sentimenti, da cui siamo compresi, ammirando la generosità e benevolenza, colla quale vengono riguardati questi Popoli dalla dominante Repubblica Francese». Le vittorie del Bonaparte sugli Austriaci venivano salutate a Milano con gridi di gioia dei soliti giacobini; ma perchè a quelli si unissero anche i gridi del popolo, la Municipalità, continuamente spinta a largheggiare in beneficenze dai generali francesi, deliberava il 15 pratile (3 giugno) di fare una distribuzione ai poveri di L. 6000. A questo effetto veniva nominata una commissione, della quale facevano parte il Parini e il Vismara, che il giorno successivo preparava il seguente manifesto: «Le continue segnalate vittorie dell’Armata Francese quanto sempre più ci promettono di tranquillità e felicità, tanto meritano maggiore dimostrazione della pubblica gioja. La Municipalità vivamente penetrata da questo sentimento crede di manifestarlo nel modo più convenevole all’amor della Patria, coll’ordinare la distribuzione di sei mila lire a favore delle persone più bisognose di questa Città. Le circostanze attuali non permettono alla Municipalità dî estendere più oltre col fatto le sue intenzioni patriotiche». «Le sei mila lire saranno ripartite in dodici mila [184] Biglietti di dieci soldi l’uno; e la distribuzione dei medesimi sarà confidata alla coscienza ed alla mano dei Parrochi, e de’ Promotori. «La Municipalità in seguito ordinerà al Pubblico il giorno, in cui i Parrochi e i Promotori comincieranno la distribuzione dei Biglietti, e i luoghi nei quali si riceveranno per corrisponderne il valore». Ma intanto le armate francesi reclamavano farine e frumento, persino le pipe; e siccome sulla fine di maggio veniva pur fatta alla Municipalità una richiesta di tessuti vari per 15,000 uniformi; 50,000 vesti ed altrettanti calzoni; 100,000 camicie; 20,000 cappelli; cuoio ed altri oggetti per uso delle truppe medesime, così i municipalisti non riposavano certo sopra un letto di rose, tanto più che la Congregazione Generale dello Stato, per il solito motivo di rendersi amica la plebe, avea il 19 pratile rinunciato ad esigere la metà della tassa personale. Le ladrerie, malgrado i presi provvedimenti, non diminuivano, e il 22 pratile (10 giugno) «informata la Congregazione Generale dello Stato che alcuni Malviventi girano nella Comunità, fingendosi incaricati dalla Repubblica Francese a fare delle requisizioni, per ottenere del denaro» ordinava di non prestarvisi se la requisizione stessa non fosse stampata e firmata dai commissari francesi o dalle rispettive Municipalità. Naturalmente questo provvedimento riguardava i soli ladri privati, e non poteva occuparsi dei ladri pubblici, ai quali pensava il generale Despinoy, mettendosi esso medesimo in prima fila con un manifesto dello stesso giorno.

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«Informato che dei Capi di ribellione, dei Preti che abusano del deposito confidato alle loro mani, e profanano il loro ministero di pace, hanno prezzolati [185] in molti Comuni i ribelli coll’oro e cogli argenti provenienti dalle Chiese, e che hanno in tal modo alienati dal loro vero servizio una moltitudine di oggetti preziosi», ordinava il prefato generale in tutta la Lombardia, entro il solito spazio di 24 ore, un esatto inventario dell’oro, dell’argento, e d’altri effetti appartenenti alle Chiese tanto de’ Comuni, quanto de’ monasteri o conventi, prescrivendo che gl’inventarî originali fossero a lui spediti, e una copia dei medesimi rimanesse presso le autorità che avevano assistito all’esecuzione degl’inventarî stessi. I pretesi abusi dei preti e tutto il resto non erano che una invenzione ridicola, per coonestare l’ordine dell’inventario degli oggetti preziosi delle chiese, onde i commissari francesi potessero con agevolezza, al primo cenno, impadronirsene, come infatti più tardi se ne impadronirono. I municipalisti, soggetti a simili farabutti, erano costretti a trattarli con tutti i riguardi possibili, laonde nelle deliberazioni doveano procedere con molta ponderatezza e riflessione, per non incappare di primo colpo o nel furore francese o nelle ingiustizie più irritanti. Ed appunto per questo e per invocare dal tempo più salutar consiglio, sopra proposta del Parini, il 19 pratile veniva approvato, che nei casi di ordinaria trattazione, l’oggetto fosse votato il giorno seguente e, in caso d’urgenza riconosciuta, dopo due ore, senza interrompere la seduta medesima. Un’altra importante risoluzione veniva presa il 22, sopra proposta del Visconti, che toccava indirettamente il Parini, e dovea produrre, benchè da lontano, l’esplosione della collera del generale Despinoy. Questa risoluzione consisteva nell’assoggettare alla revisione del Comitato III, al quale apparteneva la pubblica [186] istru|zione ed a cui dedicavasi il Parini, tutto quello che veniva stampato ed affisso in nome della Municipalità. Questa deliberazione avea fatto perdere il lume dell’intelletto al generale Despinoy, il quale allora solamente si accorgeva che la Municipalità rendea pubbliche le proprie deliberazioni, senza prima riportarne la sua approvazione, in opposizione all’atto che avea istituita la Municipalità medesima. Prendendo egli argomento dall’editto dello stesso dì, col quale i municipalisti avevano aboliti i titoli e le insegne di nobiltà, scrivea loro il 23: «Voi non dovete fare, o cittadini, nè proclami, nè avvisi, nè prendere alcuna misura di polizia generale senza che ne sia informato e l’abbia approvata, specialmente quando si tratta di pubblicarla. Rimasi assai sorpreso che voi abbiate in questa circostanza fatto stampare e pubblicare una certa determinazione senza darmene partecipazione, laonde vi prevengo che, rinnovandosi il caso, userò tutto il rigore per far rispettare i miei diritti che voi, pare, dimentichiate, e spero che in avvenire sarete più circospetti. «La misura del resto che voi avete adottato per impedire che il malcontento faccia progressi in questi dintorni, è assai buona e, pur non approvandola in ogni sua parte, ne farò uso munendola del potere che solo può darle forza ed ordine. «Ricordatevi in tutte le occasioni che qui io sono la prima autorità della Repubblica Francese, alla quale voi doverosamente ricorrendo, la troverete sempre disposta a secondarvi ogni volta che si tratti di pubblico interesse. «Salute e fratellanza. «Despinoy».1 1 Vedi Atti dei Municipalisti – Archivio Storico Municipale.

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[187] La mattina del 25 pratile, il generale si presentava alla seduta dei municipalisti, ed ecco com’è narrato l’avvenimento nel relativo verbale: «Entrato il predetto generale comandante Despinoy nell’aula, e postosi al luogo del Presidente in piedi, sentì dal cittadino Caccianino, che ora copre tal carica, leggere la rappresentanza jeri ordinata ed oggi disposta, riguardo alle sollevate provvidenze sulle casse pubbliche e camerali, e gli occorrenti pagamenti dei rispettivi pesi e soldi, come anche all’organizzazione della guardia nazionale per la tranquillità, ed al sostentamento dei molti rimasti senza impiego. «Rispose il generale comandante rispetto alle finanze che nulla poteva approvare, nè sanzionare essendo questo oggetto particolarmente appoggiato dal Direttorio Esecutivo al Commissario Pinsot, e che per la tranquillità della città bastava la milizia da essa approvata, e che poi aveva un giusto motivo di lagnarsi della Municipalità d’avere esposto al pubblico tanti proclami ed affissi senza previa di lui cognizione ed adesione, come esigeva l’ordine e la sua carica di comandante per la Repubblica Francese, quindi ordina a tutti gli individui della Municipalità di sottoscrivere la rappresentanza espostagli dal Presidente, e ritirandola presso di sè, conchiuse coll’intimare che tutti li proclami ed affissi successivi fossero a lui preventivamente comunicati per la sua ordinazione, e colla comminatoria dell’arresto di tutto il corpo alla prima trasgressione di tale ordine, dopo di che sortì dall’aula accompagnato dal Presidente e da altri membri». Il verbale non descrive naturalmente la posa tragica, l’impeto furioso, gli urli e gli schiamazzi del [188] Despinoy, ricordatici dal Verri, durante i quali il Parini, che aveva appena sfoderata la fascia tricolore dalla spalla destra al fianco sinistro, diceva: «Or ora ci pongono un po’ più in su questa ciarpa e ce la stringono». Naturalmente avrà firmato anche lui la rappresentanza, come suol dirsi pro bono pacis, cioè per evitare mali maggiori, trattandosi che nel cortile il popolo, il quale ascoltava l’obbrobrio della Municipalità, stava per applaudire col battere le mani. In quello stesso giorno il Despinoy pubblicava un proclama che dichiarava nulli e come non seguiti gli atti e proclami della Municipalità, e proibiva agli abitanti di ubbidirli. [189]

XV.

La Municipalità si rivolge al Saliceti e al Garrau – Despinoy punito da sè medesimo – Parini è considerato fra gl’intriganti – Sue coraggiose interrogazioni – Si rifiuta di votare il primo riparto del prestito – Suoi provvedimenti sul commercio dei commestibili – Sua interrogazione sulla costituzione lombarda – È licenziato dalla Municipalità – Riceve una indennità che regala ai poveri – La Società di Pubblica Istruzione – Viene proposto a scriver la storia del Bonaparte.

C ontro l’inqualificabile procedere del Despinoy i municipalisti ricorsero al commissario Saliceti a Tortona, il quale giunse subito a Milano a riparare in parte alle stranezze del generale. Il 29 pratile (17 giugno) così narra l’avvenuto incontro il Verri in una relazione manoscritta, allegata ai verbali dei municipalisti. «La Municipalità fu tosto ammessa all’udienza dei due Commissari del Direttorio Esecutivo Saliceti e Garrau per cui era stata invitata alle due dopo mez-

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zogiorno. Il Commissario Saliceti le fece a un dipresso il seguente discorso: Io volevo vedervi, vi presento il mio collega Garrau, raccontateci la storia con franchezza di ciò che vi è occorso col Generale Comandante Despinoy. Allora il Municipalista Porro [190] prese la parola esponendo con semplicità e moderazione il risultato di quella sessione, e dell’altra successiva col commissario Pinsot. Dopo tale racconto, il Commissario Saliceti rispose, che il Comandante Despinoy aveva ragione nel fondo della cosa per essersi la Municipalità isolata, ma che avea torto per la pubblicità data all’affare. Voi avete bisogno, egli disse, dell’opinione pubblica, si è per questo che vi fu dato un nuovo Comandante della Piazza, buon Patriota e Repubblicano. Voi avete la nostra confidenza, i vostri principj sono i nostri; Despinoy non vi ha rimproverati d’altro che d’esservi isolati da lui, egli ha approvato i vostri principj nella lettera indirizzatavi, e voi la farete imprimere in francese ed in italiano, ed esporre ai luoghi pubblici della città. Per quanto riguarda l’avvenire voi sarete sottoposti al Comandante della Piazza per tutto ciò che riguarda la Polizia, e per quello che concerne l’Amministrazione e le Finanze dipenderete dagli Agenti militari, che fanno le funzioni delle Amministrazioni dei Dipartimenti in Francia, essendo la Municipalità come in Francia il Corpo Amministrativo del Cantone: il Commissario Pinsot è rivestito d’un gran potere, e voi dovete essergli sottomessi intieramente, come al Capo supremo dell’Amministrazione, cui dovete dirigervi dopo l’Agenza Militare negli affari d’alta importanza. «Noi ci sforzeremo, egli aggiunse, di rilevare l’opinione del Pubblico, e la faremo rinascere se abbisogna, nè saremmo buoni Repubblicani se avessimo altri principj. «Il cittadino Porro in poche parole fece osservare l’incertezza in cui trovasi il Pubblico non sapendo quali proclami doveva eseguire fra quelli [191] pub|blicati dalla Municipalità; il Commissario Saliceti, ritiratosi col suo collega, ritornò dicendo che all’indomani eglino avrebbero procurato di rimediare a tutto ciò, infine soggiunse, noi non resteremo qui lungo tempo, ma assicuratevi, che sarete sempre sostenuti, avendo la confidenza del Comandante Francese, e la nostra. «Il Commissario Garrau disse che li Municipalisti dovevano essere uniti come fratelli, ed evitare i partiti della parte sinistra e destra, mentre altrimenti nascerebbero dei ritardi, e sconcerti nell’Amministrazione. «Il Commissario Saliceti riprese la parola per assicurare la Municipalità ed i suoi individui, che non gli avrebbe giammai abbandonati ai nemici della causa pubblica, nè calpestati1 dagli Austriaci, o dagli Aristocrati, nè da quelli che si sono riempiti di ricchezze, e che intrigano per conservarle, e che essendovi degli intriganti, ne sarà dai Commissarj disimbarazzata la Municipalità». Questa relazione fu così copiata intieramente dall’originale in confronto della quale, il simile documento, riportato dal Cusani nella sua Storia di Milano, non è altro che una riduzione. Si noti la frase e che essendovi degli intriganti, ne sarà dai Commissarj disimbarazzata la Municipalità, collocata in fine della relazione, come una minaccia contro i supposti intriganti. Il Despinoy, il 28 pratile (16 giugno), avea scritto alla Municipalità che riconosceva l’editto 25 pratile, in materia araldica, oggetto delle accennate contese; ed i municipalisti, seguendo il consiglio di Saliceti, [192] il giorno dopo pubbli1 Si leggerà invece nè lasciati calpestare. [nota del Bortolotti].

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carono la lettera in francese ed in italiano. Il Despinoy inoltre si vide ben presto punito colle stesse sue armi, poichè alcune amministrazioni comunali ricusando, in forza del suo proclama 26 pratile, di prestarsi alle requisizioni della Municipalità di Milano, sino a resistere alle sue intimazioni, recavano non lievi danni alle regolari forniture per l’esercito. Onde riparare a questo disordine, il primo messidoro (19 giugno), dovette il Despinoy pubblicare un altro manifesto col quale ristabilì la Municipalità di Milano in tutti i suoi diritti, e richiamò all’obbedienza tutti i suoi amministrati, minacciandoli altrimenti d’arresto, e in caso di recidività, di trattarli come ribelli. A spiegazione della frase sottolineata, dal Saliceti proferita il 29 pratile, si ricorda che il giorno prima il Parini, vedendo che le cose non s’incamminavano per la via migliore, avea presentato alla Municipalità quattro distinte interrogazioni, due delle quali assai importanti. Con la prima chiedeva se la missione del cittadino Sacchi a Gallarate e a Varese per requisizione di cavalli, che ha dato causa a varie doglianze, fosse a notizia della Municipalità e fatta di suo ordine. Questa interrogazione fu discussa, e si convenne di aspettare le risultanze delle persone a tal fine delegate, per le occorrenti dilucidazioni. La missione del Sacchi, che avea dato luogo a numerose doglianze, fu qualche giorno dopo lungamente trattata, e si vede che il Parini avea posto il dito sulla piaga delle solite ruberie, perchè la deliberazione presa dai municipalisti deve aver urtato i nervi del generale Despinoy che, il 4 messidoro, si lagnava con lettera diretta alla Municipalità stessa perchè era stata [193] so|spesa la commissione data al Sacchi di requisire i cavalli di lusso a Varese, Gallarate e dintorni. Con la seconda chiedeva se fossero realmente licenziati gli otto corrieri giornalieri stipendiati dal pubblico, e gli fu risposto che vennero da poco congedati, secondo l’antecedente rapporto del cittadino Visconti. Con la terza chiedeva se si dovesse informare il commissario Pinsot o il generale Despinoy di certe carte mandate dal segretario del commissario Saliceti, cui i municipalisti rispondevano affermativamente, ad eccezione del cittadino Corbetta che facea registrare il suo voto contrario. Di questo argomento però, malgrado attente ricerche, non si è potuto capire l’importanza e il carattere, non sapendosi di che si occupassero le carte in questione, ma non parrebbe tuttavia che si trattasse di cosa leggera, visto che il Corbetta facea registrare il suo voto contrario. Con la quarta chiedeva se, verificandosi i sospetti indicati nella seduta della sera del 27 pratile, sopra qualche contratto dipendente dalle requisizioni, si dovesse informarne le superiori autorità per cauzione della Municipalità; e venne deliberato di averne riguardo a misura delle successive risultanze del comitato straordinario nell’antecedente sera nominato a tal fine. In quell’ultima seduta il cittadino Corbetta avea emessi dubbi sulla regolarità delle requisizioni dei grani e d’altri oggetti, ed appunto per mettere in chiaro ogni cosa, cioè per vedere se si rubava, venne costituito un Comitato composto dei municipalisti Corbetta, Sommariva e Mozzoni. Ecco la causa che additava in Parini l’intrigante. [194] La Municipalità, l’8 messidoro (26 giugno), fu invitata a deliberare il riparto fra i tassati della contribuzione dei tre milioni, cioè della prima parte spettante a Milano dell’imposta dei venti milioni. I tassati dovevano possedere un capitale non inferiore alle 25,000 lire, in relazione al quale veniva applicata la

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tassa. Nell’approvazione del riparto dei tassati da L. 8 a L. 150, il Parini, insieme col cittadino Bertololi, dichiarava di astenersi dalla votazione. E non aveva torto, poichè i ruoli dei contribuenti, essendo stati preparati con la massima fretta e con nessuna ponderazione, lasciavano l’adito alle critiche più acerbe, alle quali la Municipalità non avea potuto rimediare. Frattanto il Parini continuava impavido la sua via, e l’11 messidoro proponeva e l’assemblea approvava, che le sedute dovessero cominciare alle ore otto di sera precise, coll’obbligo agli assenti di mandarne partecipazione al presidente, onde meglio regolare le sedute medesime. Se le pubbliche amministrazioni andavano di male in peggio, il commercio dei commestibili, in tanta corruzione ed abuso della fede pubblica, costituiva un danno permanente alla borsa dei compratori. Al Parini non erano sfuggite queste insopportabili condizioni, e nella seduta 16 messidoro presentava una minuta di un avviso di diffidazione ai venditori di commestibili, «che si rimetteranno in corso le visite, e le procedure penali contro li trasgressori». Questa minuta di avviso veniva approvata e rimessa all’Agenza Militare per la vidimazione, pubblicazione ed esecuzione. Ecco la minuta dell’avviso, fatta dal Parini: [195] «Libertà»

«Eguaglianza»

«In nome della repubblica francese una ed indivisibile» «li 16 Messidoro, anno IV della med.»

«La Municipalità di Milano, informata che varj tra i Venditori di Commestibili, ed altri generi soggetti alle Leggi di Vittovaglia, si prevalgono delle presenti circostanze per sottrarsi alle predette Leggi, affettando di considerarle come cadute in dissuetudine; e perciò facendosi lecito di defraudare i compratori, specialmente coll’esigere prezzi maggiori di quelli, che sono già fissati colle Mete, richiama la sua vigilanza sopra un oggetto tanto interessante per il popolo; e stabilisce quanto segue: I. Tutte le Leggi finora emanate in materia di Vittovaglie sono e debbono considerarsi in pieno vigore sino a nuova disposizione. II. Ogni venditore di Vittovaglie, e d’altri generi soggetti alle dette Leggi, è tenuto di restringersi rigorosamente al prezzo delle Mete già prescritte o che si prescriveranno successivamente. III. I contravventori saranno irremissibilmente soggetti alle pene stabilite dalle mentovate Leggi. IV. La Municipalità per mezzo de’ suoi individui invigilerà colle solite perlustrazioni ne’ mercati, e nelle botteghe per l’osservanza delle Leggi medesime». Nella seduta Iº termidoro il Parini riprendeva la questione dei corrieri, che venne così registrata nel verbale: «Fatta mozione dal cittadino Parini di esaminare se li cursori, già del governo, ed ora assistenti al servizio giornaliero dei comitati, siano o no necessarj, onde pagarli nel primo caso, e nel secondo [196] dimetterli, previa la mercede finora acquistata a dovuto sollievo del pubblico, si rimise alla Commissione delegata sopra i motivati soldi il riconoscere, se li detti cursori siano stati chiamati al servizio del pubblico, e in qual forma, da quanto tempo, e in qual modo l’abbiano adempiuto, prendendo a tal effetto le opportune notizie dai comitati».

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Ma tutto ciò era ancor nulla in confronto della sua ispirata e coraggiosa condotta, ch’egli poscia teneva davanti a tutti i suoi colleghi. Dei delegati a Parigi, Serbelloni, Sopransi e Nicoli, il primo era già ritornato dalla missione che, fra i varî scopi, avea pur quello di ottenere dalla Repubblica Francese una costituzione repubblicana per la Lombardia. Questo scopo completamente falliva, perchè i reggitori della Repubblica Francese, per le vicende incerte della guerra e per ismungere a loro piacimento i paesi conquistati, erano alienissimi dal renderli indipendenti, e fra i soliti arzigogoli diplomatici riuscirono ad annegare l’argomento in un mare di chiacchiere, senza che il Serbelloni e i suoi colleghi se ne accorgessero. Nella seduta della Municipalità, Iº termidoro, fu presa in considerazione la proposta di formare un comitato di alcuni membri della Municipalità stessa, al fine d’ideare e proporre un piano di sistemazione costituzionale per la Lombardia. A quest’adunanza era presente anche il Parini, ma non fiatò sull’argomento, e scelse di parlarne nella prossima seduta con perfetta cognizione di causa. Egli ormai s’era formata la convinzione, che la Repubblica Francese non accordava un governo libero e indipendente alla Lombardia, e che ogni concessione era polvere gettata [197] negli occhi ai gonzi, affinchè non vedessero l’enormi ruberie che andavano facendo i loro padroni, e contribuissero invece a farsi spogliare colla maggiore agevolezza. Quando il Serbelloni nella seduta 3 termidoro (21 luglio) propose di eleggere il comitato di corrispondenza coi tre delegati a Parigi, comitato che poteva essere anche di vigilanza, e di formare il progetto di costituzione da rassegnarsi al generale Bonaparte ed al commissario Saliceti, fondato sulla costituzione 1795 della Repubblica Francese, fuori della quale nessun’altra verrebbe accordata, il Parini lesse una sua carta (Vedi documento N. 15) contenente varie domande, onde sapere se ed in qual modo, dove e da chi si trattasse la causa della libertà lombarda, nella speranza di ottenere qualche risposta che gli offrisse il destro a spogliare la verità dalle menzogne che la fasciavano. In conseguenza di quelle domande protestava il Serbelloni «che non venendo tosto eretto il comitato di corrispondenza, i tre delegati a Parigi si troveranno costretti di dover trattare da soli, a termini della carta di pien potere loro accordato dalla Municipalità, sullo stabilimento della forma di Governo per la Lombardia, e forse anche accedere a quel piano di Costituzione, che loro possa esser dato dal Direttorio Esecutivo». In seguito a ciò fu nominato il comitato che dovea preparare il piano di sistema costituzionale, che risultò composto dei cittadini Corbetta, Porro, Verri, Vismara, Sommariva, Visconti, Pelagatti, cui si aggiunsero i tre delegati a Parigi, e si chiese pure che fossero scelti altri tre membri fra i componenti la Congregazione di Stato. [198] Tutte le domande del Parini erano cadute nel vuoto, ma oggi la storia registrandole, fa vedere che egli aveva colto giustamente nel segno, e con esse metteva a nudo la nullità de’ suoi colleghi che non s’accorgevano d’essere lo zimbello del più turpe dispotismo. Questo insuccesso deve aver profondamente addolorato il Parini, dopo del quale pare non intervenisse più alle sedute dei municipalisti, non trovandosi nei verbali di lui menzione. Egli avrebbe continuato a resistere alla invadente marea giacobina, finchè le sue forze glielo avessero permesso, quantunque solo, ma la sua posizione ormai era minata, occorreva disimbarazzare la Mu-

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nicipalità dagli intriganti, come richiedeva il Saliceti, e l’ora del sacrificio si avvicinava. Nella seduta 15 termidoro,1 dopo di essersi occupati i municipalisti di un versamento nella cassa di L. 200,000, in fine di seduta «considerata la convenienza che gl’individui della Municipalità che da tre mesi circa attendono agli affari pubblici senza alcuna interruzione abbiano a conseguire una indennizzazione, e rilevata la rappresentanza già fatta su questo progetto all’Agenza Militare la quale ha risposto d’indirizzare l’istanza ai Commissari del Direttorio Esecutivo, onde dirigersi per tale indennizzazione al commissario Saliceti: «Messa alle voci la proposizione fu decretata per pluralità a condizione che la domanda riguardi una indennizzazione provvisionale, e che nel caso di [199] ve|nire accordata, si paghi sulla somma che entrerà dopo quella ora esistente in cassa, e destinata alla dimissione dei creditori». Nella seduta del giorno seguente «proposta la lettera diretta al commissario Saliceti (Vedi documento N. 16) per una indennizzazione ai rispettivi Membri della Municipalità, prese la parola il cittadino Bignami, e disse, che essendo stato dal detto Commissario2 col cittadino Ciani per ottenere dal medesimo un nuovo sussidio di danaro all’oggetto di dar passo alle molte istanze dei creditori per somministrazioni dipendentemente da requisizioni, lo ritrovò niente disposto a far somministrare verun’altra somma; non trovava quindi a proposito, che fosse per ora spedita la detta lettera. «Messe in seguito alle voci le tre proposizioni: 1.º se si abbia a tenere in sospeso la spedizione della lettera al commissario Saliceti; 2.º se si debba comunicare essa lettera al cittadino Haller col mezzo del municipalista Pavesi, perchè la presenti al mentovato Commissario in favorevole occasione; 3.º se si debba fare l’istanza per la riferita indennizzazione soltanto a voce: «Fu colla pluralità dei voti esclusa la prima, approvata la seconda, e per conseguenza rimasta di nessun effetto la terza». Il 16 termidoro il commissario Garrau emetteva questo decreto che si riporta testualmente co’ suoi errori ortografici: «Considerant que si l’on doit exiger des Administrateurs un dévouement entier aux bisoins de l’Administration il est juste de leur accorder une legere indennité qui puisse compenser en leur faveur la pert de leur tems et la poid du travail. [200] «Arrettent que chaque officier Municipal recevra par mois a titre d’Indennité la somme de quatrecent livres de Milan. «Le payement de cette Indennité fera article de depense dans le chapitre de charges locales de La Cammune». «Fait a Milan le 16 thermidor l’an 4 de la Repub. une et indivisible. «Garrau». Con mandato 3 vendemmiale, anno V, (24 settembre 1796), il Parini riscuoteva l’indennità di L. 1026,23.4, in ragione di 400 mensili, per mesi due e giorni 1 Il Salveraglio, in nota a pag. xlvi del suo volume, accenna che gli atti dei Municipalisti del termidoro, da lui citati, si trovano nell’Archivio Civico Storico. Ciò non è esatto; si trovano invece quasi tutti nell’Archivio di Stato, meno la parte contabile, cioè i mandati di pagamento e il decreto del commissario Garrau, più avanti riportato. 2 [Nel testo Commistario].

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diciassette che rimase in carica. Il Cantù afferma che, appena esatta l’indennità, corse a consegnarla al proprio parroco perchè la facesse distribuire ai poverelli. L’ora di disimbarazzare la Municipalità dagl’intriganti era suonata; il Saliceti aveva già preparato il decreto che usciva lo stesso giorno 16 termidoro (Vedi documento N. 17), col quale confermando ventiquattro dei trentuno municipalisti, rimanevano esclusi sette, cioè Corbetta, Sangiorgio, Parea, Ciani, Parini, Bertololi1 e Brambilla. A ciascuno di questi, il presidente di turno, Pioltini, il 17 termidoro, scriveva: «Li Commissarj del Direttorio Esecutivo Saliceti e Garrau ci hanno con loro lettera d’oggi partecipata la riduzione de’ individui della Municipalità al solo numero di ventiquattro, credendolo sufficiente al disimpegno delle sue funzioni. Fra li nominati [201] in via di conferma abbiamo il dispiacere di non vedervi compreso, onde adempiamo l’obbligo che ci corre d’avvertirvene per conveniente direzione assicurandovi d’esserci veramente sensibile la privazione dell’utile opera, con cui vi siete prestato al servizio della comune Patria». Pietro Verri, il 6 agosto 1796, scriveva: «La superiorità francese ha congedati sette municipalisti, tre dei quali erano veramente rapaci; gli altri sono dimessi per partito, e tra questi il nostro Parini, uomo deciso per la giustizia e fermo contro civium ardor prava jubentium. Mi duole, e mi rallegro con lui».2 Il generale Bonaparte nella seconda metà del nevoso, anno V (gennaio 1797), per dirigere l’opinione pubblica, istituiva la società di Pubblica Istruzione, composta dei membri della defunta Patriotica e dei più esaltati giacobini. Alla prima adunanza del 22 nevoso il Parini scusavasi di non poter intervenire per la sua notoria difficoltà fisica a montare le scale, e si asteneva dal prender parte alle sedute, mentre i suoi amici Oriani e Longo si dimettevano da soci. Per esaminare i lavori sul tema: «Quale dei governi meglio convenga alla felicità d’Italia» furono nominati commissari Oliva, Squadrelli, Verri, Pedrazzini e Custodi, i tre ultimi con voti 18, mentre il Parini ne ottenne 14. Questa Società, resa teatro di ciarle inutili, fu minacciata, il 29 ventoso (19 marzo), di scioglimento, e il giorno seguente il Parini, quale membro anziano, sarebbe diventato presidente della Società, [202] invece del Molina che occupò effettivamente quel posto. Nella seduta 5 fiorile (24 aprile) venne proposta l’erezione di una statua al Bonaparte; ma non avendosi raccolto la maggioranza dei voti, fu invece deliberato di nominare una commissione di tre membri, che scrivesse la storia delle gesta del Bonaparte, e fu incaricato il celebre Appiani ad eseguire la vignetta, da porsi sul frontispizio dell’opera. Il cittadino Bianchi d’Adda sosteneva che l’incarico di compilare la storia fosse dato al solo Parini, ma nella seduta successiva, 8 fiorile, veniva nominata la commissione, composta di Matteo Galdi, Giuseppe Poggi e Giuseppe Parini. Non risulta dagli atti della Società che il Parini abbia neppur risposto a tale nomina; ciò del resto apparisce abbastanza chiaro, non avendo egli mai avuta buona opinione del Bonaparte. A questo punto cessano i verbali della Società a far menzione del Parini. La Società venne sciolta con decreto 15 messidoro anno V (3 luglio 1797) in seguito 1 Gio. Battista Bertololi, nominato il 5 pratile, fu ommesso per errore a pagina 171. 2 Vedi pag. 230, IV vol. Lettere di Pietro e Alessandro Verri, pubblicate dal Dott. Carlo Casati – Milano, Giuseppe Galli, ecc., 1881.

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a reclamo del Direttorio Esecutivo, mandato lo stesso giorno al generale Bonaparte. Ecco come s’interpretava la libertà dai giacobini moderati: «Il Direttorio Esecutivo affidato dalle vostre promesse, e costretto dall’obbligo strettissimo che ha di far eseguire la Costituzione, nel messaggio che vi diresse il 13 mietitore, vi domandò che a tenore degli articoli 362, 363 fosse chiusa la sala di pubblica istruzione. «Avendola voi tolta dal palazzo Nazionale, vi lusingaste forse che nell’imbarazzo di trovare un locale, non si sarebbe riaperta per ora, lasciandovi il tempo di provvedere per toglierla senza strepito. [203] «Ma l’Accademia ebbe subito i mezzi di continuare le sue sedute, e le tenne difatti il 14 mietitore, come quella in cui non era stata fatta alcuna opposizione per proseguire. «La responsabilità in cui si trova il Direttorio, cui può esser fatto carico delle cose più lievi, il pericolo cui si vede indispensabilmente a fronte, durando una società che cercherà tutti i mezzi, e diretti, ed obbliqui di screditarlo, e di nuocergli, fa sì che rimanga inquieto per non avere ottenuta risposta veruna da ieri su questo soggetto. «Esso vi rinnova dunque le sue più fervide premure perchè vi degnate di dare questa providenza, senza la quale non gli sarebbe possibile di continuare con energia nel difficile incarico che avete a lui commesso».

[204]

XVI.

Il Parini è chiamato in una commissione per la riforma dei teatri – I suoi colleghi Sertori e Zingarelli – Il ministro Ragazzi lo destina con Alfonso Longo e Lorenzo Mascheroni – Relazione sul primo concorso – Riceve le carte per il secondo concorso – Lettere scambiate col ministro e sua relazione – Esame e relazione della Memoria di Melchiorre Gioia – Terzo concorso e Giovanni Pindemonte – Il premio non viene pagato alla migliore memoria.

L a riforma dei teatri la prima volta venne portata in discussione in seno della Municipalità dal municipalista Pelagatti, nella seduta 17 pratile, anno IV (5 giugno 1796), ma non fu condotta in porto; le chiacchiere si perdettero nei giornali, e non risorse che circa un anno dopo. Il 29 vendemmiale, anno VI (20 ottobre 1797), il ministro dell’interno presentava al Direttorio Esecutivo un rapporto sull’organizzazione dei teatri nazionali, in seguito al quale il Direttorio medesimo stabiliva di aprire un concorso, assegnando un premio di quaranta zecchini al miglior lavoro che venisse offerto. Il giorno 8 annebbiatore (29 ottobre) veniva in luce l’avviso di concorso nel quale il ministro Ragazzi, dopo di aver parlato di libertà e di [205] egua|glianza, dichiarava che in passato i teatri erano divenuti la scuola dell’errore, dell’adulazione e del vizio, e che il dispotismo aveva abbandonato alla speculazione delle imprese il loro andamento per aver cittadini corrotti, ignoranti e stolidi. Il Direttorio quindi desiderava di chiamare alla prima dignità i teatri sull’orme de’ Francesi e de’ Greci, onde accendere negli animi de’ Cisalpini il fuoco e la gara delle grandi ed utili passioni repubblicane. Il 12 nevoso (1 gennaio 1798) era scaduto il termine di due mesi, assegnato al concorso; i concorrenti erano tredici, in quel giorno si procedeva alla scelta de-

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gli esaminatori dei lavori, e dal ministro venivano proposti i due poeti Parini e Sertori, e il maestro di musica teatrale Nicola Zingarelli. Chi fosse il Sertori non è ancor ben definito; ma potrebbe darsi che qui il Sertori non sia indicato con un nome preciso. È noto invece l’abate Gaetano Sertor, poeta drammatico, in quel tempo assai conosciuto ed autore del dramma Piramo e Tisbe, che vide la luce nel 1783, ciò che indurrebbe a credere che il collega del Parini fosse appunto lui. La proposta di questa commissione però, non si sa per qual motivo, fu lasciata cadere, e dopo quarantacinque giorni vennero scelti altri esaminatori, nelle persone del Parini, Alfonso Longo e Lorenzo Mascheroni. Il 9 ventoso, anno VI (27 febbraio 1798) il ministro scriveva a Parini: «Conoscendo il Direttorio Esecutivo quanta sia l’influenza de’ pubblici spettacoli su i costumi d’una nazione; ed a qual grado di corruttela sieno giunti presso di noi; premuroso di riparare il danno che ne verrebbe alla repubblica, se più oltre ne fosse [206] di|ferito il rimedio, ha fatto invitare i cittadini con pubblico Programma a proporre dei progetti per la organizzazione de’ Teatri Nazionali con un premio di 40 zecchini a chi ne avesse presentato il migliore. Essendone stati inoltrati varj entro il termine stabilito, e dovendosi ora passare ad esaminarli; il Direttorio medesimo confidando giustamente ne’ vostri lumi anche su questa materia, vi ha destinato per uno de’ tre giudici cui riportarsi per l’assegnamento del premio; dandovi per compagni i cittadini Longo e Mascheroni, co’ quali potrete concertarvi. Tutti i progetti che sono in numero di 14, io li rimetto quest’istesso giorno al cittadino rappresentante Longo. «Salute e fratellanza». I progetti dal ministro consegnati al Longo erano così indicati: N. 4784 Giovanni Chinozzi di Forlimpopoli. » 4893 Giuseppe Angelo Galli, ragionato di Milano. » 5030 Luigi Gori di Modena. » 5220 Un anonimo delle Alpi Verbane. » 5667 Bartolomeo Andreoli di Milano. » 5963 Filippo Casori, attore e poeta comico di Ferrara. » 6087 Rocco Ferreri di Brongio, pieve di Dongo. » 6097 Natale Roviglio, poeta comico di Milano. » 6120 Poupart Dorfeuille di Parigi. » 6209 Giovanni Silva, avvocato di Milano. » 6302 Don F. Antonio De Vecchi, parroco di Villa Salina (Piadena). » 6778 Un anonimo. » 6846 Domenico Franci, arciprete di Pian di Meleto (Pesaro e Urbino). » 7083 Luigi Gori di Modena.

Esaminati i lavori, la commissione riferiva il 17 ventoso (7 marzo 1798) al ministro dell’interno, che i progetti meno imperfetti erano quelli segnati coi N. 5963, 6209 e 6778, e chiudeva così: [207] «Nondimeno fra le Carte mentovate crederemmo, che si potesse accordar la preferenza a quella registrata al N. 5963, perchè il piano in essa proposto ci pare ad un tempo il più completo, e il più pratico, a condizione, che l’Autore lo rettifichi, e lo perfezioni ulteriormente, come si esebisce di fare». Due giorni dopo il Direttorio Esecutivo invitava il ministro a rinnovare il concorso, come da lettera firmata dal presidente Moscati e dal segretario Som-

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mariva. Il ministro invece, il 24 ventoso, dimostrava il parere che si desse il premio al Casori, purchè rettificasse il lavoro sotto la direzione de’ giudici; ma il Moscati e il Sommariva dichiaravano che «non avendo soddisfatto alcuno de’ Concorrenti al Programma, si faccia nuovo invito per lo stesso oggetto, a termini del già prescritto colla Lettera 19 corrente». Rinnovatosi il concorso con manifesto 20 marzo, e trascorsi i due mesi accordati, presentarono nel tempo fissato i loro lavori: 1. 2. 3. 4. 5. 6. 7. 8.

A. Parravicini. Giovanni Silva, che a quello presentato al primo concorso ne aggiunse un altro. Silvio Guarna di Salerno. Anonimo coll’epigrafe: Plurimum Enim. Luigi Gori. Anonimo, diviso in otto paragrafi. Bendiscioli di Brescia. Agostino Giezzi di Treia (Macerata).

Questi otto lavori, il 14 messidoro (2 luglio), furono consegnati al Parini con la lettera seguente: [208] «Al cittadino Parini, «11 messidoro anno VI.

«Dopo il secondo programma, col quale fu riproposto il premio di 40 zecchini a chi fra concorrenti avesse presentato fra lo spazio di sei decade il progetto migliore per la organizzazione de’ teatri nazionali, otto di questi sono concorsi al paragone. «Il Direttorio Esecutivo conscio del vostro patriotismo e de’ vostri lumi, vi delega nuovamente per questo secondo esame, perchè unitamente ai cittadini Longo e Mascheroni giudichiate, se alcuno de’ progetti, e quali di essi meriti il premio proposto. «Gli otto progetti numerizzati si trasmettono a voi, perchè successivamente si partecipino agli altri. «Salute e fratellanza. Pel Ministro dell’Interno Il Segretario Centrale

Rasori.1 Il Parini rispondeva con lettera dello stesso giorno, che fu protocollata al Ministero il 16 messidoro. La lettera originale si trova esposta in una cornice, insieme con altri autografi, nella sala d’aspetto dell’Archivio di Stato. Siccome fu tolta dalla sua vera sede, senza farvi alcuna annotazione, così a nessuno finora era riuscito di scoprire l’argomento al [209] quale si riferisce. Il Cantù la pubblicò isolatamente nel tomo III Illustri Italiani, ecc., pag. 425; il Salveraglio la cacciò fra gli Atti dei Municipalisti dell’anno IV nel volume Le Odi dell’Abate Giuseppe Parini, e qualche altro ne fece un vero strazio. Ecco la lettera: 1 In que’ giorni il ministro dell’Interno era ancora il cittadino Tadini, ma la minuta della lettera è firmata dal Rasori. Al Tadini, il 24 messidoro, successe il Guicciardi.

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«Eguaglianza» «Milano, 14 messidoro, A. VI R.

«Cittadino Ministro, Ho ricevuto le carte, che dal Direttorio Es. mi sono per mezzo vostro spedite da esaminare. Mi spiace che alle altre infermità della mia costituzione e dell’età mia, si è aggiunta una cateratta, che mi ha recentemente privato dell’uso d’un occhio, e minacciami anche l’altro. Dico ciò per giustificarmi se mi bisognerà per l’esecuzione qualche giorno di più che altrimenti non occorrerebbe, non potendo io almeno per ora insistere al leggere o scrivere continuato senza incomodarmi o nuocermi gravemente. Vorrei in persona dirvi quanto vi scrivo; ma le mie gambe non mi permettono che brevissimo e lentissimo cammino; e mi rendono impossibile il salire le scale. Del resto sarò sempre pronto ad impiegare in vantaggio della Patria fino alle ultime reliquie dei miei sensi e della mia mente. «Salute e rispetto. «Parini». A questa nobilissima lettera il ministro replicava con altra del 19 messidoro, spedita al Parini nel dì successivo, del seguente tenore: [210] «Al Cittadino Parini, «Si presenta in questo punto un discorso del cittadino Galdi col titolo Delle vicende e della rigenerazione de’ Teatri. L’averlo voluto stampare gli à impedito di presentarlo al tempo prescritto. Pendendo l’esame, ve lo trasmetto per unirlo all’elenco degli altri concorrenti. «Mi rincresce di sentire che la vostra salute diventi sempre più cagionevole. Cercate di conservarla al meglio che sapete, essendo i momenti della vostra vita troppo preziosi alla repubblica delle lettere. Valetevi perciò di tutto il tempo che vi è necessario per l’esecuzione dell’esame che vi è stato affidato. «Salute e fratellanza. «Pel Ministro dell’Interno «Il Segretario Centrale

«Rasori». «Raccolti dal Parini a Consiglio gli altri due colleghi, Longo e Mascheroni, il 7 termidoro (25 luglio), scrisse la seguente relazione sull’esito dell’esame: «Libertà» «Cittadino Ministro,

«Eguaglianza» «7 termidoro, A. VI.

«Abbiamo esaminate e paragonate attentamente tutte le otto Dissertazioni vertenti sopra l’organizzazione dei Teatri Nazionali, comunicateci per parte del Ministro degli Affari Interni in data del 12 messidoro; come pure la nona Dissertazione sullo stesso [211] argomento comunicataci in data del 19 dello stesso mese. «Nel nostro Giudizio sopra tali Dissertazioni ci siamo ben guardati da ogni scrupolosità; essendoci proposti di volere anzi più condonare che richiedere. Qualunque esso sia, il Giudizio, che noi ne portiamo è il seguente: «Gran parte delle Dissertazioni prese in generale propongono Piani qual più qual meno notabilmente incompleti; o troppo complicati, e minuziosi; o im-

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portanti troppo gran numero d’Impiegati, o troppo dispendio in Fabbriche, in manutenzioni, in salarii, ecc.; o troppo difficile, per non dire impossibile occupazione del Governo per introdurli, mantenerli, invigilarvi ecc.; o finalmente troppa restrizione dei diritti dell’uomo, e della libertà sociale, riducendosi in alcuni di essi una molteplice, composta e variata azienda d’uomini, e di cose ad una disciplina presso che monastica. «Molte delle Dissertazioni si perdono più o meno prolissimamente in erudizione triviale pertinente al Teatro degli antichi, spesso male compilata dietro a compilatori moderni, spesso fondata sul falso, per lo più inopportuna, o stiracchiata per servire allo intento, senza badare alla differenza dei tempi, degli uomini, delle circostanze, ecc. «Finalmente queste dissertazioni sono più, o meno scorrettamente scritte, sia per la parte grammaticale, sia per la parte logica. Varie poi sono assolutamente barbare nella novità irregolare de’ termini, delle locuzioni, della costruzione, dei tropi, delle figure, del numero, e di tutto ciò, che concerne la proprietà, la semplicità e la nobiltà del bene scrivere italiano. [212] «Malgrado tutto ciò in alcune Dissertazioni si presentano delle idee giudiziose1 ed anche nuove, le quali potrebbero servire in parte di utile materiale a chi volesse, e sapesse più compiutamente trattare il proposto argomento. Fra queste sono osservabili la prima, la quarta e la settima delle registrate nell’Elenco. «Ma qualora il Direttorio Es. già da tante, e sì differenti cure occupato, credesse di doversi liberare da questa, e di non proporre altro concorso, ed altri esami; ed in oltre credesse non inferiore alla dignità delle sue funzioni l’approvare pubblicamente anche ciò, che non giugne ad un certo grado di perfezione, noi giudichiamo, che si potrebbe concedere il Premio alla Dissertazione sesta, registrata nell’Elenco sotto il N. 814 di Aut. Anonimo, divisa in otto paragrafi. «Le ragioni del nostro giudizio sono: I. Che in questa Dissertazione, al confronto di tutte le altre, si propone un Piano più compiuto, più semplice, più ovvio. 2. Che questo piano è fondato sopra più modeste, e circospette viste di politica. 3. Che la giusta teoria delle Arti, e del Teatro vi è meglio conosciuta, e rispettata. 4. Che l’erudizione tolta dall’antichità vi è più rettamente e più opportunamente introdotta a solo esempio e confermazione delle cose, che vi si dicono. 5. Che in fine le cose stesse vi sono esposte con più abituale semplicità, coerenza e precisione. «Salute e rispetto. «Parini – Longo – Mascheroni». [213] Questa relazione mirava a terminare la questione dell’organizzazione dei teatri, ma il ministro Guicciardi, che la pensava diversamente, scriveva: «Milano, 27 termidoro, anno VI.

«Al Cittadino Parini per la Commissione all’esame delle Dissertazioni sull’organizzazione de Teatri Nazionali. «Dal giudizio, che ha portato la Commissione all’esame delle Dissertazioni vertenti sopra la organizzazione de Teatri Nazionali, ho rilevato che sarebbe forse 1 [Nel testo giustiziose].

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poco dignitoso il coronare del premio quella, la quale, ancorchè meno cattiva delle altre, pure ne sarebbe indegna al tribunale del Pubblico, se venisse, com’è credibile, pubblicata con le stampe. Ho stimato perciò di prorogare alquanto il tempo dell’esame, perchè giudichiate del merito della nuova Dissertazione, che vi trasmetto. «Voi vedrete se questa siasi meglio avvicinata al propostosi scopo, e se meriti qualche prelazione sulle altre. Attenderò il vostro giudizio dettato da quella imparzialità e buon gusto che caratterizzano il precedente per poterlo in seguito presentare al Direttorio Esecutivo. «Salute e fratellanza. «Guicciardi». La dissertazione inviata al Parini recava il motto dell’Eneide, lib. VI, Italiam Italiam, ed era di Melchiorre Gioia. Il Parini insieme col solo Longo, trovandosi assente il Mascheroni, la esaminava ed inviava al ministro la seguente relazione, senza data, che fu presentata al protocollo l’11 fruttidoro (28 agosto): [214] «Libertà»

«Eguaglianza»

«Cittadino Ministro, «Con eguale diligenza che le molte altre dissertazioni sull’organizzazione dei Teatri abbiano esaminata anche l’ultima trasmessaci da voi, Cittadino Ministro, in data del 30 termidoro, e la quale ha l’epigrafe: Italiam Italiam. «Il nostro giudizio intorno a questa dissertazione non può essere che simile a quello da noi dato sopra varie delle meno imperfette fra quelle, che noi abbiamo altre volte esaminate: giacchè tanto le prime, quanto quest’ultima in mezzo a delle idee plausibili abbondano a un dipresso degli stessi difetti. «Riportandoci noi pertanto al mentovato antecedente giudizio, stimiamo superfluo discendere a veruna particolarità sopra quest’ultima dissertazione. «Salute e rispetto. «Parini – Longo». In seguito a questo insuccesso e perdurando nel governo della Repubblica Cisalpina il concetto di rigenerare il teatro, il I vendemmiale, anno VII (22 settembre 1798) venne aperto un nuovo concorso, e questa volta il premio fu recato da quaranta a sessanta zecchini, da conferirsi senza altra riserva a chi produceva il miglior progetto entro due mesi. Nel termine fissato vennero presentate al ministero sei memorie, cioè: 1. 2. 3. 4. 5. 6.

Quella dell’anonimo giudicata migliore nel precedente concorso. Quella di Bendiscioli, bresciano. Quella di A. Parravicini. Quella dell’anonimo col motto: Plurimum enim, ecc. Quella di Giovanni Villa. Quella dell’anonimo col motto: jusqu’à quand les préjuges, ecc.

[215] Il 20 nevoso, anno VII (9 gennaio 1799), cioè fuori del tempo prescritto, Luigi Gori di Modena aveva fatto pervenire al ministro una nuova memoria, affinchè venisse pur essa esaminata. Il 25 vendemmiatore (16 ottobre 1798) avea pur presentato, entro il termine regolare, una memoria anche il cittadino Gio. Batta

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Wattenhoffer, che non figura nell’elenco, memoria la quale deve esser stata comunicata alla Commissione, poichè questa nella sua relazione parla di otto memorie. La Commissione però non era in numero, poichè il Mascheroni aveva dovuto recarsi a Parigi a rappresentare i Cisalpini nella questione dei pesi e delle misure, ed a sostituirlo il ministro Guicciardi, fra i tanti proposti, aveva scelto il I nevoso (21 dicembre 1798), il cittadino rappresentante, membro del Consiglio de’ Juniori, Giovanni Pindemonte, assai perito nell’arte drammatica, ed autore assai celebrato di parecchi lavori che sulle scene d’Italia ebbero il più lusinghiero successo. Dopo l’esame delle memorie, la Commissione, il 10 germinale (30 marzo 1799), presentava al ministro relazione, giudicando che al progetto del Gori, come al men difettoso, fosse da concedersi il promesso premio. Il ministro, pur approvando che il premio fosse stato dalla Commissione assegnato al Gori, dichiarava, il I fiorile (20 aprile 1799), che la di lui memoria essendo stata presentata dopo il termine fissato, il premio si dovesse pagare invece all’autore anonimo della memoria che fu giudicata migliore nel concorso precedente, la quale, giusta la relazione della Commissione, seguiva per merito quella del Gori. Se non che gli avvenimenti incalzando, il [216] 28 aprile spariva il governo della Cisalpina Repubblica, gli Austro-Russi si accampavano a Milano, e del premio non rimaneva più traccia.1 In questo modo terminava il concorso per la riforma dei teatri; ed è curioso il constatare che la Repubblica Cisalpina, mentre si trovava così vicina alla morte, si ostinava in una riforma che non poteva fruttare nessun utile risultato. In un paese libero la riforma dei teatri viene fatta dal pubblico e non dal governo. [217]

XVII.

Testamento del Parini – Coraggiosa Lettera dell’Oriani – Parini è minacciato d’arresto – Gli Austriaci entrano in Milano – Parini non è perseguitato dal nuovo governo – È osteggiato dagli austriacanti – L’ultimo suo sonetto – Sua morte – Il primo monumento erettogli dal Franchi – Altri monumenti.

I l Parini, mentre dedicavasi all’esame delle memorie per la rinnovazione dei teatri nazionali, faceva testamento. Quest’atto del 15 ottobre 1798 (24 vendemmiale, anno VII) trovasi depositato nell’Archivio Notarile e si conserva in una cassaforte. Esso è scritto sopra un foglio di carta che sorpassa la grandezza di un foglio di protocollo, non fu esteso dalla mano dell’autore, e reca solo la sua firma in due luoghi, in margine della seconda pagina ed in fine. Piegato, chiuso in un’altra carta ed assicurato con sigillo e con fettuccia di filaticcio color rosso cupo, questo documento venne dal Parini medesimo consegnato al notaio Gio. Antonio Vimercati di Milano, come dalla seguente dichiarazione, scritta d’altrui mano e da lui firmata, che leggesi sulla parte esterna del piego. [218] «1797 giorno di lunedì quindici del mese di Ottobre (24 vendemmiale, Anno Settimo repubblicano). 1 Questo capitolo fu tutto compilato sui documenti inediti dell’Archivio Storico Municipale e dell’Archivio di Stato – Busta 14 – Teatri.

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«Testamento nuncupativo implicito, che consegno al cittad.º Gio. Antonio Vimercati Not.º di Milano perchè dopo mia morte lo apri, e pubblichi senza veruna formalità. «Giuseppe Parini». Se il suo corpo era già spossato e prossimo alla fine, lo spirito brillava assai vigoroso, la frase usciva lucida, serena, robusta a scolpire nell’animo altrui il suo pensiero. Egli era credente, e se cominciava il testamento «Nel nome del Signore Iddio» lasciava però da banda tutte le altre invocazioni e preghiere alla Divinità, di cui solevano allora infiorare gli atti di loro ultima volontà anche i miscredenti. È notevole il periodo: «Voglio, ordino, e comando, che le spese funebri mi siano fatte nel più semplice e mero necessario, ed all’uso, che si costuma per il più infimo dei cittadini». Tale volere era il compendio di tutta la sua vita, l’ultimo verso che chiudeva il suo poema. Tralascio le pennellate foscoliane, che ognuno può ammirare nelle Ultime Lettere di Jacopo Ortis, che dipingono il Parini severo censore delle pazzie dei giacobini e dei militaristi, ma non posso tralasciare la seguente lettera del coraggioso Barnaba Oriani, che copio dalla Collezione d’Autografi del Muoni: «Eguaglianza»

[219] «Libertà»

«Milano, li 22 Piovoso Anno VII Repubblicano.

«Oriani astronomo della Specola di Brera. «Al Cittadino Pioltini Ministro di Polizia. «Le continue vessazioni, ch’io soffro insieme agli Impiegati di Brera nella pubblica istruzione da chi presiede alla Legione II della Guardia Nazionale, mi obbligano, Cittadino Ministro, a ricorrere a voi, acciò le facciate cessare. «Il Corpo Legislativo ha fatto una legge nel giorno 24 termidoro anno VI, in cui al titolo V dichiara, che i professori delle scuole pubbliche sono esenti dal montare personalmente la guardia, e sono pure esenti da ogni tassa. Il Direttorio Esecutivo ordinò che questa legge fosse pubblicata ed eseguita. Ma sono già passati sette mesi dalla pubblicazione, senza che alcuno si sia incaricato di eseguirla. «Pagai sempre come tutti gli altri la tassa che mi fu imposta, aspettando pazientemente che la legge venisse finalmente messa in esecuzione. Ma con mia somma sorpresa mi fu ultimamente intimato di pagare una tassa quadrupla: cioè doppia come prete, e doppia per aver ridotto l’intervallo dei pagamenti dai 48 ai 24 giorni. Prima di pagare dimandai le leggi che m’obbligavano a questa straordinaria imposizione, e mi fu mostrato un proclama del taverniere Bussi, offiziale della Guardia Nazionale, il quale ordina che i così detti Preti debbano pagare il doppio per essere celibi. «Sembra strano che un individuo della Guardia [220] Nazionale si arroghi il diritto di fare delle leggi mentre esiste un Corpo Legislativo. Sembra assurdo che il medesimo individuo, il quale non appartiene nemmeno ad alcuna autorità costituita, faccia delle leggi vessatorie, e le faccia militarmente eseguire. Sembra finalmente ingiusta e tirannica l’applicazione di questo proclama ai professori delle scuole pubbliche di Brera, quantunque preti, perchè questi non vivono dell’altare, perchè il tenue salario, che loro accorda il Governo, appena

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è bastante per vivere, e perchè hanno in loro favore la legge, che gli esenta da ogni tassa». E qui l’Oriani, spiegata l’ingiustizia del raddoppiamento della tassa, aggiungeva il seguente poscritto: «Il professore Parini, il professore Brambilla, Reggio ed io fummo in procinto d’essere arrestati da un certo Multoni, caporale della Legione II, il quale venne a Brera con gente armata 6 giorni sono per quest’oggetto».1 Questo vituperio dovrebbe persuadere anche gl’increduli, che vi possono essere governi nei quali funzionarî dell’ultimo grado sovrastano coi loro delitti alla libertà dei cittadini. Il 28 aprile gli Austriaci, condotti da Melas, entravano da Porta Orientale; faceano abbattere gli alberi della libertà, e la statua di Filippo II, trasformata in Bruto, veniva ridotta in pezzi. I Cosacchi andavano intorno per la città accalappiando alcuni repubblicani con un nodo scorsoio, e li trascinavano [221] dietro loro come fossero tanti cani. Abolita la guardia nazionale e decretata la consegna delle armi, venne abrogata la Repubblica Cisalpina, e incaricato degli affari amministrativi dello Stato il conte Luigi Cocastelli, col titolo di commissario imperiale. A coadiuvarlo fu pure delegata una congregazione, composta di quattordici austriacanti e presieduta dal nobile Francesco Nava, prefetto. Venne pure istituita una commissione di polizia, con Giovanni Manzoni, Francesco Bazzetta, già capitano di giustizia, e Giuseppe Draghi. Assunse il comando della piazza di Milano il generale barone di Lattermann. La Congregazione delegata, sotto la presidenza del prefetto Nava, si occupò dei professori di Brera, e nelle sue relazioni 12 giugno e 20 luglio trattò di sostituire soli quattro, cioè il Fusinieri, il Binferreri, il Brambilla e l’Albertolli, perchè nominati o compromessi durante il triennio repubblicano. Intorno ai sospetti contro il Parini nulla si è trovato, neppure lontanissime allusioni.2 Quand’egli vide deportati alcuni suoi amici e scienziati illustri, fra i quali il conte Giovanni Paradisi; il padre Gregorio Fontana, insigne matematico; il conte Caprara; il fisico Moscati; l’ellenista Lamberti, non potè trattenere il biasimo e, come narra Cesare Cantù, bollò i reazionari con parole di fuoco. Il Parini se non era perseguitato dal governo austriaco, lo era però dagli austriacanti, ed allora dichiarava che «il perseguitare un uomo illustre lo rende più famoso e desiderato», e richiamando in [222] vita l’antico stoicismo, a chi gli faceva intravedere il pericolo di perder la cattedra, rispondeva: «Andrò mendicando, per ammaestramento de’ posteri e infamia di costoro». Da vario tempo era affetto da idrope, ed ai medici Strambio e Locatelli, il primo dei quali diceva che bisogna dar tono alla fibra, e l’altro che bisogna scemarle tono, rispondeva: «Ad ogni modo volete farmi morire in musica». Nel maggio 1799 aveva egli subìto l’operazione della cateratta, fattagli dal chirurgo Buzzi; si recava in Arluno dall’avvocato Marliani, ma dopo un mese si restituiva a Milano, perchè l’aria della campagna non gli confaceva. Sincero ammiratore di Plutarco, che si facea leggere dal servitore, solea chiamarlo il più galantuomo

1 Anche questa lettera dovrebbe appartenere all’Archivio di Stato – Autografi dell’Oriani. 2 Vedi documenti Ginnasio in Brera – Archivio di Stato.

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degli antichi scrittori. L’idropisia svaniva e ricompariva, e la mattina del 151 agosto, alzatosi verso le otto, diceva di aver caldo. Poco dopo ebbe la visita di Paolo Brambilla e di Callimero Cattaneo, ai quali dettava un sonetto, composto di fresco in seguito a preghiera dei professori filarmonici, in occasione del Te Deum, ch’essi avevano proposto di far cantare nella Chiesa dei Cappuccini di Porta Orientale, per celebrare le vittorie degli Austro-Russi. Si disse che il sonetto fosse imposto al Parini; ciò non sembra, e si crede invece ch’egli l’abbia dettato per compiacere qualche amico, o meglio ancora per commissione. Il giornale Notizie Politiche, 23 agosto 1799, N. 67, organo ufficiale dei nuovi padroni, dopo di avere annunciata la dettatura di quel sonetto, soggiungeva: «Intanto chi ne possiede l’originale si fa un dovere di prevenire il pubblico, che la copia data fuori colle stampe in questi ultimi giorni, è [223] una sconciatura atta solo a manifestare l’ignoranza e l’impertinenza di chi si è arrogato la facoltà di pubblicarla». Tale copia era appunto quella che oggi si riconosce la sola autentica, pubblicata dal Reina e da altri ancora, nella quale il poeta ammoniva severamente i nuovi padroni coll’ultima terzina: Ma splendan la giustizia e il retto esempio Tal che Israel non torni a nuovo pianto, A novella rapina e a nuovo scempio.

Questa terzina si ha ragione di crederla corrispondente al pensiero del Parini, mentre quella pubblicata dall’accennato giornale, il 6 settembre, non sarebbe che una contraffazione così scritta: Ma de’ Capi e de’ Padri il retto esempio Scenda ne’ figli, onde non torni e pianto E sacrilegio e violenza e scempio.

Dopo la dettatura del sonetto fu visitato da Febo D’Adda, Angelo Vecchi, Giuseppe Airoldi e dal medico Giacomo Locatelli, che non trovava pericolo di morte. Rimasto solo col D’Adda e col Vecchi, narrano i suoi biografi, fu preso dal vomito; tuttavia indossata una leggera sopraveste di ciambellotto, continuò a conversare fin verso le due dopo mezzodì. Quando tutti furono partiti, egli si fece ricondurre nella propria stanza. Passando vicino a una finestra vide una luce insolita, e si rivolse ridendo al servitore dicendogli, che non aveva mai veduto così bene dall’occhio ammalato. Si sentì straordinariamente forte, e passeggiò francamente da una camera all’altra senza alcun aiuto; poi ritornò al letto. Mentre il servitore lo svestiva, gli si torse [224] al|quanto la bocca, nè parlò più. Spirò qualche momento dopo alla presenza del servitore, del portinaio, della portinaia e del parroco di S. Marco. Col più sincero e vivo dolore l’abate Cesare Frapolli, reggente il Ginnasio di Brera, annunciava la morte del Parini, avvenuta alle ore due e mezzo del pomeriggio 15 agosto 1799, al Commissario Cocastelli, con brevissima lettera, a tergo della quale la burocrazia aggiungeva la nota glaciale: «Si rimetta all’Archivio datane la correlativa notizia al R. Amm.e del Fondo di Religione – Casati Ass.e». Si afferma che la sostanza del Parini, non compresi i manoscritti, fu stimata 10,987 lire. Il suo corpo fu seppellito nel cimitero di Porta Comasina, dove tut1 [Corretto a penna su 16].

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tora si legge l’iscrizione che gli pose Callimero Cattaneo sul muro a ponente, vicino a quella di Cesare Beccaria. Lo scultore Giuseppe Franchi, quaranta giorni dopo l’avvenuta morte, mandava al Commissario Cocastelli la seguente lettera: «Eccellenza, «Il Professore di Disegno nella R. Accademia di Brera Giuseppe Franchi regalò anni sono al celebre Poeta Sig. Abate Parini un Busto in marmo di Carrara, che rappresentava il ritratto dello stesso Parini. Ora egli ha acquistato dagli eredi di Parini questo Busto, e per onorare la memoria di un Uomo tanto valente nell’italiana poesia desidererebbe di collocarlo, colla breve iscrizione qui annessa, in una delle nicchie, che stanno nel cortile delle Reggie Scuole di Brera. «Supplica pertanto l’Ecc. V. a volergli [225] permet|tere quest’atto di stima e di venerazione per un amico che colle sue pubbliche Lezioni per trent’anni continui, e colle sue immortali poesie si acquistò la stima di tutti gli amatori della bella Letteratura. «Brera, 25 settembre 1799.

«Giuseppe Franchi».

Il giorno successivo il Commissario Cocastelli rispondevagli: «Con sentimento di compiacenza e di ammirazione ha accolta la Commissione Imperiale la proposizione fattagli dal Sig. Professore Franchi di decorare coll’effigie in marmo del celebre Poeta Abate Parini, opera insigne del maestro di lui scarpello, una delle nicchie del Cortile del R. Ginnasio di Brera, colla ben adattata epigrafe, e secondo il da Lui proposto disegno. Non solo pertanto permette al prefato Sig. Professore Franchi di mandar ad esecuzione un sì lodevole pensiero; ma lo previene d’averlo fatto gradire anche al R. Delegato Governativo Sig. Don Francesco Nava coll’incarico di dargli tutta la mano affinchè venga fregiato il Luogo di Brera e d’una insigne Scultura, e d’un monumento di degna benemerenza al Soggetto nella medesima effigiato». Malgrado la lusinghiera risposta del Cocastelli, il monumento non veniva innalzato e, per quanto si abbia frugato in ogni parte, non si potè conoscerne la cagione. Argomentando d’alcuni fatti secondarî, pare che la cagione di questo insuccesso del Franchi fosse dovuta al partito austriacante, che amava il Parini come il fumo negli occhi. Quando il sommo poeta morì, il giornale ufficiale Notizie Politiche il 16 agosto pubblicava: «Ieri il Parnasso Italiano fece una grave perdita, e la nostra città fu privata di uno [226] de’ suoi più belli ornamenti per la morte del celebre Sig. Abate Parini, le cui produzioni poetiche il fanno vivere per sempre ne’ fasti delle belle lettere.» Invece il Corriere Milanese, organo degli austriacanti, sulla morte del Parini non pubblicava neppure una sillaba, e si può ritenere che i suoi ispiratori abbiano anche colle loro mene impedita la collocazione del monumento, come hanno cercato di disperdere i suoi manoscritti, una parte dei quali scomparvero. Ritornati i Francesi, l’astronomo Oriani scriveva al Comitato di Governo, il 27 vendemmiale (19 ottobre 1800), che un Cittadino Cisalpino avea fatto l’acquisto d’un busto in marmo di Carrara, opera dell’insigne scalpello del professore Franchi, e che rappresenta il celebre defunto professore di Belle Lettere Giuseppe Parini. Soggiungeva pure che il detto Cittadino desiderava di ottenere, per mezzo suo, dal Comitato di Governo il permesso di collocare a proprie spese

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questo piccolo monumento in una delle nicchie del cortile delle Scuole di Brera, e di più bramava di restare incognito. Il Comitato di Governo, rappresentato dal cittadino Pancaldi, aderiva ben volentieri con nobilissima lettera diretta all’Oriani, ed incaricava l’architetto Canonica a cooperare al collocamento del busto.1 Naturalmente chi dedicava il monumento era un cittadino che voleva rimanere incognito, cioè lo scultore Franchi, che aveva fatta la prima domanda al Cocastelli, scritta essa pure dall’Oriani, il quale in questa onoranza del Parini non fu che un intermediario. [227] Altre memorie furono innalzate al Parini, tra cui un bel monumento, opera dello scultore di Ravenna, Gaetano Monti, che venne collocato nel 1838 sullo scalone a destra del Palazzo Brera. Ma il più duraturo monumento fu quello che dedicavagli l’avvocato Rocco Marliani, ad Erba, nella splendida sua villa Amalia, che il Monti eternava con le più belle terzine della sua Mascheroniana. In questi giorni gli eresse pure un busto anche il suo villaggio nativo. Un altro monumento veramente grandioso, opera dello scultore Luigi Secchi, gli viene ora innalzato a Milano, sulla Piazza Cordusio, per iniziativa di un benemerito comitato, con offerte quasi tutte di professori e studenti, col concorso del Re e col legato cospicuo di lire venticinquemila, lasciato dal munifico senatore Robecchi. Davanti a questo monumento passerà la sorridente indifferenza dei mediocri, insieme col freddo scetticismo, coll’oziosa voluttà e colla boria d’altri tempi. Dall’immagine del poeta si sprigioneranno allora i versi del Giorno, e pioverà d’altra parte sull’accorsa gioventù delle scuole il balsamo soave dell’Educazione. Davanti a questo monumento passerà anche la gente incalzata dal bisogno, la quale rendendo omaggio al poeta che un giorno non avea pane da sfamare la sua vecchia madre, ricambierà il verso col bacio amoroso a Colui che la difese a viso aperto.

1 Sul monumento del Parini, riguardo al Franchi ed all’Oriani, vedi autografi del Parini – Archivio di Stato.

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D O C U M ENTI INEDIT I E RARI C H E S I PU B B L ICANO S EPARATAME N TE [231]

Documento N. 1.

Copiato dall’originale che si conserva fra gli autografi del Parini nell’Archivio di Stato. – (Vedi pag. 15).1 Altezza Serenissima, Subito chè mi fù oggi presentato il venerato ordine di V. A. S.ma dato sopra raccorso del P. Branda Barnabita hò fatto a’ me chiamare lo stampatore Galleazzi, ed avendogli io fatta la ricerca espressata nel prelodato decreto, relativamente al rame da inserirsi nel libro intitolato: Dialogo della Lingua Toscana, mi hà egli risposto D’essergli stato mostrato un rame inciso rappresentante Bizzarro, che và à Firenze, mà di non averlo: D’avere fatto il contratto per la stampa del d.o libro con il Canonico Agudio, d’averlo già stampato; d’essere stato il d.o libro approvato da Superiori, e d’avere consegnati li Esemplari stampati così slegati: Che alla stampa assistettero certi Abbati Parini e Bellotti, così chè sia più volte comparso alla di lui stamperia anche certo Tanzi à riconoscere la stampa per curiosità: Io non hò creduto di far chiamare il Canonico ed Abbati sud.ti senza preciso commando di V. A. Ser.ma, alla quale intanto umiglio le suddette notizie per atto del mio dovere ed hò l’onore d’essere con profondo rispetto Di V. A. S.ma Milano, 20 luglio 1760.

[232]

Umilissimo Servidore P. Paolo d’Andriani R.o Cap.no di Giustizia. Documento N. 2.

Copiato dall’originale che si conserva fra gli atti dei giornali nell’Archivio di Stato. – (Vedi pag. 46 e 47). Ill.mo ed Ecc.mo Sig.re, V. E. ha voluto soprabbondare d’esattezza nel rimettermi con una delle sue d’Offizio de’ 12 corrente due Esemplari della Gazzetta di Mantova coll’avviso al Pubblico contro una falsa asserzione del Gazzettiere di Lugano: io sono tenuto all’E. V. di tale comunicazione, e ne farò l’uso opportuno per calmare le inquietudini de due soggetti interessati. Questo discorso mi somministra l’opportunità di dire a V. E. ciò, che già da gran tempo penso della Gazzetta di Milano, e non dubito, che converranno meco tutti i lettori di essa, benchè fuori del paese ve ne debbano essere ben pochi. La detta gazzetta è, per dirlo in una parola, cattiva, e delle più meschine tanto per il suo stile, che per i suoi ingredienti. Ma ne abbiamo di tale sorta anche in questi paesi, e non 1 Il numero di pagina si riferisce al testo di Bortolotti.

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è così facile il provvedervi ex-officio. Quello poi, che io desidererei fosse riformato costì avanti tutt’altro, lo sono gli stessi articoli di Milano, che, sebben rare volte, entrano in codesta gazzetta con dettagli sovente incongrui, e troppo esaggerati. Tali per esempio si sono osservati ultimamente quelli delle pubbliche divozioni, praticate per impetrare da Dio Signore la serenità del Cielo a benefizio della campagna: si rappresenta in essa minuziosa descrizione rivolta tutta la Città alle Sante Anime purganti, così parla quell’articolo, per ottenere la loro assistenza, e si rileva con affettazione il concorso universale ad un miracoloso Crocifisso esposto in un Monastero, come il Palladio di Milano, e quasi l’unica àncora nelle estreme necessità dopo aver inutilmente praticato l’esposizione del S.mo Sagramento in altre Chiese. La prima di queste due divozioni nella maniera, in cui è enunziata, ha del superstizioso, e la seconda non è nemmen essa ben regolata, e può indurre all’errore, altresì troppo frequente nel culto delle Sacre imagini, e pernicioso alla nostra Religione. Certamente converrà V. E, meco, che simili narrative con espressioni incongrue, o caricate non possono a meno di produrre al giorno d’oggi presso gli Esteri un’idea poco vantaggiosa del sistema delle pubbliche divozioni di Milano, e della credenza in simili materie. [233] So benissimo, che li pregiudizj, una volta, ch’abbino preso profonde radici, sieno difficili ad estirpare, nè ciò è l’opera d’un sol giorno; mi rimetto però alla conosciuta prudenza dell’E. V., desiderando soltanto, ch’Ella, se non è in grado di disporne a poco a poco la riforma per rendere al culto esterno di Dio la primitiva purità secondo la dottrina, e l’antica disciplina della Chiesa Cattolica, come sarebbe sommamente desiderabile, almeno non permetta, che delle pratiche opposte alla medesima, tuttochè autorizzate dall’uso, non se ne parli ne foglj pubblici con tanta solennità, ed in maniera, che rivolta il buon senso, non che la sana dottrina: La prego altresì di far per mezzo del Censore raccomandare al compilatore della gazzetta, che in certe altre congiunture scriva più sobriamente, e non faccia comparire la Nazione Milanese, come infetta da un cattivo gusto; come potrebbero far sospettare simili filastroche. Sono col solito distinto rispetto Di V. E. Vienna, 24 novembre 1768. Dev.mo ed Obbl.mo Serv.re Kaunitz Rittberg. A S. E. il Sig. M.ro Plenip.o Co. di Firmian (Milano). Documento N. 3. Copiato dall’originale che si conserva fra le carte dell’Università di Pavia nell’Archivio di Stato. – (Vedi pag. 53). Allorchè con mia riservatissima del primo settembre dell’anno p. p. spiegai a V. E. quello, ch’io pensava, per procurare di far risorgere in codesto Stato di Sua Maestà i buoni studj dall’abbandono deplorabile, nel quale il Senato gli lasciò cadere, mi esibj di comunicarle tutti i lumi, ch’Ella avesse desiderato, per formarsi un’idea chiara del sistema vegliante in tale materia in questi Stati Austriaci di Germania. Nel riscontrarmi poi V. E. con sua de’ 13 ottobre il voluminoso Progetto pseudonimo sulla riforma della Università di Pavia, e delle Scuole Palatine, da me rimessole sotto il

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primo dello stesso ottobre, mi mostrò [234] desiderio di un Esemplare del nuovo Regolamento, che qui si pratica. Io teneva per fermo, che già vi fosse un tal Piano, o stampato, o almeno unito; ma fattene le ricerche trovai, ch’io era in una falsa supposizione, e che non esisteva un detaglio completo, e circostanziato dello stato presente di questa Università. Mi sono dunque rivolto a procurarmelo; e coll’obbligante diligenza del Consigliere de Gaspari, Professore della Storia, mi è finalmente riuscito di averlo. Ho quindi il piacere di trasmetterlo a V. E. compiegato alla presente, persuadendomi, che lo troverà degno della dotta penna, che lo ha disteso, e corrispondente alla di lei aspettazione. L’oggetto è sommamente interessante, e che merita tutta l’intensione di spirito, e tutta la premura di chi presiede al governo de’ popoli. La pubblica felicità si erige sopra questo fondamento; ed è deplorabile, che una Nazione, dotata, com’è codesta, di tanti doni dalla natura, per mancanza di una educazione, che l’avvezzi a pensar giusto, ed a spiegarsi con facilità, e con chiarezza, contragga la perniciosa abitudine di operar tutto per finezza, e d’involgere l’esposizione de’ suoi pensieri nelle oscurità e nella barbarie. Dispererei di poter avanzare alcun passo in questa linea, se Ministro nella Lombardia Austriaca fosse tutt’altri che V. E. Ma essendo costì alla testa degli affari un cavaliere, che a tanti lumi naturali, e acquisiti, unisce una vera passione per le buone lettere, e per le nobili scienze, credo fermamente, che questa sia l’epoca fortunata, in cui sia per richiamarsi codesta Provincia all’antica sua gloria di solido, e verace sapere. Con questa dolce lusinga passo a confermarmi al solito del mio distinto rispetto. Di V. E. Vienna, 7 febbraio 1765. Dev.mo ed Obb.mo Serv.re Kaunitz Rittberg. A S. E. Sig. Ministro Plenipot.rio Co. di Firmian (Milano). [235]

Documento N. 4.

Copiato da un’altra copia allegata alla minuta dell’accompagnatoria del conte Firmian al principe Kaunitz, che si conserva nell’Archivio di Stato fra le carte dell’Università di Pavia. – (Vedi pag. 69). Altezza, Pervenute a’ Professori delle Scuole Palatine le Medaglie coniate per eternar la memoria d’un’epoca così fausta, qual’è quella della presente restaurazione de’ pubblici studj, ne ringraziarono essi tostamente S. E. il Sig. Ministro Plenipotenziario, alcuni in particolare, e il Corpo tutto per mezzo del Reg. Delegato D. Giuseppe Croce. Nel dì quattro poi dell’andante aprile fu comunicata al Corpo de’ Professori congregati Lettera di Governo in data del 30 Marzo, nella quale venivano eccitati a diriger formalmente i loro ringraziamenti per le medaglie stesse all’A. V. e al medesimo tempo, perchè le grazie fosser più colme, fu pur loro comunicato il Reale Dispaccio riguardante i Pubblici Studj, dato il dieciotto Febbraio del presente anno. Rimasero per tanto i Professori vivamente commossi dalla singolar degnazione, con cui all’A. V. piacque di riguardarli distinguendoli con sì onorifico dono: e deputarono me a renderle in nome del Corpo cumulatissime grazie; e ad assicurarla, che sarà questo dono riconosciuto da essi non tanto per un onore, quanto per un segno rammemorativo dell’obbligo che hanno di verificare dal canto loro ciò, che con si nobile monumento viene autenticato alla posterità.

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Ammirarono poi altamente nel Reale Dispaccio la instancabile provvidenza, e munificenza, con cui S. M. degnasi di beneficare ogni giorno per tutte le vie, e a tutti gli oggetti possibili questa fortunatissima Provincia: e provarono estrema contentezza nel veder colle nuove clementissime disposizioni felicitato sempre più quello, che dopo il loro Principe, hanno di più sacro, e di più caro, cioè la pubblica educazione della lor Patria, e il comodo, e la perfezione degli Studj loro. Deliberarono per ciò di volgersi con questa occasione all’A. V. la quale sa così gloriosamente secondare le santissime intenzioni d’una tanta Sovrana, supplicandola, che si degni di presentare a nome loro umilissimamente davanti al Trono della M. S. le significazioni della loro intima, e profondissima riconoscenza; e renderla certa, che si studieranno mai sempre di concorrere con tutte le loro forze, affinchè tanti ottimi stabilimenti ottengano il loro pienissimo effetto, e il nome della [236] M. S. sia, anche per questo capo, in consolazione della presente età, e in eterna benedizione delle future. Io, ch’ebbi l’onore d’essere deputato dal Corpo de’ Professori ad eseguire questo atto verso l’A. V. non ho creduto di poterlo con più efficacia adempiere, che nudamente esponendole i comuni rispettosissimi sentimenti. Supplico adunque, e confido a nome dello stesso Corpo, che l’A. V. si degni di considerarli, e promoverli secondo la loro ingenuità ed intenzione, troppo facile ad esser sentita dal suo nobilissimo animo caratterizzato singolarmente per li rari pregi d’incomparabile delicatezza, e generosità. Sono con profondissimo rispetto Di V. A. Milano, 7 aprile 1771. Umilissimo Servidore Giuseppe Parini Prof. di Belle Lettere. Documento N. 5. Copiato dall’originale, stato diretto dal principe Kaunitz al conte Firmian, che si conserva fra le carte del Ginnasio in Brera – Archivio di Stato. – (Vedi pag. 76). P. S. alla lettera de’ 20 febbraio 1772. Omissis. L’incertezza, e la trepidazione dei Gesuiti sul loro destino, che V. E. osserva essere anche in Milano, e la probabilità, ch’Ella crede di veder portato al punto di massima perfezione l’osservatorio loro, se quelli fossero assicurati di doverne restare i possessori, esigono da noi qualche riguardo, anche per renderli più utili, che è possibile. È noto a V. E. che S. M. non ha presa parte alcuna nelle premure d’altre Corti contro di essi, e che non avendo alcun fondato motivo di doglianza, li ha ciò non ostante riguardati sempre colla stessa protezione, che prima era loro accordata ne’ suoi Stati. [237] I Gesuiti di Brera poi non solo non hanno demerito alcuno, ma col sottoporsi quasi volontariamente ad una rilevantissima spesa nella costruzione dell’osservatorio astronomico, e colla provvista di molti degli stromenti necessarj per corredarlo, si sono resi molto degni di lode, per essersi prestati a coltivare con tanto dispendio una scienza, la pratica della quale era ignota in Lombardia, e può esser molto utile nella formazione di buone carte geografiche, ed altri pubblici usi poco conosciuti prima in cotesta provincia.

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Per questo mi sembra troppo giusto, che sieno levati da quella incertezza, in cui sono, e che vengano resi certi di essere riguardati con quella considerazione che meritano. Prego dunque V. E. a farmi il piacere di sincerare di bel modo il Rettore di Brera, che le ultime chieste, da noi fatte circa lo stato dell’osservatorio, non avevano altra mira, che di far conoscere al Collegio il desiderio, e la premura che ha la Corte di vederlo fornito colla maggiore abbondanza, che le misure di quella fabbrica richieggono, ed assistito in modo, che si possano fare tutte le osservazioni astronomiche, e fisiche, che vi si possono eseguire, essendo mente di S. M. che rispetto alla Facoltà Filosofica non sia fatta novità nella provvista delle Cattedre, attesa la Sovrana fiducia, che queste ritrovinsi in buone mani. Sarò anzi obbligato a V. E. se vorrà far rendere certo il detto Rettore di Brera, che incontrerà la soddisfazione della Corte, dandosi la premura di corrispondere alle nostre insinuazioni, ed io di fatti non mancherò ad opportuna occasione di rendere perciò ai Gesuiti la giustizia dovuta presso alla M. S. Circa la nostra idea di procurare, che i Lettori della Facoltà Filosofica ne’ due collegi di Brera, e di S. Alessandro siano dichiarati Regj, e membri della Università, ne attendo da V. E. ulteriore riscontro per ottenerne poi il Sovrano gradimento. Omissis. K. Rittberg. [238]

Documento N. 6.

Ruolo delle Scuole Palatine, approvato con Reale Dispaccio 5 luglio 1773, che si conserva nell’Archivio di Stato, unito allo stesso dispaccio. – (Vedi pag. 77). 11. Meccanica, Idrostatica ed Idraulica – Paolo Frisi Barnabita, stipendio 12. Gius. Provinciale e Municipale – Avv. Don Antonio Silva 13. Economia Pubblica e Commercio – Canonico Marchese Don Alfonso Longo 14. Istituzioni di Gius Comune – Don Gaspare Lancellotti Birago D.re Collegiato 15. Istituzioni Ecclesiastiche – Avv.o Don Giov. Bovara 16. Gius Pubblico ed Affari Pubblici – Conte Nicolò Visconti D.re Collegiato 17. Giurisprudenza Criminale Pratica – Don Cesare Lampugnani D.re Collegiato 18. Eloquenza e Belle Lettere – Abate Don Giuseppe Parini 19. Arte Notarile – Don Vincenzo D’Adda 10. Elementi di Geodosia e Planimetria ad uso degli ingegneri, vacante 11. Arte Diplomatica – Canonico Don Gio. Batta Castiglione 12. Anatomia nell’Ospedal Maggiore – D.re Don Guglielmo Patrini 13. Istituzioni ed Operazioni Chirurgiche, Ostetricia e Chimica nell’Ospedale – D.re Don Pietro Moscati 14. Teologia Scolastico Dogmatica – Preposto Don Gio. Maria Bossi – Arciprete Don Martino Fenini Bidello – Francesco Andreoli

L. 2900 » 2000 » 2000 » 2000 » 2000 » 2000 » 2000 » 2000 » 2000 » 2000 » 2000 »

900

» 4000 » 2000 » 2000 » 500

Parte del soldo assegnato al Frisi è in contemplazione delle diverse Commissioni avute per servizio pubblico in materia d’acque, ond’è puramente personale.

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Parte del soldo del Patrini è a carico dell’Ospedale. Il soldo del Moscati dev’essere a suo tempo tutto a carico dell’Ospedale. L’attuale dotazione della Cassa degli studi in parte è di dotazione antica a carico della R. Camera, l’altra parte è somministrata dallo Stato, e dalle cessate Scuole Canobbiane. Gaetano Balbi. [239]

Documento N. 7.

Copiato dall’originale scritto di pugno dal Parini sulla prima metà della pagina sulla quale è stesa la richiesta del consigliere Pertusati, che si conserva fra gli atti del Ginnasio Brera – Archivio di Stato. – (Vedi pag. 83 e 145). Nota. Il Prof.e e Sopraintendente delle R. Scuole di Brera Giuseppe Parini ottenne l’abitazione in Brera da S. A. R. il Serenissimo Arciduca a contemplazione delle sue notorie incomodità di salute. Questa gli fu poi accresciuta per il medesimo titolo, fino allo stato in cui presentemente ne gode dalla R. I. Conferenza di Governo. Egli non ha altri Rescritti fuor che quelli, che saranno registrati fra i Decreti del R. I. Governo, ai quali si rimette, come pure al tranquillo possesso, in cui ne è stato mantenuto da circa diciotto anni a questa parte. In fede di ciò egli si dà l’onore di sottoscriversi Giuseppe Parini Prof.e di Lett.e ed Arti e Sopraintendente, ecc.

È della Superiore intenzione, che il R.o Professore di Lettere, ed Arti, e Prefetto delle RR. Scuole Abate Parini indichi all’infrascritto Consigliere e Soprintendente li Rescritti, che legitimino l’abitazione, ch’Esso gode di sei stanze, ed un Gabinetto al Piano terreno, non che di una cucina con un piccolo Vestibolo nel R.o Ginnasio di Brera: Lo stesso Cons.e e Sopraintend.te comunica quindi la sullodata superiore volontà al surriferito R.o Professore, affinchè per il g.no 15 del venturo mese voglia compiacersi di somministrare la mentovata indicazione, e così essere abilitato a dar compimento alla Superiore commissione. Dalla R.a Sopraint.za alle Fabb.e Cam.li Milano, 31 Maggio 1795 Pertusati Consig.re Sopraintendente. Al R.o Profess.e di Lettere ed Arti e Prefetto delle RR. Scuole Abate Parini.

N.B. – La nota del Pertusati fu spedita a tutti quelli che alloggiavano in Brera. [240]

Documenti N. 8.

Le prime due domande furono scritte di pugno dal Parini, e si conservano fra i suoi autografi. L’ultimo documento è la prova che il Beneficio fu dato al conte Don Carlo Melzi, e si conserva fra gli atti del Culto; il tutto nell’Archivio di Stato. – (Vedi pag. 84-115-117). Altezza Reale, Nella vacanza del Beneficio Semplice sotto il titolo e nell’oratorio di Santa Maria Assunta di Lentate Pieve di Seveso, l’umil.mo serv.re di V. A. R. il Sacerdote Profes-

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sore Giuseppe Parini, osando rammemorare le sue circostanze di pubblico servigio, di età, di fortuna e di salute, Umilmente supplica che l’A. V. R. si degni di nominarlo al detto Beneficio. Che ecc. Altezza Reale, Nell’attuale vacanza del Beneficio eretto sotto l’Invocazione e nella Chiesa della B. V. M. nel luogo di Lentate di questo Ducato, l’Umil.mo Serv.re di V. A. R. il Sacerdote Professore Giuseppe Parini Milanese, richiamando alla benigna considerazione del Real Governo le sue circostanze di servigio, d’età, di salute e di fortuna, Umilmente supplica la medesima R. A. V. che si degni di nominarlo al detto Beneficio. Che ecc. 1785: 28 Aprile. Il Regio Economo Generale, qualora non abbia cosa in contrario da rilevare, spedisca colle solite cautele prescritte dalla Giunta Economale il Regio Beneplacito alle Bolle di Roma, per il Beneficio semplice eretto sotto il titolo dell’Assunta nell’Oratorio di Lentate, a cui è stato nonimato dal Reale Governo il Conte Proposto Melzi. Pecci.

Ferdinando.

Bovara.

Al R.o Economo Generale. N.B. – Le domande presentate dal Parini furono cinque. Le due qui stampate si trovano nella busta degli autografi; una nella busta: Culto-Lentate; e due altre nella busta: Culto-Occorrenze Particolari - Lettera P. Una sola porta la data di ricevimento 17 Settembre 1783.

[241]

Documento N. 9.

Dichiarazione scritta di pugno dal Parini, che si conserva fra i suoi autografi nell’Archivio di Stato. – (Vedi pag. 85). Fintanto che la Commissione Letter.a, destinata per ordine sup.e alla formazione de’ Libri Scolastici, venne occupata a questo fine, il D.n Tommaso Bonsignori, nominato ad assisterla, eseguì la sua incumbenza con ogni pruova d’abilità e di zelo non tanto nel compilare gli Scritti, quanto nel prestarsi ad ogni altra occorrenza sia della Commissione sia degli Individui di quella. Io specialmente lo adoperai nel Piano che fui delegato a stendere dietro alle viste rispettive degl’Individui; nelle Lettere, che occorse di scrivere in nome della Commissione; nella compilazione di quanto io lavorai per la facoltà commessami da trattare, e simili altre cose, e il tutto adempì egli con mia piena soddisfazione. Giuseppe Parini. Documento N. 10. Copiato dall’originale scritto di pugno dal Parini con correzioni fatte di sua mano e di mano d’altri. Non ha firma, nè data; si crede scritto nel 1773. Si conserva nell’Archivio di Stato fra gli atti della Società Patriotica. – (Vedi pag. 97 e 98).

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LE COSTITUZIONI FONDAMENTALI

della REALE ACCADEMIA D’AGRICOLTURA DI M ilano

Avvertenze Preliminari alle Costituzioni Le Accademie sono utili massimamente a quelle Scienze ed Arti, che per giugnere alla loro perfezione o per esser bene applicate hanno più bisogno del concorso e della contemporaneità di molte operazioni determinate, con cui si faciliti, si affretti, si assicuri il conseguimento del fine proposto. [242] L’Agricoltura è precisamente in questo caso. Gli oggetti da esaminarsi e da conoscersi relativamente ad essa sono molteplici; ed obbligano a lunghezza di tempo, a riunione di forze, e a dispendio, che eccede il potere delle private facoltà. D’altra parte niun’arte merita più di questa d’esser liberata dall’arbitrio d’una cieca e fortuita sperienza, dalla direzione equivoca della comune tradizione, e dell’ignoranza, che si limita al puro oggetto particolare. Ora queste difficoltà non si possono superare, nè questi effetti ottenere più sicuramente che coll’unione di molte forze, e col pertinace concorso di molte operazioni collegate e dirette d’un’Accademia, o d’altra simile instituzione, che operi perpetuamente e generalmente colla massa del suo tutto. Ecco il fine dello stabilimento d’un’Accademia d’Agricoltura, ed ecco lo scopo, a cui deve tendere quest’Accademia instituita. Ma le mire generali non possono rendersi efficaci se non si discende alla formazione d’un piano e d’un metodo concertato, col quale regolarmente procedere nelle operazioni. Un tale piano vuol essere semplice, pratico, e immediatamente applicabile alle circostanze del suolo, della coltura, e dell’economia nazionale. Vuol essere tale, che renda l’Accademia come centro di tutte le osservazioni, e sperienze, e pratiche così determinate come casuali, introdotte o da introdursi in tutta l’estensione dello Stato; sicchè dalla stessa Accademia refluiscano poi riconosciute e cimentate le rette e le più applicabili norme dell’operare. Vuol essere tale finalmente che di sua natura serva nello stesso tempo e alla buona direzione e all’incoraggiamento dell’Agricoltura. Per formare un simile piano d’operazioni accademiche è necessario non solo d’avere una cognizione abbastanza esatta e profonda dell’Agricoltura in generale, ma d’esser pienamente informato dello stato presente del suolo, del lavoro, de’ lavoratori, di tutta la rustica economia del paese, e delle cose, che influiscono in essa. La prudenza perciò suggerisce, che in affare sì delicato, che interessa la fondamentale felicità d’uno Stato; e trattandosi di materia sì estesa, sì varia, sì complicata, non sia da fidarsi per la formazione del piano d’operazioni accademiche, sulle cognizioni, e sul giudizio d’una o di più persone disgiunte. Anzi torna assai meglio di rimettersi all’esame ed alla risoluzione del Consesso di molti individui nazionali scelti e radunati fra quelli, che hanno più riputazione d’abilità e di zelo in simili materie. Per questi motivi sembra necessario di stabilire prima di tutto in utile e congruente forma il Corpo Accademico, e di ridurlo atto a certe leggi, che gli diano carattere, norma ed attività: e a tal fine alcuni Soggetti zelanti del pubblico bene, e desiderosi di corrispondere alla insigne [243] beneficenza del Principe coll’impiegarsi a favore de’ Sudditi tanto amati da Lui, si sono presi la libertà di stendere le seguenti Fondamentali Costituzioni dell’Accademia dell’Agricoltura.

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le biografie

È superfluo d’esporre tutti i motivi di ciascun articolo, che compone queste Costituzioni, apparendo essi troppo chiaramente dalla natura e dalla intenzione della cosa stessa. Solo si crede di dover rendere ragione d’alcune cose più essenziali, o che devono dipendere dalla immediata disposizione del Governo. E prima si è giudicato opportuno di stendere l’ispezione dell’Accademia anche sopra le quattro arti primitive, cioè la Pastorale, la Caccia, la Pesca, la Metallurgia, non solo per congiugnere in uno gli oggetti più naturali e più semplici della pubblica economia; ma ancora perchè queste arti hanno de’ prossimi legamenti coll’Agricoltura, e perchè possono agevolmente sotto una stessa generale operazione abbracciarsi. In tal modo senza moltiplicare i mezzi, si moltiplicano i fini, a’ quali può tender vantaggiosamente l’ispezione dell’Accademia. Si è inoltre proposta come necessaria all’uso dell’Accademia una quantità di terreno per le sperienze, non già perchè si confidi assolutamente sopra gli sperimenti eseguiti in un piccolo e invariato spazio di terreno; ma per potervi soltanto fare i primi saggi, e poter dall’esito loro pigliare maggior fiducia di trasportar le sperienze in grande e in diversi luoghi col favore degli Accademici più zelanti e disinteressati. Questo terreno potrebb’essere della quantità di cinquanta pertiche in circa: e vorrebbe esser situato ne’ Corpi Santi tra la Porta Nuova, e la Porta Comasina di questa città, sì per la comodità dello Sperimentatore e degli Accademici, che per la qualità del terreno più opportuna ad eseguirvi diversi sperimenti. Potrebbe questo prendersi ad affitto, quando la soppressione de’ piccioli Conventi, od altra simile disposizione superiore non servisse d’occasione per assegnare questa tenue proprietà all’Accademia. Si accenna parimenti nelle Costituzioni una somma disponibile per le spese necessarie all’Accademia. Questa servirebbe spezialmente per la provvista de’ libri e degli strumenti, per la stampa delle cose da pubblicarsi, per carta e simili altre cose d’ordinaria o di straordinaria necessità relativa al fine della instituzione. L’annua somma di duecento zecchini sarebbe per ora bastevole a tale oggetto. Le quattro medaglie parimenti accennate da distribuirsi annualmente, potrebbon essere del valore di otto zecchini l’una, come si pratica dalla Reale Accademia di Mantova. Alcuni Ufici, posti nelle Costituzioni come essenziali ad un Corpo Accademico di questa natura, meriterebbero pure per la necessità e perpetuità delle loro occupazioni l’assegnamento di qualche stipendio. [244] Perciò al Segretario potrebbe assegnarsi lo stipendio annuale di lire 1500. Allo Sperimentatore di lire 1000. All’Economo di lire 800. Oltre di questi converrebbe destinare un salario al Servente nelle stesse Costituzioni nominato; e questo potrebb’essere di lire 300. Le Adunanze dell’Accademia potrebbero tenersi in casa del Direttore di questa, quando non fosse opportuno d’assegnare a tale uso un luogo proprio e stabile. LE COSTITUZIONI FONDAMENTALI DELL’ACCADEMIA REALE D’AGRICOLTURA

1. Dell’Accademia. L’Accademia abbia per unico oggetto l’avanzamento dell’Agricoltura, e delle altre quattro Arti Primitive, cioè la Pastorale, la Caccia, la Pesca, la Metallurgia nella Nazione Milanese. Dipenda immediatamente dal Governo. Sia composta di persone nazionali, o abitanti stabilmente in Milano rispetto agli Accademici sedenti.

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2. Degli Accademici. Gli Accademici siano soggetti dotati di notabile zelo, di discreta scienza e capacità relativamente all’Agricoltura, e alle altre quattro Arti Primitive. Siano amanti d’osservazioni e di sperienze, o abili indagatori degli oggetti relativi alle stesse Arti, o notabilmente pratici in esse. Fra questi siano de’ Matematici, de’ Medici, de’ Chimici, de’ Meccanici. Tutti siano pronti ad operar di concorso più per utilità che per erudizione. Operino a tenore delle risoluzioni prese dal Corpo. Riferiscano e consultino ad esso secondo le cose immediatamente utili all’oggetto della instituzione. Siano distinti in due classi: altri siano Accademici Sedenti altri Accademici Corrispondenti. 3. Degli Accademici Sedenti. Gli Accademici Sedenti siano non più di ventiquattro. Risiedano in Milano. Abbian voto. [245] 4. Degli Accademici Corrispondenti. Gli Accademici Corrispondenti siano di numero indeterminato. Il numero maggiore sia sparso nelle varie parti dello Stato. Abbiano libertà1 d’assistere alle Sessioni del Corpo. 5. Del Corpo rappresentante l’Accademia. L’Accademia sia rappresentata dal Corpo degli Accademici Sedenti. Abbia Funzioni, Sessioni, Uficj, Premj da distribuire, Aggregazioni, Luogo d’Adunanza, Dote congrua e un Servente. 6. Delle Funzioni. L’Accademia, o sia il Corpo, che la rappresenta esamini liberamente e promiscuamente le materie. Concerti le operazioni da farsi, i modi e i mezzi da tenersi nelle sperienze e nella direzione delle operazioni. Deliberi co’ due terzi de’ voti. Dia gli ordini e le istruzioni opportune. Renda ogni anno conto al Governo sopra i resultati delle sue operazioni. Abbia il permesso di pubblicare quelli che ne saranno giudicati utili. Distribuisca i Premj. Aggreghi i nuovi Soggetti. 7. Delle Sessioni. Le Sessioni dell’Accademia siano Ordinarie e Straordinarie. Le prime si tengano una volta il mese; le altre quando sarà opportuno. Non vi si osservi fra gl’intervenienti altra distinzione che quella dell’Anzianità. 8. Degli Uficj. Gli Uficj dell’Accademia siano il Direttore, il Sopraintendente alle Sperienze, il Segretario, lo Sperimentatore, un Economo. I primi tre siano del numero degli Accademici Sedenti. Siano proposti per terna dall’Accademia, e nominati dal Governo. 9. Del Direttore. Il Direttore chiami le Adunanze. Disponga le cose da proporsi. Riceva le commissioni del Corpo, ed operi a nome di esso. Diriga l’esecuzione delle cose stabilite. Riferisca. Vegli alla conservazione delle Costituzioni, e al regolamento di tutto ciò, che appartiene all’Accademia. Firmi gli atti relativi all’economia di questa, unitamente a quello tra gli Accademici, che di mese in mese sarà delegato dall’Accademia a questo fine. 1 [Nel testo liberàt]

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[246] 10. Del Sopraintendente alle Sperienzie. Il Sopraintendente alle Sperienze vegli alle operazioni dello Sperimentatore perchè si facciano ne’ termini e nel modo stabilito dall’Accademia. Visiti o prenda le informazioni circa i lavori fatti giusta l’intenzione dell’Accademia dai soggetti da premiarsi. Riferisca ad essa. 11. Del Segretario. Il Segretario stenda, registri, custodisca gli Atti dell’Accademia. Stenda e spedisca le istruzioni da comunicarsi agli Accademici. Scriva semplicemente le cose memorabili dell’Accademia, e le presenti ad ogni richiesta di essa. Tenga, quando occorra, corrispondenza colle Accademie d’Agricoltura estere, co’ Librai, e colle persone insigni in questa materia, per servizio dell’Accademia. 12. Dello Sperimentatore. Lo Sperimentatore, al quale con qualche aumento di stipendio si potrebbe anche volendo addossar l’obbligo di fare in tempo d’inverno alcune pubbliche lezioni d’agricoltura, eseguisca le sperienze ordinate dall’Accademia. Ne riferisca i progressi e l’esito. Regoli i lavoratori, il lavoro, e l’economia del terreno assegnato all’Accademia. 13. Dell’Economo. L’Economo custodisca ed amministri i fondi e l’entrata dell’Accademia. Tenga la cassa, tenga i conti, e li renda ogni anno all’Accademia, e per essa al Governo. Spedisca, custodisca, registri gli atti concernenti l’azienda dell’Accademia. Assista e supplisca al Segretario dove occorra. Presti l’idonea sigurtà. 14. Dei Premj. L’Accademia distribuisca ogni anno due generi di Premj. Il primo sia quattro medaglie d’oro. Queste si distribuiscano a quattro degli Accademici Corrispondenti, i quali fra l’anno abbiano proposta cosa notabilmente utile secondo il giudizio, e lo sperimento dell’Accademia. Il secondo Premio sia l’Esenzione della Tassa Personale per tanti anni quanti bastino a formare la somma del valore d’una delle sopra mentovate medaglie. Questo si conceda a ciascuno de’ quattro Lavoratori, che fra l’anno si riconosca aver primamente intrapresa, e superiormente eseguita una delle operazioni proposte dall’Accademia. A questa Esenzione si aggiunga il privilegio di portare un segno, che distingua il Lavoratore premiato. [247] 15. Delle Aggregazioni. L’Aggregazione successiva degli Accademici Sedenti si faccia a voti segreti. In concorso d’altri si preferisca chi è Accademico Corrispondente. In concorso d’Accademici Corrispondenti si preferisca chi ha ottenuto Premj. L’Aggregazione successiva degli Accademici Corrispondenti si faccia a voti palesi. 16. Del Servente. Il Servente sia proposto all’Accademia dal Direttore. Sia approvato da questo. Assista nelle funzioni meccaniche. Dipenda immediatamente dal Direttore. 17. Della Dote dell’Accademia. La Dote dell’Accademia sia un luogo accomodato alle Adunanze: una quantità di terreno bastevole alla congrua grandezza e varietà delle sperienze: una somma disponibile per le spese necessarie alla esecuzione.

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Documento N. 11. Copiato dalla minuta originale della Conferenza Governativa che si conserva fra gli atti dei professori del Ginnasio in Brera. – Archivio di Stato – (Vedi pag. 135). N. 2270. All’Abbate Don Giuseppe Parini R. Professore di Lettere ed Arti in Brera. Dall’I. R. Corte è stata rimessa alla Conferenza Governativa la Supplica umiliata a S. M. dal R. Professore Abbate Parini, in cui addomanda o qualche modica pensione ecclesiastica, o qualche discreto aumento di soldo. Non ignora la Conferenza l’anzianità del di lui servizio sopra tant’altri Professori, i di lui particolari talenti, e la soda riputazione, che si è acquistata colle plausibili sue produzioni letterarie, e morali, che fanno onore anche a questa Città sua Patria, e quindi è dispostissima a secondare la moderata istanza per l’aumento del soldo; affine però di prendere misure più accertate, e convenienti sulla proposizione [248] del medesimo, aggradirà la Conferenza, che sollecitamente lo stesso R. Professore Parini esponga il modo con cui rendere vieppiù utili le sue lezioni, conforme in altra occasione egli ha già accennato di poter effettuare. 18 agosto 1791. V. Albuzzi. Documento N. 12. Scritto tutto di pugno dal Parini, ad eccezione dell’indirizzo che fu aggiunto dopo da altri, non reca nè firma, nè data. Venne presentato alla R. Conferenza Governativa il 26 agosto 1791. Si conserva fra gli autografi. – Archivio di Stato. – (Vedi pag. 135). R.a Conferenza Gov.a, La Imperadrice Maria Teresa di gloriosa memoria, nel sostituire all’antica Cattedra di Eloquenza nelle Scuole Palatine quella de’ Principj Generali delle Belle Arti conferita al Sacerdote Parini, ebbe specialmente intenzione di giovare alla perfezione delle Arti del Disegno facendo che si promulgassero e si mantenessero ne’ Professori e negli Amatori di queste severe idee del buono e del bello secondo gl’insegnamenti e la pratica de’ grandi maestri. Fu anche intenzione della medesima Imperadrice che questa Facoltà venisse trattata dal Professore anzi con libertà accademica che con rigoroso metodo e disciplina scolastica; affinchè, se per una parte il discreto numero delle Lezioni stabilito allora non isgomentava dallo intervenirvi nè gli artisti occupati dai loro necessarj esercizj nè gli amatori abituati alle comodità della loro fortuna: per l’altra parte la facilità e la varietà allettasse gli uni e gli altri a frequentarle. Di queste intenzioni della Imperadrice ne possono far fede le Lettere della R. Corte al Governo ed allo stesso Prof. Parini: e le intenzioni medesime non mancarono d’avere un esito corrispondente; giacchè ne’ primi anni si vide il Parini abitualmente ascoltato da buon numero di persone adulte, così dell’uno come dell’altro genere menzionati. Ma piacque di poi alla stessa Imperadrice di accrescere il numero delle Lezioni nella Università di Pavia e nelle Scuole Palatine di Milano: e i Professori di queste, per l’abolizione de’ Gesuiti, furono trasferiti nel luogo delle altre Scuole chiamate di Brera. In seguito l’Imperadore [249] Giuseppe Secondo di Gl. Mem.ª portò assai più oltre il numero delle Lezioni medesime.

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Da ciò avvenne che a poco a poco cessò l’affluenza degli Uditori proporzionati alla natura ed allo instituto della Cattedra del Parini: e che invece si accrebbe il concorso, che dura fino ad oggi, de’ giovanetti intervenienti alle altre Scuole di Brera, non per anco maturi per la Facoltà trattata dal Parini stesso, e non per anco determinati per alcun genio e professione speciale. Quindi fu egli costretto per esser pure in qualche modo utile, a declinare in gran parte dal suo instituto, ed a trattenersi massimamente in quella parte delle Belle Arti, che concerne l’Eloquenza e la Poesia, dando le sue istruzioni su quelle materie e in quel modo, che di anno in anno giudicò meglio proporzionato a simile qualità di uditori. È vero che, nelle riforme pertinenti agli studj fatte dall’Imperadore Giuseppe secondo, fu la Cattedra del Parini considerata come una parte dell’Accademia di Belle Arti stabilita in Brera; ma non venne poi fatta veruna opera perchè lo fosse in realtà. In tale stato di cose il Parini fu contento di ubbidire in quel modo che la sua ubbidienza poteva essere applicata, non avendo egli avuto la temerità di suggerire in nulla finchè non ne venisse formalmente domandato. Ora però che la R. I. Conferenza Governativa si è degnata d’interrogarlo sopra di ciò, egli rispettosamente presenta il seguente suo parere. I. Essendo la Cattedra del Professore Parini specialmente instituita per promuovere e perfezionare le Belle Arti: ed essendo questa considerata come una parte dell’Accademia delle Arti del Disegno stabilita in Brera, gioverebbe che il Parini facesse le sue Lezioni specialmente ai Professori, agli alunni ed agli amatori di queste Arti nell’Accademia stessa. II. Non essendo compatibile nè colle occupazioni necessarie degli Artisti, nè coll’abito di comodità degli amatori un troppo grande numero di Lezioni: e d’altra parte più importando di comunicare idee giuste e convenevoli, che molteplici e svariate, gioverebbe che le lezioni fossero ridotte a cinquanta o sessanta solamente, da potersi anche diversificare ogni anno ne’ loro speciali argomenti. III. Esigendo massimamente le circostanze degli artisti un opportuno impiego del loro tempo, gioverebbe che queste lezioni fossero comodamente distribuite nel corso dell’anno scolastico; e che si concertassero e stabilissero co’ maestri e con gli altri, che presiedono all’Accademia le giornate e le ore più opportune alla detta distribuzione. [250] IV. Dipendendo la maggior frequenza degli uditori dalla maggior celebrità, e dalla maggiore frequenza la gara e l’entusiasmo maggiore tanto necessario nelle cose delle Belle Arti, converrebbe ogni anno indicare al pubblico le giornate e le ore destinate a queste particolari Lezioni. V. Servendo più gli oggetti particolari che i generali ad eccitare la curiosità e a determinare le risoluzioni dell’animo, converrebbe anche indicare al pubblico i Soggetti speciali da trattarsi in ogni Lezione. VI. Importando principalmente alla giustezza ed alla perfezione delle produzioni nelle Belle Arti che gli artisti sieno profondamente istruiti della natura e del fine di esse Arti in generale; e della natura e del fine di ciascuna in particolare; e delle proprietà de’ generi in ciascuna di esse, perciò dovrebbe il Professore particolarmente insistere sopra questa parte. VII. Consistendo la perfezione delle opere in tutte le Arti nella eccellenza della Composizione e nella giustezza della Imitazione, perciò il Professore studierebbe di bene spiegare questi due Principj, derivando dalla loro natura le regole generali assolute e non arbitrarie della semplicità, della unità, della proporzione, dell’ordine, della disposizione, dell’espressione, del decoro e simili; ed applicandole alle Arti del Disegno ed ai generi loro.

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VIII. Essendo necessarj all’artista per bene operare rettitudine di giudizio, finezza di sentimento, e fecondità d’imaginazione; così il Professore farebbe delle utili osservazioni non solamente sopra i grandi esemplari delle Arti del Disegno; ma ancora sopra le imagini delicate o affettuose o sublimi che s’incontrano massimamente ne’ grandi Storici e nei grandi Poeti. Anzi indicherebbe a’ suoi uditori quelli dalla cui abituale lettura potrebbero ricavare più grande vantaggio. IX. Siccome poi all’opera dei Pittori e degli Scultori servono ordinariamente di soggetto oltre le cose storiche anche le mitologiche e le allegoriche; così farebbe loro conoscere i migliori fonti a cui ricorrere tanto abitualmente quanto nelle particolari occasioni; e in oltre darebbe loro le convenevoli avvertenze sopra il giusto uso, e la retta applicazione della Mitologia e dell’Allegoria. X. Finalmente le Lezioni vorrebbero esser fatte in stile semplice largo e lontano dallo scolastico affine di facilitare la intelligenza dei più ed allontanarne la stanchezza. Vorrebbero anche essere mescolate con tratti d’eloquenza varia e popolare affine di ravvivare il sentimento e di commovere la immaginazione in una qualità di uditori, che hanno bisogno di tenere in esercizio queste due facoltà per esser più pronti e più felici nell’atto delle loro produzioni. Questo è quanto il Parini, in venerazione degli ordini della R. I. [251] Con|ferenza, ha creduto di potere ingenuamente e per la sola utilità della cosa rappresentare, tralasciando per brevità ulteriori dettagli; e del resto pronto ad ubbidire con tutto lo zelo in qualunque sistema di cose possa essere ritenuto. In questa occasione si fa lecito di rispettosamente presentare alla R. I. Conferenza i suoi vivissimi ringraziamenti per le benigne disposizioni, che degnasi mostrare a di lui riguardo, persuaso che a seconda di queste favorirà la di lui Supplica a Sua Maestà in modo che, senza uscire dai limiti della moderazione, sia decorosamente provveduto alle sue reali necessità fisiche ed economiche.

Documento N. 13. Copiato dalla minuta originale della proposta Albuzzi fatta alla Conferenza Governativa, che si conserva fra gli atti dei professori del Ginnasio in Brera. – Archivio di Stato. – (Vedi pag. 135). N.º 2595/1360 Il Progetto Parini tende a richiamare alla sua primitiva instituzione la Cattedra, ch’Egli occupa nel Ginnasio di Brera, ed a sistemarla in modo di rendere più proficue, e comode ai Professori, ed Amatori delle Belle Arti le Lezioni ch’Egli propone di voler dare fra l’anno. Prima però di addottare tal massima, comunque a prim’aspetto plausibile, crederei che fosse in regola di dover eccitare col mezzo del Mag.to P. C., la Commissione Ecclesiastica, e delli Studj ad esporre sù di essa il proprio sentimento. Frattanto rifletto che sia che si addotti il Pensiere Parini, sia che più opportuna si creda la continuazione del metodo attuale, sarebbevi sì nell’una, che nell’altra Ipotesi un largo campo di potere fin d’ora, ossia all’incominciamento del nuovo Anno Scolastico, approfittare dei talenti, e delle rare cognizioni di un sì valente Professore, godendo nel tempo stesso dell’opportunità di accoppiare nella di lui Persona, con notabile risparmio nel Fondo letterario, e la Cattedra ch’Egli copre presentemente di Belle Lettere, ed Arti, e la Carica di Sopraintendente, o Superiore di quelle di pubbliche Scuole, che S. M. ha riconosciuto [252] neces|sario, che si dovesse instituire, avendo perciò incaricato questa Conferenza Governativa con suo Moto proprio dei 16 Giugno p. p. di proporlene il Soggetto.

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Egli è certo che una Persona di genio più elevato, e dottata di un gusto più fino, e di cognizioni più estese in questo genere, del Professore Parini, sarebbe difficile il rinvenirla. D’altronde combinando nello stesso Individuo sì l’una,1 che l’altra Incombenza, cioè e di Lettore di belle Lettere, ed Arti, e di Sopraintendente al Ginnasio, Incombenze che tra di loro si danno una mano reciproca, si riporterebbe il doppio vantaggio, e di provedere al troppo tenue stipendio, che ora trovasi assegnato a questo degno soggetto e di fare un risparmio al Fondo letterario, che con un tenue aumento di soldo, potrebbe ottenere l’intento di vedere coperto il Ginnasio di un Soprintendente, che forse non avrebbe chi lo egualj. Il soldo che presentemente percepisce il Parini si è di L. 2300. – Portandolo alle L. 4000 mi lusingo che non ne sarebbe discontento, e il Fondo letterario per la nuova carica, che andrebbe ad istituirsi non rilevarebbe che l’annuale Peso di L. 1700. Quall’ora questa mia proposizione, secondata già dai favorevoli sentimenti di questa Conferenza Governativa, potesse meritare il di lei appoggio, crederei che si avesse ad inoltrare alla Sovrana Approvazione di S. M., di conformità alla quale potranno poi darsi le disposizioni per le analoghe Instruzioni, e Stabilimenti. Albuzzi. ricev.to e sped.to il 22 settembre 1791. Kevenhüller ricev. 23 settembre spe. 24 settembre 1791. V. W. Concluso ric. il 26 settembre. Sped. il 29 settembre 1791. Ferdinando. [253]

Documento N. 14.

Copiato dalla minuta originale. Si avverte che secondo la risposta del Kaunitz, del 3 novembre, questa minuta dovrebbe essere del giorno 17 ottobre. Naturalmente qui havvi errore di data che non può alterare il documento medesimo. Esso si conserva fra gli atti dei professori del Ginnasio di Brera – Archivio di Stato. (Vedi pag. 136). N.º 2770 (In margine) A S. M. L’Imperatore e Re Leopoldo II, (In margine) 18 Ottobre 1791. S. C. R. A. M. (Sacra Cesarea Reale Apostolica Maestà) Il Sacerdote Giuseppe Parini che da 22 anni copre la Cattedra di Lettere, ed Arti nelle Scuole Palatine ora unite a questo R. Ginnasio di Brera, ha implorato colla qui annessa supplica umiliata alla M. V. o qualche modica Pensione Ecclesiastica, o qualche discreto aumento all’attuale di lui Soldo di L. 2300, attesa l’avanzata sua età d’anni 63, la cagionevole di lui salute, ed il ritrovarsi abitualmente mal affetto per debolezza nelle gambe. I meriti singolari di questo soggetto, i di lui particolari talenti, la soda riputazione che si è acquistato colle plausibili sue produzioni letterarie, e l’anzianità del di lui servizio sopra tant’altri Professori, hanno eccitato il giusto riguardo della Conferen1 [Nel testo uua]

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za Governativa per trovare il modo con cui potere esaudire la moderata e giusta di lui domanda. Siccome però il Professore Parini in altra occasione aveva accennato di poter rendere più utili le di lui lezioni, così la Conferenza lo ha eccitato ad esporre il Piano con cui effettuare questo suo pensiero. Il progetto che dal medesimo è stato proposto tende a richiamare alla primiera istituzione la sua Cattedra, ed a sistemarla in modo di rendere più proficue, e comode ai Professori ed Amatori delle Belle Arti le Lezioni, ch’egli propone di voler dare fra l’anno. Comunque sembrasse anche a primo aspetto assai plausibile la proposta massima, ciò nulla meno ha stimato la Conferenza di eccitare la Commissione Ecclesiastica e degli Studî di esporre il proprio sentimento. Frattanto però la Conferenza ha riflettuto, che in ogni caso si può approfittare del genio e rare cognizioni di un sî valente Professore [254] al|l’incominciare del nuovo anno scolastico, godendo dell’opportunità di accoppiare nella di lui persona con notabile risparmio del Fondo letterario e Cattedra, che copre presentemente di Belle Lettere, ed Arti, e la Carica di Sopraintendente, o Superiore di queste Scuole Pubbliche in Brera, che V. M. ha riconosciuto necessario d’instituire, avendo incaricato la Conferenza Governativa col motu proprio 16 Giugno p. p. di proporre il soggetto. Egli è certo che una Persona di idee più elevate, e dotata di un gusto più fino, e di cognizioni più estese in questo genere del Professore Parini, sarebbe difficile di rinvenirla; d’altronde combinando nello stesso soggetto si l’una che l’altra incombenza, cioè di Lettore di Belle Lettere ed Arti, e di Sopraintendente al Ginnasio, incombenze, che tra di loro si danno una reciproca mano, si riporterebbe il doppio vantaggio e di provvedere al troppo tenue stipendio che ora trovasi assegnato a questo degno Professore, e di fare un risparmio al Fondo letterario che con un tenue aumento di soldo, potrebbe ottenere l’intento di vedere coperto il Ginnasio di un Sopraintendente, che forse non avrebbe chi lo eguagli. Il Soldo che presentemente percepisce il Parini si è, come di sopra si è accennato, di L. 2300; portandolo alle L. 4000, può ragionevolmente supporsi dalla moderazione del Ricorrente, che non ne sarebbe discontento, ed il Fondo letterario per la nuova Carica, che andrebbe ad istituirsi, non rilevarebbe che l’annuale Peso di L. 1700. Nell’adempiere la Conferenza al Comando di V. M. di proporre un Sopraintendente, o superiore alle Scuole di Brera, ha procurato di combinare nel tempo stesso il risparmio del Fondo letterario e la destinazione d’un soggetto di soda e decisa riputazione. Starà quindi in umilissima aspettazione delle Sovrane Determinazioni, alle quali si darà la sollecitudine d’una pronta esecuzione. 5 Ottobre 1791. V. Albuzzi ric. e sped. il 13 ottobre 1791. V. W. ricev. 7. sp. 8 ottobre 1791. V. Ferd.

[255]

Documento N. 15.

Copiato dall’originale che si conserva negli appuntamenti della Municipalità del 3 termidoro nell’Archivio di Stato. (Vedi pag. 197).

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Si domanda se la causa della Libertà Milanese si tratti a Parigi; se si tratti a Milano; se si tratti in ambedue i Luoghi; o se veramente si tratti in nessuno dei due Luoghi. Se si tratta a Parigi, si domanda se si tratta direttamente col Corpo Governativo Francese in autentica forma diplomatica: o se non si faccia che parlarne privatamente con alcuno dei Membri del Direttorio, o con alcuno de’ ministri del Direttorio medesimo. In ognuno dei detti casi, si domanda in quale stato di probabilità, o di fiducia si creda essere il mentovato affare, non apparendo finora ben chiaro, nè dalle Lettere scritte da Parigi alla nostra Municipalità, nè dalle asserzioni formali, o più volte incidentemente fatte dal Cittadino Serbelloni dopo il suo ritorno, quale veramente sia lo stato medesimo. Se il detto affare si tratta a Milano, e nello stesso tempo anche a Parigi, si domanda se questo si tratti da privati zelanti Cittadini; ovvero da alcuni Membri Municipali. In questo secondo caso si domanda se la Municipalità abbia o no deputato alcuni suoi Membri a trattare su tal proposito colla Superiorità Francese qui esistente. Parimenti si domanda se il Corpo Municipale sia anche in questo momento Corpo meramente amministrativo, come per sua natura sembra che debba essere, come dalla Superiorità Francese è stato ritenuto nel suo primo Editto concernente la Municipalità, e come per tanti atti formali, e consecutivi fu dalla Superiorità medesima dichiarato. In tal caso, si domanda finalmente, se, quantunque ad ogni privato cittadino zelante sia lecito di formar progetti di costituzione sia egualmente lecito alla Municipalità di Milano di erigere nel suo seno un Comitato di costituzione, oggetto sommo, e meramente Politico, senza formale mandato dell’accennata Superiorità Francese. Perchè si registri negli Atti. Parini. NB. Le parole in corsivo e la firma sono scritte dal Parini; tutte le altre da un copista. [256]

Documento N. 16.

Copiato dalla minuta originale che si conserva negli Atti dei Municipalisti nell’Archivio di Stato. (Vedi pag. 199). Al Commissario Saliceti, li 6 Thermidor.1 Con due graziose disposizioni Vostre, e del Generale in Capo Bonaparte comandaste agli Individui ora componenti la Municipalità di Milano, che si recassero immediatamente, come eseguirono, dalle loro rispettive occupazioni, e Professioni al servigio di questo Pubblico. Non è quindi difficile a comprendere, che si dovette da Noi per ora abbandonare intieramente l’esercizio di quegli Impieghi, da cui la maggior parte di Noi traeva una comoda sussistenza per sè, e per la propria famiglia; Questa cessò, o venne sospesa dal momento, che Voi Cittadino Commissario Ci chiamaste al disimpegno dell’accennato Pubblico Officio. La massima parte di Noi non è fornita di larghi beni di fortuna per poter continuare a servire la patria gratuitamente e senza palesarvi i proprj bisogni. 1 La data del 6 Thermidor è un errore di copia, poichè invece del 6 deve stare il 16.

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Mossa la Municipalità dalle vive istanze di alcuni de’ suoi membri mancanti di sussistenza e di tutti gli impiegati da essa dipendenti rassegnò all’Agenza Militare i Ruoli dei rispettivi salarj per riportarne la approvazione; Si fecero pure alla medesima presenti le circostanze riguardanti i Membri della Municipalità, acciocchè potesse dare anche ad un tale riguardo le sue disposizioni tendenti a compensare i medesimi con quella indennizzazione, che si fosse creduto corrispondere ai cessati prodotti industriali dal momento, che passarono al pubblico servigio. L’Agenza rispose, che per rispetto alle Nostre Persone non aveva facoltà di pronunziare cosa alcuna, essendo ciò della riservata cognizione de’ Commissarj del Direttorio Esecutivo. [257] Sottoposte pertanto queste circostanze alla Vostra ponderazione, e saviezza, Cittadino Commissario, Noi non possiamo, che rivolgerci a Voi, che avendoci data la presentanea Nostra pubblica assistenza, e conoscendo Voi perfettamente l’estensione delle Nostre incumbenze, che non ci lasciano il menomo tempo da occuparsi in altro, e lusingandoci altresì, che con una tale non interrotta opera adoperata in pubblico servigio, conoscerete, che non lasciamo di prestarci col possibile zelo, per la pubblica causa, e per il più esatto servizio dell’invitta Repubblica Francese, a Voi rispettosamente ricorriamo, e da Voi, e dalla Vostra bontà attendiamo le superiori determinazioni in punto della Nostra indennizzazione, che vi compiacerete di fissare dal principio del Nostro rispettivo servizio ed installazione. Pavesi. Documento N. 17. Copiato dall’originale che si conserva fra gli Atti dei Municipalisti nell’Archivio di Stato. (Vedi pag. 200). Ègalité.

Liberté. Au Nom De La République Française Les Commissaires du Directoire Esécutif près l’Armée d’Italie et des Alpes. Considerant d’après tous les renseignemens pris sur l’Etendue de touttes les Operations administratives dont se trouve chargée la Muniçipalité de Milan, que vingt quatre Membres peuvent y suffire et que leur division en plusieurs Bureaux ne comporte pas un plus grand nombre, Que si ç’est un vice de trop restreindre le nombre des administrateurs, ç’en est un non moins essentiel de corriger, que l’excedent des Administrateurs en sus des besoins. Arrettent que desormais et a compter du jour de la nottification du present arreté a la Muniçipalité, La Muniçipalité serà seulement composé de vingt quatre Membres et pourvoyant a l’organisation de cette administration muniçipale, en execution des dispositions cy dessùs [258] prenant en consideration les moyens d’empechement et d’exuse par plusieurs Membres Nomment et Confirment les Citoyens Francesco Visconti Giovanni Tordorò Antonio Caccianino Carlo Nicoli Galeazzo Serbelloni Michele Reale Felice Latuada Giuseppe Merlo Carlo Bignami Giacomo Battaglia

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le biografie Fedele Sopransi Gaetano Porro Pietro Verri Giuseppe Pioltini Giambatt. Sommariva Antonio Crespi Cesare Pelegatti

Angelo Pavesi Ottavio Mozzoni Michele Vismara Giovanni Bazzone Carlo Brandina Francesco Buzzi Giuseppe Agnelli

Pour exercer dans la Commune de Milan les Fonctions Muniçipales. Fait a Milan le 16 Thermidor l’an 4 de La Repub.que une et indivisible. Saliceti – Garrau.

INDIC E DEI NOM I * A

bamonti, segretario 309 Abbiati, Tiberio 11, 48-49 Acerbi, Giuseppe 13 Achillini, Claudio 264 Acton, John 479 Adimari, Ludovico 271 Affò, Ireneo 295 Aglianò, Sebastiano 61 Agnelli, Federico 181 Agnelli, Giuseppe 482, 526 Agnelli, librai 297 Agnesi, Maria Gaetana 233, 300, 411 Agostino d’Ippona 91, 427 Agudio, Candido 37, 39, 41, 202, 218, 238, 265, 331, 344-345, 354, 367, 375-376, 381, 409-410, 417, 442, 508 Agudj, famiglia 321 Airoldi, Giuseppe 212, 360, 384, 505 Albergoni, Gianluca 59 Alberti, Leon Battista 51 Albertolli, Giocondo 318, 504 Albini, Giuseppe 69-70 Albino, Carlo 481 Albizzi, Isabella Teotochi 319 Albuzzi, Felice 466, 519, 521-523 Alamanni, Luigi 85, 271 Alessandri, Giovanni Battista 39 Alessandri, Marco 313 Alfieri, Vittorio 18, 22, 38, 100, 142, 152, 155, 161, 184, 203, 218, 224, 251, 254, 257, 267, 270, 281, 296, 300, 313, 324, 382, 396, 464 Algarotti, Francesco 24, 248, 264, 296 Alighieri, Dante 19, 33, 40, 51, 56, 61, 88, 128, 185-186, 195, 204, 206, 208, 217, 236, 248, 254, 257, 259, 264, 267, 270, 280, 302, 309, 316, 332, 340, 397, 446, 457 Alvaro, Emanuele 367 Amari, Michele 61 Ambrosoli, Francesco 59 Amoretti, Carlo 476-477 Amoretti, Maria Pellegrina 352, 443, 445 Amorevoli, Angiolo 462 Anacreonte 112, 122, 186, 200, 205, 208, 268 André, Yves-Marie 207 Andreani, Giovanni Mario 481 Andreoli, Bartolomeo 497 Andreoli Francesco 512

Angeli, Luigi 61 Angiolini, Gasparo 202 Anguissola, Antonio 449 Anna Ricciarda d’Este 410 Annone, Pietro 481 Annoni, Carlo 52 Antona Traversi, Camillo 68, 395 Antonioli, Carlo 137 Antonmarchi, Francesco Carlo 303 Apostoli, Francesco 318 Appiani, Andrea 47, 53, 180, 203, 217, 226, 260, 293, 333, 365, 495 Appiani (Appiano), Carlo 361 Appiani, Gerolamo 410 Appiano, Carl’Andrea 343 Arauco, Raffaele 396 Archinti, Carlo 481 Archinti, famiglia 414 Archinto, contessa 472 Archinto, Maria Teresa, vedova Lucini 458 Arcimboldi, Giovanni Battista 343, 366 Arconati, Carlo 481 Argelati (Argellati), Filippo 294, 371, 422 Arifrade 172 Ariosto, Ludovico 19, 52, 88, 90, 116, 128, 132, 181, 186, 195, 197, 204, 208, 240, 271, 316 Aristofane 308 Aristotele 64, 172, 207, 296 Arnaboldi, Alessandro 397 Asor Rosa, Alberto 71 Assandri, Giovanni Battista 420 Avogaro, Rambaldo degli Azzoni 295 Azeglio, Massimo d’ 23 Azzalino, Caterina 446 Azzolina, Liborio 61

Bacone, Francesco 461 Balbi, Gaetano 513 Balducci, Luigi 61 Balducci, Marino A. 61 Balestrieri, Domenico 83, 100, 116, 188, 195196, 237, 240, 266, 296, 371, 409, 452, 468 Ballarini, Marco 66 Ballerini, Paolo Angelo 29 Bandello, Matteo 197 Bandettini Landucci, Teresa 411, 446, 468, 471

* A cura di Maria Luisa Giordano.

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indice dei nomi

Bandiera, Alessandro 14, 36, 58, 100, 110, 166167, 196, 202, 239, 268, 296, 330, 346, 374, 409 Barbarano, Francesco 295 Barbarisi, Gennaro 11, 53 Barbiera, Raffaello 73, 384-385 Barbieri, architetto 307 Barbieri, Torquato 71 Baretti, Giuseppe 53, 58, 86, 195, 237, 248, 264, 294, 297, 299, 332, 371, 418, 426, 432 Baroni, Giorgio 71 Barotti, Giannandrea 294 Bartesaghi, Paolo 13, 21, 53, 66, 70 Baruffaldi, Girolamo 294 Barzoni, Vittorio 388 Battaggia, Francesco 307 Battaglia, Giacomo 482, 525 Batteux, Charles 207 Bazzetta, Francesco 317, 504 Bazzone, Giovanni 482, 526 Beauharnais, Giuseppina 307, 483 Beccalossi, Giuseppe 47, 80 Beccaria, Cesare 22-24, 29, 58, 63, 187, 209, 234-235, 241, 244, 258, 265, 294, 296, 299300, 304, 323, 343, 349-351, 362, 366, 396, 403, 405-406, 408, 411-412, 414, 416-419, 423, 428, 432, 447-449, 483, 506 Beccaria, Giulia 415 Beccaria, Giulio 396 Belgioioso (Belgiojoso), Alberico 396, 410 Belgioioso (Belgiojoso), Emilio 396, 410 Belgioioso (Belgiojoso), famiglia 381, 409410 Belgioioso, Lodovico 481 Belgioioso-Este, famiglia 414 Bellinzaghi, Pietro 444 Bellò, Luigi 11, 48-49 Bellorini, Egidio 25, 60-61 Bellotti, abate 410, 508 Bellotti, Cristoforo 36, 70, 369 Bellotti, Felice 54, 65 Bembo, Pietro 56, 281 Bendiscioli, bresciano 498, 501 Benedetto da Norcia, 56 Bentivoglio, Cornelio (Selvaggio Porpora) 153-154, 296 Berengo, Marino 59, 63 Berlan, Francesco 351, 440, 472 Bernardoni, Giuseppe 17, 52, 53, 61-62, 383384, 396-397 Berni, Francesco 195 Bertana, Emilio 38-39, 41, 75-76, 434, 452, 475 Bertani, Agostino 72, 74 Bertola, Aurelio de’ Giorgi 51, 296, 352-353, 383, 464 Bertoldi, Alfonso 68, 70 Bertoldi, Francesco 295

Bertololi, Giovanni Battista 359, 492, 495 Bescapè, Carlo 241 Besomi, Ottavio 20 Bettinelli, Saverio 14, 17, 24, 48, 186, 188, 190, 225, 248, 264, 295, 452, 471 Bettoni, Carlo 460-461 Bezzola, Guido 29, 63 Biagi, Guido 61, 70-71 Biancardi, Giovanni 71, 404 Bianchetti, Giuseppe 73 Bianchi, Isidoro 346 Bianchi, stampatore 344, 368, 404 Biancolini, Giambatista 295 Bianconi, Ludovico 466 Bicetti de’ Buttinoni, Francesca 415 Bicetti de’ Buttinoni, Giovanni Maria Giuseppe 72, 169, 270, 416 Biffi, Giambattista 48 Bigatti, Carlo 313, 358 Biglia, Vitaliano 481 Bignami, Carlo 480, 494, 525 Bigoni, professore 432 Binferreri, professore 504 Birago, Girolamo 241, 460 Blanc, Louis 309 Blasco, Domenico 414 Boccaccio, Giovanni 95, 100, 166, 186 Boccage, Anne-Marie du 181, 407, 419 Boccalini (Bocalini), Trajano 242 Bocous, Joseph 20 Bodoni, Giambattista 264, 475 Boffito, Giuseppe 49 Bognini, Filippo 53 Boiardo (Bojardo), Matteo Maria 240 Boileau, Nicolas 12, 19, 203-204 Boito, Camillo 70 Bologna, Marco 63 Bollognini-Attendolo, famiglia 414 Bolza, Giovanni Battista 397 Bonaguzzi, Francesco 425-426 Bonaparte, Luigi Napoleone 66 Bonaparte (Buonaparte), Napoleone 51-52, 54, 201, 254-255, 286, 288, 303-308, 323, 335, 351, 357, 479, 481-482, 487, 489, 493, 495496, 524 Bonatti, K. Domenico 20 Bondi, Clemente 248 Bonfanti, Angelo 57 Bongiochi, Gianluigi 296 Bonsignori, Tommaso 442, 514 Borghini, Vincenzo 202 Borromeo, Carlo 404 Borromeo, famiglia 196, 238, 301, 404 Borromeo, Renato 404 Borsieri, Giambattista 453 Borsieri, Pietro 54

indice dei nomi Bortolotti, Vincenzo 38-42, 45, 74-76, 399, 401, 490, 508 Boscovich, Ruggero Giuseppe 432, 453 Bossi, Gianmaria 442, 458, 512 Bossi, Giuseppe 226, 396 Bossi, Maurizio 28, 62 Botta, Carlo 38, 307, 397 Bottari, Giovanni Gaetano 202 Boulainvilliers, Henry de 420 Bovara, Giovanni 512, 514 Bracco, Gregorio 21-22, 55 Brambilla, Luigi 56 Brambilla, Paolo 37, 212, 338, 359-360, 384, 391, 394, 478, 482, 495, 504-505 Brambilla, Pietro 69 Bramieri, Luigi 13, 16-17, 19, 31, 45, 49-50, 109, 111, 125, 132, 143, 148, 150, 155, 166, 168, 179180, 184, 186-187, 322, 352, 419, 421, 457, 474 Branca, Mirella 28, 62 Branda, Paolo Onofrio 36, 39, 58, 75, 100-101, 109, 116, 126, 139, 150-151, 181, 196, 202, 239243, 293, 296, 319, 330-331, 344, 346-347, 367, 374-375, 409-410, 508 Brandina, Carlo 526 Bressani, Gregorio 296 Brézé (Brezés), Pierre de 244 Brilli, Ugo 69 Brofferio, Angelo 59 Brosses, Charles de 233 Buchetti, Luigi Maria 311 Buonarroti, Filippo 295 Buonarroti, Michelangelo (Michelagnolo) 225, 265, 390 Burmanno, Pietro 144 Burney, Charles 462 Busca, Ludovico 481 Bussi, ufficiale della Guardia Nazionale 503 Bustico, Guido 67 Buttò, Simonetta 71 Buzzi, Elia 151 Buzzi, Francesco 201, 316, 338, 359, 482, 504, 526 Byron, George Gordon 222, 245

Cabiati, Carlo Giuseppe 343, 403 Caccianino, Antonio 480, 489, 525 Caddeo, Rinaldo 74 Cadioli, Alberto 13, 52-53 Cagni, Giuseppe Maria 48-49 Calamari, Giuseppe 55 Caluso, Tommaso Valperga di 296 Calvi, Antonio Gabriello 295 Calvi, Felice 412-413, 436 Calzabigi (Calsabigi), Ranieri de’ 152, 296 Caminer-Tura, Elisabetta 462-464 Camões (Camoens), Luís Vaz de 116

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Campini, giornalista 27 Canonica, Luigi 507 Cantù, Cesare 28-31, 36-37, 45-46, 50, 53, 5960, 62, 63, 291, 329-330, 335-336, 366-367, 375, 379, 381-385, 387-389, 391, 393-394, 396, 495, 504 Cantù, Ignazio 64 Capecchi, Luigi 26, 56 Capponi, Gino 57, 60 Cappuccio, Carmelo 30 Capra, Carlo 53 Caprara, Carlo 317, 504 Capsoni, Severino 306 Carcano, Francesco 294, 297, 299 Carcano, Giulio 23, 26, 247 Carducci, Giosue 27, 33-34, 36, 50, 56, 60-61, 67, 69-71, 368-371 Carena, Giacinto 58 Carfora, Emanuel 61 Carini Dainotti, Virginia 71 Carli, Gian Rinaldo (Gianrinaldo) 24, 35, 200, 253, 353, 413, 427, 447-448, 450, 457-458, 472 Carlo III di Borbone 253 Carlo Alberto di Savoia 74 Carminati, Bassiano 453 Caro, Annibale 23, 58, 153, 226, 239, 242, 264 Carpani (Caspana), Angela Maria 13, 179, 293, 329, 343, 403 Carpani (Caspano), Francesco 356, 384, 403 Carpani, Francesco Maria 419 Carpani, Giuseppe 321, 382 Carpani, Palamede 211, 312, 330, 383 Carrannante, Antonio 61 Carrer, Luigi 254, 257, 313 Casarini, Domenica 462 Casati Carlo 418, 495 Casati, Giovanni 63 Casati, Giuseppe 407, 505 Casati Arconati, Innocenza 446 Caselli, Maddalena 462 Casori, Filippo 497-498 Cassetti, Maurizio 76 Castelbarco, Maria di 35, 353, 473 Castelbarco Simonetta, Francesca 446 Castelbarco-Visconti, famiglia 414 Castelli, Carlo 452 Castelli, Giuliano 427 Castelvetro, Ludovico 23, 58, 239, 242, 252 Casti, Giovanni Battista 22, 281, 283, 310, 352, 382, 454, 457 Castiglia, Benedetto 72 Castiglione, Baldassarre 186, 197, 226 Castiglione, Giovanni Battista 512 Castiglioni Litta, Paola 35, 296, 319, 352-353, 454, 464 Castoldi, Ezio 72

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indice dei nomi

Castone della Torre di Rezzonico, Carlo 16, 185 Castronovo, Valerio 74 Catilina, Lucio Sergio 314, 390 Cattaneo, Calimero 12, 104-105, 212-213, 219, 322, 359, 361, 383, 394, 505-506 Cattaneo, Carlo 72, 74 Cattaneo, Giacomo 449-450 Catullo, Gaio Valerio 427 Cavalieri, Bonaventura 300 Cecchi, Emilio 62 Cecco (Cieco) d’Ascoli 240 Cellini, Benvenuto 225 Ceracchi, Giuseppe 307 Cerati, Antonio 113, 125, 137 Cervesato, Arnaldo 74 Cesare, Gaio Giulio 54, 104 Cesarotti, Ilario 31 Cesarotti, Melchiorre 53, 264, 464 Ceva, Tommaso 371 Chambers, Ephraim 297 Chateaubriand, François-René 244 Cherubini, Francesco 56-58 Chiabrera, Gabriello 123, 157, 186, 200, 256 Chiari, Pietro 197, 264, 297 Chinozzi, Giovanni 497 Ciani, Carlo 359, 480, 494-495 Cicerone, Marco Tullio 85, 96, 100, 103, 147, 154, 206, 234-235, 241, 297, 320, 347, 458 Cicognini, Giuseppe 39, 346, 376, 416, 426429, 461 Cimmino, Alessandra 73 Ciocca, Giuseppe 384 Ciuffoletti, Zeffiro 61 Clemente XIII 435 Clerici, famiglia 414 Clerici, Francesco 481 Cocastelli, Luigi 317, 360, 504-507 Codignola, Ernesto 74 Colombani, Paolo 298 Colombo, Cristoforo 169 Colonia, Dominique de 270 Colonnetti, Mauro 50 Colpani, Giuseppe 187 Concina, Daniel 295 Confalonieri, Federico 54 Confalonieri, Vitaliano 481 Constabili, Giovanni 313 Contarini, Elena 372 Conti, Antonio 211, 383 Corazza, Vincenzo 110, 157, 251 Corbetta, Antonio 359, 480, 485, 491, 493, 495 Corbetta, Paolo 473 Corio, Lodovico 26, 36 Corneo, Francesco 361 Corniani, Giambattista 13, 54, 351, 464

Correnti, Cesare 23, 59 Costa, Lorenzo 225 Costa d’Arignano, Vittorio Gaetano 296 Costabili-Containi, Giovanni 317 Couet, abate 420 Cozzi 481 Cremani, Luigi 453 Cremona, Giovanni Francesco 461 Crespi, Antonio 358, 480, 483, 526 Criscuolo, Vittorio 21-22, 53, 55 Crivelli, Gioachimo 396 Croce, Benedetto 61 Croce, Giuseppe 427, 432, 434, 510 Cunich (Cunichio), Raimondo 296 Curtoni Verza, Silvia 35, 319, 352, 446, 476 Cusani, Ferdinando 450, 490 Cusani, Francesco 356, 381, 457 Custodi, Pietro 17, 495

D’Adda (Dadda), Febo 211-212, 284, 360, 381, 404, 474-476, 505 D’Adda, Francesco 450 D’Adda, Giorgio 426, 436 D’Adda marchese 433, 449 D’Adda, Paolo Camillo 436 D’Adda (Dadda), Vincenzo 201, 206, 210, 254, 349, 357, 389, 430-431, 449, 458, 460, 473, 476-477, 512 D’Alembert, Jean Baptiste 30, 302 D’Ancona, Alessandro 36 D’Andriani, Paolo 39, 347, 508 Dandolo, Tullio 59 Davanzati, Bernardo 56 Daverio, Michele 427, 481 De Angelis, Pietro 47, 49, 54 De Angelis, Violetta 52 De Capitani, Giambattista 57 De Carli 234, 244 De Castro, Giovanni 36, 41, 46, 71-73, 363, 371, 375, 385, 394, 451 De Cristoforis (Decristoforis), Giovanni Battista 321, 333 De Gamerra, Giovanni 345 De Gregori, Giorgio 71 De Gubernatis, Angelo 59, 74 De Marini, consultore 257 De Martini, Carlo Antonio 220 De Sanctis, Francesco 17, 35, 351, 380 De Tipaldo, Emilio 13, 21, 50-52 De Vecchi, Antonio 497 Degrada, Federico 53 Del Lungo, Isidoro 381 Delille (Dellisle), Jacques 152 Dell’Acqua, Luigi 348, 373, 396, 404, 410 Della Casa, Giovanni 281 Della Peruta, Franco 29, 63, 74

indice dei nomi Della Porta, Pompeo 479 Della Torre, Paolo 63 Democrito 247 Demostene 105, 308 Denina, Carlo 52, 248, 296 Despinoy (Despinois), Hyacinthe François Joseph 211, 255, 287-288, 304-305, 335-336, 388, 480, 482, 484, 487-491 Dettamanti, Pietro 52 Di Breme, Ludovico 20 Diderot, Denis 30 Dillon, Matilde 63 Diolaiuti, Riccardo 60 Dionisi, Giovan Jacopo 295 Doglioni, Lucio 295 Dorfeuille, Pierre Poupart 497 Doria-Sforza, famiglia 414 Draghi (Drago), Giuseppe 317, 504 Du Bois Reymond, Emile 36, 397 Dubos (Du-bos), Jean Baptiste 207 Dugnani, Giovanni Francesco 436 Dumas, Alexandre 36, 397 Dumouriez (Dumourier), Charles-François 479 Dunois, Jean de 244 Durante, Francesco 462 Duranti, Durante 218 Durini, Angelo Maria 48, 117, 119, 141, 250, 270, 297, 333, 381, 468 Durini, famiglia 414

E

lvidio Prisco, Gaio 272 Empedocle 151 Epicuro 205 Eraclito 247 Ercole III d’Este 51 Eugenia de Montijo 66 Euripide 100, 202, 208, 258, 288

Fabbriani Sciabra, Giuditta 463

Fabbroni, Angelo 296 Facchetti, Francesco 360-361, 391 Falchini, Geltrude 444 Fantoni, Giovanni 307 Fappani, Antonio 55 Farinelli, Carlo Broschi, detto 294 Fasano, Pino 50 Favier, Giovanni 444 Fe, capitano 422, 481 Federico I Barbarossa 62, 66 Federico I d’Austria 54 Felici, Lucio 62 Fellenberg, Emanuel 54 Fenini, Martino 512 Ferdinando d’Asburgo-Este 199, 252-253, 333, 380-381, 414, 435, 441, 444, 449, 455, 457458, 467

531

Ferrari, Gaudenzio 308 Ferrari, Severino 69, 344, 369 Ferrario, Bernardino 452 Ferreri, Rocco 497 Filangeri (Filangieri), Gaetano 22, 265 Filicaia (Filicaja), Vincenzo 256, 264 Filippo II 504 Fioroni, Giovanni Ambrogio 345, 370 Firmian, Carlo 14, 22, 39-41, 188, 198-200, 217, 248-249, 252, 266, 300-301, 319, 332-334, 348, 351, 355-356, 377, 379-380, 406, 409-410, 412, 414, 417-420, 423-424, 426-445, 447450, 452-456, 458, 461, 468, 471 Florent, parrucchiere 210, 384 Fogliazzi, Francesco 198, 248, 296, 407, 461 Fontana, Francesco 11, 296, 504 Fontana, Gregorio 317, 453 Fontanini, Giusto 294 Forlani, abate 444 Forni, Ambrogio 481 Forteguerri, Niccolò 264 Fortis, Leone 72 Foscarini, Marco 294 Foscolo, Ugo 17, 20, 28, 37-38, 54, 73, 219, 254256, 259, 280, 289, 308, 333, 368-369, 381, 389-390, 394-396, 412 Framery, Nicolas-Étienne 462 Franchi, Giuseppe 12, 33, 98, 106, 202, 213, 226, 322, 339, 361, 384, 394, 502, 506-507 Franci, Domenico 497 Francia, Enrico 61 Franklin, Benjamin (Beniamino) 450 Franzi, Sebastiano 187 Frapolli, Cesare 360-361, 505 Frare, Pierantonio 52 Frassi, Giovanni 25, 27 Frasso, Giuseppe 53, 70 Frati, Carlo 52, 71 Fréret, Nicolas 420 Frisi, Paolo 24, 187, 209, 234-235, 300, 349, 405407, 411, 423, 427, 433, 450, 483, 512 Frisiani, Carlo 481 Frizzi, Antonio 295 Fromond, Giovanni Francesco 450 Frugoni, Carlo Innocenzo 16, 19, 24, 58, 156, 182, 185, 198, 222, 248, 264, 296, 332, 413 Frullani, Emilio 26 Fumagalli, Giuseppe 46, 69 Fusinieri Ambrogio 504

G

abrielli, Caterina 345, 446, 462 Galbiati, Enrico Rodolfo 68 Galdi, Matteo 307, 495, 499 Galeazzi (Galleazzi), Giuseppe 39, 167, 188, 297, 409, 418, 423, 508 Galiani, Ferdinando 53, 55

532

indice dei nomi

Galilei, Galileo 239, 265, 296, 309 Gallarati, Carlo 453 Galli, Giuseppe Angelo 497 Galliari (Galiari), Bernardino 444 Galliari (Galiari), Fabrizio 444 Galuppi, Baldassarre 462-463 Gamba, Bartolomeo 52 Gambarelli, Agostino 19, 205, 210-211, 296, 316, 322, 384 Ganganelli, Giovanni Vincenzo Antonio (Clemente XIV) 14, 188, 198, 249, 266, 421, 424 Garavaglia, Giovita 20 Garibaldi, Giuseppe 65 Garrau (Garray), Pietro 359, 388, 489-490, 494-495, 526 Gavezzari, Benedetta 360-361 Gay, Romildo 59 Gelli, Giambattista 52 Gellio, Aulo 51 Gennari, Giuseppe 295 Genovesi, Antonio 265 Ghedini, Ferdinando Antonio 121 Gherardi, Pietro Ercole 295 Gherardini, Giovanni 58 Ghiglioni, Pietro 13 Ghiringhelli, Anna 463 Ghiron, Isaia 69 Giampieri, Giampiero 61 Gianni, Francesco 307 Giannone, Pietro 265 Giezzi, Agostino 498 Ginguené, Pierre-Louis 21, 222 Gioia (Gioja), Melchiorre 52, 307, 315, 359, 389, 496, 501 Giovenale, Decimo Giunio 86, 133, 241, 245246, 272 Giovio, Paolo 373 Giraldi Cinzio, Giambattista 197 Girard, Jean-Baptiste 54 Girelli Aguilar o Aguillar, Antonia Maria 444, 462 Giudici, Antonio 300 Giulini, Cesare 25, 288 Giulini, Giorgio 234, 407, 452 Giuseppe II d’Asburgo-Lorena 22, 40, 191, 200, 218, 253, 301, 308, 381, 454, 457-458, 519-520 Giuseppe Leopoldo 253 Giusti, Giuseppe 25-28, 30-31, 35-36, 45-46, 53, 56, 58-62, 261-262, 289, 324, 329, 351, 378, 380, 388, 397 Gluck, Christoph Willibald 462 Gnaccarini, Giulio 69 Gnoli, Domenico 377, 379

Godard, Luigi 452 Goethe (Gothe), Johann Wolfang 463 Goldoni, Carlo 197, 264, 297, 420 Gorani, Giuseppe 313, 483 Gori, Luigi 497-498, 501-502 Goudar, Luigi 452 Gozzi, Carlo 55, 297 Gozzi, Gasparo (Gaspare) 264, 296-297, 301 Gradenigo, Giovanni Agostino 295 Grandati, Giovanni Antonio 425-426 Grandi, Giulio Maria 151 Gravina, Gian Vincenzo 264 Grazioli, Pietro 293 Graziosi, Antonio 298 Gregorio Magno 56 Gregorio XIII 438 Grellet-Desprades, Joseph 36, 397 Greppi, Antonio 356 Greppi 481 Grillo Borromeo, Clelia 233 Griselini, Francesco 40, 349, 450 Gritti, Camillo 464 Grossi, Tommaso 23, 25-26, 60, 262, 266 Guarna, Silvio 498 Guerrazzi, Francesco Domenico 60 Guerrieri Gonzaga, Alfonso 27, 61 Guglielmi, Pietro Alessandro 462 Guglielmini, Vincenzo 57 Guicciardi, Diego 498-502 Guicciardini, Francesco 51 Guidi, Alessandro 256, 264 Guizot, François 57 Gutierrez del Hoyo (Guttierez), Caetano 195, 237, 452

Haller, “cittadino” 494 Hauteville, Joseph-François-Jerôme Perret conte di 478 Helvétius (Elvezio), Claude-Adrien 30 Henrion, Mathieu Richard Auguste 57 Herly, Maria 446 Heyse, Paul 36, 397 Hobhouse, John Cam 20-21, 222 Hoeufft, Enrico 65-66 Holbach, Paul Henri Dietrich barone di 30

Imbonati, Carlo 33, 65, 259, 340, 396, 415 Imbonati, Giuseppe Maria 101, 345, 371-372, 415-416, 452

Jenner, Edoardo 72 Johnson, Samuel 54

Kaunitz, Anton von 39-40, 300-301, 406, 412, 417, 424, 426-431, 433-439, 442-444, 448-450, 452-453, 460, 467, 509-512, 522

indice dei nomi Kewenüller (Kevenhüller), Emanuele 35, 201, 353, 381, 467, 522-523 Klotz, Christian Adolph 15 Knoller, Martin 67

L

a Fontaine, Jean de 174, 275 Lagrangia, Giuseppe Luigi 265, 453 La-Hire, Étienne de Vignolles, detto 244 Lamberti, Jacopo 317 Lamberti, Luigi 322, 504 Lambruschini, Raffaello 57 Lami, Giovanni 150, 243 Lampugnani, Cesare 512 Lampugnani, Francesco 432, 458 Lancellotti Birago, Gaspare 512 Landi, Eraclio 449 Landriani, Marsilio 244, 449 Langella, Giuseppe 52 Lattanzi, Carolina 307 Latuada, Felice 353, 480, 525 Le Monnier, Felice 25, 62 Lenclos (l’Enclos), Ninon de 174, 274 Leonardo (Lionardo) da Vinci 98, 201-202, 226, 309, 336, 383 Leopardi, Giacomo 17, 20, 38, 324, 369, 396 Leopoldo II d’Asburgo-Lorena (Leopoldo I di Toscana) 201, 253, 283, 318, 381, 458, 522 Levati, Ambrogio 13 Levis, Eugenio 295 Litta, cavaliere 449 Litta, famiglia 414 Locatelli, Jacopo (Giacomo) 212, 258, 318, 338, 360, 394, 504-505 Lodolini, Elio 76 Lombardi, Antonio 51 Loménie, Louis de 57 Longino, Dionisio 206 Longo (Longhi), Alfonso 187, 201, 237, 254, 294, 349, 357, 359, 389, 405-406, 423, 433434, 436, 483, 495-497, 499-501, 512 Longoni, Alberigo 446 Lorenzo da Brindisi, al secolo Giulio Cesare Russo o de Rossi 454 Lucano, Marco Anneo 475 Lucilio, Gaio 264, 271, 329 Lucini, Cesare Alberico 355 Luigi XIV 244 Luigi XV 244 Luigi XVI 254 Lumachi 449 Lupo Gentile, Michele 55

M

ably, Gabriel Bonnot de 254 Macchi 481 Machiavelli (Macchiavelli, Machiavello), Niccolò 14, 19, 209, 225, 239, 254, 268, 316, 385, 461

533

Machiavelli, Alessandro 294 Maderni, Giovanni 294 Maffei, Andrea 23 Maffei, Lorenzo 294 Maffei, Paolo Alessandro 295 Maffei, Scipione 197, 422 Magalotti, Lorenzo 51 Maggi, Carlo Maria 83, 100, 116, 196, 241-242, 266 Magistretti, Pietro 359, 389 Magri, Egidio de 56 Magrini, Pietro Paolo 481 Mainoni, Francesco Antonio 181, 407 Majoragio, Marcantonio 91 Malaspina, Carlo 445 Malatesta, Richino 417, 424 Malato, Enrico 11, Mammoli, Tito 34 Mandelli, Fortunato 295 Manfredi, Eustachio 121 Manfredi, Francesco Tommaso 407 Maniscalchi, Luigi 296 Mantegazza, Giacomo 70 Mantovani, Luigi 17-18 Manuzio, Aldo 235 Manzoli, Giovanni 444, 462 Manzoni, Alessandro 23, 25-26, 30-31, 33, 47, 49, 55, 58, 60, 62, 65, 69, 259, 289, 324, 339340, 370, 396, 415, 421-422, 464 Manzoni, Francesca 371 Manzoni, Francesco 370 Manzoni, Giovanni 317, 504 Marchesi, Luigi 395 Marchetti, Leopoldo 36, 38, 74 Marchi, Renato 49, 57 Marco da Oggiono 98 Marcora, Carlo 29, 63 Marelli, Giuseppe 181, 297 Maria Beatrice d’Este 16, 190-191, 199, 201, 252-253, 333-334, 381, 444-445, 452, 473 Maria Luisa d’Asburgo-Lorena 50 Maria Teresa d’Austria 18, 34-37, 40, 91, 114, 199-200, 218, 253, 266, 281, 333, 348-352, 380, 405-406, 423-424, 432-434, 437-438, 444, 448-453, 457, 519 Mariani, Carlo 66 Marino (Marini), Giambattista 226, 264 Marliani, famiglia 381 Marliani, Rocco 33, 202, 213, 219, 258, 321, 323, 339, 359, 391, 395, 504, 507 Marmier, Xavier 57 Maroncelli, Pietro 54 Martelli, Pier Jacopo 19, 197-198, 222, 377, 410, 421-422 Martin Polacco, 309 Martinelli, Bortolo 52 Martini, Ferdinando 27, 34

534

indice dei nomi

Martini, Giovanni Battista 294-295 Marzocchi, Alessio Simmaco 296 Mascheroni, Lorenzo 11, 265, 296, 321-322, 359, 383, 389, 453, 496-497, 499-502 Massa, 435 Massena, Andrea 479 Matoe, Camilla 462 Mattei, “cittadina” 307 Mazzocca, Fernando 53 Mauri, Achille 323, 397 Mazzoni, Guido 28, 60-61, 63, 69 Mazzuchelli (Mazzucchelli), Giammaria 54, 109, 126, 139, 150, 167, 243 Mecenate 132, 272-273 Meghele, Giuseppe 450 Meiners, Chistoph 250 Mellerio, Giovanni Battista 481 Melzi, Carlo 41, 441, 451, 513-514 Melzi, Francesco 212, 387 Menafoglio, Paolo Antonio 450 Mendelssohn (Mendelshon), Moses 24, 207, 250 Menzini, Benedetto 15, 112, 264, 271 Merlo, Giuseppe 482, 525 Metastasio, Pietro 16, 24, 52, 90, 156, 160, 199, 252, 264, 297, 444, 457 Micheli, Giuseppe 27 Miconi, Antonio 481 Middleton, Conyers 297 Milesi, medico 481 Millico, Giuseppe 462 Mineo, Nicolò 62 Mocchetti, Francesco 16 Molière 15, 149 Molina, abate 450, 495 Mongeri, Giuseppe 70 Montacuti, Torquato Barbolani 128 Montagu (Montegù), Mary Wortley 169 Montaigne, Michel de 25 Montanelli, Giuseppe 60 Montanari, Benassù 352, 383, 476 Montanari, Camilla 16 Montanari, Teresa 445 Montani, Giuseppe 55 Monteverde, Giulio 72 Monti, Gaetano 397, 507 Monti, Vincenzo 11, 17, 30, 38, 54, 203, 210, 218, 248, 254, 264, 281, 308, 322-324, 382, 386, 395-396, 507 Monza, Marco Antonio 344, 403 Morelli, Iacopo 295 Morgagni, Giovanni Battista 297 Morgana, Silvia 63 Moriggia, Giovanni Battista 450 Morin, C. M. 480 Morsolin, Bernardo 464 Moscati, Pietro 313, 359, 416, 497-498, 504, 512

Mosconi, Elisabetta 352 Mozart, Wolfang Amedeus (Amadeo Volfango) 252, 380, 444 Mozzoni, Ottavio 482, 485, 491, 526 Multoni, caporale 504 Munarini, Giovanni Battista 479 Muoni, Damiano 356, 440, 452, 459, 472 Murat, Gioacchino 51 Muratori, Ludovico Antonio 265, 294-295, 371 Muscetta, Carlo 62 Mussi, Antonio 211, 383 Mussi, Teresa 35, 298, 353, 446 Mutinelli, Giambattista 15

Nava Francesco 504, 506

Negri, Giovanni 425 Nelli, Pietro 271 Nember, Giuseppe 295 Nencioni, Giovanni 28, 62 Nerone, imperatore 143 Nessi, Giuseppe 453 Newton, Isaac 296 Niccolini, Giovan-Battista 265 Nicoletti, Giuseppe 21 Nicoli, Carlo 482, 493, 525 Nicolini, Giuseppe 55 Nobili, Ginevra de’ 345, 404 Noghera, Giambattista 167, 191, 373 Novajara, Ada 55 Novati, Francesco 35-36, 52, 71

Odescalchi, Antonio 441, 449

Oliva 495 Omero 64, 94, 132, 136-137, 178, 206, 208, 225, 236, 276 Orazio Flacco, Quinto, 19, 84-85, 87, 89-90, 92, 94-95, 102, 109, 122-123, 132, 155, 170, 178-179, 181-182, 185-186, 195, 203-209, 219, 234-236, 241, 245, 247, 249, 257, 260, 264, 272-273, 319, 329-330, 394, 466 Oriani, Barnaba 12, 33, 106, 213, 219, 265, 303, 311, 322, 339, 361-362, 394, 396, 495, 502-504, 506-507 Ossola, Carlo 63 Ottaviano (Ottavio) Augusto 119, 170, 245, 273, 427 Ottolini, Alessandro 481 Ovidio Nasone, Publio 242, 427

Pagani, Giovanni Battista 47

Paglia, Enrico 422 Paglizzi Brozzi, Antonio 414, 463 Pagnini, Giuseppe Maria 100 Pagnoni, Paolo 56 Palladio, Andrea 202 Pallavicino, famiglia 414

indice dei nomi Palma il Giovane, Giacomo Negretti, detto 226 Palmieri, Vincenzo 453 Panajia, Alessandro 61 Pancaldi, Francesco 477 Pancrazi, Pietro 61 Panfilo di Anfipoli 225 Paoli, Pasquale 479 Papafava, Gian Roberto 295 Paradisi, Giovanni 212, 310, 313, 504 Parea, Annibale 461 Pariati, Pietro 296 Paradiso, Ippolito del 295 Parea, Carlo 359, 480 Parini, Angela 343 Parini, Anna Maria, vedova Latuada (Lattuada) 343-345, 353-354, 366, 403-404 Parini, Antonio 343 Parini, Bernardo 343 Parini, Caterina 343, 403 Parini, Francesco Maria 14, 179, 293, 329, 343344, 353-354, 403-404 Parini, Giovanni Battista 343 Parini, Giulio 343, 403 Parini, Giuseppe, zio 343 Parini, Laura 343, 353, 403 Parisi, Giovanni 317 Parravicini, A. 498, 501 Parravicini, Giovanni Antonio 481 Pascoli, Giovanni 69 Passeroni, Gian Carlo (Giancarlo) 12, 48, 69, 83, 92, 101-102, 142, 195, 198, 210, 226-227, 235, 237, 247, 251, 281, 294, 296-297, 299, 316, 320, 330, 347, 355, 371-372, 377, 382, 385, 389, 411, 417, 454, 457-458 Patelano 481 Patrauld 480 Patrini, Guglielmo 512 Pavesi, Angelo 482, 494 Pavesi, Francesco 30-31, 33, 45-46, 63-65, 66, 327, 525-526 Pecchio, Giuseppe 54 Pecci, Nicola 200, 253, 334, 427, 439, 514 Pecis, Giuseppe 423, 427, 452 Pedrazzini, “cittadino” 495 Pelagatti, Cesare 480, 484, 493, 496, 526 Pellegrini, Antonio 448 Perego, Gaetano 461 Perego, Luigi 481 Peri, Giuseppe 346-347, 375 Pericle 132 Persio Flacco, Aulo 133, 245-246, 272 Pertusati, Carlo 371 Pertusati, Francesco 481, 513 Pertusati, Luca 435, 469-470 Pestalozzi, Johann Heinrich 54 Petracchi, Angelo 307

535

Petrarca, Francesco 33, 54, 84, 90, 141, 155, 178, 181, 186, 195, 200, 208, 217, 226, 249, 254, 256, 270, 309, 340, 397, 446 Petroboni Cancarini, Margherita 53, 55 Petronio 15, 103, 109, 143-147, 149, 151 Pezzoli, Giuseppe 481 Phlips, Ambrose 152 Piccinni (Piccini), Niccolò 462 Picciola, Giuseppe 69 Picciotti, Francesco 482 Pico della Mirandola, Giovanni 233 Pieri, Mario 319 Piermarini, Giuseppe 318 Pietro di Russia 253 Pindaro 90, 132, 186, 200, 208, 324, 396 Pindemonte, Giovanni 496, 502 Pindemonte (Pindemonti), Ippolito 54, 280, 296-297, 313, 319, 333, 352, 383, 476 Pini, Ermenegildo 350 Pinsot, commissario 489-491 Pio VI 441, 468 Pioltini, Giuseppe 480, 495, 503, 526 Piombanti, Giulio 407 Piron, Alexis 15, 149 Pitagora 324 Pizzi, Gioacchino (Nivildo Amarinzio) 451 Platen, Auguste von 36, 397 Platone 64, 207, 237, 296 Plinio il Vecchio 83, 180 Plutarco 202, 258, 286, 288, 316, 359, 391, 409, 504 Poggi, Giuseppe 307, 310, 495 Pogliani, Francesco 128 Poli, abate 307 Polignoto di Taso 225 Pomponio Attico 304 Ponte, Giacomo 295 Pope, Alexander 12, 15, 19, 112, 149, 152, 203-204 Poretti, Ferdinando 235 Porfirio 241 Porpora, Selvaggio, vd. Bentivoglio, Cornelio Porro, Gaetano 309, 480-481, 485, 490, 493 Porro Lambertenghi, Luigi 54, 187, 425 Porta, Carlo 266, 324 Porta, professore 427 Pozzetti, Pompilio 13, 17, 19, 31, 45, 49-51, 109, 111, 123, 125, 132, 137, 140, 143, 150, 166, 168169, 173, 178-179, 187, 236, 241, 322, 352, 373, 419, 421, 457, 474 Pozzi,Giuseppe 407 Pozzobonelli, Giuseppe 456 Pozzone, Giuseppe 56-57 Prandina, Carlo 482 Pratesi, custode della Società Patriotica 477 Priora, Antonio 426 Procaccini, Giulio Cesare 308

536

indice dei nomi

Proietti, Domenico 61 Protti, Anton Maria 446 Publilio (Publio) Siro 147 Pulci, Luigi 240 Pulli, Pietro 463 Puricelli, Francesco 371 Pusterla, Ottavio 482

Quadrio, Francesco Saverio 422, 452 Quadrupani, Carlo Giuseppe 48 Quintiliano, Marco Fabio 87, 271

R

abbi, Costanzo 295 Raccagni, Giuseppe 452, 460 Radtke, Edgar 59 Raffaello Sanzio 226, 308-309 Ragazzi, Ruggero 359, 389, 496 Rainoni, Paolo Romolo 425 Rambelli, Gian Francesco 50 Ranza, Giovanni Antonio 307 Rasori, Giovanni 17, 498-499 Reale, Michele 482, 525 Reboul, H. 480 Recalcati, marchese 449 Redi, Francesco 264 Reggio, Francesco 504 Reina, Francesco 13, 17-22, 25, 30, 32, 34-35, 37-38, 49-52, 87, 108, 125, 191, 193, 218-219, 222, 225, 250, 253-254, 259, 265-266, 323, 332, 345, 348, 351, 353, 357, 359, 365, 367-368, 373-375, 377, 379-381, 383-387, 389, 391, 393394, 396, 404, 421-422, 433, 450, 461, 467, 471, 473, 476-478, 484 Repossi, Cesare 23, 59, 71 Resta, conte 449 Resta, famiglia 414 Resta, Giuseppe 481 Reycend (Raissant), Giacomo 39, 41, 420 Rezia, Giacomo 453 Riccardi, Donnino 356 Riccola, Antonio 404 Richelieu, Armand-Jean du Plessis de 244 Richemond (Richemonde), Arthur de 244 Ridolfi, Cosimo 60 Rigola, Antonio 345 Ripamonti, Giuseppe 345 Riviera, conti della 14, 202, 218, 321, 381 Robecchi, Giuseppe 507 Roberti, Giovanni Battista 248, 294 Rodella, Giovan Battista 295 Rogendorf, Gaetano 448 Roggia, Carlo Enrico 61 Rolli, Paolo 157 Romussi, Carlo 27 Ronto, Matteo 128 Rosa, Salvatore 15, 112, 271, 308 Rosales, Giuseppe 306

Rosmini, Carlo 11 Rossari, Luigi 25, 262 Rossi, Pellegrino 54 Rossini, Gioacchino 426 Rottigni, Marco 448 Rousseau, Jean-Jacques (Gio. Giacomo) 142, 266, 302, 478 Rovani, Giuseppe 23, 28, 59 Rovero, Cristoforo conte di 295 Roviglio, Natale 497 Rucellai, Giovanni 85 Ruga, Sigismondo 482

Sabbatucci, Nunzio 61

Sacchi, Defendente 13 Sacchi, Giovenale 452, 491 Sacchini, Antonio 202, 205, 270, 352, 462-463 Saffo 162 Sajanelli, Giambattista 295 Salandri, Pellegrino 195, 410, 422 Salfi, Francesco Saverio 307 Saliceti (Saliceto), Antoine Christophe 201, 306, 357, 359, 388, 480-482, 484-486, 489491, 493-495, 524, 526 Salinas, Gennaro 294 Saluzzo di Roero, Diodata (Adeodata) 17, 203, 383 Salvador, Carlo 479, 481 Salveraglio, Filippo 26, 33-37, 41-42, 45-46, 51, 66-71, 75, 341, 366, 368-370, 373, 375-377, 379-381, 384-386, 388-389, 393-394, 397, 403, 424, 441, 494 Salviati, Leonardo 225 Salvini, Anton Maria 295 Sammartini (San Martino), Giovanni Battista 346, 376 Sangiorgio, “cittadina” 307 Sangiorgio, Paolo 359, 450, 495 Sangiuliani, Stefano 481 Sannazaro, Jacopo 185 Sapegno, Natalino 62 Sarti, Telesforo 69 Sassi, Giuseppe Antonio 295, 371 Saurau, Franz Joseph 453 Savioni, Pietro 15 Scalvini, Giovita 54 Scarpa, Antonio 311 Schedoni (Schidone), Bartolomeo 226 Scherillo, Michele 39, 41 Schlegel, Friedrich 24, 250 Schreck, Giuseppe 448 Scott, Walter 54 Scotti, Carlo 481 Scotti, Cosimo Galeazzo 11-14, 45, 47-48, 49, 79, 179, 321, 380, 383 Scotti, Gian-Battista 211 Secchi, Luigi 507

indice dei nomi Secchi, Pietro 187 Secco Comneno (Secchi), Pier Francesco 349, 447-450 Seghezzi, Anton Federigo 296 Segneri, Paolo 100, 166-167, 196, 239, 268, 330, 346, 374, 409 Sémonville, Charles-Louis Huguet de 479 Seneci, Laura 55 Senocrate 247 Serbelloni, Alessandro 373 Serbelloni, conte 372, 402 Serbelloni, famiglia 196, 238, 301, 373, 403404, 414 Serbelloni, Gabrio 34, 345, 373, 404, 449-450 Serbelloni, Giovanni Galeazzo 313, 346, 353, 358, 447, 480-481, 483, 487, 493, 524-525 Serbelloni Ottoboni, Maria Vittoria 18, 3435, 197, 245, 319, 345, 347, 353, 373, 376 Sergardi, Ludovico 295 Sergent, Antoine François (Sergent-Marceau) 20 Sertor, Gaetano 497 Sertori, 496, 497 Settembrini, Luigi 61 Sfondrati, conti 373 Sforza Pallavicino (Pallavicini), Pietro 166 Shakespeare, William 206 Signorini da Mulazzo, Pompeo 467, 470 Sigonio, Carlo 294 Silla, Lucio Cornelio 314, 390 Silva, Antonio 427, 433, 458, 512 Silva, Giovanni 497-498 Silvestri, Giovanni 53 Simonetta, famiglia 414 Sirtori, Giuseppe 73 Sismondi, Jean-Charles Léonard Simonde de 21, 54-55, 222 Soave, Francesco 48, 442, 460-461 Socrate 210, 237, 308 Sofocle 100, 105, 117, 141, 208, 286 Sola, Andrea 66 Soldani, Iacopo 15, 112, 271 Solerti, Angelo 70 Solzi, Adamo 444 Sommariva, Giovanni Battista 309, 313, 480, 491, 493, 497-498, 526 Sommariva, Giuseppe 485 Soncini Stampa Massimiliano 481 Sopransi, Fedele 480, 483-484, 493, 526 Soranzo, Tommaso 372 Sorbelli, Albano 52, 71 Soresi, Pier Domenico 166, 196, 239, 346, 374, 407, 409, 444 Soriga, Renato 71 Sormani, Niccolò 456 Sormani Andreani, famiglia 345 Spaggiari, William 17, 20, 52

537

Spallanzani, Lazzaro 51, 265, 450, 453 Speranza, Domenico 202, 210, 383 Speroni degli Alvarotti, Arnaldo 295 Spinelli, Alessandro Giuseppe 61, 345, 368, 372-373 Spolverini, Giambattista 153-154, 296 Squadrelli, “cittadino” 495 Stampa, Giammaria 294 Staurenghi, Antonio 64 Stazio, Publio Papinio 153, 296 Stein, Heinrich Friedrich Karl 476 Stella, Antonio Fortunato 20 Stendhal (Marie-Henri Beyle), 52 Sterne, Laurence 297 Stoppani, Antonio 340 Strambio (Strambi), Gaetano 202, 258, 318, 338, 359, 504 Sueri, “cittadino” 307 Sulzer, Johann Georg 24, 207, 250 Surra, Giacomo 27, 61 Swift (Swifft), Jonathan 15, 149

Tadini, Antonio 498

Tambroni, Giuseppe 307 Tamburini, Pietro 51, 453 Tanzi, Carl’Antonio (Carlantonio) 16, 151, 181-182, 195-196, 206, 237, 240, 266, 322, 347, 371, 375, 409-410, 452 Tanzi, Giuseppe 450 Tasso, Bernardo 170, 200 Tasso, Torquato 88, 116, 128, 137, 178, 186, 208, 240 Taverna, Costanzo 353, 481 Tenca, Carlo 59 Terani, Guido 452 Terenzio 34, 227 Testi, Fulvio 73 Thomson, James 152 Tibaldi (Tebaldi), Giuseppe 444, 462 Ticozzi, Stefano 13 Tillot, Guillaume du 422, 435 Timante 225 Tintoretto, Jacopo Robusti, detto il 225 Tiraboschi, Girolamo 51, 295 Tirabosco, Antonio 296 Tissot, Augusto Andrea 453 Tiziano Vecellio 226, 308 Tommaso d’Aquino 409 Tonti, Vito 369, 383, 389, 397 Tordorò, Giovanni 481-482, 525 Torelli, Giuseppe 248, 296 Tornielli, Girolamo 185 Torti, Giovanni 17, 25, 31, 60, 211, 259, 262, 280, 286, 319, 321, 331-332, 340, 377, 381-382, 389 Torti, Giuseppe 463 Tranfaglia, Nicola 74 Trasea Peto, Publio Clodio 272

538

indice dei nomi

Travi, Ernesto 29, 63 Treccani degli Alfieri, Giovanni 55 Trenta, Matteo 25 Trieste, conte canonico 295 Triulzi, Giorgio Teodoro 481 Trivulzio, Gian Giacomo 11, 17 Trombatore, Gaetano 61 Tron, Cecilia 446, 458, 463 Trouvé, Claude Joseph 52 Tucidide 241 Tura, Antonio 463 Turchi, Roberta 13 Tursellino (Turselino), Orazio 235, 367

Ugoni, Camillo 21-22, 25, 36, 45, 53-55, 215, 368-369, 377-378, 380, 383, 394 Ugoni, Filippo 53-55

V

alcamonica Stefano 425 Valcarenghi, Paolo 427 Valeriani, Lodovico 307 Valle, abate 307 Valmaggi, Luigi 76 Valvasense, Pietro 167 Vambianchi, Carlo 434 Vandoni, Francesco 482 Vandoni, Pietro 481 Vannetti, Clementino 296, 353 Vannucci, Atto 60, 273 Varano, Alfonso 52, 264 Varchi, Benedetto 56 Vasari, Giorgio 202, 225 Vecchi, Angelo 212, 360, 384, 505 Venous, “cittadino” 312, 357, 485 Venturi, Giovanni Antonio 73 Verci, Giambattista 295 Vergani, Paolo 300 Verri, Alessandro 22, 54, 71, 187, 235, 313, 353, 378, 386, 388, 415-416, 418-419, 423, 450, 495 Verri, Pietro 22, 24, 35, 51, 53, 71, 187-188, 197, 209, 212, 234-235, 244, 265, 286, 294, 296, 299, 304-305, 312, 319, 323, 335, 343, 345-346, 349, 352-353, 359, 366, 373-374, 378-379, 385386, 388, 396, 405-407, 411-412, 414-416, 418-420, 423, 432, 447, 449-450, 457-458, 460, 480, 483, 489, 493, 495, 526 Vianova, Sebastiano 426 Vico, Giambattista 239, 265 Vieusseux, Giovan Pietro 55, 60 Viganò, Giovanni Battista 63 Viglezzi, Giacomo Antonio 345 Vigna, Fortunato 295 Villa, “galantuomo” 323, 396 Villa, Giovanni 501 Villa, Teodoro 101, 191, 195, 237, 240, 301, 417, 429-431, 442, 453 Villeneuve (Villeneue), Pierre Charles Sylvestre de 244

Villi, Andrea 197 Vimercati, Giovanni Antonio 360-361, 502503 Virgilio Marone, Publio 85, 89, 94, 132, 136137, 178, 180, 196, 204, 208, 217, 223, 234236, 276, 309, 427 Visconti, Antonio 481 Visconti-Borromeo-Arese, famiglia 414 Visconti, Filippo 487 Visconti, Francesco 309, 313, 358, 480-481, 483, 485, 488, 491, 493, 525 Visconti, Gaspare 83 Visconti, Giovanni Galeazzo 427 Visconti, Giovanni Maria 427 Visconti, Giuseppe 187, 432 Visconti, Nicolò 407, 512 Vismara, Antonio 72-73 Vismara, Carlo 46, 63 Vismara, Michele 358, 482-484, 487, 493, 526 Vittorio Emanuele di Savoia 473 Volney, Constantin François 310 Volta, Alessandro 453 Voltaire 14, 41, 142, 174, 188, 199, 249, 266, 274, 302, 313, 382, 415, 420

W

attenhoffer, Giovanni Battista 502 Wilzek (Wilzeck), Johann Joseph 19, 199, 259, 348, 379, 421, 423, 445, 453, 456, 460, 465, 467-469, 471, 474, 478-479 Wirtz, Pier Antonio 416-418 Witman, Fulgenzio 453

Xaintrailles (Saintrailles), Jean Poton de 244

Yguarra, Niccolò 296 Zaccaria, Federigo Guglielmo 125

Zaccaria, Francesco Antonio 295, 344 Zaccaria, Pasquale 426 Zajotti, Paride 13 Zambelli, Pietro 55 Zanella, Giacomo 378 Zanichelli, Nicola 67-71 Zanni, Domenico 128 Zanoia (Zanoja), Giuseppe 381, 391, 396 Zanoli, Paola 18 Zanotti, Francesco Maria 52, 126 Zappi, Giovan Battista Felice 264 Zeno, Apostolo 294, 296 Zingarelli, Nicola 496-497 Zola, Giuseppe 453 Zonca, Giambattista 462 Zoncada, Antonio 23-24, 26, 35, 46, 53, 55-59, 229, 351, 380 Zuccari, Federico 226 Zuccari, Taddeo 226

comp osto i n c a r att e re se rr a da nte da lla fa bri z i o se rr a e d i to re, p i sa · ro m a . sta m pato e ri l e gato n e l la t i p o g r a f i a d i ag na n o, ag na n o p i sano (pisa ).

* Marzo 2017 (cz 2 · fg 21)

ED I Z I O N E NA Z I O NALE DEL L E O P E RE D I G I US E P PE PARIN I Istituita dal Ministero per i Beni e le Attività Culturali (D. M. 2 giugno 1999)

d iretta da g io rg io ba roni Giuseppe Parini, Alcune poesie di Ripano Eupilino, a cura di Maria Cristina Albonico, introduzione di Anna Bellio, presentazione di Giorgio Baroni, 2011, pp. 280. Giuseppe Parini, Prose. Scritti polemici (1756-1760), a cura di Silvia Morgana e Paolo Bartesaghi, introduzione di Silvia Morgana e Paolo Bartesaghi, 2012, pp. 420. Giuseppe Parini, Lettere, a cura di Corrado Viola, con la collaborazione di Paolo Bartesaghi e Giovanni Catalani, 2013, pp. 256. Giuseppe Parini, Odi, a cura di Mirella d’Ettorre, introduzione di Giorgio Baroni, 2013, pp. 288. Giuseppe Parini, Il Mattino (1763); Il Mezzogiorno (1765), a cura di Giovanni Biancardi, introduzione di Edoardo Esposito, commento di Stefano Ballerio, 2013, pp. 316. Giuseppe Parini, La Colombiade; Le poesie in dialetto; Gli scherzi, a cura di Stefania Baragetti, Maria Cristina Albonico e Giovanni Biancardi, introduzioni di Stefania Baragetti, Davide De Camilli e Giovanni Biancardi, presentazione di Giorgio Baroni, 2015, pp. 192. Giuseppe Parini, Soggetti per artisti, a cura di Paolo Bartesaghi e Pietro Frassica, introduzione di Pietro Frassica, 2016, pp. 208. Biografie ottocentesche di Giuseppe Parini, a cura di Marco Ballarini e Paolo Bartesaghi, 2016, pp. 544.