Aut Aut 343/2009. Leggere Lacan oggi [Vol. 343] 9788842815938

Questo numero della rivista "Aut aut" presenta gli articoli di: Pier Aldo Rovatti, Mario Colucci, Massimo Reca

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Aut Aut 343/2009. Leggere Lacan oggi [Vol. 343]
 9788842815938

Table of contents :
Pier Aldo Rovatti Leggere Lacan oggi
Mario Colucci L’otto volante di Lacan
Massimo Recalcati Letture di Lacan
Slavoj Žižek Malgrado tutto, l’etica di Lacan
Raoul Kirchmayr A cosa può servirci l’objet (petit) a
Graziella Berto Sopravvivere alla religione
Ilaria Papandrea Dal verbale di un’immaginaria interrogazione
Antonello Sciacchitano Lacan, il soggetto, l’oggetto
Annalisa Davanzo Una scrittura da ascoltare
Maria Teresa Maiocchi Fräulein… Freud-line…
Sergio Benvenuto La sfida romantica di Lacan
Paulo Barone Lacan, i resti e noi
Massimiliano Roveretto L’esempio cinese
Giovanni Pilastro “Non ne so niente”


MATERIALI
SULL’ETICA DELLA PSICANALISI:

Andrea Bellavita Oltre la significazione: il non senso
Graziella Berto Il rovescio del desiderio
Matteo Bonazzi Abbiamo passato la linea? La Cosa e la Legge
Federico Leoni Dire il vero sul vero. La cornice del filosofo e il discorso dell’analista
Silvano Petrosino Aggredire, distruggere, ricominciare
Daniele Tonazzo Tra Kant e Sade: l’amore del prossimo

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343 luglio settembre 2009

Leggere Lacan oggi Pier Aldo Rovattl Leggere Lacan oggi Mario Coluccl L'otto volante di Lacan Massimo Recalcatl Letture di Lacan Slavoj Zliek Malgrado tutto, l'etica di Lacan

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Raoul Klrchmayr A cosa può servirci l'objet (petit) a Graziella Berto Sopravvivere alla religione Ilaria Papandrea Dal verbale di un'immaginaria

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interrogazione Antonello Sciacchitano Lacan, il soggetto,

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l'oggetto Annalisa Davanzo Una scrittura da ascoltare Maria Teresa Malocchi Fraulein... Freud-line... Sergio Benvenuto La sfida romantica di Lacan Paulo Barone Lacan, i resti e noi Massimiliano Roveretto L'esempio cinese Giovanni Pilastro" Non ne so niente"

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MAT ERIALI SULL'E T ICA DELLA PSICANALISI Andrea Bellavlta Oltre la significazione: il non senso Graziella Berto Il rovescio del desiderio Matteo Bonazzl Abbiamo passato la linea? La Cosa e la Legge Federico Leoni Dire il vero sul vero. La cornice del filosofo e il discorso dell'analista Silvano Petroslno Aggredire, distruggere, ricominciare Daniele Tonazzo Tra Kant e Sade: l'amore del prossimo



i I Saggiatore

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rivista fondata da Enzo Paci nel 1951 direttore responsabile: Pier Aldo Rovacci redazione: Grazi ella Berto, Laura Boella, Paulo Barone, Giovanna Beccini, Deborah Borea (editing, [email protected]), Silvana Boructi, Damiano Cantone, Mario Colucci, Alessandro Dal Lago, Rocco De Biasi, Maurizio Ferraris, Edoardo Greblo, Raoul Kirchmayr, Giovanni Leghissa, Anna Maria Morazzoni (coordinamento, cel. 02 70102683 ), Ilaria Papan drea, Fabio Polidori, Rosella Prezzo, Pier Aldo Rovacti, Antonello Sciacchitano, Giovanni Scibilia, Davide Zoleno direzione: via Melzo 9, 20129 Milano collaborano tra gli altri ad "aut aut": G. Agamben, H.-D. Bahr, R Bodei,J. Bucler, M. Cacciari, G. Dorfles, U. Galimberti, P. Gambazzi, S. Givone, A. Heller, F. Jullien,J.-L. Nancy, A. Prece, M. Serres, G.C. Spivak, M. Trevi, G. Vaccimo, M. Vegecci, P. Veyne, V. Vitiello, S. Ziiek

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Finito di scampare nel seccembre 2009

Leggere Lacan oggi PIER ALDO ROVATTI

a prima parte di questo fascicolo di "aut aut" (343, 2009) vorrebbe corrispondere al titolo. Sono voci che arrivano quasi tutte dall'interno del lavoro della rivista, ampliando solo un poco il cerchio a qualche altra che supponiamo non lontana. Bene o ma­ le, da trent'anni (dal voluminoso "A partire da Lacan" del 1980) ci teniamo in casa quest'ospite esigente: far finta di scoprirlo adesso potrebbe rivelarsi un utile espediente per prestargli infi­ ne un occhio e un orecchio un po' più spregiudicati, e ammette­ re che la domanda "cosa ci fa qui?" non gli è mai stata davvero rivolta, forse per il timore di una risposta deludente, cioè ap­ punto la nostra. Le persone cui l'abbiamo rivolta, studiosi e analisti, si sono lamentate della camicia stretta, sedicimila battute per favore, e qualcuno ha sforato ma non di tanto. Il gioco è stato insomma accettato, e io dico che ne valeva la pena, difficile o incosciente che fosse. Del risultato, l'unico dawero autorizzato a giudicare è il lettore. Resta che di saggi su Lacan, anche belli, ne abbiamo, ma di prese di posizione- possibilmente senza troppi giri, stam­ pelle testuali o note difensive a margine - pochine, specie quan­ do non si tratti delle scomuniche di chi non ne vuole sapere. In uno scenario culturale, il presente, che definire confuso e incer­ to è quasi un eufemismo, era opportuno correre il rischio. Il titolo stesso merita qualche considerazione. "Lacan" è ov­ viamente il perno, il significante di tutta la faccenda. Restano

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due parole, "oggi" e "leggere". Prima, però: questo titolo è un'af­ fermazione o una domanda? Se togliamo il punto interrogativo (che inizialmente c'era) diamo perentorietà a un asserto? Come se "dovessimo" leggere Lacan soprattutto oggi? Direi, dopo tan­ to parlare tra noi, che l'interrogativo è implicito, insomma si sen­ te, e che tuttavia non è esposto ai quattro venti: la domanda si si­ tua nell'economia di un'intesa, cioè che sia profittevole tenersi vicino quest'ospite se non altro perché non ha ancora finito di parlarci, ecco il punto, e gli abbiamo messo in bocca tante paro­ le che - ci accorgiamo oggi - quadravano poco con il suo dire e con le mire del suo discorso. Ciò non toglie che l'orecchio di cia­ scuno di noi ascolti con una sua particolare e individuale tona­ lità. Il che è già un discreto risultato. La scommessa principale consiste proprio in quell"'oggi", che beninteso vuol dire "oggi, soprattutto". Lungi dall'essere un ca­ ne morto, Lacan ci permette, soprattutto ora, di usarlo come bussola in un mondo notevolmente disorientato. Il "discorso dell'analista", come lo chiama nell'ultimo suo periodo, ha certo a che fare con l'analisi, oggi in verità alquanto snobbata, nel sen­ so che lui lo tira fuori da lì, ma riguarda in generale il saper fare, o, se preferiamo, il sapere e l'etica che ci mancano e che man­ chiamo, essendo il nostro deficit culturale più dolente. Dobbiamo cercare quel che di politico Lacan ha da trasmet­ terci, al di là del corpo a corpo ingaggiato con gli studenti del '68, che lo sbeffeggiano perché se ne sta rintanato dentro l'aula, e che lui sbeffeggia perché non hanno la minima idea di cosa possa significare uscire, se sia davvero possibile farlo o anche so­ lo conveniente pensarlo. Politico è invece il programma, già esplicito nei suoi Ecrits del 1966, di mettere in questione il soggetto, e - aggiungerei - di mettere in mora chiunque si illuda di farne un orto chiuso o una voce da padrone cui affidare un qualche mandato, sia pure il più radicale e rivoluzionario. Il che potrebbe bastare per far passare l'autore di un tale programma come un sospetto conservatore, se etichette come questa non mostrassero, ancor più qua­ rant'anni dopo, la loro completa inanità. Saperci fare con il sog-

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getto - ecco la politica di Lacan, sempre più lavorata da un se­ minario all'altro, fino alla tensione problematica (ed enigmati­ ca) cui è riuscito ad arrivare nel corso della sua opera: con tutti i pregiudizi da affondare quanto a "essere" o a "sostanza" o a "unità", compresi (direi) i suoi stessi. Noi non ci sappiamo fare con il soggetto, eppure ci intestar­ diamo, forse perché avvertiamo che la questione è ancora tutta lì, visto che ogni momento veniamo interpellati, dai cosiddetti poteri-saperi che reticolano il campo sociale, proprio come sog­ getti. Perciò allunghiamo lorecchio interessati ad ascoltare uno come Lacan che barra o sbarra il nostro amato soggetto per do­ cumentarne l'essenziale fallimento, e cerca di trascinarci in un salto mortale cui siamo ancora molto riluttanti: che solo se fac­ ciamo nostra questa sbarratura ci apriremo a quel poco di alte­ rità che ci è possibile guadagnare. Un guadagno, infatti, è quello che Lacan ci permette coin­ volgendoci nel funambolico esercizio della perdita, che fa tutt'u­ no con il saperci fare, all'opposto di un sapere che pretende di organizzare le pratiche (e quindi il fare stesso) di un soggetto che, mentre in realtà è sottomesso, assoggettato, suppone di far­ la da padrone - basterebbe un'opportunità. Lacan taglia que­ st'illusione che ci sorregge tuttora portandoci un mare di guai: quel "padrone" e quell"'assoggettato" stanno dalla medesima parte. Un soggetto in perdita (Lacan direbbe: un soggetto che riconosce di essere un effetto di significante e dunque un signi­ ficato barrato) non è owiamente un soggetto padrone ma non è allo stesso titolo, per quanto poco ciò possa apparire owio, un soggetto assoggettabile e assoggettato. L'ho chiamato salto mortale perché non si tratta tanto di un aggiustamento di tiro quanto di una sowersione teorica e prati­ ca che scombina le nostre abitudini di pensiero. Basti conside­ rare il fatto che la padronanza non scompare, puf, con un colpo di bacchetta, ma la ritroviamo nella dimensione che le è propria, nel cuore della soggettività, se mi si passa la metafora. Un effet­ to con cui abbiamo a che fare a ogni istante. Pensiamo a parole come "desiderio" e "godimento", sulla cui dissimmetria Lacan

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ha penato fino all'ultimo. Se nel nostro saperci fare o nella no­ stra politica della soggettività riteniamo di non potervi rinuncia­ re, be' allora dovremo tentare di congedarci dai significati da su­ permarket che teniamo pronti in tasca o in testa. Lacan ci aiuta, senza bisogno che prendiamo per oro colato tutto quello che dice: basta camminare per un tratto assieme a lui per interrogarci su ciò che causa il desiderio e su ciò verso cui si dirige il nostro godimento. Subito risuonerà anche la parola "Altro'', che ci converrà scrivere con la maiuscola, e presto ci scopriremo in un luogo caratterizzato da un non: non prendibi­ le, non conoscibile, infine im-possibile. Dovremo allora arre­ starci? Ma se è precisamente da questo luogo che Lacan comin­ cia a parlare la sua lingua, facendo segno alla nostra! Allora, che almeno ci si chieda cosa intendiamo normalmente per prendere o per conoscere, quanto imbroglio si concentra in queste idee co­ siddette normali e quanta metafisica è al lavoro ogni volta che ci compiaciamo dicendo: "è possibile". Per arrivare a scoprire, a nostro vantaggio, che questo non non ha niente di nichilistico. La formula di Lacan che il reale non si scrive, anzi che non cessa di non scriversi, apre molte porte verso quel saperci fare con il soggetto che è una battaglia incessante contro ogni chiu­ sura immaginaria e per riuscire infine ad abitare il legame socia­ le. Certo, dovremo romperci la testa su quest'altra parola, "rea­ le", intraducibile con realtà, a cui l'ultimo Lacan sembra affida­ re tutte le sue chance. Basti ricordare qui il suo lavoro sul godi­ mento femminile (rintracciabile soprattutto nel seminario Enco­ re del 1972-197 3) che apre un intero scenario proprio sulla base di un non-sapere e di un non-tutto. Questo scenario - va da sé non riguarda solo il soggetto al femminile (sul quale Freud si era impantanato), ma ogni soggetto. La terza parola del nostro titolo è "leggere", e dico subito che, nel caso di Lacan, è una parola difficile da manovrare, mentre avrebbe tutta l'aria di essere la più semplice e owia. Chi ha su­ perato da un po' la ventina ricorderà un'opera di Louis Althus­ ser, anni sessanta, Leggere "Il Capitale" (di Marx, si intende), che

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produsse alquanto rumore. La differenza salta agli occhi. Althus­ ser voleva dire che lo si era letto male (fermandosi all'inizio) e che bisognava adesso leggerlo bene. Lacan non è un libro, ma se anche dicessimo "Leggere i Seminari" o "Leggere gli Ecrits", le cose non cambierebbero, se non altro perché Lacan stesso os­ serva che non è possibile "leggere" i suoi testi. Che significa? Si tratta di come intendere questo "leggere", che non è un semplice rapporto tra lettore e testo scritto. Il testo (e qui an­ drebbe però sviluppata la differenza tra saggi e lezioni) non è scritto - nel caso di Lacan - come un'opera conclusa da offrire a una generica lettura, bensì come un utensile o una provoca­ zione pratica, aperta e sempre parziale, rivolta al saperci fare del lettore, che può trarne vantaggio se riesce ad allargarne la scena, la quale è certamente una scena analitica dettata dalla "logica" (diciamo così) del discorso dell'analista nel suo rapporto con gli altri discorsi. Perciò il lettore ha un posto nella scena specifica o, comunque, lo deve trovare. In nessun caso potrà identificarsi con un lettore universale o con un lettore distaccato e "filosofi­ co". Ogni lettore è un soggetto, però qui la sua soggettività par­ ticolare viene messa al lavoro e anche a rischio. Senza lavoro e rischio, così intesi, Lacan è illeggibile, dà ai nervi, non produce alcun godimento. Si dirà che stiamo girando attorno a uno scoglio ben noto: per leggere Lacan occorre essere dalla parte dell'analisi e dunque averla fatta o conoscerla dall'interno. È vero, ma semplicemen­ te mancheremmo il punto: non ci spiegheremmo perché tanti leggono Lacan e ne traggono profitto senza aver fatto lanalisi, a meno che non concludiamo che siamo tutti imbecilli. In realtà, quello che prende corpo è il risultato di un esperimento che per­ mette, da entrambe le parti, un gioco di "come se" che apre la lettura al lavoro del soggetto su se stesso, come se entrassimo in una scena analitica e ne raccogliessimo alcuni ef fetti e - perché no? - alcuni affetti. Il lavoro lo fa il lettore, e in realtà comincia a farlo anche se non è disposto a questo esperimento. Ma non dobbiamo dimen­ ticare il lavoro che ci mette Lacan nella costruzione di tale oppor-

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tunità. Perciò il suo testo è così strano all'apparenza e non si lascia comprimere in nessuna teoria della discorsività. Se, infatti, partis­ simo con questo piede ci troveremmo a un bivio: o non capirne nulla, o abbandonare la lente che avevamo frapposto tra il nostro occhio e la pagina. Ecco adombrato, solo in un breve cenno, il movimento "analitico" che la lettura di Lacan chiede a ciascuno, e soprattutto a coloro che non sono analisti, né analizzanti. E se questa "lettura" pratica (chiamiamola così), che il testo di Lacan ci chiede per non ridursi a un rebus irrisorio, riguar­ dasse in qualche modo ogni pratica di lettura, anche quando il testo non è costruito per darcene l'occasione? Se ci incamminia­ mo lungo questa strada, allora l'insegnamento di Lacan non sa­ rebbe più solo per pochi adepti, specialmente in una contingen­ za, quella attuale, in cui è evidente che stiamo tutti disimparan­ do a leggere. (Forse lo stesso Althusser, quando invitava a leg­ gere "dawero" il capolavoro di Marx, metteva in moto qualco­ sa di analogo, al di là delle sue intenzioni esplicite.)

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L'otto volante di Lacan MARIO COLUCCI

'incontro con l'opera di Jacques Lacan è stato per me l'incontro con la psicanali­ si. O meglio, dovrei dire, il nuovo incontro con la psicanalisi. Di Sigmund Freud avevo sbirciato qual­ che libro, come tutti, ai tempi del liceo: il professore di filosofia, da padre gesuita qual era, liquidò il viennese in una lezione del­ l'ultimo anno, il tanto che bastò per farmene incuriosire. Credo che allora, diciottenne, presi l'oscura decisione che in qualche modo nella vita mi sarei occupato di questo. Come tutti gli ado­ lescenti, ero alla ricerca di un principio primo di tutte le cose e cartesianamente pensai di averlo trovato nella res cogitans. Qua­ le migliore strategia di padronanza del mondo potevo concepire se non quella che passava dalla conoscenza della psiche e la met­ teva al centro di tutto? Mi interessava la filosofia ma cercavo il suo ombelico e oscuramente intesi trovarlo nella psicanalisi. Per questo, alle prese con la scelta universitaria, ero in dubbio tra gli studi filosofici e quelli di psicologia, che grossolanamente met­ tevo sullo stesso piano della psicanalisi. Infine, mi risolsi per me­ dicina, con l'obiettivo di arrivare alla psichiatria. Da giovane specializzando, in clinica universitaria, mi ritro­ vai un caporeparto che si diceva analista kleiniano. Amava tan­ to i suoi pazienti privati e ce ne parlava diffusamente, lancian­ dosi in dotte interpretazioni e imponendoci letture della sua scuola. Amava molto meno i pazienti pubblici, i "vecchi fre­ quentatori di letti psichiatrici" come lui li chiamava, rispetto ai

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quali lasciava cadere l'interesse analitico per indossare il suo ca­ mice di psichiatra vecchia maniera. Giustificava tutto, la mano pesante sulle terapie farmacologiche, gli elettroshock, le conten­ zioni fisiche, le porte chiuse e le altre ordinarie violenze dell'e­ terna freniatria. Alle reazioni di qualcuno di noi, si lanciava in nuove interpretazioni, stavolta fuori setting e dirette sulla nostra persona, in cui banalizzava le questioni etico-politiche che pone­ vamo, riducendole a "conflitti non elaborati con la figura pater­ na". Risultato: scontata l'attrazione per le lezioni del docente di psichiatria sociale, che ci parlava di Franco Basaglia e ci faceva leggere le Conferenze brasiliane, 1 scontato il disincanto verso la psicanalisi, che si presentava in questa sua farsa, amica del pote­ re e della violenza. Quando da Bari arrivo nella magica Trieste, dei manicomi ab­ battuti e della libertà terapeutica, vi riconosco la mia vera forma­ zione come psichiatra. Tutto sembra risolto in questo nuovo oriz­ zonte, ma non è così. Finiti i miei impegni universitari "di prima necessità", laurea in medicina e specializzazione in psichiatria, mi dirigo verso quelli "voluttuari" e mi iscrivo al corso di laurea in filosofia. Partecipo al seminario del Laboratorio di filosofia contemporanea, diretto da Pier Aldo Rovatti. Si legge Freud, quello dell'A ldi là del principiodi piacere. Si legge anche quel suo singolare interprete francese, di cui nulla sapevo e nulla riuscivo a capire, e che però mi atti rava irresistibilmente. Jacques Lacan è stato per me il nuovo incontro con la psicanalisi, perché faceva passare nelle sue parole qualcosa che non avevo mai sentito scan­ dire con tanta chiarezza da nessun altro analista: il desiderio, la mancanza, il soggetto, l'Altro, il godimento, il reale... Non lo capivo, ma mi parlava sotterraneamente, mi sussurra­ va un soffio di corroborante "tristezza freudiana", come la defi­ niva anni fa Sergio Benvenuto, quella che affascina i giovani che hanno bisogno di mettersi alla prova con teorie disperate per tra­ sformare il mondo.2 Di qui alla mia analisi personale il passo non 1. F. Basaglia, Conferenze hrasrlia11e (1979), Raffaello Cortina, Milano 2000. S. Benvenmo, Laca11 e il disagio della psicoa1wlùi, "Lettera internazionale", 19, 1989, 7 p.3 . 2.

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è stato lungo. Il corpo a corpo con il testo di Lacan, per quanto reso più morbido dalla mia esperienza sul divano, restava serra­ to. Quando iniziavo a leggere un seminario dal titolo accattivan­ te, ero carico di aspettative. Ma dopo le prime pagine ero un po' deluso, sembrava che Lacan mi parlasse d'altro, citando autori e situazioni che non conoscevo. Tenevo duro, non mi arrendevo, volevo capire ogni frase, ma la salita si faceva più ripida. Biso­ gnava mollare oppure andare avanti, senza pretendere di capire ogni passaggio. Poi, all'improvviso, il testo si apriva e mi cattu­ rava di nuovo, una radura di luce nel fogliame fitto, e tutto sem­ brava tornarmi chiaro. Parlava di me, della mia vita, del mio la­ voro, delle persone che amavo e di quelle che curavo. Mi senti­ vo soddisfatto, padrone di un "certo sapere". A quel punto una risata mi sorprendeva: dawero pensavi di aver capito? Lacan era pronto a rovesciare quel certo sapere, quella mia sicurezza e soddisfazione, e a dimostrarmi l'esatto contrario, e poi ancora a farmi dubitare che anche questo fosse l'approdo definitivo. Non esisteva l'ultima parola. La verità che distillavo era preziosa ma volatile. Il seminario finiva, si sbricio­ lava fra le mani senza una conclusione. Qualcosa rimaneva, ma non sapevo bene che cosa fosse. Allora lo rileggevo e scoprivo che quasi non era lo stesso seminario, mi colpiva qualcosa che prima non avevo notato. Fate una prova anche voi, alla prima lettura di un seminario di Lacan, sottolineate con una matita blu i passaggi che vi interessano, poi lasciateli decantare. Quando fate una seconda lettura, prendete una matita rossa e vi accorge­ rete di voler sottolineare altro. Qualche passaggio si sovrappo­ ne, altri no. E di lettura in lettura, di colore in colore, il semina­ rio, si apre in modo diverso: sarà la luce del mattino o del po­ meriggio, il suono differente delle parole o il vostro umore che è cambiato, sarà la vostra esperienza dei testi di Lacan che cresce, ma qualcosa di nuovo sempre appare. Da allora mi domando perché leggo Lacan. Dovrebbe essere una lettura abituale per me che sono psichiatra. Ma non mi sembra che la psichiatria ami Lacan: per quanto molti colleghi ne ab-

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biano letto qualcosa, a partire dalla sua tesi sulla psicosi para­ noica,3 pochi possono dire di studiarlo e di conoscerlo. Non è considerato un autore di riferimento dalla psichiatria di oggi, basta scorrere la bibliografia di un manuale o di un trattato. Nel mio caso la lettura di Lacan potrebbe apparire doppiamente in­ solita: non solo psichiatra, ma anche basagliano. Bisognerebbe spendere qualche parola in più sui punti di prossimità che ci so­ no fra lo psicanalista francese e Franco Basaglia. Certo non so­ no mancati giudizi critici da un lato e dall'altro, spesso per boc­ ca di allievi. La differenza di pratiche, di culture e anche di età, li ha spinti piuttosto a ignorarsi a vicenda. Tuttavia, della loro vi­ cinanza si è parlato poco, soprattutto da parte di chi pratica la psicanalisi nel paese della legge 180. Somiglianza etica, l'avevo definita qualche anno fa, 4 qualcosa che ha a che vedere con una certa posizione del "terapeuta". Molti analisti lacaniani non sa­ rebbero d'accordo con questo termine, né accetterebbero tout court la confusione delle loro pratiche con quelle della psichia­ tria. Ma si tratta di altro. Si tratta di quel passo di awicinamen­ to del soggetto a qualcuno che si suppone ne sappia qualcosa e dello squilibrio di potere tra chi domanda e chi ascolta, che da subito domina la scena. Sia Lacan sia Basaglia vi pongono estre­ ma attenzione ed elaborano alla fine una risposta sorprendente: bisogna mettere in crisi la posizione di colui che non solo pre­ tende di sapere, ma anche lascia credere di sapere. Perché chi dice "risolverò il tuo problema" incastra la relazione terapeuti­ ca in un vicolo cieco. Immobilizza il sapere in un deposito ac­ quisito e il proprio ruolo in quello di colui che educa e insegna perché ne sa di più. Lascia immaginare che la risposta ci sia e ar­ riverà dall'alto. Non intacca per nulla, né è interessato a farlo, il suo ruolo di padronanza. Credo che questa possa essere una delle chiavi più utili per suggerire la lettura di Lacan: lavorare sulla padronanza per met3. J. Lacan, Della psicosi para11oica nei suoi rapporti con la personalità ( 1975), Einaudi, Torino 1980. 4. Mi permetto di rimandare a M. Colucci, P. Di Vittorio, Franco Basag/ia, Bnmo Mon­ dadori, Milano 2001, p. 292.

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terla in crisi. Leggere Lacan non è un'esperienza facile, spesso risulta faticosa, addirittura frustrante. Ma ti confronta immedia­ tamente col problema: il testo di Lacan non puoi padroneggiar­ lo, devi deporre le tue fantasie di maitrise. È lo stesso Lacan che diffida di colui che pretende di capire con chiarezza. Qualcosa continuamente sfugge ed è bene che sfugga. C'è un lavoro rigo­ roso perché il testo non produca un sapere totalizzante. Il di­ scorso del padrone, che è il discorso stesso della civiltà, e il di­ scorso universitario, che rappresenta la moderna sofisticazione del primo, ambiscono alla costruzione di una logica forte, com­ pleta. Al contrario, Lacan lavora perché si produca un decom­ pletamento, o meglio, come lui lo definisce, un effetto di in­ completezza.5 Più che un sapere, indica un saperci/are con la per­

dita di sapere. Il seminario ne è uno degli strumenti. Leggerlo e perdersi fra le sue pagine ti fa sperimentare in modo diretto questa caduta del­ le illusioni di padronanza. Lacan rende impossibile la riduzione della sua parola a una verità tutta intera. La verità non si può dirla tutta, non ci si arriva. "Dirla tutta è impossibile, material­ mente, mancano le parole", dice Lacan.6 Se non si può cogliere tutto, bisognerà riattraversare il semi­ nario più volte per ritrovare i passaggi sfuggiti. C'è da chieder­ si, allora, perché sono sfuggiti alla nostra attenzione, perché proprio quelli e non altri. La svista di lettura ha qualcosa di sin­ tomatico, o forse di sintomale? Accettando questa ipotesi, è evi­ dente che l'esperienza di leggere e di rileggere Lacan implica necessariamente un lasciarsi leggere da Lacan. In altri termini, un lasciarsi sorprendere proprio su ciò che si è sottratto alla no­ stra attenzione, in quel punto di godimento che il buco nella lettura ha messo in luce.L'effetto di incompletezza si accompa­ gna sempre a un godimento. "Questo modo in cui si rivela dei­ scente il fondamento logico come tale, a quale godimento ri5. J. Lacan, Il seminario. Libro XVII. Il rovescio della psicoanalisi. 1969-1970 (1991 ), Ei­ naudi, Torino 2001, p. 79. 6. Id., Radiofo11ia. Televisione (1974 ) Einaudi, Torino 1982, p. 67. ,

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sponde?" si chiede Lacan.7 In fondo, è proprio quando sentia­ mo che la verità non si può dirla tutta, che la scopriamo sorella del godimento. Se leggere Lacan comporta come effetto una certa perdita di padronanza, non possiamo che farne la prova, partendo da un suo testo. Proporrei un passaggio del Seminario XVII, Il rove­ scio della psicoanalisi, che mi sembra in linea con il discorso fin qui sviluppato: nel quarto capitolo - il cui titolo è, appunto, Verità, sorella di godimento - Lacan riprende, come è sua abi­ tudine, uno scritto freudiano del 1919. Si tratta di "Un bambi­ no viene picchiato", testo in cui Freud avanza alcune ipotesi sul­ l'origine delle perversioni sessuali, partendo dall'altalena tra fantasie di percosse che colpiscono sadicamente l'Altro e fan­ tasie che ritornano masochisticamente sul soggetto. Lacan sor­ ride pensando alla presunta "continuità dell'Io" ,8 su cui si ap­ puntano le pretese scientifiche del discorso universitario di cer­ ta psicologia e psicanalisi. Questo "discorso della sintesi o di­ scorso della coscienza che padroneggia"9 non è in grado di ri­ spondere allo scambio continuo di posizione tra parola e cor­ po, quale viene delineata nelle situazioni cliniche di questo scritto. Chi parla? Di chi è la proposizione "un bambino viene picchiato"? Di chi è il corpo battuto? Il soggetto che enuncia non è quello dell'enunciazione. Alla fine, il corpo del bambino risulta "senza volto".10 Il punto, per Lacan, è già nella proposizione che fa da titolo e che costituisce tutto questo fantasma.11 Si tratta di linguaggio, di una proposizione che non ha senso definire nei termini di ve­ ra o falsa, né di chi l'abbia pronunciata, ma della quale piuttosto è "fondamentale" stabilire su quale soggetto si sostenga. È il fon­ damento stesso a essere in questione, di cui si può dire che può

7.

Id., Il seminario. Libro X\'11. Il rovescio della psicoanalisi, cit., p. 79. lvi, p. 75. 9. lvi, p. 81. 10. lvi, p. 76. 11. lvi, pp. 75-76. 8.

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sostenere questa proposizione, solo quando lo si riconosce per quello che è: un soggetto "diviso dal godimento" .12 Da qui prende le mosse l'analisi di Lacan, consapevole di co­ me questa definizione appena data possa irrigidirsi in una for­ muletta senza verità, cioè nel facile transito verso l'impostura del discorso universitario, in cui implacabilmente si rischia di rientrare. Si tratta, invece, di mostrare il soggetto in quanto di­ viso, nell'atto stesso in cui, pronunciando questa verità, ne go­ de. Lacan parte e noi lo seguiamo, poche righe, come su un otto volante, sul quale temiamo di continuo che un vagone si sganci e tutto precipiti nel vuoto. Occorre leggere in francese per co­ gliere meglio questo soggetto diviso: Divisé, je veux dire qu'aussi bien celui qui l'énonce, cet enfant qui wird, vertu, verdi!, verdoie, d'etre battu, geschlagen- jouons un peu plus-, cet enfant qui verdit, battu, il badine - vertu, ce sont les malheurs du vers-tu, soit celui qui le frappe, et qui n'est pas nommé, de quelque façon que la phrase s'énonce.13 In italiano, il traduttore deve riprendere alcuni termini della lin­ gua originale, francese o tedesca- altrimenti si perde il ritmo del­ le allitterazioni, lo sferragliare stesso dei vagoni/significanti che corrono sull'abisso - e mettere tra parentesi la parola italiana:

Diviso, voglio dire che colui che lo enuncia - questo bambi­ no wird (viene), vertu (virtù), verdit (rinverdisce), verdoie (ver­ deggia), in quanto è picchiato, geschlagen, giochiamo ancora un po', questo bambino che rinverdisce, picchiato - ebbene frascheggia- vertu (virtù), owero le disgrazie del vers-tu (ver­ so-tu), ossia colui che lo picchia e che non è nominato, in qual­ siasi modo la frase si enunci.14

12. lvi, p. 76.

13. J. Lacan, Le sémi11aire. Livre X\!II. L' envers de la psychanalyse. 1969-19 70, Seui!, Pa­ ris 1991, p. 73. 14. Id., I/ seminario. Libro XVII. li rovescio della psicoanalifi, cit., p. 76.

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Il traduttore è stato traditore, come si dice in una formula scon­ tata. In questo caso, è singolare osservare come il tradimento si sia consumato a carico della punteggiatura, elemento fonda­ mentale per Lacan. Ma quale punteggiatura è corretta per un te­ sto che è la trascrizione di un seminario orale? Buona domanda. Resta il fatto che l'edizione italiana non riprende l'oralità del se­ minario, ma la sua trascrizione francese, salvo che nella punteg­ giatura. Mi colpisce, soprattutto, che non la riprenda in un pun­ to che trovo centrale in questa frase, quando Lacan dice:-jouons un peu plus-, reso in italiano fra due virgole, invece che fra due trattini. Non è la stessa cosa, perché le due virgole impongono una pausa, quando invece i due trattini mettono in evidenza, fan­ no risaltare, nel momento stesso in cui danno un breve tempo di sosta. La frase in questione potremmo tradurla, come è stato fat­ to, "giochiamo ancora un po"', oppure "divertiamoci un po' di più". C'è tutto il peso di quel "jouons", che, sul piano fonetico e semantico, anche se non etimologico, rimanda a "jouissons", godiamo, e ajouissance, godimento, ciò su cui verte tutto il ca­ pitolo del seminario: lajouissance in quanto sorella della verità. Ebbene, questo godimento incomincia a balenare nella frase, quando i vagoncini si sono precipitati giù dalla prima discesa e l'eccitazione sale con la velocità, wird, vertu, verdit, verdoie, e si alza il ritmo di "battuta", geschlagen, ed è come se Lacan per un momento si tirasse fuori dalla corsa, che pure gli piace folle­ mente, per dire qualcosa come: "Divertiamoci, godiamo un po' di più, alziamo ancora il ritmo". Esce dalla cascata dei signifi­ canti, si guarda attorno, incrocia le espressioni sorprese dei suoi uditori, ne legge la delizia e la rinforza, facendo tutti soggetti di quella corsa, in cui si gode perché si lascia correre la verità sui binari del linguaggio. "Quando dico impiego del linguaggio non voglio dire che noi lo impieghiamo. Siamo noi a essere i suoi impiegati. Il linguag­ gio ci impiega ed è attraverso questo che c'è godimento." 15 La­ can vede gli impiegati al luna park e, come un perfetto imboni15.

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lvi, p. 77.

tore, li invita a fare una corsa sulle montagne russe. Ciascuno fa i conti con le proprie paure e chi accetta di salire si inganna di poter mantenere il controllo. Ma è un'illusione, perché il godi­ mento non può che dividere il soggetto e destabilizzare la pa­ ,, dronanza. "In questo modo, esso contesta ogni pacificazione , dice Lacan. 16 D'altra parte, è vero anche che in questo testo non si entra se non si coglie che Lacan, mentre parla del godimento, mette in scena anche il suo godimento. Come gode Lacan? Staccando il freno del convoglio e lasciandosi cadere giù per le discese del­ l'otto volante, dove trascina un bel numero di presenti. Ma si può dire che sia lui a condurre? Non è forse questa successione ,, di anelli significanti "verdeggianti una catena di linguaggio che non gli appartiene - non più di quanto appartenga ai suoi udi­ tori? Non è la stessa cascata inconscia che scorre migliaia di vol­ te nella nostra giornata, "questa catena bastarda di destino e iner­ zia, di lanci di dadi e stupore, di falsi successi e incontri miscono­ sciuti: che costituiscono il testo abituale di una vita umana?,, .17 Se c'è una forza del testo di Lacan, un motivo per leggerlo, è che spesso, a dispetto anche delle apparenze, Lacan non occu­ pa la posizione del maitre, piuttosto - lo dice più volte a pro­ posito del suo seminario - quella dell'analizzante. Coloro che lo hanno ascoltato nel suo seminario, hanno testimoniato più volte quale straordinaria esperienza di pensiero sia stata. Se­ condo i loro racconti, significava immergersi in un esercizio complesso di decifrazione, ma non di attenzione. Lacan cattu­ rava comunque, attraverso un formidabile estro, coniugato a uno scavo meticoloso nel linguaggio. Non lasciava nessun si­ gnificante cadere lì per caso. Contornava finemente il vuoto che si ripresentava a ogni giro del discorso. Trasmetteva il bat­ tito dell'inconscio. Come se continuasse all'infinito la propria analisi davanti ai suoi uditori.

l6.

l 7.

lvi, p. 82. Ibidem.

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Questa esperienza di ascolto solo in parte si trasferisce sulla pagina scritta, almeno quanto basta per rendere la lettura dei se­ minari di gran lunga più agevole e awincente di quella degli Scrit­ ti.18 A noi restano le trascrizioni- colpevolmente pubblicate con troppi ritardi- che ci restituiscono, oltre all'insegnamento, il de­ siderio inesauribile di Lacan di non ripetersi mai. Anno dopo anno inventava un seminario ogni volta diverso. Non è poca co­ sa in un'epoca in cui il discorso universitario si ricicla sempre uguale a se stesso e tanti professori ripercorrono noiosamente i medesimi corsi senza trasmettere nulla. Per questo mi sembra di poter dire che, alle tre vie classiche indicate da Lacan per la tra­ smissione di un sapere - il carte!, la supervisione, la passe-, bi­ sogna aggiungere il suo stesso seminario. Lacan sa diffondervi un sapere, perché si fa tramite, veicolo di qualcosa. Trasmette un oggetto che non gli appartiene e che non è mai uguale a se stesso, di cui ha solo l'usufrutto e di cui rinuncia a godere in mo­ do assoluto per condividerlo. 19 Forse questo è un buon motivo per leggere Lacan. È diver­ tente prendere posto, accanto a lui, sui vagoncini sconnessi del suo otto volante, non solo per sentire l'ebbrezza della velocità e la vertigine del rischio, ai limiti del senso e dello sganciamento, ma anche per scoprire che, alla fine- fatto un giro e poi un altro e un altro ancora-, non si tratta mai dello stesso giro.

18. T. Lacan, Scritti (1966), 2 voli., Einaudi, Torino 197 4. 19. Quest'ultimo passaggio mi è stato suggerito dalla preziosa lezione tenuta il 23 mag­ gio 2009 dalla dottoressa Sol Aparicio, psicanalista dell'EPFCL (Ecole de Psychanalyse des .

Forums du Champ Lacanien), sul tema della trasmissione e del transfert, nell'ambito del corso dell'ICLeS Ostimto per la clinica dei legami sociali) di Venezia.

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Letture di Lacan MASSIMO RECALCATI

1. In un intervento svolto in occasione di una celebrazione ro­ mana del centenario della nascita di Lacan, Stefano Agosti (ri­ goroso e originale lettore di Lacan) aveva avuto modo di affer­ mare che, se negli anni settanta Lacan era stato un autore alla moda, e per questo non letto, all'inizio del nuovo secolo sareb­ be stato da leggere per la sua attualità. Potremmo in effetti connotare una prima generazione di la­ caniani, analisti e non, come quella dei non-lettori di Lacan. Non è un'accusa impropria ma un dato di realtà che spiega, tra l'al­ tro, come è stato notato da più parti, una certa avversione per il sapere che circondava l'atmosfera della vecchia Ecole freudien­ ne de Paris. I seguaci di Lacan non leggevano gli scritti del loro maestro. Non solo a Parigi ma dappertutto. Lacan stesso in fon­ do se ne lamentava. Non è una cosa rara. Non accade forse sem­ pre nella trasmissione di un insegnamento, quando la fascina­ zione carismatica del maestro è tale da sospingere gli allievi ver­ so una identificazione idealizzante che tende a escludere ogni mediazione simbolica, di cui lo scritto e la sua lettura sono una testimonianza? E per i lacaniani della prima ora questa pratica della non-lettura non veniva in fondo giustificata da Lacan stes­ so quando affermava che i suoi Ecrits erano stati scritti per non essere letti? Non era forse il testo di Lacan a essere costruito in modo tale da segnalare una incompatibilità tra lo scritto e il sen­ so? E questa incompatibilità non autorizzava forse l'evocazione di una dimensione ineffabile, quella della realtà del soggetto del-

aut aut,

3-13. 2009, 19-29

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l'inconscio, refrattaria a ogni forma di sapere? Non era allora più coerente constatare l'impossibilità strutturale di ogni possi­ bile lettura? Individuare la lezione di Lacan come quella di un maestro zen che con il colpo di bastone dei suoi Scritti (illeggi­ bili) mostra all'allievo attonito la distanza che separa irriduci­ bilmente il carattere ineffabile e tortuoso della verità dell'in­ conscio da ogni forma costituita di sapere? In questo contesto la sola possibile lettura del testo di Lacan non era forse una let­ tura random che ne favoriva un uso visionario, teoreticamente confuso, clinicamente, nelle migliori delle ipotesi, inutile o im­ prudente. Prevaleva così lo scimmiottamento grottesco e infa­ tuato (d'odio o d'amore) dello stile - inimitabile - del Maitre. Nell'omaggio che Lacan riserva a Jacques-Alain Miller in aper­ tura di Television - dove lo definisce come uno che "sa legger­ mi" - è esplicita la sua insoddisfazione verso i suoi primi allievi che hanno scelto, diversamente da Miller e diversamente dal­ l'indicazione di Lacan stesso ("Fate come me, non imitatemi!"), la via ipnotica della suggestione collettiva e, di fatto, della non­ lettura come ricaduta sintomatica di quella stessa idealizzazione identificatoria, "priva di mente" come direbbe opportunamen­ te Bion. 2. Una stagione diversa è quella che si inaugura dopo la morte di Lacan avvenuta nel settembre del 1981. Tra la seconda metà degli anni settanta e la prima metà degli anni ottanta si inizia a leggere Lacan. Ma come lo si legge? La lettura prevalente è quella semio­ tica. Il testo di Lacan viene letto attraverso il paradigma della lin­ guistica strutturalista. Al centro la tesi degli anni cinquanta del­ l'inconscio strutturato come un linguaggio, del linguaggio come struttura di separazione, del linguaggio come combinatoria anoni­ ma che determina il soggetto come un effetto di significato. Lo sfondo è quello dell'epistemologia strutturalista che si declina es­ senzialmente come affermazione dell'autonomia dell'ordine sim­ bolico e del potere costituente del significante. Questa lettura pro­ va a recidere le radici dialettiche, fenomenologiche ed esistenziali­ ste, kojèviane, sartriane e heideggeriane del testo di Lacan accen-

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tuando la coupure au manistica promossa dal carattere disantropi­ co del sistema del grande Altro. Le leggi del linguaggio si impon­ gono sulla funzione della parola che appare sempre meno parlan­ te e sempre più parlata dall'Altro. Lacan teorizza la potenza del si­ gnificante alla quale subordina strutturalisticamente l'essere del soggetto. Due limiti evidenti mi pare consegnino questa lettura agli archivi. Il primo consiste nell'amputazione dell'insegnamento di Lacan di tutta la sua produzione teorica che segue -e che anticipa -l'insegnamento di Funzione e campo della parola e del linguaggio in psicoanalisi e del Seminario sulla lettera rubata. In particolare la tesi dell'autonomia dell'ordine simbolico -che in quanto tale non può essere messa in discussione -occulta l'incidenza del registro del reale che dal Seminario VII in avanti occupa gli sforzi teorici e clinici di Lacan e alla cui luce lo stesso primato dell'ordine simbo­ lico acquista necessariamente un nuovo significato. Il secondo ri­ guarda la ricaduta squisitamente clinica di questa lettura che pos­ so qui solo accennare: la pratica dello psicanalista viene concepita come quella del decifratore di enigmi, come una pratica che segue le contorsioni del significante e i suoi molteplici e imprevedibili ef­ fetti di senso. In sostanza una psicanalisi sarebbe niente altro che una lettura enigmistica delle formazioni dell'inconscio. Come si vede, questa prospettiva della pratica analitica è una conseguenza diretta della lettura semiotica del testo di Lacan. È ciò che ha in­ coraggiato anche certi abusi nell'applicazione della psicanalisi la­ caniana alla critica letteraria. Ridurre la pratica clinica alla ricerca della soluzione di enigmi significanti è stata una grave deformazio­ ne dell'insegnamento di Lacan. Un esempio limpido ai miei occhi di quale impatto possa avere la lettura di Lacan nell'orientare la pratica dell'analisi per uno psicanalista che si dichiara lacaniano. Il nesso teoria-praxis mantiene nella psicanalisi un valore indissolu­ bile. Abbiamo allora conosciuto il detestabile cliché dello psicana­ lista lacaniano sprofondato nella sua poltrona e nel suo silenzio che viviseziona il testo del paziente alla ricerca dei tours de farce del senso imposti dalla catena significante e che impassibile attende che la lettera compia il suo percorso arrivando immancabilmente al suo destinatario.

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3. Un'altra lettura di Lacan che segue la stagione della lettura se­ miotica e ne supera decisamente i limiti riduttivistici è la lettura debolista. Secondo questa lettura il testo di Lacan agisce innanzi­ tutto come un correttivo fondamentale nei confronti di ogni ten­ tazione sistematizzante del sapere. Ritorna in questa lettura il vec­ chio motivo già presente nell'Ecole freudienne ma in una versio­ ne assai più interessante. Intanto perché si danno prove signifi­ cative di letture scrupolose e awertite del testo di Lacan. In se­ condo luogo per ciò che questa lettura comporta, owero l'indi­ viduazione costante nel testo di Lacan di una dimensione aperta, insatura, antagonista allo spirito di sistema, non-tutta refrattaria a ogni ideale di padronanza. In terzo luogo per la capacità che es­ sa dimostra di saper interrogare i punti di frattura che l'insegna­ mento di Lacan introduce nei confronti della ragione filosofica classica e di ogni modello antropologico retoricamente umanisti­ co. Per esempio nella differenziazione tra io e soggetto, tra esse­ re e pensiero, tra enunciato ed enunciazione, tra identità e iden­ tificazione, tra desiderio e padronanza, ma anche nella definizio­ ne del concetto di "discorso" come ciò che indebolisce sia la pre­ tesa ideologica di tagl iare fuori il discorso del padrone - da cui invece, secondo Lacan, ogni discorso dipende strutturalmente sia quella di individuare in un solo discorso il discorso di Lacan che invece si mantiene esattamente come quella casella vuota che rende possibile la circolazione dinamica tra i diversi discorsi. La lettura debolista insiste sul Lacan ironico, provocatore, im­ pertinente, capace di ribaltare continuamente gli stessi fonda­ menti del suo pensiero per impedire che vengano congelati in un sistema concettuale costituito una volta per tutte. La matrice teo­ rica di questa lettura si trova nella fenomenologia come interro­ gazione continua dell'esperienza, come esercizio metodico che esclude le categorizzazion i definitive preservando lo scarto che intervalla il già saputo da ciò che incrina la rete costituita dei sa­ peri. Non si deve essere ingenerosi con questa lettura che è un antidoto potente contro ogni tentazione di imbalsamare il pen­ siero di Lacan in un sistema compiuto. In questo senso un altro merito della lettura debolista è quello di sottrarre il testo di La-

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can a ogni procedura di immunizzazione. Questo significa che nella pratica di lettura debolista la purezza del testo di Lacan vie­ ne costantemente contaminata dalla presenza di altre letture che vi si sovrappongono (Husserl, Heidegger, Merleau-Ponty, Sartre, Cartesio, Marx, Lévinas... ). L'effetto è spesso quello di una cir­ colazione di ossigeno teoretico che impedisce alla lettura del te­ sto di ripiegarsi su se stessa in una necrofilia autoreferenziale. Piuttosto la lettura, o meglio, le letture deboliste puntano a far reagire il testo di Lacan in modi sorprendenti contaminandolo, adoperandolo, rendendolo strumento, facendolo utensile. 1 In questa operazione di ibridazione dei confini tra i testi il deboli­ smo resta una pratica di lettura che incrina ogni miraggio di au­ tosufficienza e di consistenza ontologica del testo, miraggio che la natura stessa degli Scritti di Lacan, se non bene intesa, tende invece per altri versi ad alimentare abbondantemente. Ma so­ prattutto essa sa preservare in questo rifiuto di ogni interpreta­ zione chiusa del testo, la questione del soggetto come questione decisiva dell'insegnamento di Lacan, essendo il soggetto il punto di resistenza e il resto irriducibile della violenza impositiva del potere determinante della struttura. Certamente un soggetto sen­ za sostanza, deposto da ogni miraggio di padronanza, indebolito, sowertito, eroso, leso, ma pur sempre soggetto, dipendente ma non riducibile alla catena significante.

4. Al lato opposto della lettura debolista collocherei la lettura genealogica-teleologica del testo di Lacan, o, se si preferisce, la lettura del/' orientamento. In questo caso un nome si impone per­ ché è il solo a praticarla rigorosamente. Si tratta diJ acques-Alain Miller. Questa lettura ha avuto e ha straordinari e indiscutibili meriti. Ma non, come credono certi milleriani ortodossi, perché è la sola lettura possibile del testo di Lacan (anch'io, in passato, in quanto milleriano, ho abbracciato quella fede .. )! Il merito in.

1. Un esempio tra umi, che vog lio qni rendere esp licito p er omaggiarne l'autore, è il gioco di sp onda tra Cartesio, Lacan e Lévinas, intorno al p roblema dell'identificazione, che Pier Ald o Rovatti imbastisce in pagine ricchissime di La posta in gioco. Heidegger, Hu.uerl, il sogge//o, Bompiani, Milano 1987.

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superabile della lettura promossa da Jacques-Alain Miller consi­ ste nel fatto che essa è stata- e continua a essere da più di qua­ rant'anni, in uno sforzo assiduo che da solo meriterebbe un ri­ spetto assoluto-, la prima lettura del testo di Lacan che ne ha ri­ costruito in modo rigoroso e sistematico la genealogia concet­ tuale individuandone l'orientamento di fondo. Impossibile re­ stituire sinteticamente la ricchezza di questa lettura senza essere ingiusti con Miller. In effetti il suo lavoro paziente e coraggioso ha contribuito in modo decisivo a riaprire per molti il testo di Lacan, a sottrarlo alle biblioteche impolverate, a svestirlo del suo abito esoterico, a renderlo, soprattutto per chi pratica la psi­ canalisi lacanianamente, un riferimento essenziale per intendere il senso dell'azione dell'analista nella cura. In questo senso Mil­ ler sta a Lacan, non come Marx sta a Hegel o come Bion sta a Klein, e nemmeno, diversamente da quello che pensano alcuni, come Lacan stesso sta a Freud - in quanto la sua lettura non è un'innovazione che scaturisce da un "ritorno" al testo del mae­ stro-, ma come un suo commento sistematico che intende sta­ bilire l'orientamento di fondo del testo di Lacan come se la pa­ rola del commentatore si identificasse pienamente con quella che parla nel testo. Tuttavia, proprio a causa di tale identificazione questa lettura smarrisce il senso del metodo debolista manifestando fatalmente una sua inclinazione dogmatica. In che cosa consisterebbe questa inclinazione? Nel proporre una convergenza stretta di genealogia e teleologia. In effetti Miller non pone la sua lettura come una pos­ sibile interpretazione del testo di Lacan, tra le altre possibili, ma come ciò che ha il compito di salvaguardare la sua verità più in­ trinseca. In altri termini, questa lettura non si limita a leggere il te­ sto di Lacan ma ne rivendica implicitamente la proprietà. Assume l'essere almeno uno a leggere il testo del maestro- come Lacan gli riconosce apertamente - come l'Uno solo a saperlo leggere. Que­ sto ultimo passaggio non è ovviamente mai dichiarato da Miller, ma è in realtà un effetto evidente che scaturisce dalla sua pratica di lettura. Detenere la proprietà del testo in quanto l'Uno solo a saperlo intendere, significa- ben al di là delle accuse ingiuste che

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gli vengono mosse come quella di avere sequestrato i Seminari del maestro ritardandone la pubblicazione - escludere altre possibili letture del testo di Lacan. E questo comporta inevitabilmente il rischio di un effetto di imbalsamazione dogmatica del testo, non nel senso, come ancora alcuni suoi critici vorrebbero, di una sua semplificazione impropria - un altro indiscutibile merito di Mil­ ler è quel lo di non aver mimato lo stile di Lacan adottando invece uno stile di commento cartesiano, logico e coerente -, ma piutto­ sto quello di confondere la sua interpretazione dell'orientamento del testo come la verità assoluta di quel testo. Quello che si perde è la ricchezza degli zig e zag, degli scarti, delle contraddizioni, dei vuoti e delle lacune che abitano il testo di Lacan. Vorrei fare solo un esempio tra i tanti possibili. È quello di una pagina del Seminario VIII dedicato al problema del transfert. In un'occasione recente ho avuto modo di discuterne pubblica­ mente con lo stesso Miller. Riporto il frammento cruciale di que­ sta pagina: Perché un analista, con il pretesto che è ben analizzato, do­ vrebbe essere insensibile al levarsi di un pensiero ostile che egli può percepire in una presenza di cui bisogna supporre, affinché si produca qualcosa di quest'ordine, che non sia lì come presenza di un malato ma come presenza di un essere che occupa del posto ... Perché deve essere di per sé escluso il moto dell'amore o dell'odio? Perché squalificherebbe l'anali­ sta nella sua funzione? A questo modo di porre la questione non c'è altra risposta che la seguente: in effetti, perché mai? Più l'analista sarà analizzato, più sarà possibile che rispetto al suo partner sia francamente innamorato o francamente in uno stato di avversione, di repulsione, secondo i modi più ele­ mentari del rapporto tra i corpi. Quel che vi dico è un po' to­ sto, ci turba. 2

2. J. Lacan, 2008, p. 203.

Il seminario. Libro

\!III.

Il tmns/ert.

1960-1961

(1991), Einaudi, Torino

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Qui Lacan offre veramente, a mio giudizio, una prova del suo stile di pensiero. Evitare che i propri stessi concetti - intro­ dotti per vivificare il testo di Freud fatto appassire dalla vul­ gata post-freudiana - si irrigidiscano sclerotizzandosi, diven­ tando essi stessi dei cliché, degli stereotipi morti. Se seguiamo questo esempio, si tratta di evitare che la sua tesi relativa al1' affermazione della dimensione simbolico-strutturale e non psicologico-affettiva del transfert non arrivi a sopprimere i ri­ lievi scabrosi, le difficoltà, le zone di opacità che popolano la materia di per sé incandescente del transfert analitico. In que­ sto modo, ponendo la sua tesi dell'analista come funzione sim­ bolica e come oggetto marcato da una disparità fondamentale rispetto alla simmetria immaginaria dell'intersoggettività - te­ si cruciali del Seminario VIII-, Lacan non cancella affatto il problema spinoso dell'incarnazione soggettiva di questo og­ getto nella relazione con il paziente. Egli mantiene piuttosto uno spazio insaturo dentro il quale la questione dell'amore (o dell'odio) e delle loro incarnazioni transferali non può essere risolta con una pura procedura di logificazione. L'analista be­ ne analizzato sarà in grado di rispondere con un amore o un odio franco al suo paziente, afferma Lacan, sconcertando pro­ babilmente il suo uditorio. Questa tesi - che a mio giudizio ri­ prende implicitamente un articolo di Winnicott titolato L' o­ dio nel contro-trans/ert3 - urta manifestamente contro la tesi dell'impassibilità apatica dell'analista e della sua funzione sim­ bolica. Ma non è forse questa la grandezza di Lacan? Non li­ mitarsi a ordinare il campo della pratica analitica, a ritrovare il filo dell'esperienza freudiana smarritosi nei labirinti imma­ ginari di molto post-freudismo, ma preservare il carattere te­ so, scabroso, incerto e privo di garanzie del desiderio dell'a­ nalista. Affermare l'irriducibilità del transfert a un fenomeno immaginario di immedesimazione reciproca (transfert-contro­ transfert) e rivalutarne la sua strutturazione simbolica non si-

3. D.W. Winnicou, L'odio nel controtrall/ert (1947), in Martinelli, Firenze 1975, pp. 234-245.

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Dalla pediatria alla psicoanalisi,

gnifica affatto - così traduco l'importanza di questo passaggio - dissolvere il peso dell'incarnazione inevitabilmente sogget­ tiva della funzione simbolica dell'analista. Anzi. Una volta La­ can ha saputo sintetizzare luminosamente questo peso dell'in­ carnazione come un tacere dell'analista sull'amore.4 Questa pagina per Miller è un dettaglio che non restituisce l'orientamento di fondo del pensiero di Lacan. Non è una pagi­ na che merita di essere commentata perché non risponde alla lo­ gica teleologica dell'orientamento. Tuttavia resta il fatto che que­ sta pagina arriva come una meteora nel cielo ordinato della let­ tura milleriana. Ma il testo di Lacan non è forse zeppo di queste meteore? E non si sopprime proprio l'essenziale pensando di sopprimere l'inessenziale? Non è, tra l'altro, proprio questo che ci insegna la pratica freudiana della psicanalisi? Diversamente, la lettura dell'orientamento ricupera tutto dentro la potenza di un movimento teleologico. Essa isola sì un Lacan contro Lacan, un Lacan critico di se stesso, diviso, ma so­ lo per promuovere l'ultimo Lacan come esito (scabroso e indi­ gesto) di un itinerario che viene restituito come una sorta di asce­ si eroica verso il reale.

5. Ciò che, a mio giudizio, rende invece irresistibile il testo di Lacan è che non c'è mai in esso un avanzamento che non trat­ tenga in qualche forma ciò che lascia anche cadere alle sue spal­ le. Il suo movimento non è mai progressivo ma tendenzialmente spiraliforme. È un avanzamento ramificato. Pensiamo alla que­ stione del riconoscimento, alla figura hegelo-kojèviana del desi­ derio umano come desiderio di riconoscimento. Lacan non si li-

4. In uno dei passaggi più personali di Lacan (per me tra i più commoventi) che de­ scrive il suo incontro con la psicanalisi e il suo l avoro di analista e che qui riporto per inte­ ro: "Chi vi parla è entrato nella psicoanalisi molto tardi [. . .] ma è nella psicoanalisi già da parecchio tempo per p oter dire che presto avrà passato metà della sua vita ad ascoltare vi­ te che si raccontano, che si confessano. Egli ascolta; io ascolto. lo non ho niente per p oter misurare il valore delle vite che da quattro settenari ascolto confessarsi dinnanzi a me. E uno degli scopi del silenzio che costituisce la regola del mio ascolto è proprio quello di ta­ cere l'amore", J. Lacan, Conferenze sul!' etica della psicoanalisi ( 1960), "La Psicoanalisi", 16, 1994,p. 16.

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mita a introdurre un taglio epistemologico rispetto a questa pro­ blematica - centralissima nei primi anni cinquanta - con il pas­ saggio verso le leggi del linguaggio, l'autonomia dell'ordine sim­ bolico ecc., ma vi ritorna incessantemente - come potrebbe, tra l'altro, il lavoro dell'analista prescindere dalla legge della parola come legge del riconoscimento? - lavorandola insistentemente, dando uno spessore continuamente rinnovato a questa figura. Si pensi a come essa intervenga obliquamente nella definizione del padre come colui che sa desiderare la propria donna, nel Semi­ nario su Joyce - versione libidica del riconoscimento. Oppure si pensi alla questione del Padre in quanto tale. In Lacan, anche nel cosiddetto "ultimo Lacan", non c'è solo un movimento di oltre­ passamento dell'orizzonte edipico della psicanalisi che compor­ terebbe, nella lettura teleologica dell'orientamento, una sop­ pressione del Padre nella sua funzione di incarnazione e di testi­ monianza del desiderio, ma c'è anche una riarticolazione conti­ nua dell'importanza della testimonianza paterna che tende a mio giudizio ad accentuarsi proprio là dove, almeno sul piano tra­ scendentale della struttura, si accentua drasticamente la sua più radicale evaporazione. 6. Perché Lacan attirava e continua ad attirare a sé molte per­ sone? Perché sapeva offriva un sapere incarnato, non un sape­ re morto. Perché, più precisamente, sapeva parlare dell'impos­ sibile. E sapeva parlare dell'impossibile perché sapeva incar­ narlo sottraendolo alle pure disquisizioni dei logici - che pure conosceva bene. Più precisamente ancora: egli sapeva parlare dell'impossibile incarnandolo nell'inesistenza del rapporto ses­ suale. Questo movimento di incarnazione del sapere investe ov­ viamente anche la stessa pratica della lettura. Come preservare la spaziatura necessaria per non cristallizzare l'esperienza del testo di Lacan in schemi concettuali rigidi, privi di flessibilità, in un funzionamento macchinico del suo ordinamento orienta­ to? Come tenere insieme l'importanza dell'orientamento con quella degli scarti che la lettura orientata tende inevitabilmente a produrre?

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La clinica, per essere praticata eticamente, esige una lettura soggettivata del testo. È il grande insegnamento di Freud al qua­ le Lacan è sempre rimasto fedele: lo psicanalista per quanto de­ ve avere un sapere (universale) sulla struttura deve essere in gra­ do di ascoltare il soggetto nella sua più totale incomparabilità. Assenza, dunque, di ogni pensiero protocollare, di ogni confor­ mismo teorico, di ogni scolastica concettuale; l'atto dell'analista non si sostiene sull'Altro - il suo sapere, la sua potenza immagi­ naria, la sua garanzia - perché l'Altro non esiste, ma awiene so­ lo sull'abisso della sua assenza, della sua inconsistenza. Non è un atto di padronanza, ma un atto che sorge sullo sfondo della mancanza dell'Altro, dunque di una non-padronanza davvero radicale. Non è forse questo che insegna radicalmente il testo di Lacan, non è il suo un costeggiamento costante dell'abisso del­ l'inesistenza dell'Altro? Per questo, a suo modo, Freud pensava che le innovazioni concettuali fossero necessarie innanzitutto per provare a tradurre ciò che l'esperienza dell'analisi sorpren­ dentemente insegnava. Come psicanalista non si può davvero leggere Lacan senza questo rimando continuo all'esperienza del1'analisi, dunque a come ciascuno ha potuto incontrare e sog­ gettivare l'abisso della mancanza nell'Altro. Sul piano della let­ tura questo significa non accettare le scorciatoie che la lettura dell'orientamento fatalmente suggerisce - anche a dispetto del­ le intenzioni del suo autore-, ma rinnovare, uno per uno, lo sfor­ zo di un accesso singolare, soggettivato, incarnato, al testo. Solo nella solitudine che comporta questo passaggio uno psicanalista può ritrovare, ripercorrendolo, quello stesso movimento etico che ha condotto Lacan stesso a ripensare il suo rapporto con la causa freudiana. Solo soggettivando l'eredità di questa solitudi­ ne si può essere adeguati al rigore etico che la lettura del testo di Lacan impone.

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Malgrado tutto: l'etica di Lacan SLAVOJ

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d è per il fatto che sappiamo, meglio di coloro che ci hanno preceduto, ri­ conoscere la natura del desiderio che è al centro di tale esperienza, che una revisione etica è possibile, che un giudizio etico è possibile, il quale ripresenta la questione nel suo valore di Giudizio Universale - Avete agito conforme­ mente al desiderio che vi abita?"1 Ecco la massima lacaniana dell'etica della psicanalisi: "L'uni­ ca cosa di cui si possa essere colpevoli [.. .] [è] di aver ceduto sul proprio desiderio".2 Questa massima, per quanto all'apparenza semplice e chiara, risulta sfuggente quando si tenti di specificar­ ne il significato: in che posizione si colloca rispetto alla panoplia contemporanea delle opzioni etiche? Sembra adattarsi a tre del­ le versioni principali: edonismo liberale tollerante, etica immo­ rale e "buddismo occidentale" .3 Le analizzeremo una a una. Prima di tutto, va ribadito categoricamente che l'etica lacania­ na non è un'etica edonistica: qualunque cosa significhi "non ce­ dere sul tuo desiderio", non significa certo dare libero corso a ''

E

Titolo originale: Agai11st Alt Odds: Lacan's Ethic s. 1. J. Lacan, Il seminario. Libro VII. L'etica della psicoanalisi. 1959-1960 (1986), Einau­ di, Torino 1994, p. 394. 2. lvi, p. 401. 3. Il problema grosso è che la psicanalisi sembra potersi adattare a tutte le istanze eti­ che contemporanee d ominanti, le tre summenzionate piìt altre due: letica della responsa­ bilità dell'Alterità di Derrida-Lévinas e la difesa conservatrice d el bisogno di riaffermare la legge simbolica (intesa come autorità paternalistica) come unico mezzo per risolvere l' im passe del pennissivismo edonistico.

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quello che Freud chiamava "principio di piacere", il funziona­ mento dell'apparato psichico che ha di mira il conseguimento del piacere. Per Lacan, l'edonismo infatti è il modello di cosa signifi­ chi posporre il desiderio in ragione di "compromessi realistici": per ottenere il massimo del piacere, devo calcolare ed economiz­ zare, sacrificare i piaceri a breve termine per quelli a più lungo termine. Non c'è rottura fra il principio di piacere e la sua con­ troparte, il "principio di realtà": il secondo (costringendoci a fa­ re i conti con i limiti della realtà che impediscono il nostro acces­ so diretto al piacere) è un'emanazione interna del primo. Anche il buddismo (occidentale) non è immune da questo rischio: lo stes­ so Dalai Lama ha scritto che "lo scopo della vita è essere felici" .4 Ciò non è vero per la psicanalisi, bisogna aggiungere. Nel discor­ so kantiano, il dovere etico funziona come un elemento estraneo traumatico che dall'esterno disturba l'equilibrio omeostatico del­ l'individuo, che spinge in modo intollerabile il soggetto ad agire "al di là del principio di piacere", ignorando la ricerca dei piace­ ri. Per Lacan, lo stesso discorso vale per il desiderio, che è il mo­ tivo per cui il godimento non è qualcosa che giunge naturalmen­ te al soggetto come realizzazione del suo potenziale intrinseco, ma è il contenuto di un ordine traumatico del super-Io. Se l'edonismo va rifiutato, possiamo dunque affermare che l'etica lacaniana è una versione dell'eroica etica immorale, che ci ordina di rimanere fedeli a noi stessi, di insistere nella nostra scelta al di là del bene e del male? Pensiamo a Don Giovanni nell'ultimo atto dell'opera di Mozart, quando il convitato di pie­ tra lo mette di fronte a una scelta: è vicino alla morte, ma se si pente dei suoi peccati può ancora venire redento; se, invece, non rinuncia alla sua vita peccaminosa, sarà bruciato all'inferno per sempre. Don Giovanni rifiuta eroicamente di pentirsi, pur es­ sendo perfettamente consapevole di non avere niente da guada­ gnare dalla sua ostinazione, se non la sofferenza eterna. Perché lo fa? Owiamente non per una qualche convenienza o per una promessa di beni futuri. L'unica spiegazione è la sua profonda 4. uForeword by the Dalai Lama", in M. Epstein, Thoughts Without a Thùrker, Basic Books, New York 1996, p. XIII.

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fedeltà alla vita dissoluta che ha scelto. È un chiaro caso di etica immorale: la vita di Don Giovanni è stata sicuramente immora­ le, tuttavia la sua fedeltà a se stesso dimostra che egli era immo­ rale non per piacere o per profitto, ma per principio, che agiva come agiva per una scelta fondamentale. O, per portare un esem­ pio al femminile, prendiamo la Carmen di Bizet. Carmen è, ov­ viamente, immorale (instancabilmente promiscua, rovina la vita degli uomini, distrugge le famiglie), ma ciononostante profon­ damente etica (fedele alla strada scelta, fino in fondo, anche quando questa significa morte certa). Friedrich Nietzsche (grande ammiratore di Carmen) fu il filo­ sofo dell'etica immorale, e dobbiamo sempre ricordare che il ti­ tolo del capolavoro di Nietzsche è "genealogia della morale", non "dell'etica": non sono la stessa cosa. La moralità riguarda la sim­ metria delle mie relazioni con gli altri esseri umani; il suo livello zero è "non fare agli altri quello che non vuoi sia fatto a te'';5 l'e­ tica, al contrario, ha a che fare con il rapporto con me stesso, con la fedeltà al mio desiderio. Sul risvolto di copertina dell'edizione del 1939 di Materialismo ed empiriocriticismo di Lenin, Stalin ave­ va scritto la seguente nota con una matita rossa:

1) Debolezza 2) Pigrizia 3) Stupidità Queste sono le uniche tre cose che possano essere definite vi­ zi. Qualunque altra cosa, in assenza delle summenzionate, è senza dubbio virtù. NB! Se un uomo è 1) forte (spiritualmente) 2) attivo, 3) sve­ glio (o capace), allora è buono, senza riguardo per qualunque altro "vizio"! 6 5. È il motivo per cui la migliore risposta psicanalitica a questa massima morale è im­ maginare che cosa avrebbe potuto significare per un masochista prometterci di seguire ta­ le massima nei suoi rapporti con noi. 6. Pubblicato per la prima volta sulla "Pravda", il 21 dicembre 1994. Oltre a queste note, Stalin aveva appuntato, con ima matita blu: "Ahimè! Cosa facciamo vedere, cosa fac­ ciamo vedere!", citato in D. Rayfield, Stalin e i suoi boia. U11 analisi del regime e della psi­ cologia stali11isti (2004), Garzanti, Milano 2005, p. 19.

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Questa è la formulazione più concisa possibile dell'etica immora­ le; di contro, una creatura debole che obbedisce alle regole mora­ li e si preoccupa delle proprie colpe, rappresenta una moralità non etica, il bersaglio della critica nietzschiana del risentimento. C'è, tuttavia, un limite allo stalinismo: non che è troppo immorale, ma che è segretamente troppo morale, ancora legato alla fi gura del grande Altro. In quella che probabilmente è la più intelligente le­ gittimazione del terrore stalinista, Umanismo e terrore di Maurice Merleau-Ponty del 1946, il terrore viene giustificato come una specie di scommessa sul futuro, simile alla teologia di Blaise Pa­ scal che ci invita a scommettere su Dio: se alla fine l'orrore di og­ gi ci porterà allo splendente futuro comunista, allora questo risul­ tato retroattivamente redimerà le terribili azioni che un rivoluzio­ nario deve compiere oggi. Sulla stessa linea, anche qualche stali­ nista, se costretto (generalmente in via informale) ad ammettere che molte vittime delle purghe erano innocenti ed erano state ac­ cusate e uccise perché "il partito aveva bisogno del loro sangue per rafforzare la sua unità", immaginava il momento futuro della vittoria finale nel quale tutte le vittime necessarie sarebbero state riabilitate, e la loro innocenza e il loro alto sacrificio per la Causa sarebbero stati riconosciuti. Questo è ciò che Lacan, nel semina­ rio sull'etica, definisce "prospettiva del Giudizio finale", una pro­ spettiva ancora più evidente in uno dei termini chiave del discor­ so stalinista, quello della "colpa oggettiva" e del "significato og­ gettivo" dei tuoi atti: puoi anche essere una persona onesta che ha agito con le migliori intenzioni, ciononostante sei "oggettivamen­ te colpevole" se i tuoi atti sono al servizio delle forze reazionarie; owiamente, è il Partito che ha accesso diretto a quello che i tuoi atti "significano oggettivamente". Ancora una volta, non c'è solo la prospettiva del Giudizio finale (che dà forma al "significato og­ gettivo" dei nostri atti), ma anche il fatto che chi agisce nel pre­ sente possiede già ora la capacità unica di giudicare gli eventi at­ tuali, e agisce da questa prospettiva.7 7. Lo stesso succede per quell'edonista ateo radicale del marches e de Sade: i lettori più acuti de i suo i scritti (come Pierre Klossowski) avevano pensato g ià da tempo che la pul­ sione a godere che s pinge il libertino s adi ano implichi un riferimento surrettizio a una di-

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Possiamo comprendere ora perché il motto lacaniano "il n'y a pas de grand Autre", "non c'è grande Altro", ci porti al nucleo ve­ ro e proprio della problematica etica: esso esclude proprio la "pro­ spettiva del Giudizio Finale", l'idea che da qualche parte - anche se solo come punto di riferimento virtuale, anche se amm ettiamo che sarà sempre al di fuori della nostra portata e che non potrem­ mo mai superare il giudizio reale - ci deve essere uno standard che ci permetta di misurare i nostri atti e mostrare il loro "vero signifi­ cato", il loro reale statuto etico. Anche la nozione di Jacques Der­ rida di "decostruzione come giustizia" sembra fare riferimento a una speranza utopica che nutre lo spettro della "giustizia infinita", sempre posposta, sempre a venire, ma comunque presente come orizzonte fondamentale della nostra azione. La durezza dell'etica lacaniana consiste nel fatto che essa ci chiede di abbandonare completamente questo riferimento, e la sua scommessa ulteriore è che questa rinuncia non ci porti a un'in­ sicurezza etica o al relativismo, o addirittura a minare le fonda­ menta dell'azione etica, ma che rinunciare alla garanzia di un qualche grande Altro sia la condizione di una vera etica autono­ ma. Ricordiamoci che il sogno dell'iniezione di Irma, che Freud utilizzò come caso esemplare per illustrare la sua procedura di analisi dei sogni, è un sogno sulla responsabilità (la responsabi­ lità di Freud per il fallimento nel curare Irma). Questo solo fatto indica come la responsabilità sia un concetto freudiano impor­ tantissimo. Ma come dobbiamo concepirla? Come evitare il frain­ tendimento comune che il messaggio etico di fondo della psica­ nalisi sia, propriamente, quello di sollevarmi dalla mia responsa­ bilità, di gettare il discredito sull'Altro: "Siccome l'inconscio è il discorso dell'Altro, non sono responsabile delle cose cui lui dà forma, è il grande Altro che parla attraverso di me, sono solo un suo strumento"? Lo stesso Lacan ha mostrato come uscire da questo vicolo cieco facendo riferimento alla filosofia di Kant qua­ le antecedente cruciale dell'etica della psicanalisi.

vinità nascosta, quella che Lacan chiama "l'Essere supremo del Male", chiede di venire nmrito con la sofferenza degl i innocenti.

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Dio oscuro che

La nozione di grande Altro mancante apre una nuova stra­ da per affrontare il tema del fantasma: il fantasma è proprio un tentativo di riempire questa mancanza dell'Altro, cioè di ridare consistenza al grande Altro. Per questo motivo, fanta­ sma e paranoia sono strettamente collegati: la paranoia è, fon­ damentalmente, credere in un "Altro dell'Altro", in un Altro che, nascosto dietro l'Altro della struttura sociale evidente, programma ( quelli che ci sembrano essere) gli effetti impre­ vedibili della vita sociale, e in tal modo garantisce la sua con­ sistenza: dietro il caos del mercato, la degenerazione della mo­ rale ecc., c'è una strategia premeditata, per esempio il com­ plotto ebraico (o, cosa che oggi affascina molto di più, il complot­ to dei Templari). Questa istanza paranoica ha acquisito una spinta ulteriore dalla digitalizzazione contemporanea delle no­ stre vite: se la nostra intera esistenza (sociale) viene progressi­ vamente spostata fuori, materializzata nel grande Altro della rete di Internet, è facile immaginare un programmatore mali­ gno che cancella la nostra identità digitale privandoci in tal modo della nostra esistenza sociale, trasformandoci in non­ persone. L'unico altro pensiero che accetta fino in fondo una tale incom­ pletezza della realtà e l'inesistenza del grande Altro è il buddi­ smo: dobbiamo pensare che la soluzione vada trovata nell'etica buddista? Ci sono alcuni argomenti a favore di questa opzione. Non ci conduce forse il buddismo a una sorta di "attraversamento del fantasma", a superare le illusioni sulle quali si fondano i nostri desideri e a confrontarci con il vuoto che sta al di là di ogni og­ getto di desiderio? Inoltre, la psicanalisi ha in comune con il buddismo il fatto di sottolineare che non c'è alcun Io inteso co­ me agente attivo della vita psichica: non ci stupisce che Mark Epstein, nel suo libro sul buddismo e la psicanalisi, citi positiva­ mente il breve scritto del primo Lacan sulla "fase dello spec­ chio", con la sua nozione di Ego come oggetto, come risultato dell'identificazione del soggetto con l'immagine fissa idealizzata

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di se stesso:8 l'Io è un'illusione-feticcio che ci sia un nucleo so­ stanziale della soggettività laddove in realtà non c'è nulla. Que­ sto è il motivo per cui, nel buddismo, la questione non è quella di trovare il "vero Se stesso", ma di accettare il fatto che non ce n'è uno, che l"'Io" in quanto t ale è un'illusione, un'impostura. Per esprimerci in termini più psicanalitici, non solo bisogna ana­ lizzare le resistenze, ma, in fin dei conti, "non c'è nient'altro da analizzare se non le resistenze: non c'è alcun io vero che aspetta di spiccare il volo" .9 L'Io è una metafora fuorviante, falsa, e quin­ di inutile per il processo di consapevolezza e conoscenza: quan­ do ci destiamo alla conoscenza, comprendiamo che tutto ciò che accade in noi è un flusso di "pensieri senza pensatore". Va da sé che è impossibile riuscire a capire chi o cosa siamo, dato che non siamo nulla "in realtà", solo un vuoto al centro del nostro esse­ re. Di conseguenza, nel processo dell'illuminazione buddista, non abbandoniamo questo mondo terrestre per un'altra realtà vera, ma accettiamo semplicemente il suo carattere illusorio, non sostanziale, transitorio; portiamo a termine il processo dell'"an­ dare a pezzi senza disintegrarsi". Come per gli gnostici, anche per il buddismo l'etica è in fin dei conti una questione di cono­ scenza e ignoranza: la nostra bramosia (desiderio) - il nostro at­ taccamento ai beni terreni - è condizionata dalla nostra igno­ ranza, tanto che la liberazione giunge dalla conoscenza corretta. Il significato dell'amore cristiano, al contrario, è che si tratta di una decisione non fondata sulla conoscenza (vera o falsa che sia): il cristianesimo rompe dun que con l'intera tradizione del pri­ mato della conoscenza che si estende dal buddismo, attraverso lo gnosticismo e fino a Spinoza. Fondamenta le per il buddismo è lo spostamento riflessivo dall'oggetto a chi lo pensa: prima, isoliamo la cosa che ci turba, la causa della sofferenza; poi, cambiamo non l'oggetto ma noi stessi, il modo in cui ci rapportiamo a (quello che ci appare co­ me) la causa della nostra sofferenza: "Quello che è stato distrut-

8.

9.

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M. Epstein, Thoughts Without lvi, p. 121.

a

Thi11ke1-, cit., p. 152.

to era solo la falsa visione dell'io. Ciò che è sempre stato illuso­ rio è stato compreso come tale. Non è cambiato nulla tranne la prospettiva dell'osservatore" .10 Questo cambiamento comporta un grande dolore, non è solo una liberazione, un passo all'inter­ no dell'incestuosa beatitudine del tristemente famoso "senti­ mento oceanico", ma anche l'esperienza violenta del sentirsi mancare il terreno sotto i piedi, dell'essere privati del livello di esistenza più famigliare. Questo è il motivo per cui il migliore punto di partenza per l'illuminazione buddista è quello di con­ centrarsi sul più elementare sentimento di "innocenza tradita", quello di patire un'ingiustizia senza motivo (il tema preferito dei pensieri narcisistico-masochisti): "Come può fare questo a me? Non merito di venir trattato così". 11 Il passo successivo è di ope­ rare lo spostamento sull'Ego stesso, sul soggetto di queste emo­ zioni dolorose, rendendo chiaro e tangibile il suo statuto flebile e irrilevante: l'aggressione contro l'oggetto che causa la soffe­ renza va rivolta contro lo stesso Io. Non ripariamo il danno: in­ tuiamo la natura illusoria di ciò che dobbiamo riparare. In cosa si differenziano, allora, il buddismo e la psicanalisi? Per rispondere a questa domanda, dobbiamo affrontare lenigma di fondo del buddismo, il suo punto cieco: come è potuto succedere che siamo caduti nel samsara, la Ruota della Vita? La domanda da porre è esattamente il contrario del tema principale del buddismo: come possiamo rompere la Ruota della Vita e raggiungere il nirva­ na? (Questo capovolgimento è analogo a quello, operato da He­ gel, della classica questione metafisica: come possiamo attraversa­ re le false apparenze e raggiungere la vera realtà? Per Hegel, la do­ manda è, al contrario, come ha fatto lapparenza a emergere dalla realtà?) La natura e l'origine dell'impeto grazie al quale il deside­ rio, il suo inganno, è emerso dal Vuoto, è il grande punto di do­ manda al centro dell'edificio buddista: parrebbe un atto che "rom­ pe la simmetria" ali' interno del nirvana stesso e in tal modo fa ap­ parire qualcosa dal nulla (un'altra analogia con la fisica quantisti-

lO.

11.

lvi, lvi,

p.

83.

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ca, con il suo concetto di rompere la simmetria). La risposta freu­ diana è la pulsione: ciò che Freud chiama pulsione non è, come potrebbe sembrare, la Ruota della Vita buddista, la bramosia che ci rende schiavi di un mondo di illusioni. La pulsione, al contrario, prosegue anche quando il soggetto ha "attraversato il fantasma" e l'ha fatta finita con la brama illusoria dell'oggetto (perduto) del desiderio. Di nuovo, una sorprendente analogia con le "scienze dure" può aiutarci. Il paradosso della pulsione viene descritto perfet­ tamente dall'ipotesi del "campo di Higgs", ampiamente discus­ so nella fisica contemporanea delle particelle. Lasciati al loro corso in un ambiente al quale essi possano passare la loro ener­ gia, tutti i sistemi fisici raggiungeranno progressivamente uno stato di energia più basso; in altri termini più massa prendiamo da un sistema, più bassa sarà l'energia, finché raggiungeremo lo stato di vuoto nel quale l'energia è zero. Ci sono, tuttavia, feno­ meni che ci spingono a ipotizzare che ci deve essere qualcosa (una qualche sostanza) che non possiamo sottrarre a un dato si­ stema senza aumentare l'energia di quel sistema. Questo "qual­ cosa" è chiamato il campo di Higgs: quando questo campo ap­ pare in un contenitore in cui è stato fatto il vuoto e la cui tem­ peratura è stata abbassata il più possibile, la sua energia sarà di­ minuita ulteriormente. Il "qualcosa" che appare in tal modo è qualcosa che contiene meno energia del niente, un "qualcosa" che è caratterizzato da un'energia completamente negativa: in breve otteniamo la versione fisica di come "qualcosa appaia dal nulla". Questo è quello che ha in mente Lacan quando sottolinea la differenza tra la pulsione di morte freudiana e il cosiddetto "prin­ cipio del nirvana" secondo cui ogni sistema vivente tende al li­ vello minimo di tensione, e in ultima istanza alla morte. Il "nul­ la" (il vuoto, l'essere privati di ogni sostanza) e il livello più bas­ so di energia paradossalmente non coincidono più; "costa me­ no" (al sistema costa meno energia) rimanere nel "qualcosa" che sfociare nel "nulla", al livello più basso della tensione o nel vuo­ to, nella dissolu zione di tutto il sistema. È questa la distan za che

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sorregge la pulsione di morte (cioè la pulsione in quanto tale, siccome "ogni pulsione è virtualmente una pulsione di morte"):12 lungi dall'essere la stessa cosa del principio del nirvana (tendere alla dissoluzione di ogni tensione vitale, la volontà di ritornare al nulla originario), la pulsione di morte è la tensione che persiste e insiste al di là e contro il principio del nirvana. In altre parole, lungi dall'essere opposto al principio di piacere, il principio di nirvana è la sua espressione più alta e più radicale. In questo sen­ so, la pulsione di morte rappresenta il suo esatto opposto, la di­ mensione del "non morto", della vita spettrale che insiste al di là della morte (biologica).

Traduzione dall'inglese di Damiano Cantone

12.J. Lacan, l/ seminario. Lihl"o \111. L'etica della psicoanalr:ri, cit., p. 317.

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A cosa può servirci l'objet (petit) a RAOUL KIRCHMAYR

ale la pena di leggere oggi Lacan, pure con quel tanto di godimento che la pena comporta? Rispondo di sì. Per una ragione, principalmente. Perché ai miei occhi Lacan è l'artefice di una importante invenzione concettuale, quella dell'objet (petit) a, affermazione che certo non è nuova, se non altro perché, in modo autorevole, già pronunciata.1 Ma in questa occasione, ri­ tornando sulla portata dell'objet a vorrei anzitutto sottolinearne la fecondità per i discorsi e i saperi che non sono quelli della psi­ canalisi. In breve, se l'invenzione concettuale di Lacan è stata un punto di svolta nel suo percorso intellettuale, e ha così generato consistenti effetti tanto sul piano teorico quanto su quello del­ !' indagine clinica in psicanalisi, essa si può rivelare uno straor­ dinario descrittore per tutti coloro che non hanno smesso di con­ siderare la psicanalisi una risorsa cui attingere, vuoi per la rifles­ sione sul proprio specifico disciplinare, vuoi per svolgere un di­ scorso critico sul presente che appare tanto più difficile quanto più questo presente è, oggi, a pezzi.

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1. Attorno al soggetto, eppure dentro. Lungo il percorso che lo ha portato a dare sempre maggiore consistenza a questa sua inven1. DaJ.-A. Miller, in part icolare in L'Autre qui n'existe pas et ses comités d'éthique, cor· so dell'ori encamento lacaniano tenmo all'Univers ità di Parigi VII, 1996-1997 (del quale è stata pub blicata solo la lezione del 4 dicembre 1996, in La Cause/reudie1111e, Navarin-Seuil, Paris 1997, pp. 3-20).

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zione concettuale, credo che la definizione più interessante che Lacan abbia dato all'objet a sia quella di "resto" (reste), parola che apre un intero ventaglio di possibilità teoriche e di descri­ zione dei fenomeni empirici;2 al tempo stesso, l'objet a come re­ sto, scarto, residuo, può essere fatto incrociare con diverse piste filosofiche che, in diversa misura hanno segnato il pensiero con­ temporaneo: per esempio, la parte maledetta di Bataille, gli strac­ ci e le rovine di Benjamin, l'impossibile di Derrida. Ma, anzitut­ to, la nozione di resto è una chiave importante per comprende­ re in che modo Lacan abbia man mano riarticolato il modo di pensare il soggetto per la psicanalisi, spostando gradualmente il fuoco teorico da una concezione prevalentemente di stampo neohegeliano e dialettico - che marca i primi scritti e i seminari degli anni cinquanta - fino all'elaborazione delle nozioni di go­ dimento e di sembiante che ritmano i suoi ultimi discorsi e che tengono viva l'interrogazione sul soggetto ben al di là di una sua "scomparsa" decretata in più modi, tra gli anni sessanta e set­ tanta, da uno strutturalismo che Lacan tuttavia aveva attraver­ sato, assunto, rielaborato. Nel progressivo farsi della teoria - con gli spostamenti, le ri­ prese, le specificazioni che Lacan ha operato molto frequente­ mente 1 objet a guadagna dunque uno statuto speciale. Nato come modo per designare l'altro - nel senso dell'altro soggetto all'interno di una relazione duale3 -1'objet a si è in seguito spe­ cificato come un oggetto dotato della peculiarità di essere inve­ stito dal desiderio soggettivo in quanto sua causa (è l'aga/ma di cui Platone ci dice essere portatore Socrate e che Lacan, nel se­ minario dedicato al transfert, identifica proprio nell'objet a).4 Così, l'objet a indica, raggruppandoli, l'insieme degli oggetti pul­ sionali della psicanalisi freudiana - rispetto ai quali Lacan ag-

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2. L'objet a viene formalizzato da Lacan come resto a panire dai seminari del 19621963 (Il seminario. Libro X. L' angoscia, 2004, Einaudi, Torino 2007) e del 1964 (Il semùta­ rio. Libro XI. I quattro co11cetti /011damentali della psicoa11alisi, 1973, Einaudi, Torino 2003 ). 3. Cfr. lo "schema L" o lo "schema Z" che funge da matrice per la comprensione dei rapponi tra il soggetto (barrato in quanto significante), l'ordine simbolico (il grande Al­ tro), l'altro soggetto O'a piccolo) e l'inconscio. 4. J. Lacan, Il seminario. Libro VIII. Il transfert. 1960-1961 (1991 ), Einaudi, Torino 2008.

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giunge la voce e lo sguardo - ma rispetto a essi mostra un'ecce­ denza che non è formalizzabile (se non tutt'al più come pertur­ bazione): è la punta di emergenza del reale che squarcia il velo delle parole e delle immagini ed è il baricentro per la costruzio­ ne del fantasma.5 Da questa angolatura, esso è strettamente le­ gato al sentimento dell'angoscia6 che espone il soggetto (parlan­ te) all'apprensione del suo essere finito e mortale.7 Se consideriamo il Seminario VII come un primo importante punto di svolta nel farsi della teoria lacaniana, si può vedere che l'objet a acquisisce una sempre maggiore consistenza da quando Lacan riconosce che l'oggetto pulsionale non coincide con la sua eccedenza, che egli - con un prestito heideggeriano - chiama das Ding, la "Cosa". La "Cosa" si colloca in uno spazio soggettivo che inizia a disegnarsi topologicamente: né dentro né fuori, ma un fuo­ ri posto nel dentro, essa costituisce una intima esteriorità, una ex­ timità nel cuore del soggetto. Reversibilmente l'interiorità si tro­ va esteriorizzata, ed è possibile ritrovare l'inconscio fuori dal sog­ getto, nelle forme della rappresentazione della "realtà". Dall' ab­ bozzo di tale struttura topologica fino agli ultimi seminari, dove il "nodo borromeo" concatena le tre dimensioni di reale, simbolico e immaginario, l' objet a si configura pertanto come quel pivot me­ diante il quale Lacan sowerte la struttura del soggetto e, di rifles­ so, il modo con cui la filosofia ha pensato quest'ultimo, limitan­ dosi a conservare lo schema bipolare soggetto-oggetto quando, per contro, la psicanalisi lacaniana spinge a complicarlo ricono­ scendo la dipendenza del soggetto dai due processi di separazione (rispetto alla "Cosa") e di causazione (del desiderio) che lo metto­ no in relazione con l'objet a. Parallelamente, la "realtà esterna" non può più essere vista come una trama coerente, ma come un tessuto che si smaglia in continuazione e che là dove si lacera la­ scia aperti dei vuoti. 5. II mathèma del fantasma ($O a) compare già nel seminario del 1957-1958 sulle for­ mazioni dell'inconscio (Id., Il semùtario. Libro V. Le formazio11i dell'i11co11sào, 1998, Ei­ naudi, Torino 2004). 6. Cfr. Id., Il seminario. Libro X. L'angoscia, cit. 7. Come accade con l'interpretazione lacaniana dell'a11amor/osi dell'oggetto oblungo presente nel quadro Gli ambasciatori di Holbein il giovane, nel Seminario Xl, cit.

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2. L'objet a come risorsa per una teoria critica. Sia nella trasforma­ zione apportata all'idea di soggetto, sia nella comprensione e in­ terpretazione di una "realtà" curiosamente fatta di vuoti, l'inven­ zione di Lacan possiede un potenziale critico che mi pare, quan­ to meno in parte, ancora latente e per così dire tenuto in riserva. Per suscitare queste risorse di discorso, si tratterebbe di spostare i limiti imposti da Lacan alla comprensione della portata dell' objet a, per esempio quando, in un luogo noto e importante - l'intervi­ sta Radiofonia - afferma che la "a minuscola [. . .] è deducibile so­ lo nella misura della psicoanalisi di ciascuno" .8 Se questa affer­ mazione, oltre a essere un'indicazione teorica, traccia pure le li­ nee di una clinica, occorre pure riconoscere che la psicanalisi non può limitarsi ad affrontare le debordanti esigenze della contem­ poranea domanda di terapia, ma deve rilanciare il proprio ruolo come sapere critico e come forza di trasformazione culturale. Le vicende della psicanalisi degli ultimi decenni, grosso modo, sono state segnate tanto dal suo riconoscimento istituzionale quanto dal depotenziamento delle sue caratteristiche più eversive. Ma una psicanalisi di retroguardia rispetto alle forme egemoniche dei sa­ peri "psi" (o "neuro") mi pare una contraddizione in termini, e sarebbe un errore scambiare una posizione minoritaria (anche nel senso di una "lingua minore" tra quei saperi) con una cinica di­ chiarazione di resa che assume la misura della perdita di senso del nostro vivere e cerca di farne qualcosa, per ciascuno, in modo più o meno consolatorio. O la psicanalisi è critica ed è un sapere di rottura - e così mette in gioco la dimensione della speranza - o è destinata a difendere il proprio ruolo secondario nelle moderne tecniche della gestione dei sintomi, divenendo essa stessa sintomo di una generale deriva culturale. In vista della ripresa di questa eredità della psicanalisi, la questione dell' objet a contiene in sé delle prospettive che Lacan si è limitato a indicare o che risultano del tutto inedite. Un sapere di rottura, dunque, e non un'ulterio­ re potenziamento di saperi che, conoscendo tutto ciò che gli è spe­ cifico, rivelano la loro straordinaria impotenza di presa sul reale. 8. J. Lacan,

Radiofonia, in Radiofonia. Televùione (I 97 4), Einaudi, Torino 1982, p. 15. 43

Abbiamo bisogno di nuovi descrittori, tanto più ora quanto più il "simbolico" schiaccia il "reale" e lo rigetta così che que­ st'ultimo riappare nelle plurime forme sintomali della lacerazio­ ne e della violenza ("tout ce qui est rejeté dans le symbolique re­ parait dans le réel", secondo la formula lacaniana della Verwerf ung). Ne va del compito della critica del presente e, con ciò, del­ la ridefinizione di quello che veniva chiamato il "ruolo dell'in­ tellettuale": parole all'altezza dei tempi, che del nostro tempo possano mostrare le ferite, e nominarle facendo di quest'atto di parola una pratica di ricucitura del senso con il filo del non-sen­ so, di un sapere che accolga come propria cifra la necessità di un non sapere e, contemporaneamente, la messa in scena di un im­ maginario differente da quello colonizzato dal capitalismo con­ temporaneo. A questo compito critico associo la decostruzione come pensiero dell'evento e come rimaneggiamento delle con­ dizioni per le quali c'è evento (per Derrida un'analisi e, al tem­ po stesso, un esercitarsi all'impossibile). Perciò, nonostante le differenze che separano i due - talora pure marcate - penso che una strada di ricerca che contemperi le due posizioni sia ancora tutta da percorrere.9 Se chiamiamo "metafisica" le forme della rappresentazione, non si tratta più di sostituire una rappresentazione più adegua­ ta a una meno adeguata della "realtà", e forse neppure più di di­ sarticolare le giunture di quella macchina per rappresentazione che è la cultura occidentale, piuttosto di disarticolarla per riag­ giustare, ricombinare, ricodificare, con pratiche culturali che siano in grado di comprendersi come tali e che riescano a pro­ durre effetti, figlie di un'eredità stratificata e, tuttavia, portatri­ ci di avvenire. Affermare che nell'epoca del nichilismo si dimo­ ra nella metafisica come in una casa abitata da spettri non è più sufficiente né funziona più come esercizio più o meno retorico, così come il desiderio di riconoscerci spiazzati dall'apparizione dell'unheimlich nei luoghi delle nostre abitudini rischia di rive­ larsi, con l'andare del tempo, un ripetersi dell'attrazione per l'e-

9.

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È la via che ha seguito René Major in Larnn avec Derrida, Flammarion, Paris 2001.

sotico, un cliché che, dilettandosi con la figura dell'estraneo, perde di vista proprio ciò che l'estraneo mostra di intollerabile. Non una irenica conciliazione (infatti, se c'è una Versohnung, es­ sa giunge solo al termine di un processo, come aveva ben com­ preso Hegel), ma il soprassalto causato dall'apparizione dell'e­ straneo - fino alle forme senza forma del disumano e del terri­ bile - nella trama stessa dell'ordinario, è proprio quanto oggi, mi pare, venga sottoposto a una gigantesca opera di Verdriing­ ung. Così, la chance critica della psicanalisi mi sembra consiste­ re nella possibilità di assumere il fantasma come forza di tra­ sformazione, proprio perché esso prende in carico l'objet a nel suo aspetto traumatico e angosciante. Non si tratta perciò di ri­ correre ancora alla psicanalisi per ripetere operazioni di preteso smascheramento o di svelamento di una "realtà" che così sareb­ be pensabile, ancora una volta, solo metafisicamente, ma di mo­ dificare il nostro essere nel mondo attraverso una ritessitura dei discorsi da una parte e delle forme dell'immaginario dall'altra. O ancora, e in parole più semplici, è necessario cambiare i nostri fantasmi, come diceva Derrida. Ma, appunto, per fare in modo che i nostri fantasmi mutino, occorre prendere in carico e trattare ciò che propriamente non è trattabile e che resiste alle forme di appropriazione del sapere. Come dire che è necessario intessere un discorso e articolare un sapere tutto attorno ai noccioli di resistenza al sapere, a quelle lacerazioni del tessuto simbolico di cui è fatta la nostra espe­ rienza. Al di là, dunque, di un impiego "tecnico" del concetto, il ricorso eterodosso all'objet peti! a può aprire dei varchi nella co­ struzione di un sapere mobile tra le discipline. Non è difficile, infatti, riconoscere che l' objet petit a ha già cambiato in modo molto significativo le coordinate di almeno un campo, quello degli studi sull'arte e sulla letteratura, e credo possa mutare pure quelle dell'economia, là dove questa assume come proprio oggetto il desiderio. Hl Nel primo caso, il nesso tra

IO. Cioè quanto meno dalle teorie marginaliste e dai loro sviluppi nel pensiero econo­ mico contemporaneo.

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lo sguardo e l'opera d'arte figurativa è stato rivisitato e, per così dire, rovesciato dalle tesi del Seminario XI, che ci offre un ap­ proccio obliquo alla considerazione del dettaglio nell'economia dell'opera d'arte, al lavoro del senso che awiene nella compren­ sione di questa grazie all'eccedenza dei particolari, al riconosci­ mento di come i codici r ichiedano delle zone non formalizzabi­ li che vengono riempite mediante significanti che così hanno va­ lore di sintomi. Tuttavia, è ancora necessario un lavoro di rilettura dei cardi­ ni teorici di un'estetica che contemperi tanto lo sfondo pulsio­ nale quanto l'organizzazione simbolica (dunque storica e cultu­ rale) dei codici artistici, e che dunque ampli lo spettro semanti­ co della parola sintomo ben al di là della sua accezione clinica, evitando un impiego superficiale e occasionale degli apporti la­ caniani (soprattutto quando la citazione di certi passi dei Semi­ nari o degli Scritti conferisce un'allure à la page) o l'approdo fi­ nale di quei discorsi che fanno dell'analisi delle espressioni arti­ stiche una dimostrazione aprioristica della teoria lacaniana. Mentre il primo aspetto dipende interamente da un mercato del­ la cultura in cui le retoriche del post richiedono riferimenti a La­ can per rendere sexy i discorsi che vi si tengono, e così legitti­ marli, il secondo aspetto è quello più delicato sotto l'angolatura della teoria poiché lo studio delle forme dell'arte viene in esso subordinato al discorso della psicanalisi. Dunque qui ne va del­ lo statuto delle discipline, della definizione dei loro "oggetti", dei saperi che vengono messi in gioco, e per questa ragione - che possiamo chiamare in senso ampio "metodologica" - non si trat­ ta solamente di schermaglie e di tatticismi legati alle congiuntu­ re culturali. Gli effetti di scuola, di ortodossia e, pertanto, di chiusura della psicanalisi sono piuttosto temibili perché rischia­ no di mutare un'operazione di de-territorializzazione del sapere in una strategia di conquista di nuovi territori tale da generare ulteriori fenomeni di micro-egemonia e di padronanza da parte del discorso psicanalitico. Infine, sotto il profilo euristico la ve­ rità di tale discorso si limiterebbe alla considerazione e all'anali­ si dei fenomeni artistici come illustrazione di un sapere già ac-

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quisito. Con il fatto che la psicanalisi si apre al la letteratura, alla pittura e, più recentemente, al cinema, si rischia di vedere sosti­ tuito un paradigma ermeneutico consunto O' approccio ortodos­ so, nel freudismo, della psicobiografia) con uno già tramontato (le analisi del significante e dei codici simbolici grazie al riferi­ mento a Lacan come strutturalista). Mentre l'arte acquista rilie­ vo nel momento in cui non conforta ciò che la psicanalisi ha già dimostrato, ma mostra (o dice) ciò che essa non è in grado di di­ mostrare, sfuggendo così al gioco della riflessione che il discor­ so della psicanalisi mette in scena ricorrendo ad altri apporti. L'altro versante che lo stesso Lacan indica è quello dell'eco­ nomia in senso stretto, di scienza che studia la produzione di ricchezza, la sua circolazione e distribuzione. Di fronte al pano­ rama desolante lasciato da vent'anni di deregulation e di dottri­ ne neoliberali, ciò che ancora stenta a formularsi è una deco­ struzione delle rappresentazioni dominanti dei fenomeni eco­ nomici, cioè un lavoro di smontaggio dei presupposti metafisici dell'economia capitalistica. Oggi, questo lavoro, che è quello di una rinnovata critica dell'ideologia e dell'economia politica, mi pare tanto più necessario quanto più se ne afferma la mancanza di necessità, secondo una retorica corrente che ne denega co­ stantemente l 'esigenza con l'affermazione apodittica di verità "scientifiche". Quando Lacan, nel Seminario XVII, rimprovera rapidamente a Marx di non aver compreso il nesso tra plus-valore e ciò che lui chiama plus-de-jouir, non segna il limite del marxismo- per cui la psicanalisi ne porterebbe alla luce la verità, pronunciando quell'ultima parola che il marxismo non ha detto: godimento, appunto-, ma, al contrario, richiede che il discorso del manci­ smo venga ritessuto con i fili della psicanalisi là dove essa pro­ blematizza i presupposti dell'economia. Se Lacan mostra in che modo il capitalismo opera sul desiderio, cioè imponendo una legge economica non tanto di rinuncia pulsionale (che è la dia­ gnosi freudiana) ma di moltiplicazione e di intensificazione del­ l'investimento, si tratta di pensare la natura ideologica di questo comando a godere - che contiene in sé, al contempo, l'interdi-

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zione del godimento, ed è ciò che gli permette di essere così ef­ ficace, poiché esso genera ripetizione - e di immaginare delle strategie che in primo luogo sospendano la forza magica della merce e quindi trasformino il senso stesso del rapporto con l'og­ getto. "La società dei consumi ha senso in quanto, all'elemento cosiddetto umano tra virgolette, viene dato come equivalente omogeneo un qualsiasi più-di-godere prodotto dalla nostra in­ dustria - un più-di-godere, in realtà, fasullo."11 Il valore dell'og­ getto dipende interamente dal valore immaginario che gli viene attribuito socialmente. Non siamo più neppure al margine del­ l'opposizione classica tra valore d'uso e valore di scambio, poi­ ché il valore di scambio si determina dal valore immaginario che gli oggetti assumono nella cultura del neocapitalismo occidenta­ le, configuratosi come costruzione di una economia dell'imma­ ginario quale condizione per l'appropriazione, l'accumulo e l'in­ vestimento delle ricchezze. Se potevamo pensare di consumare simboli prima ancora che "cose", abbiamo scoperto di consu­ mare simulacri e che il nutrimento cui siamo sollecitati è coatti­ vo, mortifero e fantasmatico. Così, dal lato del soggetto, il capi­ talismo si è garantito ideologicamente grazie alla funzione di un plus-de-jouir ridotto all'oggetto di consumo. L'effetto prodotto­ si è temibile, poiché nella scena attuale della civiltà dei consumi e della tecnica non rimane che un'ultima figura dell'identifica­ zione, con la quale si compiono al contempo lo svuotamento del soggetto e la perdita di senso dell'esperienza, ed è l'identifica­ zione con l'oggetto di consumo. È quest'ultimo, infatti, a costi­ tuire l'autentico universale di cui possiamo ancora fare espe­ rienza e che ci dà l'illusione della sua mobilità.12 Ersatz dell' objet a, esso promette un pieno godimento che, evanescente, rivela la

11. J. Lacan, Il seminario. Libro X\!II. Il rovescio della psicoanalisi. 1969-1970 (1991), Einaudi, Torino 2001, pp. 96-97. 12. Bauman, come è noto, definisce l'orizzonte del nostro presente mediante la nozio­ ne di liqmdità quando, per contro, è proprio la rigidit à mortifera della fissazione sull'og­ getto di consumo (nella sua sp lendida varietà, certo) a fornire il tratto costante della nostra esperienza. In altri tennini, anche i significanti che si rifanno alla metafora della liquidità, così come alla mobilità e alla ormai cacofonica flessibilità dovrebbero essere considerati e analizzati come sintomi.

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sua natura mortifera nell'ingiunzione superegoica all'assunzio­ ne, nella fagocitazione, in una vorace e parossistica oralità senza più legge. A questo oggetto-riempitivo delle mancanze, oggetto per eccellenza fantomale, nel Seminario XVII Lacan attribuisce lo strano nome di "latusa" (latousie):13 il capitalismo produce se­ rialmente oggetti-latusa occultando in questo modo l'impossibi­ lità del godimento della cosa (das Ding), dunque rispondendo al­ la domanda del soggetto mediante la disponibilità di sempre nuova merce. Che poi la risposta del capitalismo, mediante la produzione di oggetti sempre più rispondenti ai desideri sog­ gettivi indotti e manipolati di ciascuno, sia apparentemente sin­ golare, questa è una dinamica che per il capitalismo ha senso proprio perché totalmente priva di senso, eccetto quello, domi­ nante, della circolazione infinita e dell'autoriproduzione del ca­ pitale. Se nel fallimentare e sconvolgente presente in cui viviamo la cornice ideologica della società occidentale non regge più il pe­ so delle sue stesse rappresentazioni, allora ci si deve chiedere se abbia ancora significato pensare al compito della critica in ter­ mini di tattica, di opposizione locale nella forma di micro-resi­ stenze ecc. - altrettanti modi escogitati nel recente passato per reggere l'urto del neocapitalismo negli anni del suo apice - o se, invece, non si tratti di immaginare nuovi scenari teorici e di met­ tere in gioco pratiche differenti che, strategicamente, siano alla misura del nostro tempo. Qui la psicanalisi non avrebbe certo esaurito il suo discorso.

13.

Cfr.J. Lacan, llsemi11ario. Libro X\111. Il rovescio della psicoanalisi, cit., pp. 202-203. 49

Sopravvivere alla religione GRAZIELLA BERTO

((

' analisi

è una funzione ancora più impossibile delle altre. Non so se ne siete al corrente, ma essa si occupa in modo particolare di ciò che non funziona. E quindi si occupa di quella cosa che dobbiamo chiamare con il suo nome - devo dire che finora sono l'unico ad averla chiamata così - il reale. È la differenza tra ciò che funziona e ciò che non funziona. Ciò che funziona è il mondo. Il reale, invece, è ciò che non funziona. Il mondo va, gira bene, è la sua funzione di mondo." 1 Così Lacan caratterizza la funzione dell'analisi nella conferenza stampa tenuta a Roma nel 1974 e poi pubblicata con il titolo Il trionfo della religione. L'interesse per ciò che non funziona, attra­ verso cui viene specificato il ruolo dell'ana lisi, mi sembra essere un tratto particolarmente significativo dell'attualità dei testi di Lacan, un segnavia per una possibile lettura del suo lavoro, oggi. Non è difficile infatti accorgersi che l'emergere di qualcosa che non funziona, che non va, riguarda particolarmente da vici­ no il nostro presente, in cui la sconnessione, la non presenza a sé che attraversa, in fondo, ogni presente, si impone con forza al­ l'esperienza. Non è però altrettanto scontata la capacità di pen­ sare questo inceppo, questa difficoltà, senza guardarli dal punto

L

1.J. Lacan, li trio11/o della religione, in Dei Nomi-del-Padre seguito da li trio11/o della re­ ligione (2005 ), testi riuniti da .J .-A. Miller, a cura di A. Di Ciaccia, Einaudi, Torino 2006, pp.

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96-97.

aut aut,

343, 2009, 50-55

di vista di una loro risoluzione. Come se l'unica preoccupazione fosse quella di eliminare al più presto ciò che, accidentalmente, viene a disturbare il funzionamento delle cose; e, qualora tale operazione non risultasse così semplice, fosse comunque inevi­ tabile prowedere a un mascheramento o al rinnegamento di ciò che resiste alla risoluzione, di ciò a cui non è possibile attribuire un senso. Questo modo di rapportarsi alla realtà è proprio ciò che La­ can chiama, nel testo appena citato, "religione". Il compito della religione è infatti quello di "acquietare i cuori [ ...], di dare un senso a qualunque cosa. Per esempio alla vita umana" .2 La con­ vinzione che i conti debbano comunque tornare, che sia possibi­ le separare il male dal bene, il falso dal vero, e individuare quin­ di una via, una ricetta o una prescrizione che, difendendoci dal­ la confusione e dal vuoto di ciò che sfugge al senso, ci riconduce alla trasparenza e alla pienezza della verità, appartiene propria­ mente alla religione. La forza della religione sta nella sua funzio­ ne terapeutica: "La religione è fatta per questo, per guarire gli uomini, vale a dire perché non si accorgano di ciò che non va" .3 In questo suo carattere terapeutico, la religione si awicina alla medicina, la "salvezza" mostra la sua prossimità con la "salute". Nel suo suggerirci che c'è una cura per tutto, che l'osservazione di alcune regole di carattere sanitario può garantirci (o quasi) il benessere, se non la felicità, nella sua pretesa di dirci ciò che va bene e ciò che va male, o addirittura di intervenire sui nostri cor­ pi per liberarli dai loro difetti, la medicina ci appare sempre di più, di fatto, come un'erede moderna della religione. "Moriremo guariti": questa formula, come ci suggerisce Andrea Zanzotto, da lettore di Lacan, potrebbe essere "l'insegna del nostro tem­ po" .4 Tutto si aggiusta, in fondo, anche la morte. La psicanalisi, invece, non è una terapia ma u n "sintomo": "Essa fa chiaramente parte di quel disagio della civiltà di cui ha 2. lvi, p. 98. 3. lvi, p. 102. 4. A. Zanzotto, In questo progresso scorsoio. Conversazione con Marzio Breda, Garzan­ ti, Milano 2009, p. 106.

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parlato Freud" .5 E lo stesso Freud, infatti, intendeva difenderla, insieme, dai medici e dai preti, cioè da coloro che sono respon­ sabili dell'illusione della salvezza, o della guarigione.6 La preoc­ cupazione fondamentale non è quella di guarire, ma di rinun­ ciare a rimuovere i sintomi, di imparare a rapportarsi a un "di­ sagio" che non è il perturbamento momentaneo e accidentale di uno stato di benessere ma la condizione in cui ci troviamo: "In quanto esseri viventi, siamo morsi, rosi dal sintomo. Siamo ma­ lati, tutto qui. L'essere parlante è un animale malato" .7 L a psica­ nalisi, nel suo essere un sintomo del disagio, una malattia essa stessa, è però un sintomo particolare, che, più che tentare di cu­ rarsi, ha "cura di sé", perché consiste in un tentativo di acco­ gliere o di ascoltare il disagio, anziché cercare subito di respin­ gerlo o di dissolverlo, come se fosse qualcosa di eliminabile. Bi­ sogna fare i conti con qualcosa che non va, che "zoppica", con qualcosa di cui non verremo mai a ca po, che continuerà a in­ quietarci: è il rapporto con l'altro, sono le relazioni tra gli uomi­ ni, tra l'uomo e la donna, è il complicato convivere con noi stes­ si. Lì, i conti non torneranno mai, continueremo a star male, a perdere la bussola, a scontrarci con qualcosa a cui non possiamo dare senso. Nel "reale", non c'è soluzione, non c'è conciliazione possibile. È questo il "lampo di verità" che balena nell'analisi.8 È chiaro che, nella sua ostinazione a trattenerci, per quanto possibile, presso ciò che non va, la psicanalisi non potrà mai trionfare sulla religione: il bisogno di una soluzione, di un sen­ so, della salute o della salvezza trionfano sempre, magari per por­ tarci esattamente nella direzione opposta, senza però che ce ne accorgiamo. Lacan non sembra avere molti dubbi: "La religione è inaffondabile. La psicoanalisi non trionferà, sopravviverà op­ pure no" .9 Non si tratta dunque di uno scontro alla pari, di una 5.J.

Lacan, Il trionfo della religione, c it., p. 99. 6. Cfr. la lettera di Freud a Pfister citata in R. Major e Ch . Talagrand , Sigmund Freud (2006), Einaudi, Torino 2008, p. 194, assieme all'interpretazione che gli autori propongo­ no del pensiero freudiano. 7. J. Lacan, Il trionfo della 8. Cfr. ivi, p. 100. 9. lvi, p. 98.

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religione, cit., p. 105.

vera e propria alternativa: la religione è comunque più forte, e diventerà sempre più forte, paradossalmente, proprio grazie al­ la scienza, che "introdurrà un sacco di cose sconvolgenti nella vita di ognuno", 10 estendendo così, suo malgrado, il reale e, di pari passo, il bisogno di senso e di consolazione. Lacan confessa il suo pessimismo, la sua convinzione "che si guarirà l'umanità dalla psicoanalisi. A forza di annegarlo nel senso, nel senso reli­ gioso beninteso, si arriverà a rimuovere questo sintomo" .11 Queste parole sembrano descrivere quello che sta davvero ac­ cadendo oggi: il trionfo di un pensiero religioso, che riguarda la "vera religione", 12 quella romana, nella sua pretesa di essere de­ tentrice del senso e del valore della vita, ma che intacca anche tutti quei discorsi "religiosi" che la imitano, preoccupati di ma­ scherare ogni faglia di non-senso o di problematicità. Ogni trac­ cia di sospensione, di ambivalenza, di esitazione, deve essere so­ praffatta dal ritmo incalzante di una parola univoca, assertoria. Il trionfo della religione è, si potrebbe dire, oggi, il trionfo della semplificazione e, quindi, del fanatismo. La pretesa di padro­ neggiamento del senso si trova alleata alla logica dell'utilitari­ smo, e quindi dell'efficienza e del controllo, della trasparenza, che trionfano in ogni ambito: dalla medicina all'economia, dalla scienza alla politica, dall'alimentazione alla formazione .. 13 Lacan, tuttavia, non esclude la possibilità di sopravvivere al­ la religione. E tale sopravvivenza ha a che fare, a mio parere, con un discorso - di cui Lacan è continuamente impegnato a fornir­ ci degli esempi - che segua una logica diversa da quella "religio­ sa", una logica che sia capace, nelle sue contraddizioni, nelle sue irresoluzioni, di lasciar irrompere il reale, con la sua insensatez­ za, anziché tentare di annegare tutto nella stupidità del senso. Non si tratta di catturare la verità, per addomesticarla, renderla disponibile e accettabile, ma di lasciar balenare, nell'illusione del senso, qualche "lampo di verità", come l'affiorare di ciò che .

10. Ibidem. 1 1. lvi, p. 100. 12. Cfr. ivi, p. 99. 13. Cfr., su questi temi, M. Benasayag, A. Del Rey, F. Leoni, Feltrinelli, Milano 2008.

Elogio del conflitto (2007), trad. di

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sfugge, ci sorprende, e viene così a interrompere la coerenza e la compiutezza di ogni discorso. L'incontro con il reale - con un reale che forse si avvicina più di quanto ci aspettiamo a ciò che comunemente chiamiamo "realtà" - impedisce al discorso di chiudersi su se stesso, di assestarsi in una tesi. Quello che Lacan ci insegna, il percorso a cui cerca di intro­ durci è, in fondo, un "metodo" di pensiero che, anziché volerci condurre a ogni costo alla certezza, si preoccupa di lasciar emer­ gere i luoghi in cui manca una soluzione, in cui il discorso tende a scivolare nel non-senso, si ingarbuglia, talora si perde, si lascia catturare da una complessità che non può essere districata. Que­ sto insegnamento ha a che fare non tanto con ciò che Lacan di­ ce - e che, come è accaduto, può a sua volta essere assorbito nel1' ordine del senso, della dottrina o del protocollo, può essere ir­ rigidito e assimilato alla "religione" - ma piuttosto con il modo in cui lo dice, o meglio con la sua scrittura: "I miei Scritti, non li ho scritti perché vengano capiti, li ho scritti perché vengano let­ ti. Che non è per niente la stessa cosa" .14 Leggerli, certo, signifi­ ca cercare di capirli, senza però poter trovare in essi nessuna te­ si o nessuna ricetta già pronte; questa esigenza ci porta piuttosto a essere "toccati" da qualcosa che continua a sfuggire, che ritor­ na a complicare le cose, a buttare all'aria o a far crollare ogni co­ struzione stabile e trasparente, fino a intaccare la solidità del sog­ getto stesso che comprende. La lettura di Lacan implica, con le parole di Foucault, "un lavoro da fare su se stessi", un esercizio su di sé: Lacan "voleva che la lettura dei suoi testi non fosse sem­ plicemente una 'presa di coscienza' delle sue idee. Voleva che il lettore si scoprisse a sua volta come soggetto di desiderio, attra­ verso questa lettura" .15 Quel che è messo in gioco è il presuppo­ sto stesso del pensiero come padronanza, come capacità di dare ordine e senso alla realtà. C'è sempre un resto, una perdita, che ci awerte che qualcosa non quadra, non funziona. 14. J. Lacan, Il trio11/o della religione, cit., p. 101. 15. M. Foucault, Lacan, 11 "liberatore" della psicoanalisi (1981), in Follia e psichiatria. Detti e seri/li (1957-1984), a cura di M. Bertani e P.A. R ovatti, Raffaello Cortina, Milan o 2005, p. 246.

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L' "ermetismo" dei suoi scritti non è un trucco messo in atto da Lacan ma, come egli stesso ci suggerisce, tutto questo nasce dal prendere sul serio le parole, il nostro essere parlanti, che è proprio la specificità della psicanalisi. Mentre utilizziamo la pa­ rola per dire la verità, per prescrivere il giusto, nella parola si in­ filtra sempre qualcosa che la scardina, che le fa dire altro, che le impedisce di ancorarsi saldamente a un significato: qualcosa del1' ordine della mancanza. Se parlare significa comunque perdere qualcosa (del reale), Lacan ci insegna a prestare attenzione a que­ sta perdita, a ciò che resiste alla tendenza di ogni discorso a chiu­ dersi nella sua presunta coerenza, a difendersi dall'intrusione del reale, di una verità che non è mai riducibile a una definizio­ ne univoca, capace di distinguerla chiaramente dal suo altro. Leggere Lacan, oggi, ci aiuta a resistere, mi sembra, alla ten­ tazione diffusa della semplificazione, e quindi della faziosità, che fa tutt'uno con i miti di risoluzione, di trasparenza o di guari­ gione, da cui siamo assillati, da ogni parte. Senza l'illusione che sia possibile sconfiggere questo atteggiamento trionfante, forte della sua funzione consolatoria e rassicurante, Lacan ci suggeri­ sce la possibilità di una debole resistenza, l'ostinazione di un pensiero che si trattiene proprio su ciò che gli impedisce di fun­ zionare, che non cede, si potrebbe dire, su ciò che continua a in­ quietare le sue conclusioni, la sua possibilità di raccogliere il par­ ticolare nell'universale. Si tratta di una logica che non mette a tacere la singolarità e la fragilità di ciò che, con Lacan - e con Foucault -, possiamo chiamare "desiderio", come ciò che resiste al "servizio dei be­ ni", 16 alla logica dell'utile, che è anche quella del dominio, e del potere: "Un disordine permanente all'interno di un corpo sup­ posto sottomesso allo statuto dell'adattamento".17

16. Sulla "contrapposizione tra centro desiderante e seivizio dei beni", inteso come "cedere sul prop rio desiderio", cfr. J. Lacan, Il seminario. Libro \'Il. L'etica della psicoana­ lisi. 1959-1960 (1986), a c ura di G.B. Contri, Einaudi, Torino 1994, in particolare l'ultimo cap itolo, il XXIV, p . 391 sgg. 17. Id., Il seminario. Libro \liii. Il tram/eri. 1960-1961 (1991 ) , a cura di A. Di Ciaccia, Einaudi , Torino 2008, p. 108.

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Dal verbale di un'immaginaria interrogazione ILARIA PAPANDREA

[. .. ] - Se ho ben compreso: primo, Lei non rinnega il suo incon­ tro con i testi di Lacan, definisce quest'incontro come il frutto di una felice contingenza e ne attribuisce il merito - mi perdoni, se rido - a un certo Professore che si è assunto il rischio di leg­ gerlo e farlo leggere ai suoi allievi; secondo, Lei ritiene opportu­ no che Lacan lo si legga e lo si pratichi ancora oggi. Ora, La pre­ go, al di là dell'aneddoto personale, vorrebbe dire quali sono le ragioni che adduce? - Oh, non tema, non intendo addurre proprio niente. - E invece, dica, avanti, dica! - Vuole forse che Le faccia l'elenco dei concetti lacaniani, corredato del loro possibile utilizzo in campo filosofico? - Voglio, per cominciare, che Lei prenda sul serio questo col­ loquio. Le ricordo che le domande le faccio io. E ora proceda. - Ecco, vede, l'indice ragionato dei contributi teorici preferi­ rei evitarlo. Finirebbe per trasformarsi in un erbario pieno di fo­ glioline essiccate, e sa, la filosofia è una pratica, un mulino di scrittura che non lascia immutato chi finisce per passarci in mez­ zo. Non nego, certo, che si tratti di una pratica diversa da quel­ la psicanalitica... - Si fermi, aspetti un poco. La psicanalisi, ha detto? Intende quella pratica obsoleta che un tale Sigmund Freud aveva inven­ tato più di un secolo fa? - Quella pratica da sempre inattuale, per l'appunto. - Se ne è fatta di strada dai tempi del medico viennese. Esi-

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stono oggi cure più efficaci e scientificamente valide che non richiedono tanto tempo e denaro. Occorrerebbe che Lei si te­ nesse più aggiornato! La psicanalisi, mio caro, è roba da mu­ sei. Non creda, però, che la nostra censura sia così assoluta. Può verificarlo da solo. I manuali, compresi quelli della sua amata filosofia, ne fanno menzione. Ci piace ricordare che qual­ cuno abbia detto che non siamo padroni a casa nostra, ora che possiamo dimostrare l'infondatezza di questa tesi un po' naif In alcuni casi, certo, occorre un intervento correttivo, alcune persone vanno riportate alla realtà, soffrono di certi deficit da curare, ma basta una pillola, una breve psicoterapia, e la cosa si rimette a funzionare. -La... cosa? - Sì, certo. Se ne meraviglia? - No, al contrario, mi pare del tutto conforme al vostro presupposto. - Lei è troppo sfrontato. Dove vuole arrivare? - Da nessuna parte, non tema, non mi muovo da qui. -La sua impudenza non ha limite. Si rende conto delle conseguenze delle sue parole e dei suoi atti? - Beh, non le posso misurare fino in fondo, ma mi assumo pienamente anche quelle di cui non posso calcolare la portata. E sussurrando: Le confesso, è quello che mi ha insegnato la psica­ nalisi. -Le avrebbe insegnato che non sa quello che fa e quello che dice? Che non lo pondera prima? Che le sue azioni non seguo­ no i suoi pensieri? Che se ne va in giro per il mondo pronto ad agire contro il suo e l'altrui interesse, senza una buona e valida ragione? - Aggiungerei solo che il fatto di non sapere non mi rende meno responsabile. - Responsabile di cosa? - Degli effetti, per l'appunto. Ce n'è un certo numero che sfugge sempre a ogni più che ragionevole calcolo. Potrei, per fa­ re solo un esempio, e seguendo quel certo Lacan, chiamare in causa l'angoscia che prenderebbe lo scienziato se poco poco se

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ne facesse capace, ma non credo sia su questo che intendeva in­ terrogarmi. Le domande le fa Lei, giusto? Prego, dunque, con­ tinui pure anzi, guardi, continuo io. [. .. ] Dal verbale dell'interrogazione/interrogatorio, riportiamo quan­ to segue: "Per cominciare, Lacan ha preso sul serio Freud. Ba­ nale per uno psicanalista, ma assolutamente inusuale. Per farlo, occorreva leggerlo, cosa che era e continua a essere poco prati­ cata. La lettura in genere, si potrebbe dire, è cosa poco pratica­ ta. Forse perché non si ama troppo quell'arte della lettera che ri­ fiuta di ridurre al senso i testi che attraversa. Il signor Lacan è partito da lì, per ricordare agli psicanalisti che occorreva fosse­ ro almeno un poco avvezzi al solo strumento con cui hanno a che fare ogni giorno: la parola. Consigliava ai giovani analisti, con quel suo stile che alcuni hanno definito un po' cialtrone, di esercitarsi facendo parole crociate. Forse questo li avrebbe abi­ tuati a pensare che esiste una combinatoria delle lettere comple­ tamente disgiunta dal senso, un cifrarsi e decifrarsi dell'incon­ scio, non privo di effetti sul soggetto. Si divertiva a creare ibridi che farebbero invidia ai migliori scienziati: linguistica e psicana­ lisi, cibernetica e psicanalisi, topologia e psicanalisi, e l'elenco potrebbe continuare, senza tralasciare, ovviamente, la filosofia, l'arte e la letteratura. Ogni innesto rappresentava un nuovo ten­ tativo di dare conto della pratica analitica, di dimostrare gli ef­ fetti della parola sul corpo. Va detto, per un certo tempo il cor­ po è sembrato un poco assente dalla scena, quasi che la fascina­ zione per la potenza del linguaggio, nel quale abitiamo come umani, avesse assorbito interamente la sua attenzione. Ma oc­ correva prendersi tutto il tempo per ritornare al punto da cui Freud era partito, ricordando, a chi fa stendere gente su un let­ tino, che le formazioni dell'inconscio sono cifre di linguaggio. Ascoltare leggendo, ascoltare senza credere di aver compreso, esponendosi al malinteso che ogni parola comporta, non ridu­ cendo l'interpretazione a quello cui era stata ridotta: 'Mi dice questo, ma io so che in realtà è di altro che mi sta parlando. Mi prenda come suo modello. Non c'è io migliore di quello del te-

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rapeuta da imitare. Rafforziamoci, raddrizziamoci, ortopediz­ ziamoci. Cantiamo insieme l'inno della lode alla grande macchi­ na che per funzionare deve liberarsi dagli equivoci e dagli im­ brogli della parola e del corpo'. E mentre la grande famiglia dell'IPA- Freud, si sa, aveva fat­ to del Padre un mito tale che si era finiti col trasformare lui stes­ so nel grande padre della sua Associazione-, mentre l'IPA redi­ geva le sue liste dei buoni terapeuti, dettava le linee guida della pratica, decretava quale fosse la tecnica standard, il signor La­ can sovvertiva le regole, per attenersi all'unica regola fonda­ mentale: l'associazione libera. La prendeva così sul serio, questa regola, da forzare lo standard della durata della seduta. L'inter­ punzione del discorso, la scansione che il taglio della seduta può apportarvi, farebbe emergere quella che allora chiamava, con un linguaggio certo un po' ieratico, la 'parola vera'. L'analizzante­ !' analizzante e non l'analizzato perché, da buon lettore di Marx, Lacan, riconosce l'importanza del lavoro e la mette, a giusto ti­ tolo, in conto al soggetto steso sul lettino - dice di più di quel che crede di comunicare. Erano anni in cui quest'eccedenza ave­ va, per Lacan, i tratti della rivelazione, lo schiudersi di una di­ mensione che brilla per tornare subito a velarsi, il luccichio di una parola, forse impossibile a dirsi, che potrebbe rivelare il ve­ ro essere del soggetto. E mentre si prestava, leggendolo, ad ascol­ tare il dire dell'analizzante, mentre maneggiava con le arti della parola affinché ne emergesse una verità che non aspetterebbe altro che di essere liberata, la comunicazione fra io si inabissava sempre più. Sulla scena analitica, che dopo Freud ci si era sfor­ zati di trasformare in una sorta di versione terapeutica del me­ todo Stanislavskij, col paziente invitato a rivivere sulla persona dell'analista le sue avventure infantili per farsene finalmente pa­ drone, la parola è scoperta dire niente. Niente senso, nessuna comunicazione, nessun tentativo di approssimarsi alla verità di una fattuale scena traumatica, solo puro dirsi, puro ripetersi, pu­ ra combinatoria secondo giochi di linguaggio assai prossimi a quelli che lo psicotico aveva insegnato a Lacan. La comunica­ zione si inabissa, la realtà si sfalda, la lettura apre su una dimen-

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sione in cui ciascuno prende e spaccia per realtà il proprio mon­ do allucinato, unica soluzione possibile per il parlante, sembra dirci Lacan, che ripesca il Freud dimenticato del Pr oget to di una psicologia per indicare che non ci sono soluzioni pronte all'uso con le quali i parlanti possano sbrogliarsela con un soddisfaci­ mento sempre mancato". Segue, ma verrà omesso, l'elogio di un certo seminario del dottor Lacan dedicato all' E tica della psicoanalisi. A detta del­ l'interrogato, dietro la tragedia del testo, occorrerebbe soffer­ marsi su qualcosa che appare di sfuggita riguardo alla dimensio­ ne del comico. Nella lezione finale, comparirebbe un simpatico personaggino, l'eroe della commedia, che nonostante tutti gli in­ ciampi e i pasticci della vita, resta, alla fin fine, vivo e vegeto. L'interrogato continua sostenendo che il significante [termine abusato dai lacaniani; nota del redattore del verbale] non sembra avere la meglio sulla vita pasticciata dell'ometto, qualcosa sfug­ ge, si sottrae alla sua istanza, ne scompiglia i giochi. Riprende la trascrizione del verbale: "Nell'universo morto, automatico, ripetitivo della combinatoria significante, in ciò che Lacan si è sforzato di teorizzare prendendo a prestito dalla lin­ guistica e dalla cibernetica, mostrando gli effetti sul soggetto di quella che chiama dimensione simbolica, dimostrando che l'in­ conscio non è altro che una sorta di macchina da scrivere auto­ matica, ecco che appare un po' di vita. Fa capolino per un mo­ mento, con i panni dell'eroe della commedia, così come anni pri­ ma l'io si era vestito dei panni di un arlecchino male assemblato. Il Seminario, certo, conserva un tono da tragedia, ma la vita co­ mincia a palpitare. Vivo e vegeto, l'ometto della commedia sem­ bra non farsi prendere nelle reti del significante, almeno non del tutto, sembra soddisfatto, lui, di una soddisfazione che non è dell'io, e che somiglia a quella felicità dell'inconscio di cui La­ can parlerà anni dopo. La scena comincia ora a complicarsi, l'in­ trico è avvincente, i personaggi ormai ci sono proprio tutti, e il corpo, che ancora sembra assente, non mancherà di fare la sua comparsa da lì a poco. Sono rari, non trova?, gli autori che non smettono di stupire e di sorprendersi essi stessi per le scoperte

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che fanno. C'è chi ama di più la coerenza del sistema al punto da non accogli ere il nuovo e il trambusto che comporta. Un po' co­ me la cosa che, Lei diceva, deve funzionare come un tutto ben oliato e senza intoppi. Sarà che la psicanalisi lavora proprio a partire da ciò che non funziona, ma, vede, Lacan, non ha mai smesso di segare, come dice un suo allievo, i rami su cui se ne stava appollaiato. Dicevo che sulla scena ora ci sono tutti i personaggi: la gran­ de macchina da scrivere- se vuole, possiamo chiamarla simbo­ lico-, l'ometto vivo e vegeto- vorrei provare a chiamarlo godi­ mento, se non Le spiace, per sottolineare che se ne frega abba­ stanza di tutte le faccende del piacere e della sua omeostasi. Ah, sì, c'è anche il corpo. Forse, nella foga, avevo omesso di dire, che non era proprio del tutto assente dalla scena. C'era anche lui, all'inizio, ed era preso come una sorta di armamentario sgan­ gherato che una certa immagine totalizzante era chiamata ad as­ semblare. Provi a prendere un cucciolo di uomo e a farlo stare in piedi appena nato, vedrà che la cosa non Le riesce troppo be­ ne, si affloscia, rischia di rompersi, e non come un corpo unico che se si spacca perde la sua unità, no, no, quell'unità è tutta da costruire, a questo, dice Lacan, serve l'immaginario. Ma mi per­ doni, sto divagando. Dicevo dei personaggi sulla scena, per rias­ sumere li chiameremo, come fa Lacan, simbolico, immaginario e reale - non la realtà, ben inteso, il reale, qualcosa che sta più sul versante di ciò che non si incontra mai se non nella forma dell'incontro mancato. Ecco, con questi tre registri, così li chia­ ma, Lacan a questo punto che cosa fa? Li annoda. Non rida, la cosa è seria. Provi a sbrogliarsela con i sintomi che qualcuno Le porta senza aver fatto pratica con i nodi. Nella migliore delle ipotesi non ottiene niente, nella peggiore toglie a qualcuno l'u­ nica soluzione che si è inventato per non farsi parassitare trop­ po dal linguaggio e per ritagliarsi alcune fettine di un godimen­ to che non ci metterebbe niente a farLa finire dritto sulla grati­ cola. Certo, occorre essersi prestati ad ascoltare per molti anni, e con sufficiente amore, innumerevoli soggetti, per non giudica­ re le loro soluzioni singolari. Lacan si è spinto fino a dire che

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quella che riteniamo 'normale', quella che con Freud abbiamo chiamato l'Edipo, è solo una fra le tante possibili. Non lo trova sorprendente? Non trova sorprendente che qualcuno abbia smesso a un certo punto di ascoltare il discorso di un soggetto che parla di sé come di una centrale elettrica, senza pensare di riportarlo alla realtà, magari fulminandolo con un elettroshock? Lo riconosco, non è l'unico che si è rivolto alla psicosi mostran­ do un volto umano. La questione, però - e su questo, mi cor­ regga, non sono in molti a sostenerlo -, è che per Lacan anche l'Edipo e tutto il suo armamentario somigliano molto a una cen­ trale elettrica, un po' più comune, certo, ma pur sempre una centrale elettrica grazie alla quale illuminiamo il nostro pezzo di mondo. Non diversamente dal folle? Diversamente da lui solo perché la nostra soluzione è maggiormente condivisa e ci fa illu­ dere che tante piccole città che brillano insieme siano la realtà di cui parliamo. Ci uccidiamo anche, in nome di questa realtà, sal­ vo rinchiudere chi, in nome della sua, passa all'atto. La prendia­ mo per la realtà, cui ricondurre tutto il resto del mondo. Cre­ diamo che con le nostre parole possiamo descriverla il più accu­ ratamente possibile, quasi esistesse fuori di noi. Per qualcuno il black-out, per noi la luce. Ce ne stiamo, così, immersi nel nostro mondo senza tenebre, finché non arriva qualcuno che si ritiene tanto illuminato da presentarsi a noi pronto a guidarci verso una terra promessa. Il più delle volte lo seguiamo, proprio perché, a differenza dei folli che abbiamo rinchiuso, a noi piace che ci sia la Centrale delle centrali, ci rinunciamo a fatica, cerchiamo spes­ so qualcuno sulle cui orme mettere le nostre, perché ci indichi la strada. Sapeva che Lacan ha dedicato un anno del suo Semina­ rio a una cosa chiamata 'atto'? Glielo dico en passant, perché sa­ rebbe un po' contraddittorio che qualcuno le dicesse cosa fare perché ci sia atto. Forse, se la cosa non La confonde troppo, ag­ giungo solo che somiglia di più al passaggio all'atto che a quel calcolo ben ponderato che farebbe seguire un'azione a un pen­ siero. Ecco, anche questo Lacan si è lasciato insegnare da quel­ l'inventore di soluzioni singolari che è lo psicotico. A uno in par­ ticolare, un certo James Joyce, ha consacrato addirittura anni di

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studio. Quasi un secondo maestro, per lui, dopo Freud. James Joyce - lo conoscerà, ha dato da vivere a molti universitari- ha trovato una soluzione tale, con la sua scrittura, da non dover ri­ correre all'analisi. E Lacan non gliene vuole per questo, tutt'al­ tro. Forse oggi, nel tempo del mercato imperante, ci darebbe un po' fastidio se qualcuno riuscisse a fare a meno delle cure del grande Altro benevolo, quello, per intenderci, che promuove il nostro bene subissandoci dei più svariati psicoesperti prima an­ cora che si sia rivolta loro una domanda. Sembra quasi non sia apprezzato che qualcuno se la cavi in modo così..., come dire?, artigianale. Ecco- e vorrei che nel verbale la cosa fosse eviden­ ziata- Lacan teorizza l'artigianato. Entri in analisi facendo pa­ role crociate e ne esci che, pur continuando a non capirci un tu­ bo, te la sai però cavare come lattoniere, li riaggiusti a tuo modo i tuoi tubi, e ti va bene così. Ma parlavamo di Joyce. Cosa farebbe Joyce, a dire di Lacan? Nient'altro che condurci dove ci conduce un'analisi: all'illeggi­ bile. Non sempre riesce di spingere il dialogo fra analizzante e analista ai confini siderali della parola, ma può accadere. Se ne esce alquanto frastornati, è vero, ma felici, felici di dire niente... comunicazione kaputt, capolinea del senso. A quel punto suoni per prenotare la fermata - perché, se non glielo avevano detto, l'analisi finisce, non è affatto interminabile-, salti giù e puoi as­ sumerti il rischio di amare qualcuno di cui accetti di non capire quel che dice". L'interrogato si alza, ringrazia chi lo ha ascoltato e, prima anco­ ra che l'esito dell'interrogazione/interrogatorio gli venga comu­ nicato, si congeda sorridendo.

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Lacan, il soggetto, l'oggetto ANTONELLO SCI ACCHITANO ]e le dis sans auame hésitatio11, il y a deux noms dans l'histoire de la psycha11alyse: Freud et Laca11. Intervista a François Wahl, nel centenario della nascita di Jacques Lacan, 13 aprile 2001 Dove 11011 c'è oggetto 11011 c'è neppure soggetto. Franz Brentano, La psicol.ogia dal punto di vifta empin"co, 1874

Il principio. In apertura un problema di metodo. Con quale chia­ ve tentare di aprire lo scrigno dei seminari di Lacan? Quale La­ can estrarre dalle urne degli scritti primi e secondi? All'analista credo convenga rispondere: con il metodo psicanalitico. Cioè? Per esempio, partendo da dove ha fallito, come si fa in ogni ana­ lisi effettiva di un sintomo nevrotico. Con buona probabilità pul­ sa lì- nel suo fallimento - il cuore del problema-Lacan. Un problema di principio si impone, allora, che non si risol­ ve con il ricorso ingenuo all'esperienza. Bisogna stabilire in li­ nea di principio quale sia stato il suo effettivo fallimento. Solo dopo si potrà analizzare l'esperienza dell'insegnamento di La­ can. Infatti, siamo razionalisti.1 Per noi l'esperienza non è in prin­ cipio - non l'esperienza del testo, non l'esperienza della clinica. In principio era il Verbo, cioè il principio. Il principio, che seguo da anni, in controtendenza con la mag­ gior parte delle scuole di psicanalisi, è che la psicanalisi sia una scienza.2 Si tratta di un principio chiaramente freudiano. Tutta-

1. Il nostro razionalismo non si contrappone all'empirismo. È una pratica della terzietà - nel senso giuridico di estraneità alle parti in causa in quanto trana un oggeno che non è né puramente razionale, non essendo categorico, né puramente empirico, non essendo immediatamente sperimentabile. Intendo l'infinito. 2. Questa dichiarazione di principio non rientra in un'opzione filosofica razionalista in senso stretto (kantiano). È del tutto intema al discorso scientifico, dove si distinguono teorie di principio e teorie interpretative. Esempi delle prime sono le teorie fisiche relativiste di tipo einsteiniano e le teorie biologiche evoluzioniste di tipo darwiniano. Queste teorie incomicia­ no le teorie interpretat ive, le quali forniscono i modelli dei singoli fenomeni osservabili. -

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via, Freud, per ragioni di formazione professionale - era medi­ co, non filosofo-, non fu generoso di indicazioni in merito. Qua­ le scienza sarebbe la psicanalisi? Qui bisogna congetturare, co­ me spesso si fa in seduta di fronte al materiale offerto dal pa­ ziente - qui Freud - per ricostruire la scena scientifica che ave­ va in mente il creatore della psicanalisi. Procedendo per esclu­ sione, comincio dicendo che la psicanalisi non è fisica, benché della fisica conviene che conservi e il meccanicismo e l'indeter­ minismo. Il primo perché introduce nel campo sperimentale sim­ metrie strutturali e modi per trattarle: il modo algebrico della teoria dei gruppi, per esempio, o il modo analitico degli inva­ rianti. Il secondo perché consente di gettare uno sguardo su mon­ di contingenti, dove il soggetto della scienza si muove secondo logiche non apodittiche: né necessarie né impossibili. Continuando a escludere, dico che la psicanalisi non è biolo­ gia, nonostante gli estesi riferimenti di Freud alla biologia di Weismann.3 Non è biologia, benché della biologia conviene che conservi i tratti principali, in particolare quelli darwiniani: la va­ riabilità e la funzione del tempo. La variabilità per consentire lo studio delle singolarità soggettive, che sono più profonde di quelle individuali, nel senso estensionale, oltre che intensionale. Allora, non esiste l'individuo più vicino all'altro individuo, per­ ché tra un individuo e l'altro esistono infiniti individui interme­ di.4 La funzione del tempo meno per seguire le evoluzioni onto­ logiche - delle essenze, per esempio - ma piuttosto per accom­ pagnare le evoluzioni - nel senso proprio di acrobazie o di figu­ re di danza - del sapere inconscio. La psicanalisi non è neppure scienza sociale, benché un as­ sioma del metodo analitico - questo sì, ben esplicitato da Freud - sia l'equivalenza tra soggetto privato e pubblico. Entrambi so3. Freud non fu darwiniano. Proiettava su Darwin certe proprie mitologi e, per esem­ pio il mito dell'orda. I riferimenti biologici di Freud s ono a Weis mann, il darwiniano di ferro tra i biologi tedeschi, c onvinto assertore dell'evol uzione per selezione. 4. È la famosa g radualità darwiniana, og gi contestata dai tanti s ostenitori del Progetto intelligente, benché di nobili ascendenze leibniziane. Natura no11 /acit saltus, si diceva. È giusto ed è s bag liato. La natura fa salti, ma a livello popolazionale, non individuale. Ciò rende difficile pensare la nozione di specie.

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no sospinti dalla stessa energia psichica - la libido. Entrambi vi­ vono la stessa vita psichica quando sognano la notte o quando governano lo stato di giorno. Per farla breve la psicanalisi potrebbe essere una scienza epi­ stemica. Sarebbe la scienza di come il soggetto sa e ignora, di co­ me vuole sapere e vuole ignorare, di come inganna sé e l'altro, elaborando l'inganno altrui, di come si destreggia con il lin­ guaggio e l'oggetto per venire a capo del sapere soggettivo sul desiderio e sul godimento. Combinando le indicazioni prece­ denti, la psicanalisi apparterrebbe, allora, alla classe delle scien­ ze del sapere. Sarebbe, cioè, una scienza del sapere meccanici­ stica e indeterministica, orientata allo studio della variabilità del­ le singolarità dei saperi e alla raccolta delle storie soggettive, in­ dividuali e collettive, in cui ciascuna singolarità si realizza; una scienza, infine, degli auto ed eteroinganni. Per tale scienza La­ can inventò e a più riprese propose anche il nome giusto, perché indica il metodo, che le scienze affini alla psicanalisi, già narcisi­ sticamente chiamate umane, adottano: scienza congetturale.5 Se vale questo principio, possiamo affrontare il problema­ Lacan come uno specifico fallimento. Lacan fallì nel formulare una scienza psicanalitica, come sopra delineata, cioè come scien­ za congetturale.6 E lo dico senza polemica, perché si tratterebbe di un fallimento positivo e fecondo, nel senso che ha preparato il terreno dove sarà possibile realizzare il suo superamento.7 In­ fatti, se possiamo formulare l'ipotesi dello specifico fallimento 5. Cfr. J. Lacan, Fo11ctio11 et champ de la parole et du la11gage e11 psycha11alyse (1953 ), in Ecrits, Seui!, Paris 1966, p. 284; Id., La cho se /reudie1111e o u Sens d11 retour à Freud e11 psy­ cha11alyse (1955), in Ecrits, cit., p. 435; Id., Situation de la psycha11alyse et / ormatio11 du psy­ cha11alyste e11I956 (1956), in Ecrits, cit., p. 472; e Id., La scie11ce et la vérité (1965), in Ecrits, cit., p. 863. 6. Ritengo come princi pale fattore responsabile del fallimento di Lacan la posizione magistrale da lui tenuta all'interno dell'Ecole freudienne de Paris. Se sei un maestro devi dare certezze dottrinarie incontrovertibili. Non puoi operare con congetture scientifiche da lasciare alla verifica o alla confutazione del De11kkollectiv. 7. Del fallire bene, riferendosi al proprio discorso del 9 ottobre 1967, che istiniiva il ri­ to di passaggio della pa sse da analizzante ad analista, il Nostro diceva: "Ma proposition gi­ te à ce pointe de l'acre, par quoi s'avère qu'il ne réussit jamais si bien qu'à rater, ce qui n'implique pas que le ratage soit son équivalent" (J. Lacan, Discours à /'Eco/e /re11die1111e de Paris, 6 dicembre 1967, in Autre écrits, Seui!, Paris 2001, p. 265).

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lacaniano è solo perché siamo andati a scuola da Lacan, dove abbiamo appreso che il soggetto in analisi inaugura la propria ri­ costruzione storica partendo da un autoinganno: la supposizio­ ne che il sapere sia nell'altro che lo ascolta. Il soggetto supposto sapere riconfigura in modo scientifico il transfert freudiano. Co­ sì, Lacan è arrivato molto vicino a formulare il paradigma della scienza psicanalitica, ma ha lasciato agli allievi l'onere e l'onore di farlo. Ma come sono andate effettivamente le cose, viste da questo punto di vista?

Lacan e la questione del soggetto. Molto schematicamente esisto­ no due Lacan: il Lacan degli Ecrits, scelti da François Wahl e comparsi nel 1966, e il Lacan degli Autres écrits, raccolti dal ge­ nero Jacques-Alain Miller dopo la sua morte e comparsi trenta­ cinque anni dopo, nel 2001. Trentacinque anni sono un periodo non lungo, ma neppure breve. In trentacinque anni si possono celebrare nozze d'argento, in attesa di quelle d'oro. Nel frat­ tempo un'interpretazione del fenomeno Lacan, scevra da fana­ tismi pro e contro l'autore, potrebbe aver avuto modo di matu­ rare. Per esempio, la seguente. Allora, altrettanto schematica­ mente sostengo che il primo Lacan fu un filosofo, precisamente un fenomenologo, mentre il secondo fu... un fallimento. Natu­ ralmente le mie simpatie vanno al secondo. Ma prima devo par­ lare del primo. Alla fine della prima fase del suo percorso intellettuale Lacan enuncia a che titolo ha operato fino ad allora. La sua è stata la ri­ cerca di come importare praticamente in psicanalisi il soggetto cartesiano della scienza. Tutto il Seminario XI è dedicato a pre­ cisare i contorni di questa operazione. Senza passare per questo "preliminare" non si coglie il senso del secondo Lacan. Il falli­ mento scientifico di Lacan si comprende e si supera solo sullo sfondo del Lacan cartesiano. Ovviamente il merito di aver riconosciuto la paternità carte­ siana del moderno soggetto della scienza non è di Lacan. È me­ rito di quella variegata classe di filosofie che vanno sotto il nome

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di fenomenologia, a cominciare da quella originaria di Husserl.8 Le diverse versioni fenomenologiche hanno tutte un tratto co­ mune, che è appunto cartesiano: la precedenza del sapere sul­ l'essere. Il quale, tuttavia, non va disgiunto da una sorta di trat­ to complementare anticartesiano di negazione-superamento di Cartesio, per quanto questo filosofo ha di caduco e di... insop­ portabile, proprio quel suo mettere in secondo piano l'essere, quindi il soggetto. 9 Infatti, il cogito sum della meditazione cartesiana stabilisce anche per via cronologica la precedenza logica del sapere (cogi­ to) sull'essere (sum). Prima pensi, poi sei. Il sapere, sotto forma di dubbio, genera l'essere del soggetto. Si tratta di un essere de­ bole, non categorico, scavato dal sapere come enclave topologi­ ca al proprio interno. I modi sono diversi. C'è l'epoché husser­ liana, che è una messa tra parentesi del valore di verità ontologi­ ca, per consentire la sua ripresa epistemica - trascendentale in Idee I. C'è la schiarita heideggeriana, la Lichtung, dove l'essere viene al sapere nel momento in cui si dirada, cioè perde consi­ stenza, quasi svanisce nel proprio esserci. E c'è l'operazione la­ caniana. Qual è l'epoché-Lichtung di Lacan? A mio parere, diversamente dagli altri fenomenologi francesi - Sartre, Merleau-Ponty, Foucault - Lacan è l'unico e solo a es­ sersi occupato, seppure implicitamente, del metodo fenomeno­ logico. Credo grazie all'eredità freudiana, dove l'epoché-schiari­ ta passa attraverso la regola analitica fondamentale: le associa­ zioni libere dalla parte del paziente, l'attenzione egualmente so­ spesa (gleichschwebende) dalla parte dell'analista. Lacan dà una formulazione di principio della regola analitica, che supera il suo

8. Per la storia del passaggio dal soggetto aristotelico della conoscenza a quello galileiano della scienza il riferimento, dato da Lacan nell'ultima seduta del seminario stilla relazione d'oggetto, è a Alexandre Koyré (Galilei e la rivoluzione scientifica del X\'11 secolo del 1955, ri­ stampato in A. Koyré, Etudes d'histoire de la pensée scient1fique, Gallimard, Paris 1966). Cfr. J. Lacan, Le séminaire. Livre li'. La relation d'objet. 1956-1957, Seui!, Paris 1994, p. 429. 9. Freud parla di lesione (Krii11ku11g) narcisistica che Copernico, Darwin e lui stesso avrebbero inferto all'umanità, detronizzando l'uomo dal centro delle considerazioni co­ smologiche, biologiche e psicologiche. Dimentica Cartesio e la ferita più grave, quella fìlo­ sofica, che strappò all'essere il primato metafisico, che godeva dai temp i antichi.

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valore di dettato pratico-clinico. "L'inconscio è il discorso del1' Altro", è la formula lacaniana secondo cui l'essere del soggetto è sospeso a un sapere non immediatamente a lui disponibile. Sic­ come l'Altro non esiste come totalità - cioè non è un insieme, che appartenga, per esempio, all'Altro dell'Altro - l'inconscio è un discorso originariamente sospeso, senza che sia necessaria nessuna epoché trascendentale.10 In questa situazione epistemi­ ca il soggetto è qualcosa "che pensa prima di fare ingresso nella propria certezza''. 11 In altri termini il soggetto è eterotrasceso prima che possa autotrascendersi. Naturalmente non si parla, se non metaforicamente, di concettualizzazione del soggetto.12 Questo è il punto fermo. È un punto epistemico, che da buon fenomenologo Lacan si affretta a "superare". Ma non bisogna lasciarsi sviare dai travestimenti logocentrici con cui Lacan ma­ schera - larvatus prodeo - la propria posizione cartesiana: le gia­ culatorie post-discorso di Roma (1953 ) , che vanno dall"'incon­ scio strutturato come un linguaggio " al "significante che rap­ presenta il soggetto per un altro significante". Lacan è il primo che in ambito psicanalitico coraggiosamente13 riconosce che il soggetto dell'inconscio è il soggetto cartesiano della scienza.14 Questo è il suo incontestabile e duraturo merito. E ancora di più non bisogna lasciarsi sviare dalle sue dichiarazioni antiscientifi­ che, quasi di rito e scontate in ambito fenomenologico, dove si usa caparbiamente ridurre la scienza a fatto tecnoscientifico og­ gettivo, quantitativo e deterministico. Magari aggiungendo che la scienza fuorclude il soggetto dal proprio discorso.15 La dé-

10. Detto in termini più filosofici, la passività originaria non è istituita da nessuna atti­ vità trascendentalizzante preliminare, per quanto debole. 11. J. Lacan, Le sémi11aire. Livre XI. Les quatre concepts fo11dame11tales de la psycha11 a�vse. 1964, Seuil, Paris 1973, p. 37. 12. La metafora ontologica, madre di tutte le metafore soggettive, è la "schiarita" di Heidegger. 13. Coraggiosamente, perché è normale resistere alla scienza . La resistenza alla scien­ za innerva la normale resistenza all'analisi . 14. "Desidero, c'est le cogito freudien", ivi, p. 141. 15. Per i fenomenologi il modello di tecnoscienza sarebbe la cibernetica. Non conosco­ no Darwin né Heisenberg. "Il risultato [del cogito] è che la scienza è un'ideologia della sop­ pressione del soggetto". Cfr. J. Lacan, Radiophonie (1970), in Autres écrils, cit., p. 437 . C'è

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marche de Freud est cartesienne,16 vivaddio! Resta da dimostrare che Freud è scientifico. E qui occhieggia il fallimento della dé­ marche lacanienne. La quale resta cartesiana, nonostante le resistenze a ricono­ scerlo.17 Le prove non mancano e sono ragionevolmente con­ vincenti. Si va dal sofisma del Tempo logico,18 dove l'incertezza individuale diventa fattore di certezza collettiva, alla riformula­ zione del cogito, ripescata in modo spericolato attraverso ri­ schiosi passaggi attraverso le leggi di de Morgan, come "sono dove non penso, penso dove non sono".19 La formula rende in modo icastico la divisione soggettiva tra sapere (pensare) ed es­ sere (esserci). Lacan e la questione del!' oggetto. Nonostante le reboanti dichia­ razioni programmatiche "verso le cose stesse", catturato o re­ spinto com'è dalla questione del soggetto - sia che lo prescriva (Husserl), sia che lo proscriva (Heidegger) -, il fenomenologo perde facilmente di vista la questione dell'oggetto.20 Ancora una volta grazie a Freud, Lacan non commette questo errore. Anzi, è pesantemente critico nei confronti della riduzione dell'ogget­ tività a intersoggettività con la conseguente soprawalutazione da dire, nmavia, che la resistenza alla scienza non è un fenomeno specifico dei filosofi. Ogni uomo di scienza sviluppa una propria avversione per le scoperte scientifiche proprie e al­ trui. Da Newton a Einstein, da Cantor a Freud, da Darwin a... Ne parlo nel libro di prossi­ ma pubblicazione Resistere alla sde11za, che tratta anche della pretesa fenomenologica di in­ ventare una filosofia come scienza rigorosa, includente il proprio soggetto. 16. J. Lacan, Le sémi11aire. Livre XI. Les quatre concepts /011dame11tales de la psycha­ na�vse, cit., p. 36. 17. Il punto è sviluppato da René Scheu nella Prefazione al mio libro, Scienza come iste­ ria, Campanotto, Udine 2005, a sua volta ispirato da tm motto di Lacan, contestuale a quel­ li che sto qui commentando: "Per quanto paradossale sia affermarlo, la scienza trae il pro­ prio slancio dall'isteria", J. Lacan, Radiophonie, cit., p. 4 36. 18. Id., Ecrits, cit., p. 197. 19. Cfr. Id., La logique du /a11tasme, inedito, lezione del 17 gennaio 1966, dove Lacan formula il cogito come lalternativa : "o non penso o non sono", per dedurne tramite la leg­ ge di de Morgan l'impossibilità della coincidenza di pensiero ed essere, che avrebbero in­ tersezione vuota. 20. Qui mi riferisco in particolare a Husserl e soprattutto alla reinterpretazione feno­ menologica della psicopatologia a opera di Minkowski e Binswanger. Heidegger ruota at­ torno alla funzione dell'oggetto voce, grazie al! 'ascolto del linguaggio. I fenomenologi fran­ cesi hanno sviluppato di più la questione dell'oggetto sguardo.

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della dimensione affettiva o empatica dell'altro piccolo o mio si­ mile. La questione dell'oggetto in quanto tale resta di vitale im­ portanza per lo psicanalista. Direi addirittura che rispetto a essa la questione del soggetto diventa secondaria. Lacan lo sa bene e afferma: On pense avec son objet.21 Il punto delicato di questa analisi è il momento della propria evoluzione - diciamo intorno al 1966, anno di pubblicazione de­ gli Ecrits , in cui Lacan vira dalla filosofia alla scienza. Il virag­ gio corrisponde all'invenzione dell'oggetto a. È durante questo viraggio che la sua fantasia scientifica cede e resta impigliata nei pregiudizi fenomenologici. In una nota aggiunta nel 1966 a D'une question préliminaire à tout traitement possible de la psychose (1957-1958)22 Lacan af­ ferma che l'oggetto a sarebbe già reperibile nel suo schema R nel "campo della realtà [. .] che sbarra". Siamo in territorio scientifico. L'accesso alla realtà è sbarrato. Il cognitivismo resta fuori dalla porta. Non male come esordio scientifico. Siamo alle soglie della distinzione tra conoscenza (prescientifica) e scienza. E nella stessa nota precisa (?) la funzione fantasmatica dell'og­ getto: "In quanto rappresentante della rappresentazione nel fan­ tasma, il soggetto originariamente rimosso $, sbarrato dal desi­ derio, sopporta il campo della realtà, che si sostiene attraverso l'estrazione dell'oggetto a, che ne offre la cornice". Ma il suo esordio scientifico non va molto in là. Lacan parla da psichiatra. Propone la teoria della fuorclusione del Nome del Padre come causa della psicosi. Difficile che dalla psichiatria, che è una tecnica di contenimento della follia a servizio del po­ tere, si possa spremere qualche goccia di scientificità. Difficile che dal discorso eziologico, che è il discorso del padrone, nel senso lacaniano del termine, si passi a un discorso scientifico. Al più, con le cause e i moventi, si fa della medicina legale. Esplicitamente l'oggetto a ricorre per la prima volta nel Re­ marque sur le rapport de Daniel Lagache: "Psychanalyse et struc-

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21. J. Lacan, Le sémi11aire. Livre XI. Les quatre co11cepts /011d ame11ta!es de la p sycha110/yse, cic., p. 60. 22. Id., Ecrits, cil., p. 553.

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ture de la personnalité" (1958). All'interno dello schematismo del vaso di fiori rovesciato, che complica lo stadio dello spec­ chio, l'oggetto a "fa rientrare nel rango di vanità i suoi riflessi negli oggetti a' della concorrenza onnivalente".23 In termini scientifici si direbbe che l'oggetto a è l'invariante - il punto fis­ so - delle sue innumerevoli rappresentazioni immaginarie. Ma Lacan non imbocca questa strada, che pure gli si era presentata. "Immaginare un gioco di immagini non basterebbe a descrivere la funzione che l'oggetto a riceve dal [registro] simbolico."24 La presa fenomenologica, appena allentata, si rinserra. Lacan va al­ la ricerca di una psicanalisi rigorosa. Si muove come Husserl alla ricerca di una filosofia come scienza rigorosa. E dalla psico­ si passa alla perversione, dove l'oggetto a si "chiarisce a partire dall'universale della propria relazione alla categoria della causa­ lità".25 Da allora (1963) l'oggetto a riceve il nome definitivo di oggetto-causa del desiderio. Con la convocazione del principio di causalità la virata lacaniana verso la scienza si arresta, o me­ glio si capovolge e regredisce alla fenomenologia da cui era par­ tita. La nozione di causa è un principio della scienza precarte­ siana, che è conoscenza per cognizione di causa. Che è cogniti­ va, non scientifica. Il vero sapere precartesiano (aristotelico) è conoscere attraverso le cause. Il vero sapere del desiderio è co­ noscere l'oggetto che lo causa. Ma la maggior parte dei feno­ meni che interessano alla scienza postcartesiana sono senza cau­ sa, "spontanei": il moto inerziale, il decadimento radioattivo, la nascita e l'estinzione delle specie biologiche, i terremoti... Con l'oggetto-causa del desiderio La can preclude definitiva­ mente l'accesso della psicanalisi alla scienza moderna, che pu­ re stava aprendo. Gli sviluppi successivi lo confermano, direi a rovescio, no23. lvi, p. 681. 24. lvi, p. 682. 25. Id., Kant avec Sade ( 1963 ) , in Ecrits, cit., p. 775. Questa è un'osservazione di con­ tenuto. Cè anche un 'osservazione di metodo, che testimonia la distanza dalla scientificità dell'operazione di Lacan. Che è dottrinaria, cioè procede per conferme dei dogmi stabili­ ti. Lacan non conosce la procedura di corroborazione e confutazione di congetture, come la si esercita nei collettivi di pensiero scientifico.

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nostante i buoni successi teorici, che portano Lacan addirit­ tura a individuare un oggetto del desiderio, che era sfuggito a Freud: la voce. Nel 1964, nel citato Seminario XI, l'oggetto a è già svanito come "oggetto eternamente mancante"26 o "origi­ nariamente perduto" .27 Direi di più. Allontanandosi da Car­ tesio, Lacan si allontana da Freud. Per Freud l'oggetto non è perduto, ma è da ritrovare.28 È lì davanti al soggetto - nel set­ ting freudiano è alle sue spalle-, tuttavia il soggetto non lo ri­ conosce. Tutto il processo analitico si svolge come lavoro ria­ bilitativo, affinché il soggetto riapprenda a riconoscere l'og­ getto rimosso. Si rilegga l'illuminante saggio sulla Verneinung del 1925. Per contro le acrobazie topologiche, toroidali e proiettive, di Lacan, dove l'oggetto a compare e scompare nel­ le autointersezioni di varietà bidimensionali, che tentano di presentare l'oggetto a come buco o come ciò che riempie la mancanza dell'Altro, sono solo elucubrazioni fenomenologi­ che prescientifiche, cioè senza oggetto.29 Peccato. Con il falli­ mento scientifico di Lacan viene meno anche il tanto decanta­ to ritorno a Freud. Piaccia o non piaccia, il ritorno a Freud è il ritorno alla scienza di Freud, non a quello che la fenomeno­ logia immagina della psicanalisi.30

Se Lacan fosse scientifico. Ma il fallimento di Lacan è prezioso. Leggere Lacan oggi può essere utile nella misura in cui l'esperi-

26. Id., Le sémùraire. Livre Xl. Les quatre concepts /011dame11tales de la psycha11alyse, ciL, p. lM. 27. Id., Ecrits, cil., p. 46. 28. "L o scopo primo e immediato dell'esame di realtà non è di trovare nella percezio­ ne reale l'oggetto c orrispondente a quello rappresentato, ma di ritrovarlo, convincendosi che è ancora presente", S. Freud, Die Verneù1u 11g (1925), in Sigmund Freud Gesammelte \\7erke, Fischer, Frankfurt a.M. 1999, v oi. 14, p. 14. "Trovare loggetto è propriamente un ritrovamento", Id., Drei Abha11dlu 11ge11 zur Sexualtheorie (1905), in Sigmwrd Freud Ge­ sammelte \\7erke, cil., v oi. 5, p. 123. 29. Fino all'introduzione delle catene borromee Lacan fa un uso strumentale della to­ pologia come riserva di metafore adatte alla trasmissi one della propria dottrina nei semi­ nari. Con l'introduzione delle catene borromee la topologia diventa un campo di ricerca. Mancando degli stmmenti adatti, la ricerca si rivelerà povera di risultati interessanti. 30. A suo modo, sotto il travestimento medicale, anche quello di Freud fu un falli­ mento scientifico. Ma questo è un altro discorso, che ci porterebbe fuori tema.

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mento lacaniano indica la strada giusta per non fallire la secon­ da volta.31 Bisogna ripensare l'oggetto, se si vuole inaugurare una psicanalisi come scienza. Questa è la lezione tuttora valida da trarre, a mio parere, dall'insegnamento di Lacan. Una possibilità di sviluppare questo insegnamento mi sem­ bra a portata di mano, se si leggono senza prevenzioni certe Meditazioni metafisiche. La enuncio brevemente come mia via personale alla scientificità della psicanalisi, che non chiedo ven­ ga condivisa, tanto meno dogmaticamente accettata. Mi basta che convinca chi legge che l'impresa di scientifizzare la psica­ nalisi non è impossibile, se si mollano gli ormeggi della dottri­ na fallogocentrica. Nel caso si tratta - non tanto paradossal­ mente - di abbandonare la dottrina lacaniana, rimanendo fe­ deli allo spirito dell'insegnamento di Lacan. Insomma, vale la lezione nietzschiana: non bisogna avere paura di tradire i mae­ stri per fare filosofia. Ripartiamo dal soggetto della scienza. Il soggetto è finito. Questo lo riconosce anche Lacan nel suo famoso discorso del1' ottobre 1967, dove istituisce il rito di passaggio della passe da analizzante ad analista. L'inconscio è sede di una catena finita di significanti.32 È facile dimostrarlo rigorosamente. Il soggetto è un portato del dubbio. In forma epistemica il dubbio è l'alter­ nativa tra sapere e non sapere. La quale è valida solo in ambito finito come il principio del terzo escluso, che esemplifica. Ergo il soggetto è finito. E l'oggetto? Sull'oggetto si gioca la differenza tra scienza e fi­ losofia. La psicanalisi sta a guardare? Speriamo di no. Le con31. Il secondo fallimento, in effetti, c'è già stato. Dopo quello del maestro, quello de­ gli allievi, che falliscono nel far funzionare il rito di passaggio istituzionale da analizzante ad analista. Esemplare il caso italiano del mancato avviamento della "Cosa freudiana" nel 1974. Il fallimento degli allievi si legge bene come raddoppiamento del non saperci fare con la scienza, esattamente come il maestro. Perciò René Scheu può parlare di fallimento del fallimento. Cfr. R. Scheu, Das Scheitem ist gescheitert. Laca11 in ltalie11 1953-1974 (Il fallimento è fallito. Lacan in Italia 1953-1974), in G.C. Tholen, G. Schmitz, M. Riepe (a cura di), Obertragrmg - Obersetzu11g - Oherlie/eru11g. Episteme u11d Sprache in der Psy­ choa11alys e Laca11s, Transcript-Verlag, Bielefeld 2001, pp. 58 sgg. 32. J. Lacan, Propositio11 du 9 octohl'e 1967 sur le psychanalyste de l'Eco/e, in Autres écrits, cit., p. 243.

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viene prendere parte al gioco, naturalmente dalla parte giusta e riconoscere, insieme alla scienza, che l'oggetto è infinito. L'oggetto della scienza moderna è infinito in matematica: in aritmetica è l'infinito numerabile, in analisi è l'infinito conti­ nuo. È infinito in fisica, dove i moti inerziali continuano all'in­ finito in modo rettilineo in assenza di forze. È infinito in biolo­ gia, dove si materializza nell'infinita varietà delle specie. È infi­ nito nelle scienze sociali sotto forma della complessità delle in­ terazioni socioeconomiche. Il moderno soggetto della scienza, pur essendo finito, sa manovrare questo oggetto singolare, che è non categorico, cioè non è rappresentabile con un unico mo­ dello, ma permette modelli diversi, tra loro non equivalenti: nu­ merabile, continuo e oltre. Il soggetto finito della scienza in­ venta, allora, i metodi giusti per trattare l'infinito: l'induzione matematica in aritmetica, il calcolo infinitesimale in fisica, il cal­ colo delle probabilità dalla teoria dei giochi alle scienze della natura, magari con l'ausilio della statistica. Chi non ci sa fare con questo oggetto - è in assenza d'opera, direbbe Foucault33 è il folle. La follia moderna non esisteva nell'antichità, quando neppure l'infinito esisteva, essendo stato dichiarato impensabi­ le da Aristotele ed epigoni.34 E in psicanalisi dove si trova l'oggetto infinito? Dappertutto, là dove si espande il desiderio dell'Altro: nello spazio fonico - è la voce -, nello spazio scopico- è lo sguardo-, negli spazi oro­ anali- sono il seno e gli escrementi. Altro che oggetti perduti! Sono lì. Sono il luogo dove il soggetto abita, ma non ne è il pa­ drone: lo spazio fonico, dove il soggetto è appellato all'essere; lo spazio scopico, dove il soggetto è sorpreso a godere dall'Altro; 33. La posizione di Foucault è all'epoca ancora logocentrica. Definì la follia come "lin­ guaggio escluso". L'assenza d'opera è as senza di significazione. Cfr. M. Foucault , La follia, l'assenza d'opera, in Storia della follia nell'età classica (1972), trad . di F. Ferrucci, Rizzoli, Milano 1994, p. 480. 34. Chi ci sa fare con l'oggetto infinito del desiderio è la nevrosi. L'isteria continua a negare g li oggetti finiti ("non è questo, non è questo... non è questo"). L'ossessione colle­ ziona oggetti finiti all'infinito. La perversione non ci sa fare bene con l'infinito, perché lo finitizza, rendendolo infinito solo in potenza, come ai tempi degli antichi. Chi non ci sa fa­ re as solmamente con l'infinito è il folle, che si limita a "raccontarlo" in modo stereotipato nei deliri di grandezza o di persecuzione.

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lo spazio orale, dove il soggetto è divorato dall'Altro; lo spazio anale dove il soggetto finisce come deiezione dell'Altro. Tutti questi spazi soggettivi, fondamentalmente alienanti, sono in con­ tinuità con il soggetto, che è immerso in essi, attraverso gli sfin­ teri corporei. L'iride, il timpano, l'ano, la bocca sono luoghi cor­ porei costituiti da veri e propri punti limite topologici, che ri­ stabiliscono nel godimento la continuità soggetto-oggetto, come articolazione finito-infinito.35 Naturalmente, ammesso l'infinito oggettuale, c'è tutta la me­ tapsicologia freudiana da riscrivere. Lacan ci ha provato, ma è rimasto prigioniero della meccanica pulsionale freudiana, che è fondamentalmente aristotelica. Ha sostituito il moto naturale dalla zona erogena alla meta della soddisfazione, come è nelle pulsioni sessuali, al moto di va e vieni, sostanzialmente circolare - perfetto secondo la fisica di Aristotele -, come è nella pulsio­ ne di morte, che oscilla dal Fort al Da. No, questi riflussi aristo­ telici, che hanno ingolfato la fenomenologia attraverso l'innesto della psicologia di von Brentano come teoria dell'intenzionalità, sono da dimenticare. Bisogna pensare, invece, in senso moder­ no. In particolare pensando come il soggetto finito riesca a pen­ sare quell'oggetto impensabile che è l'infinito - nelle nevrosi o nelle perversioni - o come non riesca a pensarlo - nella follia e nel delirio. Come il soggetto si inganna o non si inganna nel pen­ sare l'oggetto, come regolarmente lo allucina. Da qui la neces­ sità di riformulare la psicanalisi come scienza epistemica. Un la­ voro non da poco ma esaltante. Lacan è un fantasma. L acan è noto, tra l'altro, per la definizione

di fantasma- la Urszene di Freud- come rapporto di esclusio­ ne interna tra soggetto diviso e oggetto a, algebricamente:$ O a. Mi diverte concludere con leggerezza questo discorso tentan­ do di vedere Lacan stesso come fantasma. Tuttavia, data l'enor­ me risonanza pubblica suscitata dal tipo, sarebbe meglio, mu­ tuando l'espressione usata da Derrida per Marx, parlare di spet35. Dello imprecisamente, in topologia i punti limite sono punti di accumulazione: nei loro paraggi si addensa l'infinito.

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tro. "Uno spettro si aggira per la psicanalisi." O meglio, per le scuole di psicanalisi. Qual è il vero Lacan? Quello di Miller? Quello di Safouan? Quello di Melman? C'è uno spettro di La­ can come c'è lo spettro della radiazione luminosa. Il vero Lacan non esiste, se non come fallimento. Forse esisterà un giorno, il giorno in cui, anche per merito suo, avrà cominciato a essere pra­ ticata la scienza di Freud. Concludo con le parole con cui René Scheu introduce alla mia Unendliche Subversion: "Poiché viviamo nell'epoca della scienza, poiché il soggetto soffre del reale, portato al mondo dal­ la scienza, abbiamo bisogno della psicanalisi. Questo è il mes­ saggio di Lacan".36 Forse abbiamo ancora bisogno di Lacan...

36.

Turia und Kant, Wien 2008, p. 18.

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Una scrittura da ascoltare ANNALISA DAVANZO

La scrittura è 11 na traccia i11 Clii si legge un effetto di lù1g11aggio. [. . .] Occorre assiC11rarsi della scrittura, e con essa.[.. .] Questo effetto resta nondimeno secondo rispetto all'Altro ove il li nguaggio s'iscrive come verità. Giacché nulla di quanto potrei scrivere[. . .] reggerà, se non lo sostengo con 1111 dire che è quello della lingua, e con una pratica.1

acan ha scritto poco, neanche millecin­ quecento pagine bastano a raccogliere nei due volumi, Ecrits e Autres écrits, tutto quello che ha pubblicato durante la sua vita; il secondo comple­ ta la serie dei testi prodotti fino al 1976, ma non è stato Lacan a occuparsi di raccoglierli. La sua prima opera di scrittore resta un unicum, a cui si riconcede scrivendo nel 1970 la prefazione al primo dei due volumi degli Ecrits ristampati in edizione livre de poche (ma il secondo apparirà solo nel 1999). Qui segnala che, nei quattro anni intercorsi, gli psicanalisti se ne sono serviti non per intendere qualcosa del loro stesso fun­ zionamento inconscio ma, al contrario, per credere di saperlo padroneggiare, mentre tutto quello che padroneggiano sono dei termini che usano a vanvera. I sintagmi lacaniani che egli stesso ha messo in circolazione hanno fornito agli oggetti di consumo del mercato della cultura degli "imballaggi migliori". Mea culpa. Comunque non c'è metalinguaggio, è sempre de te che lafabula narratur, e se il nuovo lettore si lascia prendere dal suo gioco, se lo prende con un pizzico di scherzo, saprà di essere "uno degli intimi, e che può venire nella mia Scuola, a far pulizia" ,2 che è,

L

l. J. Lacan, Il seminario. Libro XX. Ancora. 1972-1973 (1975), Einaudi, Torino 1983, 121-122. 2. Id., Préface à l'éditio11 des Ecrirs en liv1·e de poche, in Autres écrits, Seui), Paris 2001, p. 391.

pp.

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aut aut,

343, 2009, 78-90

per l'appunto, ciò che ci fa tutti "uomini di fatica'',3 a condizio­ ne di voler intendere. Nel 1970, dunque, gli Ecrits aprono sulla Scuola, rinviano esplicitamente al seminario in cui da sempre Lacan sottopone i suoi percorsi all'innocenza del tout venant che incontra, qui, un lavoro paziente, attento a non saltare nessun passaggio che pos­ sa risultare utile a tradurre il linguaggio della teoria in termini correnti, in esempi immaginifici, capace di decomporre le astra­ zioni ripercorrendo a ritroso la via che le ha prodotte a partire dalla materialità della pratica analitica. Questo è il luogo e il tem­ po per quello che viene al primo posto del suo "ordine prefe­ renziale [... ]: che ci siano degli psicoanalisti" .4 Il che pone l'interrogativo su che cosa sia un insegnamento analitico, sulle modalità a cui Lacan affidava la trasmissione del suo insegnamento e, in definitiva, della psicanalisi stessa, dato che delle sue lezioni abbiamo i testi solo grazie a chi c'era e le ha stenografate prima, e registrate poi. Di sicuro non l'affidava agli Ecrits, che marchiava con un perentorio "pas à lire". Che farne, allora? Nel 1970 la Scuola a cui invitava il lettore funzionava a pieno regime, ma la stesura degli Ecrits, pubblicati nel 1966, viene giu­ sto dopo quel fatidico 1964 in cui si consuma la rottura con l'IPA ed egli fonda (il 21 giugno), l'Ecole freudienne de Paris, la sua Scuola. Questo viraggio viene scritto, assicurato negli Ecrits, che, come dirà nella prefazione del 1970, "furono non solo raccolti ma composti", riscritti in parte, a titolo di "memoria di rifiuti" ,5 non senza pagare il debito ai suoi antecedenti, ma rivendicando soprattutto la teoria e la pratica che gli hanno valso l'anatema, e se possono sembrare "disseminati su anni poco riempiti", è per­ ché ha dovuto "preparare il [suo] uditorio" .6 Ora, nel 1966, appunto, è col suo proprio desiderio che si confronta, è il suo desiderio la posta in gioco che preordina lo lvi, p. 389. Id., Serti/i ( 1966), Einaudi, Torino 197 4, voi. I, p. 229. 5. Id., Pré/ace à I' édi1io11 des Ecrits e11 livre de poche, cit., p. 388. 6. Id., Serti/i, cil., voi. I, p. 66.

3.

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stile con cui vorrebbe "condurre il lettore ad una conseguenza ove egli debba mettere del suo" .7 La questione non è comunica­ re il sapere, bensì causare il desiderio, senza cui non c'è trasmis­ sione, non della psicanalisi. Come dirà più tardi, la pagina stampata ha come suo destino la poubelle, la pattumiera, e con un gioco che ci consente la lin­ gua italiana, potremmo dire che va da un pube all'altro, metten­ do in gioco la libido, che evoca quel tanto di godimento che il desiderio veicola. A modo suo lo diceva anche Benedetto Croce, la creazione riproduce l'atto del creare, al punto che chi vi si ac­ costa con la sensibilità ma non anche col cuore saldo che l'atto esige, rischia la sindrome di Stendhal, la vertigine. L'obiettivo della scrittura è cogliere la carne della parola, il corpo sottile del significante, per scrivere l'atto stesso del dire, l'epifania del corpo parlante. È questo il punto di incontro di scrittura e psicanalisi che lavora, anch'essa, per mantenere aper­ ta l'interrogazione e l'invenzione nella scoperta dell'impossibi­ lità, per il soggetto, a dire di sé, del perché c'è, perché così, uo­ mo e/o donna. Come la scrittura e attraverso la scrittura, la psi­ canalisi ha di mira il punto insorpassabile che Freud ha chiama­ to Urverdriingung, la rimozione originaria, il buco nero in cui sprofonda il senso dei sogni e dei sintomi, la rimozione che co­ mincia prima che ci sia alcunché da rimuovere perché da subito, dal principio, parlare vuol dire parlare di altro rispetto a quello che conta. Questo impossibile a dire diventa la causa di tutto quello che si dice, che si cerca di dire, che si accanisce a dirsi e per questo lo si scrive, per catturare il suono, il sapore in bocca, il tempo dell'atto di dire che inevitabilmente "resta dimenticato dietro ciò che si dice in ciò che si intende" .8 Contro questo oblio si eser­ cita la scrittura di Lacan, ed è proprio lo sforzo di cogliere e fer­ mare l'atto dell'enunciazione che la rende illeggibile. Nei testi ci sono sempre degli indicatori della contingenza a

7. lvi, p. 6. 8. Id., Scilicet (1972), Feltrinelli, Milano 1977,

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p.

349.

cui si devono,dei riferimenti al qui e ora che ha fatto precipita­ re lo scritto,dei rinvii a fatti, persone e luoghi che ai lettori del suo giro erano riconoscibili anche dietro allusioni appena velate ma che ormai sono divenute opacamente enigmatiche. Agganci alla cronaca, quasi pettegolezzi, ironie, sarcasmi e proteste che evocano una dimensione di quotidianità, e aprono su quel con­ fine tra pubblico e privato in cui si impigliano le reazioni vivaci del dottor Lacan. È il versante del caso, che continua nella necessità dello stile, perché le argomentazioni si sviluppano, a volte si awiluppano, nel gongorismo che Lacan rivendica per sé e in cui riversa quel materiale magmatico di cui era fatto l'uomo,prima che il suo di­ scorso. La scrittura sola dice quel vero del vero che un allievo gli chiedeva al seminario, cioè nel posto sbagliato, il luogo in cui, per tenere un discorso, come qualunque soggetto, Lacan si pre­ senta assoggettato al significante e, come chiunque, prende la parola dal posto del sembiante. Nell'insegnamento lacaniano il sembiante non è né finzione né convenzione,è piuttosto l'incontro dell'essere pulsante con la lo­ gica implacabile del linguaggio, che ci esclude dal reale dell'esse­ re con lo stesso movimento con cui ce lo fa toccare; è la condizio­ ne, per il corpo, per entrare nel discorso e implicarsi nel legame sociale, e dunque si fonda su una scelta non estetica ma etica. La scrittura si esercita appunto a rompere l'involucro con cui il sembiante individua- ma anche rinchiude e nasconde- il sog­ getto per arrivare a nominare il buco originale in cui il reale del godimento è scomparso. "Essa non ricalca il sembiante [ ... ],ma i suoi effetti di lingua, quella forgiata da chi la parla" ,9 erodendo invece il significato,e per questo, in Litura/erre, Lacan la chiama litura, per segnalar­ ne l'effetto di cancellazione,di erosione. "Non c'è niente di più distinto dal sem biante del vuoto scavato dalla scrittura", vuoto che "è ciotola pronta ad accogliere il godimento." 10 La sfida del-

9.Id., Lriuraterre (1971), i n Autres écrits, cit., p. 17. 10.Ivi,p.19.

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la scrittura è quella di rendere reale il simbolico, mission impos­ sible, ma quello è lo sforzo, e di farlo fissando quel dire che so­ stiene tutto ciò che viene detto, a partire da un voler dire che veicola il desiderio del soggetto e può causarlo, da pube a pube, come dicevo, con l'effetto di far pullulare l'equivoco. Non stupisce allora che Lacan abbia affidato l'essenza del suo insegnamento ai materni, inequivoci e interamente trasmissibili in quanto costruiti con la lettera presa a prestito dalla scienza del reale per eccellenza: la matematica. Desertificate di ogni go­ dimento e di ogni senso, le letterine con cui scrive le sue formu­ le e i suoi algoritmi formalizzano il sapere in modo scientifico, vale a dire in un modo che esclude radicalmente (Lacan parla precisamente di Verwerfung, forclusione11) la verità del sogget­ to, del suo desiderio e del suo godimento. Resta a carico di cia­ scuno, di lui in primo luogo e di chiunque voglia assumersi il ri­ schio di un insegnamento che aspiri a essere analitico, animare quelle letterine che possono sostenerlo tra sapere e verità. C'è da chiedersi quale ruolo assegnasse al suo seminario, e a tutto il lavoro che gli ha dedicato per ventisette anni, rispetto al­ la trasmissione della psicanalisi. Lacan ebbe a dire che Freud, dopo aver messo tutto per iscrit­ to, aveva posto a custode della sua vita e della sua opera il più stupido dei suoi discepoli, senza offesa, quello che meno si sa­ rebbe azzardato a metterci del suo. E Lacan? Nel corso del Seminario XX dirà: "Tra tutti i seminari che qual­ cun altro deve editare, [quello sull'etica della psicanalisi] è il so­ lo che riscriverò io stesso, e di cui farò uno scritto. Bisogna pure che ne faccia uno". 12 Sta parlando del VII, che non farà, e invece quello stesso anno, nel 1973, inizia la pubblicazione dei seminari a partire dall'XI, quello tenuto nel 1964 nella nuova sede dell'E­ cole normale dopo la fondazione dell'EFP, ed è subito Miller. Nel suo testamento affiderà la responsabilità della sua eredità teorica a J acques-Alain Miller, brillante f ilosofo normalien a cui

11. Id., Scritti, cit., voi. II, p. 879. 12. Id., Il semi11ario. Libro XX. A11cora, cit., pp. 52-53.

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nel 1966 è stato chiesto/intimato di curare l'indice analitico, che egli trasforma in Indice ragionato dei concetti principali; lo fa an­ che precedere da un Chiarimento in cui esprime il suo entusia­ smo per l'espansione senza limiti della formalizzazione del di­ scorso, ma prende le distanze dallo stile ellittico "necessario, di­ ce Lacan, alla formazione degli analisti"; può farlo dato che, per parte sua, non è tenuto a preoccuparsi "dell'efficacia della teo­ ria in questo campo".13 Insomma, Lacan ha scelto di affidare la stesura dei suoi seminari a un non-analista; in seguito lo è di­ ventato, ma per tutti gli anni settanta era solo(?) un frequenta­ tore appassionato del suo corso e della sua Scuola, particolar­ mente dotato di esprit de géométrie. Nell' awertenza che inserisce alla fine del Seminario XI, Miller segnala che "si è voluto non contare affatto, e procurare, dell'o­ pera parlata [. . .], la trascrizione che testimonierà e varrà, in awe­ nire, per l'originale, che non esiste". L'originale è perduto, col ge­ sto e l'intonazione, l'enunciazione è perduta, ma resta la steno­ grafia fedele, "raddrizzata, parola per parola - lo scarto non am­ monta a tre pagine. Il più scabroso è inventare una punteggiatu­ ra, perché ogni scansione [. . .] decide del senso. Ma era il prezzo per ottenere un testo leggibile, e secondo questi principi sarà sta­ bilito il testo di tutti gli anni del seminario" .14 Il patto è concluso. Nei testi così stabiliti, confrontati con i primi, stenografati e poi stampati a uso interno dall' ALI (Association lacanienne in­ ternationale), la differenza si riduce davvero all'eliminazione di poche parole, necessaria per chiudere e riaprire le frasi che al­ trimenti si inanellano l'una nell'altra, e tuttavia l'intervento ha un peso che non si lascia liquidare così semplicemente. Anche se si annuncia nel modo impersonale, si è voluto non contare, Jacques-Alain Miller c'è, eccome. Ne darò due esempi che mi riguardano personalmente e che mostrano due modi molto diversi in cui prende corpo la sua presenza. 13. Id., Seri/ti, cit., voi. II, p. 902. 14. J.-A. Miller, "Avvertenza", in.J. Lacan, Il seminario. Libro Xl. I quattro co11cetti/011dame11ta/i della psicoanalisi. 1964 (1973 ) , Einaudi, Torino 1979, p. 281.

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L'ultimo capoverso del Seminario XI riguarda il desiderio del­ l'analista e, per la prima volta Lacan gli associa l'amore: il desi­ derio dell'analista, dice, è di ottenere la differenza assoluta che si ha quando, confrontato col significante primordiale, arriva ad assoggettarglisi. Tradotto, secondo me: il desiderio dell'analista punta a ottenere che il soggetto (l'analista stesso) accetti come nome proprio quel significante segreto che, originariamente, ha ricevuto, ovvero si è preso, dall'Altro; in altri termini, punta a che egli si assuma la responsabilità del suo fantasma. Esempio ispirato al Seminario III: qualunque cosa gli predichi l'Altro, è il soggetto, anzi è il bambino, teso com'è a capire chi è lui e che cosa vale per l'Altro, a raccoglierne i segnali e a tradur­ li in un enunciato della serie: Tu sei colui che mi seguirai, se vuoi, oppure che mi seguirà, così deve essere. È il soggetto che ascol­ ta, interpreta e decide. Esempio tratto dalla clinica: il tormentone esplicito della madre, "Tu sei (sarai) il bastone della mia vecchiaia", è diven­ tato, per un giovane ossessivo, "Tu diventerai ricco, a costo anche di andar lontano, per assicurare la mia vecchiaia", e adesso mette in conto alla madre l'ambizione che lo ha porta­ to all'estero dove qualcosa non ha funzionato per cui si trova ora, rientrato, sulla stessa linea di partenza dei più giovani di vent'anni, dunque in condizione di farsi mantenere da lei. Ora, il desiderio dell'analista concerne non solo quello che farà l'a­ nalista ma anche colui che, terminata l'analisi, si fa analista della propria esperienza interminabile. Dunque, per questo giovane consisterà nel separare le speranze della madre dal de­ siderio del suo proprio Altro (la regina Isabella?) a cui aveva risposto: "Sì, sarò Cristoforo Colombo", a partire da nient'al­ tro che dal godimento senza nome che lo consumava e che ha potuto così nominare e orientare. Questa operazione è banale solo nei termini umoristici del1' osservatore, ma a lui costerà lacrime e sangue perché compor­ terà la consapevolezza della solitudine, incondivisibile, in cui il soggetto desidera e gode. Qual è il guadagno? Solo qui, conclude Lacan, "può sorgere la significazione di

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un amore senza limiti, perché esso è fuori dai limiti della legge, dove soltanto può vivere" .15 Per come lo capisco io, il valore che si aggiunge al desiderio della differenza assoluta è l'accesso a un amore nuovo, fuori leg­ ge nel senso che non deve niente all'identificazione edipica e al narcisismo che la sostiene, giacché, come si legge nel Seminario VIII, Freud ha un bel distinguere tra amore enclitico e amore nar­ cisistico, di fatto l'amore in quanto tale non può che radicarsi nel narcisismo dato che si comprende in una formula unica che suona: "Lui ha quello che manca a me", "Io ho quello che man­ ca a lei" e/o viceversa, con la conseguente aspirazione a fare Uno, restaurando la sfera perfetta di Aristofane. L'amore a cui aprirebbe il desiderio dell'analista sarebbe in­ vece l'amore dell'alterità che lascerebbe sussistere l'Altro, e dun­ que anche il soggetto, nella sua mancanza, azzerando l'opzione "mi piace/non mi piace", "questo sì e quello no". Tale azzera­ men to mi pare il frutto più prezioso della psicanalisi in quanto è non solo la condizione per fare lo psicanalista, ma, ancora pri­ ma, la condizione per vivere da essere umano tra gli umani, che non sono sempre gradevoli, neanche come vicini in filovia, ma con cui possiamo scegliere di fare per amore quello che dovrem­ mo comunque fare per forza: conviverci. Avendo posto in questione questa lettura (avvalorata da un passaggio del Seminario xx) a un convegno internazionale, sono stata liquidata con l'affermazione che la virgola, messa dopo leg­ ge, determina, al contrario, che è solo nella legge che l'amore può vivere. Ma la virgola sarà di Lacan o di Miller? La persona interpellata mi aveva comunque detto la sua, e io mi sono tenu­ ta la mia. In un'altra occasione ero invece d'accordo con la stes­ sa persona nel rifiutare la cancellazione di un termine a favore di un altro nel Seminario VII. Il 12 gennaio 1983, nell'anfiteatro "des arts et métiers", Mil­ ler tiene il suo corso e parla, appunto, del seminario sull'etica a

l5. J. L-ican, Il seminario. Libro Xl. I quattro cm1cetti /011dame11tali della psima11alisi, cit., p. 280.

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cui sta lavorando per stabilirne il testo (che apparirà nel 1986). A proposito del rapporto di das Ding, la Cosa, col significante, dice, ci sono tre passaggi in cui Lacan cerca di definirlo. Pur­ troppo nella stenografia è scritto in tre modi diversi benché la locuzione sia evidentemente la stessa. Se ne era accorto molto tempo addietro, e sapendo di doverci prima o poi arrivare, ave­ va interrogato Lacan, il quale, come faceva spesso, lasciava ca­ pire che ormai toccava agli altri sapere, e che lui era preso dal se­ minario prossimo, non da quelli passati. E allora lui sceglie, sen­ za inquietudine, una sola delle tre formule per tutti e tre i passi, motivando la scelta col criterio, perfettamente filologico, della lectio Jacilior: il verbo scelto compare in altri sintagmi analoghi in diversi testi, contemporanei e posteriori. Molto ragionevole, salvo il senza inquietudine , dato che l'in­ certezza del testo rifletteva, a suo stesso dire, una difficoltà an­ che di Lacan. Ma allora, perché non scegliere la lectio di/ficilior , altrettanto scientificamente filologica, tanto più che risultava confermata a posteriori dagli sviluppi successivi, in particolare dal seminario su Joyce. In quella circostanza non era previsto che si facessero domande, e quindi mi sono silenziosamente scel­ ta la mia versione, quella stenografica. Qualche anno fa la per­ sona della virgola riapre il caso: durante una lezione di RSI ( 1975), ha interpellato Lacan facendo riferimento alla variante in causa, senza riceverne smentita, e dunque la considera confermata e si interroga sulla scelta editorale. La questione è tutta in una lezione, quella del27 gennaio 1960, che nell'edizione Seuil è intitolata: "Della creazione ex nihilo". Il nihil in gioco è in realtà un pieno, così pieno che non lasce­ rebbe posto al soggetto e al suo desiderio se il significante non vi introducesse un vuoto. Il seminario precedente, il VI, termina sul rapporto del soggetto con il tutto e, per non cadere negli ar­ chetipi junghiani della madre onnipotente, l'anno dopo Lacan ricomincia da Freud, dal Progetto di una psicologia, che descrive il costituirsi dell'essere umano nella conoscenza di sé e del mon­ do nei primi mesi di vita. Nel caos delle sensazioni che lo bombardano da dentro e da

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fuori, il neonato impara a distinguere delle sequenze legate ai tempi del soddisfacimento dei suoi bisogni perché quando la carica, provocata per esempio dalla fame, viene placata dall'al­ lattamento, la scarica, il ritorno all'omeostasi, si scrive come informazione e inaugura la serie di segni di realtà che consenti­ ranno il passaggio dal sistema primario a quello secondario. I ritorni dell'identico godimento avvieranno il processo della co­ noscenza e del pensiero riproduttivo in quanto introducono ogni volta delle informazioni accessorie che consentono di prevede­ re l'arrivo e di accompagnarne il compimento: il rumore del pas­ so che si avvicina, l'odore, i colori, la voce del godimento im­ minente. In seguito il linguaggio taglierà l'esperienza totale in due cam­ pi: da una parte, il nucleo dell'Io e le varianti apprese, dall'altra, la Cosa, das Ding, e il suo predicato, l'atto che innesta il godi­ mento: ciucciare, piuttosto che guardare o ascoltare o evacuare, a seconda della sensibilità sensoriale di ciascuno. Il soggetto ri­ conosce prima e registra poi l'evento del soddisfacimento che produce la scarica, ma nel godimento non c'è, se non come og­ getto godente/goduto. Ciò che sa, perché si è scritto nella sua carne e nella sua memoria, sono i segni che gli consentono di ri­ conoscere le cose, non di prenderle, perché "quelle che noi chia­ miamo cose sono residui che si sottraggono al giudizio" .16 Lacan ne legge dei lunghi passi che commenta letteralmente; distingue la Vorstellung, segno che si imprime nella memoria in­ conscia, con tutti gli altri che girano intorno alla Cosa, la quale si presenta sempre velata da questo sciame in movimento, dal Vorstellungsraprà'sentanz che rappresenta il significante come funzione di apprendimento. Dunque, c'è la Cosa, fuori da ogni contatto sensoriale che non sia il godimento nel suo precipitare, la cosa nella realtà, che en­ tra nell'atto ma resta fuori del giudizio, la Vorstellung che la scri­ ve, il significato al soggetto, e infine il Vorstellungsraprà'sentanz,

l6. S. Freud, Progetto di una psicologia (1895), in Opere, Boringhieri, Torino l 968, voi. 237.

Il, p.

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il significante che si deposita come sapere. L'una e l'altro costi­ tuiranno le coordinate di piacere che sono tutto ciò che della Cosa reale il soggetto ritrova nella realtà, a partire da quella Vor­ stellung in cui il Vor segnala ((quel terzo che si produce a partire dalla Cosa". 17 L asciamo pure da parte, come abusivo, il pensiero che va all'entrata a pieno titolo nell'insegnamento di Lacan (più di dieci anni dopo) del reale come ciò in cui il significante si ra­ dica e che fonda l'efficacia della scrittura, ma anche in questa ricostruzione è a partire dalla Cosa, fuori portata di mano e di discorso, che il soggetto ritrova l'oggetto mai perduto, e sono la Vorstellung e il suo rappresentante che ci mettono sulle sue tracce e aprono a quella "soddisfazione che non domanda niente a nessuno", che è la sublimazione.18 E allora potrebbe non essere un errore stenografico se poco oltre Lacan defini­ sce la Cosa, ((quel tanto di reale primordiale che guadagniamo dal significante". 19 Infatti, continua, tra l'organizzazione nel­ la rete significante e la costituzione nel reale dello spazio del­ la Cosa, ('non c'è niente", e per questo possiamo cercarvi l'og­ getto, perduto solo après coup.20 Senza un reale su cui sostenersi e a cui fare da velo, ((nel sim­ bolico niente spiega la creazione" ,21 ma per contro l'oggetto crea­ to può adempiere una ((funzione che gli permette di non evitare la Cosa come significante, ma di rappresentarla" .22 È una tesi: "Je pose ceci", e nella dimostrazione sostiene che ('al cuore del mito della creazione [. .] [la Cosa] mantiene la presenza dell'u­ mano" .23 Qui si tratta, dice, della Cosa in quanto essa definisce l'umano che, per l'appunto, ci sfugge e che definiamo "non di­ versamente da come abbiamo definito poco fa la Cosa, ossia ciò .

17. J. Lacan, Le sémi11aire. Livre \tII. L'éthique de la psycha11alyse. 1959-1960, Seui!, Paris 19 86, p. 75. 18. lvi, p. 137. 19. Id., Semùrario \'II, testo dattiloscritto, p. 126. 20. Id., Le sémi11aire. Livre VII. L'éthique de la psycha11alyse, cit., p. 75. 21. Id., Le sémi11aire. Livre lii. Les psychoses. 1955-1956, Seui!, Paris 1981, p. 202. 22. Id., Le sémi11aire. Livre \111. L'éthique de la psycha11alyse, cit., p. 144. 23. lvi, p. 150.

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che, del reale, costruisce del significante" .24 Infatti, continua, "l'uomo forgia il significante e lo introduce nel mondo [ . . . ] for­ giandolo ad immagine della Cosa, benché [ ...] sia impossibile immaginarla" .25 È un'illusione, niente può ridarci la Cosa, ce l'ha fatta perde­ re per sempre il nostro rapporto col significante, "come vi ho detto, la Cosa è ciò che, del reale, patisce [ ...] del significante" :26 mentre prima era l'uomo in quanto creatore a condividere la de­ finizione con la cosa che costruisce, ora la definizione della Co­ sa svuotata definisce anche "il soggetto in quanto ha da patire del significante" .27 Di fatto, le tre formule non sono affatto intercambiabili, e molti insistono da tempo per un'edizione critica dei testi che ri­ porti almeno le varianti più controverse, ma Miller ha sempre rinviato al mittente le proteste, e ne era anzi divertito: le edizio­ ni che cura le decide lui. E ha ragione, tanto più dopo aver mes­ so su Internet l'opera omnia, che tutti possono consultare, ma di cui solo lui stabilisce e regola la stampa. Non è questione di copy­ right, ma di coerenza: nello stesso seminario che ho seguito nel 1983, Miller enunciava il principio che lo guidava nel suo lavo­ ro di rielaborazione del percorso di Lacan, ed era un principio di ripartizione in tre grandi periodi che sarebbero stati indagati e sviluppati fino a toccarne il fondo, ovvero i limiti e la frontie­ ra di ciascuno con quello seguente: nell'ordine, l'Immaginario, il Simbolico e il Reale, e a questo principio si è sempre attenuto, a costo di oscurare, o semplicemente di non rilevare, i passaggi in cui Lacan eccedeva rispetto al sapere che stava dispiegando e che disaminava col rigore di una disciplina che a volte sembra costargli fatica, quando lascia cadere degli spunti che d'improv­ viso lo ispirano ma anche lo distraggono dagli approfondimenti che ha preparato. Lui è dalla parte di Miller quando scrive: "Suc­ cede che nostri allievi prendano l'abbaglio, nei nostri scritti, di 24. 25. 26. 27.

Id., Semrirario \'Il, testo dactiloscritto, p. 134. Id., Le sé111i11aire. Livre \!Il. L'éthique de la psychanalyse, cit., p. 150. lvi, p. 161. lvi, p. 172.

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trovare 'già lì' ciò cui il nostro insegnamento ci ha portato più tardi. Non basta forse che ciò che è lì non gli abbia sbarrato la strada?" .28 Per questo credo che abbiano ragione tutti: quelli che rita­ gliano delle prospettive strette e quelli che le allargano a tutto l'orizzonte, e sicuramente Lacan non ha smentito nessuna ri­ chiesta di conferma, secondo me non gliene importava una tri­ pette (espressione sua), cioè un fico secco. Del resto, non soste­ neva che, per lui, tenere il seminario equivaleva a passare la pas­ se senza sosta? La passe non si sostiene per iscritto, si parla, a qualcuno che prende appunti per poi riferirla, fedelmente, al cartello, i cui componenti dovranno farsi un'idea del testo origi­ nario, attraverso le coincidenze e le differenze dei testimoni, che apposta sono due. Grazie tante, dunque, a tutti i passeurs, i re­ gistratori, le telecamere, gli stenografi, i dattilografi, J acques­ Alain Miller e quanti ci portano i loro appunti, e rendono possi­ bile anche se non semplice, a chi lo voglia, tentare di cogliere, al di là degli scritti, la voce di Lacan, per ascoltare, negli scritti, quello che Lacan (ci) voleva dire.

28.

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Id., Seri/li, cic., voi.

I, p.

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Fr au lein... Freud-line... MARIA TERESA MAIOCCHI

Scommessa femminile del godimento. Il piccolo gioco di parole del mio titolo al lude al posto speciale, inquietante forse, che da subito la questione femminile prende nel campo di esperienza istituito da Freud. Was will das Weib? Che cosa vuole la donna? Interrogativo localizzato (nel desiderio di Freud), ma non confi­ nabile come locale nel dispositivo analitico. E tuttavia - senza la ripresa fattane da J acques Lacan - la domanda aveva tutta l'aria di poter rimanere senza una vera iscrizione nel dopo-Freud. Nel-

Riprendo molto volentieri qui il titolo di un lavoro di molti anni fa, cercando di farne un secondo giro. Nel presente lavoro, cercherò di connettere tra loro i tre passi che seguono, che mi paiono corrispondere a tre momenti decisivi, che hanno segnato il mio rapporto con l'insegnamento di J acques Lacan. "È vero - Freud ha messo in primo piano nell'interrogazione etica il rapporto sempli­ ce d ell'uomo e della d onna. Cosa davvero singolare, le cose non hanno fatto altro che re­ stare allo stesso punto. La questione di das Ding resta oggi sospesa a quel che c'è di aper­ to, di mancante, di spalancato, al centro del nostro desiderio. Direi, se mi permettete que­ sto gioco di parole, che si tratta per noi di sapere che cosa possiamo fame di questo dam, di questo danno, per trasfonnarlo in dame, in dama, nella nostra dama" O. Lacan, Il semi� nario. L ibro VII. L'etica della psiroanalisi. 1959-1960, 1986, Einaudi, Torino 1994, p. 106). "Noi rischiamo di dimenticare - nel campo della nostra funzione - che un'etica è al suo principio, e che di conseguenza, checché se ne possa dire sulla fine dell'uomo, e anche senza il mio assenso, il nostro principale tormento riguarda una formazione che si possa qualificare come umana" (Id., Sul bambino psicoti co, ottobre 1967, "La Psicoanalisi", 1, 1987, p.14). "Se anche i ricordi della repressione familiare non fossero veri, bisognerebbe inventarli, e non si manca di farlo. Il mito è appunto questo, il tentativo di dare forma epica a ciò che si opera secondo stmnura. L'impasse sessuale se cerne le finzioni che razionalizzano l'impossib1� le da cui proviene. Non dico che sono immaginate, ma vi leggo come Freud l'invito a quel reale che ne risponde. L'ordine familiare non fa che tradurre che il Padre non è il genitore, e che la Madre resca a contaminare la donna per il piccolo d'uomo; il resto consegue" (Id ., Televisio­ ne, in Radiofonia. Televisione, 1974, Einaudi, Torino 1982, corsivo mio).

aut aut,

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la logica del soggetto "finalmente in questione" il godimento femminile finirà invece per costituire il bordo paradosale, il li­ mite eterogeneo - in qualche modo tuttavia percorribile - della dimensione significante, in una logica di oltrepassamento, in un'etica della singolarità. Nella ripresa lacaniana, infatti, l' enig­ ma della femminilità - per ritornare ai termini finali di Freud, negli scritti degli anni trenta sulla femminilità - si chiarisce, col vantaggio di un ex post: linea di confine, certo, e quindi anche li­ nea di sviluppo. Lo si coglieva anche nel cosiddetto "dopo Freud", in una elaborazione concettuale e clinica che, dopo l'ac­ ceso - e sospeso - dibattito degli anni trenta, non se n'è più mo­ strata troppo sensibile. Ed è già una questione. Che cosa infatti si stava cancellando, e contro la lettera di Freud? E perché? Lo strano fascino di questa insistenza laca­ niana sulla mancanza della struttura, nome di un buco, si è per me raddoppiato in virtù della doppia valenza di questo mancare: da un lato, proprietà logica dell'Altro simbolico, che fa del sog­ getto un manque à étre (ma, tutto sommato, non è di esperienza questo manque . ?), dall'altro e più intrigante lato, come e cce­ denza del femminile nei dintorni, sui bordi, di questa mancanza. Su entrambi i versanti, riformulazione di un'etica, adeguata ma come? - al soggetto della nostra epoca, su cui la psicanalisi pretende di operare, il soggetto nato dall'awento della scienza, decisivo nel "porre la questione di un'etica all'altezza di un tem­ po che si specifica come il nostro", secondo un'indicazione solo di qualche mese precedente l'inizio dello stesso Seminario VII. Lacan raccoglie dunque l'ultima enigmatica parola freudia­ na, che lascia in un inquietante sospeso pratica e dottrina: "Ri­ fiuto della femminilità [ .. .]per entrambi i sessi". Ablehnung, let­ teralmente, operare senza sostegno, deriva di una a-versione, via dalla donna ... Ancora mi sorprende che da un lato questa para­ dossalità epistemica e clinica si sia potuta affrontare, ma anche, dall'altro, mi colpisce la illeggibilità di cui questa elaborazione lacaniana si avvolge, specialmente con quel provocatorio "non esiste!" - La-donna non esiste... - che va a scuotere, ma anche a rinforzare, quell"' eterno femminino" - per dirla in modo tanto .

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obsoleto e tradizionale-, quella perfino folkloristica enigmati­ cità e sottrazione con cui le donne - quelle che invece esistono, eccome- hanno da sempre un po' flirtato, per trovare un nome, un po' protettivo e un po' impronunciabile, alla loro eccezione, a loro stesse - insopportabile paradosso - inaccessibile. "La don­ na è mobile", si sa... Ma da dove muove Lacan? Quale scommessa lo spinge ad af­ frontare il "continente nero" freudiano e le sue ignote sponde? I grattacapi del ritorno a Freud- che già lo ponevano in rottura con le derive tecnoscientifiche e psicoterapeutiche del "dopo Freud"- non gli bastavano? Perché e come affrontare le sabbie mobili di un femminile senza universale, femminile solo plura­ le? Quello verso cui Lacan procede non è infatti una pretesa e li­ quidatoria "psicologia della donna" anni quaranta, o una clinica al femminile anni settanta, ma qualcosa che finirà per ricentrare, con il rischio di una sowersione, l'intero apparecchio della sua invenzione: toccando i termini epistemici e clinici della struttu­ ra e quindi della formazione, reperendo l'analista secondo una posizione marcata dal non tutto del femminile, tale per cui non può esserci che dell'analista, riduzione partitiva, e conseguente parzializzazione. E anche: punto esplicito di congiunzione della clinica con la politica, in cui la psicanalisi deborda dal chiuso di una clinica del setting per mettersi in causa come discorso. E an­ che qui, un rischio assunto. Nel fragore del femminismo anni settanta, nelle sue provoca­ zioni qualche volta retoriche, questa voce fuori dal coro viene a costituire il campo di una vera novità: la questione femminile non è riducibile in un opporsi al "maschile", ma ridefinisce la problematica etica del soggetto, fino a segnare - come dicevo la posizione dell'analista. Il non aver indietreggiato davanti a questa sfida e alla pregnanza dei suoi effetti, ha fatto per me del­ l'insegnamento di Lacan un incontro. La riformulazione della questione del padre, ossessione che al seguito di Freud percorre tutto l'insegnamento lacaniano, non troverebbe quella via d'u­ scita così clinicamente attuale e politicamente transitabile se non passasse per lo sconvolgimento che La- donna apporta, con la

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conseguente provocazione di un godimento ectopica, eteros inassimilabile, che perfora la struttura proprio nella sua irrinun­ ciabile consistenza edipica. Spingendo al limite la tenuta del significante paterno, misu­ ra di normalizzazione e regolazione simbolica - ancora a fine anni sessanta - di quel "godimento, proibito a chi parla come tale", Lacan fin da subito tende a ridefinire la problematica freu­ diana dell'Edipo, a cominciare dalla stessa metaforizzazione pa­ terna del desiderio della madre, che impedisce che le fauci del divorante godimento materno si chiudano sul bambino. Lo im­ pedisce, ma non del tutto: qualcosa resta zoppicante, non tutto quel che si agita fuori significante viene assorbito dall'apporto della Legge paterna, dubbio che già si insinua nell'efficienza del padre simbolico; ma si profila anche qualcos'altro, qualcosa che non è affatto riducibile all'articolazione edipica e al suo resto fuori significante, qualcosa che quindi va al di là del "sogno di Freud", il sogno edipico di una efficacia totalizzante della fun­ zione che il padre gioca. Sogno che il padre costituisca un vero limite dell'esperienza, trasgredire il quale comporti un certo inammissibile "ripudio della realtà". Come sull'Acropoli ... La questione femminile, quella di "un godimento avvolto nel­ la sua contiguità", si pone dunque come punto critico e poi di svolta dell'ardua dottrina del godimento, che - pur proibito al parlante - per la donna lacaniana comunque filtra, in quanto "la mediazione fallica non drena tut to" della pulsione, particolar­ mente "nell'istinto materno", ci dice un Lacan di anni ancora piuttosto antichi.1 Ma che cosa lo spinge a un'operazione tanto rischiosa, disassamento delle sue stesse premesse di una fonda­ mentale regolazione simbolico-linguistica del soggetto? Rischio per cui nello stesso tornante di fine anni cinquanta è posta la Legge, come limite al versante mortifero della pulsione, ma spun­ ta anche il suo radicale scacco, femminile.

l. .J. Lacan, Appunti direi/ivi per 1111 Co11g1·esso .ml!a sessualità /emmimle (1958), in Scrit­ ti (1966), Einaudi, Torino 1974, pp. 726, 732.

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D(e)addy-line, e oltre... Il campo lacaniano. Con "il rifiuto della femminilità, Ablehnung der Weiblichkeit" ,2 il cammino freudia­ no è interrotto. Improvvisa sulla scena si erge, invalicabile, la "roccia della castrazione", l'hic sunt leones dell'analisi, che vale "per entrambi i sessi". In che modo? Penisneid, al femminile, e rifiuto della passività rispetto al padre, al maschile: un limite fal­ lico-paterno della struttura varrebbe per entrambi i sessi, che si definiscono in una sorta di concorrenza verso il padre, come non affronto della posizione femminile. Si riaffaccia peraltro qui l' an­ tico problema freudiano di una simmetria-dissimmetria dell'E­ dipo, tra maschile e femminile. La deadline dell'analisi è insom­ ma una daddy line, o meglio d(e)addy line, per includere nel gio­ co di parole quel "padre morto" che Lacan indica come la per­ fetta efficienza simbolica del padre. Il che ci è sorprendente­ mente confermato dal testo che appena precede Analisi termt� nabile e interminabile (1937), e cioè Un disturbo di memoria sul­ l'Acropoli (1936), cui alludevo sopra. Testo molto particolare, apparentemente d'occasione, in cui un Freud quasi trasognato ci parla del breve insorgere di un sintomo, riferito a molti anni prima, all'ingresso della sua vita di giovane adulto: il ricordo di un momento di straniamento awenuto sull'Acropoli di Atene, mitica meta di un tormentato viaggio del giovane Freud verso il mondo della divina perfezione classica. Ormai in tarda età e ma­ lato, Freud vi riconosce il "rifiuto di un frammento di realtà", che risponde di un certo orrore di fronte all'emergere del reale del suo fantasma: aver superato la soglia del Padre. Il sintomo quindi sorge in realtà a protezione del Padre come perimetro del desiderio e della realtà a esso connessa. Nel ricordo bizzarra­ mente riemerso nella rielaborazione occasionata da questo scrit­ to, Freud mostra la pregnanza del suo fantasma che poi si insi­ nua in Analisi terminabile e interminabile: la funzione paterna, condizione e limite del soggetto. Nec plus ultra. E tuttavia: que­ sta funzione di limite non è un segnavia che permetta il reperi-

2. S. Freud, Analisi ter111i11ahile e i11termi11ahrle (1937), in Opere, Boringhieri, Torino 1979, voi. XI, pp. 533-535.

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mento dei modi singolari del suo godimento? È in ogni caso su questo sentiero che Freud viene meno, si arresta: sulla roccia dell'Acropoli, sulla tomba del padre.3 Se questo fuori parola, limite femminile del simbolico, è pun­ to di arresto, la questione femminile risalta nella sua dinamica aporeticità. Il passo di Lacan si spinge a fare di questo limite un bordo, che pure - come dimensione fuori significante - inizial­ mente va a costituire il godimento, appunto come "proibito a chi parla come t ale", cui è il piacere stesso a fare da "limite" (1958); ma ecco che proprio questo limite, in cui Lacan a suo modo rigorizza e singolarizza l'Edipo freudiano, trova la via fem­ minile per risituarsi, come "godimento Altro" (1972), ecceden­ za, radicale alterità, ma tuttavia posto segnato nella struttura. Questa singolarità del femminile fa uscire l'enigma freudiano dal "continente nero", e permetterà di interrogare della donna il suo essere non tutta nel discorso, non tutta dentro la logica falli­ ca, dentro la logica della simmetria, il suo essere La- donna, che ha un rapporto fondamentale con la struttura in quanto bucata, quel materna S(A), indice - già nel grafo del desiderio (ancora un Lacan fine anni cinquanta) - dell'orientamento della struttu­ ra e del percorso di una cura: significante della mancanza del1' Altro, che è quindi un significante singolare, in quanto svuota l'ordine significante come tale. Il godimento femminile, quello che fuoriesce dall 'iscrizione edi­ pico-fallica della donna, indica un non tutto fallico dell'esperienza, che oltrepassa la logica del misurabile, barrando un preteso uni­ versale di tutte le donne, se esse sono- ciascuna- non tutta. La sin­ golarità del godimento femminile è dunque strategica, poiché mo­ stra in atto la struttura come affetta da una mancanza di simbolico che il padre non satura e non sutura del tutto, ma che il soggetto non può non affrontare. Il reperimento di pas toute si mostra soli­ dale con ciò che l'apparecchio clinico-epistemico di Lacan incon­ tra dall'inizio, nello scorcio iniziale del secolo, e va quindi a rinno­ vare: la questione del padre e della sua crisi, e dei modi con i quali 3. Cfr. il mio Dal Padre al nome, "Promuover e famiglia nella comunità. Studi interdi­ sciplinari sulla famiglia", 22, 2007, pp. 77-109.

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esso sussiste. Grande tema lacaniano conclusivo, quello della plu­ ralizzazione dei Nomi del Padre: da seminario mancante, Les Noms du Père (1963-1964, interrotto) a Les non-dupes errent (intraduci­ bilejoke: i non innocenti errano), da cui - nel gioco di lalingua consegue il sintomo, e come sinthomo, come nome soggettivato per così dire - del Padre, della sua operatività in quanto tale.

La risorsa femminile. La scoperta freudiana segnala - da cima a fondo - qualcosa di non regolabile nel rapporto tra i sessi, che non tarda a porre la questione dei due che - a dispetto di ogni ideale di complementarietà - non fanno uno, la questione dun­ que della dissimmetria radicale tra uomo e donna, di cui Lacan darà una formulazione provocatoria quanto rigorosa, urtante il disco-corrente, le disque-courscourant: questo rapporto "non esi­ ste", non esiste il rapporto sessuale. Ma come? E allora, la cop­ pia, la genitalità, la complementarietà, il mito platonico? È che il regime di questa dissimmetria - circoscritta, mimetiz­ zata, aggirata dai mille escamotage di cui la cultura ha saputo ser­ virsi, particolarmente nell'artificio dell'amor cortese e nei suoi ri­ torni da romanzo - questo regime è dato dal sottrarsi delle posi­ zioni femminili dell'essere ali'univocità obbligante dell'imperio fal­ lico: la donna non è tutta catturabile in un godimento in ordine al fallo, non è - appunto - tutta, è pastoute. Può dispensarsi da que­ sto obbligo. E per questo è La donna. Al modo di Freud, il nome di questa dissimmetria è "invidia del pene" ,4 al modo di Lacan, ar­ riva a essere "godimento supplementare".5 La sintesi- un po' bru­ tale - ci serve a delineare la vera posta della questione femminile che - lasciata in sospeso da Freud - Lacan fa uscire dal chiuso di una localizzazione psicologica, alla Helene Deutsch, per connet­ terla al suo proprio "tormento" etico-politico, in vista di "una for­ mazione che si possa qualificare come umana", per riprendere uno dei passi da cui il mio testo muove. 6 Se la donna non esiste che nel Freud, Analisi termùzabile e i11termi11abile, cit., p. 533. Lacan, Il seminario. Libro XX. Ancora. 1972-1973 (1975), Einaudi, Torino 1983, speciaimente il cap. VI, in particolare p. 73. 6. Cfr. la nota introduttiva. 4. S. 5. J.

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suo accesso particolare alla mancanza dell'Altro, se non è tutta ri­ compresa nella logica imperativa del significante, di cui pure d'al­ tra parte - intrigantemente - partecipa, se non è tutta, è non-tutta anche come madre, e occorre poterne leggere e trattare certe con­ seguenze, che toccano anche i modi sociali, gli aggiustamenti cul­ turali, le eventuali innovazioni nel campo del legame tra i sessi e tra le generazioni, di una "trasmissione al livello del desiderio". Per la psicanalisi la clinica non è che un livello della sua politica. Certo è che questa sovversione dei legami di partnership ses­ suale che la scoperta freudiana comporta, sempre più visibil­ mente in atto, "per poco la psicoanalisi non la mancava". Questa avvertenza di lettura di Colette Soler- nel suo fondamentale Quel che Lacan diceva delle donne - pone la questione femminile, e la sua attualità postmoderna nel movimento psicanalitico, sul pia­ no che le compete, della politica della psicanalisi. C'è qualcosa di inevitabile nell'enigma del femminile, oggi più di ieri. Nell'enig­ ma del femminile, oggi più di ieri, c'è qualcosa di inevitabile per la psicanalisi come discorso. E - come ogni inevitabile suppone non è detto che l' evitamento sia del tutto scongiurato. Si coglie del resto subito la portata di un disorientamento dot­ trinario nell'intero dibattito degli anni trenta, cui accennavo all'i­ nizio, in cui tante sono sul proscenio: Helene, Melanie, Jeanne, Ruth, Ermine, Marie, Karen, Anna e Lou, naturalmente, ma an­ che altre si affollano sulla movimentata scena: Hermine, Sabine, Dorothy, Alix, Hilda,Joan, Melitta ... Davvero tante le donne ana­ liste, tante le allieve di Freud, che intravedono, sfiorano, costeg­ giano, ma non attraversano la soglia, la linea di questa irrimedia­ bile, feconda, reale dissimmetria, alterità, eterità del Jemminile.7 L'evidenza - spesso così rumorosa nell'isteria - del riferimento fallico - ben presente in ogni soggetto femminile - finisce per coprire, subornare, eclissare la posizione di La donna e del suo 7. In Ruth Mack Bnmswick troviamo, tuttavia, una posizione originale, che andrebbe interrogata più da vicino: la precocizzazione della scelta edipica della bambina p one degli interrogativi alla via fal lica. Cfr., su queste tematiche, il mio Do1111e a11aliste, do1111e i11 a11a­ lisi. Le migliori... le peggiori all'occasio11e, intervento al convegno internazionale Storie di ct1si, storie di pazie11ti, Roma, 7-9 novembre 2008, organizzato da Association intematio­ nale d'histoire de la psychanal yse.

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non-fallico godimento, riducendola alla figlia edipica, e dunque all'attesa del dono riparativo dal padre al fallo che manca, schiac­ ciandola insomma sulla madre - quella che ha o quella che sarà - e/o in concorrenza con essa. È questa arcaica onnipotenza del­ la Mater come Matrix che da subito lascia in sospeso - o fa de­ clinare in senso solo fallico - la questione "donna". D'altra par­ te, Lacan - che invece in sospeso non la lascia - non segue certo un cammino lineare: passa molto tempo prima che il buco lo gi ­ co della struttura - significante della mancanza dell'Altro, S(A)8 - si possa cogliere come il bordo del fuori simbolico con cui la posizione femminile ha enigmaticamente rapporto. "L'Altro non è semplicemente il luogo in cui la verità balbetta. Esso merita di rappresentare ciò cui la donna è fondamentalmente in rapporto. [... ] La donna ha rapporto col significante di questo Altro, in quanto, come Altro, può restare solo e sempre Altro. [. .. ] L'Altro, quel luogo ove viene a iscriversi tutto quel che può articolarsi del significante, è, nel suo fondamento, radicalmente l'Altro. Ec­ co perché questo significante [. . .] contrassegna l'Altro in quan­ to sbarrato - S(.bX.)" .9 Resta che Freud - dal canto suo e malgrado il permanente privilegio culturale della scelta "materna" della donna della sua epoca - ha pur intravisto qualcosa di speciale, di inquietante, nel doppio movimento edipico della bambina, 10 qualcosa che gli fa comunque porre in primo piano la questione femminile come 8. Matema decisivo - come dicevo sopra - nell'insegnamento lacaniano, dai molti no­ mi: "significante della mancanza dell'Altro", "significante speciale", "per cui non c'è Altro dell'Altro, non c'è metalinguaggio", "verità senza verità" ecc., che appare appunto nel biennio 1957-1958, nella costmzione del grafo, già nel commento ad Amleto nel Semina­ rio VI, e resterà centrale, malgrado i vari rivolgimenti, particolarmente in questa saldatura cmciale con la questione femminile, degli anni settanta e oltre. 9.]. Lacan, Il semù1ario. Libro xx. Ancora, cit., pp. 79-80 (corsivo mio). 10. A differenza che per il maschio, che dovrà sostituire il primitivo oggetto d'amore, ma potendone mantenere invariate le caratteristiche stmtturali, la bambina si trova preco­ cemente davanti a una biforcazione pulsionale, tra corrente pre-edipica - che la tiene fis­ sata al potente imperdibile oggetto materno - e un "volgersi verso il padre" non garantito nei suoi esiti, dall'incerto e plurale destino: scelta materna, identificazione omosessuale al padre, e poi la terza, misteriosa opzione, il rifiuto della sessualità. Che possiamo forse og­ gi intravvedere in alcune forme cliniche che privilegiano un oggetto fatto di ripiegamento narcisistico. Cfr. S. Freud, "La femminilità" (1932), in Introduzione alla psicoanalisi (nuo­ va serie di leziom) (1933), in Opere, cit., voi. XI, pp. 222-223.

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"enigma". Freud ci mostra così- awolto in questo "orrore" del femminile che contraddistingue il limite dell'identificazione quello che per lui è un punto di non chiusura, punto di fuga, perdita che filtra dalla struttura, e che la rende poco maneggia­ bile, poco propizia a essere definitivamente trattata dal dispie­ gamento simbolico-significante che pure ha aperto le porte alla scoperta dell'inconscio. Il femminile è dunque il modo di Freud di parlarci del "suo" reale. "Che vuole una donna?" resta enig­ ma impenetrabile, su cui il segreto del legame indissolubile ma­ dre-figlia mantiene un marchio che non si lascia decifrare: gri­ gio, remoto, inaccessibile, della consistenza dell'ombra.11 E an­ che "disastro". "Non sono riuscito a penetrare perfettamente nemmeno un caso", dice un Freud improvvisamente dimentico di tutta la schiera di Friiulein che dal suo divano hanno tessuto il lungo filo della loro storia di figlie. E la "corrente pre-edipica" (1931e1932) che legherebbe la bambina alla madre non è cer­ to meno scandalosa per una dottrina che ha fatto del padre e del suo perimetro simbolico l'area stessa dell'analizzabile, nonché la prima soglia identificatoria.12 Dunque sorprende proprio la rimozione scesa su questo pun­ to aporetico della dottrina, questo strano rifiuto della specificità edipica del femminile, pur progressivamente così evidenziata nei testi di Freud, se è Freud che ce ne annuncia tanto provocato­ riamente l'impasse: è forse per questa sorpresa che permane, che è ancora per noi al lavoro. Il passo di Lacan è questa sorpresa e questo interrogativo, che scava di nuovo - della questione ri­ mossa - il posto sulla scena attuale del legame tra i sessi, che pu­ re la scoperta freudiana aveva messo in gioco, per quanto occul­ tata nel dibattito pro-materno degli anni cinquanta, in cui la m a­ dre, piena, satura, della nostalgia pre-edipica non si lascia "con­ taminare" - ancora per stare ai termini di Lacan13 - dalla donna, 11. Id.,Sessuali1à/emmi111le (1931), in Opere, cit., voi. Xl, pp. 64-65. 12. Con il primo tipo di identificazione pe r incorpo razione simbolica, come indicato in Psicologia delle masse e analisi del/' Io (1921), in Opere, cit., voi. IX. Su questo nodo com­ plesso dell'identificazione, cfr. anche l'ultima parle del Seminario VITI, spe cialmente la le­ zione del 7 g iugno 1961, dedicata al tratto unario, ei11 ei11ziger Zug. 13. Cfr. la nota introduttiva.

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dal suo abissale svuotamento. In realtà, come indicavo, "una sov­ versione sessuale era già in corso nella civiltà . Impossibile da mi­ sconoscere in questo inizio del XXI secolo, e per poco ne psicana­ lisi non ne mancava la mira" .14

Edipo, non senza Antigone. Dal testo del 195815 - anno cruciale per più aspetti all'Etica della psicoanalisi ( 1959-1960) e poi con le straordinarie novità di Ancora (1972-1973), che dell'Etica co­ stituisce - a dire di Lacan - "una seconda estrazione", la que­ stione femminile prende un rilievo sempre più decisivo nell'in­ segnamento lacaniano, nella immediata suite del Seminario 6 XVII, 1 e non solo come nodo metapsicologico: essa risponde fin da subito di quell'interrogativo politico-discorsivo17 che diceva­ mo, ed è in questo che viene a costituire un percorso che riten­ go illumini non una problematica locale della psicanalisi, aggiu­ stamento di una corretta teoria dell'Edipo - pur di vaglia, visto il dibattito accesissimo e provocatore che apre negli anni trenta tra le allieve, e auspice Freud- quanto la psicanalisi stessa, il suo essere discorso, cioè modalità di legame sociale, in una politica della contingenza, congruente con gli elementi che la portata cli­ nica delle sue elaborazioni ha messo in campo, pratica discorsi­ va che apre e riapre al soggetto il margine della scelta. La psicanalisi in quanto discorso consente di leggere - pren­ dendo appoggio dagli stessi elementi - altre modalità discorsive in atto, farne critica e promuoverne il passaggio, piuttosto che promuoversi come pratica adattiva e riadattiva per un soggetto -

14. Così nella quarla di cop ertina del leslo di Colelte Soler, Quel che Laca11 diceva del­ le do1111e (2003 ), Franco Angeli, Milano 2005. 15. Cfr.J. Lacan, Appunti direttivi per un Congresso sulla sessualitàfemmùrile, cit. Mol­ ti dei testi decisivi del suo insegnamento , raccolti da Lacan stesso negli Scritti, sono di que ­ sto stesso anno, 1958. 16. Cfr. Id., Le sémi11aire. Le livre X\!III. D'un discou rs qu i ne serait pas du sembla11t. 1971, Seui!, Paris 2006, e i seguenti XIX, . .. 011 pire, inedito, e soprattutto il XX, Ancora, am­ pi amente citato in questo articolo . Cfr. anche lo scritto L'étourdit (1972), ora in Autres écrits, Seui!, Paris 2001. 17. Id., Appunti direttivi per un Co11gresw sulla sessualità femminile, cit. Il paragrafo conclusivo si intitola: La sessualitàfemminile e la società e adombra che la promozione pro­ pria de i l egami f emminil i, alludendo al movimemo delle Precieuses, si p ossa intendere in controsenso, come "contraria all'emropia sociale» (pp. 732-733).

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irriducibile alla civiltà che lo porta, peraltro assai poco incline a la­ sciare aggiustare in una "terapia" quella dimensione pulsionale oscura e intrattabile che Freud- in una rischiosa sfida al suo stes­ so ancora nascente movimento - ha pensato di chiamare Tode­ strieb, "pulsione di morte": "muta", cioè fuori legame. Oggi più di ieri il clinico - e il politico? - non può non esserne awertito. Poi­ ché la forma con cui questo intrattabile si produce oggi non è la rottura dialettica, la denuncia sovversiva, la rivolta al disagio, ma un liquido - silenzioso, appunto - assenso ali'offerta mortifera di godimenti al riparo dalla perdita. L'offerta ormai così variata di di­ pendenze, presenta oggetti sempre più facilmente simbiotizzabili, imperdibili paguri bernardi della soggettività "nell'epoca dei trau­ mi" 18 (e quindi alla perenne ricerca di una loro protezione aneste­ tica), oggetti che non implicano separazione, ma pura annessione, addiction appunto, malinconica. Come sappiamo dal fenomeno degli hikkomori, 19 anche lo spazio domestico, la quieta stanza dei giochi appena trascorsi, da scena della esuberante conflittualità edipica, può trasformarsi essa stessa in "sostanza", fare attacca­ mento senza perdita, prefigurando lo spazio ultimo e silenzioso del­ la bara. Il problema clinico - e cioè politico - che si pone è quindi sull'effettività del margine di una scelta del soggetto. Ed è quindi qui che l'itinerario lacaniano, che reperisce[$ don­ na, mostra tutto il suo interesse. Come infatti ritagliare questo spa­ zio logico della scelta? Ma il soggetto freudiano non era quello del determinismo psichico? Sta di fatto che il soggetto lacaniano, che di quello freudiano si reclama parente stretto, è soggetto dell'in­ conscio "non ontico, ma etico" ,20 e seguendo Freud e il suo al di là, scava nella macchinazione significante-edipica la sua questione: non è vittima delle sue circostanze inconsce, poiché si abilita ad as­ sumerne le conseguenze. Un soggetto "sempre responsabile". Per situarci di nuovo nei testi: il Seminario VII è dell'anno sue18. Cfr. C. Soler, L'epoca dei traumi. L'époque des traumatismes, Biblink, Roma 2004. 19. Fenomeno clinic o inquietante sorto in Giappone e ora molto più esteso. Adole­ scenti che si autorecludono per evitare qualunque contatto c on lesterno che non sia di ti­ po virtuale. 20 . .J. Lacan, li seminario. Libro Xl. I qualtro c011cetti /011dame111ali della psicoanalisi. 1964 (1973), Einaudi, Torino 1979, p. 34.

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cessivo al citato Appunti direttiv i per un Congresso sulla sessual ità femm inile, primo scritto compiuto sul tema, come abbiamo visto. A proposito del Seminario VII, Lacan segnala che esso costituisce un certo gradino all'interno del suo insegnamento, un gradino che sembra portarlo a un al di là di Freud. E lo fa proprio per la via stretta dell'enigma femminile. Lacan osa leggere il Freud della pri­ ma metapsicologia, quella del Progetto.21 E che cosa trova? Trova l'enigma del Nebenmensch, del prossimo simile, e il problema del­ la sua "prima percezione", che non si appiattisce sull'oggetto co­ me puro e asettico perceptum , ma solleva l'interrogativo di un ri­ conoscimento, di un orientamento. Nell'esperienza primordiale, alla prima percezione si presenta qualcosa che è del tutto esterio­ re, irrappresentabile, fuori dalla presa del linguaggio, la Cosa, Al­ tra, "primo indimenticabile Altro". Essa è marcata da una estra­ neità radicale, das fremde Objekt. Perché sorga la dimensione pro­ priamente soggettiva occorre che questa Cosa sia intaccata, sman­ giata, frazionata, rappresentata: in una parola catturata dal lin­ guaggio, dalla logica significante. Già qui si insinua un soggetto della scelta, soggetto come scelta: nella Cosa di un soddisfacimen­ to primordiale si introduce uno svuotamento, in sottrazione a una pienezza che si rivela in realtà mortifera, svuotamento che il sog­ getto si assume senza garanzia, nell'istante in cui si espone, si spor­ ge a una perdita senza ritorno. L'amor cortese - cui ampiamente Lacan fa ricorso, nel Semi­ nario VII come poi nel xx è ciò che denuncia e insieme vela a suo modo questo vuoto della Cosa, col fare della Dama l'ogget­ to inaccessibile. Possiamo dire che si produce- risorsa della crea­ zione poetica - il movimento rovescio a quello della malinco­ nia,22 dove invece l'ombra dell'oggetto contin ua a proiettarsi sul soggetto, testimone di una permanenza mortifera della presen­ za. Il soggetto malinconico sceglie di non separarsene, non as­ sume la perdita, per questo la perdita lo inghiotte, ne fa Tutt-uno con il suo perdersi, se così posso dire. -

21. S. Freud, Progetto di una psicologia (1895), in Opere, cit., voi. II, pp. 235-236. 22. Id., uLmtoe melanconia" (1915), in Metapsicologia (1915), in Opere, cit., voi. vm, in par ticolare pp. 108-109.

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Ed è qui - nel punto più crudo della scelta - che nel seminario appare, inaspettato, il fulgore di Antigone. Nel testo di Sofocle, il suo lamento equivale alla spoliazione, alla distruzione anticipata de­ gli ogg etti a femminili, marito, figli, casa, affetti..., rinuncia a una consistenza fallica, che immediatamente precede l'incontro di Anti­ gone con la morte, il suo andare verso la tomba. Spogliata degli or­ namenti del regime edipico, la piccola Antigone si dà dunque pove­ ra,23 deserta di oggetti e per questo pronta a pagare il prezzo, a far­ si radura arida nella ricca selva dei significanti familiari, lembo di scopertura e di annientamento della brillanza fallica, punto cieco vuoto- dell'assenza di senso e di mito, S(.bX),24 spazio di ricreazione ex nihilo del soggetto, di cui farsi appunto responsabile, dunque scelta di desiderio, "desiderio puro" dice gravemente Lacan, di fron­ te al quale Antigone dalla fredda carezza non arretra. Andare ectos atas: "al di là della Ate", al di là del limite stabilito dalla sua appar­ tenenza di figlia e di sposa. Antigone qui- notazione anche hegelia­ na- si rivendica infatti come sorella, come autadelphos. E in effetti, "la Ate che proviene dal campo dell'Altro, non appartiene a Creon­ te, ed è invece il luogo ove si situa Antigone" .25 La particolarità ec­ topica del desiderio femminile, che così si annuncia, darà awio alla decostruzione dell'Edipo freudiano, attraverso un disvelamento 23. Cfr. le osservazioni di Lacan a proposiLo della "donna povera", il romanzo di Léon Bloy citato nel Seminario VIII (J. Lacan, Il semùtario. Libro \liii. Il t r a n.ifert . 1960-1961, 1991, Einaudi, Torino 2008, p. 391 ) , implicale anche dal commento alla trilogia di Claudel, ampia­ mente e variamente ripresa da Colene Soler, in vari scrilli ora raccolti in Quel che Lacan diceva delle donne, cil. Si abbozza già in queslo passaggio anche la questione del santo, che - spoglia­ to dall'ideale - sarà preso più tardi come figura dell'analista. 24. Su questo nodo cruciale nel percorso lacaniano di identità tra la dimensione etica e quella femminile, da me a lungo lavorato, cfr., tra l'altro, Scrittura della do1111a, in AA.VV. , Docu111e11ti di lavoro per tl l'I Co11veg110 del Campo freudiano, 1993, documento a circola­ zione interna, pp. 69-100; "Tutt'altra cosa ancora ... ", in AA.VV. , Madre Do1111a. Atti del \II Conveg110 del Campofreudiano (giugno 1993 ), Astrolabio, Roma 1994, pp. 27-32; Litorale femminile, in M. Mazzoni (a cura di), Sessualità femminile, Arcipelago Edizioni, Milano 1994, pp. 133-153; Etica e femmi111le. Questioni sull'Edipo nella donna, "Appunti", 38, 1996, pp. 5-10; Ritorno ad Antigone. Le Antigoni e il \III seminario di Lacan, "Appunti", 43, 1996, pp. 8-17; Ex-sistenza, destino della lettera, "La Psicoanalisi", 20, 1996, pp. 57-59; e più recentemente, Femmes-milles, "La revue du Champ lacanien. La parenté: filiation, no­ mination", 3, 2006, pp. 61-70; oltre al già indicato Friiuleù1, Freud-li11e, "L'identità freu­ diana della psicoanalisi e l'insegnamento di Jacques Lacan", supplemento a "La Psicoana­ lisi", 34, 1993, pp. 181-192, di cui questo lavoro è ulteriore passaggio. 25. J. Lacan, Il seminario. Libm \!II. L'etica della psico a n alisi, cit., p. 3 50.

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progressivo di S(A), quel significante che radicalmente manca al­ i' Altro come al-di-là femminile del limite significante. Dirà Lacan l'anno dopo, a commento della trilogia claudeliana e della decom­ posizione strutturale del mito cui dà luogo: "La natura della Cosa non è così lontana da quella della donna, se non fosse che, in rap­ porto ai vari modi che abbiamo di accostarci alla Cosa, la donna si rivela essere sempre tu tt'altra cosa ancora".26

Clinica dei discorsi: La questione femminile quindi non meta/oriz­ za, ma è la questione dell'etica, di un'etica che sappia attraversare le condizioni post-edipiche della modernità, in cui tutti galleggia­ mo, ed è pertinente a quella "sowersione sessuale" che sottoli­ neavo, come il/il rouge del testo di Soler, sowersione dei rappor­ ti tra gli uomini e le donne, che segna il tempo del dopo Freud: ma la stessa datazione di questo "dopo" costituisce già una lettura o una risposta - al problema. Potremmo infatti dire "dopo l' av­ vento della scienza moderna", tema classico in Lacan, ma anche "dopo l'awento del capitalismo", o ancora "dopo la Shoah" (e ciò che dimostra, come "offerta a dei oscuri di un oggetto di sacrifi­ cio"27), o dopo che "la distruzione di un antico ordine sociale" ha mostrato a chiare lettere una radicale modificazione dello statuto del riferimento paterno della famiglia. E non è forse da fi, da que­ sto strano melting pot viennese di forme familiari, le più diverse, che "un figlio del patriarcato ebreo" è arrivato a immaginare il complesso di Edipo, facendo nascere la psicanalisi precisamente come esito - insinua Lacan - di una crisi del padre?28 E distan­ ziando la famiglia dalla pura realtà biologica cui sembra sovrap­ posta, come "sowersione da ogni fissità istintiva". 29 Preoccupa­ zione lacaniana fin dall'inizio, dunque, che si mantiene anche nei testi sulla formazione dell'analista, sempre del 1967, additando un cedimento della psicanalisi a una ideologia familistica. 26. Id., Il seminario. Libro \11II. Il transfert, cit., p. 340 (traduzione modificata). 27. Id ., Il seminario. Libro XI. I quattro concetti fondamentali della psicoanalisi. 1964 (1973), Einaudi, Torino 1979, p. 279. 28. Come "declino sociale dell'imago paterna", in Id., I complessi familiari nella for­ mazione del/'i11dividuo (1938), Einaudi, Torino 2005, pp. 50-51. 29. lvi, p. 10.

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Per concludere, tra madre (freudiana) e figlia: donna; tra ma­ dre (del dopo Freud) e bambino: donna; tra madre e padre (del­ la metaforizzazione lacaniana): donna; tra uomo e donna (della tradizione): donna ... Questo La-, questa funzione di non tutta, viene a sparigliare giochi e minuetti nelle coppie dell'universo familiare, introducendo - nell'Eros di questi legami - dell'Ete­ ros, che fa sì che ciascuna di queste copule si decompleti, non faccia Uno, non si riduca alla malinconia dello Stesso, secondo il gioco lacaniano di Un-unien-enn ui.30 Anche nell'apparecchio della famiglia post- ... (post-moderna, post-freudiana, post-idea­ le, post-edipica, post-politica), ciascuno è comunque implicato dal suo essere nel discorso: "Non c'è - dice Lacan - la benché minima realtà pre-discorsiva, per la buona ragione che ciò che fa collettività, e che ho chiamato gli uomini le donne e i bambini, non vuol dir nulla come realtà pre-discorsiva. Gli uomini, le don­ ne e i bambini non sono altro che significanti. Un uomo non è nient'altro che un significante. Una donna cerca un uomo a tito­ lo di significante. Un uomo cerca una donna a titolo- ciò vi sem­ brerà curioso - di ciò che si pone solo via il discorso, perché, se [. ..]la donna n'est pas toute, c'è sempre qualcosa in lei che sfug­ ge al discorso" .31 Occorre - da un discorso in atto, discorso "sen­ za parole"- arrivare a interrogare le condizioni - chance, pas­ saggi, mutamenti - dei legami sociali in essere, nei modi della re­ golazione operativa tra i sessi, tra i corpi, nel corpo familiare, rinnovabile forse a partire dalle novità del "campo lacaniano" .32

30. Per tradurre letteralmente: "Uno... 1miano ... noia", cfr. Id., Televisio11e, cit., p. 84. 31. Id., Il semi11ario. Libro XX. A11cora, cit., p. 32. 32. Cfr. l'omonimo testo di Colette Soler, fondativo di una intera prospettiva, anche " isùtuzionale: C,ampo laca11ia110, "Per lettera. Materiali di lavoro FPL , 1, 2006, pp. 89-108. In parùcolare: "Diciamolo dunque: non è il soggetto ad esser strutturato dal collettivo, è piuttosto il colletùvo che, come il soggetto, è strutturato dal linguaggio. Da qui la perù­ nenza del termine di discorso per designare le modalità dei diversi legami sociali. Questa è la generalizzazione dell'ipotesi degli effetù del linguaggio: non ci sono dei legami regolati e vivibili dei corpi - poiché non si tratta più soltanto di soggetù - se non tramite l'ordine del linguaggio. Si può quindi dire, se si vuole, che il campo lacaniano non è null'altro che quello dell'efficienza del linguaggio in generale, ma a condizione di non confondere il lin­ guaggio con il puro bla-bla e di aggiungere: del linguaggio passalo 11el reale, il che diventa, di colpo, tutt'altra cosa" (p. 94).

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La sfida romantica di Lacan SERGIO BENVENUTO

Q

uando alla fine degli anni sessanta co­ minciai a leggere Lacan e a seguire i suoi seminari, percepii subito il suo pensiero, malgrado lo stile gongorista, come a me familiare. Da tempo coltivavo il pensiero fenomenologico nelle sue varie derive, oltre che il pensiero di Freud. Capii subito che Lacan cercava di rea­ lizzare una quadratura del cerchio che molti, allora, cercavano invano: conciliare varie passioni, in particolare la nostra ispira­ zione fenomenologica con la nostra attrazione per la psicanalisi. Fino ad allora i rapporti tra questi due filoni erano stati alquan­ to burrascosi. Binswanger aveva risolto la tensione con una sor­ ta di schisi della propria personalità: nei suoi libri affermava una Daseinsanalyse lontana dalla psicanalisi, mentre la sua pratica clinica di fatto era psicanalitica.1 Il pensiero di Lacan ci permet­ teva di suturare, almeno in parte, questa schisi, rendendo com­ patibili nostri tropismi etici e intellettuali. Ma si dà il caso che la maggior parte degli analisti fenomenolo­ gici non riconosca Lacan come uno dei loro. E in effetti, per ri­ centrare tutta la psicanalisi in relazione alla soggettività trascen­ dentale, Lacan ebbe bisogno di abbandonare un pun to essen­ ziale del trascendentalismo fenomenologico: il carattere imme­ diato, non analizzabile, del rapporto tra il soggetto intenzionale 1.

autaut,

La cosa mi è stata confemrnta di persona da una sua paziente-allieva, Giusy Cuomo.

3-13. 2009, 107-115

107

e il suo mondo, tra il Dasein e l'altro. Lacan non può ignorare che la teoria psicanalitica è appunto analitica, che insomma Freud in­ tende seguire l'ideale analitico della scienza: questo consiste nel riportare il complesso al semplice, nello spezzettare insomma la bella con-rispondenza tra cose e soggettività in elementi costitu­ tivi. La fenomenologia "sconfessa la scienza" (diceva Merleau­ Ponty2) perché per essa il senso si dà immediatamente ("siamo condananti al senso"3), mentre l'analisi scientifica decostruisce il senso, lo riporta a elementi senza senso. Tutto lo sforzo di Lacan consisterà nell 'articolare una teoria-pratica che stia tra la feno­ menologia (il mondo umano è irriconoscibile senza la trascen­ dentalità) e la scienza (il mondo umano è analizzabile in parti che si intersecano). Qualcosa insomma né carne né pesce, ragion per cui egli sarà sempre attaccato sia dai fenomenologi puri sia dagli "scientifici". Il progetto di riconsiderare il soggetto psicologico in termini trascendentalisti è illustrato in forma allegorica dalla sua ripresa del gioco ottico del mazzo di fiori e il vaso. Qui l'occh-Io (se mi si permette il bisticcio) è un punto disincarnato in rapporto a cui la scena del mondo si dispiega. Anche se, a differenza del puro occhio visivo, il soggetto lacaniano eredita il clinamen che Scho­ penhauer, Nietzsche e Freud hanno impresso alla soggettività: il suo essere volontà, desiderio, pulsione, libido. Il soggetto, qui in­ dicato ancora da un puro occhio, è desiderans: non contempla­ zione, ma spinta. La sfida di Lacan consisterà nel mostrare come il desiderans, soggetto patetico, strutturi trascendentalmente il mondo oggettuale (non oggettivo), quel che egli desidera. In questa figura, Lacan infrange la classica distinzione tra "in­ terno" ed "esterno" che ancora handicappa la psicanalisi domi­ nante: il vaso, oggetto topicamente interno, accede al soggetto come visto (leggi: suo oggetto di desiderio) - rivelandosi all'e-

2. M. Merleau-Ponty, Fe11ome11ologia della percezione (1945), Bompiani, Milano 2003, p. 16: �La prima consegna che Husserl impartiva alla fenomenologia esordiente[. .. ] è an­ zit11tto la sconfessione [désaveu] della scienza". 3. "Poiché siamo nel mondo, noi siamo c o11da1111ati al senso", ivi, p. 29 (corsivo del­ l'autore).

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sterno, combinandosi con i fiori, owero con un oggetto a metà strada tra il soggetto e il mondo. (Il vaso è l'oggetto a noi celato che ritroviamo nell'altro; i fiori raffigurano l'oggetto narcisisti­ co, sempre sospeso tra egoità e alterità.) Gli oggetti (Objekte) che per noi hanno valore, insomma, sono combinazioni inestri­ cabili di una proiezione di oggetti soggettivi, per così dire, che appariranno nel mondo come spettacolo per noi seducente o or­ ripilante. Ma si tratterà appunto di analizzare, owero di scom­ binare la coesione che si stende davanti ai nostri occhi come mondo (riconoscere l'eterogeneità tra vaso e fiori). Grazie a que­ sto giochetto ottico, Lacan illustra la sua missione impossibile: fondare l'operazione analitica (scientifica) a partire dalla tra­ scendentalità del soggetto desiderante. Questa allegoria evolve poi in un grafo noto come schema L:

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Il puro occhio di venta qui$: alla sua trascendentalità fa eco la trascendentalità dell'Altro. Così egli trascrive il progetto della fe­ nomenologia a cui non rinuncia: che il rapporto sé-altro non va oggettivato come relazione tra oggetti-nel-mondo, ma come rela­ zione tra due trascendentalità complementari: $ (5 sbarrato) non è l'Io psichico (mondano) così come l'Altro non è la generalizza­ zione di qualsiasi altro empirico che incontriamo sulla nostra stra­ da. L'uno ($) è un aldiquà radicale da ogni Sé descrivibile psico­ logicamente, l'altro (A) è un aldilà radicale da tutto ciò che pos­ siamo descrivere come rapporto intersoggettivo tra io empirici. Lacan non piace a tanti fenomenologi perché denuncia la melas­ sa intersoggettivista in cui la fenomenologia spesso cade, anche

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se con grande successo di pubblico e di critica: il vero rapporto non è tra soggetti democraticamente validi, ma tra $e l'Altro. $e Altro sono in relazione attraverso (a ')ltro e io (a). Si tratta di due livelli intermedi, ambigui quindi (immaginari), tra sog­ gettività e alterità trascendentali: anelli però indispensabili per­ ché la trascendentalità del soggetto e dell'Altro non resti oziosa, vana, astratta. I due "piccoli altri" che zigzagano e rompono la bella corrispondenza tra le trascendentalità illustrano quel che pensa e dice la psicanalisi oggi dominante, chiamata non a caso object relations theory (kleiniana, bioniana ecc.) in quanto tra­ duce la soggettività freudiana in termini di relazione tra oggetti. Attraverso questo schema, Lacan ci denuncia insomma ipso facto i limiti sia della descrizione fenomenologica, da una parte, sia della dinamica oggettuale, dall'altra: ambedue mancano l'al­ tra dimensione, vedono solo una faccia della struttura globale. Perché in effetti queste quattro estasi disegnano un loop com­ pleto, una linea continua e discreta, che anticipa la figura così essenziale del nastro di Mobius. La psicanalisi corrente vuol ve­ dere tutto come relazione speculare tra (a Jltro e io (a), come rimpallo senza fine tra oggetti-sé e sé oggettivi. La fenomenolo­ gia, pro- o anti-psicanalitica che sia, vuole vedere solo la rela­ zione reciprocamente costitutiva del Soggetto e dell'Altro, la completezza ineffabile del Mitsein. Però l'approccio freudiano di Lacan (popolare proprio perché così non-padroneggiabile) poggia sulla fenomenologia con i pie­ di massici dell'hegelismo. Come ha ben visto Slavoj Zizek, quel­ lo di Lacan è stato l'unico tentativo non ingenuo, serio, di ri-ar­ ticolare l'intera teoria psicanalitica in termini hegeliani. Per es­ sere più precisi: Lacan ha riletto Freud applicandogli il filtro che Alexandre Kojève gli aveva fornito attraverso i suoi famosi se­ minari su Hegel,4 lettura che doveva molto al primo Heidegger. 4. Kojève negli anni trenta svolse un seminario sulla Fenome11ologia dello spirito che se­ gnò una svolta per tutta la cultura francese, evento da cui essa mi pare non essersi ancora riavuta. Cfr. Matteo Vegetti, La/i11e della stol"ÙI. Saggio sul pensiero di Alexa11dre Kojève,.J a­ ca Book, Milano 1998.

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Tutto il pensiero di Lacan fino agli anni sessanta ruota attorno a temi e nozioni che si trovano tali e quali nei seminari di Kojève: come il desiderio di riconoscimento, il desiderio dell'Altro, la dialettica del soggetto e la sua alienazione costitutiva, ecc. In­ somma, per seguire Lacan occorre aver capito Hegel e Heideg­ ger come Kojève li aveva capiti: altrimenti asserti e grafi lacania­ ni resteranno solo formule catechistiche per discepoli salmo­ dianti. La teoria lacaniana è una psicanalisi fenomenologica ed hegeliana: questa è la sua forza, e anche - ai miei occhi - il suo limite. Quando si spiega l'abc di Lacan agli allievi spauriti, si comin­ cia sempre col dire che il fulcro del pensiero del Nostro è "l'in­ conscio strutturato come un linguaggio". Un apoftegma dal te­ nore squisitamente hegeliano. Lacan in sostanza dice: se la psi­ canalisi opera di fatto essenzialmente attraverso il linguaggio (ogni psicoterapia, del resto, è per definizione logoterapia) e se questo processo di parola è in grado di produrre effetti sulla vi­ ta di un analizzante,5 perché pensare che il linguaggio sia solo uno strumento per operare sull'inconscio? Non è l'inconscio, piuttosto, della stessa sostanza di quella cosa con cui operiamo su di esso, il linguaggio? Ma non bisogna prendere l'hegelismo di Lacan in senso let­ terale, pedantesco; non si tratta di un'applicazione del modulo triadico tesi-antitesi-sintesi. È come se Lacan interrompesse l'Aufhebung hegeliana. La dialettica lacaniana è una dialettica piuttosto della mancanza e della sua rappresentazione - ma pur sempre dialettica è. Ovvero, nel suo neohegelismo psicanalitico la mancanza originaria non viene mai superata-cancellata­ conservata in qualche sintesi superiore: essa produce la storia soggettiva come tentativo di superarla. Lacan è certo molto più romantico (più moderno) di Hegel: il soggetto come evento in­ troduce nel mondo denso, senza vuoti, delle cose la mancanza e per questa ragione il soggetto si coglierà sempre come scisso. 5. I lacaniani usano il tennine analizzante al posto dei tradiziona li paziente o a11aliz­ za11do per distinguere l'analisi da ogni atto medico e per mettere in rilievo il molo attivo del cliente dell'analista.

111

Quella soggettività che il positivismo mancherà sempre (perché la ridurrà sempre a oggetto da spiegare) viene descritta dal ro­ manticismo moderno come qualcuno che mancherà sempre di qualcosa, e soprattutto di se stesso come "cosa" o rappresenta­ zione da cogliere e possedere. Comunque, questo neoidealismo psicanalitico a un certo punto si torce e si contorce. Se, da una parte, per Lacan l'inconscio è strutturato come un linguaggio - insomma la realtà umana è strutturata a priori, ancor prima che gli esseri umani contingen­ ti diano carne a questa struttura -, dall'altra, quel che conta per Lacan è la perdita che l'irruzione e il primato del linguaggio pro­ ducono. Proprio perché l'essere umano è una creatura del lin­ guaggio è una creatura alienata. La trascendentalità del deside­ rio si intrappola e si manifesta continuamente nei feticci allet­ tanti che costituiscono la nostra vita spirituale e amorosa. No­ stra madre (l'Altro) ci insegna a parlare; ovvero, se da lattanti strilliamo, la mamma ci dice "vuoi il ciucciotto!";dà all'impulso che ci fa urlare un significante, ciucciotto. Da allora, sapremo che ciò che desideravamo era questo significante: un sapere che ci proviene dall'Altro. Ma che cosa veramente desideravamo pri­ ma che ci venisse detto che cosa desideravamo? Quale oggetto primordiale, oscuro, ci agitava? Non lo sapremo mai. Il linguag­ gio ci umanizza, ma a prezzo di una distorsione fondamentale che polarizzerà la nostra esistenza. Perché la vera cosa a cui mi­ ravamo sarà sempre al di qua e al di là del linguaggio che ci uma­ nizza. Come si vede, questa psicanalisi hegeliana di fatto poggia su un'antropologia squisitamente romantica. Questo irrita tanti analisti ebrei americani, che si considerano materialisti e scien­ tifici: "Lacan, una psicanalisi per cattolici!". Interpretano come misticismo spiritualista la denuncia lacaniana di una mancanza originaria: quella che il logos6 (parola e pensiero) infligge al no­ stro essere-tra-oggetti. Il romanticismo lacaniano è in conflitto con il romanticismo

6.

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In greco logOJ significava sia pe11sa1"e che dire.

nichilista dell'ermeneutica perché il primo tematizza una man­ canza extra-soggettiva, reale, come origine e fulcro della sogget­ tività. L'ermeneutica, invece, ha fatto proprio il motto (ironico) di Nietzsche "non ci sono fatti, solo interpretazioni" per affer­ mare un trionfo maniacale della soggettività: la durezza del Rea­ le e dell'Essere si scioglie nella molle dinamica storica delle in­ terpretazioni. Questa ermeneutica nichilista influenza oggi un ampio settore della psicanalisi contemporanea, la quale è dive­ nuta quindi "narratologica", "relazionale", "ermeneutica" ecc. Qui, l'inconscio si riduce a una relazione intersoggettiva, owe­ ro a una relazione tra discorsi: l'analista non fa che aiutare il sog­ getto a trovare una narrazione migliore per sé, insomma a inter­ pretarsi in modo nuovo e più felice. Come si vede, nell'imposta­ zione oggi alla moda è evacuata definitivamente la dimensione del Reale: l'analisi è chat interpretativo che modifica altro chat interpretativo. L'analisi non è altro che trasformazione, owero dare nuove forme alle proprie vite interpretanti. Per parafrasare il motto ermeneutico fondamentale, Lacan direbbe piuttosto "non esistono fatti, ma interpretazioni della Cosa". Insomma, egli non evacua il reale, anzi, esso diventa il fulcro della soggettività. Invece la telenovela narratologica - per cui la cura consisterebbe nel sostituire un mito felice che il sog­ getto si racconterà al posto di un mito infelice - schiva questo fulcro di Reale con cui ogni soggettività, prima o poi, deve fare i conti. Paradossalmente, proprio la teoria dell"'inconscio strut­ turato come un linguaggio" si risolve in una visione "real-ista" per cui in fondo ogni soggettività ruota attorno a un Reale - un trauma costitutivo? - che non sarà mai simbolizzato né discorsi­ vizzato. È quel che Lacan stesso chiamava il suo "misticismo". Ma che cosa è il Reale per Lacan?7 Molti non capiscono che cosa intenda perché pensano al reale come alle cose esterne a me. Tut­ to ciò che costituisce il mondo domestico nel quale viviamo - ad-

7. Ricordiamo che il Reale è uno dei tre registri lacaniani - gli altri sono il Simbolico e l'Immaginario. Una triad e di ispirazione hegeliana.

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domesticato a oltranza dalla scienza e dalla tecnica, che hanno tra­ sformato quasi tutte le cose in nostri strumenti- è l'Umwelt, il no­ stro ambiente, owero l'Heim, il focolare nel quale viviamo, di cui siamo parte perché esso è parte di noi. È la realtà delle cose cono­ scibili e prevedibili che finiscono con l'essere a nostra immagine e somiglianza. Il Reale di cui parla Lacan invece è la totale estraneità alla nostra soggettività: è impensabile, inconoscibile, qualcosa che minaccia radicalmente la nostra soggettività anche se la polarizza. È quel che qualcuno esperisce nella cosiddetta sindrome di derea­ lizzazione: quando percepiamo finalmente la realtà come... Reale. Lacan, nel suo seminario più bello (I:etica della psicoanalisi8), tematizza das Ding, la cosa: ognuno di noi sarebbe captato da un qualcosa di "vuoto", unico e innominabile, che orienta la nostra vita, che ci chiama a una sorta di fedeltà incondizionata. Lacan darà più nomi a questa cosa reale attorno a cui orbitiamo: ri­ prende il termine platonico di agalma,9 poi si focalizza sull'og­ getto a piccola, comunque sempre di una cosa-mancanza oltre ogni rappresentazione linguistica si tratta. Ma questa ipostasi di una Cosa extra-soggettiva- anche se costituisce l'occhio del ci­ clone della soggettività - non entra in tensione con l'ottimismo hegeliano che ispira l'impresa teorica lacaniana? Se infatti il Reale è ciò che la soggettività esclude, il Reale è quel che una (ciascuna) soggettività esclude da sé, oppure è ciò che, per essenza, è escluso da tutte le soggettività? Nel primo ca­ so, siamo sempre in una logica hegeliana: il Reale è sempre Rea­ le-per-un-soggetto. Il Reale sarebbe un versante necessario ep­ pure sempre specifico, che ogni soggetto implica e produce. In­ somma, non è detto che il Reale mio sia anche il Reale tuo. Non a caso Lacan attribuisce al Reale la modalità dell'impossi­ bzle.10 Ora, di solito pensiamo piuttosto al Reale come al contin­ gente, come questo tavolo su cui scrivo- "il mondo è tutto ciò che 8.J. Lacan, Il seminario. Libro VII. L'etica della psicoanalisi. 1959-1960 (1986), Einaudi, Torino 1994. 9. Aga/ma è qualcosa di b rillante d entro Socr ate che cap ta e seduce i giovani (Simpo­ sio). Cfr. J. Lacan, Le séminaire. Livre Vlll. Le tram/ert. 1960-1961, Seuil, Paris 1991. 10. Lacan fa uso dei quattro modi distinti d alla logica classica: il contingente, il neces­ sario, il possibile, l'impossibile.

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cade" .11 Il mondo reale cade dal cielo. Invece il Reale per Lacan è l'impossibile come è impossibile un quadrato rotondo, per esem­ pio, o che due più due faccia tre. Perché Lacan pensa hegeliana­ mente il Reale sempre a partire dalla soggettività trascendentale: Reale è ciò che per un soggetto è impossibile... eppure accade, gli cade addosso. Potremmo dire che è impossibile il contingente (non la contingenza!): ciò che gli è impossibile, appunto, integrare nel suo sistema. Ma perché una teoria in fondo così complessa - e soprattutto aperta, autoconfutabile - come quella di Lacan ha prodotto spes­ so, nel campo dei suoi seguaci, certi effetti di dogmatismo? E per­ ché la stretta connessione tra la sua teoria e un certo marxismo, anche se molto di rado Lacan ha parlato di marxismo e politica? Perché sono attratti dal lacanismo, elettivamente, persone che si sentono ligie alle due chiese più importanti del Novecento, quel­ la comunista e quella cattolica? Questa congruenza tra lacanismo e chiese consiste nell'idea - che fu già di Marx, Freud ecc. - per cui c'è una implicazione diretta tra teoria e praxis: Lacan pensa­ va che avere la buona teoria fosse il solo modo per operare bene. Lui stesso citava la frase di Lenin "il marxismo è invincibile per­ ché è vero". Tra i seguaci, la lotta attorno alla verità del Maestro viene vissuta allora come lotta per l'invincibilità: la verità è pote­ re, e il potere si regge sulla verità. Per noi, ormai, queste sono il­ lusioni. Sappiamo oggi che teoria e pratica non sono mai l'una conseguenza lineare dell'altra, che il rapporto tra riflessione e azione è indeterminato, imprevedibile, aleatorio. Il solo modo serio di leggere oggi Lacan è quindi quello de­ costruttivo, che non implica la teoria con la pratica, che ne te­ matizza invece la tensione. L'importante non è essere lacaniani, ma/are come fece Lacan: assumere nei suoi confronti l'atteggia­ mento crit ico, insoddisfatto, che lui ebbe nei confronti della psi­ canalisi del suo tempo.

11. L. Wittgenslein, Tractatus logico-philosophicus (1922), Einaudi, Torino 1 %4, 1 (lra­ duzione mia).

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Lacan, i resti e noi PAULO BARONE

ra le nozioni di quella infaticabile e tor­ tuosa officina di concetti che è il pensie­ ro di Lacan un posto speciale va senz' altro assegnato a "oggetto a". Si tratta di una nozione sfuggente, sottile, anonima e al tempo stesso esplosiva e dilagante, in grado di istituire particolari forme di connessione e di favorire transiti imprevedibili. All'interno dell'opera lacaniana il suo ruolo e la sua rilevanza non sono stabiliti dal principio, una volta per sem­ pre, ma, al contrario, si definiscono e si rifiniscono gradualmen­ te, progressivamente, per quanto, molto spesso, quasi di sop­ piatto e in modo non univoco. Ogni volta incidendo sul quadro complessivo, modificandone il senso quel tanto che basta da far­ lo sembrare anche un altro. Così, prestare attenzione alle evolu­ zioni dell'oggetto a finisce col coincidere con una presa d'atto dei cambiamenti e delle variazioni che hanno via via scandito il pensiero di Lacan. Forse non degli unici mutamenti che lo han­ no caratterizzato, ma senz'altro di quelli che possono aiutarci per una messa a fuoco del presente in cui viviamo. Quando, allora, l'oggetto a fa la sua comparsa? Quando si fa largo l'idea che la morsa concettuale delle cose - la caduta origi­ naria della Cosa nella logica dell'Altro - costituisce u n'operazio­ ne imperfetta, non a somma zero, incompleta, e che nell'urto fon­ damentale con cui il linguaggio assimila l'essere, rimane piutto­ sto qualcosa di indigerito, un residuo, un resto. Qualcosa che con­ diziona l'articolazione di linguaggio e concetto. Questo "resto" è

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autaut.

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precisamente ciò che costituisce l'oggetto a. Non si tratta, nono­ stante le apparenze, di una comparsa qualunque. Non che sino ad allora non si fosse parlato di "resto", di residuo. 1 Ma in pre­ cedenza esso caratterizzava un'altra nozione, quella capitale di "desiderio", che tuttavia - soltanto adesso è più chiaro - serviva ad animare il continuo rinvio da un significante all'altro, a lubri­ ficare gli scambi della macchina dialettica, a sostenere le maglie legislative del Simbolico. Il resto costituito dall'oggetto a, invece, non solo non si presta a un simile utilizzo ma è anche ciò che smarcandosene, permette di osservare a distanza l'insieme di que­ sta logica e la rete di complicità degli elementi che la compongo­ no. È grazie all'emersione del piccolo a - e soprattutto all'inces­ sante lavoro di sottolineatura e valorizzazione di Jacques-Alain Miller a specifico riguardo2 - che si comincia a comprendere che nel Lacan precedente ha dominato una versione simbolica del suo sistema: l'inconscio "strutturato come un linguaggio", il sogget­ to svuotato e barrato dal sapere dell'Altro e divaricato tra (alme­ no) due significanti, il godimento sequestrato dall'istanza fallica, la sostanziale implicazione di legge e desiderio, e così via. Per quanto lacune, faglie, mancanze lo punteggino, tutto sembra con­ vergere verso il significabile ed essere riflesso dal suo - sia pur speciale - dinamismo. Solo in virtù della comparsa dell'oggetto a, insomma, si comincia a parlare di un "altro Lacan", di un "se­ condo Lacan", di un "Lacan contro Lacan", di un Lacan che prende a orientarsi verso il corpo pulsionale, verso il registro del Reale, verso l'Impossibile, il non-senso. Con l'oggetto a si profi­ la "ciò che non si presta alla dialettica", qualcosa come "una ri­ nuncia alla via del concetto" ,3 che è simultaneamente una rinun­ cia a una "fase" di Lacan attraverso lo stesso Lacan. Che non si tratti però di una semplice, neutrale periodizzazio­ ne ma di una torsione radicale, di un processo "autoimmunita-

1. J.-A. Miller, L'angoscia. Introduzione al Seminario X di ]acques Lacan (2004-2005), trad. di L. Ceccherelli, Quodlibet , Macerata 2006, p. 42. 2. Cfr. Id., Schede di lettura lacaniana ( 1979), in J. Lacan et al., Il mito individuale del 11evrotico, a cura di A. Di Ciaccia, Astrolabio-lJbaldini, Roma 1986, pp. 73-105. 3. J.-A. Miller, L'angoscia. Introduzione al Seminario X di ]acques Laca11, cit ., pp. 26-27.

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rio", è proprio l'inclinazione verso l'impossibile, verso il Reale a , indicarlo. Un inclinazione che giungerà negli ultimi seminari a porre il Reale in posizione dominante, dove non a caso tutto ciò che precedentemente appariva simbolicamente legato risulterà non solo rimesso in discussione, ma metodicamente disgiunto, separato: il passaggio da un significante ali'altro, la penetrazione del reale da parte del sapere, la referenza o la comunicazione del linguaggio. Il reale si offrirà come "negativo del vero, in quanto non è legato a niente, è staccato da tutto e da qualsiasi cosa, non ha legge, non obbedisce ad alcun sistema e condensa il puro fat­ to del trauma" .4 Una volta emerso, l'oggetto a, da resto circo­ , scritto, isolato come un eccezione, si generalizza a tutto il corpus teorico preesistente, disfacendolo. "Lacan veramente sega il ra­ mo su cui tutto il suo insegnamento era fondato. "5 , Ebbene, questa modalità attraverso cui l'estrazione dell ogget­ to a di pana e sgrana Lacan - qui succintamente riassunta - è tutt'al­ tro che una manovra liquidatoria del suo pensiero. Al contrario, una lettura che non giustapponesse tra loro le diverse fasi di La­ can - trattandole come momenti distinti e separati -, ma vi scor­ resse in mezzo seguendone per intero la successione, potrebbe co­ gliere nella traiettoria che si viene a delineare precisamente le vi­ cissitudini cui va incontro il simbolico via via che si confronta con ,, ciò che gli resiste, con un "resto . Dai primi tentativi di gestire quest'ultimo come un caso limite, alle trasformazioni che si ren­ dono necessarie per integrarlo in una teoria complessa, qua e là for­ se contraddittoria ma ancora coerente, sino alle deformazioni o addirittura allo sfiguramento che essa subisce quando ogni sua procedura di "senso", consumata ogni distanza, sembra girare a vuoto, coincidendo con "ciò che non va" e riflettendo "ciò che , non funziona' , "ciò che non fa senso" suo malgrado. Questa traiet4. Id., Pezzi staccati. Introduzione al Seminario XXlll "Il sinthomo" (2004-2005), trad. di L. Ceccherelli, Astrolabio-lJbaldini, Roma 2006, p. 41. 5. Id.,/ paradigmi del godimento (1999), a cura di A. Di Ciaccia e S. Sabbatini, Astro­ labio-lJbaldini, Roma 2001, p. 34. Il percorso di generalizzazione e di de-composizione si snoda lungo i seminari. Comincia forse nel VII, si fa chiaro nel X e nell'XI, prosegue e si ge­

neralizza nel XVII e nel XX, raggi1mge il suo acme provvisorio nel xxm, in attesa di essere definito quando saranno pubblicati llllli gli altri.

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toria andrebbe insomma intesa nella sua positività, tanto più po­ sitivamente quanto più essa sembra perdere la linea dritta, quan­ to più si spezza, si attorciglia e si restringe a un punto nel tratto che va a "concluderla". Intenderla così significherebbe valorizza­ re appieno il cosiddetto "ultimo insegnamento" di Lacan, che nel­ la speranza di arrivare a toccare "un resto di reale" teneva la con­ sueta concatenazione linguistico-concettuale immobilizzata e a gambe all'aria, pronta per un altro uso, "fuori di sé". Un simile "obiettivo" spiega come ilfallimento non sia un incidente ma "la gloria"6 dell'ultimo Lacan, così come questa impossibil ità di te­ nere dritto, lineare, intenzionale il suo sguardo teorico rende me­ no casuale il fatto che abbia avuto bisogno, per delinearsi a dove­ re, di incrociarsi con quello di un altro, di Miller, pronto a soste­ nerne il rovesciamento e poi l'accecamento. L'esemplarità lacaniana di trattare il simbolico portandolo (quasi involontariamente e dunque in modo maggiormente at­ tendibile) alle sue estreme conseguenze può contribuire a chiari­ re le condizioni attuali della nostra precaria scena simbolica. Nel­ la rete ormai fitta e capillare di ossimori, paradossi, antinomie che ormai ci contraddistingue, ogni affermazione, ogni presta­ zione o relazione della nostra vita risulta, intimamente e inevita­ bilmente, contraddittoria. Concentrata nel - e consegnata al margine esiguo e quasi invisibile che il fulmineo ribaltarsi di qua­ lunque cosa nel suo contrario lascia ancora, per così dire, aperto. È una scena dominata - come ormai sappiamo - dal fatto che la legge è simultaneamente trasgressione, la norma allo stesso tem­ po eccezione, l'evanescenza stabilità, la facondia insieme muti­ smo, come in certe figurine dell'infanzia, che bastava incl inare appena perché un ritratto divenisse subito un altro. In questa pun­ teggiatura contraddittoria della realtà, l'ordine simbolico è come se avesse rovesciato sul piatto tutta la sua potenziale riserva, irre­ tendo o paralizzando così, in anticipo, anche le eventuali mosse del pensiero critico (che fare, per esempio, con la deleuziana de-

6. Id., Pezzi staccati. In1roduzio11e al Seminario XXIII "li sinthomo", cit., p. 46. Cfr. anche Id., L'orie111ame1110 laca11ia110. L'i11m11scio reale (2006-2007), "La Psicoanalisi", 43-44, 2008.

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territorializzazione qualora sia resa, insieme, una ri-territorializ­ zazione, e che dire della "singolarità universale" di Badiou e del­ la "parte dei senza parte" di Rancière?). Non a caso, per dare conto di questa scena, si è parlato del venir meno dell'etica del "desiderio" e dell'instaurazione al suo posto di un'etica della "pulsione" ,7 del tramonto di autentici processi di soggettivazio­ ne e, invece, della trasformazione dei "soggetti" di un tempo in semplici "individui", "consumatori", uomini senza qualità, en­ tità qualunque, bloom, vite amorfe "biopoliticizzate". In termini lacaniani potremmo dire che si tratta di un soggetto che ha velo­ cemente naturalizzato la propria barratura, che forse vive re­ stringendosi semplicemente intorno a essa. Ma proprio la traiet­ toria lacaniana prima accennata indica che la costituzione di que­ sta "nuova" etica non dipenderebbe in alcun modo da una de­ viazione o da una sospensione del potere simbolico, e che dun­ que a nulla servirebbe richiamarsi a esso, a qualche sua riserva ancora segreta, oppure a un aggiornamento, a una riforma di al­ cune sue prerogative per opporvisi o per contrastarla. Al contra­ rio, pensare di ripristinare la corsa del desiderio, di lubrificare o di ritoccare lo scorrimento del concatenamento concettuale, o peggio, di riaccreditare antiche forme arrotondate di identità, si­ gnificherebbe continuare a mascherare il fatto che è esattamente il pieno coinvolgimento di tutti questi elementi a produrre lo sta­ to sfuggente, ininquadrabile, deforme e apparentemente de-sim­ bolizzato, de-soggettivato in cui ci troviamo. Un simile stato di contraddizione, di frenetica paralisi, sarebbe insomma ancora un frutto del simbolico - benché il suo frutto più estremo - e non qualcosa da cui il simbolico si sarebbe momentaneamente ritira­ to, lasciandolo preda di altri poteri. Di tale stato limite, "rag­ giunto" dando fondo a tutte le proprie riserve, nessuna variante del patrimonio culturale saprebbe dare conto. Perché come dare conto del fatto paradossale che, proprio allorquando diventa dif­ fusa, fibrillante e capillare, la tendenza a far-senso appaia essa

7. Cfr. S. Zi2ek, li soggetto scabroso. Trattato di 01110/ogia politica (1999), trad. di D. Canto ne e L. Chiesa, Raffaello Cortina, Milano 2003.

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stessa - non alla lunga, non in qualche angolo, non in origine, ma - contemporaneamente un non-senso? Seguendo la traiettoria di Lacan potremmo valorizzare la "gloria" di questo fallimento, la valenza positiva di un esito del genere, accettando la sfida di "ciò che non va", di "ciò che non funziona" presente nella nostra presunta co ndizione di godi­ mento e di bloom generalizzato, per quanto pericolosamente vi­ cina alla mera distruzione. Portare il simbolico fuori di sé, rico­ noscere che è esso stesso a incarnare il resto, il residuo, lo scar­ to del reale non significherebbe affatto saltare via dal linguaggio e dal concetto, sbarazzarsene, ma destinarli, appunto, a un altro uso. Sappiamo infatti da Lacan che dal non-senso - e attraverso il simbolico - emerge, per esempio, anche "quanto vi è di sin­ golare in ciascun individuo" (il "sinthomo"): qualcosa che Witt­ genstein - con un gesto certo non identico ma analogo - chia­ mava "evidenze imponderabili", come certe "finezze del tono, dello sguardo, del gesto" che presuppongono il tessuto concet­ tuale e ne fuoriescono quali ultra-sensazioni non più ri-concet­ tualizzabili, dunque quasi involontariamente. Attraversare il simbolico significherebbe così arrestarlo nel suo complesso: sen­ za (pensare di) distruggerlo, prendere atto che non c'è più alcu­ na distanza che separi un'organizzazione simbolica e il "resto", che essi coincidono, e dunque interrompendo il "falso movi­ mento" con cui la coincidenza rimane celata. A vario titolo (e generalizzando un po') quella contemporanea è un'epoca degli scarti, dei resti, delle rimanenze, delle scorie, delle evanescenze, degli stracci, della polvere (e in tal senso, potremmo dire, è l'e­ poca di Beckett, di Kafka, di Walser, di Benjamin, di Giacomet­ ti. Di un certo Oriente e di un certo Marx. E probabilmente di un certo Lacan: non del Lacan a proposito del "resto", che è in grado di isolare il resto come tema, ma del Lacan che, per dar­ ne conto, finisce col disattivare il suo stesso edificio teorico, tra­ sformandosi esso stesso per intero e senza prevederlo in un "re­ sto"). Se questa, allora, è l'epoca degli scarti, la questione è: a quale tipo di "scarto" vorremo dare (una nuova) consistenza. Per quale opteremo.

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L'esempio cinese MASSIMILIANO ROVERETTO

dispetto dell'apparente semplicità dell'e­ nunciato, l'invito a "leggere Lacan oggi" reca in sé numerosi e importanti sottintesi. Come non chiedersi, per esempio, qual è il Lacan che si trat­ terebbe oggi di leggere? Quello degli Scritti o quello dei semi­ nari? Il "Lacan 1" - quello che "era entrato nella psicoanalisi mettendo l'accento sulla struttura di linguaggio correlativa di una parola tutta di invenzione" - oppure il "Lacan 11" - quello che, "accanto all'effetto di senso, di verità o di significato", sco­ pre un "effetto di godimento" la cui ineludibilità lo conduce a una decisa quanto progressiva promozione del registro del rea­ le? 1 E che dire del "come leggerlo?", o ancora delle differenti posizioni discorsive a partire dalle quali ciascuno di noi si rap­ porta al suo insegnamento e ai suoi scritti? Nondimeno, mi sembra che intendere queste tre parole- "leg­ gere Lacan oggi" -nel modo più immediato, alla stregua di un'in­ terrogazione sull'attualità e sulla valenza culturale in senso lato del suo pensiero, comporti quanto meno un vantaggio: quello di evidenziare come vi sia qui qualcosa che fa blocco e che resiste all'operazione, palesando l'impossibilità di reperire in Lacan al­ tri elementi di attualità oltre a quello, paradossale, di una sua

A

l. Cfr.J .-A. Miller,

coa11alisi.

Post/azione, in J. Lacan, Il seminario. Libro X\'11. Il rovescio della pSt�

1969-1970 ( 1991 ), trad. di C. Viganò e R.E. Manzetti, Einaudi, Torino 2001, pp.

277-278.

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autaut.

343, 2009, 122-132

costitutiva inattualità rispetto ai modi di produzione del sapere e alle forme del legame sociale oggi dominanti. Inattualità quan­ to mai preziosa se commisurata all'esigenza di recu perare, in re­ lazione a essi, non quegli spazi di autonomia e di libertà sogget­ tiva che la psicoanalisi stessa ha contribuito a dimostrare illuso­ ri, bensì dei margini di gioco a partire da cui rimetterne in que­ stione la chiusura. Eppure il numero dei dipartimenti di filosofia che di Lacan si occupano come di un oggetto di studio tra gli altri è in continua crescita, né mancano i tentativi di recuperarne l'opera all'edifica­ zione di un sapere psicologico e psichiatrico di ordine generale, il cui carattere sincretico costituirebbe la migliore garanzia del suo orientamento all'efficacia terapeutica. In un suo recente interven­ to sulle condizioni cui starebbe awenendo la diffusione della psi­ canalisi in Cina, l'analista e sinologo francese Rainier Lanselle ce ne ha offerto un campione tanto sorprendente quanto rappresen­ tativo.2 Sorprendente in ragione dell'evidente marginalità, dal punto di vista del rinnovamento della clinica e della teoria psica­ nalitiche, della realtà presa in esame, al cui livello non si tratte­ rebbe a prima vista che della divulgazione di un sapere già costi­ tuito; rappresentativo nella misura in cui gli interrogativi da essa suscitati investono di ritorno anche la situazione della psicanalisi in Occidente, con particolare riguardo al problema della trasmis­ sione del suo sapere e quindi della sua stessa soprawivenza. Pressoché esclusivamente radicata in ambito universitario, la psicanalisi cinese si sarebbe finora sviluppata, a cominciare dal­ la ricezione dei testi fondatori della disciplina, in modo essen­ zialmente autarchico. Lanselle si sofferma su di un caso in parti­ colare: la pubblicazione, risalente al 2000, di un volume di Lakang xuanji (Opere scelte di Lacan), contenente diciotto dei trentaquattro testi facenti parte degli Scritti.3 Nel giudicarne la traduzione "un vasto tessuto di controsensi", egli non solo vi ri2. Cfr. R. Lanselle, Quale posto per l'analista nella modernità cinese, "Psiche. Rivista di culrnra psicoanalitica", 1, 2008, pp. 103-116. L'originale francese si trova in "Essaim", 19, 2007, pp. 131-146. 3. Si tratta di Chu Xiaoquan (a cura di), Lakang xuanji, Sanlian, Shanghai 2000.

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conosce il portato dell'isolamento del suo autore- del tutto estra­ neo alla pratica dell'analisi e nondimeno totalmente incurante dell'esigenza di interpellare degli specialisti, giocoforza stranie­ ri, onde riceverne le opportune rettifiche-, ma vi individua inol­ tre la principale ragione del suo successo editoriale, attestato dai numerosi commentari scaturitine. Commentari che, limitandosi a citarsi l'un l'altro e senza mai fare riferimento all'originale del testo di partenza né ad altre fonti esterne al dibattito, ne avreb­ bero dal canto loro perpetuato il rigetto; cosicché, a essere "tra­ smesso", sarebbe finalmente stato meno il testo che, "impercet­ tibilmente, il blindaggio strutturale rispetto alla [sua] lettera",4 conformemente a una priorità del genio del commento su quel­ lo della traduzione che affonderebbe le sue radici negli strati più profondi della cultura cinese. La lingua cinese scritta, nota infatti Lanselle, disponendo non di un numero finito di lettere di per sé non significanti come al contrario le scritture alfabetiche, bensì di una serie potenzial­ mente illimitata di segni ciascuno dei quali autonomamente si­ gnificante, non risulta fondata sul principio differenziale, senza il quale la lingua orale stessa cui essa fa da supporto non po­ trebbe del resto, al pari di ogni altra, sussistere. Al posto della discontinuità del significante, da Lacan notata con la scrittura S1-S2 proprio per indicare come ciascun significante sia tale uni­ camente in relazione a un altro, abbiamo qui l'instaurazione di un continuum analogico in virtù del quale ciascun segno, prima ancora di rimandare agli altri, rimanda al mondo.5 Come nella

4. R . Lanselle, Qu ale pos to per l'analista nella modernità cinese, ci t., p. 107. 5. Dei due sistemi di scrittura in questione, è dunque quello alfabetico sol tanto a ri­ produrre tale e quale lordine strutturale evidenziato dalla linguistica saussuriana. Omolo­ gia, questa, di fondamentale importanza, se è vero che "l'ipotesi strutturalistica è anal itica nel senso che ci installa, sin dall'inizio, nella frammentazione, nel senso in cui è l'opposto di ogni vitalismo, di ogni globalismo. E quindi comporta quel che Lacan ne trae: nella mi­ sura in cui il soggetto è soggetto al linguaggio , è già morto" (J.-A. Miller, S'truc dure, 1985, in A. Di Ciaccia e S. Sabbatini , a cura di, I paradigmi del godimento, Astrolabio-Ubaldini, Roma 2001, p. 46). L'esplici ta indicazione di una "identità di struttura tra la lettera e il si­ gnificante", in virtù della quale "i l loro essere è differenza", si trova nell'introduzione di Moustapha Safouan al secondo volume della L arn 11ia11a da lui stesso curata (Laca11ia11a. Les sémùtaires de Jacques Lacan 1964-1979, Fayard, Paris 2005, p. 19).

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paranoia, in essa tutto fa senso,6 senza che nella catena si pro­ duca mai la beanza necessaria affinché il soggetto possa rappre­ sentaivisi nella forma dell'$. Richiamandosi all'idea di Fethi Ben­ slama secondo cui la traduzione consisterebbe in una sorta di "messa a morte", in virtù della quale "il corpo di lettere della lingua di partenza" scomparirebbe per ricomparire poi "nel cor­ po di lettere della lingua di arrivo" ,7 Lanselle conclude così che proprio questo ripetersi di quanto è oggetto di traduzione in cor­ pi fonematici differenti sarebbe, nella lingua cinese scritta, a priori interdetto, in ragione della sua natura ideografica costitu­ tivamente impossibilitata a recepire l'istanza della lettera.8 Da cui l'inevitabilità del blindaggio di cui sopra nonché l'ingiunzio­ ne, a esso correlativa, a interpretare senza fine e senza resti. In­ timamente vocato al monolinguismo, il sistema di scrittura adot­ tato in Cina non avrebbe insomma potuto evitare di svolgere la funzione "colonizzante" da esso finora effettivamente esercita­ ta, volta a elidere la persistenza in seno alla lingua, alla cultura e alla tradizione cinese di qualsivoglia apporto esogeno, e della quale la psicanalisi altro non sarebbe che l'ultima vittima.9

6. A proposito di questa analogia, la cui discussione ci porterebbe, sebbene nel mede­ simo senso in cui stiamo procedendo, lontano, cfr. J.-A. Miller, Della natura dei sembianti (corso tenllto presso l'Università di Parigi VIII, lezione del 4 dicembre 1991) , trad. di RA. Gentile, "La Psicoanalisi", 13, 1993, pp. 175-180. 7. F. Benslama, La p sycbanalyse à I' épreuve de l'i slam, Flammarion, Paris 2002, pp. 124128 (citato da R. Lanselle, Quale posto per l'analifta nella modernità cinese, cit. , pp. 105106). 8. Si veda, a questo riguardo, la seguente affemrnzione di Lacan: "Credo bene che.Joy­ ce non sia leggibile - certamente non è traducibile in cinese. Che cosa succede in Joyce? II

significante arriva a infarcire il significato. È per il fatto che i significanti si incastrano, si compongono, si sovrappongono - leggete Finnegan's W'ake- che si produce qualcosa che, come significato, può apparire enigmatico, ma che è appunto quanto c'è di più vicino a quel che ci tocca di leggere a noialtri analisti, grazie al discorso analitico - il lapsus. È in qualità di lapsus che ciò significa qualcosa, cioè che può leggersi in una infinità di modi di­ versi. Ma è appunto perciò che ciò si legge male, o si legge di traverso, o non si legge af­ fatto" (li seminario. Libro XX. Ancora. 1972-1973, 1975, trad. di S. Benvenuto e M. Contri, Einaudi, Torino 1983, p. 36). 9. Occorre peraltro precisare che la nozione di lettera cui si fa qui riferimento non è quella da Lacan per la prima volta form1ùata in Lit ura/erra, testo in cui la materialità del supporto linguistico è descritta, con particolare riferimento all'arte orientale della calli­ grafia, nei termini di un litorale, ovveros ia della "cancellatura di nessuna traccia che sia sta­ ta da prima", la cui produzione equivale alla riproduzione di "quella metà senza paio con

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Vale a dire che ciò di cui Lanselle denuncia l'elisione a opera della koiné psicanalitica stabilitasi in Cina è, attraverso la lette­ ra, quel buco che, sebbene reperibile unicamente a partire dal1' ordine simbolico, lo decompleta e ne interdice la totalizzazio­ ne, precludendo in tal modo al soggetto ogni possibilità di rap­ presentarvisi come indiviso nonché, sul piano della cura, quella di intenderne il compimento come "l'awento di un soggetto che si è liberato dall'inconscio, assimilabile alla figura tradizionale del saggio" - o, come potremmo anche dire, di un maitre. Qua­ si che, "ad aver operato una scissione su una indivisione sogget­ tiva perduta" e ad averla di conseguenza "collocata dalla parte di un passato idealizzato", fosse stata la modernità, conforme­ mente a una concezione che accomuna la posizione di alcuni set­ tori della psichiatria cinese a quella di chi, in Occidente, propo­ ne come soluzione dei problemi della postmodernità l'opzione "di un pensiero altro", "miracolosamente ritrovato" magari "proprio sul versante della 'tradizione cinese"'. Ma non è que­ sto - si chiede Lanselle - quanto di più contrario all'esperienza dell'analisi, se è vero che "l'obiezione di un particolarismo cul­ turale che costituirebbe un'eccezione" appare ogni volta secon­ do la forma del "sì/ma" ("Sì, ma in Cina... ") e che tale forma è quella con cui si fa ordinariamente obiezione alla castrazione strutturalmente intesa quale separazione del soggetto dal signi­ ficante che lo rappresenta?10 Eccoci dunque al punto: elidendo la dimensione della lettera, il soggetto invoca l'eccezione alla regola della divisione che gli consentirebbe di immaginarsi intero, disconoscendo nell'Altro, cui il soggetto sussiste" (f. Lacan, Lituraterra, 1971, trad. di M. Mazzotti e E. Perella rivi­ sta da A. Di Ciaccia e C. Mangiarotti, "La Psicoanalisi", 20, 1996, p. 15). Non si tratta cioè qui ancora di far p ositivamente apparire ciò che di reale insiste nel soggetto o, come Lacan altrove si esprime, "ciò che cessa di non scriversi", bensì soltanto di accentuare, della let­ tera, quel carattere che solo le consente di fungere da supporto di un'articolazione signifi­ cante. II che non significa tuttavia farne il luogo del dispiegamento di un senso passibile di divenire pieno, bensì, all'inverso, rimarcare come proprio attraverso la dimensione della letteralità si renda presente l'insuperabilità della condizione di scissione con la quale l'i­ dentificazione soggettiva stessa, a partire dal riconoscimento della barratura del grande Altro, viene per Lacan a coincidere. 10. R. Lanselle, Quale posto per /'a11alista nella modernità cinese, cit., pp. 108-109.

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in relazione al quale tale miraggio di pienezza si produce, il mar­ chio di un'incompletezza e di un'inconsistenza che è anche la propria. Da cui la perfetta identità riscontrabile tra la formula linguistica isolata da Lanselle e quella da Octave Mannoni indi­ cata per la Verleugnung feticistica: "Sì, lo so, ma comunque... ".11 Stando infatti al Freud del 1927, il feticcio altro non è che "il sostituto del fallo della donna (della madre)", la credenza nella cui esistenza diviene per il bambino irrinunciabile proprio a par­ tire dal momento in cui essa è scossa da una percezione di segno opposto, che gli appare inverare la minaccia della castrazione. In relazione a essa, la Verleugnung, owerosia il disconoscimen­ to del dato percettivo, costituirebbe peraltro una risposta del tutto normale e quindi un momento obbligato del processo di soggettivazione, a condizione tuttavia che essa si risolva con la rinuncia alla fede nell'effettiva esistenza di un siffatto pegno di completezza. Nella maggior parte dei casi la castrazione finireb­ be cioè per essere accettata dal soggetto per il tramite dell'Edi­ po, laddove il feticista ne farebbe economia ipostatizzando l'og­ getto della sua credenza, con una manovra a riprova della cui ef­ ficacia starebbe il fatto che "solo in rari casi esso [il feticcio] è vissuto come un fattore di sofferenza", né "occorre aspettarsi" che le persone la cui scelta oggettuale ne è dominata "si rivolga­ no all'analisi". 12 Viene allora da chiedersi se non sia lecito parlare, a proposi­ to della situazione cinese, di una feticizzazione del sapere anali­ tico, da intendersi come sua conversione forzosa in una dottrina che si sosterrebbe autonomamente, ovverosia come "presenza di un discorso sulla psicoanalisi, ma senza il discorso dell'anali­ sta", di cui si tratterebbe all'opposto di scongiurare l'instaura­ zione.13 Indifferente al fatto che gli stessi testi freudiani siano

11. Cfr. O. Mannoni, Sì lo so, ma comunque... (1964), in La funzione dell'immagùrario. Let teratura e psicoanalisi ( 1969), trad. di P. Musarra e L.M. Cesaretti, Laterza, Bari 1972, 5-29. 12. S. Freud, Feticismo (1927), in Opere, a cura di C.L. Musaui, Boringhieri, Torino 1967-1980, voi. X, pp. 491-492. 13. R. Lanselle, Quale posto per l'analista nella modernità cinese, cic., p. 104. pp.

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stati tradotti dall'inglese, nutrita di antologie e compendi inva­ riabilmente miranti all'essenziale della dottrina, ostinatamente sorda alle istanze della dimensione clinica, la psicanalisi cinese si sarebbe insomma finora limitata a tenere una variante di quello che per Lacan è il discorso universitario, il cui materna egli ot­ tiene nel Seminario XVII facendo compiere al tetrapode del di­ scorso del padrone un quarto di giro in senso inverso rispetto a quello che conduce alla produzione degli altri discorsi. Non fos­ se che, nella misura in cui l'S1 del significante padrone viene a occuparvi il posto della verità e l'S2 del sapere quello della do­ minante o dell'agente, il materna del discorso universitario mo­ stra chiaramente di costituirne al contempo la trasformazione e, per certi versi, l'ulteriore chiusura: 14 l'oggetto a, che nel discor­ so dell'analista causa il desiderio, vi è letteralmente messo a la­ voro e conseguentemente reintegrato al funzionamento dell'isti­ tuzione; mentre 1'$ vi è di converso relegato nel posto della pro­ duzione ma pure dello scarto, ove non potrà che vedersi con­ vertito in una pienezza tanto falsa quanto irrisoria. Ciò che in Cina si rivelerebbe nella forma di "una oscillazione storica: dal­ l'epoca maoista, tempo di eccezionalità del capo, a quella dei piccoli maestri [maitres], l'epoca dei riformatori e della cosid­ detta politica 'd'apertura', in cui ci troviamo ancora oggi, a par­ tire da Deng Xiaoping" .15 Ma è evidente che questa demoltiplicazione della padronan­ za attraverso il discorso universitario, i cui eventuali effetti di in­ debolimento sono ampiamenti compensati dalla pervasività che esso le attribuisce, "certamente ha degli equivalenti altrove" .16 Tanto più che il feticismo propriamente detto non costituisce af-

14. ar.J. Lacan, Il semzi1ario. Libro XVII. Il rovescio della psicoanalisi, cit., p. 210: "Pas­ siamo ora alla domanda di sapere in che modo questa società, cosiddena capitalistica, pos­ sa permenersi il lusso di concedersi un allentamento del discorso universitario. Eppure questo discorso non è che una di quelle trasformazioni che cerco di esporvi per filo e per segno. È il quarto di giro in rapporto al discorso del padrone. Da ciò deriva un problema che vale la pena di essere esaminato - esagerando in questo allentamento che è, diciamolo pure, of ferto, non si cade forse in una trappola?". 15. R. Lanselle, Quale posto per l'analista nella modernità cinese, cic., p. 108. 16. lvi, p. 104.

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fatto l'unica forma di fissazione della Verleugnung al di là della soglia che l'Edipo dovrebbe rappresentare per l'accettazione della castrazione. Anche qualora il soggetto ne sopporti la pro­ va - osserva Mannoni - ciò non va infatti mai senza il prodursi di un sentimento di perdita irredimibile, ad assicurare la cui com­ pensazione provvederebbero apposite forme di credenza, in cui ad aver conservato l'illusione di pienezza sarebbe non il sogget­ to, bensì un altro mistificato e in quanto tale oggetto di un'iden­ tificazione surrettizia. Facendo credere all'altro - per esempio al bambino che aspetta la venuta di Babbo Natale - ci risparmie­ remmo insomma "il panico", a detta di Freud foriero di "conse­ guenze illogiche non dissimili" da quelle in cui per un attimo si perde il soggetto alle prese con la castrazione, che sperimentia­ mo "quando qualcuno grida ai quattro venti che il trono e l'al­ tare sono in pericolo". 17 Poco importa insomma se l'agalma, l 'og­ getto prezioso, non è nelle nostre mani; ciò che in fondo conta è che vi sia qualcuno cui possa esserne supposto il possesso. La posta in gioco è la medesima che si trova per esempio nella pas­ sione degli occidentali per il Tibet, da Slavoj Zi.Zek identificato con ciò che per noi rappresenta l'oggetto inaccessibile, la Cosa la cui comprensione sarebbe del resto negata, per colmo di pa­ radosso, proprio ai tibetani, i quali non avvertono affatto nel proprio paese quel fascino di cui gli occidentali, con un gesto la cui forma stessa è eurocentrica, quanto più cercano di cogliere l'essenza tanto più perdono le tracce, e questo inevitabilmente, nella misura in cui il suo oggetto altro non è che lo schermo del­ le nostre proiezioni ideologiche. 18 Ponendo nell'alterità della Cina o di un qualunque altro luo­ go la soluzione della condizione di scissione soggettiva che è la nostra, e alla cui riduzione ci adoperiamo peraltro alacremente perseguendo il possesso di quella moltitudine degli oggetti a al­ la cui produzione la nostra società con dovizia provvede, non

130.

17. Si v edano i tes ti citati di Mannoni e Freud, alle pp. 14 e 492 rispettivamente. 18. Cir. S. Zizek, Credere (200 1 ) , trad. di M. Senaldi, Meltemi, Roma 2005, pp. 123-

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facciamo che perseguire un fantasma: lo stesso che i cinesi ve­ dono a loro volta incarnato dalla psicanalisi, in quanto la sup­ pongono in grado di restaurare la pienezza di una condizione originaria ugualmente perduta, con la sola differenza che essi la collocano in un altrove di preferenza temporale. E poco impor­ ta se nello schermo da esso fornito vi sono, come per esempio nello spazio bianco che separa i piccoli caratteri a stampa di uno scritto venuto da fuori, degli strappi: questi saranno sempre pas­ sibili di sutura, tanto attraverso un'operazione di tipo preventi­ vo come quella messa in campo dalla scrittura cinese quanto me­ diante la costruzione di un orizzonte di sapere la cui promessa di organicità è declinata al futuro come nel discorso universita­ rio. Alla fine, per sostituire ali'angoscia che promana dagli squar­ ci, o più semplicemente dalle intermittenze che si producono nel tessuto del sapere, la presenza di un senso pieno, garantito ma­ gari dall'autorità dell'interprete o del commentatore, è suffi­ ciente aprire la bocca e parlare. Con l'aggravante che, come La­ can stesso ricordava agli studenti di Vincennes chiedendo loro se non fossero per caso afasici, non se ne può fare a meno. 19 Vale a dire che non esiste alcun fuori, e che in nessun caso ci è dato sottrarci all'onnipresenza dell'istituzione? Che, in un'e­ poca segnata dal dilagare del discorso del padrone e dei su oi ava­ tar siamo più che mai condannati a essere attuali, al passo coi tempi? Sì e no, ed è Lacan stesso - credo - a essere lì per dimo­ stracelo. È infatti indubbio che, nel momento stesso in cui, oggi, lo leggiamo, non possiamo evitare di ricavarne un sapere passi­ bile di entrare come gli altri in un ciclo di produzione e consu­ mo mai prima d'ora così esteso - alle tesi, alle pubblicazioni e al­ le lezioni di ieri essendosi ormai aggiunti festival sedicenti filo­ sofici e non, convegni per addetti ai lavori e appassionati, video, siti Internet ecc. Ma è altrettanto indubbio che, nel farlo, ci ren­ diamo conto che la cosa non funziona, che rimane sempre un re­ sto, un residuo che non si lascia sciogliere in senso per il sempli-

l9.J. Lacan, A11alytico11, allegato a Il semi11t1rio.

si, cit., p. 257.

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Libro XVII. Il rovescio della psicoa11a!t�

ce fatto che non c'è forse nulla da sciogliere. Ci accorgiamo, an­ che, di come quella degli Scritti approntati per essere "letti" ma non per essere "capiti", "che non è per niente la stessa cosa",20 non fosse affatto una boutade, bensì l'istruzione fondamentale per farne buon uso: tenere presente che quanto essi sono depu­ tati a trasmettere è ciò che sta tra le righe, e che se quanto sta tra le righe è il più delle volte quel sottinteso la cui comprensione ci assicura di essere - come diceva Freud a proposito del motto di spirito - della parrocchia, non è tuttavia escluso che tra le righe passi talora tutt'altro. Penso qui a un passo del Seminario XVIII in cui Lacan lamenta il fatto che nei suoi grafi si fosse voluto scorgere delle formule perfettamente autosufficienti e funziona­ li piuttosto che le spoglie di un detto di cui stavano viceversa a testimoniare l'insopprimibile inadeguatezza. 21 Ma penso anche e soprattutto all'avvertimento di Jacques-Alain Miller su come, dall'impossibilità da Lacan asserita di dire il vero sul vero, non sia affatto da trarre la conclusione, accomodante quanto conso­ latoria, che la cattiva moneta scaccia sempre la buona e che tra le due non c'è quindi differenza; bensì quella secondo cui, nella situazione analitica, non si fa esperienza del dire quel che si vuo­ le se non per sperimentare da ultimo un limite, una condizione di aporeticità che sola ci permette di avvertire la presenza del reale, consegnandola all'anfibologia di una formula di impasse­ la famigerata p asse .22 La scommessa è insomma quella che l'opera di Lacan costi­ tuisca, prima ancora che la teorizzazione di un evento che si pro­ durrebbe unicamente all'interno della situazione analitica, il luo-

20. Id., Il trionfo della religione (conferenza del 29 ottobre 1975 al Centre culture! français di Roma), in Dei Nomi-del-Padre, seguito da Il trionfo della religione (2005), a cu­ ra di A. Di Gaccia, Einaudi, Torino 2006, pp . 101-102. Cfr. anche Id., Il seminario. Libro XX. Ancora, cit., p. 26: "È abbastanza noto che, questi Scritti, non li si legge facilmente. Posso farvi una piccola confessione autobi ografica è precisamente quel che pensavo. Pensavo, forse è fin qui che arrivavo, pensavo che non erano da leggere". 21. Cfr. Id., Le séminaire. Livre XVIII. D'un discours qui ne serait pas du semblant. 19 71, Seui!, Paris 2006, p. 62. 22. Cfr. J .-A. Miller, Della natura dei sembianti (corso tenuto presso l'Università di Pa­ rigi VIII, lezione del 22 gennaio 1992), trad. di R.A. Gentile, "La Psicoanalisi", 14, 1993, p. -

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go di un'esperienza di lettura il cui esito dovrebbe configurarsi in analogia a essa: come una raggiunta capacità di rapportarsi al sapere non come alla promessa di un senso che pure non tarderà a venire, e che è anzi già da sempre a disposizione, ma come al­ la chance di un colpo a vuoto o di un tempo perduto. Ciò che, bisogna pur dirlo, non è certo all'ordine del giorno.

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"Non ne so niente" GIOVANNI PILASTRO

I do noi know ali my knowledge and I know this is my strength. Leonard Cohen

Le non-savoir est f in et le savoir moyen. Georges Bataille

Q

ual è il sapere della psicanalisi? Con che tipo di sapere si ha a che fare in analisi? Chi è il soggetto tenutario, o supposto tale, di questo sapere? Insomma, cosa si intende quando si parla del­ la psicanalisi come di una pratica di sapere? Domande, queste, che ci rinviano direttamente allo statuto stesso della psicanalisi e alla natura di quanto le è più proprio, owero ciò che Freud ha chia­ mato inconscio. Quello della psicanalisi è infatti un sapere che ha a che fare con l'inconscio. Ma cos'è un sapere inconscio? O sareb­ be più giusto dire un "sapere" dell'inconscio o sull'inconscio? A livello intuitivo la nozione di inconscio come non conscio sembra in quanto tale contraddire e smentire di fatto l'ipotesi di un sapere in quanto non saputo. Che cos'è infatti un sapere che non si sa? Non si tratta semplicemente della consapevole igno­ ranza di sapere di non sapere, quanto piuttosto di un sapere che non si sa di sapere, 1 o meglio un non-sapere di sapere. In tal sen­ so esiste uno iato tra il sapere, in quanto inconscio, e la cono­ scenza, in quanto cosciente. Come infatti ricorda Lacan, "l'in­ conscio tanto meno sowerte la teoria della conoscenza in quan­ to con essa non ha niente a che fare" .2 Ora, un sapere che non si 1. Lacan parla di un "savoir qu'on sait sans le savoir" (f. Lacan, Le séminaire. Livre à mourre.1976-1977, lezione del 21 dicembre 1976, inedito). 2. Id., Radiofonia (1970), in Radiofonia. Televisione. L'itine rario di una ricerca (1974), Einaudi, Torino 1982, p. 36.

XXII'. L'ins u que sai/ de l'une-hévue s'aile

aut aut,

3-13.2009.133-144

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sa rinvia per l'appunto a un sapere che, pur restando tale, non si conosce, si ignora. Si tratta di un sapere di cui, come dice Freud, "dobbiamo supporre l'esistenza - per esempio perché la dedu­ ciamo dai suoi effetti - ma del quale non sappiamo nulla" .3 Una supp osizione, dunque, e un non sapere. È nell'oscillazione fra queste due modalità interne al sapere stesso - quella che Lacan definisce come "l'ambiguità del termine sapere"4 -, tra l'incon­ scio (sostantivo) come sapere e un sapere inconscio (aggettivo), che deve cogliersi lo statuto più proprio del sapere implicato nella psicanalisi, come un sapere che non si sa: l 'ambiguità del ter­ mine inconscio che, in quanto sapere,5 è un sapere inconscio cioè non saputo. Ora, si può non sapere cosa voglia dire una certa cosa e però sapere che questa vuole dire qualcosa, o meglio supporre che vo­ glia dire, che significhi qualcosa: si suppone cioè che a un non­ sapere corrisponda un sapere. Di fronte a un sogno, per esem­ pio, non si sa quale sia il suo significato ma si sa che qualcosa si­ gnifica, o almeno lo si crede. E chi crede in questo sapere? Si po­ trebbe rispondere: coloro i quali, decidendo di intraprendere un'analisi, domandano di sapere, avanzano un desiderio di sa­ pere, di sapere qualcosa sul proprio sapere inconscio. Questo è di fatto, come dice Lacan, "ciò che ci si aspetta da uno psicoa­ nalista" ,6 ovvero che sappia "far funzionare il proprio sapere in termini di verità" ,7 nei termini cioè di un saper dire il vero sul sapere de/l'inconscio, dal momento che, come scrive lo stesso Lacan, "la verità non serve a niente se non a fare il posto in cui si denuncia questo sapere" .8 È questa la "fiducia" che gli viene -

3. S. Freud, Introduzione alla psicoanalisi (nuova serie di leziom) ( 1932), in Opere, Bol­ lati Boringhieri, Torino 2003, voi. XI, p. 182 (corsivi miei). 4. J. Lacan, Il seminario. Libro VIII. Il transfert. 1960-1961 (1991), Einaudi, Torino 2008, p. 421. 5. Per Lacan, infatti, "l'inconscient ne se conçoit d'abord que de ceci: que c'est un sa­ voir" (Le sémùraire. Livre XXI. Les 11on-dupes errent. 1973-1974, lezione del 23 aprile 1974, inedito). 6. Id., 11 seminario. Libro X\'ll. 11 rovescio della psicoanalisi. I 969-1970 ( 1991), Einaudi, Torino 2001, p. 60. 7. Ibidem. 8. Id., Nota italiana (1973) "La Psicoanalisi", 29, 2001, p. 13. ,

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accordata nei termini di "soggetto supposto sapere", di soggetto cioè supposto detenere il sapere sull'inconscio: come ricorda in­ fatti Lacan, "noi [analisti] siamo interrogati in quanto sappia­ mo" ,9 owero in quanto si suppone - Lacan dice "c'è una suppo­ sizione" 10 - che I' analista sappia qualcosa circa il "segreto uni­ co" di chi domanda l'analisi. Una "posizione", questa, destinata però a cadere in quanto appunto solamente supposta al momen­ to di cominciare l'analisi. Di fatto si prospetta invece una sepa­ razione sostanziale tra "quel che [.. .] c'è da sapere"11 e "quel che sa" 12 effettivamente l'analista, il cui sapere operativo assume piuttosto i caratteri socratici di un sapere di non sapere, o me­ glio di un saper fare a meno del sapere. Se infatti la psicanalisi ha a che fare con l'inconscio come un non-sapere di sapere, l'a­ nalista dovrà in qualche modo saper non-sapere. Ciò comporta che il luogo occupato dall'analista - che Lacan chiama "posizio­ ne dell'analista" - non coincide con il luogo del sapere supposto: ne consegue perciò che quello che viene a occupare l'analista è ciò che Lacan chiama il "posto del non-sapere".13 Da un lato un sapere supposto, dall'altro un non-sapere. Quel­ la che si delinea è dunque un'oscillazione fra un "+" di sapere (un plus-de-savoir su cui si investe e si scommette nella pratica analitica al momento di istituire la relazione transferale) e un"-" di sapere (una manque-à-savoir come quella pratica di riduzione e sottrazione del"sapere" che si "desuppone"14 nella destituzione del "soggetto supposto sapere"). Ora, è con queste due polarità del sapere che l'analista deve, in qualche modo, saperci-fare, ser­ virsene, come dice Lacan, nel modo giusto. Si tratta dunque di un ulteriore statuto del sapere analitico che è più un saper-fare che un sapere in senso proprio, un'etica più che una teoretica, I' etica appunto della psicanalisi - per come è venuto declinan9. Id., Il seminario. Libro 1'11/. Il transfert, cit., p. 291. 10. lvi, p. 292 (corsivo mio) . 11. Id., Proposta del 9 ottobre 1967 (prima versione) (1967), "La Psicoanalisi", 15, 1994, p. 16. 12. lvi, p. 17. 13. lvi, p. 16 (corsivo mio). 14. M. Focchi, Il selling, "La Psicoanalisi", 35, 2004, p. 118.

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, dola Lacan nel suo celebre seminario omonimo-, un etica alla quale ogni analista, affinché "operi in modo corretto", 15 deve at­ ,, tenersi "non cedendo sul proprio desiderio ovvero non ceden­ do sul proprio "desiderio dell'analista". In tal senso il "deside­ , rio dell analista" corrisponde a questo saperd-fare delr analista con il sapere della psicanalisi o con la psicanalisi in quanto sa­ pere solamente supposto. Per Lacan infatti il "sapere in gioco" 16 nella psicanalisi è un sapere supposto che implica un modo giu­ sto di servirsene, quello cioè che co-risponde al "desiderio del­ l'analista". Questo modo giusto di saper-fare con il sapere pone, come detto, l'analista nel "posto del non-sapere" - quello che lo stesso Lacan aveva definito come il "vuoto al centro del sape­ re" 17 -, che di fatto è quello da cui si enuncia il "desiderio del1' analista". Ciò che muove infatti lanalista non è, come invece è ,, per l'analizzante, un desiderio di sapere (un "+ di sapere) , quan­ to piuttosto un desiderio, il "desiderio dell'analista" appunto, che per certi versi è al contrario un desiderio di non-sapere (un "-" di sapere). È questo infatti il senso della dichiarazione pro­ grammatica che apre il Seminario xx, nella quale Lacan afferma provocatoriamente di essere mosso, nell'avanzamento "fatico­ so" del suo insegnamento, da qualcosa "dell'ordine del non ne voglio sapere". 18 Quel lo che Lacan esprime è di fatto un deside­ rio di non-sapere, un voler non-sapere che mira quindi a un sa­ per non-sapere, dal momento che, come ricorda lo stesso Lacan, , "tutto ciò che si opera nel campo dell az ione analitica è anterio­ re alla costituzione del sapere" .19 In tal senso, il "desiderio del­ l'analista" è anteriore al sapere in quanto "è il desiderio dell'a­ ,, nalista alla fin fine ad operare nella psicoanalisi . 20 Per tale mo-

15.

J

Lacan, Il seminario. Libro Xl. I quattro concetti fondamentali della psicoanalisi.

1964 (1973), Einaudi, Torino 2003, p. 11 (corsivo mio).

16. Id., Nota italiana, cit., p. 12. 17. Id., Il seminario. Libro \!III. Il transfert, cit., p. 171 . 18. Id., Il seminario. Libro XX. Ancora. 1972-1973 (1975), Einaudi, Torino 1983, p. 3. 19. Id., Il seminario. Libro Il. I.;io nella teoria di Freud e nella tecnica della psicoanali si. 1954-1955 (1978), Einaudi, Torino 1991, p. 24 (corsivo mio). 20. Id., De/Trieb di Freud e del desiderio dello psicoanalista (1%4), in Scritti, Einaudi, Torino 2002, voi. Il, p. 858 (corsivo mio).

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tivo Lacan è indotto a parlarne sempre nei ter mini, più che di una "nozione", di una "questione" che non è in quanto tale ri­ ducibile a un "concetto" e non può perciò essere annoverata fra quei "concetti fondamentali della psicoanalisi" di cui Lacan par­ la nel Seminario XI. Il" desiderio dell'analista" sfugge, infatti, qua­ le questione essenziale, alla possibilità di una sua "concettualiz­ zazione" e rinvia perci ò, più che a un sapere, a un saper-fare: u n saperci-fare con i l "sapere". E in quale modo l'analista ci sa fare con il proprio sapere? O meglio, che effetti produce la tensione interpolare fra il plus-de-savoir e la manque-à-savoir su cui si sin­ tonizza il "desiderio dell'analista"? Si potrebbe dire che per La­ can questi effetti rimandano sostanzialmente a due dimensioni della pratica analitica: da un lato la finzione implicata nel tran­ sfert, dall'altro l'invenzione a livello dell'atto analitico. Entrambi questi aspetti introducono una "scena" che è quella dell' espe­ rienza analitica, come a Lacan piace chiamarla, della "cura". Si tratta perciò, nella psicanalisi, di un sapere che è orientato dalla "direzione della cura": un sapere dunque orientato a una "cura". A questo punto ci si potrebbe chiedere, ed è lo stesso Lacan a farlo alla fine del suo insegnamento, com'è che opera questo sapere in direzione della "cura". La risposta di Lacan, apparen­ temente furba ed evasiva, è invece sorprendente: "Malgrado tut­ to quello che ho detto un tempo - dice Lacan -, io non ne so niente. È una questione di truccheria".21 Due gli elementi di ri­ lievo in questa affermazione di Lacan : da un lato una esplicita dichiarazione di non-sapere, dall'altro l'introduzione di un ele­ mento di finzione relativamente alla presunta efficacia terapeu­ tica della psicanalisi. Il fatto di riferirsi alla pratica analitica nei termini di una "truccheria" rimanda immediatamente a quella nozione di finzione che Lacan aveva introdotto, già a partire dal Seminario VIII, relativamente al transfert pensato "come una fon­ te di finzione" .22 Si tratta della "finta" di quel "soggetto suppa-

21. Id., Sulla trasmissione della psicoanalisi (1978), "La Psicoanalisi", 38, 2005, (corsivi miei). 22. Id., Il seminario. Libro \!III. Il transfert, cit., p. 191 (corsivo mio).

p.

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sto sapere" che, come dice Lacan, "è qualcuno che sa [. ..] il truc­ co" ,23 che sa cioè che il suo sapere è una "finta", un sapere sup­ posto, cioè una "truccheria" alla quale il "desiderio dell'anali­ sta" porta nel transfert a "fare finta" (/aire semblant) di creder­ vi: un sapere che è dunque un saper-fare (savoir-/aire), un sape­ re (savoir) "fare finta" (/aire semblant), un saper bluffare e truc­ care sul proprio sapere. Non si tratta, come specifica Lacan, di una "simulazione", di un fingere "per davvero" (pour du vrai), quanto piuttosto di un "far finta" (/aire semblant) "per finta" (pour du semblant), un "fingere di obliare"24 ciò che ogni anali­ sta, nella sua esperienza di psicanalizzante, ha sperimentato co­ me la finzione della /unzione del "soggetto supposto sapere". Il rischio, del quale sovente secondo Lacan l'analista non si avve­ de, è quello di "prendersi troppo sul serio", di credere e "cede­ re" cioè alla propria/inzione che, come paventa Lacan, "diven­ ta grave se diviene oblio"25 effettivo, oblio cioè di "fingere di obliare": "La noia - dice Lacan - è che [l'analista] finisce per crederci, e questo lo blocca del tutto, vale a dire diviene imbe­ cille" .26 L'analista dunque, affinché non finisca per credere nel proprio sapere, deve assecondare il proprio "desiderio dell'ana­ lista" che, in quanto desiderio di non -sapere, non ne vuole sape­ re del sapere. A questo punto, il non ne so niente, con il quale Lacan nel suo ultimo insegnamento faceva ammissione di igno­ ranza sul proprio sapere, assume così tutta la sua valenza opera­ tiva, quella cioè della messa in atto della "funzione-finzione" del transfert nei termini di un saper-fare, o meglio di un saper-agire che è quello proprio dell'atto analitico, il quale "non è reperibi­ le fuori dalle coordinate transferali che organizzano la relazione analitica" .27 L'atto analitico - che, come dice Lacan, non può di

23. Id., Sulla trasmissione della psicoanalisi, cit., p. 15 (corsivi miei) . 24. Id., Le sémùtaire. Livre X\!. L'acte psychanalytique. 1967-1968, inedito, lezione del 29 novembre 1967. 25. Ibidem. 26. Id., Del discorso psicoanalitico (1972), in G.B. Contri (a cura di), Lacan in Italia. 1953-1978. En ltalie Lacan, La Salamandra, Milano 1978, p. 19 2. 27. D. Cosenza, ]acques Laca11 e il pmhlema della tecnica in psicoanalisi, Astrolabio­ Ubaldini, Roma 2003, p. 151.

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fatto darsi "fuori dal maneggiamento del transfert"28 - viene a "supportare il transfert"29 nei termini di un saper-fare, di un sa­ voir /aire semblant che altro non è se non un "fare a meno" del "sapere", "a condizione di servirsene", di un sapersene servire facendo, come dice Miller, "sembiante di sapere"30 (semblant du savoir), ovvero accettando di divenire "lo zimbello del sembian­ te di sapere".31 È a questo livello che si pu ò intravedere la stretta relazione che intercorre tra la nozione di "desiderio dell'analista" e quella, in­ trodotta da Lacan negli anni sessanta, di "atto analitico" nella pro­ spettiva di un'etica dell'analista, un'etica in cui, come scrive La­ can, "lo psicoanalista si autorizza soltanto da sé",32 rispondendo esclusivamente, potremmo aggiungere, al proprio "desiderio di analista". Non a caso Lacan parla della nozione di "atto" proprio nei termini di un "non essere garantito" che implica un "autoriz­ zarsi da sé da parte di colui che lo compie".3 3 In tal senso l'"atto analitico" diventa per l'analista l'arte di un arrangiarsi durante l'a­ nalisi con il proprio desiderio: in un certo senso per l'analista si tratta dunque di saperci-fare con la vertigine senza garanzie del proprio "desiderio dell'analista". L'autorizzarsi da sé comporta infatti la responsabilità di un agire non tutelato o garantito da al­ cuna forma di sapere procedurale: il saperci-fare con il proprio de­ siderio implica per ogni analista un sapersela cavare, un arrangiar­ si caso per caso con il proprio sapere, dal momento che la psica­ nalisi in quanto sapere, come sostiene Lacan, "va rimessa in que­ stione nell'analisi di ogni caso".34 Si tratta perciò di una messa in questione, in ogni analisi, della psicanalisi stessa e del suo sapere 28. J. Lacan, Le sémi11aire. Liv re X\!. I: acte ps)1cha11alyti que, cit., lezione del 29 novem­ bre 1967. 29. lvi, lezione del 17 gennaio 1968. 30. J A Miller, Della 11atura de i sembianti (corso tenuto presso il Dipartimento di psi­ coanalisi dell'Università di Parigi VJII, lezione dell'8 gennaio 1992), "La Psicoanalisi", 14, 1993, p. 104. 31. lvi, p. 105. 32. J. Lacan, Proposta del 9 ottobre 1967 intorno allo psicoa11alista della Scuola (1967), in Sci/ice/ 114, Feltrinelli, Milano 1977, p. 19. 33. D. Cosenza, ]acques Laca11 e il problema della tecnica i11 psicoanalisi, cit., p. 145. 34.J. Lacan, \1ariazio11i della cura-tipo (1955), in Scritti, Einaudi, Torino 2002, voi. I, p. 352. .-

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supposto: l'analista è chiamato di conseguenza, come dice Miller, "a disincantare i concetti fondamentali della psicoanalisi",35 ov­ vero la psicanalisi stessa in quanto sapere. È il "desiderio dell'a­ nalista", come modo giusto di saper-fare con il sapere, a operare questa pratica di "disincanto" che altro non è se non una pratica di supposizione e sospensione del sapere, così come è stato "ipo­ tizzato" e "inventato" da Freud. Proprio per questo motivo La­ can ritiene che il sapere della psicanalisi sia "intrasmissibile" ,36 cosa che rende necessario per ogni singolo analista, in ogni singo­ la analisi, rieditare, come fosse sempre la prima volta, il gesto au­ rorale e solitario di Freud: "È una seccatura - dice Lacan - che ogni psicoanalista sia costretto - poiché bisogna che vi sia costretto - a reinventare la psicoanalisi".37 Si tratta perciò di una invenzio­ ne di sapere nei termini di un saper-fare con il sapere di cui biso­ gna, per l'analista, imparare a "farne a meno a condizione di ser­ virsene",38 ovvero farci qualcosa, inventandolo. Scrive infatti La­ can: "Questo sapere non è già bell'e fatto. Occorre inventarlo" .39 È infatti lo stesso Lacan a sottolineare, nel suo ultimo insegna­ mento, il carattere di "ipotesi" e "invenzione" proprio dell'incon­ scio freudiano: "Freud, dunque, ha inventato - scrive appunto Lacan - questa storia, dobbiamo pur dire un po' bislacca, che si chiama inconscio. L'inconscio è forse un delirio freudiano" .40 Se nel Seminario XVII (1969-1970) Lacan, parlando del mito edipico come di un "sogno di Freud", di fatto introduce la psicanalisi in un orizzonte "al di là dell'Edipo", alla fine degli anni settanta ar­ riva persino a prospettare un "al di là dell'inconscio", parlando appunto dell'inconscio come di un "delirio di Freud", quello che Miller definisce "un'elucubrazione di sapere".41

35.J.-A. Miller,L'i11seg11amento di]acques Lican (2001), "LaPsicoanalisi", 30-31, 20012002, p. 114. 36. J. Lacan, Sulla trasmissione della psicoa11alisi, cit., p. 14. 37. Ibidem (corsivo mio). 38. Id., Il seminario. Libro XXIII. Il si11thom o. 1975-1976 (2005), Astrol abio-Ubaldini, Roma 2006, p. 133. 39. Id. , Nota italiana, cit., p. 13. 40. Id. , Sulla trasmissione della psicoanalisi, cit., p. 13 (corsivo mio). 41. .J .-A. Miller, L'insegna mento di ]acques Laetm, cit., p. 114.

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In questa prospettiva, come dice Miller, "il termine invenzio­ ne s'impone"42 come una produzione ex nihilo in quanto "s'in­ venta quello che non c'è":43 a differenza infatti della scoperta, che trova quello che c'era già, l'invenzione invece crea qualcosa che non c'era prima. Dalla scoperta dell'inconscio all'invenzione dell'inconscio, si passa quindi - con un movimento analogo a quanto avviene di fatto durante I' analisi - dalla pre-supposizio­ ne di un sapere ne/l'inconscio alla sua de-supposizione che apre la possibilità della sua stessa invenzione. Ne consegue un rove­ sciamento di prospettiva nella "direzione della cura": si passa infatti da una clinica garantita dalla pre-supposizione di un sa­ pere, a una invece non-garantita in cui il sapere, in quanto non c'è, è un'invenzione. Si tratta dunque per l'analista di saper in­ ventare il sapere, owero di "farne a meno" nella teoria "a con­ dizione di servirsene" in qualche modo nella pratica. Un saper­ servirsene nei termini cioè di un saperci-fare: è in tal senso che è possibile parlare, come ci suggerisce di fare Miller, di un sapere pragmatico più che epistemico. Il sapere analitico di fatto è dell'ordine di un saper-fare, del 1' ordine cioè, come detto, di un'etica più che di una teoretica, dal momento che per Lacan esiste un"'opposizione tra il saper­ fare e ciò che è epistéme",44 in quanto "non si tratta dello stesso sapere" .45 È infatti a partire da questa opposizione che Lacan, nelle pagine del Seminario XVII, rilegge la "dialettica servo -pa­ drone" alla base dell'affermazione storica, nella tradizione occi­ dentale, del "discorso del padrone", quello cioè responsabile della sottrazione al servo del suo sapere che è, ci ricorda Lacan, "prima di sapere" ,46 antecedente cioè alla sua presa e alla sua ar­ ticolazione all'interno del "discorso del padrone", del "sapere da padrone". Per Lacan infatti esistono "due facce del sapere": da un lato il saper-fare proprio del "sapere del servo", dall'altro 42. J.-A. Miller, I.;i11ve11zio11e psicotica (1999), "La Psicoanalisi", 36, 2004, p. 24 (corsivo mio). 43. lvi, p. 12 44. J. Lacan, Il seminario. Libro XVII. Il mvesdo della psicoanalisi, cit., p. 184. 45. lvi, p. 35. 46. lvi, p. 16. .

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la "faccia articolata" dell' epistéme, ovvero il sapere teorico pro­ prio del "sapere del padrone" che presuppone un"'epurazio­ ne" del saper-fare del servo, affinché questo possa divenire "sa­ pere da padrone": si tratta infatti di "far passare il sapere dal servo al padrone".47 In questo passaggio però c'è una perdita, in quanto, come segnala Lacan, "non appena qualcosa giunge al sapere, vi è qualcosa di perduto" .48 Questa perdita ha a che fa­ re con il godimento, o meglio con il saperci-fare con il godimen­ to, quella che si potrebbe definire come I'" etica del godimento" propria del "sapere del servo", di quel sapere che, in quanto sa­ per-fare, è il solo a detenere "i mezzi di godimento", e che Lacan non a caso definisce come "mezzo di godimento". Il "sapere del servo" è dunque un sapere pratico, o forse meglio pragmatico, il saper-fare cioè di chi detiene i mezzi, gli strumenti, gli arnesi per "arrangiarsi" con il godimento. Questo non vuol dire che il ser­ vo sia depositario di una tecnica, di un sapere tecnico applicati­ vo: si tratta piuttosto di un "impratichirsi con" ,49 come dice La­ can, ovvero di un "saper-fare con". Dall'altra parte c'è il "sape­ re del padrone" che, invece, non ne sa niente di come si/a con il godimento e per di più, come dice Lacan, non ne vuole sape­ re niente del "sapere del servo", anzi, ricorda ancora Lacan, "il padrone può dominarlo solo escludendo quel godimento"50 di cui il servo, come si è detto, possiede i mezzi per saperci-fare. In questi termini dunque, la "lotta", come la chiama Hegel, tra ser­ vo e padrone, è di fatto una spoliazione e una sottrazione al ser­ vo del suo sapere da parte del padrone. Per Lacan la "scena" di questo /urto è una "scena filosofica", ovvero quella del Menane di Platone in cui "si tratta unicamente di carpire al servo la sua funzione rispetto al sapere".51 Questa operazione del padrone è la "funzione della filosofia" come "funzione dell' epistéme" ov­ vero come "l'innesto del significante del padrone su questo sa-

47. 48. 49. 50. 51.

142

lvi, p. 19. Id. , li seminario. Libro X. [;angoscia. 1962-1963 (2004), Einaudi, Torino 2007, p. 145 Id., li seminario. Libro XXJ/I. li sinthomo, cit., p. 35. Id. , li seminario. Libro XVII. li rovescio della psicoanalisi, cit. , p. 116. lvi, p. 17.

.

pere ,, ,52 che è il saper-fare del servo, dal quale si ricava un sape­ re "alterato" che è il sapere asservito al "sapere del padrone,, . In tal senso si potrebbe dire che il "desiderio dell'analista ,, non è il "desiderio del filosofo": se infatti il "discorso filosofico", come dice Lacan, "è l'estrazione, direi quasi il tradimento, del sapere del servo per ottenere la trasmutazione in sapere da padrone,, ,53 ,, ovvero che "passa un sapere cioè che può essere "trasmesso , dalla tasca del servo a quella del padrone",54 il "discorso dell 'a­ nalista,, invece svuota le tasche del proprio sapere solo supposto, rigettando in questo modo ogni pretesa di padronanza. Come ricorda infatti lo stesso Lacan , "dovremo dirigere il nostro sguar­ do verso il servo, quando si tratterà di reperire che cos'è il desi­ derio dell'analista".55 La valenza etica della pratica psicanalitica va quindi in un cer­ to qual modo misurata in relazione al grado di indebolimento del sapere, messo in gioco e fatto giocare durante l'analisi, a cui mira il "desiderio dell'analista" come pratica di sottrazione e di supposizione di sapere. Fin dagli anni cinquanta era infatti chia­ ro a Lacan che l'analista nella sua pratica deve fare epoché rela­ tivamente al suo sapere, una messa tra parentesi e una sospen­ sione della posizione di chi detiene il sapere suppostogli dall'a­ nalizzante. Come infatti scrive Miller: "Nella pratica analitica, quando si è analisti, bisogna saper sospendere quel che si sa,, ,56 è necessario cioè un "saper-fare a meno ,, , un indebolimento del proprio sapere. Ciò implica di fatto un sapere pas-tout, un sape­ re cioè che non fa totalità e nel nome del quale dunque "nessu­ no psicoanalista può pretendere di rappresentare un sapere as­ soluto ,, 57 in quanto egli "non-sa-del-tutto".58 Questa convinzio-

52. I vi, p. 191. 53. lvi, p. 18. 54. lvi, p. 17. 55. Id., Il seminario. Libro XI. I quattro concetti/ondamentali della psicoanalisi, cic., p. 251. 56. J .-A. Miller, [;ù1conscio nel moment o del!'apertura (1987), in M . Focchi (a cura di), Pensare il presente. LA psicoanalisi al temp o della crisi, Franco Angeli, Milano 2006, p. 26. 57. J. Lacan , Il seminario. Libr o XI. I quattm co11cetti /011dame11tali della psicoanalisi, cit., p. 228. 58. Id., Il seminario. Libro XX. Ancora, cit., p. 98.

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ne però non sottintende affatto che l'analista possa, come dice lo stesso Lacan, "accontentarsi di sapere che non sa niente, poi­ ,, ché si tratta proprio di quello che deve sapere ,59 ovvero saper ,, "ignorare ciò che sa ,60 saper non-sapere. Ora, è su questo "fon­ do d'ignoranza" che deve prendere posto l'analista il cui sapere è un non-sapere che però, come ricorda Lacan, "non è una ne­ gazione dd sapere, ma la sua forma più elaborata" .61 In questo senso la formazione dell'analista deve essere per Lacan una for­ mazione "a questo non-sapere: senza di che non sarà mai altro ,, che un robot di analista .62 Questa "passione" per l'ignoranza, per il non-sapere, come direbbe Bataille, segna di fatto il pas­ saggio da un sapere epistemico padronale a quello pragmatico del saper-fare dd servo, proprio anche dell'analista. Come dice La­ can, "il non-sapere non è per modestia [ . . ] è precisamente la produzione 'in riserva' della struttura del solo sapere opportu­ no,,.63 Un "desiderio avveduto,, - come Lacan definisce il "desi­ derio dell'analista, - in vista dunque di un "sapere opportuno,,: ,, una "dotta ignoranza 64 come "forma più elaborata" del sapere, o forse sarebbe meglio dire meno elaborata nei termini cioè di , una pragmatica ovvero di quello che Lacan definisce come il "sa­ , per-fare analitico" .65 .

59.

60. 61. 62. 63.

64.

65.

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Id., Propo sta del 9 ottobre 1967 intorno allo psicoanali sta della Scuola, cit., p. 24. Id., Varianti della cura-tipo, cit., p. 343. lvi, p. 353. Ibidem (corsivo mio). Id., Proposta del 9 ottobre 1967 (prima vers ion e), cit., p. 18 (corsivo mio). Id., Nota italiana, cit., p. 11. Id., li s eminario. Libro Xl'//. ll mvescio della ps icoanalùi, cit., p. 35.

Materiali Sull'etica della psicanalisi

I materiali qui pubblicati documentano la giornata di lavoro

che si è tenuta a Milano nel marzo 2008 (I..:et ica della psicanalisi. Giornata di studi sul Seminario VII di Jacques Lacan), per iniziativa del Centro studi Palea e con il coordinamento di Massimo Recalcati.

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Oltre la significazione: il non senso ANDREA BELLAVITA

1. Gesù Cristo e Harpo Marx: humour, joke Jacques Lacan non si occupa diffusamente di non senso, di pas de sens in Seminario VII: lo ha fatto qualche anno prima, in Se­ minario v, quando sceglie il concetto freudiano di witz, di mot­ to di spirito, per introdurre la trattazione dell'inconscio, 1 e so­ prattutto lo farà dieci anni dopo, in Seminario XVII, in particola­ re nella seduta del 21 gennaio 1970.2 È un momento importante dell'insegnamento sul rovescio della psicanalisi, che stringe in un legame profondo i due seminari, perché vi ritroviamo una se­ rie di riferimenti a temi, e a personaggi, centrali già nel 1960: la riflessione sulla verità e la sua relazione con il godimento, Sade, Antigone. Di non senso in Seminario VII si parla soltanto due volte, e quasi di sfuggita: eppure, come spesso capita nella lettura dei se­ minari di Lacan (soprattutto quando è lettura eccentrica, pola­ rizzata, più simile a una ricerca, a una caccia, che a un raccolto), è proprio nelle pieghe del testo, nelle eccentricità, nel desiderio di stupire spostando il filo dell'insegnamento verso l'ecceziona­ lità di una performance, che si trovano alcuni tratti di folgoran­ te interesse. Ed è proprio attraverso divagazioni, distorsioni rispetto al te1. J. Lacan, Il Jemi11ario. Libro V. Le formazioni dell'i11co11Jcio. 1957-1958 (1998), Ei­ naudi, Torino 2004; si veda in particolare pp. 81-100. 2. Id., I I seminario. Libro XVII. I I roveJcio della pJicoa11alisi. 1969-1970 (1991 ) , Einaudi, Torino 2001, pp. 61-79.

146

aut aut.

3-t3, 2009, 146-163

ma del seminario, che Lacan parla di non senso a proposito di due personaggi che ci serviranno (insieme a un terzo) come gui­ de nel nostro percorso. E che sono personaggi di tutto rispetto: il primo è Gesù Cristo, il secondo è Harpo Marx. Sul non senso, straordinario, produttivo e fecondo, di Gesù Cristo, Lacan è molto esplicito. Sta affrontando la questione del Sommo Bene,3 e della problematicità del comandamento Amerai il prossimo tuo come te stesso, del suo senso paradossale, e dice: Non sarà certo troppo insistente la mia esortazione a scorge­ re, se ci riuscite, quello che nella risposta del Cristo da trop­ po tempo ormai sfugge a ogni appercezione auricolare, salvo a qualche orecchio accorto - se hanno orecchi per non inten­ dere, il Vangelo ne è un esempio. Provate un po' a leggere le parole di colui di cui si dice che non abbia mai riso - a leggerle per quello che sono. Non po­ trà non colpirvi, di quando in quando, un certo humour che supera tutto.4 Il riferimento agli "orecchi per non intendere" funziona qui non solo come un'evidente citazione evangelica (Marco, 4, 9), ma an­ che come il nodo di un percorso lacaniano, poiché lo ritroviamo in Seminario III, a proposito della psicosi, ma anche in Funzione e campo della parola e del linguaggio, in un momento di dialogo con Heidegger e con la sua teoria del linguaggio:

Il solo oggetto che sia a portata dell'analista è la relazione im­ maginaria che lo lega al soggetto in quanto io [moi] e, non potendola eliminare, può servirsene per regolare il flusso del­ le sue orecchie, secondo l'uso che la fisiologia, d'accordo col Vangelo, dimostra esser normale farne: orecchi per non in3. Id., Il seminario. Libro \!11. L'etica della psicoa11alis1: 1959-1960 (1986), Einaudi, To­ rino 1994, p. 120: "Freud ci dice la stessa cosa di san Paolo, ossia che non è nessun Som­ mo Bene a governarci sulla strada del nostro piacere, e che al di là di un certo limite siamo, rispetto a ciò che si cela in das Di11g, in una posizione del tutto enigmatica, poiché non c'è nessuna regola etica che faccia da mediazione tra il nostro piacere e la sua regola reale". 4. lbrdem.

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tendere, in altri termini p er fare la detection di ciò che deve essere inteso.5 Quello che Lacan fa qui al Vangelo, e al senso del Vangelo, è un omaggio: un omaggio, potremmo dire, al suo humour. Tra le a p­ plicazioni "umoristiche" della p arola evangelica include la p ara­ bola del fattore infedele, ma si sofferma in particolar modo sul­ la massima di Matteo, 22, 21: ...senza contare quel formidabilejoke, Date a Cesare quel che è di Cesare, e ora arrangiatevi. Uno stile p aradossale, che al­ l'occorrenza si abbandona a tutte le evasioni, a tutte le rottu­ re, a tutte le beanze del non-senso - dei dialoghi insidiosi in cui l'interlocutore sa sem p re scivolar fuori magistralmente dalle tra ppole che gli vengono tese. 6 Proseguendo nel nostro pedinamento delle p arole di Lacan, re­ stituendogli una vita per certi versi quasi romanzesca Oa stessa che Lacan spesso restituisce alla lettura di Freud), ci accorgiamo che si tratta di poco più di un lampo: con una torsione improv­ visa, la traccia viene abbandonata "per tornare a quello che è per il momento il nostro tema". Il secondo riferimento è lessicalmente meno es plicito, ma for­ se ancora più forte: nella seduta del 9 dicembre 1959 Lacan ha già introdotto il tema della Cosa, e sottolinea: "Per oggi voglio insistere soltanto su questo, la Cosa non ci si p resenta solo in quanto fa p arola, come si dice fare centro" .7 Al contrario, anzi, sembra suggerirci che la Cosa ("le cose di cui si tratta qui") non perde la sua incandescenza quando è una cosa muta: Basta evocare una faccia che chiunque di voi avrà presente, quel­ la del terribile muto dei quattro Marx Brothers, Harpo. C'è for5. Id., Fu11zio11e e campo della parola e del lùtguaggio in psicoanalisi (1953), in Scritti, Einaudi, Torino 1974, voi. I, p. 247. 6. Id., Il se111i11ario. Libro \!li. L'etica della psicoanalisi, cit., p. 121. 7. lvi, p. 68

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se qualcosa che possa porre una questione in un modo più pre­ sente, più pressante, più coinvolgente, più sconvolgente, più nauseante, più fatto per gettare nell'abisso e nel nulla tutto ciò che gli succede davanti, di quanto possa farlo la faccia segnata da un sorriso, di cui non si sa se sia quello della più estrema per­ versità o della stupidità più completa, di Harpo Marx? Questo muto basta da solo a reggere quel clima di messa in questione e di annientamento radicale, che costituisce la trama della formi­ dabile farsa dei Marx e del gioco di1okes senza soluzione di con­ tinuità che fa tutto il valore del loro numero.8 Di Harpo, al pari di Gesù Cristo, si potrebbe parlare come di "colui che si dice che non abbia mai riso": "terribile muto", è il punto pivot attorno al quale ruotano ijokes, l'humour, le "bean­ ze del non-senso" della farsa dei fratelli Marx. 2. Fuori dal significato: das Ding ed extimité

Eppure non è di non senso che si parla in Seminario VII, ma piut­ tosto di das Ding, del suo carattere di extimité, e della sua rela­ zione con la sublimazione. Su questo punto, anzi, Lacan è mol­ to chiaro: "L'impresa sublimatoria, con tutte le sue forme, non è puramente e semplicemente insensata" .9 Cercando di articolare, di far ruotare su se stessi e tra di loro questi tre termini (pas de sens, das Ding, extimité), vorremmo fare uscire le parole di La­ can dal suo testo, e usarle come chiave per interrogare il mondo esterno. Che, ancora con le sue parole, può essere descritto se­ condo una caratteristica particolare: un mondo in cui das Ding è "dalla parte del soggetto". Per una volta Lacan si lascia andare a quella che lui stesso chiama una "drammatizzazione", e spinge il suo uditorio a con­ centrarsi su quello che sta succedendo intorno a loro: Concentratevi su questa cosa, forse un po' più presentificata per noi grazie al progresso del sapere di quanto lo sia mai sta8.

9.

Ivi, lvi,

pp. 68-69. p. 171.

149

ta nell'immaginazione degli uomini, che non ha tuttavia per­ so l'occasione di scherzarci sopra - concentratevi su q uesto confronto col momento in cui un uomo, o un gruppo di uo­ mini, può far sì che la questione dell'esistenza venga tenuta in sospeso per la totalità della specie umana, e vedrete allora, al­ l'interno di voi stessi, come das Ding in q uel momento si tro­ vi dalla parte del soggetto. 10 La cosa su cui chiede di concentrarsi è la minaccia nucleare (sia­ mo nei primi mesi del 1960), ma questo statuto sembra ancora tremendamente funzionale a descrivere il nostro presente. E non soltanto il nostro presente sociale, o socio-politico: il mondo ver­ so il q uale vorremmo provare a traghettare la parola di Lacan è il mondo dell'arte contemporanea, dal momento che Seminario VII è il seminario dell'etica della psicanalisi, ma anche quello del1' estetica della psicanalisi. Das Ding è al centro della riflessione di Lacan e la sua intro­ duzione, e formulazione teorica, partecipa in maniera centrale alla svolta epistemologica di Seminario VII, e precisamente alla definizione del rapporto che il reale intesse con il simbolico e il linguaggio. La sua caratteristica fondamentale è infatti quella di essere "fuori di significato", irriducibile tanto all'ordine simbolico quanto a quello immaginario: la Cosa è, in quanto tale, irrappre­ sentabile, e attraverso di essa il registro del reale iscrive la sua centralità rispetto al registro del simbolico e dell'immaginario. La Cosa è eccentrica ed eccessiva rispetto ai due registri: è la via attraverso la q uale il reale mette in scena, esprime, il suo statuto di eccedenza, e di frattura delle pratiche (immaginarie o lingui­ stiche) di rappresentazione. Per q uesta ragione, trattando di un oggetto "fuori significa­ to", Lacan riconosce q uale definizione fondamentale per la Co­ sa di "patire del significante":

10.

150

lvi, p. 132.

Se la Cosa non fosse fondamentalmente velata, non saremmo con essa in una modalità di rapporto che ci obbliga - come tutto lo psichismo vi è obbligato - a circoscriverla, e addirit­ tura a farne il giro, per concepirla. Laddove si afferma, lo fa in campi addomesticati. È proprio per questo che i campi so­ no definiti tali - essa si presenta sempre come unità velata. Diciamo oggi che se essa occupa questo posto nella costitu­ zione psichica che Freud ha definito sulla base della tematica del principio di piacere, il fatto è che questa Cosa è quel che del reale - intendete qui un reale tale che non abbiamo anco­ ra da limitarlo, il reale nella sua totalità, tanto il reale che è del soggetto che il reale con cui egli ha a che fare come ester­ no a sé - è quel che, del reale primordiale, diciamo, patisce del significante.11

È a partire da questo complesso rapporto tra il significante, l'or­

dine simbolico, e la Cosa come reale primordiale, che si costrui­ sce la natura di extimité della Cosa, e che prende origine, in un certo senso, la ricerca teorica di Lacan che affronta il rapporto tra il reale e il simbolico. Se proviamo a esprimere questo rapporto, abbiamo che la Co­ sa "patisce del significante" nel senso che l'azione del signifi­ cante, intaccando continuamente, e da sempre, il reale primor­ diale, lo rende un oggetto perduto, un vuoto. È la definizione di das Ding come vuoto che Lacan eredita da Heidegger. Da questo rapporto paradossale e incessante tra simbolico e reale che si sviluppa sulla Cosa, a spese della Cosa, si origina la sua natura di extimité: da una parte, infatti, è completamente estranea al campo del linguaggio (è "fuori significato"), ma dal1' altra, come vuoto e oggetto perduto, non potrebbe essere con­ cepibile se non a partire dal linguaggio stesso e dalla sua azione di "intaccamento" del reale primordiale ("patisce del signifi­ cante").

11.

lvi,

pp. 150-151.

151

In questa oscillazione tra essere "fuori significato" e "patire del significante" la Cosa si definisce come extime: Forse ciò che descriviamo come quel luogo centrale, quell'e­ steriorità intima, quell'estimità che è la Cosa, ci chiarirà quel che resta ancora una questione, e persino un mistero, per co­ loro che si interessano all'arte preistorica - ossia appunto il suo sito.12 E ancora:

Das Ding è proprio al centro nel senso che è escluso. Vale a dire che in realtà deve essere posto come esterno, questo das Ding, questo Altro preistorico impossibile da dimenticare, di cui Freud afferma la necessità della posizione originaria, sot­ to forma di qualcosa di entfremdet, di estraneo a me pur stan­ do al centro di me, qualcosa che a livello dell'inconscio, sol­ tanto una rappresentazione rappresenta.13 D'altra parte è lo stesso Miller che, nel suo Extimité, centra in­ torno alla cosa la sua riflessione sul concetto formulato da Lacan e da essa prende avvio per approfondire e sviluppare questo per­ corso di ricerca: Premier extime que Lacan ait ponté, et c'est à cette occasion qu'il a tiré le mot, c'est ce qu'il a appelé d'un terme allemand où se trouvaient se croiser Freud et Heidegger: das Ding, "la chose". Et le plus proche, le prochain meme, se trouve nommé par Freud dans son esquisse du terme de Nebenmensch (ne­ ben à coté, près; mensch l'homme, l'erre humain), pro­ chain. Et ces deux termes allemands, disons de ce vocable ex­ time, Lacan les montre co'incider. 14 =

12.

=

lvi, p. 177.

13. lvi, p. 89. 14 . .J A Miller,

Extimilé (1985-1986), seminario inedito, lezione inaugurale del 13 no­ vembre 1985, esemplare dattiloscritto, p. 5. .-

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.

C'est là situer, sous le nom de das Ding, l'extimité primordia­ le, le premier extérieur à l'intérieur du champ des représen­ tations. La Chose y reste étrangère; il y a gravitation des re­ présentations, des signifiants autour de la Chose; au sens spa­ tial: position centrale de la Chose par rapport aux signifiants qui circuitent autour.15 Dopo averci fornito in vario modo il carattere di "imprendibi­ lità", di irriducibilità della Cosa, Lacan ci suggerisce però anche delle possibili modalità di trattamento. 3. Gesù Cristo, Harpo Marx e Arnaut Daniel: intorno al vuoto della Cosa Se ritorniamo ai nostri "personaggi del non senso", le nostre gui­ de, Harpo Marx e Gesù Cristo, ci rendiamo conto che proprio questi due momenti di pas de sens rimandano ai tre discorsi che si relazionano con la Cosa: l'arte (Harpo), la religione (Gesù Cri­ sto) e la scienza, che si dice nella sua assenza, nel suo non poter essere citata a proposito del non senso, proprio perché la scien­ za, come la paranoia, non presuppone il non senso, ma esige di trovare sempre e ovunque il senso. Massimo Recalcati ha organizzato e descritto in modo straor­ dinariamente chiaro questa relazione, riprendendo le tre decli­ nazioni del vuoto della Cosa da parte dei tre discorsi: l'evita­ mento della sublimazione religiosa, la saldatura del vuoto della sublimazione scientifica e l'organizzazione del vuoto del lavoro artistico.16 15. lvi, p. 32. 16. M. Recalcati, Il miracolo della/orma. Per un'estetica psicoanalitica, Bruno Monda­ dori, Milano 2007, pp. 32-33: "Organizzazione, esitamento e saldatura del vuoto defini­ scono dunque, per Lacan, lo specifico della sublimazione artistica, della sublimazione re­ ligiosa e della sublimazione scientifica. L' evitamento è la strategia ossessiva che contraddi­ stingue la sublimazione religiosa: il luogo terrificante e senza senso della Cosa è aggirato perché incomparabile con l'idea teologica che l'essere coincida con il Bene. La saldatura del vuoto della Cosa definisce invece la sublimazione s cientifica: l'ideale del sapere si espri­ me come tendenza a suturare la crepa del non senso in una rete significante che sappia ri­ coprire in modo integrale il reale. [. ] L'organizzazione del vuoto definisce invece il tratto specifico del lavoro artistico. [. ..]Organizzare il vuoto intreccia il simbolico e l'immagina. .

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Potremmo dire allora che il senso della "presenza" dei nostri due personaggi a questo punto del discorso lacaniano sia in un certo modo quello di aprire verso qualcosa d'altro, di contenere già in nuce la possibilità di un superamento del modello della declinazione del vuoto. Non di un suo ribaltamento, ma sempli­ cemente dell'esistenza di un'altra possibile descrizione. In Harpo, che rappresenta il pas de sens artistico, abbiamo già una tragicizzazione della funzione dell'arte: il suo sorriso è muto e immobile, e per questo doloroso. Lacan tornerà di lì a poco sulla relazione tra dolore e immo­ bilità ricordando che "dovremmo forse concepire il dolore co­ me un campo che, nell'ordine dell'esistenza, si apre precisamente dal limite in cui non c'è possibilità per l'essere di muoversi":17 davanti al sorriso muto di Harpo rimaniamo pietrificati, non pos­ siamo muoverci, e soffriamo. Non ci si dischiude forse qualcosa, attraverso una specie di intuizione dei poeti, nel mito di Dafne che si trasforma in al­ bero sotto la pressione di un dolore a cui non può più sfuggi­ re? Non è forse vero che l'essere vivente che non ha la possi­ bilità di muoversi ci suggerisce fin nella sua forma la presen­ za di ciò che potremmo chiamare un dolore pietrificato?18 Siamo congelati come di fronte a uno specchio: lo "specchio umano" è uno dei;okes più famosi del gruppo, che Groucho in­ terpreta in La guerra lampo dei/ratelli Marx. Questa tragicizzazione dello specchio anticipa già il Lacan di

rio con il reale, in quanto indica un processo di organizzazione che allude alla dimensione dell'articolazione significante e alla funzione dell'immagine, mentre il vuoto è quella di­ mensione extrasignificante ed extraimmaginaria - il reale di das Ding - che resta al centro di quest'articolazione. Dunque l'arte s'impegna nell'articolazione dell'inarticolabile e non nel culto mistico dell'inarticolabile in quanto tale. L'operazione significante che presiede alla creazione artistica si misura con ciò che eccede il significante (il reale del vuoto della Cosa), senza però restarne irretita in una fascinazione silenziosa". Si veda anche F. Re­ gnault, "L'art selon Lacan", in Co11/ére11ces d ' esthétique lacanienne, Agalma, Paris 1997, pp. 29-32. 17. .J. Lacan, Il seminario. Libro \'li. L'etict1 della psicoanalùi, cit., p. 7 4. 18. lvi, pp. 74-75.

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Seminario x, e innesca una dimensione critica dell'arte, una let­ tura problematica. Prima di arrivare al modello estetico di Se­ minario XI, quello dell'arte come /unzione quadro, come trompe­ l'ceil e dompte-regard, c'è il passaggio, fondamentale, di Semina­ rio X, quello dello sguardo d'angoscia medusizzante dello spec­ chio. È uno sguardo mortifero, che Lacan enuncia a proposito della/unzione delfantasma e della natura unheimliche dello spec­ chio. Quando l'angoscia emerge oltre il quadro dalla sua "fine­ stra", spossessa il soggetto della sua autonomia e ne uccide, cioè ne dissolve, Io statuto stesso di soggetto, rivelandone la natura di oggetto (di visione e di desiderio dell'Altro). È la posizione del soggetto difronte alla "mantide religiosa", 19 che Lacan introdu­ ce per fondare la sua riflessione sulla natura dell'angoscia e sul­ la sua relazione con il Reale. Nel joke di Harpo, nel suo sorriso muto del pas de sens, c'è già in qualche modo un superamento e una diffrazione della fun­ zione organizzatrice dell'arte intorno al vuoto della Cosa: men­ tre Lacan ci conduce a quella che rimane la sua più straordina­ ria intuizione sul ruolo dell'arte, semina la traccia, nascosta, "di sfuggita", anche del suo contrario e della sua messa in crisi. La possibilità cioè che il Reale non si faccia facilmente organizzare, che la Cosa rimanga totalmente fuori dal significato, che il suo carattere di extùnité si sbilanci dalla parte del non senso. La "presenza" di Gesù Cristo introduce poi un secondo pas­ so di criticità, fondato sulla differenza tra il discorso di (dell' ar­ te, della scienza, qui della religione) e l'eccedenza del discorso, nei termini in cui Gesù Cristo non è la religione, ma la eccede. È, letteralmente, l'oggetto causa del desiderio della religione: Gesù Cristo è l'oggetto piccolo a della religione. 19. "Mi ero immaginato, in vostra presenza, di trovarmi di fronte a un altro animale, vero però, supposto per l'occasione di dimensioni gigantesche: una mantide religiosa. Da­ to che non sapevo quale fosse la maschera che portavo, potete facilmente immaginare che non mi sentivo affatto rassicurato di fronte all'evenienza che la mia maschera si prestasse a trarre in inganno la mia partner circa la mia identità. La cosa era accentuata dal fatto, che avevo aggiunto, che non vedevo la mia immagine nello specchio enigmatico del globo ocu­ lare dell'insetto", Id., Il seminario. Libro X. L'angoscia. 1962-1963 (2004 ), Einaudi, Torino

2007, p. 8.

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Lacan, più o meno esplicitamente, incomincia qui a far emer­ gere la differenza tra il discorso e qualche cosa che può solo es­ sere descritto utilizzando un'equazione di significato, cioè come "la relazione che si stabilisce tra Gesù Cristo e la religione". Non è semplicemente la relazione tra "l'arte e l'artista", tra lo "scienziato e la scienza", ma è la relazione che (altrove in Lacan ) sta tra Joyce e la letteratura: non c'è rischio di blasfemia, né di rendere poco omaggio a Joyce, nell'affermare che Gesù Cristo sta alla religione come Joyce sta alla letteratura. Come afferma Lacan in Seminario XXII a proposito di Joyce, anche Gesù Cristo non parla per essere compreso ("chi ha orec­ chi per non intendere il Vangelo"), ma per poi essere studiato. Studiato dal discorso: non dell'università, ma della religione. Insomma, Harpo e Gesù Cristo, dall'interno del Seminario VII, connotati dalla loro capacità di agire un pas de sens, agisco­ no come elementi di critica, e di crisi, dei modelli di trattamen­ to del vuoto della Cosa: uno perché cambia il segno dell'arte in tragico, l'altro perché eccede il discorso. Accanto a loro potremmo collocare adesso un terzo perso­ naggio, forse il più importante al fine della nostra riflessione: Ar­ naut Daniel. Di certo meno famoso di Gesù Cristo, e con ogni probabilità anche di Harpo Marx, Arnaut Daniel è poeta trova­ tore provenzale di carattere arguto e vita awenturosa, inventore della sestina lirica, gran giocatore d'azzardo, di forti appetiti ses­ suali, che, dopo aver avuto la protezione di Riccardo Cuor di Leone, terminò la sua vita in povertà o forse monaco, ammirato da Dante e amato da Ezra Pound. Il modo in cui Lacan presenta Arnaut Daniel è, come spesso accade, affascinante: anche nel testo stabilito, si presenta nella for­ ma di un "complemento. Una curiosità della sublimazione", a margine della seduta del 2 marzo 1960: "Vi ho portato oggi una curiosità, un passatempo quasi. Ma tali tipi di curiosità, credo che siamo forse i soli, noi analisti, a essere in grado di situarli".20

20. Id., Il seminario. Libro mente modificata).

156

\!li.

L'etica dellt1 psicoa11alisi, cit.,

p.

203 (traduzione legger­

Lacan ha descritto molto bene le caratteristiche dell'amor cor­ tese e, di volta in volta, descrivendolo, ha continuato a stupirse­ ne,21 ammirato, quasi perplesso, della possibilità che un tale si­ stema potesse darsi. Ma, continua, "di poemi come questo, non ce ne sono due, nella storia della poesia cortese. È un hapax" .22

La caratteristica saliente di questo poema è che la Dama in questione dà l'ordine al suo cavaliere di "imboccare la sua trom­ ba". Dice lo stesso Lacan che l'espressione non ha nel testo un senso ambiguo, e che lascia intendere chiaramente come la Da­ ma chiede al suo cavaliere di praticarle un anulingus. Non è un caso, d'altra parte, che Dante lo collochi nel XXVI canto del Pur­ gatorio (e non nel XIV come riporta erroneamente Lacan) a espia­ re il suo peccato di lussuria, nella schiera dei sodomiti.23

21. lvi, p. 187: "Con l'amor cortese, le cose sono tanto più sorprendenti in quanto emergono in un'epoca le cui coordinate storiche ci mostrano che nulla sembra corrispon­ dervi a quel che si potrebbe chiamare una promozione, o addirittura una liberazione della donna". 22. lvi, p. 204; riportiamo il testo del poema, nella traduzione italiana di Roberto Ca­ vasola: "Visto che signor Raimon - insieme a signor Truc Malec - difende donna Ena e i suoi ordini, sarò vecchio e incanutito prima di acconsentire a simili richieste. Poiché per 'imboccare questa tromba' avrebbe bisogno di un becco con cui tirar fuori i chicchi dal 'tubo'. Eppoi potrebbe uscirne anche cieco, poiché è forte il fumo che esce da quelle pie­ ghe. Avrebbe bisogno di un becco, che fosse lungo e puntuto, dato che la tromba è mgo­ sa, brutta e pelosa, e non c'è giorno che sia asciutta, e dentro la palude è profonda: per cui la pece che continuamente spurgata ne esce, fermenta verso l'alto. Ed è sconveniente che sia un favorito colui che accosta la sua bocca al tubo. Ci saranno tante altre prove, più bel­ le e di maggior valore, e se Bernart si è sottratto a questa, per Cristo, non si è comportato da vigliacco neanche per un istante, se è stato preso dalla paura e dallo sgomento. Poiché se il getto d'acqua fosse venuto dall'alto su di lui, gli avrebbe scottato completamente il collo e la guancia, ed è sconveniente poi che una donna baci colui che ha strombettato in una tromba puzzolente. Bernart, io non sono d'accordo con quel che dice Raimon de Dufort in proposito - che voi qui abbiate un qualche torto; poiché se aveste strombettato per il piacere, avreste trovato un rude ostacolo, e vi avrebbe ben presto ucciso il fetore, che puzza peggio del concime in giardino. Voi, chiunque cerchi di dissuadervi, lodate Dio che ve ne ha scampato. Sì, è proprio scampato a un gran periglio, che sarebbe poi stato rim­ proverato a suo figlio e a tutti quelli di Comi!. Sarebbe stato meglio andarsene in esilio, piuttosto che 'strombettarla' nell'imbuto tra la schiena e il pettignone, dove si susseguono le materie color ruggine. Non sarebbe mai riuscito a ripararsi abbastanza da evitare che quella le scompisciasse il muso e il sopracciglio. Donna, che Bemart non si appresti affat­ to a strombettare la tromba senza un grande 'zipolo' con cui chiuderà il buco del petti­ gnone, e allora potrà strombettare senza peri glio". 23. Ma indicato dal Guinizzelli come il migliore dei poeti che abbiano scritto in volga­ re: "O frate, - disse, - questi ch'io ti cerno I col dito, - e additò un spirto innanzi, - I fu miglior fabbro del parlar materno. I Versi d'amore e prose di romanzi I soverchiò tutti: e

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E nemmeno è un caso che Ezra Pound, che ama, studia e tra­ duce Arnaut Daniel, lo collochi tra i poeti maggiori di tutti i tem­ pi nei suoi Literary Essays o/ Ezra Pound, ma che poi scriva (si pensi alla delusione!): "Non do la tenzone con Trucs Malecs per motivi ben chiari a tutti coloro che l'hanno letta". E che invece sono i motivi per cui la dà Lacan: che il poema di Arnaut Daniel mette in crisi il principio stesso della sublimazione della Cosa. La sublimazione, che offre al Trieb una soddisfazione diversa dalla sua meta- sempre definita come meta naturale-, è per l'appunto ciò che rivela la natura propria del Trieb in quanto non è semplicemente l'istinto, ma ha rapporto con das Ding come tale, con la Cosa in quanto distinta dall'oggetto. [ ... ] E la formula più generale che vi do della sublimazione è questa - essa eleva un oggetto- e qui non mi sottrarrò al tono di ca­ lembour che può esserci nell'uso del termine che prendo- al­ la dignità della Cosa. 24 Lacan lo dice esplicitamente: Il carattere inumano dell'oggetto dell'amor cortese in effet­ ti salta agli occhi. Questo amore che ha potuto spingere al­ cuni ad atti che sono molto vicini alla follia si rivolgeva ad esseri viventi, con un nome, ma che non erano lì nella loro realtà carnale e storica - è forse già qualcosa da distinguere-, che erano lì in ogni caso nel loro essere di ragione, di signi­ ficante. È del resto quello che dà senso alla straordinaria serie di stro­ fe di dieci versi del poeta Arnaut Daniel di cui vi ho dato let­ tura. Vi si trova la risposta della pastorella al pastore, poiché la donna, dal suo posto, risponde, per una volta, e invece di

lascia dir li stolti I che quel di Lemosì ere don eh' avanzi" (Purgatorio, canto XXVI, vv. 115120). Si veda a questo proposito anche Richard Halpern, Shakespeare's Per/ume: Sodomy a11d Sublimity ùt the So1111ets, Wilde, Freud and Lacan, University of Pennsylvania Press, Philadelphia 2002. 24.J. Lacan, l/ semina rio Libro \111. L'etica della psicoa11alt:ri, cit., p. 141. .

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stare al gioco, awerte il poeta, al grado estremo della sua in­ vocazione al significante, della forma che essa può assumere in quanto significante. Non sono altro, gli dice, che il vuoto che c'è nella mia cloaca, per non usare altri termini. Soffiate­ ci dentro un po' per vedere - per vedere se la vostra sublima­ zione regge ancora.25 Dunque è questo il punto: la vostra sublimazione regge ancora? Regge ancora la funzione organizzatrice dell'arte? La doman­ da chiaramente è questa. A questa domanda Lacan dà sicuramente una risposta, è il fi­ lone che prende il via dall'Essere-supremo-in-malvagità di Sa­ de,26 ma vorremmo provare qui a spostarci in un'altra direzione e riflettere su alcuni elementi. A partire dal valore di "prova" che il componimento di Arnaut Daniel ha nei confronti del mo­ dello della sublimazione dell'arte, che intendiamo nel senso che Lacan attribuisce alle pitture rupestri nelle cavità sotterranee: da una parte, di prova come messa in discussione, come perfor­ mance di sperimentazione, dall'altra, di prova come testimo­ nianza, traccia del reale.

4. Arnaut Daniel, Jake e Dinos Chapman: essere all'altezza del "pas de sens" Per arrivare alla straordinaria relazione che si può stabilire tra il sistema dell'amor cortese e il sistema dell'arte contemporanea: in un certo senso Lacan continua a stupirsi dell'amor cortese, "soltanto" perché non ha avuto modo di conoscere in modo ap­ profondito il sistema dell'arte contemporanea. Un momento culminante, che va pressappoco dall'inizio del­ l'XI secolo al primo terzo del XIII secolo, vede la tecnica tutta

25. lvi, p. 273. 26. "Il che non vuol dire che non ci sia altra soluzione alla prospeltiva del campo del­

la Cosa. Un'altra soluzione - storicamente datata essa stessa, e, cosa curiosa, di un'epoca che non è poi così distinta da quella cui ho appena fatto allusione - è forse un po' più se­ ria. Si chiama in Sade l'Essere- supremo-in-malvagità", ibidem.

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particolare dei poeti dell'amor cortese giocare un ruolo di cui non possiamo, al punto in cui siamo, valutare assolutamente la portata, ma da cui alcune cerchie, nel senso dell'amor cor­ tese, cerchie di corte, cerchie nobili, occupanti una posizione elevata nella società, indubbiamente sono state molto sensi­ bilmente prese.27 Il "sistema" dell'amor cortese ha molti tratti in comune con quel­ lo dell'arte contemporanea: l'arte contemporanea è tautologica, secondo una nozione assimilabile a quella che Barthes attribui­ va al sistema della moda28 (in questo senso l'arte contemporanea "è moda" e "non è una moda"). Da qui si produce il "problema fondamentale" della critica d'arte (non si dà attribuzione dello statuto di opera d'arte al di fuori del circuito stesso: la presenza nella rivista o nello spazio espositivo o nella galleria "certifica" e non "ratifica" che un oggetto è arte). Con un ardito volo estetico-teorico, proviamo dunque ad af­ fiancare al poema di Arnaut Daniel due opere dei fratelli J ake e Dinos Chapman: Zygotic Acceleration Biogenetic Desublimated Libidinal Model (Enlarged X 1000), del 1995, e Tinkerbellend, del 2002. I due lavori in questione sono esemplari di un sistema (quel­ lo dell'arte contemporanea) che mette in crisi la sublimazione, tanto quanto il poema di Arnaut Daniel faceva nei confronti del­ l'amor cortese, e contemporaneamente stabiliscono con la ten­ zone maledetta del nostro trovatore un rapporto di descrizione e "traduzione" quasi letterale. Zygotic Acceleration, una delle opere più famose ed esemplari dei fratelli Chapman, è un gruppo scultoreo composto da bam­ bini di entrambi i sessi, completamente nudi al di fuori di un paio di scarpe da ginnastiche (tutte uguali), riuniti in cerchio e rivolti verso l'esterno. Accomunati da alcuni tratti somatici (i capelli al­ le spalle con un taglio a caschetto da paggio), gli occhi e le espres-

27. lvi, p. 185. 28. R. Barthes, Sistema della Moda (l 96 7), Einaudi, Torino 1970.

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sioni serene, sognanti o assorte, lontane e assenti, i lineamenti de­ licati, in cui il realismo della rappresentazione e dei materiali agi­ sce in termini dialettici con l'orrore della situazione. Perché i bambini dei Chapman non sono semplicemente stretti gli uni agli altri, ma collegati fra loro da una mostruosa prossimità di legame siamese: i torsi sono uniti in perfetta continuità, la pelle liscia e uniforme, una surreale e disturbante palizzata di corpi infantili, un piccolo fortino, chiuso a difendere (e a nascondere) qualcosa che non si offre alla vista, dal quale spuntano braccia, gambe, te­ ste, o ulteriori mostruose aberrazioni, deformità combinatorie che evocano fantasmi mitologici (una sorta di chimera, in cui un nuovo busto spunta all'altezza del bacino) e giochi infantili (uno dei bambini è capovolto rispetto agli altri, e sembra sospeso, trat­ tenuto in un ludico esercizio di ginnastica). Tutto il gruppo è circonfuso di un'aura di serenità e di orro­ re, che produce una sensazione che non può che essere descrit­ ta che con il concetto freudiano di unheimlich, di perturbante. Ma ciò che rende più prossimo questo monstrum collettivo alle immagini di Arnaut è rappresentato dal fatto che alcuni dei sog­ getti sono dotati di nasi fallici e di orifizi spalancati al posto del­ la bocca. L'ordine della Dama viene dunque grottescamente ub­ bidito dai bambini di Zygotic Acceleration: sul loro viso è cre­ sciuto uno "zipolo", un "becco" adatto a "suonare la tromba" ed è loro concesso contemporaneamente di annusare e di dare piacere. La natura perversa e feticistica dell'ordine della Dama viene contemporaneamente ridimensionato (c'è, effettivamente, un pene al posto del naso, e l'atto di piacere viene normalizzato) ed eletto a modello identitario (c'è, effettivamente, un pene al posto del naso, e l'integrità somatica viene oltraggiata), la trasla­ zione simbolica (il valore metaforico del naso per il pene, come ci ricorda bene il Kubrick di Arancia meccanica, in cui Alex e i suoi droghi indossano una maschera fallica per compiere le loro violenze) viene superata e reificata. Non c'è più l'annusare per il possedere, ma l'annusare (o il leccare) è il possedere. Congelato nella sua debolezza il regime del simbolico, i fra­ telli Chapman ci costringono a fare i conti con il buco della Co-

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sa. Che è anche il buco della bocca, e l'imbarazzo sconveniente a cui si trovava sottoposta la donna costretta a baciare "colui che ha strombettato in una tromba puzzolente" scompare: la bocca e la tromba sono tutt'uno. Cosicché ognuno dei bambini così deformati potrebbe essere messo nelle condizioni di ubbidire da solo all'ordine (avendo su di sé tanto la "tromba" quanto il "bec­ co") o di ricomporlo con i compagni in qualche ulteriore oscena combinazione. Tinkerbellend è invece un'opera più recente e di dimensioni molto ridotte, che ritrae un soggetto di sesso femminile in tutto analogo ai precedenti, collocato sotto una piccola campana di vetro: miniatura, figurina, baule à neige senza neve, Damina pro­ tetta e venerata, perfetto oggetto di amor cortese. Come "reagi­ re" a questa prova, cioè come sperimentare se ancora, dawero, nell'arte contemporanea come forma non degenerativa ma evo­ lutiva dell'amor cortese, sia possibile "tenere", "reggere" il la­ voro della sublimazione come strumento per separare il Sogget­ to da un oggetto di godimento fusionale, mortifero, spostando­ lo verso l'oggetto di godimento più prossimo? Lacan, articola due possibili barriere: quella del bene e del bello. Ci interessa in particolare la seconda, quella del bello, che condivide con la Cosa uno stato intermedio tra simbolico e im­ maginario, declinato secondo un cambiamento di segno eufori­ co, e non più disforico: così come la Cosa è l'irriducibile al sim­ bolico e all'immaginario, nello stesso modo il bello (il bello del­ le scarpe di Van Gogh) è posto in una posizione intermedia:" [Le scarpe] nella loro incommensurabile qualità di bello. Sono lì, ci fanno un segno d'intesa, situato per l'appunto a uguale distanza dalla potenza dell'immaginazione e da quella del significante" .29 Cosa accade quando anche questa barriera salta, come nell'o­ pera perturbante dei Chapman, e il soggetto si trova di fronte al­ l'incandescenza del desiderio? Due sono le possibilità: cadere nel vuoto della Cosa, sprofondare nel godimento, secondo un principio per cui l'uscita dal senso coincide con un'entrata nel 29. .J. Lacan, Il seminario. Libro

162

\111.

L'etica della psicoanalr:ri, cit.,

p.

3 72.

godimento. Oppure sperimentare l'essere all'altezza del non sen­ so, come Lacan lo descrive in Seminario XVII: Il senso, se posso dire così, ha l'onere di essere. Anzi, non ha nessun altro senso. Solo che ci siamo accorti a un certo pun­ to che questo non basta a fare in modo che sia ali' altezza, al­ l'altezza, appunto, dell'esistenza. Cosa curiosa, il non-senso, invece, è all'altezza. Prende allo stomaco. Ed è questo il passo fatto da Freud, quello di aver mostrato che è ciò che ha di esemplare il motto di spirito, una parola senza capo né coda.30

È naturalmente il non senso di Seminario V, il pas de sens, cioè il passo di senso, secondo l'equivoque strutturale del pas come non e del pas come passo al di là, sul quale Lacan costruisce la forza propositiva del pas de sens, che non è, naturalmente, assenza, ma costruzione di un senso ulteriore. Per questa ragione la formula del pas de sens si dimostra uno strumento eccezionale per descrivere non solo l'opera dei fratel­ li Chapman, ma buona parte dell'arte contemporanea, quella che mette in crisi la sublimazione dell'arte, ma che non la con­ traddice, semplicemente la costringe a un più di lavoro. Da Harpo Marx a J ake e Dinos Chapman.

30. Id., I/ semi11ario. Libro XVII. li rovescio della psicoanalifi, cit., p. M.

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Il rovescio del desiderio GRAZIELLA BERTO

In balia dell'altro "E infatti, quando siamo in balia di un altro, siamo in grande pe­ . nglio. "I Così afferma Lacan alla conclusione del primo gruppo di le­ zioni del seminario sull'etica della psicanalisi, in cui introduce i suoi uditori alla questione di das Ding. Nel congedarli, prima della pausa natalizia, così aggiunge: "Perciò, l'anno prossimo, cercheremo di avanzare in queste zone incontestabilmente peri­ gliose" (p. 106). Si potrebbe riconoscere in queste brevi affermazioni, pro­ nunciate quasi di sfuggita, alla fine, una traccia di lettura per l'intero seminario. Esso intende spingersi e condurci, infatti, in territori la cui pericolosità deriva dal fatto che lì siamo in potere di un altro, dipendiamo dall'altro. Ma perché esplorare queste zone, anziché cercare di sfuggirvi, come potrebbe sembrare più sensato? Forse perché il problema è proprio quello di trasformare il dam in dame, ci suggerisce Lacan nelle righe immediatamente precedenti, con un gioco di parole che, sulle prime, sembrereb­ be semplicemente far sorridere, ma che potrebbe invece merita­ re maggiore attenzione. Il "danno", o la "dannazione" a cui sia-

l. J. Lac an, Il seminario. Libro VII. L'etica della psicoanalisi. 1959-1960 (1986), a cura di G.B. Contri, Einaudi, Torino 1994, p. 106. D'ora in poi, quando mi riferirò a questo se­ minario, indicherò la pagina direttamente nel testo, tra parentesi, dopo la citazione.

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aut BUI,

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mo condannati, è propriamente la nostra dipendenza dall'altro, l'impossibilità dell'autosufficienza, della pienezza. Il pericolo vie­ ne dalla condizione di non padronanza, che ci pone in balia del1' altro. Ed è ancora la lingua, con i suoi giochi, a guidarci: la pa­ rola danger, che in francese dice il "pericolo", ci riporta al latino dominarium, "dominazione", in cui si fa di nuovo sentire la pre­ senza della domina, della dame. Non si sfugge al dominio dell'al­ tro. Ma è forse possibile trovare in questa condizione qualcosa che non sia solamente un danno, una condanna, o una perdita del la propria libertà, una sottomissione o un annientamento di sé. Forse il dominio può essere qualcosa di diverso dalla schia­ vitù, può essere trasformato "in dama, nella nostra dama", in un rapporto da cui non siamo semplicemente schiacciati o annienta­ ti, ma che, in qualche modo, ci dà anche piacere, addirittura ci eleva, in un certo senso, ci permette di ritrovare, stranamente, noi stessi, o almeno qualcosa di "nostro", di singolare: qualcosa che ha a che fare con quella "verità particolare" che è la "verità liberatrice" del desiderio, in cui incontriamo, sorprendentemen­ te, la felicità che ci ostiniamo a cercare (p. 29). Sempre, certo, in una condizione di pericolo, di instabilità, di precarietà, in cui an­ che ciò che è nostro non è davvero posseduto, in cui la nostra identità è ben lontana dal potersi rassicurare in se stessa. Le zone pericolose che Lacan intende esplorare, per "sapere che cosa possiamo farne di questo dam, di questo danno, per tra­ sformarlo in dame, in dama, nella nostra dama", costituiscono l'oggetto di un sapere che egli ci propone di chiamare, "al di so­ pra della morale, un'erotica", in quanto si rivolge "a quel che c'è di aperto, di mancante, di spalancato, al centro del nostro desi­ derio" (pp. 105-106). La situazione di pericolo in cui ci trovia­ mo è inscindibile dalla condizione del desiderio: siamo sempre in balia dell'altro, potremmo dire, ogni volta comunque che de­ sideriamo. È il desiderio ciò che ci espone al dominio dell'altro, e ci sottrae, fin dall'inizio, alla padronanza su noi stessi. C'è, "al centro del nostro desiderio", qualcosa di imprendibile, di inde­ finibile, o meglio la spinta stessa a rompere ogni definizione, a oltrepassare ogni confine, a trasgredire i limiti della Legge. Il de-

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siderio è - come nella figura platonica di Eros - ciò che ci impe­ disce di acquietarci, è un "sentire la mancanza". L'awentura che Lacan ci propone è quella di addentrarci nel luogo della mancanza, che rischia altrimenti di apparire come una generica incompiutezza, come la perenne insoddisfazione comunemente collegata al desiderio, al suo "cattivo infinito". Per questo egli cerca innanzitutto di dare un nome all'apertura che si spalanca al centro del nostro desiderio; anche se un nome paradossale, poiché nomina qualcosa di refrattario al linguag­ gio: das Ding, la Cosa. Proprio in queste pagine, la Cosa viene introdotta in riferi­ mento all'uso specifico che Freud fa del termine das Ding nel Progetto di una psicologia.2 Qui, come ci ricorda Lacan, "il Ding è l'elemento che originariamente il soggetto isola, nella sua espe­ rienza del Nebenmensch, come per sua natura estraneo, Frem­ de" (p. 64 ). L'apertura che sta al centro del desiderio ha a che fa­ re con un'estraneità che il soggetto incontra nell'altro uomo, nel "prossimo", e il più delle volte nel più prossimo, nella madre stessa. La Cosa è il lato inassimilabile, non paragonabile a sé, e quindi assolutamente incomprensibile e incontrollabile dell'al­ tro, e più specificamente di quell'altro a cui è sospesa la soddi­ sfazione del desiderio. L'estraneità di das Ding è innanzitutto esteriorità al linguaggio, a differenza di quella "cosa" che il te­ desco nomina come Sache, e che si articola immediatamente nel­ la parola. Das Ding è dunque il luogo di un "segreto" (p. 56): di un'opacità assolu ta e indecifrabile, che accompagna l'incontro con l'altro, nella sua prossimità. Capiamo meglio in cosa consista il "danno" a cui siamo con dannati: una separazione irrimediabile da chi ci sta più vicino, e da cui, allo stesso tempo, non possiamo svincolarci. Siamo in ba­ lia di un'estraneità che ci tiene in suo potere proprio perché ri­ sulta del tutto inaccessibile. Ed è proprio la condizione del desi­ derio che ci espone a tale inaccessibilità.

2. Cfr. S. Freud, Progello di una psicologù1 (1895), in Opere, a cura di C.L. Musatti, Bollati Boringhieri, Torino 1989, voi. Il, pp. 235-236.

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Mancanza di aiuto

Nell'Interpretazione dei sogni, Freud, anche se solo verso la fine, ci offre una definizione di quello che è in fondo il protagonista di questo libro: ciò che viene chiamato "desiderio" è "un moto psichico" che tende a o che vuole "ricostruire la situazione del primo soddisfacimento" .3 Ma non dobbiamo farci ingannare dall'idea che tale situazio­ ne corrisponda a un momento di pienezza, e che quindi il desi­ derio sia fondamentalmente la spinta a ritornare a una compiu­ tezza perduta, a uno stato di pacificazione, come lo stesso ter­ mine Befriedigung sembrerebbe suggerirci. L'esperienza di sod­ disfacimento - ci dice Freud- comporta una trasformazione che può avvenire, nel bambino, solo "per l'aiuto di altre persone [durch /remde Hilfeleistung] ".4 Riemerge qui quell'estraneità che, già nel Progetto, si era affacciata come l'elemento fonda­ mentale dell'esperienza di soddisfacimento. Tale esperienza, in­ fatti, ben lontana dall'essere una situazione originaria di pienez­ za e di sicurezza, chiama in causa, fin dall'inizio, assieme alla percezione dell'oggetto capace di produrre il soddisfacimento, la necessità di qualcuno che se ne faccia latore: un aiuto esterno, un atto di soccorso, l'intervento di un altro che rimane, nel suo rapporto con questo gesto, del tutto indecifrabile, sconosciuto, imprevedibile. L'altro può rispondere oppure no, può darci il suo amore oppure no, senza che questo dipenda da noi, da un fattore che possiamo ricondurre a conoscenza. Il desiderio ci pone dunque in balia dell'altro, e ci fa sentire allo stesso tempo la nostra condizione di dipendenza, di non au­ tonomia, di precarietà. La mancanza che si spalanca al centro del desiderio ha a che fare con un'incompletezza che riguarda il nostro stesso modo di essere: non bastiamo a noi stessi, non pos­ siamo darci quella sicurezza e quella stabilità che cerchiamo, ma, nella nostra inevitabile dipendenza dall'altro, dal suo aiuto, sia­ mo esposti permanentemente all'incertezza, al pericolo. Non

3.

4.

Id., I.:ù1terpretazio11e dei wgni ( 1899), in Opere, cit., voi. m, p. 516. lvi, p. 515.

167

possiamo sostenerci da noi stessi, e l'altro di cui abbiamo biso­ gno è segnato dall'estraneità, non ci dà nessuna garanzia per il suo sostegno. Freud dà un nome a questa condizione, ricorrendo a un ter­ mine particolarmente espressivo, difficile da tradurre: Hilflosig­ keit. E una parola che compare per la prima volta proprio nel Progetto,5 per poi sparire, quasi dimenticata, fino a riemergere con un peso decisivo nella seconda metà degli anni venti, in mo­ do particolare in Inibizione, sintomo e angoscia. La Hil/losigkeit indica la condizione specifica dell'essere umano che, nella sua infanzia, non è in grado di badare a se stesso, è "privo di aiuto", "abbandonato", ha bisogno di qualcuno che lo soccorra. Il bam­ bino è, per la stessa condizione fisica del suo organismo, lascia­ to in balia di un eccesso incontrollabile di stimoli che provengo­ no dal suo corpo: egli non è in grado di compiere l"'azione spe­ cifica" che, attraverso un'alterazione del mondo esterno, come il rifornimento di cibo, può sospendere tali stimoli e l'esperien­ za di dispiacere o di dolore da essi prodotta, sostituendovi un'e­ sperienza di soddisfacimento. È necessario che qualcuno, "un soggetto maturo", presti attenzione al disagio manifestato dal bambino attraverso forme di scarica incapaci da sole di cancel­ lare il bisogno, come il pianto o le grida, per trasformarle in una domanda, per rispondere, grazie alla sua esperienza, a un'esi­ genza che il soggetto stesso che la vive non comprende ancora. Lo stato di "pericolo" - specificherà più tardi Freud - in cui il bambino si trova è dato dunque da un'incapacità di padroneg­ giare i propri stimoli e, allo stesso tempo, dall'impossibilità di controllare l'altro che può aiutarlo in questa impresa.6 L'"impotenza biologica" diviene "impotenza psichica":7 esi­ genza di protezione, bisogno di essere amati, da un altro che però, in ogni momento, può mancare, può non rispondere. In ogni istante si può ripetere quella separazione dalla madre che 5. Cfr. Id., Progetto di una psicologia, cit., cap. XI, pp. 222-224. 6. Cfr. Id., Inibizione, sintomo e angoscia (1925), in Opere, cit., voi. X, in particolare cap. vm, pp. 280-290. 7. lvi p. 286. ,

168

abbiamo sperimentato al momento della nascita, abbandonati a un'assoluta non padronanza di noi stessi, sopraffatti dai nostri stessi stimoli. La Hilflosigkeit non riguarda allora soltanto la fa­ se dell'infanzia ma diviene un tratto costitutivo che accompagna tutta la vita di un essere umano: è la condizione di pericolo che deriva dal nostro essere irrimediabilmente in balia di un altro che, lui soltanto, può liberarci dal nostro essere in balia di noi stessi, di un eccesso incontrollabile di stimoli, ma che, da parte sua, può sottrarsi in qualsiasi momento. L'amore dell'altro, la sua "cura", possono sempre venir meno, abbandonandoci a noi stessi, alla nostra incapacità di reggerci da soli, di tenerci insie­ me. L'altro è, in fondo, un "oggetto": si identifica con la perce­ zione dell'oggetto che sospende lo stimolo. Ma la semplice pre­ senza di tale oggetto non è sufficiente; esso deve essere portato­ re di una particolare disposizione, quella dell'amore. E proprio la differenza sottile tra "perdita dell'oggetto" e "perdita dell'a­ more da parte di questo"8 lascia scorgere l'idea che questo og­ getto, capace di portare aiuto, potrebbe non essere dawero ta­ le: esso non è controllabile da parte del soggetto, mostra un' ar­ bitrarietà che ne fa qualcosa di diverso da un'alterità disponibi­ le ogni volta che ne è avvertito il bisogno. Il campanello d' allar­ me che segnala questo pericolo è- ci dice Freud-l'angoscia: un campanello, si potrebbe dire, sempre acceso, che suona sempre in sottofondo e che, ogni tanto, comincia a squillare. L'angoscia si mostra, in fondo, come ciò che potremmo chia­ mare "il rovescio del desiderio". Nel nostro tendere al "soddi­ sfacimento", a un piacere o a una quiete, a una stabilità che ci permette di riconoscerci, di identificarci, non facciamo che riat­ tualizzare la nostra insufficienza e, con essa, quell'esposizione all'altro, al suo aiuto, al suo amore, che possono sempre venir meno, per consegnarci al disordine e allo smarrimento assoluto. Sembra di poter così specificare, almeno un poco, la mancanza che si spalanca al centro del nostro desiderio, il segreto installa­ to al cuore della nostra esperienza, che Lacan nomina attraver-

8.

lvi,

p. 287.

169

so das Ding. Non ci reggiamo su noi stessi: ciò che ci tiene insie­ me è un "aiuto", una "cura" che non dipende da noi, da cui al contrario dipendiamo, e che è sempre sul punto di sottrarsi, di andare perduta. Non sappiamo se l'altro vorrà o potrà aiutarci. Così come, d'altra parte, non sappiamo nemmeno se noi sare­ mo capaci di aiutare I' altro che chiede il nostro soccorso. I due sogni centrali che Freud analizza nell'Interpretazione dei sogni so­ no, in fondo, casi di un soccorso mancato: da parte di Freud stes­ so, nei confronti della sua paziente Irma, e da parte di un padre, nei confronti del suo bambino malato.9 Se il desiderio nascosto nella trama di questi sogni è quello di non avere alcuna colpa per non aver trovato una soluzione alla malattia della paziente o, nel secondo caso, quello di rivedere il figlio ancora vivo, c'è comun­ que un rovescio di questi desideri: la sensazione di non aver sa­ puto rispondere all'altro, alla sua richiesta di aiuto. Ciò che emer­ ge è comunque un senso di "impotenza", di inadeguatezza, e dun­ que di angoscia: la perdita dell'altro è data non solo dal suo sot­ trarsi alla nostra domanda di aiuto, ma anche dalla nostra inca­ pacità a portargli il nostro aiuto, ad appagare il suo desiderio. Lungo tutta l'Interpretazione dei sogni, del resto, Freud, per difendere la sua tesi che vede il sogno come appagamento di de­ siderio, si ostina a lottare contro il riemergere dell'angoscia, che, fino alla fine, egli attribuisce a una difesa, a una deformazione dell'affetto autentico, dovuta alla vergogna, a una conflittualità del desiderio, senza ammettere che, in fondo, la stessa analisi che egli sta conducendo ci fa vedere l'angoscia come intessuta nel desiderio, come un rovescio che non è un opposto: i due af­ fetti mostrano tra di loro un rapporto che non risponde al prin­ cipio di non contraddizione. Il desiderio si spalanca su un' alte­ rità da cui dipendiamo - nel senso che essa ci sostiene ma anche nel senso che di essa siamo responsabili - ma che irrimediabil­ mente ci sfugge, non si lascia comprendere, riportandoci così a un'incompletezza o a una non padronanza di cui I' angoscia è il segnale.

9.

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Cfr. Id., L'ù1Jerpretazio11e dei sogni, cit., pp. 107-120, 465-467.

Il "Tu", che così spesso pronunciamo, ogni volta che ci rivol­ giamo all'altro, nasconde in sé, nella sua familiarità e ovvietà, questo complesso intrico di relazioni. Questa parolina apparen­ temente così innocente porta con sé- ci avverte Lacan- "la ten­ tazione di addomesticare l'Altro", il tentativo, del tutto inutile, di difendersene: di scongiurare, "in un momento di smarrimen­ to, di sconforto, di sorpresa", la perdita dell'amore dell'altro, il sottrarsi del suo aiuto. Ma Lacan ci suggerisce qualcosa di più, ci fa spostare lo sguardo: ciò che si tratta di scongiurare è piut­ tosto la presenza incombente dell'altro, "l'Altro preistorico, l'Al­ tro indimenticabile che rischia tutt'a un tratto di sorprenderci e di precipitarci dall'alto della sua apparizione" (p. 69). Questo Altro con la A maiuscola è una "realtà muta [. .. ] che comanda, che ordina" (p. 68), nella sua assenza di parola: l'altro che pen­ siamo di invocare come colui che ci può portare aiuto, come se temessimo la sua perdita, si dà in realtà come una presenza in­ combente, che ci impone la sua volontà incomprensibile, ci sot­ tomette, ci schiaccia fino ad annientarci, come fa la morte, che è in fondo la figura privilegiata di questa alterità, di das Ding, del "fuori significato" (p. 67). Il nostro Io non è che l'effetto- ci di­ ce Lacan - di questo inutile tentativo di difesa: "Un Io di scusa, un Io di rigetto" (p. 69), sempre all'accusativo, che mentre cer­ ca di sottrarsi al controllo dell'altro è già schiacciato dalla colpa di cui è chiamato a rispondere. Potremmo intravedere nell'invito cristiano ad amare il pros­ simo, su cui Lacan si sofferma alcune lezioni più avanti, il tenta­ tivo estremo e più potente di aggrapparsi all'immagine illusoria, rassicurante, del "Tu", di occultare in esso i tratti della Cosa, di "addomesticare l'Altro" e, insieme, di difendere l'Io. Un tenta­ tivo inutile, del resto, che, se preso sul serio, non può che porta­ re all'esito opposto. Il comandamento che mi ordina di amare il prossimo come me stesso presuppone innanzitutto che io sia in grado di fare il suo bene, poiché esso coinciderebbe con il mio, o meglio sarebbe a immagine del mio: gli altri sono i miei simili, "io immagino i loro dolori e le loro difficoltà nello specchio dei miei" (p. 237), mentre interpreto il bene semplicemente come

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l'utile, e quindi come qualcosa di calcolabile e di universalizza­ bile. In questo modo cerco di cancellare, nella figura del simile, ricondotto alla familiarità del "tu", il lato opaco della prossimità, quella "Cosa" assolutamente non paragonabile, che, come ci di­ ce Freud, ciascuno di noi incontra nel Nebenmensch, il cui bene è invece del tutto singolare, e quindi rimane incomprensibile, ignoto, assolutamente distante dal mio. Ponendomi nella pro­ spettiva di colui che ama il prossimo, di un amore inteso come capacità di portare aiuto, di dare all'altro ciò che gli manca, ne­ go radicalmente, per di più, la mia esperienza originaria dell' al­ tro, come colui che, in primo luogo, può rifiutarmi il suo aiuto, in ogni momento, senza una ragione prevedibile. L'idea della fratellanza, del bene comune, e quindi dell'uni­ versalità dei diritti, viene a offuscare la distanza che mi separa non da un altro generico, ma proprio da colui che mi è più pros­ simo, rispetto a cui, se davvero mi awicino, se dawero gli offro il mio "amore", scopro una sfasatura irricomponibile: non so co­ sa dawero lui voglia da me, allo stesso modo in cui, se sono io a chiedere il suo "amore", egli non può sapere cosa io voglia. Ma è proprio da lui che dipendo, è su di lui che mi reggo: la sua estraneità viene a porsi, in questo modo, al centro di me stesso, contamina irrimediabilmente la mia identità. È questa - ci dirà Lacan qualche anno dopo - la chiave del1' angoscia, così come si mostra nell'Unheimlichkeit, nell'appari­ re, nella nostra stessa casa, di un "ospite sconosciuto", che oc­ cupa il luogo della mancanza, il centro del nostro desiderio. 10

Lo sconforto Siamo avanzati forse un poco, in questo modo, nella condizione di pericolo in cui ci pone il nostro essere "in balia di un altro". Questo percorso, in cui Lacan ci guida, sempre un po' a tento­ ni, nel seminario sull'etica, sembra del resto coincidere con il percorso stesso dell'analisi: "La terminazione dell'analisi, la ve-

IO. Cfr.J. Lacan, li seminario. Libro X. L'angoscia. Ciaccia, Einaudi, Torino 2007, in particolare p. 82.

172

1962-1963

(2004),

a cura di

A.

Di

ra, intendo quella che prepara a diventare analista, non deve al suo termine metter colui che la subisce di fronte alla realtà della condizione umana?". Mentre pone questa domanda, ormai ver­ so la fine del suo seminario, Lacan specifica tale condizione pro­ prio attraverso la Hilflosigkeit freudiana, intesa come "sconfor­ to [détresse] ", "esperienza dello smarrimento [désarroi] assolu­ to", sullo sfondo del quale emerge l'angoscia come segnale di pericolo (p. 381). Entrare in rapporto con il proprio desiderio, "al di là del servizio dei beni" (p. 382), significa innanzitutto prendere atto dell'impossibilità di padroneggiare se stessi, di ri­ solvere la questione del proprio desiderio sul piano di un pro­ getto governabile. Il desiderio chiama sempre in gioco una peri­ colosa dipendenza dall'altro. Ma qui Lacan ci spinge a fare un passo oltre. La Hil/losigkeit è quella condizione "in cui l'uomo in quel rapporto con se stes­ so che è la sua propria morte [ ... ] non deve aspettarsi aiuto da nessuno". Persino il pericolo viene meno a questo livello. Come se, nell'"esperienza ultima della Hilflosigkeit", langoscia, come protezione estrema dal pericolo, venisse sospesa. Dipendiamo dall'altro, abbiamo bisogno del suo aiuto per reggerci in piedi, anche quando fisicamente ci sosteniamo da soli. Ciò non signifi­ ca però che dobbiamo continuamente temere la perdita dell' al­ tro, il venir meno del suo amore, il sottrarsi della sua risposta: è questo il pericolo che l'angoscia ci segnala, indicandoci il carat­ tere particolarmente esposto del terreno su cui procediamo, sem­ pre sul punto di precipitare nella non padronanza di noi stessi, non appena il sostegno dell'altro venisse a mancare. La scoper­ ta più sconvolgente è che l'altro, di cui avvertiamo il bisogno, in realtà non ci può davvero aiutare. La "mancanza di aiuto" in cui ci troviamo è talmente radicale che nessuno può colmarla. Non c'è pericolo che l'altro si sottragga, perché, comunque, non può fare nulla, non può alleviare il nostro "sconforto". L'altro non può fare nulla per aiutarci nel rapporto con la nostra propria morte: che, come precisa Lacan, non è tanto la morte fisica, "quella che consiste semplicemente nel crepare di fame", e che cerchiamo di evitare con un'accurata condotta di vita, ma è piut-

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tosto la "vera morte, [. .. ] una maledizione accettata, di quel ve­ ro e proprio sussistere dell'essere umano, sussistere nella sottra­ zione di se stesso all'ordine del mondo" (p. 384). Tale modo di sussistere coincide con il seguire il proprio desiderio: "La fun­ zione del desiderio deve trovarsi in un rapporto fondamentale con la morte" (p. 381). Lo "smarrimento assoluto" proprio del­ la condizione umana viene dal fatto che il desiderio che ci abita si sottrae completamente alla logica del mondo, che è quella del­ l'utile, dei beni, della soprawivenza. Nel rapporto con il nostro desiderio non vale nessun criterio riconosciuto - logico, morale, opportunistico -, poiché si tratta di un'esposizione a qualcosa che sfugge a ogni sapere e a ogni ragione: un'esposizione a ciò che possiamo chiamare appunto "morte", o das Ding, il "fuori significato", il "segreto". L'altro di cui siamo in balia, allora, non ci può aiutare, non può riempire il nostro vuoto, perché, se non è mascherato nella figura del simile, se si fa dawero prossimo, viene a coincidere con la mancanza stessa, con ciò che apre in noi un cedimento strutturale, una vulnerabilità costitutiva. Il "Tu" con cui ci ri­ volgiamo all'altro, per chiedergli aiuto, "in un momento di smar­ rimento, di sconforto, di sorpresa", non può che evocare, para­ dossalmente, la stessa estraneità da cui siamo imbarazzati, scon­ volti, e che ci impedisce di identificarci con quell'immagine or­ topedica di noi stessi in cui siamo stati educati a rispecchiarci. La perdita dell'altro non viene dal suo allontanarsi ma dal suo approssimarsi, come una distanza incolmabile che presentifica la mancanza: nell'Unheimlichkeit- dirà Lacan nel suo seminario sull'angoscia - "viene a mancare la mancanza", 11 nel senso che si mostra, si fa sentire in quanto tale, senza alcun dubbio. Unheimlichkeit e Hil/losigkeit tendono, in un certo senso, ad av­ v1cmars1. E un altro awicinamento nel frattempo si è profilato. L'uni­ ca indicazione che Lacan, nell'ultima lezione del seminario, la­ scia affiorare all'orizzonte di un'etica della psicanalisi, l'invito a

11.

174

lvi, p. 47.

non cedere sul proprio desiderio, sembra lasciarsi comprende­ re, attraverso il percorso che abbiamo seguito, come un atteg­ giamento che ha molto a che fare con l'assunzione piena di quel­ la condizione umana che coincide con lo smarrimento assoluto, con uno "sconforto" senza uscita, senza consolazione. Non ri­ nunciare al proprio desiderio, in nome dell'ordine del mondo, significa in fondo anche non nascondere il proprio sconforto: l'impossibilità di una soluzione, di un senso, e soprattutto di una padronanza su se stessi, sulla propria vita. Essere in balia dell'altro significa non poter dare una forma alla propria vita, consegnarsi a una precarietà e a una fragilità, a un "disagio" in­ superabili.

Non nascondere l'umanità Ma che fine ha fatto, allora, la dame? Niente di buono sembra poter scaturire dal dam, dalla condizione di dipendenza dall' al­ tro a cui siamo condannati. In parte, è forse proprio così: Lacan non lascia aperto nessu­ no spiraglio per un'illusione di senso, inteso come un ordine di cui ciascuno fa parte, in cui ciascuno può riconoscere il proprio ruolo. Eppure, anche alla fine, non sembra aver rinunciato a dir­ ci che, dal non cedere sul proprio desiderio, forse qualcosa di buono può profilarsi. L'analisi rimane una domanda di felicità; e la sua risposta, in fondo, non è negativa in termini assoluti; non è però semplice, diretta, e tanto meno universale. Fin dalla pri­ ma lezione di questo seminario, Lacan ci ricorda come "per que­ sta felicità, ci dice Freud, non c'è assolutamente niente di pron­ to, né nel macrocosmo, né nel microcosmo" (p. 18). Effettiva­ mente, non c'è soluzione: non è possibile liberarsi dall'altro, rag­ giungere una piena autonomia, una padronanza di sé, e a parti­ re da qui un'armonia con ciò che ci circonda, ma solo illudersi di farlo, magari ponendosi nel ruolo di soccorritori, di coloro che trovano il loro Bene facendo il bene dell'altro, amando co­ lui che chiamano il loro prossimo. Il primo passo sembra essere proprio quello di riconoscere e di accettare la nostra "incompletezza", di non "nascondere l'u-

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,, manità , con le parole di Martha Nussbaum:12 un'umanità che è spesso oggetto di vergogna, proprio perché è l'opposto dell'au­ ,, tosufficienza, è innanzitutto bisogno e quindi "vulnerabilità , esposizione continua all'essere feriti, in tanti modi, dall'altro da ,, cui dipendiamo, e, più radicalmente, rapporto con una "ferita che coincide con la mancanza stessa. L'etica nasce proprio, se seguiamo Nussbaum, dalla rinuncia all'onnipotenza, dall'accet­ tazione dell'imperfezione, della non purezza, del bisogno di aiu­ to, di rassicurazione, di amore, con tutte le emozioni che tale condizione porta con sé. 13 È lo stesso Freud, del resto, nel Progetto a scorgere le origini , dell'etica nella condizione della Hilflosigkeit: "L'impotenza ini­ ziale degli esseri umani è la/onte originaria di tutte le motivazio­ ni morali,, .14 L a non autosufficienza del bambino richiama in­ fatti lattenzione dell'adulto, lo spinge a soccorrerlo, a portargli ,, quell"'aiuto esterno di cui ha bisogno, risveglia in lui, si po­ trebbe dire, un senso di responsabilità. Nasce qui un "intender­ ,, si che non ha niente di empatico o di fusionale, ma che si pro­ duce proprio nella sfasatura che separa il rapporto tra due esse­ ,, ri umani, tra un individuo "impotente (hilflos) e un individuo ,, "soccorritore (hil/reich) : il rapporto è del tutto asimmetrico, non garantito, poiché non risponde a uno stimolo meccanico, ma anche perché la distanza tra i due individui non è affatto can­ cellata. L'intesa si intreccia nella distanza, in una reciproca ma asimmetrica estraneità, che toglie ogni rassicurazione alla di­ mensione morale: non è lo spazio di un dialogo, di un accordo che nasce dalla comprensione vicendevole, ma nemmeno la cer-

12. M.C. Nussbaum, Nascondere l'umanità (2004), trad. di C. Corradi, Carocci, Roma 2005. Sulla "vtùnerabilità", anche in riferimento alla H ilflosigkeit freudiana, cfr. anche Id., L'intelligenza delle emozioni (2001), trad. di R. Scognamiglio, il Mulino, Bologna 2004. Sempre sul tema della vulnerabilità, particolarmente interessante risulta il recente lavoro di Adriana Cavarero, Orrorismo, Feltrinelli, Milano 2007. Cfr. anche l'interessante artico­ lo di Luisa Accati, Vittime e carnefici fra giustizia e impunità, "Edizione", 2007, pp. 33-58, in particolare pp. 57-58: "Alla fine di que sto lavoro la mia impressione è che il nucleo profondo del perturbante in cui ciò che ci è familiare (heimlich) diventa uguale a ciò che ci è ostile (unheimlich), è il rifiuto della condizione umana". 13. Cfr. M.C. Nussbaum, L'intelligenza delle emozioni, cit. , p. 268 sgg. 14. S. Freud, Progetto di una psicologia, cit., p. 223.

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tezza di un altro che sa qual è il nostro bene, a cui basta affidar­ si e ubbidire per raggiungerlo; è piuttosto il luogo di uno strano vincolo, tra mancanza e dono di aiuto, che non garantisce mai la corrispondenza tra domanda e risposta, tra bisogno di protezio­ ne e capacità di prendersi cura dell'altro. Non basta, dunque, accettare la nostra dipendenza dall'altro. Si tratta anche di comprendere come l'altro non sia, in primo luogo, colui che è funzionale ai nostri bisogni: l'altro è innanzi­ tutto l'estraneo, il "fuori significato", che ci schiaccia o comun­ que ci ignora, non si inserisce nel nostro discorso, nei nostri pro­ getti. È una realtà assolutamente opaca. Se c'è un'intesa, è for­ tuita, incerta, momentanea, e si traccia debolmente nella sfasa­ tura che accompagna ogni rapporto, senza togliere la solitudine e l'abbandono a cui siamo consegnati. L'etica della psicanalisi sembra consistere in un difficile eser­ cizio di convivenza con questo "smarrimento assoluto", che via via ci strappa all"'ordine del mondo", e che comporta innanzi­ tutto l'accettazione dell'estraneità dell'altro. Il rovescio del de­ siderio è la scoperta di un'alterità irriducibile: l'altro non colma la "mancanza di aiuto" in cui ci troviamo, ma la rivela in quanto tale, come qualcosa che non può essere riempito. Forse, in questo riconoscimento, l'altro che non corrisponde ai nostri bisogni, che si affaccia nella sua opacità, può smettere di apparire come qualcosa di maligno, come qualcuno che vuo­ le il nostro male - secondo la descrizione che ne fa Freud stesso -, e che per questo siamo spinti ad allontanare, a distruggere o ad assimilare. L'altro continuerà a mancare, è perduto fin dall'i­ nizio. Solo su questo sfondo di sconforto può profilarsi, forse, casualmente, un "incontro", che è il modo in cui si presenta la felicità, come tyche, ci dice L acan (p. 18): una felicità fragile, ef­ fimera, sempre particolare e irripetibile, in cui, per un attimo, ci sembra che il segreto dell'altro possa svelarsi, che la nostra con­ dizione di abbandono possa sospendersi, trovare un conforto. Come se quello che desideriamo si fosse realizzato. Potrebbe essere questa la dame, la "nostra dama", nel suo ca­ rattere sfuggente, e soprattutto indefinibile, particolare, nella

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sua unicità, capace di trasformare inspiegabilmente il "domi­ nio" dell'altro in un'apertura, o in un rapporto di "cura". Ma per permettere a questa "dama" di venirci incontro, forse, e co­ munque per poco, non dobbiamo cedere sul nostro desiderio: non possiamo accettare nessun ordine e nessun senso che ci ri­ sarciscano, a priori, della nostra debolezza, della fragilità che ci costituisce. Non possiamo che addentrarci nella condizione di pericolo e di insicurezza in cui ci troviamo, rinunciando a ogni tentativo di rassicurazione e di consolazione, a tutti i richiami che, da direzioni diverse, ci spingono a neutralizzare l'altro, a dargli un nome e una collocazione, ad "addomesticarlo", pen­ sando di poterlo controllare e di poter quindi padroneggiare noi stessi. Il desiderio fa emergere, nel suo rovescio, la man­ canza costitutiva dell'altro, la sua separazione irricomponibile, che comunque ci rende vulnerabili e, anzi, si apre in noi come una ferita inevitabile. La psicanalisi - ci avverte Lacan - è un sintomo: 15 il sintomo di un disagio, di qualcosa che non si lascia assorbire nel senso, che non ci fa sentire bene. Il problema è far parlare questo disa­ gio, anziché cercare di dare comunque un senso a qualunque co­ sa, come ogni volta siamo tentati di fare, come ogni religione ci spinge a fare.

15. Cfr. J. Lacan, Il trionfo della religione ( 1974 ), in Dei Nomi-del-Padre seguito da Il trionfo della religione (2005), a cura di A. Di Ciaccia, Einaudi, Torino 2006, p. 99.

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Abbiamo passato la linea? La Cosa e la Legge MATTEO BONAZZI

Mi è sembrato questa matti11a che 11011 fosse eccessivo incominciare il seminariof acendo questa domanda - abbiamo passato la linea?1

iamo nel 1960, Lacan apre la diciottesima lezione del Seminario VII, dedicata alla , "funzione del bello ',2 con la frase che ho posto in esergo e da cui vorrei prendere le mosse, provando a in­ terrogare la linea che appunto Lacan evoca in questa sua do­ ,, manda: "Abbiamo passato la linea? . Interrogarla a partire da quello che mi sembra possa dire a noi oggi. In particolare, pro­ vando a chiederci: quale figura del soggetto è posta di fronte al­ l'interrogazione etica dalla psicanalisi a partire dalla linea che qui Lacan interroga? Intanto e prima di tutto, di che linea si tratta? Una prima ri­ sposta plausibile, secondo la lettura che vorrei qui proporre, è che si tratti della linea che separa e al contempo unisce la Legge e la Cosa. Dunque, da un lato, la Legge del significante, la Leg­ ge del simbolico o anche, in qualche modo, la Legge edipica. E, dall'altro, la Cosa (das Ding): la Cosa che intendiamo, secondo l'indicazione di Freud, nel senso della pulsione di morte, come , resistenza interna all inconscio stesso nei confronti della vita, della parola e della cura. Ma questa linea è una linea paradossale, in qualche modo è un para-dosso che difficilmente possiamo afferrare se restiamo

S

l. J. Lacan, Il semi11ario. Libro VII. L'etica della psicoanalisi. 1959-1960 (1986), a cura di G.B. Contri, trad. di M.D. Contri, revisione e note di R Cavasola, sotto la direzione di A. Di Ciaccia, Einaudi, Torino 1994, p. 293, d'ora in poi citato come SVII.

2.

autaut.

SVII, pp.

293-305.

343. 2009, 179-191

179

all'interno della mera opinione, della chiacchiera o della doxa, perché sconfina da sempre un poco al di là della presa di cui la doxa risulta essere in ultima istanza capace. Penso sia utile, allo­ ra, prendere le mosse da due indicazioni precise che Lacan pro­ pone in questo Seminario rispetto al rapporto tra la Legge e la Cosa, tra la Legge significante, dunque la castrazione simbolica che orienta il desiderio, e la Cosa nella sua muta pulsionalità au­ tistica, ossia dedicata a un godimento mortifero, solitario e se­ parato rispetto all'Altro.

1. La legge e la Cosa Prendiamo le due citazioni da pagina 105 e 151 del Seminario VII. Si tratta di due luoghi in cui Lacan affronta, rispettivamen­ te, la funzione della Legge in quanto legge morale e in quanto legge significante. Nel primo caso, emerge la problematica que­ stione del rapporto tra il Sommo Bene e la Cosa;3 nel secondo caso, si affronta la creazione ex nihilo del significante;" attraver­ so un denso commento del saggio di Heidegger Das Ding.5 In entrambe le occorrenze, è la linea che separa e unisce la Legge e la Cosa a essere in ultima istanza interrogata. Ma vediamo le due citazioni di Lacan: 1. "La Cosa senza la Legge è morta";6 2. "La Cosa è quel che, del reale primordiale, patisce del si­ gnificante". 7 Lacan dice che la Legge è ciò che dà vita alla Cosa: "Non ho 3. "Ebbene, il passo fatto, a livello del p rincipio di piacere, da Freud, è di mostrarci che non c'è Sommo Bene - che il Sommo Bene, che è das Di11g, che è la madre, l'oggetto dell'incesto, è 1m bene interdetto, e che non c'è altro bene. Questo è il fondamento, rove­ sciato in Freud, della legge morale", SVII, p. 87. 4. "Con l'introduzione di questo significante pl asmato che è il vaso, si ha già tutta la nozione di creazione ex 11ihilo. E la nozione di creazione ex nihilo è coestensiva all'esatta situazione della Cosa come tale", SVI!, p. 156. 5. M. Heidegger, "La cosa" (1950), in Saggi e discorsi (1954), a cura di G. Vattimo, Mursia, Milano 1991. Per un commento puntuale e teoreticamente orientato di questo sag­ gio heideggeriano, rimandiamo a M. Vegetti, "La brocca di Heid egger. Il saggio Das Ding e la questione della svolta", in appendice a C. Sini, La materia delle cose. Filmo/ia e scien­ za dei materiali, CUF.M, Milano 2004, pp. 193-236. 6. Cfr. SVII, p. 105. 7. Cfr. SVII, pp. 151-152.

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potuto prendere conoscenza della Cosa se non attraverso la Leg­ ge. Non avrei infatti avuto l'idea di bramarla se la Legge non avesse detto - Non la bramerai" .8 Il riferimento, come Lacan chiarisce subito, è a san Paolo e al rapporto tra la legge e il pec­ cato. 9 Nella seconda citazione che ho scelto di commentare si dice nondimeno che il reale della Cosa è ciò che patisce del si­ gnificante. Cosa significa? Lacan sostiene - prima citazione - che al di là della Legge, al di là della Legge del simbolico, al di là dell'Altro, non c'è che la Cosa in quanto morta, la Cosa nel senso dell'assenza di vita, dell'implosione regressiva verso l'indistinto originario, la condizione non ancora separata della vita rispetto alla sua stes­ sa insorgenza. Sicché la Cosa è qui presentata da Lacan nella maniera più rigorosa possibile, al di qua di ogni supposta prio­ rità rispetto alla Legge. Non vi sarebbe dunque una Cosa che poi la Legge verrebbe a cancellare, in quanto la Cosa si costi­ tuisce soltanto a partire da quella cancellatura che è la Legge stessa. Al contempo - seconda citazione - Lacan sostiene che il reale della Cosa è ciò che patisce del significante. Dunque, nel­ la stessa operazione con la quale il simbolico viene a recidere l'indistinto della Cosa, e così anche lo produce, s'inaugura un patimento fondamentale, residuale: uno scarto, un resto che è dell'ordine del sentire. Di questo scarto resta traccia nel signi­ ficante, attraverso quella che Lacan chiama la lettera, la lette­ ra en sou//rance, che resta sotto il significante e patisce - sof­ fre - passando di significante in significante. Dunque non tut­ to è dell'ordine del significante, potremmo dire. Non tutto del­ la vita stessa, diciamo così, appartiene alla Legge simbolica. Vi è qualcosa nella vita che si sottrae al registro del significan­ te e della Legge, e questo qualcosa è il luogo del patimento, 8. svn, p. 105. 9. "Cosa dunque diremo? La legge [è] peccato? Non sia! Ma

il peccato non conobbi non attraver so [la] legge; il [...] desiderio non avrei conosciuto se non la legge diceva: Non desiderare!", Paolo, Lettera ai Romani, 7-10, tra d. curata e rivista da G. Agamben, in appendice al suo Il tempo che resta. U11 commento alla Lettera ai r omani, Bollati Borin­ ghieri, Torino 2000, p. 143. se

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del patire. La psicanalisi si radica sull'etica di questa patetica /ondamentale.10 2. Patimento, praxis, etica Dunque di che cosa si tratta in questo scarto, in questa lettera che patisce sotto alla presa significante? Qualcosa nella vita rema con­ tro e così anche la rende possibile: una sorta di freno interiore, d'i­ nibizione fondamentale, come la Hemmung di cui parla Hegel nel­ la Fenomenologia dello spirito11 a indicare la radice ultima dello speculativo - che poi per Hegel è la Vita stessa. L'inconscio è que­ sta linea del patimento che, come un ostacolo, inibisce, frena e al contempo favorisce l'andamento della stessa vita. Proviamo a dire meglio prendendo altri due passi tratti da Seminari di poco suc­ cessivi al settimo: l'undicesimo, dedicato ai concetti fondamentali della psicanalisi, e il decim o, dedicato all'affetto d'angoscia. Intanto, l'inconscio per Lacan non h a uno statuto ontologi­ co, va situato al di qua o al di là dell'essere e del non-essere, proprio perché è una linea, una faglia, una fenditura. Leggiamo dal Seminario XI:

La faglia dell'inconscio, potremmo dirla pre-ontologica. H o in­ sistito su questo carattere tropp o dimenticato - dimenticato in un modo non privo di significato - della prima emergenza del­ l'inconscio, che consiste nel non dar adito all'ontologia. Infatti, quello che anzitutto si è mostrato a Freud, agli scopritori, a co­ loro che hanno fatto i primi passi, quello che si mostra ancora a chiunque nell'analisi adatti per un momento il proprio sguardo a ciò che è proprio dell'ordine dell'inconscio, è che non è né es­ sere né non-essere, ma è del non-realizzato.12

10. A quest o riguardo, si ved a la riflessione svilupp ata da Jean-Luc Nancy nel suo Il "c'è" del rappor to sessuale (2001), trad. di G. Berto , SE, Milano 2002. 11. "Come proposizione lo speculaùvo è solamente il freno interiore [dre ilmerliche Hem mrmg)", G.W.F. Hegel, Fenomenologia dello spirito (1807), trad. di E. De Negri, La Nuova It alia , Firenze 1973, p. 54. 12. J. Lacan , Il seminario. Libr o XI. I quattm concetti /011dame111ali della psicoanalisi. 1964 (1973), nuova edizione a cura di A. Di Ciaccia, trad. di A. Succetti, Einaudi, Torino 2003, p. 30.

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L'inconscio di Lacan è la linea, la fenditura, la faglia tra la Legge e la Cosa. Per cui la psicanalisi non è una psico-logia proprio perché non ha a che fare - come Lacan dirà nel Seminario x con quella "realtà irreale che si chiama psiche, ma [piuttosto va intesa come] una prassi che merita un nome: erotologia" .13 La psicanalisi è una pratica che ha a che fare prima di tutto col nodo che si produce di continuo tra eros e parola; è la pratica che traccia di continuo la linea che unisce e separa la Legge e la Cosa. La linea dell'inconscio risu lta allora essere il passo falso, im­ previsto, inatteso, contingente. Qualcosa che porta il soggetto a inciampare: nel l'atto mancato, nel lapsus o nel lo stesso sintomo. Laddove si dimostra che qualcosa non va, non funziona, che non tutto fila liscio. In questo senso l'inconscio lacaniano ha a che fa­ re col residuo patologico che risuona o pulsa sotto la Legge si­ gnificante, ciò che in qualche maniera non è mai venuto alla lu­ ce: l'inatteso, la lettera en sou/Jrance, i l non-nato. "L'inconscio, innanzitutto, ci si manifesta come qualcosa che resta in attesa nell'area, direi, del non-nato. [.. .] Questa dimensione è sicura­ mente da evocare in un registro che non è nulla di irreale né di de-reale, ma piuttosto, di non-realizzato. "14 -

3. L'inconscio oggi: dal nulla al non nato Torniamo a noi. Che cosa ci dice, oggi, questa posizione dell'in­ conscio e del l'etica del la psicanalisi di Lacan? Qual è per noi, og­ gi, in altri termini, lo scandalo e la provocazione dell'inconscio di Lacan rispetto alla filosofia e alla questione del soggetto? Innan­ zitutto direi così: per l'etica della psicanalisi non si tratta tanto di attraversare questa linea, ma piuttosto di imparare a sostarci. Per­ ché è sulla linea che ha luogo il soggetto dell'inconscio, è nel pun­ to in cui il soggetto incontra la linea della propria divisione sog­ gettiva, la Spaltung, che si apre la faglia dell'inconscio, la contin­ genza, l'imprevisto e dunque anche lo statuto di un soggetto che

13. li seminario. Libro X. L'angoscia. 1962-1963 (2004), lrad. di A. Di Ciacci a e A. Suc­ ceui, Einaudi, Torino 2007, p. 82. 14. Id., Il semri1ario. Libro Xl. I quattro co11cetti/011dame11tali della psicoa11alisi, cic., p. 24.

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non può essere più inteso né dalla fenomenologia né dall'analiti­ ca del Dasein. Proprio perché è un soggetto che si trasforma in una faglia, in un battimento, in un'occasione d'incontro. La torsione che bisogna compiere per attraversare la linea re­ standoci sopra riguarda propriamente il superamento della spa­ zialità strutturata secondo superficie e profondità, esterno e in­ terno. Detto altrimenti, l'uomo non ha di fronte a sé la linea che dovrebbe attraversare. L'uomo è questa linea. Una linea che pro­ duce una superficie autopenetrantesi, 15 in cui l'esterno si fa in­ terno e l'interno si fa esterno. Non a caso un grande filosofo, potremmo dire contempora­ neo di Lacan, ha riconosciuto proprio nella strettura della dop­ pia banda ("stricture de la double bande"16) il luogo, la linea e il nodo dell'inconscio, e nell'insegnamento di Lacan una della pro­ vocazione più feconde che il Novecento filosofico ha avuto mo­ do d'incontrare. Scrive Jacques Derrida: Che si tratti di filosofia, di psicoanalisi o di teoria in genera­ le, ciò che la piatta restaurazione in corso tenta di coprire, di denegare o di censurare, è che niente di quello che ha potuto trasformare lo spazio del pensiero nel corso degli ultimi de­ cenni sarebbe stato possibile senza qualche spiegazione con Lacan, senza la provocazione lacaniana, in qualunque modo la si riceva o la si discuta, e aggiungerei senza una qualche spiegazione con Lacan nel suo piegarsi con i filosofi.17 Eppure oggi, come nel 1960, non ne vogliamo sapere nulla di questa linea. Ma cosa non vogliamo sapere? Lacan lo dice a più riprese: se la linea è la linea dell'inconscio, essa è esattamente la "memoria di quel che egli [l'uomo] dimentica".18 L'inconscio ha

15. A questo proposito si veda Jorge Aleman e Sergio Larriera, Laca11: Heidegger. El psicoantilisis e11 la /area del pensar, Miguel Gòmez, Madrid 1989. In parcicolare il capitolo "Arte y pensamiento". 16. J. Derrida, Résistances de la psychanalyse, Galilée, Paris 1996, p. 44. 17. Id., Per l'amore di Laca11 (1991 ) , "aut aut", 260-26 1, 1994, p. 155. 18. SVll, p. 294.

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a che fare con questo oblio fondamentale. In fondo si dimentica ciò di cui non si vuole sapere nulla, come Lacan dirà del proprio percorso di insegnamento ripensando al Seminario VII dodici an­ ni dopo.19 Non si vuole sapere nulla di ciò che si annuncia su quel crinale, su quella linea che è l'inconscio: ciò a dire, con le parole di Lacan, che "la vita è la putrefazione" ,20 che la vita cor­ re verso la sua inevitabile dissoluzione, che la vita è un processo di progressiva e incessante degradazione entropica. Questo ci porta oggi a dover ripensare la posizione che occu­ pa la pulsione di morte, cioè la Cosa rispetto alla Legge signifi­ cante. Come dicevo all'inizio, per Lacan non c'è un terreno ori­ ginario sul quale, in un secondo momento, la Legge imporrebbe la propria norma attraverso la castrazione simbolica. La Cosa si produce après coup a partire dalla castrazione e non vi è Cosa al di fuori della Legge. Questo perché l'evento foto-grafico che dà origine al soggetto - la nascita, la presa di parola che inscrive il soggetto, che lo scrittura, all'interno del campo dell'Altro - pro­ duce automaticamente una resistenza interna alla parola e al lin­ guaggio, la resistenza della Cosa come scarto. Sicché dovremmo forse dire, seguendo in questo credo La­ can, che la pulsione di morte è un modo di nominare la Cosa, un nome tra gli altri della Cosa, laddove das Ding non è semplice­ mente la pulsione di morte. La Cosa è per Lacan sostanzialmen­ te lo stacco del significante, l'ex nihilo del significante, il fatto che il significante non ha fondamento ma proviene dal nulla di continuo, all'improwiso, per creazione e annientamento. In questo senso il significante è la nostra salvezza e la nostra

19. "Mi è capitato di non pubblicare l'Etica della psicoanalisi. A quel tempo era per me una forma di cortesia [...] Col tempo ho imparato che potevo dirne un po' di più. E poi mi sono accorto che quel che costituiva la mia avanzata faticosa era d ell'ordine d el 11011 ne v