Alle origini del linguaggio umano. Il punto di vista evoluzionistico 9788842094661

Nel 1866 la Société de Linguistique de Paris vietò con un editto qualsiasi comunicazione relativa al tema dell'orig

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Alle origini del linguaggio umano. Il punto di vista evoluzionistico
 9788842094661

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Universale Laterza 909

Francesco Ferretti

Alle origini del linguaggio umano Il punto di vista evoluzionistico

Editori Laterza

© 2010, Gius. Laterza & Figli www.laterza.it Prima edizione novembre 2010 2

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Edizione 6 7

Anno 2013 2014 2015 2016 2017 2018 L’Editore è a disposizione di tutti gli eventuali proprietari di diritti sulle immagini riprodotte, là dove non è stato possibile rintracciarli per chiedere la debita autorizzazione

Proprietà letteraria riservata Gius. Laterza & Figli Spa, Roma-Bari Questo libro è stampato su carta amica delle foreste Stampato da SEDIT - Bari (Italy) per conto della Gius. Laterza & Figli Spa ISBN 978-88-420-9466-1

È vietata la riproduzione, anche parziale, con qualsiasi mezzo effettuata, compresa la fotocopia, anche ad uso interno o didattico. Per la legge italiana la fotocopia è lecita solo per uso personale purché non danneggi l’autore. Quindi ogni fotocopia che eviti l’acquisto di un libro è illecita e minaccia la sopravvivenza di un modo di trasmettere la conoscenza. Chi fotocopia un libro, chi mette a disposizione i mezzi per fotocopiare, chi comunque favorisce questa pratica commette un furto e opera ai danni della cultura.

Introduzione

Centoquarantaquattro anni, due mesi e dodici giorni, per la precisione. È questo il tempo che (al momento della stesura di questa Introduzione) ci separa dal celebre editto della Société de Linguistique de Paris (approvato con decreto ministeriale l’8 marzo 1866) con cui si faceva divieto ai soci di presentare relazioni sul problema dell’origine del linguaggio. Ne è passato di tempo, ma quel divieto continua ad alimentare tra gli studiosi contemporanei l’idea che sul tema dell’origine del linguaggio non valga la pena spendere troppe energie. Visto che non è possibile verificare di prima mano cosa sia accaduto ai nostri antenati e i reperti fossili non ci sono di aiuto, perché il linguaggio non lascia tracce o lascia tracce molto indirette, l’opinione prevalente tra gli studiosi è che le difficoltà legate al tema in questione siano innanzitutto di ordine empirico. A dispetto di queste considerazioni, la nostra idea è che i motivi che continuano ad alimentare l’ostracismo nei confronti dell’origine del linguaggio siano di ordine ideologico, più che empirico: innanzitutto il sospetto con cui la tradizione umanistica guarda alla teoria dell’evoluzione (e la teoria dell’evoluzione è, a nostro avviso, l’unico modo corretto per inquadrare il tema dell’origine del linguaggio); ma soprattutto un certo modo di intendere il linguaggio e il V

ruolo che esso ha nella costituzione della natura umana. In barba al divieto imposto dalla Société e a quanti si adagiano sul celebre editto per avere meno grattacapi nella vita, questo è un libro sul problema dell’origine del linguaggio. Più precisamente, è un libro che affronta tale problema in una prospettiva evoluzionistica fondata sul lascito più forte della lezione darwiniana: l’idea che gli umani siano animali tra gli altri animali. Uno degli impedimenti ideologici di maggior rilievo alla ripresa degli studi sul tema dell’origine del linguaggio è la concezione cartesiana oggi prevalente negli studi di stampo cognitivo. Per Cartesio, l’anima razionale è alla base della «differenza qualitativa» tra gli umani e gli altri animali: per molti studiosi contemporanei il linguaggio (che ha preso il posto dell’anima) è una caratteristica capace di rendere gli umani delle entità «speciali» nella natura. Credere che per gli esseri umani la storia non si sia svolta come per tutti gli altri animali è una interpretazione che alimenta fortemente il nostro orgoglio antropocentrico. Secondo tale interpretazione, gli umani non sono diversi dagli altri animali nel modo in cui ogni specie animale è diversa da un’altra specie poiché gli umani non sono soltanto animali. Pensare al linguaggio nei termini della differenza qualitativa con il resto del mondo animale recide alla radice ogni possibilità di guardare alle capacità verbali umane come a una forma di adattamento biologico dovuto alla selezione naturale. Dal punto di vista adottato in questo libro, il fatto che si possa andare fieramente orgogliosi delle straordinarie abilità che caratterizzano la nostra specie non è affatto in contrasto con l’idea che tali abilità siano da ricondurre alla natura animale degli esseri umani, tutt’altro. Adottando il lascito della tradizione darwiniana, la nostra idea è che l’indagine relativa alle peculiarità distintive della nostra specie deve procedere di pari passo con l’analisi delle condizioni generali comuni anche ad altre specie animali. Indagare l’origine del linguaggio in un’ottica evoluzionistica, VI

in effetti, significa analizzare l’avvento delle capacità verbali nei termini delle abilità, più semplici e di base, già presenti in altri animali o nelle altre specie di ominidi che hanno segnato il percorso evolutivo dell’Homo sapiens. Al centro del nostro argomento è l’idea che le fasi iniziali della comunicazione umana siano governate dalle abilità cognitive in grado di «radicare» fortemente gli organismi all’ambiente in cui vivono. È in forza di tali capacità che gli organismi guadagnano, molto spesso al costo di un grande sforzo, una situazione di equilibrio con l’ambiente esterno. Ora, se è vero che l’idea degli umani come animali tra gli altri animali deve rappresentare il presupposto metodologico dell’indagine relativa a qualsiasi capacità umana, è probabile che il riferimento allo «sforzo di equilibrio» messo in atto dagli organismi per adattarsi all’ambiente venga ad assumere un ruolo primario anche nell’analisi dell’origine e del funzionamento del linguaggio. A questo riguardo c’è una vera e propria rivoluzione da compiere. Per quanto i modelli del funzionamento del linguaggio oggi prevalenti guardino alla produzione-comprensione linguistica in termini di processi di elaborazione del tutto automatici e meccanici (che avvengono senza alcuna fatica da parte dei parlanti), il fatto che gli scambi comunicativi effettivi implichino uno «sforzo» di elaborazione è un fenomeno facilmente esperibile e sotto gli occhi di tutti. Il caso prototipico è rappresentato dalla dimensione del fluire del parlato, in cui la fatica messa in atto dai comunicatori nel tentativo di mantenere il «filo del discorso» mostra con evidenza quanto la comunicazione si regga su un equilibrio (molto precario) tra le intenzioni del parlante e le aspettative dell’ascoltatore. Una delle ipotesi cardine di questo libro è l’idea che lo sforzo di equilibrio messo in atto dai parlanti nella comunicazione effettiva possa funzionare come chiave di accesso alla comprensione dell’avvento delle capacità verbali nella filogenesi. A conforto di questa ipotesi è una seconda idea strettamenVII

te correlata alla prima: la metafora della comunicazione come una forma di navigazione nello spazio. La capacità di orientarsi nello spazio di alcuni animali è senz’altro stupefacente. Quando ci prestiamo attenzione, la nostra immaginazione corre subito alle rotte degli uccelli migratori o alle migliaia di chilometri percorsi dagli animali marini per passare da una parte all’altra dell’oceano. Ma non c’è bisogno di ricorrere a esempi così distanti da noi: le difficoltà legate alla capacità di conferire «orientamento» e «direzione» al percorso ci appaiono in tutta evidenza quando il navigatore satellitare della nostra auto si rompe lasciandoci di colpo con il problema della via da scegliere al prossimo incrocio. Alla base del nostro argomento è l’idea che la comunicazione abbia a che fare molto da vicino con la navigazione nello spazio: in analogia a quanto avviene nel tentativo di raggiungere una meta quando si è in viaggio, il parlante costruisce il flusso comunicativo conferendo «direzione» e «orientamento» a ciò che dice e l’ascoltatore ricostruisce ciò che il locutore sta dicendo sforzandosi di mantenere sotto stretto controllo la direzione e l’orientamento del fluire del discorso. La prova più evidente del funzionamento di processi di questo tipo nella comunicazione verbale è rappresentata dal caso in cui, a seguito di un deficit del sistema di elaborazione, il flusso del parlato risulta fortemente compromesso: il continuo «deragliamento» (l’incapacità di mantenere la direzione corretta) tipico dell’eloquio degli schizofrenici, come vedremo ampiamente nel corso del testo, rappresenta il caso esemplare di questa incapacità. L’idea che l’origine del linguaggio debba essere analizzata in riferimento a nozioni quali «sforzo di equilibrio» e «navigazione nello spazio» rappresenta il centro teorico di questo libro. Considerare il tema dell’origine del linguaggio a partire da tali nozioni è un modo per dar corpo alla lezione di Darwin, secondo cui l’indagine relativa alle caratteristiche più peculiari della natura umana deve essere sempre supportata dall’analisi delle caratteristiche più geVIII

nerali che gli umani condividono con altre specie. È in riferimento a una operazione del genere che l’insegnamento impartito da Darwin di guardare agli esseri umani come animali tra gli altri animali trova piena realizzazione: quando si compie tale operazione, la questione dell’origine del linguaggio, oltre che in linea con la tradizione darwiniana, diviene di nuovo pienamente legittima. In barba a quanti sono disposti a credere che ci siano buoni motivi per continuare a rispettare il divieto imposto dalla Société parigina. Ho discusso molte delle tesi presentate in questo libro con amici e colleghi. Ringrazio di cuore Mario De Caro, Marta di Dedda, Rosaria Egidi, Alessandra Falzone, Lia Formigari, Daniele Gambarara, Elisabetta Gola, Franco Lo Piparo, Massimo Marraffa, Marzia Mazzer, Maria Francesca Palermo, Alfredo Paternoster, Antonino Pennisi, Pietro Perconti, Maria Primo, Roberto Pujia, Paolo Quintili, Maria Stella Signoriello, Silvano Tagliagambe, Paolo Virno, Tiziana Zalla. Per le discussioni quotidiane sulle tematiche affrontate in questo libro e le accese dispute teoriche agli incontri seminariali del gruppo di ricerca sull’origine del linguaggio (lo stimolo intellettuale più forte in questi ultimi anni di lavoro) un ringraziamento particolare va a Erica Cosentino, Ines Adornetti, Maria Grazia Rossi e Pasqualina Riccio. La mia riconoscenza per Tullia va ben oltre ogni possibile forma di ringraziamento. Dedico questo libro a Mauro Dorato e a Giovanni Iorio Giannoli: amici fraterni senza se e senza ma.

Alle origini del linguaggio umano Il punto di vista evoluzionistico

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Complessità

Per la rabbia, non riusciva nemmeno a parlare. Il 1869 fu un anno amaro per Darwin: un anno di tradimenti e delusioni. Dapprima Alfred Wallace. Nella recensione della decima edizione dei Principles of Geology di Charles Lyell (uno dei testi di base della formazione del pensiero darwiniano), il coinventore della teoria della selezione naturale aveva cambiato bruscamente prospettiva: a riprova della radicale diversità degli umani rispetto agli altri animali, egli sosteneva che la coscienza e il cervello non potevano essere spiegati in riferimento alle leggi naturali. Darwin stava lavorando all’Origine dell’uomo e il cambiamento di prospettiva di Wallace gli apparve come un fosco presagio. E il peggio doveva ancora arrivare. Il 3 giugno dello stesso anno, St. George Mivart, un discepolo di Thomas Henry Huxley, divenne membro, fortemente voluto dal suo maestro, della Royal Society. Mivart ricambiò i darwinisti con una serie di scritti (apparsi sul periodico cattolico «Month») che attaccavano in modo esplicito e senza mezzi termini la teoria dell’evoluzione. E non era tutto: non appena Darwin ebbe consegnato all’editore le bozze dell’Origine dell’uomo (15 gennaio 1871) comparve On the Genesis of Species il libro che può essere considerato come il «più devastante attacco globa3

le arrivato a Darwin in tutta la sua vita» (Desmond e Moore, 1991, trad. it. p. 657). Così come Wallace, anche Mivart metteva in risalto la debolezza esplicativa della teoria della selezione naturale nel dar conto delle proprietà più peculiari (e più nobili) degli esseri umani. Wallace, tanto per non smentirsi, si schierò dalla parte di Mivart confidando a Darwin che trovava del tutto convincenti gli argomenti antiselezionisti avanzati nel libro. Un attacco del genere lasciò Darwin completamente scosso e senza parole: doveva correre immediatamente ai ripari. Secondo quanto scritto in On the Genesis of Species, se la teoria della selezione naturale fosse vera, il mondo organico (la straordinaria bellezza e armonia delle sue manifestazioni) sarebbe soltanto il prodotto accidentale del caso. Al carattere accidentale della genesi degli organismi, Mivart contrapponeva una concezione dell’evoluzione governata da «spinte e tendenze interne»: una connotazione fortemente finalistica dello sviluppo della vita organica. Come sottolinea Browne (1996), in effetti Mivart «optò per un compromesso teologico, sostenendo che il processo di variazione fosse guidato dall’alto da qualcuno in grado di indicare un progetto o una direzione nel processo evolutivo» (ivi, p. 330). Spiegare il processo evolutivo in termini teleologici – con il richiamo al disegno di un architetto divino – significava tradire il fondamento stesso della teoria darwiniana. Eppure non era la teleologia di Mivart a impensierire di più Darwin. La critica che più gli dava da pensare era l’argomento degli «organi incipienti». È utilizzando tale argomento che Mivart sosteneva che le differenze caratteristiche che distinguono le specie «avrebbero potuto essersi sviluppate improvvisamente invece che gradualmente» (Mivart, 1871, p. 34) e che dunque la selezione naturale non poteva essere il dispositivo alla base del processo evolutivo. Con l’argomento degli organi incipienti Mivart colpiva uno dei nodi centrali della teoria darwiniana: il gradualismo – la successione di modificazioni numerose, successive 4

e lievi che Darwin aveva posto a fondamento della propria ipotesi interpretativa. Oltre a un evidente potere intrinseco, l’argomento degli organi incipienti fa affidamento su una forte plausibilità intuitiva (non è un caso che argomenti dello stesso tenore di quelli di Mivart vengano riproposti nel dibattito odierno contro la teoria dell’evoluzione). La questione degli organi incipienti merita un’analisi accurata perché tocca un problema di fondamentale importanza per comprendere l’origine e la natura del linguaggio: la relazione tra complessità ed evoluzione. Nella sua critica alla selezione naturale, Mivart faceva leva sull’inefficacia esplicativa delle giustificazioni in termini gradualistici della comparsa di organi «straordinariamente complessi» come gli occhi o le ali. In casi di questo tipo, l’argomento di Mivart si mostra fortemente persuasivo: a cosa potevano legittimamente servire le variazioni iniziali di organi la cui funzione è tale solo quando l’organo è pienamente costruito? Su cosa poteva operare la selezione naturale se la funzione di un organo è tale solo quando quell’organo è pienamente sviluppato? Se la selezione naturale è incapace di spiegare l’origine di organi complessi in termini gradualistici, allora c’è solo un’altra spiegazione da prendere in considerazione: la complessità, in natura, dipende da un evento improvviso in grado di costituirla in un sol colpo. Il caso dell’occhio (ma anche quello dell’ala) è l’esempio che, a partire da Mivart, viene sollevato più di sovente. Che l’occhio umano sia un sistema straordinariamente complesso è un fatto difficilmente contestabile: esso è composto da numerose unità strutturali legate tra loro da una rete molto sofisticata di relazioni. Secondo l’argomento degli organi incipienti un dispositivo del genere non può essere il prodotto evolutivo di modificazioni numerose, successive e lievi perché le funzioni che lo caratterizzano come un tutto unitario non sono riscontrabili nelle parti costituenti prese singolarmente: la tesi di Mivart è, in effetti, che «dal momento che risultano inutili fin quando non si siano sviluppa5

te le connessioni richieste, tali complesse e simultanee coordinazioni non avrebbero mai potuto essere state prodotte a partire da inizi infinitesimali» (Mivart, 1871, p. 35). In una prospettiva del genere, solo un occhio completamente sviluppato è in grado di assicurare la visione; un occhio allo stadio iniziale, incapace di vedere, non è propriamente un occhio: il sistema pienamente sviluppato, in buona sostanza, presenta tratti non conciliabili con l’opera della selezione naturale. Le critiche di Mivart permangono invariate sino ai nostri giorni; ecco un esempio tratto da Hitching (1982): L’occhio o funziona nella sua totalità o non funziona affatto. Com’è dunque possibile che esso sia pervenuto a evolversi per mezzo di miglioramenti darwiniani lenti, costanti, di una piccolezza infinitesimale? È davvero plausibile che migliaia e migliaia di mutazioni casuali fortunate si siano verificate per coincidenza, così che il cristallino e la retina, che non possono lavorare l’uno senza l’altra, si siano evoluti in sincronia? Quale valore di sopravvivenza potrebbe esserci in un occhio che non vede? (citato in Dawkins, 1986, trad. it. p. 117).

L’argomento degli organi incipienti tocca alla radice il presupposto gradualistico del darwinismo. Il punto in discussione è chiaro: se non è possibile dar conto della formazione di organi complessi in termini di modificazioni numerose, successive e lievi, allora la complessità dei sistemi organici o si dà tutta insieme o non può darsi affatto. Poiché, dunque, la complessità non può essere spiegata facendo appello alla selezione naturale, l’unica spiegazione possibile della presenza in natura di sistemi complessi è la loro dipendenza da un atto di creazione. Il carattere tuttoo-nulla attribuito ai sistemi complessi si sposa felicemente con la tesi dell’architetto divino: tali sistemi esibiscono in effetti un «progetto» e un «fine», due proprietà particolarmente ambite in un matrimonio del genere. Progetto e fine presuppongono un progettista in grado di far convergere la struttura progettata e il fine per cui è progettata. Si tratta della dottrina del «disegno intelligen6

te» tornata recentemente alla ribalta ad opera dei neocreazionisti americani (Behe, 2006; per una discussione critica, cfr. Pievani, 2006; Franceschelli, 2005). Tale dottrina vanta antecedenti illustri: nella Natural Theology (1802), William Paley mostra la necessità di un architetto divino presentando il famoso argomento per analogia, esemplificato dal caso di un orologio: Attraversando una brughiera, supponiamo che io avessi urtato col piede contro una pietra, e che qualcuno mi avesse chiesto in che modo la pietra fosse venuta a trovarsi là: io avrei forse potuto rispondere che, a quanto ne sapevo, quella pietra poteva trovarsi là da sempre: né forse sarebbe stato molto facile dimostrare l’assurdità di quella risposta. Supponiamo però che io avessi trovato al suolo un orologio, e che mi fosse stato chiesto in che modo l’orologio si trovasse là: io non avrei certo potuto pensare alla risposta che avevo dato prima, ossia che, a quanto ne sapevo, l’orologio poteva essere là da sempre (Paley, 1802, p. 7; citato in Dawkins, 1986, trad. it. p. 21).

L’argomento per analogia utilizzato da Paley si può estendere a tutti gli organi di straordinaria perfezione e complessità. Di più, si può estendere a tutta la grandiosa armonia e perfezione dell’universo: come un orologiaio deve aver progettato l’orologio, allo stesso modo dobbiamo pensare a un progettista divino per dar conto del progetto finalistico che è alla base di ogni aspetto dell’universo. L’argomento per analogia ha un forte impatto intuitivo: ai tempi in cui studiava a Cambridge per diventare un pastore anglicano, lo stesso Darwin lo aveva trovato straordinariamente convincente. 1. Il «colpo da maestro» di Darwin Ripresosi dallo stato di frustrazione dovuto agli attacchi di Wallace e Mivart, Darwin iniziò a pensare alle possibili contromosse. Mivart (più di Wallace) meritava una lezione: l’argomento degli organi incipienti, in effetti, oltre a mette7

re in discussione la teoria della selezione naturale, proponeva una concezione della natura umana totalmente inaccettabile per Darwin. Nell’Origine dell’uomo il padre dell’evoluzionismo aveva portato il suo discorso alle estreme conseguenze: considerando le attività intellettuali e morali umane nel quadro della selezione naturale, egli aveva reso gli esseri umani animali tra gli altri animali. Per Mivart un’operazione del genere era improponibile; la sua idea era in effetti che l’agire libero e responsabile degli umani fosse spiegabile soltanto in riferimento a un’anima sovrannaturale: gli umani – più simili agli angeli che agli altri animali – erano per Mivart entità qualitativamente diverse da tutte le altre specie animali. In una prospettiva di questo tipo, ovviamente, le capacità più tipiche della natura umana, quelle più «nobili» (come la coscienza o il sentimento morale), non erano giustificabili in termini di selezione naturale. Per Darwin, gli argomenti di Mivart erano mossi dal «fanatismo religioso»: la stesura della sesta edizione dell’Origine delle specie era l’occasione giusta per dargli una lezione. Come sostengono Desmond e Moore (1991), la risposta di Darwin alle obiezioni di Mivart fu un vero «colpo da maestro». Egli aveva ben chiara l’importanza delle critiche mosse alla teoria della selezione naturale: sapeva bene che la dimostrazione anche di un solo caso di organo complesso non interpretabile nei termini di modificazioni numerose, successive e lievi avrebbe comportato il cedimento dell’intera teoria. Dopo la lettura del libro di Mivart, tuttavia, Darwin rimase saldo sulle proprie convinzioni: l’argomento degli organi incipienti si dimostrava del tutto compatibile con la teoria della selezione naturale. In risposta a Mivart, Darwin utilizza due ordini di giustificazioni. La prima è che non è richiesto che un’ala o un occhio siano in grado di volare o vedere sin dallo stato iniziale: certi organi hanno cambiato funzione nel corso del tempo (le vesciche natatorie trasformatesi nei polmoni degli anfibi, ad esempio). Una prospettiva del genere, come ve8

dremo nei prossimi capitoli, conoscerà uno sviluppo di grande rilievo (anche per il tema dell’origine del linguaggio) con la teoria dell’«exattamento» di Gould e Vrba (1982). La seconda giustificazione ha a che fare con la questione specifica dei rapporti tra gradualismo e selezione naturale: per quanto l’idea che un organo complesso come l’occhio abbia potuto formarsi attraverso piccoli passi intermedi possa apparire poco convincente, è possibile dimostrare «l’esistenza di numerose gradazioni da un occhio semplice e imperfetto a uno complesso e perfetto, essendo ogni grado utile per chi lo possiede» (Darwin, 1859, trad. it. p. 239). Darwin ha ragione: non è necessario che per avere un ruolo adattativo un organo debba essere pienamente efficace. L’efficacia non è una caratteristica del tipo tutto-onulla; esistono diverse forme di occhio: alcune più sofisticate, altre meno, ma tutte ugualmente adattate alla vista. Dawkins (1986; 1996) ha descritto in modo particolareggiato i passaggi graduali dell’apparizione dell’occhio umano (i quaranta tortuosi sentieri che aiutano la visione a scalare il «Monte improbabile»). Egli contesta l’idea che un occhio al cinque per cento non serva alla sopravvivenza perché chi lo possiede non è in grado di vedere: un requisito così forte è richiesto soltanto da quanti sostengono che il vedere (o il volare) siano capacità che si danno del tutto non si danno affatto. Scrive Dawkins (1986): Un antico animale in possesso del 5 per cento di un occhio avrebbe potuto usarlo in effetti per qualcosa di diverso dalla vista, ma appare almeno altrettanto probabile che lo usasse per avere una vista al 5 per cento. (...). Una vista che è pari al 5 per cento della tua o della mia è senza dubbio molto preferibile all’essere del tutto senza vista. Così una vista all’un per cento è preferibile alla totale cecità. E il 6 per cento è meglio del 5 per cento, il 7 per cento è meglio del 6 per cento, e così via salendo su per la serie graduale continua (ivi, trad. it. p. 119).

E prosegue: 9

Non solo è chiaro che avere parte di un occhio sia meglio che non avere affatto occhi, ma troviamo anche una serie plausibile di strutture intermedie fra gli animali moderni. Ciò non significa, ovviamente, che queste strutture moderne rappresentino realmente dei tipi ancestrali, ma dimostra che forme intermedie sono capaci di funzionare (ivi, trad. it. p. 124).

Queste considerazioni di Dawkins sono estremamente importanti per far fronte all’argomento degli organi incipienti; ogni grado di efficienza funzionale (per quanto minimo) offre un appiglio alla selezione naturale: vedere anche solo un po’ è sicuramente meglio che non vedere affatto, ovvero è adattativamente proficuo. Il discorso di Dawkins procede mostrando le mutazioni graduali che permettono il passaggio dalla macchia fotosensibile dello stato iniziale alla forma «a fossetta» che porta tale macchia a formare prima un proto-cristallino e poi un cristallino vero e proprio, sino ad arrivare allo sviluppo di un occhio pienamente formato. In un’ottica del genere, anche gli organi incipienti hanno una funzione adattativa: l’argomento di Mivart (e dei suoi emuli contemporanei) non è dunque un buon argomento a favore della critica della selezione naturale e del gradualismo da essa implicato. È possibile pensare la conquista del «Monte improbabile» nei termini di una complicazione successiva di strutture: in un’ottica del genere l’evoluzione è interpretabile nei termini di una complicazione di stadi che vanno dal semplice al complesso. Fine del problema? Non proprio. La risposta di Dawkins (e di Darwin) all’argomento della inutilità degli organi incipienti in riferimento alle pretese entità semplici di partenza sembra aprire un nuovo fronte problematico. I naturalisti sono attratti dalle cose semplici (costruire l’impresa scientifica a partire dal basso su solide palafitte): a dare avvio al processo di costruzione dell’occhio è sufficiente un recettore sensibile alla luce. Come sostiene Darwin, sotto un livello di semplicità di questo tipo non è legittimo scendere; chiedersi co10

me un dispositivo così semplice possa avere avuto origine è ovviamente una domanda interessante, ma non è una domanda che deve riguardare la teoria della «trasmutazione» delle specie: «come un nervo sia diventato sensibile alla luce non ci riguarda più del modo come la vita stessa si sia originata» (Darwin, 1859, trad. it. p. 239). Con argomenti di questo tipo la questione degli organi di estrema complessità e perfezione sembra finalmente rientrare nei canoni di una visione naturalistica. Bastano questi argomenti a placare gli animi irati dei creazionisti? No, ovviamente. Diversamente dai naturalisti, i creazionisti sono attratti dalla complessità (un creatore divino è incline a fare cose complicate, dopotutto). Il ricorso al gradualismo è possibile soltanto a patto di porre entità semplici all’origine della concatenazione, ma non tutti i creazionisti sono disposti a considerare realmente semplici le entità chiamate in causa per dare avvio al processo evolutivo. Quanto sono davvero semplici le supposte entità semplici da cui prenderebbe avvio l’evoluzione di un organo? Quanto è possibile fare appello alla semplicità chiamando in causa nell’evoluzione dell’occhio entità quali una macchia sensibile alla luce? È su questo aspetto della questione che l’offensiva dei critici dell’approccio darwiniano sembra trovare nuovi punti d’appiglio. Behe (2006), ad esempio, nega decisamente che la macchia fotosensibile, da cui avrebbe inizio il processo di complicazione gradualistica alla base della formazione dell’occhio, possa essere considerata in termini di semplicità; dal suo punto di vista, le supposte entità semplici di partenza sono in realtà entità estremamente complesse: con una mossa del genere Behe apre la strada a una concezione molto più radicale di complessità. 2. Semplici complessità L’idea che la complessità debba dipendere da un atto di creazione è ben esemplificata dagli argomenti che Behe 11

(un fautore del «disegno intelligente») porta in favore della «complessità irriducibile». Cosa si deve intendere con tale espressione? La risposta a questa domanda è, di nuovo, ben esemplificata dal caso dell’occhio: La «macchia sensibile alla luce», che Dawkins prende come punto di partenza, per funzionare richiede una cascata di fattori, fra i quali la 11-cis-retinale e la rodopsina. Dawkins non ne fa menzione. E da dove è venuta fuori la «fossetta»? Una palla di cellule – di cui la fossetta deve essere fatta – tenderà ad essere tondeggiante, a meno che non venga tenuta nella forma corretta da un sostegno molecolare. Dozzine di proteine complesse, infatti, sono coinvolte nel compito di mantenere la forma della cellula, ed altre dozzine controllano la struttura extracellulare; in mancanza di queste, le cellule prendono la forma di tante bolle di sapone. Queste strutture rappresentano forse delle mutazioni verificatesi di colpo, in una sola volta? Dawkins non ci dice come si sia giunti all’apparente semplice forma «a fossetta» (Behe, 2006, trad. it. pp. 70-71).

Secondo Behe, le presunte entità semplici poste alla base del processo evolutivo sono in realtà entità estremamente sofisticate. Sono più che complesse: sono irriducibilmente complesse. Ed è proprio per la natura complessa che le contraddistingue che il loro avvento non può essere giustificato in termini gradualistici: sono entità del tipo tutto-o-nulla che non possono essere interpretate facendo appello alla selezione naturale. Ma andiamo con ordine. In primo luogo, che cosa significa sostenere che un sistema è irriducibilmente complesso? Ecco la definizione proposta da Behe: Per irriducibilmente complesso intendo un singolo sistema composto da diverse e ben assortite parti interagenti, che contribuiscono alla funzione basilare, laddove la rimozione di una qualunque delle parti causi l’effettiva cessazione del funzionamento del sistema. Un sistema irriducibilmente complesso non può essere prodotto direttamente (...) attraverso piccole, successive mo-

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dificazioni di un sistema precedente, perché qualunque precursore di un sistema irriducibilmente complesso che manchi di una parte è, per definizione, non funzionale (ivi, trad. it. p. 72).

Un sistema del genere è individuabile in riferimento a due aspetti: la specificazione della funzione (o delle funzioni) e la caratterizzazione dei componenti che lo costituiscono; la constatazione del fatto che tutti i componenti siano necessari alla funzione. Ed è sul secondo aspetto che si concentra l’attenzione di Behe: se la struttura interna del sistema venisse a cadere anche per la mancanza di uno solo dei componenti che la realizzano, salterebbe ogni possibilità di funzionamento di quel sistema. Behe mostra il concetto di complessità irriducibile attraverso l’esempio intuitivo della trappola per topi. La funzione della trappola è chiara: catturare il topo. Anche l’elenco dei costituenti è chiaro: la base; il martelletto di metallo; la molla (che consente lo scatto del martelletto); il gancio sensibile (basta una leggera pressione per farlo scattare); la barra metallica che trattiene il martelletto quando la trappola è carica. Ed ecco il punto: se manca anche uno solo di questi componenti, la trappola non funziona affatto; dunque tutti i componenti sono necessari al funzionamento della trappola. Senza anche uno soltanto dei componenti, molto semplicemente, una trappola non è propriamente una trappola. La mossa di Behe utilizzata a favore della complessità irriducibile si concentra sulla critica all’idea dello sviluppo graduale dal semplice al complesso che i darwinisti hanno posto alla base del processo evolutivo. Attraverso tale critica egli nega che le entità alla base del processo siano interpretabili in termini di semplicità utilizzando i dati della biologia molecolare: a partire dagli anni Cinquanta del Novecento gli studi in questo settore di ricerca (la nuova frontiera dell’evoluzione) hanno evidenziato che la complessità è un tratto distintivo della materia organica anche al microlivello di analisi. La biologia molecolare applicata allo studio della struttura delle cellule ha mostrato la sofisticata com13

plessità ingegneristica di queste strutture funzionali. Ora, se la complessità è riscontrabile persino a questo (micro) livello di organizzazione, allora è riscontrabile a ogni livello della materia organica: il che significa riconoscere che l’evoluzione a ogni livello presuppone l’esistenza di entità complesse già nei suoi stadi iniziali. Secondo Behe considerazioni di questo tipo, fondate sulla natura irriducibile della complessità, ci spingono ad abbandonare la prospettiva selezionista e ad abbracciare l’idea del disegno intelligente governato da un progettista divino. Utilizzando argomenti del genere Behe sostiene che le risposte di Darwin a Mivart a proposito della complessità dell’occhio mostrano un difetto decisivo: Darwin riuscì a persuadere gran parte del mondo del fatto che l’occhio moderno si fosse evoluto gradualmente da una struttura più semplice, ma non cercò neanche di spiegare da dove venisse il suo punto di partenza – e la relativamente semplice macchia fotosensibile. Al contrario, Darwin liquidò così la questione dell’origine ultima dell’occhio: «come un nervo sia diventato sensibile alla luce non ci riguarda più del modo come la vita stessa si sia originata» (Behe, 2006, trad. it. p. 46).

La macchia fotosensibile assunta come punto di partenza nelle concezioni gradualiste mostra tutti i caratteri di una complessità irriducibile. È qui che la biologia molecolare insinua il suo cuneo: secondo Behe, in effetti, i meccanismi essenziali della vita non sono quelli che operano a livello macroscopico ma quelli che avvengono a un livello troppo piccolo per l’osservazione diretta: la vita, in effetti, «è una questione di dettagli, e sono le molecole che si occupano dei dettagli della vita (...). La complessità delle fondamenta della vita ha paralizzato i tentativi scientifici di spiegarla: le macchine molecolari innalzano una barriera quanto mai impenetrabile, che limita le possibilità universali del darwinismo» (ivi, trad. it. pp. 30-31). Fine della partita? Davvero dobbiamo concedere a Behe l’onore delle armi? 14

3. Fare a meno del progettista Tanto per iniziare, la relazione causale stretta tra organi e funzioni postulata da Behe a favore della complessità irriducibile non sembra reggere alla prova dei fatti: la visione deterministica di una tale relazione conduce a una visione meccanicistica dei sistemi organici smentita clamorosamente dalle conoscenze oggi a nostra disposizione (Pievani, 2006). Il punto è importante e merita alcune considerazioni ulteriori. L’idea che la relazione tra strutture e funzioni non possa essere intesa in termini deterministici, d’altra parte, trova già in Darwin un *-forte sostenitore. Il primo modo in cui egli fa fronte alle critiche di Mivart è il riferimento ai «modi di transizione»: Due organi distinti, o lo stesso organo in due forme molto diverse, possono compiere contemporaneamente la stessa funzione nello stesso individuo, e questo è un modo molto importante di transizione (...). L’esempio della vescica natatoria nei pesci è particolarmente appropriato, perché dimostra chiaramente un fatto molto importante: che un organo originariamente costruito per uno scopo, cioè la funzione idrostatica, può trasformarsi in un organo capace di una funzione completamente diversa, cioè la respirazione (Darwin, 1859, trad. it. p. 243).

Torneremo sulla questione dei modi di transizione (sulla cooptazione di organi nati per altri scopi a nuove funzioni) in modo più articolato nel seguito di questo lavoro; per ora basti dire che la critica al nesso univoco tra strutture e funzioni (una struttura adattata a una singola funzione) è alla base della rivoluzione concettuale messa in atto nei primi anni Ottanta del Novecento da Gould e Vrba (1982) che, con la teoria dell’«exattamento», hanno messo in campo la possibilità di una serie articolata di relazioni possibili tra strutture e funzioni. Anche il secondo modo in cui Darwin risponde a Mivart, il «fattore uso», avrà un ruolo importante nel seguito 15

di questo libro. Il caso citato è quello del passaggio degli occhi nei pleuronettidi, o pesci piatti (come le sogliole o i rombi), dalla situazione originaria con gli occhi situati in posizione opposta l’uno all’altro in un corpo simmetrico, alla situazione attuale con entrambi gli occhi disposti sul lato superiore della testa. Dopo aver riconosciuto che l’estrema abbondanza delle diverse specie di pleuronettidi «dimostra che la loro struttura piatta e asimmetrica è mirabilmente adattata alle loro condizioni di vita» (ivi, trad. it. pp. 284-285), Darwin sottolinea il ruolo fondamentale del «fattore uso» nel caratterizzare il passaggio dalla posizione simmetrica a quella asimmetrica degli occhi di questi pesci: Mivart (...) ha osservato che è difficile concepire una trasformazione spontanea e improvvisa della posizione degli occhi, ed io concordo pienamente con la sua posizione (...). Vediamo dunque che i primi stadi del passaggio dell’occhio da un lato della testa all’altro, che Mivart considera dannosi, possono essere attribuiti all’abitudine, senza dubbio vantaggiosa per l’individuo e per la specie, di guardare verso l’alto con tutti e due gli occhi, mentre il pesce rimane poggiato sul fondo con il resto del corpo. Possiamo anche attribuire agli effetti ereditari dell’uso il fatto che, nella maggioranza dei pesci piatti, la bocca è inclinata verso la superficie inferiore del corpo (...), non sul lato opposto allo scopo (...) di nutrirsi facilmente restando poggiati sul fondo (ivi, trad. it. pp. 285-286).

Il riferimento agli «effetti dell’uso» è talmente rilevante per rispondere alle difficoltà sottolineate da Mivart che Darwin lo considera un fattore dell’evoluzione di importanza pari a quella della selezione naturale. In casi di questo tipo, in effetti, «sembra impossibile decidere quanto si debba attribuire in ogni caso particolare agli effetti dell’uso, e quanto alla selezione naturale» (ivi, trad. it. p. 287). Tanto basti per Darwin. Gli argomenti contro il legame stretto tra funzione e struttura e quelli relativi al ruolo dell’uso di un organo ai 16

fini della sua evoluzione possono essere utilizzati per arginare le critiche di Behe fondate sul concetto di complessità irriducibile. In effetti l’argomento della trappola per topi regge soltanto se si ammette una relazione univoca e deterministica tra struttura e funzione: l’idea che la trappola per topi sia totalmente inutilizzabile se manca anche uno solo dei suoi componenti (secondo una logica tuttoo-nulla) dipende da una concezione fondata su una relazione di questo tipo. Il fatto che i rapporti tra strutture e funzioni possano essere interpretati in maniera diversa, tuttavia, dovrebbe farci guardare con sospetto all’esempio della trappola per topi e alle conclusioni che Behe è disposto ad accordargli circa la natura degli organismi. In un articolo che rovescia l’assunto della complessità irriducibile della trappola per topi, McDonald (2002) sostiene che è possibile ipotizzare trappole che, per quanto prive di alcuni componenti essenziali, funzionano in modo del tutto soddisfacente (anche se in maniera meno efficace, ovviamente). Un argomento del genere dimostra che l’opposizione tra trappole pienamente sviluppate che funzionano perfettamente e trappole incomplete che non funzionano affatto è una distinzione arbitraria che non regge alla prova dei fatti: una trappola con il cinquanta per cento dei suoi costituenti non è una mezza trappola, ma soltanto una trappola che funziona a metà. La critica più generale che si può muovere a Behe riguarda la sua visione meccanicistica della natura organica. Una visione del genere è criticabile sia a livello macromolecolare sia a livello molecolare. Scrive Pievani (2006): I sistemi viventi e i sistemi molecolari conosciuti smentiscono Behe in tutti i sensi. Sono «riducibili» da un punto di vista evoluzionistico, perché possiedono versioni diverse in grado di svolgere funzioni analoghe, e sono rimpiazzabili da sistemi alternativi. Non solo, essi esibiscono caratteristiche non minimali, ampi margini di ridondanza strutturale e spiccate dosi di plasticità. Se un sistema fosse irriducibile alla Behe non dovrebbe avere meccani-

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smi compensatori, giacché la stessa interdipendenza fra le parti da lui magnificata può essere letta, anziché come sinonimo di fragilità del sistema, come capacità di autoregolazione e di resistenza alle perturbazioni e alle eventuali perdite di elementi (ivi, p. 70).

Si tratta di un punto decisivo della questione con cui mettere alla prova la tesi della complessità irriducibile. Non è un caso che, come ricorda Pievani, William A. Dembski (un altro difensore del «disegno intelligente») abbia cercato di correre ai ripari utilizzando una definizione di «sistema complesso irriducibile» che reggesse meglio alla prova dei fatti appellandosi a una concezione in cui la rimozione di una parte non ha effetti generali sulla totalità del sistema e in cui è possibile rilevare la funzionalità del sistema anche dopo la rimozione di alcune sue parti costituenti. Tutto questo va bene, ovviamente: ma cosa ne è della complessità irriducibile in una prospettiva di questo tipo? Come sottolinea Pievani, in casi del genere, l’argomento della complessità irriducibile perde, molto semplicemente, gran parte della sua forza retorica: In questo modo (...) l’argomento si avvita su se stesso, perché la definizione di sistema irriducibile smette di avere qualsiasi utilità come modello per la biologia. È pura fiction meccanicistica. Il ragionamento diventa del tutto arbitrario: l’evoluzione, in quanto fatto, mostra che le parti si trasformano vicendevolmente e che gli organismi non sono composti da qualcosa di simile a ingranaggi meccanici. Behe e Dembski, in definitiva, non sono riusciti a dimostrare l’esistenza di alcun sistema biologico (nemmeno una mezza proteina) che si accordi con la loro stessa definizione, peraltro sbagliata, di complessità irriducibile. Il loro viaggio ha incontrato il fatidico cartello «benvenuti nel mondo reale» e si è trasformato in una debacle rovinosa (ivi, pp. 70-71).

Prima di entrare nel vivo delle questioni che più ci interessano da vicino, c’è un ultimo aspetto dell’argomento di Behe che merita considerazione: l’idea che la teoria darwiniana comporti una visione dell’evoluzione come un 18

processo guidato dal caso. Dar conto della complessità irriducibile in riferimento al caso è un’impresa votata al fallimento: dal punto di vista del caso, l’evoluzione, più che improbabile, è semplicemente impossibile. Dawkins (1996) affronta la questione del caso ricordando la storiella di Fred Hoyle sul deposito di rottami di un Boeing 747: la possibilità che un uragano concentrato sul deposito possa assemblare i pezzi sino a ricostruire l’aereo completo è tanto improbabile da rendere quell’evento praticamente impossibile. L’evento casuale della ricostruzione dell’aereo è, nella proposta di Hoyle, analogo all’opera della selezione di fronte alla costruzione di un occhio o di una molecola proteica. La prima cosa da dire è che considerare «impossibile» ciò che è semplicemente «improbabile» (o anche altamente improbabile) è, per quanti sono in buona fede, semplicemente un grave errore concettuale; la seconda, la più importante, è che il darwinismo non è una teoria del caso. Come sottolinea Dawkins, in effetti, interpretare la teoria della selezione naturale come un processo guidato dal caso è un modo di tradire gli intenti di Darwin: Qualsiasi teoria asserente che l’evoluzione possa creare in un colpo solo e dal nulla un nuovo complesso meccanismo, come un occhio o una molecola di emoglobina, chiede troppo al caso. La selezione naturale non ha niente a che fare con questa teoria. In essa tutta la «progettualità» è demandata alla mutazione, una sola grande mutazione che merita la metafora del 747 e del cumulo di rottami che io chiamo «macromutazione del boeing 747». Di fatto cose del genere non avvengono e non hanno nessuna relazione con la teoria di Darwin (Dawkins, 1996, trad. it. p. 94).

Il caso ha sicuramente una parte importante nella teoria evoluzionistica (le mutazioni genetiche sono eventi casuali); detto questo, sostenere che l’intera teoria dell’evoluzione sia governata dal caso è un totale fraintendimento della teoria di Darwin: il darwinismo è in effetti «la teoria 19

della mutazione casuale combinata con la selezione naturale cumulativa non casuale» (ivi, trad. it. p. 70). Guardare alla teoria dell’evoluzione come all’opera congiunta del caso e della selezione naturale permette di affrontare la questione dei sistemi complessi in un quadro esplicativo (come sosteneva Mivart) in grado di fare a meno del disegno teleologico affidato a un progettista divino o a fantomatiche e misteriose forze vitali interne. La selezione naturale è l’unica spiegazione in termini naturalistici a nostra disposizione: se non vogliamo credere ai miracoli, il riferimento a modificazioni numerose, successive e lievi è l’unico modo di cui disponiamo per spiegare la complessità in natura. Il problema della complessità in natura è in realtà una questione di ambito generale che nasce ben prima della riflessione in termini evoluzionistici. Qui basti citare il caso dei Dialoghi sulla religione naturale di David Hume dedicati alla confutazione del teismo scientifico (il tentativo di interpretare le credenze religiose alla luce della scienza) di Locke e Newton. Ai fini del nostro discorso non è importante entrare nei dettagli degli argomenti di Hume (per una ricostruzione del quadro storico e concettuale cfr. Attanasio, 1997); ciò che ci preme evidenziare è che per quanto la critica di Hume possa essere considerata devastante sul piano epistemologico, essa manca di una pars construens in grado di spiegare come sia possibile dar conto della complessità in natura senza dover fare riferimento all’operato di un architetto divino. Scrive Dawkins (1986): A volte si dice che il grande filosofo scozzese fece piazza pulita dell’argomento del disegno divino un secolo prima di Darwin. Ma il contributo di Hume si ridusse semplicemente a criticare la logica di usare il disegno apparente in natura come una prova positiva a sostegno dell’esistenza di un Dio. Egli non offrì alcuna spiegazione alternativa del disegno apparente, ma lasciò aperto il problema. Un ateo, prima di Darwin, avrebbe potuto dire: “Io non ho alcuna spiegazione per il complesso disegno biologico. Tutto ciò che so è che Dio non è una buona spie-

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gazione, cosicché dobbiamo attendere e sperare che qualcuno ne trovi una migliore”. Io non posso fare a meno di pensare che una tale posizione, per quanto logicamente sana, non potesse essere soddisfacente e che, per quanto l’ateismo possa essere stato logicamente sostenibile prima di Darwin, soltanto Darwin abbia creato la possibilità di adottare un punto di vista ateo con piena soddisfazione intellettuale (ivi, trad. it. pp. 23-24).

Hume non offre argomenti in positivo per spiegare l’esistenza di sistemi complessi in natura per un motivo molto semplice: non può farlo. Bisognerà attendere Darwin per avere una risposta positiva al problema: solo attraverso la selezione naturale, in effetti, sarà possibile disporre di un dispositivo in grado di spiegare la complessità in natura in linea con un approccio scientifico. Facendo appello alla selezione naturale è possibile dar conto del progetto ingegneristico dei sistemi complessi senza chiamare in causa un atto di creazione: con il riferimento alla selezione naturale, infatti, la spiegazione in termini di un architetto divino (a prescindere se sia falsa o meno) è semplicemente superflua. Prima di Darwin l’opposizione tra caso e progetto era l’unica alternativa in campo: con Darwin l’architetto divino può essere sostituito dall’«orologiaio cieco». Secondo Dawkins il riferimento alla selezione naturale non è soltanto un modo per dar conto della complessità in natura, ma è anche l’unico modo a nostra disposizione per farlo. Se la selezione naturale sia davvero l’unico modo di dar conto dei sistemi complessi è questione che discuteremo ancora a lungo nel seguito di questo lavoro. Tanto basti per le relazioni tra complessità e selezione naturale: è venuto il momento di prendere finalmente in considerazione il rapporto tra linguaggio ed evoluzione. 4. Il linguaggio: una complessità irriducibile? Quando si parla del linguaggio la questione della complessità irriducibile emerge subito in primo piano. Il pun21

to in questione non riguarda soltanto la compatibilità o meno del linguaggio con la selezione naturale: come vedremo nel dettaglio nei prossimi capitoli, il tema della compatibilità del linguaggio con l’approccio evoluzionistico si intreccia continuamente con la questione del modello del linguaggio cui si intende aderire – affrontare il linguaggio in termini evoluzionistici significa di fatto affrontare la questione più generale della sua natura. La tradizione largamente prevalente in scienza cognitiva fa affidamento al modello della «grammatica universale» (GU) proposto per primo da Noam Chomsky nella metà degli anni Cinquanta del Novecento e sostenuto oggi da molti altri autori (Jackendoff, 1993; Pinker, 1994). La compatibilità della GU con il quadro evoluzionistico è uno dei punti chiave degli argomenti portati avanti in questo libro. Ora, l’idea di considerare il linguaggio in termini evoluzionistici dovrebbe comportare un esito scontato: come interpretare la concezione del linguaggio come un componente innato della mente-cervello (come fanno i fautori della GU) se non in termini di adattamento biologico? Una domanda del genere dovrebbe ammettere, almeno tra i naturalisti, una risposta (univoca) in termini di selezione naturale. Ma i naturalisti, si sa, sono anime inquiete: l’idea del linguaggio come un adattamento biologico prodotto dalla selezione naturale è fortemente controversa. A ben guardare però, il rifiuto del darwinismo da parte dei fautori della GU non è imputabile soltanto allo stato di inquietudine che caratterizza questi autori. Per quanto possa apparire paradossale, alcuni naturalisti ripropongono oggi le stesse accuse mosse a Darwin da Mivart e dai neocreazionisti. Chomsky (1988), ad esempio, sostiene che il linguaggio, per come lui lo intende, è incompatibile con l’evoluzione darwiniana. Considerazioni di questo tipo, che possono apparire paradossali a tutta prima, ricevono una legittimazione quando le si considera tenendo conto di un aspetto evidenziato con cura dai fautori di questa ipotesi teorica: il rapporto con la tradizione 22

cartesiana (Chomsky, 1966). Come vedremo nel dettaglio nel prossimo capitolo, una concezione del linguaggio che fa esplicito riferimento a tale tradizione comporta una serie di difficoltà sul piano evolutivo: l’idea che il linguaggio debba essere analizzato in riferimento alla «differenza qualitativa» tra umani e altri animali pone in effetti diversi problemi per chi intende affrontare lo studio delle capacità verbali in chiave naturalistica. La questione del rapporto tra la GU e la tradizione cartesiana è importante ai fini del nostro discorso anche per un motivo molto più specifico attorno al quale ruota il modello del linguaggio da noi adottato in questo scritto. L’adesione di Chomsky alla tradizione cartesiana è in realtà l’adesione a una concezione in cui si esaltano gli aspetti della creatività del linguaggio umano. Sin qui tutto bene: la creatività è sicuramente una delle proprietà essenziali del linguaggio umano (tanto della sua origine quanto del suo funzionamento effettivo). Richiamandosi a Cartesio, tuttavia, Chomsky prende in considerazione soltanto un aspetto della creatività linguistica: quello interpretabile in termini di creatività combinatoria (uso infinito di mezzi finiti). Così facendo, però, egli lascia del tutto inesplorato un altro aspetto della creatività del linguaggio, un aspetto che a nostro avviso merita invece grande considerazione. Si tratta di ciò che Chomsky (1988) chiama il «problema di Cartesio». Alla ricerca di un canone per distinguere gli umani dalle macchine o dagli altri animali, Cartesio (1637) chiama in causa l’aspetto creativo dell’uso del linguaggio. Anche per Chomsky il tema delle «altre menti» è interpretabile allo stesso modo: più precisamente, egli riprende da Cartesio l’idea che l’unica indicazione per attribuire una mente a qualcuno sia «la sua abilità di usare il linguaggio in maniera normale» (Chomsky, 1968, trad. it. p. 139). Usare il linguaggio in maniera «normale» significa sfruttare le proprietà che rendono tale capacità lo strumento per eccellenza della creatività e della flessibilità del comportamento 23

umano. Chiamando in causa l’«uso creativo del linguaggio» Chomsky (1988) non intende riferirsi a una qualche capacità eccezionale, ma a qualcosa di più terreno: «l’uso del linguaggio nella vita di tutti i giorni, con le sue proprietà distintive di novità, libertà dagli stimoli esterni e dagli stati interiori, coerenza e consonanza con la situazione e la sua capacità di evocare pensieri appropriati in colui che ascolta» (ivi, trad. it. p. 121). Parlare in modo appropriato alla situazione rende il linguaggio umano una capacità specifica della nostra specie: tale capacità è al centro dell’uso creativo del linguaggio perché è inestricabilmente connessa al tema della flessibilità della mente umana. A fare problemi a Chomsky è la coerenza e la consonanza alla situazione da una parte e la libertà dagli stimoli esterni e interni dall’altra: come può il linguaggio essere allo stesso tempo indipendente da stimoli e appropriato al contesto? La soluzione che Cartesio offre a questo problema è fedele alla sua metafisica dualista: chiamando in causa l’anima razionale egli può agevolmente attribuire all’uso creativo del linguaggio proprietà che non si accordano con la prospettiva meccanicistica. Chomsky, ovviamente, non può far propria la soluzione dualista cartesiana: a proposito del «problema di Cartesio» egli sostiene che si tratta di un problema che la mente umana può porre ma non può risolvere in linea di principio. Questo esito mistico della risposta di Chomsky non ci soddisfa: la nostra idea è che il «problema di Cartesio» non sia affatto irrisolvibile in linea di principio ma che sia irrisolvibile soltanto considerando il linguaggio nei termini della grammatica universale. In questo libro intediamo proporre una via di uscita al «problema di Cartesio»: fornire una spiegazione di come le espressioni linguistiche possano essere appropriate al contesto fisico e sociale è infatti un modo per dar conto di un aspetto del linguaggio intimamente connesso alla questione della sua origine. Tale via di uscita passa per l’analisi dei processi di produzione-comprensione linguistica: i modelli che fanno le24

va sui dispositivi di analisi sintattica degli enunciati, come è noto, lasciano inevitabilmente scoperta la questione di come i simboli siano ancorati al mondo. Ora, quanto è davvero plausibile dar conto dell’uso effettivo del linguaggio indipendentemente dalla relazione di coerenza e consonanza che i simboli hanno con i contesti di enunciazione? La questione del parlare in modo appropriato e le questioni di ordine pragmatico che essa solleva non rappresentano soltanto un problema che è possibile analizzare o meno a seconda delle opzioni teoriche di fondo di ogni singolo autore: quando l’oggetto di analisi è il parlare nelle situazioni d’uso effettive (non le capacità comunicative degli angeli disincarnati), lo studio relativo al «perché» diciamo qualcosa in un certo contesto è (deve essere) parte integrante dello studio relativo al «cosa» diciamo in quella situazione. Considerazioni di questo tipo ci portano ad abbracciare un modello pragmatico della comunicazione verbale; un modello del genere, come avremo modo di vedere nelle pagine che seguono, apre la strada alla possibilità di considerare il linguaggio in stretta connessione con i modelli evoluzionistici. Con buona pace di Chomsky.

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Adattamento

Se un elefante ci dicesse di esser molto orgoglioso del suo naso, non faremmo fatica a credergli: è l’unico animale conosciuto ad avere un naso del genere. Se però a partire dalla unicità del suo naso cominciasse ad avanzare pretese di un qualche statuto speciale nel mondo della natura, inizieremmo a guardarlo con sospetto e a considerare stravagante la sua pretesa. Nessuno sarebbe disposto a concedere che il possesso di una proprietà o una abilità da parte di un qualsiasi animale (per quanto unica al mondo) possa essere considerato sufficiente a rendere quell’animale un essere «speciale» nella natura. In effetti potremmo replicare all’elefante che i suoi argomenti valgono per qualsiasi altra specie animale, visto che ogni specie si distingue da un’altra per un qualche suo tratto caratteristico: tutte le proprietà che ogni specie può vantare come indizio di un presunto statuto di specialità (una differenza qualitativa) nella natura sono soltanto il contrassegno inesorabile della specificità di ogni specie animale. Un argomento del genere dovrebbe convincere (e zittire) anche l’elefante più orgoglioso della sua elefantinità. Questi avrebbe tuttavia ancora una freccia al proprio arco. Potrebbe replicare: «E voi umani, allora?». Se l’argomento della specificità vale per tutte le specie animali, in ef26

fetti, perché non dovrebbe valere anche per noi? Una lunga tradizione di studi ha fatto riferimento a un presunto stato di «eccezione» (una forma di anomalia) degli umani nella natura – si pensi soltanto all’antropologia filosofica del secolo appena trascorso. Pinker (1994), a cui si deve il paragone con la proboscide dell’elefante, ha mostrato che il carattere di unicità del linguaggio è spesso utilizzato per conferire agli esseri umani uno statuto di specialità nel mondo della natura. Non è un caso che molti degli autori che utilizzano oggi argomenti di questo tipo (primo fra tutti Chomsky) facciano esplicito riferimento al pensiero di Cartesio. Sin qui poco male: essere cartesiani (o noeocartesiani) non è di per sé disdicevole. Le difficoltà sorgono quando si prova a far convergere le istanze cartesiane con le esigenze tipiche della tradizione naturalistica: è davvero possibile mettere insieme la tesi della «differenza qualitativa» degli umani rispetto agli altri animali con l’evoluzionismo? In che senso qualcosa che appartiene in modo esclusivo a una specie dovrebbe giustificare lo stato di eccezione di quella specie rispetto a tutte le altre? Le risposte a queste domande implicano una riflessione sullo specifico modello del linguaggio alla base della proposta dei neocartesiani: la «grammatica universale» (GU). La tesi secondo cui il liguaggio è alla base della differenza qualitativa degli umani si fonda sull’idea del linguaggio come un sistema straordinariamente complesso. Un argomento del genere è di grande importanza ai nostri fini: la complessità del linguaggio, come dovrebbe essere chiaro dopo gli argomenti affrontati nel capitolo 1, rappresenta in effetti il nodo concettuale decisivo per valutare se le capacità verbali siano o meno adattamenti biologici dovuti alla selezione naturale. È dall’analisi di tale questione che occorre partire. 1. La complessità del linguaggio Cosa significa sostenere che il linguaggio è un’entità complessa? Ai fini di ciò che è in discussione in questo libro, 27

occorre distinguere due nozioni di complessità. La prima è un tipo di complessità (che definiamo «ingegneristica») relativa all’architettura cognitiva, ovvero al dispositivo adibito all’elaborazione dell’informazione linguistica. Quando Tomasello (1995) sostiene che il linguaggio deve essere considerato come un «mosaico» di capacità (un sistema composto da molti sottosistemi di elaborazione) è a una complessità di questo tipo che egli fa riferimento. Per quanto ci sia un ampio dibattito sulla natura, il tipo e il numero dei sottocomponenti implicati, l’ipotesi che il linguaggio sia un’entità ingegneristicamente complessa è largamente condivisa. Pinker (1994), ad esempio, considera il linguaggio un sistema «composto di molte parti (...) realizzate fisicamente in circuiti nervosi intricati, disegnati da una cascata di eventi genetici coordinati precisamente nel tempo» (ivi, trad. it. p. 354). Se la complessità del linguaggio riguardasse soltanto l’architettura cognitiva nessuno si opporrebbe a considerarla il prodotto della selezione naturale: in questo caso in effetti varrebbe per il linguaggio ciò che vale per molti altri organi (nessuno ha problemi a riconoscere che, poniamo, la complessità del sistema digerente sia il prodotto di un processo adattativo). Il fatto che non tutti siano disposti a considerare il linguaggio come il prodotto della selezione naturale mostra che quando si parla di complessità del linguaggio non è alla complessità ingegneristica che si intende fare riferimento. Con una qualche ragione, come vedremo, è possibile sostenere che il linguaggio è complesso non perché è composto di molteplici sistemi di elaborazione, ma che è composto da diversi sistemi di elaborazione perché è complesso. Non si tratta di una questione di lana caprina: una mossa del genere sposta l’attenzione dai sistemi di elaborazione al tipo di informazione che quei sistemi elaborano. Ora, cosa rende complesso lo specifico tipo di informazione in causa negli scambi linguistici? La risposta a questa domanda chiama in causa le capacità espressive del linguaggio: dopo aver ribadito che il lin28

guaggio è composto di molte parti cablate in circuiti nervosi intricati, Pinker (1994) sostiene che, attraverso la modulazione delle espirazioni, i circuiti cerebrali rendono possibile un fatto straordinario: «la capacità di inviare da una testa all’altra un numero infinito di pensieri precisamente strutturati» (ivi, trad. it. p. 354). L’idea di Pinker è che il passaggio dai pensieri (organizzati in strutture proposizionali) alla sequenza delle espressioni verbali sia reso possibile da un dispositivo fondato sui principi e le regole della grammatica universale: quando si dice che il linguaggio è un sistema complesso, dunque, è alla competenza grammaticale che si intende fare riferimento. Ed è sulla natura innata di tale competenza che si concentra il dibattito sulla plausibilità evoluzionistica del linguaggio. Prima di affrontare nello specifico il dibattito in questione è bene fare alcune considerazioni preliminari sulla GU. 1.1. Gerarchie versus sequenze Gli argomenti in favore dell’innatismo della GU sfruttano la dimostrazione per assurdo: poiché è impossibile dar conto dell’apprendimento e del funzionamento delle capacità verbali in termini di esperienza acquisita, allora il linguaggio deve essere innato. Lashley (1951) ha mostrato che il linguaggio – a vari livelli di analisi – non è interpretabile nei termini di una catena causale di stimoli associativi: anche il semplice proferimento dei suoni prodotto dall’apparato fonatorio non può essere interpretato come una sequenza del genere. Il motivo di questa impossibilità mette in luce un aspetto di notevole interesse ai nostri fini: il fatto che ciò che appare in superficie come una successione temporale di associazioni è in realtà il prodotto di un processo gerarchico di pianificazione. Per quanto le difficoltà della catena associativa siano riscontrabili a vario livello, è chiaro che l’esempio principe di tali difficoltà sia rappresentato dal caso della sintassi: la sequenza delle parole nella costruzione della frase, in effetti, non dipende da «alcuna associazione diretta della pa29

rola (...) in sé con altre parole» (ivi, p. 122) ma è dovuta a condizioni strutturali di livello più astratto. La critica decisiva alla tesi dell’ordine seriale del linguaggio è sferrata da Chomsky (1959) nella famosa recensione a Verbal Behavior di Skinner. Mostrando che l’analisi delle capacità verbali in termini di «stimolo», «risposta» e «rinforzo» non è capace di dar conto di ciò che caratterizza il linguaggio in modo specifico, Chomsky ha fornito argomenti decisivi contro il comportamentismo mostrando che la composizione e la produzione di un enunciato non si risolve semplicemente nel mettere in fila una sequenza di risposte sotto il controllo di una stimolazione esterna e di un’associazione intraverbale [poiché] l’organizzazione sintattica di un enunciato non è qualcosa che si trova rappresentata in modo semplice e diretto nella struttura fisica dell’enunciato stesso (ivi, trad. it. p. 62).

Con queste parole Chomsky enuncia il «principio di dipendenza dalla struttura». È da questo principio che dipende la nozione di complessità del linguaggio che più ci interessa in questo scritto. L’argomento della «povertà dello stimolo» – l’idea che lo stimolo ambientale sia povero e che dunque ogni tentativo di fondare sull’esperienza le capacità verbali umane sia votato al fallimento – trova nel principio di dipendenza dalla struttura uno dei suoi punti di maggior forza. L’analisi delle interrogative in inglese, uno degli innumerevoli esempi che Chomsky (1971) porta a conforto della propria ipotesi, si presta ad esemplificare il punto. Si consideri la frase: (1) «The dog in the corner is hungry». È possibile trasformare questa asserzione in una interrogativa mediante una semplice operazione formale (spostando l’elemento «is» in testa alla proposizione): (1a) «Is the dog in the corner hungry?». 30

La trasformazione in causa può essere messa in atto in diversi modi. Chomsky ne propone due. Il primo, retto da un principio di «indipendenza dalla struttura», utilizza l’ordine seriale delle parole ascoltate in precedenti situazioni e la catena di associazioni tra un elemento e l’altro delle unità della frase. In un caso di questo tipo l’operazione messa in atto risponde a un principio del tipo: prendere la posizione più a sinistra della parola «is»; spostare «is» in testa alla proposizione. Un principio del genere, interpretabile nei termini di una concezione associazionista del linguaggio, non funziona. Se la formazione delle interrogative fosse realmente «indipendente dalla struttura», infatti, una proposizione come: (2) «The dog that is in the corner is hungry» dovrebbe generare: * «Is the dog that in the corner is hungry?». Secondo Chomsky per capire i processi in gioco nella formazione delle interrogative bisogna fare riferimento a operazioni che rispettano la «dipendenza dalla struttura» della frase. Nel caso specifico è necessario identificare il sintagma nominale (il soggetto della proposizione) per poi spostare l’«is» che segue tale sintagma all’inizio della proposizione: nel caso in questione, dopo aver identificato «the dog is in the corner» come il sintagma nominale, l’interrogativa viene formulata spostando la copula «is» dalla posizione originaria (dopo il soggetto) in testa alla proposizione. Un’operazione di questo tipo è «dipendente dalla struttura» visto che «l’operazione prende in considerazione non soltanto la sequenza degli elementi che costituiscono la proposizione ma anche la loro struttura; in questo caso il fatto che la sequenza ‘the dog in the corner’ sia un sintagma, e per di più un sintagma nominale» (ibid., 1971, trad. it. p. 39). Individuando il sintagma nominale 31

«the dog that is in the corner» e invertendo la posizione di «is» che lo segue è possibile ottenere correttamente: (2a) «Is the dog that is in the corner hungry?». Il motivo per cui la formazione delle interrogative non può dipendere dall’esperienza è che l’apparente semplicità dell’ordine seriale delle parole nasconde una complessità strutturale non derivabile dalla sequenza delle espressioni effettivamente esperite. Ora, se il principio di dipendenza dalla struttura non è derivabile dall’esperienza e se il bambino è in grado di formulare le trasformazioni corrette anche se non le ha mai udite in precedenza, ciò che ne segue è che la dipendenza dalla struttura deve essere un principio innato della facoltà del linguaggio. Scrive Chomsky (1971): Tutte le operazioni formali conosciute della grammatica inglese, o di qualunque altro linguaggio, sono operazioni dipendenti dalla struttura. Questo è un esempio molto semplice di un principio invariante del linguaggio, ciò che potrebbe essere chiamato principio linguistico formale universale o principio della grammatica universale. Dati questi fatti, è naturale postulare che l’idea delle operazioni dipendenti dalla struttura faccia parte dell’innato schematismo applicato dalla mente ai dati dell’esperienza (ivi, trad. it. p. 41).

Sostenere che la complessità del linguaggio coincide con la complessità della GU significa caratterizzare in un modo molto preciso il modello di linguaggio di riferimento. Una concezione del linguaggio fondata sulla GU, inoltre, ha conseguenze dirette anche sul piano della complessità ingegneristica. Dall’intreccio tra questi due aspetti (la connessione tra le strutture di informazione e i dispositivi di calcolo in grado di elaborarle) nascono le questioni evoluzionistiche di maggior rilievo ai nostri fini. In primo luogo, infatti, una GU richiede dispositivi computazionali in 32

grado di elaborarla – è impensabile pensare di affrontare il tema della competenza linguistica senza analizzare anche la questione dell’architettura cognitiva che la implementa1. In secondo luogo, l’identificazione del linguaggio con la GU chiama in causa l’idea del linguaggio come un dispositivo indipendente e autonomo dalle altre capacità cognitive2. Da questo punto di vista il modello di linguaggio avanzato da Chomsky si sposa perfettamente con la concezione modularista della mente proposta da Fodor (1983). La mente modulare è un sistema cognitivo composto di numerosi sottosistemi di elaborazione (i moduli) le cui caratteristiche fondamentali sono la «specificità di dominio» e l’«incapsulamento informativo». Nell’ipotesi di Fodor, in effetti, ogni modulo è un sistema di elaborazione dedicato a uno specifico tipo di informazione e impermeabile alle informazioni provenienti da altri domini di conoscenze: per fare un esempio, il sistema che elabora l’informazione visiva è del tutto indipendente da quello che tratta l’informazione uditiva – la retina degli occhi non reagisce agli stimoli uditivi neppure se si urla a squarciagola. Considerata in questi termini, la teoria modulare si oppone alla concezione della mente, largamente prevalente prima di Fodor, come un sistema di elaborazione «generale per dominio» (un risolutore generale di problemi adatto alla soluzione di qualsiasi tipo di compito). I motivi più convincenti in favore della modularità dei sistemi cognitivi sono di carattere evolutivo. Per Symons 1 Distinguendo tra moduli chomskiani e moduli fodoriani, alcuni autori sostengono che la proposta di Chomsky riguardi soltanto la competenza (la conoscenza astratta) e non i meccanismi di elaborazione (cfr. Marraffa, 2003; e Samuels, 2000). Ai nostri fini questa distinzione non è rilevante. 2 Recentemente, nel minimalismo, Chomsky (1995) ha preso in considerazione il problema della relazione tra il componente specificamente linguistico e gli altri sistemi cognitivi. Ma anche in questa prospettiva il componente «specificamente linguistico» (narrow language) rimane autonomo.

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(1992) la specificità di dominio è il tratto caratteristico degli adattamenti biologici: la selezione naturale non ha potuto selezionare alcun risolutore generale di problemi per il semplice fatto che non esistono problemi generali da risolvere – gli organismi hanno sempre a che fare con problemi specifici e determinati. Il risultato sono sistemi di elaborazione altamente specifici dedicati alla soluzione di alcuni compiti e non di altri. Una delle caratteristiche principali di sistemi di questo tipo è la loro estrema velocità di elaborazione; le esperienze passate, cristallizzate nel cervello nel corso della filogenesi, permettono risposte rapide perché non richiedono strategie di scelta o di valutazione: il funzionamento dei moduli è automatico, involontario e obbligato (sotto questo aspetto i moduli, stupidi ma straordinariamente efficaci, sono molto simili ai riflessi). Cosmides e Tooby (1994), tra i fondatori della psicologia evoluzionistica, hanno proposto l’immagine della mente come un coltellino svizzero: in una prospettiva del genere la GU è un modulo, ovvero una delle lame di questo coltellino. Ora, che cosa significa sostenere che il linguaggio è un modulo? E, soprattutto, quali considerazioni possiamo trarre circa la natura del linguaggio a partire dall’idea che i processi di produzione e comprensione verbale siano automatici e obbligati? 1.2. Comunicare senza sforzo Siete in treno immersi nella lettura del giornale. Così concentrati da non far caso ai rumori esterni. Poi la situazione cambia: la tizia che vi siede accanto inizia nervosamente a picchiettare sulla tastiera del telefonino, si ferma impaziente e dopo un attimo di silenzio inizia una conversazione (a voce alta, ovviamente). Affari di cuore, come spesso capita. La lettura del giornale si blocca: per quanto vi sforziate, non riuscite più a comprendere nulla di ciò che stavate leggendo. C’è un gusto nel pettegolezzo ad ascoltare gli affari degli altri (soprattutto gli affari di cuore), ma non è soltanto questo. Anche quando cercate di staccare la vostra attenzione dalle chiac34

chiere della tizia per concentrarvi sull’articolo del giornale, non ce la fate: i suoni verbali proferiti vi obbligano a comprendere ciò che lei dice. Il punto è che la trasformazione dei suoni in significati è un processo automatico, involontario e obbligato; una parte del nostro sistema cognitivo è cablata sugli stimoli linguistici: se ne individua nell’ambiente circostante non può fare a meno di elaborarli dando avvio al processo di comprensione. Ed è un gran bene che sia così: la comunicazione verbale può veicolare la quantità straordinaria di informazione di cui è capace solo perché è un sistema di elaborazione estremamente veloce. La velocità di elaborazione ha tuttavia un prezzo: la rapidità di calcolo richiede un dispositivo dedicato e specifico di elaborazione – un meccanismo che opera in modo automatico e obbligato (Chomsky, 1986). Se l’uso effettivo del linguaggio si avvale di un dispositivo di questo tipo, allora la teoria modulare della mente può spiegare aspetti importanti delle capacità verbali. La concezione modulare della mente rimanda a una precisa idea della natura del linguaggio. Come sostengono Pinker e Bloom (1990), se il problema della comunicazione è come inviare nella testa di un altro i pensieri di chi parla, la questione di fondo da risolvere riguarda la trasformazione (la codifica) delle strutture proposizionali alla base dei pensieri in un canale seriale. Tale modello è schematizzato nella figura 2.1 tratta da Jackendoff (1993), in cui si riprende una concezione della comunicazione che ha avuto nella teoria matematica dell’informazione di Shannon e Weaver (1949) la sua più forte legittimazione. Secondo il modello del codice, il pensiero (il messaggio) viene codificato dal parlante in una successione di suoni che l’ascoltatore decodifica al fine di poter condividere il pensiero (il messaggio) che il parlante ha inteso comunicargli. A fondamento del modello del codice c’è la teoria del primato del pensiero sul linguaggio. Come sostiene Fodor (1975; 1987), in effetti, il linguaggio può esprimere il pensiero perché la sua struttura ne rispecchia la forma – esso 35

Figura 2.1. La comunicazione secondo il modello del codice.

è «parassitario» nei confronti del pensiero. L’idea di Fodor è che i pensieri siano rappresentati in strutture simillinguistiche: gli enunciati del «linguaggio del pensiero». Ai nostri fini, la mossa più interessante da fare è quella che mette in causa l’isomorfismo strutturale del linguaggio nei confronti del pensiero. Tale mossa si sostanzia nella relazione di dipendenza tra le proprietà del linguaggio e le proprietà degli stati mentali che il linguaggio è chiamato a esprimere: qui il fatto decisivo è che il linguaggio ha la struttura che ha perché serve ad esprimere i pensieri e i pensieri hanno la struttura che hanno. L’argomento di Fodor è chiaro. Il linguaggio esprime il pensiero: può farlo perché ne riflette la struttura essenziale. Questo è un punto decisivo per comprendere gli argomenti in favore della concezione comunicativa del linguaggio. La scienza cognitiva classica ha fatto della funzione comunicativa del linguaggio il modello di riferimento. Così facendo ha aderito al modello del codice, un modello che Fodor considera «non semplicemente naturale, ma imprescindibile» (Fodor, 1975, p. 106). Tale modello coglie l’aspetto della comunicazione secondo cui «noi comunichiamo quando tu mi dici ciò che hai in mente e io comprendo quello che 36

mi dici» (ivi, p. 109). Il fatto che la comunicazione verbale riguardi la condivisione dei pensieri tra parlante e ascoltatore pone una serie di questioni interessanti. Una di queste è legata al tema della codifica-decodifica che più da vicino qui ci interessa analizzare: più precisamente, il problema in questione è stabilire cosa renda possibile la trasformazione del pensiero in linguaggio. Come è possibile, in altre parole, che una forma sonora sia in grado di rispettare la struttura degli stati mentali? Fodor (1983) sostiene che è la «forma logica» degli enunciati a giocare una funzione di interfaccia: nella mente c’è un modulo specifico capace di guidare i processi di comprensione trasformando i suoni in significati; può farlo per la relazione stretta che la forma logica ha da una parte con il sistema di suoni e, dall’altra, con la struttura sintattica dei pensieri. Nella scienza cognitiva le questioni teoriche circa la natura del linguaggio devono far corpo con le analisi riguardanti la natura del dispositivo capace di elaborarle. Poiché il punto da cui partire è che «non si può capire quel che un parlante ha detto a meno che come minimo non si calcoli quale frase è stata pronunciata», la tesi di Fodor è che sia difficile analizzare la comprensione del linguaggio (la traduzione dei suoni in significati) senza presupporre l’esistenza di un sistema di analisi specifico (un modulo) per le forme logiche e grammaticali. Una tesi di questo tipo ha, ovviamente, profonde ripercussioni sul tema della natura del linguaggio: le informazioni relative al contesto, solo per fare un esempio, sono semplicemente irrilevanti in un modello di questo genere. Le questioni importanti non sono nel perché qualcuno dice una certa cosa o in quale occasione la dice o con quale intenzione dice qualcosa. Fodor prende una netta posizione contro le teorie pragmatiche della comunicazione che fanno del contesto e dell’intenzione del parlante il loro punto di forza. La sua idea in proposito è che «le discussioni su quanto un autore intendeva dire possono (...) essere interminabili, cosa che invece non si discute su cosa ha detto» (ivi, trad. it. p. 141). In cosa il parlante 37

ha detto, nell’enunciato effettivamente proferito, c’è tutto il necessario per la sua comprensione – il contenuto informativo è interamente codificato nell’enunciato. Il nesso tra la forma logica e il dispositivo capace di elaborarla è avvalorato da un’altra caratteristica del modulo del linguaggio: il carattere automatico e obbligato del suo funzionamento. Poiché il modulo del linguaggio si attiva soltanto in presenza dello stimolo appropriato (sequenze verbali che esibiscono una forma logica), la comprensione segue come la conseguenza automatica e obbligata dell’attività di elaborazione di tale modulo. Questo aspetto della comprensione è messo in luce da Fodor (1983) sostenendo che «non si può evitare di udire una frase che è stata detta (in una lingua conosciuta) come una frase che è stata detta, né si può evitare di vedere uno stimolo visivo consistente di oggetti distribuiti in uno spazio tridimensionale» (ivi, trad. it. p. 91). Il carattere automatico e obbligato della comprensione è una caratteristica molto importante che, come vedremo, avrà specifiche ripercussioni sul modello del linguaggio che ne costituisce il presupposto. Abbiamo già sottolineato che affidare a un modulo l’informazione tipica del modello del codice è estremamente proficuo sul piano della comunicazione: consente processi rapidi ed efficaci di elaborazione – può farlo per le caratteristiche che accomunano i moduli ai riflessi (automaticità, obbligatorietà e velocità). Considerata in questo modo, l’immagine del linguaggio come una forma di istinto è perfettamente adeguata (Pinker, 1994). Proprio come gli istinti, inoltre, ed è questo il punto che ci preme sottolineare, il linguaggio è innanzitutto un dispositivo innato. L’innatismo del linguaggio (l’idea della facoltà linguistica come un organo che, al pari del fegato o del cuore, è incarnato nella biologia umana) è un’idea cardine del pensiero di Chomsky che ha caratterizzato la sua produzione teorica dai primi scritti sino ad oggi. Ora, dire che il linguaggio è una facoltà innata (e che è patrimonio universale della specie) significa, a nostro 38

avviso, dire al contempo che il linguaggio è un adattamento biologico dovuto alla selezione naturale. Un argomento del genere non è tuttavia così ovvio e scontato come a tutta prima potrebbe sembrare. Chomsky (1988), ad esempio, non è disposto a considerare l’innatismo della GU in riferimento alla tradizione darwiniana; il fatto che egli insista sull’idea del linguaggio come organo biologico e il riferimento costante alla tesi del linguaggio come organo innato non devono trarre in inganno: a suo avviso, il linguaggio non è il prodotto della selezione naturale e, per ciò stesso, non è un adattamento biologico. I motivi che spingono Chomsky a rifiutare la spiegazione evoluzionistica fanno presa su un punto a noi noto: l’idea che la GU sia un fenomeno tutto-o-nulla che mal si accorda con il gradualismo richiesto dalla selezione naturale. Per quanto da un punto di vista radicalmente diverso da quello di Mivart e dei neocreazionisti, gli argomenti di Chomsky sfruttano l’idea del linguaggio come un sistema irriducibilmente complesso per arrivare alla medesima conclusione: l’incompatibilità con la selezione naturale. 2. Il linguaggio come adattamento A complicare ulteriormente la posizione dei fautori della GU nei confronti del naturalismo c’è un altro fattore con cui Chomsky e gli studiosi che si ispirano alla sua prospettiva teorica sono chiamati costantemente a fare i conti: la tradizione cartesiana. Attraverso il riferimento a tale tradizione Chomsky guadagna aspetti importanti del proprio modello interpretativo (il ruolo prioritario della costituzione interna dell’individuo e il carattere universale e innato della grammatica universale); ma il riferimento a Cartesio comporta anche degli oneri pesanti da pagare per un naturalista: il dualismo e la prospettiva del posto degli umani nella natura strettamente legata a tale dualismo. Per 39

quanto Chomsky non possa di certo essere tacciato di dualismo, gli assunti neocartesiani del suo pensiero rendono problematica la sua posizione; emblematica a questo riguardo è l’idea per cui il linguaggio (incommensurabile rispetto a qualsiasi altro sistema di comunicazione) possa essere posto a garanzia di una differenza «qualitativa» tra umani e altri animali: Per quanto ne sappiamo, il possesso del linguaggio umano è connesso con un tipo specifico di organizzazione mentale e non semplicemente con un grado superiore di intelligenza. Sembra inconsistente la concezione che il linguaggio umano è semplicemente un caso più complesso di qualcosa che deve essere reperito altrove nel mondo animale. Ciò pone un problema per il biologo, poiché se le cose stanno così, questo è un esempio di vera e propria «emergenza» – cioè, l’apparizione di un fenomeno qualitativamente differente a uno stadio specifico di complessità di organizzazione. (...) Mi sembra che oggi non ci sia un modo migliore o più promettente di esplorare le proprietà essenziali distintive dell’intelligenza umana, se non attraverso la ricerca particolareggiata sulla struttura di questo processo tipicamente umano (Chomsky, 1968, trad. it. p. 212).

L’idea che il linguaggio umano costituisca l’elemento cardine della differenza qualitativa tra gli umani e gli altri animali esclude qualsiasi interpretazione in termini di gradualismo e di continuismo. L’opinione di Chomsky (1988) in proposito è chiara: C’è una lunga storia di studi sulle origini del linguaggio che si chiede come sia sorto a partire dai richiami delle scimmie e così via. Questo tipo di ricerca è, a mio modo di vedere, una completa perdita di tempo perché il linguaggio si basa su un principio interamente differente da qualsiasi altro sistema di comunicazione animale. È abbastanza verosimile che i gesti umani (...) si siano evoluti dai sistemi di comunicazione animale, ma non il linguaggio umano. Esso si basa su principi totalmente differenti (ivi, trad. it. p. 178).

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La tesi della differenza qualitativa degli umani rispetto agli altri animali è il lascito della tradizione cartesiana che accresce la diffidenza di Chomsky nei confronti dell’evoluzionismo e che sembra condurlo inesorabilmente in una strada senza vie di uscita. L’idea che il linguaggio umano si basi su principi del tutto differenti da qualsiasi altra forma di comunicazione animale, in effetti, alimenta l’idea che l’essere umano – per il possesso di una proprietà unica e irripetibile nel mondo della natura – sia caratterizzato da uno statuto di «specialità» rispetto agli altri animali che mal si concilia con il naturalismo sbandierato più volte da Chomsky. 2.1. Parricidio Chiamato a dover scegliere tra evoluzionismo e grammatica universale, Chomsky non mostra esitazioni: se la GU è incompatibile con l’evoluzione, tanto peggio per l’evoluzione. Contro questa posizione – mettendo in atto un vero e proprio parricidio nei confronti del loro maestro – Pinker e Bloom (1990) sostengono che la GU può (deve) essere considerata il prodotto della selezione naturale. L’idea del linguaggio come un adattamento dovuto alla selezione naturale è un punto fermo dell’analisi portata avanti in questo libro: per quanto nel seguito di questo lavoro prenderemo le distanze dal modello adattazionista proposto dai due autori, la nostra idea è che i risultati raggiunti da Pinker e Bloom nei loro scritti rappresentino un punto di non ritorno nelle indagini naturalistiche sulle capacità linguistiche umane. Ed è per questo che la posizione di Pinker e Bloom merita di essere analizzata con cura. L’idea che il linguaggio sia veloce, automatico e obbligato è, come abbiamo visto, alla base della concezione modularista e del modello del codice a essa strettamente correlato. Pinker (1994) specifica ancor meglio il punto: I meccanismi di funzionamento del linguaggio sono tanto lontani dalla nostra coscienza quanto per la mosca le ragioni per

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cui si depongono le uova. I nostri pensieri ci escono dalla bocca con così poco sforzo che spesso ci imbarazzano, quando eludono le nostre censure mentali. Quando comprendiamo un enunciato, il flusso di parole è trasparente: ci è così automatico penetrare il significato che possiamo dimenticare che si tratti di un film in una lingua straniera e sottotitolato (ivi, trad. it. p. 13).

In questa citazione di Pinker sono racchiuse molte delle caratteristiche fondamentali di una concezione del linguaggio largamente prevalente nella scienza cognitiva con cui ci confronteremo a lungo nelle pagine che seguono. La «trasparenza del flusso delle parole», l’«assenza di sforzo» con cui le parole escono dalla bocca per esprimere i pensieri, la mancanza di coscienza (mettere in moto la coscienza costa fatica e tempo), l’automatismo con cui «penetriamo il significato» rappresentano nodi concettuali di grande importanza ai fini del nostro discorso che discuteremo nel dettaglio nei prossimi capitoli. Per ora basti sottolineare che caratteristiche di questo tipo si spiegano soltanto presupponendo la velocità dei processi di elaborazione. Il che depone a favore del modularismo: quando l’informazione deve essere elaborata a grande velocità è bene che i dispositivi di calcolo siano sistemi specificamente adatti allo scopo. Le caratteristiche chiamate in causa dalla velocità di elaborazione (automatismo e obbligatorietà) sono proprietà estremamente importanti del sistema linguistico che non vanno in alcun modo sottovalutate. Ora, poiché la selezione naturale è un modo convincente di spiegare sistemi di elaborazione di questo tipo, la conclusione da trarre è che, per funzionare come funziona, il linguaggio deve essere un adattamento biologico. È utilizzando argomenti del genere che Pinker e Bloom (1990) mettono in atto il parricidio nei confronti di Chomsky. Considerando la GU inconciliabile con la selezione naturale, Chomsky aveva scartato l’evoluzionismo pur di mantenere in vita la propria interpretazione teorica. Pinker e Bloom sostengono che la mossa di Chomsky comporti un 42

sacrificio non richiesto, visto che la GU è perfettamente compatibile con la selezione naturale. Come giustificare questa ipotesi? La premessa da cui partire è la nozione di «complessità adattativa». Secondo tale nozione, un sistema è complesso quando i dettagli della struttura e dell’assemblaggio delle parti suggeriscono un progetto per eseguire una qualche funzione (così come avviene per la struttura dell’occhio finalizzata alla vista). Il punto rilevante per capire se il linguaggio sia un sistema di questo tipo è stabilire se esso sia caratterizzabile nei termini di una qualche funzione specifica. Secondo Pinker e Bloom la risposta è affermativa: il linguaggio mostra segni «dell’esistenza di un progetto finalizzato alla comunicazione di strutture proposizionali attraverso un canale seriale» (ivi, trad. it. p. 53). Se il linguaggio può essere considerato il prodotto di un progetto ingegneristico (guidato dalla selezione naturale) al servizio di specifiche finalità funzionali, è legittimo ipotizzare che il linguaggio rappresenti un caso di complessità adattativa. Una concezione di questo tipo è proposta da Bloom (1998, p. 209) nello schema che riassume le proposte di Pinker (1994) e di Pinker e Bloom (1990): 1. La selezione naturale è la sola spiegazione dell’origine della complessità adattativa; 2. Il linguaggio umano mostra un progetto complesso per il fine adattativo della comunicazione; 3. Il linguaggio, dunque, è evoluto per selezione naturale. A ben guardare, uno schema di questo tipo va oltre l’idea che la selezione naturale sia compatibile con la complessità sistemica del linguaggio. Secondo tale schema, in effetti, se non si accettano pseudo-spiegazioni ad hoc (tipo gli atti di creazione o una qualche forma di evento miracoloso), la selezione naturale è l’unica spiegazione in cam43

po dell’origine della complessità di sistemi naturali come il linguaggio. Per quanto alcuni neocreazionisti si affannino a sostenere che gli evoluzionisti non riescono a far fronte al problema della complessità, la selezione naturale, piuttosto che un modo di scantonare il problema, è a tutt’oggi l’unica spiegazione scientifica rilevante della complessità in natura. Ora, se il linguaggio è un adattamento dovuto alla selezione naturale, allora l’evoluzione del linguaggio deve essere interpretata in termini di modificazioni numerose, successive e lievi, ovvero in termini gradualistici. Una interpretazione del genere, tuttavia, apre di nuovo la strada alla questione degli «organi incipienti» sollevata da Mivart: poiché molte regole linguistiche appaiono essere operazioni del tipo tutto-o-nulla, in che senso dovrebbe essere adattativamente utile possedere un quinto o un quarto di una regola? La risposta all’argomento degli organi incipienti è legata alla possibilità di immaginare grammatiche di complessità intermedia. Per quanto l’idea prevalente vede la grammatica come un tipo di entità che o funziona del tutto o non funziona affatto, secondo Pinker e Bloom l’argomento degli organi incipienti non vale in maniera maggiore per il linguaggio di quanto non valga per gli occhi, le ali e tutti gli altri organi complessi presentati dagli antidarwinisti a conforto della loro tesi: L’idea per cui la grammatica del linguaggio naturale abbia una funzione soltanto se considerata nella sua totalità è sorprendentemente comune. Un’idea dello stesso tenore delle considerazioni sugli occhi, le ali e le ragnatele che vengono abitualmente a galla nella letteratura anti-darwiniana (...). Il pidgin, le lingue di contatto, l’inglese di base, la lingua dei bambini, degli immigranti, dei turisti, degli afasici, i telegrammi e i titoli dei giornali evidenziano l’esistenza di un’ampia gamma di sistemi di comunicazione affidabili che variano in efficienza e in potere espressivo (...). Questo è esattamente quanto richiesto dalla teoria della selezione naturale (Pinker e Bloom, 1990, trad. it. p. 98).

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La complessità del linguaggio è spiegabile in termini di selezione naturale: dunque il linguaggio è un adattamento biologico in senso proprio. Fine del discorso? No, c’è ancora un punto da prendere in considerazione. La darwinizzazione di Chomsky messa in atto da Pinker e Bloom deve fare i conti con la tradizione cartesiana; per quanto i due autori rivendichino l’importanza di una spiegazione gradualistica del linguaggio il loro modello interpretativo esclude qualsiasi forma di continuità con la comunicazione animale: in piena concordanza con Chomsky, le proprietà del linguaggio umano restano incommensurabili (qualitativamente diverse) con quelle proprie di altri sistemi animali. Pinker (1994) critica fortemente la tesi secondo cui l’origine del linguaggio dipenderebbe da una evoluzione dai sistemi di comunicazione animale. Contro gli esperimenti dei coniugi Gardner (1969) condotti con Washoe (lo scimpanzé che comunicava attraverso la lingua dei segni utilizzata nella comunità dei sordi), egli fa appello ai risultati di Terrace (1979) ottenuti con Nim Chimsky. Per Pinker, le scimmie non imparano la lingua dei segni; l’idea che lo facciano è fondata su una concezione del tutto erronea della natura di tale codice espressivo: quello insegnato agli scimpanzé è in effetti «un rozzo sistema di pantomima e di gesti, anziché un linguaggio completo, con una fonologia, una morfologia e una sintassi complesse» (Pinker, 1994, trad. it. p. 329). Secondo Pinker, l’uso che gli scimpanzé fanno dei gesti è una prova del fatto che essi non utilizzino una vera lingua dei segni: i gesti degli scimpanzé sono privi di sintassi e soprattutto restano imparagonabili dal punto di vista della spontaneità che caratterizza il linguaggio umano. La conclusione a cui perviene Pinker è che nella ricerca psicologica «le affermazioni più ambiziose sul linguaggio degli scimpanzé sono una cosa del passato». Torneremo sul tema della comunicazione gestuale nel capitolo 4; per ora è sufficiente sottolineare che la tesi dell’incommensurabilità tra linguaggio e comunicazione animale rimanda in modo esplicito alla tradizione cartesiana da cui neppure Pinker 45

riesce ad affrancarsi. Considerare la grammatica universale il prodotto della selezione naturale è una mossa importante per riconoscere al linguaggio lo statuto di adattamento biologico: il riferimento alla differenza qualitativa tra le capacità verbali umane e la comunicazione animale mostra tuttavia che la strada verso una piena naturalizzazione del linguaggio richiede altre mosse da fare. Nei prossimi capitoli proveremo a sbarazzarci di ogni residuo di cartesianesimo proponendo un modello del linguaggio che, confor me alla proposta darwiniana, risulti in linea con il continuismo, oltre che con il gradualismo. Prima di affrontare la pars construens del nostro discorso è tuttavia necessario prendere in esame un secondo corno del problema: l’idea del linguaggio come «exattamento» e la relazione tra tale idea e le concezioni neoculturaliste del linguaggio oggi largamente prevalenti. 3. Il linguaggio come exattamento Nella prima parte di questo capitolo abbiamo sostenuto che la natura complessa del linguaggio richiede una spiegazione in termini evoluzionistici. Detto questo, rimane aperta la possibilità che l’argomento a favore della selezione naturale prenda le mosse da una premessa erronea: l’idea del linguaggio come un sistema complesso, in effetti, potrebbe essere soltanto un falso mito. Secondo i neoculturalisti, in effetti, il linguaggio non è il prodotto della selezione naturale perché non è l’entità complessa di cui parlano i fautori della GU. Un’ipotesi interpretativa di questo genere apre la strada a un modo del tutto nuovo di intendere la natura del linguaggio e merita di essere presa in seria considerazione. 3.1. Perché la GU non è compatibile con una prospettiva evoluzionistica I tentativi di conciliare la GU con la selezione naturale poggiano sull’«ingegneria inversa», un metodo 46

d’indagine molto caro alla psicologia evoluzionistica (Dennett, 1995; Pinker, 1997). Alla base di tale metodo è l’idea che un buon modo per capire la natura e il funzionamento di un certo dispositivo sia provare a ricostruirlo a partire dal modello attuale. A fondamento dell’ingegneria inversa è in effetti l’idea che dal modello che descrive il funzionamento attuale di un certo dispositivo sia possibile risalire alle condizioni di progettazione che lo hanno generato: assumendo che la selezione naturale sia il motore del progetto ingegneristico è possibile, in questo modo, seguire passo passo il percorso dell’evoluzione di un certo organo o di una qualche entità senza dover ammettere cause finali o architetti divini. Ora, la tesi centrale di questo libro è che il linguaggio sia un adattamento biologico: considerare in questo modo le capacità verbali significa guardare con interesse alla psicologia evoluzionistica. L’ingegneria inversa, tuttavia, lascia aperte numerose questioni irrisolte. La più importante ai nostri fini è che un approccio guidato dall’ingegneria inversa è giocoforza un approccio «guidato dall’alto». Quando è in gioco un dispositivo complesso come il linguaggio, partire dal modello attuale significa adottare una certa idea del linguaggio e proiettarla all’indietro alla ricerca delle tappe che la realizzano. Quando poi il modello del linguaggio cui si intende fare riferimento è un sistema astratto e formale come la GU, il pericolo di considerare l’evoluzione del linguaggio nei termini delle tappe «logiche» che ne costituiscono la base diviene una difficoltà reale. Insistendo sul presupposto «platonizzante» dell’ingegneria inversa, Tomasello (1999) considera il primato accordato alla complessità del linguaggio l’errore tipico dell’«innatismo filosofico», l’atteggiamento di quegli studiosi che, guidati da un modello formale e aprioristico del linguaggio, «non si occupano direttamente dei processi genetici in gioco ma cercano piuttosto di inferirli sulla base di mere considerazioni logiche» (ivi, trad. it. p. 70). L’idea di Tomasello (1995) è che una concezione aprioristica del linguaggio come quella portata avanti dai 47

fautori della GU conduca a un modello del linguaggio che, per quanto coerente sul piano concettuale, è totalmente implausibile dal punto di vista evoluzionistico. Il che, ovviamente, si traduce in un invito a cambiare modello interpretativo: se la GU non è compatibile con la teoria dell’evoluzione, tanto peggio per la GU. Il punto di vista di Tomasello merita considerazione perché esemplifica un atteggiamento (il neoculturalismo) oggi molto influente nella riflessione sui rapporti tra linguaggio ed evoluzione. Si tratta di una prospettiva che mira a riproporre alcune tematiche del pensiero di Vygotskij nel dibattito contemporaneo – in primo luogo la rivalutazione del linguaggio come una pratica eminentemente sociale. L’operazione dei neoculturalisti si concretizza nella forte riconsiderazione degli aspetti del linguaggio considerati «esterni» alla mente degli individui. Secondo Clark (1997), ad esempio, il cervello, per alleggerire il carico computazionale, si serve di impalcature esterne alla scatola cranica – come la carta e la penna – per fare calcoli complicati. Nella prospettiva di questo autore, l’impalcatura esterna per eccellenza della mente umana è rappresentata dal linguaggio. Considerare le capacità verbali nel quadro della «mente estesa» significa mutare sensibilmente il quadro interpretativo rispetto alla prospettiva chomskiana: pensare al linguaggio nei termini di una impalcatura esterna alla mente, in effetti, significa considerare le capacità verbali in riferimento alle lingue storico-naturali, non a un dispositivo innato della mente-cervello. Una concezione di questo tipo ha importanti ricadute sul modo di analizzare il linguaggio: se i fautori della GU puntano ai caratteri condivisi da tutte le lingue considerando l’evoluzione della facoltà del linguaggio un adattamento piegato alle esigenze di una comunicazione sempre più efficiente, i neoculturalisti esaltano gli aspetti relativi alla differenza, dovuti alla molteplicità e alla varietà delle lingue (i codici espressivi in continuo divenire plasmati dalla prassi comunicativa della massa dei parlanti), esaltando soprattut48

to la «funzione cognitiva» del linguaggio – il ruolo che esso ha nella formazione del sistema concettuale. Il passaggio dalla facoltà del linguaggio alle lingue storico-naturali rappresenta un punto importante per comprendere il ruolo che la prospettiva neoculturalista gioca nella questione circa la natura adattativa o meno del linguaggio. Secondo i fautori di tale approccio, il tentativo di Pinker e Bloom (1990) di dar conto del linguaggio in termini di selezione naturale è un tentativo votato al fallimento. La selezione naturale, in effetti, deve far presa su un qualche tipo di proprietà manifesta per operare: ora, poiché le uniche proprietà manifeste degli scambi comunicativi sono le proprietà di superficie delle lingue effettive e poiché dal punto di vista manifesto le lingue sono estremamente variabili, come dar conto dell’evoluzione dei caratteri universali del linguaggio se per definizione questi non sono ricavabili dalla semplice superficie delle lingue? Il punto è stato sollevato da Christiansen e Chater (2008): Perché l’adattamento genetico si è realizzato solo per le proprietà più astratte del linguaggio e non anche per le sue proprietà di superficie? Considerata la straordinaria varietà delle forme superficiali delle lingue del mondo (...) perché i geni si sarebbero dovuti adattare per catturare l’insieme estremamente ricco e astratto di possibilità espresse dai principi della GU, piuttosto che codificare semplicemente le possibilità linguistiche attuali dello specifico linguaggio parlato? (ivi, p. 495).

La distinzione operata dai chomskiani tra le condizioni universali del parlare (competenza) e i casi di effettiva produzione linguistica (esecuzione) si presta a favorire una concezione del linguaggio fortemente sbilanciata in favore della natura astratta dei principi e delle funzioni della facoltà del linguaggio. Ora, di per sé, l’astrattezza non è un male; il vero punto dolente della questione è il carattere di indipendenza (di arbitrarietà) delle strutture dalle funzioni: è questa indipendenza a rendere la GU incompatibile 49

con l’evoluzionismo. Se la GU non è compatibile con l’evoluzionismo, tuttavia, qualcosa non è andato per il verso giusto; il che, per i neoculturalisti, si traduce in un’unica conclusione: se la GU non tiene, meglio cambiare strada. Cambiare radicalmente modello del linguaggio è una mossa plausibile, evidentemente; una mossa del genere, tuttavia, comporta una importante conseguenza sul tema della natura del linguaggio: fare a meno della sua complessità. Come è possibile ipotizzare l’evoluzione del linguaggio mettendo in discussione l’idea del linguaggio come entità complessa? 3.2. Semplicità Se il linguaggio non è complesso, allora, tanto per iniziare, deve essere semplice. Ora, in che senso il linguaggio umano può essere considerato un’entità semplice? I neoculturalisti rispondono a questa domanda con una tesi originale; Deacon (1997), ad esempio, sostiene che la complessità del linguaggio è un falso mito di cui vale la pena sbarazzarsi al più presto. Il primo passo da fare in questa direzione è rovesciare i rapporti tra cervello e linguaggio alla base del comune modo di intendere i processi di apprendimento. Secondo Deacon, «in un curioso capovolgimento delle nostre idee in materia, le lingue hanno più bisogno dei bambini che i bambini delle lingue» (ivi, trad. it. p. 90). Capovolgendo le nostre intuizioni ordinarie, in effetti, gli adattamenti alla base dell’origine e dell’evoluzione del linguaggio possono essere interpretati come qualcosa che accade fuori del cervello: nelle pratiche comunicative che agiscono costantemente sul cambiamento delle lingue al fine di renderle capaci di superare il «collo di bottiglia» della mente del bambino. L’idea che il rovesciamento di prospettiva verso la semplicità del linguaggio sia governato dai processi di apprendimento è stata sviluppata recentemente anche da Christiansen e Chater (2008) per i quali «è facile apprendere e usare il linguaggio non perché i nostri cervelli incorporino una qualche conoscenza del linguaggio, ma perché il linguaggio si è 50

adattato ai nostri cervelli» (ivi, p. 490). Avanzare una proposta del genere significa sostenere che la genesi del linguaggio deve essere interpretata chiamando in causa dispositivi evolutivi di tipo diverso da quelli proposti da Darwin. In una prospettiva in cui non è il cervello che si adatta al linguaggio, ma il linguaggio che si adatta al cervello (alle strutture biocognitive esistenti prima del suo avvento), in effetti, il linguaggio può essere considerato il prodotto dell’evoluzione culturale piuttosto che di quella biologica. L’idea dei neoculturalisti è che la mente sia composta di numerosi sistemi cognitivi formatisi attraverso la selezione naturale, nessuno dei quali (ed è questo il punto di rilievo) selezionato ai fini specifici della comunicazione verbale. Non c’è bisogno di dispositivi innati specifici per il linguaggio perché i sistemi cognitivi già esistenti (adattati per altri scopi) funzionano alla perfezione anche nel caso in cui vengano cooptati a fini comunicativi dalle mutate situazioni ambientali (la necessità di cooperazione imposta dalle relazioni sociali mutate nel corso del Pleistocene). Un modello interpretativo di questo tipo mantiene insieme l’idea di un’architettura cognitiva articolata in diversi sistemi di elaborazione dovuti alla selezione naturale con l’idea che la comunicazione verbale emerga come il risultato dell’operare congiunto di questi sistemi di elaborazione cooptati per far fronte alle nuove esigenze ambientali. Un modello del genere, in altre parole, mette insieme la concezione della mente intesa come un sistema ricco di dispositivi interni di elaborazione con la critica all’idea del linguaggio come un adattamento specifico dovuto alla selezione naturale. Il fatto che il linguaggio sfrutti sistemi cognitivi selezionati per altre finalità evolutive si sposa alla perfezione, come vedremo, con l’idea del linguaggio come un artefatto culturale: il passo più radicale in questa direzione è compiuto da Christiansen e Chater (2008) che sfruttano il collo di bottiglia dell’acquisizione del linguaggio nel bambino per sostenere che la comuni51

cazione verbale è un fenomeno che riguarda esclusivamente l’evoluzione culturale, non quella biologica. Quando parlano di complessità del linguaggio, diversamente dai fautori della grammatica universale, i neoculturalisti hanno in mente la complessità della grammatica delle lingue storico-naturali: un tipo di complessità che, guadagnata attraverso un processo di ordine storico e culturale (gli sforzi messi in atto dai parlanti nelle effettive situazioni d’uso ai fini di una comunicazione sempre più efficiente), deve essere considerata indipendente dal processo evolutivo governato dalla selezione naturale. Un modo per dar corpo a una visione di questo tipo è il riferimento alle lingue intese come il prodotto di un processo di grammaticalizzazione (Bybee et al., 1994; Heine et al., 1991; Hopper e Traugott, 1993). La biologia non è esclusa del tutto in una prospettiva del genere, ma svolge soltanto il ruolo indiretto di vincolo alle variazioni possibili: la complessità grammaticale è interpretabile nei termini di un processo di «autorganizzazione» delle lingue intese come sistemi di adattamento fenotipico. Scrive Tomasello (1999): I simboli e i costrutti linguistici si evolvono e mutano e accumulano cambiamenti in tempi storici a mano a mano che gli esseri umani ne condividono l’uso, cioè in seguito a processi di sociogenesi. In questo contesto, la dimensione più importante del processo storico è la grammaticalizzazione o sintatticizzazione, per la quale le parole autonome si evolvono in marche grammaticali, e le strutture linguistiche libere e organizzate in modo ridondante si irrigidiscono in costruzioni sintattiche legate e organizzate in modo meno ridondante (ivi, trad. it. p. 62).

La variazione linguistica diviene un’utile cartina al tornasole per studiare il tema dell’evoluzione del linguaggio: quando si abbandona l’idea della comunicazione umana legata al carattere universale dei principi della grammatica, diviene infatti plausibile considerare l’ipotesi che «i processi storici del cambiamento linguistico forniscano un mo52

dello dell’evoluzione del linguaggio; difatti, il cambiamento storico potrebbe rappresentare l’evoluzione del linguaggio nel microcosmo» (Christiansen e Chater, 2008, p. 503). L’idea che non esistano adattamenti biologici specifici per il linguaggio (fondata sull’ipotesi che la comunicazione verbale sfrutti la cooptazione di dispositivi cognitivi nati con altre finalità evolutive) porta i neoculturalisti ad abbracciare una concezione exattamentista del linguaggio. Nel seguito di questo scritto ci chiederemo se davvero considerare il linguaggio nei termini di una concezione di questo tipo debba portare necessariamente ad escludere l’idea del linguaggio come una forma di adattamento biologico. Prima di far ciò, qualche breve considerazione sulla relazione tra exattamento e adattamento. Il concetto di adattamento è stato per lungo tempo oggetto di dispute e dibattiti accesi, alimentati anche da pregiudizi ideologici e politici. All’interno dell’evoluzionismo la discussione ha visto gli studiosi schierarsi su due fronti contrapposti: da una parte gli «ultradarwinisti» (capitanati da Richard Dawkins) dall’altra i «naturalisti» (comandati da Steven Jay Gould). Non è qui il caso di entrare nei particolari di questa disputa teorica (per una rassegna del dibattito cfr. Sterelny, 2001; Pievani, 2005; Eldredge, 1995): ai nostri fini è sufficiente sottolineare due cose. La prima riguarda il fatto che la preminenza riconosciuta dagli ultradarwinisti al concetto di adattamento dipende dalla priorità da loro accordata al ruolo della selezione naturale nel processo evolutivo (per i naturalisti la selezione naturale, pur restando il dispositivo alla base del processo, è solo uno dei fattori in gioco nell’evoluzione). La seconda cosa da sottolineare riguarda i rapporti tra struttura e funzione: mentre l’idea degli ultradarwinisti è che vi sia una stretta correlazione tra struttura e funzione (le strutture sono risposte adattative alle funzioni da svolgere), per i naturalisti il rapporto tra struttura e funzione è molto più articolato: è possibile che strutture diverse siano utilizzate per una medesima funzione e che funzioni diverse possa53

no essere messe in atto a partire da una medesima struttura; così come è possibile che strutture evolutesi per alcune funzioni vengano utilizzate per altre funzioni o che per nuove funzioni vengano utilizzate strutture che non sono affatto adattamenti dovuti alla selezione naturale. Alla base della visione pluralista dei naturalisti è il concetto di «exattamento» (exaptation) introdotto da Gould e Vrba (1982): tale concetto ha un ruolo fondamentale per la questione della complessità del linguaggio e merita ulteriori considerazioni. Secondo Gould e Vrba, i modi in cui prende forma il fenomeno generale dell’essere utile per la sopravvivenza sono l’adattamento (per selezione naturale) e l’exattamento (per cooptazione funzionale di strutture selezionate per altre finalità). In questa prospettiva, exattamento e adattamento sono due facce strettamente correlate del processo evolutivo. Torneremo su questi temi più avanti nel testo, ciò che qui ci preme sottolineare è la relazione tra la concezione delle capacità verbali come exattamento e la visione del linguaggio come un «artefatto culturale». Quando i neoculturalisti sostengono che il linguaggio è un exattamento, lo fanno innanzitutto per sottolineare che non è un adattamento biologico: dal loro punto di vista, infatti, il linguaggio è un caso esemplare di un processo di sviluppo che, attraverso la trasmissione culturale, consente agli artefatti culturali di guadagnare una propria indipendenza dalle pastoie della selezione naturale. Prima di concludere, una considerazione di carattere generale. La critica dei neoculturalisti all’idea del linguaggio come prodotto della selezione naturale è portata avanti per un motivo (di carattere ideologico, oltre che teorico) di notevole interesse: la difesa dell’autonomia della natura specificamente culturale delle pratiche linguistiche. Il riconoscimento di tale autonomia ha ricadute immediate sul posto da assegnare agli umani nel mondo della natura: se il linguaggio è un fenomeno storico-culturale, l’essere umano che si avvale di un sistema simbolico come la lin54

gua partecipa – unico tra gli animali – di una «doppia natura» (biologica e culturale). Considerazioni di questo tipo mostrano quanto sia stretta la relazione tra le questioni specifiche circa il linguaggio e il piano generale della natura umana. Il materiale è altamente infiammabile e merita di essere trattato con cura. 3.3. Il pensiero simbolico come anomalia evolutiva Il caso di Deacon (1997) si presta ad esemplificare il punto: gli umani sono animali per quanto riguarda la biologia; lo statuto simbolico dei pensieri tipici degli individui appartenenti alla nostra specie, tuttavia, rende gli esseri umani entità imparagonabili con tutte le altre entità della natura. La tesi di Deacon è che l’enigma centrale della natura umana risieda nella difficoltà di mettere insieme due aspetti a tutta prima inconciliabili: «biologicamente, non siamo che una nuova specie di grandi scimmie. Mentalmente, invece, siamo un nuovo phylum di organismi» (ivi, trad. it. p. 5). A questa idea dell’anomalia evolutiva fa eco la tesi della «doppia eredità» portata avanti da Tomasello (1999), secondo il quale le abilità cognitive per eccellenza degli umani (come il pensiero simbolico) dipendono dall’eredità culturale. Concezioni come quelle proposte da Deacon e Tomasello si sposano alla perfezione con l’idea del linguaggio come una forma di exattamento (e non come un adattamento biologico). Un esempio illuminante a questo proposito viene dalla paleoantropologia. Tattersall (1998, 2002, 2008) rappresenta il caso più emblematico del rapporto simbiotico tra exattamento e prospettiva neoculturalista. Egli sostiene che la simbolicità del pensiero sia alla base di una vera e propria «differenza qualitativa» tra gli umani e tutte le altre specie animali (comprese le altre specie di Homo che si sono succedute nel corso del processo di ominazione). L’analisi della cognizione simbolica mostra, in effetti, che la caratteristica saliente della natura umana non deve essere ricercata nelle analogie «anatomiche» con le altre specie, ma in qual55

cosa che ha una natura diversa dalle proprietà biologiche degli individui. Ora, poiché l’Homo sapiens, evidentemente, discende da un antenato che non possedeva una cognizione di tipo simbolico, il punto chiave della questione è capire come abbia potuto generarsi un pensiero di questo tipo. Tattersall presenta due possibilità: la prima fa riferimento a una serie di variazioni lente e graduali di miglioramenti in linea con la selezione naturale (una prospettiva à la Pinker e Bloom, per intendersi); la seconda è quella che guarda all’avvento delle nostre proprietà peculiari come dovuto a un evento a più breve termine. È la seconda opzione teorica, naturalmente, quella che più sta a cuore al nostro autore. A favore di tale opzione, Tattersall usa un argomento che costituisce il nocciolo del suo modello teorico: la rottura del nesso stretto tra strutture e funzioni portato avanti dai fautori della tesi adattazionista. Alla base di tale modello è l’idea che nuove funzioni possano essere messe in atto cooptando vecchie strutture e che le stesse funzioni possano essere realizzate da strutture diverse – è un’idea che, ovviamente, sfrutta a piene mani la prospettiva exattamentista. Secondo Tattersall la dissociazione tra strutture e funzioni è una costante a cui si assiste di continuo nel corso del processo di ominazione; l’avvento di nuove strutture anatomiche non comporta di per sé differenze sostanziali sul piano cognitivo o comportamentale della specie che le incorpora: i nuovi comportamenti (le nuove tecnologie, ad esempio) sorgono sempre dopo un lungo lasso di tempo rispetto alla variazione anatomica. Nei suoi scritti, Tattersall descrive con dovizia di particolari diversi casi in cui innovazione anatomica e innovazione tecnologica non vanno di pari passo dando corpo all’idea che «nuove specie e nuove tecnologie non siano direttamente correlate» (Tattersall, 1998, trad. it. pp. 126-127). L’esempio più illuminante dello scarto temporale tra strutture anatomiche e capacità tecnologiche è rappresentato dalla differenza tra i vecchi sapiens (200.000 anni fa) e 56

i nuovi sapiens (50.000 anni fa). La misura di questo scarto risulta evidente attraverso l’analisi di un evento catastrofico: l’estinzione dell’Homo neanderthalensis (comparso 350.000 anni fa ed estinto 28.000-27.000 anni fa). Due cose da sottolineare a questo proposito. La prima è il lungo periodo di convivenza tra i vecchi sapiens e i neandertaliani: per lungo tempo le diversità anatomiche tra le due specie non hanno avuto riflessi sul piano tecnologico e comportamentale e dunque non hanno avuto ricadute immediate sulla supremazia di una delle due specie sull’altra (l’impossibilità di distinguere i prodotti tecnologici delle due specie in aree comuni di convivenza dimostrerebbe che anatomie diverse non comportano di per sé tecnologie diverse). La seconda cosa da sottolineare riguarda il repentino cambiamento dei rapporti tra le due specie determinato dall’arrivo dei sapiens moderni, ominidi con lo stesso cervello dei vecchi sapiens (vecchio di 200.000 anni) ma con una capacità mentale molto diversa dalla loro. Il punto da rilevare è la brusca estinzione dei neandertaliani: il fatto che i nuovi sapiens fossero dotati della medesima architettura strutturale dei primi sapiens mostra che la differenza decisiva è da attribuire a qualcosa di diverso dalla biologia: l’avvento del pensiero simbolico (50.000 anni fa). L’argomento di Tattersall ha un duplice intento teorico: guadagnare l’autonomia degli aspetti culturali dalle strutture anatomiche; mostrare che l’avvento del simbolo dà avvio a un tipo del tutto nuovo di replicazione: l’evoluzione culturale. L’intento di Tattersall esemplifica bene quel carattere (da noi definito «ideologico») della prospettiva neoculturalista che vale la pena tener ben presente per comprendere in cosa consista lo «scarto qualitativo» che i sapiens moderni impongono al processo di ominazione: il discorso sulla distinzione tra struttura e funzione si sposa perfettamente con la salvaguardia dello statuto di autonomia (dalla selezione naturale) del piano simbolico. Dopo aver sostenuto che «il simbolismo è innegabilmente l’essenza dell’umanità» (ivi, trad. it. p. 160), Tattersall sot57

tolinea che il pensiero simbolico conferisce agli umani uno statuto di specialità nella natura: Con l’arrivo di Homo sapiens comportamentalmente moderno apparve sulla Terra un’entità del tutto nuova. Per la prima volta dall’adozione della postura eretta – o forse dalla fabbricazione di strumenti litici – era comparso un nuovo tipo di ominide del quale non si poteva dire che facesse semplicemente ciò che avevano fatto i suoi predecessori, magari in un modo un po’ migliore o addirittura un po’ diverso. Homo sapiens non è soltanto una versione migliorata dei suoi antenati: è una nuova concezione qualitativamente distinta per aspetti molto significativi, seppur limitati. Anche se la nostra egocentrica specie tende a sopravvalutare l’entità della differenza qualitativa tra se stessa e il resto del mondo vivente, inclusi i nostri parenti più prossimi, questa differenza è reale (ivi, trad. it. p. 169).

Lo statuto di specialità recide alla radice qualsiasi forma di continuismo: non c’è possibilità di studiare gli umani a partire dal confronto con altre specie. Non è legittimo uscire da Homo sapiens per studiare l’Homo sapiens: non ci sono nessi di continuità da scoprire (né con gli altri ominidi, né meno che mai con animali non umani) perché l’essere umano inaugura una possibilità del tutto nuova nel mondo della natura. Lo fa attraverso l’invenzione dei simboli. Quando Tattersall analizza la mente umana in termini di pensiero simbolico ha in mente una tesi precisa: l’idea che i pensieri siano il prodotto del linguaggio, lo strumento per eccellenza dell’attività simbolica. Nel far questo egli aderisce alla tesi del primato della «funzione cognitiva» del linguaggio: l’idea per cui la funzione principale del linguaggio, oltre a quella comunicativa (la capacità di esprimere pensieri), riguardi il ruolo da esso svolto nella «costituzione» dei pensieri – nella formazione del nostro sistema di concettualizzazione (Carruthers, 2002; Ferretti, 2005). Visto il primato accordato al linguaggio sul pensiero, tuttavia, l’argomento di Tattersall tiene soltanto se può offrire una spiegazione adeguata dell’avvento del pensiero 58

simbolico. Ora, poiché tale avvento coincide con l’avvento del linguaggio, si può facilmente sostenere che un modello del genere è sostenibile soltanto avendo a disposizione una spiegazione dell’origine del linguaggio. Scartando l’idea dell’avvento del linguaggio in termini di variazioni lente e graduali, Tattersall (2002) fa riferimento a un processo molto più rapido nel tempo: Qualcosa deve essere intervenuto, dopo un lungo e poco compreso periodo di espansione e di riorganizzazione irregolare del cervello nella discendenza umana, a preparare il terreno perché il linguaggio fosse acquisito. Questa innovazione sarebbe dipesa dal fenomeno dell’emergenza, in virtù della quale una combinazione casuale di elementi preesistenti produce qualcosa di totalmente inatteso. (...) L’emergenza, insieme con l’exattamento, è un potente meccanismo del processo evolutivo, un’autentica forza motrice che sospinge l’innovazione verso nuove direzioni (ivi, trad. it. pp. 128-129).

Non discutiamo il fatto che l’avvento della cultura comporti una riduzione straordinaria dei tempi di adattamento degli organismi che la possiedono; né è nostra intenzione discutere, ovviamente, la portata del pensiero simbolico sulle capacità cognitive della nostra specie. A non convincerci è la spiegazione proposta da Tattersall circa l’origine del linguaggio; egli affida il cambiamento di Homo sapiens all’«invenzione» del linguaggio: attribuire l’origine del linguaggio a una «scoperta» (a qualcosa in cui ci si imbatte in modo fortuito e improvviso) è tuttavia un’operazione del tutto inefficace sul piano esplicativo – soprattutto nel caso in cui la scoperta in oggetto viene interpretata in termini di emergenza. Per i neoculturalisti, la simbolicità del pensiero umano è semplicemente una constatazione di fatto: a nostro avviso, non è sufficiente «evocare» il linguaggio per risolvere la questione dell’origine del pensiero simbolico. Un’ipotesi del genere è troppo bella per essere vera; i simboli non sembrano far parte degli 59

arredi di base del mondo naturale: l’avvento del pensiero simbolico è certamente un fatto, ma un fatto che aspetta giustificazioni – non si può, senza incorrere nel vizio di circolarità, spiegare l’avvento del pensiero simbolico con l’invenzione o l’emergenza del linguaggio (il sistema simbolico per eccellenza). La mossa di fondare la natura umana sul pensiero simbolico è un classico «gancio appeso al cielo», per utilizzare la felice espressione usata da Dennett (1995): si sostiene che la differenza qualitativa degli umani poggia sul pensiero simbolico e quando si chiedono ragioni circa l’origine di tale tipo di pensiero si dice che esso poggia sul linguaggio. Poi si dice che il linguaggio è un’invenzione, o che è un’entità emergente da entità non linguistiche. Così, tutte le cose vanno a posto: se a un certo punto emerge il linguaggio (e il linguaggio non è un adattamento biologico), è possibile concludere che lo statuto di specialità dei sapiens nella natura non dipende dalla loro costituzione biologica e dunque dalla selezione naturale. Nelle prospettive culturaliste la storia interessante da narrare riguarda tutto ciò che segue l’avvento del simbolo: quando si racconta una storia del genere, tuttavia, l’apparizione del simbolo rimane un fenomeno inaspettato e miracoloso. Dal nostro punto di vista, al contrario, le cose più interessanti da raccontare sono quelle che riguardano ciò che avviene prima e, più precisamente, durante l’avvento del simbolo: è il passaggio dai sistemi espressivi presimbolici a quelli simbolici il punto critico da indagare. La nostra idea è che per analizzare tale passaggio sia necessario chiamare in causa i sistemi di elaborazione (l’architettura cognitiva) di cui disponevano i nostri parenti ancestrali chiamati a far fronte alle mutate esigenze comunicative. Servono menti di un certo tipo per dar conto dell’origine del linguaggio: il che significa che da un punto di vista evolutivo le menti sono condizione dei simboli tanto quanto i simboli sono fattori costitutivi delle nostre menti. 60

4. Exattamentismo e innatismo Prima di presentare una prospettiva dei processi di comunicazione fortemente in linea con il programma darwiniano è necessario fare un’ultima precisazione. All’inizio di questo capitolo abbiamo sottolineato l’ostilità di Chomsky nei confronti della teoria della selezione naturale. Detto questo, Chomsky è uno dei fautori principali della biolinguistica: il suo modello teorico si incarna fortemente nella tradizione naturalistica secondo cui il linguaggio è parte del mondo naturale e deve essere indagato attraverso le indagini tipiche del mondo naturale. Quando Chomsky sostiene che la GU non è interpretabile nei termini della selezione naturale, egli non intende negare il fatto che il linguaggio sia un dispositivo mentale evolutosi nel tempo, né tantomeno mettere in discussione la teoria dell’evoluzione in quanto tale (Chomsky, 2005; 2009). Come mantenere insieme il riferimento alla biolinguistica con il rifiuto della selezione naturale? La risposta di Chomsky a questa domanda passa per la tesi exattamentista del linguaggio; la sua adesione al programma exattamentista (su cui cfr. anche Piattelli-Palmarini, 1989), tuttavia, più che a una reale soluzione ai problemi che ha di fronte, conduce il linguista americano in un vicolo cieco. Per diverse ragioni. La prima è di ordine generale. Il riferimento di Chomsky al programma di Gould non è un’operazione senza conseguenze. Gould (1979), tanto per iniziare, è un fervente antimodularista: egli analizza il linguaggio facendo riferimento alla mente come a un sistema di elaborazione unico e generale per dominio. Come sottolineano giustamente Pinker e Bloom (1990) «la teoria che vede la mente come meccanismo generale di apprendimento è un anatema per Chomsky (e per Piattelli-Palmarini): risulta difficile, pertanto, capire come essi possano, in generale, trovarsi d’accordo con Gould» (ivi, trad. it. p. 85)». Una seconda ragione è che l’adesione di Chomsky all’exattamento lo porta a considerare il linguaggio come un «effetto 61

collaterale» dell’organizzazione strutturale del cervello, governata da leggi puramente fisiche. Si tratta di un’idea che Chomsky porta avanti da tempo e che ribadisce anche nei suoi ultimi scritti: Per quanto riguarda la possibilità che il linguaggio si evolva, certo, il linguaggio si è evoluto. Non siamo angeli. Ma l’evoluzione non è solo selezione. Propongo ora una tesi estrema: probabilmente l’evoluzione del linguaggio è un risultato dell’aumento delle dimensioni cerebrali, per qualsiasi ragione questo sia avvenuto forse 100.000 anni fa (...). Bene, se questo è vero, non c’è nulla in ciò che chiami in causa la selezione. Non mi aspetto che sia andata effettivamente così. Si tratta di una speculazione estrema. Ma se fosse vera, il linguaggio si sarebbe evoluto senza che nulla sia stato selezionato (Chomsky, 2009, p. 41).

Pinker e Bloom (1990) hanno fortemente criticato l’idea che l’evoluzione del linguaggio possa essere spiegata facendo affidamento alle «leggi della fisica» piuttosto che alla selezione naturale: È certamente vero che la selezione naturale non spiega tutti gli aspetti dell’evoluzione del linguaggio. Ma quali altre ragioni abbiamo per credere che teoremi fisici ancora da scoprire possano dar conto dell’intricato disegno del linguaggio naturale? Certo, i cervelli umani obbediscono alle leggi della fisica, e lo hanno sempre fatto, ma questo non significa che la loro specifica struttura possa essere spiegata da queste leggi (ivi, trad. it. p. 87).

Le considerazioni di Pinker e Bloom sono più che sensate, ma a nostro avviso il motivo del perché la versione exattamentista di Chomsky non tiene è un altro. La teoria secondo cui il linguaggio umano è un sottoprodotto dell’attività di sistemi di elaborazione nati per altri fini è sposata, del tutto coerentemente, dai neoculturalisti. Uno degli aspetti maggiormente caratterizzanti i neoculturalisti (così come i culturalisti di ogni tempo) è, in effetti, il rifiuto abbastanza accentuato dell’innatismo: ora, come è 62

possibile che, in modo altrettanto coerente, un fautore della concezione innatista del linguaggio come Chomsky possa affidarsi allo stesso paradigma interpretativo? Come è possibile, in altre parole, fare riferimento al linguaggio come a un componente specifico della nostra mente-cervello senza chiamare in causa la selezione naturale e la teoria dell’adattamento? La nostra idea è semplicemente che non sia possibile farlo. Prima di presentare i motivi del nostro convincimento è bene fare alcune precisazioni ulteriori sul concetto di exattamento e sulla sua relazione con quello di adattamento. Innanzitutto bisogna sgombrare il campo da un equivoco: per quanto l’exattamento sia stato a lungo considerato un concetto alternativo a quello di adattamento, un’interpretazione del genere è priva di fondamento. Secondo Eldredge (1995), uno degli esponenti di spicco della teoria degli «equilibri punteggiati» (il paradigma teorico dell’evoluzionismo secondo i naturalisti): «nessun biologo evolutivo razionale nega che i cambiamenti siano in maggior parte adattativi o che il cambiamento adattativo sia causato dalla selezione naturale» (ivi, trad. it. p. 58). Come abbiamo già sottolineato, in effetti, «exattamento» e «adattamento» sono due facce strettamente correlate del processo evolutivo: in primo luogo perché molto spesso gli exattamenti sfruttano cooptandole strutture formatesi attraverso la selezione naturale; in secondo luogo perché la funzione cooptata può essere selezionata al fine di rendere quella struttura più adatta alla nuova funzione (adattamento secondario). Ed è questo secondo aspetto che qui ci preme maggiormente sottolineare. Scrivono Gould e Vrba (1982): Le piume, nel loro progetto di base, sono exaptation per il volo, ma una volta che questo nuovo effetto si è aggiunto alla funzione di termoregolazione come importante fattore di fitness, le piume sono sottoposte a una serie di adattamenti secondari (alcune volte chiamati post-adattamenti) per aumentare la loro utilità nel volo (...). La storia evolutiva di ogni caratteristica com-

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plessa comprenderà probabilmente una miscela sequenziale di adattamenti, exaptation primari e adattamenti secondari. (...). Ogni struttura cooptata (un exaptation) probabilmente non comparirà già perfezionata per il suo nuovo effetto. Essa allora svilupperà adattamenti secondari per il nuovo ruolo (ivi, trad. it. pp. 38-39).

Uno schema triadico di questo tipo (adattamento, exaptation, adattamento secondario) è di notevole interesse ai fini della questione se il linguaggio sia o meno il prodotto della selezione naturale. È molto probabile che il linguaggio abbia avuto origine per cooptazione di strutture adibite ad altre funzioni – si pensi al caso dell’apparato fonatorio selezionato, evidentemente, per la respirazione e la nutrizione, non di certo per produrre suoni articolati. Riconoscere exattamenti di questo tipo, tuttavia, non dice nulla sulla natura adattativa o meno del linguaggio perché il riconoscimento di funzioni cooptate da strutture originariamente adattate per altri scopi non esclude che queste strutture possano essere riadattate alle nuove funzioni (il caso delle variazioni strutturali della bocca e della laringe governate dall’esigenza di una migliore produzione di suoni sembra andare incontro a questa possibilità). Una cosa analoga potrebbe valere – come sostengono esplicitamente Pinker e Bloom (1990) – anche per descrivere l’evoluzione di dispositivi più astratti (come la GU) del funzionamento del linguaggio. Da queste considerazioni emerge che il ricorso di Chomsky al concetto di exattamento per sostenere che il linguaggio non è il prodotto della selezione naturale non è sufficiente, di per sé, a mettere in crisi la concezione adattamentista. Ma c’è di più: Chomsky è in un certo senso costretto ad accettare una lettura adattamentista del linguaggio come exattamento; se le capacità verbali fossero interpretabili soltanto come un insieme di funzioni cooptate da strutture selezionate per altri fini, infatti, verrebbe a cadere uno dei punti fermi della sua teoria: l’idea del linguag64

gio come un organo innato specifico. Il modello dell’exattamento, in effetti, è utilizzabile da Chomsky solo a patto di considerare i dispositivi innati specifici per il linguaggio come forme di adattamento secondario: sostenere una tesi di questo tipo, tuttavia, equivale a sostenere la tesi del linguaggio come un prodotto della selezione naturale. Delle due l’una: o il linguaggio è un componente innato e specifico e allora deve essere un adattamento dovuto alla selezione naturale; oppure il linguaggio non è un adattamento, ma allora non è un componente innato e specifico della mente umana. Ora, poiché la rinuncia all’idea che la GU sia un componente innato e specifico della mente umana equivarrebbe per Chomsky alla messa in discussione dei fondamenti stessi della propria proposta teorica, l’unica strada che gli rimane da percorrere è quella tracciata da Pinker e Bloom: se si ha in mente di salvaguardare la GU, darwinizzare Chomsky è l’unica via per mantenere insieme biologia e modello del linguaggio. Dal discorso fatto sul rapporto tra exattamentismo e culturalismo dovrebbe essere chiaro che Chomsky non può tenere insieme la tesi che il linguaggio sia un effetto collaterale della strutturazione del cervello dovuto a leggi fisiche generali e l’idea che sia un sistema innato specifico di elaborazione del linguaggio. Eppure non sembra disposto a cedere: anche recentemente egli ha ribadito l’idea che il linguaggio dipenda da una strutturazione del cervello guidata dalle leggi (fisiche) di autorganizzazione della materia organica (Chomsky, 2005; 2009). A sostegno delle proprie convinzioni Chomsky chiama in causa una proposta teorica in grado, a suo dire, di dar conto dell’innatismo senza chiamare in causa la selezione naturale. Il modello offerto da Cherniak (2005; 2009) sembra venire incontro alle esigenze di Chomsky: proponendo una forma di «innatismo non-genetico», in effetti, l’idea di Cherniak è che sia possibile parlare di strutture innate (nel senso di presenti alla nascita) senza fare appello alle leggi dell’adattamento biologico. 65

Dendrite

Assone

Fiume

Attuale 100 µm

25 µm

1m

Ottimale

Figura 2.2. Il modello neurale della meccanica dei fluidi (Cherniak K., 2005, p. 105).

L’esempio fatto da Cherniak riguarda l’interpretazione dell’organizzazione delle strutture cerebrali nei termini del modello neurale della «meccanica dei fluidi»: in un’interpretazione di questo tipo la struttura ad albero delle connessioni neuroniche si comporta come il flusso dell’acqua di un fiume che cerca la via più facile per proseguire nel proprio cammino (fig. 2.2). Il risultato di una concezione del genere (il prodotto dell’autorganizzazione fisica del cervello dovuta a una serie di trasformazioni a cascata) è che la configurazione cerebrale sia spiegabile in termini di connessioni che sfruttano soltanto «processi fisici di base, senza alcun bisogno di chiamare in causa l’intervento dei geni» (Cherniak, 2005, p. 5). Non discutiamo l’idea che la costruzione delle connessioni interne al cervello rispetti le leggi della fisica: il cervello è un sistema fisico e discutere se esso funzioni nel rispetto delle leggi della fisica è un semplice truismo. Il punto in questione è se il riferimento alle leggi fisiche sia una condizione sufficiente a dar conto del linguaggio nei termini dell’innatismo non genetico (come un sistema innato senza il riferimento alla selezione naturale). Intanto, il riferimento a un innatismo di questo tipo non chiarisce se le autorganizzazioni cerebrali riguardino la specie o il singo66

lo fenotipo. Dal discorso fatto da Cherniak sembrerebbero riguardare il fenotipo (un innatismo da attribuire alla specie rimetterebbe in campo la selezione naturale): ma se riguardano la riorganizzazione di ogni cervello di ogni singolo fenotipo, in che senso si può parlare di caratteristiche innate? Il più che si può dire è che in casi di questo tipo l’organizzazione della materia cerebrale risponde ad eventi causali «endogeni» – ma il riferimento a fattori endogeni non è una garanzia che quei fattori siano innati. Detto questo, la mossa di Cherniak non ci convince soprattutto per una considerazione di ordine più generale: quello da lui descritto è un processo generale di organizzazione della materia rispetto a principi di economia e ottimizzazione. Quando, come facciamo in questo libro, si assume lo sfondo metafisico che vede gli umani come animali tra gli altri animali, la ricerca di principi ultimi alla base dell’organizzazione e del funzionamento della materia organica è un’operazione da guardare con estrema considerazione. Bisogna riconoscere, tuttavia, che operazioni di questo tipo pagano a volte un costo troppo alto: delineare lo sviluppo cerebrale nei termini di leggi fisiche generali permette di cogliere interessanti proprietà comuni alla materia organica ma non consente di spiegare la specificità del fenomeno che si intende analizzare. La tesi di Chomsky è che il linguaggio sia caratterizzabile nei termini di una «differenza qualitativa» con gli altri sistemi di comunicazione animale esattamente per le proprietà specifiche e irriducibili che lo caratterizzano – la specificità del linguaggio è parte integrante del modello teorico. Va da sé che il riferimento a proprietà generali come quelle dell’autorganizzazione dei sistemi fisici non è di aiuto per comprendere in cosa consista tale specificità. Eppure Chomsky non si arrende. Persino oggi che la disputa legata al tema della complessità delle capacità verbali sembra perdere vigore (il minimalismo è un’ipotesi che ha fortemente rivisto l’idea del linguaggio come una facoltà complessa), egli continua a criticare l’idea del lin67

guaggio come un adattamento biologico. Pur di combattere sino in fondo il selezionismo, Chomsky è disposto a rispolverare un vecchio cavallo di battaglia: la critica all’idea del linguaggio come un sistema adattato ai fini della comunicazione. In una serie di interventi scritti con Fitch e Hauser (Hauser et al., 2002; Fitch et al., 2005), Chomsky sostiene che «adattamento» è un termine vago e che ancora più vago è il termine «comunicazione» (Fitch et al., 2005, p. 185). Secondo i tre autori non c’è una spinta selettiva univoca alla base dell’origine del linguaggio perché non c’è una singola funzione specifica capace di dar conto della sua evoluzione: domandarsi per quale funzione ha avuto origine il linguaggio è un po’ come chiedersi «a cosa serve il cervello». Il linguaggio, inoltre, non nasce ai fini di una comunicazione più efficiente semplicemente perché il linguaggio ha principalmente una funzione cognitiva: più che a esprimere i pensieri, esso (proprio come vogliono i neoculturalisti) serve a costituire i pensieri. Il riferimento al ruolo della funzione cognitiva del linguaggio spiega l’adesione di Chomsky (2005) alle tesi di Jacob (1977) (secondo cui la funzione comunicativa è del tutto secondaria rispetto a quella cognitiva) e al programma exattamentista di Tattersall. L’idea che il linguaggio abbia diverse funzioni e che sia il prodotto di un insieme complesso di sistemi di elaborazione distinti è convincente e perfettamente in linea con il nostro discorso. Così come è del tutto condivisibile l’idea che il linguaggio (intervenendo nella formazione del nostro sistema concettuale) abbia un ruolo nella costituzione dei pensieri. È del tutto paradossale, tuttavia, che a servirsi dell’argomento della funzione cognitiva del linguaggio sia proprio Chomsky: non solo perché un argomento del genere si sposa meglio con le tesi neoculturaliste, ma soprattutto perché, a parte le sporadiche tirate contro l’adattamento, negli scritti di Chomsky non c’è traccia di un’analisi seria e convincente dei rapporti tra pensiero e linguaggio. C’è solo un caso, indicativo peraltro, in cui egli 68

chiama in causa questo rapporto: citando l’uso creativo del linguaggio (il «problema di Cartesio»), Chomsky sostiene che per dar conto di una capacità del genere bisogna fare appello ai rapporti tra le capacità verbali e il pensiero. A queste considerazioni di carattere generale egli tuttavia non aggiunge altro: l’unica cosa che dice, come abbiamo sottolineato nel capitolo 1, è che il «problema di Cartesio» resta un mistero insolubile (in via di principio) della mente umana. Da un autore che sostiene il ruolo centrale della funzione cognitiva del linguaggio sinceramente ci si sarebbe aspettati qualcosa di più. 5. Conclusioni Dal discorso fatto sino a questo punto possiamo concludere che i fautori della GU pagano un prezzo troppo alto per giustificare la tesi del linguaggio come adattamento biologico: l’adesione a un modello astratto e formale del linguaggio (che, nel migliore dei casi, spiega soltanto alcuni aspetti del suo funzionamento) fortemente compromesso con una prospettiva neocartesiana delle relazioni tra gli umani e gli altri animali. I neoculturalisti d’altra parte pagano un prezzo troppo alto alla critica del linguaggio come adattamento biologico: una visione del sistema simbolico come un «gancio appeso al cielo» e l’adesione alla tesi della «doppia eredità» degli umani non perfettamente in linea con un punto di vista genuinamente naturalistico. Che fare? Le critiche dei neoculturalisti all’adattazionismo mostrano che un certo modello del linguaggio (la GU) è incompatibile con il programma darwiniano. Tali critiche non escludono tuttavia che altri modelli del linguaggio possano essere utilizzati ai fini di una teoria del linguaggio come adattamento biologico (Ferretti, 2009a, 2010; Ferretti e Primo, 2008): nei prossimi capitoli proporremo una concezione del linguaggio in linea con queste esigenze. 69

Una considerazione di carattere più generale, per concludere. L’opposizione tra neoculturalisti e adattazionisti incarna la vecchia disputa tra ambientalismo e innatismo: una disputa che ha fatto il suo tempo e che è venuto il momento di mettere da parte. L’analisi della natura del linguaggio aspetta visioni sintetiche: come mettere in atto un piano del genere? Dove andare a cercare il punto di contatto tra i due opposti estremismi? La nostra idea è che la risposta a questa domanda trovi soluzione nella tesi della coevoluzione tra cervello e linguaggio. Sarà di nuovo Darwin, come vedremo nel prossimo capitolo, a fornirci un appiglio da cui partire nella costruzione di una prospettiva sintetica del linguaggio e della natura umana.

3

Sforzo

A New York se la presero molto per quelle foto – con buone ragioni, a dire il vero. Quando nel 1956 William Klein pubblicò la raccolta fotografica dedicata alla propria città natale, in molti gridarono allo scandalo. Le foto di Klein erano scandalose non tanto perché smentivano una certa idea di come quella città (abitanti inclusi) era raffigurata nell’immaginario collettivo; e neppure per il fatto che rompevano i canoni estetici più classici della ripresa fotografica (di base, sono fuori fuoco e i tagli sono a dir poco imbarazzanti). Ma per un fatto più difficile da cogliere di primo acchito: attraverso una tecnica di ripresa voyeuristica (molte volte la Leica era nascosta tra le pieghe del soprabito ad altezza della pancia e lo scatto avveniva utilizzando un flessibile tenuto in tasca), Klein aveva raffigurato i propri concittadini nell’atto più intimo e privato di cui gli umani sono capaci: l’attività mentale. Ritratti nei luoghi del pensare per eccellenza (la fermata dell’autobus o la fila alla cassa in un supermercato), le donne e gli uomini raffigurati in quelle immagini mostrano con piena evidenza la natura pensante degli esseri umani (fig. 3.1). Come riconosciamo un soggetto pensante? Per quanto minimale, l’attività di pensiero si manifesta attraverso un indizio distintivo: i movimenti del corrugatore – il musco71

Figura 3.1. Foto tratta da William Klein, New York 1954-55, Editions du Seuil, Paris 1956; Dewi Lewis Publishing, Manchester 1995, Reprint Edition.

lo che governa la contrazione delle sopracciglia. Nell’Espressione delle emozioni nell’uomo e negli animali (1872), in linea con la tradizione del suo tempo, Darwin definisce il corrugatore «il muscolo del pensiero». Egli, tuttavia, aggiunge alla tradizione un particolare di grande rilievo ai fini del nostro discorso: l’idea che la contrazione del corrugatore rimandi a una concezione del pensiero inteso come attività di equilibrio guidata da uno «sforzo». Per Darwin, in effetti, l’attività mentale va ricercata nelle situazioni caratterizzate dalla rottura della routine: là dove un imprevisto muta lo stato di equilibrio tra organismo e ambiente. Scrive Darwin (1872): Un uomo può essere assorbito nei più profondi pensieri, eppure le sue sopracciglia rimarranno spianate fino a quando non incontrerà un ostacolo nel corso del suo ragionamento, o verrà interrotto da qualcosa che lo disturba; e allora un corrugamento passerà come un’ombra sulle sue sopracciglia. Un uomo affama-

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to può pensare intensamente a come procurarsi il cibo, ma probabilmente non aggrotterà la fronte, a meno che non incontri qualche difficoltà nella realtà o nel ragionamento, o non si accorga che il cibo che è riuscito ad ottenere è cattivo (ivi, trad. it. p. 252).

Da queste considerazioni emerge una concezione delle capacità cognitive (dalla percezione al ragionamento astratto) strettamente dipendente dall’attività che ogni organismo mette in campo nello sforzo di guadagnare un equilibrio con l’ambiente esterno. Il pensiero è uno dei modi in cui si manifesta tale attività e il corrugatore è l’indizio di superficie del fatto che la relazione di stabilità con l’ambiente è uno stato che gli organismi raggiungono mettendo in atto un’attività che implica uno sforzo. Porre lo sforzo di equilibrio alla base dell’adattamento significa mettere l’accento sul ruolo attivo del comportamento dell’organismo nell’evoluzione. Analizzando la formazione delle strutture del linguaggio dovute alla selezione naturale nel corso della filogenesi, nel capitolo precedente abbiamo guardato all’adattamento concentrandoci essenzialmente sul genotipo. In questo capitolo il tema dell’adattamento verrà analizzato guardando prevalentemente al fenotipo: alle strategie che ogni singolo organismo, di fronte a ogni singola occasione concreta, mette in atto per equilibrare una situazione di squilibrio. Rivalutare lo sforzo dell’organismo nell’adattamento è un modo per rivalutare l’attività fenotipica nei processi evolutivi. Questo modo di intendere l’adattamento avrà, come vedremo nel prossimo capitolo, un ruolo fondamentale nella spiegazione dell’evoluzione del linguaggio e del suo funzionamento attuale negli effettivi contesti d’uso. 1. Lo sforzo del comunicare La nostra idea è che la nozione di sforzo di equilibrio giochi un ruolo fondamentale nell’origine e nel funzionamento del linguaggio. Di come questa nozione si concretizzi in 73

un modello effettivo circa la natura delle capacità verbali ci occuperemo nel prossimo capitolo. Per ora è sufficiente accennare al fatto che l’uso effettivo del linguaggio (produzione-comprensione linguistica) si caratterizza come un processo di equilibrio governato da un duplice sforzo: quello dell’ascoltatore alla ricerca delle intenzioni comunicative del parlante e quello del parlante impegnato ad offrire gli indizi migliori perché chi ascolta possa comprenderlo. Queste considerazioni sul funzionamento del linguaggio hanno un grosso rilievo ai fini del nostro discorso: l’assunto di base della nostra proposta è che la questione dell’origine del linguaggio sia strettamente legata al tema dei processi di produzione-comprensione linguistica. Lo spunto da cui partire ci è offerto da Pinker (1994). Uno dei problemi più noti con cui devono confrontarsi i fautori della grammatica universale alle prese con il problema dell’origine del linguaggio è dar conto degli scambi comunicativi tra il soggetto che possiede la variazione giusta (il primo mutante grammaticale) e gli altri individui del gruppo che non la possiedono: come può essere compreso chi utilizza un sistema più complesso da chi dispone di un dispositivo di elaborazione meno complesso? Stabilire in che senso considerare vantaggiosa la mutazione di un parlante che, complicando le sue capacità espressive, porterebbe gli altri individui del gruppo a non comprenderlo è un problema ben noto agli studiosi dell’evoluzione del linguaggio (Watanabe et al., 2008). Il modo di superare la difficoltà del primo mutante grammaticale è solitamente attribuito alle attività del fenotipo. La proposta di Pinker è quella più interessante ai nostri fini: la sua ipotesi è infatti che gli interlocutori del primo mutante grammaticale riescono a capire ciò che questi dice «semplicemente grazie all’uso dell’intelligenza in tutta la sua potenza» (Pinker, 1994, trad. it., p. 358). Pinker fa riferimento alla «grande fatica mentale» necessaria per dar conto della effettiva comprensione in casi di questo tipo. Per quanto non sia del tutto chiaro come il riferimento all’«intelligenza» o alla «fatica mentale» possa essere 74

proficuamente utilizzato in un modello interpretativo che vede i processi di elaborazione linguistica governati da dispositivi automatici, veloci e obbligati (che operano senza sforzo), la nostra idea è che la spiegazione offerta da Pinker meriti di essere presa in seria considerazione, molto più seriamente di quanto egli non faccia. Mentre Pinker crede, infatti, che lo sforzo di comprensione caratterizzi i processi attivi nella filogenesi del linguaggio, la nostra idea è che la «fatica mentale» messa in atto dal fenotipo nello sforzo di comprendere o di farsi comprendere costituisca (sebbene in gradi diversi a seconda dei casi) il tratto saliente dei processi di elaborazione linguistica in ogni singolo atto comunicativo: è attorno alla nozione di «sforzo cognitivo» infatti che trova fondamento l’idea della produzione-comprensione verbale come un processo di costruzione e non di mera decodifica meccanica. Ecco un indizio da cui partire: se fosse vera la tesi della natura automatica e obbligata dei processi di elaborazione linguistica, gli ascoltatori non dovrebbero provare alcuna sensazione di sforzo nel comprendere e i parlanti non dovrebbero sforzarsi nel farsi comprendere. I processi automatici, come abbiamo visto nel capitolo precedente, sono caratterizzati dalla mancanza di sforzo di elaborazione: se l’uso effettivo del linguaggio dipendesse esclusivamente da processi di questo tipo, dovremmo elaborare qualsiasi discorso allo stesso modo indipendentemente dal tipo di argomento affrontato. A dispetto di queste considerazioni, lo sforzo della comunicazione è sotto gli occhi di tutti: è diverso seguire una lezione di filosofia analitica o ascoltare le confidenze sentimentali di un amico. In una prospettiva fondata sul modello automatico e obbligato dei processi di elaborazione proposto dalla concezione del linguaggio come un modulo specializzato, differenze di questo tipo sono semplicemente inspiegabili. Utilizzare la nozione di «sforzo cognitivo» nella spiegazione dei processi d’uso del linguaggio determina un significativo cambiamento di prospettiva rispetto alla concezione modula75

rista: poiché lo sforzo della produzione-comprensione verbale è un fenomeno facilmente esperibile e poiché tale fenomeno non è spiegabile facendo appello alle proprietà tipiche dei moduli, per dar conto di questo aspetto della comunicazione è necessario fare appello a un modello interpretativo alternativo. La costruzione di tale modello alternativo prende avvio dalla felice intuizione di Darwin: l’idea che lo sforzo cognitivo sia connesso all’attività di equilibrio messa in atto dall’organismo per far fronte alla mutata situazione ambientale. La nozione di sforzo cognitivo applicata al linguaggio apre la strada all’idea della comunicazione come una forma di equilibrio (molto precario, risultato di continui riaggiustamenti) tra le intenzioni comunicative del parlante e le aspettative che l’ascoltatore ha nel cogliere tali intenzioni (Sperber e Wilson, 1986; 2004). In un modello di questo tipo, comunicare è sfruttare i punti di appoggio (gli indizi offerti dal parlante) con cui erigere la costruzione di uno spazio di convergenza tra i sistemi concettuali di chi parla e di chi ascolta: lo sforzo del comprendere (e lo sforzo complementare di farsi comprendere) è un sintomo dell’attività dei comunicatori di mantenere costantemente in vita questa forma di equilibrio (Ferretti, 2009a). È esattamente nelle situazioni di questo genere che il modello automatico e obbligato della cognizione mostra alcune incongruenze che svelano caratteristiche interessanti della natura del linguaggio. La cristallizzazione nel cervello umano di capacità di elaborazione specificamente adibite al linguaggio rappresenta (come abbiamo visto nel capitolo 2) un patrimonio di competenze e di dispositivi funzionali che gli individui sfruttano efficacemente nelle situazioni che richiedono velocità di elaborazione. Non intendiamo mettere qui in discussione il ruolo funzionale dei dispositivi specifici di elaborazione linguistica costruiti nel corso della filogenesi. Se facciamo riferimento esclusivo a dispositivi di questo genere, tuttavia, possiamo dar conto soltanto degli aspetti del 76

linguaggio interpretabili in termini di automatismo e obbligatorietà di elaborazione (quelli che si guadagnano senza sforzo). Ora, poiché la produzione-comprensione linguistica è un’attività che implica sforzo, ciò che ne segue è che la concezione del linguaggio come un dispositivo modulare non è in grado di dar conto di aspetti importanti dei processi di elaborazione linguistica. Pur non escludendo che una parte della comunicazione possa dipendere da processi automatici e obbligati di elaborazione (centrati sulla codifica e decodifica degli enunciati e sull’elaborazione dei loro costituenti interni), lo sforzo del comunicare ci pone di fronte all’esigenza di un nuovo modello interpretativo. Una tale esigenza ci spinge a prendere in considerazione gli aspetti pragmatici (più che quelli grammaticali) del linguaggio. Come vedremo nel dettaglio nel prossimo capitolo, il banco di prova dell’idea della comunicazione come una forma di equilibrio è rappresentato dall’analisi del «flusso del parlato». Affrontare in questi termini lo studio del linguaggio significa evidenziare il passaggio dall’analisi degli enunciati (tipica dell’approccio di chi considera il linguaggio nei termini della GU) all’elaborazione del discorso. Il flusso del parlato non è una semplice successione di frasi: produrre-comprendere un discorso non è produrrecomprendere un enunciato dietro l’altro: il modello automatico e obbligato del linguaggio spiega gli aspetti della comprensione che dipendono dall’analisi in costituenti delle frasi (microanalisi), ma non è in grado di dar conto di alcune proprietà del linguaggio dipendenti dalla relazione tra enunciati (macroanalisi). Il nostro intento è duplice: dar conto del fatto che i processi e i dispositivi cognitivi alla base dell’elaborazione del flusso del parlato sono diversi da quelli in campo nell’analisi degli enunciati; mostrare che i processi in causa nell’analisi del fluire del discorso sono alla base dell’origine del linguaggio. Il fatto che alcuni aspetti della comunicazione verbale si spieghino attraverso l’idea del parlare come una forma 77

di equilibrio rende possibile porre alla base dell’origine e del funzionamento del linguaggio una caratteristica che segna una forte continuità col mondo animale: l’adattamento dell’organismo all’ambiente. Poiché, dal nostro punto di vista, il linguaggio è solo un caso particolare dell’equilibrio adattativo che regola la relazione tra organismo e ambiente in ogni forma di comportamento, prima di entrare nello specifico delle questioni riguardanti le capacità verbali è necessario fare alcune considerazioni di carattere più generale su tale forma di equilibrio. Nello specifico, nel seguito di questo capitolo affronteremo due questioni: l’analisi dettagliata della dinamica dell’equilibrio tra organismo e ambiente; l’indagine dei sistemi cognitivi che gli umani sfruttano per entrare in equilibrio con il proprio ambiente. 2. Lo sforzo adattativo Il rapporto di equilibrio con l’ambiente è un carattere affatto generale dell’adattamento a qualsiasi livello della vita organica. Nella prospettiva della psicologia evoluzionistica l’adattamento è affidato esclusivamente alla mutazione (casuale) endogena e alla selezione naturale: da questo punto di vista, parlare dell’equilibrio tra organismo e ambiente è parlare delle strutture adattative che la specie ha guadagnato nel corso della filogenesi attraverso il lento lavorio della selezione naturale. Una concezione di questo tipo mette in ombra un carattere fondamentale degli organismi: il loro irrefrenabile istinto alla sopravvivenza e la loro irrinunciabile voglia di vendere cara la pelle. Quando gli organismi non possiedono la mutazione giusta alla sopravvivenza non si danno di certo per vinti (non si abbandonano passivamente al proprio destino): mettono in atto qualsiasi strategia a loro disposizione pur di sopravvivere. I continui aggiustamenti adattativi che ogni organismo mette in campo nel corso della vita per far fronte alle esi78

genze di equilibrio imposte dalle variazioni ambientali mettono in risalto il ruolo dell’attività fenotipica nel processo evolutivo. Considerare l’adattamento nei termini di tale attività significa chiamare in causa un fattore fortemente disatteso nella tradizione neodarwiniana (fondata su una concezione passiva dell’organismo nei processi evolutivi): il ruolo attivo del comportamento nell’evoluzione (Lewontin, 1983). Un passo del genere, come vedremo nella parte finale di questo libro, si rivelerà decisivo per dar conto di una concezione del linguaggio come una forma di adattamento biologico. Il ruolo attivo del comportamento dell’organismo a fini selettivi è di primaria importanza per il nostro discorso. Rivalutare questo ruolo significa dar corpo a una nozione di adattamento che, al di là del suo valore esplicativo all’interno della teoria evoluzionistica, apre la strada, come vedremo, a considerazioni di carattere più generale sul rapporto tra evoluzione, mente e linguaggio. Bateson (1988), Plotkin (1988) e, più recentemente, Laland et al. (2000), OdlingSmee et al. (2003), facendo appello al ruolo del comportamento nell’evoluzione, hanno preso le distanze dalla concezione di passività dell’organismo caratterizzante il neodarwinismo. Considerare l’adattamento nei termini dell’attività del fenotipo significa esaltare il processo attraverso il quale gli organismi raggiungono una forma di equilibrio con l’ambiente operando continue trasformazioni (costruendo nicchie ecologiche) dell’ambiente stesso. Recuperare un ruolo attivo del comportamento nel processo evolutivo significa recuperare una nozione centrale della storia biologica degli organismi a tutti i livelli della scala filetica. Di più, significa aprire la strada a un nuovo modello di conoscenza. Quando si intende considerare la conoscenza una forma di equilibrio tra organismo e ambiente, un buon punto di partenza è da rintracciare nella teoria di Jean Piaget (1967) e più in particolare in quelle ipotesi interpretative che hanno accentuato gli aspetti operativi della conoscen79

Figura 3.2. L’equilibrio adattativo.

za e la loro incidenza sulle strutture interne. Piaget ha esaltato gli aspetti di continuità tra funzioni organiche e funzioni cognitive considerando l’adattamento un tipo di equilibrio tra due forme di costruzione reciproca: l’«assimilazione» (dell’esperienza alle strutture dell’organismo) e l’«accomodamento» (delle strutture dell’organismo all’esperienza). Intendere l’adattamento in questo modo significa muovere un significativo passo in avanti sulla strada della coevoluzione tra strutture cognitive ed esperienza. Alla base della concezione adattativa di Piaget è l’idea della conoscenza come un agire sul mondo (il riconoscimento del fatto che ogni comportamento è un’azione intenzionale votata alla «trasformazione» dell’ambiente). È il riferimento costante all’azione l’anello di congiunzione tra il biologico e il cognitivo: può esserlo perché ogni agire sul mondo comporta uno scopo che regola e dirige l’azione. È chiaro cosa significhi in questa prospettiva considerare la cognizione dal punto di vista delle relazioni di equi80

librio tra organismo e ambiente. Così come è chiaro in che senso la nozione di sforzo metta in campo la priorità dell’attività fenotipica (condizione essenziale per far riferimento alla possibilità di rispondere in modo flessibile alle situazioni nuove – per le quali non esistono risposte cristallizzate). Ora, puntare sulle caratteristiche del fenotipo è una mossa che, da un punto di vista generale, ha sempre caratterizzato gli approcci critici (se non propriamente avversi) all’innatismo. Quando – come in questo libro – si ha di mira una concezione del linguaggio come una forma di adattamento biologico, il punto in discussione è comprendere come mantenere insieme gli aspetti dell’attività del fenotipo con la selezione naturale. Considerazioni di questo tipo ci portano a porre una prima questione di carattere generale: quanto l’attività del fenotipo nell’evoluzione è davvero in contrasto con una visione fondata sull’operato della selezione naturale? 2.1. La simulazione del lamarckismo Per alcuni autori, il discorso sul ruolo attivo dell’organismo nel processo evolutivo presenta forti assonanze con la teoria di Lamarck. Il che è vero, anche se con una importante distinzione da fare: riproporre il ruolo del comportamento nell’evoluzione non significa, ovviamente, riproporre la tesi dell’ereditarietà dei caratteri acquisiti. Non abbiamo altro modo di dar conto dei processi evolutivi se non quello, delineato da Darwin, riferibile all’opera imprescindibile della selezione naturale: sostenere l’importanza del ruolo del comportamento nell’evoluzione significa, dunque, provare a mantenere insieme il grado di attività dell’organismo con l’operato della selezione naturale. Nella storia del pensiero evoluzionistico diversi modelli interpretativi hanno provato a percorrere una strada di questo genere (per una rassegna: Continenza, 1984; Gagliasso, 1984). Il punto comune a tali modelli è l’idea che il processo evolutivo sia interpretabile nei termini di una «simulazione» del lamarckismo governata dalla selezione naturale: l’«assimilazione genetica» 81

e l’«effetto Baldwin» (alla base della «selezione organica») si prestano ad esemplificare il punto. Utilizzando il concetto di «assimilazione genetica», Waddington (1959) ha proposto un modello interpretativo in grado di spiegare il passaggio dai caratteri acquisiti alle caratteristiche innate in termini di selezione naturale. Si tratta di una semplice «simulazione» del lamarckismo visto che, come sottolinea Continenza (2006), l’assimilazione genetica non può essere interpretata nei termini di un’azione diretta dell’ambiente sul fenotipo: Chiarendo di non voler affatto riabilitare l’idea di un’azione diretta dell’ambiente sul patrimonio ereditario (...), Waddington ritiene che ciò non equivalga a dover negare che i «caratteri acquisiti» esercitino un’influenza, anche importante, sulla direzione del mutamento evolutivo. Lo sviluppo del fenotipo costituisce, infatti, per Waddington, l’aspetto determinante per risalire ad una spiegazione del meccanismo che consente agli organismi di trasformarsi in modo adattativo e tale sviluppo dipende dall’esistenza di una variabilità genetica della capacità degli organismi di adattarsi a nuovi stress ambientali e dal fatto che questa variabilità venga opportunamente utilizzata dalla selezione naturale. Si tratta del processo dell’assimilazione genetica, in base al quale la selezione produce genotipi che modificano lo sviluppo a seconda dei particolari stress ambientali e di cui Waddington avrebbe cercato conferma nei vari esperimenti condotti su diversi ceppi di Drosophila (ivi, p. 38).

Che l’assimilazione genetica sia soltanto una «simulazione» del lamarckismo, d’altra parte, è scritto a chiare lettere dallo stesso Waddington (1961), secondo il quale il risultato totale del processo evolutivo imita «con la massima precisione gli effetti attribuiti a una diretta ereditarietà dei caratteri acquisiti, anche se il meccanismo da cui il risultato stesso è stato prodotto dipende da processi strettamente genetici ed è del tutto diverso dai fatti abitualmente visualizzati da quanti credono ancora nell’ipotesi lamarckiana» (ivi, trad. it. p. 401). 82

Ma l’aspetto che più ci preme rilevare di queste forme di simulazione del lamarckismo in un’ottica darwiniana è espresso dal concetto di «selezione organica» di Baldwin (1896): un fenomeno perfettamente interpretabile nella concezione dell’adattamento come un processo legato allo sforzo messo in atto dal fenotipo nel tentativo di riequilibrarsi con l’ambiente. Tutto sommato, l’idea è semplice; quando l’ambiente muta gli organismi non attendono passivamente che il proprio destino si compia: lottano con tutte le forze pur di mantenersi in vita (scappano dall’ambiente ostile, tanto per dirne una). La chiave dell’effetto Baldwin è che la lotta degli organismi per «mantenersi in vita» ha effetti non solo sul fenotipo, ma anche nel direzionare i cambiamenti al livello del genotipo. Così riassume il punto Continenza (2006): In breve, secondo tale tesi, modificazioni insorte lungo l’arco di vita degli organismi, laddove vantaggiose per la loro sopravvivenza, preserverebbero gli individui fino al momento in cui intervengono variazioni genetiche «coincidenti» con le modificazioni ontogenetiche acquisite, ma non da queste suscitate o direzionate, che, a questo punto, potrebbero essere rapidamente sottoposte all’azione della selezione naturale, divenendo ereditarie. La «selezione organica» (...) garantirebbe di fatto una direzionalità all’evoluzione – in ogni caso ratificata dalla selezione naturale – attenuando, proprio attraverso il riconoscimento di un ruolo attivo giocato dal comportamento degli organismi nel processo evolutivo, la concezione esclusivamente casualistica della variazione propria del (neo)-darwinismo (ivi, p. 39).

Sopravvivere in un ambiente è sopravvivere in una nicchia ecologica in cui operano specifiche spinte selettive; se la sopravvivenza dell’organismo è legata a certe strategie fenotipiche (in risposta alle sollecitazioni ambientali) è probabile che tali strategie forniscano un punto di appoggio alle variazioni su cui agirà la selezione naturale. Una conseguenza rilevante di questo fatto riguarda il fattore di accelerazione evolutiva messo in atto dalla direzionalità 83

non teleologica implicita in un quadro del genere (Ferretti, 2009b). La possibilità di una correlazione tra accomodamento individuale e cambiamento genetico ha anche un’altra importante conseguenza: chiama in causa una diversa nozione di «ambiente» rispetto a quella avanzata dai fautori dell’adattazionismo. In una prospettiva di questo tipo l’ambiente non è soltanto un’entità che preesiste all’organismo (cui l’organismo deve passivamente adattarsi), ma è anche il prodotto dell’attività organica dovuto alle continue trasformazioni messe in atto dagli organismi nella costruzione di specifiche «nicchie» ecologiche (Laland et al., 2000; Odling-Smee et al., 2003). Tutto bene, sin qui: abbiamo parlato delle caratteristiche generali che vedono l’adattamento nei termini di un equilibrio tra organismo e ambiente; abbiamo sostenuto che l’adattamento è questione che riguarda ogni singolo fenotipo, oltre che la specie in senso proprio; abbiamo sostenuto che l’attività fenotipica ha un ruolo nel direzionare gli adattamenti biologici governati dalla selezione naturale. Gli esseri umani, come tutti gli altri organismi, non sfuggono alla logica dell’equilibrio e dello sforzo di riequilibrio alla base di ogni forma di adattamento: tutte le attività comportamentali, sia quelle di tipo percettivo e motorio, sia quelle di ordine superiore come il ragionamento e il linguaggio, possono essere considerate casi di adattamento di questo tipo. A questo punto, però, la questione fondamentale diviene un’altra; per come è stata presentata sino a questo punto, la nozione di sforzo di equilibrio presta il fianco a una critica letale: una nozione del genere è talmente generale (include qualsiasi forma di adattamento) da risultare poco efficace sul piano esplicativo – una pianta che cerca di farsi strada tra le altre piante per raggiungere la luce è perfettamente interpretabile nei termini dell’idea di equilibrio con sforzo. Per capire come da una nozione così generale possano dipendere capacità estremamente sofisticate come il linguaggio umano, occorrono giustificazioni ulteriori. Il primo passo da fare ri84

guarda il modo peculiare attraverso cui gli umani guadagnano una relazione di equilibrio con l’ambiente: è necessario entrare nel dettaglio di quali siano gli specifici sistemi che gli umani utilizzano per costruire questa forma di equilibrio. Ed è a questo problema che rivolgeremo ora l’attenzione. 3. Il «Sistema Triadico di Radicamento e Proiezione» Ci sono molti modi per guadagnare un equilibrio adattativo. Qui ci interessa una doppia possibilità esibita dagli organismi: la possibilità di equilibrarsi all’ambiente attraverso risposte stereotipate (quelle cristallizzate nel genoma nel corso della filogenesi) e la possibilità di trovare un equilibrio rispondendo in modo flessibile alle difficoltà contingenti che ogni organismo incontra nel corso della propria vita (la possibilità di affrontare situazioni nuove o impreviste). Quando un organismo come il paramecio risponde alle sollecitazioni esterne, certamente mette in atto una forma di equilibrio con il proprio ambiente. Ma è un equilibrio poco interessante ai nostri fini: si tratta di una risposta automatica e standardizzata che non ammette alternative e che risponde selettivamente soltanto a uno stimolo determinato. Per quanto abbia guadagnato gli onori della cronaca filosofica (Fodor, 1986), il paramecio, va da sé, non è un buon esempio per studiare il comportamento umano: le condotte umane sono interpretabili in termini di grande flessibilità, il paramecio è un sistema rigido capace di rispondere soltanto in modo automatico, obbligato e involontario alle sollecitazioni ambientali. La distanza che separa un essere umano da un paramecio deve essere misurata, innanzitutto, a partire dalla imparagonabile flessibilità alla base dei nostri comportamenti. Ora, che cosa significa propriamente essere flessibili? In altre parole, che caratteristiche deve possedere un sistema per produrre comportamenti capaci di affrontare situazioni insolite o nuove? 85

Un’idea che, per la sua intuitività, riceve i favori maggiori dal senso comune è che un sistema è tanto più flessibile quante più risposte alternative al problema è in grado di generare (se la temperatura ambientale sale, è possibile togliersi la giacca, sventolarsi, accendere il condizionatore ecc.): un’idea di questo tipo pone l’accento sui molteplici e differenti modi di rispondere a una stessa situazione problematica. La possibilità di generare diverse alternative possibili alla soluzione di un problema è sicuramente un aspetto importante della flessibilità, ma non è l’aspetto dirimente; la differenza cruciale è data dalla capacità di «scegliere» la risposta appropriata tra le diverse opzioni possibili: senza una capacità di questo tipo, avere diverse alternative a disposizione può rivelarsi una difficoltà, piuttosto che un bene (non servono mille alternative al problema che si ha di fronte, basta un’unica soluzione, purché sia quella pertinente alla situazione). Ora, se la flessibilità di un sistema si misura in riferimento alla capacità di fornire la risposta appropriata alla situazione, ciò che emerge da questo discorso è che un sistema è realmente flessibile solo se è in grado di esibire una forma di «flessibilità contestualmente vincolata». Poiché al centro del nostro interesse è la questione della creatività del linguaggio e poiché tale capacità appare o indissolubilmente legata alla capacità di esprimersi in maniera appropriata (in modo coerente e consonante alla situazione), dar conto della creatività umana in termini di flessibilità vincolata al contesto avrà profonde ripercussioni sul tema dell’origine e del funzionamento del linguaggio. L’idea di una flessibilità contestualmente vincolata, in effetti, chiama in causa due capacità esibite nei comportamenti intelligenti di grande interesse ai nostri fini: la capacità di «ancoraggio» al contesto (la funzione che radica fortemente l’organismo alla situazione contestuale) e la capacità di «proiezione» dal contesto attuale a un contesto diverso (la funzione in grado di sganciare o di dissociare l’organismo dal qui e ora della situazione presente): ra86

dicamento e proiezione, come vedremo soprattutto nel prossimo capitolo, rappresentano le funzioni alla base dei comportamenti flessibilmente appropriati e dunque anche del parlare in modo appropriato. Detto questo, la prima mossa da fare per capire come un organismo possa ancorarsi all’ambiente è interrogarsi sulla natura dei dispositivi di elaborazione in grado di garantire il tipo di flessibilità richiesta per produrre comportamenti appropriati. La nostra idea è che, negli umani, i comportamenti flessibili siano legati a un macrosistema funzionale in grado di garantire operazioni di «radicamento» e «proiezione». Il funzionamento di tale macrosistema, che qui definiamo Sistema Triadico di Radicamento e Proiezione (STRP), è garantito da tre diversi sottosistemi di elaborazione: l’intelligenza ecologica (il sistema percettivo-motorio e i dispositivi legati alla rappresentazione dello spazio); l’intelligenza sociale (il sistema di lettura della mente adibito alla costruzione di uno spazio condiviso con gli altri organismi); l’intelligenza temporale (la capacità di viaggiare nel tempo alla base della costruzione della continuità esperienziale degli individui) (fig. 3.3). Come vedremo nel dettaglio nei prossimi paragrafi, per quanto i tre sottosistemi alla base dell’STRP siano dispositivi di elaborazione strutturalmente indipendenti e funzionalmente distinti, essi sono in grado di operare in modo congiunto rispondendo a caratteristiche funzionali comuni. Ai fini del nostro discorso, il punto da sottolineare è che le proprietà che caratterizzano l’operare congiunto dei tre sistemi di elaborazione (proprietà indirette) sono diverse dalle proprietà che caratterizzano il funzionamento di ogni singolo sistema preso isolatamente (proprietà dirette). Sia le proprietà dirette (la concettualizzazione del tempo, dello spazio e della socializzazione) sia quelle indirette (la proiezione e l’ancoraggio al mondo necessari per valutare l’appropriatezza del comportamento al contesto) hanno un ruolo nell’uso effettivo del linguaggio. In questo libro è la capacità del sistema triadico 87

Figura 3.3. Il Sistema Triadico di Radicamento e Proiezione.

di operare in modo congiunto ad interessarci maggiormente: l’operare convergente dei tre sottosistemi di elaborazione finalizzato alla produzione di comportamenti radicati al contesto (fisico, sociale e temporale). Prima di affrontare la questione decisiva dell’operare congiunto dei sottocomponenti del sistema triadico occorre spendere alcune parole per presentare singolarmente i tre sistemi di elaborazione e le loro specifiche funzioni cognitive. 3.1. Intelligenza ecologica Percepire il mondo e muoversi nell’ambiente fisico è la condizione di base del comportamento di qualsiasi organismo: tutti gli organismi sono radicati all’ambiente fisico in cui vivono e agiscono. Nella pro88

spettiva portata avanti in questo scritto, tutte le abilità cognitive tipiche della nostra specie (linguaggio incluso, ovviamente) dipendono dal fatto che gli esseri umani, come qualsiasi altro organismo, sono in primo luogo sistemi fisici ancorati all’ambiente in cui vivono. Ora, in un certo senso, il radicamento all’ambiente di ogni essere vivente dipende dal fatto che gli organismi occupano una certa porzione dello spazio per il semplice fatto di avere un corpo che occupa uno spazio (diversamente dagli angeli disincarnati, gli organismi sono radicati all’ambiente in via di principio); in un altro senso, tuttavia, il riferimento alla corporeità degli organismi non è un criterio sufficiente per dar conto della nozione di radicamento utile ai nostri scopi. Il passo ulteriore da fare è il riconoscimento del fatto che gli organismi non occupano semplicemente lo spazio in cui vivono: agiscono nell’ambiente e trasformano l’ambiente a cui sono inesorabilmente radicati. Il che significa che per interpretare in modo efficace il modo in cui un organismo è radicato all’ambiente è necessario mettere insieme le capacità di rappresentare lo spazio (quelle percettive, primariamente) con le abilità motorie. L’idea chiave della nozione di sforzo adattativo è esemplificata dal nesso inscindibile tra percezione e azione in una concezione trasformativa della realtà fisica in cui gli umani, come tutti gli altri organismi, vivono e agiscono (Jeannerod, 2006). Quando si ha di mira un’idea della cognizione fondata sul rapporto tra percezione e attività motoria, la prima cosa da fare è sgombrare il campo dalla concezione classica che considera il sistema motorio come un dispositivo adibito alla produzione-controllo del mero movimento: secondo tale concezione, in effetti, il sistema motorio rappresenta la parte esecutiva (meno nobile) dell’agire intenzionale che trova nei dispositivi percettivi e soprattutto in quelli cognitivi (più nobili) la sua origine causale effettiva. Le indagini sperimentali che più hanno contribuito alla revisione della concezione classica riguardano la scoperta del «sistema mirror» (Rizzolatti et al., 1996; Gallese et al., 89

1996). In riferimento a tale scoperta, Rizzolatti e Sinigaglia (2006) sostengono che i neuroni specchio sono alla base di un sistema interpretativo in grado di distinguere l’«agire» dal semplice «movimento». Da questo punto di vista, il sistema motorio può essere considerato un centro di elaborazione coinvolto nella produzione e nel riconoscimento di «atti» in senso proprio: noi umani non ci limitiamo a muovere il corpo (braccia, mani, bocca ecc.) ma raggiungiamo, afferriamo o mordiamo qualcosa. Scrivono i due autori: È in questi atti, in quanto atti e non meri movimenti, che prende corpo la nostra esperienza dell’ambiente che ci circonda e che le cose assumono per noi immediatamente significato. Lo stesso rigido confine tra processi percettivi, cognitivi e motori finisce per rivelarsi in gran parte artificioso: non solo la percezione appare immersa nella dinamica dell’azione, risultando più articolata e composita di come in passato è stata pensata, ma il cervello che agisce è anche e innanzitutto un cervello che comprende. Si tratta, come vedremo, di una comprensione pragmatica, preconcettuale e prelinguistica, e tuttavia non meno importante, poiché su di essa poggiano molte delle tanto celebrate capacità cognitive (ivi, p. 3).

A questa rivalutazione del sistema motorio fa da cornice una reinterpretazione delle capacità percettive: contro le ipotesi «contemplative» della percezione, viene oggi ripresa l’idea di Gibson (1979) secondo cui percepire è individuare le caratteristiche degli oggetti che fanno da «appigli» alle possibili azioni degli organismi su di essi. In una prospettiva di questo tipo, il manico di una tazzina da caffè, più che una forma di un certo tipo, è una parte di oggetto che si presta ad essere afferrata: il manico della tazzina funge, in effetti, «come un polo d’atto virtuale, che per la sua natura relazionale definisce ed è insieme definito dal pattern motorio che viene attivato» (Rizzolatti e Sinigaglia, 2006, p. 47). In questa prospettiva, più che per le proprietà geometriche che lo caratterizzano, un oggetto è riconosciuto per le «opportunità pratiche che l’oggetto (...) offre 90

all’organismo che lo percepisce» (ivi, p. 35). Attività motoria e percezione sono connesse inestricabilmente; non è un caso, allora, che Rizzolatti e Sinigaglia trovino nelle parole di George Herbert Mead, «vediamo perché agiamo, e possiamo agire proprio perché vediamo», una conferma all’idea secondo cui «il vedere che guida la mano è anche, se non soprattutto, un vedere con la mano, rispetto al quale l’oggetto percepito appare immediatamente codificato come un insieme determinato di ipotesi d’azione (ivi, pp. 4849). Fare appello a una concezione della percezione di questo tipo è un modo per sostenere che il riconoscimento degli oggetti è affidato a una rappresentazione «pragmatica» (il riconoscimento che un certo oggetto si presta ad essere afferrato in un certo modo), prima che a una rappresentazione «semantica» della realtà (il riconoscimento che nel caso specifico ad essere afferrata è una tazzina da caffè). Una concezione della percezione di questo tipo, in altre parole, spinge ad ipotizzare il primato della pragmatica sulla semantica: senza il riconoscimento pragmatico degli oggetti, quello semantico non potrebbe mai aver luogo. L’ipotesi per cui gli oggetti sono riconoscibili e dunque concettualizzabili per le opportunità pratiche che consentono, oltre a evidenziare il nesso inscindibile tra percezione e azione, sostanzia l’idea della percezione come un’attività in cui il soggetto si radica all’ambiente nel trasformarlo costantemente (percepire non è affacciarsi alla finestra per contemplare il mondo). Da questo punto di vista il nesso tra percezione e attività motoria non è confinato soltanto al riconoscimento di oggetti: il tema del radicamento percettivo-corporeo apre la strada a una più ampia ipotesi circa la questione della rappresentazione dello spazio in cui un organismo vive e agisce. Prima di dar conto della rappresentazione dello spazio come la condizione di base del radicamento di un organismo all’ambiente fisico, occorre fare una precisazione. La flessibilità comportamentale, come abbiamo sottolineato più volte, è una nozione strettamente dipendente dalla capacità degli organi91

smi di radicarsi al contesto; il ruolo di vincolo esercitato da tale forma di radicamento, tuttavia, rappresenta una condizione necessaria ma non sufficiente per dar conto delle capacità che ci contraddistinguono come organismi intelligenti: non saremmo i sistemi flessibili che siamo se non fossimo capaci di sganciarci dalla situazione effettiva per proiettarci in situazioni contestuali alternative a quella attuale. La possibilità di «decentramento» affidata alle continue proiezioni dalla situazione attuale a situazioni, reali o possibili, distanti nello spazio e nel tempo è parte costitutiva della nostra capacità di ancorarci (flessibilmente) all’ambiente in cui viviamo e agiamo. Il problema della localizzazione di oggetti e la rappresentazione dei movimenti relativi agli oggetti nello spazio si prestano ad esemplificare la questione. Da un punto di vista cognitivo, la posizione degli oggetti nell’ambiente è sempre connessa all’organismo che li percepisce e che si muove nello spazio: la localizzazione di un oggetto nel mondo è relativa a un sistema di assi di riferimento di cui il soggetto percipiente è l’origine e il punto di convergenza. Per fare l’esempio tratto da Landau (2002), la localizzazione della mela sul tavolo è relativa alla posizione dell’osservatore. Nello specifico, come è facilmente constatabile osservando la figura 3.4, la mela è di fronte all’osservatore A in una cornice di riferimento centrata sulla retina; è alla sua destra in una cornice di riferimento centrata sulla testa o sul corpo; ed è nella parte sinistra del tavolo se si prende a riferimento il punto di vista dell’osservatore. La situazione cambia radicalmente se si guarda la mela mettendosi nei panni degli osservatori B o C. Così come cambia se si prende come punto di riferimento un sistema centrato sulla stanza o l’edificio in cui si trova l’osservatore, o la posizione dell’asse terrestre o il nord magnetico. Il punto chiave di tutte queste possibilità è nella relazione di complementarità tra capacità di proiezione e di radicamento: in casi di questo tipo, in effetti, emerge con chiarezza quanto le capacità di radicamento dei sistemi più in92

Osservatore B

O

N

S

E

Osservatore C

Osservatore A

Centrato rispetto alla retina Centrato rispetto alla testa o al corpo Centrato rispetto al tavolo Centrato rispetto alle coordinate terrestri

Figura 3.4. La localizzazione degli oggetti nello spazio è relativa al sistema di riferimento (figura tratta da Landau, 2002, p. 399).

telligenti siano dipendenti dalle capacità proiettive di cui essi dispongono. Gli umani non sono radicati all’ambiente al modo delle piante o dei coralli; sono soggetti radicati flessibilmente all’ambiente perché sono capaci di sganciarsi dalla situazione attuale costruendo proiezioni alternative alla situazione effettiva: la dipendenza di ogni rappresentazione spaziale dal punto di vista prospettico dell’osservatore mostra con evidenza che i processi di radicamento dipendono tanto dalle percezioni effettive quanto dalle proiezioni immaginative possibili. Le capacità di proiezione alla base del decentramento sono di importanza chiave ai fini del nostro discorso: è solo facendo perno sulle proprietà di decentramento in effetti 93

che il soggetto può immaginare situazioni possibili distinte da quelle attuali (senza capacità di questo tipo il comportamento, per quanto ancorato, sarebbe inflessibile). Le possibilità di decentramento esemplificate nella figura mettono in luce che il soggetto può spostarsi mentalmente sul bordo del tavolo (o osservare la mela da uno spigolo del tavolo) oppure assumere il punto di vista del soggetto B che guarda la scena da una diversa angolazione. In quest’ultimo caso ad essere chiamata in causa è una capacità ulteriore rispetto a quella che governa i semplici spostamenti nello spazio: si tratta della capacità di guardare il mondo con gli occhi degli altri (come quando controlliamo se il nostro nascondiglio è visibile dalla posizione in cui si trova chi ci sta cercando). In un ambiente popolato da altri organismi oltre che dagli oggetti del mondo fisico, la proiezione nello spazio governata dall’intelligenza ecologica può essere considerata una prima tappa per entrare in relazione con quella parte di mondo composta dai nostri conspecifici. Un’operazione del genere apre la strada a un secondo componente del sistema triadico: l’intelligenza sociale. 3.2. Intelligenza sociale Tra le entità del mondo fisico con cui gli organismi entrano in relazione fanno bella mostra di sé gli altri organismi. Relazionarsi con altri organismi, tuttavia, è molto diverso dal relazionarsi con le entità inanimate del mondo fisico. L’abilità di gestire i rapporti (di cooperazione, di competizione, di caccia, di fuga ecc.) sia con gli organismi della stessa specie sia con quelli appartenenti ad altre specie è affidata a un tipo di intelligenza dotata di caratteristiche distinte da quella ecologica: l’intelligenza sociale. Cosa rende specifica questa intelligenza? La differenza tra il cogliere frutti da un albero, poniamo, e il competere per il cibo con un altro organismo è che questi si muove con finalità analoghe a quelle con cui si muove l’organismo che agisce. Per relazionarsi con gli altri individui serve, innanzitutto, la capacità di anticipare le mosse dell’altro; il ruolo del sistema nervoso nella gestio94

ne delle relazioni con gli altri individui emerge in tutta chiarezza, secondo Berthoz (1997), quando si considera il cervello una macchina essenzialmente deputata «a predire il futuro, ad anticipare le conseguenze dell’azione (la propria o quella degli altri), a guadagnare tempo» (ivi, trad. it. p. XI). Sviluppando l’idea che la relazione tra percezione e movimento rappresenti una via privilegiata per lo studio del sistema nervoso egli insiste sul fatto che per sopravvivere, l’animale ha spesso una sola chance, un solo colpo da giocare, che impegna i muscoli e la massa corporea in movimento. Per afferrare una preda che si muove a trentasei chilometri l’ora, ossia dieci metri ogni secondo, è necessario anticipare la sua posizione in meno di cento millesimi di secondo e dirigersi là dove essa sarà un istante dopo. Bisogna anche preparare il gesto della cattura, preparare i muscoli a compensare il suo peso e a vincerne la resistenza. Bisogna anticipare, indovinare, scommettere sul suo comportamento, bisogna costruirsi una «teoria della mente» indovinando quali potrebbero essere i tentativi di fuga di questa preda in funzione del contesto. Si tratta dunque di processi estremamente rapidi, fondamentalmente dinamici, nel corso dei quali tutto si gioca in qualche decina di millesimi di secondo. Il cervello è prima di tutto una macchina biologica con cui giocare d’anticipo (ivi, trad. it. p. XIII).

La macchina biologica con cui giocare d’anticipo è alla base dell’intelligenza sociale. Rispetto agli individui singoli, i gruppi risolvono molteplici problemi adattativi: essi fanno fronte ai pericoli in modo più efficiente (ciò che può sfuggire a un paio d’occhi, difficilmente sfugge a molti occhi); in secondo luogo il gruppo agisce da forza di dissuasione rispetto agli aggressori (i babbuini in gruppo sono in grado di attaccare e uccidere un leopardo). Tale considerazione apre la strada all’idea che impedimenti di questo tipo possano essere risolti soltanto da uno specifico tipo di intelligenza. Secondo Humphrey (1976) non è plausibile considerare l’evoluzione delle facoltà intellettive più alte dei primati sulla base del successo o del fallimento delle lo95

ro risposte alle sfide poste dall’ambiente fisico: le grandi scimmie, quelle più dotate sul piano intellettuale, sono anche quelle la cui relazione con l’ambiente esterno risulta essere meno problematica e stimolante. Per quale motivo allora i primati superiori sono così intelligenti? L’idea di Humphrey è che: «il ruolo primario dell’intelligenza creativa sia di mantenere insieme la società» (ivi, p. 307). È qui che emerge la vera funzione sociale dell’intelletto. La capacità di predire e controllare il comportamento degli altri organismi (utilizzandoli come mezzi per i propri fini) è sicuramente una delle sfide adattive più pressanti che i primati hanno dovuto affrontare nel corso della propria storia evolutiva. Byrne e Whiten (1988; Whiten e Byrne, 1997) hanno chiamato tale capacità «intelligenza machiavellica». L’abilità di anticipare le mosse dell’altro, in modo da intraprendere le giuste contromisure, è alla base dell’intelligenza sociale. Ora, esistono molti modi diversi di far fronte al problema dell’anticipazione: qual è lo strumento più sofisticato a questo fine? Per rispondere a questa domanda occorre prendere in esame gli animali sociali per eccellenza: gli esseri umani. Quali sono i dispositivi bio-cognitivi di cui gli umani si servono per entrare in relazione con gli altri? Lo strumento per eccellenza utilizzato nelle strategie interpretative tipiche delle faccende umane è il cosiddetto «atteggiamento intenzionale» (Dennett, 1978): un modo per interpretare i comportamenti in termini di causazione mentale. Per interpretare e anticipare il comportamento gli esseri umani, in effetti, attribuiscono stati mentali agli agenti: come quando sostengono che qualcuno si è comportato in un certo modo perché si trovava in un certo stato mentale (perché desiderava una certa cosa o ne credeva un’altra). Questa capacità di mentalizzare il comportamento (ovvero di considerare gli stati mentali cause dell’agire) è stata definita «Teoria della Mente» (ToM) da Premack e Woodruff (1978). In un articolo destinato a rimanere un punto di riferimento nell’etologia cognitiva, i due autori hanno sostenuto 96

che gli scimpanzé sono in grado di interpretare il comportamento degli altri attribuendo loro stati mentali. Per valutare tale capacità Premack e Woodruff mostrarono ad alcuni scimpanzé il video di un essere umano intento a recuperare un oggetto inaccessibile (del cibo agganciato in alto al soffitto) e chiesero alla scimmia di completare la sequenza di azioni (bloccata sullo schermo prima che il soggetto riuscisse nel suo intento) necessaria al raggiungimento del risultato. Due le interpretazioni di maggior conto delle evidenze sperimentali. La prima è di stampo associazionista: la scimmia completa la sequenza di azioni utilizzando le sequenze comportamentali già messe in atto nella soluzione di quel tipo di compito in passato. La difficoltà di un’ipotesi di questo tipo è che funziona con i comportamenti già conosciuti, ma non regge di fronte alla prova dei comportamenti nuovi. La seconda interpretazione, quella sostenuta da Premack e Woodruff, fa leva sulla teoria della mente, vale a dire sull’idea che lo scimpanzé risolve il problema che ha di fronte attribuendo stati mentali all’agente: la scimmia, in altre parole, « dà senso a ciò che vede assumendo che l’attore umano voglia la banana e si stia dando da fare per raggiungerla» (ivi, p. 518). In una seconda serie di esperimenti, in cui era in gioco una nozione più astratta del problema, i risultati empirici hanno mostrato in modo ancora più convincente la validità dell’ipotesi interpretativa dei due autori. Più che in relazione alla domanda: «Cosa sa del mondo uno scimpanzé?», i risultati sperimentali relativi al comportamento della scimmia erano meglio interpretabili nei termini della domanda: «Cosa sa il soggetto circa ciò che qualcun altro conosce (ipotizza, crede, pensa ecc.) del mondo?» (ivi, p. 522). Non è qui il caso di entrare nei dettagli della questione se sia davvero un dispositivo come ToM alla base della lettura della mente necessaria a interpretare i comportamenti in termini di stati intenzionali. Ai nostri fini è importante ricordare la distinzione tra due modelli (o, per meglio dire, due famiglie di modelli) che continuano a canalizza97

re l’attenzione degli studiosi: la «teoria della teoria» e l’ipotesi «simulazionista» (per delle rassegne sull’argomento cfr. Meini, 2007; Marraffa e Meini, 2006). La «teoria della teoria» si caratterizza come una vera e propria teoria del funzionamento della mente: il senso comune comprende il comportamento (proprio e altrui) utilizzando una serie di conoscenze circa i rapporti causali tra stati mentali e azione e la «teoria della teoria» è la dottrina scientifica della concezione ingenua della mente utilizzata dal senso comune. Il modello alternativo è la «teoria della simulazione», secondo la quale l’attribuzione di stati mentali a qualcuno dipende dal fatto che l’interprete si pone nella prospettiva di chi agisce vedendosi agire al suo posto. Diversamente da quanto avviene per la «teoria della teoria» (che esalta il punto di vista in terza persona), l’ipotesi simulazionista fa affidamento sulla preminenza della prospettiva in prima persona (è il soggetto che simula il protagonista dell’esperienza simulata). La «teoria della teoria» esalta inoltre le capacità rappresentazionali di alto livello degli individui: per interpretare il comportamento attribuendo in modo esplicito credenze (desideri, speranze ecc.) all’agente si deve disporre di un sistema in grado di produrre credenze sulla credenza (il desiderio, la speranza ecc.) di chi agisce. La credenza di una credenza è una rappresentazione di un’altra rappresentazione, ovvero una metarappresentazione. Un modello del genere – che chiama in causa il linguaggio o le strutture rappresentazionali del Linguaggio del Pensiero (Fodor, 1975) – è stato fortemente criticato sul piano della plausibilità evoluzionistica: secondo Gallese (2004), facendo esclusivo riferimento a una concezione top-down della cognizione, la teoria della teoria segna un Rubicone mentale tra le capacità di lettura della mente umane e quelle degli altri animali. Nella prospettiva simulazionista, al contrario, le capacità rappresentazionali di alto livello passano in secondo piano (quando non vengono escluse del tutto come nel caso delle ipotesi più radicali, cfr. Gordon, 1986). Essendo molto più vicina 98

agli schemi motori e alla capacità di pianificazione delle azioni che alla capacità di produrre inferenze, la prospettiva simulazionista sembra offrire un modello interpretativo garantito dal basso (bottom-up) fortemente plausibile sul piano evolutivo. Non è qui il caso di entrare nei particolari di un dibattito sulla capacità di lettura della mente che a partire dall’articolo di Premack e Woodruff (1978) ha dato avvio a una serrata discussione circa la natura e i dispositivi cognitivi che ne sarebbero a fondamento: ciò che qui è sufficiente ricordare è che mentre i modelli che fanno riferimento alla teoria della teoria si rilevano particolarmente fecondi ai fini di spiegare i comportamenti umani in cui è necessario mettere in campo diversi livelli rappresentazionali, i modelli che si ispirano alla teoria simulazionista si prestano meglio a dar conto delle condizioni evolutive di base della nostra intelligenza sociale. Due cose da dire a questo proposito. La prima è che sono oggi disponibili modelli di mediazione in cui le due diverse opzioni interpretative non sono considerate mutualmente escludentesi (Goldman, 2006). In tali modelli, i componenti simulativi sono considerati come l’antecedente evolutivo dei dispositivi di elaborazione alla base della prospettiva in terza persona: in una concezione di questo tipo la capacità di rappresentare gli stati mentali degli altri in termini metarappresentazionali può essere considerata una evoluzione particolarmente feconda dovuta all’avvento del linguaggio (de Villiers, 2000). La seconda cosa da dire è che considerare le capacità di lettura della mente nei termini di dispositivi che, essendo il prodotto di distinte fasi evolutive, lavorano a livelli diversi di elaborazione ci permette di sottolineare il passaggio da uno stadio originario di indifferenziazione tra il sé e l’altro (in cui predominano i dispositivi di radicamento) a successive fasi di decentramento attraverso le quali il soggetto guadagna una propria unità e differenziazione rispetto al contesto fisico e sociale in cui è immerso (in cui predominano i dispositivi di proiezione). Aderendo a una con99

cezione del genere, in altre parole, è possibile dar conto degli aspetti di radicamento e proiezione a fondamento dell’intelligenza sociale in una prospettiva unitaria e continuista. Lo stato iniziale, legato a una sostanziale indifferenziazione del sé dagli altri sé (lo spazio «noi-centrico» di cui parla Gallese, 2003), potrebbe essere considerato nei termini di una forma originaria di radicamento; le capacità immaginative alla base della proiezione nel punto di vista dell’altro una prima fase di decentramento; e la prospettiva in terza persona (tipica della teoria della mente che utilizza simboli astratti e arbitrari) come la situazione più radicale di decentramento. Il rapporto tra ancoraggio e decentramento è di fondamentale importanza ai nostri fini: radicamento e proiezione rappresentano infatti le due proprietà alla base della capacità di garantire la «flessibilità vincolata al contesto» caratterizzante il comportamento umano. Senza la possibilità di essere radicate al contesto le azioni umane non potrebbero mai essere appropriate; senza la capacità di sganciare l’agire dalla situazione effettiva gli umani non potrebbero accedere a mondi diversi da quello attuale, limitando fortemente la flessibilità comportamentale che li caratterizza. Il dato più rilevante da evidenziare a conclusione di queste considerazioni sulla relazione di stretta interdipendenza tra radicamento e proiezione è che negli umani e nei sistemi cognitivi più evoluti le condizioni di radicamento sono il portato delle capacità di proiezione. Il dispositivo principe delle capacità proiettive umane è il Mental Time Travel: con questo dispositivo si entra nel dominio dell’intelligenza temporale. 3.3. Intelligenza temporale1 Nel paragrafo precedente abbiamo discusso l’idea che il cervello possa essere descritto 1 Nella stesura di questo paragrafo mi sono avvalso della consulenza di Erica Cosentino, che ringrazio per l’aiuto prestatomi.

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come un «organo per anticipare il futuro» – in particolare, abbiamo messo in luce il ruolo svolto dai meccanismi dell’intelligenza sociale nella realizzazione di una funzione di questo tipo. In questo paragrafo, è di nuovo in esame la nozione di anticipazione per mostrare il ruolo specifico svolto da un altro tipo di intelligenza, quella temporale. Una considerazione preliminare di carattere generale è che la sopravvivenza degli organismi è legata alla loro capacità di anticipare il futuro. A un livello di base, una condizione del radicamento dell’organismo all’ambiente fisico è la capacità di prevedere quali mutamenti ambientali potrebbero essere letali: è comprensibile, dunque, che l’evoluzione abbia distribuito diffusamente nel regno animale diverse tipologie di meccanismi di anticipazione che rispondono a un’esigenza di questo tipo, come per esempio la migrazione e l’ibernazione. Tuttavia, sistemi come questi sono alla base di forme rigide di radicamento che consentono all’organismo di rispondere in modo adeguato a certe condizioni ambientali, ma che, mancando di flessibilità, lo lasciano impreparato di fronte a situazioni che presentano un grado maggiore di instabilità e irregolarità. Nel caso degli animali sociali il quadro si complica: l’esigenza di includere nelle proprie anticipazioni anche gli altri organismi, oltre all’ambiente fisico, esalta le condizioni di imprevedibilità che innescano l’evoluzione di meccanismi anticipatori più flessibili. Ora, il punto interessante ai nostri fini è che la flessibilità sembra essere, almeno in parte, una funzione del grado di proiezione esibito dai meccanismi di anticipazione. Ne consegue che un meccanismo fortemente proiettivo sarà anche quello che esibisce un livello di flessibilità più alto: l’evoluzione dell’intelligenza temporale rispecchia esattamente uno schema di questo tipo. Suddendorf e Corballis (2007) hanno elaborato una tassonomia dei sistemi di proiezione nel futuro correlata alla tassonomia dei diversi sistemi della memoria. Al gradino più basso si trovano i sistemi della memoria implicita, cui sono correlate forme di anticipazione del futuro estre101

mamente rigide, come quelle basate sul priming (l’effetto di facilitazione nel riconoscimento di uno stimolo già presentato in precedenza) o sul condizionamento classico. È da notare che, diversamente dai meccanismi come la migrazione o l’ibernazione, inscritti nel genoma dell’intera specie, le anticipazioni basate sulla memoria implicita sono adattamenti fenotipici che riguardano il singolo organismo e le strategie comportamentali che questi acquisisce nel corso della sua esperienza. Il livello intermedio della tassonomia è caratterizzato dal sistema della cosiddetta memoria semantica, che riguarda la conoscenza delle caratteristiche stabili e regolari dell’ambiente: sulla base di questo sistema è possibile fare anticipazioni del futuro basate sul ragionamento analogico o sulla conoscenza di script (per esempio, come comportarsi al ristorante). Si tratta anche in questo caso di forme anticipatorie ampiamente distribuite nel mondo animale: sebbene solo poche specie siano capaci di «dichiarare» le proprie conoscenze sull’ambiente circostante, infatti, molte altre sono capaci di richiamare top-down tali conoscenze quando occorre. Quando l’organismo è posto di fronte a situazioni impreviste, che esibiscono un grado maggiore di novità, tuttavia, l’operato dei sistemi finora descritti può rivelarsi insufficiente; in particolare, l’anticipazione del futuro basata su meccanismi semantici (fondata comunque su un forte grado di regolarità) deve lasciare il posto a meccanismi di anticipazione in grado di mettere in atto una vera e propria proiezione mentale nel futuro. Un sistema di questo tipo non ha a che fare con la conoscenza di fatti astratti e impersonali (come sapere che un certo cibo è velenoso), ma con la costruzione di eventi specifici che portano il segno inconfondibile del punto di vista prospettico di colui che immagina lo scenario (come ricordare gli effetti dell’intossicazione prodotta dall’assunzione di un cibo velenoso). Solo in quest’ultimo caso è chiamata in causa l’intelligenza temporale, visto che, come affermano Suddendorf e Corballis (2007), «la ricostruzio102

ne mentale di eventi passati e la costruzione di eventi futuri può essere all’origine del concetto stesso di tempo e della comprensione di una continuità tra passato e futuro» (ivi, p. 301). Diversamente da un fatto, in effetti, un evento ha una collocazione temporale precisa (anche se a volte non siamo in grado di determinare con precisione quando un certo evento ha avuto luogo, nondimeno sappiamo che per quell’evento esiste una collocazione specifica nel nostro passato) e il soggetto che lo ricostruisce mentalmente assume un preciso punto di vista temporale rispetto all’evento simulato, collocandolo nel proprio passato o nel proprio futuro. La facoltà mentale che permette di decentrare il proprio punto di vista temporale e rivisitare il passato o simulare, anticipandolo, il futuro, è stata definita Mental Time Travel (MTT). Il fulcro di tale facoltà è il sistema della memoria episodica (Tulving, 1972; 1983), tuttavia, come emerge da quanto appena detto, la funzione di proiezione nel passato è sussidiaria della proiezione nel futuro. In altre parole, l’evoluzione della capacità di viaggiare mentalmente nel tempo rievocando eventi unici del proprio passato non serve tanto a fornire informazioni dettagliate sul passato di per sé, ma piuttosto a procurare informazioni particolari per costruire simulazioni di ciò che potrebbe accadere in futuro. A sostegno di questa interpretazione, Schacter e Addis (2007) sostengono che la memoria episodica non rende un buon servizio nel fornire dei resoconti esatti di cosa è accaduto in passato: i ricordi sono spesso imprecisi e comunemente sono soggetti a un gran numero di distorsioni (si pensi al falso riconoscimento, cioè alla convinzione, illusoria, di avere già incontrato qualcuno o di avere già avuto a che fare con qualcosa). Le distorsioni sono così comuni e pervasive che, secondo i due autori, non è possibile interpretarle come un malfunzionamento del sistema; esse rappresentano, al contrario, un buon modo di interrogarsi sulla natura della memoria episodica e sulla sua funzione adattativa. Ciò che le distorsioni mettono in luce è che la memoria episodica dà 103

vita a processi di costruzione degli scenari passati e non alla loro semplice ripetizione; la costruzione di eventi, d’altra parte, è un processo infinitamente creativo: combinando e ricombinando «pezzi» di esperienze precedenti è possibile dare vita a un numero pressoché illimitato di simulazioni dettagliate di potenziali scenari futuri. Il punto da sottolineare è che l’MTT è il dispositivo di anticipazione del futuro più flessibile di cui disponiamo e che, cosa ancora più importante ai nostri fini, la flessibilità di tale sistema dipende dalla natura fortemente proiettiva delle sue rappresentazioni. Decentrando il punto di vista del soggetto e proiettandolo in contesti temporalmente distanti da quello attuale, l’MTT conferisce all’organismo la possibilità di guadagnare forme sofisticate di radicamento all’ambiente, cioè di guadagnare quella forma di «flessibilità vincolata al contesto» che in questo libro abbiamo posto a fondamento dell’agire in modo appropriato. Da un punto di vista evolutivo, una questione interessante è stabilire se anche altri animali possiedano forme di intelligenza temporale così flessibili. Fino a non molto tempo fa la risposta a questa domanda era un secco «no». Il progresso degli studi comparativi, tuttavia, invita oggi a una maggiore cautela. Clayton e colleghi (Raby et al., 2007; Correia et al., 2007) hanno condotto un’analisi particolareggiata della capacità per l’MTT nelle ghiandaie, una specie di volatili appartenente alla famiglia dei corvidi. Le ghiandaie sembrano capaci di anticipare se il giorno dopo riceveranno o meno la «colazione» e di pianificare in anticipo le strategie per far fronte a un potenziale digiuno. Naturalmente è noto già da tempo che alcuni animali possono far fronte all’esigenza di procurarsi il cibo pianificando in vario modo le loro attività: per esempio, tra le scimmie antropomorfe è diffusa la pratica di usare ramoscelli o fili d’erba per la pesca delle termiti (McGrew, 1992). La novità degli studi del gruppo della Clayton è che gli sperimentatori sembrano aver scoperto che tali strategie non sono necessariamente vincola104

te allo stato motivazionale attualmente esperito dall’animale: le ghiandaie nascondono provviste nel luogo in cui si aspettano di non ricevere cibo il giorno dopo anche se, al momento in cui è concesso loro di nasconderlo, sono sazie. Sembra quindi che anticipino un bisogno che avvertiranno solo in futuro, come fanno gli esseri umani quando vanno a fare la spesa anche se hanno appena pranzato. Può darsi che il dominio in cui si estendono le capacità anticipatorie delle ghiandaie sia limitato alla nutrizione e che, dunque, una prova convincente della loro capacità per l’MTT richieda ulteriori verifiche estese anche ad altri ambiti. Tuttavia, se spostiamo lo sguardo su un altro ramo evolutivo, quello delle antropomorfe, possiamo trovare esempi di intelligenza temporale diffusi tra domini cognitivi diversi. Alcuni comportamenti delle antropomorfe sembrano fortemente premeditati, come quello di uno scimpanzé intento a mettere da parte piccoli oggetti da utilizzare in seguito, all’occorrenza, come proiettili da scagliare contro gli invadenti osservatori umani (Osvath, 2009). Ancora, le antropomorfe, diversamente dalle scimmie, scelgono saggiamente di aspettare per ricevere una ricompensa se sono obbligate a scegliere tra una piccola gratificazione immediata e una ricompensa maggiore ma differita nel tempo (Rosati et al., 2007). Un aspetto interessante per l’analisi comparativa dell’MTT è che i comportamenti che dipendono dalla capacità di dissociarsi dal presente e proiettarsi all’interno di uno scenario mentale passato o futuro esibiscono la proprietà più generale di essere sganciati dal contesto percettivo immediato e confrontati con simulazioni di scenari mentali o «mondi possibili» alternativi. Una proprietà di questo tipo costituisce il nucleo centrale intorno al quale si sviluppano diverse capacità proiettive, legate oltre che all’intelligenza temporale anche all’intelligenza sociale (l’inganno, l’empatia, l’imitazione) e a quella ecologica (il ragionamento mezzi-fini, la comprensione della permanenza dell’oggetto, l’insight). Secondo Sud105

dendorf e Whiten (2001), le antropomorfe manifestano comportamenti che rivelano capacità di decentramento e proiezione a ciascuno di questi domini di riferimento. L’analisi dei livelli intermedi di tali competenze può essere intesa nei termini delle successive fasi di decentramento attraverso le quali il soggetto guadagna la capacità di differenziare gli eventi fisici e sociali in cui è immerso e di legarli insieme formando un senso di continuità temporale. Da ciò è possibile concludere che i nostri parenti primati mettono in atto comportamenti che, essendo il prodotto di menti che si proiettano nel tempo, nello spazio e nella prospettiva altrui, costituiscono i precursori evolutivi dei comportamenti flessibilmente vincolati, tipici della mente umana, che ci interessano in questo libro. Nel corso dell’evoluzione umana, il dispositivo alla base dell’intelligenza temporale è stato ulteriormente affinato dalle pressioni selettive tipiche dell’ambiente umano. In particolare, secondo Osvath e Gärdenfors (2005), l’ambiente della savana ha contribuito in vari modi alla creazione di una nicchia ecologica caratterizzata dalla cognizione anticipatoria – imponendo, per esempio, l’esigenza di portare con sé i probabili strumenti da utilizzare come armi contro potenziali predatori. Questa interpretazione si accorda bene con l’enfasi attribuita da Alexander (1990) e altri (Flinn et al., 2005) alla nozione di scenario-building. Secondo tali studiosi, le pressioni selettive alla base dell’evoluzione dell’intelligenza umana hanno a che fare in modo centrale con l’anticipazione del futuro; tale esigenza ha prodotto un sistema capace di costruire scenari mentali che hanno una caratteristica peculiare. Come sottolineano Flinn e colleghi (2005): Il sistema colloca l’individuo autoconsapevole al centro di una costruzione o ricostruzione simulata del mondo sociale o ecologico e, cosa ancora più importante, permette all’individuo di controllare i risultati in questo mondo. L’uso di tale simulazione richiede, necessariamente, l’abilità di viaggiare mental-

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mente nel tempo, sia nel passato per ricostruire un episodio, sia nel futuro per simulare le strategie comportamentali da adottare per produrre cambiamenti nel mondo (ivi, p. 34).

La costruzione di scenari coinvolge quindi la capacità di proiezione dal contesto attuale allo scenario simulato: un dispositivo fortemente prospettico come l’MTT svolge un ruolo di primo piano nella costruzione delle simulazioni coinvolte in casi di questo tipo. A tale proposito, due cose meritano di essere sottolineate: la prima riguarda l’efficacia di tali simulazioni prospettiche ai fini di produrre risultati nel contesto attuale e, quindi, di permettere all’organismo di guadagnare, per mezzo della proiezione, una forma più flessibile di radicamento all’ambiente; la seconda cosa da sottolineare riguarda il fatto che gli scenari simulati, oltre alla rappresentazione prospettica del tempo, coinvolgono immancabilmente anche le rappresentazioni relative al mondo fisico e a quello sociale e, quindi, chiamano in causa il funzionamento congiunto dell’intelligenza temporale, ecologica e sociale. È giunto il momento di considerare nel dettaglio come i tre diversi tipi di intelligenza alla base del sistema triadico possano lavorare in modo congiunto per costruire la flessibilità e appropriatezza tipiche del comportamento degli esseri umani. 4. Ancoraggio, proiezione e flessibilità Gli esseri umani non sono semplicemente ancorati all’ambiente che li circonda: sono ancorati flessibilmente all’ambiente che li circonda. I sistemi intelligenti, quelli in grado di produrre risposte appropriate al contesto, come abbiamo sostenuto, sono tali perché sono in grado di mettere in atto quel particolare tipo di elasticità comportamentale cui abbiamo fatto riferimento nei termini di una «flessibilità vincolata al contesto». Una capacità del genere è il carattere distintivo dei sistemi cognitivi in grado di trovare il 107

giusto equilibrio tra ancoraggio (radicamento) e dissociazione (proiezione) al fine di produrre risposte flessibili e creative ai problemi in cui incorrono. L’analisi dei tre sistemi di elaborazione alla base dell’STRP ha mostrato che la flessibilità vincolata che ne caratterizza il funzionamento dipende da una duplice opportunità: il vincolo imposto dal particolare dominio cognitivo proprio di ogni sottocomponente del sistema triadico; il vincolo imposto dal modo di operare congiunto dei tre sottocomponenti cognitivi – la possibilità di considerare il sistema triadico come un sistema unitario dal punto di vista funzionale. È questa seconda opportunità quella di maggior rilievo per indagare la flessibilità e l’appropriatezza dell’agire umano: la nostra idea è che la capacità, tipica degli umani, di rispondere in modo flessibile e appropriato alle sollecitazioni dell’ambiente fisico e sociale dipenda da una forma di «radicamento incrociato» – ovvero dal fatto che i sottocomponenti dell’STRP siano in grado di convergere verso un ruolo funzionale comune. Il radicamento al contesto necessario per il comportamento flessibile e creativo è il risultato di un’attività di controllo incrociato tra i sottocomponenti del sistema triadico: la convergenza delle informazioni provenienti dai diversi sistemi di elaborazione contribuisce a una valutazione più efficace in termini di appropriatezza contestuale. Facciamo un caso semplice: 1. L’organismo A è alle prese con la ricerca di cibo in un ambiente determinato; 2. L’organismo A è alle prese con la ricerca di cibo in un ambiente determinato in cui c’è anche l’organismo B alle prese con la ricerca di cibo. Il caso 2 si caratterizza (rispetto al caso 1) per l’attivazione congiunta di due diversi sistemi di elaborazione: quello sociale e quello ecologico. L’attività congiunta di tali sottocomponenti (distinti ma funzionalmente convergenti 108

rispetto al compito in esame) amplifica considerevolmente il contesto di riferimento vincolando in maniera più articolata la scelta da intraprendere. Come è facile intuire, una cosa analoga vale anche nel caso in cui viene chiamato in causa il sistema in grado di mettere in relazione gli eventi passati con le proiezioni nel futuro (intelligenza temporale). È la possibilità dei componenti dell’STRP di operare in maniera congiunta ciò che spiega quella flessibilità ancorata al contesto capace di spiegare l’appropriatezza comportamentale. Più nello specifico, sono le funzioni di radicamento e proiezione (condivise da ogni sottocomponente dell’STRP) a conferire unità al macrosistema attraverso cui un individuo è continuamente ancorato all’ambiente fisico e sociale. Un’ultima considerazione, prima di concludere. Per quanto radicamento e proiezione siano due facce della stessa medaglia, evolutivamente parlando è possibile sostenere che i dispositivi alla base del radicamento comportamentale abbiano una priorità su quelli di proiezione. Si tratta in effetti di due capacità funzionali asimmetriche: tutti i sistemi cognitivi in grado di proiezione poggiano su capacità di radicamento (il radicamento è una conseguenza diretta della corporeità), ma non tutti i sistemi capaci di radicamento sono in grado di proiezione. La proiezione è sempre dipendente dal radicamento: proiettarsi è sempre uno sganciarsi da qualcosa a cui si era ancorati per proiettarsi su qualcos’altro. Detto questo, il fatto più rilevante ai nostri fini è che negli organismi cognitivamente più complessi, l’ancoraggio al mondo è strettamente dipendente dalla funzione di proiezione: senza tale dipendenza, in effetti, sarebbe impossibile dar conto del radicamento in modo flessibile al contesto necessario per rispondere in modo appropriato alle sollecitazioni ambientali. Dal punto di vista dei processi di elaborazione implicati, dire che la flessibilità alla base della plasticità comportamentale dipende dalla complementarità funzionale di radicamento e proiezione equivale a dire che nell’STRP convergono dispositi109

vi cognitivi accomunati da un intento funzionale comune. Abbiamo prove empiriche a sostegno di questa ipotesi? Buckner e Carroll (2007) hanno dato prova della convergenza funzionale e strutturale dei tre sistemi di elaborazione coinvolti nel sistema triadico esaltando il loro carattere eminentemente proiettivo. La tesi dei due autori è di verificare sperimentalmente La possibilità speculativa che un network cerebrale centrale supporti molteplici forme di auto-proiezione. Il pensiero sul futuro, il ricordo degli eventi del passato, la possibilità di concepire la prospettiva altrui (teoria della mente) e la navigazione nello spazio impiegano questo network, e ciò indica che tali capacità dipendono da modalità di elaborazione simili e da sistemi cerebrali in grado di sorreggere la percezione da punti di vista alternativi. Forse queste capacità, tradizionalmente considerate distinte, vengono comprese meglio se considerate come parti di una più ampia funzione in grado di gestire forme flessibili di auto-proiezione (ivi, p. 55).

Per quanto elaborino tipi di informazione molto diversi, i tre sistemi cognitivi trovano un punto di convergenza nella capacità di sganciare l’organismo dalla situazione attuale per proiettarlo in situazioni alternative nello spazio, nel tempo e nell’ambiente sociale. Tale convergenza è testimoniata dall’operare congiunto dei sottocomponenti implicati in vari compiti cognitivi: la capacità di rappresentare lo spazio è molto spesso collegata alla capacità di rappresentare il tempo; la capacità di attribuire stati intenzionali guardando il mondo con gli occhi degli altri, come vuole la teoria simulazionista, comporta anche necessariamente una dislocazione spaziale. Sul piano anatomico, le comunanze funzionali di tali sistemi di elaborazione poggiano su aree cerebrali comuni (nello specifico, i lobi frontali e il lobo mediale temporale-parietale). L’ipotesi della convergenza funzionale e strutturale di un macrosistema di questo tipo è stata confermata empiricamente anche da Spreng e collaboratori (2009). 110

Trovare un riscontro empirico all’idea che i sottocomponenti del sistema triadico convergano funzionalmente in compiti in cui la flessibilità comportamentale è affidata alla possibilità proiettiva dei sistemi implicati è di grande importanza ai nostri fini. Con un risultato del genere appare giustificato sostenere che il «sistema triadico di radicamento e proiezione» è il dispositivo che governa la produzione dei comportamenti flessibilmente appropriati. Considerazioni di questo tipo ci portano a compiere l’ultimo passo del nostro lavoro: prendere in esame il tema dell’origine del linguaggio e del suo funzionamento effettivo. Alla fine del primo capitolo abbiamo sostenuto che la capacità di parlare in modo appropriato (in modo coerente e consonante alla situazione) è, seguendo Chomsky che riprende Cartesio, il tratto distintivo del linguaggio e della natura umana. Ora, come abbiamo già detto, l’idea di Chomsky è che il «problema di Cartesio» faccia parte dei misteri insolubili della mente umana. A questo punto dovrebbe iniziare a chiarirsi la strategia che intendiamo seguire per cercare una risposta al problema lasciato irrisolto da Chomsky: se attraverso la nozione di «flessibilità vincolata al contesto» (resa possibile dal sistema triadico di radicamento e proiezione) è possibile rispondere al problema dell’appropriatezza comportamentale, allora è probabile che tale nozione possa essere utilizzata per provare a spiegare anche l’appropriatezza del linguaggio. Senza le condizioni di radicamento, le espressioni linguistiche non avrebbero possibilità di essere appropriate (come nel caso delle concezioni astratte del linguaggio fondate sul modello del codice); se fossero soltanto ancorate al contesto (come nel caso delle espressioni della comunicazione animale), le espressioni linguistiche perderebbero quel carattere di flessibilità indispensabile per parlare di realtà che non abbiamo di fronte o che possiamo soltanto immaginare. Ma c’è di più. Dire che la capacità di parlare in modo appropriato segna la differenza decisiva tra la comunicazione animale e il linguaggio propriamente umano significa ammettere im111

plicitamente che il problema del parlare in modo coerente e consonante alla situazione abbia a che fare con la questione dell’origine del linguaggio umano. Dal nostro punto di vista, come vedremo estesamente nel prossimo capitolo, la questione dell’evoluzione del linguaggio trae alimento dall’analisi dei processi di produzione-comprensione linguistica. L’idea alla base di questo scritto è che il sistema triadico esplichi il suo ruolo di maggior rilievo in quelle capacità di ancoraggio e proiezione che regolano l’appropriatezza delle espressioni verbali rispetto ai contesti fisici e sociali in cui vengono proferite. Ora, per la stretta correlazione tra il funzionamento effettivo del linguaggio e la questione della sua evoluzione, tale idea comporta che il sistema triadico sia direttamente coinvolto anche nel tema dell’origine del linguaggio.

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Orientamento

Dalle coste del Brasile, a duemiladuecento chilometri di distanza, Assunzione (un pugno di sabbia e scogli al centro dell’Atlantico) è un bersaglio davvero difficile da centrare. Eppure, dopo cinque anni, raggiunta la maturità sessuale, le tartarughe marine si rimettono in cammino per tornare là da dove sono partite: dal quel pugno di sabbia e scogli al centro dell’Atlantico. La questione di quali siano le strategie utilizzate dalle tartarughe per centrare un bersaglio così piccolo a così tanti chilometri di distanza è al centro di una animata discussione tra gli studiosi. A dispetto delle conclusioni a cui potranno arrivare gli esperti, tuttavia, abilità di questo tipo continueranno a rimanere sconcertanti per la maggior parte di noi. La capacità di alcuni animali di orientarsi nello spazio ci appare tanto più incredibile quanto più la commisuriamo alla nostra capacità di umani civilizzati. Prova ne sia la difficoltà facilmente riscontrabile in montagna: anche a chi abbia una qualche dimestichezza con l’uso di bussola e carta topografica è del tutto evidente che la capacità di tracciare l’azimut sulla carta è una cosa, mentre l’orientarsi nel cammino effettivo sul terreno è cosa assai diversa. Per un motivo interessante ai fini dell’argomento di questo capitolo: non è possibile effettuare lo stesso tragitto in linea retta co113

sì come lo abbiamo tracciato sulla carta. Il che ci porta a una prima considerazione da fare. Per arrivare alla destinazione è necessario mettere in campo due strategie complementari: la prima, finalisticamente orientata (governata dalla meta da raggiungere) rappresenta la «causa distale» del percorso da compiere; la seconda riguarda invece il superamento degli «ostacoli prossimali», ovvero la risoluzione degli impedimenti che di volta in volta si frappongono al raggiungimento della meta finale: qui superare una falesia; lì attraversare un torrente; più in là evitare di entrare in un bosco. La navigazione nello spazio richiede un equilibrio continuo tra cause distali e ostacoli prossimali (riaggiustamenti continui tra le deviazioni dalla giusta direzione e il tentativo continuo di ristabilire la rotta corretta da seguire): quando si aggira una falesia, si deve riguadagnare al più presto la corretta direzione da seguire, altrimenti la possibilità di raggiungere la meta si perde inesorabilmente. In questo capitolo sosterremo che i processi a fondamento della comunicazione umana presentano forti affinità con la navigazione spaziale. In particolar modo sosterremo che i processi alla base della costruzione del «filo del discorso» (guidati da un certo obiettivo comunicativo) sono molto simili alla capacità di orientarsi e di dirigersi nello spazio al fine di raggiungere una meta. Più nello specifico, l’idea di fondo di questo capitolo è che la comunicazione sia governata da processi di «orientamento» e «direzione» e che questi processi siano alla base sia dell’origine del linguaggio umano sia della comunicazione effettiva. In questa prospettiva, lo sforzo cognitivo messo in atto nei continui riadattamenti tra parlante e ascoltatore per l’equilibrio comunicativo è in buona parte lo sforzo di mantenere orientamento e direzione nel flusso del parlato. Così come nella navigazione, in effetti, il fine comunicativo è raggiungibile solo al costo di continue deviazioni, di riprese di quanto è già stato detto, di finestre aperte ad anticipare il futuro di ciò che non è stato ancora detto ma è molto probabile che si dica. 114

1. Lo sfondo Un esempio interessante per mettere alla prova la nozione di sforzo cognitivo è quello della comunicazione pidgin. Bickerton (1984) ha descritto il caso dell’afflusso di braccianti nelle isole Hawaii negli anni 1870-1880, dovuto al forte incremento della coltivazione della canna da zucchero. Tale afflusso portò alla convivenza coatta di individui (cinesi, giapponesi, coreani, filippini ecc.) parlanti lingue molto diverse tra loro. Quello delle isole Hawaii è solo uno tra i molti casi che si potrebbero citare: ora, che tipo di comunicazione si sviluppa in situazioni di questo tipo? In casi del genere gli scambi comunicativi avvengono utilizzando il pidgin, un codice espressivo caratterizzato da una forte povertà sul piano grammaticale. Secondo Bickerton il pidgin hawaiano è una prova a favore della grammatica universale di Chomsky. Tra il 1900 e il 1920, in effetti, il pidgin parlato alle Hawaii si trasformò in breve tempo nel creolo hawaiano, una lingua caratterizzata da una grammatica complessa. L’idea di Bickerton è che trasformazioni di questo genere siano spiegabili soltanto facendo riferimento all’innatismo dei componenti linguistici: il fatto che l’input povero (il pidgin ascoltato dai nuovi nati) sia trasformato in un output più complesso (il creolo parlato da questi bambini) è una prova del fatto che la GU è un componente innato della mente umana. Pinker (1994) è dello stesso avviso: anche per lui infatti lo studio di una lingua creola fornisce «una buona visione dei dispositivi grammaticali innati del cervello» (ivi, trad. it. p. 27). Il caso del pidgin è molto interessante ai nostri fini per motivi diversi da quelli sottolineati da Pinker e Bickerton. La nostra idea è che per comprendere il tipo di processi in atto in situazioni di questo tipo la chiave interpretativa non sia da ricercare nelle nuove generazioni di bambini, ma nell’analisi dei processi di comunicazione della popolazione promiscua venuta a contatto per la prima volta. Che le prime generazioni di braccianti confluiti nelle 115

Hawaii riuscissero a comunicare attraverso il pidgin è un fatto che aspetta spiegazioni: come è possibile comunicare utilizzando un codice espressivo così povero? Per quanto Pinker utilizzi il caso del pidgin come una prova a favore della GU, egli apre la strada a un’ipotesi interpretativa di particolare interesse ai nostri fini. Dopo aver evidenziato che «il pidgin non offre ai parlanti le normali risorse grammaticali per trasmettere messaggi» (ivi, trad. it. p. 26), egli sottolinea che in situazioni comunicative di questo tipo le intenzioni del parlante devono essere «completate» dall’ascoltatore. Quando manca un codice condiviso, la relazione tra le intenzioni dei parlanti e lo sforzo degli ascoltatori nella costruzione di un equilibrio comunicativo viene ad assumere un ruolo di primo piano negli scambi comunicativi. Dal nostro punto di vista, la comunicazione pidgin rappresenta un caso limite di un processo tipico, seppure in gradi diversi, della comunicazione umana ad ogni livello. Due considerazioni da fare a questo proposito: la prima è che nei casi in cui il codice comune è largamente deficitario i dispositivi di comprensione linguistica non possono avvalersi del lavoro del parser sintattico (un fatto che la dice lunga sulla concezione del linguaggio come un modulo autonomo dagli altri sistemi cognitivi); la seconda è che quando si ha di mira un’idea del linguaggio fondata sullo sforzo di equilibrio tra le intenzioni del parlante e le aspettative dell’ascoltatore, i processi di comprensione linguistica devono essere guidati da una qualche forma di «lettore della mente» – un dispositivo cognitivo capace di cogliere le intenzioni di chi parla. Il riferimento a un sistema di elaborazione di questo tipo nei processi di comprensione linguistica rappresenta un punto fermo della ricerca contemporanea: solo il riferimento a un lettore della mente, in effetti, può spiegare come la comunicazione, seppure con sforzo, possa avere luogo in casi di codice molto povero o deteriorato. Lavorare sui messaggi deteriorati ci permette di spostare l’attenzione dal codice ai 116

processi che vengono messi in atto per colmare le lacune della codifica. Alla base di questa operazione c’è il riferimento a una precisa ipotesi teorica circa la natura della comunicazione umana: l’idea è che gli scambi verbali sfruttino gli «indizi» che il parlante offre al locutore per ricostruire le proprie intenzioni comunicative (Sperber e Wilson, 1986; 2004). La nostra idea è che analizzare i processi verbali nei termini di uno scambio di indizi apra la strada a considerazioni importanti sia sulla natura del linguaggio sia sulla questione della sua origine. Per dar conto di questo fatto faremo due ipotesi interpretative. La prima è che i meccanismi alla base dei processi di produzione-comprensione linguistica siano gli stessi dispositivi che, nel corso della filogenesi, hanno permesso l’avvento del linguaggio come una forma di adattamento alla comunicazione. La seconda è un rovesciamento di prospettiva rispetto alla concezione standard dell’origine del linguaggio, secondo cui l’analisi deve riguardare l’individuazione dei costituenti atomici alla base di un percorso di sviluppo «dal semplice al complesso» (capace di dar conto del passaggio dalle singole espressioni isolate alle complesse relazioni tra espressioni governate dal sistema grammaticale). Contro la tesi standard, la nostra idea è che la genesi del linguaggio segua un percorso di sviluppo «dal complesso al semplice» e che i costituenti basilari del linguaggio vadano individuati nei processi funzionali di carattere olistico che rendono possibile il fluire della comunicazione già prima dell’avvento di un codice espressivo vero e proprio. Dal nostro punto di vista, infatti, il «discorso» (la successione temporalmente e coerentemente ordinata delle espressioni comunicative) precede l’origine delle singole espressioni prese isolatamente: il primato logico e temporale del discorso sulle parti costituenti rappresenta uno dei nodi concettuali di maggior rilievo della nostra proposta. L’analisi di tale nodo apre la strada a due questioni. La prima è relativa al problema di cosa si debba intendere per «discorso» in situazioni di ba117

se come quelle che hanno dato avvio al processo di verbalizzazione; la seconda riguarda il tipo di sistema di elaborazione che è legittimo ipotizzare per dar conto della produzione-comprensione degli scambi comunicativi in situazioni di questo tipo. Entrambe le questioni fanno riferimento a una precisa idea circa la natura della comunicazione umana: ed è dall’analisi di questa idea che occorre prendere le mosse. 2. Parlare attraverso indizi Un buon punto da cui partire è la teoria del significato di Grice (1957): l’idea che quello che più conta nella comunicazione non è tanto ciò che il parlante dice, ma ciò che egli intende dire. Il linguaggio figurato si presta bene ad esemplificare il punto; quando diciamo a qualcuno: «Che bell’amico che sei», non sempre intendiamo fargli un complimento. In casi di questo tipo, il nostro interlocutore capisce ciò che intendiamo dirgli solo se comprende che l’espressione è ironica, ovvero se comprende lo scarto tra ciò che diciamo e ciò che intendiamo dire. Da queste considerazioni emerge che la comunicazione è la ricostruzione nella testa di chi ascolta delle intenzioni comunicative del parlante e non il travaso di una pretesa entità mentale (il contenuto condiviso) dalla testa del parlante a quella dell’ascoltatore. Nella teoria della pertinenza, Sperber e Wilson (1986; 2004) hanno offerto una ipotesi cognitivamente plausibile della felice intuizione di Grice mostrando i dispositivi di elaborazione alla base della possibilità di cogliere le intenzioni comunicative del parlante. In questa ipotesi le parole, piuttosto che elementi linguistici da decodificare, sono «indizi» che il parlante offre all’ascoltatore per ricostruire nella propria testa l’intenzione comunicativa del locutore. L’idea della comunicazione fondata su indizi si sposa perfettamente con la visione della produzione-comprensione come attività che comporta uno sfor118

zo di equilibrio. Quando si smette di pensare agli scambi comunicativi nei termini di un «mutuo sapere» tra i parlanti, la comunicazione appare segnata da una forma di equilibrio (precario) contrassegnato dallo sforzo dell’ascoltatore di cogliere ciò che il parlante intende dire e dallo sforzo del locutore di andare incontro alle aspettative dell’ascoltatore circa ciò che il parlante intende dire. Il riferimento generico all’intenzione del parlante, tuttavia, non basta a dar conto di ciò che è veramente in gioco nel caso della comunicazione umana. Secondo Sperber e Wilson (1986), il linguaggio umano si caratterizza per il suo carattere «ostensivo»: ovvero, per la capacità di chi comunica di rendere «manifesta un’intenzione di rendere qualcosa manifesto» (ivi, trad. it. p. 75). Per mettere in atto una capacità di questo tipo, l’uso del linguaggio umano deve ammettere la possibilità di impiegare intenzioni di secondo grado (o di grado superiore): comunicare ostensivamente consiste in effetti «nel rendere manifesta a un destinatario la propria intenzione di rendergli manifesta un’informazione di primo livello» (ivi, trad. it. p. 84). Puntando sulla diversità che un carattere del genere è in grado di garantire rispetto alla comunicazione animale, la teoria della pertinenza offre da questo punto di vista una spiegazione importante dell’origine del linguaggio: Quale che sia l’origine del linguaggio o del codice impiegato, qualsiasi comportamento codificato può essere usato ostensivamente, vale a dire in modo da fornire due livelli di informazione: un livello di informazioni di base, che possono dipendere da qualsiasi evento e un secondo livello costituito dall’informazione che le informazioni di primo livello sono state rese manifeste intenzionalmente (ivi, trad. it. pp. 86-87).

Considerazioni di questo tipo ci spingono a guardare la questione della genesi del linguaggio nei termini dei sistemi di elaborazione in grado di garantire il passaggio dal modello del codice (proprio della comunicazione anima119

le) a quello della comunicazione ostensiva (tipico del linguaggio umano). Considerando la comunicazione nei termini dell’attività con cui «il locutore aiuta l’ascoltatore a leggere la mente di chi parla» (Origgi e Sperber, 2000, p. 162), il primo sistema di elaborazione a essere chiamato in causa è il dispositivo alla base dell’intelligenza sociale. Come abbiamo mostrato nel capitolo 3, un «lettore della mente» è un dispositivo di straordinaria importanza per regolare il comportamento sociale tra gli organismi. Il carattere ostensivo della comunicazione umana (il doppio livello di intenzioni che implica) richiede un meccanismo capace di elaborare strutture metarappresentazionali. Se il passaggio dalla comunicazione animale al linguaggio umano è segnato dalla possibilità di cogliere lo scarto tra ciò che si dice e ciò che si intende dire, allora un dispositivo del genere è indispensabile per tematizzare l’origine del linguaggio. Che prove abbiamo del fatto che il «lettore della mente» debba essere posto alla base dell’uso effettivo del linguaggio? Un dato interessante a questo proposito viene dalla patologia. Per quanto la definizione di cosa sia l’autismo sia ancora aperta e fonte di un serrato dibattito, il dato più evidente è quello rappresentato da disturbi di socializzazione e comunicazione. Baron-Cohen (1995) utilizza l’espressione «cecità mentale» per evidenziare che i soggetti affetti dalla sindrome autistica sono prevalentemente caratterizzati da una incapacità di vedere gli altri come individui che agiscono sotto l’effetto dei propri stati mentali. A riprova di questo fatto Baron-Cohen, Leslie e Frith (1985) hanno somministrato il test della falsa credenza a bambini affetti da sindrome di Down (in cui si evidenziano ritardi generalizzati nelle capacità intellettuali) e bambini autistici. Secondo i tre autori i risultati empirici «confermano fortemente l’ipotesi che i bambini autistici falliscono nell’utilizzare una teoria della mente. (...). Il risultato di tale fallimento è che i soggetti autistici sono incapaci di attribuire credenze agli altri e per questo sono in una grave dif120

ficoltà nel predire il comportamento delle altre persone» (ivi, p. 43). L’attribuzione di stati intenzionali per interpretare e predire il comportamento, che tutti i bambini raggiungono solitamente al quarto anno di vita, non è mai raggiunta dai bambini autistici. Cosa dovremmo aspettarci da queste considerazioni circa i processi di apprendimento e uso del linguaggio? Secondo Frith (1989) i deficit di comunicazione negli autistici sono interpretabili nei termini della teoria della pertinenza (ovvero degli aspetti riferibili alla pragmatica del linguaggio); anche Baron-Cohen (1995) è dello stesso avviso: la comprensione del linguaggio, a suo dire, dipende in maniera determinante, oltre che dall’analisi del significato letterale dei proferimenti verbali, dalla ricerca dell’ascoltatore dell’intenzione comunicativa del parlante. Secondo Baron-Cohen la domanda chiave per capire ciò che è alla base dei processi di comprensione è: «Dove vuole arrivare?». La sua idea è che quando noi tutti ascoltiamo un enunciato «non solo prestiamo attenzione alle parole reali usate dal parlante, ma ci concentriamo anche su ciò che pensiamo sia il succo di quel che il parlante voleva dire o voleva che noi capissimo» (ivi, trad. it. p. 43). A chiarificazione di questo aspetto Baron-Cohen utilizza un esempio preso da Pinker (1994): Donna: «Ti lascio». Uomo: «Chi è lui?».

Mentre la nostra capacità di leggere le intenzioni del parlante ci permette di comprendere perché la domanda dell’uomo è appropriata rispetto all’affermazione della donna, «presumibilmente, una persona affetta da cecità mentale lotterebbe invano per trovare la pertinenza in questo dialogo» (Baron-Cohen, 1995, trad. it. p. 44). Tenendo conto delle aspettative dell’ascoltatore, il parlante si attiene al principio di pertinenza: attraverso la lettura della mente chi parla ha l’opportunità di controllare il gra121

do di comprensione dell’ascoltatore, valutando così la possibilità di aggiungere informazioni, se la comprensione del messaggio lo richiede. Le difficoltà di comunicazione degli autistici (il fatto che essi ripetano più volte informazioni che l’ascoltatore già conosce o il fatto che essi non riescano a fermarsi al momento giusto o che interrompano il parlante in modo brusco e al momento sbagliato) evidenziano secondo la Frith la dipendenza della comprensione dalla capacità di mentalizzazione. Per quanto non tutti siano disposti a considerare l’autismo nei termini di un deficit della teoria della mente (Zalla, 2003; Zalla et al., 2006), appare difficile negare che le difficoltà di mind-reading siano comunque in causa nell’autismo e che queste difficoltà abbiano ricadute sul piano del linguaggio a diversi livelli di elaborazione (Bloom, 2000; Meini, 2003; Surian, 2003). In particolare l’autismo si presta a essere un utile banco di prova di quel doppio livello di articolazione (intenzione informativa e intenzione comunicativa) che abbiamo visto essere uno dei tratti caratteristici della comunicazione umana. Ai fini del nostro discorso, più nello specifico, l’autismo rappresenta una prova empirica della convergenza tra gli studi sulla lettura della mente e quelli sulla teoria della pertinenza. Ma c’è dell’altro. L’autismo sembra essere una prova empirica del fatto che il lettore della mente sia implicato nella costruzione del tessuto narrativo: l’intenzione informativa del locutore, a pensarci bene, non è cosa che possa riguardare la comprensione di un singolo enunciato. Gli studi di Fletcher et al. (1995) e di Baron-Cohen, Leslie e Frith (1985) hanno verificato sperimentalmente che la lettura della mente è implicata nella costruzione di strutture narrative; negli esperimenti a cui venivano sottoposti, i soggetti autistici erano in grado di raccontare la storia raffigurata in una sequenza di immagini solo quando i nessi tra i soggetti raffigurati nelle vignette erano di ordine meccanico: quando era in gioco una causalità intenzionale tali soggetti non erano in grado di ricostruire la storia. 122

Esperimenti del genere aprono una nuova prospettiva d’indagine. Sinora abbiamo parlato in modo generico della comprensione del linguaggio nei termini della comprensione delle intenzioni del parlante. È venuto ora il momento di affrontare il punto chiave del nostro argomento: l’idea che l’intenzione comunicativa possa essere considerata (in analogia con la meta, intesa come «causa distale» nel caso della navigazione dello spazio) alla base della costruzione del «flusso del parlato». Considerare in questo modo i processi di produzione-comprensione linguistica comporta uno spostamento dal piano d’indagine della «microanalisi» (lo studio delle relazioni interne agli enunciati) a quello della «macroanalisi» (lo studio delle relazioni esterne tra enunciati) (Davis et al., 1997). Uno spostamento del genere si concretizza nel passaggio dal primato accordato alla grammatica a quello che esalta gli aspetti pragmatici del linguaggio. Il ruolo dell’intelligenza sociale nell’equilibrio tra parlante e ascoltatore è di fondamentale importanza per dar conto della coerenza e della consonanza alla situazione necessaria per garantire direzione e orientamento al flusso del parlato. La nostra idea, tuttavia, è che, relativamente agli aspetti della comunicazione che implicano il piano del discorso, il riferimento puro e semplice al lettore della mente (da solo) non basti. L’intenzione comunicativa elaborata dal lettore della mente, in effetti, rappresenta la «causa distale» (il contenuto da esprimere, astratto e atemporale) verso cui tendono parlante e ascoltatore nella costruzione del flusso del parlato. Oltre alla causa distale che governa finalisticamente il discorso, tuttavia, la comunicazione va avanti contando sul superamento dei continui «ostacoli prossimali» (radicati al qui e ora delle espressioni proferite) con cui parlante e ascoltatore devono fare i conti nel tentativo di stabilire un equilibrio reciproco. I continui riaggiustamenti reciproci tra parlante e ascoltatore si avvalgono di dispositivi di radicamento alla situazione contestuale e di controllo della dimensione temporale del discorso (un 123

monitoraggio di ciò che è stato detto e di anticipazione di ciò che sta per essere detto) che esulano dalle capacità specifiche del lettore della mente. L’analisi del discorso, in poche parole, implica un dispositivo di elaborazione più complesso del lettore della mente: il sistema triadico di radicamento e proiezione sembra il candidato ideale per far fronte al problema in questione. 2.1. Narratività Ecco due esempi da cui partire: Esempio 1: «Era bello il film che hai visto al cinema ieri sera?» «I popcorn erano buoni». Esempio 2: «Come vanno le cose a casa?» «Mia madre è molto malata. Non ci sono soldi. Vengono tutti dalle sue tasche. Il mio appartamento è allagato. Si è rovinato il mio materasso. Mi piacerebbe sapere che cosa dice l’intestazione del motto ricamato sul blasone. È in latino» (Cutting, 1985). A guardarli in superficie, i due frammenti di conversazione presentano forti analogie. Tali analogie nascondono tuttavia differenze profonde: l’esempio 2 è tratto da una conversazione con uno schizofrenico che non dà luogo ad alcuna comunicazione effettiva. Il problema che abbiamo davanti è capire perché siamo tutti disposti a riconoscere il primo esempio come un caso di conversazione genuina, mentre non siamo disposti a giudicare allo stesso modo il caso degli schizofrenici: su cosa si basano i nostri giudizi intuitivi in situazioni di questo tipo? Visto che il punto in discussione sembra chiamare in causa la relazione tra enunciati più che l’esame dei costituenti interni agli enunciati (dal punto di vista della sintassi, le espressioni verbali degli schizofrenici non sono de124

ficitarie), la prima cosa da fare è spostare l’attenzione dai dispositivi coinvolti nella microanalisi del linguaggio a quelli in causa nella macroanalisi. La nostra idea è che i giudizi intuitivi che guidano la comprensione del parlato dipendano dal controllo della «direzione» e dell’«orientamento» del fluire del discorso, governate da una costante valutazione dell’appropriatezza di ciò che viene detto: da questo punto di vista interpretiamo la risposta nel primo esempio come del tutto congruente alla situazione (coerente e consonante al contesto), quella degli schizofrenici no. La nostra idea, più nello specifico, è che i sistemi di orientamento e direzione che guidano la produzione-comprensione del discorso siano, nel caso degli schizofrenici, fortemente compromessi: il «deragliamento» e la «tangenzialità» che caratterizza le produzioni linguistiche di questi soggetti mette in luce la difficoltà di orientare la comunicazione verso un preciso fine comunicativo. È in fallimenti di questo tipo che si mostra la dipendenza dei continui riaggiustamenti messi in atto da parlante e ascoltatore da un dispositivo di valutazione adibito al controllo continuo della conformità e della coerenza di quanto si dice. Come abbiamo già detto, il lettore della mente svolge un ruolo rilevante in casi di questo tipo; da solo tuttavia non basta: quando ad essere in causa è il flusso del parlato (un livello di elaborazione che implica una rappresentazione prospettica) è piuttosto un altro componente del sistema triadico a svolgere un ruolo preminente. Sul piano funzionale, in casi di questo tipo, la valutazione dell’appropriatezza del discorso è affidata al «controllo di conformità»: un’operazione fortemente dipendente dal punto di vista prospettico che caratterizza in proprio il funzionamento del Mental Time Travel, il dispositivo, come abbiamo visto nel capitolo 3, alla base dell’intelligenza temporale. Scrive Cosentino (2008): L’attività di rimettere in equilibrio la propria comprensione con le intenzioni altrui richiede di controllare e monitorare la

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conformità tra sé e l’altro; tale processo si svolge esplicitando l’asse temporale del discorso. Il controllo di conformità implica, infatti, un automonitoraggio nel tempo (ivi, p. 166).

La produzione-comprensione del flusso del parlato implica capacità di elaborazione che sfruttano la dimensione temporale del linguaggio; domande implicite del tipo: «Mi sto facendo capire?», «Sta capendo ciò che sto dicendo?», «Che cosa sta cercando di dirmi?», «Dove vuole arrivare?» hanno senso soltanto se le si inquadra sul piano del fluire del discorso nel tempo. Si prenda il caso in cui, durante la conversazione, l’ascoltatore è in dubbio circa la comprensione corretta di ciò che il parlante sta dicendo; casi di questo genere richiedono «di tornare mentalmente indietro nel tempo e ri-analizzare il discorso: l’ascoltatore deve dissociarsi dal punto di vista del presente e assumere flessibilmente la prospettiva del passato» (ivi, pp. 164165). Ovviamente un meccanismo in grado di operazioni di questo tipo è all’opera sia nel controllo di quanto è già stato detto, sia nell’anticipazione di ciò che il parlante sta per dire. Un dispositivo del genere inoltre è al lavoro tanto nei processi di comprensione quanto in quelli di produzione linguistica: in quest’ultimo caso «il controllo di conformità tra sé e l’altro serve a progettare e a gestire il proprio discorso tenendo conto della conoscenza dell’altro. In questi termini, il viaggio nel tempo è anche un meccanismo di controllo della propria coerenza nel tempo e di coordinamento attraverso il tempo» (ivi, p. 166). Cosa accade quando il dispositivo alla base della rappresentazione del tempo risulta compromesso? Il caso per eccellenza per valutare il ruolo dell’MTT nell’elaborazione del discorso è quello degli amnesici: il pregiudizio grammaticale vigente nella gran parte della neuroscienza del linguaggio, tuttavia, ha portato molti studiosi a considerare «intatto» il linguaggio di questi soggetti. Gli studi sulla macroanalisi degli amnesici in cui sono coinvolti gli aspetti pragmatici della comunicazione risulta in larga parte un 126

lavoro ancora da fare. Tra i pochi lavori sul tema, tuttavia, Ogden e Corkin (1991) portano dati confortanti ai fini del nostro discorso: il risultato della loro ricerca è che il carattere tangenziale, l’incapacità di mantenere il filo del discorso, tipico della comunicazione di questi soggetti, sia da imputare ai sistemi di elaborazione in causa nella pianificazione del flusso del parlato. Detto questo, i dati più interessanti ai nostri fini vengono dalla schizofrenia. Se ci atteniamo alla classificazione di Andreasen (1979), gli aspetti tipici della comunicazione schizofrenica (perdita dello scopo, deragliamento, tangenzialità) possono essere considerati disturbi di macroanalisi, non di microanalisi. Secondo McGrath (1991), il sintomo chiave del disturbo linguistico schizofrenico è riferibile a una «mancanza di progettazione ed esecuzione» (ivi, p. 170); come abbiamo già detto, in effetti, negli schizofrenici il livello compromesso è quello del discorso, non quello della grammatica degli enunciati (Andreasen, Hoffman, Grove, 1985). Ed è a partire da considerazioni di questo tipo che è plausibile considerare i deficit linguistici degli schizofrenici in riferimento a quelle funzioni di direzione e orientamento che, a nostro avviso, devono essere poste a fondamento del fluire del parlato. Il che significa sostenere che i deficit in questione devono riguardare uno (almeno) dei componenti del sistema triadico: in casi di questo tipo, il candidato più ovvio è certamente l’MTT. Ora, che prove abbiamo che negli schizofrenici il disturbo linguistico riguardi la compromissione dell’MTT alla base del sistema triadico? Una prima prova a favore di questa ipotesi è la compromissione della memoria episodica negli schizofrenici; una seconda è nel fatto che i sistemi di elaborazione della memoria episodica sono gli stessi di quelli riguardanti l’anticipazione del futuro (Danion et al., 2007; Neumann et al., 2007; Danion e Huron, 2007): il che significa che i dati sulla compromissione della memoria episodica negli schizofrenici possono essere interpretati come disturbi di 127

MTT. Una interpretazione del genere equivale a riconoscere che alla base dei disturbi del linguaggio degli schizofrenici ci sia un deficit di tipo temporale. Per quanto rimanga ancora un’ipotesi fortemente speculativa, l’idea della natura temporale di alcuni dei disturbi comportamentali degli schizofrenici ha avuto recentemente il conforto dell’evidenza sperimentale: D’Argembeau e collaboratori (2008) hanno messo in connessione diretta alcuni aspetti dei deficit schizofrenici con l’incapacità di viaggiare nel tempo. I dati sulla schizofrenia, inoltre, ricevono più forza se considerati nel quadro più generale del ruolo del «sistema triadico» nel funzionamento effettivo del linguaggio. La nostra ipotesi è che la compromissione anche di un solo sottocomponente dell’STRP abbia ricadute sul piano della convergenza funzionale (sulle funzioni di radicamento e proiezione) del macrosistema. Questa ipotesi ci spinge a valutazioni di ordine empirico: se, infatti, la coerenza e consonanza alla situazione del flusso del parlato dipendono dalle funzioni di orientamento e direzione dell’STRP, ciò che dovremmo aspettarci sul piano empirico è una stretta correlazione tra disturbi selettivi dei componenti dell’STRP e deficit sul piano dell’appropriatezza del discorso. 2.2. Patologie della narrazione Spostare il problema dell’uso effettivo del linguaggio dal piano della microanalisi a quello della macroanalisi non è un’operazione concettuale di poco conto. Attraverso uno spostamento del genere, ovviamente, non intendiamo negare il ruolo dei processi di analisi delle relazioni all’interno degli enunciati nei processi di produzione-comprensione linguistica: quello che intendiamo discutere è l’idea che i processi di microanalisi siano in grado, da soli, di dar conto della produzionecomprensione linguistica nella sua interezza. Un pregiudizio largamente ricorrente in scienza cognitiva accorda ai processi di elaborazione della frase (considerata il costituente essenziale del linguaggio) il ruolo di processo alla 128

base di qualsiasi altra forma di elaborazione linguistica. De Vincenzi e Di Matteo (2004) esemplificano bene tale pregiudizio sostenendo che «rispondere alla domanda relativa a quali architetture e meccanismi sono alla base della comprensione delle frasi (...) possa chiarire la natura generale dell’elaborazione umana del linguaggio nel contesto della cognizione nella sua globalità» (ivi, p. 3). Ora, considerare i processi di elaborazione linguistica tarati sull’analisi delle frasi significa fare riferimento ai processi automatici, involontari e veloci che caratterizzano la microanalisi del linguaggio. Come abbiamo visto nel capitolo 2, il carattere automatico e obbligato del funzionamento di alcuni dispositivi innati adibiti all’elaborazione del linguaggio rappresenta una base imprescindibile dei processi di produzione-comprensione linguistica. Non tutti i processi di elaborazione del linguaggio possono tuttavia essere interpretati in termini di dispositivi che agiscono in modo veloce e senza sforzo: se il linguaggio riguardasse soltanto la microanalisi, la comprensione del discorso potrebbe essere interpretata come la semplice elaborazione di un enunciato dietro l’altro. Che la microanalisi non sia sufficiente a dar conto della comunicazione è mostrato dal caso della patologia: a dispetto della capacità di elaborare perfettamente la struttura degli enunciati, come vedremo, in alcuni casi la coerenza del discorso (una proprietà tipica della relazione tra enunciati) risulta fortemente compromessa. Da cosa può dipendere un deficit del genere? Alcuni aspetti della comprensione della relazione tra enunciati – quelli che danno conto di ciò che in linguistica va sotto il nome di «coesione» – dipendono dai costituenti grammaticali interni agli enunciati. I dati provenienti dalle patologie sembrano dimostrare che in casi di questo tipo, più che la coesione, sia colpita la «coerenza» del discorso – in cui è coinvolta la pragmatica più che la grammatica. Serianni (2007) sottolinea in questi termini la differenza tra i due aspetti della produzione del discorso: «mentre la coesione si riferisce al corretto collegamento 129

formale tra le varie parti di un testo, (...) la coerenza è legata invece alla reazione del destinatario, che deve valutare un certo testo chiaro e appropriato alla circostanza in cui è stato prodotto» (ivi, pp. 36-37). La coerenza e la consonanza alla situazione (la valutazione dell’appropriatezza di ciò che si dice) chiamano in causa i parlanti in carne e ossa negli scambi comunicativi effettivi: è qui – nei continui riaggiustamenti generati dagli «ostacoli prossimali» – che i dispositivi di radicamento e proiezione mostrano il loro ruolo imprescindibile. Dire che l’STRP ha un ruolo nei processi di macroanalisi del discorso significa sostenere che tale sistema ha un effetto decisivo nella coerenza del flusso del parlato. Uno dei modi per valutare sperimentalmente le capacità narrative è quello di ricostruire storie a partire da una serie di immagini o vignette mostrate (sia singole sia in successione) a soggetti con patologie caratteristiche. Tre casi sono particolarmente interessanti ai nostri fini: gli autistici, gli schizofrenici e i soggetti con sindrome di Williams (WS). Del caso dell’autismo, e della sua relazione con il componente sociale dell’STRP, abbiamo già parlato. Nel caso degli schizofrenici, Marini et al. (2008) hanno verificato che, a dispetto delle capacità microstrutturali (elaborazione sintattica e lessicale) in gran parte integre, il piano delle capacità macrostrutturali è fortemente compromesso: i disturbi più evidenti toccano l’aspetto pragmatico e si manifestano in tutta evidenza sul piano del fluire del discorso. Ora, poiché la nostra tesi è che un deficit a uno qualsiasi dei componenti del sistema triadico abbia effetti sulle capacità di navigazione e orientamento necessarie per costruire un discorso coerente e consonante alla situazione, ciò che dovremmo aspettarci a questo punto è che anche la compromissione dell’intelligenza ecologica debba comportare deficit nella macroanalisi del linguaggio. Poiché il componente di base di tale forma di intelligenza è il sistema di dispositivi deputati alla rappresentazione dello spazio, ciò che ne consegue è che i deficit della rap130

presentazione dello spazio dovrebbero avere ripercussioni sul piano del fluire del discorso. Considerazioni di questo tipo si sposano bene con alcune delle difficoltà in cui incorrono i soggetti affetti da sindrome di Williams (WS) – una patologia caratterizzata prevalentemente da incapacità rappresentazionali di tipo visivo-spaziale1. La nostra ipotesi è che, se l’intelligenza ecologica è uno dei sistemi costitutivi dell’STRP, e il sistema triadico è coinvolto nell’analisi del discorso, anche i soggetti incapaci di rappresentare correttamente l’informazione visivo-spaziale dovrebbero mostrare deficit nella macroanalisi del linguaggio. Una base da cui partire è questa interessante riflessione di Deacon (1997): La conoscenza delle parole dei bambini affetti da WS si potrebbe paragonare a un soggetto che abbia memorizzato le voci di un dizionario o di un’enciclopedia, ma che non ha mai avuto esperienza delle cose denotate da quelle voci. Hanno acquisito un’ampia conoscenza delle associazioni linguistiche, ma solo una frazione della trama di associazioni esperienziali aggiuntive che collegano le parole al mondo (ivi, trad. it. p. 254, corsivo mio).

L’idea di Deacon è particolarmente importante ai nostri fini perché mostra che dove manca una capacità rappresentazionale adeguata dello spazio, le parole perdono consistenza perché manca un «ancoraggio» del linguaggio al mondo. Il che significa che il radicamento delle parole al mondo deve avere a che fare con il sistema di rappresentazione spaziale alla base dell’intelligenza ecologica. Oggi abbiamo prove empiriche del coinvolgimento della WS nei processi di elaborazione implicati nel fluire del discorso: se1 Descritta per la prima volta nel 1961, la sindrome di Williams è dovuta alla delezione del cromosoma 7 (7q11.23) ed è caratterizzata clinicamente da dimorfismi, alterazioni cardiovascolari, ritardo mentale lieve o moderato e un caratteristico profilo cognitivo e comportamentale. Cfr. Giannotti e Vicari, 2004.

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condo Marini et al. (2010) la sindrome di Williams incide sugli aspetti narrativi del linguaggio con un deficit da imputare alla macroanalisi del linguaggio. Sebbene Marini e collaboratori non compiano esplicitamente questo passo, la nostra idea è che una spiegazione delle difficoltà narrative dei soggetti affetti dalla sindrome di Williams sia da ricercare nei deficit di «riorientamento» che tipicamente colpiscono questi soggetti (Lakusta, 2010). Il legame tra la difficoltà a orientarsi correttamente e i deficit nella costruzione di un discorso coerentemente organizzato ci permette di concludere il nostro argomento tornando là dove siamo partiti: la capacità di seguire una rotta da parte delle tartarughe nel ritorno ad Assunzione è qualcosa di più di una metafora per interpretare la natura dei processi di elaborazione linguistica. La morale, per concludere. Quando si hanno di mira proprietà pragmatiche quali l’appropriatezza del linguaggio (la capacità di valutare la coerenza e la consonanza alla situazione), le questioni più interessanti da indagare riguardano il livello della macroanalisi. La nostra idea è che il sistema triadico di radicamento e proiezione sia il sistema di elaborazione direttamente coinvolto in questi casi: la coerenza e la consonanza alla situazione con cui valutiamo l’appropriatezza del fluire del parlato dipendono in modo diretto dai processi di radicamento e proiezione alla base dell’unità funzionale di tale sistema. I dati sperimentali provenienti dalla WS, dall’autismo e dalla schizofrenia confermano che i deficit anche a uno soltanto dei dispositivi di elaborazione che compongono l’STRP determinano sul piano del discorso una difficoltà nel produrrecomprendere espressioni appropriate al contesto. Tanto basti per il funzionamento effettivo del linguaggio. A questo punto abbiamo un’idea sufficientemente chiara di come operino i sistemi di elaborazione linguistica sia a livello microstrutturale sia, soprattutto, a livello macrostrutturale. La nostra ipotesi è che i sistemi di elaborazione coinvolti nel fluire del parlato siano alla base non solo 132

dei processi di uso corrente del linguaggio ma anche dei processi che hanno dato avvio alla verbalizzazione: è giunto il momento di prendere davvero sul serio il tema dell’origine del linguaggio. 3. Alle origini del linguaggio Da un punto di vista generale la nostra idea è che i sistemi cognitivi che hanno permesso l’avvento del linguaggio siano alla base del suo funzionamento corrente: più precisamente, la nostra idea è che alcuni dei sistemi di elaborazione linguistica alla base del funzionamento effettivo del linguaggio (segnatamente, i processi di macroanalisi) siano la chiave di accesso allo studio della sua origine. Visto il ruolo giocato dal sistema triadico nella macroanalisi dei processi di produzione-comprensione linguistica, la nostra tesi è che questo sistema debba essere posto anche a fondamento dell’origine del linguaggio. Ed è esattamente questa tesi che porteremo avanti in questa sezione del libro. L’argomento prende avvio dal caso della comprensione di codici fortemente deteriorati (come la comunicazione pidgin) e dall’idea che i processi alla base dell’origine del linguaggio siano interpretabili in analogia con quelli messi in atto in situazioni di questo tipo. La discussione sui codici deteriorati ha mostrato che la comunicazione può andare avanti anche in assenza di un codice pienamente strutturato: la nostra ipotesi è che allo stesso modo di quanto avviene nella comunicazione effettiva, i dispositivi di radicamento e proiezione possono mantenere in vita la comunicazione anche nel caso dell’origine del linguaggio. L’STRP, in effetti, agendo come una «macchina baldwiniana», proietta i pochi indizi espressivi disponibili nel caso del linguaggio nascente in una rete di strutture relazionali (sociali, temporali e spaziali) che conferisce loro, anche in assenza di un codice grammaticale, un carattere fortemente sistemico: in una situazione di questo tipo, in ef133

fetti, la comprensione delle espressioni iniziali ha luogo perché il sistema garantisce la costruzione di un filo di continuità (una connessione temporale alla base del flusso comunicativo) tra gli indizi espressivi ancorandoli costantemente al contesto fisico e sociale. Assegnare un filo di continuità agli indizi espressivi che caratterizzano le prime forme di comunicazione verbale significa conferire loro un carattere eminentemente discorsivo. Un conferimento di questo tipo è di estrema importanza ai fini del nostro argomento: considerare l’origine del linguaggio a partire dalla priorità assegnata alla natura discorsiva dei primi scambi comunicativi permette in effetti, come vedremo nei dettagli, di giustificare non soltanto l’avvento del «simbolo» ma anche, soprattutto, l’avvento del «sistema simbolico» – senza il quale i simboli non potrebbero essere le entità rappresentazionali che sono. 3.1. Alle origini del simbolo La questione chiave del problema dell’origine del linguaggio è duplice: dar conto del passaggio da una situazione iniziale in cui le espressioni comunicative si avvalgono dei segni meccanici e automatici inevitabilmente determinati dalla situazione esperienziale presente (tipo i richiami dei cercopitechi di fronte al pericolo) a quella dei segni flessibili e appropriati tipici del codice simbolico; dar conto dell’avvento del sistema simbolico: secondo un’opinione largamente prevalente, la differenza sostanziale dei simboli rispetto ai segnali della comunicazione animale è da assegnare alla natura sistemica dei simboli. Secondo Deacon (1997), in effetti, non è possibile parlare di linguaggio in assenza di un sistema simbolico: nessun simbolo potrebbe riferirsi all’entità che rappresenta in maniera arbitraria e astratta senza le relazioni che caratterizzano il rapporto tra simboli all’interno di un codice. Quando la si interpreta dal punto di vista dell’origine del linguaggio, tuttavia, l’idea della priorità del sistema simbolico sugli elementi costituenti apre la strada a un circo134

lo vizioso: se le proprietà dei simboli dipendono dal codice simbolico, il codice simbolico deve precedere i simboli; ma il codice simbolico per essere tale deve essere costituito da simboli (arbitrari e astratti), il che significa che non è possibile avere il codice in assenza degli elementi costituenti, ovvero che i simboli devono precedere il sistema simbolico. Come mettere insieme il carattere sistemico dei simboli e il fatto che tale carattere non possa essere attribuito al codice (alle lingue), che nelle fasi iniziali del processo non può essere presupposto? 3.2. Discorso senza linguaggio Un modo proficuo per studiare l’avvento del pensiero simbolico in un’ottica filogenetica è l’analisi delle relazioni tra le capacità rappresentazionali presimboliche e le produzioni culturali che caratterizzano sia gli animali non umani sia i nostri predecessori ominidi. Tenendo conto di questo aspetto, Donald (1991) distingue tre tipi di cultura fondati su tre diversi sistemi rappresentazionali: la cultura «episodica» delle australopitecine e dei primati non umani; la cultura «mimica» di Homo erectus/ergaster; la cultura «simbolica» di Homo sapiens. Per Donald, le grandi scimmie e le australopitecine sono organismi inesorabilmente «inchiodati» al presente (la cultura episodica che li caratterizza rispecchia esattamente questo fatto); i sapiens, al contrario, si caratterizzano per la capacità di sganciarsi dal qui e ora della situazione in cui vivono per proiettarsi in situazioni esperienziali distanti nel tempo e nello spazio – secondo alcuni autori la proiezione nel futuro è il tratto distintivo della nostra specie (Gärdenfors, 2006; Gärdenfors e Osvath, 2010). Indipendentemente dal fatto se la proiezione nel futuro sia davvero una peculiarità esclusiva di Homo sapiens, è indubitabile che il linguaggio verbale rappresenti il caso per eccellenza della possibilità di un individuo di dissociarsi dalla situazione presente e di proiettarsi verso situazioni diverse da quella attuale. Una possibilità di questo tipo è intimamente connessa alla peculiare natura dei simboli: da 135

questo punto di vista il problema dell’origine del linguaggio riguarda in primo luogo la giustificazione del passaggio dalla natura meccanica e determinata dei segnali animali (vincolati al qui e ora della situazione effettivamente esperita) alle proprietà di arbitrarietà e astrattezza tipiche dell’espressione simbolica. Come spiegare tale passaggio? Poiché la nostra ipotesi è che le proprietà dei simboli dipendono dai sistemi cognitivi che li producono e li interpretano, è probabile che la soluzione del problema sia da ricercare nelle peculiarità dei sistemi cognitivi che ne sono alla base. L’avvento della cultura mimica è un modo interessante per mettere alla prova un’ipotesi di questo tipo. Per Donald (1991) la comparsa di Homo erectus segna un significativo passo in avanti rispetto alle australopitecine. I comportamenti complessi tipici di questo ominide (uso controllato del fuoco, cottura del cibo, migrazione verso terre lontane ecc.) evidenziano capacità intellettive in grado di svincolarlo dal qui e ora della situazione presente. Alla base di tale progresso è la mimesis, una specifica capacità cognitiva per mezzo della quale Homo erectus riesce a costruire una rappresentazione della realtà utilizzando forme espressive visivo-motorie. Si tratta di un importante progresso cognitivo rispetto alla situazione delle australopitecine che ha come risultato l’avvento della cultura mimica, un prezioso anello di congiunzione tra la cultura episodica e quella simbolica. Zlatev e colleghi (2005) concordano con Donald nel considerare la mimesis l’anello di congiunzione ideale per il passaggio dalla cultura episodica a quella simbolica. A loro avviso, tuttavia, il discorso di Donald presta il fianco a due possibili obiezioni: la prima è che l’idea dei primati non umani come organismi legati esclusivamente al qui e ora della cultura episodica è un’operazione smentita da recenti dati sperimentali; la seconda riguarda il passaggio, troppo repentino, dalla cultura episodica a quella mimica: per come la intende Donald, in effetti, la mimesis «concede poco ai primati non umani e troppo ad Homo erectus, 136

creando così un secondo gap: tra grandi scimmie e Homo erectus, senza nessuna indicazione di come l’evoluzione abbia potuto colmare questo scarto» (ivi, p. 5). Per far fronte a questa difficoltà gli autori propongono una rivisitazione del modello di Donald (a cui danno il nome di Bodily Mimesis) incentrato sull’idea che le caratteristiche costitutive della mimesis devono essere poste sulla base di un continuum. Non è qui il caso di entrare nei particolari di tale modello; ai nostri fini è sufficiente sottolineare che una concezione della mimesis in termini di diversi piani evolutivi può essere messa proficuamente al servizio del tema dell’origine delle capacità verbali: per quanto preceda il linguaggio e sia da esso indipendente, come sostiene anche Donald (1991), infatti, la rappresentazione mimica presenta caratteristiche essenziali per l’avvento del linguaggio. Per apprezzare appieno il ruolo della mimesis nell’origine del linguaggio occorre prendere in considerazione la tesi dell’origine gestuale della comunicazione verbale – un’idea che ha nel «linguaggio d’azione» di Étienne Bonnot de Condillac un illustre precursore. Una tesi del genere permette di tracciare un filo di continuità tra le capacità espressive della nostra specie e quelle di altre specie animali: per Corballis (2002), in effetti, la grammatica del gesto (vecchia di 2 milioni di anni) non è una prerogativa di Homo sapiens. Riconoscere la priorità del gesto sulla parola, emancipando l’origine del linguaggio dagli aspetti fonici della verbalizzazione, è una mossa di grande rilievo ai fini di una prospettiva continuista: dal punto di vista dell’espressione sonora, in effetti, i segnali animali (per lo stretto legame con le emozioni) hanno un carattere meccanico e involontario che mal si accorda con lo statuto intenzionale del codice simbolico (ed è bene che sia così, se un urlo di paura deve avvisare repentinamente i conspecifici). Per quanto non tutti siano disposti a considerare in modo così deterministico le espressioni vocali legate alle emozioni (Primo, in stampa), il carattere non-intenzionale delle espressioni animali vincola in modo troppo diretto i segna137

li alla situazione esperienziale impedendo ogni sviluppo verso un linguaggio simbolico in senso proprio. Se guardiamo ai simboli verbali (arbitrari e astratti) senza il medio della comunicazione gestuale, la differenza tra linguaggio umano e comunicazione animale appare incolmabile. Detto questo, sarebbe un grave errore analizzare il linguaggio umano in totale indipendenza dagli studi sulla comunicazione animale. La svolta decisiva a questo riguardo si è avuta quando, dopo i risultati catastrofici relativi ai tentativi di far articolare alle scimmie i suoni tipici della verbalizzazione umana, si è pensato di insegnare loro la lingua dei segni utilizzata dalle comunità sorde (il caso dei Gardner con Washoe è il più noto – cfr. Gardner e Gardner, 1969; Fouts, 1997). I risultati, in questo caso, sono stati molto incoraggianti: gli studi sui bonobo e gli scimpanzé hanno dato prova della possibilità di una comunicazione protolinguistica basata su un codice visivomotorio e su uno specifico sistema di elaborazione. Le conferme empiriche più importanti a questo proposito riguardano la scoperta dei neuroni specchio; in particolare, la scoperta dell’omologia funzionale tra l’area F5, in cui si trova il sistema mirror nei macachi, e l’area di Broca (il sistema tradizionalmente legato agli aspetti produttivi della verbalizzazione). Il dato più rilevante che emerge da questi studi riguarda il fatto che l’area 44 di Brodman è coinvolta, oltre che nella produzione linguistica, in funzioni motorie come l’articolazione complessa della mano e l’apprendimento senso-motorio (Corballis, 2010; Gentilucci e Corballis, 2006). Le scoperte relative al sistema mirror hanno portato nuova linfa vitale alle felici intuizioni di Condillac: i neuroni specchio avvalorano infatti l’idea che le origini del linguaggio umano vadano interpretate nei termini di adattamenti visivo-manuali piuttosto che uditivo-vocali. Da questo punto di vista, come sottolinea Corballis (2002), la trasmissione alla base dell’origine del linguaggio avrebbe il carattere più del «passa mano» che del «passa parola». 138

A partire da queste considerazioni appare legittimo chiedersi quanto siano davvero fondate le caratteristiche di unicità della comunicazione verbale su cui tanto insistono i fautori della grammatica universale. La concezione gestuale del linguaggio è di grande importanza a sostegno di un approccio interpretativo che, diversamente dalla tradizione chomskiana e dai modelli fondati sull’ingegneria inversa, affronta il tema della natura delle nostre capacità comunicative a partire dai costituenti più semplici e basilari della cognizione umana. Una prospettiva del genere permette di far fronte a due importanti questioni tuttora aperte. La prima riguarda il problema se la comunicazione gestuale debba essere considerata soltanto come un precursore che serve a «preparare la scena» per l’avvento dei simboli verbali, oppure se tale forma di comunicazione debba essere interpretata come parte integrante del funzionamento effettivo del linguaggio verbale e non soltanto del processo di avvio. Corballis (2002) critica Donald esattamente su questo punto: Secondo Donald (...) la mimesis non è ancora protolinguaggio, bensì un mero precursore. Il suo contributo al linguaggio sta semplicemente nel «preparare la scena» per la programmazione volontaria di atti linguistici vocali, che sono stati in effetti chiamati «gesti articolatori» da alcuni studiosi. Il linguaggio, dunque, si sarebbe evoluto come realizzazione vocale, mente la mimesis si nutre dei gesti della danza, della mimica, del linguaggio corporeo, del rito, di alcune forme di musica, della comunicazione non verbale. Pur tuttavia, questa non è la mia tesi: non vedo perché la mimesis non debba essere considerata protolinguaggio, visto che coinvolge azioni combinabili che possono essere disposte in sequenze differenti. La mimica e il linguaggio possono essere meno diversi di quanto si pensi in genere (ivi, trad. it. p. 137).

Ha ragione Corballis a rivendicare la natura protolinguistica della mimesis. È in riferimento a tale rivendicazione che è possibile comprendere come le prime espressioni verbali possano inserirsi in un sistema espressivo che 139

è già grammaticale ben prima dell’avvento della grammatica del linguaggio verbale. La seconda questione riguarda un aspetto di fondo ancora fortemente controverso: in uno degli articoli che ha riaperto il dibattito sul fondamento gestuale del linguaggio, Hewes (1973) sottolinea un problema che, a suo dire, rappresenta la vera spina nel fianco di tutti i modelli fondati sulla priorità del gesto sulla parola: il fatto che, indipendentemente dalle origini, la verbalizzazione abbia comunque preso il posto della gestualità. Secondo Burling (2005) il problema del passaggio dal codice iconico-motivato del linguaggio gestuale a quello arbitrario-astratto del linguaggio verbale è il problema concettuale che ogni concezione dell’origine gestuale del linguaggio è chiamata ad affrontare. Poiché è un fatto che il linguaggio umano in senso proprio sia di tipo verbale, per dar conto dell’origine del linguaggio è necessario chiarire il passaggio dal gesto (dalla mano) ai simboli arbitrari del codice verbale (alla bocca). Cosa ha permesso questo passaggio? 3.3. Convenzionalizzazione Una prima risposta a questa domanda è che anche il sistema verbale, a ben guardare, può essere interpretato come un sistema gestuale. Sinora abbiamo parlato dei gesti in riferimento ai movimenti delle mani e delle braccia, ma è bene sottolineare che nella prospettiva di Corballis sono gesti a pieno titolo tanto le espressioni del volto quanto, soprattutto, i movimenti della bocca. Nel dir questo egli riconosce validità esplicativa alla «teoria motoria della percezione verbale» secondo cui i suoni verbali sono compresi in riferimento a come vengono articolati e non a come vengono percepiti acusticamente (Studdert-Kennedy, 2005; Primo, in stampa). È ovvio che in una prospettiva di questo tipo il passaggio dal gesto alla parola «può essere visto come un passaggio che si verifica all’interno del dominio gestuale, con i gesti manuali che gradualmente sono stati rimpiazzati da gesti degli organi articolatori, seppur con proba140

bili sovrapposizioni nelle varie fasi del processo» (Corballis, 2009, p. 24). Interpretare le espressioni verbali nei termini delle capacità articolatorie del sistema di fonazione è una prima mossa importante per arginare le accuse dei detrattori della tesi dell’origine gestuale del linguaggio. Una mossa del genere, tuttavia, non basta a spiegare il punto in questione. Alla base della trasformazione del gesto nella parola è legittimo ipotizzare diverse spinte selettive (come la possibilità di comunicare al buio o, soprattutto, la possibilità di comunicare avendo le mani occupate a fare altro). Da solo, tuttavia, il riferimento a tali spinte risulta esplicativamente inefficace: esso dà conto soltanto delle ragioni del passaggio ma non spiega come il passaggio possa essere avvenuto. A dispetto dei risultati conseguiti nell’ambito della teoria motoria della percezione verbale, in effetti, la questione decisiva di cui dar conto per giustificare l’avvento del linguaggio umano rimane un’altra: la giustificazione del passaggio dalle caratteristiche di iconicità e motivatezza tipiche delle espressioni gestuali a quelle di astrattezza e arbitrarietà che caratterizzano i simboli verbali. Secondo Burling (2005), un passaggio del genere è reso possibile da un processo di «convenzionalizzazione»; anche Corballis (2002; 2009) è dello stesso avviso. Il riferimento a un processo di questo tipo fa esplicito riferimento a condizioni di possibilità che (legate alla nozione di «patto» o «accordo» tra i parlanti) rimandano al carattere sociale e culturale della comunicazione umana. L’idea di porre alla base dell’origine del linguaggio verbale un fattore non direttamente riconducibile alla selezione naturale è di grande interesse ai nostri fini e merita di essere analizzata con cura. Il dato da cui partire è un fatto universalmente riconosciuto: la generale trasformazione nel tempo dei codici iconici e motivati in codici arbitrari e astratti. Sia Corballis sia Burling utilizzano come caso di studio l’analisi della lingua dei segni. Uno degli esempi proposti da entrambi 141

gli autori riguarda il segno gestuale per «casa»: quello che un tempo era un’espressione composta da una combinazione dei segni iconici per «mangiare» (una mano con le dita riunite attorno alla bocca) e «dormire» (una mano aperta poggiata sulla guancia) è oggi un segno più astratto caratterizzato dalla perdita del carattere iconico originale (due rapidi tocchi sulla guancia con le dita riunite). Una trasformazione del genere chiama in causa un processo di convenzionalizzazione: La somiglianza iconica può servire a «mettere in moto» i segni, per così dire, ma perde la sua importanza una volta che i segni sono consolidati. (...) Il passaggio dai segni iconici ai segni arbitrari viene detto convenzionalizzazione e si applica in maniera abbastanza generale ai sistemi di comunicazione. Una volta che un segno diventa convenzionalizzato, un ricevente non può più fare affidamento sulla somiglianza con oggetti o eventi del mondo reale per capire cosa significhi. (...) Deve esistere, naturalmente, un accordo tra emittenti e riceventi perché le persone possano capirsi tra loro. Con la convenzionalizzazione la comunicazione si sposta nell’ambito della cultura (Corballis, 2002, trad. it. pp. 154-155, corsivi miei).

Questa citazione merita alcune parole di commento. La prima cosa da sottolineare è la tesi che il carattere arbitrario dei segni sia inevitabilmente connesso alla possibilità di un «accordo» tra i parlanti stabilito per convenzione; la seconda è che l’origine del simbolo sia interpretabile in riferimento al passaggio – governato da un «patto» tra i segnanti – da un processo naturale a un processo socio-culturale. Ora, l’idea che la convenzionalizzazione apra la strada a un «accordo» tra emittente e ricevente è sicuramente un tratto discriminante della comunicazione simbolica: quando si è di fronte a un codice di segni arbitrari, l’accordo è un fattore decisivo della comunicazione. Ed è giusto che si sottolinei che «una volta che» l’uso dei segni passi dall’iconicità originaria alle forme più astratte di espressione il processo di comprensione si avvalga di 142

elementi caratterizzati da forti componenti culturali. La difficoltà del punto in discussione, tuttavia, sta proprio nell’espressione «una volta che», utilizzata in rapida successione per ben due volte da Corballis in questo breve periodo. Quando si ha di mira la genesi del simbolo dire che «una volta che» il simbolo è formato si hanno queste e quelle proprietà è un modo per far tornare i conti senza affrontare il problema. Qui la convenzionalizzazione non ci è d’aiuto: come è possibile mettersi d’accordo nelle fasi iniziali della costruzione di un codice condiviso quando non si ha ancora un codice condiviso con cui accordarsi? Il riferimento alla convenzionalizzazione è insufficiente perché presuppone ciò che deve essere spiegato: la convenzionalizzazione presuppone l’accordo – ne è, per così dire, l’esito finale e non la causa. Corballis sostiene che, da un punto di vista evolutivo, ci sono enormi vantaggi nel passare da un codice iconico a uno astratto: è vero ma questo al più serve a capire soltanto la direzione delle spinte selettive, non a comprendere il tipo di processo alla base del cambiamento. In linea con il discorso fatto sin qui, la nostra idea è che il passaggio al simbolico possa (debba) essere garantito dal sistema cognitivo: più nello specifico, la nostra idea è che un passaggio del genere possa (debba) chiamare in causa un dispositivo in grado di mantenere in vita la comunicazione a dispetto della vacuità del codice espressivo: è il carattere di «macchina baldwiniana» del sistema triadico a garantire il passaggio da un tipo di codice iconico a uno arbitrario. Per chiarire il punto, riprendiamo la trasformazione del segno per «casa» nella lingua dei segni. Ammettiamo una situazione comunicativa di base in cui i segnanti si comprendono facendo leva sulle proprietà iconiche e motivate dei simboli («mangiare» e «dormire»): in questo caso i soggetti impegnati nella comunicazione produconocomprendono un segno composto affidandosi al sistema visivo-motorio per interpretarlo. Consideriamo ora l’evenienza in cui, ai fini di una comunicazione più efficace (più 143

veloce, ad esempio), un emittente durante la conversazione utilizzi (anche in modo casuale e involontario) un nuovo segno sincretico per «casa» il cui carattere essenziale è la perdita dell’iconicità originaria. Siamo qui di fronte a una situazione analoga a quella delineata da Pinker di fronte al primo mutante grammaticale: come fanno i riceventi a comprendere un segno non iconico espresso per la prima volta in una comunicazione? La prima cosa da notare è che in casi di questo genere il sistema visivo-motorio, per le proprietà non iconiche del nuovo segno, non può essere chiamato in causa per dar conto della comprensione. L’unica possibilità di sopravvivenza del nuovo segno è che la comunicazione non conosca intoppi e continui ad andare avanti (solo se il nuovo segno viene integrato nel flusso comunicativo ha una speranza di essere mantenuto in vita e dunque di essere riprodotto in futuro). La nostra idea è che a mandare avanti la comunicazione in casi di questo tipo siano i processi governati dall’STRP: processi che interpretano un indizio comunicativo radicandolo al contesto fisico e sociale. In una concezione che interpreta l’STRP come una macchina baldwiniana, in effetti, i sistemi cognitivi di proiezione e radicamento mantengono in vita la comunicazione a dispetto del fatto che l’espressione non è (ancora) codificata. Riescono a farlo perché proiettano tale espressione nel flusso comunicativo radicandola al contesto: è solo per un radicamento di questo genere che un’espressione del tutto nuova può essere compresa dall’ascoltatore. Questo mantenere in vita la comunicazione è la condizione essenziale dell’avvio del processo di convenzionalizzazione – soltanto se risulta comprensibile la nuova espressione può sedimentarsi nelle pratiche comunicative del codice in costruzione. Mantenere in vita la comunicazione significa permettere a una certa espressione di attestarsi negli scambi comunicativi indipendentemente dalla trasparenza del contenuto informativo che essa veicola. Di questo beneficia non solo il ricevente ma anche il parlante che, confor144

tato dalla comprensione dell’ascoltatore, si sentirà autorizzato a ripetere quell’espressione sincretica la volta successiva. È questo sentirsi autorizzati a farlo, più che l’accordo esplicito, alla base della convenzionalizzazione – la convenzionalizzazione è il prodotto finale, non la spiegazione di ciò che è avvenuto. Se questa ipotesi del funzionamento del sistema triadico come macchina baldwiniana ha una sua qualche plausibilità, allora appare chiaro come sia possibile sostenere che i sistemi di radicamento e proiezione garantiscono il flusso della comunicazione ben prima dell’apparizione di un sistema simbolico. Nella nostra prospettiva, in altre parole, il protolinguaggio precede il protosimbolo: la genesi del simbolo è parassitaria del fatto che la comunicazione va avanti già prima che il simbolo si attesti. Certo l’attestarsi del simbolo cambia di molto la situazione comunicativa: ma il simbolo non potrebbe mai attestarsi senza il carattere del saper andare avanti della comunicazione. Detto questo, manca ancora il secondo passaggio da compiere: dar conto dell’avvento del sistema simbolico. La questione è importante per due motivi. Il primo è che se la natura dei simboli dipende in larga parte dal sistema simbolico, non è possibile dar conto dell’origine del linguaggio senza dar conto dell’origine di tale sistema; il secondo riguarda il fatto che l’analisi della formazione del sistema simbolico ci riporta alle questioni di carattere più generale circa la natura adattativa del linguaggio. Entrambi i motivi ci riconducono, per concludere, alle questioni relative al tema della plausibilità evoluzionistica da cui ha preso le mosse il nostro argomento. 4. Coevoluzionismo Dal discorso fatto sino a questo punto è emerso che lo sforzo messo in campo a livello di attività fenotipica è il correlato cognitivo di una visione della comunicazione fondata 145

sugli indizi e non su un codice comunicativo già dato. Più nello specifico, l’indagine portata avanti sin qui ha mostrato due aspetti particolarmente importanti ai nostri fini: la priorità degli adattamenti cognitivi (dell’STRP, nello specifico) su quelli specificamente linguistici; l’attività fenotipica di cooptazione di tali sistemi ai fini comunicativi. Messa in questi termini, tuttavia, la questione sulla natura adattativa o meno del linguaggio resta ancora aperta: il nostro argomento, in effetti, è perfettamente interpretabile nei termini di una concezione exattamentista del linguaggio, una prospettiva che, come abbiamo visto nel capitolo 2, viene spesso utilizzata a supporto dell’idea del linguaggio come una forma di adattamento culturale. Come abbiamo già detto, tuttavia, un’ipotesi di questo tipo conduce a considerazioni sulla natura del linguaggio e sulla natura umana non compatibili con gli intenti naturalistici da noi assunti in questo libro. Che fare? La nostra idea è che sia giunto il momento di presentare una prospettiva interpretativa in grado di integrare la tesi dell’origine gestuale del linguaggio con la concezione del linguaggio come una forma di adattamento biologico. Più nello specifico, la nostra idea è che una prospettiva di questo tipo passi per la tesi della coevoluzione tra cervello e linguaggio. 4.1. Coevoluzionisti per caso Almeno negli intenti, alcuni degli autori affiliati al gruppo dei neoculturalisti sembrano ammettere una forma di coevoluzione tra cervello e linguaggio. Christiansen e Chater (2008), ad esempio, dopo aver sostenuto che il linguaggio è il prodotto del cervello, sembrano disposti a riconoscere che esso possa avere un «effetto di ritorno» sul cervello. Ora, la coevoluzione, come minimo, è l’idea che il linguaggio abbia effetti sul cervello tanto quanto il cervello ha effetti sul linguaggio. Il punto in questione riguarda la natura di questi effetti: ci sono effetti che valgono soltanto per il fenotipo e che, dunque, terminano con la sua morte; ci sono effetti che valgono per la specie: variazioni che, attraverso la selezione na146

turale, divengono adattamenti specifici al linguaggio della struttura cerebrale. La nostra idea è che si possa parlare di coevoluzione in senso proprio solo nel secondo caso (il primo caso è piuttosto una forma di covariazione tra cervello e linguaggio perfettamente interpretabile nei termini del linguaggio come artefatto culturale): solo nel secondo caso, in effetti, è possibile parlare del linguaggio come una forma di adattamento biologico (Ferretti, 2009a; in stampa; Ferretti e Primo, 2008). Diversamente dai neoculturalisti, Corballis (2009) sembra confortare la nostra ipotesi: in opposizione a Chomsky, egli sostiene infatti che il linguaggio deve essere inteso come il prodotto della selezione naturale. C’è un aspetto della sua tesi, tuttavia, che non ci convince del tutto: si tratta, guarda caso, del rapporto tra grammatica e convenzionalizzazione. Per Corballis (2009), la grammatica del gesto, la cui origine è da ricondurre alla selezione naturale, è un fatto più antico della grammatica dei simboli arbitrari; il punto in questione è che, per come viene presentata, la grammatica del linguaggio verbale sembra chiamare in causa processi di ordine esclusivamente socio-culturale. Secondo Corballis, infatti, l’ordine delle parole nelle frasi «è semplicemente una questione di convenzione» (ivi, p. 35). A conferma di questa ipotesi egli chiama in causa il fatto che la combinazione delle parole nella composizione di enunciati può assumere forme diverse in lingue diverse. La sequenza soggetto-verbo-oggetto (SVO) tipica dell’inglese («il cane morde un uomo»), ad esempio, pur esemplificando la forma più comune, non rappresenta l’unico ordine riscontrabile nei codici verbali: tra le lingue del mondo si assiste a una serie di possibilità che mettono in risalto il carattere arbitrario della successione delle sequenze delle parole negli enunciati (il caso estremo è quello del walpiri, una lingua degli aborigeni australiani in cui l’ordine delle parole non fa alcuna differenza). Ora, mentre nel caso del linguaggio gestuale la mimesis garantisce la corrispondenza tra la struttura combina147

toria delle espressioni e la struttura combinatoria degli eventi descritti (da cui dipende il carattere motivato e iconico delle espressioni gestuali), nel caso dei simboli astratti e arbitrari del codice simbolico l’ordine delle parole attraverso cui descriviamo gli eventi del mondo dipende soltanto «dalle convenzioni che costituiscono la grammatica» (ivi, p. 34). Come nel caso dell’avvento del simbolo, anche a proposito della costruzione del sistema simbolico è di nuovo il tema della convenzionalizzazione a giocare un ruolo di primo piano: considerata in questo modo, la grammatica del linguaggio verbale, diversamente dalla grammatica del linguaggio gestuale, viene ad essere il prodotto del patto e degli accordi tra i parlanti nella società del tutto svincolato dalla selezione naturale. Non discutiamo, naturalmente, l’idea che l’ordine delle parole dipenda anche (almeno a un certo livello di analisi) dalle prassi comunicative della comunità dei parlanti. Quello che ci chiediamo è se considerare in questo modo l’evoluzione della grammatica sia la maniera giusta per dar conto dei processi di avvio del sistema simbolico. Il riferimento alla convenzionalizzazione sembra segnare una rottura (o, comunque, un passaggio troppo repentino) rispetto ad alcune delle ipotesi fatte da Corballis a proposito dell’origine gestuale del linguaggio: come si concilia l’idea della grammatica come il prodotto arbitrario del patto sociale con l’idea secondo cui il linguaggio gestuale (motivato) deve essere considerato un passaggio intermedio ineludibile per l’avvento del pensiero simbolico (arbitrario)? Si riaffaccia qui la tesi della grammatica gestuale come un evento che semplicemente «prepara la scena» dell’avvento della grammatica del linguaggio verbale senza intervenire in modo vincolante sulla struttura delle lingue e sui processi di elaborazione chiamati a gestirne l’uso attuale effettivo. Questa è un’ipotesi plausibile, ovviamente, ma che a nostro avviso mal si accorda con l’idea di Corballis secondo cui, con buona pace di Chomsky, «il linguaggio (...) si è evoluto attraverso la selezione naturale» (ivi, p. 20): se 148

il linguaggio verbale è il prodotto di una grammatica legata alla convenzionalizzazione, in effetti, esso resta primariamente un adattamento culturale – solo il protolinguaggio (la grammatica gestuale) può essere considerato un adattamento biologico in senso proprio. A nostro avviso, il riferimento alla convenzionalizzazione è un modo per passare il Rubicone simbolico senza bagnarsi le scarpe: manca un ponte che spieghi come le prime forme di segni arbitrari possano attestarsi a dispetto del fatto che non hanno più il legame di motivatezza tipico della grammatica gestuale. Come dar conto in modo meno traumatico del passaggio dalla grammatica motivata del gesto a quella arbitraria del linguaggio verbale? Una maniera per rispondere alla domanda è valutare il ruolo di vincolo che i sistemi concettuali impongono alla costruzione della grammatica – un modo per contrapporsi all’idea della grammatica come prodotto esclusivo della convenzione sociale. Un interessante caso di studio riguarda l’analisi del linguaggio spaziale: quale tipo di interazione è legittimo ipotizzare tra linguaggio e cognizione spaziale? L’idea alla base della linguistica cognitiva è che la possibilità di parlare dello spazio sfrutti i sistemi di concettualizzazione alla base della rappresentazione dello spazio. Secondo Talmy (1983, 2000) e Jackendoff (1983) sono tre i componenti alla base del linguaggio spaziale: la figura, lo sfondo e la relazione tra figura e sfondo. L’«oggetto-figura» è l’oggetto localizzato dall’espressione linguistica; l’«oggetto-sfondo» è l’oggetto in riferimento al quale l’oggetto-figura è localizzato; la relazione tra figura e sfondo riguarda le relazioni geometriche tra la figura e lo sfondo. Nella forma canonica, l’oggetto-figura è il soggetto grammaticale, mentre l’oggetto-sfondo è codificato come l’oggetto della preposizione spaziale o del verbo. In inglese, così come in italiano e in molte altre lingue, le relazioni spaziali esistenti tra due o più oggetti sono espresse da una serie di preposizioni spaziali altamente selettive per il tipo di relazione che codificano. 149

Una prova dei vincoli che i sistemi concettuali impongono alle possibilità delle lingue di parlare dello spazio riguarda l’asimmetria tra l’oggetto-figura e l’oggetto-sfondo: anche se da un punto di vista logico le relazioni spaziali potrebbero essere codificate in strutture proposizionali della forma R (a,b) caratterizzate da una relazione simmetrica tra i due oggetti, «nel linguaggio umano (...) il modo predominante di esprimere le relazioni spaziali è asimmetrico» (Landau e Jackendoff, 1993, p. 224). Si prenda il caso dei due seguenti enunciati: a. La stella (oggetto-figura) è dentro al cerchio (oggetto-sfondo). b. Il cerchio (oggetto-figura) si estende attorno (circonda) la stella (oggetto-sfondo). Come sottolineano Landau e Jackendoff (1993), i due enunciati descrivono lo stesso stimolo fisico. A dispetto di questo fatto, però, se si inverte l’oggetto-figura con l’oggetto-sfondo si rappresenta lo stimolo in maniera diversa. Benché inversioni di questo tipo non siano del tutto proibite, esse non sono sempre ammissibili: ad esempio, se due oggetti sono di diverse dimensioni o si muovono in modo diverso, «il più grande o quello più stabile è invariabilmente codificato come l’oggetto-sfondo» (ivi, p. 225). C’è dunque un’asimmetria tra i ruoli funzionali dei due oggetti; un esempio di asimmetria linguistica governata dal sistema rappresentazionale è dato dai casi sottostanti: a. Il libro è sul tavolo. b. ?Il tavolo è sotto il libro. Anche il caso dell’adiacenza (in apparenza una relazione spaziale simmetrica) mostra la dipendenza asimmetrica della relazione oggetto-figura e oggetto-sfondo: a. La bicicletta è a lato della casa. 150

b. ?La casa è a lato della bicicletta. L’aspetto rilevante che emerge dall’analisi di questi casi è che l’asimmetria in questione è interpretabile nei termini dei vincoli che la rappresentazione concettuale impone alla rappresentazione linguistica. Scrivono Landau e Jackendoff (1993): Non sembra seguire da nessun fatto specificamente linguistico che (...) il tavolo e la casa siano oggetti-sfondo più plausibili e il libro e la bicicletta siano oggetti-figura più plausibili (...). La nostra idea è (...) che tale asimmetria linguistica dipende dai principi di organizzazione spaziale che richiedono che un oggetto sia ancorato (o localizzato) relativamente a qualche altro oggetto. Gli oggetti-sfondo hanno proprietà che facilitano il compito: in molti contesti, essi sono estesi, stabili e caratteristici (...). In questi casi, l’organizzazione del linguaggio rispecchia l’organizzazione della cognizione spaziale (ivi, p. 225).

Considerazioni di questo tipo sono di enorme importanza per inquadrare correttamente la questione della convenzionalizzazione. I codici come pure astrazioni non esistono: non esiste una lingua fuori dai reali processi di comprensione e produzione che ne definiscono le condizioni d’uso e che ne vincolano la natura. Se, come sostiene Corballis, il linguaggio gestuale è una forma compiuta di protolinguaggio e se, nella sua origine, il linguaggio verbale sfrutta parassiticamente il linguaggio gestuale, allora la grammatica del linguaggio verbale non può essere considerata in riferimento a espressioni del tutto arbitrarie. Parlare dell’avvento delle proprietà relazionali tra simboli soltanto in termini di convenzionalizzazione è un’operazione poco convincente per dar conto dei passi iniziali della costituzione del sistema simbolico verbale: tra la grammatica gestuale del protolinguaggio e quella del linguaggio verbale devono esistere forme intermedie in grado di garantire il passaggio da una grammatica all’altra. 151

Secondo Burling (1999) una forma intermedia di questo tipo può essere ascritta alla «sintassi iconica». L’iconicità, in effetti, è una caratteristica ben presente anche nel linguaggio verbale: oltre che sul piano dell’onomatopea e su quello del simbolismo sonoro e dell’intonazione, anche la sintassi mostra aspetti riferibili all’iconicità (Haiman, 1985; Givon, 1989; Simone, 1995). Scrive Burling (1999): L’iconicità della sintassi è chiaramente evidente nell’ordine delle parole e dei morfemi. L’ordine della parola e del morfema (...) può stare in una relazione di iconicità diagrammatica col significato (Matthews 1991: 12). L’esempio più ovvio è dato dal fatto che le parole di una frase seguono, tendenzialmente, l’ordine degli eventi che descrivono. Noi comprendiamo che il famoso veni, vidi, vici sta ad indicare che la prima azione di Cesare è stata quella di arrivare. Poi quella di vedere, e solo successivamente quella di conquistare. Le lingue ci permettono di esprimere cose senza rispettare l’ordine cronologico, ma per fare questo è necessaria una sintassi più complessa: prima di conquistare devo aver veduto e prima di vedere devo essere arrivato (ivi, p. 9).

Nel passaggio dalla grammatica del gesto a quella del linguaggio verbale la «sintassi iconica» si presta a fare da ponte ideale. Nel dire questo, sia chiaro, non intendiamo sostenere la natura iconica della grammatica del linguaggio verbale (costituita in larga parte dalle regole astratte e arbitrarie che governano l’uso di simboli astratti e arbitrari): quello che intendiamo dire è che tematizzare l’origine della grammatica verbale nei termini di una netta separazione con i sistemi grammaticali che l’hanno preceduta traccia una linea di separazione difficilmente colmabile in termini evoluzionistici. Con questa precisazione in mente, è possibile considerare la grammatica iconica di cui parla Burling la condizione intermedia attraverso cui la grammatica gestuale (che precede) e quella verbale (che segue) hanno dato vita a un virtuoso processo di coevoluzione. Senza un processo di questo tipo non è possibile tematizzare la grammatica da un punto di vista evolutivo, né tantomeno è pos152

sibile considerare il linguaggio un adattamento biologico in senso proprio. Con buona pace di Corballis, questa volta. 5. Coevoluzionisti per davvero Dal punto di vista dei neoculturalisti il rapporto tra mente e sistema simbolico deve essere interpretato nei termini di una «invasione» della lingua nella scatola cranica – secondo un processo di costituzione che va dall’esterno verso l’interno. Dal nostro punto di vista, invece, piuttosto che un’entità esterna all’individuo pronto a invadere la mente degli umani, il sistema simbolico è un ambiente (una nicchia ecologica) in cui le menti operano e a cui si adattano. Solo una prospettiva del genere, come vedremo, apre la strada a un’ipotesi di coevoluzione tra cervello e linguaggio in grado di garantire una concezione sintetica della natura del linguaggio umano. È dal concetto di nicchia ecologica, dunque, che occorre partire. 5.1. Il concetto di nicchia simbolica La più importante conseguenza della tesi del ruolo del comportamento nel processo evolutivo è, come abbiamo sostenuto nel capitolo 3, l’idea che gli organismi siano continuamente implicati nella trasformazione dell’ambiente. Particolare importanza a tale riguardo riveste la concezione degli organismi come costruttori di nicchie ecologiche (Laland et al., 2000; 2001; Laland e Brown, 2006). Una concezione del genere si integra alla perfezione con il rilievo da noi accordato all’effetto Baldwin nella spiegazione dei processi evolutivi: insistendo sul ruolo centrale dell’attività del fenotipo è in effetti possibile sostenere che «attraverso la costruzione delle loro nicchie, gli organismi modificano le pressioni della selezione naturale a cui essi e i loro discendenti sono sottoposti» (Laland et al., 2001, p. 23) e dunque che la costruzione di una nicchia ecologica «non è solo un prodotto dell’evoluzione, ma una causa del cambiamento evolutivo» (Laland e Brown, 2006, p. 96). 153

Tra le nicchie ecologiche costruite dagli umani, particolare rilevanza rivestono le nicchie ecologiche culturali. La trasformazione dell’ambiente naturale in un ambiente di artefatti (grattacieli, macchine, computer ecc.) è alla base di un interessante problema teorico. Lo scarto temporale tra evoluzione biologica ed evoluzione culturale rende plausibile l’idea che gli umani contemporanei si rapportino con l’ambiente utilizzando cervelli evolutivamente arcaici: secondo Buss (1999), ad esempio «noi esseri umani percorriamo le nostre strade moderne con ‘in testa cervelli dell’età della pietra’». Ora, sostenere che i sapiens si rapportano con l’ambiente utilizzando un cervello ancestrale è un modo per asserire che l’ambiente attuale non deve essere mutato molto rispetto all’ambiente di adattamento evoluzionistico. L’idea prevalente in psicologia evoluzionistica è, in effetti, che i sapiens vivano «in un ambiente, soprattutto quello relativo alla dimensione interpersonale, simile in molti aspetti a quello nel quale [si sono] evoluti» (Adenzato e Meini, 2006, p. XX). Dire che gli umani contemporanei si relazionano all’ambiente con lo stesso cervello dei loro antenati dell’età della pietra non è tuttavia del tutto corretto. Non è vero, tanto per cominciare, che l’ambiente in cui gli umani vivono oggi non sia cambiato un granché rispetto all’ambiente di adattamento evoluzionistico: non è vero soprattutto rispetto all’ambiente sociale che è mutato sensibilmente da quando gli umani hanno iniziato ad utilizzare il linguaggio simbolico. Sostenere che l’ambiente di oggi è molto diverso da quello ancestrale apre la strada all’idea che il nostro cervello (sottoposto a pressioni selettive diverse rispetto a quelle originarie) abbia potuto subire variazioni caratterizzabili come adattamenti biologici. Ora, per difendere l’ipotesi del linguaggio come un adattamento dovuto alla selezione naturale dobbiamo portare dati a conforto dell’idea che la nicchia simbolica in cui gli umani vivono possa aver comportato variazioni sul piano del genotipo. Prima di affrontare la questione specifica del linguaggio, è bene ri154

spondere a una domanda di carattere più generale: in che senso una nicchia ecologica culturale può comportare variazioni del genere? In contrasto con la posizione della psicologia evoluzionistica, Laland e Brown (2006) sostengono che la nicchia ecologica culturale in cui noi oggi viviamo sia straordinariamente diversa da quella in cui vivevano i nostri parenti ancestrali. Diversamente da altre specie, gli umani possono rispondere in due modi alla nicchia ecologica in cui vivono: attraverso la costruzione di nuove nicchie culturali; attraverso gli adattamenti dovuti alla selezione naturale. Ovviamente, la costruzione di nuove nicchie culturali è un ottimo modo per rispondere alle sfide della sopravvivenza nel breve periodo; di per sé, tuttavia, l’adattamento dovuto alla costruzione di nicchie culturali non esclude che un modo alternativo di rispondere alle sollecitazioni ambientali possa dipendere dalle variazioni organiche: l’opinione di Laland e Brown in proposito è che «quando gli esseri umani non sono in grado di rispondere al ritardo adattativo attraverso la costruzione di ulteriori nicchie culturali, entra in campo la selezione naturale sui geni» (ivi, p. 101). Ecco un caso da cui partire per comprendere il punto. I Kwa, coltivatori della patata dolce in Africa occidentale, rappresentano un ottimo esempio di relazione tra evoluzione culturale ed evoluzione biologica. Per dar spazio alle coltivazioni, i Kwa hanno tagliato molti alberi nella foresta. Un’operazione del genere ha avuto conseguenze a cascata: senza alberi è aumentata la possibilità di acque stagnanti; nelle acque stagnanti le zanzare si sono riprodotte molto velocemente; l’aumento delle zanzare ha portato a un incremento della malaria; la malaria è divenuta una spinta selettiva a favore della modificazione di uno specifico allele responsabile delle mutazioni in grado di contrastarla. In questo caso la cultura non ha smorzato il ruolo della selezione naturale ma lo ha favorito. Il fatto che altri parlanti Kwa, con diverse pratiche di agricoltura, non presentino lo stesso incremento della frequenza del155

l’allele in questione corrobora la tesi che le pratiche culturali possano funzionare da guida all’evoluzione. La conclusione a cui pervengono Laland e collaboratori (2000) è che l’influenza delle attività culturali sull’evoluzione genetica degli ominidi sia stata troppo a lungo trascurata. Oggi però, «dati empirici e ipotesi teoriche suggeriscono che le attività culturali hanno influenzato l’evoluzione genetica umana modificando le spinte selettive e alterando le frequenze dei genotipi in alcune popolazioni» (ivi, p. 131). Considerazioni di questo tipo possono essere proficuamente utilizzate per far fronte alle critiche di chi sostiene che la selezione naturale non ha avuto a disposizione il tempo sufficiente per produrre variazioni significative sul piano della specie (Tomasello, 1999): la costruzione di nicchie ecologiche può infatti essere considerata un potente fattore di accelerazione evolutiva. Come ribadiscono Laland e Brown (2002) in un libro dedicato allo studio del comportamento umano, in effetti, i dati sperimentali degli ultimi venti anni ci spingono alla conclusione «che l’evoluzione biologica possa essere estremamente veloce, con cambiamenti genetici e fenotipici significativi spesso osservabili nel corso di poche centinaia di generazioni» (ivi, p. 190). Hawks e collaboratori (2007) confermano questa ipotesi sostenendo che gli umani hanno subito una forte accelerazione adattativa negli ultimi 40.000 anni. Il nostro cervello non è più quello dei nostri parenti ancestrali: alcune parti del sistema nervoso di Homo sapiens sono mutate (e possono mutare ancora) a seguito delle spinte selettive imposte dall’avvento della cultura. A questo punto non ci rimane che un ultimo passo da compiere: la nicchia simbolica determinata dall’avvento della comunicazione verbale può aver spinto il cervello a modificazioni intese come adattamenti al linguaggio? 5.2. La coevoluzione alla prova dei fatti Coevoluzione significa, come minimo, rapporto bidirezionale di costitu156

zione: in un rapporto di questo tipo, se il linguaggio si adatta ai vincoli imposti dal cervello anche il cervello deve adattarsi ai vincoli imposti dal linguaggio. Per quanto alcuni neoculturalisti (Tomasello, 1999; Christiansen e Chater, 2008) facciano spesso appello alla tesi della coevoluzione, la loro proposta rimane unidirezionalmente legata al primato del cervello sul linguaggio: è il cervello a dare forma al linguaggio, e non viceversa. Non è certo nostra intenzione mettere qui in discussione il primato della biocognizione sul linguaggio (nessuna ipotesi dell’origine del linguaggio appare plausibile senza le precondizioni biocognitive adeguate); perché si possa parlare di coevoluzione, tuttavia, è indispensabile prendere in considerazione l’idea che anche il linguaggio possa dar forma al cervello. Ci sono almeno due modi per dar corpo a questa idea. Un primo modo per considerare l’«effetto di ritorno» del linguaggio sul cervello è in linea con la tesi del linguaggio come adattamento culturale. L’acquisizione del linguaggio di ciascun individuo appartenente a una data cultura modifica il cervello di quell’individuo: il fenotipo cambia, ma il genotipo no. Quando questo accade, l’evoluzione che il linguaggio impone al cervello deve essere ascritta a quel tipo di fenomeni adattativi che seguono le leggi dell’evoluzione culturale, non di quella naturale. Un’ipotesi di questo tipo è certamente plausibile, ma non è un’ipotesi della coevoluzione tra cervello e linguaggio (al più è un’ipotesi della «covariazione»): perché ci sia coevoluzione la semplice evoluzione culturale non basta, deve darsi una qualche forma di adattamento biologico del cervello al linguaggio. Un secondo modo per considerare la questione è tener conto del fatto che l’avvento del linguaggio comporti un riallineamento adattativo del cervello. Il linguaggio è un artefatto cognitivo di cui la mente umana si serve per potenziare le proprie capacità di elaborazione: è un’«impalcatura esterna», per usare l’espressione cara ai fautori della mente estesa (Clark, 1997, 2003). Le impalcature esterne, tuttavia, non rappresentano soltanto un guadagno dal 157

punto di vista dei processi di elaborazione: se è vero che le protesi esterne alla scatola cranica servono per alleggerire il costo computazionale del cervello, è anche vero che esse rappresentano per il cervello un impegno in più: sarebbe ingenuo considerare il sistema di simboli alla base delle nostre capacità verbali come un’estensione della mente senza pensare all’impegno cognitivo necessario per utilizzare un sistema di questo tipo. Da questo punto di vista, il linguaggio è al tempo stesso un nuovo (potentissimo) strumento di conoscenza ma è anche un nuovo problema ambientale: una nicchia ecologica a cui l’organismo deve adattarsi (Ferretti, in stampa). L’avvento di una nicchia ecologica come il sistema simbolico deve aver comportato un riadattamento del sistema cognitivo alle esigenze imposte dalle mutate situazioni ambientali. Un discorso di questo tipo ha ripercussioni importanti sul piano della natura del linguaggio. Dire che la tesi della coevoluzione è sostenibile soltanto considerando gli adattamenti del cervello al linguaggio come adattamenti specifici governati dalla selezione naturale è un modo per sostenere che il linguaggio è una forma di adattamento biologico, oltre che culturale (Ferretti e Primo, 2008). Come giustificare questa ipotesi? Il primato della biocognizione sul linguaggio, come si è detto, non è controverso. L’idea che tra i costituenti alla base dell’origine del linguaggio e del suo funzionamento debba essere posta una qualche forma di «lettore della mente» è, come abbiamo visto, largamente condivisa. Sperber (2000) si spinge oltre, mostrando che le capacità metarappresentazionali in causa nel funzionamento di un dispositivo del genere entrano in un rapporto di coevoluzione con il linguaggio: Uno scenario plausibile è quello in cui la capacità metarappresentazionale si sviluppa nelle specie ancestrali per ragioni legate alla competizione, allo sfruttamento e alla cooperazione ma non per la comunicazione in quanto tale. Questa capacità meta-

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rappresentazionale rende possibile una forma di comunicazione inferenziale inizialmente come un effetto secondario (...). Il carattere positivo di questo effetto secondario (...) crea un ambiente favorevole per l’evoluzione di un nuovo adattamento, una capacità linguistica. Una volta che tale capacità si evolve, è facile immaginare un mutuo incremento coevolutivo di entrambe le capacità (ivi, p. 127).

Che prove abbiamo che ad essere in atto in questo caso sia davvero un rapporto di coevoluzione? Mentre alcuni autori sostengono che un generico sistema metapsicologico sia alla base tanto dei processi di mentalizzazione tipici dell’interpretazione del comportamento quanto di quelli in atto nella comprensione del linguaggio, l’idea di Sperber e Wilson (2002) è che bisogna distinguere le «capacità metacognitive» dalle «capacità metacomunicative». Il punto in questione è stabilire se le intenzioni del parlante nel processo comunicativo siano o meno dello stesso tipo delle intenzioni che regolano qualsiasi altra forma di comportamento: secondo Sperber e Wilson «la comprensione verbale esibisce regolarità e specifiche difficoltà non riscontrabili in altri domini» (ivi, p. 3). Le intenzioni comunicative, diversamente dalle generiche intenzioni comportamentali, come abbiamo visto nel capitolo 3, hanno in effetti un carattere «ostensivo». La comunicazione sfrutta un duplice livello di informazione: quella primaria messa in evidenza con il proferimento verbale e quella secondaria in cui si mostra che l’informazione primaria è stata messa in evidenza in maniera intenzionale. Ora, se l’intenzione comunicativa presenta caratteristiche specifiche così peculiari allora è probabile che un generico dispositivo di mentalizzazione non risulti adeguato allo scopo: la tesi di Sperber e Wilson è che per dare conto dei processi implicati in questo tipo di elaborazioni sia opportuno fare riferimento all’esistenza di un modulo metacomunicativo distinto da quello metacognitivo. Una distinzione di questo tipo è corroborata da prove sperimentali (Happé e Loth, 159

Figura 4.1. Il ciclo di coevoluzione cervello-linguaggio-cervello.

2002). Dal nostro punto di vista il modulo della metacomunicazione è un adattamento (un riadattamento biologico) richiesto dalla necessità di far fronte alle difficoltà imposte da un tipo di comunicazione sempre più efficiente e complesso (fig. 4.1). Se è vero che una qualche forma di lettura della mente deve precedere l’avvento del linguaggio, è anche vero che l’avvento del linguaggio modifica i sistemi cognitivi adibiti alla sua elaborazione al punto da renderli adattamenti biologici specifici. Così inteso, il modulo metacomunicativo può essere visto come un effetto di ritorno del linguaggio sul cervello. Il fatto che esistano dispositivi cognitivi adattati al linguaggio mostra che l’evoluzione della comunicazione verbale non segue soltanto uno sviluppo di tipo culturale. Certo, si tratta soltanto della variazione di uno dei sistemi cognitivi coinvolti nei processi di elaborazione lin160

guistica. Ma il risultato non è di poco conto rispetto alle questioni di carattere più generale; un risultato del genere è in effetti sufficiente a mettere in crisi il modello dell’anomalia evolutiva dell’essere umano: anche un solo adattamento biologico specifico al linguaggio basta a invalidare la tesi del linguaggio come un adattamento esclusivamente culturale. 6. Conclusioni La prospettiva interpretativa assunta in questo libro ci porta a valutare i modelli teorici circa la natura del linguaggio in termini di plausibilità evoluzionistica. Detto in modo molto semplice: se un modello non è conforme alla teoria dell’evoluzione, tanto peggio per il modello. Le ipotesi interpretative che fanno riferimento alla grammatica universale, anche quelle che hanno tentato di rendere Chomsky compatibile con Darwin, mostrano chiare difficoltà da questo punto di vista. Meglio cambiare strada: rovesciando la metodologia tipica dell’ingegneria inversa, che parte dal modello del linguaggio per controllarne (a posteriori) la plausibilità evoluzionistica, in questo libro abbiamo proposto un modello interpretativo che provasse a dar conto dell’origine e del funzionamento del linguaggio avendo come scopo prioritario la conformità alla teoria dell’evoluzione. Il modello da noi proposto trova fondamento nell’idea della priorità logica e temporale della pragmatica sulla grammatica. Quando si considera la comunicazione umana caratterizzata in modo essenziale dalla capacità di parlare in modo appropriato (in modo coerente e consonante alla situazione), l’origine del linguaggio trova spiegazione nei sistemi cognitivi in grado di radicare (flessibilmente) i soggetti al contesto fisico e sociale. Sistemi di questo tipo, in effetti, possono funzionare come «macchine baldwiniane» in grado di mantenere in vita la comunicazione anche 161

nelle fasi iniziali in cui, mancando un codice condiviso, il parlante offre all’ascoltatore soltanto un indizio delle proprie intenzioni comunicative. Mantenere in vita la comunicazione attraverso indizi così carenti sul piano espressivo, tuttavia, richiede un imponente sforzo cognitivo: col passare del tempo la selezione naturale può essere venuta incontro alle esigenze di ridurre tale sforzo lavorando per la costruzione di sistemi cognitivi specificamente adibiti al linguaggio. È qui che l’idea del linguaggio come sforzo exattativo viene a convergere con la tesi del linguaggio come adattamento biologico. Come dovrebbe essere chiaro a questo punto, rivendicare la natura exattativa del linguaggio non è di per sé sufficiente a negare la sua natura adattativa. Il linguaggio prende certamente avvio dalla cooptazione di sistemi di elaborazione nati per altri scopi: riconoscere questo fatto, tuttavia, diversamente da quanto sostengono i neoculturalisti, non comporta di per sé una rinuncia all’idea del linguaggio come adattamento biologico. Schematicamente, è possibile riassumere il processo in tre fasi: una fase iniziale in cui la carenza informativa dei pochi indizi disponibili è sorretta dai sistemi cognitivi che, radicando i segnali proferiti alla situazione contestuale, mantengono in vita la comunicazione conferendo a tali segnali un’interpretazione appropriata; una seconda fase in cui la spinta selettiva a una comunicazione più efficace (secondo il principio del massimo guadagno con il minimo sforzo) punta a migliorare il codice espressivo per ridurre il carico computazionale dei sistemi cognitivi; una terza fase, infine, in cui alcuni dei sistemi cognitivi nati per altri scopi si riadattano al codice espressivo in costruzione (contribuendo a loro volta a una complicazione del codice) divenendo adattamenti specifici al linguaggio. In un’ipotesi di questo tipo persino la grammatica universale potrebbe essere interpretata come un riadattamento dovuto ai processi di coevoluzione. Pinker (1994) sembra sottoscrivere questa ipotesi: 162

Se un mutante grammaticale sta facendo una distinzione importante che può essere decodificata dagli altri solo con incertezza e con grande fatica mentale, questo può stimolarli a evolvere il sistema corrispondente che permetta loro di interpretare quella distinzione automaticamente, con un processo di analisi inconscio e automatico (ivi, trad. it. p. 358).

Se davvero la grammatica universale possa essere interpretata nei termini della coevoluzione tra linguaggio e cervello è una questione che ai fini di questo libro può rimanere aperta. Per almeno due ragioni. La prima è che comunque la si intenda (innata o appresa che sia), la grammatica non è il punto da cui partire per l’analisi dell’origine del linguaggio: la verbalizzazione, come dovrebbe essere chiaro a questo punto, prende avvio dalla pragmatica, non dalla grammatica. La seconda ragione è che il dibattito sulla natura adattativa o meno della grammatica è rilevante solo per quanti identificano il linguaggio con la grammatica universale. Quando, al contrario, il valore adattativo del linguaggio è misurato nei termini della coevoluzione tra il sistema simbolico e i dispositivi cognitivi che ne hanno reso possibile l’avvio, si ottiene tutto ciò che serve ai fini del nostro discorso: arginare la visione di chi interpreta il linguaggio come un’entità regolata in modo esclusivo dall’evoluzione culturale. Mostrare che esistono adattamenti specifici per il linguaggio, in effetti, è condizione sufficiente per mettere definitivamente fuori gioco le conclusioni circa la natura umana in termini di «anomalia evolutiva». Sentirci entità speciali nella natura soddisfa il nostro orgoglio antropocentrico ma tradisce lo spirito della lezione darwiniana: quando si ha in mente una visione naturalistica dell’essere umano, un tradimento del genere è, molto semplicemente, un lusso che non possiamo concederci.

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180

Indice

Introduzione

V

1. Complessità

3

1. Il «colpo da maestro» di Darwin, p. 7 - 2. Semplici complessità, p. 11 - 3. Fare a meno del progettista, p. 15 - 4. Il linguaggio: una complessità irriducibile?, p. 21

2. Adattamento

26

1. La complessità del linguaggio, p. 27 - 2. Il linguaggio come adattamento, p. 39 - 3. Il linguaggio come exattamento, p. 46 - 4. Exattamentismo e innatismo, p. 61 - 5. Conclusioni, p. 69

3. Sforzo

71

1. Lo sforzo del comunicare, p. 73 - 2. Lo sforzo adattativo, p. 78 - 3. Il «Sistema Triadico di Radicamento e Proiezione», p. 85 - 4. Ancoraggio, proiezione e flessibilità, p. 107

4. Orientamento

113

1. Lo sfondo, p. 115 - 2. Parlare attraverso indizi, p. 118 - 3. Alle origini del linguaggio, p. 133 4. Coevoluzionismo, p. 145 - 5. Coevoluzionisti per davvero, p. 153 - 6. Conclusioni, p. 161

Riferimenti bibliografici 181

165