Analitici Secondi. Organon IV [Vol. 4]
 8842083836, 9788842083832

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Biblioteca Universale

Aristotele Analitici secondi Organon IV

a cura di Mario Mignucci Introduzione di Jonathan Barnes

Con testo greco a fronte

Editori Laterza

Biblioteca Universale Laterza 606

ARISTOTELE Organon diretto da Mario Mignucci

VOLUMI PUBBLICATI

Le confutazioni sofistiche Introduzione, traduzione e commento di Paolo Fait Analitici secondi Traduzione e commento di Mario Mignucci Introduzione di Jonathan Barnes

Aristotele

Analitici secondi Organon IV Traduzione e commento di Mario Mignucci Introduzione di Jonathan Barnes con testo greco a fronte

Editori Laterza

© 2007, Gius. Laterza & Figli Prima edizione 2007

Proprietà letteraria riservata Gius. Laterza & Figli Spa, Roma-Bari Finito di stampare nel luglio 2007 SEDIT - Bari (Italy) per conto della Gius. Laterza & Figli Spa ISBN 978-88-420-8383-2

È vietata la riproduzione, anche parziale, con qualsiasi mezzo effettuata, compresa la fotocopia, anche ad uso interno o didattico. Per la legge italiana la fotocopia è lecita solo per uso personale purché non danneggi l’autore. Quindi ogni fotocopia che eviti l’acquisto di un libro è illecita e minaccia la sopravvivenza di un modo di trasmettere la conoscenza. Chi fotocopia un libro, chi mette a disposizione i mezzi per fotocopiare, chi comunque favorisce questa pratica commette un furto e opera ai danni della cultura.

Nota dei curatori*

Negli ultimi anni della sua vita Mario Mignucci ha lavorato al progetto, nato per iniziativa della Laterza, di una nuova traduzione commentata dell’Organon di Aristotele. Egli ci aveva coinvolti in questa impresa con l’idea di occuparsi personalmente degli Analitici primi e secondi e affidare a noi la cura degli altri trattati. Per alcuni anni ci siamo periodicamente incontrati con lui nel suo studio per discutere le parti più difficili dei rispettivi lavori. In queste animate discussioni, che ricordiamo con grande rimpianto, Mignucci ci ha insegnato un metodo e trasmesso il suo entusiasmo. In alcuni incontri abbiamo affrontato i capitoli degli Analitici secondi ai quali Mignucci stava allora lavorando, e in quelle occasioni egli ci ha dato un’idea dei principali risultati interpretativi a cui era approdato. Alla sua scomparsa Mignucci ha lasciato nel computer la traduzione completa degli Analitici secondi con le relative note. Sapevamo che avrebbe voluto ancora discutere, rielaborare, rifinire, ma ci è sembrato che il lavoro svolto fosse abbastanza vicino alla stesura definitiva. Purtroppo mancava del tutto l’introduzione, prevista nel piano originario dell’opera e destinata, nelle intenzioni dell’autore, ad affrontare alcune questioni generali che lo avevano impegnato a lungo e ovviamente gli stavano a cuore non meno dell’analisi dei singoli passi. Sa* Il lavoro di revisione è stato coordinato da Paolo Fait, che ha materialmente preparato il volume per la stampa integrando, oltre alle proprie, anche le modifiche suggerite da Francesco Ademollo e Andrea Falcon. Le correzioni principali sono state discusse e concordate fra i tre curatori.

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rebbe stato molto difficile colmare anche solo in parte questa lacuna senza l’aiuto di Jonathan Barnes, che con Mignucci ha condiviso la riscoperta e una lunga frequentazione di questo importante trattato aristotelico, e che ha gentilmente accettato di scrivere l’introduzione. La nostra revisione si è limitata per lo più ad aspetti formali: si è trattato di correggere qualche svista, sciogliere alcune oscurità sintattiche e arricchire la bibliografia (che tuttavia rimane selettiva). In alcuni casi è stato necessario modificare certe soluzioni perché lo stesso Mignucci, nel suo dattiloscritto, le segnalava come provvisorie o sperimentali. Nel corso degli anni Mignucci aveva consolidato una precisa opinione su come si debba tradurre la prosa aristotelica. Egli si iscriveva al partito che preferisce le resa alla lettera del greco – anche di quello sommamente impervio degli Analitici – nella speranza di aiutare in questo modo la mente del lettore a non scorrere da una frase all’altra senza aver prima opportunamente inciampato nelle continue difficoltà sollevate dal testo. Sulla base di queste premesse, siamo convinti che se anche Mignucci avesse avuto il tempo di rivedere la propria traduzione, egli non l’avrebbe comunque addolcita o abbellita. Per una scelta di taglio editoriale e per ragionevoli limiti di spazio, le note non discutono sistematicamente la letteratura secondaria. Pertanto Mignucci non ha potuto dare conto in modo continuo e sistematico del lavoro dei commentatori, a cominciare peraltro dal proprio commento al primo libro degli Analitici secondi, pubblicato per l’editore Antenore nel 1975. Così il lettore non troverà mai richiamata tale opera, che tuttavia non è né interamente superata da questo nuovo lavoro né semplicemente riassunta in esso, ma gli rimane invece accanto come un importante approfondimento. Desideriamo ringraziare la signora Fiorenza Mignucci, che ha recuperato il testo e ce lo ha affidato, incoraggiandoci con molto affetto a rivederlo e a pubblicarlo, e Jonathan Barnes, che oltre a scrivere l’introduzione, non ci ha fatto mancare il suo sostegno. Francesco Ademollo Paolo Fait Andrea Falcon

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Introduzione*

Conoscenza dimostrativa di Jonathan Barnes

Gli Analitici secondi sono un testo arduo. La discussione, specie nel secondo libro, è spesso aporetica: Aristotele rimugina. Lo sviluppo dell’argomento è talvolta difficile da seguire: alcuni passi sembrano fuori luogo, irrilevanti. Talvolta ciò che Aristotele dice in un luogo contraddice, o sembra contraddire, ciò che dice in un altro, e talvolta ciò che afferma appare falso o sciocco o strano. Queste difficoltà riguardano per la maggior parte singoli luoghi e affrontarle è compito del commentatore, ma gli Analitici secondi pongono anche certe questioni generali, e una o due di queste si prestano ad essere discusse in un’introduzione. Per prima cosa dobbiamo dire che cosa riguardi e di che cosa sia questa indagine: riguarda la dimostrazione ed è della conoscenza dimostrativa (APr. I 1, 24a10-11).

Le prime parole degli Analitici stabiliscono l’argomento dell’opera e confermano che gli Analitici primi e i secondi costituiscono un’unità. Tale unità «riguarda la dimostrazione» ed è «della conoscenza dimostrativa». I commentatori antichi si domandavano che differenza vi fosse tra «riguardo a» (in greco la preposizione periÄ con l’accusativo) e «di» (in greco il semplice genitivo). Essi notavano anche che ampie sezioni degli Analitici – in particolare buona parte del secondo libro dei primi – non concernono affatto la dimostrazione, e che ulteriori ampie *

Traduzione di Paolo Fait.

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sezioni la concernono, nel migliore dei casi, solo marginalmente. Da questo punto di vista, la frase di apertura dell’opera è fuorviante. Inoltre gli Analitici non concernono ogni aspetto della dimostrazione e della conoscenza dimostrativa. Non sono in particolare una guida pratica per la costruzione di prove in contesti scientifici, nei tribunali o nella vita quotidiana. Alcuni secoli più tardi, Galeno, che aveva un’intima conoscenza degli Analitici, descriveva e raccomandava quello che chiamava «metodo dimostrativo»: la sua teoria della dimostrazione si preoccupava in primo luogo di offrire ai filosofi e agli scienziati un modo – il miglior modo, o anche l’unico modo – per fare progressi nella loro conoscenza. Aristotele per contro non era in primo luogo interessato a questioni di metodo scientifico. È ben vero che negli Analitici vi sono osservazioni occasionali che riguardano problemi pratici, per esempio come costruire una definizione o quali proposizioni cercare come premesse di una dimostrazione, ma il loro scopo è teoretico: Aristotele si propone di descrivere che cosa siano la dimostrazione e la conoscenza dimostrativa, non di fornire ricette per la costruzione di prove e per l’acquisizione di conoscenza. La frase di apertura degli Analitici suscita un interrogativo elementare: qual è l’esatto significato delle espressioni «dimostrazione» e «conoscenza dimostrativa», o meglio, dei loro originali greci «épÒdeijiw» e «§pistÆmh épodeiktikÆ»? Il secondo paragrafo degli Analitici spiega che cos’è una proposizione e quale sia la differenza tra una proposizione dimostrativa e una proposizione dialettica (APr. I 1, 24a22-b12) e, sebbene Aristotele rimandi ad un seguito la spiegazione accurata di queste cose (ibid. 24b14-15), ciò che dice basta ad indicare che una dimostrazione è una certa sorta di sillogismo e che tale sorta è determinata dal carattere delle proposizioni di cui è composto. Ma che cos’è la conoscenza dimostrativa? Il sostantivo greco «§pistÆmh» è talvolta un termine singolare astratto (come per esempio «sofiÄa» ovvero «sapienza») e talaltra un nome suscettibile di plurale. In italiano i due casi richiedono due traduzioni diverse. Quando «§pistÆmh» è un termine astratto si traduce normalmente con «conoscenza» e, almeno in molti contesti, questa traduzione è evidentemente corretta1. Quando invece il sostantivo si trova al plurale, il suo senso in qualche caso è espresso al meglio da una locuzione come «porzione di 1

Mignucci traduce il sostantivo con «conoscenza scientifica»; ma vedi sotto, pp.

XXV-XXVII.

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conoscenza», ma più comunemente la traduzione corretta è «ramo di conoscenza», «disciplina» o «scienza», e quest’ultima è la traduzione standard. Ora, l’espressione «§pistÆmh épodeiktikÆ», che ho tradotto sopra con «conoscenza dimostrativa», è di solito intesa significare «scienza dimostrativa». Se ciò è corretto, allora uno dei due argomenti degli Analitici è la scienza dimostrativa o le scienze dimostrative. In effetti, gli Analitici secondi spiegano che cosa sia una scienza dimostrativa e ciò costituisce uno dei più solidi e luminosi risultati dell’opera. Tale spiegazione è grosso modo la seguente: una scienza dimostrativa è un insieme di verità. Tali verità sono unite dal loro comune argomento: «riguardano» tutte un certo tipo di cose, per esempio possono riguardare le unità, se la scienza è l’aritmetica, o riguardare gli uccelli, se la scienza è l’ornitologia2. Le verità che costituiscono la scienza si dividono in modo esaustivo ed esclusivo in due gruppi: alcune sono dimostrate e altre non lo sono. I filosofi contemporanei chiamano di solito «assiomi» le verità non dimostrate e «teoremi» quelle dimostrate. Aristotele non adopera quest’ultimo termine: in realtà non ha alcuna espressione, eccettuato «cosa dimostrata», che corrisponda a «teorema». Egli impiega invece la parola «assioma», ma tende a riservarla ad una classe speciale di verità non derivate, mentre il termine da lui correntemente usato per le verità non dimostrate è «érxÆ», cioè «punto di partenza», «principio», «principio primo»3. Tuttavia la terminologia contemporanea non è fuorviante ed è troppo utile perché la si possa abiurare. I teoremi sono dimostrati: lo sono mediante sillogismi e a partire dagli assiomi. Ciò significa che ogni teorema è la conclusione di un sillogismo le cui premesse ultime sono tutte assiomi. I sillogismi sono analizzati in dettaglio negli Analitici primi sicché una delle funzioni di quell’opera, ufficialmente la sua funzione principale, è quella di fornire la logica della dimostrazione. Gli assiomi sono identici a ciò che l’inizio degli Analitici chiama «proposizioni dimostrative», o ne sono una sottoclasse. Vengono caratterizzati in maggior dettaglio negli Analitici secondi: la descrizione degli assiomi è proprio una delle funzioni principali di quest’opera. Ecco il cuore della concezione aristotelica di una scienza dimostrativa. Una descrizione completa di essa richiederebbe aggiunte e Vedi in particolare APo. I 28 e il commento a 75a38-b12. Sul ricco (e problematico) vocabolario usato da Aristotele per designare diversi tipi di assiomi o principi vedi il commento a 72a14-24 e a I 10. 2 3

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precisazioni e ci sono aspetti contro i quali si potrebbero muovere critiche e obiezioni, ma si tratta di una concezione di ampio respiro e di una concezione non disgiunta dalla pratica scientifica. Generalmente si pensa che Aristotele abbia fondato la propria nozione di scienza dimostrativa sulla pratica dei geometri greci: egli ha teorizzato ciò che essi praticavano, e generalmente si pensa che gli Elementi di Euclide forniscano l’esempio concreto di una scienza dimostrativa aristotelica (eccetto per il fatto che i sillogismi che concatenano gli Elementi non possono essere limitati a quelli che Aristotele aveva canonizzato negli Analitici primi). Tutto ciò è vero, ma è solo una parte della verità sugli Analitici, giacché, sebbene l’espressione «§pistÆmh dimostrativa» possa davvero significare «scienza dimostrativa», non è questo che significa nelle parole di apertura degli Analitici, dove significa piuttosto «conoscenza dimostrativa»4. La conoscenza dimostrativa è spiegata negli Analitici secondi. Aristotele offre prima una definizione della conoscenza in generale e poi aggiunge quanto segue: Se vi sia anche un altro modo di conoscere lo diremo in seguito; per il momento diciamo che sappiamo le cose per dimostrazione. Chiamo dimostrazione un sillogismo che procura conoscenza. Per sillogismo che procura conoscenza intendo quello grazie al possesso del quale conosciamo. Se allora conoscere è quello che abbiamo stabilito, la conoscenza dimostrativa procede da premesse vere, ... (APo. I 2, 71b16-21).

L’andamento del passo rende chiaro che l’espressione «§pistÆmh dimostrativa» usata a 71b20 significa «conoscenza dimostrativa» e, sebbene la locuzione «conoscenza dimostrativa» non sia particolarmente felice, è chiaro che indica la conoscenza basata su una dimostrazione; ciò equivale a dire che si ha una conoscenza dimostrativa di qualcosa se, e solo se, se ne ha una dimostrazione. Questa nozione di conoscenza dimostrativa suscita vari interrogativi, il primo dei quali non è solo suggerito dal passo appena citato, ma è effettivamente posto in esso. Aristotele dichiara infatti di rimandare al seguito la domanda «se vi sia anche un altro modo di cono4 Questa è un’asserzione controversa; ma è opportuno lasciarla per il momento in sospeso e considerarla in una fase successiva della discussione.

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scere», la domanda cioè se si diano casi in cui qualcuno conosce qualcosa senza possederne una dimostrazione. Ecco la sua risposta: Noi invece asseriamo che non ogni conoscenza è dimostrativa e che quella degli immediati è non dimostrativa. Che ciò sia necessario è manifesto: infatti se è necessario conoscere gli antecedenti e le cose da cui procede la dimostrazione e ad un certo punto ci si ferma, è necessario che questi immediati siano non dimostrativi (APo. I 3, 72b18-22).

La conoscenza dimostrativa dipende da una conoscenza antecedente: se si conosce qualcosa in virtù di una dimostrazione, allora la si conosce in virtù del fatto di conoscere qualcos’altro, il «qualcos’altro» essendo contenuto nelle premesse della dimostrazione. Di conseguenza, a meno di non dover risalire la serie delle prove ad infinitum, il che è impossibile, deve esserci qualcosa che sia al contempo conosciuto e non dimostrato. Se non vi fosse una conoscenza non dimostrativa, non vi sarebbe conoscenza dimostrativa. La conoscenza non dimostrativa afferra gli assiomi di una scienza (e forse anche altre cose), e dunque come si afferra un assioma? Aristotele affronta tale interrogativo nell’ultimo capitolo degli Analitici secondi e l’interpretazione della sua risposta è controversa. Egli usa il termine «noËw» in tale contesto, e i commentatori hanno parlato di «intuizione»; ma questa è un’etichetta e non una descrizione5. Egli impiega anche il termine «§pagvgÆ», e i commentatori parlano di «induzione», sottolineando che egli altrove dice che È anche manifesto che, se manca una qualche capacità percettiva, è necessario che manchi anche un qualche tipo di conoscenza, che è impossibile acquisire, se davvero apprendiamo o per induzione o per dimostrazione (APo. I 18, 81a38-40).

Non è però affatto chiaro quale operazione o pluralità di operazioni l’induzione aristotelica richieda e in ogni caso la disgiunzione «o per induzione o per dimostrazione» deve essere probabilmente presa cum grano salis. Comunque stiano le cose, non c’è alcuna ragione a priori per cui gli assiomi debbano essere afferrati tutti nello stesso modo, e infatti i successori di Aristotele supponevano che i modi appropriati ai diversi tipi di assioma fossero diversi. Più in generale: potrebbero esservi 5

Su «intuizione» e «noËw», vedi il commento a 100b5-17.

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quanti si voglia tipi di conoscenza non dimostrativa. Poiché la conoscenza dimostrativa consiste nel conoscere in virtù del possesso di una dimostrazione, è probabile che la conoscenza non dimostrativa consista per contro nel conoscere in virtù del possesso di un X, dove X non è una dimostrazione e potrebbe essere, per esempio, comprensione concettuale o percezione o deduzione non dimostrativa o qualche altro tipo di inferenza o testimonianza o memoria. Molti esempi possibili di X sono implicitamente presi in considerazione da Platone e alcuni vengono, almeno in certi contesti, scartati da Aristotele. Per esempio egli afferma che «non è possibile conoscere mediante la percezione» (APo. I 31, 87b28), per la ragione che non possiamo percepire ciò che è universale e tuttavia un po’ più in là egli afferma: È percepito il singolare, ma la percezione è dell’universale, per esempio essa è dell’uomo e non di Callia che è un uomo (APo. II 19, 100a16-b1)6.

Comunque, quale che sia in ultima analisi lo status della percezione, non c’è ragione di supporre che di fatto Aristotele si limitasse ad un solo tipo di conoscenza non dimostrativa. Il secondo interrogativo fa da pendant al primo: dato che ci sono molti tipi di conoscenza, che relazione hanno tra di loro? Aristotele afferma che conoscere in modo non accidentale ciò di cui si dà dimostrazione è avere dimostrazione (APo. I 2, 71b28-29).

In altre parole, se qualcosa può essere conosciuto per mezzo di una dimostrazione, allora può essere conosciuto solo per mezzo di una dimostrazione. È venuta la tentazione di generalizzare questa asserzione e ascrivere ad Aristotele la seguente tesi: Se qualcosa può essere conosciuto nel modo M allora può essere conosciuto solo nel modo M. Nulla può essere conosciuto in più di un modo e tutto ciò che può essere conosciuto, può esserlo esattamente in un modo. In Platone sembrerebbero esservi tracce della tesi generale, ma Aristotele non l’afferma mai ed essa è piuttosto implausibile in se stessa. Perché ad esempio non dovrei sapere che piove sia mediante per6

Vedi il commento a 87b28-33.

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cezione sia mediante inferenza? Protendo la mano e sento la pioggia, e allo stesso tempo noto che gli ombrelli sono aperti e ne inferisco che piove. Perché poi non dovrei conoscere sia mediante osservazione sia mediante testimonianza? Mi dici che c’è un cervo in giardino; io guardo dalla finestra e lo vedo. E così via. Almeno alcuni di questi casi potrebbero essere esclusi da Aristotele perché non implicanti un’autentica conoscenza. Si consideri allora qualcosa di più pertinente: perché della stessa cosa non dovrei avere sia conoscenza dimostrativa sia conoscenza non dimostrativa? Una risposta limitata a tale quesito è fornita dal testo: gli assiomi o principi primi sono oggetto di conoscenza non dimostrativa e non possono essere conosciuti dimostrativamente in quanto sono cose primarie o primitive, il che equivale a dire che non c’è nulla ad esse anteriore. Poiché la dimostrazione dipende da qualcosa di anteriore – le premesse di una dimostrazione sono anteriori alla conclusione – gli assiomi non possono essere dimostrati, e perciò di essi non c’è alcuna conoscenza dimostrativa. Questo è un argomento ben noto. È vero tuttavia che i filosofi moderni, i quali hanno familiarità con la possibilità di assiomatizzazioni diverse, non lo troveranno persuasivo. Si può assiomatizzare per esempio la logica proposizionale in diverse maniere, usando diversi insiemi di assiomi. Gli assiomi di un dato sistema assiomatico sono allora anteriori ai teoremi di quel sistema, ma in assoluto e in generale gli assiomi non sono anteriori ai teoremi. Tuttavia le nozioni da cui questa concezione dipende non erano note ad Aristotele e pertanto, si dice, non possiamo attenderci che egli abbia pensato che gli assiomi potrebbero essere oggetto sia di conoscenza dimostrativa sia di conoscenza non dimostrativa. Non di meno egli è giunto molto vicino a questa concezione. Nella sua sillogistica, quattro tipi di sillogismo vengono detti «perfetti», nel senso che la loro validità è immediatamente evidente o dipende direttamente dalla definizione delle espressioni di quantità che impiegano. In altre parole sono tutti e quattro noti non dimostrativamente o, più precisamente, di ciascuno di essi si può conoscere non dimostrativamente che è valido. Aristotele però riconosce che due dei quattro sillogismi perfetti possono essere ridotti agli altri due e pertanto dimostrati, sicché due dei quattro tipi di sillogismo possono essere conosciuti tanto non dimostrativamente quanto dimostrativamente. Si tratta di un’implicazione immediata delle teorie elaborate da Aristotele sui suoi sillogismi, ma su di essa egli non attira l’attenzione, XIII

e di certo non suggerisce che potrebbe contenere una morale valida per altre scienze o per altri insiemi di assiomi. Un terzo interrogativo sollevato dalla descrizione aristotelica della conoscenza dimostrativa è il seguente: qual è il nesso tra conoscenza dimostrativa e le scienze dimostrative? È chiaro che tale nesso è assai stretto, se non altro perché in greco le due cose condividono un nome; ma è evidentemente errato pensare che qualcosa sia conosciuto dimostrativamente se e solo se è un elemento di una scienza dimostrativa: non ogni elemento in una scienza dimostrativa è conosciuto dimostrativamente, né è vero che qualcosa è conosciuto dimostrativamente se e solo se è un elemento derivato in una scienza dimostrativa, giacché non tutti i teoremi di ogni scienza dimostrativa sono conosciuti: un gran numero di essi era sconosciuto ai tempi di Aristotele e un gran numero è sconosciuto oggi (certo, è indubbio che Dio li conosca tutti...). Forse allora non dovremmo tanto pensare a ciò che è dimostrativamente conosciuto quanto piuttosto a ciò che può esserlo. E dunque qualcosa può essere conosciuto dimostrativamente se e solo se è un elemento derivato in una scienza dimostrativa? Ma è davvero possibile che ogni teorema in una scienza dimostrativa sia conosciuto dimostrativamente? Forse ci sono teoremi che oltrepassano le nostre capacità di comprensione, verità che non potremo mai afferrare: dopo tutto il lume dell’umanità diffonde una luce irregolare. Perciò diremo così: qualcosa può, in linea di principio, essere conosciuto dimostrativamente se e solo se è un elemento derivato in una scienza dimostrativa. Ma è vero che ogni elemento può, in linea di principio, essere conosciuto dimostrativamente? Senza dubbio è vero, ma l’espressione «in linea di principio» rende la condizione talmente indulgente da farla diventare pressoché vuota. E poi è vero che tutto ciò che in linea di principio può essere conosciuto dimostrativamente è un teorema di una qualche scienza dimostrativa? Ebbene, se qualcosa è conosciuto dimostrativamente, è conosciuto sulla base di cose conosciute non dimostrativamente; ma questi ulteriori elementi non saranno allora assiomi, e assiomi di una scienza, di modo che ciò che è conosciuto dimostrativamente sarà un teorema della scienza? Forse è così, ma non potrebbe un avvocato dimostrare che il suo cliente non è mai stato sul luogo del delitto? Non potrebbe uno storico antico dimostrare che la tale iscrizione non risale al tale anno? In nessuno di questi due casi è plausibile sostenere che i soggetti si siano impadroniti del frammento di una scienza dimostrativa. Più in generale, la maggior parte delle prove si affacciano individualmente o in piccoli gruppi e le verità che XIV

stabiliscono non sono parte di alcuno di quei corpi coerenti di conoscenza che chiamiamo scienze. Un aristotelico obietterà senza dubbio che gli avvocati e gli storici non producono autentiche dimostrazioni. Senza dubbio forniscono argomentazioni in virtù del cui possesso si conosce la conclusione, ma siffatte argomentazioni non sono dimostrazioni, giacché non soddisfano quelle condizioni definitorie della dimostrazione che Aristotele ha stabilito negli Analitici. È perfettamente vero che ciò che ordinariamente consideriamo dimostrazione nei tribunali e nel tribunale della storia non soddisfa i requisiti aristotelici ed è plausibile sostenere che, se una dimostrazione deve soddisfare tali requisiti, allora ogni conoscenza dimostrativa appartiene a una qualche scienza dimostrativa. Ma perché pensare che i nostri giudizi ordinari sulla dimostrazione debbano essere errati? Perché non pensare invece che siano i requisiti aristotelici ad essere sbagliati? Dopo tutto, tali requisiti sembrano dipendere da una caratterizzazione stipulativa ed arbitraria di ciò che una dimostrazione deve essere. Le cose potrebbero stare anche così: è una questione su cui ritorneremo in un più ampio contesto e in un’altra forma. Un quarto interrogativo: una dimostrazione è un sillogismo in virtù del cui possesso abbiamo conoscenza. Ma che cosa significa «possedere» una dimostrazione? Il verbo greco «¶xein» è quanto mai incolore, e Aristotele non offre alcuno spunto per una spiegazione o elaborazione. Presumibilmente possedere una dimostrazione non è soltanto questione di averla prodotta una volta: potrei aver prodotto una dimostrazione alcuni decenni or sono e aver dimenticato tutto, mentre, se di quel teorema ho conoscenza dimostrativa ora, è ora che devo possederne una dimostrazione. Presumibilmente, poi, possedere una dimostrazione non è soltanto questione di essere capaci di produrla: se sono capace di produrla ma non l’ho ancora fatto, non possiedo ancora una dimostrazione (un aristotelico direbbe che in tali circostanze la possiedo potenzialmente ma non la possiedo in atto. Ma possedere una dimostrazione e possederla in atto sono una e la stessa cosa e se si possiede una dimostrazione (solo) potenzialmente, non la si possiede). Forse allora si possiede una dimostrazione se e solo se la si è prodotta una volta e si è ancora in grado di produrla? Ma in che cosa consiste «produrre» una dimostrazione? Si deve forse elaborarla per conto proprio? In tal caso non molti produrranno dimostrazioni di alcunché. È allora sufficiente recitare la dimostrazione di qualcun altro, leggere una mezza pagina di Euclide? In tal caso la produzione di dimostrazioni è troppo facile, giacché XV

chiunque sappia leggere il greco può leggere Euclide. Dunque è presumibile che per produrre una dimostrazione si debba almeno capirla mentre la si legge. Bisogna, come si suol dire, seguire la dimostrazione. E seguire una dimostrazione significa riconoscerla come tale? Forse sì; ma si supponga che un’argomentazione del tipo «A, B: dunque C» sia una dimostrazione euclidea che C; si supponga altresì che io la legga, la capisca e accetti l’argomentazione. Quel che dico a me stesso è qualcosa come: «Ah sì: A. E anche B. E per questa ragione C deve essere vero». Dico tutto ciò senza usare la parola «dimostrazione» (o un termine analogo) e posso dirlo senza pensare che ciò che sto percorrendo sia una dimostrazione; in realtà posso dirlo anche senza essere in grado di riconoscere qualcosa per una dimostrazione e senza avere alcuna idea di come una dimostrazione sia fatta. Tuttavia, se dico qualcosa del genere, si può negare che io segua la dimostrazione? Penso che questi quattro interrogativi siano seri: finché non trovano risposta, la teoria aristotelica della conoscenza dimostrativa è lacunosa o specificata in modo insufficiente. Ma più che di obiezioni rivolte ad Aristotele si tratta di sfide e non c’è ragione di pensare che le sfide non possano essere raccolte e che ad esse, in un modo o nell’altro, non sia possibile dare una risposta soddisfacente. Il prossimo e ultimo interrogativo è invece di natura differente, giacché sembra muovere davvero un’obiezione alla teoria di Aristotele; un’obiezione di sicuro fondamentale e forse addirittura fatale. L’interrogativo prende le mosse in modo abbastanza innocuo. La descrizione aristotelica della conoscenza dimostrativa comincia in questo modo: Se allora conoscere è quello che abbiamo stabilito, la conoscenza dimostrativa procede da premesse vere, ... (APo. I 2, 71b19-21).

Ciò significa che la definizione aristotelica della conoscenza dimostrativa è derivata dalla definizione della conoscenza in generale, che egli ha appena stabilito. Che si operi una tale derivazione non è affatto sorprendente; c’è invece qualcosa di molto strano nella definizione di conoscenza da cui la derivazione ha origine, che è la seguente: Riteniamo di conoscere qualcosa in senso proprio, e non accidentalmente alla maniera sofistica, quando riteniamo di afferrare la ragione per la XVI

quale la cosa è, che essa è la ragione di quella cosa, e che ciò non può essere altrimenti. Ora, è chiaro che conoscere è qualcosa del genere (APo. I 2, 71b9-13).

La prima frase è goffa e alcuni dettagli necessiterebbero una discussione; qui mi limiterò ad estrarne il nucleo. Il passo offre una breve argomentazione che schematicamente procede in questo modo: Pensiamo che il conoscere sia questo e quello, dunque il conoscere è questo e quello. In altri termini, quando Aristotele dice che «conoscere è qualcosa del genere», l’espressione «del genere» rimanda indietro a quanto stabilito nella frase precedente. In se stessa l’inferenza sembra essere, a prima vista, sconsideratamente ottimistica: «pensiamo questo e quello, dunque questo e quello è vero». In verità essa può essere difesa; ma anziché tentare di difenderla, prenderò subito in considerazione la conclusione dell’argomentazione. La conclusione, – vale a dire la frase che si ottiene sostituendo l’espressione «qualcosa del genere» col contenuto dell’enunciato precedente – è spesso citata come la definizione aristotelica della conoscenza, e sebbene Aristotele non la chiami espressamente in questo modo, egli la considerava certamente una definizione. Dopo tutto che altro potrebbe essere? È evidente in ogni caso che Aristotele sta fissando delle condizioni per la conoscenza che suppone sia necessarie che sufficienti. In altri termini, egli sta formulando qualcosa che può essere espresso mediante un enunciato della forma: Qualcuno conosce qualcosa se e soltanto se... Per venire a capo della definizione bisognerà riempire lo spazio lasciato in sospeso nonché, prima di tutto, determinare che sorta di oggetto possa essere quel «qualcosa». La conoscenza ha diversi tipi di oggetti: si può conoscere un amico, un brano musicale, un teorema geometrico e così via. Sebbene la definizione aristotelica si riferisca a cose e a oggetti, è di fatto chiaro che essa concerne quel tipo di conoscenza che è stato chiamato «proposizionale», tale cioè da poter essere espresso con l’aiuto di un enunciato del tipo: Egli sa che così e cosà. XVII

La conoscenza del Requiem di Verdi non può essere espressa in questo modo, mentre quella del teorema di Pitagora può esserlo, perché conoscere quel teorema è semplicemente sapere che il quadrato costruito sull’ipotenusa è uguale alla somma dei quadrati costruiti sui cateti. Pertanto la definizione di Aristotele sarà espressa più chiaramente con un enunciato della forma: Qualcuno sa che così e cosà se e solo se... È chiaro poi che Aristotele fissa una coppia di condizioni che la conoscenza deve soddisfare: una congiunzione di due membri il primo dei quali concerne le ragioni7 (o le cause o le spiegazioni...) e l’altro riguarda un’impossibilità. Così arriviamo a qualcosa come: Qualcuno sa che così e cosà se e solo se, in primo luogo... e in secondo luogo..., dove ciò che sostituisce i primi puntini menziona le ragioni o le cause e ciò che sostituisce i secondi l’impossibilità. La condizione causale dice che se si conosce qualcosa si sa, della causa per cui esso è, che è la sua causa. Gli oggetti in questione sono proposizionali e un modo tanto naturale quanto aristotelico di esprimere l’idea che si afferra la causa o la spiegazione di un certo fatto consiste nel dire «capisco perché questo e quello». Adattando tale locuzione possiamo completare la definizione aristotelica fino a questo punto: Qualcuno sa che così e cosà se e solo se, in primo luogo capisce perché così e cosà, e in secondo luogo... Rimangono da sostituire gli ultimi puntini, che corrispondono alla frase «la cosa non può essere altrimenti». Essa chiaramente significa che non è possibile che non si dia il caso che così e cosà. E poiché «non è possibile che non...» equivale (come Aristotele per primo ha notato) a «è necessario che...», che è più breve, possiamo infine scrivere così: Qualcuno sa che così e cosà se e solo se, in primo luogo capisce perché così e cosà e in secondo luogo capisce che è necessario che così e cosà. 7

«Ragione» è il termine scelto da Mignucci per «afitiÄa».

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Quei filosofi che amano le P e le Q scriveranno: Per ogni x, per ogni P, x sa che P se e solo se x capisce perché P e x capisce che necessariamente P. Questa formula esprime la definizione aristotelica della conoscenza. L’elaborazione più chiara e completa di tale definizione è nel passo che ho appena analizzato, ma in una forma o nell’altra la si ritrova in una mezza dozzina di altri luoghi in Aristotele8: essa sta a fondamento delle tesi che egli sviluppa negli Analitici secondi ma è anche alla base delle riflessioni che dedica alla conoscenza in altri domini della sua filosofia. La formula è scevra da ambiguità ed è detta con linguaggio chiaro, ma è anche una patente falsità, o almeno tutto fa pensare che lo sia. A parte ogni altra considerazione, essa implica direttamente due proposizioni la cui falsità è chiara come le acque di Babilonia. In primo luogo implica che: Se qualcuno conosce qualcosa, allora capisce perché è così, ovvero: Se x sa che P, allora x capisce perché P. In secondo luogo essa implica: Se qualcuno conosce qualcosa, allora questo qualcosa è necessario, ovvero: Se x sa che P, allora necessariamente P (il che segue in quanto la definizione implica immediatamente che di ciò che si conosce si capisce la necessità, e ciò di cui si capisce la necessità è necessario). Si consideri la prima implicazione, quella causale. Molto spesso asseriamo coerentemente che, mentre sappiamo che così e cosà, non 8

Vedi il commento a 71b9-16.

XIX

abbiamo alcuna idea del perché così e cosà. In certi campi di ricerca potremmo poi coerentemente asserire che mentre sappiamo che così e cosà, riteniamo che non vi sia alcuna causa o ragione per cui così e cosà. La seconda asserzione è forse alquanto sorprendente, ma si potrebbe sostenere, ed è stato sostenuto da qualche pensatore antico, che la causalità non svolge alcun ruolo nelle scienze matematiche: si può sapere che 3 x 9 = 27 o che il quadrato costruito sull’ipotenusa è uguale alla somma dei quadrati costruiti sui cateti, ma non ha senso chiedersi perché queste cose stiano così, giacché la causalità non governa l’astratto mondo della matematica. E qualcosa di analogo potrebbe essere detto anche a proposito della logica. Va sottolineato che quel che conta nel presente contesto non è se queste osservazioni sulla matematica e sulla logica siano vere, ma che siano coerenti, consistenti, non contraddittorie, giacché se è coerente sostenere sia che qualcuno sa che 3 x 9 = 27 sia che non c’è una causa per cui 3 x 9 = 27, allora è falso che se si conosce qualcosa se ne conosce la causa. La prima di queste due asserzioni appartiene invece alla vita quotidiana. La motosega non si mette in moto e la porto dal mio vicino Bernard. «Non parte», mi dice. «D’accordo Bernard» gli rispondo «questo lo so anch’io. Quel che voglio sapere è perché questo aggeggio non parte». In generale vale che prima scopriamo qualche fatto e poi ce ne chiediamo il perché. Sapere che così e cosà non implica dunque sapere perché così e cosà, ma lo precede. Lo stesso Aristotele ne era perfettamente consapevole: dovunque nei suoi testi lo vediamo professare una conoscenza non causale. Inoltre, il secondo libro degli Analitici secondi si apre in questo modo: Le cose cercate sono in numero uguale a quelle di cui abbiamo conoscenza. Cerchiamo quattro cose, e precisamente il che, il perché, se è, che cos’è. ... Ma quando sappiamo il che, cerchiamo il perché: per esempio sapendo che il sole si eclissa e che la terra subisce terremoti, cerchiamo perché si eclissa e perché li subisce (APo. II 1, 89b23-31)9.

Tutto ciò non potrebbe essere più chiaro, come è chiaro che qui si

9 Vedi il commento a 89b23-35. Ad APo. I 13 Aristotele distingue tra «conoscere il che» e «conoscere il perché» e, nonostante la terminologia, è chiaro che egli intende distinguere tra una conoscenza non fondata sulla conoscenza della causa e una conoscenza fondata sulla conoscenza della causa; ma per un diverso punto di vista vedi il commento a 78a22.

XX

contraddice la conseguenza causale della definizione di Aristotele e perciò anche la definizione stessa. Dovendo scegliere tra la definizione e ciò che Aristotele afferma all’inizio del secondo libro, è evidente che abbandoneremo la definizione. Qualcosa di simile potrebbe essere detto a proposito della seconda implicazione. Ci sono innumerevoli cose che conosciamo senza sapere che sono necessarie, o almeno così normalmente e coerentemente affermiamo. Dopo tutto esistono innumerevoli cose che conosciamo e che non sono affatto necessarie, o almeno così normalmente e coerentemente supponiamo. A parte quella matematica e logica, la maggior parte della conoscenza che normalmente possediamo è di natura contingente: io so che il fornaio viene tutti i giorni tranne la domenica, che ci sono ogni giorno quattro treni da Argenton-surCreuse a Parigi, che in questo momento la temperatura è di 23 gradi e in aumento, che è ora di deporre la penna e andare a prendere un aperitivo, ... Se si pensa che questo tipo di conoscenza sia troppo umile e quotidiano, si ricordi allora che numerose scienze hanno a che fare con il contingente: la biologia, per esempio, o la botanica o l’economia o l’enologia. Si potrebbe osservare che tali considerazioni non tengono conto della concezione aristotelica della necessità, la quale era assai più ampia della nostra. Egli pensa per esempio che il passato sia necessario, di modo che tutte le verità storiche, che noi vorremmo considerare contingenti, ai suoi occhi sono necessarie. Ora, tale osservazione non è irrilevante e in effetti la nozione aristotelica di necessità non coincide perfettamente con la nostra, o meglio: le varie nozioni di necessità che si affacciano nelle sue opere non corrispondono esattamente alle varie nozioni che normalmente impieghiamo oggi. Tuttavia questo non scagiona Aristotele. In numerosi testi lo troviamo professare di conoscere cose di natura contingente. Inoltre egli afferma, negli Analitici e in altre opere, che sebbene non si dia conoscenza di ciò che è accidentale, di sicuro si dà conoscenza di ciò che vale «per lo più». Volenti o nolenti, in effetti, tutte le scienze del mondo sublunare devono operare con ciò che vale per lo più, e anche se riconosciamo che l’interpretazione della nozione aristotelica di ciò che vale per lo più è controversa, resta comunque fuori discussione che tale nozione è in contrasto con quella di necessità: se qualcosa vale per lo più non vale di necessità10. 10

Sull’argomento si veda in particolare APo. I 30 e relativo commento.

XXI

Così approdiamo alla stessa conclusione a cui eravamo giunti nel caso della causalità: Aristotele contraddice formalmente una delle implicazioni della sua definizione della conoscenza. E di nuovo, se dobbiamo scegliere tra la definizione e la tesi che si dia conoscenza del contingente, la scelta non presenta difficoltà. La conclusione di questa discussione è la seguente: in almeno due aspetti importanti la definizione aristotelica della conoscenza è sia smentita dai fatti sia contraddetta dallo stesso Aristotele. Deve essere perciò abbandonata e respinta, sicché le teorie degli Analitici secondi necessitano di un nuovo fondamento. Da molto tempo è stato osservato che la condizione causale nella definizione aristotelica della conoscenza ha un qualche nesso con il passo del Menone in cui Platone si preoccupa di distinguere la conoscenza dall’opinione vera. (Che le due cose siano distinte è palese. Si supponga che un giocatore d’azzardo sia convinto che al prossimo giro di ruota la pallina si arresterà sul 33 e si supponga che abbia ragione. Ebbene, costui ha una opinione vera ma, avendo indovinato per pura fortuna, non ha una conoscenza.) Le opinioni vere, dice Platone, non hanno un grande valore finché non le si leghi con un calcolo della causa [afitiÄaw logism“]... Quando sono legate, diventano in primo luogo porzioni di conoscenza e poi stabili. Ecco perché la conoscenza è più apprezzata dell’opinione corretta. E la conoscenza differisce dall’opinione corretta per un legamento (Menone 98a).

Se per conoscere qualcosa si deve calcolarne la causa, si deve evidentemente afferrarne la causa, e questo fa la differenza tra una conoscenza e una opinione vera. Aristotele voleva distinguere la conoscenza dall’opinione vera non meno di Platone, e ha raccolto, si dice, con gratitudine il suggerimento del Menone. È vero tuttavia che quando negli Analitici secondi discute effettivamente la distinzione, egli fa una considerazione alquanto diversa: Ciò che è conoscibile e la conoscenza differiscono da ciò che è opinabile e dall’opinione, perché la conoscenza è universale e dipende da cose necessarie e il necessario non può essere altrimenti. D’altra parte vi sono alcune cose che sono vere e che sono, ma che possono essere anche altrimenti. È chiaro allora che di esse non c’è conoscenza, sennò le cose che possono essere altrimenti sarebbero tali da non poter essere altrimenti ... Di conseguenza riXXII

mane che l’opinione sia di ciò che è vero o falso, ma che può essere anche altrimenti (APo. I 33, 88b30-89a3)11.

Qui è la necessità (abbinata alla universalità), e non la causalità, a fornire alla conoscenza un vantaggio sull’opinione vera, ma Aristotele era senza dubbio ben contento di rinforzare, per così dire, la propria cintura modale con le bretelle causali fornitegli dal maestro. Quanto alla condizione della necessità, la sua presenza nella definizione della conoscenza è stata diagnosticata facendo riferimento ad un comune errore di logica. Punto di partenza della diagnosi è l’osservazione che l’enunciato Se si conosce qualcosa deve essere vero può essere costruito in due modi ossia può ricevere due forme sintattiche. Può essere scandito come: Necessariamente (se x sa che P, allora P) o alternativamente come Se x sa che P, allora necessariamente P. La distinzione resa manifesta dalla doppia scansione è un caso della distinzione tra ciò che i filosofi medievali chiamavano necessitas consequentiae e ciò che chiamavano necessitas consequentis. Se dico: Necessariamente (se P, allora Q), l’operatore di necessità governa l’intero enunciato condizionale ed esprime una necessitas consequentiae. Se dico invece: Se P, allora necessariamente Q, l’operatore governa solo l’apodosi dell’enunciato condizionale ed esprime una necessitas consequentis. Ora, l’enunciato 11

Vedi il commento a 88b30-89a4.

XXIII

Se si conosce qualcosa deve essere vero è vero a condizione che sia scandito come necessitas consequentiae; è invece falso se è scandito come necessitas consequentis. Aristotele, così suona l’ipotesi diagnostica, riconosce la verità di questo enunciato (o di un qualche analogo greco) ma lo scandisce nel modo errato. (Ad evitare che l’ipotesi suoni grossolanamente implausibile si aggiunge, e correttamente, che è facile incorrere in errori dello stesso tipo, e che tali errori sono stati commessi sovente nella storia della filosofia.) Queste che ho richiamato sono tipiche ricostruzioni diagnostiche, ma non sono molto persuasive: di certo Aristotele aveva letto il Menone, ma il fatto che lì si trovi la condizione causale non è sufficiente a spiegarne la comparsa in Aristotele; a meno che osiamo immaginare che Aristotele abbia ripreso la tesi da Platone di peso, senza esitazione e senza riflessione. In altre parole, una diagnosi che sia dignitosa non si limiterà ad indicare una fonte di infezione, ma spiegherà anche come il morbo si sia trasmesso dalla fonte. Quanto invece alla seconda diagnosi, essa potrebbe effettivamente spiegare come Aristotele giunse a supporre che se si conosce qualcosa, quel qualcosa è necessario. Ma quel che dovrebbe spiegare è qualcosa di alquanto diverso, cioè come Aristotele sia arrivato a sostenere che se si conosce qualcosa si deve sapere che è necessario. E qui la distinzione tra necessitas consequentiae e necessitas consequentis non ha alcuna presa. Si cerca una diagnosi solo quando si è certi che vi sia una malattia, ma di fatto molti studiosi non pensano che la definizione aristotelica della conoscenza sia veramente viziata da qualche tara, o almeno non credono che lo sia nei modi che abbiamo descritto. È ben vero che se è costruita come una definizione della conoscenza, e se la parola «conoscenza» è assunta nel suo significato ordinario, allora è falsa; ma perché intenderla come una definizione della conoscenza? Perché non prenderla invece come una definizione di qualcos’altro, qualcosa di vicino alla conoscenza, ovviamente, ma distinto da essa? Che Aristotele stia parlando di uno speciale tipo di conoscenza piuttosto che della conoscenza in generale? (Forse della conoscenza scientifica.) O che stia parlando di un fratello o di un cugino della conoscenza? (Forse di comprensione.) – Perché costruirla come una definizione della conoscenza? – Ma questa è una domanda facile: è una definizione della conoscenza XXIV

perché è una definizione di ciò che Aristotele chiama «§piÄstasyai», verbo che significa «conoscere». – E se invece «§piÄstasyai» non significasse «conoscere» o almeno non lo significasse negli Analitici secondi? Quest’ultimo suggerimento potrebbe sembrare una mossa disperata, perché è fuori discussione che «conoscere» è, molto spesso se non sempre, la migliore traduzione di «§piÄstasyai», e tuttavia qualcosa parla a suo favore. Il greco ha diversi verbi che stanno fianco a fianco con «§piÄstasyai»: c’è «efid°nai», «gign≈skein», «gnvriÄzein»... Normalmente vengono tutti resi nello stesso modo con «conoscere» o simili, e tali traduzioni sono di solito corrette. Ma da ciò non segue che questi verbi siano strettamente sinonimi: la loro stessa pluralità deve indicare l’esistenza di una qualche differenza di senso tra loro, o almeno di sfumatura. Inoltre, una tale differenza deve riguardare direttamente la definizione di Aristotele. Consideriamo ancora il testo: Riteniamo di conoscere qualcosa in senso proprio, e non accidentalmente alla maniera sofistica, quando riteniamo di afferrare la ragione per la quale la cosa è, che essa è la ragione di quella cosa, e che ciò non può essere altrimenti. Ora, è chiaro che conoscere è qualcosa del genere (APo. I 2, 71b9-13).

La parola qui tradotta con «afferrare» è «gign≈skein». Normalmente questo verbo è reso con «conoscere», ma se qui fosse tradotto in questo modo, la definizione ne risulterebbe irrimediabilmente viziata, giacché il definiendum verrebbe usato nel definiens e il conoscere sarebbe definito in termini del conoscere stesso. Di conseguenza deve esserci una differenza di senso tra «§piÄstasyai» e «gign≈skein» e, dato che non possono entrambi significare «conoscere», perché non ipotizzare che sia «§piÄstasyai» invece che «gign≈skein» a non avere quel significato? Sembra irragionevole fare l’inverso, dato che ci conduce immediatamente ad una definizione viziata. Questa linea di pensiero difenderà la definizione di Aristotele solo se due condizioni risultano soddisfatte: in primo luogo la nuova traduzione di «§piÄstasyai» deve essere il significato o uno dei significati della parola greca e in secondo luogo il senso deve rendere vere la clausola causale e quella della necessità all’interno della definizione. Ci sono due seri candidati per la nuova traduzione di «§piÄsta-

12

Questa è la traduzione adottata da Mignucci.

XXV

syai»: «conoscere scientificamente»12 e «comprendere». Il primo non ha un impiego normale in italiano e l’uso normale del secondo, intendo «comprendere che», non ha evidentemente alcun nesso con la definizione di Aristotele. Pertanto le traduzioni nuove devono essere a loro volta tradotte o interpretate: devono essere definite. Ciò è presto fatto, perché definire stipulativamente un nuovo senso per un’espressione è una delle cose più facili del mondo, e naturalmente è altrettanto facile fare la stipulazione in modo tale che il senso debba rendere vere le due clausole della definizione aristotelica. Decretiamo che: x comprende – o conosce scientificamente – che P se e solo se x sa perché P e x sa che necessariamente P. Le nuove traduzioni soddisfano le due clausole della definizione, ma lo fanno in modo banale, perché sono state definite precisamente a questo scopo. In altre parole, la difesa della definizione aristotelica che stiamo qui discutendo consiste né più né meno nell’asserzione seguente: il termine greco «§piÄstasyai» significa di fatto quel che la definizione aristotelica lo fa significare. Le nuove traduzioni non prendono parte alla difesa: sono lì solo per bellezza. Ma si può dire che «§piÄstasyai» significhi quello che dice Aristotele? La risposta è negativa. Un’attenta considerazione di «§piÄstasyai» e degli altri membri del «club» non rivela differenze semantiche tra loro né, in particolare, una qualche differenza viene rimarcata da Aristotele. Per di più, i vari passi aristotelici che asseriscono o riprendono la definizione non usano sistematicamente il verbo «§piÄstasyai» o il sostantivo «§pistÆmh» per specificare il definiendum: nella Fisica, per esempio, troviamo sia «gign≈skein» (I 1, 184a3) sia «efid°nai» (II 2, 194b18). Tra i diversi verbi ci sono in effetti sottili differenze d’uso, di idioma, di colore, sicché in un determinato contesto uno sarà più appropriato dell’altro; ma non ci sono discernibili differenze semantiche. Non c’è in particolare alcun indizio che induca a ritenere che nel greco ordinario il termine «§piÄstasyai» abbia, di regola o anche occasionalmente, il significato che gli attribuisce la definizione di Aristotele. Tale deludente conclusione suggerisce una seconda difesa della definizione aristotelica della conoscenza. Riconosciamo che «§piÄstasyai» non significa in effetti, in greco ordinario, «comprendere» o XXVI

«conoscere scientificamente»; che non significa ciò che Aristotele dice che significhi. Ma non importa: è Aristotele ad attribuirgli quel significato. Perché non dovrebbe? I filosofi – come spiegherà in seguito Porfirio – trattano argomenti nuovi e inconsueti, e perciò devono o introdurre termini nuovi e inconsueti o attribuire nuovi e inconsueti significati a parole vecchie e familiari. Aristotele neologizza di rado e di solito attribuisce un nuovo senso a vecchie parole. Così accade con «§piÄstasyai». È un dato di fatto che Aristotele a volte versa vino nuovo in otri vecchi. Occasione dell’osservazione di Porfirio è il commento all’uso aristotelico del termine «kathgoriÄa»: nel greco corrente significa «accusa», mentre Aristotele lo fa significare «predicazione»; e ci sono molti altri esempi di questo tipo. Tuttavia è del tutto improbabile che «§piÄstasyai» sia uno di essi. In primo luogo il brano degli Analitici secondi e gli altri passi che possono essergli accostati non fanno pensare ad una definizione stipulativa. Aristotele non dice «Chiamiamo...» o «Io chiamo». Dice invece «pensiamo che» e tale espressione palesemente introduce una definizione descrittiva, e non stipulativa. In secondo luogo, le definizioni stipulative devono avere uno scopo o un motivo; ma se Aristotele ha bisogno di un nuovo senso di «kathgoriÄa» per costruire la sua logica, il presunto nuovo significato di «§piÄstasyai» non risponde, per quanto posso vedere, ad alcuna necessità filosofica di sorta. Vi è una terza e ultima difesa della definizione di Aristotele. Riconosciamo che il verbo «§piÄstasyai» significa effettivamente «conoscere» e che Aristotele non sta tentando di imporgli forzatamente un nuovo significato. Il suo intento è piuttosto il seguente: egli cerca di spiegare la conoscenza delineandone un paradigma. Quello che è in gioco è comunque il concetto ordinario di conoscenza, ma il definiens non si attaglia a tutti i casi del definiendum, ma solo a quello centrale o primario o paradigmatico. Ciò sembrerà strano. Dopo tutto è Aristotele stesso ad insistere che il definiens sia vero di tutte e sole le cose che cadono sotto il definiendum e tale requisito teorico è enormemente plausibile. Eppure, si consideri la celebre definizione dell’uomo, «animale razionale bipede», e si supponga che qualcuno voglia obiettare a questa definizione facendo osservare che alcuni uomini hanno una gamba sola, altri non ne hanno alcuna, o notando che, in base alla dottrina dello stesso Aristotele, gli schiavi naturali, che costituiscono i nove decimi della razza umana, non sono razionali, o che le donne lo sono solo a metà o che i bambini non lo sono ancora o che molti vegliardi non lo sono XXVII

più. In una parola si supponga che qualcuno obietti che non tutti gli uomini sono razionali e bipedi. Questo non determinerebbe alcuna difficoltà per un aristotelico: è certo che tutti gli schiavi sono uomini e che nessuno schiavo è razionale, e tuttavia gli uomini sono essenzialmente e per definizione animali razionali. Si tratta di un’affermazione paradossale, anzi, diciamo pure che barcolla sull’orlo dell’incoerenza. Ma è indubbiamente un’affermazione aristotelica e dunque la questione è come risolvere il paradosso nel modo migliore ed evitare il rischio della contraddizione. In modo analogo, si potrebbe intendere la definizione aristotelica della conoscenza come se caratterizzasse il paradigma o l’esemplare compiuto della cosa. Certo, restano sempre mille contro-esempi alla definizione: so che l’attrezzo non si mette in moto anche se non so perché; so che pochi sono interessati agli Analitici secondi anche se non so che le cose stanno così per necessità. Ciò non di meno: se si conosce qualcosa se ne conosce il perché e si sa che sta così necessariamente. Queste sono asserzioni paradossali, anzi barcollano sull’orlo dell’incoerenza, ma sono tuttavia aristoteliche. Si è pensato che un paio di passi puntassero nella direzione di queste conclusioni. Per esempio, quando Aristotele introduce la definizione, dice che Riteniamo di conoscere qualcosa in senso proprio, e non accidentalmente alla maniera sofistica... (APo. I 2, 71b9-10),

ciò che viene isolato per essere definito è la conoscenza piena, non la varietà accidentale di conoscenza di cui sono in cerca i sofisti che sono tra di noi. E quando qualche riga di seguito osserva che conoscere in modo non accidentale ciò di cui si dà dimostrazione è avere dimostrazione (APo. I 2, 71b28-29),

dichiara implicitamente di essere interessato alla conoscenza non accidentale. Di nuovo, quando nell’Etica nicomachea egli discute la virtù intellettuale della conoscenza, ecco che cosa ha da dire: Che cosa sia la conoscenza sarà chiaro da ciò che segue, se bisogna parlare con precisione e non andare dietro alle somiglianze, giacché tutti riteniamo che ciò che conosciamo non possa essere altrimenti (EN VI 3, 1139 b18-21). XXVIII

Della clausola dell’impossibilità contenuta nella definizione della conoscenza si dichiara qui esplicitamente che presuppone un approccio preciso alla conoscenza. Tale clausola non si applicherà alle «somiglianze», ai casi cioè che sono simili alla conoscenza ma non sono esempi perfetti e completi di essa. La definizione dunque si attaglia alla conoscenza precisa, alla conoscenza senza limitazioni, e non alla conoscenza sofistica o accidentale. Ma che cos’è precisamente la conoscenza accidentale? Ebbene, non è una sola cosa perché ci sono vari differenti modi in cui si può essere privi di una conoscenza vera e propria e ciascuno di questi modi produrrà una conoscenza accidentale. Un esempio è offerto negli Analitici secondi. Per questo se uno provasse di ciascun triangolo con una o diverse dimostrazioni che ha gli angoli uguali a due retti, separatamente per l’equilatero, lo scaleno e l’isoscele, non saprebbe ancora che il triangolo ha gli angoli uguali a due retti, se non alla maniera sofistica, né che li ha il triangolo universalmente, nemmeno se non c’è nessun altro triangolo oltre a questi. Egli infatti non sa che il triangolo in quanto triangolo ha gli angoli uguali a due retti (APo. I 5, 74a25-30).

Se so di ciascuno dei tuoi figli che è femmina, con ciò non so che tutti i tuoi figli sono femmine, tranne che nel modo sofistico o accidentale. Si tratta di passi interessanti, e nient’affatto semplici. Ma possono essere tutti schierati alla terza difesa della definizione aristotelica della conoscenza? La risposta è negativa, perché tale difesa si fonda sulla distinzione tra casi perfetti o paradigmatici di conoscenza e altri casi che sono sì casi autentici ma non sono perfetti. I passi che ho appena addotto non stabiliscono questa distinzione e nemmeno alludono ad essa, come emerge in modo particolarmente chiaro nel caso dell’ultimo: qui Aristotele non distingue un caso paradigmatico di conoscenza nel quale io so che ogni triangolo ha una determinata somma degli angoli, da un caso di conoscenza autentica ma imperfetta nel quale io so, separatamente per ciascun tipo di triangolo, che ha una determinata somma degli angoli. Della persona che conosce separatamente per ciascuna sorta di triangolo Aristotele non dice infatti che abbia una conoscenza sfuocata o marginale, ma che costui non conosce, se non in modo sofistico, che ogni triangolo ha una determinata somma degli angoli. Non c’è nulla di viziato nella sua conoscenza: l’uXXIX

nico errore è quello di presentarla come una conoscenza universale sui triangoli. La terza linea di difesa della definizione aristotelica della conoscenza è la meno implausibile e merita certamente un’accurata elaborazione e un attento esame, ma non è veramente sostenuta da testi aristotelici e – bisogna riconoscere – non si tratta nemmeno di una ricostruzione troppo credibile. Ceaulmont, agosto 2005

Cronologia della vita e delle opere di Aristotele

384/383 a.C. Aristotele nasce a Stagira dal medico Nicomaco e da Festide. Probabilmente vive, per un breve periodo, a Pella, essendo il padre diventato medico di corte del re macedone Aminta. 367/366 Si reca ad Atene ed entra nell’Accademia, dove rimane per un ventennio, durante il quale compone e pubblica numerose opere, per lo più in forma dialogica. Queste opere furono dette «essoteriche» in contrapposizione a quelle che Aristotele compose solo per le sue lezioni e i suoi corsi e che vennero perciò dette «esoteriche» perché rivolte agli iniziati. È probabile che almeno alcuni dei trattati che compongono l’Organon siano stati redatti, in forma più o meno definitiva, già nel periodo accademico. 360/358 Probabile data di composizione del Grillo. Forse seguono, a breve distanza di tempo, il trattato Sulle Idee e il trattato Sul Bene. 351/350 Probabile data di composizione del Protreptico, cui seguì, a breve distanza, il trattato Sulla filosofia. 347 Muore Platone; Aristotele lascia l’Accademia e Atene e si reca probabilmente ad Atarneo, invitato dal tiranno Ermia, e, subito dopo, ad Asso, città donata da Ermia ai filosofi accademici Erasto e Corisco per i buoni servigi ottenuti da loro. 347-345/344 Aristotele fonda e dirige una scuola ad Asso insieme a Senocrate, Corisco ed Erasto. Si dedica alla composizione delle opere destinate alla scuola e cessa probabilmente di comporre scritti per il grosso pubblico. La cronologia di queste opere di scuola o delle loro parti non è più ricostruibile. XXXI

345/344-343/342 Aristotele fonda e dirige una scuola a Mitilene in Lesbo. 343/342 Filippo il Macedone sceglie Aristotele, per intercessione di Ermia, come educatore del figlio Alessandro. 341 Ermia è fatto prigioniero dai Persiani e poi ucciso. In questo periodo Aristotele sposa Pizia, sorella di Ermia, da cui avrà una figlia, alla quale sarà dato lo stesso nome della madre. 340 Alessandro, diventato reggente, interrompe i suoi studi. Forse non molto dopo Aristotele si recò a Stagira, avendo ottenuto che Alessandro la facesse ricostruire (era stata distrutta poco prima che Aristotele lasciasse Atene). Forse a Stagira muore Pizia. Aristotele si unisce a Erpilli che gli darà un figlio, al quale, in ricordo del nonno paterno, verrà dato il nome di Nicomaco. 335/334 Aristotele torna ad Atene e fonda il Peripato. 335/334-323 Aristotele tiene i grandi corsi di filosofia e di scienza nel Peripato, elabora e sistema gli scritti esoterici. 323 Muore Alessandro il Macedone, si scatena una reazione antimacedone e Aristotele è minacciato al punto da sentirsi costretto a lasciare Atene. 322 Si reca a Calcide, dove aveva dei possedimenti ereditati dalla madre e qui muore dopo pochi mesi.

Traslitterazione dei caratteri greci

Si è ritenuto opportuno, per l’orientamento di questa serie, fornire una traslitterazione semplificata ma coerente. Su tutte le parole si trascurano le indicazioni degli accenti e delle quantità; lo spirito aspro sopra vocale a inizio di parola si traslittera con una h posta prima della vocale (p. es.: ëma→ hama) e nella pronuncia richiede una aspirazione, mentre si tralasciano sempre lo spirito sopra il ‘rò’ (r) e lo spirito dolce (É). Si tenga infine presente che u si pronuncia come una u francese, ou e ph, rispettivamente, come la u e la f in italiano, g è sempre dura (come in ‘gallo’ e non in ‘gelo’), th e ch sono fricative e quindi vanno pronunciate con una leggera aspirazione.

MINUSCOLE

MAIUSCOLE

→ → → → → → → → → → → → → →

A → A B → B G → G

a b g gk gg gx gj d e z h y i k

a b g nk ng nch nx d e z e th i k

D E Z H Y I K

→ → → → → → →

D E Z E Th I K

MINUSCOLE l m n j o p r s, w t u f x c v

→ → → → → → → → → → → → → →

l m n x o p r s t u ph ch ps o

XXXIII

MAIUSCOLE L M N J O P R S T U F X C V

→ → → → → → → → → → → → → →

L M N X O P R S T U Ph Ch Ps O

DITTONGHI ai ei oi au eu ou & ˙ ƒ

→ → → → → → → → →

ai ei oi au eu ou ai ei oi

ANALUTIKA USTERA

AVVERTENZA Il testo greco qui stampato è quello edito da W.D. Ross nel 1949 e ristampato nella Scriptorum Classicorum Bibliotheca Oxoniensis, Oxford 1964. Abbiamo modificato il testo greco solo nei punti, comunque sempre segnalati anche in una nota alla traduzione, in cui Mignucci si allontana da questa edizione.

ANALITICI SECONDI

A.

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Pçsa didaskaliÄa ka‹ pçsa mãyhsiw dianohtikØ §k pro#parxoÊshw giÄnetai gn≈sevw. fanerÚn d¢ toËto yevroËsin §p‹ pas«n: a· te går mayhmatika‹ t«n §pisthm«n diå toÊtou toË trÒpou paragiÄnontai ka‹ t«n êllvn •kãsth texn«n. ımoiÄvw d¢ ka‹ per‹ toÁw lÒgouw o· te diå sullogism«n ka‹ ofl diÉ §pagvg∞w: émfÒteroi går diå proginvskom°nvn poioËntai tØn didaskaliÄan, ofl m¢n lambãnontew …w parå juni°ntvn, ofl d¢ deiknÊntew tÚ kayÒlou diå toË d∞lon e‰nai tÚ kayÉ ßkaston. …w dÉ aÎtvw ka‹ ofl =htoriko‹ sumpeiÄyousin: μ går diå paradeigmãtvn, ˜ §stin §pagvgÆ, μ diÉ §nyumhmãtvn, ˜per §st‹ sullogismÒw. dix«w dÉ énagka›on progin≈skein: tå m¢n gãr, ˜ti ¶sti, pro#polambãnein énagka›on, tå d°, tiÄ tÚ legÒmenÒn §sti, juni°nai de›, tå dÉ êmfv, oÂon ˜ti m¢n ëpan μ f∞sai μ épof∞sai élhy°w, ˜ti ¶sti, tÚ d¢ triÄgvnon, ˜ti tod‹ shmaiÄnei, tØn d¢ monãda êmfv, ka‹ tiÄ shmaiÄnei ka‹ ˜ti ¶stin: oÈ går ımoiÄvw toÊtvn ßkaston d∞lon ≤m›n. ÖEsti d¢ gnvriÄzein tå m¢n prÒteron gnvriÄsanta, t«n d¢ ka‹ ëma lambãnonta tØn gn«sin, oÂon ˜sa tugxãnei ˆnta

2

LIBRO PRIMO

CAPITOLO 1 Ogni insegnamento ed ogni apprendimento intellettuale derivano da una preesistente conoscenza. Ciò è manifesto a chi consideri la cosa in ogni campo. Infatti le scienze matematiche sono acquisite in questo modo e così pure ciascuna delle altre discipline. Lo stesso accade anche nelle argomentazioni che procedono per sillogismi e in quelle che procedono per induzione. Entrambe infatti producono l’insegnamento grazie a cose conosciute prima, le une assumendole come comprese, le altre provando l’universale per il fatto che è chiaro il singolare. In modo simile persuadono le argomentazioni retoriche. Infatti esse procedono o attraverso esempi, e ciò è un’induzione, oppure attraverso entimemi, e ciò è un sillogismo. In due modi è necessario preconoscere. Di alcune cose è necessario preassumere che sono; di altre bisogna comprendere che cosa è quel che viene detto; di altre ancora entrambe. Per esempio del fatto che in ogni caso è vero o affermare o negare bisogna preconoscere che è; del triangolo invece che significa questo; dell’unità infine entrambe le cose, sia che cosa significa sia che è. Infatti ciascuna di queste cose non è altrettanto nota a noi. È possibile acquisire conoscenza se si è prima acquisita conoscenza di alcune cose, mentre di altre si prende conoscenza anche nello 3

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ÍpÚ tÚ kayÒlou o ¶xei tØn gn«sin. ˜ti m¢n går pçn triÄgvnon ¶xei dus‹n Ùrya›w ‡saw, proπdei: ˜ti d¢ tÒde tÚ §n t“ ≤mikukliă triÄgvnÒn §stin, ëma §pagÒmenow §gn≈risen. (§niÄvn går toËton tÚn trÒpon ≤ mãyhsiÄw §sti, ka‹ oÈ diå toË m°sou tÚ ¶sxaton gnvriÄzetai, ˜sa ≥dh t«n kayÉ ßkasta tugxãnei ˆnta ka‹ mØ kayÉ Ípokeim°nou tinÒw.) pr‹n dÉ §paxy∞nai μ labe›n sullogismÚn trÒpon m°n tina ‡svw fat°on §piÄstasyai, trÒpon dÉ êllon oÎ. ˘ går mØ ædei efi ¶stin èpl«w, toËto p«w ædei ˜ti dÊo Ùryåw ¶xei èpl«w; éllå d∞lon …w …d‹ m¢n §piÄstatai, ˜ti kayÒlou §piÄstatai, èpl«w dÉ oÈk §piÄstatai. efi d¢ mÆ, tÚ §n t“ M°nvni épÒrhma sumbÆsetai: μ går oÈd¢n mayÆsetai μ ì o‰den. oÈ går dÆ, Àw g° tinew §gxeiroËsi lÊein, lekt°on. îrÉ o‰daw ëpasan duãda ˜ti értiÄa μ oÎ; fÆsantow d¢ proÆnegkãn tina duãda ∂n oÈk ’etÉ e‰nai, ÀstÉ oÈdÉ értiÄan. lÊousi går oÈ fãskontew efid°nai pçsan duãda értiÄan oÔsan, éllÉ ∂n ‡sasin ˜ti duãw. kaiÄtoi ‡sasi m¢n oper tØn épÒdeijin ¶xousi ka‹ o ¶labon, ¶labon dÉ oÈx‹ pantÚw o ín efid«sin ˜ti triÄgvnon μ ˜ti ériymÒw, éllÉ èpl«w katå pantÚw ériymoË ka‹ trig≈nou: oÈdemiÄa går prÒtasiw lambãnetai toiaÊth, ˜ti ˘n sÁ o‰daw ériymÚn μ ˘ sÁ o‰daw eÈyÊgrammon, éllå katå pantÒw. éllÉ oÈd°n (o‰mai) kvlÊei, ˘ manyãnei, ¶stin …w §piÄstasyai, ¶sti dÉ …w égnoe›n: êtopon går oÈk efi o‰d° pvw ˘ manyãnei, éllÉ efi …diÄ, oÂon √ manyãnei ka‹ Àw.

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ÉEpiÄstasyai d¢ ofiÒmeyÉ ßkaston èpl«w, éllå mØ tÚn sofistikÚn trÒpon tÚn katå sumbebhkÒw, ˜tan tÆn tÉ afitiÄan ofi≈meya gin≈skein diÉ ∂n tÚ prçgmã §stin, ˜ti §keiÄnou afitiÄa §stiÄ, ka‹ mØ §nd°xesyai toËtÉ êllvw ¶xein. d∞lon toiÄnun ˜ti toioËtÒn ti tÚ §piÄstasyaiÄ §sti: ka‹ går ofl mØ §pistãmenoi ka‹

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stesso momento, come per esempio avviene per quelle cose che stanno sotto l’universale di cui si ha conoscenza. Infatti che ogni triangolo abbia gli angoli uguali a due retti lo si sapeva prima; che invece questa figura iscritta nella semicirconferenza sia un triangolo lo si acquisisce insieme con l’essere condotti alla conclusione. Infatti l’apprendimento di alcune cose avviene in questo modo e l’ultimo termine non è acquisito attraverso il medio, e ciò avviene per quelle cose che sono singolari e non si dicono di un soggetto. Prima di essere condotti alla conclusione, ovvero prima di assumere un sillogismo, bisogna forse dire che in un certo senso si sa già, mentre in un altro senso non si sa ancora. Infatti di ciò di cui non si sa propriamente se è, come si fa a sapere propriamente che ha gli angoli uguali a due retti? Ma è chiaro che si sa in questo senso, perché si sa universalmente, mentre non si sa propriamente. Se non fosse così, si verificherebbe l’aporia del Menone: o non si apprende nulla o solo quel che si sa. Di certo non si deve dire quel che dicono alcuni nel tentativo di risolvere la difficoltà. Sai o no se ogni coppia è pari? A chi abbia dato una risposta affermativa presentano una coppia che non credeva essere tale e quindi nemmeno pari. Infatti essi risolvono l’aporia sostenendo di sapere non di ogni coppia che è pari, ma solo di ogni coppia che sanno essere una coppia. Tuttavia sanno ciò di cui hanno una dimostrazione e rispetto al quale hanno fatto le assunzioni, ed hanno fatto le assunzioni non rispetto a tutto ciò di cui sanno che è un triangolo o un numero, ma rispetto a ogni numero e di ogni triangolo incondizionatamente. Infatti non si assume nessuna premessa siffatta, quel che tu sai essere un numero o quel che tu sai essere una figura rettilinea, ma ciò che vale di ogni. Ma nulla impedisce, io credo, che ciò che si apprende, in un senso si sappia e in un senso sia ignoto. Infatti è assurdo non che si sappia in un certo senso ciò che si apprende, ma che lo si sappia in questo modo, ossia così come lo si apprende e nello stesso senso in cui lo si apprende.

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CAPITOLO 2 Riteniamo di conoscere scientificamente qualcosa in senso proprio, e non accidentalmente alla maniera sofistica, quando riteniamo di conoscere la ragione per la quale la cosa è, che essa è la ragione di quella cosa, e che ciò non può essere altrimenti. Ora è chiaro che conoscere scientificamente è qualcosa del genere: infatti tanto coloro che non conoscono scientificamente quanto coloro che conoscono riten5

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ofl §pistãmenoi ofl m¢n o‡ontai aÈto‹ oÏtvw ¶xein, ofl dÉ §pistãmenoi ka‹ ¶xousin, Àste o èpl«w ¶stin §pistÆmh, toËtÉ édÊnaton êllvw ¶xein. Efi m¢n oÔn ka‹ ßterow ¶sti toË §piÄstasyai trÒpow, Ïsteron §roËmen, fam¢n d¢ ka‹ diÉ épodeiÄjevw efid°nai. épÒdeijin d¢ l°gv sullogismÚn §pisthmonikÒn: §pisthmonikÚn d¢ l°gv kayÉ ˘n t“ ¶xein aÈtÚn §pistãmeya. efi toiÄnun §st‹ tÚ §piÄstasyai oÂon ¶yemen, énãgkh ka‹ tØn épodeiktikØn §pistÆmhn §j élhy«n tÉ e‰nai ka‹ pr≈tvn ka‹ ém°svn ka‹ gnvrimvt°rvn ka‹ prot°rvn ka‹ afitiÄvn toË sumperãsmatow: oÏtv går ¶sontai ka‹ afl érxa‹ ofike›ai toË deiknum°nou. sullogismÚw m¢n går ¶stai ka‹ êneu toÊtvn, épÒdeijiw dÉ oÈk ¶stai: oÈ går poiÆsei §pistÆmhn. élhy∞ m¢n oÔn de› e‰nai, ˜ti oÈk ¶sti tÚ mØ ¯n §piÄstasyai, oÂon ˜ti ≤ diãmetrow sÊmmetrow. §k pr≈tvn dÉ énapodeiÄktvn, ˜ti oÈk §pistÆsetai mØ ¶xvn épÒdeijin aÈt«n: tÚ går §piÄstasyai œn épÒdeijiw ¶sti mØ katå sumbebhkÒw, tÚ ¶xein épÒdeijiÄn §stin. a‡tiã te ka‹ gnvrim≈tera de› e‰nai ka‹ prÒtera, a‡tia m¢n ˜ti tÒte §pistãmeya ˜tan tØn afitiÄan efid«men, ka‹ prÒtera, e‡per a‡tia ka‹ proginvskÒmena oÈ mÒnon tÚn ßteron trÒpon t“ juni°nai, éllå ka‹ t“ efid°nai ˜ti ¶stin. prÒtera dÉ §st‹ ka‹ gnvrim≈tera dix«w: oÈ går taÈtÚn prÒteron tª fÊsei ka‹ prÚw ≤mçw prÒteron, oÈd¢ gnvrim≈teron ka‹ ≤m›n gnvrim≈teron. l°gv d¢ prÚw ≤mçw m¢n prÒtera ka‹ gnvrim≈tera tå §ggÊteron t∞w afisyÆsevw, èpl«w d¢ prÒtera ka‹ gnvrim≈tera tå porr≈teron. ¶sti d¢ porrvtãtv m¢n tå kayÒlou mãlista, §ggutãtv d¢ tå kayÉ ßkasta: ka‹ éntiÄkeitai taËtÉ éllÆloiw. §k pr≈tvn dÉ §st‹ tÚ §j érx«n ofikeiÄvn: taÈtÚ går l°gv pr«ton ka‹ érxÆn. érxØ dÉ §st‹n épodeiÄjevw prÒtasiw êmesow, êmesow d¢ ∏w mØ ¶stin êllh prot°ra. prÒtasiw dÉ §st‹n éntifãsevw tÚ ßteron mÒrion, ©n kayÉ •nÒw, dialektikØ m¢n ≤ ımoiÄvw lambãnousa ıpoteronoËn, épodeiktikØ d¢ ≤ …rism°nvw yãteron, ˜ti élhy°w. épÒfansiw d¢ éntifãsevw ıpoteronoËn mÒrion, éntiÄfasiw d¢ éntiÄyesiw ∏w oÈk ¶sti metajÁ

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gono di essere in tale situazione, e i secondi vi sono davvero, cosicché è impossibile che ciò di cui si ha conoscenza scientifica sia altrimenti. Se vi sia anche un altro modo di conoscere scientificamente lo diremo in seguito; per il momento diciamo che conoscere scientificamente è sapere per dimostrazione. Chiamo dimostrazione il sillogismo scientifico e chiamo scientifico quel sillogismo grazie al possesso del quale conosciamo scientificamente. Se allora conoscere scientificamente è quello che abbiamo stabilito, è anche necessario che la conoscenza scientifica ottenuta per dimostrazione proceda da premesse vere, prime, immediate, più note, anteriori e tali che siano ragioni della conclusione. In tal modo infatti i principi saranno anche appropriati a ciò che è provato. Un sillogismo può sussistere anche senza queste condizioni, ma non una dimostrazione. Infatti non produrrebbe conoscenza scientifica. Le premesse devono essere vere, perché non è possibile conoscere scientificamente ciò che non è, come per esempio che la diagonale è commensurabile. La dimostrazione deve procedere da premesse prime indimostrabili, perché non si avrebbe conoscenza scientifica senza avere dimostrazione di esse; infatti conoscere scientificamente in modo non accidentale ciò di cui vi è dimostrazione è avere dimostrazione. Le premesse devono essere ragioni e più note e anteriori: ragioni perché riteniamo di conoscere scientificamente solo quando sappiamo la ragione; anteriori, se è vero che sono ragioni e preconosciute1, non solo nel secondo dei due modi indicati, cioè nel senso di comprenderle, ma anche nel senso che si sa che sono. Ci sono due sensi in cui le cose sono anteriori e più note. Infatti non è lo stesso essere anteriore per natura e rispetto a noi ed essere più noto per natura e rispetto a noi. Chiamo anteriori e più note rispetto a noi le cose che sono più vicine alla percezione, anteriori e più note in senso assoluto quelle che sono più lontane. Le cose più universali sono quelle più lontane, le singolari sono quelle più vicine e tali cose si oppongono reciprocamente. Procedere da premesse prime è procedere da principi appropriati; infatti chiamo la stessa cosa primo e principio. Principio di una dimostrazione è la premessa immediata e immediata è quella premessa della quale non c’è un’altra anteriore. La premessa è una o l’altra parte di una contraddizione2, una cosa detta di una cosa, ed è dialettica quella che assume indifferentemente l’una o l’altra parte, mentre è dimostrativa quella che ne assume determinatamente una perché è vera. L’enunciazione è l’una o l’altra parte di una contraddizione e la contraddizione è l’opposizione nella quale, di per sé, non c’è intermedio; la parte della contraddizione che unisce 7

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kayÉ aÍtÆn, mÒrion dÉ éntifãsevw tÚ m¢n t‹ katå tinÚw katãfasiw, tÚ d¢ t‹ épÚ tinÚw épÒfasiw. ÉAm°sou dÉ érx∞w sullogistik∞w y°sin m¢n l°gv ∂n mØ ¶sti de›jai, mhdÉ énãgkh ¶xein tÚn mayhsÒmenÒn ti: ∂n dÉ énãgkh ¶xein tÚn ıtioËn mayhsÒmenon, éjiÄvma: ¶sti går ¶nia toiaËta: toËto går mãlistÉ §p‹ to›w toioÊtoiw efi≈yamen ˆnoma l°gein. y°sevw dÉ ≤ m¢n ıpoteronoËn t«n moriÄvn t∞w éntifãsevw lambãnousa, oÂon l°gv tÚ e‰naiÄ ti μ tÚ mØ e‰naiÄ ti, ÍpÒyesiw, ≤ dÉ êneu toÊtou ırismÒw. ı går ırismÚw y°siw m°n §sti: tiÄyetai går ı ériymhtikÚw monãda tÚ édiaiÄreton e‰nai katå tÚ posÒn: ÍpÒyesiw dÉ oÈk ¶sti: tÚ går tiÄ §sti monåw ka‹ tÚ e‰nai monãda oÈ taÈtÒn. ÉEpe‹ d¢ de› pisteÊein te ka‹ efid°nai tÚ prçgma t“ toioËton ¶xein sullogismÚn ˘n kaloËmen épÒdeijin, ¶sti dÉ otow t“ tad‹ e‰nai §j œn ı sullogismÒw, énãgkh mØ mÒnon progin≈skein tå pr«ta, μ pãnta μ ¶nia, éllå ka‹ mçllon: afie‹ går diÉ ˘ Ípãrxei ßkaston, §keiÄnƒ mçllon Ípãrxei, oÂon diÉ ˘ filoËmen, §ke›no fiÄlon mçllon. ÀstÉ e‡per ‡smen diå tå pr«ta ka‹ pisteÊomen, kéke›na ‡smen te ka‹ pisteÊomen mçllon, ˜ti diÉ §ke›na ka‹ tå Ïstera. oÈx oÂÒn te d¢ pisteÊein mçllon œn o‰den ì mØ tugxãnei mÆte efidΔw mÆte b°ltion diakeiÄmenow μ efi §tÊgxanen efid≈w. sumbÆsetai d¢ toËto, efi mÆ tiw progn≈setai t«n diÉ épÒdeijin pisteuÒntvn: mçllon går énãgkh pisteÊein ta›w érxa›w μ pãsaiw μ tis‹ toË sumperãsmatow. tÚn d¢ m°llonta ßjein tØn §pistÆmhn tØn diÉ épodeiÄjevw oÈ mÒnon de› tåw érxåw mçllon gnvriÄzein ka‹ mçllon aÈta›w pisteÊein μ t“ deiknum°nƒ, éllå mhdÉ êllo aÈt“ pistÒteron e‰nai mhd¢ gnvrim≈teron t«n éntikeim°nvn ta›w érxa›w §j œn ¶stai sullogismÚw ı t∞w §nantiÄaw épãthw, e‡per de› tÚn §pistãmenon èpl«w émetãpeiston e‰nai.

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ÉEniÄoiw m¢n oÔn diå tÚ de›n tå pr«ta §piÄstasyai oÈ doke› §pistÆmh e‰nai, to›w dÉ e‰nai m°n, pãntvn m°ntoi épÒdeijiw

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qualcosa a qualcosa è l’affermazione e la parte che separa qualcosa da qualcosa la negazione. Di un principio sillogistico immediato dico che è una posizione quello che non è possibile provare e che non è necessario che possieda colui il quale apprende qualcosa; invece quello che è necessario possieda chi apprenda qualunque cosa è un assioma. In effetti vi sono alcune cose di questo tipo; ad esse soprattutto siamo soliti riservare questo nome. Quella posizione che assume una qualunque delle parti della contraddizione, vale a dire che qualcosa è o qualcosa non è, è una presupposizione, mentre quella che è senza ciò è una definizione. Infatti la definizione è una posizione: il matematico pone che l’unità sia l’indivisibile secondo la quantità; ma questa non è una presupposizione; infatti che cos’è l’unità e che l’unità è non sono la stessa cosa. Poiché la convinzione e il sapere nei riguardi di un oggetto dipendono dall’avere quel sillogismo che chiamiamo dimostrazione, e poiché questo sillogismo c’è perché ci sono queste cose qui, ossia le premesse da cui il sillogismo procede, è necessario non solo preconoscere le cose prime, o tutte o alcune, ma anche conoscerle meglio. Infatti ciascuna cosa conviene di più a ciò per cui conviene; per esempio ciò per cui amiamo qualcosa è più amato della cosa stessa. Di conseguenza, se è vero che sappiamo e siamo convinti in virtù delle cose prime, queste le sappiamo meglio e di esse siamo più convinti, dato che è in virtù di esse che sappiamo e siamo convinti delle cose che vengono dopo. Non è possibile essere convinti di ciò che di fatto non si sa, o rispetto a cui non si è in una disposizione migliore che se si sapesse, più che di ciò che si sa. Questo succederebbe se chi resta convinto in virtù della dimostrazione non avesse conoscenze precedenti. Infatti è necessario essere più convinti dei principi, o tutti o alcuni, che della conclusione. Chi vuol avere la conoscenza scientifica che si acquisisce per dimostrazione non solo deve acquisire meglio i principi e essere più convinto di essi che di ciò che è provato, ma anche nessun’altra delle cose che sono opposte ai principi e dalle quali procede il sillogismo dell’errore contrario può essere più nota e convincente per lui, se è vero che chi conosce scientificamente in senso proprio deve essere immutabile nelle proprie convinzioni.

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CAPITOLO 3 Per il fatto che bisogna conoscere scientificamente le cose prime, ad alcuni sembra che non ci sia conoscenza scientifica, mentre ad altri 9

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e‰nai: œn oÈd°teron oÎtÉ élhy¢w oÎtÉ énagka›on. ofl m¢n går Ípoy°menoi mØ e‰nai ˜lvw §piÄstasyai, otoi efiw êpeiron éjioËsin énãgesyai …w oÈk ín §pistam°nouw tå Ïstera diå tå prÒtera, œn mØ ¶sti pr«ta, Ùry«w l°gontew: édÊnaton går tå êpeira dielye›n. e‡ te ·statai ka‹ efis‹n érxaiÄ, taÊtaw égn≈stouw e‰nai épodeiÄje≈w ge mØ oÎshw aÈt«n, ˜per fas‹n e‰nai tÚ §piÄstasyai mÒnon: efi d¢ mØ ¶sti tå pr«ta efid°nai, oÈd¢ tå §k toÊtvn e‰nai §piÄstasyai èpl«w oÈd¢ kuriÄvw, éllÉ §j Ípoy°sevw, efi §ke›na ¶stin. ofl d¢ per‹ m¢n toË §piÄstasyai ımologoËsi: diÉ épodeiÄjevw går e‰nai mÒnon: éllå pãntvn e‰nai épÒdeijin oÈd¢n kvlÊein: §nd°xesyai går kÊklƒ giÄnesyai tØn épÒdeijin ka‹ §j éllÆlvn. ÑHme›w d° famen oÎte pçsan §pistÆmhn épodeiktikØn e‰nai, éllå tØn t«n ém°svn énapÒdeikton (ka‹ toËyÉ ˜ti énagka›on, fanerÒn: efi går énãgkh m¢n §piÄstasyai tå prÒtera ka‹ §j œn ≤ épÒdeijiw, ·statai d° pote, tå êmesa taËtÉ énapÒdeikta énãgkh e‰nai)^ taËtã tÉ oÔn oÏtv l°gomen, ka‹ oÈ mÒnon §pistÆmhn éllå ka‹ érxØn §pistÆmhw e‰naiÄ tinã famen, √ toÁw ˜rouw gnvriÄzomen. kÊklƒ te ˜ti édÊnaton épodeiÄknusyai èpl«w, d∞lon, e‡per §k prot°rvn de› tØn épÒdeijin e‰nai ka‹ gnvrimvt°rvn: édÊnaton gãr §sti tå aÈtå t«n aÈt«n ëma prÒtera ka‹ Ïstera e‰nai, efi mØ tÚn ßteron trÒpon, oÂon tå m¢n prÚw ≤mçw tå dÉ èpl«w, ˜nper trÒpon ≤ §pagvgØ poie› gn≈rimon. efi dÉ oÏtvw, oÈk ín e‡h tÚ èpl«w efid°nai kal«w …rism°non, éllå dittÒn: μ oÈx èpl«w ≤ •t°ra épÒdeijiw, ginom°nh gÉ §k t«n ≤m›n gnvrimvt°rvn. sumbaiÄnei d¢ to›w l°gousi kÊklƒ tØn épÒdeijin e‰nai oÈ mÒnon tÚ nËn efirhm°non, éllÉ oÈd¢n êllo l°gein μ ˜ti toËtÉ ¶stin efi toËtÉ ¶stin: oÏtv d¢ pãnta =ñdion de›jai. d∞lon dÉ ˜ti toËto sumbaiÄnei tri«n ˜rvn tey°ntvn. tÚ m¢n går diå poll«n μ diÉ ÙliÄgvn énakãmptein fãnai oÈd¢n diaf°rei, diÉ ÙliÄgvn dÉ μ duo›n. ˜tan går toË A ˆntow §j énãgkhw ¬ tÚ B, toÊtou d¢ tÚ G, toË A ˆntow ¶stai tÚ G. efi dØ toË A ˆntow énãgkh tÚ B e‰nai, toÊtou dÉ

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sembra che ci sia, ma che ci sia dimostrazione di tutto. Nessuna di queste due posizioni è vera e cogente. Infatti coloro che suppongono che non ci sia assolutamente conoscenza scientifica ritengono di essere coinvolti in un regresso all’infinito pensando di non poter conoscere scientificamente quel che segue in virtù di quel che precede se di questo non vi sono primi – e in ciò sono nel giusto: infatti è impossibile attraversare infinite cose. Se d’altra parte ci si ferma e vi sono principi, essi sono inconoscibili, non essendovi di essi dimostrazione, in cui solo consiste per essi la conoscenza scientifica. Se non è possibile sapere le cose prime, non è possibile conoscere scientificamente in senso assoluto e proprio nemmeno ciò che procede da esse, se non in base alla presupposizione che quelle cose prime siano. Gli altri sono d’accordo con i precedenti riguardo alla conoscenza scientifica; infatti per loro essa si ottiene solo per dimostrazione. Tuttavia nulla impedisce che vi sia dimostrazione di tutto. Infatti è possibile che la dimostrazione sia circolare e reciproca. Noi invece asseriamo che non ogni conoscenza scientifica è dimostrativa e che quella degli immediati è non dimostrativa. Che ciò sia necessario è manifesto: infatti se è necessario conoscere scientificamente gli antecedenti e le cose da cui procede la dimostrazione e ad un certo punto ci si ferma3, è necessario che questi immediati siano non dimostrativi. Noi argomentiamo queste tesi in questo modo e affermiamo che vi è non solo conoscenza scientifica, ma anche un certo principio di essa, mediante il quale conosciamo i limiti. Che sia impossibile che qualcosa sia dimostrato in senso proprio circolarmente è chiaro, se è vero che la dimostrazione deve procedere da cose anteriori e più note. Infatti è impossibile che le stesse cose siano insieme anteriori e posteriori alle stesse cose, se non nell’uno e nell’altro modo, e cioè rispetto a noi e in senso assoluto, nel modo che l’induzione ci fa conoscere. Ma se le cose stessero così, non sarebbe stato ben definito «sapere in senso proprio» e questa espressione avrebbe due significati. Oppure una delle due dimostrazioni, essendo costruita a partire da ciò che è più noto a noi, non è una dimostrazione in senso proprio. Quelli che dicono che la dimostrazione è circolare si trovano non solo a incorrere nella difficoltà ora detta, ma a non dire nient’altro che questa cosa è se è. In questo modo è facile provare qualunque cosa. È chiaro che succede questo se sono posti tre termini. In effetti non fa differenza affermare che il circolo si compie per mezzo di molti o pochi termini, o per mezzo di pochi o solo due. Infatti quando, se A è, di necessità B è e, se B è, C è, allora, se A è, C è. Se davvero, essendo 11

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ˆntow tÚ A (toËto går ∑n tÚ kÊklƒ), keiÄsyv tÚ A §fÉ o tÚ G. tÚ oÔn toË B ˆntow tÚ A e‰nai l°gein §st‹ tÚ G e‰nai l°gein, toËto dÉ ˜ti toË A ˆntow tÚ G ¶sti: tÚ d¢ G t“ A tÚ aÈtÒ. Àste sumbaiÄnei l°gein toÁw kÊklƒ fãskontaw e‰nai tØn épÒdeijin oÈd¢n ßteron plØn ˜ti toË A ˆntow tÚ A ¶stin. oÏtv d¢ pãnta de›jai =ñdion. OÈ mØn éllÉ oÈd¢ toËto dunatÒn, plØn §p‹ toÊtvn ˜sa éllÆloiw ßpetai, Àsper tå ‡dia. •nÚw m¢n oÔn keim°nou d°deiktai ˜ti oÈd°potÉ énãgkh ti e‰nai ßteron (l°gv dÉ •nÒw, ˜ti oÎte ˜rou •nÚw oÎte y°sevw miçw teyeiÄshw), §k dÊo d¢ y°sevn pr≈tvn ka‹ §laxiÄstvn §nd°xetai, e‡per ka‹ sullogiÄsasyai. §ån m¢n oÔn tÒ te A t“ B ka‹ t“ G ßphtai, ka‹ taËtÉ éllÆloiw ka‹ t“ A, oÏtv m¢n §nd°xetai §j éllÆlvn deiknÊnai pãnta tå afithy°nta §n t“ pr≈tƒ sxÆmati, …w d°deiktai §n to›w per‹ sullogismoË. d°deiktai d¢ ka‹ ˜ti §n to›w êlloiw sxÆmasin μ oÈ giÄnetai sullogismÚw μ oÈ per‹ t«n lhfy°ntvn. tå d¢ mØ éntikathgoroÊmena oÈdam«w ¶sti de›jai kÊklƒ, ÀstÉ §peidØ ÙliÄga toiaËta §n ta›w épodeiÄjesi, fanerÚn ˜ti kenÒn te ka‹ édÊnaton tÚ l°gein §j éllÆlvn e‰nai tØn épÒdeijin ka‹ diå toËto pãntvn §nd°xesyai e‰nai épÒdeijin.

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ÉEpe‹ dÉ édÊnaton êllvw ¶xein o ¶stin §pistÆmh èpl«w, énagka›on ín e‡h tÚ §pisthtÚn tÚ katå tØn épodeiktikØn §pistÆmhn: épodeiktikØ dÉ §st‹n ∂n ¶xomen t“ ¶xein épÒdeijin. §j énagkaiÄvn êra sullogismÒw §stin ≤ épÒdeijiw. lhpt°on êra §k tiÄnvn ka‹ poiÄvn afl épodeiÄjeiw efisiÄn. pr«ton d¢ dioriÄsvmen tiÄ l°gomen tÚ katå pantÚw ka‹ tiÄ tÚ kayÉ aÍtÚ ka‹ tiÄ tÚ kayÒlou. Katå pantÚw m¢n oÔn toËto l°gv ˘ ín ¬ mØ §p‹ tinÚw m¢n tinÚw d¢ mÆ, mhd¢ pot¢ m¢n pot¢ d¢ mÆ, oÂon efi katå pantÚw ényr≈pou z“on, efi élhy¢w tÒndÉ efipe›n ênyrvpon, élhy¢w ka‹ z“on, ka‹ efi nËn yãteron, ka‹ yãteron, ka‹ efi §n pãs˙ grammª stigmÆ, …saÊtvw. shme›on d°: ka‹ går tåw §nstãseiw oÏtv f°romen …w katå pantÚw §rvt≈menoi, μ efi §piÄ tini mÆ, μ e‡ pote mÆ.

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A, è necessario che B sia, e se, essendo B, A è (questo è, come si è detto, provare circolarmente), si ponga A al posto di C. Allora dire che se B è, A è, è dire che se B è, C è; ciò implica dire che se A è, C è; ma C è la stessa cosa di A; di conseguenza coloro i quali sostengono che la dimostrazione è circolare si trovano a non dire altro che se A è, A è. Così è facile provare tutto. Per di più dimostrare circolarmente non è possibile, a meno che non riguardi le cose che si conseguono vicendevolmente, come i propri. È stato provato che posta una sola cosa non è assolutamente necessario che qualcosa di distinto sia (dico «posta una sola cosa» nel senso che venga posto un solo termine o una sola posizione) e che è possibile che segua qualcosa di distinto da al minimo due posizioni prime, se da esse è possibile sillogizzare. Qualora A segua da B e C e questi l’uno dall’altro e da A è possibile provare tutte le proposizioni domandate l’una dall’altra in prima figura, come si è provato nella trattazione riguardante il sillogismo. È stato provato anche che nelle altre figure o non c’è sillogismo o non è relativo alle cose assunte. Le cose che non si predicano reciprocamente non possono assolutamente essere provate circolarmente; di conseguenza, poiché le cose di questo tipo sono poche nelle dimostrazioni, è manifesto che è vano e impossibile dire che la dimostrazione è reciproca e che in virtù di ciò è possibile che vi sia dimostrazione di tutto.

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CAPITOLO 4 Poiché è impossibile che sia altrimenti ciò di cui c’è conoscenza scientifica in senso proprio, ciò che è conosciuto scientificamente in base alla conoscenza scientifica dimostrativa deve essere necessario. È dimostrativa quella conoscenza scientifica che abbiamo per il fatto di avere una dimostrazione. Dunque la dimostrazione è un sillogismo che procede da necessari. Bisogna quindi esaminare da quali proposizioni procedono le dimostrazioni e su quali proposizioni vertono. Innanzitutto definiamo che cosa intendiamo per «di ogni», «per sé» e «universale». Dico di ogni ciò che si dice non di qualcuno sì e di qualcuno no e talvolta sì e talvolta no; per esempio se animale si dice di ogni uomo, allora, se è vero dire che costui è un uomo, è vero dirlo anche animale, e se ora è il primo, è anche il secondo; ugualmente se il punto è in ogni linea. Eccone un segno: quando ci viene chiesto se qualcosa si dica di ogni caso, muoviamo obiezioni o se non si dice di qualcuno o se talvolta non si dice.

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KayÉ aÍtå dÉ ˜sa Ípãrxei te §n t“ tiÄ §stin, oÂon trig≈nƒ grammØ ka‹ grammª stigmÆ (≤ går oÈsiÄa aÈt«n §k toÊtvn §stiÄ, ka‹ §n t“ lÒgƒ t“ l°gonti tiÄ §stin §nupãrxei), ka‹ ˜soiw t«n ÍparxÒntvn aÈto›w aÈtå §n t“ lÒgƒ §nupãrxousi t“ tiÄ §sti dhloËnti, oÂon tÚ eÈyÁ Ípãrxei grammª ka‹ tÚ perifer°w, ka‹ tÚ perittÚn ka‹ êrtion ériym“, ka‹ tÚ pr«ton ka‹ sÊnyeton, ka‹ fisÒpleuron ka‹ •terÒmhkew: ka‹ pçsi toÊtoiw §nupãrxousin §n t“ lÒgƒ t“ tiÄ §sti l°gonti ¶nya m¢n grammØ ¶nya dÉ ériymÒw. ımoiÄvw d¢ ka‹ §p‹ t«n êllvn tå toiaËyÉ •kãstoiw kayÉ aÍtå l°gv, ˜sa d¢ mhdet°rvw Ípãrxei, sumbebhkÒta, oÂon tÚ mousikÚn μ leukÚn t“ z–ƒ. ¶ti ˘ mØ kayÉ Ípokeim°nou l°getai êllou tinÒw, oÂon tÚ badiÄzon ßterÒn ti ¯n badiÄzon §st‹ ka‹ tÚ leukÒn, ≤ dÉ oÈsiÄa, ka‹ ˜sa tÒde ti shmaiÄnei, oÈx ßterÒn ti ˆnta §st‹n ˜per §stiÄn. tå m¢n dØ mØ kayÉ Ípokeim°nou kayÉ aÍtå l°gv, tå d¢ kayÉ Ípokeim°nou sumbebhkÒta. ¶ti dÉ êllon trÒpon tÚ m¢n diÉ aÍtÚ Ípãrxon •kãstƒ kayÉ aÍtÒ, tÚ d¢ mØ diÉ aÍtÚ sumbebhkÒw, oÂon efi badiÄzontow ≥strace, sumbebhkÒw: oÈ går diå tÚ badiÄzein ≥stracen, éllå sun°bh, fam°n, toËto. efi d¢ diÉ aÍtÒ, kayÉ aÍtÒ, oÂon e‡ ti sfattÒmenon ép°yane, ka‹ katå tØn sfagÆn, ˜ti diå tÚ sfãttesyai, éllÉ oÈ sun°bh sfattÒmenon époyane›n. tå êra legÒmena §p‹ t«n èpl«w §pistht«n kayÉ aÍtå oÏtvw …w §nupãrxein to›w kathgoroum°noiw μ §nupãrxesyai diÉ aÍtã t° §sti ka‹ §j énãgkhw. oÈ går §nd°xetai mØ Ípãrxein μ èpl«w μ tå éntikeiÄmena, oÂon grammª tÚ eÈyÁ μ tÚ kampÊlon ka‹ ériym“ tÚ perittÚn μ tÚ êrtion. ¶sti går tÚ §nantiÄon μ st°rhsiw éntiÄfasiw §n t“ aÈt“ g°nei, oÂon êrtion tÚ mØ perittÚn §n ériymo›w √ ßpetai. ÀstÉ efi énãgkh fãnai μ épofãnai, énãgkh ka‹ tå kayÉ aÍtå Ípãrxein. TÚ m¢n oÔn katå pantÚw ka‹ kayÉ aÍtÚ divriÄsyv tÚn trÒpon toËton: kayÒlou d¢ l°gv ˘ ín katå pantÒw te Ípãrx˙ ka‹ kayÉ aÍtÚ ka‹ √ aÈtÒ. fanerÚn êra ˜ti ˜sa kayÒlou, §j énãgkhw Ípãrxei to›w prãgmasin. tÚ kayÉ

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Dico per sé quelle cose che convengono a qualcosa nel suo che cos’è, così come, per esempio, la linea conviene al triangolo e il punto alla linea (infatti la loro sostanza è costituita da queste cose, ed esse sono presenti nella formula che dice che cosa sono). Inoltre dico per sé quelle cose che convengono a quei soggetti che sono presenti nella formula esprimente che cosa quelle cose sono, cioè nel modo in cui, per esempio, retto e curvo convengono alla linea e dispari o pari, o primo e composto, o equilatero e oblungo convengono al numero; nella formula che dice che cos’è ognuno di questi nel primo caso è presente linea e negli altri numero. Similmente negli altri casi sono cose siffatte che dico convenire per sé ai rispettivi soggetti. Invece quelle cose che non convengono in nessuno di questi modi le chiamo accidenti, come per esempio musico o bianco rispetto ad animale. Inoltre dico per sé ciò che non si dice di un soggetto che sia altro: per esempio colui il quale cammina è camminante essendo qualcos’altro e così pure il bianco4; invece la sostanza, cioè quelle cose che significano questo qualcosa, sono quel che sono senza essere qualcos’altro. Dico allora per sé le cose che non si dicono di un soggetto e accidenti quelle che si dicono di un soggetto. Inoltre in un altro senso è per sé ciò che conviene a qualcosa in virtù di sé e accidente ciò che conviene non in virtù di sé; per esempio è un accidente se camminando è scoppiato un fulmine; infatti il fulmine non è scoppiato in virtù del camminare, ma siamo soliti dire che questo è capitato. Se invece conviene in virtù di sé, allora conviene per sé: per esempio se è morto essendo stato sgozzato, è morto proprio in seguito allo sgozzamento, perché è morto in virtù dell’essere stato sgozzato, e non è capitato che sia morto mentre lo stavano sgozzando. Quindi nell’ambito delle conoscenze scientifiche in senso proprio le cose che si dicono per sé o nel senso che sono presenti nella definizione delle cose di cui si predicano o nel senso che quelle sono presenti nella loro definizione, sono in virtù di sé e di necessità. Infatti non è possibile che tali cose non convengano ai loro soggetti o direttamente o come opposti, così come retto o curvo convengono alla linea e dispari o pari al numero. Infatti la contrarietà o la privazione sono, nello stesso genere, un’opposizione contraddittoria5: per esempio il non dispari nell’ambito dei numeri è pari, in quanto questo consegue a quello. Di conseguenza, se è necessario o affermare o negare, anche le cose per sé convengono necessariamente. Di ogni e per sé siano allora caratterizzati in questo modo. Dico universale ciò che conviene ad ogni ed inoltre per sé e in quanto tale. È manifesto dunque che quelle cose che sono universali convengono 15

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aÍtÚ d¢ ka‹ √ aÈtÚ taÈtÒn, oÂon kayÉ aÍtØn tª grammª Ípãrxei stigmØ ka‹ tÚ eÈyÊ (ka‹ går √ grammÆ), ka‹ t“ trig≈nƒ √ triÄgvnon dÊo ÙryaiÄ (ka‹ går kayÉ aÍtÚ tÚ triÄgvnon dÊo Ùrya›w ‡son). tÚ kayÒlou d¢ Ípãrxei tÒte, ˜tan §p‹ toË tuxÒntow ka‹ pr≈tou deiknÊhtai. oÂon tÚ dÊo Ùryåw ¶xein oÎte t“ sxÆmatiÄ §sti kayÒlou (kaiÄtoi ¶sti de›jai katå sxÆmatow ˜ti dÊo Ùryåw ¶xei, éllÉ oÈ toË tuxÒntow sxÆmatow, oÈd¢ xr∞tai t“ tuxÒnti sxÆmati deiknÊw: tÚ går tetrãgvnon sx∞ma m°n, oÈk ¶xei d¢ dÊo Ùrya›w ‡saw)^ tÚ dÉ fisoskel¢w ¶xei m¢n tÚ tuxÚn dÊo Ùrya›w ‡saw, éllÉ oÈ pr«ton, éllå tÚ triÄgvnon prÒteron. ˘ toiÄnun tÚ tuxÚn pr«ton deiÄknutai dÊo Ùryåw ¶xon μ ıtioËn êllo, toÊtƒ pr≈tƒ Ípãrxei kayÒlou, ka‹ ≤ épÒdeijiw kayÉ aÍtÚ toÊtou kayÒlou §stiÄ, t«n dÉ êllvn trÒpon tinå oÈ kayÉ aÍtÒ, oÈd¢ toË fisoskeloËw oÈk ¶sti kayÒlou éllÉ §p‹ pl°on.

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De› d¢ mØ lanyãnein ˜ti pollãkiw sumbaiÄnei diamar5 tãnein ka‹ mØ Ípãrxein tÚ deiknÊmenon pr«ton kayÒlou, √ doke› deiÄknusyai kayÒlou pr«ton. épat≈meya d¢ taÊthn tØn épãthn, ˜tan μ mhd¢n ¬ labe›n én≈teron parå tÚ kayÉ ßkaston [μ tå kayÉ ßkasta], μ ¬ m°n, éllÉ én≈numon ¬ §p‹ diafÒroiw e‡dei prãgmasin, μ tugxãn˙ ¯n …w §n m°rei ˜lon §fÉ ⁄ deiÄknutai: to›w går §n m°rei Ípãrjei m¢n ≤ épÒdeijiw, ka‹ ¶stai katå pantÒw, éllÉ ˜mvw oÈk ¶stai toÊtou pr≈tou kayÒlou ≤ épÒdeijiw. l°gv d¢ toÊtou pr≈tou, √ toËto, épÒdeijin, ˜tan ¬ pr≈tou kayÒlou. efi oÔn tiw deiÄjeien ˜ti afl Ùrya‹ oÈ sumpiÄptousi, dÒjeien ín toÊtou e‰nai ≤ épÒdeijiw diå tÚ §p‹ pas«n e‰nai t«n Ùry«n. oÈk ¶sti d°, e‡per mØ ˜ti …d‹ ‡sai giÄnetai toËto, éllÉ √ ıpvsoËn ‡sai. ka‹ efi triÄgvnon mØ ∑n êllo μ fisoskel°w, √ fisoskel¢w ín §dÒkei Ípãrxein. ka‹

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di necessità. Per sé e in quanto tale sono la stessa cosa: per esempio punto e retto convengono alla linea per sé (e infatti alla linea in quanto linea), e al triangolo in quanto triangolo l’avere gli angoli uguali a due retti (infatti il triangolo di per sé ha gli angoli uguali a due retti). L’universale conviene a qualcosa quando sia provato di qualunque e del primo. Per esempio avere gli angoli uguali a due retti non è universale per la figura geometrica (in effetti è possibile provare di una figura che ha gli angoli uguali a due retti, ma non di qualunque figura, né nel provare ciò uno si serve di qualunque figura; infatti il quadrangolo è una figura, ma non ha gli angoli uguali a due retti); d’altra parte qualunque triangolo isoscele ha gli angoli uguali a due retti, ma non è il primo; il triangolo li ha in precedenza. Quindi ciò di cui si è provato di qualunque e per primo che ha gli angoli uguali a due retti o qualunque altra cosa è ciò a cui per primo quella cosa conviene universalmente e la dimostrazione di questo è universale e per sé, mentre quella degli altri casi in un certo senso non è per sé; né è universale quella dell’isoscele, essendo relativa a qualcosa di più esteso.

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CAPITOLO 5 Non deve sfuggire che spesso succede di sbagliare e che ciò che è provato di qualcosa non gli conviene primariamente e universalmente, benché uno creda che sia provato primariamente e universalmente. Incorriamo in questo errore quando non sia possibile prendere nulla al di sopra del singolare, oppure quando sia possibile prenderlo, ma non abbia un nome rispetto alle cose che differiscono per specie, oppure quando capiti che ciò rispetto a cui si prova sia un tutto parziale. Infatti la dimostrazione sarà delle cose che sono in quella parte e sarà di ognuna di esse, ma nondimeno non sarà di questo primariamente e universalmente. Quando la dimostrazione sia di qualcosa primariamente e universalmente dico che è di questa cosa primariamente e in quanto tale. Allora, se uno provasse che gli angoli retti non si incontrano, potrebbe credere che la dimostrazione fosse di ciò per il fatto che essa vale per tutti gli angoli retti. Ma non è di ciò, se in realtà ciò si verifica non perché gli angoli sono uguali a due retti in questo modo, ma in quanto sono uguali a due retti in qualunque modo. Inoltre se non ci fosse nessun altro triangolo oltre all’isoscele, uno potrebbe credere che l’avere gli angoli uguali a due retti gli convenisse in quanto isoscele. Inoltre uno potrebbe credere che il fatto che ciò che è proporzio17

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tÚ énãlogon ˜ti ka‹ §nallãj, √ ériymo‹ ka‹ √ gramma‹ ka‹ √ stereå ka‹ √ xrÒnoi, Àsper §deiÄknutÒ pote xvriÄw, §ndexÒmenÒn ge katå pãntvn miò épodeiÄjei deixy∞nai: éllå diå tÚ mØ e‰nai »nomasm°non ti taËta pãnta ©n, ériymoiÄ mÆkh xrÒnoi stereã, ka‹ e‡dei diaf°rein éllÆlvn, xvr‹w §lambãneto. nËn d¢ kayÒlou deiÄknutai: oÈ går √ gramma‹ μ √ ériymo‹ Íp∞rxen, éllÉ √ todiÄ, ˘ kayÒlou ÍpotiÄyentai Ípãrxein. diå toËto oÈdÉ ên tiw deiÄj˙ kayÉ ßkaston tÚ triÄgvnon épodeiÄjei μ miò μ •t°r& ˜ti dÊo Ùryåw ¶xei ßkaston, tÚ fisÒpleuron xvr‹w ka‹ tÚ skalhn¢w ka‹ tÚ fisoskel°w, oÎpv o‰de tÚ triÄgvnon ˜ti dÊo Ùrya›w, efi mØ tÚn sofistikÚn trÒpon, oÈd¢ kayÒlou tr¤gvnon, oÈdÉ efi mhd¢n ¶sti parå taËta triÄgvnon ßteron. oÈ går √ triÄgvnon o‰den, oÈd¢ pçn triÄgvnon, éllÉ μ katÉ ériymÒn: katÉ e‰dow dÉ oÈ pçn, ka‹ efi mhd¢n ¶stin ˘ oÈk o‰den. PÒtÉ oÔn oÈk o‰de kayÒlou, ka‹ pÒtÉ o‰den èpl«w; d∞lon dØ ˜ti efi taÈtÚn ∑n trig≈nƒ e‰nai ka‹ fisopleÊrƒ μ •kãstƒ μ pçsin. efi d¢ mØ taÈtÚn éllÉ ßteron, Ípãrxei dÉ √ triÄgvnon, oÈk o‰den. pÒteron dÉ √ triÄgvnon μ √ fisoskel¢w Ípãrxei; ka‹ pÒte katå toËyÉ Ípãrxei pr«ton; ka‹ kayÒlou tiÄnow ≤ épÒdeijiw; d∞lon ˜ti ˜tan éfairoum°nvn Ípãrx˙ pr≈tƒ. oÂon t“ fisoskele› xalk“ trig≈nƒ Ípãrjousi dÊo ÙryaiÄ, éllå ka‹ toË xalkoËn e‰nai éfairey°ntow ka‹ toË fisoskel°w. éllÉ oÈ toË sxÆmatow μ p°ratow. éllÉ oÈ pr≈tvn. tiÄnow oÔn pr≈tou; efi dØ trig≈nou, katå toËto Ípãrxei ka‹ to›w êlloiw, ka‹ toÊtou kayÒlou §st‹n ≤ épÒdeijiw.

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Efi oÔn §stin ≤ épodeiktikØ §pistÆmh §j énagkaiÄvn érx«n (˘ går §piÄstatai, oÈ dunatÚn êllvw ¶xein), tå d¢ kayÉ aÍtå Ípãrxonta énagka›a to›w prãgmasin (tå m¢n går §n

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nale si alterna sia provato dei numeri in quanto numeri, delle linee in quanto linee, dei solidi in quanto solidi e dei periodi di tempo in quanto periodi di tempo, come un tempo si provava separatamente di ciascuno di questi casi. Invece è possibile provarlo di tutti con una sola dimostrazione; tuttavia siccome non ha nome ciò che tutte queste cose hanno in comune, numeri, lunghezze, periodi di tempo e solidi, e siccome esse differiscono tra loro per specie, esse venivano considerate separatamente. Oggigiorno invece l’alternanza viene provata universalmente. Infatti ciò che si suppone convenga universalmente non conviene alle linee in quanto linee, o ai numeri in quanto numeri, ma ad essi in quanto questa cosa qui. Per questo se uno provasse di ciascun triangolo con una o diverse dimostrazioni che ha gli angoli uguali a due retti, separatamente per l’equilatero, lo scaleno e l’isoscele, non saprebbe ancora che il triangolo ha gli angoli uguali a due retti, se non alla maniera sofistica, né che li ha il triangolo universalmente6, nemmeno se non c’è nessun altro triangolo oltre a questi. Egli infatti non sa che il triangolo in quanto triangolo ha gli angoli uguali a due retti, né che ogni triangolo li ha, se non numericamente; ma secondo la specie non sa che ogni triangolo li ha, anche se non vi è alcun triangolo del quale non sappia che li ha. Quando allora uno non sa universalmente e quando sa in senso proprio? È chiaro che egli saprebbe in senso proprio se fosse la stessa cosa l’essere del triangolo e l’essere dell’equilatero o l’essere di ciascuna di queste specie o l’essere di tutte. Se non è la stessa cosa, ma è diverso e qualcosa conviene all’equilatero in quanto triangolo, non sa. Conviene a qualcosa in quanto triangolo o in quanto isoscele? Ossia quando conviene in base a questo primo? E rispetto a che cosa la dimostrazione è universale? Chiaramente quando, tolte le specificazioni, convenga al primo. Per esempio al triangolo isoscele di bronzo conviene l’avere gli angoli uguali a due retti, ma gli conviene anche tolti il bronzo e l’isoscele, non però la figura e il limite; ma questi non sono primi. Allora che cosa è primo? Se davvero è il triangolo, in base ad esso l’avere gli angoli uguali a due retti conviene anche agli altri, e la dimostrazione è universale rispetto a questo.

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CAPITOLO 6 Se la conoscenza scientifica per dimostrazione procede da principi necessari (infatti ciò che uno conosce scientificamente non può essere altrimenti) e le cose che convengono per sé convengono necessaria-

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t“ tiÄ §stin Ípãrxei: to›w dÉ aÈtå §n t“ tiÄ §stin Ípãrxei kathgoroum°noiw aÈt«n, œn yãteron t«n éntikeim°nvn énãgkh Ípãrxein), fanerÚn ˜ti §k toioÊtvn tin«n ín e‡h ı épodeiktikÚw sullogismÒw: ëpan går μ oÏtvw Ípãrxei μ katå sumbebhkÒw, tå d¢ sumbebhkÒta oÈk énagka›a. áH dØ oÏtv lekt°on, μ érxØn yem°noiw ˜ti ≤ épÒdeijiw énagka›Òn §sti, ka‹ efi épod°deiktai, oÈx oÂÒn tÉ êllvw ¶xein: §j énagkaiÄvn êra de› e‰nai tÚn sullogismÒn. §j élhy«n m¢n går ¶sti ka‹ mØ épodeiknÊnta sullogiÄsasyai, §j énagkaiÄvn dÉ oÈk ¶stin éllÉ μ épodeiknÊnta: toËto går ≥dh épodeiÄje≈w §stin. shme›on dÉ ˜ti ≤ épÒdeijiw §j énagkaiÄvn, ˜ti ka‹ tåw §nstãseiw oÏtv f°romen prÚw toÁw ofiom°nouw épodeiknÊnai, ˜ti oÈk énãgkh, ín ofi≈meya μ ˜lvw §nd°xesyai êllvw μ ßnekã ge toË lÒgou. d∞lon dÉ §k toÊtvn ka‹ ˜ti eÈÆyeiw ofl lambãnein ofiÒmenoi kal«w tåw érxãw, §ån ¶ndojow ¬ ≤ prÒtasiw ka‹ élhyÆw, oÂon ofl sofista‹ ˜ti tÚ §piÄstasyai tÚ §pistÆmhn ¶xein. oÈ går tÚ ¶ndojon ≤m›n érxÆ §stin, éllå tÚ pr«ton toË g°nouw per‹ ˘ deiÄknutai: ka‹ télhy¢w oÈ pçn ofike›on. ˜ti dÉ §j énagkaiÄvn e‰nai de› tÚn sullogismÒn, fanerÚn ka‹ §k t«nde. efi går ı mØ ¶xvn lÒgon toË diå tiÄ oÎshw épodeiÄjevw oÈk §pistÆmvn, e‡h dÉ ín Àste tÚ A katå toË G §j énãgkhw Ípãrxein, tÚ d¢ B tÚ m°son, diÉ o épedeiÄxyh, mØ §j énãgkhw, oÈk o‰de diÒti. oÈ gãr §sti toËto diå tÚ m°son: tÚ m¢n går §nd°xetai mØ e‰nai, tÚ d¢ sump°rasma énagka›on. ¶ti e‡ tiw mØ o‰de nËn ¶xvn tÚn lÒgon ka‹ sƒzÒmenow, sƒzom°nou toË prãgmatow, mØ §pilelhsm°now, oÈd¢ prÒteron ædei. fyareiÄh dÉ ín tÚ m°son, efi mØ énagka›on, Àste ßjei m¢n tÚn lÒgon sƒzÒmenow sƒzom°nou toË prãgmatow, oÈk o‰de d°. oÈdÉ êra prÒteron ædei. efi d¢ mØ ¶fyartai, §nd°xetai d¢ fyar∞nai, tÚ sumba›non ín e‡h dunatÚn ka‹ §ndexÒmenon. éllÉ ¶stin édÊnaton oÏtvw ¶xonta efid°nai. ÜOtan m¢n oÔn tÚ sump°rasma §j énãgkhw ¬, oÈd¢n kvlÊei tÚ m°son mØ énagka›on e‰nai diÉ o §deiÄxyh (¶sti går tÚ énagka›on ka‹ mØ §j énagkaiÄvn sullogiÄsasyai, Àsper ka‹ élhy¢w mØ §j élhy«n): ˜tan d¢ tÚ m°son §j énãgkhw,

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mente agli oggetti (infatti le une convengono alle cose nel loro che cos’è; le altre sono tali che le cose di cui si predicano sono nel loro che cos’è e per queste ultime uno o l’altro degli opposti è necessario che convenga), è manifesto che il sillogismo dimostrativo deve procedere da principi di questo tipo. Infatti tutto o conviene in questo modo oppure accidentalmente e gli accidenti non sono necessari. O si deve dire così, oppure si deve porre come principio che la dimostrazione è necessaria7, ossia che se qualcosa è stato dimostrato, non può essere altrimenti. Dunque il sillogismo deve procedere da necessari. Infatti è possibile sillogizzare da veri senza dimostrare, mentre non è possibile sillogizzare da necessari senza dimostrare, giacché ciò è pienamente caratteristico della dimostrazione. Segno del fatto che la dimostrazione procede da necessari è che le obiezioni che solleviamo contro chi crede di dimostrare consistono nel dire che non è necessario, qualora crediamo o che effettivamente possa essere diversamente o per quanto concerne l’argomentazione. È chiaro da ciò anche che sono ingenui coloro i quali credono di assumere bene i principi, qualora la premessa sia basata sull’opinione comune e vera, come fanno i sofisti quando dicono che conoscere è possedere una conoscenza. Infatti per noi principio non è ciò che è basato sull’opinione comune, ma ciò che è primo nel genere rispetto al quale si prova, e non ogni vero è appropriato. Che il sillogismo debba procedere da necessari è manifesto anche da quanto segue. Se, essendoci una dimostrazione, chi non ha un’argomentazione del perché non ha conoscenza scientifica, allora, qualora ci sia una situazione tale per cui A convenga di necessità a C e il medio B, in virtù del quale si è dimostrato, non sia di necessità, egli non sa perché. Infatti la conclusione non è in virtù del medio, giacché questo può non essere, mentre la conclusione è necessaria. Inoltre uno, se ora non sa una cosa pur avendo un’argomentazione e continuando a sussistere lui e la cosa, senza che sia intervenuta una dimenticanza da parte sua, non sapeva nemmeno prima. Se il medio non è necessario, potrebbe essere venuto meno; di conseguenza egli darà conto della cosa e continuerà a sussistere lui e la cosa, ma non sa; dunque non sapeva nemmeno prima. Se il medio non è venuto meno, ma è possibile che venga meno, quel che segue è possibile e tale da potersi realizzare. Ma in tale situazione è impossibile sapere. Quando la conclusione è di necessità, nulla impedisce che il medio in virtù del quale la conclusione è stata provata non sia necessario (infatti è possibile sillogizzare il necessario anche da non necessari, così come è possibile sillogizzare il vero da non veri). Invece, quando il 21

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ka‹ tÚ sump°rasma §j énãgkhw, Àsper ka‹ §j élhy«n élhy¢w éeiÄ (¶stv går tÚ A katå toË B §j énãgkhw, ka‹ toËto katå toË G: énagka›on toiÄnun ka‹ tÚ A t“ G Ípãrxein): ˜tan d¢ mØ énagka›on ¬ tÚ sump°rasma, oÈd¢ tÚ m°son énagka›on oÂÒn tÉ e‰nai (¶stv går tÚ A t“ G mØ §j énãgkhw Ípãrxein, t“ d¢ B, ka‹ toËto t“ G §j énãgkhw: ka‹ tÚ A êra t“ G §j énãgkhw Ípãrjei: éllÉ oÈx Íp°keito). ÉEpe‹ toiÄnun efi §piÄstatai épodeiktik«w, de› §j énãgkhw Ípãrxein, d∞lon ˜ti ka‹ diå m°sou énagkaiÄou de› ¶xein tØn épÒdeijin: μ oÈk §pistÆsetai oÎte diÒti oÎte ˜ti énãgkh §ke›no e‰nai, éllÉ μ ofiÆsetai oÈk efid≈w, §ån Ípolãb˙ …w énagka›on tÚ mØ énagka›on, μ oÈdÉ ofiÆsetai, ımoiÄvw §ãn te tÚ ˜ti efidª diå m°svn §ãn te tÚ diÒti ka‹ diÉ ém°svn. T«n d¢ sumbebhkÒtvn mØ kayÉ aÍtã, ˘n trÒpon divriÄsyh tå kayÉ aÍtã, oÈk ¶stin §pistÆmh épodeiktikÆ. oÈ går ¶stin §j énãgkhw de›jai tÚ sump°rasma: tÚ sumbebhkÚw går §nd°xetai mØ Ípãrxein: per‹ toË toioÊtou går l°gv sumbebhkÒtow. kaiÄtoi éporÆseien ên tiw ‡svw tiÄnow ßneka taËta de› §rvtçn per‹ toÊtvn, efi mØ énãgkh tÚ sump°rasma e‰nai: oÈd¢n går diaf°rei e‡ tiw §rÒmenow tå tuxÒnta e‰ta e‡peien tÚ sump°rasma. de› dÉ §rvtçn oÈx …w énagka›on e‰nai diå tå ±rvthm°na, éllÉ ˜ti l°gein énãgkh t“ §ke›na l°gonti, ka‹ élhy«w l°gein, §ån élhy«w ¬ Ípãrxonta. ÉEpe‹ dÉ §j énãgkhw Ípãrxei per‹ ßkaston g°now ˜sa kayÉ aÍtå Ípãrxei ka‹ √ ßkaston, fanerÚn ˜ti per‹ t«n kayÉ aÍtå ÍparxÒntvn afl §pisthmonika‹ épodeiÄjeiw ka‹ §k t«n toioÊtvn efisiÄn. tå m¢n går sumbebhkÒta oÈk énagka›a, ÀstÉ oÈk énãgkh tÚ sump°rasma efid°nai diÒti Ípãrxei, oÈdÉ efi ée‹ e‡h, mØ kayÉ aÍtÚ d°, oÂon ofl diå shmeiÄvn sullogismoiÄ. tÚ går kayÉ aÍtÚ oÈ kayÉ aÍtÚ §pistÆsetai, oÈd¢ diÒti (tÚ d¢ diÒti §piÄstasyaiÄ §sti tÚ diå toË afitiÄou §piÄstasyai). diÉ aÍtÚ êra de› ka‹ tÚ m°son t“ triÄtƒ ka‹ tÚ pr«ton t“ m°sƒ Ípãrxein.

7 OÈk êra ¶stin §j êllou g°nouw metabãnta de›jai, oÂon tÚ gevmetrikÚn ériymhtikª. triÄa gãr §sti tå §n ta›w épo-

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medio sia di necessità, anche la conclusione è di necessità, così come da veri segue sempre un vero (infatti sia A di necessità rispetto a B e questo rispetto a C; quindi è necessario anche che A convenga a C). Invece quando la conclusione non sia necessaria, il medio non può essere necessario (infatti sia che A non conviene a C di necessità, mentre A convenga a B e questo a C di necessità; dunque anche A converrà di necessità a C; ma non era stato posto così). Poiché dunque, se si conosce dimostrativamente, bisogna che la conclusione sia di necessità, è chiaro che bisogna avere una dimostrazione in virtù di un medio necessario, altrimenti non si conoscerà scientificamente né perché né che la conclusione è necessaria, ma o lo si crederà senza saperlo, qualora si supponga necessario ciò che non è necessario, oppure non lo si crederà nemmeno, sia che si conosca in forza di medi il che sia che si conosca il perché e in forza di immediati. Degli accidenti non per sé, nel senso in cui sono stati definiti i per sé, non c’è conoscenza scientifica per dimostrazione. Infatti non è possibile provare che la conclusione è di necessità. Infatti l’accidente può non convenire: parlo infatti di un siffatto accidente. Tuttavia uno potrebbe forse sollevare la difficoltà del motivo per cui bisogna domandare all’avversario di concedere accidenti di queste cose, se non è necessario che la conclusione sia. Infatti non fa nessuna differenza se uno, dopo aver chiesto quel che capita, pronunciasse la conclusione. In realtà bisogna domandare non perché la conclusione sia necessaria in virtù delle cose domandate, ma perché è necessario asserire questo per chi asserisce quelle ed asserirlo con verità, qualora quelle siano vere. Poiché in ciascun genere convengono di necessità quelle cose che convengono al soggetto per sé e in quanto tale, è manifesto che le dimostrazioni scientifiche riguardano le cose che convengono per sé e procedono da cose siffatte. Infatti gli accidenti non sono necessari, cosicché non è necessario sapere perché la conclusione è, nemmeno se fossero sempre, ma non per sé, come accade per i sillogismi procedenti mediante segni. Infatti non si conoscerebbe scientificamente per sé ciò che è per sé, né si conoscerebbe perché (conoscere perché è conoscere in forza della ragione). Quindi è in virtù di sé che il medio deve convenire al terzo termine e il primo termine al medio.

CAPITOLO 7 Non è dunque possibile provare trasferendo da un altro genere, come per esempio provare qualcosa di geometrico con l’aritmetica. Vi

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deiÄjesin, ©n m¢n tÚ épodeiknÊmenon, tÚ sump°rasma (toËto dÉ §st‹ tÚ Ípãrxon g°nei tin‹ kayÉ aÍtÒ), ©n d¢ tå §ji≈mata (éji≈mata dÉ §st‹n §j œn): triÄton tÚ g°now tÚ ÍpokeiÄmenon, o tå pãyh ka‹ tå kayÉ aÍtå sumbebhkÒta dhlo› ≤ épÒdeijiw. §j œn m¢n oÔn ≤ épÒdeijiw, §nd°xetai tå aÈtå e‰nai: œn d¢ tÚ g°now ßteron, Àsper ériymhtik∞w ka‹ gevmetriÄaw, oÈk ¶sti tØn ériymhtikØn épÒdeijin §farmÒsai §p‹ tå to›w meg°yesi sumbebhkÒta, efi mØ tå meg°yh ériymoiÄ efisi: toËto dÉ …w §nd°xetai §piÄ tinvn, Ïsteron lexyÆsetai. ≤ dÉ ériymhtikØ épÒdeijiw ée‹ ¶xei tÚ g°now per‹ ˘ ≤ épÒdeijiw, ka‹ afl êllai ımoiÄvw. ÀstÉ μ èpl«w énãgkh tÚ aÈtÚ e‰nai g°now μ pª, efi m°llei ≤ épÒdeijiw metabaiÄnein. êllvw dÉ ˜ti édÊnaton, d∞lon: §k går toË aÈtoË g°nouw énãgkh tå êkra ka‹ tå m°sa e‰nai. efi går mØ kayÉ aÍtã, sumbebhkÒta ¶stai. diå toËto tª gevmetriÄ& oÈk ¶sti de›jai ˜ti t«n §nantiÄvn miÄa §pistÆmh, éllÉ oÈdÉ ˜ti ofl dÊo kÊboi kÊbow: oÈdÉ êll˙ §pistÆm˙ tÚ •t°raw, éllÉ μ ˜sa oÏtvw ¶xei prÚw êllhla ÀstÉ e‰nai yãteron ÍpÚ yãteron, oÂon tå Ùptikå prÚw gevmetriÄan ka‹ tå èrmonikå prÚw ériymhtikÆn. oÈdÉ e‡ ti Ípãrxei ta›w gramma›w mØ √ gramma‹ ka‹ √ §k t«n érx«n t«n fidiÄvn, oÂon efi kalliÄsth t«n gramm«n ≤ eÈye›a μ efi §nantiÄvw ¶xei tª perifere›: oÈ går √ tÚ ‡dion g°now aÈt«n, Ípãrxei, éllÉ √ koinÒn ti.

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FanerÚn d¢ ka‹ §ån Œsin afl protãseiw kayÒlou §j œn ı sullogismÒw, ˜ti énãgkh ka‹ tÚ sump°rasma é˝dion e‰nai t∞w toiaÊthw épodeiÄjevw ka‹ t∞w èpl«w efipe›n épodeiÄjevw. oÈk ¶stin êra épÒdeijiw t«n fyart«n oÈdÉ §pistÆmh èpl«w, éllÉ oÏtvw Àsper katå sumbebhkÒw, ˜ti oÈ kayÒlou aÈtoË §stin éllå pot¢ ka‹ p≈w. ˜tan dÉ ¬, énãgkh tØn •t°ran mØ kayÒlou e‰nai prÒtasin ka‹ fyartÆn^fyartØn m¢n ˜ti ¶stai ka‹ tÚ sump°rasma oÎshw, mØ kayÒlou d¢

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sono infatti tre cose nelle dimostrazioni: una è ciò che viene dimostrato, la conclusione (ossia ciò che conviene per sé ad un qualche genere); un’altra sono gli assiomi (gli assiomi sono le cose da cui la dimostrazione procede); la terza cosa è il genere soggiacente, di cui la dimostrazione rivela le affezioni e gli accidenti per sé. Le cose da cui la dimostrazione procede possono essere le stesse; ma per quelle discipline il cui genere è diverso, come l’aritmetica e la geometria, non è possibile adattare la dimostrazione aritmetica agli accidenti delle grandezze, se le grandezze non sono numeri. Come ciò in alcuni casi sia tuttavia possibile sarà detto in seguito. La dimostrazione aritmetica ha sempre un genere sul quale la dimostrazione verte e lo stesso vale per le altre dimostrazioni. Di conseguenza è necessario che il genere sia lo stesso o in assoluto o in qualche modo, se la dimostrazione può essere trasferita. Che altrimenti sia impossibile è chiaro. Infatti è necessario che gli estremi e i medi siano dello stesso genere, giacché se non sono per sé sono accidenti. Perciò non spetta alla geometria provare che è unica la conoscenza dei contrari, come anche che due cubi fanno un cubo. Né spetta ad una scienza provare quel che è di competenza di un’altra, a meno che queste cose non si trovino in un rapporto tale da essere una sotto l’altra, come per esempio le cose di ottica rispetto alla geometria e quelle di armonica rispetto all’aritmetica. Né spetta alla geometria provare se qualcosa conviene alle linee non in quanto linee e in dipendenza dai principi propri, come per esempio se la linea retta sia la linea più bella o se sia contraria a quella curva; infatti queste cose convengono alle linee non con riferimento al genere proprio di esse, ma con riferimento a qualcosa di comune.

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CAPITOLO 8 È anche manifesto che, qualora le premesse da cui procede il sillogismo siano universali, è necessario che anche la conclusione di siffatta dimostrazione, ossia della dimostrazione in senso proprio, sia eterna. Non c’è quindi dimostrazione o conoscenza scientifica in senso proprio delle cose corruttibili, se non accidentalmente, perché non c’è nulla che sia universalmente di esse8, ma solo in un certo tempo e in un certo senso. Quando vi sia una tale dimostrazione è necessario che una delle due premesse sia non universale e sia corruttibile (corruttibile perché quando essa è anche la conclusione è e non universale per-

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˜ti t“ m¢n ¶stai t“ dÉ oÈk ¶stai §fÉ œn^ÀstÉ oÈk ¶sti sullogiÄsasyai kayÒlou, éllÉ ˜ti nËn. ımoiÄvw dÉ ¶xei ka‹ per‹ ırismoÊw, §peiÄper §st‹n ı ırismÚw μ érxØ épodeiÄjevw μ épÒdeijiw y°sei diaf°rousa μ sump°rasmã ti épodeiÄjevw. afl d¢ t«n pollãkiw ginom°nvn épodeiÄjeiw ka‹ §pist∞mai, oÂon selÆnhw §kleiÄcevw, d∞lon ˜ti √ m¢n toioËdÉ efisiÄn, ée‹ efisiÄn, √ dÉ oÈk éeiÄ, katå m°row efisiÄn. Àsper dÉ ≤ ¶kleiciw, …saÊtvw to›w êlloiw.

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ÉEpe‹ d¢ fanerÚn ˜ti ßkaston épode›jai oÈk ¶stin éllÉ μ §k t«n •kãstou érx«n, ín tÚ deiknÊmenon Ípãrx˙ √ §ke›no, oÈk ¶sti tÚ §piÄstasyai toËto, ín §j élhy«n ka‹ énapodeiÄktvn deixyª ka‹ ém°svn. ¶sti går oÏtv de›jai, Àsper BrÊsvn tÚn tetragvnismÒn. katå koinÒn te går deiknÊousin ofl toioËtoi lÒgoi, ˘ ka‹ •t°rƒ Ípãrjei: diÚ ka‹ §pÉ êllvn §farmÒttousin ofl lÒgoi oÈ suggen«n. oÈkoËn oÈx √ §ke›no §piÄstatai, éllå katå sumbebhkÒw: oÈ går ín §fÆrmotten ≤ épÒdeijiw ka‹ §pÉ êllo g°now. ÜEkaston dÉ §pistãmeya mØ katå sumbebhkÒw, ˜tan katÉ §ke›no gin≈skvmen kayÉ ˘ Ípãrxei, §k t«n érx«n t«n §keiÄnou √ §ke›no, oÂon tÚ dus‹n Ùrya›w ‡saw ¶xein, ⁄ Ípãrxei kayÉ aÍtÚ tÚ efirhm°non, §k t«n érx«n t«n toÊtou. ÀstÉ efi kayÉ aÍtÚ kéke›no Ípãrxei ⁄ Ípãrxei, énãgkh tÚ m°son §n tª aÈtª suggeneiÄ& e‰nai. efi d¢ mÆ, éllÉ …w tå èrmonikå diÉ ériymhtik∞w. tå d¢ toiaËta deiÄknutai m¢n …saÊtvw, diaf°rei d°: tÚ m¢n går ˜ti •t°raw §pistÆmhw (tÚ går ÍpokeiÄmenon g°now ßteron), tÚ d¢ diÒti t∞w ênv, ∏w kayÉ aÍtå tå pãyh §stiÄn. Àste ka‹ §k toÊtvn fanerÚn ˜ti oÈk ¶stin épode›jai ßkaston èpl«w éllÉ μ §k t«n •kãstou érx«n. éllå toÊtvn afl érxa‹ ¶xousi tÚ koinÒn. Efi d¢ fanerÚn toËto, fanerÚn ka‹ ˜ti oÈk ¶sti tåw •kãstou fidiÄaw érxåw épode›jai: ¶sontai går §ke›nai èpãntvn

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ché per alcuni dei suoi subordinati sarà e per altri no); di conseguenza non è possibile sillogizzare che qualcosa vale universalmente, ma solo che vale ora. Lo stesso vale anche per le definizioni, se è vero che la definizione o è principio della dimostrazione oppure una dimostrazione che differisce dalla dimostrazione vera e propria per la posizione dei termini, oppure una sorta di conclusione di una dimostrazione. È chiaro che le dimostrazioni e le conoscenze scientifiche delle cose che avvengono spesso, come per esempio l’eclissi di luna, per quel tanto che sono del tal genere di cosa, sono sempre, e sono particolari per quel tanto che non sono eterne. Come per l’eclissi così per le altre cose.

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CAPITOLO 9 Poiché è manifesto che non è possibile dimostrare qualunque cosa se non a partire dai suoi principi, qualora ciò che viene provato della cosa convenga ad essa in quanto tale, conoscere scientificamente non è questo, cioè provare procedendo da veri, indimostrabili e immediati. Altrimenti sarebbe possibile provare così come fece Brisone per la quadratura. Infatti siffatte argomentazioni provano in base a qualcosa di comune che può convenire anche ad altro; perciò queste argomentazioni si adattano anche ad altre cose non congeneri. Quindi non si conosce scientificamente una cosa in quanto tale, ma accidentalmente, altrimenti la dimostrazione non si adatterebbe anche ad un altro genere. Conosciamo scientificamente una cosa non accidentalmente quando la conosciamo in base a ciò in base a cui conviene, a partire dai principi di quella cosa in quanto tale; per esempio conosciamo scientificamente l’avere gli angoli uguali a due retti quando conosciamo ciò a cui il suddetto predicato conviene per sé, a partire dai principi di questo. Di conseguenza se anche quello conviene per sé a ciò a cui conviene è necessario che il termine medio sia nello stesso genere. Altrimenti si è nella situazione delle cose di armonica provate attraverso l’aritmetica. Le cose siffatte sono provate ugualmente, ma con una differenza: provare che spetta alla scienza subordinata (infatti il genere soggiacente è diverso), mentre provare perché spetta a quella superiore, rispetto alla quale le affezioni sono per sé. Di conseguenza anche da questi casi è manifesto che non è possibile dimostrare qualcosa in senso proprio se non dai principi della cosa. Ma i principi di queste cose hanno qualcosa in comune. Se ciò è manifesto, è manifesto anche che non è possibile dimostrare i principi propri di una qualunque cosa. Infatti quei principi sa27

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érxaiÄ, ka‹ §pistÆmh ≤ §keiÄnvn kuriÄa pãntvn. ka‹ går §piÄstatai mçllon ı §k t«n én≈teron afitiÄvn efid≈w: §k t«n prot°rvn går o‰den, ˜tan §k mØ afitiat«n efidª afitiÄvn. ÀstÉ efi mçllon o‰de ka‹ mãlista, kín §pistÆmh §keiÄnh e‡h ka‹ mçllon ka‹ mãlista. ≤ dÉ épÒdeijiw oÈk §farmÒttei §pÉ êllo g°now, éllÉ μ …w e‡rhtai afl gevmetrika‹ §p‹ tåw mhxanikåw μ Ùptikåw ka‹ afl ériymhtika‹ §p‹ tåw èrmonikãw. XalepÚn dÉ §st‹ tÚ gn«nai efi o‰den μ mÆ. xalepÚn går tÚ gn«nai efi §k t«n •kãstou érx«n ‡smen μ mÆ: ˜per §st‹ tÚ efid°nai. ofiÒmeya dÉ, ín ¶xvmen §j élhyin«n tin«n sullogismÚn ka‹ pr≈tvn, §piÄstasyai. tÚ dÉ oÈk ¶stin, éllå suggen∞ de› e‰nai [to›w pr≈toiw].

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L°gv dÉ érxåw §n •kãstƒ g°nei taÊtaw ìw ˜ti ¶sti mØ §nd°xetai de›jai. tiÄ m¢n oÔn shmaiÄnei ka‹ tå pr«ta ka‹ tå §k toÊtvn, lambãnetai, ˜ti dÉ ¶sti, tåw m¢n érxåw énãgkh lambãnein, tå dÉ êlla deiknÊnai: oÂon tiÄ monåw μ tiÄ tÚ eÈyÁ ka‹ triÄgvnon, e‰nai d¢ tØn monãda labe›n ka‹ m°geyow, tå dÉ ßtera deiknÊnai. ÖEsti dÉ œn xr«ntai §n ta›w épodeiktika›w §pistÆmaiw tå m¢n ‡dia •kãsthw §pistÆmhw tå d¢ koinã, koinå d¢ katÉ énalogiÄan, §pe‹ xrÆsimÒn ge ˜son §n t“ ÍpÚ tØn §pistÆmhn g°nei: ‡dia m¢n oÂon grammØn e‰nai toiand‹ ka‹ tÚ eÈyÊ, koinå d¢ oÂon tÚ ‡sa épÚ ‡svn ín éf°l˙, ˜ti ‡sa tå loipã. flkanÚn dÉ ßkaston toÊtvn ˜son §n t“ g°nei: taÈtÚ går poiÆsei, kín mØ katå pãntvn lãb˙ éllÉ §p‹ megey«n mÒnon, t“ dÉ ériymhtik“ §pÉ ériym«n. ÖEsti dÉ ‡dia m¢n ka‹ ì lambãnetai e‰nai, per‹ ì ≤ §pistÆmh yevre› tå Ípãrxonta kayÉ aÍtã, oÂon monãdaw ≤ ériymhtikÆ, ≤ d¢ gevmetriÄa shme›a ka‹ grammãw. taËta går lambãnousi tÚ e‰nai ka‹ tod‹ e‰nai. tå d¢ toÊtvn pãyh kayÉ aÍtã, tiÄ m¢n shmaiÄnei ßkaston, lambãnousin, oÂon ≤ m¢n ériymhtikØ tiÄ perittÚn μ êrtion μ tetrãgvnon μ kÊbow,

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rebbero principi di tutte le cose e la conoscenza di essi sarebbe la conoscenza sovrana di tutte. In effetti conosce scientificamente in grado maggiore chi sa a partire da ragioni più elevate. Infatti egli sa a partire da cose anteriori quando sa a partire da ragioni che non hanno a loro volta ragioni. Di conseguenza se egli sa in un grado maggiore o anche al grado massimo, la sua conoscenza è in grado maggiore o addirittura al grado massimo conoscenza scientifica. Ma la dimostrazione non si adatta ad un altro genere se non come si è detto che si adattano le dimostrazioni geometriche a quelle meccaniche o a quelle ottiche e quelle aritmetiche a quelle armoniche. È difficile rendersi conto se si sa oppure no. Infatti è difficile rendersi conto se sappiamo una qualunque cosa a partire dai suoi principi oppure no: in ciò consiste il sapere. Se abbiamo un sillogismo a partire da veri e primi crediamo di avere conoscenza scientifica. In realtà non è così, ma bisogna che siano congeneri9.

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CAPITOLO 10 In ciascun genere dico principi quelle cose delle quali è impossibile provare che sono. Allora che cosa significhino le cose prime e quelle che procedono da esse viene assunto, mentre che sono, per i principi è necessario assumerlo e per le altre cose provarlo: per esempio si assume che cosa significa unità o che cosa significa retto e triangolo, ma mentre bisogna assumere che l’unità e la grandezza sono, per le altre cose bisogna provarlo. Delle cose di cui ci si serve nelle scienze dimostrative alcune sono proprie di ciascuna scienza e altre sono comuni, e comuni secondo proporzionalità, perché di esse è utile solo quanto è contenuto nel genere che sta sotto alla scienza. Sono proprie per esempio che la linea è siffatta o che il retto è siffatto, mentre sono comuni per esempio che togliendo uguali da uguali restano uguali. Di ciascuna di queste cose è sufficiente quanto è contenuto nel genere; infatti essa renderà lo stesso servizio se è assunta valere non di tutto, ma delle grandezze soltanto (o, per lo studioso di aritmetica, dei numeri). Sono anche proprie quelle cose delle quali si assume che sono e delle quali la scienza considera le cose che convengono per sé, come per esempio le unità per l’aritmetica e i punti e le linee per la geometria. Infatti di esse assumono che sono e che sono tali. Invece delle loro affezioni per sé assumono che cosa ciascuna di esse significhi (per esempio l’aritmetica assume che cosa significhi dispari o pari o qua-

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≤ d¢ gevmetriÄa tiÄ tÚ êlogon μ tÚ keklãsyai μ neÊein, ˜ti dÉ ¶sti, deiknÊousi diã te t«n koin«n ka‹ §k t«n épodedeigm°nvn. ka‹ ≤ éstrologiÄa …saÊtvw. pçsa går épodeiktikØ §pistÆmh per‹ triÄa §stiÄn, ˜sa te e‰nai tiÄyetai (taËta dÉ §st‹ tÚ g°now, o t«n kayÉ aÍtå payhmãtvn §st‹ yevrhtikÆ), ka‹ tå koinå legÒmena éji≈mata, §j œn pr≈tvn épodeiÄknusi, ka‹ triÄton tå pãyh, œn tiÄ shmaiÄnei ßkaston lambãnei. §niÄaw m°ntoi §pistÆmaw oÈd¢n kvlÊei ¶nia toÊtvn parorçn, oÂon tÚ g°now mØ ÍpotiÄyesyai e‰nai, ín ¬ fanerÚn ˜ti ¶stin (oÈ går ımoiÄvw d∞lon ˜ti ériymÚw ¶sti ka‹ ˜ti cuxrÚn ka‹ yermÒn), ka‹ tå pãyh mØ lambãnein tiÄ shmaiÄnei, ín ¬ d∞la: Àsper oÈd¢ tå koinå oÈ lambãnei tiÄ shmaiÄnei tÚ ‡sa épÚ ‡svn éfele›n, ˜ti gn≈rimon. éllÉ oÈd¢n ∏tton tª ge fÊsei triÄa taËtã §sti, per‹ ˜ te deiÄknusi ka‹ ì deiÄknusi ka‹ §j œn. OÈk ¶sti dÉ ÍpÒyesiw oÈdÉ a‡thma, ˘ énãgkh e‰nai diÉ aÍtÚ ka‹ doke›n énãgkh. oÈ går prÚw tÚn ¶jv lÒgon ≤ épÒdeijiw, éllå prÚw tÚn §n tª cuxª, §pe‹ oÈd¢ sullogismÒw. ée‹ går ¶stin §nst∞nai prÚw tÚn ¶jv lÒgon, éllå prÚw tÚn ¶sv lÒgon oÈk éeiÄ. ˜sa m¢n oÔn deiktå ˆnta lambãnei aÈtÚw mØ deiÄjaw, taËtÉ, §ån m¢n dokoËnta lambãn˙ t“ manyãnonti, ÍpotiÄyetai, ka‹ ¶stin oÈx èpl«w ÍpÒyesiw éllå prÚw §ke›non mÒnon, ín d¢ μ mhdemiçw §noÊshw dÒjhw μ ka‹ §nantiÄaw §noÊshw lambãn˙ tÚ aÈtÒ, afite›tai. ka‹ toÊtƒ diaf°rei ÍpÒyesiw ka‹ a‡thma: ¶sti går a‡thma tÚ ÍpenantiÄon toË manyãnontow tª dÒj˙, μ ˘ ên tiw épodeiktÚn ¯n lambãn˙ ka‹ xr∞tai mØ deiÄjaw. Ofl m¢n oÔn ˜roi oÈk efis‹n Ípoy°seiw (oÈd¢n går e‰nai μ mØ l°gontai), éllÉ §n ta›w protãsesin afl Ípoy°seiw, toÁw dÉ ˜rouw mÒnon juniÄesyai de›: toËto dÉ oÈx ÍpÒyesiw (efi mØ ka‹ tÚ ékoÊein ÍpÒyesiÄn tiw e‰nai fÆsei), éllÉ ˜svn ˆntvn t“ §ke›na e‰nai giÄnetai tÚ sump°rasma. (oÈdÉ ı gevm°trhw ceud∞ ÍpotiÄyetai, Àsper tin¢w ¶fasan, l°gontew …w oÈ de› t“ ceÊdei xr∞syai, tÚn d¢ gevm°trhn ceÊdesyai l°gonta podiaiÄan tØn oÈ podiaiÄan μ eÈye›an tØn gegramm°nhn oÈk eÈye›an

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drato o cubico e la geometria che cosa significhi irrazionale o essere spezzato o essere convergente), mentre provano che sono grazie alle cose comuni e a partire da ciò che è già stato dimostrato. Lo stesso vale per l’astronomia. Infatti ogni scienza dimostrativa ha a che fare con tre cose, ossia con quelle cose che sono poste essere (ed esse sono il genere del quale la scienza considera le affezioni per sé), con quelli che sono chiamati assiomi comuni, le cose prime a partire dalle quali si dimostra, e in terzo luogo con le affezioni, di ciascuna delle quali la scienza assume che cosa significhi. Tuttavia nulla impedisce che alcune scienze trascurino alcune di queste cose, come per esempio di presupporre che il genere sia, qualora sia manifesto che è (non è infatti chiaro allo stesso modo che il numero è e che il freddo e il caldo sono) o di assumere che cosa significano le affezioni, qualora siano chiare; così come a proposito delle cose comuni non si assume che cosa significa togliere da uguali uguali, perché è noto. Nondimeno queste cose per natura sono proprio tre: ciò rispetto al quale si prova, le cose che si provano e quelle a partire dalle quali si prova. Ciò che è necessario che sia in virtù di sé e che è necessario ritenere che sia non è né una presupposizione né una pretesa. Infatti la dimostrazione non è diretta al discorso esterno, ma a quello che è nell’anima, dato che anche il sillogismo non lo è. Infatti è sempre possibile obiettare contro il discorso esterno, mentre non lo è sempre contro il discorso interno. Allora quelle cose che, pur essendo provabili, il maestro assume senza provarle sono presupposte qualora assuma cose credute dal discente, e si tratta di una presupposizione non in assoluto ma relativa al discente soltanto, mentre sono pretese qualora il maestro le assuma senza che nel discente sia presente un’opinione su di esse, o addirittura sia presente l’opinione contraria. Proprio in ciò differiscono la presupposizione e la pretesa. Infatti è una pretesa il contrario dell’opinione del discente, oppure ciò che, pur essendo dimostrabile, il maestro assuma ed usi senza provarlo. I termini non sono presupposizioni, giacché essi non sono detti essere o non essere alcunché10; le presupposizioni invece sono da annoverare fra le proposizioni, mentre i termini bisogna solo comprenderli; ma ciò non è una presupposizione (a meno che uno non dica che anche udire qualcosa è una sorta di presupposizione); le presupposizioni invece sono di quelle cose essendo le quali si genera la conclusione per il fatto che esse sono. Lo studioso di geometria non pone presupposizioni false, come sostenevano alcuni, dicendo che non bisogna servirsi del falso e che tuttavia lo studioso di geometria dice il falso quando dice che la linea che ha tracciato è lunga un piede o che è retta senza che 31

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oÔsan. ı d¢ gevm°trhw oÈd¢n sumperaiÄnetai t“ tÆnde e‰nai grammØn ∂n aÈtÚw ¶fyegktai, éllå tå diå toÊtvn dhloÊmena.) ¶ti tÚ a‡thma ka‹ ÍpÒyesiw pçsa μ …w ˜lon μ …w §n m°rei, ofl dÉ ˜roi oÈd°teron toÊtvn.

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E‡dh m¢n oÔn e‰nai μ ßn ti parå tå pollå oÈk énãgkh, efi épÒdeijiw ¶stai, e‰nai m°ntoi ©n katå poll«n élhy¢w efipe›n énãgkh: oÈ går ¶stai tÚ kayÒlou, ín mØ toËto ¬: §ån d¢ tÚ kayÒlou mØ ¬, tÚ m°son oÈk ¶stai, ÀstÉ oÈdÉ épÒdeijiw. de› êra ti ©n ka‹ tÚ aÈtÚ §p‹ pleiÒnvn e‰nai mØ ım≈numon. tÚ d¢ mØ §nd°xesyai ëma fãnai ka‹ épofãnai oÈdemiÄa lambãnei épÒdeijiw, éllÉ μ §ån d°˙ de›jai ka‹ tÚ sump°rasma oÏtvw. deiÄknutai d¢ laboËsi tÚ pr«ton katå toË m°sou, ˜ti élhy°w, épofãnai dÉ oÈk élhy°w. tÚ d¢ m°son oÈd¢n diaf°rei e‰nai ka‹ mØ e‰nai labe›n, …w dÉ aÎtvw ka‹ tÚ triÄton. efi går §dÒyh, kayÉ o ênyrvpon élhy¢w efipe›n, efi ka‹ mØ ênyrvpon élhy°w, éllÉ efi mÒnon ênyrvpon z“on e‰nai, mØ z“on d¢ mÆ, ¶stai [går] élhy¢w efipe›n KalliÄan, efi ka‹ mØ KalliÄan, ˜mvw z“on, mØ z“on dÉ oÎ. a‡tion dÉ ˜ti tÚ pr«ton oÈ mÒnon katå toË m°sou l°getai éllå ka‹ katÉ êllou diå tÚ e‰nai §p‹ pleiÒnvn, ÀstÉ oÈdÉ efi tÚ m°son ka‹ aÈtÒ §sti ka‹ mØ aÈtÒ, prÚw tÚ sump°rasma oÈd¢n diaf°rei. tÚ dÉ ëpan fãnai μ épofãnai ≤ efiw tÚ édÊnaton épÒdeijiw lambãnei, ka‹ taËta oÈdÉ ée‹ kayÒlou, éllÉ ˜son flkanÒn, flkanÚn dÉ §p‹ toË g°nouw. l°gv dÉ §p‹ toË g°nouw oÂon per‹ ˘ g°now tåw épodeiÄjeiw f°rei, Àsper e‡rhtai ka‹ prÒteron. ÉEpikoinvnoËsi d¢ pçsai afl §pist∞mai éllÆlaiw katå tå koinã (koinå d¢ l°gv oÂw xr«ntai …w §k toÊtvn épodeiknÊntew, éllÉ oÈ per‹ œn deiknÊousin oÈdÉ ˘ deiknÊousin), ka‹ ≤ dialektikØ pãsaiw, ka‹ e‡ tiw kayÒlou peir“to deiknÊnai tå koinã, oÂon ˜ti ëpan fãnai μ épofãnai, μ ˜ti ‡sa épÚ ‡svn, μ t«n toioÊtvn êtta. ≤ d¢ dialektikØ oÈk ¶stin oÏtvw …rism°nvn tin«n, oÈd¢ g°nouw tinÚw •nÒw. oÈ går ín ±r≈ta:

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sia lunga un piede o retta. Lo studioso di geometria non conclude alcunché dal fatto che è questa la linea che ha dichiarato, ma conclude in base alle cose che sono manifestate da queste. Inoltre ogni pretesa e presupposizione sono o come un tutto o come parte, mentre i termini non sono né l’uno né l’altro.

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CAPITOLO 11 Perché ci sia la dimostrazione non è necessario che ci siano le forme, ossia una cosa al di fuori dei molti, ma è necessario che sia vero dire che c’è una cosa che si dice dei molti. Infatti non ci sarebbe l’universale se non ci fosse questo; qualora non ci fosse l’universale, non ci sarebbe il medio e di conseguenza nemmeno la dimostrazione. Dunque bisogna che ci sia qualcosa di uno e medesimo rispetto ai molti, non omonimo. Nessuna dimostrazione assume che non si può insieme affermare e negare, a meno che essa non debba provare che anche la conclusione è così. La si prova così assumendo che è vero affermare il primo termine del medio e che non è vero negarlo. Non fa alcuna differenza assumere che il medio sia e non sia e così pure il terzo termine. Infatti se è stato dato ciò di cui è vero dire che è un uomo, anche se di esso è vero dire che non è uomo, allora se solo è vero che l’uomo è animale e non non animale, sarà vero dire che Callia è non di meno animale, anche se ciò che non è Callia lo è, e non sarà vero che Callia non è animale. La ragione di ciò è che il primo termine, per il fatto di essere rispetto a più cose, si dice non solo del medio, ma anche di altro; di conseguenza non fa alcuna differenza per la conclusione se il medio è quello stesso e non è quello stesso. Che ogni cosa o la si afferma o la si nega lo assume la dimostrazione che conduce all’impossibile e queste cose non le assume sempre universalmente, ma per quanto basta, e basta quanto è relativo al genere. Dico relativo al genere, quel genere rispetto al quale uno produce le dimostrazioni, come si è detto anche prima11. Tutte le scienze comunicano fra loro per le cose comuni (chiamo comuni le cose di cui si servono per dimostrare a partire da esse, e non quelle circa cui provano, né ciò che provano) e la dialettica comunica con tutte le scienze così come comunicherebbe con esse quella scienza che eventualmente cercasse di provare in generale le cose comuni, come per esempio che ogni cosa la si afferma o la si nega o che togliendo da uguali uguali restano uguali o altre cose siffatte. La dialettica non si occupa di cose determinate in questo modo, né di un qual-

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épodeiknÊnta går oÈk ¶stin §rvtçn diå tÚ t«n éntikeim°nvn ˆntvn mØ deiÄknusyai tÚ aÈtÒ. d°deiktai d¢ toËto §n to›w per‹ sullogismoË.

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Efi d¢ tÚ aÈtÒ §stin §r≈thma sullogistikÚn ka‹ prÒtasiw éntifãsevw, protãseiw d¢ kayÉ •kãsthn §pistÆmhn §j œn ı sullogismÚw ı kayÉ •kãsthn, e‡h ên ti §r≈thma §pisthmonikÒn, §j œn ı kayÉ •kãsthn ofike›ow giÄnetai sullogismÒw. d∞lon êra ˜ti oÈ pçn §r≈thma gevmetrikÚn ín e‡h oÈdÉ fiatrikÒn, ımoiÄvw d¢ ka‹ §p‹ t«n êllvn: éllÉ §j œn deiÄknutaiÄ ti per‹ œn ≤ gevmetriÄa §stiÄn, μ ì §k t«n aÈt«n deiÄknutai tª gevmetriÄ&, Àsper tå Ùptikã. ımoiÄvw d¢ ka‹ §p‹ t«n êllvn. ka‹ per‹ m¢n toÊtvn ka‹ lÒgon Ífekt°on §k t«n gevmetrik«n érx«n ka‹ sumperasmãtvn, per‹ d¢ t«n érx«n lÒgon oÈx Ífekt°on t“ gevm°tr˙ √ gevm°trhw: ımoiÄvw d¢ ka‹ §p‹ t«n êllvn §pisthm«n. oÎte pçn êra ßkaston §pistÆmona §r≈thma §rvtht°on, oÎyÉ ëpan tÚ §rvt≈menon épokrit°on per‹ •kãstou, éllå tå katå tØn §pistÆmhn diorisy°nta. efi d¢ dial°jetai gevm°tr˙ √ gevm°trhw oÏtvw, fanerÚn ˜ti ka‹ kal«w, §ån §k toÊtvn ti deiknÊ˙: efi d¢ mÆ, oÈ kal«w. d∞lon dÉ ˜ti oÈdÉ §l°gxei gevm°trhn éllÉ μ katå sumbebhkÒw: ÀstÉ oÈk ín e‡h §n égevmetrÆtoiw per‹ gevmetriÄaw dialekt°on: lÆsei går ı faÊlvw dialegÒmenow. ımoiÄvw d¢ ka‹ §p‹ t«n êllvn ¶xei §pisthm«n. ÉEpe‹ dÉ ¶sti gevmetrikå §rvtÆmata, îrÉ ¶sti ka‹ égevm°trhta; ka‹ parÉ •kãsthn §pistÆmhn tå katå tØn êgnoian tØn poiÄan gevmetrikã §stin; ka‹ pÒteron ı katå tØn êgnoian sullogismÚw ı §k t«n éntikeim°nvn sullogismÒw, μ ı paralogismÒw, katå gevmetriÄan d°, μ §j êllhw t°xnhw, oÂon tÚ mousikÒn §stin §r≈thma égevm°trhton per‹ gevmetriÄaw, tÚ d¢ tåw parallÆlouw sumpiÄptein o‡esyai gevmetrikÒn pvw ka‹ égevm°trhton êllon trÒpon; dittÚn går toËto, Àsper tÚ êrruymon, ka‹ tÚ

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che genere unico. Altrimenti non potrebbe interrogare. Infatti chi dimostra non può interrogare per il fatto che non si prova la stessa cosa se sono concesse cose opposte. Ciò è stato provato nella trattazione riguardante il sillogismo12.

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CAPITOLO 12 Se è la stessa cosa l’interrogazione sillogistica e la proposizione della contraddizione e le premesse in ciascuna scienza sono quelle da cui procede il sillogismo in ciascuna scienza, vi deve essere un’interrogazione scientifica di quelle cose dalle quali si produce il sillogismo appropriato in ciascuna scienza. È chiaro dunque che non ogni interrogazione può essere geometrica o medica, e similmente negli altri casi; ma sono interrogazioni geometriche quelle dalle quali è provata o qualcuna delle cose di cui si occupa la geometria, oppure quelle cose che sono provate dalle stesse proposizioni della geometria, come le cose dell’ottica. Similmente negli altri casi. Riguardo a queste cose in effetti deve essere fornito un argomento a partire dai principi e dalle conclusioni geometriche, mentre per quanto riguarda i principi l’argomento non deve essere fornito dallo studioso di geometria in quanto studioso di geometria. Similmente per le altre scienze. Dunque non si deve porre a ciascuno scienziato ogni interrogazione né egli deve rispondere ad ogni interrogazione su ciascuna cosa, ma solo a quelle che rientrano nell’ambito della sua scienza. Se uno discute con lo studioso di geometria in quanto studioso di geometria in questo modo, è manifesto che discuterà correttamente, qualora provi qualcosa a partire da cose geometriche; altrimenti non discuterà correttamente. È chiaro che nemmeno confuterà lo studioso di geometria se non accidentalmente. Di conseguenza non si dovrebbe discutere di geometria tra coloro i quali non sono esperti di geometria; infatti chi discute scorrettamente rimarrà celato. Lo stesso succede anche per le altre scienze. Dato che vi sono interrogazioni geometriche, ve ne sono anche di non geometriche? Inoltre in ciascuna scienza in base a che tipo di ignoranza le interrogazioni sono geometriche? Ancora, il sillogismo basato sull’ignoranza è quello che procede da premesse opposte, oppure è un paralogismo, ma sempre nell’ambito della geometria, oppure è il sillogismo che procede da un’altra disciplina? Per esempio l’interrogazione musicale relativa alla geometria non è geometrica, mentre ritenere che le parallele si incontrino è in un certo senso geometrico e in un cer-

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m¢n ßteron égevm°trhton t“ mØ ¶xein [Àsper tÚ êrruymon], tÚ dÉ ßteron t“ faÊlvw ¶xein: ka‹ ≤ êgnoia aÏth ka‹ ≤ §k t«n toioÊtvn érx«n §nantiÄa. §n d¢ to›w mayÆmasin oÈk ¶stin ımoiÄvw ı paralogismÒw, ˜ti tÚ m°son §st‹n ée‹ tÚ dittÒn: katã te går toÊtou pantÒw, ka‹ toËto pãlin katÉ êllou l°getai pantÒw (tÚ d¢ kathgoroÊmenon oÈ l°getai pçn), taËta dÉ ¶stin oÂon ırçn tª noÆsei, §n d¢ to›w lÒgoiw lanyãnei. îra pçw kÊklow sx∞ma; ín d¢ grãc˙, d∞lon. tiÄ d°; tå ¶ph kÊklow; fanerÚn ˜ti oÈk ¶stin. OÈ de› dÉ ¶nstasin efiw aÈtÚ f°rein, ín ¬ ≤ prÒtasiw §paktikÆ. Àsper går oÈd¢ prÒtasiÄw §stin ∂ mØ ¶stin §p‹ pleiÒnvn (oÈ går ¶stai §p‹ pãntvn, §k t«n kayÒlou dÉ ı sullogismÒw), d∞lon ˜ti oÈdÉ ¶nstasiw. afl aÈta‹ går protãseiw ka‹ §nstãseiw: ∂n går f°rei ¶nstasin, aÏth g°noitÉ ín prÒtasiw μ épodeiktikØ μ dialektikÆ. SumbaiÄnei dÉ §niÄouw ésullogiÄstvw l°gein diå tÚ lambãnein émfot°roiw tå •pÒmena, oÂon ka‹ ı KaineÁw poie›, ˜ti tÚ pËr §n tª pollaplasiÄ& énalogiÄ&: ka‹ går tÚ pËr taxÁ gennçtai, Àw fhsi, ka‹ aÏth ≤ énalogiÄa. oÏtv dÉ oÈk ¶sti sullogismÒw: éllÉ efi tª taxiÄst˙ énalogiÄ& ßpetai ≤ pollaplãsiow ka‹ t“ pur‹ ≤ taxiÄsth §n tª kinÆsei énalogiÄa. §niÄote m¢n oÔn oÈk §nd°xetai sullogiÄsasyai §k t«n efilhmm°nvn, ıt¢ dÉ §nd°xetai, éllÉ oÈx ırçtai. Efi dÉ ∑n édÊnaton §k ceÊdouw élhy¢w de›jai, =ñdion ín ∑n tÚ énalÊein: ént°strefe går ín §j énãgkhw. ¶stv går tÚ A ˆn: toÊtou dÉ ˆntow tad‹ ¶stin, ì o‰da ˜ti ¶stin, oÂon tÚ B. §k toÊtvn êra deiÄjv ˜ti ¶stin §ke›no. éntistr°fei d¢ mçllon tå §n to›w mayÆmasin, ˜ti oÈd¢n sumbebhkÚw lambãnousin (éllå ka‹ toÊtƒ diaf°rousi t«n §n to›w dialÒgoiw) éllÉ ırismoÊw. AÎjetai dÉ oÈ diå t«n m°svn, éllå t“ proslambãnein, oÂon tÚ A toË B, toËto d¢ toË G, pãlin toËto toË D, ka‹ toËtÉ efiw êpeiron: ka‹ efiw tÚ plãgion, oÂon tÚ A ka‹ katå toË G ka‹ katå toË E, oÂon ¶stin ériymÚw posÚw μ ka‹ êpeirow toËto §fÉ ⁄ A, ı perittÚw ériymÚw posÚw §fÉ o B, ériymÚw perittÚw §fÉ o G: ¶stin êra tÚ A katå toË G. ka‹ ¶stin ı êrtiow posÚw ériymÚw §fÉ o D, ı êrtiow ériymÚw §fÉ o E: ¶stin êra tÚ A katå toË E.

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to senso non lo è? Infatti non geometrico, come non ritmico, è ambiguo e in un senso non geometrico è tale per il fatto di non avere niente di geometrico, mentre in un altro senso lo è perché lo ha scorrettamente. E questa ignoranza, ossia quella che procede da principi siffatti, è contraria alla conoscenza scientifica. Nelle matematiche il paralogismo non si verifica allo stesso modo, perché l’ambiguità è sempre nel medio (infatti qualcosa si dice di tutto questo ed esso si dice di tutto un altro, mentre il predicato non si dice tutto), e queste cose è come vederle con l’intellezione, mentre nelle discussioni sfuggono. Ogni cerchio è una figura? È chiaro, qualora lo si tracci. E che? I versi epici sono un cerchio? È manifesto che non lo sono. Qualora la premessa sia induttiva, non bisogna sollevare un’obiezione su ciò. Infatti così come non c’è una premessa che non valga di più cose (giacché non vale di tutti e, d’altra parte, il sillogismo procede da universali), è chiaro che non c’è nemmeno un’obiezione. Infatti le premesse e le obiezioni sono le stesse, giacché l’obiezione che uno solleva deve poter diventare una premessa dimostrativa o dialettica. Ad alcuni capita di argomentare in modo non sillogistico, per il fatto di prendere le cose che conseguono ad entrambi i termini, come fa anche Ceneo il quale dice che il fuoco cresce in progressione geometrica; infatti si sviluppa velocemente e così fa la progressione geometrica. Ma così non c’è un sillogismo; invece c’è un sillogismo se progressione geometrica segue alla progressione più veloce e a fuoco segue la progressione più veloce nel cambiamento. Talvolta non è possibile sillogizzare dalle proposizioni assunte, mentre talvolta è possibile ma uno non lo vede. Se fosse impossibile provare un vero da un falso, sarebbe facile analizzare; infatti ci sarebbe conversione di necessità. Sia infatti che A è vero e che se questo è vero, queste cose, per esempio B – delle quali so che sono vere – sono vere. Da queste proverò che quello è. La conversione è più frequente nelle argomentazioni matematiche, perché esse non assumono nulla di accidentale (anche per questo differiscono dalle argomentazioni nelle discussioni), bensì definizioni. Aumentano non per i medi, ma per l’aggiunta; per esempio A si dice di B, questo di C e ancora questo di D e ciò all’infinito; anche lateralmente; per esempio A si dice di C ed E; per esempio numero, definito o indefinito che sia, sia ciò che è indicato da A, numero dispari definito sia ciò che è indicato da B, numero dispari sia ciò che è indicato da C. Dunque A si dice di C. Inoltre numero pari definito è ciò che è indicato da D e numero pari ciò che è indicato da E. Dunque A si dice di E. 37

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TÚ dÉ ˜ti diaf°rei ka‹ tÚ diÒti §piÄstasyai, pr«ton m¢n §n tª aÈtª §pistÆm˙, ka‹ §n taÊt˙ dix«w, ßna m¢n trÒpon §ån mØ diÉ ém°svn giÄnhtai ı sullogismÒw (oÈ går lambãnetai tÚ pr«ton a‡tion, ≤ d¢ toË diÒti §pistÆmh katå tÚ pr«ton a‡tion), êllon d¢ efi diÉ ém°svn m°n, éllå mØ diå toË afitiÄou éllå t«n éntistrefÒntvn diå toË gnvrimvt°rou. kvlÊei går oÈd¢n t«n éntikathgoroum°nvn gnvrim≈teron e‰nai §niÄote tÚ mØ a‡tion, ÀstÉ ¶stai diå toÊtou ≤ épÒdeijiw, oÂon ˜ti §ggÁw ofl plãnhtew diå toË mØ stiÄlbein. ¶stv §fÉ ⁄ G plãnhtew, §fÉ ⁄ B tÚ mØ stiÄlbein, §fÉ ⁄ A tÚ §ggÁw e‰nai. élhy¢w dØ tÚ B katå toË G efipe›n: ofl går plãnhtew oÈ stiÄlbousin. éllå ka‹ tÚ A katå toË B: tÚ går mØ stiÄlbon §ggÊw §sti: toËto dÉ efilÆfyv diÉ §pagvg∞w μ diÉ afisyÆsevw. énãgkh oÔn tÚ A t“ G Ípãrxein, ÀstÉ épod°deiktai ˜ti ofl plãnhtew §ggÊw efisin. otow oÔn ı sullogismÚw oÈ toË diÒti éllå toË ˜ti §stiÄn: oÈ går diå tÚ mØ stiÄlbein §ggÊw efisin, éllå diå tÚ §ggÁw e‰nai oÈ stiÄlbousin. §gxvre› d¢ ka‹ diå yat°rou yãteron deixy∞nai, ka‹ ¶stai toË diÒti ≤ épÒdeijiw, oÂon ¶stv tÚ G plãnhtew, §fÉ ⁄ B tÚ §ggÁw e‰nai, tÚ A tÚ mØ stiÄlbein: Ípãrxei dØ ka‹ tÚ B t“ G ka‹ tÚ A t“ B, Àste ka‹ t“ G tÚ A [tÚ mØ stiÄlbein]. ka‹ ¶sti toË diÒti ı sullogismÒw: e‡lhptai går tÚ pr«ton a‡tion. pãlin …w tØn selÆnhn deiknÊousin ˜ti sfairoeidÆw, diå t«n aÈjÆsevn^efi går tÚ aÈjanÒmenon oÏtv sfairoeid°w, aÈjãnei dÉ ≤ selÆnh, fanerÚn ˜ti sfairoeidÆw^oÏtv m¢n oÔn toË ˜ti g°gonen ı sullogismÒw, énãpalin d¢ tey°ntow toË m°sou toË diÒti: oÈ går diå tåw aÈjÆseiw sfairoeidÆw §stin, éllå diå tÚ sfairoeidØw e‰nai lambãnei tåw aÈjÆseiw toiaÊtaw. selÆnh §fÉ ⁄ G, sfairoeidØw §fÉ ⁄ B, aÎjhsiw §fÉ ⁄ A. §fÉ œn d¢ tå m°sa mØ éntistr°fei ka‹ ¶sti gnvrim≈teron tÚ énaiÄtion, tÚ ˜ti m¢n deiÄknutai, tÚ diÒti dÉ oÎ. ÖEti §fÉ œn tÚ m°son ¶jv tiÄyetai. ka‹ går §n toÊtoiw toË ˜ti ka‹ oÈ toË diÒti ≤ épÒdeijiw: oÈ går l°getai tÚ a‡tion. oÂon diå tiÄ oÈk énapne› ı to›xow; ˜ti oÈ z“on. efi går toËto toË mØ énapne›n a‡tion, ¶dei tÚ z“on e‰nai a‡tion toË énapne›n, oÂon efi ≤ épÒfasiw afitiÄa toË mØ Ípãrxein, ≤ katãfasiw toË Ípãrxein, Àsper efi tÚ ésÊm-

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CAPITOLO 13 Conoscere scientificamente il che differisce dal conoscere scientificamente il perché innanzitutto all’interno di una stessa scienza, e in questa in due modi: in un modo qualora il sillogismo si produca non grazie ad immediati (infatti non viene assunta la ragione prima e la conoscenza scientifica del perché è basata sulla ragione prima); in un altro modo qualora il sillogismo si produca sì grazie ad immediati, ma non grazie alla ragione bensì grazie al più noto dei termini convertibili. Infatti nulla impedisce che, talvolta, dei termini che si predicano l’uno dell’altro quello che non è la ragione sia più noto dell’altro; di conseguenza la dimostrazione può essere grazie ad esso, come per esempio se si prova che i pianeti sono vicini in virtù del loro non scintillare. Sia pianeti ciò che è indicato da C, non scintillare ciò che è indicato da B, e essere vicino ciò che è indicato da A. Allora è vero dire B di C; infatti i pianeti non scintillano. Ma è vero anche dire A di B; infatti ciò che non scintilla è vicino; questo lo si assuma per induzione o percettivamente. Quindi è necessario che A convenga a C; di conseguenza si è dimostrato che i pianeti sono vicini. Questo sillogismo non è del perché, ma del che: infatti i pianeti non sono vicini in virtù del loro non scintillare, ma non scintillano in virtù del loro essere vicini. È possibile provare questo in virtù dell’altro e allora la dimostrazione sarà del perché; per esempio, pianeti sia C, essere vicino ciò che è indicato da B e non scintillare A; allora B conviene a C ed A a B; di conseguenza A conviene anche a C e il sillogismo è del perché. Infatti viene assunta la ragione prima. Ancora, si consideri come alcuni provano che la luna è sferica grazie agli accrescimenti – infatti se ciò che si accresce in questo modo è sferico e la luna si accresce, è manifesto che è sferica. In questo modo il sillogismo è del che, mentre se il medio viene preso viceversa è del perché. Infatti la luna non è sferica in virtù degli accrescimenti, ma in virtù del suo essere sferica riceve siffatti accrescimenti. Sia luna ciò che è indicato da C, sferico ciò che è indicato da B, accrescimento ciò che è indicato da A. In quei casi in cui i medi non siano invece convertibili e sia più noto quello che non è la ragione, si prova il che e non il perché. Ancora, si considerino casi in cui il medio sia posto esternamente. Infatti anche in questi casi la dimostrazione è del che e non del perché. Infatti non viene detta la ragione. Per esempio perché il muro non respira? Perché non è un animale. Infatti se questa fosse la ragione del non respirare, bisognerebbe che l’animale fosse la ragione del respirare, nel senso che se la negazione è la ragione del non convenire, l’affermazione è la ragione del convenire (per esempio se lo 39

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metra e‰nai tå yermå ka‹ tå cuxrå toË mØ ÍgiaiÄnein, tÚ sÊmmetra e‰nai toË ÍgiaiÄnein, ^ımoiÄvw d¢ ka‹ efi ≤ katãfasiw toË Ípãrxein, ≤ épÒfasiw toË mØ Ípãrxein. §p‹ d¢ t«n oÏtvw épodedom°nvn oÈ sumbaiÄnei tÚ lexy°n: oÈ går ëpan énapne› z“on. ı d¢ sullogismÚw giÄnetai t∞w toiaÊthw afitiÄaw §n t“ m°sƒ sxÆmati. oÂon ¶stv tÚ A z“on, §fÉ ⁄ B tÚ énapne›n, §fÉ ⁄ G to›xow. t“ m¢n oÔn B pant‹ Ípãrxei tÚ A (pçn går tÚ énapn°on z“on), t“ d¢ G oÈyeniÄ, Àste oÈd¢ tÚ B t“ G oÈyeniÄ: oÈk êra énapne› ı to›xow. §oiÄkasi dÉ afl toiaËtai t«n afiti«n to›w kayÉ ÍperbolØn efirhm°noiw: toËto dÉ ¶sti tÚ pl°on épostÆsanta tÚ m°son efipe›n, oÂon tÚ toË ÉAnaxãrsiow, ˜ti §n SkÊyaiw oÈk efis‹n aÈlhtriÄdew, oÈd¢ går êmpeloi. Katå m¢n dØ tØn aÈtØn §pistÆmhn ka‹ katå tØn t«n m°svn y°sin atai diaforaiÄ efisi toË ˜ti prÚw tÚn toË diÒti sullogismÒn: êllon d¢ trÒpon diaf°rei tÚ diÒti toË ˜ti t“ diÉ êllhw §pistÆmhw •kãteron yevre›n. toiaËta dÉ §st‹n ˜sa oÏtvw ¶xei prÚw êllhla ÀstÉ e‰nai yãteron ÍpÚ yãteron, oÂon tå Ùptikå prÚw gevmetriÄan ka‹ tå mhxanikå prÚw stereometriÄan ka‹ tå èrmonikå prÚw ériymhtikØn ka‹ tå fainÒmena prÚw éstrologikÆn. sxedÚn d¢ sun≈numoiÄ efisin ¶niai toÊtvn t«n §pisthm«n, oÂon éstrologiÄa ¥ te mayhmatikØ ka‹ ≤ nautikÆ, ka‹ èrmonikØ ¥ te mayhmatikØ ka‹ ≤ katå tØn ékoÆn. §ntaËya går tÚ m¢n ˜ti t«n afisyhtik«n efid°nai, tÚ d¢ diÒti t«n mayhmatik«n: otoi går ¶xousi t«n afitiÄvn tåw épodeiÄjeiw, ka‹ pollãkiw oÈk ‡sasi tÚ ˜ti, kayãper ofl tÚ kayÒlou yevroËntew pollãkiw ¶nia t«n kayÉ ßkaston oÈk ‡sasi diÉ énepiskeciÄan. ¶sti d¢ taËta ˜sa ßterÒn ti ˆnta tØn oÈsiÄan k°xrhtai to›w e‡desin. tå går mayÆmata per‹ e‡dh §stiÄn: oÈ går kayÉ Ípokeim°nou tinÒw: efi går ka‹ kayÉ Ípokeim°nou tinÚw tå gevmetrikã §stin, éllÉ oÈx √ ge kayÉ Ípokeim°nou. ¶xei d¢ ka‹ prÚw tØn ÙptikÆn, …w aÏth prÚw tØn gevmetriÄan, êllh prÚw taÊthn, oÂon tÚ per‹ t∞w ‡ridow: tÚ m¢n går ˜ti fusikoË efid°nai, tÚ d¢ diÒti ÙptikoË, μ èpl«w μ toË katå tÚ mãyhma. polla‹ d¢ ka‹ t«n mØ ÍpÉ éllÆlaw §pisthm«n ¶xousin oÏtvw, oÂon fiatrikØ prÚw gevmetriÄan: ˜ti

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squilibrio degli elementi caldi e freddi è la ragione del non stare bene, il loro equilibrio è la ragione dello star bene), così come se l’affermazione è la ragione del convenire, la negazione è la ragione del non convenire. Invece nel caso dei termini considerati non avviene quel che si è detto. Infatti non ogni animale respira. Il sillogismo che esprime una tale ragione si produce nella figura di mezzo. Per esempio animale sia A, respirare ciò che è indicato da B e muro ciò che è indicato da C. Allora A conviene ad ogni B (infatti ogni respirante è un animale), mentre non conviene ad alcun C; di conseguenza nemmeno B conviene ad alcun C; dunque il muro non respira. Siffatte ragioni assomigliano alle spiegazioni che vanno oltre il segno e consistono nell’esprimere come medio qualcosa di troppo lontano, come per esempio quella di Anacarsi secondo cui nella Scizia non ci sono flautiste perché non ci sono viti. Con riferimento ad una stessa scienza ed alla posizione del medio queste sono dunque le differenze del sillogismo del che rispetto a quello del perché. In un altro modo differisce il perché dal che nella misura in cui si considera ciascuno dei due secondo una scienza diversa. Tali sono quelle cose che sono in una relazione tale per cui una è sotto l’altra, come per esempio le cose di ottica rispetto alla geometria, quelle di meccanica rispetto alla stereometria, quelle di armonica rispetto all’aritmetica e quelle di astronomia osservativa rispetto all’astronomia. Alcune di queste scienze sono pressoché sinonime; per esempio sono astronomia sia l’astronomia matematica sia quella nautica e sono armonica sia quella matematica sia quella acustica. In questi casi spetta agli osservatori sapere il che, mentre il perché spetta ai matematici. Questi ultimi infatti possiedono le dimostrazioni delle ragioni e spesso non conoscono il che, così come coloro che considerano l’universale spesso non conoscono alcuni dei singolari per mancanza di osservazione. Le cose in questione sono quelle che si servono delle forme pur essendo sostanzialmente diverse da esse. Infatti la matematica riguarda le forme, perché i suoi oggetti non si dicono di un qualche soggetto. Infatti gli oggetti geometrici, anche se si dicono di un soggetto, non vengono considerati in quanto si dicono di un soggetto. Nello stesso rapporto in cui è l’ottica con la geometria è con l’ottica un’altra scienza, precisamente quella dell’arcobaleno. Infatti sapere che spetta al fisico e sapere perché all’ottico, o all’ottica semplicemente o a quella matematica. Molte delle scienze che non sono subordinate l’una all’altra sono nella stessa situazione, come per esempio la medicina ri41

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m¢n går tå ßlkh tå perifer∞ bradÊteron Ígiãzetai, toË fiatroË efid°nai, diÒti d¢ toË gevm°trou.

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T«n d¢ sxhmãtvn §pisthmonikÚn mãlista tÚ pr«tÒn §stin. a· te går mayhmatika‹ t«n §pisthm«n diå toÊtou f°rousi tåw épodeiÄjeiw, oÂon ériymhtikØ ka‹ gevmetriÄa ka‹ ÙptikÆ, ka‹ sxedÚn …w efipe›n ˜sai toË diÒti poioËntai tØn sk°cin: μ går ˜lvw μ …w §p‹ tÚ polÁ ka‹ §n to›w pleiÄstoiw diå toÊtou toË sxÆmatow ı toË diÒti sullogismÒw. Àste kín diå toËtÉ e‡h mãlista §pisthmonikÒn: kuri≈taton går toË efid°nai tÚ diÒti yevre›n. e‰ta tØn toË tiÄ §stin §pistÆmhn diå mÒnou toÊtou yhreËsai dunatÒn. §n m¢n går t“ m°sƒ sxÆmati oÈ giÄnetai kathgorikÚw sullogismÒw, ≤ d¢ toË tiÄ §stin §pistÆmh katafãsevw: §n d¢ t“ §sxãtƒ giÄnetai m¢n éllÉ oÈ kayÒlou, tÚ d¢ tiÄ §sti t«n kayÒlou §stiÄn: oÈ går pª §sti z“on diÄpoun ı ênyrvpow. ¶ti toËto m¢n §keiÄnvn oÈd¢n prosde›tai, §ke›na d¢ diå toÊtou katapuknoËtai ka‹ aÎjetai, ßvw ín efiw tå êmesa ¶ly˙. fanerÚn oÔn ˜ti kuri≈taton toË §piÄstasyai tÚ pr«ton sx∞ma.

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ÜVsper d¢ Ípãrxein tÚ A t“ B §ned°xeto étÒmvw, oÏtv ka‹ mØ Ípãrxein §gxvre›. l°gv d¢ tÚ étÒmvw Ípãrxein μ mØ Ípãrxein tÚ mØ e‰nai aÈt«n m°son: oÏtv går oÈk°ti ¶stai katÉ êllo tÚ Ípãrxein μ mØ Ípãrxein. ˜tan m¢n oÔn μ tÚ A μ tÚ B §n ˜lƒ tin‹ ¬, μ ka‹ êmfv, oÈk §nd°xetai tÚ A t“ B pr≈tvw mØ Ípãrxein. ¶stv går tÚ A §n ˜lƒ t“ G. oÈkoËn efi tÚ B mØ ¶stin §n ˜lƒ t“ G (§gxvre› går tÚ m¢n A e‰nai ¶n tini ˜lƒ, tÚ d¢ B mØ e‰nai §n toÊtƒ), sullogismÚw ¶stai toË mØ Ípãrxein tÚ A t“ B: efi går t“ m¢n A pant‹ tÚ G, t“ d¢ B mhdeniÄ, oÈden‹ t“ B tÚ A. ımoiÄvw d¢ ka‹ efi tÚ B §n ˜lƒ tiniÄ §stin, oÂon §n t“ D: tÚ m¢n går D pant‹ t“ B Ípãrxei, tÚ d¢ A oÈden‹ t“ D, Àste tÚ A oÈden‹ t“ B Ípãrjei diå sullogismoË. tÚn aÈtÚn d¢ trÒpon deixyÆsetai ka‹ efi êmfv §n ˜lƒ tiniÄ §stin. ˜ti dÉ §nd°xetai tÚ B mØ e‰nai §n ⁄ ˜lƒ §st‹ tÚ A, μ pãlin

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spetto alla geometria. Spetta al medico sapere che le ferite circolari guariscono più lentamente, mentre il perché spetta al geometra.

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CAPITOLO 14 Delle figure la più scientifica è la prima. Infatti è per mezzo di questa figura che effettuano le dimostrazioni le scienze matematiche, come per esempio l’aritmetica, la geometria e l’ottica e, si può quasi dire, quelle scienze che fanno la ricerca del perché. Infatti o del tutto o per lo più, e nella maggior parte dei casi, il sillogismo del perché è effettuato per mezzo di questa figura. Di conseguenza proprio per questo è la figura più scientifica. Infatti considerare il perché è la cosa più pertinente al sapere. Inoltre la conoscenza scientifica del che cos’è può essere procacciata solo per mezzo di questa figura. Infatti nella figura di mezzo non si produce un sillogismo positivo e la conoscenza scientifica del che cos’è è conoscenza di un’affermazione. Nell’ultima figura si produce sì un sillogismo positivo, ma non universale e il che cos’è è nel novero degli universali; infatti non è sotto un certo rispetto che l’uomo è animale bipede. Inoltre questa figura non ha bisogno di nessuna delle altre, mentre le altre sono riempite e ingrossate da questa, fino a pervenire agli immediati. È manifesto allora che la prima figura è la più pertinente alla conoscenza scientifica.

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CAPITOLO 15 Così com’è possibile che A convenga a B indivisibilmente, è ammissibile anche che non convenga. Dico convenire o non convenire indivisibilmente quando non c’è un medio per i termini; così infatti il convenire o non convenire non sarà più in base ad altro. Allora quando o A o B siano in un tutto, o anche lo siano entrambi, non è possibile che A primitivamente non convenga a B. Infatti sia A in C come in un tutto. Quindi, se B non è in C come in un tutto (infatti è possibile che A sia in un tutto e che B non sia in esso), si avrà un sillogismo che A non conviene a B. Infatti se C conviene ad ogni A e non conviene ad alcun B, A non conviene ad alcun B. Lo stesso risulta se B è in un tutto, per esempio in D. Infatti D conviene ad ogni B ed A non conviene ad alcun D; cosicché A non conviene ad alcun B attraverso un sillogismo. La prova è la stessa anche se entrambi i termini sono in un tutto. Che sia possibile che B non sia nello stesso tutto in cui è A o vi43

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tÚ A §n ⁄ tÚ B, fanerÚn §k t«n sustoixi«n, ˜sai mØ §pallãttousin éllÆlaiw. efi går mhd¢n t«n §n tª A G D sustoixiÄ& katå mhdenÚw kathgore›tai t«n §n tª B E Z, tÚ dÉ A §n ˜lƒ §st‹ t“ Y sustoiÄxƒ ˆnti, fanerÚn ˜ti tÚ B oÈk ¶stai §n t“ Y: §pallãjousi går afl sustoixiÄai. ımoiÄvw d¢ ka‹ efi tÚ B §n ˜lƒ tiniÄ §stin. §ån d¢ mhd°teron ¬ §n ˜lƒ mhdeniÄ, mØ Ípãrx˙ d¢ tÚ A t“ B, énãgkh étÒmvw mØ Ípãrxein. efi går ¶stai ti m°son, énãgkh yãteron aÈt«n §n ˜lƒ tin‹ e‰nai. μ går §n t“ pr≈tƒ sxÆmati μ §n t“ m°sƒ ¶stai ı sullogismÒw. efi m¢n oÔn §n t“ pr≈tƒ, tÚ B ¶stai §n ˜lƒ tiniÄ (katafatikØn går de› tØn prÚw toËto gen°syai prÒtasin), efi dÉ §n t“ m°sƒ, ıpÒteron ¶tuxen (prÚw émfot°roiw går lhfy°ntow toË sterhtikoË giÄnetai sullogismÒw: émfot°rvn dÉ épofatik«n oÈs«n oÈk ¶stai). FanerÚn oÔn ˜ti §nd°xetaiÄ te êllo êllƒ mØ Ípãrxein étÒmvw, ka‹ pÒtÉ §nd°xetai ka‹ p«w, efirÆkamen.

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ÖAgnoia dÉ ≤ mØ katÉ épÒfasin éllå katå diãyesin legom°nh ¶sti m¢n ≤ diå sullogismoË ginom°nh épãth, aÏth dÉ §n m¢n to›w pr≈tvw Ípãrxousin μ mØ Ípãrxousi sumbaiÄnei dix«w: μ går ˜tan èpl«w Ípolãb˙ Ípãrxein μ mØ Ípãrxein, μ ˜tan diå sullogismoË lãb˙ tØn ÍpÒlhcin. t∞w m¢n oÔn èpl∞w ÍpolÆcevw èpl∞ ≤ épãth, t∞w d¢ diå sullogismoË pleiÄouw. mØ Íparx°tv går tÚ A mhden‹ t“ B étÒmvw: oÈkoËn §ån sullogiÄzhtai Ípãrxein tÚ A t“ B, m°son labΔn tÚ G, ±pathm°now ¶stai diå sullogismoË. §nd°xetai m¢n oÔn émfot°raw tåw protãseiw e‰nai ceude›w, §nd°xetai d¢ tØn •t°ran mÒnon. efi går mÆte tÚ A mhden‹ t«n G Ípãrxei mÆte tÚ G mhden‹ t«n B, e‡lhptai dÉ •kat°ra énãpalin, êmfv ceude›w ¶sontai. §gxvre› dÉ oÏtvw ¶xein tÚ G prÚw tÚ A ka‹ B Àste mÆte ÍpÚ tÚ A e‰nai mÆte kayÒlou t“ B. tÚ m¢n går B édÊnaton e‰nai §n ˜lƒ tiniÄ (pr≈tvw går §l°geto aÈt“ tÚ A mØ Ípãrxein), tÚ d¢ A oÈk énãgkh pçsi to›w oÔsin e‰nai kayÒlou, ÀstÉ émfÒterai ceude›w. éllå ka‹ tØn •t°ran §nd°xetai élhy∞ lambãnein, oÈ m°ntoi ıpot°ran ¶tuxen, éllå tØn

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ceversa che A non sia nello stesso tutto in cui è B è manifesto dalle catene che non si intersecano reciprocamente. Infatti se nessuno dei termini nella catena A C D si predica di nessuno dei termini nella catena B E F ed A è come in un tutto in H, che è nella stessa catena, è manifesto che B non sarà in H, altrimenti le due catene si intersecherebbero. Similmente se è B ad essere in un tutto. Invece, qualora nessuno dei due termini sia in alcun tutto e A non convenga a B, è necessario che A indivisibilmente non convenga a B. Infatti se vi fosse un medio, sarebbe necessario che uno o l’altro dei due termini fosse in un tutto. Infatti il sillogismo sarebbe o in prima figura o in quella di mezzo. Allora, se fosse in prima, B sarebbe in un tutto (infatti la proposizione relativa a questo termine deve essere affermativa); se invece il sillogismo fosse nella figura di mezzo, uno qualunque dei due potrebbe essere in un tutto (infatti assunto il nesso privativo con riferimento ad entrambi si produce un sillogismo, mentre se entrambi i nessi sono negativi non vi sarà sillogismo). È manifesto allora che è possibile che un termine indivisibilmente non convenga ad un altro, e abbiamo detto quando e come ciò sia possibile.

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CAPITOLO 16 L’ignoranza che non è detta per negazione ma per disposizione è l’errore che si produce mediante un sillogismo. Con riferimento ai termini che convengono o non convengono primitivamente essa avviene in due modi; infatti avviene o quando si creda direttamente che il termine convenga o non convenga, oppure quando si acquisisca tale credenza mediante un sillogismo. L’errore della credenza diretta è diretto, mentre quello della credenza mediante un sillogismo ha più forme. Supponiamo infatti che A indivisibilmente non convenga ad alcun B. Pertanto, qualora uno sillogizzasse che A conviene a B, prendendo come medio C, sarebbe indotto in errore mediante un sillogismo. È possibile che entrambe le premesse siano false ed è possibile che lo sia una sola delle due. Infatti se né A conviene ad alcuno dei C, né C conviene ad alcuno dei B, ed entrambe le premesse sono assunte viceversa, saranno entrambe false. È possibile che C sia in un rapporto tale con A e con B che né sia sotto A né convenga universalmente a B. Infatti è impossibile che B sia in un tutto (giacché si era detto che A primitivamente non gli conviene), mentre non è necessario che A convenga universalmente a tutte le cose che sono; di conseguenza entrambe le premesse sono false. D’altro canto è possibile anche assumere come vera 45

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A G: ≤ går G B prÒtasiw ée‹ ceudØw ¶stai diå tÚ §n mhden‹ e‰nai tÚ B, tØn d¢ A G §gxvre›, oÂon efi tÚ A ka‹ t“ G ka‹ t“ B Ípãrxei étÒmvw (˜tan går pr≈tvw kathgor∞tai taÈtÚ pleiÒnvn, oÈd°teron §n oÈdet°rƒ ¶stai). diaf°rei dÉ oÈd°n, oÈdÉ efi mØ étÒmvw Ípãrxei. ÑH m¢n oÔn toË Ípãrxein épãth diå toÊtvn te ka‹ oÏtv giÄnetai mÒnvw (oÈ går ∑n §n êllƒ sxÆmati toË Ípãrxein sullogismÒw), ≤ d¢ toË mØ Ípãrxein ¶n te t“ pr≈tƒ ka‹ §n t“ m°sƒ sxÆmati. pr«ton oÔn e‡pvmen posax«w §n t“ pr≈tƒ giÄnetai, ka‹ p«w §xous«n t«n protãsevn. §nd°xetai m¢n oÔn émfot°rvn ceud«n oÈs«n, oÂon efi tÚ A ka‹ t“ G ka‹ t“ B Ípãrxei étÒmvw: §ån går lhfyª tÚ m¢n A t“ G mhdeniÄ, tÚ d¢ G pant‹ t“ B, ceude›w afl protãseiw. §nd°xetai d¢ ka‹ t∞w •t°raw ceudoËw oÎshw, ka‹ taÊthw ıpot°raw ¶tuxen. §gxvre› går tØn m¢n A G élhy∞ e‰nai, tØn d¢ G B ceud∞, tØn m¢n A G élhy∞ ˜ti oÈ pçsi to›w oÔsin Ípãrxei tÚ A, tØn d¢ G B ceud∞ ˜ti édÊnaton Ípãrxein t“ B tÚ G, ⁄ mhden‹ Ípãrxei tÚ A: oÈ går ¶ti élhyØw ¶stai ≤ A G prÒtasiw: ëma d°, efi ka‹ efis‹n émfÒterai élhye›w, ka‹ tÚ sump°rasma ¶stai élhy°w. éllå ka‹ tØn G B §nd°xetai élhy∞ e‰nai t∞w •t°raw oÎshw ceudoËw, oÂon efi tÚ B ka‹ §n t“ G ka‹ §n t“ A §stiÄn: énãgkh går yãteron ÍpÚ yãteron e‰nai, ÀstÉ ín lãb˙ tÚ A mhden‹ t“ G Ípãrxein, ceudØw ¶stai ≤ prÒtasiw. fanerÚn oÔn ˜ti ka‹ t∞w •t°raw ceudoËw oÎshw ka‹ émfo›n ¶stai ceudØw ı sullogismÒw. ÉEn d¢ t“ m°sƒ sxÆmati ˜law m¢n e‰nai tåw protãseiw émfot°raw ceude›w oÈk §nd°xetai: ˜tan går tÚ A pant‹ t“ B Ípãrx˙, oÈd¢n ¶stai labe›n ˘ t“ m¢n •t°rƒ pant‹ yat°rƒ dÉ oÈden‹ Ípãrjei: de› dÉ oÏtv lambãnein tåw protãseiw Àste t“ m¢n Ípãrxein t“ d¢ mØ Ípãrxein, e‡per ¶stai sullogismÒw. efi oÔn oÏtv lambanÒmenai ceude›w, d∞lon …w §nantiÄvw énãpalin ßjousi: toËto dÉ édÊnaton. §piÄ ti dÉ •kat°ran oÈd¢n kvlÊei ceud∞ e‰nai, oÂon efi tÚ G ka‹ t“ A ka‹ t“ B tin‹ Ípãrxoi: ín går t“ m¢n A pant‹ lhfyª Ípãrxon, t“ d¢ B mhdeniÄ, ceude›w m¢n émfÒterai afl protãseiw, oÈ m°ntoi ˜lai éllÉ §piÄ ti. ka‹ énãpalin d¢ tey°ntow toË sterhtikoË …saÊtvw. tØn dÉ •t°ran e‰nai ceud∞ ka‹ ıpoteranoËn §nd°xetai. ˘ går Ípãrxei t“ A pantiÄ, ka‹

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una delle premesse, ma non una qualunque delle due, bensì AC. Infatti la premessa CB sarà sempre falsa, perché B non è in niente; invece è possibile che AC sia vera, per esempio se A conviene tanto a C quanto a B indivisibilmente (infatti quando uno stesso termine si predica primitivamente di più termini, nessuno di essi sarà in alcuno degli altri). Non fa differenza se il termine conviene non indivisibilmente. L’errore relativo al convenire di un termine si produce esclusivamente mediante queste premesse e così (infatti il sillogismo del convenire di un termine non si dà, come si è visto, in un’altra figura). Invece l’errore del non convenire di un termine si dà nella prima figura e in quella di mezzo. Diciamo per prima cosa in quanti modi si produce nella prima figura e come stiano le premesse. È possibile che l’errore si produca se entrambe le premesse sono false, come per esempio se A conviene indivisibilmente tanto a C quanto a B. Infatti qualora si assuma che A non conviene ad alcun C e che C conviene ad ogni B, le premesse sono false. È possibile che l’errore si produca anche se una sola delle due premesse è falsa, e questa sia una qualunque delle due. Infatti è possibile che AC sia vera e che CB sia falsa e che AC sia vera perché A non conviene a tutte le cose che sono e che CB sia falsa perché è impossibile che C, a nulla del quale conviene A, convenga a B. Infatti la premessa AC non sarebbe più vera e, allo stesso tempo, se entrambe le premesse fossero vere, anche la conclusione sarebbe vera. È possibile anche che CB sia vera, essendo falsa l’altra premessa, come per esempio se B è in C e in A. Infatti è necessario che un termine sia sotto l’altro, per cui, qualora si assuma che A non conviene ad alcun C, la premessa sarà falsa. È manifesto allora che il sillogismo può essere falso sia nel caso in cui una delle due premesse sia falsa, sia nel caso in cui lo siano entrambe. Nella figura di mezzo non è possibile che entrambe le premesse siano interamente false. Infatti quando A convenga ad ogni B, non si potrà assumere alcun termine il quale convenga alla totalità dell’uno e non convenga ad alcunché dell’altro. Bisogna invece assumere le premesse in modo tale che un termine all’uno convenga e all’altro non convenga, se si vuole avere un sillogismo. Allora, se le premesse così assunte sono false, è chiaro che esse, assunte all’incontrario, staranno viceversa. Ma ciò è impossibile. Nulla impedisce che ciascuna delle due premesse sia parzialmente falsa, come per esempio se C conviene a qualche A e a qualche B. Infatti qualora si assuma che C conviene ad ogni A e non conviene ad alcun B, entrambe le premesse sono false, ma non interamente bensì parzialmente. Ugualmente se il nesso privativo è posto viceversa. È possibile invece che una delle due pre47

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t“ B Ípãrxei: §ån oÔn lhfyª t“ m¢n A ˜lƒ Ípãrxein tÚ G, t“ d¢ B ˜lƒ mØ Ípãrxein, ≤ m¢n G A élhyØw ¶stai, ≤ d¢ G B ceudÆw. pãlin ˘ t“ B mhden‹ Ípãrxei, oÈd¢ t“ A pant‹ Ípãrjei: efi går t“ A, ka‹ t“ B: éllÉ oÈx Íp∞rxen. §ån oÔn lhfyª tÚ G t“ m¢n A ˜lƒ Ípãrxein, t“ d¢ B mhdeniÄ, ≤ m¢n G B prÒtasiw élhyÆw, ≤ dÉ •t°ra ceudÆw. ımoiÄvw d¢ ka‹ metatey°ntow toË sterhtikoË. ˘ går mhden‹ Ípãrxei t“ A, oÈd¢ t“ B oÈden‹ Ípãrjei: §ån oÔn lhfyª tÚ G t“ m¢n A ˜lƒ mØ Ípãrxein, t“ d¢ B ˜lƒ Ípãrxein, ≤ m¢n G A prÒtasiw élhyØw ¶stai, ≤ •t°ra d¢ ceudÆw. ka‹ pãlin, ˘ pant‹ t“ B Ípãrxei, mhden‹ labe›n t“ A Ípãrxon ceËdow. énãgkh gãr, efi t“ B pantiÄ, ka‹ t“ A tin‹ Ípãrxein: §ån oÔn lhfyª t“ m¢n B pant‹ Ípãrxein tÚ G, t“ d¢ A mhdeniÄ, ≤ m¢n G B élhyØw ¶stai, ≤ d¢ G A ceudÆw. fanerÚn oÔn ˜ti ka‹ émfot°rvn oÈs«n ceud«n ka‹ t∞w •t°raw mÒnon ¶stai sullogismÚw épathtikÚw §n to›w étÒmoiw.

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ÉEn d¢ to›w mØ étÒmvw Ípãrxousin [μ mØ Ípãrxousin], ˜tan m¢n diå toË ofikeiÄou m°sou giÄnhtai toË ceÊdouw ı sullogismÒw, oÈx oÂÒn te émfot°raw ceude›w e‰nai tåw protãseiw, éllå mÒnon tØn prÚw t“ meiÄzoni êkrƒ. (l°gv dÉ ofike›on m°son diÉ o giÄnetai t∞w éntifãsevw ı sullogismÒw.) Íparx°tv går tÚ A t“ B diå m°sou toË G. §pe‹ oÔn énãgkh tØn G B katafatikØn lambãnesyai sullogismoË ginom°nou, d∞lon ˜ti ée‹ aÏth ¶stai élhyÆw: oÈ går éntistr°fetai. ≤ d¢ A G ceudÆw: taÊthw går éntistrefom°nhw §nantiÄow giÄnetai ı sullogismÒw. ımoiÄvw d¢ ka‹ efi §j êllhw sustoixiÄaw lhfyeiÄh tÚ m°son, oÂon tÚ D, efi ka‹ §n t“ A ˜lƒ §sti ka‹ katå toË B kathgore›tai pantÒw: énãgkh går tØn m¢n D B prÒtasin m°nein, tØn dÉ •t°ran éntistr°fesyai, ÀsyÉ ≤ m¢n ée‹ élhyÆw, ≤ dÉ ée‹ ceudÆw. ka‹ sxedÚn ¥ ge toiaÊth épãth ≤ aÈtÆ §sti tª diå toË ofikeiÄou m°sou. §ån d¢ mØ diå toË ofikeiÄou m°sou giÄnhtai ı sullogismÒw, ˜tan m¢n ÍpÚ tÚ A ¬ tÚ m°son, t“ d¢ B mhden‹ Ípãrx˙, énãgkh ceude›w e‰nai émfot°raw. lhpt°ai går §nantiÄvw μ …w ¶xousin afl protãseiw, efi m°llei sullogismÚw ¶sesyai: oÏtv d¢ lambanom°nvn émfÒ-

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messe sia falsa, ed una qualunque delle due. Infatti ciò che conviene ad ogni A conviene anche a B. Allora, qualora si assuma che C conviene ad A come a un tutto e che a B come a un tutto non conviene, CA sarà vera e CB falsa. Ancora, ciò che non conviene ad alcun B non converrà neanche ad ogni A. Infatti se convenisse ad A, converrebbe anche a B; ma si è detto che non conveniva. Allora, qualora si assuma che C conviene ad A come a un tutto e che non conviene ad alcun B, la premessa CB è vera e l’altra è falsa. Similmente se il nesso privativo è scambiato. Infatti ciò che non conviene ad alcun A non converrà neanche ad alcun B. Allora, qualora si assuma che C non conviene ad A come a un tutto e che conviene a B come a un tutto, la premessa CA sarà vera e l’altra falsa. Ancora, è falso assumere che ciò che conviene ad ogni B non conviene ad alcun A. Infatti è necessario che C convenga a qualche A se conviene ad ogni B. Allora, qualora si assuma che C conviene ad ogni B e che non conviene ad alcun A, CB sarà vera e CA falsa. È manifesto allora che, a proposito dei nessi indivisibili, vi può essere un sillogismo errato sia se entrambe le premesse sono false, sia se lo è una sola.

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CAPITOLO 17 Nel caso di termini che convengano non indivisibilmente, quando il sillogismo del falso si produca mediante il medio appropriato non è possibile che entrambe le premesse siano false, ma solo quella relativa all’estremo maggiore. Chiamo medio appropriato quello mediante il quale si produce il sillogismo della contraddittoria. Infatti A convenga a B mediante il medio C. Allora, poiché è necessario che la premessa CB sia assunta come affermativa, se si produce un sillogismo, è chiaro che essa sarà sempre vera; infatti non viene convertita. La premessa AC invece è falsa. Infatti è per conversione di questa premessa che si produce il sillogismo contrario. Similmente se il medio, come per esempio D13, è preso da un’altra catena predicativa, se D è in A come in un tutto e si predica di ogni B. Infatti è necessario che la premessa DB resti fissa e che l’altra sia convertita, per cui l’una è sempre vera e l’altra sempre falsa. Questo tipo di errore è più o meno lo stesso di quello che si produce mediante il medio appropriato. Qualora il sillogismo non si produca mediante il medio appropriato, quando il medio sia sotto A e non convenga ad alcun B, è necessario che entrambe le premesse siano false. Infatti le premesse devono essere prese all’incontrario di come stanno, se ha da esservi un 49

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terai giÄnontai ceude›w. oÂon efi tÚ m¢n A ˜lƒ t“ D Ípãrxei, tÚ d¢ D mhden‹ t«n B: éntistraf°ntvn går toÊtvn sullogismÒw tÉ ¶stai ka‹ afl protãseiw émfÒterai ceude›w. ˜tan d¢ mØ ¬ ÍpÚ tÚ A tÚ m°son, oÂon tÚ D, ≤ m¢n A D élhyØw ¶stai, ≤ d¢ D B ceudÆw. ≤ m¢n går A D élhyÆw, ˜ti oÈk ∑n §n t“ A tÚ D, ≤ d¢ D B ceudÆw, ˜ti efi ∑n élhyÆw, kín tÚ sump°rasma ∑n élhy°w: éllÉ ∑n ceËdow. Diå d¢ toË m°sou sxÆmatow ginom°nhw t∞w épãthw, émfot°raw m¢n oÈk §nd°xetai ceude›w e‰nai tåw protãseiw ˜law (˜tan går ¬ tÚ B ÍpÚ tÚ A, oÈd¢n §nd°xetai t“ m¢n pant‹ t“ d¢ mhden‹ Ípãrxein, kayãper §l°xyh ka‹ prÒteron), tØn •t°ran dÉ §gxvre›, ka‹ ıpot°ran ¶tuxen. efi går tÚ G ka‹ t“ A ka‹ t“ B Ípãrxei, §ån lhfyª t“ m¢n A Ípãrxein t“ d¢ B mØ Ípãrxein, ≤ m¢n G A élhyØw ¶stai, ≤ dÉ •t°ra ceudÆw. pãlin dÉ efi t“ m¢n B lhfyeiÄh tÚ G Ípãrxon, t“ d¢ A mhdeniÄ, ≤ m¢n G B élhyØw ¶stai, ≤ dÉ •t°ra ceudÆw. ÉEån m¢n oÔn sterhtikÚw ¬ t∞w épãthw ı sullogismÒw, e‡rhtai pÒte ka‹ diå tiÄnvn ¶stai ≤ épãth: §ån d¢ katafatikÒw, ˜tan m¢n diå toË ofikeiÄou m°sou, édÊnaton émfot°raw e‰nai ceude›w: énãgkh går tØn G B m°nein, e‡per ¶stai sullogismÒw, kayãper §l°xyh ka‹ prÒteron. Àste ≤ A G ée‹ ¶stai ceudÆw: aÏth gãr §stin ≤ éntistrefom°nh. ımoiÄvw d¢ ka‹ efi §j êllhw sustoixiÄaw lambãnoito tÚ m°son, Àsper §l°xyh ka‹ §p‹ t∞w sterhtik∞w épãthw: énãgkh går tØn m¢n D B m°nein, tØn dÉ A D éntistr°fesyai, ka‹ ≤ épãth ≤ aÈtØ tª prÒteron. ˜tan d¢ mØ diå toË ofikeiÄou, §ån m¢n ¬ tÚ D ÍpÚ tÚ A, aÏth m¢n ¶stai élhyÆw, ≤ •t°ra d¢ ceudÆw: §gxvre› går tÚ A pleiÄosin Ípãrxein ì oÈk ¶stin ÍpÉ êllhla. §ån d¢ mØ ¬ tÚ D ÍpÚ tÚ A, aÏth m¢n ée‹ d∞lon ˜ti ¶stai ceudÆw (katafatikØ går lambãnetai), tØn d¢ D B §nd°xetai ka‹ élhy∞ e‰nai ka‹ ceud∞: oÈd¢n går kvlÊei tÚ m¢n A t“ D mhden‹ Ípãrxein, tÚ d¢ D t“ B pantiÄ, oÂon z“on §pistÆm˙, §pistÆmh d¢ mousikª. oÈdÉ aÔ mÆte tÚ A mhden‹ t«n D mÆte tÚ D mhden‹ t«n B. fanerÚn oÔn ˜ti mØ ˆntow toË m°sou ÍpÚ tÚ A ka‹ émfot°raw §gxvre› ceude›w e‰nai ka‹ ıpot°ran ¶tuxen. Posax«w m¢n oÔn ka‹ diå tiÄnvn §gxvre› giÄnesyai tåw

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sillogismo. Ma prese così, sono entrambe false, come per esempio se A conviene a tutto D e D non conviene ad alcuno dei B. Infatti per conversione di queste premesse si avrà un sillogismo e le premesse saranno entrambe false. Quando invece il medio, come per esempio D, non sia sotto A, la premessa AD sarà vera e quella DB falsa. Infatti AD è vera, perché D non è, come si è detto, in A, e DB è falsa, perché, se fosse vera, anche la conclusione sarebbe vera, mentre si è detto che è falsa. Se l’errore è prodotto mediante la figura di mezzo, non è possibile che entrambe le premesse siano totalmente false (infatti quando B sia sotto A, non è possibile che alcunché convenga alla totalità dell’uno e a nulla dell’altro, come è stato detto anche prima14), mentre è possibile che lo sia una delle due, ed una qualsiasi delle due. Infatti se C conviene ad A e a B, qualora si assuma che C conviene ad A e non conviene a B, la premessa CA sarà vera e l’altra falsa. Ancora, se si assume che C conviene a B e che non conviene ad alcun A, la premessa CB sarà vera e l’altra falsa. Qualora il sillogismo dell’errore sia privativo, si è detto quando e attraverso quali premesse si può avere l’errore. Qualora invece il sillogismo sia affermativo, quando si produca mediante il medio appropriato, è impossibile che entrambe le premesse siano false. Infatti è necessario che la premessa CB resti fissa, se ha da esservi un sillogismo, come si è detto anche prima. Di conseguenza la premessa AC sarà sempre falsa; infatti essa è quella che è convertita. Similmente se il medio fosse preso da un’altra catena predicativa, così come si è detto a proposito dell’errore privativo15. Infatti è necessario che la premessa DB resti fissa e che quella AD sia convertita e l’errore è lo stesso di prima. Quando invece il sillogismo non si produca mediante il medio appropriato, qualora D sia sotto A, questa premessa sarà vera e l’altra falsa. Infatti è possibile che A convenga a più termini che non sono uno sotto l’altro. Qualora invece D non sia sotto A, è chiaro che questa premessa sarà sempre falsa (infatti è assunta come affermativa), mentre la premessa DB può essere sia vera sia falsa. Infatti nulla impedisce che A non convenga ad alcun D e che D convenga ad ogni B, come per esempio animale a scienza e scienza a musica. Parimenti nulla impedisce che A non convenga ad alcuno dei D e che D non convenga ad alcuno dei B. È manifesto allora che se il medio non è sotto A è possibile sia che entrambe le premesse siano false sia che lo sia una delle due, ma non una qualunque delle due16. È manifesto allora in quanti modi e mediante quali premesse sia 51

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katå sullogismÚn épãtaw ¶n te to›w ém°soiw ka‹ §n to›w diÉ épodeiÄjevw, fanerÒn.

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FanerÚn d¢ ka‹ ˜ti, e‡ tiw a‡syhsiw §kl°loipen, énãgkh ka‹ §pistÆmhn tinå §kleloip°nai, ∂n édÊnaton labe›n, e‡per manyãnomen μ §pagvgª μ épodeiÄjei, ¶sti dÉ ≤ m¢n épÒdeijiw §k t«n kayÒlou, ≤ dÉ §pagvgØ §k t«n katå m°row, édÊnaton d¢ tå kayÒlou yevr∞sai mØ diÉ §pagvg∞w (§pe‹ ka‹ tå §j éfair°sevw legÒmena ¶stai diÉ §pagvg∞w gn≈rima poie›n, ˜ti Ípãrxei •kãstƒ g°nei ¶nia, ka‹ efi mØ xvristã §stin, √ toiond‹ ßkaston), §paxy∞nai d¢ mØ ¶xontaw a‡syhsin édÊnaton. t«n går kayÉ ßkaston ≤ a‡syhsiw: oÈ går §nd°xetai labe›n aÈt«n tØn §pistÆmhn: oÎte går §k t«n kayÒlou êneu §pagvg∞w, oÎte diÉ §pagvg∞w êneu t∞w afisyÆsevw.

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ÖEsti d¢ pçw sullogismÚw diå tri«n ˜rvn, ka‹ ı m¢n deiknÊnai dunãmenow ˜ti Ípãrxei tÚ A t“ G diå tÚ Ípãrxein t“ B ka‹ toËto t“ G, ı d¢ sterhtikÒw, tØn m¢n •t°ran prÒtasin ¶xvn ˜ti Ípãrxei ti êllo êllƒ, tØn dÉ •t°ran ˜ti oÈx Ípãrxei. fanerÚn oÔn ˜ti afl m¢n érxa‹ ka‹ afl legÒmenai Ípoy°seiw ataiÄ efisi: labÒnta går taËta oÏtvw énãgkh deiknÊnai, oÂon ˜ti tÚ A t“ G Ípãrxei diå toË B, pãlin dÉ ˜ti tÚ A t“ B diÉ êllou m°sou, ka‹ ˜ti tÚ B t“ G …saÊtvw. katå m¢n oÔn dÒjan sullogizom°noiw ka‹ mÒnon dialektik«w d∞lon ˜ti toËto mÒnon skept°on, efi §j œn §nd°xetai §ndojotãtvn giÄnetai ı sullogismÒw, ÀstÉ efi ka‹ mØ ¶sti ti tª élhyeiÄ& t«n A B m°son, doke› d¢ e‰nai, ı diå toÊtou sullogizÒmenow sullelÒgistai dialektik«w: prÚw dÉ élÆyeian §k t«n ÍparxÒntvn de› skope›n. ¶xei dÉ oÏtvw: §peidØ ¶stin ˘ aÈtÚ m¢n katÉ êllou kathgore›tai mØ katå sumbebhkÒw^l°gv d¢ tÚ katå sumbebhkÒw, oÂon tÚ leukÒn potÉ §ke›nÒ famen e‰nai ênyrvpon, oÈx ımoiÄvw l°gontew

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possibile che si producano gli errori basati sul sillogismo sia nel caso di proposizioni immediate sia nel caso di proposizioni ottenute per dimostrazione.

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CAPITOLO 18 È anche manifesto che, se manca una qualche capacità percettiva, è necessario che manchi anche un qualche tipo di conoscenza scientifica, che è impossibile acquisire, se davvero apprendiamo o per induzione o per dimostrazione. La dimostrazione procede dagli universali e l’induzione dai particolari ed è impossibile considerare gli universali se non per induzione (tenuto conto che anche le cose dette per astrazione possono essere rese note per induzione, e precisamente che alcuni termini convengono a ciascun genere in quanto ciascuno di essi è tale, anche se non sono separati) ed è impossibile che coloro i quali non hanno una capacità percettiva facciano un’induzione. Infatti la capacità percettiva è dei singolari; infatti non è possibile acquisire la conoscenza scientifica di essi, giacché essa non procede dagli universali senza l’induzione, né procede dall’induzione senza la capacità percettiva.

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CAPITOLO 19 Ogni sillogismo è in forza di tre termini ed un tipo è capace di provare che A conviene a C grazie al suo convenire a B e al convenire di questo a C, mentre un altro tipo è privativo ed ha una premessa in cui qualcosa conviene a qualcosa e l’altra premessa in cui qualcosa non conviene a qualcosa. Allora è manifesto che queste premesse sono i principi e le cosiddette presupposizioni; infatti è assumendole così che è necessario provare, per esempio, che A conviene a C in forza di B, e ancora che A conviene a B in forza di un altro medio e ugualmente che B conviene a C. È chiaro che coloro i quali sillogizzano nell’ambito dell’opinione e soltanto dialetticamente devono esaminare solo questo, e precisamente se le premesse da cui si produce il sillogismo siano le più accettabili, cosicché anche se in verità non vi è un medio tra i termini A B, ma sembra esservi, chi sillogizza in forza di esso sillogizza dialetticamente. Invece colui il quale sillogizza in vista della verità deve cercare di procedere da nessi che siano in realtà. Le cose stanno nel modo seguente. Poiché c’è ciò che si predica di altro non accidentalmente (dico accidentalmente nel senso in cui, per esempio, diciamo talvolta che quel bianco è un uomo, che non è la 53

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ka‹ tÚn ênyrvpon leukÒn: ı m¢n går oÈx ßterÒn ti Ãn leukÒw §sti, tÚ d¢ leukÒn, ˜ti sumb°bhke t“ ényr≈pƒ e‰nai leuk“^¶stin oÔn ¶nia toiaËta Àste kayÉ aÍtå kathgore›syai. ÖEstv dØ tÚ G toioËton ˘ aÈtÚ m¢n mhk°ti Ípãrxei êllƒ, toÊtƒ d¢ tÚ B pr≈tƒ, ka‹ oÈk ¶stin êllo metajÊ. ka‹ pãlin tÚ E t“ Z …saÊtvw, ka‹ toËto t“ B. îrÉ oÔn toËto énãgkh st∞nai, μ §nd°xetai efiw êpeiron fi°nai; ka‹ pãlin efi toË m¢n A mhd¢n kathgore›tai kayÉ aÍtÒ, tÚ d¢ A t“ Y Ípãrxei pr≈tƒ, metajÁ d¢ mhden‹ prot°rƒ, ka‹ tÚ Y t“ H, ka‹ toËto t“ B, îra ka‹ toËto ·stasyai énãgkh, μ ka‹ toËtÉ §nd°xetai efiw êpeiron fi°nai; diaf°rei d¢ toËto toË prÒteron tosoËton, ˜ti tÚ m°n §stin, îra §nd°xetai érjam°nƒ épÚ toioÊtou ˘ mhden‹ Ípãrxei •t°rƒ éllÉ êllo §keiÄnƒ, §p‹ tÚ ênv efiw êpeiron fi°nai, yãteron d¢ érjãmenon épÚ toioÊtou ˘ aÈtÚ m¢n êllou, §keiÄnou d¢ mhd¢n kathgore›tai, §p‹ tÚ kãtv skope›n efi §nd°xetai efiw êpeiron fi°nai. ÖEti tå metajÁ îrÉ §nd°xetai êpeira e‰nai …rism°nvn t«n êkrvn; l°gv dÉ oÂon efi tÚ A t“ G Ípãrxei, m°son dÉ aÈt«n tÚ B, toË d¢ B ka‹ toË A ßtera, toÊtvn dÉ êlla, îra ka‹ taËta efiw êpeiron §nd°xetai fi°nai, μ édÊnaton; ¶sti d¢ toËto skope›n taÈtÚ ka‹ efi afl épodeiÄjeiw efiw êpeiron ¶rxontai, ka‹ efi ¶stin épÒdeijiw ëpantow, μ prÚw êllhla peraiÄnetai. ÑOmoiÄvw d¢ l°gv ka‹ §p‹ t«n sterhtik«n sullogism«n ka‹ protãsevn, oÂon efi tÚ A mØ Ípãrxei t“ B mhdeniÄ, ≥toi pr≈tƒ, μ ¶stai ti metajÁ ⁄ prot°rƒ oÈx Ípãrxei (oÂon efi t“ H, ˘ t“ B Ípãrxei pantiÄ), ka‹ pãlin toÊtou ¶ti êllƒ prot°rƒ, oÂon efi t“ Y, ˘ t“ H pant‹ Ípãrxei. ka‹ går §p‹ toÊtvn μ êpeira oÂw oÈx Ípãrxei prot°roiw, μ ·statai. ÉEp‹ d¢ t«n éntistrefÒntvn oÈx ımoiÄvw ¶xei. oÈ går ¶stin §n to›w éntikathgoroum°noiw o pr≈tou kathgore›tai μ teleutaiÄou: pãnta går prÚw pãnta taÊt˙ ge ımoiÄvw ¶xei, e‡ tÉ §st‹n êpeira tå katÉ aÈtoË kathgoroÊmena, §p' émfÒterã §sti tå éporhy°nta êpeira: plØn efi mØ ımoiÄvw §nd°xetai éntistr°fein, éllå tÚ m¢n …w sumbebhkÒw, tÚ dÉ …w kathgoriÄan.

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stessa cosa che dire che l’uomo è bianco: infatti l’uomo non è bianco essendo qualcos’altro, mentre il bianco è un uomo perché sopravviene all’uomo di essere bianco), vi sono allora alcune cose che si predicano per sé. Sia allora C tale che non conviene ulteriormente ad un altro e a questo B convenga primitivamente, senza che vi sia nessun altro termine intermedio. Ancora, E convenga a F nello stesso modo e questo a B. È necessario che questa serie si fermi o è possibile che vada all’infinito? Ancora, se nulla si predica per sé di A ed A conviene primitivamente a H e a nessun termine intermedio antecedente, e H a G e questo a B, è necessario che anche questa serie si fermi o è possibile che anch’essa vada all’infinito? Questo caso differisce dal precedente nella misura che l’uno è se sia possibile andare all’infinito verso l’alto cominciando da ciò che non conviene a nessun altro, mentre altro conviene ad esso; l’altro caso invece consiste nell’esaminare se è possibile andare all’infinito verso il basso cominciando da ciò che si predica di altro, mentre nulla si predica di esso. Ancora, è possibile che i termini intermedi siano infiniti, pur essendo fissati gli estremi? Voglio dire, per esempio: se A conviene a C e il medio tra essi è B e vi sono altri medi tra B ed A e altri ancora tra questi, è possibile che anche questi termini vadano all’infinito, oppure è impossibile? Esaminare ciò è la stessa cosa che esaminare se le dimostrazioni vanno all’infinito e se c’è dimostrazione di tutto, oppure se i termini si limitino reciprocamente. La stessa cosa dico a proposito dei sillogismi e delle premesse privativi: per esempio A, se non conviene ad alcun B, o non conviene ad esso primitivamente, oppure ci sarà un termine intermedio antecedente al quale A non conviene (per esempio se A non conviene a G, che conviene ad ogni B) e daccapo ad un altro ancora antecedente a questo, come per esempio se non conviene a H il quale conviene ad ogni G. Infatti anche in questi casi o sono infiniti i termini antecedenti ai quali A non conviene17, oppure si fermano. Nel caso dei termini convertibili le cose non stanno allo stesso modo. Infatti per i termini che si predicano l’uno dell’altro non c’è un termine primo o ultimo del quale gli altri si predicano. Infatti da questo punto di vista tutti sono rispetto a tutti nella stessa situazione, e se sono infiniti i termini che si predicano di un termine, sono infinite nelle due direzioni le serie a proposito delle quali abbiamo sollevato il problema18. A meno che non sia possibile che i termini si convertano allo stesso modo, ma un termine si converta come un accidente e l’altro come un predicato vero e proprio. 55

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ÜOti m¢n oÔn tå metajÁ oÈk §nd°xetai êpeira e‰nai, efi §p‹ tÚ kãtv ka‹ tÚ ênv ·stantai afl kathgoriÄai, d∞lon. l°gv dÉ ênv m¢n tØn §p‹ tÚ kayÒlou mçllon, kãtv d¢ tØn §p‹ tÚ katå m°row. efi går toË A kathgoroum°nou katå toË Z êpeira tå metajÊ, §fÉ œn B, d∞lon ˜ti §nd°xoitÉ ín Àste ka‹ épÚ toË A §p‹ tÚ kãtv ßteron •t°rou kathgore›syai efiw êpeiron (pr‹n går §p‹ tÚ Z §lye›n, êpeira tå metajÊ) ka‹ épÚ toË Z §p‹ tÚ ênv êpeira, pr‹n §p‹ tÚ A §lye›n. ÀstÉ efi taËta édÊnata, ka‹ toË A ka‹ Z édÊnaton êpeira e‰nai metajÊ. oÈd¢ går e‡ tiw l°goi ˜ti tå m°n §sti t«n A B Z §xÒmena éllÆlvn Àste mØ e‰nai metajÊ, tå dÉ oÈk ¶sti labe›n, oÈd¢n diaf°rei. ˘ går ín lãbv t«n B, ¶stai prÚw tÚ A μ prÚw tÚ Z μ êpeira tå metajÁ μ oÎ. éfÉ o dØ pr«ton êpeira, e‡tÉ eÈyÁw e‡te mØ eÈyÊw, oÈd¢n diaf°rei: tå går metå taËta êpeirã §stin.

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FanerÚn d¢ ka‹ §p‹ t∞w sterhtik∞w épodeiÄjevw ˜ti stÆsetai, e‡per §p‹ t∞w kathgorik∞w ·statai §pÉ émfÒtera. ¶stv går mØ §ndexÒmenon mÆte §p‹ tÚ ênv épÚ toË Ístãtou efiw êpeiron fi°nai (l°gv dÉ Ïstaton ˘ aÈtÚ m¢n êllƒ mhden‹ Ípãrxei, §keiÄnƒ d¢ êllo, oÂon tÚ Z) mÆte épÚ toË pr≈tou §p‹ tÚ Ïstaton (l°gv d¢ pr«ton ˘ aÈtÚ m¢n katÉ êllou, katÉ §keiÄnou d¢ mhd¢n êllo). efi dØ taËtÉ ¶sti, ka‹ §p‹ t∞w épofãsevw stÆsetai. trix«w går deiÄknutai mØ Ípãrxon. μ går ⁄ m¢n tÚ G, tÚ B Ípãrxei pantiÄ, ⁄ d¢ tÚ B, oÈden‹ tÚ A. toË m¢n toiÄnun B G, ka‹ ée‹ toË •t°rou diastÆmatow, énãgkh badiÄzein efiw êmesa: kathgorikÚn går toËto tÚ diãsthma. tÚ dÉ ßteron d∞lon ˜ti efi êllƒ oÈx Ípãrxei prot°rƒ, oÂon t“ D, toËto deÆsei t“ B pant‹ Ípãrxein. ka‹ efi pãlin êllƒ toË D prot°rƒ oÈx Ípãrxei, §ke›no deÆsei t“ D pant‹ Ípãrxein. ÀstÉ §pe‹ ≤ §p‹ tÚ ênv ·statai ıdÒw, ka‹ ≤ §p‹ tÚ A stÆsetai, ka‹ ¶stai ti pr«ton ⁄ oÈx Ípãrxei.

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CAPITOLO 20 È chiaro dunque che i termini intermedi non possano essere infiniti se le predicazioni hanno un punto d’arresto verso il basso e verso l’alto. Dico verso l’alto la predicazione verso ciò che è più universale e verso il basso quella verso il particolare. Infatti se, predicandosi A di F, i termini intermedi, indicati da B, sono infiniti, è chiaro che tanto a partire da A verso il basso un termine potrebbe predicarsi di un altro all’infinito (infatti prima di giungere a F i termini intermedi sono infiniti) quanto a partire da F verso l’alto ci sarebbero infiniti termini prima di giungere ad A. Di conseguenza, se questi casi sono impossibili, è anche impossibile che vi siano infiniti termini intermedi fra A e F. Non farebbe alcuna differenza nemmeno se uno dicesse che alcuni dei termini A B F sono relati fra loro in modo tale da non avere termini intermedi e che gli altri termini non è possibile prenderli. Infatti quale che sia il termine che prendo fra i B, i termini intermedi o verso A o verso F saranno infiniti oppure no. Non fa alcuna differenza quale sia il primo termine a partire dal quale i termini sono infiniti, sia subito sia non subito. Infatti i termini dopo questi sono infiniti.

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CAPITOLO 21 È manifesto anche per la dimostrazione privativa che ci sarà un punto d’arresto, se ce ne è uno da entrambe le parti per la dimostrazione affermativa. Poniamo infatti che non sia possibile andare all’infinito né dall’ultimo termine verso l’alto (chiamo ultimo quel termine che non conviene a nessun altro, mentre un altro, per esempio F, conviene ad esso), né dal primo termine verso l’ultimo (chiamo primo quel termine che si predica sì di un altro, ma nessun altro si predica di esso). Allora se si verifica questa situazione, ci sarà un punto d’arresto anche per la negazione. Infatti il non convenire è provato in tre modi. Nel primo modo B conviene a tutto ciò a cui conviene C e A non conviene ad alcunché di ciò a cui conviene B. Allora per BC, e in ogni caso per l’altro intervallo predicativo, è necessario giungere a degli immediati. Infatti questo intervallo è positivo. È chiaro poi che, se c’è un termine anteriore, per esempio D, al quale l’altro termine non conviene, tale termine dovrà convenire ad ogni B. E se daccapo c’è un altro termine anteriore a D al quale A non conviene, tale termine dovrà convenire ad ogni D. Di conseguenza poiché la strada verso l’alto ha un punto di arresto, lo avrà anche quella verso A e ci sarà un termine primo al quale A non conviene.

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Pãlin efi tÚ m¢n B pant‹ t“ A, t“ d¢ G mhdeniÄ, tÚ A t«n G oÈden‹ Ípãrxei. pãlin toËto efi de› de›jai, d∞lon ˜ti μ diå toË ênv trÒpou deixyÆsetai μ diå toÊtou μ toË triÄtou. ı m¢n oÔn pr«tow e‡rhtai, ı d¢ deÊterow deixyÆsetai. oÏtv dÉ ín deiknÊ˙, oÂon ˜ti tÚ D t“ m¢n B pant‹ Ípãrxei, t“ d¢ G oÈdeniÄ, énãgkh Ípãrxein ti t“ B. ka‹ pãlin efi toËto t“ G mØ Ípãrjei, êllo t“ D Ípãrxei, ˘ t“ G oÈx Ípãrxei. oÈkoËn §pe‹ tÚ Ípãrxein ée‹ t“ énvt°rv ·statai, stÆsetai ka‹ tÚ mØ Ípãrxein. ÑO d¢ triÄtow trÒpow ∑n: efi tÚ m¢n A t“ B pant‹ Ípãrxei, tÚ d¢ G mØ Ípãrxei, oÈ pant‹ Ípãrxei tÚ G ⁄ tÚ A. pãlin d¢ toËto μ diå t«n ênv efirhm°nvn μ ımoiÄvw deixyÆsetai. §keiÄnvw m¢n dØ ·statai, efi dÉ oÏtv, pãlin lÆcetai tÚ B t“ E Ípãrxein, ⁄ tÚ G mØ pant‹ Ípãrxei. ka‹ toËto pãlin ımoiÄvw. §pe‹ dÉ ÍpÒkeitai ·stasyai ka‹ §p‹ tÚ kãtv, d∞lon ˜ti stÆsetai ka‹ tÚ G oÈx Ípãrxon. FanerÚn dÉ ˜ti ka‹ §ån mØ miò ıd“ deiknÊhtai éllå pãsaiw, ıt¢ m¢n §k toË pr≈tou sxÆmatow, ıt¢ d¢ §k toË deut°rou μ triÄtou, ˜ti ka‹ oÏtv stÆsetai: peperasm°nai gãr efisin afl ıdoiÄ, tå d¢ peperasm°na peperasmenãkiw énãgkh peperãnyai pãnta. ÜOti m¢n oÔn §p‹ t∞w sterÆsevw, e‡per ka‹ §p‹ toË Ípãrxein, ·statai, d∞lon. ˜ti dÉ §pÉ §keiÄnvn, logik«w m¢n yevroËsin œde fanerÒn.

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ÉEp‹ m¢n oÔn t«n §n t“ tiÄ §sti kathgoroum°nvn d∞lon: efi går ¶stin ıriÄsasyai μ efi gnvstÚn tÚ tiÄ ∑n e‰nai, tå dÉ êpeira mØ ¶sti dielye›n, énãgkh peperãnyai tå §n t“ tiÄ §sti kathgoroÊmena. kayÒlou d¢ œde l°gomen. ¶sti går efipe›n élhy«w tÚ leukÚn badiÄzein ka‹ tÚ m°ga §ke›no jÊlon e‰nai, ka‹ pãlin tÚ jÊlon m°ga e‰nai ka‹ tÚn ênyrvpon badiÄzein. ßteron dÆ §sti tÚ oÏtvw efipe›n ka‹ tÚ §keiÄnvw. ˜tan m¢n går tÚ leukÚn e‰nai f« jÊlon, tÒte l°gv ˜ti ⁄ sumb°bhke leuk“ e‰nai jÊlon §stiÄn, éllÉ oÈx …w tÚ ÍpokeiÄmenon t“ jÊlƒ tÚ leukÒn §sti: ka‹ går oÎte leukÚn ¯n oÎyÉ ˜per

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Ancora, se B conviene ad ogni A e non conviene ad alcun C, A non conviene ad alcuno dei C. Daccapo, se bisogna provare ciò, è chiaro che verrà provato o mediante il modo precedente o mediante questo o mediante il terzo. A proposito del primo si è detto e il secondo sarà provato ora. Qualora si provi in questo modo, per esempio che D conviene ad ogni B e non conviene ad alcun C, è necessario che qualcosa convenga a B19. E daccapo se D non converrà a C, un altro termine conviene a D il quale non conviene a C. Pertanto poiché il convenire ad un termine sempre più alto ha un punto d’arresto, lo avrà anche il non convenire. Il terzo modo di cui si è parlato è il seguente: se A conviene ad ogni B e C non conviene ad ogni B, C non conviene a tutto ciò a cui conviene A. Daccapo ciò verrà provato attraverso uno dei modi detti sopra oppure nello stesso modo. Negli altri modi c’è un punto d’arresto; se invece si procede in questo modo, daccapo si assumerà che B conviene ad E, non a tutto il quale C conviene. E ciò daccapo sarà provato nello stesso modo. Poiché si è supposto che ci sia un punto d’arresto anche verso il basso, è chiaro che avrà un punto d’arresto anche il non convenire di C. È manifesto che anche qualora si provi non con un solo metodo, ma con tutti, procedendo talvolta dalla prima figura, talvolta dalla seconda o dalla terza, anche così ci sarà un punto d’arresto. Infatti i metodi sono limitati di numero e cose finite prese un numero finito di volte è necessario che siano tutte finite. È chiaro allora che c’è un punto d’arresto per la privazione, se c’è anche per il convenire. Che vi sia un punto d’arresto anche in questi ultimi casi sarà manifesto nel modo seguente per chi consideri le cose in termini generali.

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CAPITOLO 22 Che ciò avvenga per i predicati nel che cos’è è chiaro. Infatti se è possibile definire o se l’essere corrispondente al che cos’è è conoscibile e non è possibile attraversare un’infinità di cose, è necessario che i predicati nel che cos’è siano finiti di numero. Da un punto di vista generale diciamo quanto segue. È possibile dire con verità che il bianco cammina e che quel grande è legno e, ancora, che il legno è grande e che l’uomo cammina. In effetti è diverso esprimersi nell’uno e nell’altro modo, giacché quando asserisco che il bianco è legno, dico che ciò a cui sopravviene di essere bianco è legno, ma non che il bianco è il soggetto soggiacente al legno. Infatti non è per essere bianco o proprio ciò che è un tipo di bianco che il 59

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leukÒn ti §g°neto jÊlon, ÀstÉ oÈk ¶stin éllÉ μ katå sumbebhkÒw. ˜tan d¢ tÚ jÊlon leukÚn e‰nai f«, oÈx ˜ti ßterÒn tiÄ §sti leukÒn, §keiÄnƒ d¢ sumb°bhke jÊlƒ e‰nai, oÂon ˜tan tÚ mousikÚn leukÚn e‰nai f« (tÒte går ˜ti ı ênyrvpow leukÒw §stin, ⁄ sumb°bhken e‰nai mousik“, l°gv), éllå tÚ jÊlon §st‹ tÚ ÍpokeiÄmenon, ˜per ka‹ §g°neto, oÈx ßterÒn ti ¯n μ ˜per jÊlon μ jÊlon tiÄ. efi dØ de› nomoyet∞sai, ¶stv tÚ oÏtv l°gein kathgore›n, tÚ dÉ §keiÄnvw ≥toi mhdam«w kathgore›n, μ kathgore›n m¢n mØ èpl«w, katå sumbebhkÚw d¢ kathgore›n. ¶sti dÉ …w m¢n tÚ leukÚn tÚ kathgoroÊmenon, …w d¢ tÚ jÊlon tÚ o kathgore›tai. ÍpokeiÄsyv dØ tÚ kathgoroÊmenon kathgore›syai éeiÄ, o kathgore›tai, èpl«w, éllå mØ katå sumbebhkÒw: oÏtv går afl épodeiÄjeiw épodeiknÊousin. Àste μ §n t“ tiÄ §stin μ ˜ti poiÚn μ posÚn μ prÒw ti μ poioËn ti μ pãsxon μ poÁ μ pot°, ˜tan ©n kayÉ •nÚw kathgorhyª. ÖEti tå m¢n oÈsiÄan shmaiÄnonta ˜per §ke›no μ ˜per §ke›nÒ ti shmaiÄnei kayÉ o kathgore›tai: ˜sa d¢ mØ oÈsiÄan shmaiÄnei, éllå katÉ êllou Ípokeim°nou l°getai ı mØ ¶sti mÆte ˜per §ke›no mÆte ˜per §ke›nÒ ti, sumbebhkÒta, oÂon katå toË ényr≈pou tÚ leukÒn. oÈ gãr §stin ı ênyrvpow oÎte ˜per leukÚn oÎte ˜per leukÒn ti, éllå z“on ‡svw: ˜per går z“Òn §stin ı ênyrvpow. ˜sa d¢ mØ oÈsiÄan shmaiÄnei, de› katã tinow Ípokeim°nou kathgore›syai, ka‹ mØ e‰naiÄ ti leukÚn ˘ oÈx ßterÒn ti ¯n leukÒn §stin. tå går e‡dh xair°tv: teretiÄsmatã te gãr §sti, ka‹ efi ¶stin, oÈd¢n prÚw tÚn lÒgon §stiÄn: afl går épodeiÄjeiw per‹ t«n toioÊtvn efisiÄn. ÖEti efi mØ ¶sti tÒde toËde poiÒthw kéke›no toÊtou, mhd¢ poiÒthtow poiÒthw, édÊnaton éntikathgore›syai éllÆlvn oÏtvw, éllÉ élhy¢w m¢n §nd°xetai efipe›n, éntikathgor∞sai dÉ élhy«w oÈk §nd°xetai. μ gãr toi …w oÈsiÄa kathgorhyÆsetai, oÂon μ g°now ¯n μ diaforå toË kathgoroum°nou. taËta d¢ d°deiktai ˜ti oÈk ¶stai êpeira, oÎtÉ §p‹ tÚ kãtv oÎtÉ §p‹ tÚ ênv (oÂon ênyrvpow diÄpoun, toËto z“on, toËto dÉ ßteron: oÈd¢ tÚ z“on katÉ ényr≈pou, toËto d¢ katå KalliÄou, toËto d¢ katÉ êllou §n t“ tiÄ §stin), tØn m¢n går oÈsiÄan ëpasan ¶stin ıriÄsasyai tØn toiaÊthn, tå dÉ êpeira oÈk ¶sti diejel-

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bianco è pervenuto ad essere legno; di conseguenza il bianco non è legno se non per accidente. Quando invece asserisco che il legno è bianco, non dico che è bianco qualcosa d’altro a cui sopravviene di essere legno, come quando asserisco che il musico è bianco (infatti in questo caso dico che l’uomo, al quale sopravviene di essere musico, è bianco), ma il legno è il soggetto soggiacente, il quale è pervenuto ad essere tale, non essendo nient’altro che proprio quel che è legno o un tipo di legno. Allora, se si deve dare una regola, esprimersi così sia predicare; esprimersi nell’altro modo o non sia affatto predicare oppure sia sì predicare, ma non in senso proprio, bensì accidentalmente. Il predicato è come il bianco e ciò di cui esso si predica come il legno. Si presupponga allora che il predicato si predichi di ciò di cui si predica sempre in senso proprio e non accidentalmente. Infatti è così che le dimostrazioni dimostrano. Di conseguenza, quando una cosa sia predicata di una cosa, o si predica nel che cos’è, oppure si dice che il soggetto ha una qualità, o ha una quantità, o che è in relazione a qualcosa, o che agisce, o che subisce, o che è in qualche luogo o in qualche tempo. Inoltre i termini che significano la sostanza significano di ciò di cui si predicano ciò che è proprio quella cosa lì o un tipo particolare di essa. Invece i termini che non significano la sostanza, ma si dicono di un soggetto soggiacente diverso il quale non è né proprio ciò che è quella cosa lì né un tipo particolare di essa, sono accidenti, come per esempio il bianco detto dell’uomo. Infatti l’uomo non è né proprio ciò che è bianco né proprio ciò che è un tipo di bianco, ma semmai animale. Infatti l’uomo è proprio quel che è animale. Le cose che non significano la sostanza devono essere predicate di un soggetto soggiacente e non ci può essere qualcosa di bianco che è bianco senz’essere qualcosa d’altro. Infatti possiamo dire addio alle forme. Esse sono chiacchiere, ed anche se ci sono non hanno nulla a che vedere con la presente discussione, perché le dimostrazioni riguardano cose del tipo che ho descritto. Inoltre se questo non è una qualità di quello e quello di questo, né una qualità di una qualità, è impossibile che i due termini si contropredichino reciprocamente così, ma è possibile che sia vero dirli, mentre non è possibile che davvero si contropredichino. Un termine può essere predicato come sostanza, essendo per esempio genere o differenza di ciò di cui si predica. Ora si è provato che questi termini non sono infiniti, né verso il basso né verso l’alto (per esempio, l’uomo è bipede, questo è animale, e questo qualcosa d’altro; né animale si dice di uomo, questo di Callia e questo di qualcosa d’altro nel suo che cos’è). Infatti ogni sostanza siffatta può essere definita, 61

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ye›n nooËnta. ÀstÉ oÎtÉ §p‹ tÚ ênv oÎtÉ §p‹ tÚ kãtv êpeira: §keiÄnhn går oÈk ¶stin ıriÄsasyai ∏w tå êpeira kathgore›tai. …w m¢n dØ g°nh éllÆlvn oÈk éntikathgorhyÆsetai: ¶stai går aÈtÚ ˜per aÈtÒ ti. oÈd¢ mØn toË poioË μ t«n êllvn oÈd°n, ín mØ katå sumbebhkÚw kathgorhyª: pãnta går taËta sumb°bhke ka‹ katå t«n oÈsi«n kathgore›tai. éllå d∞lon ˜ti oÈdÉ efiw tÚ ênv êpeira ¶stai: •kãstou går kathgore›tai ˘ ín shmaiÄn˙ μ poiÒn ti μ posÒn ti ≥ ti t«n toioÊtvn μ tå §n tª oÈsiÄ&: taËta d¢ pep°rantai, ka‹ tå g°nh t«n kathgori«n pep°rantai: μ går poiÚn μ posÚn μ prÒw ti μ poioËn μ pãsxon μ poÁ μ pot°. ÑUpÒkeitai dØ ©n kayÉ •nÚw kathgore›syai, aÈtå d¢ aÍt«n, ˜sa mØ tiÄ §sti, mØ kathgore›syai. sumbebhkÒta gãr §sti pãnta, éllå tå m¢n kayÉ aÍtã, tå d¢ kayÉ ßteron trÒpon: taËta d¢ pãnta kayÉ Ípokeim°nou tinÚw kathgore›syaiÄ famen, tÚ d¢ sumbebhkÚw oÈk e‰nai ÍpokeiÄmenÒn ti: oÈd¢n går t«n toioÊtvn tiÄyemen e‰nai ˘ oÈx ßterÒn ti ¯n l°getai ˘ l°getai, éllÉ aÈtÚ êlloiw [ka‹ toËto kayÉ •t°rou]. oÎtÉ efiw tÚ ênv êra ©n kayÉ •nÚw oÎtÉ efiw tÚ kãtv Ípãrxein lexyÆsetai. kayÉ œn m¢n går l°getai tå sumbebhkÒta, ˜sa §n tª oÈsiÄ& •kãstou, taËta d¢ oÈk êpeira: ênv d¢ taËtã te ka‹ tå sumbebhkÒta, émfÒtera oÈk êpeira. énãgkh êra e‰naiÄ ti o pr«tÒn ti kathgore›tai ka‹ toÊtou êllo, ka‹ toËto ·stasyai ka‹ e‰naiÄ ti ˘ oÈk°ti oÎte katÉ êllou prot°rou oÎte katÉ §keiÄnou êllo prÒteron kathgore›tai. EÂw m¢n oÔn trÒpow l°getai épodeiÄjevw otow, ¶ti dÉ êllow, efi œn prÒtera êtta kathgore›tai, ¶sti toÊtvn épÒdeijiw, œn dÉ ¶stin épÒdeijiw, oÎte b°ltion ¶xein §gxvre› prÚw aÈtå toË efid°nai, oÎtÉ efid°nai êneu épodeiÄjevw, efi d¢ tÒde diå t«nde gn≈rimon, tãde d¢ mØ ‡smen mhd¢ b°ltion ¶xomen prÚw aÈtå toË efid°nai, oÈd¢ tÚ diå toÊtvn gn≈rimon §pisthsÒmeya. efi oÔn ¶sti ti efid°nai diÉ épodeiÄjevw èpl«w ka‹ mØ §k tin«n mhdÉ §j Ípoy°sevw, énãgkh ·stasyai tåw kathgoriÄaw tåw metajÊ. efi går mØ ·stantai, éllÉ ¶stin ée‹ toË lhfy°ntow §pãnv, èpãntvn ¶stai épÒdeijiw: ÀstÉ efi tå

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mentre non è possibile percorrere con il pensiero un’infinità di cose. Di conseguenza i termini non sono infiniti né verso l’alto né verso il basso. Infatti non è possibile definire quella sostanza della quale si predichino infiniti termini. Ora i termini che sono predicati come generi non si contropredicano, giacché una cosa sarebbe proprio quel che un suo tipo è. Né alcunché si predica di una qualità o di nessun altro degli altri termini, a meno che non si predichi accidentalmente. Infatti tutte queste cose sono accidenti e si predicano delle sostanze. Ma allora è chiaro che non saranno infiniti verso l’alto20. Infatti di ciascuna cosa si predica ciò che significa o una qualità o una quantità o una delle cose siffatte oppure le cose che sono nella sostanza. Ma queste cose sono finite e i generi dei predicati sono finiti. Infatti essi sono o qualità o quantità o relazione o agire o subire o luogo o tempo. Si suppone che una cosa si predichi di una cosa, e che quei termini che non significano che cos’è non si predichino di se stessi. Infatti essi sono tutti accidenti, anche se alcuni sono per sé ed altri in un altro modo. Diciamo che tutti si predicano di un qualche soggetto soggiacente e che l’accidente non è un soggetto soggiacente. Infatti poniamo che nessuna di tali cose sia a meno che sia detta essere quel che è detta essere essendo qualcosa d’altro e convenga ad altri21. Dunque il predicarsi di una cosa rispetto ad una cosa non può essere detto essere né verso l’alto né verso il basso. Infatti le cose di cui si dicono gli accidenti sono quelle nella sostanza di ciascuna cosa ed esse non sono infinite; esse e gli accidenti sono verso l’alto ed entrambi non sono infiniti. Dunque è necessario che ci sia qualcosa di primo di cui qualcosa si predica e qualcosa d’altro di questo ed è necessario che questo processo abbia un punto d’arresto, e che vi sia qualcosa il quale né mai si dica di un altro anteriore né un altro anteriore si dica di esso. Questo è, per così dire, un tipo di dimostrazione; ma ve n’è ancora un altro, se vi è dimostrazione delle cose delle quali altre antecedenti si predicano e se verso le cose delle quali vi è dimostrazione non è possibile essere in una condizione migliore che di saperle, né è possibile saperle senza dimostrazione. Ora se questo è reso noto mediante queste cose e queste cose non le sappiamo né siamo verso di esse in una condizione migliore che di saperle, allora non conosceremo scientificamente nemmeno ciò che è reso noto da esse. Pertanto se è possibile sapere qualcosa per dimostrazione in senso proprio e non a partire da alcune cose e da una presupposizione, è necessario che i predicati intermedi abbiano un punto d’arresto. Infatti se non avessero un punto d’arresto, ma vi fosse sempre qualcosa di superiore a quella assunta, vi sarebbe dimostrazione di tutte le cose. Di conseguenza se non è possibi63

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êpeira mØ §gxvre› dielye›n, œn ¶stin épÒdeijiw, taËtÉ oÈk efisÒmeya diÉ épodeiÄjevw. efi oÔn mhd¢ b°ltion ¶xomen prÚw aÈtå toË efid°nai, oÈk ¶stai oÈd¢n §piÄstasyai diÉ épodeiÄjevw èpl«w, éllÉ §j Ípoy°sevw. Logik«w m¢n oÔn §k toÊtvn ên tiw pisteÊseie per‹ toË lexy°ntow, énalutik«w d¢ diå t«nde fanerÚn suntom≈teron, ˜ti oÎtÉ §p‹ tÚ ênv oÎtÉ §p‹ tÚ kãtv êpeira tå kathgoroÊmena §nd°xetai e‰nai §n ta›w épodeiktika›w §pistÆmaiw, per‹ œn ≤ sk°ciw §stiÄn. ≤ m¢n går épÒdeijiÄw §sti t«n ˜sa Ípãrxei kayÉ aÍtå to›w prãgmasin. kayÉ aÍtå d¢ ditt«w: ˜sa te går [§n] §keiÄnoiw §nupãrxei §n t“ tiÄ §sti, ka‹ oÂw aÈtå §n t“ tiÄ §stin Ípãrxousin aÈto›w: oÂon t“ ériym“ tÚ perittÒn, ˘ Ípãrxei m¢n ériym“, §nupãrxei dÉ aÈtÚw ı ériymÚw §n t“ lÒgƒ aÈtoË, ka‹ pãlin pl∞yow μ tÚ diairetÚn §n t“ lÒgƒ t“ toË ériymoË §nupãrxei. toÊtvn dÉ oÈd°tera §nd°xetai êpeira e‰nai, oÎyÉ …w tÚ perittÚn toË ériymoË (pãlin går ín t“ peritt“ êllo e‡h ⁄ §nup∞rxen Ípãrxonti: toËto dÉ efi ¶sti, pr«ton ı ériymÚw §nupãrjei Ípãrxousin aÈt“: efi oÔn mØ §nd°xetai êpeira toiaËta Ípãrxein §n t“ •niÄ, oÈdÉ §p‹ tÚ ênv ¶stai êpeira: éllå mØn énãgkh ge pãnta Ípãrxein t“ pr≈tƒ, oÂon t“ ériym“, kékeiÄnoiw tÚn ériymÒn, ÀstÉ éntistr°fonta ¶stai, éllÉ oÈx ÍperteiÄnonta): oÈd¢ mØn ˜sa §n t“ tiÄ §stin §nupãrxei, oÈd¢ taËta êpeira: oÈd¢ går ín e‡h ıriÄsasyai. ÀstÉ efi tå m¢n kathgoroÊmena kayÉ aÍtå pãnta l°getai, taËta d¢ mØ êpeira, ·staito ín tå §p‹ tÚ ênv, Àste ka‹ §p‹ tÚ kãtv. Efi dÉ oÏtv, ka‹ tå §n t“ metajÁ dÊo ˜rvn ée‹ peperasm°na. efi d¢ toËto, d∞lon ≥dh ka‹ t«n épodeiÄjevn ˜ti énãgkh érxãw te e‰nai, ka‹ mØ pãntvn e‰nai épÒdeijin, ˜per ¶fam°n tinaw l°gein katÉ érxãw. efi går efis‹n érxaiÄ, oÎte pãntÉ épodeiktå oÎtÉ efiw êpeiron oÂÒn te badiÄzein: tÚ går e‰nai toÊtvn ıpoteronoËn oÈd¢n êllo §st‹n μ tÚ e‰nai mhd¢n diãsthma êmeson ka‹ édiaiÄreton, éllå pãnta diairetã. t“ går §ntÚw §mbãllesyai ˜ron, éllÉ oÈ t“ proslam-

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le attraversare un’infinità di cose, non possiamo sapere per dimostrazione quelle cose di cui c’è dimostrazione. Allora, se verso di esse non siamo in una condizione migliore che non sia quella di saperle, non sarà possibile avere conoscenza scientifica in senso proprio di alcuna cosa, ma solo in base ad una presupposizione. Da un punto di vista generale uno potrebbe formarsi un convincimento a proposito di quel che è stato detto a partire da queste argomentazioni. Da un punto di vista analitico, invece, verrà reso manifesto più brevemente, attraverso le considerazioni seguenti, che nelle scienze dimostrative, sulle quali verte la ricerca, non è possibile che i predicati siano infiniti né verso l’alto né verso il basso. Infatti la dimostrazione riguarda quei predicati che convengono per sé agli oggetti. Essi competono per sé in due modi. Infatti convengono per sé sia quei predicati che sono presenti nel che cos’è delle cose alle quali convengono sia quelli nel che cos’è dei quali sono presenti quelle cose alle quali convengono, come per esempio rispetto al numero il dispari, il quale conviene al numero, ma il numero stesso è presente nella sua definizione; viceversa pluralità o divisibilità sono presenti nella definizione di numero. Nessuno dei due tipi è possibile che sia infinito: non così come il dispari si dice del numero (infatti ci dovrebbe essere ancora un altro termine che converrebbe al dispari e nel quale il dispari sarebbe presente; ma se ci fosse tale termine, il numero per primo sarebbe presente nei termini che convengono ad esso. Allora se non è possibile che siffatti predicati convengano in una stessa cosa in numero infinito, essi non saranno infiniti nemmeno verso l’alto. Ma allora è necessario che tutti convengano al primo termine, per esempio al numero, e che ad essi convenga il numero, così da essere convertibili e non avere un’estensione maggiore). Ma nemmeno quei predicati che sono presenti nel che cos’è sono infiniti, altrimenti non sarebbe possibile definire. Di conseguenza, se tutti i predicati si dicono per sé ed essi non sono infiniti, i termini verso l’alto hanno un punto d’arresto e, di conseguenza, anche quelli verso il basso. Se è così, anche i termini intermedi fra i due estremi sono sempre finiti di numero. Se si verifica ciò, è chiaro ormai che è necessario che vi siano principi delle dimostrazioni e che non vi sia dimostrazione di tutte le cose, ciò che, come dicevamo all’inizio, alcuni sostengono22. Infatti se vi sono principi, né tutte le cose sono dimostrabili né è possibile andare all’infinito, giacché ammettere una qualunque di queste due cose non è nient’altro che sostenere che non c’è alcun intervallo predicativo immediato e indivisibile, ma che tutti sono divisibili. Infatti ciò che è di65

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bãnesyai épodeiÄknutai tÚ épodeiknÊmenon, ÀstÉ efi toËtÉ efiw êpeiron §nd°xetai fi°nai, §nd°xoitÉ ín dÊo ˜rvn êpeira metajÁ e‰nai m°sa. éllå toËtÉ édÊnaton, efi ·stantai afl kathgoriÄai §p‹ tÚ ênv ka‹ tÚ kãtv. ˜ti d¢ ·stantai, d°deiktai logik«w m¢n prÒteron, énalutik«w d¢ nËn.

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Dedeigm°nvn d¢ toÊtvn fanerÚn ˜ti, §ãn ti tÚ aÈtÚ dus‹n Ípãrx˙, oÂon tÚ A t“ te G ka‹ t“ D, mØ kathgoroum°nou yat°rou katå yat°rou, μ mhdam«w μ mØ katå pantÒw, ˜ti oÈk ée‹ katå koinÒn ti Ípãrjei. oÂon t“ fisoskele› ka‹ t“ skalhne› tÚ dus‹n Ùrya›w ‡saw ¶xein katå koinÒn ti Ípãrxei (√ går sx∞mã ti, Ípãrxei, ka‹ oÈx √ ßteron), toËto dÉ oÈk ée‹ oÏtvw ¶xei. ¶stv går tÚ B kayÉ ˘ tÚ A t“ G D Ípãrxei. d∞lon toiÄnun ˜ti ka‹ tÚ B t“ G ka‹ D katÉ êllo koinÒn, kéke›no kayÉ ßteron, Àste dÊo ˜rvn metajÁ êpeiroi ín §mpiÄptoien ˜roi. éllÉ édÊnaton. katå m¢n toiÄnun koinÒn ti Ípãrxein oÈk énãgkh ée‹ tÚ aÈtÚ pleiÄosin, e‡per ¶stai êmesa diastÆmata. §n m°ntoi t“ aÈt“ g°nei ka‹ §k t«n aÈt«n étÒmvn énãgkh toÁw ˜rouw e‰nai, e‡per t«n kayÉ aÍtÚ ÍparxÒntvn ¶stai tÚ koinÒn: oÈ går ∑n §j êllou g°nouw efiw êllo diab∞nai tå deiknÊmena. FanerÚn d¢ ka‹ ˜ti, ˜tan tÚ A t“ B Ípãrx˙, efi m¢n ¶sti ti m°son, ¶sti de›jai ˜ti tÚ A t“ B Ípãrxei, ka‹ stoixe›a toÊtou ¶sti taÈtå ka‹ tosaËyÉ ˜sa m°sa §stiÄn: afl går êmesoi protãseiw stoixe›a, μ pçsai μ afl kayÒlou. efi d¢ mØ ¶stin, oÈk°ti ¶stin épÒdeijiw, éllÉ ≤ §p‹ tåw érxåw ıdÚw aÏth §stiÄn. ımoiÄvw d¢ ka‹ efi tÚ A t“ B mØ Ípãrxei, efi m¢n ¶stin μ m°son μ prÒteron ⁄ oÈx Ípãrxei, ¶stin épÒdeijiw, efi d¢ mÆ, oÈk ¶stin, éllÉ érxÆ, ka‹ stoixe›a tosaËtÉ ¶stin ˜soi ˜roi: afl går toÊtvn protãseiw érxa‹ t∞w épodeiÄje≈w efisin. ka‹ Àsper ¶niai érxaiÄ efisin énapÒdeiktoi, ˜ti §st‹ tÒde tod‹ ka‹ Ípãrxei tÒde tƒdiÄ, oÏtv ka‹ ˜ti oÈk ¶sti

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mostrato è dimostrato con l’interposizione di un termine e non con un’assunzione addizionale; di conseguenza, se questa interposizione potesse andare all’infinito, sarebbe possibile che vi fossero infiniti termini intermedi fra due estremi. Ma ciò è impossibile se le predicazioni hanno un punto d’arresto verso l’alto e verso il basso. Che abbiano un punto d’arresto è stato provato in termini generali prima e analiticamente ora.

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CAPITOLO 23 Provate queste cose, è manifesto che, qualora uno stesso termine convenga ad altri due, come per esempio A a C e a D, e questi non si predichino uno dell’altro o in nessun modo o non universalmente, non sempre questo termine converrà loro in base a qualcosa di comune ad essi. Per esempio avere gli angoli uguali a due retti conviene all’isoscele e allo scaleno in base a qualcosa di comune (infatti conviene loro in quanto sono una certa figura, e non in quanto uno è diverso dall’altro), ma le cose non stanno sempre così. Infatti sia B ciò in base a cui A conviene a C D. È chiaro che anche B conviene a C e D in base a qualcosa di comune, e anche questo in base ad altro; di conseguenza fra due termini cadrebbero infiniti termini intermedi. Ma ciò è impossibile. Pertanto non è sempre necessario che uno stesso termine convenga a più sulla base di un termine comune, se vi devono essere intervalli predicativi immediati. Tuttavia è necessario che i termini siano nello stesso genere e siano costituiti dagli stessi indivisibili, se il termine comune ha da essere un predicato che conviene per sé ad essi. Infatti, come si è visto, le cose che sono provate non possono passare da un genere ad un altro. È manifesto anche che, quando A convenga a B, se c’è un termine medio, è possibile provare che A conviene a B, e gli elementi di questa prova sono gli stessi e tanti quanti i termini medi. Infatti le premesse immediate sono gli elementi della prova, o tutte o quelle universali. Invece, se non è un termine medio, non c’è più dimostrazione, ma questa è la strada verso i principi. Similmente se A non conviene a B, c’è una dimostrazione, se c’è un medio, ovvero, un termine anteriore a B al quale A non conviene (altrimenti non c’è dimostrazione ma un principio) e gli elementi sono tanti quanti sono i termini; infatti le premesse relative a questi termini sono i principi della dimostrazione. E come sono indimostrabili alcuni principi che dicono che questo è questo e che questo conviene a questo, così lo sono an-

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tÒde tod‹ oÈdÉ Ípãrxei tÒde tƒdiÄ, ÀsyÉ afl m¢n e‰naiÄ ti, afl d¢ mØ e‰naiÄ ti ¶sontai érxaiÄ. ÜOtan d¢ d°˙ de›jai, lhpt°on ˘ toË B pr«ton kathgore›tai. ¶stv tÚ G, ka‹ toÊtou ımoiÄvw tÚ D. ka‹ oÏtvw ée‹ badiÄzonti oÈd°potÉ §jvt°rv prÒtasiw oÈdÉ Ípãrxon lambãnetai toË A §n t“ deiknÊnai, éllÉ ée‹ tÚ m°son puknoËtai, ßvw édiaiÄreta g°nhtai ka‹ ßn. ¶sti dÉ ©n ˜tan êmeson g°nhtai, ka‹ miÄa prÒtasiw èpl«w ≤ êmesow. ka‹ Àsper §n to›w êlloiw ≤ érxØ èploËn, toËto dÉ oÈ taÈtÚ pantaxoË, éllÉ §n bãrei m¢n mnç, §n d¢ m°lei diÄesiw, êllo dÉ §n êllƒ, oÏtvw §n sullogism“ tÚ ©n prÒtasiw êmesow, §n dÉ épodeiÄjei ka‹ §pistÆm˙ ı noËw. §n m¢n oÔn to›w deiktiko›w sullogismo›w toË Ípãrxontow oÈd¢n ¶jv piÄptei, §n d¢ to›w sterhtiko›w, ¶nya m¢n ˘ de› Ípãrxein, oÈd¢n toÊtou ¶jv piÄptei, oÂon efi tÚ A t“ B diå toË G mÆ (efi går t“ m¢n B pant‹ tÚ G, t“ d¢ G mhden‹ tÚ A): pãlin ín d°˙ ˜ti t“ G tÚ A oÈden‹ Ípãrxei, m°son lhpt°on toË A ka‹ G, ka‹ oÏtvw ée‹ poreÊsetai. §ån d¢ d°˙ de›jai ˜ti tÚ D t“ E oÈx Ípãrxei t“ tÚ G t“ m¢n D pant‹ Ípãrxein, t“ d¢ E mhdeniÄ [μ mØ pantiÄ], toË E oÈd°potÉ ¶jv pese›tai: toËto dÉ §st‹n ⁄ de› Ípãrxein. §p‹ d¢ toË triÄtou trÒpou, oÎte éfÉ o de› oÎte ˘ de› ster∞sai oÈd°potÉ ¶jv badie›tai.

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OÎshw dÉ épodeiÄjevw t∞w m¢n kayÒlou t∞w d¢ katå m°row, ka‹ t∞w m¢n kathgorik∞w t∞w d¢ sterhtik∞w, émfisbhte›tai pot°ra beltiÄvn: …w dÉ aÎtvw ka‹ per‹ t∞w épodeiknÊnai legom°nhw ka‹ t∞w efiw tÚ édÊnaton égoÊshw épodeiÄjevw. pr«ton m¢n oÔn §piskec≈meya per‹ t∞w kayÒlou ka‹ t∞w katå m°row: dhl≈santew d¢ toËto, ka‹ per‹ t∞w deiknÊnai legom°nhw ka‹ t∞w efiw tÚ édÊnaton e‡pvmen. DÒjeie m¢n oÔn tãxÉ ên tisin …d‹ skopoËsin ≤ katå m°row e‰nai beltiÄvn. efi går kayÉ ∂n mçllon §pistãmeya épÒdeijin beltiÄvn épÒdeijiw (aÏth går éretØ épodeiÄjevw), mçllon dÉ §pistãmeya ßkaston ˜tan aÈtÚ efid«men kayÉ aÍtÚ μ ˜tan katÉ êllo (oÂon tÚn mousikÚn KoriÄskon ˜tan

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che altri che dicono che questo non è questo e questo non conviene a questo; di conseguenza alcuni principi saranno del tipo che è qualcosa ed altri del tipo che non è qualcosa. Quando si deve effettuare una prova, si deve assumere ciò che si predica primariamente di B. Sia questo C e di esso si predichi similmente D. Procedendo sempre così, nella prova non si assume mai una premessa e un termine che convenga ad A esternamente, ma è sempre il medio che si infittisce, finché i nessi divengano indivisibili ed uno. Un nesso è uno quando divenga immediato e la premessa una in senso assoluto è quella immediata. Così come negli altri campi il principio è semplice, senza però essere dappertutto lo stesso, ma per i pesi è la mina, per la musica il diesis, ed un altro per un altro campo, nel sillogismo l’uno è la premessa immediata, mentre nella dimostrazione e nella conoscenza scientifica è l’intellezione. Nei sillogismi che provano il convenire nulla cade esternamente, mentre in quelli privativi, in un caso nulla cade esternamente a ciò che deve convenire, come per esempio se, in forza di C, A non conviene a B (se C conviene ad ogni B e A non conviene ad alcun C); qualora si debba provare a sua volta che A non conviene ad alcun C, si deve assumere un medio tra A e C, e si deve procedere sempre così. Qualora invece si debba provare che D non conviene ad E per il fatto che C conviene ad ogni D e non conviene ad alcun E, il medio non cadrà mai esternamente ad E e questo è il termine al quale deve convenire. Per quanto riguarda il terzo modo di prova il medio non andrà mai oltre né ciò di cui né ciò che bisogna predicare privativamente.

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CAPITOLO 24 Poiché una dimostrazione è universale ed un’altra particolare ed una positiva e un’altra privativa, è in discussione quale sia migliore; ugualmente anche per la dimostrazione cosiddetta ostensiva e quella che conduce all’impossibile. Innanzitutto esaminiamo la dimostrazione universale e quella particolare; dopo aver chiarito ciò, diremo anche della dimostrazione cosiddetta ostensiva e quella che conduce all’impossibile. La dimostrazione particolare potrebbe forse apparire migliore a coloro che considerano le cose nel modo seguente. Se è migliore quella dimostrazione per la quale conosciamo di più (questa infatti è la virtù della dimostrazione), e conosciamo di più ciascuna cosa quando la conosciamo per se stessa di quando la conosciamo in base ad altro (per esempio conosciamo meglio Corisco musico quando sappiamo

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˜ti ı KoriÄskow mousikÚw μ ˜tan ˜ti ënyrvpow mousikÒw: ımoiÄvw d¢ ka‹ §p‹ t«n êllvn), ≤ d¢ kayÒlou ˜ti êllo, oÈx ˜ti aÈtÚ tetÊxhken §pideiÄknusin (oÂon ˜ti tÚ fisoskel¢w oÈx ˜ti fisoskel¢w éllÉ ˜ti triÄgvnon), ≤ d¢ katå m°row ˜ti aÈtÒ: ^efi dØ beltiÄvn m¢n ≤ kayÉ aÍtÒ, toiaÊth dÉ ≤ katå m°row t∞w kayÒlou mçllon, ka‹ beltiÄvn ín ≤ katå m°row épÒdeijiw e‡h. ¶ti efi tÚ m¢n kayÒlou mØ ¶sti ti parå tå kayÉ ßkasta, ≤ dÉ épÒdeijiw dÒjan §mpoie› e‰naiÄ ti toËto kayÉ ˘ épodeiÄknusi, kaiÄ tina fÊsin Ípãrxein §n to›w oÔsi taÊthn, oÂon trig≈nou parå tå tinå ka‹ sxÆmatow parå tå tinå ka‹ ériymoË parå toÁw tinåw ériymoÊw, beltiÄvn dÉ ≤ per‹ ˆntow μ mØ ˆntow ka‹ diÉ ∂n mØ épathyÆsetai μ diÉ ¥n, ¶sti dÉ ≤ m¢n kayÒlou toiaÊth (proÛÒntew går deiknÊousin Àsper per‹ toË énå lÒgon, oÂon ˜ti ˘ ín ¬ ti toioËton ¶stai énå lÒgon ˘ oÎte grammØ oÎtÉ ériymÚw oÎte stereÚn oÎtÉ §piÄpedon, éllå parå taËtã ti): ^efi oÔn kayÒlou m¢n mçllon aÏth, per‹ ˆntow dÉ ∏tton t∞w katå m°row ka‹ §mpoie› dÒjan ceud∞, xeiÄrvn ín e‡h ≤ kayÒlou t∞w katå m°row. áH pr«ton m¢n oÈd¢n mçllon §p‹ toË kayÒlou μ toË katå m°row ëterow lÒgow §stiÄn; efi går tÚ dus‹n Ùrya›w Ípãrxei mØ √ fisoskel¢w éllÉ √ triÄgvnon, ı efidΔw ˜ti fisoskel¢w ∏tton o‰den √ aÈtÚ μ ı efidΔw ˜ti triÄgvnon. ˜lvw te, efi m¢n mØ ˆntow √ triÄgvnon e‰ta deiÄknusin, oÈk ín e‡h épÒdeijiw, efi d¢ ˆntow, ı efidΔw ßkaston √ ßkaston Ípãrxei mçllon o‰den. efi dØ tÚ triÄgvnon §p‹ pl°on §stiÄ, ka‹ ı aÈtÚw lÒgow, ka‹ mØ kayÉ ımvnumiÄan tÚ triÄgvnon, ka‹ Ípãrxei pant‹ trig≈nƒ tÚ dÊo, oÈk ín tÚ triÄgvnon √ fisoskel°w, éllå tÚ fisoskel¢w √ triÄgvnon, ¶xoi toiaÊtaw tåw gvniÄaw. Àste ı kayÒlou efidΔw mçllon o‰den √ Ípãrxei μ ı katå m°row. beltiÄvn êra ≤ kayÒlou t∞w katå m°row. ¶ti efi m¢n e‡h tiw lÒgow eÂw ka‹ mØ ımvnumiÄa tÚ kayÒlou, e‡h tÉ ín oÈd¢n ∏tton §niÄvn t«n katå

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che Corisco è musico di quando sappiamo che l’uomo è musico e similmente negli altri casi), e la dimostrazione universale mostra che qualcosa d’altro, e non che la cosa stessa, è così (come per esempio dell’isoscele mostra non che l’isoscele, ma che il triangolo è così), mentre la dimostrazione particolare mostra che la cosa stessa è così – se dunque è migliore quella dimostrazione che mostra che una cosa per se stessa è così, e tale è la dimostrazione particolare più di quella universale, la dimostrazione particolare dev’essere migliore. Inoltre se l’universale non è qualcosa al di fuori dei singolari e la dimostrazione induce l’opinione che ciò rispetto a cui essa dimostra sia qualcosa, ossia che esista come una certa natura fra le cose che sono, come per esempio quella del triangolo al di fuori dei triangoli individuali e quella della figura al di fuori delle figure individuali e quella del numero al di fuori dei numeri individuali, e se la dimostrazione che riguarda ciò che è è migliore di quella che riguarda ciò che non è, e quella per la quale non ci si inganna di quella per la quale ci si inganna, e se la dimostrazione universale è tale (giacché, procedendo in questo modo, esse provano come si fa a proposito di ciò che è proporzionale, ossia che ciò che è in un certo modo, il quale non è né una linea, né un numero, né un solido, né un piano, ma qualcosa al di fuori di questi, sarà proporzionale) – se allora è questo il tipo di prova che è più universale, ed è meno rivolto a ciò che è di quella particolare ed è tale da indurre un’opinione falsa, la dimostrazione universale è peggiore di quella particolare. In primo luogo, non è vero che il primo dei due argomenti non si attaglia per niente di più alla dimostrazione universale di quanto non si attagli a quella particolare? Infatti se l’avere gli angoli uguali a due retti conviene a qualcosa non in quanto isoscele, ma in quanto triangolo, chi sa che l’isoscele ha gli angoli uguali a due retti la conosce meno in quanto tale di chi sa che il triangolo ha quella proprietà. In generale, se di una cosa uno provasse che è tale in quanto triangolo, pur non essendo tale in quanto triangolo, non ci sarebbe una dimostrazione; se invece la cosa è tale in quanto triangolo, colui che sa ciascuna cosa in quanto essa conviene sa di più. Allora, se il triangolo ha maggiore estensione e la sua definizione è la stessa, ossia il triangolo non è detto per omonimia, e l’avere gli angoli uguali a due retti conviene ad ogni triangolo, allora non in quanto isoscele il triangolo ha tali angoli, ma l’isoscele in quanto triangolo. Di conseguenza chi sa in universale sa di più in qualità di che cosa convenga di chi sa particolarmente. Dunque la dimostrazione universale è migliore di quella particolare. Inoltre, se dell’universale c’è un’unica definizione e l’universale non 71

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m°row, éllå ka‹ mçllon, ˜sƒ tå êfyarta §n §keiÄnoiw §stiÄ, tå d¢ katå m°row fyartå mçllon, ¶ti te oÈdemiÄa énãgkh Ípolambãnein ti e‰nai toËto parå taËta, ˜ti ©n dhlo›, oÈd¢n mçllon μ §p‹ t«n êllvn ˜sa mØ tiÄ shmaiÄnei éllÉ μ poiÚn μ prÒw ti μ poie›n. efi d¢ êra, oÈx ≤ épÒdeijiw afitiÄa éllÉ ı ékoÊvn. ÖEti efi ≤ épÒdeijiw m°n §sti sullogismÚw deiktikÚw afitiÄaw ka‹ toË diå tiÄ, tÚ kayÒlou dÉ afiti≈teron (⁄ går kayÉ aÍtÚ Ípãrxei ti, toËto aÈtÚ aÍt“ a‡tion: tÚ d¢ kayÒlou pr«ton: a‡tion êra tÚ kayÒlou): Àste ka‹ ≤ épÒdeijiw beltiÄvn: mçllon går toË afitiÄou ka‹ toË diå tiÄ §stin. ÖEti m°xri toÊtou zhtoËmen tÚ diå tiÄ, ka‹ tÒte ofiÒmeya efid°nai, ˜tan mØ ¬ ˜ti ti êllo toËto μ ginÒmenon μ ˆn: t°low går ka‹ p°raw tÚ ¶sxaton ≥dh oÏtvw §stiÄn. oÂon tiÄnow ßneka ∑lyen; ˜pvw lãb˙ térgÊrion, toËto dÉ ˜pvw épod“ ˘ »Äfeile, toËto dÉ ˜pvw mØ édikÆs˙: ka‹ oÏtvw fiÒntew, ˜tan mhk°ti diÉ êllo mhdÉ êllou ßneka, diå toËto …w t°low fam¢n §lye›n ka‹ e‰nai ka‹ giÄnesyai, ka‹ tÒte efid°nai mãlista diå tiÄ ∑lyen. efi dØ ımoiÄvw ¶xei §p‹ pas«n t«n afiti«n ka‹ t«n diå tiÄ, §p‹ d¢ t«n ˜sa a‡tia oÏtvw …w o ßneka oÏtvw ‡smen mãlista, ka‹ §p‹ t«n êllvn êra tÒte mãlista ‡smen, ˜tan mhk°ti Ípãrx˙ toËto ˜ti êllo. ˜tan m¢n oÔn gin≈skvmen ˜ti t°ttarsin afl ¶jv ‡sai ˜ti fisoskel°w, ¶ti leiÄpetai diå tiÄ tÚ fisoskel°w^˜ti triÄgvnon, ka‹ toËto, ˜ti sx∞ma eÈyÊgrammon. efi d¢ toËto mhk°ti diÒti êllo, tÒte mãlista ‡smen. ka‹ kayÒlou d¢ tÒte: ≤ kayÒlou êra beltiÄvn. ÖEti ˜sƒ ín mçllon katå m°row ¬, efiw tå êpeira §mpiÄptei, ≤ d¢ kayÒlou efiw tÚ èploËn ka‹ tÚ p°raw. ¶sti dÉ, √ m¢n êpeira, oÈk §pisthtã, √ d¢ pep°rantai, §pisthtã. √ êra kayÒlou, mçllon §pisthtå μ √ katå m°row. épodeiktå êra mçllon tå kayÒlou. t«n dÉ épodeikt«n mçllon mçllon épÒdeijiw: ëma går mçllon tå prÒw ti. beltiÄvn êra ≤ kayÒlou, §peiÄper ka‹ mçllon épÒdeijiw. ÖEti efi aflretvt°ra kayÉ ∂n toËto ka‹ êllo μ kayÉ ∂n toËto mÒnon o‰den: ı d¢ tØn

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è un’omonimia, allora esso è non meno, ma di più, di alcuni particolari, nella misura in cui gli incorruttibili sono tra gli universali, mentre i particolari sono piuttosto corruttibili. Inoltre, non c’è alcuna necessità di credere che l’universale sia qualcosa al di fuori dei particolari, perché significa una cosa, non più che per quei termini che non significano che cos’è una cosa23, ma una qualità o una relazione o un’azione. Se poi si crede ciò, non è la dimostrazione la ragione dell’errore, ma chi ascolta. Inoltre, se la dimostrazione è un sillogismo che mostra la ragione e il perché, e l’universale contiene più ragione (infatti ciò a cui qualcosa conviene per sé è ragione a se stesso; l’universale è primo; dunque l’universale è ragione); di conseguenza la dimostrazione universale è migliore; infatti mostra di più la ragione e il perché. Inoltre il punto fino a cui cerchiamo il perché, e giunti al quale riteniamo di sapere, è quando una cosa diviene o è non perché qualcos’altro diviene o è. Infatti in questo senso l’ultimo elemento è il fine e il limite. Per esempio: a motivo di che cosa è venuto? Per prendere il denaro, e ciò per rendere quel che doveva e ciò per non agire ingiustamente. Così procedendo, quando non è più in virtù d’altro o a motivo d’altro, allora diciamo che è per questo, preso come fine, che è venuto (o che è o che diviene) e allora diciamo di sapere al meglio perché sia venuto. Ebbene, se per tutte le ragioni e i perché vale lo stesso discorso, e per quelle cose che sono ragioni in quanto sono ciò a motivo di cui sappiamo al meglio in questo modo, allora anche negli altri casi sappiamo al meglio quando questa cosa non conviene più perché qualcos’altro conviene. Allora quando conosciamo di qualcosa che gli angoli esterni sono uguali a quattro retti perché è isoscele, rimane ancora da sapere perché l’isoscele sia tale; perché è un triangolo e questo perché è una figura rettilinea. Se ciò non è perché qualcos’altro, allora sappiamo al meglio. Ma allora sappiamo anche universalmente. Dunque la dimostrazione universale è migliore. Inoltre, quanto più una dimostrazione sia rivolta al particolare, tanto più essa va verso gli infiniti, mentre la dimostrazione universale va verso ciò che è semplice e verso il limite. Le cose, in quanto infinite, non sono conoscibili, mentre sono conoscibili in quanto sono finite. Le cose dunque sono più conoscibili in quanto universali che in quanto particolari. Dunque sono più dimostrabili le cose universali. E si ha più dimostrazione delle cose che sono più dimostrabili, giacché i termini correlati aumentano di grado insieme. Dunque la dimostrazione universale è migliore, se è anche più dimostrazione. Inoltre, se è preferibile quella dimostrazione per la quale si sa questo e quello di quella per la quale si sa solo questo. Ma chi ha la di73

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kayÒlou ¶xvn o‰de ka‹ tÚ katå m°row, otow d¢ tÚ kayÒlou oÈk o‰den: Àste kín oÏtvw aflretvt°ra e‡h. ÖEti d¢ œde. tÚ går kayÒlou mçllon deiknÊnai §st‹ tÚ diå m°sou deiknÊnai §ggut°rv ˆntow t∞w érx∞w. §ggutãtv d¢ tÚ êmeson: toËto dÉ érxÆ. efi oÔn ≤ §j érx∞w t∞w mØ §j érx∞w, ≤ mçllon §j érx∞w t∞w ∏tton ékribest°ra épÒdeijiw. ¶sti d¢ toiaÊth ≤ kayÒlou mçllon: kreiÄttvn ín e‡h ≤ kayÒlou. oÂon efi ¶dei épode›jai tÚ A katå toË D: m°sa tå §fÉ œn B G: énvt°rv dØ tÚ B, Àste ≤ diå toÊtou kayÒlou mçllon. ÉAllå t«n m¢n efirhm°nvn ¶nia logikã §sti: mãlista d¢ d∞lon ˜ti ≤ kayÒlou kurivt°ra, ˜ti t«n protãsevn tØn m¢n prot°ran ¶xontew ‡smen pvw ka‹ tØn Íst°ran ka‹ ¶xomen dunãmei, oÂon e‡ tiw o‰den ˜ti pçn triÄgvnon dus‹n Ùrya›w, o‰d° pvw ka‹ tÚ fisoskel¢w ˜ti dÊo Ùrya›w, dunãmei, ka‹ efi mØ o‰de tÚ fisoskel¢w ˜ti triÄgvnon: ı d¢ taÊthn ¶xvn tØn prÒtasin tÚ kayÒlou oÈdam«w o‰den, oÎte dunãmei oÎtÉ §nergeiÄ&. ka‹ ≤ m¢n kayÒlou nohtÆ, ≤ d¢ katå m°row efiw a‡syhsin teleutò.

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ÜOti m¢n oÔn ≤ kayÒlou beltiÄvn t∞w katå m°row, tosaËyÉ ≤m›n efirÆsyv: ˜ti dÉ ≤ deiktikØ t∞w sterhtik∞w, §nteËyen d∞lon. ¶stv går aÏth ≤ épÒdeijiw beltiÄvn t«n êllvn t«n aÈt«n ÍparxÒntvn, ≤ §j §lattÒnvn afithmãtvn μ Ípoy°sevn μ protãsevn. efi går gn≈rimoi ımoiÄvw, tÚ yçtton gn«nai diå toÊtvn Ípãrjei: toËto dÉ aflret≈teron. lÒgow d¢ t∞w protãsevw, ˜ti beltiÄvn ≤ §j §lattÒnvn, kayÒlou ˜de: efi går ımoiÄvw e‡h tÚ gn≈rima e‰nai tå m°sa, tå d¢ prÒtera gnvrim≈tera, ¶stv ≤ m¢n diå m°svn épÒdeijiw t«n B G D ˜ti tÚ A t“ E Ípãrxei, ≤ d¢ diå t«n Z H ˜ti tÚ A t“ E. ımoiÄvw dØ ¶xei tÚ ˜ti tÚ A t“ D Ípãrxei ka‹ tÚ A t“ E. tÚ dÉ ˜ti tÚ A t“ D prÒteron ka‹ gnv-

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mostrazione universale sa anche il particolare, mentre colui il quale sa il particolare non sa l’universale24. Di conseguenza anche per questa ragione la dimostrazione universale deve essere preferibile. Inoltre si può argomentare anche così. Provare più universalmente qualcosa è provarla mediante un termine medio che è più vicino al principio. Ciò che è immediato è vicinissimo al principio, anzi esso è il principio. Allora, se la dimostrazione che procede dal principio è più rigorosa di quella che non procede dal principio, la dimostrazione che procede di più da un principio è più rigorosa di quella che ne procede di meno. Ma tale è la dimostrazione più universale. Dunque la dimostrazione universale deve essere superiore. Per esempio: si debba provare A di D e i termini medi siano quelli indicati da B e C; B sia più alto; di conseguenza la dimostrazione attraverso questo medio è più universale. Alcune delle cose che abbiamo detto sono generali. È soprattutto chiaro che la dimostrazione universale è più appropriata per la ragione che, avendo la prima delle due proposizioni, sappiamo in qualche modo anche la seconda e l’abbiamo in potenza; per esempio, se uno sa che ogni triangolo ha gli angoli uguali a due retti, sa in qualche modo anche che l’isoscele ha gli angoli uguali a due retti, ossia in potenza, anche se non sa che l’isoscele è un triangolo. Invece chi ha questa seconda proposizione non sa in nessun modo l’universale, né in potenza né in atto. Inoltre, la dimostrazione universale è oggetto di intellezione, mentre quella particolare termina piuttosto nella percezione.

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CAPITOLO 25 Questo è quanto diciamo sul fatto che la dimostrazione universale è migliore di quella particolare. Che la dimostrazione ostensiva sia migliore di quella privativa risulta chiaro da quanto segue. Infatti sia migliore quella dimostrazione che, essendo le altre cose le stesse, procede da meno pretese, o presupposizioni o premesse. Infatti se queste cose sono ugualmente note, attraverso di esse ci sarà una conoscenza più rapida e ciò è preferibile. L’argomento a favore della premessa che è migliore la dimostrazione che procede da meno premesse, in generale, è il seguente. Se i medi sono ugualmente noti e quelli anteriori sono più noti, sia data una dimostrazione che A conviene ad E grazie ai medi B, C, D, e una dimostrazione che A conviene ad E grazie ai medi F, G. Che A conviene a D e che A conviene ad E sono nella stessa posizione. Ma che A conviene a D è anteriore e più noto del con-

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rim≈teron μ ˜ti tÚ A t“ E: diå går toÊtou §ke›no épodeiÄknutai, pistÒteron d¢ tÚ diÉ o. ka‹ ≤ diå t«n §lattÒnvn êra épÒdeijiw beltiÄvn t«n êllvn t«n aÈt«n ÍparxÒntvn. émfÒterai m¢n oÔn diã te ˜rvn tri«n ka‹ protãsevn dÊo deiÄknuntai, éllÉ ≤ m¢n e‰naiÄ ti lambãnei, ≤ d¢ ka‹ e‰nai ka‹ mØ e‰naiÄ ti: diå pleiÒnvn êra, Àste xeiÄrvn. ÖEti §peidØ d°deiktai ˜ti édÊnaton émfot°rvn oÈs«n sterhtik«n t«n protãsevn gen°syai sullogismÒn, éllå tØn m¢n de› toiaÊthn e‰nai, tØn dÉ ˜ti Ípãrxei, ¶ti prÚw toÊtƒ de› tÒde labe›n. tåw m¢n går kathgorikåw aÈjanom°nhw t∞w épodeiÄjevw énagka›on giÄnesyai pleiÄouw, tåw d¢ sterhtikåw édÊnaton pleiÄouw e‰nai miçw §n ëpanti sullogism“. ¶stv går mhden‹ Ípãrxon tÚ A §fÉ ˜svn tÚ B, t“ d¢ G Ípãrxon pant‹ tÚ B. ín dØ d°˙ pãlin aÎjein émfot°raw tåw protãseiw, m°son §mblht°on. toË m¢n A B ¶stv tÚ D, toË d¢ B G tÚ E. tÚ m¢n dØ E fanerÚn ˜ti kathgorikÒn, tÚ d¢ D toË m¢n B kathgorikÒn, prÚw d¢ tÚ A sterhtikÚn ke›tai. tÚ m¢n går D pantÚw toË B, tÚ d¢ A oÈden‹ de› t«n D Ípãrxein. giÄnetai oÔn miÄa sterhtikØ prÒtasiw ≤ tÚ A D. ı dÉ aÈtÚw trÒpow ka‹ §p‹ t«n •t°rvn sullogism«n. ée‹ går tÚ m°son t«n kathgorik«n ˜rvn kathgorikÚn §pÉ émfÒtera: toË d¢ sterhtikoË §p‹ yãtera sterhtikÚn énagka›on e‰nai, Àste aÏth miÄa toiaÊth giÄnetai prÒtasiw, afl dÉ êllai kathgorikaiÄ. efi dØ gnvrim≈teron diÉ o deiÄknutai ka‹ pistÒteron, deiÄknutai dÉ ≤ m¢n sterhtikØ diå t∞w kathgorik∞w, aÏth d¢ diÉ §keiÄnhw oÈ deiÄknutai, prot°ra ka‹ gnvrimvt°ra oÔsa ka‹ pistot°ra beltiÄvn ín e‡h. ¶ti efi érxØ sullogismoË ≤ kayÒlou prÒtasiw êmesow, ¶sti dÉ §n m¢n tª deiktikª katafatikØ §n d¢ tª sterhtikª épofatikØ ≤ kayÒlou prÒtasiw, ≤ d¢ katafatikØ t∞w épofatik∞w prot°ra ka‹ gnvrimvt°ra (diå går tØn katãfasin ≤ épÒfasiw gn≈rimow, ka‹ prot°ra ≤ katãfasiw, Àsper ka‹ tÚ e‰nai toË mØ e‰nai): Àste beltiÄvn ≤ érxØ t∞w deiktik∞w μ t∞w sterhtik∞w: ≤ d¢ beltiÄosin érxa›w xrvm°nh beltiÄvn. ¶ti érxoeidest°ra: êneu går t∞w deiknuoÊshw oÈk ¶stin ≤ sterhtikÆ.

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venire di A a E. Infatti questo è dimostrato grazie a quello, e ciò grazie a cui qualcosa è dimostrato è più convincente. Dunque la dimostrazione che è in virtù di meno premesse è migliore, se le altre cose sono le stesse. Ambedue le dimostrazioni provano grazie a tre termini e due premesse, ma l’una assume che qualcosa è, l’altra che qualcosa è e che qualcosa non è. Dunque è in virtù di più premesse; di conseguenza è peggiore. Inoltre, poiché è stato provato25 che è impossibile che si produca un sillogismo se entrambe le premesse sono privative, ma una deve essere siffatta, e l’altra che qualcosa conviene a qualcosa, bisogna assumere questa oltre a quella. Infatti, aumentando la dimostrazione, è necessario che le premesse positive divengano di più, mentre è impossibile che quelle privative siano più di una in ogni sillogismo. Infatti sia A tale da non convenire a nessuna delle cose a cui si riferisce B e B tale da convenire ad ogni C. Qualora si debbano ancora aumentare entrambe le premesse bisogna introdurre un medio. Sia esso D per AB, ed E per BC. È manifesto che E è positivo, mentre D è positivo rispetto a B, mentre è posto negativo rispetto ad A. Infatti D conviene ad ogni B ed A non deve convenire ad alcuno dei D. Si produce allora una sola premessa privativa, la AD. Lo stesso si verifica per gli altri sillogismi. Infatti il medio dei termini positivi è sempre positivo rispetto ad entrambi. Invece il medio del nesso privativo è necessario che sia privativo rispetto ad uno solo dei termini, cosicché questa sola premessa diviene privativa, mentre le altre sono positive. Allora, se è più noto e più convincente ciò grazie a cui si prova, e la dimostrazione privativa è provata grazie a quella positiva, mentre questa non è provata grazie a quella, la dimostrazione positiva, essendo anteriore, più nota e più convincente, dev’essere anche migliore. Inoltre, se la premessa universale immediata è il principio del sillogismo, e nella dimostrazione ostensiva la premessa universale è affermativa, mentre nella dimostrazione privativa è negativa, e la premessa affermativa è anteriore e più nota di quella negativa (infatti la negazione è resa nota attraverso l’affermazione e l’affermazione è anteriore, così come lo è l’essere rispetto al non essere); di conseguenza, il principio della dimostrazione ostensiva è migliore del principio di quella privativa. Ma è migliore la dimostrazione che si serve di principi migliori. Inoltre la dimostrazione affermativa ha più la natura di principio. Infatti senza la dimostrazione che prova in positivo non è possibile che ci sia quella privativa.

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ÉEpe‹ dÉ ≤ kathgorikØ t∞w sterhtik∞w beltiÄvn, d∞lon ˜ti ka‹ t∞w efiw tÚ édÊnaton égoÊshw. de› dÉ efid°nai tiÄw ≤ diaforå aÈt«n. ¶stv dØ tÚ A mhden‹ Ípãrxon t“ B, t“ d¢ G tÚ B pantiÄ: énãgkh dØ t“ G mhden‹ Ípãrxein tÚ A. oÏtv m¢n oÔn lhfy°ntvn deiktikØ ≤ sterhtikØ ín e‡h épÒdeijiw ˜ti tÚ A t“ G oÈx Ípãrxei. ≤ dÉ efiw tÚ édÊnaton œdÉ ¶xei. efi d°oi de›jai ˜ti tÚ A t“ B oÈx Ípãrxei, lhpt°on Ípãrxein, ka‹ tÚ B t“ G, Àste sumbaiÄnei tÚ A t“ G Ípãrxein. toËto dÉ ¶stv gn≈rimon ka‹ ımologoÊmenon ˜ti édÊnaton. oÈk êra oÂÒn te tÚ A t“ B Ípãrxein. efi oÔn tÚ B t“ G ımologe›tai Ípãrxein, tÚ A t“ B édÊnaton Ípãrxein. ofl m¢n oÔn ˜roi ımoiÄvw tãttontai, diaf°rei d¢ tÚ ıpot°ra ín ¬ gnvrimvt°ra ≤ prÒtasiw ≤ sterhtikÆ, pÒteron ˜ti tÚ A t“ B oÈx Ípãrxei μ ˜ti tÚ A t“ G. ˜tan m¢n oÔn ¬ tÚ sump°rasma gnvrim≈teron ˜ti oÈk ¶stin, ≤ efiw tÚ édÊnaton giÄnetai épÒdeijiw, ˜tan dÉ ≤ §n t“ sullogism“, ≤ épodeiktikÆ. fÊsei d¢ prot°ra ≤ ˜ti tÚ A t“ B μ ˜ti tÚ A t“ G. prÒtera gãr §sti toË sumperãsmatow §j œn tÚ sump°rasma: ¶sti d¢ tÚ m¢n A t“ G mØ Ípãrxein sump°rasma, tÚ d¢ A t“ B §j o tÚ sump°rasma. oÈ går efi sumbaiÄnei énaire›syaiÄ ti, toËto sump°rasmã §stin, §ke›na d¢ §j œn, éllå tÚ m¢n §j o sullogismÒw §stin ˘ ín oÏtvw ¶x˙ Àste μ ˜lon prÚw m°row μ m°row prÚw ˜lon ¶xein, afl d¢ tÚ A G ka‹ B G protãseiw oÈk ¶xousin oÏtv prÚw éllÆlaw. efi oÔn ≤ §k gnvrimvt°rvn ka‹ prot°rvn kreiÄttvn, efis‹ dÉ émfÒterai §k toË mØ e‰naiÄ ti pistaiÄ, éllÉ ≤ m¢n §k prot°rou ≤ dÉ §j Íst°rou, beltiÄvn èpl«w ín e‡h t∞w efiw tÚ édÊnaton ≤ sterhtikØ épÒdeijiw, Àste ka‹ ≤ taÊthw beltiÄvn ≤ kathgorikØ d∞lon ˜ti ka‹ t∞w efiw tÚ édÊnatÒn §sti beltiÄvn.

27 ÉAkribest°ra dÉ §pistÆmh §pistÆmhw ka‹ prot°ra ¥ te toË ˜ti ka‹ diÒti ≤ aÈtÆ, éllå mØ xvr‹w toË ˜ti t∞w toË

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CAPITOLO 26 Poiché la dimostrazione positiva è migliore di quella privativa, è chiaro che essa è migliore anche di quella che conduce all’impossibile. Bisogna sapere qual è la loro differenza. Sia A tale da non convenire ad alcun B e B tale da convenire ad ogni C; quindi è necessario che A non convenga ad alcun C. Fatte le assunzioni in questo modo, la dimostrazione negativa che A non conviene ad alcun C è ostensiva. Invece la dimostrazione che conduce all’impossibile procede così. Se si deve provare che A non conviene a B, si assuma che conviene e insieme che B conviene a C; di conseguenza segue che A conviene a C. Sia noto e accettato che ciò è impossibile. Dunque non è possibile che A convenga a B. Allora, se è accettato che B conviene a C, è impossibile che A convenga a B. Quindi i termini sono disposti nello stesso modo e la differenza è quale sia la premessa negativa più nota, che A non conviene a B o che A non conviene a C. Allora, quando sia più noto che la conclusione non è, si produce la dimostrazione all’impossibile, mentre quando è più nota la premessa nel sillogismo, si produce la dimostrazione ostensiva. La proposizione che A non conviene a B è anteriore per natura alla proposizione che A non conviene a C. Infatti le proposizioni da cui la conclusione procede sono anteriori alla conclusione e il non convenire di A a C è la conclusione mentre il non convenire di A a B è ciò da cui la conclusione procede. Infatti se segue che sia demolito qualcosa, non è che questo sia una conclusione e quelle le premesse da cui si procede, ma ciò da cui procede il sillogismo è ciò che sta in tale rapporto da essere o come un tutto rispetto ad una parte o come una parte rispetto ad un tutto; le premesse AC e BC non sono in tale rapporto fra loro. Allora se è superiore la dimostrazione che procede da premesse più note e prime, ed entrambe le dimostrazioni sono convincenti a partire dal fatto che qualcosa non è qualcosa, ma una procede da ciò che è anteriore e l’altra da ciò che è posteriore, la dimostrazione privativa dev’essere semplicemente migliore di quella che conduce all’impossibile; di conseguenza è chiaro che la dimostrazione positiva, essendo migliore della dimostrazione privativa, è migliore anche di quella che conduce all’impossibile.

CAPITOLO 27 È più rigorosa e anteriore rispetto ad un’altra quella scienza che sia insieme del che e del perché, ma non del che separatamente dalla scienza

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diÒti, ka‹ ≤ mØ kayÉ Ípokeim°nou t∞w kayÉ Ípokeim°nou, oÂon ériymhtikØ èrmonik∞w, ka‹ ≤ §j §lattÒnvn t∞w §k prosy°sevw, oÂon gevmetriÄaw ériymhtikÆ. l°gv dÉ §k prosy°sevw, oÂon monåw oÈsiÄa êyetow, stigmØ d¢ oÈsiÄa yetÒw: taÊthn §k prosy°sevw.

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MiÄa dÉ §pistÆmh §st‹n ≤ •nÚw g°nouw, ˜sa §k t«n pr≈tvn sÊgkeitai ka‹ m°rh §st‹n μ pãyh toÊtvn kayÉ aÍtã. •t°ra dÉ §pistÆmh §st‹n •t°raw, ˜svn afl érxa‹ mÆtÉ §k t«n aÈt«n mÆyÉ ëterai §k t«n •t°rvn. toÊtou d¢ shme›on, ˜tan efiw tå énapÒdeikta ¶ly˙: de› går aÈtå §n t“ aÈt“ g°nei e‰nai to›w épodedeigm°noiw. shme›on d¢ ka‹ toÊtou, ˜tan tå deiknÊmena diÉ aÈt«n §n taÈt“ g°nei Œsi ka‹ suggen∞.

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PleiÄouw dÉ épodeiÄjeiw e‰nai toË aÈtoË §gxvre› oÈ mÒnon §k t∞w aÈt∞w sustoixiÄaw lambãnonti mØ tÚ sunex¢w m°son, oÂon t«n A B tÚ G ka‹ D ka‹ Z, éllå ka‹ §j •t°raw. oÂon ¶stv tÚ A metabãllein, tÚ dÉ §fÉ ⁄ D kine›syai, tÚ d¢ B ¥desyai, ka‹ pãlin tÚ H ±remiÄzesyai. élhy¢w oÔn ka‹ tÚ D toË B ka‹ tÚ A toË D kathgore›n: ı går ≤dÒmenow kine›tai ka‹ tÚ kinoÊmenon metabãllei. pãlin tÚ A toË H ka‹ tÚ H toË B élhy¢w kathgore›n: pçw går ı ≤dÒmenow ±remiÄzetai ka‹ ı ±remizÒmenow metabãllei. Àste diÉ •t°rvn m°svn ka‹ oÈk §k t∞w aÈt∞w sustoixiÄaw ı sullogismÒw. oÈ mØn Àste mhd°teron katå mhdet°rou l°gesyai t«n m°svn: énãgkh går t“ aÈt“ tini êmfv Ípãrxein. §pisk°casyai d¢ ka‹ diå t«n êllvn sxhmãtvn ısax«w §nd°xetai toË aÈtoË gen°syai sullogismÒn.

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ToË dÉ épÚ tÊxhw oÈk ¶stin §pistÆmh diÉ épodeiÄjevw. oÎte går …w énagka›on oÎyÉ …w §p‹ tÚ polÁ tÚ épÚ tÊxhw

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del perché, come anche la scienza che non si dice di un soggetto soggiacente rispetto a quella che si dice di un soggetto soggiacente, come per esempio l’aritmetica rispetto all’armonica; inoltre quella che procede da meno elementi rispetto a quella che procede per un’addizione, come per esempio l’aritmetica rispetto alla geometria. Dico per addizione per esempio: l’unità è una realtà senza posizione, mentre il punto è una realtà con posizione; quest’ultima è per addizione.

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CAPITOLO 28 È una la scienza che riguarda un genere, ossia quelle cose che sono composte dalle cose prime del genere e sono parti o affezioni di queste per sé. Una scienza è diversa da un’altra scienza quando i loro principi non derivino dagli stessi principi né i principi dell’una derivino da quelli dell’altra. Se ne ha un segno quando si giunga agli indimostrabili, giacché bisogna che essi siano nello stesso genere dei dimostrati. Un altro segno di ciò è che le cose provate grazie ad essi siano nello stesso genere e omogenee.

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CAPITOLO 29 È possibile che vi siano più dimostrazioni della stessa cosa non solo se si prende un medio non continuo dalla stessa catena predicativa, per esempio C, D ed E per A e B, ma anche prendendolo da un’altra catena predicativa. Per esempio, sia A mutare, ciò a cui si riferisce D essere in movimento, B provare piacere e ancora G quietarsi. Allora è vero predicare D di B ed A di D. Infatti colui il quale prova piacere è in movimento e ciò che è in movimento muta. Ancora è vero predicare A di G e G di B. Infatti chiunque prova piacere si quieta e colui il quale si quieta muta. Di conseguenza il sillogismo è grazie a medi diversi e non presi dalla stessa catena predicativa, non però ad un punto tale che uno non si dica dell’altro. Infatti è necessario che ambedue convengano ad uno stesso termine. Si dovrebbe esaminare in quanti modi sia possibile che si produca un sillogismo della stessa conclusione anche nelle altre figure.

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CAPITOLO 30 Di ciò che è fortuito non vi è conoscenza scientifica per dimostrazione. Infatti ciò che è fortuito non è né necessario né per lo più, ma è

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§stiÄn, éllå tÚ parå taËta ginÒmenon: ≤ dÉ épÒdeijiw yat°rou toÊtvn. pçw går sullogismÚw μ diÉ énagkaiÄvn μ diå t«n …w §p‹ tÚ polÁ protãsevn: ka‹ efi m¢n afl protãseiw énagka›ai, ka‹ tÚ sump°rasma énagka›on, efi dÉ …w §p‹ tÚ polÊ, ka‹ tÚ sump°rasma toioËton. ÀstÉ efi tÚ épÚ tÊxhw mÆyÉ …w §p‹ tÚ polÁ mÆtÉ énagka›on, oÈk ín e‡h aÈtoË épÒdeijiw.

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OÈd¢ diÉ afisyÆsevw ¶stin §piÄstasyai. efi går ka‹ ¶stin ≤ a‡syhsiw toË toioËde ka‹ mØ toËd° tinow, éllÉ afisyãnesyaiÄ ge énagka›on tÒde ti ka‹ poÁ ka‹ nËn. tÚ d¢ kayÒlou ka‹ §p‹ pçsin édÊnaton afisyãnesyai: oÈ går tÒde oÈd¢ nËn: oÈ går ín ∑n kayÒlou: tÚ går ée‹ ka‹ pantaxoË kayÒlou fam¢n e‰nai. §pe‹ oÔn afl m¢n épodeiÄjeiw kayÒlou, taËta dÉ oÈk ¶stin afisyãnesyai, fanerÚn ˜ti oÈdÉ §piÄstasyai diÉ afisyÆsevw ¶stin, éllå d∞lon ˜ti ka‹ efi ∑n afisyãnesyai tÚ triÄgvnon ˜ti dus‹n Ùrya›w ‡saw ¶xei tåw gvniÄaw, §zhtoËmen ín épÒdeijin ka‹ oÈx Àsper fasiÄ tinew ±pistãmeya: afisyãnesyai m¢n går énãgkh kayÉ ßkaston, ≤ dÉ §pistÆmh tÚ tÚ kayÒlou gnvriÄzein §stiÄn. diÚ ka‹ efi §p‹ t∞w selÆnhw ˆntew •vr«men éntifrãttousan tØn g∞n, oÈk ín ædeimen tØn afitiÄan t∞w §kleiÄcevw. ºsyanÒmeya går ín ˜ti nËn §kleiÄpei, ka‹ oÈ diÒti ˜lvw: oÈ går ∑n toË kayÒlou a‡syhsiw. oÈ mØn éllÉ §k toË yevre›n toËto pollãkiw sumba›non tÚ kayÒlou ín yhreÊsantew épÒdeijin e‡xomen: §k går t«n kayÉ ßkasta pleiÒnvn tÚ kayÒlou d∞lon. tÚ d¢ kayÒlou tiÄmion, ˜ti dhlo› tÚ a‡tion: Àste per‹ t«n toioÊtvn ≤ kayÒlou timivt°ra t«n afisyÆsevn ka‹ t∞w noÆsevw, ˜svn ßteron tÚ a‡tion: per‹ d¢ t«n pr≈tvn êllow lÒgow. FanerÚn oÔn ˜ti édÊnaton t“ afisyãnesyai §piÄstasyaiÄ ti t«n épodeikt«n, efi mÆ tiw tÚ afisyãnesyai toËto l°gei, tÚ §pistÆmhn ¶xein diÉ épodeiÄjevw. ¶sti m°ntoi ¶nia énagÒmena efiw afisyÆsevw ¶kleicin §n to›w problÆmasin. ¶nia går efi •vr«men oÈk ín §zhtoËmen, oÈx …w efidÒtew t“ ırçn, éllÉ …w ¶xontew tÚ kayÒlou §k toË ırçn. oÂon efi tØn Ïalon tetruphm°nhn •vr«men ka‹ tÚ f«w diiÒn, d∞lon ín ∑n ka‹ diå tiÄ kaiÄei, t“ ırçn m¢n xvr‹w §fÉ •kãsthw, no∞sai dÉ ëma ˜ti §p‹ pas«n oÏtvw.

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ciò che si verifica al di fuori di questi. Ma la dimostrazione verte su uno o l’altro di questi. Infatti ogni sillogismo è grazie a premesse necessarie o per lo più e, se le premesse sono necessarie, anche la conclusione è necessaria, mentre se esse sono per lo più, anche la conclusione è tale. Di conseguenza se il fortuito non è né necessario né per lo più, non ci può essere dimostrazione di esso.

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CAPITOLO 31 Non è possibile conoscere scientificamente mediante la percezione, giacché, anche se la percezione riguarda il tale e non questo qualcosa, è necessario percepire questo qualcosa qui ed ora. È impossibile invece percepire l’universale e ciò che si applica a tutti; infatti non è un questo né è ora, altrimenti non sarebbe universale, giacché diciamo che è universale ciò che è sempre e dappertutto. Allora, poiché le dimostrazioni sono universali, e questi non possono essere percepiti, è manifesto che non è nemmeno possibile conoscere scientificamente mediante la percezione, ma è chiaro che, anche se fosse possibile percepire che il triangolo ha gli angoli uguali a due retti, di ciò cercheremmo una dimostrazione e non ne avremmo conoscenza scientifica, come invece dicono alcuni. Infatti è necessario percepire il singolare, mentre la conoscenza scientifica è acquisire conoscenza dell’universale. Perciò anche se, essendo sulla luna, vedessimo la terra che si interpone, non sapremmo la ragione dell’eclissi. Infatti percepiremmo che la luna ora si eclissa ma assolutamente non perché. Infatti non vi è, come si è visto, percezione dell’universale. Ciononostante, in seguito al vedere che ciò si verifica più volte, avendo procacciato l’universale, potremmo avere una dimostrazione. Infatti l’universale è reso noto da più singolari. Ma l’universale è degno di onore perché rivela la ragione. Di conseguenza la conoscenza universale di quelle cose la cui ragione è altra è più degna d’onore delle percezioni e dell’intellezione. Riguardo ai primitivi, invece, va fatto un altro discorso. È manifesto allora che con il percepire è impossibile conoscere scientificamente qualcosa che sia dimostrabile, a meno che uno non chiami «percepire» l’avere conoscenza scientifica per dimostrazione. Tuttavia alcuni problemi sono riconducibili ad una mancanza di percezione. Infatti alcune cose, se le vedessimo, non le indagheremmo, non perché con il vedere sapremmo, ma perché dal vedere avremmo l’universale. Per esempio se vedessimo la lente perforata e la luce che vi passa attraverso, con il vedere separatamente per ciascun caso e capire insieme che è così in tutti i casi, sarebbe chiaro anche perché brucia. 83

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Tåw dÉ aÈtåw érxåw èpãntvn e‰nai t«n sullogism«n édÊnaton, pr«ton m¢n logik«w yevroËsin. ofl m¢n går élhye›w efisi t«n sullogism«n, ofl d¢ ceude›w. ka‹ går efi ¶stin élhy¢w §k ceud«n sullogiÄsasyai, éllÉ ëpaj toËto giÄnetai, oÂon efi tÚ A katå toË G élhy°w, tÚ d¢ m°son tÚ B ceËdow: oÎte går tÚ A t“ B Ípãrxei oÎte tÚ B t“ G. éllÉ §ån toÊtvn m°sa lambãnhtai t«n protãsevn, ceude›w ¶sontai diå tÚ pçn sump°rasma ceËdow §k ceud«n e‰nai, tå dÉ élhy∞ §j élhy«n, ßtera d¢ tå ceud∞ ka‹ télhy∞. e‰ta oÈd¢ tå ceud∞ §k t«n aÈt«n •auto›w: ¶sti går ceud∞ éllÆloiw ka‹ §nantiÄa ka‹ édÊnata ëma e‰nai, oÂon tÚ tØn dikaiosÊnhn e‰nai édikiÄan μ deiliÄan, ka‹ tÚn ênyrvpon ·ppon μ boËn, μ tÚ ‡son me›zon μ ¶latton. ÉEk d¢ t«n keim°nvn œde: oÈd¢ går t«n élhy«n afl aÈta‹ érxa‹ pãntvn. ßterai går poll«n t“ g°nei afl érxaiÄ, ka‹ oÈdÉ §farmÒttousai, oÂon afl monãdew ta›w stigma›w oÈk §farmÒttousin: afl m¢n går oÈk ¶xousi y°sin, afl d¢ ¶xousin. énãgkh d° ge μ efiw m°sa èrmÒttein μ ênvyen μ kãtvyen, μ toÁw m¢n e‡sv ¶xein toÁw dÉ ¶jv t«n ˜rvn. éllÉ oÈd¢ t«n koin«n érx«n oÂÒn tÉ e‰naiÄ tinaw §j œn ëpanta deixyÆsetai: l°gv d¢ koinåw oÂon tÚ pçn fãnai μ épofãnai. tå går g°nh t«n ˆntvn ßtera, ka‹ tå m¢n to›w poso›w tå d¢ to›w poio›w Ípãrxei mÒnoiw, meyÉ œn deiÄknutai diå t«n koin«n. ¶ti afl érxa‹ oÈ poll“ §lãttouw t«n sumperasmãtvn: érxa‹ m¢n går afl protãseiw, afl d¢ protãseiw μ proslambanom°nou ˜rou μ §mballom°nou efisiÄn. ¶ti tå sumperãsmata êpeira, ofl dÉ ˜roi peperasm°noi. [¶ti afl érxa‹ afl m¢n §j énãgkhw, afl dÉ §ndexÒmenai.] OÏtv m¢n oÔn skopoum°noiw édÊnaton tåw aÈtåw e‰nai peperasm°naw, épeiÄrvn ˆntvn t«n sumperasmãtvn. efi dÉ êllvw pvw l°goi tiw, oÂon ˜ti afld‹ m¢n gevmetriÄaw afld‹ d¢ logism«n afld‹ d¢ fiatrik∞w, tiÄ ín e‡h tÚ legÒmenon êllo plØn ˜ti efis‹n érxa‹ t«n §pisthm«n; tÚ d¢ tåw aÈtåw fã-

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CAPITOLO 32 Che sia impossibile che siano gli stessi i principi per tutti i sillogismi risulta innanzitutto dalle seguenti considerazioni generali. Infatti alcuni sillogismi sono veri ed altri falsi, giacché anche se è possibile sillogizzare un vero da falsi, tuttavia ciò avviene una volta sola, come per esempio se A è vero di C e il medio B è falso, giacché né A conviene a B né B conviene a C. Qualora si assumano medi per queste premesse, questi devono essere falsi, perché ogni conclusione falsa procede da premesse false, mentre le conclusioni vere procedono da premesse vere, e le proposizioni false e quelle vere sono diverse. Inoltre nemmeno le conclusioni false procedono da premesse identiche fra loro. Infatti ci sono proposizioni false contrarie reciprocamente e che non possono essere insieme, come per esempio che la giustizia è ingiustizia o viltà, e che l’uomo è un cavallo o un bue, o che l’uguale è maggiore o minore. Procedendo da quel che è stato posto si argomenta così. Nemmeno di tutte le verità i principi sono gli stessi. I principi di molte verità sono diversi per genere e non si adattano gli uni agli altri (per esempio le unità non si adattano ai punti giacché le prime non hanno posizione, mentre i secondi l’hanno), ma è necessario o adattarli come medi all’insù o all’ingiù, oppure avere alcuni termini internamente ed altri esternamente. Ma non è nemmeno possibile che vi siano alcuni dei principi comuni dai quali tutte le cose siano provate. Intendo «comuni» come per esempio che ogni cosa è necessario affermarla o negarla. Diversi sono infatti i generi delle cose che sono, e alcune cose convengono solo alle quantità, altre solo alle qualità – ed è insieme a queste cose che si prova grazie ai principi comuni. Inoltre i principi non sono molto meno delle conclusioni. Infatti le premesse sono principi e le premesse si costituiscono o aggiungendo un termine all’esterno o interponendo un termine. Inoltre le conclusioni sono infinite, mentre i termini sono in numero finito. [Inoltre alcuni principi sono necessari ed altri possibili.]26 Per chi esamini le cose così è impossibile che i principi siano gli stessi e finiti, se le conclusioni sono infinite. Se poi uno asserisse la tesi in qualche altro modo, per esempio dicendo che questi sono i principi della geometria, questi dei calcoli e questi della medicina, che altro sarebbe ciò che dire che vi sono i principi delle scienze? È ridico-

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nai gelo›on, ˜ti aÈta‹ aÍta›w afl aÈtaiÄ: pãnta går oÏtv giÄgnetai taÈtã. éllå mØn oÈd¢ tÚ §j èpãntvn deiÄknusyai ıtioËn, toËtÉ §st‹ tÚ zhte›n èpãntvn e‰nai tåw aÈtåw érxãw: liÄan går eÎhyew. oÎte går §n to›w fanero›w mayÆmasi toËto giÄnetai, oÎtÉ §n tª énalÊsei dunatÒn: afl går êmesoi protãseiw érxaiÄ, ßteron d¢ sump°rasma proslhfyeiÄshw giÄnetai protãsevw ém°sou. efi d¢ l°goi tiw tåw pr≈taw ém°souw protãseiw, taÊtaw e‰nai érxãw, miÄa §n •kãstƒ g°nei §stiÄn. efi d¢ mÆtÉ §j èpas«n …w d°on deiÄknusyai ıtioËn mÆyÉ oÏtvw •t°raw ÀsyÉ •kãsthw §pistÆmhw e‰nai •t°raw, leiÄpetai efi suggene›w afl érxa‹ pãntvn, éllÉ §k tvnd‹ m¢n tadiÄ, §k d¢ tvnd‹ tadiÄ. fanerÚn d¢ ka‹ toËyÉ ˜ti oÈk §nd°xetai: d°deiktai går ˜ti êllai érxa‹ t“ g°nei efis‹n afl t«n diafÒrvn t“ g°nei. afl går érxa‹ dittaiÄ, §j œn te ka‹ per‹ ˜: afl m¢n oÔn §j œn koinaiÄ, afl d¢ per‹ ˘ ‡diai, oÂon ériymÒw, m°geyow.

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TÚ dÉ §pisthtÚn ka‹ §pistÆmh diaf°rei toË dojastoË ka‹ dÒjhw, ˜ti ≤ m¢n §pistÆmh kayÒlou ka‹ diÉ énagkaiÄvn, tÚ dÉ énagka›on oÈk §nd°xetai êllvw ¶xein. ¶sti d° tina élhy∞ m¢n ka‹ ˆnta, §ndexÒmena d¢ ka‹ êllvw ¶xein. d∞lon oÔn ˜ti per‹ m¢n taËta §pistÆmh oÈk ¶stin: e‡h går ín édÊnata êllvw ¶xein tå dunatå êllvw ¶xein. éllå mØn oÈd¢ noËw (l°gv går noËn érxØn §pistÆmhw) oÈdÉ §pistÆmh énapÒdeiktow: toËto dÉ §st‹n ÍpÒlhciw t∞w ém°sou protãsevw. élhyØw dÉ §st‹ noËw ka‹ §pistÆmh ka‹ dÒja ka‹ tÚ diå toÊtvn legÒmenon: Àste leiÄpetai dÒjan e‰nai per‹ tÚ élhy¢w m¢n μ ceËdow, §ndexÒmenon d¢ ka‹ êllvw ¶xein. toËto dÉ §st‹n ÍpÒlhciw t∞w ém°sou protãsevw ka‹ mØ énagkaiÄaw. ka‹ ımologoÊmenon dÉ oÏtv to›w fainom°noiw: ¥ te går dÒja éb°baion, ka‹ ≤ fÊsiw ≤ toiaÊth. prÚw d¢ toÊtoiw oÈde‹w o‡etai dojãzein, ˜tan o‡htai édÊnaton êllvw ¶xein, éllÉ §piÄ-

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lo asserire che sono gli stessi, perché essi sono identici a loro stessi; infatti in tal modo tutte le cose diventano le stesse. Ma nemmeno la pretesa di provare qualunque cosa da tutti i principi equivale al cercare se i principi di tutte le cose sono gli stessi. Ciò è veramente ingenuo. Infatti ciò non accade nelle matematiche, che sono manifeste, né è possibile che ciò avvenga nell’analisi. Infatti le premesse immediate sono principi e una diversa conclusione si ha quando sia aggiunta una premessa immediata. Se poi uno dicesse che le premesse primitive immediate sono principi, allora in ciascun genere c’è un solo principio. Se la tesi non è né che bisogna provare qualunque cosa da tutti i principi, né che i principi siano diversi in modo tale che siano diversi i principi di ciascuna scienza, rimane da vedere se i principi di tutte le scienze siano omogenei e tuttavia da questi principi dipendano queste cose e da questi altri queste altre cose. È manifesto che non è possibile neanche questo. Infatti è stato provato27 che i principi delle cose che differiscono nel genere sono diversi nel genere. Infatti i principi sono di due tipi: quelli da cui e quelli circa cui; e mentre i principi da cui sono comuni, quelli circa cui sono propri, come numero e grandezza.

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CAPITOLO 33 Ciò che è conoscibile scientificamente e la conoscenza scientifica differiscono da ciò che è opinabile e dall’opinione, perché la conoscenza scientifica è universale e dipende da cose necessarie e il necessario non può essere altrimenti. D’altra parte vi sono alcune cose che sono vere e che sono, ma che possono essere anche altrimenti. È chiaro allora che di esse non c’è conoscenza scientifica, sennò le cose che possono essere altrimenti sarebbero tali da non poter essere altrimenti. Ma di esse non c’è nemmeno intellezione (chiamo intellezione il principio della conoscenza scientifica) né conoscenza scientifica indimostrabile; ciò coincide con la persuasione circa una proposizione immediata. Vere sono l’intellezione, la conoscenza scientifica, l’opinione e ciò che è detto grazie ad esse. Di conseguenza rimane che l’opinione sia di ciò che è vero o falso, ma che può essere anche altrimenti. Ciò coincide con la persuasione circa una proposizione immediata e non necessaria. Ciò è in accordo con le cose così come appaiono. Infatti l’opinione è insicura e tale è la natura delle cose di cui stiamo parlando. Inoltre nessuno ritiene di avere un’opinione di qualcosa quando ritiene che non possa essere altrimenti, ma ritiene piuttosto di 87

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stasyai: éllÉ ˜tan e‰nai m¢n oÏtvw, oÈ mØn éllå ka‹ êllvw oÈd¢n kvlÊein, tÒte dojãzein, …w toË m¢n toioÊtou dÒjan oÔsan, toË dÉ énagkaiÄou §pistÆmhn. P«w oÔn ¶sti tÚ aÈtÚ dojãsai ka‹ §piÄstasyai, ka‹ diå tiÄ oÈk ¶stai ≤ dÒja §pistÆmh, e‡ tiw yÆsei ëpan ˘ o‰den §nd°xesyai dojãzein; ékolouyÆsei går ı m¢n efidΔw ı d¢ dojãzvn diå t«n m°svn, ßvw efiw tå êmesa ¶ly˙, ÀstÉ e‡per §ke›now o‰de, ka‹ ı dojãzvn o‰den. Àsper går ka‹ tÚ ˜ti dojãzein ¶sti, ka‹ tÚ diÒti: toËto d¢ tÚ m°son. μ efi m¢n oÏtvw ÍpolÆcetai tå mØ §ndexÒmena êllvw ¶xein Àsper ¶xei toÁw ırismoÁw diÉ œn afl épodeiÄjeiw, oÈ dojãsei éllÉ §pistÆsetai: efi dÉ élhy∞ m¢n e‰nai, oÈ m°ntoi taËtã ge aÈto›w Ípãrxein katÉ oÈsiÄan ka‹ katå tÚ e‰dow, dojãsei ka‹ oÈk §pistÆsetai élhy«w, ka‹ tÚ ˜ti ka‹ tÚ diÒti, §ån m¢n diå t«n ém°svn dojãs˙: §ån d¢ mØ diå t«n ém°svn, tÚ ˜ti mÒnon dojãsei; toË dÉ aÈtoË dÒja ka‹ §pistÆmh oÈ pãntvw §stiÄn, éllÉ Àsper ka‹ ceudØw ka‹ élhyØw toË aÈtoË trÒpon tinã, oÏtv ka‹ §pistÆmh ka‹ dÒja toË aÈtoË. ka‹ går dÒjan élhy∞ ka‹ ceud∞ …w m°n tinew l°gousi toË aÈtoË e‰nai, êtopa sumbaiÄnei aflre›syai êlla te ka‹ mØ dojãzein ˘ dojãzei ceud«w: §pe‹ d¢ tÚ aÈtÚ pleonax«w l°getai, ¶stin …w §nd°xetai, ¶sti dÉ …w oÎ. tÚ m¢n går sÊmmetron e‰nai tØn diãmetron élhy«w dojãzein êtopon: éllÉ ˜ti ≤ diãmetrow, per‹ ∂n afl dÒjai, tÚ aÈtÒ, oÏtv toË aÈtoË, tÚ d¢ tiÄ ∑n e‰nai •kat°rƒ katå tÚn lÒgon oÈ tÚ aÈtÒ. ımoiÄvw d¢ ka‹ §pistÆmh ka‹ dÒja toË aÈtoË. ≤ m¢n går oÏtvw toË z–ou Àste mØ §nd°xesyai mØ e‰nai z“on, ≤ dÉ ÀstÉ §nd°xesyai, oÂon efi ≤ m¢n ˜per ényr≈pou §stiÄn, ≤ dÉ ényr≈pou m°n, mØ ˜per dÉ ényr≈pou. toË aÈtoË går ˜ti ênyrvpow, tÚ dÉ …w oÈ tÚ aÈtÒ. FanerÚn dÉ §k toÊtvn ˜ti oÈd¢ dojãzein ëma tÚ aÈtÚ ka‹ §piÄstasyai §nd°xetai. ëma går ín ¶xoi ÍpÒlhcin toË êllvw ¶xein ka‹ mØ êllvw tÚ aÈtÒ: ˜per oÈk §nd°xetai. §n êllƒ m¢n går •kãteron e‰nai §nd°xetai toË aÈtoË …w e‡-

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avere conoscenza scientifica di essa. Invece quando ritenga che la cosa stia così e che nulla impedisce che possa stare anche altrimenti, allora ritiene di avere un’opinione, pensando che di una cosa siffatta ci sia opinione e del necessario conoscenza scientifica. Com’è possibile avere opinione e conoscenza scientifica della stessa cosa, e perché l’opinione non è conoscenza scientifica, se uno pone che è possibile avere un’opinione di tutto quello che sa? Infatti andrà di pari passo attraverso i termini medi tanto chi sa quanto colui il quale ha opinione, fino a giungere agli immediati; di conseguenza se quello sa, anche colui il quale ha opinione sa. Infatti così come è possibile opinare il che, è possibile anche opinare il perché e ciò è opinare il termine medio. Ma se uno ha una persuasione circa le cose che non possono essere altrimenti così come possiede le definizioni28 grazie alle quali sono le dimostrazioni, non avrà un’opinione ma conoscenza scientifica. Se invece fosse persuaso che è vero, ma non che i predicati convengono ai loro soggetti sostanzialmente e secondo la forma, avrà un’opinione, e non davvero conoscenza scientifica, sia del che sia del perché, qualora abbia opinione grazie a immediati, e soltanto del che, qualora invece abbia opinione non grazie ad immediati. Non in ogni senso l’opinione e la conoscenza scientifica sono della stessa cosa, ma come l’opinione vera e l’opinione falsa sono della stessa cosa in un certo senso, così la conoscenza scientifica e l’opinione sono della stessa cosa. Infatti il senso in cui alcuni sostengono che l’opinione vera e quella falsa sono della stessa cosa conduce ad ammettere molte assurdità e in particolare che uno non opina ciò che opina falsamente. Poiché lo stesso si dice in più sensi, in un senso è possibile che l’opinione vera e quella falsa siano dello stesso e in un altro senso no. È assurdo opinare con verità che la diagonale è commensurabile, ma poiché la diagonale, circa la quale sono le opinioni, è la stessa, in questo senso l’opinione vera e l’opinione falsa sono dello stesso, mentre l’essere corrispondente al che cos’è di ciascuna delle due secondo la definizione non è lo stesso. Allo stesso modo sono dello stesso la conoscenza scientifica e l’opinione. Infatti la prima è dell’animale in modo tale che l’uomo non può non essere animale, l’altra in modo tale che può anche non esserlo; per esempio se la prima è di ciò che propriamente è uomo, la seconda è sì dell’uomo, ma non di ciò che propriamente è uomo. Infatti esse sono dello stesso perché l’uomo è lo stesso29, ma come l’uomo è preso non è lo stesso. È manifesto da queste cose che non è possibile neanche avere allo stesso tempo opinione e conoscenza scientifica della stessa cosa. Infatti uno avrebbe allo stesso tempo la persuasione che la stessa cosa potrebbe essere altrimenti e non potrebbe essere altrimenti e ciò non 89

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rhtai, §n d¢ t“ aÈt“ oÈdÉ oÏtvw oÂÒn te: ßjei går ÍpÒlhcin ëma, oÂon ˜ti ı ênyrvpow ˜per z“on (toËto går ∑n tÚ mØ §nd°xesyai e‰nai mØ z“on) ka‹ mØ ˜per z“on: toËto går ¶stv tÚ §nd°xesyai. Tå d¢ loipå p«w de› diane›mai §piÄ te dianoiÄaw ka‹ noË ka‹ §pistÆmhw ka‹ t°xnhw ka‹ fronÆsevw ka‹ sofiÄaw, tå m¢n fusik∞w tå d¢ ±yik∞w yevriÄaw mçllÒn §stin.

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ÑH dÉ égxiÄnoiã §stin eÈstoxiÄa tiw §n ésk°ptƒ xrÒnƒ toË m°sou, oÂon e‡ tiw fidΔn ˜ti ≤ selÆnh tÚ lamprÚn ée‹ ¶xei prÚw tÚn ¥lion, taxÁ §nenÒhse diå tiÄ toËto, ˜ti diå tÚ lãmpein épÚ toË ≤liÄou: μ dialegÒmenon plousiă ¶gnv diÒti daneiÄzetai: μ diÒti fiÄloi, ˜ti §xyro‹ toË aÈtoË. pãnta går tå a‡tia tå m°sa [ı] fidΔn tå êkra §gn≈risen. tÚ lamprÚn e‰nai tÚ prÚw tÚn ¥lion §fÉ o A, tÚ lãmpein épÚ toË ≤liÄou B, selÆnh tÚ G. Ípãrxei dØ tª m¢n selÆn˙ t“ G tÚ B, tÚ lãmpein épÚ toË ≤liÄou: t“ d¢ B tÚ A, tÚ prÚw toËtÉ e‰nai tÚ lamprÒn, éfÉ o lãmpei: Àste ka‹ t“ G tÚ A diå toË B.

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è possibile. Infatti è possibile che in due diverse persone vi sia opinione e conoscenza scientifica della stessa cosa come si è detto, mentre nella stessa persona non è possibile nemmeno così. Infatti uno sarebbe persuaso allo stesso tempo del fatto che, per esempio, l’uomo è proprio ciò che è animale (in ciò infatti consisteva il suo non poter non essere animale) e che l’uomo non è proprio ciò che è animale; questo infatti sia il suo poter essere diversamente. Come poi bisogna distribuire le rimanenti cose sotto la conoscenza discorsiva, l’intellezione, la conoscenza scientifica, la capacità tecnica, la conoscenza pratica e la sapienza teorica spetta in parte alla speculazione fisica e in parte a quella etica.

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CAPITOLO 34 La prontezza è una capacità di cogliere il medio in un tempo impercettibile, come per esempio se uno, vedendo che la luna ha sempre la faccia illuminata rivolta verso il sole, capisce subito perché ciò avviene: perché trae luce dal sole; oppure vedendo uno parlare con un ricco, capisce che lo fa per farsi prestare denaro; oppure perché due sono amici: perché nemici di un terzo. Infatti egli, vedendo gli estremi, riconosce tutte le ragioni che fanno da termini medi. Sia avere la faccia illuminata rivolta verso il sole ciò che è indicato da A, essere illuminato dal sole B e luna C. Allora B, essere illuminato dal sole, conviene a C, la luna; ma a B conviene A, avere la faccia illuminata rivolta verso ciò da cui è illuminata; di conseguenza A conviene anche a C, grazie a B.

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Tå zhtoÊmenã §stin ‡sa tÚn ériymÚn ˜saper §pistãmeya. zhtoËmen d¢ t°ttara, tÚ ˜ti, tÚ diÒti, efi ¶sti, tiÄ §stin. ˜tan m¢n går pÒteron tÒde μ tÒde zht«men, efiw ériymÚn y°ntew, oÂon pÒteron §kleiÄpei ı ¥liow μ oÎ, tÚ ˜ti zhtoËmen. shme›on d¢ toÊtou: eÍrÒntew går ˜ti §kleiÄpei pepaÊmeya: ka‹ §ån §j érx∞w efid«men ˜ti §kleiÄpei, oÈ zhtoËmen pÒteron. ˜tan d¢ efid«men tÚ ˜ti, tÚ diÒti zhtoËmen, oÂon efidÒtew ˜ti §kleiÄpei ka‹ ˜ti kine›tai ≤ g∞, tÚ diÒti §kleiÄpei μ diÒti kine›tai zhtoËmen. taËta m¢n oÔn oÏtvw, ¶nia dÉ êllon trÒpon zhtoËmen, oÂon efi ¶stin μ mØ ¶sti k°ntaurow μ yeÒw: tÚ dÉ efi ¶stin μ mØ èpl«w l°gv, éllÉ oÈk efi leukÚw μ mÆ. gnÒntew d¢ ˜ti ¶sti, tiÄ §sti zhtoËmen, oÂon tiÄ oÔn §sti yeÒw, μ tiÄ §stin ênyrvpow;

2 àA m¢n oÔn zhtoËmen ka‹ ì eÍrÒntew ‡smen, taËta ka‹ tosaËtã §stin. zhtoËmen d°, ˜tan m¢n zht«men tÚ ˜ti μ tÚ efi ¶stin èpl«w, îrÉ ¶sti m°son aÈtoË μ oÈk ¶stin: ˜tan d¢ gnÒntew μ tÚ ˜ti μ efi ¶stin, μ tÚ §p‹ m°rouw μ tÚ èpl«w, pãlin

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LIBRO SECONDO CAPITOLO 1 Le cose cercate sono in numero uguale a quelle di cui abbiamo conoscenza scientifica. Cerchiamo quattro cose, e precisamente il che, il perché, se è, che cos’è. Infatti, quando cerchiamo se una cosa è questo o quello, ponendo una pluralità di termini, come per esempio se il sole si eclissa oppure no, cerchiamo il che. E vi è un segno di ciò: avendo trovato che si eclissa, ci fermiamo e se da principio sappiamo che si eclissa, non cerchiamo se si eclissa. Ma quando sappiamo il che, cerchiamo il perché: per esempio, sapendo che il sole si eclissa e che la terra subisce terremoti, cerchiamo perché si eclissa e perché li subisce. Queste cose le cerchiamo in questo modo, altre in altro modo, come per esempio se il centauro o il dio è o non è. Intendo dire se è o no in senso assoluto, e non se è bianco o no. Una volta venuti a conoscere che è, cerchiamo che cos’è, come per esempio: che cos’è allora il dio o che cos’è l’uomo?

CAPITOLO 2 Tali e tante sono dunque le cose che cerchiamo e che, una volta trovate, sappiamo. Quando di una cosa cerchiamo il che o il se è in senso assoluto, cerchiamo se ci sia o meno un medio di essa. Quando, conoscendo o che è oppure se è, o parzialmente o in senso assoluto, cer93

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tÚ diå tiÄ zht«men μ tÚ tiÄ §sti, tÒte zhtoËmen tiÄ tÚ m°son. l°gv d¢ tÚ ˜ti ¶stin §p‹ m°rouw ka‹ èpl«w, §p‹ m°rouw m°n, îrÉ §kleiÄpei ≤ selÆnh μ aÎjetai; efi gãr §sti t‹ μ mØ ¶sti tiÄ, §n to›w toioÊtoiw zhtoËmen: èpl«w dÉ, efi ¶stin μ mØ selÆnh μ nÊj. sumbaiÄnei êra §n èpãsaiw ta›w zhtÆsesi zhte›n μ efi ¶sti m°son μ tiÄ §sti tÚ m°son. tÚ m¢n går a‡tion tÚ m°son, §n ëpasi d¢ toËto zhte›tai. îrÉ §kleiÄpei; îrÉ ¶sti ti a‡tion μ oÎ; metå taËta gnÒntew ˜ti ¶sti ti, tiÄ oÔn toËtÉ ¶sti zhtoËmen. tÚ går a‡tion toË e‰nai mØ tod‹ μ tod‹ éllÉ èpl«w tØn oÈsiÄan, μ toË mØ èpl«w éllã ti t«n kayÉ aÍtÚ μ katå sumbebhkÒw, tÚ m°son §stiÄn. l°gv d¢ tÚ m¢n èpl«w tÚ ÍpokeiÄmenon, oÂon selÆnhn μ g∞n μ ¥lion μ triÄgvnon, tÚ d¢ t‹ ¶kleicin, fisÒthta énisÒthta, efi §n m°sƒ μ mÆ. §n ëpasi går toÊtoiw fanerÒn §stin ˜ti tÚ aÈtÒ §sti tÚ tiÄ §sti ka‹ diå tiÄ ¶stin. tiÄ §stin ¶kleiciw; st°rhsiw fvtÚw épÚ selÆnhw ÍpÚ g∞w éntifrãjevw. diå tiÄ ¶stin ¶kleiciw, μ diå tiÄ §kleiÄpei ≤ selÆnh; diå tÚ époleiÄpein tÚ f«w éntifrattoÊshw t∞w g∞w. tiÄ §sti sumfvniÄa; lÒgow ériym«n §n Ùje› ka‹ bare›. diå tiÄ sumfvne› tÚ ÙjÁ t“ bare›; diå tÚ lÒgon ¶xein ériym«n tÚ ÙjÁ ka‹ tÚ barÊ. îrÉ ¶sti sumfvne›n tÚ ÙjÁ ka‹ tÚ barÊ; îrÉ §st‹n §n ériymo›w ı lÒgow aÈt«n; labÒntew dÉ ˜ti ¶sti, tiÄw oÔn §stin ı lÒgow; ÜOti dÉ §st‹ toË m°sou ≤ zÆthsiw, dhlo› ˜svn tÚ m°son afisyhtÒn. zhtoËmen går mØ ºsyhm°noi, oÂon t∞w §kleiÄcevw, efi ¶stin μ mÆ. efi dÉ ∑men §p‹ t∞w selÆnhw, oÈk ín §zhtoËmen oÎtÉ efi giÄnetai oÎte diå tiÄ, éllÉ ëma d∞lon ín ∑n. §k går toË afisy°syai ka‹ tÚ kayÒlou §g°neto ín ≤m›n efid°nai. ≤ m¢n går a‡syhsiw ˜ti nËn éntifrãttei (ka‹ går d∞lon ˜ti nËn §kleiÄpei): §k d¢ toÊtou tÚ kayÒlou ín §g°neto. ÜVsper oÔn l°gomen, tÚ tiÄ §stin efid°nai taÈtÒ §sti ka‹ diå tiÄ ¶stin, toËto dÉ μ èpl«w ka‹ mØ t«n ÍparxÒntvn ti, μ t«n ÍparxÒntvn, oÂon ˜ti dÊo ÙryaiÄ, μ ˜ti me›zon μ ¶latton.

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chiamo ancora il perché o il che cos’è, allora cerchiamo qual è il medio. Dico il che è o parzialmente o in senso assoluto, e parzialmente come nel caso di: la luna subisce eclissi o accrescimento? (infatti in questi casi cerchiamo se una cosa è o non è qualcosa); in senso assoluto invece lo dico come nel caso di: se c’è o non c’è la luna, o la notte. Dunque in tutte queste ricerche succede di cercare o se c’è un medio o qual è il medio. Infatti il medio è la ragione e in tutti i casi è questa che è ricercata. Subisce eclissi? C’è o no qualcosa che è ragione di ciò? Dopo di che, essendo venuti a sapere che c’è qualcosa, cerchiamo quale essa sia. Infatti la ragione non dell’essere questo o quello, ma dell’esserci in senso assoluto della cosa che è, oppure la ragione per cui è, non in senso assoluto, ma qualcuna delle determinazioni per sé o accidentali, coincide con il medio. Chiamo ciò che è in senso assoluto il soggetto soggiacente, per esempio la luna o la terra o il sole o il triangolo, e qualcuna delle determinazioni l’eclissi, l’uguaglianza, la disuguaglianza, se è nel mezzo oppure no. Infatti in tutti questi casi è manifesto che è lo stesso il che cos’è e il perché è. Che cos’è l’eclissi? Privazione di luce dalla luna per l’interposizione della terra. Perché c’è l’eclissi o perché la luna subisce eclissi? Per lo sparire della luce interponendosi la terra. Che cos’è l’accordo? Una proporzione numerica tra una nota acuta ed una grave. Perché una nota acuta si accorda con una grave? Perché c’è una proporzione numerica fra la nota acuta e quella grave. La nota acuta e quella grave possono formare un accordo? La loro proporzione è numerica? Assumendo che lo sia, qual è allora la proporzione? Che la ricerca sia del medio lo evidenziano quelle cose nelle quali il medio è percepibile. Infatti, non avendo percezione, cerchiamo, per esempio a proposito dell’eclissi, se c’è o no. Se fossimo sulla luna, non cercheremmo né se si verifica né perché, ma ciò sarebbe subito chiaro, giacché dal percepire giungeremmo a sapere l’universale. Infatti la percezione sarebbe che ora la terra si interpone (giacché sarebbe chiaro che ora la luna subisce un’eclissi); da ciò si produrrebbe l’universale. Allora, come diciamo, sapere il che cos’è è la stessa cosa che sapere perché è, e cioè o perché una cosa è in senso assoluto e non una delle determinazioni che le convengono, oppure perché è una delle determinazioni che le convengono, come per esempio uguale a due retti o maggiore o minore.

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ÜOti m¢n oÔn pãnta tå zhtoÊmena m°sou zÆthsiÄw §sti, d∞lon: p«w d¢ tÚ tiÄ §sti deiÄknutai, ka‹ tiÄw ı trÒpow t∞w énagvg∞w, ka‹ tiÄ §stin ırismÚw ka‹ tiÄnvn, e‡pvmen, diaporÆsantew pr«ton per‹ aÈt«n. érxØ dÉ ¶stv t«n mellÒntvn ¥per §st‹n ofikeiotãth t«n §xom°nvn lÒgvn. éporÆseie går ên tiw, îrÉ ¶sti tÚ aÈtÚ ka‹ katå tÚ aÈtÚ ırism“ efid°nai ka‹ épodeiÄjei, μ édÊnaton; ı m¢n går ırismÚw toË tiÄ §stin e‰nai doke›, tÚ d¢ tiÄ §stin ëpan kayÒlou ka‹ kathgorikÒn: sullogismo‹ dÉ efis‹n ofl m¢n sterhtikoiÄ, ofl dÉ oÈ kayÒlou, oÂon ofl m¢n §n t“ deut°rƒ sxÆmati sterhtiko‹ pãntew, ofl dÉ §n t“ triÄtƒ oÈ kayÒlou. e‰ta oÈd¢ t«n §n t“ pr≈tƒ sxÆmati kathgorik«n èpãntvn ¶stin ırismÒw, oÂon ˜ti pçn triÄgvnon dus‹n Ùrya›w ‡saw ¶xei. toÊtou d¢ lÒgow, ˜ti tÚ §piÄstasyaiÄ §sti tÚ épodeiktÚn tÚ épÒdeijin ¶xein, ÀstÉ §pe‹ t«n toioÊtvn épÒdeijiw ¶sti, d∞lon ˜ti oÈk ín e‡h aÈt«n ka‹ ırismÒw: §piÄstaito går ên tiw ka‹ katå tÚn ırismÒn, oÈk ¶xvn tØn épÒdeijin: oÈd¢n går kvlÊei mØ ëma ¶xein. flkanØ d¢ piÄstiw ka‹ §k t∞w §pagvg∞w: oÈd¢n går p≈pote ırisãmenoi ¶gnvmen, oÎte t«n kayÉ aÍtÚ ÍparxÒntvn oÎte t«n sumbebhkÒtvn. ¶ti efi ı ırismÚw oÈsiÄaw tinÚw gnvrismÒw, tã ge toiaËta fanerÚn ˜ti oÈk oÈsiÄai. ÜOti m¢n oÔn oÈk ¶stin ırismÚw ëpantow oper ka‹ épÒdeijiw, d∞lon. tiÄ daiÄ, o ırismÒw, îra pantÚw épÒdeijiw ¶stin μ oÎ; eÂw m¢n dØ lÒgow ka‹ per‹ toÊtou ı aÈtÒw. toË går •nÒw, √ ßn, miÄa §pistÆmh. ÀstÉ e‡per tÚ §piÄstasyai tÚ épodeiktÒn §sti tÚ tØn épÒdeijin ¶xein, sumbÆsetaiÄ ti édÊnaton: ı går tÚn ırismÚn ¶xvn êneu t∞w épodeiÄjevw §pistÆsetai. ¶ti afl érxa‹ t«n épodeiÄjevn ırismoiÄ, œn ˜ti oÈk ¶sontai épodeiÄjeiw d°deiktai prÒteron^μ ¶sontai afl érxa‹ épodeikta‹ ka‹ t«n érx«n érxaiÄ, ka‹ toËtÉ efiw êpeiron badie›tai, μ tå pr«ta ırismo‹ ¶sontai énapÒdeiktoi. ÉAllÉ îra, efi mØ pantÚw toË aÈtoË, éllå tinÚw toË aÈtoË ¶stin ırismÚw ka‹ épÒdeijiw; μ édÊnaton; oÈ går ¶stin

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CAPITOLO 3 È chiaro allora che tutte le cose cercate consistono nella ricerca di un medio. Diciamo ora come si prova il che cos’è e qual è il modo della sua riduzione, e che cos’è una definizione e di quali cose essa si dia e cominciamo da una discussione aporetica. Principio di quel che dobbiamo dire sia quello che è più appropriato ai discorsi che seguono. Uno potrebbe infatti domandarsi: è possibile conoscere per definizione e per dimostrazione una stessa cosa sotto lo stesso rispetto, oppure è impossibile? Infatti la definizione appare essere del che cos’è, ed ogni che cos’è è universale e positivo. Alcuni sillogismi invece sono privativi ed altri non universali; per esempio quelli in seconda figura sono tutti privativi e quelli in terza figura non sono universali. Inoltre nemmeno in corrispondenza di tutti i sillogismi positivi in prima figura c’è una definizione, come per esempio che ogni triangolo ha gli angoli uguali a due retti. La ragione di ciò è che conoscere scientificamente ciò che è dimostrabile è avere dimostrazione di esso; di conseguenza, poiché di cose siffatte vi è dimostrazione, è chiaro che di esse non c’è anche definizione, altrimenti uno potrebbe conoscerle scientificamente anche grazie alla definizione, senza avere la dimostrazione, giacché nulla impedisce che non siano insieme. Si trae un sufficiente convincimento anche dall’induzione. Infatti non abbiamo conosciuto mai per definizione né uno dei termini che conviene per sé, né uno degli accidenti. Inoltre, se la definizione fa conoscere la sostanza di qualcosa, è manifesto che le cose siffatte non sono sostanze. È evidente allora che non c’è definizione di tutto ciò di cui c’è anche dimostrazione. E che? C’è dimostrazione di tutto ciò di cui c’è definizione, oppure no? Anche in questo caso vi è uno e uno stesso argomento. Infatti di ciò che è uno, in quanto è uno, c’è un solo tipo di conoscenza scientifica. Di conseguenza, se davvero conoscere scientificamente ciò che è dimostrabile consiste nell’avere dimostrazione di esso, seguirà qualcosa di impossibile. Infatti colui il quale possedesse la definizione avrebbe conoscenza scientifica senza dimostrazione. Inoltre i principi delle dimostrazioni sono definizioni, e dei principi si è provato prima30 che non possono esserci dimostrazioni – o i principi sono dimostrabili e vi sono principi dei principi e ciò andrà all’infinito, oppure le cose prime sono definizioni indimostrabili. Ma forse, se non per tutte le cose, almeno per alcune di esse vi è allo stesso tempo definizione e dimostrazione? Oppure ciò è impos97

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épÒdeijiw o ırismÒw. ırismÚw m¢n går toË tiÄ §sti ka‹ oÈsiÄaw: afl dÉ épodeiÄjeiw faiÄnontai pçsai Ípotiy°menai ka‹ lambãnousai tÚ tiÄ §stin, oÂon afl mayhmatika‹ tiÄ monåw ka‹ tiÄ tÚ perittÒn, ka‹ afl êllai ımoiÄvw. ¶ti pçsa épÒdeijiw t‹ katå tinÚw deiÄknusin, oÂon ˜ti ¶stin μ oÈk ¶stin: §n d¢ t“ ırism“ oÈd¢n ßteron •t°rou kathgore›tai, oÂon oÎte tÚ z“on katå toË diÄpodow oÎte toËto katå toË z–ou, oÈd¢ dØ katå toË §pip°dou tÚ sx∞ma: oÈ gãr §sti tÚ §piÄpedon sx∞ma, oÈd¢ tÚ sx∞ma §piÄpedon. ¶ti ßteron tÚ tiÄ §sti ka‹ ˜ti ¶sti de›jai. ı m¢n oÔn ırismÚw tiÄ §sti dhlo›, ≤ d¢ épÒdeijiw ˜ti ¶sti tÒde katå toËde μ oÈk ¶stin. •t°rou d¢ •t°ra épÒdeijiw, §ån mØ …w m°row ¬ ti t∞w ˜lhw. toËto d¢ l°gv, ˜ti d°deiktai tÚ fisoskel¢w dÊo ÙryaiÄ, efi pçn triÄgvnon d°deiktai: m°row gãr, tÚ dÉ ˜lon. taËta d¢ prÚw êllhla oÈk ¶xei oÏtvw, tÚ ˜ti ¶sti ka‹ tiÄ §stin: oÈ gãr §sti yat°rou yãteron m°row. FanerÚn êra ˜ti oÎte o ırismÒw, toÊtou pantÚw épÒdeijiw, oÎte o épÒdeijiw, toÊtou pantÚw ırismÒw, oÎte ˜lvw toË aÈtoË oÈdenÚw §nd°xetai êmfv ¶xein. Àste d∞lon …w oÈd¢ ırismÚw ka‹ épÒdeijiw oÎte tÚ aÈtÚ ín e‡h oÎte yãteron §n yat°rƒ: ka‹ går ín tå ÍpokeiÄmena ımoiÄvw e‰xen.

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TaËta m¢n oÔn m°xri toÊtou dihporÆsyv: toË d¢ tiÄ §sti pÒteron ¶sti sullogismÚw ka‹ épÒdeijiw μ oÈk ¶sti, kayãper nËn ı lÒgow Íp°yeto; ı m¢n går sullogismÚw t‹ katå tinÚw deiÄknusi diå toË m°sou: tÚ d¢ tiÄ §stin ‡diÒn te, ka‹ §n t“ tiÄ §sti kathgore›tai. taËta dÉ énãgkh éntistr°fein. efi går tÚ A toË G ‡dion, d∞lon ˜ti ka‹ toË B ka‹ toËto toË G, Àste pãnta éllÆlvn. éllå mØn ka‹ efi tÚ A §n t“ tiÄ §stin Ípãrxei pant‹ t“ B, ka‹ kayÒlou tÚ B pantÚw toË G §n t“ tiÄ §sti l°getai, énãgkh ka‹ tÚ A §n t“ tiÄ §sti toË G l°gesyai. efi d¢ mØ oÏtv tiw lÆcetai dipl≈saw, oÈk énãgkh ¶stai tÚ A toË G kathgore›syai §n t“ tiÄ §stin, efi tÚ m¢n A toË B §n t“ tiÄ §sti, mØ kayÉ ˜svn d¢ tÚ B, §n t“ tiÄ §stin. tÚ d¢ tiÄ §stin êmfv taËta ßjei: ¶stai êra ka‹ tÚ B katå

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sibile? Infatti non c’è dimostrazione di ciò di cui c’è definizione, giacché la definizione è del cos’è e della sostanza, invece le dimostrazioni appaiono tutte presupporre ed assumere il che cos’è: per esempio le dimostrazioni matematiche presuppongono che cos’è l’unità e che cos’è il dispari, e così pure le altre dimostrazioni. Inoltre ogni dimostrazione prova qualcosa di qualcosa, ossia che qualcosa è o non è qualcosa; invece nella definizione non c’è nulla che sia predicato di qualcosa d’altro; per esempio né animale si predica di bipede né questo di animale, né poi la figura del piano, giacché il piano non è una figura, né la figura un piano. Inoltre è diverso provare che cos’è e che qualcosa è qualcosa. La definizione rivela che cos’è mentre la dimostrazione rivela che questo è o non è detto di questo. Dimostrazioni di cose diverse sono diverse a meno che una non sia una parte dell’altra che è un tutto. Con questo voglio dire che si è provato che l’isoscele ha gli angoli uguali a due retti, se si è provato che ogni triangolo è tale, giacché il primo è una parte e il secondo è un tutto. Il che è e il che cos’è non sono in quel rapporto fra loro, giacché uno non è parte dell’altro. È manifesto dunque che né c’è dimostrazione di tutto ciò di cui c’è definizione, né c’è definizione di tutto ciò di cui c’è dimostrazione, e che non è assolutamente possibile avere definizione e dimostrazione della stessa cosa. Di conseguenza è chiaro che né la definizione e la dimostrazione sono la stessa cosa né una è inclusa nell’altra, altrimenti i loro oggetti sarebbero nella stessa relazione.

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CAPITOLO 4 Queste cose discutiamole aporeticamente fino a questo punto. C’è sillogismo e dimostrazione del che cos’è oppure no, come l’argomento or ora esposto si proponeva di mostrare? Infatti il sillogismo prova grazie ad un medio qualcosa di qualcosa; ora il che cos’è è un proprio e si predica nel che cos’è. Ma questi termini devono essere convertibili. Infatti se A è un proprio di C, è chiaro che è un proprio anche di B e che questo lo è di C, cosicché sono tutti propri fra loro. D’altra parte, se A conviene a ogni B nel che cos’è e B si dice universalmente di ogni C nel che cos’è, è necessario anche che A si dica di C nel che cos’è. Se uno non assume così questi nessi duplicandoli, non sarà necessario che A si predichi di C nel che cos’è, se A si predica di B nel che cos’è e B non si predica nel che cos’è di quelli di cui si predica. Ma entrambi questi nessi conterranno il che cos’è. Dunque anche B

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toË G tÚ tiÄ §stin. efi dØ tÚ tiÄ §sti ka‹ tÚ tiÄ ∑n e‰nai êmfv ¶xei, §p‹ toË m°sou ¶stai prÒteron tÚ tiÄ ∑n e‰nai. ˜lvw te, efi ¶sti de›jai tiÄ §stin ênyrvpow, ¶stv tÚ G ênyrvpow, tÚ d¢ A tÚ tiÄ §stin, e‡te z“on diÄpoun e‡tÉ êllo ti. efi toiÄnun sullogie›tai, énãgkh katå toË B tÚ A pantÚw kathgore›syai. toËto dÉ ¶stai êllow lÒgow m°sow, Àste ka‹ toËto ¶stai tiÄ §stin ênyrvpow. lambãnei oÔn ˘ de› de›jai: ka‹ går tÚ B ¶stai tiÄ §stin ênyrvpow. De› dÉ §n ta›w dus‹ protãsesi ka‹ to›w pr≈toiw ka‹ ém°soiw skope›n: mãlista går fanerÚn tÚ legÒmenon giÄnetai. ofl m¢n oÔn diå toË éntistr°fein deiknÊntew tiÄ §sti cuxÆ, μ tiÄ §stin ênyrvpow μ êllo ıtioËn t«n ˆntvn, tÚ §j érx∞w afitoËntai, oÂon e‡ tiw éji≈seie cuxØn e‰nai tÚ aÈtÚ aÍt“ a‡tion toË z∞n, toËto dÉ ériymÚn aÈtÚn aÍtÚn kinoËnta: énãgkh går afit∞sai tØn cuxØn ˜per ériymÚn e‰nai aÈtÚn aÍtÚn kinoËnta, oÏtvw …w tÚ aÈtÚ ˆn. oÈ går efi ékolouye› tÚ A t“ B ka‹ toËto t“ G, ¶stai t“ G tÚ A tÚ tiÄ ∑n e‰nai, éllÉ élhy¢w efipe›n ¶stai mÒnon: oÈdÉ efi ¶sti tÚ A ˜per ti ka‹ katå toË B kathgore›tai pantÒw. ka‹ går tÚ z–ƒ e‰nai kathgore›tai katå toË ényr≈pƒ e‰nai (élhy¢w går pçn tÚ ényr≈pƒ e‰nai z–ƒ e‰nai, Àsper ka‹ pãnta ênyrvpon z“on), éllÉ oÈx oÏtvw Àste ©n e‰nai. §ån m¢n oÔn mØ oÏtv lãb˙, oÈ sullogie›tai ˜ti tÚ A §st‹ t“ G tÚ tiÄ ∑n e‰nai ka‹ ≤ oÈsiÄa: §ån d¢ oÏtv lãb˙, prÒteron ¶stai efilhfΔw t“ G tiÄ §sti tÚ tiÄ ∑n e‰nai [tÚ B]. ÀstÉ oÈk épod°deiktai: tÚ går §n érxª e‡lhfen.

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ÉAllå mØn oÈdÉ ≤ diå t«n diair°sevn ıdÚw sullogiÄzetai, kayãper §n tª énalÊsei tª per‹ tå sxÆmata e‡rhtai. oÈdamoË går énãgkh giÄnetai tÚ prçgma §ke›no e‰nai tvnd‹ ˆntvn, éllÉ Àsper oÈdÉ ı §pãgvn épodeiÄknusin. oÈ går de› tÚ sump°rasma §rvtçn, oÈd¢ t“ doËnai e‰nai, éllÉ énãgkh e‰nai §keiÄnvn ˆntvn, kín mØ fª ı épokrinÒmenow. îrÉ ı ênyrvpow z“on μ êcuxon; e‰tÉ ¶labe z“on, oÈ sullelÒgistai. pãlin ëpan z“on μ pezÚn μ ¶nudron: ¶labe pezÒn. ka‹ tÚ e‰nai tÚn ênyrvpon tÚ ˜lon, z“on pezÒn, oÈk

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sarà il che cos’è di C. Se allora entrambi contengono il che cos’è e l’essere corrispondente al che cos’è, l’essere corrispondente al che cos’è comparirà anteriormente nel medio. In generale, se è possibile provare che cos’è l’uomo, uomo sia C, il che cos’è A, vale a dire animale bipede o qualcosa d’altro. Allora, se si vuole sillogizzare, è necessario che A si predichi di ogni B; ma questa sarà un’altra formula definitoria intermedia; di conseguenza anche questo sarà che cos’è l’uomo. Allora si assume ciò che bisogna provare, giacché anche B sarà che cos’è l’uomo. Bisogna considerare ciò con riferimento a due premesse primitive e immediate, giacché così quel che vogliamo dire diviene soprattutto manifesto. Coloro i quali provano mediante la conversione che cos’è l’anima o che cos’è l’uomo o una qualunque altra cosa che è, postulano quel che è stato domandato all’inizio, come per esempio se uno ritenesse che l’anima è ciò che è esso stesso la ragione della propria vita e che questo è un numero che muove se stesso. È infatti necessario postulare che l’anima sia proprio ciò che è il numero che muove se stesso, così da essere la stessa cosa. Infatti se A segue a B e questo a C, non per questo A sarà l’essere corrispondente al che cos’è di C, ma sarà vero dire solo che A segue a C, anche se A è ciò un tipo del quale è proprio B e si predica di ogni B. Infatti l’essere dell’animale si predica dell’essere dell’uomo (giacché è vero che in ogni caso l’essere dell’uomo è essere dell’animale, così come che ogni uomo è animale), ma non così da essere uno. Qualora non si assuma il medio così, non si sillogizza che A è l’essere corrispondente al che cos’è e la sostanza di C. Se invece lo si assume così, si deve aver assunto prima qual è l’essere corrispondente al che cos’è di C. Di conseguenza non si dimostra l’essere corrispondente al che cos’è, giacché lo si è assunto all’inizio.

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CAPITOLO 5 Ma nemmeno il metodo della divisione è sillogistico, come è stato detto nell’analisi relativa alle figure31. Infatti in nessun punto è necessario che la cosa in questione sia, se queste cose qui sono, così come non dimostra chi fa un’induzione. Infatti non bisogna domandare la conclusione, né che essa sia per una concessione, ma è necessario che essa sia, se quelle cose sono, anche se colui che risponde lo neghi. L’uomo è vivente o inanimato? Chi risponde allora assume vivente e non sillogizza. Di nuovo, ogni vivente è terrestre o acquatico; egli assume terrestre. E che l’uomo sia il tutto, vivente terrestre, non è necessario

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énãgkh §k t«n efirhm°nvn, éllå lambãnei ka‹ toËto. diaf°rei dÉ oÈd¢n §p‹ poll«n μ ÙliÄgvn oÏtv poie›n: tÚ aÈtÚ gãr §stin. (ésullÒgistow m¢n oÔn ka‹ ≤ xr∞siw giÄnetai to›w oÏtv metioËsi ka‹ t«n §ndexom°nvn sullogisy∞nai.) tiÄ går kvlÊei toËto élhy¢w m¢n tÚ pçn e‰nai katå toË ényr≈pou, mØ m°ntoi tÚ tiÄ §sti mhd¢ tÚ tiÄ ∑n e‰nai dhloËn; ¶ti tiÄ kvlÊei μ prosye›naiÄ ti μ éfele›n μ Íperbebhk°nai t∞w oÈsiÄaw; TaËta m¢n oÔn pariÄetai m°n, §nd°xetai d¢ lËsai t“ lambãnein §n t“ tiÄ §sti pãnta, ka‹ tÚ §fej∞w tª diair°sei poie›n, afitoÊmenon tÚ pr«ton, ka‹ mhd¢n paraleiÄpein. [toËto dÉ énagka›on, efi ëpan efiw tØn diaiÄresin §mpiÄptei ka‹ mhd¢n §lleiÄpei: toËto dÉ énagka›on, êtomon går ≥dh de› e‰nai.] éllå sullogismÚw ˜mvw oÈk ¶sti, éllÉ e‡per, êllon trÒpon gnvriÄzein poie›. ka‹ toËto m¢n oÈd¢n êtopon: oÈd¢ går ı §pãgvn ‡svw épodeiÄknusin, éllÉ ˜mvw dhlo› ti. sullogismÚn dÉ oÈ l°gei ı §k t∞w diair°sevw l°gvn tÚn ırismÒn. Àsper går §n to›w sumperãsmasi to›w êneu t«n m°svn, §ãn tiw e‡p˙ ˜ti toÊtvn ˆntvn énãgkh tod‹ e‰nai, §nd°xetai §rvt∞sai diå tiÄ, oÏtvw ka‹ §n to›w diairetiko›w ˜roiw. tiÄ §stin ênyrvpow; z“on ynhtÒn, ÍpÒpoun, diÄpoun, êpteron. diå tiÄ, parÉ •kãsthn prÒsyesin; §re› gãr, ka‹ deiÄjei tª diair°sei, …w o‡etai, ˜ti pçn μ ynhtÚn μ éyãnaton. ı d¢ toioËtow lÒgow ëpaw oÈk ¶stin ırismÒw, ÀstÉ efi ka‹ épedeiÄknuto tª diair°sei, éllÉ ˜ gÉ ırismÚw oÈ sullogismÚw giÄnetai.

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ÉAllÉ îra ¶sti ka‹ épode›jai tÚ tiÄ §sti katÉ oÈsiÄan, §j Ípoy°sevw d°, labÒnta tÚ m¢n tiÄ ∑n e‰nai tÚ §k t«n §n t“ tiÄ §stin ‡dion, tad‹ d¢ §n t“ tiÄ §sti mÒna, ka‹ ‡dion tÚ pçn; toËto gãr §sti tÚ e‰nai §keiÄnƒ. μ pãlin e‡lhfe tÚ tiÄ ∑n e‰nai ka‹ §n toÊtƒ; énãgkh går diå toË m°sou de›jai. ¶ti Àsper oÈdÉ §n sullogism“ lambãnetai tiÄ §sti tÚ sullelogiÄsyai (ée‹ går ˜lh μ m°row ≤ prÒtasiw, §j œn ı sullogismÒw), oÏtvw oÈd¢ tÚ tiÄ ∑n e‰nai de› §ne›nai §n t“ sullogism“, éllå xvr‹w toËto t«n keim°nvn e‰nai, ka‹ prÚw

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a partire dalle cose dette, ma egli assume anche questo. Non fa differenza procedere così per molti o pochi passi, giacché è la stessa cosa (invero chi segua questa strada fa un uso non sillogistico anche delle cose che possono essere sillogizzate). Infatti che cosa impedisce che questo tutto sia vero dell’uomo e tuttavia non manifesti il che cos’è e l’essere corrispondente al che cos’è? Inoltre che cosa impedisce di aggiungere o togliere o passar sopra a qualcosa della sostanza? Questi inconvenienti passano inosservati e tuttavia è possibile liberarsene con l’assumere tutte le determinazioni nel che cos’è e con il fare la divisione di seguito, dopo aver postulato il primo termine, senza omettere niente. [Ciò è necessario se tutto cade nella divisione e non manca niente; ciò è necessario, giacché bisogna che il termine finale sia indivisibile.]32 Tuttavia ciò non è un sillogismo, ma semmai fa acquisire conoscenza in un altro modo. Ciò non è per niente strano. Infatti probabilmente nemmeno chi fa un’induzione dimostra, e tuttavia manifesta qualcosa. Non effettua un sillogismo chi formula la definizione a partire dalla divisione. Infatti come a proposito delle conclusioni che sono senza medi, qualora uno dica che è necessario che questo qui sia se queste cose sono, è possibile domandare perché, così a proposito delle definizioni per divisione. Che cos’è l’uomo? Vivente mortale, dotato di piedi, bipede, senza ali. A proposito di ogni aggiunta: perché? Uno dirà e proverà, come crede, con la divisione: perché ogni vivente è mortale o immortale. Ma una formula siffatta, presa tutt’intera, non è una definizione; di conseguenza, anche se uno dimostrasse ciò con la divisione, non certo per questo la definizione diviene un sillogismo.

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CAPITOLO 6 È possibile dimostrare il che cos’è sostanziale a partire da una presupposizione, assumendo da un lato che l’essere corrispondente al che cos’è è il proprio formato dalle determinazioni nel che cos’è, dall’altro che queste determinazioni soltanto sono nel che cos’è e che la loro totalità è un proprio? Infatti è questo l’essere di quella cosa. Oppure, daccapo, non si è assunto anche in questo caso l’essere corrispondente al che cos’è? Bisogna infatti provare attraverso un medio. Inoltre così come nel sillogismo non si assume che cos’è sillogizzare (giacché la premessa da cui procede il sillogismo è sempre o un tutto o una parte), nemmeno l’essere corrispondente al che cos’è dev’essere presente nel sillogismo, ma deve essere separato dalle premesse poste.

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tÚn émfisbhtoËnta efi sullelÒgistai μ mÆ, toËto épantçn ˜ti "toËto går ∑n sullogismÒw", ka‹ prÚw tÚn ˜ti oÈ tÚ tiÄ ∑n e‰nai sullelÒgistai, ˜ti "naiÄ: toËto går ¶keito ≤m›n tÚ tiÄ ∑n e‰nai". Àste énãgkh ka‹ êneu toË tiÄ sullogismÚw μ tÚ tiÄ ∑n e‰nai sullelogiÄsyai ti. Kín §j Ípoy°sevw d¢ deiknÊ˙, oÂon efi tÚ kak“ §st‹ tÚ diairet“ e‰nai, tÚ dÉ §nantiă tÚ t“ §nantiă e‰nai, ˜soiw ¶sti ti §nantiÄon: tÚ dÉ égayÚn t“ kak“ §nantiÄon ka‹ tÚ édiaiÄreton t“ diairet“: ¶stin êra tÚ égay“ e‰nai tÚ édiair°tƒ e‰nai. ka‹ går §ntaËya labΔn tÚ tiÄ ∑n e‰nai deiÄknusi: lambãnei dÉ efiw tÚ de›jai tÚ tiÄ ∑n e‰nai. "ßteron m°ntoi". ¶stv: ka‹ går §n ta›w épodeiÄjesin, ˜ti §st‹ tÒde katå toËde: éllå mØ aÈtÒ, mhd¢ o ı aÈtÚw lÒgow, ka‹ éntistr°fei. prÚw émfot°rouw d°, tÒn te katå diaiÄresin deiknÊnta ka‹ prÚw tÚn oÏtv sullogismÒn, tÚ aÈtÚ épÒrhma: diå tiÄ ¶stai ı ênyrvpow z“on pezÚn diÄpoun, éllÉ oÈ z“on ka‹ pezÒn ; §k går t«n lambanom°nvn oÈdemiÄa énãgkh §st‹n ©n giÄnesyai tÚ kathgoroÊmenon, éllÉ Àsper ín ênyrvpow ı aÈtÚw e‡h mousikÚw ka‹ grammatikÒw.

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P«w oÔn dØ ı ırizÒmenow deiÄjei tØn oÈsiÄan μ tÚ tiÄ §stin; oÎte går …w épodeiknÁw §j ımologoum°nvn e‰nai d∞lon poiÆsei ˜ti énãgkh §keiÄnvn ˆntvn ßterÒn ti e‰nai (épÒdeijiw går toËto), oÎyÉ …w ı §pãgvn diå t«n kayÉ ßkasta dÆlvn ˆntvn, ˜ti pçn oÏtvw t“ mhd¢n êllvw: oÈ går tiÄ §sti deiÄknusin, éllÉ ˜ti μ ¶stin μ oÈk ¶stin. tiÄw oÔn êllow trÒpow loipÒw; oÈ går dØ deiÄjei ge tª afisyÆsei μ t“ daktÊlƒ. ÖEti p«w deiÄjei tÚ tiÄ §stin; énãgkh går tÚn efidÒta tÚ tiÄ §stin ênyrvpow μ êllo ıtioËn, efid°nai ka‹ ˜ti ¶stin (tÚ går mØ ¯n oÈde‹w o‰den ˜ ti §stiÄn, éllå tiÄ m¢n shmaiÄnei ı lÒgow μ tÚ ˆnoma, ˜tan e‡pv trag°lafow, tiÄ dÉ §st‹ trag°lafow édÊnaton efid°nai). éllå mØn efi deiÄjei tiÄ §sti ka‹ ˜ti ¶sti, p«w t“ aÈt“ lÒgƒ deiÄjei; ˜ te går ırismÚw ßn ti

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È a colui che dubita se si è sillogizzato o no che bisogna rispondere: «questo è per definizione il sillogismo», e a chi obietta che non si è sillogizzato l’essere corrispondente al che cos’è, si deve rispondere: «sì, questo era quel che avevamo posto essere l’essere corrispondente al che cos’è». Di conseguenza è necessario aver sillogizzato qualcosa senza aver assunto cos’è sillogizzare o l’essere corrispondente al che cos’è. Lo stesso anche se uno provasse a partire da una presupposizione, come per esempio se l’essere del cattivo è l’essere del divisibile, e se per le cose per le quali c’è un contrario l’essere del contrario dell’uno è l’essere del contrario del contrario, e il buono è contrario del cattivo e l’indivisibile del divisibile, allora l’essere del buono è l’essere dell’indivisibile. In effetti anche qui uno prova avendo assunto l’essere corrispondente al che cos’è e lo assume per provare l’essere corrispondente al che cos’è. «Ma», si obietterà, «si tratta di un altro essere corrispondente al che cos’è». Sia pure; infatti anche nelle dimostrazioni si assume che questo è vero di questo; ma non proprio quello, né ciò di cui la definizione è la stessa e che si converte con quello. Per entrambi, sia per chi prova in base alla divisione, sia per chi sillogizza così, c’è la stessa difficoltà: perché l’uomo sarà animale terrestre bipede e non animale e terrestre e bipede? Infatti dalle cose assunte non deriva alcuna necessità che il predicato diventi uno, se non così come lo stesso uomo è musico e grammatico.

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CAPITOLO 7 Come dunque chi definisce mostrerà la sostanza o il che cos’è? Infatti né, come chi dimostra, renderà manifesto, sulla base di cose di cui si ammette che sono, che se quelle sono è necessario che qualcosa di distinto da esse sia (infatti questa è una dimostrazione); né, come chi induce, mostrerà, grazie al fatto che i particolari sono manifesti, che ogni cosa è così perché nessuno di quelli è altrimenti. Infatti costui non mostra che cos’è, ma che è o non è. Allora quale altro metodo gli rimane? Egli non può certo mostrare la definizione percettivamente o con il dito. Inoltre come è possibile mostrare il che cos’è? Infatti è necessario che colui il quale sa che cos’è l’uomo, o una qualunque altra cosa, sappia anche che è (giacché di ciò che non è nessuno sa che cosa sia; so che cosa significa l’espressione verbale o il nome, quando dico ircocervo, mentre è impossibile sapere che cos’è l’ircocervo). Ma se ha da mostrare che cos’è e che è, come lo potrà mostrare con lo stesso argomento?

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dhlo› ka‹ ≤ épÒdeijiw: tÚ d¢ tiÄ §stin ênyrvpow ka‹ tÚ e‰nai ênyrvpon êllo. E‰ta ka‹ diÉ épodeiÄje≈w famen énagka›on e‰nai deiÄknusyai ëpan ˜ ti §stiÄn, efi mØ oÈsiÄa e‡h. tÚ dÉ e‰nai oÈk oÈsiÄa oÈdeniÄ: oÈ går g°now tÚ ˆn. épÒdeijiw êrÉ ¶stai ˜ti ¶stin. ˜per ka‹ nËn poioËsin afl §pist∞mai. tiÄ m¢n går shmaiÄnei tÚ triÄgvnon, ¶laben ı gevm°trhw, ˜ti dÉ ¶sti, deiÄknusin. tiÄ oÔn deiÄjei ı ırizÒmenow μ tiÄ §sti tÚ triÄgvnon; efidΔw êra tiw ırism“ tiÄ §stin, efi ¶stin oÈk e‡setai. éllÉ édÊnaton. FanerÚn d¢ ka‹ katå toÁw nËn trÒpouw t«n ˜rvn …w oÈ deiknÊousin ofl ırizÒmenoi ˜ti ¶stin. efi går ka‹ ¶stin §k toË m°sou ti ‡son, éllå diå tiÄ ¶sti tÚ ırisy°n; ka‹ diå tiÄ toËtÉ ¶sti kÊklow; e‡h går ín ka‹ Ùreixãlkou fãnai e‰nai aÈtÒn. oÎte går ˜ti dunatÚn e‰nai tÚ legÒmenon prosdhloËsin ofl ˜roi, oÎte ˜ti §ke›no o fas‹n e‰nai ırismoiÄ, éllÉ ée‹ ¶jesti l°gein tÚ diå tiÄ. Efi êra ı ırizÒmenow deiÄknusin μ tiÄ §stin μ tiÄ shmaiÄnei toÎnoma, efi mØ ¶sti mhdam«w toË tiÄ §stin, e‡h ín ı ırismÚw lÒgow ÙnÒmati tÚ aÈtÚ shmaiÄnvn. éllÉ êtopon. pr«ton m¢n går ka‹ mØ oÈsi«n ín e‡h ka‹ t«n mØ ˆntvn: shmaiÄnein går ¶sti ka‹ tå mØ ˆnta. ¶ti pãntew ofl lÒgoi ırismo‹ ín e‰en: e‡h går ín ˆnoma y°syai ıpoiƒoËn lÒgƒ, Àste ˜rouw ín dialegoiÄmeya pãntew ka‹ ≤ ÉIliåw ırismÚw ín e‡h. ¶ti oÈdemiÄa épÒdeijiw épodeiÄjeien ín ˜ti toËto toÎnoma tout‹ dhlo›: oÈdÉ ofl ırismo‹ toiÄnun toËto prosdhloËsin. ÉEk m¢n toiÄnun toÊtvn oÎte ırismÚw ka‹ sullogismÚw faiÄnetai taÈtÚn ˆn, oÎte taÈtoË sullogismÚw ka‹ ırismÒw: prÚw d¢ toÊtoiw, ˜ti oÎte ı ırismÚw oÈd¢n oÎte épodeiÄknusin oÎte deiÄknusin, oÎte tÚ tiÄ §stin oÎyÉ ırism“ oÎtÉ épodeiÄjei ¶sti gn«nai.

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Pãlin d¢ skept°on tiÄ toÊtvn l°getai kal«w ka‹ tiÄ oÈ kal«w, ka‹ tiÄ §stin ı ırismÒw, ka‹ toË tiÄ §stin îrã pvw ¶stin épÒdeijiw ka‹ ırismÚw μ oÈdam«w. §pe‹ dÉ §stiÄn, …w ¶famen, taÈtÚn tÚ efid°nai tiÄ §sti ka‹ tÚ efid°nai tÚ a‡tion toË efi ¶sti

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Infatti la definizione, così come la dimostrazione, manifesta una sola cosa, mentre che cos’è l’uomo e che l’uomo è sono cose diverse. Inoltre diciamo che è necessario mostrare per dimostrazione tutto ciò che una cosa è, a meno che non sia la sua sostanza. Ma essere non è la sostanza di nessuna cosa, giacché ciò che è non costituisce un genere. Vi sarà allora dimostrazione del fatto che una cosa è, e questo è quel che fanno correntemente le scienze. Infatti lo studioso di geometria assume che cosa significa triangolo e dimostra che è. Allora che cosa può mostrare chi definisce se non che cos’è il triangolo? Dunque uno, quando sa che cos’è con la definizione, non sa ancora se è. Ma ciò è impossibile. È chiaro anche che, secondo i correnti modi di definizione, coloro i quali definiscono non mostrano che una cosa è. Infatti se anche vi è qualcosa di equidistante dal centro, perché la cosa definita è? E perché questo è il cerchio? Infatti sarebbe possibile anche dire che essa è la definizione dell’oricalco. Infatti le definizioni né manifestano che ciò che è descritto da esse è possibile, né che è ciò di cui pretendono di essere definizioni, ma è sempre possibile chiedere il perché. Se dunque chi definisce mostra o che cos’è una cosa o che cosa significa il nome, la definizione, se non è assolutamente del che cos’è, dovrebbe essere una formula che significa la stessa cosa di un nome. Ma ciò è assurdo. Infatti innanzitutto ci sarebbero definizioni delle non sostanze e delle cose che non sono, giacché è possibile significare anche le cose che non sono. Inoltre tutte le formule potrebbero essere definizioni. Infatti è possibile assegnare un nome a qualunque formula, cosicché noi tutti discorreremmo facendo definizioni e l’Iliade sarebbe una definizione. Inoltre nessuna dimostrazione potrebbe dimostrare che questo nome manifesta questa cosa qui; quindi nemmeno le definizioni manifestano ciò. Da queste cose risulta quindi che la definizione e il sillogismo non sono la stessa cosa e che il sillogismo e la definizione non sono della stessa cosa; oltre a ciò risulta che la definizione né dimostra né mostra alcunché e che non è possibile conoscere il che cos’è né con la definizione né con la dimostrazione.

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CAPITOLO 8 Bisogna esaminare di nuovo quale di queste cose è detta bene e quale no, che cos’è la definizione e se in un qualche senso vi è dimostrazione e definizione del che cos’è oppure non vi è in nessun senso. Come abbiamo detto33, è la stessa cosa sapere che cos’è e sapere la ra-

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(lÒgow d¢ toÊtou, ˜ti ¶sti ti tÚ a‡tion, ka‹ toËto μ tÚ aÈtÚ μ êllo, kín ¬ êllo, μ épodeiktÚn μ énapÒdeikton)^efi toiÄnun §st‹n êllo ka‹ §nd°xetai épode›jai, énãgkh m°son e‰nai tÚ a‡tion ka‹ §n t“ sxÆmati t“ pr≈tƒ deiÄknusyai: kayÒlou te går ka‹ kathgorikÚn tÚ deiknÊmenon. eÂw m¢n dØ trÒpow ín e‡h ı nËn §jhtasm°now, tÚ diÉ êllou tÚ tiÄ §sti deiÄknusyai. t«n te går tiÄ §stin énãgkh tÚ m°son e‰nai tiÄ §sti, ka‹ t«n fidiÄvn ‡dion. Àste tÚ m¢n deiÄjei, tÚ dÉ oÈ deiÄjei t«n tiÄ ∑n e‰nai t“ aÈt“ prãgmati. Otow m¢n oÔn ı trÒpow ˜ti oÈk ín e‡h épÒdeijiw, e‡rhtai prÒteron: éllÉ ¶sti logikÚw sullogismÚw toË tiÄ §stin. ˘n d¢ trÒpon §nd°xetai, l°gvmen, efipÒntew pãlin §j érx∞w. Àsper går tÚ diÒti zhtoËmen ¶xontew tÚ ˜ti, §niÄote d¢ ka‹ ëma d∞la giÄnetai, éllÉ oÎti prÒterÒn ge tÚ diÒti dunatÚn gnvriÄsai toË ˜ti, d∞lon ˜ti ımoiÄvw ka‹ tÚ tiÄ ∑n e‰nai oÈk êneu toË ˜ti ¶stin: édÊnaton går efid°nai tiÄ §stin, égnooËntaw efi ¶stin. tÚ dÉ efi ¶stin ıt¢ m¢n katå sumbebhkÚw ¶xomen, ıt¢ dÉ ¶xont°w ti aÈtoË toË prãgmatow, oÂon brontÆn, ˜ti cÒfow tiw nef«n, ka‹ ¶kleicin, ˜ti st°rhsiÄw tiw fvtÒw, ka‹ ênyrvpon, ˜ti z“Òn ti, ka‹ cuxÆn, ˜ti aÈtÚ aÍtÚ kinoËn. ˜sa m¢n oÔn katå sumbebhkÚw o‡damen ˜ti ¶stin, énagka›on mhdam«w ¶xein prÚw tÚ tiÄ §stin: oÈd¢ går ˜ti ¶stin ‡smen: tÚ d¢ zhte›n tiÄ §sti mØ ¶xontaw ˜ti ¶sti, mhd¢n zhte›n §stin. kayÉ ˜svn dÉ ¶xom°n ti, =òon. Àste …w ¶xomen ˜ti ¶stin, oÏtvw ¶xomen ka‹ prÚw tÚ tiÄ §stin. œn oÔn ¶xom°n ti toË tiÄ §stin, ¶stv pr«ton m¢n œde: ¶kleiciw §fÉ o tÚ A, selÆnh §fÉ o G, éntiÄfrajiw g∞w §fÉ o B. tÚ m¢n oÔn pÒteron §kleiÄpei μ oÎ, tÚ B zhte›n ¶stin, îrÉ ¶stin μ oÎ. toËto dÉ oÈd¢n diaf°rei zhte›n μ efi ¶sti lÒgow aÈtoË: ka‹ §ån ¬ toËto, kéke›nÒ famen e‰nai. μ pot°raw t∞w éntifãse≈w §stin ı lÒgow, pÒteron toË ¶xein dÊo Ùryåw μ toË mØ ¶xein. ˜tan dÉ eÏrvmen, ëma tÚ ˜ti ka‹ tÚ diÒti ‡smen, ín diå m°svn ¬: efi d¢ mÆ, tÚ ˜ti, tÚ diÒti dÉ oÎ. selÆnh G, ¶kleiciw A, tÚ panselÆnou skiån mØ dÊnasyai poie›n mhdenÚw ≤m«n metajÁ ˆntow faneroË, §fÉ o

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gione del se è. Il motivo di ciò è che la ragione è qualcosa e questa o è la stessa o diversa e, se è diversa, è dimostrabile o indimostrabile. Allora se la ragione è diversa ed è possibile dimostrarla, è necessario che la ragione sia un medio e che la prova avvenga in prima figura, giacché ciò che è provato è universale e positivo. Un modo potrebbe essere quello esaminato ora34, ossia il provare il che cos’è in virtù di un altro che cos’è35. Infatti dei che cos’è è necessario che il medio sia un che cos’è, così come è necessario che sia un proprio per i propri. Di conseguenza degli esseri corrispondenti al che cos’è di una stessa cosa l’uno è manifestato con una prova e l’altro no. È stato detto prima36 che questo modo non può essere una dimostrazione, ma è semplicemente un sillogismo dialettico del che cos’è. Diciamo ora in che modo è possibile che vi sia una dimostrazione, riprendendo di nuovo il discorso da principio. Come cerchiamo il perché avendo il che, e talvolta essi divengono manifesti anche insieme, mentre non è possibile acquisire il perché prima del che, così è manifesto che non è possibile conoscere l’essere corrispondente al che cos’è senza il che è. Infatti è impossibile sapere che cos’è ignorando se è. Il se è talvolta lo possediamo accidentalmente, talvolta invece possedendo qualcosa dell’oggetto stesso, come per esempio del tuono che è un certo rumore nelle nubi, o dell’eclissi che è una certa privazione di luce, o dell’uomo che è un certo animale, o dell’anima che è qualcosa che muove se stesso. Delle cose, dunque, di cui sappiamo accidentalmente che sono, necessariamente non possediamo assolutamente alcunché che conduca al che cos’è, giacché non sappiamo nemmeno che sono e cercare il che cos’è senza avere il che è è non cercare niente. Per le cose di cui possediamo qualcosa è più facile. Di conseguenza, nella misura in cui possediamo il che è, possediamo anche qualcosa che conduce al che cos’è. Per quelle cose di cui possediamo qualcosa del che cos’è, si cominci da questo caso. Sia l’eclissi ciò che è indicato da A, la luna ciò che è indicato da C, l’interposizione della terra ciò che è indicato da B. Cercare se la luna si eclissa o no è cercare se B è o no. Questo non è affatto diverso dal cercare se c’è una formula definitoria di ciò. Qualora vi sia questo, diciamo che c’è anche quello. Oppure possiamo cercare di quale dei due membri di una contraddizione sia la formula definitoria, dell’avere gli angoli uguali a due retti o del non averli. Quando abbiamo trovato, sappiamo insieme il che e il perché, qualora si proceda attraverso medi37. Altrimenti sappiamo il che e non il perché. Sia luna C, eclissi A, il non poter far ombra durante il plenilunio senza che sia visibile nulla tra noi e la luna ciò che è indicato 109

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B. efi toiÄnun t“ G Ípãrxei tÚ B tÚ mØ dÊnasyai poie›n skiån mhdenÚw metajÁ ≤m«n ˆntow, toÊtƒ d¢ tÚ A tÚ §kleloip°nai, ˜ti m¢n §kleiÄpei d∞lon, diÒti dÉ oÎpv, ka‹ ˜ti m¢n ¶stin ¶kleiciw ‡smen, tiÄ dÉ §st‹n oÈk ‡smen. dÆlou dÉ ˆntow ˜ti tÚ A t“ G Ípãrxei, éllå diå tiÄ Ípãrxei, tÚ zhte›n tÚ B tiÄ §sti, pÒteron éntiÄfrajiw μ strofØ t∞w selÆnhw μ épÒsbesiw. toËto dÉ §st‹n ı lÒgow toË •t°rou êkrou, oÂon §n toÊtoiw toË A: ¶sti går ≤ ¶kleiciw éntiÄfrajiw ÍpÚ g∞w. tiÄ §sti brontÆ; purÚw épÒsbesiw §n n°fei. diå tiÄ brontç; diå tÚ éposb°nnusyai tÚ pËr §n t“ n°fei. n°fow G, brontØ A, épÒsbesiw purÚw tÚ B. t“ dØ G t“ n°fei Ípãrxei tÚ B (éposb°nnutai går §n aÈt“ tÚ pËr), toÊtƒ d¢ tÚ A, cÒfow: ka‹ ¶sti ge lÒgow tÚ B toË A toË pr≈tou êkrou. ín d¢ pãlin toÊtou êllo m°son ¬, §k t«n paraloiÄpvn ¶stai lÒgvn. ÑVw m¢n toiÄnun lambãnetai tÚ tiÄ §sti ka‹ giÄnetai gn≈rimon, e‡rhtai, Àste sullogismÚw m¢n toË tiÄ §stin oÈ giÄnetai oÈdÉ épÒdeijiw, d∞lon m°ntoi diå sullogismoË ka‹ diÉ épodeiÄjevw: ÀstÉ oÎtÉ êneu épodeiÄjevw ¶sti gn«nai tÚ tiÄ §stin, o ¶stin a‡tion êllo, oÎtÉ ¶stin épÒdeijiw aÈtoË, Àsper ka‹ §n to›w diaporÆmasin e‡pomen.

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ÖEsti d¢ t«n m¢n ßterÒn ti a‡tion, t«n dÉ oÈk ¶stin. Àste d∞lon ˜ti ka‹ t«n tiÄ §sti tå m¢n êmesa ka‹ érxaiÄ efisin, ì ka‹ e‰nai ka‹ tiÄ §stin Ípoy°syai de› μ êllon trÒpon fanerå poi∞sai (˜per ı ériymhtikÚw poie›: ka‹ går tiÄ §sti tØn monãda ÍpotiÄyetai, ka‹ ˜ti ¶stin): t«n dÉ §xÒntvn m°son, ka‹ œn ¶sti ti ßteron a‡tion t∞w oÈsiÄaw, ¶sti diÉ épodeiÄjevw, Àsper e‡pomen, dhl«sai, mØ tÚ tiÄ §stin épodeiknÊntaw.

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ÑOrismÚw dÉ §peidØ l°getai e‰nai lÒgow toË tiÄ §sti, fanerÚn ˜ti ı m°n tiw ¶stai lÒgow toË tiÄ shmaiÄnei tÚ ˆnoma μ lÒgow ßterow Ùnomat≈dhw, oÂon tiÄ shmaiÄnei [tiÄ §sti] triÄgvnon. ˜per ¶xontew ˜ti ¶sti, zhtoËmen diå tiÄ ¶stin: xalepÚn dÉ oÏtvw §st‹ labe›n ì mØ ‡smen ˜ti ¶stin. ≤ dÉ afitiÄa e‡rhtai prÒteron t∞w xalepÒthtow, ˜ti oÈdÉ efi ¶stin μ mØ 110

da B. Allora se B, il non poter far ombra senza che vi sia nulla tra noi e la luna, conviene a C e a B conviene A, subire l’eclissi, è manifesto che la luna subisce l’eclissi, ma non ancora perché, e sappiamo che c’è l’eclissi, ma non che cos’è. Essendo manifesto che A conviene a C, cercare perché è cercare qual è B, se è un’interposizione o una rotazione della luna o un suo spegnimento. Questa è la formula definitoria di uno degli estremi, ossia, in questi esempi, di A. Infatti l’eclissi è un’interposizione della terra. Che cos’è il tuono? Spegnimento del fuoco in una nube. Perché tuona? Per lo spegnersi del fuoco nella nube. Nube sia C, tuono A, spegnimento del fuoco B. B conviene a C, la nube (infatti il fuoco si spegne in essa) e a B conviene A, rumore; e B è una formula definitoria di A, il primo estremo. Qualora vi sia un altro medio di ciò, esso verrà dalle restanti formule definitorie. Si è detto allora come è ottenuto il che cos’è e come diviene noto; di conseguenza non si produce né un sillogismo né una dimostrazione del che cos’è, e tuttavia esso è manifestato attraverso un sillogismo e attraverso una dimostrazione; di conseguenza né è possibile conoscere il che cos’è, nei casi in cui la ragione è altra, senza la dimostrazione, né vi è dimostrazione di esso, come abbiamo detto anche nella parte aporetica.

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CAPITOLO 9 Di alcune cose c’è una ragione che è diversa da esse, mentre di altre non c’è. Di conseguenza è manifesto che anche dei che cos’è alcuni sono immediati e principi: quelli delle cose di cui bisogna presupporre, o render chiaro in un altro modo, che sono e che cosa sono (che è quel che fa lo studioso di aritmetica; in effetti dell’unità presuppone che cos’è e che è); invece di quelle cose che hanno un medio e della cui sostanza c’è una ragione diversa da loro, è possibile manifestare il che cos’è, come abbiamo detto, attraverso una dimostrazione, senza dimostrarlo.

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CAPITOLO 10 Poiché la definizione è detta essere la formula del che cos’è, è manifesto che un tipo di definizione sarà la formula di che cosa significa il nome o un’altra espressione denominativa, come per esempio che cosa significa triangolo. Se possediamo che esso è, cerchiamo perché è; ma è difficile cogliere in questo modo quelle cose di cui non sappiamo che sono. Si è detta prima la ragione della difficoltà38, e cioè che non sap111

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‡smen, éllÉ μ katå sumbebhkÒw. (lÒgow dÉ eÂw §st‹ dix«w, ı m¢n sund°smƒ, Àsper ≤ ÉIliãw, ı d¢ t“ ©n kayÉ •nÚw dhloËn mØ katå sumbebhkÒw.) EÂw m¢n dØ ˜row §st‹n ˜rou ı efirhm°now, êllow dÉ §st‹n ˜row lÒgow ı dhl«n diå tiÄ ¶stin. Àste ı m¢n prÒterow shmaiÄnei m°n, deiÄknusi dÉ oÎ, ı dÉ Ïsterow fanerÚn ˜ti ¶stai oÂon épÒdeijiw toË tiÄ §sti, tª y°sei diaf°rvn t∞w épodeiÄjevw. diaf°rei går efipe›n diå tiÄ brontò ka‹ tiÄ §sti brontÆ: §re› går oÏtv m¢n "diÒti éposb°nnutai tÚ pËr §n to›w n°fesi": tiÄ dÉ §st‹ brontÆ; cÒfow éposbennum°nou purÚw §n n°fesin. Àste ı aÈtÚw lÒgow êllon trÒpon l°getai, ka‹ …d‹ m¢n épÒdeijiw sunexÆw, …d‹ d¢ ırismÒw. (¶ti §st‹n ˜row bront∞w cÒfow §n n°fesi: toËto dÉ §st‹ t∞w toË tiÄ §stin épodeiÄjevw sump°rasma.) ı d¢ t«n ém°svn ırismÚw y°siw §st‹ toË tiÄ §stin énapÒdeiktow. ÖEstin êra ırismÚw eÂw m¢n lÒgow toË tiÄ §stin énapÒdeiktow, eÂw d¢ sullogismÚw toË tiÄ §sti, pt≈sei diaf°rvn t∞w épodeiÄjevw, triÄtow d¢ t∞w toË tiÄ §stin épodeiÄjevw sump°rasma. fanerÚn oÔn §k t«n efirhm°nvn ka‹ p«w ¶sti toË tiÄ §stin épÒdeijiw ka‹ p«w oÈk ¶sti, ka‹ tiÄnvn ¶sti ka‹ tiÄnvn oÈk ¶stin, ¶ti dÉ ırismÚw posax«w te l°getai ka‹ p«w tÚ tiÄ §sti deiÄknusi ka‹ p«w oÎ, ka‹ tiÄnvn ¶sti ka‹ tiÄnvn oÎ, ¶ti d¢ prÚw épÒdeijin p«w ¶xei, ka‹ p«w §nd°xetai toË aÈtoË e‰nai ka‹ p«w oÈk §nd°xetai.

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ÉEpe‹ d¢ §piÄstasyai ofiÒmeya ˜tan efid«men tØn afitiÄan, afitiÄai d¢ t°ttarew, miÄa m¢n tÚ tiÄ ∑n e‰nai, miÄa d¢ tÚ tiÄnvn ˆntvn énãgkh toËtÉ e‰nai, •t°ra d¢ ≤ tiÄ pr«ton §kiÄnhse, tetãrth d¢ tÚ tiÄnow ßneka, pçsai atai diå toË m°sou deiÄknuntai. tÒ te går o ˆntow tod‹ énãgkh e‰nai miçw m¢n protãsevw lhfyeiÄshw oÈk ¶sti, duo›n d¢ toÈlãxiston: toËto dÉ §stiÄn, ˜tan ©n m°son ¶xvsin. toÊtou oÔn •nÚw lhfy°ntow tÚ sump°rasma énãgkh e‰nai. d∞lon d¢ ka‹ œde. diå tiÄ ÙryØ ≤ §n ≤mikukliă; tiÄnow ˆntow ÙryÆ; ¶stv dØ ÙryØ

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piamo nemmeno se la cosa è o no, se non accidentalmente. Una formula è una in due modi: o per congiunzione, come l’Iliade, oppure per il fatto di manifestare una cosa di una cosa non accidentalmente. Una definizione della definizione è quella detta, mentre un’altra è la formula che manifesta perché una cosa è. Di conseguenza, il primo tipo significa qualcosa, ma non lo prova, mentre è chiaro che il secondo sarà come una dimostrazione del che cos’è, differendo dalla dimostrazione per la disposizione dei termini. Infatti fa differenza dire perché c’è il tuono e che cos’è il tuono. Si dirà infatti così: perché il fuoco si spegne nelle nubi. Ma che cos’è il tuono? Rumore del fuoco che si spegne nelle nubi. Di conseguenza la stessa formula è espressa in modo diverso, e in un modo è una dimostrazione continua, nell’altro una definizione. Inoltre definizione del tuono è «rumore nelle nubi». Questa è la conclusione della dimostrazione del che cos’è. La definizione degli immediati è la posizione indimostrabile del che cos’è. Un tipo di definizione è dunque la formula indimostrabile del che cos’è; un altro tipo è il sillogismo del che cos’è, che differisce solo per la forma grammaticale dalla dimostrazione, e un terzo la conclusione della dimostrazione del che cos’è. È chiaro allora dalle cose dette in che senso ci sia dimostrazione del che cos’è e in che senso non ci sia, e di quali cose ci sia e di quali non ci sia; inoltre, in quanti modi venga detta la definizione e in che senso essa provi il che cos’è e in che senso non lo provi, e di quali cose vi sia definizione e di quali no; inoltre in che rapporto stia con la dimostrazione e in che senso vi possa essere definizione e dimostrazione della stessa cosa e in che senso non vi possa essere.

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CAPITOLO 11 Poiché riteniamo di avere conoscenza scientifica quando sappiamo la ragione e le ragioni sono quattro, e precisamente una è l’essere corrispondente al che cos’è, un’altra essendo quali cose è necessario che questo sia, un’altra ancora che cosa ha mosso per primo e, quarta, il motivo per cui, tutte queste ragioni sono provate attraverso il termine medio. Infatti ciò essendo il quale è necessario che questo sia non si dà se viene assunta una premessa sola ma solo se ne siano assunte come minimo due, e cioè quando abbiano un unico medio. Se è dunque assunto quest’unico medio, è necessario che la conclusione sia. Ciò è manifesto anche nel modo seguente. Perché l’angolo in una semicirconferenza è retto? Essendo che cosa è retto? Sia angolo retto

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§fÉ ∏w A, ≤miÄseia duo›n Ùrya›n §fÉ ∏w B, ≤ §n ≤mikukliă §fÉ ∏w G. toË dØ tÚ A tØn ÙryØn Ípãrxein t“ G tª §n t“ ≤mikukliă a‡tion tÚ B. aÏth m¢n går tª A ‡sh, ≤ d¢ tÚ G tª B: dÊo går Ùry«n ≤miÄseia. toË B oÔn ˆntow ≤miÄseow dÊo Ùry«n tÚ A t“ G Ípãrxei (toËto dÉ ∑n tÚ §n ≤mikukliă ÙryØn e‰nai). toËto d¢ taÈtÒn §sti t“ tiÄ ∑n e‰nai, t“ toËto shmaiÄnein tÚn lÒgon. éllå mØn ka‹ toË tiÄ ∑n e‰nai a‡tion d°deiktai tÚ m°son. TÚ d¢ diå tiÄ ı MhdikÚw pÒlemow §g°neto ÉAyhnaiÄoiw; tiÄw afitiÄa toË poleme›syai ÉAyhnaiÄouw; ˜ti efiw Sãrdeiw metÉ ÉEretri°vn §n°balon: toËto går §kiÄnhse pr«ton. pÒlemow §fÉ o A, prot°rouw efisbale›n B, ÉAyhna›oi tÚ G. Ípãrxei dØ tÚ B t“ G, tÚ prot°roiw §mbale›n to›w ÉAyhnaiÄoiw, tÚ d¢ A t“ B: polemoËsi går to›w prÒteron édikÆsasin. Ípãrxei êra t“ m¢n B tÚ A, tÚ poleme›syai to›w prot°roiw êrjasi: toËto d¢ tÚ B to›w ÉAyhnaiÄoiw: prÒteroi går ∑rjan. m°son êra ka‹ §ntaËya tÚ a‡tion, tÚ pr«ton kin∞san. ÜOsvn dÉ a‡tion tÚ ßneka tiÄnow^ oÂon diå tiÄ peripate›; ˜pvw ÍgiaiÄn˙: diå tiÄ ofikiÄa ¶stin; ˜pvw s–zhtai tå skeÊh^tÚ m¢n ßneka toË ÍgiaiÄnein, tÚ dÉ ßneka toË s–zesyai. diå tiÄ d¢ épÚ deiÄpnou de› peripate›n, ka‹ ßneka tiÄnow de›, oÈd¢n diaf°rei. periÄpatow épÚ deiÄpnou G, tÚ mØ §pipolãzein tå sitiÄa §fÉ o B, tÚ ÍgiaiÄnein §fÉ o A. ¶stv dØ t“ épÚ deiÄpnou peripate›n Ípãrxon tÚ poie›n mØ §pipolãzein tå sitiÄa prÚw t“ stÒmati t∞w koiliÄaw, ka‹ toËto ÍgieinÒn. doke› går Ípãrxein t“ peripate›n t“ G tÚ B tÚ mØ §pipolãzein tå sitiÄa, toÊtƒ d¢ tÚ A tÚ ÍgieinÒn. tiÄ oÔn a‡tion t“ G toË tÚ A Ípãrxein tÚ o ßneka; tÚ B tÚ mØ §pipolãzein. toËto dÉ §st‹n Àsper §keiÄnou lÒgow: tÚ går A oÏtvw épodoyÆsetai. diå tiÄ d¢ tÚ B t“ G ¶stin; ˜ti toËtÉ ¶sti tÚ ÍgiaiÄnein, tÚ oÏtvw ¶xein. de› d¢ metalambãnein toÁw lÒgouw, ka‹ oÏtvw mçllon ßkasta fane›tai. afl d¢ gen°seiw énãpalin §ntaËya ka‹ §p‹ t«n katå kiÄnhsin afitiÄvn: §ke› m¢n går tÚ m°son de› gen°syai pr«ton, §ntaËya d¢ tÚ G, tÚ ¶sxaton, teleuta›on d¢ tÚ o ßneka. ÉEnd°xetai d¢ tÚ aÈtÚ ka‹ ßnekã tinow e‰nai ka‹ §j énãgkhw, oÂon diå toË lampt∞row tÚ f«w: ka‹ går §j énãgkhw di°rxetai tÚ mikromer°steron diå t«n meizÒnvn pÒrvn, e‡per f«w giÄnetai t“ dii°nai, ka‹ ßnekã tinow, ˜pvw mØ 114

ciò che è indicato da A, metà di due angoli retti ciò che è indicato da B, l’angolo nella semicirconferenza ciò che è indicato da C. B è la ragione del convenire di A, l’angolo retto, a C, l’angolo nella semicirconferenza. Infatti l’angolo B è uguale all’angolo A, e l’angolo indicato da C è uguale a B, giacché è la metà di due retti. Allora, essendo B, ossia metà di due retti, A conviene a C (ossia, come si è detto, l’angolo nella semicirconferenza è retto). Ora B è la stessa cosa che l’essere corrispondente al che cos’è di A, perché la sua formula definitoria significa questo. Del resto si è provato che il medio è ragione dell’essere corrispondente al che cos’è39. Perché la guerra persiana fu mossa agli Ateniesi? Qual è la ragione del fatto che fu mossa guerra agli Ateniesi? Perché essi attaccarono Sardi con gli Eretriesi. Ciò infatti mosse per primo. Sia guerra ciò che è indicato da A, aver attaccato per primi B, Ateniesi C. Allora B conviene a C, ossia l’aver attaccato per primi agli Ateniesi ed A a B; giacché si muove guerra a chi per primo ha commesso ingiustizia. Dunque A conviene a B, l’essere combattuti a coloro che hanno cominciato per primi; ma ciò, B, conviene agli Ateniesi, dato che cominciarono per primi. Anche qui dunque la ragione, ciò che per primo muove, è il termine medio. In altri casi la ragione è il motivo per cui. Per esempio: perché passeggia? Per stare bene. Perché c’è la casa? Per proteggere i beni. L’uno è a motivo dello star bene; l’altro a motivo del proteggere. Non c’è differenza fra «perché bisogna passeggiare dopo il pasto?» e «per che motivo bisogna farlo?». Sia passeggiata dopo il pasto C, il restare dei cibi in superficie ciò che è indicato da B, star bene ciò che è indicato da A. Sia che al passeggiare dopo il pasto conviene il non far restare i cibi in superficie alla bocca dello stomaco e ciò faccia star bene. Infatti appare che a C, passeggiare, conviene B, il non restare dei cibi in superficie, e a questo conviene A, il far star bene. Qual è allora la ragione, il motivo per cui, del convenire di A a C? È B, il non restar dei cibi in superficie. Questa è una specie di formula definitoria di quello, dato che A è rivelato in questo modo. Ma perché B appartiene a C? Perché questo è lo star bene, appunto stare così. Bisogna scambiare le spiegazioni e così ogni cosa risulta più chiara. In questo caso il processo generativo è il contrario di quello delle ragioni secondo il movimento. Lì infatti il termine medio deve prodursi per primo, qui invece deve prodursi per primo C, l’ultimo termine, e il motivo per cui è alla fine. È possibile che la stessa cosa sia a motivo di qualcosa e per necessità, come per esempio la luce attraverso la lanterna. Infatti ciò che è formato di particelle più piccole passa attraverso i pori più grandi (se 115

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ptaiÄvmen. îrÉ oÔn efi e‰nai §nd°xetai, ka‹ giÄnesyai §nd°xetai: Àsper efi brontò éposbennum°nou te toË purÚw énãgkh siÄzein ka‹ cofe›n kaiÄ, efi …w ofl PuyagÒreioiÄ fasin, épeil∞w ßneka to›w §n t“ tartãrƒ, ˜pvw fob«ntai; ple›sta d¢ toiaËtÉ ¶sti, ka‹ mãlista §n to›w katå fÊsin sunistam°noiw ka‹ sunest«sin: ≤ m¢n går ßnekã tou poie› fÊsiw, ≤ dÉ §j énãgkhw. ≤ dÉ énãgkh dittÆ: ≤ m¢n går katå fÊsin ka‹ tØn ırmÆn, ≤ d¢ biÄ& ≤ parå tØn ırmÆn, Àsper liÄyow §j énãgkhw ka‹ ênv ka‹ kãtv f°retai, éllÉ oÈ diå tØn aÈtØn énãgkhn. §n d¢ to›w épÚ dianoiÄaw tå m¢n oÈd°pote épÚ toË aÈtomãtou Ípãrxei, oÂon ofikiÄa μ éndriãw, oÈdÉ §j énãgkhw, éllÉ ßnekã tou, tå d¢ ka‹ épÚ tÊxhw, oÂon ÍgiÄeia ka‹ svthriÄa. mãlista d¢ §n ˜soiw §nd°xetai ka‹ œde ka‹ êllvw, ˜tan, mØ épÚ tÊxhw, ≤ g°nesiw ¬ Àste tÚ t°low égayÒn, ßnekã tou giÄnetai, ka‹ μ fÊsei μ t°xn˙. épÚ tÊxhw dÉ oÈd¢n ßnekã tou giÄnetai.

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TÚ dÉ aÈtÚ a‡tiÒn §sti to›w ginom°noiw ka‹ to›w gegenhm°noiw ka‹ to›w §som°noiw ˜per ka‹ to›w oÔsi (tÚ går m°son a‡tion), plØn to›w m¢n oÔsin ˆn, to›w d¢ ginom°noiw ginÒmenon, to›w d¢ gegenhm°noiw gegenhm°non ka‹ §som°noiw §sÒmenon. oÂon diå tiÄ g°gonen ¶kleiciw; diÒti §n m°sƒ g°gonen ≤ g∞: giÄnetai d¢ diÒti giÄnetai, ¶stai d¢ diÒti ¶stai §n m°sƒ, ka‹ ¶sti diÒti ¶stin. tiÄ §sti krÊstallow; efilÆfyv dØ ˜ti Ïdvr pephgÒw. Ïdvr §fÉ o G, pephgÚw §fÉ o A, a‡tion tÚ m°son §fÉ o B, ¶kleiciw yermoË pantelÆw. Ípãrxei dØ t“ G tÚ B, toÊtƒ d¢ tÚ pephg°nai tÚ §fÉ o A. giÄnetai d¢ krÊstallow ginom°nou toË B, geg°nhtai d¢ gegenhm°nou, ¶stai dÉ §som°nou. TÚ m¢n oÔn oÏtvw a‡tion ka‹ o a‡tion ëma giÄnetai, ˜tan giÄnhtai, ka‹ ¶stin, ˜tan ¬: ka‹ §p‹ toË gegon°nai ka‹ ¶sesyai …saÊtvw. §p‹ d¢ t«n mØ ëma îrÉ ¶stin §n t“ sunexe› xrÒnƒ, Àsper doke› ≤m›n, êlla êllvn a‡tia e‰nai,

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davvero la luce si propaga per penetrazione) sia per necessità sia a motivo di qualcosa: affinché non inciampiamo. Se è possibile che sia, è possibile anche che divenga? Per esempio, se tuona, ciò avviene perché, spegnendosi il fuoco, è necessario che vi sia stridore e rumore e, se è vero quel che dicono i Pitagorici, per minacciare coloro che sono nel Tartaro, affinché abbiano paura. Moltissime cose sono siffatte, soprattutto nei processi e prodotti naturali. Infatti la natura in un senso opera a motivo di qualcosa e in un altro senso per necessità. La necessità è duplice. Infatti un tipo è secondo natura e secondo l’impulso, mentre un altro è per forza, ossia contro l’impulso. Per esempio una pietra di necessità va all’insù e all’ingiù, ma non per la stessa necessità. Per quanto riguarda i prodotti dall’intelligenza alcuni non sono mai spontaneamente o per necessità, come una casa o una statua, ma a motivo di qualcosa, mentre altri sono anche fortuitamente, come la salute e la salvezza. Soprattutto in quelle cose che possono essere così e altrimenti, la produzione, qualora non sia fortuita ma tale che il fine sia buono, avviene a motivo di qualcosa, e ciò sia nell’ambito della natura sia in quello della tecnica. Nulla di ciò che si produce fortuitamente è a motivo di qualcosa.

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CAPITOLO 12 La ragione delle cose che avvengono, di quelle che sono avvenute e di quelle che saranno è la stessa di quella delle cose che sono (infatti è il termine medio che è la ragione), tranne che per le cose che sono la ragione è qualcosa che è, per quelle che avvengono è qualcosa che avviene, per le cose che sono avvenute qualcosa che è avvenuto e per quelle che saranno qualcosa che sarà. Per esempio perché è avvenuta l’eclissi? Perché è avvenuto che la terra fosse in mezzo; invece avviene l’eclisse perché avviene che sia in mezzo, ci sarà perché sarà in mezzo e c’è perché è. Che cos’è il ghiaccio? Si assuma che è acqua solidificata. Sia acqua ciò che è indicato da C, solidificato ciò che è indicato da A, e il medio che è la ragione ciò che è indicato da B, totale scomparsa di calore. A C conviene B e a questo il solidificarsi, ciò che è indicato da A. Si produce il ghiaccio se si produce B, si è prodotto se si è prodotto, ci sarà se ci sarà. Ciò che è ragione in questo modo e ciò di cui è ragione avvengono insieme, quando avvengano, e sono insieme, quando siano. Ugualmente per l’essere avvenuto e per l’essere in futuro. Ma per quelle cose che non siano contemporaneamente è possibile in un tempo continuo, co-

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toË tÒde gen°syai ßteron genÒmenon, ka‹ toË ¶sesyai ßteron §sÒmenon, ka‹ toË giÄnesyai d°, e‡ ti ¶mprosyen §g°neto; ¶sti dØ épÚ toË Ïsteron gegonÒtow ı sullogismÒw (érxØ d¢ ka‹ toÊtvn tå gegonÒta): diÚ ka‹ §p‹ t«n ginom°nvn …saÊtvw. épÚ d¢ toË prot°rou oÈk ¶stin, oÂon §pe‹ tÒde g°gonen, ˜ti tÒdÉ Ïsteron g°gonen: ka‹ §p‹ toË ¶sesyai …saÊtvw. oÎte går éoriÄstou oÎyÉ ırisy°ntow ¶stai toË xrÒnou ÀstÉ §pe‹ toËtÉ élhy¢w efipe›n gegon°nai, tÒdÉ élhy¢w efipe›n gegon°nai tÚ Ïsteron. §n går t“ metajÁ ceËdow ¶stai tÚ efipe›n toËto, ≥dh yat°rou gegonÒtow. ı dÉ aÈtÚw lÒgow ka‹ §p‹ toË §som°nou. oÈdÉ §pe‹ tÒde g°gone, tÒdÉ ¶stai. tÚ går m°son ımÒgonon de› e‰nai, t«n genom°nvn genÒmenon, t«n §som°nvn §sÒmenon, t«n ginom°nvn ginÒmenon, t«n ˆntvn ˆn: toË d¢ g°gone ka‹ toË ¶stai oÈk §nd°xetai e‰nai ımÒgonon. ¶ti oÎte éÒriston §nd°xetai e‰nai tÚn xrÒnon tÚn metajÁ oÎyÉ …rism°non: ceËdow går ¶stai tÚ efipe›n §n t“ metajÊ. §piskept°on d¢ tiÄ tÚ sun°xon Àste metå tÚ gegon°nai tÚ giÄnesyai Ípãrxein §n to›w prãgmasin. μ d∞lon ˜ti oÈk ¶stin §xÒmenon gegonÒtow ginÒmenon; oÈd¢ går genÒmenon genom°nou: p°rata går ka‹ êtoma: Àsper oÔn oÈd¢ stigmaiÄ efisin éllÆlvn §xÒmenai, oÈd¢ genÒmena: êmfv går édiaiÄreta. oÈd¢ dØ ginÒmenon gegenhm°nou diå tÚ aÈtÒ: tÚ m¢n går ginÒmenon diairetÒn, tÚ d¢ gegonÚw édiaiÄreton. Àsper oÔn grammØ prÚw stigmØn ¶xei, oÏtv tÚ ginÒmenon prÚw tÚ gegonÒw: §nupãrxei går êpeira gegonÒta §n t“ ginom°nƒ. mçllon d¢ faner«w §n to›w kayÒlou per‹ kinÆsevw de› lexy∞nai per‹ toÊtvn. Per‹ m¢n oÔn toË p«w ín §fej∞w ginom°nhw t∞w gen°sevw ¶xoi tÚ m°son tÚ a‡tion §p‹ tosoËton efilÆfyv. énãgkh går ka‹ §n toÊtoiw tÚ m°son ka‹ tÚ pr«ton êmesa e‰nai. oÂon tÚ A g°gonen, §pe‹ tÚ G g°gonen (Ïsteron d¢ tÚ G g°gonen, ¶mprosyen d¢ tÚ A: érxØ d¢ tÚ G diå tÚ §ggÊteron toË nËn e‰nai, ˜ §stin érxØ toË xrÒnou). tÚ d¢ G g°gonen, efi tÚ D g°gonen. toË dØ D genom°nou énãgkh tÚ A gegon°nai. a‡tion d¢ tÚ G: toË går D genom°nou tÚ G énãgkh gegon°nai, toË d¢ G gegonÒtow énãgkh prÒteron tÚ A gegon°nai.

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me sembra a noi, che cose diverse siano ragione di cose diverse, che questa cosa avvenga se avviene quest’altra, e che questa cosa sarà se quest’altra sarà, e che questa avvenga se quest’altra è avvenuta precedentemente? Il sillogismo allora procede da ciò che è avvenuto per ultimo (anche se il principio di questo sono le cose avvenute prima); perciò lo stesso vale anche per le cose che avvengono. Invece non è possibile che il sillogismo proceda da ciò che è avvenuto prima, come per esempio: poiché è avvenuto questo, è avvenuto successivamente quest’altro. Lo stesso per ciò che sarà. Infatti né in un tempo indeterminato né in un tempo determinato sarà possibile che, poiché è vero dire che questo è avvenuto, sia vero dire che è avvenuto quest’altro, il successivo. Infatti nel tempo intermedio, quando il primo è già avvenuto, sarà falso dire ciò. Lo stesso argomento vale anche per ciò che sarà. Né40 vale che perché questo è avvenuto, quest’altro sarà. Il medio infatti deve essere omogeneo: una cosa che è avvenuta per le cose avvenute, una cosa che sarà per quelle che saranno ed una cosa che è per le cose che sono. Ma non è possibile che vi sia un medio omogeneo per ciò che è avvenuto e ciò che sarà. Inoltre il tempo intermedio non può essere né indeterminato né determinato, dato che sarebbe falso dire ciò nel tempo intermedio. Ma bisogna esaminare qual è il legame di continuità per il quale nelle cose «avviene» succede a «è avvenuto». Non è forse manifesto che ciò che avviene non è contiguo a ciò che è avvenuto? Infatti nemmeno ciò che avvenne è contiguo a ciò che avvenne, dato che le cose che avvennero hanno limiti e sono indivisibili. Infatti come i punti non sono contigui così le cose che avvennero, dato che entrambi sono indivisibili. Per la stessa ragione nemmeno ciò che avviene è contiguo a ciò che è avvenuto. Infatti ciò che avviene è divisibile e ciò che è avvenuto è indivisibile. Allora ciò che avviene è con ciò che è avvenuto nello stesso rapporto in cui è la linea con il punto, giacché in ciò che avviene vi sono infinite cose avvenute. Più chiaramente bisogna dire di queste cose nella trattazione generale sul movimento. Quanto segue sia quel che assumiamo riguardo al modo in cui il medio esprime la ragione se gli avvenimenti sono di seguito. Anche in questi casi infatti è necessario che il medio e il primo termine siano immediati. Per esempio: A è avvenuto perché è avvenuto C (C è avvenuto dopo ed A prima; ma C è il principio per essere più vicino al momento presente, che è il principio del tempo); C è avvenuto, se è avvenuto D; allora se D è avvenuto, è necessario che sia avvenuto A. La ragione è C; infatti essendo avvenuto D è necessario che sia avvenuto C ed essendo avvenuto C è necessario che prima sia avvenuto A. Se si assume così il me119

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oÏtv d¢ lambãnonti tÚ m°son stÆsetaiÄ pou efiw êmeson, μ ée‹ parempese›tai diå tÚ êpeiron; oÈ gãr §stin §xÒmenon gegonÚw gegonÒtow, Àsper §l°xyh. éllÉ êrjasyaiÄ ge ˜mvw énãgkh épÉ ém°sou ka‹ épÚ toË nËn pr≈tou. ımoiÄvw d¢ ka‹ §p‹ toË ¶stai. efi går élhy¢w efipe›n ˜ti ¶stai tÚ D, énãgkh prÒteron élhy¢w efipe›n ˜ti tÚ A ¶stai. toÊtou dÉ a‡tion tÚ G: efi m¢n går tÚ D ¶stai, prÒteron tÚ G ¶stai: efi d¢ tÚ G ¶stai, prÒteron tÚ A ¶stai. ımoiÄvw dÉ êpeirow ≤ tomØ ka‹ §n toÊtoiw: oÈ går ¶stin §sÒmena §xÒmena éllÆlvn. érxØ d¢ ka‹ §n toÊtoiw êmesow lhpt°a. ¶xei d¢ oÏtvw §p‹ t«n ¶rgvn: efi g°gonen ofikiÄa, énãgkh tetm∞syai liÄyouw ka‹ gegon°nai. toËto diå tiÄ; ˜ti énãgkh yem°lion gegon°nai, e‡per ka‹ ofikiÄa g°gonen: efi d¢ yem°lion, prÒteron liÄyouw gegon°nai énãgkh. pãlin efi ¶stai ofikiÄa, …saÊtvw prÒteron ¶sontai liÄyoi. deiÄknutai d¢ diå toË m°sou ımoiÄvw: ¶stai går yem°liow prÒteron. ÉEpe‹ dÉ ır«men §n to›w ginom°noiw kÊklƒ tinå g°nesin oÔsan, §nd°xetai toËto e‰nai, e‡per ßpointo éllÆloiw tÚ m°son ka‹ ofl êkroi: §n går toÊtoiw tÚ éntistr°fein §stiÄn. d°deiktai d¢ toËto §n to›w pr≈toiw, ˜ti éntistr°fei tå sumperãsmata: tÚ d¢ kÊklƒ toËtÒ §stin. §p‹ d¢ t«n ¶rgvn faiÄnetai œde: bebregm°nhw t∞w g∞w énãgkh étmiÄda gen°syai, toÊtou d¢ genom°nou n°fow, toÊtou d¢ genom°nou Ïdvr: toÊtou d¢ genom°nou énãgkh bebr°xyai tØn g∞n: toËto dÉ ∑n tÚ §j érx∞w, Àste kÊklƒ perielÆluyen: •nÚw går aÈt«n ıtouoËn ˆntow ßteron ¶sti, kékeiÄnou êllo, ka‹ toÊtou tÚ pr«ton. ÖEsti dÉ ¶nia m¢n ginÒmena kayÒlou (éeiÄ te går ka‹ §p‹ pantÚw oÏtvw μ ¶xei μ giÄnetai), tå d¢ ée‹ m¢n oÎ, …w §p‹ tÚ polÁ d°, oÂon oÈ pçw ênyrvpow êrrhn tÚ g°neion trixoËtai, éllÉ …w §p‹ tÚ polÊ. t«n dØ toioÊtvn énãgkh ka‹ tÚ m°son …w §p‹ tÚ polÁ e‰nai. efi går tÚ A katå toË B kayÒlou kathgore›tai, ka‹ toËto katå toË G kayÒlou, énãgkh ka‹ tÚ A katå toË G ée‹ ka‹ §p‹ pantÚw kathgore›syai: toËto gãr §sti tÚ kayÒlou, tÚ §p‹ pant‹ ka‹ éeiÄ. éllÉ Íp°keito …w §p‹ tÚ polÊ: énãgkh êra ka‹ tÚ m°son …w §p‹ tÚ polÁ e‰nai tÚ §fÉ o tÚ B. ¶sontai toiÄnun ka‹ t«n …w §p‹ tÚ polÁ érxa‹ êmesoi, ˜sa …w §p‹ tÚ polÁ oÏtvw ¶stin μ giÄnetai.

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dio, ci si fermerà ad un certo punto ad un immediato, oppure bisogna sempre inserirne uno nuovo in ragione dell’infinità? Infatti ciò che è avvenuto non è contiguo a ciò che è avvenuto, come è stato detto. Tuttavia è necessario cominciare da un immediato e da ciò che è ora primo. Analogamente per ciò che sarà. Infatti se è vero dire che D sarà, deve essere in precedenza vero dire che A sarà. La ragione di ciò è C. Infatti se sarà D, sarà stato prima C; se sarà C, prima sarà stato A. In questi casi la divisione è ugualmente infinita, giacché le cose che saranno non sono fra loro contigue. Ma anche in questi casi bisogna assumere un principio immediato. Nei casi concreti le cose stanno così. Se è stata prodotta una casa, è necessario che le pietre siano state tagliate e prodotte. Perché ciò? Perché è necessario che siano state prodotte le fondamenta, se davvero è stata prodotta una casa. Ma se sono state prodotte le fondamenta, è necessario che prima siano state prodotte le pietre. Ancora, se vi sarà una casa, ugualmente prima vi saranno le pietre. Si prova ugualmente attraverso un medio, giacché vi saranno prima le fondamenta. Poiché vediamo nelle cose che avvengono che qualche processo è circolare, è possibile che ciò sia, se il medio e gli estremi si conseguono l’un l’altro, giacché c’è conversione fra essi. È stato provato all’inizio che la conclusione si converte41; e in ciò consiste procedere circolarmente. Nei casi concreti appare così. Se la terra è bagnata, è necessario che si produca un vapore, e, producendosi questo, si produce una nube e, producendosi questo, la pioggia; ma se si produce questa è necessario che la terra sia bagnata; questo era quel che c’era all’inizio, di modo che il circolo è completato. Infatti se uno qualunque di essi è, anche un altro è, e se questo un altro ancora, e se quest’ultimo il primo. Alcune cose avvengono universalmente (infatti stanno così o avvengono sempre e in ogni caso), mentre altre cose non avvengono sempre così, ma per lo più; per esempio non ogni uomo maschio ha il mento ricoperto di peli, ma per lo più. In questi casi è necessario che anche il medio sia per lo più. Infatti se A si predica di B universalmente, e questo universalmente di C, è necessario che A si predichi di C sempre e in ogni caso, giacché questo è l’universale: predicarsi in ogni caso e sempre. Ma si era supposto che A si predicasse di C per lo più; dunque è necessario che anche il medio, quello indicato da B, sia per lo più. Quindi anche delle cose per lo più vi saranno principi immediati, che sono o avvengono così per lo più.

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P«w m¢n oÔn tÚ tiÄ §stin efiw toÁw ˜rouw épodiÄdotai, ka‹ tiÄna trÒpon épÒdeijiw μ ırismÚw ¶stin aÈtoË μ oÈk ¶stin, e‡rhtai prÒteron: p«w d¢ de› yhreÊein tå §n t“ tiÄ §sti kathgoroÊmena, nËn l°gvmen. T«n dØ ÍparxÒntvn ée‹ •kãstƒ ¶nia §pekteiÄnei §p‹ pl°on, oÈ m°ntoi ¶jv toË g°nouw. l°gv d¢ §p‹ pl°on Ípãrxein ˜sa Ípãrxei m¢n •kãstƒ kayÒlou, oÈ mØn éllå ka‹ êllƒ. oÂon ¶sti ti ˘ pãs˙ triãdi Ípãrxei, éllå ka‹ mØ triãdi, Àsper tÚ ¯n Ípãrxei tª triãdi, éllå ka‹ mØ ériym“, éllå ka‹ tÚ perittÚn Ípãrxei te pãs˙ triãdi ka‹ §p‹ pl°on Ípãrxei (ka‹ går tª pentãdi Ípãrxei), éllÉ oÈk ¶jv toË g°nouw: ≤ m¢n går pentåw ériymÒw, oÈd¢n d¢ ¶jv ériymoË perittÒn. tå dØ toiaËta lhpt°on m°xri toÊtou, ßvw tosaËta lhfyª pr«ton œn ßkaston m¢n §p‹ pl°on Ípãrjei, ëpanta d¢ mØ §p‹ pl°on: taÊthn går énãgkh oÈsiÄan e‰nai toË prãgmatow. oÂon triãdi Ípãrxei pãs˙ ériymÒw, tÚ perittÒn, tÚ pr«ton émfot°rvw, ka‹ …w mØ metre›syai ériym“ ka‹ …w mØ sugke›syai §j ériym«n. toËto toiÄnun ≥dh §st‹n ≤ triãw, ériymÚw perittÚw pr«tow ka‹ …d‹ pr«tow. toÊtvn går ßkaston, tå m¢n ka‹ to›w peritto›w pçsin Ípãrxei, tÚ d¢ teleuta›on ka‹ tª duãdi, pãnta d¢ oÈdeniÄ. §pe‹ d¢ dedÆlvtai ≤m›n §n to›w ênv ˜ti énagka›a m°n §sti tå §n t“ tiÄ §sti kathgoroÊmena (tå kayÒlou d¢ énagka›a), tª d¢ triãdi, ka‹ §fÉ o êllou oÏtv lambãnetai, §n t“ tiÄ §sti tå lambanÒmena, oÏtvw §j énãgkhw m¢n ín e‡h triåw taËta. ˜ti dÉ oÈsiÄa, §k t«nde d∞lon. énãgkh gãr, efi mØ toËto ∑n triãdi e‰nai, oÂon g°now ti e‰nai toËto, μ »nomasm°non μ én≈numon. ¶stai toiÄnun §p‹ pl°on μ tª triãdi Ípãrxon. ÍpokeiÄsyv går toioËton e‰nai tÚ g°now Àste Ípãrxein katå dÊnamin §p‹ pl°on. efi toiÄnun mhden‹ Ípãrxei êllƒ μ ta›w étÒmoiw triãsi, toËtÉ ín e‡h tÚ triãdi e‰nai (ÍpokeiÄsyv går ka‹ toËto, ≤ oÈsiÄa ≤ •kãstou e‰nai ≤ §p‹ to›w étÒmoiw ¶sxatow toiaÊth kathgoriÄa): Àste ımoiÄvw ka‹ êllƒ ıtƒoËn t«n oÏtv deixy°ntvn tÚ aÈt“ e‰nai ¶stai.

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CAPITOLO 13 Si è detto prima come il che cos’è sia rapportato ai termini della dimostrazione ed in che modo ci sia o non ci sia dimostrazione e definizione di esso42. Diciamo ora come bisogna procacciare i predicati nel che cos’è. Dei termini che convengono sempre a ciascuna cosa alcuni hanno un’estensione maggiore, senza tuttavia estendersi oltre il genere. Dico che convengono con un’estensione maggiore quei termini che convengono a ciascuna cosa universalmente e non solo ad essa, bensì anche ad altro. Per esempio c’è qualcosa che conviene ad ogni triade, ma anche a ciò che non è una triade, come è il caso di «è» che conviene alla triade, ma anche a ciò che non è un numero; d’altra parte dispari conviene ad ogni triade e conviene ad essa con un’estensione maggiore (infatti conviene anche alla pentade), ma non al di fuori del genere. Infatti la pentade è un numero e nulla al di fuori del numero è dispari. Bisogna prendere tali predicati fino a che se ne prendano tanti che, sebbene inizialmente ciascuno di essi convenga con un’estensione maggiore, tutti insieme non abbiano un’estensione maggiore. È necessario infatti che questa sia la sostanza della cosa. Per esempio ad ogni triade conviene numero, essere dispari, essere primo nei due sensi, ossia sia nel senso di non essere misurato da un numero, sia nel senso di non essere composto da numeri. E questo è proprio la triade: numero dispari, primo e primo in questo modo. Ciascuno di questi predicati è infatti tale che gli uni convengono a tutti i numeri dispari, mentre l’ultimo di essi conviene anche alla diade, mentre tutti insieme non convengono a nessun’altra cosa. Poiché è stato chiarito prima che i predicati nel che cos’è sono necessari43 (gli universali sono necessari), e i predicati assunti sono nel che cos’è della triade, e di qualsivoglia altra cosa per la quale si assuma così, allora la triade dev’essere di necessità queste cose. Che esse poi ne siano la sostanza, è manifesto da quanto segue. Necessariamente questo, se non fosse l’essere della triade, dovrebbe essere un genere di qualche tipo, con un nome o senza nome. Sarà allora un predicato che conviene con un’estensione maggiore di quella della triade. Si ponga infatti che il genere sia tale da convenire potenzialmente secondo un’estensione maggiore. Se allora ciò non conviene a nient’altro che alle triadi indivisibili, esso sarà l’essere della triade (si supponga anche che la sostanza di ciascuna cosa sia un tale predicato ultimo degli indivisibili). Di conseguenza, lo stesso discorso vale anche per l’essere di qualunque altra delle cose che sono provate così. 123

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XrØ d°, ˜tan ˜lon ti pragmateÊhtaiÄ tiw, diele›n tÚ g°now efiw tå êtoma t“ e‡dei tå pr«ta, oÂon ériymÚn efiw triãda ka‹ duãda, e‰yÉ oÏtvw §keiÄnvn ırismoÁw peirçsyai lambãnein, oÂon eÈyeiÄaw gramm∞w ka‹ kÊklou, ka‹ Ùry∞w gvniÄaw, metå d¢ toËto labÒnta tiÄ tÚ g°now, oÂon pÒteron t«n pos«n μ t«n poi«n, tå ‡dia pãyh yevre›n diå t«n koin«n pr≈tvn. to›w går suntiyem°noiw §k t«n étÒmvn tå sumbaiÄnonta §k t«n ırism«n ¶stai d∞la, diå tÚ érxØn e‰nai pãntvn tÚn ırismÚn ka‹ tÚ èploËn ka‹ to›w èplo›w kayÉ aÍtå Ípãrxein tå sumbaiÄnonta mÒnoiw, to›w dÉ êlloiw katÉ §ke›na. afl d¢ diair°seiw afl katå tåw diaforåw xrÆsimoiÄ efisin efiw tÚ oÏtv meti°nai: …w m°ntoi deiknÊousin, e‡rhtai §n to›w prÒteron. xrÆsimoi dÉ ín e‰en œde mÒnon prÚw tÚ sullogiÄzesyai tÚ tiÄ §stin. kaiÄtoi dÒjei°n gÉ ín oÈd°n, éllÉ eÈyÁw lambãnein ëpanta, Àsper ín efi §j érx∞w §lãmban° tiw êneu t∞w diair°sevw. diaf°rei d° ti tÚ pr«ton ka‹ Ïsteron t«n kathgoroum°nvn kathgore›syai, oÂon efipe›n z“on ¥meron diÄpoun μ diÄpoun z“on ¥meron. efi går ëpan §k dÊo §stiÄ, ka‹ ßn ti tÚ z“on ¥meron, ka‹ pãlin §k toÊtou ka‹ t∞w diaforçw ı ênyrvpow μ ˜ ti dÆpotÉ §st‹ tÚ ©n ginÒmenon, énagka›on dielÒmenon afite›syai. ÖEti prÚw tÚ mhd¢n paralipe›n §n t“ tiÄ §stin oÏtv mÒnvw §nd°xetai. ˜tan går tÚ pr«ton lhfyª g°now, ín m¢n t«n kãtvy°n tina diair°sevn lambãn˙, oÈk §mpese›tai ëpan efiw toËto, oÂon oÈ pçn z“on μ ılÒpteron μ sxizÒpteron, éllå pthnÚn z“on ëpan: toÊtou går diaforå aÏth. pr≈th d¢ diaforã §sti z–ou efiw ∂n ëpan z“on §mpiÄptei. ımoiÄvw d¢ ka‹ t«n êllvn •kãstou, ka‹ t«n ¶jv gen«n ka‹ t«n ÍpÉ aÈtÒ, oÂon ˆrniyow, efiw ∂n ëpaw ˆrniw, ka‹ fixyÊow, efiw ∂n ëpaw fixyÊw. oÏtv m¢n oÔn badiÄzonti ¶stin efid°nai ˜ti oÈd¢n paral°leiptai: êllvw d¢ ka‹ paralipe›n énagka›on ka‹ mØ efid°nai. oÈd¢n d¢ de› tÚn ırizÒmenon ka‹ diairoÊmenon ëpanta efid°nai tå ˆnta. kaiÄtoi édÊnatÒn fasiÄ tinew e‰nai tåw diaforåw efid°nai tåw prÚw ßkaston mØ efidÒta ßkaston: êneu d¢ t«n diafor«n oÈk e‰nai ßkaston efid°nai: o går mØ diaf°rei, taÈtÚn e‰nai toÊtƒ, o d¢ diaf°rei, ßteron toÊtou. pr«ton m¢n oÔn toËto ceËdow: oÈ går katå pçsan diaforån ßteron: polla‹ går diafora‹ Ípãrxousi to›w aÈto›w t“ e‡dei, éllÉ oÈ katÉ oÈsiÄan oÈd¢ kayÉ aÍtã. e‰ta ˜tan lãb˙ téntikeiÄmena ka‹ tØn diaforån ka‹

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Quando si abbia a che fare con un intero, bisogna dividere il genere nei primi specificamente indivisibili, per esempio bisogna dividere il numero nella diade e nella triade, e quindi cercare di assumere le definizioni di questi, per esempio della linea retta e del cerchio e dell’angolo retto; dopo di che assumendo che cos’è il genere, per esempio se fa parte delle quantità o delle qualità, considerare le affezioni proprie attraverso quelle comuni prime. Infatti le caratteristiche conseguenti alle cose composte dagli indivisibili saranno manifestate dalle definizioni, perché la definizione e ciò che è semplice sono il principio di tutte le cose e solo alle cose semplici i conseguenti convengono per sé, mentre alle altre convengono in virtù di quelle. Le divisioni in base alle differenze sono utili per questa ricerca; in che senso tuttavia esse provino è stato detto in precedenza44. Possono essere utili per calcolare il che cos’è solo nel modo seguente. In effetti parrebbe che non servissero a nulla, ma che fosse meglio assumere immediatamente tutti i predicati, come se uno li assumesse fin da principio senza la divisione. Ma fa differenza quale predicato è predicato per primo e quale è predicato per ultimo, per esempio dire animale domestico bipede e bipede animale domestico. Infatti se ogni definizione è costituita da due cose, ed una di queste è animale domestico e da questo e dalla differenza è costituito l’uomo, o quale che sia l’uno che ne è risultato, è necessario che la definizione venga domandata per divisione. Inoltre solo in questo modo è possibile evitare di tralasciare qualcosa nel che cos’è. Infatti quando sia assunto il primo genere, qualora si assuma qualcuna delle divisioni in basso, il genere non cadrà tutto in questa; per esempio non ogni animale è ad ali piene o divise, ma ogni animale alato è tale; infatti essa è una differenza di questo genere. La prima differenza di animale è quella in cui cade ogni animale. Lo stesso per ciascuno degli altri generi, sia esterni ad animale sia sotto di questo; per esempio è differenza di uccello quella in cui cade ogni uccello e di pesce quella in cui cade ogni pesce. Per chi proceda così è possibile sapere che non è stato tralasciato nulla. Altrimenti è inevitabile omettere qualcosa senza saperlo. In nessun modo colui il quale definisce e colui il quale divide devono sapere tutte le cose che sono. Tuttavia alcuni dicono che è impossibile sapere le differenze da ciascuna cosa senza sapere ciascuna cosa. Ma senza le differenze non è possibile sapere ciascuna cosa, giacché una cosa è identica a ciò da cui non differisce ed è diversa da ciò da cui differisce. Innanzitutto ciò è falso. Infatti una cosa non è diversa da un’altra in base ad ogni differenza, giacché vi sono molte differenze tra le cose che sono le stesse per specie, ma non sono differenze nella so125

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˜ti pçn §mpiÄptei §ntaËya μ §ntaËya, ka‹ lãb˙ §n yat°rƒ tÚ zhtoÊmenon e‰nai, ka‹ toËto gin≈sk˙, oÈd¢n diaf°rei efid°nai μ mØ efid°nai §fÉ ˜svn kathgoroËntai êllvn afl diaforaiÄ. fanerÚn går ˜ti ín oÏtv badiÄzvn ¶ly˙ efiw taËta œn mhk°ti ¶sti diaforã, ßjei tÚn lÒgon t∞w oÈsiÄaw. tÚ dÉ ëpan §mpiÄptein efiw tØn diaiÄresin, ín ¬ éntikeiÄmena œn mØ ¶sti metajÊ, oÈk a‡thma: énãgkh går ëpan §n yat°rƒ aÈt«n e‰nai, e‡per §keiÄnou diaforã §sti. Efiw d¢ tÚ kataskeuãzein ˜ron diå t«n diair°sevn tri«n de› stoxãzesyai, toË labe›n tå kathgoroÊmena §n t“ tiÄ §sti, ka‹ taËta tãjai tiÄ pr«ton μ deÊteron, ka‹ ˜ti taËta pãnta. ¶sti d¢ toÊtvn ©n pr«ton diå toË dÊnasyai, Àsper prÚw sumbebhkÚw sullogiÄsasyai ˜ti Ípãrxei, ka‹ diå toË g°nouw kataskeuãsai. tÚ d¢ tãjai …w de› ¶stai, §ån tÚ pr«ton lãb˙. toËto dÉ ¶stai, §ån lhfyª ˘ pçsin ékolouye›, §keiÄnƒ d¢ mØ pãnta: énãgkh går e‰naiÄ ti toioËton. lhfy°ntow d¢ toÊtou ≥dh §p‹ t«n kãtv ı aÈtÚw trÒpow: deÊteron går tÚ t«n êllvn pr«ton ¶stai, ka‹ triÄton tÚ t«n §xom°nvn: éfairey°ntow går toË ênvyen tÚ §xÒmenon t«n êllvn pr«ton ¶stai. ımoiÄvw d¢ ka‹ §p‹ t«n êllvn. ˜ti dÉ ëpanta taËta, fanerÚn §k toË labe›n tÒ te pr«ton katå diaiÄresin, ˜ti ëpan μ tÒde μ tÒde z“on, Ípãrxei d¢ tÒde, ka‹ pãlin toÊtou ˜lou tØn diaforãn, toË d¢ teleutaiÄou mhk°ti e‰nai diaforãn, μ ka‹ eÈyÁw metå t∞w teleutaiÄaw diaforçw toË sunÒlou mØ diaf°rein e‡dei ¶ti toËto. d∞lon går ˜ti oÎte ple›on prÒskeitai (pãnta går §n t“ tiÄ §stin e‡lhptai toÊtvn) oÎte époleiÄpei oÈd°n: μ går g°now μ diaforå ín e‡h. g°now m¢n oÔn tÒ te pr«ton, ka‹ metå t«n diafor«n toËto proslambanÒmenon: afl diafora‹ d¢ pçsai ¶xontai: oÈ går ¶ti ¶stin Íst°ra: e‡dei går ín di°fere tÚ teleuta›on, toËto dÉ e‡rhtai mØ diaf°rein. Zhte›n d¢ de› §pibl°ponta §p‹ tå ˜moia ka‹ édiãfora, pr«ton tiÄ ëpanta taÈtÚn ¶xousin, e‰ta pãlin §fÉ •t°roiw, ì §n taÈt“ m¢n g°nei §keiÄnoiw, efis‹ d¢ aÍto›w m¢n taÈtå t“ e‡dei, §keiÄnvn dÉ ßtera. ˜tan dÉ §p‹ toÊtvn lhfyª tiÄ pãnta taÈtÒn, ka‹ §p‹ t«n êllvn ımoiÄvw, §p‹ t«n efilhmm°nvn pãlin skope›n efi taÈtÒn, ßvw ín efiw ßna ¶ly˙ lÒgon: otow går ¶stai toË prãgmatow ırismÒw. §ån d¢ mØ

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stanza o per sé. Inoltre quando uno assuma gli opposti e la differenza e che ogni cosa cade qui o lì, ed assuma che la cosa cercata cade in uno dei due e conosca ciò, non fa differenza sapere o non sapere di quali altre cose si predichino le differenze. È chiaro infatti che qualora, procedendo così, si giunga a quelle cose delle quali non c’è più una differenza, si ha la formula definitoria della sostanza. Non è un postulato che tutto cada nella divisione, qualora si abbia a che fare con opposti dei quali non c’è un intermedio. Infatti è necessario che ogni cosa sia nell’uno o nell’altro, se davvero è una differenza di quella cosa. Per stabilire una definizione attraverso le divisioni bisogna badare a tre cose: a prendere i predicati nel che cos’è, a mettere in ordine quale è primo e quale è secondo, e a che questi predicati siano tutti. La prima di queste cose si può ottenere grazie alla capacità di stabilire qualcosa attraverso il genere, così come, rispetto ad un accidente, bisogna avere la capacità di sillogizzare che esso conviene a qualcosa. Si otterrà di mettere in ordine i termini come bisogna, qualora si assuma il primo termine della divisione. Questo si avrà qualora si assuma ciò che segue a tutti, mentre ad esso non seguono tutti gli altri. Infatti è necessario che vi sia qualcosa di siffatto. Assunto questo termine, si procede nello stesso modo per i termini che stanno sotto. Infatti il secondo sarà il primo degli altri e il terzo il primo di quelli successivi. Tolto infatti il termine più in alto, il successivo sarà il primo degli altri; ugualmente per gli altri. Che questi siano tutti i termini, è manifesto se si prende il primo termine secondo divisione, e cioè se si pone che ogni animale è o questo o quello e che questo conviene alla cosa cercata; e ancora se si prende la differenza di questo intero, mentre dell’ultimo non c’è più una differenza, o piuttosto si assume che questo immediatamente dopo l’ultima differenza non differisce più specificamente dal complesso da definire. È chiaro infatti che non si aggiunge qualcosa in più (perché tutti questi termini sono presi nel che cos’è), né si tralascia nulla, giacché sarebbe o un genere o una differenza. Genere sono il primo termine e questo preso insieme con le differenze; ma le differenze sono tutte incluse; infatti non ce n’è una ulteriore, altrimenti l’ultimo differirebbe per specie, e si è detto che esso non differisce. Bisogna guardare a cose simili e non differenziate e cercare innanzitutto che cosa esse abbiano tutte di identico, e quindi di nuovo per altre cose, le quali siano nello stesso genere di quelle e tra loro identiche per specie, ma diverse per specie da quelle. Quando per queste si sia assunto che cosa abbiano tutte di identico, e ugualmente per le altre cose, riguardo alle cose assunte bisogna ancora esaminare se abbiano qualcosa 127

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badiÄz˙ efiw ßna éllÉ efiw dÊo μ pleiÄouw, d∞lon ˜ti oÈk ín e‡h ßn ti e‰nai tÚ zhtoÊmenon, éllå pleiÄv. oÂon l°gv, efi tiÄ §sti megalocuxiÄa zhto›men, skept°on §piÄ tinvn megalocÊxvn, oÓw ‡smen, tiÄ ¶xousin ©n pãntew √ toioËtoi. oÂon efi ÉAlkibiãdhw megalÒcuxow μ ı ÉAxilleÁw ka‹ ı A‡aw, tiÄ ©n ëpantew; tÚ mØ én°xesyai ÍbrizÒmenoi: ı m¢n går §pol°mhsen, ı dÉ §mÆnisen, ı dÉ ép°kteinen •autÒn. pãlin §fÉ •t°rvn, oÂon Lusãndrou μ Svkrãtouw. efi dØ tÚ édiãforoi e‰nai eÈtuxoËntew ka‹ étuxoËntew, taËta dÊo labΔn skop« tiÄ tÚ aÈtÚ ¶xousin ¥ te épãyeia ≤ per‹ tåw tÊxaw ka‹ ≤ mØ ÍpomonØ étimazom°nvn. efi d¢ mhd°n, dÊo e‡dh ín e‡h t∞w megalocuxiÄaw. afie‹ dÉ §st‹ pçw ˜row kayÒlou: oÈ gãr tini Ùfyalm“ l°gei tÚ ÍgieinÚn ı fiatrÒw, éllÉ μ pant‹ μ e‡dei éforiÄsaw. =òÒn te tÚ kayÉ ßkaston ıriÄsasyai μ tÚ kayÒlou, diÚ de› épÚ t«n kayÉ ßkasta §p‹ tå kayÒlou metabaiÄnein: ka‹ går afl ımvnumiÄai lanyãnousi mçllon §n to›w kayÒlou μ §n to›w édiafÒroiw. Àsper d¢ §n ta›w épodeiÄjesi de› tÒ ge sullelogiÄsyai Ípãrxein, oÏtv ka‹ §n to›w ˜roiw tÚ saf°w. toËto dÉ ¶stai, §ån diå t«n kayÉ ßkaston efilhmm°nvn ¬ tÚ §n •kãstƒ g°nei ıriÄzesyai xvriÄw, oÂon tÚ ˜moion mØ pçn éllå tÚ §n xr≈masi ka‹ sxÆmasi, ka‹ ÙjÁ tÚ §n fvnª, ka‹ oÏtvw §p‹ tÚ koinÚn badiÄzein, eÈlaboÊmenon mØ ımvnumiÄ& §ntÊx˙. efi d¢ mØ dial°gesyai de› metafora›w, d∞lon ˜ti oÈdÉ ıriÄzesyai oÎte metafora›w oÎte ˜sa l°getai metafora›w: dial°gesyai går énãgkh ¶stai metafora›w.

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PrÚw d¢ tÚ ¶xein tå problÆmata §kl°gein de› tãw te énatomåw ka‹ tåw diair°seiw, oÏtv d¢ §kl°gein, Ípoy°menon tÚ g°now tÚ koinÚn èpãntvn, oÂon efi z“a e‡h tå teyevrhm°na, po›a pant‹ z–ƒ Ípãrxei, lhfy°ntvn d¢ toÊtvn, pãlin t«n loip«n t“ pr≈tƒ po›a pant‹ ßpetai, oÂon efi toËto ˆrniw, po›a pant‹ ßpetai ˆrniyi, ka‹ oÏtvw afie‹ t“ §ggÊtata: d∞lon går ˜ti ßjomen ≥dh l°gein tÚ diå tiÄ Ípãr-

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di identico, finché non si giunga ad una sola formula; questa sarà infatti la definizione dell’oggetto. Quando non si giunga ad una sola formula, ma a due o più, è chiaro che la cosa cercata non può essere una sola, ma sono più d’una. Voglio dire per esempio che, se cercassimo che cos’è la magnanimità, bisognerebbe esaminare a proposito di alcuni magnanimi che conosciamo che cosa abbiano tutti di uno in quanto tali. Per esempio se Alcibiade è magnanimo o Achille e Aiace, che cosa hanno tutti di uno? Il non poter sopportare di essere oltraggiati. Il primo fece una guerra, il secondo si sdegnò e il terzo si uccise. Daccapo esaminiamo altri casi, come per esempio Lisandro o Socrate. Se allora ciò che è uno è l’indifferenza alla buona e alla cattiva sorte, prendendo queste due cose esamino che cosa abbiano di identico l’impassibilità di fronte alla sorte e l’insofferenza ad essere disonorati. Se non c’è nulla di identico, vi saranno due specie di magnanimità. Ogni definizione è sempre universale. Infatti il medico prescrive ciò che è salutare non per un particolare occhio, ma per ogni occhio o per una specie d’occhi. È più facile definire il singolare dell’universale; perciò bisogna procedere dai singolari agli universali. Infatti le omonimie sfuggono di più negli universali che nelle cose non differenziabili. Come nelle dimostrazioni deve esserci il sillogizzare, così nelle definizioni la perspicuità. Questa vi sarà qualora, attraverso i singolari assunti, sia possibile definire separatamente in ciascun genere, come per esempio definire il simile non in generale, ma nei colori e nelle figure, e definire l’acuto nella voce, e così procedere a ciò che è comune, stando attenti a non cadere in un’omonimia. Se non bisogna discutere con metafore, è chiaro che non bisogna nemmeno definire con metafore né definire le cose che sono dette con metafora. Infatti sarebbe necessario discutere con metafore.

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CAPITOLO 14 Per avere i problemi bisogna fare le scelte sulle partizioni e sulle divisioni, ma nel modo seguente: assumendo il genere comune a tutti bisogna scegliere, per esempio, nel caso in cui le cose indagate siano gli animali, quali cose convengano ad ogni animale, e, una volta assunte queste cose, di nuovo quali cose seguano ad ogni esemplificazione del primo dei termini rimanenti; per esempio se esso è uccello, bisogna scegliere quali cose seguano ad ogni uccello, e così sempre ciò che segue al termine più vicino. È chiaro che potremo già dire perché le cose che se-

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xei tå •pÒmena to›w ÍpÚ tÚ koinÒn, oÂon diå tiÄ ényr≈pƒ μ ·ppƒ Ípãrxei. ¶stv d¢ z“on §fÉ o A, tÚ d¢ B tå •pÒmena pant‹ z–ƒ, §fÉ œn d¢ G D E tå tinå z“a. d∞lon dØ diå tiÄ tÚ B Ípãrxei t“ D: diå går tÚ A. ımoiÄvw d¢ ka‹ to›w êlloiw: ka‹ ée‹ §p‹ t«n kãtv ı aÈtÚw lÒgow. NËn m¢n oÔn katå tå paradedom°na koinå ÙnÒmata l°gomen, de› d¢ mØ mÒnon §p‹ toÊtvn skope›n, éllå ka‹ ín êllo ti Ùfyª Ípãrxon koinÒn, §klambãnonta, e‰ta tiÄsi toËtÉ ékolouye› ka‹ po›a toÊtƒ ßpetai, oÂon to›w k°rata ¶xousi tÚ ¶xein §x›non, tÚ mØ émf≈dontÉ e‰nai: pãlin tÚ k°ratÉ ¶xein tiÄsin ßpetai. d∞lon går diå tiÄ §keiÄnoiw Ípãrjei tÚ efirhm°non: diå går tÚ k°ratÉ ¶xein Ípãrjei. ÖEti dÉ êllow trÒpow §st‹ katå tÚ énãlogon §kl°gein. ©n går labe›n oÈk ¶sti tÚ aÈtÒ, ˘ de› kal°sai sÆpion ka‹ êkanyan ka‹ ÙstoËn: ¶stai dÉ •pÒmena ka‹ toÊtoiw Àsper miçw tinow fÊsevw t∞w toiaÊthw oÎshw.

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Tå dÉ aÈtå problÆmatã §sti tå m¢n t“ tÚ aÈtÚ m°son ¶xein, oÂon ˜ti pãnta éntiperiÄstasiw. toÊtvn dÉ ¶nia t“ g°nei taÈtã, ˜sa ¶xei diaforåw t“ êllvn μ êllvw e‰nai, oÂon diå tiÄ ±xe›, μ diå tiÄ §mfaiÄnetai, ka‹ diå tiÄ ‰riw: ëpanta går taËta tÚ aÈtÚ prÒblhmã §sti g°nei (pãnta går énãklasiw), éllÉ e‡dei ßtera. tå d¢ t“ tÚ m°son ÍpÚ tÚ ßteron m°son e‰nai diaf°rei t«n problhmãtvn, oÂon diå tiÄ ı Ne›low fyiÄnontow toË mhnÚw mçllon =e›; diÒti xeimeri≈terow fyiÄnvn ı meiÄw. diå tiÄ d¢ xeimeri≈terow fyiÄnvn; diÒti ≤ selÆnh époleiÄpei. taËta går oÏtvw ¶xei prÚw êllhla.

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Per‹ dÉ afitiÄou ka‹ o a‡tion éporÆseie m¢n ên tiw, îra ˜te Ípãrxei tÚ afitiatÒn, ka‹ tÚ a‡tion Ípãrxei (Às-

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guono a quelle che sono sotto il termine comune convengano ad esse, come per esempio perché convengano all’uomo o al cavallo. Sia animale ciò che è indicato da A; B le cose che seguono ad ogni animale; animali particolari le cose indicate da C, D, E. È chiaro allora perché B conviene a D: conviene in virtù di A. Analogamente negli altri casi; lo stesso discorso vale sempre anche per i termini che stanno sotto. Ora stiamo parlando con riferimento ai nomi comuni che ci sono stati trasmessi, ma non bisogna limitarsi ad esaminare questi casi, bensì, qualora sia stato osservato qualcos’altro di comune che conviene, bisogna sceglierlo e quindi esaminare a quali cose esso segua e quali cose seguano ad esso. Per esempio agli animali che hanno corna seguono l’avere un terzo stomaco e il non avere incisivi inferiori e superiori. Inoltre bisogna esaminare a quali animali segue l’avere corna. Infatti è chiaro perché la cosa detta conviene ad essi: converrà in virtù dell’avere corna. Un altro modo è quello di fare scelte sulla base dell’analogia. Infatti non è possibile prendere un’unica e medesima cosa che bisogna chiamare osso di seppia, lisca di pesce e osso; tuttavia vi saranno cose che seguono a queste come se vi fosse un’unica natura di questo tipo.

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CAPITOLO 15 Alcuni problemi sono gli stessi perché hanno lo stesso termine medio, per esempio perché sono tutti casi di scambio. Alcuni di questi sono identici per il genere, precisamente quelli che hanno come differenze di riguardare cose differenti o in modi differenti; per esempio: perché c’è l’eco?, oppure: perché c’è rispecchiamento di un’immagine?, oppure: perché c’è l’arcobaleno? Infatti tutti questi sono dal punto di vista del genere lo stesso problema (infatti sono tutti casi di riflessione), ma sono diversi nella specie. Altri problemi invece differiscono perché il medio dell’uno è sotto il medio dell’altro; per esempio: perché il Nilo si ingrossa alla fine del mese? Perché la fine del mese è più burrascosa. Perché la fine del mese è più burrascosa? Perché la luna è calante. Infatti questi problemi sono in tale rapporto fra loro.

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CAPITOLO 16 Circa la ragione e ciò di cui qualcosa è ragione uno potrebbe domandarsi se, quando si dia ciò di cui qualcosa è la ragione, si dia anche la 131

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per efi fullorroe› μ §kleiÄpei, ka‹ tÚ a‡tion toË §kleiÄpein μ fullorroe›n ¶stai: oÂon efi toËtÉ ¶sti tÚ plat°a ¶xein tå fÊlla, toË dÉ §kleiÄpein tÚ tØn g∞n §n m°sƒ e‰nai: efi går mØ Ípãrxei, êllo ti ¶stai tÚ a‡tion aÈt«n), e‡ te tÚ a‡tion Ípãrxei, ëma ka‹ tÚ afitiatÒn (oÂon efi §n m°sƒ ≤ g∞, §kleiÄpei, μ efi platÊfullon, fullorroe›). efi dÉ oÏtvw, ëmÉ ín e‡h ka‹ deiknÊoito diÉ éllÆlvn. ¶stv går tÚ fullorroe›n §fÉ o A, tÚ d¢ platÊfullon §fÉ o B, êmpelow d¢ §fÉ o G. efi dØ t“ B Ípãrxei tÚ A (pçn går platÊfullon fullorroe›), t“ d¢ G Ípãrxei tÚ B (pçsa går êmpelow platÊfullow), t“ G Ípãrxei tÚ A, ka‹ pçsa êmpelow fullorroe›. a‡tion d¢ tÚ B tÚ m°son. éllå ka‹ ˜ti platÊfullon ≤ êmpelow, ¶sti diå toË fullorroe›n épode›jai. ¶stv går tÚ m¢n D platÊfullon, tÚ d¢ E tÚ fullorroe›n, êmpelow d¢ §fÉ o Z. t“ dØ Z Ípãrxei tÚ E (fullorroe› går pçsa êmpelow), t“ d¢ E tÚ D (ëpan går tÚ fullorrooËn platÊfullon): pçsa êra êmpelow platÊfullon. a‡tion d¢ tÚ fullorroe›n. efi d¢ mØ §nd°xetai a‡tia e‰nai éllÆlvn (tÚ går a‡tion prÒteron o a‡tion, ka‹ toË m¢n §kleiÄpein a‡tion tÚ §n m°sƒ tØn g∞n e‰nai, toË dÉ §n m°sƒ tØn g∞n e‰nai oÈk a‡tion tÚ §kleiÄpein)^efi oÔn ≤ m¢n diå toË afitiÄou épÒdeijiw toË diå tiÄ, ≤ d¢ mØ diå toË afitiÄou toË ˜ti, ˜ti m¢n §n m°sƒ, o‰de, diÒti dÉ oÎ. ˜ti dÉ oÈ tÚ §kleiÄpein a‡tion toË §n m°sƒ, éllå toËto toË §kleiÄpein, fanerÒn: §n går t“ lÒgƒ t“ toË §kleiÄpein §nupãrxei tÚ §n m°sƒ, Àste d∞lon ˜ti diå toÊtou §ke›no gnvriÄzetai, éllÉ oÈ toËto diÉ §keiÄnou. áH §nd°xetai •nÚw pleiÄv a‡tia e‰nai; ka‹ går efi ¶sti tÚ aÈtÚ pleiÒnvn pr≈tvn kathgore›syai, ¶stv tÚ A t“ B pr≈tƒ Ípãrxon, ka‹ t“ G êllƒ pr≈tƒ, ka‹ taËta to›w D E. Ípãrjei êra tÚ A to›w D E: a‡tion d¢ t“ m¢n D tÚ B, t“ d¢ E tÚ G: Àste toË m¢n afitiÄou Ípãrxontow énãgkh tÚ prçgma Ípãrxein, toË d¢ prãgmatow Ípãrxontow oÈk énãgkh pçn ˘ ín ¬ a‡tion, éllÉ a‡tion m°n, oÈ m°ntoi pçn. μ efi ée‹ kayÒlou tÚ prÒblhmã §sti, ka‹ tÚ a‡tion ˜lon ti, ka‹ o a‡tion, kayÒlou; oÂon tÚ fullorroe›n ˜lƒ tin‹ éfvrism°non, kín e‡dh aÈtoË ¬, ka‹ toisd‹ kayÒlou, μ futo›w μ toioisd‹ futo›w: Àste ka‹ tÚ m°son ‡son de› e‰nai §p‹ toÊtvn ka‹ o a‡tion,

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ragione (per esempio, se una pianta perde le foglie o c’è l’eclissi, ci sarà anche la ragione dell’eclissi o del perdere le foglie, supponendo che la ragione di ciò sia l’essere latifoglia e, dell’eclissi, l’interporsi della terra; infatti se la ragione non si dà, allora la ragione di queste cose è un’altra) e domandarsi se, dandosi la ragione, si dia insieme anche ciò di cui è la ragione (per esempio: se la terra si interpone, si dà l’eclissi, o se la pianta è latifoglia, perde le foglie). Se è così, la ragione e ciò di cui è la ragione si danno insieme e possono essere provati l’uno con l’altro. Sia perdere le foglie ciò che è indicato da A, latifoglio ciò che è indicato da B, vite ciò che è indicato da C. Allora se A conviene a B (infatti ogni latifoglia perde le foglie) e B conviene a C (infatti ogni vite è latifoglia), A conviene ad ogni C, ossia ogni vite perde le foglie. B, il medio, è la ragione. Ma si può provare anche che la vite è latifoglia grazie al suo perdere le foglie. Infatti sia D latifoglio, E perdere le foglie e vite ciò che è indicato da F. Allora E conviene a F (infatti ogni vite perde le foglie) e D conviene ad E (infatti tutto ciò che perde le foglie è latifoglio); dunque ogni vite è latifoglia. Il perdere le foglie è la ragione. Se non è possibile che due cose siano ragioni una dell’altra (infatti la ragione è anteriore a ciò di cui è la ragione e l’interporsi della terra è la ragione dell’eclissi, mentre l’eclissi non è la ragione dell’interporsi); se allora la dimostrazione grazie alla ragione è dimostrazione del perché e quella che non è grazie alla ragione è del che, uno sa che la terra si interpone, ma non perché si interpone. È manifesto che non è l’eclissi la ragione dell’interporsi, ma quest’ultimo dell’eclissi. Infatti nella formula definitoria dell’eclissi è presente l’interporsi, per cui è chiaro che è grazie a questo che si acquisisce conoscenza di quella e non di questo grazie a quella. O è forse possibile che vi siano più ragioni di un’unica cosa? Sì e se è possibile che uno stesso termine si predichi di più termini primi, sia A tale da convenire a B, che è primo, e a C, un altro termine primo; questi termini convengano inoltre a D e ad E. Dunque A converrà a D e ad E; e B è la ragione del convenire di A a D e C quella del convenire di A ad E. Di conseguenza se si dà la ragione, è necessario che l’oggetto si dia, mentre se si dà l’oggetto non è necessario che si dia tutto ciò che ne sia la ragione, ma una ragione, non ogni ragione. O forse, se il problema è sempre universale e la ragione è un tutto, anche ciò di cui è la ragione è universale? Per esempio perdere le foglie conviene determinatamente ad un certo tutto, anche se vi sono specie di esso, e conviene ad esse universalmente, siano esse piante o piante di un certo tipo. Di conseguenza in questi casi anche il medio e ciò di cui è la ragione devono essere uguali ed essere convertibili. 133

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ka‹ éntistr°fein. oÂon diå tiÄ tå d°ndra fullorroe›; efi dØ diå p∞jin toË ÍgroË, e‡te fullorroe› d°ndron, de› Ípãrxein p∞jin, e‡te p∞jiw Ípãrxei, mØ ıtƒoËn éllå d°ndrƒ, fullorroe›n.

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PÒteron dÉ §nd°xetai mØ tÚ aÈtÚ a‡tion e‰nai toË aÈtoË pçsin éllÉ ßteron, μ oÎ; μ efi m¢n kayÉ aÍtÚ épod°deiktai ka‹ mØ katå shme›on μ sumbebhkÒw, oÈx oÂÒn te: ı går lÒgow toË êkrou tÚ m°son §stiÄn: efi d¢ mØ oÏtvw, §nd°xetai. ¶sti d¢ ka‹ o a‡tion ka‹ ⁄ skope›n katå sumbebhkÒw: oÈ mØn doke› problÆmata e‰nai. efi d¢ mÆ, ımoiÄvw ßjei tÚ m°son: efi m¢n ım≈numa, ım≈numon tÚ m°son, efi dÉ …w §n g°nei, ımoiÄvw ßjei. oÂon diå tiÄ ka‹ §nallåj énãlogon; êllo går a‡tion §n gramma›w ka‹ ériymo›w ka‹ tÚ aÈtÒ ge, √ m¢n grammÆ, êllo, √ dÉ ¶xon aÎjhsin toiandiÄ, tÚ aÈtÒ. oÏtvw §p‹ pãntvn. toË dÉ ˜moion e‰nai xr«ma xr≈mati ka‹ sx∞ma sxÆmati êllo êllƒ. ım≈numon går tÚ ˜moion §p‹ toÊtvn: ¶nya m¢n går ‡svw tÚ énãlogon ¶xein tåw pleuråw ka‹ ‡saw tåw gvniÄaw, §p‹ d¢ xrvmãtvn tÚ tØn a‡syhsin miÄan e‰nai ≥ ti êllo toioËton. tå d¢ katÉ énalogiÄan tå aÈtå ka‹ tÚ m°son ßjei katÉ énalogiÄan. ÖExei dÉ oÏtv tÚ parakolouye›n tÚ a‡tion éllÆloiw ka‹ o a‡tion ka‹ ⁄ a‡tion: kayÉ ßkaston m¢n lambãnonti tÚ o a‡tion §p‹ pl°on, oÂon tÚ t°ttarsin ‡saw tåw ¶jv §p‹ pl°on μ triÄgvnon μ tetrãgvnon, ëpasi d¢ §pÉ ‡son (˜sa går t°ttarsin Ùrya›w ‡saw tåw ¶jv): ka‹ tÚ m°son ımoiÄvw. ¶sti d¢ tÚ m°son lÒgow toË pr≈tou êkrou, diÚ pçsai afl §pist∞mai diÉ ırismoË giÄgnontai. oÂon tÚ fullorroe›n ëma ékolouye› tª émp°lƒ ka‹ Íper°xei, ka‹ sukª, ka‹ Íper°xei: éllÉ oÈ pãntvn, éllÉ ‡son. efi dØ lãboiw tÚ pr«ton m°son, lÒgow toË fullorroe›n §stin. ¶stai går pr«ton m¢n §p‹ yãtera m°son, ˜ti toiad‹ ëpanta: e‰ta toÊtou m°son, ˜ti ÙpÚw pÆgnutai ≥ ti êllo toioËton. tiÄ dÉ §st‹ tÚ fullorroe›n; tÚ pÆgnusyai tÚn §n tª sunãcei toË sp°rmatow ÙpÒn.

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Per esempio, perché gli alberi perdono le foglie? Se ciò è in virtù della coagulazione dell’umore, allora, se l’albero perde le foglie, bisogna che gli convenga la coagulazione, e se la coagulazione conviene non a qualunque cosa ma all’albero, bisogna che l’albero perda le foglie.

CAPITOLO 17 È possibile o no che non sia la stessa la ragione di una stessa cosa in tutti i casi, ma che sia diversa? Forse non è possibile se si è dimostrato per sé e non per un segno o accidentalmente. Infatti il termine medio è la formula definitoria dell’estremo. Se invece non si è dimostrato così è possibile. È possibile esaminare accidentalmente sia ciò di cui qualcosa è la ragione sia ciò rispetto a cui è la ragione. Ma questi non sembrano essere problemi. Se non è così, il medio sarà simile agli estremi. Se questi sono omonimi, il medio sarà omonimo, e se essi sono in un genere, il medio sarà nella stessa situazione. Per esempio perché ciò che è proporzionale si alterna? Infatti la ragione di ciò è diversa nelle linee e nei numeri, ma è anche la stessa: diversa per la linea in quanto linea; la stessa per la linea in quanto ha un tale incremento. Così in tutti i casi. La ragione dell’essere un colore simile ad un altro e dell’essere una figura simile ad un’altra è diversa nei diversi casi. Infatti in questi casi essere simile è omonimo, giacché nel secondo caso è presumibilmente avere i lati proporzionali e gli angoli uguali, mentre nel caso dei colori è che la loro percezione è una sola, o qualcos’altro del genere. Le cose che sono le stesse per analogia avranno anche il medio per analogia. La ragione, ciò di cui è la ragione e ciò rispetto a cui è la ragione si conseguono l’un l’altro nel modo seguente. Prendendo separatamente i casi, ciò di cui c’è la ragione è più esteso (per esempio avere gli angoli esterni uguali a quattro retti è più esteso di triangolo o di quadrato), ma ha uguale estensione a tutti insieme (infatti sono tutte le cose che hanno gli angoli uguali a quattro retti). Ugualmente il medio. Il medio è la formula definitoria del primo estremo; perciò tutte le scienze si generano grazie alla definizione. Per esempio perdere le foglie segue alla vite, e insieme la sopravanza, e segue al fico e lo sopravanza; ma non sopravanza tutti, bensì è uguale ad essi. Allora se prendi il primo medio, questo è la formula definitoria del perdere le foglie. Infatti vi sarà un medio primo nell’altra direzione, ossia che tutti sono tali; quindi un medio di ciò, che la linfa si coagula o qualcosa di siffatto. Che cos’è il perdere le foglie? Il coagularsi del succo nel punto di contatto del seme.

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ÉEp‹ d¢ t«n sxhmãtvn œde épod≈sei zhtoËsi tØn parakoloÊyhsin toË afitiÄou ka‹ o a‡tion. ¶stv tÚ A t“ B Ípãrxein pantiÄ, tÚ d¢ B •kãstƒ t«n D, §p‹ pl°on d°. tÚ m¢n dØ B kayÒlou ín e‡h to›w D: toËto går l°gv kayÒlou ⁄ mØ éntistr°fei, pr«ton d¢ kayÒlou ⁄ ßkaston m¢n mØ éntistr°fei, ëpanta d¢ éntistr°fei ka‹ parekteiÄnei. to›w dØ D a‡tion toË A tÚ B. de› êra tÚ A §p‹ pl°on toË B §pekteiÄnein: efi d¢ mÆ, tiÄ mçllon a‡tion ¶stai toËto §keiÄnou; efi dØ pçsin Ípãrxei to›w E tÚ A, ¶stai ti §ke›na ©n ëpanta êllo toË B. efi går mÆ, p«w ¶stai efipe›n ˜ti ⁄ tÚ E, tÚ A pantiÄ, ⁄ d¢ tÚ A, oÈ pant‹ tÚ E; diå tiÄ går oÈk ¶stai ti a‡tion oÂon [tÚ A] Ípãrxei pçsi to›w D; éllÉ îra ka‹ tå E ¶stai ti ßn; §pisk°casyai de› toËto, ka‹ ¶stv tÚ G. §nd°xetai dØ toË aÈtoË pleiÄv a‡tia e‰nai, éllÉ oÈ to›w aÈto›w t“ e‡dei, oÂon toË makrÒbia e‰nai tå m¢n tetrãpoda tÚ mØ ¶xein xolÆn, tå d¢ pthnå tÚ jhrå e‰nai μ ßterÒn ti.

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Efi d¢ efiw tÚ êtomon mØ eÈyÁw ¶rxontai, ka‹ mØ mÒnon ©n tÚ m°son éllå pleiÄv, ka‹ tå a‡tia pleiÄv. | pÒteron dÉ a‡tion t«n m°svn, tÚ prÚw tÚ kayÒlou pr«|ton μ tÚ prÚw tÚ kayÉ ßkaston, to›w kayÉ ßkaston; d∞lon dØ ˜ti | tÚ §ggÊtata •kãstƒ ⁄ a‡tion. toË går tÚ pr«ton ÍpÚ tÚ | kayÒlou Ípãrxein toËto a‡tion, oÂon t“ D tÚ G toË tÚ B | Ípãrxein a‡tion. t“ m¢n oÔn D tÚ G a‡tion toË A, t“ d¢ G | tÚ B, toÊtƒ d¢ aÈtÒ.

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Per‹ m¢n oÔn sullogismoË ka‹ épodeiÄjevw, tiÄ te •kãterÒn §sti ka‹ p«w giÄnetai, fanerÒn, ëma d¢ ka‹ per‹ §pistÆmhw épodeiktik∞w: taÈtÚn gãr §stin. per‹ d¢ t«n érx«n, p«w te giÄnontai gn≈rimoi ka‹ tiÄw ≤ gnvriÄzousa ßjiw, §nteËyen ¶stai d∞lon proaporÆsasi pr«ton. ÜOti m¢n oÔn oÈk §nd°xetai §piÄstasyai diÉ épodeiÄjevw mØ gign≈skonti tåw pr≈taw érxåw tåw ém°souw, e‡rhtai prÒteron. t«n dÉ ém°svn tØn gn«sin, ka‹ pÒteron ≤ aÈtÆ

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Ricercando la consecuzione della ragione e di ciò di cui è la ragione, si può in forma schematica presentare la cosa nel modo seguente. Sia che A conviene ad ogni B e B a ciascuno dei D, ma con un’estensione maggiore. Allora B è universale rispetto ai D. Dico universale ciò con cui i suoi soggetti non si convertono e universale primo ciò con cui ciascuno di essi non si converte, ma tutti insieme si convertono e sono coestesi. Allora B è la ragione di A rispetto ai D. Dunque bisogna che A si estenda oltre B, altrimenti perché mai questo sarà la ragione più di quello? Allora, se A conviene a tutti gli E, tutti questi costituiranno un uno diverso da B, altrimenti come sarebbe possibile dire che A conviene a tutto ciò a cui conviene E mentre E non conviene a tutto ciò a cui conviene A? Infatti perché non dovrebbe esserci per essi una qualche ragione come quella che c’è per tutti i D? Ma anche gli E costituiranno qualcosa di uno? Bisogna prenderlo in considerazione ed esso sia C. Allora è possibile che della stessa cosa vi siano più ragioni, ma non per le cose che sono le stesse per specie. Per esempio per i quadrupedi la ragione del loro essere longevi è il non avere bile, mentre per gli uccelli è l’essere secchi o qualcosa d’altro.

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CAPITOLO 18 Se non si giunge subito a ciò che è indivisibile e il medio non è uno solo ma più, anche le ragioni sono più d’una. Dei medi è la ragione rispetto ai particolari quello che è primo dalla parte dell’universale o quello che è primo dalla parte dei particolari? È chiaro che è quello che è più vicino a ciò rispetto a cui è la ragione. Infatti esso è la ragione del fatto che il primo termine sia sotto l’universale, come per esempio C è rispetto a D ragione del convenire di B. Dunque C è rispetto a D ragione di A, B è rispetto a C ragione di A, e B stesso è rispetto a B ragione del convenire di A.

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CAPITOLO 19 A proposito del sillogismo e della dimostrazione è manifesto che cosa ciascuno di essi sia e come si produca e ciò vale allo stesso tempo per la conoscenza scientifica per dimostrazione; infatti sono la stessa cosa. Riguardo ai principi invece, e cioè come divengano noti e quale sia lo stato che ne acquisisce conoscenza, sarà chiaro da quel che segue a coloro che hanno prima discusso la seguente difficoltà. Si è detto prima che non si può avere conoscenza scientifica per dimostrazione se non si conoscono i primi principi immediati45. A 137

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§stin μ oÈx ≤ aÈtÆ, diaporÆseien ên tiw, ka‹ pÒteron §pistÆmh •kat°rou μ oÎ, μ toË m¢n §pistÆmh toË dÉ ßterÒn ti g°now, ka‹ pÒteron oÈk §noËsai afl ßjeiw §ggiÄnontai μ §noËsai lelÆyasin. efi m¢n dØ ¶xomen aÈtãw, êtopon: sumbaiÄnei går ékribest°raw ¶xontaw gn≈seiw épodeiÄjevw lanyãnein. efi d¢ lambãnomen mØ ¶xontew prÒteron, p«w ín gnvriÄzoimen ka‹ manyãnoimen §k mØ pro#parxoÊshw gn≈sevw; édÊnaton gãr, Àsper ka‹ §p‹ t∞w épodeiÄjevw §l°gomen. fanerÚn toiÄnun ˜ti oÎtÉ ¶xein oÂÒn te, oÎtÉ égnooËsi ka‹ mhdemiÄan ¶xousin ßjin §ggiÄgnesyai. énãgkh êra ¶xein m°n tina dÊnamin, mØ toiaÊthn dÉ ¶xein ∂ ¶stai toÊtvn timivt°ra katÉ ékriÄbeian. faiÄnetai d¢ toËtÒ ge pçsin Ípãrxon to›w z–oiw. ¶xei går dÊnamin sÊmfuton kritikÆn, ∂n kaloËsin a‡syhsin: §noÊshw dÉ afisyÆsevw to›w m¢n t«n z–vn §ggiÄgnetai monØ toË afisyÆmatow, to›w dÉ oÈk §ggiÄgnetai. ˜soiw m¢n oÔn mØ §ggiÄgnetai, μ ˜lvw μ per‹ ì mØ §ggiÄgnetai, oÈk ¶sti toÊtoiw gn«siw ¶jv toË afisyãnesyai: §n oÂw dÉ ¶nestin afisyom°noiw ¶xein ¶ti §n tª cuxª. poll«n d¢ toioÊtvn ginom°nvn ≥dh diaforã tiw giÄnetai, Àste to›w m¢n giÄnesyai lÒgon §k t∞w t«n toioÊtvn mon∞w, to›w d¢ mÆ. ÉEk m¢n oÔn afisyÆsevw giÄnetai mnÆmh, Àsper l°gomen, §k d¢ mnÆmhw pollãkiw toË aÈtoË ginom°nhw §mpeiriÄa: afl går polla‹ mn∞mai t“ ériym“ §mpeiriÄa miÄa §stiÄn. §k dÉ §mpeiriÄaw μ §k pantÚw ±remÆsantow toË kayÒlou §n tª cuxª, toË •nÚw parå tå pollã, ˘ ín §n ëpasin ©n §nª §keiÄnoiw tÚ aÈtÒ, t°xnhw érxØ ka‹ §pistÆmhw, §ån m¢n per‹ g°nesin, t°xnhw, §ån d¢ per‹ tÚ ˆn, §pistÆmhw. oÎte dØ §nupãrxousin éfvrism°nai afl ßjeiw, oÎtÉ épÉ êllvn ßjevn giÄnontai gnvstikvt°rvn, éllÉ épÚ afisyÆsevw, oÂon §n mãx˙ trop∞w genom°nhw •nÚw stãntow ßterow ¶sth, e‰yÉ ßterow, ßvw §p‹ érxØn ∑lyen. ≤ d¢ cuxØ Ípãrxei toiaÊth oÔsa o·a dÊnasyai pãsxein toËto. ˘ dÉ §l°xyh m¢n pãlai, oÈ saf«w d¢ §l°xyh, pãlin e‡pvmen. stãntow går t«n édiafÒrvn •nÒw, pr«ton m¢n §n tª cuxª kayÒlou (ka‹ går

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proposito della conoscenza dei principi immediati uno potrebbe domandarsi se essa sia o non sia la stessa cioè se ci sia conoscenza scientifica in ciascun caso o no46, oppure se ci sia conoscenza scientifica in un caso e un altro genere di conoscenza nell’altro, e insieme se gli stati non siano presenti in noi ma si producano, oppure siano presenti ma noi non ce ne accorgiamo. Ebbene, se ne abbiamo il possesso, è assurdo. Succederebbe infatti che non ci accorgeremmo di avere conoscenze che sono più precise della dimostrazione. D’altra parte, se ce ne impadroniamo senza averli prima, come potremmo acquisire conoscenza e apprendere senza una conoscenza preesistente? In effetti ciò è impossibile, come dicevamo a proposito della dimostrazione47. È quindi manifesto che non è possibile né possederli né che si producano in noi se siamo ignoranti e non abbiamo alcuno stato. Dunque è necessario avere una qualche capacità, ma non averne una tale che sia di maggior valore quanto a precisione. Questa capacità manifestamente appartiene a tutti gli animali. Infatti l’animale ha una connaturata capacità discriminativa, che chiamano percezione. Essendo presente la percezione, in alcuni animali si produce una permanenza del percepito e in altri non si produce. In quelli in cui non si produce, o mai o nei casi in cui non si produce, non c’è altra conoscenza all’infuori del percepire. Altri invece, dopo aver percepito, possono possedere ancora il percepito nell’anima. Producendosi molti episodi siffatti si produce già una qualche differenza, di modo che in alcuni animali si produce una concettualizzazione a partire dalla permanenza di tali cose, mentre in altri no. Dalla percezione si produce dunque la memoria, come siamo soliti chiamarla, e dalla memoria della stessa cosa che spesso si produce, l’esperienza. Infatti le memorie, molte di numero, costituiscono una sola esperienza. Dall’esperienza o dall’universale che riposa tutto nell’anima, dall’uno oltre i molti, ciò che di uno e identico è presente in tutti quelli, si produce il principio dell’abilità tecnica e della conoscenza scientifica, e precisamente dell’abilità tecnica quando abbia a che fare con la produzione, della conoscenza scientifica invece quando abbia a che fare con quel che è. Dunque gli stati non ineriscono in noi in una forma determinata, né si producono da altri stati più conoscitivi, ma si producono dalla percezione, così come in una battaglia, verificatasi una rotta, se un solo soldato si ferma, un altro si ferma pure e un altro ancora, finché non si arrivi alla prima fila. L’anima è tale da avere la capacità di subire questo. Ciò che si è appena detto non è stato detto chiaramente e dobbiamo dirlo di nuovo. Se uno degli indifferenziati si ferma c’è per la pri139

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afisyãnetai m¢n tÚ kayÉ ßkaston, ≤ dÉ a‡syhsiw toË kayÒlou §stiÄn, oÂon ényr≈pou, éllÉ oÈ KalliÄou ényr≈pou): pãlin §n toÊtoiw ·statai, ßvw ín tå émer∞ stª ka‹ tå kayÒlou, oÂon toiond‹ z“on, ßvw z“on, ka‹ §n toÊtƒ …saÊtvw. d∞lon dØ ˜ti ≤m›n tå pr«ta §pagvgª gnvriÄzein énagka›on: ka‹ går ≤ a‡syhsiw oÏtv tÚ kayÒlou §mpoie›. ÉEpe‹ d¢ t«n per‹ tØn diãnoian ßjevn aÂw élhyeÊomen afl m¢n ée‹ élhye›w efisin, afl d¢ §pid°xontai tÚ ceËdow, oÂon dÒja ka‹ logismÒw, élhy∞ dÉ ée‹ §pistÆmh ka‹ noËw, ka‹ oÈd¢n §pistÆmhw ékrib°steron êllo g°now μ noËw, afl dÉ érxa‹ t«n épodeiÄjevn gnvrim≈terai, §pistÆmh dÉ ëpasa metå lÒgou §stiÄ, t«n érx«n §pistÆmh m¢n oÈk ín e‡h, §pe‹ dÉ oÈd¢n élhy°steron §nd°xetai e‰nai §pistÆmhw μ noËn, noËw ín e‡h t«n érx«n, ¶k te toÊtvn skopoËsi ka‹ ˜ti épodeiÄjevw érxØ oÈk épÒdeijiw, ÀstÉ oÈdÉ §pistÆmhw §pistÆmh. efi oÔn mhd¢n êllo parÉ §pistÆmhn g°now ¶xomen élhy°w, noËw ín e‡h §pistÆmhw érxÆ. ka‹ ≤ m¢n érxØ t∞w érx∞w e‡h ên, ≤ d¢ pçsa ımoiÄvw ¶xei prÚw tÚ pçn prçgma.

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ma volta un universale nell’anima (è percepito infatti il singolare, ma la percezione è dell’universale; per esempio essa è dell’uomo e non di Callia che è un uomo). Ancora, qualcosa si ferma tra questi finché si fermano le cose senza parti e gli universali, come per esempio si ferma tale animale finché si ferma animale, e allo stesso modo per animale. È chiaro allora che per noi è necessario conoscere le cose prime con l’induzione; infatti è proprio così che la percezione introduce in noi l’universale. Siccome degli stati intellettuali con i quali siamo nel vero alcuni sono sempre veri, e altri ammettono il falso, come per esempio l’opinione e il calcolo, mentre la conoscenza scientifica e l’intellezione sono sempre veri, e siccome nessun altro genere all’infuori dell’intellezione è più preciso della conoscenza scientifica e, d’altra parte, i principi sono più noti delle dimostrazioni e ogni conoscenza scientifica è accompagnata dal ragionamento, non può esserci conoscenza scientifica dei principi, e poiché non ci può essere nulla di più vero della conoscenza scientifica se non l’intellezione, l’intellezione deve avere per oggetto i principi. Ciò risulta da queste indagini ed anche perché principio della dimostrazione non è la dimostrazione e quindi la conoscenza scientifica non è principio della conoscenza scientifica. Se allora non abbiamo alcun altro genere vero oltre alla conoscenza scientifica, l’intellezione deve essere principio della conoscenza scientifica. E l’una può essere considerata il principio del principio, mentre l’altra nel suo complesso sarà nella stessa relazione col suo oggetto nel suo complesso.

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100b1

5

10

15

Note

Ho adottato la punteggiatura proposta da Barnes (v. n. a 71b29-72a5). A 72a8-9 leggo éntifãsevw (Colli, Barnes) anziché épofãnsevw (mss., Ross). 3 A 72b22 colloco la virgola dopo pote. Vedi il Commento. 4 A 73b7 leggo tÚ leukÒn (Colli, Barnes) anziché to Ç leukÚn (Ross). 5 A 73b21 leggo ént¤fasiw (Barnes) anziché μ ént¤fasiw (Ross). 6 A 74a29 leggo kayÒlou tr¤gvnon (maggioranza dei mss. e Barnes) anziché kay' ˜lou trig≈nou (correzione di Ross su kayÒlou trig≈nou del ms. n = Ambrosianus 490). 7 A 74b14 leggo énagka›Òn (mss., Barnes) anziché énagkai Ävn (Ross). 8 A 75b25-26 leggo kayÒlou (mss., Barnes) anziché kay' ˜lou (Ross). 9 Seguo Solmsen, p. 263 n. 29, e Barnes nell’espungere to›w pr≈toiw. 10 A 76b36 leggo l°gontai (mss., Barnes) anziché l°getai (Ross). 11 Cfr. APo. I 10, 76a42-b2. 12 Cfr. APr. II 4, 57a36-b17. 13 A 80b27 pongo una virgola dopo oÂon tÚ D. 14 APo. I 16, 80a28-30. 15 APo. I 17, 80b22-27. 16 A 81a34 accolgo l’integrazione di Barnes ka‹ ıpot°ran. 17 A 82a14 leggo oÈx Ípãrxei (ms. n) anziché Ípãrxei (Ross). 18 A 82a17-18 leggo con Barnes e‡ t' ... §p' ... (lezione di due mss. e di Filopono) anziché e‡t'... e‡t'... (Ross). 19 A 82b17-18 leggo ín deiknÊ˙... énãgkh (alcuni mss., Barnes) anziché ín deiknÊoi... efi énãgkh (Ross). Alla riga 17 Ross omette accidentalmente ˜ti dopo oÂon. 20 A 83b13 leggo d∞lon (codice n) anziché dØ (Ross). 21 A 83b24 con Barnes leggo êlloiw (mss.) anziché êllou (Filopono, Ross) ed ometto ka‹ toËto kay'•t°rou. 22 Cfr. APo. I 3, 72b6-7. 23 A 85b20 leggo: ˜sa mØ t¤ (non mÆ ti) shma¤nei. 24 A 86a12 leggo tÚ (maggioranza dei mss., Barnes) anziché tØn (Ross). 25 Cfr. APr. I 24, 41b6-7 e, più in generale, APr. I 4-6. 26 A 88b7-8 espungo ¶ti afl érxa‹ afl m¢n §j énãgkhw, afl d' §ndexÒmenai. 1 2

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APo. I 7, 75b2-12. A 89a18 mantengo con Barnes ¶xei espunto da Ross. 29 A 89b36 leggo toË aÈtoË anziché tÚ aÈtÚ (mss.). 30 APo. I 3, 72b18-25; 22, 84a29-b2. 31 APr. I 31. 32 A 91b30-32 espungo, seguendo Barnes, le parole in parentesi quadre. 33 APo. II 2, 90a14-32. 34 APo. II 4, 91a14-b11. 35 A 93a10 leggo tÚ (mss., Barnes) anziché tou (Ross). 36 APo. II 4, 91a14-b11. 37 A 93a36 leggo diå m°svn (maggioranza dei mss., Barnes) anziché di'ém°svn (Waitz, Ross). 38 APo. II 8, 93a24-27. 39 A 94a-35-36 leggo con Barnes toË t¤ ∑n e‰nai ... tÚ m°son (maggioranza dei mss.) anziché tÚ t¤ ∑n e‰nai... tÚ m°son (Ross). 40 A 95a36 metto un punto fermo, e non una virgola, dopo §som°nou. 41 APo. I 3, 73a6-20; APr. II 5-7. 42 APo. II 3-10. 43 A 96b2 leggo énagka›a (mss.) anziché kayÒlou (Ross). 44 APo. II 5, 91b12 sgg. 45 APo. I 2, 72a25 sgg. 46 A 99b24 mantengo con Barnes μ oÎ (mss.). 47 APo. I 1, 71a1-11. 27 28

Nota al Commento

Per le proposizioni della sillogistica è adottata nel commento la notazione che rappresenta i termini soggetto e predicato con lettere maiuscole (il predicato prima del soggetto), mentre qualità (se la proposizione sia affermativa o negativa) e quantità (se sia universale o particolare) vengono espresse da una delle seguenti vocali minuscole a, e, i, o, collocata tra il predicato e il soggetto. AaB, universale affermativa «A conviene ad ogni B». AiB, particolare affermativa «A conviene a qualche B». AeB, universale negativa «A non conviene ad alcun B». AoB, particolare negativa «A non conviene a qualche B». Il simbolo «», che separa le premesse di un sillogismo dalla conclusione, denota la conseguenza logica. Si può leggerlo come «quindi». Ecco in simboli e con il loro nome medievale i quattordici tipi di sillogismo (detti «modi») riconosciuti e provati da Aristotele negli Analitici primi. Essi sono divisi in tre figure secondo la collocazione del termine che compare in entrambe le premesse (detto «termine medio»; i termini «maggiore» e «minore» sono invece rispettivamente il predicato e il soggetto della conclusione): Prima figura (termine medio soggetto in una premessa e predicato nell’altra) Barbara AaB, BaC  AaC Celarent AeB, BaC  AeC Darii AaB, BiC  AiC Ferio AeB, BiC  AoC Seconda figura (termine medio predicato in entrambe le premesse) Cesare MeN, MaX  NeX Camestres MaN, MeX  NeX Festino MeN, MiX  NoX Baroco MaN, MoX  NoX Terza figura (termine medio soggetto in entrambe le premesse) Darapti PaS, RaS  PiR Felapton PeS, RaS  PoR

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Datisi Disamis Bocardo Ferison

PaS, RiS  PiR PiS, RaS  PiR PoS, RaS  PoR PeS, RiS  PoR

2R = la proprietà di avere la somma degli angoli interni uguale a due angoli retti PNC = Principio di non contraddizione PTE = Principio del terzo escluso Per i classici greci citati Mignucci ha usato le abbreviazioni del Liddell-ScottJones, A Greek-English Lexicon (v. bibliografia). Riportiamo qui le abbreviazioni dei principali titoli aristotelici: APo. Analitici secondi APr. Analitici primi Cael. De caelo Cat. Categorie de An. De anima EE Etica eudemia EN Etica nicomachea GA De generatione animalium GC De generatione et corruptione HA Historia animalium Int. De interpretatione Long. De longitudine vitae MA De motu animalium Mem. De memoria MM Magna Moralia Metaph. Metafisica Mete. Meteorologica PA De partibus animalium Ph. Fisica Pol. Politica (Pr.) Problemi Resp. De respiratione Rh. Retorica SE Confutazioni sofistiche Sens. De sensu Top. Topici

Commento

LIBRO PRIMO CAPITOLO 1 71a4: «E così pure ciascuna delle altre discipline [texn«n]». Qui t°xnh ha il significato ampio di «disciplina» (Bonitz, Index, 759a34 sgg.) e non quello ristretto per il quale si contrappone talvolta a «scienza teoretica». 71a5-6: Sono fermamente convinto che Aristotele nelle sue opere usi sullogismÒw in almeno due sensi diversi, e precisamente in quello ristretto di «sillogismo» così com’è definito in APr. I 1, 24b18-22 (v. anche Top. I 1, 100a25-27; Rh. I 2, 1356b15-16; SE 1, 165a1-2) ed in quello più generale di «deduzione» o «inferenza», in accordo con l’uso generale del termine e del verbo sullogiÄzesyai in greco. Su ciò si veda Mignucci [2002]: 244-266. In ogni caso ho preferito rendere sullogismÒw sempre e solo con «sillogismo», lasciando al lettore la responsabilità di decidere quando sia in questione il significato ampio e quando quello ristretto. 71a5-8: È difficile non vedere qui un’allusione alla discussione dialettica, nella quale uno dei due interlocutori argomenta contro la tesi dell’avversario chiedendo a quest’ultimo di concedere le premesse da cui il ragionamento procede. 71a8-9: «Provando l’universale per il fatto che è chiaro il singolare [tÚ kay' ßkaston]». Qui, come spesso in Aristotele, kay' ßkaston non sta ad indicare ciò che è individuale come Socrate o Callia, ma ciò che è meno generale rispetto a ciò che lo è di più. In questo senso le specie possono essere dette kay' ßkasta in relazione al loro genere. Che l’§pagvgÆ cioè l’induzione possa essere un’inferenza dallo specifico al generale è confermato da Top. I 12, 105a13-16, e questo significa che la traduzione di §pagvgÆ con «induzione» deve essere presa cum grano salis, da-

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to che il procedimento cui fa riferimento Aristotele non sempre coincide con quello che oggigiorno siamo soliti intendere con «induzione». Sull’argomento vedi Engberg-Pedersen [1979]; Hintikka [1980]; McKirahan [1983]: 1-13; Caujolle-Zaslawsky [1990]; Upton [1981]; De Rijk [2002]: 140 sgg. 71a9-11: L’entimema aristotelico non ha niente a che vedere con quello tradizionalmente definito come «sillogismo incompleto». Esso copre semplicemente le argomentazioni deduttive (corrette o scorrette) usate nella retorica. Sull’entimema si veda anche APr. II 27, 70a3 sgg. e Burnyeat [1994]. Altrove Aristotele è meno sommario nell’avvicinare l’esempio all’induzione, giacché osserva che, mentre l’induzione procede dal particolare al generale, l’esempio procede da più particolari ad un altro particolare simile (APr. II 24, 69a13-29). 71a11-17: Il passo va letto in parallelo ad APo. I 10, 76b3 sgg., dove tuttavia Aristotele è più cauto nelle sue formulazioni. Qui egli sembra distinguere due tipi di preconoscenze che danno luogo a tre classi di cose preconosciute. Infatti egli distingue la preconoscenza consistente nel sapere che (a) «X è» (˜ti ¶sti: 71a12) da quella consistente nel sapere (b) «che cos’è quel che è detto “X”» (tiÄ tÚ legÒmenÒn §sti: 71a13) e corrispondentemente afferma che (i) per alcune cose presupponiamo la conoscenza di (b) soltanto, (ii) per altre quella di (b) ed (a) insieme, (iii) per un altro gruppo ancora quella di (a) soltanto. Innanzitutto va sottolineato che (a) non va preso esclusivamente come un’affermazione di esistenza relativa ad un individuo o anche ad un termine generale, del tipo di «Pietro esiste» o «esistono gli ippopotami». Lo prova se non altro il fatto che (a) è esemplificato nel testo da un assioma logico, il principio del terzo escluso. Ma dire che è di una proposizione significa dire che è vera o che si dà ed è ragionevole perciò pensare che la formula ˜ti ¶sti («X è») includa anche questo caso. Per contro, (b) è da mettere in relazione con la definizione e le espressioni usate da Aristotele sembrano autorizzare l’ipotesi che sia in questione la cosiddetta definizione nominale, quella che stabilisce che cosa un termine «X» significa. Tuttavia l’esempio dell’unità, uno dei soggetti dell’aritmetica, della quale bisogna presupporre non solo l’esistenza ma anche «che cosa significa», fa pensare che sia in questione non tanto la definizione nominale, quanto piuttosto quella essenziale (cfr. Goldin [1996]: 131 n. 60). In ogni caso nella misura in cui l’attribuire esistenza a qualcosa o l’asserire che un certo stato di cose si dà si distinguono dal definire, comunque inteso, diviene plausibile separare il gruppo (i) dal gruppo (ii). Non è invece ben chiaro come Aristotele possa qui legittimare il gruppo (iii), almeno se supponiamo che sia in questione qui la definizione nominale e la includiamo nella normale competenza

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linguistica di un parlante, come del resto APo. I 10, 76b20-21 sembra confermare. Il gruppo (iii) pare infatti contemplare il caso di proposizioni conosciute senza che sia noto il significato dei termini coinvolti, e ciò è per lo meno strano. Per uscire dalla difficoltà si potrebbe supporre che (b) alluda non alla definizione nominale, ma alla definizione tout-court, la definizione che coglie l’essenza. In questo caso il gruppo (iii) avrebbe una sua legittimazione, dato che, per conoscere che P è vera (dove «P» sta per una proposizione) o che X esiste (dove «X» sta o per un individuo o per un termine generale), non dobbiamo necessariamente assumere di conoscere le definizioni reali dei termini che compongono P o di X. 71a21: ÜAma §pagÒmenow §gn≈risen. Come ha mostrato Ross, p. 506, §pãgein ha qui il significato non tecnico di «condurre a», del resto ben documentato in greco. Un analogo uso, questa volta del sostantivo §pãgvg∞, in APr. II 21, 67a23. (Diversa interpetazione in McKirahan [1983]: 1-13). 71a17-24: Come mostra l’esempio, Aristotele ha in mente un’inferenza del tipo di (1) ogni triangolo ha la proprietà 2R questa figura iscritta in una semicirconferenza è un triangolo

(a) (b)

questa figura iscritta in una semicirconferenza ha la proprietà 2R (c) La sua tesi è che mentre la proposizione universale (a) è conosciuta prima di (c) (nel senso almeno che è indipendente da questa), la conoscenza di (b) è contemporanea a quella di (c), supposto che questa avvenga alla luce di (a). Insomma se conosco (a) e l’ho presente, non appena acquisisco (b) sono immediatamente condotto ad accettare (c). Ma uno potrebbe sostenere anche che (b) è preconosciuta a (c) e che (c) diviene noto insieme ad (a), qualora quest’ultima proposizione sia considerata insieme con (b). In effetti l’indipendenza logica (e temporale) da (c) non è solo di (a), ma anche di (b) (per un’analisi della relazione conoscitiva fra premessa maggiore e premessa minore in un sillogismo cfr. anche APr. II 21, 67a5 sgg.). Meno chiara è la seconda parte del passo (a21-24). Una sua possibile interpretazione è che con «l’apprendimento di alcune cose» Aristotele si riferisca alle proposizioni la cui conoscenza è ottenuta nel modo in cui è ottenuta quella di (c), ossia nel contesto di un’inferenza come la (1), e che con «l’ultimo termine» egli alluda all’estremo minore del sillogismo in questione (come del resto è normale in Aristotele). Allora quel che egli direbbe è che una proposizione come (c) è conosciuta solo allorché sia assunta la premessa (b) nella sua subordinazione ad (a) (e non quando sia posta (a) soltanto), dato che il suo soggetto, «questa figura iscritta in una semicirconferenza», non è conosciuto essere un triangolo «attraverso il medio», nel senso che la proposizione (b) non è deducibile da (a), talché la conoscenza di (a) non comporta né presuppone quella di (b). In altri termini, Aristotele, allo scopo di mostrare che l’acquisizione di (c) richiede l’assunzione sia di (a) sia di (b), sottolinea qui che la conoscenza di (b) è indipendente da quella di (a), dato che (b) non deriva da (a). L’insistenza sul fatto che il soggetto delle proposizioni (b) e (c) sia un termine singolare (a23-24) serve probabilmente a rinforzare l’idea che la conoscenza di (a), il cui soggetto è universale, non include (in atto) quella di (b).

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A 71a25-26, 28, 29 ho reso §piÄstasyai con «sapere», discostandomi dalla traduzione che di norma ho adottato, «conoscere scientificamente», perché qui non è in questione la conoscenza scientifica in contrasto con un altro tipo di conoscenza. Lo conferma del resto l’intercambiabilità del termine con efid°nai. 71a24-25: Pr‹n d'§paxy∞nai μ labe›n sullogismÚn: qui §paxy∞nai non fa riferimento all’induzione, ma va preso nello stesso senso che ha in 71a21, ossia «essere condotti alla conclusione». In questo modo l’espressione è sinonima di labe›n sullogismÒn. 71a26: «Di ciò di cui non si sa propriamente se è» [mØ ædei efi ¶stin èpl«w]: il contesto obbliga a collegare èpl«w a ædei, nonostante la posizione dell’avverbio, che indurrebbe a collegarlo a ¶stin. Inoltre efi ¶stin non deve trarre in inganno: non è in questione qui l’esistenza del soggetto della conclusione (nell’esempio (1) della n. a 71a17-24 «questa figura iscritta in una semicirconferenza»), ma la sua qualificazione come «triangolo» (cfr. Gomez-Lobo [1980]: 77-78). Per avere tale lettura non esistenziale di efi ¶stin non è necessario modificare la punteggiatura, come fa invece De Rijk [2002]: 598 n. 125, il quale sposta la virgola dopo toËto in ˘ går mØ ædei efi ¶stin èpl«w, toËto p«w ædei ˜ti dÊo Ùryåw ¶xei èpl«w. 71a24-b8: La conclusione di un sillogismo in un certo senso è conosciuta prima dell’effettuazione della deduzione e in un certo senso no. Aristotele prova prima questa seconda tesi con riferimento all’inferenza (1) della n. a 71a17-24. Non è possibile conoscere (c) «la figura iscritta nella semicirconferenza ha la proprietà 2R», se non si sa che tale figura è un triangolo. Quindi non è possibile preconoscere tale conclusione, dato che, come ci è stato già detto, non appena veniamo a sapere che (b) «la figura iscritta nella semicirconferenza è un triangolo», abbiamo la conclusione, supposto che la premessa maggiore della deduzione, (a) «ogni triangolo ha la proprietà 2R», sia presente alla nostra mente. D’altra parte, la premessa preconosciuta alla conclusione, ossia (a), in qualche modo deve contenere la conclusione, altrimenti sarebbe irrilevante per quest’ultima. Dunque una qualche preconoscenza della conclusione è richiesta nella conoscenza di (a). Aristotele dice che il modo in cui la conclusione è preconosciuta nella premessa maggiore non è quello che si può qualificare come una conoscenza propria (èpl«w: 71a28). Si avrebbe una conoscenza propria di (c) rispetto ad (a) se la conoscenza di (c) fosse presupposta alla conoscenza di (a). Se questa implicazione fosse vera, rileva Aristotele a prova della sua tesi, si cadrebbe nell’aporia del Menone platonico. Il riferimento è a 80D5-E5, dove si dice che non è possibile cercare né ciò che si sa già, perché non si cerca ciò che si sa già, né ciò che non si sa ancora perché, non sapendolo, non si sa nemmeno cosa cercare. In effetti se la conoscenza propria di (c) fosse prerequisita a quella di (a), per poter conoscere che ogni triangolo ha la proprietà 2R dovrei già sapere, di ogni triangolo particolare, che ha tale proprietà. Quindi prima di sapere (a) bisognerebbe già conoscere (a) e dunque si cercherebbe solo quel che già si conosce. Pertanto è solo in universale che la conoscenza di (c) è prefigurata in (a), nel senso che né dalla conoscenza di (c) segue quella di (a) né da quella di (a) quella di (c). Un rinvio all’aporia del Menone troviamo anche in APr. II 21, 67a21-26, dove è esaminata in termini simili; cfr. Gifford [1999].

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A questo punto Aristotele introduce una specie di parentesi per criticare il tentativo di soluzione dell’aporia del Menone proposta da alcuni non meglio identificati filosofi. Nella loro prospettiva la conoscenza di (a) non implica quella di (c) se si intende che conoscere (a) significhi sapere che tutte le cose che si conoscono essere triangoli hanno la proprietà 2R. È chiaro allora che in questa lettura la conoscenza di (a) non implica quella di (c), dato che nulla vieta che «la figura iscritta nella semicirconferenza» sia una di quelle delle quali non si sa che sono triangoli. Aristotele rigetta questa soluzione osservando che le proposizioni universali del tipo di (a), che sono quelle usate nella scienza, non contengono alcuna restrizione del dominio su cui varia il quantificatore universale a ciò che noi conosciamo essere di un certo tipo. Non diciamo che tutto ciò che noi conosciamo essere un triangolo ha la proprietà 2R, ma soltanto che tutto ciò che è un triangolo ha la proprietà 2R. Siccome le premesse sono assunte senza restrizioni la conoscenza che esse producono è pure senza restrizioni, e dunque le conclusioni devono essere assunte senza limitazioni. Di qui la conclusione che ribadisce la tesi iniziale: (c), e in generale le conclusioni delle deduzioni, sono contenute solo in potenza nelle loro premesse, ed in particolare in (a). Bibliografia: Ferejohn [1992]; [1991]; Gifford [2000]. CAPITOLO 2 71b10-11: TÆn t'afit¤an ofi≈meya gin≈skein. La traduzione ufficiale di afit¤a dovrebbe essere «causa». Ma essa è fuorviante qui, perché afit¤a si riferisce non soltanto a quello che oggigiorno intendiamo per «causa» (fondamentalmente quella che Aristotele chiamerebbe «causa efficiente»), ma anche a tutto ciò che può fungere da spiegazione di uno stato di cose o di un fatto, ovvero tutto ciò che risponde alla domanda «perché?». In considerazione di ciò alcuni autori hanno optato per «spiegazione» (p. es. Barnes, pp. 89-90), ma forse «ragione» è più generico e meno connotato in senso linguistico (cfr. Moravcsik [1975]). 71b9-16: Questa famosa definizione della conoscenza scientifica è riecheggiata in altri luoghi: APo. II 11, 94a20; Ph. I 1, 184a12-14; II 3, 194b18-20; Metaph. A 3, 983a25-26; a 2, 994b29-30 e richiama l’idea platonica secondo cui la conoscenza scientifica è un’opinione vera tenuta insieme dal «calcolo della causa» (Men. 98A e Barnes, p. 90). La definizione può essere parafrasata nel modo seguente: a conosce scientificamente X (dove «X» sta per una proposizione o per uno stato di cose) se, e solo se, a (i) conosce Y (una o più proposizioni ovvero i corrispondenti stati di cose), (ii) sa che Y è la ragione di X e (iii) sa che lo stato di cose X non può essere altrimenti, ovvero che la proposizione X è vera e necessaria. Sul significato di §piÄstasyai e sulla definizione della conoscenza, vedi la discussione in Barnes, pp. 89-93; quella in Detel, II pp. 53 sgg.; e poi Van Fraassen [1980]; Burnyeat [1981]; Taylor [1990]; McKirahan [1992]: 23 sgg.; Mendell [1998] [e l’introduzione di Barnes nel presente volume. N. d. C. ] 71b16-17: Se, come sembra, l’altro modo di conoscere scientificamente allude alla conoscenza dei principi immediati delle scienze, il riferimento è ad APo. I 3,

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72b18-25 e, soprattutto, ad APo. II 19. Cfr. anche GA II 6, 742b29-33 per un’analoga distinzione fra tipi di conoscenza scientifica. 71b19-23: Le sei caratteristiche delle premesse, o meglio, delle premesse in senso stretto (di quelle cioè che non possono fungere anche da conclusioni) delle dimostrazioni sono tradizionalmente divise in due gruppi: le prime tre riguardano le premesse considerate in se stesse (vere, prime, immediate); le seconde le premesse in relazione alle rispettive conclusioni (più note, anteriori e ragioni della conclusione). A queste ultime va aggiunta la condizione di essere principi appropriati della conclusione (b22-23), che sembra però derivare dalle precedenti. Si è dibattuto sulla differenza fra essere primo ed essere anteriore. Generalmente essere primo per una proposizione P viene identificato con il suo essere primitiva e P è primitiva se P rappresenta un principio non deducibile da altri principi della teoria, ossia è un’assunzione indipendente del sistema. Invece essere anteriore per P significa, come vedremo, essere più generale di una conclusione che da P deriva. Le due nozioni sono ovviamente distinte, dato che nulla vieta che P sia primitiva e tuttavia non anteriore ad altre proposizioni della teoria stessa (cfr. Barnes, p. 93). Più problematica è la distinzione fra essere primitivo ed essere immediato. A proposito di quest’ultima condizione va osservato che una proposizione è immediata non quando non sia deducibile da altre, ma quando è indimostrabile. Data una proposizione P è infatti sempre possibile trovare altre proposizioni da cui derivarla validamente. Non sempre è invece possibile trovare premesse dalle quali P sia dimostrabile, se tali premesse devono soddisfare le condizioni per la dimostrabilità, prima fra tutte quella della verità. In effetti, supponiamo che la proposizione da provare abbia la forma AaB. Se la dimostrazione di AaB deve essere sillogistica e se non si dà alcun termine che si predichi universalmente di B e sia tale che A si predichi universalmente di esso, allora AaB non è suscettibile di dimostrazione, nel senso che non ci sono premesse vere da cui dedurla. In questo senso l’immediatezza e l’indimostrabilità di una proposizione non dipendono dall’evidenza epistemica intrinseca della proposizione stessa, ma dalla condizione oggettiva di assenza di un termine medio (cfr. Smith [1982]: 125-126). In 71b27 Aristotele usa énapode¤ktvn mentre ci si aspetterebbe ém°svn e ciò fa pensare che egli tratti le due nozioni di immediatezza e indimostrabilità come equivalenti. Da un punto di vista moderno primitività e indimostrabilità sono due idee ben distinte, dato che non tutto ciò che è indimostrabile in una teoria è primitivo. La matematica per esempio conosce proposizioni indecidibili che non per questo sono primitive. In effetti una proposizione primitiva di una teoria non solo è indimostrabile in essa, ma ha anche uno statuto epistemico speciale, per il quale possiamo qualificarla come un principio o assioma della teoria. Aristotele tuttavia, pur riconoscendo alle proposizioni primitive il ruolo di principi (72a67), apparenta strettamente le nozioni di primitivo e immediato quando parla in 71b26-27 di pr≈tvn d'énapode¤ktvn (ciò fa pensare che le proposizioni indimostrabili che egli ha in mente siano proprio quelle primitive) e quando identifica le proposizioni primitive con i principi e definisce questi ultimi come proposizioni immediate (72a6-8).

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La menzione dell’appropriatezza dei principi (b23) probabilmente allude al fatto che i principi devono avere un collegamento con le rispettive conclusioni nell’ambito della scienza in cui le dimostrazioni sono istituite. Come si dirà in seguito, i principi della geometria non sono di per sé applicabili alle dimostrazioni aritmetiche e in questo senso non sono appropriati a questa disciplina (APo. I 7, 75b2 sgg.). 71b23-25: Sulla distinzione fra dimostrazione e sillogismo cfr. anche APr. I 1, 24a22 sgg.; 4, 25b26 sgg.; Top. I 1, 100a25 sgg. 71b25-26: Una possibile interpretazione è la seguente: (i) di ciò che è falso non ci può essere conoscenza scientifica; (ii) delle premesse delle dimostrazioni c’è conoscenza scientifica; dunque (iii) le premesse delle dimostrazioni sono vere (cfr. Barnes, p. 94). Per (i) cfr. anche APo. II 19, 100b5 sgg. La premessa (ii) va presa cum grano salis, perché non può voler dire che delle premesse dimostrative c’è sempre ed in ogni caso dimostrazione. Ne seguirebbe un regresso all’infinito che per Aristotele è impossibile. 71b26-29: L’argomentazione è molto densa e non del tutto chiara. Un possibile modo di intenderla è di pensare che sia una riduzione all’impossibile. La tesi da provare è che se P è una premessa dimostrativa allora è primitiva. Supponiamo dunque che P non sia primitiva. Bisogna allora che P sia dimostrabile. Aristotele fa allora intervenire il seguente principio generale: se una proposizione è dimostrabile, per averne conoscenza scientifica in senso proprio bisogna darne una dimostrazione. Ma P deve essere conosciuta scientificamente, in quanto principio della conoscenza scientifica della conclusione cercata. Dunque P deve essere dimostrata. A questo punto la reductio si interrompe senza menzionare in che cosa consista l’assurdo. Potremmo completare la prova congetturando che Aristotele tralasci di ricordare che se anche le premesse da cui P deriva non sono primitive, anche di esse si dovrà dare una dimostrazione. E così di seguito all’infinito. Siccome Aristotele esclude la possibilità di un regresso infinito dobbiamo concludere che P o almeno le premesse da cui P in ultima analisi deriva siano primitive. Ciò che lascia perplessi in questa ricostruzione è, da un lato, che Aristotele non menzioni qui l’impossibilità del regresso, che dovrebbe costituire il clou della prova e, dall’altro, che non sia mai esplicitata la possibilità di catene deduttive dimostrative nelle quali, evidentemente, non tutte le premesse hanno il requisito di essere primitive, ma solo quelle all’inizio della catena. Aristotele offre un quadro più sofisticato e consapevole di questa situazione in Top. I 1, 100a25 sgg. 71b29-72a5: Il passo è tutt’altro che chiaro. Aristotele considera le caratteristiche delle premesse dimostrative relative alle conclusioni. Che le premesse debbano esprimere la ragione della conclusione è facile da capire, se si pensa che le premesse sono quelle che producono la conoscenza scientifica della conclusione e la conoscenza scientifica richiede che sia manifestata la ragione dello stato di cose cercato. Più difficile è comprendere che cosa significa che le premesse debbano essere anteriori e più note della conclusione. Per quanto riguarda l’anteriorità Aristotele asserisce che essa dipende dal fatto che le premesse esprimono la ra-

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gione della conclusione. Com’è ben noto, Aristotele distingue vari tipi di anteriorità (cfr. ad es. Metaph. D 11): l’associazione con il requisito della maggiore notorietà farebbe pensare che sia in questione l’anteriorità conoscitiva: P è conoscitivamente anteriore a Q se la conoscenza di Q presuppone quella di P (ma bisognerebbe specificare bene che cosa significa in questo contesto «presuppone»). Siccome la conoscenza scientifica di una conclusione presuppone quella delle premesse la conoscenza delle premesse è anteriore a quella della conclusione. Tuttavia il fatto che le premesse siano dette anteriori alle conclusioni in quanto ragioni di queste farebbe piuttosto pensare ad una anteriorità di tipo logico e fondazionale, cioè basata su relazioni tra fatti e non tra conoscenze. Le righe 71b31-33 sono problematiche: la condizione che le premesse siano preconosciute alla conclusione in entrambi i sensi distinti in APo. I 1, 71a17 sgg., dovrebbe essere una glossa al requisito della maggiore notorietà. Ma non si comprende come quest’ultima possa essere spiegata dalla preconoscenza. Barnes, p. 96, ha avanzato una congettura per risolvere il problema: rimuovere la virgola dopo a‡tia in ka‹ prÒtera, e‡per a‡tia, ka‹ proginvskÒmena e quindi intendere ka‹ proginvskÒmena come dipendente da e‡per, in modo che questa clausola non riguardi la maggiore notorietà delle premesse ma fornisca invece una parte della giustificazione della loro anteriorità. Questa diversa scansione della frase, che mi pare condivisibile, conferma che l’anteriorità discussa qui è anche di tipo conoscitivo: in una dimostrazione la conoscenza dell’insieme P delle premesse che danno luogo alla conclusione C è dunque anteriore a quella di C perché P costituisce la ragione di C e P è conosciuto prima di C. Quello che non è del tutto chiaro è come si deve intendere il requisito della preconoscenza. Se esso richiede che la conoscenza di P debba temporalmente precedere quella di C, la tesi sembra troppo forte, perché le due conoscenze possono essere concomitanti; si dovrà piuttosto rovesciare, e dire che la conoscenza di C non può precedere quella di P. Nel rilevare che le premesse devono essere anteriori e più note della conclusione Aristotele ricorda che queste condizioni possono essere intese in due sensi: per natura o per noi (71b33 sgg.). La distinzione fra più noto per natura e più noto per noi si incontra anche altrove (APr. II 23, 68b35-37; Top. VI 4, 141b3 sgg.; Ph. I 1, 184a21-26; 5, 189a2-9; Metaph. D 11, 1018b29-34; Z 3, 1029b3-12; EN I 4, 1095b24) ed è stata oggetto di interpretazioni contrastanti. C’è chi (Barnes, pp. 96-97; McKirahan [1992]: 30-31) ha addirittura pensato che Aristotele neghi la possibilità di definire che cosa sia «essere più noto per noi», sulla base di Top. VI 4, 141b36 sgg. Ma in quel passo Aristotele non dice nulla contro la possibilità di definire la nozione, limitandosi a sottolineare che le cose che sono di volta in volta considerate più note per noi variano a seconda delle persone coinvolte e del tempo. Il fatto che a consideri X più noto per noi e che b lo neghi non necessariamente dipende dal fatto che non c’è una precisa definizione di «essere più noto per noi» (e si noti invece il tono definitorio di l°gv d¢ prÚw ≤mçw m¢n prÒtera ka‹ gnvrim≈tera ad APo. I 2, 72a1-2). Una possibile interpretazione della distinzione è la seguente: P è più noto per natura di Q se la conoscenza di Q che ne offra la spiegazione scientifica presuppone la conoscenza di P. Invece P è più noto di Q per noi se la conoscenza induttiva di Q (ossia la conoscenza che procede da ciò che è meno universale a ciò che è più universale) presuppone quella di P. Questo modo di intendere le cose spiega per-

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ché Aristotele dica che ciò che è più noto per natura sia più universale e ciò che è più noto rispetto a noi sia più vicino all’ambito della percezione. Un altro problema è se vi sia una distinzione fra la condizione di essere anteriore e quella di essere più noto. Per una proposizione la caratteristica di essere più nota di un’altra (almeno nel caso del più noto per natura) sembra essere una caratteristica oggettiva, che dipende dalla natura delle proposizioni in questione, essendo legata al loro grado di universalità e particolarità, come anche al loro grado di attendibilità concettuale (su questo punto Aristotele tornerà nella parte finale del capitolo: 72a25 sgg.). In questa prospettiva la condizione di essere più nota per natura e quella di essere anteriore sono strettamente apparentate. Sulla distinzione si veda Mansion [1984]: 213-222. 72a5-7: I principi appropriati sono quelli che forniscono una giustificazione adeguata del principiato e le premesse dimostrative sono tali perché forniscono la ragione della conclusione e insieme sono primitive. 72a7-14: Abbiamo qui una serie di definizioni di alcuni termini che poco hanno a vedere con quanto precede e contengono qualche stranezza. La più vistosa riguarda la traduzione e definizione di prÒtasiw. Nella sua prima occorrenza, nella definizione di principio della dimostrazione (a7), sembra legittimo tradurre prÒtasiw con «premessa», ma la successiva caratterizzazione del termine fa pensare che qui abbia il significato di «proposizione». Entrambi i significati sono testimoniati in Aristotele, ma qui sembrano sovrapporsi all’interno dello stesso passo. Inoltre, come aveva già notato Solmsen [1929]: 99 n. 4, la definizione di prÒtasiw del testo tràdito è incongrua, dato che in esso si dice che è l’una o l’altra parte di un’enunciazione (épÒfansiw), la quale a sua volta è definita, in 72a1112, come l’una o l’altra parte di una contraddizione. Colli, pp. 893-896, e Barnes, p. 98, hanno ragione ad emendare épofãnsevw in éntifãsevw. La stessa lezione è necessaria anche alla riga 19, e in quel caso è adottata anche da Ross. In questo modo prÒtasiw e épÒfansiw divengono sinonimi. La definizione di contraddizione (éntiÄfasiw) come quell’opposizione che non ammette intermedi è consueta (Metaph. I 7, 1057a34-36; 4, 1055b1-2; G 7, 1011b23-24). Il fatto di non ammettere intermedi contraddistingue l’opposizione contraddittoria da quella di contrarietà (Ph. V 3, 227a7-10). In effetti due proposizioni contraddittorie, a differenza di quelle contrarie, non possono essere insieme false (Int. 7, 17b16 sgg.), appunto perché non ammettono intermedi. La caratterizzazione delle premesse dialettiche e dimostrative trova una più espansa formulazione in APr. I 1, 24a16 sgg. La premessa dialettica «assume indifferentemente l’una o l’altra parte» di una contraddizione perché i punti di partenza del procedimento dialettico dipendono da quel che l’avversario ha concesso a seguito delle domande del suo interlocutore. Sulla nozione di enunciazione si veda anche Int. 4, 16b33 sgg. 72a14-24: Vengono definiti alcuni termini, e precisamente (i) y°siw, posizione, (ii) éj¤vma, assioma, (iii) ÍpÒyesiw, presupposizione, (iv) ırismÒw, definizione. Y°siw nella terminologia di Aristotele ha almeno due significati: in un senso è il punto di vista sostenuto da qualcuno, o il risultato di un’argomentazione, in-

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somma la «tesi» che si vuole provare o si è già provata (cfr. ad es. APr. I 25, 42a40; Top. II 1, 109a9; IV 2, 123a4 ecc.); in un altro senso è la premessa di un’argomentazione o di un discorso, il suo punto di partenza (cfr. APr. II 14, 62b31; 17, 65b8; Top. I 14, 105b11 ecc.). Qui il sostantivo è evidentemente preso nel secondo significato e ho quindi evitato di renderlo con «tesi», inventando il brutto «posizione». La sua definizione è formulata in modo ridondante, perché la prima clausola, quella dell’indimostrabilità, è già inclusa nel fatto che la posizione è un principio immediato. La seconda clausola si capisce se la si contrasta con la definizione di assioma, ma, a quanto mi è dato di sapere, non ha altri riscontri nel Corpus Aristotelicum. Una posizione è dunque un principio la cui conoscenza non è richiesta per l’apprendimento di qualunque cosa, mentre i principi implicati nella conoscenza di qualunque cosa sono gli assiomi. Anche qui ci troviamo di fronte ad un uso peculiare di éj¤vma, praticamente ristretto ai principi logici (Metaph. B 1, 997a11), mentre altrove il termine ha un significato molto più ampio, potendo indicare semplicemente una premessa (Top. VIII 1, 156a23; SE 24, 179b14), o anche, nell’associazione con ¶ndojon, una proposizione facilmente concedibile perché generalmente ammessa (APr. II 11, 62a13). In ogni caso il fatto che i principi comuni, nella loro distinzione da quelli propri, siano talvolta chiamati da Aristotele koinå éji≈mata (76b14) non deve indurre a credere che la distinzione fra posizioni e assiomi qui presentata ricalchi quella fra principi propri e principi comuni di APo. I 10, 76a37 sgg., nonostante alcune evidenti assonanze (in part. 76b14-15). Lì infatti l’essere proprio o comune per un principio dipende dalla sua utilizzabilità rispettivamente in una o in più scienze; qui invece la distinzione è giocata sull’essere o meno implicato in ogni conoscenza. In effetti un tipico principio comune nel senso di APo. I 10, «togliendo da uguali uguali restano uguali» (76a41; 76b20-21), non soddisfa la presente definizione di assioma. Sulla base delle definizioni qui offerte «togliendo da uguali uguali restano uguali» sembrerebbe dover essere classificato piuttosto come una y°siw. Va da sé che l’apprendimento di cui si parla nelle definizioni di y°siw e éjiÄvma non è un qualunque apprendimento, ma un apprendimento qualificato, quello che è correlato all’insegnamento, alla didaskaliÄa (cfr. APo. I 1, 71a1-2). Insomma si tratta dell’apprendimento (e dell’insegnamento) di una scienza, la quale è strutturata in dimostrazioni. Si capisce allora in che senso gli assiomi siano prerequisiti a qualunque conoscenza scientifica. Siccome essi possono essere utilizzati in qualunque scienza, colui il quale apprende una scienza deve essere preparato ad incontrarli e quindi a riconoscerli. In questo senso egli deve conoscerli già. La parte più difficile del passo riguarda la distinzione fra presupposizione e definizione, le due specie in cui il genere y°siw è diviso. Innanzitutto la presupposizione è definita in tutt’altro modo in APo. I 10, 76b27-30. Inoltre non è ben chiaro come debba essere contrapposta qui alla definizione. La traduzione che abbiamo adottato suggerisce che le presupposizioni siano proposizioni che affermano l’esistenza o la non esistenza di qualcosa. Ad esse vanno contrapposte le definizioni, che sono proposizioni che attribuiscono un definiens ad un definiendum. Tuttavia il greco potrebbe essere reso in un altro modo, che non comporta necessariamente un riferimento all’esistenza per le presupposizioni. In effetti espressioni come l°gv tÚ e‰na¤ ti μ tÚ mØ e‰na¤ ti (72a20) o come tÚ e‰nai monãda (72a23-24)

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potrebbero essere rese anche con «dico che qualcosa è qualcosa o non è qualcosa» (in cui ti ha funzione predicativa, e‰nai è copulativo e il soggetto della proposizione è sottinteso) e con «qualcosa è un’unità» (Gomez-Lobo [1977]: 434-435). A questa traduzione si potrebbe essere indotti dalla lettera della definizione di presupposizione, giacché in essa si dice che la presupposizione è quella posizione che «assume una qualunque delle parti della contraddizione», e solo a mo’ di spiegazione o di esemplificazione (oÂon l°gv: 72a20) viene aggiunta quella parte che potrebbe essere interpretata in termini d’esistenza. Ma se si intendono le presupposizioni semplicemente come proposizioni immediate, non si capisce più come possano essere contrapposte alle definizioni, le quali pure sono proposizioni, essendo posizioni e dunque principi sillogistici immediati. Il loro essere classificate come proposizioni esclude che le definizioni qui siano da identificare con i definientia, come si potrebbe immaginare visto che ırismÒw ha talvolta questo significato (ad es. Metaph. Z 12, 1037b29-31). Infatti un definiens è un termine e non una proposizione (cfr. Int. 5, 17a11-15; APo. II 3, 90b34-35; Top. VI 6, 144a28-36). D’altro canto non c’è nemmeno ragione di credere che Aristotele concepisse le definizioni, o un tipo di esse, come espressioni non veritative distinte dalle proposizioni, che hanno un valore di verità (così ad es. Hintikka [1972]: 68). Le definizioni infatti possono comparire come premesse nelle dimostrazioni senza restrizioni di sorta (ad es. APo. II 17, 99a21-22; 3, 90b24; I 8, 75b30-32). Infine è difficile credere che la distinzione fra presupposizioni e definizioni sia analoga a quella che passa fra predicare e definire. È vero che attribuire un termine ad un altro è diverso da porre la definizione di qualcosa, ma non sembra che sia per questo che Aristotele qui contrappone le presupposizioni alle definizioni. In effetti definire si distingue da predicare perché è un modo particolare di predicare. Qui invece la definizione è separata dalla presupposizione per il fatto di non avere qualcosa che la presupposizione ha. La caratteristica che la definizione non ha e che invece la presupposizione possiede sembra essere allora quella di asserire l’esistenza o la non esistenza di qualcosa. Va da sé, sia detto per inciso, che il fatto che una definizione non asserisca l’esistenza di qualcosa non pregiudica assolutamente la questione del suo avere o non avere un importo esistenziale. In conclusione, nonostante la lettera della definizione di presupposizione, sono incline a pensare, sia pure con qualche esitazione, che la distinzione fra presupposizioni e definizioni sia qui, come vuole la tradizione, quella che intercorre fra proposizioni esistenziali e proposizioni che attribuiscono un definiens ad un definiendum (cfr. Landor [1981]: 308-313; Charles [2000]: 72-76 e pace GomezLobo [1980]: 72-89). 72a25-32: La migliore conoscenza di una proposizione di cui si parla qui (a28-29: «conoscerle meglio», alla lettera «conoscerle di più») dipende probabilmente dal suo grado di affidabilità (cfr. McKirahan [1992]: 34-35). Le premesse delle dimostrazioni sono meglio conosciute delle rispettive conclusioni nel senso che sono più affidabili, ossia sono quelle che uno scienziato non è mai disposto, in linea di principio, a mettere in discussione. Per provare l’assunto Aristotele introduce un principio che, nella sua formulazione più vicina alla lettera del testo, può essere parafrasato così: se a è F in ragione di b allora b è F a maggior titolo di a. Tale principio è formulato anche in Metaph. a 1, 993b24-27 in termini assai simili.

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In base ad esso, siccome la certezza delle conclusioni dipende da quella delle premesse, le premesse devono essere meglio conosciute delle conclusioni. Naturalmente l’argomento dipende da un principio che così com’è formulato non sembra molto attendibile: ciò per cui rido è una barzelletta, quindi la barzelletta ride più di me. Per ovviare a questa difficoltà alcuni hanno proposto di leggere il principio nel modo seguente: se il fatto che a sia F dipende dal fatto che b è F allora b è F a maggior titolo di a. Ma anche con questa restrizione restano problemi, perché F potrebbe essere tale da ammettere gradazioni (una discussione del problema in Barnes, pp. 101-102). Comunque sia, l’idea di Aristotele sembra essere che le premesse P di una conclusione C sono meglio conosciute, ossia più affidabili, di C perché è in virtù di esse che C diviene a sua volta affidabile. A rigore l’argomento prova una tesi più debole e cioè che C non può avere un grado di affidabilità superiore a quello di P. 72a32-37: L’argomento non è volto a provare che le premesse dimostrative sono più note delle rispettive conclusioni. Il gãr che introduce la frase di 72a36-37 lo esclude, dato che questa proposizione dovrebbe costituire la conclusione del ragionamento. Piuttosto si tratta di un tentativo di provare che le premesse sono preconosciute alle conclusioni sulla base del fatto che sono più note di esse. Abbiamo a che fare con una riduzione all’impossibile. Supponiamo che P, l’insieme delle premesse di una dimostrazione, sia più certo della conclusione C e non sia preconosciuto ad essa. Secondo Aristotele, se P non è preconosciuto allora è ignorato. Ma X non può essere più certo di Y che è oggetto di conoscenza scientifica senza essere o anch’esso conosciuto scientificamente o addirittura attinto in un modo ancora più sicuro. Dunque P non può non essere preconosciuto rispetto a C. L’argomentazione in realtà non prova che P debba essere preconosciuto a C, ma semmai che non può non essere oggetto di un atto di conoscenza distinto da quello che conduce all’attingimento di C. La disposizione migliore con la quale si acquisirebbero i principi è l’intellezione, il noËw, come risulta da APo. II 19, 100b8-9. 72a37-72b4: Il greco è ambiguo e sono possibili differenti letture. Si potrebbe tradurre: «ma anche nessun altra delle cose che sono opposte ai principi dai quali procede la deduzione dell’errore contrario può essere più nota e convincente per lui», ma in questo caso «le cose opposte ai principi» sono i veri principi e quindi non si vede come questo asserto differisca dal precedente. Un’altra possibilità è: «ma anche nient’altro può essere più noto e convincente per lui delle cose che sono opposte ai principi e dalle quali procede la deduzione dell’errore contrario». La versione qui adottata sembra la meno implausibile, anche se il suo contenuto non può non destare perplessità. Bibliografia: Zeuthen [1896]; Scholz [1930-1931]; Evans [1958-1959]; Wilkins [1970]; Kosman [1973]; Kullmann [1974]: 172-179; Guerriere [1975]; Moravcsik [1975]; Lloyd [1976]; Gomez-Lobo [1977]; [1980]; Van Fraassen [1980]; [1981]; Burnyeat [1981]; Landor [1981]; Leszl [1981]; Knorr [1983]; Matthews [1986]; Matthen [1987]; Wians [1989]; Freeland [1991]; McKirahan [1992]; Perreiah [1993]; Ferejohn [1994]; Hintikka [1996]; Hankinson [1998]; Mendell [1998].

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CAPITOLO 3 72b5-15: Aristotele considera due possibili reazioni alla tesi, discussa nel capitolo precedente, secondo cui la conoscenza scientifica della conclusione di una dimostrazione implica quella delle premesse da cui dipende. Sulla base di questa idea alcuni hanno concluso che la conoscenza scientifica è impossibile, altri che c’è dimostrazione di tutto. Quel che i due gruppi condividono è l’assunzione che la conoscenza scientifica coincida con quella ottenuta per dimostrazione. Il primo gruppo è di solito identificato con la scuola di Antistene (cfr. Maier [1896-1900]: IIb, 15 n. 2; Ross, pp. 513-514). L’argomento sviluppato da costoro è, secondo Aristotele, il seguente. (i) Conoscere scientificamente una conclusione C implica conoscere scientificamente le premesse da cui C dipende. Ma (ii) conoscere scientificamente tali premesse implica che vi devono essere altre premesse da cui quelle premesse dipendono e che anche queste, non meno di quelle, devono essere conosciute scientificamente per dimostrazione. (iii) Si genera allora una successione infinitamente grande di premesse e ciascun elemento della serie è richiesto per la conoscenza di C. (iv) Ciò è impossibile perché l’infinito non può essere attraversato. (v) D’altra parte se ci si limita a considerare un segmento finito della serie di premesse da cui dipende C, tale segmento è sì dominabile conoscitivamente, ma non dà luogo alla conoscenza scientifica di C, dato che le premesse da cui si parte non sono a loro volta conosciute scientificamente, non essendo dimostrate. Sul punto (iv) Aristotele concorda: così come non è possibile per un corpo finito attraversare in un tempo finito una distanza infinita (Cael. I 5, 272a3; Ph. VI 7, 238a33), la mente umana non può padroneggiare una sequenza infinita di conoscenze (Metaph. a 2, 994b16 sgg.). Contro la pretesa di avere dimostrazione di tutto Aristotele argomenta anche altrove (cfr. ad es. Metaph. G 4, 1006a5-9; 6, 1011a3-13). 72b15-18: La seconda posizione è identificata da Cherniss [1944]: 64-68 con quella di Senocrate (ma contro vedi Barnes [1976]: 278-292). Essa condivide con la precedente la tesi per cui la conoscenza scientifica è ottenuta solo per dimostrazione, ma da ciò non conclude che la conoscenza scientifica è impossibile, perché sostiene che si può dare dimostrazione di tutto senza andare all’infinito usando prove circolari. Aristotele teorizza in APr. II 5-7 l’interpretazione sillogistica delle argomentazioni circolari. Nella sua formalizzazione tuttavia esse non sempre danno luogo ad una vera e propria circolarità. Dalla discussione che segue l’idea di procedimento circolare che Aristotele ha in mente è quello che emerge dal considerare per esempio una conclusione C la quale è provata a partire da una premessa P1. Questa a sua volta è provata in base a P2, P2 in base a P3 e cosí di seguito fino a Pn che è provata in base a C. 72b22: ÜIstatai d° pote tå êmesa taËt'énapÒdeikta énãgkh e‰nai. Va senz’altro seguita la proposta di Solmsen [1929]: 104 n. 2, accettata anche da Colli, p. 897, Verdenius [1981]: 346; e Barnes, p. 5, di mettere una virgola dopo pote e non, come fanno gli editori, dopo êmesa. 72b18-25: Alle posizioni della scuola di Antistene e di quella di Senocrate Aristotele contrappone la propria tesi, che consiste nel negare il presupposto comu-

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ne ad entrambe, vale a dire l’idea che ogni conoscenza scientifica possa essere ottenuta solo per dimostrazione. Il suo argomento è il seguente: (i) la conoscenza scientifica della conclusione di una dimostrazione presuppone la conoscenza scientifica delle sue premesse; (ii) queste a loro volta possono richiedere altre premesse che le giustifichino, ma ad un certo punto bisogna fermarsi a premesse immediate; (iii) tali premesse sono indimostrabili. (iv) In quanto principi di conoscenza delle rispettive conclusioni esse devono essere acquisite in un modo diverso da quello dimostrativo. L’allusione all’intellezione, al noËw, è fuori discussione. Suscita perplessità l’ipotesi che questo sia un argomento diretto contro la posizione dei filosofi del primo gruppo, quelli che negano l’esistenza della dimostrazione. In effetti esso funziona solo se si riconosce preliminarmente che si dà conoscenza scientifica per dimostrazione. È per non smentire questo, che si ritiene già un dato di fatto, che bisogna supporre che sia possibile pervenire alla conoscenza di immediati e che tale conoscenza sia tanto qualificata da garantire quella che si ottiene per dimostrazione. Pace Barnes, p. 107 e McKirahan [1992]: 28, è difficile credere che l’espressione √ toÁw ˜rouw gnvr¤zomen (b24-25) alluda alla conoscenza delle definizioni, perché qui sono in gioco i principi delle dimostrazioni in un senso più ampio, comprensivo dei tipi distinti nel capitolo precedente (72a7 sgg.). L’esegesi più probabile resta allora quella per la quale gli ˜roi sono le proposizioni che stanno alla fine del processo di giustificazione di una conclusione scientifica («the limiting propositions» secondo Ross, p. 512). Di qui la mia traduzione «limiti». Per ˜row nel senso di proposizione che funge da principio cfr. ad es. EN VI 12, 1143a36. 72b29-32: Aristotele propone una prima obiezione contro i sostenitori delle dimostrazioni circolari. Quel che è essenziale in una catena dimostrativa circolare è che la stessa proposizione compaia come premessa e come conclusione. Ma, come è stato detto nel capitolo precedente (71b29 sgg.), le premesse devono essere anteriori e più note delle rispettive conclusioni. Ma allora una stessa proposizione si troverebbe ad essere epistemicamente anteriore e posteriore, il che è impossibile. A questo punto Aristotele sembra lasciare una scappatoia al suo avversario, il quale potrebbe sostenere che nella dimostrazione circolare la stessa proposizione è anteriore e posteriore in due modi diversi, e precisamente in senso assoluto e rispetto a noi. Insomma, si potrebbe sostenere, la conclusione C è posteriore alle sue premesse in senso proprio ed anteriore rispetto a noi. A quest’implicita obiezione Aristotele risponde dicendo che se si dovesse ammettere nelle dimostrazioni anche la priorità rispetto a noi, bisognerebbe sostenere che la definizione di conoscenza scientifica non è appropriata e che vi sono almeno due significati diversi di «conoscenza scientifica». Se non si vuole seguire questa strada, bisogna concludere che i procedimenti deduttivi in cui le premesse siano più note e anteriori rispetto a noi relativamente alla conclusione non sono vere e proprie dimostrazioni. Aristotele sembra preferire qui questa via, anche se altrove egli pare riconoscere alle cosiddette dimostrazioni ˜ti, in cui le premesse non hanno una priorità naturale rispetto alle conclusioni, in quanto procedono dagli effetti alle cause, il ruolo di veri e propri procedimenti produttivi di conoscenza scientifica (cfr. ad es. APo. I 13, 78a22 sgg.). Ma, come vedremo, la definizione

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di conoscenza scientifica di APo. I 2 subirà nel corso della trattazione più di uno stiracchiamento. 72b32-73a6: L’argomentazione di Aristotele è interessante anche se è dubbio che essa raggiunga lo scopo che si prefigge. L’idea è che una dimostrazione circolare consiste nell’affermare soltanto «se A, allora A» e ciò ovviamente non può contare come una dimostrazione di A. Per provare ciò egli osserva preliminarmente che non è rilevante il numero di proposizioni che entrano in gioco in una catena circolare, per cui possiamo considerare quella più semplice, che egli esprime con la formula: «se A, allora B e se B allora A». Va da sé che le lettere qui usate stanno per proposizioni e non, come avviene il più delle volte nella sillogistica, per termini. Ciò significa che nella formula toË A ˆntow énãgkh tÚ B e‰nai, il verbo e‰nai non ha significato esistenziale, ma di «è il caso», «si dà». Inoltre, anche se viene naturale svolgere la costruzione aristotelica in un condizionale, non è detto che egli avesse in mente questo rapporto. In realtà quel che è in questione qui è la deduzione di B da A e Aristotele esprime talvolta questo rapporto nei termini di un condizionale. Ciò comporta che potremmo essere autorizzati a tradurre la prova circolare anche con: «da A si deduce B e da B si deduce A». Usiamo il più vago «A implica B» per rappresentare la relazione che Aristotele esprime con il participio seguito da un verbo in tempo finito. Lo schema di prova circolare che egli considera è quindi il seguente: (1) A implica B e B implica A Aristotele considera ora il caso in cui A implichi B, B implichi C. Da queste premesse siamo autorizzati a dedurre che A implica C, ossia (2) A implica B, B implica C; dunque A implica C Aristotele suggerisce di identificare in (2) C con A. Allora le premesse di (2) divengono: «A implica B, B implica A», che altro non sono che lo schema circolare (1), e la conclusione è: «A implica A». Di conseguenza da (1), e in generale da ogni prova circolare, si deduce che «A implica A». Ma, secondo Aristotele, se la prova circolare consiste nello stabilire che A, se A, non può aspirare ad essere concepita come una dimostrazione. In realtà la conclusione che Aristotele trae non segue dalle premesse. Dal fatto che ogni prova circolare coinvolga l’affermazione di «A implica A» non segue che ogni prova circolare consista soltanto in questo (cfr. Barnes, p. 109; Lear [1980]: 80-82). Per altro l’argomentazione di Aristotele è interessante perché sembra configurarsi come un ragionamento in cui una lettera viene sostituita da un’altra lettera (cfr. Hagdopoulos [1975a]). Senza entrare nel difficile problema della determinazione del ruolo delle lettere nella logica di Aristotele, è certo che il passo in questione pesa dalla parte del concepirle come variabili più che dalla parte del considerarle semplici abbreviazioni. 73a6-11: Il riferimento potrebbe essere a APr. I 25, ma l’idea dipende dalla definizione di sillogismo di APr. I 1. Qui y°siw vale certamente «premessa» e l’idea di Aristotele è quella che troviamo ripetuta in altri luoghi (ad es. APr. I 15, 34a1719), secondo la quale da una sola premessa non si deduce nulla sillogisticamente. Meno chiara è l’affermazione secondo cui non si ottiene una conclusione sillogi-

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stica se è posto un solo ˜row (73a9). Se dobbiamo dare a questa parola il significato di «termine», come la sua distinzione da y°siw lascia presumere, possiamo supporre che Aristotele alluda al caso di un’inferenza del tipo di (1) AaA, AaA  AaA che non è sillogistica, perché la conclusione non è diversa (ßteron: 73a8-9) dalle sue premesse. 73a6-20: Aristotele ritorna qui a considerare le lettere come sostituti per termini e fa un preciso riferimento alla sua trattazione dei sillogismi circolari di APr. II 57. Per spiegare la sua posizione consideriamo un esempio semplice di circolo sillogistico. Prendiamo tre proposizioni del tipo di AaB, BaC e CaA. È chiaro che possiamo costruire le seguenti inferenze in Barbara: (1) AaB, BaC  AaC (2) BaC, CaA  BaA (3) CaA, AaB  CaB Dalle conclusioni di queste inferenze prese a coppie otteniamo le premesse di partenza, di modo che abbiamo il circolo: (4) AaC, CaB  AaB (5) BaA, AaC  BaC (6) CaB, BaA  CaA Da ciò risulta evidente che tutti i termini implicati nel circolo sono fra loro convertibili, ossia equiestesi: AaB vale se e solo se vale BaA. Come osserva Aristotele, questa è la situazione dei «propri» rispetto ai loro soggetti, dato che ad esempio «capace di ridere», che è un proprio di «uomo», dà luogo alle proposizioni equivalenti «ogni uomo è capace di ridere» e «ogni capace di ridere è un uomo» (per la definizione del proprio cfr. Top. I 5, 102a18 sgg. e Verbeke [1968] e Barnes [1970]). Aristotele sostiene che in seconda e in terza figura non si possono dare circoli sillogistici completi, perché in seconda figura una premessa è sempre negativa e da due premesse negative non si conclude sillogisticamente, e perché in terza figura una premessa è sempre particolare e due premesse particolari non generano un sillogismo. Data la convertibilità dei termini delle proposizioni implicate, quel che può avvenire in alcune combinazioni in seconda e terza figura è di ottenere comunque un sillogismo, ma che «non è relativo alle cose assunte», nel senso che fa uso di speciali premesse che non entrano nel circolo. Bibliografia: Barnes [1976]; Irwin [1988]: 125-133. CAPITOLO 4 73a21-24: L’argomento è tutt’altro che chiaro. Aristotele esordisce affermando che ciò che è oggetto di conoscenza scientifica non può essere diverso da come è (un’evidente ripresa della definizione di conoscenza scientifica di APo. I 2, 71b9 sgg.) e da ciò egli ricava che (i) «le conclusioni delle dimostrazioni devono essere proposizioni necessarie». L’ulteriore passo è che (ii) «anche le premesse delle

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dimostrazioni devono essere proposizioni necessarie». Non è ben chiaro come avvenga il passaggio da (i) a (ii). Zabarella, 698C, sfrutta l’idea che le conclusioni delle dimostrazioni dipendono dalle rispettive premesse per cui le caratteristiche delle conclusioni devono essere già presenti nelle premesse. Si tratterebbe in altri termini di un’altra applicazione del principio di APo. I 2, 72a29-30 in base al quale si dimostrava che le premesse devono essere più convincenti delle rispettive conclusioni. Ma non è affatto detto che dal richiamo ad un simile oscuro principio l’argomento di Aristotele acquisti in chiarezza e plausibilità. Una spiegazione alternativa potrebbe essere la seguente. Se C è la conclusione di una dimostrazione che ha come premesse P1 e P2, allora, siccome C è necessaria, anche P1 e P2 devono essere necessarie. Ma questa interpretazione parrebbe smentita da APo. I 6, 75a1 sgg.: la necessità, come la verità, non sempre si trasmette dalla conclusione alle premesse di una procedimento deduttivo. Si potrebbe forse rispondere che il passo di APo. I 6 in realtà non è inconsistente con quanto si afferma qui. È vero che la necessità di C non implica di per sé quella di P1 e di P2. Ciò non toglie però che le premesse ci assicurano che la conclusione è necessaria solo se sono anch’esse necessarie. È propriamente questo fatto a garantire il passaggio da (i) a (ii). 73a24-25: Un’altra possibile traduzione è: «da quali proposizioni e di che tipo procedono le dimostrazioni». 73a28-34: La definizione di ciò che è o si dice di ogni, ossia appunto la definizione di predicazione universale affermativa, è per più di un verso curiosa. Innanzitutto va osservato che essa, a rigore, non definisce soltanto la predicazione universale affermativa, ma anche quella negativa, la quale pure soddisfa la condizione per cui il predicato si dice «non di qualcuno sì e di qualcuno no» e «talvolta sì e talvolta no». Inoltre la presente caratterizzazione è anomala rispetto a quella che troviamo in APr. I 1, 24b28-30. Lì predicarsi di ogni era definito in termini che ricordano da vicino la caratterizzazione moderna: A si predica di ogni B se non c’è alcun B che non sia A. Qui invece abbiamo una definizione più restrittiva, perché alla condizione espressa nell’altra definizione si aggiunge anche che A si deve predicare di ogni B onnitemporalmente. Su questa discrepanza gli interpreti hanno discusso a lungo. Alcuni hanno fatto osservare che essa è meno grande di quel che sembra a prima vista, perché in APr. I 15, 34b7 sgg. Aristotele avverte che le premesse sillogistiche universali non devono essere prese con una limitazione temporale, anche se poi, nella pratica egli fa uso di tali proposizioni per illustrare certe combinazioni di premesse (v. ad es. APr. I 9, 30a28 sgg.). Comunque sia, Aristotele trova una conferma della sua definizione osservando che le obiezioni ad una proposizione universale affermativa consistono nel provare che il predicato o non è vero di qualcuno degli individui di cui il soggetto è vero, oppure non è sempre vero del soggetto. Si noti che in APr. II 26, 69b5 sgg., dove viene ex professo considerata l’obiezione ad un proposizione universale, quest’ultima possibilità non è menzionata. 73a40-73b1: «Pari» e «dispari» sono proprietà dei numeri (naturali), non meno di «primo» e «composto» o «equilatero» e «oblungo». In effetti nella terminologia pi-

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tagorica i numeri «equilateri» o «quadrati» erano quelli formati da un numero tale di punti da dare luogo ad un quadrato, mentre gli altri erano numeri «oblunghi». 73a34-b5: Aristotele distingue qui due usi di «per sé». Secondo l’interpretazione tradizionale, A si dice per sé di B in un primo senso se, e solo se, A è vero di ogni B e A fa parte dell’essenza (e definizione) di B. Invece A si dice per sé di B in un secondo senso se, e solo se, A è vero di ogni B e B fa parte dell’essenza (e definizione) di A. Nonostante la sua chiarezza, questa esegesi mal si accorda con gli esempi forniti da Aristotele. Infatti, per illustrare il primo modo di per sé, egli ricorre al rapporto della linea col triangolo e del punto con la linea. Ma sicuramente egli non avrebbe acconsentito a dire che «ogni triangolo è una linea» e che «ogni linea è un punto». Zabarella, 702A, invita a prendere gli esempi «sano modo» e ad intenderli nel senso di «ogni triangolo è costituito da linee» e «ogni linea è limitata dal punto». Quest’interpretazione potrebbe trovare conferma nell’osservazione di Aristotele secondo la quale lo Ípãrxein schematizza predicazioni non solo dirette, ma anche in obliquo (APr. I 36, 48a40 sgg.). Inoltre gli esempi di per sé del secondo tipo danno luogo a predicazioni universali vere solo se i predicati vengono presi come disgiuntivi. Infatti mentre è vero che ogni numero (naturale) è pari o dispari, è falso che ogni numero (naturale) sia pari (o sia dispari). D’altro canto 73a38-39 (tÚ eÈyÁ Ípãrxei grammª ka‹ tÚ perifer°w) sembra suggerire un’interpretazione non disgiuntiva dei predicati per sé del secondo tipo. Tuttavia l’idea di predicati necessari disgiuntivi per il secondo tipo di per sé è ribadita da APo. I 6, 74b9-10. Ma che Aristotele introduca qui proposizioni con predicati disgiuntivi sembra mal accordarsi al contesto e all’uso che delle predicazioni per sé viene fatto nella scienza. Inoltre vi sono predicati per sé del secondo tipo che esauriscono il soggetto cui si riferiscono solo se sono considerati in terne (p. es. angolo acuto, retto e ottuso). Ancora, ci sono attributi per sé che non esauriscono il soggetto (p. es. numero elevato al quadrato, numero elevato al cubo e via di seguito) (per altre critiche v. McKirahan [1992]: 89-90). Per queste ragioni risulta allettante la proposta di Ferejohn [1991]: 102-108, secondo la quale la presentazione disgiuntiva delle predicazioni per sé del secondo tipo (ad es. «ogni numero è pari o dispari») sarebbe in funzione della prova che le corrispondenti proposizioni particolari (ad es. «qualche numero è pari») sono necessarie. Ma non è detto che questa proposta elimini tutte le difficoltà (v. n. a 73b16-24). L’alternativa a interpretare sano modo gli esempi aristotelici è quella di supporre che le relazioni per sé siano relazioni fra cose, entità, e che tali relazioni diano luogo a proposizioni ispirate da tali relazioni ma non necessariamente coincidenti con esse. Per esempio se A ha una relazione per sé nel primo senso con B, allora esiste una proposizione che ha A come predicato e come soggetto un termine che include B, di modo che resta verificato che A è nella definizione di B (cfr. ad es. McKirahan [1992]: 86-87). Ma quest’esegesi non sembra plausibile giacché in questo modo le relazioni per sé non determinerebbero univocamente quali proposizioni debbano essere associate ad esse, sì che potrebbero essere associate tanto proposizioni vere quanto proposizioni false.

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In Metaph. D 18, 1022a24-36 vengono distinti cinque sensi di kay’ aÍtÒ, uno solo dei quali (1002a27-29) ha immediata somiglianza con quelli esaminati qui (cfr. Van Rijen [1989]: 170). 73b5-10: Aristotele allude qui ad un altro senso di «per sé» (e del suo correlato «accidentale»). È per sé in questa accezione ciò che non si dice di un soggetto. Quest’espressione non può qualificare tutto ciò che non può essere predicato in una proposizione, perché è difficile esibire termini che abbiano questa caratteristica (anche di Callia è vero dire che è Callia). Inoltre la classe qui definita non comprende solo gli individui, ma anche le loro determinazioni essenziali, nonostante queste fungano da predicati dell’individuo. In effetti non solo uomo si dice di Socrate senza che Socrate sia qualcosa di distinto dall’essere Socrate, ma animale si dice di uomo senza che quest’ultimo sia già qualcos’altro di diverso dall’essere un uomo. Invece nel caso del bianco, quando diciamo che quel bianco è Socrate (APo. I 19, 81b25-26) o che quel bianco è musico (Metaph. G 4, 1007b4) dobbiamo supporre che la cosa che è bianca sia qualificata già in una maniera indipendente dal suo essere bianca per poter essere detta Socrate o musico. Va da sé che qui abbiamo a che fare con un senso di «accidentale» diverso da quello per il quale caratterizziamo come accidentale una predicazione del tipo di «Socrate è bianco» (v. anche note a 81b23-29 e 83a1-23). Notoriamente problematici sono il significato e la traduzione di tÒde ti. Vi sono in particolare due modi alternativi di costruire la formula: si può intenderla come «questo qualcosa», dove tÒde è particolarizzante e ti qualificante, oppure come «un certo qualcosa» dove invece ti è particolarizzante e tÒde qualificante. Cfr. Frede-Patzig [1988]: II 15; Burnyeat [2001]: 49 n. 99. Abbiamo comunque l’idea di un individuo appartenente ad una determinata sorta. Di solito tÒde ti indica la sostanza individuale ma ci sono occorrenze controverse, e qui a 73b78 l’espressione ˜sa tÒde ti shma¤nei deve in ogni caso indicare non soltanto i nomi delle sostanze individuali, «Callia», «Socrate» e cosí via, ma anche i predicati che definiscono la loro essenza. 73b10-16: Gli esempi mostrano chiaramente che Aristotele considera il rapporto fra eventi (anch’esso espresso da «Ípãrxein»). Dati due eventi E1 ed E2 essi sono in una relazione accidentale se sono concomitanti e l’uno non rappresenta la spiegazione dell’altro. Sono invece in un rapporto per sé se l’occorrere dell’uno fornisce la ragione dell’occorrere dell’altro. Si veda anche Metaph. D 30, 1025a14 sgg. 73b16-18: Il passo può essere inteso in due modi. Si può supporre che in tå êra legÒmena §p‹ t«n èpl«w §pistht«n kay' aÍtå (i) oÏtvw …w §nupãrxein to›w kathgoroum°noiw (ii) μ §nupãrxesyai la clausola (i) faccia riferimento al caso dei soggetti che sono presenti nelle definizioni dei loro predicati (il secondo tipo di per sé) e che §nupãrxesyai (la forma passiva è uno hapax legomenon) alluda al primo tipo di per sé, ossia al caso in cui i predicati sono presenti nelle definizioni dei rispettivi soggetti. Ma tå legÒmena [...] kay' aÍtã fa pensare a predicati. Quindi sembra più ragionevole supporre che «to›w kathgoroum°noiw» denoti i soggetti cui i predicati sono attribuiti (per quest’uso cfr. APr. I 32, 47b1) e che

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quindi (i) alluda al primo tipo di per sé, mentre (ii) faccia riferimento al secondo tipo di per sé, indicando la relazione inversa alla precedente. 73b16-24: Il testo è tutt’altro che chiaro e presenta svariati problemi. Aristotele si riferisce evidentemente alle relazioni per sé del primo e secondo tipo definite in 73a34-b5. A proposito di esse egli sembra dire che i predicati dei due tipi sono di'aÍtã, in virtú di sé, e che le proposizioni corrispondenti sono necessarie. Entrambe queste asserzioni fanno difficoltà. Innanzitutto in che senso un predicato per sé nel secondo senso sarebbe vero del suo soggetto in virtú di sé? Inoltre vi sono molte predicazioni basate sulla relazione per sé del secondo tipo che non sembrano essere necessarie. Pari, per esempio, ha una relazione per sé del secondo tipo con numero (naturale) e tuttavia «ogni numero (naturale) è pari» non è una proposizione né vera né necessaria. Sulla base dell’ipotesi di Ferejohn citata sopra (cfr. n. a 73a34-b5) si potrebbe immaginare che Aristotele consideri predicati per sé del secondo tipo solo quelli che dividono esaustivamente, insieme al loro disgiunto, la classe denotata dal soggetto. Questo è il caso appunto di pari e dispari dato che ogni numero (naturale) è necessariamente pari o dispari. Se allora supponiamo che non solo ogni numero (naturale) sia necessariamente pari o dispari, ma anche che ogni cosa pari o dispari sia necessariamente un numero, possiamo derivare che ogni cosa pari è necessariamente un numero e che ogni cosa dispari è necessariamente un numero. Per la convertibilità delle proposizioni universali affermative nelle particolari affermative (APr. I 3, 25a27 sgg.) otteniamo che qualche numero è necessariamente pari e qualche numero è necessariamente dispari. Sulla base di questa interpretazione si potrebbe sostenere che il riferimento ai predicati disgiuntivi nelle predicazioni per sé del secondo tipo è in funzione della prova per cui le proposizioni particolari generate da questa relazione sono necessarie. Ma le cose non sono così semplici. Innanzitutto Aristotele non fa menzione di proposizioni particolari con riferimento alle predicazioni per sé del secondo tipo. Inoltre dell’argomento a cui abbiamo fatto riferimento per provare che le proposizioni particolari coinvolgenti relazioni per sé del secondo tipo sono necessarie non c’è traccia in Aristotele. Infine sembra legittimo supporre che «camuso» sia con «naso» in un rapporto per sé del secondo tipo (Metaph. E 1, 1025b30-34: «naso» entra nella definizione di «camuso»). Ma è difficile credere che Aristotele potesse considerare una proposizione come «qualche naso è camuso» come necessaria. L’ultima parte del passo contiene un argomento volto a provare che proposizioni del tipo di «ogni numero è o pari o dispari» sono necessarie. «Pari» e «dispari» sono in un rapporto di contrarietà, e tale relazione, nell’ambito dello stesso genere, equivale alla contraddittorietà, nel senso che necessariamente ogni numero che non sia pari è dispari (e viceversa). Siccome per i contraddittori vale che necessariamente o l’uno o l’altro è vero, vale anche che necessariamente ogni numero è o pari o dispari. L’argomento è corretto, ma non si vede bene come la necessità predicativa sia basata su una relazione per sé. 73b25-74a3: È qui discussa una nozione di universale che non ha riscontri con l’abituale uso aristotelico di kayÒlou, normalmente corrispondente (più o meno) al «katå pantÒw» definito in 73a28 sgg. (v. ad es. Int. 7, 17a39-40), anche se vi sono

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passi in cui l’universalità è connessa con la negazione dell’accidentalità (Metaph. D 9, 1017b27-1018a1) ed altri passi in cui è legata all’onnitemporalità (APo. I 8, 75b21 sgg.; II 12, 96a8 sgg.). La caratterizzazione aristotelica presenta non pochi problemi. Essa è la seguente: A conviene a B universalmente se, e solo se, (i) A è vero di ogni B (katå pantÒw), (ii) A è in una relazione per sé (kay' aÍtÒ) con B e (iii) A vale di B in quanto tale (√ aÈtÒ). Da questa definizione Aristotele deduce che le predicazioni universali sono necessarie e quindi procede a mostrare che «per sé» e «in quanto tale» sono nozioni coestese. Dagli esempi si evince subito che, contrariamente alle aspettative, il «per sé» qui in questione non corrisponde ai due sensi di «per sé» con cui la conoscenza scientifica secondo Aristotele ha a che fare (73b16 sgg.). La proprietà 2R è propria del triangolo né nel primo senso di per sé (2R non entra nella definizione di triangolo), né nel secondo senso (per definire la nozione di 2R non abbiamo bisogno di ricorrere alla nozione di triangolo). Piuttosto qui sembra in gioco una nozione di «per sé» che si contrappone a quella di «per altro». Il triangolo ha per sé la proprietà 2R perché tale proprietà gli compete in virtù del fatto di essere un triangolo e non per altro. Di contro l’isoscele non ha tale proprietà per sé perché non gode di essa in virtù del fatto di essere isoscele, ma appunto per altro, in quanto cioè è un triangolo. Ciò spiega altresí l’identificazione che Aristotele compie fra «in quanto tale» e «per sé». Va da sé che dire che A vale di B in quanto tale o per sé in questo senso non significa affermare che la proposizione «ogni B è A» è indimostrabile, come prova l’esempio del triangolo e della proprietà 2R, un tipico esempio di teorema geometrico spesso ricordato da Aristotele. L’«in quanto tale» qui marca semplicemente il fatto che B è il soggetto più generale di cui si possa dimostrare A. Bibliografia: Wedin [1973]; Graham [1975]; Granger [1981]; [1992]; Inwood [1979]; Kung [1977]; Urbanas [1988]; [1992]; McKirahan [1992]; Barnes [1993]; Ebert [1998]; Tierney [2001].

CAPITOLO 5 74a4-13: Aristotele in quella che è una specie di appendice all’ultima parte di APo. I 4 insiste sul problema della dimostrazione dell’universale e considera tre possibili motivazioni dell’errore per cui una dimostrazione viene considerata dell’universale, mentre in realtà non lo è. Si può commettere questo errore perché ciò di cui si dimostra una caratteristica è particolare. Supponiamo che C sia o una specie unica di un genere o un individuo unico in una specie (come per esempio il caso della luna e del sole: Metaph. Z 15, 1040a29) e la caratteristica A che è provata di C sia vera di C in virtù del fatto che C cade sotto un genere B (se C è una specie) o sotto una specie B (se C è un individuo). A causa dell’unicità di C può capitare che si supponga che A valga di C non perché C è B, ma perché C è C. L’espressione ˜tan μ mhd¢n ¬ labe›n én≈teron parå tÚ kay'ßkaston di 74a7-8 è ambigua dato che «tÚ kay'ßkaston» può riferirsi tanto ad un individuo unico sotto una specie, quanto ad una specie unica sotto un genere. In ogni caso Aristotele nel seguito del capitolo esemplifica solo quest’ultimo caso (74a16-17).

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Un’altra situazione in cui si può incorrere nell’errore è quella in cui A vale delle specie di un genere B in virtù del genere e tale genere non ha un nome. Questo caso è illustrato dalla teoria delle proporzioni in 74a17 sgg. La terza possibilità d’errore deriva dall’essere il soggetto della dimostrazione …w §n m°rei ˜lon (74a9) ossia un «tutto parziale». La situazione a cui si allude qui è quella di un termine A che è provato appartenere ad ogni C, mentre in realtà A appartiene sì a C, ma perché è vero di ogni B, che è sopraordinato a C. In questo modo C si comporta come un tutto parziale, nel senso che C è solo una parte delle cose alle quali A compete e nello stesso tempo è un tutto, un ˜lon, rispetto a ciò che sta sotto C. Questo caso è illustrato in 74a13 sgg. 74a13-16: Abbiamo qui l’esemplificazione del terzo tipo di errore ed essa fa probabilmente riferimento al noto teorema di Euclide (I 28) secondo cui se due rette formano con una retta trasversale angoli coniugati interni la cui somma è 180° sono parallele. La dimostrazione che Aristotele ha in mente è forse basata sulla seguente figura: c a_____|______ |a | | b_____|b______ | dove si assume che a+b=180° perché a e b sono entrambi retti. In realtà quel che la dimostrazione adeguata deve fare è partire dall’assunto che qualunque coppia di angoli coniugati interni dia come somma 180° (e non solo quando sono angoli retti) e di qui concludere che a e b sono parallele. Il modo di esprimersi di Aristotele è comunque piuttosto trasandato. L’espressione efi oÔn tiw de¤jeien ˜ti afl Ùrya‹ oÈ sump¤ptousi di 74a13-14 farebbe pensare che le rette siano linee, ma 74a15-16 (e‡per mØ ˜ti …d‹ ‡sai g¤netai toËto, éll'√ ıpvsoËn ‡sai) indurrebbe a credere che siano in questione angoli. Quindi o si è costretti a parlare di angoli retti che non si incontrano, oppure di linee rette che sono uguali a due retti (Barnes, pp. 123-124). 74a16-17: È l’esemplificazione della prima situazione d’errore. 74a17-25: La proprietà delle proporzioni considerata da Aristotele in relazione alla seconda possibile situazione di errore è quella per la quale, data una proporzione del tipo di a:b=c:d essa è equivalente a a:c=b:d. Aristotele allude al fatto che questa proprietà era inizialmente provata dai Pitagorici per le grandezze numeriche commensurabili. La prova fu poi estesa da Eudosso con la costruzione di una teoria generale delle proporzioni applicabili a tutte le grandezze numeriche e non, commensurabili e non commensurabili (Eudosso frr. D 30-57 Lasserre; Heath, [1921]: II 43-46). Euclide nel VII libro degli Elementi espone la teoria «antica» del-

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le proporzioni numeriche, mentre nel libro V fa riferimento alla teoria «moderna» generalizzata (per il significato della rivoluzione di Eudosso cfr. Byrne [1997]: 138142). Il genere senza nome cui la teoria delle proporzioni si riferisce è chiamato da Euclide m°geyow, «grandezza», mentre Filopono, 77. 8-9, lo chiama posÒn, «quantità», una scelta non estranea alla terminologia aristotelica (Cat. 6, 4b20 sgg.). È forse con riferimento alle proprietà della quantità che Aristotele in Metaph. E 1, 1026a26-27 parla di una matematica universale, più generale della geometria. 74a25-32: Il passo intende mostrare in generale che cosa non funziona allorquando si voglia provare una caratteristica A (la proprietà 2R) di un genere B (triangolo), al quale in realtà A appartiene kayÒlou, provando distintamente il fatto che A si predica di ogni C (equilatero), il fatto che A si predica di ogni E (isoscele) e il fatto che A si predica di ogni F (scaleno), dove C, E, ed F sono tutte le specie di B, anche a prescindere dall’eventualità che B sia privo di nome (in effetti nell’esempio aristotelico il genere in questione è il triangolo, che ha un nome). L’argomento procede come segue. Dal fatto che una persona a (i) sa che l’equilatero, l’isoscele e lo scaleno hanno ciascuno la proprietà 2R non segue né che (ii) a sa che il triangolo ha la proprietà 2R, né che (iii) a sa che il triangolo ha universalmente (ossia in quanto tale) la proprietà 2R (oÈd¢ kayÒlou tr¤gvnon: 74a29 [la lezione alternativa kay’ ˜lou trig≈nou adottata da Ross, p. 526, non è necessaria: cfr. APo. I 4, 74a1-2]), anche se è vero che (iv) ogni triangolo è o equilatero o isoscele o scaleno. In effetti da (i) e (iv) non segue (ii) perché non è detto che a sappia (iv). A maggior ragione da queste premesse non segue (iii), che è più forte di (ii). Proprio perché non segue dalle premesse poste, (ii) è qualificata da Aristotele come una conoscenza sofistica. 74a32-34: La frase: D∞lon dØ ˜ti efi taÈtÚn ∑n trig≈nƒ e‰nai ka‹ fisopleÊrƒ μ •kãstƒ μ pçsin è difficile. L’espressione trig≈nƒ e‰nai fa parte del gergo aristotelico per indicare l’essenza di una cosa, in questo caso del triangolo. áH •kãstƒ μ pçsin è oscura e una spiegazione possibile è la seguente. Il primo disgiunto esprimerebbe le equazioni: essenza di T (triangolo)=essenza di E (equilatero), oppure essenza di T=essenza di I (isoscele), oppure essenza di T=essenza di S (scaleno). Invece il secondo disgiunto indicherebbe una sola equazione, e precisamente: essenza di T=essenza di E o essenza di I o essenza di S. In questa prospettiva per sapere in senso proprio (èpl«w) o universalmente (k`ayÒlou) che la proprietà 2R appartiene a T, sarebbe sufficiente avere una prova del fatto che 2R appartiene, per esempio, ad E, se si potesse affermare che l’essenza di T=l’essenza di E e quindi sostenere che «T» ed «E» sono sinonimi. Se invece si realizzasse il caso per cui «T» fosse sinonimo di «ciò che è o equilatero o isoscele o scaleno» si potrebbe sostenere che si conosce universalmente o in senso proprio che 2R appartiene ad ogni T avendo soltanto le dimostrazioni del fatto che 2R appartiene ad E, a I e ad S. Sulla prova dell’attribuzione della proprietà 2R al triangolo cfr. Ph. II 9, 200a16-18; Metaph. Y 9, 1051a24-26; Eucl. I 32. 74a34-b4: Il passo non è del tutto chiaro. Aristotele propone una specie di criterio per stabilire se una predicazione è universale (nel senso discusso in questo ca-

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pitolo) e se, quindi, lo è la dimostrazione relativa ad essa, dando luogo ad una conoscenza scientifica appropriata. A tale scopo egli considera, da un lato, una serie di termini S1, S2, S3, ..., Sn tali che Si sia incluso in Si+1 e ordinati secondo una crescente generalità e, dall’altro, una caratteristica R che è universalmente vera degli elementi di un segmento iniziale di questa sequenza. Il problema è allora quello di stabilire quale sia il soggetto scientificamente appropriato di cui R sia vera kayÒlou. L’idea di Aristotele sembra essere la seguente. Consideriamo i primi due elementi della serie, S1 e S2. Se si verifica che R si predichi universalmente di entrambi (ossia si dà RaS1 e RaS2) allora possiamo eliminare S1. Procediamo in questa operazione di eliminazione finché non si pervenga ad una coppia Si e Si+1 tale che per essa si verifichi RaSi, ma non RaSi+1, essendo Si+1 troppo generale rispetto a R. Allora Si è il termine cercato cui R compete universalmente. Aristotele qualifica Si come quel termine al quale R compete per primo (Ípãrx˙ pr≈tƒ: 74a38), nel senso che esso, dopo la rimozione degli altri termini, viene ad essere il primo della serie che è incluso in R. La proposta di Barnes, p. 125, di inserire un mÆ a 74a38 e di leggere quindi: d∞lon ˜ti ˜tan éfairoum°nvn mØ Ípãrx˙ pr≈tƒ non è forse necessaria.

CAPITOLO 6 74b5-12: L’argomento è intricato. Aristotele vuole stabilire che (i) «le premesse delle dimostrazioni sono costituite da predicazioni per sé». A tale scopo egli assume i seguenti due principi (ii) «le premesse delle dimostrazioni sono proposizioni necessarie» e (iii) «le predicazioni per sé sono proposizioni necessarie». A queste due premesse sono aggiunte altre due premesse ausiliarie, che sono (iv) «ogni predicazione o è per sé o è accidentale» e (v) «le predicazioni accidentali non sono necessarie». Il ruolo di (iii) non è chiaro. In effetti (i) segue da (ii), (iv) e (v), come ha osservato Barnes (p. 126), talché (iii) è irrilevante. Altri hanno invece pensato che (i) segua da (ii) e dalla conversa di (iii), ossia (iii*) «le proposizioni necessarie sono predicazioni per sé» e che (iv) e (v) abbiano la funzione di provare (iii*). Comunque la si voglia costruire, l’argomentazione riposa sull’assunzione che il necessario sia sempre per sé, sia essa affermata da (iii*) oppure implicata da (ii), (iv) e (v). Tale assunzione presenta notevoli difficoltà perché i due tipi di per sé cui Aristotele allude con riferimento alla discussione di APo. I 4, 73a34 sgg., non coprono la totalità delle proposizioni necessarie considerate dalla scienza. Ad esempio un enunciato come «ogni angolo iscritto in una semicirconferenza è retto» per Aristotele è sicuramente una proposizione necessaria e, d’altra parte, non rappresenta una predicazione per sé né nel primo, né nel secondo senso («angolo iscritto in una semicirconferenza» non entra nella definizione di «retto», né questa proprietà fa parte della definizione di «angolo iscritto in una semicirconferenza»). 74b13-21: L’attacco del passo è infelice perché sembrerebbe presupporre un’argomentazione parallela a quella svolta nelle linee precedenti. In realtà quella intendeva provare che le premesse delle dimostrazioni sono predicazioni per sé, mentre questa offre addizionali ragioni per asserire che le premesse delle dimo-

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strazioni sono proposizioni necessarie. Dopo un inizio che ricorda quello di APo. I 4, 73a21 (le conclusioni dimostrative sono proposizioni necessarie; quindi anche le loro premesse devono esserlo), Aristotele continua con due argomenti che non provano la relazione fra la necessità della conclusione e la necessità delle premesse nelle dimostrazioni, ma semplicemente vorrebbero asseverare che le premesse dimostrative sono necessarie. Il primo argomento (b17-18) consiste nell’osservare che se una conclusione è dedotta da premesse necessarie, è dimostrata. Ma quest’affermazione è falsa perché la necessità delle premesse di una deduzione è condizione necessaria e non sufficiente della dimostratività del procedimento. Il secondo argomento (b18-21) fa riferimento alla pratica dimostrativa e assomiglia all’osservazione di APo. I 4, 73a32-34. Le obiezioni che solleviamo contro le premesse di un’argomentazione dimostrativa concernono la sua necessità. Per la traduzione di μ ßnekã ge toË lÒgou di 74b21 cfr. Ross, p. 528. Alla r. 14 leggo ≤ épÒdeijiw énagka›Òn §sti con i manoscritti. L’espressione significa: «la dimostrazione è necessaria» ossia «la dimostrazione ha una conclusione necessaria», cfr. APr. I 8, 30a9-12; 9, 30a15-16 (per la concordanza di un aggettivo neutro con un sostantivo femminile, cfr. Bonitz, Index, 484a51 sgg. e Kühner-Gerth, II 1, 58-59). 74b21-26: Quest’osservazione si collega solo vagamente a quanto precede. Aristotele aveva affermato che la verità delle premesse non è una condizione sufficiente per la loro dimostratività. Qui aggiunge che il loro essere ¶ndoja, oltre che vere, non è sufficiente a garantire che siano produttive di conoscenza scientifica. Sono qualificati come ¶ndoja quegli enunciati che sono comunemente accettati da un gruppo di persone e che quindi possono servire da fondamento alla discussione dialettica (cfr. Top. I 1, 100b21 sgg.). L’esempio della proposizione «conoscere è possedere un a conoscenza» è un’allusione all’argomentazione di Dionisodoro volta a mostrare che oggetto di conoscenza è ciò che non si sa (Pl. Euthd. 277B5 sgg. e in part. 277B8-9: tÚ d'§p¤stasyai, ∑ d'˜w, êllo ti μ ¶xein §pistÆmhn ≥dh §stiÄn;). 74b26-32: L’argomento è tutt’altro che chiaro. Esso sembra svilupparsi dall’assunto che, se si dà una dimostrazione di P, allora P deve essere necessaria e le sue premesse devono esprimere la ragione di P. Supponiamo allora che le premesse di P non siano proposizioni necessarie. Secondo Aristotele esse non possono esprimere la ragione di P. Questo passaggio è spiegato da Aristotele con l’osservazione che in queste circostanze le premesse potrebbero non essere, mentre la conclusione, essendo necessaria, è sempre. L’idea che sta alla base di questa asserzione non è del tutto perspicua. Essa sembra consistere nell’intuizione, non meglio articolata, per cui uno stato di cose contingente non può dar ragione di qualcosa che è necessario. Volendo sviluppare questa intuizione, dovremmo forse assumere come principio che se P rappresenta la spiegazione di P, allora P implica necessariamente P, talché non ci può essere un momento in cui è il caso che P e non è il caso che P. Qundi, siccome P è per ipotesi necessario, anche P dovrà esserlo. Il ragionamento è formalmente corretto, ma l’idea che la spiegazione di P sia condizione necessaria di P non è ovvia.

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74b32-39: Il senso generale è chiaro. Aristotele considera quattro possibili ragioni per cui la conoscenza di una proposizione P basata sulla spiegazione P viene meno rispetto ad un conoscente a: (i) a cessa di considerare P la spiegazione di P; (ii) a viene meno; (iii) P viene meno, ossia cambia il suo valore di verità; (iv) a dimentica quanto prima sapeva. Aristotele inoltre enuncia il seguente principio: (v) «se a non conosce scientificamente ad un tempo t2 che P, e nessuna delle condizioni (i)-(iv) di annullamento della conoscenza è soddisfatta, allora a non conosce scientificamente P nemmeno a t1, dove t1 precede t2. Supponiamo allora che l’antecedente P grazie a cui si compie la dimostrazione di P venga meno a tk, e cioè cessi di essere vero. Allora a non ha più conoscenza scientifica di P che, in quanto necessaria, non cambia il suo valore di verità. Dunque siccome possiamo supporre che le condizioni (i)-(iv) non siano soddisfatte, dobbiamo concludere per (v) che a non conosceva scientificamente P nemmeno prima di tk, ossia al momento in cui P era vero. Il passo si conclude con l’osservazione che non è necessario supporre che l’antecedente di P divenga falso. È sufficiente riconoscere la sua possibilità di diventare falso. In effetti se P può diventare falso, così sembra argomentare Aristotele, allora P (tÚ sumba›non) non è necessario. Ma così com’è, la tesi è falsa: dal fatto che P implichi P e sia possibile che non-P non segue che non P sia possibile, come del resto osserva lo stesso Aristotele subito dopo (75a1 sgg.). Un’interpretazione alternativa potrebbe essere quella di prendere tÚ sumba›non ín e‡h dunatÚn ka‹ §ndexÒmenon di 74b37-38 come riferentesi alla possibilità che uno si trovi nella situazione di non conoscere scientificamente. In altri termini Aristotele direbbe che l’ammettere la possibilità che P divenga falso ad un certo punto implica che si possa non aver conoscenza di P e ciò sarebbe sufficiente ad escludere che si abbia di fatto una conoscenza scientifica di P. Ma anche quest’esegesi è tutt’altro che soddisfacente. 75a1-11: Sono enunciate qui alcune tesi concernenti le relazioni che intercorrono fra le modalità delle premesse e della conclusione in un’inferenza corretta. Consideriamo l’inferenza corretta che ha come premesse P1, ..., Pn e come conclusione C. La prima tesi di Aristotele è che (i) «dal fatto che C è necessario non segue che ogni Pi (1  i  n) sia necessario» (quando Aristotele dice che «il medio non è necessario» intende dire che l’antecedente di C non è necessario). Per accreditare questa tesi Aristotele ricorre all’analogia con la verità: (i*) «dal fatto che C è vero non segue che tutti i Pi siano veri» (cfr. APr. II 2-4). La seconda tesi è in positivo: (ii) «se tutti i Pi sono necessari, allora anche C è necessario». Viene fornito come esempio Barbara con premesse e conclusione necessaria (cfr. APr. I 8, 29b36 sgg.) e daccapo è fatta valere l’analogia con la verità: (ii*) «se tutti i Pi sono veri anche C è vero». La terza tesi è logicamente equivalente alla (ii) e suona: (iii) «se C non è necessaria, allora almeno uno dei Pi non è necessario». In effetti (iii) è la contrapposta di (ii). Soltanto di quest’ultima tesi viene fornito un abbozzo di prova basato su (ii). Aristotele costruisce una prova per assurdo con riferimento a Barbara. Supponiamo di avere le premesse AaB e BaC e che esse siano necessarie, ossia NAaB e NBaC, e poniamo per assurdo che la conclusione AaC che segue logicamente da quelle premesse non sia necessaria, ossia non-NAaC. In base alla (ii) dalle premesse NAaB e NBaC segue NAaC. Otteniamo quindi una contraddizione. Quindi dobbiamo abbandonare l’ipotesi dell’assurdo, e cioè che AaC non sia necessaria.

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Alcuni, ad es. Kosman [1990]: 360, hanno pensato che (i) contenga un’allusione alla ben nota tesi modale difesa da Aristotele secondo cui, ad esempio, un sillogismo in Barbara con premessa maggiore necessaria e premessa minore categorica dà luogo ad una conclusione necessaria (cfr. APr. I 9, 30a15 sgg.). Ma l’analogia con la verità e il linguaggio di 75a4 (˜tan d¢ tÚ m°son §j énãgkhw) fanno pensare piuttosto che egli avesse in mente una tesi più generica, quale è appunto quella espressa in (i). 75a12-17: La prima parte del passo (75a12-14) non fa che riprendere la tesi già illustrata in precedenza. Siccome la dimostrazione produce conoscenza scientifica, le conclusioni e dunque le premesse dimostrative devono essere proposizioni necessarie. Nella seconda parte (75a14-15) si propone un’argomentazione che ripete ed in parte amplia quella di 74b32-39. Se le premesse di una dimostrazione non fossero necessarie non si potrebbe conoscere perché lo stato di cose espresso dalla conclusione è necessariamente quello che è né, aggiunge Aristotele, che tale stato di cose è necessariamente tale. Il motivo per cui non si può conoscere perché è stato spiegato a 74b32-39. La ragione invece per cui non si conosce che la conclusione è necessariamente quello che è deriva, presumo, dal fatto che non in ogni caso da un antecedente non necessario segue validamente una conclusione necessaria. La terza parte (75a15-17) contiene un’osservazione piuttosto oscura. Se a pretende di conoscere C attraverso un antecedente D composto di proposizioni non tutte necessarie, egli o crederà di sapere senza in realtà avere una conoscenza scientifica, perché riterrà falsamente che D è necessario, oppure... Qui le cose si fanno difficili. Aristotele considera due possibilità. La prima è che a si renda conto che D non è composto tutto di proposizioni necessarie. In tal caso a nemmeno crederà di avere conoscenza scientifica di C. La seconda possibilità è a sua volta divisa in due casi. Il primo è espresso da «sia che si conosca in forza di medi» (75a16-17) e sembrerebbe essere sulla scia di quanto è stato appena detto: se a ha semplicemente derivato C da D senza considerare le modalità delle proposizioni contenute in D, non crederà di conoscere scientificamente C. Il secondo caso è dato da «sia che si conosca il perché e in forza di immediati» (75a17) e potrebbe essere forse parafrasata così (cfr. Barnes, 129): supponiamo che a conosca C in virtù dell’antecedente G e che G sia l’antecedente appropriato per produrre la conoscenza scientifica di C, ma che a non sappia che G è necessario. In tal caso a, benché in un certo senso conosca C grazie alla sua spiegazione appropriata, non crederà di avere conoscenza scientifica di C. 75a18-27: Gli accidenti di cui Aristotele dice che non possono essere oggetto di conoscenza scientifica in quanto non necessari sono quei predicati che danno luogo a proposizioni che non sono per sé nel primo o nel secondo senso indicati in APo. I 4, 73a34 sgg.; lo suggerisce l’equivalenza fra per sé e necessario che fa da sfondo a tutto il capitolo. Di conseguenza tali predicazioni non possono costituire le conclusioni di dimostrazioni e quindi non sono conosciute scientificamente. Dopo aver stabilito ciò Aristotele si pone un’obiezione: se una proposizione P esprime una predicazione accidentale e non può quindi costituire una conclusione necessaria, che senso ha «domandare» circa essa, ossia cercare premesse da cui dedurre P? In effetti basta porre una qualunque serie di proposizioni e ad esse fa-

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re seguire P. L’obiezione evidentemente nasce da una confusione fra necessitas consequentis e necessitas consequentiae. Dicendo che P non è necessaria, Aristotele intende affermare che P non può comparire come conclusione di una deduzione corretta in cui le premesse siano vere e per ciò stesso essere qualificata come necessaria (necessitas consequentis). Questo però non vuol dire che P non possa dipendere necessariamente da un insieme di premesse vere (necessitas consequentiae). Il modo di esprimersi di Aristotele è in po’ ingarbugliato, ma questa è quasi certamente la distinzione che egli vuol fare per rispondere all’obiezione. Un’interpretazione diversa in Detel, II p. 161. 75a28-37: L’argomento di 75a28-31 ripete sostanzialmente quello di 74b5-12 e, come nell’altro caso, la sua correttezza presuppone la coestensione di per sé e necessario. È probabile che √ ßkaston di 75a29 sia qui sinonimo di kay' aÍtÒ, come del resto lo è il di'aÍtÒ di 75a35-36. Il riferimento ai sumbebhkÒta di 75a31 è come prima da intendersi come riferimento a quei predicati che non danno luogo a proposizioni per sé nel primo o secondo senso. Che, quando si abbia a che fare con siffatte predicazioni, non si possa conoscere perché ossia fornire una ragione della loro verità che soddisfi gli standard della scienza, trova la sua giustificazione nell’argomento di 74b32-39. Interessante è comunque il fatto che Aristotele sembra distinguere la necessità dalla sempiternità: una proposizione può essere sempre vera, ma non per questo è necessaria, se per «necessario» si deve intendere ciò che è per sé nel primo o nel secondo senso. Le argomentazioni mediante segni (ofl diå shme¤vn sullogismo¤: 75a33-34) sono teorizzate da Aristotele in APr. II 27. Un esempio tipico è costituito da quell’inferenza che va dall’osservazione che una donna ha latte alla conclusione che ella ha partorito. È chiaro allora perché Aristotele dica che le argomentazioni mediante i segni non fanno sapere perché. L’avere latte è un segno del partorire, ma non la sua ragione: non perché ha latte una donna ha partorito. Bibliografia: Kosman [1990].

CAPITOLO 7 75a38-75b12: Allo scopo di provare la sua tesi Aristotele distingue tre elementi presenti in ogni dimostrazione: (i) il predicato che viene provato di un soggetto (curiosamente qui chiamato tÚ sump°rasma, che abitualmente vale «conclusione» [in APr. II 1, 53a17 sump°rasma denota il soggetto di una conclusione]) e che è caratterizzato come ciò che è in un rapporto predicativo per sé con «un qualche genere», ossia un termine generale (certamente non vuoto). (ii) Gli «assiomi» (tå éji≈mata: 75a41-42), ovvero i principi da cui procede la dimostrazione (e che in seguito Aristotele distinguerà in comuni e propri; cfr. APo. I 10, 76a37 sgg.; gli assiomi di cui si parla qui difficilmente possono essere identificati con gli assiomi quali sono definiti in APo. I 2, 72a17-18, dove sembrano coincidere con i principi logici);

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(iii) Il soggetto della dimostrazione, del quale vengono provate le caratteristiche per sé (tå kay’ aÍtå sumbebhkÒta: 75b1). La tesi che Aristotele vuol provare è quella della non eterogeneità delle premesse rispetto alle conclusioni delle dimostrazioni. In altri termini viene espresso il divieto, salvo casi particolari che verranno esaminati in seguito, di applicare i principi di una scienza a quelli di un’altra. La non trasferibilità dei principi dipende dal fatto che in una dimostrazione le proposizioni coinvolte devono esprimere relazioni per sé. Non è ben chiaro a quale nozione di per sé Aristotele faccia riferimento. Sarebbe naturale pensare che Aristotele si richiamasse ai due tipi di per sé teorizzati in APo. I 4, 73a34 sgg., ma i kay' aÍtå sumbebhkÒta di cui si parla qui non rientrano in quella classificazione (così anche Tiles [1983]: 5-7 e 11-13; sed contra Wedin [1973]: 30-35; Granger [1981]: 118-129; McKirahan [1992]: 98-100 e in certa misura Graham [1975]: 182-187, che identificano gli accidenti per sé con i termini che sono relati per sé nel secondo senso ai rispettivi soggetti). La caratterizzazione degli accidenti per sé è problematica. Ross, pp. 71; 577; 580 e Verbeke [1968]: 263 n. 1 ritenevano che essi fossero da assimilare ai predicati per sé del secondo tipo (APo. I 4, 73a37 sgg.) e che costituissero una sottoclasse dei propri (ossia quei predicati che non entrano nell’essenza dei rispettivi soggetti e sono coestesi a questi: Top. I 5, 102a18-20). Nonostante l’espressione di de An. I 1, 402a15 (t«n katå sumbebhkÚw fidiÄvn épÒdeijiÄw §stin, «la dimostrazione ha per oggetto i propri accidentali»), questa posizione è indifendibile. In effetti l’attributo di essere retto, caratteristico di ogni angolo iscritto in una semicirconferenza, è verosimilmente un accidente per sé di tale angolo, mentre è impossibile credere che «angolo iscritto in una semicirconferenza» sia parte della definizione di «angolo retto» e che sia coesteso a questo (altre critiche in Barnes [1970]: 139-140). Gli accidenti per sé sono definiti in Metaph. D 30, 1025a30 sgg. come quei predicati per sé di un soggetto che non fanno parte della sua essenza e vengono di solito esemplificati con la proprietà 2R detta del triangolo (per l’esempio v. anche PA I 3, 643a27-31). Sembra trattarsi di predicati che sono necessariamente veri di un soggetto, anche se non fanno parte della definizione di questo. Non c’è quindi da stupirsi che qui gli accidenti per sé siano detti costituire i predicati delle conclusioni delle dimostrazioni. Se dunque l’espressione, com’è naturale pensare, ha qui lo stesso significato che in Metaph. D 30, il per sé in questione non indica né che il predicato è nella definizione del soggetto né che il soggetto è nella definizione del predicato. Il «genere soggiacente» sembra essere ciò di cui si dimostra qualcosa, l’estremo minore se la dimostrazione è sillogistica. Si noti che talvolta uno stesso termine può fungere sia da attributo che viene provato di un genere sia da «genere soggiacente». Questo è il caso ad esempio di «triangolo» del quale si dimostra l’esistenza, ovvero il suo essere una caratteristica di certe linee (cfr. APo. I 1, 71a14-15; 10, 76a35; II 6, 92b15-16), pur essendo soggetto di predicati per sé, come ad esempio la proprietà 2R (cfr. APo. I 4, 73b30-32; 23, 84b3-9). Altri termini invece, come l’unità o il numero per l’aritmetica (APo. I 1, 71a15; 2, 72a21-24; 10, 76a34-35; 76b4-5; I 7, 75b4-5; 10, 75b2, 18; 33, 88b28) o i punti e le linee o la grandezza per la geometria (APo. I 7, 75b17; 10, 75b4-5; 27, 87a36; 10, 76a35-36; 76b1; 32,

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88b29), sono sempre e invariabilmente considerati «generi soggiacenti». Stando alla lettera della definizione aristotelica di «genere soggiacente», si potrebbe allora credere che il contesto in cui la tesi della non trasferibilità dei principi si inserisce sia il seguente. In una dimostrazione si provano gli accidenti per sé di un soggetto e questi dipendono dalla definizione del soggetto stesso. È evidente allora che non è possibile trasferire premesse da una scienza all’altra a meno che i soggetti delle due dimostrazioni non abbiano la stessa definizione. In realtà, se le cose stessero davvero cosí, Aristotele proverebbe troppo. Non solo diverrebbe impossibile trasferire i principi di una scienza da quelli di un’altra, ma anche all’interno della stessa scienza risulterebbe impossibile applicare i principi del triangolo a quelli del quadrato o quelli dei numeri pari a quelli dei numeri dispari. Ciò fa supporre che nel testo vi sia un uso ambiguo dell’espressione «genere soggiacente». Benché nella sua definizione formale esso denoti, come si è detto, ciò di cui si dimostra un predicato, il soggetto della conclusione, Aristotele sembra usare questa nozione in senso più ampio, di modo che il «genere soggiacente» diviene l’oggetto di un scienza, la quantità discreta nel caso dell’aritmetica, o la quantità continua nel caso della geometria, ovvero l’ambito entro il quale i soggetti delle dimostrazioni di una scienza sono contenuti (per un’analisi dei vari usi aristotelici di «soggetto soggiacente» ed una loro interpretazione cfr. McKirahan [1992]: 57-63). In questo senso la geometria studia le proprietà che hanno una relazione per sé con le cose che sono di per sé qualificate come quantità continue e l’aritmetica fa la stessa cosa con riferimento alle quantità discrete. In ogni caso l’argomento di Aristotele vale solo se si suppone che se A ha una relazione per sé con B, non può avere una relazione per sé con C se C è eterogeneo rispetto a B. Non è difficile trovare contro-esempi a questa supposizione: per esempio «bianco» è sicuramente un predicato per sé di «neve» e di «cigno», anche se «neve» e «cigno» sono eterogenei. Quando Aristotele dice che i principi possono essere gli stessi, probabilmente allude al fatto che in alcuni casi è possibile trasferire le premesse da una scienza ad un’altra quando i generi soggiacenti all’una e all’altra siano nel rapporto di genere e specie. Il problema, oltre che in 75b14-17, è più ampiamente dibattuto in APo. I 9, 76a9 sgg.; 13, 78b34 sgg. 75b12-14: L’esempio della scienza dei contrari è standard in Aristotele (cfr. Bonitz, Index, 247a13-21) e il secondo allude non al celebre problema della duplicazione del cubo ma ad un teorema che si trova anche in Euclide (IX 4): il prodotto di due numeri (interi) elevati al cubo è un numero elevato al cubo (cfr. Heath [1949]: 46). 75b17-20: La tesi aristotelica viene ora raffinata. Mentre prima si diceva che se un predicato A compete per sé ad un soggetto B, esso conviene per sé ad un soggetto C solo se il genere di C o coincide con o è subordinato a quello di B, qui si fa l’ipotesi di un genere a (linea) che rappresenta il genere del soggetto B (retta) e rispetto al quale un predicato A (linea più bella) è accidentale. Allora A sarà accidentale anche rispetto ad a. Tuttavia nulla vieta, sembra qui asserire Aristotele, che esista un altro genere di B, b, rispetto al quale A è in una relazione per sé. In tal caso A, mentre è accidentale rispetto a B considerato in quanto a, è in un rapporto per sé con B considerato in quanto b.

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Sulla figura più bella, secondo Aristotele il cerchio, cfr. Cael. I 2, 269a19 sgg. In generale sul rapporto fra matematica e bellezza cfr. Metaph. M 3, 1078a31 sgg. Bibliografia: Upton [1983]; Lennox [1985].

CAPITOLO 8 75b21-30: Il passo è lungi dall’essere semplice. Dal fatto che le premesse di una dimostrazione devono essere universali Aristotele deduce che la conclusione deve essere eterna. È legittimo interpretare l’eternità della conclusione come indicante che la proposizione non cambia (o non può cambiare?) mai il suo valore di verità. L’universale, kayÒlou, qui in questione deve avere almeno la forza del katå pantÒw definito in APo. I 4, 73a21 sgg., mentre non è necessario equipararlo al kayÒlou in senso stretto definito nel seguito di quel capitolo (73b26 sgg.). Allora, se le premesse di una deduzione sono vere e universali, nel senso che sono onnitemporalmente vere della totalità dei loro soggetti, anche la conclusione deve essere tale, e in questo senso eterna. La conseguenza è immediata: delle proposizioni che sono corruttibili, nel senso che cambiano (che possono cambiare?) il loro valore di verità, non c’è dimostrazione e quindi conoscenza scientifica. In effetti una deduzione che concluda ad una proposizione che cambia il suo valore di verità non può procedere da proposizioni che non cambiano mai il loro valore di verità, dato che, come dice Aristotele, fintantoché le premesse sono, ossia sono vere, anche la conclusione è, ossia appunto è vera. Quindi almeno una delle premesse deve essere tale da cambiare il proprio valore di verità. Tuttavia Aristotele non si limita a questo ma in 75b27-30 aggiunge con una motivazione indipendente che almeno una delle premesse da cui procede una conclusione non eterna deve essere non solo corruttibile, ma anche non universale. In effetti la corruttibilità sembrava già di per sé implicare la non universalità. Qui egli sembra dire che la premessa corruttibile è anche non universale perché il suo predicato a qualcuno degli elementi del soggetto conviene e a qualcuno non conviene (la congettura di Barnes, p. 133, adottata anche da De Rijk [2002]: 625, a 75b29 ˜te m¢n ¶stai ˜te d’oÈk ¶stai tå §f’Œn, che andrebbe tradotta con «i suoi subordinati qualche volta saranno e qualche volta no», non è indispensabile). In effetti egli avrebbe potuto semplicemente dire che la proposizione non è universale perché c’è (o potrebbe esserci) un momento in cui a qualcuno degli elementi del soggetto il predicato non conviene. Si noti che in EN VI 3, 1139b22-24 Aristotele deduce che l’oggetto della conoscenza scientifica dev’essere eterno dal fatto che è necessario. 75b30-32: Come hanno notato tutti i commentatori, l’argomento di Aristotele si comprende solo con riferimento alla discussione della definizione di APo. II 8-10 (cfr. in part. 10, 94a11 sgg.). L’idea generale è comunque chiara: poiché una definizione può solo o fungere da premessa in una dimostrazione, o costituire essa stessa una dimostrazione contratta, o infine rappresentare la conclusione di una dimostrazione, è sempre costituente di una dimostrazione e in quanto tale non può corrompersi.

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75b33-36: L’esempio dell’eclissi di luna mostra che i pollãkiw ginÒmena di cui parla qui Aristotele non sono da identificare con «ciò che accade per lo più» (tå …w §p‹ tÚ polÁ ginÒmena) di cui si parla in APo. I 30 e APr. I 13, 32b4 sgg.). Quest’ultima espressione denota una connessione fra eventi o stati di cose che solo eccezionalmente è discontinua (per lo più gli uomini incanutiscono con l’età), mentre l’espressione usata qui si riferisce agli avvenimenti ricorrenti: l’eclissi di luna non avviene sempre, ma sempre a certe condizioni. La dimostrazione circa l’eclissi è di un universale che è sempre nella misura in cui si riferisce al fenomeno come tale, mentre è di un particolare che non è sempre, se rivolta ad un’istanza del fenomeno. Quindi, sembrerebbe di dover concludere, la conoscenza scientifica riguarda propriamente il fenomeno in generale dell’eclissi e non le sue particolari occorrenze.

CAPITOLO 9 75b37-76a3: La tesi generale del capitolo è a prima vista chiara: si ottiene una dimostrazione e quindi autentica conoscenza scientifica solo se le premesse da cui si dimostra sono pertinenti al dimostrato, nel senso che non sono troppo generali. L’idea sembra essere la seguente: supponiamo di dover dimostrare A di B. Perché la dimostrazione funzioni bisogna che A sia provato di B in quanto tale. Per esempio se «A» sta per la «proprietà 2R» avremo una dimostrazione relativa a questo predicato quando proveremo che la proprietà 2R è vera del triangolo, appunto perché il triangolo in quanto triangolo ha tale caratteristica. È naturale supporre che se B è A in quanto tale, la ragione dell’attribuzione di A a B vada cercata in quello che B è, appunto la sua definizione. Se interpretiamo in modo stretto le parole di Aristotele abbiamo ad un tempo la spiegazione del perché non è possibile mutuare le premesse di una dimostrazione in una scienza da quelle di un’altra scienza e la giustificazione del rifiuto di ammettere proposizioni generali nelle prove scientifiche. Come questo si accordi con l’accettazione da parte di Aristotele dei cosiddetti principi comuni (cfr. APo. I 10, 76b37 sgg.) non è ben chiaro. L’accenno alla prova della quadratura del cerchio effettuata da Brisone, un megarico vissuto nella stessa epoca di Aristotele (Giannantoni II S), è controversa. La sua dimostrazione è citata anche in SE 11, 171b16-18 e 171a2-7, dove essa è qualificata come eristica. Secondo la spiegazione offerta da Filopono, 111.20 sgg., che si rifà ad Alessandro (presso Filopono, 111.20-21), Brisone avrebbe considerato un cerchio cui avrebbe circoscritto e iscritto due quadrati. Egli quindi avrebbe aumentato il numero dei lati delle figure iscritte e circoscritte e avrebbe concluso, che procedendo così sufficientemente a lungo, la figura iscritta e quella circoscritta alla fine avrebbero coinciso con il cerchio (cfr. Heath, [1949]: 49). Brisone avrebbe usato nella prova il principio comune secondo cui due grandezze a e b, se sono tali che a è maggiore di tutte le grandezze di cui è maggiore b ed è minore di tutte le grandezze di cui è minore b, sono fra loro uguali. Tale principio sarebbe vero e immediato. Tuttavia la prova geometrica che lo utilizzasse non darebbe luogo ad una conclusione scientifica. Daccapo come non si possa considerare il principio di Brisone, se è quello invocato da Filopono, un princi-

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pio comune analogo a quello più volte citato da Aristotele, «togliendo da uguali uguali restano uguali», e secondo lui legittimamente applicato nelle dimostrazioni matematiche, è un mistero. 76a4-9: Il testo non è facile, anche se l’idea generale è chiara. Conosciamo scientificamente un predicato A (ßkaston: 76a4), per esempio la proprietà 2R, quando lo attribuiamo ad un soggetto C (il triangolo) che è ciò in base a cui A è vero di C (˜tan kat'§ke›no gin≈skvmen kay'˘ Ípãrxei: 76a4-5), ossia a partire dai principi di C in quanto tale (§k t«n érx«n t«n §keiÄnou √ §ke›no: 76a5-6). In altri termini, quel che Aristotele vuol dire è che se A è vero di C in quanto tale, allora è a partire da un termine medio B che esprime quel che C è (ossia è la sua definizione o parte di essa) che la conoscenza scientifica del nesso AC deve svilupparsi. È ovvio allora che B, il termine medio, è in una relazione per sé con C e dunque tra A, B e C intercorrono relazioni per sé che garantiscono la congenericità fra i tre termini. 76a9-15: Aristotele contempla qui una possibile eccezione alla tesi discussa finora secondo la quale si ha conoscenza scientifica di un nesso predicativo AC solo se si conosce che A è vero di C in virtù della natura di C. Egli sembra considerare il caso dell’applicazione di A a sottospecie di C (per esempio la proprietà 2R all’isoscele). In questo caso ci troviamo nella stessa situazione delle scienze subordinate cui si era già accennato in APo. I 7, 75b14 sgg.: se AC è una predicazione armonica, si può dare il caso che essa sia provata attraverso i nessi AB e BC, dove la premessa AB è un teorema aritmetico e BC una proposizione armonica. Così come nel caso della proprietà 2R e dell’isoscele, A non è provato di B in quanto tale, ma, attraverso B è esteso a C. In questa prospettiva si capisce anche perché Aristotele dica che la scienza sopraordinata (l’aritmetica) faccia conoscere il perché A appartiene a tutto ciò a cui appartiene e quella subordinata faccia conoscere soltanto che A appartiene a C. In effetti è solo nel primo caso che viene fornita la ragione adeguata dell’appartenere di A a tutto ciò cui appartiene su questa distinzione (cfr. anche APo. I 13, 78a22 sgg.). Quello che è invece meno chiaro è la differenza fra la situazione (accettata) delle scienze subordinate e quella (respinta) della dimostrazione di Brisone. In entrambi i casi le prove avvengono «in base a qualcosa di comune» (75b41 e 76a15). È difficile rispondere a tale questione perché non sappiamo esattamente come la dimostrazione di Brisone fosse strutturata. Se essa è così come l’espone Filopono sulla scorta di Alessandro, non c’è in realtà modo di distinguere i due casi. In realtà non è l’uso di principi comuni nelle dimostrazioni che Aristotele avrebbe rigettato, quanto il fatto che la prova nel suo complesso non fornirebbe una giustificazione adeguata dell’asserto da provare. Forse la sua intuizione è che di un certo stato di cose P talvolta sono possibili spiegazioni S1 ed S2 che abbiano un diverso grado di pertinenza e genericità. Se S1 è tale che, appunto per la sua genericità è applicabile anche ad uno stato di cose Q molto diverso da P, mentre S2 vale solo per P, allora S2 è da privilegiare rispetto a S1 allorché sia in questione la spiegazione scientifica di P. 76a16-25: Aristotele esordisce con la tesi secondo cui i principi propri di una scienza non possono essere dimostrati e, nella prima parte del passo (76a16-18),

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sembra trarre alcune conseguenze insostenibili dalla sua negazione: se i principi delle scienze fossero dimostrabili, vi sarebbero altri principi da cui sarebbero derivabili e la conoscenza di tali principi rappresenterebbe una conoscenza che governa tutte le cose, giacché costituirebbe il principio della conoscenza di tutte le altre cose. In altri termini vi sarebbe una conoscenza rispetto alla quale le conoscenze di tutte le scienze sarebbero in qualche modo ancillari perché in definitiva dipendenti da quella. È evidente che Aristotele rifiuta questa prospettiva (cfr. anche APo. I 11, 77a26 sgg.). La seconda parte del passo (76a18-25) abbozza una diversa argomentazione per assurdo della sua tesi: se i principi propri di una scienza a, ossia i Da, fossero derivabili da altri principi, per esempio da G, i principi G non potrebbero essere tali da essere esclusivi di a, dovendoci essere una scienza b, che ha per suoi principi propri i principi G. Poiché non si dà che b sia con a nel rapporto in cui è la geometria rispetto all’ottica, la deduzione dei principi Da viola il divieto di trasferimento di una dimostrazione da un genere ad un altro. Quindi i principi delle scienze non sono dimostrabili. Ci sono due difficoltà in questa ricostruzione. La prima è che non è chiaro perché b non possa essere concepita come una scienza sopraordinata ad a. La seconda sta nel fatto che dalle righe a18-25 non ci si aspetterebbe una argomentazione del tutto indipendente, ma una spiegazione delle conseguenze negative che Aristotele, nella prima parte del passo, afferma siano derivabili dalla negazione della tesi (esistenza di principi assolutamente universali e di una scienza sovrana), né queste conseguenze sono di per sé ovvie. Perché lo divengano bisogna assumere che, se i principi di una scienza fossero derivabili, lo sarebbero anche quelli di tutte le altre scienze e ci sarebbe un’unica scienza dei principi per tutte le scienze. L’adozione di quest’ipotesi consente di superare anche la prima difficoltà. La scienza dei principi, se è unica per tutte le scienze, non può essere che l’ontologia e il suo oggetto, ciò che è in quanto è, non costituisce un genere. Quindi la scienza dei principi non può essere con le diverse scienze nel rapporto in cui è la geometria con l’ottica. Ma di quest’ipotesi non si fa menzione nel testo.

CAPITOLO 10 76a31-36: Aristotele propone una nuova definizione di principio diversa da quella di APo. I 2, 72a7-8. Quello che è interessante in questa è che, a differenza di quella, non sembra confinare necessariamente i principi a proposizioni. Nell’ambito delle cose che non possono essere dimostrate vi sono naturalmente alcune proposizioni, ma anche di un termine si può sostenere che non può essere provato di qualcosa. Difatti Aristotele dirà nel seguito che fra i principi di una scienza è da annoverare il suo genere soggiacente, che naturalmente non è una proposizione. Del resto gli esempi che egli propone qui, «unità», «retto», «triangolo» sono tutti esempi di termini e non di proposizioni. È legittimo supporre che la distinzione fra termini e proposizioni, che egli per primo teorizza compiutamente (cfr. Int. 1, 16a9 sgg.) non giochi un ruolo decisivo in questa sua classificazione dei principi delle scienze. È tuttavia azzardato ritenere con Scholz [1975]: 52 e

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60) che tå pr«ta ka‹ tå §k toÊtvn di 76a32-33 designi rispettivamente i termini primitivi e quelli definiti in base a questi. Se tå pr«ta designasse davvero i termini primitivi, non si capirebbe perché Aristotele affermi che anche per questi termini bisogna presupporre che cosa significano, e quindi definirli in qualche modo. Qui tå pr«ta sono certamente i termini che costituiscono le premesse prime delle dimostrazioni e tå §k toÊtvn le affezioni che vengono provate a partire dai principi e che fungono da predicati nelle conclusioni. L’uso del termine e‰nai e dell’espressione ˜ti ¶sti è complesso. È indubbio che essi sono talvolta usati per indicare l’esistenza. Dell’unità e della grandezza bisogna presupporre ˜ti ¶sti, e ciò probabilmente significa che esistono. D’altra parte delle affezioni denotate dai predicati delle conclusioni dimostrative si prova ˜ti ¶sti, nel senso che si dimostra che esse convengono ai rispettivi soggetti dei quali l’esistenza è già stata assunta. Quella che a noi sembra una confusione fra l’uso predicativo e l’uso esistenziale del verbo essere forse non suonava tale ad Aristotele. In effetti, dal suo punto di vista, l’asserzione d’esistenza per un termine generale X, come per esempio «unità» o «retto», si traduce in un’assunzione immediata della verità di una proposizione del tipo di «X è un sottinsieme degli ˆnta, le cose che sono» ovvero «le esemplificazioni di X esistono», quando si abbia a che fare con un asserto indimostrabile. Quando invece l’esistenza di X sia dimostrabile, allora X è un certo tipo di attributo F e la questione diventa predicativa, nel senso che rispondere alla domanda «X esiste» comporta trovare un Y (costituito da esistenti) di cui X sia a qualche titolo predicato, talché «X esiste» diviene «gli Y esistenti sono X». 76a37-b2: È qui introdotta la ben nota distinzione fra principi propri e principi comuni. Sono comuni i principi applicabili a più di una scienza, come per esempio (T) «togliendo da uguali uguali restano uguali», che nella forma (Tg) «togliendo da grandezze geometriche uguali grandezze geometriche uguali restano grandezze geometriche uguali» trova applicazione nella geometria e nella forma (Ta) «togliendo numeri uguali da numeri uguali restano numeri uguali» ha cittadinanza nell’aritmetica. (T) esprime l’isomorfismo strutturale di (Tg) e (Ta) e in questo senso c’è una proporzionalità (kat'énalog¤an) fra (Tg) e (Ta). Sulla funzione dei principi comuni si è a lungo discusso. Alcuni suppongono che essi non entrino propriamente nelle dimostrazioni come premesse ed abbiano una funzione meramente regolativa. Ma quest’interpretazione non ha alcun supporto nei testi ed è apertamente smentita da APr. I 24, 41b13-22 dove Aristotele, a proposito della prova dell’uguaglianza degli angoli alla base di un triangolo isoscele, afferma che bisogna assumere nella dimostrazione (T), altrimenti si commette una petizione di principio. Dunque i principi comuni entrano nelle dimostrazioni come premesse (su ciò si veda anche McKirahan [1992]: 74-75). Non è ben chiaro d’altra parte se i principi comuni possano fungere da premesse solo nella forma contratta, oppure se Aristotele faccia qui un’osservazione dettata da un’esigenza di economia. Il passo parallelo di APo. I 11, 77a22-25 a proposito del principio del terzo escluso, evidentemente un altro principio comune, indurrebbe a sottoscrivere questa seconda ipotesi («e queste cose [i principi comuni] non le assume sempre universalmente, ma per quanto basta, e basta quanto è relativo

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al genere»), mentre la prima ipotesi si attaglia meglio all’argomentazione generale di Aristotele. Si veda anche Metaph. G 3, 1005a23-27. La caratterizzazione dei principi comuni fornita qui è diversa da quella di assioma di APo. I 2, 72a15-16, dove gli assiomi erano di fatto identificati con i principi logici. Altrove Aristotele sembra concepire i principi comuni come i principi comuni a tutte le scienze (cfr. ad es. I 11, 77a26-27; Metaph. G 3, 1005a19-23). A fronte dei principi comuni stanno i principi propri, i quali, come si dirà subito dopo, sono non solo proposizioni, ma anche termini, e hanno applicazione esclusivamente nell’ambito di una sola scienza. 76b3-22: Aristotele include fra i principi propri di una scienza non solo, come aveva già fatto, le definizioni di termini specifici di quella scienza, ma anche il genere soggiacente alla scienza di cui si deve conoscere non solo l’esistenza (ossia che esistono le cose che sono X, dove «X» sta per un genere), ma anche la definizione (tod‹ e‰nai: b6). Al genere sono contrapposte le caratteristiche che vengono provate di esso, delle quali bisogna sapere che cosa significhino, ma non che sono, ovvero che si predicano con verità del genere. L’insistenza sul fatto che del genere bisogna conoscere non solo la definizione, ma anche l’esistenza è probabilmente da mettere in relazione con la ben nota tesi aristotelica secondo la quale di ciò che non esiste non si può dare una definizione che ne colga l’essenza (APo. II 7, 92b4 sgg.). Stupisce che nell’elencazione dei tre elementi costitutivi di una scienza, il genere, i principi comuni, le caratteristiche che vengono dimostrate del genere, non sia fatta alcuna menzione dei principi propri, i quali, stando al discorso sviluppato finora, dovrebbero avere un ruolo preponderante in una scienza. I tre elementi menzionati sono in linea di principio presenti in ogni scienza, anche se può accadere che di fatto l’esplicitazione di alcuni di essi possa mancare. 76b9: Una linea A è irrazionale rispetto a una linea B se non esistono due interi m e n tali che mA = nB. Una linea AC è spezzata rispetto ad un punto B se l’angolo ABC è diverso da 180°; invece AC è convergente rispetto ad un punto B se il prolungamento di AC passa per B e l’angolo ABC è uguale a 180° (cfr. Ross, p. 539 e Barnes, p. 139). 76b23-34: Vengono qui caratterizzate la presupposizione (ÍpÒyesiw) e la pretesa (a‡thma). «A‡thma» viene normalmente reso con «postulato», ma qui la parola ha un significato completamente diverso da quello a cui la tradizione euclidea ci ha abituato. Ho perciò preferito una traduzione innovativa. Ciò a cui queste due entità sono contrapposte non è ben chiaro. Verrebbe da pensare che fossero i principi comuni o addirittura quella sottoclasse dei principi comuni, come ad esempio il principio di non contraddizione, che è impossibile rifiutare se non a parole (cfr. Metaph. G 3, 1005b23-26). Ma forse Aristotele vuole alludere qui a tutti i principi di una scienza: una volta appresi, sono tali che non possono essere messi in questione se non a parole (doke›n énãgkh [76b24]: è necessario credere ad essi), essendo assolutamente certi in quanto origine della certezza delle conclusioni (cfr. APo. II 19, 100b5 sgg.). La terminologia del «discorso esterno» contrapposto al «discorso nell’anima» è sicuramente ispirata a Platone, Tht.

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189E6-190A6 (in part. 190A5-6). È interessante osservare che Filopono, 130.35131.9, spiega la distinzione aristotelica con la distinzione stoica tra lÒgow proforikÒw e lÒgow §ndiãyetow. La presupposizione definita qui è tutt’altra cosa dalla presupposizione di cui si parla in APo. I 2, 72a18: quella ha il carattere dell’immediatezza dimostrativa che a questa è invece negato. Forse la sua presente qualificazione è da mettere in relazione con la posizione di Platone sui principi della matematica quale emerge ad es. da R. VI 510C-D. Della pretesa vengono date qui due caratterizzazioni, la seconda delle quali (b32-34) suona diversa dalla prima (b26-31). Un miglioramento della seconda definizione si ottiene accogliendo la proposta di Hayduck di espungere μ a 76b33. Anche così però la definizione resta diversa dalla precedente. Lì si diceva che P è una pretesa se P (i) è dimostrabile; (ii) è assunta in una dimostrazione da un maestro m senza prova; (iii) il discente d di m o (a) non ha alcuna opinione rispetto a P oppure (b) crede in qualcosa che è incompatibile con P. Nella seconda definizione, anche espungendo μ, la condizione (iii-a) è omessa e resta solo quella (iiib). Barnes, pp. 141-142, ha acutamente suggerito che la discrepanza potrebbe essere colmata se ad «Ípenant¤on» a 76b32 si desse il significato non di «contrario», assimilandolo quindi alla §nant¤aw di 76b31, ma piuttosto di «ciò che non è in accordo con». In questo modo la seconda definizione coprirebbe i due casi esplicitati dalla prima. Ma è dubbio che Ípenant¤on abbia questo senso. 76b35-77a3: Alcuni autori (ad es. Ross, p. 541) pensano che qui sia in questione una contrapposizione fra presupposizioni e definizioni, prese quest’ultime nel senso di proposizioni che attribuiscono definientia a definienda. Il contesto è contro quest’ipotesi, dato che gli ˜roi sono opposti alle presupposizioni perché queste sono proposizioni e quelli non lo sono. Si dovrebbe allora pensare che le definizioni non sono proposizioni nel senso che non asseriscono il vero o il falso, ma hanno soltanto valore stipulativo. Ma contro quest’idea sta il fatto che Aristotele riconosce ripetutamente che le definizioni possono costituire le premesse di una dimostrazione (APo. I 8, 75b30-32; II 3, 90b24; 17, 99a21-22). Un’alternativa a questa interpretazione è quella di intendere ˜row nel senso di «definiens», un altro significato possibile del termine (cfr. Top. I 4, 101b19 sgg.), come hanno fatto Pacius, pp. 418 e 438; Bolton [1976]: 522-523 n. 5; Landor [1981]: 311; De Rijk [2002]: I 631. In effetti un definiens è un termine complesso e, come tale non ha una struttura predicativa (Int. 5, 17a11-15; APo. II 3, 90b34-35; Top. VI 6, 144a28-36). Non è ben chiaro tuttavia perché Aristotele dovrebbe fare qui riferimento ai definientia. È forse preferibile, con Von Fritz [1955]: 40 e Barnes, p. 142, prendere ˜row nel senso di «termine», un significato ampiamente testimoniato nel Corpus (cfr. Bonitz, Index, 530a21 sgg.). Diversamente Charles [2000]: 72 n. 20 secondo il quale sarebbero invece in questione le definizioni, ma non in generale, bensì solo quelle che esprimono il significato di un nome, le quali non entrerebbero mai a far parte delle premesse di una dimostrazione. Quel che Aristotele afferma, tuttavia, non è che gli ˜roi non sono premesse, ma che non sono proposizioni e le definizioni, anche quelle nominali, sono proposizioni. L’ultima parte del passo contiene un’osservazione marginale sulle presupposizioni geometriche che incontriamo anche altrove (APr. I 41, 49b33 sgg.; Me-

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taph. M 3, 1078a19-21; N 2, 1089a22 sgg.). Dal fatto che uno studioso di geometria argomenta a partire da linee disegnate che non sono rette assumendole come rette o da linee che non sono di una certa lunghezza considerandole come di una certa lunghezza non segue che egli parta da assunzioni false, dato che quelle linee non rette o di una certa lunghezza stanno per linee rette o di un’altra lunghezza (forse qui si allude anche a linee di lunghezza determinata che stanno per linee indefinitamente estese). In ciò Aristotele è solidale con Platone (cfr. R. VI 510D sgg.), mentre è plausibile che l’obiettivo polemico sia Protagora (cfr. anche Metaph. B 2, 997b35 sgg.). Sul valore euristico dei diagrammi in geometria cfr. Metaph. Y 9, 1051a21 sgg. e Mignucci [1977]; Franciosi [1980]: 187-191; Mueller [1981]: 12-14; McKirahan [1992]: 146-147; Barnes [1993]: 238. Da un punto di vista più generale è interessante osservare che le presupposizioni indicate dagli esempi aristotelici, «la linea tracciata è lunga un piede» o «la linea tracciata è retta», evidentemente con riferimento a certi diagrammi, (i) fungono da premesse delle dimostrazioni e (ii) non sono proposizioni esistenziali (Gomez-Lobo [1977]: 435-436). Ciò fa pensare che la «presupposizione» considerata qui non sia né quella definita nel passo precedente (76b23-34) né quella caratterizzata in APo. I 2, 72a18-24, almeno se è corretta l’interpretazione che faceva di essa una proposizione che asserisce l’esistenza di qualcosa (vedi la n. a 72a14-24). Le presupposizioni in questione qui, essendo premesse dimostrative, sono proposizioni immediate e indimostrabili, mentre le presupposizioni di 76b23-34 sono proposizioni dimostrabili. 77a3-4: Ulteriore argomento diretto a mostrare la distinzione fra presupposizioni e termini: le prime, ma non i secondi, sono quantificate universalmente o particolarmente. È una prova in più in favore della resa di ˜roi con «termini». L’unica cosa che disturba un po’ è che gli esempi di presupposizioni addotti nel passo precedente sembrano essere di proposizioni singolari («la linea tracciata è lunga un piede», «la linea tracciata è retta»: 76b41-42). Bibliografia: Hintikka [1972]; Frede [1974]; Hintikka [1974]; Scholz [1975]; Gomez-Lobo [1978]; Knorr [1980a]; [1980b]; [1980b]; Landor [1981].

CAPITOLO 11 77a5-9: Gli e‡dh, le forme, di cui si parla qui sono evidentemente le forme platoniche (cfr. APo. I 22, 83a33; Top. VI 8, 147a5-8) e il passo è una chiara presa di posizione contro l’idea di una loro esistenza separata. Sono ben noti gli argomenti accademici a favore della separazione delle idee. Alcuni di essi erano basati sul dato di fatto della predicazione: se A è un predicato che è vero di x, y, z, deve essere diverso da x, y, z, perché – a differenza di A – x, y, z non si predicano l’uno dell’altro. Dunque A, proprio per poter essere predicato di x, y, z, deve avere un’esistenza separata dai suoi soggetti (Per‹ fide«n fr. 3 Ross = 187 Rose). Contro una versione più rigorosa di questo ragionamento Aristotele invoca il cosiddetto argomento del «Terzo Uomo», che già Platone aveva messo in bocca a Parmenide nell’omonimo dialogo (Pl. Prm. 132A-B). L’idea di Aristotele sembra essere che la predicazione

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va chiaramente distinta dalla separazione; anzi, proprio perché ci sia predicazione non ci deve essere separazione (Per‹ fide«n fr. 4 Ross = 188 Rose). Questo punto di vista è rispecchiato qui dalla netta contrapposizione fra essere «uno al di là dei molti» (ßn ti parå tå pollã) ed essere «uno detto di molti» (©n katå poll«n). La prima espressione marca anche altrove lo statuto ontologico delle idee platoniche (ad es. Metaph. A 9, 991a1-2; APo. I 24, 85a31), ma non sempre (ad es. APo. II 19, 100a7); la seconda invece fa riferimento alla predicazione, anche se altrove (ad es. Int. 7, 17a39-40; Metaph. Z 13, 1038b11) Aristotele è più cauto nella formulazione: un predicato non è ciò che si predica di più cose, ma ciò che può predicarsi, o un candidato a predicarsi, di più cose. L’universalità del medio è sicuramente da porre in relazione con la prima figura sillogistica che, secondo Aristotele, è quella che meglio rappresenta la formalizzazione delle argomentazioni scientifiche (APo. I 14, 79a17 sgg.). La non omonimia a cui si accenna alla fine del passo non è da considerarsi come l’esclusione di una forma di ambiguità: quello che Aristotele vuol dire è che A, quando è predicato con verità di x e di y diversi fra loro, per poter essere considerato uno di quegli universali che fungono da termini medi in una dimostrazione, deve avere lo stesso significato in riferimento a x e a y. Fin dai tempi antichi il passo è stato considerato fuori posto e sono state fatte varie proposte di una sua ricollocazione (Temistio, 21.7-15; Zabarella, 768CD; Ross, p. 542). Se si considera tuttavia la colorazione platonica della parte finale di APo. I 10, la presenza del nostro passo all’inizio di APo. I 11 non è poi così stridente. 77a10-21: Il passo è estremamente oscuro e tutte le esegesi che ne sono state date sono lungi dall’essere soddisfacenti. In prima approssimazione Aristotele sembra sostenere che il «Principio di non contraddizione» (PNC) non ha applicazione diretta nelle dimostrazioni se non in casi molto particolari e precisamente quando si voglia farlo comparire nella conclusione. Per ottenere questo risultato il PNC deve essere collegato all’estremo maggiore del sillogismo dimostrativo (qui detto «primo termine») mentre non sembra che sia rilevante collegarlo al termine medio o all’estremo minore («terzo termine»). Va da sé che questa tesi non è incompatibile con quella asserita altrove (ad es. Metaph. G 3, 1005b32-34) secondo la quale tutte le dimostrazioni hanno a che vedere con il PNC. Una parte notevole della difficoltà deriva dal cercare di esprimere quel che Aristotele vuol dire mediante proposizioni quantificate universalmente. Quest’esigenza nasce dal fatto che si parla di sillogismi (presumibilmente in Barbara, nonostante l’esempio di Callia che però qui sembra dover essere trattato come un termine generale [cfr. Barnes, p. 146]) e questi richiedono proposizioni quantificate. D’altra parte è facile osservare che Aristotele non fa alcuna menzione della quantificazione. Proviamo a sbarazzarci provvisoriamente di essa (anche se ciò non è corretto e probabilmente non è quello che Aristotele voleva) e consideriamo proposizioni singolari, che possiamo indicare, prendendo a prestito la simbologia moderna, con F(a), G(a) e così via, dove «a» sta per un individuo, Cleone o Callia, e «F» sta per un predicato, per esempio «uomo» o «animale», che viene attribuito con una presunzione di verità ad a. Fatte queste convenzioni, è naturale tradurre le proposizioni categoriche in condizionali. Possiamo allora in-

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terpretare la frase «che è vero affermare il primo termine del medio e che non è vero negarlo» (77a12-13) come facente riferimento ad un predicato, estremo maggiore in un sillogismo, di cui diciamo che è vera l’attribuzione al termine medio mentre è falsa la negazione dell’attribuzione a quel medio. Coerentemente con la semplificazione della quantificazione che abbiamo operato, possiamo rappresentare questa situazione con: (1) Se F(a) allora G(a) e non(non-G(a)) A rigore, il conseguente della (1) non esprime un’applicazione del PNC come normalmente lo conosciamo e come Aristotele di solito lo concepisce (ad es. Metaph. G 3, 1005b19-22). Per esprimerlo esso dovrebbe avere la forma: (2) non(G(a) e non-G(a)) che ovviamente non è equivalente all’apodosi di (1). È giocoforza supporre che Aristotele qui voglia considerare questa tesi forte che implica il PNC. È facile vedere che se ad (1) aggiungiamo una premessa del tipo di (3) Se H(a) allora F(a) possiamo immediatamente concludere (4) Se H(a) allora G(a) e non(non-G(a)) che esprime la stessa applicazione della tesi più forte del PNC che ritroviamo in (1). A questo punto Aristotele aggiunge che «non fa alcuna differenza assumere che il medio sia e non sia e così pure il terzo termine» (77a13-15). Sono tentato di immaginare che egli voglia qui suggerire che non produce alcuna differenza per l’inferenza aggiungere la negazione del (della tesi forte che implica il) PNC al termine medio o all’estremo minore. Ci aspetteremmo allora che egli assumesse la negazione del conseguente della (1) applicato al termine medio o all’estremo minore. Invece, con riferimento al termine medio, egli sembra prendere in considerazione una proposizione come «F(a) e non-F(a)» che, applicata all’estremo minore H(a), dà luogo alla premessa: (3*) Se H(a) allora [F(a) e non-F(a)] Si noti che il conseguente della (3*) è una vera e propria negazione del PNC a differenza di quel che accadeva per il conseguente della (1) che, come abbiamo visto, non è una formulazione del PNC (in effetti «F(a) e non-F(a)» non è la negazione di «F(a) e non (non-F(a))»). Se a (3*) aggiungiamo la premessa maggiore (1*) Se [F(a) e non-F(a)] allora G(a), otteniamo immediatamente per transitività la conclusione (4*) Se H(a) allora G(a). Si noti per inciso che si sarebbe potuta ottenere (4*) anche assumendo come premessa maggiore la proposizione standard «Se F(a) allora G(a)» sulla base del fatto che «F(a) e non-F(a)» implica ovviamente «F(a)». Ma allora la nuova inferenza non produce nulla di più di quel che produce l’inferenza in cui la negazione del PNC non è assunta.

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Più problematica è la ricostruzione dell’estensione del discorso che Aristotele fa al caso dell’estremo minore. In effetti se procediamo in parallelo a come abbiamo fatto con il caso del termine medio, dovremmo avere la premessa minore (3**) Se H(a) e non-H(a) allora F(a) Ma da questa premessa congiunta alla maggiore che in questo caso è (1**) Se F(a) allora G(a) non segue, come ci aspetteremmo, (4*), ma solo (4**) Se H(a) e non-H(a) allora G(a) da cui non segue (4*). Per ottenere la conclusione desiderata dovremmo semmai fare riferimento ad una premessa più forte di (3**), e precisamente (3***) Se H(a) allora F(a) e se non-H(a) allora F(a) dalla quale, se unita a (1**), segue la conclusione (4*), perché dal fatto che tanto H(a) quanto non-H(a) implichino F(a) deriva pur sempre che H(a) implichi F(a). L’ultima parte del passo (77a18-21) è particolarmente oscura. Una possibile interpretazione è che Aristotele faccia riferimento al caso dell’inferenza che ha come premesse (1*) e (3*) e come conclusione (4*) e voglia giustificare la possibilità della verità della premessa (1*). In effetti la frase «il primo termine si dice non solo del medio, ma anche di altro per il fatto di essere rispetto a più» sembrerebbe alludere al caso di (1*). Nulla vieta che tanto ciò che è F quanto ciò che non è F siano G, se G ha un’estensione maggiore di F. Alla stessa (1*) dovrebbe fare riferimento la seconda parte del passo, che semplicemente ridice dal punto di vista della situazione del medio quanto è affermato nella prima parte. Nessuna menzione è invece fatta della (3*). Ulteriori difficoltà nascerebbero qualora si introducesse, come si dovrebbe, la quantificazione. L’unica giustificazione per omettere questa ulteriore complicazione è quella di immaginare che Aristotele abbia elaborato il suo argomento senza tener conto della quantificazione, pensando un po’ ingenuamente che la sua introduzione sarebbe stata banale. Se questa è l’interpretazione del passo (ma diversamente intendono Barnes, pp. 145-147; Smith [1982]: 119-121 e McKirahan [1992]: 76-79) e se dovessimo giudicare solo in base a questo brano, non considereremmo il suo autore uno dei più grandi logici del pensiero occidentale. 77a22-25: Aristotele allude qui a quello che modernamente viene chiamato «Principio del terzo escluso» (PTE), secondo il quale o ha luogo un’affermazione oppure ha luogo la corrispondente negazione, ossia o P oppure non-P, dove «P» sta per una qualunque proposizione. Questo modo di formulare il PTE si ritrova anche altrove, come ad es. in APo. I 4, 73b23; 32, 88b1; APr. I 13, 32a27-28. La funzione del PTE nelle dimostrazioni per assurdo è facilmente chiarita. Una dimostrazione per assurdo, almeno nella forma in cui la usa Aristotele, se non in quella in cui la teorizza (APr. I 23, 41b21 sgg.; 44, 50a29 sgg.), ha come punto di partenza la negazione della tesi da provare: se bisogna provare P, allora si assuma non-P. Con l’aiuto di un insieme di premesse della cui verità non è questione si deduce da non-P un assurdo o, per usare il linguaggio di Aristotele, un

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impossibile, ossia una proposizione che o è una contraddizione o la implica. Si è allora autorizzati a sostenere che non è il caso che non-P. Ma allora, e qui entra in gioco il PTE, siccome o P o non-P e, come si è detto, non: non-P, possiamo concludere che P, la tesi che si doveva dimostrare. Aristotele ribadisce che il PTE e gli altri principi comuni (come fa pensare il taËta di 77a23) non vanno necessariamente formulati in tutta la loro estensione nelle diverse dimostrazioni e il suo modo di esprimersi induce a credere che la contrazione dei principi non sia in ogni caso indispensabile (oÈd' ée‹ kayÒlou: 77a23). 77a26-35: Dal fatto che Aristotele dice che «tutte le scienze comunicano fra loro per le cose comuni», dove «le cose comuni» sono evidentemente i principi comuni, alcuni hanno inferito che egli si riferisca esclusivamente ai principi logici generali, come il Principio di non contraddizione o il Principio del terzo escluso, che sono appunto comuni a tutte le scienze. Ma quest’ipotesi è smentita dall’esempio di 77a30-31, dove è menzionato il principio «togliendo da uguali uguali restano uguali», che naturalmente vale per le sole quantità. In realtà la frase di Aristotele è sufficientemente generica da essere compatibile con la seguente parafrasi: date due scienze qualunque esse hanno in comune almeno un principio comune. Inoltre il richiamo di 77a29-30 alla «scienza che eventualmente cercasse di provare in generale le cose comuni» non è un’allusione alla metafisica, ma fa riferimento ad un’ipotesi che, nella prospettiva aristotelica, deve essere rigettata. Non esiste infatti una tale scienza. Comunque sia, il passo enfatizza soprattutto la relazione della dialettica alle scienze. Da un lato, Aristotele sottolinea che la dialettica ha a che fare con tutte le scienze sia perché si occupa di tutto, nel senso che è in grado di trattare qualunque problema (cfr. Top. I 1, 100a18-20; Metaph. G 2, 1004b19-20), non avendo un oggetto determinato (SE 11, 172a11-12), sia perché essa ha tra i suoi compiti quello di discutere dei principi comuni delle scienze (Top. I 2, 101a36 sgg.; SE 11, 172a32-34). D’altro canto egli si affretta a mettere in chiaro che la dialettica non è una scienza, in quanto non verte su un genere determinato e procede per interrogazioni, nel senso che nelle sue deduzioni assume come premesse le risposte dell’avversario alle domande dell’argomentante. Siccome l’avversario può rispondere affermativamente o negativamente alle domande, le assunzioni dell’argomentante possono consistere di volta in volta in affermazioni o nelle corrispondenti negazioni, e quindi essere vere o false. Ma in una dimostrazione si deve procedere da premesse vere e quindi non si può argomentare a partire dalle concessioni dell’avversario: anche se fosse possibile dedurre Q sia da P sia da non-P non sarebbe possibile considerare le due argomentazioni come scientifiche, perché una delle due non procederebbe da premesse vere (per un’analoga distinzione fra il modo di procedere del filosofo e quello del dialettico si veda Top. VIII 1, 155b3 sgg.). Il rimando alla «trattazione riguardante il sillogismo» fa tuttavia pensare che Aristotele si richiami qui ad un’idea più generale. Alcuni hanno considerato APr. II 15, 64b7 sgg. un possibile riscontro del rinvio di Aristotele. Ma in quest’ultimo testo egli dice semplicemente che in un sillogismo, se le premesse sono fra loro contrarie e contraddittorie, la conclusione non può essere vera. Questa tesi è vera, se riferita a quelle particolari deduzioni che sono i sillogismi, ma non è chiaro se nel passo di APo. I 11 sia in questione una nozione così ristretta e specifica

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di inferenza. La semplice menzione del termine sullogismÒw (77a35) ovviamente non prova nulla, potendo la parola avere qui un significato non tecnico. Forse è più appropriato richiamare APr. II 4, 57a36-b17, dove si sostiene che non può verificarsi che una stessa proposizione Q sia vera e sia la conseguenza di antecedenti fra loro opposti, ossia sia la conseguenza di P e la conseguenza di non-P. Come è stato notato da molti (cfr. ad es. †ukasiewicz [1957]: 50) la tesi aristotelica è fallace. Bibliografia: Husik [1906]; Smith [1982]; Zwergel [1982]; Fine [1985]; Morrison [1985a]; [1985b]. CAPITOLO 12 77a36-b9: «Interrogazione» (§r≈thma o anche §r≈thsiw) è un termine tecnico della logica aristotelica. In Int. 11, 20b22-30 esso è definito come la richiesta di una risposta ad una domanda relativa all’accettazione di una proposizione cui si può rispondere solo con un sì o con un no. Al contempo, l’interrogazione indica anche la risposta dell’interlocutore alla domanda. In questo senso va intesa l’equazione che qui ed altrove Aristotele stabilisce fra interrogazione e «proposizione della contraddizione» (prÒtasiw éntifãsevw), dato che prÒtasiw è insieme ciò che viene proposto per l’accettazione e ciò che viene accettato dall’interlocutore, costituendo così il punto di partenza dell’argomentazione dialettica. Stupisce il fatto che qui Aristotele applichi alla scienza la terminologia e la situazione caratteristica della discussione dialettica, tanto più che alla fine del capitolo precedente (11, 77a33-34) aveva categoricamente affermato che la scienza non procede per interrogazioni, essendo questo procedimento tipico ed esclusivo della dialettica. Alcuni interpreti hanno suggerito che qui si faccia riferimento a situazioni didattiche in cui un discepolo interroga un maestro; oppure si potrebbe pensare a discussioni fra scienziati. In effetti Aristotele sottolinea che le interrogazioni scientifiche e le conseguenti risposte devono cadere nell’ambito di una scienza, salvo il caso di subordinazione di una scienza ad un’altra, come avviene ad esempio per l’ottica rispetto alla geometria (cfr. APo. I 13, 78b32 sgg.). In altri termini un’interrogazione geometrica non può che riguardare le premesse di un teorema di geometria e un’interrogazione relativa all’ottica non può avere altro oggetto che le premesse ottiche di un teorema dell’ottica o, al più, le premesse geometriche coinvolte nella dimostrazione ottica, essendo l’ottica subordinata alla geometria. Questa restrizione d’ambito delle interrogazioni scientifiche costituisce una loro chiara differenziazione rispetto alle interrogazioni dialettiche. Un’ovvia conseguenza di questa restrizione è che le interrogazioni scientifiche non possono riguardare i principi delle scienze, nel senso che non possono essere poste domande dalle cui risposte si possano derivare i principi delle scienze. Se le domande devono essere geometriche, non vi possono essere domande geometriche relative alle premesse dei principi geometrici, perché i principi della geometria non possono essere provati a partire da premesse geometriche. La presa di posizione di Aristotele secondo la quale lo studioso di geometria in quanto studioso di geometria non dà una giustificazione dei principi della geometria è

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stata integrata da molti interpreti antichi, da Filopono, 146.14-147.16, a Zabarella, 815E-F, con l’osservazione che tale compito spetti al filosofo primo. Ma questa è un’evidente aggiunta al testo, che è per altro smentita da altri passi (ad es. APo. I 9, 76a16 sgg.), dai quali emerge che la filosofia prima non rappresenta una scienza generale che provi i principi utilizzati dalle scienze particolari (su ciò cfr. Ross, p. 546). Anche per questo aspetto le interrogazioni scientifiche differiscono da quelle dialettiche, che possono invece vertere sui principi generali e particolari delle scienze (Top. I 2, 101a36 sgg.). 77b9-15: La condizione di pertinenza alla scienza in questione discrimina le interrogazioni scientifiche vere e proprie da quelle che non lo sono. Chi non si attiene a tale condizione non solo non fornirà argomentazioni scientifiche accettabili, ma anche le sue eventuali confutazioni saranno solo accidentali, nel senso che non avranno un peso scientifico. Le discussioni scientifiche dunque devono avvenire solo fra scienziati. 77b16-33: Il senso generale del passo è chiaro anche se molti dettagli sono oscuri. Aristotele esordisce con tre questioni: (i) se vi sono interrogazioni geometriche, vi sono anche interrogazioni non geometriche? (ii) Vi sono interrogazioni che tradiscono ignoranza della geometria e che tuttavia sono pertinenti alla geometria? (iii) Le argomentazioni deduttive basate su un’ignoranza della geometria sono: (a) argomentazioni che procedono da premesse false opposte a quelle geometriche e vere; (b) paralogismi che procedono da premesse geometriche; (c) procedimenti che sfruttano principi di altre discipline? Sembra naturale che (ii) presupponga una risposta affermativa ad (i) e che lo stesso valga per (iii) rispetto a (ii). Le premesse opposte a quelle geometriche considerate in (a) (§k t«n éntikeim°nvn: 77b19-20) sono le premesse che rappresentano la negazione o che sono comunque incompatibili con quelle geometriche (per quest’uso di éntikeiÄmenon cfr. Bonitz, Index 64a25 sgg.). Meno chiara è l’alternativa (b). Alcuni autori, basandosi sulla definizione di paralogismo di Top. I 1, 101a5-15, ritengono che il paralogismo cui allude qui Aristotele sia quel procedimento deduttivo che conclude correttamente da premesse appropriate ad una scienza, ma false. Se così fosse, l’alternativa (b) non sarebbe diversa da (a). Ma in questo caso si deve supporre che i paralogismi di cui si discute subito dopo a 77b22-33 siano di tutt’altro tipo. Forse è meglio intendere il paralogismo di cui si parla in (b) come un’argomentazione fallace, ma che procede da premesse geometriche, secondo un’accezione di paralogismÒw che è ben testimoniata in Aristotele (SE 4, 166b21; 5, 166b28; Rh. II 25, 1402b26; III 13, 1414a6 ecc.). In questo caso (a) e (b) sarebbero chiaramente distinte fra loro e da (c) che, come vedremo, è l’unica alternativa che Aristotele vuole escludere. In effetti le argomentazioni scorrette che egli sembra avere in mente qui sono quei sillogismi la cui inconcludenza dipende dal fatto che il termine medio è preso in sensi diversi nelle due premesse (77b27-31). È plausibile che a scoprire questo tipo di fallacie sia deputato lo scienziato piuttosto che il logico. Aristotele risponde poi al quesito (ii) e con ciò egli dà implicitamente una risposta affermativa ad (i). Il suo punto è che «non-geometrico» (come del resto in generale non-F) è un termine ambiguo, nel senso che può denotare sia ciò che non ha nulla a che fare con la geometria, sia anche ciò che è falso nella geometria,

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come appunto la proposizione «le parallele si incontrano» (la stessa idea in Metaph. D 22, 1022b32-36; de An. II 10, 422a26-29 e inoltre APr. I 46, 51b25-28; Metaph. I 4, 1055b9-11). È chiaro allora che l’ignoranza relativa ad interrogazioni geometriche è quella che concerne ciò che non è geometrico nel secondo senso, ossia ciò che è falso ma pertinente alla geometria, e non ciò che non ha nulla a che fare con questa disciplina. La frase di 77b26-27: ka‹ ≤ êgnoia aÏth ka‹ ≤ §k t«n toioÊtvn érx«n §nantiÄa è lungi dall’essere chiara. Di solito la clausola dopo il secondo kaiÄ è presa come esplicativa di quanto immediatamente precede (e a questa interpretazione si allinea la mia traduzione). Ciò comporta però che dobbiamo prendere «§k t«n toioÊtvn érx«n» come riferito a premesse geometriche false, le quali danno luogo a conclusioni contrarie alle conoscenze geometriche vere: un uso piuttosto insolito del termine «érxÆ». Si potrebbe in alternativa intendere i due kaiÄ come coordinati (sive… sive) ed §nantiÄa, al singolare, come concordato ad sensum con entrambi i membri della congiunzione. In questo modo la traduzione potrebbe essere: «sia questa ignoranza sia quella che dipende da principi siffatti sono contrarie alla conoscenza scientifica». Il primo congiunto indicherebbe l’ignoranza che deriva dall’assumere premesse geometriche false e il secondo quella che deriva dall’assumere premesse vere, ma contenenti una ambiguità tale da generare un paralogismo. L’ultima parte del passo sembra fare una considerazione marginale volta a giustificare il fatto che in matematica, a differenza che nelle discussioni dialettiche (§n d¢ to›w lÒgoiw: 77b31), la presenza dei paralogismi è scarsa. Ciò deriverebbe dal fatto che i paralogismi dipendono dall’ambiguità del termine medio, che è preso in sensi diversi nelle due premesse e che in matematica c’è una specie di visione intellettuale la quale smaschera subito l’ambiguità del medio. L’esempio di «cerchio» inteso come figura geometrica e come «ciclo» di poemi epici suggerisce che la visione (intellettuale e non solo) dipenda dal fatto che in geometria si usano diagrammi. Che il cerchio sia una figura è corroborato dal tracciare (almeno mentalmente) questa figura: il suo disegno mostra immediatamente che i poemi epici non sono cerchi, nel senso almeno in cui lo è la figura tracciata. Sul rapporto fra diagrammi geometrici e i teoremi si veda anche APo. I 10, 76b39-77a3 e APr. I 41, 49b33-50a4. 77b34-39: Il passo, che inizia una serie di disparati suggerimenti con i quali il capitolo si chiude, è estremamente difficile e ogni interpretazione non può che essere congetturale. La mia proposta è di intendere la «premessa induttiva» (prÒtasiw §paktikÆ: 77b34-35), nel senso di «proposizione (o premessa) che esibisce un caso particolare» e, più precisamente, «proposizione singolare», secondo un uso di §paktikÒw che ha riscontri nella terminologia aristotelica (cfr. Ross, pp. 482483). Inoltre suppongo che l’obiezione di cui si parla qui (¶nstasiw) non denoti tanto il processo con cui si costruisce un’obiezione contro una premessa dell’argomento di un avversario (questo è il senso che il termine ha ad es. in APr. II 26), quanto piuttosto la proposizione che è opposta all’affermazione di un interlocutore (cfr. ad es. APo. I 4, 73a32-34). Suppongo quindi che quel che Aristotele vuol vietare qui è l’opportunità di sollevare obiezioni contro le premesse singolari dell’argomentazione di un interlocutore. La ragione da lui addotta è che, così alme-

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no pare, la proposizione «enstatica», ossia la proposizione opposta alla premessa dell’argomento dell’interlocutore, deve a sua volta entrare nel procedimento deduttivo che conduce alla confutazione dell’avversario (77b37-38). Se allora supponiamo che l’argomento dell’avversario sia costituito da un sillogismo in prima figura in cui compare una premessa singolare, l’obiezione non potrà vertere sulla proposizione singolare, perché a partire da essa e dall’altra premessa asserita dall’avversario non si può giungere ad una conclusione sillogistica. In questo senso l’obiezione deve essere una proposizione universale (ma perché Aristotele dice che deve essere universale anche la premessa: 77b35-37?). L’interpretazione tradizionale del passo è presentata da Barnes, pp. 152-153 che ne mette bene in luce le incongruenze. 77b40-78a6: Aristotele condanna qui la legittimità di derivare una relazione predicativa fra due termini A e B dall’assunzione del fatto che A e B godono entrambi di una stessa proprietà C. Egli insomma rifiuta la legittimità di dedurre AaB dalla coppia di premesse CaA e CaB (cfr. APr. I 5, 27a18-23 e 28, 44b25 sgg.). In un paralogismo di questo tipo sarebbe incorso Ceneo (probabilmente il protagonista dell’omonima commedia del poeta comico Antifane, cfr. Ross, p. 548), formulando la seguente argomentazione: (1) la progressione geometrica è veloce il fuoco si propaga velocemente il fuoco si propaga in progressione geometrica Si otterrebbe un sillogismo valido se si potesse riformulare (1) nel modo seguente: (2) la progressione più veloce è la progressione geometrica il fuoco si propaga con la progressione più veloce il fuoco si propaga in progressione geometrica In questo caso, infatti, otteniamo un sillogismo valido in prima figura. Ma naturalmente il passaggio da (1) a (2) non può avvenire per via logica, dato che esso richiederebbe la convertibilità tout court delle proposizioni universali affermative, che Aristotele giustamente rifiuta (APr. I 2, 25a7-9). 78a6-13: Il processo di analisi (énalÊein: 78a7-8) cui allude Aristotele qui è quello matematico descritto da Pappo (VII 1-2) secondo il quale si procede da ciò che si vuole provare agli antecedenti da cui la tesi dipende fino a giungere ai principi immediati. Una volta rinvenuti questi, si rovescia il procedimento in una vera e propria dimostrazione della proposizione da provare. EN VI 5, 1112b20 e APo. I 32, 88b18 mostrano che Aristotele aveva familiarità con questo procedimento (per i vari usi del termine «analisi» nel Corpus cfr. Byrne [1997]: 1-26. Per una discussione del procedimento vedi Gulley [1958]; Menn [2002]). Aristotele argomenta che se il fatto che da P è provato Q bastasse ad escludere la possibilità che Q sia vero e P falso (un’ipotesi che ovviamente Aristotele giudica falsa in generale, cfr. APr. II 2-4), il procedimento di analisi, più precisamente la fase finale di tale procedimento, si svolgerebbe in modo ovvio e mecca-

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nico. L’argomento richiede che si dia al termine «provare» (de›jai: 78a7) il senso debole di «implicare necessariamente». Se infatti P implicasse necessariamente Q e fosse impossibile che Q sia il caso senza che P sia il caso, bisognerebbe concludere che anche Q implica necessariamente P. P e Q sarebbero allora convertibili, ossia si implicherebbero a vicenda (secondo un’accezione della conversione in qualche modo comparabile a quella che troviamo in GC II 11, 337b23-25 e in Cat. 12, 14a30, 32 e passim). Data questa generale convertibilità dell’implicazione diverrebbe sufficiente, per fare l’analisi di P, trovare alcune conseguenze logiche vere di P, giacché queste garantirebbero automaticamente della verità di P e sarebbe risparmiata la fatica del percorso deduttivo a ritroso, quello che va dalle conseguenze vere a P. Aristotele conclude osservando che nella matematica la conversione, ossia l’implicazione reciproca fra premesse e conclusione, è più frequente che nelle discussioni dialettiche (§n to›w dialÒgoiw: 78a12), dato che nella prima, ma non nelle seconde, si fa uso di definizioni. Ciò fa pensare che nella matematica si abbia a che fare con termini fra loro equiestesi, il che consente la possibilità di deduzioni circolari (cfr. APr. I 5, 57b35 sgg.). Come ha osservato Barnes, p. 154, quest’affermazione non è del tutto in linea con quella di APo. I 3, 73a17, dove si dice che le conversioni sono rare nelle scienze. 78a14-21: Questo passo è ancor meno connesso dei precedenti al tema generale del capitolo e tratta dell’accrescimento delle scienze. Supponiamo di procedere da una scienza minimale i cui principi siano AaB e BaC. L’accrescimento della scienza non può avvenire interponendo termini medi nelle premesse, ponendo cioè, ad esempio, AaD e DaB, giacché, se così fosse, AaB non sarebbe un principio, potendo essere dedotto da principi anteriori. L’accrescimento avviene in due modi. Nel caso più semplice è sufficiente aggiungere termini subordinati a C, ponendo ad esempio CaE, EaF e così via, in modo da ottenere le nuove conclusioni AaE, AaF ecc. È poco chiaro il senso della clausola ka‹ toËt'efiw êpeiron (78a16), «e ciò all’infinito». Se presa alla lettera, essa contraddice APo. I 22, 84a26 sgg., dove si sostiene che una serie discendente di termini ha sempre un limite inferiore. L’altro tipo di accrescimento contemplato da Aristotele è quello efiw tÚ plãgion (78a16), ossia «lateralmente», quando cioè uno stesso termine A si predichi di due termini distinti C ed E attraverso medi diversi B e D in modo da avere i due sillogismi: (1) AaB, BaC  AaC e (2) AaD, DaE  AaE L’esempio con cui Aristotele illustra queste due inferenze è oscuro, dato che non è chiaro il significato della contrapposizione posÚw μ ka‹ êpeirow (78a17-18), «definito o indefinito che sia», attribuita ai numeri. In effetti in nessun altro luogo Aristotele dice che un numero è posÒw e in Metaph. M 8, 1083b36-1084a4 egli esplicitamente nega che un numero possa essere êpeirow, ossia tale da non avere un successore. È per altro vero che in Ph. III 4, 203b24 e in Cael. I 5, 271b33272a3 egli sostiene che il numero è infinito, ma con ciò egli intende soltanto che la serie dei numeri naturali non ha un limite.

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CAPITOLO 13 78a22: Aristotele distingue innanzitutto una conoscenza scientifica del che da una conoscenza scientifica del perché. Sembra naturale supporre che «conoscere scientificamente che» significhi «conoscere scientificamente che un predicato conviene (o non conviene) ad un soggetto», mentre «conoscere scientificamente perché» va articolato in «conoscere scientificamente perché un predicato conviene (o non conviene) ad un soggetto». L’ovvia conseguenza di ciò è che conoscere perché implica un qualche tipo di conoscenza del che: sapere perché A conviene a B comporta sapere che A conviene a B. L’idea sembra essere pertanto che la conoscenza del perché sia una conoscenza di un che qualificata in qualche modo e tale qualificazione sembra consistere nel fatto che tale conoscenza fornisce la spiegazione adeguata del convenire di A a B. Uno dei problemi principali che questa distinzione comporta è quello di collocare la conoscenza del che all’interno della scienza. Aristotele qualifica questa conoscenza come un §p¤stasyai, una conoscenza scientifica, e tutto farebbe quindi pensare che essa debba soddisfare i requisiti della definizione di conoscenza scientifica di APo. I 2, 71b9 sgg. Ma la conoscenza scientifica di una proposizione implica la conoscenza della ragione per cui lo stato di cose espresso dalla proposizione si dà. Dunque la conoscenza del che sembra non essere scientifica. Alcuni autori che hanno seguito questa strada hanno visto nella conoscenza del che una conoscenza propedeutica a quella scientifica (ad es. McKirahan [1992]: 212 sgg.). D’altra parte la terminologia di Aristotele in questo capitolo non lascia spazio per una retrocessione della conoscenza del che ad un livello pre-scientifico e parrebbe più naturale immaginare che egli giochi piuttosto su una distinzione fra tipi di spiegazione: anche nel caso della conoscenza del che vi sarebbe una sorta di spiegazione di un certo stato di cose (o di un nesso predicativo), ma tale spiegazione non sarebbe adeguata. Potremmo cercare di articolare questo punto di vista nel modo seguente. Supponiamo di avere una proposizione P e che essa sia deducibile da due insiemi diversi di premesse, G e D. Immaginiamo che tanto G quanto D siano insiemi che appartengono entrambi all’universo della scienza e quindi siano veri e accettabili. Dunque anche P godrà della stessa situazione epistemologica. Tuttavia possiamo immaginare che vi sia una differenza fra G e D: D contiene una proposizione Q, non presente in G, che esprime uno stato di cose s che determina causalmente (o più genericamente esprime la ragione di) p, che è lo stato di cose associato alla conclusione P. Diremo allora che la deduzione di P da G dà luogo ad una conoscenza del che, mentre quella di P da D conduce ad una conoscenza del perché. Naturalmente il punto debole di questa rappresentazione resta l’oscuro riferimento alla nozione di determinazione causale di uno stato di cose da parte di un altro. In ogni caso, se accettiamo che la conoscenza del che sia un tipo di conoscenza scientifica, dobbiamo in qualche modo rinunciare a qualcuna delle condizioni che in APo. I 2 identificano la conoscenza scientifica. Per esempio, come vedremo, Aristotele non esita a considerare come produttive di conoscenza del che inferenze che hanno premesse mediate. Inoltre dobbiamo dire addio alla condizione per cui le premesse sono anteriori e più note in senso assoluto e non rispetto a noi.

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78a22-78b11: Aristotele distingue due situazioni in cui la distinzione fra conoscenza del che e conoscenza del perché è rilevante. Altro è considerare la distinzione all’interno della stessa scienza e altro è esaminarla nell’ambito di scienze diverse. Il secondo caso è esaminato in 78b34-79a16. Si comincia con il caso della distinzione fra conoscenza del che e conoscenza del perché nella stessa scienza e Aristotele considera due possibili situazioni. In realtà vedremo che in coda a questa analisi, precisamente a 78b11-13 e 78b13-31, egli studia altri due possibili casi (nonostante alcuni autori abbiano cercato di identificare, senza successo, il caso esaminato a 78b13-31 con quello che qui viene citato per primo). Primo caso all’interno della stessa scienza. Abbiamo conoscenza del che (e non del perché) quando la conclusione sia provata attraverso premesse non immediate. Penso che Aristotele potrebbe riferirsi ad una prova come la seguente: (1) ogni triangolo ha la proprietà 2R ogni triangolo isoscele è un triangolo ogni triangolo isoscele ha la proprietà 2R In questo caso la premessa maggiore dell’inferenza è mediata. La prova di questa proposizione avviene attraverso premesse che danno la spiegazione adeguata, o per dirla con Aristotele, la ragione prima adeguata, del perché il triangolo gode della proprietà 2R e quindi è solo aggiungendo questa dimostrazione alla (1) che otteniamo una conoscenza del perché il triangolo isoscele ha la proprietà 2R. Ancorché non molto convincente nei suoi contenuti (uno potrebbe sostenere che la spiegazione adeguata del fatto che l’isoscele abbia la proprietà 2R è il suo essere un triangolo e che la spiegazione del fatto che il triangolo ha tale proprietà richiede una diversa spiegazione), l’interpretazione mi pare l’unica possibile. Più complicato è l’altro caso di conoscenza del che all’interno di una scienza. Aristotele suppone di avere dimostrazioni sillogistiche in cui sono coinvolti tre termini A, B e C tali che A e B siano convertibili, ossia tali che le proposizioni «A conviene a B» (con un’opportuna quantificazione) e «B conviene ad A» siano entrambe vere (non consideriamo per semplicità il caso di premesse negative). Si immagini inoltre che la verità della proposizione «A conviene a B» sia facilmente ottenibile per osservazione e costituisca dunque qualcosa di noto e che d’altra parte il convenire di A a qualcosa spieghi adeguatamente il convenire di B a quella cosa. Allora le due inferenze che possiamo costruire: (2) A conviene a B B conviene a C A conviene a C e (3) B conviene a A A conviene a C B conviene a C sono tali per cui la prima dà luogo ad una conoscenza del che e la seconda del perché. L’esempio di Aristotele (per la giustificazione del quale cfr. Cael. II 8,

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290a18-24) chiarisce l’idea. Supponiamo che la ragione adeguata del non scintillare di una cosa (leggi: del non apparire scintillante alla vista) sia il suo essere vicino all’osservatore. Allora, se noi concludiamo che i pianeti non scintillano adducendo come prova il fatto che essi sono vicini (formiamo cioè un’inferenza del tipo della (3), con A = essere vicino, B = non scintillare, C = i pianeti) otteniamo una conoscenza del perché i pianeti non scintillano. Se invece, per provare che essi sono vicini, adduciamo il fatto che essi non scintillano (in effetti che una cosa che non scintilla sia vicina secondo gli antichi era il risultato di elementari osservazioni), concludiamo sì che i pianeti sono vicini e abbiamo una conoscenza certa e sicura di questo fatto, ma la nostra inferenza (del tipo della (2) con la stessa assegnazione delle lettere) non ci spiega perché sono vicini. Analogo caso è quello della prova della sfericità della luna attraverso l’osservazione delle sue fasi (cfr. Cael. II 11, 291b17-23). In questo caso otteniamo infatti una conoscenza del che relativa al fatto che la luna è sferica, dato che sfruttiamo nella prova il fatto che essa ha tali fasi. Se invece provassimo che la luna ha le fasi che ha sfruttando il fatto che la sua forma è sferica, allora avremmo una conoscenza che offre la spiegazione vera del fenomeno e quindi una conoscenza del perché. Stando agli esempi verrebbe naturale prendere i termini convertibili con la «ragione», o causa, di cui si parla a 78a27-28 come quelli che esprimono gli effetti: il non scintillare è un effetto dell’essere vicino e l’avere tali fasi è un effetto dell’essere circolare. Va notato che quando Aristotele dice che nel caso di (2) abbiamo a che fare con immediati (di’ém°svn: 78a26), probabilmente intende riferirsi non ad entrambe le premesse, ma solo ad una delle due, nel nostro caso quella maggiore, dato che la premessa minore compare anche come conclusione di (3). D’altra parte è dubbio che anche la premessa maggiore di (2) sia immediata, dato che negli esempi considerati può essere probabilmente dedotta dalle leggi dell’ottica (diversamente Hagdopoulos [1977]: 33-34, sed contra McKirahan [1992]: 299 n. 24). 78b11-13: Aristotele considera un altro caso in cui si può avere conoscenza del che senza avere quella del perché all’interno di una stessa scienza. La situazione che egli probabilmente immagina è la seguente. Supponiamo di avere due premesse AaB e BaC da cui è deducibile AaC e tali che B non esprima la vera ragione dell’appartenenza di A a C. Tale ragione è espressa da D, diverso da B e non convertibile con esso, per cui se assumiamo AaD e DaC, abbiamo una conoscenza del perché A conviene a C. Supponiamo infine che AaB, BaC sia un antecedente più noto di AaD, DaC dato che più facilmente attingibile per osservazione diretta. In questo caso la conoscenza di AaC ottenuta tramite AaB e BaC è una conoscenza del che e non del perché. Va osservato che la condizione di essere più noto, di cui gode l’antecedente della dimostrazione che dà luogo alla conoscenza del che rispetto all’antecedente che origina una conoscenza del perché, non può essere altro che un essere più noto rispetto a noi di contro ad un essere più noto in sé (cfr. per la distinzione APo. I 2, 71b33-72a5). Da questo punto di vista la dimostrazione che produce la conoscenza del che non soddisfa la condizione che sembrerebbe fissata in APo. I 2, 71b33 sgg. e cioè che le premesse delle dimostrazioni scientifiche debbano godere di anteriorità e maggiore notorietà in senso assoluto e non soltanto rispetto a noi.

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78b13-28: Aristotele prende in considerazione un altro modo di generare dimostrazioni e conoscenze del che, ed asserisce che lo si incontra quando «il medio sia posto esternamente» (78b13). Con questa espressione, nonostante le analogie con APr. I 5, 26b39 e 6, 28a14-15, egli allude non tanto alla posizione del termine medio nei sillogismi in seconda e terza figura, quanto piuttosto alla «distanza» della ragione assegnata a spiegazione di un fatto dal fatto stesso. Per capire la posizione di Aristotele conviene considerare l’esempio da lui citato, dove viene in questione un sillogismo in Camestres, ossia: (1) tutto ciò che respira è un animale nessun muro è un animale nessun muro respira il termine medio «animale» non esprime la ragione adeguata della non attribuzione della proprietà di respirare ai muri per cui la conoscenza generata dalla (1) è qualificata come una conoscenza del che e non del perché. La ragione per cui «animale» non costituisce la ragione adeguata del respirare è spiegata da Aristotele facendo ricorso ad un tesi di carattere generale: se una caratteristica X è la ragione adeguata di un’altra caratteristica Y non solo deve verificarsi che l’assenza di X in un soggetto implica l’assenza di Y in tale soggetto, ma anche l’inverso e precisamente che la presenza di X nel soggetto comporti la presenza in esso di Y. Ciò non si verifica nel caso dell’animale e del respirare perché, secondo Aristotele, vi sono animali che non respirano, come i pesci e gli insetti (PA IV 13, 697a21; 5, 678b1; Resp. 2, 470b30; 471a19; 3, 471b19-23; HA IV 9, 535b5). È difficile capire il senso di queste affermazioni. Aristotele probabilmente ritiene che possiamo dare una ragione di uno stato di cose solo se facciamo riferimento, nella spiegazione, alla sua condizione necessaria e sufficiente. In questo senso non essere un animale è condizione necessaria del non respirare (in effetti tutto ciò che respira è un animale), ma non è condizione sufficiente, dato appunto che non basta essere animali per avere la proprietà di respirare. Non è ben chiaro come il riferimento a condizioni necessarie e sufficienti sia legato alla nozione di spiegazione di uno stato di cose. Il fatto che a non possieda una proprietà X che costituisce una condizione necessaria perché a abbia la caratteristica Y sembra, almeno in certe situazioni, una giustificazione che dice perché a non possiede Y (cfr. Barnes, p. 157). Tuttavia uno potrebbe tentare di giustificare Aristotele supponendo che egli non sia interessato a dare spiegazioni del perché X (quale che sia) non è Y, ma in generale del perché Y non possa appartenere ad un soggetto, senza fare alcun riferimento alla natura di X. 78b28-31: L’espressione to›w kay’ÍperbolØn efirhm°noiw è difficile da rendere. Ho sottinteso uno «spiegazioni» per analogia con quanto precede. Inoltre kay’ÍperbolØn contiene un riferimento non solo a ciò che è eccessivo (nel nostro caso eccessivamente distante), ma anche a ciò che è stravagante, che nella traduzione è perduto. Per il principe filoelleno Anacarsi, citato anche in EN X 6, 1176b33 e annoverato da Platone (R. X 600A6-7) fra i grandi saggi dell’antichità cfr. Hdt. IV 76-77; D.L. I 101-105. L’argomento di Anacarsi era una contrazione probabilmente del seguente (cfr. Ross, p. 553):

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(1) dove non c’è ebrietà non ci sono flautiste dove non c’è vino non c’è ebrietà dove non ci sono viti non c’è vino in Scizia non ci sono viti in Scizia non ci sono flautiste 78b34-79a16: Aristotele sembra qui qualificare in termini di subordinazione due relazioni di per sé alquanto diverse: quella che intercorre fra una scienza e le sue applicazioni e quella che intercorre fra una disciplina empirica e la teoria matematica in cui i dati trovano una loro sistemazione precisa. La prima relazione è quella che egli esemplifica nel rapporto fra armonica e aritmetica, fra meccanica e stereometria, fra ottica e geometria. La seconda relazione invece trova esemplificazione nel rapporto fra astronomia osservativa (che Aristotele chiama qui tå fainÒmena: 78b39 [cfr. LSJ, s.v. fa¤nv, B II, 2a] e che non necessariamente è da identificare con la éstrolog¤a nautikÆ di cui si parla a 79a1) e astronomia matematica e fra armonica acustica ed armonica matematica. È solo con riferimento a questo secondo gruppo che Aristotele può dire che la conoscenza del che spetta agli osservatori (t«n afisyhtik«n: 79a2-3) e quella del perché ai matematici (t«n mayhmatik«n: 79a3). Tuttavia in entrambi i casi Aristotele si sente legittimato a parlare di subordinazione, per cui spetta alla scienza subordinata la conoscenza del che e a quella sopraordinata la conoscenza del perché. Da questo punto di vista la tesi di Aristotele non aggiunge nulla a quello che egli aveva già asserito in APo. I 9. Tuttavia Aristotele sembra qui rilassare un po’ la rigidità della sua concezione quando riconosce la possibilità di applicare teoremi matematici anche a discipline che non sono subordinate alla matematica. Il caso della medicina e della geometria è patente. Sapere che le ferite circolari guariscono più lentamente spetta al medico. Ma il perché lo fornisce la geometria: i cerchi sono fra tutte le figure quelle che hanno l’area maggiore a parità di limite esterno. Come questa possibilità di applicazione della geometria alla medicina sia compatibile con il divieto di passare da un genere ad un altro nelle dimostrazioni, asserito in APo. I 7, 75a38 sgg., non è facile da capire. Interessante è il paragone che viene posto fra la relazione fra scienze e scienze applicate e quella che intercorre fra la conoscenza di una proposizione universale e quella delle sue esemplificazioni. Così come può succedere che si conosca che A conviene ad ogni B senza conoscere tutte le esemplificazioni di B per le quali vale A, nulla vieta di immaginare un matematico che dimostra un teorema senza rendersi conto delle sue possibili applicazioni nel campo di altre scienze, come l’ottica o l’armonica. Aristotele sembra anche contemplare la possibilità di una subordinazione multipla di discipline. Tale è il caso della teoria dell’arcobaleno (di cui Aristotele fornisce un’elaborata versione in Mete. III 2, 375b16-377a11) che è subordinata all’ottica (o come sarà chiarito in epoche successive alla catottrica, la teoria della riflessione: cfr. Heath [1949]: 60-61), la quale a sua volta è subordinata alla geometria. In tal caso la conoscenza del che sarà di pertinenza della teoria dell’arcobaleno, mentre il perché sarà dato o dall’ottica tout court o dall’ottica nella sua subordinazione alla matematica (così è probabilmente da intendere 79a1213: μ èpl«w μ katå tÚ mãyhma; cfr. Ross, p. 555).

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Il passo più difficile è costituito da 79a6-10. In esso è evidente l’intento di Aristotele di sottolineare la maggiore astrattezza delle scienze matematiche rispetto a quelle applicate. Ma i dettagli sono oscuri. Innanzitutto non è chiaro a che cosa si riferisca il taËta iniziale. Potrebbe riferirsi agli oggetti delle scienze applicate (o anche alle scienze stesse). Né è perspicuo che cosa significhi esattamente che le scienze applicate (?) k°xrhtai to›w e‡desin, «si servono delle forme». Inoltre l’affermazione secondo cui la matematica ha a che fare con le forme suona stranamente platonizzante. Comunque l’idea generale sembra essere che la matematica, a differenza delle scienze applicate, non considera proprietà di oggetti in quanto appartenenti a certi soggetti, ma le esamina di per sé. Cfr. anche Metaph. L 8, 1073b3-8, dove Aristotele oppone l’astronomia alla geometria perché la prima studia le proprietà geometriche di sostanze sensibili eterne, mentre la seconda considera tali proprietà senza fare riferimento ad alcuna sostanza. Sulla posizione delle entità matematiche rispetto a quelle sensibili cfr. anche Metaph. M 2 e inoltre Mueller [1979]; Lear [1982]; Barnes [1985]; Mignucci [1987]; Detel, I, 189-230; Cleary [1995]: c. 5. Bibliografia: Jope [1972]; Hagdopolous [1975]; McKirahan [1978]; Patzig [1981]. CAPITOLO 14 79a17-24: L’argomento in sé è facilmente ricostruibile. Aristotele sembra partire dalla constatazione che le scienze matematiche e, in generale, quelle che mirano ad accertare il perché, usano la prima figura sillogistica nelle loro dimostrazioni. Di qui si conclude che la prima figura è lo strumento attraverso cui si realizza la conoscenza del perché. Siccome la conoscenza del perché è quella che fa maggiormente sapere ed è ottenuta attraverso la prima figura, si conclude ulteriormente che la prima figura è la più scientifica. L’argomento è debole perché riposa sull’asserzione tutt’altro che scontata che le scienze matematiche facciano uso della prima figura, la quale invece è vistosamente assente nelle trattazioni matematiche antiche. Anche interpretando cum grano salis l’affermazione di Aristotele e cioè supponendo che egli voglia dire che la maggior parte delle argomentazioni matematiche sono riconducibili alla prima figura, la sua presa di posizione suona alquanto ottimistica, visto che la tesi normalmente accettata dai logici moderni è che i sillogismi coprano solo una parte assai ristretta delle inferenze corrette usate dai matematici (sull’inadeguatezza della sillogistica a formalizzare le dimostrazioni di Euclide si veda McKirahan [1992]: 150-159). Inoltre non è del tutto chiaro come mai la conoscenza del perché debba realizzarsi nella prima figura. Forse Aristotele era indotto a questa convinzione dal pensiero che le conclusioni negative sono rare nelle scienze che intendono stabilire le ragioni adeguate di certi stati di cose; di qui la centralità della prima figura, visto che, da un lato, le proposizioni non universali non hanno diritto di cittadinanza nella scienza aristotelica e, dall’altro, solo in prima figura sono deducibili proposizioni universali affermative. 79a24-29: Il secondo argomento aristotelico in favore dell’importanza scientifica della prima figura è lineare. La conoscenza scientifica del che cos’è è la cono-

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scenza scientifica di una definizione, intesa quest’ultima come una proposizione in cui un definiens (la risposta alla domanda «che cos’è x?») viene attribuito ad una definiendum (x appunto). Qui Aristotele sembra supporre che tale conoscenza possa essere il risultato di una dimostrazione. Ma una dimostrazione che abbia come conclusione una definizione non può essere che in prima figura, dato che solo in prima figura si può concludere ad una proposizione universale affermativa. Il problema è che Aristotele in APo. II 3-10 sembra negare la possibilità di costruire dimostrazioni che abbiano come conclusioni definizioni. I tentativi della tradizione di sanare questa inconsistenza (si veda ad es. Zabarella, 858BE) non appaiono molto soddisfacenti. 79a29-32: Aristotele aggiunge un terzo argomento a favore della sua tesi. Ad essere precisi non sono le figure che sono riempite e ingrossate, ma le premesse delle dimostrazioni. Come ha mostrato Einarson [1936]: 158, questa terminologia dipende da quella musicale dove denota l’operazione di riempimento degli intervalli musicali con nuove note inferiori di un tono. Nel contesto logico il riempimento di un intervallo predicativo A-B (Aristotele usa talvolta l’espressione diãsthma per indicarlo: cfr. ad es. APr. 4, 26b21; 15, 35a12; 18, 38a4 ecc.) consiste nell’inserire un termine C tale che sia predicato di A e che di esso A si predichi (cfr. anche APo. I 25, 86b13; 23, 84b35). È evidente che l’inserzione di un medio in un intervallo predicativo nel contesto della scienza ha luogo quando le premesse di una dimostrazione sono proposizioni mediate. Ora la dimostrazione delle premesse può avvenire solo in prima figura quando le premesse siano universali affermative e tutti i modi della seconda e terza figura eccetto Festino in seconda figura e Ferison in terza contengono almeno una premessa universale affermativa, la quale potrà dunque essere «riempita» solo attraverso la prima figura. D’altro canto il «riempimento» di premesse in prima figura non necessariamente richiede l’impiego della seconda e della terza figura, dato che in prima figura ogni tipo di proposizione può essere dimostrata.

CAPITOLO 15 79a33-36: La definizione di «convenire (non convenire) indivisibilmente» (étÒmvw Ípãrxein μ mØ Ípãrxein: 79a34-35) mostra chiaramente che l’espressione è sinonima di «convenire in modo immediato» o «primitivamente» (ém°svw o prÒtvw Ípãrxein). Anche per questa scelta terminologica è probabilmente da invocare l’analogia con la terminologia musicale (cfr. n. a 79a29-32). 79a36-b12: La terminologia usata per indicare proposizioni universali affermative, §n ˜lƒ e‰nai, «essere in un tutto», non è abituale in Aristotele, che di solito preferisce Ípãrxein pant¤, «convenire ad ogni», ancorché abbia dei precedenti: cfr. ad es. APr. I 1, 24b26-28; 4, 25b32-35. L’argomento è difficile da capire perché è viziato da un errore indegno di Aristotele. Quel che Aristotele vuole provare è che, data una proposizione universale negativa AeB, essa non può risultare immediata se o A o B o entrambi i termini sono inclusi in un tutto, ossia se (i) CaA o (ii) DaB o infine (iii) EaA e EaB.

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Nel caso (i), per ottenere che da CaA segua che AeB è una proposizione mediata, bisogna assumere un C tale che sia non solo affermato di ogni A, ma anche negato di ogni B, giacché in tal caso si ottiene il sillogismo in Camestres CaA, CeB  AeB Analogamente si prenderà in (ii) un termine D in cui non solo B è incluso ma dal quale A è escluso. Si avrà così in Cesare (Aristotele presenta Celarent) DeA, DaB AeB La condizione (iii), che contempla il caso in cui due termini siano nello stesso tutto, non esclude invece affatto che la relazione tra i due termini sia immediata, e i vari tentativi compiuti dagli studiosi per giustificare questo scivolone si sono dimostrati insoddisfacenti. Esso è peraltro confermato nel capitolo successivo laddove si sostiene che il soggetto di predicazioni negative immediate non è incluso in alcun predicato (79b38; 80a1; 81a7). Comunque sia, Aristotele nella seconda parte del passo spende alcune parole per dimostrare che le situazioni per cui o B è incluso in un tutto da cui è escluso A, o viceversa A è incluso in un tutto da cui è escluso B sono possibili. Per giustificare questa possibilità egli fa ricorso alla nozione di «catena predicativa», sustoix¤a (per la quale cfr. Waitz, II, pp. 338-340). In una catena predicativa abbiamo una serie di termini ciascuno dei quali è incluso nel successivo. Ovviamente due catene non si intersecano se non hanno elementi comuni. Se ammettiamo l’esistenza di catene predicative prive di intersezione, dobbiamo anche ammettere l’esistenza di termini che includono A ed escludono B o includono B ed escludono A. Dunque la possibilità di proposizioni universali negative mediate è assicurata. 79b12-22: Aristotele prova qui la tesi principale del capitolo ossia la possibilità di nessi predicativi universali negativi immediati. Va da sé che «immediato» non può significare qui semplicemente «indeducibile», dato che qualunque proposizione è sempre deducibile da un appropriato insieme di proposizioni. Una proposizione è immediata se non è deducibile da alcun insieme di premesse che siano per lo meno vere e tali da essere diverse dalla conclusione. Una condizione sufficiente perché AeB sia immediata per Aristotele è che tanto A quanto B non siano inclusi in alcun altro termine, ossia che non esista un X tale che XaA e che non esista alcun X tale che XaB. In questo caso AeB è evidentemente una proposizione immediata, dato che, per dedurla, abbiamo bisogno o di un sillogismo in Celarent in prima figura o di un sillogismo in Cesare o ancora di un sillogismo in Camestres, questi ultimi entrambi in seconda figura. In ciascuno di questi casi si richiede che o A o B siano inclusi in un termine. Consideriamo per esempio il caso di Cesare. Per ottenere AeB in questo modo è necessario che B sia incluso in un termine da cui A sia escluso, ossia è necessario avere l’antecedente CeA, CaB. Ma questa possibilità è esclusa dall’ipotesi che nulla è vero di B. L’argomento è corretto, ma è difficile pensare alla possibilità di termini di cui non è vero predicare nulla. Forse Aristotele ha in mente qui soltanto quelle relazioni predicative che hanno luogo fra specie e generi prossimi o remoti. Se così fosse, dovremmo restringere ancora di più la nozione di immediatezza.

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CAPITOLO 16 79b23-29: La distinzione fra ignoranza per negazione e ignoranza disposizionale è quella che abbiamo incontrato in APo. I 12, 77b16 sgg. e che è menzionata anche in Top. VI 9, 148a3-9. Il primo tipo di ignoranza corrisponde ad una mancanza di conoscenza, mentre il secondo consiste in una errata comprensione, in uno sbaglio. Più precisamente ignorare nel secondo senso una proposizione P significa credere in una proposizione Q incompatibile con P. Del resto la distinzione corrisponde a due usi del verbo égnoe›n largamente testimoniati in greco (nel primo senso: Hdt. 4, 156; Pl., Smp. 216D3; R. VI 506A4; Lg. VII 797A8, ecc.; nel secondo senso: Hp., Art. 46; Isoc., 15, 171; Pl., Phlb. 48D8, ecc.). La definizione dell’ignoranza nel secondo senso (d’ora in poi ometteremo questa qualificazione) è incompatibile con la divisione che Aristotele introduce subito dopo. Infatti egli prima definisce tale ignoranza come «l’errore che si produce mediante sillogismo» e poi suddivide questa stessa ignoranza in quella che concerne proposizioni immediate, e consiste nel credere direttamente (quindi senza alcun sillogismo!) nell’opposto della proposizione immediata, e in quella che nasce da un sillogismo. Forse il testo è corrotto o Aristotele è troppo frettoloso. In ogni caso l’ignoranza semplice, quella in cui l’errore è ottenuto in un solo modo, è contrapposta all’ignoranza sillogistica, la quale può essere generata in vari modi. 79b29-80a5: Aristotele comincia con il considerare il caso di sillogismi decettivi riguardanti una proposizione universale negativa immediata. Si assuma come vera la proposizione negativa immediata AeaB; (dove l’indice «a» sta per «étÒmvw», «indivisibilmente») il sillogismo decettivo: (1) AaC, CaB  AaB conduce all’ignoranza disposizionale di AeB. Siccome AaB è falsa anche le premesse da cui questa conclusione procede devono essere false, o entrambe o almeno una delle due. Aristotele prova che si può dare il caso che entrambe le premesse siano false, ossia che AeC, CeB e AeaB siano fra loro compossibili (si noti che qui e nel seguito Aristotele prende come negazione di una proposizione universale la corrispondente universale di qualità opposta). Per provare la compossibilità di queste tre proposizioni Aristotele deve trovare un C tale che non sia (i) soggetto di A e (ii) predicato di B. Non è impossibile esibire un C che soddisfi la (i) purché A non si predichi proprio di tutto, mentre la (ii) è soddisfatta dall’ipotesi che valga AeaB. Poiché quest’ultima è una proposizione universale negativa immediata, il suo soggetto non può essere incluso in alcun C. Questo non è esatto (vedi la n. a 79a36-b12), ma non inficia la prova di Aristotele. Egli vuol dire che dato AeC, non può valere anche CaB perché in quel caso AeB sarebbe deducibile, e dunque non potrebbe essere indivisibile. Aristotele aggiunge che può anche capitare che una sola delle premesse di (1) sia vera, ma non una qualunque delle due, bensì solo quella maggiore, ossia AaC. In effetti secondo Aristotele (vedi sempre la n. a 79a36-b12) la proposizione CaB non può essere vera, altrimenti AeaB non potrebbe essere immediata. Dunque se una delle due premesse è vera, deve essere AaC. In effetti nulla vieta di assumere un A

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tale che siano vere insieme AeaB e AaaC, o anche, come aggiunge subito Aristotele, AeaB e AaC, dato che non è rilevante che questa proposizione sia immediata. Si noti che in 80a1-2, tÚ A ka‹ t“ G ka‹ t“ B Èpãrxei étÒmvw, il verbo Èpãrxei è ambivalente, perché il nesso predicativo di A a G è affermativo e quello di A a B negativo. Lo stesso vale per il kathgor∞tai di 80a3-4. 80a6-9: Cfr. APr. I 26, 46b32-35, dove si osserva che una proposizione universale affermativa può essere derivata solo in prima figura e precisamente in Barbara. Invece una proposizione universale negativa può essere dedotta in prima figura (Celarent) o in seconda figura (Cesare o Camestres). 80a9-26: Sillogismi decettivi con conclusione negativa. Aristotele comincia con l’esame del sillogismo decettivo in Celarent. Sia la proposizione immediata vera AaaB e il sillogismo decettivo il seguente: (1) AeC, CaB  AeB Aristotele ammette la possibilità che entrambe le premesse siano false e quindi la compossibilità di AaC, CeB e AaaB. La sua argomentazione è molto ellittica. Egli si limita ad osservare che nulla vieta di assumere che in almeno un caso AaaB e AaaC siano vere insieme. Possiamo integrare il suo ragionamento come segue. Se AaaB e AaaC possono essere vere insieme, allora CaB non può essere vera anch’essa. In effetti, se CaB fosse vera, da AaaC e CaB si potrebbe dedurre (in Barbara) AaB e ciò smentirebbe l’ipotesi che AaB sia una proposizione vera immediata. Dunque AaC, CeB e AaaB sono compossibili. Viene quindi considerata la possibilità che una sola delle premesse della (1) sia falsa. Caso (i): AeC è vera e CaB falsa. Quindi devono essere compossibili AeC, CeB e AaaB. In effetti nulla vieta che AaaB e AeC siano vere insieme (basta assumere un predicato che non sia vero di tutto). Ma da AeC e AaaB deriva CeB. In effetti, se così non fosse, da AaaB e CaB potremmo derivare AiC e quindi dovremmo negare AeC; d’altra parte, da AeC e CaB deriva AeB, contro l’ipotesi della sua falsità. Dunque AeC, CeB e AaaB sono tutte compossibili. Caso (ii): AeC è falsa e CaB è vera. A rigor di termini devono essere compossibili AaC, CaB e AaaB. La prova aristotelica consiste nell’assumere la compatibilità di AaaB e CaB e nell’applicare implicitamente Darapti a queste due premesse, così da ottenere AiC. In questo modo si esclude che AeC sia vera quando AaaB e CaB lo siano. Ma l’argomento non funziona. Se si suppone che in almeno un caso AaC sia vero insieme con CaB possiamo derivare in Barbara AaB e ciò esclude che AaB sia un nesso immediato. 80a27-b16: Aristotele considera il caso di sillogismi decettivi in seconda figura. Sia come al solito AaaB una proposizione universale affermativa immediata e vera. I due sillogismi decettivi in seconda figura sono (1) CaA, CeB  AeB (Camestres) e (2) CeA, CaB  AeB (Cesare)

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La prima tesi di Aristotele (80a27-38) è che non si può verificare la situazione per cui entrambe le premesse di (1) e di (2) siano false. In effetti, per supporre ciò, bisognerebbe accettare la compossibilità della terna CeA, CaB eAaaB per quanto riguarda Camestres e di CaA, CeB e AaaB per quanto riguarda Cesare. Ma ciò è ovviamente impossibile perché, come osserva Aristotele, se AaB è vera, non si dà che un qualunque termine possa essere affermato di A e negato di B o negato di A e affermato di B. Per convincersene, basta osservare che CeA e CaB sono un antecedente in Cesare che dà luogo a AeB (incompatibile con AaaB) e che CaA, CeB danno luogo in Camestres a AeB. Dunque in (1) e (2) entrambe le premesse non possono essere false. Aristotele descrive questa situazione dicendo che le premesse di (1) e (2) non possono essere totalmente false. Come egli stesso spiega in APr. II 2, 54a4-6, le proposizioni totalmente false sono le proposizioni universali le cui contrarie sono vere. Così AeB è totalmente falsa se AaB è vera e AaB è totalmente falsa se è vera AeB. Le proposizioni totalmente false sono contrapposte a quelle parzialmente false. Aristotele non spiega in che cosa consista la parziale falsità di una proposizione universale, ma il contesto chiarisce che AaB è parzialmente falsa se non solo è vera la sua contraddittoria AoB, ma anche la subalterna AiB. Analogamente AeB è parzialmente falsa se è vera AiB insieme con AoB. È chiaro che le proposizioni totalmente e parzialmente false sono mutuamente esclusive. Una proposizione totalmente falsa non può essere parzialmente falsa e viceversa. Aristotele riconosce d’altro canto che le premesse della (1) e della (2) possano essere parzialmente false. In effetti AaaB è perfettamente compatibile con le due coppie CiA, CoA e CiB, CoB. Come ha osservato Barnes, p. 166, per interpretare in questo modo la prova aristotelica di 80a33-38 dobbiamo intendere le rr. 34-35: efi tÚ G ka‹ t» A ka‹ t» B tin‹ Ípãrxoi come riferentesi al caso di due proposizioni particolari affermative che escludono le corrispondenti universali, ossia come se Aristotele dicesse: «se C conviene a qualche A (ma non ad ogni A) e a qualche B (ma non ad ogni B)». Aristotele passa a considerare il caso in cui una sola delle premesse di (1) e di (2) siano vere ed asserisce che tutte le combinazioni sono possibili (80a38 sgg.). Egli inizia dal caso di Camestres con premessa maggiore vera (80a39-b2). Naturalmente è possibile che CaA e AaaB siano entrambe vere. D’altra parte da CaA e AaaB si deduce CaB. Quindi CeB non può essere vera e la tripla CaA, CaB e AaaB è soddisfatta. L’altro caso è quello in cui ad essere vera sia la premessa minore della (1) (80b2-6). La terna che deve essere soddisfatta è allora AaaB, CeA e CeB. Ma allora se CeA e AaaB sono soddisfatte, è soddisfatta anche CeB dato che questa proposizione deriva sillogisticamente da CeA e AaaB (in Celarent). Analogamente si procede nel caso di Cesare. Anche qui si comincia dall’esaminare il caso in cui la premessa maggiore CeA sia vera (80b6-10). La terna di proposizioni che deve essere soddisfatta è CeA, CeB e AaaB. È evidente che tutto ciò che soddisfa CeA e AaaB soddisfa anche CeB, perché CeB deriva sillogisticamente da CeA e AaaB (in Celarent). Uno si aspetterebbe che Aristotele procedesse nello stesso modo se ad essere vera è la premessa minore di (2), CaB (80b1014). La terna da verificare in questo caso è CaA, CaB e AaaB e tutto ciò che soddisfa CaA e AaaB soddisfa anche CaB dato che questa proposizione dipende sillogisticamente (in Barbara) dalle altre due. Stranamente invece Aristotele sembra

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considerare un sillogismo in Darapti con antecedente CaB e AaaB e conclusione CiA. Siccome CiA è incompatibile con CeA, si conclude che CeA, CaB e AaaB non possono essere vere insieme. Ma questo non prova la tesi. Con ciò l’argomentazione di Aristotele è completata. Egli non sembra interessato a chiedersi che cosa succeda se una delle premesse è totalmente e l’altra parzialmente falsa.

CAPITOLO 17 80b17-26: Dato un sillogismo valido con premesse e conclusioni vere, Aristotele si chiede in quanti modi si possa erroneamente deviare da tale argomentazione ottenendo la conclusione contraria. Egli innanzitutto prende in esame il caso di un proposizione universale affermativa vera ottenuta in Barbara da premesse vere, ossia: (1) AaC, CaB  AaB e fa riferimento al caso di un sillogismo decettivo, evidentemente nella stessa figura, che abbia come conclusione la contraria di AaB, ossia AeB, ottenuta attraverso il «medio appropriato». Il sillogismo decettivo usa il medio appropriato se si serve dello stesso medio di cui si serve t∞w éntifãsevw ı sullogismÒw (80b21-22), ossia il sillogismo che ha come conclusione la proposizione contraria a quella del sillogismo decettivo, nel nostro caso (1) (va da sé che ént¤fasiw è preso in senso generico, dato che qui non marca la contraddittoria, ma l’opposta, o più esattamente, la contraria di una proposizione universale negativa). Dunque il sillogismo decettivo relativo ad (1) che proceda dal «medio appropriato» è il seguente: (2) AeC, CaB  AeB La tesi di Aristotele diviene allora chiara: in tale situazione entrambe le premesse non possono essere false, dato che la proposizione minore della (1) non può essere «convertita», ossia cambiata da affermativa in negativa. Se così avvenisse l’antecedente ottenuto non sarebbe sillogistico. Concludendo, l’unico sillogismo decettivo che possiamo costruire per dedurre AeB, dato (1) e salvata la condizione del «medio appropriato» è (2) e in tale combinazione solo la premessa maggiore può essere falsa. Si noti l’uso peculiare di éntistr°fein che significa qui «cambiare la qualità di una proposizione». Per una panoramica sugli usi di questo verbo nella logica di Aristotele cfr. Ross, p. 293. 80b26-32: Al caso del sillogismo decettivo costruito con il «medio appropriato» viene assimilato quello di un medio «preso da un’altra catena predicativa» (per il termine sustoix¤a cfr. la n. a 79a36-b12). Mettiamoci nella stessa situazione del caso precedente, assumendo (1) della n. precedente come il sillogismo che porta alla verità, e supponiamo di considerare un termine D per il quale risultino vere AaD e DaB. In effetti in corrispondenza della (2) della n. precedente avremo (2*) AeD, DaB AeB in cui la premessa maggiore è falsa e quella minore è vera.

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80b32-81a4: Insistendo sulla situazione dei casi precedenti (la conclusione vera AaB è ottenuta dal sillogismo con premesse vere [1] della n. a 80b17-26) Aristotele considera il caso di un sillogismo decettivo in prima figura che concluda ad AeB e il cui termine medio sia diverso da C. Supposta dunque la verità delle proposizioni AaC, CaB e AaB, egli esamina innanzitutto il caso di un medio D tale che le proposizioni AaD e DeB siano vere (80b32-40). Allora per costruire il sillogismo in Celarent che concluda ad AeB sfruttando il medio D non potremo che porre (1)

AeD, DaB  AeB

nel quale entrambe le premesse sono false. Di seguito a questo, Aristotele fa il caso di un medio D il quale renda vere le proposizioni AeD e DeB. Allora il sillogismo in Celarent avrà la forma di (1) ed in esso la premessa maggiore sarà vera e quella minore falsa. 81a5-14: Aristotele considera qui il caso in cui, a fronte del solito sillogismo in Barbara ([1] della n. a 80b17-26) si costruisca un sillogismo decettivo in seconda figura che concluda ad AeB. Le possibilità sono ovviamente due, e precisamente (1) CeA, CaB  AeB

(Cesare)

(2) CaA, CeB  AeB

(Camestres)

e Aristotele correttamente osserva che in (1) e (2) non si può verificare che entrambe le premesse siano totalmente false (per la nozione di falsità totale cfr. APo. I 16, 80a27-28) (81a5-9). Infatti se lo fossero le rispettive contrarie sarebbero vere e, per esempio, rispetto a (1) dovremmo assumere la verità di CaA e CeB. Ma, se così fosse, dovremmo accettare anche la verità di AeB che da quelle premesse deriva; mentre avevamo assunto che AaB fosse vera. A differenza di quel che avviene in APo. I 16, 80a33 sgg., Aristotele non esamina il caso in cui (1) e (2) abbiano premesse parzialmente false. Aristotele quindi considera la possibilità che una soltanto delle due premesse di (1) e di (2) sia falsa e sostiene che può esserlo una qualunque delle due. La sua dimostrazione si limita al caso di Camestres, con premessa maggiore vera e a quello di Cesare con premessa maggiore falsa e minore vera, ma può essere estesa in modo ovvio agli altri casi. 81a15-24: Aristotele considera qui i sillogismi decettivi a conclusione universale affermativa e inizia il suo esame dal caso di sillogismi decettivi in prima figura che procedano da un medio appropriato. Allora se il sillogismo vero conduce ad AeB esso deve essere in Celarent e quindi avrà la forma: (1) AeC, CaB  AeB Il sillogismo decettivo che usi il medio appropriato, ossia C, sarà in Barbara e precisamente: (2) AaC, CaB  AaB

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È evidente che in tale sillogismo è solo la premessa maggiore ad essere falsa. Il ragionamento è lo stesso di quello svolto a 80b17-26. In corrispondenza con 80b26-32 viene considerato il caso di un medio appartenente ad un’altra serie predicativa e, se esso è negli stessi rapporti con A e B in cui è C, si conclude che il sillogismo cui la scelta di questo medio dà luogo è nella stessa situazione di (2), potendo essere falsa solo la sua premessa maggiore. 81a24-32: Parallelamente a quel che avveniva in 80b32 sgg., Aristotele considera il caso di sillogismi decettivi affermativi che abbiano come medio un termine diverso dal medio appropriato, ossia diverso da C. Sia esso D. Allora, se in realtà «D è sotto A», ossia se vale AaD il sillogismo decettivo che conclude ad AaB non potrà avere altra forma che (1) AaD, DaB  AaB per cui la premessa AaD sarà vera per ipotesi e DaB necessariamente falsa. Aristotele aggiunge che nulla vieta che questa situazione si realizzi, perché è possibile che tÚ A ple¤osin Ípãrxein ì oÈk ¶stin Íp'êllhla (81a26-27). Egli non può che fare riferimento alle due proposizioni AaD e AeB. Quindi bisogna prendere Ípãrxein in modo tale che copra sia un’attribuzione predicativa affermativa sia un’attribuzione negativa, come del resto abbiamo già visto succedere in 80a3. Parallelamente Aristotele considera la possibilità che «D non sia in A» ossia che sia vera la proposizione AeD. In tal caso la premessa AaD della (1) è sicuramente falsa, mentre può capitare che la premessa DaB sia vera e può capitare anche che sia falsa. In effetti, osserva Aristotele, nulla vieta che la coppia di proposizioni AeD e DaB sia vera (come mostra la tripla di termini animale-scienza-musica), come pure che sia vera la coppia AeD e DeB. 81a33-34: Il testo tràdito, fanerÚn oÔn ˜ti mØ ˆntow toË m°sou ÍpÚ tÚ A ka‹ émfot°raw §gxvre› ceude›w e‰nai ka‹ ıpot°ran ¶tuxen, «È manifesto allora che se il medio non è sotto A è possibile sia che entrambe le premesse siano false sia che lo sia una qualunque delle due», non può essere corretto perché contiene un controsenso troppo grave. Se si ipotizza infatti che il termine che funge da medio nel sillogismo decettivo affermativo non sia incluso in A, l’estremo maggiore, è evidente che non si può verificare il caso che la premessa maggiore del sillogismo decettivo sia vera e quella minore falsa. Ross, p. 564, propone di espungere l’intera frase sulla base di argomenti testuali invero un po’ deboli. Mi pare preferibile seguire Barnes, pp. 26 e 167, nell’integrazione da lui proposta, che è sulla scorta di 79b40-41. Un’altra possibilità è quella di leggere tØn prot°ran al posto di ıpot°ran ¶tuxen.

CAPITOLO 18 81a38-b6: Nelle sue linee generali l’argomento di Aristotele è chiaro, anche se i dettagli non sono facilmente spiegabili e collocabili nel contesto. L’idea generale sembra essere che non c’è conoscenza scientifica senza induzione e che non c’è induzione senza percezione sensibile, per cui laddove manchi (§kleloip°nai a

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81b38 e 39 vale ovviamente «mancare di quel che si dovrebbe avere» e non «venir meno di quel che si aveva») una a‡syhsiw manca anche una corrispondente §pistÆmh. Forse i due termini, più che indicare rispettivamente una facoltà sensoria ed una scienza, indicano più genericamente una capacità percettiva e una corrispondente capacità di acquisire certe conoscenze scientifiche. Aristotele collega la conoscenza scientifica che possiamo avere di certe proposizioni al modo in cui le apprendiamo ed afferma che esse vengono apprese o per induzione o per dimostrazione – una tesi che incontriamo spesso nei suoi scritti (cfr. ad es. EN VI 3, 1139b27-28; APr. II 23, 68b13-14; Metaph. A 9, 992b30-33; Ph. VIII 1, 252a22-25). L’induzione è qui quella che altrove Aristotele qualifica come un passaggio dal particolare (in questo caso dal singolare) all’universale mediante una generalizzazione basata sull’osservazione di casi particolari (cfr. ad es. Top. I 12, 105a13-16). Sembra convinzione di Aristotele che se la proposizione P è acquisita per dimostrazione ed è derivata dalle premesse Q ed R, allora in ultima analisi l’apprendimento di Q e di R dipende da generalizzazioni induttive. La parentesi di 81b2-5 fornisce una conferma precisamente di questo passo argomentativo e la discuteremo fra un attimo. L’ulteriore gradino nel ragionamento è fornito da 81b5-6, dove si dice che non è possibile realizzare una generalizzazione induttiva senza avere capacità percettiva. In altri termini per indurre Q bisogna percepire alcuni casi individuali da cui la generalizzazione procede. Quindi, e questa sembra essere la conclusione inespressa dell’argomento, se mancano certe capacità percettive vengono meno anche la possibilità di acquisire certe conoscenze scientifiche. La parte esegeticamente complicata del passo è costituita dalla parentesi di 81b2-5, volta, come si è detto, a giustificare che la conoscenza delle premesse dimostrative avviene per induzione («in ultima analisi» bisognerebbe aggiungere). Aristotele fa riferimento agli §j éfair°sevw legÒmena, probabilmente gli oggetti matematici (cfr. ad es. Cael. III 1, 299a15-16) e al loro essere resi noti mediante l’induzione: può succedere che attraverso un processo induttivo venga manifestata una serie di attributi di un genere matematico G ciascuno dei quali conviene a G in quanto tale, anche se nessuno dei generi matematici è separato, ossia non sussiste indipendentemente dalle cose sensibili (in altri termini: nulla vieta di attribuire a G in quanto tale un predicato F anche se in realtà ciò che esiste in sé e per sé non è G, ma le cose che sono G). La giustificazione è debole. Per provare la sua tesi Aristotele avrebbe dovuto dire che gli attributi matematici (quelli primari naturalmente) possono essere manifestati solo mediante l’induzione. Più prudentemente egli si limita ad osservare che perfino gli attributi matematici astratti possono essere manifestati per via induttiva (diversamente Verdenius [1981]: 349-350). 81b6-9: Il passo è difficile. Esso sembra consistere in una giustificazione del fatto che non è possibile istituire un’induzione senza una corrispondente capacità percettiva. Le prime due frasi («infatti la capacità percettiva è dei singolari» e «infatti non è possibile acquisire conoscenza scientifica di essi») sembrano tener fede all’aspettativa, giacché paiono volte ad assicurare che dei singolari si dà solo conoscenza percettiva e ciò garantisce che l’induzione presuppone percezioni dato che la conoscenza alla base dell’induzione è conoscenza dei singolari. Meno

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chiara è la restante asserzione che sembrerebbe diretta a giustificare che la conoscenza dei singolari è solo percettiva, grazie all’osservazione per cui la conoscenza dei singolari non può procedere dagli universali senza l’induzione e l’induzione senza percezioni. Ma allora l’argomento diviene circolare. Barnes, p. 169, propone di mettere un punto in alto dopo édÊnaton in 81b6, facendo della frase che segue («infatti la capacità percettiva è dei singolari») una giustificazione di quanto precede, ed un punto fermo dopo a‡syhsiw a 81b6. Quel che segue andrebbe allora inteso, nonostante il gãr introduttivo, come una ricapitolazione di tutto l’argomento del capitolo: «Non è possibile infatti acquisire la conoscenza scientifica di queste cose, giacché essa non procede né dagli universali senza induzione né dall’induzione senza la capacità percettiva». Una diversa analisi in Verdenius [1981]: 351.

CAPITOLO 19 81b10-23: Il problema generale affrontato in questo e nei successivi capitoli fino al 23 è quello della possibilità di serie predicative infinite e, conseguentemente, catene dimostrative infinite. Alcune considerazioni preliminari servono ad Aristotele a circoscrivere la questione. Innanzitutto la tesi è limitata al solo caso di proposizioni universali, affermative o negative. Quel che Aristotele ha in mente può essere forse esemplificato dalla situazione di una proposizione universale affermativa, AaC, la quale può comparire come conclusione solo di due premesse a loro volta universali e affermative, AaB e BaC. Ciascuna di queste premesse, che costituisce uno dei principi o presupposizioni per la conclusione (ÍpÒyesiw qui in 81b15 è semplicemente sinonimo di «premessa» ed ha evidentemente un significato diverso da quello che il termine assumeva in APo. I 2, 72a18-21 e in APo. I 10, 76b27-31), può essere a sua volta mediata, talché può succedere che AaB e BaC siano a loro volta dipendenti da altre premesse universali e affermative stabilite grazie a termini medi diversi. In questo modo si costituisce una catena deduttiva la cui lunghezza può variare. È chiaro allora che, se la catena deduttiva è infinita, vi saranno serie predicative infinite e che la negazione di quest’ultima possibilità comporta quella di catene deduttive infinite. Le premesse di una conclusione hanno un differente status epistemico a seconda del contesto argomentativo. Se esso è dialettico, allora quel che conta è che esse siano massimamente accettabili (per la definizione di ¶ndojon cfr. Top. I 1, 100b21-23), potendo mancare il requisito della verità, che invece è indispensabile nel caso delle dimostrazioni (cfr. APo. I 2, 71b25-26). Questa precisazione è essenziale nel presente contesto, giacché, come emergerà nel seguito, Aristotele solleva problemi relativi a predicazioni immediate e a catene di predicazioni. È chiaro che questi problemi hanno senso solo se ci si riferisce a predicazioni di cui si suppone la verità. 81b23-29: Aristotele presenta qui una distinzione fra predicazioni accidentali e per sé che rimanda al terzo senso di «per sé» teorizzato in APo. I 4, 73b5-10 (v. la n. relativa) e che, seguendo la tradizione (cfr. ad es. Filopono, 218.15-219.1),

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chiameremo la distinzione fra predicazioni naturali (katå fÊsin) e predicazioni innaturali (parå fÊsin). Essa è ripresa anche ad APo. I 22, 83a1-23 (v. la n.), mentre da APr. I 27, 43a37-40 apprendiamo che le predicazioni innaturali non hanno diritto di cittadinanza nelle dimostrazioni. Con ancora maggior forza, in APo. I 22, 83a15-17 si mette addirittura in dubbio che le predicazioni innaturali siano vere e proprie predicazioni. Le ragioni dell’emarginazione delle predicazioni innaturali non sono ben chiare. Possiamo immaginarne almeno due. La prima è legata all’ontologia. Le predicazioni naturali mimano da vicino il rapporto che intercorre fra una sostanza e i suoi accidenti. In questo senso le predicazioni innaturali paiono «licenze linguistiche» che non rispecchiano i nessi ontologici delle cose. La seconda ragione è più specificamente epistemica. Quando diciamo ad esempio (1) il musico è bianco (un caso di predicazione innaturale: APo. I 22, 83a11) in realtà il musico non è il soggetto reale della proposizione. Tale soggetto è l’uomo, al quale sono attribuite accidentalmente le proprietà di essere musico e di essere bianco. Dunque in qualche modo (1) è fuorviante e manca di un’informazione importante, perché manca di qualificare la natura del soggetto reale. Comunque sia, quel che è chiaro è che Aristotele vuole limitare la sua indagine al caso delle predicazioni naturali. 81b30-82a2: La formulazione dei due problemi che Aristotele affronterà nei capitoli successivi è chiara. Supponiamo che vi sia un termine C tale che (i) non si predichi di nulla (qui evidentemente la condizione che si abbia a che fare con predicazioni naturali gioca un ruolo importante); (ii) un altro termine B si predichi di esso in modo immediato (perché non c’è in realtà un altro termine che si predichi di C e del quale si predichi B). Allora supponiamo che F si predichi di B sempre in modo immediato e che di F si predichi E, così da costituire la serie predicativa ascendente (1) C, B, F, E, ... (dove naturalmente vale BaC, FaB, EaF e ciascuno di questi nessi è immediato e naturale). Possiamo immaginare che questa serie possa essere prolungata all’infinito o ad un certo punto essa deve concludersi? Parallelamente possiamo immaginare una serie predicativa discendente dove il punto di partenza è costituito da un predicato di cui non si dà nessun altro predicato naturale affermativo (è questa l’interpretazione naturale del kay' aÍtÒ di 81b33-34). Avremo allora (2) A, H, G, B, ... (dove naturalmente vale AaH, HaG, GaB e ciascuno di questi nessi è immediato e naturale). Possiamo immaginare che questa concatenazione predicativa discendente si estenda all’infinito, oppure dobbiamo supporre che essa prima o poi abbia un punto d’arresto? I due problemi sono chiari. Tuttavia mentre per il primo possiamo facilmente immaginare un termine che non si predica in modo naturale di nulla con verità (tale sembra essere ad esempio la situazione degli individui: cfr. ad es. APr. I 27, 43a25 sgg.) è difficile immaginare un termine del quale nes-

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sun altro si predica. Anche se consideriamo le categorie, che sono i predicati univoci più generali per Aristotele, perché dobbiamo negare ad esse il ruolo di soggetti in predicazioni naturali? Per giustificare il punto di vista di Aristotele si potrebbe essere tentati di aggiungere condizioni alle relazioni predicative che i termini delle serie (1) e (2) devono soddisfare. Ma quali? 82a2-8: Viene preso in considerazione un terzo problema relativo a serie predicative affermative. Supponiamo di avere due termini A e C che siano êkra (82a3), ossia tali che del primo nulla si predichi e che il secondo non si predichi di nulla (naturalmente). È possibile concepire una serie infinita di termini intermedi fra A e C nel senso che dato un qualunque termine B che soddisfi AaB e BaC esiste sempre un altro termine D e tale che AaD e DaB risultino vere? La possibilità di avere infiniti medi fra due estremi, se applicata alla dimostrazione, implica che le dimostrazioni possono andare all’infinito, ossia che non vi sono principi primi indimostrabili e quindi che vi sia dimostrazione di tutto. Questa ipotesi è contrapposta a quella in cui i termini sono prÚw êllhla pera¤netai (82a8). Nel linguaggio della fisica aristotelica quest’espressione indica la limitazione di un corpo rispetto ad un altro corpo dovuta alla contiguità (cfr. ad es. Ph. III 4, 203b2022). Qui significa allora la contiguità fra due elementi tra i quali non è più possibile inserire un nuovo termine. 82a9-14: Aristotele considera ora le predicazioni universali negative, ma limitatamente al caso corrispondente a quello descritto in 82a2-8 per le proposizioni affermative. La situazione che egli immagina è la seguente. Supponiamo di avere un termine A che è negato di tutto B. Allora la proposizione AeB, se non è immediata, può essere la conclusione di una dimostrazione in Celarent in cui si dà un termine G tale che si predichi di B e del quale A è negato. Aristotele si riferisce a questa situazione quando afferma che G è un termine antecedente a B del quale A è negato. Allora il problema è: possiamo andare all’infinito nell’introdurre termini «antecedenti» dei quali A è negato, ossia costruire una serie infinita in cui A e B sono fissi e per ogni termine intermedio Gi che soddisfi GiaB e AeGi; esiste un altro termine intermedio Gi+1 tale che Gi+1aB e AeGi+1. Tutti gli editori moderni seguono la maggior parte dei codici nel leggere μ êpeira oÂw Ípãrxei prot°roiw a 82a14 supponendo che qui Ípãrxein abbia il significato ambiguo che abbiamo già incontrato per es. a 80a3. Ma lì il termine era inteso coprire sia una predicazione affermativa, sia una negativa. Qui invece farebbe riferimento solo ad un predicazione negativa. Preferisco quindi seguire il ms n (Ambrosianus 490) e aggiungere oÈx prima di Ípãrxei. 82a15-20: Il passo diviene chiaro se a 82a17-19 si adotta la lezione proposta da Barnes, p. 171. Aristotele considera il caso di termini che si predicano l’uno dell’altro, nel senso che soddisfano insieme AaB e BaA (il che non vale in generale). Per questi termini i problemi che sono stati posti a proposito delle predicazioni non convertibili (Aristotele però non aveva posto esplicitamente la condizione della non convertibilità in precedenza), e segnatamente quello del limite superiore e quello del limite inferiore, non possono essere formulati nello stesso modo. In effetti non è possibile isolare né l’estremo superiore né quello inferiore del-

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la serie predicativa quando si abbia a che fare con predicazioni convertibili. Se supponiamo che vi siano infiniti predicati di un termine, allora la serie sarà infinita sia nell’ordine dei predicati sia in quello dei soggetti. Per interpretare in questo modo è essenziale adottare la proposta di Barnes a 82a17-19 (vedi la n. alla traduzione). Essa ha il vantaggio di dare un senso plausibile al passo, che altrimenti resta difficilmente comprensibile. Naturalmente la fusione dei due problemi che nel caso delle predicazioni non convertibili restavano distinti esclude che la conversione dia luogo a predicazioni innaturali. Se AaB è naturale e BaA è innaturale, allora i termini in questione non sono davvero convertibili, dato che, come abbiamo visto, la problematica delle serie predicative infinite si applica solo a predicazioni naturali.

CAPITOLO 20 82a21-30: Aristotele muove dall’ipotesi che non possano esistere catene predicative infinite ascendenti o discendenti. La non esistenza di catene predicative ascendenti infinite significa che dato un soggetto C che non si predica di null’altro (naturalmente) e data una serie di termini B1, B2, …, Bn, … tali che B1aC, B2aB1, …, BnaBn-1, … la serie dei Bi non può essere infinita. Il caso delle catene predicative discendenti è simmetrico: dato un termine A di cui nulla si predica, ed una serie di termini B1, B2, …, Bn, … tali che AaB1, B1aB2, …, BnaBn+1, …, la serie dei Bi non può essere infinita. L’idea di Aristotele è che, se si verifica questa situazione, allora non è possibile che dati due qualunque termini A e F fra essi ci siano infiniti termini intermedi. Il ragionamento è per assurdo. Supponiamo che i termini intermedi fra A e F siano infiniti. Allora è possibile costruire una serie predicativa discendente che parte da A e che si prolunga all’infinito ed una serie infinita che parte da F e che anch’essa va all’infinito. Ma queste due possibilità erano state escluse per ipotesi. Dunque non ci sono termini intermedi infiniti fra A e F se non ci sono serie predicative infinite ascendenti e discendenti. 82a30-35: L’obiezione dipende dal supporre che nella serie dei termini intermedi infiniti alcuni di questi possono essere in un rapporto immediato. Possiamo allora avere qualcosa come AaB1, B1aB2, …, o anche B1aF, Bi+1aBi, …, dove tutte queste proposizioni sono immediate. La risposta di Aristotele sembra essere che anche se alcune delle proposizioni formate dai termini intermedi sono immediate, nondimeno abbiamo serie ascendenti e discendenti infinite. Per esempio anche se AaB1, B1aB2 sono immediate, pur tuttavia l’infinità dei Bi comporta la costruzione di una serie discendente infinita, che è proibita dall’ipotesi.

CAPITOLO 21 82a36-b13: Aristotele riprende il problema delle predicazioni negative con un allargamento rispetto a quanto aveva detto ad APo. I 19, 82a9-14, perché lì il discorso sembrava confinato ai sillogismi in Celarent e qui invece è esteso anche ai

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sillogismi in seconda e terza figura. Egli comincia con il considerare il caso di una dimostrazione in Celarent e propone la tesi secondo cui la premessa negativa non può essere mediata all’infinito, se si presuppone che non si diano serie predicative infinite ascendenti. Infatti immaginiamo di avere in Celarent AeB, BaC  AeC Facciamo l’ipotesi che la sua premessa maggiore sia mediata. Dunque potremo costruire il sillogismo, sempre in Celarent AeD, DaB  AeB Ancora, immaginiamo che anche AeD sia mediata. Avremo allora: AeE, EaD  AeD Se supponiamo di poter andare avanti all’infinito in questa operazione di trovare un medio per la premessa negativa, inevitabilmente dovremo accettare la possibilità di costruire una serie infinita ascendente a partire da C, che comprenda termini tali per cui le proposizioni affermative BaC, DaB, EaA, … siano tutte vere. Ma una tale possibilità è esclusa per ipotesi. 82b8-10: Letteralmente: «è chiaro che se l’altro termine [scil. A] non conviene ad un altro anteriore, per esempio D, quest’ultimo termine [scil. D] deve convenire ad ogni B». Ma «se l’altro termine non conviene ad un altro anteriore» è ambiguo ed ho preferito svolgere il greco, anche se la mia resa diventa più una parafrasi che una traduzione. Stesso discorso a 82b10-11. 82b13-21: Il passo è chiaro nelle sue linee generali, anche se è oscurato da incomprensibili dettagli. Aristotele considera il secondo modo in cui una proposizione negativa può essere provata e presenta un sillogismo in Camestres: (1) BaA, BeC  AeC Supponiamo che la premessa BeC sia mediabile e quindi il frutto di una dimostrazione. Questa può essere, come sopra, in Celarent, oppure nel «terzo modo» (diå … toË tr¤tou : 82b15-16). Verrebbe naturale pensare che il «terzo modo» sia Cesare, nel quale può essere provata una proposizione universale negativa. Ma dal seguito del discorso appare chiaro che il «terzo modo» è un sillogismo in terza figura, Bocardo (82b22-23), mentre sappiamo che in terza figura non si conclude mai una proposizione universale negativa. Comunque sia, supponiamo con Aristotele che BeC sia una proposizione mediata provabile in Camestres. Avremo allora: (2) DaB, DeC  BeC Ancora si supponga che DeC sia mediata e ottenibile in Camestres. Avremo allora (3) EaD, EeC  DeC Se accettiamo la possibilità di prolungare all’infinito la mediazione della premessa negativa dei sillogismi in Camestres, dobbiamo anche ammettere la possibilità di costruire una catena predicativa affermativa infinita e ciò era stato escluso dall’ipotesi iniziale. Dunque esistono proposizioni universali negative immediate.

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A 82b17-19 il testo di Ross (oÏtv d' ín deiknÊoi, oÂon ˜ti tÚ D t» m¢n B pant‹ Ípãrxei, t“ d¢ G oÈden¤, efi énãgkh Ípãrxein ti t“ B) non ammette un’interpretazione plausibile. Il senso migliora se leggiamo deiknÊ˙ con i codici migliori e rimuoviamo efi prima di énãgkh con il cod. d (Laurentianus 72.5). Così anche Barnes, p. 30. L’edizione di Ross omette accidentalmente ˜ti alla riga 17. 82b21-28: Il passo è appesantito da evidenti errori. Aristotele annuncia il terzo modo di provare una proposizione negativa e sembra considerare il caso di un sillogismo in Bocardo: (1) CoB, AaB  CoA Come al solito egli fa l’ipotesi che la premessa CoB sia mediata e asserisce che essa può essere provata «attraverso uno dei modi detti sopra oppure nello stesso modo» (82b24). Ma i modi menzionati sopra, come abbiamo visto, sono Celarent e Camestres, nessuno dei quali conclude ad una proposizione particolare. Comunque sia, l’argomentazione procede nel solito modo. Supponiamo che CoB sia mediata e che possa essere provata in Bocardo. Avremo allora: (2) CoD, DaB  CoB È facile vedere che, se continuiamo nella mediazione della premessa negativa di Bocardo siamo costretti a postulare una serie predicativa discendente affermativa che si prolunga tanto quanto le mediazioni delle proposizioni negative. Quindi se queste sono infinite sono infinite anche quelle. Ma per ipotesi le serie predicative discendenti affermative non sono infinite. Dunque nemmeno le mediazioni. Un altro aspetto inquietante di questo paragrafo è che finora Aristotele non ha mai preso in considerazione proposizioni particolari. Il fatto che qui egli consideri Bocardo è tanto più strano perché né viene esaminato Cesare in seconda figura né nessun altro dei modi particolari della prima e della seconda figura. Barnes, p. 173, ipotizza arditamente che Aristotele faccia sempre e solo riferimento alle proposizioni universali e che, quando parla dei tre «modi» in cui una proposizione universale negativa è dimostrabile, egli alluda ai tre modi della prima e della seconda figura, Celarent, Camestres e Cesare (quest’ultimo non esaminato esplicitamente), supponendo di conseguenza che 82a21-28 sia un’aggiunta posteriore. Se così fosse, come del resto avverte lo stesso Barnes, p. 173, bisognerebbe emendare anche 82b30, giacché lì si parla di figure (§k toË pr≈tou sxÆmatow), mentre si dovrebbe coerentemente parlare di «modi» (§k toË pr≈tou trÒpou?). Inoltre la trattazione di Aristotele risulterebbe tronca: dopo aver pomposamente annunciato che una proposizione (universale) negativa è provata in tre modi (82b4) ed aver fatto riferimento al terzo modo di provare una proposizione (universale) negativa (82b16), egli non darebbe spazio alcuno a questa terza via per provare le proposizioni universali negative. Comunque sia, il testo tràdito non ha molto senso. 82b29-33: Per l’interpretazione di questo passo cfr. Lear [1980]: 27-30. 82b35-36:: «Per chi consideri le cose in termini generali» traduce logik«w m¢n yevroËsin. Per l’interpretazione di logik«w v. n. a 84a7-11.

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CAPITOLO 22 82b37-83a1: Il passo non presenta particolari difficoltà interpretative. Aristotele, di seguito a quel che è stato annunciato alla fine del cap. 21, vuol dimostrare che non esistono serie predicative infinite ascendenti e discendenti e comincia con il considerare il caso dei predicati, come egli dice, §n t“ t¤ §sti (82b37), ossia quei predicati che contribuiscono a dare una risposta alla domanda «che cos’è?» (t¤ §stiÄ;) qualcosa. Si suppone che tali predicati coincidano qui con i predicati che costituiscono la definizione di qualcosa, dato che il che cos’è di una cosa è espresso dalla definizione di questa cosa. Se si parte dall’assunto che è possibile definire qualcosa, per esempio A, allora è impossibile che i suoi predicati definitori, o §n t» t¤ §sti, siano infiniti, dato che un gruppo infinito di cose non è afferrabile dalla mente (che «non è possibile attraversare un’infinità di cose» [82b38-39] sottintenda «col pensiero» è dimostrato da 83b6-7). Come ha osservato Barnes, pp. 174-175, quest’asserzione, sicuramente vera, non è immediatamente legata al problema di serie predicative infinite nelle quali ciascun membro sia connesso predicativamente al precedente. Barnes fa l’ipotesi che Aristotele abbia qui in mente una successione di termini G1, …, Gn tali che G1 è una specie e Gi+1 il genere prossimo di Gi. In questo modo la serie risulta predicativamente relata, nel senso che ogni Gi non solo si predica, ma si predica anche §n t“ t¤ §sti di tutti i termini precedenti (come avviene ad esempio nella serie uomo, animale, vivente). Rilevante è l’uso dell’espressione tÚ t¤ ∑n e‰nai, qui probabilmente sinonimo di t¤ §sti (che cos’è), anche se non sempre è tale, potendo talvolta il t¤ §sti indicare solo il genere di una specie, mentre il t¤ ∑n e‰nai fa riferimento all’intera definizione di una specie. La traduzione di t¤ ∑n e‰nai è controversa. Alcuni autori propendono per intendere questa formula come una domanda sostantivata, analoga a t¤ §sti, in cui il soggetto è t¤, talché la resa letterale della formula sarebbe: «il che cos’era l’essere». In questa prospettiva non è del tutto agevole spiegare la presenza dell’imperfetto, da alcuni interpretato come un imperfetto gnomico, connotante una priorità (della forma sulla materia) o una durata caratteristica di ciò che è per essenza. Altri autori trovano difficile questa spiegazione dell’imperfetto e preferiscono pensare che il soggetto della frase sia tÚ e‰nai (l’essere) sì che essa andrebbe tradotta letteralmente con: «l’essere che cos’era». Essi spiegano l’imperfetto come rimando a qualcosa di precedentemente posto (secondo un uso ben documentato in greco), talché il significato generale della formula sarebbe: «l’essere che costituisce la risposta alla domanda «che cos’è?» precedentemente posta». Anche se è difficile prendere posizione su questa complicatissima questione e la seconda interpretazione sembra a prima vista più artificiosa, sono incline a pensare che essa sia quella corretta. Nell’impossibilità di dare una traduzione letterale dell’espressione greca l’ho parafrasata con: «l’essere corrispondente al che cos’è». 83a1-23: Aristotele riprende qui, con maggiore dovizia di particolari, la distinzione fra predicazioni naturali e predicazioni innaturali che aveva già menzionato in APo. I 4, 73b5-8 (v. n. a 75b5-10) e brevemente analizzato in APo. I 19, 81b24-29 (v. n. a 81b23-29). L’idea è sempre la stessa. La proposizione (1) questo bianco è legno

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ancorché possa essere vera, è una predicazione innaturale perché non esibisce il soggetto proprio della proposizione. Infatti legno non si predica di bianco, il bianco non è legno, ma è la cosa che è bianca che è anche legno. Di contro in (2) questo legno è bianco abbiamo una predicazione naturale perché il soggetto soggiacente a bianco è proprio il legno. In altri termini, nel primo caso non è in quanto bianca che la cosa in questione è legno; viceversa nel secondo caso è in quanto legno che il legno è bianco. Un altro modo di vedere la distinzione in questione è quello di supporre che nella (1) «bianco» non sia un nome appropriato del soggetto reale della predicazione: non è il bianco o la bianchezza propriamente ad essere legno, ma appunto la cosa, che è impropriamente denominata dal fatto di essere bianca, che è legno. Invece nella (2) «legno» è un nome appropriato per il soggetto, in quanto descrive esattamente ciò che è bianco. Le espressioni «X è ˜per Y» e «X è ˜per Y ti» sono interessanti. Con la prima Aristotele vuol dire (almeno qui) che Y è il genere di X e con la seconda che X coincide con una specie di Y (cfr. Top. III 1, 116a23-28; APr. I 39, 49b6-8; Bonitz, Index, 533b36-534a18 e Barnes, p. 176), in analogia con il fatto che il genere è detto talvolta da Aristotele coprire il ruolo di ciò che esprime che cos’è una cosa. Nella parte finale del passo Aristotele lancia un anatema contro le predicazioni innaturali dicendo che esse non sono propriamente predicazioni e sostenendo che devono essere bandite in conformità con quel che avviene nelle scienze, dato che le dimostrazioni non fanno uso di predicazioni innaturali. A proposito di questa presa di posizione molti autori si sono domandati come sia possibile ridurre tutte le proposizioni scientifiche a predicazioni naturali, intendendo con ciò che tutte le proposizioni scientifiche debbano in definitiva avere come soggetto termini che esprimono sostanze. In effetti i numeri e le figure geometriche che fungono ovviamente da soggetti delle proposizioni matematiche non sono sostanze, così come non sono sostanze i soggetti di molte proposizioni della fisica. Ross, p. 577, osserva che le entità matematiche sono concepite da Aristotele come se fossero sostanze. Ma che dire di una teoria del movimento o dei colori? In realtà la distinzione aristotelica fra predicazioni naturali e innaturali non ha come conseguenza che in tutte le predicazioni naturali il soggetto sia un termine sostanziale. Si consideri ad esempio una proposizione come (3) il bianco è un colore Essa ha tutti i requisiti delle predicazioni naturali, anche se il suo soggetto non è sicuramente una sostanza. Infatti è il bianco in quanto bianco che è un colore, e non una cosa bianca. Possiamo cercare di chiarire il punto di vista di Aristotele nel modo seguente. Abbiamo visto che una proposizione come (2) esprime una predicazione naturale perché ciò che è detto essere bianco è proprio il legno e non una cosa diversa dal legno. Diciamo allora che in (2) il soggetto della proposizione è espresso da un termine che dice ciò che il soggetto in se stesso è, che fa riferimento all’essenza del soggetto e che, in questo senso, possiamo chiamare un termine qualificante per il soggetto stesso. Ciò si verifica anche nel caso di (3) in quanto appunto «bianco» è un termine qualificante il soggetto della proposizio-

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ne, mentre questo non avviene nel caso di (1). La cosa alla quale è attribuito il predicato «legno» non è essenzialmente il bianco e in questo senso «bianco» non qualifica il soggetto della predicazione. Se le cose stanno così, quello che caratterizza una predicazione come naturale o innaturale non è tanto il fatto che il suo soggetto esprima o no un termine sostanziale, quanto piuttosto il fatto che esso svolga il ruolo di termine qualificante per il soggetto, indipendentemente dalla categoria ontologica entro cui il soggetto stesso cade. Questa prospettiva rende più accettabile l’esclusione delle predicazioni innaturali dall’ambito delle scienze. Le categorie elencate qui sono otto e non dieci, come in Cat. 4, 1b25-27 e Top. I 9, 103b21-23. Anche in Ph. V 1, 225b5-7 (=Metaph. K 12, 1068a8-9) mancano «avere» e «giacere». Altri elenchi incompleti: sei in Metaph. Z 4, 1029b24-25; Ph. I 7, 190a34-36; EN I 4, 1096a24-27; cinque in Rh. II 7, 1385b5-7; quattro in GC I 3, 317b8-10 e in Metaph. Z 7, 1032a14-15. 83a7-8: Ka‹ går oÎte leukÚn ¯n oÎy' ˜per leukÒn ti §g°neto jÊlon. Per l’interpretazione di questo passo seguo Barnes, p. 175, e la tradizione, pace Ross, p. 581. 83a24-35: Aristotele asserisce innanzitutto che i predicati che significano una sostanza, ossia che esprimono che cos’è una cosa, la sua essenza, sono predicati che rivelano o il genere della cosa oppure una specie di tale genere (con buona pace di Barnes, p. 177 e con il conforto di Ross, p. 577 e Morrison [1993]: 163-164 prendo oÈsiÄan in tå m¢n ousiÄan shmaiÄnonta [83a24] nel senso di «essenza»). La situazione di questi predicati è posta in contrasto con quella dei predicati che sono accidentali nel senso che non significano l’essenza di ciò di cui si predicano (˜sa de mØ oÈsiÄan shmaiÄnei: 83a25-26). Questi ultimi possono essere sì predicati naturali di una cosa, ma non dicono di essa che cos’è. Essi quindi presuppongono che il soggetto di cui si dicono sia êllon, ossia eterogeneo ad essi. In effetti in una predicazione naturale, se il predicato è costituito da un accidente del soggetto, il soggetto dev’essere espresso da un termine qualificante che fa riferimento all’essenza del soggetto stesso e che quindi è «diverso» dal termine che funge da predicato, per ipotesi un accidente. Quest’idea è ribadita alle linee 3032: i predicati che non significano l’essenza di qualcosa e che quindi sono accidentali rispetto ad essa devono dirsi di un soggetto, il quale dev’essere altrimenti qualificato. L’esempio è quello del bianco: se X è una cosa bianca, allora X non può essere bianco senza essere anche qualcosa d’altro, che esprime appunto quello che X è. L’idea che X, per poter fungere da soggetto in predicazioni accidentali, debba essere essenzialmente qualcosa d’altro non è compatibile con quella concezione platonica della separazione delle idee che Aristotele sovente critica (su ciò si veda Code [1986]: 421-422). Ciò spiega perché il passo si concluda con il più violento attacco alla teoria platonica delle forme che il Corpus Aristotelicum contenga. Bisogna dire addio alle forme platoniche. Aristotele usa l’espressione xair°tv, «si dia addio» (83a33), un verbo che era talvolta impiegato nelle formule di commiato dei morenti (Sofocle, Aj. 863; Tr. 921; Pl., Phd. 116D1, 4). In effetti le forme platoniche sono teret¤smata e questa qualificazione non è meno violenta della precedente ingiunzione. In senso proprio «ter°tisma» è usato in [Pr.] XIX 10, 918a30 per indicare il suono della voce umana quando imita uno strumento musicale, e Fi-

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lopono (242, 14-6) dice che il termine era adoperato per indicare i suoni che i citaredi traevano dai loro strumenti per accordarli. Di qui al significato di vuota chiacchiera che troviamo in Plutarco (Mor. 1034E) il passo è breve. La presa di posizione aristotelica è sicuramente da collegare ad APo. I 11, 77a5-9. 83a36-39: Aristotele aggiunge una terza osservazione alle due avanzate rispettivamente in 83a1-23 (distinzione fra predicazioni naturali e innaturali) e in 83a24-32 (distinzione fra predicazioni accidentali e sostanziali) quando afferma che se X è una qualità (o in generale un accidente) di Y, allora Y non può essere una qualità (accidente) di X. Ciò è una diretta conseguenza di quanto egli ha asserito in precedenza a proposito delle predicazioni accidentali e naturali. Supponiamo che Y si predichi accidentalmente di X. Se abbiamo a che fare con una predicazione naturale, X dev’essere diverso da Y, nel senso che mentre X esprime qualcosa di essenziale del soggetto, Y rappresenta soltanto un accidente di questo. Se volessimo sostenere che, almeno in qualche caso, si verifica che X sia un predicato accidentale di Y e che la predicazione risultante è naturale, dovremmo ammettere che X è accidentale rispetto al soggetto che è Y, mentre Y è essenziale rispetto ad esso. Ma ciò è impossibile dato che per ipotesi Y è un accidente del soggetto e X essenziale ad esso. Da ciò Aristotele deduce che X e Y non sono contropredicabili. 83a39-b17: Il passo è molto oscuro e le argomentazioni in esso svolte tutt’altro che lineari e convincenti. Esso inizia con la posizione di un’alternativa (μ gãr toi: 83a39) il cui secondo membro è irregolarmente introdotto a 83b10 da oÈd¢ mÆn: «Né alcunché si predica di una qualità...». Il primo membro dell’alternativa sembra fare riferimento ad un insieme di predicati essenziali di qualcosa e di essi afferma che non possono essere infiniti, per il motivo che è già stato addotto a 82b37-83a1: se i predicati essenziali sono infiniti non è possibile definire. Aristotele però aggiunge un’ulteriore complicazione affermando che la serie dei predicati essenziali dev’essere limitata tanto all’insù quanto all’ingiù e, come abbiamo visto, non è detto che tutti i predicati definitori di qualcosa formino una catena predicativa. Tuttavia potremmo dire che se i predicati definitori di A sono finiti di numero, lo sono anche le eventuali catene predicative cui essi possono dar luogo. Queste catene predicative definitorie sembrano avere la caratteristica di possedere elementi che appartengono tutti allo stesso genere e in cui i termini inferiori sono casi particolari di quelli superiori. Tali catene sono per Aristotele finite all’ingiù, anche se egli in realtà non spiega perché. Una possibile ragione della sua asserzione è che tali catene non possono che terminare agli individui dei quali non esistono casi particolari. Oltre che sulla finitezza all’ingiù delle catene predicative essenziali, Aristotele insiste sulla loro finitezza all’insù (83b8-10). Forse a tale scopo, egli osserva che i generi non si «contropredicano» l’uno dell’altro: se X è genere di Y, Y non è genere di X. Escludendo la possibilità di contropredicazioni, si proverebbe che è legittimo, nel caso di catene predicative essenziali, parlare di una direzione all’insù e, quindi, di un termine superiore della catena. Ma il senso dell’osservazione è molto dubbio. Il secondo membro dell’alternativa riguarda le predicazioni accidentali che non siano innaturali. Per esse è ovvio che non è possibile avere catene discendenti in-

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finite, dato che gli accidenti, nelle predicazioni naturali, come abbiamo visto devono predicarsi di termini che dicono quel che sono le cose di cui gli accidenti si predicano, talché alla fine abbiamo a che fare con catene predicative essenziali. Aristotele aggiunge che i predicati accidentali non possono essere infiniti nemmeno all’insù. Ci si aspetterebbe che per dirimere la questione egli semplicemente osservasse che un accidente non può essere predicato di un altro accidente in modo naturale. Invece egli afferma che i possibili tipi di predicati accidentali, ossia le categorie, sono in numero finito. Da questo assunto non segue né che non siano possibili catene predicative infinite nell’ambito degli accidenti, né che gli accidenti di una sostanza non possano essere infiniti. Che argomentazione Aristotele avesse in mente è impossibile stabilire. 83a39-b1: μ gãr toi …w oÈs¤a kathgorhyÆsetai, oÂon μ g°now ¯n μ diaforå toË kathgoroum°nou. Qui evidentemente kathgoroum°nou indica non ciò che è predicato di qualcosa, come di solito, ma piuttosto ciò di cui qualcosa si predica (cfr. anche APr. I 32, 47a40-b10). 83b17-31: Con Ross, p. 582, suppongo che qui inizi una nuova prova della tesi, prova che in verità, per le ragioni messe in campo e per l’oscurità, non è troppo diversa dalla precedente. Aristotele ricorda che i predicati accidentali non si predicano di se stessi, nel senso che richiedono un soggetto che sia «altro» dal punto di vista della sua struttura formale (83b17-19). Inoltre egli distingue gli accidenti (83b19-22) in accidenti per sé e in quelli che in APo. I 6, 75a18 egli chiama «accidenti non per sé» e che sono caratterizzati dal fatto di non convenire ai rispettivi soggetti in modo necessario, e ribadisce che per entrambi i tipi vale che il soggetto di predicazione deve essere diverso (sui sumbebhkÒta kay’aÍtã v. n. a 75a38-75b12). Con 83b24 inizia la vera e propria prova della tesi secondo cui non ci sono serie ascendenti e discendenti di predicati accidentali. Che la serie non possa essere discendente risulta dal fatto che un predicato accidentale deve essere attribuito ad un termine sostanziale e la serie dei termini sostanziali, secondo Aristotele, deve avere un limite inferiore. Invece che la serie dei predicati accidentali sia limitata verso l’alto è asserito ma non provato. Del resto non è nemmeno chiaro che senso abbia attribuire ai predicati accidentali un ordine ascendente o discendente visto che non sono predicabili in modo naturale l’uno dell’altro. Forse potremmo pensare ad una serie di predicati sostanziali S, S1, S2, …, Sn tali che S1aS, S2aS1, …, SnaSn-1, per cui essi avrebbero un ordine ascendente e ad una serie di predicati accidentali tali che AaS (ma non AaS1), A1aS1 (dove naturalmente A1aS, ma non A1aS2) e cosí via fino a AnaSn, di modo che l’ordine dei predicati S inducesse un ordine sui predicati A. In questa maniera si potrebbe parlare di serie ascendenti e discendenti anche per i predicati accidentali e la finitezza della serie degli S determinerebbe quella della serie degli A. Ma è difficile estrarre questa dottrina dal testo. La conclusione generale dell’argomentazione (83b28-31) è oscura dal punto di vista del greco. Aristotele sembra dire che (i) vi sono serie di predicazioni immediate del tipo di …FaE, EaD, …, che (ii) queste serie hanno termine e che (iii) c’è un termine H tale che si predica immediatamente del suo inferiore e del quale nessun altro termine si predica. Sembra cosí omesso ogni riferimento al termine infe-

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riore della serie, essendo menzionato solo quello superiore. Forse si ottiene un senso migliore dal passo se si intende énãgkh êra e‰naiÄ ti o pr«tÒn ti kathgore›tai (83b28-29) in modo tale che pr«tÒn non indichi tanto l’immediatezza del rapporto predicativo, ma si riferisca al primo ti e qualifichi il primo termine inferiore della serie (il greco risulta un po’ duro, ma non impossibile). Allora (i) indicherebbe che c’è una serie di predicazioni a partire da un primo termine, (ii) che la serie ha un termine e (iii) specificherebbe il termine superiore di essa. A 83b24 il testo dei manoscritti non dà alcun senso plausibile e le correzioni proposte dagli editori (Waitz, II, apparato ad loc. e p. 357, Ross, apparato ad loc. e la parafrasi a p. 574) non sembrano migliorare molto la situazione. Con molta perplessità mi sono deciso ad espungere, con Barnes, le ultime parole, che nell’edizione di Ross suonano ka‹ toËto kay'•t°rou. 83b31-84a6: Aristotele propone un nuovo argomento a favore, sembra, della tesi della non esistenza di serie predicative infinite. Esso procede dall’assunzione che (i) esistano proposizioni dimostrabili; che (ii) conoscere queste proposizioni significhi avere dimostrazione di esse; che (iii) la conoscenza della conclusione dipenda da quella delle premesse. Da (iii) segue banalmente che, se non conosciamo le premesse di una dimostrazione, non possiamo conoscere la conclusione ad esse corrispondente. A queste assunzioni Aristotele fa seguire l’ipotesi che una proposizione, supponiamo AaC, sia dimostrabile e che vi siano infiniti termini medi fra A e C. Siccome le premesse da cui procede AaC sono a loro volta mediate, per poter conoscerle, dobbiamo dimostrarle. Ma per fare ciò dobbiamo assumere altre premesse a loro volta mediate. Di conseguenza non arriveremo mai a conoscere AaC. Non è facile capire il senso dell’argomento. Ammesso che sia un buon argomento per provare che, nel caso di proposizioni della scienza, non ci sono serie predicative che abbiano infiniti termini intermedi, non si vede come esso possa essere invocato per mostrare in generale che tutte le serie predicative hanno limite superiore e inferiore. Dal fatto che le serie predicative ascendenti e discendenti implicate nelle dimostrazioni scientifiche siano finite possiamo tutt’al più inferire che non ogni serie predicativa è infinita e non che ogni serie predicativa è finita, come invece sembra credere Aristotele. Le conoscenze «non a partire da alcune cose e da una presupposizione» (mØ §k tin«n mhd' §j Ípoy°sevw: 83b39), ossia appunto le dimostrazioni, si contrappongono a quelle conoscenze che dipendono dall’assunzione di altre premesse o di una presupposizione e che quindi valgono tanto quanto valgono queste ultime. I sillogismi basati su una presupposizione (§j Ípoy°sevw) sono una famiglia di argomenti brevemente considerati in APr. I 44, 50a16 sgg. (cfr. anche 23, 41a37-b5), uno dei quali ricorda il Modus Ponens, in quanto procede da un condizionale al quale associa la prova dell’antecedente e conclude con l’asserzione del conseguente. Secondo Aristotele l’asserzione dell’antecedente può essere oggetto di dimostrazione sillogistica, mentre il condizionale stesso va semplicemente concesso. 84a7-11: Aristotele afferma qui di voler affrontare il problema della possibilità di predicazioni infinite «da un punto di vista analitico» (énalutik«w: 84a8), ribadendo che finora è stato trattato «da un punto di vista generale» (logik«w: 84a7; cfr. anche APo. I 21, 82b35-36). Talvolta logikÒw è usato in senso peggiorativo

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ed è avvicinato a «sofistico» (sofistikÒw) (cfr. ad es. Metaph. G 3, 1005b22 insieme con Int. 6, 17a36-37) o a «vuoto» (kenÒw) (ad es. GA II 8, 748a7-11). In altre occasioni il termine è avvicinato a «dialettico» (dialektikÒw) (cfr. ad es. Top. I 14, 105b20-21; V 1, 129a17-21, 29-31; VIII 12, 162b27) senza una particolare connotazione peggiorativa. Quest’ultima associazione è ben spiegata da GA II 8, 747b27-30, dove si chiarisce che una dimostrazione «logica» procede da principi molto generali, i quali sono lontani dai principi appropriati della cosa da provare. In questa prospettiva una prova che non è «logica», ma «analitica» (altrove Aristotele usa §k t«n keim°nvn [ad es. APo. I 32, 88a30] o anche, più spesso, fusik«w [ad es. GC I 2, 316a10-11; Ph. III 5, 204b4-5 e 10-11; EN V 5, 1147a2425, dove tra l’altro non ha alcun riferimento alla fisica] al posto di énalutik«w è una dimostrazione che procede dai principi appropriati all’oggetto da provare (per un’analisi dei significati di logik«w cfr. anche Burnyeat [2001]: 19-25). Nel caso specifico Aristotele usa il termine énalutik«w per circoscrivere non tanto il metodo di prova quanto piuttosto il problema. Non si tratta più di provare in generale che non esistono serie di predicazioni infinite ascendenti e discendenti, ma che non sono infinite le serie predicative che sono usate nelle dimostrazioni, tagliando quindi fuori le predicazioni accidentali naturali. 84a11-17: Una volta circoscritto il problema mediante l’esclusione delle predicazioni accidentali (anche naturali), Aristotele distingue i due tipi di predicazioni per sé che hanno rilevanza per le dimostrazioni, in ciò rifacendosi a APo. I 4, 73a34-b5 e 73b16-24. L’esempio di predicazione per sé del secondo tipo – dispari conviene a numero e numero è nella definizione del dispari – non è perspicuo. Difatti non ogni numero è dispari e, probabilmente per ovviare a questa difficoltà, nel passo parallelo di APo. I 4, 73a39-40, Aristotele parlava piuttosto della coppia dispari-pari, dato che ogni numero (naturale) è dispari o pari. Ma se dobbiamo sottintendere «o pari» dopo «dispari», come suggeriscono tutti gli interpreti, possiamo ancora dire che abbiamo a che fare con la predicazione di una cosa rispetto ad una cosa (©n kay’•nÒw), come invece sembra richiedere Aristotele? Nell’altro esempio di predicazione per sé del primo tipo «divisibile», diairetÒn, dev’essere preso come genere di «pluralità» (pl∞yow) (cfr. Metaph. D 13, 1020a711; Ph. III 5, 204a11-12=Metaph. K 10, 1066b4). 84a17-28: Aristotele afferma che non è possibile andare all’infinito nell’ambito delle predicazioni per sé e inizia con il provare la tesi per le predicazioni per sé del secondo tipo (oÎy'…w tÚ perittÚn toË ériymoË: 84a18 cui corrisponde, irregolarmente, oÈd¢ mØn ˜sa §n t“ t¤ §stin §nupãrxei a 84a25, dove comincia la prova per le predicazioni per sé del primo tipo). Supponiamo di avere la seguente serie (1) …Bn, Bn-1, ..., B1, A dove ciascun termine Bi (i) è predicato di quello immediatamente successivo Bi-1 e (ii) è tale che Bi-1 è nella definizione di Bi, in conformità con la definizione di predicazione per sé del secondo tipo. L’idea di Aristotele sembra essere che nella serie (1) la relazione «essere parte della definizione di» sia una relazione transitiva: se A fa parte della definizione di B1, fa parte anche della definizione di B2,

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supposto che B1 faccia parte di quella di B2. L’esemplificazione della (1) scelta da Aristotele presenta qualche difficoltà. Barnes, pp. 33 e 181, con l’avallo di Verdenius [1981]: 352, adotta a 84a20-21 una punteggiatura diversa da quella del testo di Ross, e precisamente: toËto d'efi ¶sti pr«ton, ı ériymÚw §nupãrjei Ípãrxousin aÈt“, traducendo di conseguenza: «and if this is prime, number will inhaere in what holds of it». Sulla base di questa lettura, la serie che esemplificherebbe la (1) sarebbe pertanto costituita dai termini: (2) …primo, dispari, numero Ma questo modo di intendere il passo non è plausibile, perché in base alla condizione (ii) relativa alla serie (1) dispari dovrebbe essere nella definizione di primo, mentre ciò non avviene, giacché secondo Aristotele un numero è primo se o non è il prodotto o non è la somma di due numeri (APo. II 13, 96a35-36). Se restiamo alla punteggiatura adottata da Ross, e già dai precedenti editori, l’esemplificazione della (1) è data da: (3) …X, dispari, numero È chiaro infatti che ponendo la virgola dopo efi ¶sti in 84a20, pr«ton va con ı ériymÚw, che designa il limite inferiore della serie, quello che corrisponde ad A in (1) (con buona pace di Verdenius [1981]: 352). La serie (3) condivide con la (2) la difficoltà di soddisfare la condizione (i). Ma questo è un problema di tutte le predicazioni per sé del secondo tipo (cfr. APo. I 4, 73a34 sgg. e la n. a 73a34-b5). Dalla transitività della relazione «essere parte della definizione di» Aristotele sembra concludere che la serie (1) non può andare all’infinito verso l’alto (ossia dalla parte dei predicati B di A), perché una definizione non può contenere infiniti termini. L’argomentazione è sicuramente fallace, come già Filopono, 258.26 sgg., aveva notato. Difatti, anche supponendo che dalla parte dei B si proceda all’infinito, ciascuno dei termini Bi della serie (1) è ad una distanza finita da A. Pertanto l’insieme dei termini che contribuiscono a definire Bi è in ogni caso finito. Semmai l’argomento di Aristotele prova che la serie (1) non può essere infinita verso il basso, ossia dalla parte di A, dato che, se così fosse, ciascun Bi dovrebbe contenere infiniti termini. Il periodo contenuto in 84a22-25 è particolarmente oscuro. Aristotele afferma che i termini che costituiscono la serie (1) sono fra loro convertibili, nel senso che se, per esempio Vale BnaBn-1, perché per definizione Bn è predicato per sé di Bn-1, ma vale anche Bn-1aBn, probabilmente sulla base del fatto che se un termine fa parte della definizione di un altro, si predica universalmente di esso. Ma quale sia lo scopo di questa osservazione resta difficile da comprendere. Aristotele vuol concludere dalla convertibilità che (1) è una serie circolare e chiusa? E come si accorda questa rivendicazione di convertibilità con l’esclusione delle predicazioni convertibili di APo. I 19, 82a15-20? Aristotele passa quindi a considerare le predicazioni per sé del primo tipo. Qui egli ripete la solita argomentazione tratta dalla possibilità di definire: se infiniti predicati essenziali fossero attribuibili ad A, A non sarebbe definibile. Dunque la serie delle predicazioni per sé del primo tipo deve avere un termine verso l’alto. Da ciò egli sembra inferire che la serie ha un termine anche all’ingiù, ma il suo argomento è sbagliato per la stessa ragione per cui era errato quello che con-

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cludeva che la serie (1) non è infinita all’insù. In effetti consideriamo ancora (1), dove questa volta, ciascun B, entra nella definizione di tutti i suoi predecessori. Allora se la serie è infinita dalla parte dei B, chiaramente A non può essere definito perché la sua definizione conterrebbe infiniti termini. Ma se supponiamo che la serie sia infinita solo dalla parte di A: (4) Bn, Bn-1, ..., B1, A, ... e immaginiamo che A entri nella definizione di infiniti termini, da questo non segue che la definizione di A contenga infiniti termini, trovandosi A ad una distanza finita dal primo termine della serie. 84a21-22: Efi oÔn mØ §nd°xetai êpeira toiaËta Ípãrxein §n t“ •n¤: Ípãrxein normalmente non si costruisce con §n+dativo. Come ha spiegato Ross, p. 583, l’espressione è probabilmente una contrazione per: Ípãrxein t» •n‹ §n t“ t¤ §sti. 84a29-b2: Il passo è relativamente semplice. Dal fatto che le serie predicative hanno termine sia all’insù sia all’ingiù Aristotele deriva che i termini intermedi in una serie predicativa non possono essere infiniti, riferendosi implicitamente all’argomento di APo. I 20, 82a21 sgg. Da questa conclusione si inferisce che non può esservi dimostrazione di tutto, dato che dimostrare significa trovare un termine intermedio fra due termini (evidentemente Aristotele ha qui i mente soprattutto i sillogismi affermativi in prima figura). Ma se non c’è dimostrazione di tutto devono esserci principi, i quali sono proposizioni immediate. I termini §mbãllein «inserire», «interporre» e proslambãnein «assumere in aggiunta» (80a36-37) sono usati in un’accezione tecnica (v. anche APo. I 12, 78a14-5; 32, 88b5-6). Einarson [1936]: 158 n. 38 pensa che la loro origine sia matematica, ma già Platone (Prt. 343D1; Cra. 405E1; 414C1-2) adoperava §mbãllein per indicare l’operazione di inserire una lettera in una parola. Bibliografia: Hamlyn [1961]; Lear [1980] c. 2; Scanlan [1982]; Mosquera [1998].

CAPITOLO 23 84b3-14: Aristotele trae una prima conseguenza dai teoremi provati nel capitolo precedente sull’impossibilità di serie predicative infinite ascendenti e discendenti. Egli fa l’ipotesi di un termine A il quale sia predicato di due termini C e D, i quali non siano tali che o CaD o DaC ed afferma che non sempre succede che ci sia un medio comune in base al quale A competa a C e a D. Talvolta succede proprio questo e a riprova egli cita il caso della proprietà 2R, la quale conviene all’isoscele e allo scaleno in virtù del fatto che sono triangoli. Tuttavia in generale le cose non possono stare sempre così, pena il rischio di andare all’infinito nei termini intermedi di una serie predicativa. Supponiamo infatti che se AaC e AaD allora esista un B tale che AaB, BaC e BaD. Se dovesse valere l’ipotesi, dovrebbe esistere un termine B1 tale che BaB1, B1aC e B1aD, così che, proseguendo, si generano almeno due catene predicative infinite, una che ha come estremi A e C e l’al-

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tra A e D. Ma ciò è stato escluso da Aristotele. Dunque non sempre è possibile reperire un termine comune in base al quale uno stesso predicato competa a due soggetti non subordinati fra loro. 84b14-18: Aristotele ricorda che, in ogni caso, in procedimenti come quelli descritti nella n. precedente, i termini devono tutti appartenere allo stesso genere ed essere costituiti dagli stessi generi sommi (§k t«n aÈt«n étÒmvn: 84b15; per quest’uso di êtomon cfr. ad es. Metaph. a 2, 994b20-21), dato che l’eventuale medio comune (B nell’esempio aristotelico) deve essere legato agli estremi A, C e D da rapporti per sé e che non è possibile passare da un genere all’altro nelle dimostrazioni, secondo il precetto di APo. I 7, 75a38 sgg. 84b19-31: Aristotele propone la tesi secondo cui ogni proposizione mediata è dimostrabile, e implicitamente assume anche la sua conversa, e cioè che ogni proposizione dimostrabile è mediata, giacché asserisce che ogni proposizione immediata funge da principio nelle scienze. Egli considera innanzitutto il caso delle proposizioni affermative (84b19-24). La terminologia è interessante. Le premesse immediate sono chiamate «elementi» (stoixe›a: 84b22). Ora, a Metaph. D 3, 1014a35-b2 si dice che le proposizioni che stanno a fondamento di teoremi e dimostrazioni della geometria sono chiamate «elementi» e, per generalizzazione, spesso stoixe›on è associato ad érxÆ, «principio» (cfr. Bonitz, Index 702a27 sgg.). L’affermazione secondo cui i medi sono tanti quante le premesse immediate di una prova (84b21 e 26-27) è curiosa perché, se consideriamo un sillogismo semplice, le premesse sono il doppio dei medi e se consideriamo un sillogismo composto, con più premesse immediate, le premesse sono n+1 i medi. Forse Aristotele conta solo le premesse maggiori dei sillogismi semplici delle quali peraltro dice altrove (86b30-31) che sono principi del sillogismo. Un riferimento alle premesse maggiori potrebbe essere allora quel «o tutte o quelle universali» di 84b22. La frase «questa è la strada verso i principi» (≤ §p‹ tåw érxåw ıdÚw aÏth §st¤n: 84b23-24) riecheggia una dottrina platonica (cfr. EN I 2, 1095a30-33 e Ross, p. 585), anche se in realtà Aristotele vuol semplicemente dire che se una proposizione è immediata, è un principio. Si passa quindi a considerare il caso delle proposizioni mediate negative (84b24-31). Nel considerare la proposizione mediata AeB Aristotele sembra avere in mente soltanto la sua prova in Celarent. Solo in questo caso infatti il termine medio può essere descritto come quel termine C anteriore a B (ossia tale che CaB) al quale A non conviene (AeC). La possibilità di nessi negativi immediati era stata già esaminata in APo. I 15. 84b31-85a1: Aristotele sembra fornire una specie di criterio per operare con premesse mediate universali affermative, del tipo di AaB, al fine di ricondurle a premesse immediate. Egli afferma che se AaB è mediata e quindi dimostrabile, bisogna cercare un termine medio C che si predichi immediatamente di B. Ciò dà luogo al sillogismo: AaC, CaB  AaB

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La condizione che CaB sia immediata induce a cercare un eventuale nuovo medio D solo per la proposizione AaC. Avremo allora il nuovo sillogismo (2) AaD, DaC  AaC dove la premessa minore DaC è ancora immediata. Iterando il processo si arriverà a premesse immediate, che sono, come dice Aristotele, indivisibili e unitarie (édia¤reta [...] ka‹ ßn: 84b35), nel senso che non possono essere scomposte a loro volta in due premesse, infittendo così il termine medio (éll' ée‹ tÚ m°son puknoËtai: 84b34-35) con altri medi che non cadono esternamente agli estremi, ossia che non sono tali per cui o si predicano affermativamente di A o siano soggetti di cui B si dica con verità. Infatti se CaB è una premessa immediata non può succedere che C si predichi affermativamente di A, perché altrimenti CaB sarebbe una proposizione mediata, potendo essere derivata da CaA e AaB. Lo stesso ragionamento si ripete per D e per gli altri eventuali medi delle premesse. La semplicità delle premesse immediate suggerisce ad Aristotele il paragone con le altre unità di misura, la mina per i pesi e il diesis per la musica, le quali hanno in comune con le premesse immediate il fatto di non essere ulteriormente divisibili. Per il diesis, la minima unità musicale percepibile, cfr. Tannery [1915]: 68-89; 97-115; 220-243. Barnes, p. 182 giudica questi paragoni «fatous comparisons». Non è ben chiaro in che senso la premessa immediata sia l’unità di misura del sillogismo. In effetti l’immediatezza delle premesse viene in questione solo nel caso di procedimenti inferenziali le cui premesse siano vere. Parrebbe dunque che qui «sillogismo» valga «dimostrazione». Ma la dimostrazione è citata subito dopo e si dice che la sua unità di misura è l’intellezione. Per risolvere la questione si può forse pensare che l’espressione §n d'épodeiÄjei ka‹ §pistÆm˙ di 85a1 sia un’endiadi per indicare la conoscenza scientifica che è ottenuta per dimostrazione. Dunque la premessa immediata è l’unità per la dimostrazione e l’intellezione lo è per la conoscenza che è il risultato di dimostrazioni. In effetti sia in APo. I 33, 88b36 sia in APo. II 19, 100b15 Aristotele dice esplicitamente che il noËw, l’intellezione, è il principio della conoscenza scientifica (§pistÆmh), nel senso che è un tipo di conoscenza (la conoscenza dei principi) prerequisita a quella conoscenza che otteniamo per dimostrazione. 85a1-10: Aristotele estende l’analisi della riduzione a premesse immediate al caso dei sillogismi negativi. Qui deiktikÒw nell’espressione to›w deiktiko›w sullogismo›w (85a2) non ha il significato tecnico che troviamo ad es. in APr. I 23, 40b23-29; 41a21-23; II 14, 62b31-32 ecc., dove normalmente contraddistingue quegli argomenti che non procedono da un’ipotesi o sono riduzioni all’impossibile, ma ha un senso generico (che ritroviamo anche, ad es., in SE 11, 172a12-13), per il quale il sillogismo prova qualcosa, in questo caso il convenire di un termine ad un altro. Aristotele esamina innanzitutto il caso di Celarent (85a1-7). Supponiamo che AeB sia provato in Celarent (1) AeC, CaB  AeB Allora un’eventuale prova della premessa negativa che sia effettuata in Celarent non porterà all’assunzione di un medio D che cada esternamente ad A, nel senso

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che il medio non può essere un predicato affermativo di A. Aristotele avrebbe potuto aggiungere che il medio non potrebbe cadere al di fuori di B, essendo un predicato affermativo di questo termine. Lo stesso discorso si ripete se anche la premessa AeD è mediata ed è provata in Celarent. È evidente che l’espressione ˘ de› Ípãrxein di 85a3 fa riferimento ad A e quindi deve significare «ciò che non conviene», giusta il già rilevato uso ambivalente di Ípãrxein in questi capitoli. Aristotele considera quindi il caso di una dimostrazione di DeE in Camestres (85a7-10), ossia (2) CaD, CeE  DeE In questo caso, dice Aristotele, il termine medio C non cade esternamente ad E, il termine che funge da soggetto nella conclusione (⁄ de› Ípãrxein: 85a10; anche qui, come ad a3, bisogna considerare Ípãrxein come ambivalente), mentre cade esternamente a D. Lo stesso succede per il medio di un’eventuale prova della premessa minore di (2) e per qualunque altra successiva che vengano effettuate in Camestres. 85a10-12: Il terzo modo di cui si parla qui non fa riferimento alla terza figura, ma, come ha messo in evidenza Ross, p. 587, al terzo modo di provare una proposizione universale negativa, ossia a Cesare (1) CeD, CaE  DeE In questo caso il termine medio non cade esternamente all’estremo minore E (éf'o de›... ster∞sai: 85a11, ossia il soggetto di cui si deve negare un predicato), dato che si predica affermativamente di esso, né cade esternamente all’estremo maggiore D (˘ de› ster∞sai: 85a11, ossia il predicato che è negato del soggetto), in quanto non si predica affermativamente di esso.

CAPITOLO 24 85a13-19: Aristotele fissa il tema del presente capitolo e dei due successivi. Il confronto fra dimostrazioni universali e particolari viene esaminato in questo capitolo; quello del rapporto fra dimostrazioni affermative e negative nel capitolo successivo. Infine la relazione fra dimostrazioni ostensive e dimostrazioni per assurdo nel capitolo 26. Va osservato che, nella maggior parte delle argomentazioni prodotte da Aristotele, la distinzione fra dimostrazione universale e dimostrazione particolare non è quella che passa fra un procedimento deduttivo che ha per conclusione una proposizione universale ed uno che ha per conclusione una proposizione singolare. Essa piuttosto è quella che intercorre fra un sillogismo scientifico in cui il soggetto della conclusione è universale commisuratamente al predicato che viene provato di esso ed un sillogismo in cui il soggetto della conclusione è meno universale rispetto a quello richiesto dal predicato provato di esso. In altri termini qui kayÒlou, applicato ad una dimostrazione, ha il significato specifico fissato in APo. I 4, 73b26 sgg. In questo senso la proprietà di avere gli angoli interni uguali alla somma di due angoli retti (la proprietà 2R) mentre com-

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pete universalmente al triangolo, perché il triangolo in quanto triangolo ha tale proprietà, si applica particolarmente (katå m°row) all’isoscele, in quanto gli è propria non perché l’isoscele è isoscele, ma appunto perché è triangolo. Quindi la dimostrazione che prova che il triangolo ha la proprietà 2R è universale, quella che prova che l’isoscele ha tale caratteristica è particolare. 85a20-31: Aristotele propone un primo argomento a favore della tesi per cui la dimostrazione particolare è superiore a quella universale. Essa procede dall’assunzione del seguente principio: è migliore la dimostrazione attraverso la quale sappiamo meglio (presumibilmente, in questo caso, sappiamo in maniera più adeguata o propria) quello che ci siamo proposti di conoscere. Tale principio è giustificato dall’affermazione secondo cui «la virtù» di una dimostrazione, ossia ciò che la rende una buona dimostrazione, consiste proprio nel dare una siffatta conoscenza adeguata del dimostrato. A questo primo principio viene aggiunto un secondo: è una conoscenza migliore quella che fornisce la conoscenza della cosa stessa rispetto a quella che fornisce la conoscenza della cosa «in base ad altro» (kat’ êllo: 85a24). L’esempio di Aristotele chiarisce il punto. Supponiamo che Corisco sia musico. Allora so questo fatto per sé (kay’ aÍtÒ: 85a23-24) se conosco la proposizione: «Corisco è musico». Se invece conosco solo la proposizione «l’uomo è musico», allora conosco che Corisco è musico in base ad altro. Applicando questo principio alla dimostrazione, conoscere che l’isoscele ha la proprietà 2R è una conoscenza (relativa all’isoscele) per sé, mentre conoscere che il triangolo ha tale proprietà è una conoscenza (relativa all’isoscele) «in base ad altro». Siccome la dimostrazione particolare dà la conoscenza per sé e quella universale quella in base ad altro, la dimostrazione particolare è superiore a quella universale. 85a31-b2: Aristotele avanza un secondo argomento a favore della superiorità della dimostrazione particolare. Egli osserva che la dimostrazione universale, avendo a che fare con oggetti astratti, induce l’errata opinione che questi esistano separatamente dalle cose. Dunque la dimostrazione universale verte su cose che non esistono e insinua la presunzione che esistano. Tale errata idea non è suggerita dalla dimostrazione particolare. Qui il contrasto sembra essere fra conoscenza di proposizioni singolari e conoscenza di proposizioni universali. La prospettiva è alquanto diversa rispetto a quella dell’argomento precedente. Il riferimento alla teoria delle proporzioni va letto tenendo conto di APo. I 5, 74a17-25: il teorico delle proporzioni costruisce dimostrazioni che fanno riferimento alla grandezza come tale, indipendentemente dal suo essere geometrica o aritmetica, e quindi tali dimostrazioni generali insinuano l’idea che esista la grandezza in sé, distinta e separata dai numeri e dalle entità geometriche. In ka¤ tina fÊsin Ípãrxein §n to›w oÔsi taÊthn (85a33), fÊsiw vale «sostanza» (cfr. Metaph. D 4, 1015a11-13 e Barnes, p. 184). 85b4-15: Aristotele risponde al primo dei due argomenti a favore della superiorità della dimostrazione particolare osservando che le ragioni addotte dagli avversari potrebbero essere invocate per provare la superiorità della dimostrazione universale. Egli sembra mettere a confronto le proposizioni

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(1) l’isoscele ha la proprietà 2R e (2) il triangolo ha la proprietà 2R dove la proprietà 2R compete al triangolo in quanto è un triangolo e all’isoscele, non in quanto isoscele, ma in quanto triangolo. Aristotele argomenta che (1) offre una conoscenza inferiore di quella che è rappresentata da (2). Infatti (1) costituisce una conoscenza «in base ad altro» e (2) una conoscenza in quanto tale. L’enunciato «colui che sa ciascuna cosa in quanto essa conviene sa di più [ı efidΔw ßkaston √ ßkaston Ípãrxei mçllon o‰den]» (85b9), è difficile, come lo è la ripresa a b14. Quel che forse Aristotele vuol dire è che sa di più chi sa che un predicato A conviene ad un soggetto B, dove A conviene a B in quanto tale (cfr. Barnes, p. 184). Se è così, non pare che Aristotele risponda con precisione al suo avversario. Egli sembra qui istituire una comparazione fra (1) e (2), mentre il punto dell’avversario era se (1) o (2) valessero come una conoscenza migliore del fatto che l’isoscele ha la proprietà 2R. 85b15-22: Aristotele risponde ora al secondo argomento a favore della superiorità della dimostrazione particolare e il suo ragionamento si articola in due punti. Nel primo (85b15-18) egli contesta l’affermazione dell’avversario secondo la quale la dimostrazione universale verterebbe su ciò che non esiste. All’universale corrisponde un lÒgow eÂw (85b15), un contenuto concettuale unitario, che ne esclude l’omonimia. Quindi l’universale non è un flatus vocis ed anzi è, almeno in alcuni casi, più reale degli individui cui si applica, nel senso che di essi esprime quanto c’è di permanente. Barnes, p. 185, suggerisce che l’incorruttibilità dell’universale non sia una resa al platonismo, ma si spieghi solo con il fatto che le proposizioni universali, a differenza di quelle particolari, non cambiano mai il loro valore di verità. Il secondo punto (85b18-22) risponde all’obiezione secondo cui la dimostrazione universale induce nell’errore di sostanzializzare l’universale. Dal fatto che un universale è attribuibile con verità a molti non segue che l’universale abbia un’esistenza separata come del resto avviene per gli accidenti: non c’è ragione di attribuire loro un’esistenza indipendente anche se esprimono ciascuno un uno di molti. Dunque l’errore non dipende da chi effettua la dimostrazione, ma da chi la intende, ossia da chi reagisce ad essa. Credo che a 85b20 si debba intendere il ti come interrogativo (t¤), dato che si riferisce alla categoria della sostanza (cfr. Metaph. E 2, 1026a36-b1; I 2, 1054a18; L 2, 1069b9; N 2, 1089b8; A 8, 989b12; EN I 4, 1096a24-27). 85b23-27: Aristotele presenta sette argomenti a favore della superiorità della dimostrazione universale su quella particolare. Il primo è il seguente. In accordo con le definizioni di scienza e di dimostrazione di APo. I 2, 71b9 sgg. Aristotele asserisce che la dimostrazione ha il compito di rivelare la ragione di ciò che è dimostrato. La dimostrazione che usa premesse universali offre ragioni più adeguate delle conclusioni. La prova di ciò è offerta da 85b24-26, dove si pongono le due seguenti asserzioni: (i) se A conviene per sé a B allora B è la ragione per cui A si predica di B e (ii) se A conviene universalmente a B, allora il rapporto di A a B è primitivo. Da

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(i) e (ii) si deduce che i nessi universali esprimono in modo più adeguato la ragione dell’appartenenza. Probabilmente Aristotele assume implicitamente che (iii) i nessi predicativi immediati sono per sé. Donde la conclusione. È evidente che qui «universale» non ha il significato consueto, ma si avvicina a quello teorizzato in APo. I 4, 73b26 sgg. Il testo inizia con un’ipotetica la cui apodosi manca. Ho mantenuto l’anacoluto nella traduzione (cfr. anche 86a10 sgg.). 85b27-86a3: Molti autori hanno dubitato che Aristotele produca qui un nuovo argomento a favore della sua tesi, dato il suo stretto legame con quello precedente. L’idea è che la conoscenza adeguata di una proposizione comporta quella della sua spiegazione più generale ed essa è argomentata sulla base di un’analogia con il comportamento della causa finale. Se lo stato di cose K ha come motivazione A e questo a sua volta è motivato da B e così di seguito fino a D, che per ipotesi non dipende da nient’altro, potremo dire di avere una conoscenza adeguata di K solo quando saremo pervenuti a conoscere D. Lo stesso avviene, secondo Aristotele, nell’ambito delle spiegazioni basate sulle altre cause. Il suo esempio è quello del teorema per cui all’isoscele è attribuita la proprietà di avere la somma degli angoli esterni uguale a quattro angoli retti (la proprietà 4R). È stato da sempre osservato che questo teorema, così come accade per altri teoremi menzionati da Aristotele, non si trova in Euclide (su ciò cfr. Heiberg [1904]: 2627 e Ross, p. 591). Allora supponiamo di aver provato la proposizione (1) l’isoscele ha la proprietà 4R Resta da mostrare perché l’isoscele abbia una tale proprietà. Se assumiamo che ciò dipenda dal fatto che (2) il triangolo ha la proprietà 4R la questione resta ancora aperta. È solo quando asseriamo che (3) il poligono ha la proprietà 4R che perveniamo a dare la risposta definitiva alla questione: «perché l’isoscele ha la proprietà 4R?». Ma (3) è una proposizione più generale di (2). Dunque la dimostrazione che procede da premesse più universali è più esplicativa e dunque preferibile a quella che procede da premesse meno generali. 86a3-10: Aristotele parte dall’assunzione che gli individui, essendo indefinitamente molti e, come tali non categorizzabili, sono inconoscibili (almeno dal punto di vista scientifico), una tesi che lo avvicina a Platone (ad es. Phlb. 16C e 32C sgg.) e che troviamo ripetuta anche altrove (ad es. Metaph. B 4, 999a26-29; Rh. I 2, 1356b32-33 e anche Per‹ tégayoË 112 Ross). Di contro l’universale è principio di unificazione dei molteplici individui (l’uno di molti) è perfettamente conoscibile e dominabile dall’intelletto. Di qui una prima conclusione: gli universali sono più conoscibili dei particolari e, dunque più dimostrabili di questi. Il passo successivo dell’argomentazione (86a8-9) consiste nell’ipotizzare un isomorfismo fra dimostrabili e dimostrazioni, sulla base del fatto che sono termini relativi (cfr. Metaph. D 15, 1021a29-30; Top. IV 1, 121a1), tale per cui al maggior grado di un termine corrisponde un magggior grado del termine correlato:

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nella fattispecie, se A è più dimostrabile di B, la dimostrazione di A è più dimostrazione di quella di B e viceversa. Poiché a rigore gli individui non entrano mai nelle dimostrazioni, Aristotele avrebbe dovuto dire che, siccome gli individui sono inconoscibili, ciò che è più vicino agli individui è meno conoscibile e dimostrabile di ciò che è più lontano da essi. 86a10-13: Il quarto argomento a favore della superiorità della dimostrazione universale è basato sulla maggiore ricchezza della conoscenza universale, la quale consente di conoscere più cose, e precisamente i particolari che sono in qualche modo contenuti (in potenza) nell’universale. 86a13-21: Barnes, p. 186, ha messo bene in luce l’incongruenza dell’argomento. Consideriamo l’esempio di Aristotele alla fine del passo. Supponiamo di avere due prove di AaD, precisamente: (1) AaB, BaD  AaD e (2) AaC, CaD  AaD dove per ipotesi B è più universale di C, ossia BaC. Secondo Aristotele la dimostrazione (1) è preferibile alla (2) perché procede da premesse immediate, e quindi da proposizioni che sono principi. Ma se supponiamo che AaB, BaC e CaD siano immediate, così come possiamo provare che è mediata AaC, la premessa maggiore di (2), mediante AaB, BaC  AaC possiamo anche dedurre BaD, la premessa minore della (1), da BaC, CaD  BaD Allora perché dovrebbe essere preferibile (1) a (2)? 86a22-29: Aristotele qualifica come «generali» (logikã: 86a22 vedi la n. a 84a711) alcune delle argomentazioni presentate in precedenza. Gli interpreti si sono scatenati senza molto successo a decidere quali siano generali e quali «analitiche» (si veda ad es. Zabarella, 950D e 954C-F). L’argomento qui presentato, certamente analitico, riprende e approfondisce quello già esposto a 86a10-13 ed è basato, come quello, sulla maggiore informazione (potenziale) della conoscenza universale rispetto a quella particolare. In 86a23-25 le espressioni t«n protãsevn tØn m¢n prot°ran… ka‹ tØn Íst°ran non indicano, nonostante le apparenze, la premessa maggiore e minore di un sillogismo, ma le due proposizioni, rispettivamente universale e particolare, che fanno parte, la prima di una dimostrazione universale e la seconda di una dimostrazione particolare e che sono esemplificate da (i) «ogni triangolo ha la proprietà 2R» e (ii) «l’isoscele ha la proprietà 2R» (cfr. Ross, p. 591). 86a29-30: L’argomento è troppo poco sviluppato per ricostruirne i dettagli. Aristotele sembra basarsi sulla superiorità della conoscenza intellettiva rispetto a

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quella sensibile per giustificare la preferibilità delle proposizioni universali (più vicine all’intellezione) rispetto a quelle particolari, che stanno piuttosto dalla parte della percezione sensibile, e quindi delle dimostrazioni universali rispetto a quelle particolari.

CAPITOLO 25 86a31-b9: Aristotele fornisce un primo argomento a favore della tesi secondo cui le dimostrazioni affermative sono superiori a quelle negative. A tale scopo egli enuncia il seguente assunto generale: (i) date due dimostrazioni che concludano alla stessa proposizione P quella delle due che, ceteris paribus, inferisca P con un numero minore di premesse è superiore all’altra. Di (i) vengono offerte due giustificazioni. La prima (86a34-35) è semplice: con la dimostrazione che procede da un numero minore di premesse conosciamo più rapidamente e ciò è preferibile. La seconda ragione è molto più complicata e, purtroppo, assai meno convincente. Aristotele suppone di avere due catene dimostrative che entrambe concludono ad AeE. La prima, più lunga, procede attraverso i medi B, C e D, mentre la seconda ha solo F e G come medi. Possiamo rappresentare così le due catene: (I)

(II)

AaB, BaC ________ AaC CaD _______________

AaF, FaG _________ AaG GaE ________________

AaD DaE _____________________ AaE

AaE

Aristotele suppone che in entrambe le catene deduttive le premesse più generali siano più note. Nella (I) AaB è più noto di AaC, a sua volta più noto di AaD, a sua volta più noto di AaE, mentre nella (II) AaF è più noto di AaG a sua volta più noto di AaE. Più esattamente Aristotele sembra pensare che il grado di notorietà di una proposizione dipenda dalla sua distanza dalla prima premessa delle due catene. Allora, siccome AaD nella catena (I) e AaE nella catena (II) sono alla stessa distanza dall’origine delle catene, essi sono ugualmente noti. D’altra parte in (I) AaD è più noto di AaE. Quindi AaE ottenuta nella deduzione (II) è più nota di quanto non lo sia AaE ottenuta nella deduzione (I). Quindi la deduzione (II), in quanto procede da un minor numero di premesse, è preferibile alla deduzione (I). Ma è dubbio che nella prospettiva di Aristotele sia legittimo dire che una stessa proposizione è più o meno nota a seconda della catena deduttiva in cui si trova. A questo punto Aristotele applica l’assunto generale (i) alla tesi della superiorità delle dimostrazioni affermative su quelle negative in modo a dir poco sconcertante. Egli osserva che ogni dimostrazione, affermativa o negativa che sia, procede da tre termini e due premesse (essendo un sillogismo), ma la dimostrazione negativa impiega due tipi di premesse (una affermativa ed una negativa), mentre quella affermativa un solo tipo (sono tutte affermative). Dunque, egli conclude, la dimostrazione negativa procede da un maggior numero di premesse rispetto a

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quella affermativa e pertanto è inferiore ad essa. È evidente qui l’imbarazzante confusione di Aristotele fra il numero di tipi di premesse e il numero delle premesse. È solo per questo secondo caso che si era detto che la dimostrazione con meno premesse è migliore. Si noti la terminologia usata per indicare le dimostrazioni affermative. Talvolta esse sono chiamate «positive» (kathgorikÒw: ad es. 86b13); talvolta invece si preferisce il più atteso «affermativo» (katafatikÒw: 86b31); infine in qualche caso è usato deiktikÒw (86a32; 86b31, 36), «ostensivo», che normalmente ha altri significati. 86b10-30: Aristotele richiama un principio generale della sua teoria dell’inferenza, secondo il quale nessun sillogismo può avere entrambe le premesse negative (cfr. APr. I 24, 41b6-7; la prova qui rievocata emerge contestualmente da APr. I 4-6) e di esso fa un’applicazione al caso dei prosillogismi di un sillogismo. Egli fa l’ipotesi di un sillogismo in Celarent: (1) AeB, BaC  AeC e suppone che entrambe le premesse di questa deduzione siano mediate, talché è possibile costruire altri due sillogismi, uno in Celarent ed uno in Barbara che abbiano come conclusioni le premesse di (1), ossia AeD, DaB  AeB e BaE, EaC  BaC È evidente che se proseguiamo in questo processo di mediazione delle premesse dei prosillogismi, allo stadio successivo otteniamo quattro sillogismi, tre dei quali sono in Barbara ed uno soltanto dei quali in Celarent e, in generale, allo stadio n, servono 2n sillogismi, di cui 2n –1 sono affermativi. Da questa osservazione in sé corretta Aristotele trae argomento per sostenere che la dimostrazione affermativa è superiore a quella negativa, dato che la dimostrazione affermativa deve essere usata per giustificare le premesse di quella negativa, mentre non vale la reciproca, dato che le dimostrazioni negative non giocano alcun ruolo nella giustificazione delle premesse di quelle affermative. L’argomento non è molto soddisfacente. Sulla terminologia dell’aumento di una dimostrazione cfr. APo. I 14, 79a31. A 86b19 «È manifesto che E è positivo», Aristotele indica i termini come affermativi e negativi, una formulazione che la sua teoria, a rigore, non consentirebbe. Ma è evidente che qui i termini sono concepiti come elementi di una relazione predicativa, come illustra la frase successiva. A 86b22-23 «lo stesso si verifica per gli altri sillogismi» allude al proseguimento del processo di costruzione di prosillogismi per (2) e (3). A 86b28-30 il soggetto sottinteso è «dimostrazione», êpodeijiw, anche se, da un punto di vista grammaticale sarebbe possibile «premessa», prÒtasiw. 86b30-39: Aristotele argomenta la superiorità della dimostrazione affermativa su quella negativa a partire dalla priorità dell’affermazione sulla negazione. I passi del

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suo argomento sono i seguenti: (i) la premessa maggiore immediata di un sillogismo (qui chiamata ≤ kayÒlou prÒtasiw êmesow: 86b30-31) ha la funzione di principio del sillogismo. Gli interpreti hanno discusso sulla ragione di questa restrizione della funzione di principio alla premessa maggiore. Probabilmente ciò dipende dal fatto che la sua conoscenza contiene in potenza quella della conclusione (cfr. APo. I 24, 86a22-29). (ii) La premessa maggiore di un sillogismo affermativo è affermativa e quella di un sillogismo negativo è negativa. Evidentemente Aristotele si limita a considerare sillogismi in prima figura. (iii) L’affermazione è anteriore e più nota della negazione. Non è ben chiaro su che base venga asserita tale priorità, che troviamo anche in Int. 5, 17a8-9. Qui sembra giustificata da un punto di vista ontologico: l’essere è prima del non essere. Ma forse Aristotele vuol semplicemente sottolineare che non possiamo capire una negazione senza capire la corrispondente affermazione (mentre naturalmente non vale il viceversa). La conclusione cercata è ottenuta da queste premesse con l’aggiunta del principio generale per cui è superiore quella dimostrazione che utilizza principi migliori. Le ultime due righe del passo (86b38-39) sembrano alludere ad un nuovo argomento, ma la sua brevità non consente di apprezzarne l’eventuale novità. L’aggettivo érxoeidÆw si ritrova in HA VIII 2, 590a3-4; PA III 4, 666a26-27 e in Metaph. B 3, 999a1-2, dove qualifica l’uno appunto come «ciò che ha di più la natura di principio».

CAPITOLO 26 87a1-30: Aristotele vuol provare la superiorità della dimostrazione affermativa rispetto a quella che conduce all’impossibile. L’argomentazione è lunga, confusa e marcata da errori di logica. La sua strategia consiste nel confrontare una dimostrazione negativa con una che conduce all’impossibile e nel mostrare la superiorità della prima sulla seconda. Poiché poi sappiamo già che la dimostrazione affermativa è superiore a quella negativa, essa sarà superiore anche a quella che conduce all’impossibile. Egli assume come dimostrazione diretta negativa un sillogismo in Celarent: (1) AeB, BaC  AeC La riduzione all’impossibile che egli considera in relazione a (1) è intesa provare la proposizione AeB. Aristotele assume la negazione di AeB e noi ci aspetteremmo che questa proposizione fosse AiB. Ma egli sostiene che la negazione di AeB combinata a BaC dà luogo ad una proposizione affermativa che ha come termini A e C. Tuttavia AiB e BaC non danno luogo ad un conseguente sillogistico. Possiamo allora presumere che egli pensi ad AaB come negazione di AeB, dato che in questo caso dall’antecedente AaB, BaC segue in Barbara AaC. Immaginiamo allora che egli abbia in mente (2) AaB, BaC  AaC come primo passo della riduzione all’impossibile. Il secondo passo non è meno difficile e dubbio. Aristotele afferma che dalla acclarata falsità di AaC e dall’accettata verità di BaC possiamo dedurre AeB. Ora

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(3) ¬AaC, BaC  ¬AaB è sicuramente un’inferenza corretta (è equivalente ad un sillogismo in Bocardo), ma la sua conclusione non è certo AeB, quello che la riduzione si riprometteva di concludere. Dobbiamo ancora una volta pensare che la negazione di AaB implichi AeB? Comunque sia Aristotele, nel resto del suo discorso sembra confrontare (1), la dimostrazione negativa diretta, con (4) AeC, BaC  AeB che non è certo un sillogismo corretto (il suo antecedente è quello di Felapton che dovrebbe dar luogo a AoB) e che secondo lui, rappresenta il nucleo della riduzione. Egli comincia con l’osservare che «i termini sono disposti nello stesso modo» (87a12) nel senso che le relazioni predicative a cui (1) e (4) danno luogo sono le stesse. La sola differenza consiste nel fatto che in (1) la proposizione AeB è assunta come più nota e AeC è provata a partire da questa, mentre in (2) è data come più nota AeC e da questa è dedotta AeB. Ma in (1), egli aggiunge, AeB è per natura sua anteriore ad AeC, dato che, possiamo presumere, in una dimostrazione le premesse devono essere di per sé più note delle rispettive conclusioni (cfr. APo. I 2, 71b33 sgg.). Dunque la dimostrazione negativa diretta è superiore alla riduzione all’impossibile che non procede da premesse più note per natura delle rispettive conclusioni. Questa dubbia conclusione è resa ancora più precaria dalla parte finale del passo (87a20-30) dove Aristotele, presumibilmente, tenta di rispondere ad un’implicita obiezione. In effetti uno potrebbe dire che (4), essendo un’inferenza scientifica, verifica la condizione per cui le sue premesse sono per natura più note della conclusione. Quindi, a pari, si potrebbe concludere che la riduzione all’impossibile è superiore alla dimostrazione negativa. Per rispondere a questa obiezione, Aristotele afferma che le premesse della (4) non sono tali da essere in un rapporto tutto/parte. Che cosa intenda con ciò non è chiaro. Vuole egli dire che la (4) non è un sillogismo e cioè che la derivazione di AeB da AeC e BaC non avviene attraverso un sillogismo? Oppure la sua idea è piuttosto che (4) non è una deduzione corretta? Quest’ultima interpretazione è assurda e la prima non risponde all’obiezione. Inoltre va osservato che tutta l’argomentazione di Aristotele è viziata dal presupposto che ad ogni riduzione all’impossibile possa corrispondere una dimostrazione diretta (che è quel che egli tenta di provare in APr. II 11-14).

CAPITOLO 27 87a31-37: Aristotele stabilisce qui alcuni criteri di esattezza della scienze. Primo criterio: una scienza a è più esatta di una scienza b se a offre una giustificazione insieme del verificarsi di uno stato di cose e della ragione del suo verificarsi, mentre b fornisce soltanto una giustificazione di uno stato di cose senza darne la ragione (per la distinzione fra conoscenza del che e del perché cfr. APo. I 13). Secondo criterio: b richiede un riferimento ad un soggetto soggiacente che invece è omesso in a. Tale è il caso dell’armonica rispetto all’aritmetica: la prima studia le relazioni numeriche nei suoni, mentre la prima non richiede tale riferimento (cfr. APo. I 13,

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79a6-10; Metaph. a 995a15-16; Cael. III 7, 306a27 ecc.). Terzo criterio: b si dice per addizione rispetto ad a, nel senso che i suoi principi sono più complessi di quelli di a. L’esempio dell’unità aritmetica e del punto geometrico illustrano bene la situazione: le entità geometriche sono per addizione rispetto a quelle aritmetiche perché richiedono l’aggiunta della dimensione della «posizione», ossia un riferimento spaziale che non è necessario per i numeri. «Aggiunta» (prÒsyesiw) si contrappone a «sottrazione» (éfa¤resiw): se x differisce da y per addizione, y si distingue da x per sottrazione e tå §j éfair°sevw sono, nel linguaggio standard di Aristotele, le entità matematiche contrapposte a quelle fisiche. Va da sé che la scienza che «procede da meno elementi» (≤ §j §lattÒnvn: 87a34) non è la scienza che ha un numero minore di assiomi o principi, ma quella che fa riferimento ad entità meno complesse e più semplici (cfr. anche Metaph. A 2, 982a25-28; M 3, 1078a9-13). La definizione di punto è quella pitagorica (Procl. in Eucl. 95.21-22). Anche altrove Aristotele parla dell’esattezza scientifica, sempre collegata alla semplicità e astrattezza dell’oggetto e famosa è l’osservazione di EN I 1, 1094b12-13; I 7, 1098a26-29 secondo cui non bisogna pretendere in tutti i campi lo stesso grado di esattezza, soprattutto quando si abbia a che fare con conoscenze che fanno riferimento alla materia (cfr. anche Pol. VII 7, 1328a19-21).

CAPITOLO 28 87a38-39: Aristotele stabilisce innanzitutto che cosa significhi per una scienza essere una. Il suo punto di vista è che è l’unità del genere a costituire l’unità di una scienza e quest’idea è in linea con quanto egli aveva sostenuto in APo. I 7 a proposito dell’impossibilità di trasferire i principi di una scienza ad un’altra. La frase ˜sa §k t«n pr≈tvn sÊgkeitai ka‹ m°rh §st‹n μ pãyh toÊtvn kay'aÍtã, 87a38-39 è appositiva rispetto a quanto precede e quindi dovrebbe chiarire che cosa sia un genere unitario. Le «cose che sono composte dalle cose prime del genere» non sono di facile identificazione. Si potrebbe pensare che «le cose prime del genere» siano quelle cose che, come la linea in geometria, sono i costituenti primari di altre entità del genere, nel nostro caso, ad esempio, le diverse figure geometriche, in quanto tutte composte da linee. D’altra parte sembra naturale prendere toÊtvn come riferito a pr≈tvn, talché diviene arduo comprendere che cosa significhi che le entità composte dai primitivi siano parti o affezioni per sé dei primitivi. Che i composti possano essere affezioni per sé dei primitivi è in qualche modo spiegabile. Si tenga presente che Aristotele asserisce esplicitamente che il triangolo è qualcosa di cui si prova l’esistenza (APo. II 7, 92b15-16). Quindi non è assurdo considerarlo come un’affezione o attributo per sé di certe linee. Più difficile è giustificare come un’entità come il triangolo possa essere concepita come parte (m°row) delle entità di cui è fatto. Forse si potrebbe pensare che il triangolo sia parte della linea perché ne costituisce una certa specificazione. In questo senso i composti, in quanto determinazioni dei primitivi, sarebbero partizioni di questi ultimi. 87a39-b4: Aristotele introduce un criterio di diversità per le scienze e ci si aspetterebbe che egli affermasse che due scienze sono diverse se il loro genere è di-

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verso. Invece egli sembra stabilire che due scienze sono diverse se i loro principi sono indipendenti, ossia né sono deducibili tutti da uno stesso insieme di proposizioni, né sono tali che i principi dell’una siano derivabili da quelli dell’altra. Nella parte finale del passo (87b1-4) Aristotele sembra ritornare invece a considerare l’unità del genere. Non è ben chiaro a che cosa i due segni menzionati si riferiscano. L’idea sottesa al primo di essi sembra essere che abbiamo a che fare con una stessa scienza se i principi immediati sono nello stesso genere delle cose dimostrate (e con due scienze distinte se i principi non soddisfano tale condizione). Invece, per quanto riguarda il secondo, il punto sembra essere che dobbiamo guardare alle conclusioni derivate dai principi. Esse devono essere tutte nello stesso genere e ciò dovrebbe essere un indizio per concludere che i principi da cui derivano sono tutti nello stesso genere. Così inteso, il secondo segno parrebbe completare quanto è esposto nel primo.

CAPITOLO 29 87b5-16: Aristotele asserisce innanzitutto che è possibile avere dimostrazioni diverse di una stessa proposizione, quando i medi delle dimostrazioni (i) appartengano alla stessa catena predicativa (sustoix¤a: cfr. APo. I 15) e (ii) non siano continui, ossia non diano luogo a proposizioni immediate quando siano connessi predicativamente agli estremi della catena predicativa. L’esempio chiarisce il discorso. Supponiamo di avere la catena predicativa A, C, D, E, B (nella quale ciascun termine si predica affermativamente, universalmente e immediatamente del successivo). Possiamo costruire tre antecedenti di Barbara, AaC e CaB, AaD e DaB, AaE e EaB nei quali almeno una premessa è per ipotesi ulteriormente mediata (il medio non è continuo), che danno luogo a AaB. In realtà questo argomento, come anche il successivo, prova che vi sono argomentazioni, ma non necessariamente dimostrazioni, diverse per una stessa conclusione (il problema sarà ripreso con maggiore consapevolezza in APo. II 16-18). Aristotele rileva anche la possibilità di avere dimostrazioni diverse di una stessa proposizione quando i medi non appartengano alla stessa catena predicativa e prova ciò mediante un esempio. La proposizione da provare è che coloro i quali provano piacere mutano. Si tratta di un richiamo alla dottrina platonica del piacere (cfr. ad es. Phlb. 53C), che forse risale a Speusippo; questi avrebbe fatto propria la dottrina di Aristippo del piacere-movimento per combattere l’identificazione del bene con il piacere compiuta da Eudosso. In ogni caso Aristotele critica severamente questa dottrina (Ph. VII 3, 247a16-19; EN VII 15, 1154b27-28; X 4, 1174b23 sgg.; 5, 1175b26 sgg.) e quindi dobbiamo pensare che qui egli semplicemente riporti la concezione accademica senza che necessariamente sia da lui condivisa. In ogni caso la tesi secondo lui può essere provata con le sue seguenti inferenze: (1) tutto ciò che è in movimento muta tutti quelli che provano piacere sono in movimento tutti quelli che provano piacere mutano

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(2) tutti quelli che si quietano mutano tutti quelli che provano piacere si quietano tutti quelli che provano piacere mutano Aristotele precisa che i due medi appartenenti per ipotesi alle due serie predicative, «mutare», «essere in movimento», «provare piacere» da una parte e «mutare», «quietarsi», «provare piacere» dall’altra non possono essere così diversi da non aver un’intersezione, dato che dalle due premesse minori dei due sillogismi possiamo costruire in Darapti il sillogismo (3) tutti quelli che provano piacere si quietano tutti quelli che provano piacere sono in movimento alcuni di quelli che sono in movimento si quietano Quello che è difficile capire è perché «quietarsi» (±rem¤zesyai: 87b9) non debba essere considerato una specie di «essere in movimento» (kine›syai: 87b8), dato che qui il verbo non può essere preso nel senso di «essere in quiete» (±reme›n) e Aristotele distingue nettamente «essere in quiete» da «quietarsi» (Ph. VI 8, 238b23-26). Non è quindi affatto scontato che (1) e (2) siano prove che fanno riferimento a medi appartenenti a catene predicative distinte. 87b16-18: Inviti senz’esito ad approfondimenti o ampliamenti della ricerca (questo introdotto da un infinito vi imperativa (cfr. Bonitz, 343a22-34)) non sono infrequenti in Aristotele: cfr. ad es. APr. I 44, 50a39-b2; II 21, 67b26; 26, 69b38.

CAPITOLO 30 87b19-27: Che di ciò che è fortuito non ci possa essere conoscenza scientifica, la quale, come sappiamo, riguarda ciò che è necessario (cfr. APo. I 2, 71b9-16; 4, 73a21-24), non è problematico. Quel che è difficile da comprendere è l’estensione che Aristotele fa qui dell’ambito della scienza a ciò che è per lo più (…w §p‹ tÚ polÊ). L’interpretazione di questa nozione è controversa. Per la maggiore parte degli autori «per lo più» deve essere inteso come un quantificatore plurale del tipo di «la maggior parte». Secondo questo modo di vedere, quando Aristotele dice ad es. che gli uomini per lo più incanutiscono con l’età (APr. I 13, 32b6-7), intende asserire che la maggior parte degli uomini incanutisce con l’età. A favore di questa interpretazione militano quei testi in cui il per lo più è contrapposto all’universale (kayÒlou) (ad es. APo. II 12, 96a8-12; Top. II 6, 112b5-9; V 1, 129a616) come anche molti esempi in cui la resa quantificazionale del per lo più sembra la più naturale (oltre al passo citato di APr. I 13 si veda ad es. Mete. II 8, 366a5-8, 14-15; IV 9, 387a7-11; 389a25-26; Mem. 1, 449b6-8; EN III 1, 1110a3133; Rh. II 5, 1382b7-9; 19, 1392b20-24; Pol. IV 4, 1291b9-11). Di contro a questi passi stanno altri in cui il per lo più è considerato un tipo di possibile ed è opposto al necessario (ad es. APr. I 13, 32b5-6; APo. II 12, 96a8-10; Top. II 6, 112b15; V 1, 129a6-8; Int. 9, 19a18-22; Ph. II 5, 196b10-13; GC II 6, 333b4-6; Metaph. E 2, 1026b27-30; 1027a8-10; Rh. I 2, 1357a27-29; II 25, 1402b20-21). Rispetto

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alla concezione che emerge da questi testi la caratterizzazione quantificazionale del per lo più sembra essere troppo debole. Non è possibile in questa sede affrontare questo complicato problema. Limitiamoci a dire che la contrapposizione fra la caratterizzazione del per lo più come non universale e la sua concezione in termini di non necessità diventa forse meno marcata se teniamo conto del fatto che spesso Aristotele sembra qualificare modalmente l’universale, il kayÒlou (in termini temporali in APo. I 4, 73a28-34; 8, 75b21-24; 31, 87b32-33; APr. I 15, 34b7-11; in termini di «per sé» in APo. I 4, 73b26-28 e Metaph. D 9, 1017b271018a1). È probabilmente questo universale forte, contenente un riferimento modale, che viene opposto al per lo più, sì che in questo modo i due aspetti della contrapposizione del per lo più all’universale e al necessario si saldano. D’altra parte non è nemmeno chiaro in che senso debba essere caratterizzata la componente modale inerente al per lo più. Striker [1985] pensa che possa essere interpretata come una specie di necessità condizionale del tipo «P, se non ci sono impedimenti». In altri termini, P, di per sé, non sarebbe necessaria, tant’è vero che non è vera in ogni caso. Tuttavia il condizionale «se non ci sono impedimenti, allora P» è una proposizione necessaria e come tale oggetto di scienza. I vantaggi di questa interpretazione sono almeno due. Il primo è che l’ammissione delle proposizioni per lo più come possibili oggetti di conoscenza scientifica non risulta più così scandalosa come potrebbe sembrare a prima vista a chi ricordi le dichiarazioni di APo. I 2 e 4, dato che, in fin dei conti, abbiamo a che fare con condizionali necessari. Il secondo vantaggio è che possiamo trovare una soluzione per un altro problema che il nostro testo solleva. Aristotele afferma infatti che da premesse per lo più segue una conclusione per lo più. Se interpretiamo il per lo più come un quantificatore plurale quest’affermazione risulta ovviamente falsa. Se invece lo prendiamo in termini di necessità condizionale, le cose funzionano. Un sillogismo in Barbara con premesse per lo più può essere infatti rappresentato più o meno così (1) N(se S allora AaB), N( se S allora BaC)  N(se S allora AaC) dove «S» esprime una condizione del tipo di «se nulla l’impedisce» e «N» è il consueto operatore di necessità per proposizioni. In ogni caso l’accettazione di nessi per lo più all’interno della scienza costituisce una svolta rispetto alle affermazioni di APo. I 2 e 4. Bibliografia: Mignucci [1981]; Striker [1985]; Kullmann [1985]: 207-238; Judson [1991]; Buddensiek [1994]: 77-78; Winter [1997].

CAPITOLO 31 87b28-33: Nelle linee generali la tesi di Aristotele è chiara. Ciò non toglie che alcuni dettagli meritino qualche commento e, innanzitutto, l’affermazione secondo cui la percezione «riguarda il tale e non questo qualcosa» (¶stin ≤ a‡syhsiw toË toioËde ka‹ mØ toËd° tinow: 87b29-30), ancorché, quello che si percepisce di fatto sia un individuo qui ed ora (afisyãnesya¤ ge énagka›on tÒde ti ka‹ poÁ ka‹ nËn: 87b29-30). L’espressione «questo qualcosa» traduce il greco tÒde ti che Ari-

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stotele per lo più usa per indicare un individuo singolare sensibile, cioè una sostanza sensibile, anche se non mancano casi in cui è chiamato a denotare la forma di una cosa (ad es. Metaph. D 8, 1017b23-26; H 1, 1042a26-29; Y 7, 1049a34-35; L 3, 1070a11-12; GC I 3, 318b29-33; de An. II 1, 412a6-9). Qui è evidente che la formula ha la funzione consueta di indicare un individuo. Che la percezione sia detta essere del tale (toË toioËde) non è affermato solo qui. Per esempio in APo. II 19, 100a16-b1 si sostiene, ancora più audacemente, che la percezione è dell’universale, anche se quel che si percepisce è il singolare (afisyãnetai m¢n tÚ kay' ßkaston, ≤ d' a‡syhsiw toË kayÒlou §st¤n). Quel che Aristotele vuol dire è probabilmente che ciò che determina una percezione è una qualità sensibile, la quale è sempre la stessa per tutte le percezioni (per esempio è il colore per la visione) e quel che in realtà si percepisce è sì un individuo, ma come colorato, o qualificato in un certo modo. In questo senso nella percezione di un individuo è in qualche modo inglobata una sua caratterizzazione che lo trascende come individuo e che costituisce il contenuto di una successiva eventuale universalizzazione. La percezione non solo termina ad un individuo ma è ulteriormente qualificata da restrizioni spazio-temporali. Esse sono probabilmente da mettere in relazione con la nota tesi secondo cui la percezione si realizza solo a condizione dell’attuale presenza dell’oggetto esterno che la determina (cfr. ad es. de An. II 5, 417b23-25; APr. II 21, 67a39-b2; APo. II 19, 99b37-39; Top. V 3, 131b21-23; Mem. 1, 449b10-15), talché il mio vedere un oggetto rosso è ristretto a vederlo così qui ed ora. Di contro l’universale non è un questo qui, ossia appunto un individuo sensibile, ed è sempre e dappertutto. Che cosa indichino queste due qualificazioni non è del tutto chiaro. Supponiamo che A sia un universale che è vero di una pluralità di cose. Cosa vuol dire che è «sempre»? Che tutte le cose di cui A è vero sono sempre A? Questa è l’interpretazione che APo. I 4, 73a28-34 suggerisce. D’altra parte in che senso l’universale è «dappertutto»? Vuol semplicemente dire che A determina una certa estensione e che A è vero per tutti i membri di quell’estensione (se «uomo» è un universale, allora è vero «dappertutto», ossia per ogni individuo che cade nell’estensione del termine)? 87b33-88a8: L’argomentazione è basata su un periodo ipotetico dell’irrealtà (efi ∑n afisyãnesyai… §zhtoËmen ín: 87b35-36). Anche ammesso (e non concesso) che potessimo percepire una proposizione della matematica, non per questo avremmo una dimostrazione di tale proposizione, perché il semplice vedere che il triangolo ha la proprietà 2R non fornisce la ragione di tale nesso, ed abbiamo dimostrazione e conoscenza scientifica di tale proposizione solo allorché siamo in possesso di una spiegazione adeguata di essa. A quello matematico segue un esempio fisico. Anche se fossimo sulla luna e vedessimo che la terra si interpone fra la luna e il sole, non per questo avremmo la spiegazione del perché la luna si eclissa, perché vedremmo semplicemente ciò senza sapere che in ogni caso e sempre c’è un legame fra l’eclissi e l’interposizione della terra. Solo quando pervenissimo a capire questo avremmo l’universale e potremmo costruire una dimostrazione. D’altra parte è dalla conoscenza sensibile che si sviluppa quella dell’universale. Dal vedere ripetutamente che l’interposizione della terra è legata alla sparizione della luce lunare viene la generalizzazione che consente di costruire la dimostrazione e di ottenere la conoscenza scientifica del fatto.

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Il rinvio di 87b37 potrebbe essere a Protagora che secondo quanto dice Platone (Tht. 151E6-152A1) avrebbe identificato conoscenza scientifica e percezione (cfr. Ross, p. 599, ma Barnes, p. 193, è scettico). La parte finale del passo sottolinea l’importanza della conoscenza universale laddove si abbia a che fare con proposizioni (o stati di cose) nelle quali «la ragione è altra» (˜svn ßteron tÚ a‡tion: 88a7), ossia sono tali che se B è A perché è C, allora C è diverso da B. Nel caso di proposizioni mediate la conoscenza dell’universale è detta essere superiore alla percezione e all’intellezione (t∞w noÆsevw: 88a7). A che cosa faccia riferimento in questo caso l’intellezione non è ben chiaro. Alcuni (Ross, p. 599) pensano che sia l’intellezione dei principi (APo. II 19, 110b12: noËw ín e‡h t«n érx«n); altri, più ragionevolmente, ritengono sia la conoscenza di una proposizione universale della quale non è ancora nota la ragione (Zabarella, 997A). Un’altra possibilità è quella di un riferimento alla conoscenza dei singolari intelligibili che in Metaph. Z 10, 1036a2-6 viene qualificata metå noÆsevw; si avrebbe allora un implicito rimando alla conoscenza di singole entità matematiche. 88a9-17: Aristotele mette in luce un’ulteriore dipendenza della conoscenza dell’universale da quella percettiva: se, in talune circostanze, avessimo adeguati dati percettivi, non ci sarebbe bisogno della «caccia» di un medio, ma la generalizzazione sarebbe immediata e con essa la conoscenza scientifica. Il riferimento ad una «mancanza di percezione» (efiw afisyÆsevw ¶kleicin: 88a12) non è da confondere con quella mancanza di capacità percettiva (e‡ tiw a‡syhsiw §kl°loipen: 81a18) di cui si parla in APo. I 18. Lì si trattava della mancanza di una capacità che tutti dovrebbero avere; qui invece Aristotele allude alla mancanza di qualcosa che nessuno ha e sarebbe auspicabile avere, come per esempio una vista straordinariamente penetrante. L’esempio citato è secondo alcuni quello della trasparenza del vetro, soprattutto se ad 88a15-16 si legge con Barnes, pp. 43 e 194, d∞lon ín ∑n ka‹ diå t¤ ka‹ efi tÚ ırçn m¢n xvr‹w §f' •kãsthw e si traduce di conseguenza: «sarebbe chiaro anche perché , anche se vediamo ciò separatamente per ciascun caso». Invece adottando il testo proposto da Ross (d∞lon ín ∑n ka‹ diå t¤ ka¤ei, t“ ırçn m¢n xvr‹w §f' •kãsthw) è più naturale pensare al fenomeno degli specchi ustori e alla spiegazione che di esso dava Gorgia (DK 82B5) e che è discussa da Teofrasto, Ign. 73: se vedessimo i pori della lente e la luce che vi passa attraverso, capiremmo immediatamente la ragione per cui la lente brucia, anche se il vedere i singoli casi spetta alla percezione e il formulare la generalizzazione, in questo caso immediata, all’intellezione.

CAPITOLO 32 88a18-26: Aristotele ritorna ad una delle tesi cardine della sua teoria della scienza, legata alla dottrina della non trasferibilità dei principi da una scienza all’altra e alla connessa distinzione fra principi propri e comuni, ossia alla tesi per cui i principi primi delle scienze non sono gli stessi per tutte. Vedremo come questo assunto possa essere interpretato. Per il momento sottolineiamo soltanto la sua

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contrapposizione alla concezione piramidale e verticistica del sapere di Platone, quale emerge ad es. da R. VI 511B. Aristotele inizia con una prova che qualifica come «generale» (logikÒw, per questo termine cfr. n. a 84a7-11) e che è tale perché fa riferimento alla dottrina generale del sillogismo e non solo al sillogismo scientifico. È difficile ricostruire l’argomento perché si basa su principi falsi ed è palesemente incoerente. A 88a20-21 egli sostiene, correttamente e coerentemente con la sua posizione (APr. II 2, 53b7-8) che è possibile derivare una conclusione vera da premesse false; invece a 88a26 egli dice che le conclusioni sillogistiche vere procedono da premesse vere (tå d'élhy∞ §j élhy«n). Siamo generosi e supponiamo che qui Aristotele volesse dire che le conclusioni che procedono da premesse vere sono vere, ossia qualcosa come tå d'§j élhy«n élhy∞. Purtroppo questo non è sufficiente a riscattare l’argomentazione. Per darle una parvenza di plausibilità dobbiamo supporre anche che Aristotele sostenga che se un antecedente sillogistico è falso, allora entrambe le sue premesse sono false, contro quello che egli, giustamente, afferma in APr. II 2, 53b26-27, dove ammette che a rendere falso un antecedente è sufficiente che una sola delle due premesse sia falsa. Sotto queste due ipotesi possiamo ricostruire l’argomento aristotelico come segue. Il punto di partenza è costituito dalla distinzione fra sillogismi veri (ossia sillogismi a conclusione vera) e sillogismi falsi (a conclusione falsa). Di norma a conclusioni vere corrispondono premesse vere e a conclusioni false corrispondono premesse false. Siccome il vero è diverso dal falso, le premesse di tutte le conclusioni non possono essere le stesse. Aristotele tuttavia è consapevole che una conclusione vera possa seguire da un antecedente falso. Egli sostiene che in una catena deduttiva tale passaggio dal falso al vero avviene una volta sola e quindi è raro. La prova di ciò consiste nell’assumere un sillogismo (presumibilmente in Barbara) come (1) AaB, BaC  AaC e nel supporre che la sua conclusione sia vera e le sue premesse (entrambe le premesse!) siano false. Allora se AaB e BaC sono a loro volta mediate, le premesse da cui procedono non possono essere vere (perché da un vero non segue un falso). Quindi anche gli antecedenti da cui AaB e BaC provengono sono falsi e cosí di seguito fino alle premesse immediate. Il cambio dal falso al vero avviene perciò una volta sola. È chiaro che se invece supponessimo che l’antecedente della (1) è falso, ma che ad esempio AaB è falsa e BaC è vera, allora potremmo immaginare che anche BaC proviene da un antecedente falso, sicché il passaggio dal falso al vero potrebbe avvenire più di una volta nella catena deduttiva. 88a27-30: Aristotele produce un secondo argomento «generale» a favore della sua tesi. Nell’interpretazione più ovvia esso suona così. Nemmeno tutte le conclusioni dei sillogismi falsi possono procedere da uno stesso insieme di premesse. Le conclusioni false possono essere proposizioni fra loro incompatibili. Ma da uno stesso insieme di premesse non possono essere derivate proposizioni fra loro incompatibili. L’argomento tiene solo se si suppone che l’insieme dei principi sia consistente. Infatti da un insieme consistente di premesse non seguono conclusioni fra loro incompatibili. Ma Aristotele non ha mai fatto alcuna dichiarazione sulla consistenza dei principi.

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88a30-31: ÉEk d¢ t«n keim°nvn, ossia procedendo dalle asserzioni che sono state fatte in precedenza nella trattazione della dottrina della scienza. L’espressione corrisponde allo énalutik«w di APo. I 22, 84a8. 88a31-36: Aristotele richiama implicitamente le tesi di APo. I 7, 75a38 sgg. e 9, 75b37-76a15, secondo le quali i principi di una scienza devono essere appropriati al genere di essa, e perciò non è possibile trasferire i principi di una scienza ad un’altra a meno di una subordinazione del genere dell’una a quello dell’altra. È evidente che, se si adotta questo punto di vista, i principi non possono essere gli stessi per tutte le scienze. La seconda parte del passo (88a34-36) è difficile. L’interpretazione più convincente è forse quella di Barnes, p. 195. I principi in questione sono o i generi o le specie di tali generi che rientrano nel genere soggiacente di una scienza. Tali termini possono essere ordinati gerarchicamente in base alla loro generalità. Perché i principi di una scienza a possano essere adattati ad un’altra scienza b bisogna che la gerarchia di generi e specie di a abbia una qualche intersezione con quella di b e quindi che i termini di a rilevanti per una dimostrazione entrino come termini intermedi nella gerarchia di b o che si attacchino ad una delle due estremità della serie di b, o che combinino queste situazioni. Per la distinzione fra punto e linea cfr. sopra APo. I 27, 87a36. 88a36-b3: Aristotele esclude la possibilità che i principi da cui tutte le scienze procedano da un ristretto gruppo di principi comuni e generalissimi, del tipo di quello del terzo escluso. Egli sembra sostenere che accanto ai principi generalissimi, e quindi comuni a tutte le scienze, vi devono essere principi che per lo meno valgono solo all’interno di una categoria. Di questo tipo potrebbe essere ad esempio il principio, talvolta menzionato da Aristotele come comune (ad es. APo. I 10, 76a41): «togliendo da uguali uguali restano uguali», che trova applicazione solo nell’ambito della categoria della quantità. Se l’oggetto di una scienza è in una certa categoria, per provare i teoremi di quella scienza, sono richiesti, oltre ai principi generalissimi, anche principi categoriali. Di conseguenza l’insieme dei principi da cui tutte le scienze procedono dovrebbe comprendere non solo i principi generalissimi, ma anche principi appartenenti a categorie diverse, potendo essere gli oggetti delle diverse scienze in categorie distinte. 88b3-6: L’ipotesi sottintesa da cui Aristotele procede sembra essere che, se è possibile dedurre tutte le conclusioni scientifiche da uno stesso gruppo di principi, allora la differenza fra il numero dei principi e quello delle conclusioni dev’essere molto grande. Contro questa conclusione Aristotele osserva che i principi di una scienza possono essere aumentati secondo i modi già indicati sopra in I 12, 78a14 sgg., ossia aggiungendo per esempio ai principi AaB e BaC una nuova premessa CaD, oppure ponendo le premesse AaE e EaF da cui si ottengono rispettivamente le conclusioni AaD e AaF. 88b6-8: Nuovo argomento a favore della non unitarietà dei principi delle scienze. Le conclusioni delle scienze sono in numero infinito. D’altra parte, se si suppone che da un numero finito di principi derivino tutte le conclusioni, si deve ammettere che i principi sono finiti e dunque anche i termini che li costituiscono. Ma se i termini sono finiti le conclusioni non possono essere infinite, dato che nei

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sillogismi i termini che costituiscono le conclusioni sono presenti anche nelle premesse. Dunque tutte le conclusioni scientifiche non possono derivare da un numero finito di principi. A 88b7-8 viene introdotto un nuovo argomento basato sulla distinzione modale delle premesse. Nelle scienze vi sono premesse necessarie e queste non possono che dar luogo a conclusioni necessarie. Vi sono anche conclusioni possibili, verosimilmente quelle per lo più (cfr. I 30, 87b22-23) e queste dipendono da antecedenti non necessari. Ma non si vede come questa osservazione di per sé corretta, porti a negare che i principi di tutte le scienze siano gli stessi. Al più essa induce ad affermare che i principi della scienze non sono o solo necessari o solo possibili. La posizione dell’argomento nel contesto è incongrua dato che le linee successive, 88b8-10, riprendono il tema dell’infinità delle conclusioni e sembrano quindi riallacciarsi direttamente a 88b6-7. Ciò mi fa pensare che il passo sia il risultato di un’interpolazione. 88b9-15: Aristotele conclude la sua argomentazione relativa all’infinità delle conclusioni rispetto alla presunta finitezza dei principi (cfr. 88b6-7), sottolineando che non è possibile parlare di identità dei principi per tutte le scienze, «per chi esamini le cose così» (oÏtv m¢n oÔn skopoum°noiw: 88b9), ossia se per identità dei principi si intende che ogni conclusione scientifica deriva da un numero finito e ristretto di principi fra loro consistenti. Tuttavia, egli continua, si potrebbe intendere diversamente l’identità dei principi. Per esempio si potrebbe dire che, data una qualunque conclusione scientifica, esiste un insieme di principi dai quali tale conclusione deriva e che tale insieme è lo stesso nel senso di essere identico a se stesso. In altri termini, l’insieme dei principi sarebbe costituito dalla somma di tutti i principi, quelli aritmetici, geometrici, e così via. È chiaro allora che per qualunque conclusione scientifica deriva da un sottoinsieme appropriato di tali principi. Ma Aristotele rileva subito che ciò non è nulla di più che affermare che ciascuna scienza ha i suoi principi e in questa prospettiva, dire che i principi sono gli stessi significa solo asserire che ciascun principio è identico a se stesso non avendo la somma dei principi altra unità. Non è chi non veda che intendere così l’identità dei principi è ridicolo perché ogni cosa è identica a se stessa. Ad 88b11-12 i logismo¤ denotano l’aritmetica, secondo un uso ben attestato in greco, specialmente in Platone (cfr. Pl., Prt. 318E1-3; R. VI 510C2-3). 88b15-21: Nuova interpretazione della tesi da rigettare circa l’identità dei principi. Uno potrebbe, a torto, sostenere che i principi da cui deriva P sono gli stessi di quelli da cui deriva Q perché per provare P e Q bisogna fare appello alla totalità dei principi. Ma questo punto di vista è smentito dalla prassi matematica (§n to›w fanero›w mayÆmasi: 88b17, dove fanero›w marca forse il valore paradigmatico della matematica, sempre che l’aggettivo non sia interpolato, come suggerisce Verdenius [1981]: 355-356), come anche dall’analisi (per la quale v. APo. I 12, 78a6-13). In effetti se AaC è stata identificata attraverso l’analisi come conclusione delle premesse AaB e BaC e per ottenere l’ulteriore conclusione AaD dobbiamo aggiungere la premessa CaD, è chiaro che la conclusione AaC non dipende dalla premessa aggiunta CaD. Quindi per ricavare AaC non c’è bisogno di fare riferimento alla totalità delle premesse AaB, BaC e CaD (cfr. Barnes, p. 197).

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La parte finale del passo è difficile. In prima approssimazione il suo senso potrebbe essere il seguente: se si sostenesse che sono le stesse in tutte le scienze non tutte le premesse che intervengono in una deduzione, ma solo quelle prime immediate, comunque si dovrebbe concedere che in ciascuna scienza c’è una premessa di questo tipo. Sicuramente l’espressione «le premesse prime immediate» (tåw pr≈taw ém°souw protãseiw: 88b20-21) denota una classe più ristretta di quella delle proposizioni indimostrabili. Potremmo prenderle come quelle proposizioni che definiscono il genere soggiacente di ciascuna scienza. Ciò spiegherebbe perché Aristotele dica a mo’ di conclusione che allora in ciascuna scienza ci sarebbe un solo principio primo immediato, quello appunto che definisce il genere soggiacente della scienza. L’implicazione comunque è che, anche limitando a questo ristretto gruppo i principi delle scienze, essi sarebbero comunque diversi per le diverse scienze, essendo i generi soggiacenti di esse differenti. Ma non si vede come il sostenitore dell’identità dei principi per tutte le scienze dovrebbe limitare i principi alle definizioni dei generi soggiacenti. 88b21-29: Aristotele introduce una terza interpretazione della tesi che è intermedia fra le precedenti e che gli studiosi hanno attribuito a Speusippo (cfr. Cherniss [1944]: 73 n. 55; Ross, p. 605). Le due precedenti interpretazioni sono riassunte alle rr. 88b21-23 (a 88b21-22 quella descritta a 88b15-20; a 88b22-23 quella di 88b15-20). La nuova interpretazione consiste dunque nel supporre che i principi delle scienze abbiano una loro omogeneità (contro la prima interpretazione) e tuttavia non debbano essere tutti presenti in ogni deduzione (contro la seconda interpretazione). Aristotele tuttavia rifiuta questa possibilità richiamandosi alla tesi, già provata in APo. I 7, 75b2-12, che a generi diversi devono corrispondere principi che differiscono nel genere. Dunque i principi delle diverse scienze non possono appartenere tutti allo stesso genere. Il passo si conclude con un richiamo alla distinzione fra principi da cui e principi circa cui e i primi sono detti essere comuni, i secondi propri. Il richiamo a APo. I 10, 76b11-22 è di rigore. Solo che lì le cose stavano un po’ diversamente, dato che si diceva che gli assiomi, identificati con i principi comuni, sono principi da cui. Qui si afferma la reciproca, e cioè che i principi comuni sono da cui. Questo farebbe pensare che i principi propri, non essendo da cui, non abbiano un ruolo di premesse nelle dimostrazioni e siano confinati soltanto a garantire l’esistenza e la definizione del genere di una scienza. Ma probabilmente le difficoltà nascono soltanto dalla brachilogia del discorso aristotelico.

CAPITOLO 33 88b30-89a4: Aristotele distingue la conoscenza dall’opinione. Egli asserisce preliminarmente che la conoscenza scientifica si rivolge a ciò che è necessario, nel senso che ogni proposizione che è oggetto di conoscenza scientifica è necessaria, come del resto già sapevamo da APo. I 4, 73a21-26. D’altra parte egli osserva che vi sono proposizioni sì vere, ma non necessarie, nel senso che il loro valore di verità può cambiare. Tali proposizioni non possono essere oggetto di quella cono-

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scenza che è il risultato dell’applicazione di un procedimento dimostrativo (questo è il significato di §pistÆmh a 88b34), dato che esso deve essere necessario. Ma esse non possono essere nemmeno oggetto di intellezione (noËw), giacché questa fornisce la conoscenza delle premesse immediate dei procedimenti dimostrativi (cfr. APo. I 3, 72b18 sgg.), le quali non sono meno necessarie delle rispettive conclusioni. Dunque queste proposizioni, non essendo oggetto di conoscenza scientifica o intellettiva, sono oggetto dell’opinione. Come ha osservato giustamente Barnes, p. 198, questa conclusione può essere interpretata in due modi: (i) se una proposizione è oggetto di opinione, allora non è necessaria: oppure (ii) ogni proposizione che non è necessaria è oggetto di opinione. È chiaro che se si interpreta la posizione di Aristotele come (i), gli ambiti della scienza e dell’opinione risultano mutuamente esclusivi. Ciò non accade invece con l’interpretazione (ii), perché non si dice che solo le proposizioni non necessarie sono oggetto di opinione. L’interpretazione (ii) sembra confermata da EN III 4, 1111b31-33 dove si dice esplicitamente che l’opinione riguarda tutte le cose, eterne e non eterne. Nella prospettiva dell’interpretazione (ii) la posizione di Aristotele sembra contrapporsi a quella di Platone, per il quale la differenza fra scienza e opinione è differenza di oggetti, riguardando la scienza le idee e l’opinione ciò che è intermedio fra l’essere e il non essere (cfr. ad es. R. V 478C8-D1). Tuttavia la conclusione di 89b2-4 appare collocarsi dalla parte dell’interpretazione (i), sembrando limitare l’oggetto dell’opinione alle proposizioni non necessarie. Inspiegabile è poi l’ulteriore restrizione, compiuta in 89a4, alle proposizioni immediate. 89a4-10: Aristotele si premura di mettere in rilievo che la sua analisi concorda con «le apparenze» (to›w fainom°noiw: 89a5), ossia quelle convinzioni tradizionalmente acquisite e depositate, dalle quali ogni presa di posizione filosofica deve prendere le mosse e con le quali deve confrontarsi (cfr. Owen [1986]: cap. 13). All’opinione è connessa nel pensiero comune una oggettiva instabilità – nel senso che le proposizioni che sono oggetto di opinione possono cambiare il loro valore di verità (cfr. Metaph. G 4, 1008a16 sgg.) – e chi opina non ritiene di opinare se le sue opinioni sono da lui ritenute necessarie. Per un analogo appello alle apparenze si veda la definizione della conoscenza di APo. I 2, 71b12-16 e quella di «predicarsi di ogni» in APo. I 4, 73a32-34. Non è forse indispensabile inferire da queste conferme esterne che qui Aristotele confini l’oggetto dell’opinione alle sole proposizioni non necessarie, abbracciando l’interpretazione (i) della n. precedente. 89a11-16: Il problema cui Aristotele tenta di dare una soluzione in 89a16-37 è il seguente: come è possibile che di una stessa proposizione si dia opinione e conoscenza scientifica e, in questi casi, come è possibile distinguere l’opinione dalla scienza? Infatti una stessa catena deduttiva può essere oggetto di opinione e di scienza e si può conoscere opinativamente non solo che un predicato conviene ad un soggetto, ma anche perché, analogamente a quello che avviene per la scienza. Dunque se scienza e opinione fanno lo stesso cammino (ékolouyÆsei går ı m¢n efidΔw ı d¢ dojãzvn: 89a13-14) perché devono avere esiti diversi? 89a16-37: Aristotele affronta il problema posto in due tempi. Ad una serie di considerazioni introduttive (89a16-23) fa seguito un’esposizione basata sull’analogia

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che intercorre fra il senso in cui si può dire che un’opinione vera e un’opinione falsa vertono sulla stessa cosa e il senso in cui è legittimo dire che conoscenza scientifica e opinione hanno per oggetto uno stesso contenuto (89a23-27). Dobbiamo preliminarmente osservare che l’ipotesi da cui muove Aristotele è tale per cui la proposizione, per ipotesi P, di cui c’è opinione e conoscenza scientifica deve essere in se stessa vera e necessaria. Le considerazioni preliminari contengono un principio che è basilare per tutta l’argomentazione: se una persona opina che P ed è persuasa che P esprima un nesso per sé (e dunque sia necessaria), non ha più opinione di P, ma conoscenza scientifica. Il principio non è del tutto perspicuo e i dettagli del testo sono un po’ imbrogliati. Un chiarimento considerevole viene dal supporre che la necessità delle proposizioni che sono oggetto di conoscenza scientifica e di opinione dipenda dal fatto che esse esprimono nessi predicativi per sé, e precisamente quelli che legano le parti di una definizione al rispettivo definiendum e che Aristotele descrive a 89a19-20 con l’espressione «i predicati convengono ai loro soggetti sostanzialmente e secondo la forma». Sembra allora che dal principio enunciato da Aristotele si possano inferire due tesi, una relativa alla conoscenza scientifica ed una relativa all’opinione. Quella relativa alla conoscenza scientifica può essere formulata nel modo seguente: (1) se a ha conoscenza scientifica di P allora a sa che P è necessaria Si potrebbe allora pensare che la proposizione relativa all’opinione possa assumere la forma seguente: (2*) se a opina che P, allora a non sa che P è necessaria Ma il seguito del discorso mostra che Aristotele assume una tesi molto più forte, e precisamente (2) se a opina che P, allora a ritiene che P non sia necessaria Il seguito del discorso consiste innanzitutto nell’analisi delle condizioni alle quali è legittimo dire che una stessa proposizione è oggetto di opinione vera e di opinione falsa (89a23-32). Aristotele osserva subito che c’è un senso in cui non è possibile dire che la stessa proposizione è oggetto di opinione vera e di opinione falsa. Se ad esempio P è una proposizione vera, non si può dire che è un’opinione falsa quella che ha P per oggetto. In altri termini non si può assumere (3) a opina con verità che P e b opina falsamente che P Aristotele, con riferimento a non meglio identificati autori (Ross, p. 607, ipotizza che essi possano essere Eraclito, Empedocle, Anassagora, Democrito e Protagora), osserva che un simile modo di vedere le cose comporta molte assurdità e in particolare quella per cui si è indotti a concludere chi opina il falso non opina ciò che opina (89a27-28). Non è facile ricostruire questa aporia (un tentativo in Barnes, p. 200: se b opina falsamente che P allora non può opinare che P perché P è quello che a opina, ed è perciò vero). Viene quindi proposto il senso in cui è legittimo dire che un’opinione vera e un’opinione falsa si rivolgono allo stesso oggetto (89a28-32). L’idea è che se P è vera, opinare falsamente che P significa opinare non-P. Se diamo a P una veste predicativa, ci avviciniamo di più alla lettera della posizione aristotelica. Opinare con verità che B è A significa opinare che B

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è A, sotto l’ipotesi che B sia A. Opinare falsamente che B è A significa opinare che B non è A. Quindi il contenuto delle due opinioni, quella vera e quella falsa, essendo appunto B è A in un caso, e B non è A nell’altro, è solo parzialmente identico, essendo il soggetto delle due proposizioni lo stesso, mentre il predicato è diverso, essendo A nell’un caso affermato di B e nell’altro negato. Aristotele esprime ciò in maniera contorta a 89a38-39 quando afferma che «ma poiché la diagonale, circa la quale sono le opinioni, è la stessa, in questo senso l’opinione vera e l’opinione falsa sono dello stesso, mentre l’essere corrispondente al che cos’è secondo la definizione non è lo stesso». La diagonale è il soggetto delle due proposizioni che sono oggetto di opinione vera e falsa (corrisponde al nostro B). Invece quello che corrisponde al nostro predicato A è espresso da «l’essere corrispondente al che cos’è secondo la definizione» e di esso si dice che «non è lo stesso». Probabilmente qui Aristotele ha in mente nessi predicativi per sé del primo tipo e quindi attribuire o non attribuire un predicato di questo tipo ad un soggetto implica che la definizione di questo sia diversa. Chiarito il senso in cui si può dire che una stessa proposizione è oggetto di opinione vera e di opinione falsa Aristotele conclude la sua argomentazione dicendo che in modo simile deve essere interpretata l’identità delle proposizioni che sono opinate e conosciute scientificamente (89a33-37). L’idea generale dovrebbe essere la seguente. Supponiamo che a conosca scientificamente che P. Sulla base di (1) allora a conosce che P è necessaria. Quindi il contenuto della conoscenza scientifica di a è in realtà «P è necessaria». Questo non può essere invece il contenuto dell’opinione che b ha di P, perché se b sapesse che P è necessaria, allora conoscerebbe scientificamente che P, secondo il principio enunciato all’inizio dell’argomento (89a16-19). Dunque l’opinione che b intrattiene a proposito di P è che P è vera, ma non necessaria. In altri termini il contenuto dell’opinione di b è «P non è necessaria». Prima di analizzare i dettagli del passo, diciamo subito che un’alternativa alla lettura che abbiamo suggerito potrebbe essere quella che pone come contenuto dell’opinione non «P non è necessaria», ma semplicemente «P» di cui non è affermata la necessità, in conformità con (2*). Ma se così fosse, non risulterebbe chiara l’analogia con il caso delle opinioni vere e false. Se il contenuto dell’opinione è «P non è necessaria» di contro al contenuto della conoscenza scientifica «P è necessaria», l’analogia è perfetta. Qui come lì il soggetto delle due proposizioni è lo stesso e il predicato che è negato nell’un caso è affermato nell’altro. Se invece l’alternativa fosse «P» di contro a «P è necessaria» il rapporto andrebbe perduto. Va da sé che se assumiamo l’interpretazione forte del contenuto dell’opinione dobbiamo concludere che non è possibile avere opinioni vere a proposito delle proposizioni necessarie. I dettagli del testo sono oscuri. Come sopra, essi si illuminano un po’ se supponiamo che la necessità delle proposizioni in questione sia fondata su rapporti predicativi per sé del primo tipo. A 88b33-34 (≤ m¢n går oÏtvw toË z–ou Àste mØ §nd°xesyai mØ e‰nai z“on) l’espressione è particolarmente brachilogica. Dobbiamo supporre che z–ou sia il predicato di un soggetto sottinteso, probabilmente ênyrvpow, come si evince dal seguito, talché una parafrasi potrebbe essere: «la conoscenza scientifica concerne in modo tale il rapporto predicativo di animale a uomo che dice che l’uomo non può non essere animale».

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A 89a35 l’espressione ≤ m¢n ˜per ényr≈pou §st¤n è in realtà una contrazione per ≤ m¢n toÊtou §st‹n ˜per ênyrvpÒw §st¤n; cfr. Ross, p. 608. La lezione dei manoscritti a 88a36-37: tÚ aÈtÚ går ˜ti ênyrvpow ha poco senso perché richiede come soggetto sottinteso «il contenuto dell’opinione e il contenuto della conoscenza scientifica», mai introdotti sopra. Seguendo un suggerimento di Barnes, p. 201, e modificando tÚ aÈtÚ in toË aÈtoË i soggetti divengono l’opinione e la conoscenza scientifica che sono menzionati subito prima. 89a38-b6: Aristotele conclude la sua discussione sui rapporti fra opinione e conoscenza scientifica con un corollario che è un’ovvia conseguenza della sua analisi: non è possibile che ad un tempo fissato t uno stesso individuo conosca scientificamente che P ed opini anche che P. La ragione è che la conoscenza scientifica di P include sapere che P è necessaria mentre nel caso dell’opinione opinare P include ritenere che P non è necessaria. Piú esattamente, l’idea di Aristotele è che le proposizioni che sono oggetto di conoscenza scientifica e di opinione siano due proposizioni distinte, precisamente «P è necessaria» (o in termini di nessi predicativi per sé: «A conviene per sé a B») nel caso della scienza e «P non è necessaria» (ossia: «A conviene a B, ma non per sé»). Queste due proposizioni sono fra loro incompatibili. Dunque una stessa persona non può nello stesso tempo avere conoscenza scientifica e opinione relativamente ad una proposizione P. 89b7-9: I rapporti fra conoscenza scientifica e opinione sono stati studiati ora. Quelli relativi alle altre attività cognitive e ai loro oggetti sono analizzati in EN VI 3-7 e in de An. III 4-7 (speculazione fisica).

CAPITOLO 34 89b10-20: La prontezza (égx¤noia) è anche altrove collegata alla eÈstox¤a, lett. la capacità di cogliere il bersaglio (cfr. ad es. EN VI 10, 1142b5-6). Quest’ultima non è soltanto una destrezza manuale (ad es. HA VII, 10, 587a9-13: la rapidità e abilità nel saper recidere il cordone ombelicale da parte di una levatrice), ma anche mentale (Rh. III 11, 1412a12-15: abilità nel cogliere il senso oscuro di una metafora). Di questa capacità la égx¤noia sottolinea la rapidità di esecuzione soprattutto con riferimento alla prontezza mentale. Questa caratterizzazione è in linea con la tradizione platonica (Chrm. 160A1-2 e Def. 412E4-5) dove è uno degli elementi che contribuisce a definire la saggezza (svfrosÊnh) (cfr. Chrm. 159D-160A). Da Aristotele è concepita come un dono naturale (MM I 5, 1185b56; Rh. I 6, 1362b23-25), secondo un modo di vedere che troviamo rispecchiato nell’Epinomide (976B5-6). Cfr. Simard [1946].

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LIBRO SECONDO CAPITOLO 1 89b23-35: Aristotele pone una relazione fra tipi di problemi e tipi di conoscenza scientifica: a ciascun tipo di problema corrisponde un tipo di conoscenza. I tipi di problemi da lui individuati sono quattro, e precisamente quello che corrisponde alla ricerca del che (˜ti), quello che corrisponde alla ricerca del perché (diÒti), quello che corrisponde alla ricerca se è (efi ¶sti), e infine quello che corrisponde alla ricerca del che cos’è (t¤ §sti). Possiamo riformulare questa correlazione nel modo seguente: (i) problema del che: ci si domanda se X è (non è) Y, e la risposta è che X è (non è) Y. (ii) problema del perché: ci si domanda perché X è Y, e la risposta è che X è Y in ragione di Z. (iii) problema del se è: ci si domanda se X è, e la risposta è che X è (non è). (iv) problema del che cos’è: ci si domanda che cos’è X, e la risposta è X è D, dove «D» sta per il definiens di X. Va da sé che «X» e «Y» stanno per termini generali qualsivoglia. Aristotele pone un ordine di priorità nelle ricerche: non si può cercare (ii) senza aver dato prima una risposta a (i). Analogamente non ha senso porre la questione (iv) senza aver avuto una risposta affermativa alla questione (iii). Ciò non toglie che sia possibile rispondere insieme a (i) e (ii) (APo. II 8, 93a16-20). Infatti quello che è in questione qui è l’ordine della ricerca. Gli esempi di problema (i) che Aristotele fornisce vanno probabilmente interpretati in termini generali. La questione non è di questa o quell’eclissi di sole, ma del fenomeno generale: «il sole è soggetto al fenomeno dell’eclissi?». La scienza infatti non si occupa di questa o quella occorrenza dell’eclissi se non accidentalmente, dato che essa considera l’eclissi in generale (APo. I 8, 75b33-36). Il problema (iii) sembra essere un problema di esistenza (si cerca «se una cosa è o non è in senso assoluto» (89b33; èpl«w verrà contrapposto a §p‹ m°rouw a 90a2), che però riguarda un termine generale e non un individuo. Nell’esempio di «se c’è il dio» (89b32), «dio» deve essere rigorosamente scritto con la minuscola, non essendo un nome proprio, ma un termine generale. Infatti «dio» può essere definito e un individuo, secondo Aristotele, è indefinibile. Naturalmente ciò non comporta che cercare se X esista significhi cercare a quali condizioni un universale esista, a quali condizioni, per esempio, esista l’entità universale uomo. Com’è ben noto, gli universali per Aristotele non hanno esistenza autonoma. In realtà quel che si domanda quando si chiede «esiste X?» è se esistano le cose che sono X, per esempio se esistano le cose che sono centauri o dei. Sarebbe un errore pensare che la questione (iii) sia limitata alla richiesta d’esistenza per le sostanze. In realtà fra gli esempi di cose di cui si chiede se siano o no in APo. II 2, 90a5 è inclusa anche la notte, che sicuramente non è una sostanza. Ciò che marca la differenza fra (i) e (iii) è che nel primo caso si tratta dell’attribuzione di un predicato ad un soggetto e nell’altro si tratta della semplice domanda circa l’esistenza di cose che cadono sotto un termine generale.

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La priorità della domanda (i) sulla domanda (ii) è più ovvia della priorità di (iii) su (iv). È infatti ragionevole cercare la ragione di un evento o di uno stato di cose solo una volta acclarato che quell’evento ha luogo o che quello stato di cose si dà. In modo analogo la priorità di (iii) su (iv) è probabilmente fondata sull’idea che la definizione di qualcosa è possibile solo là dove la cosa in questione sia esistente. Il centauro o l’ircocervo, benché significhino qualcosa (Int. 1, 16a16-17), non sono definibili in senso proprio. La ragione della loro indefinibilità sta presumibilmente nel fatto che la definizione coglie l’essenza del definito e ciò che non esiste non ha un’essenza. Dunque non bisogna cercare (iii) prima di (iv), e possiamo procedere alla domanda (iv) solo se abbiamo avuto una risposta affermativa a (iii). L’espressione di 89b25-26: efiw ériymÚn y°ntew è curiosa. Come hanno spiegato Zabarella, 1038E e Ross, p. 610, essa fa riferimento all’assunzione di più termini, precisamente un soggetto e un predicato, a proposito dei quali si domanda se il secondo appartiene o no al primo. In questo senso la ricerca del che e del perché è messa in contrasto con quella del se è e del che cos’è, dove per formulare il problema non è necessario chiamare in causa una relazione predicativa tra due termini distinti. Bibliografia: Gomez-Lobo [1980]; Upton [1999]; Charles [2000]: 69-71.

CAPITOLO 2 89b36-90a23: L’identificazione dei quattro tipi di problemi, cui corrispondono quattro tipi di conoscenze scientifiche, compiuta nel capitolo precedente, viene ora sviluppata nell’ambito della teoria della dimostrazione. Il contesto in cui Aristotele articola il suo discorso è quello della scienza e della dimostrazione: egli probabilmente pensa a nessi predicativi che sono oggetto di ricerca e che sono quindi mediati. La sua tesi è che cercare se X è Y (il che) o cercare se X è o esiste (il se è) significa cercare se c’è un termine medio per una dimostrazione. Per quanto riguarda il problema che possiamo esplicitare il punto di vista di Aristotele nel modo seguente: cercare se X è Y significa cercare se ci sia un medio W tale che YaW e WaX dia luogo a YaX nel rispetto delle condizioni di scientificità del procedimento. Più complicato è il caso del problema se è, dato che non si capisce bene fra quali termini il medio cercato debba mediare. Una risposta a questo interrogativo potrebbe essere che il problema di esistenza cui Aristotele fa riferimento riguarda non individui, ma termini generali. Possiamo allora congetturare che la domanda «c’è X?» equivalga alla domanda «c’è fra le cose che sono almeno una che è X?». Ma una tale articolazione delle domande d’esistenza non è sufficiente per risolvere il nostro problema. La struttura sillogistica della scienza aristotelica sembra non conciliarsi troppo con enunciati della forma di «esiste (non esiste) qualcosa che è F» (in simboli: xF(x) oppure  xF(x)). Tuttavia possiamo pensare che sia possibile isolare una classe T di oggetti esistenti rispetto alla quale abbia senso domandarsi se qualcuno dei T sia X, o anche, se gli X siano T. Quest’interpretazione degli enunciati d’esistenza è suggerita, almeno fino ad un certo punto, da Metaph. Z 17, 1041a26 sgg. In questa prospettiva la domanda

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relativa all’esistenza si articola dal punto di vista dimostrativo nello stesso modo in cui si articola la domanda del che. Domandarsi se esistano i centauri significa domandarsi se esista qualcosa che sia un centauro o, più esattamente, domandarsi se qualche animale sia un centauro o anche se i centauri siano animali, una volta acclarato che il tipo di eventuale esistenza dei centauri sia quello di una specie di animali. Questa interpretazione del significato della domanda di esistenza consente altresì di risolvere un ovvio problema. Aristotele è categorico nel sostenere che di ciò che non esiste non si dà conoscenza scientifica (infra II 7, 92b5-8). Tuttavia è legittimo domandarsi se non spetti ad uno scienziato stabilire almeno alcune proposizioni di non esistenza. Sembra per esempio che sia di competenza dello zoologo decidere che non esistono ircocervi. Se supponiamo che «non esistono ircocervi» sia un’ovvia conseguenza di «nessun animale è un ircocervo», non si vede perché questa seconda proposizione non possa essere la conclusione di una dimostrazione. Che cosa vuol dire cercare se c’è un medio? La risposta è facile se si considera a che cosa si contrappone la ricerca dell’esistenza del medio, che corrisponde alla domanda se è e a quella del che. Essa si contrappone alla ricerca di quale sia il medio (t¤ tÚ m°son: 90a1; t¤ §sti tÚ m°son: 90a6), dove naturalmente, la formula t¤ §sti tÚ m°son non sta ad indicare la ricerca della definizione del medio, ma semplicemente quella dell’identificazione di quel medio che dia la spiegazione adeguata della conclusione (Zabarella, 1047 B-C e Gomez-Lobo [1980]: 76). In altri termini per rispondere alla domanda se è o a quella del che è sufficiente scegliere un medio, mentre nel caso della domanda che cos’è o perché bisogna scegliere il medio appropriato che dia una spiegazione adeguata. Ci troviamo di fronte alla stessa situazione che in APo. I 13 consentiva la distinzione fra dimostrazioni del che e del perché. Mentre le prime esigono solo la presenza di un medio, le seconde richiedono un medio adeguatamente esplicativo. Così come le domande se è e che si riducono alla ricerca dell’esistenza di un termine medio, le domande che cos’è e perché sono unificate dal fatto che per entrambe quello che si deve fare è cercare qual è il medio, ossia il medio adeguatamente esplicativo. Che ciò valga per la domanda perché è chiaro, almeno tanto quanto è chiara la distinzione della dimostrazione del perché da quella del che. Che ciò possa essere esteso alla domanda che cos’è è molto meno evidente. Forse il punto di vista di Aristotele risulta meno oscuro se si tiene ben presente che egli non sta parlando in generale delle essenze o definizioni delle cose, ma di quelle per le quali è legittimo istituire una ricerca scientifica e che sono coinvolte in una dimostrazione. Gli esempi di Aristotele, l’eclissi e l’accordo, mostrano chiaramente a quali tipi di realtà egli stia pensando. Stabilire l’esistenza dell’eclissi significa stabilire attraverso l’assunzione di un medio che la luna (il sole) subisce eclissi. Domandare che cos’è l’eclissi equivale a domandare perché c’è l’eclissi, ossia perché la luna (il sole) subisca eclissi. Come vedremo meglio in seguito, quest’analisi non si applica a tutte le definizioni (cfr. ad es. II 10, 94a9-10). L’idea di Aristotele sembra essere che, almeno in alcuni casi, la definizione di un termine generale deve contenere come elemento caratterizzante la ragione per cui il termine definito appartiene a tutto ciò a cui appartiene o almeno ad un sott’insieme rilevante da tali oggetti. In generale in questi casi rispondere alla domanda «che

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cos’è X?» significa manifestare la ragione per cui X conviene a Z, dove Z rappresenta una classe di oggetti esistenti. L’esempio dell’accordo musicale (90a18-23) è di matrice pitagorica. Furono infatti i pitagorici a scoprire per primi che la consonanza di due suoni dipende da una proporzione numerica della lunghezza delle stringhe che producono i suoni. L’esempio tuttavia non sembra completamente omogeneo a quello dell’eclissi se non altro per la presenza di una componente modale in una delle domande. Una plausibile spiegazione di ciò in Gomez-Lobo [1980]: 88-89. 89b39: «O parzialmente o in senso assoluto [μ tÚ §p‹ m°rouw μ tÚ èpl«w]». Qui §p‹ m°rouw è contrapposto ad èpl«w. Si domanda se X è in senso assoluto, quando si domanda ad es. «X è?», dove «è» non ha altra specificazione o limitazione. Si domanda invece se X è parzialmente se di X si domanda se è Y, giacché non si chiede se X è tout-court, ma se è qualcosa, appunto Y. Si veda 90a2-5, dove cercare se è in senso assoluto è esemplificato da «se la luna (la notte) è», mentre cercare parzialmente è esemplificata da «la luna subisce eclissi o accrescimento». A 90a9-10 e‰nai §p‹ m°rouw è parafrasato con e‰nai tod‹ μ todiÄ. 90a9-11: Le ll. 9-10: tÚ går a‡tion toË e‰nai mØ tod‹ μ tod‹ éll' èpl«w tØn oÈs¤an sono difficili per l’incongrua presenza di tØn oÈs¤an che non può certo fare riferimento alla nozione di sostanza o di essenza. Barnes, p. 48, propone di espungere l’espressione, ma forse essa ha qui il significato generico di «cosa che è», «entità» e non quello tecnico di «sostanza». Inoltre non si vede bene il senso del richiamo ai predicati o determinazioni accidentali di 90a11, dato che la scienza non ha a che fare con ciò che è accidentale. Forse Aristotele li menziona ad abundantiam. 90a24-30: Il passo fa da contraltare a quanto è affermato sopra a I 31, 87b39-88a5. Lì si sosteneva che la semplice osservazione percettiva dell’interposizione della terra fra il sole e la luna non è ancora la spiegazione dell’eclissi e la conoscenza scientifica di quel fenomeno. Qui si afferma che la percezione dell’interposizione, se fosse possibile, bloccherebbe ogni ulteriore ricerca del perché dell’eclissi, dato che sarebbe subito nota la ragione del fenomeno. Le due prese di posizione non sono strettamente incompatibili e le loro differenze sono giustificate dalle diverse prospettive in cui sono calate. In effetti in questo passo non si dice che la percezione scientifica abbia come risultato la conoscenza scientifica. Piuttosto è dalla percezione che si genera la conoscenza e ciò basta a fondare la tesi secondo cui la percezione dell’interposizione della terra non darebbe luogo ad una ricerca del perché la luna si eclissa. Bibliografia: vedi cap. prec.

CAPITOLO 3 90a35-38: Aristotele conclude la discussione del capitolo precedente sottolineando che in ogni caso la ricerca è ricerca del medio e passa ad enunciare il tema che lo occuperà nel resto del libro, e precisamente la definizione nei suoi rapporti con

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la dimostrazione. Il «modo della sua riduzione» (90a36-37) allude precisamente a come la definizione si rapporti alla dimostrazione. Premettere una discussione «aporematica» o dialettica all’analisi di centrali questioni filosofiche è pratica abbastanza comune in Aristotele. Il caso più eclatante è quello di Metaph. B, ma di questa tecnica abbiamo già visto un esempio più modesto a I 22 (sul ruolo di queste analisi dialettiche preliminari cfr. Owen [1986]: 239-251). La discussione dialettica che inizia qui termina con il capitolo 8, dove Aristotele propone la sua soluzione della relazione fra dimostrazione e definizione. 90a38-b13: Aristotele difende qui la tesi della completa separazione fra dimostrazione e definizione. Ciò che è oggetto dell’una non è oggetto dell’altra. La sua argomentazione procede passo a passo. Innanzitutto viene negato che (1) se una qualunque proposizione P è la conclusione di una dimostrazione, allora P è una definizione. Aristotele osserva preliminarmente che se P è una definizione, deve avere la forma di una proposizione universale affermativa. D’altra parte è noto che vi possono essere dimostrazioni in seconda figura, le quali hanno sempre conclusione negativa, ed in terza figura, le quali hanno sempre conclusione particolare (la possibilità di dimostrazioni in seconda e terza figura non è esclusa da quanto Aristotele afferma sulla maggiore scientificità della prima figura in APo. I 14). Dunque vi sono proposizioni che compaiono come conclusioni di dimostrazioni e che non costituiscono definizioni. In appendice a questo argomento (o anche forse come argomento indipendente) Aristotele dice (90b7-13) che, anche se limitassimo l’antecedente di (1) alle sole proposizioni affermative dimostrabili in prima figura (e qui egli probabilmente intende alludere alle proposizioni dimostrabili in Barbara che sono affermative e universali), il condizionale (1) non sarebbe vero. In effetti anche ammesso che P sia universale affermativa, non possiamo ammettere che sia una definizione se è la conclusione di una dimostrazione. L’argomento di Aristotele riposa sui due seguenti principi: (i) «se P è la conclusione di una dimostrazione, allora la conoscenza scientifica di P è ottenibile solo grazie alla dimostrazione di P»; (ii) «se P è una definizione, è possibile conoscere scientificamente P senza avere la corrispondente dimostrazione». Se allora immaginiamo che P sia al contempo la conclusione di una dimostrazione ed una definizione, potremmo avere una conoscenza scientifica di P in qualità di definizione, e tale conoscenza scientifica di P non sarebbe ottenuta per dimostrazione (in base a (ii)). Ma ciò contraddice (i). Quindi non è possibile che P sia insieme la conclusione di una dimostrazione ed una definizione. L’argomento in realtà prova più di quanto Aristotele lo destini a fare. Infatti da esso egli conclude (b7-8, cfr. 18-19) che non tutte le proposizioni che compaiono come conclusioni di dimostrazioni sono definizioni, ma, se si estendono i principi (i) e (ii) dell’argomento a tutte le proposizioni (come sembrerebbe ragionevole fare), egli avrebbe potuto inferire che nessuna proposizione dimostrabile è una definizione. 90b13-16: Nuova argomentazione a favore della negazione della tesi (1) della n. precedente. L’induzione di cui si parla è l’esame dei casi particolari. Il riferimento agli accidenti non è del tutto perspicuo, dato che le dimostrazioni non prova-

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no predicazioni accidentali (specialmente quando queste sono contrapposte alle predicazioni per sé). La loro menzione potrebbe essere semplicemente ad abundantiam. 90b16-17: L’argomentazione procede spedita qualora si prenda «sostanza» (oÈs¤aw: 90b16) nel senso di «essenza» (cfr. 90b30-31) e le «cose siffatte» (tã ge toiaËta: 90b16-17) siano riferite ai predicati per sé e agli accidenti (cfr. kay' aÍtÚ ÍparxÒntvn e sumbebhkÒtvn a 90b15-16). L’argomento allora è che le definizioni manifestano le essenze delle cose, mentre i predicati per sé (e a maggiore ragione gli accidenti, per i quali vedi la n. precedente), che mediante le dimostrazioni vengono provati dei rispettivi soggetti, non fanno parte dell’essenza di questi. 90b18-27: Alle righe 90b20-24 Aristotele produce due argomenti per provare la negazione di: (2) se una qualunque proposizione P è una definizione, allora P è la conclusione di una dimostrazione che è la conversa della (1) della n. a 90a38-b13: (1) se una qualunque proposizione P è la conclusione di una dimostrazione, allora P è una definizione. Il primo argomento è dichiarato lo stesso di quello usato per provare (1) a 90b7-13. Aristotele sembra aggiungere qui una specie di giustificazione di (i) (v. la n. a 90a38-b13), quando dice che di una cosa che è una, in quanto è una, si dà un solo tipo di conoscenza. Intende con ciò riferirsi ad una proposizione semplice, del tipo di AaB? Comunque sia l’idea è che se fosse vera la (2), ogni definizione dovrebbe essere dimostrabile e, in virtù della (i), potrebbe essere conosciuta solo per dimostrazione. Ma questo contraddice la (ii) della n. a 90a38-b13, la quale affermava che se P è una definizione, è possibile conoscerla scientificamente senza avere la corrispondente dimostrazione. Il secondo argomento (90b24-27) riposa sull’idea che i principi delle dimostrazioni sono definizioni. Ma se valesse (2), i principi delle dimostrazioni sarebbero tutti dimostrabili e si genererebbe un regresso all’infinito da cui seguirebbe che nulla è dimostrabile. Dunque vi sono principi (tå pr«ta: 90b27), e dunque definizioni, che non possono essere dimostrate. Che i principi delle dimostrazioni siano solo ed esclusivamente definizioni, come richiede l’argomento per risultare cogente, sembra una tesi troppo forte e mal si concilia con la funzione di premesse che, ad esempio, viene assegnata ai principi comuni delle scienze (supra I 10, 76a37 sgg. e n. a 76a37-b2). Non dobbiamo dimenticare il contesto dialettico della discussione. 90b28-91a6: Con argomenti più deboli dei precedenti Aristotele vuole provare una tesi più forte di quelle finora discusse, e precisamente che non si dà una proposizione che sia insieme una definizione e oggetto di dimostrazione. Nelle argomentazioni la tesi è presentata nella forma seguente: (3) se una qualunque proposizione P è una definizione, non è la conclusione di una dimostrazione.

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Il primo argomento (90b30-33) parte dall’affermazione che una definizione esprime l’essenza del definito, e che le dimostrazioni presuppongono la conoscenza delle essenze delle cose su cui le prove vertono. Ma segue da ciò che ogni definizione è indimostrabile? Il secondo argomento (90b33-38) funziona solo se si prende «definizione» nel senso di «definiens». Le conclusioni delle dimostrazioni sono proposizioni che hanno forma predicativa, ossia sono tali che un predicato è attribuito ad un soggetto. Le parti di un definiens invece non sono fra loro in un rapporto predicativo (cfr. anche Metaph. H 6, 1045a7 sgg.). Dunque un definiens non è dimostrabile. Ma perché non prendere «definizione» nel senso di proposizione in cui un definiens è affermato di un definiendum, come già avveniva a 90b4? Il terzo argomento (90b38-91a6) non è del tutto perspicuo. Una sua possibile ricostruzione è la seguente. Provare il che cos’è di una cosa (ammesso che ciò sia possibile) è un’operazione del tutto diversa dal provare che X conviene a Y, perché gli oggetti delle due prove sono diversi e non possono nemmeno essere posti nella relazione di parte/tutto, che consentirebbe di dire che la prova dell’uno è inclusa in quella dell’altro (due proposizioni sono nella relazione parte/tutto se sono nel rapporto in cui è AaC rispetto ad AaB, dato BaC; in tal caso anche le dimostrazioni di AaC e di AaB sono in un rapporto di parte a tutto). Ogni dimostrazione ha una conclusione della forma «X conviene a Y», mentre il che cos’è di una cosa non è espresso da una proposizione di quel tipo. Ma la definizione ha il compito di provare il che cos’è di una cosa. Dunque nessuna definizione è la conclusione di una dimostrazione. Aristotele non dice perché provare che X conviene a Y è diverso dal provare il definiens di un definiendum. Una ragione potrebbe essere che l’attribuzione di un definiens ad un definiendum non ha forma predicativa, non è una proposizione. Ma ciò sembra smentito da 90b4 e dai molti luoghi in cui egli afferma che le definizioni possono avere il ruolo di premesse nelle dimostrazioni. Alternativamente si potrebbe supporre che le conclusioni delle dimostrazioni non abbiano la forma di definizioni perché queste richiedono che i predicati del definiens convengano essenzialmente al definiendum mentre le dimostrazioni non provano proposizioni del tipo di «X conviene essenzialmente a Y». Ma l’esclusione di siffatte proposizioni dall’ambito delle conclusioni dimostrative non sarebbe giustificata. Forse è più plausibile che l’argomento assuma che le conclusioni dimostrative siano diverse dalle definizioni perché le prime, a differenza delle seconde, esprimono l’attribuzione ad un soggetto di un predicato che non fa parte del definiens del soggetto stesso, come già a 90b16-17.

CAPITOLO 4 91a12: «Discutiamole... fino a questo punto». Ciò non significa che la discussione dialettica termini qui. Essa continua fino alla fine del capitolo 7, come mostra chiaramente 93a1-2. Aristotele passa semplicemente ad una nuova serie di considerazioni sull’indimostrabilità della definizione. L’impossibilità di dimostrare le definizioni era stato ciò che gli argomenti di APo. II 3 si proponevano di provare.

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91a12-14: Per l’uso di Ípot¤yhmi nel senso di «mi propongo di mostrare» cfr. LSJ, s.v. III 1-2. 91a12-32: Aristotele intende provare che non è possibile costruire un sillogismo dimostrativo che abbia come conclusione una definizione, ossia una proposizione il cui predicato sia il definiens del soggetto. Egli ovviamente assume implicitamente che questa proposizione sia universale affermativa e quindi il sillogismo che potrebbe averla come conclusione dovrebbe essere in Barbara, ossia avere la forma (1) AaB, BaC  AaC Aristotele pone due condizioni affinché AaC sia una definizione: (i) A deve essere un proprio di C, ossia A e C devono essere equiestesi; (ii) AaC deve esprimere una predicazione tale per cui A sia incluso nel che cos’è di C, ossia sia un predicato essenziale di C (i punti [i] e [ii] illustrano l’affermazione, apparentemente bizzarra, «il che cos’è è un proprio e si predica nel che cos’è» [91a15-16]). Aristotele sembra concepire l’essenzialità del rapporto predicativo come una specie di operatore modale. Così come, per esempio, diciamo che A appartiene ad ogni C necessariamente, possiamo anche dire che A appartiene ad ogni C essenzialmente. Se allora la conclusione di (1) è una predicazione essenziale e propria, potremo dire che A è il definiens di C. Dalla prima condizione si deriva (91a16-18) che A, B e C sono termini fra loro convertibili, ossia equiestesi. La ragione di questa affermazione non è fornita da Aristotele, ma essa è facilmente ricostruibile. In virtù di (i), l’estensione di A è uguale a quella di C. Se l’estensione di B fosse maggiore di quella di C, allora dovrebbe essere maggiore anche di quella di A e la proposizione AaB non potrebbe essere vera. D’altra parte non può essere minore di quella di C, altrimenti BaC sarebbe falsa. Dunque è la stessa. D’altra parte Aristotele sostiene (91a18-21) che, perché la conclusione di (1) possa soddisfare (ii), le sue premesse devono essere assunte con un operatore di essenzialità duplicato, ossia presente in entrambe (questo è il senso di «se uno non assume così questi nessi duplicandoli» a 91a21). In altri termini se dobbiamo concludere a eAaC (dove eXaY sta per «X appartiene essenzialmente ad ogni Y») dovremo porre (2) eAaB, eBaC  eAaC Il venir meno dell’operatore di essenzialità in una delle due premesse (o in entrambe) non garantisce l’essenzialità della conclusione. Aristotele considera solo il caso in cui la premessa minore di (1) non abbia l’operatore di essenzialità e si limita ad affermare che in tale situazione non siamo autorizzati a concludere eAaC (91a21-23). Con buona pace di Barnes, pp. 208-209, e Charles [2000]: 183184, egli non spiega il perché di questa sua affermazione che, di per sé, non è del tutto ovvia. Il punto è che la proposizione eAaB, A appartiene essenzialmente ad ogni B, si presta a più d’una interpretazione. Possiamo infatti intenderla come un’asserzione del fatto che A appartiene essenzialmente a tutto ciò cui B appartiene, ovvero, usando la simbologia standard della logica moderna, x(B(x)  eA(x)); oppure considerarla come corrispondente ad «A appartiene essenzialmente a tutto ciò cui essenzialmente appartiene B», ossia x(eB(x)  eA(x)). Se adottiamo la prima interpretazione non è necessario che la premessa minore di

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(2) sia specificata dall’operatore di essenzialità, mentre ciò è richiesto nel caso in cui si scelga la seconda interpretazione. Si noti che è proprio giocando su un analogo duplice senso delle proposizioni necessarie che Aristotele asserisce che, in un sillogismo in Barbara, da una premessa maggiore necessaria e una premessa minore categorica si ottiene una conclusione necessaria (APr. I 9, 30a15 sgg.). In ogni caso, quello che viene affermato qui è che, per ottenere una definizione come conclusione, si deve avere un’inferenza del tipo della (2) sotto la condizione che i termini che compaiono in essa siano convertibili ovvero equiestesi. In effetti se A è un predicato essenziale e proprio di C, è il definiens di C. Ma per la stessa ragione dovremo anche ammettere che anche B è un definiens di C. Dunque la deduzione, soggiacendo alle condizioni (i) e (ii), avrà la forma seguente (3) dAaB, dBaC  dAaC dove naturalmente dXaY sta per «X appartiene ad ogni Y come definiens di Y». La conclusione di Aristotele è che (3) non può essere una dimostrazione, perché contiene una petizione di principio, in quanto volendo provare la definizione di C, la assume nelle premesse. Come notava già Zabarella (1080 B-F) appellandosi all’autorità di Averroè, perché si abbia una vera petizione di principio, bisogna assumere un’ulteriore condizione e precisamente che il definiens di C, e in generale di ogni definiendum, sia unico. In effetti se noi ammettessimo che sono possibili più definizioni di uno stesso definiendum non sarebbe in alcun modo pregiudicata la possibilità di dimostrare una definizione attraverso l’altra. Un’argomentazione a favore dell’unicità della definizione si trova in Top. VI 4, 141a34 sgg. ed è basata sull’idea che la definizione deve esprimere l’essenza di una cosa, la quale è una sola per ciascuna cosa. 91a33-b11: Il riferimento alla definizione dell’anima (91a33-b1) – chiaramente un accenno alla posizione di Senocrate che aveva appunto sostenuto che l’anima si definisce come numero semovente (frr. 60-65 Heinze; 165-212 Isnardi-Parente [più avanti a II 8, 93a24 è invece menzionata quella di Platone]) – non è chiaro. Sono possibili varie interpretazioni. La più naturale è forse la seguente. Senocrate avrebbe innanzitutto concluso che l’anima è un numero semovente avendo assunto che l’anima è ciò che è esso stesso la ragione della propria vita e che ciò che è esso stesso la ragione della propria vita è un numero semovente. Quindi avrebbe provato che l’anima è ciò che è esso stesso la ragione della propria vita partendo dalla conclusione dell’argomento precedente (l’anima è un numero semovente) e dalla conversa della seconda premessa (il numero semovente è ciò che è esso stesso ragione della propria vita). Facendo ciò avrebbe commesso una petizione di principio e avrebbe postulato la definizione di anima come numero semovente. Come osserva Barnes, pp. 209-210, questa critica denuncia un errore di Senocrate (ammesso che egli abbia costruito una doppia dimostrazione), ma ha poca rilevanza per la prova della tesi dell’indimostrabilità delle definizioni. Una seconda interpretazione consiste nel pensare che Senocrate avrebbe tentato di provare che l’anima va definita come numero semovente a partire da un termine che è equiesteso alla definizione e convertibile con essa, appunto «ciò che è esso stesso ragione della propria vita». Ma allora il suo argomento sarebbe semplicemente

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(1) tutto ciò che è esso stesso ragione della propria vita è un numero semovente l’anima è ciò che è esso stesso ragione della propria vita l’anima è un numero semovente In questa prospettiva tuttavia non è ben chiaro come Aristotele possa dire che la (1) postula la definizione di anima come numero semovente. Ci si aspetterebbe piuttosto che fosse rifiutata alla (1) la qualifica di prova della definizione, dato che «ciò che è esso stesso ragione della propria vita» è un semplice termine equiesteso ad «anima» e non una definizione di essa. A meno quel che Aristotele intende sia che la (1) potrebbe aspirare a rappresentare una prova della definizione dell’anima solo se si potesse assumere la più completa identità di ciò che è esso stesso ragione della propria vita e di numero semovente, la qual cosa implicherebbe in effetti una petizione di principio relativa alla definizione di anima come numero semovente. Quest’interpretazione, proposta fra gli altri da Zabarella (1081D-1082B), suona piuttosto contorta. Nella seconda parte del passo (91b1-11) Aristotele insiste sulla tesi per cui, volendo dimostrare che A è il definiens di C, bisogna assumere un termine medio B il quale sia a sua volta il definiens di C. Egli sembra prospettare due casi. Il primo è quello in cui A sia predicato di B e B di C senza ulteriori specificazioni. In questa situazione è legittimo concludere che A si predica di C (salve le opportune quantificazioni), e non che A è il definiens di C. Il secondo caso è quello in cui A si predichi sì essenzialmente di B e B di C, ma «non così da essere uno» (91b7), ossia senza dare luogo all’equiestensione dei termini. L’esempio mostra abbastanza chiaramente che Aristotele ha in mente l’attribuzione di un genere ad una specie. In questo caso, mancando l’equiestensione dei termini, A non può essere il definiens di C. La frase di 91b3-4: oÈd'efi ¶sti tÚ A ˜per ti ka‹ katå toË B kathgore›tai pantÒw è difficile. Nella sua lettura più ovvia la prima parte di essa significa che A è la stessa cosa che un tipo particolare di B. Ma se A è un tipo di B non può essere vero che A si predica di ogni B. O c’è una corruttela nei manoscritti, oppure bisogna pensare che ¶sti tÚ A ˜per ti sia fortemente contratta e voglia dire: A è tale che B coincide con un tipo di A. Con esitazione ho adottato una traduzione interpretativa. Bibliografia: Charles [2000]: 180-186.

CAPITOLO 5 91b12-24: Aristotele nega che la divisione, il metodo messo in opera da Platone per costruire le definizioni, possa essere concepito come un sillogismo che provi le definizioni (per analoghe critiche cfr. anche APr. I 31, capitolo a cui rimanda la frase «come è stato detto nell’analisi relativa alle figure», 91b13-14). Egli osserva innanzitutto (91b14-23) che il sillogismo è caratterizzato dal fatto che la conclusione segue necessariamente dalle premesse poste. La presenza di una tale necessità logica non è riscontrabile in nessun passo del procedimento divisivo. Non è riscontrabile nel suo risultato, che non è una conclusione sillogistica, per-

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ché è assunto o concesso dall’interlocutore e non derivato dalle premesse. Ma non si ritrova nemmeno nei vari passi del processo. La divisione infatti ci induce ad attribuire certe differenze ad una specie, per esempio quella di essere terrestre a uomo. Ciò avviene a seguito di una domanda: «l’uomo è terrestre o acquatico?». A questa domanda si risponde naturalmente «terrestre» e quindi tanto questa scelta quanto l’affermazione che l’uomo è un vivente terrestre non sono il risultato di una derivazione, ma di quello che si è deciso di rispondere alla domanda. Ciò è tanto più evidente se si pensa che anche quando la divisione abbia a che fare con qualcosa che potrebbe essere il risultato di una deduzione, i sostenitori di questo metodo non si preoccupano di stabilire tale derivazione (91b23-24). Aristotele si spiega in modo più diffuso a APr. I 31, 46b3-12, dove in effetti dice che se si assume che ogni uomo è animale e che ogni animale è mortale o immortale, si può validamente dedurre che ogni uomo è mortale o immortale. Ma chi opera la divisione non si dà pensiero di stabilire tale risultato, giacché la sua unica preoccupazione è quella di asserire che l’uomo è mortale e ciò non è ottenuto deduttivamente. Proprio per questo a APr. I 31, 46a33 la divisione è chiamata un «sillogismo impotente». 91b24-27: Aristotele insiste sull’impossibilità di considerare la divisione un sillogismo osservando che essa non dà una giustificazione del fatto che l’insieme delle differenze attribuite al definiendum costituisca davvero il definiens. Ciò è ribadito dal fatto che il processo di per sé non esclude affatto che siano introdotte come differenze caratteristiche che non fanno parte dell’essenza del definiendum, oppure che manchi una differenza finale o che sia trascurata qualche differenza intermedia (per la distinzione fra «togliere» (éfele›n: 91b27) e «passar sopra a qualcosa della sostanza[=essenza]» (Íperbebhk°nai t∞w oÈs¤aw: 91b27) cfr. Zabarella, 1088C-D). 91b28-35: Nella prima parte del passo (91b28-32) viene affermato che alcuni dei possibili difetti della divisione, e precisamente la non garanzia che l’insieme delle differenze rappresenti la definizione della cosa cercata, possono essere eliminati adottando alcune regole nella divisione: la dicotomia deve essere senza residui nel senso che le differenze devono dividere senza resti il genere e deve essere fatta con ordine. Aristotele si occuperà di ciò in APo. II 13. Questo conferma che egli non vuole negare alla divisione una funzione nella ricerca delle definizioni. Egli si limita ad osservare che la divisione non è un procedimento inferenziale. Ciò è quanto viene ribadito nella seconda parte del passo (91b32-36), dove si osserva che la divisione, anche se non procede sillogisticamente, fa conoscere qualcosa, dato che non tutti i procedimenti che portano a nuove conoscenze devono avere struttura deduttiva, come del resto mostra l’induzione. 91b36-92a5: Il paragone è fra quelle argomentazioni in cui la conclusione è posta senza che siano state poste tutte le premesse da cui essa dipende e la definizione che è il risultato di una divisione. Nel caso delle argomentazioni incomplete siamo autorizzati a domandare perché, ossia a chiedere su quale base la conclusione è affermata. Nel caso della definizione ottenuta per divisione possiamo porre la stessa domanda per ogni differenza che viene aggiunta. L’ultima parte del pas-

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so (92a2-5), che completa il paragone, è molto compressa. Una sua possibile interpretazione è la seguente. Se si chiede a colui il quale fa la divisione perché l’uomo è mortale (e siamo legittimati a fare ciò dal paragone delle argomentazioni incomplete), la sua risposta sarà: perché l’animale è mortale o immortale, ed egli riterrà che ciò sia stato dimostrato. Ma allora tutto quello che possiamo derivare da questa assunzione sapendo che l’uomo è animale è che l’uomo è mortale o immortale. Ma una formula siffatta, contenendo un’alternativa, non è una definizione e quindi la definizione non può comunque comparire come conclusione di un sillogismo (si noti che a 92a5 sullogismÒw ha il significato di «conclusione di un sillogismo»). Bibliografia: Düring [1943]; Lloyd [1961]; von Fragstein [1967]; Kullmann [1974]; Balme [1987]; Pellegrin [1981]; Deslauriers [1990]; Bolton [1993]; Falcon [1996]; [1997].

CAPITOLO 6 92a6-10: Aristotele considera un argomento, volto a provare la definizione, che possimo ricostruire così: (1) D è il definiens di X se D è costituito da un insieme di predicati di X tali che (i) ciascuno di essi è essenziale a X; (ii) gli elementi di D esauriscono i predicati essenziali di X; (iii) il loro insieme si predica solo di X (2) A, B, C… sono predicati di S tali che soddisfano (i) e (ii) e il loro insieme G soddisfa (iii) (3) G è il definiens di S Aristotele chiama questo argomento una dimostrazione che procede da una presupposizione (§j Ípoy°sevw) e tutti gli interpreti sono concordi nell’identificare tale presupposizione con (1), la definizione di definizione. Nonostante l’identità del nome questo procedimento ha poco a che vedere con i «sillogismi da presupposizioni» di cui si parla in APr. I 44, giacché qui Aristotele non mette in discussione la legittimità formale della deduzione (1)-(3), che del resto egli ha già usato in APo. II 4, 91a14-25 e che viene ampiamente sfruttata nei Topici (VII 3, 153a24-b24) dove viene presentata come un metodo per confermare le definizioni. È piuttosto il suo valore epistemico che viene messo in discussione, giacché si dice che contiene una petizione di principio. La maggior parte degli interpreti spiega tale petizione dicendo che (2) presuppone quel che bisognava provare, ossia che G è il definiens di S. Sebbene probabilmente corrisponda alla posizione di Aristotele, questa interpretazione non è chiara. Se davvero così fosse, Aristotele dovrebbe escludere dall’ambito della scienza tutti quei sillogismi in cui la premessa maggiore sia costituita da una definizione e quella minore attribuisca il definiens a qualcosa, perché viziati da una petizione di principio (questa tra l’altro è la posizione di Zabarella, 1093E sgg.). Dobbiamo comunque tener presente che siamo all’interno di una discussione dialettica, dove non è detto che tutti gli argomenti proposti siano ugualmente accettati da Aristotele. Anche per questo tro-

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vo difficile fare paragoni con Top. VII 3, dove il metodo qui criticato è proposto positivamente. Alcuni autori hanno letto la presunta discrepanza fra questo testo e Top. VII 3 in termini evolutivi: il passo dei Topici esprimerebbe convinzioni riconducibili a una fase precedente a quella degli Analitici. Sulla questione vedi Maier [1896/1900]: II, 2, 77 n. 2; Solmsen [1929]: 181 sgg.; Cherniss [1944]: 34 n. 28; A. Mansion [1961]: 64-67; Barnes [1981]: 44-46. 92a11-19: Secondo argomento di Aristotele volto a contrastare l’inferenza (1)-(3) della n. precedente. Si osserva che come in un sillogismo non viene assunta la definizione di sillogismo, così nel nostro caso non si deve assumere la definizione della definizione. Aristotele dà una giustificazione poco credibile di questa altrettanto poco credibile asserzione, dicendo che in un sillogismo le premesse sono o un tutto o una parte. Forse Aristotele vuol semplicemente dire che le argomentazioni che contengano la definizione di sillogismo non sono sillogistiche e ciò è vero dell’inferenza (1)-(3) della n. precedente. Ma nulla vieta di riformulare (1)-(3) in termini sillogistici e di fare lo stesso per eventuali altre deduzioni contenenti la definizione di sillogismo. Aristotele spiega che la definizione di sillogismo è semmai impiegata per contrastare un attacco contro un sillogismo, quando se ne neghi la concludenza. Si può allora invocare la definizione di sillogismo per rispondere all’obiezione. A questo punto Aristotele procede per analogia: così come in un sillogismo non assumiamo la definizione di sillogismo, non dobbiamo neanche assumere la definizione di definizione. Questa semmai potrà essere richiamata allorché qualcuno impugni che la definizione proposta sia una vera definizione. Ma non si vede bene né il parallelismo né il senso generale del ragionamento. È difficile credere che Aristotele prendesse molto sul serio simili argomentazioni (una diversa e più caritatevole interpretazione in Charles [2000]: 187-189). 92a20-27: Aristotele presenta un altro argomento procedente da una presupposizione e volto a provare una definizione. Sia per il contenuto sia per la forma logica questo argomento è ispirato a Speusippo (cfr. Ross, pp. 623-624; Cherniss [1944]: 36-38; Tarán, pp. 443-444. Un argomento simile è discusso in Top. VI 9, 147a29-b25 e VII 3, 153a26-b24.). La sua struttura è la seguente. Siano date le seguenti premesse: (1) (2) (3) (4)

Il definiens di «cattivo» è «divisibile» Il contrario di «cattivo» è «buono» Il contrario di «divisibile» è «indivisibile» Se il definiens di A è X e il contrario di A è B, allora il definiens di B è il contrario di X.

Da esse segue: (5) il definiens di «buono » è «indivisibile ». Anche qui il problema non è quello della correttezza formale dell’argomentazione, ma del suo valore epistemico. Aristotele daccapo ritiene che vi sia una petizione di principio e che venga presupposto ciò che bisogna dimostrare. Perché questo debba avvenire è lungi dall’essere chiaro. In modo molto stringato Ari-

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stotele presenta un’obiezione all’affermazione per cui l’argomentazione (1)-(5) conterrebbe una petizione di principio: è vero, dice l’obiettore, che nell’argomento è presupposta una definizione, ma non quella della cosa cercata, ossia la definizione di buono, bensì un’altra, ossia quella di cattivo. Aristotele ammette che le definizioni siano diverse, ma egli sembra ribattere che esse non sono cosí diverse da giustificare una derivazione epistemicamente sicura. Nella sua risposta all’obiezione egli sembra fare forza sul fatto che nelle premesse dell’argomento abbiamo a che fare con identità e che questo fatto precluda la possibilità di evitare la petizione di principio. Egli sostiene forse che in una dimostrazione in cui siano coinvolti un estremo maggiore A, un termine medio B ed un estremo minore C e che abbia per conclusione AaC, i termini A e B sono sì tali che A si predica di B, ma non possono essere lo stesso termine né avere la stessa definizione, né essere equiestesi. Queste condizioni non sono rispettate nelle premesse (1)-(3) che sono tutte asserzioni d’identità. Ma ammesso e non concesso che tutto ciò sia plausibile, non si vede ancora dove stia la petizione di principio. È possibile che l’idea di Aristotele sia che la conoscenza del fatto che buono è contrario di cattivo si realizzi solo a patto di conoscere che la definizione di buono è contraria a quella di cattivo. Quindi per poter affermare (2) bisogna già conoscere (5). Ma anche questo punto non è perspicuo. 92a27-33: Aristotele accomuna la situazione, analizzata nel capitolo precedente, di chi ritiene di provare per divisione una definizione e quella di chi usa un argomento fondato su una presupposizione. Tutto lascia credere che egli faccia riferimento alla deduzione (1)-(5) della n. precedente. Ad essere generosi, dice Aristotele, si può trovare nella divisione una giustificazione del fatto che il definiendum sia caratterizzato da una serie di determinazioni, per esempio nel caso dell’uomo essere mortale, terrestre, bipede. Ma il fatto di stabilire che l’uomo è mortale, è terrestre, è bipede, non costituisce ancora la definizione di uomo. Abbiamo una definizione quando possiamo dire che l’uomo è un mortale terrestre bipede, dove «mortale, terrestre e bipede» formano un’unità che costituisce il predicato definitorio di uomo. Senza tale unità non abbiamo propriamente una definizione. Che questa obiezione aristotelica valga per il metodo della divisione è comprensibile. Molto meno chiaro è come si possa applicare ad un argomento come quello di (1)-(5). Anche se supponiamo che Aristotele si riferisca all’altra argomentazione discussa a 92a6 sgg. (cfr. [1]-[3] della n. a 92a6-10) le cose non cambiano. Tutt’al più si tratterà di riformulare in modo più preciso la struttura degli insiemi D e G, tenendo conto del fatto che devono formare un’unità. Bibliografia: Charles [2000]: 186-196.

CAPITOLO 7 92a34-b3: Aristotele produce una serie di argomentazioni volte a provare che la definizione, lungi dall’essere una dimostrazione, non è nemmeno in grado di «mostrare» che cosa una cosa sia. Egli naturalmente gioca sul significato di deiknÊnai, che significa ad un tempo «provare» e appunto anche «mostrare». In

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questo senso è un deiknÊnai non solo una argomentazione deduttiva dimostrativa, ma anche un’induzione. Si tratta dunque di un senso ampio e generico di «provare», che potremmo per comodità battezzare come «giustificare». Il primo argomento volto a provare che la definizione non fornisce una giustificazione dell’essenza di una cosa (ossia una giustificazione dell’attribuzione di un definiens ad un definiendum) è il seguente. Ogni giustificazione secondo Aristotele avviene o per dimostrazione nella quale si deduce un conseguente da un antecedente (si noti come 92a35-36 richiami la definizione di sillogismo di APr. I 1, 24b18 sgg.) o per induzione. Aristotele non è nuovo a questa tesi, che però talvolta è espressa in termini di trasferimento di conoscenza (ogni insegnamento è per induzione o per sillogismo: EN VI 3, 1139b26-28) o di acquisizione di certezza (acquisiamo una persuasione o con l’una o con l’altra: APr. II 23, 68b13-14). Ma una definizione non è una dimostrazione per tutte le ragioni esposte nei capitoli precedenti; né è un’induzione perché questa dà una giustificazione di un nesso predicativo (˜ti μ ¶stin μ oÈk ¶stin: 92b1) che non dice che cosa sia qualcosa. Aristotele ha già usato un argomento simile sopra a II 3, 90b38-91a36 per separare la definizione dalla dimostrazione. Qui come lì non è ben chiaro su che cosa egli basi la differenza (cfr. n. a 90b28-91a6 per una discussione della questione). Infine, aggiunge Aristotele, la definizione non è sicuramente giustificata percettivamente o ostensivamente (ma su ciò si veda anche Metaph. E 1, 1025b7 sgg.). 92b4-18: Nella prima parte del passo (92b4-11) Aristotele presenta un altro argomento, molto più complesso del precedente, a favore della tesi secondo cui la definizione non fornisce una giustificazione dell’essenza. L’argomento può essere ricostruito come segue. Si pongano le seguenti premesse: (0) Se Y è il definiens di X, allora Y rappresenta il che cos’è di X; (1) Se a sa che Y è il che cos’è di X, allora a sa che X esiste; (2) Il fatto che Y è il che cos’è di X e il fatto che X esiste sono due cose diverse; (3) La definizione rende manifesta una sola cosa. A queste premesse è fatta seguire come conclusione: (4) La definizione non fa sapere che Y è il definiens di X. La premessa (0) è sottintesa ed è necessaria per raccordare il discorso sul che cos’è della prima parte del passo con quello sulla definizione che compare nella seconda parte. (1) è quanto Aristotele dice in 92b4-5. Le righe 92b5-8 costituiscono un argomento a favore di (1) basato sull’idea che se X è un mØ ˆn, ossia un non esistente, come è il caso dell’ircocervo, non ha un che cos’è, da cui segue che, se X non esiste, non è possibile conoscere il che cos’è di X. Di entità come l’ircocervo è possibile soltanto esplicitare il significato del nome (in effetti «ircocervo» significa qualcosa: Int. 1, 16a16-17), ma non dare una definizione che dica che cosa l’ircocervo sia, in quanto di ciò che non esiste non si dà un’essenza. Non è chiaro come da queste asserzioni segua (1). Sembrerebbe che Aristotele dovesse assumere qualcosa come: (5) se non si dà che a sappia che X esiste, allora X non esiste.

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In effetti da questa assunzione e dalle precedenti segue la contrapposta di (1), e precisamente: (6) se non si dà che a sappia che X esiste, allora non si dà che a sappia che Y è il che cos’è di X. Ma l’assunzione (5) sembra altamente implausibile. Comunque sia, la premessa (2) è fondata su 92b10-11 e la (3) è un’interpretazione di quanto si dice a 92b9-10 (˜ te går ırismÚw ßn ti dhlo›). Il senso generale dell’argomento potrebbe essere allora che la definizione, facendo conoscere che Y è il definiens di X, dovrebbe far conoscere, in virtù di (0), che Y è il che cos’è di X. Quindi dovrebbe far conoscere anche che X esiste, per (1). Ma poiché vale (2), quest’ulteriore conseguenza è inconciliabile con (3). Dunque dobbiamo ammettere (4). È facile vedere che in realtà (4) non segue da (0)(3). In effetti nulla impone di pensare che siccome la conoscenza che Y è il che cos’è di X implica la conoscenza dell’esistenza di X, la definizione debba far conoscere insieme le due cose. (1) implica soltanto che la conoscenza dell’esistenza di X è prerequisita a quella della sua definizione. Quindi non è escluso che prima si abbia in qualche altro modo la conoscenza dell’esistenza e poi la definizione (cfr. II 2, 89b37 sgg.). A 92b12-18 viene offerta un’argomentazione di rincalzo al ragionamento esposto nelle righe precedenti, volta a mostrare che la definizione non fa conoscere l’esistenza del definiendum. Aristotele asserisce preliminarmente che la dimostrazione ha per oggetto tutti i predicati di X che non siano parte della sua sostanza (oÈsiÄa: 92b13), ossia parte del suo che cos’è e, quindi, del suo definiens (cfr. la premessa (0)). Ora, continua Aristotele, l’esistenza non è parte della sostanza (e quindi del definiens di X) perché l’essere non è un genere (cfr. Metaph. B 3, 998b22-27). Dunque che X esista è oggetto di dimostrazione. Come ha notato Barnes, p. 215, per trarre questa conseguenza Aristotele avrebbe dovuto anche mostrare che l’esistenza non può costituire una differenza in un definiens, cosa che egli asserisce per altro altrove, quando osserva che «esiste» si predica di tutto ciò che esiste (ed è definibile) e quindi non può avere la funzione di differenza (cfr. Top. IV 1, 121a18; Metaph. Z 16, 1040b16-24). La conclusione è corroborata dal riferimento alla pratica delle scienze. Esse assumono le definizioni e provano l’esistenza, come avviene nel caso del triangolo. Ma allora se la dimostrazione prova l’esistenza e la dimostrazione è diversa dalla definizione, la definizione ha il compito di far conoscere che cos’è X senza per altro fornire la conoscenza dell’esistenza di X. Il che, secondo Aristotele, è impossibile per (1). È evidente che qui si parla di «esistenza» in senso ampio, ossia in quel senso per cui un predicato è detto esistere se appartiene con verità ad un soggetto esistente, come appunto è il caso del triangolo. 92b19-25: Viene presentata un’argomentazione che solo apparentemente si allinea a quella precedente. In effetti Aristotele comincia con l’affermare (92b19-20) che chi definisce non prova l’esistenza del definiendum. A prova di ciò egli cita la definizione di cerchio inteso come quella figura i cui punti del perimetro sono equidistanti dal centro (Rh. III 6, 1407b27; Euclide I, def. 15). Ci aspetteremmo che egli concludesse asserendo che da una tale definizione non segue che cono-

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sciamo l’esistenza del cerchio. Egli dice invece che, anche ammesso che esista ciò di cui si dà una tale definizione, siamo autorizzati a domandare perché un tale definiendum esista (diå t¤ ¶sti tÚ ırisy°n: 92b21). Affinché i conti tornino, dobbiamo qui supporre che quel «mostrare» che è il risultato della definizione, o quel «far conoscere» di cui si è parlato nelle note precedenti, sia preso qui in un senso piuttosto forte: la definizione «mostra» o «fa conoscere» X se e solo se dà una ragione di X. In questo senso la definizione non prova, o mostra, o fa conoscere l’esistenza del definiendum perché non dà una ragione di tale esistenza, tant’è vero che, data una definizione di un esistente, siamo autorizzati a domandarci perché esso esista. Nella seconda parte del passo (92b21-25) quest’idea viene estesa all’intera definizione: la definizione non mostra, o prova, o fa conoscere nemmeno l’appartenenza del definiens al suo definiendum giacché non è in grado di spiegare perché quel definiens è il definiens di quel definiendum, per esempio, perché la definizione del cerchio è definizione del cerchio e non del rame di montagna (Ùreixãlkou: 92b22; un rame nativo particolarmente giallo, citato anche da Hes., Scutum 122 e Pl., Criti. 114E5). La conclusione sembra essere che le definizioni non mostrano nulla. Si noti che a 92b23-24 Aristotele dice che le definizioni non «manifestano che ciò che è descritto da esse è possibile» e questa è un’idea del tutto nuova che non era mai comparsa prima, ancorché sia del tutto legittima, accordandosi con la posizione di coloro i quali sostengono che la definizione esprime un’essenza possibile. Ma questa è una deviazione rispetto alla tesi standard di Aristotele, in base alla quale ciò che non esiste (anche se possibile) non ha un’essenza. 92b26-34: L’argomentazione è in parallelo con la precedente e volta anch’essa a mostrare che la definizione non «mostra» nulla. In effetti Aristotele sostiene che la definizione rivela o l’essenza del definito oppure il significato di un nome. Dall’argomento precedente risulta che non può mostrare l’essenza. Dunque deve mostrare che cosa significa un nome. Ma ciò secondo Aristotele è impossibile. Egli propone tre motivi per rifiutare questa conclusione. Il primo è il seguente (92b2830): se ciò che una definizione dice fosse ciò che è significato da un nome, allora potremmo avere definizioni anche delle cose che non sono e delle «non sostanze» (mØ oÈsi«n: 92b29). Quest’ultima espressione potrebbe fare riferimento più che agli accidenti, i quali sono in qualche modo definibili, ad entità formate da una sostanza più un accidente del tipo dell’uomo bianco, delle quali per Aristotele non si dà definizione (Metaph. Z 4, 1030a2 sgg.); oppure, forse più plausibilmente, può essere semplicemente un altro modo di riferirsi alle cose non esistenti. La ragione per cui i non esistenti sarebbero definibili è perché possono essere significati da un nome (cfr. Int. 1, 16a16-17). Ma Aristotele non spiega perché egli consideri assurda la possibilità di definire ciò che non è, quando la definizione sia per ipotesi ridotta all’operazione di determinare il significato di un nome. Il secondo argomento (92b30-32) è che, se la definizione mostrasse il significato di un nome, qualunque espressione verbale più complessa di un nome potrebbe venir considerata come la definizione corrispondente ad un nome imposto arbitrariamente. Non mi è ben chiaro in che cosa consista la forza della prova, che troviamo ripetuta con lo stesso esempio dell’Iliade in Metaph. Z 4, 1030a7 sgg. Una possibile interpretazione è che se la definizione esplicita il significato di

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un nome, allora siccome possiamo imporre un nome a qualunque entità per quanto complessa, possiamo considerare l’entità stessa a cui attribuiamo il nome il significato di quel nome. Così per esempio possiamo prendere come significato di «Iliade» l’intero poema. Dare definizioni in questo senso si riduce a dare nomi agli oggetti dell’universo. Anche qui non è perspicuo perché Aristotele condanni questo modo di vedere le cose se non facendo riferimento ad una nozione preconcetta di definizione come un tipo di conoscenza che induce informazioni sulla realtà. La terza ragione esposta da Aristotele è contenuta in 92b32-34 ed è lungi dall’essere evidente. Sicuramente una premessa dell’argomento è che (i) «le dimostrazioni non hanno come conclusioni proposizioni del tipo di «X significa Y». Di qui è tratta la conclusione che (ii) «le definizioni non hanno questa forma». Siccome (ii) non segue da (i) bisogna sottintendere una nuova premessa. Zabarella (1104F1105) pensa che essa sia: (iii) «le definizioni costituiscono le premesse delle dimostrazioni e le conclusioni dimostrative dipendono per la loro forma dalle rispettive premesse». Un’altra possibilità, in sé più plausibile, è suggerita da Barnes, p. 217. La premessa da aggiungere sarebbe: (iv) «le definizioni costituiscono le conclusioni di dimostrazioni». Da (i) e (iv) la proposizione (ii) segue immediatamente. È appena il caso di sottolineare che gli argomenti qui proposti sono dialettici e che, quindi, non si può senz’altro inferire che le loro conclusioni rappresentino il punto di vista di Aristotele. Così per esempio sarebbe imprudente attribuirgli la tesi che di ciò che non esiste non si possano dare definizioni nominali, come l’argomento di 92b28-30 sembra implicare (con buona pace di Bolton [1976]: 521 e 527-528 e Demoss - Devereux [1988]: 140-141). Bibliografia: Charles [2000]: 58-69.

CAPITOLO 8 93a1-14: Aristotele inizia qui la trattazione scientifica del problema della definizione. Il passo è disperatamente oscuro e possiamo soltanto proporre alcune congetture. L’attacco (93a3-4) è costituito da una ripresa dell’identificazione fra sapere che cos’è X e sapere la ragione del suo esistere (II 2, 90a14-32). Come abbiamo già visto, questa identificazione sembra dipendere dal fatto che il problema «esiste X?» trova una risposta quando si stabilisca o che gli Y sono X, dove «Y» denota una classe di cose esistenti, o anche quando si stabilisca che gli X sono Y. Parallelamente domandarsi «perché X esiste?» si traduce nel problema «perché gli Y sono X?» e secondo Aristotele a questa domanda si risponde stabilendo la ragione dell’appartenenza di X agli Y. Ma conoscere tale ragione significa per Aristotele sapere che cos’è X. Questa analisi resta nello sfondo. Le righe 93a5-6 (lÒgow d¢ toÊtou, ˜ti ¶sti ti tÚ a‡tion, ka‹ toËto μ tÚ aÈtÚ μ êllo, kín ¬ êllo, μ épodeiktÚn μ énapÒdeikton) sono particolarmente difficili. Esse vengono normalmente lette come una giustificazione dell’identificazione, subito prima asserita, fra il che cos’è e la ragione del che è, e in questa luce, naturalmente, non sembrano avere alcun senso. Barnes, p. 217, modificando la pun-

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teggiatura, traduce: «the account of the fact that something is is the explanation», ma è dubbio che possa essere questo il senso del greco. Piuttosto, restando alla costruzione tradizionale, è forse meglio pensare che lÒgow d¢ toÊtou esprima non la ragione dell’identificazione fra sapere che cos’è X e sapere la ragione per cui X è, ma il motivo, nella strategia espositiva di Aristotele, per cui tale identificazione è richiamata qui. Il senso generale del passo allora potrebbe essere il seguente: abbiamo già provato che sapere che cos’è X si identifica con sapere la ragione dell’esistenza di X. Il motivo per cui abbiamo richiamato questa tesi è che la ragione dell’esistenza di X può essere X stesso o può essere diversa da X e, qualora sia diversa, può essere dimostrabile. Ma la ragione dell’esistenza di X è la sua definizione; dunque esistono casi in cui è possibile costruire una dimostrazione in relazione alla definizione di X. I dettagli dell’argomento vanno ulteriormente approfonditi. La distinzione cui Aristotele allude con l’espressione ka‹ toËto μ tÚ aÈtÚ μ êllo non è del tutto chiara. Il pronome dimostrativo si riferisce sicuramente alla ragione dell’esistenza di qualcosa. È possibile allora che Aristotele voglia dire che in alcuni casi la ragione dell’esistenza di X coincide con X stesso e in altri ne è distinta. Supponiamo allora il caso che esista un W diverso da X che dica la ragione per cui X esiste, ovvero perché gli Y sono X. Tale ragione, aggiunge Aristotele, può essere indimostrabile o dimostrabile. Presumo che con quest’ultima distinzione Aristotele voglia contrapporre due casi: quello in cui la deduzione dell’attribuzione di X a Y a partire da quella di X a W e di W a Y non si configura come una dimostrazione e quello in cui la deduzione è invece una dimostrazione che rispetta i requisiti della scienza (in questa prospettiva la ragione è o non è «dimostrabile» nel senso che i nessi predicativi con gli estremi a cui dà luogo costituiscono o non costituiscono una dimostrazione [cfr. Ross, p. 622; diversamente Goldin [1996]: 110-111]). Se si verifica che la ragione dell’esistenza di X sia diversa da X e che dia luogo ad una dimostrazione – aggiunge Aristotele – la dimostrazione che si ottiene sarà in Barbara, dato che la conclusione è universale e affermativa. Nella parte finale del passo (93a9-13) Aristotele richiama un modo di costruire la prova del perché X esiste che è stato già criticato in precedenza (II 4, 91a14-b11). Esso consiste nel supporre che X abbia due definizioni, W1 e W2, tali che l’attribuzione di W1 a X implichi l’esistenza di X e che W2 sia diversa da X. Avremo allora (1) W1aW2, W2aX  W1aX Riprendendo i termini concreti usati nel seguito (ad es. 93b7-12) un’esemplificazione di (1) potrebbe essere (2) Rumore nelle nuvole conviene allo spegnimento del fuoco nelle nuvole Spegnimento del fuoco nelle nuvole conviene al tuono Rumore nelle nuvole conviene al tuono Ma una simile derivazione, secondo Aristotele, ha la forma dell’argomento presentato in APo. II 4, 91a14-32 e lì come qui questo approccio viene rifiutato con l’accusa che (1) è un sillogismo logikÒw, che in questo contesto non credo debba essere reso con «generale», come avveniva ad esempio a I 22, 82b35, ma

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con «dialettico» (Bonitz, Index, 432b5 sgg.). A II 4, 91a26-32 Aristotele rimproverava a questo modo di argomentare non la mancanza di correttezza formale, ma il fatto di commettere una petizione di principio. Se (1) va interpretato nel senso di (2), è forse possibile comprendere la ragione del suo rigetto da parte di Aristotele. In effetti potremmo prendere «rumore nelle nuvole» come la definizione del tuono che, tanto per intenderci, potremmo chiamare «primaria», ossia quella definizione che è prerequisita alla possibilità di introdurre «tuono» fra i termini della scienza (cfr. APo. I 10, 76b6 sgg.). Se così è, che il tuono sia un rumore nelle nuvole è una conoscenza presupposta alla possibilità di costruire un’inferenza come (2) e, in questo senso, la proposizione che esprime ciò non può comparire come conclusione di una dimostrazione (cfr. Landor [1981]). 93a15-b14: Aristotele riprende da principio l’esame del problema del rapporto definizione/dimostrazione. Non tutti i dettagli sono chiari e il legame fra i vari passaggi dell’argomento è lungi dall’essere ovvio. Una prima sezione è costituita da 93a16-20, dove Aristotele richiama una tesi già esposta prima, precisandola. La conoscenza del perché Y è X presuppone la conoscenza del fatto che Y è X, nel senso che le due conoscenze possono essere date insieme, ma la prima non può precedere la seconda. Analogamente non si può sapere che cos’è X senza sapere anche che X esiste, ancorché sia possibile sapere insieme che X è (esiste) e che cos’è X. Questa sembra essere una risposta all’obiezione di II 7, 92b4 sgg.: ora infatti Aristotele riconosce la possibilità, prima dialetticamente negata, di rispondere insieme alle domande sull’esistenza e sulla definizione di qualcosa. La seconda parte di questa sezione (93a21-29) è più problematica ed è basata sulla distinzione fra due modi di conoscere l’esistenza di qualcosa. Può succedere, dice Aristotele, di sapere accidentalmente che X è (tÚ d'efi ¶stin ıt¢ m¢n katå sumbebhkÚw ¶xomen: 93a21) e possiamo invece sapere propriamente che X è, «possedendo qualcosa dell’oggetto stesso», ossia se conosciamo qualche elemento della sua essenza (ıt¢ d'¶xont°w ti aÈtoË toË prãgmatow: 93a21-22 = ¶xom°n ti toË t¤ §stin, «possediamo qualcosa del che cos’è»: a29). Sull’interpretazione di questa distinzione si è discusso molto (un excursus in Ackrill [1981]: 370-373). Una possibilità è quella di intendere che la conoscenza accidentale del fatto che X esiste consista nel conoscere l’esistenza di X considerato sotto una sua descrizione accidentale. Un esempio (che Aristotele non fa) potrebbe essere quello di asserire l’esistenza del cavallo come esistenza di una cosa dal mantello macchiato. Anche se ho visto o percepito una cosa dal mantello macchiato davanti a me e l’ho identificata come un cavallo e posso quindi dedurre correttamente che almeno un cavallo esiste, non per questo ho una dimostrazione dell’esistenza dei cavalli, dato che è accidentale per il cavallo essere una cosa dal mantello macchiato, talché l’argomentazione non vale in generale per qualunque cavallo. Assumendo che il cavallo sia la cosa dal mantello macchiato non identifico una caratteristica essenziale del cavallo, e non posso dunque concludere di sapere che i cavalli esistono. Di contro possiamo avere una conoscenza appropriata dell’esistenza di X quando essa derivi dall’assumere X sotto una descrizione che ne dia almeno una caratteristica essenziale, che faccia parte della sua definizione e tale per cui dall’avere quella caratteristica segue necessariamente che X esiste. Aristotele fa alcuni esempi, che riguardano non solo accidenti, ma anche sostanze

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(93a22-24). Conosciamo in modo proprio che l’eclissi esiste se esiste un certo tipo di privazione della luce, ovvero se la luna subisce tale privazione; ancora, sappiamo propriamente che l’uomo esiste se esiste un certo tipo di animale, ossia, presumibilmente, se possiamo stabilire che l’uomo è un sottoinsieme degli animali. Infine possiamo stabilire che l’anima esiste se esiste qualcosa che muove se stesso (si noti la caratterizzazione platonica dell’anima: Phdr. 245C-246A; Lg. X 895E-986A [in II 4, 91a37-38 veniva invece ricordata la definizione di anima data da Senocrate]). In effetti se X muove se stesso, è vivente e dunque esiste. La conclusione è che quando abbiamo una conoscenza accidentale dell’esistenza di X non possiamo in alcun modo procedere a determinare che cos’è X o, equivalentemente, perché X esiste. Invece se «abbiamo qualcosa» (93a28) non solo è possibile completare la ricerca, ma essa risulta più facile (=òon: 93a28). Il quadro di riferimento alla base di queste osservazioni potrebbe essere il seguente. Per conoscere che X esiste si deve poter articolare in forma predicativa la questione. In altri termini «X esiste» deve potersi ridurre a «Y è X» (cfr. Metaph. Z 17, 1041b2 sgg.). Ora viene da pensare che il poter descrivere X in termini appropriati, ossia in modo tale da far riferimento ad una caratteristica essenziale di X, consenta proprio di sviluppare l’articolazione predicativa della domanda «X esiste?», senza la quale non è possibile rispondere ad essa mediante un sillogismo. Se so che il tuono è un certo rumore nelle nuvole, stabilire se il tuono esista equivale a stabilire se quel certo rumore si produca nelle nuvole e, analogamente, determinare se esista l’eclissi (di luna) equivale a decidere se la luna subisca o no una sparizione di luce. La definizione primaria di questi fenomeni che includa «qualcosa dell’oggetto stesso» (93a21-22) consente in questo modo di ottenere una conoscenza non accidentale della loro esistenza. In effetti che il tuono, ad esempio, sia un certo rumore nelle nuvole è qualcosa che attiene alla natura del tuono, talché non può verificarsi che si dia un tuono senza rumore nelle nuvole. In questo senso stabilire che nelle nuvole si produce un certo rumore è qualcosa che spiega in modo appropriato l’esistenza del tuono in generale. D’altra parte, poiché la definizione primaria appropriata per la determinazione dell’esistenza di X coglie qualcosa di X, ossia una o più caratteristiche dell’essenza di X, l’aver stabilito che X esiste in questo modo rende più facile la conoscenza di che cosa X sia. In effetti non solo abbiamo già a disposizione un pezzo della definizione completa di X (privazione di luce nella luna o rumore nelle nubi), ma abbiamo anche un’indicazione della direzione in cui dobbiamo muoverci per ottenere la definizione completa. In effetti se stabilire che «X esiste» si riduce a stabilire che Y è X, determinare in modo completo che cos’è X equivarrà a stabilire perché Y è X. Restando al solito esempio del tuono, stabilire l’esistenza del tuono comporta rispondere affermativamente alla questione «si produce rumore nelle nuvole?». Domandarsi che cos’è il tuono allora significa domandarsi perché si produca rumore nelle nuvole. In questo senso abbiamo un’indicazione su come deve procedere la ricerca della definizione di tuono affinché sia completata. La seconda sezione dell’argomentazione consiste nell’esplorazione delle varie possibilità di esprimere una definizione di X all’interno di una dimostrazione quando sappiamo che X esiste «avendo qualcosa della cosa stessa» (93a29-b14). Aristotele comincia (93a29-36) con il proporre il seguente sillogismo

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(1) Eclissi (A) conviene all’interposizione della terra tra il sole e la luna (B) Interposizione della terra tra il sole e la luna (B) conviene alla luna (C) Eclissi (A) conviene alla luna (C) In questo caso, dice Aristotele, sappiamo insieme che la luna subisce l’eclissi e perché la subisce. In effetti quando sappiamo che l’interposizione ha luogo, sappiamo insieme che esiste l’eclissi e che cos’è l’eclissi. Ciò avviene perché questa dimostrazione, come del resto quelle consimili, si sviluppa attraverso adeguati termini medi (diå m°svn: 93a36; la correzione di'ém°svn proposta da Ross non è convincente [cfr. Hagdopoulos (1977]: 32-39]). La (1) è messa in contrasto (93a36-b3) con la seguente inferenza: (2) Eclissi (A) conviene al non far ombra durante il plenilunio senza che siano visibili corpi interposti fra noi e la luna (B) Non far ombra durante il plenilunio senza che siano visibili corpi interposti fra noi e la luna (B) conviene alla luna (C) Eclissi (A) conviene alla luna (C) Secondo Aristotele grazie a (2) sappiamo che la luna subisce l’eclissi, e quindi sappiamo che esiste l’eclissi, ma non sappiamo ancora perché esiste, ovvero che cos’è l’eclissi. Alcuni autori (ad es. Bolton [1976]: 535-536; Bolton [1987]: 135136; Demoss-Devereux [1988]: 143) ritengono che «non far ombra durante il plenilunio…», il medio del sillogismo (2), costituisca una definizione nominale di «eclissi», alla stessa stregua di «privazione di luce». Ma quest’interpretazione non è né richiesta dal testo né suggerita dal buon senso. Chi definirebbe l’eclissi come quel fenomeno per il quale la luna non fa ombra durante il plenilunio con quel che segue? Il non far ombra durante il plenilunio sembra essere una conseguenza della sparizione di luce dalla luna in seguito all’eclissi. Inoltre è difficile pensare che in tÚ zhte›n tÚ B t¤ §sti (93b4-5) tÚ B si riferisca al medio di (2) «non far ombra durante il plenilunio…». Per costruire il sillogismo che spieghi perché esiste l’eclissi bisogna cercare non che cos’è il non far ombra durante il plenilunio, ma un medio che esprima la ragione del verificarsi della sparizione di luce dalla luna, e che quindi rappresenti (l’aspetto esplicativo di) che cos’è il fenomeno dell’eclissi. Si vedano le analoghe espressioni di APo. II 2, 90a1 o 90a6: cercare il perché o il che cos’è equivale a cercare tiÄ (§sti) tÚ m°son, «qual è il medio» (per la traduzione di tÚ zhte›n tÚ B tiÄ §sti a 93b4-5 con «cercare qual è B» v. n. a 89b3690a23). Del resto il termine medio di (2), «non far ombra durante il plenilunio…» non fa parte della definizione completa di eclissi (APo. II 2, 90a15-16) e quindi non dà conto del tiÄ §sti di questo fenomeno né di una sua parte, ancorché sia una condizione almeno sufficiente dell’eclissi stessa. È anche per questo che (2) dà una conoscenza dell’eclissi che va qualificata come una conoscenza del che, di contro alla conoscenza del perché che si realizza attraverso (1) (93a36-37). Aristotele continua (93b3-14) commentando (1) e arricchendo il suo discorso di altri esempi. Il sillogismo (1) è una dimostrazione del perché, in quanto «interposizione della terra» rappresenta il perché dell’eclissi, o meglio, della sparizione di luce dalla luna e in questo senso costituisce la formula definitoria del fenomeno (lÒgow: 93b6). In generale nei sillogismi del tipo (1) il medio è sempre la formula

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definitoria dell’estremo maggiore. Lo stesso in effetti si dice del tuono in 93b12: «spegnimento del fuoco» è formula definitoria (lÒgow) del fenomeno del tuono, ossia del rumore nelle nuvole. Si potrebbe essere tentati di negare che «interposizione della terra» sia considerata da Aristotele come una definizione di «eclissi», facendo leva, da un lato, sul fatto che «lÒgow» non necessariamente significa «definizione» e, dall’altro, sulla constatazione che il corrispondente di «interposizione della terra» nel caso del tuono, ossia «spegnimento del fuoco», non è menzionato fra le possibili definizioni di tuono in APo. II 10, 93b38 sgg. Lì in effetti alla definizione completa del fenomeno «rumore nelle nuvole per lo spegnimento del fuoco» (che nel caso dell’eclissi ha come controparte «privazione di luce per l’interposizione della terra»: APo. II 2, 90a15-16) viene contrapposta solo la definizione primaria, costituita da «rumore nelle nuvole» (corrispondentemente «privazione di luce»). Ma a 93b7-8 Aristotele dice esplicitamente che «spegnimento del fuoco nelle nubi» costituisce la risposta appropriata alla domanda «che cos’è il tuono?» (si veda anche l’analoga espressione lÒgow toË pr≈tou êkrou, «formula definitoria del primo estremo», di II 17, 99a21-22, come anche il lÒgow toË êkrou di II 17, 99a3-4). Evidentemente qui Aristotele forza un po’ le cose. Tanto «sparizione di luce» e «rumore nelle nuvole» quanto «interposizione della terra» e «spegnimento del fuoco» sono parti delle definizioni complete dei fenomeni dell’eclissi lunare e del tuono e tanto le une quanto le altre sono da sole chiamate definizioni dell’eclissi e del tuono. Tuttavia nella ricapitolazione delle definizioni di APo. II 10, «sparizione di luce» e «rumore nelle nuvole» sembrano essere privilegiate rispetto alle altre due definizioni, nel senso che esse soltanto sono menzionate come definizioni diverse da quelle complete. Forse questa posizione di privilegio dipende dal ruolo che esse hanno nelle dimostrazioni, in quanto rappresentano le indispensabili descrizioni identificative dei fenomeni che sono prerequisite ad una trattazione scientifica dei fenomeni stessi, dovendo essere presupposte alla costruzione sia di dimostrazioni del che sia di dimostrazioni del perché. Le definizioni esplicative invece, «interposizione della terra» e «spegnimento del fuoco», sono richieste solo per la costruzione delle dimostrazioni del perché. Un altro aspetto che non è completamente chiaro è come tutto questo discorso si connetta a quanto Aristotele aveva premesso nel passo precedente, quando aveva solennemente annunciato che il coinvolgimento di una definizione nella dimostrazione ha come condizione il fatto che il definiendum sia conosciuto «avendo qualcosa della cosa stessa» (93a22). Il «qualcosa della cosa stessa» è da Aristotele identificato con «privazione di luce» (93a23), ma questo termine non compare assolutamente in (1) e in (2). Una risposta congetturale a questo problema può venire dal considerare l’altro esempio che Aristotele produce, quello del tuono (93b7-12). Il sillogismo è il seguente (3) Tuono (A) conviene allo spegnimento del fuoco (B) Spegnimento di fuoco (B) conviene alle nubi (C) Tuono (A) conviene alle nubi (C) L’inferenza (3) corre parallelamente alla (1). Essa dà una conoscenza del perché del tuono e il suo termine medio esprime la parte esplicativa del fenomeno, il suo lÒgow (93b12) lasciando da parte un pezzo della definizione, ossia «rumo-

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re nelle nuvole» (cfr. II 10, 94a5). Tuttavia è interessante notare che a 93b9, l’estremo maggiore è indicato come «tuono» (brontÆ) e a 93b11-12 come «rumore» (cÒfow). Ciò fa pensare che Aristotele consideri i due termini sinonimi e quest’idea è in linea con il discorso sulla conoscenza «avendo qualcosa dell’oggetto stesso». In altri termini, a monte della costruzione di sillogismi come (1), (2) e (3) sta l’assunzione che l’eclissi e il tuono siano già conosciuti rispettivamente come privazione di luce e rumore. Quindi un sillogismo come (1) può essere equivalentemente riformulato come (1*) Privazione di luce conviene all’interposizione della terra fra il sole e la luna Interposizione della terra fra il sole e la luna conviene alla luna Privazione di luce conviene alla luna Corrispondentemente possiamo sostituire a (3) (3*) Rumore conviene allo spegnimento del fuoco Spegnimento di fuoco conviene alle nubi Rumore conviene alle nubi Questo punto è rilevante per quello che segue. Infatti in APo. II 10, 94a1-9 Aristotele dice che la definizione di tuono, «rumore nelle nubi», è la conclusione del sillogismo che prova perché il tuono appartiene alle nubi e che un sillogismo come (3) differisce da una definizione solo per la disposizione dei termini. L’equivalenza cognitiva fra (3) e (3*) che abbiamo rilevato qui dà una spiegazione di questa altrimenti inspiegabile asserzione di Aristotele. Va altresì osservato che la stessa riformulazione di (1) tramite (1*) può avvenire anche nel caso di (2). Ciò mostra che il sillogismo (2), sebbene non dia la conoscenza del fatto che la luna subisce l’eclissi grazie alla conoscenza della causa adeguata del fenomeno, l’interposizione della terra appunto, non per questo fornisce una conoscenza accidentale di esso. L’esistenza dell’eclissi è conosciuta «avendo qualcosa dell’oggetto stesso» (93a22), nel senso che l’eclissi è comunque identificata come una certa sparizione di luce, che appunto garantisce una conoscenza non accidentale di essa. In conclusione qual è lo sviluppo dell’argomento di Aristotele? Egli sembra assumere preliminarmente che dobbiamo avere una descrizione appropriata del fenomeno (per esempio l’eclissi) di cui ci domandiamo l’esistenza. Sulla base di tale descrizione soltanto non possiamo concludere all’esistenza di ciò a cui tale descrizione si riferisce. Tuttavia essa consente di impostare in maniera corretta il problema dell’esistenza. Interrogarsi sull’esistenza dell’eclissi significa domandarsi se l’eclissi, ovvero la sparizione di luce, sia una caratteristica di qualcosa di esistente, la luna appunto, ossia domandarsi se la luna subisca eclissi, ovvero sparizione di luce. La risposta ad una simile domanda comporta l’identificazione di un termine medio, il quale, nei casi più favorevoli, giustificherà non solo l’esistenza del fenomeno (ossia l’appartenenza dell’eclissi o sparizione di luce alla luna), ma esprimerà anche il perché della sua esistenza, ossia perché la luna abbia l’eclissi. In questo caso il termine medio fornisce una parte rilevante della definizione del fenomeno, come appunto avviene per l’eclissi (sparizione di luce) e per il tuono (rumore).

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Oscuro è il senso dell’ultima osservazione di Aristotele (93b12-14) che riguarda il sillogismo (3) (o la sua variante (3*)). Egli sembra considerare la possibilità che «spegnimento del fuoco» non sia la spiegazione adeguata del fenomeno del tuono, ovvero del rumore nelle nuvole, e che la proposizione «tuono (rumore) appartiene allo spegnimento del fuoco» sia mediata, per cui bisogna ricorrere ad altre spiegazioni più appropriate del fenomeno che garantiscano davvero la conoscenza del suo perché. È evidente che Aristotele è consapevole del fatto che gli esempi addotti rappresentano una forte semplificazione di quel che in realtà avviene nelle ricerca sul campo. Si noti fra l’altro che in Mete. II 9, 369b11 sgg. la spiegazione del tuono qui addotta è criticata. 93b15-20: Aristotele tira le conclusioni della sua lunga argomentazione. Esse sono tre: (i) c’è un modo per rendere nota la definizione; (ii) non c’è dimostrazione e sillogismo della definizione; (iii) non è possibile conoscere la definizione senza la dimostrazione almeno in quei casi in cui «la ragione è altra» (o ¶stin a‡tion êllo: 93b19). Le prime due sono conclusioni attese, mentre non è immediatamente chiaro come (iii) risulti da quanto è stato detto in precedenza. Forse questa presa di posizione di Aristotele è legata alla sua tesi più volte ribadita secondo la quale non è possibile conoscere che cos’è X senza sapere insieme che X esiste. Se per avere una conoscenza scientifica adeguata del fatto che X esiste bisogna produrre una dimostrazione, non possiamo rispondere alla domanda «che cos’è X?» senza aver prima costruito tale dimostrazione. Ma una dimostrazione che dia una conoscenza adeguata dell’esistenza di X deve esprimere la ragione di tale esistenza. Come si è visto, una simile dimostrazione ha come termine medio la parte esplicativa del definiens di X e come conclusione quello che corrisponde alla restante parte del definiens di X. Dunque la definizione di X non può essere data se non in corrispondenza della dimostrazione adeguata dell’esistenza di X (alcune interessanti considerazioni di carattere più generale in Charles [2000]: 198-204). Bibliografia: Rutten [1964]; Wieland [1975]; Bolton [1976]; Granger [1976]: 235-239; Mansion [1976]: 183-196; Koterski [1980]; Ackrill [1981]; Brunschwig [1981]; Gomez-Lobo [1981]; Schröder [1984]; Guariglia [1985]; Landor [1985]; Dod [1986]; Bolton [1987]; Upton [1988]; Demoss-Devereux [1988]; Deslauriers [1990]; Bayer [1995]; Goldin [1996]: 101-136; Bayer [1997]; Upton [1999]; Charles [2000]: 23-56 e 198-204.

CAPITOLO 9 93b21-28: Aristotele passa dall’asserzione secondo cui vi sono cose che hanno una ragione del loro essere distinte da esse stesse ed altre cose in cui la ragione del loro essere è in esse stesse all’asserzione secondo cui la stessa distinzione si applica anche ai che cos’è. Partiamo dal considerare il caso relativamente più facile di quegli X «della cui sostanza c’è una ragione che è diversa da loro» (93b26: œn ¶sti ti ßteron a‡tion t∞w oÈsiÄaw che richiama il tÚ tiÄ §stin, o ¶stin a‡tion êllo di APo. II 8, 93b18-19). Il caso dell’eclissi o del tuono possono soccorrerci. Per il tuono abbiamo una definizione primaria, «rumore nelle nuvole» (APo. II 10,

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94a7-8), che costituisce una descrizione includente un elemento presente nel suo tiÄ §sti, in base alla quale identifichiamo il fenomeno in generale e i suoi casi particolari. Da un certo punto di vista possiamo considerare questa definizione di tuono come quell’oÈs¤a di cui si parla a 93b26. Ma, e questo è caratteristico dei fenomeni come il tuono e l’eclissi, il tuono ha una ragione della sua sostanza che è diversa dalla sua sostanza, nel senso che c’è una ragione diversa da «rumore nelle nuvole» che spiega perché tale rumore si produce nelle nuvole. Tale ragione, lo sappiamo bene, è «spegnimento del fuoco». In effetti «spegnimento del fuoco» è anch’esso parte del tiÄ §sti di tuono e concorre con «rumore nelle nuvole» a fornire la definizione completa e scientifica del fenomeno (APo. II 10, 94a5). Di contro ai casi come quello del tuono e dell’eclissi abbiamo anche casi in cui il che cos’è di X è immediato e principio (93b22: t«n t¤ §sti tå m¢n êmesa ka‹ érxa¤ efisin). Se procediamo per opposizione rispetto alla situazione precedente, dobbiamo dire che, allorché il che cos’è di X è immediato, non possiamo fare distinzione fra una descrizione primaria di X ed una definizione scientifica dello stesso che inglobi la ragione per cui X si verifica o ha luogo. In questo caso possiamo dare una sola definizione di X. In tal caso, ovviamente, non è possibile realizzare una dimostrazione dell’appartenenza della definizione al suo definito, perché ciò darebbe luogo ad un «sillogismo dialettico del che cos’è» (logikÚw sullogismÚw toË tiÄ §stin: APo. II 8, 93a15), dato che si verificherebbe una petizione di principio, essendo una sola la definizione di X (APo. II 8, 93a14-15). Barnes, p. 221, prende gli X il cui che cos’è è immediato come termini primitivi non ulteriormente analizzabili, ma ciò è difficilmente credibile, perché di essi Aristotele dice esplicitamente che sono definibili: dell’unità l’aritmetico presuppone che è e che cos’è. È solo là dove sia possibile distinguere da X la ragione della sua esistenza nel senso spiegato sopra che possiamo costruire una dimostrazione la cui conclusione esprime in forma predicativa il definiens della definizione primaria di X (APo. II 10, 94a1-9). Bibliografia: vedi cap. prec.

CAPITOLO 10 93b29-37: Il passo è stato oggetto di interpretazioni diverse che non è possibile discutere qui. Una linea interpretativa sostiene che il brano introduca un tipo particolare di definizione nominale (in generale la definizione della forma «il termine “X” significa Y») nel quale l’espressione definita denoti qualcosa di esistente. Il suggerimento a restringere le definizioni nominali alle espressioni denotanti esistenti potrebbe venire dal modo in cui la definizione in generale è caratterizzata a 93b29, ossia come «la formula [lÒgow] del che cos’è» (93b29), dove il «che cos’è» indica l’essenza di una cosa. In effetti sembra lecito inferire da ciò che una definizione nominale di un’entità non esistente, come ad esempio l’ircocervo, non può essere qualificata come una «formula del che cos’è», dato che un non esistente non ha un’essenza (APo. II 7, 92b5-8). Su questa base si dovrebbe allora pensare che Aristotele si riferisca qui alle definizioni nominali relative alle cose che sono, distinguen-

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dole implicitamente da quelle «formule» (possano esse essere qualificate o no come definizioni in senso ampio) che si applicano anche a ciò che non è (APo. II 7, 92b5-7), sulla base del fatto che un termine come «ircocervo», pur non denotando un ˆn, una cosa che è, pur tuttavia significa qualcosa (Int. 1, 16a16-17), che può essere espresso in una «formula» o definizione che sia. Contro quest’interpretazione sta però il fatto che in tale prospettiva la comprensione della consecuzione nelle prime quattro righe del passo comporta costi non indifferenti. Aristotele esordisce con una caratterizzazione generale della definizione come «formula del che cos’è» e in considerazione di ciò (§peidÆ: 93b29), asserisce che un tipo particolare di definizione è quello che costituisce la formula di un’espressione verbale. Se diamo alla definizione di definizione il senso forte di formula dell’essenza di una cosa, non è immediatamente chiaro perché una definizione nominale (ancorché di un esistente) possa essere qualificata come una definizione. Per poterlo asserire, si dovrebbe sostenere che ogni definizione nominale di un esistente esplicita in qualche modo l’essenza del definito e ciò suona alquanto implausibile. È allora preferibile percorrere un’altra strada e supporre che quella «formula del che cos’è» che caratterizza la definizione in generale vada presa in senso ampio: una definizione è ciò che costituisce la risposta pertinente alla domanda «che cos’è X?». Quando «X» stia per un esistente opportuno, la risposta pertinente sarà quella che consiste nell’esprimere l’essenza di X. Ma quando «X» stia per un’espressione verbale, ossia quando la domanda sia «che cos’è “X”?», la risposta pertinente sarà quella che fornisce il significato di «X» e che ne costituisce quindi la definizione nominale. In questa prospettiva l’argomento di Aristotele diviene chiaro e non c’è bisogno di supporre che egli restringa la definizione nominale a quella di espressioni denotanti esistenti. Ancorché non sia possibile esprimere che cos’è l’ircocervo, dato che questo non ha un’essenza, è lecito domandarsi che cos’è l’«ircocervo», dato che la risposta appropriata a questa domanda è quella che fornisce il significato di «ircocervo» (su tutto questo problema cfr. Charles [2000]: 26 sgg.). Per il significato di lÒgow ßterow Ùnomat≈dhw (93b30-31) cfr. Ross, p. 635, il quale suggerisce che si tratti della formula di espressioni complesse, tipo «linea retta», che equivalgono ad un nome. La seconda parte del passo (93b32-37) può essere presa come un invito a cautelarsi contro la tentazione di usare le definizioni nominali alla stregua di quelle definizioni dalle quali è possibile ottenere una conoscenza adeguata dell’esistenza del definiendum. Le definizioni nominali si applicano anche a ciò che non esiste (APo. II 7, 92b5-8). È solo quando sappiamo che X esiste che possiamo permetterci di porre la questione del perché della sua esistenza. E poiché conoscere la ragione dell’esistenza di X coincide con il conoscere che cos’è X (ossia appunto la sua essenza), la definizione dell’espressione che denota X non può di per sé garantire la possibilità di giungere alla conoscenza dell’esistenza di X. Solo allorquando la definizione dell’espressione che denota X costituisca una caratterizzazione di X tale che includa qualche elemento dell’essenza di X (cfr. sopra, II 8, 93a22: ¶xont°w ti aÈtoË toË prãgmatow), possiamo sperare di acquisire dalla sua conoscenza una conoscenza dell’esistenza di X sufficientemente stabile da poter fondare su di essa la domanda sul perché X esiste. Ma non tutte le definizioni nominali sono di questo tipo.

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Una difficoltà a parte è costituita da 93b32-33: (i) ˜per ¶xontew ˜ti ¶sti, (ii) zhtoËmen diå t¤ ¶stin: (iii) xalepÚn d'oÏtvw §st‹ labe›n ì mØ ‡smen ˜ti ¶stin (cfr. Ackrill [1981]: 374-376). Una possibile interpretazione consiste nel considerare la clausola (i) come aggiuntiva: se, oltre ad avere la definizione nominale di «triangolo», sappiamo anche che il triangolo esiste, allora è legittimo domandarsi perché è (ii). D’altro canto (iii), le cose che non sappiamo se esistono è difficile coglierle «in questo modo» oÏtvw, ossia conoscendo il perché della loro esistenza (così Charles [2000]: 34 n. 18). Se invece in (iii) oÏtvw non modifica labe›n, oÏtvw potrebbe fare riferimento al possesso della semplice definizione nominale: se abbiamo solo la definizione nominale di «triangolo» non possiamo da ciò concludere che il triangolo esiste e dunque diviene difficile rispondere alla domanda sul perché della sua esistenza. La parte finale del passo (93b35-37) sottolinea che qualunque definizione esibisce una certa unità. Tuttavia l’unità può essere di due tipi: una è quella che si manifesta nell’attribuzione non accidentale di qualcosa a qualcosa; l’altra è quella che ha luogo nell’ambito di un composto artificiale quale è ad esempio l’Iliade. Quest’ultima unità sembra poter aver luogo nella definizione nominale (cfr. II 7, 92b26-34, specialmente 32: «l’Iliade sarebbe una definizione»), mentre la prima appare caratteristica delle definizioni reali (Metaph. Z 4, 1030a7 sgg.). Non è ben chiaro a che cosa Aristotele alluda con la distinzione fra i due tipi di unità. Una possibilità è che egli si riferisca alla relazione fra tutto il definiens e il definiendum. Nel caso delle definizioni reali abbiamo a che fare con predicazioni non accidentali, dato che il definiens esprime l’essenza del definiendum. Invece nel caso delle definizioni nominali la relazione è fra un nome e il suo significato e tale relazione potrebbe essere accidentale, qualora l’espressione del significato non cogliesse proprietà essenziali di ciò che è denotato dal nome. Alternativamente si potrebbe pensare che la distinzione di unità riguardi le parti del definiens tra di loro. Nel caso delle definizioni reali tali parti, essendo parti dell’essenza, hanno fra loro una relazione non accidentale, anche nel senso che è una relazione naturale, determinata dalle cose stesse; invece nel caso delle definizioni nominali la relazione fra le parti potrebbe essere accidentale, se non altro nel senso che potrebbe essere artificiale. Se poniamo come definizione di «Iliade» la sequenza di versi che compongono il poema stesso (cfr. II 7, 92b30-32), le parti in cui può essere analizzata non hanno fra loro un’unità che vada al di là dell’essere artificialmente collegate le une alle altre. 93b39-94a10: Aristotele contrappone la definizione nominale con quella che dice perché X è. Abbiamo già visto che non tutte le definizioni sono di questo tipo, ma solo quelle in cui una componente della definizione sia distinta ed esplicativa dell’altra componente. La definizione esplicativa esemplificata qui è quella del tuono ed essa è paragonata a quella che Aristotele, con evidente ambiguità, chiama «dimostrazione del che cos’è» (épÒdeijiw toË t¤ §sti: 94a2). L’ambiguità nasce, per un verso, dal fatto che talvolta l’espressione è usata per indicare un’inferenza che abbia come conclusione una definizione (ad es. APo. II 8, 93b16-17) e talvolta, come appunto qui, per denotare un’inferenza in cui la definizione è coinvolta in altro modo.

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Non è nemmeno ben chiaro quale sia qui la dimostrazione del che cos’è del tuono connessa alla definizione di questo fenomeno. Secondo alcuni essa è: (1) Rumore nelle nubi conviene allo spegnimento del fuoco Spegnimento del fuoco conviene al tuono Rumore nelle nubi conviene al tuono Questa lettura ha due vantaggi. Innanzitutto dà conto in maniera precisa di quel che Aristotele dice a 94a7-9: la conclusione di (1) esprime a tutti gli effetti quella che abbiamo chiamato la definizione «primaria» del tuono. Inoltre si potrebbe pensare che la definizione espressa dalla conclusione di (1) sia la definizione nominale di cui Aristotele ha parlato sopra a 93b29-35, talché i tipi di definizioni menzionati nel capitolo sarebbero solo tre (e non quattro), in accordo con la ricapitolazione che verrà fatta sotto a 94a11-14. Tuttavia è difficile credere che (1) sia la dimostrazione cui Aristotele fa riferimento qui, perché non corrisponde all’inferenza esposta in II 8, 93b9-14 e, inoltre, se la nostra interpretazione di II 8, 93b1-13 è corretta, è semmai un sillogismo dialettico e non un procedimento che dà conoscenza scientifica giacché assume che il rumore sia nelle nubi senza dimostrarlo. In ogni caso è difficile credere che una definizione nominale, comunque intesa, possa comparire come conclusione di una dimostrazione le cui premesse non riguardano il significato dei termini assunti, ma i fatti ad essi sottesi. È preferibile perciò pensare che l’inferenza a cui Aristotele allude sia quella menzionata in APo. II 8, 93b9-14, e precisamente: (1*) Rumore conviene allo spegnimento del fuoco Spegnimento del fuoco conviene alle nubi Rumore conviene alle nubi dove, come si è già osservato (cfr. n. a 93a15-b14), Aristotele usa indifferentemente «tuono» e «rumore» come estremo maggiore. In effetti anche con riferimento ad (1*) possiamo dire che la sua conclusione rappresenta un ˜row bront∞w (94a7), nel senso che «rumore appartiene alle nubi» esprime in forma predicativa il definiens di tuono (per una discussione più possibilista di questo problema v. Ackrill [1981]: 360-363 ed anche Charles [2000]: 198-200). Se l’interpretazione di 93b29-37 che abbiamo proposto è corretta, il definiens che si può estrarre da (1*), anche se di fatto potrebbe corrispondere al definiens della definizione nominale di tuono, non è di per sé parte di una definizione nominale. Infatti ciò che caratterizza il definiens corrispondente alla conclusione della (1*) non è tanto il fatto di assegnare un significato al nome «tuono», quanto piuttosto di esprimere almeno una parte di quel che la natura del tuono è (cfr. Charles [2000]: 45). Si noti che in de An. II 2, 413a11-20 si parla di una definizione che esprime solo il fatto (tÚ ˜ti: 413a13) e che è data come una conclusione. Essa è contrapposta alla definizione che manifesta la ragione del fatto. Ammesso che tale definizione possa essere avvicinata a quella che qui Aristotele caratterizza come la conclusione della dimostrazione dell’essenza, abbiamo un’ulteriore conferma dell’idea che quest’ultima non è una definizione nominale. Una definizione nominale non esprime uno stato di fatto, un che (con buona pace di Bolton [1976]: 522 n. 14).

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L’ultimo tipo di definizione che Aristotele menziona è quella degli immediati. Se ammettiamo che vi sia qui un implicito riferimento a II 9, 93b22-25, dove si diceva che per questi termini bisogna presupporre come data sia l’esistenza che la definizione, possiamo esemplificare questo tipo di definizione con il caso dell’unità che è caratterizzata come ciò che è indivisibile secondo la quantità e non ha posizione (Metaph. D 6, 1016b24-26). 94a2: Tª y°sei diaf°rvn t∞w épode¤jevw. Il significato di y°siw qui è chiarito dal passo parallelo di 94a12-13: pt≈sei diaf°rvn t∞w épode¤jevw, dove pt«siw significa «forma grammaticale». Dunque è legittimo tradurre y°siw con «disposizione». 94a6-7: ÉApÒdeijiw sunexÆw. La dimostrazione è forse detta continua perché stabilisce una contiguità fra gli estremi tramite il termine medio. 94a11-14: Il passo è introdotto da un êra (94a11) conclusivo e quindi stupisce che la ricapitolazione dei tipi di definizione ne comprenda solo tre ed escluda il caso della definizione nominale. Per coloro i quali ritengono che il tipo di definizione menzionato per terzo, «la conclusione della dimostrazione del che cos’è» (94a13-14), si identifichi con la definizione nominale evidentemente questo non è un problema. Ma abbiamo visto che tale riduzione è problematica. Conviene forse seguire gli autori antichi e pensare che Aristotele ometta qui la menzione della definizione nominale perché non gioca un ruolo nella dimostrazione del che cos’è (così anche Charles [2000]: 47).

CAPITOLO 11 94a20-36: Fin qui Aristotele ha argomentato che la ragione di quello stato di cose che costituisce la conclusione di una dimostrazione è ciò che risponde alla domanda «che cos’è?» e costituisce la definizione di uno dei termini che compaiono nella conclusione. Ora egli ritiene di poter specificare il che cos’è in modo tale che esso possa includere un riferimento a vari tipi di ragioni o cause (afitiÄai), come ad esempio quella efficiente o finale. Come ha osservato Ross p. 640, questo atteggiamento corrisponde a quello più asciuttamente delineato in Metaph. Z 17, 1041a27-30 e H 4, 1044a32 sgg. In effetti abbiamo già visto esempi di definizioni, come quelli dell’eclissi e del tuono, che contengono elementi che vanno nella direzione della ragione efficiente. Insomma l’idea di Aristotele è che nel fornire la dimostrazione di uno stato di cose possiamo fare riferimento, a seconda dei casi, ad una pluralità di cause o ragioni. Aristotele menziona due delle quattro ragioni o cause caratteristiche del suo sistema nei termini consueti: quella «efficiente» come t¤ pr«ton §k¤nhse «il principio del movimento» (94a22), e quella «finale» come tÚ t¤now ßneka «ciò a motivo di cui» (94a23). Inoltre tÚ t¤ ∑n e‰nai (94a21) è uno dei modi in cui ci viene indicata la «ragione formale», anche se nel contesto degli Analitici l’espressione si riferisce normalmente a ciò che soddisfa la domanda «che cos’è qualcosa?» e costituisce la definizione della cosa cercata (cfr. Burnyeat [2001]: 58 n. 118). Là dove invece ci aspetteremmo la menzione della ragione materiale incontriamo

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una grave difficoltà, perché Aristotele usa la strana espressione tÚ t¤nvn ˆntvn énãgkh toËt'e‰nai «essendo quali cose è necessario che questo sia» (94a21-22), che ricorda da vicino la definizione di sillogismo di APr. I 1, 24b18-20, e ha fatto pensare ad alcuni interpreti che Aristotele qui non voglia alludere alla materia, ma ad un diverso tipo di ragione, che ad esempio Ross, pp. 639-640, ha chiamato il «ground» o il fondamento per la conoscenza di una conclusione. Un modo per chiarire questa oscura idea è pensare che Aristotele con questa espressione, che per altro non manca di paralleli (cfr. PA IV 2, 677a18), faccia riferimento alla necessità materiale, quella necessità che è legata alla natura delle componenti materiali di una cosa o di un processo e che ne determina aspetti o parti. In altri termini, la ragione o causa che sta dalla parte della materia è quella ragione che determina la struttura materiale del risultato. Il risultato di un sillogismo è la sua conclusione che è costituita di termini che sono già presenti nelle premesse (in questo senso Aristotele dice anche altrove, e non in senso metaforico, che le premesse di un sillogismo sono materia della conclusione, ciò di cui la conclusione è fatta: cfr. ad es. Ph. II 3, 195a16-19) e questo risultato è necessariamente tale in ragione del medio, nella misura in cui il medio connette gli estremi che compaiono nella conclusione. Detto ancora in un altro modo: è in ragione del medio che le premesse forniscono la materia per la conclusione. L’esempio geometrico, che dovrebbe illustrare la funzione del medio come ragione materiale, ma potrebbe illustrare al contempo anche quella formale, è anch’esso controverso. Il sillogismo che viene presentato qui sembra avere la forma seguente: (1) retto (A) conviene ad ogni angolo che sia metà di due retti (B) angolo che sia metà di due retti (B) conviene ad ogni angolo iscritto in una semicirconferenza (C) retto (A) conviene ad ogni angolo iscritto in una semicirconferenza (C) Tutti gli interpreti hanno notato con disagio che il termine medio di questo sillogismo, «angolo che sia metà di due retti», contiene un riferimento all’angolo retto e quindi non si capisce come possa essere qualificato da Aristotele come la definizione di retto (cfr. 94a34, passo che ho tradotto: «Ora B è la stessa cosa che l’essere corrispondente al che cos’è di A, perché la sua formula definitoria significa questo», ma diversamente interpreta Barnes, p. 227). La strana insistenza di Aristotele nell’identificare la ragione esplicativa del teorema nel fatto che «metà di due retti» è la definizione di «retto» è giustificata da Byrne [1997]: 109-112 con l’ipotesi che questa cosiddetta definizione alluda al ben noto teorema secondo il quale un angolo alla circonferenza di un cerchio è metà dell’angolo al centro della stessa se i due angoli sottendono lo stesso arco di cerchio. Questa proposta, in sé allettante, non riposa però su una salda evidenza testuale. Inoltre la premessa minore della (1) è lungi dall’essere una proposizione immediata e ciò non sembra facilmente conciliabile con quanto Aristotele aveva affermato ad es. in I 2, 71b19 sgg., dove l’immediatezza è descritta come una delle condizioni che le premesse di un’inferenza devono soddisfare per dar luogo ad una dimostrazione. D’altro canto è facile osservare che almeno parte di queste difficoltà nascono dal fatto che (1) rappresenta una contrazione molto cospicua della prova, tant’è vero che alcuni interpreti ri-

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tengono che sia quella non euclidea schizzata con maggiore dovizia di particolari a Metaph. Y 9, 1051a27 sgg., mentre altri (cfr. Novak [1978]) pensano che essa coincida con quella di Euclide III 31. In ogni caso (1) sembra essere l’illustrazione del fatto che il termine medio rappresenta la necessità materiale per la conclusione, nel senso che è ciò che consente ai termini che costituiscono le premesse di formare la materia della conclusione («essendo B, ossia metà di due retti, A conviene a C»: 94a32-33), e insieme la formula definitoria della conclusione, nel senso che fornisce la ragione dell’appartenenza predicativa della conclusione, espressa dalla definizione dell’estremo maggiore («B è la stessa cosa che l’essere corrispondente al che cos’è di A, perché la sua formula definitoria significa questo»: 94a34-35). La parte finale del passo (94a35-36) è oscura. Ross stampa éllå mØn ka‹ tÚ t¤ ∑n e‰nai a‡tion d°deiktai tÚ m°son , ma la maggior parte dei manoscritti ha toË t¤ ∑n e‰nai. Con Barnes, p. 59, conviene leggere toË e omettere ˆn. Altrove Aristotele ha parlato di a‡tion toË t¤ §sti (APo. II 8, 93b18-19) e di a‡tion t∞w oÈs¤aw (APo. II 9, 93b26); perché non allora un a‡tion toË t¤ ∑n e‰nai? È plausibile che si abbia qui a che fare con un’addizionale argomentazione a favore della tesi per cui il termine medio può esprimere l’essenza. 94a36-b8: Il medio può esprimere la ragione efficiente. Aristotele lo prova mediante un esempio tratto da un avvenimento storico raccontato da Erodoto (V 97102). Il sillogismo cui egli fa riferimento ha più o meno la forma seguente: (1) Subire una guerra (A) conviene a chi attacca per primo (B) Attaccare per primo (B) conviene agli Ateniesi (C) Subire una guerra (A) conviene agli Ateniesi (C) Il termine medio «attaccare per primi» dovrebbe esprimere la ragione efficiente del fatto che gli Ateniesi subirono un attacco da parte dei Persiani. Quello che è difficile credere non è tanto che un’inferenza come (1) sia qualificata come un sillogismo, quanto piuttosto che essa sia presa come un esempio di dimostrazione, la quale non dovrebbe avere a che fare con proposizioni contingenti quali sono quelle che compaiono come premesse in (1). Zabarella, 1152F, si limita a sottolineare che «exemplorum non est quaerenda veritas», ma in questo caso l’esempio è parte integrante della prova. Come altrimenti si potrebbe provare che il medio di una dimostrazione può esprimere una ragione efficiente se non costruendo una dimostrazione con un tale medio? Quanto meno questo sembra essere il tipo di argomentazione scelto da Aristotele. 94b8-26: La prova della possibilità che il medio possa esprimere la ragione finale è disperatamente oscura. Aristotele pone innanzitutto il caso in cui la risposta alla domanda «Perché X è Y?» ha la forma «a motivo di Z». «Perché a passeggia?» «A motivo dello star bene». Di qui egli passa a costruire un sillogismo che dovrebbe rispondere alla domanda: «Perché bisogna passeggiare dopo il pasto?» e che ha la forma seguente: (1) lo star bene (A) conviene al non restare dei cibi in superficie (B) il non restare dei cibi in superficie (B) conviene alla passeggiata (C) lo star bene (A) conviene alla passeggiata (C)

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Come questo schema debba essere di fatto articolato non è facile da capire. Di sicuro se volessimo dare una forma precisa a questa inferenza conservandole la forma sillogistica, ci troveremmo nei pasticci e avremmo bisogno di cospicue integrazioni, supposto che essa debba essere la risposta adeguata alla domanda a cui (1) è collegata. Ma questo attiene al problema generale della formalizzazione sillogistica, che Aristotele costantemente evita o trascura. Quel che è peggio è che (1) non sembra affatto esemplificare il caso di un termine medio che esprima una ragione finale. Infatti a 94b9 si dice chiaramente che il fine è lo star bene e il suo mezzo la passeggiata. D’altra parte a 94a18-19 Aristotele sembra dire che la spiegazione in termini di ragione finale del fatto che lo star bene conviene alla passeggiata è il termine medio della (1), il non restare dei cibi in superficie. Una soluzione congetturale di questo problema può venire dall’osservazione che Aristotele sta considerando tre termini, lo star bene, il non restare dei cibi in superficie, la passeggiata, ciascuno dei quali può essere preso come ragione finale del precedente. In altri termini il motivo per cui si passeggia è non far restare i cibi in superficie e non si fanno restare i cibi in superficie per star bene. Lo star bene è la ragione finale remota della passeggiata, mentre il non far restare i cibi in superficie quella prossima. In questo senso, (1) dopo tutto esprime nel termine medio la ragione finale, precisamente la ragione finale prossima del passeggiare. D’altra parte, se questa è la relazione fra i due termini, possiamo anche dire che la passeggiata è la ragione efficiente del non restare dei cibi in superficie, e questo a sua volta è ciò che provoca lo star bene. In questo senso forse si spiega la frase assai criptica di 94b19-20: il non restare dei cibi in superficie è una specie di definizione dello star bene, nel senso almeno che contribuisce a determinarne la natura essendo la ragione del suo prodursi. Il fatto che il non restare dei cibi in superficie sia ragione finale prossima e non remota del passeggiare, mette in moto, secondo Aristotele, un’ulteriore inferenza in termini di ragione finale che offre una risposta alla domanda: «perché il non restare dei cibi in superficie conviene alla passeggiata?» e che ha la forma seguente: (2) il non restare dei cibi in superficie conviene allo star bene lo star bene conviene alla passeggiata il non restare dei cibi in superficie conviene alla passeggiata Daccapo anche qui non è ben chiaro quale sia la forma linguisticamente corretta di (2) e in che senso la domanda cui (2) dovrebbe fornire la risposta contenga un riferimento al fine. Ma, fatte queste concessioni, possiamo dire che (2), non meno di (1), esprime una ragione finale nel termine medio. Come dice Aristotele, (2) differisce da (1) perché per ottenere (2) «bisogna scambiare le spiegazioni» (de› d¢ metalambãnein toÁw lÒgouw: 94b21-22), nel senso che bisogna prendere non più il non restare dei cibi in superficie come ragione dello star bene, ma viceversa lo star bene come ragione (finale) del non restare dei cibi in superficie. Naturalmente c’è una differenza profonda fra i due casi: il non restare dei cibi in superficie è una spiegazione dello star bene in termini di ragione efficiente, mentre lo star bene è una spiegazione in termini di ragione finale del non restare dei cibi in superficie. Questo giustifica l’ultima parte del passo (94b23-26) che vale più o meno come una nota marginale al discorso sul rapporto fra ragione efficiente e finale. Il

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testo non va preso come un confronto fra la situazione di (1) e (2), dato che in entrambi i casi abbiamo a che fare con medi esprimenti una ragione finale. Piuttosto Aristotele vuol contrapporre (2) al caso di un sillogismo in cui effettivamente viene espressa la ragione efficiente, come ad esempio (1) della n. precedente. In (1) della n. precedente ciò che viene prima nel processo di generazione è il termine medio e ciò che viene dopo è l’estremo maggiore. Invece in un sillogismo come (2) ciò che è primo è l’estremo minore, poi l’estremo maggiore (infatti è la passeggiata che provoca il non restar dei cibi in superficie) e per ultimo il termine medio, che rappresenta il motivo per cui e che è ultimo nell’ordine della generazione. 94b27-95a9: Aristotele riconosce la possibilità che una stessa cosa si produca per una necessità materiale e per un fine e quindi ammette che la spiegazione di questo stato di cose possa avvenire ricorrendo alla materia o al fine. Egli fa due esempi. Il primo ha a che fare con il diffondersi della luce da un lanterna. Aristotele adotta qui la teoria di Gorgia (DK fr. 5 = Teofrasto, De igne 73) sulla propagazione della luce. Siccome la materia dello schermo della lanterna ha pori e la luce è composta di particelle più sottili, la lanterna fa luce. D’altra parte la lanterna fa luce per un fine, e precisamente perché non inciampiamo quando ci muoviamo. Il secondo esempio è tratto dalla spiegazione della natura del tuono. La spiegazione tratta dalla materia è quella del rumore causato dallo spegnimento del fuoco nelle nubi. Ma c’è anche una spiegazione teleologica, consistente nel dire che il tuono si verifica per spaventare gli abitanti del Tartaro. Entrambi gli esempi illustrano la tesi di Aristotele solo se sono presi, per usare l’espressione di Zabarella, 1159 C, pingui Minerua, dato che non è sufficientemente chiarito quali sono i fenomeni di cui si dà insieme una spiegazione teleologica e deterministica e quali sono le condizioni deterministiche. Comunque sia, Aristotele ripete anche altrove la distinzione fra una spiegazione basata su una necessità dipendente dalla natura della materia ed una spiegazione di tipo teleologico (cfr. ad es. GA V 8, 789a8-14 per quanto riguarda la ragione per cui cadono i denti). Nella seconda parte del passo (94b37-95a9) Aristotele introduce nell’ambito della necessità di una distinzione fra la necessità che è secondo l’inclinazione naturale e quella che è b¤& (95a1), ossia contro la tendenza naturale. L’esempio della pietra illustra bene il punto. La pietra si muove verso il basso per una necessità naturale che è determinata dalla sua materia. Invece è solo «per forza» che si muove verso l’alto, quando cioè ad essa sia applicata una forza che va contro la tendenza naturale (cfr. anche Metaph. E 2, 1026b28-29 e soprattutto Metaph. D 5). La situazione degli stati di cose e dei fenomeni naturali, dove ha soprattutto luogo la necessità naturale e quella forzosa, è contrapposta a quella dei prodotti dell’intelligenza che vengono distinti in due grandi gruppi: quelli che escludono il caso e la necessità e si producono solo per un fine e quelli che possono prodursi anche per caso. L’ultima frase (95a6-9) fissa le condizioni sotto le quali, normalmente, qualcosa ha luogo per un fine: X è a motivo di qualcosa quando sia contingente, non avvenga per caso e il risultato a cui dà luogo sia positivo. Quest’ultima clausola non è del tutto chiara (cfr. Barnes, p. 233). Bibliografia: Mignucci [1972]; Sorabji [1980]: 51 n. 24; Novak [1978]; Friedman [1984].

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CAPITOLO 12 95a10-21: Tutta la discussione nel capitolo è complicata dal problema di come rappresentare le relazioni di cui Aristotele parla. Sono esse relazioni causali fra eventi? Oppure si tratta di implicazioni fra proposizioni? O di rapporto fra termini? Il trattamento sillogistico cui Aristotele fa qua e là riferimento indurrebbe ad optare per la seconda o terza ipotesi, ma non sempre questo modello sembra funzionare. Già è un problema esporre il principio generale che Aristotele propone all’inizio del passo (95a10-14). Poniamolo in termini di eventi. Supponiamo che un evento r sia la ragione di un altro evento s. Questa relazione rimane invariata sia che si abbia a che fare con il realizzarsi di r e s al presente o al passato o al futuro. Per esempio se il realizzarsi ora di r è la ragione del realizzarsi ora di s, possiamo assumere che il realizzarsi in futuro o l’essersi realizzato nel passato di r è la ragione rispettivamente del realizzarsi in futuro o dell’essersi realizzato nel passato di s. Gli esempi sono invece sillogistici e le lettere A, B, G usate per illustrarli sembrano fare riferimento ai soliti termini generali che costituiscono le inferenze sillogistiche. Gli esempi fanno riferimento ad eventi legati da un rapporto tale per cui non solo il darsi di r comporta il darsi di s, ma anche il non darsi di r comporta il non darsi di s. 95a22-36: Aristotele passa a considerare il caso di eventi che non sono contemporanei, nel senso che il darsi di r, l’evento che è ragione di s, precede temporalmente s. Varie possibilità sono esaminate: (i) tanto r quanto s sono collocati nel passato; (ii) ambedue sono collocati nel futuro; (iii) r è collocato nel passato e s nel presente. In relazione ai casi (i) e (iii) Aristotele afferma che possiamo costruire un’inferenza che vada da s, l’evento che si verifica dopo, a r, l’evento che si verifica prima, mentre non è legittima l’inferenza che va da r a s, anche se r è la ragione di s. Il motivo, secondo Aristotele, è che nell’intervallo di tempo che va da r a s (sia esso determinato o indeterminato), la proposizione che dice che r si è realizzato è vera, mentre la proposizione che dice che s si è realizzato (si realizzerà) è falsa. Quindi la prima proposizione non implica la seconda e conseguentemente l’inferenza dall’una all’altra non è valida. Come nota giustamente Barnes, p. 235, ciò non significa che in ogni caso possiamo legittimamente passare da s a r. Quel che Aristotele vuol dire è che, semmai, l’inferenza va da s a r, e non viceversa. L’argomento è lungi dall’essere convincente. Tutto dipende da come costruiamo le proposizioni relative a r e s. Consideriamo per semplicità il caso (i) e un intervallo di tempo determinato e supponiamo che se r si è verificato a k (dove k è una data al passato), allora s si è verificato a k+n, una data ancora al passato. Perché l’implicazione «se r si è verificato a k allora s si è verificato a k+n» dovrebbe essere falsa nell’intervallo n? Supponiamo che si dica: «se Socrate bevve una dose letale di cicuta alle 10, allora Socrate morì alle 14». Dal fatto che Socrate abbia bevuto alle 10 la cicuta e non sia morto non segue che alle 10 «Socrate morì alle 14» sia falsa. La situazione descritta da Aristotele si dà solo se il riferimento temporale non è considerato parte dell’evento, ossia se si assume che l’evento sia il bere una dose letale di cicuta da parte di Socrate e non il bere una dose letale di cicuta alle 10 da parte di Socrate. Ma non si vede perché dobbiamo considerare la determinazione temporale estranea all’evento.

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95a36-b1: Aristotele considera qui il caso (iii) della n. precedente, ossia il caso in cui r sia collocato nel passato e s nel presente. Egli offre due argomenti per negare che si possa legittimamente costruire un’inferenza che va da r a s. Il primo (95a36-39) è che in un sillogismo il medio deve essere omogeneo agli estremi. Ciò non è soddisfatto se r, che in qualche modo deve essere espresso dal medio, è un evento passato e s, che contiene gli estremi, è un evento presente, giacché secondo Aristotele passato e presente non sono omogenei. Il ragionamento è oscuro e non è facile discernere il motivo del divieto imposto. Il secondo argomento (95a39b1) è analogo a quello usato per gli eventi passati e futuri non contemporanei: nell’intervallo di tempo fra r e s la proposizione che esprime r è vera e quella che esprime s è falsa. Abbiamo discusso sopra il limite di questo ragionamento. 95b3-10: Inizia qui una complicata discussione sulla continuità del tempo e alla fine Aristotele rimanda alla trattazione che dell’argomento è stata fatta nella Fisica. Barnes, p. 236, ha egregiamente mostrato il legame di questa sezione con quanto precede. La critica all’impossibilità di inferire un evento s da uno anteriore r era basata sul presupposto che il tempo fosse continuo. Se r avviene a t e s a t+n c’è inevitabilmente un momento in cui r si dà senza che si sia ancora realizzato s. Ma uno potrebbe obiettare che, nell’ipotesi di un tempo discreto, possiamo immaginare che s avvenga nell’istante immediatamente successivo a quello in cui si dà r, talché, almeno in questi casi, sarebbe legittimo passare da r a s. La continuità di cui parla qui Aristotele è più vicina a quella che modernamente chiamiamo «densità» che alla continuità propriamente detta. In effetti la continuità di cui si parla qui è basata sulla nozione di consecutività: a è consecutivo a b se non esiste alcun c omogeneo ad a e b e tuttavia distinto da essi tale che stia fra a e b (cfr. Ph. V 3, 227a1 sgg.). Aristotele nega che vi sia consecutività fra eventi passati che sono considerati indivisibili e paragonati ai punti, come anche fra eventi passati e presenti. Questi ultimi sono paragonati ad una linea che è indefinitamente divisibile, talché così come non vi è consecutività fra un punto ed una linea, non vi è consecutività nemmeno fra passato e presente. Nessuna di queste affermazioni è banale. Perché dobbiamo considerare gli eventi passati come puntiformi e indivisibili? Forse Aristotele non vuol dire che non dobbiamo pensare che gli eventi passati non possano avere una durata (una conversazione di Socrate dopo tutto ha avuto una durata). Solo che gli eventi passati, proprio perché passati, debbono essere presi come intervalli chiusi e in questo senso sono assimilati ai punti. Invece un evento presente determina un intervallo di tempo aperto, dato che l’evento è in svolgimento. Di qui il paragone con la linea. La ragione per cui due eventi passati non sono temporalmente contigui è ovviamente che fra essi possiamo sempre trovare un intervallo di tempo intermedio. Evidentemente l’idea di un tempo continuo è presupposta all’analisi delle relazioni fra eventi e non è inferita da questa. 95b13-37: Aristotele ritorna al problema delle inferenze nel caso di eventi non contemporanei (questo è probabilmente il significato di §fej∞w ginom°nhw t∞w gen°sevw a 95b13-14 dove «§fej∞w» non può ovviamente fare riferimento alla consecutività di due eventi, esclusa in precedenza). La sua preoccupazione sembra essere quella di conciliare la possibilità di costruire inferenze con premesse

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immediate, come è richiesto dal punto di vista epistemico. L’esempio di inferenza che egli considera può essere rappresentato così: (1) se gt+m allora at se dt+m+n allora gt+m se dt+m+n allora at dove naturalmente t+m+n si colloca nel passato e t viene prima di t+m e di t+m+n. Aristotele richiede che le premesse della (1) siano immediate e ribadisce che bisogna procedere da ciò che è più vicino al presente a ciò che è più lontano. Il punto è che, siccome fra due eventi passati (o futuri) non c’è contiguità e quindi c’è sempre un evento intermedio, allora non possiamo costituire premesse immediate per le inferenze. La risposta non è chiara ma sembra consistere nel fatto che per costituire la premessa, ad esempio, «se gt+m allora at» non è necessario considerare gli infiniti eventi che intercorrono fra g ed a, ma solo quelli che sono relati fra loro da un rapporto esplicativo. Se g è la ragione di a, ciò continua a valere anche se fra a e g sono interposti infiniti eventi, purché questi non abbiano una funzione esplicativa di a. A 95b25 épÚ toË nËn pr≈tou «da ciò che è ora primo» vuol dire probabilmente che l’inferenza deve partire da ciò che è più vicino al presente. 95b38-96a7: Aristotele considera il caso di processi circolari, la cui illustrazione troviamo nell’esempio della pioggia che bagna la terra, dalla quale esalano vapori che formano le nubi e provocano la pioggia e la cui giustificazione dal punto di vista fisico è data in GC II 11, 338b1 sgg. Le dimostrazioni relative a questi processi sono probabilmente considerate qui perché esse hanno a che fare con eventi (o specie di eventi) che sono legati da relazioni esplicative e si realizzano con discontinuità temporale. Aristotele richiama che in questi casi gli estremi e il termine medio devono conseguirsi. In effetti, dato il sillogismo (1) AaB, BaC  AaC se si ha circolarità, bisogna che dalla conclusione e dalla conversa di una delle due premesse segua l’altra premessa, e ciò appunto comporta la convertibilità dei tre termini di (1): cfr. APo. I 3, 73a6-20; APr. II 5-7. Meno chiara è l’affermazione di 96a1-2 (d°deiktai d¢ toËto §n to›w pr≈toiw, ˜ti éntistr°fei tå sumperãsmata: tÚ d¢ kÊklƒ toËtÒ §stin), giacché non è la conversione dei termini della conclusione che determina la circolarità del processo. Sospetto che qui Aristotele usi in modo anomalo il termine «éntistr°fein» per indicare la possibilità di commutare la conclusione con una delle premesse, anche se alla linea precedente (95b40) esso ricorre apparentemente nel significato consueto. Si noti che per coerenza con quanto è stato detto sopra, le inferenze devono essere sempre costruite dall’avvenimento più recente a quello più lontano nel passato. 96a8-19: Aristotele contrappone ciò che avviene sempre ed in ogni caso con ciò che avviene per lo più (cfr. APo. I 30, 87b19 sgg.). È evidente che qui il per lo più non può essere interpretato come il quantificatore «la maggior parte» e ciò per almeno due ragioni. Innanzitutto «la maggior parte» è implicata da «ogni»: se

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ogni B è A è anche vero che la maggior parte dei B sono A. Qui invece sembra escludere che ciò che vale universalmente valga anche per lo più. Inoltre l’universale è interpretato qui non come l’equivalente del quantificatore universale, ma ha una connotazione modale, dato che include il fatto che sempre il predicato conviene al soggetto. Abbiamo già visto questa connotazione forte dell’universalità in APo. I 4, 73a28 sgg. Sulla possibilità di costruire legittimi sillogismi con premesse per lo più si è già detto (cfr. APo. I 30). Bibliografia: Mignucci [1972]; Wieland [1972]; Guariglia [1985]; Kullmann [1985]; Gotthelf [1987].

CAPITOLO 13 96a20-23: L’intento del capitolo è chiaramente indicato: stabilire quale sia il modo appropriato di costruire una definizione; ed è distinto da quello dei capitoli precedenti, che si erano occupati di stabilire il ruolo delle definizioni nelle dimostrazioni e decidere se le definizioni possano essere dimostrate. Il progetto di Aristotele è generale e non è limitato a particolari tipi di definizioni o a particolari oggetti definiti. ÜOrouw in efiw toÁw ˜rouw épodiÄdotai (96a2) fa riferimento ai termini delle dimostrazioni e non alle definizioni, con buona pace di Charles [2000]: 222. 96a24-b1: La caratterizzazione di quali predicati di un termine universale D costituiscano la sua definizione (ırismÒw), ovvero il suo che cos’è (tiÄ §sti) o la sua sostanza (oÈsiÄa) presenta alcuni problemi. Aristotele afferma che i predicati definitori di D vanno scelti fra quelli che appartengono sempre (éeiÄ: 96b24) ad esso. Inoltre essi devono soddisfare le seguenti condizioni: (i) ciascuno di essi è tale da avere un’estensione maggiore di D, nel senso che conviene ad ogni D, ma anche a qualcosa di diverso dai D; (ii) ciascuno di essi non è attribuibile con verità a termini diversi dai D che non cadano sotto il genere di D; (iii) la congiunzione di tali predicati è tale che non ha un’estensione maggiore di D. L’esempio di Aristotele è quello della triade, che è definita come numero dispari primo sia nel senso di non essere il prodotto di due numeri sia nel senso di non essere la somma di due numeri (questo vale per la triade giacché secondo Aristotele l’unità non è un numero, ma misura dei numeri: Metaph. N 1, 1088a4-8). Chiaramente «numero» e «dispari» appartengono anche a tutti gli altri numeri dispari diversi dalla triade, mentre «primo nei due sensi» è vero anche della diade. In questo senso essi soddisfano la condizione (i). Inoltre essi non si applicano a cose che non siano numeri, per cui soddisfano la condizione (ii). Infine la loro congiunzione vale solo per la triade, talché è soddisfatta anche la condizione (iii). I problemi sono molti. Innanzitutto la condizione preliminare secondo cui i predicati definitori sono predicati che appartengono sempre ai loro definiti sembra troppo debole per giustificare la conclusione che la congiunzione di quelli di essi che soddisfano le condizioni (i)-(iii) sono la sostanza di D. Ci si aspetterebbe almeno che Aristotele parlasse di predicati necessari, come del resto egli farà in 96b1-3 o, meglio ancora, di predicati essenziali. Inoltre non è ben chiaro se la condizione (i) sia da prendere come necessaria, oppure esprima solo una possibilità.

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In altri termini Aristotele sostiene che i predicati definitori, presi singolarmente, devono o possono avere un’estensione maggiore di quella del definiendum? Per ovvi motivi si è tentati di adottare l’interpretazione debole, ma non è facile trovare nel testo indizi che la supportino. Ancora, come ha osservato Barnes, p. 241, la caratterizzazione aristotelica non garantisce affatto che la definizione di D sia unica. Potremmo supporre che ci fossero diverse congiunzioni di predicati che soddisfano le condizioni (i)-(iii), talché ciascuna di esse potrebbe essere qualificata come una definizione di D. Ma la definizione di D, se esprime la sostanza o l’essenza di D, dev’essere unica (Top. VI 4, 141a31 sgg.). Inoltre non è ovvio che i predicati di D che ne costituiscono il definiens, se scelti con i criteri suggeriti qui da Aristotele, possano svolgere quel ruolo esplicativo che è loro assegnato in APo. II 8-10. Ancora, non è semplice capire come questa caratterizzazione della definizione possa conciliarsi con quanto è detto in Metaph. Z 12, 1037b27 sgg., dove Aristotele asserisce che le parti della definizione, il genere e le sue differenze, si riducono tutte all’ultima differenza, che costituisce l’essenza della cosa cercata, contenendo tutte le precedenti differenze e il genere, per cui sembrerebbe che l’ultima differenza fosse coestesa al definito, contro la condizione (i). Infine alla base della presentazione di Metaph. Z 12 c’è l’idea che tutte le differenze di una definizione rientrino sotto un unico albero diairetico e questo non sembra essere il presupposto da cui muove qui Aristotele, come del resto non lo è nella discussione del metodo diairetico di PA I 2-4. Non è detto che queste differenze siano riconducibili ad un’evoluzione del pensiero di Aristotele come alcuni hanno pensato (cfr. soprattutto Düring [1943]: 109 sgg.), potendo forse essere spiegate in relazione ai diversi problemi esaminati e ai diversi tipi di classificazione cercati. Cfr. Falcon [1997]. 96b1-14: La prima parte del passo (96b1-5) contiene un’argomentazione la cui comprensione è resa difficile da un problema testuale e la seconda parte (96b612) riguarda una prova di cui non è facile valutare la portata. In 96b1-3 tutti i manoscritti hanno: (i) §pe‹ d¢ dedÆlvtai ≤m›n §n to›w ênv ˜ti énagka›a m°n §sti tå §n t» tiÄ §sti kathgoroÊmena. Di conseguenza, chi si attiene a questa lezione intende che Aristotele in (i) assuma che i predicati essenziali sono necessari e che da ciò inferisca che i predicati definitori della triade sono necessari essendo essenziali. In questo modo però la frase di 96b3 (ii) tå kayÒlou d¢ énagka›a diviene incongrua. Per questa ragione Ross, p. 657, propone di sostituire énagka›a con kayÒlou in (i), per cui si avrebbe la seguente argomentazione: (a) «i predicati essenziali sono universali»; (b) «i predicati universali sono necessari»; (c) «i predicati definitori della triade sono predicati essenziali»; dunque (d) «i predicati definitori della triade sono predicati necessari». Sebbene la struttura logica dell’argomentazione sia considerevolmente migliorata con la proposta di Ross, restano dubbi, il più consistente dei quali riguarda il riferimento contenuto in (i). Se ci si attiene alla lezione tradizionale, il rimando è chiaramente a APo. I 4, 73b16-24. Con l’emendazione di Ross invece siamo costretti a rinviare alle righe 73a34-37 e 73b25-28 di quel capitolo (come del resto fa lo stesso Ross). Ma ciò significa che dobbiamo intendere kayÒlou nel senso ristretto di I 4, 73b25-28, dove però il termine è eccezionalmente chiamato a denotare una sottoclasse propria di predicati essenziali e ciò rende falsa la premessa (a). A questo punto conviene forse attenersi alla lezione tradizionale, nonostante le sue difficoltà.

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L’argomento della seconda parte del passo è apparentemente lineare. Aristotele prova che i predicati definitori della triade (o di qualunque altra cosa) costituiscono la oÈsiÄa, la sostanza o essenza, della triade. Egli procede per assurdo e la sua ipotesi è che i predicati definitori della triade, se non ne costituiscono l’essenza, devono rappresentarne un genere. Ma se ne rappresentano un genere sono tali da potersi predicare anche di altri numeri oltre alla triade. Ma ciò è escluso dal modo in cui è stata costruita la definizione della triade, dato che uno dei suoi requisiti era che l’insieme dei predicati definitori non avesse un’estensione maggiore del definiendum (96a32-34). Dunque i predicati definitori della triade non possono costituirne un genere e devono esprimere l’essenza della triade. Come ha notato Barnes, pp. 243-244, il punto di partenza della prova (i predicati definitori, se non sono l’essenza, sono un genere del definiendum) non è giustificato da Aristotele e l’idea che una qualunque parte dei predicati essenziali di una cosa costituisca un genere di essa non è perspicua. Le «triadi indivisibili» di cui si parla a 96b11 sono le triadi di cose singolari. 96b15-25: Il testo è estremamente difficile e non sono chiari né il suo significato generale né molti dei suoi dettagli. Tradizionalmente si ritiene che Aristotele dia indicazioni per la definizione di generi intermedi, ma molti punti non sembrano quadrare con quest’ipotesi (cfr. Ross, pp. 657-658). Cominciamo con il cercare di identificare le cose di cui si parla. Quel che sembra relativamente chiaro è che (i) l’espressione «primi specificamente indivisibili» (tå êtoma t“ e‡dei tå pr«ta: 96b16) indichi le specie infime, che sono prime in quanto rappresentano il gradino più basso dell’albero divisivo; (ii) in «cercare di assumere le definizioni di questi» (96b17-18) «questi» (§keiÄnvn) non può riferirsi che ai primi indivisibili. Inoltre, ad un livello di certezza leggermente inferiore, possiamo proporre di identificare lo ˜lon ti di 96b15 con il g°now subito dopo esemplificato da «numero» (per la possibilità di qualificare un genere come un tutto cfr. ad es. Metaph. D 25, 1023b18-19). Queste prime considerazioni ci permettono di ricostruire il senso delle linee 96b15-19. Se abbiamo a che fare con un tutto-genere dobbiamo innanzitutto dividerlo nelle specie infime e quindi cercare di definire queste ultime. Il passo successivo è molto meno semplice. Di sicuro il «genere» (tÚ g°now) di 96b19 è il genere sommo dell’albero divisivo, ma è molto oscuro a che cosa si riferiscano «le affezioni proprie» (tå ‡dia pãyh: 96b20) e quale sia il significato di t«n koin«n pr≈tvn (96b20-21). Parrebbe plausibile pensare che «le affezioni proprie» fossero quegli attributi che sono propri delle varie specie di un genere e che in una scienza vengono dimostrati di esso. In questa prospettiva una tipica affezione propria del triangolo sarebbe la proprietà 2R. Corrispondentemente per koin«n pr≈tvn verrebbe da pensare ai principi comuni (cfr. APo. I 10, 76b6-11), ma l’ipotesi ha poca plausibilità se considerata nel contesto. Piuttosto si potrebbe immaginare che i koinã siano qui pãyh, affezioni o attributi, comuni a più specie e in questo senso contrapposti a quelli propri. Ma, se l’opposizione proprio/comune in questo contesto funziona, non si capisce perché gli attributi comuni possano essere qualificati come pr«ta. Una possibile spiegazione potrebbe venire dall’osservare che un attributo come la proprietà 2R in realtà è un attributo complesso: «avere la somma degli angoli interni uguale alla somma di due angoli retti» contiene come elementi nozioni come quella di «angolo», «angolo interno»,

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«angolo retto», le quali possono essere considerate i costituenti primi dell’attributo complesso. In questa prospettiva le linee 96b19-21 potrebbero essere spiegate nel modo seguente: dopo aver considerato la categoria entro cui cade il genere delle specie definite (il senso di questa prescrizione non è ben chiaro), bisogna considerare gli attributi complessi che appartengono in proprio alle specie del genere in questione alla luce degli attributi primitivi che sono comuni, nel senso che sono elementi di diversi attributi complessi. Tuttavia, se si segue questa linea d’interpretazione, la parte conclusiva del nostro passo (96b21-25), che si apre con un gãr, e quindi dovrebbe rappresentare una giustificazione di quanto precede, risulta inintelligibile. In effetti verrebbe da identificare le «cose composte dagli indivisibili» (to›w går suntiyem°noiw §k t«n étÒmvn: 96b21) con le affezioni proprie, ossia appunto gli attributi complessi. Ma qui si parla di ciò che consegue alle cose composte dagli indivisibili, e quindi queste ultime sono piuttosto specie complesse, dato che «tå sumba¤nonta» (96b21-22) non può che fare riferimento a predicati o attributi di queste. Bisogna battere un’altra strada. Potremmo allora supporre che gli ‡dia pãyh di 96b20 denotino non attributi complessi, ma predicati del tipo di «triangolo» che possono essere considerati come proprietà di certe linee (si noti che in APo. II 7, 92b15-16 «triangolo» è concepito in questo modo, dato che si dice che di esso si dimostra l’esistenza). Tali attributi, a differenza di quelli come la proprietà 2R, sono tali che possono costituire anche un soggetto derivato di ricerca per una scienza (per un uso simile di pãyow v. APo. I 28, 87a39). Di contro i koinå pr«ta di 96b20-21 sarebbero quei soggetti di ricerca che sono primitivi, nel senso che non sono provati di alcunché, come è il caso ad esempio dell’unità per l’aritmetica o della linea per la geometria. In questa prospettiva non è perspicua la ragione per cui attributi come triangolo siano qualificati come propri (si deve intendere «proprio» nel senso di «specifico»?), mentre è chiaro perché i soggetti primari di indagini possano essere detti comuni. In effetti i soggetti primari entrano come costitutivi di molti soggetti derivati. Se adottiamo questa linea interpretativa abbiamo qualche possibilità di rendere meno oscuro il senso di 96b21-25, anche se restano molte difficoltà. Innanzitutto diviene chiaro il significato di «le caratteristiche conseguenti alle cose composte dagli indivisibili» (to›w går suntiyem°noiw §k t«n étÒmvn tå sumba¤nonta: 96b21-22). Si tratta degli attributi di termini come «triangolo», appunto soggetti complessi d’indagine, in quanto costituiti da elementi primitivi. L’idea di Aristotele sembra essere allora che la ragione dell’attribuzione di una proprietà ad un termine complesso (per esempio della proprietà 2R al triangolo) dipenda dalle definizioni degli elementi primari che costituiscono il termine complesso. Ciò che spiega la ragione per cui il triangolo gode della proprietà 2R andrebbe ricercato nelle definizioni dei termini primitivi che compongono il triangolo: linea e angolo. Aristotele giustifica quest’ultima affermazione dicendo che i predicati dei soggetti complessi appartengono per sé solo ai componenti dei termini complessi stessi. In effetti linea ed angolo, i componenti di triangolo, a differenza di triangolo, entrano nella definizione della proprietà 2R e in questo senso la proprietà 2R è un predicato per sé del secondo tipo di essi (APo. I 4, 73a34 sgg.). Se l’interpretazione del passo deve andare nella direzione qui suggerita, la sua connessione con il resto del capitolo è un po’

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debole ed esso deve essere preso come una specie di digressione intesa ad illustrare la funzione delle definizioni nella scienza. Una diversa esegesi in Charles [2000]: 230-232. 96b25-97a6: Le divisioni «possono essere utili per calcolare il che cos’è solo nel modo seguente» traduce xrÆsimoi d' ín e‰en œde mÒnon prÚw tÚ sullogiÄzesyai tÚ tiÄ §stin (96b27-28). È evidente che qui sullogiÄzesyai non può avere il significato consueto di «sillogizzare» o «dedurre» (con buona pace di Bolton [1993]: 215), altrimenti la dottrina di Aristotele sarebbe contraddittoria, dato che egli ha provato che in APr. I 31 e APo. II 5 che la divisione non può essere analizzata in termini deduttivi e trasposta in un sillogismo. L’utilità delle divisioni sembrerebbe derivare dal fatto che l’insieme dei predicati definitori viene costruito secondo un ordine tale da preservarne l’unità. Un genere G1 a cui viene applicata per divisione una differenza D1 forma una specie di quel genere G2 (potremmo scrivere G2 = D1(G1) a cui un’ulteriore differenza D2 può essere applicata in modo da avere un nuovo genere G3 (ossia G3 = D2(D1(G1)). La semplice giustapposizione dei costituenti di G2, ossia il porre soltanto G1, D1, D2, senza che essi siano legati da un «ordine di apparizione» sembrerebbe non garantire l’unità della definizione. Anche ammesso che quest’idea sia legittima, va sottolineato che essa si applica solo là dove tutte le differenze che compaiono in una definizione siano differenze di differenze che costituiscono uno stesso albero diairetico, mentre la definizione della triade fornita sopra non sembra soddisfare questa condizione. Aristotele produce una seconda ragione per raccomandare l’uso della divisione nella costruzione di definizioni. L’argomento in sé è molto chiaro, basato com’è sul principio che ogni differenza deve essere esaustiva del genere cui si applica. Questo vantaggio nell’uso della divisione non si apprezza quando si abbia a che fare con una pluralità di differenze dello stesso genere che soddisfino tutte la condizione di esaustività (per esempio ogni numero naturale è pari o dispari ed insieme primo o non primo), mentre esso è evidente nel caso di differenze che fanno parte dello stesso albero diairetico a diversi livelli. 97a6-22: La posizione che Aristotele considera e confuta in questo passo è quella di Speusippo (cfr. fr. 31B Lang = 63a Tarán). Non è del tutto agevole ricostruire l’argomento di Speusippo. Una possibilità è basata sulle seguenti assunzioni: (i) «conoscere la definizione di X implica conoscere che X è diverso da ogni altra cosa»; (ii) «per conoscere che X è diverso da Y bisogna conoscere Y». Di qui segue che per conoscere la definizione di X bisogna conoscere tutte le cose diverse da X. Come ha osservato Barnes, p. 246, non è ben chiaro in che cosa consista la conoscenza di Y richiesta per poter conoscere la definizione di X. Si deve conoscere la definizione di Y, oppure è sufficiente essere in grado di riconoscere Y? In ogni caso l’argomento di Speusippo induce ad affermare che la conoscenza di una definizione comporta un qualche tipo di onniscienza, la quale, anche nella forma meno radicale, sembra precludere la possibilità che gli uomini attingano le definizioni delle cose. Supponendo che sia in questione l’onniscienza nel senso più debole, un possibile modo di giustificare (ii) è quello di immaginare che conoscere che X è diverso da Y implichi conoscere almeno una proprietà che X ha e Y non ha (o che Y ha e X non ha). Ciò comporta che per stabilire la diffe-

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renza fra X e Y dobbiamo avere dimestichezza con le proprietà che Y ha o non ha, e dunque avere una certa conoscenza di Y. Contro questa posizione Aristotele solleva due obiezioni. La prima (97a11-14) sembra consistere nella dichiarazione della falsità di (i). In effetti la conoscenza della definizione di X non comporta conoscere che X è diverso da ogni altra cosa. Se per esempio dovessimo definire che cos’è un animale non avremmo bisogno di stabilire qual è la differenza fra cavalli ed asini, dato che cavalli ed asini non differiscono fra loro in quanto animali. A prima vista la risposta di Aristotele non sembra garantire che la mente umana possa impadronirsi delle definizioni, dato che il numero delle differenze che devono essere conosciute per realizzare la conoscenza della definizione di X sembra comunque spropositato. La seconda obiezione (97a14-22) è basata sul fatto che la definizione è acquisita per divisione. Per costruire una definizione, dice Aristotele, sono necessarie due operazioni, e precisamente: (a) la divisione esaustiva di un genere G mediante l’assunzione di due differenze una delle quali è l’opposto dell’altra. Per esempio se dividiamo gli animali in domestici e selvatici, abbiamo una divisione esaustiva del genere animale, dato che «selvatico» è la stessa cosa che «non domestico». Per compiere questa operazione non è richiesto di sapere quali siano gli animali selvatici e quelli domestici. La seconda operazione richiesta è quella che (b) conduce a sussumere la cosa di cui si cerca la definizione, C, sotto l’una o l’altra parte risultante dalla divisione del genere. In altri termini, se il nostro C è ad esempio l’uomo, la costruzione della definizione richiede di sapere che l’uomo cade nell’ambito degli animali domestici. Ma per arrivare a conoscere ciò non è richiesto di sapere nient’altro a proposito degli altri animali, selvatici o domestici che siano. Dunque la tesi (i) di Speusippo è falsa. Uno potrebbe però difendersi dall’obiezione rifiutando l’idea che le definizioni vadano costruite mediante la divisione, ma non è facile credere che Speusippo si sarebbe incamminato per questa strada. 97a23-b6: Aristotele presenta tre condizioni che devono essere osservate nella costruzione di una buona definizione e che raccomandano l’uso del metodo della divisione per definire qualcosa. La prima è che i termini della definizione devono essere tutti termini essenziali. Come realizzare la scelta di questi termini ha ben poco a che fare con la divisione e Aristotele si affida piuttosto ai luoghi dialettici grazie ai quali si argomenta se un certo termine sia specie di un genere o se un termine sia il genere appropriato di un altro (cfr. Top. IV), luoghi che sono diversi da, ma paralleli, a quelli grazie ai quali si deduce l’appartenenza di un accidente a qualcosa. I luoghi del genere servono anche per la determinazione delle differenze (Top. I 4, 101b17 sgg.). La seconda condizione riguarda l’ordine dei termini nella definizione. Qui il ruolo della divisione è centrale. In effetti, una volta in possesso dei termini che fanno parte dell’essenza del definiendum, per ipotesi C, bisogna porre come primo termine quello che sta a capo della divisione e che è identificato dal fatto di essere il più generale, ossia quello che si predica universalmente di tutti gli altri, mentre nessuno degli altri si predica universalmente di esso. Una volta individuato tale termine si può ripetere la stessa operazione per isolare il termine più universale fra quelli restanti e così di seguito. Dobbiamo assumere che fra i predicati essenziali di C, il definiendum, ci sia non

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solo una serie che cominci con un genere sommo G0 e continui con una successione di sotto-generi G1, G2, …, Gi, … fino a pervenire al genere prossimo Gk di C, ma anche una corrispondente successione di differenze D0, …, Dk, visto che la definizione è acquisita per via divisiva? La risposta di Aristotele a questo quesito non è chiara. Da un lato egli considera la differenza una qualità (Top. IV 5, 128a26-27; VI 6, 144a20-22); dall’altro egli identifica l’ultima differenza con la definizione di un definiendum (Metaph. Z 12, 1038a18-20) (su questa questione cfr. Granger [1992]: 69-93 e Bäck [2000]: 151 sgg.). In ogni caso se supponiamo che qui Aristotele includa le differenze fra i predicati essenziali di C – il che è esplicitamente affermato in Top. VII 3, 153a15-22 e 5, 154a24-29 (su ciò Morrison [1993]: 158160) – affinché il suo criterio funzioni, siamo costretti a fare ulteriori assunzioni non sempre in linea con quello che egli sostiene. In particolare dobbiamo supporre che le differenze si predichino dei generi subordinati e delle ulteriori differenze. Inoltre dobbiamo immaginare che i generi si predichino delle rispettive differenze (anche se Aristotele sembra negare ciò a Top. VI 6, 144a31-36). Sotto queste ipotesi, D0, la prima differenza di G0, si predicherà universalmente di tutti i termini inclusi nella definizione di C eccetto G0, e G1 sarà il primo dei termini restanti, predicandosi di tutti i termini eccetto G0 e D0. Il termine successivo che si predichi di tutti i restanti sarà D1, la prima differenza restante, e quello che viene dopo un genere, G2; così di seguito fino alla differenza specifica. La terza delle tre condizioni è quella per la quale in una definizione non bisogna omettere termini o aggiungerne di estranei. Anche qui alla divisione viene assegnato un ruolo importante. In effetti che non ci siano termini estranei dipende dall’osservanza della prima condizione, quella riguardante l’essenzialità dei termini. Per non omettere termini Aristotele suggerisce di partire dal termine più generale, G0, applicare ad esso una divisione esaustiva, tale per cui tutta l’estensione di G0 cada sotto le due differenze contrapposte D0 e D-0 e stabilire quindi se la cosa cercata cada in una delle due sottoclassi di G0 determinate da D0 e D-0, ossia se C è D-0(G0) o D0(G0). Se per esempio C cade sotto D0(G0) operiamo allo stesso modo sul complesso D0(G0) applicando ad esso una nuova coppia di differenze D1 e D-1 e individuando il nuovo complesso D1(D0(G0)) grazie alla appartenenza ad esso di C. Il procedimento ha termine quando il complesso ottenuto per divisione Dn(…D1(D0(G0))…) è equiesteso a C. È chiaro infatti che a questo punto non ci può essere nessun’altra coppia di differenze che possa dividere Dn(…D1(D0(G0))…), altrimenti questo complesso non potrebbe essere equiesteso a C. Naturalmente l’argomento si regge sull’ipotesi che ad uno stadio qualunque della divisione non si verifichi che vi siano più coppie distinte di differenze che dividano esaustivamente il complesso. 97b7-25: Il passo è sufficientemente chiaro. Aristotele dà indicazioni su come possa essere trovata una definizione. Se ad esempio dobbiamo definire C dobbiamo innanzitutto considerare specie infime S1, …, Sn di C e gruppi di individui che siano nell’estensione di dette specie. Isoliamo quindi le caratteristiche F1, …, Fk che i membri di una di tali specie Si hanno in comune in quanto membri di Si. Tali caratteristiche varranno come definizione per Si. Ripetiamo l’operazione per ciascuna delle altre specie infime. Per esempio G1, …, Gn, le caratteristiche comuni

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ai membri di Sj in quanto membri di Sj costituiscano la definizione di Sj. Confrontiamo allora i gruppi di caratteristiche F1, …, Fk e G1, …, Gn. Se questi due gruppi hanno elementi comuni, allora il loro insieme sarà la definizione di C, altrimenti dovremo dire che C non ha una definizione univoca ed è ambiguo. L’esempio della magnanimità (cfr. EN IV 7-9; EE III 5) illustra bene il procedimento. 97b26-28: Non è ben chiaro se il passo sia un commento all’esempio della definizione di magnanimità che precede o valga come un’osservazione indipendente. In ogni caso Aristotele formula la tesi, per altro da lui spesso ribadita, che le definizioni devono essere universali, nel senso che i definientia devono caratterizzare termini universali e non individui; ciò collima con la sua nota posizione secondo cui gli individui non sono definibili. Aristotele non si avventura in un giustificazione filosofica della sua asserzione limitandosi ad osservare che la prassi scientifica fa ricorso a definizioni universali. 97b28-31: La posizione difesa qui da Aristotele è interessante, perché rappresenta una giustificazione epistemologica della procedura illustrata sopra (97b7-25) secondo la quale per definire un termine qualunque dobbiamo partire dalle definizioni delle sue specie infime. Queste infatti appaiono più sicure di quelle dei generi superiori in quanto più al riparo da omonimie, presumibilmente perché le definizioni più generali richiedono più di un livello di astrazione, come si è spiegato sopra. Va da sé che i singolari di cui si parla qui sono le specie infime, quelle che in 97b31 sono chiamate gli «indifferenziabili» (to›w édiafÒroiw). Per quest’uso di kay’ ßkaston cfr. ad es. APr. II 23, 68b20. 97b31-39: Il «sillogizzare» (tÒ ge sullelogiÄsyai: 97b32) che deve essere presente nelle dimostrazioni sta a significare che le dimostrazioni devono essere sillogismi corretti, così come le definizioni devono essere perspicue (tÚ saf°w: 97b32). Sulla perspicuità delle definizioni Aristotele si esprime anche in Top. VI 2, dove osserva che le principali fonti di oscurità per una definizione sono le metafore e le omonimie. Sulle metafore e sui pericoli connessi al loro uso nelle discussioni dialettiche si veda anche Top. IV 3, 123a33-37; SE 17, 176b14-25. Bibliografia: Bolton [1993]; Charles [2000]: 221-239; Falcon [1997]; [2000].

CAPITOLO 14 98a1-12: L’espressione tÚ ¶xein tå problÆmata, «avere i problemi», è ambigua e può significare «dominare i problemi», oppure «avere i problemi posti correttamente». Scegliendo la prima traduzione, le regole che Aristotele introduce sono regole per trovare le premesse per risolvere i problemi, mentre nell’altro caso le regole sono regole per formulare i problemi. Quanto si dice a 98a20-23 con riferimento alle scelte per analogia sembra favorire la seconda interpretazione. Invece l’uso del verbo §kl°gein per indicare la scelta dei predicati di un certo soggetto fa propendere per la prima interpretazione, in quanto ricorda la terminologia di APr.

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I 27 (ed es. 43b11, 16 ed anche 43b1, dove §klambãnein = §kl°gein), un capitolo che riguarda il metodo per risolvere i problemi. In ogni caso l’idea di Aristotele è che, una volta determinato l’oggetto della ricerca, bisogna innanzitutto indagare quelle caratteristiche che riguardano il genere e quindi quelle pertinenti alle sue specie. Questo perché se risolviamo il problema concernente l’appartenenza di X a G, abbiamo automaticamente risolto il problema del perché X conviene ad S, se S è una specie di G. Aristotele aveva già formulato quest’idea in APo. I 5, 74a4 sgg. I problemi qui in questione sono i problemi scientifici, tuttavia dobbiamo considerare anche quel che Aristotele dice sulla natura del problema in sede dialettica, a Top. I 4, 101b16 sgg. Secondo Aristotele un problema ha sempre la forma: «X è Y oppure no?» e in questo senso si differenzia da una premessa dialettica, che è del tipo «X è Y?» (dovendo essere presentata come una richiesta che può essere concessa o respinta dall’avversario [cfr. ad es. APr. I 1, 24b1-2]). L’inclusione dell’aggiunta «oppure no» nei problemi sembra essere più rilevante per la dialettica che per la scienza. Presa alla lettera questa inclusione dovrebbe escludere dall’ambito dei problemi questioni del tipo di «che cos’è la virtù?» che, per diventare un problema, dovrebbe essere riformulata in: «è X la definizione della virtù, oppure no?». A 98a2 è difficile pensare ad una distinzione fra énatoma¤ (divisioni nelle parti costitutive?) e diair°seiw, divisioni di generi nelle loro specie. Probabilmente qui i due termini sono sinonimi. 98a13-19: Nel determinare quale sia il soggetto più generale cui compete un certo predicato X non bisogna limitarsi a considerare generi dei quali si dia un nome. Bisogna tenere conto anche di quelli che non lo hanno e che sono identificabili per mezzo di un’appropriata descrizione. Per esempio se le proprietà in questione sono quelle di avere un terzo stomaco e di non avere incisivi superiori, dobbiamo attribuirle in generale agli animali con le corna e quindi alle specie di questi, come ad esempio il bue. Infatti è perché ha le corna che il cervo gode di queste caratteristiche. In effetti secondo Aristotele l’avere corna per un animale implica il non avere incisivi superiori (il tessuto osseo dell’animale è utilizzato per le corna e non per gli incisivi superiori: PA III 2, 663b21 sgg.) e il non avere gli incisivi superiori comporta avere un terzo stomaco (per compensazione nella digestione: PA III 14, 674b 7 sgg.). Dunque è per il fatto di avere le corna che il cervo non ha incisivi superiori e quindi ha un terzo stomaco. Sui generi «anonimi» cfr. anche APo. I 5, 74a6 sgg. 98a20-23: Qui non si tratta di un problema di ricchezza di linguaggio. Non è tanto questione del fatto che manchi un nome comune all’osso di seppia, alla lisca di pesce e allo scheletro di un mammifero. Il punto è che non c’è un genere comune a queste tre cose. Tuttavia esse hanno un’ovvia analogia funzionale: il ruolo che l’osso di seppia svolge nella seppia è analogo a quello che lo scheletro svolge in un mammifero o la lisca in un pesce. Possiamo allora attribuire proprietà che sono comuni a queste tre entità senza che vi sia un genere comune ad esse. Anche altrove Aristotele menziona l’analogia funzionale fra ossa e lische di pesci (ad es. PA II 8, 654a2-4) e fra queste e gli ossi di seppia (ad es. PA II 8, 654a19-21). Bibliografia: Charles [2000]: 239-243; Lennox [2001]: capp. 1, 2 e 3.

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CAPITOLO 15 98a24-29: La distinzione che introduce qui Aristotele fra problemi identici toutcourt e problemi identici nel genere probabilmente non va presa troppo rigidamente. Il primo caso è quello di due problemi P e P' la cui soluzione dipende dal rinvenimento di un termine medio che è lo stesso in entrambi i problemi. Aristotele fa l’esempio della éntiper¤stasiw, lo scambio. Secondo la definizione di Simplicio, in Ph. 1350.31 sgg. è il processo per cui, dati ad esempio tre corpi a, b e c tali che siano fra loro contigui, a sposta b e b sposta c in modo tale che a venga ad occupare il posto di b, b quello di c e c quello di a. Con l’éntiper¤stasiw Aristotele spiega, tra l’altro, il movimento dei proiettili (Ph. IV 8, 215a15 sgg.; VIII 10, 267a16 sgg.) e l’avvicendarsi della pioggia e della siccità (Mete. I 12, 348b2 sgg.). Questo caso sarebbe distinto da quello del perché c’è l’eco, del perché c’è il rispecchiamento di un’immagine e del perché c’è l’arcobaleno, dato che tutti questi casi sarebbero sì casi di riflessione, ma riflessione di cose diverse (suoni in un caso e luce negli altri), oppure casi di riflessione che avviene differentemente (quelli del rispecchiamento e dell’arcobaleno presumo). L’eco è detta una forma di riflessione in [Pr.] XI 8, 899b27 e lo stesso è affermato dell’immagine rispecchiata (Sens. 2, 438a8-9). La spiegazione del fenomeno dell’arcobaleno è contenuta in Mete. III 2-5. Sulla énãklasiw, o riflessione cfr. Mete. II 9, 370a16 sgg. 98a29-34: La subordinazione dei medi cui si fa cenno qui è presumibilmente una subordinazione causale: la luna calante di fine mese provoca le burrasche e queste a loro volta provocano l’ingrossamento delle acque del Nilo (cfr. Ross, p. 665). Come ricorda Barnes, p. 251, ad Aristotele è attribuito uno scritto sulle piene del Nilo, di cui è conservata un’epitome latina (frr. 246-248 Rose = 686-695 Gigon).

CAPITOLO 16 98a35-b24: Dobbiamo probabilmente prendere l’intero capitolo come una discussione dialettica delle tesi poste all’inizio, che sono due e possono essere riassunte come segue. Supponiamo che (i) B sia la ragione (o la spiegazione) di A. Allora, si domanda Aristotele, siamo autorizzati ad affermare che B Ípãrxei ogni qual volta A Ípãrxei (98a36), e, viceversa che A Ípãrxei ogni qual volta B Ípãrxei (98b2-3)? ÑUpãrxein usato assolutamente farebbe pensare che Aristotele faccia qui una questione di esistenza e l’esempio dell’eclissi e dell’interposizione della terra sembrerebbe avvalorare quest’ipotesi. Tuttavia è fuorviante marcare una distinzione troppo netta fra esistenza e rapporti predicativi. Almeno per certi predicati «esistere» significa essere in un qualche rapporto predicativo con qualcosa. Per «latifoglio» Ípãrxein significa essere in un certo rapporto predicativo con un tipo di piante e lo stesso vale per «eclissi», la quale è per Aristotele un’affezione di un corpo celeste, in ciò esprimendosi il suo esistere. Nel contesto di questa traduzione predicativa dell’esistenza il problema di Aristotele può essere riformulato così. Sotto l’ipotesi che (i) valga e supponendo che per A Ípãrxein significhi convenire ad un soggetto C siamo autorizzati a concludere che B Ípãrxei, ossia conviene a C se A conviene a C? A questo interrogativo Ari-

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stotele dà naturalmente una risposta affermativa. B non potrebbe essere la ragione di A se A fosse presente, ossia convenisse a qualcosa, per esempio a C, senza che B fosse presente, ossia appunto convenisse a C. Anche se Aristotele non lo dice apertis verbis, è evidente che il caso in cui A si dia, ossia convenga a C laddove si dia la sua ragione B, ossia laddove B convenga a C non è così scontato come il precedente. È chiaro comunque che ciò avviene in alcuni casi, come appunto quello dell’eclissi o quello della caduta delle foglie. Quando ciò succeda, siccome si verifica comunque anche l’altro caso, accade che A e B sono fra loro equiestesi, nel senso che a tutto ciò a cui conviene B conviene A e tutto ciò a cui conviene A conviene B, talché risulta vero non solo BaA, ma anche AaB. Di conseguenza, se assumiamo ad esempio AaC, possiamo provare BaC e se assumiamo BaC possiamo provare AaC, con un’ovvia circolarità. Nella seconda parte del passo Aristotele si affretta a chiarire che comunque le due dimostrazioni, quella di AaC a partire da AaB e BaC e quella di BaC a partire da BaA e AaC non sono sullo stesso piano giacché, sebbene B sia equiesteso ad A, per cui non solo AaB, ma anche BaA vale, non per questo possiamo affermare che A è una spiegazione di B: la relazione di «essere una spiegazione di» non è simmetrica, avendo l’explanans una priorità (logica) sull’explanandum. Là dove la spiegazione abbia la funzione di termine medio abbiamo una dimostrazione del perché, mentre nell’altro caso abbiamo solo una dimostrazione del che (su questa distinzione cfr. APo. I 13 e note relative). Aristotele sembrerebbe qui accettare il procedimento che conclude alla presenza della causa dalla presenza dell’effetto purché esso venga qualificato come una dimostrazione non del perché, ma del che. 98b25-31: Aristotele sembra qui sollevare un’obiezione contro la tesi secondo cui la presenza dell’explanandum comporta quella dell’explanans: dal fatto che B è spiegazione di A non segue necessariamente che se A conviene a C, B conviene a C. Basta supporre che vi siano più spiegazioni di A, ossia immaginare che A convenga a D in virtù del suo convenire in modo primitivo a B (che quindi funge da spiegazione del convenire di A a D) e che lo stesso A convenga ad E in virtù della spiegazione C (per ipotesi diversa da B). In questo modo dall’«esistenza» di A (dal suo convenire a qualcosa, per esempio a D) non segue l’«esistenza» di B (il convenire di B a D). Il punto della discussione di Aristotele sembra ruotare sulla possibile interpretazione dell’espressione «B è ragione di A». Se con questa frase si deve intendere che B spiega perché A conviene a tutto ciò a cui conviene, è chiaro che la spiegazione di A non può essere che unica e A e B sono convertibili. Se invece la nostra frase significa che B spiega perché qualcosa è A, nulla vieta di avere la situazione qui prospettata da Aristotele e di pensare ad una pluralità di ragioni per A. Per la traduzione di ka‹ går efi ¶sti a 98b25: cfr. Ross, p. 667. 98b32-38: Il passo è oscuro e la ricostruzione del suo senso non può essere che congetturale. Aristotele inizia (98b32-33) dicendo che un problema (presumo scientifico) deve essere universale, che la sua spiegazione deve essere un ˜lon ti (98b32), ossia (credo) generale, e che ciò che viene spiegato deve essere pure universale. In altri termini, non vedo qui nulla di più di quello che viene ripetuto anche altrove: non è una spiegazione scientificamente accettabile quella che si limita a fornire la ragione del fatto che un individuo ha una certa proprietà, se tale ragione non è ge-

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neralizzabile ad altri individui che cadono sotto quella proprietà. Dopo una frase particolarmente intricata (98b33-35), Aristotele sembra tirare una conclusione che va nella direzione della convertibilità fra explanans e explanandum, talché si realizzerebbe quella circolarità di cui si parlava all’inizio del capitolo (98b4 sgg.). Il legame fra il punto di partenza e questa conclusione è costituito da quello che viene introdotto per mezzo dell’esempio della caduta delle foglie (98b33-35). Si dice innanzitutto che il cadere delle foglie conviene ˜lƒ tin‹ éfvrism°non, «determinatamente ad un certo tutto» e possiamo intendere ciò come affermazione che il problema della caduta delle foglie va considerato unicamente in relazione a quel tutto o universale. Nel caso specifico della caduta delle foglie il tutto in questione ci aspetteremmo che fosse «pianta latifoglia», ma Aristotele sembra ricorrere all’inatteso «albero». Anche se questo tutto, Aristotele prosegue, ha specie, ad esse il cadere delle foglie conviene universalmente, ossia, suppongo, in quanto esse sono alberi. Per ottenere la convertibilità fra explanans e explanandum potremmo insistere su éfvrism°non e immaginare che quel che Aristotele vuol sostenere, probabilmente con una mossa dialettica, è che il caso tratteggiato sopra (98b25-31) di A che appartiene a D e E in virtù di due medi esplicativi distinti B e C è un caso che può essere sanato nel modo seguente. Supponiamo che uno sostenga che la cydonia è decidua perché è un arbusto di un certo tipo e che l’olmo è deciduo perché è un albero di un certo tipo (latifoglio?). Abbiamo un esempio del caso tratteggiato in 98b25 sgg., dato che abbiamo a che fare con ragioni diverse di uno stesso fatto, l’essere deciduo e quindi, apparentemente, non otteniamo la convertibilità fra explanans e explanandum. L’idea che Aristotele sembra suggerire è che possiamo recuperare la convertibilità se restringiamo opportunamente l’explanandum. Non dobbiamo più parlare di «essere deciduo» in generale quando vogliamo dimostrare che certe specie di alberi (o che certe specie di arbusti) sono decidue, ma di «essere deciduo per gli alberi» o «essere deciduo per gli arbusti». Allora l’explanans di «essere deciduo per gli alberi (per gli arbusti)» è «essere un albero (arbusto) di un certo tipo» e in questo senso la convertibilità fra explanans e explanandum è recuperata. La natura dialettica dell’argomento non dovrebbe sfuggire. Diversamente interpreta Goldin [1996]: 143-147. Bibliografia: Inwood [1979]; Goldin [1996]: 143-147; Charles [2000]: 204213.

CAPITOLO 17 99a1-6: Aristotele riprende il tema del capitolo precedente – la ragione di uno stato di cose deve essere sempre la stessa in tutti i casi? – che era stato discusso prima in modo dialettico e che ora viene affrontato da un punto di vista scientifico. La risposta di Aristotele al quesito è articolato ed è sostanzialmente basata sulla raffigurazione di vari casi. Quello che viene esaminato qui corrisponde ad una caratterizzazione forte di dimostrazione, come quel procedimento in cui il termine medio costituisce la spiegazione o definizione dell’estremo maggiore. Se B è la ragione del fatto che A si predica di C e B rappresenta la definizione di A, una qua-

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lunque argomentazione che provi A di C (o di qualsivoglia altro termine D), se deve procedere dalla definizione di A per poter essere scientifica, non può non avere che B come termine medio, dato che la definizione di un termine in linea di principio è unica. La situazione di questo tipo di dimostrazione forte è da Aristotele contrapposta a quella delle argomentazioni a partire da un segno (analizzate in APr. II 27) o dalle spiegazioni relative a connessioni predicative accidentali. In questi casi, secondo Aristotele, non si ha a che fare con problemi scientifici. L’idea forte di dimostrazione si trova anche altrove (cfr. ad es. APo. II 8, passim), ma non è l’unica presente nella teoria aristotelica. Talvolta il termine medio sembra essere parte della definizione dell’estremo maggiore, talvolta la definizione, o parte della definizione, dell’estremo minore. È dalla definizione di triangolo che dipende la ragione del fatto che il triangolo ha la proprietà 2R. 99a6-16: L’esempio della proprietà delle proporzioni secondo cui a:b=c:d è equivalente a a:c=b:d è illuminante, se letto alla luce di I 5, 74a7 sgg., dove lo stesso esempio veniva addotto per illustrare il caso di argomentazioni separate volte a provare una caratteristica di specie diverse, caratteristica che conviene alle diverse specie in virtù del genere sotto il quale le specie cadono. Così la convertibilità può essere provata separatamente per le proporzioni lineari e per quelle numeriche, ma non è in virtù del fatto che si abbia a che fare con numeri o con linee che la caratteristica in questione è propria dei numeri e delle linee. È in quanto sono grandezze (posã) che numeri e linee godono della convertibilità. Chiaramente l’esempio illustra il caso di una caratteristica A attribuita a due specie B e C che sono sotto un genere D. Secondo la teoria di APo. I 5 se A compete a D in virtù di un medio esplicativo E, eventuali prove dell’appartenenza di A a B e di A a C che sfruttino medi diversi da E e D non possono essere considerate vere e proprie dimostrazioni. Ma forse qui Aristotele vuol fare un discorso diverso. La sua idea sembra essere piuttosto che il medio con il quale si prova che A appartiene a B (sia esso F) e il medio (per es. G) con cui si prova che A appartiene a C, quando si adottino prove separate, sono entrambi specie di E e provano grazie a ciò che hanno in comune, appunto E. In questi casi abbiamo dunque ragioni diverse per l’appartenenza di una stessa caratteristica a soggetti diversi, ma queste ragioni diverse hanno un tratto generale comune. L’altro caso considerato da Aristotele è quello di una proprietà A che viene attribuita a due soggetti diversi B e C in modo omonimo. In tal caso la ragione dell’attribuzione di A a B e la ragione dell’attribuzione di A a C possono differire. Cosí la somiglianze fra due figure dipende dall’avere gli angoli uguali e i lati proporzionali (cfr. Euclide VI, def. 1), mentre la somiglianza fra due colori dipende dal loro essere percettivamente indiscernibili. In che senso queste due spiegazioni siano «omonime» non è ben chiaro. In ogni caso quando si abbia a che fare un termine omonimo non si ha propriamente identità, talché, strettamente parlando, non si può nemmeno dire che una stessa caratteristica è attribuita a soggetti diversi con motivazioni differenti. 99a16-29: Aristotele ritorna qui alla nozione forte di dimostrazione e, per comprendere la situazione a cui egli fa riferimento, è utile qualche chiarimento terminologico. «La ragione» (tÚ a‡tion), «ciò di cui è la ragione» (o a‡tion) e «ciò rispetto a cui è la ragione» (⁄ a‡tion) di cui si cercano le consecuzioni (99a16-17)

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sono rispettivamente il medio, l’estremo maggiore e l’estremo minore di una dimostrazione sillogistica e il loro seguire (parakolouye›n/ékolouye›n) è il rapporto predicativo che li lega (per quest’uso del verbo ékolouye›n e dei suoi derivati cfr. Bonitz, Index). La situazione prospettata da Aristotele è la seguente. Supponiamo che A, che è «ciò di cui è la ragione» (o a‡tion), appartenga a B e C. A è, come si dice, §p‹ pl°on rispetto a B e C, nel senso che ha un’estensione maggiore di B e di C. Tuttavia secondo Aristotele esiste un termine D che è coesteso ad A e alla disgiunzione di B e C (e di altri termini ancora, se del caso). Nell’esempio delle piante decidue D potrebbe essere il fatto che viti, fichi e le altre piante decidue sono latifoglie. Se l’appartenenza di A a D è mediata, per esempio da E, allora E, se dà luogo ad una dimostrazione scientifica e il suo rapporto con A è immediato, costituisce la spiegazione/definizione di A (¶sti d¢ tÚ m°son lÒgow toË pr≈tou êkrou: 99a21-22; cfr. p. es. APo. II 8, 93b6) e in questo senso è coesteso ad A (il definiens ha sempre la stessa estensione del suo definiendum). E rappresenta così quello che Aristotele chiama «il medio primo» (tÚ pr«ton m°son: 99a25). Naturalmente per dedurre l’appartenenza di A a B e a C non basta invocare E; dobbiamo certamente ricorrere anche a D e ad eventuali altri termini medi fra D e B (o C), finché non si giunga ad un termine medio che sia a sua volta primo, ma nell’altra direzione, ossia in quella delle specie particolari. Tuttavia Aristotele non sembra qui considerare questi ulteriori medi come qualcosa che aggiungano granché alla «spiegazione» di A, la quale in definitiva è costituita da E, il suo definiens. In altri termini, E conta come la spiegazione di A nel senso che esprime la ragione per cui A appartiene a tutto ciò a cui appartiene, salvo restando il fatto che, per giustificare l’appartenenza di A ad un elemento particolare della sua estensione, ad esempio a C, dobbiamo aggiungere qualcosa ad E (si veda tuttavia infra II 18, 99b7 sgg.). 99a30-b7: Il caso che Aristotele presenta qui è diverso da quello illustrato nella sezione precedente e ciò induce a credere che quello non fosse estendibile a tutte le dimostrazioni, ma ad un tipo particolare di esse, precisamente a quelle in cui il medio e l’estremo maggiore sono coestesi. Qui Aristotele dice di procedere §p‹ d¢ t«n sxhmãtvn (99a30), letteralmente «con riferimento alle figure» e il seguito del discorso mostra chiaramente che non dobbiamo prendere questa espressione come un accenno alle figure sillogistiche (gli sxÆmata appunto degli Analitici Primi), ma in un significato generico. Egli considera il caso della seguente dimostrazione (1) AaB, BaD  AaD sotto la condizione che B abbia un’estensione maggiore di D. Da questo fatto egli inferisce che A deve avere un’estensione maggiore di B, altrimenti potremmo prendere A come «ragione» dell’appartenenza di B a D. L’argomentazione non è chiara. In effetti se supponiamo che A e B siano equiestesi, avremo non solo AaB, la premessa maggiore di (1), ma anche BaA. Possiamo allora costruire il sillogismo (2) BaA, AaD  BaD che, in circostanze favorevoli, potrebbe rappresentare la giustificazione di BaD. Dunque così come B in (1) rappresenta la giustificazione dell’appartenenza di A a D, in (2) A può essere preso a rappresentare la spiegazione del perché B appartiene a D. Ma non è chi non veda che l’argomento è capzioso, dato che nulla giu-

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stifica l’ipotesi che (2) sia, oltre che un sillogismo corretto, una dimostrazione in senso proprio. In ogni caso Aristotele asserisce che non solo B ha un’estensione maggiore di D, ma anche A di B. Se A ha un’estensione maggiore di B, ci deve essere un E diverso da B per cui valga AaE. Nulla vieta d’altra parte che il nesso AaE non sia primitivo e che quindi esso sia giustificato attraverso C, così da ottenere una dimostrazione diversa, e precisamente (3) AaC, CaE  AaE La conclusione di Aristotele è allora che, siccome C e D, possono essere diversi, la ragione dell’appartenenza di A ad una parte della sua estensione (per esempio a D) può essere diversa da quella che spiega perché A appartiene ad un’altra parte della sua estensione (per esempio a E). Perché ciò avvenga bisogna tuttavia che D ed E differiscano specificamente, dato che, per quanto si è detto nella sezione precedente, se E è una sottospecie di D, allora la ragione dell’appartenenza di A ad E è la stessa di quella dell’appartenenza di A a D, e cioè è B. Sulle ragioni della longevità dei quadrupedi e degli uccelli cfr. Long. 4-6; PA IV 2, 677a30-b1; APr. II 23, 68b15-29.

CAPITOLO 18 99b7-14: Il greco di 99b9-10, tÚ prÚw tÚ kayÒlou pr«ton μ tÚ prÚw tÚ kay' ßkaston, è ambiguo, perché pr«ton potrebbe essere riferito a kayÒlou, e la frase essere resa con: «ciò che prossimo all’universale primo (più generale) o ciò che è prossimo al particolare». Ma 99b11-12 (tÚ pr«ton ÍpÚ tÚ kayÒlou) chiarisce la posizione di pr«ton. Aristotele ha in mente la situazione di una proposizione la cui deduzione dipende da più medi subordinati. Il caso a cui egli ricorre è quello della proposizione AaD che dipende dalle premesse AaB, BaC e CaD. Siamo dunque in presenza di due termini medi, B e C e la questione posta da Aristotele è se dobbiamo considerare come spiegazione di AaD, il medio B, che viene prima dalla parte dell’universale A, oppure il medio C, che viene prima dalla parte del particolare D. La risposta di Aristotele è inequivocabile e sorprendente. Dobbiamo considerare come spiegazione di AaD il medio più vicino al particolare, nel nostro caso C e non B. Infatti, secondo Aristotele, C giustifica il fatto che B conviene a D (abbiamo infatti BaC, CaD  BaD). Ma allora C, se spiega perché B conviene a D, spiega a fortiori perché A conviene a D (tÚ pr«ton ÍpÚ tÚ kayÒlou in 99b11-12 è il termine medio che è immediatamente sotto l’estremo maggiore, ossia B). L’argomento è ancora una volta capzioso. Sarebbe molto più naturale affermare che la spiegazione di AaD è costituita da B e C. Come questo punto di vista si concili con quanto è stato detto nel capitolo precedente non è facile comprendere.

CAPITOLO 19 99b15-19: Le prime righe del passo sembrerebbero costituire la conclusione dell’intera opera, comprendente non solo gli Analitici Secondi, ma anche i Primi, da-

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to che fanno da pendant all’inizio di APr. I 1 (24a10 sgg.). Esse paiono quindi confermare la continuità fra i due Analitici e l’organicità del loro rapporto (sulla questione vedi Brunschwig [1981]). Nello stesso tempo esse fanno sorgere il sospetto che il resto di APo. II 19 costituisse originariamente un studio autonomo successivamente aggiunto al resto. È difficile tuttavia trovare una conferma soddisfacente a questa congettura. La seconda parte del passo introduce i due problemi principali del capitolo e precisamente: (i) in che modo sono conosciuti i principi delle scienze?; (ii) che tipo di conoscenza è la conoscenza dei principi? Alla prima di queste domande Aristotele cerca di rispondere in 99b20-100b5, mentre la seconda è affrontata in 100b5-17. La traduzione di ßjiw con «stato» in tiÄw ≤ gnvriÄzousa ßjiw (99b18) e nel seguito del capitolo può apparire avventata, dato che proprio in quella prima occorrenza il termine sembrerebbe fare riferimento, in conformità ad un uso aristotelico del termine ben documentato (cfr. Bonitz, Index, 261a13-24), ad una disposizione o facoltà mentale grazie alla quale conosciamo i principi, e precisamente a quella facoltà che più avanti si rivelerà essere il noËw. Ma Barnes, pp. 260261, ha, mi pare convincentemente, argomentato che in questo capitolo ßjiw indica semplicemente il possesso cognitivo dei principi. In altri termini, domandarsi quale sia il possesso che ci fa conoscere i principi è un modo contorto per chiedersi a quale tipo di conoscenza corrisponda quella dei principi. 99b20-34: Aristotele inizia una discussione dialettica del primo problema (in che modo sono conosciuti i principi delle scienze?) e la conclude rapidamente con un’asserzione della quale fornirà una conferma nelle parti successive del capitolo. Egli parte da quello che considera essere un punto ormai acquisito, e precisamente che la conoscenza scientifica presupponga una conoscenza dei principi delle dimostrazioni e che tale conoscenza in definitiva non possa essere a sua volta ottenuta per dimostrazione, ma sia immediata. Come ci viene tale conoscenza, se non ci viene per dimostrazione? Una prima risposta potrebbe essere che essa è presente in noi, ossia è innata. Aristotele respinge quest’ipotesi dicendo che se avessimo una conoscenza innata dei principi, dovremmo accettare che tale conoscenza non è consapevole. Ma una tale ipotesi è êtopon (99b26), ossia contraria all’esperienza, giacché se interroghiamo un inesperto (ad es. un bambino), costui non rivela di possedere già i principi della scienza di cui si discute (seguo qui l’interpretazione di Barnes, p. 261). Dunque la conoscenza dei principi non è innata. La confutazione aristotelica dell’innatismo è sicuramente un po’ troppo frettolosa e alla sua obiezione gli innatisti hanno saputo trovare varie risposte. Aristotele dà qui per scontata l’insostenibilità della posizione innatista e si limita a richiamare un argomento contro di essa. Il riconoscimento che la conoscenza dei principi non è innata porta con sé un nuovo problema, legato ad una tesi che Aristotele ha esposto all’inizio del trattato (I 1, 71a1 sgg.) e precisamente la tesi secondo cui ogni apprendimento intellettuale presuppone una conoscenza preesistente. Siccome la conoscenza dei principi, non essendo innata, è un caso particolare di apprendimento intellettuale, dobbiamo stabilire qual è la conoscenza preesistente che condiziona l’acquisizione dei principi. Aristotele spiana la strada ad una risposta a questo problema osservando che la conoscenza preesistente in linea di principio non deve essere

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più precisa e migliore di quella di cui è condizione. Questo gli consente di stabilire che a monte della conoscenza dei principi c’è non un altro tipo di conoscenza intellettuale, ma semplicemente la conoscenza percettiva. 99b34-100a14: Aristotele presenta qui in sintesi una teoria della conoscenza che troviamo anche in Metaph. A 1, 980a27 sgg. (su entrambi i passi vedi Frede [1996]). Egli ritiene che tutti gli animali siano per natura dotati di una facoltà percettiva che ha un potere discriminante (Metaph. A 1, 980a27-28) e li distingue in due gruppi in ragione della possibilità di ricordare che alcuni hanno ed altri no. La memoria dei percepiti è spiegata come una permanenza (monÆ) del percepito, o meglio, si dovrebbe dire, di una rappresentazione mentale del percepito (Mem. 1, 450a25-b11). Gli animali dotati di memoria sono in grado di conoscere anche al di là della pura attività percettiva, ossia anche quando il percepito non è direttamente in contatto con gli organi di senso, proprio grazie alla «permanenza» del percepito. La memoria è essenziale per passare allo stadio successivo di conoscenza: dalla ripetuta percezione di qualcosa e dalla memoria delle percezioni si genera quella che inizialmente Aristotele qualifica come «una qualche differenza» (diaforã tiw: 100a1-2) e un lÒgow (100a2). È difficile dar conto del significato del termine «lÒgow» qui, perché non è ben chiaro se Aristotele stia alludendo al processo di formazione dei concetti o a quello delle proposizioni. Probabilmente il suo discorso è diretto a coprire entrambi i casi. Per questa ragione ho arrischiato il termine vago «concettualizzazione» come traduzione di lÒgow, supponendo che sia una «concettualizzazione» non solo la formazione del concetto «uomo» a partire dalla percezione e dal ricordo di Pietro, Paolo e Giovanni, ma anche la formazione delle proposizioni «Pietro è un uomo», «Paolo è un uomo» e «Giovanni è un uomo» a partire dalla percezione di Pietro, Paolo e Giovanni come uomini. In 100a3-9 Aristotele chiarisce con maggiore dovizia di dettagli il senso della «concettualizzazione» annunciata nelle righe precedenti. Dalla percezione si genera la memoria e dal ricordo di percezioni di oggetti simili, grazie all’iterazione, quella che egli chiama «esperienza» (§mpeiriÄa: 100a5). In Metaph. A 1, 981a7 sgg. il fatto di conoscere che a Callia malato fa bene una certa medicina e che tale medicina fa bene a Socrate affetto dalla stessa malattia è considerato parte dell’esperienza, mentre il sapere che tutti gli individui di un certo tipo di complessione traggono vantaggio dalla somministrazione di una medicina spetta all’arte medica. Questo esempio mostra chiaramente che l’esperienza, così come Aristotele la concepisce, non riguarda soltanto la formazione di concetti, ma anche proposizioni singolari. Comunque sia, l’esperienza è il punto di partenza per la scienza e per la tecnica, nel senso che essa sta alla base delle generalizzazioni dell’una e dell’altra. L’esperienza in 100a6-8 è presumibilmente qualificata come un «universale che riposa tutto nell’anima» (≥ a 100a6 va probabilmente preso con Ross, p. 674 e Barnes, p. 264, come epesegetico; invece McKirahan [1992]: 243; Lesher [1973]: 59; Charles [2000]: 150 lo prendono come correttivo; si noti la reminiscenza platonica di ±remÆsantow: Phd. 96B6-7). Sembra dunque che l’esperienza costituisca il livello elementare della concettualizzazione nel senso chiarito sopra. L’universale a sua volta è qualificato come un «uno oltre i molti» (toË •nÚw parå tå pollã: 100a7). Si noti che questa stessa espressione è usata in APo. I 11,

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77a5 per caratterizzare le Forme platoniche. Qui evidentemente vuol semplicemente marcare la differenza che c’è fra ciò che è singolare e ciò che è universale, Pietro, Paolo, Giovanni rispetto all’uomo, oppure, in termini proposizionali, proposizioni singolari rispetto alle corrispondenti universali. Aristotele conclude il suo discorso ribadendo la tesi iniziale. La conoscenza dei principi né è innata, né dipende da conoscenze prerequisite più elevate, ma ha il suo punto di partenza nella percezione. Il famoso esempio dei soldati in fuga in cui l’arresto di uno provoca a poco a poco la ricompattazione del fronte mira a sottolineare l’importanza dell’iterazione nel processo di concettualizzazione. 100a15-b5: Il greco all’inizio (˘ d'§l°xyh m¢n pãlai, oÈ saf«w d¢ §l°xyh, pãlin e‡pvmen: 100a14-15) è ambiguo, giacché pãlin potrebbe fare riferimento a quel che è stato appena detto o a quello che è stato detto tempo addietro. Ma nel resto degli Analitici è difficile trovare un abbozzo di teoria dell’acquisizione dei principi che possa giustificare l’affermazione di Aristotele. Perciò la maggior parte degli interpreti pensa che il riferimento sia a quel che è stato detto nelle righe immediatamente precedenti. Non è facile capire perché Aristotele si dichiari scontento di quello che egli ha appena affermato. Forse la ragione è che egli ha sottolineato la differenza fra ciò che è universale e ciò che è particolare. Ma allora se è il particolare che è convogliato dalla percezione, come può la percezione essere il veicolo dell’universale e ciò che è prerequisito alla sua conoscenza? La riformulazione della teoria dell’acquisizione degli universali che viene offerta qui costituisce forse una risposta implicita alla domanda che abbiamo posto. C’è una discussione fra gli interpreti sull’espressione stãntow går t«n édiafÒrvn •nÒw (100a15-16) che secondo alcuni indica le specie infime (ad es. McKirahan [1992]: 245) e secondo altri gli individui. Sono incline a seguire la seconda interpretazione, perché altrimenti non si spiegherebbe la parentesi che segue con il riferimento alla percezione. Quello che Aristotele vuol probabilmente dire è che già la percezione «introduce nell’anima» l’universale (tÚ kayÒlou §mpoie›: 100b5), nel senso che allorché si percepisce un indifferenziato, ossia un individuo, questo individuo è percepito come un individuo di un certo tipo, talché l’universale è in un certo senso già parte del contenuto della percezione, anche se, per avere consapevolezza dell’universale a cui l’individuo in questione appartiene e che è indotto percettivamente, è necessaria la memoria e la ripetizione della percezione (v. anche la n. a 87b28-33). Nel prosieguo del passo Aristotele insiste sulla continuità del processo di universalizzazione nel senso che così come si passa dagli individui all’universale, si va da ciò che è meno universale a ciò che è più universale. In effetti ci si ferma ai molti individui finché non si giunge al primo universale, una specie infima, cosí come ci si ferma alle molte specie infime finché non si raggiunga un universale superiore, e ciò fino a pervenire agli émer∞ (100b2), presumibilmente i generi sommi che non possono essere risolti in generi superiori (cfr. Metaph. D 3, 1014b6; 25, 1023b24; M 8, 1084b14), e agli universali più generali. La conclusione del passo è ancora ambigua, perché non è chiaro se i primi (tå pr«ta: 100b4), di cui si dice che sono conosciuti per induzione (ossia per una sorta di ascesa dal meno generale al più generale), siano i primi principi, gli assiomi delle scienze, oppure i generi sommi. Ma ciò fa parte della forse voluta ambiguità del discorso di Aristotele in cui non è mai chiaramente distinta la questione della formazione dei

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concetti da quella della formazione delle proposizioni singolari, particolari e universali. Per le possibili interpretazioni del famoso paragone della rotta in battaglia v. Barnes p. 265 e Charles [2000]: 267, n. 44. 100b5-17: Il passo è famoso per il riferimento al noËw che contiene. Il termine è talvolta reso con «intuizione» e con questa resa si vuol marcare che la conoscenza dei principi dipende da una specie di visione intellettuale immediata di essi. In realtà, più che cercare di qualificare in positivo la conoscenza dei principi, Aristotele cerca di caratterizzarla in negativo, dicendo che è una conoscenza che non si acquisisce per dimostrazione, ancorché sia più sicura e affidabile di quella ottenuta per dimostrazione. Per questo ho preferito adottare la traduzione più neutra «intellezione», che lascia il problema della natura della conoscenza dei principi relativamente impregiudicato (cfr. le simili osservazioni di Barnes: pp. 259 e 267). Aristotele produce due argomenti in favore della tesi per cui la conoscenza dei principi va qualificata come un’intellezione. Nel primo (100b5-12) egli comincia con il distinguere i tipi di conoscenze che possiamo qualificare come vere opponendo l’opinione e il calcolo o ragionamento, che possono essere veri o falsi, alla conoscenza scientifica e all’intellezione che non possono essere falsi. In altri termini, mentre nel caso della conoscenza scientifica e dell’intellezione l’inferenza da «a ha conoscenza scientifica (intellezione) che P» a «P» è legittima, non possiamo accettarla se la premessa è «a opina che P». Ciò esclude automaticamente che il tipo di conoscenza che concerne i principi possa essere qualificata come opinione o come calcolo, perché la conoscenza dei principi deve essere superiore a quella ottenuta per dimostrazione e quella ottenuta per dimostrazione non ammette il falso. D’altra parte, da un lato la conoscenza dei principi non può essere quella scientifica, perché questa dipende dalle dimostrazioni e i principi non sono dimostrabili. D’altro lato la conoscenza dei principi deve essere superiore a quella scientifica e solo l’intellezione è superiore alla conoscenza scientifica. Dunque la conoscenza dei principi è un’intellezione. Il secondo argomento (100b12-17) è basato su un’analogia: così come la dimostrazione non è principio della dimostrazione, la conoscenza scientifica non è principio della conoscenza scientifica. Per una dimostrazione D1 essere principio di un’altra dimostrazione D2 potrebbe significare che una delle premesse di D2 è la conclusione di D1. Se è così, è chiaro che la dimostrazione in generale non può essere principio della dimostrazione, perché ciò comporterebbe che, data una qualunque dimostrazione, le sue premesse sono sempre dimostrabili, contro quanto Aristotele sostiene in APo. I 3. Siccome poi la conoscenza scientifica è quella che deriva da una dimostrazione, è facile intendere perché la conoscenza scientifica non può essere principio della conoscenza: in quel caso tutto sarebbe dimostrabile. Dunque il principio della conoscenza scientifica deve essere diverso e non può essere che l’intellezione, dato che solo questo tipo di conoscenza, oltre a quella scientifica, esclude il falso. Bibliografia: Von Fritz [1943]; Von Fritz [1964]; Von Fritz [1993]; Ziegelmeyer [1945]; Trépanier [1948]; Kosman [1973]; Lesher [1973]; Wieland [1975]; Couloubaritsis [1990]; Kahn [1981]; Modrak [1987]: 162; Kal [1988]; Bayer [1997]; Charles [2000]: 149-161.

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Indici

Indice dei luoghi citati

ARISTOTELE Cat. 4, 1b25-27: 217 6, 4b20 sgg.: 169 12, 14a30, 32: 193 Int. 1, 16a9 sgg.: 180 1, 16a16-17: 250, 263, 265, 275 4, 16b33 sgg.: 155 5, 17a8-9: 233 5, 17a11-15: 157, 183 6, 17a36-37: 221 7, 17a39-40: 166, 185 7, 17b16 sgg.: 155 9, 19a18-22: 237 11, 20b22-30: 189 APr. I 1, 24a10-11: VII I 1, 24b1-2: 294 I 1, 24b18 sgg.: 263 I 1, 24b18-20: 279 I 1, 24b18-22: 147 I 1, 24a22 sgg.: 153 I 1, 24a22-b 12: VIII I 1, 24b14-15: VIII I 1, 24b26-28: 200

I 1, 24b28-30: 163 I 2, 25a7-9: 192 I 3, 25a27 sgg.: 166 I 4, 25b26: 153 I 4, 25b32-35: 200 I 4, 26b21: 200 I 5, 26b39: 197 I 5, 27a18-23: 192 I 6, 28a14-15: 197 I 8, 30a9-12: 171 I 9, 30a15 sgg.: 173, 257 I 9, 30a15-16: 171 I 9, 30a28 sgg.: 163 I 13, 32b4 sgg.: 178 I 13, 32b5-6: 237 I 13, 32b6-7: 237 I 15, 34a17-19: 161 I 15, 34b7 sgg.: 163 I 15, 34b7-15: 238 I 15, 35a12: 200 I 18, 38a4: 200 I 23, 40b23-29: 225 I 23, 41a21-23: 225 I 23, 41a37-b5: 220 I 24, 41b6-7: 232 I 24, 41b13-22: 181 I 25, 42a40: 156 I 27, 43a37-40: 210

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I 27, 43a25 sgg.: 210 I 27, 43b11: 294 I 28, 44b25: 192 I 31, 46a33: 259 I 31, 46b3-12: 259 I 32, 47a40-b10: 219 I 32, 47b1: 165 I 36, 48a40 sgg.: 164 I 39, 49b6-8: 216 I 41, 49b33 sgg.: 183 I 41, 49b33-50a4: 191 I 44, 50a16 sgg.: 220 I 44, 50a39-b2: 237 I 46, 51b25-28: 191 II 1, 53a17: 174 II 2, 53b7-8: 241 II 2, 53b26-27: 241 II 11, 62a13: 156 II 14, 62b31: 156 II 14, 62b31-32: 225 II 17, 65b8: 156 II 21, 67a5 sgg.: 149 II 21, 67a21-26: 150 II 21, 67a23: 149 II 21, 67a39-b2: 239 II 21, 67b26: 237 II 23, 68b13-14: 208, 263 II 23, 68b15-29: 300 II 23, 68b20: 293 II 23, 68b35-37: 154 II 24, 69a13-29: 148 II 26, 69b5: 163 II 26, 69b38: 237 II 27, 70a3 sgg.: 148 Top. I 1, 100a18-20: 188 I 1, 100a25-27: 147 I 1, 100a25 sgg.: 153 I 1, 100b21 sgg.: 171 I 1, 100b21-23: 209 I 1, 101a5-15: 190 I 2, 101a36 sgg.: 188, 190 I 4, 101b17 sgg.: 291 I 4, 101b19 sgg.: 183 I 5, 102a18 sgg.: 162

I 5, 102a18-20: 175 I 9, 103b21-23: 217 I 12, 105a13-16: 147, 208 I 14, 105b11: 156 II 1, 109a9: 156 II 6, 112b1-5: 237 II 6, 112b5-9: 237 III 1, 116a23-38: 216 IV 1, 121a1: 229 IV 1, 121a18: 264 IV 2, 123a4: 156 IV 3, 123a33-37: 293 IV 5, 128a26-27: 292 V 1, 129a6-8: 237 V 1, 129a6-16: 237 V 3, 131b21-23: 239 VI 4, 141a31 sgg.: 287 VI 4, 141a34 sgg.: 257 VI 4, 141b3: 154 VI 4, 141b36 sgg.: 154 VI 6, 144a20-22: 292 VI 6, 144a28-36: 157 VI 6, 144a31-36: 292 VI 8, 147a5-8: 184 VI 9, 147a29-b25: 261 VI 9, 148a3-9: 202 VII 3, 153a15-22: 292 VII 3, 153a24-b24: 260, 261 VII 5, 154a24-29: 292 VIII 1, 155b3 sgg.: 188 VIII 1, 156a23: 156 SE 1, 165a1-2: 147 4, 166b21: 190 5, 166b28: 190 11, 171a2-7: 178 11, 171b16-18: 178 11, 172a11-12: 188 11, 172a12-13: 225 11, 172a32-34: 188 24, 179b14: 156 Ph. I 1, 184a12: XXVI I 1, 184a12-14: 151

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I 1, 184a21-26: 154 I 5, 189a2-9: 154 I 7, 190a34-36: 217 II 2, 194b18: XXVI II 3, 194b18-20: 151 II 3, 195a16-19: 279 II 5, 196b10-13: 237 II 9, 200a16-18: 169 III 4, 203b20-22: 211 III 4, 203b24: 193 III 5, 204b4-5: 221 III 5, 204b10-11: 221 IV 8, 215a15 sgg.: 295 V 1, 225b5-7: 217 V 3, 227a7-10: 155 VI 7, 238a33: 159 VI 8, 238b23-26: 237 VII 3, 247a16-19: 236 VIII 1, 252a22-25: 208 VIII 10, 267a16 sgg.: 295 Cael. I 2, 269a19 sgg.: 177 I 5, 271b33-272a3: 193 I 5, 272a3: 159 II 8, 290a18-24: 196 II 11, 291b17-23: 196 III 1, 299a15-16: 208 III 7, 306a27: 237 GC I 2, 316a10-11: 221 I 3, 317b8-10: 217 I 3, 318b29-33: 239 II 6, 333b4-6: 237 II 11, 337b23-25: 193 II 11, 338b1 sgg.: 285 Mete. I 12, 348b2: 295 II 8, 366a5-8: 237 II 8, 366a14-15: 237 II 9, 369b11 sgg.: 273 II 9, 370a16 sgg.: 295 IV 9, 387a7-11: 237 IV 389a25-26: 237

de An. I 1, 402a15: 175 II 1, 412a6-9: 239 II 2, 413a11-20: 277 II 5, 417b23-25: 237 II 10, 422a26-29: 191 Sens. 2, 438a8-9: 295 Mem. 1, 449b6-8: 237 1, 449b10-15: 237 1, 450a25-b11: 302 Resp. 2, 470b30: 197 2, 471a19: 197 3, 471b19-23: 197 HA IV 9, 535b5: 197 VII 10, 587a9-13: 248 VIII 2, 590a3-4: 233 PA I 3, 643a27-31: 175 II 8, 654a19-21: 294 III 2, 663b21 sgg.: 294 III 4, 666a26-27: 233 III 14, 674b7 sgg.: 294 IV 2, 677a18: 279 IV 2, 677a30-b1: 300 IV 5, 678b1: 197 IV 13, 697a21: 197 GA II 6, 742b29-33: 152 II 8, 747b27-30: 221 II 8, 748a7-11: 221 V 8, 789a8-14: 282 Metaph. A 1, 980a27 sgg.: 302 A 1, 980a27-28: 302 A 1, 981a7 sgg.: 302

325

A 2, 982a25-28: 235 A 3, 983a25-26: 151 A 8, 989b12: 228 A 9, 991a1-2: 185 A 9, 992b30-33: 208 a 1, 993b24-27: 157 a 2, 994a16 sgg.: 159 a 2, 994b20-21: 224 a 2, 994b29-30: 151 a 995a15-16: 235 B 1, 997a11: 156 B 2, 997b35 sgg.: 184 B 3, 998b22-27: 264 B 3, 999a1-2: 233 B 4, 999a26-29: 229 G 2, 1004b19-20: 188 G 3, 1005a19-23: 182 G 3, 1005a23-27: 182 G 3, 1005b22: 221 G 3, 1005b23-26: 182 G 3, 1005b32-34: 185 G 4, 1006a5-9: 159 G 4, 1007b4: 165 G 4, 1008a16 sgg.: 245 G 6, 1011a3-13: 159 G 7, 1011b23-24: 155 G 3, 1014a35-b2: 224 G 3, 1014b6: 303 D 4, 1015a11-13: 227 D 6, 1016b24-26: 278 D 8, 1017b23-26: 239 D 9, 1017b27-1018a1: 238 D 9, 1017b27-1018a1: 167 D 11, 1018b29-34: 154 D 13, 1020a7-11: 221 D 15, 1021a29-30: 229 D 18, 1022a24-36: 165 D 22, 1022b32-36: 191 D 25, 1023b18-19: 288 D 25, 1023b24: 303 D 30, 1025a14 sgg.: 165 D 30, 1025a30 sgg.: 175 D 1, 1025b7 sgg.: 263 D 1, 1025b30-34: 166 E 2, 1026a36-b1: 228

E 2, 1026b27-30: 237 E 2, 1026b28-29: 282 E 2, 1027a8-10: 237 Z 3, 1029b3-12: 154 Z 4, 1029b24-25: 217 Z 4, 1030a2 sgg.: 265 Z 4, 1030a7 sgg.: 266, 276 Z 7, 1032a14-15: 217 Z 10, 1036a2-6: 240 Z 12, 1037b27 segg.: 287 Z 12, 1037b29-31: 157 Z 12, 1038a18-20: 292 Z 13, 1038b11: 185 Z 15, 1040a29: 167 Z 16, 1040b16-24: 264 Z 17, 1041a26 sgg.: 250 Z 17, 1041a27-30: 278 Z 17, 1041b2 sgg.: 269 H 1, 1042a26-29: 239 H 4, 1044a32 sgg.: 278 H 6, 1045a7 sgg.: 255 Y 7, 1049a34-35: 239 Y 9, 1051a21 sgg.: 184 Y 9, 1051a24-26: 169 Y 9, 1051a27 sgg.: 280 I 2, 1054a18: 228 I 4, 1055b9-11: 191 I 7, 1057a34-36: 155 K 10, 1066b4: 221 K 12, 1068a8-9: 217 L 2, 1069b9: 228 L 3, 1070a11-12: 239 L 8, 1073b3-8: 199 M 3, 1078a9-13: 235 M 3, 1078a19-21: 184 M 3, 1078a31 sgg.: 177 M 8, 1084b14: 303 N 1, 1088a4-8: 286 N 2, 1089a22 sgg.: 184 N 2, 1089b8: 228 EN I 1, 1094b12-13: 235 I 2, 1095a30-33: 224 I 4, 1095b2-4: 154

326

I 4, 1096a24-27: 217, 228 I 7, 1098a26-28: 235 III 1, 1110a31-33: 237 III 4, 1111b31-33: 245 V 5, 1147a24-25: 221 VI 3, 1139b18-21: XXVIII VI 3, 1139b22-24: 177 VI 3, 1139b27-28: 208, 263 VI 5, 1112b20: 192 VI 10, 1142b5-6: 248 VI 12, 1143a36: 160 VII 15, 1154b27-28: 236 X 4, 1174b23 sgg.: 236 X 5, 1175b26 sgg.: 236 X 6, 1176b33: 197 MM I 5, 1185b5-6: 248 Pol. IV 4, 1291b9-11: 237 VI 7, 1328a19-21: 235 Rh. I 2, 1356b15-16: 147 I 2, 1356b32-33: 229 I 2, 1357a27-29: 238 I 6, 1362b23-25: 248 II 5, 1382b7-9: 237 II 7, 1385b5-7: 217 II 25, 1402b20-21: 237 II 25, 1402b26: 190 III 6, 1407b27: 265 III 11, 1412a12-15: 247 Peri ideon fr. 3 Ross: 184 fr. 4 Ross: 185

ALTRI AUTORI DIOGENE LAERZIO Vitae philosophorum I 101-105: 197 ERODOTO Historiae IV 156: 202 ESIODO Scutum 122: 265 FILOPONO In APo. 111.20 sgg.: 178 111.20-21: 178 130.35-131.9: 183 146.14-147.16: 190 PLATONE Chrm. 160A1-2: 248 159D-160A: 248 Cra. 405E1: 223 414C1-2: 223 Criti. 114E5: 265 Eut. 277B5 sgg.: 171 Men. 98A: XXII, 151 80D5-E5: 150

Peri tagathou Fr. 112 ross: 229

Phd. 96B6-7: 302 116D1, 4: 217

PSEUDO-ARISTOTELE Pr. XI 8, 899b27: 295

Phlb. 16C: 229 32C sgg.: 229

327

48D8: 202 Prm. 132A-B: 184

VI 510C-D: 183 VI 510D sgg.: 184 VI 511B: 241 X 600A6-7: 197

Prt. 318E1-3: 243 343D1: 223

Lg. VII 797A8: 202 X 895E-896A: 269

R. V 478C8-D1: 245 VI 506A4: 202 VI 510C2-3: 243 VI 510C-D: 183 VI 510D sgg.: 184 VI 511B: 241 X 600A6-7: 197

Epin. 976B5-6: 248

Smp. 261D3: 202 Tht. 151E6-152A1: 240 189E6-190A5-6: 183 R. V 478C8-D1: 245 VI 506A4: 202 VI 510C2-3: 243

PSEUDO-PLATONE Def. 412E4-5: 248 PROCLO In Eucl. 95. 21-22: 235 SENOCRATE frr. 60-65 Heinze (= frr. 165-212 Isnardi Parente): 257 SPEUSIPPO Fr. 31B Lang = 63a Tarán TEOFRASTO Ign. 73: 240 Ign. 73: 282

Indice del volume

Nota dei curatori Introduzione. Conoscenza dimostrativa di Jonathan Barnes Cronologia della vita e delle opere di Aristotele Traslitterazione dei caratteri greci ANALITICI SECONDI

V VII XXXI XXXIII

1

Note

143

Nota al Commento

145

Commento

147

Bibliografia

305

Indice dei luoghi citati

323

Biblioteca Universale Laterza

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