Allucinazioni americane
 8845935868, 9788845935862

Table of contents :
Frontespizio
Colophon
ALLUCINAZIONI AMERICANE
I. «Figmentum»
II. Il ballo dei fosfeni
III. Il teatro di posa della mente
IV. Il guanto di Gilda
V. Dietro il vetro
VI. Allucinazioni americane

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Roberto Calasso

Allucinazioni americane

Adelphi eBook

    Quest’opera è protetta dalla legge sul diritto d’autore È vietata ogni duplicazione, anche parziale, non autorizzata     Prima edizione digitale 2021     © 2021 ADELPHI EDIZIONI S.P.A. MILANO www.adelphi.it

ISBN 978-88-459-8431-0

ALLUCINAZIONI AMERICANE

 

Questo libro è stato scritto in vari momenti, separati anche da qualche decina di anni, e potrebbe – o dovrebbe – essere letto di seguito, come una sequenza priva di interruzioni. I soli due pezzi totalmente inediti e recentissimi sono Figmentum e Il ballo dei fosfeni. RW Rear Window – La finestra sul cortile V Vertigo – La donna che visse due volte

I FIGMENTUM

Hitchcock ha voluto rendere ben chiaro, fin dalla prima scena, che RW e V sono due film gemelli. Mentre è fin dall’inizio oscuro, e difficile da percepire, perché i due film sono l’uno l’inverso dell’altro. La gemellità si dichiara già nel casting: in entrambi i casi James Stewart e una indefessa fidanzata bionda, che lavora nella moda (Grace Kelly e Barbara Bel Geddes). James Stewart ha (o ha avuto) in tutti e due i casi un mestiere inquisitivo: fotoreporter avventuroso o brillante detective. La differenza sta nel fatto che in RW il fotoreporter non vede l’ora di tornare al suo mestiere, anche nelle situazioni più avventurose, mentre l’ex-poliziotto ha dato le dimissioni e non ha più alcun incarico. «Va in giro», nulla di più. In entrambi i casi l’uomo è uno scapolo refrattario al matrimonio a cui la donna vorrebbe persuaderlo. In entrambi i casi, il primo dialogo ruota intorno al fatto che l’uomo è impedito nel movimento, per la gamba ingessata in RW, per le vertigini in V. Anche il finale è implicito già dall’inizio del film: lieto in RW (il fotoreporter allevia il prurito con un calzascarpe, in attesa di liberarsi dal gesso); funesto in V (l’ex-poliziotto vuole liberarsi a poco a poco dalle vertigini, ma ha una crisi appena sale al terzo gradino di una scaletta. Anche lui è sul punto di abbandonare il rigido corsetto fornito dalla polizia per tornare a muoversi normalmente).

Scottie vuole liberarsi dalle vertigini e va incontro a qualcosa che è le vertigini, come appare prima ancora che il film cominci: dentro la pupilla di una donna di cui non sappiamo nulla affiora una spirale, che poi si metamorfosa. Diventerà lo chignon nei capelli di Madeleine, ma anche una scala a chiocciola – e comunque qualcosa che cresce su se stesso e si moltiplica, come si moltiplicano i piani di ogni edificio, quando Scottie guarda in basso.

Le vertigini sono una moltiplicazione di piani a cui si vorrebbe non credere, ma non si può. Quando Gavin Elster spiega a Scottie che la vita di Madeleine è invasa e governata dalla vita di una morta, Scottie si rifiuta di accettarlo. E, a partire dal momento in cui invece, per curiosità, lo accetta, è già di nuovo nelle vertigini, che per la prima volta si preannunciano nello scialle di seta verde di Madeleine a cena con Elster.

Madeleine è un figmentum, una immagine mentale, composta una prima volta da Elster e una seconda volta da Scottie. La sua esistenza impone che un’altra donna muoia: la moglie di Elster prima, Judy dopo. Il segnale che manifesta l’entrata in contatto con Madeleine è il colore verde: nello scialle, lungo fino a terra, della donna seduta al ristorante con Elster, nel vestito da giorno con colletto di Judy che cammina con le sue colleghe del grande magazzino. Fra l’uno e l’altro, ci sono anche molti altri verdi, introdotti dalla Jaguar verde chiaro di Madeleine, fino al canopy dell’Hotel Empire dove vive Judy e alle tende nella sua stanza, illuminate dall’insegna al neon dell’albergo. Madeleine è materia pericolosa da toccare. Non è soltanto un corpo, è sostanza mentale. Scottie tiene sempre le distanze. Ma bacerà Madeleine davanti alla missione subito prima che Madeleine precipiti (Scottie così crede) dalla torre campanaria. Quel bacio è un sigillo. E bacia Judy, ormai identica a Madeleine, nella stanza del suo albergo, mentre nella sua mente scorrono in un circolo il verde delle tende illuminate dall’insegna al neon dell’Hotel Empire e poi, senza giunture come in un diorama, le immagini degli archi e delle vecchie carrozze conservate alla missione. Quelle carrozze facevano parte di ricordi di Madeleine quando si identificava con Carlotta Valdes, la morta vagante di cui rimane soltanto la testimonianza di un ritratto in un museo poco frequentato. In quel momento il

presente sprofonda nel passato, esattamente ciò che Scottie riteneva impossibile, e il figmentum si rivela sovrano sul tempo. Ed è la sera in cui un’altra Madeleine precipiterà dalla torre campanaria della missione.

Nel suo ritratto al Museo della Legion d’Onore, Carlotta Valdes ha uno chignon e tiene in mano un delizioso mazzetto di fiori. La prima tappa, nei giri di Madeleine spiati da Scottie, è una fioraia. Madeleine non entra dalla via centrale e piena di traffico su cui dà il negozio. Passa invece dall’entrata posteriore, che dà su un vicolo. E attraversa un budello oscuro, dove si tengono le pattumiere. Poi apre la porta per entrare nel negozio e si è sopraffatti da una luce abbagliante. C’è una profusione di fiori – e di lato si notano, una sull’altra, alcune eleganti scatole verdi. Non si capisce perché Madeleine debba entrare da quel vicolo. Lascia la sua Jaguar davanti alla porta posteriore, ostruendo il passaggio, come se quel posto fosse da sempre disponibile per lei. Quel budello oscuro nel retrobottega della fioraia è l’unico luogo sporco in tutto il film, dove domina un quasi insostenibile nitore. E quel budello è, per Scottie, un passaggio di grado iniziatico, che lo immette nella vita di Madeleine, per lui equivalente all’ignoto.

Rispetto ad altre parole affini, come simulacrum, la peculiarità di figmentum è il suo esclusivo carattere di immagine mentale. Perciò è l’entità più inafferrabile. La statua, ágalma, si fissa in qualcosa di immobile, che si lascia toccare. Il figmentum invece è mobile, gira per le strade, può sedersi a un ristorante, senza che alcuno lo riconosca come tale, eccetto colui che lo ha plasmato.

Il regno del figmentum presuppone una sovranità illimitata, quella della mente. Nulla può lederla. Al tempo stesso, è un regno che può essere considerato del tutto illusorio, perché è fatto soltanto della mente. È il rovello e il dubbio ossessivo di Scottie, il detective che voleva diventare capo della polizia, uomo abituato a valutare con perizia e diffidenza ogni dato, inquisitivo e no nonsense. Ma le vertigini lo spingono a entrare in quel regno proibito.

Nei film di Hollywood e nei film di Hitchcock le cravatte dei protagonisti maschili (come Cary Grant o James Stewart) sono diverse in ogni scena. Ma in V c’è un’eccezione, che segna in due occasioni l’entrata nel regno del figmentum. Scottie indossa una cravatta a righe verdi la sera in cui vede Madeleine per la prima volta, a cena con Elster da Ernie’s, e ha la stessa cravatta il giorno dopo, quando comincia a seguire Madeleine: dalla fioraia, al cimitero, al Museo della Legion d’Onore, all’albergo McKittrick, dal libraio di Argosy, nell’ufficio di Elster, che gli svela certi segreti di Carlotta Valdes e, in conseguenza, di Madeleine. Da quel momento in poi, le cravatte di Scottie, che si veste con molta cura, cambiano ogni volta. Finché la cravatta a righe verdi riappare, la sera della prima cena con Judy, che è già sulla via di tornare a essere Madeleine. Ed è una cravatta lievemente fuori luogo, non adatta a una cena in un ristorante molto formale. È il figmentum che torna a imporsi, di prepotenza.

In RW, il cortile è un recinto impenetrabile, con una sola, stretta apertura sulla sinistra, che lascia intravedere qualcosa del mondo esterno: macchine e passanti. La natura non sussiste, salvo nella minuscola aiuola dove Lars Thorwald, l’uxoricida, ha abbandonato il corpo del piccolo cane della vicina. In V, circola l’aria dei vasti spazi californiani. Dietro le finestre dell’ufficio di Elster si vedono le gru di un cantiere navale. L’acqua è avvertibile, avvolgente. Scottie vaga per vari quartieri di San Francisco, mentre segue Madeleine. La natura è sempre presente: la baia gelata dove Madeleine si butta, alti alberi lungo la strada, infine la Sequoia sempervirens, «sempre viva» e «sempre verde». Ma non si tratta del verde clorofilliano. È il verde che segnala l’aura di Madeleine. Un verde che dura una frazione infinitesimale del tempo, come osserva Madeleine stessa, mentre tocca la sezione imponente di un tronco. Il figmentum ha sempre una vita breve, precaria. Deve essere sostenuto dalla costanza di chi lo ha composto. E Scottie non reggerà. Obbligherà Madeleine, quale Judy è diventata, a salire sulla torre della missione, che per lei e per lui significa la morte.

V è la storia della nascita, delle avventure e della morte del figmentum. In due versioni opposte: una volta il figmentum viene usato come arma per uccidere; la seconda volta, il figmentum è costretto a uccidersi.

All’inizio del film, in casa di Midge, Scottie dice che vorrebbe liberarsi dalle vertigini «a poco a poco», passo per passo. Midge allora gli porta una scaletta con tre gradini. Scottie sale i primi due senza difficoltà. Al terzo, ha di nuovo le vertigini e cade tra le braccia di Midge. Questo corrisponde all’iter di Scottie: il passaggio da testimone involontario (i primi due gradini) a testimone volontario (il terzo gradino). L’ultima fase è insostenibile per Scottie. Allora non può che precipitare. O nelle braccia di Midge, vicina e protettiva, che prefigurano un possibile matrimonio, dove però il figmentum sarebbe escluso (l’errore più grave di Midge verso Scottie è il dipinto in cui ha sostituito la sua testa a quella di Carlotta Valdes: quando Scottie lo vede è inorridito e mai come in quel momento distante da Midge). O altrimenti Scottie può soltanto cadere a braccia aperte nel vuoto, come nel suo incubo notturno. Che cosa accadrà dopo l’ultimo fotogramma non è sicuro. Non si vede mai il corpo di Judy-Madeleine precipitato dalla torre. L’ultima immagine è di Scottie a gambe larghe, che guarda in basso dal bordo della cella campanaria. Potrebbe anche non avere più le vertigini. O potrebbe essere sul punto di precipitare.

Le immagini che appartengono soltanto alla mente sono sempre sospette di irrealtà. Se diventano visibili o tangibili, la situazione si rovescia. Ora quelle immagini non solo appaiono reali, ma dotate di una realtà supplementare, pericolosa e potenzialmente contagiosa. Se poi si ricostruisce la loro origine, di nuovo si insedia il sospetto di irrealtà, che può riaccendere le vertigini. È questo che accade a Scottie.

In V i piani si moltiplicano, si sdoppiano, si ripiegano su se stessi – senza interruzione. Lo scenario di San Francisco ha un nitore fulgente. La Jaguar verde chiaro di Madeleine è un guscio traslucido che la protegge. I frequentatori di Ernie’s non potrebbero presentarsi altrimenti. I prati rasati davanti al Museo della Legion d’Onore così come davanti alla missione di San Juan Bautista trasmettono un senso di allarme. La fioraia Podesta Baldocchi, la libreria antiquaria Argosy, la massa di Fort Point, l’albergo McKittrick: tutto ha un profilo indubitabile, come se sussistesse da sempre. Il caso è tenuto a bada. Intanto il dubbio si espande ovunque, filtrando negli interstizi.

Nel Glossarium mediae et infimae latinitatis di Du Cange figmentum viene definito come simulatio, praetextus, ficta ratio. Qui, con ultimativa chiarezza, affiora il malanno di ogni immagine: il sospetto di falsità. Qualsiasi immagine può essere, in quanto tale, un inganno. È il presupposto della vulnerante dottrina biblica, ma anche della ben più sottile dottrina platonica. Non c’è modo di sfuggire a questa insinuazione di colpevolezza. Lo riconosceva Porfirio, con il tono di una insanabile rassegnazione: «Nessuna meraviglia che i più ignoranti considerino le statue pezzi di legno o di pietra, proprio come quanti non capiscono la scrittura guardano le stele come pietre, come legno le tavolette e come papiro intessuto i libri» (Sui simulacri, fr. 1).

Scottie si presenta come socio della folta schiera di coloro secondo cui ogni domanda ha una risposta e ogni problema ha una soluzione, se solo si insiste quanto basta. Ma, appena entra nel regno del figmentum, è paralizzato dal dubbio. Sente che una sola risposta sarebbe soddisfacente – e Madeleine la anticipa: che lei stessa sia pazza. Questo però dissolverebbe il figmentum, mentre Scottie vuole custodirlo, proteggerlo. E in definitiva vuole appropriarsene. Però il figmentum, a sua volta, scardina ogni assetto precedente. È questo il tormento di Scottie, sino alla fine. E lo costringe ad ammettere che c’è pur sempre qualcosa che non ha soluzione.

All’inizio, Scottie viene ingannato dal suo vecchio conoscente Elster e pilotato su false piste. Alla fine, Scottie riconosce che sta imitando Elster e rivaleggiando con lui, anche se partendo da una posizione inferiore, quella di chi imita l’invenzione escogitata da un altro. Non si tratta, nel suo caso, di elaborare un falso, ma di ripeterlo, esaltandolo. E questo è l’unico vero, incontrovertibile, di tutta la storia: «I loved you so, Madeleine» dice Scottie, poco prima che Judy-Madeleine precipiti dalla torre.

Elster avrebbe potuto comporre Madeleine rendendola più vicina al ritratto di Carlotta Valdes: i capelli sarebbero stati più scuri, l’espressione più pesante, comune. Invece Madeleine condivide solo lo chignon a spirale con il ritratto. Elster si preoccupa d’altro nel comporla: vuole che sia una apparizione irresistibile per Scottie, anche soltanto se vista di spalle con il suo scialle di seta verde. Scottie deve essere convinto e trascinato a partecipare al piano criminale, che altrimenti crollerebbe. C’è una complicità occulta fra Elster e Scottie, che affiora solo alla fine, quando Scottie, in cima alla torre, dice a Judy-Madeleine che sta imitando Elster, pur non contando di eguagliarlo. Eppure per entrambi la visione finale è identica: una donna bionda con un tailleur grigio chiaro che precipita dalla torre di San Juan Bautista.

Elster compone Madeleine come idolo; Scottie compone Madeleine come copia. Sono i due modi che svelano la colpa insita in ogni immagine in quanto tale. Così è in obbedienza a un patto strategico fra due potenze altrimenti avverse: la tradizione biblica, che condanna l’idolo, e la tradizione platonica, che condanna la copia. Perciò Elster e Scottie, l’assassino e l’ignaro strumento delle sue trame, finiscono per assimilarsi e giustapporsi: entrambi sono devoti dell’immagine, del suo vizio congenito.

V è una storia criminale dove l’attenzione dedicata all’assassino è minima. Elster semplicemente scompare. Non solo non viene arrestato, ma il tribunale è pieno di comprensione per le sue sofferenze. Al centro rimane Scottie con le sue ossessioni, che sono erotiche e metafisiche. Quando parlano di V, Hitchcock e Truffaut parlano soprattutto di sesso. Se deve definire nel modo più sbrigativo questo che è il suo film più inesauribile per complicazione, Hitchcock sceglie la via di KrafftEbing: «In poche parole, quest’uomo vuole andare a letto con una morta, si tratta di necrofilia». Truffaut non obietta, anzi rincara la dose: «Le scene che preferisco sono quelle in cui James Stewart accompagna Judy da un grande sarto, per acquistarle un tailleur identico a quello che portava Madeleine, la cura con la quale sceglie le scarpe, come un maniaco…». E subito dopo Truffaut si lancia in una vibrante difesa di Kim Novak, che Hitchcock aveva disapprovato per la sua «testa piena di idee». Il punto, secondo Truffaut, è tutt’altro: «Non si vede tutti i giorni un’attrice americana così sensuale sullo schermo. Quando la ritroviamo per strada nella parte di Judy, con la sua capigliatura fulva, è resa molto animalesca dal trucco e probabilmente dal fatto che sotto il vestito non portava reggiseno…». Hitchcock annuisce: «Effettivamente non ne porta e del resto se ne vanta continuamente».

Per definire i suoi personaggi, Hitchcock si compiace di usare i termini della più banale psicopatologia sessuale. Così, del protagonista di RW dice: «Era un voyeur». Ma subito dopo aggiunge: «Sì, l’uomo era un voyeur, ma non siamo tutti voyeur?». Allo stesso modo avrebbe dovuto dire, a proposito di V: «Ma non siamo tutti necrofili?». Se evita di dirlo, è solo per un perfido riguardo verso i suoi spettatori.

Che il verde sia il colore dominante in V non è un’illazione degli interpreti ma un principio formale che Hitchcock stesso descrive a Truffaut in sobri termini tecnici, come sempre ama fare: «Nella prima parte, quando James Stewart seguiva Madeleine nel cimitero, le inquadrature su di lei la rendevano piuttosto misteriosa, perché le facevamo con dei filtri di nebbia: ottenevamo così un effetto di verde sul riverbero del sole. Più tardi, quando Stewart incontra Judy, ho scelto di farla abitare all’Empire Hotel a Post Street, perché sulla facciata di questo hotel c’è un’insegna al neon verde che lampeggia ininterrottamente. Questo mi ha permesso di creare, senza ricorrere ad artifici, lo stesso effetto di mistero sulla donna quando esce dal bagno; è illuminata dal neon verde, torna veramente dal regno dei morti».

Sapiens ride, parla, piange, scrive. O anche dà forma a immagini. Tutte capacità citate come esempio di ciò che lo distingue dal continuum zoologico. Ma anche dare forma a immagini può essere considerato come un privilegio e una colpa, in quanto lesione di un ordine.

Sulla scena di V c’è anche un personaggio totalmente ignoto: Madeleine come moglie di Elster, la donna che viene uccisa. Di lei si sa soltanto che si è ritirata in campagna, lasciando a Elster campo libero per porre in atto il suo piano. Ma la Madeleine composta da Elster trasformando Judy doveva averla come suo modello, per potersi inserire in modo indolore nella cornice della vita dell’altra Madeleine. C’è sempre un vicino o un portiere o un fornitore che non deve essere turbato o sconcertato. La copia occupa un incavo già predisposto. I capelli, i vestiti, l’espressione della Madeleine composta da Elster non potevano che essere quanto più possibile simili a quelli della Madeleine da lui uccisa. Nessun arbitrio era ammesso nel figmentum. Ma la copia doveva anche poter imporsi come una realtà ultima, tale da trascinare inevitabilmente Scottie. In un film colmo di elementi implausibili, Hitchcock ebbe la malizia di isolare, parlando con Truffaut, come unico elemento implausibile il fatto che Elster non poteva essere del tutto certo che Scottie seguisse Judy-Madeleine fino quasi in cima alla torre. E invece quello era l’unico elemento sicuro di tutto il film, l’assioma da cui tutto il resto dipendeva: il potere assoluto della copia su un essere già colpito dalle vertigini, fondamento della copia stessa.

Se si espunge il pesante apparato psicoanalitico, Marnie rimane la storia di un uomo alla ricerca di una donna inaccessibile, dalla troneggiante capigliatura bionda chiusa in uno chignon ancor più complicato di quello di Judy-Madeleine in V, che è un’altra donna inaccessibile. Il vincolo essenziale è una certa biondità, che agisce come un baluardo e accende l’attrazione. E anche in Marnie è essenziale che la donna inaccessibile non sia sempre bionda (in una scena decisiva, all’inizio del film, si vede Marnie che si sciacqua i capelli, cambiando tintura). Giustamente Hitchcock disse a Truffaut che in Marnie voleva soprattutto «mostrare un amore feticista». Il feticcio non è che il nome psicoanalitico del figmentum. Marnie è una ladra coatta, Judy-Madeleine viene dal regno dei morti. Se non opera un qualche inganno, non si impone il figmentum (o il feticcio).

In RW e V opera lo stesso elemento scatenante: un uomo uccide sua moglie, architettando un complicato alibi. Nel caso di RW, l’assassino viene scoperto grazie alla potenza dell’occhio di James Stewart moltiplicata dal teleobiettivo; in V, all’inverso, l’assassino elude la condanna grazie all’inadeguatezza fisica di Scottie, che non riesce a testimoniare l’uccisione. E l’inversione appare anche nel ruolo della donna: Grace Kelly ha un ruolo decisivo nell’inchiodare l’assassino; JudyMadeleine permette all’assassino di sfuggire a ogni accusa.

Parlando di V con Truffaut, Hitchcock evita di soffermarsi sulle inesauribili complicazioni del film. Preferisce ricordare i capricci di Kim Novak, testarda e refrattaria a seguire in tutto il regista (peccato mortale dell’attore). Allora doveva andare a persuaderla nel suo camerino, per non farlo «anche davanti agli elettricisti». O altrimenti preferisce spiegare l’accorgimento che gli ha permesso di girare un effetto di vertigini risparmiando trentunomila dollari. Ma c’è un momento in cui Truffaut riesce a rompere la cortina di elusività, quando dice: «In V c’è una certa lentezza, un ritmo contemplativo che non si trova nei suoi altri film, spesso costruiti sulla rapidità, la fulmineità». E qui Hitchcock non può che annuire: «Esatto, ma quel ritmo è perfettamente naturale perché stiamo raccontando la storia di un uomo che è un emotivo». Hitchcock fa capire che è totalmente d’accordo, ma come tante altre volte si trincera dietro la più banale formulazione psicologica (o altrove psicoanalitica). Il discorso era appena avviato – e subito si chiude. Non è solo Scottie a essere un «emotivo», tutto il film è il regno del pathos. Non c’è un solo istante che ne sia privo, fino all’insostenibile.

Una San Francisco senza passanti (o molto pochi), con macchine ridotte al minimo (e assenti appena fuori città), musei e cimiteri senza visitatori, un albergo con le serrande abbassate o quasi, ovunque erba ben rasata. Tutto nitido, intatto, lustro. È il mondo di Madeleine: una bolla d’aria alta come il cielo, appena respirabile. Soltanto quando appare Judy la città riprende la sua vita formicolante, accidentale, i locali tornano a riempirsi, i magazzini lavorano. Fino a un’ultima sera, dopo strade deserte.

RW e V sono due grandi celebrazioni dell’occhio. In RW dell’occhio artificiale, potenziato dal teleobiettivo e alla fine dal flash; in V dell’occhio naturale, come appare già nei titoli di testa, anzi della pupilla in quanto luogo in cui qualcosa si riflette: una spirale con un buco nero al centro, che si trasforma incessantemente. Questo vale anche per il cinema in sé, occhio sovrapposto a quello di chi lo guarda. Ma Hitchcock per due volte ha voluto renderlo il perno di tutto un film, senza il quale nulla accade. È il segno che si tratta di qualcosa di insito nella mente, non schivabile.

All’inizio di V, Scottie è un detective che insegue qualcuno su un tetto, scivola e finisce aggrappato a una grondaia. Il poliziotto che lo precede tenta di aiutarlo prendendogli una mano, anche se non ha dove appigliarsi con l’altra. Precipita. L’edificio è alto, la caduta è mortale. Ma che cosa succederà a Scottie? Non c’è un altro poliziotto che lo segue, sul tetto, e potrebbe aiutarlo. E non sembra che possa resistere a lungo. La grondaia è già incurvata, Scottie è paralizzato dal terrore per ciò che ha visto. Comunque ci vorrebbe tempo perché un soccorritore arrivi sul tetto o venga predisposto un qualche accorgimento per attenuare la caduta. Qui però la scena si interrompe e si riapre in casa della occasionale fidanzata di Scottie, Midge. Scottie è impeccabilmente vestito e presto parlano del suo incidente, che gli ha lasciato un grave sintomo – le vertigini (ma Scottie parla piuttosto di «acrofobia»). Un sintomo che lo ha costretto a dare le dimissioni dalla polizia. All’inizio di RW vediamo James Stewart, fotografo sempre in cerca di missioni rischiose, davanti a una finestra con una gamba ingessata per un incidente di cui nulla sappiamo. La gamba gli prude, tenta di grattarla, non vede l’ora di togliersi il gesso. Alla fine del film, il fotografo ha entrambe le gambe ingessate, perché è precipitato dalla sua finestra sul cortile. Ma questa volta da una minore altezza.

In V c’è una caduta probabilmente mortale, che però viene attutita. In RW, una caduta meno rischiosa, che aggrava una infermità già presente. Quale incidente ha l’esito più grave? La caduta che viene attutita. Un poliziotto e due donne, Madeleine e Judy, dovranno morire di conseguenza. E l’ultima immagine di Scottie è in piedi, sul bordo di una torre campanaria. Guarda, sul tetto sottostante, il corpo di una seconda donna bionda che vi è precipitata. Non sappiamo che cosa avverrà un attimo dopo. Scottie si sentirà «liberato», come gli era stato promesso, se avesse subito un altro shock, pari al primo? E allora tornerà a essere un uomo normale, che potrebbe anche reinserirsi nella polizia? O precipiterà anche lui, come già aveva visto se stesso in un incubo? O era già precipitato all’inizio, quando stava aggrappato alla grondaia? Allora tutto il film si svolgerebbe nella sua vita immediatamente dopo la morte, in quello stato che i tibetani chiamavano bardo, nozione che forse Hitchcock ignorava ma certamente non escludeva? In ogni caso, il soggetto sarebbe ciò che dà il titolo al film: vertigo, vertigini.

I primi oggetti di cui si parla in RW e in V sono un’ingessatura e un busto (Scottie usa un termine femminile, corset). Si tratta di liberarsi di qualcosa che blocca la vita normale, in conseguenza di un incidente grave. E in entrambi i casi la situazione si aggraverà ancora. Il fotografo dovrà pazientare per qualche settimana in più con tutte e due le gambe ingessate. Ma Scottie? C’è una terribile, implicita beffa nel pensiero che possa ridiventare, come lui stesso dice, «un uomo libero». La morte di una donna amata lo aveva ridotto alla catatonia. Ora dovrebbe sopportare la morte di una donna doppiamente amata. «C’è una risposta per tutto» aveva detto Scottie a Madeleine nelle stalle del convento di San Juan Bautista, ultimo istante felice. Ma non proprio per tutto.

Quando torna sulla «scena del delitto», Scottie parla concitatamente. Ignora la Madeleine che è stata gettata sul tetto del convento e il suo assassino, che non è stato neppure sospettato e ora è probabilmente molto lontano. Per lui, conta solo che il vecchio amico Gavin abbia plasmato Judy prima di lui, compiendo gli stessi gesti, come in un atto sessuale lungamente protratto, che irretisce. Per Scottie appena tornato alla normalità, nulla è insopportabile come la pluralità insopprimibile della copia. A quel punto appare la suora, con il volto coperto dal buio. È l’emissaria funesta della necessità. Dice: «Ho sentito delle voci» – ed è come se dicesse: «Andrete fin qui, non oltre». Allora JudyMadeleine precipita.

Che cosa voleva ottenere Scottie, spingendo a forza Judy sulla «scena del delitto»? Una prima confessione, che gli avrebbe permesso di ricostruire, passo per passo, ciò che era avvenuto, sovrapponendolo a una scena di furibonda gelosia. Era un tentativo di ritrarsi dal mondo del figmentum, ora che le vertigini sembravano scomparse. Scottie si separava da una parte della sua vita che aveva scoperto, pur facendo una qualche resistenza, ed era diventata la più felice per lui. Tornava a essere un detective che cerca una risposta a tutto, per mestiere.

All’inizio di V, un anonimo passante attraversa la scena tenendo in mano un oggetto scuro, apparentemente una custodia dalla strana forma asimmetrica. Siamo nel porto di San Francisco, subito fuori dall’ufficio di Elster. L’anonimo passante è Hitchcock stesso, che lascia un’impronta clandestina sul film, come sua abitudine. Maniacale inventore, Hitchcock contava sulla complicità di certi maniacali spettatori futuri della sua opera. Nessun dettaglio doveva andare perduto. Così in anni recenti Ken Mogg è giunto a scoprire che cosa si celava in quella enigmatica custodia: un foghorn, uno di quei corni dal suono gemente che aiutano a navigare nella nebbia. È vero che tutto V è avvolto in una luce smaltata. Eppure una nebbia c’è – e in un punto decisivo. Quando Judy esce dal bagno, finalmente trasformata in Madeleine, Hitchcock la mostra attraverso un filtro di luce verde, «perché sembri che sia appena uscita dalla nebbia di San Francisco – una donna fatta di mistero e illusione» (Edith Head). Si è sempre in errore, per difetto o per eccesso, nell’attribuire intenzioni a Hitchcock. Ma è sempre bene riconoscere i dati di fatto. Nello stesso anno di V, il 1958, Hitchcock girò un episodio della serie televisiva «Hitchcock presents» che aveva questo titolo: The Foghorn. Era la storia di due amanti la cui barca finisce per cozzare nella nebbia contro un mercantile. Uno dei due muore, ma questa volta l’uomo.

II IL BALLO DEI FOSFENI

I fosfeni sono esseri che occupano il campo visivo, a occhi chiusi o aperti. È il loro territorio, dove vivono, si sviluppano, scompaiono. Non vengono evocati a volontà, se non in minima parte. Se vengono presi in considerazione, è in rapporto alle immagini mentali. Ma le immagini sono qualcosa di già formato, compiuto, persistente. Mentre i fosfeni sono fugaci, spesso parziali, mutevoli. Da dove vengono? Da qualsiasi provenienza. Se sono volti, possono essere tanto più precisi quanto più è sicuro che non li abbiamo mai visti prima. C’è un solo luogo che può accoglierli tutti: il cinema. Non certo il teatro, così autolimitato e provvisto di una cornice. Non certo l’arte, in ogni sua forma, né i simulacri in genere del passato. Il cinema è l’unico luogo accogliente senza confini percepibili, indifferente, il luogo dove i fosfeni si dispongono su una stessa tela di fondo. I fosfeni non sono eliminabili dalla volontà. Chiunque volesse ignorarli, come generalmente accade, continuerebbe a ospitarli. Se chiamarli immagini mentali è una definizione ingombrante e sviante, è vero però che le immagini mentali sono fatte di fosfeni, che ricorrono, si sviluppano, mutano. La doppia vita del campo visivo è perenne. Non c’è mai il buio assoluto, così come non c’è mai una semplice riproduzione dello spazio illuminato, anche se, quando siamo a occhi aperti, i fosfeni tendono a condurre una vita latente e clandestina, che invece può scatenarsi e dilagare quando gli occhi sono chiusi o al buio.

Le immagini mentali non sono stampigliature che si sovrappongono alla visione, come timbri su francobolli. Sono figure che concrescono al sistema visivo, sviluppandosi, espandendosi da una superficie precedente, che non ha confini accertabili. Ed è sempre oscillante, sfuggente. Processo di cui quasi nulla sappiamo, ma molto ci dice su qualsiasi cosa siamo.

I fosfeni per lo più vengono considerati come accidentalità del sistema visivo. Non esercitano nessuna funzione, così vengono accantonati. Eppure sono i lontanissimi prodromi di qualcosa di psichico. E, per lo meno in rapporto alle allucinazioni e all’aura emicranica, impongono di essere studiati in dettaglio. Altrimenti non c’è merito né demerito per chi è curioso dei fosfeni. Sono le incalcolabili truppe a disposizione del figmentum, dei suoi agguati e delle sue epifanie. Scottie era un uomo del genere no nonsense. Pensava che anche il trauma da lui subito potesse, anzi dovesse, venire affrontato gradualmente, passo per passo, in questo caso addirittura alla lettera. Ancor più decisamente escludeva che l’immagine di una morta potesse invadere la mente di una viva. Erano cose che servivano solo a dare materia agli psichiatri. Ma, nel momento in cui diceva questo, con veemenza, al suo vecchio compagno Gavin, era già intaccato da un fosfene, che gli si era aggrappato sviluppandosi e moltiplicandosi in una maniera che appartiene solo ai fosfeni, come appare nella sequenza di spirali che si espandono e si contraggono nei titoli di testa del film. Quello era il trauma intrattabile, che non si riesce a sanare passo per passo.

Accadde, a un certo punto degli anni Ottanta, che alcuni paleoantropologi, spronati da LewisWilliams, pensarono di non parlare più di «fosfeni» ma di «fenomeni entoptici» o «forme entoptiche». I fosfeni erano erratici, imprevedibili. Le forme entoptiche avevano un’aria più seria, anche nel nome. E tanto occorreva perché si trattava di un primo avvicinamento alle immagini mentali, categoria ben netta e delineata, al di là della quale si giungeva – a che cosa? Alle statue. I fosfeni non riuscivano a diventare materia di studio, se non statistico. Le forme entoptiche giungevano almeno a sfiorare il significato, qualsiasi cosa esso fosse.

Secondo Lewis-Williams et alii, i fosfeni sono ubiqui e manifestano immagini di stati alterati della coscienza, le uniche che sarebbero a noi giunte dal Paleolitico. Ma che ne è dello stato normale della coscienza dell’uomo del Paleolitico? Di questo non si parla, quasi fosse privo di interesse. È come se Scottie, a metà del secolo ventesimo, non sapesse a quale stato desidera disperatamente tornare dopo il suo incidente. Ma così non è. Scottie conosce solo il suo stato normale e il vortice in cui, da un attimo all’altro, è stato preso. Tutto ciò che farà è un tentativo di capire cos’è quel vortice, attraversandolo.

Scottie si siede al bar di Ernie’s. Dopo la conversazione con Gavin si è cambiato. Ha un vestito più scuro e una cravatta a righe verdi su fondo rosso. Elegante, lievemente inappropriato, perché la serata da Ernie’s è quanto mai formale. Gli uomini in smoking o in uniforme. Le donne con vestiti da sera. Si preparano ad andare all’opera. Scottie ha una prima visione di Madeleine, di spalle, al tavolo con Gavin. Visione subito interrotta dal passaggio di una donna bionda, con uno chignon e un tailleur grigio chiaro. Anche lei elegante e lievemente inappropriata. È l’annuncio della copia. Fin dal momento in cui attraversa la sala di Ernie’s, e di profilo appare già altrove, Madeleine è doppiamente una copia: vista da Gavin, che l’ha plasmata sul modello della moglie; vista da Scottie, che ormai la guarda come una donna tentata di assimilarsi a un’altra donna, morta molti anni prima. Le due Madeleine convergono nella spirale dello chignon. E sarà quella la nuova forma delle vertigini per Scottie.

L’ignota donna bionda con chignon che attraversa la sala subito prima di Madeleine è un’apparizione fantomatica della moglie di Elster e latrice di un avvertimento verso Judy diventata Madeleine: «Tu appartieni al dominio delle copie». Per un attimo, qualcosa interferisce tra la visione di Madeleine ancora seduta, con uno smagliante scialle verde, e quella di lei che esce dal locale, scortata da Gavin e dall’occhio di Scottie. Madeleine è la doppia copia. D’ora in poi Scottie la vede come una donna bionda da pedinare, spiare. Ma soprattutto seguire, per scoprire se è anche un’altra donna.

Non c’è un gran vantaggio epistemologico se si decide di chiamare i fosfeni «fenomeni entoptici». Forse si otterrà, come spesso accade nel lessico scientifico, una diminuzione del quantum di ignoto, privo di causa apparente, che appartiene a una certa parola. Dopo tutto, i fosfeni sono fenomeni secondari e trascurabili che avvengono all’interno dell’occhio. Uno studioso li ha assimilati alla «polvere». Tutto cambia, però, e diventa pienamente arbitrario, se si asserisce che i fosfeni sono fenomeni dovuti a «stati alterati della coscienza», mentre appartengono all’esperienza di chiunque, nel più normale degli stati. Con imperturbata baldanza, Bednarik, Lewis-Williams e altri paleoantropologi decisero di attribuire l’esperienza dei fosfeni a stati alterati della coscienza, senza però menzionare, neppure con una parola, l’esperienza normale, usuale, non alterata – o comunque si intenda chiamarla – che chiunque ha di essi. Questi stati alterati, che i fosfeni suscitano, sarebbero l’esperienza da porre all’origine dell’arte parietale in genere. Difficile trovare un segno più eloquente della paralisi speculativa che coglie neuroscienziati e paleoantropologi appena si avvicinano a parole come «coscienza» e «significato» senza altri attributi. Gli «stati alterati» sono un prezioso aiuto per studiare un’appendice di qualcosa che si continua a ignorare.

Che cosa accade dei fosfeni quando finiscono in un’enciclopedia? Diventano «abnormi sensazioni visive di punti luminosi o scintille», dovute a varie cause, come una compressione del bulbo oculare. Ma anche e soprattutto «senza causa apparente». Al tempo stesso, i fosfeni non dovrebbero allarmare, perché sono «compatibili con una normale funzione visiva». Quindi non richiedono stati alterati della coscienza. È come se soltanto gli uomini del Paleolitico avessero questo privilegio – da cui farebbero nascere, per via di complicati sviluppi, l’arte. Per l’uomo di oggi i fosfeni invece rientrano nella vasta plaga dell’irrilevante. Questa definizione, trasmessa da una qualsiasi autorevole enciclopedia, in sintonia con molte altre, non solo è sviante ma del tutto inesatta. «Punti luminosi o scintille» fanno senz’altro parte dei fosfeni, ma in quanto si mescolano in ogni istante con immagini di persone o luoghi ignoti, che abitano lo stesso campo visivo. Non solo: talvolta da «punti luminosi o scintille» quelle immagini si sviluppano, prendono forma, svaniscono. Tutto avviene nel segno dell’istantaneità, ma può anche protrarsi, ricorrere, fissarsi. La situazione ideale, per i fosfeni, è quella di chi si trova disteso, a occhi chiusi. Ma anche a occhi aperti, per chi esercita l’attenzione, i fosfeni continuamente rampollano e operano. È qui che avviene la giunzione tra fosfeni (a cui nessuno osa attribuire un significato) e immagini mentali, che soprattutto in certi periodi sono state sovraccaricate di

significati. Tutta la mnemotecnica rinascimentale su questo si basa. E alcuni che la praticavano la ritenevano più potente di ogni filosofia. Per esempio, Giordano Bruno.

Il ragazzo del Wyoming, grassoccio, roseo, capelli fulvi, ricciuti, sta seduto sotto il portico della sua casa con un libro in mano, spesso, sgualcito. La casa è di legno grigio. Intorno, sterpaglie. È un fosfene – o lo sviluppo di un fosfene. Ma tutti i fosfeni sono in via di trasformazione. Da quando il ragazzo del Wyoming è apparso, non si è mai mosso, salvo una volta, quando ha preso un treno, verso ovest. Prima non si era mai visto, neppure tra le comparse di un film. Ma il cinema è il suo territorio. La casa di legno grigio è vuota, nessun altro vi ha messo piede. È facile ritrovare il ragazzo del Wyoming. Sta ancora lì, seduto nel portico.

Hitchcock seminava di trappole quello che diceva sui suoi film. Trappole rivelatrici. A Truffaut disse che V aveva un difetto: Gavin non poteva essere sicuro che Scottie non sarebbe mai riuscito a salire in cima alla torre campanaria. Ma quella era proprio la nervatura da cui dipendeva tutto il film. L’opera demoniaca di Gavin si era spartita in due metà: aveva plasmato Judy in modo tale che gli altri condomini del Brocklebank la scambiassero per Madeleine senza essere sfiorati da dubbi; e aveva plasmato al tempo stesso Judy perché diventasse il figmentum irresistibile per Scottie, composto dall’espandersi di una figura spiralata, che per lui era la sigla delle vertigini. Non era un caso di amour fou, sapientemente architettato. Era una attrazione per il vuoto che diventava il corpo di una donna. Seguire Madeleine come un detective diventava allora una variante del tentativo di guarire passo per passo, addirittura pedinando, ma questa volta andando incontro alle vertigini come a un risucchio tenace e non a qualcosa che fa terrore.

Nella sua maniera, Hitchcock aveva svelato il punto su cui si reggeva il ponte sospeso del film: se Scottie, fin dal primo istante, non fosse stato indotto ad attraversarlo e incapace di tornare indietro, tutta la storia si sarebbe dissolta.

Gavin è ben più di un marito che vuole eliminare la moglie e dileguarsi con l’eredità. Con la sua espressione da grande felino, con la sapiente progressione degli argomenti che espone al vecchio compagno di college – Gavin sa benissimo che le vertigini sono l’ossessione dominante di Scottie –, con il suo richiamo alla complicità, sempre più chiaro mentre si muove nel suo ufficio e si dispone un po’ più in alto – due soli gradini – rispetto a Scottie, Gavin fa pensare che stia compiendo un’operazione simile a quella che ha già compiuto con Judy. Ma qui si tratta di dare pochi ritocchi a una psiche già ferita, non di trasformare una procace, sensuale ragazza del Kansas in una donna inavvicinabile, persa in un lontano passato. Eppure in tutto V non c’è il minimo tratto che induca a considerare il comportamento di Gavin come qualcosa di diverso dall’ingegnosa macchinazione di un criminale. E questo vale sino a quando Gavin scompare senza neppure essere stato sospettato. Gavin è riuscito ad appiattire il suo comportamento nella normalità. Anche il coroner non ha dubbi: Gavin si è sempre comportato in modo ragionevole. Ma è proprio questo che rivela la sua natura demoniaca. In V, tutto deve essere coperto, Carlotta Valdes non deve agire sui vivi, Scottie deve solo invaghirsi di una donna che segue per far piacere a un amico. Questa copertura di tutto è qualcosa a cui raramente è dato assistere – e, se mai, soltanto al cinema. Tanto più se ne esce grati. Tutto è

presente e agisce, anche se non si lascia nominare.

Certamente i fosfeni non sono all’origine delle immagini mentali e non bastano a spiegarle. Ma all’interno della fisiologia del sistema nervoso si produce una incessante profusione di immagini che si amalgamano alle immagini mentali e sorprendono innanzitutto per la loro inspiegabilità, oltre che per la penetrante vivezza che immettono in ciò che appare.

Fin dalle prime osservazioni ottocentesche di Helmholtz, Gowers, Airy, dei fosfeni si è sempre parlato come di figure geometriche variamente luminose, mobili, soggette a trasformazioni. Così ignorandone una larga parte, costituita da immagini (persone, paesaggi, scene, architetture, tessuti) che affiorano ma non sono ricordi e non sono neppure riconducibili a una commistione di esperienze precedenti. Che nel regno dei fosfeni ci fosse ben di più di qualche figura geometrica è avvertibile in certi protocolli dove si parla di «tappeti turchi» o di «carta da parati» o di «distorsioni simili a quelle dei sogni». Tuttavia un riconoscimento della infrenabile plasticità dei fosfeni non è mai avvenuto, fino a tempi recenti – e tuttora con cautela. Lo studio più approfondito di fosfeni non dissimili da entità che appartengono anche al mondo esterno è stato dedicato alle fortificazioni che appaiono nell’aura emicranica: forme geometriche, ma pur sempre avvicinabili a luoghi esistenti, quali le fortezze di Vauban.

Le osservazioni più sostanziose e precise sui fosfeni sono state fatte nello studio dell’emicrania, magnificamente ricostruito e illustrato da Oliver Sacks; o altrimenti in rapporto agli stati alterati della coscienza, innanzitutto nel Paleolitico, con tutte le perplessità che questo suscita. Rimane un grosso buco da colmare: scoprire che cosa sono i fosfeni negli stati non alterati della coscienza di chiunque, oggi e ieri, vale a dire nell’esistenza normale di Sapiens. È come se ciò che chiunque vive in ogni momento venisse accantonato perché lo si considera parte di un’esperienza rara e remota.

All’interno delle immagini mentali, i fosfeni sono un sottoinsieme dove l’immagine raramente riesce a diventare una figura mobile, che gira vie della città e al tempo stesso mantiene il suo carattere ossessivo. Ed è questo che avviene se l’immagine ha un legame inscindibile con un fosfene: nel caso di Madeleine, la spirale in movimento che converge nel suo chignon. Per questo a Scottie non basterà nessuna trasformazione di Judy sino al momento in cui la vedrà uscire dal bagno con lo chignon di Madeleine.

Scottie non ha nulla da spartire con il magus che si dedica tenacemente alla compositio imaginum. Anzi, se fosse per lui, sarebbe preferibile che le immagini mentali non ci fossero. Anche l’espressione non sembra appartenere al suo lessico. Tanto più forte, soverchiante l’urto con questo mondo ignoto, che dispone di una carta senza rivali: la morte.

I fosfeni sono stati chiamati «il cinema del prigioniero». E, poiché sono «un fenomeno percettivo comune all’intera umanità», certifica il «Scientific American», ne consegue che chiunque al mondo è un frequentatore assiduo, quotidiano, di quel cinema. Di cui però non si dà una storia. Parenti morganatici della coscienza, i fosfeni continuano a condurre una vita marginale, semiclandestina. Eppure si trovano sulla soglia della senzienza, parola recente per indicare il bordo dell’abisso che separa la coscienza dall’esperienza registrabile. Ogni tentativo di misurare quell’abisso è finora fallito, più o meno al primo passo. Ma i fosfeni sussistono, incuranti delle teorie. E se uno di loro si impiglia in una psiche, come in quella di Scottie, può espandersi in un vortice da cui sorge Madeleine e da cui non si esce. Quella potenziale ossessività è lo sfondo del cinema stesso. E c’è un film che può esserne considerato l’abbagliante emblema. È V.

III IL TEATRO DI POSA DELLA MENTE

Mi è capitato non poche volte di osservare che i film di Hitchcock tendono a diventare più belli, quando si rivedono. Ultimamente, rivedendo Psycho, Gli uccelli, Marnie. Di quali altri registi si potrebbe dire lo stesso? Di Lubitsch, di Max Ophuls, certamente. Altri nomi si potrebbero aggiungere, ma non molti. Perché? Forse per una certa compattezza inscalfibile che protegge quei film dal mondo esterno. Chi entra in un Hitchcock, in un Lubitsch, in un Ophuls mette piede in luoghi autosufficienti, che tendono a risucchiare tutto in sé. Ci possono poi essere anche altre ragioni di costante, rinnovato stupore. Può essere uno stupore non solo estetico, ma speculativo. O meglio: uno stupore estetico perché speculativo. Questo vale per alcuni film di Hitchcock che svettano (e abbagliano) perché, all’usuale intreccio di delizie e terrori, sovrappongono una dimensione metafisica. Primo esempio, palese: Vertigo. Ma lo stesso si può dire, con implicazioni più subdole e indominabili, per La finestra sul cortile. Truffaut, con la sua solita chiaroveggenza, scrisse una volta a Hitchcock: «Vertigo è più sentimentale, più poetico, ma La finestra sul cortile è la perfezione». Se ne accorsero anche Chabrol e Rohmer, che annotavano: «Se c’è un film di Hitchcock per il quale il termine metafisica può essere citato senza timore, ebbene questo è proprio La finestra sul cortile». Peccato che poi si insabbiarono nel tentativo di individuare quale metafisica. Dopo un primo rimando al mito platonico della caverna si imbrogliarono fra sant’Agostino e i giansenisti alla ricerca del

significato morale della vicenda. Non si capisce perché (anzi, si capisce benissimo), ma appena interviene la parola «morale» la lucidità del pensiero si appanna. E allora quale sarà la metafisica implicita nella Finestra sul cortile?

Come Lubitsch, come Ophuls, Hitchcock si guardava bene dal teorizzare sui propri film. Ma ogni tanto buttava lì una frase decisiva, dissimulata accanto a rilievi tecnici innocui. In quella frase si diceva l’essenziale. Così osservò una volta: «La finestra sul cortile è totalmente un processo mentale, condotto attraverso mezzi visivi». Isoliamo la frase e ci domandiamo: chi sta parlando qui? Śaṅkara a proposito della māyā? O è Rāmānuja o qualche altro maestro vedantico? Che senso ha descrivere un film puntiglioso e minuzioso fino al trompe-l’æil (il set del cortile, il più grande costruito sino allora dalla Paramount, corrispondeva fedelmente a un immobile di Christopher Street) come se fosse «totalmente un processo mentale»? «Totalmente»… Che cosa avrà inteso Hitchcock con quella affermazione così drastica? Non rimane che guardare il film. La prima inquadratura ci offre una tenda semitrasparente e avvolgibile di bambù che si solleva davanti a una finestra, poi un’altra, poi un’altra ancora. È come se la cortina di opacità che normalmente avvolge la mente e la rende inconsapevole di se stessa a poco a poco si dissolvesse. Che cosa appare, allora? Non il mondo, ma il cortile: predisposto come un edificio mnemotecnico, dove la parete di mattoni sbiaditi fa da supporto ai loci, che sono le varie finestre. Qui si manifesta la fondamentale invenzione visiva del film: le immagini che vediamo all’interno della cornice delle singole finestre (la ballerina che si esercita, i freschi sposi che entrano nel loro appartamento, il musicista infelice al pianoforte, Cuore Solitario

che si prepara a ricevere un maschio invisibile, il commesso viaggiatore Lars Thorwald che torna dalla moglie malata e astiosa) sono a un altro livello rispetto a quello che vediamo nel cortile o nella stanza del protagonista. Quelle immagini rettangolari non sono reali, sono iperreali. Hanno la qualità allucinatoria e smaltata delle decalcomanie. Tale è l’evidenza di quei rettangoli (ancora più imperiosa di notte, quando i rettangoli si stagliano su un fondale di tenebre) che cominciamo a domandarci: dove siamo veramente? E si insinua il sospetto: forse la finestra dove sta appostato il fotografo James Stewart con la sua gamba ingessata non dà, come tutte le finestre ingenue, su un qualche esterno. Forse – e già lo indica il titolo inglese (Rear Window) – è una finestra che si apre su ciò che perennemente sta dietro il mondo: il teatro di posa della mente. Di fatto, quando mai la «realtà» (Nabokov dice da qualche parte che si tratta di parola ormai usabile soltanto fra virgolette) ha avuto la nettezza allarmante, la patina madreperlacea di quello che vede il fotografo sui rettangoli luminosi davanti a lui? Quello che avviene là dentro non è forse il cinema sorpreso nella sua scaturigine? Ammettiamo dunque che le tende di bambù si siano sollevate su un teatro occupato da una mente e dai suoi fantasmi. Ma come si compone quella mente (ogni mente)? C’è un occhio sovrano, immobile: l’ātman, il Sé. Traduciamo nell’ironia occidentale di Hitchcock: l’occhio di un fotografo (l’occhio per eccellenza) con una gamba ingessata. Nel sovrapporsi di un binocolo o di un imponente teleobiettivo all’occhio del protagonista è implicita non soltanto la capacità di autointensificazione dell’ātman, ma la capacità dell’occhio sovrano di sdoppiarsi

indefinitamente: esiste sempre un metasguardo sovrapponibile allo sguardo, ma il passo decisivo è il primo: quello con cui il Sé si distacca dall’Io, il fotografo che guarda dall’assassino che viene guardato. Ma dov’è andato a finire il mondo, allora? La mente può provvedere a tagliarlo fuori, ma non del tutto. Rimane sempre almeno uno spicchio, che ferisce e permette la fuga. Per questo, su un lato del cortile, si apre un vicolo, che dà sulla strada. La strada è il mondo come è. Ma nel film non si farà mai notare se non per istanti, come quando Grace Kelly o Cuore Solitario o l’assassino vi si avventurano. Tutto il resto si svolge all’interno di una mente, fra l’occhio del fotografo e i suoi fantasmi. Quell’occhio è sovrano. Davanti a esso, tutto è disponibile: ogni piano, ogni scena della vita, quali si mostrano sulla facciata interna del cortile, come un film proiettato su ciascuno dei rettangoli luminosi delle varie finestre.

Il filo che lega il fotografo e l’assassino si stringe in un nodo metafisico, da cui dipende, come teorema da assioma, tutto il film. Secondo la dottrina vedantico-hitchcockiana, l’ātman, il Sé, non è un’entità isolata, ma sempre connessa a una controparte, l’aham, l’Io – o più esattamente l’ahaṃkāra, quel processo di «fabbricazione dell’Io» che dà a ciascuno l’impressione di avere un’identità. Ma perché l’Io deve essere l’assassino? Il rapporto fra ātman e aham corrisponde a quello fra il brahmano che vigila, silenzioso e immobile, sul sacrificio e l’officiante che lo compie. Ma perché il sacrificio? Perché è l’azione per eccellenza, su cui ogni altra si modella, da cui ogni altra discende. Così dicevano i veggenti vedici. E il sacrificio, anche se consiste soltanto nello spremere il succo lattescente di una pianta, il soma, è sempre una distruzione. E una distruzione che viene percepita come assassinio. Il rapporto fra ātman e aham è tortuoso, in ogni istante può rovesciarsi. L’ātman è un occhio sovrano, invisibile, però costretto all’immobilità della contemplazione. L’angoscia di Arjuna nella Bhagavadgītā sopravviene quando l’ātman è chiamato ad agire: ma questo in una prospettiva sacrificale, dove ātman e aham possono alla fine trovare un delicato, rischioso accordo. Nella prospettiva profana, dove il sacrificio è diventato assassinio, ātman e aham non possono che essere sempre potenze antagoniste, sino alla morte. Così il commesso viaggiatore potrà tentare di colpire lo Spettatore nascosto

sopraggiungendo alle sue spalle (come entrando nella sala cinematografica quando lo spettacolo è già cominciato). E potrà tentare di ucciderlo, perché comunque ātman e aham convivono nello stesso corpo. Il tentativo di assassinio del fotografo, compiuto dal commesso viaggiatore, è innanzitutto un tentativo di suicidio. E il fotografo riesce a difendersi solo abbagliando con il flash il commesso viaggiatore: come il Sé tenta di paralizzare con la sua luce interna la rivolta dell’Io, che colpisce da dietro, e dall’oscurità.

La versione profana offre nei termini ironici della commedia psicologica ciò che la versione sacrificale offre nei termini della ritualità metafisica: il commesso viaggiatore si libera con l’assassinio di un matrimonio passato (e l’unica prova del delitto che rimane è l’anello matrimoniale di sua moglie), mentre il fotografo vorrebbe liberarsi da un matrimonio futuro, ma proprio l’assassinio compiuto dal commesso viaggiatore lo obbliga al matrimonio. Così accade che l’aspirante fidanzata del fotografo (Grace Kelly) si appropria dell’anello di matrimonio dell’assassinata. Così ritroviamo il fotografo infermo e ancora più immobile (ora ha tutte e due le gambe ingessate), mentre dorme sotto lo sguardo della futura moglie, come era inferma e immobile nel suo letto la moglie del commesso viaggiatore prima di essere assassinata. Certo, il fotografo è alla mercé dell’incantevole perfezionista Lisa Fremont (Grace Kelly), mentre la moglie di Thorwald si trovava di fronte a uno sguardo di torvo rancore. Ma nulla è innocuo. La partita fra ātman e aham è eterna – e non si arresta mai. L’incanto peculiare, l’azzardo del film è proprio questo: comporre una sophisticated comedy screziata e virtuosistica sulla base di una materia brutale, senza attenuarne in alcun modo il carattere sinistro. Torniamo al cortile. Che aria tira in quel cortile della Nona Strada? Più o meno quella che tirava a Tebe con Edipo o a Elsinore con Amleto. «C’è qualcosa di marcio nel cortile». Ad accorgersene, come al solito, è il coro, che qui delega a

rappresentarlo la mirabile Thelma Ritter, infermiera delle assicurazioni. La ruota vorticosa dei fantasmi, l’ombra sempre più irresistibile di Grace Kelly che si proietta (da dietro) sul fotografo addormentato (quindi in fuga dai fantasmi che ritrova puntualmente sulla parete di fronte) creano una tensione che cresce, insieme al caldo umido di New York. Soprattutto in due persone: il fotografo e il commesso viaggiatore, che si appresta a uccidere la moglie. Che cosa lega questi due esseri che si ignorano? Un filo sottilissimo, un filo femminile. Il commesso viaggiatore Lars Thorwald uccide la moglie: il fotografo lo scopre con l’aiuto della donna che vuole diventare sua moglie (e a sua volta rischierà di essere uccisa dall’assassino). Come sempre, sacrificio e ierogamia sono avvolti l’uno nell’altro. Una volta espulsa la vittima sacra, che ora non è soltanto l’assassinata, ma l’innocente cagnolino dei vicini, si ha un effetto di pacificazione nel cortile. Il piccolo cane, vittima sostitutiva, viene rimpiazzato da un altro piccolo cane: a indicare che la sua esistenza rappresenta la sostituzione stessa. La ballerina ritrova il suo comico fidanzato, sfuggendo ai «lupi» che la insidiano. Anche Cuore Solitario, la donna matura e infelice che voleva uccidersi, trova un compagno: il pianista giovane e infelice, che era disperato per i suoi insuccessi. Qui si svela la crudele ironia di Hitchcock: previa qualche uccisione, la vita si alleggerisce e si rianima. Gli assassini passano, il cortile resta.

Questa lettura vedantica della Finestra sul cortile mi si impose come un’evidenza poco più di venti anni fa. Tutto tornava – e, quanto più tornava, tanto più mi sentivo attraversato da una sottile ilarità. Vedevo la faccia di Hitchcock, protetta dall’imponente baluardo del suo labbro inferiore, incastonata nella cornice proliferante di un tempio indù. Poi pensavo: è un po’ come guardare un film di Mizoguchi attraverso Plotino. Perché no, dopo tutto? Che altro fare se la psicologia e la psicoanalisi occidentali sono così rudimentali e inadeguate rispetto a Hitchcock? Anni dopo, vidi di nuovo La finestra sul cortile. La lettura vedantica riaffiorava spontaneamente, anzi si arricchiva di nuovi dettagli. Ma non era questo a colpirmi. Bensì una constatazione: l’arte non si lascia disturbare dai suoi significati. È stato Dumézil a raccomandare una volta il piacere di leggere l’Iliade di seguito «senza porsi domande», senza pensare a null’altro che alla storia raccontata, senza commenti, senza dizionari, dunque senza significati ulteriori. Quel piacere è la vera ordalia dell’arte. Ciò che regge a quella prova è salvo. E come si salvava il film di Hitchcock… Così bene che spingeva subito in altre direzioni. Per esempio: la brezza che smuove l’aria stagnante del cortile e delle rimuginazioni del fotografo viene da Park Avenue, con il passo di Grace Kelly. È lei, con le sue strepitose mises, con le sue battute molto più appuntite di quelle del maschio obbligatoriamente spiritoso, a spargere spezie nel film. Attraverso di lei Hitchcock, stratega dell’immagine, sembra far convergere tutto

verso un’epifania, che è anche un talismano. Osserviamo: all’inizio del film il fotografo, pedante e burbero come spesso gli uomini d’azione, spiega a Grace Kelly che lui va in giro per il mondo, sfiorando pericoli e disagi, con una minuscola valigetta. Come dire: «Non è roba per te, fatua femmina di Park Avenue». Al momento, Grace Kelly tace e incassa. Ma il giorno dopo, quando già sale la tensione per il supposto assassinio, apparirà con una valigetta nera, di somma eleganza, dove ha racchiuso il suo nécessaire per una notte con il fidanzato ritroso. E, dinanzi all’attonito James Stewart, dirà le due battute che siglano il film. «Un po’ di intuito femminile in cambio di un letto improvvisato» (è il baratto che risolve aforisticamente tutte le difficoltà sentimentali che opprimono il povero fotografo). E infine, sempre a proposito della valigetta: «Vedi, è più piccola della tua» (con deliziosa insinuazione sessuale). L’epifania si ha quando quella minuscola cassetta nera si apre con un suono secco e il suo geometrico nitore si scioglie nella nube rosata della camicia da notte che appare (insieme alle pantofole e al minuscolo specchio, ricordo vedantico). Quella luce si irradia su tutto il film.

Aggiungerei un’ultima glossa. La finestra sul cortile è l’Occidente stesso, nella sua forma più ammaliante e irriducibile. Ma forse, per capire se stesso, l’Occidente ha bisogno anche di categorie nate altrove. Altrimenti, rischia di vedersi più arido e informe di quanto già non sia. Oltre tutto, non è sempre stata una vocazione peculiarmente occidentale quella di viaggiare molto, di cercare altri mondi, di conquistarli ma anche di studiarli? E perché si studia se non per capire qualcosa che poi si può anche usare? Una storia che ci riguarda tutti molto da vicino è quella chassidica del Rabbi Eisik di Cracovia, raccontata da Buber. Rabbi Eisik figlio di Jekel ha un sogno che si ripete e gli intima di andare lontano, fino a Praga, dove avrebbe trovato un tesoro nascosto, sotto il ponte che conduce al castello dei re boemi. Rabbi Eisik va a Praga, osserva il ponte ma si accorge che è sempre sorvegliato da sentinelle. Testardo, continua a vagare nella zona. Alla fine il capitano delle guardie, colpito da quel vecchio ostinato, gli chiede che cosa cerca. Rabbi Eisik racconta la storia del suo sogno. Il capitano delle guardie scoppia a ridere. E gli racconta un’altra storia: «Guarda che, se i sogni fossero veritieri, in questo momento starei facendo un viaggio che è l’inverso del tuo. E naturalmente non troverei niente. Sappi che ho sognato che avrei trovato un tesoro a Cracovia, nella casa di un rabbino che si chiama Eisik figlio di Jekel, dietro la stufa. Figurati, andare a Cracovia dove metà degli uomini si chiamano Eisik e l’altra metà Jekel…».

Il rabbino Eisik figlio di Jekel ascolta senza commentare e torna subito a casa sua a Cracovia. Dietro la stufa trova il tesoro. Il punto della storia – osservò un grande indologo, Heinrich Zimmer – non è che il tesoro da noi cercato si trova più vicino di quel che pensiamo. Se così fosse, la storia di Rabbi Eisik somiglierebbe a mille altre. Il punto decisivo è che il luogo del tesoro deve essere rivelato da uno Straniero, il quale non si rende conto che in quel momento ci sta illuminando. Se non avesse incontrato il capitano delle guardie nella lontana Praga, Rabbi Eisik non avrebbe mai guardato nell’angolo dietro la stufa di casa sua. L’India (e non solo l’India) potrebbe essere per noi quello che il capitano delle guardie fu per Rabbi Eisik.

IV IL GUANTO DI GILDA

C’è stato un momento, che oggi sembra remoto, in cui folle di spettatori si raccoglievano ogni sera a Roma, protette dalla maestosa basilica di Massenzio, per vedere vecchi film. Ed era solo la manifestazione un po’ vistosa di un fenomeno rallegrante che si poteva constatare già da qualche anno. Si trattava, in breve, di questo: era cambiato radicalmente il modo di vivere il cinema, per lo meno da parte di quelle (molte) persone per cui il cinema è un vizio invincibile, una mite droga che dà i massimi piaceri ai lungamente assuefatti. Ora, proprio queste persone, anni fa, se volevano vedere qualcosa fra le decine di migliaia di film che fanno la storia del cinema, dovevano sottoporsi al desolante rituale dei cineclub. Sale squallide, e, sullo schermo, l’intramontabile carrozzina di Eisenstein, La madre di Pudovkin, molto Ladri di biciclette e altri incunaboli del neorealismo, due o tre Chaplin (Tempi moderni, perché è «contro le macchine», e Il dittatore, perché è «contro Hitler»), rari Carné, che facevano aspirare qualche zaffata di vizio e di Parigi. Il fondamento del cineclub era, a quei tempi, la risibile categoria del «cinema d’arte» o «cinema d’autore», sdegnosamente distinto dal «cinema commerciale». Questo fondamento è stato corroso, a poco a poco, soprattutto dalla torma sempre crescente dei cinéphiles. Questi bigotti, spesso comici ma sempre utili, pungolati dalla loro devozione cominciarono a estendere il loro interesse dal Grande Regista a tutti gli altri

elementi del cinema. Presto si accorsero che uno sceneggiatore o un operatore potevano essere altrettanto importanti del regista, che un grande attore poteva essere ancora più importante e che un caratterista poteva anche eclissare il grande attore. Per non parlare degli scenografi e, infine, dei truccatori. Facile era trarre a questo punto la dura conseguenza: che il cinema per essenza è privo di autore, anonimo o, comunque, dai-moltinomi. L’autore è un felice accidente, che ogni tanto il cinema ammette. E molto spesso si tratta di un maniaco del cinema che ha anche una invadente forza stilistica (penso a von Stroheim, a Welles). Qui giunti, crollava finalmente la struttura del cineclub e cominciava un’altra èra, più respirabile. Io credo che solo ora si cominci vagamente a rendersi conto di quella enormità che è il cinema. E la prima fase di tale nuova iniziazione è quella della voracità: vedere di tutto, film vecchi e nuovi, di registi noti e ignoti, con attori ottimi e pessimi, e film «commerciali» soprattutto! E americani soprattutto! E vederli preferibilmente per generi e convenzioni. Le Convenzioni, i Generi, di cui si favoleggiava a scuola che fossero stati liquidati da Benedetto Croce, sono invece come gli dèi: scompaiono, a tratti, ma per migrare e riapparire, camuffati e ringiovaniti, in altre terre. Nel nostro secolo è accaduto questo singolare fenomeno: che i Generi e le Convenzioni, evacuata la letteratura e il teatro, hanno migrato nel cinema. Anzi, più precisamente, si sono impiegati a Hollywood. Ed è anche per questo che oggi un romanzo medio è quasi un affronto, mentre in un film medio si potrà (quasi) sempre scoprire qualcosa, e soprattutto lo si seguirà fino in fondo senza

rancore. Perché il romanzo medio presuppone scioccamente di fondarsi su una Convenzione vivente, che invece gli è stata sottratta, mentre il film, anche nella totale inconsapevolezza, è attraversato ancora dalla forza della Convenzione. Se tutta la nostra civiltà sparisse nel nulla e soli restassero i film fatti a Hollywood negli anni Trenta o Quaranta, un alieno visitatore del nostro pianeta potrebbe – al di là dell’Arte e del Bello e del Brutto, ovviamente – ricostruire in gran parte il tracciato della mitologia dell’Occidente. Ma qual è la ragione di questo sommovimento, di questa grandiosa migrazione degli dèi? Rispondere esaurientemente a questa domanda significherebbe spiegare il nostro mondo, cosa che per fortuna ci è negata. Ma alcuni punti fermi, per la risposta, possiamo averli. Se le Convenzioni e i Generi hanno scelto di migrare nel cinema, dev’essere perché la forma del cinema è la più vicina all’essenza di quello che oggi si manifesta. E che cosa si manifesta? Il feticismo totale. Sì, quel feticismo che per Marx era un contrassegno primario del «mondo delle merci» è in realtà il feticismo di tutto, perché il magazzino delle merci è diventato il cosmo stesso, e noi ne siamo dunque un’infima parte. Ora, il cinema mette nella condizione di poter utilizzare come feticcio la totalità dei fantasmi psichici, che del feticcio sono comunque e sempre il materiale. Il sogno più antico e più efferato del mondo in cui viviamo è quello di rendere cosa il fantasma. Ebbene, il cinema permette di avvicinarsi come mai prima, e con temibile immediatezza, a questo sogno. Nel cinema i fantasmi diventano cosa, e al tempo stesso una cosa quasi inesistente,

indefinibile e inappropriabile, quale può essere una striscia di celluloide impressionata o il movimento di figure su un telone bianco. Questa quasi-inesistenza e super-esistenza del corpo dei fantasmi è il sigillo della loro perfezione e del loro potere. Che cos’è il guanto di Rita Hayworth in Gilda? È al tempo stesso un oggetto (che potremmo trovare in un museo di reliquie cinematografiche), un fantasma feticistico per eccellenza (ricordate la stupenda sequenza di incisioni di Max Klinger, che hanno come protagonista un guanto?), un’allucinazione comune vissuta nell’oscurità delle sale cinematografiche da uno sterminato numero di persone che non si conoscono, non vogliono conoscersi e comunicano soltanto attraverso questa muta immagine. E qual è il risultato della somma di questi tre elementi? Per lo meno uno strass del mito. E lo intendo in senso letterale: bisognerà decidersi, un giorno, a capire che le star sono astri, come lo erano Andromeda e le Pleiadi e tante altre figure della mitologia classica. Solo se si riconosce questa comune origine astrale e fantasmatica, si potrà poi arrivare a capire quali sono le differenze – e le distanze, anch’esse stellari – fra il Sunset Boulevard e l’Olimpo.

V DIETRO IL VETRO

«L’obiettivo piazzato sulla macchina da presa in fondo non è altro che un sostituto dell’occhio umano. E che cosa fa l’occhio dell’uomo? Nei suoi momenti migliori, intendo, non quando è indagatore, non quando è intento a esaminare ciò che vede, ma quando è riuscito a cogliere una manifestazione del reale… «Ritengo che sia nei suoi momenti migliori quando è raggiante. Pertanto, compito del regista, un compito eternamente irrisolto e sempre risorgente, è parlare all’obiettivo come se fosse un occhio umano. A rappresentarlo nello studio è l’operatore. Dovete perciò prenderlo sottobraccio. Dovete fare quattro passi con lui». MAX OPHULS

Max Ophuls aveva tentato di farlo capire con molteplici allusioni nei suoi fotogrammi: una grata, un vetro, una persiana socchiusa, un pizzo, un tendaggio che l’obiettivo deve sfiorare. O anche solo un affastellarsi di oggetti che allontanano e accerchiano i personaggi. O anche la vasta frangia di oscurità che li avvolge. Poi, in una improvvisazione alla radio, aveva finalmente rimandato al testo che dice in brevi parole che cos’è l’immagine cinematografica: «Chi guarda dall’esterno attraverso una finestra aperta non vede mai tutte le cose che vede chi guarda una finestra chiusa. Non vi è oggetto più profondo, più misterioso, più fecondo, più tenebroso, più abbagliante di una finestra illuminata da una candela. Ciò che si può vedere al sole è sempre meno interessante di ciò che avviene dietro un vetro». È il timbro di Baudelaire, ma anche di Ophuls, suo erede cinematografico. L’immagine sullo schermo appare nell’età in cui le immagini mentali tendono a invadere le strade e a trasformarsi in percezioni brute, accettabili da qualsiasi empirista. Nel corso di questa invasione alcune si impigliano nello schermo – e lì continuano a condurre una doppia vita. Il loro esoterismo, quello che è il fondamento del grande cinema, le vuole tenere in contatto sia con la loro origine mentale sia con il loro estremo sfociare sulle strade. Quest’ultimo è rappresentato dalla «finestra aperta» di Baudelaire, dall’illusione di una continuità fra dentro e fuori, di una vita che si ritrova intatta su due dimensioni. Ma l’altro percorso, che si volge all’origine, riconduce l’immagine sullo schermo

all’immagine mentale, quindi all’immagine «dietro un vetro», che appare a «chi guarda una finestra chiusa». Il vetro della mente può essere la superficie dello specchio o la trasparenza del merletto o l’incorniciatura offerta dagli oggetti e dall’oscurità: tutti segnali di una distanza, impercettibile e incolmabile, tra il mondo e il suo riflesso, tra le due fonti perenni dell’immagine. «Dietro il vetro», la luce che emana dagli esseri e dalle cose non è più una luce di natura, ma la radianza della superficie stessa: la radianza di Psiche.

Probabilmente era il 1955, l’anno in cui Max Ophuls girò Lola Montès. O l’anno prima. Avevo quattordici anni e provavo ad andare al cinema, se possibile, ogni giorno, anche due volte. Il cinema di pomeriggio, in quegli anni a Roma, era un piacere confinante con il vizio. Nelle sale ancora si fumava. Qualcosa di stantio ristagnava nell’aria. Ma era l’odore del cinema. Andai quel giorno al Supercinema, prima visione non certo elegante, fra l’Opera e il Viminale. Mi sedevo sempre nelle prime file – e quella volta nella prima. A un certo punto mi accorsi di qualcosa che mi attirava ben più del film. Accanto a me, distante un solo posto, nella sala oscura e deserta, si era insediata una presenza femminile che sembrava appartenere allo schermo e non alla sala, nella sua venustà fantasmatica. Che sembrava anche voler occultare. Era Martine Carol con una accompagnatrice. Non una amica, ma una governante. Esattamente come, nelle sue vicissitudini in Lola Montès, era accompagnata da una governante che talvolta saliva a cassetta per non disturbare un possibile amante. Non avevo ancora visto Lola Montès – e forse il film non era ancora stato presentato. Quando lo vidi, mi resi conto che quel giorno la situazione era stata il rovescio di quella del film. Martine Carol non era più – o non era ancora – un feticcio di cera sotto la tenda di un circo, esposta come uno specimen teratologico assediato dai riflettori e crivellato da centinaia di sguardi celati nel buio. Eppure Martine Carol continuava a essere

qualcosa di affine a Lola Montès, ora nella piena oscurità e nel pieno anonimato, non percepibile se non da me, che per un caso le stavo quasi accanto. La sala era vuota, doveva essere il primo pomeriggio – e sullo schermo scorrevano immagini qualsiasi. Soltanto la governante avrebbe potuto testimoniare che anche il Supercinema di Roma aveva accolto Lola Montès, in un raro momento di quiete.

VI ALLUCINAZIONI AMERICANE

Se c’è un romanzo che permette di capire che cos’è il cinema, è Il disperso. L’occhio di Karl Rossmann è già l’obiettivo della macchina da presa – e l’America che gli offre è una visione allucinatoria di tutto ciò che il cinema è diventato sino a oggi. Da parte sua, il cinema è consustanziale all’allucinazione (figure in movimento che trascorrono su un telone, come le immagini mentali sul fondo della mente) e alla fisicità (il corpo delle attrici e degli attori percepito con un senso di intimità che è all’origine del culto feticistico delle star). Si tratta perciò innanzitutto di un nuovo modo – altamente paradossale – di entrare in contatto con i simulacri, se con questa parola si intende qualcosa che ingloba in sé tutte le potenzialità delle immagini. Cinema significa innanzitutto compresenza di allucinazione e iperrealtà, intesa come fisicità eccessiva. Ora, se c’è un romanzo dove quel modo diverso e soverchiante di percepire si presenta sulla pagina è appunto Il disperso. Perché? Non è facile dirlo e richiederebbe una osservazione da microscopista, passo per passo. Ma è un’impressione forte, a cui il lettore non può sfuggire. Questo spiega anche perché il libro sia così inconfondibile, mentre i fatti che narra, dopo tutto, potrebbero trovarsi in un qualsiasi romanzo naturalistico, alla Dreiser, sulle disavventure di un giovane emigrante.

La concezione stessa della sala e dello spettacolo cinematografico tendono a ricostruire la condizione di una mente che, in solitudine, è intenta ad allucinare. Questo aiuta a capire perché l’unica attività cerimoniale dello spettatore consista nel mangiare popcorn. È il gesto che obbliga l’occhio a ricordare che appartiene a un corpo. Del tutto diverso il rituale del teatro o del concerto, come faceva vedere mirabilmente un vecchio saggio di Adorno, Sulla storia naturale del teatro. Non c’è il buio totale, gli spettatori si riconoscono e si fanno cenni (non come al cinema, dove è essenziale che si ignorino: terribile è il momento dell’intervallo, perché obbliga lo spettatore cinematografico a riconoscere che ha qualcuno intorno), infine – ed è questo il passaggio decisivo del rito – ci sono gli applausi. Per tutte queste sue caratteristiche, il cinema è materiale metafisico per eccellenza. Lo spettatore entra in un cinema come nell’Ottocento si entrava – dicevano – nella rêverie. Lo spettatore ideale è quello che si introduce nella sala cinematografica quando il film è già cominciato. (Ed è perfetto che a guidarlo sia per lo più una donna – e che quella donna sia denominata maschera). Deviando di pochi metri dalla strada, dove si svolge la vita normale, lo spettatore entra in un luogo di tenebra, dove si distaccano le immagini su un fondale lattiginoso. Nulla è più simile all’entrata nella rêverie. Anche lì non c’è un punto iniziale nettamente definibile. C’è uno scarto, una

deviazione (che può sembrare anche minima) dalla traiettoria della veglia. E si entra subito in un regno ignoto a coloro che continuano a passare, indaffarati e funzionali, per la strada che sta fuori dal cinema. L’arrivo di Karl Rossmann a New York è come quello scarto, quella deviazione che immettono in un luogo da cui non ci sarà più uscita.

Arthur Holitscher pubblicò Amerika nel 1912, l’anno in cui, il 26 settembre, Kafka avviò la prima stesura del Disperso. Dopo la sua morte Max Brod avrebbe dato al romanzo il titolo Amerika. Il libro di Holitscher, vigoroso reporter, intendeva offrire un quadro dell’America «oggi e domani» (questo era il sottotitolo) e da un capo all’altro. L’inizio non poteva che essere il transatlantico da cui una mattina si sarebbe profilata, nella foschia, New York. Un giorno, seduto sul ponte accanto ad altri passeggeri – la situazione canonica per fare conoscenza in viaggio –, Holitscher si era trovato vicino a un americano «distinto», un velista che aveva appena vinto una gara a Kiel e perfino incontrato Guglielmo II. Di che cosa avevano parlato? «L’imperatore gli ha chiesto come si comporta la buona società in America verso gli ebrei ricchi» e il velista «gli ha dato risposta». Non sappiamo quale. Holitscher si era presentato dicendo: «Voglio andare a vedere come l’America tratta la gente povera». Il velista gli aveva consigliato di andare a Newport, dove stanno i ricchi. Non avrebbe mai raggiunto un’immagine a tutto tondo dell’America «se non avesse anche visto la gente chic ballare a Newport». Ultima cena a bordo. Le donne ostentano le loro migliori toilette e trafiggono le loro capigliature con minuscoli ombrellini di carta giapponesi. I marinai dicono: «Stanotte non si dorme». Aria umida e calda, al mattino. Appare «la gigantesca ruota» di Coney Island. E finalmente la Statua della Libertà, «con il sole

sulle pieghe verdi della sua veste e il piede poggiato su Liberty Island». Ma c’è anche altro: «Subito dietro, larghe basse rosse case, metà lazzaretto, metà prigione». Che cos’è? Chiede Holitscher. Gli rispondono: «Ellis Island, la tremenda isola degli emigranti». Intanto Manhattan si avvicina «come una mano sottile che si tende lentamente verso l’alto e non si sa: come un benvenuto o come una minaccia?».

Kafka usò il libro di Holitscher come guida, non solo per il testo ma per le fotografie che lo illustravano, scrivendo Il disperso. Dove una delle immagini più sconcertanti si presenta all’inizio. La Statua della Libertà non brandisce una fiaccola, ma una spada. Non era un lapsus, ma un marchio impresso su tutto il libro. E il reportage di Holitscher faceva da sfondo a quell’immagine lancinante, che stava sulla soglia del romanzo e lo preannunciava tutto.

Kafka sembra avere seguito sonnambolicamente, per tutta la sua vita di scrittore, una struttura romanzesca a lui preesistente, che gli si svelava a poco a poco: la storia di un singolo che viene chiamato o gettato in un mondo da cui non potrà più uscire. Karl Rossmann viene espulso verso l’America. K. si ritiene chiamato al Castello. Ma le loro vicissitudini sono parallele e contrappuntate, come anche quelle di Josef K., che viene convocato, quindi risucchiato, dal tribunale. C’è sempre un intervento dall’esterno, che smuove tutto – e c’è sempre un territorio ignoto che il singolo dovrà calcare ed esplorare. L’America, per Karl Rossmann, era questo. E vi entrò, senza riuscire a uscirne, come vagando sulla superficie di una pellicola.

Kafka intendeva scrivere con Il disperso il romanzo della New York «modernissima» (così ha detto lui stesso). Perciò gli caddero le braccia quando Kurt Wolff, che pure era un grande editore, gli propose come copertina del Fuochista (inizio del romanzo e unica parte che Kafka stesso ne pubblicò) una innocua vignetta che sembrava piuttosto riferirsi a un qualche porto baltico ed era irrimediabilmente ottocentesca. Kafka pensava invece a qualcosa che si coglie subito, se si sfoglia un album di foto di New York in quegli anni, come Greater New York Illustrated, che è del 1901. Qui i pregrattacieli si mostrano nella loro imponente stranezza. Sembrano creature corazzate, depositate dal cielo più che cresciute dalla terra. E dominano gli edifici circostanti come se appartenessero a un altro livello della realtà. È proprio questo, si può supporre, che attraeva Kafka. Anche alla lettera. In una di quelle immagini, il St. James Building su Broadway, viene spontaneo riconoscere i tratti dell’edificio dello zio ricco, dove Karl Rossmann passa le sue prime settimane a New York.

Una delle fotografie, nel libro di Holitscher, offre l’emblema dell’America del Disperso. Al centro, nella notte, un grattacielo che è un’alta torre, abbacinante, su cui sventola una bandiera. Non si sa da dove provenga tanta luce, che isola il profilo dell’edificio. Accanto c’è un altro grattacielo, ma buio, salvo per quattro finestre illuminate. E la fotografia non concede di capire fin dove si innalza questo secondo grattacielo, se non per una fievole luce, proiettata verso il cielo, forse dal suo tetto. Intorno e sotto alla torre abbacinante le case sono tenebra compatta, come se servissero solo a dare rilievo alla parte luminosa. Ma in basso si riconoscono tre chiazze di luce. Sono altrettante strade. Allora c’è vita, da qualche parte. Ma sembrano luci sconnesse, inspiegabili. Il centro dell’immagine è nero puro.

Che New York sia il luogo dove non tanto si guarda ma si viene guardati da innumerevoli occhi, che si aprono e si chiudono con le luci dei suoi edifici, è un’intuizione che sorregge tutto Il disperso. Karl Rossmann si muove come l’eroe delle fiabe in cerca di avventure, ma viene trattato fin dall’inizio da tutti come una cavia, sia quando viene impeccabilmente accudito sia quando viene malmenato. Karl è un animale da esperimento – un animale sacrificato, come si dice in gergo di laboratorio. All’inizio viene allevato e protetto in ogni modo, finché vive con lo zio a New York. Poi il trattamento brusco e brutale finisce per prevalere. Da qui ha origine il pathos del libro, che è insieme arcaico e crudelmente moderno, di una modernità che ancora non era stata percepita. E Karl è un personaggio mirabile perché mantiene sempre sia lo slancio dell’eroe fiabesco sia la visione snebbiata della progressiva degradazione a cui viene forzato. Mai lo dimostra come quando, al Teatro di Oklahoma, dichiara di chiamarsi Negro. Nulla lo obbligava a nascondere il suo vero nome. E nulla lo obbligava a scegliere il nome che, oltre tutto in una lingua straniera (l’italiano), designa i membri della razza, in quell’America, per eccellenza reietta. È un dettaglio lancinante, incuneato al centro di un capitolo che è la massima approssimazione romanzesca, dopo L’asino d’oro di Apuleio, a una messa in scena misterica.

Il Grande Teatro di Oklahoma è il rovescio degli altri luoghi romanzeschi di Kafka. È il luogo dove tutti non possono non essere accolti, anche se non hanno documenti, anche se dichiarano un nome falso. Mentre il tribunale del Processo e il Castello sono i luoghi dove tutti non possono non essere condannati o esclusi, per quanto impeccabili siano i loro argomenti e le loro prove a discarico o potenti i loro protettori e protettrici. Il fatto che nessuno dei tre romanzi di Kafka sia compiuto ci impedisce di cogliere con sicurezza un altro punto essenziale: i tre romanzi raccontano tre modalità diverse dell’essere uccisi. C’è solo una spia per capirlo, ma decisiva: una annotazione nei Diari. Kafka passò alcuni mesi, fra l’agosto e l’ottobre del 1914, scrivendo alternamente l’inizio del Processo e la parte ultima del Disperso (già questo è di una singolare eloquenza). Qualche mese dopo, annota: «Rossmann e K., l’innocente e il colpevole, alla fine entrambi ugualmente ammazzati per punizione, l’innocente con mano leggera, più spinto da parte che abbattuto». Sono righe che fanno capire quanto sia sviante ogni visione edulcorata del Disperso. È forse il libro più disperato di Kafka. Libro di una disperazione gentile ma irrimediabile, affine a quella di Robert Walser.

Il primo numero di Busby Berkeley è quello descritto nel Disperso, quando Karl Rossmann vede, su una lunga piattaforma, centinaia di donne vestite da angelo, arrampicate ciascuna su un piedistallo di diversa altezza, nascosto dalle loro vesti. E tutte suonano lunghe trombe scintillanti d’oro. Questa è la scena originaria del musical, cioè di una delle più alte, irripetibili e incantevoli forme inventate dal Novecento. E intendo per musical allo stato puro quella strepitosa fioritura di film che si manifesta nei primi venti anni del sonoro. Busby Berkeley è il suo nume tutelare. Ma lo era in quanto emissario del Grande Teatro di Oklahoma. È curioso, poi, come i numerosi esegeti di questa scena (insieme alla storia del guardiano della legge nel Processo, il capitolo sul Grande Teatro di Oklahoma è il prediletto dai commentatori, che lo hanno martoriato in vari modi) sembrano non aver percepito visivamente e acusticamente quel che vi accade. Come al solito, il vizio è quello di non prendere Kafka alla lettera. Ora Kafka scrive di centinaia di donne vestite da angelo – quindi anche di centinaia di trombe scintillanti d’oro. Non si tratta di una fiera di paese. Non può trattarsi che di un numero di Busby Berkeley, dove la macchina da presa sfiora innumerevoli corpi femminili, su un palcoscenico che si dilata senza fine. Un appassionato di musical lo capisce al volo.

La cellula originaria dei tre romanzi di Kafka, se considerati come un tutto, risale agli anni del ginnasio: «Una volta avevo in mente un romanzo in cui due fratelli lottavano fra loro, uno andava in America, mentre l’altro rimaneva in una prigione europea». Una domenica d’estate, Kafka si trovò con i suoi in visita ai nonni. Ricordava anche, di quel giorno, certi panini morbidi su cui spalmavano il burro. Intanto si era messo a scrivere «qualcosa sulla mia prigione». Forse «per vanità», aggiungeva, faceva di tutto perché qualcuno si incuriosisse, gli togliesse il foglio, lo leggesse e lo ammirasse. Ma di che cosa stava scrivendo? «In quelle poche righe la cosa principale era che veniva descritto il corridoio della prigione, soprattutto il suo silenzio e il freddo». Alla fine uno zio «che amava ridere» prese in mano il foglio, «lo guardò rapidamente, me lo rese persino senza ridere e disse solo agli altri, che lo seguivano con gli occhi: “La solita roba”». Nulla invece disse a Kafka, che così ricordava: «Rimasi seduto e mi chinai come prima sul mio ormai inutilizzabile foglio, ma di fatto ero stato cacciato con una spinta dalla compagnia, il giudizio dello zio si ripeteva in me con un significato quasi reale e, anche all’interno del sentimento familiare, mi si aprì la visione del freddo spazio del nostro mondo, che dovevo riscaldare con un fuoco che io stesso volevo innanzitutto cercare». Kafka annotò queste parole nel suo Diario pochi mesi prima di cominciare a scrivere Il disperso. Un romanzo «schizzato su tutto il

cielo» e senza confini come il cielo, ma scritto a partire dal corridoio di una prigione. Fu questa la sua America.