Anima e corpo. I ragazzi selvaggi alle origini della conoscenza 8854803871, 9788854803879

Esaminando i casi di bambini-lupo, bambini-orso, bambini-cane ecc., e partendo dalla premessa che la lingua sia un risul

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Anima e corpo. I ragazzi selvaggi alle origini della conoscenza
 8854803871, 9788854803879

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Anna Ludovico

Anima e Corpo I ragazzi selvaggi alle origini della conoscenza

ARACNE

INDICE

Capitolo Primo Uno sfondo storico per i "ragazzi selvaggi" Eredità e ambiente: esseri umani sì nasce e si diventa, 1 - Le concezioni di Linneo e di Condillac, 10 - Rousseau e "l'uomo di natura", 14 - L'illuminismo di Lamettrie e di hard, 16 - Natura ed Educazione: due sistemi a confronto, 1 8 - 7 ? libro di Singh e Zingg per il problema del rapporto mente/corpo, 21 -La comparsa del linguaggio, 26.

Capitolo Secondo Fanciulli allevati da animali

33

Bambini-lupo, 33 - Bambini-orso, bambino-capra, bambino-pecora, bambino-vitello, bambina—maiale, bambino-leopardo, bambino-gazzella, 49 - Conclusioni, 59

Capitolo Terzo Fanciulli sopravvissuti per autosostentamento: Tomko e gli altri

61

Capitolo Quarto Victor dell'Aveyron

75

Capitolo Quinto Fanciulli allevati in condizioni di totale isolamento: da Kaspar Hauser a Genie

91

Capitolo Sesto Gli esperimenti con gli scimpanzè

113

Capitolo Settimo Venticinque anni dopo

131

Baby Hospital, bambina-scimmia, 131

6

Indice

Capitolo Ottavo E la storia continua

145

Ramu, bambino—lupo indiano, 145 - Roberto, cresciuto nella selva tropicale, 146 - Horst, bambino-cane, 147 -Altri due casi di bambini-cane, 152

Capitolo Nono Che fine ha fatto Genie?

155

Capitolo Decimo Una controprova

165

Kanzi, "primate faber"?, 173

Capitolo Undicesimo La natura del pensiero

179

Schede riassuntive di 47 casi di ragazzi selvaggi

197

Album

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Bibliografia

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Capitolo Primo UNO SFONDO STORICO PER I “RAGAZZI SELVAGGI”

Eredità e ambiente: esseri umani si nasce e si diventa Troppo spesso si dimentica che un fattore veramente determinante per l’educazione di un essere umano è costituito dalla comunicazione verbale (orale prima e scritta poi), probabilmente perché la si ritiene quantomai naturale e priva, quindi, di implicazioni che possano mettere in difficoltà o addirittura traumatizzare il bambino. E generalmente, infatti, tutti i bambini imparano a parlare, a leggere e a scrivere senza eccessivi imbarazzi; senza — per meglio dire — che tali operazioni risultino, generalmente, agli occhi dell’adulto, genitore o insegnante che sia, più difficoltose di operazioni quali il mangiare e il camminare. È mia intenzione, invece, dimostrare che l’apprendimento di una lingua e di un comportamento emotivo adeguato da parte di un bambino siano il prodotto di una lunga serie di operazioni mentali, che, a loro volta, sono rese possibili unicamente da una socializzazione sviluppata in un ambiente tipicamente umano. Intendo, cioè, far vedere, attraverso l’esame dei cosiddetti “ragazzi selvaggi”, come sia difficile “imparare” a diventare un essere umano, poiché la natura dell’uomo è fortemente determinata dalle circostanze sociali e storiche nelle quali si vive. E direi che il prodotto più vistoso della nostra socialità è costituito dalla comunicazione verbale, in special modo da quella orale1. Ritengo, infatti, che la lingua sia un risultato fenotipico, cioè determinato dalle condizioni socio–ambientali, che deve al genotipo, cioè alle condizioni del codice genetico, della specie umana solo la base delle possibilità anatomo–fisiologiche.

1 Con comunicazione verbale s’intende la comunicazione orale e quella scritta insieme; per chiarezza e brevità espositiva chiamerò lingua la comunicazione orale e scrittura la comunicazione scritta.

7

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Capitolo Primo

Per chiarire e comprendere a fondo la differenza nella interdipendenza tra genotipo e fenotipo è opportuno riportarne una definizione tecnico–scientifica. Genotipo: Costituzione ereditaria degli organismi, cioè l’insieme dei fattori genetici che essi ricevono quando iniziano la loro esistenza a seguito dell’unione del gamete femminile e del gamete maschile dei due genitori. Il termine può usarsi altresì per riferirsi a singoli fattori ereditari e applicarsi anche quando, per varie ragioni, il genotipo non è espresso. […] Già G. Mendel aveva sottolineato il ruolo di certe condizioni per riconoscere l’importanza dei fattori genotipici e quindi, di fatto, per eseguire le prime vere analisi del genotipo stesso. In genere, affinché si possa riscontrare una differenza genotipica fra due organismi, è necessario che essi vengano allevati e mantenuti in condizioni il più possibile simili, a meno che il diverso genotipo che li contraddistingue non determini caratteri (di solito di natura esclusivamente qualitativa) che li rendano diversi sotto le più svariate condizioni ambientali (ad esempio i gruppi sanguigni della specie umana). Comunque una volta che in condizioni uniformi due organismi presentino sistematicamente delle differenze e tali differenze essi trasmettano alla propria progenie, queste si possono ragionevolmente attribuire alle loro diverse costituzioni genotipiche2. Fenotipo: Termine proposto da W. Johansen (1911) per indicare l’aspetto (inteso in senso molto lato e specificamente rispetto a un carattere o comportamento) di un organismo vivente. Il fenotipo è il risultato di due fattori: la costituzione intrinseca individuale (genotipo, sancito dall’unione di particolari elemerti forniti dai genitori, gameti) e l’insieme delle condizioni estrinseche o ambientali che agiscono sull’organismo nel corso della sua vita, giacché solitamente un organismo comincia la sua esistenza come unità unicellulare a seguito della fecondazione, si sviluppa in un embrione, s’accresce, diventa adulto, pur conservando praticamente il genotipo originario. A una identica costituzione le circostanze esterne possono imprimere gli aspetti più svariati: e diremo allora che da uno stesso genotipo si possono avere più fenotipi. D’altra parte si può arrivare a un medesimo fenotipo partendo da genotipi diversi. In alcuni casi è più facile ottenere il primo risultato, in altri il secondo. È istruttivo il caso dei gemelli identici (quelli non tali sono evidentemente solo fratelli, concepiti contemporaneamente, come lo prova il fatto che circa il 50% di essi sono di sesso diverso). Evidentemente tali gemelli hanno uguale genotipo: ebbene, se per qualche ragione vengono separati in tenera età e vanno incontro a circostanze molto differenti, potranno diffe2

Enciclopedia della Scienza e della Tecnica, Mondadori, Milano 1963, vol. V, p. 508.

Uno sfondo storico per i “ragazzi selvaggi”

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renziarsi, cioè mostreranno fenotipi differenti. Esistono varietà e quindi genotipi di primule cinesi che presentano fenotipo notevolmente differente a seconda della temperatura alla quale vengono allevate: se sopra i 20°C danno fiori bianchi, se sotto fiori rossi. […] In definitiva quindi quello che si eredita con un genotipo non è un determinato carattere, ma una certa capacità di reagire a determinate condizioni ambientali. Ciò pone, e nello stesso tempo supera, la vecchia questione se per lo sviluppo dei caratteri e l’ottenimento quindi di un certo fenotipo abbia maggiore importanza il genotipo o l’ambiente. In realtà si può dire che quasi tutti i caratteri sono determinati sia dal genotipo sia dall’ambiente, ma il contributo dell’uno o dell’altro può variare enormemente da caso a caso. Per esempio le caratteristiche che distinguono gli esseri umani nei vari gruppi sanguigni sono praticamente quasi soltanto di origine genotipica; il colorito della cute e il colore dei capelli sono principalmente dovuti al genotipo, ma vi contribuisce anche l’ambiente; lo sviluppo dell’intelligenza è in parte sotto controllo genotipico e in parte in rapporto alle condizioni ambientali; si apprende una lingua verosimilmente soltanto in rapporto all’ambiente in cui si cresce3.

Sarà mia cura esplicitare questo “verosimilmente” nel corso dell’indagine gnoseologica qui proposta. Comunque sin d’ora possiamo affermare che se l’apprendimento di una lingua rientra in toto nei fenomeni fenotipici, ciò significa che, qualora l’ambiente non fornisca la possibilità d’imparare una lingua, essa mancherà completamente all’organismo vissuto in tale condizione, anche nel caso in cui l’organismo sia quello dell’essere genotipicamente umano. È infatti ciò che accade e che possiamo verificare nei “ragazzi selvaggi”, in quegli esseri umani, cioè, che, abbandonati a loro stessi in tenera età, sono riusciti a sopravvivere o per essere stati allevati da animali o fidando solo nelle proprie risorse. Faccio questa distinzione binaria tra la presenza o meno dell’allevamento da parte di animali non solo come ovvia constatazione di fatto, ma soprattutto come premessa iniziale indispensabile a quanto dirò in seguito. Ritengo, cioé, che l’animale–uomo vissuto in una società purchessia abbia maggiori difficoltà a inserirsi in una società diversa dalla precedente di quante non ne abbia l’animale-uomo vissuto in isolamento, in quanto il primo è — in certo qual modo — intralciato da un

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Enciclopedia della Scienza e della Tecnica, op. cit., vol. IV, pp. 796–797.

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Capitolo Primo

imprinting4 già socializzato. Prima di esporre in dettaglio i casi di questi ragazzi selvaggi desidero fornire una sorta di panorama storico degli autori — a mio avviso più significativi — che si sono occupati, per varie ragioni, di tali casi, in modo da poterne avere una prospettiva quanto più allargata possibile.

Le concezioni di Linneo e di Condillac La suddivisione del regno animale fatta da Linneo contempla sei classi: (1) mammiferi, (2) uccelli, (3) anfibi, (4) pesci, (5) insetti, (6) vermi. I mammiferi vengono definiti pelosi, che stanno sul terreno, che camminano, che emettono suoni significativi. Una seconda suddivisione è costituita da sette ordini5, che a loro volta si ripartiscono nei generi e nelle specie. Così alla classe dei mammiferi appartiene l’ordine dei Primati, i cui generi sono: uomo, scimmia, lemure, pipistrello. L’uomo è definito con stazione eretta, e al genere “uomo” Linneo dà l’attributo di sapiens, definendolo diurno e vario per abitudini culturali e località. Al genere Homo sapiens appartiene la specie ferus, che viene definita quadrupede, muta, irsuta. Come esemplificazioni dell’Homo sapiens ferus, Linneo riporta le seguenti: 1. Juvenis ursinus Lithuanus. 1661. 2. Juvenis lupinus Hassiacus. 15446. 3. Juvenis ovinus Hibernus7. 4. Juvenis bovinus Bambergensis8. 5. Juvenis Hannoveranus. 1724. 4 Con il termine imprinting la scienza etologica intende uno speciale tipo di apprendimento, che avviene in un periodo precoce e particolarmente sensibile dello svilluppo dell’animale. Tale apprendimento non può verificarsi in un periodo diverso e, una volta acquisito, risulta irreversibile. 5 I sette ordini sono: I. Primates, II. Bruta, III. Ferae, IV. Glires, V. Pecora, VI. Belluae, VII. Cete. 6 Probabilmente si tratta di un refuso per 1344. 7 Come fonte Linneo cita il 9° cap. del IV tomo delle Observationes medicae del medico olandese Nicolas Tulp (1593-1674). 8 La fonte citata è Philippe Camerarius.

Uno sfondo storico per i “ragazzi selvaggi”

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6. Pueri Pyrenaici. 1719. 7. Puella Transisalana. 1717. 8. Puella Campanica. 1731. 9. Johannes Leodicensis Boerhavii9. Mi è parso importante cominciare con Linneo questo breve excursus storico, poiché Linneo è ritenuto il primo organizzatore scientifico del mondo animale, e la sua classificazione è, diciamo, di tipo morfologico, in quanto è basata sulle diversità delle costituzioni biofisiche degli animali. Infatti, in base a tali diversità, Linneo sotto la voce Homo sapiens raggruppa le specie Ferus10, Americanus, Europaeus, Asiaticus, Afer, Monstruosus: con questa ultima denominazione vengono classificati quei tipi che mostrano delle “anomalie” rispetto alla norma per la biofisica umana, anomalie che variano a seconda della località e delle usanze; i tipi sono enumerati in questo modo: Alpini, Patagonici, Monorchides, Imberbes, Macrocephali, Plagiocephali, dove gli Alpini vengono definiti molto piccoli, agili, timidi; i Patagonici sono grandi oltre misura; i Monorchides assai poco fertili: gli Ottentotti; degli Imberbes fanno parte parecchi popoli dell’America; i Macrocephali hanno il cranio conico: i Cinesi; i Plagiocephali hanno la parte anteriore del cranio schiacciata: i Canadesi. Voglio, cioè, evidenziare il fatto che nella classificazione di Linneo i cosiddetti “ragazzi selvaggi” (gli Homines feri) sono considerati una vera e propria specie all’interno del genere umano, in quanto le differenze “morfologiche” che tali esseri presentano vengono trattate alla stessa stregua di quelle che distinguono un Americano da un Europeo o da un Asiatico. In definitiva, dunque, Linneo considera che le caratteristiche fondamentali del genere “uomo” appartengano anche, per esempio, allo Juvenis lupinus Hassiacus; il che significa che anche per questo Juvenis sono valide le descrizioni proprie della classe dei Mammiferi, dell’ordine dei Primati e del genere Uomo. Eppure abbiamo visto come una delle caratteristiche fondamentali dell’Uomo sia la stazione eretta, ciò che non ha — come vedremo in seguito — il fanciullo 9

Le fonti sono le opere di medicina dell’olandese Hermann Boerhaave (1668-1738). Linneo usa l’aggettivo Ferus nel senso etimologico di “selvatico” in contrapposizione a “domestico”, “civilizzato”, da non confondere con il sostantivo Ferae del III ordine dei Mammiferi, che ha la specifica significazione di ‘fiere’. 10

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Capitolo Primo

lupo d’Assia, il quale presenta invece delle caratteristiche che non sono peculiari all’ordine dei Primates, bensì a quello delle Ferae (secondo la nominazione linneiana); d’altra parte anche nel caso dello Juvenis ovinus Hibernus compaiono caratteristiche proprie al V ordine, Pecora e non al I ordine, Primates. Viceversa un basilare attributo dei Mammiferi (e cioè di tutti gli animali appartenenti ai 7 ordini linneiani), l’emissione di suoni significativi, non compare nel caso dello Juvenis Hannoveranus. Insomma, un primo punto che mi sembra importante fermare è, da una parte, il fatto che Linneo si è posto il problema di una classificazione anche di questi tipi di “esseri umani” e, dall’altra, la effettiva difficoltà del loro inserimento all’interno di una casistica basata esclusivamente sulla morfologia. Entrambi questi aspetti del problema verranno chiariti con la puntuale disamina dei casi dei ragazzi selvaggi. Ora mi interessa far vedere come nell’ambito della cultura illuministica all’interesse prettamente scientifico di Linneo faccia riscontro quello filosofico di Condillac, Rousseau e Lamettrie nei confronti della tematica dell’“Uomo”, in quello sforzo comune per la conoscenza che va, appunto, sotto il nome di Illuminismo. Condillac, nel suo Essai sur l’origine des connaissances humaines*, cita un fanciullo–orso ritrovato al confine tra la Lituania e la Russia nel 1694. Scrive testualmente Condillac: Nelle foreste al confine tra la Lituania e la Russia, fu preso, nel 1694, un ragazzo di circa 10 anni, che viveva insieme con gli orsi. Non mostrava alcuna traccia di comportamento razionale, camminava sui piedi e sulle mani, non aveva alcun linguaggio, formava dei suoni che non rassomigliavano in nulla a quelli di un uomo. Passò molto tempo prima che egli fosse in grado di proferire qualche parola, sebbene lo facesse in modo davvero barbaro. Non appena poté parlare, lo si interrogò sul suo stato precedente; ma egli non se ne ricordava più di quanto noi ci ricordiamo di quando eravamo nella culla11.

Condillac si serve di questo caso per dimostrare quanto viene affermando a proposito dell’origine della conoscenza umana. Infatti egli afferma che il linguaggio (le langage) non è affatto innato, bensì * Avvertenza per il Lettore: da qui in poi tutti i brani citati da testi in lingua originale sono stati tradotti da me. 11 E. de Condillac, Essai sur l’origine des connaissances humaines, Libraire Armand Colin, Parigi 1924, p. 86.

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deriva dal rapporto continuo e reciproco fra gli uomini, e si sviluppa attraverso una sorta di stadi evolutivi contraddistinti da tre tipi di segni (signes): i segni accidentali, i segni naturali e i segni istituzionali. E Condillac dice che un fanciullo allevato dagli orsi non può che servirsi soltanto dei primi di questi segni, cioè di quelli accidentali, poiché non avendo altri animali della sua specie che gli forniscano delle circostanze alle quali poter collegare e riferire delle grida naturali, questo fanciullo non può avere che delle pure e semplici percezioni, che non sono “idee” perché non sono oggetto di “riflessione”, della capacità, cioè, di osservazione sistematica: Le percezioni non sono che delle impressioni fatte nell’anima, alle quali manca, per essere idee, l’essere considerate come immagini12.

Secondo Condillac, infatti, solo con il vivere in comunità gli uomini imparano a collegare le grida naturali a qualche stato d’animo e a riconoscerlo attraverso quello che egli chiama il “linguaggio d’azione”, che nel suo stadio primitivo sarà probabilmente consistito soltanto in grida, contorsioni e agitazioni violente del corpo in concomitanza con una circostanza particolare; eppure proprio in questo primitivo linguaggio d’azione Condillac ravvisa l’origine dei gesti, della danza, della prosodia, della declamazione, della musica e della poesia. Quando poi gli uomini hanno sviluppato e raffinato la capacità di produrre suoni diversi, avranno avvertito la necessità di creare dei segni nuovi, capaci di farsi ricordare e riconoscere da persone assenti, e allora avranno pensato di disegnare le immagini delle cose: per esprimere l’idea di un uomo o di un cavallo, si sarà rappresentata la forma dell’uno o dell’altro: «il primo tentativo di scrittura non fu che un semplice dipinto»13 conclude Condillac. Dunque, il fanciullo–orso di Lituania (il terzo ritrovato: il primo nel 1661, il secondo nel 1669) è per Condillac la prova tangibile — empirica, oserei dire — delle affermazioni che egli andava facendo sulla base della pura derivazione logica: la fìlosofia di Condillac non vuole essere vuota speculazione, ma un modo di fare scienza. E mi 12 13

E. de Condillac, op. cit., p. 88. ibidem, p. 177.

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sembra di poter dire che si tratta di un modo complementare a quello di Linneo: dove non è sufficiente la pura e semplice descrizione è opportuno e utile che intervenga la deduzione logica empiricamente verificabile, cioè confortata dai fatti.

Rousseau e “l’uomo di natura” In una prospettiva del tutto diversa si pone Rousseau con il suo Discours sur l’origine et les fondements de l’inégalité parmi les hommes. Egli infatti cita cinque casi di ragazzi selvaggi per dimostrare che il differente modo di camminare esistente fra gli animali quadrupedi e l’uomo dipende essenzialmente da una naturale diversa conformazione dell’uomo rispetto all’animale, e non dalla possibilità che l’uomo ha di usare in modi diversi i propri arti; a riprova di ciò Rousseau dice che tutti i bambini cominciano a camminare sulle mani e sui piedi e hanno bisogno dell’esempio e delle lezioni degli adulti per imparare a tenersi dritti. D’altra parte — continua Rousseau — in alcune popolazioni selvagge, come per esempio gli Ottentotti o gli abitanti delle Antille, non ci si occupa molto dei bambini e li si lascia camminare anche sulle mani così a lungo che faticano poi molto per raddrizzarsi. E come esempi di “uomini quadrupedi” egli porta, appunto, il fanciullo–lupo d’Assia, il fanciullo–orso di Lituania, il piccolo selvaggio di Hannover e i due fanciulli selvaggi dei Pirenei. Scrive testualmente Rousseau: Ci sono diversi esempi di uomini quadrupedi e potrei tra gli altri citare quello del fanciullo che fu ritrovato nel 1344, nei pressi di Assia, dove era stato nutrito dai lupi, e che fu portato in seguito alla corte del Principe Enrico, ed egli avrebbe preferito tornare tra i lupi più che rimanere fra gli uomini. Egli aveva talmente preso l’abitudine di camminare come quegli animali che bisognò legarlo a dei pezzi di legno per forzarlo a tenersi dritto in equilibrio sui piedi. Fu lo stesso nel caso del fanciullo trovato nel 1694 nelle foreste della Lituania e che aveva vissuto tra gli orsi. Egli non mostrava, dice Mr. de Condillac, nessun segno di raziocinio, camminava sui piedi e sulle mani, non aveva alcun linguaggio e formava dei suoni che non assomigliavano in nulla a quelli di un uomo. Il piccolo selvaggio di Hannover, del quale si curarono per molti anni alla Corte d’Inghilterra, provò tutte le pene del mondo per

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abituarsi a camminare sui piedi, e furono trovati nel 1719 altri due selvaggi sui Pirenei, i quali correvano per le montagne alla maniera dei quadrupedi14.

Rousseau infine conclude affermando che: «un bambino abbandonato nella foresta prima che sia in grado di camminare, e nutrito da qualche animale, seguirà l’esempio della sua nutrice provandosi a camminare come lei: l’abitudine gli fornirà quella facilità che non gli sarà venuta dalla natura; e come i monchi a forza di esercitarsi arrivano a fare con i piedi tutto quello che noi facciamo con le mani, così egli infine sarà arrivato a impiegare le mani a mo’ di piedi»15. Allora, per Rousseau, l’uomo è quello che è indipendentemente dal suo comportamento e dalla sua storia evolutiva. La sua posizione si direbbe quasi a mezzo fra quella di Linneo e quella di Condillac: si limita a considerare l’uomo nel momento attuale senza far ricorso all’evoluzione e all’anatomia comparata, scienze queste — come egli asserisce — che non sono ancora abbastanza progredite al punto da potergli fornire una solida base per il ragionamento. Molto più scientifico di Rousseau, invece, mi pare un autore che precede Rousseau di più di un secolo, sebbene la sua filosofia possa collocarsi all’intemo dello “spiritualismo”: la sua opera infatti si intitola Due trattati, in uno si indaga la natura dei corpi; nell’altro la natura dell’anima, in modo da scoprire l’immortalità delle anime raziocinanti. Intendo parlare del filosofo inglese Kenelm Digby. Digby riporta il caso di Jean di Liegi (il cui racconto dice di aver ascoltato da una persona degna di fede) a proposito della ragione per la quale il senso dell’odorato non è così perfetto negli uomini come lo è invece negli animali. Scrive Digby: Dal momento che nel villaggio di origine di questo fanciullo infuriava la guerra, gli abitanti, prima che arrivassero le truppe a saccheggiare, decisero di rifugiarsi nella foresta delle Ardenne. Quando furono sicuri dello scampato pericolo decisero di tornare alle loro case. Ma pare che questo fanciullo fosse particolarmente pauroso e si fosse nascosto nel fitto della foresta. Al momento di ritornare a casa i genitori lo cercarono e chiamarono invano per un paio di giorni, e alla fine decisero di ritornarsene senza di lui. Così egli rimase nella foresta parecchi anni cibandosi di radici, di frutti selvatici e di 14 J.J. Rousseau, Discours sur l’origine et les fondements de l’inégalité parmi les hommes, March Michel Rey, Amsterdam 1755, pp. 187–189. 15 J.J. Rousseau, op. cit., p. 192.

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Capitolo Primo ghiande. […] Dopo tanto tempo di vita selvatica il fanciullo era capace di giudicare con l’olfatto il sapore di qualsiasi cosa gli venisse data da mangiare; e con l’olfatto era capace di individuare anche a grande distanza dove si trovasse ogni sorta di frutti e radici. E così sopravvisse anche negli inverni più freddi, quando molti animali muoiono per la mancanza di cibo. Un giorno si avventurò in una stalla per rubare il cibo ai maiali e così fu catturato anche se tentava di scappare. Era nudo e coperto di peli e non usava nessun linguaggio, ma con gesti e grida esprimeva una grande paura. Quando imparò qualche parola disse che in quel momento aveva avuto tanta paura perché pensava che quelli fossero i soldati che aveva voluto evitare nascondendosi nella foresta. Con il tempo, ben tenuto e ben nutrito, a poco a poco perse la straordinaria acutezza dell’olfatto. Ma nei primi tempi della sua convivenza con gli uomini se ne prese una cura particolare una donna che ebbe compassione a vedere un uomo ridotto così simile a un animale, che non aveva parole per chiedere ciò che desiderava o di cui aveva bisogno, e costei era sempre molto sollecita a procurargli ciò di cui egli abbisognava. Questo fatto lo attaccò talmente a lei che nel momento in cui ne aveva bisogno, per qualsiasi cosa gli servisse, se la donna era andata nei campi o in un villaggio vicino, andava in cerca di lei annusando in giro alla maniera dei cani16.

Digby conclude il racconto dicendo che il senso dell’olfatto è molto sviluppato negli animali perché essi se ne servono per discernere il cibo buono da quello nocivo; lo stesso senso, invece, non è particolarmente accentuato negli uomini perché per loro esso non assolve una funzione così vitale. E il caso del fanciullo selvaggio dimostra proprio che l’olfatto si sviluppa nel momento in cui esso diventa necessario alla sopravvivenza.

L’illuminismo di Lamettrie e di Itard Ma ritornando al ’700, è davvero assai interessante notare la “modernità” dell’atteggiamento fílosofico–scientifico degli autori illuministi. Un’opera di Julien Offroy de Lamettrie s’intitola L’Homme Machine ed è del 1748, scritto, quindi, due anni dopo l’Essai di 16

K. Digby, Two treatises, in the one of wich the Nature of Bodies, in the other, the Nature of Man’s Soul, is looked into: in way of discover of the Immortality of Reasonable Soules, Stuttgard-Bad Cannstatt, 1970; Faksimile – Neudruck der Ausgabe, Parigi 1644, pp. 247–248.

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Condillac e sei anni prima del Discours di Rousseau. L’intento del Lamettrie è quello di dimostrare che l’uomo più che un’anima possiede una serie di meccanismi fisiologici che determinano le sue azioni. E a sostegno delle sue ipotesi Lamettrie fa continui raffronti con gli animali dicendo che in realtà la natura è stata assai più generosa con loro che non con gli uomini, poiché a quest’ultimi ha fornito un istinto minore e soltanto attraverso l’educazione gli uomini riescono a fare ciò che gli animali fanno d’istinto. Infatti così argomenta Lamettrie: Qual è l’animale che morrebbe di fame in mezzo ad un fiume di latte? Solo l’uomo […] Egli non conosce né gli alimenti che gli sono adatti, né l’acqua in cui potrebbe annegare, né il fuoco che potrebbe ridurlo in cenere. […] Ancora, mettetelo insieme ad un animale sull’orlo di un precipizio: vi cadrà solo lui; annegherà dove l’altro si salverà nuotando. […] Osserviamo anche un cane e un bambino che hanno entrambi perduto il “padrone” su di una grande strada: il bambino piange, non sapendo a che santo votarsi; il cane, meglio servito dal suo odorato che non l’altro dalla ragione, lo troverà presto. La natura dunque ci avrebbe fatti per essere inferiori agli animali, o almeno per fare con ciò meglio apparire i prodigi dell’educazione, la quale soltanto ci trae da quel livello e ci eleva al di sopra di essi. Ma vorremmo accordare la stessa distinzione ai sordi, ai ciechi nati, ai dementi, ai pazzi, agli uommi selvaggi che sono stati allevati nei boschi insieme alle bestie, a coloro cui l’ipocondria ha rovinato l’immaginazione, insomma a tutte quelle bestie di aspetto umano in cui non appare altro che l’istinto più grossolano? No, tutti questi, uomini di corpo ma non di spirito, non meritano di essere assegnati ad una classe particolare17.

Dunque, per Lamettrie gli “uomini selvaggi” rappresentano soltanto uno dei tanti casi di patologia umana; ed è tanto più interes– sante notare questo fatto in quanto alcune pagine prima Lamettrie afferma che non dovrebbe essere impossibile l’educazione delle scimmie con il metodo che il medico svizzero Amman ha inventato per l’educazione dei sordomuti; così scrive Lamettrie: Perché la scimmia non dovrebbe riuscire, a forza di cure, ad imitare, come fanno i sordi, i movimenti necessari per articolare le parole? Non oso decidere se gli organi vocali della scimmia non possano, checché si faccia, 17

J.O. de Lamettrie, L’uomo macchina e altri scritti, Feltrinelli, Milano 1973, p. 53.

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Capitolo Primo articolare nulla: ma questa impossibilità assoluta mi stupirebbe, data la grande analogia fra la scimmia e l’uomo, dal momento che fra gli animali fin qui conosciuti non ce n’è alcuno che internamente ed esternamente assomigli all’uomo in modo così notevole18.

Allora si potrebbe dedurre che se non è lecito porre una netta distinzione fra gli uomini tout-court e i sordi, i ciechi nati, i dementi, i pazzi, gli uomini selvaggi, gli ipocondriaci, è pur lecito dire che tutti questi sono suscettibili di un’opera di educazione che li avvicini sempre più allo status dell’uomo, se è possibile farlo con le scimmie. Mi sembra, cioè, rilevante far notare come nella filosofia del Lamettrie convergano molte delle istanze del suo tempo e come queste — in qualche modo — continuino a passare attraverso la tematica dei “ragazzi selvaggi”, anche se questa rimane abbastanza indistinta sullo sfondo, come è nel caso dell’opera del Lamettrie. Accennerò qui, soltanto, al medico francese Jean Itard che si prese cura di Victor, un fanciullo ritrovato nei boschi dell’Aveyron all’età di circa 14 anni, perché me ne occuperò in dettaglio nei capitoli successivi; ma ora mi preme dire che anche Itard si colloca all’interno della cultura illuministica nel filone della “rieducabilità” dell’individuo umano, basandosi sul presupposto implicito che un individuo umano è per l’appunto umano e perciò, in quanto tale, suscettibile di venire educato come tutti gli altri uomini. In un certo senso la posizione di Itard è contrapposta a quella di Lamettrie, che definisce gli “uomini selvaggi” «uomini di corpo ma non di spirito», poiché si potrebbe dire che la concezione che ha Itard del ragazzo selvaggio dell’Aveyron è che questi sia uomo di spirito ma non di corpo, e che sia tale spirito a dover essere recuperato fino a farlo ridiventare visibile attraverso il corpo.

Natura ed Educazione: due sistemi a confronto In sostanza, mi pare di poter dire che in tutti gli autori presi sin qui in considerazione ci sia sempre questa sorta di problematica sull’uomo: se cioè l’uomo sia più un prodotto di natura o più un prodotto di 18

ibidem, p. 44.

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cultura, di educazione, o viceversa; e i casi dei “ragazzi selvaggi” sono il collo di bottiglia attraverso il quale bisogna passare per ottenere la soluzione del problema. Questo accade in una società settecentesca, la cui riflessione conoscitiva — come abbiamo detto — è tutta incentrata sull’Uomo; una cosa analoga avviene nel corso del Novecento: vediamo di capirne i modi e le ragioni. Un libro edito nel 1933 si intitola La scimmia e il bambino. Uno studio sull’influenza dell’ambiente sul comportamento primario; ne sono autori i coniugi Kellogg e rappresenta il resoconto di un esperimento straordinario, quello di allevare ed educare insieme, per la durata di 9 mesi, il loro bambino e una scimpanzé: l’uno dell’età di 9 mesi e 26 giorni, l’altra dell’età di 7 mesi e 11 giorni. Il primo capitolo del libro comincia così: Supponiamo che per qualche strano caso un piccolo umano, figlio di genitori civili, sia stato abbandonato nei boschi o nella giungla dove egli per compagni ha soltanto animali feroci. Supponiamo, inoltre, che per qualche miracolosa combinazione di circostanze egli non sia morto, ma sia sopravvissuto all’infanzia e alla prima fanciullezza, e sia cresciuto in tale ambiente. Quale potrebbe essere la natura del risultato individuale di chi è maturato in condizioni così inusitate, senza vestiti, senza linguaggio umano e senza contatti con altri della stessa specie? Che questo non sia una fantasia completamente al di là di una possibilità reale è attestato dal fatto che circa una dozzina di casi di “selvaggi” ritrovati di questo tipo sono noti alla storia19.

E quindi vengono menzionati Victor dell’Aveyron, Kaspar Hauser e le due fanciulle–lupo ritrovate in India nel 1921. I coniugi Kellogg ci tengono a chiarire che sono perfettamente consci delle differenze che esistono fra lo scimpanzé e l’uomo, sia a livello morfologico che fisiologico e psicologico: L’antropoide, per esempio, è considerevolmente più forte di un uomo e risulterebbe capace di maggiori prodezze nell’arrampicarsi e nelle acrobazie. Eppoi, la scimmia ha un volume cerebrale minore. Sotto l’aspetto della correlazione fra sviluppo neurologico e capacità comportamentale, l’animale sarebbe presumibilmente inferiore all’uomo nei compiti di grande complessità20. 19 W.N. Kellogg & L.A. Kellogg, The Ape and The Child. A study of Environmental Influence Upon Early Behavior, Hafner Publishing, New York 1967, p. 3. 20 ibidem, p. 14.

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Tuttavia i due sperimentatori hanno inteso dimostrare che: Lo scimpanzè in una situazione umana acquistava parecchie risposte tipiche del bambino; tali risultati dimostrerebbero l’importanza degli stimoli “umani” sulla sua crescita. Il punto fino al quale i due soggetti imparavano a reagire negli stessi modi nonostante i loro differenti caratteri ereditari dimostrerebbe inoltre l’effetto dell’ambiente, la presenza di risposte identiche nello scimpanzé e nel bambino dimostrerebbe anche che i caratteri ereditari dei due, sebbene differenti, sarebbero allo stesso tempo simili abbastanza da permettere uguali reazioni alla stessa stimolazione. Tuttavia senza la speciale influenza dell’ambiente civile che serva da causa attivante nel portare fuori queste somiglianze, esse sicuramente non sarebbero mai venute alla luce21.

Mi sono a questo punto domandata quale potesse essere stata la molla “ideologica” che avesse spinto i Kellogg a intraprendere un esperimento così difficoltoso e anche abbastanza ricco di incognite forse pericolose nei confronti del loro figlio. La risposta sono riuscita a trovarla soltanto ripensando alla storia degli sviluppi scientifici. Mi sono, cioè, resa conto che dietro un simile esperimento non poteva non esserci la “rivoluzione” illuministica della “ragione”, che conduce alle estreme conseguenze il cartesiano cogito ergo sum con tutto il suo potenziale di affermazione e interpretazione in prima persona della realtà. In tal modo vengono negati i “sacri” principi dell’autorità e si prepara il terreno per la comparsa della teoria dell’evoluzione (che è della prima metà dell’’800), con la quale non sarà più possibile imporre la tradizione dogmatica della creazione. Allora, più che mai, ci si domanda da dove venga e che cosa sia l’uomo, e così si comincia a scomporlo — come dire — in fattori: il fattore fisiologico, quello biologico, quello psicologico e così via; e ognuna di queste parti viene capillarmente approfondita per cercare di trovare una risposta all’incognita di questo Uomo non più partorito dal Dio Padre. Era inevitabile — penso — che in questo clima l’attenzione scientifica si sviluppasse particolarmente sul meccanismo della riproduzione: è del 1900 la data di nascita ufficiale di una branca particolare della biologia, cioè della genetica, scienza che si occupa della trasmissione dei geni (cioè degli elementi biologici primari che costituiscono un 21

ibidem, p. 15.

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organismo vivente sia esso vegetale o animale) da un individuo all’altro della stessa specie; essa cioè studia, da una parte, la costituzione ereditaria degli organismi, cioè il genotipo, dall’altra l’insieme delle condizioni ambientali che agiscono sull’organismo, cioè il fenotipo — come abbiamo visto all’inizio di questo scritto. Così, cercando una motivazione all’esperimento dei Kellogg sono tornata al problema iniziale: quanto, nell’individuo umano, è già determinato alla sua nascita e quanto invece è dovuto all’azione dell’ambiente nel quale crescerà; che era poi, in altri termini, il dilemma degli illuministi a proposito dell’uomo di natura o di educazione; che costituisce, ancora, il motivo conduttore del libro di Singh e Zingg (un missionario protestante dell’orfanotrofio di Midnapore in India e un professore di Antropologia dell’Università di Denver, negli Stati Uniti), intitolato Fanciulli–lupo e Uomo selvaggio, la cui prima edizione è del 1942. Il libro di Singh e Zingg per il problema del rapporto mente / corpo Questo libro è diviso in due parti: la prima, il cui titolo è “Le fanciulle–lupo di Midnapore”, è il puntuale e accurato diario che il reverendo Singh ha tenuto sul ritrovamento e l’educazione di due bambine (dell’età di circa 1 anno e  l’una e 8 anni l’altra) allevate dai lupi e ritrovate nel novembre del 1920 nei pressi di Midnapore in India; la seconda parte, curata dal prof. Zingg e intitolata “Uomo selvaggio e casi di estremo isolamento di individui”, è un’ampia (la più ampia che sia mai stata fatta) raccolta di dati e documentazioni relativi a casi di fanciulli allevati da animali o cresciuti in isolamento. Precedono le due parti del libro alcune prefazioni fatte da vari studiosi: ritengo opportuno riportarne alcuni brani in modo che risulti chiaro lo spirito nel quale l’opera è stata redatta. Scrive il prof. R. Ruggles Gates, presidente dell’Ufficio per lo studio dell’ereditarietà umana di Londra: L’interesse maggiore per le fanciulle–lupo è centrato, naturalmente, sulle questioni psicologiche, educazionali e antropologiche connesse al loro stato mentale. Ho buoni motivi per ritenerci giustificati nel parlare di una embriologia della mente, cioè durante l’infanzia e la fanciullezza, proprio come studiamo l’embriologia del corpo. L’ambiente fortemente anormale creato dal contatto delle bambine con lupi, anziché con esseri umani, ha profondamente influenzato

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Capitolo Primo il loro sviluppo sia mentale che fisico, l’uno reagendo sull’altro. Esse hanno acquistato una serie di riflessi condizionati dall’imitazione dei lupi. E nello stesso tempo le forme umane delle loro menti sono rimaste completamente in sospeso a causa dell’assenza di modelli umani che avrebbero potuto influenzare le loro attività mentali e fisiche. […] L’embrologia sperimentale ha chiarito che le fondamentali deformazioni dello sviluppo di un animale possono essere prodotte in molti modi. Per esempio, se le uova di rane o pesci sono messe in acqua alla quale viene aggiunta una piccola quantità di un agente depressivo come il cloruro di litio o il cloruro di magnesio, gli embrioni che ne risulteranno possono essere ciclopici, con un unico occhio mediano. Anche le narici possono essere unite e la bocca subire delle modificazioni, il grado di deformazione dipende dalla potenza della soluzione usata o dalla lunghezza del tempo per il quale la si è applicata. Con un uso simile di solfato di atropina e altre sostanze, si produce un effetto stimolante sulla parte finale della testa dell’embrione, la testa diventa eccezionalmente grossa e molto larga. Durante il nostro stadio di embriologia mentale possiamo supporre per analogia che possano avvenire deformazioni dello stesso tipo. Molte di esse consisteranno nella natura delle inibizioni di uno sviluppo normale; un esempio estremo è rappresentato dalla completa assenza di contatti umani nel caso delle fanciulle–lupo. Proprio come la presenza di certe sostanze nell’ambiente di un embrione causa varie deformazioni nel suo sviluppo, così l’ambiente–lupo della mentalità delle fanciulle ha prodotto, attraverso l’imitazione, un tipo di mente quasi completamente non umana. Bisogna inoltre sottolineare che per quanto si possano produrre deformazioni estreme, sia mentali sia fisiche, a causa di inconsueti elementi nell’ambiente, ciò non significa conseguentemente che l’ereditarietà è eliminata né in condizioni normali né in condizioni anormali. Al contrario la sperimentazione genetica chiarisce che il fatto ereditario è all’opera in entrambi i casi, e che le basi fondamentali anche per la più piccola differenza fisica e mentale sono determinate dall’ereditarietà, ciononostante può accadere che queste basi vengano deformate o soppresse in un ambiente inusitato. Ne segue che ereditarietà e ambiente sono le due facce di un’unica medaglia. Gli elementi ereditari si ricevono quando due cellule germinali si uniscono. L’ambiente agisce su di esse attraverso l’intero sviluppo. Se l’ambiente, fisico o mentale, è “normale” senza limiti ragionevoli, il risultato sarà quello che ci si può aspettare dall’eredità fisica. Se l’ambiente, sia del corpo sia della mente, durante il loro stato di embrioni, è fortemente depresso o anormale, allora possiamo aspettarci che il corpo o la mente che ne risulteranno saranno ugualmente aberranti entrambi a causa della soppressione o della deformazione dello sviluppo22.

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J.A.L. Singh & R.M. Zingg, Wolf-Children and Feral Man, Archon Books, U.S.A. 1966, pp. XV–XVI.

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Il prof. Arnold Gesell, direttore della clinica per lo sviluppo infantile della Scuola di Medicina dell’Università di Yale nel Connecticut, dopo aver sottolineato l’enorme importanza del diario del rev. Singh e della raccolta di dati del prof. Zingg per chiunque si interessi alla natura e alla crescita della mente umana, conclude la sua breve prefazione asserendo: Lo sviluppo dipende dalla durata. Richiede del tempo. Il diario copre un periodo di 9 anni, e fortunatamente le osservazioni sono datate. Questo ci permette di interpretare lo sviluppo mentale di Kamala [la più grande delle due fanciulle–lupo] in termini temporali. L’antica antitesi fra ereditarietà e ambiente si dimostra sterile. Non siamo d’accordo con la tesi della completa incapacità della mera demenza, bensì con la tesi della soppressione e della liberazione della maturazione latente. I progressi di Kamala, sebbene troncati presto [dalla morte], di nuovo dimostrano la resistenza dello spirito umano e del processo delle riserve di crescita che sempre migliorano le avversità di un destino anormale23.

Francis N. Maxfield, direttore della clinica di psicologia dell’Università di Columbus nell’Ohio, fa prima una precisazione tra i termini “domestico” e “addomesticato” riferiti agli animali, dicendo che la loro differenza consiste nel fatto che un animale può essere domestico per quel che riguarda il suo comportamento, ma non essere suscettibile di addomesticamento da parte dell’uomo; quindi continua: La riflessione sui fanciulli selvaggi ci conduce a pensare sulla stessa linea, solo che parlando degli esseri umani normalmente usiamo termini come “civilizzato”, o “socializzato”, piuttosto che “addomesticato”. Questo processo di socializzazione è così graduale che un bambino è, per così dire, nato selvatico, cioè non–socializzato e non–civilizzato. Prendiamo il processo per assodato e tendiamo a ritenere che siano inerenti al bambino molti tratti che invece sono veramente dovuti al processo di socializzazione. È soltanto quando studiamo casi come quello del ragazzo selvaggio di Itard o questo delle fanciulle–lupo d’India che realizziamo alcuni difetti nel nostro modo di pensare. L’assenza di questo processo di socializzazione nei primi anni dell’infanzia di questi fanciulli selvaggi, una condizione che lo psicologo infantile non penserebbe mai di attuare sperimentalmente, è di un significato autentico. […] Il caso di Kamala è per molti versi simile a quello di Victor di 23

ibidem, p. XVIII.

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Capitolo Primo Itard. Pinel, un medico che aveva avuto occasione di osservare molti casi di deficienza mentale, cercava di scoraggiare il suo giovane ed entusiasta collega dalla sua impresa. Sebbene Itard rinunciasse all’impresa soltanto dopo cinque anni di sforzi pazienti, continuò a porsi la domanda se non avrebbe potuto ottenere un maggiore successo qualora Victor gli fosse stato affidato a un’etá minore. Singh deve essersi posto la stessa domanda riguardo a Kamala ed essersi chiesto se Amala24 non avrebbe potuto fare progressi maggiori qualora fosse vissuta25.

Il prof. Kingsley Davis, incaricato di sociologia all’Università di Pennsylvania, afferma: I casi dei fanciulli vissuti isolati raccolti dal prof. Zingg forniscono una prospettiva che conduce a un’unica conclusione molto ampia, cioè al fatto che ciò che chiamiamo homo sapiens è una specie le cui caratteristiche e il cui comportamento sono standardizzati dal possesso della cultura. Senza cultura il comportamento di questo mammifero sarebbe imprevedibile dipendendo dalla peculiarità dell’ambiente particolare a ciascun caso. Ciò è contrario alla concezione corrente, la quale sostiene che l’uomo è uniforme (all’interno dei limiti della normale frequenza di distribuzione) relativamente alla sua eredità biologica ma variabile per differenze culturali. Parliamo della relatività culturale e della costanza biologica. Ora dobbiamo rivedere la nostra precedente concezione e riconoscere che la cultura è un fattore stabilizzante che fornisce all’uomo alcune delle qualità universali che egli possiede come specie e che il suo carattere biologico è un fattore tanto variabile che costante. Questo modo di guardare all’homo sapiens, sostenuto dai dati sui fanciulli selvaggi e rinchiusi, fa sorgere un’ulteriore domanda. Se la cultura non può essere derivata dall’equipaggiamento biologico dell’essere umano, se essa è un fattore stabilizzante e standardizzante del comportamento umano in grado di mantenere in un modello comune gli elementi biologici variabili, allora da dove viene? Come possiamo rendere conto di una cultura? Siamo costretti, penso, a considerarla come un’emergenza e a spiegarla in termini di uno schema analitico adatto a questo livello di emergenza. Una spiegazione biologica o psicologica della cultura non è sufficiente. Se la vita sociale non può essere dedotta dall’organismo individuale, si può dedurla soltanto dal sistema sociale. Si richiede quindi una spiegazione sociologica. Questa è al momento una conclusione che la maggior parte degli studiosi del comportamento umano non è disposta ad accettare, poiché, essendo il limite la cultura, una spassionata analisi della cultura stessa è 24 25

La più piccola delle due fanciulle-lupo, morta 11 mesi dopo il ritrovamento. J.A.L. Singh & R.M. Zingg, op. cit., p. XX.

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impossibile; sicché ogni spiegazione della cultura deve essere “scientifica” cioè fatta in termini di qualche altro livello di discorso dove è possibile una analisi spassionata. Il prof. Zingg giustamente usa il materiale per criticare il punto di vista aristotelico secondo il quale l’uomo è un animale sociale per natura. L’uomo è sociale perché si fa sociale, non perché lo sia naturalmente. La presa della nostra personale socializzazione è così salda su di noi che diamo per scontata la cultura come parte della natura umana. Vediamo le differenze culturali, ma le generali uniformità culturali che danno stabilità al comportamento umano dovunque si trovino non vengono interpretate come parte di qualche cultura, ma come parte della natura biologica26.

Vorrei concludere questa sorta di commentario al libro di Singh e Zingg riportando ancora due brani, questa volta citati da Zingg nel corso della sua trattazione. Il primo è tratto da Differenze fra individui di Frank S. Freeman: L’estensione e la forma dello sviluppo mentale dipendono in parte dalle condizioni o fattori dell’ambiente in cui l’individuo vive durante il suo periodo di sviluppo, e in particolare durante gli anni dell’infanzia e della fanciullezza. È questo il periodo ottimale per la stimolazione e l’esercizio delle potenzialità mentali genetiche; ma un ambiente molto sfavorevole o intellettualmente povero durante quel periodo frustrerebbe o farebbe abortire lo sviluppo mentale, sicché una tarda, differita opportunità per l’attività mentale può avere soltanto un effetto di recupero molto limitato. Questa dottrina non è in alcun modo contraria alla teoria genetica; né, compatibilmente con le affermazioni di Jennings27, vuole minimizzare l’importanza delle basi genetiche dell’individualità. La teoria vuole, tuttavia, negare che lo sviluppo mentale è un mero processo di sboccio o che le qualità mentali si svilupperebbero nel vuoto. Essa nega anche che i fattori ambientali possano solo aiutare o impedire i processi di sviluppo; essa stabilisce, al contrario, che le condizioni ambientali sono esse stesse parte integrale del processo di sviluppo28.

Il secondo brano appartiene a un autore non contemporaneo di Zingg, ma di un secolo precedente, si tratta dello studioso tedesco 26

J.A.L. Singh & R.M. Zingg, op. cit., p. XXII–XXIII. Herbert Spencer Jennings è un biologo americano (1868–1947) che nega il rigoroso determinismo fisico–chimico del comportamento animale a favore di un metodo istintivo di “prove ed errori”. 28 S.F. Freeman, Individual Difference, Henry Holt & Co., New York 1934, pp. 113–120, cit. in R.M. Zingg, op. cit, p. 176. 27

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Johann Friedrich Immanuel Tafel, la cui opera, edita nel 1848, s’intitola I fondamenti filosofici, nell’evoluzione genetica con particolare riguardo alla storia di ogni singolo problema, dove si afferma: Il fondamento della libertà e della ragione, in qualunque momento possa essersi sviluppato, è sicuramente legato all’evoluzione e non possiamo uscire dal cerchio e non possiamo richiamare alla nostra coscienza il momento in cui non eravamo alle prese con una creatura razionale già sviluppata, liberata dagli istinti naturali più bassi, che ci insegnasse in qualche linguaggio di prendere la direzione del comportamento disinteressato. L’uomo è umano soltanto rispetto ad altri uomini, e senza questa educazione l’uomo rimane un animale. Ciò è mostrato dai numerosi esempi di fanciulli selvaggi che sono stati salvati da animali e sono rimasti con essi fino a che sono arrivati sotto l’influenza umana per essere educati di nuovo29.

A questo punto possiamo concludere che il risultato di tutto il libro di Singh e Zingg è una chiara e documentata dimostrazione della reciproca e inscindibile interazione dei fattori genetici con quelli ambientali e culturali nella costituzione di un inviduo della specie umana. Ancora una volta, cioè, i “fanciulli selvaggi” rappresentano una sorta di anello di congiunzione al limite fra l’umano e il non–umano, ultima ratio fra “natura” e “cultura”. Ritengo, quindi, perlomeno discutibile il fatto che tutta questa precisa e scientifica argomentazione e documentazione venga completamente trascurata dallo psicologo americano Lenneberg, che nel 1967 pubblica i Fondamenti biologici del linguaggio30. Sicché discutiamone.

La comparsa del linguaggio Il IV capitolo del libro di Lenneberg è intitolato “Il linguaggio nel contesto dell’accrescimento e della maturazione” e tende a dimostrare che gli schemi di coordinazione motoria specifici della specie umana 29 J.F.I. Tafel, Die fundamentale Philosophie in genetischer Entwickelung mit besonderer Rücksicht auf die Geschichte jedes einzelnen Problems, Ester Teil, Verlags–Expedition, Tubinga 1848, p. 44, cit. in R.M. Zingg, op. cit., p. 196. 30 E.H. Lenneberg, Biological Foundations of Language, New York 1967; trad. it. Fondamenti biologici del linguaggio, Boringhieri, Torino 1971.

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compaiono secondo un programma di maturazione valido per ogni individuo cresciuto in un ambiente adeguato e che a un analogo programma di maturazione obbedisce la comparsa del linguaggio. Tale comparsa, tuttavia, — afferma Lenneberg — viene spiegata più facilmente ammettendo delle modificazioni maturative del bambino in accrescimento che non chiamando in causa delle speciali pratiche di addestramento da parte dell’ambiente, poiché — afferma sempre Lenneberg — il linguaggio non compare come risposta a un bisogno sentito, né come effetto della sua utilità pratica, né come prodotto di uno sforzo intenzionale verso una più facile comunicazione verbale; tanto è vero che i bambini affetti da sordità congenita producono molte vocalizzazioni mentre sono concentrati nel gioco, anche se non arrivano a sviluppare parole. E allora Lenneberg si chiede come mai i bambini con udito normale si preoccupano di imparare un sistema linguistico, se è possibile cavarsela anche senza di esso; e si risponde che ciò è probabilmente dovuto al fatto che l’acquisizione del linguaggio non è in effetti un grave sforzo, avviene spontaneamente. E infatti — continua Lenneberg — i suoni gutturali di tipo vocalico e i suoni di lallazione non rappresentano fasi di esercizio per il futuro comportamento verbale, poiché per la comparsa di questo non è necessario l’esercizio, bensì l’apprendimento, che è comune sia ai bambini normali sia ai bambini sordi: È giusto dire che questi bambini non hanno esercitato praticamente la parola e il linguaggio nello stesso modo che è stato possibile ai bambini normali, ma non possiamo dire che essi non abbiano avuto un apprendimento durato negli anni. Essi semplicemente non scelgono di rispondere31.

Questa, quantomeno, sconcertante conclusione deriva appunto dall’assunto lenneberghiano che vuole il linguaggio una pura e semplice funzione degli schemi maturativi del comportamento, che sono innati. E così stando le cose, i casi dei “fanciulli selvaggi” rischiano di diventare molto scomodi e allora è meglio sorvolare, anche a scapito della correttezza e veridicità dell’informazione. Scrive, infatti, Lenneberg: 31

162.

E.H. Lenneberg, Fondamenti biologici del linguaggio, Boringhieri, Torino 1971, p.

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Capitolo Primo È difficile evitare di parlare dei bambini che si racconta siano stati allevati dai lupi, o di altri casi di abbandono completo. Un’analisi attenta di questa letteratura dimostra però che nella descrizione dei casi mancano o sono state omesse anche le informazioni più fondamentali. Invariabilmente i bambini vengono scoperti da persone ben intenzionate ma che non sono osservatori addestrati, e la necessità di aiutare le vittime è così urgente che i primi mesi, che pure sono i più interessanti per gli scienziati, sono i meno ben documentati. La natura dell’ambiente sociale e fisico non è mai ben nota e non può mai essere esclusa la possibilità di deficit genetici o di anomalie congenite. Un bambino di cui dà notizia Davis (1947), fu scoperto all’età di sei anni privo di parola, ma si dice che fece rapidi progressi, percorrendo tutte le normali tappe dello sviluppo del linguaggio del bambino, e che nel giro di nove mesi acquistò pieno dominio della parola e del linguaggio. Nella stessa pubblicazione si descrive un caso simile, di una bambina egualmente scoperta all’età di sei anni, ma che incominciò a parlare all’età di nove. All’epoca della morte, avvenuta a dieci e mezzo, questa bambina era capace di nominare le persone e di produrre qualche frase per comunicare le proprie necessità. La descrizione del comportamento di questa bambina fa pensare a una grave psicosi e a debolezza di mente. Abbiamo poi numerose descrizioni di bambini che si suppone siano stati allevati da lupi o siano cresciuti da soli in foreste, ma nessuna di esse è attendibile (Koehler, 1952). Singh e Zingg (1942) hanno fatto una raccolta completa di tutto questo materiale, e un’ottima discussione su di esso si trova nel lavoro di Brown (1957). Le sole conclusioni sicure che si possono trarre dal gran numero di casi segnalati è che la vita in ambienti stretti e bui, in tane di lupi, in foreste o la vita rinchiusi in cantina da genitori sadici, non determina una condizione di salute e non porta a uno sviluppo normale. È impossibile dire perché alcuni bambini riescono a superare i danni inflitti precocemente alla loro salute, mentre altri ne rimangono vittime. Il tipo e la durata dell’abbandono, lo stato di salute iniziale, le cure ricevute dopo il ritrovamento concorrono, insieme a molti altri fattori, a determinare l’esito fínale; in mancanza di dati su questi punti non si può praticamente fare alcuna generalizzazione riguardo allo sviluppo umano. In questa sezione abbiamo cominciato a sviluppare dei criteri per riconoscere quei comportamenti che insorgono per modificazione di capacità entro l’individuo in accrescimento (regolarità di comparsa, uso differente della stimolazione ambientale nel corso dell’accrescimento, indipendenza dall’uso e inutilità dell’esercizio pratico). Applicando questi criteri al linguaggio e ammettendo l’esistenza di un materiale adeguato, abbiamo trovato delle forti indicazioni dell’ipotesi che la comparsa del linguaggio dipenda in primo luogo dallo sviluppo maturativo di stati di disposizione del bambino32. 32

E.H. Lenneberg, op. cit., pp. 162–163.

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Diciamo, per prima cosa, che risulta evidente che un’analisi attenta di questi casi non è stata per nulla fatta da Lenneberg, altrimenti egli avrebbe constatato che non mancano, né tantomeno sono state omesse, anche le informazioni più fondamentali, come pure che assai spesso questi fanciulli sono presi in cura da osservatori addestrati e la quantità di informazioni date da Singh e Zingg non possono davvero esaurirsi nell’ottima discussione di Roger Brown33, il quale — oltrettutto — arriva a conclusioni opposte a quelle di Lenneberg, poiché, infatti, afferma: In ultimo, abbiamo visto che l’uomo non svilupperà la lingua, se egli cresce in mezzo agli animali o in isolamento. La lingua viene acquisita dall’essere umano allevato in una comunità linguistica34.

Risulta inesatto anche il riferimento alla pubblicazione di Kingsley Davis, intanto perché le pubblicazioni sono due: una del 1940 dal titolo Extreme Social Isolation of a Child apparsa sull’«American Journal of Sociology» nel n. 45 di quell’anno; l’altra è del 1947 dal titolo Final Note on a Case of Extreme Social Isolation sempre sulla stessa rivista nel n. 52 di quell’anno; eppoi perché in tutti e due i casi si tratta di una bambina — il sesso è femminile —, la prima si chiama Anna e la seconda Isabelle35. Isabelle è quella che Lenneberg dice aver fatto rapidi progressi; Anna invece è quella il cui recupero fu molto modesto e Lenneberg la dice probabilmente psicotica o debole di mente, però omette di dire che la madre di Anna viene definita una deficiente mentale con un Quoziente di Intelligenza 50, dove la norma è 100: è questa la circostanza che può spiegare la “debolezza mentale” di Anna, più che non il fatto che sia cresciuta in isolamento. Quanto poi ai casi dei bambini allevati dai lupi o cresciuti nelle foreste, le supposizioni lasciano il campo alle documentazioni più accurate: basti ricordare il libro di Singh e Zingg, nonché i saggi di Itard. Sicché — 33 L’indicazione bibliografica di Lenneberg è errata sia per quanto riguarda il nome — che è Roger Brown e non R.W. Brown — sia per quanto riguarda la data della prima edizione — che è il 1958 e non il 1957. 34 R. Brown, Words and Things, Free Press Paperback, New York 1968, p. 193. 35 Inutile sarebbe addebitare l’errore al traduttore: la specificazione dovrebbe essere stata inequivocabile nel testo, sebbene il termine inglese Child sia valido tanto per il femminile quanto per il maschile.

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Capitolo Primo

contrariamente a quanto afferma Lenneberg — è davvero possibile fare una generalizzazione riguardo allo sviluppo umano; tanto più che studi e sperimentazioni recenti dimostrano senza possibilità di dubbi come l’uso e l’esercizio pratico siano fondamentali e indispensabili affinché “esista” uno sviluppo maturativo degli stati di disposizione del bambino. Quella pietra miliare che è il libro di Glenn Doman Che cosa fare per il vostro bambino cerebroleso sta a segnare il lungo tortuoso e assai spesso fumoso cammino verso la conoscenza e la scienza dell’uomo con una chiarezza e serietà scientifica lampanti. Il libro è la dettagliata descrizione delle ricerche compiute da Doman stesso e dai suoi collaboratori in trent’anni di lavoro e di cura dei bambini che hanno una lesione al cervello. Doman ha sperimentato come sia indispensabile l’uso di tecniche esercitative perché i bambini — tutti i bambini e non solo quelli cerebrolesi — siano in grado di imparare a camminare, a parlare, a vedere, a “sentire” attraverso l’udito e il tatto. Egli, infatti, arriva alla conclusione che la funzione crea la struttura, e scrive: Un bambino, incatenato dall’infanzia alla spalliera del letto in un attico isolato, da un adulto psicotico, non svilupperà mai una normale cavità articolare dell’anca, perché nessuno nasce con vere e proprie cavità articolari, ma in realtà se le crea, scavandole nell’osso, come risultato del crowling, del creeping e del camminare. Non è giusto dire che camminiamo perché abbiamo le cavità articolari delle anche (come un tempo persistevamo nel credere), ma piuttosto che abbiamo le cavità articolari dell’anca perché strisciamo, andiamo carponi e camminiamo. Non è la struttura che determina la funzione, ma piuttosto la funzione (movimento) che crea la struttura (cavità articolare dell’anca)36.

E anche a Doman vengono in mente i bambini–lupo, sebbene vi accenni soltanto senza entrare nel merito della documentazione: se ne serve come possibile esemplificazione di quei bambini detti “psicotici”, i quali presentano un cervello anatomicamente normale, ma esibiscono un comportamento anormale, e dice: Se esiste una cosa come un cervello psicotico, distinto dal cerebroleso, la differenza consiste probabilmente nell’essere il cervello psicotico impro36

G. Doman, Che cosa fare per il vostro bambino cerebroleso, Armando, Roma 1975, p. 210.

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priamente programmato (piuttosto che programmato in modo incompleto). Si racconta la storia di bambini adottati alla nascita da lupi, curati ed “educati” dai lupi, al punto da comportarsi da lupi e da non poter essere “rieducati” a pensare a se stessi come esseri umani. Che la storia sia vera o falsa, non ha importanza. Quei bambini potevano avere cervelli perfetti sotto molti punti di vista, ma certamente sarebbero stati tacciati da psicotici dalle norme generali umane37.

Ecco, questo mi sembra il punto cardinale di tutta la questione: chi sostiene che i “fanciulli selvaggi” siano dei deficienti congeniti o con tare cerebrali, non tiene conto del fatto che simili bambini — pur vivendo in un ambiente “confortevole” come quello umano — non sono in grado di svolgere le operazioni comportamentali ritenute le più semplici come, per esempio, il coordinare i movimenti del corpo e perciò, lasciati a loro stessi, non sarebbero assolutamente capaci di sopravvivere. I “fanciulli selvaggi”, al contrario, sopravvivono benissimo, e questo fatto ci dovrebbe consentire la certezza della loro integrità fisica cerebrale. E quindi le cause della anormalità del loro comportamento vanno ricercate altrove. Prima di tutto nella “umana” definizione di “norma”: che cosa si intende per “comportamento normale” riferito a un essere umano? In sintesi, che faccia tutte quelle cose che fanno gli esseri umani e cioè cammini, parli, scriva, pensi, mangi e beva in un certo modo codifícato dalla società; ma se questo comportamento non rientra nei canoni sociali dell’uomo, è sufficiente una più o meno approssimata morfologia fisica a far rientrare il “selvaggio” nella specie umana? Voglio dire, cioè, il limite fra l’umano e il non–umano è posto dai caratteri somatici o dal comportamento? Ma i primi sono modifìcabili al pari del secondo, in dipendenza dalle condizioni ambientali nelle quali sia gli uni che l’altro si sviluppano. A riprova di questo è arrivato il momento di esporre in dettaglio i casi dei ragazzi selvaggi, seguendo la distinzione giá detta, fra quelli allevati e quelli non allevati da animali, proprio al fine di evidenziare l’importanza dei condizionamenti dell’ambiente sulla formazione dell’essere vivente, qualunque esso sia.

37

G. Doman, op. cit., p. 254.

Capitolo Secondo FANCIULLI ALLEVATI DA ANIMALI

Bambini–lupo Esporrò, per primi, i casi dei cosiddetti “bambini–lupo”, cioè di quei bambini abbandonati in tenerissima età, o addirittura catturati dai lupi, e da questi allevati. Voglio ricordare che già Max Müller1, in un suo articolo del 1874, dopo aver preso in esame alcuni casi di bambini–lupo riportati in un libro di Sir William Sleeman2, concludeva: Ci sono altri casi, ma quelli che ho selezionato sono a mio avviso i meglio documentati. Tutti condividono una caratteristica comune, che è importante per lo studioso della lingua più ancora che per lo studioso di mitotogla, cioè la mancanza di linguaggio dei bambini–lupo. È stato innanzitutto questo fatto, piuttosto che l’attinenza di queste storie col problema della mitologia, a farmi raccogliere la testimonianza qui prodotta; dal momento che noi non siamo più sufficientemente feroci da tentare l’esperimento che si dice sia stato tentato da un re d’Egitto 3, da Federico II, e da Giacomo IV, e da uno degli imperatori mongoli d’India […] cioè tenere fanciulli confinati in solitudine per vedere quale linguaggio, se ce ne fosse uno, essi avrebbero parlato, questi casi di bambini allevati da lupi costituiscono l’unica prova sperimentale per determinare se la lingua è un istinto ereditario o no 4.

La documentazione dei casi che riporterò qui di seguito è nel più volte citato libro di Singh e Zingg; per le notizie bibliografiche e riassuntive particolari a ciascun caso è opportuno confrontare le Schede Riassuntive in fondo al volume.

1 Max Müller (1823–1900) è un indologo e storico delle religioni, nato in Germania e morto in Inghilterra. Sono famosi i suoi studi linguistici fatti in parallelo con la mitologia. 2 Cfr. W.H. Sleeman, A Journey Through the Kingdom of Oude (1849-50), Richard Bentley, Londra 1858. 3 Si tratta del faraone Psammetico della XXVI dinastia. 4 M. Müller, Wolf-Children, «The Academy», 6 (1874), pp. 512–513.

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I. Nel 1344 (alcune fonti danno il 1341), nell’Assia da alcuni cacciatori viene trovato fra i lupi un bambino di circa 7 anni (alcune fonti dicono 12 anni): era stato rapito da questi animali all’età di 3 anni e allevato nella loro tana con molta cura. Al momento della cattura da parte dei cacciatori questo fanciullo va molto velocemente a quattro zampe e fa grandi balzi. Si cerca di fargli assumere la posizione eretta legandogli delle stecche alle gambe. Viene condotto alla corte del Principe d’Assia come rarità e curiosità. Quando imparerà a parlare il fanciullo dirà che preferisce la compagnia dei lupi a quella degli uomini. II. Nell’inverno dello stesso 1344, nel Wetterau, durante una battuta di caccia alcuni nobili catturano, nei pressi della fattoria Echtzel, un fanciullo che ha vissuto fra i lupi per dodici anni. Morirà all’età di circa 80 anni. III. Zoolfukar Khan, un rispettabile proprietario terriero dì Bankepur, città a dieci miglia da Sultanpur, in India, dice di aver visto tra il 1841 e il 1842 un fanciullo di circa 9–10 anni, trovato fra i lupi nelle scarpate lungo la strada, arrivare in città portato da un soldato di cavalleria, che non sa cosa farsene e lo lascia alla carità pubblica. Per tre mesi se ne prende cura un contadino, fino a che il fanciullo non viene reclamato dal padre, un pastore, che dice di averlo perso quando aveva 6 anni, rapito da un lupo una notte di quattro anni prima. Il padre lo porterà via con sé e non se ne saprà più nulla. Il racconto viene confermato da tutti gli abitanti di Bankepur. Il fanciullo mangia qualsiasi cosa gli venga data, compreso il pane, ma prima annusa tutto, e comunque continua a preferire la carne cruda. È in grado di camminare in posizione eretta, ma alle ginocchia e ai gomiti mostra segni evidenti di una prolungata andatura a quattro zampe; infatti se gli si chiede di correre a quel modo, lo fa velocissimo. Non è in grado di parlare né di emettere alcun suono articolato, benché abbia un udito straordinariamente buono. Però riesce a capire a segni, ed è in grado di aiutare i contadini a scacciare dai loro campi il bestiame sconfinante, se a segni gli si dice di farlo. IV. Il racconto di questo caso è fornito al Maggiore Generale dell’Esercito inglese in India, Sir William Sleeman, direttamente da

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quattro delle persone che si sono prese cura del fanciullo: Sanaollah, un mercante di Lucknow (che si trova a Bondee al momento della cattura del fanciullo), Janoo e Ramzan Khan, due suoi servitori, nonché Hurdut Singh, Rajah di Bondee. Il fanciullo viene trovato intorno al 1842 da un soldato di cavalleria presso il fiume Ghagra, nel Distretto di Bahraetch, mentre si sta abbeverando assieme a due cuccioli di lupo. Sembra avere circa 10 anni. Al tentativo di cattura reagisce ferocemente strappando i vestiti del soldato e graffiandolo. Viene portato dal Rajah di Bondee, che lo sistema nel deposito delle armi e gli dà da mangiare carne cruda. Il fanciullo tenta spesso di scappare, sicché dopo tre mesi il Rajah si stanca e lo lascia andare. Quindi viene preso da un attore mimo che ne ha cura per sei mesi, ma alla fine non sopporta più le sue abitudini selvagge e lo abbandona. Viene raccolto dal mercante Sanaollah e il servitore Janoo se ne prende particolare cura: rimane con loro per circa sette mesi, fino a quando un giorno, approfittando dell’assenza del mercante e del suo servitore, il fanciullo scappa e non viene più ritrovato. Circa due mesi dopo la sua fuga, si presenta da Sanaollah una donna con una lettera da parte del Rajah di Bondee, la quale dice di essere la madre del ragazzo trovato fra i lupi circa due anni prima; afferma che il bambino le era stata rapito quando aveva 4 anni, e come segno di riconoscimento chiede se il ragazzo che stava presso di loro aveva una cicatrice sul petto e una sulla fronte: il mercante conferma questa circostanza. La donna si ferma a Lucknow quattro mesi e alla fine riparte raccomandando di avvertirla, se il ragazzo fosse tornato. Per tutto il tempo in cui il fanciullo rimane presso il Rajah di Bondee mangia solo carne cruda e non vuole né pane né altro cibo preparato. Cammina a quattro zampe, ma riesce a mantenersi in piedi, seppure goffamente, se lo si costringe a farlo. Sembra capire a segni, ma non riesce a capire né a pronunciare parole. Raramente cerca di graffiare qualcuno o di strapparsi i vestiti di dosso. In seguito Janoo cerca di fargli mangiare del riso, ma il ragazzo lo rigetta e per alcuni giorni non mangia nulla. Però dopo una quindicina di giorni di tentativi Janoo riesce nel suo intento; egli cerca anche di mitigare il pessimo odore che emana dal corpo del fanciullo facendogli massaggi con olii profumati per qualche mese: il cattivo odore rimane, ma si riesce ad ammorbidire le callosità alle ginocchia e ai gomiti, e in circa

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sei settimane il fanciullo è in grado di camminare sulle gambe. In circa quattro mesi comincia a capire a segni e a obbedire; in questo modo è stato messo in grado di preparare la pipa turca, sicché mette la carbonella accesa sul tabacco e porta la pipa a Janoo, ovvero la porge a chiunque gliela indichi. Riesce però a pronunciare un solo suono articolato «abudeea», che è il nome della piccola sorella del mimo, presso il quale è stato qualche tempo, che lo ha trattato con particolare gentilezza e verso la quale ha mostrato una sorta di attaccamento. La notte dorme sotto un albero, disteso vicino a Janoo, e una volta Janoo vede avvicinarsi al ragazzo due lupi che lo annusano, lo toccano e lo svegliano: invece di spaventarsi il ragazzo mette le mani sulle teste dei lupi e cominciano a giocare insieme. la cosa si ripete per 4-5 notti. Subito dopo Sanaollah decide di tornare a Lucknow e vuole impedire a Janoo di portarsi appresso il fanciullo, ma Janoo riesce a convincerlo. Al momento di attraversare la giungla il fanciullo tenta di scappare più di una volta, ma viene fermato con le botte e alla fine si quieta. Però dopo tre mesi dal ritorno a Lucknow, una volta che Sanoallah e Janoo stanno fuori un paio di giorni per affari, il ragazzo scappa via definitivamente. V. Il racconto di questo caso viene fatto a Sleeman dal Rajah di Hasunpur, che lo riferisce come sua personale esperienza. Il fanciullo compare nella città di Hasunpur nel 1843 con addosso evidenti segni di essere stato allevato dai lupi. Quando il Rajah lo vede, sembra avere 12 anni. Dapprima vive presso un negoziante della città; in seguito viene riconosciuto dai genitori, che lo portano via. Il Rajah non ne ha saputo più nulla. Il racconto viene confermato da tutti gli abitanti di Hasunpur, ma nessuno di loro sa che fine abbia fatto il ragazzo. Il fanciullo è in grado di camminare sulle gambe; però non parla in nessun modo, ma emette suoni da animale selvatico. Riesce a capire molto bene a segni. È di pelle molto scura e ha della peluria su tutto il corpo, che tende a scomparire una volta che ha imparato a mangiare i cibi col sale. Mangia carne sia cotta che cruda. VI. Questo caso viene raccontato a Sleeman dal Col. Gray della Fanteria di Sultanpur, il quale ha tenuto il ragazzo presso di sé per alcuni giorni. Il fanciullo viene visto, intorno al 1843, da un pastore,

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che era fuori col gregge, presso il villaggio di Ghutkore, venti miglia a ovest di Sultanpur: trotterellava a quattro zampe insieme con un lupo. Il racconto, oltre che dalla moglie del Col. Gray, viene confermato da tutti gli ufficiali dell’Accantonamento. Il fanciullo corre molto veloce a quattro zampe. Il pastore tenta di insegnargli a parlare e stare insieme con gli esseri umani, ma non ci riesce perché il fanciullo continua a spaventarsi alla vista degli uomini. Poco tempo dopo la sua cattura riesce a fuggire nella giungla e non se ne ha più notizia. VII. H.D. Willock, del servizio civile bengalese, riferisce di aver personalmente visto nel distretto di Shahjehanpore, nel settembre del 1858, un ragazzo–lupo di circa 20 anni. Il racconto della sua cattura — avvenuta quattordici anni prima — gli viene fornito da un membro dello Stato Maggiore che si trovava a Shahjiehanpore già da allora. Il ragazzo viene preso da un’ordinanza a cavallo che lo vede in un campo assieme a un lupo. È ancora vivo nel 1865, quando Willock parte da Shahjehanpore. Il fanciullo cammina a quattro zampe e mangia avidamente carne cruda; ha il corpo ricoperto di una leggera peluria bruna. Non parla, ma è capace di mostrare segni di piacere o di paura con dei grugniti. Non porta vestiti all’infuori di un cencio intorno ai fianchi. Può stare in piedi ma preferisce andare carponi, ha la pelle delle ginocchia dura come cuoio. Nella sua capanna rimane soltanto di notte, di giorno va in giro per la città vivendo del cibo che gli danno gli abitanti. VIII. Intorno al 1847, nel distretto di Chandour, a circa dieci miglia da Sultanpur, un soldato di cavalleria trova un fanciullo di circa 9–10 anni in una tana con un lupo e due cuccioli; il fanciullo viene catturato e portato al villaggio. Dopo 4–5 giorni il soldato lo affida al Rajah di Sultanpur, il quale ordina che il fanciullo venga portato al comandante del I Reggimento di Fanteria di Sultanpur, Cap. Nicholetts, presso il quale il fanciullo resta fino alla sua morte avvenuta nell’agosto del 1850. Il fanciullo cammina a quattro zampe; non parla ed emette solo ringhi. Ha paura degli adulti e scappa, al contrario, ringhia contro i bambini e cerca di graffiarli. È disgustato dai cibi cotti e invece divora con avidità la carne cruda. Mentre mangia non permette a nessuno di

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avvicinarsi; ma divide, senza opporsi, il suo cibo con un cane. In seguito impara a mangiare qualsiasi cosa, sebbene il cibo preferito rimanga la carne cruda; rosicchia ossi, specialmente se sono crudi, e mangia terra e sassolini. Non lo si può costringere a indossare nessun indumento, anche nella stagione più fredda. Continua a preferire cani, sciacalli e tutti gli altri quadrupedi, e non disdegna di dividere il cibo con essi. Non mostra attaccamento per nessuno e non gioca mai con i bambini. Sembra capire poco di quanto gli si dice e non curarsi di quanto gli accade intorno. Solo raramente adopera dei segni quando vuole qualcosa e soprattutto quando ha fame, allora si indica la bocca. Generalmente corre a quattro zampe, ma a volte assume anche la posizione eretta. Non è mai stato visto né ridere né sorridere, né mai sentito parlare fino a pochi minuti prima di morire, quando mettendosi le mani sulla testa, dice: «Fa male» e chiede dell’acqua; dopo aver bevuto, muore. IX. È la stessa madre di questo fanciullo a raccontare il caso. Il figlio era stato rapito da una lupa nel febbraio del 1843, quando aveva 3 anni, mentre lei stava spigolando in un campo e aveva lasciato il bambino poco lontano. Il fanciullo viene trovato sei anni dopo, da due sipahe mentre si sta dissetando a un ruscello insieme con tre cuccioli di lupo, nei pressi del villaggio di Chupra, a venti miglia a est di Sultanpur. Lo catturano e lo tengono con loro venti giorni, fino a che non si presenta a reclamarlo la madre, che, però, lo tiene con sé soltanto due mesi, lasciandolo poi di nuovo alla carità pubblica. La storia è confermata da tutti i vicini di casa della donna, dai principali proprietari terrieri, dai contadini e dai commercianti del villaggio. Il fanciullo corre veloce a quattro zampe. È molto feroce e graffia e morde. Mangia solo carne cruda; beve immergendo la faccia nell’acqua e succhiandola, anziché lapparla come un lupo. Il suo corpo emana un odore terribile. Ha le unghie e i gomiti induriti dalla consuetudine di andare a quattro zampe. La madre tenta di insegnargli a parlare, ma senza nessun risultato. Impara a mangiare il pane, ma continua a preferire la carne cruda, tanto che si ciba di carogne, quando ne trova. Non sopporta nessun indumento, e se lo strappa quando si tenta di mettergliene qualcuno addosso. Non mostra nessuna affezione verso la madre e la segue solo quando ha fame. Tenta continuamente dì

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scappare per tornare nella giungla. Quando viene definitivamente lasciato alla carità del villaggio, di giorno accetta il cibo che gli viene dato, ma di notte torna nella giungla. Il fanciullo è ancora nel villaggio al tempo in cui scrive Sleeman (1850). X. Il vice commissario di Sultanpore riferisce che nel 1860-61 un fanciullo di circa 4 anni viene trovato in una tana di lupi da un poliziotto che lo porta in città e se ne prende cura. Al momento della cattura il fanciullo cammina come un cane: con entrambe le braccia distese davanti a lui e le palme delle mani a terra, e le gambe ripiegate sotto il corpo5; si muove a balzi come una scimmia, tenendo sempre le mani a terra. Ringhia ed emette un suono a mezzo tra il latrato e il grugnito. Non tocca assolutamente cibo cotto e mangia voracemente carne cruda. Il poliziotto gradatamente riesce a fargli mangiare del latte, poi latte e pane, e così via. Fu poi mandato a scuola e pare che sia entrato a far parte del corpo di polizia. XI. I due casi che seguono riguardano due bambini-lupo entrambi trovati a Sikandra. Il primo, cui fu dato il nome di Dina Sanichar, viene trovato da alcuni cacciatori, durante una battuta di caccia, nel 1867: sembra avere 7–8 anni. Viene catturato e portato all’orfanotrofìo di Sikandra e affidato al Sovrintendente, Mr. Erhardt, presso il quale il fanciullo rimarrà fino all’anno della sua morte, avvenuta per tubercolosi nel 1895. Il geologo inglese Valentine Ball vede personalmente il fanciullo, che sembra avere 15 anni, durante una visita all’orfanotrafio di Sikandra nel 1874. Al momento della cattura il bambino–lupo corre velocissimo a quattro zampe per sfuggire agli inseguitori, che riescono infine a catturarlo solo affumicando la tana nella quale si è rifugiato. Nei primi tempi di “cattività” si strappa i vestiti di dosso e persiste nel mangiare prendendo il cibo direttamente da terra; ha capelli e unghie lunghissimi, la testa piccola, la fronte bassa e stretta, gli occhi grandi grigi e sempre in movimento; il suo corpo è tutto attraversato da scosse; le braccia sono molto più corte del normale; mangia solo carne cruda. 5

È il modo dI camminare che Singh definisce on all fours (a quattro zampe), in contrapposizione a to crowl (andare carponi).

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Negli anni seguenti impara a portare i vestiti e a mangiare cibi cotti; molto maggior tempo impiega per imparare ad andare in chiesa e a stare con gli altri bambini. Per un certo periodo lo si tiene legato a una branda per cercare di distendergli le gambe, e solo dopo molti mesi si riesce a fargli assumere la posizione eretta. Non impara a dire che poche sillabe come «wa, wa» nel tentativo di cantare nel coro dei bambini, oppure «dham, dham» al momento delle preghiere. XII. Il racconto del secondo bambino-lupo trovato a Sikandra viene fatto a Ball dal Sovrintendente dell’orfanotrofio durante la visita del geologo nel 1874. Il fanciullo viene trovato in una tana di lupi nel marzo 1872, all’età di circa 10 anni, e il Sovrintendente lo descrive come un perfetto animale nelle abitudini: beve come i cani; mangia ossa e carne cruda; non vuole mai stare insieme con i bambini e scappa a nascondersi negli angoli più bui; acquista una certa familiarità soltanto con l’altro bambino–lupo. Durante tutta la sua permanenza nell’orfanotrofìo — durata quattro mesi — non emette nessun suono all’infuori di un melanconico gemito da cucciolo; dopo qualche mese gli viene la febbre, non vuole più mangiare e muore nel luglio del 1872. XIII. Amala e Kamala. Come ultimo di questo genere di casi citerò quello delle due bambine–lupo indiane, Amala e Kamala, che è anche il più cospicuamente documentato dall’accurato e preciso diario del Reverendo Singh, Rettore dell’orfanotrofio della Missione di Midnapore, presso il quale le due bambine sono portate e allevate: Amala vi rimarrà undici mesi, Kamala nove anni. Le due fanciulle vengono catturate in una tana di lupi il 17 ottobre del 1920; la loro età approssimativa è di 1 anno e mezzo per Amala e 8 anni per Kamala. Quando camminano, lo fanno sulle mani aperte per terra e sulle ginocchia (to crowl), dove si sono formati dei grossi calli; quando corrono, invece, lo fanno — velocissime — sulle mani e sui piedi (on all fours), con le articolazioni delle ginocchia piegate. La testa è allungata magra ossuta e rivolta verso l’alto; la fronte è stretta e piena di rughe; le sopracciglia folte e lunghe sopra gli occhi fosforescenti con una luminosità blu, che vedono benissimo al buio; gli orecchi sono piatti e grandi, che tremano e si scuotono nei momenti di eccitazione, e l’udito è

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sensibilissimo, i nasi sono appiattiti, con narici tonde e più grandi del normale, che si allargano e contraggono fiutando o annusando qualche odore, dalle quali nei momenti di eccitazione fuoriesce aria con un rumore aspro; la bocca è larga e le grosse labbra tremano nei momenti di rabbia e di paura; le ossa mascellari sono rialzate e sporgenti; i denti sono assai compatti e con i margini appuntiti: i canini sono più lunghi e aguzzi di quelli umani; non umano è anche il colore rosso sangue dell’intemo della bocca; il collo è corto e muscoloso sopra le spalle larghe; le braccia sono lunghe e piuttosto ravvicinate all’altezza delle ginocchia, muscolose e ben fatte, con le giunture dei gomiti e dei polsi grosse pesanti possenti; le mani sono più lunghe del normale con le dita consumate all’interno in modo concavo; anche le dita dei piedi sono consumate allo stesso modo, stese piatte sul terreno, ma a volte ripiegate in su ad angolo; gli alluci sono più lunghi del normale e a volte ripiegati in su anch’essi; le anche sono piatte e la vita sottile e flessibile; le giunture delle ginocchia e delle anche sono grosse rialzate pesanti, coperte di duri calli. Tutta la struttura corporea denota forza e agilità; la pelle è sensibile al minimo tocco, ma non avverte né il freddo né il caldo. L’olfatto è molto sviluppato ed esse possono odorare qualunque cosa da una grande distanza; l’espressione del loro viso è luminosa e piacevole, ma pronta a mutarsi in ferocia al minimo accenno di rabbia o paura. Mangiano lappando dallo stesso piatto dei cani ed esclusivamente carne cruda e latte. L’unico suono che emettono è una specie di ululato assai forte e stridulo, che non somiglia a nessun suono animale o umano, e che fanno solo di notte: la notte infatti stanno sveglie e il giorno si rincantucciano nel loro angolo, dove ogni tanto si appisolano; non sopportano il sole e la luce le impaurisce, e di giorno non vedono bene. Dormono per terra l’una sull’altra e non sopportano nessun vestiario all’infuori di una specie di perizoma; rispondono solo ai bisogni fondamentali come la fame e la sete, e unicamente per questo si avvicinano alla signora Singh; depositano urina ed escrementi ovunque e in ogni momento, pulendosi poi contro il terreno. Le loro facce non hanno espressioni di gioia, ma solo di soddisfazione quando vengono sfamate e dissetate; preferiscono la compagnia degli animali a quella degli uomini. La signora Singh comincia la sua opera di educazione cercando di attirare l’attenzione di Amala e Kamala col distribuire, in loro presenza, dei biscotti ai bambini dell’orfanotrofio, dal momento che esse

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hanno mostrato di gradire molto quel tipo di cibo; contemporaneamente la sig. Singh conversa con i bambini, senza che però tutto questo susciti il minimo interesse da parte di Amala e Kamala, che, invece, mostrano molta più attenzione per i cuccioli, osservandoli e tentando di ripetere i loro atteggiamenti. La sig. Singh si mette a praticare loro un massaggio oleoso per tutto il corpo, ogni mattina, e smette non appena avverte segni di insofferenza. Dopo qualche mese le due bambine dormono nel letto, mangiano cibi cotti e cominciano ad avere confidenza con la sig. Singh, Amala, la più piccola, per prima. E Amala è anche la prima ad ammalarsi di nefrite il 4 settembre 1921; due giorni dopo si ammala pure Kamala: per tutto il periodo della malattia permettono di essere nutrite solo dalla sig. Singh. Ma il 21 settembre Amala muore: Kamala non si accorge subito dell’accaduto e va ripetutamente verso il suo letto per tirarla giù, le tocca la faccia, le apre gli occhi e le labbra con le dita; solo quando da «qualche cambiamento in Amala, che Kamala è in grado di capire» si rende conto che la sua compagna è morta, allora dagli occhi di Kamala scendono due lacrime ed essa resta accanto al corpo di Amala finché non lo portano via per seppellirlo6. Kamala rimane rincantucciata nel suo angolo per sei giorni, dopo i quali la prima compagnia che cerca è quella dei capretti e dei polli: la si vede nel tentativo di parlare con essi, sforzandosi di pronunciare parole in una specie di balbettio simile a quello di un bambino di 1 anno, 1 anno e mezzo. A Kamala piace stare anche con i gatti e li imita: i gatti giocano con le zampe e lei con le mani, allo stesso modo; i gatti graffiano il terreno e lei con le unghie fa altrettanto. Non ama invece gli uccelli e dai piccioni è addirittura terrorizzata, ed è vista tremare per la prima volta. A questo punto mi chiedo se nel terrore di Kamala non ci sia la sensazione di una eccessiva differenza tra gli animali coi quali è 6

Ritengo la data della morte di Amala molto importante ai fini dell’ulteriore sviluppo delle “qualità umane” di Kamala, poiché la comunicazione sociale è senz’altro uno dei bisogni derivati (cfr. i casi dei ‘fanciulli–selvaggi’ sopravvissuti in solitudine), che però diventa fondamentale quando sia entrato a far parte delle abitudini di vita. E quindi, ora, per Kamala un altro ‘bisogno fondamentale’ da soddisfare si è aggiunto a quelli della fame e della sete. Infatti nell’anno seguente si hanno le sue prime espressioni “vocali”, che, a mio avviso, stanno a testimoniare la ricerca di un nuovo mezzo adatto a soddisfare un nuovo bisogno.

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abituata a vivere e che camminano sulle zampe, e gli uccelli che volano. Con gli altri quadrupedi che le stanno attorno (benché le sarà stata evidente la differenza fra loro e Amala) Kamala ha cercato di stabilire un rapporto e ha cercato di usare un tipo di comunicazione diverso da quello usato con Amala, data la differenza fra lei e gli altri animali. E l’unico altro modo di comunicare che Kamala conosce è quello tanto reiteratamente presentatole dalla sig. Singh, cioé la fonazione, e difatti tenta di parlare con i capretti e i polli. Ma il divario fra questi e gli uccelli le deve essere apparso invalicabile: da qui la paura, scaturita dall’assoluta novità della situazione. Ho tenuto a sottolineare questa prima prova di comunicazione da parte di Kamala, perché mi pare abbastanza evidente che sia stata fatta sulla base dell’analogia: il che — come vedremo in seguito — ha la sua importanza. Voglio dire, cioè, che il comportamento di Kamala si è basato sulla somiglianza di due situazioni: con esseri diversi da Amala si comunica vocalmente, così come ha visto fare dalla sig. Singh con i bambini dell’orfanotrofío, che sono — per Kamala — diversi da Amala. Dalla fine del 1921 alla fìne del 1929, quando Kamala muore, tutta l’educazione cui essa viene sottoposta dai coniugi Singh è sostanzialmente basata sul tentativo di creare un rapporto affettivo, che si esterna nella pratica dei massaggi, nella continua comunicazione orale fatta in tono molto dolce, nell’offerta di dolciumi tanto graditi. Insomma — come afferma lo stesso Singh — si fa di tutto perché Kamala senta di essere al sicuro: L’essenza della vita umana non è altro che amore. Questo è rappresentato dall’amore filiale. Le bambine–lupo cercano lo stesso amore che avevano trovato nella madre lupa (in conformità con la loro rozza natura animale) fin dall’infanzia. Questa simpatia, o amore, o bontà, esse la stavano ricercando in mezzo a noi, ma non potevano fidarsi di noi all’inizio, e da questo deriva il ritardo nel loro sviluppo delle facoltà umane7.

E comunque anche quando questo rapporto affettivo si è stabilito, i progressi di Kamala sono molto lenti. Alla fine del dicembre 1921 c’è un primo segno di una comunicazione di tipo umano: alla richiesta della sig. Singh se avesse fame, Kamala risponde facendo un cenno 7

J.A.L. Singh & R.M. Zingg, op. cit., p. 39.

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col capo come a dire «sì». Kamala ora desidera la compagnia della sig. Singh e dei bambini, e preferisce stare con loro piuttosto che girovagare nel giardino con i polli o unirsi agli altri animali della casa. Con una serie di studiati esercizi si pone Kamala nella condizione di assumere necessariamente certi comportamenti, se vuole riuscire a soddisfare bisogni fondamentali come la fame e la sete, oppure, semplicemente, la voglia di dolciumi. È così che impara a rimanere sulle ginocchia, senza ricadere immediatamente sulle mani (febbraio 1922). Per quella che possiamo chiamare la “conquista del biscotto” Kamala è sempre posta in competizione con tutti i bambini dell’orfanotrofio che non sanno ancora camminare, la si fa stare costantemente alla presenza di tutti gli altri bambini che camminano, in modo da spingerla a fare altrettanto per imitazione; sicché nel marzo del 1922 Kamala è capace di camminare un po’ sulle ginocchia soltanto. Pochi giorni dopo, comunque, la sig. Singh nota dei pezzetti di carne sulle labbra e sulle guance di Kamala e le chiede se ha mangiato qualche pollo trovato morto, e di nuovo, per la seconda volta, Kamala accenna col capo come per dire «sì». Nel settembre dello stesso anno riesce ad appropriarsi di un osso e lo mangia, facendo immediatamente un’espressione feroce contro la sig. Singh che glielo vuole togliere. E, in genere, non divide mai il suo cibo con i bambini, ma anzi li scaccia violentemente, se si avvicinano; non le piace il sale fino al settembre del 1925. Il 27 settembre 1922 si nota una prima espressione vocale di Kamala, che quando ha fame o sete emette il suono «bhu, bhu», e quando ha sete, contemporaneamente, va vicino alla brocca dell’acqua o al pentolino del latte; quando ha fame, invece, si limita a emettere il suono rimanendo dov’è. Nel giugno 1923 per la prima volta Kamala riesce a stare in piedi ma non può correre: nell’agosto per la prima volta dorme con le gambe distese, anziché ripiegate contro il petto; nel settembre mostra di non avere più tanta voglia di uscire di notte8; nell’ottobre per la prima volta esce insieme con gli altri bambini; il 15 dicembre ripete il suono «hu, hu, hu», che fanno gli altri bambini, senza però attribuirgli nessun significato particolare, e al «sì» col capo ha aggiunto anche il «no»; il 30 dicembre la sig. Singh chiede a 8

Nel gennaio 1924 Kamala mostra timore del buio, e ha decisamente paura nel novembre successivo.

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Kamala se vuole ancora riso, e Kamala annuisce e dice «hu», parola simile al bengali «ha», che significa «sì»: da questo momento ogni volta che Kamala vuole dire «sí», dirà «hu». Il 6 gennaio 1924 Kamala comincia a ripetere fra sé e sé il suono «na, na, na», che ha sentito da una bambina che non voleva mettersi il vestito perché le dava fastidio a una ferita; il 19 gennaio Kamala grida «na, na, na» quando le massaggiano con un unguento la ferita che si è fatta cadendo; il 20 gennaio trova troppo calda l’acqua del bagno e di nuovo grida «na, na, na»: da ora in poi adopererà questo suono ogni volta che qualcosa non le piace: è il «no»; il 24 gennaio la sig. Singh parte e Kamala sente molto la sua mancanza, e durante la sua assenza diventa nuovamente scontrosa e irritabile; il 28 dello stesso mese la sig. Singh ritorna e Kamala le corre incontro on all fours, le si stringe accanto e la sua espressione torna gioiosa; il giorno successivo, il 29 gennaio, Kamala pronuncia spontaneamente la parola «bh l», che in bengali significa «riso»: Kamala la dice quando il riso viene servito a colazione; il 18 febbraio Kamala dice «bh l» in risposta a chiunque le chiede come sta, eppoi la ripete varie volte, continuando a rispondere «bh l» a qualsiasi altra domanda le si faccia9; il 21 febbraio considera di sua proprietà tutti gli oggetti rossi e, sentendo i bambini che dicono «rosso» in riferimento ai propri abiti rossi, ogni volta gira gli occhi verso il bambino che ha pronunciato la parola; il giorno seguente, 22 febbraio, dei nuovi vestiti vengono distribuiti ai bambini: Kamala è la prima cui si chiede quale voglia e lei ne indica uno rosso, la sig. Singh le domanda perché vuole proprio quello e Kamala risponde «l-a-l», che in bengali significa «rosso»: resterà sempre il suo colore preferito; il 28 febbraio, a pranzo, si chiede a Kamala se vuole qualcosa e lei risponde «bha», «riso». Il 29 febbraio Kamala e altri bambini vengono messi in fila e la sig. Singh a ciascuno di loro chiede di indicarsi dicendo «âmi» (in bengali 9

Singh annota che è difficile sapere che cosa Kamala voglia dire con questa parola. Io azzardo un’ipotesi: dal momento che è stata la prima parola detta dopo il ritorno della sig. Singh, ritorno che le ha procurato molta gioia, e visto che la parola «bh l» significa «riso», cioè il suo alimento quotidiano, che quindi è la soddisfazione di un bisogno fondamentale, e data la evidentissima relazione che per Kamala esiste tra la sig. Singh e il cibo, mi sento di affermare che per Kamala «bh l» ha assunto il significato di un’idea di benessere (cfr. il 28 successivo).

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«io»), e quando viene il suo turno Kamala dice «am»; il 2 marzo Kamala impara a dire monosillabicamente il nome dei suoi più assidui compagni; le viene chiesto il nome di Saraju e lei risponde «soo» indicando il bambino; l’11 marzo Kamala dice «toom» per «toomy», che in bengali è la prima persona del verbo essere; il 13 marzo risponde «jab», per «jabo» che in bengali significa «voglio», a un bambino che le domanda se vuole andare con lui a prendere i frutti nel giardino; nel dicembre Kamala si ammala di nuovo con febbre dissenterica e durante la malattia non vuole mai essere lasciata dalla sig. Singh, né di giorno né di notte; la sua espressione verbale si sviluppa in modo eccezionale e benché le parole siano spezzate, riesce a farsi capire splendidamente. Il primo gennaio 1925 si vede Kamala parlare fra sé e sé, cercando di dire quanto è vicina o lontanta da un albero e vuole parlare all’albero; in casa, giocando, vuole parlare ai giocattoli. Durante questo anno impara a dire il nome di alcuni bambini, sempre pronunciandoli in monosillabi, e quando non sa dirne il nome, annuisce se il bambino indicato corrisponde al nome che le viene detto e scuote il capo in caso contrario; comunque, entro il 1927 imparerà il nome di tutti. Ora riconosce il suo piatto e ne rifiuta qualsiasi altro; comincia a bere dal bicchiere e riconosce il suo fra tutti; nell’ottobre, però, si nota che orina nel bagno solo se sono presenti il sig. o la sig. Singh, altrimenti continua a farlo nella stanza. Nel gennaio 1926 Kamala comincia a tenersi le coperte di notte senza toglierle, e vuole sempre avere addosso abiti, sia di giorno che di notte, se cammina lentamente riesce a farlo sulle gambe, ma se vuole andare veloce lo fa ancora a quattro zampe o carponi; il 23 di questo mese, al ritorno della sig. Singh da un’assenza di qualche giorno, Kamala le corre incontro a quattro zampe dicendo «ma elo», che significa «mamma viene», e cerca di raccontarle con parole spezzate quello che è successo durante la sua assenza, ma la maggior parte di ciò che dice risulta incomprensibile. È durante questo anno che Kamala mostra in modo molto evidente quello che Itard, sulla scia di Condillac, chiama “linguaggio d’azione”, quella forma di comunicazione, cioè, che si attua attraverso una sorta di pantomima. Kamala ce ne offre più di un esempio: il 14 gennaio 1926, assaggia con la mano l’acqua per il bagno e non trovandola sufficientemente calda, si allontana e se ne sta appartata fino a che non vede che è stata aggiunta altra acqua calda; il 9 febbraio la sig. Singh

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manda Kamala e un altro bambino (al quale è stato detto di non intervenire, ma soltanto di osservare e riferire quello che avrebbe fatto Kamala) a chiedere 5 rupie al sig. Singh: alla presenza di tutti gli altri bambini la sig. Singh dice a Kamala di portarle le 5 rupie. Kamala on all fours corre nello studio dove il sig. Singh sta scrivendo e si ferma lì per un po’, ma dato che il sig. Singh non mostra di averla vista, Kamala gli si avvicina e batte forte la mano sullo sportello del cassetto vicino al quale il sig. Singh è seduto, e infatti il rumore attira la sua attenzione: il sig. Singh guarda Kamala, che, a sua volta, dirige lo sguardo verso lo sportello; il sig. Singh le chiede che cosa vuole e Kamala, senza dire niente, indica la serratura dello sportello, allora il sig. Singh prende la chiave e lo apre, e Kamala indica la seconda serratura del cassetto che il sig. Singh è pronto ad aprire: dentro c’è un salvadanaio che Kamala indica; il sig. Singh le chiede se lo vuole e Kamala annuisce; ricevuto il salvadanaio, lo porta alla sig. Singh. Il 19 febbraio Kamala entra in cucina per dire a una ragazza di portare il latte ai bambini: entra e dice «doo», tocca la ragazza e indica la porta della stanza da pranzo (in bengali latte si dice «dudh»); il 28 dello stesso mese Kamala può comportarsi in modo da far capire se il suo cibo è sufficientemente salato o no; il 7 la sig. Singh fa finta di dimenticare di distribuire il cibo all’ora del pranzo: Kamala va avanti e indietro dalla stanza da pranzo alla sig. Singh che spinge dolcemente verso la porta; sulle prime la sig. Singh fa finta di non capire, eppoi esclama: «Oh, Kamala, vuoi che ti dia il pranzo?», Kamala annuisce e precede la sig. Singh nella stanza da pranzo camminando sulle gambe. Il 13 settembre Kamala, non riuscendo a trovare i suoi abiti nel mucchio di quelli lavati, non permette a nessun bambino di prendere i propri finché lei non abbia trovato i suoi: si secca molto che non ci siano e si placa solo quando la sig. Singh, che li aveva presi per stirarli, glieli porta. Nell’ottobre Kamala permette che si adoperi il sapone per farle il bagno, e cerca di mangiarne la schiuma. Nel contempo comincia a mostrare un notevole attaccamento verso i bambini e, a modo suo, cerca di stare loro attenta sia dentro che fuori casa; il 10 ottobre un bambino si graffia le ginocchia cadendo vicino al cancello d’entrata, Kamala se ne accorge e corre dentro dalla sig. Singh, e cerca di spingerla dolcemente verso il cancello: ripete più volte questo comportamento, fino a che la sig. Singh non la segue. Il 19 dicembre

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Kamala mangia carne cruda di nascosto: voglio sottolineare di nascosto, perché evidentemente si è formato in lei un qualche sentimento di inibizione nei confronti della società in cui vive. A conforto di quanto affermo mi pare che sia l’episodio di qualche giorno prima. Infatti, la notte Kamala è solita dormire con indosso soltanto il perizoma, e la mattina del 6 dicembre, contrariamente al solito, non si decide a uscire dalle coperte; la sig. Singh, pensando che Kamala senta freddo, le dà uno scialle, che però la bambina rifìuta respingendolo violentemente e tirando invece fuori il suo pantalone con la tunica, che dà alla sig. Singh perché glieli metta, e solo quando è completamente vestita raggiunge i compagni. Come si può ben notare alla fine del 1926 Kamala è molto diversa dalla bambina–lupo di sei anni prima. Il suo viso ha acquistato una grande mobilità di espressioni ed è soprattutto attraverso di esse, dei gesti delle braccia e dei movimenti di tutto il corpo, piuttosto che non con le parole (il suo vocabolario non supererà la cinquantina di parole, sempre pronunciate in monosillabi), che riesce a farsi capire, e se neanche così la si caspisce, Kamala si dirige verso la cosa che vuole significare e la tocca. Nei tre anni che seguono, fino al 14 novembre 1929, giorno in cui Kamala muore di uremia, continua a svilupparsi il suo senso sociale umano. Così, per esempio, il 14 gennaio 1927 la si vede balbettare parole e piccole frasi con gli altri bambini; il 20 febbraio comincia a canticchiare a suo modo delle parole e continua mentre fa qualsiasi cosa, ed è tanto impegnata in questa specie di mormorio da non sentire quando la chiamano; cerca poi di farsi il bagno da sola; vuole andare al servizio religioso e intervenire nei canti del coro dei bambini10; per la prima volta manifesta il desiderio di andare al mercato insieme con gli altri bambini. Parallelamente si affievolisce — come dire — la sua “ferinità”: si spaventa all’abbaiare dei cani; rifiuta di prendere in braccio alcuni cuccioli; non vuole mangiare della carne cruda lasciata sul tavolo appositamente per lei; si rifugia dalla sig. Singh il giorno in cui dei bambini litigano fra di loro; viene trovato un pollo morto e la sig. Singh chiede a Kamala se vuole mangiarlo, ma Kamala scuote ripetutamente la testa dicendo «na, na, na». Al 3 dicembre 1927 Singh 10

Cfr. Dina Sanichar (caso XI).

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annota: «Kamala imparò a identificarsi con i bambini»11 e riferisce il seguente episodio. Kamala sta accanto al tavolo apparecchiato per il tè e la sig. Singh, trovandola lì, le dà un biscotto; subito Kamala corre dagli altri bambini e tutti si precipitano intorno al tavolo per ricevere il biscotto, ma la sig. Singh li rimprovera perché non è ancora l’ora del tè, allora essi escono dalla stanza e Kamala, vedendo che se ne vanno senza il biscotto, lascia il suo sul tavolo prima di seguirli. All’ora del tè tutti i bambini si riuniscono e la sig. Singh dà loro due biscotti, ma Kamala ne accetta uno solo e va a riprendersi quello che aveva lasciato sul tavolo. Con il caso di Amala e Kamala concludo la serie dei bambini–lupo per aprire quella dei fanciulli allevati da altre specie animali, in modo che risulti chiaro come la “convivenza” sia la determinante per il comportamento di qualsiasi animale, uomo compreso.

Bambini–orso, bambino–capra, bambino–pecora, bambino–vitello, bambina–maiale, bambino–leopardo, bambino–gazzella Ia. Fra il 1657 e il 1663, nei boschi della Lituania, alcuni cacciatori vedono in mezzo a un branco di orsi un essere dalla forma umana: lo catturano e si accorgono che è un fanciullo di circa 9 anni, che resiste alla cattura mordendo e graffiando. Ha la pelle e i folti capelli molto bianchi; la faccia coperta di cicatrici; gli occhi sono blu. Le membra sono forti e proporzionate; mangia erba, cavoli e carne cruda. Cammina a quattro zampe e usa rotolarsi per terra come gli orsi. Non emette altro suono che il tipico mormorio degli orsi; non imparerà mai a parlare bene, benché non mostri nessuna deficienza fisiologica; imparerà però a camminare solo sulle gambe e ad andare quando lo si chiama. Il fanciullo viene condotto alla Corte del Re di Polonia, che lo affida a un nobile polacco, il quale lo accoglie come servitore, benché di umano il fanciullo non mostri che il corpo. Le sue abitudini rimarranno sempre animalesche: non sopporterà mai né vestiti né scarpe né cappello; ed è felice solo quando può scappare nei boschi, dove con le 11

J.A.L. Singh, The Diary of the Wolf-Children of Midnapore (India), in Wolf-Children and Feral Man, cit., p. 110.

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lunghe unghie gratta ì tronchi degli alberi per succhiarne l’humus. Una volta accade che un orso, che aveva ucciso due persone, si avvicina al fanciullo senza fargli del male, ma, al contrario, gli accarezza il corpo e la faccia. IIa. Nel 1669, in un convento del sobborgo di Varsavia, alcuni cacciatori portano un fanciullo di 12–13 anni, dopo averlo catturato fra gli orsi. L’ambasciatore d’Olanda vede personalmente il fanciullo giocare nel cortile del convento: quando gli si avvicina il fanciullo sembra colpito dai suoi abiti, gli tocca i bottoni d’argento, li porta al naso e li annusa. Subito dopo si rifugia in un angolo e comincia a strillare stranamente con un suono simile a quello degli orsi. Una donna della servitù lo chiama e gli mostra un pezzo di pane, come lo vede il fanciullo salta a quattro zampe sulla panca dove è stato messo il pane e dopo averlo annusato lo prende con le mani, salta giù dalla panca rifugiandosi di nuovo nell’angolo dov’era prima e ricominciando lo strano ululio. Non parla, sebbene abbia un ottimo udito; ha qualche cicatrice sulla faccia. IIIa. Il Dr. Bernard Connor, medico privato del re Giovanni III Sobieski di Polonia, testimonia questo caso; lo stesso Re, nonché molti dei Consiglieri reali e altre alte personalità del reame si fanno garanti del fatto. Nel 1694 viene trovato tra gli orsi un fanciullo di circa 10 anni: è catturato e portato in un convento. Non mostra nessun uso di ragione, non parla, cammina a quattro zampe, e di umano ha soltanto la struttura. È sempre inquieto e selvaggio e cerca spesso di scappare. Alla fine si riesce a insegnargli la posizione eretta costringendolo con le spalle a una parete. Dopo che ha imparato a mangiare stando seduto a tavola, comincia anche a esprimere qualche pensiero con una voce roca e quasi inumana; ma se gli si chiede qualcosa della sua vita passata, non sa dirne nulla al pari di noi, se ci chiedessero della nostra attività di quando eravamo nella culla. IVa. La notizia di questo caso è in un trattato di Anonimo intitolato La vie et les sentiments de Lucilio Vanini, edito nel 1717, nel quale, appunto, si parla dell’agnostico Vanini, che fu mandato al rogo dal-

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l’Inquisizione nel 1619 per le sue teorie, possiamo dire, pre–evoluzionistiche sull’origine della razza umana secondo le quali un tempo l’uomo avrebbe camminato a quattro zampe. L’autore del trattato, in una nota a piè di pagina, riporta un caso, riferitogli da persona degna di fede, a conforto delle teorie del Vanini: viene trovato in Danimarca un fanciullo di 14–15 anni, che aveva vissuto nelle foreste con gli orsi e da essi non si distingueva che per la forma. Gli insegnano a parlare e in seguito egli dice di non ricordare nulla degli avvenimenti anteriori alla sua cattura. Va. Nel 1767, alcuni abitanti di Fraumark, della contea ungherese di Hont, inseguendo un orso di straordinaria grossezza, arrivano in un posto remoto sulle montagne, dove sicuramente nessun altro essere umano era arrivato prima; si stupiscono quindi molto di vedere delle impronte di piede umano sulla neve. Seguendo le tracce arrivano a una grotta nella quale trovano una fanciulla completamente nuda: è alta, robusta e sembra avere circa 18 anni; la sua pelle è bruna e lo sguardo è spaventato. Oppone una forte resistenza alla cattura, ma senza gridare o piangere. Infine riescono a portarla nell’asilo di Karpfen, nella regione di Atlsohl. La fanciulla vuole mangiare solo carne cruda, che divora con straordinario appetito, come pure radici e cortecce d’albero; rifiuta invece i cibi cotti. VIa. Nel 1887, nei pressi di Jalpaiguri, in India, viene trovata in una tana di orsi una bambina di circa 3 anni, che viene dapprima consegnata alla polizia di Jalpaiguri poi all’ospizio della città. Quando la fanciulla ha 8 anni, viene vista da un missionario della New Despensation Church, che ne ha compassione e la conduce alla Das Asram, un’istituzione filantropica di Calcutta, dove la fanciulla ancora si trovava nel dicembre del 1892. Al momento della cattura la piccola resiste ferocemente con morsi e graffi; cammina a quattro zampe; mugola a intervalli come un orso; mangia e beve come un orso, e se non fosse per i suoi lineamenti nessuno la potrebbe riconoscere come un essere umano. In seguito impara a camminare, bere, mangiare come un essere umano; e comincia a mostrare un qualche sentimento emotivo soprattutto attraverso il sorriso che spesso si trasforma in una sonora risata. Non imparerà mai

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a parlare, benché a un accurato esame il senso dell’udito e della vista risultino indenni. VIIa. George I. Maranz è il testimone oculare di questo caso. Nel 1937 egli visita una fanciulla quando, all’età di circa 9 anni, si trova ricoverata presso l’ospedale di Bakirkey in Turchia, diretto dal prof. Mazhar Osman, uno dei migliori scienziati turchi. La fanciulla si trova nel reparto di coloro che hanno dimenticato il proprio nome e la propria identità e vengono contrassegnati con dei numeri: la fanciulla è «la strana malata numero 326». Circa otto anni prima la bambina era stata rapita da un’orsa, in un bosco vicino al villaggio Mussalilar, all’età di 3 mesi, mentre la sorella maggiore stava raccogliendo fascine. Otto anni dopo, due cacciatori, inoltratisi nei boschi sull’Olimpo alla ricerca di orsi, catturano un’orsa e poco dopo sentono un grido agghiacciante: uno strano essere si avventa contro di loro cercando di graffiarli e morderli con molta forza. Infine riescono a catturare quello strano animale e lo riconoscono per una fanciulla di circa 8 anni. Il giorno dopo la portano a Istambul e l’affidano all’Ospedale di Bakirkey. Al momento della cattura la fanciulla sta sulle gambe ma con il corpo tutto spostato in avanti; emette il tipico suono degli orsi; ha una muscolatura straordinariamente sviluppata; ha le braccia considerevolmente lunghe, e i capelli, neri e grossi, le coprono la fronte. Cerca di attaccare chiunque le si avvicini. Durante i primi due giorni di permanenza nell’ospedale rifiuta qualsiasi cibo cotto, ma al terzo giorno manda giù qualsiasi cosa le si dia. Continua a mantenere l’andatura tipica dell’orso e non impara a parlare; le uniche parole che capisce sono: «vieni qui». VIIIa. La testimonianza di un bambino-capra ci viene da Procopio intorno al 550 d.C. Nel De Bello Gothico Procopio afferma di aver visto personalmente un fanciullo che, abbandonato dalla madre, è stato allevato da una capra: presso di questa viene ritrovato e gli danno nome Egisto. L’avvenimento è riportato come esempio degli orrori causati dalla guerra gotica. IXa. Intorno alla fine del sec. XVI, fonte diretta del bambino-vitello di Bamberger è Camerarius, il quale afferma di aver visto spesso

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il fanciullo alla Corte del Principe di Bamberger: è lo stesso fanciullo a raccontare di essere stato allevato dai buoi sulle montagne vicine. È straordinariamente agile e destro nel saltare e nel correre, specialmente a quattro zampe. A poco a poco, a contatto con gli esseri umani, acquista un comportamento normale e arriva perfino a sposarsi. Xa. Nel 1672, il Dr. Nicolas Tulp, Borgomastro e Sovrintendente del Ginnasio di Amsterdam, in qualità di medico ha preso in esame questo fanciullo–selvaggio. Si tratta di un ragazzo sui 16 anni, quando viene condotto ad Amsterdam, ma è originario dell’Irlanda, dove era scappato dai genitori nella prima infanzia, e aveva vissuto con delle pecore selvatiche. Il Dr. Tulp afferma che il ragazzo ha un corpo agile e in costante movimento; la carne è soda e la pelle brunita dal sole; le membra sono vigorose; il busto è piegato in avanti per l’abitudine a camminare a quattro zampe; la fronte è bassa, sfuggente e rigonfia sul grosso cranio. Nel complesso mostra un’ottima salute. L’atteggiamento è arrogante e tutto il suo comportamento è rozzo, senza paure e senza progetti: non assomiglia in nulla a quello umano. Non emette nessun suono articolato, ma bela come una pecora. Rifiuta cibi e bevande comuni e, al contrario, mangia soltanto erba e fieno. XIa. Nel 1931, Wilhelm Horn, dottore in Filosofia, Medicina e Chirurgia, dà notizia di una fanciulla ricoverata nell’ospedale di Salzburg: ha 22 anni e non si può dire brutta; è stata allevata in una stalla in mezzo ai maiali, dove è rimasta molti anni con le gambe incrociate; una delle gambe, infatti, è completamente deformata. La ragazza grugnisce come un maiale e i suoi comportamenti sono animaleschi, per nulla simili a quelli umani. XIIa. Il caso che riporto ora è quello di cui dà notizia diretta un articolo apparso nel 1920 sul bollettino della Società di Storia Naturale di Bombey. E.C. Stuart Baker, autore dell’articolo, ha modo di vedere il fanciullo durante una visita al villaggio Dihungi, dove il fanciullo, che ha circa 7 anni, vive col padre. È lo stesso padre a raccontare che il bambino fu rapito, quando aveva 2 anni, da una femmina di leopardo, mentre la madre stava lavorando nei campi presso il villaggio. Tre anni dopo il leopardo viene ucciso e vengono catturati

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due cuccioli assieme al bambino, che viene poi riconosciuto e reclamato dai genitori. Al momento della cattura il fanciullo corre velocissimo su mani e piedi, tanto che non riesce a tenergli dietro un adulto. Le ginocchia hanno dure callosità e le dita dei piedi sono piegate in su ad angolo retto12; le palme delle mani e i polpastrelli delle dita sono ricoperti da una pelle coriacea; la muscolatura è eccezionalmente sviluppata. Graffia e attacca chiunque; fa a pezzi e mangia con straordinaria rapidità ogni gallina che incontra nel villaggio; ha un olfatto sviluppatissimo e riconosce le persone dall’odore. Cinque anni dopo la cattura ha imparato a mangiare riso e vegetali; con molto stento riesce a tenersi in posizione eretta e abitualmente procede a quattro zampe. XIIIa. Quest’ultimo caso di fanciullo allevato da animali è un caso sui generis, nel senso che si tratta di un fanciullo trovato in un branco di gazzelle nel Sahara Spagnolo, che però non viene tolto dal suo ambiente d’adozione bensì semplicemente osservato in libertà. Nel 1960, Jean–Claude Armen, in viaggio nel Sahara Spagnolo, ascolta da alcuni indigeni la strana storia di un fanciullo che vivrebbe insieme con le gazzelle; incuriosito il Francese si fa condurre nel luogo dove questo fanciullo è stato visto, e da quel momento comincia il lungo appostamento d’osservazione di un così straordinario “animale”. Con queste parole Armen descrive la prima apparizione fugace del fanciullo in mezzo alle gazzelle: All’improvviso, bagliori blu sul capelli corvini, un’andatura di fanciullo dal corpo sottile e abbronzato si lancia sullo stesso cespuglio, si getta sulle radici sterrate, a denti scoperti, le scortica a colpi di lingua e le spezza freneticamente con gli incisivi. Una gazzella solleva la testa increspa il muso. Il fanciullo fa curiosamente la stessa cosa con le sue narici — e via!…Tutto è scomparso nel più profondo del crepaccio… Sono stato tradito dal vento, mi dico io; questo maledetto vento è cambiato mettendosi contro di me13.

Nei giorni seguenti Armen riesce a scoprire il rifugio di questo branco di gazzelle e si accampa nei dintorni, cercando di non farsi 12 13

p. 27.

Cfr. Amala e Kamala. J.C. Armen, L’enfant sauvage du grand désert, Delachaux et Niestlé, Neuchâtel 1971,

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sentire e di non disturbare in alcun modo. Sicché la seconda volta che vede il fanciullo ha modo di osservarlo attentamente: mostra 10 anni di età, ha due occhi a mandorla vivi e neri, un viso piacevole e luminoso; le caviglie sono assai più grosse del normale e chiaramente possenti, i muscoli sono sodi e frementi. Il fanciullo cammina e corre sia sulle gambe sia sulle mani contemporaneamente, e con la medesima velocità delle gazzelle. E tutti i suoi atteggiamenti sono completamente omologati a quelli delle gazzelle; mangia come loro (l’abbiamo visto prima), dorme accovacciandosi nella stessa identica posizione, e — cosa ancora più indicativa — comunica con le gazzelle con una serie di comportamenti e di “messaggi” propri di questo tipo d’animali. Ogni tanto una o più gazzelle, annusando i capelli del fanciullo, frugandovi dentro, glieli tirano a colpi di denti con piccoli movimenti a scatti della testa; nello stesso tempo si scambiano freneticamente una gran quantità di annusamenti e di leccate accompagnati da strani rumori “sussurrati” cui il fanciullo risponde con dolci lenti piccoli gridi gutturali a bocca chiusa. Questo scambio di effusioni avviene fra gazzelle della stessa età e dello stesso sesso, ma più spesso tra il fanciullo e una vecchia gazzella che sembra avere per esso una predilezione particolare: si scambiano continuamente leccate e colpi di naso muso a muso. Ma dopo oltre due settimane di osservazione, Armen si accorge che fra le gazzelle esiste un vero e proprio codice comunicativo, adoperato dal fanciullo esattamente come dagli animali coi quali vive. Questo codice ricorda ad Armen una serie di segnali silenziosi codificati, che sono usati dai Nomadi per la caccia alla gazzella e all’antilope, così articolati: 1. La posizione di profilo e le due braccia sollevate lateralmente significano: «Ho visto delle gazzelle di razza Dorcas»; 2. Le braccia leggermente sollevate e la mano sinistra piegata significano: «Ho visto delle antilopi di razza Addax»; 3. Il braccio e la mano sinistri dritti significano: «Ho visto delle gazzelle di razza Cerva–Robert»; 4. Il braccio e la mano sinistri paralleli al sole significano: «Molte cerve»; 5. Il braccio destro parallelo al sole col pollice in basso significa: «Fermati, ci sono cerve nelle vicinanze».

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In un modo, come dire, analogo le gazzelle si comunicano, per esempio, la distanza alla quale è stato trovato un posto con del cibo. Una gazzella si distacca bruscamente dal branco, fila via invisibile confondendosi col colore della sabbia e ritorna poco dopo; grattando per due volte con due colpi assai marcati il terreno sotto il suo zoccolo sinistro anteriore pare inviare un messaggio al fanciullo che subito si lancia nella stessa direzione dell’animale. Allo stesso tempo Armen sale sul suo cammello per andare a vedere di che cosa si tratta, e a circa un chilometro trova un cespuglio ancora verde e tutto fiorito; il fanciullo è ancora lì che si accanisce con gli incisivi, cercando contemporaneamente di sterrare il cespuglio con la mano. In questo modo Armen scopre la prima chiave di lettura di un simile codice di comunicazione, che si articola poi con vari colpi di zoccolo. Il messaggio solitamente viene rivolto prima al capo del gruppo, poi alle femmine gravide o con i piccoli, poi al fanciullo, poi al resto del gruppo; l’animale “messaggero” — quasi sempre un giovane maschio — si mette con la testa e con l’asse del corpo più o meno in direzione del luogo che interessa e ne ”segnala” la distanza così: 1. Un colpo alternato degli zoccoli anteriori significa una distanza doppia di quella detta prima (cioè circa km. 2); 2. Un colpo alternato degli zoccoli anteriori seguito da quello degli zoccoli posteriori significano una distanza tripla; 3. Un colpo simultaneo degli zoccoli anteriori seguito da quello degli zoccoli posteriori significa una distanza quadrupla; 4. Un colpo degli zoccoli a chiasmo (cioè uno zoccolo anteriore simultaneamente con uno zoccolo posteriore) significano una distanza doppia della 3 (circa km. 10–12). Per le distanze inferiori al chilometro le “segnalazioni” avvengono in questo modo: 5. Un solo colpo dello zoccolo anteriore sinistro significa una distanza di circa 800 metri; 6. Un solo colpo dello zoccolo anteriore destro significa una distanza di circa 500 metri; 7. Un solo colpo dello zoccolo posteriore sinistro significa una distanza di circa 300–350 metri; 8. Un colpo di muso verso la nuca sta per tutte le distanze inferiori alle precedenti.

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Ma oltre che con gli zoccoli (o con i talloni e le mani per quanto riguarda il fanciullo), le gazzelle comunicano anche con i movimenti della coda, delle orecchie, delle corna e della testa (ai quali corrispondono i movimenti delle punta delle dita o del cuoio capelluto o dei muscoli del viso del fanciullo), e un tale sistema di messaggi si diffonde da un punto all’altro di tutto il branco — fanciullo compreso — senza che però Armen riesca a decodificarne il significato. Quando, poi, un giorno nasce un piccolo, questo viene subito leccato dalla madre che immediatamente dopo spezza il cordone ombelicale e divora la placenta; a turno le gazzelle e il fanciullo lo vanno a riconoscere con un piccolo colpo di muso o di naso; prima le femmine della stessa età della madre, poi le femmine più vecchie, poi i maschi, poi il fanciullo e infine il più piccolo del branco. Armen torna una seconda volta, nel 1963, nel Sahara Spagnolo e ritrova il fanciullo: lo vede fermo a quattro zampe dietro un grosso cespuglio di euforbia; è più sviluppato; i muscoli sono più forti e sodi, il viso più incavato e meno rotondo; i peli del pube hanno ancora i caratteri infantili sicché Armen ne deduce che il fanciullo non è ancora in età puberale. Continuando i suoi appostamenti d’osservazione, Armen riesce a capire il significato di alcuni segnali che non era riuscito a decifrare la volta precedente. Un colpo di coda sta a significare che la gazzella ha percepito un qualche odore di cibo, e subito l’informazione viene trasmessa per via gerarchica: prima al leader — l’animale più vecchio — poi al fanciullo, poi al resto del branco in ordine di anzianità, le giovani femmine e i loro piccoli per ultimi; quindi il “segnale” ripercorre il tragitto inverso fino all’animale che l’ha emesso, e quest’ultimo corre subito verso l’origine dell’odore. La trasmissione di messaggi attraverso le orecchie sembra essere riservata alla segnalazione della presenza di un essere vivente insolito o pericoloso. Concludendo il suo lungo e ricco resoconto, Armen fa una sorta di elenco comparato degli elementi che il fanciullo ha preso dalla specie umana e quelli che ha acquisito dalle gazzelle: penso che sia interessante riportarlo a chiusura di questo caso.

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Elementi derivati dalla specie umana (prima dell’adozione da parte delle gazzelle, avvenuta probabilmente intorno ai 5–7 mesi): 1. La possibilità della stazione eretta per i tre quarti del tempo. 2. Sguardo espressivo, occhi mobili e varietà di espressioni. 3. Un letto di foglie per il riparo notturno. 4. Suzione del pollice. Elementi derivati dalle gazzelle 1. Il modo di salire sugli ammassi rocciosi. 2. L’odorato sviluppatissimo. 3. Il modo di annusare il vento, col collo teso e il naso increspato. 4. La vista assai acuta. 5. I segnali codificati delle mani, dei piedi, del naso e del cuoio capelluto. 6. La vitalità intensa. 7. I salti giganteschi, sia in corsa che da fermo, e il salto di grossi ostacoli. 8. I giochi frequenti propri delle gazzelle. 9. La valutazione ritmica binaria e multipla di 2 del codice comunicativo. 10. La pulizia del corpo fatta in conche argillose. 11. Il ritmo breve e irregolare del sonno. 12. La stazione a quattro zampe, per un quarto del tempo, con grande rapidità nella corsa. 13. La partecipazione alla vita di gruppo del branco e alla sua costituzione gerarchica. 14. Il leccare le ferite e il ricoprirle con gomma e/o argilla. 15. L’annusarsi naso a naso per riconoscersi e il leccarsi per la comunicazione affettiva. 16. Il lappare la brina e la superficie dell’acqua. 17. L’essere esclusivamente erbivoro (semi, radici, foglie, frutti), con una masticazione lenta. 18. Il marcare il territorio comune con orina ed escrementi. 19. Il modo di orientarsi.

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Conclusioni Al termine di questo capitolo possiamo trarre alcune conclusioni. I comportamenti dei fanciulli–selvaggi esaminati rivelano alcune costanti, che metterò in evidenza. Per quanto riguarda i bambini–lupo, esse sono: camminano a quattro zampe, mangiano e bevono alla maniera dei lupi, sono carnivori, rifiutano cibi cotti, hanno l’olfatto molto sviluppato, sono ostili all’uomo, non sopportano indumenti addosso, non parlano ma emettono suoni simili a quelli dei lupi, riescono a capire un tipo di comunicazione gestuale. Ed è importante sottolineare che tutto ciò avviene qualunque sia l’età al ritrovamento e/o al rapimento del fanciullo, e indipendentemente dal sesso. Per quanto riguarda i bambini–orso, le costanti sono queste: camminano a quattro zampe alla maniera degli orsi, mangiano e bevono come gli orsi, sono erbivori e carnivori, hanno l’olfatto molto sviluppato, rifiutano cibi cotti, non parlano ma emettono il tipico mormorio degli orsi, riescono a capire un tipo di comunicazione gestuale. E tutto ciò, di nuovo, indipendentemente dall’età al ritrovamento e/o alla cattura, e dal sesso. Per quanto riguarda il bambino–pecora, il bambino–vitello, la bambina–maiale, il bambino–leopardo e il bambino–gazzella, i comportamenti che essi hanno in comune tra di loro, con i bambini–lupo e i bambini–orso sono: camminano a quattro zampe, mangiano gli stessi cibi dell’animale che li ha allevati, sono ostili all’uomo, non parlano ma emettono i suoni tipici dei rispettivi animali presso i quali sono stati trovati. E possiamo dire che queste ultime quattro caratteristiche sono quelle comuni a tutti i fanciulli esaminati, allevati dagli animali, che sono — nei casi documentati — tutti animali quadrupedi. Insomma, quanto si può dire a questo punto è che l’animale uomo che non venga allevato in una comunità umana assume i comportamenti e alcune caratteristiche fisiche dell’animale presso il quale ha vissuto. Viceversa, soltanto una piccolissima percentuale riesce, una volta che sia ricondotta nella società umana, ad acquistare comportamenti e caratteristiche fisiche proprie dell’uomo. Dei 26 casi riportati, solo di 5 si dice che si è arrivati a un comportamento simile a quello dell’uomo; si tratta della bambina–lupo Kamala, del bambinolupo di Sultanpore (caso X), del terzo bambino–orso di Lituania (caso

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Capitolo Secondo

IIIa), del bambino–orso di Danimarca (caso IVa) e del bambino– vitello di Bamberger (caso IXa). Resta comunque il fatto che Kamala muore all’età di circa 17 anni, nove anni dopo la sua cattura. E per tutti e cinque i casi l’acquisizione di un comportamento umano è subordinata all’avvenuta capacità di parlare; per di più l’età alla quale i fanciulli sono stati ritrovati varia dai 4 ai 14–15 anni, e per due di essi (il terzo bambino–orso di Lituania e il bambino-orso di Danimarca — casi IIIa e IVa) è documentato il fatto che non ricordano nulla degli avvenimenti anteriori alla loro cattura. Voglio dire, con ciò, due cose. La prima riguarda il presunto limite biologico oltre il quale non è più possibile imparare a parlare, che Lenneberg pone ai 12–13 anni di età14: abbiamo visto che nei cinque casi di fanciulli selvaggi che hanno imparato a parlare questo limite è stato superato, come pure, negli altri ventuno casi in cui non c’è stata comparsa di comunicazione linguistica, non è stato sufficiente il fatto che il ritrovamento fosse avvenuto in tenerissima età perché si riuscisse a ottenere che questi fanciulli parlassero. La seconda cosa, invece, riguarda il fatto che è proprio l’acquisizione di una comunicazione tipicamente umana — come è quella verbale — a porre un limite discriminante fra l’animale uomo e l’animale non–uomo, ma non a livello biologico, bensì a livello socio–culturale: ciò che distingue l’uomo dall’animale tout–court non è la biologia, bensì la cultura, cioè la storia e la capacità di tramandarla in uno spazio–tempo dell’ordine del millennio.

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Cfr. E.H. Lennebrg, op. cit., pp. 176 sgg.

Capitolo Terzo FANCIULLI SOPRAVVISSUTI PER AUTOSOSTENTAMENTO: TOMKO E GLI ALTRI In questo capitolo mi occuperò del ritrovamento di fanciulli che, abbandonati in luoghi selvaggi, sono nondimeno riusciti a sopravvivere fidando unicamente sulle proprie forze e risorse. Includerò anche alcuni casi che forse potrebbero far pensare a un qualche intervento da parte di animali, ma, dal momento che la documentazione al riguardo non attesta che il ritrovamento dei fanciulli in questione sia avvenuto in un branco di animali, bensì ne riferisce come di individui isolati e indipendenti, ho ritenuto opportuno considerarli in quanto, appunto, isolati e indipendenti da qualsiasi tipo di società. Intendo, con ciò, rendere chiare le analogie e le diversità tra questi casi e quelli dei fanciulli allevati da animali. Ib. Ho già riferito del caso di Jean di Liegi nel primo capitolo, ora aggiungerò solo poche precisazioni fornite da altre fonti. Il fanciullo si perde nei boschi all’età di 5 anni, e nei boschi vivrà per sedici anni nutrendosi di frasche, radici e frutti selvatici, che riesce a trovare con il suo sviluppatissimo senso dell’odorato. Sempre attraverso l’odorato riuscirà, poi, a distinguere da tutte le altre persone la donna presso la quale sarà dato in custodia. Però a mano a mano che si abituerà ai cibi ordinari, perderà questo spiccato senso dell’olfatto. IIb. Molti autori citano il caso di due fanciulli trovati sui Pirenei nel 1717, ma i dati sono molto pochi. Si sa che camminano a quattro zampe e saltano da una roccia all’altra con la stessa agilità dei camosci: li incontrano alcuni uomini che stanno marcando gli alberi destinati alle costruzioni navali. IIIb. Nel gennaio del 1718, nei pressi di Cranenburg, da alcuni paesani — che l’avevano intravista spesso — viene catturata una fan-

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Capitolo Terzo

ciulla di circa 18 anni: all’infuori di una specie di grembiule fatto di paglia non ha niente indosso. Ha la pelle scura ruvida e dura, che dopo la cattura si spellerà; i capelli sono molto lunghi folti e cespugliosi; l’atteggiamento è quieto, tranquillo e sorridente. Al momento della cattura emette una sorta di balbettio che nessuno capisce, ma pare che in seguito impari a parlare. Certamente, però, imparerà a filare molto bene e acquisterà un aspetto del tutto normale. La fanciulla viene poi, da alcuni segni, riconosciuta dalla madre, che la riprende con sé. Si riesce, comunque, a ricostruire la storia di questo abbandono. La bambina viene rapita ad Antwerp, all’età di 16 mesi, da una donna che voleva servirsene per riscuotere l’eredità lasciatale da un mercante di Amsterdam dal quale era stata messa incinta. La storia è andata così: il mercante, in punto di morte, si dichiara pronto a riparare con la donna facendo un lascito di 5.000 dollari al figlio. Sennonché la donna il figlio non l’ha avuto perché ha abortito, allora organizza il rapimento della bambina per poter andare ad Amsterdam a prendersi i soldi. Ma sulla strada del ritorno abbandona, non si sa dove, la bambina. IVb. Nel luglio del 1724, un abitante di Hameln, in Sassonia, nei campi vicino alla città trova un fanciullo di circa 12 anni completamente nudo; facilmente, offrendogli due mele, riesce a farsi seguire fino in città, dove il Borgomastro ordina il ricovero del fanciullo all’ospedale dello Spirito Santo. Il ragazzo — al quale viene dato il nome di Peter — ha la pelle scura, cammina eretto e non parla, sebbene ci senta benissimo; annusa qualsiasi cosa gli venga data prima di mangiarla e, se non gli va, l’allontana scuotendo la testa: si nutre di fave, piselli, rape, gelsi, frutta e specialmente cipolle e nocciole. Imparerà, in seguito, a portare i vestiti e, con maggiore difficoltà, scarpe. Ma la sua dieta alimentare rimarrà sempre vegetariana. Mostra un grande godimento per la musica e comincia a saltellare quando la sente. Non imparerà mai a parlare, anche se sembra capire ciò che gli si dice. Comunque tutto il suo atteggiamento è quieto e remissivo. Nel 1726, un servitore di re Giorgio I d’Inghilterra, di nome Rautenberg, conduce Peter a Londra, dove se ne prende cura la Principessa del Galles — divenuta poi la Regina Carolina — che lo affida alle cure del Dr. Arbuthnot, il quale, però, dopo due mesi,

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ritenendolo un povero e irrecuperabile idiota, lo affida a un fattore dell’Hertfordshire, presso il quale Peter rimane fino alla sua morte, avvenuta nel febbraio del 1785. Vb. Nel settembre del 1731, sull’imbrunire, una bambina di 9-10 anni è vista entrare assetata nel villaggio di Songi nella Champagne, in Francia. Ha i piedi nudi e il corpo coperto di stracci e pelli di animali, in testa a mo’ di cappello ha una zucca svuotata; porta in mano un bastone col quale sferra un colpo mortale sulla testa di un cane che le si avvicina minaccioso. Cammina con movimenti velocissimi, tali che è difficile osservarli separatamente; si arrampica agilissima sugli alberi e altrettanto agile è nel nuoto. Si nutre di pesci e rane crudi, come pure di foglie, rami e radici. L’unico suono che emette è un grido terribile: Il grido che usava come linguaggio […] era qualcosa di terribile, particolarmente quando era causato da fame o da paura. Ella gridava anche se qualcuno che non conosceva le si avvicinava per toccarla1.

Ma quando si arrampica sulla cima di un albero è capace di imitare alla perfezione il suono di differenti uccelli a lei noti. Viene portata all’ospizio di Châlons, dove comincia l’opera di “rieducazione”: impara a parlare in modo distinto anche se brusco; il pane e la pasta sono i cibi cotti che preferisce, mentre le gallette e la carne cotta le provocano il vomito; l’acqua è solita berla succhiando da un secchio e stando sulle ginocchia, «like a caw». La Madre Superiora dell’ospizio le insegna a ricamare, cosa che la fanciulla impara a fare molto bene. Nel 1747 viene trasferita al convento di St. Menehould, dove riceve la Prima Comunione e la Cresima, e si prepara a diventare suora. M.lle Le Blanche — così viene chiamata — afferma di aver cominciato a pensare solo dopo essere stata in qualche modo educata: Dice che ha cominciato a pensare soltanto dopo una qualche educazione. Durante tutto il periodo che ha passato nei boschi non conosceva altra idea all’infuori della sensazione dei suoi bisogni e del desiderio di soddisfarli. Non ricordava né il padre né la madre né alcun altra persona o paese. Non 1

J.A.L. Singh & R.M. Zingg, op. cit., p. 254.

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Capitolo Terzo ricordava d’aver visto case prima d’allora, ma grotte e un certo tipo di capanne forse coperte di neve. Ma ricordava molto bene che spesso si dondolava sugli alberi e andava a caccia di animali. Credeva che gli alberi e la terra l’avessero generata2.

VIb. Nel 1744, in un fitto bosco dei Pirenei, viene scoperta una fanciulla di circa 16 anni: vi è stata abbandonata all’età di 9 anni. Quando viene ricondotta nel consesso umano è infelice e non desidera altro che tornare alla libera vita della selvaggia solitudine. VIIb. Sempre sui Pirenei, nel 1774, alcuni pastori vedono un uomo di circa 30 anni, molto alto, con i capelli come quelli di un orso, che è capace di saltare e correre come un camoscio. Ha un aspetto felice e un carattere quieto. Non sembra interessarsi a niente e a nessuno. Ogni tanto si avvicina alle capanne dei pastori, ma rifiuta il cibo che gli offrono. Prova un gran divertimento a spaventare le pecore e a disperdere il gregge; quando i pastori gli aizzano contro il cane, egli fugge velocissimo e imprendibile. Una mattina che un pastore tenta di prenderlo a calci l’uomo lo schiva ridendo. VIIIb. Nel 1781, l’antropologo austriaco Michael Wagner vede personalmente questo ragazzo a Kronstadt: era stato trovato pochi anni prima ai confini tra la Transilvania e la Valacchia, abbandonato a se stesso. Il ragazzo è ancora vivo nel 1784, quando Wagner torna a vederlo. Nel 1781 il ragazzo sembra avere 23–25 anni; è di taglia media e ha un aspetto estremamente selvatico; gli occhi sono piccoli, infossati e continuamente roteanti; le sopracciglia assai folte; la fronte fortemente obliqua; i capelli grigiastri corti e irti; il naso camuso; il collo gozzuto; la pelle giallastra e sporca; la bocca quasi sempre semiaperta perché, perlopiù, respira con questa; la lingua è quasi immobile. La schiena e il torace sono coperti di peluria; i muscoli delle braccia e delle gambe sono straordinariamente forti e sviluppati. Le mani sono callose e le unghie molto lunghe; sui gomiti e sulle ginocchia ci sono grossi indurimenti della pelle. Cammina eretto ma pesantemente, come bilanciandosi da un piede all’altro. Non parla affatto, ma emette 2

ibidem, p. 255.

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una specie di momorio incomprensibile, che si tramuta in un grido alla vista dei boschi e degli alberi. Non mostra interesse per niente e non esprime nessuna emozione né piacevole né spiacevole: diventa aggressivo solo quando ha fame o sete. Si ciba di foglie, erba, radici e carne cruda. Nel 1784 Wagner nota alcuni cambiamenti. Il ragazzo cammina con maggiore sicurezza; ha imparato a mangiare qualsiasi cosa, specialmente i legumi, e chiede da mangiare con suoni comprensibili, anche se non sa tuttavia parlare. Mostra uno spiccato senso imitativo, che però viene applicato soltanto alle situazioni immediatamente presenti al ragazzo ed è subito dimenticato, tranne per quanto riguarda i bisogni naturali come la fame, la sete, il sonno, e tutto ciò a essi concernente. Al contrario di tre anni prima, comincia a mostrare un qualche interesse per i suoni musicali, ma si spaventa molto quando Wagner, dopo aver suonato un pianoforte, prende la mano del ragazzo per fargli toccare i tasti. Se gli si mostra uno specchio, egli cerca l’immagine al di là di esso. IXb. Sempre l’antropologo Michael Wagner, nel 1793, incontra nei pressi della Contea di Zips, ai confini della Galizia, un uomo sui 30 anni dall’aspetto strano: ha la testa piuttosto larga, la fronte ampia e molto obliqua, gli occhi piccoli incassati e luccicanti, il naso largo e piatto, la bocca larga, la barba rossa, il petto quasi femminile, la pancia grossa, le gambe sformate, la pelle dal colorito bruno; è vestito solo di una lunga camicia. È noto agli abitanti del luogo perché d’estate l’uomo vive nelle foreste, ma d’inverno si rifugia nelle stalle e nelle baracche del paese. Mangia tutto quello che gli viene dato. L’unica sillaba che pronuncia è «ham» in concordanza con un movimento in avanti della testa che fa quando ha fame. Wagner lo porta a casa sua e si occupa di educarlo. Lo chiamerà Tomko. Tomko comincia prima a capire i gesti e poi la lingua; infine impara a parlare slovacco, ma con un linguaggio suo proprio che conserverà sempre: per esempio, chiama «bruciore» il fruscio del vento; chiunque porti una parrucca è un «soldato»; chiama «Simone e Giuda» la neve perché generalmente nei giorni di questi Santi comincia a nevicare. Non imparerà mai a contare e non ha nessuna idea del numero, sebbene si accorga perfettamente se manca un vitello dal pascolo.

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Capitolo Terzo

Xb. La testimonianza di questo caso è data dal Capitano dell’Honorable East India Company, John Macdonald Kinneir, il quale vede un povero essere seduto su un pezzo di feltro nel mezzo del mercato di Trebisonda in Turchia, esposto all’inclemenza del tempo: ha il corpo coperto di peluria e la voce assomiglia all’ululato di un cane; si dice che sia capace di divorare in una volta il cibo che mangerebbero otto persone. Lo informano che era stato trovato allo stato selvaggio nelle foreste. XIb. Questo caso e il seguente si sono verificati in seguito al fatto che dopo le guerre napoleoniche, in Germania, i paesi più colpiti sono ridotti in stato di grande miseria e sono molti i bambini rimasti senza parenti né amici. Molti di essi vengono ricoverati all’asilo di Overdyke: un giorno vi viene condotto un ragazzo cencioso e sanguinante, che non sa dire il proprio nome, sicché, essendo il giorno di S. Clemente, lo chiamano con questo nome. Alla richiesta di dove venga, il ragazzo risponde: «Dall’altra parte del fiume», e sono le uniche parole intelligibili che riesce a pronunciare, perché ad altre domande risponde in modo incomprensibile. Quando la sua mente si sarà un po’ più sviluppata riuscirà a raccontare quel poco che sa della sua storia: viveva con un contadino che lo aveva messo a guardia dei maiali e la notte si coricava insieme con essi. Siccome non gli davano abbastanza da mangiare, succhiava il latte dalle scrofe e mangiava l’erba. Camminava a quattro zampe e la familiarità con i maiali era tale che essi lo lasciavano montare in groppa. Il ragazzo ha la testa molto stretta e la fronte bassa; i denti sono molto sporgenti, e gli occhi spenti. Non riuscirà mai a correre o a camminare normalmente, sebbene non presenti deformazioni agli arti. È sempre incline al riso e all’allegria, ma una volta tenta di uccidere a colpi di bastone il suo benefattore che lo rimprovera per l’abitudine acquisita all’imprecazione, però scoppia a ridere quando lo portano via per metterlo in reclusione. XIIb. Anche questo fanciullo viene portato all’asilo di Overdyke: aveva imparato a vivere allo stato selvaggio nella foresta, e si avvicinava ai villaggi unicamente per rubare cibo. Si arrampica sugli alberi con straordinaria abilità per prendere uova e uccelli che divora ra-

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pidamente: abitudine che non ha mai smesso. Ha un’incredibile conoscenza degli uccelli e delle loro abitudini: ha imparato a distinguerli e a “chiamarli” con diversi e appropriati suoni. XIIIb. L’etnologo inglese Edward Burnett Tylor ricava la notizia di questo caso dal testo del missionario William Ellis, che racconta di due uomini scappati sulle montagne di Tahiti in seguito a una guerra fra tribù, e sulle montagne vissuti allo stato brado per alcuni anni. I due vengono trovati dai missionari in tempi diversi. Uno è completamente nudo, non risponde alle domande, non sembra capire quando gli si parla e mostra terrore alla vista degli uomini; rifiuta il cibo e l’acqua che gli vengono offerti e scappa la seconda notte dopo la cattura. L’altro uomo è d’aspetto selvaggio e scontroso, ma calmo; sembra mostrare interesse per qualcosa e il suo comportamento generale è quello di un innocuo lunatico. XIVb. Nel 1891, il Tenente Demetriades, Ispettore della riserva reale delle foreste del Pindo, in Grecia, durante un giro d’ispezione, vede un fanciullo mentre, camminando un po’ eretto e un po’ a quattro zampe, si avvicina a un gregge di pecore: il vecchio pastore che ne è a guardia gli dà un recipiente colmo di latte. Il pastore racconta all’Ispettore che il fanciullo è il figlio di un Romeno e di una donna di Kastania, la quale, rimasta in miseria alla morte del marito, ha abbandonato il più piccolo dei suoi cinque figli. Il bambino è scappato dal padre adottivo e si è rifugiato nei boschi dove ha vissuto per quattro anni. Durante l’estate si nutre del latte delle pecore; d’inverno, sulle montagne, si ciba di ghiande e radici. Non sa parlare, ma conosce assai bene i versi degli animali della regione e li imita perfettamente. XVb. Nel 1893, lo Zemidar Babu Bhagelu Singh del Distretto di Bhagalpore, in India, durante una battuta di caccia nella giungla, nei pressi del villaggio di Bazitpore, trova un fanciullo di circa 14 anni: è completamente nudo e non sa parlare, ma riesce a ridere e a emettere una sorta di chiacchiericcio. Non mangia cibi cotti, ma qualsiasi cosa cruda come pesci e rane. Quando va a caccia di questi animali procede a quattro zampe e dopo aver bene afferrato la preda, la divora come un felino. Non sopporta i vestiti e dorme soltanto sotto gli alberi.

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Capitolo Terzo

XVIb. Quest’ultimo caso è ampiamente e pertinentemente documentato da un professore di psicologia. Sicché lo adopererò per commentare tutta questa serie di ragazzi selvaggi. Alla fine del 1933, nelle foreste del Salvador, un fanciullo di circa 5 anni viene trovato da alcuni cacciatori (don Francisco Orozco, don Pantaleón Gonzales, don Marcos Penate e altri) dei Dipartimenti di Ahuachapan e di Sansonate. Il fanciullo viene affidato al capitano Salvador Parada, comandante della Polizia Dipartimentale di Sansonate e alle cure del prof. Jorge Ramirez Chulo, esperto di psicologia sperimentale. Il fanciullo ha capelli e unghie assai lunghi e sporchi, è nudo e ha il capo piegato verso il basso; tiene le braccia in atteggiamento combattivo; il suo linguaggio consiste in un grido e un urlo. Grida ogni volta che qualcuno gli si avvicina, e mangia il cibo che gli viene dato (carne, frutta, tortillas) solo se viene depositato sul pavimento della sua stanza e lasciato solo a consumarlo. Mentre dorme emette un mormorio inarticolato che «si può difficilmente distinguere da quello delle scimmie»3. Il suo viso non ha sorrisi né emozioni; non sopporta i vestiti; tenta spesso la fuga e viene sempre ritrovato sulla riva del fiume, arrampicato su un albero. Il prof. Chulo comincia la sua opera di “rieducazione” sfruttando la «potenza imitativa» del bambino. Sicché mette Tarzancito — questo è il nome che gli viene dato — a contatto con altri bambini, che premia ostentatamente quando, per esempio, hanno mangiato la minestra compostamente o, generalmente, quando si sono comportati bene, in modo da indurre Tarzancito a fare lo stesso. Ma se si comincia a modificare il suo atteggiamento psicologico (adesso, per esempio, sorride quando qualcosa è di suo gradimento), dopo tre mesi di scuola il bambino riesce a malapena a saper dire tre parole. E la cosa è tanto più significativa, se si tiene conto di un episodio, a mio avviso, sconcertante dal punto di vista linguistico. Un giorno Tarzancito assiste a una telefonata del Comandante del Dipartimento e subito dopo, rifacendone i gesti e indicando il telefono, ripete letteralmente, parola per parola, la conversazione appena ascoltata. Allora, a questo punto, il bambino è in grado di ripetere i suoni 3

J.R. Chulo, Complete Data and Studies on the primitive Child found in the Mountains of «El Irayol», in Wolf-Children and Feral Man, cit., p. 264.

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linguistici senza, però, capirne il significato e senza, quindi, essere in grado di produrli spontaneamente. Questo comportamento ricorda assai da vicino quello dei malati affetti da afasia sensoriale, con lesione dell’area temporale del cervello che costituisce il cosiddetto “analizzatore acustico”. Anche in questi malati, cioè, è conservata la possibilità organico–motoria di ripetere parole, ma l’effettiva ripetizione viene fortemente ostacolata e a volte totalmente impedita dalla mancata percezione del significato delle parole stesse4. Certamente, in questo secondo caso, il comportamento afasico è il risultato di un trauma fisiologico, cioè di un “guasto” a un meccanismo già organizzato, mentre per Tarzancito si tratta dell’assenza di una facoltà non ancora acquisita: quello che voglio dire è che in entrambi i casi, anche se per ragioni opposte, si ha la mancanza di un’operazione che è resa possibile solo dall’azione contemporanea di tutti i meccanismi cerebrali, i quali, a loro volta, diventano tali — cioè meccanismi — solo sotto l’azione continua di una educazione sociale, umana in questo caso. Infatti, come dice il professor Chulo «Essenzialmente per un’educazione integrale [Tarzancito] fu messo a contatto con la società»5. E il bambino oltre a imparare a vestirsi, lavarsi, mangiare a tavola, impara anche ad adoperare attrezzi agricoli, a leggere, a scrivere, a fare di conto, cosa, quest’ultima, che non riusciva assolutamente a fare anche dopo i primi successi educativi. Vorrei sottolineare questo aspetto “non–aritmetico” del comportamento di questo tipo di fanciulli perché è presente in più di un caso; e non ritengo il mio un rilievo ozioso, poiché sono del parere che la conoscenza dell’aritmetica — o della matematica, più in generale — sia quant’altre mai, inequivocabilmente, contrassegno di un’acculturazione tipica dell’animale-sociale-uomo, in quanto essa è resa possibile solo a certe speciali condizioni di storia umana. Al riguardo, ancora una volta, può essere utile confrontare quanto dice Lurija, trattando di pazienti affetti da “acalcolia”, in seguito a lesioni cerebrali nella zona parietooccipitale del cervello. Scrive Lurija: È noto che le operazioni sui numeri hanno acquisito un carattere astratto in un tempo relativamente tardivo; inizialmente esse si riducevano alla geometria e ancora oggi, in larga misura, continuano a conservare un implicito 4 5

Cfr. A.R. Lurija, Le funzioni corticali superiori nell’uomo, Giunti, Firenze 1967, pp. 109 sgg. J.R. Chulo, op. cit., p. 265.

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Capitolo Terzo carattere spaziale. […] Indagini condotte recentemente […] dimostrano che durante i primi stadi di sviluppo del bambino la concezione del numero e le operazioni di calcolo hanno ancora il carattere di un’attività oggettiva e presuppongono una predisposizione degli elementi del calcolo nel campo spaziale esteriore: solo gradualmente queste operazioni si rendono implicite e sono sostituite dal pensiero aritmetico dapprima oggettivo, concreto, e poi astratto 6.

Mi sembra chiaro, cioè, che una tale operazione di astrazione può effettuarsi unicamente se sono dati particolarissimi presupposti elaborati nel corso di millenni di abitudini socio–culturali specifiche. Abbiamo visto che anche Tomko (caso IXb) non è in grado di comprendere il significato dei numeri, e questo, evidentemente, perché il linguaggio di Tomko è fatto tutto di cose, è, cioè, estremamente concreto e basato sull’analogia; manca, quindi, della necessaria operazione di astrazione che permette la costruzione di una aritmetica: essa — in definitiva — non risulta necessaria all’economia dell’esistenza di Tomko; il tipo di società in cui egli vive gli permette di sopravvivere anche senza la costruzione dei numeri. Se poi ripensiamo un momento all’acquisizione di un comportamento linguistico da parte di Kamala, non possono non tornarci in mente gli studi di Piaget, Vygotsky e Lurija sul modo in cui i bambini “normali” imparano a parlare7. Sul fatto, cioè, che nello sviluppo del linguaggio nel bambino si assiste a una percezione e a una conseguente organizzazione della realtà che presenta un graduale passaggio dal più concreto al più astratto in una successione di operazioni mentali determinate dall’interazione del bambino con l’ambiente in cui vive. Cito, per tutti, un passo di Vygotsky: Possiamo ora riaffermare, fondandoci su una solida base di dati, che l’assenza di un sistema costituisce la differenza psicologica cardinale che distingue i concetti spontanei da quelli scientifici. Si potrebbe dimostrare che tutte le caratteristiche del pensiero del bambino descritte dal Piaget (come il sincretismo, la giustapposizione, l’insensibilità alla contraddizione) sono dovute alla mancanza di un sistema nei concetti spontanei del bambino – conseguenza di rapporti di generalità non sviluppati. Per esempio, disturbato da una contraddizione, il bambino dovrebbe considerare le asserzioni con6 7

A.R. Lurija, op. cit., p. 170. Cfr. Piaget, 1966, 1967, 1968, 1969; Vygotsky, 1966; Lurija, 1971.

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traddittorie alla luce di alcuni principi generali, e cioè entro un sistema. Ma quando un bambino, negli esperimenti del Piaget, dice di un oggetto che esso, posto nell’acqua, va a fondo perché è piccolo, e di un altro che va a fondo perché è grosso, egli fa semplicemente dichiarazioni empiriche di fatti che seguono la logica delle percezioni. Nella sua mente non è presente alcuna generalizzazione del tipo: “La piccolezza determina sempre l’affondamento di un oggetto”, e pertanto le due asserzioni non sono sentite come contraddittorie. Questa mancanza di distanza dall’esperienza immediata […] spiega le caratteristiche del pensiero del bambino 8.

Ma torniamo, ora, ai fanciulli sopravvissuti per autosostentamento e cerchiamo di evidenziare le caratteristiche che hanno in comune. Alcune osservazioni, però, le riserverò per il capitolo successivo che sarà interamente dedicato a Victor dell’Aveyron: il caso più scientificamente documentato di “ragazzo selvaggio” vissuto da solo nelle foreste. Estraiamo, innanzi tutto, quei casi in cui i fanciulli camminano a quattro zampe. Allora, si tratta dei due fanciulli dei Pirenei (caso IIb, che saltano da una roccia all’altra con la stessa abilità dei camosci), di Clemente di Overdyke (caso XIb, che aveva vissuto con i maiali), del fanciullo di Trikkala (caso XIVb, che cammina un po’ eretto e un po’ a quattro zampe), del fanciullo di Bazitpore (caso XVb, che procede a quattro zampe quando va a caccia di pesci e rane), e anche del fanciullo di Kronstadt, (caso VIIIb), che — quando è visto da Wagner — cammina malamente eretto, però ha delle grosse callosità ai gomiti e alle ginocchia, come in tutti i casi dei fanciulli allevati dagli animali, i quali procedono normalmente a quattro zampe. Intanto esaminiamo questo aspetto relativo ai fanciulli abbandonati a se stessi. E possiamo affermare che probabilmente per tutti e cinque i casi il fatto di camminare a quattro zampe è il prodotto di un’imitazione degli animali coi quali i fanciulli sono stati maggiormente a contatto: ciò mi pare particolarmente evidente per quanto riguarda i due fanciulli dei Pirenei, Clemente di Overdyke e il fanciullo di Bazitpore. Mi pare, cioè, di poter dire che, ancora una volta, il comportamento dell’animale uomo è fondamentalmente determinato dalle condizioni ambientali in cui è posto: il camminare con stazione eretta viene sostituito da un altro tipo di andatura, se per l’ambiente in cui l’animale uomo vive è più consono quest’altro tipo di andatura. 8

L.S. Vygotsky, Pensiero e linguaggio, Giunti–Barbera, Firenze 1969, p. 143.

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Capitolo Terzo

Quanto, poi, al tipo di cibo di cui si nutrono questi fanciulli, prevale nettamente una dieta vegetariana, anche se compaiono pesci e rane (fanciulla di Songi e fanciullo di Bazitpore), uova di uccelli e uccelli (secondo fanciullo di Overdyke), carne cruda (fanciullo di Kronstadt), latte di scrofa (Clemente di Overdyke), latte di pecora (fanciullo di Trikkala), mentre Tomko, il fanciullo di Trebizond e Tarzancito mangiano qualsiasi specie di cibo. Dunque, anche le abitudini alimentari variano a seconda della situazione e dell’ambiente nel quale questi fanciulli hanno vissuto: al contrario dei fanciulli allevati dagli animali, che hanno esclusivamente le medesime abitudini alimentari — come, d’altra parte, tutte le altre abitudini comportamentali — degli animali dai quali sono stati nutriti. Infatti, la stessa conclusione si può trarre a proposito della questione linguistica. Abbiamo visto che neppure questi fanciulli, al momento del loro ritrovamento, sono in grado di parlare; ma anche questo aspetto di somiglianza con gli altri fanciulli, in realtà, denota una diversificazione. Notiamo, infatti, che pur quando è presente un modo di comunicazione orale nei fanciulli autoallevatisi, esso non assomiglia al suono tipico di nessun animale in particolare (tranne per il caso Xb), ma spesso si tratta di un mormorio o balbettio incomprensibile (casi IIIb, VIIIb, IXb, XIb, XVb, XVIb), oppure di un grido (casi Vb e VIIIb); qualcuno è capace di ridere (casi VIIb, XIb, XVb), e qualcuno ha imparato a imitare il verso degli animali a lui più familiari (casi Vb, XIIb, XIVb). E allora penso che sia arrivato il momento di parlare di ciò che Danilo Mainardi9 chiama “autoimprinting”. Voglio dire, cioè, che i fanciulli autoallevatisi non hanno ricevuto un imprinting da parte di qualche animale socializzato; non hanno, cioè, fatta propria una serie di comportamenti tipici di una determinata specie attraverso l’apprendimento alla sopravvivenza, apprendimento che resta fissato e rimane immutato per tutta la durata dell’esistenza dell’animale; bensì essi, per così dire, non hanno avuto un “maestro di vita” all’infuori di se stessi e quindi la percezione di se stessi è stato l’apprendimento-guida nei confronti dell’ambiente esterno. E ciò, ovviamente, ha favorito i comportamenti specifici della specie homo sapiens, tenendo anche in considerazione il fatto che il pri9

Cfr. D. Mainardi, Il cane e la volpe, Rizzoli, Milano 1976, p. 32.

Fanciulli sopravvissuti per autosostentamento: Tomko e gli altri

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mo impatto con il mondo, questi fanciulli l’hanno avuto in una società di umani. Ciononostante, dei 16 casi riportati, soltanto per 5 di essi si può dire che i ragazzi ritrovati hanno imparato a parlare: si tratta della fanciulla di Cranenburg (caso IIIb), della fanciulla di Songi (caso Vb), di Tomko (caso IXb), di Clemente di Overdyke (caso XIb) e di Tarzancito (Caso XVIb). Esaminiamoli uno per uno. L’abbandono della fanciulla di Cranenburg avviene quando ella ha poco più di un anno, e vive nelle foreste per ben 17 anni! Eppure è in grado di emettere una specie di balbettio, e il suo atteggiamento è sorridente, per nulla spaventato dalla vista degli uomini. Inoltre imparerà anche, e molto bene, a filare; imparerà, cioè, un’attività tipica della società degli uomini. Come avviene nel caso della fanciulla di Songi, che imparerà a ricamare con altrettanta maestria, oltre che a parlare in modo comprensibile e — cosa ancora più importante — a ricordare la sua condizione precedente al ritorno fra gli esseri umani: cosa questa che nessuno dei fanciulli allevati da animali, che furono poi in grado di parlare, è stato capace di fare. Quanto a Tomko, Wagner riferisce che egli è prima in grado di capire i gesti eppoi la lingua, e che a parlare impara in un modo tutto suo particolare, che fa sempre diretto riferimento alle cose, accomunando le loro qualità simili: un’azione di sfregamento è comune al “bruciore” della pelle e al “fruscio” del vento; la parrucca del soldato è per Tomko l’elemento che lo caratterizza e “soldato” sarà chiunque porti una parrucca; la neve, quello strano fenomeno che si verifica solitamente nei giorni di Simone e Giuda, per Tomko si chiamerà non «neve», bensì «Simone e Giuda». È, questo di Tomko, un processo di apprendimento della lingua assai simile a quello dei normali bambini vissuti in un ambiente umano, un processo che — come abbiamo già detto — va dal concreto all’astratto, al sempre più astratto: solo che Tomko riesce a fare solo il primo passo, quello che, appunto, permette di riconoscere le caratteristiche comuni a due oggetti, e non riesce a fare il passo successivo, che è quello di isolare la qualità generalissima applicabile a una estesa serie di oggetti: operazione che ha ormai superato le “cose” e che da esse può prescindere. Clemente di Overdyke aveva, probabilmente, già imparato a parlare prima del suo abbandono, e la cosa interessante sta nel fatto che, privato di ogni contatto con gli esseri umani, disimpara un tipo di

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Capitolo Terzo

comunicazione che evidentemente non gli serve per la sopravvivenza. Solo al rinnovato contatto con i suoi simili riapprende a usare le parole, sebbene non riesca più ad adoperare un’andatura soltanto sulle gambe e continui ad andare a quattro zampe. Dell’apprendimento della lingua da parte di Tarzancito ho già detto ampiamente voglio ora sottolineare soltanto il fatto che il suo educatore fa leva specialmente sulle capacità imitative del fanciullo, per evidenziare che Itard ha adoperato un metodo analogo, seppure molto più raffinato, per Victor, senza però riuscire a far parlare il ragazzo. Allora, concludendo l’argomento linguistico, c’è da dire che dei 17 (incluso Victor dell’Aveyron) fanciulli sopravvissuti per autosostentamento, poco meno di un terzo, e cioè 6, riescono a produrre una comunicazione orale di tipo umano, e anche questa volta l’età del ritrovamento è assai variabile: va dai 5 ai 30 anni; per di più, nel caso della fanciulla di Cranenburg, il suo abbandono è avvenuto all’età di 16 mesi soltanto. Come pure, negli altri 12 casi in cui i fanciulli non hanno imparato a parlare, l’età del ritrovamento varia tra i 12 e i 23–25 anni. Cioè, di nuovo — mi sembra chiaro — viene smentita un’età biologica per la capacità linguistica, a favore di una “età socio–culturale”. A questo punto vorrei dire soltanto di altri due comportamenti comuni a questo tipo di fanciulli selvaggi. Il primo riguarda la particolare acutezza del senso dell’olfatto (Jean di Liegi e Peter di Hameln); il secondo riguarda la sensibilità alla musica (Peter di Hameln e il fanciullo di Kronstadt): entrambi questi aspetti compaiono anche in Kaspar Hauser, fanciullo vissuto in totale isolamento. E mentre la prima caratteristica è condivisa anche dai fanciulli allevati dagli animali, altrettanto non si può dire per la seconda: ciò non è forse da addebitare al fatto che i suoni musicali hanno una melodia che ricorda quella del fraseggio parlato? Voglio, cioè, ancora sottolineare come sia fondamentale l’essere stati “imprintati” da una società animale, di qualunque animale si tratti, per lo sviluppo di tutto l’individuo, e come, d’altra parte, la comunicazione linguistica sfugga a questo tipo di imprinting biologico e consista, invece, in un addestramento tutto culturale, che ha bisogno di continue verifiche sociali per poter sussistere.

Capitolo Quarto VICTOR DELL’AVEYRON Dedico un intero capitolo al caso di Victor dell’Aveyron perché riassume in sé tutti i problemi suscitati dal tentativo di educare alla vita sociale normale un fanciullo vissuto per conto proprio allo stato selvaggio, e perché la stupenda e drammatica fatica di Jean Itard offre l’occasione di numerosi ripensamenti. Alla fine del 1798, tre cacciatori catturano nei boschi intorno a Caune, nel Distretto di Aveyron, in Francia, un fanciullo di 11–12 anni completamente nudo. Viene preso a fatica e condotto a Caune, dove è affidato a una vedova. Ma dopo una settimana il ragazzo fugge e si rifugia sulle montagne, e lì resta fino a quando si presenta spontaneamente in una casa del cantone di Saint–Sermin, dove rimane per due o tre giorni. Da lì viene trasferito all’ospizio di Saint–Affrique, e poi a Rodez, dove rimane per parecchi mesi presso il naturalista Bonnaterre. Per ordine del Ministro degli Interni, alla fine del 1799, il fanciullo viene condotto a Parigi e qui affidato all’Istituto per sordomuti, da dove lo preleva Jean Itard, venticinquenne ed entusiasta studente di medicina prossimo alla laurea, per nutrirlo ed educarlo. Nel 1801, Itard pubblica il suo primo rapporto su Victor — questo è il nome che ha dato al ragazzo —, che comincia con queste parole: Gettato su questo globo senza forze fisiche e senza idee innate, incapace di obbedire da se stesso alle leggi costitutive del suo organismo che lo destinano alla prima schiera della gerarchia degli esseri, l’uomo può trovare soltanto in seno alla società quel posto eminente che gli fu assegnato nella natura e sarebbe, senza la civiltà, uno degli animali più deboli e meno intelligenti: verità, indubbiamente, risaputa, ma che non è stata ancora rigorosamente dimostrata1.

E così descrive il ragazzo trovato nei boschi: Si vide un fanciullo disgustosamente sporco, affetto da movimenti spasmodici e spesso convulsivi, che faceva incessantemente avanti e indietro nella 1

J. Itard, Il fanciullo selvaggio, trad. e note di P. Massimi, Armando, Roma 19792, p. 21.

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Capitolo Quarto stanza come certi animali in gabbia, mordendo e graffiando coloro che lo servivano; infine, indifferente a tutto, incapace di prestare attenzione a qualche cosa. […] gli occhi, privi di fissità, senza espressione, erravano vagamente da un oggetto all’altro incapaci di fermarsi su alcuno e, per di più, erano così poco esercitati dal tatto che non distinguevano un oggetto in rilievo da un oggetto dipinto; l’organo dell’udito era insensibile sia ai più forti rumori che alla musica più dolce; quello della voce era ridotto a un completo mutismo ed emetteva soltanto un suono gutturale e uniforme; l’odorato, privo di ogni educazione, accoglieva con la stessa indifferenza i profumi gradevoli e la fetida esalazione delle immondizie di cui era pieno il suo giaciglio; infine, l’organo del tatto si trovava limitato alle funzioni meccaniche della pressione dei corpi2.

Itard ricostruisce la possibilità che il ragazzo sia vissuto nei boschi per sette anni e che, quindi, vi sia stato abbandonato all’età di 4–5 anni, e «se a quell’epoca possedeva già qualche idea e qualche parola in virtù di un inizio di educazione, tutto questo deve essere stato cancellato dalla sua memoria per effetto dell’isolamento»3. Quindi, il programma educativo di Itard si articola in cinque obiettivi: Primo obiettivo: fargli amare la vita in società, rendendogliela più piacevole di quella che allora vi conduceva e, soprattutto, più simile a quella che da poco aveva abbandonato. Secondo obiettivo: risvegliare la sensibilità nervosa coi più energici stimolanti e talora sfruttando i più vivaci affetti dell’animo. Terzo obiettivo: estendere la sfera delle sue idee, sviluppando in lui nuovi bisogni e moltiplicando i suoi rapporti con gli esseri circostanti. Quarto obiettivo: condurlo all’uso della parola, provocando l’esercizio dell’imitazione mediante l’imperiosa legge della necessità. Quinto obiettivo: esercitare per qualche tempo sugli oggetti dei suoi bisogni fisici le più semplici operazioni della mente, per poi trasferire l’applicazione di queste ultime sugli oggetti della sua istruzione4.

Forse, però, questo incredibilmente ottimo programma è carente dal punto di vista affettivo, nel senso che i risultati di Itard probabilmente sarebbero stati ancora migliori, e avrebbero ottenuto di far parlare Victor, se egli avesse tenuto maggiormente conto del fatto che i 2

J. Itard, op. cit., pp. 27–28. ibidem, p. 33. 4 ibidem, p. 34. 3

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legami affettivi giocano un ruolo importantissimo in tutti i processi di apprendimento: tant’è che il ragazzo mostrerà più attaccamento nei confronti della signora Guérin — alla cui custodia è affidato — che non verso lo stesso Itard. Comunque, innanzi tutto si cerca di risvegliare in ogni modo gli organi di senso del fanciullo, mettendogli, per esempio, del tabacco nelle narici, senza però che questo gli provochi il minimo starnuto; oppure producendo rumori molto forti, che però lo lasciano indifferente (non così il rumore di una noce schiacciata, il che evidentemente dimostra che Victor non è sordo, ma reagisce solo ai rumori noti ed essenziali alla sua sopravvivenza); o, ancora, abituandolo a frequenti bagni caldi, in modo che cominci ad avvertire quella differenza fra il caldo e il freddo che gli avrebbe fatto apprezzare l’utilità dei vestiti e, quindi, la necessità di vestirsi da sé; per sviluppare la sensibilità generale della pelle, gli si fanno massaggi per tutto il corpo. Itard tenta, cioè, di stabilire tra tutti gli organi di senso di Victor «quei rapporti simpatici che sono parte costitutiva della sensibilità dei nostri sensi»5, che Lurija (160 anni dopo) chiama “sintesi sensitive”. E infatti, dopo qualche tempo, Victor impara a vestirsi da solo, e un giorno che lo si vuole costringere a fare il bagno nell’acqua non sufficientemente calda, si arrabbia fortemente e immerge la mano della signora Guérin nella vasca. Come pure non prende più con le mani le patate bollenti, bensì col cucchiaio; nel contempo migliora pure l’odorato: la prima volta che starnutisce la paura è tale da farlo gettare sul letto; si affina anche di più il senso del gusto e mentre poco dopo il suo arrivo era capace di mangiare le cose più disgustose, trascinandole di qua e di là frammischiate alle sue feci, ora è capace di gettare quanto ha nel piatto, se vi è caduto un corpo estraneo. Per rendere più efficace il suo insegnamento Itard adopera anche un sistema di ricompense, che non risulta affatto costoso perché questo «figlio della natura» si accontenta di pochissimo: di qualche noce o una castagna, di «un raggio di sole catturato con uno specchio e proiettato qua e là sul soffitto della sua stanza; un bicchiere di acqua versato a goccia a goccia e da una certa altezza sull’estremità delle sue dita mentre egli si trovava nella vasca da bagno; oppure una scodella di legno, con un po’ di latte dentro, messa a galleggiare nella vasca e 5

ibidem, p. 39.

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Capitolo Quarto

che, per le oscillazioni dell’acqua si spostava pian piano fino a giungere, tra alte grida di gioia, a portata delle sue mani»6. Gli unici due sensi che si mostrano refrattari a qualsiasi educazione sono la vista e l’udito, «indubbiamente, perché questi due sensi, molto meno semplici degli altri, avevano bisogno di un’educazione particolare e più lunga»7. Infatti (e, lo constateremo anche per la vista nel caso di Kaspar Hauser) questi due sensi sono molto più complessi e — come dice sempre Itard — «per imparare a parlare non è sufficiente percepire il suono della voce altrui, bisogna anche saper apprezzare l’articolazione di questo suono; due operazioni ben distinte e che esigono, da parte dell’organo, condizioni diverse»8. Queste asserzioni di Itard vengono verificate alla luce dei recenti studi di Lurija, il quale afferma: La percezione dei suoni verbali si realizza con la stretta partecipazione dell’apparato articolatorio e solo nel corso dell’esperienza attiva dell’articolazione acquista il suo carattere definitivo. […] Il processo di analisi acustico-articolatoria ha dapprima un carattere esplicito e, come dimostrano le analisi elettromiografiche, gradualmente si automatizza. […] L’articolazione dei suoni del linguaggio, come il processo della loro percezione acustica, si perfeziona poi secondo le leggi dell’analisi e della sintesi, ossia secondo le leggi della differenziazione, con l’elezione dei segni essenziali (fonemici) e l’inibizione di quelli non essenziali; con questa sola differenza: che tali segni con carattere di segnale9 che stanno alla base dei suoni verbali sono definiti dal sistema della lingua e posseggono un carattere complesso e sociale per la loro origine e il loro aspetto generalizzato 10.

Con reiterati sforzi da parte di Itard, Victor comincia a prestare attenzione ai suoni linguistici, tra l’altro il nome «Victor» viene scelto proprio perché il ragazzo mostra d’essere sensibile al suono della «o» aperta; ma si è ancora ben lontani dall’aver ottenuto un comportamento linguistico da parte di Victor. Infatti, quando il suo maestro tenta di fargli abbinare la parola «lait» alla scodella piena di latte, che viene ostentatamente porta al ragazzo, senza però consegnargliela fino a che 6

ibidem, p. 43. ibidem, p. 45. 8 ibidem, p. 53. 9 Lurija adopera il termine “segnale” nel senso generico di “indice significativo”. 10 A.R. Lurija, op. cit., p. 108. 7

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non abbia ripetuto la parola «lait», Victor, dopo alcune torturanti prove, disperatamente la pronuncia, ma essa starà a significare solo l’espressione del piacere di avere finalmente ottenuto il tanto desiderato cibo, e non il cibo stesso, come ha modo di notare Itard medesimo. Comunque a prova del fatto che Victor non manca della possibilità organico–fisiologica di pronunciare parole, bensì manca di un udito e quindi, di un’articolazione “sistematizzati” sta la circostanza che egli riesce a pronunciare, oltre a «lait», anche «la» e «li»: quest’ultimo viene presto modificato in «gli», cosa che Itard annota come strana, dal momento che Victor è riuscito ad articolare la «l mouillé» subito, mentre per i bambini in genere essa risulta tra le pronunce più difficili; riesce poi ad articolare tutte le vocali, tranne la «u», e altre due consonanti oltre la «l mouillé» «l» e «d». Data la sua incapacità di esprimersi verbalmente, anche Victor — come Kamala — ricorre alla pantomina, e così: Quando arriva l’ora della passeggiata, egli si presenta a più riprese dinanzi alla finestra e dinanzi alla porta della sua stanza. Se si accorge che la governante non è ancora pronta, dispone dinanzi a lei tutti gli oggetti necessari alla sua toilette e, spinto dall’impazienza, giunge persino al punto di aiutarla a vestirsi. Fatto ciò, scende per primo e tira con le proprie mani il cordone della porta. Giunto all’Osservatorio, la sua prima preoccupazione è chiedere del latte; e lo fa presentando una scodella di legno, che non dimentica mai, uscendo, di mettersi in tasca e di cui si è munito per la prima volta il giorno successivo a quello in cui aveva mandato in frantumi, nella medesima casa e per il medesimo uso, una tazza di porcellana. Sempre all’Osservatorio, per accrescere il piacere delle sue serate, gli si usa da qualche tempo la cortesia di trasportarlo su una carriola. Una volta sperimentato questo tipo di svago, appena gliene viene la voglia, se nessuno si presenta per soddisfarla, rientra in casa, afferra qualcuno per il braccio, lo conduce in giardino e gli mette tra le mani i manici della carriola, nella quale immediatamente prende posto. Se si resiste a questo primo invito, si alza, torna ai manici della carriola, la sospinge per un po’ intorno intorno, poi torna a sedervisi, immaginando senza dubbio che, se i suoi desideri non vengono accontentati, è perché non li abbia chiaramente manifestati. Viene il momento di pranzare? Le sue intenzioni appaiono ancora più evidenti. Apparecchia lui stesso la tavola e presenta a madame Guérin i piatti con i quali ella deve discendere in cucina a prendere il cibo. Se poi mangia con me in città, tutte le sue richieste sono rivolte alla persona che ci serve a tavola: è sempre ad essa che si presenta per essere servito. Se questa finge di non aver

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Capitolo Quarto capito, egli colloca il piatto accanto alle portate che intanto divora con gli occhi. Se anche questa manovra non produce alcun risultato, prende una forchetta e batte due o tre colpi sull’orlo del piatto. Ancora niente? Allora perde ogni ritegno; immerge il cucchiaio o addirittura la mano nel vassoio e in un batter d’occhio ne trasferisce il contenuto nel proprio piatto. Altrettanto espressiva è la sua maniera di manifestare i sentimenti dell’animo e soprattutto l’impazienza e la noia. Molti curiosi sanno come, con una franchezza naturale che ha ben poco da spartire con la cortesia, si affretti a congedarli quando, stanco della lunghezza delle loro visite, presenta a ciascuno, senza commettere errori, il suo bastone, i suoi guanti, il suo cappello, e li spinge pian piano verso la porta, che poi chiude rumorosamente alle loro spalle11.

È importante rilevare il fatto che Victor è tanto capace di produrre quanto di capire questo “linguaggio d’azione”, se viene effettuato da qualcun altro, dal momento che Itard ritiene questo un autentico modo di esprimersi primitivo che si evolve sotto la spinta di bisogni nuovi, i quali necessitano di nuovi mezzi di comunicazione. E sull’imposizione della necessità di trovare altri modi per soddisfare i propri bisogni Itard basa tutto quello che potremmo definire un insegnamento linguistico specifico. Per prima cosa Itard, seguendo il metodo d’istruzione adoperato con i sordomuti, fa su una lavagna il disegno di alcuni oggetti, come una chiave una forbice un martello, e vi pone sopra gli oggetti rispettivi, mostrando tutta l’operazione a Victor varie volte; quindi cerca di farsi portare dal ragazzo l’oggetto corrispondente alla figura indicatagli col dito, ma Victor non capisce; allora Itard, sfruttando il particolarissimo gusto per l’ordine che ha il suo allievo, appende a un chiodo i vari oggetti in corrispondenza delle loro rappresentazioni, e così, infatti, riesce a ottenere che Victor li ridisponga secondo l’ordine voluto. Ma presto Itard si rende conto che il comportamento di Victor è dovuto al suo semplice senso dell’ordine e non all’abbinamento tra l’oggetto e la sua raffigurazione; sicché decide di complicare l’esercizio in modo tale da costringere Víctor a non far più solo affidamento sull’ordine seriale degli oggetti, ma a porre una relazione fra l’oggetto e la sua figura: finalmente Victor riesce a condurre in porto l’operazione, facendo sperare al suo maestro di poter passare al gradino successivo dell’istruzione che, per quanto riguarda i sordo11

J. Itard, op. cit., pp. 61–62.

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muti, consiste nel sostituire il disegno dell’oggetto con il disegno alfabetico della parola indicante l’oggetto. Questa sostituzione i bambini sordomuti riescono a farla tranquillamente, ma non altrettanto Victor, poiché — dice Itard — «Dalla figura di un oggetto alla sua rappresentazione alfabetica la distanza è enorme», distanza che — aggiungo io — i bambini sordomuti riescono a superare soltanto grazie al fatto che, al contrario di Victor, sono nati e cresciuti in un ambiente umano12. Itard, allora, appronta altri esercizi basati sul riconoscimento di pezzi di cartone variamente formati e colorati: Victor deve riconoscerli prima in base al colore, e poi unicamente in base alla forma. E solo dopo che il ragazzo è riuscito a superare brillantemente anche le prove più difficili e ambigue, Itard passa alle lettere dell’alfabeto, facendone una copia di cartone e un’altra di metallo: mette quelle di cartone in una cassettina opportunamente scompartimentata e sopra di esse quelle di metallo. Questa volta Victor è in grado di collegare la figura delle lettere all’ordine in cui si susseguono nelle caselle, ma non al senso della loro differenza e tanto meno, quindi, alla loro relazione con le cose. Allora Itard ricorre al “linguaggio d’azione”, e una mattina pone le quattro lettere metalliche per la parola «lait» sopra un tavolo, la sig. Guérin vi si avvicina, osserva attentamente la scritta, va poi a prendere la scodella del latte e la porge a Itard, che fa finta di bere. Passato qualche minuto, Itard si avvicina a Victor e gli porge le quattro lettere metalliche, poi, mentre con una mano indica la tavola dalla quale le lettere sono state appena tolte, con l’altra offre a Victor la scodella col latte. Il ragazzo fa immediatamente l’operazione giusta, anche se in modo sbagliato, perché dispone le quattro lettere sul tavolo, ma in senso inverso, cosicché la parola risulta «tail» e non «lait». Itard gli segnala l’errore, mostrandogli quale lettera deve spostare e dove metterla, affrettandosi a consegnargli la scodella del latte nel momento stesso in cui le lettere sono state rimesse nella successione esatta. Dopo cinque o sei prove di questo tipo Victor si dimostra capace non solo di ordinare giustamente le lettere della parola «lait», ma anche di afferrare il rapporto tra la parola e la cosa. Sta di fatto che otto giorni dopo, prima 12

A proposito della relazione oggetto/lettera dell’alfabeto, vorrei rimandare al chiarificatore saggio di F. Albano Leoni in Studi Germanici, 1 (1972), pp. 99–120.

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Capitolo Quarto

di recarsi in casa Lemeri dove abitualmente riceve in dono del latte, Victor prende dal casellarío e si mette in tasca le quattro lettere per «lait», e, una volta arrivato a destinazione, le dispone ordinatamente sul tavolo per ottenere ciò che desidera. Tuttavia, cinque anni più tardi, nel suo secondo rapporto su Victor, Itard dice: Notai che Victor, anziché riprodurre certe parole, con le quali l’avevo familiarizzato, per chiedere gli oggetti che esse significavano e manifestare il desiderio o il bisogno che ne sentiva, vi ricorreva solo in determinati momenti e sempre quando aveva sott’occhio l’oggetto desiderato. Così, per esempio, sebbene il latte gli piacesse moltissimo, solo nel momento in cui era abituato a prenderne e proprio nell’istante in cui stava per essergli offerto si decideva a formulare la parola relativa, cioe a formarla nel modo convenuto 13.

Itard, cioè, si rende conto — anche attraverso altri esperimenti fatti con Victor — che il ragazzo ha imparato quello che oggi si chiamerebbe il ‘senso’ della parola e non il suo ‘significato’14, ha cioè colto il rapporto situazionale tra una parola e una cosa che immediatamente le corrisponde, e non la relazione che può intercorrere tra una parola e varie cose uguali o simili fra loro. E questo, in definitiva, vuol dire che il mondo della rappresentazione di Victor funziona ancora sulla base del modello e non su quella del sistema; egli è in grado di riconoscere i simboli, ma non li adopera secondo il loro valore linguistico astratto. Perché ciò avvenga occorre una perfetta ambientazione con il tipo di società dell’uomo, ambientazione che si manifesta mediatamente, appunto, per mezzo della lingua. Penso che una chiarificazione di questo possa essere fornita, ancora una volta, da Lurija: A differenza dell’animale, l’uomo nasce e vive in un mondo in cui lo circondano oggetti creati dalla società e in un mondo di persone con le quali egli entra in determinati rapporti. Ciò, sin dal principio, forma i suoi processi psichici. I riflessi naturali del neonato (suzione, riflesso di prensione, ecc.) si riorganizzano e si trasformano sotto l’influsso degli oggetti ai quali egli si rivolge. Si formano nuovi schemi motori sul «modello» di tali oggetti, si determina un’assimilazione dei movimenti ai loro substrati oggettivi. Lo stesso 13 14

J. Itard, op. cit., p. 104. Cfr. T. De Mauro, Senso e Significato, Adriatica, Bari 1971.

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si può dire della percezione umana, che si forma sotto la diretta influenza del mondo oggettuale delle cose che hanno esse pure una derivazione sociale e sono il prodotto di ciò che Marx chiamò, in senso lato, «industria». […] La genesi sociale delle funzioni psichiche superiori, la loro formazione durante il processo dell’attività obiettiva e nel corso dei rapporti interumani definiscono […] la loro strutturazione mediata. […] La rievocazione mediata riflette il carattere essenziale della strutturazione delle funzioni psichiche superiori. […] Nella mediazione dei processi psichici svolge un ruolo essenziale il linguaggio. […] La parola non si limita a significare gli oggetti del mondo esterno, ma ne isola le qualità fondamentali e li introduce in un sistema di rapporti con gli altri oggetti. Grazie alla presenza del linguaggio l’uomo è nelle condizioni di evocare il modello corrispondente all’oggetto e di operare su di esso in assenza dell’oggetto medesimo 15.

Infatti, più oltre, trattando dei malati affetti da una sindrome nella zona dei lobi frontali del cervello, che è quella deputata al coordinamento ultimo e unificante di tutte le organizzazioni cerebrali, Lurija scrive: Un ruolo importantissimo nella genesi dei disordini gnosici propri dei malati con lesioni frontali è svolto da quest’alterazione del processo di confronto tra il modello reale e la sua interpretazione onde vien meno la possibilità di correggere le risposte errate. […] Malgrado l’integrità degli adeguati modelli delle lettere i malati di questo gruppo continuano a lungo a toccare ogni elemento delle lettere, senza isolare i punti corrispondenti al massimo di informazione e senza trarne conclusioni sul tipo di lettere presentato. […] In essi il processo di esplorazione degli elementi che compongono la lettera si trasforma rapidamente in uno stereotipo inerte che continua a riprodursi indipendentemente dall’informazione effettivamente contenuta in ogni percezione. Si può dunque pensare che in questi malati sia alterato il processo di confronto dell’informazione ricevuta con i modelli delle possibili figure, onde la loro attività conoscitiva perde l’elettività che è propria dell’individuo normale16.

Questa sorta di processo inverso dal “sistema” al “modello”, dalla “metafora” alla “analogia”, risulta ancora più chiaro dai due passi seguenti: Se […] al malato affetto da una marcata «sindrome frontale» viene presentata una metafora o un proverbio (come «cuore di pietra» e «non dir quattro fin che non l’hai nel sacco»), egli è in grado di ripeterli correttamente e sembra 15 16

A.R. Lurija, op. cit., pp. 34–36. ibidem, pp. 295–296.

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Capitolo Quarto comprenderne il senso riposto. Tuttavia egli non è in grado di spiegare il senso di tale locuzione. Il senso traslato dell’espressione non risulta dominante ma è sostituito dalle associazioni fondate su analogie esteriori. Questo fenomeno si manifesta molto chiaramente se le condizioni del compito vengono rese più complesse e il malato viene, per esempio, invitato a scegliere fra tre frasi quella il cui senso corrisponde ad un dato proverbio. In tal caso l’analisi effettiva del significato della costruzione verbale è sostituita dalla scelta della frase che contiene parole simili17. Ancor più profondamente alterato era il comportamento di una malata affetta da un tumore intracerebrale dei lobi frontali la quale, una volta, nell’atto di attizzare una stufa rimescolò il carbone con la scopa e in un’altra occasione, in luogo delle tagliatelle, fece bollire a lungo delle strisce di scorza di tiglio: in entrambi i casi la contaminazione era stata provocata dalla vaga rassomiglianza tra scopa e attizzatoio e tra tagliatelle e strisce di scorza di tiglio. Un fatto analogo fu osservato da B.V. Zejgarnik […] il malato, affetto da una grave lesione frontale, aveva chiesto al medico di poter uscire; questi spalancò la porta e il paziente avviatosi e incontrata la porta aperta di un armadio, vi entrò18.

Insomma, la patologia cerebrale mette a nudo e fa ridiventare esplicite quelle operazioni mentali che, per un vizio di abitudine, troppo spesso si è soliti considerare come le più “naturali”. Allo scopo di chiarire come, in realtà, tali operazioni, richiedano un “apprendimento” e un esercizio continuo per poter diventare, appunto, delle “operazioni mentali”, forse risulta utile riportare alcuni passi di diversi studiosi che si sono interessati dei disturbi verificatisi nella funzione linguistica di un essere umano. In un saggio intitolato L’afasia di sviluppo e il ritardo «specifico» del linguaggio, Giorgio Sabbadini scrive: In questi casi, più che l’articolazione dei suoni, dei fonemi e delle parole è importante insegnare a stabilire legami con la realtà oggettiva corrispondente. Le associazioni audio–visive, senso–motorie sono la premessa per dare significato alle parole e quindi per realizzare una terapia dei disturbi del linguaggio ad alto livello di integrazione. In generale si può affermare che l’addestramento alla comprensione dei significati deve precedere la terapia articolatoria. […] È indispensabile che vi sia «simultaneità» nell’associazione del suono o della parola al suo appropriato significato. È utile la «ripetizione» dell’esperienza presumendo che in ogni caso vi siano problemi di «memorizzazione». Si devono usare parole che abbiano significato riferibile ad oggetti 17 18

ibidem, p. 306. ibidem, p. 270.

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e, successivamente, parole che rappresentano un’azione implicando il bambino stesso nell’esecuzione dell’azione. Per quanto riguarda i verbi, per esempio, è utile far comprendere al bambino che cosa significa «camminare» e «correre», facendogli compiere queste azioni specifiche e ripetendo più volte, al mometito giusto, le parole corrispondenti19.

E come vedremo fra poco, sarà proprio questo il metodo usato da Itard per far comprendere a Victor il significato delle parole e dei verbi in particolare. Mary Lou Rush, nel saggio intitolato Istruzione programmata per bambini sordi, mette in evidenza come un comportamento linguistico esibito da una persona normale non trovi affatto riscontro nelle persone affette da sordità congenita: L’esperienza ha dimostrato che i segni visivi comunemente usati per sottolineare delle informazioni, ritenuti molto significativi per le persone che operano normalmente, hanno uno scarsissimo significato per i sordi. […] Una ricerca di Conrad suggerisce che il materiale presentato visivamente ad una persona di udito normale, è immagazzinato e ricordato prevalentemente sotto forma di immagini uditive. È tuttora sconosciuto quali immagini utilizza il bambino sordo per conservare il materiale appreso20.

Sempre sul problema dell’apprendimento linguistico da parte dei bambini sordi, scrive Gino Baldan: Il pensiero astratto, come è noto, rappresenta un processo psichico che viene assimilato e quindi reso con molta difficoltà da soggetti sordi. È opinione comune che il sordomuto sappia esprimere meglio il suo pensiero con segni che con simboli. È per questo che il linguaggio gestuale viene usato con frequenza da questi soggetti, quando sono fra loro, e questo succede in quanto il gesto è una espressione più vicina al loro modo di pensare21.

19 G. Sabbadini, L’afasia di sviluppo e il ritardo «specifico» del linguaggio, in I disturbi del linguaggio, Etas Kompas, Milano 1968, pp. 210–211. (Cfr. anche Afasia e disfasia in A. Cippone De Filippis, Turbe del linguaggio e riabilitazione, Armando, Roma 19781). 20 M.L. Rush, Istruzione programmata per bambini sordi, in I disturbi del linguaggio, cit., p. 507. 21 G. Baldan, Sordità e disturbi dell’udito, in I disturbi del linguaggio, cit., p. 477. (Cfr. anche M. Del Bo–A. Cippone De Filippis, La sordità infantile grave. Nuove prospettive mediche e nuovi metodi di rieducazione, Armando, Roma 19781).

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Comportamento questo che abbiamo verificato in moltissimi casi di “ragazzi selvaggi”. Allora, per tornare a Victor, la sua incapacità educazionale — e non biologica — di estendere il modello (basato su un’analogia immediata tra oggetto e sua rappresentazione) a un sistema (costituito dalla reciprocità di rapporti astratti dei simboli tra di loro) deriva dal fatto che egli — molto spesso con violenti moti di impazienza — mostra di non capire l’utilità degli estenuanti esercizi cui viene sottoposto, tanto più che Itard tende a perfezionarli di continuo, allontanandoli progressivamente dalla soddisfazione degli immediati bisogni del ragazzo; tentando, cioè, di farli diventare gradatamente più “astratti”. Mi pare ovvio che Victor si ribelli e identifichi questa inutilità esistenziale con un’assenza di utilità degli oggetti coi quali viene a contatto, e questa è la ragione che, in ultima analisi, gli impedisce di assimilare, per esempio, il suo particolare libro con un altro libro qualsiasi. E quanto mai saggia è la risoluzione di Itard di «stabilire l’identità degli oggetti mostrando all’allievo l’identità dei loro usi o delle loro proprietà; si trattava di fargli capire quali qualità giustificano l’attribuzione del medesimo nome a cose in apparenza diverse; in una parola, si trattava di insegnargli a considerare gli oggetti non più sotto il profilo delle loro differenze, bensì in base alle caratteristiche comuni»22. Il che comporta far transitare il pensiero di Victor da un tipo logico primario, quello dell’analogia, che produce il senso simbolico–figurale modellistico, al tipo logico secondario, quello della metafora che produce il significato simbolico–categoriale sistemico. Ovvero, occorre operare il passaggio da un pensiero olistico, che delimita un tutto dotato di senso rispetto a un esterno indifferenziato e perciò insensato, a un pensiero analitico, che organizza internamente il tutto delimitato dal senso in parti costituenti e interconnesse in successioni opportune e perciò significative. Il pensiero olistico è linguisticamente primario e semantico; il pensiero analitico è linguisticamente secondario e sintattico. Così il maestro cercherà di far sperimentare al suo allievo l’esistenza di un uso generico e quella di un uso specifico degli oggetti dei quali il ragazzo si serve: il primo potremmo definirlo “impiego” dell’oggetto e il secondo “funzione” dell’oggetto. A dimostrare che Vic22

J. Itard, op. cit., p. 113.

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tor ha capito questo duplice aspetto delle cose che gli stanno intorno; sta il fatto che — come dice Itard — egli manifesta la «facoltà d’inventare», poiché una volta, trovandosi solo nella sua stanza alle prese con un pezzo di gesso troppo piccolo, e ricordandosi che alcuni giorni prima il suo maestro per risolvere la medesima difficoltà della scrittura sulla lavagna ha usato un portagessi, e non avendone uno sotto mano, il ragazzo se lo costruisce da sé adoperando un vecchio spiedo per camini abbandonato in un angolo della camera. È da questo momento che Itard nota una rivoluzione nella mente di Victor, per cui «scomparvero spontaneamente tante abitudini meccanicamente ripetitive che l’allievo aveva contratto e costituenti il suo modo usuale di dedicarsi alle piccole occupazioni che gli erano prescritte»23. Itard, allora, dà inizio al difficile lavoro di scomposizione linguistica degli oggetti complessi; e per fare una scomposizione linguistica si rende necessario operare prima una scomposizione materiale, affinché Victor capisca il senso di ciò che gli si vuole spiegare. Sicché Itard smembra letteralmente un libro, scrivendone contemporancamente sulla lavagna il nome dei vari pezzi, mentre li porge a Victor; solo quando il nome delle varie parti si è ben fissato nella memoria del ragazzo, Itard le ricompone e Victor immediatamente indica la parola «libro». Direi che in questo caso è attuato per intero e in modo assolutamente inequivocabile quel processo dalla classe al componente e dal componente alla classe che, ne I fondamenti della teoria del linguaggio24, Hjelmslev dice essere l’operazione fondamentale per la costituzione di un sistema linguistico; dove per “classe” s’intende l’insieme dei componenti linguistici e per “componente” s’intende l’elemento primo linguisticamente significativo. Nel caso di Victor, la “classe” è costituita dall’insieme dei nomi delle singole parti che formano un libro, e il “componente” dal nome di ciascuna singola parte del libro medesimo. Infatti, è soltanto attraverso l’acquisizione della possibilità di operare una “divisione” e una “somma” che Victor può essere messo in grado di arrivare a operare una astrazione dagli oggetti materiali, e quindi una successiva elaborazione delle loro sole rappresentazioni simboliche. 23 24

ibidem, p. 116. Cfr. L. Hjelmslev, I fondamenti della teoria del linguaggio, Einaudi, Torino 1968.

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Dopo questa sorta di “scomposizione in fattori” del nome–sostantivo, Itard passa alla spiegazione dell’aggettivo. Per far sì che Victor colga la differente estensione della superficie di due libri, uno in —18° e l’altro in — 8°, Itard fa posare alternativamente la mano del ragazzo sulla copertina dei libri, in modo da fargli toccare con mano che la prima volta il libro viene ricoperto totalmente dalla mano del ragazzo e la seconda, invece, solo per metà. Alla successiva richiesta di indicare il nome dell’oggetto questa volta Victor esita, e allora Itard scrive su quattro pezzi di carta le parole «libro», «libro», «grande», «piccolo», quindi li accoppia nel modo corrispondente alla rispettiva grandezza dei libri, che mostra a Victor, poi toglie le etichette, che rimescola assieme, e infine chiede a Victor di ridisporle sui libri: l’esperimento riesce perfettamente. Per una riprova Itard presenta a Victor due chiodi di differente lunghezza, ai quali il ragazzo deve applicare i cartellini «grande» e «piccolo», e anche questa volta l’operazione viene eseguita correttamente e prontamente. Per la spiegazione del «verbo», il medico illuminista di nuovo adopera una metodologia strabiliantemente “moderna”: esegue materialmente le azioni che fa con i vari oggetti, scrivendone subito dopo l’infinito verbale sulla lavagna; così, per esempio, scrive «gettare» dopo aver effettivamente gettato una chiave, ovvero «raccogliere» dopo averla effettivamente raccolta. Victor impara tanto bene che le volte in cui le combinazioni possibili risultano di difficile rappresentazione, come nel caso di «strappare pietra» o «tagliare scodella» o «mangiare scopa», egli sostituisce alle azioni indicate da questi verbi altre più compatibili, e perciò adopera un martello per rompere il sasso e butta per terra la scodella che si rompe, ma non trovando una buona soluzione per «mangiare scopa», anziché il verbo cambia il sostantivo e mangia un pezzo di pane. Itard, poi, vuole insegnare al suo allievo a scrivere: per riuscirci comincia con l’educarlo all’imitazione dei movimenti necessari alla scrittura, in un primo tempo, e a quella dei segni sulla lavagna, in un secondo tempo. In tal modo Victor dapprima riesce a ricopiare le parole delle quali sa già il significato, successivmente a riprodurle senza copiarle e infine a usare una quasi–scrittura, se non proprio una calligrafia, per esprimere i propri bisogni. Attraverso un analogo processo di imitazione (dei muscoli facciali, questa volta) Itard tenta di insegna-

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re a Victor anche a parlare; ma dopo una lunga e faticosa serie di esercizi si vede costretto a rinunciare, perché Victor non riesce a emettere altro che alcuni informi monosillabi, assai meno distinti di quelli che era stato capace di pronunciare nei primissimi tentativi, dei quali ho già riferito. Ho detto che Victor arriva a possedere una quasi–scrittura e non una scrittura vera e propria perché le indagini di Lurija hanno dimostrato che la scrittura (nel senso di «lingua scritta») per attuarsi ha bisogno di una precedente analisi e sintesi acustica, la quale costituisce il preciso “programma” sul quale si fonda quella realizzazione grafica dei suoni linguistici appunto, che è la scrittura. Detto in altri termini, si può scrivere soltanto se si sa già parlare, poiché si sa parlare solo quando si è imparato a localizzare e a pertinentizzare i fonemi25, e perciò la scrittura di Victor non può essere una scrittura in senso proprio; piuttosto, direi che, nel suo caso, si ha solo una specie di traduzione meccanica da un tipo di percezione in un altro. Cioè Victor si limita a trasportare la visione diretta dei caratteri alfabetici in un’attività tattile appresa su imitazione senza che questa attività si configuri poi come autonoma rispetto al “linguaggio d’azione”26. In conclusione, si può dire che l’educazione di Itard, per quanto straordinariamente pertinente e raffinata, non è riuscita a porre Victor in grado di rendersi conto che le “cose” hanno un “nome”, che può venire adoperato indipendentemente dalle cose stesse per significare una qualsiasi situazione; e ciò — diciamolo ancora una volta — altro non vuol dire se non che Victor è riuscito ad acquistare un “modello” situazionale della realtà, ma non un “sistema” della sua possibile raffigurazione. Questo discorso sul modello e sul sistema verrà ulteriormente spiegato e chiarito nel corso del prossimo capitolo, nel quale verrà esaminato il caso di Kaspar Hauser che, per certi versi, offre maggiori spunti per un approfondimento di tale argomento.

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Adopero il termine “fonemi” nel generico senso definitorio di “suoni linguistici” e non in quello linguisticamente specifico di “classe di foni”. 26 Penso che con lo stesso argomento si possa risolvere il quesito “paleolinguistico”, che chiede se si sia prodotta prima l’espressione orale o quella scritta.

Capitolo Quinto FANCIULLI ALLEVATI IN CONDIZIONI DI TOTALE ISOLAMENTO: DA KASPAR HAUSER A GENIE La documentazione che mi è stato possibile reperire riguardo a questo tipo di “ragazzi selvaggi” è relativa a quattro casi, il primo — in ordine cronologico — è quello di Kaspar Hauser (1828); due, quelli di Anna e Isabelle, sono pressoché contemporanei, il ritrovamento delle due fanciulle essendo avvenuto nel 1938, a pochi mesi di distanza l’uno dall’altro; il quarto, infine, quello di Genie, è più recente: la fanciulla è stata ritrovata nel 1970. Tratterò per primi i casi delle due bambine — dei quali, del resto, ho già parlato nel primo capitolo — perché per quelli di Kaspar Hauser e di Genie c’è una maggiore quantità di dati, il che mi permetterà di adoperarli per sintetizzare il discorso su questo tipo di fanciulli. Ic. Nel febbraio del 1938, nella soffitta di una fattoria della Pennsylvania, negli Stati Uniti, viene trovata una bambina di quasi 6 anni legata a una sedia, emaciata e muta. Non è stata oggetto della benché minima attenzione fin dalla nascita ed è stata nutrita quasi esclusivamente con latte di mucca, e pesa solo 31 kg.; raramente si muoveva dalla sedia e non aveva ricevuto nessuna sorta di istruzione. Anna — questo è il suo nome — è una figlia illegittima che la madre ha nascosto subito dopo la nascita per evitare la collera di suo padre. Dopo la sua scoperta, Anna viene portata in un asilo pubblico per bambini ritardati e in un asilo privato un anno e mezzo dopo. Anna vivrà soltanto per altri quattro anni. Nel frattempo impara a camminare, a vestirsi, a giocare con gli altri bambini e a parlare un po’: sa chiamare per nome gli assistenti e formula qualche frase per esprimere i propri desideri. IIc. Nel novembre del 1938, nell’Ohio, viene trovata in condizioni di isolamento un’altra bambina, Isabelle. Questa volta, però, insieme

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Capitolo Quinto

con lei c’è anche la madre, una sordomuta, che è stata relegata con la figlia illegittima dentro una stanza buia, isolandola dal resto della famiglia. Il cibo viene passato attraverso la porta e lasciato sul pavimento. Dopo la sua scoperta, Isabelle viene portata via e affidata alle cure dei dottori e degli psicologi dell’ospedale infantile di Columbus, nell’Ohio. Sulle prime Isabelle si comporta come un animale selvatico: è timorosa e ostile, non ha nessun linguaggio ed emette solo uno sgradevole gracidio; e sembra sorda, tanto i suoi sensi non sono stati usati. Sebbene il punteggio del suo Quoziente di Intelligenza sulla scala Standford–Binet la ponga ai 10 mesi di età, viene ugualmente intrapreso un programma di addestramento linguistico. Ci vuole una settimana di intenso lavoro per ottenere una prima vocalizzazione. Tuttavia, poco più di due mesi dopo Isabelle comincia a comporre frasi; nove mesi dopo è capace di abbinare le parole alla scrittura di una pagina stampata e riesce a scrivere molto bene. Così Isabelle passa attraverso i normali stadi dello sviluppo linguistico con tappe grandemente accelerate: fa in due anni il lavoro di apprendimento normalmente svolto in sei anni. Intanto, all’inizio del 1939, le gambe, che erano piegate, si distendono; il femore assume la sua normale posizione nell’estate del 1940. All’età di 8 anni e mezzo Isabelle ha un Q.I. normale e non è facilmente distinguibile dagli altri bambini della sua età. Prima di affrontare il caso di Kaspar Hauser, penso che ci siano da dire alcune cose importanti su Anna e Isabelle. Ho già detto nel primo capitolo che il modesto recupero di Anna molto era dovuto al fatto che la madre era una debole di mente, ora vorrei aggiungere che, perdipiù, le condizioni dell’isolamento di Anna sono ancora più dure di quelle di Isabelle. Infatti, Anna sta completamente sola dalla nascita fino all’età di 6 anni e la sua alimentazione è quanto mai povera. Isabelle, invece, divide la sua reclusione con la madre e questo, indubbiamente, insieme con una alimentazione migliore, le permette di sopravvivere con una più alta probabilità di recupero. Sappiamo — o dovremmo sapere — bene quanto è importante per il bambino appena nato il continuo contatto con la madre, e quanto importante è il tipo di nutrizione per lo sviluppo corporeo e mentale. A questo proposito va senz’altro citato un chiarificatore passo del libro di Piero Angela intitolato Da zero a tre anni.

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Angela riferisce di due bambini gemelli negri, che vivevano abbandonati dalla madre in una stanzetta alla periferia di Boston: la storia viene raccontata dal prof. Peter Wolf dell’Università di Harvard: «Questi due gemelli praticamente erano cresciuti da soli, quasi senza cure materne: la madre (separata dal marito) era quasi sempre fuori casa, si occupava pochissimo di loro. A volte si assentava per due o tre giorni, lasciando ai bambini solo il cibo per nutrirsi. Quando intervenne la magistratura, essi vennero ricoverati nel nostro istituto. Al momento del ricovero avevano due anni e mezzo, ma non sapevano ancora camminare, si spostavano a quattro zampe. Se qualcuno si avvicinava, strillavano e mordevano, sembravano proprio degli animaletti. È bene precisare che questi bambini non erano minorati; tuttavia, quando li abbiamo esaminati il loro elettroencefalogramma assomigliava a quello di un bebè di sei mesi. È cominciata così l’opera di rieducazione, affidata a personale specializzato. Tutti i loro progressi sono stati seguiti e annotati. Abbiamo potuto constatare che molto rapidamente essi hanno recuperato certe capacità, anche se imparare a camminare ha richiesto qualche tempo. Le attività mentali, invece sono assai più lente; solo dopo quattro anni e mezzo sono entrati in possesso di un linguaggio utile. Ancora oggi, a sette anni, hanno un vocabolario limitato, e non riescono a scrivere o a leggere bene.» [Angela chiede] «Non presentano, dal punto di vista medico, lesioni neurologiche?» «No, oggi il loro elettroencefalogramma è normale. Il recupero del ritardo, sotto questo punto di vista è completo, almeno in apparenza, ma sono bambini molto arretrati, rispetto agli altri, anche nella socializzazione: penso che non potranno mai essere normali. La deprivazione di cui hanno sofferto nei primi due anni e mezzo avrà effetti permanenti; e avrebbe potuto essere ancora peggio se, anziché gemelli, si fosse trattato di un bambino cresciuto solo.» [Piero Angela conclude l’argomento affermando che] alla nascita ogni bambino, in un certo senso, è un “bambino–lupo”, che viene gradualmente stimolato a salire nella scala della conoscenza dalle persone che ha intorno. Una carenza culturale (come pure una carenza alimentare) nella prima fase della vita crea un adattamento sempre più difficile da modificare1.

E ora è arrivato il momento di passare a Kaspar Hauser. IIIc. Fra le 16 e le 17 del 26 maggio 1828, in Germania un abitante di Norimberga, del quartiere di Unschilitt, mentre sta sulla porta di casa, dalla strada vede venire un ragazzo vestito pesantemente, con una strana andatura quasi da ubriaco, come se non fosse molto capace di reggersi sulle gambe e di regolare i propri passi. Gli si avvicina e il 1

P. Angela, Da zero a tre anni, Garzanti, Milano 1973, pp. 56–58.

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Capitolo Quinto

ragazzo gli mostra una lettera indirizzata al Capitano del IV Squadrone del Reggimento di Cavalleria di Norimberga; allora l’uomo accompagna il ragazzo dal comandante del IV Squadrone del VI Reggimento, che abita poco distante. Nella lettera, che è senza firma e spedita «da un posto che resterà innominato vicino alla frontiera bavarese, 1828» c’è il nome del ragazzo: Kaspar Hauser. Il mandante si definisce un povero lavoratore con dieci figli, al quale una donna sconosciuta, il 7 ottobre del 1812, ha affidato quel bambino che era nato il 30 aprile dello stesso anno ed era stato battezzato. Il ragazzo viene poi condotto in casa del Borgomastro di Norimberga, dove rimane fino al 18 luglio di quell’anno, quando viene accolto dal prof. Daumer, insegnante del locale Ginnasio, che si occuperà della sua educazione. Nella primavera del 1831, Kaspar è ospite di Anselm von Feuerbach, presidente della Corte d’Appello bavarese, per qualche settimana. Feuerbach, attraverso l’autorevole testo di Peitser–Ley (che ha pubblicato una bibliografia su Kaspar Hauser con oltre 1.000 titoli) ricostruisce la possibilità che il ragazzo sia il principe ereditario dei Baden, nato il 29 settembre 1812, del quale s’era detto d’averlo trovato morto nel suo letto il 16 ottobre seguente: in realtà, il bambino sarebbe stato fatto sparire per beghe di successione da parte degli Hohenzollern. Sta di fatto, comunque, che l’altro maschio della famiglia Baden, il principe Alessandro (nato il 1° maggio 1816) muore in circostanze rimaste inspiegate l’8 maggio 1817. Nulla accade, invece, alle tre femmine: la principessa Luisa (nata l’8 luglio 1811) si sposa e diventa principessa di Wasa; la principessa Giuseppina (nata il 21 ottobre 1813) diventa principessa di Hohenzollern; la principessa Maria (nata l’11 ottobre 1817) diventa duchessa di Hamilton. Da pochi giorni dopo la sua nascita fino all’età di 16–17 anni, Kaspar è vissuto in un buio scantinato, semilegato a una sedia, sommariamente nutrito e rudimentalmente educato da un uomo che non mostrava mai il volto. Al momento della sua comparsa a Norimberga il ragazzo, a qualsiasi domanda gli si faccia, risponde: «Reuta wahn, wie mie Votta wahm is»; e «Woas nit», «Hoam Weissa!» sono le uniche parole che ripete in qualsiasi occasione. Tutto il suo modo di comportarsi è quello di un bambino di 2–3 anni, sebbene il suo corpo appaia quello di un ragazzo di 16–17 anni: è alto quasi un metro e mezzo; sul mento e attorno alle labbra ha una rada peluria; ancora non

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ha messo i cosiddetti denti del giudizio e non li metterà prima del 1831, cioè a 19–20 anni. La struttura del corpo è robusta e dalle spalle larghe, senza difetti visibili; ha mani e piedi assai delicati, e segni di iniezioni su entrambe le braccia. L’espressione del viso è insulsa e lo sguardo è ottuso; la parte inferiore della faccia è alquanto prominente e ciò contribuisce a dargli un aspetto rozzo: con il tempo questo prognatismo regredirà sempre di più. Non ha idea di come adoperare le mani e le dita. La sua andatura più che un camminare si potrebbe dire un ciondolare, un brancolare penoso, a mezzo tra l’impulso alla caduta e lo sforzo per tenersi dritto: invece di calcare prima con fermezza sul tallone, poggia contemporaneamente tallone e pianta per terra, eppoi, sollevando entrambi i piedi contemporaneamente e inclinando la parte superiore del corpo, procede lentamente e faticosamente in avanti tenendo le braccia aperte di lato, come fossero pesi di una bilancia; e, ovviamente, spesso cade. Per lungo tempo non riuscirà a salire e scendere le scale, se non viene aiutato, e anche in seguito gli sarà impossibile restare su un piede e sollevare l’altro senza cadere. Mostra una grande avversione per qualsiasi cibo e bevanda che non siano pane e acqua: gocce di vino o di caffè, mescolate di nascosto all’acqua, gli provocano sudore freddo, violento mal di testa e vomito; il solo odore dei cibi più comuni riesce a farlo rabbrividire. E un’enorme sensibilità olfattiva conserverà sempre, tanto acuta da provocargli malesseri assai di frequente. Invece la prima volta che vede una candela accesa ne rimane estasiato e cerca di toccare la fiamma con le dita, che però ritrae, naturalmente, subito gridando. Quando viene posto davanti a uno specchio cerca di afferrare la propria immagine e, non riuscendoci, va poi a vedere chi ci sia dietro di esso2. Tutti gli oggetti luccicanti lo fanno gridare di contentezza. Possiede soltanto due parole per designare tutte le creature viventi: chiama «bua» qualsiasi cosa gli sembri avere una forma umana e «Ross» (cavallo) qualsiasi animale, di qualsiasi specie, quadrupede o bipede: distingue gli animali dagli uomini soltanto in base alla loro forma, e gli uomini dalle donne soltanto dai loro vestiti. La parola «Ross» appare preponderante in tutto il suo vocabolario (che include a mala pena una dozzina di parole) e la ripete nelle occasioni più disparate, spesso con le lacrime agli occhi e 2

Cfr. il fanciullo di Kronstadt (caso VIIIb).

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con tono lamentoso, come se volesse esprimere nostalgia per un cavallo in particolare. Sta di fatto che quando gliene regalano uno di legno, le sue grida di gioia sono altissime e non desidera altro che stargli accanto e adornarlo con nastrini colorati e pezzetti di vetro luccicanti, e tenta anche di farlo bere e mangiare; comunque sia, negli anni seguenti mostrerà una strabiliante abilità di cavallerizzo. Un giorno che dalla finestra aperta gli giunge all’orecchio il suono di una banda, subito si mette in ascolto, fermo come una statua; il suo aspetto appare trasfigurato e gli occhi e gli orecchi si muovono come a voler seguire i suoni che si allontanano sempre di più. Per molto tempo il suo parlare rimane frammentario e spesso riesce difficile capire quello che vuole dire. Quando sta meditando qualcosa, quando, per esempio, sta cercando il concetto corrispondente a una parola nuova, oppure una parola che possa corrispondere a una data cosa, o quando tenta di connettere una cosa che gli è sconosciuta a qualcosa di noto, in modo da potersi con questa spiegare quella, allora sembra diventare incapace di vedere sentire o percepire un qualunque movimento esterno. E se non riesce a capire qualcosa il suo corpo è attraversato da spasmi. In seguito comincia a pronunciare con chiarezza e senza esitazione le parole che conosce, e il suo parlato si configura in questo modo: è quasi interamente privo di congiunzioni, participi e avverbi; le coniugazioni verbali non vanno molto al di là dell’infinito; soprattutto scombinata appare la sintassi; il pronome di prima persona appare molto raramente: di solito Kaspar parla di sé in terza persona chiamandosi Kaspar e dice: «Kaspar molto bene» invece di «Io sto molto bene», e «Kaspar dirà Giulio» invece di «Dirò questo a Giulio»; così come adopera la terza persona anziché la seconda per rivolgersi agli altri; la stessa parola viene spesso usata con significazioni diverse; alcune parole che significano solo una specie particolare vengono applicate a tutto il genere, così la parola «collina» o «montagna» è adoperata per indicare qualsiasi protuberanza: una volta, per indicare un uomo corpulento, del quale non ricorda il nome, Kaspar dice «l’uomo con la grande montagna», e una signora, che porta un vestito con un lungo strascico, la chiama «la signora con la bella coda». A questo punto vorrei fare due osservazioni. La prima richiama in causa il lavoro di Lurija sugli afasici “motori” con lesione dei distretti anteriori dell’analizzatore motorio del cervello. Scrive Lurija:

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Pur non incontrando difficoltà nella pronuncia di singole parole o nella denominazione di oggetti, questi malati manifestano talora chiari disturbi del linguaggio concatenante. Il loro linguagio perde l’automatizzazione, la scioltezza, comincia ad essere interciso. […] I fenomeni dello «stile telegrafico», difficilmente superabili dalla rieducazione, rimangono, come si è detto, ancora da spiegare. È possibile che alla loro origine non stiano soltanto le perturbazioni di quelle «melodie cinetiche» di cui abbiamo parlato ma anche un profondo difetto dello schema generale dell’espressione verbale, onde appaiono particolarmente alterate tutte le parole che hanno una funzione predicativa mentre rimangono integre isolate parole con funzione nominativa […] nelle afasie che conseguono alle lesioni dei distretti anteriori dell’analizzatore motorio si perturba anzitutto l’organizzazione cinetica del linguaggio, se ne alterano gli schemi sintattici e la strutturazione melodica3.

Voglio dire, cioè, che è di nuovo possibile confrontare gli afasici con questo tipo di ragazzi: a mio avviso ancora una volta è verificato il fatto che un’organizzazione mentale ha bisogno di essere costruita pezzo su pezzo nel tempo e nella società. Infatti, conclude Lurija: Queste indagini hanno dimostrato che quell’immediato «riconoscimento di relazioni» che la scuola di Würzburg considerava proprietà originaria del pensiero rappresenta in realtà soltanto lo stadio più avanzato del suo sviluppo. Dal punto di vista genetico, l’attività intellettuale ha inizio con una serie di operazioni esplicite esteriori; le quali gradualmente si condensano, si automatizzano e acquistano il carattere di «attività mentali» realizzate grazie all’intervento del linguaggio interno 4.

E a proposito del “linguaggio interno” — o interiore — vorrei rimandare al caso di Kamala, la cui acquisizione linguistica mostra assai chiaramente il passaggio da un linguaggio interno a uno “esterno”5, che è poi l’attività attraverso la quale il bambino normale riesce a dirigere e a condizionare tutto il suo comportamento6. Ma forse è meglio che io riporti due pagine di Linguaggio e comportamento dello stesso Lurija, nelle quali si afferma: Il linguaggio proprio del bambino è strettamente connesso alla sua attività pratica e […] applicando al proprio comportamento i metodi sviluppati nelle relazioni sociali, il bambino comincia a formare nuovi sistemi funzionali, la 3

A.R. Lurija, op. cit., pp. 222, 226, 231. ibidem, p. 232. 5 v. cap. secondo. 6 Cfr. A.R. Lurija, Linguaggio e comportamento, Editori Riuniti, Roma, 1971. 4

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Capitolo Quinto cui struttura più profonda è legata al linguaggio. […] All’inizio questo linguaggio è principalmente un accompagnamento delle attività pratiche del bambino, o coincide con esse; ma in seguito comincia a precederle: cioè il bambino stesso inibisce i suoi tentativi diretti fino a che non abbia dato una formulazione verbale a quanto intende fare. Questo passaggio da un linguaggio di accompagnamento a un linguaggio di programmazione è stato discusso in tutta la sua estensione nella letteratura della psicologia infantile. […] Qualche tempo più tardi, cioè nei bambini di sei o sette anni, il ricercatore comincia ad osservare la scomparsa di un linguaggio che non sia direttamente riferito a qualcuno o a qualcosa. Questa scomparsa, tuttavia, non ha nulla a che vedere con la sparizione del linguaggio egocentrico o con la sua conversione in linguaggio socializzato, cui accenna Piaget nei suoi primi lavori. In effetti è vero che il linguaggio del bambino, esteriorizzato e non focalizzato, tende gradualmente a diminuire, diventa man mano frammentario e si presenta solo sotto forma di legami sconnessi, talvolta limitandosi a un mormorio; ma in questo modo il bambino arriva a quel linguaggio interiore che, invariabilmente, è una parte del processo del pensiero 7.

In conseguenza di queste ultime parole di Lurija è la seconda osservazione che intendo fare, la quale è di carattere più teorico e vuole mettere in rilievo la circostanza per cui Kaspar adopera la specie per il genere, operando quella che si chiamerebbe una “sineddoche”. E perché Kaspar possa fare questo, è necessario che egli si basi su una comparazione di forme, cioè su una somiglianza, e la somiglianza si pone mediante modelli analogici. Desidererei che risultasse immediatamente chiaro come il processo mentale in genere e quello linguistico in particolare (che del primo è la manifestazione) si attua secondo una successione che va dal “concreto” all’“astratto”; e ciò significa che l’oggetto che si vuole conoscere viene dapprima considerato in tutta la sua interezza — quindi se ne fanno modelli indissolubilmente legati all’oggetto stesso — eppoi, solo in un secondo tempo, l’oggetto della conoscenza cambia spostandosi dalla “cosa” (in quanto già esperita) al modello della cosa (che si è dimostrato di più agevole funzionalità); in questo modo da un’operazione concreta di comparazione percettiva fatta tra il “modello” e la “cosa” si passa a un’operazione astratta di comparazione tra concetti compiuta tra un modello e un altro modello: è così che — possiamo dire — la “cosa” si fa “oggetto”, per cui è lecito parlare di “cosa da esperire” e di “oggetto da conoscere”: l’evo7

A.R. Lurija, op. cit., pp. 22–23.

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luzione avviene dalla “sineddoche” alla “metafora”, dal “modello” al “sistema”. È qui forse utile applicare l’etimo–logica ai termini sineddoche e metafora. Il termine sineddoche viene dal vocabolo greco, synekdékomai che significa, letteralmente: prendo insieme da, e, cioè, nel nostro caso, compongo gli elementi singoli prendendoli dagli oggetti; infatti solo a condizione che esista qualche elemento simile — e perciò invariabile — tra i diversi oggetti che percepisco è possibile “prenderli insieme” e quindi adoperare ‘la parte per il tutto’ o viceversa (così l’“essere sporgente” accomuna la montagna alla grossa pancia del signore cui Kaspar si riferisce). Il termine metafora viene dal vocabolo greco metaféro che è perfettamente corrispondente all’italiano trasferisco; e infatti abbiamo detto che, per passare da un’operazione analogica di sineddoche a un’operazione sistematica di metafora, è necessario spostare l’attenzione dalla cosa al suo modello e usare quest’ultimo soltanto, in tal modo operando, appunto, un “trasferimento” dalla percezione alla concettualizzazione. Insomma possiamo dire che la sineddoche avviene in praesentia dell’oggetto e la metafora in absentia dell’oggetto: è quest’ultima operazione che rende possibile la costituzione di un “sistema” linguistico, che non è più basato sui rapporti tra le cose, bensì sui rapporti tra i “nomi” delle cose, cioè, appunto, tra i “modelli mentali” della realtà. D’altra parte, dal punto di vista della sua organizzazione, penso che il problema linguistico ha come contrassegno macroscopico di tale operazione tra modelli la presenza delle congiunzioni, delle preposizioni e degli avverbi, cioè delle cosiddette “parti invariabili del discorso”, poiché — come abbiamo visto — è attraverso la ricerca delle invarianti (o costanti) che è possibile costruire prima il “modello” e poi il “sistema” che si serve di quello come dell’elemento base sul quale operare. E l’acquisizione di una comunicazione verbale da parte di Kaspar Hauser sta attraversando esattamente tali tipi di stadi successivi. Ma vediamo ora quali sono gli altri tipi di comportamento del ragazzo, alcuni dei quali stanno ancora a dimostrare come la visione del mondo di Kaspar sia essenzialmente basata su modelli, cioè sulla diretta corrispondenza fra la “cosa” e la sua elaborazione percettiva. La luce del sole dà molto fastidio al ragazzo e la sua reazione ai colori si presenta nel modo seguente: il giallo non gli piace, a meno

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che non si tratti dello sfavillio dell’oro; il bianco gli è indifferente, e il verde gli procura ancora più fastidio del nero, che è il colore che detesta maggiormente; la sua sconfinata predilezione per il rosso – specialmente nella variazione brillante – si spinge al punto che Kaspar riesce a osservare un paesaggio naturale, dove, ovviamente, il verde è il colore predominante, solo se glielo si fa vedere attraverso un vetro rosso; se gli si fosse data la possibilità di scegliere il colore dei suoi abiti Kaspar si sarebbe vestito di scarlatto o purpureo dalla testa ai piedi8. Rivela una memoria formidabile, che però scema gradatamente quanto più si arricchisce il suo lavoro mentale. Mostra un sorprendente amore per l’ordine e la pulizia, fino alla pedanteria: cerca di togliere microscopici granelli di polvere dal suo vestito. Solo tardi riesce a distinguere i fatti del sogno da quelli della veglia; tutte le cose che hanno forma di animali o di uomini, che siano scolpiti in pietra o in legno, oppure dipinti, egli le considera, a tutti gli effetti, come gli animali e gli uomini in carne e ossa9. Agli animali, poi, attribuisce le stesse capacità degli uomini, dai quali sembra distinguerli unicamente in base alla forma, e si arrabbia quando vede un gatto prendere il cibo con la bocca senza usare le “mani”, perciò si accinge a insegnargli come si fa e si indigna moltissimo di fronte alla totale indifferenza del gatto. Per l’inverso, una volta loda moltissimo l’obbedienza di un cane. Vedendo un gatto grigio, chiede perché mai non si lavi in modo da diventare bianco; e quando vede dei buoi sdraiati sulla strada, si meraviglia del fatto che non siano andati a sdraiarsi in casa. Poiché gli si risponde che tutte queste cose non riguardano gli animali perché non sono capaci di farlo, egli replica che si potrebbe loro insegnarle. Dei prodotti della natura chiede sempre chi li abbia fatti, così come chiede chi abbia fatto le stelle — che chiama candele — e chi continui a tenerle accese, quando, in una notte d’agosto del 1829, per la prima volta gli si mostra un cielo stellato. Quanto alla sua potenza visiva, mentre la luce piena del giorno gli procura sofferenza, la penombra la notte e l’oscurità non fanno differenza per lui: riesce sempre a distinguere gli oggetti con un’esattezza impressionante. 8 9

Cfr. Kamala per un’analoga predilezione per il colore rosso. Cfr. Victor.

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Nella primavera del 1831 Kaspar è ospite per qualche settimana in casa Feuerbach, e allora Feuerbach gli chiede spiegazione di un episodio avvenuto nei primi due mesi del 1828, quando Kaspar viveva in casa del Borgomastro di Norimberga. A quel tempo Feuerbach mise Kaspar di fronte a una finestra per fargli ammirare lo splendore del panorama estivo; ma immediatamente Kaspar si tirò indietro gridando: «Brutto, brutto!», e alla richiesta di spiegazioni da parte di Feuerbach continuò a ripetere: «Brutto, brutto!». Ora, tre anni dopo, Feuerbach può chiedere a Kaspar il motivo di questo suo atteggiamento, e Kaspar gli risponde che, effettivamente, quanto aveva visto in quel momento gli era apparso molto brutto, perché era stato come se gli si fosse posta davanti agli occhi una persiana chiusa, sulla quale un pittore avesse sparso tutte le sue vernici, bianca blu verde gialla rossa, mischiate assieme. Infatti a quel tempo non era in grado di distinguere i vari oggetti gli uni dagli altri, per cui la loro “lucente” visione improvvisa gli aveva procurato uno shock che lo aveva reso ansioso e inquieto, come se questa sorta di multicolorata persiana, in realtà, costituisse un ostacolo alla visione dell’aria aperta. E Kaspar non aveva neppure la cognizione prospettica, poiché — come racconta egli stesso — quello che allora vedeva, che erano campi colline case, gli apparivano molto grandi quando, in effetti, erano molto piccoli, mentre molte altre cose che erano piccole gli apparivaro grandi: esperienza di una tale situazione di fatto l’acquista in seguito durante le sue passeggiate. A un’altra domanda di Feuerbach, Kaspar risponde che, all’inizio, non era capace di distinguere ciò che era tondo da ciò che era triangolare; gli uomini e i cavalli rappresentati su tele dipinte gli apparivano identici a quelli scolpiti in legno: i primi in rilievo come i secondi, o questi piatti come quelli, e solo maneggiandoli e rimaneggiandoli era riuscito a rendersi conto della loro differenza, tanto che in seguito aveva fatto confusione molto raramente. A questo punto è forse scontato rammentare il famoso episodio del “cieco nato”, che acquista il senso della vista in seguito a un’operazione chirurgica10, il cui comportamento visivo è del tutto simile a

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Cfr. R.L. Gregory, Occhio e cervello, Il Saggiatore, Milano 1979 .

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questo di Kaspar Hauser; ovvero quanto afferma Lurija sempre nel suo Le funzioni corticali superiori: L’apparente semplicità e immediatezza visiva di un oggetto reale o della sua illustrazione è spesso immaginaria […] si rende manifesto che il riconoscimento definitivo degli oggetti, e specialmente delle loro illustrazioni, rappresenta il risultato di una complessa attività percettiva che ha inizio con l’isolamento di questo o quell’altro elemento dell’oggetto e la formazione di una certa «ipotesi percettiva» e con la successiva selezione del significato supposto tra una serie di alternative, onde i contrassegni essenziali dell’oggetto vengono a portarsi in primo piano, mentre i contrassegni accessori, non essenziali, vengono inibiti. Pertanto lo studio della percezione visiva […] dimostra che essa è strutturata in modo complesso, simile, come principio, alla strutturazione della percezione tattile, ove la mano esploratrice isola una serie di segni che solo in un momento successivo vengono riuniti in un complesso simultaneo 11.

Mi pare solo il caso di annotare che il lavoro di “pertinentizzazione”, cioè di isolamento degli elementi significativi, che è così specifìco della lingua, si ritrova in tutti i processi cognitivi. Feuerbach dice che uno dei più grossi errori commessi nell’educazione di Kaspar è stato quello di averlo voluto immettere nel Ginnasio a contatto con un insegnamento del tutto inadeguato a lui, sicché invece di usufruire delle parole e delle frasi che andava imparando, Kaspar non riusciva a comprendere il loro senso e la loro relazione con le cose. Di fronte all’insistenza con la quale gli si vuole insegnare il latino, replica che non ne capisce l’utilità, dal momento che non intende diventare un sacerdote; e quando un pedante gli fa osservare che la conoscenza del latino è indispensabile alla conoscenza del tedesco, Kaspar risponde che, allora, ai Romani sarebbe stato necessario imparare il tedesco per capire bene il latino. Il 17 ottobre 1829, uno sconosciuto tenta di uccidere Kaspar nel giardino di casa Daumer e gli procura una larga ferita sulla fronte, che però si riesce a far guarire in qualche settimana. Ma il 14 dicembre 1833 di nuovo qualcuno cerca di uccidere il ragazzo e questa volta Kaspar muore.

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A.R. Lurija, op. cit., p. 143.

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Nell’Hofgarten di Ansbach si erige un monumento in memoria di Kaspar Hauser, sul quale sta scritto: «Hic occultus occulto occisus est»12. IVc. Nell’ottobre del 1970, all’istituto per l’assistenza ai ciechi di Los Angeles si presenta una donna, cieca, in compagnia di una bambina. Un addetto dell’istituto nota subito l’aspetto terribile della bambina e pensa senz’altro che ci sia qualcosa che non vada; perciò chiama immediatamente il direttore, il quale interroga la madre e, sentita l’incredibile storia della bambina, avverte la polizia. Le autorità di polizia prendono in custodia Genie13 e ne denunciano i genitori. Il giorno del processo, però, il padre di Genie si suicida, lasciando un biglietto che dice: «Il mondo non potrà mai capire». Allora, invece, cerchiamo di capire, cominciando col raccontare brevemente la storia familiare di Genie. La madre di Genie sposa un collerico che la picchia e spesso tenta di ucciderla. Dopo cinque anni di matrimonio nasce, tuttavia, una bambina sana e prospera, che il padre, non potendo sentire piangere, rinchiude nel garage: la bambina muore a 2 mesi e mezzo di polmonite. L’anno dopo nasce un maschio, con il fattore RH incompatibile e muore dopo due giorni soffocato dal suo stesso muco. Tre anni dopo nasce un altro bambino, anch’egli con l’RH incompatibile, ma sano. La madre cerca di non farlo strillare e ne reprime i movimenti per non urtare il marito; sicché il bambino all’età di 3 anni, cammina male, ha problemi col mangiare, è lento a parlare e non ha abitudini igieniche. A questo punto, allora, interviene la nonna paterna che prende con sé il bambino, il quale ben presto si normalizza in tutte le sue funzioni e può tornare a casa dai genitori. Tre anni dopo, nell’aprile del 1957, nasce Genie, sempre con il fattore RH incompatibile, perciò il giorno dopo la nascita le viene fatta una completa trasfusione di sangue. Il suo peso alla nascita è perfettamente normale; all’età di 3 mesi, il pediatra trova che, pur rimanendo il suo peso e la sua lunghezza normali, la bambina presenta una malformazione congenita alle anche, perciò si rende necessario applicarle le 12

«Qui uno sconosciuto da uno sconosciuto è stato ucciso». Genie è il nome fittizio usato per la designazione di questo caso, in modo da difendere il privato della fanciulla in questione. 13

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stecche di Frejka in modo da agevolare la corretta ricomposizione delle anche. A 6 mesi Genie è ancora una bambina normale, ma non viene più portata dal pediatra fino a quando ha 11 mesi. A quest’età il medico le toglie le stecche di Frejka perché Genie mostra di non averne più bisogno, ma è sotto peso: supera di poco i 7 chili. Il pediatra raccomanda la fisioterapia, ma il padre di Genie non si mostra d’accordo e non la porta più dal medico. La bambina non è affettuosa, balbetta poco e non vuole cibi solidi — secondo quanto racconta la stessa madre. A 14 mesi Genie si ammala di polmonite e viene portata da un pediatra diverso dal precedente, il quale dichiara che Genie è ritardata, mentre probabilmente è solo affranta dalla febbre alta. Comunque una tale dichiarazione fornisce al padre di Genie un ottimo motivo per relegare e isolare la bambina. Sicché all’età di 20 mesi la vita di Genie, già così tribolata, peggiora tragicamente. Infatti, il padre decide di trasferire tutta la famiglia nella casa di sua madre (dopo che questa è morta in un incidente stradale), e di relegarla lontano dal mondo; in particolare Genie viene collocata nella più piccola delle camere da letto in fondo alla casa, nuda, su un seggiolone attaccata con dei legacci di stoffa cuciti dal padre stesso: non può muovere altro che le mani e i piedi. Di notte viene messa in una specie di sacco e posta in un lettino lateralmente e superiormente tutto chiuso da una rete metallica, in una gabbia insomma. Inoltre nessuno abita nella camera accanto a quella di Genie e il padre non permette a nessuno di entrare dalla bambina, neppure per pulire la stanza; in casa non c’è né radio né televisione e le scarse conversazioni si fanno in tono molto basso, tranne quando il padre ha fame perché allora impreca. Insomma, gli unici rumori che Genie può percepire sono quelli provenienti dalla stanza da bagno vicina alla sua camera. Perdipiù, non appena Genie emette un qualche suono viene bastonata dal padre, il quale si comporta con lei esattamente come un cane, grugnendo, berciando, graffiandola e mordendola senza mai dire una parola. Nei primi tempi di questa tremenda reclusione la madre si prende cura di Genie per un po’ di tempo al giorno, ma presto diventa cieca e il figlio maggiore la sostituisce in questo compito, ma con l’ingiunzione da parte del padre di comunicare con Genie esclusivamente con versacci da cane. Oltre agli stimoli uditivi, anche quelli visivi e tattili sono, per Genie, ridottissimi: i mobili della stanza consistono esclusivamente

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nel seggiolone e nel lettino; la luce è fortemente affievolita da una spessa tenda messa davanti alla finestra; alle volte a Genie è permesso di “giocare” con due impermeabili di plastica — uno trasparente e uno giallo — oppure con dei pezzi di riviste televisive con figure di réclame, oppure con un cestino pieno di rocchetti di filo e simili. La dieta alimentare di Genie è composta soltanto da omogeneizzati, da cereali e occasionalmente da uova sode: il cibo le viene dato frettolosamente ammassandoglielo nella bocca. Il padre di Genie è talmente convinto che la bambina non sopravviverà dopo i 12 anni da promettere alla moglie che, in caso contrario, lei potrà venirle in aiuto. Sennonché i 12 anni vengono superati ma la promessa non viene mantenuta, e la madre, cieca e impossibilitata a comunicare con chiunque, non può fare niente. Ma quando Genie ha 13 anni e mezzo, la donna, dopo una violenta lite col marito, prende la figlia e si rifugia in casa di sua madre. Passate due settimane, si consiglia alla donna di andare all’istituto d’assistenza per ciechi, e quello che accade poi l’abbiamo già raccontato. Cosí, finalmente il 4 novembre del 1970 Genie viene ricoverata nell’ospedale pediatrico di Los Angeles, dove rimane fino al 13 agosto del 1971 quando viene adottata da una famiglia. Al momento del suo ritrovamento Genie pesa solo 27 kg. ed è alta 135 cm.; non reagisce né al freddo né al caldo14; non avendo mai mangiato cibi solidi non sa masticare e fa fatica a inghiottire; non sa stare dritta ed è incapace di distendere le braccia e le gambe, né può correre saltare o arrampicarsi: in realtà può soltanto camminare con gran fatica, strascicando i piedi e dondolandosi da una parte all’altra. Poiché è abituata a guardare a una distanza non superiore ai quattro metri (lo spazio fra il suo seggiolone e la porta della camera), la sua vista non va oltre questa distanza; non è capace di contenere né feci né urine; saliva copiosamente e sputa su qualsiasi cosa ha in mano. Essendo stata forzata a sopprimere qualsiasi suono, Genie non emette altro che un lamento: non vocalizza in alcun modo e neppure singhiozza quando piange. Il suo silenzio è completo persino di fronte alle emozioni più violente: alle volte, trovandosi in condizioni tanto diverse da quelle alle quali è stata abituata,

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Cfr. Kamala e Victor.

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Genie è presa da raptus di rabbia15 e allora graffìa e sputa all’intorno, soffiando dal naso e sporcandosi faccia e capelli di muco, cerca di farsi del male, butta per terra ciò che le capita a tiro, e fa tutto questo in completo silenzio, fino a che non è esausta. Tuttavia, sebbene Genie non sia in grado di emettere nessun suono significativo, sembra capire delle parole ed è capace di ripeterne alcune, ma senza, ovviamente, la minima cognizione grammaticale o di adeguatezza alla situazione: piuttosto che al significato delle parole sembra essere sensibile al tono col quale le parole stesse vengono pronunciate. Con le cure attente e assidue Genie, lentamente ma decisamente, migliora come individuo sociale fisico e intellettuale. Per maggiore chiarezza “clinica”, va detto che il rapporto radiologico relativo a questo caso parla di una moderata deformazione di entrambe le anche e di una cassa toracica stretta, ma di nessuna anormalità del cranio. E il referto di un medico dell’ospedale pediatrico dice che Genie è diventata vivace, attenta e curiosa; ha un buon coordinamento occhio–mano, l’udito e la vista adeguati, risposte emozionali corrette. A dispetto della sua mutezza, non c’è in Genie nessuna traccia di danno cerebrale o di stenosi intellettiva, bensì soltanto di un assurdo estremo prolungato isolamento. Dopo due anni, i progressi di Genie nel campo della comunicazione linguistica sono maggiormente indicativi al livello della comprensione delle parole piuttosto che non al livello della produzione delle parole. Dal momento che la fanciulla è stata sottoposta a una strenua costrizione nella produzione di qualsivoglia suono, non ha potuto sviluppare la capacità al controllo dei meccanismi laringali implicati nell’articolazione linguistica, sicché l’intero corpo si tende e si contorce nel tentativo della fonazione: la voce esce molto debole e monotonica. Invece, per quanto riguarda il versante della comprensione linguistica, nel 1972 Genie è in grado di capire il rapporto singolare-plurale dei nomi, la distinzione tra frasi affermative e frasi negative, le costruzioni possessive e quelle qualificative, un certo numero di preposizioni (sotto, vicino a, oltre a, sopra, su, in), la congiunzione «e», nonché le forme del comparativo e del superlativo dell’aggettivo.

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Cfr., nel capitolo seguente, la scimpanzé Gua.

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È importante notare che, prima ancora di riuscire a distinguere la differenza linguistica fra il singolare e il plurale (i nomi sono scritti, al singolare o al plurale, sotto figure rappresentanti, per esempio, un pallone/più palloni; un cavallo/più cavalli), Genie capisce frasi nelle quali compaiono numeri oppure termini come «alcuni» «più», «quantità di». E questo, secondo me, sta a indicare che la nozione di quantità numerabile non è immediatamente collegabile con una costruzione grammaticale, bensí con una percezione dello spazio organizzata non ancora linguisticamente. Voglio dire, cioè, che Genie è in grado di capire il significato generico delle quantità poiché mette in relazione l’espressione linguistica con gli oggetti reali cui questa si riferisce, ma non ancora il significato dei meccanismi grammaticali del singolare e del plurale perché questi prescindono dal riferimento concreto all’oggetto e si giustificano unicamente all’interno della logica del sistema linguistico come tale16. Comunque, Genie impara anche a parlare, dapprima con monosillabi17, ma già otto mesi dopo il suo ritrovamento è in grado di pronunciare frasi di due parole e nel novembre del 1971 di tre o quattro parole. Bisogna dire che anche i suoni linguistici che Genie non sa produrre spontaneamente è tuttavia in grado di articolarli per imitazione e questo fatto ci richiama immediatamente il caso di Tarzancito: anche per Genie, cioè, è la non comprensione del significato ciò che le impedisce la corretta pronuncia spontanea, piuttosto che una impossibilità fisiologica per la stessa18. Andando avanti nell’analisi delle modalità con le quali Genie impara a esprimersi linguisticamente, ci sono molte cose interessanti da rilevare. Cerchiamo di numerarle progressivamente, secondo la cronologia dell’acquisizione della lingua da parte della ragazza. 1. Dopo otto mesi dal suo ritrovamento, compone frasi di due sole parole semplicemente giustapponendo un sostantivo a un aggettivo, come nel caso dell’asserzione: «Automobile gialla», oppure un sostantivo a un sostantivo per il complemento di specificazione come, per

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Cfr. al riguardo Tomko (caso IXb). Cfr. Kamala. 18 Cfr. Tarzancito (caso XVIb). 17

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esempio, in «Genie borsetta» e «Mark bocca», invece di «La borsetta di Genie» e «La bocca di Mark». 2. Dopo dieci mesi, impara a usare il verbo, sempre in frasi composte da due parole, e distingue il sostantivo che ha funzione di soggetto da quello che ha funzione di oggetto e dice, per esempio: «Mark dipingere», «Volere latte»; e impara anche il predicato verbale come risulta dalla frase: «Dave malato», che non è la stessa cosa di «Automobile gialla», infatti in quest’ultima frase Genie ha correttamente messo l’aggettivo prima del sostantivo, mentre nell’esempio precedente l’aggettivo con funzione predicativa segue il sostantivo19. 3. Dopo dodici mesi, le frasi di Genie si fanno più articolate e si compongono di un soggetto, un verbo e un oggetto, per esempio: «Tori [il cane] mastica guanto», oppure di una serie di aggettivi seguiti da un sostantivo, per esempio: «piccola bianca chiara scatola», oppure di un aggettivo, un sostantivo, un altro aggettivo e un altro sostantivo, nel tentativo di comporre due concetti riguardanti un unico soggetto, per esempio: «grosso elefante lunga proboscide», «Marilyn automobile rossa automobile». In quest’ultimo esempio sono riassunte alcune delle costruzioni che Genie ha già imparato a fare: è presente la giustapposizione sostantivo+sostantivo (Marilyn automobile) che Genie adopera per indicare il genitivo, e c’è contemporaneamente la composizione sostantivo+predicato verbale (automobile rossa), nonché l’aggettivo+sostantivo (rossa automobile). Si direbbe, cioè, che Genie impara a comporre i vari “pezzi semantico–sintattici” in un modo che ricorda assai da vicino quello usato dalla scimpanzé Sarah nell’esperimento dei Premack20. 4. Dopo quindici mesi, usa la negazione, dapprima nella forma «non più», eppoi in quella di «no» e «non»; in ogni caso Genie compone la frase negativa premettendo la negazione e non frapponendola alle parole, il che — a mio avviso — sta a indicare che viene negato il significato di tutta la frase e non la singola parola grammaticale; cioè il livello linguistico di Genie è semantico–sintattico e non ancora 19 Ricordiamo, per chiarezza, che in inglese la frase di Genie «Automobile gialla» suona «Yellow car»; l’aggettivo yellow, cioè, è messo prima del sostantivo nella sua corretta e usuale posizione di attributo, mentre la frase «Dave malato» in inglese è detta da Genie così: «Dave sick». 20 v. i capp. sesto e nono.

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grammaticale. A riprova di quanto affermo sta il fatto che le frasi locative sono formulate sempre con la giustapposizione di un sostantivo a un sostantivo, per esempio: «cereali cucina», «giocare palestra», senza, cioè, le preposizioni che compariranno molto più tardi. 5. Dopo venti mesi, Genie usa le infinitive, sempre giustapponendo vari “pezzi” privi di congiunzioni, per esempio: «volere andare comprare», «piacere masticare carne», «volere conservare giocattolo frigorifero», «volere passeggiare Ralph»; però è in grado di stabilire una sorta di collegamento a livello semantico, perché usa il gerundio («Genie ridendo», «Tori mangiando osso») e impara a marcare il genitivo possessivo e il plurale dei sostantivi con la «s», nonché a esprimere il soggetto di prima persona, come per esempio: «mi piace automobile di Dave» (I like Dave’s car), «camera di Joel» (Joel’s room). 6. Più tardi Genie incomincia a usare il verbo avere, e allora, per esempio, la frase «bagno grande specchio» diventa «bagno avere grande specchio». E, cosa assai indicativa, apprende a pronunciare contemporaneamente due frasi che prima diceva staccate, perciò «gatto ferire» e «cane ferire» (riferite entrambe al gatto e al cane che stanno litigando) diventano «gatto cane ferire», e commentando una fotografia dice: «Curtiss, Genie nuotando piscina». A questo punto possiamo già trarre una conclusione molto importante. Ho detto prima, a proposito di Kaspar Hauser, che le congiunzioni, le preposizioni e gli avverbi — cioè le cosiddette parti invariabili del discorso — rappresentano le costanti del sistema linguistico, che soltanto attraverso le costanti è possibile costruire un qualsivoglia sistema e che una tale costruzione è indice di un tipo di conoscenza più evoluta, più complessa rispetto a quella attuata attraverso ciò che ho definito “modello”. E qui, nel caso di Genie, vediamo con tutta evidenza che le ultime cose linguistiche imparate da lei sono proprio le congiunzioni, le preposizioni, gli avverbi e gli articoli (perché non dimentichiamo che in inglese gli articoli sono invariabili). Voglio dire, insomma, che Genie adopera i suoi “pezzi semantico–sintattici” in un primo tempo come modelli mentali per la descrizione del mondo nel quale vive, e solo in un secondo tempo riesce a fare quella “operazione tra modelli” che, prescindendo dal riferimento diretto agli oggetti concreti, costituisce la base per la fondazione del sistema della lingua.

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Questo risulta tanto più vero, se si considera il fatto che il livello cognitivo di Genie è superiore al suo livello linguistico; cioè i test che misurano il grado di abilità intellettiva in generale hanno da parte di Genie una risposta inequivocabilmente migliore rispetto a quella ottenuta mediante i test di abilità precipuamente linguistiche. E ciò dimostra che c’è una capacità di organizzazione mentale pre–linguistica, la quale — come ho cercato sin qui di argomentare — si struttura attraverso il “modello” analogico e non attraverso il “sistema” metaforico. A questo proposito è probabilmente pertinente rilevare anche un altro aspetto dell’analisi del caso di Genie, e precisamente quanto va sotto la definizione di “lateralizzazione cerebrale”. Al riguardo, infatti, neuropsicologi come Lenneberg hanno preteso di affermare che l’acquisizione del linguaggio da parte di un individuo umano può avvenire soltanto in quell’arco di tempo — detto “periodo critico”, geneticamente determinato — che va dai 2 anni di età fino alla pubertà: in quel periodo nel quale si stabilirebbe se è nell’emisfero destro o nell’emisfero sinistro del cervello che si localizza la funzione linguistica. Detto in termini semplificati: soltanto durante il periodo critico può avvenire la localizzazione cerebrale delle funzioni pertinenti alla comprensione e alla produzione della lingua nell’emisfero destro oppure nell’emisfero sinistro, ed è tale localizzazione a determinare quale dei due emisferi debba considerarsi il “dominante”. E generalmente l’emisfero dominante risulta essere il sinistro; la funzione linguistica, cioè, si situa nell’emisfero sinistro del cervello. Il caso di Genie, però, contraddice eclatantemente sia l’asserzione dell’esistenza di un periodo critico al di fuori del quale non è possibile imparare a parlare, sia l’affermazione che vuole localizzata nell’emisfero sinistro la funzione linguistica: Genie, infatti, impara a esprimersi linguisticamente dopo l’età puberale (dopo i 13 anni e mezzo) e il suo emisfero dominante risulta essere il destro. Bisogna ulteriormente precisare che l’emisfero dominante è il sinistro per i destrimani — cioè per i soggetti che adoperano prevalentemente la mano destra — e il destro (e a volte il sinistro) per i mancini, ma Genie è decisamente destrimane. Perdipiù, Genie risulta avere localizzate a destra sia le funzioni linguistiche sia le funzioni non linguistiche e ciò significa due cose, essenzialmente: la prima è che la plasticità del cervello, cioè la sua capacità di dislocare le varie funzioni intellettive, è assai più

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allargata di quanto non si tenda a credere; la seconda è che una funzione così preminente per l’essere umano come quella della lingua è il risultato delle variabili condizioni ambientali e non della rigida programmazione genetica. Un’ultima notazione interessante da fare a proposito del comportamento linguistico di Genie riguarda le proposizioni condizionali. La ragazza, infatti, nel novembre del 1974, non è ancora capace di formulare frasi con il se… allora, ed esprime il concetto corrispondente a tale formulazione con la semplice giustapposizione di frasi il cui oggetto semantico sia comune. Ma il discorso risulterà certamente più chiaro se riporto un esempio. Genie per dire che è contenta se non viene una certa persona, si esprime in questo modo: «Neal non venire felice Neal venire triste». Ho voluto rilevare questa costruzione di sintassi del periodo, perché è una delle più raffinate a livello linguistico e, a mio avviso, fortemente indicativa del complesso meccanismo logico che fa della lingua un sistema di comunicazione così singolare. Tanto più che — come vedremo nel capitolo seguente — sarà proprio un simile meccanismo la spia per avvertirci se e quando uno scimpanzé sia in grado di imparare a comunicare attraverso un sistema simbolico prettamente linguistico.

Capitolo Sesto GLI ESPERIMENTI CON GLI SCIMPANZÉ

All’interno, dunque, della problematica che vede il comportamento umano inserito in uno schema oppositivo determinato totalmente dalle componenti genetiche oppure da quelle ambientali, mi sembra operativamente utile una ricognizione degli esperimenti che vari ricercatori americani, dal 1932 al 1973, hanno condotto con alcuni scimpanzé di sesso femminile al fine d’insegnare a essi un comportamento, appunto, di tipo “umano”. Come premessa generale, intanto, valida per tutti questi casi, va detto che alla base di simili ricerche sta il desiderio di dimostrare quale sia e se ci sia una linea di demarcazione fra l’“umano” e il “non– umano”, tale che possa venire stabilita attraverso il ritrovamento di dati sperimentali. Ho già accennato al primo di questi esperimenti, portato avanti per nove mesi fra il 1931 e il 1932, dai coniugi Kellogg; ritengo ora essenziale esaminarlo un po’ più da vicino. La documentazione dei Kellogg è assai circostanziata e l’“educazione” di Gua (è questo il nome della scimpanzé) è curata nei minimi particolari e condotta del tutto alla pari di quella del loro bambino Donald. Sicché un primo rilevamento che mi sembra importante fare riguarda il campo dell’alimentazione, poiché abbiamo avuto modo di constatare come, nei casi dei ragazzi selvaggi, il senso del gusto sia sostanzialmente il primo a venir sollecitato in maniera nuova e diversa rispetto alle precedenti abitudini di questi fanciulli. E infatti si trova, al proposito, un comportamento di Gua del tutto analogo a quello di Kamala, per esempio; nel senso di dire che come Kamala era esclusivamente carnivora e ha in seguito imparato a mangiare di tutto, così Gua, che era erbivora, dopo cinque mesi di “educazione umana” impara a mangiare la carne, anche se non la preferisce, e le piacciono moltissimo le uova. Eppoi, all’età di 11 mesi e mezzo, impara a stare e a camminare solo sugli arti inferiori, mostrando poi una grande abilità 113

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nei salti, che fa unicamente dall’alto verso il basso stando sui “piedi” e poggiando le “mani” solo quando i piedi hanno già toccato terra, cioè proprio come un piccolo umano. E se prima la prensione degli oggetti, dai più grandi ai più minuti, viene effettuata principalmente con le labbra, in seguito Gua impara a usare le mani e le dita anche per i movimenti più fini, sfidanto quella che si suole dire la “strutturale impossibilità” per le scimmie di opporre la punta del pollice alla punta delle altre dita. Inoltre impara con maggiore rapidità e precisione che non Donald a indicare gli oggetti puntando il dito indice, sebbene ciò si limiti agli oggetti vicini e non a quelli distanti. Donald e Gua vengono anche sottoposti a test per saggiare i loro organi di senso e tra i due soggetti non compaiono differenze rilevanti, se non a favore di Gua per quanto riguarda il senso dell’olfatto, dell’orientamento uditivo e della vista, che appaiono più sviluppati nella scimpanzé; senza contare che Gua sorride o ride, se viene solleticata, in modo assai più accentuato di Donald, tanto che arriva a solleticarsi da sola e durante l’ultimo mese della sperimentazione l’autostimolazione si estende alle zone erogene e agli stessi genitali (Gua ha circa 16 mesi), provocandole spesso il riso. Anche per quanto riguarda le situazioni di gioco, le reazioni di Gua sono del tutto analoghe a quelle di Donald. Quando Gua ha 13 mesi e mezzo, i Kellogg notano un suo comportamento assai “umanizzato”, infatti la vedono mentre con l’unghia o con la punta dell’indice fa degli scarabocchi sul vetro appannato della finestra, anche se tale comportamento — precisano i Kellogg — non sembra intenzionale, ma piuttosto derivato casualmente dall’osservazione della nebbiolina prodotta dal fiato di Gua sul vetro guardando fuori dalla finestra. In una cosa soltanto — annotano sempre i Kellogg — Gua dimostra una considerevole diversità rispetto a Donald, e cioè nella capacità di attenzione, che nel bambino risulta molto più marcata. Tale disparità di comportamento viene messa in relazione al fatto che Donald ha, principalmente per ragioni anatomiche, una maggiore scioltezza nella manipolazione degli oggetti; e comunque, intorno ai 13 mesi, anche la capacità manipolativa di Gua si sviluppa e a 14 mesi spontaneamente prende a voltare le pagine di riviste e libri senza curarsi delle figure, ma semplicemente per esercitare le mani. Un altro comportamento che i Kellogg mettono in relazione alla maggiore capacità manipolativa, e di conseguenza esplo-

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rativa e attenzionale, del bambino rispetto alla scimpanzé è quello imitativo, che – contrariamente alle opinioni correnti – risulta, anche questo, più spiccato in Donald; sicché, tra l’altro, il bambino prende a imitare Gua e a farsi guidare da lei nei giochi, anche perché la scimpanzé mostra una maturazione fisiologica e un’agilità maggiori. E così quando Gua impara a togliere i cuscini dal divano e a saltarci sopra oppure a infilarsi fra le gambe del sig. Kellogg, o ancora se Gua procede a quattro zampe, Donald la segue in tutto. È interessante notare che l’imitazione di Donald si spinge fino a quello che potremmo definire un primo abbozzo di comportamento linguistico; infatti, quando Gua desidera qualcosa da mangiare che le piace particolarmente, come per esempio un’arancia, emette un suono gutturale simile alla vocale «u», e allora anche Donald, quando vuole un’arancia, la prende emettendo un suono simile a un «uhu, uhu». Donald arriva a imitare Gua anche per quanto riguarda il fatto che la scimpanzé — come abbiamo detto — ha quale principale organo prensile le labbra e non le mani; infatti, fra i 14 e i 18 mesi, il bambino tenta di graffiare la parete con i denti, di prendere con la bocca delle briciole dalla tavoletta del suo seggiolone, di trasportare coi denti dei piccoli oggetti come un cucchiaio o un cubetto di legno. Per ciò che concerne il comportamento sociale e affettivo, i Kellogg arrivano alla conclusione che non solo i Primati in genere sono animali sociali (com’è dimostrato anche dalla loro vita di gruppo in ambiente naturale), ma per Gua in particolare, essa non soltanto cerca i contatti sociali ma ne è addirittura dipendente. E questa sua dipendenza si può suddividere in due tipi; il primo è la dipendenza fisica simile a quella di un piccolo umano, il secondo è una sorta di dipendenza psicologica — assai maggiore in Gua che in Donald — che si manifesta nell’intenso e costante impulso ad avere sempre presente qualcuno e a chiamarlo. Infatti non c’è punizione peggiore per Gua che il lasciarla sola in una stanza o l’andarsene via troppo in fretta perché lei possa tenerti dietro. Il suo continuo bisogno di una presenza fisica che si occupi di lei è così accentuato che Gua accetta anche la presenza di un estraneo (cosa che generalmente invece la spaventa) pur di non rimanere sola. In relazione a tale spiccata dipendenza psicologica è da vedere — secondo i Kellogg — lo sviluppo del comportamento inibitorio, che è in Gua più precoce rispetto a Donald. Va

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sottolineato che un simile comportamento non corrisponde al punto di vista della scimpanzé, bensì è diretto a soddisfare le aspettative dei suoi educatori; cosicché Gua comincia a fare “di nascosto”1, accertandosi prima che nessuno la veda, alcune cose che le vengono proibite, come, per esempio, prendere dalla tasca dello sportello dell’automobile alcune carte stradali, oppure ficcare i denti nei mobili e nelle pareti o mettersi in bocca dei cubetti colorati. Ritengo che un aspetto importante dello sviluppo “verso l’umano” di Gua sia quello che viene definito il suo comportamento emotivo specialmente rispetto al “ridere” che generalmente viene considerato come uno degli atteggiamenti specificamente umani. Come risulta dal resoconto dei Kellogg, verso gli 8 mesi Gua comincia a presentare una reazione di risata all’eccitazione delle zone corporee sensibili, ma è una risata non vocalizzata e si presenta unicamente come una risposta meccanica alla stimolazione tattile. Invece intorno agli 11 mesi il comportamento di Gua si modifica, nel senso che la sua risata è ora vocalizzata in modo gutturale similmente a quella di un uomo; e, perdipiù Gua ride in assenza di una diretta stimolazione tattile: è infatti difficile applicarle lo stetoscopio al torace per sentire le pulsazioni cardiache perché Gua si mette a ridere al solo vedere lo strumento; e all’età di 14 mesi ride quando gioca a rincorrersi con Donald. E che dire, poi, del fatto che Gua impara molto prima di Donald sia a mangiare con il cucchiaio: lo sa già maneggiare bene a 11 mesi e non avrà più problemi a 13 mesi, mentre Donald impara a usarlo soltanto a 17 mesi e mezzo; sia, verso la fine dell’esperimento e cioè verso i 16 mesi, a essere capace di bere normalmente dal bicchiere. Sono questi due comportamenti così evidentemente umani da far venire in mente frasi fatte del tipo: «Non sa nemmeno stare a tavola» detta di una persona ritenuta particolarmente incivile. E invece Gua sa “stare a tavola”: lo ha imparato in un modo che — i Kellogg tengono a precisare — non ha niente a che vedere con le situazioni di “addestramento” alle quali vengono sottoposti gli animali cosiddetti ammaestrati, in quanto Gua ha imparato tutti i comportamenti alla stessa stregua di Donald, cioè semplicemente vivendo in un ambiente tipicamente umano. Ciò vuol dire, in altri termini, che l’apprendimento di 1

Cfr. Kamala.

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Gua — così come quello di Donald — non avviene per imposizione, bensì per imitazione del comportamento di chi le sta intorno e si occupa di lei. Là dove la scimpanzé sembra decisamente non uguagliare il bambino è nel comportamento linguistico; ma cerchiamo di vederne bene le modalità e i motivi. Intanto va detto che i Kellogg parlano esplicitamente di un “linguaggio d’azione” per quanto riguarda alcuni comportamenti comunicativi di Gua e ne forniscono l’esempio più evidente in un episodio verificatosi quando Gua ha circa 13 mesi. Si tratta di questo: uno dei test di apprendimento, ai quali vengono sottoposti tanto Gua quanto Donald, consiste nell’imparare a bere una spremuta di arancia assumendola direttamente da una bottiglietta col collo stretto, alta 25 cm. Una difficoltà insormontabile per la scimpanzè sembra essere quella di sollevare la bottiglietta da terra per portarla alla bocca senza farne rovesciare il contenuto. Alla fine, però, Gua trova una sorprendente soluzione: si avvicina allo sperimentatore, con la sua destra prende la sinistra dell’altro e la mette sotto il fondo della bottiglietta perché la sollevi. E tale comportamento si rivela così funzionale per Guà da essere riproposto in tutte le situazioni analoghe. Per quanto riguarda la comunicazione orale, Donald è indubbiamente in vantaggio nei confronti di Gua, anche se — affermano i Kellogg — va detto che nessuno dei due soggetti imparò realmente a parlare per tutta la durata dell’esperimento. Sta di fatto, però, che mentre Donald presenta la fase di lallazione e di vocalizzazione, Gua non è mai vista cimentarsi in tale sorta di ricerca a caso nel campo propriamente linguistico, ed essa impara a vocalizzare unicamente dietro la pressione di uno stimolo esterno, perlopiù di carattere emotivo. Comunque, Gua, emette spontaneamente quattro tipi diversi di gridi bisillabici, a seconda della situazione: quando è arrabbiata, quando ha fame, quando ha paura e quando si lamenta. E con l’aiuto dello sperimentatore prima, ma cosa che continuerà a fare da sola poi, Gua è anche in grado di estendere il “significato” dei suoi gridi, nel senso di dire che il bisillabo usato per esprimere la fame viene poi adoperato in tutte le situazioni di assenso, cioè corrisponde al «sì»2, mentre il bisillabo usato per esprimere una condizione di disagio viene poi adope2

Cfr. Kamala.

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rato in corrispondenza dell’umano «no». Però risulta vano ogni tentativo d’insegnare a Gua l’articolazione delle parole, e ciò non riesce – avvertono i Kellogg – non perché l’apparato fonatorio della scimpanzé non abbia meccanicamente la capacità di formulare parole, bensì per due importanti motivi: il primo è di ordine neurologico, infatti la strutturazione della cosiddetta “area di Broca” (la zona del cervello che presiede allo sviluppo e al mantenimento della capacità umana di articolare la lingua) negli scimpanzé appare incompleta; il secondo è di ordine psicologico, nel senso che mentre un piccolo umano è da subito indirizzato e incoraggiato verso la formulazione linguistica, altrettanto certamente non accade nel caso dello scimpanzé. A riprova di quest’ultima affermazione sta il fatto che, benché Donald sia un bambino normale, tuttavia presenta un forte ritardo nell’imparare a parlare, data la particolarissima situazione nella quale si trova: la comunicazione linguistica non si rivela affatto indispensabile per interagire con la sua unica compagna di giochi. Inoltre, già nel primo mese della sperimentazione, Gua si dimostra superiore a Donald nella capacità di “comprendere” la lingua e di rispondere adeguatamente con il comportamento, sicché dopo il secondo mese la scimpanzé è in grado di fornire sette risposte distintive, mentre il bambino ne fornisce soltanto due: è dopo il quinto mese della sperimentazione che Donald riesce a equiparare le sue risposte a quelle di Gua, superandola poi alla fine del sesto mese. Un test, a mio avviso, si è rivelato particolarmente indicativo per la dimostrazione di una vera e propria comprensione della lingua, attraverso ciò che con termine tecnico in linguistica si chiama l’‘arbitrarietà del segno’. Infatti, i coniugi Kellogg per saggiare la capacità di Donald e Gua a far corrispondere un oggetto a un nome, prendono tre cose qualsiasi: un pezzo di tubo di gomma della lunghezza di 46 cm., un pezzo di catena lunga 33 cm. e una cintura di stoffa di 2 mt.; a questi tre oggetti vengono attribuiti tre nomi senza senso: «reet», «meub» e «doax», rispettivamente. Si chiede, quindi, ai due soggetti di prendere ora l’una ora l’altra cosa, e la risposta giusta viene premiata mentre quella sbagliata viene rimproverata con voce dura. La differenza tra il comportamento di Donald e quello di Gua non è grande, tuttavia è lievemente a favore della scimpanzé. Come pure è in vantaggio Gua nel riconoscere gli oggetti attraverso le loro rappresentazioni grafiche: tra i disegni di una tazza, un

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cane, una casa e una scarpa, fatti tutti su un foglio, alla richiesta «mostrami il cane e la scarpa», Donald è in grado di riconoscere solo il primo, mentre Gua risponde correttamente per tutti e due. Mi sono voluta dilungare nel riferire l’esperimento condotto dai coniugi Kellogg sia perché è storicamente il primo di questo genere che abbia avuto una documentazione precisa, sia perché è l’unico che riguardi tutt’intero il comportamento di uno scimpanzé, osservato nel suo svilupparsi all’interno di un ambiente esclusivamente umano e contemporaneamente a quello di un bambino. Gli esperimenti posteriori, infatti, si appunteranno più particolarmente sulla dimostrazione della presenza o assenza nello scimpanzé della capacità di comunicare linguisticamente, concentrando la specificità dell’“uomo” nel suo essere loquens col porre nella facoltà di parlare l’elemento di separazione fra le due classi contigue dell’Homo sapiens e della Simia. Vedremo anche come tale assunto acquisterà sfumature diverse e si modifìcherà nel corso di più di settant’anni di sperimentazioni con gli scimpanzè e con altri primati; come diventi sempre più sottile una simile linea di demarcazione fra le due specie contigue e più arduo stabilire quale ne sia realmente (allo stato attuale della storia) il punto di divaricazione. L’esperimento condotto dai coniugi Hayes per insegnare a parlare a Viky (un’altra scimpanzé) durò sei anni, dal 1944 al 1950, ma non ottenne grandi risultati, poiché Viky imparò a dire soltanto «mamma», «tazza» e «su», e la conclusione di Cathy Hayes3 fu che la scimmia, malgrado avesse l’apparato vocale simile a quello dell’uomo, tuttavia non aveva l’organizzazione neuronale sufficiente al controllo della parola. Sicché, partendo da questa constatazione, i coniugi Gardner, nel 1966, cominciarono ad addestrare un’altra scimpanzè, Washoe, all’uso dell’alfabeto per sordomuti, che è basato esclusivamente sull’impiego dei gesti e delle mani, al fine d’insegnarle a “parlare”. Forse può essere interessante soffermarsi un momento a considerare come funziona il cosiddetto American Sign Language, il sistema di comunicazione linguistica usato appunto dai sordomuti nordamericani. I Gardner dicono che l’ASL può essere paragonato alla scrittura pittografica nella 3

Cfr. C. Hayes, The Ape in our House, Harper, New York 1951.

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quale alcuni simboli sono semi–arbitrari e altri semi–rappresentativi o iconici, ma comunque risultano tutti in qualche misura arbitrari, cioè non condizionati dal contesto “materiale” al quale si riferiscono. Infatti, per esempio, per esprimere il concetto corrispondente alla parola sempre si chiude il pugno e si tende l’indice (come per indicare) mentre si fa ruotare il braccio all’altezza del gomìto; per esprimere, invece, il concetto di fiore si chiude la mano a fuso con le dita distese e le punte che si toccano, e la si porta prima a una narice e poi all’altra come se si odorasse un fiore per l’appunto; il concetto di California, poi, viene suddiviso in quelli di “luogo di divertimento” e “d’oro”, dove il concetto d’oro viene reso prendendo il lobo dell’orecchio con il pollice e l’indice ad anello come per significare un orecchino. Ai fini del nostro discorso su Washoe va notato che, seppure in tutti e tre gli esempi riportati il grado di corrispondenza “concreta” fra l’oggetto che si vuole significare e la sua significazione varia fino a non essere più percepibile per quanto riguarda il concetto di sempre, tuttavia negli altri due casi una tale corrispondenza sussiste unicamente per gli appartenenti a una società culturalmente umana, e non certamente per uno scimpanzé. Voglio, cioè, evidenziare come l’insegnamento di un simile sistema di comunicazione per Washoe risulta in ogni caso totalmente arbitrario, proprio come lo è per noi il sistema della lingua, i cui elementi non sono basati su nessuna corrispondenza “oggettuale”, sono, cioè — come suol dirsi — “arbitrari”; vale a dire che non solo le cose significate non hanno nulla in comune con i “segni” che le significano, ma non hanno nulla in comune neppure con il “modo” in cui questi segni si combinano tra di loro. E ciò che vale per Washoe, come vedremo, risulterà valido anche in tutti gli altri esperimenti condotti con gli scimpanzé o con altri primati non umani. Quanto a Washoe, essa impara celermente molti segni e se in un primo tempo i Gardner aspettano che i gesti spontanei della scimpanzé si prestino a essere indirizzati alla composizione di un gesto dell’ASL, in seguito si rendono conto che Washoe impara molto più rapidamente quando sono loro stessi a prendere le sue braccia e le sue mani e a metterle nella posizione adeguata. Inoltre, i Gardner si accorgono che Washoe sviluppa una sorta di “balbettio” gestuale, che allora viene subito incoraggiato con sorrisi, battimani e ripetizioni del gesto fatto dalla scimpanzé, proprio come si fa con i bambini all’apparire delle

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prime lallazioni. A Washoe si parla sempre e soltanto con l’ASL da parte di tutti quelli che le stanno intorno, sicché dopo ventidue mesi di sperimentazione il vocabolario di Washoe consiste di trenta segni, e mi sembra importante sottolineare il modo col quale essa li usa. Washoe, cioè, non solo ha imparato a dare un nome alle cose ma ha imparato anche a classificare le cose secondo il loro nome: è, per esempio, capace di chiamare «chiave» tutte le chiavi (anche quella dell’accensione dell’automobile), «cappello» tutti i tipi di cappelli; dice «cane» anche quando nessun cane è presente ma se ne sente soltanto l’abbaiare, e — ciò che è più indicativo ai fini di una classificatoria — riconosce e nomina pure le semplici rappresentazioni figurative degli oggetti. Spieghiamo un momento come la scimpanzé arriva a fare quest’avanzata differenziazione linguistica in classi. Essa vi giunge attraverso una precedente classifìcazione più allargata, che include sotto uno stesso termine situazioni diverse tra loro, ma pur tuttavia simili in qualche loro elemento. Facciamo un esempio. Il segno «fiore», in un primo tempo, viene adoperato da Washoe non soltanto per indicare un certo fiore ma anche nel caso in cui non ci sia nessun fiore, bensì si percepiscano odori di vario genere. È evidente, cioè, che Washoe con il termine fiore — a questo stadio — analizza una generica situazione odorifera piuttosto che non uno specifico oggetto dalle caratteristiche precise. Ed è quanto accade nel caso dell’apprendimento linguistico da parte di un bambino; si tratta di quel fenomeno che solitamente si chiama “olofrase”4: il bambino, cioè, con una sola parola intende significare una situazione articolata, che abbisognerebbe invece di più termini per la sua descrizione. L’esempio classico che si suole fare riguarda la parola «mamma», la quale, nella fase iniziale dello sviluppo linguistico, non sta a indicare un’unica precisa persona, per l’appunto la madre del bambino, bensì una qualunque generica persona che però si prenda affettuosamente cura del piccolo e gli dia da mangiare; quindi, con il solo termine “mamma” il bambino vuole significare “la persona che si occupa continuativamente di me”, così come con il

4

Etimologicamente il termine “olofrase” vuol dire “espressione onnicomprensiva”, dal greco ólos (tutt’intero) e frásis (modo di esprimersi).

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termine “fiore” Washoe intende indicare “qualsiasi odore che sto sentendo”. Diciamo ancora che Washoe in seguito opera spontaneamente sia l’operazione di trasferimento del nome da un oggetto particolare a tutti gli oggetti appartenenti alla medesima categoria sia la combinazione di due o più segni fra loro nella composizione di frasi, composizione che viene ulteriormente raffinata quando Washoe impara i pronomi personali «io» e «tu». I Gardner, comunque, dopo ventidue mesi di sperimentazione, si chiedono se sia possibile affermare che Washoe possieda una lingua, e non si danno una risposta perché questa — essi dicono — implicherebbe una solida teoria che fosse in grado di stabilire qual è la classe dei comportamenti comunicativi e quale la classe dei comportamenti non comunicativi. E i due validi sperimentatori si giustificano adducendo come motivo il fatto che se si fossero messi a elaborare una simile teoria non avrebbero potuto iniziare il loro esperimento così presto come hanno fatto. Ma noi, forse, continuando a esaminare anche gli altri tentativi di “umanizzazione” dei primati alla fine una risposta potremmo trovarla. I coniugi Premack, a partire dal 1966, nel loro laboratorio dell’Università della California, hanno insegnato a Sarah — un’altra scimpanzé — a leggere e a scrivere con pezzi di plastica variamente sagomati e colorati, rappresentanti ciascuno una parola. Nel 1973, Sarah è in possesso di centotrenta parole, che usa con un’attendibilità compresa fra il 75 e l’80%. Va precisato che nessuno dei pezzi di plastica, per forma o colore, ha nulla a che vedere con gli oggetti che sta a significare. La giustificazione teorica per il loro esperimento i Premack la fanno risiedere nella ragione che l’insegnare il linguaggio umano a una scimmia permette di definire meglio la natura fondamentale del linguaggio stesso e nel contempo di porre fine a pregiudizi “razzisti” che non vogliono attribuire a membri appartenenti ad altre specie capacità simili a quelle che sono ritenute appannaggio esclusivo della specie umana. Oltretutto l’esperimento viene programmato tenendo conto di capacità concettuali animali già dimostrate, come è quella del classificare un unico oggetto in vari modi a seconda delle alternative presentate all’animale: per esempio, l’angu-

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ria viene classificata come un frutto in un determinato insieme di alternative, come un cibo in un altro insieme e come grande in un terzo insieme; in modo da poter sfruttare una certa quantità di conoscenze già operanti nello scimpanzé. Un’attività conoscitiva nota allo scimpanzé è, per esempio, quella sociale del dare, la quale implica quattro distinzioni concettuali molto importanti: gli individui che compiono l’azione sono altro dagli oggetti che vengono dati, gli individui sono diversi fra loro, gli oggetti fra loro e se stessi dagli altri. Sicché, basandosi su queste acquisizioni, si dà un “nome” all’operazione del dare collocando un pezzo di plastica rosa vicino a Sarah e un pezzo di banana fuori dalla sua portata: per ottenerlo Sarah deve mettere il pezzo di plastica sulla sua lavagna magnetizzata (i pezzi di plastica hanno sul retro una lamina d’acciaio). Quando Sarah ha imparato a fare questa operazione, al pezzo di banana viene sostituito il pezzo di mela, ovviamente indicato da un contrassegno di plastica diverso dal precedente, e così via con altri oggetti. Poi l’azione del dare è sostituita da quella del «lavare», del «tagliare», dell’«inserire», sempre facendo prima vedere a Sarah la situazione corrispondente al verbo5. Quindi a Sarah viene insegnato a significare i verbi in quanto tali con altri pezzi di plastica, eppoi a comporre la sequenza, per esempio, «dare mela» per ottenere una mela, ma viene rifiutata la sequenza «mela dare»: le si comincia, cioè, a far capire che c’è una “costruzione” corretta e una scorretta. Poi, le si insegna a stabilire se due oggetti sono uguali o diversi facendole mettere un pezzo di plastica per l’«uguale» e uno per il «diverso» fra due oggetti appropriati. Quando Sarah ha imparato a eseguire correttamente questa operazione, allora fra i due oggetti uguali o diversi viene introdotto un nuovo pezzo di plastica che stia a indicare il punto interrogativo: la scimpanzé deve imparare a togliere questo pezzo di plastica e a sostituirlo con quello indicante «uguale» o «diverso», a seconda della coppia di oggetti che le viene presentata. Come risulta chiaro tutte le operazioni fin qui descritte vengono fatte alla presenza di oggetti reali, sicché per insegnare a Sarah che le cose hanno un nome indipendentemente dalle cose stesse, le si presenta la parola di plastica significante «mela» e una mela vera e le si 5

Cfr. Victor.

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chiede di collocare fra i due oggetti la parola di plastica significante «nome di». Quando Sarah ha imparato a rispondere correttamente, le si insegna a collocare la parola di plastica «non nome di» fra il simbolo di «mela» e una banana vera. In modo analogo si riesce a insegnarle molti altri nomi di cose, nonché l’uso predicativo dell’aggettivo, e allora Sarah compone frasi come «rosso colore di mela», «rotondo forma di mela», «grande dimensione di mela». Un fatto che sta a dimostrare che Sarah è capace di vere e proprie costruzioni linguistiche e non soltanto di traduzioni simboliche degli oggetti, è rappresentato dall’operazione di implicazione. Il se... allora viene indicato anche questa volta da un unico pezzo di plastica messo fra le due proposizioni che si vogliono implicare, sicché la sperimentatrice compone frasi del tipo «Sarah prendere mela se allora Mary dare cioccolato Sarah» e «Sarah prendere banana se allora Mary non dare cioccolato a Sarah»; una volta che la scimpanzè ha imparato a rispondere correttamente, si inverte il significato delle due frasi dicendo che si dà a Sarah del cioccolato se prende la banana e non la mela. A questo punto Sarah sbaglia continuamente e soltanto quando pone più attenzione alle frasi comincia a scegliere il frutto che le consente di avere il cioccolato, cioè soltanto quando capisce la struttura interna della frase e non solo la sua immediata corrispondenza con la situazione, la sua azione viene premiata. La riprova d’una simile comprensione da parte di Sarah è il fatto che, una volta imparato il nome del colore «marrone» nella frase «marrone colore di cioccolato», le vengono presentati quattro dischi colorati, dei quali uno solo è marrone, le viene quindi chiesto «prendere marrone» e Sarah prende il disco marrone; Sarah, cioè, è stata capace di “astrarre” il nome del colore dall’oggetto concreto in riferimento al quale l’ha imparato. Quest’altro esempio è forse ancora più indicativo: viene fatta vedere a Sarah una mela vera e contemporaneamente le viene data una serie di pezzi di plastica significanti coppie di qualità contrapposte che descrivono i caratteri di una mela, come “rosso”–“verde”, “rotondo”– “quadrato”, “quadrato con peduncolo”–“quadrato semplice”, “quadrato con peduncolo”–“tondo”, ecc.; e Sarah deve scegliere le qualità appartenenti alla mela. Il risultato è che la sua analisi dei caratteri della mela vera concorda esattamente con quella fatta dagli sperimentatori, sì da non lasciare più dubbi sulla capacità della scimpanzé di de-

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comporre un oggetto complesso nei suoi costituenti. Ciò, a mio avviso, sta a dimostrare che Sarah è ormai in grado di “pensare linguisticamente”, tanto è vero che, quando alla mela vera viene sostituita la sua parola di plastica, Sarah assegna alla parola le stesse qualità che ha prima attribuito all’oggetto reale. Perdipìù la nostra scimpanzé è in grado di comprendere la sintassi, cioè l’organizzazione gerarchica di una proposizione; infatti impara a eseguire correttamente le seguenti istruzioni scritte sulla sua lavagna: «Sarah mettere mela secchio» e «Sarah mettere banana piatto», che successivamente vengono combinate in «Sarah mettere mela secchio Sarah mettere banana piatto»; dopo di che si tolgono i secondi «Sarah» e «mettere» e la frase risulta: «Sarah mettere mela secchio banana piatto». L’esatta comprensione di quest’ultima frase implica che Sarah deve capire che vanno insieme «mela» e «secchio» ma non «secchio» e «banana», che il termine «mettere» rappresenta un livello di organizzazione più elevato riferentesi sia a «mela» sia a «banana» e, infine, che è lei a dover compiere entrambe le operazioni. E tutto ciò, appunto, dimostra che Sarah ha compreso la successione logica della frase e il valore del posto occupato da ciascuna parola di plastica all’interno della frase medesima. Penso di poter dire che l’esperimento condotto ancora con un’altra scimpanzè, di nome Lana, da parte di un gruppo di ricercatori dell’Università della Georgia, sia il proseguimento raffinato dei tentativi fin qui condotti dagli altri sperimentatori. Se, cioè, per quarantadue anni, dal 1931 al 1973, si è cercato di dimostrare che uno scimpanzé opportunamente motivato dall’ambiente è decisamente in grado di acquisire un tipo di comunicazione simbolica basata su un codice di segni arbitrari, e se con Sarah ciò risulta abbastanza evidente, con l’esperimento di Lana mi sembra che non si possano più nutrire dei dubbi fondati. Duane Rumbaugh e i suoi collaboratori scrivono infatti che se è ragionevole pensare allo sviluppo del cervello e dell’intelligenza come al risultato della combinazione di forze naturali e di condizioni ambientali che hanno adattato il comportamento dell’animale a situazioni dinamiche di cambiamento, allora per rendersi conto di come può evolversi un comportamento è necessario che l’ambiente nel quale l’animale si trova ad agire venga mutato in modo rapido e innovativo. Detto più brevemente: per misurare l’intelligenza di un

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animale occorre vedere se di fronte a una situazione totalmente nuova per lui, esso è capace di continuare a rispondere al soddisfacimento dei propri bisogni. Nel caso di Lana si è voluto verificare se una tale risposta potesse venire fornita anche attraverso un comportamento linguistico. È necessario dare una descrizione minima dell’ambiente sperimentale nel quale è stata posta Lana, all’età di circa 28 mesi. Il mondo di Lana consta di un cubo di plastica trasparente di poco più di 2 mt. di lato; su uno dei lati è inserita una tastiera di calcolatore con settantacinque tasti: è mediante questa tastiera che Lana comunica col mondo esterno, ed è soltanto per mezzo di essa che la scimpanzé può ottenere il soddisfacimento dei propri bisogni. Su ognuno dei tasti a disposizione di Lana c’è una configurazione geometrica — detta lexigramma — che rappresenta una determinata parola; il colore che fa da sfondo a ogni lexigramma sta a indicare la classe di parole cui un certo lexigramma si riferisce, per esempio: la classe degli esseri animati, quella degli oggetti fisici, delle cose commestibili, delle attività, delle preposizioni, ecc. La dislocazione dei tasti viene alterata di tanto in tanto, in modo che Lana per capire il significato di un lexigramma non possa fare affidamento sulla memorizzazione spaziale6, ma deve necessariamente fare riferimento unicamente alla forma del lexigramma. I tasti che Lana può adoperare sono quelli accesi, nel senso che sono quelli soltanto i tasti in collegamento col calcolatore, e in genere ne funzionano cinquanta contemporaneamente. L’addestramento all’uso di una simile tastiera avviene per quattro stadi. Nel primo stadio Lana viene abituata a premere singoli tasti separatamente per ottenere una qualunque cosa di quelle che possono essere distribuite dal calcolatore. Nel secondo stadio si insegna a Lana l’“inizio” e la “fine” di una richiesta facendole premere, rispettivamente, il tasto che sta per «Per favore» e quello che sta per «Punto». Il terzo stadio consiste nel rimpiazzare l’uso dei singoli tasti corrispondenti a un singolo stimolo con l’uso di tasti che significhino una richiesta più articolata: per esempio, non il singolo tasto per l’acqua, bensì i cinque tasti della frase «Per favore, Macchina, Dare, Acqua, Punto». Il quarto stadio, infine, prevede il successivo 6

Cfr., per converso, Victor.

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frazionamento della frase in modo che Lana spinga un tasto per ogni parola separatamente dalle altre della stessa frase; e per rendere inequivocabile la prova, i tasti vengono accesi e dislocati a caso su tutta la tastiera, nonché a volte inframmezzati da altri tasti facenti parte di un’altra frase. In questo modo Lana deve stare attentissima a premere esattamente i tasti che corrispondono al suo intendimento e solo quelli, se vuole ottenere ciò che desidera. E Lana supera brillantemente tutte le prove. Inoltre, sul bordo superiore della tastiera sono collocati in fila, da sinistra verso destra, otto piccoli proiettori che riproducono — come in una specie di lavagna luminosa — i lexigrammi premuti da Lana, in modo che la frase voluta compaia, alla fine, ordinata appunto da sinistra a destra tutta insieme. E con grande sorpresa dei suoi addestratori, Lana si accorge da sola del risultato di questo meccanismo, cioè impara letteralmente a leggere le proprie frasi composte sulla lavagna luminosa: cosa tanto più rilevante in quanto i lexigrammi riprodotti dai proiettori risultano più grandi di quelli raffigurati sui tasti e col colore dello sfondo leggermente diverso. Cionondimeno, Lana considera i lexigrammi riprodotti equivalenti agli originali e non soltanto per quanto riguarda la singola forma di ognuno, ma anche per ciò che concerne il loro significato nella frase: ricordiamoci infatti che i tasti sono collocati a caso sulla tastiera e la scimpanzé deve cercarli attentamente per poterli comporre insieme correttamente. Qui mi pare chiaro che, come è già accaduto per Sarah, anche Lana ha imparato l’ordine logico della successione sintattica; essa, inoltre, impara da sé a riconoscere le frasi corrette da quelle sbagliate e ad adoperare il tasto «Punto» per cancellare queste ultime. Insomma, in una parola, Lana ha imparato a leggere e scrivere; infatti, se le si vogliono far completare frasi sbagliate del tipo: «Per favore, Finestra, Fa, …», Lana preme subito il tasto «Punto» e le cancella, mentre completa, benissimo frasi del tipo: «Per favore, Macchina, Fa, …», con una attendibilità che supera il 90%. Una riprova del fatto che Lana sappia leggere e scrivere è la constatazione che essa è in grado di rispondere per “iscritto” alle domande che gli sperimentatori le rivolgono attraverso una tastiera funzionalmente equivalente alla sua. Se, cioè, si pone a Lana la domanda: «?, Qual è, Nome, Di, Questo, Punto» presentandole contemporaneamente un qualsiasi oggetto di quelli che essa richiede

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abitualmente, la scimpanzé impara a rispondere correttamente dopo 1600 prove durate due settimane. A conclusione dell’esperimento condotto con Lana va ancora detta una cosa molto importante. Sulle prime i bisogni che la scimpanzé esprime sono essenzialmente di ordine alimentare, ma in un secondo tempo quando cioè è ben capace di manovrare la sua tastiera e di rendersi consapevole della sua nuova condizione di vita, l’espressione dei suoi bisogni si fa — come dire — più raffinata, ed essa chiede di essere solleticata (è interessante notare che la richiesta viene rivolta tanto a uno sperimentatore umano quanto al computer), oppure che le venga aperta la finestra per poter guardare fuori, oppure che le si faccia sentire un po’ di musica. E tutti questi comportamenti secondo me indicano molto chiaramente che Lana ha imparato splendidamente ad adattarsi a un ambiente che era per lei completamente estraneo, proprio nel senso di dire che è stata capace di acquisire un nuovo strumento di comunicazione — quello linguistico — per interagire a proprio vantaggio con le cose che le stanno intorno. Certamente — come per tutte le altre scimpanzé fin qui prese in considerazione — anche nel caso di Lana lo strumento linguistico viene soltanto usato e non inventato ex novo, poiché le viene fornito già bello e fatto; ma una tale argomentazione resterebbe valida anche quando venisse applicata al caso “normale” dei nostri bambini, oltre che a tutti i casi dei ragazzi selvaggi. Voglio dire, cioè, che gli esperimenti con gli scimpanzé sono una valida testimonianza di come un sistema linguistico risponda alle esigenze di un ambiente culturalmente avanzato e complesso, nonché di come l’acquisizione di un tale sistema di comunicazione dipenda esclusivamente dalle pressioni situazionali e non dalle possibilità genetiche, intendendo con possibilità genetiche proprio la costituzione ereditaria degli organismi, che è quella che serve a determinare la differenza fra le specie. Insomma, una scimmia è una scimmia e un uomo è un uomo, ma questa discriminazione non va fatta soltanto a livello di morfologie fisio–anatomiche, riducendo tutto il comportamento umano a un prodotto di questo livello, perché bisogna invece articolare la differenza fra le due specie nel senso più volte detto: comprendendo che i caratteri fisici e i comportamenti non sono due aspetti completamente separati fra loro, ma la risultante dell’interazione continua fra l’indi-

Gli esperimenti con gli scimpanzé

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viduo e l’ambiente, che dura nel tempo e si stabilizza quando le condizioni ambientali permangono relativamente costanti per un periodo assai lungo. Ciò non vuol dire, però, che quando l’ambiente cambia prepotentemente l’individuo non possa, per statuto genetico, adattarsi nuovamente usufruendo di mezzi nuovi in modo nuovo, proprio perché l’individuo e l’ambiente non sono due “cose” estranee e contrapposte, bensì l’uno il reciproco prodotto dell’altro7. Sicché, tornando alle nostre scimpanzé, possiamo concludere che non è scientificamente lecito affermare che l’essere umano è geneticamente programmato per imparare a comunicare linguisticamente, poiché questi esperimenti dimostrano che un tale tipo di comunicazione risponde alle necessità di un certo ambiente e non alle determinazioni del codice genetico; così come alle necessità di un certo ambiente rispondono tutti gli altri comportamenti che sogliamo definire “umani”.

7

Cfr. G. Bateson, Verso un’ecologia della mente, Adelphi, Milano 1972, in particolare le pp. 464 sgg.

Capitolo Settimo VENTICINQUE ANNI DOPO

Quando nel dicembre 1979 fu pubblicato, l’argomento trattato ne La scimmia vestita.47 casi di ragazzi selvaggi era quasi del tutto sconosciuto sia all’ambiente scientifico sia al grande pubblico. Oggi, invece, esiste addirittura un sito internet che raccoglie una documentazione e una bibliografia sui casi dei ragazzi selvaggi: lo segnalo al lettore che desideri avere notizie di casi che non includerò nella presente riconsiderazione della mia pubblicazione http://www.feralchildren.com Per quanto mi riguarda, non modificherò la metodologia di approccio al tema e aggiornerò la casistica basandomi solo sulla documentazione di pochissimi casi per i quali ho avuto accesso diretto alle fonti di informazione. Va comunque detto che dal 1980 al 2005, sul sito internet menzionato, vengono segnalati una ventina di casi di ragazzi selvaggi di tutte e tre le tipologie da me individuate: quelli allevati da animali, domestici e selvaggi, quelli sopravvissuti in luoghi selvatici per autosostentamento e quelli tenuti in segregazione. E le aree geografiche interessate sono i cinque continenti: dall’Europa all’Asia, dall’Africa all’Indonesia, alle Americhe. Il caso che qui tratterò per primo è quello di cui dispongo di maggiori documentazioni, anche filmate, venuto alla conoscenza di tutto il mondo nel 1984 e relativo alla bambina ritrovata allo stato selvaggio in Sierra Leone, nell’Africa occidentale, probabilmente allevata da un branco di scimmie.

Baby Hospital, bambina–scimmia Nel 1978, in Sierra Leone, alcuni agricoltori che stanno disboscando una parte di foresta, s’imbattono in un branco di scimmie all’interno del quale notano una strana creatura che non sembra essere una scim131

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Capitolo Settimo

mia come le altre. Riescono a catturarla con una rete e la portano al loro villaggio. All’inizio questa creatura si dibbatte selvaggiamente all’interno della rete, così che soltanto quando si calma gli abitanti del villaggio possono rendersi conto che non si tratta di una scimmia ma di una bambina di circa 5 anni, che però non è in grado di rispondere alle loro domande e neppure di capirle: emette solo un brontolio scimmiesco. Liberata dalla rete, la bambina non riesce a stare ritta in piedi ma rimane curva poggiando su mani e piedi. Provano a darle una tazza d’acqua, ma la piccola riesce a berla solo quando gliela porgono in una ciotola posata per terra, e allora la lappa direttamente con la lingua. Le lanciano per terra anche una banana che la bambina non prende con le mani, ma morde con i denti curvandosi fino al suolo. I contadini cercano anche di farle indossare una camicia, che però viene immediatamente strappata di dosso e fatta a pezzi. Gli abitanti del villaggio che, sulle prime hanno pensato di trovarsi davanti all’incarnazione dello spirito maligno causa delle morti delle loro capre e galline, si rendono poi conto che deve trattarsi di una bambina di qualche villaggio vicino persasi nei boschi. Ma continuano ad averne paura per la stranezza del suo aspetto e del suo comportamento animalesco, perciò confinano la strana creatura sotto una tettoia, legata per le gambe. Finché qualcuno, nottetempo, la porta al vicino ospedale regionale di Magburaka. Il dr. P.B. Kamara, dopo averla visitata, registra un quadro clinico caratterizzato da incontinenza, sviluppo subnormale delle cavità articolari del femore (che le impedisce la stazione eretta), incapacità di parlare, ma buona capacità tattile. Essendo, in quanto medico, costretto a ricoverarla, fa rinchiudere la bambina, così come sta, in una stanzetta– ripostiglio, dove la poveretta non fa che gridare e lamentersi per giorni interi1. E solo nel 1982 la notizia di questa miseranda bambina arriva al missionario saveriano padre Quartilio Gabrielli che la soccorre, faticando un po’ a tirarla fuori da quel buco sporco e puzzolente perché la bambina cerca di non farsi prendere rannicchiandosi in un angolo. Padre Gabrielli dà una modesta retribuzione ad alcune donne di un villaggio vicino alla missione perché accettino, non senza resistenze, di prendersi cura di quel povero essere, denominato Baby Hospital. La sopravvivenza allo stato brado nella foresta e, soprattutto, i quattro 1

v. il settimanale «Panorama», 5 marzo 1984, p. 136.

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anni di reclusione nel più completo abbandono e nell’assenza di qualsiasi contatto umano hanno ridotto Baby Hospital in uno stato di estrema debilitazione e sporcizia. Con l’andar dei mesi Baby Hospital si riprende fisicamente e psicologicamente; per la maggior parte del tempo rimane in un lettino con le sponde alzate, da dove ogni tanto viene fatta uscire per insegnarle a camminare e a comportarsi normalmente. Nel febbraio 1984 un inviato della RAI, Sebastiano Rendina, riesce a realizzare un filmato andando in Sierra Leone, nel villaggio dove sta Baby Hospital. Il filmato mostra una bambina, intorno ai 9 anni d’età, finalmente ben nutrita, pulita e vestita, con un’espressione serena e anche sorridente, ma la sua postura non è ancora del tutto eretta e ancora non adopera le mani per mangiare e bere: lappa il cibo direttamente dal piatto poggiato per terra. Così si esprime lo psichiatra Ignazio Majore dopo aver visto il filmato della RAI: «Certo non è un’idiota, una ritardata mentale. A un primo esame risulta avere i piedi completamente piatti, muscoli anteriori delle gambe ben sviluppati al contrario di quelli dei polpacci (a causa del fatto che non ha mai imparato a camminare da piccola), movimenti delle mani (polso spezzato) molto simili a quelli delle scimmie. Però la bambina ha cominciato ad avere un rapporto recitativo con l’ambiente e con il personale dell’ospedale per essere accettata. E questo comportamento denota l’assenza di tare mentali congenite e un lento processo di apprendimento»2. Il filmato di Rendina è stato mandato in onda sulla prima rete della RAI nella trasmissione “Italia Sera” del 27 febbraio 1984, alla quale io stessa ho partecipato come esperta di casi di ragazzi selvaggi. Sicché posso riferire alcune osservazioni dirette. La prima inquadratura del filmato mostra la bambina ben vestita, in piedi sul suo lettino con le sponde alzate, che guarda verso la cinepresa con un’espressione tra il sorpreso e il timoroso, ma non spaventata alla vista di sconosciuti abbigliati in modo per lei inconsueto e con oggetti, come la cinepresa, mai visti. Comunque, la sua reazione è quella “normale” di una bambina di 2 o 3 anni, mentre il suo aspetto sembra essere quello di una bambina di circa 9 anni. Mostra segni di grande contentezza nel momento in cui la fanno uscire dal lettino e le permettono di giocare con 2

ibidem, p. 137.

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Capitolo Settimo

un rotondeggiante pupazzetto di plastica rossa e bianca, che Baby Hospital prende con le mani ma esplora attentamente e ripetutamente con la bocca, con movimenti delle labbra e “soffi” nasali assai tipici delle scimmie. Il suo comportamento di esplorazione conoscitiva è soltanto orale, come quello di un bambino molto piccolo, intorno ai nove mesi d’età, ma la mimica è decisamente scimmiesca con i ritmici suoni fruscianti delle labbra. La sua postura non è completamente eretta ma semicurva all’altezza del bacino, ed è scimmiesco anche il modo di stare seduta, accovacciata con una gamba piegata e completamente appoggiata al terreno e l’altra piegata in verticale e leggermente allargata verso l’esterno, nonché il modo di alzarsi con un moto repentino e senza appoggio. Accompagnata per mano fuori dalla capanna, si accovaccia sul terreno erboso e comincia a brucare l’erba, che la madre adottiva le toglie subito di bocca; poco prima ha mangiato il suo cibo lappandolo direttamnte dal piatto poggiato sul pavimento della capanna. E mentre mostra di non rendersi minimamente conto della sua immagine riflessa in uno specchio che le viene posto dinanzi, esibisce un comportamento di grandissima eccitazione, direi di grande allegria, di fronte a un fuoco di paglia che viene acceso proprio per osservare la sua reazione. Tanto è contenta a quella vista che si dirige senza esitazione verso la fiamma, che per lei evidentemente non è un segnale di pericolo, e bisogna trattenerla perché non si avvicini troppo al fuoco. Dopo due anni di amorevoli cure, l’aspetto di Baby Hospital è sorridente e civile, anche se non emette nessun suono “umano”; non parla e non adopera le mani nella specifica funzione manipolativa, ma solo per sorreggere gli oggetti; mangia lappando e bruca l’erba. Anche in questo caso va, prima di tutto, rilevata la grandissima e grandemente plastica capacità di adattamento dell’animale umano, certamente dovuta a un’ampia potenzialità genetica, che lascia aperta la funzionalità fisiologia di risposta ad ambienti molto diversificati. Baby Hospital, nei suoi brevi lunghissimi 9 anni, è stata capace di comportarsi come una scimmia tra le scimmie, di resistere in condizioni di reclusione sine cura, di tenere addosso per la prima volta un vestito, di dormire in un letto e di sorridere a uno sconosciuto. Penso davvero che non sia più dubitabile la realtà tangibile dei casi dei ragazzi selvaggi e penso che dovremmo, invece, fare tesoro di questa sorta di esperimenti naturali per comprendere maggiormente la

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relazione e la differenza tra natura e natura umana. Sarebbe un modo per migliorare i nostri normali rapporti sociali e dunque, di conserto, le strutture psichiche individuali che ne conseguono, oltre che aiutare con maggiore efficacia quei fanciulli che venissero a trovarsi in simili situazioni. A Magburaka, in una circostanziata intervista, che riporto quasi integralmente, padre Gabrielli, racconta: Parlo di Baby Hospital solo perché è necessario che intorno a lei si sviluppi un sentimento di solidarietà che possa aiutarla a rompere il buio che attualmente ottenebra la sua mente. La bambina ha bisogno di cure e di medici specialisti che si occupino di lei. […] La sua storia è ancora oscura. Si ignorano i particolari anche se si conoscono i contorni. Certamente la bambina è nata in un villaggio qui vicino, la sua conformazione fisica è tipica della gente del luogo. […] Secondo me è stata rapita dalle scimmie. La bambina non ha niente di umano se non il fisico: si muove, mangia e urla come fa una scimmia3.

Padre Gabrielli non ritiene che Baby Hospital sia stata abbandonata di proposito come avviene molto spesso in quella società tribale che considera portatore di sventure un bambino nato malformato o handicappato, perché, continua: questa bambina non è anormale; è anzi molto sveglia e intelligente. […] La sua storia inizia in una notte d’agosto di cinque anni fa, quando fu trovata nei pressi dell’ospedale governativo di questo villaggio. Chi l’avrà portata? Non si è mai saputo. […] Comunque siano andate le cose, resta il fatto che chi raccolse quella bambina, rimase sbigottito e terrorizzato. In apparenza era una creatura umana, ma si muoveva e grugniva come una scimmia. Superando le perplessità e le superstizioni, qualcuno la raccolse e la portò nell’ospedale: ma lì, terrorizzati dalle sue grida, la rinchiusero in una stanzetta isolata. La povera bambina rimase chiusa, come un animale in cattività, per circa tre anni. Il personale dell’ospedale, composto di gente del luogo e perciò vittima delle superstizioni, non osava affacciarsi in quella stanza, provvedeva soltanto a portarle da mangiare e da bere e poi le stavano lontano. Non la pulivano e la trascuravano proprio come si fa con un animale. Per tre anni nessuno mi ha mai parlato di questa bambina. Un giorno, finalmente, alcuni indigeni mi parlarono di lei. Erano terrorizzati soltanto a parlarne. A fatica riuscii a capire le loro parole. «Nell’ospedale c’è una “bambina-scimmia”», mi 3

v. il settimanale «Gente», 16 marzo 1984, p. 19.

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Capitolo Settimo dicevano: «lo spirito maligno è entrato lì dentro». Mi diressi immediatamente dove mi avevano indicato e quando aprii la porta di quella stanzetta inorridii. C’era questa bambina che si trascinava carponi. Viveva nel più completo abbandono. Era sporca ed emanava una puzza insopportabile. Era ridotta pelle e ossa, e piangeva disperatamente, almeno così capii dai suoni strani che emetteva. I suoi occhi erano assenti e persi nel vuoto, ma si intuiva un’aggressività tipica degli animali. Appena mi vide entrare tentò di scappare, ma le forze le mancarono e allora si rannicchiò in un angolo. Si vedeva che era terrorizzata e i suoi grugniti divennero insistenti e insopportabili. Mi avvicinai pronunciando le parole più dolci che conoscevo, ma non c’era proprio niente da fare, non avevo nessuno che potesse aiutarmi, tutti si erano allontanati per lo spavento; poi, finalmente, riuscii ad afferrarla: per qualche attimo cercò ancora di dibbattersi, poi finalmente si calmò e si lasciò prendere. Non nascondo che anch’io avevo un po’ di paura: quell’esserino così diverso dalla norma mi impressionava. Ma fu soltanto un attimo. Quando la sentii tremare tra le mie braccia, fu tanta la commozione che mi si inumidirono gli occhi di lacrime. La sua pelle era calda nonostante fosse nuda. Era affamata e quando le offrii una scodella di riso si gettò carponi sul piatto tuffando avidamente la faccia nel riso. Fu duro per me ammetterlo: ma gli uomini che mi avevano informato della bambina avevano proprio ragione: davanti a me c’era una «bambina–scimmia». E mi convinsi maggiormente quando la portai fuori dall’ospedale e vidi che si precipitava a brucare l’erba. […] In questo ultimo anno, grazie alle nostre cure, Baby Hospital ha piano piano ricominciato ad assumere qualche parvenza di essere umano. Gioca con gli oggetti che di tanto in tanto le portiamo e riconosce le persone che le sono vicino. Solo da qualche giorno ha accettato di indossare il vestito. Prima tentava di mangiarselo e non lo sopportava. Ancora non riesce a camminare sui due piedi senza il nostro aiuto. Quando è sola si muove a carponi e bruca ancora l’erba. […] Gli inizi sono stati difficili. La bambina non solo non migliorava, ma rifiutava ogni contatto con noi. Il brusco cambiamento delle sue abitudini l’aveva resa irritabile e innavicinabile. Accettava solamente il cibo e poi si rannicchiava in un angolo per non farsi prendere. I primi otto mesi di cure sono stati in apparenza inutili, anzi la bambina era ancora dimagrita ed emetteva grugniti disperati. Verso la fine di marzo 1983 abbiamo avvertito qualche miglioramento, grazie anche agli aiuti che sono cominciati ad arrivare. La difficoltà maggiore l’abbiamo avuta nel trovare una persona che si interessasse a lei. Nessuno aveva il coraggio di avvicinarla, tutti temevano che toccandola si attirassero le sventure. […] Finalmente dopo vari tentativi in questi giorni abbiamo trovato una donna che si è affezionata a Baby Hospital e la cura con amore. La bambina ha bisogno essenzialmente di affetto. I suoi progressi sono stati lenti ma costanti. Oggi per esempio è riuscita a prendere un bicchiere d’acqua con le mani e a portarselo alla bocca. […] Io vengo a trovarla quasi ogni giorno e ogni volta che mi vede varcare la soglia della sua stanzetta fa salti di gioia. In questi giorni le ho fatto tagliare i capelli che aveva lunghis-

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simi e arruffati. Le ho fatto indossare anche un vestitino nuovo, lei lo ha guardato un po’ con aria di diffidenza, ma poi l’ha accettato. […] Una cosa eccezionale: in tutti questi anni Baby Hospital non si è mai ammalata. È sempre stata bene, non ha mai sofferto neppure un raffreddore. […] La bambina reagisce in modo abbastanza vivace alle novità. Anzi è curiosa di scoprire nuove situazioni e nuovi oggetti. E poi conosce le persone che le sono vicine e si affeziona a loro4.

Di Baby Hospital abbiamo notizie ulteriori nel settembre 1989 in un resoconto sul settimanale «Gente», che riporta gli sviluppi del caso5. Allora la ragazza ha quasi quindici anni ed è stata battezzata col nome di Maria Sissi; ha fatto progressi enormi con le cure amorevoli della madre adottiva, che con l’affetto è riuscita a insegnarle a camminare in posizione eretta, a sedersi a tavola, a giocare con gli altri ragazzi, a farsi capire anche senza saper parlare e a imparare un lavoro d’intreccio di canestri di giunco. Tutti i progressi, che hanno trasformato Baby Hospital in Maria Sissi, sono cominciati nel momento in cui una donna indigena di 30 anni senza famiglia ha accettato, sebbene con una iniziale timorosa riluttanza, di occuparsi di quella bambina certo assai strana, che però aveva preso la mano che lei le aveva teso e le aveva regalato un luminoso sorriso. Così, ci sono voluti due anni di paziente e attenta dedizione perché Maria Sissi imparasse a camminare, un tempo minore, però, per mangiare correttamente, anche se prevalentemente con le mani come si usa nel villaggio. Invece con la comunicazione verbale ancora non si è avuto successo, sebbene la madre adottiva abbia detto di averle sentito sussurrare la parola mamy. I missionari saveriani stanno insegnando a Maria Sissi a fare piccoli lavori di artigianato, anche con la speranza di crearle una possibilità di sostentamento economico per il futuro con la vendita dei suoi manufatti nei mercati dei villaggi vicini. Altre notizie di questo caso si hanno nel luglio 1993 dal settimanale «Panorama»6. Maria Sissi ha ormai vent’anni, è in buona salute ma non è più alta di 140 centimetri. La madre afferma che la ragazza comprende molte delle cose che le dice e l’aiuta anche a fare semplici 4

ibidem, pp. 19–24. v. il settimanale «Gente», 7 settembre 1989, pp. 18–20. 6 v. il settimanale «Panorama», 25 luglio 1993, pp. 126–129. 5

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lavori domestici. Maria Sissi non parla, ma riesce a farsi comprendere con un linguaggio fatto di gestualità, per esempio, si preme la pancia per dire che deve andare a fare pipì, oppure si mette il polso in bocca per far capire che ha fame. La sua attenzione è vivace per tutto ciò che le sta nell’immediato intorno di pochi metri, oltre il quale però il suo sguardo si perde. Sin qui arrivano le informazioni dalla Sierra Leone. Di qui inizio a fare alcune considerazioni. Le prime, elemetari, rilevano la totale analogia comportamentale con tutti gli altri casi, da me già analizzati, di ragazzi selvaggi allevati da diverse specie animali: la ferina resistenza alla cattura e all’inserimento in un ambiente umano; l’adattamento, viceversa, alle abitudini della specie “adottiva”, fino alla modifica fisiologia di organi e funzioni che vengono conformati il più possibile alle esigenze ambientali; il comportamento generale, sempre imitativo di quello della specie di convivenza. E, di nuovo, anche nel caso di Baby Hospital, l’imprinting comunicazionale sociale adattato a una società animale rende oltremodo difficile acquisire una così diversa e complessa modalità di comunicazione com’è quella verbale. Questa, infatti, in un normale ambiente umano si istaura primariamente nel rapporto affettivo linguistico con la madre: la lallazione rinforzata nei primissimi mesi di vita aiuta il controllo della laringe; lo scambio verbale e comportamentale nella prima infanzia continuamente trasforma la materialità del mondo oggettuale nella simbolicità di una realtà raccontata oltre che vissuta. La realtà di Baby Hospital, per i suoi primi cinque anni, è stata quella della foresta e delle scimmie, tutta materialità e niente simbolizzazione. Una realtà ancora peggiore e diversa ha vissuto per i successivi quattro anni, rinchiusa in uno spazio angusto e “innaturale” fino all’estremo, nella mancanza persino di quella materialità significativa che deriva dall’interazione animale in un ambiente libero. Sicché è un’impresa davvero disperata sostituire una memoria sociobiologica formatasi in circostanze tanto drammaticamente anomale con un’altra, che deve formarsi associando a ogni emozione e a ogni bisogno non soltanto azioni ma anche parole. Ancora una volta, e in maniera patente, questo caso dimostra che l’animale umano differisce da tutti gli altri animali, anche da quelli più vicini nella gerarchia delle specie come le scimmie, per una discre-

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panza quantitativamente molto piccola a livello genotipico, ma che a livello fenotipico risulta concretare un ventaglio di potenziale attuabilità fisiologica, strutturale e funzionale, qualitativamente molto ampio. A cominciare dalla capacità di parlare, la cui base genetica si fonda sulla particolare conformazione della nostra laringe, risultato dell’acquisizione filogenetica della postura eretta e della conseguente verticalità della colonna vertebrale in connessione con le ossa pelviche e femorali, fino alla prosecuzione ultima della perpendicolarità alla spina dorsale della scatola cranica, che ha consentito un riposizionamento e ampliamento della massa cerebrale nei lobi frontali e una estensione di quelli temporali. Una tale combinazione di strutture genetiche è la base indispensabile ma solo potenziale per lo sviluppo di una complessa comunicazione vocale: l’attuazione effettiva di questa abbisogna di un’altra componente basilare, costituita dall’interazione socioambientale con i propri simili e dalle condizioni di sopravvivenza che richiedano l’uso delle mani per manipolare e costruire utensili atti alla difesa e al procacciamento del cibo. Difatti, nei confronti degli altri animali compresenti nell’ambiente naturale, l’animale umano è particolarmente “imbelle”, così privo com’è di artigli, di zanne, di una mole corporea possente, di una velocità e resistenza di corsa elevate. L’azione combinata, genetica e ambientale, permessa dalla postura eretta, che affranca gli arti superiori dalla necessità deambulatoria e contemporaneamente amplia la capacità cranica assieme alla massa cerebrale, e condizionata dall’ineludibile bisogno di sopravvivere, è il nodo gordiano — realmente inscindibile, pena la perdita di senso — che tiene insieme dall’origine la comunicazione e la strutturazione linguistica. Dico nodo gordiano in senso proprio: si può scindere solo tagliandolo, cioè solo annullando il nodo, negando il legame di necessità tra potenzialità genetica e adattamento sociobiologico. Se si isola una componente o l’altra, si vanifica la comprensione di qualsiasi comportamento animale, compreso quello umano e quello che lo contraddistingue tra tutti, la comunicazione verbale; giacché, vale la pena ribadirlo, ogni comportamento è l’espressione di una comunicazione tra l’individuo e l’ambiente, naturale e sociale. Ovvero, nello studio teorico e nell’applicazione metodologica alla pratica linguistica è cognitivamente contraddittorio ed empiricamente inefficace operare un riduzionismo genetico

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oppure ambientale, perché genetica e ambiente sono entrambi e contemporaneamente costitutivi del comportamento verbale messo in opera dalla specie Homo sapiens nel corso dell’evoluzione. Perciò i ragazzi selvaggi non hanno potuto sviluppare un comportamento verbale perché è venuta meno una delle due componenti fondamentali indispensabili alla determinazione di un simile comportamento, quella socioambientale di tipo umano. Preciso meglio le ragioni di tale impossibilità. Anche la componente genetica umana (postura eretta e ampliamento della capacità cerebrale) è stata selezionata dalla coevoluzione tra gli organismi animali e l’ habitat mediante il reciproco adattamento operato dal comportamento animale finalizzato alla sopravvivenza individuale e sociale. In generale, la coevoluzione può essere descritta come una modalità cibernetica di circuito a retroazione tra potenzialità genetica e attuazione comportamentale, la quale decide della sopravvivenza del singolo animale che realizza il comportamento adeguato, e quindi decide della sopravvivenza possibile della sua progenie. Ciò determina la formazione filogenetica delle varie specie adattate ai vari habitat. Quanto più è complessa la biologia di una specie animale, ossia quanto più ampia è la sua potenzialità genetica, tanto più la retroazione ambientale è affidata al comportamento dei singoli individui e quindi all’apprendimento delle soluzioni vantaggiose. Quindi anche il comportamento verbale per attuarsi deve essere motivato dalla necessità della sopravvivenza: la sua potenzialità genetica è indefinita nella grande plasticità funzionale cerebrale umana e viene definita unicamente in conseguenza dell’interazione vantaggiosa tra l’individuo e l’ambiente; essa, in breve, è un’espressione fenotipica e non genotipica. Per esemplificare. Nel codice genetico della specie umana non è filogeneticamente insita la potenzialità di artigli, zanne e muscolatura potentissima, bensì è insita la potenzialità manuale dell’uso esclusivamente manipolatorio degli arti superiori e dell’uso articolatorio fine della laringe, ma non la costruzione di utensili come tali o la vocalizzazione altamente sistematica di suoni laringali. Manipolazione e articolazione pertengono alle soluzioni comportamentali vantaggiose, apprese nel corso dell’ontogenesi — e non della filogenesi — e trasmesse perciò per via culturale e non per via genetica. Un comportamento, dal più elementare al più complicato, è sempre il risultato di

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un apprendimento, ossia di un’interazione socio–ambientale, che avviene in uno spazio–tempo vitale di durate variabilissime — da pochi minuti a qualche anno — in dipendenza della minore o maggiore potenzialità genetica della specie: per via genetica non si tramandano comportamenti ma soltanto predisposizioni, filogeneticamente determinate, a modalità di risposta ambientale. Così la filogenesi accumula nella “sopravvivenza del più adatto” la memoria genetica insita nei singoli organismi selezionati dalla coevoluzione, mentre l’utensile sintetizza la memoria sociale, esterna agli organismi animali e funzionale a più di un individuo per volta. E dunque l’utensile è la rappresentazione della trasmissione dell’informazione culturale, come il DNA lo è della trasmissione dell’informazione genetica: per l’attuarsi di un comportamento è indispensabile la compresenza di entrambi questi tipi di informazione. E dunque anche perché si realizzi un comportamento verbale o quello della costruzione di utensili è necessario che l’informazione genetica e quella culturale procedano di pari passo, nella filogenesi come nell’ontogenesi. Cosicché se un organismo non è stato filogeneticamente selezionato con certe capacità genomiche, ontogeneticamente non può essere in grado di dare risposte comportamentali troppo diverse da quelle che dà; per converso, pur nella presenza di fattori genetici adeguati, un organismo sarà molto difficilmente in grado di acquisire un comportamento che non sia stato educazionalmente calibrato sulle sue necessità, ontogeneticamente diverse, durante la sua età evolutiva. Insomma, se viene a mancare o l’informazione derivata dalla trasmissione dei caratteri genetici o l’informazione derivata dalla tradizione culturale, si annulla la possibilità stessa dell’evento originato dalla compresenza di entrambe le tipologie d’informazione. Questa è la ragione per la quale nessuno dei ragazzi selvaggi, neppure quelli sopravvissuti per autosostentamento o relegati in solitudine, esibisce un comportamento verbale quando vengono ritrovati. Ed è la ragione dell’aggravante che penalizza i bambini allevati dagli animali in quanto essi hanno trasferito la loro fenotipica, biologica potenzialità linguistica della componente socio–culturale sull’interazione comportamentale con società animali che comunicano non–verbalmente. È come se — per metafora — il “capo” ambientale del loro nodo gordiano si fosse “imprintato” su una comunicazione a–verbale,

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escludendo per ciò stesso ogni altro tipo di “annodamento”. È come se in una reazione chimica un elemento bivalente saturasse entrambe le sue valenze: nel qual caso non sarebbe possibile modificare la reazione chimica avvenuta invertendola e liberando una sola delle due valenze per farla legare con un elemento diverso dal primo. Analogamente, nei fanciulli allevati dagli animali la valenza socioculturale dell’“elemento bivalente” (genetico e ambientale) della verbalità si è già saturata e non può essere invertita separatamente dalla valenza biogenetica, che non è invertibile nell’organismo compiuto. Ne consegue che il recupero linguistico di questo tipo di ragazzi selvaggi o non si verifica o avviene in misura modesta7. Ma probabilmente il discorso si chiarisce meglio se faccio un confronto esplicito tra il caso, nel 1920, della bambina–lupo Kamala e questo recente di Baby Hospital. Mentre per il ritrovamento di Kamala disponiamo della testimonianza certa del Reverendo Singh, per quello di Baby Hospital, benché molto più recente, ma forse proprio per questo, non conosciamo l’identità della persona che l’ha ritrovata nella foresta africana. Ragionando sulla puntuale documentazione scritta del diario del Rev. Singh, ricaviamo le informazioni sul comportamento relazionale di Kamala e sul suo aspetto fisico dal momento del suo ritrovamento nella tana di un lupo fino alla sua morte, dopo nove anni di “rieducazione” amorevole nella grande famiglia dell’orfanotrofio di Midnapore. Abbiamo costatato che sia il comportamento relazionale sia l’aspetto fisico di Kamala si sono primariamente entrambi conformati alle abitudini sociali e alimentari dei lupi: dall’andatura, anche veloce, a quattro zampe, all’ululare di notte, al mangiare solo carne cruda strappata dal vivo, al rifiutare violentemente qualsiasi indumento, fino a leggére ma sensibili modificazioni fisio-anatomiche, quali le spesse callosità alle ginocchia e alle mani, la testa molto magra e ossuta con mascelle forti e orecchi piatti, il colore rosso scuro del palato e i denti aguzzi. Sono questi tutti adattamenti resi attuabili dalla grande — ma non infinita — potenzialità del genoma umano. Inoltre dall’osservazione di tali adattamenti possiamo ricavare la certezza indiretta della

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Cfr. il caso di Kamala, la bambina–lupo indiana.

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convivenza di Kamala con i lupi e la conferma ragionativa della testimonianza diretta del Rev. Singh. Per quanto riguarda Baby Hospital, disponiamo addirittura di una documentazione filmata e di testimoni oculari viventi, anche se non sono noti quelli che l’hanno ritrovata allo stato selvaggio. Ma poiché abbiamo avuto modo di rilevare che sia nella normalità sia nell’anormalità il comportamento di un bambino si forma per imitazione di chi se ne prende cura, osservando analiticamente il comportamento di Baby Hospital, possiamo dedurne il suo “modello” d’origine. E così la postura, di deambulazione e di seduta, nonché del lappare (la postura del lappare di Kamala è tipicamente diversa e simile ai canidi) e del brucare (assente in Kamala, che denota abitudini alimentari vegetariane e non carnivore) è del tutto simile a quella delle scimmie; come pure la mimica facciale e i suoni ritmici che emette e i movimenti delle labbra di esplorazione cognitiva degli oggetti. I piedi totalmente piatti, come fossero mani, lo sviluppo asimetrico dei muscoli della gamba e l’atrofia delle cavità femorali in seguito alla postura semipiegata, che poggia sulle ossa del bacino anziché su quelle delle gambe, sono modificazioni riconducibili all’adattamento a una postura innaturale per l’anatomia umana e naturale per quella delle scimmie. Da questa serie di osservazioni è possibile ricostruire con buona approssimazione il modello sociale di Baby Hospital. A conferma, poi, del fatto che le posture ferine di Kamala e di Baby Hospital sono dovute a imitazione di comportamenti sociali e non a impedimento congenito dei due particolari individui della specie umana sta la prova certa che entrambe le ragazze hanno recuperato la postura e la deambulazione erette, oltre al sedersi normalmete a tavola, al bere e al mangiare usando mani e stoviglie. C’è da segnalare una differenza importante, che risiede proprio nella possibilità di recupero del comportamento linguistico. Nonostante Kamala sia vissuta per ben otto anni con i lupi e viva solo nove anni dopo il suo ritrovamento, li vive da subito e interamente affidata alle affettuose e attente cure dei coniugi Singh, all’interno di una comunità fatta apposta per l’accoglienza di bambini abbandonati. Mentre la sventuratissima Baby Hospital fino all’età di quasi cinque anni è vissuta in un animalesco stato di natura, al ritrovamento e per i successivi quattro anni è stata crudelmente e bestialmente ostracizzata in una reclusione im-

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Capitolo Settimo

monda; soltanto dopo questi nove anni in condizioni di vita stravolte dal profondo è stata accolta, faticosamente, tra gli umani con una gran difficoltà a trovarle una madre adottiva, che — come tutte le madri — potesse funzionare da primario modello sociale, sostitutivo di quello animalesco, unico presente nella “culturalità” di Baby Hospital. Sta di fatto che Kamala in quei nove anni da bambina umana riesce a imparare a pronunciare un certo numero di parole in modo mono o bisillabico e anche a fare frasi sommarie, già dopo sei anni dal ritrovamento: «ma elo» («mamma viene») dice Kamala il 23 gennaio 1926 correndo incontro festosa alla signora Singh che ritorna a casa dopo un’assenza di qualche giorno. Invece le ultime notizie di Baby Hospital, nel 1993, quindici anni dal ritrovamento e undici dall’accoglienza nella società umana, non registrano la presenza di un comportamento linguistico, ma solo quella di uno stentato abbozzo di “linguaggio d’azione”.

Capitolo Ottavo E LA STORIA CONTINUA

Ramu, bambino–lupo indiano Annoto velocemente il caso di un altro bambino–lupo indiano, del quale non ho potuto occuparmi prima d’ora perché non ero riuscita a trovarne la documentazione. Lo riferisco soprattutto per evidenziare le analogie fra questo e tutti gli altri casi di ragazzi selvaggi allevati da animali. Riporto quasi alla lettera il trafiletto apparso nella pagina della cronaca del quotidiano “La Repubblica” del 24–25 febbraio 19851. Da Nuova Delhi arriva la notizia dell’improvvisa morte di Ramu, il ragazzo indiano cresciuto tra i lupi, avvenuta, all’età di poco più di ventanni, nell’istituto assistenziale di Lucknow gestito dalle suore missionarie di Madre Teresa di Calcutta. Ramu era stato trovato nel 1976, nel fitto di una foresta, assieme ad alcuni cuccioli di lupo: sembrava avere circa 10 anni, camminava carponi appoggiandosi sulle palme delle mani e aveva gomiti e ginocchi coperti da uno spesso strato calloso. Al momento della cattura il fanciullo oppose una strenua resistenza e il suo successivo processo di adattamento alla vita civile non era stato facile: continuava a nutrirsi di carne cruda, dando anche la caccia alle galline dei vicini. Le suore missionarie dell’Istituto di Lucknow, alle quali venne affidato, erano pian piano riuscite a trasformarlo, rifiutandosi, al contempo, di esporlo alla curiosità della stampa e del pubblico. Lentamente, nel corso degli anni, Ramu aveva imparato a lavarsi e a vestirsi, ma non era mai riuscito a parlare. Due settimane prima di morire Ramu aveva accusato violenti crampi allo stomaco.

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ivi, p. 11.

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Capitolo Ottavo

Roberto, cresciuto nella selva tropicale Nella tipologia dei ragazzi selvaggi sopravvissuti per autosostentamento annovero il fanciullo ritrovato allo stato selvatico nelle selve tropicali dell’Uganda, in Africa, nel settembre 1985. La notizia Ansa — anche in questo caso il mio resoconto sarà quasi letterale — è riportata dal quotidiano “Corriere della Sera” del 28 giugno 1986 a pagina 13. La fonte della notizia è l’UNICEF, l’organizzazione dell’ONU per l’assistenza all’infanzia, che il giorno precedente aveva rivelato come nel settembre 1985 alcuni soldati del Presidente dell’Uganda, Yoweri Musweni, avevano trovato nella giungla del cosiddetto “triangolo di Luwero”, a nord–ovest di Kampala, un bambino allo stato selvaggio. Al centro per l’infanzia abbandonata della capitale ugandese lo hanno battezzato col nome di Roberto. Sembra avere tra i 4 e i 7 anni ed è sopravvissuto da solo nel mezzo delle selve tropicali dell’Uganda centrale per parecchi anni. Il fanciullo non parla nessuna lingua africana e non ha pronunciato neanche una sillaba da quando è stato portato nel consesso civile; dopo dieci mesi non ha stabilito nessun rapporto vocale o espressivo né con gli altri bambini né con gli adulti. Un missionario che ha visto il piccolo selvaggio e che ha parlato a lungo con la signora Lubega, responsabile del Centro per l’infanzia, riferisce che il bambino continua a comportarsi come un animale e che gli specialisti concordano nel ritenere che probabilmente non si riadatterà mai a una vita normale. Roberto ha l’epidermide rugosa e scura, e un volto senza età; gli è molto difficile camminare col busto eretto, così come alzarsi o sedersi: la sua posizione preferita è quella accovacciata, cui il corpo sembra particolarmente adattato; può rimanere ripiegato su se stesso per parecchie ore senza muoversi e per farlo alzare occorre aiutarlo. Spesso geme con un tono basso e monocorde; non sopporta i vestiti che gli hanno messo addosso e li lacera a morsi; non è in grado di accudire alla propria pulizia e deve essere lavato e vestito dagli altri assistiti del Centro. La signora Lubega ha anche precisato che negli anni precedenti alcuni bambini semi–selvaggi erano stati ospitati a Naguru, ma che erano tutti morti dopo breve tempo. Roberto, invece, dimostra una resistenza fisica notevole. Secondo i militari che lo hanno trovato, Roberto è stato probabilmente abbandonato prima che cominciasse a parlare e a camminare, dopo aver perso i

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genitori forse in un’operazione di rastrellamento. Il triangolo di Luwero, infatti, è stato teatro di aspri combattimenti fra i guerriglieri dell’esercito nazionale di resistenza (Nra) e le truppe governative. Sottolineo soltanto che nell’attuale globalizzazione della società massmediale possono essere testimoniati e resi noti moltissimi casi di ragazzi selvaggi, che quindi non devono più essere ascritti alla categoria del mito e della simbolizzazione etnica di una qualche forma di conoscenza, bensì riguardati onestamente come una patente occasione scientifica di raccordo interdisciplinare per la comprensione del processo di formazione delle persone e delle società umane, nella loro interezza di storia naturale e storia culturale. Horst, bambino–cane Dagli anni Ottanta del Novecento si riscontra una variante di ragazzi selvaggi, non più spersi in selve o allevati da animali selvatici oppure addomesticati, bensì nati in appartamenti cittadini ma lasciati alle cure “parentali” del cane di casa. Con Horst, un bambino–cane di Dusseldorf, in Germania, per la prima volta ci troviamo in un ambiente urbano e la giungla è quella d’asfalto. Nel marzo 1988 a Mettmann, vicino a Dusseldorf, in un comune appartamento di un edificio della civiltà postindustriale, è stato trovato un bambino di 3 anni e quattro mesi allo stato brado: sporco, denutrito, incapace di camminare, se non carponi, e in grado di pronunciare malamente solo quattro parole: «mamma», «pappa», «atta», «hauke»; ringhia e mugola come un cane e fa pipì contro un mobile alzando una gamba. Dall’età di pochi mesi Horst Werner Reinhard, questi sono il nome e il cognome del bambino, è praticamente vissuto ed è stato quasi esclusivamente accudito, in casa, da una femmina di cane pastore tedesco, che risponde al nome di Asta («atta» è una delle quattro parole che il bambino sa dire). Horst è molto denutrito e ha un’altezza di 93 cm. e un peso di 12,700 kg., ciò vuol dire che per la sua età è basso e pesa circa un terzo meno del dovuto. Ma è meglio raccontare la storia con ordine. Verso le 3 e un quarto del pomeriggio di sabato 8 agosto 1987, come riferisce il rapporto del Capo della polizia di Mettmann2, a quel 2

Cfr. il settimanale «Oggi», 6 aprile 1988, pp. 16–19.

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Capitolo Ottavo

Commissariato arrivano i signori Hans–Dieter Wefers e Andre Ruhrberg, portando un bambino di circa tre anni, che hanno trovato mentre camminava carponi nella carreggiata della Herrenhauser Strasse a Mettmann. Il bambino è vestito soltanto con un pigiama e non si conosce la sua identità. Il signor Wefers precisa di aver già visto varie volte il bambino nelle vicinanze della Moselstrasse. Si riesce, poco dopo, a individuare i genitori del bambino, che viene così riportato a casa, giacché questi genitori hanno un aspetto del tutto normale e mostrano un affetto sincero nei confronti del figlio. Però sotto quest’apparente normalità e sincerità albergano due personalità psicosociali alla deriva senza riferimento ad alcun sistema di valori, amaro prodotto di un’autentica giungla d’asfalto. Il padre di Horst, Karl Werner Reinhard, è un macellaio di 30 anni, disoccupato da quattro anni, e di fatto mantenuto dai soldi che può dargli la madre, vedova e con un lavoro d’infermiera. Sua moglie, la madre di Horst, si chiama Jutta, ha 23 anni, è una ex prostituta, non ha mai completato un corso di apprendista parrucchiera e ha lavorato in una fabbrica fino alla gravidanza. I due genitori di Horst dichiarano di volersi un gran bene e di aver fortemente desiderato il figlio: si sono sposati quattro mesi dopo la sua nascita, avvenuta il 17 novembre 1984 nell’ospedale protestante di Mettmann. Ma Karl Werner e Jutta hanno un assai strampalato concetto dell’amore: la loro relazione è fatta tanto di baci quanto di percosse e buttano le fedi nel gabinetto per andarsele a ricomprare il giorno dopo. La gelosia del marito terrorizza Jutta fino al punto da spingerla a buttarsi dal balcone, rompendosi il bacino. In ospedale, dove Jutta rimane per molte settimane, il marito quotidianamente le porta fiori. Ma anche dopo questo drammatico episodio nulla cambia nella loro vita e nel loro rapporto col mondo: annebbiano nell’alcol e nel fumo l’esile embrione delle loro coscienze, che non può germinare alcun senso di responsabilità. Così Horst viene lasciato alle cure dell’amata cagna di casa, che poco prima della nascita del bambino è stata privata della sua numerosa cucciolata e che quindi è fisiologicamente pronta a riversare sul cucciolo d’uomo tutto il suo istinto materno. Asta e Horst diventano inseparabili, tanto che la cagna ringhia se qualcuno prende in braccio il bambino. I vicini di casa ricordano che Asta è sempre accanto al piccolo e abbaia, se qualcuno si avvicina;

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vedono Horst andare carponi nel pianerottolo dell’appartamento, sul marciapiede e per la strada, mentre Asta aspetta davanti alla porta di casa oppure davanti al portone del palazzo. Qualche volta vedono il bambino camminare normalmente e, in tal caso, il cane lo sorregge col muso alla schiena per evitare che cada. L’appartamento in cui vive la famiglia Reinhard è nella zona sud di Mettmann, un quartiere di periferia semplice e pulito; l’amministratore del palazzo, Uwe Buttkereit, dichiara di aver visto sempre insieme il cane e il bambino: si leccavano e si accarezzavano, e il bambino si sdraiava sotto la pancia di Asta come fosse il suo cucciolo. All’interno di quel piccolo appartamentino di 58 metri quadrati, la stanzetta di Horst è stata preparata con cura dai genitori, che hanno eliminato il letto matrimoniale e si sono aggiustati a dormire nel corridoio coi materassi sul pavimento, per lasciare la loro camera al figlio; hanno pure messo un’allegra carta da parati con disegni di alberi verdi e con giochi di scimmiotte e di uccelli colorati. Ma dopo la nascita di Horst la stanza deve essere stata lasciata nella più totale noncuranza perché il lettino è intatto, mai usato e con le lenzuola scolorite dalla polvere: Horst e Asta dormono e giocano insieme su una coperta stesa ai piedi del letto, la carta alle pareti è graffiata e strappata dai giochi del cane col bambino. Né i vicini né i parenti capiscono in quale incredibile situazione si trova Horst, fino all’episodio, poc’anzi riferito, dell’agosto 1987, dopo il quale il padre di Horst pensa — e davvero lo crediamo sincero — che la cosa migliore da fare per la sicurezza del bambino sia quella d’impedirgli qualsiasi possibilità di fuga, togliendo la maniglia alla porta della cameretta di Horst e a quella di casa. E tutto sarebbe rimasto immutato chissà fino a quando, se non fosse accaduto un banale imprevisto. Il 5 marzo 1988, Helmut Jordan, il patrigno di Jutta Reinhard, decide di andare a trovare il nipote, Horst, ma, giunto all’appartamento, nessuno risponde al suo bussare, finché si accorge della maniglia riposta sotto lo zerbino, colla quale riesce ad aprire la porta e a entrare. Il “quadretto familiare” che si trova davanti lo turba oltre ogni dire: il disordine è incredibile, ci sono sacchi dell’immondizia un po’ dappertutto, Asta ha un pollo crudo tra le zampe e lo sta mangiando, il bambino sta seduto in un angolo accanto alla cagna e ha il pigiama sporco di

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Capitolo Ottavo

sangue, ma non si capisce se ha mangiato o meno anche lui il pollo insieme col cane. Riavutosi dall’orrore, chiama la Polizia e Horst viene portato all’Associazione per la salvezza del fanciullo, dove per i primi tre giorni il bambino viene affidato alle cure di una vicemadre. Il presidente di questa Associazione racconta che quando Horst deve andare a letto ringhia, cosicché per farlo dormire si vede costretto a comprare una pelle di animale, sulla quale soltanto il bambino si accuccia e riesce ad addormentarsi. In nessun modo la vicemadre può dominare il comportamento di Horst, che reagisce male all’affetto e alla gentilezza della signora e non sopporta un cibo normale e caldo. Lo psicologo Muller–Thuran dice che Horst «adesso deve imparare a comprendere le sue stesse emozioni, a sorridere, a ricambiare gli sguardi, alzare le sopracciglia, ridere, piangere»3. Dal canto loro, i genitori di Horst non capiscono perché la magistratura abbia aperto un’inchiesta nei loro confronti per maltrattamento su minore e perché debbano rischiare fino a cinque anni di carcere, e intendono battersi per riavere l’affidamento del figlio. Il poliziotto Martin Reen, accorso alla chiamata di Helmut Jordan, aggiunge di aver trovato l’appartamento dei Reinhard in un disordine tremendo con un tanfo insopportabile: dappertutto bottiglie vuote e ossa rosicchiate; il lavello della cucina pieno di piatti ammuffiti e il frigorifero vuoto. Il bambino, seduto su una coperta accanto al cane, sembrava sereno, tranquillo ed era andato loro incontro pieno di curiosità. Dopo il poliziotto nell’appartamento erano arrivati gli assistenti sociali, gli infermieri e il direttore dell’ufficio dei minori. Horst accoglieva tutti senza agitarsi: la confusione creatasi attorno a lui non sembrava dargli nessun fastidio e cominciò a piangere solo quando lo portarono via senza il suo cane4. Nel rapporto medico si legge: «Il bambino è fortemente denutrito, però il suo corpicino non dimostra alcun segno di maltrattamenti. I danni sono di natura psicologica. Le reazioni del bambino sono anormali. Durante la visita da parte del dottore, ha annusato lo stetoscopio. Dorme nella tipica posizione del cane: coricato su un fianco, le braccia in avanti e la testa in mezzo, le gambe contratte. Le mani e la faccia 3 4

ibidem, p.19. Cfr. il settimanale «Gente», 7 aprile 1988, p. 24.

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intorno al naso sono le uniche parti del corpo pulite. È chiaro che sono state leccate»5. Le notizie successive dicono che dopo quattro settimane di permanenza in ospedale, Horst è stato affidato a una famiglia che lo ha accolto come un figlio, così che il bambino è già molto cambiato. Un mese prima sembrava perduto senza il suo cane: lo cercava dappertutto chiamandolo per nome di continuo e passava le giornate seduto su una sedia, con gli occhi perduti nel vuoto, mentre la presenza degli altri bambini gli dava quasi fastidio. Ora, invece, comincia a correre e a saltare, e gioca tranquillamente con i figli dei suoi nuovi genitori: li osserva con attenzione e poi imita tutto quello che fanno6. Horst, dunque, sembra aver superato il doppio trauma di una condizione di vita inumana allo stato canino e della separazione dall’unico essere che lo abbia sempre accudito e custodito al limite delle sue possibilità di mammifero non umano. Ritengo che il suo recupero sia stato rapido principalmente per due ragioni. La prima è che la convivenza di Horst col cane non è stata assoluta, poiché egli viveva in casa anche coi genitori, i quali, per quanto molto spesso assenti, lo hanno voluto e a loro strambissimo modo amato, mai rifiutato o intenzionalmente maltrattato. E vorrei mettere in evidenza la curiosa circostanza che una parola dell’essenzialissimo vocabolario primario di Horst è «hauke», che sta per «straubsauger», aspirapolvere: mi pare davvero singolare che tra le quattro parole–frasi che circoscrivono e simboleggiano l’angusto mondo di Horst, fissando quattro prototipi di esperienze–base, compaia la parola aspirapolvere. Sicché ne tento un’interpretazione, per così dire, situazionale. Il forte rumore e l’evidente movimento dell’elettrodomestico, azionato dalla madre, può aver fermato l’attenzione del bambino, probabilmente mescolando una sensazione di paura a una di gratificazione, dal momento che l’aspirapolvere, in questo caso particolare, può aver rappresentato un tramite d’interazione con una figura parentale quasi sempre assente, che, forse, notando la paura del bambino, può averlo affettuosamente rassicurato ripetendogli il nome del macchinario. In tal modo il nome ‘aspirapolvere’ si è posto come mezzo d’interazione forte, nella mescolanza di paura e affetto, tra il bambino e 5 6

Cfr. il settimanale «Oggi», cit., p. 17. Cfr. il settimanale «Gente», cit., pp.155, 160.

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la madre, dato che la costruzione e la messa in opera di un’espressione verbale si realizza nella necessità di relazionarsi alla figura parentale primaria, parlante. Deve, cioè, esserci un modello vivente che usi la parola e il discorso per raccontare il mondo al bambino, affinché si compia una connessione verbale che colleghi i fatti alle emozioni e alle volizioni. Al proposito mi torna ancora una volta in aiuto l’insuperata neuropsicologia di Lurija e Vigotskij: Il bambino che inizialmente obbedisce all’istruzione verbale dell’adulto e, in risposta all’ordine: «Dai la tazza!», esegue l’azione necessaria, in seguito comincia a rivolgere a se stesso l’ordine verbale (dapprima ad alta voce, poi sussurrando e infine ricorrendo al linguaggio interiore) e ad eseguire da solo quell’«atto di volontà» che prima compiva con l’aiuto degli adulti. Una funzione che prima era divisa tra due persone, osserva l’eminente psicologo sovietico L.S. Vigotskij, diventa un modo di organizzazione della attività del singolo individuo, l’azione inter-psicologica si trasforma in un sistema intrapsicologico autoregolato7.

Altri due casi di bambini–cane Sul quotidiano “The Star” di Johannesburg, in Sud Africa, del 7 e dell’8 novembre 1990 compaiono due ampi articoli sul ritrovamento, in una fattoria nei pressi di Johannesburg, di un bambino bianco, biondo e con gli occhi azzurri, tenuto dai genitori nella cuccia del cane. Il bambino, del quale non viene fatto il nome perché a quel momento è già in corso un procedimento penale, ha un’età apparente di 2 anni e mezzo, è denutrito, non sa stare in piedi, non parla ma abbaia e uggiola. Il secondo caso è nella cronaca italiana. Sul quotidiano veneto “La Nuova” del 24 maggio 1994 viene riferito, con circostanziati commenti sociologici, che in una fattoria sulle colline intorno a Conegliano, «nella civilissima zona del Prosecco», vive un bambino di tre anni che passa le giornate quasi esclusivamente in compagnia del proprio cane, «un randagino affettuoso»; cosicché invece che a parlare ha imparato ad abbaiare, latrare, guaire. Anche qui non viene fatto il nome del bambino, ma per motivi di tutela del minore; però lo si descrive fisi7

A.R. Lurija, Neuropsicologia e neurolinguistica, Editori Riuniti, Roma 1974, p, 29.

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camente sanissimo, tanto che i genitori — contadini e forti lavoratori — non si sono troppo preoccupati del suo ritardo nel cominciare a parlare. Anche perché la sorella maggiore di questo bambino va a scuola (esce la mattina e torna la sera), parla normalmente e ha relazioni non conflittuali con i coetanei. Sennonché un dubbio deve essere venuto a questi genitori, perché a un certo punto si sono rivolti all’Istituto “La Nostra Famiglia” di Conegliano. Insieme con gli specialisti dell’Assessorato ai Servizi Sociali del Comune di Conegliano ci si prende cura sia del bambino per una terapia di recupero linguistico sia dell’intera famiglia per una terapia psicosociale di riconfigurazione delle dinamiche interpersonali. Così, nonostante il grave ritardo linguistico, il bambino, sottoposto ad adeguata terapia, nelle settimane seguenti recupera parzialmente la facoltà linguistica; e anche l’intera situazione familiare è in rapido positivo miglioramento. Come ho già detto, nei casi dei bambini–cane non si tratta di ritrovamenti in luoghi selvatici e lontani dalla civiltà. Nei tre casi riportati, ci troviamo nel cuore della Germania, nei pressi di una megalopoli multirazziale, e «a pochi chilometri in linea d’aria da chi denuncia il reddito più alto d’Italia» (cito da “La Nuova” a pag. 3). E, infatti, in tutti e tre questi casi l’animale modello di imprinting è quello più domestico per antonomasia. Sembrerebbe quasi che al migliore amico dell’uomo venisse affidata anche la guardia del bene più prezioso, il proprio figlio, in una condizione sociale globale inconsciamente avvertita e fattualmente vissuta come slabbrata, precaria, infida, priva di solidarietà, caotica e fuori dal proprio controllo: dall’oltralpe alla punta estrema dell’Africa. Questa nuova, quasi ossimorica, tipologia di ragazzi selvaggi urbani aggiunge all’interesse scientifico un motivo di allarme: non può esserci società propriamente umana senza quelle relazioni di simbolizzazione intellettiva che si formano unicamente nella condivisione affettiva esistenziale, partecipata verbalmente, tra genitori e figli. A conclusione di questi casi, desidero ribadire che in essi le modalità dell’abbandono si svolgono all’interno dell’area domestica, anzi addirittura casalinga, e l’animale d’adozione, difatti, è più che domestico, è da compagnia. Eppure, anche qui, il semiallontanamento fisico da una socialità pienamente umana determina lo spostamento del modello d’imitazione adattativa sull’animale col quale c’è più stretta inte-

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Capitolo Ottavo

razione affettiva e consuetudine quotidiana. E anche per questi bambini il modello da imitare è non linguistico e perciò essi non parlano. Vorrei, allora, che risultassero chiare alcune questioni. La struttura genetica di un organismo animale concerne il programma biochimico per la costituzione di tutti i suoi organi e conformazioni fisiologiche: è questo programma, e soltanto questo, ciò che viene trasmesso con l’informazione genetica, per così dire “interna” e a “senso unico”, intraindividuale, dai genitori ai figli. La funzionalità biologia, fenotipica, “esterna”, di un individuo è relativa al genere di molteplici correlazioni che l’individuo medesimo va a stabilire e a strutturare nel comportamento postnatale con l’ambiente naturale e sociale circostante. Una volta che un simile comportamento si è stabilizzato nell’adattamento, esso non viene trasmesso per via genetica unilaterale ma per via culturale, multilaterale e interindividuale: i destinatari dell’informazione comportamentale sono sì, inevitabilmente e prima di tutti, i figli, ma non solo loro, bensì tutti gli appartenenti allo stesso gruppo sociale. Dunque, il comportamento animale è il risultato della combinazione di tre fattori: l’insieme dei caratteri ereditari, o genotipo, la loro attuazione effettiva nell’interazione ambientale, o fenotipo, il complesso delle correlazioni sociali, o etotipo. Genotipo, fenotipo ed etotipo sono tutte e tre le componenti che, insieme, definiscono un individuo animale a qualsivoglia specie appartenga.

Capitolo Nono CHE FINE HA FATTO GENIE?

Ricordo al lettore che la storia di Genie è stata da me inserita nella casistica dei ragazzi selvaggi cresciuti in totale isolamento. Il caso venne alla luce nel novembre 1970, a Los Angeles, negli Stati Uniti, quando la madre, una povera donna semicieca, finalmente si armò di tutto il suo coraggio e riuscì a liberare la figlia, ormai tredicenne, dalla segregazione in cui l’aveva relegata il padre psicotico, fin dalla nascita1. Il resoconto scientifico della psicolinguista Susan Curtiss, che si curò del recupero di Genie alla verbalità, si ferma al giugno 1977 e racconta di indubbi e notevolissimi, seppure relativi, progressi nella comunicazione linguistica e nella capacità cognitiva compiuti dalla ragazza in quei quasi cinque anni. Queste sono le frasi conclusive del suo saggio: In general, Genie is an “appositional” thinker, visually and tactilly oriented, better at holistic than sequential, analytic thinking. Although she lacks the aspects of language normally associated with the right hemisphere (automatic language) due to social and psychological factors, Genie is both linguistically and nonlinguistically a right-hemisphere functioner2.

Traduco e integro. In generale, Genie è una pensatrice “apposizionale” [ossia procede per accostamenti di sostantivi senza usare nessi grammaticali], orientata visivamente e tattilmente [più che acusticamente e quindi poco predisposta al riconoscimento dei suoni, anche linguistici], migliore nel pensiero olistico [ossia semantico] più che in quello sequenziale, analitico [ossia sintattico]. Sebbene sia carente degli aspetti della lingua normalmente associati all’emisfero destro (linguaggio automatico) dovuti a [perché si formano in dipen1

v. il cap. quinto. S. Curtiss, Genie. A Psycholinguistic Study of a Modern-Day “Wild Child”, Academic Press, New York San Fancisco London, 1977, p. 234. 2

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Capitolo Nono

denza dai] fattori sociali e psicologici [non genetici], Genie è sia linguisticamente sia non linguisticamente lateralizzata [geneticamente] nell’emisfero destro. Il che, sinteticamente, indica che il pensiero e l’espressione verbale di Genie fanno riferimento a una cognitività “concreta”, “non astratta”, che, cioè, trasferisce in verbalità solo le esperienze percettive — soprattutto visive e tattili — di una situazione di fatto e non di una situazione immaginativa, che sia solo ipoteticamente possibile. Ovvero, Genie, intorno ai venti anni, esprime un livello cognitivo-linguistico di una bambina di 2–3 anni. E ciò, in più, significa che la sensorialità uditiva normale — Genie non è né sorda né sordastra — si sviluppa poco in un ambiente estremamente limitato, impoverito e senza vocalità, mentre il suo raffinamento risulta indispensabile alla comprensione di una comunicazione orale e quindi alla formazione di un pensiero pienamente linguistico, che sia cioè capace di “parlare” anche dell’inesistente oltre che dell’esistente. Dacché la neuropsicologia ha dimostrato che durante l’ontogenesi la struttura dei processi percettivi e cognitivi, di memoria e di pensiero, non resta identica, ma cambia con lo sviluppo del bambino: nell’età primaria il bambino pensa come percepisce o come ricorda, mentre successivamente percepisce e ricorda come pensa. Inoltre, nell’età evolutiva non cambia soltanto la struttura dei processi psichici del bambino, ma anche il rapporto tra questi processi e le determinazioni genotipiche, in conseguenza della mediazione linguistica che riorganizza la funzionalità cerebrale nel suo insieme, spostando i fattori di cambiamento cognitivo dal piano ereditario, genotipico, al piano sociale, etotipico. Per Genie, invece, non si è potuta realizzare la concordanza tra lo sviluppo fisiologico e lo sviluppo verbale, cosicché le sue esperienze cognitive, preponderatamente visuo–tattili, hanno limitato la sua funzionalità cerebrale all’organizzazione cinestetica sensoriale non mediata linguisticamente e perciò immediatamente riferita alle predisposizioni genetiche di uno sviluppo organizzativo del comportamento di relazione strettamente vincolato alla situazione d’esperienza, senza mai “tradurla” in un sistema simbolico. Penso che si possa attribuire alla mancanza di una mediazione linguistica la prevalenza totalizzante dell’emisfero cerebrale destro in Genie, filogeneticamente adattato all’organizzazione sensoriale visuo-tattile, semantico-olistica,

Che fine ha fatto Genie

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rispetto alla funzionalità analitica, tipicamente sintattico–simbolica, filogeneticamente più propria dell’emisfero sinistro. Si può forse opinare che nella normalità tutti i bambini, nel corso dell’ontogenesi, imparano a organizzare verbalmente l’esperienza visuo–tattile dapprima con l’emisfero destro (in quella sorta di linguaggio d’azione operato in risposta alla relazione verbale esteriore con la madre) e secondariamente — intorno ai 4 anni — anche con l’emisfero sinistro, analitico, che trasforma la totalità senso–motoria segmentandola in parti costitutive, simboliche e “posizionalmente” interagenti perché rimandanti al tutto di cui sono parte e in cui hanno senso: il ‘tutto’ è il ‘nome’ del contesto percettivo e le parti sono i ‘suoni’ che compongono il nome. Soltanto dopo che si è fissato il legame simbolico tra il nome e l’esperienza sensoriale, è possibile adoperare il nome al posto della esperienza sensoriale e collegare tra di loro i nomi invece delle molteplici azioni necessarie a stabilire una comunicazione sociale complessa. Il nome è una sorta di moneta di scambio il cui valore risiede nel successo comunicativo. Questa primaria e sociale assunzione di simbolicità dei suoni linguistici sembrerebbe un passaggio obbligato per chiunque impari a parlare, a qualsiasi età. E dell’aspetto profondamente sociale della lingua non si è tenuto conto nel recupero di Genie, considerata più come fenomeno scientifico da sfruttare accademicamente che come povero essere umano che gli scienziati avevano il dovere morale di aiutare con tutte le loro conoscenze e capacità terapeutiche. L’accusa di cinico accademismo traspare motivatamente dal bel libro di Russ Rymer, In volo dal silenzio. La storia di Genie, pubblicato negli Stati Uniti nel 19933. Il libro di Rymer, un giornalista scientifico che vive in Florida, raccoglie le testimonianze documentarie e i racconti delle persone, scienziati e non, che a diverso titolo si sono occupati di Genie dal 1970 al 1986. Nei primi sei mesi dal novembre 1970 Genie passa da uno stato di estrema povertà e segregazione a un soggiorno prolungato in un istituto specializzato, a un affido a una coppia di ricchi borghesi di Hollywood, alla numerosa e benestante famiglia del dr. Rigler, un 3

R. Rymer, Genie. An Abused Child’s Flight from Silence, 1993 (trad. it., cit., Baldini&Castoldi, Milano 1994).

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medico dell’ospedale pediatrico dove ha soggiornato Genie, in un quartiere residenziale di Los Angeles. Genie rimane con la famiglia Rigler fino al giugno del 1975, quando viene riconsegnata alla madre naturale nella modestissima casa della sua miseranda infanzia. Con una lettera all’amministrazione dell’ospedale pediatrico di Los Angeles il dr. David Rigler riferisce dei progressi compiuti da Genie nei quattro anni e mezzo dal suo arrivo all’ospedale. Genie è diventata parzialmente autosufficiente poiché è in grado di provvedere alla sua pulizia personale e anche di preparare un pasto non troppo elaborato. Le sue esplosioni di rabbia distruttiva sono meno frequenti, sebbene Genie sia ancora una creatura emotivamente disturbata, che però è stata capace di stabilire solidi legami affettivi tanto con la madre adottiva quanto con la madre naturale. La lettera è inoltre corredata dei risultati di un gran numero di test per la valutazione cognitiva sia standard sia espressamente ideati per il suo caso. Ma contrariamente a tutte le aspettative Irene, la madre naturale di Genie, trova il compito di rioccuparsi della figlia, da sola e in prima persona, superiore alle sue forze e così si rivolge al Dipartimento della Sanità di Los Angeles che si occupa degli adulti ritardati, i cui funzionari trovano una famiglia per un nuovo affido di Genie. Il 7 novembre 1975 Genie si trasferisce presso questa famiglia, apparentemente idonea ma, alla resa dei fatti, del tutto inadeguata a occuparsi di una simile ragazza. Da quel momento comincia la disperante parabola discendente di questa tragica fanciulla selvaggia, che aveva cominciato a diventare una bella e ridente giovinetta. Genie regredisce perdendo velocemente tutto quanto aveva imparato sino allora, nella relazione affettiva e in quella linguistica. Dopo un ennesimo trauma psichico, Genie rimane muta per cinque mesi, aprendo a mala pena la bocca per mandare giù un po’ di cibo senza masticarlo. Sicché nell’aprile 1977 Genie viene di nuovo ricoverata all’ospedale pediatrico e le sue crisi si attenuano: quando viene dimessa, per entrare in affidamento presso una famiglia ancora diversa, riesce a dire di nuovo qualche parola e ha ricominciato a mangiare. Ma le sue dolorose vicissitudini continuano a sgretolare tutti i successi con tanto profondo impegno e fiducia guadagnati da Genie. L’ultima persona che vede Genie nel 1986, nel giorno del suo ventinovesimo compleanno a casa di Irene, le scatta una foto, che anni dopo mostrerà a Rymer:

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Una donna grassa e goffa, sulla faccia un’espressione di stupidità bovina […] gli occhi semichiusi, i denti davanti che sporgono in un sorriso forzato […] i capelli scuri sono tagliati rozzamente sulla fronte, dandole l’aspetto di un’internata in un manicomio. […] «Qui c’è una malattia dell’anima» affermò «Non esiste spiegazione medica del suo affondare in quella che sembra demenza organica, biologica»4.

L’affermazione, che è scientifica pur nell’accoramento dell’affetto, è del dr. Jay Shurley, uno dei medici che si era occupato di Genie e l’unico rimasto in contatto con lei e con la madre naturale anche dopo qualsiasi diretto intervento istituzionale nella vita della ragazza. E l’affermazione attribuisce con chiarezza diagnostica la “demenza acquisita” di Genie non a gravi e incolpevoli carenze genetiche ma a gravissime e irresponsabili carenze sociali. Una volta di più viene dolorosamente dimostrato che è proprio la bontà e giustezza dei rapporti sociali, primari e secondari, a conformare la funzionalità biologica di un organismo animale, anche e soprattutto, di quello dell’animale umano. A ventinove anni, dopo sedici anni dal suo riemergere nel mondo, e dopo i primi quattro anni e mezzo di promettente recupero, Genie sembra una creatura irrecuperabile, da spezzare il cuore, come dice il dr. Shurley. Alla data di pubblicazione del libro di Rymer, 1993, Genie, trentaseienne, vive in una casa per adulti ritardati e va a trovare la madre naturale un fine settimana ogni mese. Apro le note di commento con una lunga citazione del giudizio conclusivo che sul caso di Genie esprime il dr. Shurley: Il problema di Genie è stato visto troppo come un problema pedagogico e troppo poco come un problema emotivo. Abbiamo cercato di insegnarle a parlare. Be’, non lo so, non è così semplice. Nella classificazione di Linneo, homo sapiens è cultura non lingua. I nostri progressi avvengono in un rapporto. Perché impari qualcosa, e questo ci riporta a Victor, il ragazzo selvaggio dell’Aveyron, deve esserci un rapporto umano nel quale il bambino possa trovare il nutrimento sufficiente a crescere. L’attaccamento affettivo svolge un ruolo importantissimo, non è un processo intellettuale. […] Era terribilmente affamata [d’affetto], ma la sua era una fame così cronica, così 4

ibidem, pp.200–201.

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duratura, che Genie sentiva che non sarebbe stata saziata e aveva paura che una parte di ciò che riceveva era tossica. E in effetti è stato proprio così. […] la sola cosa che si può dire è che è stato un cattivo esempio, un esempio di come non vanno affrontati certi problemi5.

Intanto, una precisazione. Quando nella citazione si attribuisce alla definizione sapiens della specie umana la connotazione ‘cultura’ piuttosto che ‘lingua’, tale valore connotativo non va inteso nel senso che la cultura esclude la componente linguistica, bensì che quest’ultima è per l’appunto una delle componenti dell’insieme categoriale del concetto di cultura, che quindi comprende il comportamento linguistico ma non può essere ridotto soltanto a questo. Pertanto, quando si analizza l’essere umano nella sua totalità di “animale culturale”, bisogna tener conto che la sua culturalità è decisamente contraddistinta dal comportamento verbale, il quale però non può esaurire tutte le altre componenti culturali proprie di una società umana. E, dunque, nella presa in considerazione di un singolo individuo umano è indispensabile inserire l’analisi e la comprensione di tutta la rete di relazioni e correlazioni entro la quale l’individuo è posto e assieme alla quale si conforma il tessuto sociale di convivenza e sopravvivenza dell’intera comunità. Al di fuori di una simile trama correlata perdono di senso sia l’individuo, che è parte di un tutto dal quale non può essere scisso, sia la lingua intesa soltanto come complesso di regole grammaticali, logicamente astratte dal contesto delle relazioni interpersonali che costituiscono una civiltà. Di conseguenza, se si vuole recuperare alla civiltà la derelitta condizione di separatezza incivile di un ragazzo selvaggio, a qualunque tipologia si possa ascrivere, è necessario essere consapevoli sia della conoscenza che un tal ragazzo, in quanto ragazzo, appartiene biologicamente al genere Homo e alla specie sapiens sapiens sia che la classificazione biologica in generi e specie è il risultato della combinazione delle caratteristiche genotipiche e di quelle fenotipiche. Difatti, il genere si definisce in base al genotipo, cioè ai caratteri ereditari, e la specie si definisce in base al fenotipo, cioè ai nessi del genotipo con l’ambiente. A cascata ne deriva una tripla impossibilità di 5

ibidem, pp. 202, 203.

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riduzionismo: 1° qualsiasi organismo vivente non può limitarsi ed esaurirsi nella descrizione del suo genotipo; 2° poiché ogni formazione biologica è comprensiva di genotipo e fenotipo, essa è il prodotto congiunto e combinato dei due fattori contemporanei che sono le potenziali caratteristiche biologiche determinate per via genetica (genotipo) e le loro effettive, eventuali, attuazioni derivanti dall’interazione del singolo organismo con l’ambiente circostante (fenotipo); 3° l’immissione della valenza esterna fenotipica nella definizione biologica implica di per sé la coevoluzione dell’intera biosfera, ossia la reciproca trasformazione adattativa di tutti gli organsmi che la compongono. Dato ciò, se il fenotipo umano è definito sapiens, tale aggettivazione deve necessariamente far riferimento alla componente biologica ambientale. Sicché, la componente biologica ambientale che definisce l’Uomo è una componente “sapiente”, letteralmente, che conosce, che conosce l’ambiente stesso col quale l’animale umano interagisce per la formazione del suo fenotipo. L’introduzione della cognizione nel perimetro della classificazione specie–specifica dell’organismo umano comporta la ratificazione del fatto che un individuo Homo sapiens non può essere disgiunto, per definizione, dalla sua interazione conoscitiva, e non più meramente biologica, con l’ambiente esterno: tale interazione conoscitiva è l’origine della cultura. Dunque, da Linneo in poi si riconosce alla specie umana la caratteristica peculiare della culturalità: l’Homo sapiens è l’animale culturale per eccellenza. Quell’animale il cui fenotipo è la risultante di un adattamento sia strettamente biologico, filogenetico, sia ampiamente modellato dal contesto e dalla memoria sociali estesi nello spazio e nel tempo. Al punto che la trasformazione evoluzionistica dell’Homo sapiens in Homo sapiens sapiens transita dalla costruzione dell’utensile, grumo esteriorizzato di memoria collettiva. L’Homo sapiens sapiens, che sa di sapere, costruisce la storia per accumulo di memoria sociale ed è, dunque, zoòn politikón, ‘animale culturale civile’, giacché il termine greco politikón propriamente denota le interrelazioni sociali di una pólis, di una città, di una civitas, che è il corrispondente termine latino dal quale deriva l’italiano ‘civiltà’. E allora il comportamento linguistico, espressione fenotipica dell’animale sociale civile umano, va riguardato e riguadagnato nella sua ragion d’essere originaria,

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quella di manifestazione di una particolarissima modalità di adattamento fenotipico, che come tale presuppone la compresenza dell’organismo biologico umano, con la sua memoria filogenetica, e dell’organizzazione sociale umana storicamente memorizzata nella costruzione e nell’uso comunitario dello strumento relazionale verbale, del quale l’utensile è testimone materializzato. Cioè a dire: non esiste Homo sapiens sapiens fuori da un contesto ambientale civile, contrassegnato da un ampio e variabile insieme di comportamenti culturali tra i quali quello verbale è dominante ma non unico e, soprattutto, non isolabile dalla sommatoria contestuale della culturalità di cui è espressione solo parziale. Aggiungerei anche che il comportamento verbale non è completamente espletato dalle regole grammaticali e sintattiche, che contraddistinguono i diversi usi delle diverse lingue ma non regolano la formazione del significato. Questo, infatti, in termini tecnici è definito come una classe di sensi, e il senso, linguisticamente inteso, è definito dalla reciproca interrelazione del complesso di tutti i sensi appartenenti alla medesima classe di significato. Ovvero, il significato linguistico è dato dall’intera classe dei sensi che lo circoscrivono, e non mai da una sola parzialità di essi: il significato è quella classe concettuale di cui i vari sensi possibili sono gli elementi. Potrei definire il senso come determinazione verbale del contesto situazionale, come simbolizzazione linguistica di una fattualità non linguistica, come nominalità del comportamento di relazione. Per definire il senso linguistico occorre fare riferimento alle situazioni comportamentali e dunque a regole non di grammatica e sintassi ma di azioni e reazioni di vita vissuta. Da qui deriva la necessità di tener conto anche della formazione del contesto situazionale per la comprensione e la produzione di enunciati linguistici “dotati di senso”, semanticamente sensati. Così una lingua procede all’unisono con una cultura, ma le sue regole di strutturazione non sono perfettamente sovrapponibili a quelle che organizzano una società civile nella sua interezza: la cultura è l’insieme maggiore di tutte le tipologie delle relazioni interpersonali messe in opera da una società umana di cui la lingua è un sottoinsieme, non scindibile ma parziale, e le cui regole di formazione non sono primariamente acquisibili senza la continua corrispondenza evolutiva con il sistema culturale di riferimento. Questa corrispondenza è

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ciò che si verifica nella consueta crescita di un bambino nella normalità: il bambino impara contemporaneamente tutte le regole di convivenza attuate dalla società in cui vive, tra le quali s’innestano e prendono senso quelle connesse con la verbalità. Perciò il sistema linguistico, al pari di tutti gli altri sistemi di comunicazione, non vive di vita propria, ma di vita scambiata e quindi non si può farne una utilizzazione strumentale “asettica”, avulsa dal contesto situazionale nel quale ha acquistato senso e astraendo dal quale costruisce il significato. Perciò l’allontanamento fisico estremo da un tale contesto, l’isolamento e la semi–immobilità impediscono al bambino di formarsi un’immagine di specie, di qualsiasi genere. Egli non può osservare e riprodurre il comportamento di nessuno e neppure sperimentare al meglio le sue possibilità di movimento e di organizzazione spazio-temporale. Difatti le posture e le andature dei ragazzi selvaggi vissuti in isolamento non assomigliano a quelle di nessun uomo o animale: i loro muscoli e le loro ossa sono puramente atrofizzati e anchilosati per le posizioni statiche alle quali sono stati costretti per anni e dalla nascita; non hanno comportamenti di relazione né ambientale né interindividuale e sono linguisticamente muti e sordi, benché non lo siano affatto dal punto di vista fisiologico.

Capitolo Decimo UNA CONTROPROVA Nel sesto capitolo ho esaminato gli esperimenti che, dal 1931, sono stati condotti per insegnare la comunicazione linguistica ad alcuni scimpanzé. Vorrei ora riprendere l’argomento in considerazione del fatto che nell’aprile 1988 si è diffusa sui quotidiani mondiali la notizia che da 17 anni era in corso un esperimento d’insegnamento dell’ASL, il linguaggio dei segni gestuali, non a una scimpanzé ma a una femmina di gorilla, alla quale era stato dato il nome Koko. A Woodside, in California, la psicologa Francine Patterson, nel luglio 1972, ha pensato di “adottare” una piccola gorilla di pianura, di sei mesi, nata in cattività nello zoo di San Francisco, perché mamma gorilla non era più in grado di allattare la cucciola. Per tutto il tempo della crescita di Koko la psicologa e i suoi collaboratori hanno condiviso la quotidianità con la gorilla nella pienezza di un rapporto affettivo, oltre che scientifico, comunicato anche mediante un comportamento linguistico. Un resoconto esteso del «Progetto Koko» è il volume pubblicato nel 1981 da Francine Patterson e dal suo assistente primatologo Eugene Linden, intitolato The Education of Koko1. Ne trarrò alcune conclusioni. In diciassette anni di “ambiente umano” Koko ha imparato a usare oltre duemila parole in Ameslan (la lingua dei segni americana), cosicché la sua comunicazione linguistica con tutte le persone che si occupano di lei è altamente comprensibile, nella duplice direzione di risposta corretta a domande verbali e a compiti comportamentali. Sicché pure per un altro primate non umano, diverso dagli scimpanzé, si è dimostrata reale la capacità d’imparare a esprimersi verbalmente, per quanto strabiliante e inverosimile ciò possa sembrare. Ma l’esperimento della Patterson non può dare adito a dubbi scientifici né per

1

F. Patterson, E. Linden, The Education of Koko, Rinehart and Winson, New York 1981 (trad. it. L’educazione di Koko, Mondatori, Milano 1984).

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quanto concerne il metodo né per quanto concerne l’onestà dei risultati ottenuti. Sulla considerazione di tali risultati vorrei ora soffermarmi. L’intelligente fraseggio di Koko (che capisce sia la lingua orale che quella segnata) raramente supera le quattro parole a frase e la loro composizione è “apposizionale” sul tipo di quella di Genie. Perciò ritengo chiarificatore mettere a confronto alcune frasi di Genie con alcune di quelle eseguite da Koko. La prima delle frasi di Genie che riporto è pronunciata dalla ragazza nel dicembre 1972, cioè dopo un anno di terapia di recupero linguistico; le altre quattro frasi si riferiscono al periodo compreso fra aprile e agosto del 1974, ultimo anno del rapporto scientifico documentato da Susan Curtiss: 1. «Dire [il verbo è sempre usato senza il to, ossia nominalmente] porta lucchetto» per «Di’ loro che la porta era chiusa»; 2. «Discorso mamma comprare [il verbo to buy è pronunciato come fosse un’unica parola, ossia nominalmente] mixmaster» per «Vorrei dire a mamma di comprarmi un mixmaster»; 3. «Signor W parola, spinta faccia in piscina» per «Il signor W disse affacciati in piscina»; 4. «Io voglio Curtiss gioco [il verbo to play è usato senza il to, ossia nominalmente] piano» per «Io voglio (che) Curtiss suoni il piano»; 5. «Padre fare [anche qui il verbo è senza ‘to’, ossia usato nominalmente] me pianto» per «Mio padre mi fece piangere»2. Ciò che nel conciso ma abbastanza comprensibile discorso di Genie vorrei che risultasse evidente, pur nella inevitabile difficoltà di traduzione, è la sua strutturazione apposizionale, fatta di soli sostantivi senza nessi né grammaticali né sintattici, tranne la preposizione in nella frase n° 3.

2

Cfr. S. Curtiss, op. cit., p.183 (la traduzione è mia).

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Riporto di seguito due brani di conversazione tra Koko e una collaboratrice della Patterson, avvenuti tra ottobre e dicembre 1978, quando Koko ha circa sette anni: Una delle parole più singolari del vocabolario di Koko è panni, alla quale ha attribuito molti, diversi, significati [in termini tecnico–linguistici si direbbe ‘sensi’]. Quelli cui mi riferisco qui sono pannelli che servono a escludere luci e rumori dalla stanza di Koko quando per lei è ora di andare a letto. Se qualcosa all’esterno la turba, chiede che vengano tirati i «panni». Il 30 ottobre 1978, fin dal mattino davanti alla roulotte [dove è sistemata Koko] c’erano stati dei camion: Koko:* Tempo panni fare. Maureen: Perché? Koko: Bello panni chiuso. Maureen: Perché c’è qualcosa che spaventa? Koko: Presto tu panni fa. Maureen: Perché vuoi i panni? Koko: Chiudi panni… coperta panni fa presto. Maureen: Perché?, hai paura? Koko: Amare panni panni (I suoi segni panni si fanno più insistenti). Panni fa buono.3

E una breve, sorprendente, conversazione sulla morte: Un giorno Maureen le chiese: «Credi che Penny [Susan Patterson] morirà?», Koko rimase incerta per una decina di secondi, e poi si limitò a tracciare il segno: Maledizione! D’altra parte, se si parla di morte in generale, la cosa non le sembra altrettanto preoccupante: Maureen: Dove vanno gorilla quando morire? Koko: Comodo buco addio. Maureen: Quando gorilla muoiono? Koko: Guaio vecchi.4

Dal confronto tra i comportamenti verbali attuati da un essere umano e da un gorilla, entrambi alle prese con la comunicazione linguistica, emergono analogie di strutturazione apposizionale delle frasi, con *

Le parole in corsivo sono segnate in Ameslan, quelle in tondo sono pronunciate a voce, ovviamente solo da Maureen. 3 F. Patterson, E. Linden, op. cit., trad. it., p. 239. 4 ibidem, p. 241.

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un numero di parole che vanno oltre le quattro soltanto nelle frasi di Genie — questa è una differenza importante, come rileverò nel prossimo capitolo. Risulta anche evidente (evidentissimo in Koko) il riferimento al contesto situazionale per la determinazione del senso dei sostantivi in entrambi i casi; come pure la capacità di esprimere sentimenti, sebbene con un numero di parole davvero stringato, ma reso efficace dal potente rimando semantico della apposizionalità. Penso di poter affermare che tali analogie linguistiche siano dovute sia all’«affinità genetica tra l’imitatore e il modello», come scrive Dànilo Mainardi nella “Introduzione” al libro della Patterson, sia alla similarità culturale di una società, quella umana, che ha fatto del comportamento verbale uno strumento di sopravvivenza. Similarità genetica e similarità di apprendimento sono le due condizioni–base perché si sviluppi una lingua. Al proposito, sono rivelatrici due risposte date da Koko a due diverse raffigurazioni: un disegno di due gorilla che si abbracciano viene a segni commentato come «Abbraccio Koko gorilla» e una fotografia di un gorilla come «Quello uomo». Cioè per Koko uomo e gorilla coincidono nella rappresentazione “mentale” di se stesso: il Koko che abbraccia il gorilla, (l’“altro da sé”), coincide invece con la figura del gorilla singolo, che è se stesso e “uomo”. L’identificazione umana di Koko è l’esito psichico della scambievole e durevole condivisione, quasi dalla nascita, della medesima “nicchia ecologica” culturale, nonché del tipo di rapporto sociale caratterizzato dal contesto prettamente umano. Le immagini sociali affettive primarie di Koko, come quelle di un bambino, formate nella stretta relazione con persone, forniscono la base semantica di una lingua: a essa fanno riferimento le prime ‘olofrasi’ e le prime frasi apposizionali nell’apprendimento linguistico di un primate, umano o non umano che sia, come abbiamo potuto riscontrare. Ma questo avviene se e solo se il primate, di qualsiasi specie, viene amorevolmente allevato in una cultura “parlante” pienamente umana. Ne sono una riprova la frequente ricorrenza della parola amore nelle molteplici frasi composte da Koko e i progressi linguistici di Genie mano a mano che migliora il clima emozionale dell’intorno, ovvero i suoi regressi fino all’estinzione, quando quel clima si dissolve per sempre. E ne è doppia riprova la consapevolezza mostrata dalla Patterson che affetto e intelletto non possono mai essere separati nel

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processo dell’apprendimento, e la mancanza di una simile consapevolezza nella Curtiss, la quale, al contrario, opera una sorta di riduzionismo grammaticale, «follemente scientifico», nell’insegnare la comunicazione linguistica a Genie. Esempi famosi della connessione indissolubile tra apprendimento e psiche si trovano nei numerosi studi di etologia animale in tutto il corso del Novecento. Ne ricorderò qui solo alcuni dei più celebri. L’ochetta Martina che, covata artificialmente da Konrad Lorenz e nata alla sua sola presenza, fissò irreversibilmente sullo scienziato la sua innata (cioè, filogeneticamente adattata) capacità di riconoscimento della “madre”, seguendo da subito e per sempre Lorenz, ovunque andasse, e dirigendo a lui il pigolio di richiamo di attenzione e di richiesta di cibo. Chi–Chi, una femmina di Panda gigante — quella simboleggiata nel logo del WWF — che, cresciuta in gabbia da sola nello zoo di Londra, esclusivamente a contatto con esseri umani, faceva profferte sessuali al suo guardiano, rifiutandosi poi, ferocemente, benché si trovasse in pieno estro, di accoppiarsi col Panda maschio dello zoo di Mosca, alla cui presenza era stata portata. Lo scimpanzé Congo, al quale Desmond Morris insegnò a dipingere, in una lunga condivisione di esperienze quotidianamente umane, riuscendoci in maniera almeno interessante, se Jean Miró volle scambiare un suo disegno con uno fatto da Congo. Inoltre, questo scimpanzé, una volta rimesso in gabbia stabilmente perché era diventato fisicamente troppo grande e fisiologicamente in età riproduttiva, nonostante fosse circondato da un gruppo di invitanti femmine, non solo allontanò furiosamente i loro approcci sessuali ma escogitò un espediente davvero “culturalizzato” per dissuaderle: imparò a farsi dare sigarette accese dai visitatori dello zoo colle quali terrorizzare, bruciandole, le sue malcapitate compagne di gabbia. Desmond Morris, in questo e in analoghi casi, definisce gli animali imprintati sull’uomo «ibridi mentali», definizione che mi sembra attagliarsi perfettamente anche a Koko e che, per converso, allargherei ai bambini selvaggi allevati dagli animali. Difatti l’immagine di specie, che si forma alla nascita in quel velocissimo, in alcune specie subitaneo, apprendimento detto imprinting, e il comportamento che ne consegue si modellano sull’adattamento all’ambiente sociale nella sua relazione pri-

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maria genitrice–generato, che è tutt’insieme biologico, emozionale, affettivo. E a proposito dello svilupparsi dei rapporti interspecifici Mainardi scrive che di norma sono considerati sociali i rapporti intraspecifici, cioè quelli all’interno della stessa specie, i quali «trovano la loro trama di fondo in quello scambio di specifici messaggi che nel loro insieme costituiscono il fenomeno della biocomunicazione»5. Per quanto riguarda la nostra specie, però, circa 15–20.000 anni fa si verificò una situazione assai particolare in seguito al fenomeno, a base culturale, dell’addomesticamento. Infatti prima della comparsa di questo fenomeno «i rapporti tra l’uomo e le altre specie animali erano quelli che potremmo chiamare “ecologici”: di predazione, di difesa, di competizione d’altro tipo, di semplice indifferenza. Insomma: sempre rapporti “da specie a specie”. Con l’addomesticamento del lupo, il primo caso e anche il più caratteristico di questo nuovo processo evolutivo, i rapporti invece cambiano, si fanno da “ecologici” “etologici”. Con l’addomesticamento infatti davvero si annullano i rapporti “da specie a specie”; essi necessariamente divengono “sociali”»6. Secondo Mainardi, dunque, con l’avverarsi del fenomeno dell’addomesticamento muta profondamente il rapporto tra la specie umana e le altre specie animali. Ovvero, i rapporti puramente ecologici sono i rapporti interspecifici di sopravvivenza basati sulla coesistenza competitiva di gruppi animali che si contendono nicchie abitative necessarie e sufficienti a un solo specifico gruppo, che perciò si contrappone a qualsiasi altro gruppo animale adattatosi a nicchie ecologiche differenti. Mentre i rapporti sociali, “etologici”, sono quelli intraspecifici che si istaurano all’interno di ciascun gruppo animale, tra gli individui che vi appartengono e la cui appartenenza è sancita oltre che dalla similarità morfologica anche dalla similarità comportamentale. Direi allora che la pratica dell’addomesticamento crea un’interferenza tra i rapporti interspecifici e quelli intraspecifici, spostando l’accento adattativo dall’evoluzione biologica all’evoluzione culturale, da una selezione naturale a una selezione interindividuale, da una biocomunicazione a una sociocomunicazione, poiché esso si basa su due comportamenti primari. Il primo è costituito dall’effetto evocativo parentale dei se5 6

D. Mainardi, Introduzione cit., p.25. ibidem, pp. 25–26.

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gnali infantili causati dalla morfologia dei cuccioli di mammifero, che bloccano l’aggressività degli adulti verso i piccoli, favorendone l’adozione; il secondo è l’imprinting, per il quale il cucciolo focalizza sui genitori adottivi gli automatici segnali di specie comportandosi con essi come se fossero cospecifici. Questi due comportamenti sono propri dell’intera classe dei Mammiferi e quindi travalicano le specie, sono interspecifici: funzionano comunicativamente tra individui di specie diversa in quanto fanno appello alla loro socialità, ai loro modi di con–vivenza più che su quelli di sopra–vivenza, all’adattamento intraspecifico più che a quello specie–specifico, filogenetico. Pertanto «Si instaureranno così legami affettivi personalizzati, e la fortissima e naturale tendenza umana all’antropomorfizzazione farà sì che, in moltissimi casi, il rapporto con l’animale domestico, e soprattutto con l’animale di compagnia, pur essendo nella realtà strettamente biologica un rapporto interspecifico, si evolva come fosse intraspecifico»7. Pare quasi ovvio sottolineare come tutta l’argomentazione addotta per l’addomesticamento possa fornire giustificazioni ben scientifiche al verificarsi dei casi di bambini–cane, ma anche a quelli di bambini allevati da altre specie animali, nonché agli esperimenti “linguistici” condotti con primati non umani. Sicché possiamo concludere che è la ascientifica negazione e assenza di comprensione etologico–culturale a far naufragare nell’indistinto senza ritorno la persona di Genie o, per l’altro verso, a far ritenere del tutto impossibile una comunicazione simbolica interspecifica. Sappiamo, invece, che il contesto culturale, quell’insieme di legami comportamentali trasmessi per via sociale anziché per via genetica, è la cornice indispensabile per l’apprendimento. Ogni e qualsiasi comportamento attuato da un gruppo animale non può essere considerato avulso da un tale contesto sociale complessivo, neppure quello linguistico: si impara a comunicare verbalmente solo se sono attivate tutte le componenti culturali che contraddistinguono il contesto sociale nel quale il comportamento verbale ha ragion d’essere. L’hanno certamente compreso molto bene i coniugi Roger e Deborah Fouts che hanno continuato la sperimentazione iniziata dai coniugi Gardner per insegnare l’Ameslan alla scimpanzé Washoe8, la prima 7 8

ibidem, p. 26, v. il cap. sesto.

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scimmia dimostratasi capaci d’imparare a esprimersi col linguaggio dei segni. Nel corso degli anni, nel centro sperimentale dei coniugi Fouts a Ellensburg, vicino a Seattle, negli Stati Uniti, si sono aggiunti a Washoe un piccolo scimpanzé maschio, adottato da Washoe, e due giovani femmine. E ciò che i coniugi Fouts sono riusciti a ottenere è una vera e propria trasmissione culturale del comportamento verbale che tutti gli scimpanzé del Centro usano non solo nella relazione con gli umani, ma anche tra di loro e — importantissimo — con se stessi allo specchio! Ovviamente, sempre in un fraseggio molto semplice e apposizionale. Per di più, Washoe ha “letteralmente” insegnato a Loulis, il piccolo adottato, a comporre i segni dell’Ameslan, e Loulis ha, comunque, appreso anche per imitazione degli altri adulti della “famiglia”, i quali conversano continuamente tra di loro, in assenza di qualsiasi persona. Attraverso le telecamere sono state registrate, durante alcuni mesi, 5.200 “conversazioni”, di cui solo il 5% riguardavano il cibo, mentre l’88% erano legate al contesto del gioco e ad altre interazioni sociali. Se ne conclude che queste scimmie usano l’Ameslan soprattutto per la vita sociale, e quanto più è numeroso il gruppo, tanto più aumenta il vocabolario di ciascun individuo e la propensione a dialogare. Così nella comunità dei primati di Ellensburg si sono sviluppati i “sinonimi”, cioè il “segnare” in due modi diversi lo stesso oggetto: per esempio, c’è uno scimpanzé che segna ‘melone’ come «frutto–bere» e un altro come «frutto–odore», oppure ‘lenzuola’ come «coperta» o come «lenzuola», e continuano a capirsi nonostante i sinonimi. Ma non basta: questi scimpanzé sono andati oltre, arrivando a sviluppare il linguaggio interno, propriamente detto, quello che si parla tra sé e sé: per esempio, Loulis, mentre in solitudine sfogliava una rivista, si è fermato su una foto e ha segnato «quello è cibo»; in un’altra occasione ha compitato il segno «cappello» mentre andava in giro per la gabbia con un pezzo di legno in testa; oppure un altro scimpanzé che, guardandosi allo specchio, segna a se stesso «bello» «bello». Questo stupefacente passaggio evolutivo, ontogenetico, dal linguaggio esterno, quello appreso per imitazione degli adulti cospecifici, al linguaggio interno è ciò che avviene normalmente nell’apprendimento linguistico del bambino e che determina la verbalizzazione del pensiero e quindi del comportamento volitivo generale dell’individuo umano, insomma la coscienza, per dirlo con una parola.

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Kanzi, primate faber? Nel 1993 è stato dato un premio scientifico universitario a un primate, della specie bonobo, dal nome Kanzi, per il suo contributo alla paleontologia. I bonobo sono una specie molto vicina agli scimpanzé ma più evoluta; difatti l’ingrossamento delle ossa sopracciliari è quasi assente, gli occhi sono completamente frontalizzati, le narici ravvicinate e con vibrisse ridotte, e compare un minore prognatismo del muso. Dall’età di sei mesi, Kanzi è nato nel 1980, e fino al 1998 questo bonobo è rimasto presso il Language Center dell’Università di Atlanta, in Georgia negli Stati Uniti. Fino all’età di 2 anni e mezzo Kanzi è stato allattato e curato dalla madre, alla quale intanto si insegnava a comunicare linguisticamente mediante la tastiera lexigrammatica – analoga a quella della scimpanzé Lana9. Durante la sperimentazione non si presta particolare attenzione al piccolo Kanzi, che girovaga nei pressi senza mostrare interesse all’interazione tra la madre e i suoi addestratori. Quando Kanzi raggiunge i 2 anni e mezzo, gli sperimentatori decidono di far svezzare Kanzi e di allontanare la madre; cosa che avviene non senza qualche difficoltà. Però dopo qualche giorno dall’allontanamento della madre Kanzi non solo normalizza il suo comportamento ma, con grande sorpresa degli sperimentatori, comincia a usare spontaneamente e correttamente la tastiera lexigrammatica, che al momento comprendeva dieci lexigrammi. Per chiarezza, rammento che il lexigramma è un simbolo del tutto astratto, una configurazione geometrica di forme e colori diversi, che funge da “nome“ e che viene semanticamente collegato a un oggetto tramite una tastiera di computer. Sicché Kanzi, senza che gli sperimentatori se ne rendessero conto, ha osservato e appreso l’interazione verbale della madre. Al punto che, per la prima volta, la sperimentazione linguistica con il piccolo non ha bisogno di passare per la fase delle ricompense. Nel tempo il vocabolario lexigrammatico di Kanzi è stato incrementato fino a contenere, attualmente, oltre 200 parole e la straordinarietà di questa esperienza risiede soprattutto nel fatto che Kanzi è capace di riconoscere anche le parole scritte normalmente o pronunciate a voce. È l’unico primate non umano al quale siano stati 9

v. il cap. sesto.

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somministrati test di comprensione di lingua scritta e parlata, oppure raffigurata con disegni o fotografie, e che li abbia brillantemente superati al 100%. Tali test affermano che la comprensione della lingua parlata, ossia non solo di singole parole ma anche dell’intero discorso, dalla sintassi a volte molto complicata, equivale a quella di un bambino di 2 anni e mezzo d’età. Ora Kanzi ha 25 anni e dall’età di 8 anni ha scelto di rientrare nel gruppo originario di bonobo. I ricercatori di Atlanta, con a capo Susan Rumbaugh, attestano che prima di Kanzi i loro pur bravi scimpanzé, come Lana o Sherman o Austin10, si sono dimostrati capaci solo di produrre un comportamento verbale, ma non di comprendere un discorso. Ma la singolarità dell’esperimento continua nel fatto che ha determinato l’assegnazione a Kanzi del premio poc’anzi ricordato e che ha comportato l’insegnamento della scheggiatura della selce in modo da ricavarne strumenti da taglio. In quest’ultimo frangente l’abilità di Kanzi si è dimostrata modesta ma significativa dal punto di vista del processo di apprendimento di un comportamento davvero difficile anche da motivare. Comunque, in tale prova Kanzi è passato dall’applicare una iniziale forza bruta e casuale alla percussione della selce a una più accorta attenzione alla quantità di forza messa in opera e alla forma della pietra da trattare, nonché al tipo di schegge ottenute. Al momento Kanzi non ha ancora imparato a modificare la sua modalità di percussione, se la scheggia si spunta né, tantomeno, a produrre schegge da taglio che abbiano la conformazione di un’ascia paleolitica, però ha dimostrato di sapersi orientare in un compito così complesso e alieno dalle necessità esistenziali di un bonobo. Mi sembra opportuno riprendere e precisare il concetto di cultura, del suo legarsi con la trasmissione di conoscenze sociali e con la costruzione di utensili. Se per “natura” di una individualità biologica animale possiamo intendere la trasmissione dell’informazione genetica dei caratteri ereditari, per “cultura” si può intendere la trasmissione dell’informazione sociale dei comportamenti di relazione. La trasmissione genetica avviene tramite un codice fisico–chimico e la trasmissione sociale tramite un codice comportamentale, “etologico”. Il primo codice è espressione delle interrelazioni tra atomi e molecole, il secondo codice lo è delle 10

Cfr. C. Marrone, Comunicazione e biologia, in “Sapere” (1) 1988, pp. 43–47.

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interrelazioni che organizzano la coesistenza di un gruppo animale. Dunque, entrambi i codici sono sistemi di relazioni, biotipiche in natura e sociotipiche in cultura; pertanto è possibile attribuire, sia pure in forma primordiale, una culturalità anche a società animali non umane. Però è innegabile il divario abissale tra una cultura animale, foss’anche quella dei bonobo geneticamente così prossimi alla nostra specie, e una cultura umana, foss’anche quella della più sperduta tribù primitiva. E il divario è innegabilmente marcato dalla trasmissione della comunicazione verbale e della costruzione di utensili, presente in qualsivoglia società umana e assente in qualsiasi società animale. Però, ancora, la presenza di verbalità e manipolabilità articolata non può significare di per sé che è sufficiente far apprendere a un primate non umano un comportamento verbale, oltretutto, nella migliore delle sperimentazioni, limitato alle capacità di un bambino di 2 anni e mezzo, per dedurne la possibilità “automatica” di aggiungervi il comportamento faber, fabbricatore d’utensili. Anche perché, se per il comportamento verbale possiamo avere un termine di paragone nel bambino, non è possibile fare altrettanto per la costruzione dell’utensile, che è completamente fuori dalla capacità senso–motoria e cognitiva di un bambino piccolo. Voglio dire, cioè, che non è possibile azzerare il tempo storico dell’evoluzione culturale, così come dell’evoluzione biologica, perché biologia e cultura coevolvono nell’unitarietà del tempo di trasformazione: l’unità di evoluzione, naturale e culturale, è l’organismo–e– l’ambiente tutt’insieme. Tant’è vero che la struttura organica del bonobo, per quanto simile, non è identica a quella dell’uomo, come non è identica la socialità, neppure la più primitiva. Rimanendo ben saldi nella teoria darwiniana dell’evoluzione delle specie, dobbiamo ben essere consapevoli che ogni specie è la risultante consequenziale della storia naturale e della storia sociale contemporaneamente e diversificatamene secondo ogni unità di coevoluzione organismo–e–ambiente. E consapevoli anche che le informazioni sociali si trasmettono solo per via culturale e non genetica: persino gli istinti non possono più dirsi innati nel senso semplicistico e spontaneista del termine, ma ritenuti inerenti alla possibilità di risposta ambientale selezionata dall’adattamento filogenetico. Ossia, innato non è il comportamento effettivamente esibito, bensì la predisposizione genetica ad attuare una certa correlazione senso–motoria di risposta a un’esigenza ambientale.

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Ma se l’ambiente, naturale e sociale, è improvvisamente e radicalmente diverso da quello in cui si è “storicamente” evoluta una qualsiasi specie animale, nessun istinto, da solo, metterà un singolo organismo in condizione di attuare un comportamento risolutivo. E ciò per due ragioni: una temporale, poiché l’istinto è stato selezionato come capacità filogenetica; l’altra sociale, poiché il comportamento si sviluppa nell’interazione interindividuale. Pertanto il singolo animale non è portatore di codice comportamentale, così come lo è invece di codice genetico, e il suo adattamento per avere successo abbisogna di entrambe le codificazioni. Ovviamente, quanto più è estesa la potenzialità genetica tanto maggiore è la capacità adattativa, ma quest’ultima è tarata su una filogenesi che ha fatto i plurimillenari conti con una nicchia ecologica rimasta relativamente costante nel tempo dell’evoluzione naturale. In conclusione, direi che l’evoluzione biologica e quella culturale procedono in una unità spazio–temporale, coevolvendo con l’ambiente naturale e sociale: ogni singolo individuo animale è costituito da tale processo coevolutivo e da tale inscindibile intreccio di natura e cultura; sicché nessuna delle due componenti può essere basilarmente modificata indipendentemente dall’altra. Ciò significa che lo scimpanzé e il bonobo, nonché il gorilla, hanno una potenzialità genetica e una conseguente capacità adattativa non coincidenti con quelle umane e perciò il loro apprendimento culturale non può spingersi oltre il loro limite filogenetico, che non consente l’isolamento della componente culturale rispetto a quella naturale. E significa anche la dura e drammatica, spesso inattuata, possibilità di recupero a una piena umanità dei ragazzi selvaggi, anche di quelli meno “etologicamente” imprintati su altre specie, in seguito al profondo errore metodologico che considera il comportamento di un individuo, di qualsiasi specie, un elemento di studio analizzabile e proponibile di per sé come uno strumento artificiale adatto a funzionare in certe determinate condizioni. Al contrario, le funzioni di ogni comportamento si definiscono sempre nella reciprocità inalienabile di natura e cultura. Così, Kanzi non può andare oltre nell’imparare a scheggiare la selce più di quanto non possa farlo nell’imparare ad agire e a pensare linguisticamente. Parallelamente, Genie non è stata messa in grado di

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recuperare pensiero e linguaggio verbali più di quanto non le sia stata ricreata responsabilmente l’integrità di una socialità culturale autenticamente umana e affettivamente comprensiva.

Capitolo undicesimo LA NATURA DEL PENSIERO

Mi sembra lecito affermare che la consapevolezza scientifica sulla natura del pensiero può concludersi nella definizione della coscienza come pensiero verbalizzato e pertanto specificamente umano, anche quando venga espresso da un antropoide. Resta, dunque, aperta la definizione del campo occupato dal pensiero non–verbalizzato, ossia da quella organizzazione comportamentale non mediata dall’apprendimento linguistico, che ogni individuo animale opera nel suo stare al mondo. Proporrei, allora, di chiamare semplicemente ‘pensiero animale’ un tale pensiero non verbalizzato. Sappiamo che qualunque animale realizza la propria sopravvivenza esplorando l’ambiente in cui vive con tutti gli organi di senso di cui è dotato; ciò facendo si costruisce una memoria sensoriale che gli consente di regolarsi su che cosa gli è vantaggioso e su che cosa non lo è. L’animale umano non fa eccezione: un’attendibile traccia di una simile strutturazione memorativa sensoriale del comportamento di esplorazione ambientale ritengo che sia conservata nell’etimo delle parole di una lingua. Altrove* ho definito ‘etimo–logica’ o ‘logica dell’etimo’ (in greco éthymos significa vero, certo, reale) il procedimento a ritroso nella storia lessicale della lingua che ci permette di risalire all’origine “concreta”, di pensiero concreto, sensoriale, del concetto astratto che dà significato a un vocabolo. E reputo questo trascorrere da un pensiero concreto a un pensiero astratto la modalità propria del processo conoscitivo. Difatti, l’italiano ‘conoscere’ deriva dal latino cognosc re, che è verbo incoativo dalla radice G(E)NO, sicché, in ultima analisi, conoscere vuol dire generare insieme e si riferisce perciò alla concretissima, primaria, azione che coinvolge la * Cfr. A. Ludovico, Che tipo di immagine è la ‘realtà virtuale’, in S. Bordini (a c. di), Videoarte & Arte. Tracce per una Storia, Lithos, Roma 1995 e Effetto Heisenberg. La rivoluzione scientifica che ha cambiato la storia, Armando, Roma 2001.

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fisicità del nostro organismo in tutta la sua sensorialità. Analogamente, l’italiano ‘pensare’ deriva dal latino pendre, che significa pesare, attività che utilizza finemente il senso del tatto. Eppoi, distinguiamo il pensiero cosciente dal pensiero inconscio, e, di nuovo, ‘cosciente’ deriva dal latino cum–scio, che parte da un senso primitivo di scio, ‘sapere’, significante ‘decidere’ e ancor prima ‘tagliare’. Mentre però in latino si ha un passaggio da ‘decidere’, ‘tagliare’, a ‘sapere’ e quindi si tratta ancora d’una categorizzazione di tipo tattile, nelle aree indiana, greca e germanica si ha uno svolgimento da ‘vedere’ a ‘sapere’ per i derivati dalla radice WEID (per esempio il tedesco wissen, ‘sapere’ e, per esempio, il contenuto del sapere, l’idea, è mutuato dal greco iden, ‘vedere’). E ‘sapere’, a sua volta deriva dall’omonimo latino sapre, il cui primo significato è ‘aver sapore’, ‘odore’ e perciò denota la sensorialità del gusto e dell’odorato. Allora, sinteticamente, l’attività del conoscere è un generare insieme, assaporando e odorando. Insomma, viene proprio da pensare alla lockiana aristotelica asserzione che: «Nihil est in intellectu quod prius non fuerit in sensu» e infatti ‘intelletto’ è dal latino intelligre, composto dalla preposizione inter e dal verbo legre, ‘scegliere’, perciò l’operazione dell’intelletto è quella del trascegliere, che indica una stretta collaborazione tra i sensi del tatto e della vista. Così, risalendo all’origine delle parole più significative del nostro procedere razionale (tra parentesi ‘razionale’ deriva dal latino ratio, calcolo, e la nostra prima calcolatrice è costituita dalle dita delle mani), possiamo a buon diritto concludere che l’essere umano — perlomeno quello dell’area indoeuropea — è un animale sociale eminentemente visuo–tattile. Direi, inoltre, che esiste una sorta di prova inversa per constatare lo stretto legame che congiunge il linguaggio verbale al suo sostrato fisiologico. Difatti, nell’ambito degli esperimenti riguardanti le situazioni del condizionamento pavloviano classico, quello relativo al fenomeno della coagulazione del sangue risulta particolarmente rivelatore. Si è verificato che la coagulazione del sangue, tanto negli animali che negli esseri umani, avviene con rapidità maggiore se il soggetto in esame ha subito uno shock elettrico. Una tale risposta fisiologica può essere condizionata facendo precedere lo shock dal suono

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di un metronomo; cioè a dire: dopo una serie di prove nelle quali il soggetto, umano o animale, viene sottoposto a un’accelerazione della coagulazione del suo sangue mediante la somministrazione di uno shock elettrico preceduto dal suono di un metronomo, avviene che al solo udire questo suono si coagula il sangue del soggetto che lo ascolta. L’aspetto del fenomeno che qui interessa mettere in evidenza è il fatto che, una volta stabilitasi la risposta fisiologica condizionata, nell’essere umano si può avere la coagulazione del sangue al semplice pronunciare la parola ‘metronomo’. Dunque, dietro le parole ci sono le cose, prima del pensiero astratto c’è il pensiero concreto: a un qualsiasi termine linguistico è collegata una situazione di fatto esperienziale, tramite la trasformazione della mappa sensoriale in mappa concettuale. La totale assenza di dubbi sulla nostra capacità di pensiero ci proviene soprattutto dal poter disporre di un sistema comunicativo tanto complesso e raffinato quale è quello linguistico, ma per ciò stesso, al contrario, siamo soliti dubitare fortemente della capacità di pensare da parte di qualsiasi altra specie zoologica. Per di più questa nostra convinzione viene scientificamente avvalorata dal parallelismo posto tra lo sviluppo della facoltà comunicativa e l’evoluzione del sistema nervoso nelle diverse specie animali. Si afferma, cioè, limitando il discorso a termini semplicissimi, che tanto maggiore è la capacità comunicativa di un animale quanto più complessa è l’evoluzione del sistema nervoso nelle diverse specie: l’articolazione del comportamento comunicativo esibito da una popolazione animale è direttamente proporzionale alla complessità di strutturazione filogenetica del sistema nervoso della specie. Ciò è senz’altro vero, ma guarderei il problema anche dal punto di vista etologico. E allora non appare più così “semplice” il sistema nervoso, per esempio, di un’ape da miele. Intanto, va ricordato che le dimensioni di un’ape sono minuscole rispetto a quelle di un uomo (la sua apertura alare è di 19 mm.; quella di una comune mosca è di 10–15 mm.), ma le sue capacità percettive non si dimostrano parimenti minuscole. Dagli studi di Karl von Frisch emerge che la percezione del colore da parte dell’ape è altrettanto sottile, seppure non identica, di quella dell’uomo, con la variante della sensibilità all’ultravioletto e della cecità al rosso per l’ape e viceversa per l’uomo. Relativamente alla

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percezione delle forme, invece, il fattore più importante per l’occhio dell’ape è il cosiddetto grado di discontinuità piuttosto che non il contorno di una figura. Cioè, l’ape non discrimina tra un cerchio, un quadrato e un triangolo disegnati a tutto pieno, sebbene distingua un cerchio pieno da un quadrato vuoto o un quadrato pieno da due assi incrociati. Sicché se ne può concludere che il riconoscimento di un fiore da parte dell’ape avviene in misura modesta attraverso la forma e in misura preponderante attraverso il colore, ma entrambe le modalità di percezione sono assai elaborate dal sistema nervoso dell’insetto; bisogna anche tener conto del fatto che le sue antenne sono organi sia olfattivi sia tattili, così che il senso dell’olfatto si trova in stretta connessione con quello del tatto. Perciò a un’ape un oggetto profumato di forma circolare può dare una sensazione completamente diversa da quella suscitata da un oggetto profumato ma fornito di spigoli. Verrebbe da dire che le api possono “annusare” la forma degli oggetti utilizzando la loro stretta relazione dei recettori tattili e olfattivi situati sulle antenne. Von Frisch conclude: «l’associazione tra tatto e olfatto delle api sarebbe analoga alla costante integrazione, che sperimentiamo fin dall’infanzia, tra ciò che percepiamo con i nostri occhi e ciò che sentiamo con le nostre mani»1. Inoltre, se le varie parti di un fiore hanno profumi differenti, l’ape può discriminare e localizzare queste parti distinte in modo molto preciso. Anche noi siamo in grado di percepire la differenza di profumo una volta separate le parti, ma non sappiamo farlo annusando il fiore intero, perché i diversi profumi si mescolano prima di raggiungere i nostri organi olfattivi. Vogliamo allora paradossalmente dire che le api sono più “intelligenti” di noi nel riconoscere i fiori dal loro profumo? In un certo senso etologico la risposta potrebbe essere affermativa, dal momento che l’intelligenza di un essere vivente è basata sulla sua capacità di “trascegliere” il più discriminatamene possibile tra il vantaggioso e lo svantaggioso alla sopravvivenza, e i fiori per l’ape sono la fonte primaria di sussistenza, mentre non lo sono affatto per noi. E difatti le api differenziano la qualità del nettare di un fiore oltre che dal suo profumo anche tramite gli organi sensoriali del gusto localizzati sulle appendici boccali. A proposito del senso del gusto vorrei notare che non tutti gli 1

K von Frisch, Il linguaggio delle api, Boringhieri, Torino 1979, p. 77.

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animali — come l’ape e l’uomo — ne hanno gli organi sulla bocca o vicino a essa: mosche e farfalle li hanno sulla punta delle zampe, e quelli delle farfalle sono i più sensibili che si conoscano. Tra i vertebrati inferiori, poi, un pesce di fondale, il cappone, presenta un’analogia con gli invertebrati Lepidotteri. Dal momento che i suoi organi gustativi sono adattati a saggiare le sostanze che giacciono sul fondale delle acque in cui vive, alcuni filamenti delle sue pinne pettorali si sono sviluppati in strutture digitali che portano molti organi del gusto. Ma tornando agli Imenotteri e prendendo in considerazione la loro più complessa forma di comunicazione, la famosissima danza delle api, va tenuto presente che questi insetti possono ricevere e trasmettere con estrema esattezza le numerose informazioni sulla posizione di una sorgente di cibo soltanto perché possiedono appropriate facoltà sensoriali che rispondono con sorprendente precisione alle prestazioni puramente fisiologiche dei loro organi di senso. L’olfatto e il gusto sono utilizzati quando la danzatrice fornisce informazioni sui tipi di fiori o sulla qualità del cibo trovati. Parimenti sono in gioco i sensi del tatto, della vista e della gravitazione quando un’ape, per comunicare la posizione di una meta, si riferisce sia alla distanza di questa dall’alveare con la frequenza del ritmo della danza sia alla direzione nella quale la meta si trova, traducendo il calcolo fatto a vista dell’angolo tra l’altezza del sole e il luogo del cibo in un angolo riferito al verso della forza di gravità, mentre danza al buio sulla superficie perpendicolare del favo, usufruendo dei suoi organi di senso gravitazionale, i cui recettori sono situati su ciuffi di elementi sensori posti alla giunzione tra il capo e il torace e tra il torace e l’addome. A questo punto farei un’analogia euristica tra la comunicazione specificatamente simbolica della lingua umana e quella più genericamente simbolica della danza delle api, rammentando che l’essere simboliche di entrambe le modalità di comunicazione va riferito al rimando che tutt’e due fanno alla base sensoriale di ogni possibile contatto con l’ambiente. E se l’uomo pensa, ossia organizza il suo comportamento di relazione, linguisticamente (mi sia concessa un’ulteriore evidenza etimo–logica nella coincidenza nel termine ‘lingua’ del sistema simbolico e dell’organo fisiologico), non c’è motivo perché un’ape non dovrebbe “pensare”, sia pure con modalità diverse, rendendo simbolici i suoi movimenti di danza.

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Una credibile obiezione all’analogia ora posta è l’ipotesi che gli animali non umani esprimano sempre e soltanto i loro stati motivazionali immediati, mentre l’uomo può inibirne l’espressione e tuttavia conservarne il comportamento comunicativo interno. L’esempio che segue chiarirà il punto. Se in una colonia con gravi difficoltà di cibo le api hanno bottinato presso una certa fonte alimentare e fino al tramonto hanno danzato ripetutamente per comunicarne la posizione e la qualità, di solito smetteranno di danzare durante la notte; però il mattino seguente si dirigeranno nuovamente verso quella fonte di cibo segnalata il giorno precedente, assumendo ovviamente un’orientazione molto diversa rispetto al sole. Ciò può significare non che l’ape abbia memorizzato il luogo utile per l’alimentazione e la necessità di tornarvi, bensì che essa sia in grado di dirigersi mediante altri elementi del paesaggio, sebbene anche in questo caso avrebbe dovuto memorizzare comunque una “mappa” del territorio. Per fugare ogni dubbio, si è sperimentato che con un’opportuna illuminazione è possibile stimolare le api a danzare pure durante la notte e allora si è riscontrato che esse danzano con corse scodinzolanti orientate rispetto alla gravità secondo angoli intermedi tra le orientazioni indicate al mattino e quelle indicate alla sera, e con una differenza proporzionale all’intervallo di tempo trascorso dal tramonto. Il che dimostra, quindi, non soltanto l’esistenza di un orologio biologico endogeno e della capacità di correggere continuamente l’angolo d’orientamento a seconda del tempo trascorso, ma indica in aggiunta che il ricordo della posizione del cibo e la motivazione a comunicarla restano presenti in uno stato latente e implicito in qualche punto all’interno del sistema nervoso dell’animale. Qui è forse opportuno dare per brevi linee l’organizzazione del sistema nervoso degli insetti, che consta di un sistema centrale costituito da una massa gangliare sopraesofagea (cervello) e da una sottoesofagea (gnatencefalo), reciprocamente allacciate da connettivi; e da una catena gangliare ventrale formata da gangli segmentali anch’essi riuniti da connettivi. Dal sistema centrale partono i nervi perlopiù misti. Vi è poi il sistema viscerale comprendente un simpatico dorsale e un simpatico ventrale, e infine un sistema periferico costituito da un plesso di neuroni bi o multipolari collegati col sistema centrale. Per massima semplicità ho ridotto la descrizione al minimo, ma anche così è evidente che il sistema nervoso degli insetti non è affatto tanto rudimentale quanto solitamente si ritiene.

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E allora non dovrebbe risultare più antropomorfico ipotizzare esperienze mentali in un’altra specie, più di quanto non lo sia confrontarne il sistema nervoso o la struttura ossea o gli anticorpi con i nostri. Si è riscontrata una sorta di schema progettuale per la ricerca del cibo in molte specie animali. Ne farò alcuni esempi. In un esperimento, le cornacchie nere d’Inghilterra, che si nutrono di mitili lasciati a riva dalla bassa marea, impararono a nutrirsi di pezzetti di carne lasciati prima accanto e poi sotto valve vuote. In un secondo momento i pezzetti di cibo vennero sepolti nella sabbia, sempre sotto le valve vuote; quando le cornacchie, rovesciate le valve, non trovarono la carne, cominciarono a scavare nella sabbia, scoprendo così il pezzetto di carne lì nascosto. A esperimento concluso, le cornacchie continuarono a rigirare le valve per un po’ di tempo e poi smisero, ma se ne trovavano casualmente qualcuna che ancora nascondeva qualcosa di commestibile, ricominciavano a rigirarle tutte. In una diversa situazione non sperimentale troviamo i motacillidi (una famiglia di Passeriformi) di Oxford, i quali si nutrono di insetti che depongono le uova sui mucchi di letame lasciati dai bovini al pascolo e di insetti che vivono nell’acqua bassa ai margini di un fiume. Questi uccelli hanno ogni giorno la possibilità di scegliere due diverse fonti di cibo e lo fanno sempre nella maniera ottimale: se il giorno precedente si sono nutriti delle larve depositate sul letame e queste erano abbondanti, il giorno seguente torneranno ancora lì per cercarne altre, dato che queste larve si sviluppano con una certa gradualità; se, invece, non ce n’era abbondanza, i motacillidi il giorno dopo si sposteranno sulla riva del fiume. Essi, cioè, concentrano la loro attività là dove il cibo è abbondante con un dispendio minimo di tempo e di sforzi, trasferendosi da un posto all’altro non a caso, ma scegliendo sempre quello più produttivo. Passiamo ora dagli uccelli agli insetti: i bombi di solito visitano quasi sempre il primo fiore più in basso o quello immediatamente accanto, e poi si spostano verso l’alto scegliendo il fiore prossimo a quello non ancora visitato. Per alcuni bombi, marcati per riconoscerli, è accaduto soltanto 4 volte su 482 osservazioni che uno di essi sia tornato su un fiore già visitato. Il che induce a pensare che questi insetti siano in grado di ricordare almeno per breve tempo quali fiori abbiano già visitato, oppure che lascino un segnale olfattivo che per-

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metta loro di evitare il fiore già sfruttato. In ogni caso, è evidente che persino animali considerati semplicissimi si comportano secondo regole altamente efficaci. Situazioni di questo genere portano a concludere che quando gli animali vanno in cerca di cibo usano immagini di ricerca: qualcosa nel sistema nervoso centrale dell’animale gli permette di riconoscere una certa configurazione, inducendolo ad avvicinarsi, a esplorare e a compiere altri movimenti di indagine dell’ambiente. Bisogna precisare che tali immagini di ricerca non sono stereotipi geneticamente fissi. Infatti, tornando agli uccelli, i fringuelli delle Galapagos che abitualmente si nutrono del sangue delle sule (grossi uccelli pelecaniformi) mentre tolgono parassiti dalle loro piume, lo fanno solamente se l’habitat è spoglio e povero di cibo, perché altrimenti fringuelli e sule convivono senza atti di vampirismo. Uno schema progettuale analogo a quello dell’immagine di ricerca viene probabilmente messo in opera anche per il riconoscimento dei luoghi nei quali molti animali — persino i ratti da laboratorio — accumulano scorte di cibo per le stagioni meno fruttifere. Nelle condizioni naturali gran parte del cibo accumulato viene recuperato e mangiato anche a distanza di settimane o di mesi. Come accade alla nocciolaia, un uccello affine ai corvi, che vive tra le montagne del Nordamerica, dove negli inverni lunghi e freddi c’è scarsità di cibo. Perciò durante l’autunno le nocciolaie passano gran parte del loro tempo a nascondere semi di pino in fenditure o a seppellirli nel terreno. In un’annata d’abbondanza un uccello arriva a nascondere fino a 33.000 semi, e ogni singolo nascondiglio ne contiene da due a cinque. Ed è stato calcolato che per sopravvivere in un inverno tipico una nocciolaia deve ritrovare almeno un migliaio dei depositi costituiti nell’autunno. Quando vediamo delle persone comportarsi in modo efficiente, supponiamo che abbiano riflettuto su ciò che stanno facendo. Dalle esemplificazioni addotte possiamo azzardare un’inferenza simile per quanto riguarda il comportamento di animali non umani? Una risposta di tipo riduzionista affermerebbe che l’efficienza di un meccanismo non è una prova di consapevolezza cosciente. È però necessario far rilevare che la ricerca e la raccolta ottimale di cibo richiedono una valutazione precisa di una così ampia variabile di aspetti in un ambiente mutevole che un pensiero organizzato in una memoria sensoriale della

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situazione potrebbe essere il procedimento più appropriato e più “economico”, invece di postulare complicati, minuziosi, preformati meccanismi di predeterminazione genetica, che sarebbero inevitabilmente ristretti al singolo individuo e quindi relativi a una assai ridotta gamma di variabili ambientali. D’altra parte è evidente che la capacità di estrarre le caratteristiche essenziali di un oggetto importante e di riconoscerlo nonostante vari tipi di distorsione risulta adattativa in quanto vantaggiosa per il mantenimento della vita; ancor più quando a essa s’accompagna una “immagine mentale” comprendente anche la relazione tra gli eventi passati e quelli futuri. Con ciò non intendo affatto negare l’esistenza dei cosiddetti schemi di azione fissi che sono geneticamente determinati perché filogeneticamente selezionati dall’evoluzione delle specie. Ma desidero mettere in chiaro che quando si fa riferimento a tali schemi, si descrivono situazioni comportamentali decisamente limitate e semplici. Adduco qualche utile esemplificazione dell’aspetto degli schemi di azione fissi. Le oche cinerine, se un uovo scivola fuori dal nido, lo spingono con continui movimenti del collo dal basso verso l’alto: questo atto è formato da due componenti, una che impedisce all’uovo di rotolare verso il petto dell’oca e l’altro che è basato su piccoli colpi di raddrizzamento da destra a sinistra. Delle due componenti soltanto la prima risponde a uno schema di azione fisso, tant’è che l’oca continuerà a fare il movimento verso un uovo immaginario, se quello reale è rotolato via. In un esperimento di laboratorio fatto con piccoli di merlo, tutti i ricercatori si vestivano sempre di bianco quando dovevano comparire davanti agli uccelli o quando li accudivano alimentandoli; e anche tutto l’ambiente intorno era bianco. Dopo una settimana ai piccoli merli furono presentati due fantocci di merlo, uno bianco e uno nero, ed essi spalancarono il becco verso quello nero e non verso quello bianco, come ci si sarebbe potuti aspettare in quella situazione di assoluta bianchezza ambientale. In altri esperimenti di laboratorio, questa volta a carattere strettamente fisiologico, se si trapiantano, invertendoli, gli arti anteriori di una salamandra in modo che l’arto destro stia al posto del sinistro e viceversa, si bloccherà completamente il movimento dell’anfibio perché gli arti anteriori invertiti ostacoleranno in senso opposto l’anda-

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mento degli arti posteriori. Ciò è dovuto alla presenza di fibre nervose specifiche innervanti muscoli specifici, che quindi non sono suscettibili di adattamento a condizioni esterne improvvisamente mutate. In maniera analoga, se si ruotano i globi oculari di una rana senza lederne il nervo ottico, alla vista di un insetto la rana risponderà mirando dalla parte opposta a quella nella quale si trova l’insetto; questa risposta non è corrispondente alla situazione e non è neppure suscettibile di adattamento o compensazione: la rana continuerà sempre a vedere insetti nel posto sbagliato. Vorrei aggiungere che la presenza di schemi di azione fissi di per se stessa non implica l’assenza di pensiero nell’animale che li presenta, prima di tutto perché essi sono relativi a comportamenti minimali e secondariamente perché un comportamento automatico non è necessariamente inconsapevole, nel senso che si presenta indipendentemente dal relazionarsi all’ambiente. Per quanto riguarda l’essere umano, infatti, non saremmo così sicuri nell’affermare che il riflesso di suzione del neonato è semplicemente inconsapevole. Ma torno a esaminare i comportamenti complessi a proposito dei quali maggiori sono le possibilità d’insinuare la presenza di un pensiero sensorialmente organizzato in chi li esibisce. Studi di osservazione fatti sui gabbiani reali e sui corvi hanno rilevato come queste due specie di uccelli trasportino conchiglie di molluschi al di sopra di aree rocciose o di selciati duri e li lascino cadere dall’alto, a volte ripetutamente, finché la conchiglia si rompe ed essi ne possono mangiare il contenuto. Questo tipo di comportamento presuppone diverse scelte finalizzate: 1) l’altezza ottimale dalla quale far cadere la conchiglia, 2) la durezza adatta del suolo sottostante, 3) la vicinanza non eccessiva all’acqua del mare che potrebbe portar via il mollusco una volta rotto il guscio, 4) la scelta della conchiglia piena operata mediante una stima del suo peso, 5) la perseveranza nei tentativi di rompere sempre una medesima conchiglia prima di prenderne un’altra. E per di più, a volte i corvi immergono i bùccini nell’acqua prima di mangiarli, evidentemente per liberarli dai residui della conchiglia. Un’altra specie di uccelli, i capovaccai, avvoltoi della Tanzania, rompono le uova di struzzo — che sono di dimensioni notevoli — stando fermi sulle zampe accanto alle uova e liberandovi sopra pietre tenute col becco, che siano abbastanza grandi e abbiano una forza

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sufficiente a romperle. E non sono soltanto gli evoluti scimpanzé a usare bastoncini per la caccia alle termiti, anche il fringuello-picchio delle Galapagos si serve di lunghe spine di cactus per estrarre le larve degli insetti dai buchi e dalle fessure dei tronchi d’albero. A questo punto posso riprendere il discorso sull’uso e la fabbricazione di arnesi come testimonianza di un pensiero animale sensorialmente organizzato fino a divenire cosciente nell’uomo. La questione si pone innanzitutto chiarendo in che cosa consista la differenza fra uso e fabbricazione di arnesi o utensili, poiché, come abbiamo visto, l’uso di essi è comune a molte e diverse specie animali, mentre la loro fabbricazione avviene solo da parte di individui della specie umana. Farei consistere l’operazione d’uso nell’utilizzazione attiva o passiva di un oggetto, cosicché in tale operazione possono rientrare i comportamenti d’uso di oggetti contundenti oppure “stananti” del gabbiano reale che rompe i bùccini, del capovaccaio che rompe uova di struzzo, del fringuello–picchio con la spina di cactus, dello scimpanzé col bastoncino per scovare insetti. L’aspetto che mi sembra determinante per stabilire se un animale stia facendo un vero e proprio uso dell’oggetto è in prima istanza l’esibizione di uno schema progettuale diretto a uno scopo e, in seconda istanza, il fatto che lo scopo venga raggiunto tramite qualcosa d’esterno, o d’esteriorizzato, rispetto alla pura funzionalità fisiologica organica. Che l’oggetto sia esterno al corpo dell’animale ci rende subitamente avvertiti dello schema progettuale di ricerca, e che sia esteriorizzato — come nel caso della danza delle api — ci manifesta la presenza di un livello comunicativo operante senza oggetti esterni ma tramite atteggiamenti corporali obiettivati, “ritualizzati”. Quando da parte di alcuni etologi si mette in dubbio la liceità di definire come uso di arnesi l’impiego della coda che certi macachi fanno per procurarsi i granchi di cui si cibano o anche di scimmie rhesus in cattività per raggiungere cibo o altri oggetti posti fuori della gabbia, ritengo che la ragione del dubbio non stia tanto nel fatto che la coda non è un oggetto esterno all’animale (neppure l’addome dell’ape danzante lo è), quanto piuttosto nella mancata esteriorizzazione funzionale della propria coda, che non è stata “pensata” né come bastone né come superficie contundente né come modalità comunicativa, ma è stata soltanto impiegata nella sua stretta funzionalità fisiologica di arto ulteriore.

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Capitolo Undicesimo

Per chiarire pongo una similitudine. Se si ha una qualche familiarità con la forma dei primissimi manufatti in pietra a opera dei nostri più antichi progenitori, non si può fare a meno di notare l’analogia stupefacente che tali choppers hanno con la forma dei nostri denti. Non ritengo casuale tale somiglianza, ma anzi essa dimostra che gli uomini del Paleolitico hanno reso strumentale, obiettivandola, una funzionalità fisiologica interna, migliorando così l’efficacia e l’efficienza dello scopo prefisso. In più, rispetto allo scimpanzé o al fringuello–picchio, l’uomo primitivo anziché limitarsi a utilizzare un oggetto dalla forma acconcia, casualmente presente nell’ambiente, ogni volta diverso e congeniale alla mera contingenza, individua oltre alla somiglianza formale dell’oggetto con una propria parte del corpo adatta allo scopo anche la somiglianza di materiale tra l’oggetto esterno e l’oggetto interno — tra la pietra e il dente: questa analogia, per così dire, di secondo grado fa la differenza fra mero uso dell’oggetto e costruzione dell’utensile, tra finalità “in presenza” e progettualità “in assenza”. Se, con Mainardi, vogliamo intendere per cultura «l’acquisizione di un’informazione tramite l’esperienza, e la trasmissione di tale informazione ad altri individui in modo che si formino ed evolvano delle tradizioni», non c’è motivo di escludere dall’ambito di una generale capacità culturale comportamenti animali come quello delle cince inglesi, che alcuni decenni fa impararono a forare col becco la lattina delle bottiglie di latte lasciate davanti alla porta delle case per mangiarne la panna, o come quello dei macachi giapponesi che presero a lavare nell’acqua prima dolce e poi salata le patate in precedenza solo spolverate con le mani. In entrambi i casi il comportamento si è trasmesso in tutta la popolazione cospecifica locale, sebbene per raggiungere lo scopo nel primo dei due casi non compaia l’uso di oggetti esterni e nel secondo sì: il becco della cincia per forare di contro all’acqua per lavare e, presumibilmente, insaporire. Ciò che intendo sottolineare è che non è tanto il concetto di cultura a fare la differenza sostanziale tra specie sociali diverse quanto la costruzione piuttosto che l’uso di un arnese, la quale risponde a un’organizzazione mentale di secondo livello, a una logica progettuale di secondo grado, alla realizzazione di un contesto di contesto, alla simbolizzazione di una situazione non soltanto fattuale ma possibile, all’apprendimento di soluzioni nuove per vecchi problemi, alla classificazione in parti interconnesse di un tutto funzionale.

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Il fattore culturale, invece, diventa di importanza fondamentale nella trasmissione dell’apprendimento e nella fissazione dell’imprinting su una tipologia sociale piuttosto che su un’altra: dei ragazzi selvaggi su “aliene” specie animali, ovvero di mammiferi e primati non umani su “aliene” società nostrane. Ed è proprio l’irreversibilità del primario comportamento relazionale che impedisce il recupero linguistico e socialmente umano alla maggior parte dei ragazzi selvaggi allevati da animali, mentre è proprio la trasmissibilità culturale dell’apprendimento ciò che consente un’elementare comunicazione verbale ad antropoidi. Ma devo ribadire ancora una volta che natura e cultura sono le due facce analitiche di una medesima unità di evoluzione, biologica e culturale insieme, che è l’organismo-e-ambiente. Emerge ora in tutta visibilità la rilevanza della presenza o dell’assenza dei rapporti sociali nei casi dei ragazzi selvaggi. I fanciulli cresciuti con gli animali hanno modellato su questi le loro risposte ambientali, che si sono stabilizzate secondo schemi opportuni, propri della specie d’adozione. Di qui la maggiore difficoltà incontrata da questi ragazzi nel trasformare la struttura del modello sociobiologico che si è dimostrata indispensabile alla loro sopravvivenza, una volta che essi vengano ricondotti in una società umana. Nei casi di bambini sopravvissuti per autosostentamento l’assenza di una qualunque comunità animale ha loro impedito la proiezione della propria capacità adattativa su un modello preciso. Ne consegue che, dopo il loro ritrovamento, i bambini allevati dagli animali selvatici hanno vita breve, al contrario degli altri: le modificazioni e i cambiamenti da apportare a un imprinting sociobiologico stabilizzato risultano troppo drastici e “insensati”, troppo insopportabilmente catastrofici. La memoria psicobiologica di un organismo vissuto in condizioni semplicemente animali ha stabilito connessioni fisico–chimiche e comportamentali troppo diverse da quelle che si instaurano in un organismo umano vissuto tra gli umani: la nostra plasticità sembra essere molto maggiore nella direzione della strutturazione piuttosto che non nella direzione della ri–strutturazione. Infatti, i fanciulli sopravvissuti per autosostentamento non devono ristrutturare dalle fondamenta la loro memoria psicobiologica, ma soltanto “restaurarla”. Ne è prova il fatto che appartenga a questa categoria di ragazzi selvaggi l’unico caso documentato di

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Capitolo Undicesimo

ricordo verbalizzato della vita vissuta precedentemente al recupero linguistico: si tratta della fanciulla di Songi nel 1731. Va comunque sottolineato che neppure questo tipo di ragazzi presenta spontaneamente un comportamento verbale e soltanto 6 su 18 — cioè 1/3 — riescono in vario grado ad apprenderne uno, sebbene sia ancora soltanto fra tali casi che compaia una sorta di balbettio spontaneo prima del recupero. Però il balbettio non è condizione sufficiente e neppure indispensabile al manifestarsi del linguaggio verbale. Difatti due bambini che al ritrovamento non producevano balbettii, in seguito hanno imparato a parlare, mentre altri due bambini imparano a parlare senza produrre balbettii. Invece dei 28 casi di bambini allevati da animali selvatici soltanto 6 — cioè poco più di 1/5 — riescono ad acquisire un comportamento generale di tipo umano e unicamente dopo aver appreso a parlare o almeno a capire la lingua. Se ne può ribadire la non dipendenza genetica innata del comportamento linguistico, come e più di ogni altro comportamento, i quali tutti vengono invece trasmessi dalle “abitudini culturali”, che per quanto riguarda la verbalità devono passare per un apprendimento di secondo livello logico: non solo riconoscere un contesto situazionale come totalità, ma anche percepirlo come composto di parti interconnesse. Sotto l’aspetto genetico i ragazzi selvaggi appartengono al genere Homo e alla specie sapiens sapiens e, quindi, la loro morfologia è basilarmente come quella di ciascun essere umano, anche se la loro organizzazione fisiologica può avere subito leggere variazioni quali grosse callosità ai ginocchi e ai gomiti, il collo corto e muscoloso, i canini lunghi e aguzzi, le ossa mascellari rialzate e sporgenti, il colore rosso intenso della mucosa della bocca, una sorta di fosforescenza negli occhi, una peluria diffusa. Tali modificazioni sono dovute alle posture e all’alimentazione adottate per la sopravvivenza e non sono determinate — sebbene siano rese possibili — dalle informazioni genetiche dell’individuo che le presenta, e non verrebbero perciò trasmesse alla discendenza. Infatti una volta cambiato il tipo di andatura e di cibo, queste sovrastrutture biologiche scompaiono. È, d’altra parte, importante considerare che tutte o alcune delle caratteristiche fisiche ora enumerate potrebbero appartenere a individui umani “normali”, ma allora esse sarebbero inerenti alla loro struttura genetica, non si modificherebbero cambiando tipo di vita e verrebbero

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trasmesse alla progenie. Desidero, cioè, ripetere che il fenotipo è la realizzazione di tutto e solo il potenziale del genotipo: un individuo della specie umana, per quante possano essere le sollecitazioni ambientali, non può trasformarsi in un individuo di un’altra specie e, ovviamente, vale la reciproca per tutte le altre specie animali. Ciò però non significa che per definire una specie siano sufficienti genetica e biologia, poiché il comportamento ne è la terza componente indispensabile. Come ho già detto, lo statuto di appartenenza a una specie animale è fornito da tutte e tre queste costituenti insieme e le variazioni di una di esse inducono variazioni nelle altre due. Il grado e la misura delle variazioni possono arrivare alla formazione di una specie nuova, se tali variazioni vengono trasmesse alla discendenza, nel qual caso avverrebbe una mutazione genetica. Ma comunque la definizione della nuova specie sarebbe ancora basata sui tre criteri menzionati. Sicché, paradossalmente, non è sufficiente comportarsi come un lupo o una scimmia o un cane per essere un lupo, una scimmia, un cane; così come non è sufficiente a un lupo, a un cane o a una scimmia comportarsi come — o quasi come — un essere umano per esserlo. Coniando qualche neologismo, direi che i parametri definitori di una popolazione animale sono: il genoma (cioè l’insieme dei genotipi individuali di quella popolazione), il fenoma (cioè l’insieme dei fenotipi individuali della popolazione) e l’etoma (cioè l’insieme delle interrelazioni comportamentali degli individui della popolazione). Tali parametri sono globalmente biologici e sociali e sono quelli che definiscono anche una popolazione umana con una componente aggiuntiva, dovuta all’emergere del linguaggio verbale: la storia civile, costituita dalla sistematizzazione linguistica dei nessi sociali. In ragione della storia la popolazione umana più propriamente si definisce etnia. E così come il gene è l’unità di trasmissione e replicazione dei caratteri biologici di un individuo e di una popolazione umani, mutuandolo da Dawkins ed estendendolo alle società animali, il ‘meme’ è l’unità di trasmissione e replicazione dei caratteri culturali, ossia sociali, di un individuo e di una popolazione di qualsiasi specie animale. Ciò che definisce il meme è la relazione sociale che contraddistingue, nella costanza di un comportamento da una generazione all’altra, la tipicità di soluzione vitale adottata da una popolazione animale. Poiché la specificità della relazione sociale umana è il comportamento

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Capitolo Undicesimo

verbale e la storicità linguistica che ne deriva, la differenza del meme umano rispetto al meme di qualsiasi altra specie sociale è data dalla costruzione di utensili e di un sistema linguistico per sistematizzare l’interazione con l’ambiente naturale e culturale. Questa precisazione mi permette di farne un’altra: la cultura organizzata dalla specie umana si diversifica sulla base del comportamento verbale, per cui il meme umano si struttura sulle diversità delle lingue delle diverse etnie, originando una grande disparità culturale all’interno della stessa specie biologica. E così la differenza delle lingue comporta la differenza dei memi e quindi delle tradizioni storiche e sociali che formano una etnia. Dawkins definisce il meme una «unità di imitazione» e i casi dei ragazzi selvaggi hanno messo in chiaro che proprio l’imitazione è l’indice massimo della capacità adattativa dell’essere umano e come essa sia proporzionale al bisogno di dipendenza psicobiologica del piccolo dall’adulto. Dato che tale bisogno di dipendenza è maggiore nel cucciolo d’uomo, perché più lungo è il tempo di fissazione del suo imprinting, la costruzione del meme nella nostra specie procede assieme all’acquisizione di una lingua, strumento preferenziale della nostra comunicazione interindividuale. Dunque, l’imitazione è la modalità di replicazione del meme umano, la lingua ne è il mezzo di applicazione e la storia ne è il veicolo di trasmissione. Per quanto riguarda il meme di specie animali non umane, la lingua e la storia sono sostituite dal comportamento di relazione e dalla socialità. Appare così evidente che il meme animale è compreso dal meme umano, ma non viceversa: la discriminante sta nella realizzazione di un comportamento sociale formato da una interrelazione anche linguistica, assente nella socialità animale non umana. Procedendo oltre, si può argomentare che il gene ha la funzione di memorizzare e replicare i caratteri biologici e il meme ha la funzione di memorizzare e replicare le caratteristiche comportamentali di una popolazione animale; la memoria del gene è biochimica e quella del meme è sociale o anche storica, l’una interna e l’altra esterna all’organismo, l’una automatica e appartenente al corpus individuale, l’altra sintomatica e appartenente al corpus sociale. Il gene tende a replicare quei caratteri che sono vantaggiosi alla sopravvivenza biologica e il meme tende a replicare quei comportamenti culturali che sono vantaggiosi per la sopravvivenza delle etnie.

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Sul filo sottile della distinzione interno/esterno passa la diversa qualità dell’informazione che fa da tramite alla replicazione, biologica del gene e simbolica del meme. Ma teniamo sempre presente che gene e meme insieme, nella loro interdipendenza sociobiologica, circoscrivono una specie animale rispetto a un’altra: il gene sta all’organicità biologica come il meme sta all’organizzazione sociale. Potrei forse dire che il simbolo, la simbolicità, è il denotatore di una simile proporzionalità e l’etimo–logica ne è l’indice: la nostra verbalità è l’esteriorizzazione della sensorialità che governa il comportamento di relazione. L’italiano ‘simbolo’ deriva dal greco synbállo, che significa unire con un gesto del gettare insieme, ossia unire gettando un ponte, quel ponte che congiunge la socialità alla biologicità, l’esterno all’interno, la storia culturale alla storia naturale, per costruire esseri viventi e persone. Penso che la simbolizzazione linguistica sia un’esteriorizzazione cosciente di una comunicazione sociale primaria attuata con un “linguaggio d’azione” inconsapevole di sé, semplicemente operato nel contesto interattivo situazionale. E una metodologia metalinguistica come una etimo–logica può riguadagnare alla comprensione conoscitiva la base comportamentale sociobiologica del significato linguistico, della semantica verbale. Ovvero, la base sociobiologica della semantica è la comunicazione sociale attuata dall’interazione di un “linguaggio d’azione”, simbolicamente memorizzato nel meme, verbale per l’uomo e non verbale per gli animali, e trasmesso culturalmente in una comunità mediante l’imitazione del comportameno verbale o non verbale, a seconda che la comunità sia etnica o soltanto animale. Vorrei sottolineare che l’analisi storico–epistemologica di una lingua consente di arrivarne alle radici memetiche sociobiologiche e di scoprire che ciò che nello sviluppo ontogenetico è il passaggio dal linguaggio esterno al linguaggio interno, nell’evoluzione filogenetica corrisponde al passaggio dall’uso alla costruzione di utensili, che è il transito dall’individuazione di un oggetto, interno o esterno al proprio corpo, ma già esistente, atto a “far da ponte” per raggiungere una soluzione vitale, alla intuizione puramente pensata per formale analogia strumentale di un “oggetto mentale” materialmente non esistente nella forma adatta allo scopo. La classificazione delle percezioni di uguaglianze e differenze è il principio ordinatore della costruzione dell’u-

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Capitolo Undicesimo

tensile, mentre il solo uso dell’arnese privilegia l’utilizzazione ripetuta delle somiglianze. Mi sembra di poter concludere che l’uso di uno strumento forma una memoria analogica di linguaggio d’azione situazionale, mentre la scheggiatura della selce costruisce una memoria dialogica condivisibile nel tempo storico e oltre l’individualità.

Schede riassuntive di 47 casi di ragazzi selvaggi

13 casi di bambini–lupo 1. BAMBINO–LUPO D’ASSIA Età al rapimento: 3 anni. Età al ritrovamento: 7 anni (12 anni).

Data di ritrovamento: 1344 (1341).

Fonti bibliografiche Dirette: nessuna. Indirette: PH. CA MERARIUS, Operae horarum subscivarum sive meditationes historicae auctiores, Francoforte 1602, vol. I, p. 343. PISTORIUS, Scriptores rerum a Germanis gestarum. Additiones ad Lambertum Schafnaburgensem, appositae ab Erphesferdensi Monaco anonymo, Francoforte 1613, p. 264. J.J. ROUSSEAU, Discours sur l’origine et les fondemens de l’inégalité parmi les hommes, Amsterdam 1755, p. 188. C. LINNEO, Systema Naturae, 13a ed., Lione 1789, Tomo I, p. 21. (Juvenis lupinus Hassiacus). J.F. BLUMENBACH, Beyträge zur Naturgenschichte, Gottinga 1811, p. 35. J.C.D. SCHREBER, Die Säugetheire, in Abbildung der Natur, Erlangen 1774– 1846, vol. I, p. 33. J.F.I. TAFEL, Die Fundamentale Philosophie in genetischer Entwickelung mit besonderer Rücksicht auf die Geschichte jedes einzelnen Problems, Tubinga 1848, vol. I, p. 49. A. RAUBER, Homo Sapiens Ferus oder Die Zustande der Verwilderten und ihre Bedeutung für Wissenschaft, Politik und Schule, 2a ed., Lipsia 1888, pp. 15–18. II. BAMBINO–LUPO DI WETTERAU Età al rapimento: non nota. Età al ritrovamento: non nota.

Data di ritrovamento: 1344.

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Schede riassuntive

Fonti bibliografiche Dirette: nessuna. Indirette: PISTORIUS, op. cit., p. 264. A. RAUBER, op. cit., pp. 15–18. III. BAMBINO– LUPO DI BANKEPUR Età al rapimento: 6 anni. Età al ritrovamento: 9–10 anni.

Data di ritrovamento: 1841–42.

Fonti bibliografiche Dirette: W.H. S LEEMAN, A Journey through the Kingdom of Oude (in 1849-50), 2 voll., Londra 1858. Il testo di Sleeman è in: R.M. ZINGG, Feral Man and Cases of Extreme Isolation of Individuals, Archon Books, U.S.A. 1966, p. 1–50. IV. BAMBINO–LUPO DI BONDEE Età al rapimento: 4 anni. Eà al ritrovamento: 10 anni.

Data di ritrovamento: 1841. Scappa dopo 16 mesi.

Fonti bibliografiche Dirette: W.H. S LEEMAN, op. cit. Il testo di Sleeman è in: R.M. ZINGG, op. cit., p. 150–153. V. BAMBINO–LUPO DI HASUNPUR Età al rapimento: non nota. Età al ritrovamento: 12 anni.

Data di ritrovamento: 1843.

Fonti bibliografiche Dirette: W.H. SLEEMAN, op. cit. Il testo di Sleeman è in: R.M. ZINGG, op. cit., p. 149.

47 casi di ragazzi selvaggi

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VI. BAMBINO–LUPO DI GHUTKORE Età al rapimento: non nota. Età al ritrovamento: non nota.

Data di ritrovamento: 1843.

Fonti bibliografiche Dirette: W.H. SLEEMAN, op. cit. Il testo di Sleeman è in: R.M. ZINGG, op. cit., pp. 149–150. VII. BAMBINO–LUPO DI SHAHJEHANPORE Età al rapimento: non nota. Età al ritrovamento: 6 anni.

Data di ritrovamento: 1844. Ancora vivo nel 1858.

Fonti bibliografiche Dirette: H.D. WILLOCK, Comunicazione, in «The Field», 2246, Londra 11 gennaio 1896, pp. 36–37. Indirette: G.A. SHOCKWILL, Wolf–children, in «Lippincott’s Monthly Magazine», 61 (1868), pp. 115–125. VIII. BAMBINO– LUPO DI CHANDOUR Età al rapimento: non nota. Età al ritrovamento: 9–10 anni.

Data di ritrovamento: 1847. Data di morte: 1850.

Fonti bibliografiche Dirette: W.H. SLEEMAN, op. cit. Il testo di Sleeman è in: R.M. ZINGG, op. cit., pp. 144–147. IX. BAMBINO–LUPO DI CHUPRA Età al rapimento: 3 anni. Età al ritrovamento: 9 anni.

Data di ritrovamento: 1849.

Fonti bibliografiche Dirette: W.H. SLEEMAN, op. cit. Il testo di Sleeman è in: R.M. ZINGG, op. cit., pp. 147–149.

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Schede riassuntive

X. BAMBINO–LUPO DI SULTANPORE Età al rapimento: non nota. Età al ritrovamento: 4 anni.

Data di ritrovamento: 1860–61.

Fonti bibliografiche Dirette: H.G. ROSS, Comunicazione in «The Field», 2237, Londra 9 novembre 1895, p. 786. Indirette: G.A. SHOCKWILL, op. cit., p. 120. XI. BAMBINO–LUPO DI SIKANDRA: DINA SANICHAR Età al rapimento: non nota. Età al ritrovamento: 7–8 anni.

Data di ritrovamento: 1867. Data di morte: 1895.

Fonti bibliografiche Dirette: The Secundra (Agra) Church Mission Report, 1895. Il testo è in: R.M. ZINGG, op. cit., p. 150. V. Ball, Notes on children found living with Wolves in the North Western Provinces and Oudh, in «Proceedings of the Asiatic Society of Bengal», 8 (1873), pp. 128–129; Jungle Life in India: or the Journeys and Journals of an Indian Geologist, Londra 1880; «The Journal of the Anthropological Institute of Great Britain and Ireland», 9 (1880), pp. 465–474. J. HEWETT, Jungle Trails in Northen India, Londra 1938, pp. 15–20. Indirette: ANONIMO, India’s Wolt-Children found in Caves, in «Literary Digest», 95 (1927), pp. 54–56. XII. SECONDO BAMBINO–LUPO DI SIKANDRA Età al rapimento: non nota. Età al ritrovamento: 10 anni. Fonti bibliografiche Dirette: nessuna. Indirette: V. BALL, op. cit.

Data di ritrovamento: feb. 1872. Data di morte: lug. 1872.

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47 casi di ragazzi selvaggi XIII. AMALA E KAMALA Amala Età al rapimento: non nota. Età al ritrovamento: 1 anno e . Kamala Età al rapimento: non nota. Età al ritrovamento: 8 anni.

Data di ritrovamento: 17–10–1920. Data di morte: 21–9–1921. Data di ritrovamento: 17–10–1920. Data di morte: 14–11–1929.

Fonti bibliografiche Dirette: J.A.L. SINGH, The Diary of the Wolf-Children of Midnapore (India), in WolfChildren and Feral Man, Archon Books, U.S.A. 1966, pp. 3–118.

13 casi di bambini allevati da altre specie animali Ia. PRIMO BAMBINO–ORSO DI LITUANIA Età al rapimento: non nota. Età al ritrovamento: 9 anni.

Data di ritrovamento: 1657–63.

Fonti bibliografiche Dirette: nessuna. Indirette: B. CONNOR, History of Poland, Londra 1698, 8 T.I., p. 348–50. L. MORERI, Le grand Dictionnaire Historique, vol. VI, Basle 1732, p. 994. C. LINNEO, op. cit., p. 21. (Juvenis ursinus Lithuanus). A. RAUBER, op. cit., pp. 21–28. IIa. SECONDO BAMBINO–ORSO DI LITUANIA Età al rapimento: non nota. Età al ritrovamento: 12–13 anni.

Data di ritrovamento: 1669.

Fonti bibliogratiche Dirette: Lettera dell’Ambasciatore d’Olanda J.P. van der Brande de Kleverskerk al Dr. B. Connor medico privato del re Giovanni III di Polonia, 1669.

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Schede riassuntive

IIIa. TERZO BAMBINO–ORSO DI LITUANIA Età al rapimento: non nota. Età al ritrovamento: 10 anni.

Data di ritrovamento: 1694.

Fonti bibliografiche Dirette: B. CONNOR, op. cit., p. 342. Indirette: E. D E CONDILLAC, Essai sur l’origine des connaissance humaines, Librairie Armand Colin, Parigi 1924, p. 86. J.J. ROUSSEAU, op. cit., p. 189. IVa. BAMBINO–ORSO DI DANIMARCA Età al rapimento: non nota. Età al ritrovamento: 14–15 anni.

Data di ritrovamento: 1717.

Fonti bibliografiche Dirette: nessuna. Indirette: ANONIMO, La vie et les sentiments de Lucilio Vanini, Rotterdam 1717, p. 136. T. BENDYSCHE, The Anthropological Treatises of Johann Friederich Blumenbach, Londra 1865. Il testo di Bendysche è in: R.M. ZINGG, op. cit., p. 222. Va. BAMBINA–ORSO D’UNGHERIA Età al rapimento: non nota. Età al ritrovamento: 18 anni.

Data di ritrovamento: 1767.

Fonti bibliogratiche Dirette: nessuna. Indirette: SIGAUD DE LA FOND, Wunder der Natur, Lipsia 1783, vol. II, p. 356. J.J. VIREY, Nouveau Dictionnaire d’histoire naturelle, Parigi 1817, vol. XV p. 326. A. RAUBER, op. cit., pp. 49–50.

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VIa. BAMBINA–ORSO DI JALPAIGURI Età al rapimento: non nota. Età al ritrovamento: 3 anni.

Data di ritrovamento: 1887. Ancora viva nel 1892.

Fonti bibliografiche Dirette: ANONIMO, in «Amrita Bazar Patrika», Calcutta, 14 dicembre 1892. S.C. MITRA, On a Wild Boy and a Wild Girl, in «Journal of the Anthropological Society of Bombay», vol. III, 1892, 1893, 1894, pp. 107–112. Indirette: J. FRAZER, The Fasti of Ovid, Londra 1929, vol. II, pp. 369–381. VIIa. BAMBINA–ORSO DELL’O LIMPO Età al rapimento: 3 mesi. Età al ritrovamento: 8 anni.

Data di ritrovamento: 1929.

Fonti bibliografiche Dirette: G.I. MARANZ, Raised by a She-bear that Stole her when a Baby, in «The American Weekly», 5 sett. 1937. VIIIa. BAMBINO–CAPRA Età al rapimento: non nota. Età al ritrovamento: non nota.

Data di ritrovamento: 550 d.C.

Fonti bibliografiche Dirette: PROCOPIO, De Bello Gothico, Lib. II, cap. XVII. Indirette: E.B. TYLOR, Wild–men and Beast–Children, in «Anthropological Review», Londra 1863, vol. I, pp. 21–32. IXa. BAMBINO VITELLO DI BAMBERGER Età al rapimento: non nota. Età al ritrovamento: non nota.

Data di ritrovamento: fìne sec. XVI.

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Schede riassuntive

Fonti bibliografiche Dirette: Ph. CAMERARIUS, op. cit., p. 343. Indirette: A. RAUBER, op. cit., pp. 18–19. C. LINNEO, op. cit., p. 21. (Juvenis bovinus Bambergensis). J.C.D. VON SCHREBER, Die Säugetheire, in Abbildung nach der Natur, Erlangen 1774–1846, vol. I, p. 31. J.F.I. TAFEL, op. cit., p. 49. Xa. BAMBINO– PECORA D’IRLANDA Età al rapimento: prima infanzia. Età al ritrovamento: 16 anni.

Data di ritrovamento: 1672.

Fonti bibliografiche Dirette: N. TULP, Observationes Medicae, Ed. nova, Amsterdam 1672, Lib. V, cap. 10, pp. 296–298. Indirette: C. LINNEO, op. cit., p. 21. (Juvenis ovinus Hibernus). A. RAUBER, op. cit., pp. 19-21. J.F. BLUMENBACH, op. cit., pp. 33-34. J.C.D. VON D CHREBER, op. cit., p. 33. J.F.I. TAFEL, op. cit., p. 53. E.B. TYLOR, op. cit., p. 28. XIa. BAMBINA– MAIALE DI SALZBURG Età al rapimento: non nota. Età al ritrovamento: 22 anni.

Data di ritrovamento: 1831.

Fonti bibliografiche Dirette: W. HORN, Reise durch Deutschland, Ungarn, Holland, Italian, Frankreich, Grossbritannien und Irland; in Rucksicht auf medicinische und naturwessenschaftliche Institute, Armenplege u.s.w…, Verlag von Enslin, 1831, vol. I, p. 138. Indirette: P.J.A. VON FEUERBACH , Beispiel eines Verbrechens am Seelenleben des Menschen, Ansbach 1832, p. 63.

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47 casi di ragazzi selvaggi XIIa. BAMBINO–LEOPARDO DI DIHUNGI Età al rapimento: 2 anni. Età al ritrovamento: 5 anni.

Data di ritrovamento: 1920.

Fonti bibliografiche Dirette: E.C.S. BAKER, The Power of Scent in Wild Animals, in «Joumal of the Bombay Natural History Society», 27 (1920), pp. 117–118. Il testo di Baker è in: R.M. ZINGG, op. cit., pp. 170–172. XIIIa. BAMBINO–GAZZELLA Età al rapimento: 5–7 mesi. Età al ritrovamento: 10 anni.

Data di ritrovamento: 1960.

Fonti bibliografiche Dirette: J.C. A RMEN, L’enfant sauvage du grand désert, Delachaux et Niestlé, Neuchâtel 1971.

17 casi di bambini sopravvissuti per autosostentamento Ib. JEAN DI LIEGI Età all’abbandono: 5 anni. Età al ritrovamento: 21 anni.

Data di ritrovamento: 1644.

Fonti bibliografiche Dirette: nessuna. Indirette: K. DIGBY, Two treatises, in the one of wich, the Nature of Bodies, in the other the Nature of Man’s Soul, is looked into: in way of discovery of the immortality of reasonable soules, Stuttgard–Bad Cannstatt 1970, pp. 247– 248. Faksimile – Neudruck der Ausgabe, Parigi 1644. C. LINNEO, op. cit., p. 21. (Johannes Leodicensis Boerhavii). J.F. BLUMEMBACH, op. cit., p. 39. A. RAUBER, op. cit., pp. 19–21. J.J. VIREY, op. cit., p. 264.

206

Schede riassuntive

IIb. DUE FANCIULLI DEI PIRENEI Età all’abbandono: non nota. Età al ritrovamento: non nota.

Data di ritrovamento: 1717.

Fonti bibliografiche Dirette: nessuna. Indirette: C. LINNEO, op. cit., p. 21. (Pueri Pyrenaici). A. RAUBER, op. cit., p. 32. J.F.I. TAFEL, op. cit., p. 74. E.B. TYLOR, op. cit., p. 29. J.F. BLUMEMBACH, op. cit., p. 40. J.J. ROUSSEAU, op. cit., p. 189. J.J. VIREY, op. cit., p. 264. IIIb. FANCIULLA DI CRANENBURG Età all’abbandono: 16 mesi. Età al ritrovamento: 18 anni.

Data di ritrovamento: 1718.

Fonti bibliografiche Dirette: Sammlung von Natur und Medizin, wie auch hier zu gehörigen Kunst und Literaturgeschicte so sich in Sclesien und andern Landern begeben. Von einigen Breslauischen Medicis, Winter, 1718, pp. 548 sgg. Indirette: A. RAUBER, op. cit., pp. 50–53. J.F.I. TAFEL, op. cit., pp. 70–74. J.F. BLUMENBACH, op. cit., pp. 37–38. C. LINNEO, op. cit., p. 21. (Puella transisalana). IVb. PETER DI HAMELN Età all’abbandono: non nota. Età al ritrovamento: 12 anni.

Data di ritrovamento: lug. 1724. Data di morte: febbr. 1785.

Fonti bibliografiche Dirette: ANONIMO, Reliable and truthful report of the wild boy, found in the fields near Hameln, the circumstances relating to him, how he behaved after his capture, and the conjectures wich resulted; and also other interesting

47 casi di ragazzi selvaggi

207

events that happened, written by a reliable person from Hameln to a friend, and now brought to print because of its interest, Hameln, 18 marzo 1726. Indirette: C. LINNEO, op. cit., p. 21. (Juvenis Hannoveranus). J.F. BLUMENBACH, op. cit., pp. 10–44. A. RAUBER, op. cit., p. 36. J.J. ROUSSEAU, op. cit., p. 189. Vb. FANCIULLA DI SONGI Età all’abbandono: non nota. Età al ritrovamento: 9–10 anni.

Data di ritrovamento: 1731. Ancora viva nel 1755.

Fonti bibliografiche Dirette: M.me H ECQUET IN BARBIER, Histoire d’une jeune fille sauvage trouvée dans les Bois à l’âge de dix ans, Parigi 1755. Indirette: C. LINNEO, op. cit., p. 21. (Puella Campanica). A. RAUBER, op. cit., pp. 41–48. J.F. BLUMENBACH, op. cit., p. 38. J.F.I. TAFEL, op. cit., p. 93. J.C.D. SCHREBER, op. cit., p. 31. K.A. RUDOLPHI, Grundriss der Physiologie, Druck und Verlag der J.J. Mackenschen Buchhandlung, 1830 vol. I, p. 25. VIb. FANCIULLA DEI PIRENEI Età all’abbandono: 9 anni. Età al ritrovamento: 16 anni.

Data di ritrovamento: 1744.

Fonti bibliografiche Dirette: nessuna. Indirette: J.F.I. TAFEL, op. cit., p. 124. VIIb. FANCIULLO DEI PIRENEI Età all’abbandono: non nota. Età al ritrovamento: 30 anni.

Data di ritrovamento: 1774.

208

Schede riassuntive

Fonti bibliografiche Dirette: nessuna. Indirette: J.F.I. TAFEL, op. cit., pp. 123–124. VIIIb. FANCIULLO DI KRONSTADT Età all’abbandono: non nota. Età al ritrovamento: 23–25 anni.

Data di ritrovamento: 1781.

Fonti bibliografiche Dirette: M. WAGNER, Beyträge zur Philosophischen Anthropologie und den damit Verwandten Wissenschaften, Vienna 1796, vol. I, p. 251. Indirette: A. RAUBER, op. cit., pp. 49–55.

IXb. TOMKO DI ZIPS Età all’abbandono: non nota. Età al ritrovamento: 30 anni.

Data di ritrovamento: 1793.

Fonti bibliografiche Dirette: M. WAGNER, op. cit., pp. 251–268.

Xb. FANCIULLO DI TREBISONDA Età all’abbandono: non nota. Età al ritrovamento: non nota.

Data di ritrovamento: 1813.

Fonti bibliografiche Dirette: J. MACDONALD KINNEIR, Journey through Asia Minor, and Koordistan in the years 1813 and 1818, Londra 1818. Indirette: J.F.I. TAFEL, op. cit., pp. 125–126.

209

47 casi di ragazzi selvaggi XIb. CLEMENTE DI OVERDYKE Età all’abbandono: non nota. Età al ritrovamento: non nota.

Data di ritrovamento: 1815.

Fonti bibliografiche Dirette: nessuna. Indirette: E.B. TYLOR, op. cit., pp. 21–32. XIIb. SECONDO FANCIULLO DI OVERDYKE Età all’abbandono: non nota. Età al ritrovamento: non nota.

Data di ritrovamento: 1815.

Fonti bibliografiche Dirette: nessuna. Indirette: E.B. TYLOR, op. cit., pp. 21–32. XIIIb. DUE UOMINI DI TAHITI Età all’abbandono: non nota. Età al ritrovamento: non nota.

Data di ritrovamento: 1826.

Fonti bibliografiche Dirette: W. ELLIS, Polynesian Researches, Londra 1826, vol. II, p. 504. Indirette: E.B. TYLOR, op. cit., pp. 21–32. XIVb. FANCIULLO DI TRIKKALA Età all’abbandono: non nota. Età al ritrovamento: non nota. Fonti bibliografiche Dirette: nessuna.

Data di ritrovamento: 1891.

210

Schede riassuntive

Indirette: B. O RNSTEIN, Wilden Menschen in Trikkala, in «Zeitschrift für Ethnologie», 23 (1891), pp. 817–818.

XVb. FANCIULLO DI BAZITPORE Età all’abbandono: non nota. Età al ritrovamento: 14 anni.

Data di ritrovamento: 1893.

Fonti bibliografiche Dirette: nessuna. Indirette: S.C. MITRA, On a Wild Boy and a Wild Girl, in «The Journal of the Anthropological Society of Bombay», 3 (1892–3–4), pp. 111–112.

XVIb. TARZANCITO DI EL SALVADOR Età all’abbandono: non nota. Età al ritrovamento: 5 anni.

Data di ritrovamento: 1933.

Fonti bibliografiche Dirette: J.R. CHULO, Complete Data and Studies on the primitive Child found in the Mountains of «El Irayol», in R.M. Zingg, op. cit., pp. 262–268. Indirette: E. P YLE, Tarzancito, in «Columbus Citizen», 13–16 marzo 1940.

XVIIb. VICTOR DELL’AVEYRON Età all’abbandono: 4–5 anni. Età al ritrovamento: 11–12 anni.

Data di ritrovamento: 1798. Data di morte: 1828.

Fonti bibliografiche Dirette: J. ITARD, Mémoire sur les premiers développments de Victor de l’Aveyron, Parigi 1801. —, Rapport sur les nouveaux développments de Victor de l’Aveyron, Parigi 1807. J.J. VIREY, op. cit., vol. XI, pp. 329–331, vol. XV, p. 269.

211

47 casi di ragazzi selvaggi

Indirette: A. RAUBER, op. cit., pp. 55–63. J.F.I. TAFEL, op. cit., p. 132.

4 casi di bambini in isolamento Ic. ANNA Età all’isolamento: dalla nascita. Età al ritrovamento: 6 anni.

Data di nascita: marzo 1932. Data di ritrovamento: feb. 1938. Data di morte: 1942.

Fonti bibliografiche Dirette: K. DAVIS, Extreme Social Isolation of a Child, in «American Journal of Sociology», 45 (1940), pp. 554–565. Indirette: R. BROWN , Words and Things, New York 1968, pp. 191–192. R. ZINGG, op. cit., pp. 248–250. IIc. ISABELLE Età all’isolamento: dalla nascita. Età al ritrovamento: 6 anni e .

Data di nascita: apr. 1932. Data di ritrovamento: nov. 1938.

Fonti bibliografiche Dirette: K. DAVIS, Final Note on a Case of Extreme Isolation, in «American Journal of Sociology», 52 (1947), 432–437. Indirette: R. BROWN , op. cit., pp. 191–192. R.M. ZINGG, op. cit., pp. 248–250. IIIc. KASPAR HAUSER Età all’isolamento: 5–6 mesi. Età al ritrovamento: 16 anni.

Data di nascita: 1812. Data di morte: dic. 1833.

Fonti bibliografiche Dirette: P.J.A. VON FEUERBACH, Kaspar Hauser, Beispiel eines Verbrechens am Seeleben des Menschen, Ansbach, J.M. Dollfruss, 1832.

212

Schede riassuntive

IVc. G ENIE Età all’isolamento: 20 mesi. Età al ritrovamento: 13 anni e .

Data di nascita: apr. 1957. Data di ritrovamento: ott. 1970.

Fonti bibliografiche Dirette: V. FROMKIN ET A LII, The Development of Language in Genie: a Case of Language Acquisition beyond the «Critical Period», in «Brain and Language», 1 (1974), pp. 81–107. S. CURTISS, Genie. A psycolinguistic Study of a Modern–Day «Wild Child», Academic Press, New York 1977.

215

Fig. 1 Amala e Kamala dormono per terra accucciate una sull’altra

216

Fig. 2 Kamala mangia lappando dal piatto nella tipica postura dei canidi

217

Fig. 3 Kamala comincia ad accettare il cibo dalle mani della Sig. Singh, che glielo porge direttamente in bocca mentre Kamala resta ferma to crowl, carponi, come fosse un quadrupede

218

Fig. 4 La modalità on all fours, a quattro zampe, di Kamala che corre

219

Fig. 5 Kamala comincia a usare le braccia con la funzione di arti superiori e la prensilità delle mani mentre si appoggia a un ripiano per tirarsi su

220

Fig. 6 Kamala, dopo quasi tre anni dal ritrovamento, cammina eretta

221

Fig. 7 Dina Sanichar, il bambino–lupo di Sikandra

222

Fig. 8 Victor dell’Aveyron in un ritratto dell’epoca

223

Fig. 9 Kaspar Hauser nel 1830, a due anni dal ritrovamento

Fig. 10 Kaspar Hauser nel 1832

224

Fig. 11

Baby Hospital mentre esplora l’oggetto usando come organo tattile esclusivamente la bocca, limitando le mani alla funzione di sostegno. Il disegno nel riquadro mette in evidenza la posizione “a polso spezzato” che Baby Hospital ha in comune coi primati quadrumani, i cui arti vengono usati per tenere soltanto e non anche per manipolare

225

Fig. 12

Baby Hospital mangia lappando dal piatto, seduta in posizione scimmiesca col busto chinato in avanti nell’angolo formato dalle gambe aperte e ripiegate, una a terra e l’altra lateralmente

226

Fig. 13

Baby Hospital si mette a brucare l’erba del prato, di nuovo nella posizione seduta tipica delle scimmie

227

Fig. 14 Baby Hospital nel 1984 cammina tenendo il bacino e le gambe piegati

Fig. 15 Baby Hospital–Maria Sissi nel 1989 ha acquisito la stazione eretta

228

Fig. 16

Donald e la scimpanzé Gua nell’esperimento pedagogico dei coniugi Kellogg nel 1932

229

Fig. 17 Kanzi, il bonobo del Language Center di Atlanta U.S.A., nel 2005

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