Aut Aut 353/2012. Il coraggio della filosofia [Vol. 353] 8842817600, 9788842817604

Fondata a Milano da Enzo Paci nel gennaio 1951, "aut aut" rivista filosofica, ha avuto subito un respiro inter

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Aut Aut 353/2012. Il coraggio della filosofia [Vol. 353]
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353 gennaio marzo 2012

Il coraggio della filosofia Premessa

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MATERIALI Pier Aldo Rovatti Il coraggio della filosofia 11

Rosella Prezzo Su “aut aut” e il fare filosofia. Ripensare l’“essere-al-mondo” 21 Alessandro Dal Lago Coraggio? Fabio Polidori Tirare dritto 27 Graziella Berto La responsabilità della scrittura 32 Antonello Sciacchitano A partire da “aut aut” 38 Edoardo Greblo Il plurilinguismo della filosofia 40 Giovanni Leghissa La morte del trascendentale 47 Davide Zoletto Una rivista “di servizio” Raoul Kirchmayr Vegliare, da capo 52 Giovanni Scibilia Fare “vuoto” per poter pensare Paulo Barone Organizzare il disorientamento 58 Silvana Borutti Che cos’è il sapere, oggi? 84 Damiano Cantone Resistere alla barbarie e 89 rispondere alla paure Ilaria Papandrea La studentessa 103 Mario Colucci La curiosità dello psichiatra 112 Massimiliano Nicoli Il coraggio di un mestiere 126 impossibile Massimiliano Roveretto Una vocazione 140 all’inattualità Pier Aldo Rovatti Pudore, pazienza (e dunque ascolto) 151

INTERVENTI Pierangelo Di Vittorio Carismi del reale. L’opera 169 d’arte nell’epoca del marketing e dello spettacolo Lorenzo Chiesa Umano, inumano e umanesimo 188 nella “Critica della ragion dialettica” Evelyne Grossman Non c’è metalinguaggio: Lacan e Beckett Antonio Prete Poesia d’amore e cosmologia

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rivista fondata da Enzo Paci nel 1951 direttore responsabile: Pier Aldo Rovatti redazione: Sergia Adamo, Paulo Barone, Graziella Berto, Deborah Borca (editing, [email protected]), Silvana Borutti, Damiano Cantone, Mario Colucci, Alessandro Dal Lago, Rocco De Biasi, Giovanna Gallio, Edoardo Greblo, Raoul Kirchmayr, Giovanni Leghissa, Anna Maria Morazzoni (coordinamento, tel. 02 70102683), Ilaria Papandrea, Fabio Polidori, Rosella Prezzo, Pier Aldo Rovatti, Antonello Sciacchitano, Giovanni Scibilia, Davide Zoletto direzione: c/o il Saggiatore, via Melzo 9, 20129 Milano collaborano tra gli altri ad “aut aut”: G. Agamben, H.-D. Bahr, R. Bodei, L. Boella, J. Butler, M. Cacciari, A. Cavarero, G. Dorfles, M. Ferraris, U. Galimberti, P. Gambazzi, S. Givone, A. Heller, F. Jullien, J.-L. Nancy, A. Prete, M. Serres, G.C. Spivak, G. Vattimo, M. Vegetti, P. Veyne, V. Vitiello, S. Žižek per proposte di pubblicazione: [email protected] Si fa presente che “aut aut” non pubblica recensioni e non accetta testi di ampiezza superiore a 40.000 battute (note e spazi compresi).

il Saggiatore S.p.A. via Melzo 9, 20129 Milano www.saggiatore.it ufficio stampa: [email protected] abbonamento 2012: Italia € 60,00, estero € 76,00 L’Editore ha affidato a Picomax s.r.l. la gestione degli abbonamenti della rivista “aut aut”. L’Editore garantisce la massima riservatezza dei dati forniti dagli abbonati e la possibilità di richiedere gratuitamente la rettifica o la cancellazione scrivendo a: Picomax s.r.l. responsabile dati, viale Sondrio 7, 20124 Milano (ai sensi della L. 675/96). servizio abbonamenti e fascicoli arretrati: Picomax s.r.l., viale Sondrio 7, 20124 Milano telefono: 02 77428040 fax: 02 76340836 e-mail: [email protected] www.picomax.it Registrazione del Tribunale di Milano n. 2232 in data 13.1.1951 Proprietà: Francesca Romana Paci Stampa: Lego S.p.A., Lavis (TN) Spedizione in abbonamento postale 45% art. 1, comma 1, decreto legge 353/03 convertito in legge 46/04 – Filiale di Milano. Finito di stampare nel dicembre 2011

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Premessa

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l coraggio della filosofia è il titolo che abbiamo scelto per il volume antologico sui sessant’anni di “aut aut” (appena pubblicato dal Saggiatore). Questo fascicolo ne è la prosecuzione in chiave di bilancio critico e di programmi futuri: una prosecuzione nella quale, attraverso brevi interventi, tutte le voci che compongono l’attuale redazione della rivista sono state chiamate a esprimersi, con il massimo di chiarezza e non senza toni autocritici, sul destino di quello speciale lavoro filosofico che “aut aut” è andato costruendo fino a oggi. Da questi interventi il lettore avrà anche modo di farsi un’idea più precisa della pluralità e delle differenze di tali voci, e di ciò che comunque le lega in un impegno culturale comune.

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Materiali

Riproduciamo qui l’introduzione storico-critica al volume Il coraggio della filosofia. aut aut, 1951-2011 (a cura di Pier Aldo Rovatti, il Saggiatore, Milano 2011).

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Il coraggio della filosofia PIER ALDO ROVATTI

i ha sempre colpito che sul breve editoriale del primo fascicolo di “aut aut” (gennaio 1951) Enzo Paci insistesse soprattutto sulla parola barbarie, declinandola in un modo molto preciso: questa “barbarie” veniva da lui intesa filosoficamente come l’assolutismo nel pensiero, ogni forma di simile assolutismo. Così, la piccola rivista messa in piedi in maniera del tutto artigianale nella casa di un professore di filosofia, a Milano, quando ancora gli effetti della guerra si facevano sentire e continuava a soffiare il vento maligno del ventennio fascista (e l’Italia era un paese in ginocchio che cercava le forze per rialzarsi affidandosi all’eredità esaltante ma anche tormentata della Resistenza), sceglieva la battaglia culturale contro la malattia di quel totalitarismo delle menti che era pur sempre capace di soffocare e uccidere le idee. Una battaglia di civiltà, impugnando le armi della critica, appunto una critica radicale conto tale barbarie che aveva bloccato i cervelli e avrebbe potuto seguitare a paralizzarli anche in tempi di democrazia. Dobbiamo considerare con attenzione questo inizio per comprendere tutto il resto. Sessant’anni, dal 1951 a oggi, sono un’enormità: fiumi di acque diverse sono passati sotto i ponti e molti altri ponti, allora impensabili, sono stati costruiti. È perfino cambiata l’antropologia degli abitatori del nostro occidente, trasformazioni nette, epocali, e non sempre dotate di un segno positivo, basta pensare a cosa sarebbe accaduto nel mondo della comuni-

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cazione, messo letteralmente a soqquadro dalle nuove tecnologie. Eppure, quel programma di battaglia filosofica contro l’astrattezza e la violenza dei pregiudizi, delle Idee con la “i” maiuscola, e di tutti gli “ismi” che hanno continuato a proliferare, resta attuale. Non solo è sopravissuto nei tanti decenni trascorsi e nelle migliaia e migliaia di pagine pubblicate dalla rivista, ma sembra adesso ancora più vivo e urgente, e inoltre assai meno facile da realizzare. Un messaggio nella bottiglia nell’epoca di Internet e del mondo globalizzato? Esitiamo un momento, per favore, prima di sorridere. E, perdipiù, un messaggio affidato alla filosofia, cioè al più disarmato dei saperi, quello più esposto all’inerzia della sua vicenda disciplinare, quello più compromesso con l’università e insieme il più emarginato in essa. Sembra un paradosso, appunto, ma lo era fin dall’inizio, e Paci lo sapeva perfettamente. E se nel 1951 era già una maniera alquanto eretica, e all’apparenza impropria, per avviare una battaglia “politica” (come chiamarla diversamente?) nella cultura polarizzata e divisa in due di quegli anni, nel 2011 l’operazione è diventata molto più difficile perché le parole si sono ulteriormente usurate, a cominciare dalla parola stessa “filosofia”. Paci voleva re-inventarla contro ogni piattezza accademica e disciplinare: per farlo doveva isolarsi dall’establishment, cercare di non farsi risucchiare neppure dal conformismo di quella sinistra sulla cui strada pure decisamente si metteva. Ma isolarsi, e lanciare così i suoi messaggi contro la barbarie del pensiero, significava anche per la rivista rompere le strettoie di un dibattito troppo locale immettere nelle sue pagine una quantità di aperture, tentare di sfondare recinti e forzare incasellamenti. Barbarie era, per Paci, anche quest’aria di luoghi chiusi senza alcun respiro internazionale, bloccati nella propria disciplinarità. Re-inventare la filosofia voleva dire farla diventare uno strumento efficace per abbattere paratie e aprire linee di fuga. Significava scombussolare l’ordine dei saperi, il loro gioco fasullo di gerarchie e privilegi. I tempi erano favorevoli, indubbiamente, anche dentro l’università stessa, ma era chiaro che questa idea di fi6

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losofia mirava alla “città”, a una comunità vivente di pratiche culturali che avrebbero potuto respirare assieme. Poco più tardi, la fenomenologia presterà a Paci e ad “aut aut” alcune parole adatte, intersoggettività soprattutto, da intendersi come una possibile comunità vivente di soggetti (ma “aut aut” non sarebbe mai diventata una rivista di scuola fenomenologica). Se guardiamo a tutta la vicenda di “aut aut”, c’è allora da evidenziare, in primo luogo, una singolare e stupefacente continuità che si presenta (come il lettore di questo libro potrà constatare dallo squarcio antologico che gli proponiamo) non come una ripetizione di temi o di linguaggi, e neanche di riferimenti filosofici in senso stretto, ma soprattutto come una responsabilità critica del pensiero. La battaglia contro la barbarie – intesa nel modo che ho appena ricordato – rimane il compito di “aut aut” e scavalca i decenni: attraversa quelli che ho chiamato “gli anni della fenomenologia”, si impianta nello sconvolgimento del ’68, percorre il decennio dei Settanta lanciando la questione dei “bisogni” come grimaldello per entrare nelle lotte sociali e al tempo stesso per mantenere una distanza critica dentro di esse, e alle soglie del decennio successivo – quando si profila il lungo e difficile tornante storico che si prolunga fino al nostro presente, rimescolando tutte le carte – abbassa programmaticamente lo sguardo criticando le proprie pretese, e apre una specie di laboratorio, una fabbrica di strumenti di riflessione utili per dare nuova concretezza a un coraggio di pensare che sembrava essere stato ricacciato indietro al suo grado zero. Così i decenni successivi, dagli anni ottanta fino a oggi, che avrebbero potuto essere per la rivista decenni di povertà e di crisi, sono risultati decenni di possibile ricchezza attraverso il sondaggio di campi diversi (un esempio, la psicanalisi), stabilendo un rapporto intenso e virtuoso con esperienze interculturali come quelle di Michel Foucault, Jacques Derrida e Gilles Deleuze (pars pro toto, poiché gli scambi sono stati moltissimi), e in questo modo ricalibrando il ruolo critico della rivista stessa che si era ormai completamente trasformata dalla rivista di Enzo Paci a una rivista caratterizzata da un lavoro collettivo e plurale. 7

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Tante cose sono cambiate: persone, modi di lavorare, lettori, esigenze culturali. E in ciascuna delle nostre riunioni milanesi, la domenica pomeriggio, e nelle discussioni che facciamo a Trieste e altrove, cerchiamo ogni volta di capire cosa è oggi “aut aut”, avvertendo che questo “qualche cosa” rischia ogni volta di sfuggirci trascinato via da una realtà mediatica onnivora e velocissima, mentre noi siamo lenti e piuttosto ritrosi nei confronti di ogni bulimia intellettuale. Ma non è vero che tutto è cambiato. La barbarie, là fuori, e magari anche dentro le nostre teste, non è certo scomparsa: anzi, si è intensificata, moltiplicata, è diventata insieme più violenta e meno appariscente, più velenosa. Già solo intercettarla esige un impegno critico sempre meno agevole e un coraggio analitico che potrebbe apparire semplice dispendio, un gesto assai poco “economico” in tempi nei quali il lavoro culturale è sempre più esposto alla propria precarietà. Come negare che esiste oggi un fortissimo bisogno di riattivare la battaglia critica e di rivolgerla proprio là dove la maggioranza degli operatori intellettuali cerca ancoraggi sicuri in qualche variante ontologica tra filosofia e scienza e infine in qualche assunto di verità inattaccabile (e magari produttivo di commesse)? Questa continuità si distende su un segmento storico imponente, scosso da profondi terremoti ideologici e da tsunami nichilistici che hanno tante volte sospinto la filosofia vicino al margine della sua implosione (alla “morte” già in passato annunciata sono seguite molte mortificazioni effettive) e comunque alla necessità di rivolgersi domande radicali sulla propria identità e perfino sul proprio diritto a esistere come filosofia. Tuttavia essa – questa continuità che sto evidenziando come il filo rosso della storia lunghissima di “aut aut” – non è fatta solo di un esercizio etico, di un gesto critico e politico, di un lavoro culturale non disposto a cedere sulla propria responsabilità e che quindi sa che senza riattivare ogni volta il coraggio della battaglia contro l’irrigidimento delle verità non avrebbe più alcuna ragione di esistere. Il filo rosso di cui parlo è certo costituito innanzi tutto da questa tensione etico-politica (da cui prende il suo colore), ma sarebbe 8

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un semplice ed esile filo se non acquistasse consistenza anche attraverso un gioco decisivo di memoria filosofica. Uso il termine “gioco” (sul quale, peraltro, “aut aut” ha parecchio insistito nella fase più recente) poiché non si tratta di un semplice ricordo (per esempio, il ricordo del carattere fenomenologico impresso da Paci alla rivista tra gli anni cinquanta e i sessanta), ma di un’elaborazione e forse, più che di un’elaborazione, di una composizione stratificata e aperta di idee in tensione, all’apparenza anche diverse. Se infatti tentassimo una specie di anamnesi alla ricerca di una “linea” filosofica che tiene assieme il percorso della rivista, ci troveremmo subito di fronte a un paradosso (ecco un’altra parola importante della nostra attuale cassetta degli attrezzi): la provenienza appare a tutti chiarissima (e qualcuno perfino ce la invidia), tuttavia è molto difficile descriverla e soprattutto dare un’unità al decorso. Già, cosa intendiamo quando affermiamo la costanza dell’impianto fenomenologico di “aut aut”, peraltro innegabile ed evidente? E come riusciamo, poi, a combinare questo impianto (lampante ed enigmatico a un tempo) con le tappe successive, dai Settanta in avanti? Soprattutto per noi, che vediamo le cose dall’interno della rivista, la ricostruzione di questa singolare memoria è essenziale e occorre armarsi di pazienza e coraggio. Quando dico “luoghi chiasmatici” so bene di assumermi un rischio (e me lo prendo in toto proponendo la presente antologia di testi). “Se non te lo prendi tu, che hai in mano la rivista fin dalla metà degli anni settanta, chi se lo può prendere un simile azzardo?” Così mi hanno sussurrato gli amici della redazione, con buone ragioni: ma già li vedo affilare i coltelli, aspettarmi al varco, e non mi dispiace. L’unico consistente appiglio che possiedo – al pari di tutti quelli che leggono e seguono la rivista (e che non sono così pochi) – è la discussione redazionale che abbiamo pubblicato alla fine del 2001 (sul numero 305-306) a corredo di un fascicolo speciale che riporta gli indici cartacei dei primi cinquant’anni di “aut aut”). Allora avevamo identificato alcuni snodi: la libertà della cultura vs. la barbarie, la filosofia come esigenza di “uscire” dal suo recinto disciplinare, e anche la pratica della scrittura come tema filosofico non secondario ed esercizio con9

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creto. Nella discussione si leggevano in filigrana quelli che chiamo qui i luoghi chiasmatici: la fenomenologia, la questione dei bisogni, il pensiero debole, la questione del potere nella società disciplinare di oggi, la questione dell’alterità come apertura di campo ma anche con le sue retoriche. È un elenco certamente troppo stretto, che esclude moltissime ulteriori declinazioni, tuttavia può servire come un primo orientamento. Un nodo soprattutto, mi sembra, lega questa catena di luoghi, ognuno dei quali è stato percorso dalla rivista come un crocevia di discorsi critici più che alla stregua di un blocco di pensiero: ed è il nodo della soggettività, il quale resta dall’inizio alla fine il riferimento filosofico di “aut aut”, il suo pressante e irrinunciabile “experimentum crucis”, il suo cruccio, il terreno mai abbandonato di costante insoddisfazione, la domanda che ogni volta è stata riproposta al futuro e che ancora oggi ci appare sospesa in un mondo culturale pur così terremotato. È in definitiva la domanda che Paci poneva nell’immaginario esergo della sua rivista, dopo la sua traversata dell’esistenzialismo, e ancora dopo aver tentato di disegnare un pensiero della relazione, per approdare alla fenomenologia e chiedere a essa lo stile di una risposta possibile. Negli anni sessanta, attraverso le pagine brevi di una fortunata rubrica che chiudeva ogni fascicolo (“Il senso delle parole”, di cui poi avremmo cercato di conservare la traccia e la memoria nei decenni successivi), Paci indicò i modi e gli sviluppi della sua risposta fenomenologica tutta giocata sulla concretezza, cioè sulle pratiche della soggettività “in prima persona”. Qui si colloca l’incontro decisivo con Marx (e anche l’incontroscontro con il Sartre della Critica della ragione dialettica), l’apertura critica nei confronti di Lévi-Strauss e di Freud, l’alleanza con Merleau-Ponty e con Ricœur. Occorre comprendere dentro questo orizzonte l’entusiasmo di Paci verso i movimenti degli studenti sfociati nel ’68 (entusiasmo sempre critico, sul quale poi è stata fatta cadere una sorta di ombra quasi fosse un incidente di percorso) e il cospicuo viatico di idee che lascerà ai continuatori (cioè, alla storia successiva di “aut aut”). Il suo tentativo di costruire, lungo gli stessi anni sessanta, 10

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un’ipotesi di “enciclopedia dei saperi”, fondata filosoficamente su una originale lettura di Husserl non deve trarre in inganno i lettori di oggi: il vero motore di esso era quel crocevia tra Husserl (il “suo” Husserl) e Marx grazie al quale Paci voleva tentare di chiarificare la “critica dell’economia politica” (sottotitolo del Capitale) sbloccandola dalle derive oggettivistiche e rivalorizzandola attraverso le pratiche soggettive. Da questo nodo discende il decennio “rosso” della rivista con le sue tangenze nei confronti dell’operaismo italiano (in particolare con l’esperienza torinese di Raniero Panzieri). È allora, cioè nel cuore dei travagliati anni settanta, che la redazione di “aut aut” prende a funzionare come un collettivo aperto e un laboratorio di discussioni anche molto accese (ricordo le reprimende che ci faceva Franco Fortini, per qualche anno assiduo frequentatore delle nostre riunioni domenicali). Così la rivista divenne una voce significativa e non poco ascoltata nell’ambito del marxismo critico più radicale. Paci aveva dovuto passare il testimone (morì prematuramente nel 1976), dopo avere pubblicato su “aut aut” circa 200 saggi (!), ma fu ancora lui a fornire il detonatore filosofico della nuova stagione più esplicitamente “politica” della rivista, lanciando il tema di una fenomenologia dei bisogni e lasciando in eredità, insieme a un ulteriore progetto filosofico (che era in sostanza una battaglia contro l’imbarbarimento del marxismo stesso) anche la precisa indicazione di un lavoro da svolgere dentro il cosiddetto socialismo reale. Era stato proprio lui, infatti, a immettere nella rivista l’interesse e le effettive relazioni con la Scuola di Budapest, ovvero quel gruppo di allievi di Lukács (il Lukács di Storia e coscienza di classe) cui in Ungheria era stata tolta la parola, perché troppo scomodi per il regime là vigente. Nel corso degli anni settanta, “aut aut” documentò a più riprese tali posizioni “eretiche”, spesso bollate come revisionismo umanistico, e diede molto spazio a queste voci. Ricordo solo che il libro di Ágnes Heller sulla questione dei bisogni in Marx, che aveva circolato in forma di samizdat, venne accolto nelle pagine della rivista (e poi pubblicato da Feltrinelli, sem11

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pre per iniziativa di “aut aut”). Si trattò di un piccolo evento (in seguito questo libro venne diffuso in varie lingue e suscitò un dibattito internazionale): la questione dei bisogni diventò, attraverso di esso, un tema assai poco universitario, cioè tutt’altro che semplicemente intellettualistico, assumendo il ruolo di un operatore teorico-politico in presa diretta con le istanze della realtà sociale di allora. È facile constatare come la domanda sulla soggettività trovi qui una particolare vibrazione e una sua peculiare traducibilità. Ci si chiedeva che fine avesse fatto il soggetto nell’eredità marxiana e nei movimenti sociali che vi si richiamavano. E vi risuonava una parola dall’evidente stile fenomenologico: questi bisogni avevano da essere bisogni radicali, andavano al di là di ogni gabbia tecnico-economica, anzi potevano smascherare ogni tentativo di chiusura e di disciplinamento. La storia successiva di “aut aut” cambia passo, come era inevitabile di fronte al pesante sipario della cosiddetta “normalizzazione”. Una nota redazionale del 1980 (cfr. n. 175-176) fa il punto della situazione con molta chiarezza. Credo che si possa affermare che la rivista, che era già un laboratorio critico assai aperto, non venne spiazzata dall’implosione che si diffondeva nella realtà dei fatti sociali (dando luogo a una deriva etico-filosofica, o semplicemente “ideale”, che si espande fino al nostro attuale presente). C’era infatti già, in “aut aut”, un rilevante magazzino di risorse critiche che potevano essere liberate e messe al lavoro in una situazione culturale in cui occorreva adesso allargare gli orizzonti e costruire con pazienza strumenti utili di analisi. Basterebbe citare il lungo elenco di incursioni, documentate da fascicoli speciali a carattere monografico, che allora cominciarono a essere intraprese, non certo solo sul terreno specifico della filosofia (da Lacan a Jung, da Benjamin ad Aby Warburg, dall’attualità del pensiero antico al “pensiero” di Proust, per citare solo gli inizi di un percorso che dura fino a oggi). L’importante dialogo con Michel Foucault comincia già nel 1978 con un fascicolo speciale su “Potere e sapere”. Ne seguiranno diversi altri fino al recentissimo fascicolo (2011) dedicato 12

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ai cinquant’anni della Storia della follia, ed è difficile non riconoscere che, dopo il crocevia Husserl (chiamiamolo così), il crocevia Foucault abbia costituito per la rivista un riferimento essenziale e un significativo elemento di identificazione. Meno facile è dire in poche battute in cosa sia consistito e cosa abbia rappresentato (e rappresenti) per noi tale crocevia. Bisogna anche rendere conto della relativa sovrapposizione che esso ha avuto nel lavoro di “aut aut” (che resta comunque sempre plurale e composito) con un altro nodo filosofico, il “pensiero debole”, che soprattutto negli anni ottanta (ma anche in seguito) ha attraversato le pagine della rivista. Il modo con cui Foucault aveva proposto, negli stessi anni settanta, di centrare l’analisi sul rapporto indivisibile tra forme del potere e forme del sapere, metteva radicalmente in discussione la presunta autonomia di qualunque istanza filosofica e l’idea stessa di verità intesa come un presupposto oggettivo ed esterno. Questa chiarificazione critica entrava perfettamente in consonanza con il lavoro di decostruzione avviato da “aut aut” fin dalla sua nascita. Risultò per noi secondario che Foucault non avesse battuto i sentieri della fenomenologia e non avesse collocato in cima ai suoi interessi teorici la domanda sulla soggettività. Primaria era la consonanza di uno stile di ricerca, la cui posta etica era visibilmente latente (e che si sarebbe poi rivelata con piena evidenza). Primario per noi era il tipo di battaglia da lui ostinatamente condotta contro ogni idea di Verità (con la maiuscola) che non riconoscesse di essere presa in un gioco di potere e di rappresentare essa stessa una determinata manifestazione di tale gioco. Ma altrettanto importante risultava l’attenzione a una storia de-metafisicizzata e osservata con uno sguardo microfisico. Era proprio questo l’obiettivo cui mirava la nostra fenomenologia dei bisogni concreti e radicali – almeno così pensavano alcuni di noi. E un ulteriore specifico terreno nel quale ci ritrovavamo con Foucault era la rivalutazione del pensiero genealogico di Nietzsche. La pubblicazione del reading sul Pensiero debole, a cura di Gianni Vattimo e mia, avviene (presso Feltrinelli) nel 1983. Poco più tardi esce, più defilato, L’elegio del pudore, scritto a quattro mani 13

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con Alessandro Dal Lago. Lo ricordo perché il tema della “debolezza” era stato anticipato su “aut aut” e diventò per la rivista uno snodo filosofico che si connetteva sia con la stagione marxiana dei bisogni sia con l’entrata in scena di Foucault. Vattimo, naturalmente, trovò ospitalità nei nostri dibattiti riversandovi la sua lettura di Nietzsche e la sua riabilitazione di Heidegger, un orizzonte – quest’ultimo – che la rivista, nella sua impostazione fenomenologica, aveva tenuto molto ai margini. Ora Heidegger veniva, per così dire, sdoganato e negli anni che seguirono ricevette una particolare attenzione con una serie di fascicoli speciali. Ma i punti essenziali relativi al “pensiero debole” vanno indicati con precisione, considerando che molta nebbia si era subito levata sull’intera questione. Li sintetizzerei in due ordini di problemi: la “violenza della metafisica” e il “pudore della verità”. Entrambi permettono di capire l’alleanza con la critica del potere di matrice foucaultiana, ma soprattutto segnano con chiarezza la continuità dell’ispirazione teorico-pratica di “aut aut”. Nel laboratorio a più voci (e con pluralità di uscite) in cui la rivista si trasformò a partire dagli anni ottanta, il lavoro critico sulle forme in cui il potere agisce dentro il discorso filosofico con caratteri autoritari e anche violenti fu una specie di basso continuo, la cui parentela con il progetto iniziale di lotta contro la barbarie nel pensiero e nella cultura era trasparente. Di converso, l’“elogio del pudore” (che avrà molte aperture: Jankélévitch, Deleuze, Lévinas, Hannah Arendt ecc.) diventò la cifra, etica – se vogliamo dire – di un soggetto completamente responsabile della sua finitezza e di una pratica intellettuale che vi si conformasse: rappresentò, così, la tonalità del nuovo “impegno” della rivista su un terreno assai friabile, forse anche provocatorio rispetto ai toni alti propri del filosofare, un esercizio radicalmente esposto all’autocritica e quindi terribilmente faticoso. Qui entrava anche in scena una virtuosità della lentezza che si coniugava con l’esigenza del distanziamento, e che cozzava contro l’opposta esigenza della fretta e di risposte immediate che il mondo della cultura sembrava adesso chiedere con ansia crescente. Questo esercizio a me pare la cucitura di fondo che identifica 14

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il lavoro di esplorazione teorica di “aut aut” negli anni novanta e nel primo decennio del duemila, quando lo sguardo internazionale si allarga ulteriormente e di pari passo si accentuano i debordamenti di pensiero al di fuori dei canoni strettamente filosofici. Gli esempi, anche qui, compongono un lungo elenco, a cominciare dall’interesse marcato verso gli incroci tra psicanalisi e filosofia o verso il sommovimento critico all’interno dell’istituzione psichiatrica (soprattutto in Italia, con l’esperienza di Franco Basaglia), o, ancora, verso il pensiero femminile (da María Zambrano a Judith Butler), senza dimenticare il patrimonio di suggerimenti filosofici che “aut aut” valorizza attraversando il pensiero e la pratica di Bateson e di Goffman, patrimonio, questo, che diventa uno strumento non irrilevante nella cassetta della rivista (basterebbe solo ricordare i temi del gioco, dell’umorismo e del paradosso). Jacques Derrida, comunque, è stato forse – insieme a Foucault – il nostro migliore compagno di viaggio nello scorcio di secolo passato, e ha lasciato nella rivista tracce molto importanti. Nel caso di Derrida, si è trattato di un rapporto diretto (grazie soprattutto all’iniziativa di Maurzio Ferraris): la rivista ha pubblicato numerosi suoi scritti (più di venti) e altrettanti gliene ha dedicati. Per quanto Derrida non abbia mai partecipato alle riunioni di redazione, abbiamo vissuto la sua presenza come quella di un vero e proprio redattore dal nome insigne. Ci ha indicato parecchie strade da percorrere all’interno della nostra stessa impostazione, e specialmente – a mio modo di vedere – la strada della scrittura e la strada dell’alterità. Non c’è filosofia senza scrittura. Ecco un altro nodo importante su cui la rivista ha insistito (anche organizzando seminari e uscite pubbliche), perché a un certo punto ci si è resi conto che la filosofia correva il rischio di disimparare a leggere e a scrivere, e quelli di noi che insegnavano lo verificavano nelle loro pratiche quotidiane. Derrida poteva, così, “insegnarci” l’importanza teoretica della scrittura, ma anche il fatto che essa non poteva limitarsi a essere un oggetto filosofico da ripensare (non c’era solo lui, ma anche Jabès, o Blanchot, o Ricoeur, o lo stesso Bateson a spingerci su questo terreno, per esempio a interrogarci sulla questione della me15

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tafora), ma doveva tradursi in una pratica effettiva di lettura e di stesura. In altri termini, per arrivare alla produzione stessa della nostra rivista, ciò sollecitava un’attenzione ulteriore a come erano scritti (con quale specifica consapevolezza) i testi che pubblicavamo, ma anche a come dovevamo “leggere” i testi che arrivavano in redazione e i nostri stessi, una volta che la scrittura acquisisse il carattere di un elemento filosoficamente centrale. In che modo, per esempio, entrava in gioco il problema della narrazione? La strada dell’alterità era già ben presente nelle nostre radici fenomenologiche (Paci insisteva di continuo sull’importanza e sulla densità critica della Quinta delle Meditazioni cartesiane di Husserl). Derrida (complice anche Lévinas) la ha ulteriormente spianata attraverso le riflessioni sull’evento dell’arrivante (con il suo carico di sorpresa e novità, ma anche di impatto paradossale) e sulla esperienza dell’ospitalità, che alla fine viene a coincidere con la stessa esperienza filosofica. Per noi, questo modo di intendere l’alterità, senza farla diventare una categoria astratta e dunque senza nasconderne le implicite retoriche, poteva declinarsi – e così è stato – con gli input teorici che ci venivano da Foucault (cui forniva un essenziale complemento) e con la stessa pratica filosofica del pensiero debole. Il tema dell’alterità resta infine, a mio parere, il nucleo teorico dell’attuale programma di “aut aut”. Dopo sessant’anni tantissima acqua è passata sotto il nostro fragile ponticello, ma siamo sempre lì a riscrivere quel messaggio nella bottiglia da cui la rivista ha preso vita. L’alterità ha due facce, e non c’è dubbio che la faccia rivolta all’esterno, cioè al mondo reale della pratiche quotidiane, culturali, politiche (e a quella sorta di invasione che esso subisce, a ogni latitudine, da parte di ciò che vi arriva), abbia sempre più preso piede nella rivista. Basta sfogliare gli indici delle ultime annate per rendersi conto di questo trend accentuato (la critica del multiculturalismo, l’incursione nelle “Afriche” e nel nuovo colonialismo, l’ipotesi ora abbozzata di un atlante orientale-occidentale, per citare solo qualche esempio, ma anche l’attenzione complessiva agli studi culturali, alla figura dell’immigrato, nonché ai problemi della scuola e della società italiana). Questa “attenzione” rivolta al 16

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fuori, inteso come luogo di costante criticità delle pratiche centrate sull’altro, ha trovato di recente un’immagine significativa nella “inattualità” di Pier Paolo Pasolini e ci siamo chiesti (in un monografico del 2010) come sia possibile trattare oggi la sua ipotesi di una “mutazione antropologica” e come sia possibile immettervi le alterazioni che abbiamo sotto gli occhi e sulle quali è forse possibile costruire nuove “politiche” della filosofia. Non saprei dire se la faccia rivolta verso l’interno, cioè verso la nostra soggettività, sia più o meno importante. C’è una coalescenza tra le due dimensioni, direbbe Gilles Deleuze (un altro dei nostri “veri” amici), e forse non è mai possibile separarle. Ce lo insegna tutta la storia della rivista, anche se è un fatto verificabile che il baricentro si è spostato sensibilmente. La faccia dell’alterità, che riguarda il soggetto che noi siamo, ci dice con chiarezza che questo soggetto deve cedere sulla propria padronanza, se vuole riuscire a descrivere le pratiche in cui è preso con un minimo di credibilità. Deve cedere spazio all’alterità in se stesso (e allora si capisce perché abbiamo tanto insistito su un pensiero così impopolare e ostico come quello di Lacan), deve far posto dentro di sé all’arrivante (un altro soggetto o semplicemente un altro pensiero), deve realizzare in se stesso una condizione di ospitalità. Su quest’ultimo aspetto, abbiamo parecchio discusso nelle nostre riunioni redazionali e non sempre ci siamo trovati d’accordo. A chi sospetta che qui scatti una trappola filosofica che potrebbe allontanarci dai problemi reali annacquando il discorso, vorrei rispondere che l’idea di ospitalità ci fa dormire sonni tranquilli solo se la svuotiamo della sua alterità (come spesso accade), ma, al contrario, funziona come un potente pungolo critico se consideriamo che il soggetto, se ne è qualcosa, è sempre ospite di se stesso e non si può mai rivendicare la proprietà della casa in cui pure vive. Nota Come il lettore di quest’antologia intuisce bene, anche il curatore di essa, di fronte a una vicenda così estesa nel tempo e così ricca di nomi e di proposte teoriche (assai più di quante lui stesso – che pure ha vissuto in prima persona e fascicolo per fascicolo gran 17

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parte di tale storia – aveva in mente all’inizio del suo lavoro), ha dovuto munirsi di un certo coraggio e prendersi i rischi di una scelta brutale, destinata a escludere molto e comunque a documentare molto meno (solo un piccolo frammento) di ciò che avrebbe meritato di comparire. Il criterio della significatività non poteva che risaltare assai stretto e talora decisamente arbitrario (o almeno personale). Il curatore ha ritenuto che fosse un rischio in ogni caso da correre, anche se si rende perfettamente conto che altre scelte potevano essere fatte, altrettanto ragionevoli e forse migliori. La scelta più importante è stata quella di dare un titolo a ogni tratto della sequenza. Che questi segmenti temporali coprano ciascuno un decennio, non è solo un espediente di comodo. Gli anni cinquanta, che ho titolato Una nuova idea di cultura, i sessanta, che ho chiamato Gli anni della fenomenologia, e i settanta, cioè Il decennio dei bisogni, corrispondono bene a tre sequenze storiche della rivista che mi sembrano delineate e documentabili sia in rapporto alle dinamiche interne (segnate dalla sviluppo dei temi fenomenologici rielaborati da Enzo Paci) sia un rapporto alla complessiva realtà politico-culturale esterna. Ho poi ipotizzato, nel tragitto di “aut aut”, una seconda fase che va dall’inizio degli anni ottanta fino a oggi: qui si apre e si articola, come ho detto sopra, un multiforme laboratorio filosofico, un cantiere critico che è tuttora il tratto distintivo della rivista: le sequenze tuttavia sono meno nette e i passaggi dall’una all’altra più intrecciati. Perciò i tre titoli successivi (Un pensiero debole? per gli anni ottanta, Con Foucault, Derrida e gli altri per i Novanta e La filosofia messa in gioco per il decennio 2000-2010) hanno un carattere sì pregnante, ma soprattutto orientativo: indicano alcune questioni e vie molto significative, alle quali potrebbero essere anche affiancate altre intensità problematiche e aperture teoriche. Il lettore troverà anche, come premessa a ogni sequenza, brevi informazioni sui temi più importanti del periodo, sulle collaborazioni più notevoli e sulle trasformazioni dell’assetto redazionale della rivista. settembre 2011

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Su “aut aut” e il fare filosofia. Ripensare l’“essere-al-mondo” ROSELLA PREZZO

arlare di “aut aut” come luogo di filosofia è per me richiamare inevitabilmente una parte della mia storia (del resto, per chi crede alle congiunture astrali, il mio anno di nascita corrisponde a quello della rivista...). “aut aut” ha rappresentato infatti uno dei miei iniziali legami e a lungo uno dei principali tramiti, più che col sapere filosofico, col fare filosofia. Sul cui significato, nel segno di questo anniversario, ci stiamo oggi rinterrogando in una situazione anche di disagio e disorientamento, almeno per alcuni di noi. Prima quindi di indicare qualcosa nel presente su cui varrebbe forse la pena appuntare la nostra attenzione come a questioni aperte o da riformulare, riconsiderando insieme i nodi tematici che Pier Aldo Rovatti ha ben focalizzato nella storia della rivista sotto la formula “il coraggio della filosofia”, ecco il mio personale sguardo all’indietro. Uno sguardo che non vuol essere di semplice amarcord, bensì un tentativo di uscire dalle secche teoriche, dalla miseria simbolica e dalla frantumazione del pensare che mi paiono il tratto dominante del momento attuale. Nella prima metà degli anni settanta, all’Università di Milano, ho avuto la fortuna di incontrare dei bravi maestri tra cui Enzo Paci: uno straordinario Socrate “corruttore” di giovani che comunicava soprattutto il “piacere del pensare”, che era anche una scuola di libertà e laicità. E nelle cui appassionanti lezioni Kierkegaard andava a braccetto con Kafka, Sartre con Antonioni, la Fenomenologia dello spirito hegeliana era letta attraverso il Bildung-

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sroman, o la musica veniva a volte intonata per far sentire il passaggio logico di un discorso. Tutto ciò in un periodo pieno di effervescenza e di comunicazione, appunto di movimento. Ma, paradossalmente, proprio negli anni in cui mi laureavo con una tesi su Marx e Hegel si sputava su Hegel. Circolava infatti l’ingiunzione femminista irriverente di Carla Lonzi Sputiamo su Hegel, in cui si leggeva, tra l’altro: “Non riconoscendosi nella cultura maschile, la donna le toglie l’illusione dell’universalità”. Cosa che mi provocò un certo imbarazzo ma anche un forte turbamento perché mi metteva in gioco nella mia identità di giovane filosofa (anzi, filosofo) in formazione. L’effetto di contraccolpo, anche comico e di autoironia, lo percepii solo più tardi nel mio fare filosofia. Allora, i “luoghi delle donne” non corrispondevano per nulla ai “luoghi della filosofia”. Anzi, per dirla tutta, la filosofia non era molto gradita né granché considerata dalle donne che andavano movimentando non solo la vita pubblica e privata ma anche quella del pensiero e delle sue modalità. E in quei luoghi, che pur mi attiravano e mi coinvolgevano, mi sentivo impoverita perché il sapere che stavo acquisendo, accumulandolo con passione sembrava moneta fuori corso. Mi ritraevo perciò un po’ turbata da quel pieno di pratiche collettive, e un po’ diffidente nei confronti di quel che di “militare” ho sempre sentito in ogni “militanza”. Eppure, tornando a casa tra i testi dei filosofi, nel tempo della riflessione – un tempo sempre differito ma che non può mai essere astrazione dal tempo comune – avvertivo una profonda comprensione per alcune di quelle obiezioni di fondo. E nella mia testa echeggiavano come interrogativi ineludibili quelle verità di “fuori”, perché mi riguardavano intimamente, consentendo l’ascolto del mio interrogare interiore e aprendomi ad altre fonti di senso. Questa libertà e questa paradossalità, lezione che i miei maestri e la mia presenza al mondo mi avevano dato, hanno potuto trovare ospitalità in “aut aut” (ormai passata sotto l’abile regia di Rovatti). Un luogo, almeno per me, dove il pensiero filosofico non tendeva a raggiungere un “inquadramento” disciplinare, né si limitava a opere che parlano solo di se stesse o di altre opere, e nemmeno era inteso come “argomento” cui dedicare il proprio lavo20

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ro intellettuale, tanto meno come un’esperienza solitaria al riparo da altre esperienze. Era soprattutto un pensare partecipato e partecipativo in una presenza viva, che si alimentava di incontri, scontri, risate, serietà, lavoro, studio, illusioni e delusioni, progetti (tanti...) e anche errori, abbagli e fallimenti. Sempre però attraverso un esercizio dello sguardo attento a ciò che si muoveva attorno, nella società nella cultura nella politica, e aggiungerei anche in se stessi. Col rammarico a volte di non essere stati abbastanza agili. Dico questo non per idealizzare un passato, in un mondo decisamente cambiato, né per dare di “aut aut” un’immagine esemplare, ma per la necessità che sento di mantenere un filo di quella trama. Un filo che, intrecciando il pensiero alla vita e al mondo (al con-vivere nel mondo), lo mette sempre alla prova e lo sfida a riformularsi. Forse oggi il “coraggio”, se proprio vogliamo parlare di coraggio connesso alla filosofia, è accettare di subire il contraccolpo (anche sui nostri stessi pensieri, simbolizzazioni e teorizzazioni) del mondo in cui siamo parte in causa. E scoprire/scoprirci così “vuoti di sapere”, cosa che rimanda anche a necessari svuotamenti, a partire dai quali e con i quali riprendere a pensare filosoficamente. Azzardo allora qui alcune ipotesi di lavoro. In quell’unico paese spaesato che ormai tutti abitiamo, il concetto stesso di spaesamento (che molti autori di “aut aut” hanno elaborato in modi diversi) è ormai un dato di fatto più che un’opzione teorica. Ora, se questo spaesamento può essere assunto come fertile dislocazione del nostro punto di vista per poter vedere meglio anche noi stessi (come ci ha indicato una recente sezione della rivista curata da Paulo Barone, dal titolo Atlante occidentale-orientale), esso comporta allo stesso tempo una nuova interrogazione sul divenire-mondo dell’umano, e sul conseguente ribaltamento della nota formula di Scheler e di Gehlen: potremmo dire, dal “posto dell’uomo nel mondo” alla “presenza del mondo nell’essere umano”. D’altra parte, la parola “mondo”, oscurato ogni significato di convivenza collettiva, s’identifica senza resto con globalizzazione, ossia con mercato globale e finanziario, assurto a ente supremo, 21

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legge senza legge, e quindi di volta in volta da sacralizzare o da bestemmiare in modo reattivo. In “questo” mondo i soggetti, la cui cifra dell’essere-al-mondo si risolve nella loro disponibilità, nel loro essere corpi a disposizione (rintracciabili, dislocabili, costruibili o rottamabili) sono diventati tanto flessibili fino quasi a sparire, tanto che la loro forma di resistenza, e ancor prima di persistenza, come mostrano le nuove rivolte metropolitane o le ondate di migranti-clandestini, si esprime primariamente come “bisogno di esistere”, e di un’esistenza che non sia solo da consumare o liquidare. Parallelamente, l’attenzione al linguaggio in cui siamo immersi deve farsi particolarmente vigile. Nelle democrazie svuotate e parodiate con cui abbiamo a che fare mi sembra infatti che nessuno si appelli più a verità supreme e assolute (quelle con la V maiuscola), irrigidite, verso cui esercitare la critica come verso a espressioni della “violenza della metafisica”; al contrario. Il linguaggio del potere sembra piuttosto quello che accompagna il gioco delle tre tavolette, che inibisce e imbambola l’ascoltatore-spettatore, distogliendolo dal movimento delle mani che si mostrano sotto i suoi occhi. Più che con verità abbiamo a che fare con menzogne indiscernibili. Il linguaggio si struttura unicamente come comunicazione mediatica, insieme a una logica che pensa per concepts, secondo il modello pubblicitario del marketing, che è ciò che definisce gli obiettivi del business, legando obiettivi di guadagno alla creatività, e che veicola insieme all’idea del prodotto progettato il tipo di emozioni e sentimenti che si intende trasmettere e suscitare. Una logica sempre più invasiva e pervasiva, che ingloba sfere sempre più ampie, come quella politica. Ma intervenire sul linguaggio non è sufficiente, perché, come avvertiva già Ingeborg Bachman, “la realtà acquista un linguaggio nuovo ogni qual volta si verifica uno scatto morale, conoscitivo, e non quando si tratta di rinnovare la lingua in sé, come se essa fosse in grado di far emergere conoscenze e annunciare esperienze che il soggetto non ha mai posseduto”. È qui che la filosofia ritrova allora la sua necessità, non certo per rimettere le braghe al mondo, per fornirne una visione pa22

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nottica, né per indicare quale meta raggiungere, ma come guida nel senso di mappa, per riorientarci lì dove siamo. Magari, come è uso del pensiero filosofico, tornando da capo. Risignificando proprio quel concetto di essere-al-mondo che con quello di Da-sein è il concetto heideggeriano che ha conosciuto la migliore fortuna; ma che, non più messo in discussione, e smettendo noi quindi di pensare con esso quando si crede ancora di farlo, si rivela ormai troppo neutro e vuoto di senso rispetto alla nostra attuale condizione di essere-al-mondo. E la categoria stessa di mondo andrebbe allora riformulata, e forse varrebbe la pena di interessarsi anche all’aspetto del venire al mondo, della venuta al mondo dell’esserci, perché il concetto stesso di mondo si salda ormai col dramma dell’arrivato, del nuovo venuto.

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Coraggio? ALESSANDRO DAL LAGO

artecipo al dibattito più che altro per motivi di affezione a questa vecchia e gloriosa rivista. Per quanto mi capiti di dissentire su alcuni aspetti, che qui non è il caso di richiamare, ammetto con piacere che sono onorato di comparirvi, mi pare da trentadue anni, come redattore at large e scrittore erratico. Non so quali altri periodici permettano una simile libertà – per cui a un numero abbastanza favorevole sulla consulenza filosofica segue uno sfottò da parte di uno come me, allergico a qualsiasi tipo di consulenza, pedagogia e didattica. E dunque, lunga vita ad “aut aut, al suo pluralismo e alla sua funzione di bussola più che cinquantennale in quello che si suol chiamare il dibattito culturale. Quanto al coraggio dei filosofi, la mia perplessità è ovviamente di tipo sociologico. Chi sono i filosofi? Non necessariamente quelli che insegnano filosofia, va da sé. E nemmeno quelli che si dichiarano tali e discettano con supponenza del loro ruolo nel mondo. Costoro mi fanno un po’ sorridere, più che altro perché non si avvedono di quanto sono patetici. Rimestano i classici, a partire da Parmenide o Platone, e cavano dall’interpretazione delle antiche opere giudizi sulla crisi dell’Occidente, e fin qui passi, oppure sulle ragioni metafisiche del crollo delle borse, il che mi fa sghignazzare. Direi che il loro coraggio, quando non è mera posa, è quello del vecchio attore imbellettato che declama il monologo di Amleto in un teatrino di provincia, davanti a qualche ragazzino annoiato.

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Oggi, mi sembra che filosofo sia chiunque il quale, operando o no in territori ufficialmente filosofici, produca qualche idea nuova su Dio, uomo e mondo (naturale, storico, sociale ecc.). E dunque sto parlando di intellettuali. Ma chi sono costoro, e quando si può dire che sono coraggiosi? Oggi, la questione è complicata dalla straordinaria intellettualizzazione della società. La manipolazione dei simboli – come qualche anno fa un economista americano definiva il complesso delle attività intellettuali – coinvolge oggi un enorme numero di soggetti, dagli studenti e insegnanti di ogni ordine e grado, ai giornalisti, agli artisti e agli intellettuali tradizionali (quelli che aspirano a un posto all’università o a pubblicare recensioni sulle pagine culturali dei quotidiani). Ma non escluderei nemmeno gli analisti finanziari o i formatori, per quanto le loro attività siano discutibili o perniciose. Tutti gli intellettuali citati hanno in comune, per fare un esempio evidente, lo strumento principe della nostra epoca, il computer, il quale, a differenza delle vecchie macchine da scrivere, non è una cosa muta e inerte a nostra disposizione, ma una protesi attiva che condiziona il nostro modo di pensare e di esprimere pubblicamente le nostre idee. Pensando al computer non posso non arruolare tra gli intellettuali, per quanto la cosa suoni strana, il cittadino che dice la sua, in modo più o meno articolato, sui blog e sui social network. Per farla breve, il lavoro intellettuale è oggi così diffuso che non corrisponde a ceti o classi particolari. È una funzione a cavallo di tecnologia, identità individuale (o di gruppo), pensiero e libertà di espressione. In ogni modo, è in questa dimensione ubiqua che dovremmo cercare qualcosa di simile al coraggio. In uno degli ultimi corsi pubblicati, Foucault identifica nei cinici di ogni tempo i pensatori, ufficiali e no, capaci di esercitare la parresia, ovvero la libertà di parola. Ma, come dicevo prima, c’è libertà e libertà. Il tizio che a Hyde Park Corner sale sulla cassetta o sulla panchina per arringare quattro sfaccendati sulla fine del mondo o sul sicuro avvento di un’età dell’oro, fa senz’altro uso della libertà di parola, ma il suo atto non mostra particolare coraggio perché non è efficace. Nessun potere, tranne eventualmente il poliziotto che lo invita blandamente a circolare, se la 25

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prende con lui. E quindi mi sembra evidente che il primo requisito del coraggio è la capacità di frizione, di urticare qualcosa o qualcuno. La vecchia definizione platonica di Socrate come tafano e torpedine, per quanto diventata un luogo comune consolatorio (“ah, come siamo coraggiosi noi filosofi, fin dalle origini”) alludeva proprio a questo. Se non dai fastidio, non sei coraggioso, sei soltanto patetico. Ma perché ci sia frizione, ci vuole qualcuno o qualcosa che ti stia di fronte. E non in privato, ma in pubblico, ovvero in quella dimensione in cui si è sotto gli occhi di un qualche tipo di collettività, astratta o concreta che sia (è la polis la prima condizione di esistenza della parresia). E il qualcuno, naturalmente, non deve essere un poveraccio, ma uno almeno pari a chi esercita la libertà di parola. Almeno pari. Ma è evidente che il coraggio della parola si esercita soprattutto verso chi è posto in una posizione di maggiore forza o potere. Poiché è tipico di ogni potere trasformare la propria potenza in visione del mondo, in ideologia, il coraggio della parola, filosofica o di altro tipo, consiste nel contestarla. Qui non ci si sbaglia quasi mai. Quando una visione, anche se ammantata di profondità, saggezza e simili, comincia ad affermarsi, a essere data per scontata, a spacciarsi come ricettacolo di ogni virtù, vuol dire che vi si manifesta la disonestà del potere, il quale trasforma per natura la forza in retorica (mi pare che l’abbia detto Michelstaedter). E dunque, mi sembra chiaro, il coraggio della parola non può che essere in qualche misura conflittuale, dal basso verso l’alto. Quando, tempo fa, ho contestato alla consulenza filosofica un certo conformismo e soprattutto l’incapacità di pensare il conflitto, intendevo qualcosa del genere. Non si tratta di bearsi dei conflitti, ma di riconoscere che, anche nel campo del pensiero, esistono effetti di potere rispetto a cui si deve prendere parte. Un pensiero senza conflitti non può che essere soporifero e quindi piacevole in principio, quando siamo stanchi o snervati, ma poi, quando diviene norma, è simile alla morte cerebrale. Osservo, en passant, che vedo intorno a me diversi esercizi di pensiero soporifero, purtroppo anche nel nostro bel paese. Filosofie che abdicano alla teo26

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logia, al potere dei media o alla saggezza della finanza internazionale, che vogliono mettere fine a qualsiasi inquietudine, che amano il consenso a buon mercato, che adorano essere premiate da matrone ingioiellate in qualche amena località sciistica o balneare ecc. ecc. Il coraggio del pensiero, filosofico o di altra specie, comporta dunque la frizione, la contestazione, l’impopolarità e simili atteggiamenti più o meno antisociali, insomma un po’ di cinismo, nel senso foucaultiano. Ma perché questo stile sia efficace, è indispensabile che prenda su di sé le conseguenze della propria libertà di parola, ovvero i propri rischi. Essendo approdato alla terza età, posso dire di aver assistito, in una quarantina d’anni di vita intellettuale, a ogni tipo di sovversione esclusivamente cartacea. Ho conosciuto una quantità di ribelli che voltavano istantaneamente gabbana filosofica (o sociologica o storica o politica), non appena insediati in qualche ruolo accademico o istituzionale. O altri che mantenevano a parole il loro radicalismo, attentissimi però a non praticarlo nella loro vita materiale o istituzionale. Virtuosi del Doppelleben o del pensiero doppio (o triplo). Be’, è difficile che il coraggio si manifesti là dove non si è disposti a pagarne le conseguenze. Anche qui, non vorrei essere frainteso. Lungi da me invitare i giovani intellettuali o militanti del pensiero a trasformarsi in disobbedienti o indignati di professione (mi sembra che da noi ce ne siano già a iosa) o, ancora peggio, in asceti biliosi. Mi limito a dire che chi non è disposto a praticare nella vita la libertà che rivendica a parole tutt’al più è un retore da due soldi, finché non ha potere, e un pericolo pubblico quando è messo nella condizione di comandare (come sappiamo dal conte Mosca di Stendhal, il rivoluzionario pentito è il peggior tipo di reazionario). Come si vede, per me il coraggio non è una virtù esclusivamente filosofica. È un modo di praticare la vita del pensiero, o il pensiero nella vita, che può essere appannaggio di chiunque abbia la fortuna di non consumarsi l’esistenza nel lavoro manuale o in impieghi monotoni e frustranti. Tuttavia, persino nella nostra società iper-intellettualizzata, gran parte dell’umanità non può permettersi la libertà di parola, perché ne andrebbe della sua sopravvi27

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venza immediata. È dunque nel nome di chi non può praticare la libertà di parola che noi, filosofi o intellettuali di ogni tipo, dovremmo esercitarla come condizione primaria della nostra professione. Volevo terminare qui le mie futili osservazioni, ma non posso tacere che proprio nel momento in cui stavo per spegnere il computer, si chiudeva l’avventura politica di quell’uomo che, per quasi vent’anni, ci ha imposto il suo stile di vita, le sue freddure e il suo populismo reazionario. Ma una certa allegria davanti alle immagini della sua caduta, peraltro assai soffice, si è subito spenta quando ho letto che il nuovo di governo è approvato da quasi il 90 per cento dei nostri concittadini. E cioè, si noti, un esecutivo sponsorizzato da investitori finanziari di tutto il mondo, agenzie di rating, poteri forti europei, banche centrali e così via. Insomma, un progetto del comitato d’affari dell’economia globale, per citare il vecchio Marx. Sfogliando i quotidiani, vedo che l’intero arco politico, con poche eccezioni di corifei attardati del vecchio regime, si appresta a sottoscrivere questo straordinario coup d’état legale e costituzionale voluto dalla finanza. Sono proprio curioso di vedere, nei prossimi mesi, come l’opinione pubblica, che fino a pochi mesi fa si divideva sull’imprenditore di Arcore, si unirà nel sostegno al tecnocrate della Bocconi. Tempi duri per la parresia, mi viene voglia di dire. Forse, varrebbe la pena riprendere il dibattito sul coraggio della filosofia tra un anno o giù di lì...

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Tirare dritto FABIO POLIDORI

ssumerei, a titolo di premessa, che parlare di coraggio della filosofia può suonare ridondante. Non credo si possa riconoscere, nella storia o nelle storie della filosofia, qualcosa che non contenga e conservi in sé i tratti di una mossa audace, di un’apertura rischiosa, di un percorso a una certa altezza e senza rete di protezione. Già solo in questo senso, “aut aut” (tra virgolette, nella sua materialità di contenitore) è non solo l’indice di ineluttabili alternative e, conseguentemente, di necessarie e ovviamente coraggiose scelte, ma anche l’apertura di uno spazio nel quale alternative e scelte vengono pubblicamente esposte, esaminate, dibattute. Uno spazio insomma di assunzione di responsabilità, per definizione quindi non accessibile o praticabile senza una certa dose di coraggio, indispensabile sia sul piano sincronico – quello delle scelte di campo, dei conflitti tra saperi, delle battaglie culturali a carattere più o meno (ma sempre e necessariamente anche) politico – sia lungo un asse diacronico – quello delle rotture o declinazioni dei percorsi, dei cambiamenti di stile, di programmi o di impostazione, giù giù sino al reclutamento e alla cooptazione all’interno della redazione. In breve, liquiderei la faccenda del coraggio semplicemente osservando che la rivista è nata appunto come contenitore o insomma luogo di atteggiamenti politico-culturali, quindi per definizione coraggiosi, con in più la scelta (a questo punto più geniale che ardita) di un nome che non lascia scampo, di un significante che

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non può (aprioristicamente e in linea di principio) ritrovarsi finalmente riempito da alcun “significato” permanente, da alcuna scelta di campo definitiva. Un significante che, soprattutto, non può essere aggirato, scansato, ignorato da alcun tema o argomento, da alcun fascicolo più o meno monografico, forse nemmeno da un singolo saggio o articolo. Nel senso, intendo, che nessun testo sfugge a una certa impronta, a una certa sagomatura che viene a ricevere dal collocarsi entro lo spazio definito da “aut aut”. Questo non esile peso dell’assai esigente significante “aut aut” segna e ha costantemente segnato la storia (i vari presenti) e il presente della rivista (intesa globalmente, come totalità di testi e teste). Ma nella sua selettiva funzione di contenitore si è costantemente avvalso, nel corso dei suoi anni, di alcuni nomi, di alcuni punti di riferimento che definirei in termini di significanti ausiliari, che hanno svolto un indispensabile lavoro di orientamento nel (e insieme di definizione del) presente; un lavoro in altri termini politico, soprattutto in relazione a epoche che, pur cronologicamente vicinissime, per uno sguardo retrospettivo metodologicamente astratto potrebbero anche collocarsi a distanze ragguardevoli. E l’elemento il quale, storicamente e in concreto (ossia politicamente), ha consentito che ci fossero delle tangenze, che gli estremi di un’epoca si rilanciassero negli inizi dell’altra, che a tratti si tenessero insieme in un gioco di (parziali) inclusioni, è senz’altro, secondo me, quella base filosofica in cui alcuni pensatori di riferimento, con funzione di significanti ausiliari, trovano il senso e le radici della loro collocazione rispetto ad “aut aut”. Intendo, insomma, il luogo in cui quei significanti che sono Husserl, Marx, Heidegger, Derrida, Foucault (per snocciolarli secondo il corso della rivista) hanno avuto la possibilità di essere cercati e trovati, il loro terreno comune, ancorché mai troppo stabile e sempre in trasformazione, da cui è stato possibile trarre materiali e suggestioni in grado di consentire la costruzione di istanze concettuali e di operazioni critiche. E, di rimando, in cui è anche stato possibile far confluire e risuonare le istanze del presente, quelle che, di volta in volta o di epoca in epoca, meglio si riconoscevano nell’uno piuttosto che nell’altro. (Forse un discorso e un’analisi a parte 30

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meriterebbe il caso di Nietzsche, la cui presenza nello spazio di “aut aut” segnala una senz’altro maggiore longevità che si coniuga a una minore visibilità, magari proprio per l’ovvio e tautologico motivo che Nietzsche è sempre stato e non può che continuare a essere un caso.) Sto cercando di indicare un doppio movimento, di andata e ritorno, attraverso il quale si è reso e si rende di volta in volta possibile, nello spazio di “aut aut”, l’apprensione di un’epoca, la sua analisi, la costruzione di strumenti critici per affrontarla e per pensarla; e che mi sembra coincidere proprio con il movimento stesso della filosofia, delle sue dimensioni e delle sue trasformazioni. Un doppio movimento niente affatto estrinseco alla filosofia e niente affatto estrinseco ad “aut aut” (se non si desse o non si fosse dato, la rivista non sarebbe quello che è ed è stata), la cui cogenza o necessità si può vedere proprio nelle trasformazioni che ne hanno attraversato la storia e nei passaggi o nelle rotture che hanno contrassegnato l’entrata in scena di ogni nuovo nome o significante filosofico di riferimento. Così come ciascun autore tra quelli nominati ha inaugurato lotte e tracciato campi di battaglia che hanno rimesso profondamente e radicalmente in discussione l’operatività e per così dire il destino della filosofia stessa – riconfermandone per(ci)ò costantemente il senso – allo stesso modo la sua figura è intervenuta e interviene nello spazio di “aut aut”, riconfigurandolo e rimodulandolo talora in maniera assai accentuata e non necessariamente indolore (tanto per ricordare il passaggio dal significante “Marx” al significante “Heidegger”). Cos’altro avrebbe, altrimenti, consentito a quello spazio affatto particolare che è “aut aut” di restare in certa misura costantemente aperto, disponibile, accogliente, ospitale nei confronti di istanze talvolta anche assai distanti (per non dire ostili) dalla filosofia più o meno ufficiale o accademica, se non appunto la possibilità stessa dell’ospitalità filosofica? Dico questo non tanto per sottolineare l’aspetto – peraltro decisivo – dell’apertura, quanto il fatto che, affinché ci sia un’apertura, deve pur esserci un luogo circoscritto altrettanto decisivo, una casa, uno spazio delimitato, delimitabile e virtualmente richiudibile. Nel vuoto non si dà ospita31

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lità. Per questo motivo, credo, all’interno dello spazio aperto, contrassegnato e delimitato da quei significanti maggiori – e solo all’interno di esso – hanno potuto collocarsi, nel corso degli anni, altri nomi, importantissimi e per certi versi forse ancora più visibili, come quelli di Freud e di Lacan, come quelli di Basaglia, di Jung, di Bateson, ma anche di Bergson, di Benjamin, di Arendt eccetera. Tuttavia, solo a condizione di collocarsi entro uno spazio non privo di coordinate, per così dire orientato, le loro questioni sono riuscite di volta in volta a risuonare “epocalmente”, ad articolarsi alle questioni rilanciate, talvolta quasi con violenza, da un presente, da una attualità già sempre in qualche modo filosoficamente appresa e perciò orientata. Questo insomma solo per dire del senso filosofico e insieme politico di quel luogo inevitabilmente chiamato “aut aut”; un senso che – benché possa apparire in queste righe costruito a ritroso – io intendo come indispensabile sfondo da cui potrà animarsi e prendere slancio ogni progetto futuro, anche lontano e non ancora perscrutabile, che voglia riconoscersi in questa mobile e movimentata storia. Sebbene questo discorso possa apparire, sino a qui, appeso esclusivamente a un sostegno teorico e solo genericamente rammemorativo, in effetti contiene la (o è contenuto dalla) storia personale di chi lo sta scrivendo. Una storia senz’altro piuttosto banale, incominciata con una frequentazione, da studente universitario, piuttosto assidua dei corsi che di anno in anno si susseguivano nell’insegnamento di Storia della filosofia contemporanea. Quei corsi – come incominciai a imparare – molto spesso riecheggiavano complessità, nomi e suggestioni che ogni tre mesi si potevano ritrovare confezionati all’interno di una copertina rossa (o arancione?). Sotto la cui egida, a un certo punto, mi fu proposto dall’allora e tuttora direttore, nel frattempo divenuto anche mio maestro, di infilare qualcosa di scritto da me. Non escludo – anzi, sono del tutto convinto – che questo input abbia prodotto effetti di gittata piuttosto lunga, proiettandomi lungo un non breve cammino di avvicinamento all’insegnamento universitario, infine raggiunto. Di questo cammino (che nel 1987 mi portò anche a entrare nella redazione di “aut aut”) mi piace – si fa per dire – 32

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ricordare un episodio, immediatamente successivo a un concorso per ricercatore universitario (che non vinsi), in occasione del quale uno dei commissari mi disse, grosso modo e come sovente capita, che la mia prestazione era stata particolarmente apprezzata; soggiunse tuttavia che, in future analoghe occasioni, tra i miei titoli avrei forse dovuto ridurre un po’ il numero di tutti quegli estratti (per altro assai belli) dalla copertina rossa (o arancione?). Gli risposi, mentendo, che capivo e tirai dritto, continuando ad accumulare estratti con la medesima copertina. Quegli estratti ora non si fanno più, resta comunque il tirare dritto con, inoltre, la sensazione che, forse, capisco meglio.

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La responsabilità della scrittura GRAZIELLA BERTO

a mia partecipazione alla redazione di “aut aut” è iniziata nei primi anni novanta, mentre, dopo essermi laureata a Trieste, stavo preparando la tesi di dottorato in filosofia sull’Unheimlichkeit. Ero allora completamente immersa, a tempo pieno, nei miei studi e nelle mie ricerche, e le riunioni milanesi della redazione rappresentavano per me un luogo in cui il lavoro filosofico prendeva vita al di fuori di un contesto strettamente universitario, attraverso una pluralità di voci e di esperienze in cui si attualizzava un “fare” filosofia che assumeva una tonalità più concreta. Ciò che si tentava di leggere erano dei testi più dispersi e più difficili da decifrare di quelli disponibili nei libri, lo sforzo era quello di cimentarsi con un mondo che già allora cominciava radicalmente a cambiare; anche se sempre assicurati, certo, ad agganci teorici capaci di evitare le cadute più rovinose. Il fascino e la sfida del fare filosofia provenivano in primo luogo dallo stimolo ad affrontare tematiche che non si lasciano dominare con sicurezza attraverso la competenza teorica o lo studio specialistico. Argomenti come la “rete”, l’università, o la guerra nella ex Jugoslavia costringevano a esporsi su terreni che il mio bagaglio di letture ma anche la mia esperienza non mi permettevano di dominare, a cercare un rigore che non può essere quello dell’esaustività dei riferimenti bibliografici. Il senso di inadeguatezza e insieme il pudore di fronte a questioni così complesse e delicate mi ha spinto a modificare il mio atteggiamento rispetto alla

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produzione di un testo filosofico: l’attenzione si è spostata dalla ricchezza e dall’adeguatezza dei riferimenti, o dalla ricerca dell’originalità, al tentativo di dire qualcosa, magari di laterale o di marginale, che vada però a toccare un nodo irrisolto, un aspetto aporetico, a far vedere qualcosa che nel discorso comune normalmente rimane nascosto, inesplicitato, e che invece può interromperlo, complicarlo. In questa trasformazione ciò che è venuto in primo piano è stata l’operazione stessa della scrittura, come ciò che davvero qualifica il fare filosofia. Il mio primo incontro con la redazione della rivista è avvenuto in occasione della preparazione di un numero su Ernst Bloch – pensatore su cui avevo scritto la tesi di laurea e poi un libretto intitolato L’attimo oscuro –, focalizzato sul tema del “pensare e narrare”. Quello che sembrava un semplice oggetto da trattare – il tema della scrittura filosofica – è diventato un esercizio fondamentale e imprescindibile: scrivere un testo per “aut aut” vuol dire per me innanzitutto interrogarmi su “come” scriverlo. E questo cambia anche il senso di ciò che lì viene detto, poiché, di qualsiasi argomento si tratti, non può essere pensato come un semplice contenuto di sapere da trasmettere o da comunicare. È questo esercizio che forse dà senso al cimentarsi anche con argomenti di cui non ci si può dire specialisti, rispetto a cui non si è legittimati da un particolare bagaglio di sapere. La preoccupazione non è tanto quella di fornire nuove informazioni – pur non escludendo che anche questo possa accadere – ma di modificare, anche con piccoli spostamenti, lo sguardo sulle cose. Di farne emergere, per citare proprio Bloch, delle prospettive oblique, laterali, insolite. Questo vale per un testo sull’università, sull’Europa, sulle migrazioni, ma anche per un testo, apparentemente più specialistico, che si occupi di leggere un autore, sia Heidegger, Levinas, Lacan, Butler o Sloterdijk. Negli ultimi anni la mia partecipazione agli incontri della redazione di “aut aut” si è rarefatta, così come i miei testi sulla rivista. Posso ormai dedicare solo un resto del mio tempo a questa attività, le mie giornate non sono più riempite fondamentalmente dalla ricerca e dalla scrittura ma sono affollate dalle ore di inse35

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gnamento e da altre occupazioni che rischiano di lasciare poco spazio al pensiero. Quello che rimane, comunque, quando ho ancora la possibilità di scrivere un articolo per “aut aut”, è innanzitutto l’attenzione alla scrittura stessa: non certo dettata da una preoccupazione di tipo formale o tecnico-stilistico, ma, proprio al contrario, dall’esigenza di impegnarmi in un esercizio di pensiero che si attua nella costruzione stessa del testo. Mi viene in mente una possibile variante del motto che Kant attribuisce all’Illuminismo, e che potrebbe suonare: “Scribere aude!”. Il coraggio della filosofia implica, in fondo, il coraggio della scrittura: la decisione di uscire da un modo codificato, neutro o accademico di fare filosofia chiama in causa il gesto della scrittura, ne mette in discussione l’obbedienza acritica a uno stile stereotipato e a un linguaggio necessariamente tecnico e specialistico, obbliga a dare un peso e una risonanza alle parole e alla loro concatenazione, che ne fanno esplodere l’uso convenzionale. Uno dei motivi che più costantemente è emerso negli incontri di redazione di “aut aut”, dagli anni in cui ho cominciato a farne parte, e che continua a rimanere un punto di riferimento, è l’attenzione alle pratiche, a volte anche con il rischio di far emergere un “complesso” nei confronti della teoria, un desiderio di padroneggiare ambiti rispetto a cui il filosofo manca di esperienza. Il discrimine, forse, non è tanto quello di allontanarsi dalla teoria, ma di vivere la teoria come una particolare pratica, con la responsabilità che ogni pratica comporta. Se la teoria implica una presa di distanza dalla realtà, se è uno sguardo che cerca di cogliere dei tratti che sfuggono alla visione abituale, una tale distanza non deve però diventare distacco dalla realtà, deve piuttosto aprirne degli squarci o delle pieghe che normalmente rimangono opachi. In questo esercizio, tutt’altro che semplice, mi sembra consistere l’impegno della teoria: si tratta di imparare a muoversi, in un equilibrio sempre precario e mai definito una volta per tutte, tra le urgenze a cui la realtà ci richiama e lo spazio in apparenza più tranquillo che rende possibile uno sguardo su di esse, per quanto sempre parziale e impuro. È a questo esercizio che cerco di allenarmi ogni volta che scrivo un testo per “aut aut”: con più attenzione – 36

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almeno così mi sembra – di quando scrivo per altre destinazioni; anche se l’allenamento si traduce, un po’ alla volta, in un atteggiamento e in uno stile di lavoro da cui è impossibile prescindere. “Scrivere la realtà” o “scrivere il presente” mi sembra essere infine la sfida a cui mi richiama una rivista come “aut aut”: è una sfida che rasenta l’impossibile, che espone a rischi e cadute, a sensi di inadeguatezza e di fallimento, soprattutto in un momento in cui il presente diviene particolarmente difficile da guardare e da decifrare, proprio mentre pone questioni che coinvolgono e mettono in crisi in modo diretto la mia vita, i miei progetti, assieme a quelli degli altri. Si tratta però, forse, dell’unico richiamo che può salvare la teoria dal ridursi a uno sguardo vuoto, autoreferenziale, tanto più sicuro di se stesso quanto più sciolto da ogni responsabilità.

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A partire da “aut aut” ANTONELLO SCIACCHITANO

rent’anni dopo. Trent’anni non sono molti oggettivamente. Soggettivamente sono una generazione e mezza. Trent’anni fa, con il numero su Lacan (“A partire da Lacan”), entrai nel laboratorio di “aut aut”. Seguirono collaborazioni sporadiche. Le più significative: il numero sull’epoca della psicanalisi e il numero sull’uno. Per tanto tempo sono rimasto collaboratore esterno alla rivista. Con la redazione ci siamo annusati a lungo. Mi chiedevo che bestie fossero i redattori. Loro si chiedevano che bestia fossi io. Dopo tutto collaboravo ad “aut aut” senza coperture né accademiche né istituzionali. Chi garantiva il mio discorso? Ero solo uno psicanalista free-lance non troppo ostile alla filosofia. Io, invece, ero attratto da una peculiarità della redazione. Avevo davanti a me dei filosofi che si interessavano alla psicanalisi. Come era possibile interessarsi alla psicanalisi, mi chiedevo, senza avere alle spalle un retroterra scientifico? (Oggi, a trent’anni di distanza, questa domanda non si pone, avendo la psicanalisi espulso da sé ogni riferimento scientifico.) Non sapevo ancora bene – lo sapevo sì, ma in modo libresco – che la fenomenologia, soprattutto quella di marca husserliana, ruota intorno alla questione del soggetto, nel tentativo di liberarlo dalla presa metafisica – di indebolirlo, si diceva. Forse il soggetto fenomenologico era lo stesso soggetto del desiderio inconscio? Un’ipotesi da controllare. Soggetto, scienza, soggetto della scienza. Credo che siano sta-

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ti questi i significanti che hanno giocato tra me e la redazione di “aut aut”, segnando la mia collaborazione. Una collaborazione che non è stata mai sul piede dello scambio paritario, come al mercato, con qualcuno che offre una merce e qualcun altro che la riceve, uno che compra e l’altro che vende in cambio di denaro. Lo dico per me. Io mi sono trasformato durante la transazione. Ho rivisto, e profondamente, le mie posizioni freudiane e lacaniane di partenza alla luce del dibattito che andava configurandosi in redazione, contemporaneamente recuperando le esperienze primordiali della mia formazione, che sono state scientifiche – anatomia normale, immunologia, statistica medica. Se il punto di partenza della mia vicenda redazionale è stato incerto e confuso, il punto di arrivo è “chiaro e distinto”. La citazione cartesiana, scontata, è voluta. In redazione ho scoperto Cartesio. Non il Cartesio delle Meditazioni cartesiane di Husserl, ma il Cartesio di Derrida in “Cogito” e storia della follia, suggeritomi da Rovatti, che qui pubblicamente ringrazio. Quel Cartesio, depurato dai luoghi comuni accademici – dualismo, teologia, razionalismo, idealismo –, si inseriva nei miei interessi di ricerca, che vertevano allora e vertono tuttora, intorno alla logica intuizionista di Brouwer e alla possibilità di derivare dalla sospensione del principio del terzo escluso una logica adatta all’inconscio freudiano. Non vel, ma neppure aut aut. Di questo percorso sono rimaste alcune tracce in saggi comparsi sulla rivista. Cito uno dei primi, che ho riletto con piacere: Credere, supporre, ammettere, scritto in occasione dell’uscita del libro di Gianni Vattimo Credere di credere. In redazione mi fa comodo – mi ha fatto comodo – la maschera cartesiana. Larvatus prodeo, come Cartesio. Dietro la maschera di una filosofia epistemica – all’inizio c’è il dubbio – ho potuto compiere un percorso che in questi ultimi tempi si va concludendo con una certezza: non c’è soggetto senza oggetto. “On pense avec son objet”, diceva Lacan nel 1964. Ancora una volta non si tratta di un oggetto del mercato, uno di quelli che si trovano sulle bancarelle dell’ontologia rionale o allo spaccio del nuovo realismo. Intendo l’oggetto della modernità: l’infinito. Si pensa con l’infinito, altrimenti non si pensa. Sulla base di questa intuizione 39

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– in parte intuizionista – ho rivisto criticamente le premesse della mia formazione freudiana e lacaniana. Ho potuto riesaminare le posizioni metapsicologiche di Freud, che mi sono apparse profondamente inquinate da uno spirito ippocratico di marca eziologica – il famigerato principio di ragion sufficiente. Infatti, le pulsioni della metapsicologia freudiana sono cause aristoteliche, per non dire agenti patogeni ippocratici. Sono cause efficienti le pulsioni sessuali, quelle che dovrebbero produrre la soddisfazione sessuale. È una causa finale la pulsione di morte, che orienta l’apparato psichico al più basso livello di eccitazione. Parallelamente, sulla scorta del decostruzionismo di Derrida, ho potuto sottoporre a critica il logocentrismo lacaniano, con le sue formule dottrinarie intorno all’autonomia del significante. Beninteso, salvo sia Freud dai suoi freudismi sia Lacan dai suoi lacanismi. Oggi per me non c’è psicanalisi senza inconscio freudiano, inteso epistemicamente come sapere che non si sa di sapere. A maggior ragione non c’è psicanalisi senza certi matemi lacaniani, in particolare quelli dei quattro discorsi e dell’oggetto a. Il resto – l’insieme delle varie sistemazioni dottrinarie della psicanalisi di questa o quella scuola – è per me da sospendere. Da questa epoché teorico-pratica derivano anche le mie scelte politiche a difesa della psicanalisi. Guardando all’indietro il mio percorso e prospettando un eventuale futuro, mi chiedo se, al presente, non sia arrivato al capolinea della mia vicenda redazionale. C’è stata in me un’evoluzione, frutto di un autentico lavoro intellettuale individuale e collettivo, come attesta anche la variazione della retorica della mia scrittura, diventata meno spigolosa, meno categorica, meno Besserwisser e da ultimo meno polemica; ma ora ci sono dei vincoli ambientali, che mi tocca prendere in considerazione e rispettare in prospettiva di una convivenza redazionale. In che misura un collega di estrazione fenomenologica può tollerare il mio discorso sull’oggetto, in particolare sull’oggetto infinito? L’infinito per me oggi è semplicemente la “causa” del desiderio e costituisce la base di partenza – à partir de... davon gehe ich aus... – per ripensare il corpo soggettivo e la sua esperienza di vita, i cosiddetti “vissuti”, gli Erlebnisse di Husserl. L’infinito è – lo dico in via congetturale – la 40

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zona erogena del corpo freudiano. Ma per il filosofo, in generale, e per il fenomenologo, in particolare, l’infinito è un oggetto problematico. Non essendo concettualizzabile in modo categorico, non è né vero né falso. Con che coraggio ne può fare la filosofia? Inoltre, non essendo un fenomeno mondano, è inafferrabile all’epoché fenomenologica. Come parlarne allora? Sicuramente non in modo ontologico. Non si riapre così la strada allo scetticismo? Per non parlare dei fantasmi religiosi, quando va bene hegeliani, che l’infinito suscita. Sono fantasmi attraversabili? Chissà. Forse anche per la redazione di “aut aut” è suonata l’ora di una trasformazione soggettiva, necessaria ad affrontare le questioni all’ordine del giorno.

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Il plurilinguismo della filosofia EDOARDO GREBLO

onfesso subito che quando ho cominciato a scrivere queste righe sul “coraggio” della filosofia ho provato un senso iniziale di disorientamento. Il “coraggio” mi è sempre sembrato un tratto della “personalità” – una caratteristica che si può (o non si può) ascrivere al carattere di qualcuno, concepito come persona inconfondibile. A ripensarci meglio, mi è però sembrato che questa formulazione linguistica presenti anche alcuni vantaggi. Anzitutto lascia trasparire l’idea che la filosofia sia un esercizio di pensiero che non dispone della sicurezza garantita da un qualche principio o presupposto teorico che pretenda di condizionare dall’esterno le operazioni del pensiero. Ma che, invece, deve impegnarsi nelle proprie procedure argomentative assumendo una riserva di fallibilità che richiama ogni slancio noetico verso l’alto al carattere impuro, complesso e imprevedibile dell’esperienza che alimenta la teoria e la spinge a riformularsi. In secondo luogo, costringe la filosofia a tornare nuovamente a interrogarsi sul “che fare?”, ovvero sulla domanda a cui il “pensiero debole” aveva cercato, a suo tempo, di dare una risposta. Perché il coraggio, in questo caso, vuol dire in sostanza chiedersi: qual è il ruolo della filosofia rispetto all’agire collettivo e individuale nell’epoca in cui nessuno crede più che da qualche parte vi sia il destinatario disponibile a lasciarsi orientare alla prassi liberatrice grazie alle sue prospettive critiche, come in Marx, oppure ad accollarsi il compito eroico di accelerare l’attesa salvazione del-

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l’Occidente, come in Heidegger, e prende atto, piuttosto, che siamo immersi in uno scenario (non solo) culturale denso di indicazioni e messaggi, di segni e prospettive che nessuno può pretendere di ricomporre nella cornice teorica di una sintesi ultima e conclusiva. E infine lascia intendere che la “pratica” filosofica non può essere interamente risolta nelle forme specialistico-accademiche di un sapere che è soltanto scienza, che dispone di istituzioni o apparati, si serve di canoni e linguaggi istituiti e si irrigidisce in ortodossie, perché, in fondo, il gesto filosofico primario consiste nell’esteriorità rispetto a ogni risposta già predisposta nelle categorie del sapere istituzionalizzato. Un’esteriorità che richiama, immediatamente, la questione dell’alterità, un tema che attraversa, come un filo rosso, la storia della rivista. Alterità non solo dal punto di vista disciplinare, come testimonia l’attenzione di “aut aut” per autori e temi non specificamente “filosofici”, dall’interesse per la psicanalisi e la psichiatria o per i problemi che si intrecciano intorno ai motivi del gioco, dell’umorismo e del paradosso sino all’attenzione per autori come Bateson e Goffman. Ma anche da un punto extradisciplinare, come dimostra il continuo sporgersi verso il mondo reale delle condotte ordinarie, delle pratiche culturali, degli orientamenti politici – basti pensare agli interventi e ai fascicoli sul multiculturalismo, sulle pratiche e le ideologie della medicalizzazione, sullo stato penale, sulle “Afriche” e il colonialismo o sulla figura dell’immigrato o sui “nuovi fascismi”. Se c’è del “coraggio” nella filosofia, questo è testimoniato proprio dalla storia di “aut aut”, che ha sistematicamente corso tutti i rischi che derivano dalla decisione di non ridurre la filosofia a disciplina solo accademica e di non ri(con)durla a criteri di sola scientificità. Parlare del “coraggio” della filosofia serve così a tagliare i ponti con l’idea che siano soltanto i discorsi filosofici, nel corso del loro sviluppo e della loro tradizione, a generare e a imporre quelli che sono o sono stati i suoi stessi problemi. È ovvio che vi è un modo scientifico di pensare, ma non è detto che lo scopo del sapere filosofico sia, e soprattutto sia ancora, quello di rintracciare fondamenti nascosti, principî ultimi, Verità 43

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con la V maiuscola. In fondo, se c’è un tratto condiviso nella cultura filosofica di questi anni, al di là della varietà delle tendenze e delle scuole di pensiero, esso coincide con il congedo dal presupposto che vi siano verità filosofiche giustificabili mediante argomentazioni filosofiche cogenti e apodittiche, al modo della metafisica. Alla fine della sua Dialettica negativa, Adorno avanzava l’esigenza di promuovere uno stile di pensiero che fosse “solidale con la metafisica nell’attimo della sua caduta”. Ci vuole coraggio a fare filosofia dopo la fine della filosofia, ovvero dopo la fine – largamente condivisa – di ciò che Heidegger chiama “metafisica”, cioè l’identificazione dell’essere vero con una struttura stabile, oggettivamente riconoscibile e soprattutto fonte di norme e regole di condotta. Solo se il coraggio di congedarsi dalla metafisica e dalle sue rassicurazioni provocasse uno shock e invadesse la vita, la filosofia potrebbe, “nell’attimo della sua caduta”, acquistare un’importanza più che accademica e tornare a essere non solo una forma di sapere codificata, ma anche una pratica di pensiero capace di avere delle conseguenze sulle pratiche in generale – non certo su quelle orientate all’edificazione privata, ma in direzione di quell’impegno pubblico che è il compito più importante della filosofia. Questo non significa che la filosofia debba rinunciare al suo luogo istituzionale nell’università e fare a meno di orientarsi su questioni di verità. Ma il “coraggio” della filosofia sta soprattutto nella disponibilità a rovesciarsi fuori di sé, a prendere posizione anche nei confronti dei problemi che le derivano dalla vita delle persone o della società, a incrociare il mondo, i suoi linguaggi e le sue esperienze. Quando Canguilhem afferma che “la filosofia è una riflessione per la quale ogni materia estranea è buona” o quando Deleuze dichiara che “il filosofo deve diventare non filosofo” per continuare a fare filosofia, intendono probabilmente dire che l’oggetto della filosofia non deve essere visto come la manifestazione di problemi che si sono generati all’interno dei suoi regimi di discorsività, come avrebbe detto Foucault, all’interno di quei testi che definiscono il genere “filosofico”. Il richiamo a Foucault non è casuale: la sua proposta, di spostare lo sguardo sul rappor44

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to tra le forme del potere e le forme del sapere, è una delle prospettive teoriche che più incisivamente mettono in crisi l’ipotetica autonomia di qualunque istanza filosofica, e questo spiega perché la sua proposta abbia costituito uno dei punti di riferimento di “aut aut”, dagli anni settanta a oggi. Da Foucault la rivista ha ripreso e valorizzato l’idea che l’oggetto della filosofia non consista in una forma del sapere in cui si addensano o si accumulano figure, modelli o concetti precostituiti, ma piuttosto la “vita” stessa nella dinamica sempre più accelerata della sue trasformazioni. E che il suo compito non sia quello di scoprire un ordine immutabile dell’essere da additare a norma delle condotte umane, poiché un assoluto o un incondizionato si schiude solo insieme alla giustificazione del mondo nella sua totalità, dunque mediante la metafisica. Ma piuttosto di reagire ai mutamenti storici fin dentro i suoi concetti fondamentali e di sottomettersi all’istanza di nuove esperienze, di pensare ciò che resta implicito nella “quotidiana presentazione”, come diceva Heidegger, di ciò che accade sempre dentro di noi, nel nostro corpo, nel nostro linguaggio e nei nostri vissuti – e nella relazione che corpo, linguaggio e vissuti, articolati al plurale, assumono nel nostro rapporto con il mondo. Tutto ciò, com’è inevitabile e come infatti avviene con sempre maggiore frequenza, spinge la filosofia ad avere contatti sempre più stretti e ravvicinati non solo con la politica, ma con tutte le condotte della vita ordinaria, dal diritto all’economia, dalla tecnica alla biologia. Non certo nel senso che la filosofia possa addossare su di sé l’onere di fornire senso e orientamento a saperi che ne sarebbero privi in nome di una sfera posta al di là dei singoli saperi disciplinari, si tratti della libertà esistenziale o dell’“essere” che accade: non sarebbe coraggio, bensì presunzione. Ma nel senso, piuttosto, che quanto più la filosofia si apre alle pratiche e alle esperienze del mondo, tanto più queste si configurano come altrettante occasioni per svolgere i suoi ruoli essoterici e ritrovare il suo luogo, la sua funzione e la propria legittimazione. La filosofia può sfruttare il suo plurilinguismo e il proprio riferimento perduto alla totalità per mediare il sapere professionale degli esperti 45

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con il common sense reinterpretando le condizioni tramite le quali elementi del discorso politico, giuridico o scientifico sono risposte possibili per il mondo che accade intorno a noi. E per contribuire a mantenere vigile la coscienza critica sulle questioni poste, nella prospettiva della loro applicazione, dai saperi specializzati che la società riceve dagli scienziati o dagli esperti. Ciò vale, per esempio, per la tecnica, che ormai condiziona ogni tratto della nostra esistenza, oppure per la biomedicina, che rimette in discussione ogni ovvietà su ciò che bisogna intendere per “vita”. In un certo senso, il coraggio della filosofia consiste nell’assumersi il compito di pensare dopo la fine della filosofia, dopo che i filosofi hanno rinunciato sia all’idea di godere di un accesso privilegiato alle idee e alle essenze, sia alla responsabilità di rendere conto delle nuove istanze che si affacciano nel nostro tempo e che rendono così difficile orientarsi nel dibattito filosofico in corso. Come la storia di “aut aut” è lì a dimostrare, il coraggio della filosofia consiste nel proporre uno stile di pensiero che non risponde soltanto ai problemi autodefiniti prodotti dalla stessa discussione scientifica e risolvibili in base alle regole codificate dall’accademia e dalla professione, ma che cerca invece di situarsi entro questo mondo per interpretarlo e per fornire contributi specifici di comprensione, in linea con la parola d’ordine, “alle cose stesse”, enunciata a suo tempo da Husserl. Se tutto ciò è vero, se al posto di una raffigurazione più o meno fedele dell’essente nel suo complesso subentra la rappresentazione di un venire a capo delle sfide della realtà, vuol dire che la “fine della filosofia” coincide, su un altro piano, con la possibilità di una rinnovata espansione dell’orizzonte filosofico. In fondo, se la filosofia può dare un contributo critico alla comprensione dell’accadere è proprio perché sin dall’Illuminismo ha sviluppato il discorso della modernità nella forma tipicamente filosofica di un’autocritica della ragione. Proprio per questo è nell’epoca della “fine della filosofia” che la filosofia ha un ruolo centrale da giocare. E questo ruolo può essere quello di un mediatore, che fa da interprete fra il mondo della vita, la prassi quotidiana, il senso comune radicato nelle condotte ordinarie e i contenuti essenziali ela46

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borati nel mondo degli esperti. Se, in linea con l’ispirazione fenomenologica che alimenta i primi anni di “aut aut”, ma continua sottotraccia lungo tutta la sua storia, si prende sul serio il primato ontico-ontologico del mondo della vita, allora il coraggio della filosofia consiste nella capacità di servirsi in modo coerente della sua dimestichezza con più linguaggi: i linguaggi ordinari che si applicano nelle condotte ordinarie e i linguaggi specialistici impiegati nella cultura degli esperti, che dal mondo della vita hanno preso le distanze. È nell’esercizio di questo lavoro esplicativo, che autorizza la filosofia a essere “poliglotta” e ad assumere il ruolo di interprete tra le lingue specializzate adottate dalle culture degli esperti e il linguaggio quotidiano radicato nelle condotte ordinarie, che secondo me “aut aut” (di cui sono redattore dal 1987) ha dato il suo contributo teoricamente più significativo. Il coraggio della filosofia, e di un lavoro culturale come quello portato avanti per decenni dalla rivista risiede, in questo senso, nel rinunciare a coltivare il vecchio sogno che la filosofia possa interamente risolversi in uno dei suoi ruoli o in qualcuno dei suoi “oggetti”, e nel continuare a esercitare, piuttosto, il lavoro di un interprete che, grazie al suo plurilinguismo, fa incessantemente la spola tra mondi, linguaggi ed esperienze.

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La morte del trascendentale GIOVANNI LEGHISSA

embro della redazione di “aut aut” dal 1998, eccomi dunque qui a raccontare cosa penso di “aut aut”. Non avrò certo la possibilità di giungere al 2061 (posto che nel 2061 la rivista esista ancora) per dire la mia. Lo faccio ora, assieme agli altri membri della redazione. Al lettore che storcesse il naso di fronte a questa sorta di delirio collettivo (“chi si credono di essere?”) anticipo subito una cosa: è mia intenzione dire non ciò che mi soddisfa nel programma editoriale della rivista, bensì ciò che non mi soddisfa. Vorrei usare le celebrazioni legate all’anniversario per enunciare la mia versione di quello che vorrei fosse il piano di lavoro futuro. Un futuro che però va radicato nella preesistente tradizione della rivista: ciò che rende sensata la presenza di una rivista come “aut aut” nel panorama editoriale italiano attuale assomiglia molto a ciò che ne rese opportuna la fondazione negli anni cinquanta, ovvero in un periodo in cui era urgente contaminare la filosofia con altre forme di sapere. Più precisamente, credo che “aut aut” giustifichi la propria presenza, ieri come oggi, in quanto tenta di incarnare quella che Paci, verso la fine del proprio percorso filosofico, ha chiamato enciclopedia fenomenologica.1 Qui va subito chiarito il rimando alla fenomenologia. Da parecchio tempo, “aut aut” non pubblica saggi legati alla tradizione

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1. Cfr. E. Paci, Idee per una enciclopedia fenomenologica, Bompiani, Milano 1973.

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fenomenologica. Un bene, per alcuni – altri forse se ne rammaricano. Certo, vivo Paci, la situazione era diversa in quanto la fenomenologia in Italia aveva un peso che oggi sembra aver perduto. Del resto, pubblicare saggi, poniamo, su Husserl o Merleau-Ponty, in cui si dà conto delle ultime novità emerse nel dibattito storiografico, avrebbe poco senso – per questo ci sono le riviste di storia della filosofia. Ma non si perda di vista il punto chiave: sto parlando di “enciclopedia fenomenologica”, non di fenomenologia e basta. La dimensione enciclopedica contiene il rimando non tanto a tutto ciò che c’è, quanto ai discorsi che si fanno o si possono fare su ciò che c’è. Il nostro rapporto al mondo non è immediato, ma passa attraverso un insieme di pratiche comunicative variamente istituzionalizzate. Ci potrà essere più o meno rigidità nel modo in cui l’istituzione regola il gioco comunicativo, ma non si può prescindere dal fatto che il comunicare il proprio rapporto con il mondo sia una componente non indipendente di una serie di pratiche sociali governate da interessi di varia natura, uno dei quali (ma non certo l’unico) mira a dire la verità. Un’enciclopedia fenomenologica serve a evidenziare quale nesso vi sia tra pratiche sociali e discorsi, e rende così la filosofia quel discorso che mostra come i soggetti si organizzino per abitare un mondo comune tanto in assenza di credenze vere giustificate, quanto in presenza di queste ultime. Alla loro assenza si può sempre supplire facendo ricorso a miti, o a discorsi persuasivi di varia natura; quando invece sono disponibili credenze vere giustificate, si costruiscono quegli edifici concettuali chiamati discipline, le quali costituiscono il deposito del sapere riconosciuto come vero in una data epoca. Ma se ciò che conta è il modo in cui i soggetti abitano il mondo comune a partire da un insieme di discorsi che comprende tanto i discorsi veri quanto quelli che non sono né veri né falsi (come i miti, o i racconti letterari), allora c’è bisogno di una struttura che connetta i due sottoinsiemi, al fine di indicare che l’uno non sta mai senza l’altro, che i discorsi sui fatti si mescolano sempre ai discorsi sui valori, che quando descriviamo qualcosa vogliamo anche convincere qualcuno che la nostra descrizione non solo è più vera di altre, ma è anche tale da autorizzarci a se49

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dere un gradino sopra coloro che non disporrebbero di descrizioni come le nostre. Questa struttura che connette, chiamata abitualmente filosofia, di solito serviva a chiudere il cerchio e a rendere così esaustiva la lista dei discorsi possibili – ed era in questo senso che si parlava di “enciclopedia”. Ma curvare l’enciclopedia in senso fenomenologico significa piuttosto vedere come l’insieme dei discorsi che gli umani fanno sul mondo e il modo migliore di abitarlo formi piuttosto un archivio, il quale è sempre in relazione con le pratiche, con la posizione che i soggetti parlanti occupano entro una formazione sociale data, con il modo in cui norme, leggi, istituzioni, organizzazioni o altre agenzie di governo delimitano gli spazi reali e virtuali entro i quali i soggetti si muovono. L’aggettivo “fenomenologica” accanto al sostantivo “enciclopedia” non vuole significare altro che questo rimando al soggetto, ovvero al fatto che i discorsi non sono lì solo per permettere la fissazione di enunciati veri, o di qualche narrazione particolarmente ben costruita, ma hanno anche il potere di inchiodare i soggetti che li producono di fronte alle proprie responsabilità in quanto produttori di senso. Questa responsabilità di fronte all’intenzione di conferire senso attraverso l’articolazione dei significati sta alla radice di ogni altra responsabilità, in quanto è la responsabilità di fronte a un mondo comune, abitabile in quanto mondo umano. Insomma, se la filosofia da sempre cerca di capire come nasca e come si articoli l’interesse per la verità che ci spinge a conoscere il mondo, una filosofia inserita in un’enciclopedia fenomenologica non trascura di connettere l’analisi di tale interesse a tutto ciò che gli umani fanno nel mondo della vita quando si tratta di distribuire ricchezze, ostentare potere, aiutare il prossimo, torturare i nemici e simili – quando, cioè, né facciamo l’elenco delle cose che ci sono nel mondo, né ci chiediamo come possiamo conoscere tutte quelle cose, ma semplicemente le prendiamo e le usiamo per mostrare a noi stessi e agli altri che esistiamo, che occupiamo uno spazio vitale degno di essere difeso (costi quel che costi). Ora, ci si potrebbe chiedere perché io voglia scomodare Paci e 50

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l’enciclopedia fenomenologica per sottolineare quanto sia proficua e percorribile quella strada lungo la quale la filosofia si incontra e si contamina con altri saperi al fine di rendere conto di ciò che accade nel mondo della vita. A ben vedere, si tratta di una strada che “aut aut” ha percorso anche dopo la morte di Paci. Posso darne testimonianza io stesso. Quando Paci morì, io frequentavo la scuola media. Successivamente, negli anni dell’università, quando iniziai a leggere “aut aut” – e, subito dopo, a frequentare le riunioni della redazione2 – erano i tempi del dibattito sul pensiero debole, ed erano anche i tempi in cui la rivista contribuì a mostrare quali succosi frutti si potessero trarre dalla filosofia di Foucault e di Derrida se queste non venivano interpretate semplicemente (e stupidamente) come segnali dell’avvento del “postmoderno”. Mescolando il modo in cui “aut aut” intendeva utilizzare il pensiero di Derrida e di Foucault con una lettura fenomenologica e non ermeneutica del pensiero debole, gli anni ottanta e novanta furono dunque gli anni in cui “aut aut” si fece promotrice di quella declinazione della ricerca filosofica intesa come attenzione alle forme di soggettivazione, al rapporto tra saperi e pratiche che sopra ho evocato grazie al richiamo all’enciclopedia fenomenologica. A me questa attenzione interessa, e di questa, compatibilmente con le mie risorse intellettuali, vorrei farmi promotore partecipando alla vita della rivista. Tuttavia, se mi permetto di tirare in ballo anche l’enciclopedia fenomenologica, non è per stabilire chissà quale continuità con il mitico tempo delle origini (tanto più che, ripeto, biograficamente quel tempo non mi riguarda); il punto che vorrei sottolineare è un altro: la contaminazione tra filosofia e i saperi che riscrivono (a loro volta in modo narrativo) i racconti di cui gli umani si servono per declinare le proprie identità plurali non è una semplice rimozione – o soppressione – del trascenden2. Ricordo ancora, di quel periodo, i mostruosi viaggi da Trieste a Milano, andata e ritorno in giornata, in treno o in macchina. Ciò in compenso favoriva l’interazione amicale tra membri della redazione. Spostandomi ora da Torino, dove insegno, il percorso è decisamente meno faticoso. Mi mancano però le lunghe conversazioni di allora, dalle quali spesso usciva l’idea di mettere in cantiere questo o quel numero monografico della rivista.

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tale, ma una sua messa a morte che va compiuta senza cancellare il ruolo che la filosofia si assunse quale sapere critico nel momento in cui la nozione di trascendentale prese vita.3 Provo a sviluppare il punto. Una volta morto, il trascendentale deve ancora tormentarci con il proprio fantasma. Se non avessimo il coraggio di incontrare questo fantasma, la filosofia si trasformerebbe – necessariamente, inevitabilmente – o in una delle tante scienze positive, o in una delle tante scienze della cultura. Nel primo caso, fare filosofia significherebbe mettersi a fare esperimenti in qualche laboratorio di neuroscienze. In tali laboratori infatti si gioca oggi la partita decisiva in merito agli statuti del vero: se l’interrogazione trascendentale articola la domanda circa le condizioni di possibilità della conoscenza, e se tra queste condizioni di possibilità ci mettiamo in primo luogo le nostre strutture cognitive (non siamo pipistrelli, dopotutto), allora conoscere come conosciamo diventa il solo modo plausibile per articolare la questione della conoscenza. Nel secondo caso, la filosofia si rende difficilmente distinguibile dal corpus disciplinare che, sotto l’etichetta di Humanities (o Kulturwissenschaften), analizza in vario modo il rapporto delle comunità storiche con il proprio passato, i modi in cui le differenze di genere, di classe e di cultura si intrecciano tra loro, o, ancora, il modo in cui i processi di soggettivazione hanno luogo all’interno di complesse relazioni di potere (ma questi che ho scelto sono solo alcuni tra gli esempi possibili). In tutti e due i casi, ciò che muore non è solo la filosofia trascendentale, ma la filosofia tout court. Ed è per impedire questa morte che il richiamo a un’enciclopedia fenomenologica torna utile. In primo luogo, da una certa idea di fenomenologia – seppure opportunamente naturalizzata4 – viene il suggerimento a non abbandonare la questione delle strutture cognitive all’abbraccio mortale dei cognitivisti. Questi ultimi, ignorando il nesso che esiste tra 3. Cfr. E. Paci, “Trascendentale” (1963), in Il senso delle parole, a cura di P.A. Rovatti, Bompiani, Milano 1987, pp. 32-34. 4. Sul tasso di naturalizzazione che la fenomenologia può sopportare, cfr. S. Gallagher, D. Zahavi, La mente fenomenologica. Filosofia della mente e scienze cognitive (2008), Raffaello Cortina, Milano 2009.

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processi neurofisiologici e ciò che la fenomenologia chiama costituzione, sono sempre alle prese con il rapporto tra un corpo organico fissato nella sua verità anatomica e le rappresentazioni interne che di esso si farebbe il cervello. La mente incarnata studiata dal fenomenologo, la quale emerge dalla fisica dei substrati microscopici, non deve invece porsi l’arduo compito di “giustificare” come essa faccia ad attribuire un significato agli stati di cose esterni; la mente incarnata infatti altro non è che il campo in cui si dipana l’intreccio tra percezione, azione e linguaggio. E questo riferimento alla corporeità, alla costitutiva embeddedness del mentale, spiega anche, in secondo luogo, come rivolgersi a un’enciclopedia fenomenologica possa permettere di evitare di lasciare in mano alle scienze della cultura – comunque declinate – il compito di mostrare in che senso siano storiche tutte le forme di sapere/potere che delimitano lo spazio entro cui hanno luogo i processi di soggettivazione. Si tratta di una storicità che intacca in modo costitutivo il modo in cui conoscenze vere giustificate si radicano nell’intersoggettività, nel modo in cui le umanità storiche articolano il proprio rapporto con il mondo della vita. Ma è solo a partire dalla fenomenologia che questo rapporto può venire studiato come ciò che si radica nell’interazione tra corpi viventi, ovvero tra soggetti incarnati: è il radicarsi corporeo nel mondo, è il bisogno di dare un orientamento comune allo spazio condiviso, ciò che costringe i soggetti a manipolare significati – manipolazione che, a sua volta, non sarà mai neutra rispetto alle pratiche sociali che regolano l’accesso alle risorse, materiali o simboliche, a partire dalle quali si definisce lo status. Nel progetto che ho solo delineato, è ovvio, non vi sono solo temi che vorrei vedere trattati nei numeri di “aut aut” a venire, quasi qui fosse in gioco una semplice questione di gusti in materia di orientamenti di ricerca e di studio. Ho voluto, più in profondità, esprimere la mia intenzione di contribuire alla messa in opera di un progetto culturale, filosofico e politico che credo abbia non solo solide radici nel passato della rivista, ma anche ottime chance di risultare attuale e proficuo nel presente. In vista di ciò, si tratta di coinvolgere forze esterne alla redazione, si tratta di ri53

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proporre, nell’epoca della rete, la centralità di un luogo di discussione e di aggregazione come una rivista, la quale ha tempi di elaborazione del discorso che non coincidono con quelli dell’immediatezza. Ma precisamente la presa di distanza dal dato, dalla presunta immediatezza, costituisce la cifra stilistica più caratteristica di quel modo di far filosofia legato alla tradizione fenomenologica. Se, infine, qualcuno obiettasse che un programma ambizioso come quello sopra delineato risulta impraticabile perché vago, dilettantesco, non specialistico, rispondo che si tratta di declinare l’enciclopedia fenomenologica come enciclopedia vivente (parafrasando la “filologia vivente” di gramsciana memoria), ovvero come progetto collettivo, che si nutre di varie competenze, sia esterne sia interne all’università. Certo ci vuole coraggio per farsi carico di una simile impresa. Coraggio teoretico ma soprattutto politico: non si tratta, infatti, solo del rischio di venir presi per dei dilettanti, ma anche della volontà di criticare la falsa concretezza dei saperi specialistici ovunque essa venga convocata per giustificare il reale – giustificazione che spesso serve anche a legittimare specifici rapporti di forza in seno alla società.

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Una rivista “di servizio” DAVIDE ZOLETTO

orrei portare un esempio. Ho incontrato la rivista durante la stesura della tesi di laurea verso la metà degli anni novanta. Cercavo allora letteratura critica sull’autore su cui lavoravo – Gregory Bateson – e su cui faticavo a trovare a quel tempo un dibattito italiano. C’erano i testi critici in inglese, c’erano le traduzioni italiane, ma non c’era ancora, nel nostro paese, una ricezione di Bateson in ambito non tecnico, nel senso che non trovavo molti tentativi di usare strumenti come quelli batesoniani per lavorare intorno a questioni non immediatamente disciplinari. Nella rivista avevo trovato, all’epoca, gli interventi di Alessandro Dal Lago (Gli algoritmi del cuore che risaliva addirittura al 1990, ed era un invito alla lettura dell’allora appena uscita traduzione italiana di Dove gli angeli esitano), di Reiner Schürmann (I doppi vincoli ultimi del 1991, tradotto da Gianfranco Gabetta sulla rivista nel 1992), di Rocco De Biasi (due saggi, fra gli altri, usciti entrambi nel 1994: uno sul “metalogo” e uno sui Sentieri di Bateson). E poi un intero numero monografico (il 251, del 1992) costruito a partire e intorno a Dove gli angeli esitano (appoggiato a testi dello stesso Bateson e della figlia Mary Catherine, con à coté saggi di Dal Lago, De Biasi, Gabetta, Rovatti). Non porto questo esempio per dire che “aut aut” abbia affrontato (o debba affrontare) autori o temi più o meno “filosofici”. Che Bateson sia o meno un filosofo non è il punto che vorrei sottolineare. Si potrebbero fare altri esempi – fra i molti possibi-

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li, e non potendo che seguire il filo di un personale percorso di lettura/ricerca: si potrebbero citare saggi o fascicoli costruiti a partire e intorno ad autori più esplicitamente filosofici (Derrida, Foucault, Deleuze), ma si potrebbero anche selezionare autori nei quali è meno forte il riferimento ai confini disciplinari e istituzionali della filosofia (Warburg, Goffman, Sayad o – più di recente – quanti rappresentano a diverso titolo la variegata galassia degli studi culturali e postcoloniali). Un ragionamento non dissimile si potrebbe proporre per quanto riguarda saggi e fascicoli costruiti a partire e intorno non ad autori ma a temi: ancora una volta più o meno esplicitamente filosofici (dall’ermeneutica alle cornici, dalla scrittura al gioco o all’umorismo, e così via). E credo che altri lettori potrebbero portare – sempre attingendo alla storia della rivista – anche esempi completamente diversi: per epoca, per interessi di ricerca, per sintonie teoriche o metodologiche. Quello che vorrei suggerire, con l’esempio dell’utilità che la rivista ha avuto per il mio lavoro di tesi di laurea, è che per me essa ha svolto sempre e prima di tutto una funzione – preziosa – “di servizio”. Nel senso che mi ha aiutato, e vorrei continuasse ad aiutarmi, a situare entro i contesti in cui lavoro – accademici (come quelli, per esempio, di una Facoltà di scienze della formazione) ma anche non accademici – riflessioni e dibattiti che altrimenti potrebbero essere poco presenti entro il contesto italiano, o comunque potrebbero esserlo in modo a volte molto settoriale. Non si tratta di “tradurre” (in un senso semplicistico del termine) in italiano riflessioni o dibattiti stranieri. Immagino che oggi molti possano accedere autonomamente a queste riflessioni e a questi dibattiti, nella lingua originale o nelle traduzioni italiane che comunque si continuano a pubblicare. Si tratta piuttosto – e mi sembra questo uno dei compiti più interessanti (e forse anche più “politici”) della rivista – di far circolare riflessioni e dibattiti tra il contesto internazionale e quello nazionale, tra le diverse discipline, tra i diversi ambiti istituzionali: “lavorando” in questo modo anche l’idea stessa del confine (e i modi effettivi di muoversi) fra contesti internazionali e nazionali, fra discipline, tra ambiti istituzionali. 56

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In questa direzione (verso la quale ho cercato di concentrare il mio contributo da quando, nel 2001, sono entrato in redazione), mi sembra che la rivista abbia dato spesso e dia ancora oggi prova di una grande vitalità. In questa stessa direzione, forse, può però anche correre qualche rischio. Fra gli altri, quello di diventare a volte – e senza volerlo – un po’ autoreferenziale: di riflettere e parlare soprattutto tra sé (e di sé). Mentre forse è importante che si apra il più possibile (potrebbe essere anche questo uno degli aspetti del “coraggio della filosofia”) ad altri interlocutori: non sempre e non necessariamente in sintonia con la storia lontana o recente della rivista, ma che sono interessati e attivi nelle riflessioni e nei dibattiti che “aut aut” vuole provare a far circolare.

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Vegliare, da capo RAOUL KIRCHMAYR

1. Dopo avere collaborato con “aut aut” a partire dall’ultimo anno dell’università, entrai nel gruppo redazionale nel gennaio del 2002. A oggi sono dunque trascorsi quasi dieci anni. Nel periodo in cui cominciai a partecipare alle riunioni l’emozione per l’attentato dell’11 settembre era ancora vivo e l’Occidente aveva da poco intrapreso la guerra in Afghanistan, quella che venne battezzata la “guerra al terrore”. Forse per bisogno di misurare questi dieci anni, con una certa frequenza mi sono guardato indietro, in verità senza riuscire bene a farlo, un tanto per la rapidità con cui sono trascorsi, un tanto per i cambiamenti che hanno indotto nel considerare la “realtà” del nostro tempo. La storia ci fa e noi procediamo in essa muovendoci a tentoni, provando a illuminare il percorso alla debole luce di lanterne. Crediamo di poter comprendere meglio il percorso dopo averlo compiuto, invece ci accorgiamo che l’oscurità si richiude su di esso e che tutto è da ricominciare. Teniamo in mano una lanterna accesa e confidiamo nel chiarore che diffonde. Però dalla fine del secolo scorso un vento freddo si è alzato e ha preso a spirare, minacciando di spegnerla. Più che in passato ho l’impressione che il chiarore dei nostri lumi accompagni una veglia inquieta. L’ingresso ad “aut aut” è stato per me uno spartiacque, mi pare di comprendere oggi. Avevo scoperto la storia alla metà degli anni novanta, forse tardi, con la guerra della ex Jugoslavia e la prossimità di Trieste al confine: i vecchi torpedoni avevano smesso di portare acquirenti di merci a basso costo, e preso a depositare pro58

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fughi. Gli anni precedenti, studente, ero troppo giovane per avvertire il peso della prima guerra del Golfo, provavo un’angoscia che era comune, ma poco di più. Certo, all’università discutevamo Baudrillard, che parlava di una guerra che “non aveva avuto luogo”, ma lo facevamo da spettatori ciechi. Solo più tardi sarebbero state per me altre immagini, quelle di Srebrenica, a lacerare la veste di intellettualismo con cui mi proteggevo per identificarmi. Stavo apprendendo indirettamente che talvolta è la storia a stanarti, e che in una presa di posizione si può concentrare il senso di una vita. Ritirarsi, combattere, resistere era un lessico bellico di cui ora cominciavo ad avvertire la violenza. Provai disgusto e rabbia a vedere le immagini dei caschi blu olandesi brindare prima della ritirata dall’enclave. Capii che testimoniare non è solo raccontare ciò che si è visto. Avevo riflettuto su che cosa fosse un campo: ai “seminari del mercoledì” commentavamo Agamben. Esperienza del limite, avevo anche letto. Ignaro del vissuto, provavo a ragionare, ma mi feriva di più ascoltare le storie degli esiliati volontari che si raccoglievano nel campo allestito nel paese del Friuli in cui avevo trascorso i miei anni di scuola. Sono le piccole storie quelle che mostrano il risvolto patetico della grande storia. Altri strappi in seguito avrebbero tagliato la mia veste, ed è forse questo tessuto scucito ciò che si chiama una biografia. 2. Il secolo è poi tramontato veloce e si è portato via le speranze di rinnovamento e di presunte “terze vie”. Ho sentito ancora più forte l’esigenza di un pensiero filosofico che riuscisse a farsi carico delle contraddizioni del tempo e di quelle che chiudevano un periodo della mia vita. Già nelle mie letture degli anni dopo l’università e in quelle del dottorato la fenomenologia si era accompagnata a Foucault, a Derrida, a Lacan, a Deleuze, era ritornata attraversando Basaglia, aveva costeggiato le scienze umane e la sociologia. Ho provato a usare queste lenti per osservare ciò che mi accadeva, e ciò che accadeva attorno a me. “aut aut” aveva smesso di essere la rivista dei miei anni di studente – quella pubblicazione che a me e ai miei compagni di corso forniva l’orientamento – ed era diventato un modo di stare nel campo della filosofia. 59

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Una pratica pubblica, insomma. Da quando iniziai a insegnare alle superiori e, al contempo, all’università – fu lo stesso anno del mio esordio in redazione – credo di non aver abbandonato questo approccio un po’ nomadico. Per certi versi mi corrisponde: non riesco a restare più di tanto tempo all’interno di qualcosa come un gruppo organizzato, soffro le porte chiuse, arriva sempre il momento di salutare, spesso è avvenuto presto. In “aut aut” ho trovato un luogo ospitale in cui la mia incapacità, forse perfino impossibilità, ad appartenere non mi spingesse, com’è accaduto, a pormi al margine, pronto a prendere la porta alla prima mancanza di respiro. Mi sono spesso chiesto se questo atteggiamento con cui prendo le distanze non nascondesse una pretesa di “visione di sorvolo”, con i suoi riflessi di padronanza teoretica e di intellettualismo, o non ne fosse il riflesso diretto: staccarsi per poter osservare e dissecare. Può essere che lo sia ancora, ma penso di avere compreso così, a forza di strappi, quale fosse il senso dell’espressione “ritornare alle cose stesse”. Un passo indietro per l’osservazione, uno dentro l’esperienza, per quanto quotidiana e banale questa possa apparentemente essere. Come, per esempio, varcare la soglia di una classe di liceo o di un’aula di università. Non voglio fare un elogio delle piccole cose, che sa subito di stantio, ma indicare una resistenza che si gioca sulla presenza. Per quanto decostruita, pur sempre un minimo di presenza e, sì, di corpo. Ecco quello che riesco a scorgere ora, dopo dieci anni, lungo il crinale dello spartiacque biografico: entrato in “aut aut” ho avuto la conferma che possono esistere delle pratiche non ortodosse di pensiero. E che ciò poteva entrare in fase con i miei desideri, anzi tutto un desiderio non utopico di “altrove” e di “altrimenti” che diversamente, immagino, non so quale strada avrebbe imboccato. Non smetto di provare a fabbricare questo “altrove” e questo “altrimenti”, e così riprendo da capo. Perché le contraddizioni del mio tempo sono ancora tutte lì, acuminate, e si intrecciano con quelle della mia biografia. Nei nostri anni di vento freddo è diventato necessario riprendere il discorso da capo, con pazienza. Se c’è qualcosa che questo arco di tempo anni mi ha lasciato è forse l’essere pazienti, per quan60

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to abbia l’impressione ogni volta che non vi sia più tempo, di fronte alla durezza dell’epoca, una sorta di urgenza trattenuta che sembra molto un saltare restando sul posto. Quanto più si restringe l’orizzonte tanto più si impara a riconoscere il potere del nostro tempo presente, che è quello di cancellare passo passo le speranze, non le memorie. Certo, ancora negli anni novanta non avrei immaginato che, al presente, questa sarebbe diventata la nota di basso dei discorsi. E ho imparato a diffidare di quelle parole che la ignorano, non facendola udire. Se vuole cogliere qualcosa dell’oscurità presente, il discorso della filosofia non può che far risuonare questa nota in tono minore, il tono dell’inquietudine e della meditazione. Nel linguaggio della redazione mi pare che esso corrisponda alla parola “inattualità”. Se il paesaggio della nostra esperienza si sta riconfigurando, l’esplorazione di territori nuovi non si confonde con la guerra di conquista proprio grazie all’inattualità del discorso e a una certa pratica che consiste nell’andare “dall’altra parte”. Rischioso, ma appunto non si tratta più solo di testimoniare. Non so bene se ciò voglia dire coraggio. Il coraggioso non si chiede se il suo gesto, nel mentre lo compie, sarà poi considerato tale. Esiste piuttosto una necessità che è insita nella “forza delle cose” e che si formula in un appello. Ascoltarlo e corrispondervi è tutt’uno. In redazione ho trovato questa stessa necessità, che è forse uno stile o un tratto pudico di condivisione. L’esercizio del prendere la parola non è volto a pronunciare discorsi consolatori o edificanti (il cui numero è cresciuto negli anni), bensì a riconoscere i buchi che si aprono nelle nostre vite, per fare fronte al disorientamento che segna le nostre esperienze, fin quelle minime e quotidiane, e per provare a suturare le ferite, reali e simboliche, che subiamo. Un pomeriggio di cinque o sei anni fa – non ricordo esattamente – Pier Aldo Rovatti mi disse questa frase: “Non riusciamo a vivere all’altezza dei nostri tempi”. Mi colpì: a quel tempo stavo pensando a qualcosa di analogo, non l’ho più dimenticata. È lo scarto tra noi e il nostro tempo, sempre da colmare, ovvero lo specchio di una condizione, quella che lui ha chiamato paradossale. A modo mio, allora coniugavo decostruzione e 61

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“pensiero debole” (per chi ha orecchio è una formula per un atteggiamento, non per dei contenuti), insistevo a scavare attorno alla generosità e alla responsabilità. Continuo a pensare che ve ne sia necessità, forse più che in passato, ma ora quel mio desiderio mi appare più come un sintomo dell’epoca. Desideriamo ciò che non c’è più, o ciò che sta diventando sempre più raro. Non so quali virtù richieda il nostro tempo, so solo che per gli amanti della giustizia e del pensiero, il desiderio di “altrove” e “altrimenti” mi sembra sia diventato ancora più bruciante. 3. La filosofia, per tradizione e per sua stessa “logica”, ha praticato una doppia mossa, forse da sempre: una certa collusione con il potere si è associata alla sua distanza, talvolta radicale, da esso. Prossima al potere e potere a sua volta, la filosofia è pure un’arte, una tecnica o un mestiere con cui ci si de-solidarizza dal sapere e dal potere. Senza questo scarto, la filosofia smette di essere compito ed esercizio critico per assumere l’abito dell’ideologia. Senza una certa prossimità solidale con le dinamiche del sapere e del potere, fino al rischio di una pericolosa tangenza, il discorso della filosofia smette di essere obliquamente efficace e si riduce a consolazione o “supplemento” per qualcos’altro. Se la filosofia è forma di padronanza e di dominio, perfino la forma delle forme della padronanza, non ci può essere né pratica né esercizio della filosofia senza una presa di distanza ironica da se stessa. C’è un’intera storia di declinazioni dell’epoché fenomenologica, in “aut aut”. Lo spazio interstiziale che essa disegna individua pure, di volta in volta, il luogo eccentrico del discorso. Senza questo luogo, nessuna possibilità di evocare le parole della tradizione critica e di impiegarle come compassi in grado di seguire le curve del nostro mutevole presente. Forse è troppo poco per un programma, ma è quell’olio sufficiente per tenere accesa la lanterna per la notte. D’altronde, che fare, se non rivendicare in nome dell’avvenire la forza debole della parola filosofica? Specialmente oggi, quando, più che in passato, le pratiche di emancipazione paiono aver esaurito la loro spinta, tradotte in programmi diventati più o meno rapidamente vetusti, in fondo anch’essi soggetti alla legge del 62

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mercato e delle mode. Conclusasi l’esperienza di pensiero della generazione post-strutturalista, quella degli anni sessanta e settanta, non riesco a scorgere granché, al momento: alla durezza dei tempi corrisponde l’impoverimento della critica, mentre si delinea per la filosofia il destino di una sua funzione vicaria alle necessità di legittimazione e di rafforzamento dello status quo. La strategia è nota: guadagnare alla causa dell’ordine vigente un potenziale di trasformazione, mentre il gioco delle mode garantisce visibilità. Il filosofo finisce per indagare particelle di sapere, le sue parole non perturbano più l’ordine delle cose. Da qui il desiderio ambiguo di calcare la scena del presente, mentre la parola “filosofia” è un tic della lingua. Questo presente è da smontare. A partire da quello di ciascuno, quando ciascuno non può che scrivere per se stesso (ecco perché la pratica di resistenza e di rilancio non può che essere testimoniale, benché non si deve ridurre alla sola testimonianza; ed è un altro bel paradosso). Occorre aggiornare certe pratiche emancipatorie, e sperimentare. Se c’è un programma (che in effetti non è tale, piuttosto una deprogrammazione), lo vedrei in un doppio impegno con cui rivendicare una certa libertà di pensiero, pur sapendo che il panorama è saturo di simulacri di libertà e che non ci è più possibile affermare una qualsivoglia autenticità. Da un lato, un lavoro di scavo sulla dimensione biografica – che impegni il senso della ricerca filosofica come scelta e destino di una vita – e che metta in rilievo le forme dell’inserzione di ciascuno nel complesso socio-culturale e storico che lo ha plasmato. Non si tratta di scivolare in un autobiografismo o in uno psicologismo, ma di tenere viva la tensione sulla questione del soggetto filosofico e insistere sull’articolazione tra la prima persona e i campi (sociale, culturale, linguistico ecc.). Dall’altro lato, e in connessione, spingere ancora oltre l’intera problematica dell’alterità nelle sue molte declinazioni fino all’orizzonte politico in cui ne va del diritto alla parola, del numero e della democrazia. Ne andrebbe di una riscrittura e di un reimpiego di una certa tradizione “spuria” della filosofia (dal marxismo, alla psicanalisi, alla teoria critica, alla stessa decostruzione). Con ciò ci si può disporre a presidio del bivio 63

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(evocato dal titolo della rivista, fin dalla sua fondazione, sessant’anni fa). In breve: prendere partito, ricominciare da capo, ritrovare le tracce della philosophia perennis, vegliare sul bordo di quel fronte invisibile che sono diventate le nostre vite. Il coraggio di questo filosofare: in un’epoca di nuovi conflitti che si annunciano, non più solamente una custodia del pensiero, ma l’avviarsi attrezzati al cammino che ci attende.

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Fare “vuoto” per poter pensare GIOVANNI SCIBILIA

o incontrato “aut aut” nel contesto accademico pavese. Che tanto accademico evidentemente non era, negli anni ottanta, o non solo. Un numero, Metafore d’infanzia, occupava il centro del corso di Storia della pedagogia del 1982, tenuto da Egle Becchi, curatrice del numero. In quel volumetto niente era come potevo fino a quel momento immaginare: l’Edipo non solo si rovesciava nel suo “anti” deleuziano, ma diventava la strada per pensare l’impossibile e controversa scena di un “amore dei bambini” (Schérer e Hocquenghem); il bambino veniva liberato dal costrutto “infantile” che gli aveva storicamente impedito di parlare attraverso una certa lettura di Foucault; Emilio proponeva l’enigma di un modello educativo e un pensiero mediato dal letterario. Per un ventenne problematico ce n’era abbastanza per allargare di un po’ la propria mitologia personale e sottoscrivere (con grande sacrificio economico) un abbonamento! Da quella scena a oggi moltissimo è cambiato. Ma certe fedeltà sono rimaste, perché la necessità del pensiero non è una moda e nemmeno un mood. È proprio questo che mi sembra ancora oggi, più che mai, al centro del lavoro di “aut aut”: una “volontà di pensiero” che prescinde i limiti delle scuole, le cordate accademiche e gli interessi mediatici ma che non esita, attraverso un ascolto attivo, a guardare altrove per trovare stimoli e provocazioni e riarticolare le domande. La mia entrata in redazione mi sembra a

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questo proposito emblematica. Avviene a ridosso dell’uscita del numero su Desiderio e godimento (2003) che utilizzava la “pubblicità” come ambito a partire da cui pensare il tema. Da una quindicina d’anni, infatti, avevo iniziato a lavorare nell’ambito delle ricerche e della consulenza per il marketing, fatto che mi trasformava in “esperto” con un background filosofico. In realtà, proprio il fatto che la mia expertise mercantile fosse dell’ordine delle “pratiche” mi metteva in una situazione particolarmente interessante per la rivista: non uno sguardo oggettivante sul mercato ma una voce che da dentro fa emergere aspetti inediti, piccole pieghe a partire da cui riflettere, decostruire e magari continuare a pensare. Uno spazio di questo tipo richiede una scissione in chi scrive, “Giovanni Scibilia”, tra un sé “filosofo” e un “altro” marketeer – e viceversa – cercando non tanto di sciogliere o, peggio ancora, di comporre la tensione ma di esasperarla, facendo delirare ciascuna delle due figure. È una posizione schizo difficile e, probabilmente, intenibile. Ma quello che, alla fine, mi ha sempre colpito, e per certi aspetti stupito, è che la rivista mi abbia offerto uno spazio per tentare un’operazione di questo tipo. Quale migliore segnale di reale apertura rispetto a un’alterità anche “esterna” (o presunta tale)? Che enorme distanza tra un filosofo e un consulente di marketing! Anche questa, certo, è una forma di coraggio (di “aut aut”). Ma il rapporto con l’alterità nella rivista, a mio parere, non si limita certo solo alla gestione redazionale, se così possiamo chiamarla. Io credo si tratti, in realtà, di uno dei suoi aspetti fondamentali e fondativi (ma è una fondazione “debole” e paradossale, non a caso). Nelle sue uscite migliori, “aut aut” mi sembra fare della filosofia un esercizio del pensiero che accetta di guardarsi in quanto altro da sé. Lo strabismo del pensiero, la sua deviazione “indecidibile”, riguarda sempre il pensiero, lo sappiamo. Eppure non sempre il pensiero ne è cosciente, più spesso è vittima di una cecità più o meno volontaria: meglio non saperlo, meglio rivolgere lo sguardo altrove (De Man diceva: “Blindness and insight” ...). È quanto mi sembra accada ancora oggi, per esempio, in certe riletture ontologiche di Derrida: meglio ridurre la scrittura a prati66

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ca di “iscrizione” e pensare della “traccia” la sua presenza, il suo valore documentale, piuttosto che accettare che la scrittura – l’alterità radicale, estrema che essa veicola – lavori da dentro il nostro pensiero, la nostra presenza e la nostra stessa vita, la supplementi al contempo di un veleno che la uccide e di un farmaco che la fa sopravvivere. È questa coscienza e questo “coraggio” che invece, secondo me, ci servono quando facciamo “aut aut”: il coraggio di non darcela vinta e di non farla finita – con il pensiero: un esercizio costante e il più possibile inesorabile che ci porta a guardare oltre e vedere costantemente “altro”, in altro modo, ancora. Questo è, a grandi linee, lo sfondo a partire da cui cerco, periodicamente, di tracciare una qualche “figura” di pensiero sulla rivista. Ma per poter pensare con questo tono, se non con questo spirito, sono necessarie alcune condizioni – temporali e spaziali (Kant forever...). Le riassumo in modo sommario. Il rapporto con il tempo e il proprio tempo, ovvero: l’“attualità”. Il semplice fatto che “aut aut” sia un trimestrale, secondo me, impone alla riflessione dei condizionamenti precisi: rende difficile un intervento realmente militante, capace di “incidere” direttamente su un fatto o sulla sua interpretazione. Il primo rischio, parlando di attualità, è che il tempo ci sopravanzi, facendo invecchiare i nostri testi prima ancora che siano pubblicati. Il mezzo che utilizziamo (la rivista trimestrale) non è adeguato per quel tipo di intervento, anche là dove trova il tono giusto. La periodicità di “aut aut” richiede un altro tipo di movimento, con un respiro diverso, un altro passo, insomma: un’altra durata. Più in generale, questo “fortissimo bisogno di riattivare la battaglia critica e di rivolgerla proprio là dove la maggioranza degli operatori intellettuali cerca ancoraggi sicuri in qualche variante ontologica tra filosofia e scienza” (cfr. Rovatti nella sua introduzione) apre una questione su cui forse non ci siamo ancora interrogati abbastanza (o su cui, probabilmente ci siamo interrogati troppo, fatto che adesso ci satura e stanca), ovvero il rapporto tra teoria e prassi, tra dire e fare, tra astratto e concreto. Mi sembra che la nostra possibilità di portare avanti il lavoro della rivista passi attraverso il fare (nuovi) conti con queste opposizioni. Che vanno decostruite, 67

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sottraendole – in primo luogo – alla loro presunta natura oppositiva. Credo che quando facciamo un fascicolo su Pasolini, per esempio, stiamo parlando anche della barbarie di questo tempo: l’inattualità di Pasolini non ci racconta forse, sotto una luce giustamente diversa dalle pagine di “Repubblica”, l’attualità di Berlusconi & Co? Non rischiamo, quando tagliamo corto e diciamo chiaramente le cose, di creare in realtà una più fitta cortina fumogena (parole che si aggiungono ad altre parole, “medialità”) e un nodo scorsoio per il pensiero stesso? E se le cose, direttamente, la filosofia non potesse dirle, proprio perché non può cedere alla “certezza” e alla “verità”? Se “girare attorno” fosse un modo per vedere di più e meglio? Molte sono le domande che dobbiamo porci, credo, non cedendo all’istinto di metterci a gridare (credo esistano altri luoghi per farlo), ma cercando di assumere un “altro” punto di vista che molto altro ancora può svelarci. La seconda condizione è invece di ordine spaziale ma ovviamente strettamente collegata alla prima. Negli ultimi vent’anni siamo stati (soprattutto) in “laboratorio” e adesso avremmo voglia di uscirne e riprendere una strada. Ma qui è forse il caso di chiedersi: sono tornate le condizioni per ricominciare a parlare con quello stile? Può nuovamente esistere una “aut aut” come quella degli anni settanta? Pensando anche solo alla città dove la rivista è nata, c’entra ancora qualcosa con la Milano di Paci? Che risonanza hanno oggi le nostre pagine e i nostri pensieri? Se siamo stati in laboratorio tutti questi anni, forse non è un caso. Però è altrettanto vero che il laboratorio si è intasato di oggetti, teorie, saperi. Forse è venuto il momento, per noi, di fare un passo indietro e interrogarci sulla natura e sul senso della nostra stessa strumentazione, un fare spazio o un fare “vuoto” che ci riportino sul significato più intimo che attribuiamo al “pensare”. È questo, credo, il nostro compito oggi, questo il nostro più grande coraggio.

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Organizzare il disorientamento PAULO BARONE

ripensarci, ciò che segna il mio rapporto con “aut aut” è un’immagine friabile, quasi senza margini, gassosa. Sin dalle prime volte in cui mi ci imbattei – verso la fine degli anni settanta –, essa mi apparve simile a una piccola galassia in espansione, o, come recita il titolo di un componimento di un celebre poeta indiano, un “nuvolo messaggero”. Al di là della singola confezione dei numeri – più o meno riuscita, a seconda dei casi – quel certo “taglio” che la rivista incarnava attraverso i temi, le figure, gli autori, i testi prescelti aveva ai miei occhi la forza di un magnete: invece che stabilizzarla in una posizione definita, le depositava attorno un materiale eterogeneo, disparato, inclassificabile, frutto di combinazioni non convenzionali e incroci non accademici. In tal senso, il profilo di “aut aut” dipendeva dalla capacità che la sua parte tematicamente tangibile possedeva nell’attirare e nel trattenere questa massa “amorfa”, anomala e sfuggente. Una simile “densità atmosferica” – solitamente tralasciata – costituiva, dunque, il suo charme, la sua attrattiva. Preferisco lasciare nel vago di una “nube” tale caratteristica, perché –indipendentemente dal fatto che a riguardo si possa concordare o meno – una cosa sembra invece incontestabile: “aut aut” appariva senz’altro uno dei luoghi tramite il quale la scena della realtà perdeva la faccia levigata e compatta entro cui viene (sempre o quasi) presentata, non solo dal senso comune, ma anche dal-

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le singole inquadrature, più o meno critiche, delle varie discipline del sapere. Non era perciò sufficiente allineare il proprio sguardo a una di queste prospettive per trovare la corretta messa a fuoco sulle cose, o quantomeno un orientamento di massima rispetto a esse, perché la “realtà”, sfigurandosi, non era più “nulla”: non un “oggetto”, né un dato, non un punto virtuale di convergenza, né una struttura sociale o un’illusione soggettiva. Piuttosto un’evidenza enigmatica, una rete di vapore, un castello di fumo. E, di per sé, non bastava nemmeno, “dinnanzi” a una simile emergenza, associare semplicemente due prospettive – per esempio marxismo e psicanalisi o linguistica e letteratura o scienza e filosofia – per superare quella certa unilateralità di fondo (e quel certo, conseguente, effetto allucinatorio di presumere di afferrare le cose della vita per il giusto o più autentico verso) che la pratica usuale di ciascuna comportava. (Io stesso non sono mai riuscito ad accumulare le mie materie di studio – teatro, medicina, psichiatria, psicanalisi, filosofia, e poi India e Oriente – come fossero stadi di un percorso coerente e progressivo. Il ciclo che esse descrivono è alquanto aleatorio, come una sorta di bozzetto in costante rifacimento, un giro di ballo, in cui le singole componenti acquistano valore soltanto perdendo o sospendendo il proprio vischioso vocabolario ufficiale di partenza.) L’idea che – collegando due o più punti di vista, due o più linguaggi, aumentando così la potenza di illuminazione, il raggio di dicibilità a disposizione – almeno un lembo di quella realtà sfuggente sarebbe rimasto preso in mezzo presupponeva ancora che quest’ultima fosse un che di esterno, di indipendente (sfuggente a modi di concepire ormai inadeguati, ma non a nuove forme di sapere). E invece la caratteristica precipua della sua dimensione nebulizzata consisteva nel non poter essere disgiunta dalle vicissitudini di chi la abitava, la conosceva, la viveva. Tanto più estranea e “altra” quanto più radicalmente inseparabile dal nostro coinvolgimento soggettivo – quello di noi cosiddetti soggetti empirici, della classe e del genere di appartenenza, ma soprattutto del nostro patrimonio storico-culturale, della “nostra” soggettività inconscia collettiva. La realtà si trovava certamente “tra”, “nel mez70

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zo”, ma non nel senso di qualcosa di accerchiabile da uno sguardo integrato, frutto della federazione dei diversi punti di osservazione, ma in quanto limite (ormai) inassegnabile, (ormai) indecidibile di tutte quelle tradizionali ripartizioni e opposizioni su cui ogni singolo punto si fondava. Per ciascuna forma di sapere, allora, una simile “realtà” – tanto soggettivamente prodotta, saputa e intima quanto oggettivamente trovata, sconosciuta ed estranea – significava patire piuttosto una distorsione, una disarticolazione, una sorta di slogatura permanente del proprio funzionamento ordinario. L’accoppiata filosofare/pensare, per esempio, che cos’era se non l’asse intorno al quale la filosofia doveva avvitarsi sino a perdere la propria identità, il proprio lessico, sino a sperimentare l’afasia, il balbettamento, per riuscire a pensare davvero qualcosa, persino a non pensare? Non trovo miglior sintesi a riguardo del lapidario “programma” di Deleuze: “Non esiste l’orecchio assoluto, il problema è avere un orecchio impossibile – rendere udibili forze che non sono udibili in se stesse. In filosofia si tratta di un pensiero impossibile, cioè rendere pensabili, grazie a un materiale di pensiero molto complesso, forze che non sono pensabili”.1 Come? “Scrivere nella propria lingua come ‘in una lingua straniera’.”2 Dunque, nessuna costruzione magniloquente, nessun gigantismo dialettico, nessun rispecchiamento compiaciuto. Era, e resta ancora, la lezione del minimo, del piccolo, del cenno breve e quasi involontario che emerge da un laborioso processo alchemico di depurazione e concentrazione. La lezione di Klee della versione intima, “portatile” del capolavoro a causa della “mancanza di forze”; quella di Scelsi di tenere a lungo una nota sola, come nei Quattro pezzi su una nota, quella del non multa, sed multum di Webern, o quella esemplificata dallo splendido titolo di Jabès di Uno straniero con, sotto il braccio, un libro di piccolo formato. Come che sia, per quanto mi concerne, “aut aut” è stata, for-

1. G. Deleuze, “Rendere udibili delle forze non udibili in se stesse” (1978), in Due regimi di folli, Einaudi, Torino 2010, p. 125 (corsivo mio). 2. Id., “Lettera a Uno sul linguaggio” (1982), in Due regimi di folli, cit., p. 161.

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se al di là dei suoi stessi propositi e senz’altro più in virtù dei miei, un manuale di disorientamento, una piccola scuola con cui aiutare a disciplinare (ma non a correggere) il disadattamento, quando ne ero un lettore esterno e anche ora – sebbene in altro modo – che ne sono redattore (dal 2003). Tuttavia, fin dove giungono, dove possono mettere capo disorientamento e disadattamento? È evidente che l’immagine (o non-immagine) dello sfiguramento gassoso d’esordio non sia casuale e che essa, riguardando sia “aut aut” sia la scena della realtà, definisca i termini della questione. Ebbene, questa immagine si è radicalizzata. “Prima” poteva essere riferita a un’area che la strumentazione concettuale “classica” – anche quella “critica” – tendeva a escludere o a eludere; un’area composta da lacune, sottrazioni, ombre, fratture, cesure, rifiuti, anomalie, tracce e contrattempi. “Adesso” essa coinvolge anche le procedure discorsive tradizionali e riflette la scena del presente al completo – non solo quella locale, ma anche quella del mondo. Non solo quello “esterno”, ma anche quello “interno”. Non soltanto il suo retroterra psichico inconscio o il suo tessuto geoculturale, sociopolitico, economico, ma anche il mondo inteso come “natura”, terra, acqua, aria, paesaggio. Ogni elemento, ogni cellula di tale “presente” è sollecitata a esporsi e, proprio per questo, marginalizzata immediatamente dopo, risucchiata in quell’area prima “riservata” a pochi, al poco di ciascuno, o anche a chiunque – ma soltanto “in potenza”. Questa generale sovraesposizione realizza una strana condizione di diffusa e particolareggiata invisibilità (qualcosa, secondo me, come un’età della polvere o un’utopia del presente). Così, se in precedenza, in condizioni di invisibilità ristretta, la capacità di mantenersi aderente alla massa amorfa, anomala e marginale – a volte addirittura di trattenerla e di darle voce creativa – ha costituito il giusto vanto e una delle prerogative specifiche di “aut aut”, nel momento in cui l’invisibilità si fa generalizzata, come oggi, quella stessa capacità pare trasformarsi nel suo principale handicap. L’aderenza a un’immagine abbagliante che, nello sbriciolamento convulso e incessante dei contesti, delle proporzioni e dei ritmi abituali, non lascia vedere, di fatto, più nulla, non rischia 72

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di equivalere (nel paradossale raddoppiamento) a una forma di cecità e di mutismo? Sono qui che cominciano i problemi di “aut aut” (ma, è chiaro, non soltanto di “aut aut”). Per l’ansia, forse, di rimanere a “mani vuote” – di perdere contatto con la “realtà” o di assistere passivamente a certe sue, appunto, oscenità – sembra essersi fatta silenziosamente strada nella rivista l’idea (o l’impulso) di poter “entrare” nell’immagine, di sfondarla, e afferrare almeno un frammento tangibile di quel che vi succede “al di là”. (Più che alla scelta di questo o quello specifico argomento mi riferisco alla eccessiva velocità delle discussioni redazionali, a una sorta di impazienza nei confronti del giro largo – magari infruttuoso – che queste potrebbero prendere, a un timore di “assentarsi” nel fumo della speculazione e, parallelamente, a un bisogno di “militanza” attiva nel “conflitto”, o nel pasticcio, “delle interpretazioni”.) Si può ricondurre questa inclinazione a una tendenza e a una questione più generale (e forse più decisiva). Se è vero che il ritrovarsi troppo “vicino” all’invisibilità generalizzata – che il sentirsi ostaggio di questa immagine – delinea sommariamente i contorni principali dello smarrimento attuale, parrebbe ovvio che l’urgenza del lavoro filosofico (e intellettuale in genere) sia quella di un recupero di una qualche “distanza” da essa (così che anche il tentativo di “sfondamento” di “aut aut” andrebbe letto in questa chiave: prendere “posizione” per averne una). Non contesto di per sé una simile esigenza, che può essere ancora tatticamente necessaria, ma il fatto di assumerla in modo scontato, quasi inconsapevole, non valutando che essa, invece, promuove un passo notevolmente problematico e per certi versi cruciale (dal momento che rimette in gioco la possibilità di guadagnare un po’ di “visibilità” delle cose). Occorre domandarsi a che prezzo: se si possa compiere un simile passo di “allontanamento” senza una drastica semplificazione dello scenario. Se non vi sia implicita una repentina, sbrigativa (e perciò sospetta) riabilitazione dell’intelaiatura teoretica della nostra memoria culturale, dei suoi diversi schemi operativi, la cui funzionalità sembra piuttosto, e allo stesso tempo, irreparabilmente compromessa, anche e soprattutto per via 73

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del suo diretto coinvolgimento nella produzione dello stato di sfiguramento odierno. O ancora, se non vi si annidi il desiderio di conservare antiche, un tempo consolidate, distinzioni e gerarchie (in primis quelle tra “le parole e le cose” e tra teoria e prassi), la volontà di difendere certe rendite di posizione a esse relative, e dunque il proposito di derubricare lo sfiguramento attuale a incidente di percorso, di ri-localizzarlo in un segmento specifico (per esempio la postmodernità, il godimento, il Dio dei vertici ecclesiastici, la globalizzazione, e così via), insomma di isolarlo, di “provincializzarlo”. Questo tentativo di ri-localizzazione può assumere toni grotteschi e brutali (come nel “laboratorio politico” italiano), ma anche tratti molto sottili e sofisticati, come nel caso, per esempio, di Baudrillard e Sloterdijk – citando due autori agli antipodi per stile –, i quali, pur fornendoci analisi senz’altro all’altezza della situazione, sembrano infine imboccare vie discutibili, il primo quella del “disincanto apocalittico”, frutto del tentativo di una “ri-localizzazione integrale”, senza resti (dove non ci sono “salvati” ma solo “sommersi”), e il secondo quella di una “neopedagogia contemplativa”, frutto di una ri-localizzazione limitata alla responsabilità antimetafisica degli (almeno) ultimi due secoli (dove anche qui ci sono, forse, solo “sommersi”, ma proprio per questo, l’antica disposizione alla vita ascetica e contemplativa, opportunamente aggiornata e ri-esercitata, vi costituirebbe l’unico correttivo filosoficamente adeguato). Eppure questa scansione storica della filosofia – a cui ci si appoggia e da cui non si sa prescindere per arginare un presente i cui confini si dilatano e sfuggono di mano – non è forse essa stessa parte del problema, dal momento che viene utilizzata come un “magazzino” sempre aperto (una riserva di senso senza limiti e sempre “presente”) in cui ripescare abiti concettuali del passato, “citazioni” che non occorre nemmeno “strappare” dal contesto, essendo questo già “distrutto”? Non proseguo oltre nella lista degli interrogativi, ma voglio solo far notare che ogni “passo di allontanamento” presuppone, più o meno tacitamente, l’impraticabilità assoluta dell’immagine di invisibilità in cui sta avvolto. Concludo, perciò, con l’ultimo. E se 74

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invece essa ci chiamasse a uno sforzo creativo di ripensamento “radicale” della condizione soggettiva, del Mondo, del sapere, proprio a partire dal sovvertimento capillare cui sono stati sottoposti, proprio a partire dalla, tanto esecrata, dimensione puntiforme con cui oggi si presentano? Se così fosse, come a me pare, il compito preliminare sarebbe quello di assumere in positivo lo svuotamento di sapere che ci caratterizza per comporlo con la consistenza residuale e impalpabile assunta oggi, indistintamente, tanto dalle “parole” quanto dalle “cose”, le sfumature. E “vuoti di sapere” – formula interlocutoria prescelta con alcuni altri redattori della rivista – sarebbe così il titolo programmatico con cui invitare “aut aut” a mantenersi sul filo dell’immagine di invisibilità generalizzata, dove credo di averla incontrata. Senza andare né avanti né indietro: non abbandonando il disorientamento, ma organizzandolo.

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Che cos’è il sapere, oggi? SILVANA BORUTTI

a mia storia con “aut aut” ha attraversato momenti di diverso significato e di diversa intensità. 1. Immaginazione produttiva ed estetica per le scienze umane. Tra la fine degli anni settanta e l’inizio degli anni ottanta, noi della scuola pavese di Fulvio Papi eravamo impegnati nella redazione di “Materiali filosofici”. “aut aut” era per noi rivista prestigiosa, che pubblicava saggi importanti dei nostri colleghi e amici Mario Vegetti, Egle Becchi, Silvia Vegetti Finzi, Marcella Pogatschnig. Della rivista, era percepito e ammirato da tutti, più o meno esplicitamente, il carattere di – come scrive Rovatti – “laboratorio critico assai aperto”. Lui stesso era venuto a Pavia all’inizio degli anni ottanta a parlare della fenomenologia dei bisogni e della questione del soggetto. Questo carattere aperto, e quel certo strabismo della ricerca filosofica, capace di guardare a lato del campo disciplinare della filosofia, interessava soprattutto me, che in quegli anni mi occupavo sostanzialmente di epistemologia delle scienze umane, cioè di saperi del soggetto: una filosofia alla ricerca di categorie e concetti non chiusi, ma prodotti in terreni limitrofi alla filosofia, come antropologia e psicanalisi. Saperi inquieti, che io interpretavo cercando quelle pieghe produttive del pensiero in cui si formano i concetti. Studiavo il campo dell’immaginazione e il carattere conoscitivo, di pensiero, dell’immaginazione e delle metafore, facendo riferimento sia alla nuova retorica e alle teorie della metafora, sia alle ricerche epistemologiche

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sulla logica della scoperta. L’interesse per l’elemento poietico che presiede alla formazione dei saperi, e che Kant chiama immaginazione produttiva, e l’interesse per il linguaggio come condizione della filosofia e per le retoriche filosofiche sono sullo sfondo dei primi articoli da me proposti e pubblicati nella rivista, uno nel 1987 e uno nel 1989. Ancora al tema della scrittura della filosofia appartiene un mio articolo del 1989 sul Tractatus di Wittgenstein. Collaborazioni dall’esterno, le mie, che diventano più strette e coinvolgenti, anche se non più assidue, alla fine degli anni novanta, nel nome di Wittgenstein. 2. Il Wittgenstein estetico. Wittgenstein, o meglio, il Wittgenstein ufficiale della filosofia analitica del linguaggio non è un filosofo di “aut aut”. Lo è di più (mi sembra di poterlo dire) il Wittgenstein che io ho proposto in quegli anni: il Wittgenstein del capitolo Philosophie del Big Typescript, di cui “aut aut” pubblica brani inediti nel 1996; il Wittgenstein della filosofia come una forma di askesis, come esercizio di risveglio e di ascesi intramondana che produce un cambiamento dello sguardo; il Wittgenstein degli scritti tardi, che dà un insieme di strumenti concettuali per interrogarsi sul soggetto del sapere nelle scienze umane: come conosciamo i significati linguistici e culturali? E soprattutto: come si articolano estetico e concettuale, percezione e forma nella nostra comprensione dei significati? Il Wittgenstein che concepisce la filosofia come forma di attività a base estetica ha presieduto al mio ingresso nella redazione, avvenuto nel 2004. 3. Il non sapere. Nel frattempo, il mio interesse per la piega produttiva del pensiero si è trasformato e arricchito, anche per effetto delle discussioni di redazione, come quella, intensissima, su “desiderio e godimento”, e per le frequentazioni psicanalitiche, e in particolare lacaniane, all’interno della redazione. Sempre interessata all’uomo come soggetto di sapere, ho cercato in quel periodo un modello della radice immaginativa della comprensione del senso che tenesse conto sia dell’aspetto per cui l’immagine è anticipazione e produzione di senso, sia dell’aspetto per cui nell’immagine agisce un non sapere, un senso che si sottrae. Lo stile di pensiero e di scrittura della rivista mi confermava come una ricostru77

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zione dei procedimenti figurali o configuranti, che tenga conto dell’alternanza mai finita del cercare e del trovare, sia fondamentale per le scienze che si occupano del senso incarnato, cioè di quei saperi che mettono in discorso, in un discorso figurale, la tensione esistente nella vita tra senso e non senso. Solo un discorso figurale è in grado restituire il non senso e l’intraducibile che è in rapporto costitutivo col senso. Ma proprio nel momento in cui il mio rapporto con la rivista si è fatto più intenso e coinvolgente, tanto che due articoli da me pubblicati su “aut aut” – su un’estetica per le scienze umane e sulla metafisica idealista del desiderio – sono stati importanti per la scrittura di un mio libro, proprio nel momento in cui la rivista affrontava temi per me decisivi, come la questione della traduzione, qualcosa ha smesso di funzionare. 4. Il distacco. Con distacco non mi riferisco alla mia uscita dalla redazione, ma al mio scarso contributo alla vita più recente di “aut aut”. Mi sono interrogata sul distacco, e l’ho fatto anche a voce alta nell’ultima riunione di redazione. Ho detto: “Cari amici, confesso che mi riconosco poco nei due tipi di mitologie un po’ semplicistiche di cui mi sembra soffra ultimamente la vita della rivista. I miti positivi sono: l’attualità, la vita, il ‘nostro tempo’; i miti negativi sono la metafisica, la scienza, l’accademia, l’istituzione. Vorrei dire: torniamo a pensare alla filosofia, al compito della filosofia in relazione ai saperi e ai soggetti dei saperi. Torniamo a parlare di oggetti e di categorie. Riabilitiamo l’oggetto e le categorie come forma di autocomprensione della filosofia. Giulio Preti (autore di un solo articolo per ‘aut aut’, Criticità e linguaggio perfetto, 15, 1953, ma importante contemporaneo, polemico, di Paci) diceva: ciò che è in questione non è il filosofare, ma la filosofia, la filosofia come forma di pensiero. E la filosofia richiede lavoro di costruzione dei propri modelli di pensiero e dei propri oggetti. Spero che nel numero che dedicheremo presto alla filosofia come esercizio ci si occupi anche dell’antico tema dell’oggetto della filosofia. Il tema dell’oggetto è il tema della non naturalità dell’oggetto, cioè la questione di cosa sia il sapere, declinabile in più modi: le categorie regionali; il rapporto astratto/concreto e teo78

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ria/prassi; le politiche delle immagini; il concetto di ‘mondo’; l’epistemologia delle scienze umane e dei saperi del soggetto; la costitutività del non sapere, che non è il non ancora spiegato, ma è l’alterità del sapere; la pluralità delle nozioni di forma che costituiscono oggetti; l’oggetto infinito non esauribile e non categorizzabile; l’intraducibile; il rischio del pensare; i vuoti di sapere. La filosofia non ha presa immediata sulla vita, o sul ‘nostro tempo’, ma sulle loro plurali trasformazioni simboliche; la filosofia non parla direttamente di cose e di fatti, ma della loro trasposizione in universi simbolici. C’è uno specifico della filosofia, che non è l’atteggiamento politico-culturale: un atteggiamento di questo tipo è certamente espresso dalla rivista, ma come epifenomeno che deve supporre uno specifico lavoro filosofico. Dove ci si richiama alla vita e alle cose stesse, bisognerebbe ricordare che immane armamentario metodologico e categoriale Husserl mette in campo per andare verso le cose stesse. È la ragione per cui non si può incidere sulla ‘realtà’ con una rivista di filosofia se non attraverso una reinvenzione simbolica della realtà. ‘aut aut’ ha altro da fare che inseguire le filosofie telegeniche e i populismi filosofici”. 5. Il disagio del pensiero, oggi. Il pathos, o addirittura la hybris, di questo mio intervento in redazione non deve far pensare alla rivendicazione di uno spazio esclusivamente teoretico, categoriale o metodologico per la filosofia, o, peggio, al desiderio di chiusura in uno spazio disciplinare e autoriferito. Anche io sono convinta, come gli amici della redazione, che non c’è una vocazione filosofica in astratto, ma solo vocazioni filosofiche situate in una contingenza storica; che non si danno schemi astratti di intelligibilità di per sé filosofici, ma che la filosofia è nella mediazione, in un tempo, in un orizzonte linguistico, in una specifica disposizione di discorsi, istituzioni, pratiche. Ma sono anche convinta che, se la chiacchiera filosofica (il populismo filosofico, come lo chiama Rovatti) irrigidisce la pratica filosofica in schemi giornalistici (analitici/continentali, realismo/interpretativismo, scientifici/ermeneutici), schemi tanto poveri da ridurre la pratica filosofica a delle professioni di fede (fede negli schemi argomentativi, fede nel senso comune, fede nella scienza), allora bisogna reagire e difen79

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dere la qualità specifica della riflessione filosofica. In questo momento, oggi (non ho alcuna remora a dire oggi: intendo la sfida che l’oggi è per la filosofia), mi sembra essenziale venire in chiaro sul compito (Aufgabe – dove Gabe è significativamente dono, offerta), sull’offerta della filosofia. Difendere la non naturalità (l’infinità, la non esaustività) degli oggetti di riflessione filosofica; difendere il limite e i vuoti di sapere che sono connessi ai saperi del soggetto; chiedersi che cosa sia il sapere oggi, in un oggi che pensa solo l’ignoto, cioè il non-ancora-spiegato, ma vuol dimenticare il non-sapere, l’inconscio, il resto come condizione produttiva del senso: mi sembrano questi i compiti irrinunciabili di una rivista che dalla sua nascita ha assunto come proprio oggetto le pratiche filosofiche.

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Resistere alla barbarie e rispondere alle paure DAMIANO CANTONE

o sempre pensato che la filosofia sia coraggiosa per natura o, il che è più o meno lo stesso, che un’azione coraggiosa abbia comunque in sé qualcosa di filosofico. Aristotele sosteneva che il coraggio è la virtù mediana tra la viltà e l’incoscienza. Queste ultime ne sono delle degenerazioni, per difetto o per eccesso. Eppure tutte e tre sono in rapporto con la stessa emozione fondamentale dell’essere umano, la paura. Dobbiamo molto alla paura. Non c’è niente di più naturale dell’avere paura, paura di quello che non si conosce e che può ferirci. Il sapere stesso nasce dalla paura: dell’uomo primitivo di fronte agli elementi, del bambino che si aggrappa alla mano della madre quando in casa arriva qualcuno che non conosce. Per paura delle intemperie abbiamo inventato l’architettura, per quella delle malattie la medicina, per la morte la religione. Al fondo di ogni sapere umano c’è una paura, che possiamo tradurre anche in un bisogno di sicurezza. Il sapere, la conoscenza ci permettono di controllare ciò che ci minaccia, di depotenziarlo, di costruirci ininterrottamente un nostro habitat. Tuttavia, come l’animale in La tana di Kafka, le difese che costruiamo contro ciò che può arrivare dall’esterno (e, ancora più pericolosamente, dall’interno) non ci lasciano tranquilli. Al fondo di ogni sapere umano c’è anche un qualcosa che ci fa mettere in discussione il sapere stesso, che ci spinge a non accontentarci delle risposte che abbiamo ricevuto, che ci fa lasciare, da piccoli, la

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mano di nostra madre per andare incontro all’ignoto. Non si tratta di smettere di avere paura, ma di intrattenere con essa un rapporto diverso. Le persone coraggiose non sono incoscienti: vedono i pericoli, lasciano la tana di malavoglia, ma pensano che sia più razionale correre il rischio di avventurarsi fuori. Intendiamoci: credo che nella filosofia, qualunque cosa questo termine indichi oggi, non ci sia alcuna nobile spinta alla verità e al sapere incontrovertibile. Semplicemente, è caratterizzata da una certa irrequietezza. Il suo coraggio non consiste tanto nel forzare i limiti della conoscenza e dell’espressione umana, compito cui sono deputate altre forme di pensiero, quanto nel mettere costantemente in discussione i saperi consolidati, tranquillizzanti. Come mi fanno notare i miei studenti, è impressionante di quante poche cose, in fin dei conti, si sia occupata la filosofia. Un giorno mi sono sentito dire che mentre Heidegger continuava a occuparsi della “cosa” del pensiero, esattamente come aveva fatto più di duemila anni prima di lui Parmenide, l’uomo era sbarcato sulla Luna. Lo studente voleva evidentemente sottolineare l’inutilità e l’inattualità della filosofia, ma mi è sembrato che avesse in questo modo toccato un punto importante. Uno dei filosofi che nel corso della mia vita ho amato di più, Gilles Deleuze, aveva una concezione della filosofia che sento molto vicina alla mia sensibilità, e che ha a che fare con il suo coraggio. Diceva che fare filosofia vuol dire resistere. Spesso nel corso della vita si smarrisce la propria dimensione filosofica, ci si aggrappa alle proprie paure e alle risposte tranquillizzanti che offrono altri saperi consolidati e assai ricchi di buon senso. Si smette così di essere coraggiosi, senza però diventare del tutto vili: preferiamo essere considerati prudenti. Al massimo la filosofia diventa un gioco intellettuale, che tiene in allenamento la nostra intelligenza, ma non scuote la nostra vita. Resistere è resistere ai discorsi correnti, resistere a chi ti dice che stai sprecando il tuo tempo e il tuo talento, mettersi di traverso rispetto al buon senso. È creare, è un atto di creazione, una trasformazione della realtà, almeno della propria. Anche l’arte e la scienza resistono, ma la filosofia lo fa a suo modo, creando continuamente nuovi concetti per 82

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pensare sempre lo stesso. Deleuze aggiungeva che questa forma inesausta di creazione di pensiero che è la filosofia, nel suo resistere alla banalità che vorrebbe la sua morte, libera potenze di vita. Non si può resistere, non si può fare filosofia se non si è almeno un po’ coraggiosi, se non si mette a repentaglio almeno una parte della propria vita. Questo senso del fare filosofia per me, come per tanti appassionati studiosi della mia generazione (non riesco a riconoscermi nel termine “intellettuale”), è diventato del tutto evidente con il protrarsi della crisi, di certo non solo economica, del mondo nel quale siamo cresciuti. Sto provando a continuare a occuparmi di filosofia nonostante l’imperativo primum vivere, manifestatosi sotto forma di contratti sempre più precari con la scuola e l’università, stia mettendo seriamente in dubbio il deinde philosophari. So bene che nel mondo non esistono solo la scuola e l’università, ma so anche che, con tutti i loro difetti e limiti, queste due istituzioni rimangono, almeno per me, luoghi carichi di possibilità, nei quali per esempio è possibile costruire un dialogo con gli allievi e con altri appassionati di filosofia in modo molto più diretto che in altre realtà. L’importante, a mio avviso, è che non si trasformino in paradisi artificiali del pensiero fine a se stesso, ma che siano dei laboratori, delle palestre, nei quali mettere a punto strumenti critici di tipo filosofico da far reagire con la realtà e con le vite che abitiamo. Forse anche questo, in fin dei conti, è uno dei modi per resistere alla barbarie, parola con la quale Enzo Paci, scrivendo nel 1951 l’introduzione al primo numero di “aut aut”, aveva indicato tutti quei tentativi e movimenti culturali che hanno come unico scopo di bloccare e normalizzare il pensiero. È inutile tacere che questo processo ha anche a che fare con la progressiva marginalizzazione degli studi filosofici rispetto alla società reale e con la sempre minor centralità della filosofia rispetto ai dibattiti culturali in atto. Il fatto che i festival di filosofia abbiano un successo sempre maggiore e una diffusione quasi a macchia d’olio in Italia non mi sembra un argomento contrario convincente. Temo piuttosto che si stia assistendo a una riduzione della filosofia a discorso spendibile e digeribile dai mass media, e i filosofi a ospiti idea83

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li di trasmissioni televisive che si vogliono dare un tono: in una parola, a barbarie. Resta, anche, al fondo di queste iniziative spesso estemporanee, un importante ed evidente interesse verso la filosofia. Tale interesse è trasversale, confuso, anarchico, ingenuo, passeggero, malinteso ecc., ma c’è, ed è a esso che credo una rivista come “aut aut” debba rivolgersi. È qui che serve un atto di coraggio, per riuscire a dargli una forma e farne un pezzetto della vita culturale del nostro paese, e magari anche degli altri. Questa convinzione l’ho ricavata proprio dalla mia storia di lettore prima, ospite poi, e infine redattore di questa rivista. Ho incontrato, come tanti, la rivista dalla copertina arancione da studente, preparando gli esami e la tesi di laurea. Sono entrato in “aut aut” come redattore alla fine del 2006, inizi del 2007. Non avevo ancora compiuto trent’anni. Fu un atto di incoscienza da parte mia, ma del resto in quel periodo della mia vita avevo assunto come regola di accettare le cose come venivano. Ero (sono tuttora) un allievo di Pier Aldo Rovatti, che già da più di un anno aveva cominciato a invitarmi alle riunioni redazionali della rivista. Andando per così dire “a bottega” ho imparato come si valuta un testo, come si progetta e si realizza un numero, come si redige un verbale, una modalità di lavoro insieme agli altri e, più tardi, come si scrive un articolo per una rivista di filosofia. Non ci si incontrava, come avviene ora, nella comoda sede del Saggiatore, ma in via Pacini, in un appartamento in affitto che la rivista condivideva con una violoncellista. Tutto si svolgeva in un salottino scuro nel quale stagnava una pesantissima cappa di fumo. Per la prima volta mi sono trovato immerso in un’attività culturale originale, libera, eppure strutturata e organizzata, finalizzata a un obiettivo diverso da una lezione o da un intervento a un seminario universitario. Non era l’Eden. A volte il clima si faceva pesante, le discussioni diventavano accese, e le prime volte ne ero intimidito. Sono rimasto, e ora sono parte, lo dico con orgoglio, dell’avventura di “aut aut”. Quello che importa, dentro una rivista, è la rivista stessa: a volte ci si affeziona alle proprie idee, ed è difficile metterle da parte semplicemente perché non si integrano nel progetto generale. Anche superare questa dimensione individuale, solipsistica che spesso è 84

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associata romanticamente al filosofo è un esercizio di coraggio. “aut aut” per me è stato il fuori della tana, una sorta di “linea d’ombra” che ha segnato il discrimine tra il concepire la filosofia esclusivamente come studio da fare sui libri e il rapportarsi a essa come a una pratica da condividere con altri. Un po’ come il capitano del racconto di Conrad, mi sono trovato a esercitare un ruolo per il quale non ero pronto, ma che d’altra parte dovevo accettare. Dovevo, se volevo continuare a divertirmi attraverso la filosofia. Divertirmi nel senso etimologico del termine, ovvero cambiare strada, mutare direzione, spostare continuamente il mio punto di vista sulle questioni che di volta in volta mi si presentano davanti. Accanto al lavoro che ho imparato a fare dentro “aut aut”, sono importanti anche le operazioni fatte con “aut aut”. Tre sono, a mio parere, le caratteristiche che rendono “aut aut” estremamente fruibile in ambiti culturali diversi, pregio assai raro per le riviste in generale e per quelle di filosofia in particolare, la cui circolazione spesso è limitata all’ambito accademico, e la cui esistenza è più utile a che vi scrive che a chi le legge. Per prima cosa, i fascicoli sono pensati in modo tematico, o divisi a sezioni omogenee. Questo fa sì che il lettore possa trovare nel singolo numero gli argomenti rispetto ai quali è interessato, e non sia costretto a comprare il fascicolo a scatola chiusa sperando di trovarvi qualcosa che gli sia utile. In secondo luogo gli interventi possiedono quasi sempre una lunghezza contenuta, il che da una parte permette di ospitare un numero maggiore di testi per ogni fascicolo, e dall’altra costringe spesso gli autori a uno sforzo di sintesi e chiarezza di cui beneficia la leggibilità generale. In terzo luogo, la redazione non è onnisciente, e quindi talvolta fa da catalizzatore di dibattiti e iniziative culturali nelle quali non è direttamente coinvolta: se è vero che questo può compromettere la coerenza di uno stile o di una linea della rivista (per quanto comunque tutti i lavori debbano passare al vaglio della redazione), questa pratica impedisce il suo irrigidimento su posizioni “di scuola”, e offre un’immagine più sfaccettata e credibile dei dibattiti culturali attuali. Ora, in cosa dovrebbe essere più coraggiosa “aut aut”? Per esempio chiedendosi chi sono i suoi lettori. Questa domanda era stata significativamente posta al termine dell’introduzione del nu85

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mero speciale per i cinquant’anni della rivista. Si rispondeva, sostanzialmente: non si sa. A distanza di dieci anni, la domanda e la risposta rimangono invariate. Nello stesso numero si ribadiva che, esplicitamente almeno dagli anni ottanta, si era tentato di fare in modo che “aut aut” “diventasse più una rivista di servizio per la riflessione che una guida filosofico-culturale”. In effetti, “aut aut” è sempre meno una rivista accademica e sempre più uno strumento attraverso il quale vengono portate avanti iniziative culturali, magari anche distanti tra loro per taglio e settore di riferimento. Proprio per questo, oggi per la rivista è importante chiedersi che tipo di servizio può offrire, e soprattutto a chi. Se rispondiamo a questa domanda invocando entità metafisiche, come la Filosofia, la Cultura, la Società o altre, condanniamo “aut aut” a una sterile autoreferenzialità. È venuto il momento, a mio parere, di aprirci di più ai lettori, incontrarli, capire quali sono le persone che rinnovano l’abbonamento e quali invece quelli che, pur comprando solo un numero ogni tanto, cercano la rivista in libreria o in biblioteca per sfogliarla. Per servire i dibattiti culturali reali, bisogna capire bene cosa chiedono oggi le persone ad “aut aut”, che uso ne fanno, come entra nel loro bagaglio concettuale e di conoscenze. Un numero della rivista non è un prodotto finito, ma un reagente, il catalizzatore di un processo. Prende pezzi di idee, pezzi di dibattiti in atto, pezzi di pensiero nuovo o dimenticato e li offre, da un suo punto di vista e con una sua interpretazione, a un pubblico che a sua volta ne farà un proprio uso e lavoro. Il prodotto vero e proprio di quello che facciamo è la reazione del pubblico, non il numero di “aut aut” in se stesso. La redazione ha già preso molte iniziative in questo senso, come l’organizzazione pubblica di eventi per dibattere o presentare i numeri. A volte ho vissuto momenti bellissimi, intensi, in cui c’era un grande scambio di idee con i lettori, altre volte le cose hanno funzionato meno bene. Importante per il futuro sarà sviluppare l’interazione con i lettori attraverso il sito Internet: questo ci permetterà di non abbandonare i numeri al loro destino, ma di monitorare quale tipo di percorso stanno facendo all’esterno. Credo infatti che si stia profondamente trasformando il modo in cui 86

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oggi si fa politica culturale: la figura del “lettore naturale”, ovvero chi considera la lettura di riviste come “aut aut” quasi un atto naturale di appartenenza e partecipazione civile, si sta facendo rara. E non per una degenerazione dei costumi, ma per una loro trasformazione. Una nuova generazione di lettori, interessata alle politiche culturali che ci attraversano, cerca le proprie informazioni, affina le proprie armi teoriche attraverso altri mezzi e modi, quali i blog, i social forum su Internet, come insegnano i nuovi movimenti mondiali di protesta. Un altro elemento che andrà valorizzato sarà quello dell’internazionalizzazione della rivista stessa. Oggi essa è intesa in una sola direzione: “aut aut” ospita interventi di intellettuali e filosofi provenienti da tutte le parti del mondo, propone interventi originali e inediti di autori interessanti e affermati che spesso la rivista presenta in Italia per la prima volta. Grazie alle professionalità dei redattori, “aut aut” è da sempre attenta anche a quello che avviene al di fuori dei confini nazionali, e spesso per il pubblico italiano è una delle poche finestre che permette di guardare fuori da casa propria. Tuttavia andrebbe effettuato almeno un tentativo di far conoscere maggiormente la rivista anche all’estero, attraverso un accreditamento scientifico della stessa, direzione nella quale la redazione si sta già muovendo, e rendendo magari disponibili gli abstract dei pezzi in inglese. Dunque, in questo numero in cui la rivista fa il punto su se stessa, “aut aut” dovrebbe avere il coraggio di confessare quali siano le sue paure fondamentali. Le trasformazioni in seno alla redazione, le politiche editoriali, l’evoluzione del mercato delle riviste, gli stravolgimenti continui della scena culturale italiana, la “mutazione antropologica” delle nuove generazioni di lettori sono rischi reali, con i quali “aut aut” deve fare continuamente i conti. Ma il rischio vero, per ritornare all’affermazione di Aristotele che ho preso come pretesto per questo intervento, sta nel come “aut aut” risponderà a queste paure, se riuscirà a trovare un coraggio razionale per affrontarle, senza cedere alla viltà delle risposte già consolidate o alla temerarietà di soluzioni che ne snaturino la vocazione.

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La studentessa ILARIA PAPANDREA

Ambientazione Ultimo scorcio dello scorso millennio. Una piccola aula universitaria in una città al confine orientale della penisola. La studentessa si è trasferita dalla capitale per studiare lingue germaniche, ma forse no, chissà, il suo piano di studi è definito sui generis da chi ne verifica la correttezza. “Tanti esami di filosofia. Ma in cosa si vuole laureare?” Non lo sapeva ancora, lo avrebbe saputo col tempo, dopo un passaggio da un corso di laurea all’altro, passaggio interno a quell’ambito delle lettere che si compongono di lingue antiche, moderne, italiane e straniere, di filosofia e di storia. L’incontro Un professore tiene il suo corso di Storia della filosofia contemporanea. Si siede, lei, fra altri studenti. Le sembrano distanti, eppure in qualche modo più intimamente prossimi di quelli che circolano per le strade della capitale. Saranno gli abiti? La moda in provincia arriva dopo, sta di fatto che a lei, quell’assenza di marche omologanti fa subito un’ottima impressione. La lezione inizia. C’è tutta la tensione di un film ad alta suspense. Un solo protagonista, il soggetto, non uno qualsiasi, di quelli che non ti mollano più, neanche a schermo spento. Ti seguono, ti assillano con la loro storia, entrano in ogni piega della tua vita. Chi la racconta, questa storia, sa come lasciarti con il fiato sospeso, come se tutta la filosofia non fosse altro che la scena allestita per raccontare le peripezie del soggetto. Prima lezione. Aveva incontrato qualcuno che 88

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avrebbe aperto per lei una pista che non si poteva più smettere di battere. La filosofia come pratica, esercizio, scrittura, come montaggio filmico. La filosofia come messa in gioco radicale di ogni certezza, come vertigine di un’identità che non si solidifica se non nel momento del click spitzeriano della morte, o nella follia paranoica dell’io uguale io. Dallo sguardo di sorvolo alla gola di Irma Non è mai stata brava, la studentessa, in storia della filosofia. Della filosofia come storia, almeno di una storia trasformata in erbario, non si è mai del tutto innamorata. Avrebbe scoperto con il tempo che per lei sapere coincide con un certo essere segnati da qualcosa che lascia una qualche marca incisa nella carne. Continua a frequentare le lezioni del professore. Un giorno, come per Freud era capitato in sogno una notte, a lezione, l’impatto con una gola spalancata. Un’intima cavità esposta: il corpo, vivo-morto, pulsante di desiderio, inerte di godimento, l’orrore di un interno già sempre esterno, fatto di quella materia che ci pesa addosso come un ingombro, ma che a volte amiamo lasciare in balia dell’altro. La Filosofia declinava il suo sguardo, silenziava il potere del padroneggiamento assoluto. Non era il grande racconto di chi pretende di dotare di un senso totalitario le piccole scene degli altri saperi, ma una sequenza di storie di corpi, pesantezza, opacità, di verità che, con Lacan, avrebbe scoperto si semi-dicono fra le pieghe di una parola che occorre faccia molti giri per bordeggiare niente, per ospitare la faglia del soggetto. Nelle lezioni e nei seminari si lavorano e si leggono insieme le pagine di una piccola folla di autori. Ognuno, col suo stile, è impegnato a fare del proprio testo un corpo esposto all’espropriazione: la parola si lascia incurvare per accogliere l’eccedenza e lo scarto che ogni dire comporta. La studentessa si accorge che quelle letture producono un effetto, formano una specie di zona extime nel cuore stesso dell’università, la bucano dall’interno servendosene, rivelano la logica del discorso universitario, e di quello filosofico, destinato a perdere la sua posta in gioco etica nel momento in cui fa sistema, in cui punta e scommette sull’Uno im89

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maginario. L’apertura di quell’istituzione dall’interno verso l’esterno, o meglio, dell’interno per inclusione dell’esterno, sarebbe avvenuta di lì a poco. San Giovanni, ex ospedale psichiatrico Al seminario, arriva un giorno la proposta di organizzare degli incontri presso il Centro studi dell’ex OPP. Avrebbero letto, quei giovani studenti che non avevano conosciuto Basaglia e che di manicomi non ricordavano certo l’odore, i suoi scritti, li avrebbero discussi con chi, psichiatri, operatori, gente della vecchia guardia basagliana, in quell’istituzione ripensata e reinventata ci lavorava, sporcandosi le mani, incontrando la follia dura e pura, non quella raccontata dai filosofi. Scommessa vertiginosa, per tutti: leggere Basaglia come un filosofo, ma anche, al tempo stesso, mostrare che la filosofia a suo modo le mani se le sporca da sempre, che lo sappia o no, che lo confessi o meno. Breve flashforward La studentessa prende una seconda laurea, in psicologia. Titolo della tesi: Franco Basaglia. L’attualità di un pensiero. Nella roccaforte dell’istituzione universitaria, ulteriormente irrigiditasi con il nuovo millennio e votata alla deriva cognitivista e neo-organicista nell’ambito della psicologia contemporanea, intercetta qualcuno, un professore di psicologia dinamica, che ancora pensa si possa aprire qualche breccia. Centro studi del San Giovanni La discussione è accesa. Non è facile parlare di desiderio e di psicanalisi senza tirarsi dietro le proteste di chi ha dovuto ridare voce ai matti, ma ridarla sul serio, visto che l’unico lettino che qualcuno ha conosciuto è stato quello di contenzione. Dalle ceneri della discussione sembra alla fine levarsi, però, una nube sottile, un fumo che se non è di pace, sembra almeno testimoniare di un rispetto reciproco, non fosse che per il fatto che tutti, compresa la studentessa – si è arrogata il diritto di balbettare in quella sede qualcosa su Lacan –, non possono più pensare che con Basaglia, e 90

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grazie a lui, a come rinnovare una pratica dell’ascolto che faccia posto al soggetto nella sua radicale follia. Due più due non fa sempre quattro, dice da qualche parte Basaglia. Occorre averlo a mente, quando il padrone vuole che la macchina funzioni. Lo dice anche Lacan, in altro modo, per altre vie. I loro discorsi si scontrano e si incontrano, a loro stessa insaputa. Le storie dei manicomi sono diventate in Italia le storie delle comunità terapeutiche e degli ospedali psichiatrici giudiziari, sono rimaste, in Francia, quelle dei manicomi, anche per colpa della psicanalisi, affermano i basagliani convinti. È una storia complicata, sulla quale occorre continuare a interrogarsi. È una domanda che chi scrive continua a porsi, avendo poi scelto di lavorarci anche lei con quei soggetti etichettati come matti e di lavorarci in una comunità che si lascia orientare dalla psicanalisi. Non basta chiedersi comunità terapeutiche sì o no? (Sempre nella speranza che l’opzione manicomi sia morta per sempre.) Occorre continuare a domandarsi quale comunità per ospitare la follia, quale rapporto istituire con qualcuno che si rivolge a te dicendo “non ci capiamo perché parliamo due lingue diverse”, mentre le sue parole arrivano alle tue orecchie in quella che ti sembra la tua lingua madre. Se la studentessa avesse deciso di iscriversi subito a psicologia – ne parliamo per come è oggi, questa facoltà –, forse non si porrebbe le stesse domande. Non avrebbe incontrato Lacan, forse neppure Freud, Basaglia, poi, come sentiva dire da certi giovani studenti, non sarebbe stato se non “quello della 180”. E nella sua pratica quotidiana con soggetti che il muretto lo hanno saltato, che non ci sono rimasti a cavallo, oscillando fra esposizione e rimpatrio, avrebbe saputo molto di procedure e protocolli, di costi dei progetti terapeutici, di fattori di rischio e protezione, avrebbe saputo tanto, così tanto da non volerlo mollare questo sapere che incasella tutto, che previene e prevede, che si danna per rintracciare i percorsi neurali dei più svariati disturbi. Sarebbe stata così piena di questo sapere da non riuscire in quello che Freud, Lacan e Basaglia invitano a fare: taci, ascolta e non affrettarti a capire. 91

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Ma la sua storia non era andata così. Aveva incontrato il professore, le mura di un ex manicomio, gli ospiti di una comunità, e questi incontri l’avevano segnata. Certo, forse gli incontri ce li andiamo a cercare e anche di noi, come di Hans Castorp, si potrebbe dire che non ogni storia capita a ciascuno. Da un collettivo a un altro La provincia triestina è lontana. La studentessa, una tesi su Freud e Lacan ancora da finire, è migrata in un’altra città. Lacan, nel frattempo, sta diventando un nome a lei familiare sul piano di una pratica. A Torino ha incontrato dei lacaniani ortodossi, di quelli che leggono Lacan via Miller. Altro incontro, altra scena. Ne sarebbe scaturito il rinnovamento di quel primo grande amore per una filosofia che è una pratica dell’ascolto e dell’ospitalità, un modo per sostare in quella pericolosa apertura verso l’alterità che ci abita, una filosofia che si inframmischia con le pratiche del legame sociale. Dei lacaniani torinesi comincia a conoscere il rigore etico. Alcuni lavorano nei luoghi della cosiddetta salute mentale testimoniando di continuo del desiderio di non lasciare che la salute diventi imperativo. Dai seminari su Lacan alla domanda di analisi il passo è breve, ma abissale. Poi, intempestiva, la proposta di condurre un laboratorio di scrittura in una Comunità terapeutica. Stava per incontrare il volto della psicosi che Lacan ha saputo spogliare dello stigma del deficit. Soggetti impegnati in un lavoro strenuo di tessitura del mondo, per i quali la “vita quotidiana”, come dice uno di loro, “è la cosa più complicata”. Non che non se la cavino a sbrigare certe faccende quotidiane, ma il fatto è, come dice sempre quel signore, che “ogni giorno tutto ricomincia e occorre prendere un atlante in biblioteca per sapere se si è su questa terra”. Lo dice con un sorriso, convinto che lei se lo sia dimenticato e che occorra ricordarglielo questo fatto troppo naturale dell’avere un mondo. “Noi”, le virgolette sono d’obbligo, talvolta vacilliamo, ma qualcosa si tramanda: non l’eredità di buon pacchetto di geni, quanto piuttosto un piccolo racconto, un romanzetto d’appendice che ci assegna un posto, la nostra parte nella storia. Un racconto, il “nostro”, solo più comune, meno ori92

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ginale, fatto di padri, madri, figli, in cui è rispettato l’ordine dei tempi. Talvolta, quando diamo troppo per scontata questa nostra eredità fino a farne l’immagine del mondo, unico possibile per tutti, ci serve ricordare che anche per “noi” è una certa realtà, che Freud chiamava psichica, a orientare e costruire quella solida realtà esterna cui vorremmo riadattare il resto degli umani. Ancora un collettivo al lavoro: la redazione di “aut aut” Il laboratorio di scrittura è da poco cominciato. La redazione di “aut aut” sta preparando un numero monografico su Lacan. Il professore invita la studentessa a prendere parte alla discussione redazionale e a scrivere qualcosa. Lei accetta, entra per la prima volta in redazione e incontra persone che la spaventano per il loro sapere. La rivista è fra le più prestigiose, docenti universitari (filosofi, ma non solo), qualche professionista dell’ambito psy (di quelli veri). Insomma, di che spiazzare qualcuno che ancora non è riuscito a mettere un punto alla sua tesi. Ma il clima non è quello di una polverosa accademia. Tutto il contrario. Dietro le nuvole di fumo, poco alla volta, comincia a scorgere i volti di persone che non fanno colla intorno a un ideale, ma che si lasciano piuttosto, ciascuno a suo modo, animare da una causa: vivere la filosofia come pratica desiderante. Sente che questo modo di fare, questo stile di lavoro, lascia aperto un posto anche per lei, non tanto per lei, la studentessa fuori corso – sì certo, anche questo, vista l’amabile dolcezza di tutti i redattori –, quanto soprattutto per lei testimone di una pratica fra le mura di un’istituzione che non si vuole asilare. “aut aut” raccoglie questa e altre pratiche, le ospita fra le pagine della rivista, ne fa la stoffa stessa della filosofia. Pratiche non ortopedizzanti, anti-normalizzanti, detonatori interni piazzati nelle pieghe del discorso corrente, nell’ideologia del pensiero unico, filosofico o meno che sia. Finalmente la tesi si conclude e subito la studentessa smette e riprende a essere tale. Si imbarca nell’impresa di conseguire il titolo di psicologa – così chiede la legge a chi vuole praticare la psicanalisi. L’università non è più la stessa, i piani di studio sono diventati carriere, la scelta dello studente è fra il corso A e il corso 93

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B, già indicati a monte, come i candidati nella nostra cosiddetta democrazia. Freud e Lacan sono solo un ricordo, la parola d’ordine non è più la lettera, di joyciana memoria, ma la cifra, la statistica, la quantificazione. Uscire indenni da questo corso di studio esige una riserva d’ossigeno immagazzinata altrove. La filosofia studiata, “aut aut”, la pratica analitica, salvano la studentessa dal baratro delle neuroscienze e del cognitivismo. Ma non è una salvezza data una volta per tutte. È richiesta una prudenza estrema, non si può mollare, occorre vigilanza e luoghi, come la rivista (a un certo punto ne diventa redattrice), in cui si continui a prendere posizione. Alla studentessa, che intanto ha finalmente smesso di essere tale, capita sempre più spesso di sentire parlare di disturbi la cui origine neuro-(psico)-biologica è provata con evidenza scientifica. Basta questa stringa di parole le più recenti scoperte scientifiche dicono che, e il gioco è fatto. Gli articoli “scientificamente accreditati” si moltiplicano. Nella loro proliferazione fanno piazza pulita di tutto ciò che non si sottomette alla doxa imperante: sorvegliare e prevenire attraverso quello strumento della diagnosi che si vuole sempre più precoce. Da qui l’invito a sorvegliare i piccoli d’uomo se balbettano male la lingua, se si comportano un po’ sopra le righe. Genitori e insegnanti spinti a scoprire ciò che rende dis-qualcosa il povero bambino. Per il suo bene, si intende. Prevenire è meglio che curare: è la nouvelle vague della salute mentale, Basaglia ci aveva messi in guardia. Lui, come Lacan, ci aveva avvisati di una certa deriva scientista della scienza. Occorre continuare a batterla questa pista, oggi più che mai, nelle nostre pratiche, dentro e grazie ad “aut aut”, che su questa strada è già in cammino. Se vogliamo continuare a praticare una filosofia che lasci al soggetto il suo disturbo, che lasci che il soggetto continui a disturbare, occorre non smettere di declinarla, questa filosofia, fra le altre cose, in un corpo a corpo con le cosiddette scienze, ricordando, ancora con Basaglia, che una scienza da critica può sempre farsi ortopedica per puntare all’adattamento dei soggetti. E dall’adattamento allo sterminio il passo è breve.

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La curiosità dello psichiatra MARIO COLUCCI

erché ho atteso più di dieci anni prima di diventare redattore di “aut aut”? Pier Aldo Rovatti me lo aveva proposto già nel 1998, dopo che avevo attivamente collaborato alla composizione di un numero della rivista dedicato a Michel Foucault e intitolato “Pensare la follia”. Ma all’epoca, dopo qualche esitazione, decisi di rifiutare. Giustificai la scelta con l’impossibilità di partecipare assiduamente alle riunioni milanesi e di impegnarmi in un lavoro redazionale. In realtà, mi sembra di poter dire oggi, “non mi autorizzai” ad accettare: “aut aut” mi pareva impresa troppo seria per me, giovane psichiatra che studiava filosofia all’Università di Trieste, capitato quasi per caso in una storia culturale così importante. Allora non avevo capito nulla del senso di “aut aut”: il fatto di astenermi in quanto non-professionista della filosofia, significava attribuire alla rivista un’etichetta che non le apparteneva, ossia quella di una pubblicazione di settore, specialistica, per approcciarsi alla quale fosse necessario esibire un robusto curriculum culturale. Eppure, sarebbe bastato ricordare il modo in cui ero stato accolto in redazione durante la costruzione del fascicolo a cui accennavo, il clima informale e amichevole che avevo respirato nelle poche riunioni alle quali avevo preso parte, la curiosità verso la mia provenienza dal cosiddetto “mondo delle pratiche”, per rendermi conto che “aut aut” stava cercando di affrontare, senza snobismo o supponenza, esattamente alcuni fra i temi che già

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allora suscitavano il mio interesse: Michel Foucault, beninteso, sul quale qualche anno dopo seguiranno altri numeri (sul potere psichiatrico, sulla storia della sessualità e ultimamente sui cinquant’anni di Storia della follia); ma anche Franco Basaglia e i percorsi accidentati e interrotti della riflessione intorno alle istituzioni totali e ai saperi psy; nonché il pensiero di Jacques Lacan, ancora sospeso tra la sua feconda “eresia” ai dogmi della chiesa psicanalitica e il conformismo acritico di alcuni fra i suoi eredi. Autori poco o per nulla trattati in altre riviste di filosofia, affrontati in “aut aut” non come intellettuali atipici a cui dedicare un fascicolo monografico in occasione di un anniversario o della pubblicazione di un inedito, ma militanti di un pensiero che si riconosce come proprio, in quanto capace di mettere in crisi le certezze di una certa accademia filosofica allenata solo agli esercizi delle varie palestre di metafisica. Ecco, “aut aut” faceva questo, metteva al centro della scena figure che la filosofia universitaria riteneva minori per domandarsi se questa distinzione tra alto e basso del pensiero fosse legittima. Ma vorrei tornare al “mondo delle pratiche” da cui provengo e al passaporto prezioso, e al tempo stesso ambiguo, che ho in tasca. Talvolta, ti sembra di cogliere meglio alcuni nodi del pensiero, semplicemente perché li vivi nelle contraddizioni del quotidiano. È anche vero, però, che c’è il rischio di adagiarsi: ho visto qualcuno dalla mia parte convinto che per pensare basti il “saper fare” e che in fondo non sia necessario complicare le cose con la teoria. C’è chi sostiene addirittura che bisogna diffidare di troppa intellettualità e finisce per scambiare il primato delle pratiche con l’assolutismo del fare. Il risultato è che molti autori sono evocati, talvolta citati, ma non più studiati e dibattuti: nel caso di Basaglia, per esempio, si è perso l’interesse a coglierne la collocazione nel panorama intellettuale del Novecento italiano come figura centrale, alla pari con un Pasolini, per intenderci, pur con le dovute differenze. Trascurare l’articolazione delle pratiche con il suo pensiero finisce, a mio avviso, per indebolirle, con il rischio di lasciare campo libero ai suoi detrattori, che lo accusano di velleitarismo e di fragile im96

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pianto teorico,1 e a tutto l’arsenale biologico e cognitivista della psichiatria contemporanea. La fenomenologia e la psicanalisi, superfluo dirlo, ne risultano completamente escluse. Mi sembra che “aut aut” abbia contribuito a rilanciare un dibattito su questi punti con approfondimenti e una buona dose di ospitalità: penso ad alcuni fascicoli pubblicati negli ultimi anni, come “La medicalizzazione della vita” o “Basaglia a Colorno”, che hanno accolto la voce di molti operatori della salute mentale (e non solo). Quale altra rivista di filosofia si sarebbe permessa di fare altrettanto? Purtroppo il gioco delle identità è duro e quella filosofica troppo spesso viene rivendicata in modo polemico, quasi rischiasse di andare perduta. Ma dove sta la filosofia se non proprio in questi attraversamenti e contaminazioni? Il problema sta forse nella difesa di un ruolo, quello del filosofo, che “aut aut” ha cercato in questi anni pazientemente di smontare. È questo per me il “coraggio della filosofia”: dimostrare la volatilità immaginaria dei ruoli, delle appartenenze, delle filiazioni, riattivare quella sola curiosità, come scrive Foucault, che meriti d’essere praticata con una certa ostinazione, quella che consente di smarrire le proprie certezze e di rimettere costantemente in moto la macchina del “pensare diversamente”.2 Per avere conferma che oggi è proprio questo il lavoro culturale da rilanciare, basta misurare al contrario l’intensità degli attacchi che i vari “realismi filosofici” portano all’indirizzo di qualsiasi posizione che sia definita critica o “relativista”. Si tratta di un’accusa mossa ad “aut aut” già a partire dagli anni della fenomenologia attraverso quelli del pensiero debole fino a oggi.3 Per me, è dav-

1. Mi riferisco, fra tutte, alle tesi esposte in G. Corbellini, G. Jervis, La razionalità negata, Bollati Boringhieri, Torino 2008. 2. Scrive Foucault: “Ma che cosa è dunque la filosofia, oggi – voglio dire l’attività filosofica – se non è lavoro critico del pensiero su se stesso? Se non consiste, invece di legittimare ciò che si sa già, nel cominciare a sapere come e fino a qual punto sarebbe possibile pensare in modo diverso?”, in L’uso dei piaceri. Storia della sessualità 2 (1984), Feltrinelli, Milano 1984, p. 14. 3. Nel 2001, nel corso della discussione di redazione in occasione dei cinquant’anni della rivista, Rovatti denunciava la medesima situazione: “Oggi, una rivista come ‘aut aut’ che combatte contro le verità assolute sembra oscurantista. Sembra che ci sia bisogno di farla fi-

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vero singolare osservare come coloro che si occupano di filosofia talvolta cadano innamorati di verità scientifiche presentate come oggettività dure e incontestabili (e non si tratta certo della stessa nozione di verità che riguarda gli affari di Berlusconi o i campi di sterminio, come qualcuno di loro ha affermato in modo irresponsabile). Mi domando se non ci sia in questi filosofi il desiderio di acquisire una scienza, un dominio più concreto, stabile e produttivo di consenso, che vada al di là della scena universitaria e dei suoi giochi accademici. Soprattutto mi chiedo quale esperienza abbiano, nella realtà delle loro istituzioni, dell’impatto tremendo che questo tipo di verità presentate come oggettive può avere sulla vita e sul destino delle persone. Lavoro come psichiatra e credo che talvolta chi fa filosofia tenda a sottovalutare che cosa significhi avere a che fare con una pratica scientifica. Non c’è dubbio che le ricerche della scienza siano formidabili e possano aiutarci a capire il mondo e a viverlo meglio, ma qui stiamo parlando di altro, dell’implacabilità delle sue tecniche, di una quotidiana applicazione che funziona per protocolli e procedure sulla pelle dei soggetti, che non si cura delle loro differenze e che, in buona parte, si fonda su semplificazioni e su una sorta di esaltazione dei fatti di natura, presentati come originari e incontrovertibili. Che cosa fa la filosofia per sottrarsi all’egemonia di questa “evidenza che ha sempre ragione” e di questo “fare semplice”? Come riabilita il suo rapporto con la scienza? Credo che si tratti di questioni che, quando vengono sollevate, suscitano una certa apprensione, quasi che ci fosse il rischio di essere facilmente equivocati o squalificati:4 mi sembra, in altri termini, che la filosofia sia nita con lo spirito critico portato alla sua radicalità, che gira su se stesso, a favore invece di paletti significativi e regole di verità che permettano di costruire la civiltà”, “aut aut”, 305306, 2001, p. 12. 4. Nella medesima discussione redazionale del 2001, Rovatti dichiarava: “Nella mia pratica di docente di filosofia molto spesso mi misuro con la seguente domanda: e la scienza? E se non rispondo e non mi inscrivo dentro i regimi e le pratiche che sono considerate scientifiche mi sento squalificato in senso foucaultiano. È lo stesso discorso che facevo sulla contemporaneità. Siamo derubricati e messi da parte come quelli che si occupano di cose vecchie e senza peso, tutt’al più di valore esclusivamente letterario o puramente ideologiche, le quali in definitiva non incidono sulle pratiche di potere e di governo della realtà. Avverto spesso questa critica anche nei confronti della rivista”, ivi, p. 30.

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condizionata da una certa ansia conformistica, come se volesse recuperare il terreno perduto rispetto al dibattito scientifico e apparire all’altezza dei tempi. Per questo, talvolta, si limita a confermare sul piano culturale ciò che la potenza del dato oggettivo dimostra nella ricerca e non sembra più in grado di ribadire l’importanza di una dimensione interpretativa, che sia legata ai tempi e ai modi della produzione del dato stesso e che sia soprattutto il segno di una forza “residuale” della soggettività nel dispositivo dell’osservazione. Che cos’è un esercizio critico se non proprio la possibilità di mettere in questione l’onnipotenza della Verità con la V maiuscola? Per esempio, nel caso della scienza, andando al di là della materialità incontestabile degli oggetti studiati e interrogandosi sulle pratiche sociali all’interno delle quali questi oggetti circolano. Non si tratta di capire sempre meglio come sono fatti, ma come vengono presentati, impiegati, manipolati e diffusi sulla scena del mondo. Per restare nell’ambito della psichiatria, basta interrogarsi sul tema controverso della diagnosi, per ricavarne un esempio lampante: il modo in cui una classificazione è capace di determinare non solo la sistematizzazione di una patologia, ma anche la sua espressività, la sua epidemiologia e persino i suoi esiti è qualcosa di sconcertante. Però si sa, la psichiatria sta ai margini: non è una scienza esatta e non fa fede!5 Ebbene, a mio avviso “aut aut” potrebbe continuare in futuro a lavorare su questa linea: discorso critico su verità che mal sopportano la critica. Personalmente la trovo una linea proficua se è capace di scavare negli interstizi di un’alleanza – quella tra conoscenza e utilizzazione delle cose del mondo – più pericolosa di quanto non si pensi perché produttrice di forte consenso culturale. Non si tratta certo di ristabilire alcun primato delle teorie sul5. In un’intervista del 1976 Foucault dichiara che, per cogliere il problema dei rapporti tra una scienza e le strutture politiche di una società, è troppo complicato scegliere discipline come la fisica teorica o la chimica organica, ma bisogna prendere un sapere come la psichiatria, dal profilo epistemologico incerto e legato a una serie di pratiche, istituzioni, esigenze economiche, politiche e sociali; dunque, una scienza “dubbia” nella quale è possibile cogliere meglio il groviglio degli effetti di potere e sapere, cfr. M. Foucault, Microfisica del sapere, Einaudi, Torino 1977, pp. 3-4.

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le pratiche, lavoro a forte rischio di supponenza e inconcludenza. Bisognerebbe invece riprendere a frequentare il sentiero che permette di risalire dalle pratiche verso le teorie: dunque, senza abbandonare il terreno della verifica, uscire dalla retorica dei cosiddetti discorsi evidenti e ritrovare il percorso che consenta di contestualizzare le pratiche all’interno di una cornice culturale relativa al suo tempo e al suo luogo. Cornice che metta in luce i giochi di verità e le relazioni di potere che li hanno determinati, che sia critica rispetto alle esaltazioni di saperi che progrediscono e si accumulano, e che, infine, sia attenta alle discontinuità più che alle teleologie. In altri termini, non bisogna tirarsi indietro rispetto al “fare teorie”, purché si abbia il coraggio di affermare che esse non hanno alcun diritto a qualificarsi come assolute: questo come compito politico prima ancora che come metodo epistemologico.6 La storia di “aut aut” risponde a questo profilo, con una coerenza che, a me sembra, non si perde neanche con il cambiare dei riferimenti culturali propri di ciascun decennio.7 Semmai, talvolta, occorrerebbe recuperare uno stile di confezione della rivista meno imparziale e più militante, un nuovo equilibrio tra un certo sguardo freddo sui temi trattati e un coinvolgimento personale più appassionato sugli stessi. Non è certamente facile, a causa anche dell’affollamento degli argomenti e della conseguente velocità del loro metabolismo: la rivista, che già nella sua cadenza trimestrale è fisiologicamente indietro rispetto all’emergere dell’attualità, talvolta brucia temi monografici fondamentali incalzata dalla proliferazione di nuovi eventi e di nuove ricerche. Si rischia così paradossalmente di rinforzare quell’abitudine dei nostri tempi che tende a evitare veri dibattiti e a privilegiare solo schermaglie legate 6. Nella discussione redazionale di cui sopra, Alessandro Dal Lago si dice d’accordo con l’idea proposta da Antonello Sciacchitano di privilegiare l’epistemologia sull’ontologia e afferma: “Ci dovrebbe essere un corpo a corpo con la scienza contemporanea che tenga conto sia delle esigenze dell’epistemologia debole, sia delle esigenze degli operatori scientifici, che giustamente in pratica si disinteressano di epistemologia. In parallelo ci dovrebbe essere un corpo a corpo con il politico. La rivista non può lasciare la riflessione su questi argomenti ai teologi e agli apologeti. I problemi della bioingegneria, dalla carne che mangiamo al mais transgenico , non si possono lasciare agli esperti del settore”, “aut aut”, 305-306, 2001, p. 34. 7. Cfr. l’introduzione di Pier Aldo Rovatti, in questo fascicolo.

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alla dichiarazione effimera dell’intellettuale di turno oppure allo slogan rapido, facile da ripetere e fruttuoso sul piano della visibilità mediatica e della pubblicità editoriale. Questo esclude l’approfondimento, ossia la possibilità di mantenere l’attenzione su un argomento rintracciando i suoi esiti politici e sociali, prima che sia travolto dall’onda del “nuovo” che avanza. Quando questa irrompe, è difficile tenere il ritmo di bracciata di un pensiero critico; ed ecco che sinistramente torna a galla il salvagente del ruolo filosofico che permette di risalire agli “argomenti nobili”, alle “verità eterne” e al “magistero del passato”. In buona sostanza, quest’onda ci mette in crisi, ma non è solo per il fatto che è costantemente ingrossata dalla massa degli stimoli culturali in arrivo. Essa è anche alimentata da quella stessa curiosità che ci appartiene e che è necessario tenere viva per continuare a pensare diversamente. È un certo paradosso dell’attualità: ci sembra che sia troppa per poter essere contenuta eppure non possiamo che cercarla; fantastichiamo di poterne fare a meno ma poi non riusciamo davvero a immaginare una pausa di riflessione; soprattutto, ogni qual volta proviamo a tenercene a distanza, isolandoci, ci assale il timore di perdere qualcosa di definitivo. Forse il coraggio della filosofia sta proprio nell’accettare che quest’onda non può essere governata e che non riusciremo davvero a rinunciare alla ricerca dell’origine del mondo finché non diventeremo più sensibili all’emergenza dell’evento che lo trasforma. E per questo che, in fondo, non si è mai curiosi abbastanza.

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Il coraggio di un mestiere impossibile MASSIMILIANO NICOLI

l coraggio della filosofia. Non riesco a fare a meno di mettere in relazione questo tema con l’impossibilità di occuparsi di filosofia, oggi. E non solo di filosofia, a dire il vero. Di certo si potrebbe allargare il discorso parlando più genericamente di coraggio intellettuale (“il coraggio intellettuale della verità”, come diceva Pasolini) e delle “difficoltà” – per ricorrere a un eufemismo – che bloccano chi intendesse esercitare il mestiere o la funzione dell’intellettuale. E ciò a prescindere dalle diverse forme che questo mestiere e questa funzione hanno assunto nella nostra storia recente: dall’intellettuale universale di sartriana memoria alla figura di intellettuale specifico proposta e praticata da Michel Foucault. Oppure, con un occhio prima a Nietzsche poi ancora a Foucault, si potrebbe restare all’interno della tradizione filosofica per operare delle opportune distinzioni fra la viltà dei pensieri della consolazione e il coraggio di chi ha scritto sulla superficie del proprio corpo vivente quel “poco di verità” che pure può mettere a rischio la vita stessa. Preferisco volare più basso, praticamente rasoterra, e restare su quella impossibilità che siamo sempre di più, fra amici, compagni e studenti che incontro all’università e non solo, a percepire come un destino. Mi riferisco, ovviamente, alla scena devastata delle istituzioni formative che tradizionalmente fornivano le condizioni di produzione e riproduzione del lavoro intellettuale: istituzioni ormai aziendalizzate, per di più ridotte a fortini impenetrabili e ri-

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spetto alle quali la cantilena ideologica della meritocrazia suona autentica come un soldo di latta. Mi riferisco anche alla degenerazione populista e televisiva del discorso filosofico mainstream circolante sui giornali e sulle riviste che “fanno opinione” o nelle proliferanti kermesse cultural-filosofiche: temo sia fin troppo facile discernere, in questo circuito, i contorni di un dispositivo che detta le regole di accesso alla visibilità nell’industria culturale, saldando il bisogno di riconoscimento all’imperativo del godimento narcisistico. E l’invisibile, colui che resta a lato del cono di luce, anche solo per pudore o per esitazione del pensiero, difficilmente guadagnerà una posizione spendibile sul mercato, da un incarico istituzionale giù fino a una consulenza editoriale. Mi devo riferire inoltre alla compressione delle opportunità di lavoro al di fuori del professionismo intellettuale, in tutt’altri settori, fra precarietà selvaggia, rarefazione estrema delle possibilità di impiego, altissima densità di sfruttamento e retribuzioni indecenti: ciò rende quanto meno velleitario pensare di praticare oggi un andirivieni fra lavoro e non lavoro, o meglio, fra produzione di reddito e analisi teorica eventualmente rivolta proprio alle forme di quella produzione. È stata questa, per alcuni, una scelta intellettuale militante, probabilmente coraggiosa, che in passato ha fornito non pochi contributi all’analisi critica del capitalismo. Un solo esempio, il primo che mi viene in mente: Harry Braverman, operaio di mestiere, calderaio, accordatore, lamierista, tracciatore e contemporaneamente intellettuale, giornalista, redattore e direttore editoriale. Negli anni settanta scriveva un testo importante, Lavoro e capitale monopolistico (a cui “aut aut” dedicò un fascicolo, quello di luglio-agosto 1979) in cui confluiva la materia calda e viva che egli ricavava dall’immersione nell’abisso della praxis. E oggi? Cosa farebbe Braverman oggi? Temo che non riuscirebbe a compiere lo stesso gesto, per via della estrema prossimità, al limite della coincidenza, che il capitalismo contemporaneo stabilisce fra i soggetti e le condizioni del loro stesso sfruttamento. Difficile, pressoché impossibile, mantenere una qualche distanza fra sé e il lavoro produttivo, ovvero l’incessante ricerca di un lavoro, 103

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lo strenuo sforzo per conservarlo, la necessità che la precarietà continuamente rinnova di trovarne un altro. Difficile, pressoché impossibile, conservare il tempo per pensare (figuriamoci per studiare e per scrivere!) dentro la temporalità piena e compatta dell’ascesi performativa di sé che l’organizzazione del lavoro impone agli individui come prezzo da pagare per la loro sopravvivenza. La valorizzazione economica del capitale umano che ciascuno di noi è – questa è la forma che il salario assume nell’epoca della flessibilità – richiede una gestione manageriale della vita che include i saperi critici nel capitolo orribile delle perdite. Se è vero che dobbiamo diventare abili imprenditori di noi stessi, l’esistenza dell’intellettuale è evidentemente un’impresa in bancarotta. Ma come – si dirà –, proprio oggi che il discorso marxiano sul “General Intellect” acquista una sorprendente attualità se non il valore di una profezia? Proprio oggi che il lavoro cosiddetto “cognitivo” diviene la vera e propria forza produttiva del lavoro sociale? Proprio oggi che il capitale fisso viene a coincidere sempre più con il cervello, con l’intelletto della moltitudine al lavoro? Vero, ma se non si mette in relazione questa produzione intellettuale di massa con i rapporti di forza sempre più sbilanciati a favore del capitale (e non si analizzano le modalità microscopiche attraverso cui quei rapporti vengono spinti al limite del dominio) non si spiega – o la si oblitera perché non si riesce a spiegarla – la proporzionalità inversa che collega la diffusività dei saperi con la capacità critica dei medesimi; non si spiegano, cioè, i meccanismi per cui al divenire “generale” dell’intelletto si è accoppiata – sul piano, per l’appunto, generale – una così violenta omologazione del pensiero critico. Fin qui, qualche parola sulla “impossibilità”. E il coraggio? Forse bisognerebbe averne per poterne parlare, e io, ex lavoratore “cognitivo”, ex delegato sindacale, pessimo imprenditore di me stesso che ha trovato ora in questa rivista lo spazio per tentare di diventare problematicamente “intellettuale di se stesso” – come direbbe il mio maestro –, non so se ho i titoli per farlo. Di sicuro non faccio altro che interrogarmi in merito, stretto nella necessità, insieme alle persone che ho più vicino e nelle quali mi rispecchio, 104

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di guadagnare una posizione lungo il bordo fra lavoro intellettuale e produzione di reddito, salvaguardando il desiderio di esercitare, nella propria vita, qualcosa come una critica militante. Mi posso permettere solo qualche indicazione per un lavoro (filosofico) a venire che si misuri con la sua stessa “impossibilità”. Forse, prima ancora di trovare una pur necessaria e quanto mai urgente uscita politica (basta con le interpretazioni del mondo, cambiamolo!) o un’improbabile soluzione opportunistica (e se facessi il consulente filosofico?), si potrebbe riflettere sugli effetti che questa impossibilità soggettiva di fare filosofia (voglio dire: che sta dalla parte del soggetto) comporta sul piano dell’oggetto della ricerca filosofica. Forse è lo sfondo di ogni analisi che punti a far emergere una “linea di fuga” dalla situazione di impasse in cui siamo. Significherebbe in primis formulare una domanda di questo tipo: che ne è dell’oggetto della filosofia quando la figura “professionale” del filosofo tende all’estinzione? Può sembrare un interrogativo che decolla dal suolo della praxis per volare alto nei cieli della teoria, ed è invece una domanda, per così dire, molto “foucaultiana”, che sulla praxis insiste e la pone proprio come fuoco della ricerca. Vale a dire: quali sono le pratiche (di potere) che determinano l’impossibilità di cui sopra, e soprattutto, quali modi di soggettivazione si danno nel momento in cui si compie il gesto di oggettivare quelle pratiche? Questo continuo andirivieni, come si vede, fra soggetto e oggetto – per cui Foucault spenderebbe la formula “gioco di verità” – è lo spazio in cui si colloca la domanda, che riformulo ancora in altri termini: se assumo l’impossibilità materiale di soggettivarmi come filosofo (o intellettuale) attraverso le modalità finora praticate, e contemporaneamente sottopongo tale impossibilità (ovvero le pratiche che la definiscono) allo sguardo del pensiero critico, quali trasformazioni della mia soggettività si stanno determinando, che tipo di soggetto sto diventando? E un attimo dopo – precipitando sul terreno dell’esistenza – mi chiedo: come dovrò vivere questa condizione che presenta evidentemente come conto lo sconcerto del paradosso? Ecco fare capolino, un po’ timidamente, la questione del coraggio. È chiaro che, in una situazione di questo tipo, la soggetti105

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vazione (im)possibile di chi la abita non è dell’ordine del Filosofo e dell’Intellettuale, e poco o niente ha da offrire sul piano della valorizzazione capitalistica di sé come su quello – forse perfettamente sovrapponibile – del godimento narcisistico nel “dispositivo di visibilità” intellettuale in cui siamo. Esorta piuttosto a una epoché radicale del soggetto – alla radice quadrata delle sue pretese veritative – e obbliga a un ripensamento ipercritico dei bisogni di riconoscimento e identificazione individuali. Ha sicuramente molto a che fare con quella figura di intellettuale specifico che, dentro un nuovo legame fra teoria e prassi, usa il suo sapere nelle lotte politiche in cui la propria condizione di lavoro e di vita lo colloca, ma apre inoltre alla dimensione (coraggiosa?) dell’esercizio su di sé. Se è vero che soggetto e oggetto si formano e si trasformano in una relazione di reciprocità e dentro un certo gioco di verità e potere, porre come oggetto di analisi critica le pratiche che definiscono la condizione sempre più paradossale degli operatori intellettuali significa contemporaneamente piegare la direzione dello sguardo verso se stessi e verso il grado di coalescenza fra pratiche di potere e pratiche di vita. Un esercizio, quindi, che non punta alla verticalità di un’askesis di ordine teoretico promettendo in cambio il dono della Verità, ma all’invenzione di modi e stili di vita – a partire dalle forme di produzione, consumo e distribuzione della ricchezza –, alla messa in questione radicale dei bisogni e dei desideri che impastano l’esistenza di ognuno, alla socializzazione di questo lavoro critico lungo la linea orizzontale dell’intersoggettività.

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Una vocazione all’inattualità MASSIMILIANO ROVERETTO

l mio primo contatto con “aut aut” risale a quindici anni fa, quando ero studente di filosofia a Trieste. A fornirmene l’occasione fu un numero monografico dedicato a Gilles Deleuze, allora da poco scomparso. Non si trattò di un incontro casuale, in quanto la lettura del fascicolo, il cui sottotitolo recitava L’invenzione della filosofia, ci era stata proposta, accanto a quella di una batteria di testi del filosofo francese, nell’ambito di un seminario tenuto da uno dei redattori della rivista, Fabio Polidori. Il seminario di Polidori faceva capo all’insegnamento di Storia della filosofia contemporanea di Pier Aldo Rovatti, di cui avevo già seguito due corsi, rispettivamente intitolati La sentenza di Nietzsche: “Dio è morto” e Filosofia e follia. Attraverso di essi non solo avevo conosciuto autori come Michel Foucault, Jacques Derrida, Maurice Blanchot, ma avevo anche imparato a leggere i classici, da Nietzsche a Heidegger fino ad arrivare a Descartes. Soprattutto, mi ero scoperto un interesse, una “passion predominante”: quella per il tema della crisi del soggetto e delle sue “trasformazioni nel corso dell’esperienza”, il cui filo Rovatti andava allora costantemente annodando, nelle sue lezioni, a quello della messa in questione della nozione di verità e dei nostri modi di giocarne la partita. Quando cominciai a sfogliare la rivista e a riconoscervi il luogo di una pratica di pensiero cui si trattava per me di trovare un accesso, fu dunque attraverso questo duplice filtro. Proprio per

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tale motivo, tuttavia, non posso nascondere come l’indicazione secondo cui, nella situazione odierna, si tratterebbe per “aut aut” innanzitutto di rivendicare a suo credito il coraggio insito in ogni gesto autenticamente filosofico, desti in me non dico un sospetto, ma quanto meno l’esigenza di una certa cautela. E questo a partire dalla matrice chiaramente foucaultiana del sintagma, in cui mi sembra essere implicita, oltre che l’assunzione del rischio connesso a quel corpo a corpo con la verità di cui la filosofia costituirebbe il luogo, la rivendicazione di una qualche titolarità, di una sorta di diritto all’ultima parola che il filosofo, nel farsi carico della propria funzione intellettuale, potrebbe vantare nei confronti degli altri attori della produzione e della rappresentazione sociale del sapere. Il modello sarebbe insomma quello dell’intellettuale parresiasta, chiamato a spendersi sul triplice versante della critica delle strutture sociali esistenti, della pretesa all’universalità propria del discorso ontologico e morale, dell’istituzionalizzazione e della settorializzazione dei saperi. Una figura certo vitale, e la cui estraneità all’orizzonte della critica dell’ideologia è ribadita dallo stesso Foucault, ma nella quale mi sembra nondimeno rinvenibile un residuo problematico e irrisolto, identificabile nell’elemento propriamente patetico che ne costituisce l’anima. A fronte dell’attuale situazione storico-politica, intendere il coraggio della filosofia nei termini di un’autoesposizione e di un tentativo di declinare altrimenti la relazione tra verità, sapere e potere mi sembra cioè avere certamente un senso, che spiega e in larga misura anche giustifica la volontà di riannodare con maggiore forza alcuni fili che, nella vita della rivista, erano forse in parte venuti allentandosi nel corso degli anni ottanta. Senza contare che, data l’impossibilità – di cui Foucault stesso ci ha resi avvertiti – di uscire dall’implicazione reciproca di sapere e potere, quella dell’investimento soggettivo parrebbe essere l’unica strada percorribile in vista dell’assunzione di una posizione critica altrimenti impossibile da fondare. Ma credo anche che, al pericolo di ritrovarsi a fare il verso al barone di Münchhausen, il quale cercava di sollevarsi da terra tirandosi per il codino, se ne affian108

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chi uno speculare: quello di ricadere, attraverso tale investimento soggettivo, in una vera e propria logica del martirio e della testimonianza, per quanto privata del tratto fideistico a essa originariamente associato. Mi domando insomma se anche il coraggio, nella sua fattispecie filosofica, non debba in fondo essere ancora annoverato tra i buoni sentimenti di cui Nietzsche, in Umano troppo umano, impietosamente indagava l’origine. Se la psicologia della madre “che dà al figlio ciò che toglie a se stessa”, dell’innamorata che “desidera poter vagliare nell’infedeltà dell’amato la devota fedeltà del suo amore” o ancora meglio del soldato che “desidera cadere sul campo di battaglia per la sua patria vittoriosa: poiché nella vittoria della sua patria vincono insieme i suoi più alti desideri”1 siano poi così avulse da quella del filosofo che, nelle vesti del libero pensatore, narcisisticamente ebbro della propria audacia, porta i suoi cenci sulla pubblica piazza. A questa riserva, che problematizza la mia posizione di neoredattore della rivista da un punto di vista soggettivo, se ne accompagna poi un’altra, di ordine per così dire più oggettivo, connessa ai mutamenti epocali intervenuti dal tempo della sua fondazione a oggi. Se agli inizi degli anni cinquanta la barbarie poteva per Paci ancora identificarsi, tanto più nella specificità del contesto italiano, con quello che Rovatti chiama “l’assolutismo del pensiero”, opporsi a essa attraverso l’effrazione di tale assolutismo è diventato per noi qualcosa di infinitamente più problematico e complesso, in quanto tale effrazione, seppure con un segno evidentemente opposto a quello preconizzato da Paci, si è già pienamente realizzata. Che l’accademia continui a sussistere come istituzione non significa infatti in alcun modo che essa costituisca ancora il principale centro di produzione e di elaborazione dei saperi socialmente dominanti, né che la sua capacità di indirizzare e determinare i processi politici e culturali sia rimasta inalterata. La rivoluzione informatica che ha fatto la storia degli ultimi decenni è 1. F.W. Nietzsche, Umano troppo umano (1878), trad. di S. Giametta, Adelphi, Milano 1995, vol. I, pp. 60-61.

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nata dai garage della provincia americana, e se i dogmi neoliberali di cui le nostre vite scontano giorno per giorno gli effetti possono vantare più alti natali, non va tuttavia dimenticato come essi abbiano trovato la loro attuazione e la loro cogenza in tutt’altri contesti rispetto a quelli della loro origine. Quanto al Sapere con la S maiuscola, al sapere sedicente universale e ai valori ultimi a esso solidali, ricorderei semplicemente ciò di cui già Nietzsche mostrava di essere pienamente consapevole, ossia che essi non sono svaniti nel nulla né sono sopravvissuti a se stessi, ma si sono piuttosto obliterati in qualche cosa d’altro: non solo nell’industria culturale, ma anche nelle acque tiepide e stagnanti del progressismo e nelle ricette mirabolanti degli apologeti dello sviluppo. Tanto che ci sarebbe forse da chiedersi se le loro sopravvivenze, a partire – azzardo – dalla nozione stessa di soggetto, non possano avere conseguito, in ragione del mutato contesto in cui si sono trovate da ultimo a essere incluse, un significato profondamente diverso e di segno nuovamente opposto rispetto a quello che eravamo soliti attribuire loro. Se di un coraggio della filosofia vogliamo parlare, esso non potrà allora per me in ogni caso consistere in un atto la cui opposizione al discorso culturale dominante si vorrebbe diametrale, bensì soltanto nel concedersi il lusso o – il che è forse lo stesso – nel rispondere all’ingiunzione di un’esitazione: nel produrre, in seno a un presente la cui minaccia è di farsi eterno, un contromovimento, o ancor più semplicemente un arresto. Se volessimo ancora una volta scomodare Nietzsche, potremmo forse ulteriormente determinare questo contromovimento mediante un appello alla dimensione dell’inattuale, la quale non si identifica semplicemente con il passato nel suo essere trascorso, in maniera magari eccessivamente prematura, nell’insignificanza della storia, ma costituisce piuttosto ciò che costantemente raddoppia il corso di quest’ultima, mantenendosi, rispetto a essa, in un’ambigua distanza. Di modo che la nostra urgenza mi sembra essere non tanto quella di articolare un pensiero e una posizione che, dopo Freud e Lacan (ma anche dopo un certo Marx), dovremmo avere oramai imparato che non potranno mai essere i nostri, quanto quella di sot110

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trarci all’immediatezza e alla cogenza dell’attualità: non per trovare rifugio in una verità di altro ordine, ma, al contrario, per cominciare finalmente a prendere le misure di quello che siamo. Quando, due anni fa, ho scritto il mio pezzo sul fascicolo intitolato Inattualità di Pasolini, è precisamente a questo che stavo pensando, al di là di ogni troppo facile recupero della supposta vocazione profetica pasoliniana. E analogamente, per il futuro, è essenzialmente questo che mi aspetto dalla rivista: che la sua vocazione critica non si risolva in un riferimento puntuale e pedissequo alle innumerevoli scene della contemporaneità, ma continui piuttosto a lasciarci scorgere, attraverso e contro di esse, il loro rovescio. Senza troppo preoccuparsi, per una volta, di stare al passo con i tempi.

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Pudore, pazienza (e dunque ascolto) PIER ALDO ROVATTI

ggiungo solo qualche rapida battuta alle pagine che il lettore di questo fascicolo un po’ anomalo ha trovato qui, all’inizio, sotto forma di “materiale”. A volo d’uccello, in quindici cartelle, mi sono preso il rischio di stringere una vicenda, non certo così lineare, che attraversa un tempo straordinariamente lungo, sessant’anni appunto. Un esercizio da equilibrista un po’ incosciente con il quale ho creduto di riconoscere un basso continuo nelle molteplici vicissitudini della rivista: nel modo, poiché è rimasta una rivista che manda messaggi nella bottiglia, e nel progetto, poiché la lunga vita di “aut aut” è stata sempre una battaglia contro la “barbarie” del pensiero, barbarie che si è poi raffinata e di continuo ha cambiato vestito. Naturalmente ho riversato nel rischio che mi sono assunto – almeno spero – un poco di quel coraggio di cui abbiamo sempre più bisogno, oggi soprattutto che esso è diventato una merce così rara. Come dire: “aut aut” dovrebbe seguitare a mantenersi “fuori mercato”. E, a veder bene, le nostre attuali inquietudini – che trapelano in molti dei testi riuniti in questo fascicolo – riguardano proprio il dubbio di riuscire a stare in una posizione così poco comoda. So bene che nella mia precipitosa attraversata ho premuto soprattutto il pedale della soggettività, intendo precisamente la mia: insomma, il godimento di trentacinque anni di una “direzione” (in senso etimologico) faticosa ma bellissima. Il lavoro spaventevole di rilettura, fascicolo per fascicolo, che nell’occasione mi son

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voluto sobbarcare, anziché tediarmi, ha rilanciato il mio entusiasmo, e ora mi sento addosso, distintamente, sia il peso di una storia di cui avevo dimenticato tantissimi episodi, sia il cumulo delle promesse fatte e non mantenute, o che solo in parte hanno avuto risposta. Altro che “celebrazione” (che pure meriterebbe un qualche piccolo rito festoso), qui si tratta di ripartire daccapo e di costruire un nuovo inizio (come ripeteva sempre Enzo Paci). Stanchezza? Tutto il contrario, anzi freschezza di energie – questo è il sentimento che ricavo dalla mia immersione nel passato della rivista. E ben venga tale senso o voglia di darci dentro (che credo di condividere con molti dei miei compagni di viaggio), poiché la palude culturale del presente è tanto più infida quanto ricca di voci rampanti, in un paese, l’Italia, in cui i cosiddetti intellettuali fanno massa, come non era mai accaduto, mentre la realtà dei fatti appare sempre più sfuggente e lontana, sempre meno intaccata da una capacità critica che riesca davvero a descriverne almeno alcuni tratti. A mio parere, il coraggio della filosofia chiede oggi, nella marea dei discorsi, di essere soprattutto un gesto di pazienza e di pudore. Il pudore di riconoscere una condizione generalizzata di ignoranza (nonostante i mille ripetuti richiami alla verità) di cui è urgente prendere atto con un distanziamento emotivo e insieme razionale: insomma, svestirci dei molti panni scintillanti (anche filosofici) e affermare la nostra effettiva nudità. E la pazienza di un lavoro puntuale, microfisico, un’attenzione alle specificità culturali e alla singolarità stessa degli eventi, per riuscire a ricavarne qualche filo di significato. Un simile atteggiamento filosofico – ormai l’abbiamo imparato tutti – non può essere disgiunto dall’attenzione dello storico che esplora il mondo sociale e dalla sollecitazione di una responsabilità civile (o politica). Al pudore e alla pazienza va così aggiunta la virtù dell’ascolto degli altri che ne è la necessaria conseguenza. Certo, è un compito enorme. Ma è anche – se ci siamo capiti – il compito minimo cui dovremmo tener fermo in ogni pagina che pubblichiamo su “aut aut”.

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Carismi del reale L’opera d’arte nell’epoca del marketing e dello spettacolo PIERANGELO DI VITTORIO

sservando da una certa distanza le questioni che alimentano il dibattito attuale, vi sono almeno due zone che si presentano con particolare intensità. Da un lato c’è l’interrogazione sulla crisi della democrazia attraverso la quale si è in alcuni casi pervenuti a formulare esplicitamente l’ipotesi di un “nuovo” fascismo presente nelle nostre società.1 Dall’altro c’è la riflessione che si sviluppa intorno allo statuto e al ruolo della “finzione” nel mondo contemporaneo, la quale si articola a sua volta intorno a due assi principali: il primo riguarda i rapporti complessi, talvolta tesi, tra la finzione e la realtà, una querelle dai molteplici risvolti la cui posta in gioco è in fondo la “verità” stessa; il secondo concerne invece il problema degli “usi politici della finzione” (o più in generale dello spettacolo, della mediatizzazione spettacolare della realtà), sia che si tratti di denunciarli e di opporvisi,2 sia che si tratti invece di incoraggiarli e di praticarli.3 Queste due interrogazioni, a prima vista lontane tra loro, po-

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Testo preparato per il numero monografico Contre-fictions politiques della rivista francese “Multitudes”, 48, 2012. 1. Cfr. per esempio i dossier Nouveaux fascismes? Enquête sur les droites en Europe, “Vacarme”, 55, 2011, e Nuovi fascismi?, “aut aut”, 350, 2011. 2. Per la nozione di populismo mediatico, cfr. U. Eco, A passo di gambero. Guerre calde e populismo mediatico, Bompiani, Milano 2006. 3. A proposito dell’idea che bisogna strappare alla destra l’uso delle finzioni, dei racconti, al limite dei miti, cfr. Y. Citton, Mythocratie. Storytelling et imaginaire de gauche, Éditions Amsterdam, Paris 2010.

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trebbero al contrario dimostrarsi connesse a un livello più profondo. Un primo elemento di contatto riguarda il fatto che in entrambi i casi – ossia tanto nella dimensione politica quanto in quella “tecnica” (nel senso di ciò che appartiene alla techne in opposizione alla physis: non solo arte e tecnica, ma anche sapere) – è in gioco qualcosa che ha i caratteri del nuovo, o se si preferisce qualcosa che si presenta come un processo di “modernizzazione” o di “riforma” dell’esistente. L’altro elemento di contatto è la forte ambivalenza che caratterizza queste due interrogazioni. Per quanto riguarda la prima, si oscilla tra la constatazione che la democrazia si manifesta sempre più spesso come un guscio vuoto, e il rifiuto di utilizzare il termine fascismo per designare ciò che potrebbe riempire (o aver già riempito) questo vuoto. È come se fossimo vittime di una doppia ingiunzione contraddittoria: da un lato l’obbligo di continuare a utilizzare una parola che significa sempre meno, dall’altro quello di giustificarsi in continuazione per il fatto di utilizzare un termine che potrebbe invece, nonostante tutto, significare ancora qualcosa. Questa impasse impedisce in definitiva di far funzionare l’analogia con il fascismo storico, al fine di individuare quello che vi è di veramente nuovo e diverso nelle attuali forme di ipergoverno delle società democratiche neoliberali:4 forme la cui portata “modernizzatrice” si manifesta in primo luogo nel fatto che esse sfuggono alla semplice dicotomia tra democrazia e totalitarismo, che hanno una consistenza stranamente ibrida e perciò ancora difficile da afferrare. Un’ambivalenza analoga si ritrova nel dibattito tra realtà e finzione: se da un lato infatti si continuano a denunciare gli eccessi della finzione, dall’altro si nota invece un ritorno massiccio alla realtà, come se tutt’a un tratto il mondo avesse scoperto il desiderio irrefrenabile, l’imperativo inaggirabile del reale.5 Anche in 4. Per un uso attivo di questa analogia, cfr. P. Di Vittorio, A. Manna, E. Mastropierro, A. Russo, L’uniforme e l’anima. Indagine sul vecchio e nuovo fascismo (Letture di: Bataille, Littell e Theweleit, Jackson, Pasolini, Foucault, Deleuze e Guattari, Agamben, Eco, Ballard), Edizioni Action30, Bari 2009 (d’ora in poi UA). 5. Per la letteratura, D. Shields, Fame di realtà. Un manifesto, Fazi, Roma 2010; per l’arte, H. Foster, Il ritorno del reale. L’avanguardia alla fine del Novecento, Postmedia, Milano 2006; per la filosofia, Maurizio Ferraris che propone il ritorno a un’“ontologia realista” (cfr.

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questo caso, la “riforma” tecnica assume l’aspetto di una confusione delle frontiere, ed è infatti a livello di una radicale ibridazione tra la realtà e la finzione che è legata la possibilità di creare “consenso”, cioè di trovare o di sedurre un “pubblico”, si tratti di arte, di letteratura, di cinema o persino di sapere accademico: basti pensare a quel mélange indiscernibile di realtà e di finzione che è il reality show (téléréalité in francese), termine con il quale sarebbe senza dubbio più corretto designare una condizione diffusa, generalizzata della techne (della cultura) contemporanea, piuttosto che un semplice format televisivo tra gli altri. Si delinea qui un’altra zona d’intensità nella riflessione attuale, la quale potrebbe anche funzionare come un ponte tra l’interrogazione sui nuovi fascismi e quella sulle poste in gioco della finzione: si tratta della questione del “populismo”, che scandisce il dibattito come una nota di basso, e dove spesso le preoccupazioni di ordine politico si mescolano con quelle di ordine tecnico o tecnologico, senza che sia più possibile distinguere le une dalle altre. Non è forse un caso che si ritrovi qui l’ambivalenza al suo massimo grado: il discorso antipopulista serve alle classi dirigenti per squalificare o stigmatizzare il “popolo”, cosa che alimenta in senso contrario un discorso apologetico nei confronti di tutto ciò che si presenta come genericamente “popolare”. Questa oscillazione permanente svia l’attenzione dalla vera sfida contenuta in ciò che siamo soliti chiamare populismo: vale a dire il processo – che coincide in qualche modo con l’intera storia moderna, sebbene negli ultimi decenni abbia assunto proporzioni inaudite – di popolarizzazione (non solo di immanentizzazione e di democratizzazione, ma anche di volgarizzazione, di banalizzazione) del potere politico, da cui discende la sua capacità di acquisire maggiore forza di per esempio Ricostruire la decostruzione, Bompiani, Milano 2010), o Roberto Esposito che collega il successo della filosofia italiana al fatto che essa non avrebbe mai rinunciato a essere una “filosofia del reale” (Pensiero vivente. Origine e attualità della filosofia italiana, Einaudi, Torino 2010). In tal senso, il recente dibattito che ha visto il “nuovo realismo” propugnato da Ferraris contrapporsi al “pensiero debole” di Gianni Vattimo e Pier Aldo Rovatti, potrebbe essere considerato come una variante specificamente filosofica di un più ampio dibattito internazionale sul rapporto tra realtà e finzione (cfr. P.A. Rovatti, Inattualità del pensiero debole, Forum, Udine 2011).

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seduzione e di consenso grazie a un’estrema prossimità mimetica con l’uomo qualunque (fino ad accettare il rischio di farsene manipolare a sua volta).6 Di nuovo, la potenza sprigionata da questa riforma del potere politico dipende direttamente da un fenomeno di ibridazione, in altri termini dall’apparizione di una linea di fuga rispetto alla semplice alternativa tra classi dirigenti e popolo. Il potere politico guadagna in efficacia nel momento in cui non è più possibile discernere dove finisce il leader e dove comincia invece il signor pinco pallino. Ed è evidente che si delinea qui un pericoloso punto di convergenza tra la modernizzazione tecnica e quella politica: la telerealtà, in quanto completa fusione di realtà e finzione, non è forse il modo più adeguato di “presentare” questa nuova antropologia politica, fusione perfetta, e perciò tanto più inquietante, del superman e dell’everyman? I due movimenti di ibridazione potrebbero rinforzarsi in modo circolare, confluendo in un’unica tendenza modernizzatrice “maggiore”. In Italia, dopo circa vent’anni di berlusconismo, dovremmo aver imparato la lezione. Sfortunatamente, il risultato non è così scontato. Forse perché non abbiamo avuto il coraggio di riconoscerci fino in fondo nello specchio narcisistico installato ad arte da Silvio Berlusconi – “sono un uomo qualunque, un uomo come voi, ma grazie a me la vostra mediocrità ‘brillerà’ all’infinito” –, con il rischio che i suoi riflessi continuino a irradiarsi nostro malgrado, a nostra insaputa e lì dove meno ce lo aspettiamo. A causa della loro ambivalenza, queste zone d’intensità del dibattito contemporaneo sono anche zone di opacità. Si correrà dunque un rischio ad attraversarle: può succedere che si vada a sbattere la faccia, come quando si avanza in un mare di nebbia... Ma è un rischio che non si può non correre, dal momento che è nel cuore di questa opacità che si nascondono i problemi, le sfide dell’attualità. Alcuni segnali indicano in particolare che è in atto un vasto lavoro di problematizzazione della techne, ossia delle condizioni di produzione della verità nel mondo contemporaneo. Se6. Cfr. P. Di Vittorio, Umberto Eco: analitica della banalità e popfascismo, in UA.

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condo un’accezione che attraversa tutta la tradizione occidentale, da Aristotele a Heidegger, la techne non sarebbe altro che il “supplemento” necessario a far apparire, a rivelare la physis, la quale altrimenti resterebbe celata, nascosta. Se la natura, come dice Eraclito, ama nascondersi, la funzione dell’arte (o della cultura in generale) consiste nel renderla manifesta, in modo che per gli uomini possa esserci un mondo e, al tempo stesso, che per il mondo possa esserci un’umanità. L’arte ha quindi una funzione “apofantica”, e ciò che grazie a essa si rivela non è altro che la verità stessa nel senso dell’a-letheia: il non-dissimulato, il dis-velamento dell’ente in quanto è e per come è.7 Potremmo allora domandarci se tutte le turbolenze che si manifestano oggi lungo le frontiere che separano non solo la realtà dalla finzione, ma anche le diverse forme d’arte, di linguaggio, di media, possano essere ricondotte a questa problematizzazione fondamentale della techne, portata avanti sia attraverso la riflessione, sia attraverso la sperimentazione, e spesso le due cose insieme. In altri termini, potremmo porci la seguente domanda: le condizioni tecniche di produzione della verità fanno oggi problema, nel senso che si lasciano afferrare ed elaborare soprattutto, se non esclusivamente, come un “problema”? Ed eventualmente, per quali ragioni e secondo quali modalità? Domande che oltrepassano di gran lunga le pretese di questo saggio. Ci limiteremo a constatare la défaillance di certe forme tecniche tradizionali dinanzi al compito di produzione della verità, cioè di presentazione di un mondo e di un’umanità. È stato per esempio osservato che il racconto contemporaneo è affetto da una “triplice insufficienza”: “insufficienza delle forme romanzesche a fare letteratura, insufficienza del racconto giornalistico a dire il mondo, insufficienza della scrittura accademica a trasmettere la storia”.8 In particolare, il fatto che la verità storica sia sottomessa a valle a criteri di spettacolarità e 7. Cfr. P. Lacoue-Labarthe, “Sublime (Problématique du)”, in Encyclopaedia Universalis, Paris 1995. 8. P. Boucheron, Toute littérature est assaut contre la frontière. Note sur les embarras historiens d’une rentrée littéraire, “Revue Annales. Histoire, Sciences sociales”, numero monografico Savoirs de la littérature, 2, 2010.

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di redditività, rischia di ripercuotersi a monte sulle condizioni stesse della sua produzione, tradizionalmente assicurata dal lavoro storiografico. È quindi legittimo domandarsi in quale misura la “tecnica della storia” sia obbligata a trasformarsi, nel momento in cui la verità che essa dovrebbe produrre, per raggiungere un pubblico di massa e trovare il suo posto nel mercato (dell’entertainment), sarà costretta a passare attraverso massicce dosi di “mediatizzazione” cinematografica, televisiva o letteraria.9 D’altra parte, l’ultima tendenza hollywoodiana sembra essere quella di pretendere che i film, pur restando finzioni, dicano la “vera” realtà dei fatti. Si afferma così una forma ibrida, la cui forza di seduzione consiste nella possibilità di giocare simultaneamente un sovrappiù di finzione rispetto alla documentazione storica (o giornalistica, sociologica) e un sovrappiù di realtà rispetto alla finzione cinematografica (o televisiva, romanzesca). La perfetta fusione della finzione e dei fatti, dell’invenzione e dell’autenticità, ma anche del sogno e della banalità quotidiana o della trivialità, è ciò che sembra possedere la maggiore efficacia comunicativa ed è ciò che il “marketing” di conseguenza incoraggia, domanda, esige.10 Si può anche chiamare questo mélange faction, senza tuttavia dimenticare che si tratta solo di un altro nome per designare quel dispositivo, assolutamente concreto e generale, che è il reality show, la telerealtà, lo spettacolo della realtà. Se la verità è il disvelamento di un mondo, il mondo che sembra oggi presentarsi con maggior forza di verità, il mondo che si manifesta al posto o al di sopra degli altri mondi possibili, è quello che si offre con un sovrappiù di realtà (di prossimità, di ordinarietà, di banalità) e, al tempo stesso, con un sovrappiù di finzione (di spettacolo, di luce mediatica, di evasione onirica). Il reality show sarebbe quindi la condizione tecnica generale della ve9. Cfr. A. Beevor, La fiction et les faits. Périls de la “faction”, “Le débat”, numero monografico L’histoire saisie par la fiction, 165, 2011. L’autore denuncia il pericolo che la “storia divertimento diventi, per la maggior parte della popolazione, la principale fonte della sua presunta conoscenza storica” (p. 32). A questo proposito, si è parlato di histo-tainement, proprio come si parla di info-tainement, ma ormai si potrebbe parlare più in generale di culturetainement. 10. Ivi, p. 34.

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rità oggi? Una verità a sua volta ridotta a una sorta di carisma della realtà, al generico charme della prossimità, della banalità, della mediocrità, della normalità? Si pone allora il problema – non solo per gli uomini politici, ma per ciascuno di noi, in quanto tutti più o meno e a diverso titolo impegnati in un processo tecnico di produzione della verità – di come acquisire questa “aura popolarpopulista” che si presenta ormai come una delle condizioni dell’esistenza in generale della verità stessa. Di fronte a queste nuove condizioni, lo storico potrà essere tentato di forzare la propria “scrittura” fino a superare la soglia al di là della quale si rompe il “patto di credenza” con il lettore. Ma potrà anche, al contrario, rinnovare il rifiuto di “riempire”, attraverso l’invenzione, “i vuoti della storia”, rimarcando così l’irriducibilità della realtà rispetto a qualsiasi finzione, l’intangibilità di un “reale” eretto a ultimo baluardo contro minacce come il negazionismo.11 Tuttavia, forse con un po’ di rassegnazione, lo storico sarà portato in ultima istanza ad ammettere che il suo rifiuto non impedirà che altri finiscano per colmare tali vuoti al posto suo: “Perché, alla fine, la finzione vince sempre”.12 È come se una verità “maggiore”, quella che si irradia grazie alle luci del marketing e dello spettacolo, minacciasse l’esistenza di altre verità, divenute a un tratto “minori”. In tal senso, lo splendore industriale della verità potrebbe portare con sé un massacro delle lucciole.13 Ma allora, se da un lato la “tentazione letteraria” dello storico sarà “la confessione della sua debolezza”, dall’altro la letteratura che si infilerà nella breccia aperta da questa vulnerabilità non sarà una letteratura qualsiasi. Non sarà certo la pura finzione romanzesca o l’autofinzione, indebolite a loro volta a causa del loro deficit di 11. Cfr. C. Ginzburg, Il filo e le tracce. Vero, falso, finto, Feltrinelli, Milano 2006; P. Boucheron, Toute littérature est assaut contre la frontière, cit. 12. P. Boucheron, On nomme littérature la fragilité de l’histoire, “Le débat”, 165, 2011, p. 55. Riferendosi al libro di A. Corbin, Le village des cannibales, opera storica con un lavoro sulla scrittura fatto per mantenere vivo l’interesse del lettore, Boucheron teme che questo lavoro sia cancellato dalla pubblicazione di un romanzo che si è impossessato della stessa storia rendendola più attraente per un pubblico televisivo. Di qui l’amara conclusione: “Gli storici più illustri non pesano granché dinanzi ai romanzieri più leggeri” (ibidem). 13. Cfr. G. Didi-Huberman, Come le lucciole. Una politica della sopravvivenza (2009), Bollati Boringhieri, Torino 2010.

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realtà. Sarà invece la letteratura che avrà saputo rispondere con maggiore convinzione all’imperativo del reale, quella che si sarà così profondamente ancorata nella documentazione storica da rendere indiscernibile ciò che appartiene alla finzione e ciò che appartiene alla realtà. Non a caso sono alcuni “romanzi-faction” di successo ad aver alimentato in Francia i recenti dibattiti sui rapporti tra storia e letteratura, sfociati talvolta in violente polemiche.14 Si pensi in particolare al trittico Les bienveillantes, Jan Karski e HHhH.15 Ma si pensi anche a un altro caso letterario come Gomorra, indicativo anche del fatto che la questione supera largamente le frontiere geografiche e disciplinari.16 Malgrado la specificità del contesto italiano, questa “fiction non-fiction” che racconta l’universo della camorra a partire dalla testimonianza diretta dell’autore, è fondata sui medesimi presupposti e ha dato luogo a discussioni, accuse e apologie del tutto simili.17 Cambia solo il territorio tecnico nel quale la letteratura del reale ha fatto irruzione per imporre la forza del suo regime di verità ibrido, trattandosi questa volta, non della ricerca storica, ma dell’inchiesta giornalistica e sociologica. 14. Cfr. anche il numero monografico Historiens et romanciers. Vies réelles, vies rêvées di “Critique”, 767, 2011. A proposito di questi dibattiti intorno al rapporto tra realtà storica e finzione romanzesca, ci si potrebbe tuttavia domandare per quale ragione non si faccia mai riferimento alla pratica “genealogica” in quanto contro-storicismo politico (cfr. F. Nietzsche, Umano, troppo umano, 1878, vol. I, in Opere complete, a cura di G. Colli e M. Montinari, Adelphi, Milano 1964, § “Chimica delle idee e dei sentimenti morali”; M. Foucault, “Bisogna difendere la società”. Corso al Collège de France, 1975-1976, 1997, Feltrinelli, Milano 1998). Le genealogie sono finzioni storiche, nella misura in cui “fingono” (plasmano, modellano) la documentazione sulla base di un’interrogazione filosofica: come i valori supremi possono nascere da cose meno nobili? Come la pura conoscenza può nascere dai rapporti concreti di potere? Ciò significa però, al tempo stesso, che le questioni filosofiche sono costantemente messe alla prova dell’archivio. Secondo Foucault, l’emergenza storica della genealogia come bassa storia politica dei rapporti di forza e delle relazioni di potere, rompe l’“unità” del discorso storico in quanto legittimazione della sovranità politica, “divide” dunque dall’interno il discorso storico stesso, aprendo un profondo fronte polemico nel suo regime di verità. Si instaura in tal modo tutto un gioco politico tra le verità e le contro-verità storiche, tra le finzioni e le contro-finzioni storiche. 15. J. Littell, Le benevole (2006), Einaudi, Torino 2007; Y. Haenel, Il testimone inascoltato (2009), Guanda, Parma 2010; L. Binet, HHhH. Il cervello di Himmler si chiama Heydrich (2009), Einaudi, Torino 2011. 16. R. Saviano, Gomorra, Mondadori, Milano 2006. 17. Una critica severa è stata indirizzata a Saviano dal sociologo Alessandro Dal Lago, nel volume Eroi di carta. Il caso Gomorra e altre epopee, manifestolibri, Roma 2010.

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L’incapacità delle forme tecniche più o meno tradizionali o stabilite di assicurare i loro rispettivi regimi di verità rende vulnerabili le frontiere che le delimitano. Di fronte a questa défaillance o a questa “vacanza” diffusa della sovranità tecnica che dovrebbe garantire la possibilità che un mondo e un’umanità appaiano, si assiste a un assalto generalizzato alle frontiere il cui risultato è una profonda commistione dei regimi di verità. La letteratura, per esempio, invade lo spazio storico, nel momento in cui la storiografia non sembra più in grado di garantire la verità della storia; la letteratura supplisce quindi a questa mancanza ma, al tempo stesso, occupando questo posto vuoto, sfrutta le risorse del territorio di accoglienza, cioè la documentazione, l’archivio storico, lasciandosene contaminare, ossia trasformandosi a sua volta. Da molto tempo ormai sono in atto processi di contaminazione radicale e multipla tra le diverse forme e ai diversi livelli della techne contemporanea, il cui nucleo problematico resta comunque l’ibridazione tra la realtà e la finzione, ossia lo show del reale come tendenza modernizzatrice maggiore della techne stessa. Tutta questa agitazione trasformatrice significa che viviamo in un clima di effervescenza creatrice, come di “avanguardia” diffusa. E in effetti, dello spirito di avanguardia le tendenze tecniche attuali conservano sicuramente la capacità di “sperimentare” e la volontà di creare del “nuovo”. Ma perché allora è così difficile confessare, dichiarare apertamente questo “atteggiamento”? Perché la parola d’ordine di ogni tentativo di sperimentazione e di rinnovamento sembra essere larvatus prodeo? Il problema è che una postura d’avanguardia suonerebbe oggi immancabilmente “elitista”, e finirebbe per allontanare coloro che l’adottano dalla contiguità con la vita di tutti i giorni necessaria a dare all’atto creatore tutta la sua efficacia. Si profila di conseguenza una sorta di antinomia: da un lato non si può fare altro che sperimentare nuove strategie tecniche di produzione della verità, mettendo tra parentesi o persino distruggendo le regole che reggono l’esperienza comune; dall’altro non ci si può che conformare, invece, alle leggi stabilite del marketing e dello spettacolo, preoccupandosi di guadagnare la massima prossimità mimetica con l’uomo comune 123

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(con il “popolo”). Perché, se non ci si riesce a dotare di quest’aura popolar-populista, necessaria a far “brillare” la verità il più a lungo e il più forte possibile, si rischia di cadere sic et simpliciter nel buio di verità, cioè in quella zona d’ombra che si allarga man mano che i bagliori mediatici si intensificano e si concentrano sulla ribalta. Il risultato è che la creazione del nuovo tende paradossalmente a coincidere con la fabbricazione di bestseller (ossia di prodotti spesso caratterizzati da un basso livello di innovazione), dal momento che il terreno sul quale la sperimentazione si esercita è occupato, colonizzato dalla preoccupazione di rendere la verità sempre più efficace in termini di consenso popolare. Fino al punto di non poter più giudicare se si stia salutando il genio di un’effrazione rivoluzionaria o l’astuzia di un conformismo populista. Non si tratta affatto di “denunciare” tale tendenza, per la semplice ragione che siamo tutti attraversati da questa tensione, da questa contraddizione. Si tratta piuttosto di riconoscere che il quadro generale nel quale si inscrive oggi l’atteggiamento creatore è quello che si potrebbe definire un populismo d’avanguardia.18 Ancora un doppio mostruoso quindi, ancora un ibrido. Ma siccome la presenza di un ibrido segnala sempre la potenza di un’ondata modernizzatrice, sarebbe auspicabile interrogarsi sui pericoli connessi con tale tendenza: la tensione antinomica tra la libera sperimentazione e la ricerca di un consenso popolare non potrebbe avere l’effetto di prosciugare alla sorgente la produzione di verità? Riferendoci alla funzione apofantica della techne, siamo consapevoli di confermare un’interpretazione tradizionale della verità fondata sul presupposto di un rapporto di profonda “interiorità” 18. Questo atteggiamento è stato per esempio individuato in qualcuno come Yannick Haenel, da una critica “istintivamente diffidente rispetto a un’alleanza paradossale tra la rivendicazione d’avanguardia e l’esposizione mediatica” (P. Boucheron, Toute littérature est assaut contre la frontière, cit., p. 447). La stessa tensione – della quale non bisogna necessariamente diffidare, ma sulla quale bisognerebbe comunque interrogarsi – si trova nel collettivo di scrittori italiani Wu Ming. In un testo teorico, essi non smettono di oscillare tra la rivendicazione di una sperimentazione radicale a livello stilistico e linguistico, e la pretesa che questa sperimentazione si dispieghi sempre e unicamente nel quadro del “popular” (Wu Ming, New Italian Epic. Letteratura, sguardo obliquo, ritorno al futuro, Einaudi, Torino 2009).

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tra la storia della verità e la storia della filosofia. Ora, come ha notato Michel Foucault, questa interpretazione ha da sempre contribuito a destoricizzare e a depoliticizzare (il nostro rapporto al) la verità, strappandola all’“esteriorità” dispersa, molteplice ed eterogenea del piano d’immanenza storico-politico.19 Ebbene, malgrado questa precisazione, e pur continuando a utilizzare siffatta interpretazione tradizionale, è evidente che il problema della verità si presenta oggi con immediate e importanti implicazioni politiche. È a causa di questa urgenza politica che ci si interroga, forse in maniera ancora oscura, su come si scrive un romanzo o un saggio, su come si realizza un’opera d’arte, su come si fa uno spettacolo, su come si utilizzano le nuove tecnologie. L’opera d’arte nell’epoca della telerealtà: ecco la forma generale che potrebbe assumere oggi l’interrogazione sulla techne. Non è un caso che questa formula ricordi la riflessione sviluppata negli anni trenta, anni di grandi sconvolgimenti politici, da Martin Heidegger e Walter Benjamin, le cui analisi, per quanto diverse tra loro, collegavano strettamente e indissolubilmente la questione tecnico-artistica con quella politica.20 E a proposito di paragone tra la situazione attuale e l’epoca del fascismo storico, forse il punto di più profondo contatto a partire dal quale far funzionare il gioco analogico delle somiglianze e delle differenze è proprio questo intreccio inestricabile tra le poste in gioco di verità e le poste in gioco politiche.21 Ba-

19. Cfr. M. Foucault, Leçons sur la volonté de savoir. Cours au Collège de France (19701971), Presses de l’EHESS-Gallimard-Seuil, Paris 2011. 20. Cfr. a questo proposito P. Lacoue-Labarthe, La finzione del politico. Heidegger, l’arte e la politica (1987), il melangolo, Genova 1991. 21. Ci si potrebbe spingere più lontano e ipotizzare che questo punto di contatto con gli anni trenta riguardi specificamente la problematizzazione del rapporto tra la realtà e la finzione (o il sogno). Non è forse una delle preoccupazioni principali del nostro tempo, il fatto che diventa sempre più difficile distinguere la realtà dalla finzione – il che pone problemi tanto a livello artistico quanto a livello politico? Che ne è dell’atteggiamento surrealista con l’avvento della tv, questa specie di di surrealismo “reale” (nello stesso senso in cui si parla di socialismo reale)? Film come Il dottor Mabuse o Il gabinetto del dottor Caligari non gettano forse una luce “analogica” molto interessante su altri film come Matrix o Inception? Non è forse la questione del carisma – la capacità illusionistica di incantare, di ipnotizzare le folle – che oggi ci preoccupa, in stretta relazione con la potenza sprigionata dai mezzi di comunicazione di massa? A tale proposito, cfr. A. Kyrou, L’hypnose de l’à-venir, “Multitudes”, numero monografico Big Brother n’existe pas, il est partout, 40, 2010.

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sti pensare al surrealismo, e più specificamente al modo in cui ci si “divideva” su questioni come l’uso letterario di Sade o l’interpretazione della pittura di Picasso e Dalì, a causa delle immediate e pressanti implicazioni etico-politiche con cui simili questioni erano sperimentate.22 Se in modo analogo la techne in tutte le sue forme sembra oggi avere simili implicazioni politiche, è probabilmente a causa del fatto che la logica della telerealtà nella quale essa è inscritta rischia di contribuire al dispiegamento delle condizioni di produzione della verità, quindi in definitiva alla manifestazione del mondo e dell’umanità dettati dall’attuale ondata modernizzatrice; con l’effetto di rinforzare, malgrado le migliori intenzioni (contrarie), il populismo politico che è parte integrante di questo mondo e di questa umanità. Quando Bataille rimproverava al surrealismo di Breton un certo “idealismo”, rispetto al modo di intendere tanto l’amore quanto la rivoluzione proletaria, lo faceva essenzialmente perché vedeva in questo idealismo un lasciapassare per il razzismo e il fascismo. La sua domanda era dunque questa: il fatto di porre la propria “tecnica” (letteraria, artistica) nel segno di un idealismo, anche se questo idealismo oppone “intenzionalmente” la super-aquila della rivoluzione proletaria alle aquile capitaliste e imperialiste, non contribuisce forse “obiettivamente” alla presentazione del mondo e dell’umanità di cui il fascismo è parte integrante?23 Il rischio è in fondo quello di chiudere il cerchio, facendo dell’idealismo l’unico orizzonte possibile di manifestazione della verità; e che il “migliore” vinca la battaglia (politica) per (la verità del) l’idealismo. Tutta la questione è qui: come resistere alle condizione storiche date, come lavorare per pos22. Ci riferiamo alla polemica tra il “basso materialismo” di Georges Bataille e il “surrealismo” di André Breton, che ha grande importanza nel modo di procedere al tempo stesso critico e creativo del collettivo Action30. Cfr. P. Di Vittorio, Georges Bataille: Documents 1929-1930: L’informe contro l’uniforme, in UA. In questo stesso volume, si trova Tutto si divide!, adattamento a fumetti, a opera di Giuseppe Palumbo, di alcuni testi di Bataille pubblicati su Documents. A partire da questa polemica, il collettivo Action30 ha realizzato un cortometraggio dal titolo Grande Brasserie Cyrano, selezionato in diversi festival, tra cui quello di Compiègne nel 2010. 23. Cfr. G. Bataille, La “vieille taupe” et le préfixe sur dans les mots surhomme et surréaliste (1968), in Œuvres complètes, Gallimard, Paris 1970, vol. II.

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sibili alternative senza “fare presa” all’interno di queste stesse condizioni, contribuendo così al completo dispiegamento delle loro premesse, cioè alla loro instaurazione egemonica, totalizzante o totalitaria? Non si tratta certo di sostenere che non vi siano resistenze o alternative possibili, o che siano comunque destinate al fallimento. Si tratta al contrario di affermare che la vera sfida, la posta in gioco più radicale si trova qui: come sfruttare le possibilità della storia senza lasciarsi stancamente trascinare dalla potenza delle sue ondate modernizzatrici? Come insinuarsi nelle linee di fuga senza aprire la porta all’inondazione? Come fare in modo che, finalmente, le stesse linee di fuga si dividano, che appaiano biforcazioni, che il possibile fenda il possibile obbligandolo a sospendersi e a interrogarsi radicalmente su se stesso? In Italia, tali questioni si sono poste in modo tanto intenso quanto oscuro, quasi istintivo. Si è risposto all’urgenza della sfida, ma senza che le poste in gioco venissero sempre alla luce per permettere un vero dibattito sul rapporto tra l’innovazione politica e l’innovazione tecnica che ha caratterizzato la storia di questo paese negli ultimi due decenni. Non si è certo mancato di sottolineare, anzi lo si è fatto talvolta persino con troppo zelo, l’“eccezionalità” del caso italiano: non solo per stigmatizzare il carattere oltranzista del neoliberalismo berlusconiano, ma anche per salutare lo sviluppo di importanti tendenze culturali che sono sembrate contrastarlo o controbilanciarlo. A questo proposito, si possono menzionare il movimento del teatro-narrazione, o quello letterario del New Italian Epic, oppure l’importanza internazionale acquisita ultimamente dalla “filosofia italiana”.24 E bisogna ammettere che tutti questi fenomeni appaiono negli anni novanta, nello stesso momento in cui si verifica il crollo della Prima repubblica e l’ascesa politica di Silvio Berlusconi. Sono quindi contemporanei di quell’altro fenomeno di rilievo, a modo suo pop-culturale, che è stato il berlusconismo. Ora, quello che fa ancora difetto è un’analisi del nesso profondo – un nesso talmente 24. Cfr. R. Esposito, Pensiero vivente, cit.

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problematico da risultare scandaloso e quindi difficilmente confessabile – determinatosi nel corso di questi anni in Italia tra il piano della modernizzazione tecnica e quello della modernizzazione politica (o più precisamente tra le risposte di volta in volta tecniche e politiche date nel nostro paese a tendenze modernizzatrici più generali e di lunga durata). Tuttavia, questo nesso, questa connivenza “obiettiva” tra un certo populismo tecnico e un certo populismo politico sono sorprendenti, soprattutto in Italia, e basterebbe trovare il coraggio di far esplodere lo “scandalo” per cominciare seriamente ad affrontare in problema. Perché al di là dei facili manicheismi, che di certo non aiutano a riflettere, ciò che bisognerebbe sforzarsi di pensare è il piano trasversale su cui una nuova antropologia tecnica e una nuova antropologia politica si sono saldate lungo la direttrice popolar-populista del processo di modernizzazione in generale. Qual è dunque il punto di congiunzione, l’inconfessabile superficie di alleanza? Per rispondere alla logica del marketing e dello spettacolo in quanto condizioni supplementari della verità, sia l’uomo della tecnica sia quello della politica hanno dovuto massicciamente investire la contiguità con l’uomo comune, al fine di conquistare il carisma della realtà – “sono come voi, solo infinitamente più brillante di voi...” – necessario a procurare alla “verità” la sua efficacia in termini di consenso popolare. È come un patto con il diavolo: per acquistare potenza, si gioca l’ibrido della faction, dello spettacolo del reale, della telerealtà, cosa che finisce tuttavia per rendere tirannica la tendenza modernizzatrice, trasformando la sua linea di fuga in una via (quasi) obbligata, in ogni caso fortemente vincolante. Si ottiene dunque in cambio una certa impotenza. Ancora una volta, potenza e impotenza vanno insieme, come due facce della stessa medaglia. Non rimane, per concludere, che domandarsi come si sviluppi concretamente questo patto con il diavolo, quale sia la forma precisa assunta da questa “potenza impotente”. La strategia diffusa che si è vista all’opera in Italia, fino ad assumere i contorni di una vera egemonia culturale, si presenta in prima istanza come una tendenza volontaria e sistematica alla “de-professionalizza128

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zione”.25 Il modo più rapido ed efficace di somigliare all’uomo qualunque, di avvicinarlo, di frequentarlo, di toccarlo, consiste nel fare l’economia dei segni distintivi dell’“eccellenza”, mettendo tra parentesi la maîtrise che si esercita abitualmente in uno specifico campo di attività. Il che significa essere sempre un po’ fuori posto, ricadendo come per caso in un territorio che non è quello di propria competenza, arrischiandosi in un’attività che non è del tutto o non è affatto quella per cui si è riconosciuti e apprezzati. Tutta l’abilità consiste in fondo, paradossalmente, nel mostrarsi un po’ maldestri, nel balbettare, nell’inciampare, mantenendo però sempre l’aura legata alla propria fama o al proprio capitale culturale. Il signor tal dei tali brilla come non mai, e brilla senza limiti. Il vero problema è che questo specchio narcisistico viene mosso da una “maggioranza” che taglia trasversalmente il mondo della politica (sia di destra che di sinistra) e il mondo della cultura (sia di opposizione che di regime). Lo sport più praticato nell’Italia di oggi è quello di occupare da dilettanti il posto che non è il proprio, giocando a fare ciò che non si è. Si tratta appunto di una tendenza larga e trasversale che si potrebbe chiamare “dilettantismo d’elezione”, ossia – ancora un doppio mostruoso, ancora la potenza dell’ibrido – un dilettantismo scelto e calcolato, un dilettantismo sperimentale, un dilettantismo d’avanguardia, una fusione di dilettantismo e di professionismo. Non ci sono solo gli uomini politici che giocano a fare gli uomini di spettacolo, e viceversa, ma ci sono anche comici che si cimentano nell’arringare le folle (Beppe Grillo), o che fanno giornalismo militante (Sabina Guzzanti con i suoi film inchiesta sulla libertà d’informazione in Italia o sulla gestione da parte della Protezione civile del terremoto in Abruzzo); ci sono attori che si improvvisano professori di storia della letteratura (Roberto 25. Questa tendenza, considerata dal punto di vista delle belle arti, appare come un processo di lungo periodo che può essere fatto risalire a Marcel Duchamp: la de-differenziazione e il divenire “generico” dell’atto creatore hanno reso più permeabili e confuse le frontiere, non solo tra le diverse forme d’arte, ma anche tra arte e non arte. A questo proposito, si veda G. Guercio, L’opera d’arte e il divenire generico del creativo. Cinque momenti italiani, in G. Guercio, A. Mattirolo (a cura di), Il confine evanescente. Arte italiana 1960-2010, Electa, Torino 2010.

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Benigni che spiega Dante) o di storia dell’arte (Dario Fo con le sue lezioni multimediali dedicate al Duomo di Modena o al Caravaggio), scrittori – romanzieri, saggisti o giornalisti – che calcano le scene di tv e teatri, realizzando spettacoli nei quali loro stessi recitano i propri testi o presentano le proprie inchieste, il che testimonia l’estrema duttilità di questi prodotti culturali, che possono incarnare tutti i formati disponibili (libro, film, opera teatrale, programma televisivo, graphic novel, dvd), sfruttando al massimo il loro potenziale comunicativo, come se si trattasse di veri e propri brand piuttosto che di singoli prodotti; c’è infine tutta la galassia dei format che fondono il lavoro giornalistico con la satira e il divertimento in generale (info-tainement) e l’inarrestabile moltiplicazione dei festival (di letteratura, di filosofia, di matematica, di diritto, di psicologia, di economia...), nei quali il sapere accademico prova ad andare verso la gente, esibendosi nelle pubbliche piazze, in contesti che si vogliono allegri e conviviali. Tutto questo contribuisce a creare una vasta zona grigia di ibridazione, secondo una tendenza che evidentemente non appartiene solo all’Italia. Ma è chiaro anche che questo dilettantismo d’elezione, destinato a intercettare e a sfruttare tutta la potenza sprigionata dal carisma della realtà, è solo l’altra faccia della debolezza delle forme culturali stabilite, causa dell’assalto generalizzato alle frontiere e della commistione radicale dei regimi di verità. Per questo – ecco l’aspetto diabolico della questione di cui sarebbe meglio essere consapevoli – quando oggi si fa risuonare l’appello alla realtà, anche dalle contrade più eteree e disinteressate dell’arte o della filosofia, si sta in effetti evocando la potenza demoniaca di questo ibrido di realtà e finzione (o di spettacolo) che è il reality. Una potenza che si paga a caro prezzo, dal momento che essa si impone ormai come una possibilità cui è molto difficile rinunciare, sottrarsi. Siamo tutti politici, scrittori, attori, artisti, filosofi, eruditi... da reality. Anche nel caso dei “crimini mostruosi” che saturano la tv, si ha a che fare con personaggi di reality. Siamo tutti personaggi di reality, nella misura in cui, almeno, abbiamo avuto accesso alla ribalta, dove la luce è una luce industriale. È in un tale contesto problematico che, a cavallo tra un’inter130

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rogazione politica e un’interrogazione tecnica, è nato in Italia, intorno alla metà degli anni duemila, il collettivo Action30. Si tratta di un gruppo eterogeneo di grafici, fotografi, disegnatori, videomaker, musicisti, ricercatori, giornalisti e attivisti politici, il cui obiettivo è percepire le “nuove” forme di razzismo e di fascismo, servendosi dei primi decenni del XX secolo come di uno specchio, o una lente d’ingrandimento. Il riferimento agli anni trenta richiama dunque direttamente all’azione e spinge a caratterizzare la ricerca – tanto sul piano del lavoro critico quanto su quello della creazione artistica – attraverso un sovrappiù d’impegno etico e politico. In altri termini, se si segue l’ipotesi di una crisi profonda della democrazia, non si potrà fare altro che mobilitarsi attraverso gesti di resistenza, di sfida, di rifiuto, di rottura. Tuttavia, questi gesti di rottura non si lasciano sublimare in un engagement totale e astratto, ma restano ancorati nella dimensione “specifica” del collettivo, che è quella della ricerca critica e artistica. Per Action30, agire significa in primo luogo rimettere in discussione i format abituali: tanto a livello della produzione e della trasmissione del sapere, ibernate nelle forme accademiche tradizionali, quanto a livello della comunicazione, diluita in forme spettacolari di puro intrattenimento. Il modo di procedere del collettivo Action30 investe due linee di fuga: la prima è quella attraverso cui si cerca di sfuggire all’alternativa tra la ricerca critica e la creazione artistica; la seconda quella attraverso cui si tenta di far sfuggire la ricerca – sia critica che artistica – all’alternativa tra la forma accademica e la forma meramente spettacolare. È quindi evidente che questo modo di procedere si inscrive completamente nelle tendenze modernizzatrici attuali, dispiegando un apparato tecnico e un regime di verità del tutto ibridi. La sperimentazione si articola su tre assi principali. In primo luogo, c’è il cosiddetto graphic essay (nel senso in cui si parla di graphic novel o di graphic journalism): si tratta di un modo di reiventare la scrittura saggistica o erudita e, con lo stesso gesto, il modo di fare libri, tenendo conto della nuova dimensione multimediale e ipertestuale, attraverso un montaggio analogico di flussi testuali e di flussi iconografici. Attraverso questa mo131

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dalità si sperimenta l’apertura di un possibile: si possono scrivere saggi capaci di produrre sensazioni? Si possono realizzare immagini in grado di concatenare concetti? C’è un modo performativo di esercitare la critica? E un modo critico di esercitare la creatività? Direttamente legata a questa sperimentazione, c’è poi la pratica delle performance-dibattito: magma di parole, immagini e musica, ottenuto attraverso un live set dove operano un dj, un vj, un disegnatore e una voce narrante. Anche in questo caso, si tratta di verificare la possibilità di comunicare in modo diverso i contenuti delle ricerche, evitando di cadere sia nella divulgazione, attitudine paternalistica che banalizza il sapere rinforzando lo statuto di chi lo detiene, sia nella spettacolarizzazione fine a se stessa, cose che possono andare di pari passo. È possibile incontrare un “pubblico” in modo diverso, per condividere analisi, interrogazioni, momenti di riflessione e di discussione, e produrre magari insieme lo shock del pensiero?26 Infine, il terzo asse di sperimentazione è quello che abbiamo chiamato, in mancanza di meglio, critique-fiction: il primo tentativo è consistito nel realizzare un montaggio analogico tra l’apparato critico di Michel Foucault – in particolare le analisi sulla biopolitica, la governamentalità, il neoliberalismo e le tecniche di soggettivazione – e le visioni romanzesche di James G. Ballard.27 Innestando queste due singolarità l’una sull’altra, si è prodotto un “terzo analogico”: non una sintesi dei due termini, piuttosto uno spazio di indiscernibilità che, mobilitando entrambi al tempo stesso, li fa uscire da se stessi e, forse, li rende in qualche modo estranei a se stessi. Questo terzo analogico, effetto del montaggio tra critica e finzione, determina una sorta di campo magnetico, la cui caratteristica è di sprigionare una tensione problematica che dà la scossa al pensiero. Che succede quando gli occhiali di Foucault vengono montati sulle visioni di Ballard? Più precisamente, che succede alla materia letteraria quan26. L’ultima produzione del collettivo Action30 è Costellazione 1961: spettacolo centrato sull’avventura spirituale e politica di Franco Basaglia, a cavallo tra la performance multimediale, il documentario storico e il teatro, presentato per la prima volta a Bruxelles nel Festival des Libertés 2011, cfr. . 27. Questo esperimento è stato realizzato nell’ultimo capitolo di L’uniforme e l’anima, cit.: P. Di Vittorio, James G. Ballard: This is Tomorrow: biofascismo e follia d’elezione.

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do viene passata al setaccio della critica? E, viceversa, che succede alla materia critica quando è impregnata e attraversata dalla letteratura? Succede che si avvia un vasto processo di “mutazione”, dal quale sorgono strane creature ibride: visioni concettuali e concetti visionari, o meglio, visioni-concetti e concetti-visioni. Doppi mostruosi all’interno dei quali e grazie ai quali si realizza, non tanto la trasparenza paradigmatica o speculativa da cui discende l’intellegibilità del reale,28 quanto l’attrito da cui si sprigiona l’incandescenza magmatica del pensiero. Alla base di tutti questi dispositivi sperimentati dal collettivo Action30 c’è una strategia generale: doppio gesto, o double séance per dirla con Jacques Derrida, di livellamento e montaggio analogico di materiali molteplici ed eterogenei, dove il primo gesto consente una totale “apertura” ai flussi possibili, il secondo un “taglio” dei flussi stessi sospeso, però, alla possibilità aleatoria e contingente che abbia luogo un “evento” critico e creativo. Attraverso questo atteggiamento generale, che abbiamo chiamato blob-filosofia,29 si cerca in fondo di guadagnare il piano d’immanenza “informe” (nel senso di Bataille) o “rizomatico” (nel senso di Deleuze) dal quale possono scaturire le “biforcazioni” del possibile. È infatti chiaro che non si tratta né di negare la linea di fuga modernizzatrice che apre il possibile, né di cavalcarla allegramente. Il nocciolo della questione è invece come sfuggire a ciò che Umberto Eco, in un vecchio libro sulla cultura di massa, definiva l’alternativa tra chi, dinanzi al nuovo, evoca la fine dei tempi e chi ostenta invece un entusiasmo incondizionato.30 Il punto cruciale è come disegnare, all’interno di una particolare tendenza modernizzatrice, delle linee di fuga “ulteriori”, come fare in modo che, 28. Si tratta di una non trascurabile differenza rispetto all’interpretazione “paradigmatica” dell’analogia proposta da G. Agamben, Signatura Rerum. Sul metodo, Bollati Boringhieri, Torino 2008. 29. Il termine inglese blob designa una massa priva di forma e consistenza, ed è anche il nome di una nota trasmissione diffusa quotidianamente da Rai3 a partire dal 1989: montaggio di estratti “rubati” nel flusso televisivo, che mostra come sia possibile porsi qualche “domanda” anche all’interno dell’universo televisivo. Questo spiega forse perché Blob sia una delle trasmissioni più detestate dal papa della chiesa catodica, l’onorevole Silvio Berlusconi. 30. U. Eco, Apocalittici e integrati, Bompiani, Milano 1964.

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nello spazio del possibile, appaiano le biforcazioni che lo mettono in discussione e lo radicalizzano. Le sperimentazioni del collettivo Action30 vanno in questa direzione: far apparire possibili “minori” nella possibilità “maggiore”, istallando, nel cuore dell’ibrido in cui tale possibilità si dispiega, gli interrogativi radicali che ne sospendono – nel senso dell’epoché husserliana – la potenza che seduce e cattura. Come e a quale prezzo ci stiamo aprendo al possibile? Come e a quale prezzo stiamo modernizzando, riformando il nostro modo di vivere e di essere? Lo scopo è di non farsi trascinare troppo, di non farsi eccessivamente condurre, governare dal mondo che avanza. E di essere quindi un po’ più liberi in questo mondo.

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Umano, inumano e umanesimo nella “Critica della ragion dialettica” LORENZO CHIESA

L’umano come dissoluzione dell’inumano: Sartre e Badiou Negli ultimi trent’anni, Alain Badiou è stato uno dei pochi filosofi europei a sostenere con coerenza e sistematicità l’attualità politica e ontologica di Marx e del marxismo a dispetto di ogni presunta “fine della storia”, “fine delle ideologie” e “morte del soggetto”. Il suo progetto volto a continuare a pensare la dialettica e il materialismo al di là del fallimento del socialismo reale – Badiou oppone da sempre la propria “dialettica materialistica” al “materialismo dialettico” – ha contributo enormemente, soprattutto nell’ultimo decennio, a disincagliare il dibattito filosofico europeo dalle secche decostruttive, ermeneutiche, e “deboliste” degli anni ottanta e novanta del secolo scorso (in ultima istanza tutte orientate, ontologicamente, verso un comune scetticismo/relativismo sofistico e, politicamente, verso un progressismo “liberal” di derivazione social-democratica). Nello specifico, a mio avviso, il pensiero di Badiou propone una problematizzazione – e una soluzione (che non tratterò in questa sede) – di quello che può ormai essere considerato l’apice, ma anche il limite, del discorso filosofico-emancipatorio del tardo Novecento, vale a dire l’opposizione, apparentemente irrisolvibile, tra il materialismo storico di matrice foucaultiana – facilmente fagocitabile dalla doxa scettico-relativistica – e il materialismo naturalistico di matrice chomskiana – che ha in comu-

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ne con la dialettica della natura di Engels un certo darwinismo grossolano.1 Parto quindi da un presupposto che ritengo acquisito: senza dubbio oggi non è più anatema, almeno nel mondo anglosassone, rilanciare filosoficamente una nuova “ipotesi comunista”.2 In questo contesto mi sembra importante analizzare in modo attento il lascito di Sartre e, più specificamente della Critica della ragion dialettica, nel pensiero di Badiou, considerando anche il fatto che tra le loro opere vi è una sorprendente continuità tematica e terminologica (non solo in riferimento a dialettica e materialismo, soggetto e azione, sapere e verità, ma anche a concetti più prettamente sartriani come quelli di umanesimo, essenza ed esistenza).3 Sul piano della storia delle idee, e delle sue possibili periodizzazioni, propongo una semplice proporzione iniziale all’interno della quale vanno inserite le considerazioni che seguono: lo strutturalismo stava a Sartre nella stessa maniera in cui Badiou sta al cosiddetto post-strutturalismo (Derrida, Lyotard, Nancy, forse anche un certo Deleuze). Come ha sostenuto JeanClaude Milner nell’ottimo Le périple structural (2008), “la doxa, nel 1960, ruotava attorno a Jean-Paul Sartre. [...] Quest’ultimo aveva incarnato al meglio il discorso del dopoguerra [...] [in quanto] rivelazione e demistificazione con, come arma maggiore, la critica d’ispirazione marxista. Ovvero la scoperta del significato al di là delle forme. [...] Mostrare e trasformare vanno di pari passo: dire ciò che è come esso è nella sua verità, senza ornamenti linguistici e senza détours di pensiero, è la condizione necessaria per una trasformazione; dall’altro lato, dire ciò che è non conta niente se non è ai fini della trasformazione. [...] Dopo il 1960 [...] con l’ingratitudine e la prontezza che ne sono la legge, [la doxa] cessò di riconoscere in Sartre il maître de vérité che era stato a partire dal 1945. Il versante positivo che corrisponde a questo 1. Sul confronto tra Foucault e Chomsky, cfr. P. Virno, Quando il verbo si fa carne. Linguaggio e natura umana, Bollati Boringhieri, Torino 2003, pp. 147-155, e Id., Scienze sociali e “natura umana”, Rubbettino, Soveria Mannelli 2002, pp. 13-24. 2. Cfr. A. Badiou, L’ipotesi comunista (2009), Cronopio, Napoli 2011; C. Douzinas, S. Žižek (a cura di), L’idea di comunismo (2010), Derive Approdi, Roma 2011.

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conseguimento negativo fu lo strutturalismo: in senso stretto, esso votò Sartre all’oblio. [...] La questione dell’autenticità, del significato [...] diventano d’importanza secondaria; l’oggetto del pensiero non è [più] la molteplicità delle forme messe al servizio di un significato unico che esse dissimulano, ma l’unicità della forma, mantenuta attraverso dei significati variabili che essa accoglie in piena luce”.4 La mia proposta è che Badiou operi una simile rottura epocale nel pensiero francese (ed europeo) contemporaneo proprio rispetto agli ultimi eredi dello strutturalismo, o meglio, rispetto alla vulgata post-strutturalista. Si finisce così per ottenere un inatteso cortocircuito storico che rende Sartre, e nella fattispecie la sua lettura di Marx nella Critica della ragion dialettica, più attuali oggi che negli anni sessanta e settanta. Ciò non riguarda soltanto il riproporsi, con Badiou, di un minimalismo linguistico ispirato dalla scrittura scientifico-matematica e dalla predilezione per il manifesto programmatico come genere filosofico, ma anche e soprattutto, contro ogni idea pseudopolitica basata sull’“a-venire” che sembra in fondo giustificare l’ideologia della fine delle ideologie, il riaffermarsi dell’inscindibilità tra mostrare e trasformare, teoria e prassi – anche se per Badiou, vale la pena specificarlo, la filosofia non è mai direttamente politica, non deve essere “suturata” da essa: resta sempre invece, in quanto “condizione” di pensiero distinta, una “metapolitica”.5 Per quanto riguarda infine il rapporto forma/significato le cose si fanno più complesse: in poche parole, Badiou non può essere confinato a un recupero – per quanto complesso – della superiorità del significato sulla forma, ovvero, per essere più precisi, del progetto esistenziale sull’essenza umana, che Milner rintraccia in Sartre. Questo punto dovrebbe chiarirsi nel corso dell’esposizione. Cosa dice Badiou di Sartre? A parte un numero ragguardevo3. Badiou si è soffermato sulla nozione di esistenza specialmente in Logiques des mondes, Seuil, Paris 2006, e in Secondo manifesto per la filosofia (2008), Cronopio, Napoli 2010. 4. J.-C. Milner, Le périple structural. Figures et paradigme, Verdier, Lagrasse 2008, pp. 314-315. 5. Cfr. A. Badiou, Metapolitica (1998), Cronopio, Napoli 2001.

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le di riferimenti sparsi nelle sue opere maggiori,6 il testo che ritengo più interessante e sul quale vorrei concentrarmi è una relazione presentata poche settimane dopo la morte di Sartre, nel 1980, a un gruppo di attivisti politici membri dell’Union des communistes de France marxiste-léninistes, ora raccolta in Petit panthéon portatif (2008).7 Come riconosce lo stesso Badiou, “lo scopo del mio intervento era di andare contro la marea di discorsi vaghi volti ad accaparrarsi ogni merito [dopo la morte di Sartre] e di delineare una valutazione rigorosa del dibattito filosofico tra Sartre e il marxismo e forse anche tra Sartre, la Storia, e la Politica. Il mio punto di partenza era che il capolavoro di Sartre su questi argomenti (la Critica della ragion dialettica) fosse per lo più sconosciuto alla gente – soprattutto studenti – presente”.8 Prima ancora di rivolgersi alla Critica, Badiou riconosce a Sartre tre grandi meriti politici, puntualmente riflessi nelle sue opere: 1) essersi schierato con il Pcf negli anni cinquanta al culmine dell’isteria anticomunista; 2) aver sostenuto a spada tratta la causa anti-imperialista negli anni sessanta; 3) aver compreso dopo il ’68 la natura ormai reazionaria del Pcf. Al contrario, la produzione sartriana d’anteguerra sarebbe, incluso L’essere e il nulla (1943), apolitica se non addirittura antipolitica: “Vi è un enorme abisso fra questa filosofia e l’impegno politico. Sartre rese centrale [per ogni] tipo di esperienza l’assoluta libertà del Soggetto, e tale libertà è [...] in senso stretto una questione che riguarda [solo] la coscienza individuale”.9 Badiou riscontra quindi nella Critica un ribaltamento pressoché totale del rapporto tra soggetto e società espresso da Sartre nel suo periodo più apertamente esistenzialista. In essa, il filosofo francese si porrebbe infine una domanda cruciale: “Come può l’attività, il cui solo modello è la libera coscienza individuale, divenire un dato collettivo? Come possiamo superare l’idea che la realtà 6. Cfr., per esempio, A. Badiou, Théorie du sujet, Seuil, Paris 1982, p. 315; Id., Logiques des mondes, cit., pp. 426-429, 444-445; e soprattutto l’ultimo capitolo di Il secolo (2005), Feltrinelli, Milano 2006. 7. Id., Petit panthéon portatif, la fabrique, Paris 2008 (d’ora in poi PPP). 8. PPP, p. 173. 9. PPP, p. 26.

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storica e sociale sia inevitabilmente passiva?”.10 Evidenziando soprattutto gli aspetti politici del magnum opus sartriano, e accennando soltanto alle tematiche ontologiche che lo sorreggono, Badiou stesso riconosce che è proprio questa questione base a rendere Sartre attuale (già nel 1980, ma, aggiungerei, soprattutto nell’anno di piazza Tahrir, Tottenham e Zuccotti Park) solo dopo la stagione dello strutturalismo. In altre parole, la Critica si proporrebbe innanzitutto come un’interrogazione innovativa sulla natura del soggetto politico – o meglio, della soggettivazione politica come processo – in quanto irriducibile all’individuo libero vanamente inneggiato dalla doxa esistenzialista. Badiou riassume ciò che, almeno in prima istanza, lo accomuna politicamente a Sartre, a questo riguardo, con un’altra domanda: “Di che tipo di attività indipendente e rivoluzionaria sono capaci le masse? Qual è il rapporto tra il movimento di massa e le grandi istituzioni politiche inerti dell’imperialismo, ovvero il parlamento e i sindacati?”.11 Detto questo, tale vicinanza tra i due pensatori va comunque problematizzata subito con un’importante specificazione: il progetto marxista pre-althusseriano di Sartre continua a essere diviso da quello post-althusseriano di Badiou nella misura in cui per il primo il soggetto politico in questione resta pur sempre il soggetto della Storia in quanto “totalizzazione” – termine veramente pervasivo nella Critica.12 Per Badiou invece “l’idea stessa di totalizzazione storica non è di alcun uso”13 e, potremmo aggiungere, non ha alcun senso al di fuori di un miraggio idealistico; ovvero, la critica materialistica della ragione dialettica formulata da Sartre – rivolta in primis al falso materialismo dialettico e alla filosofia della 10. PPP, p. 27. 11. PPP, p. 28. 12. Come hanno notato altri commentatori, la domanda chiave per Badiou è la seguente: in che modo si può essere, allo stesso tempo e sulla scia di Marx, un umanista sartriano e un antiumanista althusseriano? “Badiou adotta un aspetto dell’affermazione althusseriana secondo la quale non è più possibile parlare di ‘soggetti’ in quanto agenti autonomi assieme all’apparentemente opposta idea sartriana per la quale la soggettivazione è possibile e, in effetti, desiderabile. [...] La sua opera è un tentativo di far convergere e andare oltre i due poli di questo dibattito in cui lo strutturalismo viene ‘contrapposto’ all’umanesimo” (N. Power, Towards an anthropology of infinitude, in P. Ashton, A.J. Bartlett e J. Clemens, a cura di, The Praxis of Alain Badiou, re.press, Melbourne 2006, p. 309). 13. PPP, p. 28.

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natura che da Engels porta a Stalin e al socialismo reale – rimarrebbe essa stessa all’interno di un presunto hegelismo di fondo che deve essere rigettato. Sorvolo sul resoconto dettagliato dei principali concetti della Critica offerto da Badiou (che lo porta a un’analisi stringente della suddivisione circolare degli insiemi sociali in “serie”, “gruppo”, “organizzazione” e “istituzione” così come dei rovesciamenti dialettici – “inerzia”, “rivolta” e “giuramento” – che permettono il passaggio da un insieme all’altro) per esaminare il rimprovero principale mosso a Sartre, in fondo riconducibile alla persistenza della nozione di totalizzazione nel suo pensiero – la cui originalità, come vedremo a breve, viene comunque riconosciuta. In poche parole, Badiou crede che per la politica sartriana esposta nella Critica, “l’umano non sia nient’altro che la dissoluzione dell’inumano”:14 tale pessimismo la rende improponibile come nuova dialettica materialistica. Ma procediamo con calma. Badiou ammette che il concetto di Storia proposto da Sartre è certamente più complesso di quello promosso da una lettura semplicistica di Hegel e dallo stalinismo. Ciò vale a dire che, nella Critica, il corso della Storia rimane aperto, il suo movimento “non è omogeneo [...] non è il prodotto di una dialettica unitaria”,15 siccome l’esistenza di una determinata classe – in primo luogo la classe operaia – può essere identificata in un dato momento storico con uno qualsiasi dei diversi insiemi sociali, dal più dialetticamente passivo, la “serie” – per esempio, in una catena di montaggio o alla fermata dell’autobus –, al più dialetticamente attivo, il “gruppo in fusione” – per esempio, in un’insurrezione o in uno sciopero bianco. Per dirlo con le parole di Badiou, “l’esistenza di una classe fluttua tra la serialità e l’istituzione”,16 laddove quest’ultima non è nient’altro che un ritorno all’inerzia della serie, il momento in cui il “gruppo in fusione”, ormai trasformato in un’organizzazione, non resiste più alla propria passivizzazione in una struttura rigida e regimentata (il sindacato). Ci troviamo quindi di fronte a due tipi di cir14. PPP, p. 37. 15. PPP, p. 36. 16. Ibidem.

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colarità, una dialetticamente attiva o totalizzante, l’altra dialetticamente passiva o totalizzata; tuttavia, la seconda contiene la prima (personalmente, ritengo che il concetto, particolarmente ostico, di “totalizzazione parziale”, usato molto spesso nella Critica e non trattato in modo esplicito da Badiou, vada inteso proprio in questo contesto: ogni totalizzazione attiva risulta in un’ultima istanza essere parziale nella misura in cui è necessariamente destinata verso il proprio disfacimento inerte, da intendersi come un’altra totalizzazione). Secondo Badiou, tale “umanesimo dialettico”, così definito dallo stesso Sartre, pur andando oltre Hegel (o meglio, oltre una certa lettura rozza della dialettica hegeliana), rimane bloccato all’interno di un concetto di circolarità storica, o quantomeno di sequenza storica circolare, per la quale la “libertà pratica” del soggetto politico (in quanto “prassi individuale” e “gruppo in fusione”, per usare la terminologia sartriana) emerge solo in momenti specifici sotto forma di antagonismo e violenza (dissoluzione della serie e rivolta). Proprio in questo senso, secondo Badiou, nella Critica, “l’umano non è nient’altro che la dissoluzione dell’inumano”, ovvero “la serialità passiva è una precondizione dell’attività collettiva”, “gli uomini sono uomini solo quando la serie è dissolta”.17 Ma ciò, obietta giustamente Badiou, risulta essere incompatibile con l’idea regolatoria di base marxista di comunismo, per la quale, senza dover credere in alcuna Aufhebung finale, vi è comunque una progressiva – anche se asintottica – “eliminazione della passività” (bisognerebbe qui paragonare da vicino le totalizzazioni parziali di Sartre con le “periodizzazioni” a spirale, per così dire, mai chiuse su se stesse, proposte da Badiou in Théorie du sujet, il suo capolavoro dei primi anni ottanta). Per tornare al nostro punto di partenza, secondo Badiou, la realtà storica e sociale rimarrebbe per Sartre fondamentalmente passiva, pre-politica; assieme a una certa circolarità hegeliana, l’ormai anziano maître à penser non riuscirebbe a superare, anche nella sua fase più marxista, un residuo pessimismo esistenzialista. In 17. PPP, p. 37.

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termini più specificamente politici, ciò significa che, nonostante un’apparente apertura, la Storia (scritta non a caso sempre con la maiuscola nella Critica) finisce comunque per ingoiare il soggetto politico. La politica di Sartre rimane un’“infra-politica”, una politica della Storia, ovvero del soggetto in quanto movimento di massa antagonistico18 – un “soggetto-massa” arrabbiato e in definitiva impotente che, tra l’altro, potrebbe benissimo venire fatto proprio da una lettura puramente disfattista delle mobilitazioni a cui abbiamo assistito su scala globale negli ultimi quindici mesi. Questo soggetto è ancora pre-politico visto che non si dà mai in eccedenza (come hors-lieu direbbe Badiou) rispetto al dualismo storico tra attività e passività, e alle masse che lo determinano. Detto altrimenti, il limite di Sartre sta nel rimanere sempre e comunque al livello di ciò che, in Le réveil de l’histoire (2011), Badiou chiama un’“insurrezione immediata”, e in quanto tale senza conseguenze di rilievo.19 Umanesimo dialettico e umanesimo mostruoso Lasciando da parte Badiou, ma avvalendomi della critica politica che muove a Sartre, propongo a questo punto l’ipotesi seguente: il pessimismo politico dell’umanesimo dialettico sartriano, ovvero la riduzione dell’umano alla dissoluzione dell’inumano, fa tutt’uno in ultima istanza con un ottimismo ontologico antropocentrico estraneo al materialismo di Marx e invece molto vicino alle posizioni di Heidegger. Tale ottimismo ontologico va in ultima istanza identificato con il primato dell’esistenza sull’essenza che, nella Critica, Sartre prende di peso, senza variazioni sostanziali, da 18. Ibidem. 19. Cfr. A. Badiou, Le réveil de l’histoire, Ligne, Paris 2011. Peter Hallward crede che nei suoi libri degli ultimi vent’anni Badiou si sia progressivamente avvicinato al pessimismo di Sartre, nonostante abbia continuato a mantenere la politica radicalmente separata dalla storia: “Nelle opere successive [a L’essere e l’evento], Badiou ha lentamente adottato una prospettiva simile a quella del pessimismo effimero-storico di Sartre, pur combattendo per conservare il suo originale principio politico [...] ma mentre Sartre è stato capace di andare oltre l’effimero soltanto rinvenendo una definitiva coerenza storica in una coordinazione politica globale [...] la determinazione di Badiou nell’evitare questa alternativa l’ha portato ancora più lontano verso la sottrazione della politica dalla storia in quanto tale” (P. Hallward, A Subject to Truth, University of Minnesota Press, Minneapolis 2003).

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L’esistenzialismo è un umanesimo (1945). L’argomento centrale di questo primato è ben noto: il fatto che l’uomo in quanto strutturalmente alienato – sempre al di fuori di se stesso – non possieda un’essenza, che non ci sia una “natura umana”, comporta una superiorità logica, ontologica ed etica dell’esistenza come progetto. Scrive Sartre in L’esistenzialismo è un umanesimo: “C’è almeno un essere in cui l’esistenza precede l’essenza, un essere che esiste prima di poter essere definito da alcun concetto [di essenza]. Questo essere è l’uomo. [...] L’uomo, secondo la concezione esistenzialistica, non è definibile in quanto all’inizio non è niente. Sarà solo in seguito, e sarà quale si sarà fatto. Così non c’è una natura umana. [...] Questo è il principio primo dell’esistenzialismo. [...] L’uomo è, dapprima, un progetto che vive se stesso soggettivamente, invece di essere muschio, putridume o cavolfiore. Niente esiste prima di questo progetto [...] l’uomo sarà anzitutto quello che avrà progettato di essere”.20 La Critica rende senza dubbio questo ragionamento in un modo dialetticamente più complesso ma in pratica si limita a ribadirlo: “Dunque, l’uomo si definisce per il suo progetto. Questo essere materiale supera continuamente la condizione che gli è data; svela e determina la sua situazione trascendendola per oggettivarsi in essa attraverso il lavoro, l’azione o il gesto. [...] Questa relazione immediata, al di là degli elementi dati e costituiti, con l’Altro da sé, questa produzione perpetua di se stessi attraverso il lavoro e la praxis, sono la nostra stessa struttura. [...] Si tratta di ciò che chiamiamo esistenza e, con questo, non intendiamo una sostanza stabile che resta in se stessa ma un disequilibrio perpetuo”.21 Non ci si lasci ingannare dalla retorica della carenza naturale di essenza adottata da questo brano (e derivata, come vedremo, da una distorsione del tema hegelo-marxiano dell’indeterminazione): a ben vedere, come sostiene a più riprese lo stesso Sartre contro i suoi detrattori in L’esistenzialismo è un umanesimo, l’esistenzialismo è un’ontologia ottimistica. Attraverso la tematizza20. J.-P. Sartre, L’esistenzialismo è un umanesimo (1945), Armando scuola, Roma 2006, pp. 46-47. 21. Id., Critique de la raison dialectique, Gallimard, Paris 1960, p. 95 (d’ora in poi CRD).

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zione della precedenza dell’esistenza sull’essenza nel caso eccezionale – più unico che raro – dell’uomo, non solo l’inumanità dell’umano ma anche e soprattutto l’innaturalità di questa rispetto alla natura (animale e vegetale), ossia, sintetizzando, la strutturale mancanza di natura umana dell’animale umano, vengono trasformate in una superiorità ontologica aprioristica dell’animale umano rispetto al resto della natura e, con lo stesso movimento, rigettate/forcluse. L’umanità politica come fugace superamento esistenziale dell’inumanità/alienazione strutturale (pessimismo politico) presuppone quindi il rovesciamento in “privilegio” dell’originario deficit di essenza, se non addirittura di natura, che sostiene la storia stessa (ottimismo ontologico). Su questo punto i testi del 1945 e del 1960 sembrano ancora concordare pienamente. Per quanto riguarda il primo, Sartre arriva addirittura a dichiarare che lo scopo della sua filosofia è “istituire il regno umano come un insieme di valori distinti dal regno materiale”.22 Pur volendo considerare L’esistenzialismo è un umanesimo come irrilevante politicamente in quanto premarxista e quindi volutamente, in un certo senso, antimaterialistico (ipotesi comunque poco difendibile), vi sono altri brani, più centrati sull’ontologia, che non lasciano adito a dubbi rispetto a ciò che potremmo chiamare, senza mezzi termini, la reificazione di una presunta mancanza ontologica come tratto distintivo dell’uomo e dell’essere in toto. Scrive Sartre: “Non c’è alcuna differenza tra essere liberamente, essere come progetto, come esistenza che sceglie la propria essenza, ed essere assoluto”.23 In altre parole, l’esistenza non si limita a supplire alla mancanza di essenza ma, con il ribaltamento tacito di un presunto meno in un più, diventa essa stessa essenza della specie homo sapiens in quanto specie privilegiata e ontologicamente assoluta (qui Sartre si sovrappone del tutto a Heidegger).24 22. Id., L’esistenzialismo è un umanesimo, cit., p. 66. 23. Ivi, p. 69. 24. Questa obiezione viene già rivolta a Sartre da Pierre Naville nella discussione che segue alla lettura pubblica di L’esistenzialismo è un umanesimo il 29 ottobre 1945. “Mi chiedo se l’esistenza, intesa in questi termini, non sia altro che un’altra forma del concetto di natura umana. [...] Il suo concetto di condizione umana è un sostituto della natura umana” (J.-P. Sartre, Existentialism Is a Humanism, Yale University Press, New Haven, Conn.-London 2007, p. 59).

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Se poi passiamo alla Critica, benché il tono cambi parecchio, tale schema ontologico di base rimane invariato. Parlando brevemente del mondo animale – tema generalmente sottaciuto – Sartre declama a chiare lettere che “l’uomo occupa per noi un posto privilegiato”.25 Nonostante il fatto che la sottolineatura del “per noi” in questo passaggio possa essere interpretata come una relativizzazione dell’assolutismo antropo-ontologico tratteggiato in L’esistenzialismo è un umanesimo, la trasformazione dell’esistenza in essenza par excellence riemerge esplicitamente in altre parti dell’opera. Anche solo attenendoci alle “Questioni di metodo” che aprono la Critica, in cui lo scopo ultimo di questa viene identificato, ricordiamolo, nella creazione di una nuova “antropologia filosofica”26 marxista da opporsi al riduzionismo naturalistico/pseudodialettico delle scienze sociali del socialismo reale (il quale “nega l’uomo”, riduce cioè a oggetto la sua “dimensione esistenziale” non capendo che “l’uomo è l’essere attraverso il quale il divenireoggetto viene all’uomo”),27 non ci sono dubbi che, per Sartre, l’esistenza in quanto alienazione ontologica primordiale trascende già da sempre l’alienazione stessa (anche se solo per rialienarsi). Ciò non significa banalmente che la libertà preceda, soggiaccia, o possa essere in qualche modo sganciata dall’alienazione (è lo stesso Sartre a specificarlo: “Supporre che la libertà del progetto possa trovarsi nella sua realtà piena sotto le alienazioni della nostra società [è un’]ipotesi assurda”).28 Significa invece che l’animale umano in quanto animale alienato innanzitutto “esiste la sua alienazione”,29 insiste Sartre in un passaggio chiave, piuttosto che alienare la propria esistenza, ovvero sia in fondo primordialmente determinato ontologicamente in quanto esistente privilegiato indeterminato/alienato che si trascende. Dulcis in fundo, l’indeterminazione (o “niente”) dell’uomo coincide allora con una iperdeterminazione positiva in quanto eccezione rispetto al mondo ma25. CRD, p. 103. 26. CRD, pp. 10 e 107. 27. CRD, pp. 104 e 107. 28. CRD, p. 110. 29. CRD, p. 110.

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teriale-naturale. Non accettare questo fatto implica promuovere ciò che Sartre chiama polemicamente un’“antropologia inumana” – la coincidenza terminologica con la lettura di Badiou non è affatto casuale – come quella proposta dalle scienze sociali del socialismo reale, dallo stalinismo.30 Dare il giusto peso a questo snodo onto-antropo-biologico, molto sottovalutato dalla critica, non può non avere importanti ripercussioni sul modo in cui interpretiamo l’umanesimo di Sartre e ci rapportiamo a esso nella ricerca di una nuova forma di umanesimo dialettico che sia veramente materialistico. Come osserva correttamente Roberto Esposito in un bel saggio di qualche anno fa dedicato proprio alla necessità di ripensare oggi, in piena epoca biopolitica, il rapporto tra politica e natura umana, l’umanesimo sartriano non fa che “riproporre l’idea originaria da cui la tradizione umanistica aveva preso le mosse”.31 Al di là del primato dell’esistenza che soppianta l’essenza, la prima continua a essere pensata attraverso il paradigma antinaturale e antianimale che ha caratterizzato la seconda a partire almeno dal Rinascimento. Scrive Esposito: “Affermare che ‘l’uomo non è altro che ciò che si fa’ – come appunto sostiene Sartre – significa collocarlo in una dimensione radicalmente storica e cioè sottratta a ogni presupposto naturale”.32 In ciò Sartre sposa tra l’altro l’antibiologismo di Heidegger, anch’esso in definitiva tradizionalmente umanistico. In effetti Sartre, nel suo manifesto, cerca di prendere le distanze dalla tradizione umanistica, distinguendo due tipi di umanesimo: il primo, che va combattuto, si fonda sul “culto dell’umanità”, proclama “l’uomo è stupefacente!”, e politicamente porta al fascismo.33 L’altro, che va sostenuto, ritiene che l’uomo non possa mai essere un fine, “visto che si produce costantemente”, ma ciò nonostante – sta qui il nocciolo della critica da muovere a Sartre da una prospettiva materialistica – sostiene a priori che “non c’è altro uni30. CRD, p. 109. 31. R. Esposito, “Politica e natura umana”, in Termini della politica. Comunità, immunità, biopolitica, Mimesis, Milano 2008, p. 162. 32. Ibidem. 33. J.-P. Sartre, L’esistenzialismo è un umanesimo, cit., p. 78.

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verso che un universo umano”.34 Proprio nel momento in cui Sartre tenta di distinguere il suo umanesimo da quello classico (e, secondo lui, potenzialmente totalitario), assistiamo invece ancora una volta a un inammissibile ribaltamento antropocentrico: l’uomo, un “niente” di indeterminazione secondo lo stesso Sartre, risulta essere allo stesso tempo l’unico essere privilegiato capace di esistere in un universo. Sartre trascura completamente qui di porsi la questione del rapporto – e della differenza – tra universo umano e ambiente animale, sulla quale invece si interrogherà a lungo, pochi anni dopo, Jacques Lacan nei suoi primi seminari.35 Come nota già il critico marxista ortodosso che interviene nel dibattito che segue alla conferenza di Sartre, “nonostante lei [Sartre] distingua tra due significati dell’‘umanesimo’, alla fine rimane aggrappato a quello originale. [...] L’universo fisico e biologico non è mai ai suoi occhi una condizione, una fonte di condizionamento. [...] Per questa ragione l’universo oggettivo è [per voi esistenzialisti] il perfetto contrario di ciò che esso rappresenta per il materialismo marxista”.36 Trovo difficile non essere d’accordo con questa obiezione. Ma riaprire questi dibattiti a distanza di quasi settant’anni, nel momento in cui – torno alla mia introduzione – credo sia nuovamente non solo lecito ma doveroso parlare in filosofia di un’“ipotesi comunista”, non vuole affatto insinuare che dovremmo oggi riesumare l’umanesimo paradossale, in quanto basato sul riduzionismo naturalistico, della dialettica della natura engelsiana (il punto di vista dal quale sembra parlare l’interlocutore di Sartre). Dovrebbe piuttosto colpirci il fatto sintomatico che, poste di fronte al tentativo – fallito ma lodevole – di Sartre di re-inventare l’umanesimo (chiamata alle armi che dovremmo fare nostra), la critica marxista ortodossa della metà del Novecento e la critica post-marxista dell’inizio del XXI secolo avanzata dalla filosofia del bios di Esposito 34. Ibidem. 35. Per un approfondimento di quest’ultimo tema, rimando al mio articolo The World of Desire: Lacan between Evolutionary Biology and Psychoanalytic Theory, “The Yearbook of Comparative Literature”, numero speciale The End of a World, 55, 2009. 36. J.-P. Sartre, Existentialism Is a Humanism, cit., pp. 58 e 65.

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suppergiù si equivalgono. Assistiamo cioè, in un contesto ideologico diverso, al riemergere dello stesso limite filosofico attribuibile all’umanesimo come è stato sempre finora concepito. Se da un lato ciò non implica che il progetto materialistico di Esposito sia esso stesso esente da un ostacolo insormontabile – dato che, nelle sue parti più costruttive, finisce per ricadere, seppure con molta eleganza, su posizioni proto-vitalistiche –, dall’altro, credo sia proprio il filosofo italiano a indicarci indirettamente la strada da seguire per superare l’impasse sartriana e arrivare a formulare un nuovo umanesimo dialettico. Nello stesso articolo in cui attacca Sartre, e a mio avviso in contraddizione con le sue conclusioni vicine all’ultimo Deleuze (“l’animale non è il passato ancestrale, il volto di pietra, l’enigma muto, ma il futuro dell’uomo”),37 Esposito suggerisce en passant che bisogna assolutamente recuperare “l’originaria intuizione di Darwin” pur rifuggendo da ogni riduzionismo naturalistico. Scrive Esposito: “Il luogo topico dell’indagine filosofica, ma anche scientifica, sulla natura umana è situato esattamente nel punto di giuntura, o nel tratto d’indistinzione, tra regolarità naturali e variazioni storico-culturali [...]. È inutile dire che ciò rende del tutto obsoleta – e dunque fortemente conservatrice – la contrapposizione tra scienze dello spirito e scienze naturali, ma anche quella tra empirico e trascendentale: dal momento che come le attività della mente e del linguaggio sono connesse alle strutture organiche in cui si innervano, così queste sono a loro volta modificate dalle prestazioni linguistiche e mentali che producono”.38 Propongo di adottare questo ragionamento di Esposito – echeggiato ed elaborato dettagliatamente in Italia dall’opera di Paolo Virno e condiviso all’estero, in linea di massima, sia dall’hegelomarxismo di Žižek sia dal marxismo antihegeliano di Badiou – come presupposto per provare a risolvere l’antinomia odierna tra materialismo storico e materialismo naturalistico, Foucault e Chomsky, che ho evocato in apertura. Ma in aggiunta a ciò, per potere rifocalizzare il discorso sulla questione dell’animale uma37. R. Esposito, “Politica e natura umana”, cit., p. 169. 38. Ivi, p. 167.

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no e dell’umanesimo, suggerisco anche di ampliare il dibattito chiamando in causa una nuova rilettura di Marx, e soprattutto del giovane Marx, che sto cercando di portare avanti da qualche tempo con un piccolo gruppo di compagni (in primis Frank Ruda).39 Nei Manoscritti del 1844 Marx usa una nozione chiave, quella di Entwesung (che renderei in italiano con “impoverimento” o “denaturalizzazione”), alla quale a nostro parere non è stata ancora data sufficiente importanza, vuoi a causa della vecchia e superficiale diatriba sulla pertinenza degli scritti giovanili di Marx rispetto a quelli maturi, vuoi, al contrario, per il modo in cui questo testo è stato finora valorizzato in funzione di progetti marxisti idiosincratici (come quello di Ernst Bloch). Si tratta di un concetto onto-biologico che definisce la caratteristica base della specie umana: l’homo sapiens è un animale indeterminato – se non addirittura non-adattato – che parla e lavora. Nella misura in cui l’uomo manca strutturalmente di una determinazione specifica, la sua natura è in quanto tale “impoverita” e, allo stesso tempo, irriducibile all’animalità delle altre specie – benché non per questo separabile da essa. Ma soprattutto, come sembra implicare Marx in un testo dello stesso periodo (il Contributo alla critica della filosofia del diritto di Hegel), dobbiamo considerare l’emergere storico del proletariato in quanto classe inappropriata dei senza classe – “che è, in una parola, la perdita completa di umanità”, specifica Marx – come un prerequisito necessario per comprendere l’indeterminazione costitutiva della natura umana. Questa posizione è solo apparentemente simile all’umanesimo dialettico di Sartre. In realtà, lo capovolge e così facendo lo rende veramente materialistico. Per almeno due ragioni. Innanzitutto, come ho appena detto, Marx identifica il proletariato, ovvero il soggetto politico emancipatorio, con la “perdita completa di umanità”, con la mostruosità dell’uomo, mentre Sartre – almeno 39. Cfr. soprattutto F. Ruda, Humanism Reconsidered, or: Life Living Life, “Filozofski Vestnik”, 2, 2009; L. Chiesa, Christianisme ou communisme? L’hégélianisme marxien et le marxisme hégélien de Žižek, in R. Moati (a cura di), Autour de Slavoj Žižek: Psychanalyse, Marxisme, Idéalisme Allemand, Puf, Paris 2010, pp. 44-67; L. Chiesa, The Body of Structural Dialectics. Badiou, Lacan and the Human Animal, “Nessie. Revue numérique de philosophie contemporaine”, 6, 2011.

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seguendo la lettura convincente che ne dà Badiou – associa il movimento di massa quale agente politico agli unici sprazzi di umanità di una società sostanzialmente inumana. A mio parere è questo il prezzo che Sartre deve pagare per avere rinchiuso il soggetto politico all’interno della Storia, per continuare a parlare di “totalizzazioni”, seppure “parziali”. E veniamo qui alla seconda ragione che rende Sartre incompatibile con Marx, la quale riguarda appunto la sua visione circolare delle sequenze storico-politiche – se non della Storia in toto. Marx non potrebbe esserne più distante. Non vi possono essere sequenze storico-politiche chiuse su se stesse visto che l’umano non è semplicemente contenuto dall’inumano della struttura sociale alienante in quanto sua eccezione interna (rivolta, antagonismo ecc.). Al contrario, l’umano e l’inumano dell’uomo si coappartengono fino a divenire indistinguibili. Se l’Entwesung in-determina l’uomo al livello onto-biologico della specie e l’emergere storico-politico del proletariato – che, per Marx, infatti rompe la storia in due – è una conditio sine qua non per cogliere tale essenza inessenziale (o esistenza) dell’uomo, allora ciò implica che l’alienazione è sia costitutiva (ossia un presupposto sostanziale dell’animale umano manifestato nella struttura sociale, come riconoscerebbe lo stesso Sartre) sia – contro Sartre – dipendente da una dialettica retroattiva e asintottica di dis-alienazione, di liberazione40 (ovvero, da questa prospettiva, l’alienazione è anche il rinnovarsi di un porsi storico-soggettivante emancipatorio che non può essere limitato all’animalità sociale dell’uomo pur derivando da essa). In altre parole, Marx non reifica l’Entwesung/de-naturalizzazione dell’uomo in una mancanza originaria, in un deficit onto-biologico il cui rovescio risulta necessariamente essere un “privilegio” che già da sempre lo trascende, come succede invece con la nozione di esistenza in Sartre. In termini politici ciò significa non solo che l’azione comunista indica après coup che l’indeterminazione è sempre stata l’essenza inessenziale dell’uomo, ma anche e soprattutto che, promuovendo l’u40. Ciò che Badiou chiamava una “riduzione della passività”, comunque relativa e mai assoluta in quanto riduzione, dovremmo specificare a questo punto.

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guaglianza come “impoverimento” universale, essa preserva l’indeterminazione, in-determina le determinazioni contingenti (l’esistenza storica), cioè ri-determina continuamente la vita della specie umana attraverso “organi sociali” – come li chiama Marx – in particolari situazioni storiche.41 Per concludere, dovrebbe essere ormai chiaro come l’“umanesimo mostruoso” che sto tratteggiando sia esso stesso un umanesimo dialettico; ma a differenza di quello di Sartre non rifiuta un confronto tanto antiessenzialistico quanto antiriduzionistico con la natura e rimane perciò realmente materialistico. Anche concedendo che, per Sartre, la Storia non si chiuda mai, che egli non creda in alcuna Aufhebung finale pacificatoria, il suo umanesimo dialettico si basa comunque su un errore fondamentale, articolabile in due tempi. In prima istanza, il processo di dis-alienazione asintottica viene contradditoriamente inteso sullo sfondo di una non-riduzione della passività (ciò che abbiamo chiamato in precedenza, seguendo Badiou, “pessimismo politico”). In seconda istanza, tale processo non viene inteso come una ri-determinazione storica dell’indeterminazione ontologica la quale permetterebbe un’assunzione/superamento liberatorio – anche se sempre retroattivo e parziale – dell’alienazione, ma invece come un riaffiorare sporadico e momentaneo dell’indeterminazione ontologica come ur-determinazione esistenziale – l’esistenza come essenza – nella Storia (ciò che abbiamo chiamato in precedenza “ottimismo ontologico”). 41. Come ha giustamente notato Frank Ruda, il concetto badiousiano di “umanità generica” dovrebbe essere analizzato attentamente proprio a partire da questa lettura del giovane Marx (cfr. F. Ruda, Humanism Reconsidered, or: Life Living Life, cit.). Partendo da questi presupposti, mi trovo quindi in completo disaccordo con Nina Power, la quale sostiene che il concetto di umanità generica di Badiou, in quanto soggetto politico che rimpiazzerebbe la centralità data al proletariato nelle sue prime opere, denoterebbe una “mancanza totale di specificazione politica e [indicherebbe] un ritorno sorprendente a considerazioni premarxiste” (Towards an anthropology of infinitude, cit., p. 330). Condivido comunque la conclusione che, contro i suoi propositi, “Badiou deve fondare, a un livello assolutamente minimo, una specie di filosofia antropologica che preceda l’evento” (ivi, p. 338). A differenza di Power, che rinviene in Feuerbach un modello per questo programma, ho discusso in altra sede come tale filosofia antropologica sia già disponibile per Badiou in una forma attuale e anti-idealistica nella psicanalisi di Lacan (cfr. The Body of Structural Dialectics, cit.). In breve, credo che l’opera di Lacan ci offra proprio l’antropologia filosofica materialistica che Sartre andava cercando. In questo senso, ripensare Lacan da una prospettiva marxista dovrebbe essere uno dei compiti più urgenti della filosofia odierna.

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Non c’è metalinguaggio: Lacan e Beckett ÉVELYNE GROSSMAN

Si può uscire dalla lingua? Ho sempre trovato questa frase ben nota di Lacan, “non c’è metalinguaggio”, contemporaneamente enigmatica e sconvolgente; in essa c’è qualcosa che, per me, è in consonanza con la frase di Hölderlin, “siamo un segno senza interpretazione”. Frase di una difficoltà temibile, tanto più che lo stesso termine metalinguaggio rischia di prestarsi a confusione, e tuttavia l’uso che ne fa Lacan non mantiene che un certo rapporto di distanza col senso ristretto che le conferiscono i linguisti. La conferenza conosciuta con il titolo La scienza e la verità (1965) lascia pochi dubbi al riguardo: “Prestare la mia voce per sostenere queste parole intollerabili ‘Io, la Verità, parlo...’ supera l’allegoria. Ciò vuol semplicemente dire tutto quel che c’è da dire della verità, la sola, e cioè che non c’è metalinguaggio (affermazione fatta per situare tutto il positivismo logico), che nessun linguaggio saprebbe dire il vero sul vero, perché la verità si fonda sul fatto che parla, e non ha altro modo per farlo”.1 C’è o no il metalinguaggio? Ovviamente a questa domanda non sarà data risposta, non più del fatto stesso che sarà posta. Proverò piuttosto a evocarla indirettamente attraverso un’interTitolo originale “‘Il n’y a pas de métalangage’ (Lacan et Beckett)”, in L’angoisse de penser, Minuit, Paris 2008, pp. 77-90. Il libro sta per essere pubblicato in italiano con il titolo L’angoscia del pensare. Artaud, Beckett, Blanchot, Derrida, Foucault, Levinas, Lacan, trad. di Anna Chiara Peduzzi, premessa di Dario Giugliano, postfazione di Flavio Ermini, Moretti&Vitali Editore, Bergamo, nella collana “Narrazioni della conoscenza” diretta da Flavio Ermini. 1. J. Lacan, Scritti (1966), a cura di G. Contri, Einaudi, Torino 2002, vol. II, p. 872.

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rogazione che mi pare cruciale nell’ambito degli studi letterari, o della teoria della letteratura, e senza dubbio ben al di là di questo ambito – interrogazione che per me si formula in questi termini: in quale lingua parla la teoria? Conosciamo la risposta che a questa domanda fornisce Roland Barthes: postulare che esista “uno stato neutro del linguaggio” è un’illusione, un’“immagine teologica imposta dalla scienza”. Occorre oltrepassare, sottolinea Barthes, l’opposizione dei linguaggi-oggetto e dei loro metalinguaggi, opposizione che alla fine resta sottomessa al “modello paterno di una scienza senza linguaggio”.2 Non si discuterà qui del carattere “paterno” o meno di questo modello, tantomeno ci si interrogherà su quel “terrore paterno” che Barthes vede all’opera nell’ingiunzione della verità scientifica che si sarà imposta alla teoria del testo. Immaginario di un’epoca, si sa, come lui stesso sapeva. L’impossibilità del metalinguaggio – del discorso di un linguaggio che esce da sé per parlare su di sé – è assoluta, ha ripetuto spesso Derrida: si è sempre presi nei nodi che si tessono, o ancora secondo la famosa formula: non c’è fuori testo. A me pare che si possa intendere questa proposizione lacaniana, “non c’è metalinguaggio”, almeno in due modi. Come un’interdizione, perfino un’interdizione di pensare, un enunciato a valore comminatorio: “Non andate a immaginare che ci sia metalinguaggio! Non ce n’è”. Circolare, non c’è nulla da vedere, nulla da pensare. Ma si può intenderla anche in una maniera più instabile, e più inquietante. È questa seconda valenza che vorrei tentare di pensare qui. Cosa c’è di più assertivo, in fondo, di questo tipo di negazione: non c’è...? Del resto, si sa, in Lacan si può declinare tutto un paradigma di ciò che non c’è: non c’è metalinguaggio, nessun rapporto sessuale, nessun Altro dell’Altro, nessuna verità sulla verità, ecc. Apparentemente, dunque, la frase è da intendere come l’asserzione di una negazione. Si può reagire a essa con una punta di irritazione, come fa per esempio Vincent Descombes: “Non c’è metalinguaggio, dice Lacan. Forse. Ma co2. R. Barthes, “Dalla scienza alla letteratura” (1967), in Il brusio della lingua. Saggi critici IV (1984), a cura di B. Bellotto, Einaudi, Torino 1988, pp. 10-11.

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me facciamo a saperlo?”.3 Detto altrimenti, che ne sa, lui, dopotutto? Che lo dimostri se può, e come potrebbe giacché pretende che non c’è metalinguaggio... Oppure al contrario bisogna ammetterlo senza discussione come un limite impensabile, nel senso in cui Roland Barthes nella sua lezione inaugurale al Collège de France diceva: “Il linguaggio umano è senza lato esterno: esso è una porta sbarrata”?4 Altra ipotesi, che mi piacerebbe per parte mia esaminare qui: proviamo a intendere questa frase come una denegazione. Conviene naturalmente precisare innanzitutto il senso che qui si dà alla parola “denegazione”. Indico dunque immediatamente ciò che non è, per me, una denegazione. Non è quello strumento di coercizione che ne fanno certi psicanalisti, i quali confondono l’analisi con non si sa quale pratica poliziesca dell’estorsione delle confessioni, sul modello: “Se lei lo nega, ho dunque ragione di dire che l’afferma”. Allora la psicanalisi rientra in ciò che Barthes chiama le “ideosfere”, quei sistemi linguistici potenti, che si costituiscono come spazi totali di lingua all’interno dei quali, con le buone o con le cattive, noi siamo situati, per non dire incarcerati; sistemi di forza, dunque, senza leva esteriore per distaccarsene. Così, per esempio, questa frase dell’ideosfera cattolica che Barthes cita volentieri: “Tu non mi cercherai se non mi avrai già trovato”. E in effetti, come uscirne? Della denegazione È vero che Freud non è affatto estraneo a queste interpretazioni violentemente unilaterali della denegazione. Ricordiamo l’esempio che fa all’inizio del suo famoso articolo del 1925 intitolato Die Verneinung (che si traduce in francese, come si può, con la négation o la dénégation, poiché la parola tedesca ha entrambi i significati e riveste d’altronde tutto il senso della riflessione di Freud); l’esempio di denegazione è il seguente (cito la nuova traduzione francese del saggio). Uno dei suoi pazienti gli dice: “Lei doman3. V. Descombes, L’inconscient malgré lui, Minuit, Paris 1977. 4. R. Barthes, “Lezione” (1977), in Sade, Fourier, Loyola seguito da Lezione, a cura di L. Lonzi e R. Guidieri, Einaudi, Torino 2001, p. 179.

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da chi possa essere questa persona nel sogno. Mia madre, non lo è affatto”. Commento di Freud: “Noi rettifichiamo: dunque è sua madre”. E, poco dopo, nello stesso articolo: “Si riesce a ottenere in modo molto comodo un chiarimento che si cerca sull’inconscio rimosso. Si domanda: cosa ritene più inverosimile di tutto in questa situazione? Cos’era, a suo avviso, più lontano da lei? Se il paziente cade nella trappola e nomina ciò che può credere di meno, ha così, quasi sempre, confessato ciò che risulta giusto [ce qui tombe juste]”.5 Lacan stesso non è del tutto estraneo a questa tendenza che ha talvolta la psicanalisi di “cogliere nel segno [tomber juste]”, come dice Freud, nell’appoggiarsi alla circolarità di argomenti che presuppongono se stessi. Richiamiamo questa diagnostica in forma di sentenza celebrata da certi allievi di Lacan al titolo delle sue trovate: cara signora, lei ha detto “galoppinare”... dunque è paranoica. La denegazione, pertanto, come ciascuno sa, è lontana dal riassumersi in una pura e semplice inversione di no in sì. Ed è esattamente ciò che Freud si incarica di mostrare nel suo articolo del 1925. Rinvio naturalmente al commento di Jean Hyppolite alla domanda di Lacan, che mette in evidenza la complessità di questa struttura denegativa in ciò che essa testimonia dell’intrico originario di sì e no nel pensiero. Hyppolite legge in essa del resto un autentico mito freudiano della creazione del simbolo e della genesi del pensiero. Lacan stesso, a più riprese, sottolineerà la natura straordinariamente mobile del processo denegativo così come Freud lo considera, il suo carattere insostenibile, ciò che esso deve all’espulsione e alla morte, e anche la prossimità che esso rivela ancora una volta nel pensiero di Freud con le dottrine presocratiche, in quel modo paradossale “attraverso cui viene ammes5. S. Freud, “La négation”, in Résultats, idées, Problemès, vol. II: 1921-1938, Puf, Paris 1985, p. 145 (corsivo mio). [Riportiamo, di seguito, la traduzione, leggermente diversa, di Elvio Fachinelli, da S. Freud, “La negazione”, in Opere, vol. X, Boringhieri, Torino 1978, p. 197: “Lei domanda chi possa essere questa persona del sogno. Non è mia madre”; “Noi rettifichiamo: dunque è la madre”; “Talvolta si riesce a procurarsi in modo assai comodo un chiarimento desiderato sul materiale rimosso dell’inconscio. Si domanda: Qual è secondo Lei la cosa più inverosimile fra tutte in quella situazione? Che cosa a Suo parere era allora più lungi da Lei? Se il paziente cade nella trappola e nomina la cosa in cui gli riesce di credere di meno, quasi sempre così facendo confessa la cosa giusta”, N.d.T.]

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so ciò che per il soggetto è nello stesso tempo presentificato e negato”.6 Poco dopo, a proposito della denegazione, Lacan aggiunge: “Bisognerebbe sviluppare questo studio della Verneinung, come ho già incominciato a fare, con uno studio della particella negativa”.7 Egli fa riferimento alla complessa questione dell’uso in francese del cosiddetto ne espletivo. Come negare? Apro qui una parentesi che in fondo non lo è. Nel gennaio 2001, Jacques Derrida aveva tenuto una serie di conferenze alla Biblioteca nazionale francese su Il nastro della macchina da scrivere. Nella terza conferenza, l’unica a cui ho assistito, rilevò un errore di traduzione, fatto da Paul de Man nella sua Allegorie della lettura, di una frase dalle Confessioni di Rousseau. La frase di Rousseau nel secondo libro delle Confessioni è la seguente: “Mais je ne remplirais pas le but de ce livre si je n’exposais en même temps mes dispositions intérieures, et que je craignisse de m’excuser en ce qui est conforme à la vérité”.8 De Man cita dapprima la frase in francese e vi aggiunge, di sua iniziativa, un ne espletivo (“et que je ne craignisse de m’excuser...”). Poi, seconda manipolazione un po’ strana, traduce in inglese con una vera negazione: “And if I did not fear to excuse myself...”. Non commenterò a mia volta il commento di Derrida. Mi accontento qui di rilevare ciò che egli dice del “ne espletivo”. Per lui, in fondo, il primo errore (la prima “manipolazione”) di Paul de Man non è molto grave poiché non cambia nulla nella misura in cui questo ne non gioca alcun ruolo in francese: “Un ne espletivo è, in francese, un ne pleonastico. Si può indifferentemente inscriverlo o non inscriverlo in una frase. [...] Posso dire: ‘Il craint que je sois trop jeune’9 o, ugualmente, con lo stesso significato, ‘il craint que je ne sois trop jeune’. Due frasi strettamente equiva6. J. Lacan, Il seminario. Libro VII. L’etica della psicoanalisi, 1959-1960 (1986), a cura di A. Di Ciaccia, Einaudi, Torino 2008, p. 75. [Traduzione lievemente modificata, N.d.T.] 7. Ibidem. 8. “Ma non adempirei allo scopo di questo libro se non esponessi allo stesso tempo le mie disposizioni interiori, e se temessi di scusarmi in ciò che è conforme alla verità”. [N.d.T.] 9. “Teme che io sia troppo giovane”. [N.d.T.]

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lenti in francese”.10 All’uscita dalla conferenza, mi rivolgo a lui e gli dico in sostanza che a proposito del ne espletivo, forse è stato un po’ troppo sbrigativo, che c’è tutto sommato qualche studioso di grammatica che non ha mancato di riflettere su questa complessa questione; gli evoco rapidamente Damourette e Pichon a proposito del discordanziale, del forclusivo, dell’espletivo... e naturalmente Lacan (ciò che dice del ne espletivo nel Seminario VII e negli Scritti, in “Sovversione del soggetto e dialettica del desiderio”). Ha ragione, mi risponde, aggiungerò una nota. E, in effetti, nel libro uscito poco dopo col titolo Papier machine, vi si legge proprio una nota (a p. 118). Derrida cita i passaggi in questione di Lacan, e in particolare quello nel Seminario VII, in cui Lacan commenta precisamente la differenza tra “je crains qu’il vienne” e “je crains qu’il ne vienne”.11 Ricordiamo che il ne non è affatto pleonastico per Lacan, poiché designa la traccia che si manifesta nel significante del soggetto dell’enunciazione. Derrida, nella sua nota, scrive: “Si sarà attenti, in questo passaggio, alla strana grammatica e allo statuto instabile di questo ne in corsivo: [cita allora la frase di Lacan] ‘La particella negativa ne viene alla luce solo a partire dal momento in cui io parlo davvero, e non nel momento in cui io sono parlato, se sono al livello dell’inconscio’”. Fine della nota, senza ulteriore commento. Io non aggiungerò che due osservazioni. Primo: questo ne instabile, contrariamente a Derrida, io non l’avevo percepito. Secondo: che a giocare così con la negazione e la denegazione (ma chi gioca? Tutta la questione è qui), si rischia per definizione il malinteso. A buon intenditore... aggiunge talora Lacan. Che qui il ne nella frase di Lacan non sia espletivo ma restrittivo non cambia nulla alla questione, mi sembra. Quando si scrive “la particella ne viene alla luce solo a partire dal momento in cui io parlo davvero”, è evidente che manca (o non manca) un ne, e che è qui messa in atto nell’instabilità di questo ne l’instabilità di ogni processo negativo o denegativo. Ora, è precisamente di questo che parla Lacan qui: dell’indeterminazione di un sapere che si 10. J. Derrida, Papier machine, Galilée, Paris 2001, p. 117. 11. “Temo che venga”. [N.d.T.]

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libera soltanto di ciò che egli chiama la svista del soggetto. Domanda: questo ne mancante è una vera o una falsa svista, una svista finta? Vi ritornerò più avanti. Vorrei in effetti soffermarmi un istante sull’articolo di Lacan del 1967 intitolato La méprise du sujet supposé savoir (La svista del soggetto supposto sapere), pubblicato nel primo numero di “Scilicet” e ripreso poi in Autres écrits. Lacan vi analizza precisamente la struttura paradossale, aporetica, che sottende l’atto analitico. Sottolinea, per esempio, che ciò che articola il discorso e la pratica analitica è il fatto “che possa dirsi qualcosa, senza che alcun soggetto lo sappia”,12 che è poi la definizione di discorso inconscio. Non commenterò questo “senza che alcun soggetto lo sappia”, farò solo notare che proprio qui si articola l’aporia, il nonluogo tra sì e no, tra affermazione e negazione, in ciò che fa esitare l’indefinito “alcuno” tra il suo valore positivo di “qualcuno” e il suo valore negativo di “nessuno, veruno, niuno”. Ricorderò che alcuno si impiega ancora letterariamente senza la particella ne nel senso positivo di “qualcuno”, conformemente alla sua etimologia (da aliquis, qualcuno). Quando, per esempio, Madame de Sévigné scrive a sua figlia: “Sarei molto adirata, mia cara, che alcun corriere fosse perduto”, non vuole evidentemente dire che si augura la sparizione – corpo e beni – del messaggero in questione. “Senza che alcun soggetto lo sappia” è dunque l’indecidibile della denegazione nell’oscillazione tra sì e no, tra positivo e negativo, è “questo aspetto dell’inconscio” di cui Lacan scrive che “non si apre tanto che ne segua che si chiuda”. Senza che alcun soggetto lo sappia è dunque contemporaneamente e indistintamente: “senza che nessuno lo sappia” e “senza che qualcuno lo sappia”. È questa struttura, mi sembra, ciò che Lacan chiama l’indeterminazione, la stessa che definisce l’oscillazione della denegazione tra vita e morte, e al contempo, più precisamente, “l’ordine di indeterminazione che costituisce il rapporto del soggetto a un sapere che lo superi”.

12. J. Lacan, Autres écrits, Seuil, Paris 2001, p. 336.

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Padronanza, svista E, in tutto ciò, il discorso teorico dell’analista, quello che giustamente non è un metalinguaggio, quello che si articola sulla pratica stessa dell’inconscio, che lingua parla? L’articolo a cui mi riferisco, La méprise du sujet supposé savoir, comincia proprio con un uso direi piacevole della denegazione (nel senso dell’inversione logica). Lacan scrive infatti: “Non è comunque dal discorso dell’inconscio che noi raccogliamo la teoria che ne rende conto”. E subito dopo precisa: “Il discorso sull’inconscio [è] un discorso condannato: esso non si sostiene in effetti che dal posto senza speranza di ogni metalinguaggio”.13 Su questa opposizione tra “discorso dell’inconscio” e “discorso sull’inconscio”, rinvio al bel commento che ha fatto tempo fa Shoshana Feldman in un numero di “L’Arc” dedicato a Lacan,14 in cui analizza questa indecidibilità che caratterizza il discorso di Lacan, teso tra metalinguaggio (una grammatica) e retorica (dell’inconscio). Ma è su un altro aspetto della retorica lacaniana che mi intratterrò qui. Nello stesso articolo sulla svista, Lacan oppone due soggetti: da una parte, il soggetto della padronanza (maîtrise) cosciente del discorso, colui che crede di sapere ciò che dice e che chiama “il soggetto supposto sapere” e, dall’altra, il soggetto della svista (méprise), colui che si sbaglia, che prende una parola per un’altra, una lettera per un’altra: da padronanza a svista,15 una lettera o un fonema in più o in meno,16 è lo stesso soggetto e sta lì tutto il problema, per l’appunto, perché l’analista deve essere l’uno e l’altro (o ancora né l’uno né l’altro). In effetti, il sapere, dice Lacan, “non si libera che alla svista del soggetto”. E infatti scrive: “Nella struttura della svista del soggetto supposto sapere, lo psicanalista (ma chi è, e dov’è, e quando è, esaurite voi la lirica delle categorie, vale a dire l’indeterminazione del suo soggetto, lo 13. Ivi, p. 330. 14. S. Feldman, La méprise et sa chance, “L’Arc”, 58, 1974. 15. In tutto il paragrafo Grossman accosta omofonicamente maîtrise, padronanza, a méprise, svista, risultandone un gioco di parole impossibile da rendere in italiano. [N.d.T.] 16. Appunto la differenza fonica tra maîtrise e méprise: il fonema “t” scambiato, nella lettura, con il fonema “p”. [N.d.T.]

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psicanalista?) deve trovare tuttavia la certezza del suo atto, e la beanza che fa la sua legge”.17 Questo soggetto indeterminato, questo soggetto che prova l’“atopia”, è dunque lo psicanalista preso tra teoria e pratica, tra discorso e metodo (e non “discorso del metodo”: adesso è qui, tra discorso e metodo, che si apre la faglia). Per eludere la vecchia complicità tra teoria e teologia, occorre che abbia luogo, dice Lacan, la mancanza, la foratura: è questa la svista, il buco, il lapsus, ciò che fa sì che ci sia contemporaneamente e congiuntamente l’interpretabile e l’ininterpretabile. È proprio questa foratura aperta dalla parentesi che mi intriga qui e la strana enumerazione sospesa: “Ma chi è, e dov’è, e quando è [...] lo psicanalista?”. Posso sbagliarmi (non lo credo), ma non posso impedirmi di intendere in essa un’eco del famoso incipit dell’Innominabile di Beckett, quelle prime righe in cui si allineano le medesime domande (“Chi io? Dove? Quando?”): “E adesso dove? Quando? Chi? Senza chiedermelo. Dire io. Senza pensarlo. Chiamarle domande, ipotesi. Procedere innanzi, e, questo, definirlo andare, definirlo procedere. [...] Può essere cominciato così. [...] Come fare, come farò, che cosa devo fare, nella situazione in cui mi trovo, e in qual modo procedere? Per pura aporia ovvero per affermazioni e negazioni che saranno man mano infirmate, o presto o tardi. [...] C’è da osservare, prima di proseguire, che io dico aporia senza sapere cosa voglia dire. Ma si può essere efettici non a propria insaputa? Non so. I sì e i no, è diverso, mi torneranno in mente a mano a mano che progredirò...”.18 Beckett e Lacan Mi sembra – e prendo questa ipotesi seriamente – che il soggetto indeterminato di Lacan e il soggetto innominabile di Beckett non siano così lontani l’uno dall’altro; è pure possibile che siano profondamente, segretamente apparentati, come se al di là delle differenze, dalla teoria alla letteratura, uno stesso soggetto incer17. J. Lacan, Autres écrits, cit., p. 338 (corsivo mio). 18. S. Beckett, “L’innominabile” (1953), in Molloy. Malone muore. L’innominabile, a cura di G. Falco, Sugar, Milano 1965, p. 309.

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to (tra certezza e beanza, come dice Lacan) tentasse di darsi esistenza nella forma provvisoria di una lingua, la sua non la sua. Questo soggetto che Beckett definisce efettico è un soggetto senza certezza, instabile (qualcosa come: “io sono... forse”): non il soggetto razionale, cartesiano, della certezza sensibile, dell’affermazione dell’esistenza, non un soggetto effettivo dunque (con ancora qualche lettera in più o in meno), ma un soggetto debole e onnipotente al tempo stesso, silenzioso e inesauribile. Nuova parentesi: non essere molto sicuro della propria esistenza (così sarà il fatto moderno) non impedisce assolutamente di aggrapparvisi con energia e anche con fede, come nell’insolita e bella proposizione di Deleuze; non crediamo più al mondo? Siamo tutti soggetti efettici? Allora ci riconvertiamo alla fede. Che riguardi il cinema (come per Deleuze, in questo caso) o la letteratura, non cambia nulla rispetto alla proposizione: ciò che fa sì che io possa credere alla mia vita è la formidabile potenza di convinzione che mette in atto ogni finzione. Il fatto moderno è che noi non crediamo più in questo mondo. Non crediamo neppure agli avvenimenti che ci accadono, l’amore, la morte, come se ci riguardassero solo a metà. [...] È il legame fra uomo e mondo a essersi rotto; è questo legame quindi a dover diventare oggetto di credenza: l’impossibile che può essere restituito soltanto in una fede. [...] Restituirci la credenza nel mondo, questo è il potere del cinema moderno (quando smette d’essere brutto). Cristiani o atei, nella nostra universale schizofrenia, abbiamo bisogno di ragioni per credere in questo mondo. È un’intera conversione della credenza. Da Pascal a Nietzsche, era poi questa la grande svolta della filosofia: sostituire il modello del sapere con la credenza.19 Ancora Beckett: “A furia di chiamare questa cosa la mia vita finirò col crederci. È il principio della pubblicità”.20 Il suggeri19. G. Deleuze, Cinema 2. L’immagine tempo (1985), a cura di L. Rampello, Ubulibri, Milano 2006, pp. 191-192. 20. S. Beckett, “Molloy” (1951), in Molloy. Malone muore. L’innominabile, cit., p. 58.

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mento che ce ne viene, dunque, è che tutto questo ha potuto cominciare così: mito dell’origine del pensiero in Freud e Lacan, mito dell’origine del discorso in Beckett – di ciò che, precisamente, è senza origine. Occorrerebbe analizzare più attentamente ciò che, a mio avviso, rende prossime queste due enunciazioni, svuotate e profuse allo stesso tempo, quella di Beckett, quella di Lacan. Mi accontenterò di enumerare qualche aspetto. Innanzitutto, in ciò che lega il discorso della svista, della denegazione (il legame inestricabile che essa tesse tra essere e nulla, vita e morte: la svista “promette un niente che si afferma”, scrive Lacan) e le molteplici figure del fallimento, della cancellazione, della ritrattazione in Beckett. In secondo luogo, nell’investimento che entrambi fanno nella figura del malinteso. “Non mi aspetto da coloro a cui parlo qui”, scrive Lacan alla fine del suo articolo, “che di confermare il malinteso.” “Confermare il malinteso”: ogni lettore dell’opera di Beckett vi riconoscerà una formula familiare. Il mio discorso, dice in sostanza Lacan, è “da non leggere” (ricordiamoci che è la definizione che egli dà della letteratura), da mal intendere. “Mal visto, mal detto”, dice anche Beckett. Per quanto riguarda il malinteso, Lacan è stato inteso, come è noto. Un vero successo nel fallimento, avrebbe detto Beckett – o l’opposto! Il lapsus, la svista, è ciò che non riesce mai così bene quanto d’essere mancato, ricorda Lacan. Ma la reciproca non è necessariamente vera: “Cioè non è sufficiente [che l’atto] vada a vuoto per riuscire”, aggiunge Lacan, “ché il fallimento da solo non apre la dimensione della svista qui in questione”.21 Infine, auspicherei una riflessione sul parallelo tra l’assenza di metalinguaggio (nella teoria) e l’assenza d’opera (nella scrittura letteraria). Tuttavia, piuttosto che di assenza d’opera, secondo l’espressione consacrata da Blanchot o Foucault, mi sembra che occorrerebbe parlare di opere letterarie limite come quelle di Beckett, Artaud, Blanchot e qualche altro, di denegazione dell’opera: non la stabilità di un’assenza, la stasi di una mancanza, di un vuoto, ma il movimento che scava l’assenza nella presenza, la 21. J. Lacan, Autres écrits, cit., p. 339.

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riuscita nel fallimento. Vale a dire, alla fine, la struttura infinitamente plastica della denegazione così come la mette in atto il discorso di Lacan, la sua apertura sull’abisso, la “catastrofe del pensiero”, come dice Bataille, la sua opportunità pure. O ancora, come scrive Lacan in una formula magnifica degli Scritti: “Io posso venire all’essere con lo sparire dal mio detto”.22 “Io, la verità, parlo...” Non si avrà la crudeltà di comparare la forza poetica e teorica (inestricabilmente legate tra loro) della scrittura denegativa di Lacan, il suo potere “di illettura” come egli dice, la sua potenza di svelamento, con la pesantezza impacciata, imbarazzata, stagnante, di quei discorsi teorici che, negli stessi anni sessanta e settanta, si barricavano nel loro metalinguaggio critico, linguistico, semiotico, e che vi credevano e vi credono ancora, e continuano a martellare l’affermazione di ciò che pensano essere il vero sul vero.23 Non compariamo, leggiamo solo le ultime righe dell’articolo di Lacan sulla svista (ma questa non vuole essere una conclusione): “Trattenete almeno quello che vi testimonia di questo testo che ho gettato al vostro indirizzo: il fatto è che la mia impresa [entreprise] non oltrepassa l’atto in cui è presa [prise], e che dunque essa non ha in sorte altro che la sua svista [méprise]”. E più avanti aggiunge: “La falsa svista, questi due termini annodati nel titolo di una commedia di Marivaux, trova qui un senso rinnovato che non implica nessuna verità di scoperta”.24 “La falsa svista” sarebbe dunque il titolo, secondo Lacan, di una commedia di Marivaux. Ma, come si sa, Marivaux non ha mai scritto una commedia intitolata “la falsa svista”. Egli ha scritto, tra 22. Id., Scritti, cit., p. 804. 23. Questo saggio fu inizialmente una relazione a un convegno su Lacan e la letteratura (novembre 2002, Université Paris 7, organizzato da Éric Marty, Catherine Millot e Pierre Pachet). In un modo stupefacente – ma lo è stato davvero? – qualcuno nell’uditorio, durante la discussione che seguì l’intervento, credette che io stessi criticando il discorso di Lacan mentre io dicevo esattamente il contrario... È stata, è il caso di dire, una svista, un malinteso. Non si gioca impunemente con la denegazione. Nell’articolo che analizzo qui, Lacan scrive alla fine: “Non mi attendo da coloro a cui qui parlo che di confermare il malinteso” (Autres écrits, cit., p. 339). Ne prendo atto. 24. J. Lacan, Autres écrits, cit., p. 339.

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l’altro, La falsa dama di compagnia (La fausse suivante), Le false confidenze (Les fausses confidences)... e ha poi scritto una commedia che si chiama La svista (La méprise) – la svista, e basta. “La falsa svista” di Lacan è dunque una vera svista (perché è un falso titolo), e tuttavia si percepisce bene che è “una falsa svista” (la finta di un errore, la messa in scena di un lapsus), a meno che questo non sia un vero lapsus (un’autentica svista?)... e così via all’infinito, nell’indecidibilità tra sì e no, tra vero e falso, tra linguaggio e metalinguaggio. Notiamo di passaggio che già in La cosa freudiana, conferenza che Lacan tenne nel 1955, si poteva trovare un minuscolo schizzo di questo inestricabile gioco del vero e del falso che mina tutte le enunciazioni vere. È in queste pagine che si trova la famosa prosopopea della verità che afferma: “Io, la verità, parlo”. E cosa dice la verità? Tra le altre cose dice questo: “Che mi fuggiate nell’inganno o pensiate di prendermi nell’errore, io vi raggiungo nella svista [dans la méprise] contro cui siete senza rifugio. Là dove la parola più cauta [la plus caute] mostra un leggero vacillare, è alla sua perfidia che essa manca, lo proclamo adesso, dopo di che sarà un po’ più arduo [plus coton] fare come se niente fosse, nella società buona o cattiva”.25 La svista si diceva (si scriveva) qui già nella performance di un vacillare di lingua (un lapsus), evocando una parola “cauta” di cui essa tesse la trama, troncando con pretesa goffaggine la circospezione (cautèle) o ciò che di sospettoso (cauteleux) essa predice – in altre parole, questa scaltrezza del linguaggio che qui fa apparentemente il contrario di ciò che dice. E tuttavia con una sola parola, essa inganna, si inganna e dice la verità. Da cui si capisce che occorre considerare senza dubbio con più circospezione, o anche con semplice precauzione, questa dottrina lacaniana della verità di cui parla Derrida in La carte postale. Non è sicuro infatti che si possa ridurla così semplicemente a una struttura di velamento-svelamento o di fiducia nella parola piena, come la postula Derrida. Soprattutto non è sicuro, lo si è visto, che la lettera in Lacan non sia che un porta-parola, centra25. Id., Scritti, cit., vol. I, p. 400. [Traduzione lievemente modificata, N.d.T.]

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ta sulla voce – fonocentrica o anche fallogocentrica, per utilizzare i vocaboli derridiani.26 Occorre considerare la lettura, diceva Mallarmé, “come una pratica disperata”. L’illettura di Lacan è una pratica altrettanto disperata ma gioiosa. In La cosa freudiana, egli scrive ancora: “La psicoanalisi è la scienza dei miraggi che si stabiliscono in questo campo [quello dei quattro muri che delimitano lo spazio della situazione analitica]. Esperienza unica, abbastanza abietta, insomma, ma che non sarà mai troppo raccomandata a coloro che vogliano introdursi al principio delle follie dell’uomo, perché, per il fatto di mostrarsi imparentata con tutta una gamma di alienazioni, essa vi fa luce”.27 È quella che senza dubbio certi adoratori del metalinguaggio persistono a negare e che Lacan, lui lo sapeva, non ha cercato di evitare, esplorando al contrario questo spazio che la psicanalisi ha in comune con la letteratura: la sua parentela con la follia, la morte, l’estenuazione di tutto... e la ridente lucidità che essa ne trae.

Traduzione dal francese di Dario Giugliano

26. J. Derrida, Il fattore della verità (1975), a cura di F. Zambon, Adelphi, Milano 1978, passim. 27. J. Lacan, Scritti, cit., vol. I, p. 397.

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Poesia d’amore e cosmologia ANTONIO PRETE

Je t’adore à l’égal de la voûte nocturne. Baudelaire, Les Fleurs du mal, XXV

na ghirlanda di similitudini incorona la sposa fanciulla nel Cantico dei Cantici: per ogni parte del corpo lo sposo e il coro evocano figure di leggiadria animale, di mirabile architettura, di campestre fragranza. Ma nella sequenza dell’elogio è allo sposo che spetta il balzo verso paragoni celesti: Pulchra ut luna, electa ut sol. Bella come la luna, fulgida come il sole. Se lungo i secoli l’animatissima esegesi del Cantico dispiegherà via via la sostanza allegorica, la poesia accoglierà e protrarrà la vita delle immagini, di quelle immagini che a loro volta erano giunte al Cantico da fonti di poesia orientale. L’astro della notte e l’astro del giorno, la luce lunare e la luce solare, offriranno alla poesia d’amore un iridescente ventaglio di possibili raffigurazioni: dall’aspetto corporeo alla definizione del carattere, e più oltre, alla ricerca del fondamento stesso della bellezza. L’abbaglio del luminoso, dell’aureo, del biondo, oppure l’attenzione all’ombroso, al velato, al nascondimento suggeriranno di volta in volta forme e colori e gesti per la rappresentazione dell’amata o dell’amato. L’orizzonte di teoresi che presiede all’uno e all’altro registro è la medievale annessione della bellezza all’ordine della luce. Il pulchrum, nella Summa Theologiae di Tommaso, è lo splendor formæ della divinità: epifania e visibilità luminosa del principio. È questo splendor formæ che motiva teologicamente, nella trattatistica

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Il testo riproduce una lectio magistralis tenuta nell’Università di Siena il 10 novembre 2009.

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d’amore, la centralità della luce. A una metafisica della luce corrisponde una fisica corporea della luce, a una teologia del raggio divino una fisiologia del raggio che muove dagli occhi. Conciliare teologia e fisiologia è il compito delle poetiche medievali. Nella poesia trobadorica e nel Dolce Stile il legame del corpo con il cosmo e l’intreccio tra lume degli occhi e lume celeste giunge, dunque, dal sapere scolastico – e averroistico – sull’amore, dagli ensenhamens provenzali, dalle summæ, dai repertori, dai bestiari. I poeti, dice Contini, assimilano questo sapere “a fini di euristica e linguistica immaginativa”. Non solo, dovremmo aggiungere. Quel sapere cosmico-teologico risponde a una tensione propria sia dell’amore sia della poesia: trovare al desiderio un orizzonte che lo metta al riparo dal transitorio e dall’effimero, fare affiorare nella lingua il suo rapporto con il silenzio, con l’oltrelingua, con quel ritmo che ha nel movimento dei cieli e delle stelle il suo supremo inattingibile principio. È quel che Dante ha mirabilmente mostrato con la Commedia, che davvero possiamo definire, ricorrendo a un verso di Paul Celan, parola sorvolata da stelle, “das sternüberflogene Wort”. Del resto, il sigillo di ogni cantica è la parola stelle. Vertigine, certo, della lontananza. Ma anche invocazione di una protezione celeste nei confronti della lingua, nei confronti del “poema sacro / al quale ha posto mano e cielo e terra”. E l’amore della lingua in Dante è cerchio che accoglie e fa prezioso ogni altro amore. Ma è forse il momento di chiederci, prima di affacciarci sull’incantata selva dei versi d’amore, quali altre ragioni – al di là delle medievali impalcature teologiche – presiedano al nesso tra poesia d’amore e presenza cosmologica. Alla domanda si può solo replicare con una piccola sequenza di ipotesi. La tensione, anzitutto, comune sia alla lingua della poesia sia all’esperienza dell’amore, verso una temporalità che riconoscendo il limite della finitudine si sporga sul suo oltre, e possa opporre al tempo della caducità il tempo stellare (“le stelle non cadranno”, dirà Werther nell’ultima lettera d’addio a Lotte). Poi, il senso destinale, di irripetibile ed esposta singolarità, di assoluta fragilità attribuito all’esperienza d’amore, che per questo cerca nella decifrazione dello 167

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Zodiaco, nella contemplazione stellare, in quella che i romantici diranno eternità delle stelle, una rassicurazione, una protezione. Ancora: il desiderio, o piuttosto il sogno, di sottrarre il corpo d’amore al suo declino, trasponendolo in un corpo glorioso, di cui il corpo celeste, l’astro, è figura luminosa e visibile. O ancora: il legame profondo che la poesia e l’amore avvertono nei confronti di ciò che è vivente, della sua pulsazione, del suo respiro, e dunque nei confronti delle forme, di tutte le forme, visibili e invisibili, che il vivente assume. Infine, l’elevazione come pulsione propria alla poesia e all’amore, e dunque la verticalità, la dislocazione in un punto di lontananza estrema da cui poter osservare il mondo, il dolore del mondo: trasognata alterità di cui le stelle sono come le custodi, altro mondo che sorveglia la parola del tragico. “La Poésie”, dirà il giovane Baudelaire, “est ce qu’il y a de plus réel, c’est ce qui n’est complètement vrai que dans un autre monde”. Più che un regesto delle occorrenze, ché sarebbe incontenibile nel tempo di una lezione, proporrò solo qualche prelievo intorno a figure della poesia amorosa di esplicito riferimento cosmologico, come la luce degli occhi, la metafora del sole, la presenza lunare, l’elemento stellare. Dando per presupposti alcuni luoghi classici. Tra questi, il riflesso dell’antica sapienziale animazione del cielo – i corpi celesti come esseri viventi (“Oh tu che guidi il coro / delle stelle spiranti fuoco”, sono versi rivolti nell’Antigone a Dioniso) –, credenza che dai pitagorici giunge fino a Platone e riaffiora, con altro segno, in Origene; le storie di trasmutazioni e metamorfosi celestiali (un esempio è La Chioma di Berenice nel suo cammino di traduzioni e riprese e variazioni, da Callimaco a Catullo a Foscolo); e ancora, la duplice attitudine che trascorre in una rappresentazione poetica della natura, in una prosodia della natura, quella, diciamo, lucreziana, rivolta, con immaginosa e calda tensione conoscitiva, alla fisica terrestre e celeste, e quella creaturale, che a partire dal Cantico delle Creature di Francesco d’Assisi convoca il visibile nel cerchio di una dialogante e fraterna prossimità; infine l’importanza, per la poesia del Cinquecento del neoplatonismo rinascimentale, che ha un punto irradiante nell’esegesi del Simposio compiuta da Ficino nel suo Co168

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mento, dove è descritta una topica dell’innamoramento all’ombra delle congiunzioni degli astri e dei cieli, ma è anche indicata l’incolmabilità del desiderio (colui che ama “non desidera questo corpo o quello: ma desidera lo splendore della maestà superna, refulgente ne’ corpi”), oltre che la spossessione, la perdita di sé, la trasvalutazione mistica della condizione amorosa: motivi, questi, ben presenti poi in Buonarroti, Gaspara Stampa, Louise Labé, e in molti petrarchisti. Rileggiamo ora, nella Vulgata, il versetto intero del Cantico dei Cantici da cui hanno preso avvio queste considerazioni: “Quæ est ista quæ progreditur quasi aurora consurgens / Pulchra ut luna, electa ut sol, / Terribilis ut castrorum acies ordinata?”. Le rifrangenze nella poesia d’amore non riguardano solo i modi dell’apparire e le forme retoriche (si pensi a Cavalcanti: “Chi è questa che ven, ch’ogn’om la mira / e fa tremar di claritate l’âre”), quelle rifrangenze riguardano anche il permanere del terribilis nella poesia d’amore, dove si mostrerà come sorgente di uno spaurimento: da Dante (“E de’ suoi razzi sopra il meo cor piove / tanta paura che mi fa tremare”) a Leopardi, il quale vedrà nel turbamento d’amore la traccia dell’antico epipléttein, così come da Saffo a Petrarca s’era manifestato, e la sua appartenenza all’esperienza del sublime. E avrà un suo riverbero, quel terribilis, fin nella baudelairiana passante, i cui occhi lampeggeranno, nell’anonimia della folla metropolitana, come un “ciel livide où germe l’ouragan”. Gli occhi della passante sono già nel cuore della modernità, ma in essi c’è ancora, potremmo dire, il riflesso di una luce trobadorica e romanza, come in altri occhi delle Fleurs du mal riappare il dantesco rapporto tra luce e pietra preziosa, o si specchia l’intero spettro cromatico del cielo. Ma si tratta di una luce che, fin da Hymne à la beauté, mostra nel fulgore l’ombra, nell’azzurro l’abisso: “Tu contiens dans ton œil le couchant et l’aurore [...] / Sors-tu du gouffre noir ou descend-tu des astres? “ (“Il tramonto e l’aurora sono dentro i tuoi occhi [...] / Sorgi dal nero abisso o discendi dagli astri?”). Più oltre la rima di astres con desastres annuncia quella compresenza di cielo e inferno, di vertigine e abiezione, di elevazione e caduta che è ritmo stesso di una poetica. Ecco, già di169

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segnata da Baudelaire, la dicotomia astres-desastres: in essa si situeranno sia le moderne estreme rivisitazioni del sublime – l’alphabet des astres di Mallarmé – sia le forme di un’écriture du desastre come quelle che descriverà Blanchot. Torniamo a Dante e alla luce degli occhi. “Lucevan gli occhi suoi più che la Stella”. Così è annunciata Beatrice, per bocca di Virgilio, sulla soglia dell’Inferno. Quella luce degli occhi lampeggia per tutta la Commedia e ha nelle Rime, fin nelle regioni del più insistito trobar clus e petroso, variazioni che legano l’abbaglio della luce alla ferita d’amore, lo splendore al tremore. Il fondamento di queste variazioni sta forse nei versi “Amor che movi tua vertù dal cielo / Come ’l sol lo splendore”. Gli “occhi rilucenti” si manifestano anche come “dolce riso”, luce degli occhi e riso comportando spesso un’identica figurazione: “Ché dentro a li occhi suoi ardeva un riso / tal ch’io pensai co’ miei toccar lo fondo / de la mia gloria e del mio paradiso” (Par., XV, 34-36). Ma già nel canto X, verso 62, Dante aveva esposto, in lampeggiante abbreviazione, il legame tra la luce e il riso: “Che lo splendor degli occhi suoi ridenti”. Quegli occhi suoi ridenti riaffioreranno nella Silvia leopardiana ma accompagnati dall’ombra del fuggitivi (“Negli occhi tuoi ridenti e fuggitivi”), splendente hapax della poesia italiana, bellissimo verso che porta la luce degli occhi in un nuovo paesaggio interiore e si rifrange poi in altri poeti non solo italiani. Più che la dantesca relazione tra luce e riso prevarrà nella poesia moderna il rispecchiamento del cielo negli occhi, fino al Baudelaire i cui cieli possono essere profondi, rosati, bizzarri, abbaglianti, imbronciati, oscuri, accigliati, brumosi, tumultuosi, grevi, solenni, riflessivi, liturgici, bassi, colmi di assopita tristezza. E fino al Mallarmé di Soupir, che vedrà riflesso negli occhi di lei un cielo errante: “Le ciel errant de ton œil angélique”. Ma forse su questo tema del cielo riflesso la più forte intensità insieme tragica e lirica era già data dai versi di Tasso riferiti a Clorinda morente e messi meravigliosamente in musica da Monteverdi: “E gli occhi al cielo affida, e in lei converso / sembra per la pietate il cielo e ’l sole”. Il sole. Anche nel Cantico delle creature la laude di frate Sole non è disgiunta dalla bellezza e dal suo fondamento: “Et ellu è bel170

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lu e radiante cum grande splendore: /de Te, Altissimo, porta significazione”. Nella poesia araba d’amore alcuni versi di Ibn Rûmî definiscono bene la forza della metafora. Li leggo nella traduzione francese di un poeta arabo, Adonis: “Elle est le soleil qui distribue sa lumière / Aux soleils, lunes et astres”. Nella nostra poesia, è nel Canzoniere di Petrarca che la metafora del sole, attenuando la radice teologica, ma non abolendola del tutto, è abbondantemente adoperata per definire le forme dell’apparire di lei sia nell’incontro sia nella rammemorazione. È dal sole che il corpo di Laura prende i suoi “figuranti”, per usare l’espressione di Giovanni Pozzi, cioè l’oro dei capelli, la luce del viso, lo splendore degli occhi, la luminosità della veste e del paesaggio stesso che è intorno: alla comparazione (“costei, ch’è tra le donne un sole”, “più bella assai che ’l sole”) succede l’identificazione (“’l mio sol”, “occhi miei, oscurato è ’l nostro sole”, “quel sol che agli occhi miei resplende”, “e il sol che il cor m’arde”). Il sole sarà, nel Comento di Ficino al Simposio, elemento che permette di unire cosmologia e fisiologia, l’una fornendo all’altra il modello di un funzionamento: “E come il Sole, che è cuore del mondo, per il suo corso spande il lume, e per il lume le sue virtù diffonde in terra: così il cuore del corpo nostro per un suo perpetuo movimento, agitando il sangue a sé propinquo, da quello spande gli spiriti in tutto il corpo: e per quelli diffonde le scintille de’ raggi in tutti i membri, massime per gli occhi”. Dopo Petrarca, il sole abiterà con insistenza i versi d’amore dei petrarchisti – non solo di lingua italiana – e avrà i suoi riverberi fin nel primo Mallarmé intento a impreziosire e quasi raggelare nell’eleganza dell’artificio il dettato della tradizione lirica: “Le soleil, sur le sable, ô luttueuse endormie, / En l’or de tes cheveux chauffe un bain langoureux”. Sono alcuni alessandrini di Tristesse d’été che così tradussi anni fa: “Il sole, sulla sabbia, o dormiente guerriera, / languido bagno scalda nella tua chioma d’oro”. Esercizio, questo mallarmeano, i cui modi formali sono già ben lontani dalle tonalità del sentire baudelairiano come appare nei versi dei Tableaux parisiens dedicati alla “blanche maison” dell’infanzia.

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E il sole immenso e fulgido che a sera, infranta alla vetrata la raggiera, guardava, grande celeste occhio, intento, i nostri pranzi silenziosi e lenti, spandendo i suoi riflessi come un cero sulla tovaglia e le tende di telo. (Les Fleurs du mal, XCIX) Qui il sole, “ruisselant et superbe”, infrangendosi sulla vetrata, come un grande occhio curioso, osserva, e in certo senso protegge, l’intimità della scena domestica raccolta intorno al tavolo della cena. Il cuore di quell’intimità, anzi il pensiero di quell’intimità, secondo le belle pagine dedicate sia da Bonnefoy sia da Starobinski a quel poème, è l’amore per il padre, il quale morì quando Charles aveva sei anni: quell’amore, sopravvivendo alla scomparsa del padre, cerca nella figura del sole che è “derrière la vitre” una nuova presenza, insieme calda e lontanissima, protettiva e perduta. Tornando alle figurazioni cosmologiche della poesia d’amore, se il biblico “electa ut sol” ha numerosissime declinazioni nei petrarchisti, è dopo Tasso che il “pulchra ut luna”, e dunque la bellezza lunare, prende campo. Certo, potremmo dire che già in Dante il riso di Beatrice ha su di sé anche il riflesso della luna, della virgiliana Trivia (“Quale ne’ pleniluni sereni / Trivïa ride tra le ninfe etterne”, Par., XXIII), ma è con Tasso che nella nostra poesia il paragone con la luce lunare dà rilievo alla bellezza femminile: “Cinzia giamai sotto il notturno velo / non si mostrò così lucente e pura”. Tuttavia ogni pur attento regesto di frammenti poetici, ogni pur solerte antologia di lunari metafore amorose appare esteriore e superflua dinanzi all’energia meditativa e insieme poetica con la quale la luna e la luce lunare appaiono nei versi di Leopardi. La luna è in quei versi, di volta in volta, sfinge o confidente, sorgente di un interrogare che sospinge il pensiero fin sulla soglia dell’impensato, e del nulla, oppure è presenza che, velando e rivelando le cose, facendo dialogare la luce con l’ombra, dischiude il teatro dell’interiorità, sul cui palco tornano, dall’oblio, e in virtù della ricordanza, le immagini antiche. E allo stesso tempo, la pre172

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senza lunare acuisce la percezione della transitorietà, del passaggio, del movimento di nascita e declino, e suggerisce il confronto tra la singolarità esposta e fragile del vivente e il ritmo dell’universo, tra la finitudine, il suo respiro, e l’infinito, la sua impossibile raffigurazione. Leopardi assume il pulchra ut luna come reciprocità tra il lunare e il femminile, tra la bellezza lunare e la bellezza femminile. Forse mai come con Leopardi la poesia ha reinterpretato e reinventato con così pensosa grazia l’arcaico e mitologico femminile della luna, quel femminile che Hölderlin volle conservare sostituendo a der Mond il latino Luna, die heilige Luna. Gli attributi che corteggiano la luna leopardiana seguono procedimenti metonimici, relazioni analogiche, elencazioni di proprietà e di atteggiamenti, fino a raggiungere la trasvalutazione del femminile nella divinità, insomma in una vera e propria teofania. Certo, alcuni attributi lunari – “vergine”, “intatta”, “candida” – rimbalzano dal Cantico dei Cantici (“Et macula non est in te”), ma per molti altri attributi si deve riconoscere il deciso abbandono dei canoni iconici e dei figuranti della tradizione, a vantaggio di una vera e propria rappresentazione del vivente lunare come personaggio la cui presenza è cifra e sigillo di una poetica. Una poetica che porta la finitudine fin sulla soglia dell’enigma, l’esplorazione del visibile fin sull’orlo dell’invisibile. Di là dagli attributi diretti come “candida luna” e da quelli metonimici come “immutato raggio”, “verecondo raggio”, “vezzoso raggio”, si possono disporre le connotazioni lunari in ordini diversi, come la luce (“aurea”, “bianco tuo lume” ecc.) oppure il silenzio (“tacita”, “muta”, “silenziosa”), il movimento (“cadente”, “peregrina”, “fuggente luce”) e la sua negazione (“queta”, “placida”), la relazione affettiva (“pensosa”, “graziosa”), l’atteggiamento (“nebuloso e tremulo”), il carattere divino (“giovinetta immortal”, “eterna”, “ma tu mortal non sei” ecc.). Appartiene al mese d’ottobre del 1923 la meditazione leopardiana, nello Zibaldone, intorno al sublime nella poesia d’amore, in margine ai versi di Petrarca e di Saffo (Saffo citata apud Longinum), e allo stesso periodo appartiene la stesura del canto Alla sua donna. L’oggetto del desiderio qui non solo è lontanissimo, ma si 173

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ritira nel silenzio dell’inconoscibile, in un oltretempo che se ha un ritmo ha il ritmo delle stelle. In un’annotazione sulla sua canzone il poeta dice: “L’autore non sa se la sua donna (e così chiamandola mostra di non amare che questa) sia mai nata finora, e debba mai nascere: sa che ora non vive in terra, e che noi non siamo suoi contemporanei: la cerca nelle idee di Platone, la cerca nella luna, nei pianeti del sistema solare, in quei de’ sistemi delle stelle”. Leggiamo alcuni versi: Se dell’eterne idee L’una sei tu, cui di sensibil forma Sdegni l’eterno senno esser vestita, E fra caduche spoglie Provar gli affanni di funerea vita; O s’altra terra ne’ superni giri Fra’ mondi innumerabili t’accoglie, E più vaga del Sol prossima stella T’irraggia, e più benigno etere spiri, Di qua dove son gli anni infausti e brevi, Questo d’ignoto amante inno ricevi. L’antico amor de lonh è trasmutato in una pura “imago”, in un’“alta specie”. La sua donna è l’assolutamente altro, l’introvabile, il non situabile, il non transitabile. E tuttavia questa infigurabile figura apre egualmente la ferita del desiderio e il tremito del turbamento: “Di te pensando, / A palpitar mi sveglio”. L’orizzonte cosmologico – che fin dall’adolescenza Leopardi ha istituito come spazio sconfinato del suo interrogare, e che dal Pensiero dominante ad Aspasia sarà presenza assidua nella meditazione poetica sull’amore – qui accoglie un amore privo di destinazione e di corpo e di visibilità e tuttavia sorgente di affanno. Un sublime dell’assenza si iscrive in una cosmologia abissale. La poesia d’amore cerca in un altrove privo di figura il suo inveramento, e tenta di fare dell’impossibile un’esperienza, dell’oltretempo un ritmo. Come accadrà alla passante di Baudelaire, la cui apparizione dischiude un altro tempo e un altro spazio dove il non vissuto amore è più forte di ogni amore vissuto: 174

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Un éclair... puis la nuit! – Fugitive beauté Dont le regard m’a fait soudainement renaître, Ne te verrai-je plus que dans l’éternité? Un lampo... poi la notte! Bellezza fuggitiva, che con un solo sguardo la vita m’hai ridato, non ti vedrò più dunque che nell’eterna riva? Ma Baudelaire ha raffigurato della lontananza non solo l’infigurabile tempo, ma anche il tepore e la dolcezza di un altrove, di un “là- bas”, che, con il ventaglio delle sue fascinazioni e dei suoi richiami, abita il tempo presente. Quanto, poi, alla luna, intesa come prossimità del lontano, il poeta le ha dedicato due poèmes delle Fleurs, Tristesse de la lune e La lune offensée, che in questa sede andrebbero evocati proprio in analogia alla leopardiana raffigurazione della luna come una donna. Leggiamo del primo poème solo la prima quartina: Ce soir, la lune rêve avec plus de paresse; Ainsi qu’une beauté, sur de nombreux coussins, Qui d’une main distraite et légère caresse Avant de s’endormir les contours de ses seins. Più pigra sogna la luna stasera, Come bellezza, su molli cuscini, Che accarezza distratta e leggera Prima del sonno, le curve dei seni. La luna pigra e sognante si fa parodica allegoria. Il poeta raccoglierà nella mano e custodirà nel cuore “la larme pâle”, cioè il pallore di una luce che è come lacrima lunare. L’immagine, levigata e preziosa, è il saluto estremo di un poeta lunare, il quale sa che la poesia non può nascere, ormai, se non dal silenzio lunare, deve cioè portarsi oltre la fascinazione della bellezza, oltre la grazia. Come accade nell’altro poème dedicato alla luna, dove la “vieille Cynthia” mostra al poeta, erede dell’artificioso idillio, l’immagine decrepita della madre che dinanzi allo specchio si imbelletta con i trucchi il seno: “Et plâtre artistement le sein qui t’a nourri” (“E 175

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si restaura il seno da cui succhiasti il latte”). È deflagrato l’idillio lunare: qui il rapporto tra poesia e declino della bellezza, che John Keats aveva con schietta trepidazione pronunciato, trova le vie della parodia e del desastre, evocando uno dei Caprichos di Goya. Di questa rovina dell’elegia lunare un poeta come Zanzotto saprà modulare, scavando nella lingua, aridità e fulgore, limina e lumina, vertigine e inerte pallore. Dell’elemento stellare, qui a conclusione di un excursus, basterà ricordare come esso trascorra in tutta la poesia d’amore, in ogni lingua e in ogni epoca: poiché ouranós asteróeis, il cielo stellante, nel mito si unisce a Gea, e dal congiungimento nasce Mnemosyne, la madre delle Muse. L’origine, dunque, la stellata origine, sorveglia la lingua della poesia, e la lingua dell’amore, essendo eros e poiesis, stando al Socrate del Simposio, equivalenti. Le stelle sorvegliano il ricordo d’amore. E lucevan le stelle: l’attacco dell’aria di Cavaradossi nel terzo atto della Tosca di Puccini suggerisce al Barthes dei Fragments d’un discours amoureux il titolo sotto cui raccogliere le annotazioni relative al ricordo d’amore, ricordo dolceamaro perché ha il segno di quel che non può più tornare. Del resto le leopardiane “vaghe stelle dell’Orsa” proprio questa pena dell’irreversibile evocavano col loro apparire, ma portavano anche la quieta dolcezza di un rammemorare che trovava nel verso, nella musica del verso, la sua sola consolazione. Cosmografie: come quelle, frequenti, della Dickinson, o come quella di Pascoli, in cui la terra corre nel cosmo ed esala il suo alito azzurro in mezzo a tumultuanti costellazioni. Cosmografie che tentano di opporre alla transitorietà del tutto quel sogno, o quell’azzardo, di atemporalità, di sfida al declino, proprio dell’esperienza dell’amore. La stella è, nel tumulto dell’esistenza, e nella fragilità dell’amore, e della stessa lingua poetica, presenza protettiva: e può essere la “pâle étoile”, verso cui corre, nelle Fleurs du mal, la vela del poeta (La Musique), oppure la stella errante, sauvage, pensive, che Pierre Jean Jouve dice essere il suo astre intérieur. Può essere in René Char la costellazione di Orione, pigmenté d’infini, o può essere in Rafael Alberti la stella amorosa, l’“alta Altair”, asible, musical, vibradora. Può essere in Mario Lu176

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zi l’aprirsi de “l’innumerabile fiorita / da semi / e gemme / perse tra spazio e tempo” (in Frasi e incisi di un canto naturale) o lo sbocciare di stelle “all’orlo in luce dell’estremo niente” nel Viaggio terrestre e celeste di Simone Martini. Il sogno di una conoscenza sospinta sin sulla soglia dell’invisibile, e dell’enigma, sospinta fin oltre la morte, trascorre nella poesia. “Forse s’avess’ io l’ale / Da volar su le nubi / E noverar le stelle ad una ad una”, esclama il pastore errante nel Canto notturno. E per Rilke le stelle stanno oltre il tempo del dicibile, oltre il tempo stesso degli Angeli, come leggiamo nella settima delle Elegie duinesi: “O einst tot sein und sie wissen unendlich, / alle die Sterne: denn wie, wie, wie sie vergessen!” (“Oh! Esser morti una volta, e conoscerle all’infinito, / le stelle, tutte: e allora come come come dimenticarle!”). Sarà forse per questa tensione verso una conoscenza altra che spesso le grandi opere di poesia sanciscono il loro congedo con un’apertura cosmologica. La Commedia di Dante raccoglie il viaggio mirabile nel regno “che solo amore e luce ha per confine” con l’ultimo verso “l’amor che move il sole e l’altre stelle”. Petrarca sigilla il Canzoniere con la preghiera che comincia “Vergine bella, che di sol vestita, / coronata di stelle”. E la cosmografia del Tramonto della luna conclude il cammino poetico leopardiano. Ed è stato proprio Leopardi, a mostrare con il “giardino della sofferenza” la fine di ogni idillio, a mostrare, dunque, il tragico nel cuore della modernità, annunciando così quel rovesciamento dell’incantata cosmografia d’amore che avrà la sua più cupa manifestazione nel tragico del Novecento. In quel tragico che un poeta come Celan raccoglierà nel verso teso, frantumato, dolente: in Todesfuge, dove il dolore della Shoà è portato nella poesia, i capelli d’oro di Margarete saranno accanto ai capelli di cenere di Sulamith, la sposa del Cantico dei Cantici, con la cui lode abbiamo cominciato questa lezione: “Dein goldenes Haar Margarete / dein aschenes Haar Sulamith”. La luce si rovescia in cenere. Tutte le stelle sono spente. Ma anche nel cielo delle stelle spente la poesia d’amore cercherà, ancora, le sue costellazioni: alterità estrema, lontanissimo bagliore, forse fioco, ma necessario.

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Riferimenti 1. Je t’adore à l’égal de la voûte nocturne. (Baudelaire, Les Fleurs du mal) 2. Pulchra ut luna, electa ut sol. (Canticum Canticorum, 6, 9) 3. Se mai continga che il poema sacro al quale ha posto mano e cielo e terra. (Dante, Par., XXV, 1-2) 4. La Poésie est ce qu’il y a de plus réel, c’est ce qui n’est complètement vrai que dans un autre monde. La Poesia è quel che c’è di più reale: è completamente vera solo in un altro mondo. (Baudelaire, Puisque réalisme il y a) 5. Oh tu che guidi il coro delle stelle spiranti fuoco. Sofocle, Antigone (la traduzione del frammento è di G. Colli, La sapienza greca) 6. Perché egli non desidera questo corpo o quello: ma desidera lo splendore della maestà superna, refulgente ne’ corpi. (Ficino, Sopra lo Amore o ver’ Convito di Platone) 7. Quæ est ista quæ progreditur quasi aurora consurgens Pulchra ut luna, electa ut sol, Terribilis ut castrorum acies ordinata? (Canticum Canticorum, 6, 9) 8. Chi è questa che ven, ch’ogn’om la mira e fa tremar di claritate l’âre. (Guido Cavalcanti, Rime, IV) 9. E de’ suoi razzi sopra il meo cor piove tanta paura che mi fa tremare. (Dante, Rime, LXV) 10. Tu contiens dans ton œil le couchant et l’aurore [...] Sors-tu du gouffre noir ou descend-tu des astres?

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Il tramonto e l’aurora sono dentro i tuoi occhi [ ...] Sorgi dal nero abisso o discendi dagli astri? (Baudelaire, Hymne à la beauté) 11. Lucevan gli occhi suoi più che la Stella. (Dante, Inf., II, 53) 12. Amor che movi tua vertù dal cielo Come ’l sol lo splendore. (Dante, Rime, XC) 13. Ché dentro a li occhi suoi ardeva un riso tal ch’io pensai co’ miei toccar lo fondo de la mia gloria e del mio paradiso. (Dante, Par., XV, 34-36) 14. Che lo splendor degli occhi suoi ridenti. (Dante, Par., X, 62) 15. Negli occhi tuoi ridenti e fuggitivi. (Leopardi, A Silvia) 16. Le ciel errant de ton œil angélique. Il cielo ch’erra nel tuo angelico occhio. (Mallarmé, Soupir, trad. mia) 17. E gli occhi al cielo affida, e in lei converso sembra per la pietate il cielo e ’l sole. (Tasso, La Gerusalemme liberata, XII, 71-72) 18. Et ellu è bellu e radiante cum grande splendore: de Te, Altissimo, porta significazione. (Francesco d’Assisi, Cantico delle Creature) 19. Elle est le soleil qui distribue sa lumière Aux soleils, lunes et astres. (Ibn Rûmî, trad. dall’arabo di Houria Abdelouaed e Adonis) 20. Così costei, ch’è tra le donne un sole In me movendo de’ begli occhi i rai. (Petrarca, Canzoniere, IX)

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Una donna più bella assai che ’l sole. (Canzoniere, LXIX) Occhi miei, oscurato è ’l nostro sole. (Canzoniere, CCLXXV) 21. E come il Sole, che è cuore del mondo, per il suo corso spande il lume, e per il lume le sue virtù diffonde in terra: così il cuore del corpo nostro per un suo perpetuo movimento, agitando il sangue a sé propinquo, da quello spande gli spiriti in tutto il corpo: e per quelli diffonde le scintille de’ raggi in tutti i membri, massime per gli occhi. (Ficino, Sopra lo amore) 22. Le soleil, sur le sable, ô luttueuse endormie, En l’or de tes cheveux chauffe un bain langoureux. Il sole, sulla sabbia, o dormiente guerriera, languido bagno scalda nella tua chioma d’oro. (Mallarmé, Tristesse d’été, trad. mia) 23. E il sole immenso e fulgido che a sera, infranta alla vetrata la raggiera, guardava, grande celeste occhio, intento, i nostri pranzi silenziosi e lenti, spandendo i suoi riflessi come un cero sulla tovaglia e le tende di telo. (Baudelaire, Les Fleurs du mal, XCIX, trad. mia). 24. Quale ne’ pleniluni sereni Trivïa ride tra le ninfe etterne. (Dante, Par., XXIII) 25. Cinzia giamai sotto il notturno velo non si mostrò così lucente e pura. (Tasso, Rime) 26. L’autore non sa se la sua donna (e così chiamandola mostra di non amare che questa) sia mai nata finora, e debba mai nascere: sa che ora non vive in terra, e che noi non siamo suoi contemporanei: la cerca nelle idee di Platone, la cerca nella luna, nei pianeti del sistema solare, in quei de’ sistemi delle stelle. (Leopardi, Annotazioni alle Canzoni)

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27. Se dell’eterne idee L’una sei tu, cui di sensibil forma Sdegni l’eterno senno esser vestita, E fra caduche spoglie Provar gli affanni di funerea vita; O s’altra terra ne’ superni giri Fra’ mondi innumerabili t’accoglie, E più vaga del Sol prossima stella T’irraggia, e più benigno etere spiri, Di qua dove son gli anni infausti e brevi, Questo d’ignoto amante inno ricevi. [...] Di te pensando A palpitar mi sveglio. (Leopardi, Alla sua donna) 28. Un éclair... puis la nuit! – Fugitive beauté Dont le regard m’a fait soudainement renaître, Ne te verrai-je plus que dans l’éternité? Un lampo... poi la notte! Bellezza fuggitiva, che con un solo sguardo la vita m’hai ridato, non ti vedrò più dunque che nell’eterna riva? (Baudelaire, À une passante, trad. mia) 29. Ce soir, la lune rêve avec plus de paresse; Ainsi qu’une beauté, sur de nombreux coussins, Qui d’une main distraite et légère caresse Avant de s’endormir les contours de ses seins. Più pigra sogna la luna stasera, Come bellezza, su molli cuscini, Che accarezza distratta e leggera Prima del sonno, le curve dei seni. (Baudelaire, Tristesse de la lune, trad. mia) 30. Et plâtre artistement le sein qui t’a nourri. E si restaura il seno da cui succhiasti il latte. (Baudelaire, La lune offensée, trad. mia) 31. Mine di luna in fuga per lumina per limina oh più fecondo più verbo più troppo scarti di luna-noi scaglia in abbaglio sul noi. (Zanzotto, Per lumina, per limina, in Pasque)

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32. Poi l’erompere Del celeste grembo, l’innumerabile fiorita da semi e gemme perse tra spazio e tempo. (Luzi, Frasi e incisi di un canto naturale) 33. All’orlo in luce dell’estremo niente. (Viaggio terrestre e celeste di Simone Martini) 34. Forse s’avess’ io l’ale Da volar su le nubi E noverar le stelle ad una ad una (Leopardi, Canto notturno di un pastore errante dell’Asia) 39. O einst tot sein und sie wissen unendlich, alle die Sterne: denn wie, wie, wie sie vergessen! Oh! Esser morti una volta, e conoscerle all’infinito, le stelle, tutte: e allora come come come dimenticarle! (Rilke, Elegie Duinesi, Settima, trad. mia) 35. Ma già volgeva il mio disio e ’l velle, sì come rota ch’igualmente è mossa, l’amor che move il sole e l’altre stelle. (Dante, Par., XXXIII, 143-145) 36. Vergine bella, che di sol vestita, coronata di stelle, al sommo Sole piacesti sì, che ’n te Sua luce ascose, amor mi spinge a dir di te parole. (Petrarca, Canzoniere, CCCLXVI) 37. Dein goldenes Haar Margarete dein aschenes Haar Sulamith. I tuoi capelli d’oro Margarete i tuoi capelli di cenere Sulamith. (Paul Celan, Todesfuge, in Mohn und Gedächtnis, trad. di G. Bevilacqua)

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Archivio Enzo Paci A oltre trent’anni dalla morte di Enzo Paci, con il moltiplicarsi degli studi e delle iniziative legate alla sua opera, l’Archivio chiede a chi ha scritto e scriva su Enzo Paci di voler gentilmente inviare copia del proprio lavoro all’Archivio stesso. Lo scopo evidente è quello di riunire e fare conoscere lavori e ricerche, e i loro autori, per favorire altri studi. Nello stesso ternpo si intende garantire la presenza di una collezione completa di scritti di e su Enzo Paci nel luogo che ne conserva manoscritti e biblioteca. L’invito si rivolge anche a chi abbia scritto una tesi di laurea o una dissertazione di dottorato su Enzo Paci e/o sul contesto culturale in cui si è mossa la sua attività. Al momento la collezione è parziale e sembra utile completarla. Si potrà in questo modo compilare anche un elenco degli studiosi interessati. Inoltre si è avviata l’acquisizione e la catalogazione dell’epistolario. Chiediamo pertanto a chi sia in possesso di lettere di Enzo Paci di collaborare, inviandoci fotocopia delle lettere; se ne ha tenuto copia e non ha nulla in contrario, sono benvenute anche fotocopie delle lettere del corrispondente. L’indirizzo al quale inviare il materiale è: Archivio Enzo Paci via Beato Angelico 5 20133 Milano Ringraziamo tutti anticipatamente e raccomandiamo di accludere al materiale anche il proprio recapito.

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