Alienazione. Attualità di un problema filosofico e sociale
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Rahel Jaeggi Alienazione Attualità di un problema filosofico e sociale Nessun altro concetto della tradizione marxista ha avuto una risonanza e un successo paragonabili a quelli avuti dall’alienazione. La categoria non è stata soltanto uno dei capisaldi teorici del “marxismo occidentale” e, su un altro versante della filosofia novecentesca, dell’esistenzialismo tedesco e francese: nella seconda metà del Novecento, essa è anche assurta a vessillo di un’intera stagione politica e culturale. A questo uso sempre più dilatato del termine ha fatto seguito, però, la sua repentina marginalizzazione dal dibattito filosofico e culturale. Scandagliando il doppio volto dell’alienazione, Rahel Jaeggi ne riattualizza la critica, con grande maestria e dovizia, permettendo di creare un nuovo aggancio alla realtà in cui viviamo ed elaborando una forma di critica sociale adeguata alle nostre forme di vita contemporanee. Rahel Jaeggi Docente di Filosofia Pratica presso la Humboldt Universität di Berlino, con la sua ricerca sul concetto di alienazione si è imposta sulla scena filosofica contemporanea come un’erede originale e geniale della tradizione della teoria critica francofortese, inaugurata da Horckheimer e Adorno e proseguita in anni recenti da Habermas e Honneth. Fra i suoi libri, in Italia è stata pubblicata la raccolta di saggi Forme di vita e capitalismo (2017).

Le Boe

Titolo originale: Entfremdung. Zur Aktualitdt eines sozialphilosopbischen Problems © 2005 Campus Verlag GmbH, Frankfurt/Main

Traduzione dal tedesco di Alice Romoli e Giorgio Fazio I edizione: settembre 2017 © 2017 Lit Edizioni Srl Tutti i diritti riservati Castelvecchi è un marchio di Lit Edizioni Srl Sede operativa: Via Isonzo 34, 00198 Roma Tel. 06.8412007 - fax 06.85358676 [email protected] www. castelvecchieditore. com ristampa

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anno

2017 2018 2019 2020

Rahel Jaeggi

ALIENAZIONE Attualità di un problema filosofico e sociale A cura di Giorgio Fazio Traduzione di Alice Romoli e Giorgio Fazio

CON UNA NUOVA POSTFAZIONE DELL’AUTRICE

Prefazione

Nessun altro concetto ha determinato la vicenda della prima teoria critica con più incisività e ovvietà di quello di «alienazione». Per i pri­ mi esponenti di questa tradizione non era neanche necessario fissare o circoscrivere il contenuto di questo concetto perché esso costituiva semplicemente il punto di partenza evidente di tutte le analisi critiche e sociali. Per quanto poco trasparenti fossero i rapporti sociali e per quanto complicati essi fossero divenuti, per Adorno, Marcuse e Horckheimer non sussisteva alcun dubbio sul fatto che essi avessero un carattere alienato. Oggi questo consenso teorico ci appare più che sorprendente: tutti questi autori, e in particolar modo Adorno, avrebbero dovuto sapere infatti che questo concetto riposa su premesse che contraddicono le lo­ ro stesse convinzioni sui pericoli connessi a generalizzazioni troppo af­ frettate. Il concetto di alienazione - in quanto concetto di filosofia sociale in tutto e per tutto un prodotto della modernità - presuppone, per Rous­ seau non meno che per Marx e i suoi eredi, una concezione dell’essenza umana: ciò che viene diagnosticato come alienato deve essersi allonta­ nato da qualcosa, deve essere divenuto estraneo rispetto a quanto può es­ sere inteso come l’autentica natura dell’uomo, la sua vera essenza. Gli svi­ luppi filosofici degli ultimi decenni su entrambi i fronti dell’Atlantico hanno messo la parola fine a questo tipo di determinazioni essenzialistiche; nel frattempo sappiamo che, anche se non possiamo dubitare del­ l’esistenza di determinati universali della natura umana, non possiamo più parlare in senso oggettivistico di un’«essenza» umana, di «forze di genere» o di scopi fondamentali. Una conseguenza di questo processo di autocorrezione teorica è stata la scomparsa della categoria di alienazio­ ne dal lessico filosofico comune. E nulla segnala in modo più chiaro i pericoli di obsolescenza che minacciano la teoria critica quanto la mor­ te di quello che inizialmente era un suo concetto centrale.

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Contemporaneamente, tuttavia, negli ultimi anni non sono stati po­ chi quelli a cui è parso che al vocabolario filosofico manchi qualcosa d’importante se non ha più a disposizione il concetto di alienazione. Spesso semplicemente non possiamo evitare di descrivere alcune for­ me di vita individuali come alienate, di frequente tendiamo a conside­ rare determinate condizioni sociali come fallite o «false» non perché violino principi di giustizia ma perché contraddicono le condizioni che rendono possibile il nostro volere e potere. In simili reazioni alle con­ dizioni del nostro mondo sociale ci sembra ogni volta di dover ricorre­ re inevitabilmente al concetto di alienazione, anche se siamo consape­ voli dei suoi pericoli essenzialistici; per quanto antiquato sia parlare di alienazione, non è facile estrometterlo dal nostro vocabolario critico e diagnostico. Il presente libro può essere letto come una difesa filosofi­ ca della legittimità della categoria di alienazione. Il suo scopo è quello di salvare per il nostro presente il contenuto filosofico-sociale di que­ sto concetto vituperato. L’autrice è pienamente consapevole delle difficoltà di un’impresa di questo tipo. Aggiornare la categoria di alienazione non richiede soltan­ to abilità concettuali che siano in grado di esplicitarne il significato in modo da farne valere la forza critica anche in assenza di presupposti esistenzialistici; al di là di ciò, si deve mostrare che questo concetto è real­ mente indispensabile per una diagnosi critica delle condizioni della no­ stra convivenza sociale. Nell’affrontare il primo compito l’autrice è aiutata dalla sua compe­ tenza tanto nella classica storia filosofica del concetto di alienazione quanto nei recenti dibattiti, orientati in termini analitici, concernenti la natura della persona e della libertà. Questa familiarità con due sfere di sapere, finora rimaste per lo più divise, le permette di identificare con precisione quei momenti del classico concetto di alienazione in cui le implicazioni essenzialistiche possono essere evitate attraverso l’impiego di concetti più formali delle capacità umane. Per quanto concerne il se­ condo compito, invece, all’autrice viene in aiuto un grande talento nel­ la descrizione fenomenologica di situazioni di vita quotidiane. Questa ca­ pacità le permette di descrivere così plasticamente determinati scenari del comportamento umano segnati da irrigidimento, perdita di sé o in­ differenza, intesi come fenomeni di alienazione, che alla fine noi, lettori o lettrici, ci sentiamo spinti a cercare di recuperare il malvisto concetto di alienazione.

PREFAZIONE

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Queste due fonti filosofiche delineano la strategia e l’impianto del pre­ sente studio: mentre esso comincia con un richiamo storico alla tradi­ zione del concetto di alienazione che chiarisce tanto la sua forza concet­ tuale quanto i suoi presupposti essenzialistici, nella parte centrale, at­ traverso la descrizione di tipi individuali di alienazione da se stessi, riporta alla luce la potenzialità analitica delle recenti concezioni della li­ bertà umana che servono a stabilire un concetto di alienazione liberato dai difetti esistenzialistici. Le ricostruzioni storiche mostrano quanto Rahel Jaeggi sia del tutto consapevole delle difficoltà che gravano sul classico concetto di aliena­ zione. Con audacia e precisione richiama in apertura del testo le due tradizioni, derivanti da Rousseau, che hanno analizzato le patologie del­ la vita moderna, più o meno esplicitamente, come processi di alienazio­ ne: in Marx e nei suoi eredi, che insieme si riallacciano a Hegel, con «alie­ nazione» vengono intesi gli impedimenti - imposti dalla struttura, spe­ cialmente economica, della società - che ostacolano gli esseri umani nell’appropriazione delle loro forze di genere; in Kierkegaard e in Hei­ degger, nella linea «esistenzialistica», di contro, l’alienazione viene inte­ sa come la crescente impossibilità di ritornare dall’universalità alla pro­ pria decisa e autentica individualità. In entrambi i casi il nucleo dell’alienazione viene inteso - secondo la formula, molto pregnante, di Rahel Jaeggi - come una «relazione in as­ senza di relazione», ossia come un rapporto deficitario, disturbato, con quel rapporto in cui consiste l’autentica natura dell’uomo, sia che ven­ ga intesa come cooperazione che come relazione con sé. Diventa così facilmente riconoscibile in che senso tanto nella tradi­ zione marxista quanto nella tradizione esistenzialista una concezione oggettivistica dell’essenza umana costituisca il fondamento normativo della critica dell’alienazione. In entrambi i casi, l’alienazione consiste in una prioritaria relazione umana (nel primo caso intesa come relazione con il lavoro, nel secondo caso come forma specifica di interiorità) che è stata persa di vista in modo così radicale da non potere più essere re­ cuperata nella propria prassi di vita. Sulla base di questa comprensione dell’architettonica del classico concetto di alienazione, nella parte centrale del suo studio, Rahel Jaeg­ gi intraprende, con l’aiuto di brillanti descrizioni di casi individuali, il tentativo di delineare un modello alternativo di alienazione che si astie­

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ne dal definire la natura umana nei termini di un’aspirazione singola e distintiva. La possibilità di una simile fondazione parsimoniosa del con­ cetto viene individuata da Jaeggi in una concezione della libertà che si concentra sulle condizioni di funzionamento della volontà e della capa­ cità di compiere ciò che vogliamo. Per la fondazione del suo concetto di alienazione, Rahel Jaeggi si appropria dei frutti di una discussione sul­ la libertà molto ampia e profonda che si è sviluppata negli ultimi due decenni tra Harry Frankfurt, Ernst Tugendhat, Thomas Nagel e Char­ les Taylor. Il risultato di questo lavoro di riappropriazione, straordina­ riamente produttivo - e che attraversa il libro come un secondo livello argomentativo - è la tesi che l’alienazione sia un danneggiamento della nostra volontà che risulta dall’impossibilità di appropriarsi del proprio sé o del mondo - di renderli propri. Una volta che il baricentro del con­ cetto di alienazione è stato spostato in questo modo sulla dimensione della relazione individuale con sé, Rahel Jaeggi accenna nell’ultimo pas­ saggio del suo lavoro al fatto che, a partire da questo punto, deve avere luogo una necessaria transizione verso l’analisi sociale: spesso gli impe­ dimenti negli atti di appropriazione, che si manifestano nell’indifferen­ za nei confronti di ruoli ormai inaccessibili e irrigiditi o nella mancata identificazione con i propri desideri, hanno le loro cause in rapporti sociali che non soddisfano le condizioni necessarie per simili processi di appropriazione. In questo modo nel libro vengono tracciate le vie a partire dalle qua­ li è possibile riguadagnare, attraverso una formalizzazione dei sistemi di riferimento normativi, un concetto di alienazione ricco di contenuto. Chi segue questi rimandi scoprirà che riparlare in futuro di alienazione, nel­ l’ambito della critica sociale e della diagnosi della società, non significa ricadere in un muto essenzialismo. Per l’istituto per le ricerche sociali di Francoforte è allo stesso tempo una soddisfazione e un incoraggia­ mento teorico poter accogliere il lavoro di Rahel Jaeggi nella propria collana.

Axel Honneth Frankfurt am Main, 1 settembre 2005

Introduzione del curatore

Il libro di Rahel Jaeggi Alienazione è stato salutato, fin dalla sua usci­ ta nel 2005, come uno dei testi più innovativi e interessanti apparsi nel panorama filosofico tedesco degli ultimi anni. Ad esso si è riconosciuto il merito di aver reso nuovamente fruibile per il dibattito filosofico contemporaneo una categoria centrale del pen­ siero critico europeo, che sembrava destinata a rimanere consegnata al passato di un’altra stagione filosofica, culturale e politica. In questa ope­ ra di riattualizzazione si è letta l’espressione di una filosofia capace di riattivare un legame con la propria tradizione, ma anche di sintonizzarsi con il proprio tempo, corrispondendo all’esigenza di rinnovati strumen­ ti concettuali, in grado di nominare e di articolare le forme di disagio e di sofferenza sociale che attraversano le nostre società contemporanee. E, a conferma di come il bisogno di una rinnovata critica dell’aliena­ zione fosse effettivamente di nuovo «nell’aria», il libro di Jaeggi si è ri­ velato anche un caso editoriale, attirando l’attenzione di un pubblico di lettori ben più ampio di quello specialistico universitario. Anche grazie a questa eco ricevuta nel dibattito pubblico tedesco la filosofa si è pro­ filata come uno degli esponenti più promettenti dell’ultima generazio­ ne di studiosi che si richiamano alla tradizione della teoria critica, e che si sono formati all’istituto per le Ricerche sociali di Francoforte duran­ te gli anni della direzione di Axel Honneth. Un dato, questo, conferma­ to anche da una nutrita serie di saggi pubblicati negli ultimi anni e dal suo testo successivo, Critica delleforme di vita, in cui Jaeggi ha sviluppato in termini sistematici linee teoriche che aveva soltanto accennato nelle parti conclusive del suo studio sull’alienazione1. 1. Jaeggi R., Kritik der Lebensformen, Suhrkamp, Berlin, 2014; si veda anche Jaeggi R. e Loick D. (a cura di), Nach Marx: Philosophic, Kritik, Praxis, Suhrkamp, Frankfurt am Main, 2013; Jaeggi R. e Loick D., (a cura di) Karl Marx: Perspektiven der Gesellschaftskritik, Akademie Verlag, Berlin, 2013; Jaeggi R., Hartmann M. e Saar M. (a cu­ ra di), Sozialphilosophie und Kritik, Suhrkamp, Frankfurt am Main, 2009; Jaeggi R. e Wesche T. (a cura di), Was ist Kritik?, Suhrkamp, Frankfurt am Main, 2009.

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L’ambizioso tentativo di riattualizzazione della critica dell’alienazio­ ne intrapreso da Jaeggi si presenta programmaticamente come uno stu­ dio di filosofìa sociale. Con questa denominazione si vuole fare riferi­ mento a quella branca della riflessione filosofica moderna, posta tra la filosofia morale e la filosofia politica, che si pone l’obiettivo di compie­ re la diagnosi delle patologie sociali: ossia di quei processi sociali che devono venire compresi dai membri di una società come sbagliati in quanto pregiudicano le condizioni di una vita umana pienamente libera e realizzata. E una riflessione critica sulla società questa che, come ha chiarito Honneth nei suoi lavori di taglio storico, ha trovato il proprio at­ to inaugurale nel Discorso sulle origini della disuguaglianza di Rousseau ed è in tutto e per tutto moderna in quanto presuppone il valore social­ mente riconosciuto dell’individuo2. In quanto parte di una filosofia sociale, quindi, una critica dell’alie­ nazione tenta di catturare, oggi come in passato, quella variegata feno­ menologia della «vita offesa» (Adorno), che si manifesta in forme di com­ portamento individuali irrigidite, ipernormali, passive, reificate, accom­ pagnate da stati d’animo caratterizzabili come mancanza di autenticità e vuoto interiore, perdita d’interesse e indifferenza nei confronti del mondo, apatia e scissione. Una critica dell’alienazione tenta di misurare in questi fenomeni l’effetto di complesse forme di dominio strutturale, interiorizzate dai soggetti e pertanto irriducibili a mere forme di coerci­ zione diretta, che si traducono sul piano dell’esperienza soggettiva in sen­ so d’impotenza e di perdita di controllo nei confronti delle dinamiche che determinano la propria vita e che pure, in qualche modo, si contri­ buisce a realizzare e a mettere in moto. Come Jaeggi accenna nelle pagine introduttive del suo studio, qual­ siasi teoria filosofica che circoscriva la propria attenzione esclusivamen­ te alle questioni di giustizia non è in grado di mettere a fuoco questo ti­ po di fenomeni. Essi aggregano infatti forme di impoverimento della qualità della vita umana caratterizzate, più che da un mero bisogno ma­ teriale, da disturbi nei rapporti che i soggetti hanno con se stessi: da un danneggiamento della facoltà di accedere ai propri desideri e di artico­ lare i propri bisogni, che si riflette in un restringimento dei margini di apertura dell’esperienza, in una chiusura affettiva nei confronti della 2. C£r. Honneth A., Patologie del sociale, in «Iride. Filosofia e discussione pubblica», n. 18, agosto 2003, pp. 295-328.

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realtà esterna, nell’indebolimento della stessa capacità di porsi in modo realmente autonomo di fronte alla questione di che tipo di vita si voglia vivere. Compiendo una diagnosi di questi fenomeni, una critica dell’aliena­ zione si vede costretta dunque a sollevare per contrasto la questione eti­ ca di cosa significhi vivere realmente e autenticamente la propria vita, co­ sì come la questione sociale e politica di cosa voglia dire aspirare a una «società qualitativamente diversa», in cui siano garantite le condizioni sovraindividuali dell’autorealizzazione individuale. E ciò implica mettere in questione l’impostazione teorica di tutte le filosofie normative d’im­ pronta liberale e kantiana che, da Rawls a Habermas, di fronte al plura­ lismo etico delle nostre società e all’autonomia morale dell’individuo nel­ le decisioni che concernono la sfera delle identità, si ispirano al princi­ pio dell’«astensione neutrale dalle domande etiche», restringendo la propria attenzione alla domanda su come possa essere assicurata una giu­ sta convivenza come mera coesistenza tra diverse forme di vita e conce­ zioni del bene. Il convincimento di Jaeggi, ciò che giustifica anche la sua rivisitazio­ ne della critica dell’alienazione, è che questa impostazione teorica vada criticata perché, anche suo malgrado, finisce per favorire una tacitazione del confronto pubblico sulla qualità etica delle forme di vita in cui noi viviamo e sulle possibili alternative di società. Di più, questa impo­ stazione esonera la teoria filosofica dal compito critico d’indagare co­ me, nelle nostre società occidentali, l’individualizzazione degli stili di vita e il pluralismo delle opzioni etiche, ancorché garantiti giuridica­ mente, si inscrivano in un territorio saturo di condizionamenti. Sono pro­ prio gli ideali di autorealizzazione individuale e di responsabilità perso­ nale ad aver subito infatti negli ultimi decenni un processo di parados­ sale inversione di significato, per cui da fattori di emancipazione si sono trasformati spesso in strumenti di legittimazione di dispositivi che pre­ giudicano le condizioni di possibilità di vite realizzate e veramente au­ toresponsabili. Questi paradossali processi d’inversione, con i loro effetti di propa­ gazione di nuove forme di alienazione, sono ormai l’oggetto di un’am­ pia letteratura. In apertura del testo, Jaeggi si richiama per esempio al­ l’indagine di Boltanski e Chiappello sul «nuovo spirito del capitalismo» contemporaneo, e sulla sua capacità d’inglobare nella propria assiolo­ gia i valori di autorealizzazione, di autonomia, di mobilità e di creati­

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vità, che costituivano i riferimenti normativi della critica della «nuova sinistra» al capitalismo e all’alienazione dell’uomo nell’impresa fordista3. Un inglobamento che appunto ha mutato di segno quei valori, trasfor­ mandoli in fonti di legittimazione di nuovi meccanismi di alienazione e di disciplinamento. L’autrice si richiama anche allo studio di Richard Sennett dedicato a indagare i risvolti del nuovo capitalismo flessibile sulla vita personale, in termini d’incertezza, di senso di fallimento e di sgretolamento della percezione di continuità dell’esistenza4. Ma a que­ sti testi se ne potrebbero affiancare anche altri, come quelli ancora attuali sul «declino dell’uomo pubblico» e sull’emersione della «cultura del nar­ cisismo», rispettivamente di Sennett e di Christopher Lasch, oppure lo studio di Alain Ehrenberg sulla depressione come nuova patologia so­ ciale del nostro tempo, che discende dalla «fatica di essere se stessi», in una società che impone a tutti un’attitudine performativa e l’obbligo di apparire creativi e di percepirsi come «imprenditori di se stessi»5. Lo studio di Jaeggi sull’alienazione si collega a tutti questi lavori. Tut­ tavia, il suo obiettivo non è quello di aggiungere un ulteriore capitolo a questa preziosa opera di ricognizione delle nuove forme di «disagio del­ la civiltà» che si sono diffuse nelle nostre società, in concomitanza con il mutamento degli assetti economici, sociali e culturali degli ultimi de­ cenni6. Il suo terreno d’indagine rimane prevalentemente filosofico. Si può dire anzi che gran parte del testo ruota attorno ad un interrogativo teorico che assilla la filosofia sociale fin da quando essa non può più da­ re per assodata l’esistenza di un accordo, universalmente vincolante, su ciò che si deve intendere per una vita buona o umanamente realizzata. Una volta assunto infatti che il suo scopo primario è quello di compiere un’analisi delle «patologie» sociali e che ciò implica sollevare il proble­ ma di una critica etica delle forme di vita in cui noi viviamo e dei loro pre­

3. Boltanski L. e Chiapello E., Il nuovo spirito del capitalismo, trad. it. Schianchi M., Mimesis, Milano, 2014. 4. Sennett R., L’uomo flessibile. La conseguenza del nuovo capitalismo sulla vita per­ sonale, trad. it. Tavosanis M./ShaKe, Feltrinelli, Milano, 2001. 5. Sennett R., Il declino dell'uomo pubblico, trad, it. Gusmeroli R., Mondadori, Mila­ no, 2006; Lasch C., La cultura del narcisismo, trad. it. Bocconcelli M., Bompiani, Mi­ lano, 2001 ; Ehrenberg A., La fatica di essere se stessi. Depressione e società, trad. it. Arecco S., Einaudi editore, Torino, 2008. 6. Cfr. su questo anche Borrelli E, De Carolis M., Napolitano E, Recalcati M., Nuovi disagi della civiltà. Un dialogo a quattro voci, Einaudi, Torino, 2013.

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supposti valoriali, la filosofìa sociale si vede costretta, proprio in quanto indagine filosofica, a riflettere criticamente sui parametri di misura che possono giustificare una diagnosi di questo tipo. Qual è il concetto po­ sitivo di realizzazione umana che implicitamente è in gioco nel momen­ to in cui si denota il modo di vivere di un singolo e la comprensione che egli ha del suo bene e della sua libertà come sbagliati, falsati, alienati? E come può una critica di questo tipo non entrare in contraddizione con il riconoscimento della sua autonomia nella scelta dei modi in cui dare forma alla propria vita, e quindi non esporsi all’accusa di veicolare im­ plicazioni politiche autoritarie e anti-pluraliste? E sullo sfondo di queste domande che si delinea il vero e proprio og­ getto d’indagine del libro. Il suo scopo è quello di compiere un’analisi ca­ tegoriale che faccia luce sulle assunzioni di fondo e sulle immagini eti­ che che sono implicitamente all’opera quando si ricorre al vocabolario della critica dell’alienazione. Questa riflessione critica di secondo livel­ lo è finalizzata a riabilitare questo concetto e a favorirne l’uso nell’ambito di tutte le diagnosi, di taglio più empirico, volte a inventariare le nuove patologie sociali del nostro tempo. E tuttavia il primo passo di questa analisi critica ha un carattere essenzialmente distruttivo. Se la critica dell’alienazione è potuta apparire negli anni un’imbarcazione concet­ tuale rimasta incagliata nelle secche ideologiche del Novecento, ciò è do­ vuto per Jaeggi anche alle premesse filosofiche e alle presupposizioni eti­ che su cui riposava. La tesi è che la classica critica dell’alienazione presupponeva sempre una forma o una finalità fondate oggettivamente dell’esistenza umana: che laddove qualcosa è alienato o ci si alieni da qualcosa, ci sia qualcosa di essenzialmente proprio da cui ci si aliena. C’era in gioco, in altre pa­ role, l’idea - venata di eredità teologiche e di implicazioni politiche au­ toritarie - che l’alienazione fosse una caduta e il suo superamento la riap­ propriazione di quel determinato spettro di scopi e di fini etici in cui con­ siste il telos oggettivo della vita umana o la sua originaria autenticità, perduta e da riguadagnare. Così, al fondo della critica sociale di Rousseau, agiva l’idea di una «verità» soggettiva, radicata nell’interiorità dell’io, da sempre deposita­ ta nella sua natura originaria, custode di quei fini autentici della natura umana (felicità, libertà, pieno sviluppo delle potenzialità umane) som­ mersi ed estraniati in una società, come quella moderna, dominata dalle passioni negative dell’apparenza, dell’egoismo e della competizione.

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Diversamente, nel giovane Marx dei Manoscritti economico-filosofici, l’essenzialismo affondava le sue origini in un concetto di lavoro conce­ pito come capacità specificamente umana di oggettivare le proprie fa­ coltà essenziali: nell’idea, quindi, che il presupposto fondamentale di una vita buona sia la possibilità di avere piena disponibilità sui prodotti del lavoro associato, di potersi rispecchiare in essi come ciò che una volta era «proprio», e che l’impedimento di questa riappropriazione costituisca la fonte di un rapporto completamente alienato con se stessi. Jaeggi si sofferma su questi aspetti del classico teorema dell’aliena­ zione dopo aver offerto una rapida ma efficace ricostruzione della sua pa­ rabola storica. Tuttavia, mette in guardia anche sul fatto che simili pre­ supposizioni essenzialistiche non si lasciano rintracciare soltanto al fon­ do delle elaborazioni della tradizione filosofica: esse continuano a operare anche negli usi che noi facciamo del concetto nel linguaggio or­ dinario. Tuttora, quando si afferma che una persona è alienata da se stessa spesso si presuppone, più o meno implicitamente, che da qual­ che parte esista un suo nucleo autentico, una sua identità predefinita: che essa possa quindi ritrovare se stessa solo nella misura in cui ritorni a questa sua verità, rimanendo fedele a quei progetti e a quei legami fon­ damentali che permettono di lasciarla esprimere. Per Jaeggi la critica dell’alienazione deve essere dunque svincolata da queste premesse per potere essere resa di nuovo fruibile: non può più fondarsi su un orientamento perfezionistico a una rappresentazione dell’«essenza» o della natura dell’essere umano, oppure sull’ideale della riconciliazione, di un’unità libera da tensioni. Per mettere in evidenza le implicazioni negative di queste premesse, vengono ricostruite nel te­ sto le argomentazioni fatte valere contro la critica dell’alienazione da posizioni di stampo liberale e da posizioni post-strutturaliste, queste ul­ time sviluppatesi nel solco della nota critica di Althusser all’umanismo e all’essenzialismo del giovane Marx. Si può dire tuttavia che a Jaeggi stia a cuore in definitiva mettere in evidenza come tutti questi aspetti nega­ tivi del classico teorema dell’alienazione convergano su un punto fon­ damentale: l’essenzialismo, nel senso ora precisato, tende a riprodurre proprio quel meccanismo di reificazione dell’essere umano al cui supe­ ramento la critica dell’alienazione dovrebbe essere finalizzata. Fissando in anticipo lo scopo e il termine ultimo del processo di emancipazione della soggettività, veicola di quest’ultima un’immagine troppo compiu­ ta e conclusiva, che rimuove la sua realtà limitata e finita, ma ne nega

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anche il tratto di insondabilità pratica verso il futuro. L’essenzialismo oscura il fatto che l’essere umano non ha una destinazione univoca e prestabilita, e proprio per questo è consegnato al compito di decidere che forma dare alla propria vita e di articolarla in modi inediti, alla luce di valutazioni e di prese di posizione valoriali, che rispondono alla do­ manda: «chi voglio essere?». Il programma di una riattualizzazione della critica dell’alienazione si giustifica allora sulla base di un altro convincimento fondamentale: il fatto che l’essere umano, in quanto «animale che interpreta se stesso» (Charles Taylor), non possa essere ridotto a uno spettro di scopi fissi o ricondotto a un’ultima trasparenza con se stesso e con il mondo non si­ gnifica che non possa alienarsi da sé e dal mondo. E da questo punto di vista, come fa valere Jaeggi, la vecchia critica dell’alienazione non era del tutto nel torto: essa s’incaricava di preservare un vettore di criticità nei confronti delle patologie delle forme di vita moderne e, più determina­ tamente, degli impedimenti interni a un esercizio effettivo della libertà dei soggetti di autodeterminarsi, che proprio oggi è necessario riattivare. Ciò detto risulta evidente quale è la sfida concettuale del libro: si trat­ ta di tentare di mettere a punto criteri di misura che permettano di ri­ conoscere e di diagnosticare una serie di manifestazioni e di comporta­ menti umani come fenomeni di alienazione, senza far leva sul punto ar­ chimedico di un’idea oggettivamente definita e teleologica di vita buona. La sfida è quella di determinare «un’immagine complessa e consistente della persona in relazione con il mondo», di chiarire cosa vuol dire essere una persona che conduce la propria vita liberamente, per poi da qui fo­ calizzare l’attenzione su ciò che priva i soggetti della possibilità di porre in modo adeguato la stessa domanda sul modo in cui vogliono vivere. La proposta del libro si lascia condensare in una formula che viene enunciata nelle prime battute del testo: è necessario imprimere alla cri­ tica dell’alienazione una svolta formale. Ciò che il concetto di alienazio­ ne deve permettere di diagnosticare sono le varie forme di disturbo dei processi di appropriazione di sé e del mondo: rapporti che devono essere concepiti come produttivi e aperti, come integrazione e trasformazione di ciò che è dato. Per articolare questa proposta, l’autrice si riallaccia a tutta una discus­ sione avvenuta negli ultimi anni nell’ambito della filosofia analitica sui concetti di persona e di libertà. In particolare, valorizza la riflessione del filosofo Ernst Tugendhat, ricorrendo al suo concetto formalizzato di sa­

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nità psichica come «funzionalità del volere» per fissare un criterio di mi­ sura non essenzialistico delle capacità umane. Il concetto di libertà del vo­ lere definito su questa base è formale e non sostanziale, spiega Jaeggi, in quanto non indica possibili contenuti e scopi materiali della volontà. D’al­ tra parte però, ponendo l’accento sulle modalità di rapportarsi, nel pro­ prio volere, a sé stessi e all’oggetto voluto, esso permette di riconoscere che non tutte le prese di posizione personali sono veramente libere. Istan­ ze di libertà sono solo quelle azioni e quei proponimenti che io posso porre positivamente in relazione con me stesso. Il concetto di alienazio­ ne deve tematizzare quindi le complesse condizioni di questo «mettere in rapporto con sé stessi», «poter attribuire a sé stessi», o «rendere pro­ prie» le proprie azioni, i propri desideri (o più in generale: la propria vi­ ta). Inoltre esso deve tematizzare anche «le condizioni in cui questi rap­ porti risultano impediti e le cause delle loro distorsioni»7. In realtà, dietro la proposta di imprimere alla critica dell’alienazione una svolta formale e di virarla verso un esame dei disturbi dei processi di appropriazione da parte dei soggetti dei loro desideri e delle loro azioni, non sta soltanto la produttiva assimilazione dei recenti dibattiti contemporanei sui concetti di persona e di libertà. Dietro questa pro­ posta si cela anche il modo in cui Jaeggi si appropria criticamente della tradizione filosofica continentale e, più determinatamente, dell’eredità hegeliana. Nella prima sezione del libro, l’autrice si sofferma sul significato che la critica dell’alienazione rivestiva in Marx e in Heidegger, proponen­ do un accostamento tra due linee di pensiero che costituisce un vero e proprio filo rosso di tutto il testo e un altro suo elemento di originalità. Qui si mette in luce in particolare come nei due autori, con il concetto di alienazione - o di reificazione - si è voluto fare riferimento a due fe­ nomeni tra loro correlati, eppure non coincidenti: in primo luogo l’im­ possibilità del soggetto di identificarsi in un modo dotato di senso con ciò che fa, con l’effetto che il mondo diventa indifferente, un insieme di cose, piuttosto che un orizzonte di significati che rimanda alle pro­ prie attuazioni di vita; in secondo luogo, l’incapacità di esercitare con­ trollo su ciò che fa, ossia l’incapacità di essere «soggetto delle proprie azioni». Con questa duplicità di sguardo, in entrambe le prospettive si cercava di afferrare uno stato di assoggettamento di tipo paradossale: 7. C£r. supra p. 89.

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paradossale perché esperito nei confronti di ciò che noi stessi abbiamo creato e che tuttavia retroagisce come qualcosa di estraneo, non facen­ doci più riconoscere nelle nostre stesse azioni. Radicalmente diverse erano le prospettive critiche in gioco, come Jaeggi non manca di mettere in luce. In Marx si trattava, attraverso questa critica, di guidare i soggetti del lavoro verso una riappropriazione delle loro attività, dei loro pro­ dotti e delle condizioni della produzione sociale, estraniati a causa del­ la struttura di classe del mondo capitalistico. In Heidegger, sulla scia di Kierkegaard, si trattava invece di spingere ciascun singolo a un’atti­ va presa di possesso di sé e del mondo, e con ciò a sottrarsi ai dettami di una sfera pubblica segnata dal dominio conformistico del Si, ossia di un potere sociale che ha assunto un’esistenza indipendente e, ap­ punto, non fa ritrovarsi nelle proprie stesse azioni. Tuttavia, mette in luce Jaeggi, nonostante questa diversità di prospettive, entrambe le posizioni rinviavano implicitamente a una determinata idea di libertà: l’idea secondo cui posso essere un agente che si autodetermina, posso essere veramente libero, soltanto in un mondo che posso rendere real­ mente «mio», nel senso di un’identificazione appropriante. Proprio in questo concetto di libertà si lascia riconoscere in filigrana come entrambe queste linee della critica dell’alienazione, quella marxi­ sta e quella esistenzialista, gravitassero ancora per intero nell’orbita he­ geliana. In entrambe continuava ad esercitare i suoi effetti l’idea secon­ do cui il tratto caratteristico della soggettività umana è l’attività o il pro­ cesso nel quale il sé, confrontato con qualcosa che inizialmente si presenta come data o altra, cerca di far propria questa datità, strappando da essa il carattere di iniziale estraneità. In questa prospettiva, sé e mondo emer­ gono in una stessa attività, in cui il soggetto integra ciò che è inizialmen­ te estraneo o altro e nel far ciò trasforma se stesso e il mondo, conferen­ do contenuti specifici e determinati tanto a se stesso quanto all’oggetto8. Sotto il titolo di «cultura» {Bildung}, Hegel aveva tematizzato in questo modo «il processo attraverso cui gli individui elaborano la loro fuoriuscita dalle relazioni di dipendenza nelle quali inizialmente si trovano e posso­ no rendere proprie le loro relazioni sociali - in quanto parte dei loro stessi presupposti»9.

8. Cfr. su questo c£r. Neuhouser E, Entfremdung: Zur Aktualitàt eines sozialphìlosophischen Problems, in «Notre Dame Philosophical Reviews», 2 luglio 2007. 9. Cfr. supra p. 51.

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Per Jaeggi una riformulazione della critica dell’alienazione non deve disperdere questo concetto positivo di libertà come appropriazione di sé tramite appropriazione dei presupposti oggettivi della propria vita. Es­ sa deve congedarsi tuttavia dall’idea, di matrice idealistica, che ciò che il soggetto inizialmente incontra come estraneo sia il prodotto di un pri­ mario atto «soggettivo» di esteriorizzazione, rimasto in un primo mo­ mento non saputo e che ri-conosciuto, può essere ri-appropriato sul piano pratico. E del resto, proprio dalla pretesa di tradurre in termini an­ tropologici questa idea del superamento dell’alienazione come riconse­ guita identità del soggetto con l’oggetto discendevano gli equivoci più gravi della classica critica dell’alienazione: nella tradizione marxista, una determinata idea prometeica della soggettività umana, ancorata al­ l’aspettativa di un’ultima e definitiva disponibilità dell’umanità, intesa come soggetto im Gro^formai, su tutta l’oggettività, in quanto prodotto della propria prassi. Una critica non essenzialista dell’alienazione deve piuttosto uscire dal cerchio magico di un pensiero dell’identità e «riabilitare l’estraneo». Va­ lorizzando linee centrali della riflessione filosofico-antropologica del No­ vecento, Jaeggi mette in evidenza nel corso del testo come il potere di emancipazione delle nostre azioni - il fatto cioè che dalle nostre azioni discendano risultati non previsti, che si autonomizzano rispetto ai nostri scopi e alle nostre previsioni originarie - non può essere considerato di per sé alienante. Proprio a questa autonomizzazione noi dobbiamo piuttosto la possibilità che i nostri proponimenti si realizzino, si determinino e as­ sumano una forma effettuale. Si richiama poi alla necessità di liberarsi dal­ la falsa rappresentazione secondo cui tutto ciò che è irrigidito, implicito, non trasparente nella nostra vita sia di per sé alienante. «Routine, rituali e istituzioni» sono parte costitutiva della nostra quotidianità: essi non so­ lo assolvono la funzione di esonerarci (Gehlen) da una continua messa in questione della nostra vita, ma entro certi limiti ci fanno sentire anche «a casa», non estranei a noi stessi. Oltre a ciò, l’autrice pone in evidenza co­ me in modo analogo al linguaggio, la cui struttura di regole crea le basi per poterci esprimere in esso, la convenzionalità dei ruoli mette a dispo­ sizione per la prima volta le condizioni per poterci definire ed esprimere in generale come «qualcosa» di specifico. Infine, Jaeggi non manca di os­ servare come ci sono dimensioni e tempi della vita in cui essere-fuori-disé fa sentire perfettamente in armonia con se stessi, come quando per esempio ci si innamora o si è sfrenatamente contenti di qualcosa.

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Con tutte queste notazioni Jaeggi spiega dunque cosa significa «ria­ bilitare l’estraneo» ma allo stesso tempo anche cosa vuol dire riparame­ trare il tema dell’alienazione su un terreno propriamente antropologi­ co: ripensarlo in relazione a un’immagine della persona umana situata, legata a una corporeità vissuta, vulnerabile, limitata, consegnata a un’o­ riginaria indeterminatezza e per questo rimessa al compito di definirsi e di determinarsi, in un processo aperto e dagli esiti non prevedibili. La soggettività umana, scrive Jaeggi citando Plessner, è segnata da una scis­ sione costitutiva che precede qualsiasi unità, di modo che per essa qual­ siasi unità con sé non può che essere il frutto, mai definitivo e mai com­ piuto, di un processo di articolazione e di appropriazione dei propri desideri e dei propri interessi. Un’appropriazione di sé, questa, che ha bisogno tuttavia costitutivamente dell’«estraneo», ossia di passare per la via indiretta dell’esteriorizzazione nei ruoli sociali, per conferire su di essi un’impronta individuale, e attingere da qui il senso della propria spe­ cificità rispetto agli altri, ma anche del proprio potere essere diverso da ciò che si è e si dice di essere. Sullo sfondo di questi passaggi filosofici risulta più chiara la formula prima richiamata. Una volta assunto che la soggettività umana è conse­ gnata ad una dimensione di indeterminatezza originaria ed estraneità irriducibile, ed è pertanto una «questione aperta», si spiega perché la cri­ tica dell’alienazione deve focalizzare la propria attenzione non tanto sul contenuto o sul risultato dell’attività di appropriazione soggettiva, quan­ to sul processo e sulla forma di questa appropriazione. La presenza o l’as­ senza dell’alienazione dovrà essere collegata non a «che cosa» (was) il sé fa o cerca di fare di se stesso, ma a come (wie) determina ciò che è o potrebbe essere. Jaeggi mette alla prova queste coordinate concettuali nella seconda se­ zione, dove dà origine a un vero e proprio percorso fenomenologico, analizzando quattro situazioni di vita quotidiane caratterizzate da per­ dita di controllo nei confronti delle dinamiche della propria vita, da as­ senza di distanziamento critico nei confronti dei ruoli che si recitano sulla scena sociale, da scissione interna tra diverse istanze e bisogni fon­ damentali, da perdita di interesse nei confronti dei progetti e delle dire­ zioni di significato della propria vita. Questa parte non costituisce però un mero ambito di verifica dei prin­ cipi esposti in partenza, ma il vero e proprio cuore del libro, in cui pren­ de forma il metodo di analisi critica proposto. Non a caso Jaeggi defini-

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see la propria impostazione critica «negativistica», prendendo in presti­ to una formula elaborata dal filosofo tedesco Michael Theunissen10. Con ciò vuole riferirsi a un approccio che, proprio perché non si accosta ai fenomeni da diagnosticare con criteri normativi esterni e oggettivi, ten­ ta di ricavare i propri parametri di misura per via negationis\ ossia muo­ vendo direttamente dall’analisi della negatività e dei fenomeni di crisi dell’esperienza soggettiva, per poi far emergere da qui, per contrasto, quella visione positiva di una soggettività capace di comprendere la pro­ pria vita come propria e di poter condurre la propria vita liberamente, che costituisce l’implicito criterio di misura grazie al quale quegli stessi fenomeni possono apparire come sintomi di alienazione da se stessi. Come si ricorderà, Kierkegaard svolgeva la sua analisi della negati­ vità dei fenomeni della disperazione, dopo aver smascherato ogni con­ cetto positivo - e socialmente stabilito - di sanità e di normalità. Egli ten­ tava di risalire al vero contenuto normativo del sé a partire da un’anali­ si delle contraddizioni «dialettiche» esperite dal soggetto negli stessi stadi della disperazione: e segnatamente dall’analisi della contraddizio­ ne tra l’esperire il proprio essere condannato alla libertà, a dover deci­ dere chi essere, e l’esperire l’impossibilità di porsi come se stesso auten­ tico, facendo leva soltanto sulle proprie forze. In analogia a questo mo­ dello di analisi, nella parte fenomenologica del libro, Jaeggi lavora sulle discrepanze esistenti tra le attribuzioni che l’individuo di volta in volta in questione fa di se stesso, considerandosi una persona responsabile e pa­ drona delle proprie azioni, e gli ostacoli a questo status che si accompa­ gnano all’esperienza di un rapporto alienato con sé. Queste discrepan­ ze vengono ogni volta approfondite, con l’obiettivo di far affondare l’i­ dea che la loro soluzione giaccia nel recupero di una supposta trasparenza originaria o di una piena disponibilità del soggetto su se stes­ so. Si tratta di far emergere al contrario come il superamento del nega­ tivo non consista nello scioglimento definitivo dei conflitti e delle in­ congruenze, ma nella conquista di una capacità di porsi «domande pra­ tiche», di essere presenti a se stessi nei propri contesti di vita pratici. La domanda che sottende queste analisi è dunque sempre questa: cosa ri­ velano esperienze di questo tipo sulla natura della soggettività umana in generale? Come deve essere costituita la soggettività se esperienze ne­ 10. Cfr. Angehrn E. (a cura di), DialektischerNegativismus. Michael Theunissen zum 60. Geburstag, Suhrkamp, Frankfurt/Main, 1992.

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gative di questo tipo sono cosi frequenti e caratteristiche? La «verità» che Jaeggi vuole far emergere è in ultima istanza che l’alienazione da se stes­ si non è altro che l’altra faccia dell’alienazione dal mondo: i desideri, gli interessi, le azioni con cui il soggetto in questione non riesce più a entrare in rapporto e che gli appaiono perciò come elementi estranei, sono co­ stitutivamente diretti al mondo, per cui un disturbo della loro articola­ zione equivale a un disturbo dei processi di appropriazione dei contesti che determinano la sua vita. Disturbi, questi, quindi, che non sono ri­ conducibili soltanto a una responsabilità soggettiva, ma sono legati a fi­ lo doppio a forme di dominio strutturale che non riescono ad essere mes­ se a fuoco e che impediscono di leggere nelle proprie situazioni di vita la presenza di margini di scelta e di sperimentazione. Nel terzo e ultimo capitolo Jaeggi fa ritornare la propria indagine su un terreno propriamente filosofico. Qui mette a frutto l’acquisizione teo­ rica fondamentale guadagnata nella parte fenomenologica: ossia che non esiste realizzazione di sé senza una realizzazione di sé nel mondo. La concezione fluida, relazionale, non essenzialistica di una soggetti­ vità come processo di appropriazione, messa a punto nel corso del la­ voro, viene difesa quindi contro modelli più sostanzialistici del sé e, al­ l’opposto, contro modelli orientati a dissolvere ogni nozione di sogget­ tività stabile e continuativa. Infine, Jaeggi mostra come muovendo dall’idea della costitutiva so­ cialità e relazionalità del sé, sia possibile operare una rilettura di alcuni concetti normativi fondamentali della modernità - libertà, emancipazio­ ne, autorealizzazione e autodeterminazione - e insieme una critica im­ manente di una loro comprensione deficitaria e individualistica, che è ciò che rende possibile una loro addomesticazione e inversione di signi­ ficato. Nelle battute conclusive del testo, Jaeggi accenna ai temi che costi­ tuiscono tuttora l’oggetto della sua ricerca. Una volta mostrato che es­ sere presenti a se stessi, non alienati da sé, presuppone un’accessibilità ai propri desideri e interessi, e che questi si sviluppano e prendono for­ ma solo prendendo parte attiva al mondo condiviso con gli altri, il ter­ reno di indagine di una filosofia sociale deve spostarsi all’analisi delle strutture oggettivo-istituzionali che determinano l’esperienza soggettiva. «Come deve essere costituita un’istituzione per far sì che gli indivi­ dui che vivono in essa possano comprendersi come co-autori di quelle istituzioni e possano identificarsi - come agenti - con esse?» Porre que­

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sta domanda vuol dire quindi trasferire lo sguardo critico-diagnostico dall’analisi delle forme dell’alienazione individuale all’analisi delle defi­ cienze e delle crisi delle forme di vita collettiva. E, per Jaeggi, questo mutamento di ottica non può non approdare anche a una ripresa della critica del capitalismo come forma di vita. Un principio-guida viene però già in questo testo enunciato: così come il presupposto di una critica dell’alienazione individuale deve essere il congedo dall’idea che esista da qualche parte un autentico e intatto se stesso da recuperare, allo stes­ so modo una critica delle forme di vita collettive deve congedarsi dall’i­ dea che esista da qualche parte un mondo di vita intatto, un deposito di senso, che può essere esaurito e dilapidato. Il mondo, e sia questo an­ che il mondo di vita, è sempre qualcosa che deve essere compreso dai soggetti come ciò che è da loro costituito e aspetta di essere elaborato e formato in forme nuove e inedite, attraverso una prassi comune di ap­ propriazione. Come in ogni traduzione, anche in questa è stato necessario compie­ re delle scelte terminologiche. La prima di queste è stata la decisione, per molti versi scontata, di tradurre il termine Entfremdung con quello di alienazione. Si è seguito in questo una consuetudine ben affermata e ci si è allineati anche al modo in cui il termine viene tradotto in altre lin­ gue {Alienation, Aliénation, Alienation). Tuttavia, in alcuni contesti del libro, in particolare nelle pagine dedicate a Marx, questa traduzione non ha potuto restituire a pieno il gioco di rimandi semantici istituito dal termine Entfremdung, che da un punto di vista lessicale è più corretto tradurre con «estraneazione». Dove è stato necessario si è quindi prov­ veduto a indicare entrambe le traduzioni, per restituire meglio le inten­ zionalità dell’autrice. Si è poi deciso di tradurre il termine Entàusserung, anch’esso carico di rimandi al lessico filosofico, con «esteriorizzazione» e non con «estra­ neazione» oppure con «alienazione», come pure sarebbe stato possibile fare e come viene fatto in molte traduzioni di testi filosofici. Nel com­ piere questa scelta si è voluto rimanere il più possibile fedeli al significato che il termine ha in Hegel, dove, per esempio nella Eenomenologia del­ lo Spirito, esso tende a veicolare un concetto non necessariamente peg­ giorativo o normativamente connotato, volto a indicare la conseguenza e il risultato del processo con cui l’autocoscienza trasferisce la propria es­ senza al di fuori di sé, conquistando con ciò realtà effettuale. Un’acce­ zione di significato, questa, che è anche quella valorizzata da Jaeggi.

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Il termine tedesco Selbstverwirklichung è stato tradotto con «realiz­ zazione di sé» e non con «autorealizzazione», come pure spesso viene re­ so in italiano. Si è voluto con ciò evitare ogni rimando a un’accezione di significato individualistica, tentando così di restituire il significato rela­ zionale e sociale che Jaeggi gli imprime nel corso del testo. Per quanto concerne la famiglia di parole legate al termine Vollzug, molto presenti nel libro, si è deciso di rimanere vicini al significato let­ terale del termine, ossia quello di «attuazione», nonostante altre solu­ zioni fossero possibili. Nel testo questo termine è caricato spesso di un implicito rimando al lessico di Heidegger, dove esso sta a indicare pro­ prio il carattere di attuazione e di compimento delle direzioni di signifi­ cato che costituiscono la vita. Anche per l’insieme di termini legati alla parola Verfùgbarkeit si è de­ ciso di rimanere vicini al significato letterale, che è quello di «disponi­ bilità», che mi è sembrato non corra il rischio di veicolare il senso di un pieno controllo del soggetto su se stesso. Con questo termine Fautrice vuole riferirsi in via privilegiata infatti all’accessibilità del soggetto a se stesso, alla sua capacità di avere familiarità con sé: il rovescio positivo, cioè, del fenomeno dell’alienazione da sé stessi. Su suggerimento di Rahel Jaeggi, ho deciso di tenere in considerazio­ ne in alcuni passaggi anche la traduzione inglese del libro, curata per la Columbia University Press da Frederick Neuhouser. Insieme a Rahel Jaeggi desidero infine ringraziare Erika Benini e Da­ rio Benini, per il loro prezioso aiuto nel controllo di tutte le versioni ita­ liane delle citazioni presenti nel testo.

Giorgio Fazio Berlino, 4 febbraio 2015

Alienazione

Introduzione

«Ancora un altro lavoro sull’alienazione?»11. In questo modo, o in mo­ do simile, cominciavano ancora all’inizio degli anni Ottanta molti libri, a cospetto della sovrabbondante letteratura secondaria sul tema. Oggi la situazione è mutata. Il concetto di alienazione sembra essere divenu­ to problematico e sotto certi aspetti anche inattuale. Se esso è stato per lungo tempo il concetto centrale della critica sociale di sinistra (ma an­ che di quella conservatrice) - un motivo cruciale della filosofia sociale marxista e quindi di importanza fondamentale per il «marxismo occi­ dentale» e per la «teoria critica» - e se allo stesso tempo esso ha in­ fluenzato in vari modi la critica della cultura ispirata dall’esistenziali­ smo, oggi non solo esso è pressoché sparito dalla letteratura filosofica, ma non gioca più alcun ruolo neanche come vocabolo usato per una diagnosi del nostro tempo. Il concetto di alienazione ha avuto un uso troppo inflazionato negli anni del suo boom; i suoi fondamenti filosofi­ ci sembrano fuori moda nell’età postmoderna; le sue implicazioni poli­ tiche appaiono troppo problematiche nell’età del «liberalismo politico» - e forse anche le aspirazioni della critica dell’alienazione appaiono sen­ za speranza nel tempo del capitalismo trionfante. In ogni caso, il problema dell’alienazione sembra essere sempre - e for­ se oggi di nuovo - attuale. Di fronte ai recenti sviluppi economici e so­ ciali si assiste a una crescente inquietudine che, se non nel nome quanto meno nella sostanza, ha a che fare con il fenomeno dell’alienazione. La vasta ricezione che ha ottenuto il libro di Richard Sennet E uomo flessi­ bile con la sua tesi sul «capitalismo flessibile» che minaccia l’identità dei singoli e la tenuta della società, le preoccupazioni sempre più forti

11. Schaff A., Alienation as a Social Phenomenon, Pergamon Press, Oxford, 1980, p. 3. Similmente nota Shlomo Avineri: «L’alienazione» è diventata «la formula più popo­ lare di Marx». Avineri S., The Social and Political Thought of Karl Marx, Cambridge University Press, Cambridge (Massachusetts), 1969, p. 2.

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riguardo le tendenze alla mercificazione o alla «commercializzazione» di ambiti di vita sempre più estesi12, e anche i nuovi movimenti di prote­ sta sorti contro la perdita di controllo e l’impotenza di fronte all’econo­ mia globalizzata13, sono tutti segni di una rinata sensibilità nei confronti di fenomeni che le teorie prima menzionate descrivevano con i concetti di «alienazione» e di «reificazione». E sebbene nel «nuovo spirito del capitalismo»14 la critica dell’alienazione sembri essere superata in modo cinico - le richieste rivolte al moderno «lavoratore-imprenditore», fles­ sibile e creativo, per il quale non esiste più alcun confine tra lavoro e tem­ po libero, non sono forse una realizzazione dell’utopia di Marx dello «sviluppo onnilaterale» dell’uomo che «di mattina può pescare, di po­ meriggio cacciare e la sera dedicarsi alla critica»? -, le ambivalenze di simili sviluppi sono il segno della persistenza del problema, più che del­ la sua scomparsa15. Non c’è dunque più l’alienazione o semplicemente non disponiamo più del suo concetto? Di fronte alla tensione, che si rinnova continuamente, tra rivendicazione e realtà, tra promesse sociali di autodetermi­ nazione e di autorealizzazione e la loro mancata attuazione, il tema del­ l’alienazione - questa la diagnosi di Robert Misi16 - rimane decisivo, an­ che se una stabile fondazione della critica dell’alienazione sembra essere andata perduta. Il presente studio ha lo scopo di far rivivere il concetto di alienazione

12. Per una discussione filosofica sul tema si veda tra gli altri E. Anderson, Value in Ethics and Economics, Harvard University Press, Cambridge (Massachusetts), 1993 ; Ra­ din M J., Contested Commodities, Harvard University Press, Cambridge (Massachu­ setts), 1996; Jaeggi R., DerMarkt und sein Preis, in «Deutsche Zeitschrift fiir Philoso­ phic», voi. 47, n. 1,2000, pp. 987-1004. 13. Nel dicembre 1999 un editoralista della rivista «Newsweek» commentava così le pro­ teste militanti scoppiate a Seattle a margine delle giornate della World Trade Organiza­ tion contro la globalizzazione economica: «Sembra ci sia un diffuso senso di alienazio­ ne tra un numero sorprendente di americani. Dan Seligman, capo dell’ufficio commer­ ciale The Sierra Club, definisce questo nuovo stato d’animo un sentimento di “perdita di controllo” in un mondo di turbo-capitalismo globale in rapido mutamento». 14. Boltanski L. e Chiapello E., Il nuovo spirito del capitalismo, trad. it. Schianchi M., Mimesis, Milano, 2014. 15. Sulle ambivalenze di questi sviluppi si veda anche Honneth A. (a cura di), Befreiung aus der Mundigkeit. Paradoxien des gegenwdrtigen Kapitalismus, Campus, Frank­ furt am Main/New York, 2002. 16. Misik R., Genial dagegen. Kritisches Eenken von Marx bis Michael Moore, AufbauVerlag, Berlin, 2005.

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in quanto concetto fondamentale per la filosofia sociale. Il mio punto di partenza è duplice: da una parte sono convinta che il concetto di aliena­ zione sia ricco di contenuto e produttivo, capace di dischiudere ambiti fenomenici che possono essere ignorati solo al prezzo di impoverire le possibilità di espressione e di interpretazione teorica. D’altra parte la tra­ dizione con la quale il concetto di alienazione è associato non può esse­ re semplicemente ripresa in modo irriflesso, dal momento che i presup­ posti di questa tradizione sono stati giustamente messi in questione. Per tale ragione ogni ulteriore discussione sull’alienazione richiede una ricostruzione critica dei suoi fondamenti concettuali. Questo libro è un tentativo di realizzare una simile ricostruzione. Es­ so è una ricostruzione in un duplice significato: in primo luogo mira a far rivivere in generale il concetto di alienazione nel suo significato; in secondo luogo, lo vuole reinterpretare e trasformare concettualmente alla luce dei problemi che ho menzionato. Il progetto del libro, in altre parole, è quello di riappropriarsi filosoficamente di un teorema che per molte ragioni è divenuto problematico - ed è un tentativo di riscoprire il suo contenuto di esperienza17. Il mio scopo, quindi, non è né quello di riaggiornare il problema del­ l’alienazione attraverso un’analisi delle sue manifestazioni contempora­ nee né quello di discutere dell’alienazione rimanendo all’interno dei con­ fini di un quadro teorico già definito. Ciò che invece cerco di fare è un’analisi categoriale dei concetti fondamentali e delle assunzioni che stanno alla base del modello interpretativo proprio del concetto di alie­ nazione nelle sue diverse manifestazioni. Quindi, una diagnosi dell’alie­ nazione presuppone assunti relativi alla struttura dei rapporti che l’es­ sere umano ha con se stesso e con il mondo, alle relazioni che gli agenti hanno nei confronti di se stessi, delle loro azioni e del loro contesto so­ ciale e naturale, e con ciò un’immagine complessa e consistente della per­ sona in relazione con il mondo. Sono questi assunti - e con essi i fonda­ menti filosofico-antropologici del concetto di alienazione - che hanno bisogno di un chiarimento concettuale e che pertanto assumo qui come punto di partenza. Che significa quindi che nel rapporto con se stessi si può essere «scis-

17. Si veda anche la ricostruzione di Honneth del teorema della reificazione nel qua­ dro di una teoria del riconoscimento: Honneth A., Reificazione. Uno studio in chiave di teoria del riconoscimento, trad. it. Sandrelli C., Meltemi, Roma, 2007.

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si interiormente» in vari modi? Come dobbiamo intendere la possibi­ lità che le nostre stesse azioni possano ergersi di fronte a noi come «estra­ nee»? E come è costituito il soggetto per poter essere legato al mondo in modo tale che quando questo legame va perduto esso si aliena «da se stesso»? Queste sono le domande attorno alle quali ruoterà il presente lavoro. Già qui, comunque, è necessaria una chiarificazione: sebbene al centro delle mie analisi stiano i diversi modi in cui gli individui possono divenire alienati da se stessi, ciò non significa affatto che l’alienazione debba essere intesa come un problema soggettivo che può essere sem­ plicemente ridotto alla relazione con se stessi. Il fraintendimento che sta alla base della critica di Hannah Arendt a Marx è qui istruttivo: l’os­ servazione di Arendt in Vita Adiva che il vero problema delle società mo­ derne è l’alienazione dal mondo, non l’alienazione da se stessi, come in­ vece ha creduto Marx, è evidentemente un’interpretazione erronea, sebbene per certi versi produttiva18. In Marx (come anche in Arendt) l’alienazione da sé è legata in termini indissolubili all’alienazione dal mondo materiale e sociale; è precisamente l’impossibilità di appropriar­ si del mondo come prodotto della propria attività che costituisce l’alie­ nazione. Quindi l’alienazione dal mondo implica l’alienazione da se stessi e, viceversa, il soggetto è alienato da sé in quanto è alienato dal mondo; di più, è precisamente questa interrelazione che rende il con­ cetto così interessante. Per questa ragione, impostare il discorso a parti­ re dall’alienazione da sé implica sempre allo stesso tempo tematizzare la relazione che un soggetto ha con le varie dimensioni del mondo. La di­ stinzione, qui, è un problema di prospettiva piuttosto che qualcosa che appartiene al fenomeno stesso. Se quindi, come vedremo, la tesi centrale della teoria dell’alienazione è che «vivere la propria vita» significa identificarsi in un certo modo con se stessi e con il mondo - essere capaci di appropriarsi del mondo con ciò viene stabilita un’importante differenza rispetto alle abituali con­ cezioni kantiane dell’autonomia, secondo cui questa non sarebbe «in­ fluenzata» dal mondo, né in senso positivo né in senso negativo. L’as­ sunto decisivo della critica dell’alienazione è invece che, se si focalizza­ no i rapporti qualitativi degli individui con sé e con il mondo e se si 18. Con questa tesi mi sono confrontata diffusamente nell’ultimo capitolo della mia ricerca su Hannah Arendt: Jaeggi R., Welt und Person - Zum anthropologischen Hintergrund der Gesellschaftskritik Hannah Arendts, Lukas Verlag, Berlin, 1997.

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distinguono relazioni con sé e con il mondo riuscite da quelle disturba­ te e deficitarie, è dischiusa la via per una critica di quelle istituzioni so­ ciali nelle quali gli individui conducono la propria vita. Questa forma di critica supera il quadro delle teorie liberali della giustizia che si occupa­ no della mera coesistenza degli individui regolata giuridicamente, senza avvertire la necessità di fare riferimento a concezioni sostanziali del sé e della comunità19. La tematizzazione del problema dell’alienazione im­ plica già da sempre l’idea di una «società qualitativamente diversa» (Her­ bert Marcuse): la critica dell’alienazione è già da sempre congiunta alla domanda su «come vogliamo vivere». Fondandosi su un’impostazione «negativistica» il concetto di alienazione tematizza quindi non solo ciò che ci impedisce di vivere bene, ma soprattutto ciò che ci impedisce di porre in modo adeguato la domanda su «come vogliamo vivere». Già prima di entrare nel merito di una discussione più dettagliata pos­ sono essere distinte diverse dimensioni dell’alienazione:

• In quanto problema etico, l’alienazione rimanda ai modi in cui le vite degli individui possono fallire. In questo caso, il sentimento di apatia e d’in­ differenza nei confronti della vita, connesso all’alienazione, rischia di mi­ nare in generale la domanda sulla buona vita20. La scissione interna asso­ ciata all’alienazione e il «senso di impotenza», questa la diagnosi, minano alla base le condizioni dell’autonomia personale; • L’alienazione è un concetto-chiave di filosofia sociale (da Rousseau in poi), in quanto può servire a diagnosticare «patologie sociali» - ossia «danneggiamenti delle condizioni sociali dell’autorealizzazione indivi­ duale»21. Da questa prospettiva una forma di vita sociale è alienata (o alie­ nante) se gli individui non possono identificarsi con essa, se non posso­ no realizzarsi in essa, se non possono renderla «propria»; • In quanto concetto fondamentale di teoria sociale, invece, l’aliena­

19. All’interno della tradizione della «teoria critica», la critica dell’alienazione appar­ tiene quindi alla componente hegeliana e di filosofia sociale, in contrapposizione alla linea liberale o kantiana orientata sulle teorie della giustizia. 20. In questo modo per esempio Ursula Wolf risponde all’obiezione contro le questioni etiche: «Molte persone percepiscono oggi la vita come senza senso, indifferente e frammentata, tanto che la stessa domanda sulla buona vita non ha più alcuna presa» (Wolf U., Das Problem des moralischen Sollens, Suhrkamp, Frankfurt am Main, 1984). 21. Si veda Honneth A., Patologie del sociale, in «Iride. Filosofia e discussione pubbli­ ca», n. 18, agosto 2003, pp. 295-328.

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zione funge non solo da categoria diagnostica ma anche da categoria de­ scrittiva e analitica, da chiave di comprensione dei modi di funzionamen­ to delle società borghesi-capitalistiche. Così Marx descrive (anche laddo­ ve ha abbandonato il richiamo alla natura umana dei primi scritti) l’«economia borghese» nei termini di un processo di alienazione.

Assumendo qui la dimensione filoso fico-sociale del concetto di alie­ nazione, mi voglio focalizzare sulle relazioni nelle quali gli individui conducono le loro vite, a differenza della mera dimensione etica del problema dell’alienazione (che, come diventerà evidente, è intrecciata con queste stesse relazioni sociali). L’alienazione è in questo senso un concetto di filosofia sociale par excellence, in quanto il suo schema in­ terpretativo implica una prospettiva nella quale il rapporto con sé e con il mondo - il riferimento individuale a sé e la forma di vita sovraindividuale - sono concettualmente intrecciati. È questo tratto della discus­ sione sull’alienazione - e le conseguenze che ha per l’analisi delle «pa­ tologie sociali» - che credo meriti oggi la nostra attenzione. In quanto concetto analitico che vuole spiegare il funzionamento della società, il concetto di alienazione è troppo debole; oltre a ciò, nelle sue forme tra­ dizionali esso combina aspetti descrittivi e normativi senza spiegare co­ me i due piani siano tra loro correlati. Tuttavia, a dispetto di queste ca­ renze, focalizzarsi sul significato filosofico-sociale del concetto rende possibile definire degli standard per la diagnosi delle patologie sociali. Allo stesso tempo, è ovvio che gli aspetti filosofico-sociali del concetto sono intimamente connessi al suo significato etico; ciò che è in gioco nell’alienazione sono le condizioni di una vita buona e la buona riuscita di questa vita è ciò che permette di misurare le patologie sociali. Dal momento che l’alienazione concerne già da sempre la società giu­ sta e la società buona, la libertà e la felicità, l’autodeterminazione e la rea­ lizzazione di sé - riallacciandosi ai temi fondanti la prima teoria critica - la produttività del concetto consiste proprio nel riuscire a porre in que­ stione alcune dicotomie che dominano il dibattito filosofico contempo­ raneo e a far vedere dimensioni di fenomeni sociali che altrimenti ri­ marrebbero nascoste. E precisamente questo che rende oggi stimolante esplorare in una prospettiva sistematica il potenziale della tradizione che viene ad espressione nel concetto di alienazione.

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Struttura e procedimento

La mia ricerca si articola in tre parti principali. La prima parte - «La relazione in assenza di relazione» - articola il campo problematico associato con il concetto di alienazione da una prospettiva storico-sistematica. Orientandomi sull’uso del concetto quo­ tidiano e filosofico, esplorerò il contenuto e la problematica del tema del­ l’alienazione e proporrò una proposta ricostruttiva. La seconda parte - «Vivere la propria vita come una vita estranea» svolge questa proposta di ricostruzione focalizzando l’attenzione sul rap­ porto dell’«alienazione da sé». Ciascuno dei quattro capitoli di questa parte è basato sulla descrizione di una situazione concreta, grazie alla quale varie dimensioni dell’alienazione possono essere illustrate e ana­ lizzate. Questi esempi - che possono essere intesi come una sorta di «fenomenologia»22 dell’alienazione (o come una microanalisi del feno­ meno dell’alienazione) - cercano di assicurare il punto di partenza per la ricostruzione concettuale del concetto. La terza parte - «L’alienazione come appropriazione impedita del mondo e di se stessi» - elabora le conseguenze sistematiche di queste analisi e le integra in un’interpretazione complessiva del problema del­ l’alienazione, attraverso un confronto con concetti come quello di li­ bertà, di emancipazione, di realizzazione di sé, e di autodeterminazio­ ne, e attraverso una discussione più approfondita della relazione tra alienazione di sé e alienazione sociale. Questo libro può essere letto in vari modi. I lettori che vogliono salta­ re direttamente al problema possono iniziare con la seconda parte, orien­ tata sui fenomeni, per poi ritornare in un secondo momento alla rico­ struzione e all’impostazione della storia del concetto della prima parte. Anche la terza parte dovrebbe essere comprensibile da sola, in quanto consiste in una valutazione e in una sistematizzazione delle analisi dei fe­ nomeni che può, ma non deve necessariamente essere letta con riferi­ mento alla discussione della teoria dell’alienazione della prima parte. Questo libro è la rielaborazione della mia tesi di dottorato, consegna­ ta nel luglio 2001 presso la facoltà di Filosofia e di Scienze umane del­

22. Con ciò non intendo «fenomenologia» in senso metodologico stretto, ma sempli­ cemente un procedere orientato in termini fenomenologici.

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l’Università Wolfgang Goethe di Francoforte sul Meno. Devo ringrazia­ re innanzitutto Axel Honneth che dall’inizio mi ha incoraggiato in que­ sta impresa e mi ha motivato e sostenuto nelle diverse fasi, non sempre facili, della rielaborazione. Questo lavoro deve alla collaborazione con lui molti più impulsi di quelli che potrei mai dimostrare. Gustav Falke è stato probabilmente l’interlocutore più importante durante il concepi­ mento di questo lavoro; Martin Lòw-Beer ha giocato lo stesso ruolo in un momento difficile e decisivo per completare il lavoro. Durante que­ sto periodo, Rainer Forst, Martin Saar e Stephan Gosepath sono stati colleghi sulla cui collaborazione, sul cui aiuto e sulla cui amicizia ho po­ tuto sempre contare. Da anni mi confronto con Werner Konitzer su aspet­ ti rilevanti del problema dell’alienazione. Ringrazio Undine Eberlein e Helmuth Fallschessl per la lettura della prima versione e per i molti com­ menti scettici sui margini destro e sinistro delle pagine. Martin Frank e Arnd Pollmann si sono sottoposti al compito ingrato di commentare il progetto quando si trovava ancora allo stato di un abbozzo frammenta­ rio. Ringrazio Martin Saar, Ina Kerner e Carolin Emcke, inoltre, per la risoluta azione di salvataggio nella memorabile notte prima della conse­ gna alla commissione di dottorato a Francoforte. Ringrazio infine Em­ manuel Renault per il suo interesse e per i suoi utili suggerimenti. Voglio ringraziare anche Christoph Menke per la disponibilità a par­ tecipare in qualità di esaminatore della tesi di dottorato, e Seyla Benhabib per l’invito a Yale nell’anno accademico 2002/2003 e per gli impul­ si a rivedere il testo emersi dal seminario che abbiamo tenuto assieme sul­ la teoria critica contemporanea. Devo ringraziare Jan-Phillip Reemtsma e la Hamburger Stiftung fur Wissenschaft; und Kultur per la generosa borsa di studio elargitami per completare il progetto e i membri dell’i­ stituto per le ricerche sociali di Francoforte (Ifs) per aver accettato il li­ bro nella collana dell’istituto. Senza l’aiuto di Robin Celikates nella revisione del manoscritto sarei stata perduta. Voglio ringraziare Sandra Beaufays e le collaboratrici dell’Ifs per le correzioni e l’editing. Le simpatiche collaboratrici e i simpa­ tici collaboratori della Staatsbibliothek di Berlino non sanno probabil­ mente quanto è stato di aiuto il loro costante incoraggiamento nei periodi particolarmente difficili del lavoro. Da ultimo la presenza sempre più chiaramente percepibile di Jakob Wohlgemuth ha contribuito in ma­ niera decisiva alla consegna del manoscritto. Il ringraziamento più per­ sonale va a Andreas Fischer. Ma ciò esula da queste righe.

I. La relazione in ASSENZA DI RELAZIONE: RICOSTRUZIONE DI UN TEMA DELLA FILOSOFIA SOCIALE

L’alienazione è una relazione in assenza di relazione. Questo è, con­ densato in una formula molto concisa e astratta, il punto di partenza delle riflessioni qui sviluppate. L’alienazione denota, quindi, non l’as­ senza di una relazione ma è essa stessa una relazione - per quanto defi­ citaria. Viceversa, il superamento dell’alienazione non significa il ritor­ no a un indifferenziato stato di unità con se stessi e con il mondo ma, di nuovo, una relazione: un rapporto di appropriazione. L’idea fondamentale che sottende la mia ricostruzione del concetto di alienazione è, dunque, la seguente: per rendere nuovamente produttivo il concetto di alienazione bisogna sottoporlo a una svolta formale. In con­ trasto con una definizione sostanzialistica di ciò da cui si è alienati nelle relazioni di alienazione, è il carattere di questa relazione che va esamina­ to: ciò che il concetto di alienazione ci permette di diagnosticare sono le varie forme di disturbo dei rapporti di appropriazione. Questi rapporti di appropriazione devono essere concepiti come rapporti produttivi e come processi aperti, in cui l’appropriazione ha sempre questi due signi­ ficati: integrazione e trasformazione di ciò che è dato. L’alienazione è il disconoscimento e la tacitazione di questo movimento di appropriazio­ ne. In questo modo, l’analisi dei processi di alienazione può procedere sen­ za il riferimento a un «punto archimedico» posto al di là dell’alienazione. Con questo approccio, come argomenterò qui di seguito, è possibile superare due problemi con i quali la teoria dell’alienazione si confronta frequentemente: da una parte il suo essenzialismo e il suo orientamento perfezionistico a una rappresentazione dell’«essenza» o della natura dell’essere umano, o anche a un ideale di vita buona determinato in ter­ mini oggettivistici; da un’altra parte, l’ideale della riconciliazione - l’i­ dea di un’unità libera da tensioni - che sembra legato alla critica dell’a­ lienazione quando questa prende la forma di una teoria sociale o di una teoria dell’identità. Se invece l’alienazione si presenta come un rappor­ to di appropriazione del mondo e di se stessi distorto o impedito, si di­

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schiude un nesso più significativo tra libertà e alienazione. Se la libertà presuppone che ci si possa appropriare di ciò che si fa e delle condizio­ ni nelle quali lo si fa, il superamento dell’alienazione è una condizione necessaria della realizzazione della libertà stessa. La prima parte di questa ricerca dovrà introdurre nel campo di pro­ blemi delimitato dal concetto di alienazione. In questa parte approfon­ dirò 1) le diverse dimensioni del concetto e del fenomeno dell’aliena­ zione, così come possono essere ricavate dall’analisi dell’uso linguisti­ co quotidiano e dalla trattazione filosofica del concetto. Ciò sarà approfondito attraverso una considerazione più precisa dei presuppo­ sti teorici dell’alienazione, che possono essere ottenuti dalla teoria di Marx da una parte e dall’ontologia esistenziale di Heidegger dall’altra. 2) Su questo sfondo, dopo che è stato dischiuso il potenziale del con­ cetto in quanto concetto fondamentale della filosofia sociale, si dovrà quindi 3) discutere la sua struttura e la sua problematica. Infine (4) ab­ bozzerò la proposta ricostruttiva del concetto, per come l’avrò svilup­ pata nello svolgimento del libro.

1. A stranger in the world that he himselfhas made. Il concetto e il fenomeno dell’alienazione

Il concetto di alienazione rinvia a tutta una serie di motivi tra loro in­ terconnessi. Alienazione significa indifferenza e scissione, ma anche mancanza di potere e assenza di relazione nei confronti di se stessi e di un mondo esperito come indifferente ed estraneo. L’alienazione è l’in­ capacità di porsi in relazione con altri esseri umani, cose, istituzioni so­ ciali e anche - questa è l’intuizione fondamentale della teoria dell’alie­ nazione - con se stessi. Un mondo alienato si presenta all’individuo pri­ vo di senso e di significato, come un mondo irrigidito o impoverito, che non è il proprio, in cui non si è «a casa» o sul quale non si può esercita­ re alcun influsso. Il soggetto alienato diventa estraneo a se stesso, si esperisce non più come un «soggetto attivo ed effettivo», ma come «un oggetto passivo»23, alla mercé di forze sconosciute. Si può parlare di

23. Isreal J., Der Begriff Entfremdung - Zur Verdinglichung des Mensch en in der biirokratischen Gesellscahften, Rowohlt, Reinbeck, 1985.

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alienazione «laddove gli individui non si ritrovano nelle proprie azioni»24 o laddove noi non possiamo essere «padroni dei poteri che noi stessi siamo» (Heidegger). L’alienato è quindi - così il primo Alasdair Ma­ cIntyre - «a stranger in the world that he himself has made»25.

fenomeni dell’alienazione

Già da questo primo approccio si può vedere come l’alienazione sia un concetto dai «contorni sfocati». Le «somiglianze di famiglia» e le mol­ teplici sovrapposizioni con altri concetti - come quello di «reificazione», d’«inautenticità» o di «anomia» - sono tanto caratteristiche per il cam­ po in cui il concetto opera, quanto l’intreccio reciproco tra l’uso ordi­ nario e quello del linguaggio filosofico. Se da una parte il «contenuto di esperienza»26 del concetto si è nutrito di esperienze storiche e sociali che in esso hanno trovato espressione, d’altra parte, in quanto concetto filosofico, il concetto di alienazione ha avuto effetti sulle interpretazioni di sé e del mondo degli individui oltre che dei movimenti sociali. E in questi «impuri»27 rapporti di commistione che si dischiude il molteplice campo di fenomeni associati al concetto di alienazione: • Secondo l’uso linguistico ordinario, si è «alienati» da se stessi se ci si comporta non «autenticamente» ma in maniera «artificiale» e «inau­ tentica», o se si è guidati da desideri che sotto determinati aspetti non so­ no «i propri» o non sono esperiti come tali. Si vive - questa era già la diagnosi critica di Rousseau - «nell’opinione degli altri» invece che «in se stessi». Secondo questa concezione, vanno considerati alienati i com­ portamenti conformi ai ruoli e il conformismo sociale, per esempio; ma anche il discorso sui «falsi bisogni» condotto nell’ambito della critica del consumismo appartiene al campo della diagnosi dell’alienazione.

24. Habermas J., Teoria della morale, trad. it. Tota E., Laterza, Roma-Bari, 1994, p. 45. 25. MacIntyre A., Marxism: An Interpretation, SCM Press, London, 1953, p. 23. 26. Riprendo questa espressione da Oskar Negt e Alexander Kluge. In questo senso, i concetti rendono possibili le esperienze, così come viceversa quelli vivono di queste. Cfr. Negt O. e Kluge A., Òffentlichkeit undErfahrung, Suhrkamp, Frankfurt am Main, 1972. 27. Come dice Raymond Geuss: «Tutti i più interessanti concetti filosofici sono impu­ ri» (Geuss R., Gluck und Politik, Berliner Wissenschafts-Verlag, Berlin, 2004, p. 56).

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• «Alienate» sono quelle relazioni che non vengono strette per se stesse, o quelle azioni con cui non è possibile identificarsi. Il lavoratore che aspetta solo di smontare dal lavoro, lo scienziato che pubblica solo con l’occhio rivolto al citation index, il medico che non può dimentica­ re per un solo momento l’ordine tariffario - tutte queste persone sono alienate da ciò che fanno. E chi coltiva un’amicizia solo perché ne può trarre vantaggi, ha un rapporto alienato con la persona che ha di fronte. • Il discorso dell’alienazione rimanda anche al distacco dai contesti so­ ciali. In questo senso, ci si può «alienare» dal proprio compagno di vita o dalla propria famiglia, dal luogo di provenienza, da una comunità o da un milieu culturale. In termini più specifici, di alienazione si parla nel mo­ mento in cui qualcuno non può identificarsi con le istituzioni sociali o politiche in cui vive e che non può concepire come «proprie». Anche l’i­ solamento sociale o la privatizzazione individualistica sono letti talvolta co­ me sintomi di alienazione. In un modo che tende un po’ al romanticismo, l’alienazione è intesa come espressione di «sradicamento» e di «spaesatezza», ciò che nel repertorio della critica della cultura di stampo conser­ vatore è ricondotta all’opacità o all’anonimità dei moderni rapporti di vi­ ta o aU’«artifìcialità» di un mondo che è esperito solo attraverso i media. • Anche la spersonalizzazione e l’oggettivazione delle relazioni tra le persone e del loro rapporto con il mondo sono definite «alienate» nella misura in cui queste relazioni non sono più immediate ma, per esem­ pio, mediate dal denaro: non sono più «concrete» ma «astratte», non «inalienabili» ma «sostituibili». La «commercializzazione» di ambiti o di beni che prima erano sottratti al mercato è, sotto questo profilo, esem­ pio di un fenomeno di alienazione. Che la società borghese, dominata da «relazioni di equivalenza» (Adorno), distrugge l’unicità di cose e di uomini, la loro peculiarità e la loro insostituibilità, è una diagnosi di cri­ tica dell’alienazione che si ritrova ben oltre il marxismo. • L’alienazione significa - un tema questo dominante già al tempo di Goethe - la perdita dell’«uomo onnilaterale», la frammentazione e la li­ mitazione delle attività, prodotte dalla divisione e dalla specializzazione del lavoro, e l’atrofia di potenzialità ed espressioni umane che ne deri­ va. Ridotto a una semplice «rotella nell’ingranaggio», il lavoratore alie­ nato è deindividualizzato: una mera funzione all’interno di eventi che lui non può vedere nel suo complesso e sui quali non ha controllo. • Possono essere descritti come «alienati» anche i rapporti in cui le

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istituzioni si presentano come ultrapotenti o in cui costrizioni «sistemi­ che» non sembrano lasciare alcun margine di libertà d’azione. In que­ sto senso, l’alienazione o la reificazione si riferiscono a una condizione in cui le relazioni assumono un’esistenza indipendente (Verselbstàndigung) che si erge sopra e di fronte coloro che le costituiscono. Un «ma­ trimonio privo di vita» è in questo senso un fenomeno di alienazione al­ lo stesso modo in cui lo sono certi enti amministrativi nelle democrazie moderne; lo stesso vale per la perdita di possibilità di azione di fronte ai condizionamenti imposti dall’economia, così come per la «gabbia d’ac­ ciaio» dello stato sociale burocratico. • Ma anche l’«assurdo» può essere considerato un componente della famiglia dell’alienazione. I personaggi inventati da Kafka, Beckett o Ca­ mus sono solo gli esempi letterari più noti di esperienze di completo isolamento e di mancanza di senso.

Teoria dell'alienazione - «una crisi nella coscienza del tempo» Che cosa è dunque l’alienazione? «Sembra che quando avverte che qualcosa non è come dovrebbe essere, lo designi in termini di aliena­ zione»28 - questa osservazione di Richard Schacht riferita a Erich Fromm sembra descrivere in modo appropriato il modo in cui il con­ cetto viene spesso impiegato (e non solo da Fromm). E tuttavia, per quanto diversi possano essere i fenomeni sopra enumerati, essi ci con­ segnano un primo abbozzo del concetto di alienazione. Una relazione alienata è una relazione deficitaria che si ha con se stessi, con il mondo e con gli altri. Indifferenza, strumentalizzazione, oggettivazione, as­ surdità, artificialità, isolamento, insensatezza, impotenza - questi di­ versi modi di caratterizzare i fenomeni sono forme di questo deficit. Una caratteristica peculiare del concetto di alienazione è quindi che esso si riferisce non solo all’assenza di libertà e all’assenza di potere, ma anche a un peculiare «impoverimento» della relazione con sé e con il mondo. (Questo è anche il modo in cui dovremmo intendere il dop­ pio significato che Marx ha di mira quando descrive l’alienazione co­ me una «doppia perdita di realtà» del mondo e dell’uomo: l’indivi­ duo, divenuto irreale, esperisce se stesso come non più «effettivo» e il 28. Schacht R., Alienation, Doubleday, New York, 1970, p. 116.

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mondo, divenuto irreale, è insensato e indifferente). È la complessità di questi nessi che ha reso il concetto di alienazione il concetto chiave delle diagnosi della crisi della modernità e uno dei concetti fondamen­ tali della filosofia sociale. In quanto espressione di una crisi nella «coscienza del tempo» (He­ gel), la moderna discussione sull’alienazione si estende da Rousseau e Schiller, passando per Hegel, fino a Kierkegaard e Marx. Elevata a «ma­ lattia della civilizzazione par excellence»23 l’alienazione diviene dal XVIII secolo in poi la cifra con la quale s’intende «l’insicurezza, la lacerazione e la scissione» nel rapporto dell’uomo con se stesso e con il mondo che hanno accompagnato l’espansione dell’industrializzazione; una diagno­ si che la teoria dell’alienazione di Marx ha catturato e volto in una criti­ ca del capitalismo. «La perdita da parte dell’uomo moderno di una de­ stinazione essenziale»29 30 determina anche la domanda della filosofia del­ l’esistenza derivante da Kierkegaard, su ciò che significa essere se stessi e perdere se stessi. Nell’ambito di questa tradizione, l’esperienza d’in­ differenza e di radicale estraneità appare nient’altro che un disconosci­ mento, ontologicamente situato, del mondo e della relazione che l’uo­ mo ha con se stesso e con il mondo; ciò che, al di là di tutte le divergen­ ze, ha qualcosa in comune con la diagnosi di Marx. La diagnosi di alienazione - nella sua forma moderna - concerne sempre (per esem­ pio) la libertà e l’autodeterminazione e l’impossibilità di realizzarle. Co­ sì intesa, l’alienazione è quindi non solo un problema della modernità, ma anche un problema moderno.

Una breve storia della teoria dell’alienazione Una breve storia della teoria moderna dell’alienazione può essere rias­ sunta nel modo seguente:

1. Anche se il termine come tale è assente, nelle opere di Jean-Jacques Rousseau sono già presenti tutte le parole chiave che, fino a oggi, caratterizzano le teorie dell’alienazione - nel senso proprio di una filo­ 29. Nicolaus H., Hegels Theorie der Entfremdung, Manutius Verlag, Heidelberg, 1995, p.27. 30. Theunissen M., Selbstverwirklichung und Allgemeinheit, Walter de Gruyter, Berlin/NewYork, 1981.

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sofia sociale31. Rousseau comincia il suo Discorso sull'origine della disu­ guaglianza in un modo particolarmente incisivo:

Simile alla statua di Glauco, che il tempo, il mare e le tempeste avevano talmente sfigurato da renderla più simile a quella di una bestia feroce che a quella di un Dio, l’anima umana alterata in seno alla società da mille cause che sempre si rinnovano, con l’acquisizione di una quantità di co­ noscenze e di errori, con i cambiamenti subiti dalla struttura fisica, e con lo scontro continuo delle passioni, ha, si può dire, cambiato aspetto al punto da divenire quasi irriconoscibile e in essa troviamo, invece di un essere guidato sempre da principi sicuri e immutabili, invece di quel­ la celeste e maestosa semplicità a cui il suo Autore l’aveva improntata, un informe contrasto tra la passione che presume di ragionare e l’intel­ letto in delirio32. L’alterazione di cui parla Rousseau è la deformazione dell’uomo da par­ te della società: dissociato dalla sua natura, alienato dai suoi stessi biso­ gni, soggetto ai dettami conformistici della società, dipendente dall’opi­ nione degli altri nel suo bisogno di riconoscimento e nella sua vanità, l’uomo sociale è una persona deformata artificialmente. La reciproca di­ pendenza degli uomini civilizzati, l’assenza di limitazione nei loro biso­ gni prodotta dal contatto sociale, il loro orientarsi agli altri, conduce, se­ condo Rousseau, al dominio e alla schiavitù e, allo stesso tempo, alla per­ dita di autenticità e all’alienazione (da se stessi). Una condizione, questa, a cui viene contrapposta l’autonomia e l’autenticità dello stato di natura, concepito come uno stato di autosufficienza. Qui sono in gioco due idee, a prima vista opposte, che hanno reso l’opera di Rousseau, come teoria dell’alienazione, così influente: da una parte lo sviluppo dell’ideale mo­ derno di autenticità, come accordo indisturbato con «sé» e con la pro­

31. Su questo non c’è alcun dissenso tra gli interpreti di Rousseau. Hans Barth descrive Rousseau come il teorico dell’alienazione avant la lettre\ Barth H., Wahrheit und Ideologie, Suhrkamp, Frankfurt am Main, 1974, p. 105. Così Bronislaw Baczko: «Il termine hegelo-marxiano {alienazione} corrisponde perfettamente alla situazione per la quale Rousseau non ha alcun nome, ma che descrive continuamente. Baczko B., Rousseau - Einsamkeit und Gemeinschaft, Europa-Verlag, Wien/Frankfurt/Ziirich, 1970, p. 27. 32. Rousseau J.-J., Discorso sull'origine e i fondamenti dell'ineguaglianza tra gli uomi­ ni, a cura di Gerratana V., Editori Riuniti, Roma, 1994, pp. 87-88.

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pria «natura», da un’altra l’idea di libertà sociale, così come si esprime nella formulazione da parte di Rousseau del compito del «contratto so­ ciale». Se nel Secondo Discorso Rousseau descrive con parole penetranti il carattere alienato degli effetti della socializzazione, qui qualificata in termini esclusivamente negativi, d’altra parte è sempre Rousseau che, con il Contratto Sociale, inventa l’ideale normativo di una forma non alie­ nata di socializzazione. Senza voler negare la tensione interna tra le due opere, la connessione tra questi due aspetti può essere spiegata nel modo seguente: la frattura tra il sé autentico e la società che Rousseau ha artico­ lato in modo così eloquente, si rivela, secondo i suoi stessi presupposti, un’aporia che si può sciogliere solo attraverso l’edificazione di una con­ dizione in cui gli individui vivono in istituzioni che possono esperire co­ me proprie. Per un verso, l’uomo alienato descritto da Rousseau perde se stesso se si lega ad altri: «L’uomo naturale vive in sé, l’uomo socializza­ to, di contro, sempre fuori di sé». D’altra parte, però, egli può riguada­ gnare se stesso solo attraverso la società. Se però la restaurazione dell’au­ tarchia dello stato di natura roussoviano, e con ciò di una libertà che si nutre d’indipendenza e di dissociazione dagli altri, avrebbe un prezzo troppo alto33 - il prezzo della perdita di proprietà specificamente umane come ragione e capacità di riflessione -, la soluzione del problema dell’a­ lienazione non sta nello spezzare i legami sociali, bensì nel trasformarli. La dipendenza reciproca degli individui socializzati tra di loro, esperita co­ me alienante, deve essere riconfigurata coerentemente all’idea, stabilita nel «contratto sociale», di un’associazione in cui ciascun singolo aliena tutti i suoi diritti alla società e con ciò diventa «libero come prima». Ciò che prima era eteronomia alienante diventa soggezione alla «propria legge». L’efficacia storica di Rousseau è con ciò duplice: Rousseau, e soprat­ tutto il «roussovianesimo», costituisce per un verso il movimento, sem­ pre ricorrente, della critica dell’alienazione in quanto critica di una se­ parazione dall’«universale» - colto a partire dall’ideale di una natura non falsificata o di un’autarchia originaria - in cui la socialità e le istituzioni sociali sono ritenute di per sé alienanti. Da un altro punto di vista Rous­ seau diviene l’ispiratore non solo dell’idea kantiana di autonomia, ma an­ che della concezione hegeliana del «carattere sociale della libertà».

33. Fred Neuhouser ha elaborato questo elemento in maniera molto decisa nella sua in­ terpretazione di Rousseau. Neuhouser E, Foundations ofHegels Social Theory, Harvard University Press, Cambridge (Massachusetts), 2000.

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2. È in ogni caso riservato a Hegel il compito di concettualizzare filo­ soficamente l’idea, che qui ha fatto la sua prima comparsa, di un’«autorealizzazione nell’universale». Anche per lui il moderno è caratterizzato dai sintomi dell’alienazione - la lacerazione della coscienza moderna, lo scindersi l’uno dall’altro del particolare e dell’universale nei contesti di una società borghese che rischia di disintegrarsi. Per lui, tuttavia, il cuo­ re del problema è la frattura tra individuo e società, non la perdita di sé degli individui attraverso la società. L’alienazione (o la scissione) in He­ gel è urieticità deficitaria, la «perdita di universalità etica». Con «eticità» qui non s’intende l’integrazione etica sostanziale propria dei tipi di co­ munità premodemi - l’eticità integrata eticamente della polis premoder­ na - ma un’eticità che deve rendere giustizia al «diritto dell’individuo al­ la sua particolarità». L’anti-atomismo34 di Hegel si fonda sull’idea che gli individui si trovano già da sempre in relazioni la cui «realizzazione» (in molteplici significati) costituisce il presupposto della loro libertà. Laddove quindi Hegel riprende la problematica tratteggiata da Rous­ seau, egli ne trasforma il punto di partenza attraverso un concetto di libertà come eticità e di eticità come libertà: noi siamo liberi nelle e mediante le isti­ tuzioni sociali al cui interno soltanto possiamo realizzarci come individui. L’ideale ancora atomistico di autenticità di Rousseau è sostituito da un con­ cetto di realizzazione di sé come identificazione individuale con le istitu­ zioni della vita etica. Sebbene la teoria di Hegel si sforzi di superare l’ideale della libertà come autosufficienza, essa per altro verso si propone d’in­ corporare l’idea (kantiana) di autonomia: l’obiettivo è quello di articolare le condizioni che rendono possibile «ritrovarsi» nelle istituzioni sociali. Sotto il titolo di «cultura» (Bildung), Hegel tematizza il processo attra­ verso cui gli individui elaborano la loro fuoriuscita dalle relazioni di di­ pendenza nelle quali inizialmente si trovano e possono rendere proprie le loro relazioni sociali - in quanto parte dei loro stessi presupposti. 3. Con Kierkegaard e Marx i due rami post-hegeliani della teoria del­ l’alienazione si incontrano nel progetto di un’antropologizzazione di He­ gel35. In realtà, l’enfasi propria della loro epoca nei confronti dell’«esistenza reale» e dell’«uomo attivo e reale» li guida in direzioni diverse: il 34. Sulla discussione riguardo rantiatomismo nella filosofia sociale si veda Taylor C., Atomism, in Id., Philosophy and the Human Sciences. Philosophical Papers, vol. II, Cam­ bridge University Press, Cambridge, 1985, pp. 187-210. 35 Lowith K., Da Hegel a Nietzsche, trad. it. Colli G., Einaudi, Torino, 1988, p. 174 e sgg-

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volgersi di Marx all’economia sta in contrasto con l’approfondimento da parte di Kierkegaard della dimensione etica dell’esistenza umana. E tut­ tavia, l’attenzione della teoria dell’alienazione per il problema della scis­ sione, dell’indifferenza e della perdita di relazione con sé e con il mondo, conduce entrambi significativamente al tema appropriazione pratica. Se Kierkegaard pensa il divenire se stessi come appropriazione delle pro­ prie azioni e della propria storia, come passaggio per «afferrare se stessi nella prassi», e con ciò come attiva presa di possesso di ciò che è stato posto da forze estranee - anche in Marx, l’idea di un’appropriazione pro­ duttiva del mondo e di sé funge da modello di un’esistenza non alienata. L’ideale etico di Kierkegaard consiste nel diventare «un singolo uo­ mo», un «singolo singolarizzato», contro le tendenze conformistiche del­ la sfera pubblica della moderna società borghese. All’opposto, l’approccio di Marx è caratterizzato dall’intendere l’appropriazione della propria es­ senza umana come appropriazione della propria «essenza di genere» (lad­ dove l’«essenza di genere», un concetto di Feuerbach, può essere intesa co­ me naturalizzazione del concetto di eticità di Hegel). Quindi, tanto il punto di partenza quanto i risultati della critica esistenzialista dell’aliena­ zione divergono da quelli della linea di sviluppo Hegel-Marx, in quanto in quest’ultima l’alienazione è concepita come alienazione dal mondo so­ ciale, mentre nella critica esistenzialista è proprio il fatto di essere immer­ si in un mondo pubblico a costituire la fonte dell’alienazione, intesa co­ me perdita di autenticità da parte del soggetto di fronte a un mondo pub­ blico segnato dal «livellamento» (Kierkegaard) o dal «dominio del «Si» (Heidegger). Tuttavia, ci sono molti punti d’intersezione tra questi due rami della teoria dell’alienazione. La diagnosi di Hegel della scissione ha di mira il fatto che gli individui non possono ritrovare «se stessi» nelle istitu­ zioni politiche e sociali dell’eticità; l’analisi di Marx dell’alienazione con­ dotta nei Manoscritti economico-filosofici argomenta che noi, lavorando in maniera alienata, non possiamo «appropriarci» delle nostre attività, dei loro prodotti e delle condizioni della loro produzione sociale; la ver­ sione esistenzialista della teoria dell’alienazione punta l’attenzione su que­ gli ostacoli strutturali che impediscono agli individui di comprendere il mondo come il loro e di comprendere se stessi come soggetti che forma­ no questo mondo56.36 * 36. Parlo qui del riferimento di Hegel alla problematica dell’alienazione concepita in termini di diagnosi del tempo. Per ciò che concerne invece il concetto di alienazione,

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4. Se nel XX secolo il cosiddetto «marxismo occidentale», nelle sue diverse correnti, si è ricollegato, come è ben noto, alla discussione sul­ l’alienazione - e con ciò all’eredità della filosofia sociale della teoria di Marx - ciò è avvenuto in primo luogo perché esso ha potuto in questo modo dischiudere una dimensione normativa della critica della società che era di fondamentale significato per l’articolazione di una teoria cri­ tica del capitalismo avanzato. Così, Gyòrgy Lukàcs, nel suo famoso sag­ gio La reificazione e la coscienza del proletariato51 già negli anni venti del XX secolo (senza conoscere ancora i Manoscritti economico-filosofici contenenti la teoria dell’alienazione)38 rielabora l’analisi di Marx del «feticismo delle merci» in una teoria dell’alienazione o della reificazione. Attraverso la tesi fondamentale dell’«universalità della forma di merce» quale caratteristica della società moderna, la teoria della reificazione qui diventa una teoria della moderna società capitalistica in tutte le sue forme di apparizione. L’influsso su Lukàcs della teoria della razionaliz­ zazione di Weber e della diagnosi dell’oggettivazione di Simmel fa sì che il suo sguardo sia leggermente mutato (rispetto a Marx): determi­ nanti diventano per Lukàcs i fenomeni d’indifferenza, di oggettivazio­ ne, di quantificazione e di astrazione, che con l’estensione dell’econo­ mia fondata sullo scambio capitalistico si ripercuotono sui rapporti di vi­ ta e sulle forme di espressione della moderna società borghese. L’immagine di Max Weber della «gabbia d’acciaio» in cui è rinchiuso l’uomo della società capitalistica burocratizzata, la descrizione di Simmel della tragedia della cultura - secondo cui i prodotti della libertà umana si autonomizzano rispetto agli uomini come qualcosa di oggettivo - co­ sì come la sua analisi del pervertimento della libertà nella perdita di senso che accompagna l’estensione dell’economia del denaro, influisco­ no in misura determinante su Lukàcs stesso, perché catturano quei feesso guadagna con Hegel quella struttura filosofica che diverrà decisiva per Marx: l’a­ lienazione come autoalienazione dello spirito che non è in grado di riconoscere i pro­ pri prodotti in quanto tali. In ogni caso il concetto - a questo livello - non è necessa­ riamente peggiorativo o in generale normativo. Cfr. sulla teoria dell’alienazione di He­ gel nelle sue diverse sfaccettature, Nicolaus H., Hegels Theorie der Entfremdung, Manutius Verlag, Heidelberg, 1995. 37. Lukàcs G., Storia e coscienza di classe, SugarCo edizioni, Como, 1988. 38. Questi furono pubblicati nell’ambito dell’edizione completa delle opere di Marx ed Engels solo nel 1932 e vennero allora salutati entusiasticamente da Herbert Marcuse, il quale li accolse fin da subito come il fondamento filosofico finalmente divenuto evi­ dente della critica marxiana dell’economia politica e della teoria della rivoluzione.

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nomeni che secondo lui erano allora «nell’aria». Se anche in Lukàcs si riscontra in termini caratteristici la sovrapposizione tra motivi esisten­ zialistici e motivi marxisti39 è allora facile osservare come, in questo ca­ so, si è trattato di rapporti di commistione teorici decisivi per la prose­ cuzione della teoria critica e rimasti poi operanti fino a oggi nelle diver­ se letture del concetto40.

2. Excursus: Marx e Heidegger, due varianti della critica dell’alienazione

Mi occuperò ora più in dettaglio di Marx e Heidegger - assumendo­ li come le fonti di due versioni storicamente decisive della critica dell’a­ lienazione che nei loro effetti s’intersecano in molti modi. Orientate con­ tro la «pseudo-ontologia del mondo dato»41, le critiche dell’alienazione di Marx e di Heidegger tematizzano - pur muovendo da differenti sfon­ di concettuali - il predominio delle relazioni reificate che segna il rap­ porto degli individui moderni nei confronti del mondo e di se stessi, e la «trasformazione dell’essere umano in una cosa» che accompagna que­ 39. Lukàcs stesso nel 1967 si esprime in questo modo: «Tuttavia, in rapporto all’in­ fluenza che esso [Storia e coscienza di classe n.d.t.] esercitò a quel tempo, ed anche ad una sua eventuale attualità nel presente, soprattutto un problema ha un’importanza de­ terminante, che va al di là di tutte le considerazioni di dettaglio: si tratta del problema dell’alienazione, che viene trattato qui per la prima volta dopo Marx come questione centrale della critica rivoluzionaria del capitalismo, riconducendo alla dialettica hege­ liana le sue radici storico-teoretiche e metodologiche. Naturalmente questo problema era nell’aria». Lukàcs G., Storia e coscienza di classe, tit., p. XXII. Qui Lukàcs riman­ da esplicitamente alla vicinanza alla discussione esistenzialistica e richiama in questo contesto la pubblicazione di Essere e tempo (1927) e la discussione esistenzialistica post-bellica francese, rinviando al fatto che «l’alienazione dell’uomo come problema centrale del tempo in cui viviamo venne egualmente riconosciuta ed ammessa da pen­ satori sia borghesi che proletari, orientati a destra o a sinistra dal punto di vista politi­ cosociale». Ivi, p. XXIII. 40. Così è del tutto coerente che il grande tentativo di Habermas di una nuova fonda­ zione della teoria critica e della sua riconfigurazione nel paradigma dell’«agire comu­ nicativo» sfociasse in una ricostruzione del teorema della reificazione: la tesi di una «co­ lonizzazione del mondo della vita» trasforma con ciò una delle intuizioni centrali del­ la teoria critica a partire da Marx. 41. Goldmann L., Lukàcs e Heidegger, trad. it. Dorigotti Volpi E., Bertani, Verona, 1976, p. 86.

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ste stesse relazioni4243 : una situazione in cui gli individui fraintendono il mondo come «dato», piuttosto che comprenderlo come il risultato del­ le proprie attuazioni pratiche nel mondo (Weltvollzùge). L’esame delle differenze tra le due posizioni - riconducibili (tra le altre cose) alla dif­ ferenza tra l’orientamento di Marx verso un «paradigma della produ­ zione» concepito in termini espressivistici e la comprensione heidegge­ riana dell’ essere-nel-mondo - ci farà guadagnare importanti elementi per la nostra ricostruzione del concetto di alienazione.

Marx: lavoro e alienazione

Nei Manoscritti economico-filosofici del 1844, Marx distingue quat­ tro risultati conseguenti dal «fatto economico-politico» del lavoro alie­ nato45: in primo luogo, il lavoro alienato, estraniato, estranea il lavorato­ re dal prodotto del suo lavoro; in secondo luogo dalla sua stessa attività; in terzo luogo da ciò che Marx, rifacendosi a Feuerbach, chiama «l’es­ senza di genere»; in quarto luogo dagli altri uomini. L’alienazione può essere intesa quindi come il disturbo di un rapporto che si ha o si do­ vrebbe avere con sé e con il mondo (tanto quello sociale quanto quello naturale). Viceversa, il lavoro non alienato, non estraniato, in quanto for­ ma specifica di appropriazione del mondo attraverso la produzione, è la condizione necessaria per sviluppare una relazione appropriata con sé, con il mondo oggettivo e con gli altri. Già da questa breve esposizione riusciamo a cogliere quelli che costi­ tuiscono - secondo la mia tesi - i due più importanti aspetti della con­ cezione dell’alienazione di Marx. In primo luogo, il campo di tensione tra appropriazione ed estraneità stabilisce una connessione tra due pro­ blemi che è tutt’altro che ovvio pensare assieme: da una parte la perdita di senso, l’«impoverimento» del mondo, dall’altra l’impotenza o la per­ dita di potere nei confronti del mondo. In secondo luogo, in questo te­ sto centrale della teoria marxiana dell’alienazione, si può cogliere quale sia la svolta specifica che Marx imprime al problema dell’assenza di re­ 42. Fromm E., Duomo secondo Marx, in Izzo A. (a cura di), Alienazione e sociologia, Franco Angeli, Milano, 1973. 43. Per un’interpretazione esauriente e molto istruttiva di questi scritti c£r. Wildt A., Die Anthropologie des jungen Marx, inedito, Studienbrief der Fern Universitàt, Hagen, 1987.

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lazione tra il mondo e l’uomo: lo scandalo dell’alienazione consiste nel fatto che si tratta di un’estraneazione da ciò che il sé ha fatto. Sono le nostre azioni e i nostri prodotti, le istituzioni sociali e i rapporti che noi stessi abbiamo realizzato, a essere divenuti potenze estranee. Con Char­ les Taylor, possiamo denominare questa la svolta «prometeico-espressivistica» che Marx - seguendo il modello dell’esteriorizzazione (Entdufierung) dello spirito di Hegel e il concetto di proiezione di Feuerbach - im­ prime alla propria interpretazione del problema dell’alienazione44. Più avanti esaminerò in primo luogo le dimensioni dell’alienazione di­ scusse da Marx, insieme al contenuto e alla ricchezza del suo concetto di alienazione. In secondo luogo, a partire da una chiarificazione del con­ cetto di «lavoro» e dalla sua connessione con l’«antropologia» marxiana, discuterò la summenzionata «svolta produttivistica» del concetto di alie­ nazione. Dimensioni dell'alienazione Possiamo identificare due forme di defi­ cit nel rapporto con sé e con il mondo che vengono teorizzate da Marx attraverso il concetto di «alienazione»: in primo luogo, l’incapacità di identificarsi in un modo dotato di senso con ciò che si fa e con coloro con cui lo si fa; in secondo luogo, l’incapacità di esercitare controllo su quel­ lo che si fa - ossia l’incapacità di essere, individualmente o collettiva­ mente, «soggetti delle proprie azioni». L’alienazione dagli oggetti - dal prodotto della propria attività - significa allo stesso tempo perdita di controllo ed espropriazione: il lavoratore alienato (in quanto venditore della propria forza lavoro) non può disporre di ciò che egli stesso ha prodotto; questo prodotto non gli appartiene più. Il prodotto è scam­ biato in un mercato che egli non controlla, sulla base di condizioni che non controlla. Alienazione significa inoltre che l’oggetto deve apparir­ gli frammentato: lavorando sotto le condizioni della specializzazione e della divisione del lavoro, il lavoratore non ha alcuna relazione con il pro­ dotto del suo lavoro come prodotto intero, compiuto. Coinvolto in uno

44. Charles Taylor parla, in relazione a Marx, di un «espressivismo prometeico» vo­ lendo fare riferimento al fatto che Marx cerca di riconciliare il bisogno espressivo (co­ sì Taylor descrive questa problematica) - in permanente conflitto con il disincanto moderno del mondo - con l’enfasi moderna sul potere di dare forma alle cose. Que­ sto espressivismo è prometeico perché in esso non è in gioco l’espressione di un ordi­ ne cosmico dato o di una volontà divina, ma della stessa capacità di esprimersi attra­ verso i prodotti realizzati dall’uomo. Cfr. su questo Taylor C., Hegel e la società mo­ derna, trad. it. La Porta A., Il Mulino, Bologna, 1998, p. 216.

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solo dei molteplici atti specializzati necessari alla produzione del famo­ so spillo di Adam Smith, il lavoratore non ha alcun rapporto con lo spil­ lo in quanto prodotto finito, per quanto piccolo questo possa essere. Il prodotto del suo lavoro specializzato - cioè della parte specifica di la­ voro che egli ha svolto nella produzione dello spillo - non si ricompone di fronte a lui, o in altre parole: non si ricompone come una totalità pie­ na di senso, come un’unità carica di significato. Lo stesso abbinamento tra mancanza di potere e perdita di senso (o impoverimento) caratterizza l’alienazione del lavoratore dalla propria at­ tività. Da una parte il lavoro alienato è un’attività non libera, è un lavo­ ro in cui e a cui si è costretti. Nel suo lavoro, il lavoratore alienato non è padrone di ciò che fa. Sottoposto a un comando esterno, nel suo lavoro è eterodiretto (fremdbestimmt). «Se egli si rapporta alla propria attività come a un’attività non libera, si rapporta a quella attività come a un’at­ tività che viene compiuta al servizio, sotto il dominio, la costrizione e il giogo di un altro uomo»45. Impotente, il lavoratore non può né control­ lare né vedere l’intero processo, di cui lui è solo una parte e che per lui rimane oscuro. Allo stesso tempo, il lavoro alienato è caratterizzato da una frammentazione e da un impoverimento delle azioni - che rappre­ senta la vera e propria controparte della frammentazione del prodotto. Marx considera alienato anche il carattere di limitatezza e di ottusità del lavoro stesso, che «fa dell’uomo un essere quanto mai possibile astrat­ to, un tornio, e lo trasforma fino allo sfinimento spirituale e fisico» (co­ sì Marx nel frammento su Mill). Anche l’alienazione «dagli altri», dal mondo delle relazioni sociali della cooperazione, riflette queste due di­ mensioni: lavorando in modo alienato, il lavoratore non ha alcun con­ trollo su ciò che - insieme ad altri - fa. E nel lavoro alienato, gli altri so­ no per lui, come si potrebbe dire, «strutturalmente indifferenti»46. E interessante, e di grande importanza per il carattere della sua teo­ ria, che Marx stigmatizzi non solo la strumentalizzazione del lavorato­ re da parte del proprietario della sua forza lavoro, ma anche il rappor­ to strumentale con se stesso che il lavoratore acquisisce in questo mo­ 45. Marx K., Manoscritti economico-filosofici, a cura di Bobbio N., Einaudi, Torino, 2004, p. 78. 46. Alludo qui all’interpretazione della forma di associazione comunista come «amici­ zia strutturale», data da Daniel Brudney. Brudney D., Zur Recbtfertigung einer Konzeption des guten Lebens beim friìhen Marx, in «Deutsche Zeitschrift fur Philosophic», voi. 50, n. 3,2002, pp. 395-423.

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do. Nella prospettiva di Marx, anche il rapporto strumentale che il la­ voratore sviluppa (o è costretto a sviluppare) con se stesso e con il suo lavoro nelle condizioni dell’alienazione, appare problematico - o for­ mulato in maniera più forte: «inumano». Ciò che è alienante nel lavo­ ro alienato è il fatto che esso non ha nessuno scopo intrinseco, non è compiuto (per lo meno anche) per se stesso. Le attività che vengono svolte in modo alienato sono comprese non come «fini» ma soltanto co­ me «mezzi». E allo stesso modo le capacità che nel lavoro si acquista­ no o s’impiegano diventano per noi mezzi e noi stessi ci trasformiamo in mezzi. In altre parole: non ci si identifica con ciò che si fa. La diagnosi della strumentalizzazione sfocia quindi, nuovamente, in quella di una complessiva mancanza di senso', quando Marx dice che, nelle condi­ zioni di una vita alienata, la vita stessa diventa un mezzo («La vita stes­ sa appare soltanto come mezzo di vita»)41 - ciò che dovrebbe essere un fine assume il carattere di un mezzo -, sta descrivendo un evento com­ pletamente privo di senso, o si potrebbe dire: la struttura stessa di una mancanza di senso. Formulato diversamente: per Marx «l’infinito re­ gresso» nei fini è la stessa mancanza di senso. Sotto questo aspetto, Marx è aristotelico: ci deve essere uno scopo che non sia a sua volta un mezzo47 48. Possiamo vedere qui la multidimensionalità del concetto: in quanto alienati, non si possiede ciò che si è prodotto, si è quindi sfruttati ed espropriati49; non si dispone di e non si determina ciò che si fa, si è quin­ di privi di potere e non liberi; e non ci si può realizzare nelle proprie at­ tività, si è consegnati quindi a rapporti privi di senso, impoveriti e stru­ mentalizzati: rapporti con i quali non ci si può identificare e nei quali si è scissi. Viceversa, la «reale appropriazione» che Marx contrappone a

47. Marx K., Manoscritti economico-filosofici, op. cit., p. 74. 48. Si potrebbe argomentare che questa estensione del divieto (kantiano) di strumen­ talizzazione ai rapporti con se stessi - quindi un’interpretazione «etica» del divieto di strumentalizzazione - è ciò che rende possibile la convergenza tra dominio e mancan­ za di senso. 49. «Se il prodotto del lavoro non appartiene all’operaio, e un potere estraneo gli sta di fronte, ciò è possibile soltanto per il fatto che esso appartiene ad un altro uomo estra­ neo all'operaio. Se la sua attività è per lui un tormento, deve essere per un altro un go­ dimento, deve essere la gioia della vita altrui». Marx K., Manoscritti economico-filosofi­ ci, op. cit., p. 77. Qui l’alienazione è ricondotta a un rapporto di dominio. Più avanti si dimostrerà, in ogni caso, che si tratta sempre di un rapporto di dominio strutturale.

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questo tipo di alienazione rappresenta una forma di «ricchezza»50 che va al di là della mera distribuzione di beni. L’«appropriazione» in que­ sto senso ha di mira allo stesso tempo la presa di possesso, l’acquisto di potere e il senso. Quindi, il contenuto di ciò che si potrebbe definire la «concezione della vita buona» di Marx, è un’idea di realizzazione di sé intesa come riferimento (Bezugnahme) identificativo e appropriante a sé e al mondo51. Lantropologia del lavoro di Marx Decisiva per questa comprensione dell’appropriazione e dell’alienazione è la loro fondazione in un con­ cetto filosofico di lavoro, che per Marx rappresenta la vera e propria re­ lazione paradigmatica dell’uomo con il mondo. Il lavoro è qui concepi­ to come un’esteriorizzazione e un oggettivazione delle forze essenziali dell’uomo. Detto molto schematicamente: le «forze essenziali umane» - la volontà, gli scopi, le capacità dell’uomo - diventano oggettive, si materializzano, solo in quanto sono «esteriorizzate» nel mondo attra­ verso il lavoro. La capacità di lavoro, concepita come un processo ma­ teriale di scambio con la natura, trasforma simultaneamente il mondo e l’essere umano. L’essere umano produce se stesso e il suo mondo in uno stesso atto. Nel produrre il suo mondo, egli produce se stesso, e vice­ versa. E nella misura in cui questo processo riesce, si appropria allo stesso tempo del mondo oggettivo e di se stesso. Egli si «riconosce» (si potrebbe tradurre: riconosce la sua volontà e la sua capacità) nelle sue at­ tività e nei suoi prodotti e trova se stesso attraverso il rapporto con que­ sti ultimi; egli si «realizza», quindi, in una relazione di appropriazione con il mondo come prodotto delle sue attività. In questo senso il lavoro - quello non alienato - è per Marx una determinazione essenziale del­ l’uomo52. Ciò che costituisce l’essere umano come tale è il fatto che, a

50. Per un confronto dettagliato e critico con la teoria di Marx dell’alienazione e la rappresentazione di ricchezza si veda Lohmann G., Indifferent und Gesellschaft, Suhr­ kamp, Frankfurt am Main, 1991. 51. Cfr. su questo Btudney D., Zur Rechtfertigung einer Konzeption des guten Lebens beim friihen Marx, op. cit. 52. «Un’attività è specificamente umana» - in termini perfettamente aristotelici - se essa non è determinata esclusivamente dal «bisogno» e dalla costrizione naturale. Si può interpretare, quindi, il richiamo di Marx ai tratti distintivi del lavoro umano co­ me il rimando non solo al fatto che il lavoro umano non è guidato dagli istinti ed è un agire pianificato, ma anche al fatto che l’uomo «forma gli oggetti secondo le leggi del­ la bellezza». In modo analogo va interpretato quindi il suo riferimento al fatto che il lavoratore, lavorando in modo alienato, è animale nelle sue funzioni umane e umano

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differenza dell’animale, è capace di dare forma a se stesso e al suo mon­ do in modo consapevole e attraverso la cooperazione sociale e che non solo egli «realizza» se stesso in questo processo ma anche «produce se stesso», nel senso molto concreto che le sue capacità, i suoi sensi e i suoi bisogni si sviluppano nella misura in cui egli si rapporta al mondo, lavo­ rando e dandogli forma. Ora, la seguente svolta è ricca di conseguenze per la discussione sul con­ cetto di alienazione: se una relazione riuscita con sé e con il mondo attra­ verso il lavoro è concepita come un processo di esteriorizzazione, di og­ gettivazione e di appropriazione di queste forze essenziali umane - come rapporto di appropriazione della propria forza lavoro oggettivata - allora l’alienazione può essere letta come il fallimento di questo processo, come l’impedimento del ritorno a sé da questa esteriorizzazione. Ciò che fallisce, quindi, in senso proprio, è una sorta di movimento di ripresa che deve «riconsegnare» ciò che è stato esteriorizzato al soggetto che lo ha esterio­ rizzato. Chi produce qualcosa si esteriorizza nel mondo, oggettiva se stes­ so o le sue «forze essenziali» in esso, e dopo se ne riappropria, in termini mediati, attraverso il prodotto. Questo è precisamente quanto viene espresso dalla famosa immagine dell’industria come «specchio» delle at­ tività di genere dell’uomo. In questa immagine, la riconciliazione - il su­ peramento dell’alienazione - significa una perfetta corrispondenza tra l’immagine riflessa nello specchio e chi viene rispecchiato. Viceversa, l’a­ lienazione è l’appropriazione impedita delle proprie forze essenziali este­ riorizzate, l’incapacità quindi di riconoscersi allo specchio o la distorsio­ ne dell’immagine dello specchio53. Ora, questo modello di lavoro e di esteriorizzazione, insieme all’idea che l’accompagna - ossia che un piano «interno» si materializzi verso «l’esterno» - è problematica per diverse ragioni54. La cosa più importante nel nostro contesto è che, secondo que­ sta concezione, l’appropriazione va intesa sempre come la rz-appropria-

nelle sue funzioni animali: «ciò che è animale diventa umano e ciò che è umano diven­ ta animale» (Marx K., Manoscritti economico-filosofici, op. cit., p. 72). 53. Nella misura in cui, con questo paradigma, il mondo può essere compreso solo ed esclusivamente come l’estraneazione del sé, la critica di Hannah Arendt a Marx - cita­ ta nell’introduzione - è quindi giustificata. Ho dettagliatamente discusso questo pun­ to in Jaeggi R., Welt und Person - Zum anthropologischen Hintergrund der Gesellschaftskritik Hannah Arendts, Lukas Verlag, Berlin, 1997, cap. 5. 54. Il confronto più approfondito con questa problematica si trova nello studio molto istruttivo di Lange E.M., Das Prinzip Arbeit, Ullstein, Berlin, 1980.

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zione di qualcosa che già esiste. Il quadro concettuale sotteso a questo modello di lavoro non contempla la possibilità che le conseguenze delle azioni - anche al di là di distorsioni alienanti - possano sviluppare una dinamica propria e che i rapporti, anche quando sono «realizzati da noi», non sempre appaiano come pienamente trasparenti e disponibili. Se quindi la «svolta prometeica» del problema dell’alienazione porta a pensare che i risultati delle proprie azioni si rivoltino contro i loro produttori come un «potere estraneo», ciò vuol dire che l’estraneo è ciò che una volta era proprio, e che l’alienazione consiste nel problema di non disporre (più) di ciò che (una volta) era a propria disposizione (in quan­ to risulta dalla nostra stessa attività). Alienato o reificato è qualcosa che è stato fatto ma che appare come dato (in maniera quasi naturale e indi­ sponibile). Questo modello di analisi si trova già - sotto l’influsso della critica feuerbachiana della proiezione religiosa e della concezione filo­ sofica dello spirito di Hegel - negli scritti che precedono i Manoscritti economico-filosofici (la Questione ebraica e la Critica della filosofia hege­ liana del diritto pubblicò). Essa è il rimando ricorrente al carattere «ido­ latrico» dei rapporti umani che, nonostante vengano creati da noi stes­ si, assumono un’esistenza autonoma e si rivoltano contro di noi. Un motivo, questo, che riappare nel Capitale, nella metafora del carattere fe­ ticistico della merce. Questa tematica - il fatto che ciò che è proprio as­ sume una forma estranea - si mantiene anche nella critica dell’econo­ mia politica come critica «denaturalizzante», che svela il carattere so­ ciale di ciò che si presenta come rapporto naturale. E su questo punto quindi che si lasciano riconoscere con più facilità i parallelismi tra la critica dell’alienazione esistenzialistica e quella «hegelo-marxista»: la «fallacia oggettivistica»55 - per cui qualcosa che è sta­ to «fatto» viene frainteso come «dato» - è anche il nucleo fondamenta­ le di quella che si può chiamare la «critica dell’alienazione» di Heideg­ ger. Diversamente da Marx, in Heidegger però il rapporto con il mondo non è pensato come un processo di produzione: piuttosto che partire dal­ l’idea del mondo come prodotto del lavoro, Heidegger comincia con un’analisi di un prioritario «essere-nel-mondo» che lo conduce a una po­ sizione che può essere contrapposta a quella marxista come versione esistenzialistica del «primato della prassi». 55. Cfr. Geuss R., Eidea di una teoria critica. Habermas e la scuola di Francoforte, trad, it. Moriconi E., Armando Editore, Roma, 1989.

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Heidegger: mondo e reificazione Nel contesto heideggeriano, con «reificazione» alienante si può in­ tendere in primo luogo un rapporto oggettivante con il mondo o, nella ter­ minologia di Heidegger, il mancato riconoscimento dell’«utilizzabilità» (Zuhandenbeit) e il suo fraintendimento come «semplice presenza» (Vorhandenheit), insieme al concomitante misconoscimento del mondo e al suo fraintendimento come totalità di ciò che è dato anziché come contesto della prassi56. L’analisi di Heidegger essere-nel-mondo costituisce lo sfondo del­ la sua critica dell’oggettivazione e della reificazione. Si può riassumere l’intuizione di base di Heidegger in questo modo: il mondo non è a noi «dato» come qualcosa di già preesistente, a cui solo in un secondo mo­ mento (per così dire successivamente) ci relazioniamo nella conoscenza e nell’azione. In quanto esseri che conducono una vita, noi ci muovia­ mo già da sempre nel mondo; ci troviamo già da sempre in esso come agenti; siamo già da sempre in un rapporto pratico con esso57. «Mon­ do» non è quindi un insieme di oggetti o la totalità di questi oggetti: non è, come dice Heidegger, la «totalità dell’essente». Il mondo per l’ontologia esistenziale è un contesto che emerge nell’avere a che fare con esso e muovendo da esso - nelle nostre attuazioni pratiche nel mondo. Heidegger illustra la sua idea del mondo-ambiente (JJmwelt) che ci cir­ conda con la sua famosa analisi dello strumento: utilizziamo il martello per martellare. Questo martellare ci serve per produrre una sedia, che d’altra parte serve a noi (o a qualcun altro) per sedersi. Il mondo si apre dunque come il contesto di questi rimandi - in questo caso come un

56. Il riferimento dello stesso Heidegger al concetto di reificazione dimostra che ha senso inserirlo nella presente discussione: «Si sa da tempo che l’ontologia antica opera con “concetti di cosa” e che esiste il pericolo di “reificare la coscienza”. Ma che signifi­ ca reificazione? Da che cosa scaturisce? Perché l’essere è “innanzitutto” “concepito” in base alla semplice-presenza e non in base all’utilizzabile che pure ci è più vicino? Perché\a reificazione finisce per avere il sopravvento? Come è strutturato positivamente l’es­ sere della coscienza perché la reificazione risulti inadeguata a esso?» (Heidegger M., Essere e tempo, a cura di Volpi R., trad. it. Chiodi P, Mondadori, Milano, 2006, p. 510). Sui punti di contatto tra la problematica dell’alienazione e della reificazione in Lukàcs e in Heidegger cfr. Goldmann L., Lukdcs e Heidegger, op. cit., p. 83. 57. Con ciò è posta - prescindendo dalla filosofia classica, dall’ontologia tradizionale o dalla filosofia della coscienza - una comprensione del «mondo» come anche di ciò che tradizionalmente è il soggetto che si relaziona al mondo.

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mondo di vita a cui è impresso un carattere artigianale, in cui noi siamo immersi quando abbiamo a che fare con esso (quando utilizziamo il mar­ tello per martellare, la sedia per sederci). Il mondo che in questo modo emerge è fatto di riferimenti càrichi di significato: solo nel contesto di questo mondo il martello è qualcosa che serve a martellare e solo in questo contesto è comprensibile in quanto tale. La distinzione che compie Heidegger tra il modo d’essere della sem­ plice presenza e il modo d’essere dell’utilizzabilità - cruciale per la pro­ blematica dell’oggettivazione e dell’alienazione - può essere intesa co­ me una distinzione tra due diverse modalità di relazionarsi al mondo. Le cose che incontriamo nel contesto di un mondo sono per noi utiliz­ zabili, a portata di mano (zuhanden) - nel senso prima descritto della loro funzione e del loro significato per il compimento di azioni. Qualcosa che è utilizzabile, qualcosa che è a portata di mano, «è buono per qual­ cosa ed è utilizzato per fare questo o quest’altro»58. Al contrario, le cose nel mondo ci appaiono come semplicemente-presenti quando noi le se­ pariamo da questo contesto di azione o quando riteniamo il mondo qual­ cosa di separato da noi, che ci sta davanti come qualcosa di apparente­ mente «obiettivo» (come qualcosa di «dato», su cui noi non influiamo)59. Quindi, Heidegger fa propria la tesi (per certi versi) «pragmatista» che le cose non sono semplicemente oggetti; non sono semplicemente «lì» nel senso della mera «semplice presenza». Sono «utilizzabili» nelle at­ tuazioni della vita, diventano cariche di significato attraverso il loro uso e nel contesto di un mondo. La «semplice presenza» e l’«utilizzabilità» né sono quindi qualità che appartengono a diversi tipi di oggetti, né si riferiscono a due possibili atteggiamenti alternativi nei confronti del mondo o delle cose nel mondo. (Sarebbe un fraintendimento pensare che, per esempio, il martello è «utilizzabile» solo quando se ne fa uso, mentre ridiventa un «essere-semplicemente-presente» quando giace in un angolo. Anche quando lo osservo solo passivamente lo comprendo «a partire dalla sua utilizzabilità», come qualcosa cioè che può essere di­ 58. Rentsch J., Martin Heidegger. Das Sein und der Tod, Piper, Mùnchen/Zurich, 1989, p. 122. 59. Secondo la concezione di Heidegger, il modo d’essere dell’«essere semplicemente presente» caratterizza tanto la comprensione del mondo, propria delle scienze natu­ rali, quanto la comprensione quotidiana, che non riesce a chiarire il tratto di utilizza­ bilità delle cose con cui ha a che fare, ponendo ingenuamente una divisione tra sé e il mondo.

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sponibile, a portata di mano - zuhanden - in un modo specifico, o di cui posso fare uso in una determinata maniera). Pensare qualcosa di «uti­ lizzabile» come qualcosa di «semplicemente-presente» e comprendere il mondo come un insieme di relazioni tra cose semplicemente-presenti è sbagliato, cioè è reificante. E si può leggere per lo meno Essere e tem­ po - ma per altri versi anche i lavori della maturità di Heidegger - come un tentativo di criticare questa forma di misconoscimento (gravida di conseguenze). Questa concezione opera una forma di misconoscimento per due or­ dini di ragioni. In primo luogo essa misconosce il carattere degli oggetti con i quali si ha a che fare e del «mondo» in cui viviamo (come se que­ sti fossero semplicemente dati, indipendentemente dal fatto che è il «nostro» mondo che noi in primo luogo rendiamo tale, ossia un mondo). Il carattere pratico del mondo come «totalità dei contesti pratici di azio­ ne» (Ernst Tugendhat) è «oscurato» da questo misconoscimento ogget­ tivante. In secondo luogo, questa modalità di rappresentazione reifican­ te misconosce il nostro rapporto con il mondo e ciò che si potrebbe chiamare il nostro coinvolgimento in esso, come se noi potessimo agire al di fuori del contesto pratico dato con esso; come se fossimo nella po­ sizione di osservare il mondo «da fuori» senza essere già da sempre coinvolti in esso; come se noi potessimo venire separati - come «nudi» soggetti - dalla struttura dell’«essere-nel-mondo». Scrive Heidegger: Non è che l’uomo «sia» e, oltre a ciò, abbia un rapporto col «mondo», che occasionalmente assegna a se stesso. L’Esserci non è «innanzi tut­ to» per così dire un ente senza in-essere, a cui ogni tanto passa per la te­ sta di assumere una «relazione» col mondo. Questo assumere relazioni con il mondo è possibile soltanto perché l’Esserci è ciò che è in quanto essere-nel-mondo60. Il rapporto con sé e il rapporto con il mondo sono quindi cooriginari. Entrambi gli aspetti - il primato della prassi, da una parte, l’antidualismo di questa concezione, dall’altra - sono importanti per la diagnosi dell’alienazione. Il mondo, nell’interpretazione di Heidegger, è una strut­ tura che si estende al soggetto e all’oggetto e li include (§ 12). La sepa­

60. Heidegger M., Essere e tempo, op. cit., p. 37.

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razione dei due lati - considerata ontologicamente - è l’alienazione, la di­ sgiunzione di cose che si appartengono.

Alienazione come inautenticità La seconda dimensione dell’alienazione che può essere articolata sul­ lo sfondo dell’ontologia esistenziale di Heidegger concerne il rapporto con se stessi, inteso come il rapporto con la propria «esistenza». Anche qui si tratta di una forma di misconoscimento, di atteggiamenti oggettivanti falsanti. Detto in modo un po’ sbrigativo: chi non si rapporta a sé, come a qualcuno che deve condurre la propria vita, reifica se stesso, in quanto nega il carattere di prassi e di decisione delle attuazioni della sua vita. Questo misconoscimento - «il contesto sistematico di cecità del­ l’inautenticità»61 - poggia di nuovo sul livellamento di una distinzione ca­ tegoriale, decisiva per la filosofia dell’esistenza: la distinzione cioè tra esi­ stenza ed essere presente o, con Sartre, tra essenza ed esistenza. Questa distinzione mira a differenziare l’«esserci» fjfiasein), o la no­ stra esistenza, dalle cose ordinarie nel mondo. Quando Heidegger af­ ferma che l’«esserci» non è un «essente tra gli essenti» ma è totalmente «differente da tutti gli altri essenti», la caratteristica distintiva del Dasein (elaborata rifacendosi a Kierkegaard) su cui egli vuole richiamare la nostra attenzione è che l’«esserci» è un «essente» per il quale «nel suo essere ne va del suo stesso essere». Lesserei non «è» semplicemen­ te, come Heidegger si esprime, esso è colui che «ha da essere il suo es­ sere». Il fatto che gli uomini esistono non significa che essi semplicemente «vivono», ma che devono condurre la loro vita e rapportarsi a essa comprendendola e valutandola. Essi non fanno quindi questo o quello ma si rapportano (implicitamente o esplicitamente) a ciò che fan­ no. L’aspetto di questa descrizione del rapporto con se stessi degli indi­ vidui, cruciale per la critica della reificazione, si trova, di nuovo, nel­ l’opposizione tra i concetti di «esistenza» e di «semplice presenza». Se esistendo «ci si rapporta a se stessi», ci si rapporta a sé non come a un

61. Merker B., Konversion stati Reflexion. Eine Grundfigur in der Philosophic Mar­ tin Heideggers, in Blasch S., Kohler W., Kuhlmann W. e Rohs P. (a cura di), Martin Heidegger: Innen und Aufenansichten. Herausgegeben vom Porum fur Philosophic Bad Homburg, Suhrkamp, Frankfurt am Main, 1989.

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oggetto che è semplicemente-presente nel mondo. Ci si rapporta a sé nel­ le attuazioni della propria vita - ossia in ciò che si vuole e si fa. Che io «ho da essere il mio essere» significa: io non «sono» semplicemente - come un qualsiasi oggetto potrebbe essere, in quanto essere semplicementepresente. Io devo condurre la mia vita, io stesso devo compierla. Ciò si­ gnifica, tra le altre cose, che io sono confrontato con il fatto che la mia vita deve essere decisa da me o, come si esprime Tugendhat, che sono confrontato con «domande pratiche». Su questo sfondo si devono adesso qualificare con più precisione due aspetti dell’alienazione, formulabili con il vocabolario di Heidegger: alie­ nazione significa sia rendere se stessi una «cosa», sia conformarsi agli altri in ciò che si fa. In un caso qualcuno misconosce il fatto che condu­ ce la propria vita, nell’altro che la conduce in prima persona.

- Il livellamento della distinzione tra esistenza e semplice-presenza conduce a una «deiezione nelle cose» (Merker) o, come si potrebbe an­ che dire: a un’«essenzializzazione dell’esistenza». Lesserei «identifica il suo essere con l’essere delle cose»62. Sartre ha offerto un esempio illu­ minante - anche se un po’ maschilista - di questo primato del «rendere se stessi una cosa» nella sua famosa analisi della «malafede»63: la giova­ ne donna che reagisce ai tentativi di approccio di un corteggiatore la­ sciando la sua mano in quella di quest’ultimo, che l’ha presa in prece­ denza, in un modo così passivo e indifferente da dare l’impressione che il tentativo di approccio non sia stato da lei notato. La sua mano non è più parte di lei, lei non è presente in ciò che fa, ossia non prende parte alle proprie azioni. Il fatto che lei, in modo inerte, si renda una cosa, si­ gnifica che nega la responsabilità di ciò che fa e delle sue reazioni a ciò che le accade. Qui, «il contesto di cecità dell’inautenticità» significa mi­ sconoscere la circostanza che, in ciò che si fa, si agisce (già da sempre), ci si relaziona a sé praticamente, quindi si hanno opzioni e tra queste si sceglie e si decide. L’alienazione da sé - nel senso dell’«inautenticità» di Heidegger o della sartriana «malafede» - significa quindi misconoscere il fatto che si deve condurre la propria vita e che, inevitabilmente, la si conduce già.

62. Ivi, p. 217. 63. Sartre J.-P., L'essere e il nulla, trad. it. Del Bo G., il Saggiatore, Milano, 2008.

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- In una seconda accezione, l’alienazione da sé significa misconosce­ re non solo il fatto che si conduce la propria vita, ma anche che la si conduce in prima persona o che si è chiamati a viverla da sé64. Ciò che Heidegger intende quando si richiama al misconoscimento della di­ mensione di «insostituibilità», che definisce il nostro rapporto con noi stessi nel condurre la nostra vita, può essere interpretato come una ver­ sione del progetto di Kierkegaard di «diventare un singolo». Nella con­ cezione di Heidegger, questa dimensione di autoalienazione - l’inau­ tenticità - è il risultato della «deiezione negli altri», della deiezione nel «mondo pubblico del noi»65, nel modo in cui le cose sono interpretate dal Si (Man). Certamente, nell’analisi di Heidegger, l’esistenza del mondodel-con (Mitwelt), del mondo sociale condiviso con altri, è costitutiva nella stessa misura in cui Io è l’essere-nel-mondo in generale: la propria esistenza si comprende necessariamente a partire dal mondo. E ciò si­ gnifica: con riferimento all’interpretazione pubblica del mondo. Per al­ tro verso, però, il mondo-del-con è la causa dell’inautenticità e dell’alie­ nazione da sé. Heidegger afferma che «l’esserci innanzitutto e per lo più non è se stesso»66, riconducendo ciò al fatto che noi siamo già da sem­ pre un’esistenza pubblica, che siamo costretti a comprenderci «a parti­ re dall’interpretazione pubblica». Con queste idee viene intesa quindi tanto la mancanza di autenticità quanto una sottile forma di eteronomia che - in questa interpretazione - scaturisce dall’orientamento conformistico agli altri. Il «modo d’esse­ re del Si» è la fonte della perdita di se stessi che Heidegger denomina «inautenticità». Nella misura in cui questa può essere interpretata co­ me una descrizione peggiorativa della sfera della socialità, si intende con essa il riferirsi l’uno all’altro nella socialità, caratterizzato allo stesso tempo da conformità e da anonimità; una situazione in cui decisioni e va­

64. Barbara Merker intende questa differenziazione come una differenza tra una di­ mensione «ontica» e una «ontologica», vale a dire tra «due diverse modalità, che stan­ no però tra loro in un rapporto di fondazione, di distorsioni ontologiche»: «scambi ontologici», come per esempio l’autointerpretazione dell’esistenza come sostanza, e «distorsioni ontiche», caratterizzate dalla mancanza di autonomia, di autenticità e di conformità alle cose. Merker B., Conversion statt Reflexion. Eine Grundfigur in der Philosophie Martin Heideggers, cit., p. 217. 65. Heidegger M., Essere e tempo, op. cit., p. 87. 66. Ivi, p. 146.

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lutazioni non sono prese e compiute esplicitamente, ma sono date per scontate. «Nella quotidianità delTesserci la maggior parte delle cose è fat­ ta da qualcuno di cui si è costretti a dire che non era nessuno». Anche questo descrive una sorta di dominio: noi siamo in questo caso caduti nel «dominio degli altri», ma anche qui ci troviamo di fronte a una strana oscillazione tra il dominio da parte degli altri e il dominio da parte di sé, che si spiega a partire dal carattere anonimo e fuggevole del sogget­ to di tale dominio. «Il Si non è questo e quello, non è se stesso né alcuni né la somma di tutti»67. Anche questa descrizione contiene un elemento di critica dell’alienazione: ciò che abbiamo creato retroagisce su noi stessi come qualcosa di estraneo, «noi stessi» diventiamo il «nessuno» anonimo che non può assumere la responsabilità di ciò che ha fatto, né può essere fatto responsabile di ciò. «Non è stato nessuno». Allo stesso tempo, però, i fatti - reificati - appaiono come se non potessero essere diversamente da come sono. Per questa ragione, si può leggere il Sì - il «dominio di nessuno» (Arendt) - come una descrizione precisa di quel­ la struttura che stiamo cercando di definire in connessione con il tema dell’alienazione: il Sì come potere sociale che ha assunto un’esistenza indipendente ed è responsabile del fatto che «gli individui non possono ritrovarsi nelle loro stesse azioni» (Habermas).

3. Struttura e carattere problematico della critica dell’alienazione

L’«alienazione», così come è stata fin qui delineata, è uno schema in­ terpretativo, un concetto con il quale (individualmente e collettivamen­ te) si comprende e si articola la propria relazione con se stessi e con il mondo. Uno schema interpretativo di questo tipo è produttivo se ci mette nella condizione di percepire, giudicare o capire aspetti del mon­ do che senza di esso rimarrebbero irriconoscibili. Il merito di concetti come quello di alienazione consiste quindi nel fatto che essi consentono di vedere alcuni fenomeni «nella loro connessione» (o di pensarli insie­ me), e, quindi, riescono a far venire alla luce nessi che altrimenti non sa­ rebbero tematizzabili. Ed effettivamente la critica dell’alienazione de­ scrive i fenomeni in maniera trasversale rispetto ai modi tradizionali di descrivere certi problemi. 67. Ivi, p. 158.

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• L’alienazione è connessa con il problema della perdita di senso. Una vita alienata è una vita «impoverita» o che ha perso significato - tutta­ via è una perdita di senso che s’intreccia con la mancanza di potere e con l’impotenza. • L’alienazione è, quindi, un rapporto di dominio, che d’altra parte non si lascia esaurire nelle tradizionali descrizioni dell’assenza di libertà e dell’eteronomia. • Alienazione significa mancanza di legame o estraneità - ma un’e­ straneità che si distingue dalla semplice assenza di relazione. Ciò ci conduce ad alcune implicazioni del concetto di alienazione, che tratterò brevemente qui di seguito.

Perdita di senso e di potere Primo', l’idea dell’alienazione contiene due diagnosi diverse ma tra lo­ ro intrecciate. Da una parte vi è la diagnosi della perdita di potere che noi, da alienati, esperiamo nei confronti di noi stessi e di un mondo di­ venuto estraneo. I rapporti alienati sono quei rapporti nei quali noi siamo, come soggetti, esautorati. Dall’altra parte vi è invece la diagnosi della perdita di senso che caratterizza il mondo che ci si presenta come alienato, il nostro rapporto con esso e con noi stessi. Un mondo aliena­ to è un mondo che non viene percepito da noi come una totalità dota­ ta di senso. Con il termine «alienazione», quindi, ci si riferisce, allo stesso tempo, all’eteronomia - all’essere determinati nei propri tratti fondamentali da altro - e all’indeterminatezza - ossia alla completa as­ senza di tratti fondamentali e di propositi. Di più, uno dei punti fon­ damentali del fenomeno descritto come «alienazione» sembra essere proprio che in esso questi due problemi -l’«inversione del potere in im­ potenza» e la perdita di un coinvolgimento dotato di senso nel mondo - si compenetrano. Ora, però, la correlazione tra questi due temi non è di per sé eviden­ te. Non si può essere situati in un mondo dotato di senso, senza avere però potere e controllo su ciò che si fa? E, ponendo la questione in ter­ mini più generali, non si può essere non alienati in una relazione in cui si è determinati da qualcosa o da qualcuno al di fuori di noi stessi? Que­ ste domande riguardano la relazione tra libertà e senso e sollevano la que-

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stione se esista un nesso costitutivo tra autodeterminazione e realizzazio­ ne di sé. La tesi implicita potrebbe essere allora così formulata: solo un mondo che posso fare «proprio» - solo un mondo con cui posso identi­ ficarmi (appropriandomene) - è un mondo nel quale posso agire in ma­ niera autonoma. Così inteso, il concetto di alienazione tenta d’identifi­ care le condizioni sulla base delle quali ci si può comprendere come soggetto, come il padrone delle proprie azioni. Questa tesi ha delle implicazioni. La si potrebbe addirittura conside­ rare ciò che distingue le diagnosi dell’alienazione «emancipatrici» da quelle «conservatrici»: mentre le prime pongono al centro il potere espressivo e creativo degli individui agenti, le seconde enfatizzano la per­ dita di un dato ordine di senso. Il mio modo d’impostare il problema esclude in ogni caso il desiderio nostalgico di condizioni premoderne non alienate - dell’ordine ricco di senso dei rapporti feudali, per esem­ pio. Esso suggerisce anche che la visione conservatrice secondo cui l’a­ lienazione è il prodotto del carico eccessivo della libertà moderna e del­ l’assenza di legami sociali ha scarsa plausibilità. In altri termini, se la critica dell’alienazione di stampo conservatore considera la libertà (mo­ derna) come la causa dell’alienazione, la critica emancipatrice dell’alie­ nazione legge quest’ultima come una forma di assenza di libertà.

Allo stesso tempo proprio ed estraneo - Eteronomia strutturale Secondo: se, quindi, l’alienazione è certamente una forma di man­ canza di potere e d’impotenza, allo stesso tempo il teorema dell’aliena­ zione tematizza qualcosa di più e di diverso rispetto a dei semplici rap­ porti di dominio. Ciò da cui siamo alienati è allo stesso tempo proprio ed estraneo. Nei rapporti alienati sembriamo essere - in una maniera com­ plicata - contemporaneamente vittime e carnefici. Una persona che si aliena nel suo ruolo o attraverso il suo ruolo recita essa stessa questo ruo­ lo; qualcuno che è guidato da desideri estranei ha allo stesso tempo que­ sti desideri - e disconosceremmo la complessità della situazione se par­ lassimo qui semplicemente di una coercizione interiorizzata o di una manipolazione psichica. Le istituzioni sociali che ci troviamo di fronte irrigidite ed estranee sono allo stesso tempo create da noi. In questo caso - e in ciò consiste la specificità della nostra diagnosi dell’aliena­ zione - non siamo padroni di quello che facciamo collettivamente. Co­

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me dice Eric Fromm, centrando il punto della questione in modo piut­ tosto drastico:

Egli [l’uomo borghese] produce un mondo di cose fantastiche e gran­ diose; ma queste sue creazioni gli stanno di fronte come estranee e mi­ nacciose; per quanto esse siano create, lui non si sente più il loro padro­ ne ma il loro servo. Tutto il mondo materiale diventa così la mostruosità di un’enorme macchina che gli detta la direzione e il ritmo della sua vi­ ta. L’opera delle sue mani, destinata a servirlo e a renderlo felice, divie­ ne un mondo alienato, al quale egli obbedisce umiliato e impotente68. Nei rapporti di alienazione il «senso d’impotenza» non implica ne­ cessariamente l’esistenza di un potere effettivo - nel senso di un attore agente - che crea una condizione d’impotenza. Con la diagnosi dell’a­ lienazione ci si riferisce tipicamente - sia nella forma del Si di Heideg­ ger, sia nell’analisi marxiana dell’economia borghese - a forme di etero­ nomia sottile e strutturale o al dominio anonimo di rapporti oggettificati, che sembrano assumere una «vita propria» nei confronti degli individui agenti. In altri termini: il concetto di alienazione istituisce una connessione tra indifferenza e dominio che deve essere interpretata. Le cose, le situazioni, i dati di fatto con i quali non abbiamo relazione quan­ do siamo alienati non ci sono indifferenti senza che questo abbia ulteriori conseguenze. Essi ci dominano proprio in questo rapporto di indiffe­ renza e attraverso di esso69.

La relazione in assenza di relazione Terzo: l’alienazione non è semplicemente estraneità. Come suggeri­ sce già la struttura linguistica del concetto70, l’alienazione non significa

68. Fromm E., Zum Gefiihl der Ohnmacht, in Id., Gesamtausgabe, vol. I, Deutsche Verlags-Anstalt, Stuttgart, 1980, pp. 189-206. 69. A questo proposito si veda l’interpretazione di Hegel di Michael Theunissen con la sua tesi secondo cui «i rapporti di indifferenza sarebbero solo rapporti di dominio camuffati». Heunissen M., Sein und Schein, Suhrkamp, Frankfurt am Main, 1978, p. 362. Lohmann riprende questa tesi nel suo studio su Marx: Lohmann G., Indifferent und Gesellschaft, Suhrkamp, Frankfurt am Main, 1991. 70. (Si allude qui alla struttura linguistica composta del termine Ent-fremdung, che in

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una semplice dissociazione e non indica la mera assenza di una relazio­ ne. L’alienazione è essa stessa una relazione - tuttavia, deficitaria. Le cose dalle quali possiamo alienarci, estraniarci, non sono per noi mera­ mente «estranee» nel senso di non familiari, irrelate o indifferenti. Co­ me giustamente osserva Daniel Brudney nella sua ricerca su Marx:

[...] uno può trovare Marte, i Marziani e gli oggetti su Marte opachi e estranei, ma sarebbe bizzarro descrivere se stessi come alienati da queste cose, a meno che non si abbia avuto o forse non si debba avere una re­ lazione con esse in cui essi non sono opache e estranee71. L’alienazione indica così un’assenza di relazione di tipo particolare: una divisione e una separazione di qualcosa che in realtà dovrebbe es­ sere unito, la perdita di rapporto tra grandezze che sono tuttavia in re­ lazione tra loro. Essere alienato da qualcosa significa, secondo questa de­ finizione, essersi allontanato da qualcosa in cui in realtà si è coinvolti o con cui si è in rapporto - o almeno si dovrebbe essere.

I termini stessi Enfremdung {Alienazione) e Entdufierung {Estraneazione) evocano delle immagini: essi suggeriscono la separazione di cose che dovrebbero, per natura, essere unite, o lo stabilirsi di una relazione d’in­ differenza o di ostilità tra cose che propriamente dovrebbero essere in ar­ monia72. Solo a partire da una precedente relazione logica, ontologica o stori­ ca, si può comprendere la diagnosi dell’alienazione come perdita di re­ lazione. E decisivo per la struttura del concetto che la relazione o il le­ game alla base dell’alienazione abbiano una pretesa di validità, anche se questa relazione a prima vista non esiste più. Quando per esempio si par­ la del fatto che qualcuno si è «alienato» dalla sua famiglia, non presup­ poniamo soltanto che questi non fosse già da sempre estraneo ad essa. Qui viene anche suggerito che egli, in un certo modo, appartiene anco-

italiano è traducibile anche come estraneazione, in modo più vicino da un punto di vi­ sta lessicale al termine tedesco. Si veda su questo l’introduzione del Curatore, ndc). 71. Brudney D., Marx’s Attempt to Leave Philosophy, Harvard University Press, Cam­ bridge (Massachusetts), 1998, p. 389. 72. Wood A.W, Karl Marx, Routledge & Kegan Paul, London, 1981, p. 3.

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ra ad essa, o addirittura che egli le appartiene indipendentemente dalla reale relazione - effettivamente vissuta - che vi corrisponde. Le cose o i rapporti dai quali ci si è alienati rivendicano in modo enigmatico di es­ sere ancora i «propri», anche se sono ormai (divenuti) estranei: «Sono tuoi, faute de mieux, ma non più veramente tuoi: sono tuoi ma tu sei alienato da loro»73. Queste riflessioni portano alla luce un tratto fonda­ mentale del concetto di alienazione: l’alienazione è una forma specifica di relazione, non una non-relazione o una mera assenza di relazione. L’alienazione non descrive quindi il non sussistere di una relazione, ma piuttosto la qualità di una relazione. Formulato in modo paradossale: l’a­ lienazione è una relazione in assenza di relazione.

Ealienazione come concetto diagnostico Proprio in relazione a quest’ultimo punto emerge però un problema: se l’alienazione, in quanto relazione in assenza di relazione, è la dissolu­ zione o il divenire indifferente di un rapporto che tuttavia persiste - si­ gnifica questo che il legame in realtà sussiste ancora e che quindi di fat­ to continua a esistere? O significa invece che, nonostante i sintomi di estraneità, dovrebbe continuare a sussistere, perché ad esempio le fami­ glie devono essere unite? Quando definiamo una situazione «alienata», la descriviamo o la critichiamo? Descriviamo una condizione o stabiliamo una norma? E una peculiarità del concetto di alienazione il fatto che esso rivendi­ ca entrambe queste posizioni, o anche: esso si sottrae a questa stessa di­ stinzione74. In quanto concetto diagnostico, l’alienazione è un concetto normativo e descrittivo allo stesso tempo. Analogamente al modo in cui funziona un’espressione come «malattia» (questa la proposta di Richard Schacht), con la quale alcuni dati vengono classificati come fenomeni di

73. Vedi la voce: «Alienation» in Honderich T., «Alienation» (voce), in Id. (a cura di), Oxford Companion to Philosophy, Oxford University Press, Oxford, 1995, p. 21. 74. Richard Bernstein, per esempio, considera proprio questa ambiguità la forza e il po­ tenziale della teoria marxiana dell’alienazione, che, riallacciandosi a Hegel, tenta di superare la dicotomia tra «essere» e «dovere»; «A modo suo Marx attacca il «mito del dato» - l’idea che possiamo distinguere nettamente ciò che è a noi immediatamente dato nella cognizione da ciò che è da noi costruito, inferito o interpretato». Bernstein R., Praxis and Action, The University of Philadelphia Press, Philadelphia, 1971, p. 71.

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un certo tipo, l’alienazione è uno schema interpretativo con l’aiuto del quale possiamo allo stesso tempo rendere comprensibili, interpretare e giudicare alcuni fenomeni nel mondo. Il concetto di alienazione è, per dirlo con Bernard Williams, un «concetto etico pregnante»75. Descrive­ re una situazione come alienante implica una sua valutazione o, detto altrimenti: la valutazione non si aggiunge alla descrizione ma è indisso­ lubilmente legata ad essa. Questo naturalmente non significa che una simile descrizione o valutazione sia priva di presupposti. Se l’espressio­ ne «sembri malato» non ha bisogno dell’aggiunta «ed essere malato è male (per te)», ciò vuol dire che essa si basa, per poter essere così ovvia, su assunzioni di sfondo (condivise): su una determinata idea di sanità e di malattia, per esempio, così come sull’assunzione che la sanità sia da privilegiare rispetto alla malattia. Ci si potrebbe chiedere se anche il concetto di alienazione non rimandi, in un senso analogo, a simili as­ sunzioni etiche di sfondo: a un’idea di ciò che nella condizione «aliena­ ta» è distrutto, non raggiunto, è assente, ma che d’altronde è desidera­ bile. Per ritornare all’esempio della famiglia: perché il fatto che io ero legata alla mia famiglia, che senza dubbio provengo da essa, dovrebbe rappresentare un motivo per il quale io dovrei continuare ad essere legata ad essa? L’affermazione che qui «in realtà» c’è una relazione non ha già di per sé un carattere normativo? Il riferimento al legame «originario» - «ma questi sono pur sempre i tuoi genitori!» - non ha forza motivan­ te solo se incontra assunzioni già condivise riguardo a cosa significa es­ sere una famiglia? In altri termini: se questa indicazione non ha bisogno di ulteriori argomentazioni, questo è perché già la descrizione del rap­ porto (che io ho o meno con la mia famiglia) in quanto relazione è com­ pletamente impregnata di un carattere normativo. Se quindi il carattere relazionale di un rapporto di alienazione (o di una relazione alienata) è ogni volta esso stesso in questione, allora il ca­ rattere problematico del concetto di alienazione e la possibilità della sua ricostruzione dipenderanno in maniera decisiva dalla risposta alla questione di come debbano essere intese e legittimate le assunzioni nor­ mative di sfondo alle quali si è qui accennato. Se si osservano con maggiore attenzione gli esempi dei fenomeni di 75. Cfr. Williams B., luetica e i limiti della filosofia, trad. it. Rini R., Garzanti, Milano, 1987. Williams discute questi «concetti pregnanti» (thick concepts) nel contesto della sua proposta di un superamento della distinzione tra fatti e valori. Cfr. p. 158 e sgg.

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alienazione sopra riportati, appare chiaro che alla base di ognuno di essi si trovano concetti che sono tutt’altro che ovvi: da chi o da che cosa ci si aliena, infatti, quando ci si «aliena da se stessi»? Che criterio c’è per sta­ bilire se i bisogni sono veri bisogni? Come va intesa l’unità alla quale si contrappone la scissione e quali potenziali si dovrebbero sviluppare per essere un «uomo ©unilaterale» o «una personalità pienamente sviluppa­ ta»? L’ideale di personalità e d’immediatezza che sta alla base della criti­ ca della reificazione non disconosce forse il potenziale di libertà che si nasconde nell’indifferenza delle relazioni spersonalizzate? E ancora, nel­ le condizioni di una società e di un’organizzazione economica comples­ se, non sono illusori gli ideali di trasparenza e di potere creativo che stan­ no alla base della critica delle relazioni sociali in quanto alienanti e reifi­ canti? L’essenzialismo contenuto nella figura dell’alienazione appare quindi problematico, tanto quanto l’ideale di trasparenza e di riconcilia­ zione legato all’idea di una persona e di una società non alienate.

Critica della critica dell'alienazione

Se l’alienazione (a cominciare da Rousseau) viene intesa come una discrepanza tra la natura dell’uomo e la sua vita sociale, il ritorno da una condizione alienata a una non alienata significa evidentemente un ri­ torno a questa essenza, alla destinazione o alla natura dell’essere uma­ no. La critica dell’alienazione presupporrebbe allora sempre una forma o una finalità (fondate oggettivamente) della vera esistenza umana, dal­ le quali ci si sarebbe allontanati nella condizione alienata. Sembra quin­ di evidente l’assunzione che laddove qualcosa è alienato o ci si aliena da qualcosa, ci sia qualcosa di essenzialmente «proprio» da cui ci si aliena. Se l’alienazione consiste nella «contraddizione tra l’esistenza e l’essenza dell’uomo» (un’espressione, questa, del giovane Marx), allora l’aliena­ zione non è soltanto qualcosa che non dovrebbe esserci, bensì qualcosa che in un certo senso non è. L’«apparenza», cioè la condizione alienata, è già dal punto di vista logico-ontologico nel torto. E nella misura in cui l’alienazione è definita come «contraddizione» che si manifesta in diversi passaggi storici, la storia (in quanto scena del processo di alienazione) spinge verso la «riconciliazione» e il superamento della condizione alie­ nata. Questo è, in ogni caso, il modo in cui si può comprendere la stra­ tegia hegeliana volta a trovare una risoluzione della critica dell’aliena­

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zione nel quadro di una filosofia della storia, le cui tracce sono rinveni­ bili facilmente anche in Marx. Se si pensa l’alienazione come un «essere fuori da sé» e il suo superamento come un «tornare a sé», l’alienazione è qualcosa come un «meccanismo incorporato di superamento»76. Sono diverse le critiche alle quali si espone in questo modo il teore­ ma dell’alienazione. Da quando Althusser ha criticato l’«umanesimo» di Marx e il suo ideale di autotrasparenza e di autonomia del soggetto stigmatizzando la critica dell’alienazione dall’interno di una prospettiva marxista - la critica dell’essenzialismo è divenuta una sorta di «senso comune» della discussione filosofica contemporanea77. Oltre a ciò, nes­ suno oggi sottoscriverebbe il tipo di giustificazione offerta dalla filoso­ fia della storia di Hegel con la sua visione normativo-teleologica dello svi­ luppo storico. D’altra parte, privare il discorso sull’alienazione dell’im­ pianto di filosofia della storia e ridurlo ad un elemento di una teoria sulla «vita buona» lo espone all’accusa di paternalismo. Così, sono fon­ damentalmente due le posizioni contemporanee che si oppongono al ricorso al teorema dell’alienazione: il «liberalismo» filosofico (sulla scia di Rawls), che si astiene da definizioni oggettive della buona vita, e la critica poststrutturalista del soggetto, che mette in questione la conce­ zione del soggetto che la teoria dell’alienazione sembra presupporre.

Oggettivismo, perfezionismo, paternalismo

Dal punto di vista della teoria «liberale», specialmente un aspetto della critica dell’alienazione è problematico: la critica dell’alienazione sembra evocare il riferimento a criteri oggettivi che si trovano al di là delle prerogative sovrane d’interpretazione degli individui. Herbert Marcuse esemplifica con disinvoltura questa tendenza di molte teorie dell’alienazione quando, nel suo libro Luomo a una dimensione - un li­ bro che diede impulsi decisivi alla critica dell’alienazione della «nuova si­ nistra» negli anni Sessanta e Settanta - difende, facendo riferimento ad uno «più avanzato di alienazione», la validità della diagnosi dell’aliena­

76. Furth P., Phdnomenologie der Enttduschung, Suhrkamp, Frankfurt am Main, 1991, p. 45. 77. C£r. la tesi di Althusser della «rottura epistemologica» in Althusser L., Per Marx, trad. it. Cantimori D., Editori Riuniti, Roma, 1974.

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zione nei confronti dell’alto grado d’integrazione e d’identificazione con i rapporti sociali vigenti da parte dei membri delle società indu­ striali del benessere:

Ho osservato poc’anzi che il concetto di alienazione sembra diventare di­ scutibile quando gli individui si identificano con l’esistenza che è loro im­ posta e trovano in essa compimento e soddisfazione. Questa identifica­ zione non è illusione ma realtà. La realtà, d’altra parte, costituisce uno stadio più avanzato di alienazione. Quest’ultima è diventata compietamente oggettiva; il soggetto dell’alienazione viene inghiottito dalla sua esistenza alienata7879 . La soddisfazione soggettiva di coloro che sono integrati in rapporti og­ gettivamente alienati è, secondo Marcuse, «una falsa coscienza che è immune dalla propria falsità»13, Immune o resistente alle confutazioni sembra essere qui, tuttavia, anche la stessa teoria dell’alienazione. Si può sostenere che il concetto di alienazione appartiene a un’etica oggettivistico-perfezionistica, a un’etica quindi che - in senso lato parte dal presupposto che sia possibile identificare ciò che è oggettiva­ mente buono (per la vita umana) attraverso l’identificazione di un certo set di qualità o di funzioni che devono essere realizzate. Ma se la base del­ la morale moderna e il principio fondamentale delle concezioni liberali della società è che «ciascuno deve essere lasciato Ubero di decidere che forma dare alla propria vita»80 ossia che gli individui sono sovrani per quanto concerne l’interpretazione della propria esistenza, allora una critica dell’alienazione di orientamento oggettivistico-perfezionistico sembra sottrarsi a questa posizione in favore del paternalismo di una pro­ spettiva che pretende di «saperne di più». Qualcosa potrebbe allora es­ sere considerato - oggettivamente - buono per qualcuno senza che que­ sti - soggettivamente - lo ritenga tale. Viceversa: una forma di vita po­ trebbe essere criticata come sbagliata dal punto di vista dell’alienazione, senza che a ciò corrisponda una sofferenza percepita soggettivamente.

78. Marcuse H., Euomo a una dimensione. Eideologia della società industriale avanza­ ta, trad. it. Gallino L. e Gallino T.G., Einaudi, Torino, 1999, p. 25. 79. Ivi, p. 26. 80. Tugendhat E., Etica antica e moderna, in Id., Problemi di etica, trad. it. Marietti A.M., Einaudi, Torino, 1987, pp. 22-41.

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Ma allora si può essere «alienati da se stessi», nel senso fin qui delinea­ to, senza accorgersene minimamente? Si può affermare che qualcuno è alienato dai suoi stessi desideri, spinto da falsi (alienati) bisogni, o che nel complesso persegue un modo di vivere alienato, se egli stesso afferma contemporaneamente di condurre esattamente la vita che vuole con­ durre? Riguardo alla diagnosi dell’alienazione si pone quindi la doman­ da se in simili casi ci possa essere un risultato oggettivo che può essere contrapposto alle preferenze o alle valutazioni individuali. In effetti, si tratta qui di un dilemma che non è facile risolvere: da una parte il concetto di alienazione solleva la pretesa (e in questo consi­ ste il suo valore rispetto a forme di critica più deboli) di poter contrap­ porre alle preferenze degli individui e alle loro valutazioni prima facie un livello di profondità della critica, di fornire quindi un’istanza critica che deve anche fungere da correttivo rispetto alle informazioni che gli in­ dividui danno su se stessi. D’altra parte, però, non è facile giustificare una posizione di questo tipo, che rivendica di essere un correttivo critico. Quali sarebbero, infatti, in questo caso, i criteri oggettivi da far valere nei confronti delle valutazioni e delle preferenze degli individui81? Le argomentazioni sulla natura umana che vengono spesso messe in campo in questo contesto mostrano, anche nelle loro varianti metodo­ logicamente più avvertite e «deboli», i problemi che gravano sul tenta­ tivo di derivare standard normativi da una qualche concezione della «na­ tura umana»82. Anche se - banalmente - c’è qualcosa che gli uomini condividono sulla base del loro patrimonio biologico-naturale, e anche se - banalmente - si possono dedurre da questi presupposti basilari della vita umana alcuni bisogni funzionali (tutti gli esseri umani per so­ pravvivere hanno bisogno dell’alimentazione e di certe condizioni cli­ matiche), proprio queste condizioni di base sono poco utili quando si tratta di valutare e di organizzare il modo in cui gli uomini conducono la propria vita al di là della loro mera sopravvivenza. Da un altro punto di vista, quanto più specifico e definito diventa il modo in cui la «natura 81. Per una visione d’assieme della discussione sui criteri soggettivi e oggettivi per mi­ surare la qualità della vita cfr. Gosepath S. e Jaeggi R., Standards der Leben squatitàt, Europdische Akademie zur Erforschung der Folgen wissenschaftlich-technischer Entwicklungen, Bad Neuenahr-Ahrweiler, 2002. 82. Martha Nussbaum è indubbiamente la rappresentante più rilevante di questa po­ sizione. Cfr. tra gli altri i saggi raccolti in Nussbaum M., Capacità personale e democra­ zia sociale, trad. it. Zanetti G., Diabasis, Reggio Emilia, 1999.

I. LA RELAZIONE IN ASSENZA DI RELAZIONE

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umana» viene interpretata in base a tali forme di vita (culturalmente specifiche), tanto più controverse e contestabili diventano le afferma­ zioni in questione. Come è possibile determinare la natura umana se la sua straordinaria variabilità e formabilità sembra essere parte della stes­ sa natura umana? E come si possono mettere in risalto, tra le diverse forme di vita umane, quelle che veramente corrispondono alla «natura umana», se di fatto anche le forme di vita criticate come alienate sono sta­ te in certo modo sviluppate, promosse e vissute da esseri umani?83

Alienazione e critica del soggetto

La seconda posizione, che mette in questione la validità dalla critica dell’alienazione o addirittura la rigetta, è la critica poststrutturalista del soggetto - intesa in senso lato. Michel Foucault mira direttamente a colpire le idee di alienazione e di emancipazione quando osserva in un’in­ tervista:

Sono sempre stato un po’ diffidente nei confronti del tema generale della liberazione, nella misura in cui, se non lo si tratta con qualche pre­ cauzione e all’interno di certi limiti, rischia di riportare all’idea che esi­ sta una natura o un fondo umano che, in seguito ad alcuni processi sto­ rici, economici e sociali, si è trovato mascherato, alienato o imprigiona­ to in alcuni meccanismi, in certi meccanismi di repressione. In base a questa ipotesi, basterebbe far saltare i chiavistelli perché l’uomo si ri­ concili con se stesso, ritrovi la sua natura o riprenda contatto con la sua origine e restauri un rapporto pieno e positivo con se stesso84. Qui Foucault non solo attacca i richiami essenzialistici alla «natura umana», ma rigetta anche l’idea di soggettività che sembra stare alla base della critica dell’alienazione. Facendo culminare la questione sul proble­ 83. Non voglio qui esprimermi in maniera definitiva sulla questione - che torna sem­ pre attuale - della possibilità di fondare una simile teoria e così della fondazione an­ tropologica della filosofia sociale. Il mio progetto prende un’altra direzione rispetto a questa. Riguardo alle diverse possibilità di fondazione della filosofia sociale cfr. Hon­ neth A., Patologie del sociale, op. cit. 84. Foucault M., Antologia, ^impazienza della libertà, a cura di Sorrentino V., Feltri­ nelli, Milano, 2005, p. 235.

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ma dell’alienazione, Foucault argomenta che l’«ipotesi della repressio­ ne» (da lui cosi chiamata) presuppone l’idea di un soggetto «al di là del po­ tere», di un soggetto che, da qualche parte, si troverebbe «presso se stes­ so», al di là dei poteri sociali che lo formano e lo opprimono. La tesi che Foucault contrappone a questa prospettiva - la «produttività del potere» - mette radicalmente in questione la possibilità stessa di distinguere tra un «dentro» e un «fuori», tra un «proprio» e un «estraneo», tra la formazio­ ne sociale e l’unicità individuale. Riallacciandosi alla tesi della «soggetti­ vazione» di Althusser, Foucault considera il soggetto stesso come il risul­ tato, l’«effetto» di una «interpellazione» da parte del potere (a sua volta non più inteso secondo il modello del potere sovrano). Se però il sogget­ to, secondo questa concezione, è sia sottomesso alle regole del «potere» sia al contempo costituito da esse (in quanto soggetto desiderante e agente), allora va persa la distinzione, necessaria alla critica dell’alienazione, tra «proprio» ed «estraneo», tra un soggetto non represso (o non alterato) e un soggetto represso (o alterato). Il punto di riferimento normativo di un soggetto autonomo che è capace di divenire trasparente a se stesso, in quanto autore delle proprie azioni, è messo così in discussione. La critica dell’alienazione sembra aver perso i propri riferimenti normativi, o detto in altri termini: l’alienazione diventa costitutiva e inevitabile. Così Judith Butler parla (con un tono chiaramente malinconico) di un’inevitabile «pri­ mary and inaugurative alienation in society»:

Il desiderio di permanere nel proprio essere implica che ci si sottometta a un mondo di altri che è fondamentalmente non proprio (sottomissio­ ne che non avviene in tempi successivi, ma che inquadra e rende possi­ bile il desiderio stesso di essere). Solo permanendo nell’alterità è possi­ bile permanere nel «proprio» essere. Essendo vulnerabili rispetto a con­ dizioni mai accettate, si permane sempre, a un certo livello, attraverso categorie, nomi, termini e classificazioni che indicano un’alienazione pri­ maria e inaugurativa nell’esistenza sociale85.

85. Butler J., La vita psichica del potere, trad. it. Weeber C., Meltemi, Roma, 2005.

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4. Poter disporre di se stessi-Ricostruzione del concetto di alienazione

La mia tesi a questo punto è la seguente: al giorno d’oggi la critica dell’alienazione non può, ma neanche deve necessariamente essere fon­ data su presupposti «essenzialistici» o «metafisici»86 in senso forte; essa non può, ma neanche deve necessariamente fare riferimento ad argo­ menti paternalistici o perfezionistici. La dimensione della critica dell’a­ lienazione rilevante per la filosofia sociale e per l’etica può essere resa accessibile anche senza quei modelli argomentativi fortemente oggetti­ vistici che vengono spesso associati a essa. Ci si può inoltre avvalere del significato critico della diagnosi dell’alienazione senza dovere confidare sulla certezza di un’armonia o di una riconciliazione definitive, sull’idea di un individuo completamente trasparente a se stesso o sull’illusione di potere avere se stessi e il mondo completamente a propria disposi­ zione. La problematica sollevata dal concetto di alienazione cessa di es­ sere interessante precisamente nel momento in cui si presuppone un’ar­ monia prestabilita tra i rapporti, un’«unità» intatta degli individui con se stessi o con il mondo; essa diventa produttiva, invece, quando mette in questione queste relazioni senza assumere che esse possano essere completamente libere da conflitti. Concentrandosi su ciò che impedi­ sce di vivere pienamente la propria vita, essa mette in rilievo le condizioni dei rapporti riusciti con sé e con il mondo, che dal punto di vista nor­ mativo possono essere descritte in modo relativamente parco ma non pri­ vo di qualsiasi contenuto. Il punto fondamentale nel concetto di alienazione potrebbe allora ri­ siedere proprio nella sua capacità di mediare tra alternative non soddi­ sfacenti - tra soggettivismo e oggettivismo etico, tra un’astensione neu­ trale dalle questioni etiche e l’orientamento a concezioni etiche sostan­ ziali della buona vita, tra l’abbandono dell’idea di autonomia e il rimanere ancorati a concezioni illusorie della soggettività. Il potenziale del concetto potrebbe consistere non tanto nell’assicurare una robusta teoria etica sostanziale, ma piuttosto nell’essere capace di criticare il con­

86. Uso qui il concetto «metafisica» nell’accezione (limitatamente) peggiorativa che è ormai divenuta di uso comune nella discussione contemporanea. In questo senso esso si riferisce (anche se a volte in maniera poco precisa) a «valori ultimi» giustificati con riferimento a fonti trascendenti, i quali si distinguono dal mondo dell’apparenza.

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tenuto di forme di vita, senza dover fare riferimento a un patrimonio di valori etici sostanziali fondato in termini metafisici. Inoltre, il potenzia­ le del concetto potrebbe consistere nella possibilità di qualificare i mo­ di di rapportarsi a se stessi senza dover presupporre un soggetto unita­ rio e padrone di sé. Una vita non alienata, allora, non sarebbe una vita riconciliata, né felice, forse neanche la buona vita. Non essere alienato si­ gnificherebbe, invece, un certo modo di condurre la propria vita e un cer­ to modo di mettersi in rapporto con se stessi e con le condizioni in cui si vive e da cui si è determinati: significherebbe potersene appropriare.

COME, non CHE COSA - Il concetto di funzionalità del volere di Tugendhat

Vorrei qui ricollegarmi ad alcune riflessioni svolte da Ernst Tugendhat riguardo al problema della fondazione di un’etica moderna, che si mo­ strerà utile per la ricostruzione di una teoria dell’alienazione capace di superare l’accusa di essenzialismo e di perfezionismo. Nel suo saggio Etica antica e moderna Tugendhat solleva il problema se sia possibile riproporre la questione antica della natura della felicità (o della «vita buona») nelle condizioni della modernità. Un’indagine moderna sulla questione della vita buona deve soddisfare il criterio se­ condo cui qualsiasi risposta a tale questione «non deve negare l’auto­ nomia e quindi la sovranità interpretativa degli interessati» e, dal pun­ to di vista metodico, deve evitare di ricorrere a un «immagine normati­ va dell’essere umano determinata e non fondabile». D’altra parte però, se una teoria etica moderna deve raggiungere la portata interpretativa dell’etica antica, essa ha l’obbligo di esibire un criterio oggettivo capa­ ce di valutare se «una persona stia bene o male, indipendentemente dal suo benessere fattuale presente o futuro». C’è bisogno, quindi, di crite­ ri che da una parte non coincidano con i desideri o le preferenze mera­ mente fattuali di una persona, senza però d’altra parte mettere in que­ stione la sovranità interpretativa della stessa - e con ciò l’ideale moder­ no dell’autodeterminazione. La soluzione proposta da Tugendhat consiste nella formalizzazione e nell’articolazione di un concetto forma­ le di salute psichica. Muovendo dalla definizione (apparentemente non problematica) di salute fisica come «funzionalità», egli sviluppa per la salute psichica il concetto di «funzionalità del volere» e dei suoi possi­

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bili danneggiamenti87. Tugendhat spiega il suo criterio con l’esempio del comportamento compulsivo: una volizione che è «compulsiva» sa­ rebbe in un certo senso danneggiata e così disturbata nella sua funzio­ nalità. Ciò assicura un punto di vista che è immanente al volere sogget­ tivo ma che, allo stesso tempo, non è soggettivo nel senso in cui lo sono preferenze contingenti e non valutate:

[...] Ma in tal modo si raggiungerebbe proprio quello che si cercava, un punto di vista indipendente dagli scopi soggettivi del nostro volere di volta in volta dati, e nondimeno determinante nella prospettiva della stessa volontà. In quanto vogliamo nel senso di scegliere liberamente, non vogliamo mai che sia limitata la nostra libera scelta88. Con il criterio del «danneggiamento della funzionalità del volere», che chiede se noi «disponiamo di noi stessi in ciò che vogliamo», Tugendhat è riuscito a trovare una mediazione tra posizioni soggettiviste e oggetti­ viste. Si potrebbe denominare la posizione così ottenuta «soggettivismo qualificato» (così per esempio la chiama Steinfath)89. In questo modo si trova anche un principio che permette di superare l’opposizione tra l’antipaternalismo moderno e il paternalismo di un’e­ tica più sostanziale: se qualcosa è buono o meno per me dipende sem­ pre (in una prospettiva antipaternalistica) da una mia presa di posizio­ ne personale, cioè dal fatto che io lo voglia. Questa presa di posizione de­ ve però essere qualificata, nel senso che il volere in essa espresso deve essere un «vero volere», ovvero non deve essere sottoposto a ostacoli interni. Io devo, in ciò che voglio, essere libera, devo quindi disporre del mio volere affinché esso valga come il mio proprio volere. Il criterio così ottenuto è in primo luogo formale, si tratta del come e non del cosa si vuole, cioè io non devo volere qualcosa di determinato ma devo poter volere in modo libero o autonomo ciò che voglio. Dunque non si può distinguere un «vero oggetto del nostro volere» ma solo un preciso mo­ do di rapportarsi, nel proprio volere, a se stessi e all’oggetto voluto. Co­ sì scrive Tugendhat90: «Il problema di ciò che sia veramente voluto non

87. Tugendhat E., Etica antica e moderna, op. cit., p. 40. 88. Ibidem. 89. Steinfahrt H., Orientierung am Guten, Suhrkamp, Frankfurt am Main, 2001. 90. Tugendhat E., op. cit., p. 40.

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verte sui fini del nostro volere, ma sul come, sul modo del volere». In se­ condo luogo, il criterio così ottenuto è immanente: il criterio è la stessa funzionalità del volere, ovvero un’esigenza posta dallo stesso volere. Quando dico: «Voglio poter fare quello che voglio» devo con questa frase intendere anche: «Voglio - liberamente - poter volere». Le mie riflessioni sul problema dell’alienazione possono ricollegarsi a questa concezione nel modo seguente: i fenomeni dell’alienazione possono essere compresi come un impedimento del volere e così - più in generale - del rapporto degli individui con se stessi e con il mondo. Essi possono quindi, seguendo l’idea di Tugendhat, qui delineata, del «poter disporre di se stessi», venire ricostruiti in base ai modi di attua­ zione, distorti o meno, del rapporto con se stessi e con il mondo. Il pro­ blema dell’alienazione è così legato a quello della libertà.

Libertà e alienazione

La mia tesi è: l’alienazione può essere compresa come una particola­ re forma di perdita della libertà, ovvero come impedimento di ciò che si può chiamare (riprendendo il termine coniato da Isaiah Berlin) «li­ bertà positiva»91. La libertà intesa in questo senso rimanda (se si vuole ridurre a una bre­ vissima formula questa distinzione notoriamente controversa) non solo (in senso negativo) all’assenza di coercizione, ma anche (in senso positi­ vo) alla capacità di realizzare obiettivi di valore. Nel significato descrit­ to (e criticato) da Berlin ciò comporta molteplici implicazioni:

Il senso «positivo» della parola «libertà» deriva del desiderio dell’indi­ viduo di essere padrone di se stesso. Voglio che la mia vita e le mie deci­

91. La collocazione da parte di Steven Lukes del concetto di alienazione nel contesto della teoria marxista è qui istruttiva: «Naturalmente, Marx ha attribuito una quantità di mali al capitalismo: tra questi il dominio di classe e lo sfruttamento, lo spreco di risorse ed energie, irrazionalità, inefficienza, povertà, degradazione, e miseria. L’“alienazione”, comunque, coglie questi fattori - particolarmente acuti nel capitalismo - che costituiscono una mancanza di libertà e la cui abolizione costituirebbe l’emancipazione degli esseri uma­ ni. Gli altri mali che ho menzionato non sono, naturalmente, privi di relazione con la man­ canza di libertà, ma l’alienazione coglie gli ostacoli centrali alla “vera libertà”». Lukes S., Marxism and Morality, Oxford University Press, Oxford, 1985, p. 80 e sgg.

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sioni dipendano da me stesso e non da forze esterne, di nessun tipo. Voglio essere lo strumento dei miei atti di volontà e non di quelli altrui. Voglio essere un soggetto, non un oggetto; voglio essere mosso da ra­ gioni, da propositi consapevoli che siano miei e non da cause che agi­ scono su di me, per così dire, dall’esterno. Voglio essere qualcuno, non nessuno; voglio essere un agente - uno che decide, non uno per cui de­ cidono altri; voglio dirigermi da me, e non essere uno su cui la natura esterna e altri uomini operano come se fossi una cosa, un animale o uno schiavo incapace di assumermi un ruolo umano, di concepire degli obiet­ tivi e delle politiche solo miei e di portarli a termine. (... Io voglio) soprattutto essere consapevole di me stesso come essere che pensa, vuole, agisce ed è responsabile delle sue scelte e capace di spiegarle facendo riferimento alle proprie idee e finalità. Mi sento libero nella misura in cui credo vere tutte queste cose, e schiavo nella misura in cui sono costretto a prendere atto che vere non sono 92 . Per quanto le diverse dimensioni della «libertà positiva» siano elen­ cate qui in un modo non sistematico e indeterminato92 93, la questione de­ cisiva è che in esse la vita libera viene sempre dipinta anche come una vita non alienata - e viceversa. Come è stato espresso da Robert Pippin: solo le azioni e i propositi «che io posso collegare a me stesso, così che possano essere attribuiti a me o contare come miei» sono «istanze di libertà»94. Essere «uomo e non cosa» significa, secondo questa descrizione, assumersi la responsa­ bilità di ciò che si vuole e si fa e potersi identificare con esso. Così inteso, il concetto di alienazione tematizza le complesse condi­ zioni di questo «mettere in rapporto con se stessi», «poter attribuire a se stessi», o «rendere proprie» le proprie azioni, i propri desideri (o più in generale: la propria vita). Inoltre esso tematizza anche le condizioni in cui questi rapporti risultano impediti e le cause delle loro distorsioni. Non 92. Berlin L, Libertà, trad. it. Rigamonti G. e Santambrogio M., Feltrinelli, Milano, 2010, pp. 181-182. 93. Cfr. il tentativo estremamente istruttivo di Raymond Geuss di mettere ordine in questo campo problematico Geuss R., Auffassungen der Freiheit, in «Zeitschrift fiir philosophische Forschung», voi. 49, gennaio-marzo 1995, pp. 1-14. 94. Pippin R., Naturalitàt und Geistigkeit in Hegels Kompatibilismus, in «Deutsche Zeitschrift fiir Philosophic», voi. 49, n. 1, febbraio 2001, p. 46.

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si è sempre «presso di sé», le azioni e i desideri non sono sempre e in maniera ovvia «i propri» e il rapporto con il circostante mondo naturale e sociale è allo stesso tempo costitutivo e minacciato. Dal chiarimento del­ le molteplici dimensioni dell’alienazione possono essere derivate, rove­ sciandole in senso positivo, le condizioni per poter comprendere la pro­ pria vita come propria e quindi per poter condurre la propria vita libera­ mente. Una vita non alienata è quindi, in base a queste riflessioni, non una vita nella quale si realizzano determinati valori - da descrivere in maniera sostanziale, bensì una vita che si compie in un certa maniera - ap­ punto non alienata. La convinzione che ognuno dovrebbe poter «vivere la propria vita» allora non si trova più in contrasto con le esigenze della critica dell’alienazione. Piuttosto, proprio l’assenza di ostacoli alienanti e la possibilità di appropriarsi di sé e del mondo senza impedimenti rap­ presentano i presupposti della libertà e dell’autonomia.

Ealienazione come rapporto di appropriazione impedito Trattando il campo problematico della libertà e dell’alienazione si fa quindi anche riferimento ai modi di appropriarsi della propria vita. Il con­ cetto di «appropriazione» indica qui un modo di mettersi in relazione con se stessi e con il mondo, di rapportarsi al mondo e di poter disporre di esso e di se stessi. L’alienazione, in quanto distorsione di questo rappor­ to, riguarda quindi la modalità di realizzazione del rapporto con se stes­ si e con il mondo e quindi la non riuscita dei processi di appropriazione o il loro impedimento. Proprio come accade nell’approccio di Tugendhat, rivolto a una «formalizzazione» o «processualizzazione» del bene, anche l’analisi dei fenomeni dell’alienazione prende le mosse dal come di un pro­ cesso e non da ciò che si cerca di raggiungere in questo processo. L’alie­ nazione può quindi essere compresa come il danneggiamento di processi di appropriazione (o come prassi di appropriazione deficitaria). Se quindi il superamento dell’alienazione sembra essere un rapporto di appropria­ zione riuscito, si possono indagare le condizioni della sua riuscita senza che esso debba perciò essere considerato un processo di tipo teleologico o che può concludersi in maniera definitiva. E tantomeno è necessario pensare questo processo - in termini essenzialistici - come il recupero di un’essenza - già da sempre propria e determinata. Un simile procedimento - una ricerca rivolta alle distorsioni dei rap­

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porti di appropriazione - ha delle conseguenze per gli esempi cui si è accennato sopra: anziché definire da un punto di vista materiale o di con­ tenuto i potenziali che l’uomo «onnilaterale» dovrebbe sviluppare, que­ st’analisi si rivolge alle distorsioni nello sviluppo di interessi e capacità. Anziché rimanere impigliati nei paradossi svianti di una definizione dei «veri» desideri, contrapposti a quelli non autentici e alienati, si tratta qui di svolgere un’analisi delle condizioni della formazione della vo­ lontà e dei diversi modi di integrare i desideri. E anziché ricostruire le relazioni sociali a partire da schemi di moralità sostanziale, ci si occu­ perà qui delle condizioni di attuazione delle pratiche sociali e delle con­ dizioni della loro formazione. I seguenti aspetti sono quindi decisivi per il mio approccio ai rap­ porti di appropriazione:

• Il concetto di «appropriazione» fa riferimento a una concezione ampia dei rapporti pratici con se stessi e con il mondo. Con esso ci si riferisce a una capacità di rapportarsi a se stessi intesa in senso ampio, alla capacità di avere accesso o «poter disporre» di se stessi e del mon­ do, ossia di fare propria la vita che si conduce, di potersi identificare con ciò che si vuole e ciò che si fa o in altri termini: di potersi realizza­ re in ciò. • Dal punto di vista della teoria dell’alienazione il rapporto con il mon­ do e il rapporto con se stessi sono cooriginari. Il danneggiamento del rap­ porto con sé, il «non poter disporre di se stessi» deve quindi essere sem­ pre compreso anche come un danneggiamento del rapporto con il mon­ do. Che si tratti dell’appropriazione della storia della propria vita, del «compito di divenire se stessi attraverso le proprie azioni» che trova il suo eco nella «decisione» heideggeriana o nell’appropriazione marxia­ na delle proprie attività: ci si riferisce qui sempre all’appropriazione del «mondo» e con essa all’appropriazione dei presupposti (variamente de­ terminati) del proprio agire. In questo senso è alienato chi non può rap­ portarsi a se stesso e (quindi anche) ai suoi presupposti e non può quin­ di farli propri. • Se da una parte il modello dell’appropriazione così schizzato si rifà al «denso» concetto dell’appropriazione che troviamo anche in Marx, d’altra parte nella mia ricostruzione si tratta proprio di non concepire l’appropriazione come mera riappropriazione di qualcosa di essenzial­ mente dato. L’appropriazione è un processo produttivo, ciò di cui ci si

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appropria è allo stesso tempo risultato del processo di appropriazione. I presupposti ai quali ci si dovrebbe rapportare - in modo non alienato - e la relazione - non alienata - che si dovrebbe realizzare non sono quin­ di, e questo è determinante, né «inventati» né «costruiti».

Excursus sull’appropriazione^

Che cosa significa appropriarsi di qualcosa? E se il concetto di appro­ priazione descrive un rapporto specifico tra sé e mondo, tra individui e oggetti (siano questi di natura materiale o intellettuale): che aspetto ha questo rapporto, qual è la sua particolarità e la sua struttura specifica? Qui diversi momenti convergono, costituendo l’attrattiva e il potenziale del concetto. Rispetto al mero imparare alcuni contenuti, il riferimento alla loro appropriazione sottolinea che qui non solo si assume qualcosa - passivamente - bensì si compenetra attivamente e si elabora autono­ mamente qualcosa. Rispetto alla mera comprensione (teorica) di una si­ tuazione la sua appropriazione significa - similmente al processo psi­ coanalitico dell’elaborazione - sapersi rapportare al conosciuto: che es­ so cioè è realmente e praticamente a disposizione in quanto sapere. E «appropriarsi» di un ruolo significa di più che il mero saperlo adempie­ re: si potrebbe dire che, invece, ci s’identifica con esso. Ciò di cui ci si ap­ propria non rimane quindi esterno. Facendolo proprio, lo si fa diventa­ re in un certo senso una parte di sé. Qui viene quindi evocata una sorta di introiezione e di compenetrazione con gli oggetti dell’appropriazio­ ne e viene inoltre chiamata in causa l’idea di un rapporto produttivoformativo con ciò che si fa proprio. L’appropriazione non lascia inalte­ rato ciò di cui ci si appropria. Perciò ad esempio l’appropriarsi» degli spazi pubblici significa ben più del semplice usarli. Li si fa «propri» nella misura in cui essi vengono formati e trasformati da ciò che si fa con essi ed essi si trasformano attraverso l’uso appropriante, mediante il quale prendono una certa forma - anche se non necessariamente in senso materiale. Nonostante il concetto di appropriazione abbia una del­ le sue radici nella descrizione dei rapporti di proprietà, con esso si sot95. Rimando a questo proposito alle riflessioni che ho già sviluppato altrove: Jaeggi R., Aneignung braucht Fremdheit: tJberlegungen zum Begriff der Aneignung bei Marx, in «Texte zur Kunst» n. 46, giugno 2002, pp. 60-69.

I. LA RELAZIONE IN ASSENZA DI RELAZIONE

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tolinea, a differenza del mero possesso, la particolare qualità di un pro­ cesso che costituisce originariamente la vera presa di possesso. L’appro­ priazione sarebbe quindi una certa modalità della presa di possesso. Una persona che si appropria di qualcosa, le conferisce un’impronta indivi­ duale e pone in essa i suoi obiettivi e le sue determinazioni. Perciò a volte è necessario fare proprio qualcosa che già si possiede. Sono quindi molti gli aspetti che caratterizzano i rapporti di appro­ priazione: l’appropriazione è una prassi, una forma pratica di rapporto con il mondo. L’appropriazione indica qui un rapporto di compenetra­ zione, di assimilazione, di interiorizzazione nel quale ciò di cui ci si ap­ propria viene allo stesso tempo costituito, plasmato e formato. Il punto decisivo (determinante anche per Marx) di questo modello, la conse­ guenza di questa struttura di compenetrazione e assimilazione, consiste nel fatto che l’appropriazione significa sempre una trasformazione di entrambe le parti. In un processo di appropriazione si trasformano en­ trambi, l’appropriato ma anche l’appropriante. Nel processo dell’in­ corporazione» (o dell’assimilazione appropriante) colui che incorpora non rimane uguale a se stesso. A ciò si può poi dare una piega costrutti­ vista: l’appropriato si costituisce nel processo di appropriazione; vice­ versa non c’è appropriato senza appropriazione. (In alcuni casi questo è ovvio: lo spazio pubblico non esiste come spazio pubblico senza la sua ap­ propriazione pubblica; ma anche i ruoli sociali esistono solo nella misu­ ra in cui essi vengono ripetutamente - nuovamente - appropriati). Risultano ora chiari il potenziale e la peculiarità del concetto: la possi­ bilità di «appropriarsi» di qualcosa rappresenta la capacità di agire e di formare da parte di un soggetto che trasforma ostinatamente il mondo di cui si appropria. (L’appropriazione riuscita di ruoli sodali o di attività, il rapporto appropriante che, quindi, si può avere nei confronti della propria vita, rappresentano rispettivamente una sorta di autonomia e di autorialità nei confronti della propria vita). D’altra parte, un processo di appropriazione è anche legato a del materiale presente e precedentemente dato, e quindi anche a una dinamica e a una determinazione autonome di cui invece non si può disporre. (Affinché ci si possa appropriare di es­ si, i ruoli sociali devono già da sempre esistere come modelli e come nor­ me preesistenti; essi possono essere interpretati diversamente ma non reinventati completamente; le capacità di cui ci si appropria sottostanno alle condizioni della loro riuscita; la realizzazione della «propria vita» di­

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pende da circostanze delle quali non si può disporre completamente.) Nell’idea dell’appropriazione si trova quindi un’interessante tensione tra ciò che è già dato e ciò a cui si può dare forma, tra l’assunzione di ciò che è dato e la creazione, tra la dipendenza e la sovranità del soggetto. De­ cisivo è qui il rapporto tra l’estraneità e l’accessibilità; gli oggetti dell’ap­ propriazione non sono né solo estranei né solo propri. Nella formulazio­ ne di Michael Theunissen: «Di ciò che è soltanto proprio non ho bisogno di appropriarmi, di ciò che è soltanto estraneo non sono in grado di ap­ propriarmi»96. Diversamente da Marx, in cui l’appropriazione è orienta­ ta al modello della r/appropriazione, nella ricostruzione da me proposta della dinamica tra appropriazione e alienazione, anche il concetto di ap­ propriazione deve essere compreso in modo nuovo. Di questa ricostru­ zione fanno parte la riabilitazione dell’estraneo all’interno del modello dell’appropriazione e una radicalizzazione in direzione di un concetto di appropriazione non essenzialistico. L’appropriazione, così intesa, sareb­ be quindi un rapporto di trasformazione permanente, nel quale l’appro­ priato si forma proprio attraverso la sua appropriazione, senza che per questo si debba cadere nel mito di una creatio ex nihilo. Se l’appropria­ zione indica un rapporto nel quale si è allo stesso tempo legati e separa­ ti, e se ciò di cui ci si appropria rimane sempre allo stesso tempo proprio ed estraneo, ciò ha delle conseguenze per i concetti (connessi al concet­ to di appropriazione) di emancipazione e di alienazione. La rivendica­ zione di un’appropriazione riuscita del mondo e di se stessi consistereb­ be quindi nel fatto di fare proprio il mondo senza che esso sia già sem­ pre stato proprio e nel voler dare forma alla propria vita senza per questo dover presupporre un totale potere di disporre di essa.

Programma e procedimento della ricostruzione

In base a quanto è stato sopra delineato, si può ora tracciare breve­ mente il programma della ricostruzione del concetto di alienazione che verrà svolta nelle parti seguenti. 1. Dall’indirizzo formale e procedurale dell’approccio, dall’orienta96. Theunissen M., Produktive Innerlichkeit, in «Frankfurter Hefte extra», n. 6, di­ cembre 1984, pp. 103-110.

I. LA RELAZIONE IN ASSENZA DI RELAZIONE

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mento al «come» dei processi di appropriazione risulta la rottura con Foggettivismo etico. Anziché operare sulla base di una teoria oggettivi­ stica della buona vita, la mia ricostruzione è orientata a ciò che si po­ trebbe chiamare - con una certa prudenza - un «soggettivismo qualifi­ cato». Se così da una parte l’individuo (ovvero le sue opinioni e i suoi desideri) rimane il punto di riferimento ultimo della diagnosi dell’alie­ nazione, d’altra parte però si delinea anche la possibilità di mettere in questione le sue valutazioni prima facie. 2. Nella misura in cui il focus sull’agire e sulle sue distorsioni si sosti­ tuisce alla «determinazione di un’essenza», tipica delle concezioni essenzialistiche di sé o della comunità, si delinea una rottura con il forte essenzialismo implicato nel concetto di realizzazione della natura uma­ na. Oggetto di riflessione sono qui le azioni o gli esseri umani in ciò che fanno e che vogliono, non in base a ciò che sono per «essenza». 3. Prendendo le mosse dalle fonti delle distorsioni dei rapporti riusciti con sé e con il mondo, la diagnosi dell’alienazione così intesa è aperta a diversi risultati e non è destinata a un modello di riconciliazione chiuso e armonicista. Così, si può certamente dire che parlando di «distorsio­ ne» si danno per presupposte delle condizioni di funzionamento. Tut­ tavia, l’approccio (in questo senso «negativista») qui perseguito è, in un senso decisivo, molto parsimonioso per quanto riguarda il riferimento positivo a concezioni di un «esistenza riuscita». 4. Dal momento che l’accento è posto su concetti quali esperienza ed esperimento, la critica dell’alienazione è parte di un processo aperto, nel cui svolgimento vengono identificate e modificate le condizioni del fallimento o della riuscita. In questa prospettiva, l’alienazione non è tanto la caduta da uno stato riconciliato e soddisfacente, quanto piutto­ sto l’arresto e la paralisi di tali processi di esperienza, che devono sem­ pre essere intesi anche in un senso sperimentale. Inteso in questo modo, il concetto di alienazione problematizza e non dà per scontato ciò che è «proprio», o in altri termini: la relazione e l’as­ senza di relazione sono sempre entrambe oggetto di disputa.

Critica immanente e autocomprensione culturale

Ma di che forma di critica si tratta nella critica dell’alienazione? E da dove trae i suoi punti di riferimento?

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La critica dell’alienazione può essere intesa come una forma di critica immanente, una critica quindi che (per dirla molto brevemente) valuta la forma di vita o il soggetto in questione in base ai criteri che essi stessi han­ no posto o che sono in essi implicati. Nel caso della critica dell’aliena­ zione si può parlare in due sensi di un rapporto di tensióne (tra la criti­ ca e l’oggetto della critica). Sul piano del rapporto con il mondo mate­ riale e sociale e con le sue istituzioni, la critica dell’alienazione reagisce a una discrepanza tra la supposta libertà che caratterizza la modernità e la sua effettiva realizzazione, o anche alla discrepanza tra il supposto con­ trollo e l’impotenza effettiva nei confronti delle situazioni (che i sogget­ ti hanno loro stessi creato). D’altra parte, sul piano dei rapporti dell’in­ dividuo con se stesso, vi è una tensione tra le proprietà e le attribuzioni che (si può dire: necessariamente) facciamo quando consideriamo noi stessi o qualcun altro una persona responsabile e padrona delle proprie azioni, e gli ostacoli a questo status che accompagnano i rapporti alie­ nati (con se stessi). Per tornare alla descrizione della «libertà positiva» di Berlin: qui gioca un ruolo decisivo la discrepanza tra le proprietà del­ la persona (responsabile e che agisce autonomamente) e quelle della cosa (passiva, spinta da forze esterne). Con ciò non sono posti, come si è già detto prima, criteri «esterni» (che si trovano quindi al di fuori dell’autocomprensione della persona che agisce) o antropologici, ma piut­ tosto implicazioni di ciò che significa comprendersi in un determinato senso come persona. Con questo inquadramento metodologico del concetto di alienazio­ ne si pone tuttavia la questione dello status e della portata del tipo di critica che voglio rendere accessibile con questo lavoro. Se, come si è affermato, la diagnosi dell’alienazione può essere compresa nei termini di una critica immanente - fino a dove arriva una tale critica, considera­ to che d’altronde l’immagine di ciò che è immanente sembra richiedere delle premesse già da sempre condivise? Quanto universalistica può es­ sere considerata dunque la critica dell’alienazione - se procede in mo­ do «immanente»? Se la problematica dell’alienazione - dal punto di vi­ sta sia storico che sistematico - rimanda all’autocontraddittorietà pro­ pria dell’epoca moderna, della libertà moderna, o a possibili discrepanze nell’essere una persona, non vi è allora alla sua base sempre un concet­ to di persona determinato, eticamente saturo e culturalmente condizio­ nato? Non è qui in gioco un’interpretazione della libertà ben definita e determinata culturalmente? La critica dell’alienazione diverrebbe quin­

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di un elemento interno all’autocomprensione critico-valutativa della cul­ tura moderna, che ha fatto dei valori della libertà e dell’autonomia il pro­ prio centro. L’obiezione, secondo la quale una simile comprensione (e con essa la diagnosi dell’alienazione) è sempre relativa alla rispettiva cultura, è si­ curamente pertinente. Contrariamente al contenuto universalistico che può avere una teoria d’impostazione antropologica, la portata di una si­ mile ricostruzione è limitata. Anche laddove essa rimanda, attraverso mezzi ermeneutici profondi, ad autocontraddizioni o a carenze interne, il campo di azione di una simile critica può essere sempre e soltanto quel­ lo della rispettiva forma di vita condivisa - la sua efficacia non si esten­ de al di là del contesto in cui è situata. Tuttavia non è semplice stabilire quanto pesi questa obiezione. Si potrebbe esser tentati di lasciarsi ispi­ rare dalla disinvoltura di Joseph Raz, che a proposito della questione del valore dell’autonomia dice:

Il valore dell’autonomia personale è un fatto della vita. Poiché viviamo in una società le cui forme sociali sono in grande misura basate sulla scelta individuale, e poiché le nostre opinioni sono limitate da ciò che è disponibile nella nostra società, possiamo fiorire solo se riusciamo ad essere autonomi97. La validità di una critica che si orienta su simili valori dipende quin­ di effettivamente da quanto si estende la sfera d’influenza di questa for­ ma di vita. E questo campo di estensione sarà sicuramente sempre più ampio del consenso fattuale nei suoi confronti. Una critica di questo ti­ po, che procede in modo immanente, può essere sempre compresa an­ che come esplicazione delle implicazioni e delle conseguenze che si dan­ no con alcune forme di vita, senza che coloro che condividono queste forme di vita debbano esserne necessariamente consapevoli - o anche co­ me esplicazione delle contraddizioni all’interno di una forma di vita, che vanno al di là di essa.

97. RazJ., The Morality of Freedom, Oxford University Press, Oxford, 1986, p. 394.

IL

Vivere la propria vita come una vita estranea: QUATTRO CASI

Qualcuno vive la mia vita. Ma non sono io. René Pollesch

Un tema quotidiano. Qualcuno diventa improvvisamente consapevo­ le del fatto che la sua vita gli è divenuta estranea in aspetti decisivi. Per­ sone che erano state importanti gli sono adesso indifferenti, cose che un tempo lo hanno entusiasmato lo lasciano indifferente, progetti che ha perseguito con dedizione gli sembrano ormai privi di senso. Nella sua professione egli ormai funziona e basta. In una certa misura egli vi­ ve la propria vita come una vita estranea. Anche quando un ruolo socia­ le ci obbliga a dei comportamenti nei quali ci sentiamo a disagio, quan­ do all’improvviso ci accorgiamo che in tutto quello che facciamo cer­ chiamo di soddisfare solo le aspettative altrui, o quando ci troviamo inermi in balia di certe reazioni emotive, diciamo talvolta di non essere «noi stessi» o di essere «alienati da noi stessi». Divertiti, consideriamo «inautentico» il giovane redattore all’ultima moda che ripete con gran­ de zelo le retoriche frasi di cortesia del suo capo. Meno divertiti, invece, seguiamo la crisi esistenziale di un conoscente che non si sente più «a casa» nella sua vita o che crede di «essersi perso». Chi è diventato estra­ neo a se stesso - questa la descrizione psicologica di un sintomo clinico - ha perso il rapporto con i propri sentimenti, i propri desideri e le pro­ prie esperienze, non riesce più ad integrarli nella propria esperienza, fi­ no ad arrivare ad un disorientamento spazio-temporale. Egli è «estra­ neo» a se stesso in ciò che vuole e che fa. Incapace di percepirsi come una forza formatrice attiva, questi ha la sensazione di non poter avere alcun influsso sugli eventi, che sente rispetto a sé estranei. Tutti questi diversi fenomeni rinviano ad un punto comune: se si può essere estranei a se stes­ si, si può evidentemente essere più o meno se stessi, e la vita che si con­ duce può essere per diversi motivi più o meno la propria. Ma come ci si può alienare da se stessi? Chi si aliena da chi? Come deve essere intesa l’affermazione che si può anche non essere se stessi?

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E in quale senso, oltre a quello triviale, può la mia vita essere veramen­ te la mia? Qui riemergono i problemi della definizione di un’essenza e dei criteri della critica dell’alienazione cui si è accennato sopra: parlando del falso sé, se ne presuppone evidentemente uno vero, se si può essere alienati da se stessi, si può essere anche in qualche modo presso se stessi. Si muo­ ve quindi sempre da una frattura, da una differenza e si presuppone la possibilità di superarla. Qui viene ogni volta pensata una scissione del soggetto da se stesso che può essere interpretata in vari modi: come un decadere dalla propria essenza, come la non realizzazione di un poten­ ziale o come la mancanza di una determinazione. Si assume quindi un cri­ terio per un sé vero, autentico, sul cui sfondo possono venir diagnosti­ cate le diverse modalità di deviazione. Ciò diventa chiaro se si prendono in considerazione alcune delle quo­ tidiane autointerpretazioni in cui ci s’imbatte nel contesto delle que­ stioni «esistenziali» sopra accennate. L’impiegato in banca e padre di famiglia che dice di «essere in realtà un artista» crede di aver mancato la sua vocazione. Il giovane e dinamico redattore, che in una crisi formula il bisogno di «ritrovare» finalmente «se stesso», suggerisce in questo mo­ do che da qualche parte, al di sotto dei comportamenti da lui semplicemente assunti, dormicchia il suo «vero sé». Ora, presumibilmente tutti conosciamo persone che danno queste interpretazioni di se stesse, e storie di vita che suggeriscono simili interpretazioni. Tuttavia, non è af­ fatto facile capire cosa si intenda qui. Queste idee, anche se profonda­ mente legate all’immagine di se stessi degli individui, sono problemati­ che. Dove «si è perso» il redattore? E mentre cerca, è «se stesso» o no? Come può la vita non vissuta dell’aspirante artista essere la sua vita «ve­ ra» o «più autentica»? Così, il tema dell’alienazione da se stessi non è solo chiaramente equi­ voco, ma sembra essere, alla radice, essenzialmente paradossale. Esso condivide la paradossalità di ogni «critica dell’essenza»98: qualcosa che non corrisponde alla propria essenza allo stesso tempo partecipa e non 98. Cfr. l’esposizione dei paradossi di una «critica dell’essenza» di Anna Kusser: «Una persona che non corrisponde all’essenza dell’uomo non mostra le caratteristiche es­ senziali di un essere umano. Anche se non realizza l’essenza dell’essere umano essa però partecipa lo stesso a questa essenza - è “la sua” essenza in quanto essere umano alla qua­ le non corrisponde». Kusser A., Dimension derKritik von Wùnsche, Athenàum, Frank­ furt am Main, 1989, p. 55.

IL VIVERE LA PROPRIA VITA COME UNA VITA ESTRANEA

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partecipa ad essa. L’impiegato di banca è in realtà un artista, anche se attualmente non lo è, e anche il giovane assistente sostiene proprio di non essere ciò che è. La concezione che si trova alla base di questi modi di dire sembra fondarsi su diverse assunzioni caratteristiche: il sé autentico o reale è qualcosa da localizzare da qualche parte Quinterno. Esso esiste indi­ pendentemente dal fatto di esprimersi, di realizzarsi in azioni ed ester­ nazioni. Il sé dal quale possiamo «decadere» ha un essenza che è prece­ dente e che rimane identica a se stessa indipendentemente da ciò che esso fa. Queste rappresentazioni quotidiane si riuniscono intorno alla de­ scrizione metaforica secondo la quale il vero sé deve poter essere distin­ to dal sé falso, alienato, come un nucleo interno da un guscio esterno. Il vero sé viene pensato come una sorta di «proto-self» (Gagneau) che può essere distinto dalle sue alterazioni. Saremmo quindi presso noi stes­ si quando ci troviamo in accordo con questo nucleo essenziale interio­ re, saremmo invece alienati o inautentici quando questo nucleo è stato alterato da influssi esterni o se ci siamo allontanati da esso. Il sé autenti­ co - questo ciò che queste idee hanno in comune - sarebbe quindi qual­ cosa che si può cercare e trovare ma anche perdere". Questa concezione - che io per il momento assumo come mera con­ cezione del common-sense - può essere criticata da diverse prospettive, due delle quali sono decisive per l’oggetto della mia ricerca: da una par­ te si può rimandare alle conseguenze reificanti che una simile determi­ nazione dell’essenza comporta; dall’altra si può criticare la concezione di interiorità legata alla metafora dell’interno/esterno, che Fredric Jameson, in tono un po’ sprezzante, chiama «modello-container del sé»99 100. Primo’. Criticare il fatto che qui si tratta di una concezione essenzialistica e reificante del sé significa - per dirla brevemente - che l’idea di un nucleo essenziale non solo ipostatizza il sé autentico rendendolo una sorta di «persona nella persona», laddove non è chiaro quale forma do­ vrebbe avere la relazione tra queste due creature. Qui va persa anche la

99. Nell’ambito della mia discussione non è importante se questo nucleo essenziale è pensato secondo il modello «romantico» della realizzazione di un’individualità indi­ scutibilmente unica o secondo il modello «aristotelico» della realizzazione di un telos della natura umana. 100. Jameson E, Postmodernismo. Ovvero la logica culturale del tardo capitalismo, trad, it. Manganelli M., Fazi Editore, Roma, 2007.

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struttura che contraddistingue l’esistenza umana. Infatti qui ci si imma­ gina una persona come un qualunque oggetto nel mondo, come una cosa della quale si può cercare di scoprire quali caratteristiche essenzia­ li ha, come è fatta e come funziona. Ma come dovrei fare a scoprire chi sono al di là di quello che voglio e sono? Già quando dico dell’oggetto che uso per conficcare un chiodo che «in realtà è solo un pezzo di legno con una massa di ferro all’estremità», e non un martello, si tratta noto­ riamente di una questione spinosa. Ma quando dico del buon padre di famiglia che «in realtà» è un selvaggio bohémien e un artista, perdo di vista il fatto che nel caso degli esseri umani si tratta di esseri che condu­ cono la propria vita e che nello svolgersi di questa vita diventano quello che sono. Secondo’, il «modello-container del sé» implica l’idea che il sé si trovi da qualche parte all’interno e che aspetti di esprimersi, ma anche che esso esista indipendentemente da questa espressione. Così, l’impiegato in banca pensa che la sua natura di artista sia assopita in lui e il giovane redattore in crisi dà per scontato che ci sia qualcosa - dentro - a cui po­ trebbe risalire, se solo fosse liberato dalle alterazioni del mondo ester­ no. Secondo questo modello, quindi, c’è un sé prima e al di là della sua realizzazione, qualcosa che costituisce una persona nell’intimo senza che ciò si debba realizzare in una qualche azione, attività o espressione. Ma anche questa idea è discutibile. Non è chiaro, rispetto alle persone, co­ sa dovrebbe essere questo «interno» che, stranamente, non deve neces­ sariamente articolarsi e che d’altra parte, però, dovrebbe essere qualco­ sa di determinato. Al contrario, si potrebbe sostenere la tesi che non c’è una «verità del sé» al di là delle sue espressioni. Quello che si è, deve, per ottenere realtà, esprimersi ed esteriorizzarsi. Non c’è alcun sé al di là della sua realizzazione: il sé è determinato solo in quanto realizzato. Come si è già accennato, potrebbe succedere che a volte parliamo, non senza ragione, del fatto che ci «perdiamo», che non siamo «fedeli» a noi stessi, che «siamo assenti» in alcune cose che facciamo o che «non siamo del tutto presenti a noi stessi». Se non si vuole sostenere che que­ sti modi di dire sono completamente privi di contenuto e superflui, si de­ ve allora cercare di capire quali problemi vengono qui ad articolarsi. In altri termini: che conseguenze ha rinunciare al vocabolario che permet­ te simili riflessioni? Anche il giovane redattore e l’impiegato in banca non hanno, infatti, ragione riguardo al fatto che non coincidono semplicemente con ciò che rappresentano e che fanno in un determinato mo­

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mento, o con quello che ci si aspetta da loro? Ci sono davvero altri talenti assopiti nell’impiegato in banca? E il redattore non ha veramente sacri­ ficato troppi aspetti della sua personalità? In affermazioni di questo ti­ po si manifesta quantomeno un’insoddisfazione attuale, un’idea del fat­ to che c’è qualcosa nella propria vita che «non torna». La domanda: «So­ no in realtà me stesso in ciò che faccio?» può quindi forse essere posta nel modo sbagliato, ma probabilmente rappresenta un problema di cui non ci si può liberare così facilmente. Qui si materializzano interpretazioni di sé degli individui che non possono essere liquidate con una mera cri­ tica concettuale. Esse fanno parte deU’autocomprensione e del reperto­ rio di autointerpretazioni quanto meno dell’individualità moderna™, e rappresentano la riflessione su di sé e il confronto con se stessi e con la propria vita. O in altri termini: esse accompagnano in un certo senso il tentativo di condurre la propria vita come la propria. Se quindi simili domande significano interrogare criticamente la pro­ pria vita, si può dire allora che esse hanno un senso critico o perfino emancipativo. Nell’«autocomprensione pratica» degli individui, la dif­ ferenza tra autentico e inautentico, tra il vero e il falso sé, funge come una sorta di sostituto (Platzhalter). Chiedersi chi si è veramente e se la vita che si conduce sia veramente la «propria», significa che non ci s’identifica semplicemente con quello che di fatto si è, si vuole e si fa o con ciò che gli altri pretendono da noi, ma che invece si può assumere nei confron­ ti di tutto ciò una distanza critica. Sullo sfondo del programma ricostruttivo delineato nell’introduzio­ ne, le riflessioni che seguono, in un certo senso, «riaprono la questio­ ne» proprio alla luce della - e nonostante la - critica a concezioni del sé sostanzializzanti ed essenzializzanti. In un’analisi dettagliata di diversi casi di alienazione da se stessi, dovrebbe emergere che i problemi che si stanno qui articolando possono assumere un senso più concreto, che può venire descritto in modo non paradossale. Viceversa, la produtti­ vità della prospettiva o dello schema interpretativo dell’«alienazione»

101. Si veda in proposito la descrizione, fatta da Margolis, del «cosmic self» come una delle immagini culturali fondamentali della modernità: «Questo sé è la qualità essen­ ziale della persona, il centro dei sentimenti e del valore che ognuno ha al centro del nostro essere. E conoscibile e noi ci rivolgiamo ad esso con un atteggiamento di sco­ perta. Questo sé esige di essere espresso» (Margolis D.R., Th e Fabric ofth e SelfCl/. Yale University Press, New Haven, 1998, p. 4).

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dovrebbero dimostrarsi nel fatto che in una simile analisi vengono alla luce nessi il cui esame approfondisce in maniera decisiva la nostra com­ prensione di cosa significa «vivere la propria vita». Le diverse forme nel­ le quali noi percepiamo «la nostra vita come estranea», ricondotte ad al­ trettante modalità d’impedimento appropriazione della propria vi­ ta, rimandano al nesso interno tra libertà, autenticità e autorealizzazione cui si è accennato nella discussione della teoria dell’alienazione. Il cam­ biamento di prospettiva che la mia analisi deve compiere rispetto ai «modelli dell’essenza e del nucleo» risulta in gran parte dalla critica che è già stata precedentemente abbozzata: 1. Quando la comprensione reificante del sé ipostatizza erroneamen­ te potenziali e possibilità irrealizzate in una sorta di realtà «più autenti­ ca», essa cerca un’essenza e ipostatizza il «fare» trasformandolo in un «essere». Al contrario, nell’analisi degli esempi che seguono, io mi con­ centrerò sulle attuazioni di azioni in cui gli individui si trovano e sul modo in cui, in ciò che fanno, si rapportano a sé e al mondo. L’aliena­ zione da se stessi, allora - in accordo con l’impostazione che prende le mosse dalle forme di realizzazione dell’appropriazione - non verrà pen­ sata come la caduta da un’essenza ma come una relazione distorta con se stessi: come una relazione distorta con le nostre azioni, i nostri desi­ deri, i nostri progetti o le nostre convinzioni. 2. Laddove il «modello-container» colloca il vero sé all'interno, pri­ ma e al di là della sua articolazione, io invece partirò dal presupposto che ciò che «ci costituisce» si crea e si forma proprio in tale articolazio­ ne. Perciò la mia analisi mira a distinguere i modi di articolazione alie­ nati da quelli non alienati, quelli autentici da quelli inautentici e a ca­ ratterizzare i primi come condizioni per un rapporto riuscito con sé e con il mondo. 3. Conseguentemente a questi due punti si fa strada nella mia ricerca un ulteriore tema: se l’alienazione da se stessi è sempre anche un’aliena­ zione dal mondo e deve essere compresa quindi come rapporto con ciò che io - nel mondo - voglio e faccio, allora il sé deve essere analizzato nei suoi rapporti con il mondo e non al di là di essi.

Mentre il concetto di alienazione da se stessi non è quindi necessaria­ mente legato a una concezione essenzialistica del sé, la mia ricerca se­

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gue la supposizione che il rapporto con i nostri desideri e con le nostre attività possa essere distorto. L’alienazione da se stessi - questa la mia tesi che dovrà in seguito venire esplicitata - è una condizione in cui, in un senso decisivo, non si può fare propria la vita che si conduce e in cui, in ciò che si fa, non si dispone di sé - senza che con ciò si debba po­ stulare, come caso normale o ideale, la completa trasparenza e il com­ pleto controllo su di sé degli individui. Una teoria deU’«alienazione da se stessi» deve quindi indagare la strut­ tura di un rapporto la cui peculiarità è che può fallire in diversi modi. L’affermazione ispirata a Lacan, secondo la quale siamo «già da sempre estranei a noi stessi» (questo per esempio un titolo di Julia Kristeva) può quindi valere come obiezione soltanto contro un’idea irrealistica e troppo armonicistica di totale auto trasparenza e di completo controllo del soggetto su se stesso. Da parte sua quest’affermazione - contraria­ mente a quanto suggerisce la sua retorica - non può fare a meno di una certa idea di cosa significhi essere «se stessi» o poter disporre di sé. La questione di come ci si possa mettere adeguatamente in rapporto con se stessi diviene però tanto più urgente, quanto meno si può partire dal presupposto di essere già da sempre «presso di sé» e originariamente familiari a se stessi. D’altronde siamo confrontati con la questione dei criteri normativi di una simile ricerca. Se, come accennato sopra, l’alienazione è un con­ cetto normativo-descrittivo - dove troviamo allora, per quanto concer­ ne il fenomeno dell’alienazione da se stessi, i criteri normativi a partire dai quali certi rapporti con se stessi possono essere diagnosticati come «alienanti»? Come vedremo, i rispettivi standard si trovano implicita­ mente alla base di ciascun’analisi dei diversi fenomeni. L’essere accessi­ bile e non estraneo a se stessi, o potersi comprendere come attore delle proprie azioni, presuppone determinate caratteristiche deir essere una persona. La sintesi delle proprietà caratterizzanti le persone fornita da Peter Baumann coglie gli elementi decisivi per il nostro discorso:

Le persone sono esseri che non sono in un rapporto passivo con il loro ambiente, bensì sono in grado di instaurare con esso un rapporto atti­ vo. Allo stesso tempo hanno un rapporto con se stesse. Entrambi - il rap­ porto con il mondo e il rapporto con se stessi - sono legati tra di loro: la

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peculiarità del rapporto della persona con ciò che le sta intorno consi­ ste nel fatto che essa, in questo rapporto, si rapporta contemporanea­ mente anche a se stessa102. Il rapporto delle persone con se stesse è, secondo questa descrizione, caratterizzato da tre dimensioni, importanti nel nostro contesto: le per­ sone si fanno opinioni di se stesse, prendono posizione su se stesse giu­ dicandosi e possono avere il desiderio di cambiare. Per questo pongono domande come: «Che genere di persona sono?» e «Che tipo di persona voglio essere?»103. Proprio sullo sfondo di una simile comprensione dello status di persona, i fenomeni dell’alienazione da se stessi diventano un problema. «Essere alienati da se stessi» significa una distorsione proprio di questo rapporto con sé e con il mondo. Significa non potere disporre di sé, dei propri desideri e delle proprie azioni o non trovarsi più, in essi, in accordo con se stessi. La diagnosi dell’alienazione da se stessi si ricol­ lega quindi a una ricostruzione interna dell’immagine che ci facciamo di noi stessi e che perseguiamo nella misura in cui ci consideriamo persone che agiscono. Per questo essa è meno una «critica dell’essenza» che non una variante della critica immanente. Se quindi l’alienazione è, come ho affermato, una «relazione in assenza di relazione» e non la mera assenza di una relazione, allora l’interpreta­ zione di questa relazione appare particolarmente complicata quando in gioco è l’alienazione da se stessi. Tanto è chiaro, da una parte, che sia­ mo già precedentemente legati «a noi stessi», quanto, proprio per que­ sto, è poco chiaro come si dovrebbe poter sciogliere questo legame. (Da qui l’aria di paradosso che circonda questo tema.) La tesi è quindi che anche nel rapporto con sé si ha a che fare con una relazione che può es­ sere distorta in vari modi. E anche in questa relazione si trova la carat­ teristica sopra menzionata: siamo sempre alienati da qualcosa che ci è contemporaneamente proprio ed estraneo-, coinvolti in rapporti in cui ci alieniamo da noi stessi, siamo in un modo specifico allo stesso tempo carnefici e vittime.

102. Baumann P, Die Autonomie der Person, Mentis, Paderborn, 2000, p. 12. 103. Anche Ernst Tugendhat rimanda alla centralità di questa domanda. Cfr. E. Tu­ gendhat, Autocoscienza e autodeterminazione. Interpretazioni analitiche, trad. it. Pinzani A., La Nuova Italia, Firenze, 1999.

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Struttura della parte II

Come già annunciato, nella parte che segue procederò analizzando fe­ nomeni nei quali devono venire «dispiegate» e analizzate diverse di­ mensioni dell’alienazione da se stessi. Così viene messo in discussione in diversi modi il rapporto tra «estraneo» e «proprio» implicato nel fe­ nomeno dell’alienazione. Nel primo capitolo è in primo piano il fenomeno dell’autonomizzazione (Verselbstàndigung) delle proprie azioni e del «senso d’impoten­ za» che ne deriva: laddove la nostra vita scivola nella struttura di una «dinamica propria» siamo «alienati da noi stessi», proprio come quan­ do le nostre azioni si consolidano in prodotti dei quali non possiamo più disporre. Allora non possiamo più considerarci «autori» delle nostre azioni. Il secondo capitolo tratta del comportamento conforme a ruoli come forma d’inautenticità. Esso esamina in quali condizioni l’essere in­ seriti in determinati rapporti sociali si manifesta come alienazione da se stessi. Il terzo capitolo discute alcuni casi di scissione interna nei qua­ li i propri impulsi, desideri e le proprie azioni appaiono estranei - e perciò ci si sente come dominati da un potere estraneo. Il quarto capi­ tolo infine tematizza l’indifferenza come un caso di alienazione. Qual­ cuno che è indifferente nei confronti dei propri progetti e piani e che non si può identificare con niente - questa la mia tesi - è alienato non solo dal mondo ma anche da se stesso, poiché si ottiene «se stessi» so­ lo attraverso un rapporto significativo con il mondo (con i propri pro­ getti e con i propri piani in esso).

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1. Le stesse cose ritornano - Il senso d’impotenza e l’autonomizzazione delle proprie azioni Ce l’avevano fatta. C’era un appartamento completamente sistemato e

loro ci vivevano insieme completamente sistemati. A una delle pareti era appeso un grande quadro colorato in una cornice di legno bianca

e sottile, una lampada moderna scendeva dal soffitto nella camera Non c’era più niente da fare. Rolf Dieter Brinkmann, Kemerwe# mehr

In questo capitolo esamino un primo aspetto dell’alienazione da se stessi: il «senso di impotenza»104 o di perdita di controllo nei confronti della propria vita. Si tratta qui dell’impressione (non poco diffusa) di tro­ varsi di fronte alla propria vita come se questa fosse un avvenimento autonomo sul quale non si ha alcun influsso, senza che però al contem­ po ci si possa definire eterodiretti in un senso facilmente afferrabile. Come si spiega il fatto che si può percepire la propria vita come deter­ minata da un «potere estraneo», anche quando a prima vista ne siamo noi stessi gli attori? Come deve essere inteso qui il rapporto tra proprio e estraneo! E viceversa, cosa dovrebbe significare, riguardo al proble­ ma qui menzionato, essere «padroni delle proprie azioni»? Noi possia­ mo diventare estranei a noi stessi e la nostra vita può divenirci estranea - questa è la mia supposizione - nella misura in cui processi caratteriz­ zati da dinamiche proprie o condizioni d’irrigidimento c’impediscono di considerarci come agenti (come «soggetti» delle nostre azioni e della nostra vita) in ciò che facciamo. Questa struttura si differenzia dalla coer­ cizione diretta o dalla manipolazione diretta. Per analizzarla in seguito (1) abbozzerò il quadro di una situazione che illustri il problema qui in discussione. (2) Quindi elaborerò il problema specifico di questa forma di «alienazione da se stessi» differenziandolo da altre possibili interpre­ tazioni. Nel passo successivo (3) il fenomeno verrà interpretato come una forma specifica di non-presenza nelle proprie azioni, che concepisco come un «oscuramento delle domande pratiche». La discussione delle obiezioni (4) che possono essere mosse contro questa interpretazione do104 Alludo qui alla caratterizzazione dell’alienazione da parte di Eric Fromm come «senso d’impotenza» (Fromm E., Zum Gefùhl der Ohnmacht, in Id., Gesamtausgabe, vol. I, Deutsche Verlags-Anstalt, Stuttgart, 1980, pp. 189-206).

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vrebbe infine condurre (5) a una comprensione dell’alienazione da se stessi come una forma di perdita di controllo su se stessi, alla base della quale non si trova però nessuna concezione irrealistica di autopotestatività del soggetto (Selbstmachtigkeit).

(1) Un’esistenza in provincia

Un giovane ricercatore assume il suo primo incarico. Contempora­ neamente, lui e la sua ragazza decidono di sposarsi. E ragionevole, «anche solo per le tasse». Poco tempo dopo sua moglie aspetta un bam­ bino. Poiché le case più grandi in città sono poche e costose, i due de­ cidono di andare a vivere in provincia. In fondo la vita in campagna è «meglio per il bambino». L’uomo, un matematico di talento, che fino a quel momento ha condotto una vita un po’ caotica tra eccessi notturni e lavoro maniacale, si trova adesso a confrontarsi con una situazione assolutamente nuova. All’improvviso la sua vita, senza che lui se ne sia accorto, è tornata, come si dice, «sui binari». Da una cosa segue l’al­ tra, a quanto pare necessariamente. E in un processo strisciante, quasi inavvertito, la sua vita assume tutte le caratteristiche di un’esistenza in provincia. Avrebbe mai pensato - lui che prima si nutriva per settima­ ne di fast-food e che al week-end dipendeva dai negozi dei distributo­ ri di benzina, per comprare carta igienica e latte condensato - che un giorno sarebbe andato ogni sabato mattina in macchina al centro com­ merciale per comprare le provviste per la settimana e per riempire il congelatore? Avrebbe mai potuto immaginarsi che il venerdì si sareb­ be affrettato a tornare a casa dal lavoro perché va tagliata l’erba prima del barbecue con gli amici? All’inizio nessuno dei due coniugi nota che le loro conversazioni si limitano per lo più al bambino e all’orga­ nizzazione della casa. A volte, tuttavia, lo assale un senso d’irrealtà. Qui qualcosa non torna. Mentre molti gli invidiano la bella casa e la vita appartata in campagna, lui non riesce ad ambientarsi in questa si­ tuazione. La vita che fa qui, che all’improvviso gli si è materializzata intorno «accerchiandolo», possiamo dire, non gli sembra, stranamen­ te, la sua vita. Tutto è come se non potesse essere altrimenti, tutto è successo con una certa necessità. E tuttavia - o forse proprio per que­ sto - tutto gli rimane estraneo in un modo decisivo. In che senso que­

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sta vita «non è veramente» la sua, in che senso egli, nella vita che con­ duce, è alienato da se stesso?

(2) Delimitazione del fenomeno e definizione DELLE SUE CARATTERISTICHE

Proverò adesso prima di tutto a delimitare più precisamente il feno­ meno che qui mi interessa. Primo', non può essere il cambiamento in quanto tale, il fatto che il nostro giovane ricercatore adesso vive un’altra vita rispetto a quella cui era abituato, che può in questo caso essere definito «alienante». Le con­ dizioni di vita di (quasi) tutte le persone attraversano nell’arco della vi­ ta cambiamenti decisivi. Anche laddove questi sono faticosi e compli­ cati, non li si percepirà, nella maggior parte dei casi, come un’«alienazione da se stessi». La vita diventa, per un certo periodo, faticosa, complicata o inconsueta, senza che sussista motivo per non considerar­ la «la propria». Quindi non abbiamo qui a che fare con una questione di abitudine. Se del giovane ricercatore si potesse dire che «si deve sem­ plicemente abituare alla nuova situazione», il problema sarebbe un altro: non quello dell’alienazione ma quello di un’estraneità o di una mancan­ za di familiarità. Nel nostro caso invece il fatto che la sua nuova situa­ zione gli divenga sempre più familiare non cambia nulla nel suo senso di estraneità - e anzi addirittura lo rafforza. Per questo, una situazione può esserci completamente familiare - la si conosce a sufficienza - e ciononostante ci si può sentire in essa estranei. Secondo: il fenomeno che va qui spiegato non è però neanche un sem­ plice problema di coercizione esterna o di eteronomia. Nessuno ha co­ stretto o manipolato il giovane matematico: lui ha voluto l’incarico, la mo­ glie e il bambino. Egli non ha nemmeno rimpianto le sue decisioni subi­ to dopo averle prese, né avrebbe voluto tornare indietro e cambiarle ma non ha potuto perché gli è statò impedito da vincoli esterni. Non ha quindi semplicemente preso una decisione sbagliata, così che si potreb­ be dire che è vincolato alla sua stessa decisione, la quale, dal momento che egli non riesce più a identificarsi con essa, lo costringe come un potere ormai estraneo. D’altra parte, l’estraneità che prova nei confronti della sua vita non significa che egli le stia di fronte e la rifiuti in modo diretto: non

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è infelice nel suo matrimonio, è un padre orgoglioso, e Fincarico lo ha fatto crescere, non solo dal punto di vista della carriera105. Sembra che il ricercatore e sua moglie siano scivolati in un modo di vivere che nessuno dei due può aver voluto - e che tuttavia loro stessi hanno intrapreso, fa­ vorito e prodotto. Se è caduto in una trappola, questa è una trappola che nessuno gli ha teso. Tuttavia, in un certo senso, non è «padrone» della sua vita e si sente oggetto e non soggetto del corso che essa ha preso. La situazione risulta quindi alienante nella misura in cui egli ha la sensazione che sia un potere estraneo ad agire nella sua vita, in un certo senso «attraverso di lui». Tuttavia qui non si tratta espressamente di manipolazione, né della sensazione di venire manipolato. Laddove io sono (per quanto sottilmente) manipolata, vi è un altro che (per quanto anonimamente) governa al mio posto. Il «potere estraneo» con cui ab­ biamo qui a che fare, invece, non solo non può essere identificato, addi­ rittura sembra che qui non ci sia alcun potere che opera. In altri termi­ ni: mentre la vita che il matematico conduce non è la sua, allo stesso tempo non è neanche quella di qualcun altro. Sembra non «appartene­ re» a nessuno. Una situazione quindi, per dirla con un’espressione di Ro­ bert Musil, in cui «le stesse cose ritornano». Il nostro protagonista, diversamente dalla persona manipolata, agi­ sce egli stesso, ma lo fa senza agire veramente. Questo è in un certo sen­ so un agire «difettoso». Si può esprimerlo dicendo che egli, del tutto o in parte, non è veramente presente in ciò che fa. Ed è questa non-presenza nelle sue stesse azioni che fa sì che la sua vita, in un senso decisi­ vo, non sia «la sua», e che quindi essa si sia autonomizzata rispetto a lui. Tutto ciò va adesso spiegato più precisamente.

(3) Interpretazioni: dinamica propria e irrigidimento

Le considerazioni seguenti esaminano a fondo due diversi aspetti della situazione che è stata appena descritta e rinviano così a due forme 105. Si potrebbe qui obiettare: se non era infelice ed è addirittura orgoglioso, come fa a essere estraneo a se stesso nella sua vita? Ma questo non mi sembra un nesso indis­ solubile. Il senso di estraneità non è necessariamente espressione d’infelicità e non de­ ve neanche necessariamente condurre a essa. Si potrebbe tutt’al più affermare che il provare grande gioia implica quasi automaticamente un tale grado di coinvolgimento da far diventare improbabile il sentimento di estraneità.

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che può prendere l’autonomizzazione della propria vita. La vita che si conduce può (a) assumere una dinamica propria o (b) «irrigidirsi», o muoversi in situazioni irrigidite. In entrambi i casi si può dire, questa la mia argomentazione, di non essere veramente «presenti» nella propria vita. La mia interpretazione ricondurrà entrambi i casi al fatto che sono diventati irriconoscibili quegli elementi dell’azione e della decisione che rendono una vita «propria».

Una dinamica propria In primo luogo si può definire l’evoluzione descritta come una dina­ mica propria e come un rendersi autonomo di avvenimenti dei quali, alla fine, gli interessati sembrano essere in balìa. Le cose, così come si sono evolute nella vita della giovane coppia, hanno preso una «vita propria». Di questo fa parte la presunta necessità: come lo sposarsi ri­ spetto alle tasse, anche il ritirarsi in provincia sembra risultare quasi necessariamente dalla nuova situazione con il bambino. Una volta che si ha un giardino bisogna anche tosare l’erba, dai contatti al parco gio­ chi vengono i primi inviti che devono essere ricambiati. Qui non m’in­ teressa la convenzionalità di questa forma di vita, ma semplicemente il fatto che abbiamo a che fare con processi che sembrano succedere «da sé» e che sono in un certo modo già decisi senza che li si scelga perso­ nalmente. Si finisce per così dire involontariamente a condurre la vita che si conduce. Ma cosa significa esattamente la metafora della «dina­ mica propria» o dell’«assumere una vita propria da parte degli even­ ti»? E in che senso si può parlare, riguardo a questa dinamica propria, di processi di alienazione? Le evoluzioni che hanno una dinamica propria sembrano - analoga­ mente ai processi naturali o biologici - accadere «da sé». Esse prendo­ no un corso che si produce con necessità interna, senza bisogno d’inter­ vento esterno. Questa necessità interna può essere composta da diversi tipi di catene causali, sulla cui successione non si ha alcun influsso. Per questo si differenziano da un processo in cui si agisce. Gli sviluppi che hanno una dinamica propria consistono in processi nei quali non si agi­ sce e non si decide in senso genuino, se per «agire» o «fare» s’intende

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un intervento mirato, l’interruzione di una simile catena causale o il mettere in moto degli eventi106. Così Ernst Tugendhat distingue «succedere» e «fare» rispetto all’agire e al volere di un agente:

Noi parliamo di «fare» in ogni circostanza in cui distinguiamo gli even­ ti intenzionali, volontari, dai semplici accadimenti. Il che vuol dire: quan­ do viene fatto qualcosa, quando si agisce, abbiamo a che fare con un pro­ cesso, in cui il fatto che la fase di volta in volta successiva del processo ab­ bia luogo dipende dal fatto che l’attore lo voglia107. Con questa contrapposizione tra «processo» e «azione» o tra avveni­ menti «ciechi» e quelli «mirati», tra quelli involontari e quelli intenzio­ nalmente voluti, è accennata la problematica in questione nel nostro ca­ so. Mentre il «fare» o l’«agire» è legato a un’intenzione, al volere dell’a­ gente, una dinamica autonomizzatasi descrive un avvenimento senza un vero agente, un avvenimento che accade «dietro le sue spalle» o «attra­ verso di lui». Ora, se gli sviluppi della propria vita avvengono seguendo il modello di una dinamica propria, ciò contraddice le assunzioni impli­ cite che vengono fatte quando si dice che qualcuno conduce la propria vita - sullo sfondo dello standard sopra menzionato che colleghiamo al­ la descrizione di persone agenti. Con ciò supponiamo precisamente una guida attiva e una presa di posizione rispetto a ciò che si fa, anche se lo si fa in condizioni di cui non si può completamente disporre. Al contrario, proprio la parte della vita per la quale sarebbe adatta la descrizione di «mero avvenimento» (per esempio i processi biologici d’invecchiamen­ to o le funzioni vegetative del corpo) non è ciò che rende questa vita esplicitamente la mia, che ne fa una vita rispettivamente «propria»108: 106. In questo senso Hannah Arendt scrive che «la funzione di ogni agire è, a differenza del mero rapportarsi reattivo, quella di interrompere processi che altrimenti si svolge­ rebbero in modo automatico e prevedibile». Vedi Arendt H., Vita Adiva, trad. it. Finzi S., Bompiani, Milano, 2000. 107. Tugendhat E., Autocoscienza e autodeterminazione. Interpretazioni analitiche, op. cit., p. 211. 108. Per questo, ad esempio, gli adolescenti sono giustamente offesi quando s inter­ pretano i loro stati d’animo facendo riferimento ai cambiamenti ormonali: con ciò non solo li si priva della loro unicità ma così facendo si insinua anche una certa loro impotenza - e quindi mancanza di responsabilità - nei confronti delle loro stesse rea­ zioni e sensazioni.

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non è ciò in base a cui posso identificare la mia vita come mia in un sen­ so forte. L’essere sottomesso a una dinamica propria significa quindi una perdita di responsabilità e di controllo a cui si contrappone in modo di­ retto l’idea di condurre (guidare e governare) la propria vita. In questo senso si considererà la propria vita «estranea» quando ci si trova di fron­ te ai suoi sviluppi come di fronte a un processo non influenzabile. Deci­ siva per il nostro caso - e per poterlo comprendere come un caso di «alie­ nazione da se stessi» - è anche la discrepanza, cui si è già accennato, tra il presunto potere di agire da una parte e la sua assenza fattuale dall’al­ tra. Certo, si può lamentare una simile mancanza di potere anche in even­ ti che in effetti non sono umanamente influenzabili - per esempio si pos­ sono trovare sconcertanti anche alcuni cambiamenti del corpo non in­ fluenzabili, fino al punto di non sentirsi «più a casa» nel proprio corpo109. Per considerare questi processi «alienanti» in senso rilevante dal punto di vista normativo, è però decisiva la discrepanza tra la propria, forse so­ lo apparente, impotenza e il carattere di un accadimento del quale si suppone sia o possa essere un’azione^. Decisivo per la diagnosi dell’alie­ nazione nel senso qui sviluppato è quindi il fatto che qui si percepiscono avvenimenti che si possono in linea di principio influenzare (o che si do­ vrebbe poter influenzare) come se non fossero influenzabili, e che qual­ cosa rispetto a cui si può decidere sembri non essere minimamente og­ getto di decisione. Se si scomponesse nelle sue singole parti ciò che qui rappresenta un processo non influenzabile, si vedrebbe che ogni singola componente avrebbe potuto essere oggetto di decisione: naturalmente ci sono tanti pro quanti contro nell’andare a vivere in campagna con un bambino piccolo, ovviamente i vantaggi fiscali non sono una motivazio­ ne sufficiente per un matrimonio, e chiaramente si può anche lasciare che il proprio giardino diventi una giungla e nutrirsi di pizza da asporto, ignorare i vicini e soddisfare il proprio bisogno di comunicazione attra­ verso internet. (Come vedremo in seguito, il problema che qui ci interes109.1 transessuali sono un altro caso, qui non si tratta di processi corporei e del loro controllo ma di un continuo essere estranei nel proprio corpo. 110. In altri termini: naturalmente fatti come affittare una casa, fare un contratto matrimoniale, la spesa del sabato sono azioni per sé o catene di azioni e non eventi. E quindi un modo di esprimersi metaforico, quando si dice che queste cose appaiono come un «evento non influenzabile», «come un processo quasi naturale». La contrad­ dizione con cui abbiamo qui a che fare consiste tuttavia proprio nel fatto di esperire un’azione come mero evento.

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sa non consiste solo nel fatto che il protagonista non agisce decidendo attivamente, ma nel fatto che la situazione nella quale egli si trova gli si presenta come una situazione in cui un simile comportamento non è possibile o non è necessario). Si può riassumere la situazione del nostro ricercatore nel modo se­ guente: il fatto che lui percepisca la propria vita come «estranea» e che non si senta «presso di sé» nella sua vita dipende dal fatto che, in realtà, egli non è veramente «presente» in essa - se si intende la «partecipazio­ ne» alla propria vita come un parteciparvi come agente. Questa scarsa presenza può essere ricondotta quindi ad una mancanza di consapevo­ lezza delle possibilità di azione, della libertà cui egli può avere accesso. Ogni singolo aspetto di questa vita non è stato infatti - nelle sue conse­ guenze per la decisione successiva - veramente deciso. La situazione è quindi in un certo senso davvero «fuori controllo» e - questo è decisivo - è tale che non se ne può dare la «responsabilità», nel vero senso del termine, a nessuno111. Questo però non significa solo non aver agito o non aver usufruito delle possibilità di azione, ma addirittura non avere pro­ prio considerato la situazione come una situazione in cui è possibile agire; significa non solo non avere deciso qualcosa personalmente e non condurre personalmente la propria vita, ma anche non riuscire a consi­ derarla o a vederla come qualcosa che si può condurre. Così si deve in­ tendere il fatto che una persona, come il nostro ricercatore, non è «au­ tore della sua vita», né è il soggetto di quello che fa, anche se non c’è nessuno che agisce al suo posto. Il paradosso apparente, secondo il qua­ le contemporaneamente si agisce e non si agisce, che la vita che si con­ duce sarebbe allo stesso tempo la propria vita e una vita estranea, non­ propria, si scioglie allora così: qui si fa qualcosa personalmente, ma non si può dire che sia un agire «nel senso pieno»; è la propria vita ma, in un senso decisivo, non la si è fatta propria. La dinamica descritta s’inserisce quindi nello spettro dei fenomeni della reificazione e della naturalizzazione: qualcosa che è «fatto» diven­ ta qualcosa di «dato», di cui non si può disporre; il proprio agire (o i suoi risultati) si contrappongono all’agente come un «potere estraneo». Rispetto al nostro problema questo tema può essere tradotto così: quan­ 111. Questo naturalmente non significa che questo attore non sarebbe responsabile in senso morale o che in senso giuridico non dovrebbe essere considerato capace d’in­ tendere e di volere.

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do si conduce una vita «reificata» in questo senso abbiamo a che fare con l’oscuramento del fatto che la vita che si conduce non è «data», né può essere considerata da un punto di vista oggettivante come qualcosa che si compie senza di noi. Come si è già detto facendo riferimento a Hei­ degger, si tratta al contrario di qualcosa che si compie in uno spazio d’azione e con cui dobbiamo rapportarci. Con un concetto coniato da Ernst Tugendhat112: condurre la propria vita significa essere confrontati con «domande pratiche». Le «domande pratiche» sono quelle che ri­ guardano cosa fare e come agire. Tali domande possono essere poste, secondo Tugendhat, in modo più o meno fondamentale. Possono quin­ di essere domande meramente strumentali su come agisco adeguatamente, impiegando i giusti mezzi rispetto a un determinato obiettivo, ma possono anche riguardare i fini ultimi del mio stesso agire, («come devo vivere?» «che genere di persona voglio essere?»). Il porre domande pra­ tiche presuppone però sempre l’esistenza di un margine di azione e di possibilità. Le domande pratiche riguardano dei complessi di azioni in cui io posso agire così o diversamente, situazioni nelle quali mi è richie­ sto di prendere una posizione. Ricollegandomi a questo, propongo di ca­ ratterizzare la struttura sopra descritta, di una dinamica propria «reifi­ cata» o «reificante», nella quale i singoli passi di uno sviluppo non ven­ gono resi oggetti di «domande pratiche», descrivendola nei termini di un «oscuramento delle domande pratiche». La tesi secondo la quale simili do­ mande possono essere anche «oscurate»113 dovrebbe rimandare al fatto che non è scontato che si percepiscano alcune situazioni come oggetto di domande pratiche o che le si «colgano» come tali. (Allo stesso tem­ po, il concetto di oscuramento dovrebbe segnalare che qui non si tratta solo di casi di valutazione soggettiva erronea, bensì di qualcosa che può riguardare sia una situazione sia l’agente che vi si trova). Se l’esistenza di un ambito di domande pratiche, la capacità di porle e quella di dar loro una risposta fanno parte delle condizioni costitutive di ciò che si chiama una vita autonoma, allora una struttura che porta a un simile oscuramento, una vita che si compie nella forma, sopra descritta, di una dinamica propria, deve minare i presupposti della capacità di agire e del­ l’autonomia. 112. Tugendhat E., Autocoscienza e autodeterminazione, op. cit. 113. L’associazione con l’analisi heideggeriana della «deiezione» è evidente (cfr. parte I, capitolo 2).

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Eteronomia e alienazione. Questo risultato rende possibile avvicinarci alla questione di cosa distingue i fenomeni dell’alienazione così decritti dai meri processi di coercizione o di eteronomia, così come dai più com­ plicati processi di manipolazione. La disperazione che coglie il nostro ri­ cercatore quando, dopo un paio d’anni, osserva la sua vita, non è quella dell’ingannato o del manipolato che capisce che è stato indotto a fare tut­ to il tempo cose che in realtà non voleva fare. La sua disperazione scaturi­ sce dal fatto che egli realizza di non avere, in un certo senso, veramente pre­ so parte allo svolgersi della sua stessa vita. Ma non è che non ha semplicemente deciso di persona - e quindi sotto l’influsso altrui o addirittura sotto coercizione - le cose che l’hanno poi determinato; caratteristico della situazione descritta è piuttosto il fatto che qui in realtà non si è deci­ so per niente. A differenza delle più sottili forme di eteronomia114, egli non fa niente contro la propria volontà, piuttosto non sviluppa nessuna vo­ lontà: in un certo senso, qui non è in gioco alcuna volontà. Egli non viene spinto - per quanto in modo sottile - a decidersi in un modo piuttosto che in un altro, a fare una cosa o l’altra; la sua volontà non viene manipo­ lata, né gli viene subdolamente imposta una volontà altrui. Semplicemen­ te egli non vede o, meglio, gli è impedito di vedere che ciò che fa è ogget­ to di una possibile decisione. Naturalmente si può considerare questa una forma anonima e in una certa misura strutturale di eteronomia. Chi viene trainato dagli eventi, anziché determinarli lui stesso, non è autono­ mo, non vive seguendo la propria legge. Joseph Raz, nella sua descrizione dell’autonomia personale, mantiene ferma l’opposizione tra l’autonomia e l’essere trascinati dagli eventi - «[l’autonomia personale] contrasta con una vita priva di scelta, con l’essere trascinati dalla vita senza mai esercita­ 114. Qui prendo le mosse dalla seguente definizione minima di eteronomia (Fremdbestimmung): sono eterodiretto quando qualcosa o qualcuno mi influenza in modo tale da far sì che io segua la sua volontà anziché la mia. Questo «qualcuno o qualcosa» può essere anonimo (può trattarsi per esempio di una legge o di una convenzione) e l’in­ flusso» può essere pensato in tutti i gradi, fino all’evidente coercizione. Ciò che vi deve essere sempre, però, è una volontà estranea che agisce sulla propria, una legge «ester­ na» che si oppone alla «propria». Una «dinamica propria» non è in questo senso una volontà esterna né una legge esterna. Forse si può interpretare eteronomia anche in un altro senso. Mi sembra comunque svantaggioso appiattire in questo modo la differenza tra una situazione in cui qualcuno mi induce a fare qualcosa che non sono io ma lui a volere e la situazione sopra descritta; una differenza cioè tra situazioni in cui qualcuno è determinato da qualcosa di «estraneo» e quelle in cui non si è affatto determinati.

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re la propria capacità di scegliere»115. Si può essere d’accordo con questa contrapposizione se alla sua base c’è il denso concetto di autonomia svi­ luppato da Raz, che descrive l’autonomia appunto come l’«essere autore della propria vita». Questa descrizione dell’autonomia però non può, per il suo contenuto, essere considerata il concetto simmetricamente contrario alle concezioni prevalenti dell’eteronomia. Una caratteristica essenziale dell’eteronomia, ovvero che una «legge estranea» e una volontà estranea si pongono al posto della propria, risulta qui vera soltanto in senso lato116. Quando «le stesse cose ritornano» non viene «posto» proprio niente. Le cose succedono in un modo in cui il «proprio» non si è ancora differen­ ziato dall’«estraneo». In altri termini: il problema nei fenomeni qui consi­ derati è proprio la questione di come qualcosa può diventare per me «pro­ pria», o invece non è «propria», un problema questo che attraverso la ca­ ratterizzazione di «eteronomia» non viene risolto, bensì nascosto. Mi sembra un vantaggio della prospettiva della teoria dell’alienazione il fatto che in essa si possano cogliere i presupposti dell’autonomia in maniera più articolata di quanto non sarebbe possibile con una semplice opposi­ zione tra autonomia ed eteronomia. (Nel capitolo 2 della parte III, tor­ nerò a occuparmi del rapporto tra autonomia e alienazione).

Irrigidimento

Una gabbia d'acciaio. Un altro tratto caratterizza la vita del ricercato­ re recluso in provincia: un peculiare irrigidimento. Non solo tutto va per il suo corso. Sembra che siano gli stati di cose che si sono creati in questo modo a determinare come lui vive - e non viceversa. Questo ca­ ratterizza la rigidità o la mancanza di vitalità del modo di vivere in cui si trova. «Non c’era più niente da fare». Mentre sopra sembrava che non si fosse proprio agito («essere in balìa», «essere trascinati», anziché agi­ re), dal punto di vista dell’irrigidimento emerge il fatto che i risultati delle azioni possono rendersi indipendenti dal loro autore. Questo in­ durimento e questa autonomizzazione possono verificarsi in situazioni 115. Raz J., The Morality of Freedom, Oxford University Press, Oxford, 1986, p. 371. 116. Nota bene: come si è detto sopra, in questo esempio non si tratta del fatto che le convenzioni, che rappresenterebbero una «legge estranea», prendano il posto del «proprio».

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a favore delle quali ci si era originariamente decisi in modo consapevo­ le. (Per questo il fenomeno dell’irrigidimento deve essere distinto da quello della dinamica propria. Nel nostro esempio potrebbero essersi ve­ rificate entrambe le cose, i due aspetti devono però essere considerati l’u­ no indipendentemente dall’altro). Anche questa evoluzione dell’«irrigidimento» porta infine a quello che io ho chiamato «oscuramento delle domande pratiche». Anche se una volta ci si erano poste queste domande, ad un certo punto si è evi­ dentemente smesso di porsele regolarmente. Anche il processo d’irrigi­ dimento così descritto ha come conseguenza che le cose che determina­ no una vita non sembrano (più) essere oggetto di decisione. Le situazio­ ni irrigidite sono quelle immuni (o che si rendono immuni) a ulteriori messe in questione. La vita che si conduce è composta allora da compo­ nenti invariabili, che non ci sono più accessibili. Tutto sembra ormai ir­ removibile, «rappreso»117. Quella vita propria che i risultati delle nostre azioni sviluppano equivale qui a una devitalizzazione della nostra vita. Perché in simili situazioni si è «alienati da se stessi»? Facendo riferi­ mento al tema dell’«oscuramento delle domande pratiche»: le situazio­ ni irrigidite danno una risposta prestabilita a queste domande, ancora prima che esse vengano poste118. Anche qui non viene più richiesto di prendere decisioni, di agire, di porre domande pratiche. Tutto è come se non potesse essere altrimenti. Anche qui si è passivi, non più parteci­ panti attivi delle situazioni in cui si vive, si è bensì da esse determinati. E se tutto è come se non potesse essere altrimenti, allora il soggetto è, in quanto agente, superfluo. Il punto interessante e nuovo rispetto a quan­ to si è già detto è il seguente: qui si vede che le «domande pratiche» de­ vono porsi o essere poste non una volta, ma sempre ripetutamente, an­ che rispetto agli stessi fatti.

117. Questo fenomeno non è la stessa cosa delle convenzioni sociali: tuttavia c’è un aspetto delle convenzioni che rende particolarmente chiaro uno dei meccanismi deci­ sivi che portano a questi indurimenti, ovvero la restrizione del campo delle possibi­ lità, la limitazione di alternative. 118. Anche questo fenomeno non ha necessariamente a che fare con le convenzioni o con il fatto cne i precetti che ci dicono come vivere vengono dagli altri. Decisivo non è tanto il fatto che io abbia lo stesso arredamento della casa che hanno gli altri, ma che è l’arredamento che stabilisce come vivere. Anche se entrambi gli aspetti spesso sono legati: anche forme di vita non convenzionali possono irrigidirsi nel senso sopra de­ scritto, senza per questo diventare convenzionali. Nel prossimo capitolo mi occuperò in maniera più dettagliata del problema della convenzionalità nel contesto di una di­ scussione dei ruoli sociali e dei comportamenti conformi a un ruolo.

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Il corso automatico degli eventi e l’irrigidimento delle situazioni sono quindi due modalità di come gli eventi possono rendersi autonomi nei con­ fronti degli attori che a essi prendono parte; entrambe queste modalità possono essere intese come due aspetti della reificazione. In entrambi i casi, avvenimenti che in realtà dovrebbero essere risultato di azioni - o in altri termini: che sono una sorta di azione (Handlungsgeschehen) - sem­ brano o devono sembrare ai partecipanti indipendenti dall’esecuzione del­ le loro azioni {Handlungsvollzuf. La dissoluzione di questa struttura rei­ ficante significa in entrambi i casi la scoperta di un margine di possibilità di azione: ciò che è, avrebbe potuto anche, in quanto risultato di azioni, essere diversamente. Non si tratta qui solo del fatto che le situazioni in cui si vive sono in linea di principio modellabili, ma anche della fluidità e della possibilità di rivedere le decisioni già prese una volta. L’esistenza di un margine di azione non è contraddistinta solo dal fatto che qualcosa potrebbe anche essere altrimenti. Vi è un margine di azione proprio lad­ dove qualcosa (in linea di principio) può anche sempre cambiare. Questo è, come vedremo, non solo un problema che riguarda gli individui che agiscono, ma anche un problema che riguarda le caratteristiche delle si­ tuazioni in cui gli individui agiscono (o appunto non agiscono).

(4) Obiezioni Si deve quindi descrivere in termini di alienazione ogni processo di autonomizzazione, ogni dinamica propria o d’irrigidimento in cui può sci­ volare la propria vita? Non ci sono anche processi di autonomizzazione che non si percepiscono come alienanti - e che anche da un punto di vi­ sta esterno non dovrebbero essere definiti alienanti? Questa domanda ci porta a due problemi di diversa collocazione. Il primo riguarda in termi­ ni molto generali lo status normativo dell’analisi qui svolta e il criterio di va­ lutazione che si trova alla sua base, secondo il quale il controllo e il pote­ re di disporre della propria vita, o più in generale un rapporto attivo e crea­ tivo con la propria vita, hanno il primato rispetto ad altre opzioni. Ma il controllo e il potere di disporre della propria vita, si potrebbe chiedere, de­ vono caratterizzare in modo così ovvio la forma di vita da privilegiare? Per­ ché dovremmo condurre attivamente la nostra vita nel senso qui presup­ posto? E se non lo facciamo, abbiamo davanti una vita «sbagliata», infeli­ ce, «cattiva»? Per esempio, cosa c’è di male nell’atteggiamento fatalista

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del «lasciarsi trascinare» dagli eventi, in cui si segue sempre quello che suc­ cede al momento e ci s’identifica con la direzione che la propria vita, per un qualsiasi motivo, ha preso al momento? Naturalmente è una questio­ ne di gradi. E si potrebbe affermare che i diversi gradi di fatalismo, in ef­ fetti, caratterizzano qualcosa come i diversi stili di vita all’interno di una forma di vita119. Anche il «lasciarsi trascinare» sarebbe, cosi inteso, ancora un modo di condurre la propria vita. Rispetto alla domanda circa fino a che punto possa arrivare questa forma di vita, possono essere menzionati alcuni aspetti, concretizzando ciò che abbiamo accennato nell’introdu­ zione relativamente alla ricostruzione della nostra autocomprensione. Al modello di una condotta di vita attiva che ha il controllo di sé sono con­ nesse delle opzioni fondamentali, come quella di potersi comprendere come persona che agisce, come soggetto della propria vita, la quale così diventa la propria in un senso fondamentale. E solo nella misura in cui noi ci consideriamo come persone che agiscono possiamo essere considerati responsabili di quello che facciamo. Da questo status dipendono elemen­ ti non trascurabili di cosa significa potersi considerare una persona indi­ pendente e venire come tale rispettata dagli altri. Quindi non si tratta di opzioni arbitrarie ma di atteggiamenti rispetto ai quali c’è da dubitare che noi possiamo rinunciarvi (radicalmente) senza invischiarci in con­ traddizioni. (Anche su questa questione tornerò nella parte IH). Il secondo gruppo di obiezioni invece si colloca ad un altro livello. Esso riguarda la plausibilità interna delle idee che si trovano alla base di questa ricerca. Pur presupponendo la loro ineluttabilità in linea di prin­ cipio, non sono forse esagerate le concezioni del potere di azione che si trovano alla base della mia analisi? Non si deve da una parte confrontare la complessità delle decisioni con le loro rispettive conseguenze e d’altra parte rendere giustizia al fatto che una certa fissità delle situazioni costi­ tuisce, forse necessariamente, la cornice in cui si vive? E che quindi non si possono rendere trasparenti tutte le condizioni del nostro vivere, né ren­ derle sempre fluide o metterle nuovamente in discussione?120 119. Tugendhat discute la questione del decentramento della propria soggettività co­ me bisogno che risulta dal fondamentale «egocentrismo» del nostro rapporto con il mondo. Cfr. Tugendhat E., Egozentrizitàt undMystik, Beck C.H., Miinchen, 2003. 120. Mi riferisco qui solo alle condizioni delle quali - in linea di principio - si può di­ sporre. Un altro punto è invece il fatto che ci sono condizioni nelle quali si conduce la propria vita e che non si possono controllare in linea di principio (a partire dai pre­ supposti fisici dei corpi).

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Eimprevedibilità delle conseguenze delle nostre azioni Con il concetto di complessità si fa riferimento al seguente proble­ ma: le conseguenze di singole decisioni producono esiti ed effetti che non solo non erano previsti, ma anche che, in parte, non si sarebbero potuti prevedere. (Si può dire: questa è l’ineluttabile conseguenza del fatto che non si è già vissuta la vita che si vive). L’impossibilità di controllare le conseguenze delle azioni è caratteri­ stica dell’agire stesso: le azioni hanno conseguenze, che a loro volta comportano delle conseguenze121. Con gli effetti incalcolabili che il pro­ prio agire ha sugli altri e le ripercussioni che le reazioni di questi hanno su di noi, si dà una complessità che rende difficile perseguire intenzioni completamente calcolabili ed esclusivamente proprie. Si può però discutere questo problema anche rispetto al modo d’in­ tendere l’agire stesso. Anche se, come ho fatto sopra, si condivide l’idea che quando agiamo perseguiamo delle intenzioni, questo non significa però che il risultato di un’azione possa «rispecchiare» tale intenzione in un modo privo di distorsioni, o che l’intenzione e il risultato debbano «coincidere». Al contrario, invece, è probabile che il risultato di un’a­ zione contenga una certa «eccedenza» rispetto a ciò che si potrebbe formulare come intenzione122. Così ad esempio Helmuth Plessner valu­ ta questo fenomeno positivamente, come «forza di emancipazione delle nostre azioni», e osserva in un saggio diretto criticamente contro la teo­ ria dell’alienazione marxista:

E caratteristico dell’attività degli uomini creare dei prodotti che sfuggo­ no al loro potere di disporne e si rivolgono contro di loro. La forza di emancipazione delle nostre azioni [...] non deve essere intesa come se vanificasse la realizzazione delle nostre intenzioni. Al contrario, essa la

121. Hannah Arendt, che ha sempre sottolineato l’impossibilità di controllare le con­ seguenze delle azioni e l’ha intesa come una delle caratteristiche decisive dell’agire (contrariamente alle attività del produrre e del lavorare), parla in questo contesto di una «rete» in cui le nostre azioni sono da sempre inserite. Cfr. Arendt H., Vita Adi­ va, op. cit. 122. Si pensi solo a un aspetto della situazione descritta all’inizio: il bambino. E im­ probabile che i genitori possano anticipare tutti i cambiamenti che la nascita di un bam­ bino porta con sé. Quindi una simile decisione è sempre anche come scegliere di «an­ dare incontro» a qualcosa.

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permette e dispiega, proprio grazie ai prodotti realizzati, il suo effetto non previsto dall’intenzione123. Per tutti questi aspetti (e per tutti questi motivi), la vita che si condu­ ce non è in ogni suo aspetto il risultato di decisioni, né tantomeno piena­ mente controllabile o sempre personalmente scelta. Una vita, persino una «vita propria» che nel complesso è vissuta in modo non alienato, non può essere mai attribuita completamente ad una persona come risultato delle proprie decisioni. Non si è mai il solo «autore» della storia della pro­ pria vita - né si potrebbe esserlo. Evidentemente anche questa singolare tensione tra il fare piani e il perseguire intenzioni da una parte, e gli ef­ fetti e i risultati dei quali si può sempre anche dire che «non è stato nes­ suno» dall’altra124, è caratteristica del modo in cui si «conduce una vita». Decisivo per l’ambito della mia discussione è quindi il fatto che questo grado di dinamica propria e di autonomizzazione degli eventi, il fatto di sentirsi intaccati da eventi che non si sarebbero potuti prevedere e che non si possono controllare, non viene solitamente percepito come alie­ nante. Non tutto quello che non è controllabile ci rende la nostra vita estranea nel senso qui discusso; e, se così fosse, si tratterebbe di un’idea di autonomia e del nostro potere di azione forzatamente esagerata. Al contrario: in molti casi non ci dispiace affatto essere travolti dagli eventi («falling in love»). Anche se qui siamo confrontati con situazioni che non avremmo mai potuto immaginare, che non avremmo potuto né prevedere né pianificare, e rispetto alle quali siamo impotenti, non ci sen­ tiamo necessariamente alienati da noi stessi - si pensi per esempio a sta­ ti tipici dell’«essere fuori di sé» quando si è innamorati o si è sfrenatamente contenti di qualcosa. Al contrario, questi stati producono un ele­ vato senso di armonia con se stessi. Si è sopraffatti, ma a differenza dello stato descritto nell’esempio, si è «presenti» in ciò che si fa e che ci suc­ cede in modo addirittura più intenso del solito. Si può quindi essere «fuori di sé» senza essere «alienati da sé». Com’è possibile? Evidentemente, in questi casi, ci identifichiamo con degli

123. Plessner H., Das Problem der Offentlichkeit und die Idee der Entfremdung, Vandenhoeck und Ruprecht, Gottingen, 1960. 124. Qui alludo all’analisi heideggeriana del «Si», secondo la quale la maggior parte del­ le cose succede in modo tale che «non è stato nessuno». Hannah Arendt ha definito questo fenomeno, in termini di critica della società, «dominio da parte di nessuno».

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eventi, anche se non siamo stati noi a metterli in moto o non possiamo controllarli. Evidentemente, possiamo essere «presenti» in una situa­ zione anche quando non la dominiamo completamente (o non domi­ niamo noi stessi in essa). Sembra quindi esserci una differenza tra gli stati di perdita di controllo o le forme di autonomizzazione alienanti e quelli invece non alienanti. Da una parte questa differenza viene stabili­ ta in base ai risultati: si può rifiutarli o riconoscerli, quindi anche a po­ steriori identificarsi o meno con avvenimenti che avevano una dinamica propria. D’altra parte, però, si può cogliere la differenza anche nelle di­ verse modalità della realizzazione; si può stabilire una differenza tra i diversi modi nei quali partecipiamo ad avvenimenti che si sono resi au­ tonomi. La sfumatura qui decisiva potrebbe essere almeno accennata attraverso il concetto di «presenza» o di «presenza a se stessi»: all’inter­ no di avvenimenti di cui nel complesso non si risponde direttamente o che non si controllano in maniera diretta, ci sono diversi gradi d’identi­ ficazione che non si esprimono nel controllo della situazione, bensì nel­ la maggiore o minore presenza nella situazione stessa125. (Allora si è in­ globati nella situazione, ci si scioglie in essa, ci si dimentica di se stessi, a differenza della distanza che caratterizzava il giovane ricercatore del nostro esempio iniziale). Secondo quest’analisi, quindi, non ogni autonomizzazione e non ogni dinamica degli eventi della vita che non riusciamo a controllare è di per sé alienante. Appare invece chiaro che la risposta alla domanda, se una vita prenda un corso autonomo in maniera alienante o meno, non di­ pende dal fatto se essa sia in tutti gli aspetti modellata personalmente,

125. La descrizione di Gisela Elsner (1984) di una madre che dopo la nascita di un fi­ glio cade in depressione offre un’esemplificazione penetrante della non-presenza in una situazione: la piccola creatura che piange e pretende le sembra un mostro incompren­ sibile, le sue espressioni di vita scatenano in lei sconcerto. Nel rapportarsi al bambino lei è «assente»; è troppo poco presente nello svolgersi della situazione per poter sod­ disfare le esigenze della stessa situazione da sé - per così dire in maniera «organica» -, così che le sue azioni possano risultare Luna dall’altro. Essa si osserva dall’esterno piena di sconcerto, le sue reazioni, fino a ogni loro singola parte, finiscono per «in­ cepparsi». Si comporta in maniera «stramba» e rende così la situazione sempre più stramba e minacciosa. Questo mi sembra un buon esempio perché contrasta con la descrizione delle «madri felici», che riescono a gestire una situazione oggettivamente nuova e imprevedibile proprio perché s’identificano con essa, sono presenti nella si­ tuazione e quindi reagiscono a partire da essa. Questo esempio mostra anche che tut­ to ciò non è ovvio né tanto meno «istintivo».

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controllata, prevedibile, ma anche dal fatto se ci si possa o meno in un certo modo appropriare di ciò di cui in essa non si può disporre e che non si può controllare. La tematica dell’appropriazione deve quindi (come esposto nella parte I, capitolo 1) portare ad espressione il fatto che po­ ter «disporre di qualcosa», «mettersi in rapporto con qualcosa», o an­ che «identificarsi con qualcosa» non dipende dal fatto che qualcosa deb­ ba essere riconosciuto come «prodotto della propria attività» - nel si­ gnificato cui ci si riferisce rifacendosi a Marx. Piuttosto, abbiamo qui a che fare con la questione se si riesca ad appropriarsi o meno degli avve­ nimenti che determinano la propria vita, specialmente laddove essi non sono diretti e controllati da noi, né «messi al mondo da noi». Il proces­ so di esteriorizzazione e riappropriazione che s’intende qui può forse essere immaginato come un processo di bilanciamento: ogni decisione, ogni azione mette in moto processi o porta a risultati che possono esse­ re in un primo momento «estranei» e che a loro volta possono diventa­ re nostri solo attraverso una (ri)appropriazione. Il «proprio» non deve quindi necessariamente (ricollegandosi alla discussione svolta riguardo a Marx) essere ciò che è prodotto o governato personalmente da noi stes­ si; come risultato di un’appropriazione esso non consiste solo in ciò che era già «proprio» in precedenza. Avere un rapporto di appropriazione con gli avvenimenti (non controllabili) della propria vita significa però che ci si deve poter mettere in un rapporto (affermativo) con questo «estraneo» o incontrollabile. L’alienazione non è l’estraneità o il diven­ tare estraneo dei risultati delle azioni in sé, ma l’interruzione, la distor­ sione di un processo nel quale le azioni producono risultati (incontrolla­ bili) con i quali ci si deve mettere in rapporto, di cui bisogna riappro­ priarsi. Qui proprio il concetto di «appropriazione» è adatto a illustrare il carattere pratico di questo processo: non si tratta di una decisione da prendere a partire da una posizione obiettiva o non coinvolta, né di un mero rifiuto o consenso nei confronti del risultato di un’azione. Ciò che ho definito «bilanciamento» («Balance») non si basa su una valutazione a partire da un punto di vista esterno; descrive piuttosto un processo nel quale siamo coinvolti. Il «processo di appropriazione» non consiste quindi solo in elementi cognitivi e non è sottomesso soltanto alla volontà. Non si può rendere «proprio» tutto ciò che vorremmo essere126. Abbia­ 126. E quindi inutile cercare di convincere la madre sopra descritta che il suo bambi­ no non è un mostro ma una creatura graziosa.

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mo quindi a che fare con un processo di apprendimento e di esperienza nel quale viene sondato il rapporto tra libertà e incontrollabilità. Vice­ versa l’alienazione significa la paralisi di questo processo.

Irrigidimento costitutivo

Come si pone allora la questione riguardo all’aspetto dell’autonomizzazione che è stato discusso sopra come «irrigidimento»? Ogni for­ ma d’irrigidimento è di per sé alienante? Non solo l’idea della control­ labilità, infatti, ma anche le idee di trasparenza e di fluidità a essa lega­ te possono sembrare illusorie. Non solo non si possono mai rendere esplicite tutte le decisioni implicite su cui si basa la vita; non tutto ciò che implicitamente «si capisce da sé» può o deve essere tradotto nel «modo dell’espressività». L’idea di fare ciò sarebbe addirittura spet­ trale e il risultato sarebbe presumibilmente una vita a sua volta «non vitale». Anche l’idea di poter fluidificare tutto, per sfuggire all’irrigidi­ mento delle condizioni di vita - l’idea cioè che si possa ogni volta rein­ ventare la propria vita o rimetterla continuamente in questione in tutti i suoi dettagli - è irrealistica. Le routine, le istituzioni e i rituali non so­ no di per sé forme irrigidite ed esanimi; esse, al di là del loro noto «ca­ rattere esonerante» (Gehlen), ci fanno «sentire a casa» nella nostra vi­ ta. Qui si deve quindi fare una differenza tra le forme per noi costituti­ ve di autonomizzazione o di azioni divenute routine, e le forme problematiche d’irrigidimento che creano un effetto alienante. Non si tratta qui né di una completa trasparenza, né dell’incessante trasfor­ mazione delle condizioni di vita, ma della fondamentale consapevolez­ za delle possibilità di scelta. Il parlare di situazioni irrigidite e di situazioni «reificanti» si riferisce anche qui al rendere manifesto l’«essere costruito», l’implicito carattere di decisione di ciò che si fa. Quest’atteggiamento permette, in caso di dubbio - ovvero: in caso di conflitto - di rendere esplicito l’implicito e così di esaminare e rivedere quelle decisioni che si sono rese autonome. Questo non significa che si possa costruire e creare tutta la vita comple­ tamente «a tavolino». Le domande pratiche si pongono insieme a pro­ blemi pratici. Non si pongono mai in modo del tutto indipendente o privo di un contesto, e raramente si pongono in modo tale che tutta la vita è messa in gioco in una sola volta; laddove esse diventano, sensata­

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mente, delle domande fondamentali, esse si radicalizzano gradualmen­ te a partire dal problema specifico127. L’atteggiamento non reificante e non alienato sarebbe, al contrario di quello irrigidito, quello caratteriz­ zato da un’apertura verso il problema, da un’apertura alla revisione e all’esperimento.

(5) Sintesi Riguardo all’aspetto dell’alienazione da se stessi che ho analizzato in questo capitolo - il problema caratterizzato dalla perdita di potere e di controllo - sono emersi i seguenti punti: i processi di autonomizzazione non sono di per sé alienanti, e io posso esperire la mia vita come la mia anche quando non ho il completo controllo di ognuna delle mie azioni. Al contrario, ho decritto l’alienazione come un’interruzione del proces­ so di appropriazione delle proprie azioni. Sono reificate e «alienanti» quelle situazioni che non possono essere comprese come campo di pos­ sibilità e come procedimento sperimentale. A proposito dell’irrigidi­ mento si può dire: l’alienazione consiste non tanto nell’indurimento delle situazioni per sé - alienante è la paralisi dell’esperimento. (Il tema dell’«esperimento» non è qui inteso come un esperimento di vita arbi­ trario di tipo estetico, bensì - nel senso pragmatista - come il carattere necessariamente sperimentale di ogni agire teso a risolvere i problemi. L’alienazione, la reificazione e i processi di autonomizzazione e d’irrigi­ dimento qui descritti sono quindi un ostacolo per l’esperimento, e ver­ ranno percepiti come problematici soprattutto laddove impediscono la percezione e la soluzione di problemi)128. Per concludere sono ancora necessarie alcune osservazioni circa i pre­ supposti soggettivi e oggettivi delle situazioni di vita alienate e non alie­ nate. Torniamo alla narrativa della situazione iniziale: il nostro ricercato­ re non ha semplicemente «fatto attenzione» e non ha quindi percepito delle domande pratiche come tali per incuria, o invece la situazione era 127. Tendo a considerare il porsi in maniera fondamentale la «questione del senso del­ la vita» sempre un sintomo di crisi. A tale questione si può rispondere soltanto se essa toma a collegarsi a qualcosa di concreto. Così nei confronti della «questione del senso della vita» emerge il «sospetto d’insensatezza», come è stato già formulato da Freud. 128. Nel capitolo 2 della parte III tornerò sulla problematica dell’esperimento e sul con­ fronto tra questi due tipi di esperimento.

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strutturata in modo tale da non poter essere colta come una situazione in cui agire? Chiesto in altri termini: è stato lui a oscurare le domande pra­ tiche in quanto domande pratiche o queste erano invece strutturalmente nascoste, e come tali quindi non riconoscibili? Con il concetto di aliena­ zione - e questo è un vantaggio di quest’approccio - entrambi i lati di­ vengono tematizzabili in modo fondamentale. Dal lato soggettivo si fa cosi riferimento alla possibilità dei soggetti di avere accesso a se stessi, da quello oggettivo alla possibilità di avere accesso alle situazioni. Da una parte, l’accorgersi di un margine di possibilità d’azione pre­ suppone una certa possibilità di avere accesso129 al proprio sé. Per esem­ pio bisogna essere abbastanza ricettivi per riuscire a identificare casi di conflitto e fenomeni di irrigidimento130, per rendersi conto che qualcosa non va; e nella reazione a simili percezioni bisogna essere in una certa mi­ sura internamente «elastici». Devono quindi esserci opzioni di compor­ tamento, devono esistere «possibilità di gioco». Proprio questo signifi­ ca essere accessibili a se stessi in ciò che si esperisce e che si fa. E pro­ prio in questo senso si potrebbe diagnosticare che il nostro matematico non era accessibile a se stesso nelle situazioni della sua vita che abbia­ mo sopra descritto. Accanto a questi presupposti soggettivi vi sono però anche presup­ posti «oggettivi», che riguardano la struttura stessa delle condizioni di vi­ ta. Se sopra abbiamo parlato del fatto che al nostro protagonista la sua vita non poteva apparire come una serie di azioni, allora si pone la que­ stione delle condizioni che hanno reso impossibile, o di quelle che vice­ versa renderebbero possibile il considerare la rispettiva situazione una si­ tuazione che permetta di porsi domande pratiche. In questo modo non vengono tematizzati gli ostacoli (interni o esterni) della libertà di deci­ sione, ma il problema che si trova alla loro base: la questione, che non dipende solo dall’atteggiamento soggettivo degli individui, se una situa­ zione possa essere o meno concepita come «campo d’azione», se essa sia accessibile come tale. Abbiamo qui dunque a che fare con l’apertura o la limitazione costitutiva dell’orizzonte di possibilità che è dato insie­ me a una forma di vita o a una determinata situazione di vita. 129. «Accessibilità» mi sembra, per i motivi sopra menzionati, un concetto migliore rispetto a quello di «trasparenza» perché sottolinea il carattere pratico di questa di­ mensione dell’esperienza di sé. 130. Di qui il significato etico dei processi di autoinganno per la condotta di vita. Cfr. Low-Beer M., Selbsttàuschung., Alber, Freiburg, 1990.

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La mia tesi è: ci sono molteplici cause per cui situazioni con le quali ci si confronta nella propria vita non si presentano come campo di pos­ sibili azioni o decisioni. Non posso qui trattare in maniera esaustiva queste cause, ma solo accennare ad alcuni aspetti. Per esempio, le con­ venzioni possono essere intese come un modo sottile di dare forma ai modi di vivere, il cui momento essenziale non è però quello di costrin­ gere il singolo a qualcosa, di prescrivergli un certo modo di vivere. Na­ turalmente esse fanno anche questo. Ma hanno un effetto limitante so­ prattutto nella misura in cui riescono a far apparire inevitabili alcune alternative. Si tratta qui di un restringimento dell’orizzonte di possibilità, del campo di azione all’interno del quale si muovono le decisioni, che qui (a volte quasi in maniera inavvertita) dispiega il suo effetto. Il potere delle convenzioni non significa solo che «si» deve fare qualcosa in un mo­ do o in un altro, esso plasma la possibilità di rendere pensabili o meno alcuni desideri, alcune idee o concezioni e così alcuni modi di vivere. Ci s’intende in schemi dati convenzionalmente, s’interpreta il proprio cam­ po d’azione sul loro sfondo - e in questa misura si dipende proprio da queste interpretazioni per comprendere se stessi e la propria vita. Le idee che vivere in provincia «è meglio per i bambini» o che si «diventa final­ mente adulti» quando finalmente si conduce una vita matrimoniale re­ golata, appartengono proprio a questa sorta di condizionamenti (nor­ malizzanti). (Tuttavia, di questo si tratterà in seguito, il motivo del loro carattere potenzialmente alienante non deriva dal fatto che si tratta di un modo di vivere condiviso con altri). Così le convenzioni delimitano lo spettro dell’immaginabile, condi­ zionano le possibilità di esperienza e le limitano131. Anche se la «dinami­ ca propria» messa a fuoco in questo capitolo non è pertanto (come si è osservato sopra) causata dalla convenzionalità di un certo modo di vive­ re, si potrebbe comunque affermare che i modi di vivere convenzionali favoriscono in maniera particolare l’«oscuramento delle domande pra­ tiche», anche solo per il fatto che in essi veramente molte cose (con il con­ tributo dell’ambiente circostante) «sono date per scontate», mentre vi­ ceversa la necessità di riflessione sembra essere maggiore per le forme di vita «non convenzionali». Finché queste non sono diventate a loro vol­

131. L’effetto normalizzante di simili orizzonti di esperienza non si esprime quindi so­ lo nel fatto che non si può agire contro la convenzione, ma anche nel fatto che si deve agire con essa o contro essa.

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ta convenzione (sia anche in un sub-mìlìeu), esse non possono così facil­ mente essere date per scontate.

2. «Un uomo sbiadito, dimezzato, estraneo, artefatto» - Ruoli sociali e perdita di autenticità

«E Collot gridò come un indemoniato che bisogna strappare le maschere». Danton : «Così se ne van via anche le facce». Georg Bùchner, La morte di Danton LACROIX:

Il comportamento di ruolo, ossia uno schema fisso di comportamento impresso al singolo dai ruoli sociali, è considerato spesso come l’espres­ sione paradigmatica dell’alienazione da se stessi. Così osservava Hel­ muth Plessner nel 1960:

Con la figura della persona alienata la letteratura contemporanea dà espressione all’idea di un singolo individuo nel suo ruolo sociale, che gli viene dettato da un mondo amministrato: l’uomo come portatore di una funzione132. Nell’uso quotidiano del termine, così come nella sociologia e nella fi­ losofia sociale, il concetto di «ruolo» è la formula con cui viene discussa la socialità in generale, così come il rapporto tra l’«autenticità» dell’in­ dividuo e il modo in cui la società lo plasma. In seguito discuterò in che misura certe forme di comportamento di ruolo rappresentino casi di alienazione da se stessi, anche se allo stesso tempo - questa la mia tesi - l’assenza di alienazione non può essere concepita come una condizione esistente prima o al di fuori della so­ cialità, come un «essere umani in generale» posto al di là di tutti i ruo­ li sociali. Muovendo dalla tesi che è nei ruoli sociali che, sotto certi ri­ guardi, ci si forma in prima istanza come persone, interpreterò l’aliena­ zione da se stessi come un sintomo che sorge dalla mancata (possibilità 132. Plessner H., Das Problem der Òffentlichkeit und die Idee der Entfremdung, op. cit., p. 13.

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di) appropriazione dei ruoli. Ciò che è alienante - questa la mia tesi non sono i ruoli in quanto tali, ma l’impossibilità di articolarsi in essi in maniera adeguata. Partirò di nuovo da alcuni esempi (1) per poi cercare di afferrare il pro­ blema più precisamente differenziandolo da altri fenomeni (2). Poi sarà necessaria una breve spiegazione del concetto di ruolo utilizzato nella teo­ ria sociologica ma anche nell’uso comune del termine (3), che renderà possibile comprendere perché si ipotizza così frequentemente che i ruo­ li siano in quanto tali alienanti. Quindi, (4) contrapporrò a questo la tesi, secondo cui i ruoli sono costitutivi per lo sviluppo dell’individualità; ciò spianerà la via a una discussione dei diversi aspetti del comportamento di ruolo (5). Questa discussione dell’ambiguità del ruolo assicurerà dei criteri in base ai quali sarà possibile distinguere tra ruoli alienanti e non alienanti e tra comportamenti di ruolo alienati e non alienati (6).

(1) Recitare un ruolo

Tutti conoscono questo tipo. C’è il giovane redattore ambizioso che si taglia i capelli, si compra un abito che gli calza in maniera anche un po’ troppo perfetta e inizia a imitare i gesti del suo capo. Arguto e cari­ smatico, prende parte agli eventi culturali più importanti, ha un’opinio­ ne su ogni questione d’attualità. C’è il consulente finanziario, il cui trat­ to distintivo è costituito dagli occhiali firmati, che cerca di fare colpo sulla cliente con formule come «responsabilità» e «flessibilità». O il gior­ nalista televisivo esordiente con il suo piglio ottimistico e vitale, che di­ viene l’immagine stessa della rete per cui lavora. Parla quasi ininterrot­ tamente attraverso cliché. In tutti questi casi osserviamo il lato comico dei comportamenti di ruolo. Nel giovane redattore i modi di fare del capo sono semplicemen­ te «un po’ troppo esagerati». L’allegria professionale del giornalista è per noi troppo generica perché possiamo lasciarcene coinvolgere. E nelle espressioni del consulente finanziario sentiamo parlare tutt’al più lo spirito del tempo. Nella loro conformità e uniformità questi giovani e dinamici professionisti si assomigliano troppo, anche laddove si com­ portano come se fossero particolarmente anticonvenzionali: la disinvol­ tura del giovane redattore ci sembra una maschera, la spigliatezza del

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giornalista ci appare artificiale. Noi stessi a volte, in situazioni in cui dob­ biamo corrispondere a comportamenti di ruolo, ci sentiamo come fos­ simo assenti, come se, «tirati per il filo da potenze sconosciute»133, aves­ simo smarrito noi stessi. Naturalmente queste sono caricature. Ma perfino qui si pone la do­ manda: in che misura le persone descritte in questo modo non sono «se stesse»? Oppure, detto in altri termini, da una prospettiva interna: per­ ché a volte sembra così ovvio affermare che non siamo veramente noi stessi in un certo ruolo, che in una situazione caratterizzata da costrizio­ ni di ruolo non ci si sente «a casa» ma «alienati da se stessi»? Lo schema interpretativo veicolato dal concetto di «alienazione da se stessi» suggerisce che si possa distinguere qui tra un «vero» e un «fal­ so» sé, tra il sé autentico e quello non autentico. Se tuttavia - come espres­ so da Dahrendorf nel 1958 in una monografia che ha reso nota in Ger­ mania la teoria sociologica dei ruoli - colui che recita un ruolo ci può sembrare un «uomo sbiadito, dimezzato, estraneo, artefatto», rimane co­ munque da spiegare la differenza tra il «reale» e il «falso», tra l’«artefatto» e il «vero», tra il «dimezzato» e ^«intero», tra il «proprio» e l’«estraneo», in breve tra quello che «noi stessi» siamo e quello che non siamo.

(2) Delimitazione del fenomeno e definizione DELLE SUE CARATTERISTICHE

Prima di tornare su queste domande, cerco di definire più precisamente il fenomeno attraverso alcune delimitazioni. Due caratteristiche sono qui decisive: il carattere alienato e alienante del comportamento (proprio come nel primo esempio dell’accademico) non è da spiegare né come coercizione, ovvero con il fatto che i modi di comportarsi in questione sono forzati, né come una semplice finzione o un semplice inganno. Primo: Anche se il comportamento qui illustrato è evidentemente con­ nesso con una sorta di influsso esterno, quando le persone qui descritte ci sembrano «inautentiche», non pensiamo al fatto che esse sono costrette

133. Cfr. Georg Buchner, «siamo marionette, tirate per il filo da potenze sconosciute; noi stessi non siamo nulla» (Buchner G., La morte di Danton - Leonce e Lena - Woyzeck, a cura di Dolfini G., Adelphi, Milano, 1978, p. 46).

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da una forza esterna. Ciò che è disorientante, piuttosto, è proprio il fat­ to che esse si identifichino con ciò che fanno. Più i loro atteggiamenti sono entrati «fin nelle loro ossa», più «diventano quello che sono» e credono a quello che dicono, più «alienate» o inautentiche diventano ai nostri occhi. L’allegria del giornalista televisivo non è l’allegria forzata di un ostaggio sotto pressione. Ma in che misura si è ancora costretti, nel momento in cui ci s’identifica completamente con una certa aspet­ tativa o quando si è fatta completamente propria una richiesta? Una si­ mile coercizione interiorizzata è ancora una coercizione? Certamente non lo è nel senso comune. Secondo, il tipo di comportamento in gioco qui non è finzione o in­ ganno. Qualcuno che ci inganna non è inautentico, ma falso e bugiardo. Ci nasconde ciò che veramente pensa e prova. Nei casi che qui m’inte­ ressano, invece, il «proprio» e l’«estraneo» si compenetrano in una ma­ niera complicata: il giovane redattore non finge semplicemente interes­ se per le recenti pubblicazioni. Egli fa di se stesso una persona che ha questo interesse. E tuttavia si differenzia da qualcuno che è coinvolto in una cosa con vero interesse, qualcuno che si fa catturare ed entusiasma­ re da essa. Da queste due caratteristiche si vede che il comportamento di ruolo è un fenomeno che riguarda sempre anche - se non addirittura in pri­ ma istanza - il rapporto che qualcuno ha con se stesso in quello che fa. I comportamenti descritti non sono problematici solamente per il rap­ porto che chi recita un ruolo istituisce con il suo ambiente circostante. Nel caso di un semplice inganno il soggetto che inganna rimane alla fi­ ne «intatto» - lui sa cosa vuole veramente e prova con le sue manovre a raggiungere un certo effetto. Nel caso di una coercizione, il soggetto è forzato da un potere esterno, così che - in una certa misura - i suoi de­ sideri rimangono internamente illesi. Nei fenomeni dell’inautenticità, al contrario, il soggetto è affetto nel suo rapporto con se stesso. Chi men­ te, non è «se stesso» solamente verso l’esterno, chi è alienato da se stes­ so, invece, non è se stesso anche verso l’«intemo», in un senso difficile da comprendere. In un certo senso, colui che recita un ruolo diviene estra­ neo a se stesso allo stesso modo in cui è estraneo agli altri, anche se qui l’«estraneità», di nuovo, non significa qualcosa di non noto - perché ovviamente egli è consapevole di se stesso nel proprio comportamento - ma piuttosto una sorta di impenetrabilità o di inaccessibilità nei con­ fronti di se stesso.

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Sia nel caso della coercizione che in quello dell’inganno il confine tra ciò che è «proprio» e ciò che è «estraneo» è preservato; nei casi che mi interessano, invece, sembra sia in gioco una complicata compenetrazio­ ne di entrambi, nella quale lo stesso «proprio» diventa dubbio e defici­ tario. Ma che forma di appropriazione degli schemi comportamentali è in gioco nei ruoli in cui questa appropriazione può essere esperita come una espropriazione di sé? E se, secondo il significato letterale di autenti­ cità, avvertiamo questo comportamento come non vero™: quali sono i criteri di «autenticità e di verità» che qui presupponiamo? Prima di affrontare queste questioni e di occuparmi in maniera più ap­ profondita del concetto di ruolo, devo chiarire due problemi di metodo che sono emersi già in questi primi passaggi esplicativi. Primo: anche al­ la base della valutazione negativa dei comportamenti di ruolo sembra esserci, di nuovo, un criterio normativo. Mentre però, nel primo capi­ tolo, riguardo al lasciarsi trascinare (drifting) e all’idea di un processo che ha una dinamica propria ho fatto ricorso a valori quali l’autonomia e il potere di agire che, come ho potuto affermare, derivano dalla nostra comprensione di noi stessi come persone responsabili, nel caso da di­ scutere qui la questione è più complicata. Per quanto riguarda il sospet­ to di «inautenticità», infatti, non è ancora chiaro in cosa consista il cri­ terio dell’autenticità e come esso possa essere giustificato, senza ricade­ re in concezioni della natura o dell’essenza umana che sembrano veicolare criteri quali «genuinità» o «spontaneità». Risolvere questi pro­ blemi è uno degli scopi fondamentali delle riflessioni che seguono. Secondo (e connesso al primo punto) si pone il problema della sovra­ nità interpretativa degli individui. Fin qui ho voluto lasciare aperta la que­ stione di quale prospettiva permetta di diagnosticare come casi di alie­ nazione da se stessi i casi che qui m’interessano, e ho quindi volutamen­ te trattato il problema alternando la prospettiva esterna e quella interna, come percezione del problema in prima e terza persona. Evidentemente esistono entrambi i casi: quelli in cui altri ci appaiono «inautentici» e quel­ li in cui noi stessi ci percepiamo in questo modo. Questo però non deve sviarci dal problema della sovranità interpretativa. Si può definire «inau­ tentico» o «alienato da se stesso» qualcuno che personalmente non si ac-

134. Autentico significa in questo senso «vero», «riconosciuto», «originale» o «inalte­ rato». Così nei cataloghi delle biblioteche sotto il termine «autenticità» si trovano an­ che titoli quali «Sull’esame dell’autenticità dei metalli nobili».

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corge di esserlo? Anche qui, come già rispetto alla prima questione, il pro­ blema diviene particolarmente pressante se - come ho proposto nell’in­ troduzione - non si vuole comprendere la critica dell’alienazione come una critica fondata su una concezione dell’essenza umana. Per il mo­ mento, tuttavia, vorrei rimandare la trattazione di questo problema. In un primo passaggio voglio chiedermi cosa può significare, quando si parla di inautenticità o di alienazione da se stessi attraverso i ruoli, parlare di qualcosa come un «raddoppiamento» del sé in una dimensione superfi­ ciale e una profonda o in un vero e in un falso sé. Questo è, dal punto di vista dell’autointerpretazione del soggetto, non meno problematico che dal punto di vista della prospettiva esterna. La risposta alla domanda circa la sovranità interpretativa dipenderà allora dal modo in cui questo schema interpretativo può essere compreso.

(3) Ruolo e alienazione

Cos’è un ruolo, se si prende questo termine dal mondo del teatro e lo si traspone in quello delle relazioni sociali? Per la teoria sociologica135 ogni interazione sociale è un gioco di ruoli in cui individui socializzati si incontrano come portatori di ruoli che essi eseguono all’interno di «co­ pioni» dati socialmente, ovvero all’interno delle «aspettative di ruolo». «I ruoli sociali sono complessi di aspettative concernenti il comporta­ 135. Erving Goffman, con le sue analisi in La vita quotidiana come rappresentazione, è stato probabilmente la figura più importante ad aver offerto spunti alla teoria dei ruoli in sociologia. In Germania Dahrendorf, con il libro sopra citato, ha reso famo­ sa la teoria dei ruoli. La categoria di ruolo sembra essere stata onnipresente soprat­ tutto nella sociologia degli anni Cinquanta e Sessanta, così che quasi tutte le voci dei dizionari, al lemma «teoria dei ruoli», cominciano con riflessioni sui motivi del suc­ cesso della categoria di ruolo, e - sia questo valutato in senso positivo o negativo - lo riconducono alla sua semplicità e alla sua utilità nell’ambito quotidiano. Accanto al­ l’uso sociologico in senso stretto, il concetto di ruolo è diventato, attraverso l’«interazionismo simbolico», la categoria centrale anche della psicologia sociale e della teoria della socializzazione. Per una visione d’insieme della teoria sociologica dei ruoli cfr.: Classens D., Rolle undMacht, Juventa, Munchen, 1974. E anche: Joas H., Dze gegenwàrtige Lage der soziologischen Rollentheorie, Athenàum, Frankfurt am Main, 1973. Per le prime questioni di teoria della socializzazione si veda Krappman L., Soziologische DL mensionen derLdentitàt, Klett, Stuttgart, 1972. Qui in seguito m’interessano soltanto le implicazioni della tematica del ruolo per la teoria dell’alie­ nazione.

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mento del titolare di posizioni in una determinata società»136. Letto in questa prospettiva, il ruolo definisce il modo in cui l’individuo - in quan­ to redattore, consulente finanziario o giornalista, ma anche come spet­ tatore al cinema, paziente, autista della metropolitana, padre o proprie­ tario di un cane da lotta - entra in contatto con la società. Ogni indivi­ duo è tipicamente titolare di molteplici ruoli, privati e pubblici, che si sovrappongono. Come un attore in uno spettacolo teatrale, egli recita la sua parte nel contesto sociale e diviene così parte di questo contesto: «Il singolo e la società sono termini che rimandano l’uno all’altro, in quanto il singolo appare come portatore di attributi e di comportamenti predeterminati dalla società»137. Nell’ambito della teoria sociologica dei ruoli, quindi, in primo luogo, in termini normativamente neutrali, il modello del ruolo serve come spiegazione funzionale di come «è pos­ sibile la società». Se ora ragioniamo più attentamente sulla metafora del teatro, possia­ mo distinguere vari aspetti del ruolo che sono rilevanti per il sospetto che la teoria dell’alienazione solleva nei confronti del ruolo. Recitiamo i ruoli per altri e davanti ad altri; i ruoli vengono recitati in base a un co­ pione già scritto; un ruolo è in quanto parte solo un tassello nel complesso di un intero processo; i ruoli sono artificiali e non sono identici a colui che li recita. Declinando queste caratteristiche dei ruoli in senso critico e applicandole al mondo sociale, si dispiega quindi l’intero spettro del­ la critica dell’apparenza sociale e dell’inganno che abbiamo già cono­ sciuto in Rousseau138; e anche la critica della divisione del lavoro e della specializzazione si ritrova nella forma di una critica del comportamento di ruolo.

136. Dahrendorf R., Homo sociologica: uno studio sulla storia, il significato e la cri­ tica della categoria di ruolo sociale, trad. it. Massimi P., Armando editore, Roma, 2010, p. 60. 137. Ivi, p. 51. 138. Naturalmente le metafore dell’attore e del ruolo - ancora oggi molto diffuse nel­ le descrizioni della società come messa in scena o spettacolo - sono all’opera da molto tempo per descrivere il rapporto tra individuo e società; l’idea che il mondo sia un palcoscenico è presente almeno dal xvi secolo - si pensi, per non fare che un esempio, alla famosa frase di Shakespeare «tutto il mondo è un palcoscenico». Questa espres­ sione assume una denotazione peggiorativa solo sullo sfondo dell’ideale di autenticità cui si è qui fatto riferimento.

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La critica del ruolo e l'ideale moderno di autenticità La critica dell/Homo sociologica che recita i ruoli come un «uomo sbiadito, dimezzato, estraneo, artefatto»139 esprime un sospetto di alie­ nazione generalizzato nei confronti dei ruoli, che riflette l’intuizione diffusa che vi sia una frattura tra il «vero sé» e il «ruolo sociale». Se «dietro a tutti i ruoli, ai personaggi e alle maschere (...) l’attore rimane un essere autentico, che non viene affetto in nessun modo dalle parti che recita» allora, secondo Dahrendorf, questo dovrebbe valere anche per il «vero sé al di là del suo ruolo nella vita sociale»140. Come l’attore si di­ stingue dal ruolo che deve recitare, così - questa la tesi - quando assu­ miamo e incorporiamo dei ruoli sociali noi rimaniamo noi stessi dietro di essi. In questo senso, allora, i dinamici professionisti dei miei esempi iniziali sarebbero inautentici perché il ruolo si frappone al loro «vero sé», essi sarebbero «alienati da se stessi» perché esperiscono se stessi solo attraverso il loro ruolo. Alla luce di queste convinzioni, quindi, il vero sé è soprattutto una cosa: è qualcosa che, preesistente e intatto, esiste al di là dei suoi ruoli. E per questa ragione è qualcosa che viene formato, limitato o, appunto, «alienato» da questi ruoli. Ora, queste intuizioni non solo sono senza dubbio molto diffuse, ma sono state anche enormemente influenti, avendo contribuito a formare il moderno ideale di autenticità ben prima che si formasse la teoria dei ruoli in senso stretto. In questo senso, per esempio, John Gagneau de­ scrive lo sviluppo dell’ideale del moderno «cosmic self» come un sé al di là dei ruoli:

Invece di essere composti da un complesso limitato e coerente di ruoli dati dalla società, che cambierebbero lentamente nel corso delle loro vi­ te, e invece di essere giudicati principalmente in base alla competenza

139. Dahrendorf R., Homo sociologica, op. cit., p. 60. 140. A questo proposito anche Lionel Trilling scrive: «Oggi giorno diciamo “ruolo” senza pensare al suo originario significato istrionico: “nel mio ruolo professionale”, “nel mio ruolo di padre o di madre” o addirittura “nel mio ruolo di uomo o di donna”. Ma il vecchio significato istrionico è presente, che noi ce ne rendiamo conto o meno, e porta con sé l’idea che da qualche parte sotto tutti i ruoli ci sono Io, quella povera vec­ chia ultima attualità che, quando tutti i ruoli sono stati recitati, vorrebbe mormorare: “Via, via ciarpame” e assestarsi con il suo vero sé originale». Trilling L., Sincerity and Authenticity, Harvard University Press, Cambridge (Massachusetts), 1997, p. 10.

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delle loro performance pubbliche, essi iniziarono a sentire la relazione che avevano con gli altri, che potremmo chiamare «i ruoli che gli era ri­ chiesto recitare», in una forma sempre più distaccata o aliena rispetto a chi loro erano veramente o a cosa volevano essere veramente141. L’idea moderna di autenticità si sviluppa, secondo questa descrizio­ ne, come critica del ruolo o - per essere più precisi - come critica del­ l’alienazione nei ruoli142.

Il cambio di ruolo e i limiti della metafora del ruolo Le implicazioni della metafora del ruolo fanno emergere però un problema143. Nel teatro il ruolo dell’attore è qualcosa che può essere de­ posto una volta che lo spettacolo è concluso. Dopo le loro intricate in­ terazioni, Amleto e Laerte alla fine muoiono entrambi, ma gli attori che li hanno impersonati, terminato il loro lavoro, possono andare a bere una birra insieme. In questo caso c’è una distanza innegabile tra il ruolo e l’in­ dividuo che si trova al di là di esso. Per quanto riguarda i ruoli sociali, tuttavia, l’idea che li si possa de­ porre così facilmente è fuorviarne: certo, anche nella sfera sociale ci so­ no delle situazioni nelle quali si deve svolgere una «scena» chiaramente

141. Margolis D.R., The Fabric of the Self CT, Yale University Press, New Haven, 1998, p. 90. 142. Per una definizione dell’autenticità come forma d’individualità e unicità, che trascende i ruoli sociali cfr. anche l’interpretazione di Charles Taylor: «Quando [l’idea­ le di autenticità] emerge, per esempio con Herder, m’impone di scoprire il mio modo d’essere originale. E questo modo d’essere non può, per definizione, venir derivato socialmente: si deve generare internamente». Habermas J. e Taylor C., Multicultura­ lismo. Lotte per il riconoscimento, trad. it. Ceppa L. e Rigamonti G., Feltrinelli, Mila­ no, 2005, p. 16. 143 Bruce Wilshire è l’unico, per quanto mi risulta, che ha messo in luce nel suo inte­ ressantissimo libro la problematicità del concetto di ruolo rispetto ad entrambe le sfe­ re. Muovendo da uno sfondo «pragmatico-trascendentale», egli sviluppa prima una teoria della recitazione, poi una teoria dell’identità, per poi infine esaminare criticamente l’applicazione della metafora dell’«identità offstage». Egli critica in questo mo­ do la relativa povertà teorica delle ipotesi con le quali la teoria sociologica dei ruoli analizza il teatro, che a sua volta si trova alla base di quest’analogia. Cfr. Wilshire B., Role Playing and Identity. The Limits of Theatre as Metaphor, Indiana University Press, Bloomington, 1982.

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definita e limitata (brillare in una conferenza, fare bella figura a una fe­ sta) e poi ci si rilassa quando è passata. Anche il lamentarsi del fatto che quando si riveste un ruolo sociale non sì è ciò che si è - secondo la for­ mula inutilmente paradossale di Sartre144 - può essere facilmente com­ preso pensando alle esperienze in cui si cambia ruolo. La professoressa si comporta diversamente durante il seminario rispetto a quando è di notte con gli amici in un bar. Questo diventa subito evidente se essa in­ contra nel bar il candidato all’esame della mattina. La dottoressa che vie­ ne vista dai pazienti a una manifestazione si sente in qualche modo sor­ presa sul fatto. E il commesso, fino a poco fa gentile e disponibile, non è contento di rincontrare il cliente per strada dopo la chiusura del ne­ gozio. Muovendosi tra ruoli privati e pubblici, non solo si corrisponde a diverse aspettative, ma le si collega anche a diversi modi di comportarsi. E di tanto in tanto noi stessi ci stupiamo di quanto cambiamo fin nei minimi gesti. Anche per questo a volte facciamo fatica a riconoscere qual­ cuno che vediamo agire per la prima volta in un ruolo nel quale fino ad allora non ci era familiare. Tuttavia, il fatto che nel contesto di ruoli diversi disponiamo di di­ versi repertori di comportamento, non significa che da qualche parte, al di là di questi ruoli, ci sia un sé «vero», «sostanziale», non affetto dai ruoli, così come nel caso dell’attore c’è una persona dietro al ruolo. Non è facile rispondere alla domanda se la professoressa sia più se stessa nel seminario o nel bar, o se la dottoressa sia più se stessa in ospedale o alla manifestazione. Ed è problematica anche l’idea che la sfera privata, la propria casa, sia l’unico luogo in cui si può essere veramente se stessi, solo perché lì si può andare in giro con le calze bucate145.

144. Così Sartre in L'essere e il nulla a proposito del cameriere. Qui però s’intende semplicemente (e così si scioglie il paradosso) che «essere» non può essere usato nel senso dell’«essenza» ma appunto nel senso dell’«esistenza». Sono un cameriere signi­ fica che esisto come cameriere e potrei essere anche qualcos’altro - diversamente da quanto accade nell’attribuzione «questa è una pietra». 145. Sentito dire da un partecipante a una conferenza sull’autonomia. In effetti molte persone rispondono spontaneamente alla domanda su quando siano se stessi: «A casa». Ma perché togliendosi le scarpe si dovrebbe arrivare automaticamente al proprio sé au­ tentico? Non s’inganna, per esempio, la studentessa motivata, quando essa ritiene di es­ sere più «se stessa» a casa (in questo caso: dai suoi genitori) che non nel seminario al­ l’università, anche se là può parlare di tutto ma non di filosofia - il suo grande interes­ se? Non si dovrebbe piuttosto presumere che sia qua che là ci siano parti di lei che essa può vivere in diversa misura?

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Nel caso dei ruoli sociali, così come li concepisce la teoria dei ruoli, tutto il mondo è un palcoscenico sul quale tutti noi recitiamo sempre pez­ zi teatrali, anche al di fuori di scenari strettamente delimitati e delimita­ bili. Il mondo sociale, anche se diviene comprensibile all’osservatore tramite le metafore del palcoscenico, del ruolo e della performance, non conosce offstage. Il fatto che i ruoli siano ancora all’opera anche laddove pensiamo che ci sia qualcosa come il nostro «sé più intimo» e intatto, porta Erving Goffman a concepire il sé come un «effetto dram­ matico»146. E il «fatto che la stessa struttura del nostro sé può essere compresa dal punto di vista della rappresentazione»147 lo porta all’im­ magine, divenuta famosa, del sé come «gancio» o come «attaccapanni temporaneo» cui sono appesi i diversi ruoli. Cosa sarebbero infatti gli individui al di fuori dei loro ruoli? Natural­ mente possiamo incontrare il giovane redattore, il consulente finanzia­ rio o il giornalista di tabloid per strada dopo il lavoro, in tuta da ginna­ stica. E presumibilmente (si spera!), facendo la spesa nel vicinato, op­ pure a casa davanti al televisore, si comportano diversamente che in un colloquio con i clienti. Ma cosa giustifica la supposizione che essi siano qui (e non là) «se stessi» e liberi dai ruoli? Il consulente finanziario che compra il pane agisce di nuovo in un ruolo, in quello appunto del clien­ te. E non incarna forse un modello noto anche nel suo relax, alla fine della giornata di lavoro? Non è per niente facile cogliere il luogo là «fuo­ ri», il sé al di là dei ruoli sociali148. Dove si troverebbe il «vero sé» dietro le maschere dei ruoli? Cosa significa per gli individui svilupparsi «come totalità» «in modo ©unilaterale» - e cosa significa non essere «artefatti» ma comportarsi in modo «diretto» o immediato? A essere qui proble­ matica è proprio l’idea di un «autenticità» e di una «totalità» della per­ sona, precedente la deformazione dei ruoli. Ma da questo «sospetto generalizzato nei confronti dei ruoli» (Dah­ rendorf) segue allora che i ruoli non deformano, che non c’è un punto di vista a partire dal quale si potrebbe considerare problematico il com­ 146. Goffman E., La vita quotidiana come rappresentazione, trad. it. Ciacci M., Il Mu­ lino, Bologna, 1997, p. 285. 147. Ivi. 148. Questo si vede anche nelle difficoltà che si hanno a produrre un comportamento anticonvenzionale al di là del comportamento di ruolo. Non solo laddove si coltiva l’im­ mediatezza essa stessa diviene facilmente un gergo. Nel complesso, simili tentativi sembrano quasi necessariamente finire per stabilire nuove convenzioni.

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portamento di ruolo sopra descritto e che, nella misura in cui esistiamo sempre in ruoli, dobbiamo anche essere inevitabilmente identici a essi, al punto da fonderci con essi?

La messa in questione della dicotomia sé-ruolo

Si affaccia ora il seguente dilemma: da una parte non sappiamo dove localizzare il sé al di là dei suoi ruoli, dall’altra, se ciò non deve portare a sconfessare completamente la possibilità di una critica dei ruoli sociali, né a esaurirci nei ruoli e nei condizionamenti sociali senza porre alcuna re­ sistenza, allora si deve mettere in dubbio questa stessa contrapposizione, nella quale si rimane invischiati a causa della metafora del ruolo. La stessa dicotomia tra sé e ruolo, questa la tesi che seguirò qui, è pro­ blematica e deve essere superata. Per questa ragione è sbagliata anche l’alternativa interpretativa basata su questa dicotomia, quella tra il modello dell’autenticità che si riferisce al sé al di là dei ruoli e le varie teorie che appiattiscono la differenza tra sé e ruoli giungendo a una totalizzazione di questi ultimi. Se la distinzione tra «maschera» e «vero sé», tra verità e finzione, realtà e apparenza, diventa dubbia quando viene trasposta dal teatro alla realtà sociale, allora è sbagliata anche l’alternativa tra il salva­ taggio del «vero sé» dai ruoli, da una parte, e una valutazione eccessiva­ mente positiva del comportamento di ruolo fondata sulla critica all’idea­ le di autenticità, dall’altra. La mia tesi è che entrambe le posizioni delineate rimangono legate alla contrapposizione tra sé e ruolo e così a una falsa dicotomia. Per una teoria dell’alienazione, il compito è proprio quello di dissolvere questa dicotomia, per sviluppare un’alternativa al riferimento al «vero sé» dietro i ruoli. La mia tesi, che in prima battuta può sembrare anche contraddittoria, è quindi la seguente: il fatto che non ci sia un’«autenticità» o un sé intatto dietro la formazione sociale dei ruoli non signi­ fica d’altronde che nei ruoli non possiamo alienarci da noi stessi. Le obiezioni contro la critica dei ruoli in quanto alienanti, sviluppate dall’antropologia sociale di Helmuth Plessner e dalla filosofia sociale di Georg Simmel149, possono aiutarci a comprendere la problematica del

149. Cfr. a questo proposito anche il libro di Richard Sennett, Il declino dell'uomo pubblico, che elabora i temi plessneriani in una diagnosi del tempo (Sennett R., Il de­ clino dell'uomo pubblico, trad. it. Gusmeroli P., Mondadori, Milano, 2006).

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rapporto tra ruolo e sé in modo diverso rispetto a quanto suggerisce la teoria classica dell’alienazione. La tesi della funzione costitutiva dei ruo­ li per la formazione del «sé», che verrà delineata qui di seguito, ci for­ nirà dunque lo sfondo a partire dal quale elaborare il potenziale alienante presente in vari aspetti dei ruoli, senza riferirsi al modello dell’«alterazione» del sé autentico. La mia impostazione s’interrogherà sulle condi­ zioni nelle quali - nei ruoli - si può definire e articolare se stessi come qualcuno di particolare.

(4) L’inaggirabile, costitutiva, natura dei ruoli

(Plessner e Simmel) La posizione fondamentale di entrambi gli autori può essere ricondot­ ta al seguente denominatore comune: i ruoli sono, più che alienanti, costi­ tutivi per lo sviluppo della persona e della «personalità». «Costitutivi» nel senso che sono direttamente legati al suo sviluppo e quindi «produttivi». A prima vista queste posizioni sembrano retrocedere su uno dei due fron­ ti - l’affermazione incondizionata dei ruoli - ma dopo averle brevemente presentate mi rifarò a essa per andare oltre questa falsa alternative. Una vol­ ta formulata la «tesi della produttività»150, sarà possibile distinguere tra gli aspetti alienanti e quelli non alienanti del comportamento di ruolo.

L'essere umano come doppio {Doppelganger) I ruoli sono produttivi. Diveniamo «noi stessi» solo nei ruoli e attra­ verso i ruoli: questo è il nòcciolo della concezione di Helmuth Plessner del significato positivo dei ruoli (da lui articolata nel contesto di un con­ fronto diretto con la critica dei ruoli come alienanti).

L’uomo è se stesso sempre soltanto nel suo raddoppiamento in una fi­ gura di ruolo che può esperire. Anche tutto ciò in cui egli riconosce la

150. La denominazione «tesi della produttività» rimanda qui ai paralleli con l’attuale discussione sul costruttivismo sociale d’ispirazione poststrutturalista cui ho fatto rife­ rimento nella prima parte.

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sua autenticità è solo il suo ruolo che egli recita di fronte a se stesso e agli altri151. In questa prospettiva, i ruoli non sono solo necessari a rendere possi­ bile l’interazione sociale, sia questa «l’essere insieme» (dAiteinander} o l’innocuo «vivere l’uno accanto all’altro» (Aneinandervorbei) degli in­ dividui; l’interazione attraverso i ruoli è, in un senso fondamentale, co­ stitutiva anche per il rapporto degli individui con se stessi. Quando dunque Plessner parla del «raddoppiamento in una concreta figura di ruolo» intende non solo il fatto che ciascuno dipende dai ruoli per di­ ventare una «figura» concretamente esperibile di fronte agli altri, ma anche che dipende da essi per diventare tale di fronte a se stesso. La tesi di Plessner dell’essere umano come doppio è fondata su una teoria complessiva della natura umana che, muovendo dal concetto fon­ damentale di «posizionalità eccentrica», è critica nei confronti di ogni concezione dell’immediatezza e della spontaneità152. Così Plessner:

La distanza creata dal ruolo nella vita di famiglia come in quella delle pro­ fessioni, nel lavoro, negli uffici, è la digressione che distingue l’uomo e che lo fa arrivare al prossimo, il mezzo della sua immediatezza. Chi vo­ lesse vedere in ciò un’alienazione da se stessi disconoscerebbe l’essenza umana e attribuirebbe all’uomo una possibilità di esistenza quale è data al livello vitale agli animali e a un livello spirituale agli angeli. [...] Solo l’uomo appare come doppio, verso l’esterno nella figura del suo ruolo e verso l’interno, privatamente, come egli stesso153. Sebbene, a prima vista, il parlare di doppio faccia sorgere il sospetto che anche Plessner rimanga incatenato al modello del raddoppiamento in un’esistenza autentica e una di ruolo, in un «dentro» e in un «fuori», questo si rivela un errore: il carattere di doppio dell’essere umano è ap­

151. Plessner H., Soziale Rolle und menschliche Natur, in Id., Gesammelte Schnften, voi. X, Suhrkamp, Frankfurt am Main, 1985, pp. 227-240, p. 238. 152. Nel suo famoso scritto del 1924 I limiti della comunità Plessner sviluppa una cri­ tica dell’idea di comunità a partire dai valori della distanza e della mediazione, che qui risuonano. Per una ripresa produttiva della concezione plessneriana dell’identità per­ sonale si veda Richter N., Grenzen der Ordnung, Campus, Frankfurt am Main, 2005. 153. Plessner H., Das Problem der Offentlichkeit und die Idee der Entfremdung, 1960, op. cit., p. 19.

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parente, nella misura in cui qui non si tratta di due entità reali ma di un costrutto. Non c’è una scissione interna che deve essere superata: il rad­ doppiamento è costitutivo dell’essere umano.

L’uomo non può superare il suo carattere di doppio senza negare la sua umanità. Non può infatti lamentare in essa un raddoppiamento e usar­ lo contro l’ideale di un’unità originaria, perché io posso essere un’unità solo con qualcosa, con qualcuno, fosse anche con me stesso. Solo nel­ l’altro l’uomo s’impadronisce di se stesso. Quest’altro lo incontra nella digressione attraverso il ruolo, proprio come l’altro incontra lui154. Se infatti l’altro «s’impadronisce» di se stesso «nell’altro», e se questi due possono incontrarsi solo per mezzo del ruolo, allora un «sé» che esiste prima o fuori dai ruoli è una finzione. Quando Plessner afferma che io «posso essere un’unità solo con qualcosa, con qualcuno, fosse anche con me stesso»155 rimanda a una scissione costitutiva che precede qualsiasi possibile unità: al fatto, quindi, che anche il rapporto con se stes­ si deve essere pensato come rapporto o come relazione, una relazione che è mediata dalla relazione con l’«esterno» o con gli altri. Io non sono quin­ di «qualcuno» fin dall’inizio, perché posso diventare qualcuno solo at­ traverso gli altri - e attraverso la mediazione dei ruoli nei quali ci incon­ triamo reciprocamente: «L’uomo s’impadronisce di se stesso nell’al­ tro». Dietro i ruoli quindi non cè niente, e comunque non la «vera essenza» dell’uomo. Qualunque cosa cerchiamo dietro i ruoli, non tro­ viamo niente di afferrabile, se non ancora soltanto ruoli che recitiamo «di fronte a noi stessi e agli altri». La potremmo chiamare una concezione «a cipolla» del sé: ci sono diversi strati ma nessun nucleo interiore.

La scuola in cui si forma l’io

Questa problematica può essere articolata analogamente rifacendosi alla lettura del rapporto tra ruoli sociali ed esistenza individuale di Georg Simmel. I ruoli, spiega Simmel, sono la «forma ideale» «di cui la nostra esistenza deve vestirsi», l’insieme dei nostri ruoli è la «scuola nella qua­ 154. Ibidem. 155. Ibidem.

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le si forma Pio». Due supposizioni si trovano alla base di questa visione: primo, in termini molto generali, P«io», l’identità della persona, non è semplicemente data, cè, ma piuttosto si sviluppa o si forma, secondo, l’assunzione dei ruoli è un fattore di questo processo di formazione. Quando Simmel parla dei ruoli come di una «forma ideale», lo fa rife­ rendosi anche al fatto che sènza di essi la nostra «esistenza» non è tan­ gibile, è troppo indeterminata, non è afferrabile. L’identità diviene un’i­ dentità determinata solo quando assume una forma specifica - appunto la forma ideale. Se il ruolo viene inteso come forma rispetto al contenu­ to dell’esistenza, questo non significa però che la forma sia esterna ri­ spetto all’esistenza, bensì che essa è costitutiva per la seconda: non c’è contenuto senza forma. Anche Simmel abbraccia quindi una concezione del rapporto tra «in­ terno» e «esterno» completamente differente dall’idea di autenticità come interiorità (che trascende i ruoli): l’individuo si costituisce nel confronto con l’«esterno» (gli altri, la forma sociale), per esistere in ge­ nerale egli deve esteriorizzarsi {sich entàuferrì}, «darsi una forma ideale». Ciò che Simmel mette in questione qui è l’opposizione tra essenza interna e mondo esterno, e con essa una certa idea «romantica»156 dell’«interiorità» in quanto tale. Anche qui, nell’idea che l’assunzione dei ruoli è un processo di formazione, vi è in primo piano l’idea della produttività dei ruoli; quando qui qualcosa «si forma», allora qualcosa che prima era «informe» prende «forma».

Il resto non socializzato Ma davvero l’individuo è completamente formato socialmente, «nient’altro che il punto d’incrocio dei fili che la società ha teso davanti e accanto a lui», come afferma Simmel? La questione del «resto non so­

156. Anche se questa naturalmente è un’attribuzione un po’ grossolana: Plessner con­ cepisce comunque la sua posizione come opposta a una critica dell’alienazione che egli considera come un residuo di romanticismo, «l’idea dell’alienazione dell’uomo da se stesso» è per lui «una formula magica dalla intatta suggestività», un «resto di ro­ manticismo che opprime il nostro rapporto con la sfera pubblica, lo svaluta e lo rende uno scandalo» (Plessner H., Das Problem der Òffentlichkeit und die Idee der Entfremdung, op. cit., p. 12).

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cializzato» della personalità, che Simmel ha posto altrove157, e il proble­ ma della «ipersocializzazione», che ha così tanto rilievo nel dibattito sulla teoria dei ruoli e sulla teoria pragmatista della socializzazione158, possono, ai fini della mia ricerca e nel contesto della discussione che con­ durrò in seguito, venir messe da parte. Due punti, comunque, devono es­ sere messi in rilievo: Primo: sulla base delle tesi fin qui discusse, non è necessario negare la possibilità di una fondazione corporea o istintuale del sé descritto co­ me «socialmente costruito». Ciò che si contesta, piuttosto, è che senza al­ cun riferimento alla socialità (per esempio nella forma del «ruolo») il sé possa assumere o prendere una determinata forma, che ci permetta di parlare di un’identità concreta o di un’individualità. Per il punto che mi interessa qui non ha importanza da quale «materiale» precedente parta il processo di formazione descritto nei termini dell’assunzione di ruoli. Anche se si può argomentare che questa formazione è sempre una tra­ sformazione e che la configurazione è sempre una riconfigurazione, ri­ mane il fatto che, senza questa formazione, ciò che viene formato ri­ marrebbe privo di contorni e indeterminato - appunto informe - e quin­ di insignificante. Proprio ciò, però, è quanto deve rivendicare l’idea del «vero sé» dietro ai ruoli: non solo che ci sia qualcosa ma anche che que­ sto «qualcosa», che rivendica di avere un primato sulla «falsità» dei ruoli, rappresenti già qualcosa di determinato in quanto tale e che, per usare una metafora, basterebbe soltanto togliere la maschera per trova­ re, sotto di essa, una forma già compiuta. Un secondo punto deve però essere chiarito per evitare malintesi. Pre­ supporre la produttività dei ruoli e della formazione del sé in ruoli so­ cialmente determinati non significa assumere un’assoluta conformità tra l’individuo e i ruoli medesimi. Questa tesi presuppone soltanto che l’in­

157. Il mio ricorso a Simmel è per mia stessa ammissione parziale, poiché egli stesso rimane su questo punto decisamente ambivalente. Come mostra Undine Eberlein, Sim­ mel è in tensione, infatti, tra. una concezione «sociologistica» dell’individuo come «pun­ to d’incrocio di cerehie sociali» e la più tarda concezione filosofica del soggetto, della legge individuale, nella quale critica questo sociologismo e gli contrappone l’idea di un «resto non socializzato». Cfr. Eberlein U., Einzigartigkeit. Das romanesche Individualitàtskonzept der Moderne, Campus, Frankfurt/New York, 2000, p. 31. 158. Diggins J.P., The promise of Pragmatism, University of Chicago Press, Chicago, 1994.

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dividilo diventi ciò che è confrontandosi con i suoi ruoli. Qualcuno che non può identificarsi con le convenzioni e con i ruoli che gli sono asse­ gnati dalla società, o che è in tensione con essi, è chiaramente sempre un «sé» o una persona. Decisivo è soltanto che anche in questo rappor­ to di tensione si rimane in rapporto, che anche in questo rapporto di tensione non ci si trova al di là o al di fuori dei ruoli sociali. Non è quin­ di assolutamente necessario assumere un’«armonia prestabilita» tra in­ dividuo e società; la tensione tra individuo e società può essere pensata senza una riconciliazione affrettata, senza che si debba presupporre un sé presociale. [Tornerò su questo problema nella parte III, capitolo 2, nel quadro di una discussione sulla questione delle potenzialità e delle ri­ sorse dell’«ostinazione» (Eigensinn}]. Si può dunque affermare - in linea con l’ambivalenza in vario modo espressa da Simmel - che l’individuo esiste per mezzo della società, ma ne è anche minacciato. E, come si mostrerà, il «resto non socializzato» - laddove rappresenta una dimensione di unicità o d’individualità non è «non socializzato» bensì il risultato di specifiche costellazioni che diversi livelli di socializzazione formano l’uno con l’altro.

(5) Aspetti del ruolo e sua ambivalenza

Siamo ora nelle condizioni di riprendere la domanda posta prece­ dentemente: se l’idea di un sé «interno» o «presociale» non può fornire un punto di riferimento normativo, dove possiamo trovare allora i cri­ teri in base ai quali i ruoli possono essere criticati come alienanti? Le mie riflessioni seguenti si basano su due assunzioni: la prima afferma che c’è una costitutiva dualità o ambiguità nei ruoli. Così come i ruoli sociali sono costitutivi e produttivi - e quindi «creano possibilità» - es­ si possono anche ostacolare, limitare e «alienare». (In un certo senso es­ si «creano possibilità» e «limitano» allo stesso tempo). Non dobbiamo considerare però questa limitazione come una conseguenza necessaria dei ruoli per sé, ma come un deficit dei ruoli, come limitazione delle possibilità di espressione e di azione in essi. La seconda assunzione pren­ de sul serio l’idea che l’appropriazione e l’assunzione di ruoli siano un processo di formazione. Se così è, devono essere allora distinte diverse qualità di questo processo di formazione: esso può essere monodimen­ sionale o a più strati, può «bloccarsi» o «scorrere».

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Entrambe le assunzioni conducono alla tesi che noi non siamo «alie­ nati da noi stessi» per mezzo dei ruoli in generale, ma che a volte lo sia­ mo nei ruoli. L’implicazione decisiva di questa tesi concerne la questio­ ne del «vero sé». Se il «vero essere se stessi» è qualcosa che si può mo­ strare e formare solo in un comportamento non alienato o autentico nei confronti dei ruoli e all’interno dei ruoli stessi, allora il «vero sé» non è mascherato da comportamenti di ruolo «alienati» ma, in essi, viene piut­ tosto impedito nella sua stessa formazione. (Anche questa riflessione converge con la mia tesi ricostruttiva generale esposta sopra: «verità» e «falsità», «autenticità» e «inautenticità» del sé devono essere comprese non come proprietà sostanziali, ma come modalità di realizzazione). Sullo sfondo di questa tesi - e delle distinzioni elaborate - ripren­ derò ora la questione del potenziale alienante dei ruoli. Procederò in mo­ do tale da cercare di specificare la problematica in base ai diversi aspet­ ti dei ruoli già differenziati precedentemente. Con le formule (a) «eterodirezione» (Aufiengeleitheit), (b) omologazione, (c) frammentazione e (d) artificialità (cui si oppongono le rispettive idee dell’essere diretti dall’interno, dell’unicità, della compiutezza e dell’autenticità come for­ me di esistenza non alienata) mostrerò, per ognuno di questi aspetti, in che cosa consiste l’ambivalenza - tra «produttività» e «potenziale alie­ nante» del ruolo - per poi elaborare i criteri mediante cui diagnosticare l’alienazione nei ruoli.

(a) «Un uomo umano estraneo» - Il carattere eterodiretto dei ruoli In primo luogo, c’è il carattere eterodiretto proprio dell’impersonare i ruoli: in un ruolo ci si mette in scena davanti agli altri e per gli altri. I ruoli sono pubblici, anche quando li si esercita in privato. Essi sono da questa prospettiva - «non propri», «estranei», nella misura in cui ven­ gono posti all’individuo «dall’esterno», come aspettative nei confronti del suo comportamento. Questa critica si basa sulla contrapposizione tra «interno» e «esterno» che Rousseau già richiama quando (tra l’altro con riferimento al teatro) critica duramente l’illusorio rapporto con se stessi degli individui che, guidati nelle loro azioni dall’esterno, «non si sentono bene nel loro interno»159. 159. Cfr. Rousseau nella lettera a D’Alembert, il quale nell’articolo sull’Enciclopedia riguardante Ginevra aveva proposto la creazione di un teatro: «Non mi piace che si deb-

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Questa è una spiegazione plausibile per il problema del giovane re­ dattore dinamico descritto precedentemente: se egli ha un’opinione su ogni questione, è perché reagisce alle aspettative che vengono poste «dal­ l’esterno» a chi è «nella sua posizione». Egli orienta la sua stessa opi­ nione a quello che «si dice in giro» e sarà sempre tentato di presentare ciò che sa e di farlo apparire più significativo di quanto non sia. Anche l’allegria del giornalista sembra quella «di una maschera», proprio per­ ché è un modo di presentarsi che è diretto dall’esterno. Ma con questo non è ancora stato detto molto. Se, secondo la tesi sopra esposta, l’«io» deve prima di tutto formarsi, e se può farlo solo nel confronto con i ruoli sociali, allora ci si può espe­ rire come «sé» solo attraverso la reazione alle aspettative e alle azioni di altri. Non c’è quindi - tornerò su questo punto nella parte III, capitolo 1 - nessuna «pura interiorità», o in altri termini: il cosiddetto «interno» si differenzia solo attraverso il contatto con l’«esterno» e con gli altri. La costituzione del sé è un processo che dipende dall’interazione socia­ le, non è un oggetto stabile o una sostanza che può venire solo «falsifi­ cata» dall’influsso di altri160. In tal senso, solo le distorsioni di questo pro­ cesso o di questo rapporto tra sé e gli altri possono essere «alienanti», non il rapporto in quanto tale. Si deve poter distinguere anche tra le re­ lazioni con gli altri che dischiudono possibilità e quelle alienanti, tra forme d’interazione sociale nelle quali l’individuo si «aliena da se stes­ so» e quelle nelle quali invece «trova se stesso» o anche, infine, tra le modalità d’interazione sociale «reificanti» e quelle «non reificanti». L’analisi dello sguardo di Sartre e la sua fenomenologia dell’intersoggettività, sviluppate nella famosa scena del buco della serratura in L'es­ sere e il nulla, possono chiarire la problematica della reificazione reci­ proca (ma anche il fenomeno della cooriginarietà della reificazione e del­ l’apertura di nuove possibilità). Lo sguardo degli altri - nell’esempio di Sartre: dell’altro che ci sorprende mentre, curiosi, guardiamo attraver­ so un buco della serratura - ci rende una cosa, un oggetto. Ci rende qual­ cosa di fisso, ci oggettiva (in questo caso: come qualcuno che è curioso,

ba appendere incessantemente il proprio cuore al palcoscenico, proprio come se esso non fosse invece dentro di noi» Rousseau J.-J., Lettera sugli spettacoli, a cura di Fran­ zini E., trad. it. Lupi F.W., Aesthetica, Palermo, 2003. 160. Questo potrebbe essere il tratto fondamentale comune a tutte le teorie dell’intersoggettività da Fichte, passando per Hegel fino a Habermas e Honneth.

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che guarda dal buco della serratura). Se, con la terminologia di Sartre, l’«essere per sé» del soggetto è contraddistinto dalla «trascendenza» per­ ché esso, in quanto «progetto di sé», è rivolto verso un orizzonte di pos­ sibilità aperto, allora, quando veniamo fìssati alla nostra «fatticità», ve­ niamo reificati - come degli oggetti. Lo sguardo dell'altro significa, se­ condo quest'interpretazione, la «solidificazione e l'alienazione delle mie possibilità»161 o, in termini più drammatici, la loro «morte»162. Ma anche in Sartre, che nell'ambito di una teoria dell’intersoggettività del tutto negativa dà per assodato il necessario fallimento della interazione reci­ proca163, c’è qui un'ambiguità costitutiva: è in primo luogo lo sguardo dell’altro, infatti, che mi rende anche soggetto. Solo percependo me stes­ so come l’oggetto dell’osservazione altrui - e quindi, anche qui, «attra­ verso la digressione dell’altro» - divento «consapevole di me stesso». Nel contesto dell’ontologia sartriana questo significa in primo luogo il di­ stacco - in quanto soggetto - dall’immedesimazione con la situazione (prima che io venga vista al buco della serratura «la mia coscienza è at­ taccata alle mie azioni, essa è le mie azioni»). Eppure, nello stesso tem­ po, è lo sguardo dell’altro che mi apre un campo di possibilità di azio­ ne. Concretamente: solo quando, nello sguardo dell’altro, mi vedo co­ me qualcuno che, geloso, sbircia attraverso il buco della serratura (e non, semplicemente, quando lo faccio mossa dalla gelosia) posso anche com­ prendermi come qualcuno al quale sono aperte anche altre opzioni. Trasposto al contesto problematico della reificazione questo significa: lo sguardo dell’altro è tanto reificante quanto anche de-reificante e crea­ tore di nuove possibilità. Mentre, da una parte, fissandomi su un pro­ getto pratico e identificandomi con esso, mi rende non libera (sono co­ lei che guarda dal buco della serratura, la gelosa), d’altra parte esso mi permette di pervenire a una comprensione di me stessa come qualcuno che fa questo e quest’altro - e quindi potrebbe anche fare altrimenti. Ma, 161. Sartre J.-P., L'essere e il nulla, trad. it. Del Bo G., il Saggiatore, Milano, 2008, p. 316. 162. Ivi, p. 319. 163. Così Honneth in Lotta per il riconoscimento. Honneth critica questa conseguenza dell’analisi sartriana attraverso una reinterpretazione del fenomeno dell’esser visto, in cui contrappone alla descrizione riduzionista di Sartre una descrizione più consisten­ te dell’«intreccio normativo interno dell’interazione sociale». Su questa base - orien­ tandosi alle più complesse teorie dell’intersoggettività di provenienza hegeliana e fichtiana - può poi diagnosticare e criticare in Sartre una riduzione dell’intersoggettività all’autoaffermazione.

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in questo caso, la limitazione e l’apertura del campo di possibilità sono legate l’una all’altra, in un modo difficile da districare. (Paradossalmen­ te, il fatto che Sartre da una parte descriva quest’ambiguità in modo co­ sì incisivo e dall’altra tenda, invece, nell’ambito della sua teoria delTintersoggettività, a totalizzare l’aspetto della reificazione, lo conduce ad una ricaduta proprio nell’ideale di autenticità che vuole superare)164. Questo ci riconduce alla domanda, posta in precedenza, riguardo alle forme di interazione sociale mediate da ruoli che limitano e che dischiu­ dono possibilità, nella misura in cui nel comportamento di ruolo e nel­ l’attribuzione dei ruoli sono proprio i tratti reificanti ad apparire proble­ matici. Lo studente che trasale visibilmente per la presenza della docen­ te in un bar, la fissa e la reifica nel suo ruolo come colei che insegna nel seminario - un caso innocuo. Gli uomini fissano le donne in ruoli fem­ minili e viceversa - già meno innocuo. In questi casi, determinati ruoli sociali e determinati schemi comportamentali vengono ipostatizzati come l’«essere» della persona. Qui una parte (quel certo ruolo) viene presa per il tutto (della persona); e il determinato schema comportamentale cor­ rispondente viene oggettivato in una proprietà legata indissolubilmente alla persona. Il suo fare diviene il suo essere. In linea con la descrizione sartriana, ciò implica che, laddove questi meccanismi di «reificazione» han­ no la propria origine negli altri - attraverso l’attribuzione di ruoli -, essi mi fissano in una condizione particolare e mi privano della libertà di es­ sere qualcos’altro rispetto a ciò che sono per loro. Ma non solo anche qui - se seguiamo la tesi introdotta precedente­

164. Che nella sua analisi questo doppio carattere compaia ma non venga da lui svi­ luppato in direzione di una soluzione meno negativistica dipende dal fatto che Sartre alla fine è sempre rimasto legato a un concetto negativo di libertà - anche quando nel­ la Critica della ragione dialettica rinuncia al suo individualismo metodico e riflette sul­ le condizioni del?agire collettivo. Non posso qui approfondire la tesi che, con la tota­ lizzazione del sospetto di reificazione, egli ricade in un ideale di autenticità che con­ traddice la sua stessa teoria; cfr. a questo proposito sia riguardo a Sartre che ad altri autori che possono essere messi insieme in una «linea negativistica della teoria del ri­ conoscimento»: Jaeggi R., Aneignung braucht Fremdheit: Vberlegungen zum Begriff der Aneignung bei Marx, in «Texte zur Kunst» n. 46, giugno 2002, pp. 60-69. Per la collocazione e la discussione della linea negativistica e per una critica della teoria del riconoscimento in quanto «teoria della riconciliazione» nel quadro di una teoria sociale, si veda soprattutto Celikates R., Nicht versòhnt. Wo bleibt derKampfim Kampfum Anerkennung?, in Bertram G.W., Celikates R., Laudou C. e Lauer D., Socialité et re­ connaissance. Grammaires de l’humain, L’Harmattan, Paris, 2006, pp. 213-228.

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mente - si trovano entrambi gli aspetti, l’apertura e la limitazione di possibilità. Che qualcuno venga reso qualcosa di fisso, non significa che il suo «vero sé» sia fissato come qualcosa che si trova dietro questi ruo­ li; indica soltanto che a qualcuno viene sottratto un campo di possibi­ lità, ossia la possibilità di determinarsi in modo differente, la possibilità di essere (anche) qualcosa di diverso. Con ciò viene alla luce un’ulteriore caratteristica dell’interazione me­ diata da ruoli (e del loro carattere di eterodirezione) non reificante: un campo di possibilità per l’appropriazione di ruoli implica negoziazione reciproca. Anche se ciascuno è dipendente dagli altri per la definizione di un ruolo, il modo in cui comprende quel ruolo e reagisce alle aspet­ tative a esso legate è sempre anche il risultato di un processo d’interpre­ tazione e di negoziazione. Un’interazione mediata da ruoli riuscita sa­ rebbe quindi quella in cui gli atti di fissazione che si producono attra­ verso «sguardi dall’esterno» si producono e allo stesso tempo vengono fatti saltare: una forma di interazione «comunicativa» in senso molto la­ to, quindi, nella quale gli individui negoziano sempre (verbalmente o non verbalmente, in modo armonioso o conflittuale) anche quello che reci­ procamente fanno essere l’altro. Sottolineo che questa interazione è so­ lo in senso lato «comunicativa», non solo perché qui non si tratta sola­ mente di processi di negoziazione verbali - agli sguardi si reagisce con gli sguardi e con il linguaggio del corpo (Kòrperhaltungen), e si può resi­ stere con gesti. Non abbiamo qui neanche necessariamente a che fare con forme armoniche di negoziazione nelle quali ci si rende ciò che si è nel­ lo spirito di un reciproco accordo: anche confronti conflittuali possono in questo senso essere «non reificanti» - purché si arrivi a un confron­ to. Tornando alla nostra domanda iniziale ciò significa: il fatto che gli altri mi fanno essere ciò che io sono non è alienante per sé, né è non alienante solo quando si può trovare «se stessi nell’altro» in rapporti di intersoggettività «riuscita». Sono alienanti o reificanti quei rapporti d’in­ terazione nei quali non si crea una relazione (per quanto piena di ten­ sioni) tra soggetti; quando gli atti di fissazione divengono una pura sot­ tomissione unilaterale che, invece di dischiudere possibilità, chiude spa­ zi d’azione.

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(b) «Un uomo sbiadito» - Omologazione e conformismo

Un altro aspetto per il quale i ruoli sono criticati in quanto «alienan­ ti» è quello che riguarda l’omologazione e il conformismo. I ruoli sono già dati, il loro «copione» è già scritto. Da questo punto di vista, essi so­ no una forma prestabilita che l’individuo deve solo riempire. Le aspet­ tative di ruolo e il repertorio di comportamenti che caratterizzano il giovane redattore o il consulente finanziario esistono «prima di loro» e, in un certo senso, indipendentemente da loro. Laddove esistono dei ruo­ li ci sono comportamenti adeguati e inadeguati a essi, ovvero tutto un insieme di aspettative circa le competenze e le performance che devono essere soddisfatte se si vuole corrispondere al ruolo. Ciò limita le possi­ bilità di dare forma al proprio comportamento e lo spazio per le reazio­ ni «spontanee» dell’individuo. Da ciò deriva la prospettiva della critica dell’alienazione, secondo cui nei ruoli si è imprigionati e condizionati, limitati nella propria libertà e nelle possibilità di espressione individua­ le. L’omologazione è quindi in contrasto con l’aspirazione all’individua­ lità e all’unicità. Ora, l’omologazione o la convenzionalità dei ruoli è in effetti un pre­ supposto costitutivo del loro esistere in generale come ruoli (sodali). I ruoli sono insiemi di regole. Non li si può - questo vale per tutte le isti­ tuzioni sociali - «inventare»: come tutte le istituzioni sociali il ruolo è da un certo punto di vista indipendente e precedente rispetto all’indivi­ duo, anche se, allo stesso tempo, le istituzioni sono costituite dalle azio­ ni degli individui e - in definitiva - «tenute in vita» solo attraverso esse. Affinché qualcosa possa funzionare come ruolo devono quindi esser­ ci dei modelli precostituiti e delle aspettative nei confronti del compor­ tamento che rendano i ruoli riconoscibili e gestibili come tali. Diventa­ re giornalista o redattore, ma anche padre o rivoluzionario, significa sem­ pre assumere dei repertori di comportamento generali. Ciò significa che la convenzionalità delle pratiche e degli standard condivisi è costi­ tutiva anche per la possibilità di deviare da essi. Si può, per esempio, trasformare e ridefinire il ruolo di genitore, si può criticare, ampliare, o addirittura dissolvere la sua forma tradizionale. Ma quello che emerge qui sarà sempre una versione del ruolo di genitore - più precisamente: la sua ridefinizione - che continuerà a riferirsi, in un modo o nell’altro, alle forme precedenti e alle pratiche sociali a essa legate.

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Se i ruoli sono quindi la «forma ideale» in cui noi esistiamo, questa non potrà essere fin dal principio individuale. Se ne abbiamo bisogno per determinarci, per diventare «qualcosa» o «qualcuno», per «diventa­ re un io», allora noi dipendiamo proprio dalla loro convenzionalità. E que­ sta forma che, così intesa, rende in prima istanza possibile esprimere chi siamo. In modo del tutto analogo al linguaggio, la cui struttura di regole crea le basi per poterci esprimere in esso, la convenzionalità dei ruoli non «altera» in prima linea le nostre possibilità di espressione individua­ li. Piuttosto, ci mette a disposizione per la prima volta le condizioni per poterci definire ed esprimere in generale come «qualcosa» di specifico. E la scelta e la riconfigurazione dei ruoli che dà all’individuo l’opportunità di mostrarsi e di svilupparsi. La ricerca dell’autenticità al di là di simili forme sarebbe quindi un’impresa priva di senso - la ricerca dell’autenti­ cità in esse invece un problema che si ripropone continuamente165. Se si parte dal presupposto che seguire le regole richiede non solo una loro costante reinterpretazione ma anche una forma di appropriazione, che non può essere intesa come una mera ripetizione, allora l’individualità, l’o­ riginalità e l’autenticità possono essere raggiunte solo come una specifica forma di appropriazione di «ruoli-copione» preesistenti166. Anche a proposito dell’omologazione, si può constatare che i ruoli hanno un doppio carattere, che contemporaneamente rende possibile e limita l’individualità. E anche qui la problematica dell’alienazione emer­ ge come il risultato di una tensione tra il carattere predefinito dei ruoli e la loro appropriazione individuale. E pertanto necessario distinguere tra la convenzione come punto di partenza condiviso e il convenzionali­

165. Anche l’analisi heideggeriana del «Si» potrebbe essere compresa in questo senso. Si può venire a capo della tensione che la caratterizza tra il «Si» come struttura tra­ scendentale e il «Si» come carattere degenerativo solo se s’intende l’«autenticità» co­ me qualcosa che può essere perseguito nel «Si» - e poi gradualmente. 166. Anche George Herbert Mead comprende in questo senso il rapporto tra conven­ zionalità e originalità del ruolo: «In una società vi deve essere un insieme di comuni abi­ tudini organizzate di risposta che si ritrovano in tutti, ma il modo in cui gli individui si comportano in circostanze specifiche pone in risalto tutte le differenze individuali che caratterizzano le diverse persone. Il fatto che essi debbano agire in un certo modo co­ mune non è cosa che li privi della loro originalità. Esiste un linguaggio comune, ma di esso viene fatto un uso diverso in ogni nuovo contatto umano; l’elemento di novità nella ricostruzione ha luogo attraverso la reazione degli individui al gruppo al quale essi appartengono», Mead G.H., Mente, sé, società, trad. it. Tettucci R., Giunti edito­ re, Firenze, 2010, pp. 264-265.

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smo che rende impossibile l’appropriazione individuale e così impove­ risce e irrigidisce il linguaggio condiviso, privandolo delle sue possibi­ lità di espressione. Così come il cliché riduce le possibilità di esperienza e d’interpretazione, ruoli «super-convenzionalizzati» bloccano le possi­ bilità di autoespressione individuale e di identificazione con essi. Le fi­ gure descritte all’inizio quindi non sono inautentiche (o alienate) poi­ ché si comportano in maniera conforme a determinati modelli di ruolo, ma perché nel modo in cui lo fanno si muovono in forme d’espressione irrigidite di cui non sono riuscite ad appropriarsi e il cui margine di ri­ configurazione era limitato. Se la possibilità dell’autenticità non dipende dal darsi di un sé al di là dei ruoli ma da una loro appropriazione produttiva, allora la nostra pro­ blematica può essere approfondita con i mezzi della stessa teoria dei ruo­ li: anche sulla base di essa, infatti, l’appropriazione dei ruoli può venire descritta come un requisito interno delle condizioni di funzionamento dei ruoli stessi167. Tutti i ruoli devono essere realizzati e implementati dagli individui che devono impersonarli. I ruoli non sono semplicemen­ te dati: essi si realizzano solo venendo interpretati e realizzati in un mo­ do specifico. Chiunque impari ad assumere un ruolo trova da una parte un copione già pronto, dall’altra però anche il compito di realizzarlo a modo suo. Così come gli individui dipendono dai ruoli per «giungere a se stessi», simmetricamente il perdurare sociale dei ruoli dipende da sog­ getti che se ne appropriano in modo specifico. Ogni assunzione di un ruolo è quindi anche una modificazione di questo ruolo. Nessuna de­ scrizione, nessun copione di un ruolo potrebbe essere così completo da non richiedere interpretazione. Il nostro giovane redattore trova già predisposto ciò che deve fare, e s’inserisce perfettamente in ciò che ci si aspetta da lui. Ma cosa ci si aspetta precisamente? E chi si aspetta cosa? Se nell’«industria culturale» si deve essere informati su tutti gli avveni­ menti attuali - il suo capo si aspetta da lui che s’intenda degli ambiti «classici» o invece è proprio una familiarità con altri ambiti culturali ciò che lo rende interessante ai suoi occhi? Se si vuole dimostrare auto­ revolezza nei confronti dei propri collaboratori, che grado di familiarità e di colloquialità si deve usare per raggiungere questo scopo? Quale 167. Questo si trova già alla base dell’analisi di Goffman; Dreitzel ha sviluppato in modo particolare questa idea. Dreitzel H.-R., Das gesellschaftliche Leiden und das Lei­ den an der Gesellschaft, Enke, Stuttgart 1968.

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misto di ambizione e disinvoltura appartiene al profilo di un giornalista di successo, e in che misura il consulente finanziario deve da una parte mantenere i piedi per terra e dall’altra emanare un’energia visionaria, affinché ci si fidi di lui? Non solo ogni caso richiede un complicato equi­ librio, così che le «indicazioni della regia» non sono sempre facili da stabilire nel dettaglio. Poiché inoltre si tratta di processi d’interazione che devono essere ogni volta adattati alla situazione e che inoltre richie­ dono l’integrazione di aspettative molto differenti - la segretaria si aspet­ ta dal principiante cose diverse da quelle che si aspetta il capo, gli auto­ ri cose diverse dai colleghi -, la maggior parte delle descrizioni dei ruo­ li non possono essere altro che schizzi. Ciò che è richiesto è di adattare le aspettative generali legate al ruolo all’interpretazione e alla definizio­ ne di una situazione specifica, concreta e attuale. Per fare ciò, per inter­ pretare il «modello» e per trovare una strada tra le diverse richieste, che non sono mai univoche e in caso di conflitto sono perfino contradditto­ rie, è necessaria un’«eccedenza»; ci vuole un’istanza che non si esauri­ sca nella mera reazione alle richieste date, ma che sia in grado di agire au­ tonomamente all’interno di queste richieste. Hans-Peter Dreitzel chiama questa componente la «prestazione del­ l’io», che segna «il campo di gioco del comportamento, che è maggior­ mente determinato dalla persona rispetto alle aspettative di ruolo che han­ no contenuti fissi»168. La «distanza dal ruolo», il margine di libertà di com­ portamento nei confronti delle aspettative legate ai ruoli è allora il presupposto per un’identificazione riuscita con il ruolo e per la capacità di funzionamento del ruolo stesso: «Perché nell’identità di ruolo una persona deve decidersi per un ruolo senza però potersi esaurire in esso»169. Se quindi il distacco e la distanza sono condizioni di una riuscita identi­ ficazione con i ruoli, allora la riuscita di questa relazione ha un significa­ to cruciale. L’alienazione nei ruoli significa allora - in linea con il mio tentativo di ricostruzione - la paralisi, il disturbo o l’appiattimento di que­ sto rapporto, in quanto rapporto di appropriazione e di tensione. L’alie­ nazione da se stessi, per esprimerla con questi concetti, è quindi la «per­ dita di distanza dal ruolo». Dreitzel formula così questo punto:

168. Dkeitzel H.-P, Das gesellschaftliche Leiden und das Leiden an der Gesellschaft, op. tit., p. 331. 169. Ibidem.

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L’alienazione da se stessi significa una riduzione della distanza dal ruolo e così una repressione delle necessarie prestazioni dell’io nel recitare i ruoli, prodotta da un’eccessiva pressione da parte delle norme di com­ portamento, che si esprime nella ristrettezza e nell’eccessiva precisione delle aspettative legate ai ruoli170. Il giovane redattore è inautentico o alienato da se stesso nella misura in cui s’irrigidisce nel suo ruolo e agisce o è costretto ad agire in modo irrigidito, ultraconvenzionale o ritualizzato. Egli risulta più comico del suo capo - tra le altre cose - proprio perché ormai quest’ultimo, più esperto e disinvolto, si concede libertà e deviazioni dal suo ruolo, ha trovato il «suo stile», a differenza di colui che deve adattarsi a un nuovo ruolo e reagisce a questo facendolo eccessivamente. Ma, anche se vengono richieste una distanza e un margine di libertà nei confronti dei ruoli, ciò non implica una differenza tra un «puro» sé e i ruoli che esso recita. La «prestazione dell’io» o la «parte giocata dal­ la personalità» (in questa relazione di appropriazione), segnano un’in­ dipendenza o un’ostinazione dell’individuo nei confronti dei ruoli, sen­ za però rimandare a un nucleo dell’io presociale oppure a un’individua­ lità situata al di là delle sue espressioni. «Non è possibile, da nessuna parte, isolare da queste prestazioni nomiche qualcosa che sia puramen­ te individuale, che sia precedente alla socializzazione»171. Si tratta qui di un rapporto di tensione tra una persona già da sempre socializzata e i suoi ruoli sodali. La contrapposizione tra l’omologazione e l’unicità dell’in­ dividuo, che trova espressione nella classica critica dei ruoli in quanto

170. Ivi, p. 365. Con la descrizione dell’alienazione come insufficiente «distanza dal ruolo» si ha un concetto che è compatibile con il concetto marxista dell’alienazione da se stessi, nella misura in cui qui si tratta sempre dell’alienazione di una creatura da se stessa in quanto creatura sociale. Cfr. Dreitzel: «perciò si può dire che la perdita di distanza dal ruolo ha lo stesso significato di ciò che Marx ha definito alienazione da se stessi» (ibidem). Si veda invece la critica di Jutta Matzner nei confronti della teoria dei ruoli: «Quindi quando Dahrendorf loda in Marx la giusta intuizione nei confronti della categoria del ruolo - ovvero in quanto ruolo, come nel teatro, inteso nel senso di differenziato dai suoi portatori - egli perde di vista il significato della maschera del personaggio: l’«individuo personale» non è nascosto sotto la maschera come un resto non alienato. Egli trascende la società esistente; la maschera del personaggio si può togliere solo negando la società di classe». Matzner J., DerBegriff der Charaktermaske bei Karl Marx, in «Soziale Welt», voi. 15, n. 2, 1964, p. 136. 171. Dreitzel H.-P., op. cit., p. 331.

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alienanti è una falsa opposizione: ciò che è importante non è esprimere se stessi nella propria unicità, ma svilupparsi nel confronto con i ruoli so­ ciali - in un modo possibilmente distintivo.

(c) « Un uomo dimezzato» -frammentazione e unilateralità Il prossimo aspetto in base al quale i ruoli possono essere considerati alienanti concerne la frammentazione e l’unilateralità ovvero l’assenza di «interezza», di onnilateralità, che Dahrendorf lamenta quando defi­ nisce colui che recita un ruolo come un «uomo dimezzato». I ruoli sono sempre, come le parti che l’individuo recita nella struttura della coope­ razione sociale, anche una limitazione: essi coinvolgono solo una deter­ minata parte delle proprietà e delle potenzialità di cui si dispone. Que­ sto non significa soltanto che le proprie capacità vengono sviluppate in modo unilaterale ma anche che nei ruoli le nostre possibilità di intera­ zione con gli altri sono limitate. Nei rapporti sociali mediati da ruoli ci si conosce reciprocamente solo in modo parziale: il redattore non deve preoccuparsi dell’autore come persona, che questi sia piacevole o no, fin­ ché per lui è interessante come autore. Chiaramente questo significa ridurre la complessità degli individui: es­ sere limitato in un ruolo non solo esclude altre possibili competenze ma fissa anche certi aspetti della propria personalità. La tesi secondo la quale gli individui si formano nei ruoli e attraver­ so i ruoli ha quindi anche conseguenze per il problema della frammen­ tazione o dell’unilateralità. Che diventiamo «un io» attraverso i ruoli significa infatti anche che, nell’assunzione di ruoli, ci formiamo come in­ dividui con proprietà e competenze determinate e quindi limitate. Il pro­ cesso del diventare qualcosa significa proprio non rimanere «esseri uma­ ni in generale» bensì diventare qualcuno che - nell’ambito della sua at­ tività - dispone di determinate possibilità di espressione, di un repertorio comportamentale e sviluppa capacità specifiche. Si è qual­ cuno cui riesce di diventare un padre o un rivoluzionario, qualcuno che, in quanto accademico, ottiene questa o quella posizione, qualcuno che, come giornalista, coltiva questo o quello stile e che nei rapporti so­ ciali incarna questo o quell’atteggiamento. In ogni caso, determinarsi in questo modo significa necessariamente limitarsi. Non si può essere e

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saper fare tutto contemporaneamente. Io sono questo (padre, giornali­ sta, rivoluzionario) e non quell’altro, anche se posso riunire in me mol­ teplici aspetti e competenze. Si è qualcuno solo facendo qualcosa di determinato e così non facendo altre cose. In questa prospettiva è ine­ vitabile che i ruoli non costituiscano mai «l’uomo nella sua interezza». Perfino il famoso prototipo marxiano dell’«uomo onnilaterale» non alie­ nato - «pescatore, cacciatore e critico» contemporaneamente - corret­ tamente inteso, è soprattutto qualcuno che è capace di un gran numero di possibili attività e può esercitarle, che quindi riunisce nella sua gior­ nata ben più che non i soliti ruoli e le solite funzioni. L’idea di un uomo «onnilaterale», inteso come un «essere umano in generale», privo di li­ mitazioni, che si trova dietro le sue determinazioni come cacciatore, pescatore e critico, rappresenta una chimera e una falsa astrazione. Que­ sti coinciderebbe con una pura potenzialità, non sarebbe un essere uma­ no reale. Quindi anche la pretesa di percepire l’altro come un «uomo on­ nilaterale», invece che nei suoi ruoli limitati è, per lo meno in questa formulazione, priva di senso. Ma viceversa: se l’idea dell’«onnilateralità» è problematica, ciò non si­ gnifica che i comportamenti di ruolo non portino talvolta a una ridu­ zione unilaterale, a piattezza e limitazione, e che non si possano trovare dei criteri per criticare questi fenomeni. Più adeguati rispetto al criterio della «interezza», nel quale riecheggia la pretesa di sapere già in quali capacità e in quali proprietà consista una «personalità completa», sono tuttavia - in linea con la mia ricostruzione - quei parametri che sono orientati alle modalità di realizzazione, quindi non a un quantum so­ stanziale di proprietà, bensì alla qualità dei processi di sviluppo di una persona. Vorrei riformulare questi criteri per mezzo di concetti quali «apertura nei confronti dell’esperienza», «capacità di integrare espe­ rienze», o «mobilità», e con ciò intendo: la questione decisiva non è quanti aspetti di una vita riuscita o quante proprietà di una «persona­ lità sviluppata in tutti i suoi aspetti» qualcuno realizzi. La questione è piuttosto se ciò che uno fa porta in un vicolo cieco o se invece offre ul­ teriori possibilità di integrare esperienze, se ha l’effetto di ridurre le sue possibilità o se invece gli apre altre opzioni. La distinzione tra diverse qualità di esperienza, compiuta da John Dewey nelle sue riflessioni sull’educazione, può indicare la direzione ver­ so la quale dovremmo procedere. Se, secondo Dewey, il programma di

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una «new education» consiste nel rendere accessibili agli alunni delle esperienze, ciò non significa però che tutte le esperienze siano ugual­ mente produttive. Produttive sono essenzialmente solo quelle che ren­ dono possibile l’incremento di altre esperienze, a differenza di quelle che invece lo impediscono.

Ci sono difatti delle esperienze diseducative. E diseducativa ogni espe­ rienza che ha l’aspetto di arrestare o fuorviare lo svolgimento dell’espe­ rienza ulteriore. Un’esperienza può procurare incallimento; può dimi­ nuire la sensibilità e la capacità di reagire. In questi casi sono limitate le possibilità di avere una più ricca esperienza nel futuro. E ancora, una data esperienza può aumentare l’abilità automatica di una persona in una particolare direzione e tuttavia tendere a restringere la sua libertà di mos­ se: l’effetto è di nuovo di limitare il campo della futura esperienza172173 . Senza presupporre idee sostanziali di «interezza» o di «compiutez­ za» della persona, Dewey sviluppa qui l’idea di una crescita dagli esiti aperti, il cui criterio è la capacità di integrare nuove esperienze (the idea of continuity)'.

Questa forma di crescita crea le condizioni per una crescita ulteriore ovvero provoca condizioni che tolgono all’individuo, che è cresciuto in questa particolare direzione, il modo di valersi degli stimoli e delle op­ portunità che gli si offrono per crescere ulteriormente in nuove direzio­ ni? Quale è l’effetto del crescere in una direzione speciale sulle attitudi­ ni e le abitudini che sole sono in grado di aprire vie di sviluppo in altre direzioni?175 Queste riflessioni possono essere applicate alla nostra problematica: anche se non esiste alcun nucleo di una personalità completamente svi­ luppata e (in questo senso) «non alienata», è comunque possibile distin­ guere tra modalità qualitativamente diverse di perseguire interessi e di avere esperienze - nell’ambito necessariamente limitato della propria at­ tività. Da questo punto di vista l’alienazione compare quando questo pro­ 172. Dewey J., Educazione ed Esperienza, trad. it. Codignola E., La Nuova Italia, Fi­ renze, 1993, p. 10. 173. Ivi, pp. 20-21.

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cesso di esperienza è impedito o «paralizzato». Problematiche, in tal senso, sono quelle forme di specializzazione e quelle unilateralità che rendono strutturalmente impossibile ampliare, cambiare o ridefinire i propri interessi. I ruoli sono pericolosi quando fissano qualcuno in mo­ do tale da non permettergli più alcuna possibilità di muoversi tra di essi. Ciò che è problematico nel caso del redattore, del giornalista o del consulente finanziario non è quindi il fatto che essi sviluppino solo de­ terminate qualità, né che essi siano solo redattore, consulente finanzia­ rio o giornalista e che si rapportino agli altri solo come tali. Il problema sorge solo quando si può dimostrare che lo sviluppo di queste capacità e l’assunzione di questi ruoli diminuiscono piuttosto che promuovere lo sviluppo di ulteriori capacità e di altre possibilità di esperienza174.

(d) «Un uomo artefatto» Il comportamento di ruolo viene a trovarsi in sospetto di artificialità (o di «falsità») nella misura in cui esso pare essere «recitato», non sponta­ neo, e sembra essere separabile dall’attore. Un ruolo s’impara - e non so­ lo a teatro. Si tratta di un comportamento appreso attraverso l’allena­ mento. Il comportamento di ruolo, il recitare un ruolo, presuppone uno sdoppiamento del sé che crea una distanza da sé. «Io è un altro» - io non sono identico al ruolo che recito. «Essere veramente umani» invece, que­ sta è l’idea, non è qualcosa che può essere recitato. Comincia laddove il no­ stro comportamento è in un certo senso immediato e inaggirabile. E in effetti, il nostro disagio riguardo all’allegria del giornalista televisivo non è da ricondurre proprio al fatto che la consideriamo «costruita», mentre invece consideriamo la «vera allegria» un’esternazione spontanea?

174. Prendiamo l’esempio di un hacker o di uno scienziato che fa ricerca in laborato­ rio: perché qualcuno che lavora con molta energia e interesse a un progetto dovrebbe essere considerato limitato e alienato, anche se nel perseguire il suo progetto tralascia molti altri aspetti della vita che ci sembrano importanti, ciò che per esempio corri­ sponde alla caricatura dell’hacker: brufoloso, insonne, che consuma Coca-Cola e cioc­ colata seduto davanti allo schermo, timoroso della luce e degli uomini? Anche la più evidente unilateralità di attività e di capacità non significa necessariamente una restri­ zione dell’esperienza nel senso dell’impedimento di altre esperienze. Si deve verificare volta per volta nei singoli casi se a partire da un interesse molto specifico ci si può aprire ad altre dimensioni del mondo.

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Cosa si può conservare, allora, di questa accusa di artificialità se ri­ maniamo legati all’idea che gli individui si formano in primo luogo at­ traverso i ruoli? Il primo punto è banale: se l’io, laddove è determinato, è sempre costruito e formato, esso è chiaramente non «naturale». L’i­ dea stessa della «genuinità» è quindi problematica. E se, come sottoli­ nea Plessner, non ci possono essere rapporti immediati né con se stessi né con gli altri, questo mina l’idea che una spontaneità disinibita costi­ tuisca il nostro «sé vero, naturale». (Questo lo si vede non da ultimo nelle «culture della spontaneità» che ogni volta si formano contro le forme fisse della società, nelle quali la stessa spontaneità viene coltivata fino a divenire una forma). A questo si aggiunge però un secondo punto: non è reificante e «essenzialistica» proprio quella negazione del momento di artificialità e di recitazione implicato nei ruoli - come analisi della reificazione sembre­ rebbero implicare? In breve (e ricollegandomi a quanto detto nell’in­ troduzione): una persona non è redattore o giornalista nello stesso sen­ so in cui ha i capelli scuri o è alta un metro e ottanta. Non si tratta qui di proprietà che qualcuno ha ma di cose che questa persona fa - e che, nella misura in cui le fa, potrebbe anche fare diversamente o non fare. Il carattere di recita di ciò che uno fa rimanda allora non a una differenza tra un’«essenza» e un’«apparenza», ma a una distanza costitutiva che risulta dal fatto che c’è sempre un campo di possibilità relativo a quello che si potrebbe essere. Questa distanza non si basa sul fatto che, secon­ do la propria essenza, si è qualcosa d’altro rispetto a ciò che si dice di essere, bensì sul fatto che si potrebbe sempre essere qualcos’altro rispet­ to a ciò che - in questo ruolo, in questa funzione - si è in un dato mo­ mento. Perché ovviamente il redattore non è redattore, il giornalista non è giornalista, il rivoluzionario non è rivoluzionario. Non fa parte del­ le sue proprietà essenziali, della sua «natura», essere questo o quello. Nel suo senso più positivo, l’artificialità del ruolo rimanda al fatto che non si è fissati ai propri ruoli, che non c’è una «sostanza» dietro i ruoli. Que­ sto è anche il punto fondamentale dell’analisi di Sartre della «malafe­ de», secondo cui si comporta in modo inautentico proprio colui che nega questo carattere di recita e di possibilità della propria esistenza: nel «cameriere che gioca a essere cameriere» (un altro famoso esempio da L'essere e il nulla di Sartre) è proprio l’oscuramento del carattere di recita a venire colto come «non veritiero» - e reificante. Viceversa, ciò che sopra è stato chiamato, con un termine della teoria dei ruoli, «di­

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stanza dal ruolo», è il presupposto per poter agire autenticamente al­ l’interno di un ruolo. Solo colui che sa di recitare un ruolo e non fa fin­ ta di essere identico a esso e, allo stesso tempo, sa che non può evitare di recitare dei ruoli, sarebbe in questo senso sartriano «veritiero». Det­ to con una provocatoria inversione: «L’essere autenticamente umani è sempre recitato». In questa prospettiva è la «naturalizzazione» dei ruo­ li, non la loro artificialità, a essere problematica. All’artificialità dei ruo­ li non si deve contrapporre quindi una qualche istanza di «genuinità» ma un modo di usare e di dar forma ai ruoli tale da dischiuderli come cam­ pi d’azione. I ruoli reificanti o alienanti sono quindi quelli che non la­ sciano più trapelare l’«esser costruito» di un ruolo e coprono il loro ca­ rattere di recita.

(6) Ealienazione da se stessi nei ruoli Nella prospettiva qui proposta l’esistenza dei ruoli sociali è stata con­ cepita come allo stesso tempo limitante e creatrice di possibilità. Nella misura in cui i ruoli possono limitare lo sviluppo dell’individuo, essi lo rendono anche possibile. Nella misura in cui essi lo danneggiano nella sua «interezza» e «onnilateralità» essi per primi lo aiutano ad acquisire realtà. Proprio nella misura in cui l’influsso degli altri porta l’individuo «fuori da sé», attraverso essi l’individuo giunge «a se stesso». In queste considerazioni possiamo trovare alcuni spunti per rispondere alla do­ manda che si era posta in precedenza, vale a dire se sia ancora possibile parlare di alienazione una volta che abbandoniamo il riferimento a un «sé» o a un’essenza dietro i ruoli. I criteri in base ai quali possiamo cri­ ticare i ruoli come «alienanti» risultano proprio da questa promessa dei ruoli di «creare possibilità» o di essere «produttivi». Il carattere alienante o non alienante di un ruolo si misura in base alla sua capacità di «for­ mare» effettivamente un «io» (o di aiutarlo a ottenere realtà), che, allo stesso tempo, «non c’è ancora». Come si è mostrato, il problema non è quindi ilfatto che recitiamo dei ruoli ma come li recitiamo. Laddove i ruo­ li appaiono «alienanti» si scoprono deficit dei ruoli stessi e deficit nei mo­ di della loro appropriazione.

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Appropriazione e deficit di appropriazione

Ci sono persone rispetto alle quali abbiamo la sensazione che siano riconoscibili in ogni situazione, in qualunque ruolo esse agiscano, e che rimangano, in ogni ruolo sociale, essenzialmente «se stesse». Ci sono al­ tre persone invece - rappresentate dai giovani dinamici che ho discusso prima - rispetto alle quali si ha la sensazione che esse scompaiano com­ pletamente al di sotto del loro ruolo. La differenza qui rimanda al mo­ do specifico in cui essi assumono i loro ruoli. Muovendo da questa pre­ messa si possono elencare le diverse caratteristiche di un’appropriazio­ ne riuscita o non riuscita: • L’appropriazione riuscita di un ruolo si vede per esempio dal gra­ do d’interesse che qualcuno ha per quello che fa in un ruolo - quin­ di dalla misura in cui si lascia coinvolgere dalle richieste di un ruolo. Questo corrisponde all’osservazione che, per esempio, in un semi­ nario, un comportamento di ruolo problematico svanisce laddove la cosa si fa «seria», laddove inizia una discussione seria nella quale i partecipanti si impegnano indipendentemente dalla loro posizione. Cosi come, nello svolgimento di un’attività concentrata, si può di­ menticare se stessi, questo può accadere anche nell’interazione tra i partecipanti di un seminario, senza che i rapporti di ruolo in quanto tali scompaiano. • L’appropriazione riuscita di un ruolo può inoltre essere misurata in base al grado in cui ci si identifica con una determinata situazione o con un determinato ruolo. Così Stanley I. Benn discute nel suo Theory of Freedom il rapporto tra ruolo e alienazione partendo dalla que­ stione se l’individuo «trovi se stesso» nel suo ruolo o, detto diversamente, se l’adempimento di un ruolo venga considerato o possa ve­ nire considerato parte della sua personalità.

Si potrebbe così valutare se un ruolo entri nel sé in base al grado di sod­ disfazione o di disperazione creato dal successo o dal fallimento in esso. Il lavoratore completamente alienato o il soldato demotivato non trag­ gono alcun orgoglio dai loro risultati nel ruolo o accettano in modo equa­ nime la critica dei loro superiori, perché il ruolo non significa niente per loro. [...] Ma quando un ruolo è veramente parte del sé, ciò che il ruolo fa di esso modifica la coscienza della sua identità; avere quel tuo-

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lo è una parte necessaria dell’essere la persona che egli è, e la sua pre­ stazione conta per lui come un momento della sua creazione di sé175. Coinvolgimento, interesse e identificazione sono contrapposti, quin­ di, a un atteggiamento che può essere definito strumentammo: un di­ simpegno che non esprime indifferenza o distanza dalle esigenze del ruo­ lo - al contrario, nel caso dei nostri giovani in carriera, ad esempio, ab­ biamo chiaramente a che fare con casi di eccessivo impegno o di eccessiva identificazione. In gioco qui è piuttosto uno specifico deficit nel tipo d’interesse, che risulta dal fatto che i comportamenti vengono perseguiti solo in un senso strumentale. Un interesse strumentale per qualcosa è un interesse in cui ciò che si fa o ciò di cui ci s’interessa sono un mero mezzo per arrivare a un fine. Chi va a un concerto per dimo­ strare in questo modo di essere parte dell’élite colta, chi va a una festa per farsi vedere, chi sostiene con forza un’opinione solo perché si deve in­ tromettere, e chi è esuberante solo perché fa parte della sua immagine, ha un rapporto strumentale con quello che fa. La rigidità che accompa­ gna simili atteggiamenti è un segno di mancata identificazione, mentre chi s’identifica naturalmente con il proprio ruolo o s’impegna in esso dimostra di solito maggior libertà di comportamento: egli mantiene tratti tipici del suo carattere o particolarità che non vengono rimosse e non devono venir rimosse, ma che possono essere «inserite e integrate» nel ruolo. Ed egli può anche permettersi di deviare da ciò che ci si aspet­ ta schematicamente da lui. Qualcuno che s’identifica realmente con il suo ruolo esibisce quindi - proprio nell’esercitare dei ruoli - una di­ mensione di ostinazione (o una volontà propria).

Ostinazione e multidimensionalità dei ruoli In conclusione, emerge un nuovo problema che ci riporta alla que­ stione posta sopra riguardo ai riferimenti normativi che sono all’opera quando descriviamo l’alienazione. Se per rapportarsi al ruolo è necessa­ ria una distanza dal ruolo stesso, sembra allora ovvio supporre che ci deb­

175. Benn S.I., A Theory of Freedom, Cambridge University Press, Cambridge, 1988, p. 202.

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ba già essere un’istanza - che esiste al di fuori dei ruoli - che si mette in rapporto con essi. Ma qui chi si distanzia da chi? Se in un’appropriazio­ ne riuscita dei ruoli identifichiamo una dimensione di ostinazione e di volontà propria - non vi è allora anche un carattere precedente, un’istanza presociale che si contrappone ai ruoli? Da dove proviene il potenziale per raggiungere una «vera identificazione», da dove viene l’eccedenza che compie quella «prestazione dell’io» (di cui parlava Dreitzel)? Si può ri­ spondere a questa domanda facendo riferimento a due punti. Primo, le costellazioni dei ruoli - per lo meno nella modernità, ossia proprio laddove esse diventano un problema - coinvolgono tipicamen­ te una molteplicità di ruoli: si è sempre impegnati contemporaneamen­ te in più ruoli. Secondo, ogni biografia è segnata da una successione di ruoli che si sono assunti uno dopo l’altro. I ruoli si accumulano, quindi, e formano nei diversi individui diverse costellazioni. E, considerato come un processo di formazione, ogni condizionamento da parte di un ruolo è la situazione a partire dalla quale si va incontro alle esigenze poste dal ruolo successi­ vo. Le costellazioni dei ruoli sono multidimensionali su entrambi i ver­ santi: ciò significa che ciascuno deve integrare le esigenze dei ruoli a cui è esposto sia in orizzontale che in verticale. Ma proprio questa molteplicità di livelli - il fatto che gli esseri umani nel corso della vita vengono deter­ minati da una costellazione di ruoli ogni volta specifica - può essere iden­ tificata come la fonte dell’ostinazione, del carattere e dell’unicità. Ci si deve allora immaginare ogni «io» come un «punto d’intersezione di cerehie sociali» (Simmel), come ciò che preserva, appunto, anche la di­ mensione della propria biografia e che, così determinato, «formato» e «di­ venuto», può entrare anche in un rapporto di distanza ed eventualmente an­ che di resistenza nei confronti delle rispettive esigenze attuali. L’individuo che è confrontato con un ruolo non è una «pagina bianca» non ancora scritta, bensì è già da sempre condizionato in un modo specifico. La me­ tafora di Goffman, secondo la quale il «sé» è solo il «gancio» a cui - come degli abiti - sono appesi i ruoli, risulta quindi insufficiente perché egli non tiene conto del fatto che (per rimanere nella metafora) si tratta di un «gan­ cio» che si trasforma attraverso gli abiti che porta e che ha portato176.

176. Cfr. tuttavia le osservazioni di Goffman a proposito dell’ostinazione e della volontà propria che si sviluppa negli spazi liberi e ai margini: «Senza qualcosa cui appartene-

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Vero e falso sé

In che misura allora, con le mie analisi, viene superata la dicotomia di cui si è parlato sopra? La differenza tra Fio e i suoi ruoli, che molti critici dei ruoli assumono come presupposto, non può più, secondo la mia ricostruzione, essere intesa come una differenza tra due entità (la maschera e il vero io), ma solo come una differenza tra due forme di at­ tività: tra un’appropriazione riuscita e una non riuscita. Di fatto, l’alie­ nazione nei ruoli diventa più drammatica se non partiamo dal presup­ posto che dietro i ruoli ci sia un vero sé. Se, anche di fronte a noi stessi, assumiamo una forma solo nei ruoli, allora i ruoli alienanti non ci ob­ bligano soltanto a nasconderci o a mettere una maschera, ma ci impe­ discono addirittura la formazione della nostra identità. Se nei ruoli non ci esprimiamo soltanto di fronte agli altri, allora nei ruoli alienanti smar­ riamo effettivamente noi stessi. Questo però non nel senso che noi esi­ steremmo già come qualcuno di differente, come qualcuno che, in que­ sti ruoli, non saremmo, ma piuttosto nel senso che, nei ruoli in questio­ ne, non possiamo proprio diventare qualcuno. Non ci si deve immaginare quindi la perdita di sé o la perdita di autenticità (attraver­ so i ruoli) come una scomposizione in due figure. Dalla tesi che là, sot­ to il ruolo, non «c’è» niente, consegue che laddove il ruolo ci limita in modo alienante, non rimane niente - e in ogni caso nessun «io» dai contorni chiari. In altri termini: se il vero sé si può formare solo nella riu­ scita identificazione con i ruoli, allora non c’è ancora nessun «vero sé» che corrisponda al «falso sé». Il risultato dell’alienazione attraverso i ruoli è quindi non tanto un’estraneazione o una deformazione del «ve­ ro sé» (True Self) bensì un vuoto interiore. Chi deve avere paura di perdersi in un ruolo non ha quindi molto da perdere. Oppure, in termini meno polemici e più ricchi di conseguenze dal punto di vista teorico: il problema è che qui non è stato formato re, non esiste sicurezza per il sé e, tuttavia, un inglobamento totale e un coinvolgimen­ to con una qualsiasi unità sociale, implica un tipo di riduzione di sé. Il senso della no­ stra identità personale può risultare dall’uscire da una più vasta unità sociale; esso può risiedere dunque nelle piccole tecniche con le quali resistiamo alla pressione. Il nostro status è reso più resistente dai solidi edifici del mondo, ma il nostro senso di iden­ tità personale, spesso risiede nelle loro incrinature». Goffman L.,Asylums. Le isti­ tuzioni totali: i meccanismi dell'esclusione e della violenza, trad. it. Basaglia F., Einaudi, Torino, 2010, p. 336.

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proprio nessun sé determinato177. Come osserva Adorno nei Minima Moralia: «L’uomo eterodiretto di solito non ha perso la sua individualità, egli non l’ha mai ottenuta nella società eterodiretta». Il «vero sé» non è quin­ di assopito sotto il ruolo, piuttosto le forme «patologiche» del compor­ tamento di ruolo impediscono lo sviluppo del «vero sé» - di un sé che è «vero» nel senso che ha la capacità di rapportarsi al mondo in un modo attivo e appropriante. Così però si è rivelata falsa anche quella posizione che sovradetermina o «totalizza» i ruoli, secondo la quale dall’inesistenza del «vero sé dietro i ruoli» consegue che la ricerca di momenti di alienazione è priva di senso. Entrambi, l’essere alienato, così come l’essere autentico nei ruo­ li, sono modi di attuazione. Per quanto riguarda la questione dei parametri di riferimento e dei cri­ teri delle forme di appropriazione riuscite o non riuscite: anche se non c’è un «punto di Archimede» a partire dal quale è possibile distinguere il «sé autentico» da quello «non autentico», non siamo però costretti a fare riferimento a qualcosa di accessibile soltanto all’introspezione. I criteri che definiscono l’alienazione devono essere cercati nelle azioni che si manifestano esternamente, delle quali si può mostrare il carattere problematico.

177. Ciò può essere applicato al discorso di Winnicott sul «falso sé» e il «vero sé». Il falso sé di colui che ride quando crede che si dovrebbe trovare qualcosa divertente, si interessa di qualcosa per cui crede che ci si dovrebbe interessare, ecc. non scherma un «vero sé» esistente (come descrive Winnicott inizialmente in maniera fuorviarne) ma invece impedisce il suo sviluppo (questa in ogni caso è la conseguenza di questa descrizione). Secondo la prospettiva di Winnicott, il vero sé {True Self) emerge quan­ do la madre «rispecchia» empaticamente il suo bambino e gli offre così un’immagine di se stesso. Il falso sé (False Self) invece si forma quando la madre, in maniera non empatica, non rispecchia il bambino ma gli oppone il suo rifiuto. Il bambino allora s’i­ dentifica con il rifiuto. «Poiché il bambino deve necessariamente identificarsi con l’immagine che i suoi prossimi tratteggiano di lui in interazioni fantasmatiche, la sua au­ tocoscienza che si desta si sviluppa a partire da un’alienazione costitutiva, che Winni­ cott concepisce come “falso sé”». Questo significa che anche qui non ci sono entram­ bi, un vero e un falso sé, ma il sé falso, alienato, si sviluppa al posto del vero sé. Poiché il falso sé «fa da schermo» a qualcosa, lo impedisce nel suo sviluppo. Cfr. Mertens W. e Waldvogel B. (a cura di), Handbuch psychoanalytischer Grundbegriffe, Kohlhammer, Stuttgart, 2000, p. 672.

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Excursus: l'attore di Simmel e l'autenticità nei ruoli

Il saggio di Simmel Filosofia dell'attore sviluppa alcune riflessioni sulle prestazioni che l’attore deve svolgere nel momento in cui assume un ruolo, e offre per questo interessanti indicazioni sul modo in cui si può immaginare la compenetrazione tra persona e ruolo. Anche qui si pone il problema di come «il contenuto oggettivo» - le richieste del «mate­ riale» già dato, preesistente, di un ruolo - si rapportino all’«individualità creativa» dell’attore nel momento in cui questi dà forma al ruolo. Nel suo saggio Simmel è interessato al modo in cui l’«individuale» e l’«universale» si mediano per raggiungere quella «legge particolare» alla qua­ le è sottoposto un ruolo:

Non c’è semplicemente, da un lato, il compito oggettivo fissato dallo scrittore e, dall’altro, la concreta soggettività dell’attore, così che baste­ rebbe soltanto che quest’ultima si conformasse a esso. Invece, a questi due aspetti se ne aggiunge un terzo: l’istanza che questo ruolo pone a questo attore e forse a nessun altro, la particolare legge che deriva da ta­ le ruolo per questa personalità d’attore. In tal modo viene superata la falsa obiettività che obbliga l’attore a reci­ tare il proprio personaggio come una marionetta, e che pertanto lo do­ vrebbe anche vincolare all’ideale secondo cui tutti gli attori devono re­ citare lo stesso ruolo nello stesso modo. Insieme, però, viene superata an­ che la falsa soggettività per la quale l’attore dovrebbe recitare soltanto se stesso, nella maniera più spontanea e naturale, mentre il ruolo sareb­ be soltanto il rivestimento casuale in cui si presenta la sua individualità. Piuttosto, egli si trova di fronte un altro ideale, secondo il quale proprio la sua individualità deve dar forma al ruolo dato, affinché nell’insieme si abbia il massimo valore artistico178. L’idea principale di Simmel qui è che nell’assunzione riuscita di un ruolo la disposizione soggettiva, il carattere e la personalità dell’attore si compenetrano con il ruolo oggettivo prestabilito. Questo a sua volta non «soggettivizza» o relativizza le direttive oggettive. Il modo artistica­ mente perfetto di questa compenetrazione sottostà infatti a sua volta a 178. Simmel G., Filosofia dell'attore con un commento di Max Weber, a cura di Monceri E, ETS, Pisa, 1998, p. 29.

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una norma «oggettiva», o meglio: a una norma soggettivo-oggettiva, nella misura in cui c’è un modo giusto, ovvero cogente, in cui questo par­ ticolare artista deve corrispondere alle esigenze generali di questo parti­ colare ruolo. E obbligatorio per lui recitarlo nel determinato modo in cui lo recita. D’altra parte quest’obbligo è qualcosa che è fatto su misu­ ra per la sua personalità, che vale solo per lui e per la particolare situa­ zione tra lui e il suo ruolo. Per questo si tratta di una «legge particola­ re» e non di una generale, che obbligherebbe ogni attore a recitare il ruo­ lo nel modo corrispondente. Quindi recitando un ruolo, l’attore da una parte recita «se stesso». D’altra parte però questo non significa che il ruo­ lo gli sia dato immediatamente, che la sua recitazione sorga dalla sua na­ tura. Se l’attore dell’Amleto nella sua recitazione esprime «se stesso», questo non significa che sul palco egli debba solo porsi cosi come «è» o che addirittura egli, prima della recita, senza dare forma al suo ruolo, sia già «Amleto». Il fatto che nel recitare il ruolo si esprime la sua per­ sonalità non significa che egli, abbia, in senso immediato, una «natura d’Amleto» e che quindi debba ripetere, senza ulteriore formazione e creazione del ruolo, ciò che egli comunque è già. Si tratta qui piuttosto di un compenetrarsi creativo della disposizione individuale con il mate­ riale e le sue esigenze oggettive. L’attore ideale (o meglio ideale per un determinato ruolo) non esprime se stesso ma si esprime nel suo ruolo.

Quando i suoi impulsi vitali e la coloritura del suo temperamento spon­ taneamente agente si spingono da soli nella direzione di questa figura; quando la forma ideale che prefigura Amleto entro la sua personalità con quelle «linee invisibili» viene riprodotta dalla sua realtà preesi­ stente, per così dire, senza opporre resistenza, allora «egli interpreta se stesso» nell’Amleto compiuto. Certo, soltanto per lui quel personaggio è compiuto; compiuto non in virtù della sua evidente realtà, ma perché da quest’ultima si è sviluppata una figura idealmente necessaria, la cui coincidenza con la sua persona dipende soltanto da un felice caso di natura179.

179. Ivi, p. 32.

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3. Lei come se non fosse lei - Alienazione da se stessi come scissione interiore La nostra vita così come la conduciamo è proprio la nostra vita, eccetto il fatto che, in essa, alcuni elementi sembrano degli intrusi, degli interpolatori. Alcuni pensieri che abbia­ mo, alcune emozioni che proviamo, alcune delle nostre cre­ denze, dei nostri desideri e delle nostre azioni sono perce­ pite come se non fossero veramente le nostre. E come se avessimo perso il controllo, come se fossimo spodestati o posseduti da una forza che non siamo noi180. Joseph Raz

In questo capitolo mi soffermerò su casi nei quali i propri desideri e i propri impulsi vengono esperiti come estranei, ossia casi in cui ci si sen­ te dominati da desideri che abbiamo ma è come se provenissero da una «forza estranea», o casi nei quali i nostri modi di comportarci ci fanno sentire estranei a noi stessi. Si tratta di situazioni nelle quali si vorrebbe dire: «Questo non posso essere io» e in cui, tuttavia, ci si dimostra stra­ namente incapaci di respingere il comportamento che si percepisce co­ me estraneo o i desideri dai quali ci si sente così distanti. In questo sen­ so, essere alienati da se stessi significa non riuscire a identificarsi con se stessi, né con quello che si vuole e si fa. Ciò non sembra realmente «par­ te della nostra storia» (part of our story), non sembra veramente appar­ tenere alla nostra vita. Come dobbiamo comprendere questa situazione? E, viceversa, quand’è che i desideri sono veramente i nostri e noi siamo veramente noi stessi? La mia tesi è che in queste forme di alienazione da se stessi, in un modo specifico, nei propri desideri non si è accessibili a se stessi; e che questo fenomeno può essere spiegato senza fare ricorso a un «nucleo del sé» autentico. Procederò ancora una volta a illustrare tale fenomeno con l’aiuto di un esempio (1), per poi nel passaggio successivo (2) esplicitare le caratteri­ stiche che rendono l’alienazione da se stessi un’interpretazione plausibi­ le della situazione descritta. Da ciò emergono due complessi di questio­ ni. La prima concerne la struttura interna che caratterizza una simile scis180. Raz J., When we are Ourselves: The Active and the Passive, in Id., Engaging Rea­ son, Oxford University Press, Oxford, 1999, pp. 5-21, p. 21.

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sione della propria volontà; la seconda, invece, riguarda i parametri in base ai quali alcuni dei nostri desideri possono rivendicare un’autorità e altri no. Esaminerò entrambi questi complessi di questioni nei paragrafi (3) e (4), confrontandomi con la teoria della persona di Harry Frank­ furt. Concluderò che (5), se ciò a cui siamo interessati è il superamento dei processi di scissione interna in nome dell’emancipazione, il modello di Frankfurt non è sufficiente a risolvere il problema di come i nostri desideri possano acquisire autorità. Infine (6) la tesi dell’alienazione da sé come inaccessibilità pratica a se stessi consentirà di elaborare una pro­ posta per risolvere questo dilemma.

(1) LA FEMMINISTA CHE RIDACCHIA

H., una femminista dichiarata, convinta e consapevole, si sorprende ogni volta, quando comunica con il suo amante, a ridacchiare stupida­ mente come una ragazzina adolescente. Lei rifiuta simili atteggiamenti di civetteria femminile perché li considera atteggiamenti non emancipati, modi di fare propri di una «ragazzina». Ha capito già da tempo che il fatto che le donne, per essere attraenti, si debbano mostrare piccole, ca­ rine e innocue è la proiezione di un mondo dominato dagli uomini. Ma, come constata con una certa irritazione, lei stessa ricade regolarmente in simili schemi di comportamento. Così percepisce il proprio compor­ tamento come qualcosa che è fortemente in contrasto con le sue con­ vinzioni, con l’immagine che ha di se stessa e con il suo progetto di vita, e quindi come qualcosa di contraddittorio e che non le appartiene vera­ mente. Vedersi comportarsi in questo modo scatena in lei una sensazio­ ne di sconcerto. «Questa non posso essere io». Formulato in un modo un po’ drammatizzato, è come se nel ridacchiare, qualcosa che lei non è, parlasse attraverso di lei.

(2) Delimitazione del fenomeno e definizione DELLE SUE CARATTERISTICHE

Si può descrivere questa discrepanza, che fa della situazione descrit­ ta un’esperienza di alienazione da se stessi, nel modo seguente: H. non

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riesce a identificarsi con il suo impulso a ridacchiare e con i desideri che suppone si trovino dietro di esso. Parlare di un,«estraneità» rispetto a se stessi indica qui il fatto che si tratta di più (o di altro) rispetto a un sem­ plice rifiuto di certi modi di comportamento. Lei fa e desidera qualcosa che non è da lei, che non le appartiene, e che allo stesso tempo eviden­ temente non può influenzare. È scissa, nella misura in cui sembra essere divisa in due parti che non sono in alcuna relazione sensata e coerente tra di loro. Analogamente al ricercatore del primo capitolo, H. si sente un’osservatrice inerme e passiva delle forze che la muovono»181. E tut­ tavia, anche qui si tratta (per riprendere la citazione di Heidegger della parte I) di un «potere che è lei stessa». Ma come si può spiegare il pro­ blema che possiamo compiere e desiderare qualcosa che allo stesso tem­ po non ci appartiene? Chi è qui estraneo a chi? Quando e con quali de­ sideri lei sarebbe invece «se stessa»? Di seguito elaborerò le caratteristiche che fanno del conflitto sopra descritto un problema di alienazione da se stessi.

1. La significatività dei desideri. I propri comportamenti che H. rifiu­ ta non sono semplicemente leggere incoerenze che hanno luogo alla pe­ riferia della sua personalità e che non stanno in nessun rapporto vitale con lei. La parte di se stessa che percepisce come estranea si trova al centro della sua personalità, è legata in maniera significativa alla sua persona182. Il comportamento della nostra protagonista non è quindi una mera fissazione, un residuo, per lei privo d’importanza, di compor­ tamenti abituali ma irrilevanti. (Si noti che non si tratta qui di una per­ sona il cui femminismo è situato in superficie della propria personalità

181. Così Harry Frankfurt descrive la persona alienata, Frankfurt H., Widensfreiheit und der Begriff der Person, in Bieri P. (a cura di), Analy fische Philosophic des Geisfes, Beltz Athenàum, Weinheim, 1997, pp. 287-302, p. 298. 182. Introduco qui il discorso di un «centro» o di un «margine» della personalità in un senso che non vuole in alcun modo essere drammatico e letterale. Esso si riferisce semplicemente a desideri e progetti più o meno importanti, a cose che vengono più o meno caricate di significato dalla persona, e che sono per questo più o meno centrali per la vita della persona in questione. Ciò non preclude la possibilità che cose appa­ rentemente secondarie possano diventare significative o veicolo di significato. Il pro­ blema se esista o meno un «nucleo» di desideri o progetti che costituiscono l’identità della persona, non viene così preso esplicitamente in considerazione, e dovrà essere discusso soltanto in un secondo momento.

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e che sarebbe quasi sollevata di potersi disfare delle forti pretese a esso connesse, ma di una donna la cui identità è profondamente segnata dal­ le sue convinzioni femministe, che deve molto a esse e che da molti altri punti di vista conduce in maniera molto riuscita una vita emancipata). Ci si può immaginare che H., confrontandosi con tali questioni, scopra che il ridacchiare è intrecciato con desideri e ideali profondi, per esem­ pio con il fatto che la sua idea di relazione amorosa corrisponde molto meno di quanto non voglia ammettere all’immagine di una relazione sim­ metrica e paritaria. Il suo ridacchiare, come scopre, è l’espressione del bi­ sogno di sentirsi protetta, per quanto poco ciò si sposi con il suo modo di comportarsi, in realtà molto sicuro di sé. (Sarebbe eccessivo conside­ rare dei comportamenti che sono realmente involontari e di secondaria importanza - che non hanno un significato spiegabile183 - come sintomi di una scissione interna). 2. Eincompatibilità dei desideri. Parlare qui di una «scissione interna» presuppone inoltre che i complessi di desideri che si fronteggiano si esclu­ dano a vicenda, o quanto meno si ostacolino fortemente. I desideri di H. sono inconciliabili nella misura in cui - almeno per lei - rimandano a for­ me di vita e di relazione inconciliabili: da una parte lei vuole essere una don­ na indipendente e autonoma, allo stesso tempo però desidera una relazio­ ne amorosa nella quale è protetta ma non del tutto libera. Si tratta quindi di un caso in cui l’incompatibilità dei desideri diventa esplicitamente un problema, per lo meno per la concezione che la protagonista ha di sé. (Al­ trimenti non ci sarebbe alcun motivo per una reazione al suo comporta­ mento che fosse più forte di un leggero stupore). I due atteggiamenti trat­ teggiati vengono compresi dalla nostra protagonista come una contrap­ posizione tra un modo di vivere emancipato e uno non emancipato. E, in quanto tali, essi si escludono a vicenda. Rifacendomi a una distinzione di Charles Taylor: essi si contraddicono dal punto di vista qualitativo e quin­ di sono maggiormente inconciliabili rispetto a quando semplicemente non possono essere realizzati contemporaneamente184. Al contrario, il de­ 183. Nel senso definito dalla «psicopatologia del quotidiano» di Freud, probabilmen­ te, più o meno tutti i comportamenti hanno un simile significato spiegabile. Non vo­ glio escluderlo qui. Nel nostro caso però si tratta di una situazione chiaramente con­ flittuale, nella quale il significato non è più implicito ma è divenuto già esplicito. 184 Si veda a questo proposito Taylor C., Che cosa è Vagire umano, in Id., Etica e uma­ nità, a cura di Costa P., Vita e Pensiero, Milano, 2004.

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siderio sporadico di praticare sport a livello agonistico contraddice il suo normale modo di vivere solo per motivi di tempo. Anche nel caso riman­ ga irrealizzato, questo desiderio non è un corpo estraneo nell’economia complessiva dei suoi desideri - almeno finché tale desiderio non viene a propria volta inserito in un’interpretazione che concerne decisioni di vita fondamentali - e lei non avrà la sensazione di alienarsi da se stessa né se ri­ nuncia a questo desiderio, né se lo realizza. 3. L’«inautenticità» di questi desideri. Che l’esistenza di alcuni desi­ deri possa essere considerata alienante, implica una particolare forma di presa di posizione nei confronti dei desideri stessi e una corrispon­ dente interpretazione del loro carattere. Se consideriamo i nostri desideri e i modi di comportarci «a noi estranei», li comprendiamo come desideri che in realtà non abbiamo veramente. Quando percepisce il suo deside­ rio di sicurezza o di subordinazione a un uomo come un corpo estra­ neo, H. non si distanzia da questo desiderio solo nel senso di un semplice rifiuto. Lei considera i desideri che interpreta come estranei, come se non fossero veramente i suoi, come se non fossero i suoi desideri «autenti­ ci». L’affermazione «non mi appartengono» è più di un semplice modo (un po’ confuso) di dire «questo non lo voglio». Tale affermazione im­ plica piuttosto: questi desideri non sono genuini. Questi desideri, si po­ trebbe dire, si fanno passare ingiustamente per i suoi. Così, l’autorità dei desideri che di fatto abbiamo, è messa in discussione, è sottoposta a sospetto e riserva. Parlare di alienazione da se stessi, questa è la conse­ guenza per noi importante, presuppone che i desideri siano criticabili, che la loro autenticità possa essere messa in dubbio. Questa caratteristica differenzia anche il conflitto in cui si trova la protagonista da quello dell’ambivalenza interiore185. Si è ambivalenti quando ci si trova tra due desideri propri; in questi casi entrambi i lati rappresentano - anche se sono inconciliabili dal punto di vista qualita­ tivo nel senso prima spiegato - un desiderio ugualmente proprio e pos­ sono quindi rivendicare un uguale diritto. Un conflitto di ambivalenza

185. L’ambivalenza viene definita in termini psicoanalitici come la «presenza con­ temporanea di tendenze, atteggiamenti e sentimenti opposti, soprattutto l’amore e l’o­ dio, nella relazione con uno stesso oggetto». Lap lanche J. e Pontalis J.-B., Enciclope­ dia della psicoanalisi, a cura di Mecacci L., Puca C. e Fuà G., Laterza, Roma-Bari, 2005, p. 20.

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è da questo punto di vista un conflitto tragico™. (In questo senso, per esempio, qualcuno può trovarsi in una situazione di ambivalenza tra due amanti o essere ambivalente nei confronti della scelta di una vita con o senza un figlio). Al contrario, invece, il potenziale conflittuale presente in desideri inautentici o estranei, o in desideri che vengono percepiti come tali, consiste nel fatto che qui si rifiuta un desiderio, che non ci si può identificare con esso, e che tuttavia non ci si può liberare da esso. H. non direbbe di se stessa che si trova ad essere combattuta tra il de­ siderio di emancipazione e quello di non emancipazione o che ha en­ trambi allo stesso tempo. Essa rifiuta quei suoi desideri che non sono emancipatori. Se in un conflitto di ambivalenza non si possono realiz­ zare entrambi i desideri contemporaneamente, il desiderio inautentico è invece un desiderio che in realtà non si ha veramente186 187. Nel primo caso ci si deve alla fine decidere; nell’altro caso va scoperto cosa si vuo­ le veramente. Allora non si suppone solamente che tra i due desideri ce ne sia uno che è più importante, ma che uno dei due non ci corrispon­ da più. La questione è, quindi, come si possano raggiungere questi pre­ supposti, cioè come si possano distinguere desideri veri da non veri, quelli autentici da quelli inautentici, se allo stesso tempo entrambi so­ no desideri che - di fatto - si hanno. E davvero così chiaro che cosa rappresenti al meglio i veri desideri di H., se il ridacchiare o il suo mo­

186. Riguardo al rapporto di questi conflitti tragici con i problemi dell’alienazione si può dire: i desideri devono prima di tutto essere desideri propri per poi poter entrare tra di loro in un conflitto «tragico». L’indifferente non conosce conflitti tragici, e nean­ che chi è trascinato da «desideri altrui». Per poter cadere in conflitti interiori tragici ci si deve prima di tutto identificare con i propri desideri. Anche per questo il supe­ ramento dell’alienazione non significa la risoluzione dei conflitti. 187. Il fatto che un conflitto di ambivalenza a volte si risolva re interpretando il desi­ derio respinto come desiderio estraneo, dipende dalla dinamica psichica all’opera in simili situazioni. In questo caso si tratta o di una razionalizzazione o dell’effetto di una «forza normativa» che emerge dalla «fatticità» della propria biografia. Una volta che si è presa la decisione di rinunciare a un certo desiderio in favore di un altro desiderio concorrente, lo sviluppo ulteriore può portare al fatto che a posteriori nessun altra decisione sembri pensabile. In questo senso il desiderio respinto, quello che, metafo­ ricamente, ha segnato un bivio, a un certo punto non fa più parte (se tutto va bene) della propria vita. Questo processo comprensibile può tuttavia diventare anche pro­ blematico: si immagini qualcuno che viva nei suoi desideri e progetti presenti e che re­ trospettivamente «ignori» completamente i fallimenti o gli errori passati - una parti­ colare mancanza di «profondità» questa, che eventualmente - come alienazione dal proprio passato - va considerata un sintomo di alienazione da se stessi.

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do di porsi, normalmente sicuro di sé? Quando è veramente se stessa allora: quando non ridacchia più o quando non si distanzia più dal suo ridacchiare?

4. Concezioni di sé. Così intesi, i conflitti di questo tipo riguardano ciò che spesso si chiama la «concezione che si ha di sé» e «l’identità di una persona». In gioco, per la giovane donna che vive un conflitto in­ teriore riguardo al suo comportamento civettuolo e da ragazzina, è chi lei è e come si comprende. Non si tratta solo del fatto di dover sceglie­ re una forma di vita piuttosto che un’altra (e delle conseguenze che ciascuna avrebbe) ma anche di ciò che le sue azioni «fanno» di lei e di come lei stessa si possa «comprendere» in quello che fa. Il ruolo del­ l’interpretazione o dell’autointerpretazione risulta qui decisivo: il com­ portamento di H. non è contraddittorio in quanto tale. È contraddit­ torio nella misura in cui ostacola la sua concezione di sé come femmi­ nista. Senza tali riferimenti riflessivi a sé - non soltanto facendo questo o quest’altro, ma anche comprendendosi in questo modo o in un altro, come questo o quello - l’intero fenomeno dell’alienazione non sareb­ be spiegabile. Il proprio comportamento e i propri desideri possono es­ sere considerati come un corpo estraneo solo perché, in modo implici­ to o esplicito, si ha un’idea di cosa ci appartiene o ci dovrebbe appar­ tenere, solo perché nella propria comprensione di sé si possono integrare alcune cose e altre no. 5. Libertà ed emancipazione. Se nel caso illustrato l’alienazione da se stessi significa essere mossi da desideri che in un certo senso non si han­ no veramente, e diventare cosi una persona che non si è veramente, al­ lora, quando si è dominati da questi desideri, non si è veramente liberi. Come scrive Raymond Geuss:

«Libero» nel senso pieno della parola è solo colui che fa ciò che vera­ mente vuole fare, cioè che agisce a partire da un desiderio vero, autenti­ co, reale. L’autenticità del desiderio che motiva l’azione è quindi una componente essenziale della libertà188.

188. Geuss R., Auffassungen der Freiheit, in «Zeitschrift £iir philosophische Forschung», voi. 49, gennaio-marzo 1995, pp. 1-14, p. 6.

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Smascherare i desideri inautentici ha in questo senso un significato emancipatore, se è vero che nei processi di emancipazione189 è in gioco qualcosa di più del liberarsi dal dominio e dall’oppressione esterni, e che essi coinvolgono anche l’emancipazione da quel potere estraneo «che siamo noi stessi». Tipicamente questi processi di emancipazione in­ cludono il complesso procedimento in cui qualcuno vuole diventare di­ verso da quello che è e al contempo interpreta ciò come il raggiungi­ mento di una maggiore armonia con se stesso, come una sorta di «libe­ razione verso se stesso» - come recita una formula molto promettente. Adesso, per esaminare il rapporto tra «desideri veri», «sé» e «conce­ zione di sé», e per giustificare il ricorso, in questo contesto, al concetto di alienazione da se stessi, devono, in relazione all’esempio che è stato so­ pra delineato, essere analizzati due complessi di questioni. Primo: Come si deve comprendere l’affermazione che si tratta di de­ sideri alienati, «non autentici», che sono «estranei» alla protagonista, e dai quali lei allo stesso tempo è misteriosamente trascinata? Come si deve comprendere precisamente il fatto che allo stesso tempo si hanno e non si hanno «veramente» simili desideri, e che quindi - paradossal­ mente - lei li ha e non li dovrebbe avere? Secondo: Che tipo di criteri possono esserci per stabilire quale tra i due desideri in conflitto sia il «proprio» in senso forte? Cosa «autoriz­ za» i desideri? Cosa li rende propri o estranei? A ciò è legata la questione di quali condizioni rendono adeguata un’immagine di sé o la concezio­ ne di sé. Qui di seguito discuterò tali questioni confrontandomi con l’antro­ pologia filosofica del filosofo americano Harry Frankfurt, la cui teoria della persona, per vari motivi, come vedremo, è decisiva per una ripre­ sa della problematica dell’alienazione.

(3) L’estraneità dei propri desideri

Il primo problema - ovvero come i propri desideri possano essere estranei a se stessi e come debba essere compresa la struttura connessa 189. Sul rapporto tra «emancipazione» e «libertà» cfr. Obermauer R., Freedom and Emancipation in Theodor W Adorno and Cornelius Castoriadis, tesi di dottorato, New School for Social Research, New York, 2002.

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del distanziarsi dai propri desideri - può essere esaminato con l’aiuto del modello di volontà sviluppato nel saggio di Harry Frankfurt Freedom of the Will and the Concept of a Person™. Secondo Frankfurt, la caratteristica specifica delle persone consiste in una particolare struttura della loro volontà, ossia nel fatto che essi pos­ sono rapportarsi ai propri desideri valutandoli. Frankfurt elabora questa teoria con l’aiuto di un modello gerarchico: le persone si riferiscono ai lo­ ro «desideri di primo ordine» per mezzo di «desideri di secondo ordi­ ne». Un desiderio di secondo ordine è il desiderio di avere o non avere un desiderio di primo ordine. Cosi, per esempio, si può avere il deside­ rio di secondo ordine di non cedere al desiderio di primo ordine di una sigaretta. Come persona non solo si hanno dei desideri; ciò che ci rende una persona è il prendere posizione rispetto ai propri desideri e anche il potersi distanziare da essi.

Oltre a volere, scegliere ed essere mossi a fare questo o quello, gli uomi­ ni possono anche voler avere (o non avere) certi desideri e certi impulsi. Essi sono capaci di voler essere, nelle loro preferenze e nelle loro inten­ zioni, diversi da quello che sono190 191. Questa concezione della persona ha molte conseguenze importanti per il nostro problema: Primo: non ogni desiderio che si ha è nostro solo perché lo si ha. Solo la presa di posizione positiva, che Frankfurt chiamerà in seguito «iden­ tificazione», rende un desiderio proprio in senso forte. Così come ci si deve indentificare con i propri desideri per renderli propri, si può vice­ versa anche essere estranei ad essi, essere alienati da essi - nella misura in cui non ci s’identifica con essi. Il caso paradigmatico di questa figura dell’alienazione è in Frankfurt colui che è «dipendente contro la sua volontà» {unwilling addict). Colui che è «dipendente contro la sua volontà» viene dominato dal desiderio di primo ordine (di prendere droghe), che si trova in contraddizione con il suo desiderio di secondo ordine (di non prendere droghe, o più

190. Frankfurt H., Freedom of the Will and the Concept of a Person, in Id., The Im­ portance of What We Care About, Cambridge University Press, Cambridge, 1988, pp. 11-25. 191. Ivi, p. 12.

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precisamente: di non cedere al desiderio di primo ordine delle droghe). Si tratta quindi di uno scollamento tra i desideri di primo ordine e i de­ sideri di secondo ordine. In un modo strutturalmente simile alla nostra femminista, colui che è dipendente contro la sua volontà è scisso, per­ ché è mosso da desideri che in realtà, ovvero sul piano dei desideri di secondo ordine, non ha. Allo stesso tempo, egli è incapace di far diven­ tare efficace nelle azioni il suo desiderio di secondo ordine. Proprio co­ me la femminista, egli percepirà questa impotenza nei confronti della continua presenza di un desiderio non voluto come qualcosa di alie­ nante. Il persistente desiderio di prendere droghe è in questo senso un desiderio che egli «in realtà non ha» perché non lo conferma sul piano del secondo ordine. Ciò permette una spiegazione non paradossale del perché i desideri con cui abbiamo a che fare possano essere allo stesso tempo propri ed estranei: un desiderio a me «estraneo» è un desiderio che io, sul piano dei «desideri di primo ordine», ho veramente, con il quale però - sul piano delle «volizioni di secondo ordine» {second order volitions) - non mi posso identificare. Che si tratti di desideri estranei non significa quindi che una persona non abbia questi desideri, signifi­ ca piuttosto che non li ha fatti propri. Anche qui non abbiamo a che fa­ re con desideri meramente in conflitto tra loro (come per esempio quel­ li che sono stati discussi sopra come conflitto di ambivalenza), ma piut­ tosto con il rifiuto di un desiderio che si percepisce come un corpo estraneo. Con il desiderio di secondo ordine si è «preso posizione» con­ tro di esso. E la specifica estraneità nei confronti di questi desideri non consiste quindi nel fatto che non li si conosce o che non ci sono familia­ ri - il tossicomane è fin troppo consapevole del proprio desiderio di droghe - ma nel fatto che non li si fa propri. Una situazione di alienazione da se stessi è in questo senso una situazione nella quale non si riesce in un modo o nell’altro a mettere in accordo i propri desideri di primo ordine con quelli di secondo ordine192. Secondo: la teoria della persona che emerge dalla discussione di Frank­ furt è di grande interesse per il problema dell’alienazione. Per Frankfurt, infatti, il criterio decisivo per l’attribuzione del concetto di personalità

192. Per i nostri scopi questa non può ancora essere una descrizione sufficiente, an­ che solo perché si può pensare questo accordo in entrambe le direzioni, come adatta­ mento o del desiderio di primo ordine a quello di secondo ordine e viceversa. Tornerò su questo punto.

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è la capacità di formare desideri di secondo ordine. Così, ciò che ci di­ stingue da altri esseri viventi non è per esempio la razionalità (o la lin­ gua, o altre caratteristiche umane), bensì la struttura della nostra volontà. Se l’essere capaci di distanziarsi dai propri desideri - l’essere capaci di prendere posizione rispetto a essi in modo critico o affermativo - è il criterio distintivo delle persone, ne consegue che la possibilità di una divergenza tra ciò che uno di fatto è e il proprio progetto di sé è costituti­ va dell’«essere una persona». In altri termini: una persona non è deter­ minata dal «materiale grezzo» dei propri desideri, ma dal modo in cui li forma (e si forma con essi). I desideri autentici non sono quindi «natu­ rali», preesistenti, bensì desideri di livello superiore, desideri formati; es­ sere «se stessi» o «essere in accordo con se stessi» non è una condizione naturale o immediata, ma un processo di livello superiore, il risultato di ciò che Hegel chiama la «purificazione degli impulsi»193. Ciò risulta chiaro se si osserva l’opposizione tra colui che è «dipen­ dente contro la sua volontà» e il «wanton». Il wanton - tradotto in ma­ niera un po’infelice come «pulsionale» «istintivo» (« Triebhafi» o « Wiinschling,») - è colui che si abbandona senza volontà alla sua dipendenza, che quindi si lascia determinare esclusivamente dai suoi desideri di pri­ mo ordine, senza prendere posizione rispetto a essi nella forma di una «volizione di secondo ordine». Ciò che lo distingue da colui che è «di­ pendente contro la sua volontà» non è il risultato - entrambi sottostan­ no al loro desiderio di droghe -, bensì il fatto che il wanton non si rife­ risce ai propri desideri in maniera riflessiva. Per il wanton, che è privo della capacità di prendere posizione rispetto a sé in modo riflessivo e di valutare i propri desideri, ogni desiderio da cui è mosso è immediata­ mente suo. Questi non conosce alcuna presa di distanza dai suoi desi­ 193. C'è qui un interessante parallelismo con la teoria della volontà di Hegel sviluppa­ ta nelle Lezioni sulla filosofia del diritto-, come nella figura della «purificazione degli impulsi» lì sviluppata, anche qui abbiamo a che fare con una presa di posizione nei con­ fronti dei propri desideri dalla quale risulta una qualificazione di questi desideri, e che è caratteristica della struttura della libertà e della personalità umane. Similmente a quanto accade nell’argomentazione di Hegel contro la libertà dell’arbitrio, io non sono libera quando faccio semplicemente quello che voglio; sono libera - in modo qualificato - quando posso fare quello che voglio sul piano delle mie volizioni di secondo ordine (second order volitions). Se mi posso identificare con uno dei miei desideri e so­ no in grado di farlo diventare efficace nelle mie azioni io sono, secondo Frankfurt, in possesso di tutta la libertà che posso volere. Tuttavia sulla questione di come è fatto il processo che rende mio un desiderio, le opinioni si dividono.

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deri e quindi alcuna scissione interna. Per Frankfurt, proprio per que­ sta ragione, il wanton non ha veramente desideri propri e non è nean­ che veramente una persona. Gli manca la capacità di prendere distanza da se stesso - e così quella caratteristica che per Frankfurt costituisce la struttura centrale della personalità194. Se egli quindi è in accordo con se stesso, questo avviene però al prezzo di caratteristiche essenziali dell’es­ sere una persona. Viceversa ne consegue che il vero «essere in accordo» con i propri desideri è raggiungibile solo al livello superiore di una for­ mazione consapevole dei desideri. Il wanton che non dà forma al mate­ riale grezzo dei propri desideri non è quindi particolarmente se stesso o autentico nel senso che è immediato o spontaneo. Piuttosto, egli non è capace di una vera autenticità perché in lui non si è ancora affermata stabilmente la personalità, ossia la struttura di livello superiore all’inter­ no della quale qualcosa può essere proprio o estraneo, autentico o non autentico. Si potrebbe dire: nella misura in cui egli non si mette in rela­ zione con se stesso non può neanche essere in accordo con se stesso. Per questo egli non rappresenta neanche un caso di alienazione da se stessi ma un caso di perdita di sé. Che cosa risulta dalla teoria della volontà di Frankfurt per il nostro esempio e per i nostri due problemi? Il modello delle «volizioni di se­ condo ordine» ci permette di dare una risposta non paradossale alla prima domanda circa la possibilità che un desiderio possa essere allo stes­ so tempo proprio ed estraneo, che quindi H. possa allo stesso tempo ave­ re e non avere i propri desideri. Il suo desiderio di secondo ordine di

194. Questo non deve assolutamente venire inteso nel senso che i dipendenti in gene­ rale non sono persone. Il «wanton» - qualcuno che veramente non forma mai (e da nes­ sun punto di vista) desideri di livello superiore - è una figura estremamente improba­ bile dal punto di vista empirico. Nella maggior parte delle persone affette da dipen­ denza, inoltre, potrebbe trattarsi sempre di una forma o di un’altra di «dipendenza contro la propria volontà». Si potrebbe addirittura affermare che gli autorimproveri e la presa di distanza da se stessi, uniti alla negazione, sono parte integrante del sinto­ mo. Viceversa, di coloro che accettano in modo dichiarato la propria dipendenza si dovrebbe dire, secondo lo schema di Frankfurt, che hanno la volizione di secondo or­ dine di essere dipendenti. Anche queste quindi sono persone, sebbene noi riteniamo il loro orientamento poco intelligente. D’altra parte non è un caso - e questo parla in favore della caratterizzazione fatta da Frankfurt - che in certe fasi delle dipendenze si parli del fatto che la persona è in pericolo di abbandonarsi - ovvero di perdersi in quanto persona responsabile, che agisce e che decide.

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essere emancipata si rivolge contro il suo desiderio di primo ordine di comportarsi in modo civettuolo e da ragazzina. Ma cosa ne risulta per il secondo problema, quello dell’autorizzazio­ ne di un desiderio e della delegittimazione dell’altro? La posizione che emerge dalla teoria della persona di Frankfurt circa l’autorità dei ri­ spettivi desideri sembra inizialmente semplice: il vero volere non è fon­ dato sui desideri immediati, di livello inferiore; quello che si vuole vera­ mente, secondo Frankfurt, è ciò a cui si rivolge il volere consapevole, di livello superiore. Per H. questo significa: non il ridacchiare da cui non riesce a trattenersi, bensì i desideri che si rivolgono al suo comporta­ mento emancipato sono decisivi per lei come persona. La questione di cosa renda i desideri propri, cosa li autorizzi, potrebbe quindi essere ri­ solta così: il livello superiore del volere è l’istanza che rende un deside­ rio proprio, esso ha il potere di definire cosa è proprio e cosa è estra­ neo, cosa appartiene a una persona e cosa no. E allora non essere alie­ nati significherebbe far coincidere i propri desideri con questo livello superiore. Inizialmente questo è quanto risulta semplicemente dalla struttura formale della volontà definita da Frankfurt.

(4) L’autorizzazione dei desideri

Non è così facile, tuttavia, risolvere il secondo problema sollevato dal nostro esempio. Non potremmo anche mettere in dubbio (ed è ad­ dirittura probabile che H. stessa a volte se lo chieda) che il desiderio di secondo ordine di emancipazione che abbiamo preso per autorevole, corrisponda veramente a H.? Non potrebbe essere che l’impulso in­ controllabile al quale lei si ribella esprima qualcosa che lei non può con­ trollare, ma che tuttavia è in modo innegabile parte della sua personalità? Vediamo qui che la questione dell’autenticità dei desideri - il problema di cosa realmente ci appartiene e corrisponde - non trova risposta nella struttura formale, gerarchica che il modello di Frankfurt ci offre. Un osservatore maldisposto e misogino potrebbe sostenere, per esempio, che quando H. si distanzia dal suo ridacchiare e dalle sue fantasie di si­ curezza, si vede chiaramente che il suo femminismo è una messa in sce­ na. In verità, lei è «una vera donna» proprio quando si appella agli istin­ ti protettivi dell’uomo, e «veramente se stessa» proprio quando ridac-

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chia. Ma come facciamo allora a decidere in quale posizione la nostra gio­ vane femminista è veramente «se stessa», cosa le corrisponde di più e cosa è più adatto a lei? Come si fa a decidere se la tensione tra l’immagine di sé e la realtà, che si manifesta nel conflitto di H., sia dovuta a un’immagine di sé illusoria o invece alle difficoltà da superare, tipiche di un processo di emancipazione? Cosa rende i desideri o gli impulsi «au­ tentici»? Cosa li autorizza a essere veramente i mieti La difficoltà di fron­ te alla quale ci troviamo qui è la seguente: se si chiedesse a H. perché non ritiene il suo desiderio di sicurezza un desiderio veramente suo, la ri­ sposta «perché non voglio averlo» sarebbe inadeguata, proprio come sarebbe inadeguata l’assunzione che questo desiderio «sia il suo» solo perché esiste. Qui un’«assicurazione secca» (Hegel) non è sufficiente. Ognuno sa che non si è semplicemente quello che si vorrebbe essere e che non si scelgono semplicemente i desideri che si hanno. Il fatto che H. preferisca essere una persona emancipata - in mancanza di un’ulteriore spiegazione - non è decisivo. Ugualmente fuorviante sarebbe però l’i­ dea che lei sarebbe se stessa precisamente nel momento in cui le scappa spontaneamente un’incontrollata risatina, nonostante le costrizioni che si impone a causa della propria immagine di sé come femminista. Se in­ fatti, - per seguire Frankfurt - è costitutivo dell’essere una persona vo­ ler essere diversi da come siamo (proprio nella misura in cui possiamo desiderare che i nostri desideri siano altri da quelli che sono), i desideri «autentici» sono già da sempre formati e valutati. Ciò significa che la domanda sulla loro autenticità è una domanda swWadeguatezza di que­ sta valutazione. E la domanda relativa a quali dei nostri desideri di se­ condo ordine siano adeguati, e su quale base ci identifichiamo con al­ cuni dei nostri desideri e ci distanziamo da altri. Questo però significa: noi ci interroghiamo sulla loro giustificazione. Quando H. si distanzia dal­ la tendenza a essere civettuola come una ragazzina, rivendica un’auto­ rità - e secondo le riflessioni precedenti deve anche farlo. Ma.con quale legittimazione solleva questa pretesa? Come può essere sicura che il suo desiderio di secondo ordine sia il suo desiderio vero, autentico, pro­ prio? La domanda che si pone è: cosa «autorizza» un desiderio di se­ condo ordine, cosa lo rende proprio? Con il modello di Harry Frankfurt fin qui illustrato non è possibile rispondere a tale interrogativo. Per approssimarci a una risposta si deve mettere più precisamente in luce il carattere del processo di identifica­ zione che sta alla base della formazione della volontà, come tra l’altro

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Frankfurt ha fatto nel suo saggio Identification and Externality™, Come argomenterò, egli non riesce a risolvere il problema neanche con le ri­ flessioni sviluppate qui (e in altri saggi); tuttavia il confronto con le ra­ gioni di questo fallimento è adatto a portare alla luce altre dimensioni e sfaccettature del problema.

Identificarsi con i propri desideri

Che cosa significa esattamente potersi identificare con questo ma non con quel desiderio? Su quale base i desideri sono propri o estranei, mi appartengono o no? E a cosa ci si richiama quando si prende distanza dalle esternazioni dei propri sentimenti? Identificarsi con qualcosa si­ gnifica considerarlo qualcosa che ci appartiene, come una parte di noi. Viceversa, desideri, sentimenti, passioni con cui non ci si può identifi­ care possono essere considerati esterni. Frankfurt discute la questione fa­ cendo riferimento all’esempio dell’irascibilità. Quando ci si scusa per uno scatto d’ira - «non so come sia potuto succedere», «in quel mo­ mento non ero me stesso» - si vorrebbe dichiarare che ciò che si è ma­ nifestato nella reazione in questione non corrisponde a ciò che si prova veramente. Si fa questo senza rinnegare che in quel momento si era, in effetti, dominati da un sentimento d’ira. Si potrebbe comprendere questo distanziamento da sé nel senso che - proprio come nel caso della femminista - non ci identifichiamo con questi impulsi, perché essi non possono essere integrati nell’immagine che abbiamo di noi stessi:

Li consideriamo come se in un certo modo fossero incoerenti con l’im­ magine di noi stessi che preferiamo, che supponiamo colga quello che siamo in maniera più veritiera di una mera descrizione non filtrata195 196. E evidente che con ciò il problema non è risolto. Come si è già detto in precedenza: il fatto che un certo nostro comportamento «non ci va­ da bene», che non coincida con l’immagine di noi stessi che preferia­ 195. Frankfurt H., Identification and Externality, in Id., The Importance of What We Care About, op. cit. 196. Ivi, p. 63.

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mo, non è sufficiente a spiegare il suo essere esterno o estraneo. In fon­ do, anche l’ideale di sé può essere estraneo o errato proprio come l’im­ pulso che non gli si addice197. Non possono proprio quegli impulsi che, in modo persistente, vanno contro l’immagine che si ha di sé, servire addirittura a svelarne gli aspetti illusori? Anche se non si può venire identificati con ciò che erompe da noi in maniera irriflessa, non si può però neanche sostenere razionalmente di essere semplicemente identici a ciò che si vuole essere. In ogni caso, il richiamarsi a ciò che si vuole essere non è, in prima istanza, altro che una dichiarazione d’intenti, e non è in grado di apportare alcun contri­ buto al lavoro di giustificazione. La questione se un impulso o un desi­ derio sia proprio o estraneo (interno o esterno) non può venir decisa, quindi, solo in base all’atteggiamento della persona nei suoi confronti. Così anche Frankfurt: «E fondamentalmente erroneo suggerire che l’e­ steriorità di una passione consista nel fatto che la persona che la ha la disapprovi, o che l’interiorità consista nel fatto che l’approvi»198. Se così fosse, allora, anziché dire: «Non sono questo» si dovrebbe dire in ma­ niera meno confusa: «Non voglio essere cosi». In questo modo però il fe­ nomeno che qui cerchiamo di spiegare non verrebbe colto. Se il defini­ re qualcosa “estraneo” deve avere un valore esplicativo e se il processo di identificazione deve avere una dignità maggiore rispetto a un mero vo­ lere, allora non si può rendere il proprio desiderio, una propria disposi­ zione, un proprio sentimento, estranei semplicemente dichiarandoli ta­ li, così come un certo ideale di sé non diventa la vera identità attraverso una mera dichiarazione199.

197. «Non potersi identificare con se stessi» significherebbe quindi che rifiuto quello che sono perché non corrisponde alle aspettative che ho nei miei confronti e all’ideale che ho di me stessa. Certo io non voglio essere ciò che sono (per esempio non voglio essere qualcuno che è sempre in ritardo con la preparazione degli interventi per le conferenze) - ma sono ben identificabile (da me come da»altri) come qualcuno cui questo succede ripetutamente. Potrebbe quindi essere che il mio ideale coincida con me stessa meno del mio effettivo modo di agire. Sarebbe quindi un modo di dire inap­ propriato affermare che io in queste caratteristiche sono «estranea a me stessa»: ci so­ no modi di agire in me che io rifiuto, ma in ogni caso devo bene o male identificarmi con loro e riconoscerli come miei. 198. Ivi, p. 65. 199. Ibidem. In questo senso anche Frankfurt afferma: «La distinzione tra passione interna ed esterna non è la stessa distinzione di quella tra ciò che è e ciò che non è “reale” nel senso di un’immagine ideale di se stessi» (ivi, p. 64).

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In questione qui è la sovranità interpretativa, le condizioni in base al­ le quali si può dire di una certa interpretazione che essa coglie veramente chi siamo. Il problema riconosciuto dallo stesso Frankfurt consiste nel fatto che anche l’autorità e lo status dei desideri di secondo ordine pos­ sono essere messi in dubbio. Essi stessi possono essere «estranei» o «esterni»:

Gli atteggiamenti nei confronti delle passioni sono passibili di essere esterni, proprio come le passioni stesse. Questo preclude di potere spie­ gare i concetti di interno ed esterno, semplicemente richiamandosi alla nozione di ordine degli atteggiamenti200. Siamo alla ricérca, quindi, di un parametro in base al quale misura­ re se i desideri sono interni o esterni, che vada oltre l’atteggiamento meramente soggettivo: una descrizione di cosa significhi identificarsi con qualcosa, un criterio in base al quale l’identificazione significhi più di una semplice presa di posizione positiva e sia fondata diversamen­ te rispetto a essa. Se l’identificazione deve autorizzare, essa deve ri­ guardare qualcosa che vada oltre il volere soggettivo, qualcosa di più cogente o di più determinante. E non è facile dire da dove ciò debba venire, dal momento che quello che è qui in questione è lo status dei propri desideri, e non determinazioni oggettive riguardanti ciò che uno dovrebbe desiderare, oppure il riferimento a quel contenuto che i «veri desideri» dovrebbero avere. (Ciò che è in questione nel caso di H. non è se sia giusto o meno essere femminista, ma se lei lo sia vera­ mente o se lo voglia essere, se quindi quello che fa le corrisponda o la manchi, non è in questione l’essere in accordo con ciò che è oggetti­ vamente bene o giusto, ma l’essere in accordo con se stessa). Il pro­ blema di trovare un parametro si pone in maniera così urgente proprio perché siamo privi di criteri essenzialistici per misurare quest’accor­ do con se stessi, ossia non possiamo sollevare la pretesa di conoscere l’essenza dell’essere umano a partire dalla quale poi si potrebbe valu­ tare questo accordo.

200. Ivi, p. 66.

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Tra decisionismo e modello del nucleo del sé E istruttivo vedere perché Frankfurt non riesce a risolvere questo pro­ blema all’interno del suo modello. Frankfurt rimane indeciso, infatti, tra due modelli di spiegazione opposti e che, con terminologia heideg­ geriana, potremmo definire come il modello della risolutezza (Entschlossenheit) e quello della gettatezza (Geworfenheit). Il primo enfatizza gli elementi attivi (che si basano su decisioni) mentre il secondo enfatiz­ za gli elementi passivi (che concernono il destino). Entrambi i modelli, tuttavia, vanno incontro ad alcune difficoltà: il primo non riesce a fon­ dare l’autorità dei desideri; il secondo ricade in un essenzialismo che non è più in grado di cogliere le aspirazioni al cambiamento di sé e all’e­ mancipazione che, quanto meno nel caso della nostra protagonista, so­ no il punto di partenza delle sensazioni di alienazione. (a) Risolutezza. Qualche volta (nel saggio che abbiamo discusso) Frankfurt caratterizza il processo d’identificazione in cui ci si rapporta ai propri desideri e alle proprie passioni come una sorta di decisione dal ca­ rattere essenzialmente attivo: «Sembra che la relazione della persona con le sue passioni si stabilisca prendendo un certo tipo di decisione»201. Tuttavia, Frankfurt ha difficoltà a cogliere la particolarità di questo tipo di decisione, che dovrebbe avere allo stesso tempo forza vincolante e necessità: «In ogni caso la natura della decisione è molto oscura»202. Ci sono buone ragioni per questa perplessità. Come è stato spiegato sopra, l’autorizzazione dei desideri non può essere un processo meramente volontaristico. La decisione in questione deve essere determinata - in un modo difficile da afferrare - da qualcosa di più «profondo», più «pesante» o più fondato. Un ulteriore punto è decisivo per il modo in cui pongo la questione: in realtà il modello della risolutezza non può spie­ gare la possibilità dell’alienazione da se stessi così come essa compare nel nostro caso. Se l’identificazione è pensata in modo decisionistico - se ci appropriamo dei nostri desideri attraverso una semplice decisione - c’è la possibilità di ricadere in uno stato di irresolutezza che minaccia l’i­ dentità. Però questa perdita d’identità non è identica al problema del­ l’alienazione da sé. Secondo questo modello, infatti, ogni risoluzione, purché sia sufficientemente decisa, porta a un accordo con se stessi che 201. Ivi, p. 68. 202. Ibidem.

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non andrebbe ulteriormente interrogato o valutato. La domanda: «Co­ sa voglio veramente?» allora non ha più senso. Essa può riferirsi solo al­ l’intensità o alla risolutezza del volere. Ma non solo la domanda: «Sono veramente risoluto?» non si può porre sensatamente, se non in modo retorico. Il problema stesso dell’autorità del desiderio, nel senso della sua legittimità non avrebbe così più alcun senso. Applicato al caso di H., che si interroga criticamente sull’identificazione con le sue «volizioni di secondo ordine» orientate all’ emancipazione, ciò significa: nella ver­ sione decisionista della posizione di Frankfurt, il problema si pone in modo tale da non potere offrire una vera risposta alla domanda su ciò con cui lei dovrebbe identificarsi. Da questo punto di vista, l’unico pro­ blema consiste nel fatto che lei semplicemente se lo chiede, e che non ten­ de in maniera sufficientemente risoluta verso uno dei suoi desideri. Non può perdersi scegliendo una parte anziché l’altra, la sua identità è mi­ nacciata solo dal fatto di essere indecisa. Ma, allora, cosa autorizza l’«autenticatore»? Secondo questo model­ lo: si autorizza da solo. I desideri sono autorizzati dal fatto che qualcu­ no li ha scelti. Questa decisione blocca il rischio del regresso di deside­ ri di livello superiore. Qui «la vanga si piega». Per rispondere alla no­ stra domanda, però, si piega troppo presto. Con questo approccio l’autorità dei desideri, in questione nel problema dell’alienazione, non può né essere fondata né essere messa in discussione. (b) Gettatezza. La seconda versione della teoria di Frankfurt che as­ socio alla parola chiave «gettatezza» spiega il problema dell’identifica­ zione in modo differente. Se l’identificazione con i propri desideri ha ancora un carattere essenzialmente attivo, parlando di «ideale» e di «ne­ cessità volitive» {volitive necessities), Frankfurt enfatizza d’altra parte la dimensione passiva, la dimensione di indisponibilità dei legami più profondi e delle identificazioni. La teoria della persona che Frankfurt sviluppa un po’ alla volta nei suoi scritti prova a rendere giustizia all’in­ tuizione secondo cui le persone sono caratterizzate anche da una di­ mensione che non è controllabile. Le persone sono esseri che si rappor­ tano ai propri desideri in maniera plasmatrice, la cui volontà «si fa stra­ da» attraverso i desideri e i bisogni con i quali - sul piano dei «desideri di primo ordine» - sono confrontati. Allo stesso tempo però, e questo Frankfurt lo sottolinea sempre di più nel corso della sua opera, non si de­ ve equivocare questa dimensione della volontà comprendendola in un

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senso volontaristico. La possibilità di rapportarsi ai propri desideri va­ lutandoli non significa infatti che la persona sia, riguardo alla propria vo­ lontà, completamente priva di vincoli: non può volere tutto; non è libe­ ra di reinventare completamente la propria volontà. Frankfurt si occupa qui dei limiti della volontà, dei limiti di ciò che si è liberi di volere. Egli giunge perfino ad affermare che sono proprio questi limiti a costituire il carattere di una persona: «I confini della sua volontà definiscono il suo profilo come persona»203. Viceversa, colui che potrebbe volere tutto non avrebbe alcuna identità come persona: «Poi­ ché niente è per lui necessario, non si può dire che cosa egli sia essen­ zialmente»204. Frankfurt giunge al cuore di questa tematica con il con­ cetto delle «necessità volizionali» {volitionalnecessities): ci sono cose che non possiamo far altro che volere e, d’altro canto, cose che non possia­ mo volere. Questo a sua volta dipende da ciò a cui siamo veramente le­ gati, da ciò che veramente ci «preoccupa», ciò che per noi è importante in maniera irrinunciabile:

Le nostre nature essenziali, in quanto individui, sono costituite, quindi, da ciò di cui non può non importarci. Le necessità dell’amore e il loro ordine o la loro intensità definiscono i nostri confini volizionali. Segna­ no i nostri limiti volizionali e così delineano il nostro aspetto in quanto persone205206 . Una persona che potrebbe fare tutto, che non ha «limiti volizionali», secondo Frankfurt, non ha alcuna identità. Viceversa, seguire i propri «li­ miti volizionali» significa essere in accordo con se stessi. Frankfurt elabora questo punto, di nuovo, con un esempio incisivo: il caso di una donna che ha deciso di dare il proprio bambino in adozione ma che al momento decisivo si accorge di non poterlo fare™. E signifi­ cativo che Frankfurt non interpreti questa decisione nel modo che sem­ brerebbe più ovvio, ossia come una vittoria dei desideri di primo ordi­ ne su quelli di secondo ordine, per esempio come il trionfo di emozioni 203. Frankfurt H., On the Necessity of Ideals, in Id. Necessity, Volition, and Love, Cambridge University Press, Cambridge, 1999, p. 114. 204. Ivi, p. 115. 205. Frankfurt H., Autonomy, Necessity and Love, in Id. Necessity, Volition, and Love, op. cit., p. 138. 206. Questo esempio è discusso in Frankfurt H., On the Necessity of Ideals, op. cit.

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spontanee sulla ragione. Se la donna non può fare propria la «volizione di secondo ordine» di dare via il bambino, la forza che la ostacola nel mo­ mento decisivo si muove su un piano che, secondo il modello di Frank­ furt della gerarchia dei desideri, è «superiore» a quello dei «desideri di secondo ordine»207. Le «necessità volizionali» - Frankfurt parla qui a vol­ te anche di «ideali», cosa che tuttavia può portare ad associazioni fuor­ viane - sono quindi l’istanza che decide quali «volizioni di secondo or­ dine» si possono assumere e quali no. Non si può quindi seguire qua­ lunque «volizione di secondo ordine» e questo non perché a ciò si oppongano «desideri» puri, non valutati, bensì perché certe «volizioni di secondo ordine», considerate in base all’istanza superiore delle «ne­ cessità volizionali», non si possono seguire. Il punto cruciale qui è il seguente: secondo la concezione di Frankfurt, i limiti posti dalle «necessità volizionali», sebbene limitino ciò che pos­ siamo fare, non costituiscono una coercizione in un senso convenziona­ le. Se esse, infatti, in base a quanto si è detto sopra, costituiscono la no­ stra identità, esse rappresentano allora una sorta di «orientamenti di fon­ do» che sono ineluttabili poiché sono ciò che ci costituisce come persone. Per Frankfurt, chi elude le proprie «necessità volizionali» tra­ disce la propria identità. La madre che vuole dare via il proprio bambi­ no è minacciata dalla perdita della propria identità - e da questa minac­ cia deriva la coercizione alla quale non si può sottrarre, la forza alla qua­ le obbedisce quando alla fine si decide a tenere il bambino. Questa coercizione però - è questo il punto centrale di Frankfurt - non è una coercizione, perché adeguarsi a essa significa rimanere in o pervenire a un accordo con se stessi. Per comprendere meglio questa impostazione e per potere valutare meglio le sue implicazioni riguardo al problema dell’«autorizzazione dei nostri desideri», vorrei intanto riassumere brevemente le implicazioni che risultano dalle riflessioni di Frankfurt per il problema dell’aliena­ zione: 1. Da un lato, l’alienazione da se stessi può essere intesa, con Frank­ furt, come l’essere in balìa dei propri desideri e delle proprie brame (si

207. Sarebbe tuttavia fuorviarne parlare qui di qualcosa come una «volizione di terzo ordine» (thirdorder volition) poiché questo suggerirebbe la possibilità di ulteriori li­ velli - e così di un regresso infinito nell’ordine dei desideri - che dovrebbero essere esclusi proprio sulla base del teorema delle «necessità volizionali».

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potrebbe chiamarla l’alienazione «di primo livello»). Questi desideri possono assumere le sembianze di un potere sovrastante, che si presen­ ta come una «forza a noi estranea» (force alien to ourselves). Ciò non ha a che fare solo con il loro carattere irresistibile: «E perché non ci identi­ fichiamo con essi e non vogliamo che essi ci muovano»208. 2. Questi sentimenti e queste passioni sono il materiale grezzo al qua­ le ci riferiamo valutandolo e in base al quale formiamo la nostra vo­ lontà.

Se una persona s’identifica con queste passioni, o se esse sopraggiungo­ no come forze estranee che rimangono fuori dai confini della sua iden­ tità volitiva, dipende da quello che lui stesso vuole che sia il suo volere209. Su questo piano, le attitudini volizionali (volitional attitudes), in con­ trasto con i desideri di primo ordine, sono formabili, plasmabili e se ne può disporre liberamente: «Dipendono interamente» da noi. Un’impli­ cazione cruciale di questa impostazione è la distinzione tra potere (power) e autorità (authority). Le «passioni» hanno, secondo questa impostazio­ ne, un potere volizionale (volitional power) ma non uri autorità volizionale. Frankfurt spiega più precisamente: «Di fatto, le passioni non avan­ zano alcuna richiesta su di noi. [...] la loro efficacia nel muoverci è inte­ ramente una questione di mera forza bruta»210. 3. Ciò di cui non possiamo disporre liberamente, invece, è la nostra natura volizionale, la struttura profonda della nostra stessa volontà. Sul pia­ no delle «necessità volizionali» siamo determinati, non «dipende intera­ mente da noi» come determiniamo la nostra volontà, è la nostra «natura volizionale» che ci determina. Tuttavia le «necessità volizionali» ci deter­ minano in un altro senso rispetto a come lo fanno le «passioni» o i «desi­ deri di primo ordine»: esse ci costringono, si può dire, non in quanto for­ ze estranee, ma a noi stessi. Non sono una «forza bruta» perché non sono un potere esterno ma piuttosto il potere di ciò che vogliamo veramente o che siamo veramente. «E un elemento della sua natura volizionale costi­ tuita e perciò della sua identità come persona»211. Perciò Frankfurt può

208. 209. 210. 211.

Frankfurt H., Autonomy Necessity and Love, op. cit., p. 136. Ivi, p. 137. Ibidem. Ibidem.

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affermare, riguardo all’esempio dell’adozione, che la madre percepirà la li­ mitazione della sua volontà, il suo «non riuscire» a dare via il bambino, come una sorta di liberazione. «Alienazione da se stessi» significa quindi agire contro la propria «natura volizionale». La madre che vuole dare via il proprio bambino ha sviluppato una «volizione di secondo ordine» che contraddice la sua «natura volizionale». Agire secondo questa «volizione di secondo ordine» la alienerebbe da se stessa: sarebbe un’alienazione di secondo ordine. Ciò significa che lei andrebbe contro ciò che la costitui­ sce come persona, ciò minerebbe ipresupposti della sua identità. L’aliena­ zione da se stessi, su questo livello, consiste quindi nel non trovarsi in ac­ cordo con la propria persona, con ciò che ci costituisce come persone. L’assunzione di una «natura volizionale» sembra quindi poter risol­ vere il problema del punto di riferimento dei desideri autentici e della lo­ ro autorizzazione, che io ho sollevato in relazione al tema dell’alienazio­ ne da se stessi. Il criterio dell’adeguatezza o inadeguatezza dell’identifi­ cazione con un desiderio è la «natura volizionale»; i nostri desideri, cioè i nostri veri desideri, sono autorizzati in base a essa. In seguito mostrerò perché anche questa soluzione non riesce a risolvere in modo soddisfa­ cente il problema sollevato con il nostro esempio iniziale.

Critica del modello della gettatela Già parlare del fatto che si cerca di scoprire chi si è solleva un sospet­ to: anche se in modo interessante e raffinato dal punto di vista metodo­ logico, questa concezione ci riporta al modello del nucleo essenzialistico che ho criticato nell’introduzione (anche se non si espone ad alcune delle critiche là formulate). Nel capitolo I della terza parte, mi confron­ terò più dettagliatamente con la teoria della persona e con il concetto di sé qui in questione. Per il momento m’interessano solo le implicazioni di ordine pratico che risultano da una simile soluzione e dal suo model­ lo di persona. Le «necessità volizionali» (cosi come le descrive Frankfurt) non solo sono ciò che costituisce ineluttabilmente l’identità di una persona; esse non possono neanche venire criticate o messe in questione - non posso­ no e non necessitano di essere legittimate. Sono fattuali e contingenti. Se­ condo la concezione di Frankfurt, chiedere alla madre che non riesce a

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dare via il suo bambino: «Perché non ci riesci?» non è più una doman­ da sensata. Questa potrebbe sempre rispondere soltanto: «Perché è co­ sì». Questo non dipende solo dalla forza emotiva del legame menziona­ to, ma anche dalla struttura che qui Frankfurt suppone. I legami di cui non si può disporre, che qui sono in questione, sono presupposti, sono condizioni di possibilità della propria identità, rendono la persona in questione una persona che può sviluppare ulteriori desideri per una co­ sa o per un’altra. Ma se dare via il bambino mina l’identità della madre, non si può discutere sensatamente del fatto se tenere il bambino di­ struggerebbe o meno i suoi piani futuri. Questi piani non avrebbero più alcun fondamento. Questo ha una conseguenza importante per la no­ stra ricerca: non c’è nessuna possibilità e nessun luogo a partire dai qua­ li ci si possa interrogare criticamente su quali siano gli influssi e i condi­ zionamenti da cui è formata questa identità. La «natura volizionale» è quindi, nonostante sia «volizionale», appunto «natura», quindi indi­ sponibile e incontrollabile. Si potrebbe suppore - contro l’interpretazione di Frankfurt - che la madre di cui abbiamo parlato (pensando qui sempre a una situazione che renderebbe la vita con il bambino veramente difficile) non sia in grado di rendere efficace la sua «volizione di secondo ordine» perché è trop­ po attaccata alle idee tradizionali di amore materno. Queste concezioni, si potrebbe dire, le impediscono di prendere una decisione autonoma che sia in armonia con i suoi piani futuri e con il suo progetto di vita. Ci sarebbero quindi qui due possibilità: a) la messa in questione di se stes­ si e della persona che si è diventati, e b) una tensione tra identità e auto­ determinazione, che è precisamente ciò che Frankfurt esclude con la sua figura della «liberazione verso se stessi». Se quindi l’impostazione di Frankfurt sembra escludere simili do­ mande e una simile interrogazione critica, la possibilità di cambiare se stessi è fuori discussione: ogni cambiamento radicale di se stessi che si esprima togliendo vigore alle «necessità volizionali» sarebbe una perdi­ ta di se stessi. Se allora con Frankfurt ci s’interroga sull’«autenticità dei desideri», lo si fa solo nel senso di un «adeguamento». Chiedersi cosa si «vuole veramente» significa diventare consapevoli della propria «natu­ ra volizionale», una dimensione che viene considerata come già data e della quale non si può disporre, così che non ci si può interrogare criti­ camente su di essa. Questo ha delle conseguenze per la possibilità dei

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processi di emancipazione e per il «carattere emancipatore» dell’interrogarsi sull’autenticità dei desideri, al quale io sono interessata. Adesso dovrebbe essere più chiaro perché il modello di Frankfurt non è soddisfacente come soluzione al «problema dell’autorizzazione»: Frankfurt sottovaluta il ruolo della riflessione, della giustificazione e della valutazione che accompagnano il processo d’identificazione con i propri desideri, o che almeno devono poterlo accompagnare affinché es­ si (i desideri) possano diventare «propri» in un senso veramente forte. I due modelli apparentemente opposti s’incontrano in un punto comu­ ne: l’idea delle «necessità volizionali» ha in comune con la versione «de­ cisionista» la caratteristica di non contare su un processo di riflessione e di valutazione che possa indirizzare la presa di posizione rispetto ai pro­ pri desideri. O decidiamo ciò con cui ci identifichiamo «così», come una scelta in ultima istanza infondata e inaggirabile, oppure non abbia­ mo proprio niente da decidere, ma solo da eseguire ciò che la nostra identità - in quanto determinata dalle «necessità volizionali» - ci richie­ de. In entrambi i casi - quando Frankfurt comprende il processo della valutazione dei propri desideri in modo decisionista o quando egli met­ te completamente fra parentesi il momento della decisione - non siamo noi stessi a decidere. L’effetto non intenzionale di una simile concezio­ ne è: i nostri desideri rimangono in un certo senso «fatti grezzi» (Char­ les Taylor), anche quando sono desideri di livello superiore. Nella misura in cui, infatti, entrambi i processi avvengono alla fine sen­ za alcuna riflessione, non si tratta di una «formazione» dei propri desi­ deri212. Questo però va contro l’intenzione di Frankfurt stesso: se il pro­ cesso d’interpretazione e di valutazione dei desideri viene messo tra pa­ rentesi (ovvero non viene spiegato sul piano dei contenuti) allora non è poi così semplice distinguere la situazione della madre, che per la sua

212. Questa è la differenza decisiva rispetto alla «purificazione degli impulsi» di Hegel. Anche la critica di Charles Taylor a Frankfurt prende le mosse coerentemente dal ca­ rattere del volere o della scelta, come è concepita da Frankfurt. Estendendo le «voli­ zioni di secondo ordine» in «valutazioni forti» (strongevaluations}, Taylor introduce un momento di valutazione giustificata. Cfr. a proposito anche Kusser A., Dimension der Kritik von Wùnsche, Athenàum, Frankfurt am Main, 1989, p. 147, che rimprovera a Frankfurt di omettere la dimensione della motivazione pratica dei desideri (già al «pri­ mo livello») e in fondo di praticare una «compromissione decisionista della razionalità pratica» (ivi, p. 149). Kusser fa questo sullo sfondo di una propria proposta alternativa di «critica epistemica dei desideri» che non posso qui discutere nel dettaglio.

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«necessità volizionale» non può voler dare via il suo bambino, da quella della persona dipendente, che non può stare lontana dalle droghe, an­ che se, come abbiamo visto, nelle riflessioni di Frankfurt tutto è teso pro­ prio a spiegare questa differenza. Anche se in Frankfurt troviamo il sug­ gerimento che le passioni (irriflesse o «di primo ordine») costituiscono un «potere volizionale» ma non hanno «autorità volizionale» - esercita­ no un potere su di noi ma non hanno autorità - egli però fallisce nel chiarire come l’autorità di queste rivendicazioni possa essere giustifica­ ta (se parlare di autorità deve avere un qualche significato normativo). La mia obiezione può essere riassunta quindi nel modo seguente: sebbene per Frankfurt i desideri diventino propri quando ci appropriamo di essi, il processo di questa «appropriazione» o identificazione sarebbe com­ preso correttamente come tale solo se fossimo in grado di distinguere correttamente tra identificazioni adeguate e inadeguate, ossia tra pro­ cessi di appropriazione riusciti o falliti. Più avanti voglio riprendere il problema dell’identificazione con i propri desideri dal punto di vista del­ la sua importanza per la comprensione di come sono resi possibili i pro­ cessi di emancipazione.

(5) Essere se stessi ed emancipazione

Il carattere «emancipatore» della questione dell’autenticità dei desi­ deri (o del sospetto della loro «inautenticità») è fondato sul fatto che, se ci s’interroga sull’adeguatezza di desideri e di orientamenti fattualmen­ te dati, si presuppone la loro criticabilità e con ciò la possibilità di met­ tere in questione «se stessi», come si è, e come si è diventati: si può vo­ ler diventare diversi da come si è. Interrogarsi criticamente sui propri de­ sideri e sulle proprie disposizioni - sollevare il dubbio: «Questo impulso, questo desiderio appartengono veramente a me?» - può rendere possi­ bile l’appropriarsi in maniera più decisa della propria vita e il «muover­ si più liberamente» in essa. Tornando all’esempio dell’adozione fatto da Harry Frankfurt: la domanda se la madre che non riesce a dare via il suo bambino si sia fatta «imprigionare» o meno da schemi di socializza­ zione che la rendono non libera, rientra nell’ambito di tali questioni. Il caso di H. ha nel complesso questa struttura. Se per Frankfurt si tratte­ rebbe solo di scoprire quale dei suoi due complessi di desideri - è «una

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vera donna» oppure è femminista? - corrisponda alla sua «natura voli­ zionale», per la stessa H. il problema si pone in un’altra forma: essa aspira, in caso di dubbio, a interrogare criticamente proprio la sua «na­ tura volizionale». Per Frankfurt, H. sarebbe «alienata da se stessa» quan­ do cerca, agendo contro la sua «natura volizionale», di essere qualco­ s’altro rispetto a quello che «è» - per esempio indipendente - mentre de­ sidera sicurezza; invece H. si sentirebbe alienata precisamente se seguisse «ciecamente» la sua natura. E se per Frankfurt essa sarebbe autentica­ mente se stessa solo laddove fosse priva di tensioni e di ambivalenze, la posizione alternativa assumerebbe che la lotta contro i legami e i condi­ zionamenti più profondi non può aver luogo senza simili tensioni. Per quest’ultima posizione, un simile tentativo di emancipazione è una con­ dizione del non essere alienati, per la posizione di Frankfurt invece rap­ presenta una minaccia per l’unità del sé.

Il dilemma dell'emancipazione Ora, può anche darsi che in alcune situazioni si farebbe bene a rico­ noscere che un certo modo di vivere semplicemente non ci corrispon­ de; e naturalmente in linea di principio potrebbe anche darsi che gli stan­ dard che H. pone a se stessa siano troppo esigenti. Ma d’altra parte: non saremmo sospettosi se H. all’improvviso ci rivelasse che tutta la storia dell’emancipazione è stata una sciocchezza, che non le è mai cor­ risposta, e che adesso, essendosi innamorata di nuovo, è contenta di ri­ trovarsi finalmente in un ruolo femminile? Una H. che, «non potendo fa­ re altrimenti», è approdata a una forma di vita in cui ha una posizione protetta ma subordinata rispetto al suo uomo, non sarebbe tanto pro­ blematica (e una candidata per l’alienazione) quanto quella che si trova in continua tensione con le proprie aspirazioni? E possibile ora vedere il problema cui si trova di fronte la pretesa di emancipazione: da dove dovrebbe provenire il criterio sulla base del qua­ le si può decidere quale delle due parti le corrisponde di più, quale par­ te di lei è veramente «lei stessa»? Un «accordo con se stessi» non qualificato, meramente fattuale, non può evidentemente fungere da criterio. Non sono proprio le conversio­ ni più assurde a essere abitualmente accompagnate dall’affermazione che

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si è finalmente trovato se stessi? E anche la rassegnazione non conduce forse a una sorta di accordo con se stessi? Nel caso in cui H. adottasse un modo di vita tradizionalmente femminile, si sospetterebbe che si tratti di un atto di rassegnazione in cui rinuncia a se stessa più che tro­ vare se stessa. Ma anche se, viceversa, le riuscisse di superare i suoi im­ pulsi contraddittori, ci si potrebbe chiedere preoccupati se H. non si sot­ toponga a un ideale di sé troppo rigido, a un ideale nel quale deve rin­ negare troppe parti di sé - con il possibile risultato di una personalità completamente rigida nel proprio autocontrollo. Formulato in termini un po’ paradossali, il sospetto è che in entrambi i casi non sia da esclu­ dere che l’accordo con se stessa venga raggiunto al prezzo della perdita di sé, e che perciò l’immagine che H. ha di sé possa essere compietamente falsa, manipolata, inadeguata o illusoria. Non è raro che interroghiamo criticamente noi stessi e gli altri in que­ sto modo; se non lo facessimo il prezzo sarebbe molto alto. Ma su cosa si può fondare un simile dubbio sollevato nei confronti della propria iden­ tità - una simile «obiezione» contro di sé - se qui appunto non disponia­ mo del punto di vista sicuro di un vero sé da svelare, fosse anche nella versione della «natura volizionale»? Come si può ancora concepire l’e­ mancipazione come «emancipazione da forze estranee», se queste ultime siamo noi stessi? Qui emerge con chiarezza un dilemma dell’emancipa­ zione: ogni tentativo di porre simili domande e di fondare questo genere di dubbi, somiglia al tentativo di togliersi il terreno da sotto i piedi. La proposta che voglio fare per sciogliere questo dilemma può essere formulata nel modo seguente: l’emancipazione e l’autocritica a essa con­ nessa devono essere concepite come un’impresa sospesa in aria - come un’impresa che non si lascia fondare fin dall’inizio, ma che si fonda da sé nel corso del processo; un processo in cui, quindi, non ci si può rife­ rire a qualcosa che si è già, e nel quale tuttavia si «giunge a se stessi». Ciò significa che l’emancipazione deve essere pensata come una «rico­ struzione (di una nave) in alto mare»213 - e la critica dell’alienazione co­ me forza motrice e come strumento di una simile ricostruzione (anche qui, come proposto nella parte I, si tratta del come e non del cosa di questo processo). 213. L’immagine della «ricostruzione in alto mare» viene da Otto Neurath. Anche se in una simile ricostruzione alla fine ogni asse (della nave) deve essere sostituita da una nuova, non si può farlo contemporaneamente con tutte le assi.

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In seguito cercherò di descrivere in questo senso i processi dell’alie­ nazione da se stessi e dell’emancipazione. Nel far ciò, mi avvicinerò al problema gradualmente, «da fuori», ovvero prendendo inizialmente le mosse dalle condizioni negative che caratterizzano la formazione au­ tentica della volontà (come sono state tra l’altro proposte da John Ch­ ristman e Raymond Geuss). Tuttavia, alla fine si vedrà che anche que­ ste condizioni non possono fare a meno di riferirsi a un’immagine po­ sitiva di cosa significhi «essere se stessi». Nel passaggio seguente elaborerò la proposta (in linea con l’idea di emancipazione cui si è ac­ cennato sopra) di considerare l’autentico «essere se stessi» come una modalità dell’essere liberamente accessibili a se stessi.

Manipolazione e limitazione Sulla base di quali condizioni deve avere avuto luogo il processo di for­ mazione della mia volontà, affinché il mio volere possa valere come «mio proprio volere»? Due di queste condizioni sono: Primo: Nella formazione dei miei desideri non deve esserci stata nes­ suna manipolazione. Noi non riconosciamo i desideri come desideri no­ stri se abbiamo motivo di pensare che, nel loro sorgere, essi siano stati manipolati. Solo un desiderio che sono stata libera di sviluppare e che nel sorgere non è stato manipolato da un influsso esterno può essere auten­ ticamente «mio». Così H. - o noi potremmo ipotizzare a proposito di H. - potrebbe avanzare l’ipotesi che il suo comportamento sia il prodotto di un condizionamento manipolatore, la conseguenza della sua (specifi­ ca) socializzazione di genere. Seguendo una proposta di John Christ­ man214, per poter valutare l’autenticità dei desideri, si deve includere la storia della formazione di un tratto del carattere e la genesi della forma­ zione dei desideri, escludendo la manipolazione. Secondo: la formazione della mia volontà, come sottolinea Raymond Geuss nelle sue riflessioni sul problema dei «veri interessi», deve aver luogo in condizioni nelle quali io posso in generale voler scegliere tra al­ ternative a mia disposizione. Seguendo la tesi di Geuss delle «condizio­ 214. Christman J., Autonomy and Personal History, in «Canadian Journal of Philoso­ phy», vol. 21, n. 1,1991, pp. 1-24.

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ni ottimali»215, si può dire: ciò che voglio realmente non può essere il ri­ sultato di una scelta tra alternative che sono limitate in modo non ade­ guato. Sarà valido come desiderio autentico solo quello che è emerso dal­ la scelta tra alternative accettabili. Applicato al caso di H.: l’alternativa tra protezione ed emancipazione di fronte alla quale si sente messa H. sa­ rebbe, se la sua descrizione è vera, inaccettabile. Nessuna delle due pos­ sibilità: - emancipazione senza protezione e sicurezza senza emancipazione - può essere ragionevolmente oggetto del suo vero volere. Se doves­ se risultare che una società segnata dal patriarcato mette le donne siste­ maticamente di fronte a una simile alternativa, allora - almeno per le donne - verrebbero a mancare le condizioni necessarie per un «deside­ rare autentico» in ambiti importanti. Con il divieto di manipolazione e con l’idea delle condizioni ottimali o delle alternative accettabili sono state menzionate soltanto due condi­ zioni sicuramente irrinunciabili. Tuttavia esse aiutano a chiarire solo le precondizioni di un’autentica formazione della volontà. Anche le diffi­ coltà sono infatti evidenti. Dal momento che si è sempre influenzati dal proprio ambiente e sempre in qualche modo socializzati: quando viene sorpassato il limite della manipolazione? E dato che le alternative sono sempre limitate: quali sono le alternative sufficienti e accettabili? Quali sono esattamente le manipolazioni illegittime, se si parte dal presuppo­ sto che nella formazione dei desideri e delle disposizioni si è sempre an­ che condizionati da influssi esterni e che ogni socializzazione significa ne­ cessariamente subire un’influenza degli altri? Al di là dei drastici, e in realtà poco plausibili casi di lavaggio del cer­ vello che vengono spesso discussi, la tesi della manipolazione si rivela troppo ristretta finché essa non permette di fare una differenza tra con­ dizionamenti manipolatori e non manipolatori. Essa infatti rinvia la • 215. La «teoria delle condizioni ottimali» riguardo all’identificazione di «falsi inte­ ressi» - sviluppata da Geuss in Videa di una teoria critica. Habermas e la scuola di Francoforte (trad. it. Mori coni E., Armando Editore, Roma, 1989) - afferma che, as­ sumendo la trasformabilità dei desideri e degli interessi e la loro dipendenza dalle con­ dizioni di vita, i «veri interessi» delle persone devono essere determinabili come quelli che «esse svilupperebbero in condizioni “ottimali” (ovvero favorevoli)». Que­ ste «condizioni favorevoli» escludono quanto meno «rinunce estreme» e «grave igno­ ranza». Geuss non persegue tuttavia ulteriormente una definizione più precisa delle condizioni adeguate.

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questione del proprio e dell’estraneo senza risolverla. Nel caso qui di­ scusso, per esempio, entrambe le parti potrebbero argomentare chia­ mando in causa la manipolazione e il prevalere di influssi esterni: Fanti­ femminista potrebbe fare riferimento all’indottrinamento dell’ideolo­ gia» femminista, la femminista potrebbe, viceversa, ricondurre gli ideali di amore e famiglia che la perseguitano contro il suo volere al profondo condizionamento da parte dell’ambiente, dominato da modelli maschili-patriarcali, e da parte della sua socializzazione di genere. E da questi condizionamenti che si deve quindi liberare per diventare «se stessa». Dunque, è certamente corretto che si deve fare ricorso alla genesi dei desideri per valutare la loro autenticità; tuttavia l’assenza di un’influen­ za esterna non è da sola un criterio sufficiente per determinare una ge­ nesi riuscita. Ci imbattiamo qui in un problema che abbiamo già incon­ trato riguardo all’appropriazione dei ruoli: in che misura gli influssi che ci condizionano sono estranei, se noi stessi siamo costituiti proprio da simili condizionamenti? Proprio come riguardo ai ruoli era poco sensa­ to presupporre un «puro sé» sotto o dietro al ruolo, così anche nel caso della formazione del volere sarebbe poco sensato ipotizzare dei «puri» desideri situati prima di ogni condizionamento. Analogamente all’idea dell’«appropriazione» riguardo al ruolo, anche qui deve essere possibi­ le sviluppare dei criteri con i quali si possa distinguere tra proprio ed estraneo in modo diverso dal riferimento a qualcosa d’«intatto» o di non determinato da influssi esterni. D’altra parte Raymond Geuss dice: «I miei veri desideri sono quelli che svilupperei se avessi la possibilità di formare la struttura dei miei desideri in circostanze favorevoli ottimali»216 ed esplicita queste circo­ stanze favorevoli ottimali (rispetto ai «veri interessi») come «conoscen­ za completa» e «libertà completa»217. Anche quest’idea rimanda, se non deve significare la semplice assenza di ostacoli esterni, a un’elaborazio­ ne delle condizioni nelle quali tale «conoscenza completa» è accessibile e realizzabile in «completa libertà». Anche qui sono in gioco presuppo­ sti di tipo sostanziale, che sono tanto più difficili da formulare quanto più sottili sono le limitazioni che devono essere tematizzate. (Per quanto ri­ guarda la fame e l’estrema privazione che Geuss considera inizialmente nelle sue riflessioni può essere semplice, mentre per le possibilità di svi216. Geuss R., Eidea di una teoria critica, op. cit., p. 61. 217. Ivi, p. 66.

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lapparsi che vengono richieste nel mio esempio di emancipazione è già più difficile).

(6) Essere se stessi come accessibilità a se stessi Ciò di cui abbiamo bisogno è una descrizione positiva di cosa signi­ fica non essere determinati da «forze estranee» in ciò che si vuole. In seguito abbozzerò una proposta che riesca a fornire una descrizione di questo tipo senza, da una parte, disporre di un punto di riferimento indipendente, un punto di Archimede del «vero sé» e senza, dall’altra, privilegiare il mero «accordo fattuale con se stessi». Questa proposta mira a un ampliamento, o meglio, a una qualificazione dell’idea di una concezione di sé allo stesso tempo coerente e adeguata. L’adeguatezza, a sua volta, deve mostrarsi in base al criterio (che si rivela nelle attua­ zioni pratiche) dell’accessibilità a se stessi e del poter disporre di se stes­ si. Si è «se stessi» laddove si è accessibili a se stessi e ci si può muovere liberamente in quello che si fa: «essere se stessi» è, in questo senso, non uno stato ma un processo, non qualcosa che si è ma un modo di par­ tecipare a quello che si fa. Quindi, il tentativo di identificare «desideri estranei» e di sostituire gli «intrusi» con ciò che è proprio (nel senso del­ l’idea di emancipazione cui si è accennato), è un processo di sviluppo sospeso in equilibrio.

Coerenza qualificata e concezioni di sé adeguate Questo ci riporta ancora al nostro esempio: il punto di partenza del di­ lemma era la difficoltà di trovare un criterio per decidere quali dei desi­ deri di H. le corrispondano, quali tra questi siano i suoi desideri e quali s’intrufolino nella sua personalità come desideri estranei. Dato il significato che la formazione di una concezione di sé ha nel quadro del nostro complesso di problemi, una possibilità ovvia per de­ finire questa «estraneità» consiste nel riferirsi al criterio della coerenza in­ terna. Così in un certo senso si sposta la nostra domanda fondamentale: questa non è più se quello che voglio e che faccio è veramente adatto a me, ma se le diverse cose con le quali mi identifico e che sono per me

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importanti sono tra loro compatibili. Invece di cercare un punto di rife­ rimento «in noi stessi», a partire dal quale e in base a cui potremmo de­ cidere cosa veramente ci appartiene, ci si chiede invece se, nelle sue ester­ nazioni e nelle sue attività, una persona sia consistente e coerente, ovve­ ro se sia in grado di metterle in relazione e di integrarle Tuna con l’altra come diverse parti della sua personalità. Se un desiderio, una passione, un impulso sia veramente adatto a noi, non lo si può decidere in base a questo stesso singolo desiderio, ma solo dal contesto dei vari desideri. Per diversi motivi qui torna in gioco il concetto di concezione di sé. Con il termine «concezione di sé» (Selbstverstandnis) intendo per il mo­ mento qualcosa che crea un nesso tra i nostri atteggiamenti e i nostri desideri e che dà loro un certo ordine. Questo nesso è essenzialmente una questione & interpretazione. Né i singoli desideri, né il loro nesso sono indipendenti dall’interpretazione o dati in modo oggettivo: se la passione di Gisela Eisner per i beni di consumo di lusso fosse adatta al­ la sua mentalità socialista o se il ridacchiare di H. sia adatto al suo fem­ minismo è una questione d’interpretazione e di autointerpretazione. Non le caratteristiche e i desideri, ma l’interpretazione delle caratteri­ stiche e dei desideri devono poter essere compatibili. Ciò che risulta importante qui è se posso o meno integrare quello che desidero nell’i­ dea che ho di me stessa come persona. Identificarsi con i propri deside­ ri o appropriarsene significa allora essenzialmente integrarli in un’inter­ pretazione coerente. Avere una «coerenza interna» significa sviluppare e perseguire piani e desideri che possono essere integrati in una com­ prensione di se stessi coerente. Ora, è facile vedere che l’idea della coerenza da sola non può bastare per risolvere la mia domanda fondamentale: anche idee folli sono in sé coerenti! In questo contesto, allora, dobbiamo essere interessati non solo alle interpretazioni di se stessi internamente coerenti, ma anche al­ le interpretazioni di sé adeguate. Ma cosa rende un’interpretazione di sé adeguata? Per cercare una risposta a questa domanda il discorso sulla concezione di sé ha bisogno di un’ulteriore spiegazione. Avere una concezione di se stessi o comprendersi come qualcosa ri­ manda ad un atteggiamento di comprensione che si assume nei confronti della propria vita, del quale si può affermare che è specifico di quel tipo di esseri che noi siamo, e che è legato in maniera costitutiva al modo in cui conduciamo la nostra vita in quanto persone. Per questo Charles Tay­

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lor parla dell’essere umano come delT«animale che interpreta se stes­ so» {self-interpreting animai)218. Parlare di concezione di se stessi implica due momenti. Primo: non solo noi facciamo e vogliamo certe cose, ma ci rapportiamo al fatto di farle e di volerle, ci comprendiamo come qualcuno che fa e che vuole que­ ste cose. Secondo: avere una concezione di sé significa mettere questi singoli aspetti in un contesto. Ciò significa che una concezione di sé non si basa su un inventario di proprietà e di azioni date; essa è un principio di organizzazione interno, il tentativo di dare ai nostri desideri e alle no­ stre azioni un contesto e di dare a questo un senso. In parole povere: svi­ luppare una concezione di sé significa prendere posizione nei confronti di se stessi. Nella parte III, capitolo 1, tornerò sulle difficili questioni connesse, relative a come ci si debba immaginare questo processo e a quanta coerenza presupponga il mettersi in relazione con se stessi in un modo riuscito. Qui vorrei solo brevemente prevenire un equivoco: il parlare di «concezioni di sé» non si riferisce esclusivamente a interpreta­ zioni esigenti e di «livello superiore», come quelle che si hanno se ci si comprende, per esempio, come una «femminista» o una «persona di si­ nistra». Le concezioni di sé non devono essere sempre completamente esplicite; esse possono, in parte, stare alla base di ciò che facciamo senza essere esplicitate; esse non sono già da sempre completamente coerenti - per il nostro contesto basta dire che sono orientate alla coerenza. È importante poi il fatto che il doppio carattere di una concezione di sé consiste nell’essere allo stesso tempo interpretazione e progetto, inter­ pretazione di sé e progettazione di sé. Nella mia concezione di me stes­ sa io mi comprendo come quella che sono e allo stesso tempo mi progetto come quella che voglio essere. Entrambe le cose non sono un mero rile­ vamento di fatti. In quanto interpretazione di ciò che ci costituisce, la concezione di noi stessi che sviluppiamo parte da un materiale già dato: gli eventi della no­ stra vita. Su questa base cerchiamo di comprendere chi siamo e cosa ci co­ stituisce. Allo stesso tempo questo materiale è scelto, interpretato e for­ mato. Qui non ci sono «nude verità»; i diversi aspetti della nostra vita sono significativi solo se noi li rendiamo tali. Per esempio, da un punto di vista oggettivo, può far parte di una persona il fatto di essere «di buo­

218. Taylor C., Che cosa è l'agire umano?, op. cit.

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na famiglia», di aver avuto un’istruzione eccellente, di essere un conosci­ tore dell’arte e del vino e di soffrire d’asma fin dalla prima infanzia. Que­ sto però non significa automaticamente che tutti questi aspetti facciano parte della concezione che egli ha di sé. Egli può fare dell’asma l’occasione per identificarsi intensamente con Marcel Proust e comprendere così la sofferenza cronica e la distanza dal mondo a questa collegata come un aspetto essenziale della propria personalità, o invece può, sorpreso ogni volta di nuovo dagli attacchi di insufficienza respiratoria, non percepirla quasi, come fosse un fastidioso fenomeno secondario, e rimuoverla nelle sue conseguenze. Anche la provenienza borghese non solo può diventa­ re oggetto d’identificazione positiva (orgoglio) o negativa (vergogna); la questione di provenire da una certa famiglia può anche essere più o me­ no significativa per la propria concezione di sé. In quanto progetto, d’altra parte, la concezione di sé determina chi si vuole essere e cosa si trova giusto essere. Se io mi considero «una fem­ minista» o qualcuno che si occupa dei propri amici, non solo interpreto chi sono, ma mi chiedo chi voglio essere e oriento il mio fare e il mio vo­ lere futuro ai modi di agire che si confanno a questa comprensione di me stessa. Di questo fa parte anche l’orientamento ai valori qui implica­ to, ossia che io trovo giusto orientarsi in questo o in quel modo. La con­ cezione di sé si trova da questo punto di vista in stretto legame con l’i­ deale di sé o dell’io, nel quale viene a espressione «ciò che per ciascuno è importante nella vita, il tipo di persona che si vuole essere, a che cosa si vuole aspirare»219. E evidente che entrambe le componenti, l’interpre­ tazione e il progetto, si trovano tra loro in un rapporto di scambio. Co­ sì, la progettazione di me stessa condizionerà in misura più o meno mag­ giore l’interpretazione di me stessa; a sua volta questo progetto può es­ sere il risultato di una determinata interpretazione di se stessi: divento femminista perché interpreto in un modo o in un altro certe esperienze di vita, le interpreto così perché sono femminista. E naturalmente en­ trambe, l’interpretazione di sé e la progettazione di sé, condizionano ciò che si è. Come osserva Jonathan Glover: «Il modo in cui pensiamo a noi stessi aiuta a dare forma a come siamo»220. Questa tensione, tra il «liberare» e il «progettare» ciò che si è, è caratteristica dell’idea della 219. Lów-Beer M., Rigiditat, inedito, Frankfurt am Main, 2001. 220. Glover J., The Philosophy and Psychology of Personal Identity, Allen Lane, Lon­ don, 1988, p. 152.

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concezione di sé. La si può chiamare il carattere ricostruttivo-costruttivo o ermeneutico-creativo delle concezioni di sé221. Ora, alcune implicazioni di questo approccio sono interessanti per la nostra questione riguardante la possibilità di distinguere tra concezioni di sé adeguate e non adeguate: ciò che costituisce qualcuno come per­ sona non è collocato «prima» o «dietro» la concezione che questi ha di sé, ma è intrecciato a essa. L’identità non è un fatto oggettivo, situato al di là dell’interpretazione. Questo rende il nostro problema ancora più acuto. Se tutto è interpretazione, e se questa inoltre crea sempre il suo stesso oggetto, come posso distinguere tra le interpretazioni sbagliate e quelle giuste? Come dovrebbe essere possibile, su questa base, distin­ guere le concezioni di sé adeguate da quelle non adeguate? Quando ci si comprende correttamente e quando invece in modo erroneo? Come può una concezione di sé, nel senso in cui l’ho descritta, essere sbaglia­ ta, illusoria, distorta o inadeguata? La mia proposta al riguardo si basa sulla seguente assunzione: le con­ cezioni di sé non riproducono stati di cose oggettivi, né sono mere in­ venzioni. Le concezioni di sé hanno dei fondamenti, cui possono o me­ no rendere giustizia. Per esempio, può essere che qualcuno si concepi­ sca in maniera erronea se nega il ruolo che, fin dalla sua prima infanzia, ha giocato l’asma nel suo rapporto con sé e con il mondo; o che si con­ cepisca in maniera erronea se, influenzato dal milieu di una subcultura, nega il suo legame con i valori e le forme di vita borghesi. Il nostro so­ spetto, che in questo modo qualcuno si comprenda erroneamente e che la sua immagine di sé sia illusoria, non si basa solo sul fatto che sappia­ mo che egli, di fatto, ha questa malattia o questa provenienza, ma è da noi collegato a segni che pensiamo di vedere, al fatto che per lui questa provenienza è più significativa di quanto pensi. Allora notiamo, per esempio, che certi suoi comportamenti contraddicono la sua concezio­ ne di sé o, in generale, che gli è difficile corrispondere all’immagine che si è fatto di sé. • Qui ci sono parallelismi con il problema generale dell’interpretazione: un’interpretazione - anche quella di un testo o di un’opera d’arte - è, tra le altre cose, un’interpretazione potente, quando può integrare mol­ 221. L’assunzione da parte di Taylor del concetto di «articolazione» fa i conti in maniera interessante con questo problema, come vedremo nella parte III, capitolo 1. Là mi confronterò ulteriormente anche con il topos dell’«inventare se stessi».

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ti aspetti importanti nella sua spiegazione e creare dei nessi tra loro. Es­ sa è tanto più convincente, quanti meno fatti che non sono con essa compatibili devono rimanerne esclusi. Naturalmente questi non sono criteri ferrei o assoluti - in fondo, anche se certi aspetti contraddicano un’interpretazione o meno, rimane una questione di interpretazione. E sicuramente si tratta di un processo infinito: in caso di dubbio ogni in­ terpretazione è valida fino a quando non viene sostituita da una più convincente. La mia tesi è ora la seguente: mentre in un’interpretazione non ade­ guata in ambito teorico (per esempio nell’ambito dell’osservazione) noi non interpretiamo le cose adeguatamente, non le comprendiamo-, ri­ spetto al piano delle comprensioni pratiche di sé risulta che, quando que­ ste sono inadeguate, qualcosa si «oppone» a esse. I rapporti con se stes­ si e i rapporti con il mondo che corrispondono a esse e che sono da es­ se guidati, sono allora caratterizzati da distorsioni funzionali che si esprimono in diverse forme di rifiuto e di ostacolo all’azione. Se ci si sbaglia nel considerarsi in un certo modo, si vedrà dal fatto che in ciò che si fa e nel modo in cui ci si comprende, ci sono contraddizioni o ostaco­ li pratici. Mentre quindi, sulla base di un’interpretazione inadeguata, non pos­ siamo capire sufficientemente un’immagine o un testo222, una compren­ sione inadeguata di noi stessi non funziona: non possiamo convivere con essa, non possiamo agire in essa. In entrambi i casi sono in gioco, come si è già accennato sopra, criteri «deboli». In entrambi i casi, però, questi criteri vengono applicati così spesso e in maniera così naturale, che risulta difficile immaginare i nostri rapporti con noi stessi e con il mon­ do senza queste pratiche di giudizio (spesso inespresse). Per la mia domanda iniziale riguardo ai desideri autenticamente pro­ pri, ne consegue che i desideri propri sono quei desideri che si lasciano inserire in una concezione adeguata di se stessi, e questa adeguatezza si vede nel fatto che questa concezione di sé «funzioni»223 o meno.

222. In questo modo naturalmente non è assolutamente riportato in maniera sufficiente il complesso dibattito su verità e interpretazione; qui m’interessano, in modo molto li­ mitato, solo alcuni illuminanti parallelismi. 223. Proprio questo «funzionare» è ciò che non riesce alle idee folli, o riesce loro so­ lo al prezzo di una riduzione estrema o della violazione di minimi standard di razio­ nalità.

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Accessibilità a se stessi e ostacoli all'azione

Ma cosa significa che una concezione di sé non «funziona»? Vorrei elaborare questa idea nel modo seguente: l’idea cruciale è se l’immagi­ ne di me stessa, la concezione di me, e i desideri e i progetti a essa lega­ ti, fanno sì che io sia o rimanga accessibile a me stessa e se, sulla loro ba­ se, io possa agire liberamente. Si tratta quindi di una sorta di «mobilità interna» e di accessibilità a se stessi. Se H., per esempio, adatta se stessa al ruolo di donna tradizionale, non deve far questo al prezzo dell’«esclusione» di parti essenziali della sua personalità, ossia non solo di parti della sua storia e del suo ambiente, ma anche di parti essenziali dei suoi desideri e delle sue aspirazioni? Una simile «esclusione» però significa che una parte «di sé» non le è accessi­ bile, che deve evitare delle cose e non le può integrare, che nello svolgi­ mento della sua vita ci saranno tabù e «no-go-areas» che non può inte­ grare nella sua concezione di se stessa. Ci saranno allora strategie per evi­ tare queste parti e irrigidimenti - un fenomeno, questo, familiare. Se tali «disturbi funzionali» devono essere intesi come disturbi del­ l’accessibilità - nei confronti di se stessi e del mondo -, questa rimane però una descrizione molto aperta (e vaga), per spiegare la quale posso solo, in maniera incompleta, elencare alcuni sintomi: • L’atteggiamento di rigidità nei confronti di se stessi, per esempio, può venire identificato come uno di questi disturbi funzionali. Qui non si è accessibili a se stessi poiché si rimane attaccati a decisioni pre­ se una volta, senza riuscire a integrare impulsi contraddittori. Una cer­ ta mancanza di contatto con se stessi si mostra anche nell’eccesso di normativizzazione che caratterizza la rigidità di carattere, così come è sta­ to elaborato da Martin Lòw-Beer224. Il modo in cui i caratteri rigidi rimangono attaccati a cose che sono ormai superate o che essi non pos­ sono vivere, testimonia un atteggiamento oggettivante nei confronti di se stessi che, nel complesso, potrebbe essere esplicitato come una man­ canza di vitalità e come l’incapacità di prendere parte alla propria vita.

224. Voglio qui ringraziare di cuore Martin Lòw-Beer non solo per avermi concesso di prendere visione del suo manoscritto sul tema della rigidità (Lòw-Beer M., Rigidi­ tat, op. cit.), ma anche per le discussioni particolarmente istruttive intorno al suo e al mio lavoro.

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Lów-Beer articola questo problema con l’esempio convincente di un uomo che crede di dover amare una donna perché questa corrisponde a determinati criteri che lui ritiene importanti. Qui non solo i criteri sono troppo impersonali: l’atteggiamento che egli assume verso se stes­ so quando pretende ciò da sé è un atteggiamento oggettivante, non ap­ propriato a chi vuole condurre la propria vita. Così anche nel caso di H. (contrariamente all’interpretazione da me seguita sopra) potrebbe emergere che è la rigidità a impedirle di soddisfare i suoi impulsi da ra­ gazzina. • In termini molto generali si può considerare la rigidità - l’essere rigidamente attaccati a norme e a immagini di sé stabilite senza poterle adattare alle nuove situazioni - un disturbo dell’accessibilità a se stessi, poiché ciò significa chiudersi nei confronti di nuove esperienze e di emozioni contrastanti. In questo senso Richard Sennett descrive l’«identità purificata» (purified identity) come una patologia. La ricer­ ca di una coerenza troppo forte, che non si lasci confondere da niente di contrario è quindi problematica tanto quanto un’eccessiva disconti­ nuità: «L’impresa in questione è un tentativo di costruire un’immagine o un’identità che sia coerente, sia unita, e filtri le nostre minacce nell’e­ sperienza sociale»225. Una concezione di sé adeguata deve in questo senso essere aperta nei confronti dei suoi risultati e delle sue esperien­ ze, mentre una inadeguata non lo è. • Se l’inaccessibilità a se stessi significa essere chiusi nei confronti del­ le nuove esperienze, d’altra parte essa è anche caratterizzata dall’essere inaccessibile alle motivazioni. Una persona che non è accessibile a se stessa non può mettere in atto delle convinzioni razionali riguardo a se stessa o alla propria vita. Il malato d’asma, per esempio, che nega la sua malattia perché non può integrarla nella sua immagine di sé, non rie­ sce a mettere in atto la comprensione, che gli è invece assolutamente accessibile dal punto di vista intellettuale, della necessità di una cura. Una comprensione di se stessi nella quale «si è accessibili a se stessi» invece è una che non «blocca» simili comprensioni. • Vi sono poi fenomeni quali il mancato accesso alle proprie emozioni e le reazioni emotive inadeguate. Dell’accessibilità a se stessi fa parte anche il fatto di reagire emotivamente in modo adeguato, come per 225. Sennett R., The Use ofDisorder - Personal Identity and City Life, New York/London, 1970, p. 9.

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esempio essere afflitti in caso di perdite e di offese226, e la capacità di sa­ persi rapportare a queste reazioni. Una concezione di sé adeguata è in grado di integrare tali reazioni, una inadeguata, invece, le reprime. Le im­ magini di sé illusorie sono spesso, per esempio, quelle che reprimono le esperienze di offesa e di fallimento. Fanno parte di questo contesto an­ che i fenomeni dell’autoinganno. Si può supporre che qualcuno che s’inganna sistematicamente sul proprio conto sarà inaccessibile a se stes­ so, poiché si deve «proteggere» da quelle istanze che potrebbero con­ tribuire a una correzione di questo autoinganno.

Nel complesso l’accessibilità a se stessi può essere descritta come un complesso stato cognitivo ed emotivo, di cui fanno parte l’essere suffi­ cientemente familiari a se stessi, l’essere in grado di percepire i propri bisogni, di interpretarli e di trarne conseguenze pratiche. Il nostro «ve­ ro sé» non è quindi solo quello a cui siamo arrivati senza costrizioni. E, in termini positivi, quella comprensione di sé nella quale ci possiamo muovere liberamente e siamo accessibili a noi stessi. L’alienazione da se stessi significa quindi - riguardo alla tematica trat­ tata in questo capitolo - non potersi muovere liberamente nella propria vita, non essere accessibili a se stessi in quello che si vuole e si fa. Così, anche nel caso della scissione interiore e dell’estraneità nei confronti dei propri desideri, si tratta di una limitazione del potere di disporre di se stessi in tutte le sue complesse forme di espressione. E a sua volta, la risoluzione di simili fenomeni di alienazione da se stessi richiede una ri­ conquista graduale dell’accessibilità a se stessi, senza che per questo ci sia bisogno di un «punto di Archimede» del vero sé, a partire dal quale si possano determinare i veri bisogni. La forma della domanda che si deve porre H. allora non è: «Cosa voglio veramente?», bensì: «Cosa faccio in quello che già faccio e come succede?». Il carattere «vero» o «non alienato» dei suoi desideri potrebbe allora essere colto in un rap­ porto non forzato e trasparente con i propri desideri e comportamenti, e in un’apertura nel rapporto con se stessa.

226. La tesi dell’«incapacità di essere afflitti» di Alexander Mitscherlich analizza quin­ di un problema di alienazione.

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Status normativo della critica dell*alienazione

Vengo infine a una domanda che si era posta in ciascuno dei capitoli precedenti: perché l’alienazione da se stessi è problematica? Quale cri­ terio normativo giustifica il fatto che consideriamo problematica una scissione interna nei confronti dei propri desideri, come quella che ho descritto? Nel caso della scissione interna il carattere immanente di un simile criterio è evidente: posso desiderare che la mia volontà non sia la mia, che i desideri che perseguo non siano i miei? In riferimento alla ca­ ratterizzazione di Tugendhat227, presentata all’inizio, si può qui parlare di un impedimento nella funzionalità del volere stesso. Ma a partire da quale prospettiva si possono identificare una simile funzionalità del volere e il suo impedimento? Se gli individui non sono «immediatamente» dati a se stessi, essi pos­ sono, fino a un certo punto, ingannarsi anche su se stessi, comprender­ si in modo erroneo. Per esempio noi, da esterni, possiamo far notare lo­ ro delle contraddizioni che risultano tra i desideri da loro espressi e un certo comportamento che va in direzione contraria. In un primo mo­ mento si può affermare che per lo svelamento di simili contraddizioni non ci sia un accesso privilegiato del soggetto «a se stesso», che in que­ sto senso si possono criticare gli individui dall’esterno, ma in modo im­ manente228. Tuttavia, come anche nel caso dello psicoanalista durante un’analisi, se l’interpretazione deve rivendicare una validità, la propria interpretazione e l’interpretazione data dall’altro devono in ultima istan­ za coincidere. Anche questo accordo, però, non può a sua volta fornire una sicurezza definitiva nei confronti di inganni da entrambe le parti. In questo senso, anche qui non c’è nessun «punto di Archimede», cosa che tuttavia non rende il processo d’interpretazione e di riflessione ar­ bitrario e infondato.

227. Tugendhat E., Etica antica e moderna, op. cit. 228. Mi riallaccio qui alle riflessioni che Charles Taylor ha svolto nel contesto della critica dei bisogni. Cfr. Taylor C., Cosa c’è che non va nella libertà negativa?, in Car­ ter I. e Ricciardi M. (a cura di), L’idea di libertà, Feltrinelli, Milano, 1996, pp. 75-99, p. 91.

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Complessità e coerenza

Per concludere, vorrei discutere ancora un’obiezione: anche nel mo­ dello da me sviluppato relativamente al problema della scissione inte­ riore non si trovano concezioni troppo forti del nostro potere di dispor­ re e controllare? E l’immagine cosi delineata non sfocia in un’idea di coe­ renza troppo armonicista? L’esistenza di desideri «estranei» e di parti di noi diverse e non sempre compatibili, di cui non possiamo disporre e che non possiamo controllare, non fa parte della «propria vita» esatta­ mente come l’indisponibilità e l’incontrollabilità di ciò che accade (cfr. II parte, Capitolo 1)? Le incoerenze e le contraddizioni non sono parte della complessità delle persone, senza le quali sicuramente noi non sa­ remmo «noi stessi», e che quindi non possiamo né dovremmo rimuove­ re? Tornerò su queste domande a proposito della «critica postmoderna del soggetto» nella parte III. Qui posso svolgere solo poche brevi rifles­ sioni al riguardo. Primo', se certe esperienze e certe parti di noi sono o meno parte del­ la nostra vita dipende da come noi siamo in grado di integrare queste par­ ti inizialmente estranee a un livello «più profondo». Già per poter con­ tare come esperienze «nostre» (per quanto estraniami) deve esserci qual­ cuno che possa fare queste esperienze. Forse quest’istanza d’integrazione deve essere tanto più forte, quanto più ci si mette in rapporto con espe­ rienze di «alterità». Non si tratta quindi di coerenza nel senso di un’ar­ monia o di un senso della vita unitario «tutto d’un pezzo», ma della ca­ pacità, che sta alla base delle discontinuità, di rapportarsi a ciò che si sen­ te e si fa. Secondo', «l’accessibilità a se stessi» e la «funzionalità» del proprio volere sono criteri aperti, la mancata soddisfazione dei quali si mostra in conflitti pratici, o più precisamente, in deficit di funzionalità. L’ac­ cessibilità a se stessi allora non è solo una questione di gradi - essa può essere dimostrata e ottenuta solo grazie a simili casi. Il problema emer­ ge perché e nella misura in cui la sua scissione interiore impedisce a H. di fare quello che vuole fare veramente, e di potersi muovere liberamente nella sua vita. Il presupposto di una «vita non alienata» non è quindi il «districare» in linea di principio tutte le ambivalenze, le disomogeneità o le disarmonie di una persona, ma è piuttosto la capacità di poter rea­ gire a questi problemi quando essi emergono creando impedimenti. In

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caso di dubbio questo può anche significare - contrariamente all’accu­ sa di armonicismo - il farli diventare conflitti. Terzo: l’accessibilità a se stessi o il «poter disporre di se stessi» non significa affatto, come mostra la differenza evidenziata rispetto alla rigi­ dità, dover avere a ogni costo «tutto in pugno» o doversi formare se­ condo un modello severo. Forse si dovrebbe caratterizzare la capacità in questione in un modo più positivo: si tratta di saper avere a che fare con se stessi.

4. Come attraverso una parete di vetro - Indifferenza e alienazione da sé Dire io. E non crederci. Samuel Beckett229

Questo capitolo tratterà dell’indifferenza come modalità di aliena­ zione da sé e di perdita di sé - di quei fenomeni di alienazione, quindi, nei quali si percepisce il mondo intero come allo stesso tempo estraneo e indifferente, si perde la propria relazione con il mondo, «si ritirano le antenne». Ma in che misura l’indifferenza è alienazione, se allo stesso tempo la capacità di prendere distanza nei confronti di alcuni «coinvol­ gimenti» nel mondo può essere compresa anche come libertà? Ciò che è in discussione qui sono il rapporto tra sé e mondo, e la tesi che la rea­ lizzazione di jénon può essere pensata al di fuori dell’istaurazione di un rapporto riuscito con il mondo. Di nuovo, la mia discussione si organiz­ za attorno a un esempio (1), che poi (2) verrà interpretato facendo rife­ rimento al concetto di alienazione da se stessi. Nel fare ciò, (3) distin­ guerò due aspetti: la dissoluzione del coinvolgimento pratico nel mon­ do e la perdita d’identificazione. Infine (4) illustrerò, con l’aiuto di idee di Harry Frankfurt e di Hegel, la problematica dell’indifferenza - l’am­ bivalenza tra libertà e perdita di sé - per poi in conclusione (5) poter definire il rapporto tra libertà, indifferenza e alienazione.

229. Beckett S., 11innominabile, in Id., Trilogia, trad. it. Tagliaferri A., Einaudi, Tori­ no, 1996, pp. 321-464, p. 323.

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(1) L’indifferente

La figura del professore di linguistica Perlmann nel romanzo di Pascal Mercier Perlmanns Schweigen («Il silenzio di Perlmann») illustra un caso di alienazione come indifferenza. Perlmann è un ricercatore, un tempo am­ bizioso e ancora oggi rispettato da tutti, che - nella descrizione di Mer­ cier - «ha perso la fede nell’importanza del lavoro accademico» e da quel momento guarda «alla ricerca come attraverso una parete di vetro»230. Al­ le critiche nei confronti della sua opera, reagisce ormai con indifferenza. «Come sotto l’effetto di un’anestesia locale»231, le tesi che aveva sostenuto una volta non sembrano più appartenergli; l’identificazione con esse si è dissolta. Questo stato di totale indifferenza, non solo nei confronti della ricerca, ma anche dell’intera forma di vita a essa connessa, comincia ini­ zialmente «così, senza ragione». Non ad esempio perché il suo interesse per la linguistica sia stato sostituito da altre convinzioni e da altre passio­ ni. Né la sua distanza, che diviene sempre più percepibile durante il con­ vegno di tre settimane di cui è organizzatore, è dovuta ad un’opinione critica nei confronti del modo di funzionare dell’impresa accademica. Perl­ mann non è un ribelle. Sembra proprio il contrario; una volta che si è di­ stanziato, tutto quello che prima gli sembrava pieno di significato diventa per lui un’attività vuota. Senza una causa tangibile, il mondo come tota­ lità è per lui immerso in una luce d’indifferenza ed è divenuto irreale. I pro­ getti cui prima prendeva parte con interesse sono, all’improvviso, finiti lon­ tano. Ma non solo il mondo gli diventa estraneo, in questo stato egli diventa anche estraneo a se stesso. Si ha l’impressione che, con l’impallidirsi del mondo, Perlmann stesso divenga impalpabile e irreale: un «uomo senza opinioni», la cui stessa identità è divenuta sfuggente.

(2) Delimitazione del fenomeno e definizione DELLE SUE CARATTERISTICHE



Varie caratteristiche suggeriscono di comprendere l’esempio di Perl­ mann come un caso di alienazione da se stessi232. 230. Mercier P, Perlmanns Schweigeny Btb, Miinchen, 1997, p. 17. 231. Ivi, p. 85. 232. Si tratterà qui di un Perlmann stereotipato per i miei scopi, che non è completamente

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1. Il corso degli eventi descritto non è solo espressione di un proces­ so di trasformazione di sé e di un concomitante spostamento di interes­ si. Non c’è inizialmente nient’altro che subentri al centro dell’attenzio­ ne di Perlmann. Ciò che accade è qualcosa di ben più radicale: l’interesse nei confronti del mondo in generale si dissolve. Mentre nel primo caso, parlando metaforicamente, il cono di luce degli interessi si sposta da un ambito a un altro, qui la luce impallidisce complessivamente. A diffe­ renza di quanto avviene in un cambiamento di orientamento, nessun nuovo punto di riferimento prende il posto dei vecchi, nessun nuovo interesse o progetto sostituisce i precedenti. E, per quanto sia difficile, nel caso di un cambiamento radicale, trovare un equilibrio tra il vec­ chio e il nuovo «sé», questo problema si differenzia da uno stato di ra­ dicale indifferenza per il fatto che qui si rimane coinvolti o inseriti nel mondo, mentre nel caso dell’indifferenza sembra che ci si stacchi com­ pletamente da esso. Il problema che andrà compreso più avanti quindi, non è la discontinuità ma la radicale assenza di legame (e la problemati­ ca, connessa, della mancanza di senso) 233. 2. Ma perché l’indifferenza di Perlmann è un processo di alienazione? La metafora già menzionata dell’«anestesia locale» esprime il fatto che Perlmann prima deve aver percepito la sua opera e le sue posizioni come una «parte di sé»: egli si identificava con esse. È parte del processo qui descritto il fatto che le cose che prima considerava una parte integrante di se stesso all’improvviso gli appaiano «esteriori» e distanti. (Con un termine psicoanalitico si può descrivere questo processo come «ritiro del­ la carica libidica»). Si può riconoscere qui la caratteristica dei fenomeni dell’alienazione discussa sopra: possiamo essere alienati solo da cose alle quali siamo stati precedentemente legati. E naturalmente, ci si può an­ che separare dagli interessi e dai progetti precedenti. Essi non rimango­ no necessariamente una parte di sé (ora «anestetizzata») solo perché li si è avuti una volta. Da chiarire è quindi (in base alle caratteristiche strut­ turali dell’alienazione delineate nella parte I, capitolo 3), in che misura an­ che in questo caso l’assenza di legame rappresenti ancora una relazione.

identico alla figura del romanzo. (Nel romanzo, per esempio, ce in realtà un nuovo inte­ resse, un manoscritto russo dal quale Perlmann si fa gradualmente conquistare). 233. Nella parte III, capitolo 1, tornerò sulla questione di quali siano i processi di ra­ dicale trasformazione di se stessi che possono portare a forme di alienazione o di qua­ le e quanta continuità sia necessaria per una comprensione di sé non alienata.

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3. Ma perché si dovrebbe qui trattare di alienazione da sé e non di un’alienazione dal mondo? Non è il mondo (esterno) che è diventato estraneo per Perlmann? Se questi si isola da un mondo divenutogli in­ differente e si ritrae in se stesso, perché dovrebbe in questo «alienarsi da se stesso»? 4. Discutere la crisi di Perlmann come un caso di alienazione da sé, e quindi come un problema che egli non ha solo con il mondo ma anche con se stesso, significa assumere un presupposto importante: l’indifferenza nei confronti del mondo ha degli effetti sul rapporto dell’individuo con se stesso. Se quello che ha fatto, quello che era importante per lui, con cui s’«identificava», gli è divenuto estraneo e inaccessibile, allora - questa la mia interpretazione - egli è divenuto estraneo a se stesso nella misura in cui il mondo esterno gli è divenuto estraneo (egli non può più mettersi in relazione con il mondo esterno). Lo stato d’indifferenza investe, insieme al rapporto con il mondo, anche il rapporto di una persona con se stessa. Questo ci conduce a un’ipotesi che andrà approfondita in seguito: nella misura in cui i nostri interessi e i nostri progetti ci legano al mondo, il rapporto con essi rende a sua volta possibile che ci determiniamo come qualcosa. Il fatto che, in una certa misura, diveniamo «reali» solo attra­ verso tale rapporto, implica un concetto di realizzazione di sé'A cui tratto distintivo è quello di considerare la realizzazione di sé non come una «cre­ scita interiore» o come un «trovare se stesso» dell’individuo, ma come una modalità di relazione, di confronto e di realizzazione nel mondo. Secon­ do questa prospettiva, ci si può assicurare una propria identità solo «pas­ sando per il mondo» e ci si può realizzare solo nel confronto con il mon­ do (tornerò su questo tema nella parte III, capitolo 2, nel corso della di­ scussione sull’interiorità romantica). Allora, però, l’alienazione da se stessi deve poter essere concepita come alienazione dal mondo, e viceversa, l’alienazione dal mondo (da altro o altri dotati di significato) deve mani­ festarsi essa stessa come alienazione da se stessi. • (3) Interpretazioni: perdita di relazione e d’identificazione

In quanto segue discuterò due interpretazioni: la perdita di relazione (come perdita di coinvolgimento nel mondo) e la perdita d’identifica­ zione (come perdita di legame affettivo con il mondo). Per quanto que­

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sti due aspetti siano strettamente legati l’uno all’altro, essi mettono in luce aspetti diversi del problema dell’alienazione.

Indifferenza come radicale perdita di relazione Ma come va intesa esattamente la radicale e alienante assenza di lega­ me, in quanto fenomeno dell’alienazione? Come si deve immaginare il dissolversi del coinvolgimento nel mondo di cui si sta parlando qui? Evidentemente non come un’assenza di legame con questo o quello: stra­ namente Perlmann non sembra alienato da qualcosa in particolare, ma dal mondo «in generale». Questo strano stato di totale disimpegno si esprime per esempio nel suo stupore riguardo al fatto che, proprio lui, non riesce più ad avere «opinioni», nonostante la sua professione con­ sista nel prendere posizione su problemi e sostenere tesi. «Come era al­ lora quando aveva ancora delle opinioni? Da dove provenivano, e per­ ché la loro sorgente si è esaurita? Si può decidere di credere qualcosa? O le opinioni sono invece qualcosa che semplicemente ci capita?»234. Chi pone queste domande non è diventato insicuro rispetto a una posizione o a un’altra, egli ha piuttosto perso la capacità di poter sviluppare delle opinioni. In un certo senso, egli pone queste domande «dal niente». Si è catapultato fuori dai processi e dalle relazioni di cui era parte. Già lo stupore di Perlmann indica un processo di alienazione. Infatti, solita­ mente, non si hanno semplicemente delle opinioni? Ciò non significa che non le si formi, perfezioni e riveda, e che le proprie posizioni non siano a volte il risultato di lunghi processi di apprendimento. Tuttavia, solita­ mente, non esiste una condizione senza opinioni, a partire dalla quale poi si «entra» in un campo in cui le si ha. Il processo di formazione delle opinioni è infatti un processo di trasformazione, un’«attuazione» nel cor­ so della quale le nuove opinioni si sviluppano da quelle già esistenti, nuo­ ve informazioni si aggiungono alle vecchie, e si forma una nuova costel­ lazione di opinioni. Anche solo chiedere da dove vengano le opinioni formulando la domanda in maniera così astratta - indica quindi un pro­ blema. È difficile capire come chi pone questa domanda dovrebbe po­ ter arrivare ad avere delle opinioni. Si può considerare il problema anche in modo più generale: ciò che Mercier chiama qui «opinioni» sono gli 234. Mercier P., op. cit., p. 85.

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orientamenti e le prese di posizione fondamentali con cui ci si orienta nel mondo e in base a cui esso assume per noi un ordine. Questi orienta­ menti si ottengono però solo nell’atto di questo stesso «orientarsi», solo già compiendo questo processo. Quando ci si chiede cosa si deve fare, si è già nel bel mezzo di un fare; quando non si è sicuri di quale opinio­ ne avere su qualcosa, si ha già un’opinione, per quanto disordinata, sul­ la cui correttezza ci si interroga. Uno sguardo da nessun luogo (The view from nowhere). Il fenomeno della perdita dei propri punti di riferimento può essere compreso, se­ guendo Thomas Nagel, come l’assunzione della prospettiva propria di «uno sguardo da nessun luogo» (the view from nowhere), di uno sguar­ do quindi che trascende il proprio coinvolgimento nel mondo e che fa osservare la vita «dall’esterno»235236 . In questo senso, perdere i propri pun­ ti di riferimento all’interno del mondo, a partire dai quali si agisce, e so­ spendere le azioni in cui si è solitamente coinvolti, significa non pren­ dere più sul serio quello che prima era per noi importante, e che si di­ mostra importante solo se si è coinvolti nella propria vita, anziché osservarla dall’esterno. Si può affermare che la «domanda sul senso (della vita)» diventa un problema proprio nel momento in cui compare una simile perdita di riferimento, poiché da una prospettiva esterna, non situata, la propria vita deve sembrare oggettivamente priva di si­ gnificato. Proprio per questo, come osserva anche Nagel, lo sguardo da nessun luogo nasconde un «rischio di alienazione», a liability to aliena­ tion256. Tuttavia, Nagel considera questa situazione di alienazione inevi­ tabile. Da una parte le cose possono sembrarci importanti e significati­ ve solo «dall’interno», d’altra parte non possiamo sottrarci, questa la sua tesi, alla possibilità di assumere un punto di vista «esterno». Siamo quindi in grado di assumere entrambe le prospettive, quella oggettiva e quella soggettiva, senza poterle mediare l’una con l’altra. Questa tensione non mediabile sarebbe ciò che nella nostra vita pro­ duce inevitabilmente quello che si può chiamare assurdo. Secondo Na­ gel, quindi, l’alienazione, o in ogni caso la possibilità dell’alienazione, è costitutiva del modo in cui gli esseri umani si rapportano a se stessi e al mondo. Di conseguenza il problema dell’alienazione non può più venir 235. Nagel T., Uno sguardo da nessun luogo, trad. it. Besussi A., il Saggiatore, Milano, 1988. 236. Ivi, p. 267.

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formulato o valutato come problema, ma solo come conditio humana. (A questa visione corrisponde tutto un filone del dibattito sull’aliena­ zione, espressosi soprattutto nei testi letterari esistenzialisti degli anni Cinquanta - non per niente Nagel fa riferimento al termine, allora in voga e adesso un po’ dimenticato, di «assurdo»). Tuttavia si può tentare anche un’altra valutazione del fenomeno, il cui punto di partenza viene suggerito dalla stessa impostazione di Na­ gel. Nell’ottica della tesi - «pragmatista» in senso lato - cui si è accen­ nato in precedenza - l’essere coinvolti praticamente, il rapportarsi alle cose nel mondo, è il modo primario del nostro rapporto con il mondo e con noi stessi (al quale, solo in un secondo momento, segue la possibi­ lità di una presa di distanza e di un distacco). Allora la perdita di rela­ zione e il distacco radicale dal mondo possono essere compresi come una sorta di mancata comprensione o misconoscimento (Verkennung). Se si parte dal presupposto che non possiamo astrarre sensatamente dalle re­ lazioni pratiche che costituiscono per noi il mondo, allora si tratta qui della perdita di rapporto con qualcosa con cui allo stesso tempo siamo già da sempre in rapporto - una relazione in assenza di relazione. Per la mia argomentazione qui è importante: ciò che Nagel pensa come disso­ luzione di una relazione, si dimostra essere (in una prospettiva heideg­ geriana o più in generale pragmatista) una mancata comprensione di una relazione, che come tale è fondamentale. Nagel definisce giustamente il problema del senso della vita, ineluttabile dalla prospettiva dell’assur­ do, come «una forma di scetticismo sul piano della motivazione» {«a form ofscepticism at the level of motivation»)251 Da una prospettiva prag­ matista, comunque, queste domande sul senso della vita possono rive­ larsi delle pseudodomande237 238 - allo stesso modo in cui è stato rimprove­ rato allo scetticismo gnoseologico di porre degli pseudoproblemi. Na­ gel stesso cita un’obiezione di Bernard Williams: 237. Ivi, p. 272. 238. Posso qui solo accennare alla tesi e al problema del senso della vita, senza però trat­ tare la variegata discussione sul tema. In effetti, il sospetto di insensatezza nei con­ fronti della questione del «senso della vita» mi sembra corrispondere a uno schema argomentativo che - da Hegel a Heidegger - è dominante anche nel rifiuto dello scet­ ticismo gnoseologico. Christoph Fehige, Georg Meggle e Ulla Wessels hanno pubbli­ cato un’antologia estremamente riuscita sul «senso della vita» che, oltre ad alcuni classici della (recente) discussione filosofica, contiene anche testi letterari e di saggisti­ ca: Fehige C., Meggle G. e Wessels U. (a cura di), DerSinn des Lebens, Dtv, Munchen, 2000.

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Forse, come afferma Williams, la visione sub specie aeternitatis è una vi­ sione molto povera della vita umana, e noi dovremmo iniziare e finire nel bel mezzo delle cose239.

Indifferenza come perdita d'identificazione Vengo ora alla seconda interpretazione o al secondo aspetto dell’e­ sperienza di alienazione caratterizzata dall’indifferenza: la perdita d’i­ dentificazione come perdita di legame affettivo con se stessi e con il mon­ do. Anche qui, per giustificare la diagnosi del fenomeno come aliena­ zione, il nostro compito è quello di comprendere in che modo questo tipo di dissoluzione rimanga ciononostante una relazione. Ho appena avanzato la tesi che il rapporto con se stessi e il rapporto con il mondo sono legati tra loro in modo così costitutivo, che l’aliena­ zione dal mondo porta necessariamente all’alienazione da se stessi. Que­ sta tesi ha due implicazioni che in seguito dovranno essere spiegate più precisamente. Primo: il sé si determina «a partire dal mondo», si costi­ tuisce identificandosi con dei progetti, nell’«investimento» affettivo e cognitivo di cose nel mondo; si costituisce nel suo «interesse» per esse e nel «coinvolgimento» in esse. Ciò che dobbiamo comprendere in tutto ciò è cosa significhi qui identificazione. Secondo, ciò presuppone una tesi sul confine tra «interno» e «esterno», «me stesso» e «il mondo», per spiega­ re la quale farò riferimento alla «psicologia» di William James. Illustrerò adesso brevemente queste due implicazioni, per poi, su que­ sto sfondo, poter illustrare nel quarto paragrafo di questo capitolo per­ ché, per l’individuo (dal momento che esso evidentemente può prende­ re distanza da queste identificazioni), il prendere distanza, il diventare indifferente nei confronti del mondo sia un problema e quindi perché, per tornare all’esempio iniziale, la situazione di Perlmann debba essere intesa come una perdita di sé e un’alienazione da se stesso e non invece come una forma di autonomia e di libertà nei confronti del mondo, po­ tenziata nella sua indifferenza.

239. Ivi, p. 267.

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Identificazione La tesi che ciò che «ci» costituisce sia legato all’identificazione con progetti «nel mondo» rimanda a una forma di intreccio tra sé e mondo a cui, già nel capitolo precedente, abbiamo assegnato il titolo di «iden­ tificazione». Ma cosa significa identificare con qualcosa?. Per illustrarlo partirò ini­ zialmente dalla questione di cosa significhi identificare qualcosa in gene­ rale. Io posso identificare qualcosa come qualcosa (o qualcuno come qual­ cuno). Lo faccio quando identifico la cosa che brilla sul pavimento co­ me il mio orecchino caduto o il ragazzo che sta in piedi là dietro come quello che ieri mi ha rubato la borsa. Posso anche identificare uno stra­ no formicolio nella zona dello stomaco come nervosismo o come fame. Identificare qualcosa significa quindi stabilire una corrispondenza. Per fare questo, faccio una sorta di confronto: stabilisco che l’uomo che è là ha la stessa pettinatura e gli stessi tratti del viso di quello che ho visto ie­ ri in metropolitana poco prima che corresse via con la mia borsa; con­ fronto l’orecchino sul pavimento con quello che possedevo fino a poco fa; mi ricordo che provo sempre questo formicolio allo stomaco quan­ do ho fame e che smette quando mangio qualcosa: identifico quindi qual­ cosa in base a simili corrispondenze rilevabili. Ma cosa significa che io mi identifico con qualcosa o con qualcuno? Che aspetto ha questo processo di paragone quando si parla del fatto che qualcuno s’identifica con la sua squadra di calcio o con il suo bambino? E chiaro che in questo caso non si può trattare di un confronto diretto e neanche di un’effettiva corrispondenza. Non posso essere identica né alla mia squadra né al mio bambino nel senso in cui i miei due orecchi­ ni risultano identici - o addirittura la stessa cosa. L’identificarmi con qualcosa o qualcuno può quindi avere solo un senso traslato. Più preci­ samente, io qui mi identifico con il bene o con la bravura di qualcosa o qualcuno. Quando ci s’identifica con un bambino, ci s’identifica con il bene del bambino, quando ci s’identifica con una squadra di calcio ci si identifica con il suo successo o con il suo insuccesso. Allora io voglio che la squadra vinca e desidero che il mio bambino sia felice. In questo caso l’identità sussiste non tra me e la squadra di calcio, o tra me e il bam­ bino, ma tra i desideri del bambino e i miei desideri, o tra le speranze del­ la squadra e dei membri della squadra e le mie speranze. Se la squadra

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vince, mi sento vincitrice. Se il bambino ha successo, sono orgogliosa. So­ no «identificata» con la squadra o con il benessere del bambino, nella mi­ sura in cui il mio benessere e il soddisfacimento dei miei desideri risul­ tano legati al benessere del bambino e alle speranze della squadra. Ma in cosa consiste la differenza tra Inaugurare successo» a qualco­ sa (o a qualcuno) e r«identificarsi con qualcosa»? Cosa significa parla­ re di un «identificarsi», al di là del rimando all’augurare che le cose va­ dano bene? Quando ci s’«identifica» con qualcosa lo si rende una par­ te della propria identità o della propria concezione di sé. Nel primo caso io sono soddisfatta del successo di una cosa o sono contenta se qualcu­ no sta bene, nell’altro lego invece il mio destino a quello dell’altro o di questa cosa, in modo tale che il loro destino diviene costitutivo per la mia identità. In un caso io rimango - nonostante tutta la benevolenza separata da colui a cui auguro del bene; nell’altro caso sembra che ab­ bia luogo una sorta d’introiezione, di «assunzione» o inglobamento (Hineinnahmé} di una cosa nel mio «sé». Anche per questo, quando qual­ cuno dice di identificarsi molto con qualcosa, sospettiamo una man­ canza di distanza. Ora, tuttavia, è difficile spiegare come ci si debba immaginare questa forma di assunzione o inglobamento. Forse si può riconoscere quello che si intende qui solo dall’effetto, sul quale ha già richiamato l’atten­ zione William James, e che anche Harry Frankfurt sempre enfatizza: il fatto di essere identificati con qualcosa si riconosce dal fatto che si è vulnerabili rispetto a essa. Si percepisce la sconfitta della squadra di calcio come una sconfitta propria. Quando il nostro bambino sta male, stiamo male anche noi. L’identificazione con qualcosa sarebbe allora ben più di un aumento quantitativo della benevolenza, anche se i confini pos­ sono non essere sempre facili da definire. Il punto decisivo sul piano strutturale sembra quindi essere il seguente: in un caso c’è qualcuno che vuole qualcosa e che si mette in relazione con qualcosa, ma che allo stesso tempo rimane separato dall’oggetto dei suoi sforzi. Nell’altro ca­ so pensiamo invece la nostra identità come costituita da questa relazio­ ne, essa non è pensabile al di fuori di questa relazione, è definita attra­ verso di essa. Per tale ragione, l’identità di colui che si identifica con qual­ cosa è «intrecciata» con essa. Questo schema, questa figura fondamentale dell’identificazione, ha

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due conseguenze di cui dovremo ancora occuparci. Primo: impegnarsi per qualcosa con cui m’identifico in questo senso non è un atto di al­ truismo, perché il mio stesso destino è intrecciato con quello della cosa (o della persona). Secondo: se mi identifico con qualcosa, questa cosa non ha per me il significato di un mezzo strumentale a un fine. Lo spon­ sor che augura successo alla squadra di calcio, affinché l’investimento sia valso la pena, non è (almeno in questo senso) identificato con essa. Il successo della squadra è per lui un mezzo strumentale al fine del successo economico. Con ciò anche qui i destini sono intrecciati tra loro - ma non in una modalità che implica l’identificazione. (Lo si vede nel fatto che lo sponsor, se la squadra continua a non avere successo, la abban­ donerà, mentre il tifoso che si identifica veramente con essa le rimarrà fe­ dele nel bene e nel male).

«Un oggetto veramente trasformabile» (William James) Su questa base la tesi dell’«intreccio tra sé e mondo» può venire svi­ luppata ulteriormente. Se si accetta - come presuppone la tesi dell’alie­ nazione dal mondo come alienazione da sé - che il sé si costituisce in rap­ porti di identificazione con progetti, persone e oggetti nel mondo, allo­ ra la separazione tra «interno» ed «esterno», tra «sé» e «mondo» è messa in discussione. La concezione del sé sviluppata dalla psicologia pragmatista del filo­ sofo William James rende conto precisamente di queste tematiche. James distingue il sé empirico («Me») dall’«ego puro» {«pure ego»). Ciò che è interessante in questa sede non è la distinzione stessa, ma le sue consi­ derazioni sul «Me». James attribuisce diverse dimensioni al «Me»: una dimensione materiale (di cui fa parte anche il corpo), una dimensione so­ ciale e una spirituale. La caratteristica distintiva del «Me», così come James lo intende - ovvero come «sé nel suo senso più ampio» - è una cer­ ta forma di relazione d’identificazione:

Ma è chiaro che è difficile tirare una linea divisoria fra ciò che si chiama «io» e ciò che si chiama «mio»: su certe cose che sono nostre noi perce­ piamo ed agiamo assai di più che non su di noi. La nostra fama, i nostri figli, il lavoro delle nostre mani ci possono esse­

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re altrettanto cari quanto i nostri corpi e, se in pericolo, produrre gli stessi sentimenti e gli stessi atti di difesa. E anche i nostri corpi, sono sem­ plicemente «nostri», oppure sono nof^ì Quello che James chiama «self» non è allora una grandezza fissa con una chiara linea di demarcazione tra interno e esterno. Alcune cose ap­ partengono più o meno a me (o costituiscono più o meno il Me), a se­ conda di quanto è forte il rapporto di identificazione.

Si vede quindi che stiamo trattando una materia fluida, dal momento che lo stesso oggetto a volte è considerato come una parte dell’io, altre vol­ te come semplicemente «mio», e infine come non avente nulla a che ve­ dere con me. Tuttavia nel suo senso più vasto possibile l'io dell'uomo è la somma complessiva di tutto ciò che egli può chiamare suo\ non soltanto il suo corpo e le sue facoltà psichiche, ma anche i suoi vestiti e la sua casa, la moglie e i bambini, i suoi antenati ed i suoi amici, la sua reputazione e le sue opere, le sue terre e i suoi cavalli, lo yacht e il conto in banca. Tutte queste cose gli danno le stesse emozioni: se esse crescono e pro­ sperano, egli si sente trionfante, se diminuiscono o muoiono si sente ab­ battuto, non necessariamente nella stessa misura per ognuna di esse, ma in gran parte nello stesso modo240 241. Il «proprio», quindi, ciò che appartiene a «me (stesso)», non è da qual­ che parte «dentro» - bensì si costituisce nel rapporto con il mondo ester­ no. Di questo fanno parte, come già detto, oltre al mondo oggettivo e alla proprietà che si può guadagnare in esso, anche le relazioni sociali e i rapporti di riconoscimento, e quindi, oltre allo yacht, anche un bene im­ materiale come l’onore. Se quindi identificarsi con qualcosa significa considerare qualcosa una «parte di me stessa», viceversa io sono tutto quello con cui mi posso identificare. Io non sono «me stessa» prima, o al di là, ma in queste stesse identificazioni. • Cosa significa questo per l’indifferenza di Perlmann e per il rap­ porto tra sé e mondo che ne consegue? Perlmann può essere descritto come qualcuno che non è più in grado di identificarsi con niente, la sua indifferenza significa una perdita di identificazione. Nel romanzo que­ 240. James W., 1 principi di psicologia, a cura di Preti G., Principato, Milano, 2004, p. 76. 241. Ivi, pp. 76-77.

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sto processo di perdita d’identificazione è descritto in maniera chiara: quando le sue tesi vengono messe in questione - come fa un suo riva­ le durante la conferenza - egli non si sente più schiacciato e attaccato come ai tempi in cui ancora perseguiva con ambizione la sua carriera; e viceversa gli manca la «sensazione di trionfo» quando esce vittorio­ so da un confronto. È come se non fosse il suo trionfo, come se esso non gli appartenesse, anche laddove egli stesso lo ha prodotto. Il fatto che tutto gli è divenuto indifferente dà l’impressione che non fosse stato lui a scrivere, come se non fosse stato lui a vincere o a perdere nel con­ fronto. (Questo viene espresso anche dalla metafora dell’«anestesia locale»). Ma se il «Me», come suggerisce James, «è composto» pro­ prio da questi investimenti affettivi nei confronti del mondo esterno e da queste identificazioni nel mondo stesso, allora si pone la domanda di che cosa, in queste circostanze, Perlmann sia in realtà - se rimane co­ sì poco di ciò che lo costituiva. Se per William James il sé è un «ogget­ to veramente trasformabile», può essere quindi largo o stretto, esten­ dersi o restringersi, allora questo significa: il sé è grande quanto la cerchia di tali rapporti d’identificazione. Nella fase della sua indiffe­ renza, il «sé» di Perlmann si sarebbe allora «ristretto», avrebbe subito quella che James chiama una «una diminuzione della nostra persona­ lità, un parziale ridursi di noi stessi al nulla»242. Su questo sfondo si può affermare che l’indifferenza nei confronti del mondo nella quale Perlmann cade, minaccia anche lui, e che l’indifferenza nei confronti del mondo si accompagna a un’indifferenza nei confronti di se stesso. Se per una persona niente è più importante, questa persona non è nean­ che più importante per se stessa. Proprio questo fenomeno può essere inteso come un processo di alienazione da se stessi, mediato dall’alie­ nazione dal mondo. Ma perché un simile «sé contratto» dovrebbe essere un sé alienato? Perché, per «realizzarsi» bisogna prendere parte attiva nel mondo? L’as­ sunzione di fondo qui è la seguente: sembra che sia parte costitutiva del condurre una vita come persona il fatto di perseguire progetti o di ave­ re pretese nei confronti della propria esistenza, e quindi che non ci sia tutto indifferente. Questa assunzione implica, come si vedrà, un’idea di realizzazione di sé come appropriazione attiva del mondo, che io ho presentato nell’introduzione rifacendomi a Hegel e a Marx. Si potreb242. Ivi, p. 79.

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be radicalizzare quest’ipotesi di fondo dicendo che, per diventare reale, il «sé» deve realizzarsi nel mondo. Ma perché è così?

(4) L’ambivalenza dell’indifferenza - Libertà o perdita di sé? Ma allora, anche se nell’indifferente si può diagnosticare una «con­ trazione del sé», cosa permette di considerare questo un processo pro­ blematico di alienazione da sé e di perdita di sé? Sicuramente il «ritrar­ re le antenne dal mondo», il «troncare» i legami con gli altri e con l’al­ tro non rimangono privi di conseguenze. Ma in che misura un simile ritrarsi di un individuo significa alienazione da sé, o addirittura una mi­ naccia di ciò che costituisce la sua identità? Fino a che punto può «con­ trarsi» un sé prima che ciò equivalga a una perdita di sé, fino a che pun­ to ci si può ritirare nella «cittadella interiore»243 prima di perdere «se stes­ si»? Ciò sembra presupporre determinate assunzioni riguardo a cosa appartiene a un sé completamente o almeno sufficientemente esteso - as­ sunzioni che, proprio se si presuppone la trasformabilità del sé, non è co­ sì facile fare. Questo ci conduce a due domande generali: perché mai si dovrebbe avere interesse nei confronti del mondo - cosa c’è di male nell’indifferen­ za? E, secondo, cosa giustifica l’affermazione che, se si abbandona l’inte­ resse per il mondo, si perde anche l’interesse nei confronti di se stessi? Non si può considerare importanti se stessi e non il mondo? Infine, la risposta a queste due domande sarà legata al punto cruciale per il concetto di alie­ nazione, ovvero, in che misura anche l’indifferenza sia una relazione (de­ ficitaria) - e quindi comprensibile come alienazione (Ent-Fremdung). Voglio approfondire brevemente questa problematica. Anche qui, in­ fatti, si può essere tentati di osservare un’ambivalenza fondamentale244. Se da una parte la mancanza di legame con il mondo (se giudicata negativa• 243. Quest’immagine della «cittadella interiore» è stata coniata da Isaiah Berlin nel suo saggio sulla libertà positiva e negativa. John Christman l’ha poi usata come titolo del suo volume sull’autonomia e - declinandola in senso positivo - mettendo così in luce proprio questa dimensione di ritiro e di autodeterminazione. Cfr. Berlin L, Liber­ tà, trad. it. Rigamonti G. e Santambrogio M., Feltrinelli, Milano, 2010; Christman J., The Inner Citadel, Oxford University Press, New York, 1989. 244. Così ad esempio Adorno definisce Patteggiamento d’indifferenza nella «vita fal­ sa» inevitabilmente ambivalente: «Uomini riflessivi, e artisti, hanno non raramente la

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mente) si presenta come un sintomo di alienazione, d’altra parte si può supporre che vi sia qui anche un potenziale di emancipazioni. Infatti, non vi è forse nella possibilità di ritrarsi dal mondo e di pren­ dere distanza da esso anche un potenziale d’indipendenza? Con il riti­ ro dal mondo e con la perdita delle identificazioni, diminuisce la «su­ perficie esposta» nella quale l’individuo è vulnerabile. Se, seguendo James, i nostri vestiti, i nostri bambini e i nostri progetti per noi non sono più importanti, la loro perdita o la loro rovina non possono più affliggerci. Si potrebbe allora invidiare il Perlmann divenuto ormai in­ differente, considerandolo una persona che all’improvviso è libera da ogni preoccupazione e che, non essendo più legata a niente, vive in uno stato di totale accordo con se stessa. Nella misura in cui le sue tesi per lui non sono più importanti e anche la sua reputazione lo è sempre meno, egli non è vulnerabile e non ha più bisogno di riconoscimento. E come nella caratterizzazione di Hegel dell’antico stoico: «Tutto ciò che appartiene all’appetito o al timore, il saggio non lo reputa suo, lo considera estraneo a sé»246. Lo stoico che si ritira dal mondo in se stes­ so è «uguale a se stesso» nella misura in cui non rivolge più se stesso, ovvero il suo volere, verso altro e non è legato al mondo da «appetito» e «timore». Chi non vuole e non desidera più niente, non ha più nien­ te da temere. In questo consiste la sua sovranità - la sovranità dell’in­ differente. La completa indifferenza sarebbe allora il punto massimo della libertà. Si è liberi quando si è indifferenti: non essendo dipen­ denti da niente e da nessuno, definiti come niente e nessuno.

sensazione di non partecipare del tutto, di non stare al gioco; come se non fossero lo­ ro, ma una specie di spettatori. [...] Nel “ma cosa vuoi che importi!”, che certo a sua volta si allea volentieri con la freddezza borghese, l’individuo può ancora accorgersi senza angoscia della nullità dell’esistenza. [...] Sotto il bando Ì viventi hanno l’alterna­ tiva tra un’atarassia involontaria - un atteggiamento estetico per debolezza - e la be­ stialità di chi è coinvolto». Adorno T.W., Dialettica negativa, Einaudi, Torino, 2004, pp. 326-327. Tuttavia l’ambivalenza qui descritta è coatta, è un’ambivalenza in una situa­ zione obbligata, e in un mondo che nel complesso viene inteso come «falso». 245. Per un’esposizione enciclopedica di diverse forme d’indifferenza nella storia del­ la cultura occidentale si veda Geier M., Das Glùck der Gleichgultigen: Von der stoischen Seelenruhe zur postmodemen Indifferenz, Rowohlt, Hamburg, 1997. Nella sua ricerca Geier assume esplicitamente l’ipotesi che l’indifferenza sia un fenomeno ambivalente. 246. Hegel G.W.E, Lezioni sulla storia della filosofia, vol. II, Dai Sofisti agli Scettici, trad, it. Codignola E. e Sanna G., La Nuova Italia, Firenze, 1964, p. 437.

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Ma posso, dopo quello che si è detto sopra, «essere in accordo con me stessa» senza avere un legame con le cose nel mondo? Posso essere libera senza volere qualcosa nel mondo e dal mondo? E in che misura è libera una persona cui «non importa niente della sua vita»? Come dice Martin Lòw-Beer247, c’è «da dubitare che una persona a cui non impor­ ta di come vive sia autonoma». Ma perché è così? Ciò che è in gioco qui sono, in fondo, le concezioni di identità personale, libertà e realizzazio­ ne di sé legate agli atteggiamenti che sono stati descritti finora. In seguito mi occuperò di due saggi molto diversi, che considerano en­ trambi la libertà dell’indifferenza come una libertà deficitaria. Harry Frankfurt sviluppa, sulla base del fenomeno della noia, la tesi secondo la quale il ritiro dell’interesse dal mondo conduce alla mancanza di vita­ lità o a una specie di devitalizzazione che sfocia nella distruzione della personalità e nella dissoluzione della persona (o di ciò che costituisce una persona in quanto persona). La discussione sull’antico stoicismo da par­ te di Hegel, invece, è per noi interessante perché rimanda al carattere de­ ficitario di un’idea di libertà basata sull’indifferenza. Laddove Frank­ furt offre una spiegazione quasi antropologica delle implicazioni dell’«essere una persona», la figura argomentativa di Hegel ha una for­ ma immanente: essa pone in evidenza il carattere autocontraddittorio e incompleto di una libertà «nella cittadella». Presenterò entrambe le ar­ gomentazioni per poi esaminare in che misura esse siano adatte a soste­ nere la tesi della natura problematica dell’indifferenza e del suo status co­ me forma di alienazione.

«Vitalità» ed evitare la noia Per Harry Frankfurt è l’«incondizionatezza» {wholeheartedness) nel­ l’identificazione con certi desideri a costituire l’unità del sé, e sono i le­ gami e le «necessità volizionali» che determinano i suoi contorni. Per­ ciò, il fatto stesso che ci interessiamo di qualcosa tout court, che qualco­ sa è per noi importante è talmente fondamentale, che l’indifferenza, l’assenza di tali interessi e di tali «preoccupazioni», equivale a una dis­ soluzione del sé. Questo suggerisce che l’indifferenza - la perdita di iden­

247. Cfr. Low-Beer M., Rigiditàt, op. cit.

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tificazioni, il diventare indifferente nei confronti del mondo - può esse­ re considerata una minaccia per la personalità. Chi non s’interessa di niente, proprio come chi non è legato a niente, non ha un’identità. Una persona per la quale niente è importante conduce «una vita senza attività significative»248. Chi affronta costantemente la vita con indifferenza tra­ scorre, come spiega Frankfurt, un’esistenza nella noia, proprio perché in questa vita niente può essere significativo. Ma cosa c’è di male nel con­ durre una vita simile? Frankfurt sostiene qui una posizione decisiva: «Credo che evitare la noia sia una necessità umana fondamentale. Non è una questione di avversione nei confronti di uno stato di coscienza piut­ tosto spiacevole»249. Egli ragiona qui in modo quasi antropologico. Una simile vita passata nella noia significa in un certo senso non essere vera­ mente vivi: «L’essenza della noia comporta un attenuarsi della vitalità psi­ chica»250. Il sé, secondo questa concezione, non è vivo in senso effettivo, non è vivo «come persona» se non si può rapportare attivamente al mondo attraverso identificazioni. Avere interessi e investire il mondo di significato sono condizioni ir­ rinunciabili per essere una persona. Anche Frankfurt quindi sostiene che il sé - in senso «esistenziale» e non biologico - può essere compreso soltanto come un sé attivo, esteso. Esso si costituisce rapportandosi al mondo. Esso è, come persona, solo nella misura in cui può relazionarsi, identificandocisi, a un mondo che esperisce come dotato di senso, e si dissolve laddove non lo fa. Sono adesso interessanti la motivazione che egli fornisce per questa diagnosi e le conseguenze che ne risultano per il nesso tra rapporto con se stessi e rapporto con il mondo. Due tesi vengono qui collegate tra lo­ ro in un modo che non è poi molto distante dalle concezioni marxiste e pragmatiste: la tesi che «arriviamo» a noi stessi o ci sviluppiamo come persone rapportandoci al mondo, e la tesi dello sviluppo delle capacità di percezione e di distinzione. Se nel mondo niente è importante, nien­ te è significativo, allora non si sviluppano gli «organi» - si può qui pen­ sare allo sviluppo degli organi di senso - che potrebbero percepire il mondo nella sua diversità.

248. Frankfurt H., On the Usefulness of Final Ends, in Id., Necessity, Volition and Love, op. cit., p. 88. 249. Ivi, p. 89. 250. Ibidem.

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Essere annoiati comporta una riduzione dell’attenzione; la nostra re­ sponsivi nei confronti degli stimoli consci si appiattisce e si restringe; le differenze non vengono notate o non vengono fatte, così che il cam­ po cosciente diviene sempre più omogeneo. Il funzionamento generale della mente diminuisce. La sua tendenza è quella di avvicinarsi a una completa cessazione delle distinzioni significative all’interno della con­ sapevolezza; e questa omogeneizzazione è, al limite, equivalente alla ces­ sazione di tutta l’esperienza conscia251. Se non ci interessa niente del mondo, ci atrofizziamo. Se niente più «fa differenza», perdiamo la nostra capacità di fare distinzioni. Il sé come qualcosa di determinato, e in sé differenziato, si sviluppa nelle sue capacità di percezione e di distinzione solo attraverso il contatto con un mondo differenziato, nel quale le cose hanno un significato. Se vi­ ceversa nel mondo niente è importante e noi non siamo legati a esso da nessun interesse, anche i nostri organi di percezione non si sviluppano. Questo conduce a un processo di «devitalizzazione»: diventiamo insen­ sibili e rimaniamo indifferenziati. Il «sé attivo» smette di esistere. «Un aumento sostanziale del nostro essere annoiati mina la continuazione del­ la vita psichica. In altre parole, minaccia Testinzione del sé attivo»252. Se quindi la noia radicale porta alla perdita di sé, evitare la noia è un impe­ rativo per l’autoconservazione:

Quello che è evidente nel nostro interesse ad evitare la noia, quindi, non è solo una resistenza nei confronti del disagio ma un bisogno piut­ tosto elementare di sopravvivenza fisica. E naturale interpretarlo come una modificazione del più familiare istinto di autoconservazione. Esso è connesso all’«autoconservazione», tuttavia, solo in un senso letterale non familiare, - nel senso in cui sostiene non la vita dell’organismo ma il persistere del sé253. « L’«autoconservazione» non è qui intesa in senso biologico, perché ovviamente la persona naturale continua a esistere anche se si ritira dal

251. Ibidem. 252. Ivi, p. 88. 253. Ivi, p. 89.

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mondo, priva di interessi. Ma la persona che conduce una vita attiva e au­ tonoma e che si rapporta a essa, invece, si dissolve. Perciò, l’interesse per il mondo e il processo in cui investiamo il mon­ do di significato rappresentano delle necessità costitutive per l’acquisi­ zione di un rapporto personale con se stessi. Ci rapportiamo a noi stessi e siamo importanti per noi stessi nella misura in cui il mondo è per noi im­ portante. Questo risulta già sul piano concettuale dal fatto che ci «defi­ niamo» attraverso le cose che sono per noi importanti. Le persone si rap­ portano a se stesse e sono importanti per se stesse in quello che fanno.

Può qualcosa per cui le sue stesse condizioni e attività non hanno la mi­ nima importanza, venire considerato una persona? Forse nessuno che sia completamente indifferente a se stesso è veramente una persona, indi­ pendentemente da quanto può essere intelligente o emotivo o simile al­ le persone secondo altri aspetti254. E nella misura in cui «prendersi-sul-serio» (secondo questa descrizio­ ne) non può significare altro che considerarsi importanti in quello che si fa e in quello per cui ci si «preoccupa», ciò è indissolubilmente legato al considerare importante il mondo. Perciò, l’indifferenza nei confronti del mondo è legata all’indifferenza nei confronti di se stessi. Il mondo dive­ nuto ormai privo di vita e di significato va di pari passo con un soggetto che diventa privo di vita e di significato. Così, la domanda sollevata so­ pra riguardo a cosa ci sia di sbagliato o di problematico nell’indifferen­ za, non può più essere posta seriamente: non solo una persona cui non im­ porta come vive non può essere autonoma; colui cui non importa come vive non esiste proprio come persona255. Applicato all’esempio di Perl254. Ivi, p. 90. 255. In un passaggio Frankfurt solleva un’obiezione interessante contro se stesso: «Ci sono pratiche d’indifferenza che non conducono ad una distruzione della persona? E autoevidente che non interessarsi a niente significa avere una cattiva vita? Certe tradi­ zioni di pensiero orientali in realtà sembrano raccomandarlo. I loro seguaci sono in­ coraggiati a lottare per una condizione nella quale la volontà è annichilita - nella qua­ le non esiste più un agente intenzionale. Riconoscono, tuttavia, che annientare la vo­ lontà richiede un programma serrato di sforzo rigorosamente disciplinato. [...] Così, anche per coloro per i quali la cosa più importante è che niente per loro deve essere importante, essere interessati a questo comporta una vasta intenzione e azione» (ivi, p. 88). La risposta a questa obiezione è quindi: anche non voler avere più nessuna vo­ lontà è uno sforzo della volontà. E nelle «pratiche orientali» cui allude Frankfurt pro­ babilmente l’attenzione, alla quale lui mira, è acuita piuttosto che apatica.

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mann questo significa: non solo le sue capacità intellettuali, e in partico­ lare la sua capacità intellettuale di fare differenze si affievolirebbero se continuasse a non considerare più niente importante e non sviluppasse più «opinioni» in nessun campo. Nel complesso, si potrebbe assistere a un processo di «atrofizzazione» emotiva e cognitiva della sua personalità - l’a­ lienazione dal mondo avrebbe come risultato l’alienazione da se stessi.

«Il disprezzo dell'esistenza» (La critica di Hegel allo stoicismo) Le riflessioni di Hegel sull’antica Stoà (o sullo stoicismo come modo pratico di condurre la propria vita) permettono di mettere in luce un ulteriore aspetto del nostro problema, ovvero il rapporto, divenuto pro­ blematico, tra libertà e indifferenza. Ora, naturalmente lo stoicismo non è la stessa cosa dell’indifferenza e Perlmann non è uno stoico. Tuttavia vi è un punto di contatto tra essi che è rilevante per la domanda sollevata in precedenza. Nell’esposizione di He­ gel lo stoico è colui che cerca di ottenere «la libertà interiore» diventando indifferente, disimpegnandosi nei confronti del mondo esteriore. Egli col­ tiva nei suoi confronti, come dice Hegel, un’«indifferenza non ottusa, ma voluta»256. Ciò che a Perlmann semplicemente accade (ovvero il divenirgli indifferente del mondo) è qui una strategia: «Tutto ciò che appartiene al­ l’appetito o al timore - egli - non lo reputa suo, lo considera estraneo a sé»257. Espresso nello stesso modo in cui si è detto sopra, lo stoico riduce la «superficie vulnerabile» sulla quale il mondo potrebbe fare presa, delu­ derlo o costringerlo. Se non voglio l’onore nessuno potrà avere presa su di me togliendomelo, se riduco i miei bisogni al minimo indispensabile la lo­ ro mancata soddisfazione non potrà privarmi della mia libertà. In questo senso lo stoicismo significa un «disprezzo dell’esistenza»258 che rende ca­ paci di sottrarsi con successo alle costrizioni della società e della natura. E cruciale che questa strategia venga concepita com® un mezzo per il rag­ giungimento della libertà, dal momento che lo stoico cerca di raggiungere la «libertà interiore» attraverso l’indifferenza nei confronti del mondo esterno. La volontà stoica è secondo la descrizione di Hegel: 256. Hegel G.W.F., Lezioni sulla storia della filosofia, op. cit., p. 441. 257. Ivi, p. 437. 258. Ivi, p. 441.

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La volontà del soggetto, che in se stesso vuole soltanto sé, sta fermo al pensiero del bene perché è bene, non si lascia minimamente smuovere da nessun’altra cosa, desideri, dolore ecc., vuole soltanto la propria li­ bertà, ed è pronto a far getto di tutto il resto; [...] anche quando prova esteriormente dolore, infelicità, li separa però dall’interiorità della sua coscienza259. In questo modo egli è libero «nei pensieri», poiché non è più legato al mondo che potrebbe mettere in discussione la sua indipendenza. Per la nostra ricerca sono interessanti le argomentazioni con le quali Hegel respinge la «libertà interiore» così ottenuta poiché deficitaria. Egli infatti critica la libertà raggiunta attraverso il respingimento dei legami considerandola astratta e vuota, e ciò Io conduce a un modello opposto di libertà, che deve poter essere definita in termini positivi. Poiché la li­ bertà che risulta dal «disprezzo dell’esistenza» non riesce a darsi alcuna determinazione, emerge un’immagine contrastante della libertà - una libertà positiva, divenuta reale, dell’individuo che è in grado di darsi una determinazione nel mondo, di comprendersi a partire da esso e di realizzarsi in esso. Ma cosa c’è di problematico nella «libertà interiore» dello stoico? Qui vanno considerati diversi aspetti collegati tra loro. Prima di tutto: la li­ bertà stoica, l’intera esistenza stoica, è difensiva. Laddove Hegel si rife­ risce allo stoicismo nella sua forma storica effettiva (si riferisce qui allo stoicismo tardo, romano, meno a quello ellenistico), fa riferimento alle condizioni storico-sociali dell’atteggiamento dello stoico:

E certamente grandioso il loro energico disprezzo dell’esistenza, e su­ blime la forza di quest’atteggiamento negativo. Il principio stoico è un momento necessario nell’idea della coscienza assoluta, ed è stata anche un’apparizione necessaria a suo tempo. Infatti, allorché, come è acca­ duto nel mondo romano, la vita dello spirito reale è andata perduta nel­ l’universale astratto, la coscienza, di cui è rimasta distrutta l’universalità reale, deve ripiegarsi nella sua individualità, e conservar se stessa nei pro­ pri pensieri260.

259. Ivi, p. 434. 260. Ivi, p. 441.

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Si tratta qui di una reazione alla perdita dell’«universalità reale» e della «realtà del mondo» che - nonostante tutta la grandezza che Hegel le riconosce - porta su di sé le cicatrici di questa perdita, di un deficit che si mostra nel carattere privato e rassegnato di tale reazione.

Gli spiriti eletti di Roma hanno mostrato quindi soltanto il negativo, que­ sta indifferenza verso la vita, verso ogni esteriorità; essi son potuti essere grandi soltanto in modo soggettivo o negativo, come uomini privati261. Il concetto di sovranità della Stoà - come «fuga dalla realtà»262 - è quindi caratterizzato dall’impotenza nei confronti del mondo esterno e in un certo senso esso porta con sé quest’impotenza come una macchia. La domanda è perciò: esiste una libertà come «libertà dell’uomo priva­ to»? o in altri termini: è veramente già libertà o solo libertà in una for­ ma deficitaria? La risposta di Hegel è: questo «modo soggettivo o negativo» indica una forma di libertà deficitaria. La libertà rimane «libertà astratta», «in­ dipendenza astratta»263, l’indipendenza della coscienza stoica esiste sol­ tanto «nei pensieri». «Astratto» qui significa qualcosa che «non è dive­ nuto reale», non è determinato nel suo contenuto. «Ma la coscienza stoica si ferma al concetto, non arriva a conoscere il contenuto, o ciò che l’opera deve compiere»264. Si tratta qui, quindi, di una libertà che, per dirla in termini hegeliani, non si dà una «realtà etica» ma che rimane nella soggettività dell’individuo: «Essa non consiste nel fatto che lo sta­ to del mondo sia razionale o giusto, ma solo che il soggetto come tale affermi la sua libertà in sé»265. Così è revocato in questione anche il fatto che l’individuo possa esse­ re libero in un senso puramente «interiore» e che l’incapacità di mate­ rializzare la libertà nella sfera sociale, di darle una «realtà», non debba

261. Ivi, p. 443. 262. Come si esprime Hegel nella Fenomenologia dello spirito, cfr. Hegel G.W.E, Fe­ nomenologia dello Spirito, trad. it. De Negri E., Edizioni di Storia e Letteratura, Ro­ ma, 2008. 263. Hegel G. W.F., Lezioni sulla storia della filosofia, voi. n, Dai Sofisti agli Scettici, trad, it. Codigola E. e Sanna G., La Nuova Italia, Firenze, 1964, p. 329. 264. Hegel G.W.F., Vorlesungen iìber die Geschichte der Philosophic, Bd. 2, in Werke, Bd. 19, Frankfurt am Main, p. 289. 265. Ivi, p. 294.

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avere effetti anche sulla libertà degli individui (e sulla loro realtà). Si potrebbe chiamarla «la mancanza di mondo» di questa libertà: il sog­ getto, che è libero solo internamente, non si dà un mondo, non si este­ riorizza e non si realizza in esso. «La realtà etica non è espressa come l’opera permanente, prodotta e che si riproduce continuamente». La cri­ tica di Hegel è quindi che questa libertà è solo un ideale, non realtà, e che quindi non offre il punto di riferimento nel quale soltanto la libertà può realizzarsi. Essa rimane così «formale» e non raggiunge nessun «conte­ nuto»266. L’idea di libertà che si trova alla base di tutto questo può essere com­ presa facendo riferimento alla Filosofia del diritto di Hegel. Anche qui il pensiero fondamentale - in termini schematici - consiste nel fatto che la libertà deve darsi una realtà, si deve determinare in qualche modo, con­ cretizzare o realizzare. Questo ha due aspetti: da una parte il mondo soltanto negato rimane, in quanto negato, esterno all’individuo, quindi estraneo e non soggetto alla sua influenza. La verità effettiva, realizzata, consiste invece non nell’astrazione dal mondo ma nella sua appropria­ zione. Qui è decisivo il fatto che questa appropriazione è una trasfor­ mazione. La libertà astratta-negativa del ritiro dal mondo rimane inve­ ce, nel suo ritiro, legata a ciò da cui si ritira (ovvero a ciò che nega): essa può solo rifiutarlo ma non cambiarlo. La «libertà positiva», realizzata, nel senso di Hegel, significa quindi la trasformazione appropriante (o l’appropriazione trasformante) delle condizioni nelle quali si realizza267; libertà significa poter fare «proprie» le condizioni nelle quali si vive. E viceversa: l’indipendenza che si mantiene solo ignorando il mondo ef­ fettivo rimane astratta. In questo senso anche Allen Wood scrive:

266. Ivi, p. 290. 267. Questa idea della trasformazione appropriarne è decisiva già per la costituzione della volontà libera: a questo proposito è fondamentale l’introduzione ai Lineamenti di Filosofia del diritto, poiché può essere letta come una storia della socializzazione in cui i soggetti diventano persone. Essi diventano persone «mettendo la loro volontà in qualcosa» e venendo in questo riconosciuti come liberi. Questa volontà deve però prima qualificarsi come «volontà libera»: dal volere arbitrario negativo alla «volontà libera che vuole la volontà libera». E questo processo di formazione, che Hegel chia­ ma la «purificazione degli impulsi», consiste in un processo di «estinzione» ( Abarbeitung) dell’estraneo, ossia di come appaiono i propri desideri (Begierden) prima di questa trasformazione appropriante. Il punto decisivo qui è che «l’arbitrio» non è ve­ ramente libero perché si lascia determinare dai desideri non formati.

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ALIENAZIONE

Non raggiungiamo la vera autosufficienza nei confronti di un altro fuggendo o separandoci da esso - come nel distacco stoico, o nel di­ sinteressamento kantiano nei confronti degli scopi empirici. Una si­ mile strategia è un autoinganno, come la strategia della personalità nevrotica che evita il trauma del fallimento escludendo dall’inizio ogni possibilità di successo. La vera indipendenza in relazione ad un altro è raggiunta piuttosto lottando con l’alterità, superandola e facendola propria268. D’altra parte la persona rimane irreale perché indeterminata. Diven­ tare una «persona» significa, infatti, nella terminologia hegeliana, «met­ tere la propria volontà in qualcosa», e questo significa anche: determi­ narsi volendo qualcosa nel mondo. Solo in una simile relazione con il mondo la persona si «realizza» come tale, e solo in ciò la sua libertà si rea­ lizza come libertà concreta. Ciò che Hegel sviluppa qui può essere compreso come una dialettica tra libertà e determinazione. Se non mi identifico con niente, non sono delimitato da niente: allora posso fare tutto. Il problema però è che que­ sto «poter fare tutto» significa anche che non posso essere «colto» sot­ to nessun aspetto e che non ho contorni definiti. Io non sono colei che vuole e può questo, ma qualcuno la cui libertà rimane vuota e astratta. Finché non metto la mia volontà in qualcosa di determinato, questa li­ bertà non è realtà ma solo una possibilità indeterminata. L’individuo che vede la sua libertà nel fatto di non identificarsi con niente, di non determinarsi in qualche modo, e di non «porre la sua volontà» in nien­ te, cade in un’idea erronea di sovranità e di autonomia - erronea per­ ché alla base di una simile posizione si trova un’idea formale e unilaterale di libertà e di indipendenza. (Hegel e Frankfurt condividono quindi l’i­ dea che per concretizzare la propria libertà ci si deve legare a qualcosa e ci si deve identificare con qualcosa). La volontà che rimane indifferente nei confronti di determinazioni concrete non è quindi libera in senso pieno. Essa è infatti libera di re­ spingere alcune identificazioni - ma a prezzo del vuoto e dell’impoveri­ mento del sé. Su questa base si può anche argomentare contro quello che

268. Wood A.W, Hegels Ethical Thought, Cambridge University Press, Cambridge, 1990.

II. VIVERE LA PROPRIA VITA COME UNA VITA ESTRANEA

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Nietzsche chiamerà in seguito «lo spirito libero»269. La libertà di scelta è quindi solo l’aspetto formale della libertà; la libertà dell’indifferenza, del­ la distanza e del rifiuto delle identificazioni è incompleta, e diventa com­ piuta solo attraverso una determinazione di contenuto, attraverso l’atto di scegliere qualcosa di determinato, di orientarsi positivamente verso qualcosa. Tuttavia, il lato negativo o meramente formale in Hegel ha le sue ragioni (non solo dal punto di vista storico): «il diritto dell’indifferenza» consiste in questo senso nel fatto che per potersi determinare liberamente in qual­ cosa bisogna anche poter astrarre da questo. Raymond Geuss ha richia­ mato l’attenzione sul fatto che Hegel, con il suo concetto di libertà «posi­ tiva», prova a integrare entrambi gli aspetti: l’atto della riflessione (che si basa sullo scioglimento dei legami) e quello dell’identificazione. L’indivi­ duo che si determina, deve determinarsi in qualcosa - in accordo con la teoria di Frankfurt dell’identificazione e della partecipazione «incondi­ zionata». Però, deve fare questo in un atto consapevole di libera scelta, che ha come condizione necessaria la possibilità della presa di distanza. Così in Hegel - o così almeno si può descrivere il suo tentativo - la cosiddetta «libertà negativa» è un presupposto costitutivo della «libertà positiva» (la libertà negativa viene «superata» in essa). Si può accentuare ancora di più questo pensiero tornando alla discussione sviluppata con Harry Frankfurt (nella parte II, capitolo 3): in Hegel non solo (come in Frank­ furt) il legame è un presupposto della libertà, ma anche viceversa (contro Frankfurt) la libertà è un presupposto del legame. (Questa immagine sta alla base dell’idea della libera appropriazione di sé e del mondo che nella terza parte contrapporrò ai processi di alienazione qui identificati).

(5) Indifferenza, realizzazione di sé e alienazione

Dalla mia discussione di Frankfurt e Hegel risultano le seguenti con­ seguenze per l’interpretazione dell’indifferenza come fenomeno di alie­ nazione:

269. Raymond Geuss costruisce questa opposizione, cfr. Geuss R., Auffassungen der Freiheit, in «Zeitschrift fur philosophische Forschung», voi. 49, gennaio-marzo 1995, pp. 1-14.

226

ALIENAZIONE

Si può considerare l’indifferenza «alienante» nella misura in cui essa può essere compresa come modo deficitario di affermare la propria in­ dipendenza. Questo modo risulta inadeguato perché la vera indipen­ denza, che consisterebbe nel potersi relazionare a progetti che si sono scelti di persona, identificandocisi e facendoli propri, non è ancora rea­ lizzata. Nella misura in cui questo tipo di rapporto (come proporrò più avanti) può essere definito «realizzazione di sé», gli stati di indifferenza minacciano le possibilità degli individui di realizzare se stessi. L’aspetto di libertà dell’indifferenza - come scioglimento dei legami con il mon­ do - indica che si deve realizzare se stessi e non una determinazione ineluttabile o un’idea oggettiva - e che gli individui devono aver fatto proprio quello che fanno nel mondo nella modalità di una libera appro­ priazione. Questo presuppone la possibilità di una presa di distanza. Poi­ ché l’indifferenza include anche l’esperienza che un mondo di significa­ ti fissi può diventare improvvisamente privo di significato, che ci si può distanziare non solo dai giudizi sociali cui si era sottomessi ma anche da tutta la rete di riferimenti dotati di senso in cui ci si orientava, l’indiffe­ renza è senza dubbio anche un’esperienza di liberazione o di «dereifi­ cazione». Proprio vedendo che il mondo può diventare privo di signifi­ cato e che ci si può distanziare da esso, si fa esperienza del fatto che sia­ mo noi stessi a dargli significato e che siamo attivamente coinvolti, e non solo passivamente consegnati a esso. Da questo punto di vista l’in­ differenza non è solo un’esperienza d’impotenza, ma anche di potenza: il mondo non è significativo di per sé ma attraverso di me, le cose non sono importanti di per sé ma io le rendo importanti identificandomi con esse. La presa di coscienza di questo diventa un sintomo di aliena­ zione (in senso negativo) quando da questa comprensione non ne con­ segue che bisogna dare significato al mondo: quando l’indifferenza di­ venta quindi l’impossibilità di rapportarsi con il mondo - con il quale ci si deve comunque confrontare - formandolo attivamente. O in altri ter­ mini, il mondo diventa mio quando me ne approprio (attivamente). L’indifferenza, la possibilità di prendere distanza e a volte anche l’«impallidire» del mondo - come accade a Perlmann nel nostro esempio iniziale - possono quindi da una parte essere comprese come l’altro la­ to dei rapporti di identificazione con il mondo. Ma se questa indiffe­ renza diventa «totale», ci troviamo di fronte a un’esperienza di aliena­ zione in senso problematico. Riprendendo la mia interpretazione del­

IL VIVERE LA PROPRIA VITA COME UNA VITA ESTRANEA

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l’alienazione come relazione in assenza di relazione si può allora argo­ mentare anche qui: la separazione (che un simile atteggiamento di in­ differenza produce o presuppone) è illusoria; anche nell’indifferenza vi è un relazionarsi al mondo - quel modo di relazionarsi difensivo che si è, tuttavia, dimostrato essere deficitario.

III. L’alienazione come appropriazione disturbata DI SÉ E DEL MONDO

Considerata dalla prospettiva del soggetto, l’alienazione è una rela­ zione deficitaria con il mondo e con se stessi che - secondo la mia tesi può essere compresa come una relazione di appropriazione disturbata: l’alienazione è un’appropriazione impedita del mondo e di se stessi. Se la prima parte di questo libro ha avuto lo scopo di introdurre la problematica storica e sistematica del concetto di alienazione, e la secon­ da di elaborare praticamente le idee, abbozzate inizialmente, di una rico­ struzione del concetto di alienazione, l’intento della terza parte sarà quel­ lo di riannodare questi diversi fili per valutare i risultati della discussione dei casi di alienazione e sistematizzarli concettualmente. Sullo sfondo delle analisi finora compiute, vorrei adesso articolare un concetto di alie­ nazione come appropriazione impedita di sé e del mondo, situandolo nel contesto di altre posizioni. Prima di procedere con i tre capitoli di questa ultima parte, vorrei brevemente sintetizzare il cammino finora compiuto.

Ealienazione da sé come appropriazione impedita di se stessi e del mondo

1. Riprendendo una formulazione di Ernst Tugendhat, l’alienazione può essere compresa come un «non potere disporre di se stessi». Esse­ re alienati da se stessi significa, in altre parole, essere inaccessibili a se stessi in ciò che si vuole e in ciò che si fa270. 2. Con l’espressione «poter disporre di se stessi» s’intende qui una for­ ma di relazione con se stessi non solo teorica ma anche pratica: un pro­ cesso di appropriazione pratica di se stessi. Questa idea si riferisce a 270. Cfr. Tugendhat E., Etica antica e moderna, op. cit., e anche la mia dettagliata ri­ costruzione nella parte I, capitolo 3.

230

ALIENAZIONE

una capacità - intesa in senso ampio - di relazionarsi a se stessi che non mira né si risolve in una completa autotrasparenza e che non significa né presuppone un completo controllo o un completo potere di dispor­ re di se stessi. E piuttosto un processo produttivo di (auto)appropria­ zione pratica, ed è la base di una relazione riuscita con se stessi. Vice­ versa, l’alienazione può essere definita come un disturbo di questo pro­ cesso di appropriazione.

3. L’appropriazione di sé è mediata da un’appropriazione del mondo. Poiché la relazione con sé, che qui è in questione, può essere articolata solo facendo riferimento alla relazione che ciascuno ha con i propri de­ sideri, i propri interessi e le proprie azioni - che sono a loro volta diret­ ti verso il mondo - l’appropriazione di sé avviene sempre come appro­ priazione del mondo. Quindi, l’alienazione da se stessi è anche un’alie­ nazione dal mondo e, viceversa, l’alienazione dal mondo è un’alienazione da sé. Questa è la ragione per cui l’indifferenza è un fenomeno di alie­ nazione.

4. Il modello di alienazione così concepito non implica quindi l’idea di un sé autentico e intatto nella propria interiorità, e il superamento dell’alienazione non significa il ritiro in un «sé interno» non alienato. Il mio riferimento alla tematica dell’alienazione conduce piuttosto a un concetto di realizzazione di sé inteso come processo del «dare-realtà-ase-stessi» nel mondo, che trascende le distinzioni tra interno ed esterno e tra una vita interiore e un mondo esteriore. Anche la vita interiore è un mondo interiore.

5. Il concetto di appropriazione di sé e la traduzione del concetto di alienazione in quello di accessibilità a se stessi hanno ulteriori implica­ zioni per la relazione tra l’alienazione e Veteronomia. Essere accessibili a se stessi è il presupposto per potersi autodeterminare, ma non è iden­ tico all’autodeterminazione; allo stesso modo, le modalità del non esse­ re accessibili a se stessi che ho discusso finora non possono essere ridot­ te all’eteronomia. Non essere capace d’identificarsi con ciò che uno vuole e fa significa qualcosa di più e di diverso dall’eteronomia. Tutta­ via, una vita di cui non si è riusciti ad appropriarsi non è in un senso si­ gnificativo la «propria vita».

III. l’alienazione come appropriazione disturbata di sé e del mondo

231

6. A differenza di una mera identificazione passiva, il concetto di ap­ propriazione enfatizza il tratto attivo e produttivo di una relazione con se stessi e con il mondo. Il fatto di definire il processo di appropriazio­ ne produttivo deve essere inteso nel modo seguente: il «sé», che potreb­ be alienarsi da se stesso, emerge per la prima volta in questo processo di appropriazione. Non c’è nulla che sia già qualcosa e stia al di fuori di questo stesso processo. Ciò di cui ci si appropria non esiste al di là del processo di appropriazione.

7. Sul piano metodologico, partire dalle relazioni di appropriazione ha come conseguenza che la spiegazione di un «essere se stesso» non alie­ nato non deve più rimandare al modello di un accordo con sé (interiore e sostanziale), ma può trovare il proprio criterio normativo nell’idea di un processo di appropriazione riuscito. (Seguendo Ernst Tugendhat non è in questione il che cosa dell’appropriazione ma il come). Quindi, i cri­ teri di un’appropriazione riuscita sono localizzati nel processo stesso, nel funzionamento di questo processo come tale. Nell’esame dei vari feno­ meni ho suggerito che un simile processo è disturbato se, per certi aspet­ ti, «non funziona». I sintomi di questo mancato funzionamento sono un’inadeguata capacità d’integrazione e di risoluzione dei problemi, così come una mancanza di apertura e d’inclusività nel processo di ap­ propriazione. Sulla base dei casi che abbiamo esaminato, ciò può essere generalizzato nel modo seguente: l’alienazione significa l’arresto dei pro­ cessi di esperienza. E alienato è chi non si rapporta ai propri presuppo­ sti, chi non può appropriarsene.

8. Così la diagnosi dell’alienazione rimane sospesa, quindi, tra una pro­ spettiva soggettivistica e una oggettivistica. La domanda su quando un rapporto con se stessi «funzioni» può essere ovviamente controversa, e la questione relativa alle condizioni preesistenti alle quali ci si deve rap­ portare necessita, come si è dimostrato, sempre di un’interpretazione (si veda la parte II, capitolo 3). Allo stesso tempo il «soggettivismo qualifi­ cato» - proposto nel capitolo 3 - dipende da determinate assunzioni che hanno un contenuto materiale. Nella misura in cui la validità di queste assunzioni deve essa stessa essere provata da un’interpretazione - come in molti modelli psicoanalitici - e quindi deve essere giustificata come pre­ supposizione, non abbiamo qui un circolo vizioso (ergebnislosen Zirkel) ma un circolo che costantemente arricchisce la nostra comprensione in

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ALIENAZIONE

una sorta di equilibrio riflessivo. Come vedremo (soprattutto nel con­ fronto con l’opposta prospettiva postmoderna), le «condizioni preesi­ stenti» di cui ci si deve appropriare non sono né «date» indipendente­ mente dall’interpretazione né completamente contingenti.

9. L’apertura del processo di appropriazione e il suo carattere speri­ mentale implicano che il «superamento dell’alienazione» non deve es­ sere descritto come un «ritorno a se stessi» o come una riconciliazione, ma può essere invece concepito come un processo senza fine, i cui ri­ sultati non sono anticipabili.

Struttura della terza parte

I prossimi tre capitoli elaborano ulteriormente la relazione tra ap­ propriazione e alienazione nel modo seguente: - Il primo capitolo sistematizza il concetto del sé, implicito nelle analisi che sono state condotte finora, in un «modello appropriativo» del sé e lo difende contro varie obiezioni. Voglio mostrare che la critica del­ l’alienazione può dispensarsi dall’assumere presupposizioni essenzialistiche, senza per questo divenire arbitraria; - Il secondo capitolo localizza l’insieme di problemi che concerno­ no il tema dell’alienazione: sullo sfondo del «negativo» dell’autoaliena­ zione discuterò il rapporto tra libertà, autodeterminazione e autorealiz­ zazione e criticherò la concezione «romantica» di autenticità utilizzan­ do un modello di autorealizzazione derivato da Hegel e da Marx. Nel terza capitolo in conclusione riprenderò la tesi della socialità del sé sot­ tesa a tutte le mie riflessioni: qui argomenterò che una relazione riuscita con se stessi si basa su un rapporto riuscito con il mondo sociale.

III. l’alienazione come appropriazione disturbata di sé e del mondo

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1. Come una struttura di zucchero filato: essere se stessi come appropriazione di sé

Nana è un animale con un esterno e un interno. Se togli l’ester­ no, otterrai ciò che c’è all’interno. Se rimuovi l’interno, puoi vedere la sua anima. Kaja Silverman, Harun Farocki, SpeakingofGodard Era pronto a dichiarare che il sé, una persona nel senso psico­ logico del termine, non aveva alcun nucleo solido e assolutamente nulla di una sostanza, ma era piuttosto un ordito di sto­ rie che si espande continuamente ed è soggetto a un costante processo di ri-stratifìcazione - un po’ come una struttura di zucchero filato alla fiera, solo senza materia? PASCAL Mercier, PerlmannsSchweigen

Sulla scorta dei fenomeni discussi nella seconda parte, ho descritto l’a­ lienazione come un potere insufficiente e come un’assenza di presenza in ciò che si fa, come una mancata identificazione con le proprie azioni e con i propri desideri o come una mancata partecipazione alla propria vita. Viceversa, si è «se stessi» in modo non alienato quando si è presen­ ti nelle proprie azioni, quando si governa la propria vita invece di essere trascinati da essa, ci si appropria in maniera indipendente dei ruoli sociali, ci si riesce a identificare con i propri desideri e si è coinvolti nel mondo - in breve, quando si riesce ad appropriarsi della propria vita (come propria) e si è accessibili a se stessi in ciò che si fa. Come dobbiamo descrivere allora il «sé» che, nei modi descritti, si aliena «da sé»? Quale concezione del sé sta alla base dell’analisi dei casi di alienazione condotta nella seconda parte? Che forma assume il pro­ blema del «sé» e dell’«unità del sé» quando si parla di un rischio di per­ dita del sé, nel senso in cui se ne è discusso finora? Quando parlo di «sé» e di «identità» personale intendo in prima ap­ prossimazione ciò a cui si riferisce il linguaggio ordinario, ossia quella che può essere definita una continuità (psichica) o un’unità (psichica) della persona271. Ciò che intendo qui è l’«istanza», più o meno stabile, che 271. La definizione di una tale prospettiva «psicologica», in contrasto con una pro­ spettiva «metafisica», si trova in Jonathan Glover, il quale, dopo avere ricostruito nel­ la prima parte del suo libro, concordando, la liquidazione compiuta da Derek Parfìt

234

ALIENAZIONE

presupponiamo quando ci riferiamo a noi stessi come a persone agenti, o ciò di cui pensiamo che «ci costituisce». Il presente capitolo riassume le implicazioni delle mie analisi condot­ te finora, con l’intento di presentare una concezione «appropriativa» del sé e di difenderla contro obiezioni e posizioni rivali. In contrasto con visioni «essenzialistiche», questa concezione enfatizza il carattere fluido e costruito delle relazioni con se stessi, in cui noi non siamo sem­ plicemente dati a noi stessi. A differenza della critica «poststrutturalista» del soggetto, però, questa concezione insiste sulla possibilità di distin­ guere tra modalità di appropriazione di noi stessi riuscite e non riuscite. Solo in questo modo si può parlare di alienazione da sé evitando le trap­ pole dell’essenzialismo. La prima sezione di questo capitolo (1/ sé come processo di appropria­ zione) sviluppa una concezione appropriativa del sé, mutuando motivi dalla tradizione esistenzialista intesa in senso lato e da quella hegeliana. Questa concezione prenderà forma nel confronto con due posizioni di­ verse e nella difesa dalle loro obiezioni. La prima di queste obiezioni con­ cerne la mia critica all’essenzialismo e le presunte implicazioni di un ap­ proccio antiessenzialistico, quali la distruzione dell’unità del sé e delle sue qualità indisponibili. Queste obiezioni verranno discusse nella se­ conda sezione {Indisponibilità e interiorità), facendo riferimento a due diverse posizioni, che considerano il mio modello di identità «troppo de­ bole», pur partendo da prospettive diverse: (1) le concezioni che enfa­ tizzano in maniera più forte quegli elementi dell’identità personale di cui non possiamo disporre e che non possiamo controllare e che sostengo­ no un modello più sostanziale dell’identità della persona di quanto io fac­ cia; (2) le posizioni che insistono su un’idea di «interiorità» come rifu­ gio interiore dell’individuo dal mondo. Infine, nella terza sezione {In­ venzione del sé e molteplicità del se) mi confronterò con le obiezioni di una seconda posizione. Qui mi misurerò con la discussione ispirata dal poststrutturalismo e dal sociocostruttivismo, che accusano il modello appropriativo del sé da me sostenuto di mantenere un residuo di essenzia­ lismo e una concezione del soggetto troppo forte.

della fondazione metafisica dell’unità della persona, s’interroga nella seconda sugli ef­ fetti e sulle condizioni dell’identità (secondo questa contrapposizione) in un senso «psi­ cologico» (Glover J., The Philosophy and Psychology of Personal Identity, Alien Lane, London, 1988).

III. l’alienazione come appropriazione disturbata di sé e del mondo

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In questa sezione discuterò (1) il tema AeW invenzione del sé, posto in contrasto con l’idea del trovare se stessi. Contro questa (a mio avviso) fal­ sa alternativa argomenterò in favore dell’idea àAV appropriazione di sé. In secondo luogo (2) mi confronterò con l’idea della «molteplicità» e del carattere ibrido dell’identità, che contrasta con la mia concezione del raggiungimento di un’unità attraverso le prestazioni del soggetto (ap­ propriante). Infine, dal momento che si tratta di idee che hanno trovato un’eco nella critica della cultura contemporanea, discuterò (3) la vali­ dità di queste diagnosi esaminando un caso empirico, la costruzione dell’identità in internet.

1. IL SÉ COME PROCESSO DI APPROPRIAZIONE

Nell’introduzione alla seconda parte, con la denominazione di «mo­ dello-nucleo» del sé, ho definito quelle posizioni che si fanno guidare dall’idea che si è «presso di sé» o «autentici» nel momento in cui si è in accordo con un’essenza interna o con una sorta di originario modello in­ terno di se stessi. In questa prospettiva, quindi, «si realizza se stessi» se si permette a questa essenza di esprimersi e «si trova se stessi» nella misura in cui si ritorna ad essa. È appropriato denominare questo modello un «modello-nucleo» perché esso presuppone (parlando metaforicamente) un nucleo interno che contiene ciò che qualcuno realmente è. Questo modello è stato criticato da due punti di vista: in primo luogo, a causa delle implicazioni reificanti del suo implicito essenzialismo e, in secondo luogo, a causa della dicotomia tra interno ed esterno inerente alla metafo­ ra del nucleo. E stato criticato, inoltre, anche per la stessa idea che ne consegue, vale a dire che il vero sé sia localizzato da qualche parte all’«interno», indipendentemente dalla sua espressione e esteriorizzazione {EntAuflerung}. Come possono le descrizioni dei casi di alienazione del capi­ tolo precedente rispondere a queste obiezioni? In che senso abbiamo qui di una diagnosi di alienazione senza un modello-nucleo272?

272. La definizione di modello-nucleo abbraccia posizioni che da altri punti di vista si dovrebbero distinguere: la posizione che postula una determinazione (o funzione) dell’essere umano data, da una parte, e la concezione romantica di un’immutabile «voce interiore» (Herder), dall’altra. Storicamente queste teorie si lasciano situare prima e dopo la perdita di una «determinazione oggettiva» dei fini dell’essere umano.

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ALIENAZIONE

Fare, non essere - critica dell'alienazione senza un sé essenziale

Rispetto all’accademico del nostro primo esempio la diagnosi è ovvia. Sulla base del modello del nucleo si potrebbe affermare che egli ha perso la sua essenza - il suo sé autentico, il suo carattere interiore - trasforman­ dosi da bohémien di una grande città a padre di famiglia di provincia. Se­ condo questa concezione, nella vita che conduce egli si sarebbe «alienato da se stesso», nella misura in cui c’è qui una discrepanza tra ciò che egli fa e ciò che egli autenticamente è. La mia proposta interpretativa assume invece una prospettiva diversa. Il problema non è che lui fa qualcosa che non è, ma che non è presente in ciò che fa. Ho descritto questo processo come un «lasciarsi trascinare» dagli eventi e l’ho analizzato come un «oscu­ ramento delle domande pratiche», che porta a non compiere realmente ciò che facciamo, in quanto non decidiamo in prima persona o non conside­ riamo ciò che c’è da decidere e da mettere in forma come oggetto di pos­ sibile decisione. In questo modello, l’alienazione da se stessi è un’azione alienata: non la «caduta» dell’attore da un «sé», immaginato come una sostanza posta alla base del suo agire, ma una modalità di questo stesso agi­ re. Non si è alienati da qualcosa (da un sé autentico), ma piuttosto nell'at­ tuazione delle proprie azioni, in ciò che si fa o in come lo si fa. Anche la mia interpretazione del secondo esempio (il comportamento di ruolo) contraddice esplicitamente l’assunzione che il sé abbia un nu­ cleo essenziale. Dal momento che la mia analisi enfatizza il fatto che l’a­ lienazione accade non attraverso i ruoli ma in essi, essa rigetta allo stes­ so tempo l’assunzione di un sé autentico, non falsificato, che starebbe alla base dei ruoli falsificanti. Se, in opposizione a questa assunzione, è stata posta la domanda di come ci si possa appropriare dei propri ruoli, anche qui il comportamento alienato o non alienato (inautentico o au­ tentico) descrive una modalità del proprio agire. L’autenticità risiede in certi modi di comportarsi all’interno dei ruoli - ossia in certi modi di dare forma autonomamente a ciò che si fa nei rueli e di attribuire con ostinazione agli stessi un significato proprio - piuttosto che in un intat­ to sé, «puro» o «genuino», inteso come qualcosa che esiste prima e al di là di questi. E se la mia interpretazione ha insistito sul fatto che nei casi di alienazione attraverso i ruoli il «vero» sé non può proprio sviluppar­ si dietro il «falso» sé, allora, di nuovo, il punto di riferimento decisivo non è ciò che si è in contrapposizione ai propri ruoli, ma piuttosto ciò che non si riesce a fare in essi.

Ili, l’alienazione come appropriazione disturbata di sé e del mondo

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Il terzo esempio (la femminista) suggeriva per vari motivi che il pro­ blema del percepire i propri desideri come estranei potesse essere risol­ to solo presupponendo un sé essenziale come criterio posto alla loro base. Com’è possibile, senza riferirsi a tale standard, decidere in quali dei due complessi di desideri e di comportamenti contrapposti qualcuno è veramente «se stesso»? Anche qui ho cercato di mostrare in che modo il conflitto così tratteggiato possa essere compreso senza questo punto di riferimento. Se la mia diagnosi della «scissione interna» può essere po­ sta in contrasto con una condizione di «accordo con se stessi», questo ac­ cordo può essere definito come una coerenza interna delle caratteristi­ che, dei desideri, dei sentimenti e delle attitudini che costituiscono chi si è, ma non come un accordo di queste molteplici caratteristiche con un centro o un nucleo. Dal momento che tale coerenza deve a sua volta essere caratterizzata da una «mobilità interiore», da un’apertura e un accesso a se stessi, essa viene definita come una modalità del fare, del­ l’agire. Il criterio di distinzione tra i desideri alienati o alienanti e quelli propri, secondo questa ricostruzione, è il funzionamento della prassi. Nel quarto esempio, infine (l’indifferenza di Perlmann), la diagnosi dell’alienazione si basa sulla dissoluzione della dicotomia tra «nucleo» e «involucro». Solo nella misura in cui il sé esiste nelle identificazioni con i suoi progetti, l’indifferenza nei loro confronti può essere descritta co­ me alienante. Questa idea non presuppone un sé compiuto che, in un secondo momento, si cerca nei progetti che gli si addicono, ma un sé che si costituisce nell’identificazione con i propri progetti e che acqui­ sta una determinazione specifica solo in rapporto a essi. Il sé (o il «vero sé»), a sua volta, non è nulla che esista separatamente dalle sue attività. In questa prospettiva il sé è «relazionale», si costituisce nelle sue relazioni con il mondo e la sua autenticità è nel suo agire, nell’atto di identificar­ si con qualcosa, ossia nell’appropriazione del mondo. Tutto ciò significa: se qualcuno non è attore di ciò che fa, non è pre­ sente nella sua vita, ma invece è trascinato da essa, non si identifica con ciò che vuole e non è coinvolto in ciò che fa, allora questi non è «in realtà» qualcun altro. E tuttavia, in ciò che questi fa, vi sono una rimar­ chevole discrepanza, un deficit o una contraddizione analizzabili.

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ALIENAZIONE

Fuori, non dentro - l'esteriorizzazione del sé

Queste conclusioni concordano con le implicazioni della mia discus­ sione di ciò che nell’introduzione (facendo riferimento a Jameson) ho chiamato il «modello container» del sé. Il «modello container» presuppone un sé che vuole esprimersi ma che è già «lì», prima di questa espressione: «Un sé che grida per espri­ mersi». Secondo questo modello, l’alienazione da se stessi è caratterizza­ ta da una discrepanza tra l’interno e l’esterno, o tra un sé che vive intatto nel «container» e un sé che appare di fuori, dove è limitato, distorto, estra­ niato. Il sé vorrebbe esprimere se stesso, ma nel momento in cui entra nel mondo esterno è minacciato da distorsione e deformazione. La preoc­ cupazione del «sé container» è quindi quella di riuscire a passare, illeso, dall’«interno» all’«esterno»; quindi la mia obiezione contro questo mo­ dello è diretta alla stessa dicotomia che presuppone. Senza esteriorizza­ zione - questa la conseguenza della mia impostazione - non c’è nulla che potrebbe essere danneggiato. Il sé, ossia «ciò che costituisce ciò che siamo», non può essere separato dalle sue espressioni e dalle sue esterio­ rizzazioni nel mondo. Non c’è quindi prima un «sé», in riferimento al qua­ le, in un secondo momento, si potrebbe chiedere come possa esprimersi e realizzarsi; piuttosto, ciò che chiamiamo «sé» si forma nella misura in cui si esprime, si «esteriorizza» e con ciò «si dà una realtà» (Hegel). La situazione alienata dell’accademico, quindi, non può essere de­ scritta come la tragedia di qualcuno il cui vero sé non è adeguatamente espresso nell’esistenza che trascorre, così che «non può riconoscersi» in essa. Forse non è ciò che mostra di essere nella sua vita, ma non è nean­ che, all'interno, qualcosa di diverso che semplicemente non ha trovato la propria giusta espressione. Anche per chi recita un ruolo l’opposizio­ ne tra interno ed esterno è fuori luogo. Laddove un modello focalizzato sull’interiorità argomenterebbe che i ruoli (esterni) di una persona la alie­ nano da ciò che essa è all’interno, la mia analisi implica che anche quan­ do il comportamento di ruolo è un’espressione «falsa» di sé (distorta, irrigidita, senza vita, artificiale, limitata), l’espressione «corretta» può es­ sere solo, di nuovo, un’articolazione di sé pubblicamente accessibile. An­ che in riferimento al problema dei desideri non voluti e nascosti il mo­ dello di spiegazione di un interno e di un esterno può essere evitato. Que­ sti desideri certamente si esprimono - e noi li riconosciamo come

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candidati di desideri «autentici» proprio perché non possiamo conte­ starne l’efficacia, in quanto essi si manifestano come negazione, blocco e impedimento di una libera accessibilità della persona a se stessa. Quan­ do noi ci chiediamo cosa H. realmente voglia, né lei né noi possiamo deciderlo osservando ciò che lei è «dentro», ma solo domandando cosa lei stia (già) realmente facendo quando fa ciò che fa, e in che misura in queste sue azioni si rivelino segni d’inibizione. Come ha notato JeanLuc Godard: «Come si può raffigurare la vita interiore? Solo spostando tutta l’attenzione sulla vita esteriore»273. Anche la discussione dell’indifferenza di Perlmann mette in questio­ ne la divisione tra interno ed esterno, tra un sé (interiore) e un mondo (esteriore), poiché il senso di irrealtà che il ricercatore prova nei con­ fronti del mondo e di se stesso può essere ricondotto al fatto che egli ha perso la possibilità di esteriorizzarsi, la sola che può permettergli di di­ venire reale.

«Essere se stessi» come appropriazione di sé e del mondo Il risultato delle analisi finora compiute può essere sintetizzato nel mo­ do seguente: se i processi di alienazione possono essere definiti come mo­ dalità dell’agire in cui le azioni sono disturbate e limitate, anziché come una caduta da o come una distorsione di un’essenza sostanziale, allora non si è alienati da qualcosa, ma nell’attuazione delle azioni. In questo ap­ proccio, un «accordo con sé» non alienato è concepito come un pro­ cesso attivo di esteriorizzazione. L’«essere» del sé è dissolto così in qual­ cosa di pratico - nell’attuazione della prassi - che non ha alla propria base alcuna entità ontologica indipendente; in altre parole, l’unità del sé non ha alcun fondamento «metafisico». Esso è il raggiungimento di un’integrazione che si rinnova costantemente e in cui - in accordo con la rivendicazione di Kierkegaard - si realizza «il compito di divenire se stessi attraverso le proprie azioni», senza che il «sé» sia già dato prima e al di là di questa integrazione. E decisivo, per la concezione dell’appro­ priazione e dell’esteriorizzazione da me proposte, che (in contrasto con modelli espressivistici più fortemente essenzializzanti), qui non si postuli 273. Silverman K. e Farocki H., Von Godard sprecherà Vorwerk 8, Berlin, 1998.

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nessun «attore dietro l’azione» (Nietzsche), nessun sé che sussista pri­ ma o al di là di ciò che fa. Poiché esso però emerge in ciò che fa, si trat­ ta qui di un processo in cui ci si appropria di ciò che già esiste e allo stesso tempo lo si trasforma - «un ordito di storie che si espande conti­ nuamente ed è soggetto a un costante processo di ristratificazione», per riprendere la citazione iniziale - in cui il «sé» si costituisce rapportandosi a sé e al mondo attraverso un appropriazione. «Essere se stessi» è il risul­ tato di tale processo di appropriazione e di esteriorizzazione - e lo è so­ lo come tale. La mia analisi implica, quindi, una concezione dell’«espressione» differente da quella del modello container: ciò che viene espresso non esiste indipendentemente dalle sue espressioni - quindi (anche qui) non prima o al di là degli atti di espressione. Laddove, in un caso, l’espres­ sione riproduce ciò che esiste all’interno e indipendentemente dagli at­ ti di espressione, nell’altro caso essa produce ciò che può venire espres­ so. Ciò consente una reinterpretazione dell’espressivismo contenuto nel­ la teoria dell’alienazione (e con ciò anche della, problematica estetica della produzione «prometeica» cui ho fatto riferimento nella prima par­ te, nella mia discussione di Marx). In seguito fornirò un abbozzo di questa reinterpretazione confrontandomi con Charles Taylor. Invece di partire, come fa il «modello classico», da ciò che è «dato», proporrò un’interpretazione performativo-costruttivistica dell’«essere umano, che produce allo stesso tempo se stesso e il mondo».

Il concetto di articolazione di Taylor Nella sua teoria dell’articolazione, il filosofo sociale canadese Char­ les Taylor esplora produttivamente la relazione tra ciò che è previamen­ te «dato» e ciò che è costruito o «fatto». Riprendendo motivi della con­ cezione espressivistica romantica della natura umana, così come del con­ cetto di spirito di Hegel, Taylor intende il «divenire se stessi» - il processo in cui costituiamo ciò che siamo e chi siamo - come un conti­ nuo processo di articolazione in cui chiariamo a noi stessi i nostri desi­ deri e le nostre valutazioni, sviluppando una corrispondente compren­ sione di noi stessi. L’aspetto decisivo della sua impostazione è che l’atto di articolazione non serve esclusivamente a esternare i nostri desideri e le nostre attitudini; esso piuttosto, in un senso decisivo, li crea:

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Offrire una certa articolazione significa definire in una data maniera il nostro senso di ciò che desideriamo o di ciò che riteniamo impor­ tante274. Secondo questo modello, solo attraverso l’articolazione noi divenia­ mo accessibili, non solo agli altri, ma anche a noi stessi. Quindi, non è che noi vogliamo, apprezziamo, riteniamo importante qualcosa e do­ po, in un secondo momento, diamo espressione a queste valutazioni attraverso un processo di articolazione; piuttosto, questo stesso pro­ cesso ha una dimensione «creativa». Se abbiamo bisogno dell’articola­ zione per determinarci o per dare una certa forma alla nostra conce­ zione di noi stessi, allora l’articolazione non è l’espressione di qualcosa dato indipendentemente, ma rappresenta, come spiega Taylor, «un ten­ tativo di formulare qualcosa che inizialmente è indefinito, confuso o for­ mulato male. Ma questa forma di articolazione o di riformulazione non lascia il suo oggetto immutato»275. In questo senso, l’articolazione non trova semplicemente ciò che articola, non scopre semplicemente qual­ cosa che sarebbe dato precedentemente e indipendentemente da essa. Piuttosto, essa crea allo stesso tempo ciò che articola. Quindi, il concetto di articolazione può essere compreso in termini «antiessenzialistici». Come spiega Hartmut Rosa:

Ciò che deve essere chiarito attraverso l’espressione o l’articolazione, non solo non può essere conosciuto oggettivamente senza partire da una qualche prospettiva, ma non esiste indipendentemente dall’espressio­ ne o dall’articolazione. Ogni espressione e ogni articolazione trasfor­ mano allo stesso tempo ciò che è articolato o espresso. In questo mo­ do, quindi, il medium dell’espressione e ciò che è espresso si fondono, poiché l’«espressione» non può più essere compresa come un divenire manifesto di ciò che è preesistente ma (per lo meno parzialmente) co­ me la sua produzione276.

274. Taylor C., Che cosa è l’agire umano, in Id., Etica e umanità, a cura di Costa P., Vi­ ta e Pensiero, Milano, 2004, p. 39. 275. Ibidem. 276. Rosa H., Identitàt und kulturelle Praxis. Politische Philosophic nach Charles Taylor, Campus, Frankfurt am Main, 1998, p. 149.

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E in Taylor si legge: «L’espressione consiste tanto in un trovare quan­ to in un fare»277. Il punto interessante, qui, è che l’articolazione in un certo senso deve compiere entrambe le cose: essa fa o crea ciò che è arti­ colato, ma deve nello stesso tempo corrispondere a ciò che di inarticola­ to trova prima (il materiale, per così dire, con cui ha a che fare). E si po­ trebbe considerare l’aspetto decisivo dell’approccio di Taylor il tentati­ vo di trovare un punto di equilibrio nel processo del «diventare se stessi»278 tra l’elemento costruttivo e quello ermeneutico-scoprente.

Articolazione e appropriazione di sé

Per le mie riflessioni sulla relazione tra appropriazione di sé e aliena­ zione da sé l’approccio di Taylor è utile sotto molti aspetti. In primo luogo, questo approccio offre suggerimenti che sono di gran­ de aiuto per risolvere il problema discusso prima circa i criteri di una relazione riuscita con se stessi. Nonostante le articolazioni siano co­ struite, esse non sono arbitrarie. Taylor continua a ritenere possibile qua­ lificare articolazioni riuscite e non riuscite, corrette o false:

Esistono in realtà interpretazioni più o meno adeguate, più o meno ve­ raci, più o meno lucide o oneste. Per via di questa duplicità, poiché un’ar­ ticolazione può essere sbagliata e nondimeno plasmare ciò su cui essa si sbaglia, talvolta consideriamo erroneamente le articolazioni come se implicassero una distorsione della realtà in oggetto. Noi non parliamo so­ lo di errore, ma spesso anche d’illusione o di abbaglio279.

277. Ivi, p. 152. 278. Qui, comunque - come spiega Holmer Steinfath in una recensione di Radici dellIo - si può osservare nell’approccio di Taylor un’incoerenza interna o un’ambivalenza. Quest’ambivalenza è espressa nel fatto che egli, da una partej è legato a un patrimonio di pensiero teleologico, influenzato dalla concezione espressivistica e romantica della natura umana, che ancora mostra tracce di un discutibile essenzialismo. D’altra parte, comunque, il divenire se stessi, in quanto processo d’interpretazione che non può es­ sere ridotto a un processo che conferisce realtà oggettiva a qualcosa di già dato in la­ tenza, diventa in lui un processo di riflessione fondamentalmente non conciudibile, che rompe con il carattere chiuso del modello aristotelico e con ciò rende ragione della forma di esperienza specificamente moderna» Steinfahrt H., In den Tiefen des Selbst, in «Philosophische Rundschau», voi. 38, 1991, pp. 103-111, p. 106. 279. Taylor C., Che cose l'agire umano?, op. cit., p. 78.

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Questo criterio comunque - e ciò è cruciale - focalizza l’attenzione sul­ le distorsioni ^//'espressione e non sulle distorsioni attraverso l’espres­ sione. E parlare di «illusioni» o di «cecità» indica che ciò che è in gioco qui sono processi deficitari di articolazione - un’erronea modalità di ar­ ticolazione - che (nella terminologia che ho proposto) possono essere ri­ condotti a disturbi di vari aspetti dell’accessibilità a sé e al mondo. Le nostre interpretazioni di noi stessi che operano con tali articola­ zioni sono - come ho discusso in dettaglio nella parte II, capitolo 3 costitutive di ciò che noi siamo e dell’esperienza che noi possiamo ave­ re con noi stessi e con il mondo: si fanno queste esperienze (solo) all’in­ terno di tali interpretazioni. Viceversa, comunque, le interpretazioni (co­ me appropriazioni di noi stessi) non sono arbitrarie, non possono co­ struire arbitrariamente ciò che noi siamo. C’è anche qui una sorta di relazione di adeguamento. Il tentativo di fare di sé ciò che si è e il tenta­ tivo di comprendersi correttamente così come si è, sono due lati di un «equilibrio pratico riflessivo». E possibile, quindi, giungere a ciò che ri­ vendica Holmer Steinfath (come conseguenza di un concetto di espres­ sione volto coerentemente in termini antiessenzialistici)

Un concetto di identità che possa rinunciare all’idea secondo la quale i soggetti hanno a loro disposizione un nucleo solido o una struttura an­ corata ai loro valori più alti, senza aver bisogno di stilizzare la formazio­ ne delle identità come un atto di padronanza di sé280. Pensata in questi termini, l’appropriazione interpretante di noi stessi costituisce ciò di cui si appropria, così come, allo stesso tempo, dipende da qualcosa di precedentemente esistente, al quale può più o meno ren­ dere giustizia. In altri termini: se l’appropriazione di sé è un processo complesso ricco di presupposti (comparabile in questo senso al proces­ so psicoanalitico dell’«elaborazione»), ciò è perché l’appropriazione (e il «disporre di se stessi») non è semplicemente una presa di possesso, ma anche una relazione di adattamento e un processo di trasformazione e di risposta alle specifiche caratteristiche della situazione; ci rapportia­ mo in modo appropriante - sotto molti aspetti - alle nostre condizioni date. L’appropriazione non significa quindi un potere illimitato di di­

280. Steinfahrt H., In den Tiefen des Selbst, op. cit., p. 106.

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sporre di sé e del mondo, ma anche sempre il gestire situazioni alle qua­ li ci rapportiamo, con cui dobbiamo relazionarci e alle quali possiamo rispondere in modo più o meno adeguato. In secondo luogo, il modello dell’articolazione qui delineato getta luce su un’ulteriore questione. Per entrambi i processi - appropriazione e ar­ ticolazione - si pone il problema di un «resto essenzialistico». E difficile concepire il processo di appropriazione senza un «materiale dato» - in ul­ tima istanza deve esserci già «qualcosa» di cui ci si appropria. Se - come si è visto con riferimento a Taylor - l’«articolazione» non è né una creatio ex nihilo né una mera raffigurazione di qualcosa di già preesistente, allora - se si radicalizza Taylor in termini antiessenzialistici - ciò che esi­ ste in precedenza entra come materiale in un processo che può essere descritto come «un processo senza sostanza»: niente sta alla sua base, nel senso (sostanziale) che deve costituirlo o deve rimanere identico a se stesso in esso. Allo stesso tempo, questo è un processo in cui siamo già da sempre coinvolti. E perciò insensato voler cercare qui un punto d’ini­ zio o una condizione iniziale del processo. Nel momento in cui noi arti­ coliamo noi stessi, il processo di trasformazione ha già avuto inizio. Dato che in generale ci è accessibile, «ciò che preesiste» è sempre già articola­ to, e in quanto deve essere articolato o determinato come qualcosa di identificabile, non è più separabile dalle sue articolazioni. Tutto ciò può essere applicato al processo di appropriazione (di sé): L’appropriazione di sé è sempre allo stesso tempo un processo di ritro­ vamento e di invenzione, di costruzione e di ricostruzione - un proces­ so in cui ciò di cui ci si appropria acquista per la prima volta una forma attraverso la sua appropriazione (si veda l’Excursus nella parte I, capi­ tolo 4). Quindi, pensato nei termini della capacità di appropriarsi di se stessi, il sé è allo stesso tempo dato e prodotto e, similmente, il processo di autoappropriazione non conosce nessun «fuori». Nel momento in cui ci mettiamo in relazione con noi stessi e ci rapportiamo a noi stessi, ci stiamo sempre già appropriando di ciò che siamo. In entrambi i casi, il fatto che qualcosa rientri già da sempre nel processo qui descritto non ci fa ritornare all’essenzialismo.

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Sintesi

Il concetto del sé che sta alla base delle mie analisi dell’alienazione può essere sintetizzato con le seguenti parole-chiave:

Essere come fare. Nelle mie analisi l’essere del sé o della persona è ri­ solto in un fare, nel compimento di azioni. Ciò significa - in linea con le tematiche esistenzialistiche281 - che il «sé» è concepito come una «rela­ zione con se stessi» o come un «relazionarsi alla propria esistenza», che è già sempre un’esistenza nel mondo e dev’essere compresa nel «conte­ sto di una totalità di attuazioni pratiche». Il sé è definito, quindi, come una «somma delle proprie azioni» (Sartre). Identificazione. Noi siamo ciò che facciamo e ciò con cui ci identifi­ chiamo. Il sé, come ho argomentato sopra ricorrendo a William James, è sempre un sé «nel senso più ampio». Come afferma John Christman, sintetizzando la recente discussione analitica sull’autonomia e l’identità personale, il «vero sé» non è più una grandezza ontologica indipenden­ te: «Il vero sé è l’insieme di caratteristiche con cui la persona s’identifi­ ca genuinamente»282283 . Relazionalità. Il «sé» è una relazione. Non sorge «da se stesso» in mo­ do autosufficiente, ma è fondamentalmente relazionale. In quanto «ciò che si relaziona a relazioni», esso si costituisce nelle e attraverso le rela­ zioni che ha con altro e «con gli altri», e non «è» al di fuori di queste re­ lazioni. Anche quando si isola, lo fa sempre muovendo da tali relazioni. Fluidità. Le identità così descritte, sono fluide e sempre «selves in the making»2*0. La «fluidità» deriva dal fatto che il sé non è dato ma deve in primo luogo costituire e realizzare se stesso - dal fatto, cioè, che esso si «forma» in primo luogo relazionandosi al mondo ed esteriorizzandosi in esso, in un processo nel quale trasforma e ritrasforma ripetutamente se stesso. Se ci interroghiamo sull’unità del sé, questa non può consiste­ re in un «rimanere identico a se stesso», ma deve essere cercata piutto­ sto nei modi particolari in cui il sé integra se stesso. (Discuterò detta­ 281. Si veda su questo la dettagliata discussione della critica esistenzialistica al sé-nucleo in Cooper D.E., Existentialism. A Reconstruction, Basii Blackwell, London, 1990. 282. «The true self is the set of characteristics with wich the person genuinely identi­ fies» Christman J., Autonomy and Self-reflection, manoscritto inedito, 1998. 283. Riprendo questa espressione dal libro di Ray Carney su John Cassavetes, cfr. Car­ ney R., The Films ofJohn Cassavetes, Cambridge University Press, New York, 1994.

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gliatamente l’integrazione necessaria al sé dettagliatamente più avanti in questo capitolo). Relazione con il mondo. Il soggetto si appropria non solo di se stesso ma anche, e allo stesso tempo, del mondo. Il sé, cosi come è stato inteso qui, è un sé mondano e agente; che trova se stesso già da sempre agen­ do nel mondo e che non può essere separato da esso. Può comprender­ si solo «a partire dal mondo» e nel suo coinvolgimento in esso284. Articolazione ed esteriorizzazione. Immerso nel mondo, il sé non esi­ ste in uno spazio «interno» separato, in cui potrebbe essere trovato, isolato dal mondo esterno. Si può intendere questa concezione (in ana­ logia al modello marxiano dell’esteriorizzazione) come «un modello este­ riorizzato del sé» (Entàuflerungsmodell des SelbstY Detto con Hegel: «Un individuo non può comprendere ciò che è fino a quando non ha fatto di sé una realtà attraverso l’azione»285. La nostra relazione con noi stessi, quindi, è sempre dipendente e inseparabile dalla nostra «esteriorizza­ zione» o dalla nostra articolazione di noi stessi. Ciò significa che non pos­ siamo essere separati dal modo in cui esprimiamo noi stessi nel mondo (in ciò che facciamo e diciamo) e dal modo in cui, agendo nel mondo, diamo a noi stessi specifiche qualità.

Excursus'. «Selves in the Making» (Cassavetes) «Sii semplicemente te stessa», dice Peter Falk a sua moglie in A Wo­ man Under the Influence. «Quale me?», risponde, «posso essere qualsiasi cosa». In questo film, Gena Rowlands recita la parte di una donna che, affermandosi contro il suo ambiente, è «alla ricerca di se stessa». Ma lei sa che questo sé non è qualcosa di finito o scopribile e che esso non esi­ ste indipendentemente o astraendo dalle aspettative del mondo ester­ no. In una famosa scena con suo marito e il suo collega pompiere, che dopo una notte passata a combattere con una conduttura dell’acqua rotta arrivano al mattino al suo tavolo di cucina, lei passa provocatoria­

284. Cooper riassume così la critica esistenzialista: «Se la coscienza è “collegata al mondo degli oggetti” e “Lego è fuori, nel mondo”, allora sarà li che mi trovo, e non nel recesso interno di un’anima». Cfr. Cooper D.E., Existentialism. A Reconstruction, Basii Blackwell, London, 1990, p. 97. 285. Hegel G.W.F., Fenomenologia dello Spirito, op. cit., p. 297.

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mente in rassegna, in rapida successione, una gran quantità di ruoli e di possibili identità - dalla casalinga premurosa che serve spaghetti, pas­ sando per l’introversa riservata, fino alla vamp. Ciò funziona non solo co­ me parodia della tesi che il sé è costituito dall’assunzione di ruoli. Po­ nendo la domanda: «Quale me?» lei sembra anche cercare di coinvolgere suo marito nella responsabilità: non può farla così facile. Non è possibi­ le «essere» semplicemente «se stessa», tanto meno è possibile - in una re­ te di relazioni - far essere qualcuno semplicemente «se stesso». I personaggi nei film di John Cassavetes sono radicalmente relazio­ nali, esempi perfetti di sé senza nucleo e di «sé in costruzione» {selves in the making), in permanente trasformazione. Ciò che si potrebbe de­ finire la loro identità emerge soltanto nelle situazioni con le quali essi si confrontano. Ma anche queste situazioni sono fluide, esse sorgono tale è la peculiarità di questi film - sempre da costellazioni che qualche volta si creano improvvisamente. Una delle tipiche esperienze che si fan­ no nei film di Cassavetes è l’improvviso ribaltamento di una situazio­ ne, non appena un nuovo personaggio entra in scena. Ciò che muta in seguito è più della composizione della scena, e a volte è addirittura quasi irrilevante come agiscano i nuovi attori. Con una nuova compo­ sizione esterna della scena sembra mutare anche la composizione in­ terna dei suoi partecipanti - quasi senza mediazioni. Gli individui che si muovono in tali costellazioni non sono autarchici, ma radicalmente relazionali, in un modo quasi angosciante. Nel modo in cui si confron­ tano con situazioni e persone - nel modo in cui si espongono e sono esposti - essi hanno «contorni sfumati», confini indefiniti, che sono sempre di nuovo oggetto di disputa.

2. Indisponibilità e interiorità

Più avanti cercherò di precisare la mia posizione confrontandomi con alcune obiezioni che possono essere sollevate contro la concezione del sé che ho tratteggiato, così come contro la ricostruzione dell’idea di alienazione che su essa si basa. La prima obiezione accusa questa con­ cezione - per dirla in termini molto generali - di essere cieca di fronte alla dimensione di «indisponibilità» del sé, di dissolvere l’essere in un fare, e con ciò in una fluidità e in una plasmabilità (Gestaltbarkeit) del sé. La seconda obiezione che discuterò concerne la critica dell’interio­

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rità. Qui mi confronterò con le intuizioni che collegano ^«interiorità» al­ l’idea di un luogo in cui rifugiarsi, fondamentale per lo sviluppo dell’in­ dipendenza e dell’ostinazione {Eigensinn) nei confronti delle richieste sociali.

(1) L’indisponibilità del sé L’intuizione che sta alla base della prima obiezione può essere artico­ lata nel modo seguente: non possiamo fare tutto ciò che vogliamo; ci so­ no condizioni della nostra esistenza delle quali non possiamo disporre e che non possiamo controllare, non solo perché ci sono ostacoli e costri­ zioni esterne, ma anche perché qualcosa «di noi» e «in noi» ci impedisce di fare determinate cose, di scegliere determinati modi di vivere (Lebensvollzuge), di avere o realizzare specifici desideri. Detto in altro modo: rispetto a certe azioni, a certi desideri, ecc, noi abbiamo la sensazione che essi semplicemente non siano «adatti» a noi, anche quando siamo chiaramente decisi a volerle compiere o ad averli. In questi casi sembra ovvio affermare che qualcuno cerca di «essere qualcosa che non è»: la per­ sonalità compulsiva che non riesce a liberarsi dall’idea di una vita selvag­ gia e bohémien, l’autonomo di Kreuzberg che porta «nel profondo del suo intimo» l’ideale borghese e perbenista di una vita regolata - o appunto la femminista che ha difficoltà a mettere in pratica la sua concezione dei ruoli. Queste persone sono chiaramente incapaci di volere ciò che vo­ gliono. E quando una di queste persone, con queste storie di vita, si tra­ sferisce in una villetta a schiera, spesso (più o meno malignamente) si os­ serva: ora è giunta nel luogo cui appartiene, ora è finalmente «se stessa». Commenti di questo tipo non sembrano solo indicare che ci sono limiti alla plasmabilità della propria persona. Essi operano anche assumendo, in un modo o nell’altro, un «essere» alla base delle possibili azioni della persona, che prescrive e limita i suoi modi di esistere. L’obiezione implicita in simili commenti può essere formulata nel modo seguente: la concezione del sé delineata in precedenza in questo capitolo non dà conto del fatto che le nostre vite sono soggette a varie forme di condizionamento che non possiamo governare. Orientata al­ l’idea del potere di disporre di se stessi e della propria vita, secondo le obiezioni, la nostra concezione non riuscirebbe a cogliere quelle dimen­ sioni di indisponibilità che costituiscono la nostra esistenza: quei lega­

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mi che sono inaggirabili e quegli influssi che ci hanno formato e che tal­ volta indichiamo con il concetto di «carattere». Secondo questa obie­ zione, il sé sarebbe più «sostanziale» di quanto risulti dalla mia rico­ struzione, e il modo corretto di comprendere i processi di alienazione sa­ rebbe quindi (molto più semplicemente) che gli individui sono alienati da se stessi quando sono costretti ad agire contro questi profondi con­ dizionamenti, contro il loro «carattere» o contro la loro personalità.

«Natura volizionale» e «progetti fondamentali»

Nel discutere questa obiezione voglio ritornare a una posizione che abbiamo esaminato nel capitolo 3 della parte II - la teoria della «natura volizionale» di Harry Frankfurt - e introdurre un’ulteriore posizione, ov­ vero la tesi sostenuta da Joseph Raz286 secondo cui per l’identità di una persona è costitutivo essere fedele a determinati «progetti fondamenta­ li». Mi rifaccio a queste posizioni perché le ritengo i resoconti più sofi­ sticati dell’impossibilità di controllare e di disporre di sé, e perché si potrebbe affermare che, anche se non sono posizioni genuinamente «essenzialistiche», tuttavia esse costituiscono ricostruzioni plausibili di ciò che all’interno delle prospettive essenzialistiche può sembrare per­ suasivo e perfino irrinunciabile. Ho già presentato l’idea di Frankfurt della «natura volizionale» quan­ do ho discusso il caso della femminista in disaccordo con se stessa (nel­ la parte II, capitolo 3). Secondo questa concezione, ci sono cose a cui ci si sente legati in maniera ineluttabile («non si può non preoccuparsene»), ma anche cose che non ci si può spingere a volere (l’esempio di Frank­ furt era quello della madre che non riesce a decidersi ad abbandonare il suo bambino). Ciò porta a una definizione dell’identità ex negativo: ciò che costituisce una persona è ciò di cui questa non può disporre e che non ha il potere di controllare. Il «sé» viene così definito dall’esterno o in termini negativi dai limiti della sua volontà o del suo potere di disporre di se stesso. Come abbiamo visto, Frankfurt si spinge così avanti da de­ nominare il profilo del sé, che da questo risulta, «la natura volizionale» o l’«essenza personale» di un essere umano. L’assunzione decisiva nella

286. Raz J., The Morality of Freedom, op. cit.

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sua argomentazione è che questi aspetti, tratti e condizioni che ci costi­ tuiscono come persone non possono essere a nostra disposizione, ovve­ ro noi non abbiamo potere su di essi. Il prezzo che si pagherebbe nel disporne a proprio piacimento sarebbe quello di tradire se stessi, di smarrire la propria identità. Essi rappresentano le condizioni di possi­ bilità della propria identità. Eidea dei «progetti fondamentali» di Joseph Raz segue un modello simile: questi rappresentano il nucleo ultimo dei progetti e dei legami che non possiamo abbandonare, se non al prezzo di perdere noi stessi. Essi, il loro perseguimento e la loro promozione for­ niscono gli orientamenti di base che ci guidano nel condurre le nostre vite. I progetti fondamentali sono, in altre parole, parti costitutive di ciò che siamo e di ciò che ci costituisce. Anche qui si tratta di fondamenti essenziali della nostra identità: i «progetti fondamentali» sono fondanti, ossia progetti che fondano la nostra identità o sui quali è fondata la no­ stra identità. Se la mia interpretazione del sé come «ciò che uno vuole e fa» non sembra porre limiti di principio al potere di disporre di se stessi, la con­ cezione del sé appena esaminata enfatizza le limitazioni del sé medesimo: essa implica che siamo condizionati e determinati da fattori che sotto molti aspetti si rivelano inevitabili e non sono a nostra disposizione, sui quali non abbiamo potere. Ciò che ci costituisce come persone deter­ minate e particolari, secondo questa prospettiva, è precisamente ciò che è al di fuori della nostra influenza, ciò che è necessario e inaccessibile al pensiero - i legami indissolubili e inevitabili cui soggiacciamo senza averli scelti e senza poterne disporre. Entrambe le versioni di questa posizione implicano che noi non siamo semplicemente ciò che faccia­ mo e vogliamo, ma che piuttosto siamo ciò che - per certi aspetti - dob­ biamo fare e volere; siamo ciò che ci fa fare e volere. Il sé in questo mo­ do non è fluido ma solido, non è, come suggerisce la metafora dello zuc­ chero filato, un processo trasformativo senza un nucleo, ma una struttura con un fondamento. David Velleman sintetizza questa posizione nel modo seguente: «Frankfurt concepisce il sé come ciò a cui una persona deve essere fedele per essere fedele a se stessa»287. E questo sé è - si po­

287. «Frankfurt conceives of the self as that to wich a person must be true in order to be true to himself». Velleman D.J., Identification and Identity, in Buss S. e Overton L, Contours of Agency, The MIT Press, Cambridge (Massachusetts), 2002, p. 97. Il testo è consultabile online al link: http://country.rs.itd.umich.edu/-velleman/Self/ld8dd.html .

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trebbe aggiungere - dato, non fatto (da noi). Anche se questa posizione non è essenzialistica nel senso classico, la sua implicazione riguardo alla questione dell’alienazione è che noi siamo alienati da noi stessi quando agiamo oppure siamo costretti ad agire contro questa «essenza perso­ nale», o anche quando non ci comportiamo in maniera fedele ai nostri «progetti fondamentali». Prima di rivolgermi alla domanda se sia plausibile o meno assumere questi come i fondamenti del sé, vorrei ancora una volta esaminare più precisamente il loro carattere e la forma specifica di «essenzialismo» con la quale abbiamo qui a che fare. Due cose devono essere tenute in consi­ derazione. In primo luogo'. l’«essenza personale» di cui Frankfurt è alla ricerca viene concepita da lui come «l’essenza di una persona» invece che come l’«essenza dell’essere umano». Ciò significa che qui Frankfurt non è interessato ai condizionamenti «naturali» degli esseri umani come creature - anche se questi non possono essere negati - ma piuttosto alle persone, caratterizzate dalla struttura della loro volontà, ossia dal fatto che, volendo, si relazionano a se stesse. La «natura volizionale» non è quindi «natura» - quest’argomentazione non si riferisce alle condizioni naturali della vita umana - ma descrive un fatto che riguarda la volontà. In un senso analogo, focalizzandosi su ciò che ci «fonda», Raz non cerca fondamenti naturali o biologici. Anche qui sono in questione i «proget­ ti» che ci costituiscono e le cose a cui siamo legati. Se questa quindi è una posizione «essenzialistica», essa non ha però il carattere «reificante» che abbiamo criticato precedentemente. L’«essenza» in questione qui si riferisce piuttosto a una dimensione di indisponibilità all’interno del­ l’ambito di ciò di cui possiamo disporre. Essa consiste in forme di «lega­ mi» indisponibili, dei quali però non si nega (come facciamo nei proces­ si di reificazione) che noi stessi li abbiamo creati. In secondo luogo, lo stesso parlare di una «natura volizionale» tradi­ sce una scissione interna: si riferisce a qualcosa che da una parte è voli­ zionale e dall’altra naturale. E mentre noi normalmente pensiamo al vo­ lere come a qualcosa di cui possiamo disporre, ciò non vale per la natu­ ra. Si tratta di qualcosa che da una parte vogliamo, ma che d’altra parte non potremmo fare a meno di volere. E anche i «progetti fondamentali» di Raz si riferiscono a progetti posti da noi stessi, ma che tuttavia sono compresi in modo tale che il nostro legame con essi, una volta che c’è, è costitutivo e a sua volta ci fonda.

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«Rimanere fedeli a stessi» In che senso è plausibile assumere che la nostra identità abbia fonda­ menti essenziali di questo tipo, che certi legami ci determinino in misu­ ra tale che, qualora vi rinunciassimo, non saremmo più «noi stessi»? Ci sono cose, progetti e legami ai quali dobbiamo rimanere fedeli per non perdere noi stessi? E, quindi, il «sé» è fissato in modo meno fluido e più sostanziale? Per andare subito al punto, la mia risposta è: no. Secondo la mia in­ terpretazione, la domanda se qualcuno è «se stesso» o meno non verte sul rimanere fedeli a certi progetti e a certi legami, ma sulla capacità di raccontare una «storia di appropriazione» di se stessi (Bieri) coerente passando attraverso diversi legami fondamentali; una storia che riesce a integrare le rotture e le ambivalenze della propria biografia (inclusi an­ che i radicali mutamenti dei propri valori). Io rimango fedele a me stes­ sa non se rimango fedele ai progetti che una volta ho intrapreso, ma se riesco a integrare tanto il perseverare nei miei progetti quanto il loro ab­ bandono in una narrazione di me stessa che sia dotata di senso. Ciò, come argomenterò, mette in questione due implicazioni delle tesi di Frankfurt e di Raz: la forma specifica di continuità e Videa di unita­ rietà del sé che entrambi presuppongono. In ogni caso, è necessario innanzitutto chiarire cosa c’è, a un livello intuitivo, di plausibile in que­ ste concezioni - sembra infatti che in ogni nostra nozione quotidiana del sé siano presenti degli elementi essenzialistici cui non si sfugge facil­ mente - per riuscire a integrare nella mia interpretazione le convinzio­ ni a esse associate. Ci sono due intuizioni e una considerazione struttu­ rale che parlano a favore della «tesi dell’inaggirabilità» di questi ele­ menti essenzialistici: a) Da una parte, l’intuizione che a volte, «non si può fare diversamente» è plausibile e si può pertanto essere tentati di descrivere la pro­ pria personalità facendo riferimento a queste dimensioni di cui non si può disporre e che non si possono controllare. La constatazione che ci sono legami e progetti che sono per noi così fondamentali, che la loro perdita ci dà la sensazione di perdere l’orientamento della nostra vita, sembra quindi corretta. E possibile che per la rivoluzionaria la cui rivo­ luzione fallisce, o per l’amante che perde il suo amore, il mondo e la propria vita divengano insignificanti nel senso descritto da Frankfurt. E la situazione può apparire ancora più drastica quando non è la rivolu­

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zione a fallire, ma siamo noi a tradirla, oppure quando non si perde il proprio amore, ma siamo noi a interrompere la relazione. Sappiamo an­ cora chi siamo quando accadono cose del genere? «Tradimenti» di que­ sto tipo non minano veramente i fondamenti della nostra esistenza? In ogni caso, se i legami erano veramente fondamentali, simili situazioni possono condurre a delle crisi esistenziali. Proprio quando è plausibile pensare che le identificazioni e i legami svolgano un ruolo cruciale - «Noi siamo ciò che perseguiamo e ciò a cui teniamo»288 - è ovvio sospettare il pericolo di una «perdita di sé». b) Anche un’altra considerazione fondamentale sembra corretta: af­ finché qualcosa o qualcuno possa avere una determinata identità (un determinato carattere, una forma determinata), ci devono essere dei li­ miti. Qualcuno che potrebbe fare qualsiasi cosa (che potrebbe volere e fare tutto), non solo è inquietante, ma non è nemmeno realmente «qual­ cuno» in termini significativi (Frankfurt definisce una persona simile «amorfa»),. In determinate circostanze una persona simile ci dà l’im­ pressione di qualcuno che è spaventosamente vuoto. Per questa ragio­ ne non è del tutto incomprensibile che il marito perplesso nel film di Cas­ savetes A Woman Under th e Influence reagisca allarmato quando sua mo­ glie risponde al consiglio incoraggiante di essere «semplicemente se stessa» con la dichiarazione: «Quale me? Io posso essere qualsiasi cosa». In questa libertà eccessiva di essere qualsiasi cosa, il marito sospetta l’i­ nizio della dissoluzione della sua personalità. c) Ciò che inoltre nella «tesi dell’inaggirabilità» è corretto - questa è l’argomentazione sul piano strutturale - è che non si capisce come qual­ cuno che non era già determinato e che non voleva già qualcosa di spe­ cifico possa determinarsi in qualcosa, o anche come chi non aveva già de­ terminate disposizioni possa essere capace di agire. Frankfurt discute questo problema nel suo saggio On the Usefulness of Final Ends: qual­ cuno che non ha nulla (e ciò significa: che non ha già qualcosa) che sia per lui importante non ha punti di partenza dai quali porsi la domanda su come deve condurre la propria vita, ossia circa ciò che deve ritenere importante. Non c’è alcun punto di vista neutrale al di fuori dei miei desideri e dei miei legami già esistenti. Non decidiamo quello che può per noi divenire importante in modo disinteressato, «dall’esterno» e

288. Cooper D.E., Existentialism, op. cit.

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quindi liberi da legami già esistenti. La domanda decisiva è ora se tutto questo sia sinonimo dell’inaggirabilità di determinati progetti ai quali ci si è una volta legati, se questi progetti non possano essere effettivamen­ te messi in questione per nuove negoziazioni. Questo ci conduce a una riformulazione della vecchia domanda: come ci si può trasformare e ciononostante rimanere «fedeli a se stessi»? Più avanti argomenterò che le conseguenze che Frankfurt e Raz trag­ gono dalla discussione qui tratteggiata sono erronee. Il modello dei le­ gami più profondi, irrevocabili, poggia su un’«essenzializzazione» ina­ deguata di legami e progetti, che si accompagna a una concezione ina­ deguata dell’«unità della volontà». La presunta plausibilità di questo modello sorge dalla confusione tra due elementi: l’impossibilità di assu­ mere un punto di vista esterno ai legami già esistenti non deve essere equiparata all’ineluttabilità di un certo repertorio di legami costitutivi. Quando io sostituisco la concezione sostanzialistica di una totalità e di una continuità del sé con una versione processuale del sé come appro­ priazione di sé, tento così di rendere giustizia tanto al fatto che noi sia­ mo implicati in identificazioni profonde, quanto alle esigenze di un’unità del soggetto prodotta dal sé, tutto ciò senza d’altra parte interpretare già i cambiamenti negli orientamenti e le ambivalenze personali, all’in­ terno di tali legami, già come momenti di alienazione o di perdita di sé.

Perdita di sé - discontinuità e dissociazione

Bisogna spiegare in primo luogo il modo in cui Frankfurt immagina il processo della perdita di sé di cui parla. Cosa significa essere «distrut­ ti come persone» - come Frankfurt si esprime - a causa della perdita di legami o di progetti? Ed è plausibile dire che la perdita di certi legami non può non distruggerci come persone? Dobbiamo quindi per prima cosa considerare quello che si suppone che in simili esperienze condu­ ca alla perdita di sé, e come deve essere definita la struttura di questa per­ dita di sé.

1) Perdita. Un tratto essenziale del modello della «perdita di sé» qui in discussione si chiarisce nel momento in cui si confronta la complica­ ta struttura del tradimento di se stessi con quella più semplice della per­

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dita di qualcosa d’importante. La perdita di qualcosa che si è amato o di progetti di vita fondamentali può condurre - come si è accennato in precedenza - a crisi di orientamento molto serie. Se tuttavia (in casi normali) non si presuppone che una perdita di questo tipo distrugga necessariamente la continuità di una persona, ciò è perché - detto in mo­ do molto conciso - si rimane «attaccati interiormente» a ciò che si è perduto o, più propriamente, si rimane attaccati e allo stesso tempo ci si stacca da esso. Si è a lutto. Come sappiamo dalla psicoanalisi, un «ela­ borazione del lutto» riuscita è caratterizzata dall’equilibrio tra il pren­ dere congedo dall’oggetto amato e l’attaccamento a esso. Nell’elabora­ zione di una perdita il legame con l’oggetto si trasforma, senza che l’og­ getto venga completamente abbandonato. In questo senso sia il rigido attaccamento - l’incapacità di realizzare la perdita - sia l’abbandono immediato dell’oggetto sono problematici. Quando si riesce a superare una perdita dolorosa, la continuità (psicologica) della persona è preser­ vata nella sua trasformazione grazie al fatto che l’esperienza della perdi­ ta viene «integrata» in un modo specifico289. Da questo punto di vista, da una parte «non si è più la stessa persona» (nel senso di Frankfurt) che ha vissuto questo amore o che ha perseguito questo progetto - si è però qualcuno la cui identità e la cui comprensione di sé sono ormai se­ gnati dall’esperienza della perdita, così che, si potrebbe dire, ciò che è perduto rimane «parte di sé», «superato e conservato» (aufgehoben) nella propria identità. Se dopo una perdita si è ancora «se stessi» o me­ no dipende quindi dal modo in cui questa perdita è stata elaborata, os­ sia dal nostro riferimento (capace di produrre continuità) all’oggetto per­ duto e non necessariamente dalla gravità «oggettiva» della perdita. 2) Tradimento di sé. Molto più complicato è il caso in cui la perdita di un legame o di un oggetto si produce quando noi ci separiamo volu­ tamente da esso. Se qui noi stessi tradiamo l’oggetto amato (e con ciò abbandoniamo ciò che ci costituisce, nel senso di Frankfurt), sembra che non sia più possibile «rimanere legati interiormente a qualcosa» che, nel caso della perdita, può assicurare la continuità. L’oggetto non è quin­ 289. Per la psicoanalisi ci sono due forme di fallimento, due modi di non elaborare una perdita: il modo malinconico-depressivo, che si manifesta nell’autoaggressione, e il disturbo narcisistico che lascia cadere l’oggetto abbandonato. Le elaborazioni del lut­ to riuscite si manifestano invece in un’introiezione selettiva della persona amata, in cui parti di quest’ultima vengono assunte nella propria. Il presupposto di un’elabora­ zione riuscita del lutto è quindi la costanza dell’oggetto.

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di semplicemente sparito - l’amato scomparso, la rivoluzione divenuta impossibile -, ma siamo noi stessi ad averlo abbandonato. Espresso in forma schematica: in un caso l’oggetto non c’è più ma il legame conti­ nua a sussistere, e il compito di chi subisce una perdita è quello di tra­ sformare questa perdita. Nell’altro caso (quello del presunto tradimen­ to di sé) l’oggetto è ancora presente (la rivoluzione è ancora fattibile, l’og­ getto amato è ancora là), ma il legame con l’oggetto è andato perduto. Se per un verso si potrebbe assumere questo come il caso più semplice - in definitiva, la dissoluzione del legame avviene volontariamente e per propria decisione - per un altro verso qui si produce una trasformazio­ ne più gravosa. Presupponendo che nel legame con questo oggetto sia­ no in gioco legami, desideri e progetti che ci costituiscono nella nostra parte «più intima», la risoluzione di questo legame deve apparire effet­ tivamente come un «tradimento di se stessi», con le temute conseguen­ ze della perdita di sé. D’altra parte, non sono io stessa a operare questa rottura? E se sono io, perché in questo modo mi dovrei tradire? Come è possibile, in gene­ rale, «tradire se stessi» nel senso di Frankfurt o divenire «infedeli a se stessi»? La mia ipotesi è che la plausibilità del discorso (di Frankfurt) sul «tradimento di se stessi» dipende dal fatto che in esso vengono so­ vrapposti due elementi, così che il traditore sembra, allo stesso tempo e sotto lo stesso riguardo, amare e tradire la rivoluzione o l’oggetto ama­ to. Ma a veder bene le cose non stanno affatto in questo modo. Ci sono due modi di districare ciò che qui appare, da un punto di vi­ sta situazionale (e psichico-motivazionale), inestricabilmente intreccia­ to: o si tratta di un processo di trasformazione (che accade in termini temporali), e allora si dovrebbe descrivere la struttura del tradimento di sé come se un sé successivo commettesse un tradimento nei confron­ ti di un sé precedente (la controrivoluzionaria che io sono commette un tradimento nei confronti della rivoluzionaria che i® sono stata una vol­ ta) 290. La domanda decisiva in questo caso è come deve essere pensato il rapporto tra il sé «attuale» e il sé «precedente». Oppure si tratta di veti ambivalenza strutturale o di una condizione di «sentimenti confusi». Io 290. Sul piano empirico il passaggio sarà naturalmente quanto mai movimentato; si può fare qualcosa in un momento e il momento successivo tradirla, con una parte della pro­ pria anima rimanere attaccati alla rivoluzione ma nello stesso tempo già tradirla, ecc.

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amo una cosa (la rivoluzione o l’oggetto amato) e nello stesso tempo non la amo. Allora mi sarei divisa in un certo senso in due parti, di mo­ do che una parte tradisce l’altra. Anche qui la domanda decisiva è come dovremmo immaginare questa separazione e questo rapporto tra en­ trambe le parti. In entrambi i casi, parlare di un «tradimento di sé» implica una scomposizione in «due sé»: una discontinuità tra un sé precedente e un sé posteriore, o una dissociazione attuale del sé. La distruzione della persona o la perdita di sé che dovrebbe accompagnare l’abban­ dono dei legami costitutivi deve essere concepita nel modo seguente: la persona di cui Frankfurt parla è distrutta perché non è più una, ma è divisa in un sé precedente e in uno posteriore o in due sé paralleli. Ora, con Frankfurt si possono descrivere simili divisioni in modo completamente privo di paradossi (e senza grandi problemi metafisi­ ci) come divisione dell’«unità volizionale» {volitional unity} di una persona. Ciò che io come rivoluzionaria voglio e rappresento è in­ compatibile con ciò che io come controrivoluzionaria voglio e rap­ presento; poiché però la mia unità come persona può essere descritta solo come un’unità del volere, attraverso questa divisione volizionale io sono divisa come persona. La dissoluzione dell’«unità volizionale» significa perciò la dissoluzione della persona. Se quindi si vuole criti­ care il concetto di Frankfurt, si deve mettere in questione questa con­ cezione di unità. E, come ho accennato in precedenza, io considero troppo sostanzialistico questo legare la possibilità dell’unità della persona esclusivamente alle situazioni in cui noi perseguiamo un pro­ getto con «incondizionatamente» e manteniamo un legame con esso. E l’idea che nel caso dell’ambivalenza, come nel caso della trasfor­ mazione, una persona si divida in due parti (in due entità) va di pari passo con una ri-essenzializzazione dell’identità personale. Su questo sfondo l’unità della persona può essere pensata solo sul modello di una sostanza indivisa e la sua continuità può essere pensata solo co­ me il rimanere identici a se stessi. Tutto ciò trova conferma - riguardo alla scissione del volere in due direzioni contrarie - nella discussione da parte di Frankfurt di un caso famoso di tradimento di sé. Agamennone, costretto al conflitto tragico se tradire la figlia o la patria, dopo aver commesso il tradimento, è di­ strutto come persona:

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Agamennone è distrutto ad Aulis da un conflitto inevitabile tra due ele­ menti che definiscono allo stesso modo la sua natura: il suo amore per sua figlia e l’amore per l’esercito che comanda. [...] Quando è costretto a sacrificare uno di essi, è quindi costretto a tradire se stesso. Raramen­ te, se non mai, tragedie di questo tipo hanno un seguito. Dal momento che l’unità volizionale dell’eroe tragico è stata irreparabilmente lacera­ ta, c’è un senso determinato per cui la persona che è stata non esiste più. Quindi non ci può più essere alcun seguito della sua storia»291. Questa conclusione è controintuitiva già solo come interpretazione dell’epos e testimonia una scarsa comprensione della natura del conflit­ to tragico. Infatti, la storia di Agamennone continua, e continua pro­ prio come la storia di chi deve affrontare un simile tradimento e rimane segnato da esso. L’«eroe tragico» è quella personalità caratterizzata dal dover sopportare un conflitto insuperabile. Ciò significa che, come nel caso di una semplice perdita, anche in questo caso ci può essere una prosecuzione di questa storia come la sua storia, se lui se ne appropria, proprio come nel più facile esempio della perdita e dell’elaborazione del lutto. Agamennone deve integrare il suo abbandono della lealtà nei confronti di sua figlia, e assumerlo come parte del suo volere (che è allo stesso tempo volere e non volere). Anche qui insomma c’è il momento, sopra discusso, del rimanere attaccati all’oggetto, senza che questo im­ plichi una risoluzione del conflitto. (Il conflitto è tragico proprio per­ ché si rimane legati a entrambi i lati, perché non si rinuncia alla lealtà nei confronti di una parte agendo in favore dell’altra).

Essere se stessi come appropriazione di sé

La posizione contraria a questa concezione sostanzializzante ed essenzializzante dell’identità può essere formulata n^ modo seguente: l’i­ dentità è ciò che si mantiene nel bilanciamento di ambivalenze interne o di conflitti (causati esternamente) e mantenendo una continuità al­ l’interno di legami che cambiano. L’integrazione del sé qui richiesta, da una parte non significa la con­ ciliazione di tutte le ambivalenze e di tutti i conflitti, dall’altra è pensata 291. Frankfurt H., Autonomy, Necessity and Love, op. cit., p. 139.

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come un processo che si estende nel tempo. L’«unità» della persona raggiungibile in questo modo, quindi, non è data come un punto di par­ tenza ma come il risultato di processi d’integrazione e di appropriazio­ ne; va pensata allo stesso tempo come un’unità di cose qualitativamente diverse, quindi come un’unità capace d’includere tensioni interne (per inciso, da ciò ovviamente non consegue che ci sia un «sé» al di là o indi­ pendentemente da questi progetti e da questi legami, come qualcosa che rimarrebbe lo stesso indipendentemente da essi. Così inteso, il sé è l’istanza che elabora questi legami, «ciò che si relaziona a queste rela­ zioni», l’insieme di questi legami). In contrasto con la concezione dell’unità di Frankfurt ciò significa: io posso essere «me stessa» senza esserlo «in modo incondizionato». Ossia: io sono «me stessa» anche se sono fondamentalmente ambivalen­ te nei confronti di legami importanti e costitutivi. (Altrimenti quasi nes­ suno avrebbe un’identità, posto che molti, se non la maggior parte dei le­ gami fondamentali - classicamente: quelli con propri genitori - sono am­ bivalenti). Ciò che mi costituisce (la mia «identità»), sarebbe allora proprio il modo specifico in cui io mi confronto con queste ambivalen­ ze o le «bilancio»292. Si è minacciati dalla «dissoluzione» dell’identità che Frankfurt vede in ogni perdita della partecipazione «incondizionatezza» - solo quando questo bilanciamento non riesce. Da quanto detto consegue che, in contrasto con la concezione della continuità come «mantenimento di legami» o come «rimanere identici a se stessi», qualcuno può rimanere «se stesso» anche se nel corso della sua vita ha compiuto viraggi fondamentali rispetto ad aspetti centrali del­ la propria esistenza, ossia ha abbandonato legami o progetti importan­ ti. La continuità con se stessi in simili trasformazioni non dipende dal rimanere costantemente legati a determinati progetti, ma dalla capacità d’integrare il cambiamento di progetti o di legami che si succedono uno dopo l’altro. Né la rivoluzionaria risoluta, né l’amante piena di dedizio­ ne commettono necessariamente un tradimento nei confronti di se stes­ se se un giorno si separano dai loro progetti. La domanda è piuttosto 292. Ovviamente si dovrebbe descrivere con più precisione come funziona questa ca­ pacità di sostenere le ambivalenze. Qui di nuovo si può rinviare alla psicoanalisi (in par­ ticolare ai lavori di Melanie Klein), che identifica nella capacità di sostenere le ambi­ valenze il criterio di una maturità riuscita e il nucleo fondamentale del divenire adulti. Al contrario, non sostenere le ambivalenze - come nella sindrome borderline - è se­ gno di seri disturbi psichici.

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come li abbandonano, come ha luogo il processo di trasformazione. De­ cisivo qui è se si può comprendere il processo, la trasformazione che ha condotto da uno stato a un altro, e integrarlo nella propria biografa o nel­ la propria comprensione di sé (come io l’ho descritta nella parte II, ca­ pitolo 3, come una struttura che è allo stesso tempo costruttiva e rico­ struttiva). Una condizione in cui non si è in grado di fare questo, e in cui si esperiscono insormontabili discontinuità tra le quali non è possi­ bile stabilire alcun legame, può essere descritta come una forma di alie­ nazione, come un’alienazione dal proprio passato. Enfatizzando il mo­ mento dell’integrazione si può assumere quindi un’altra posizione ri­ spetto alla questione dell’«unità» o della natura unitaria del sé. Mentre l’idea di Frankfurt di un’identità (non alienata) è chiaramente orientata all’immagine di una persona unitaria e stabile, non segnata da ambiva­ lenze e da rotture radicali, la mia posizione si focalizza piuttosto sul pro­ cesso di appropriazione (di sé). In questione qui non è la «totalità» so­ stanziale o la stabilità delle identificazioni, ma la capacità di integrare e di appropriarsi di sé, di accedere alle parti conflittuali e alla loro mobi­ lità interna. Essere capaci di comprendere o di integrare i propri cam­ biamenti è un processo complesso in cui gioca un ruolo importante la mia capacità di dare buone ragioni (a me stesso e agli altri) sui cambia­ menti nel mio atteggiamento, ma in cui è decisivo anche riuscire a com­ prendere questi cambiamenti da un punto di vista emotivo, e inserirli nell’economia complessiva dei miei desideri e dei miei progetti, come li ho formati nel corso della storia della mia vita. Nel suo saggio Esperienza, del tempo e personalità, Peter Bieri elabo­ ra in maniera particolarmente chiara il carattere attivo e costruttivo del­ la creazione di tale unità della persona (nel senso della creazione di un’unità della storia della propria vita). Anche nella sua concezione, l’i­ dentità si costituisce come una «storia di appropriazione». Quando egli parla della creazione di un’«unità ermeneutica della persona» che si at­ tua come «storia dell’appropriazione» - sotto l’aspetto di una conti­ nuità temporale -, egli intende in primo luogo che sono io che posso produrre l’unità tra gli elementi eterogenei; in secondo luogo che sono io che devo produrre questa unità - che non è quindi già data - in un pro­ cesso attivo. L’identità personale come risultato di una storia dell’ap­ propriazione - l’appropriazione di me stessa nella mia biografia - è in questo senso un ideale a cui ci si deve approssimare attivamente.

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Non è sufficiente, afferma questo ideale, che io stabilisca, vis-à-vis con il mio passato, che certe cose sono accadute a me. Come persona devo cercare di prenderne possesso e di comprenderle come parti di me, af­ finché esse non mi appaiano più estranee. Descritto in modo diverso, questo ideale afferma che io devo cercare di portare un’unità nella mia vita passata. Certamente, questa vita passata aveva già un’unità che si è realizzata senza il mio intervento: gli eventi nella mia storia stanno tra di loro in una dipendenza causale e formano un’unità causale. L’unità che è in questione nel concetto di appropriazione è di contro un’unità che devo innanzitutto produrre. Essa sorge dal mio bisogno di com­ prendere il mio passato. Nella misura in cui riesco a comprendere il mio passato, io gli do un’unità. Voglio chiamare questa unità unità er­ meneutica™. Da questa concezione di Bieri possono essere tratti i seguenti punti per la mia critica della posizione di Frankfurt:

• In primo luogo dalla concezione dell’appropriazione (di sé) come pre­ stazione attiva della persona che si appropria della storia della sua vita emerge un modello alternativo rispetto al modello «più passivo» dell’«identificazione», che troviamo in Frankfurt. L’individuo non trova le sue identificazioni come necessità volizionali ma le crea, si rapporta ad esse e le rende proprie. In questo modo è messa in luce la parte che gli individui stessi giocano nel formare le proprie identificazioni - il fatto che i legami in cui si muovono non gli «accadono» semplicemente. • In secondo luogo l’identità è concepita come un processo, non c’è identità senza che ci sia sempre di nuovo un’appropriazione di ciò che si fa e senza la correlata trasformazione potenziale di ciò che si «è». Co­ me afferma Bieri:

Se riusciamo a costruire una nuova unità ermeneutica del nostro passa­ to, più integrativa di quella esistente, allora la nostra identità cambia. Questo è un processo costante, e questo tipo di cambiamento d’identità è essenziale per le persone, dal momento che in questo processo si riflette

293. Bieri P., Zeiterfahrung und Personalitdt, in Burger H. (Hg.), Zeit, Natur und Mensch, Arno Spitz, Berlin, 1986.

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lo sforzo di avvicinarsi all’ideale della personalità: a un’appropriazione del passato quanto più completa possibile294. (Così come lo zucchero filato di cui parla Perlmann - Valter ego di Bieri295 - senza una continua opera di rinnovamento l’identità collassereb­ be su se stessa). Per la questione della trasformazione di sé e dell’alienazione, ne con­ segue che mantenere i «progetti fondamentali» (ground projects) e gli «ideali» (come che Frankfurt chiama i nostri legami fondamentali) non è di per sé non alienante. Al contrario, laddove i nostri «progetti fonda­ mentali» e i nostri ideali non sono parte di un processo permanente di appropriazione, laddove le necessità o le impossibilità volizionali ri­ mangono effettivamente inaggirabili, non questionabili, indisponibili, le identità si solidificano e le persone si irrigidiscono nella loro lealtà; sono inflessibili e proprio perciò probabilmente alienate da se stesse, per­ ché il processo di appropriazione si è arrestato. In questo senso Frank­ furt ha ragione quando obietta, contro l’idea di una possibilità illimitata di controllare e disporre di sé:

Noi non siamo personaggi fittizi che hanno autori sovrani; né siamo dèi, che possono essere autori di qualcosa di più di un romanzo. Perciò, non possiamo essere autori di noi stessi296. D’altra parte, dall’idea di una storia dell’appropriazione emerge an­ che la posizione opposta: per certi aspetti noi non possiamo non essere gli autori di noi stessi e lo siamo già da sempre, proprio perché per essere qualcuno dobbiamo appropriarci della nostra storia. Dobbiamo scrive­ re e continuare a scrivere la nostra storia, proprio perché da nessuna par­ te è già scritto che cosa siamo. L’alienazione è allora un disturbo di que­ sto rapporto di appropriazione, non la discontinuità di progetti o l’am­ bivalenza di legami. • • In terzo luogo, dall’impostazione di Bieri consegue anche che una

294. Ibidem. 295. Il filosofo Peter Bieri (Berna, 23 giugno 1944) è anche fautore del romanzo Perlmanns Schweigen, firmato con lo pseudonimo Pascal Mercier. Ndc. 296 Frankfurt H., The Faintest Passion, in Id., Necessity, Volition, and Love, op. cit., p. 101.

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concezione antiessenzialista dell’identità personale e la negazione di una sostanza indisponibile non conducono necessariamente ad una volontà confusa o che manca di una direzione. La posizione che qui è stata as­ sunta (che mette in dubbio la presenza di un «elemento essenziale» della nostra esistenza) non equivale ad assumere che gli individui ab­ biano un punto di partenza privo di presupposti o che siano capaci di un potere su se stessi illimitato. Come nota Bieri: «E importante vede­ re che il succedersi di diverse storie di appropriazione è Yunica cosa di cui noi disponiamo per rispondere alla domanda “chi sono io?”. Non c’è alcun nucleo stabile della persona, non c’è alcun punto di vista al di fuori di queste storie, dal quale io possa chiedermi: “chi sono io dun­ que realmente-indipendentemente da queste storie?”»297. Applicato al­ le nostre domande sui «progetti fondamentali» o sulle «necessità voli­ zionali», ciò significa da una parte che non c’è alcuna «essenza perso­ nale» che ci costituisce, al di là della costruzione e dell’interpretazione di noi stessi298. D’altra parte ciò non significa affermare che ci deve es­ sere un punto di partenza privo di presupposti o un «sé» privo di coin­ volgimento, capace di agire liberamente al di fuori dei legami o dei coin­ volgimenti già esistenti. Ritorno così alla confusione di cui parlavo prima. Il fatto che noi ab­ biamo già determinati legami e siamo già da sempre coinvolti in qualco­ sa non implica che siamo vincolati in modo sostanziale a determinati le­ gami o a determinati progetti che ci costituiscono (con necessità voli­ zionale) o che sia impossibile disporne. Naturalmente è decisivo vedere che non si può mai stare totalmente al di fuori di questi legami senza subire una perdita di identità, perché ciò significherebbe stare al di fuo­ ri della propria vita. In ogni caso, ciò significa solo - per riprendere l’immagine della parte II, capitolo 3 - che ogni trasformazione e ogni nuova appropriazione (anche quelle radicali) è come la «ricostruzione (di una nave) in alto mare» (Neurath) e che non si può far attraccare la na­ ve sulla terraferma per cambiare in una volta sola tutte le assi. 297. Bieri P., Zeiterfahrung und Personalitàt, op. cit., p. 273. 298. Ovviamente si può cercare di identificare delle attitudini caratteristiche che si as­ sumono nei confronti dei progetti che cambiano (la serietà o il dogmatismo con cui il rivoluzionario pratica la rivoluzione così come la controrivoluzione; la dedizione con cui l’amante ama). Questi non sono però più «progetti fondamentali» nel senso di Raz e neanche legami costitutivi senza i quali, secondo Frankfurt, noi non siamo più fedeli a noi stessi.

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Il sé non è dato, ma è sempre «un sé in costruzione» {self in the making), anche se non può essere progettato «a tavolino» ma è sempre fatto di qualcosa che è già qualcosa - nella forma di un processo di tra­ sformazione permanente. D’altra parte, e di nuovo con l’immagine del­ la nave di Neurath: l’idea che alcune assi non si debbano cambiare per ragioni di principio è fuorviarne. O, argomentando ancora con l’imma­ gine di Bieri o di Perlmann: per la continuità o per l’unità della persona è decisivo solo che il tessuto di zucchero filato non si spezzi, che noi in­ tegriamo le differenti trasformazioni o tensioni nell’«unità narrativa» di una storia di appropriazione, in cui noi siamo già da sempre inseriti. Ciò non significa che debba rimanere costante (come un singolo filo con­ duttore), ma che una cosa si deve annodare all’altra in modo sensato. L’identità è minacciata solo quando il filo si spezza e parti del sé non possono più essere tenute insieme, e non quando il filo viene tessuto con materiali diversi. Per ritornare alla prima delle intuizioni già men­ zionate: è possibile che il rischio «che il filo si spezzi» sia molto elevato, in particolare quando si abbandonano determinati legami o determina­ ti progetti. Ciò però ha a che fare soltanto - questo è il modo per pre­ servare questa intuizione - con la modalità della perdita e con le sue elaborazioni (o con le possibilità di elaborarla), non però con il fatto che c’è un nucleo di questi legami e di questi progetti che ci costituisce (in termini sostanziali e che non possiamo controllare).

(2 ) «Un sé che può resistere e opporsi» - La «cittadella INTERIORE» COME LUOGO DOVE RITIRARSI

Il sé moderno [...] è nato in prigione. Ha assun­ to la sua natura e il suo destino nel momento in cui ha percepito, nominato e denunciato il suo oppressore. • Lionel Trilling299 La seconda obiezione che voglio discutere è quella diretta contro la mia critica alla «concezione dell’interiorità» del sé articolata nella discus­

299. Trilling L, The Opposing Self, Oxford University Press, Oxford, 1980.

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sione sull’alienazione. Nelle pagine precedenti ho argomentato che non c’è alcun «vero sé» al di là delle sue manifestazioni esteriori e la concezione del sé alla base della mia discussione si è dimostrata quella di un sé non solo radicalmente fluido ma anche radicalmente «relazionale», che si sviluppa solo nelle relazioni e, quindi, nelle sue articolazioni pubbliche. Diverse obiezioni possono essere sollevate contro questa concezione:

- Non è forse evidente che qualche volta possiamo tornare «a noi stessi» solo astraendo dal mondo esterno, che abbiamo quindi bisogno di un’interiorità300 come luogo in cui ritirarci, per poter divenire consa­ pevoli di chi siamo autenticamente, in mezzo a tutto ciò in cui siamo coin­ volti e a cui ci rapportiamo? E non è forse un’esperienza comune e par­ ticolarmente vivida quella di vedere «deformato» dalle manifestazioni pubbliche e dalle sue esteriorizzazioni {Entduferungen} ciò che abbiamo di più interiormente «proprio»? Non è un problema reale quello della deformazione, dell’alienazione, della distorsione della nostra esistenza attraverso gli «altri» pubblici? La ricerca - che già Rousseau aveva in­ trapreso nelle Confessioni - di un Io puro, non falsificato, separato dai suoi coinvolgimenti nel mondo esterno e che vive «in se stesso», non è quindi un’aspirazione comprensibile? - E inoltre: la tesi (comune a tutte le concezioni del sé «costituito so­ cialmente») secondo la quale «si giunge a se stessi» e ci si «determina» at­ traverso gli altri, non conduce ad un modello «ipersocializzato», che non dà conto delle tensioni tra individuo e società? Non c’è davvero - come sembra suggerire il modello della socializzazione - alcun «resto presocia­ le» dell’individuo che questi non possa rendere pubblico e che non risulti dalla sua posizione nella sfera pubblica? Le tesi dell’«individualizzazione per mezzo della socializzazione» non si vedono esposte a dei limiti pro­ prio quando si solleva la questione dell’alienazione da se stessi? O, detto nel modo in cui Diggins solleva la questione (contro le concezioni pragmatiste del sé): «Come si può essere fedeli a se stessi se il sé non ha alcuno statuto ontologico al di là della società e delle sue insoddisfazioni»301?

300. Io tratto l’interiorità qui (o la protesta che in suo nome viene sollevata) non come un concetto strettamente filosofico, ma come un modello culturale che è divenuto ef­ ficace sotto molteplici aspetti. 301. Diggins J.P., The Promise of Pragmatism, University of Chicago Press, Chicago, 1994.

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Se si intende l’esperienza di una frattura tra «io» e mondo (sociale) co­ me un’esperienza che segna la modernità, e si considera l’obiezione del­ l’individualità moderna contro la sussunzione e l’identificazione dell’in­ dividuo nelle sue funzioni pubbliche e nei ruoli ereditati come un mo­ mento emancipatorio, allora non può essere contestata la funzione (storica) svolta dalla costruzione dell’«interiorità». E se, come afferma MacIntyre, il divario sempre più crescente tra il mondo interiore e il mondo esterno è una caratteristica saliente della cultura borghese302, al­ lora il richiamo all’«interiore» come istanza di protesta deve essere pre­ so sul serio. Secondo Lionel Trilling, la concezione «romantica» di un «sé che può resistere e opporsi»303 rivendica la posizione di un individuo che, nella sua unicità individuale, sviluppata come interiorità, esprime un’i­ stanza di opposizione alla società304. Tornerò nuovamente sul problema della socialità degli individui, men­ tre qui mi limiterò a esaminare le intuizioni legate al costrutto concettua­ le dell’interiorità. Anche se argomenterò che queste intuizioni possono es­ sere intese come qualcosa che «tiene il posto» del desiderio di emanci­ pazione (dell’individuo borghese), esse operano con una serie di assunti che devono essere criticati poiché implausibili. Io credo quindi, e su que­ sto mi soffermerò brevemente più avanti, che la supposta plausibilità di tali obiezioni (e l’attrattività delle posizioni schizzate) poggi almeno in parte su confusioni comuni o su incomprensioni. In ultima istanza - co­ me sosterrò facendo riferimento all’esempio di due protagoniste di un romanzo di Henry James - il modello dell’interiorità si basa su una rap­ presentazione illusoria del «puro sé», che lo spinge proprio in quella po­ sizione difensiva che esso voleva combattere per liberarsene.

302. «La divaricazione crescente tra interiorità ed esteriorità ha caratterizzato la cul­ tura borghese. Nella misura in cui si è intensificata, c’è stato un bisogno più intenso di esprimere nei termini dell’interiorità ciò che non poteva più trovare il suo posto nella vita sociale esterna». MacIntyre A., Herbert Marcuse. An Exposition and a Polemic, The Viking Press, New York, 1970, p. 10. 303. Trilling L., Sincerity and Autenticity, op. cit., p 29. 304. Per una comprensione del concetto di unicità nell’«individualismo romantico» si veda Eberlein U., Einzigartigkeit. Das romanesche Individualitatskonzept der Moder­ ne , Campus, Frankfurt/New York, 2000. Se qui parlo di «concetti romantici dell’inte­ riorità», lo faccio nel senso inteso da Trilling, senza d’altra parte rendere giustizia alla ricchezza di sfaccettature del periodo storico dell’età romantica. Quest’uso del termi­ ne è seguito anche da Richard Rorty quando caratterizza la posizione dell’«intellettuale romantico».

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Genuinità e indipendenza Ci sono due idee implicite che operano alla base del riferimento po­ sitivo alF«interiorità»: la prima è l’idea della genuinità - di un sé non falsificato - la seconda è l’idea in dipendenza del sé, pensato come qualcosa «all’interno», ossia che si trova al di là delle influenze del mon­ do esterno. Nella maggior parte dei contesti queste due idee vanno di pa­ ri passo con l’affermazione che il sé ha uno «statuto ontologico proprio», indipendente dalle sue relazioni sociali. Vorrei muovere due obiezioni contro questa posizione: la prima è che per potere pensare il fulcro dell’ostinazione e della resistenza del sé non è necessario conferire al sé uno statuto ontologico proprio. La se­ conda è che la resistenza, l’ostinazione e l’indipendenza del sé nei con­ fronti delle richieste di conformarsi da parte della società e della rete di pratiche sociali e di relazioni non definisce alcun punto di vista pre- o extra-relazionale (o pre- o extra-sociale), ma un punto di vista all’interno di queste relazioni. (Ritornerò su questo punto in maniera dettagliata nel terzo capitolo di questa parte). Infatti l’affermazione secondo la quale l’individuo si sviluppa in di­ pendenza da e nel confronto con le relazioni e le richieste sociali non pre­ suppone che queste relazioni siano prive di tensioni. Viceversa, l’esi­ stenza di questa tensione tra individuo e società non significa l’indipen­ denza del primo dalla seconda. Non solo si può affermare che l’individuo assume i propri tratti - proprio in quanto «individuo ostinato e resi­ stente» - in questo rapporto di tensione; al contrario, l’assunzione di tale differenza, di un «sé che può resistere e opporsi», non ha bisogno dell’idea di un individuo «interiore» o indipendente dal mondo ester­ no. Si può comprendere l’individualità come «individualità resistente» (Glover), senza assumere la volontà propria del sé come una grandezza presociale, ma come una costellazione di diverse fonti, strati e sposta­ menti. Ma se l’individualità è qualcosa che sorge in primo luogo in si­ mili rapporti di tensione, l’«accusa di conformità» (contro la tesi della so­ cialità e della relazionalità del sé) non può essere mantenuta. Il vero conflitto ruota attorno alla questione dell’ineluttabilità della relazione in generale. Non viene quindi contestato che gli individui siano ostinati o resistenti; viene contestato che le fonti di questa ostinazione vadano trovate nel vacuum di uno «spazio interiore», che potrebbe astenersi da un riferimento al mondo esterno.

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Vita interiore come mondo interiore

Anche l’intuizione che qualche volta ci si deve ritrarre per «giungere a se stessi» non conduce necessariamente a localizzare il «vero sé» in uno spazio interiore. Ci si può parzialmente ritrarre dal mondo distan­ ziandosi da esso, creandosi (metaforicamente) uno spazio in cui si man­ tiene una distanza da determinati influssi e aspettative. Ma ciò su cui si riflette in questo spazio è comunque ancora «mondo». In connessione con questo punto, David E. Cooper caratterizza in modo illuminante il rifiuto da parte di Heidegger di «un approccio introspettivo alla com­ prensione di se stessi».

Non si può naturalmente negare il bisogno di fare una pausa, di fare il punto della situazione su se stessi: ma questo non è un bisogno di «per­ cezione interna», quanto piuttosto di avere coscienza delle cose e del mio coinvolgimento in esse, che costituisce il mio mondo-ambiente. Il fab­ bricante di scarpe comprende l’uomo che egli stesso è vedendo se stes­ so - colmo del senso di ciò che gli sta a cuore e delle sue ambizioni per il futuro - riflesso nelle scarpe che fa, nel laboratorio in cui le produce, nella casa in cui vive305. Da questo punto di vista, potersi ritirare dal mondo significa riflette­ re su ciò che si fa nel mondo, prescindere da aspettative determinate o particolarmente attuali e pressanti. E sempre comunque il mondo ciò con cui si ha a che fare. La persona che s’interroga è sempre un indivi­ duo che non sarebbe pensabile senza il riferimento al mondo e al con­ fronto con esso. L’interiorità, quando vuole essere senza mondo, è illu­ soria. Essa non avrebbe così alcun contenuto. E giusto quindi considerare la «cittadella interiore» soltanto una me­ tafora. Ciò che qui, «aU’intemo», viene sottratto al mondo, è di nuovo mon­ do. Ciò su cui si riflette sospendendo temporaneamente gli influssi esterni può essere solo mondo: l’individuo nella propria relazione con esso. La vita interiore è un mondo interiore. L’individuo è indipendente nella mi­ sura in cui può prendere posizione autonoma rispetto alle richieste del mondo esterno. E l’«ostinazione» o una «volontà propria» non si svilup­

305. Cooper D.E., Existentialism. A Reconstruction, op. cit., p. 97.

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pa nel regno non falsato, intatto e autosufficiente del «proprio», ma come espressione ostinata e come modo ostinato di affrontare il mondo.

Il sé e il suo involucro (Henry James) In un dialogo che si potrebbe leggere come una sorta di commento alle riflessioni di suo fratello William James sul «sé nel senso ampio» - ci­ tate in precedenza - Henry James illustra il conflitto tra una concezione mondana e sociale del sé e una forma di soggettività orientata ad un’in­ teriorità senza mondo. La giovane eroina di Kitratto di signora, Isabel Ar­ cher, riceve dalla sua (solo apparentemente ben disposta) amica mater­ na, Serena Merle, ciò che si suppone sia un’introduzione alla vita:

Quando avrete la mia età capirete che ogni essere umano ha il suo guscio e che di questo guscio bisogna tener conto. E con guscio intendo tutto l’involucro delle circostanze. Un uomo o una donna isolati non sono una cosa che esista; ciascuno di noi è formato da un intrico di dipen­ denze. Che cosa è il nostro io? Dove comincia? Dove finisce? Inonda tut­ to ciò che ci appartiene... e poi rifluisce via. Io so che gran parte di me sta negli abiti che scelgo d’indossare. Ho un gran rispetto per le cose! Il nostro io, per gli altri, è l’espressione che noi diamo di noi; e la casa, i mo­ bili, le vesti, i libri che leggiamo, la compagnia che frequentiamo... tut­ te queste cose sono quello che ci esprimono306. Contraddicendo Merle, Isabel Archer insiste invece sul fatto che il carattere della propria interiorità non può esaurirsi nelle espressioni «esterne», nelle determinazioni e nei legami «esterni»:

Non sono d’accordo con voi. Penso proprio l’opposto. Non so se riesco ad esprimere me stessa, ma so che niente altro mi esprime. Niente di ciò che mi appartiene è misura di me; tutto ciò è al contrario un limite, una bar­ riera, e del tutto arbitraria. Senza dubbio gli abiti che, come voi dite, scel­ go d’indossare non mi esprimono; e voglia il cielo che non lo facciano! «Voi vestite benissimo!» interloquì Madame Merle con tono frivolo. 306. James H., Ritratto di signora, trad. it. Ragionieri P.S., Newton Compton editori, Roma, 1996, pp. 175-176, corsivo mio.

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«Può darsi; ma non mi piace essere giudicata da questo. I miei abiti pos­ sono esprimere la sarta, ma non esprimono me. Per cominciare, non è per mia scelta che li indosso, ma sono imposti dalla società307». La posizione di Merle corrisponde alla concezione del sé che ho di­ scusso in precedenza: il sé si esprime in manifestazioni esterne, si espri­ me e si materializza come «involucro», come un involucro fatto di cose materiali e immateriali, con le quali ci si identifica e alle quali ci si rap­ porta, ma che al contempo non rimane affatto esterno come un involu­ cro. Queste manifestazioni, questi legami e circostanze in cui ci si trova coinvolti, non sono separabili da sé, ma diventano parti del proprio sé. Non sono quindi limitazioni ma condizioni e fanno parte dell’«essere de­ terminati» in un senso positivo: rendono qualcuno ciò che «è». Al con­ trario, Isabel insiste sull’inafferrabilità e sull’immaterialità del sé, di un sé cui tutto ciò che gli «appartiene» può apparire come una determinazio­ ne totalmente casuale e priva di significato, sempre soltanto come una barriera e come un limite, come una falsificazione di un genuino essere se stessi privo di confini. Non solo (contro la posizione di Merle) i vesti­ ti significano straniamento. Significativamente, anche il linguaggio è definito come «estraneo e alienante». Che cosa «è» esattamente il suo «sé», se tutto ciò a cui può legarsi e tutto ciò in cui può manifestarsi gli è indifferente? Isabel vede la propria individualità come ciò che si sot­ trae ad ogni determinazione. Essa non si esprime in niente (in nessuna manifestazione mondana) e non può essere espressa da niente. Abbia­ mo qui un esempio incisivo di cosa sia una concezione dell’identità co­ me interiorità. Si può caratterizzare la posizione di James, in contrasto con quella di Isabel Archer, nel modo seguente:

Per vivere nel senso di James si devono scegliere certe esperienze e ri­ gettarne altre; è attraverso queste scelte che noi progettiamo un’identità sociale. [...] Isabel, in ogni caso, con il suo esagerato«ideale americano di sincerità rifiuta di accettare ogni identità sociale che non esprima il suo essere spirituale autentico308.

307. Ibidem. 308. Hofmann S., Selbstkonzepte der New Woman in George Eliots Daniel Deronda and Henry James «The Portrait ofa Lady», Gunter Narr Verlag, Tiibingen, 2000, p. 216.

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E questo «essere spirituale autentico» si rivelerà un’illusione. L’inte­ ro sviluppo successivo degli eventi può essere interpretato come un confronto polemico con questo «ideale di sincerità». La psicologia im­ plicita in Henry James, come dimostrano molti esempi, è la quintessen­ za di una concezione relazionale del sé, per la quale il sé non è solo «in­ corporato» in un senso statico ma è anche situato. «Chi» «sono» i suoi protagonisti può essere espresso sempre soltanto attraverso una descri­ zione delle situazioni. Anche qui (nella concezione di Isabel) insistere sul modello della pu­ ra «interiorità» del sé va di pari passo con l’affermazione di ciò che è «proprio» in termini di resistenza e d’indipendenza nei confronti della società. Qui sembra essere implicato che ciò che è «proprio» può esse­ re preservato o sviluppato solo astraendo da manifestazioni esterne, dall’impressione che le cose esterne fanno sull’individuo e dal modo in cui l’individuo è espresso in esse. Anche qui la concezione interioristica dell’autenticità viene connessa alla possibilità della resistenza e dell’«ostinazione». Quando Isabel Archer giustifica il suo rifiuto di vedersi espres­ sa nei suoi vestiti, appellandosi alla loro natura di convenzioni sociali («non è una mia scelta indossarli: essi mi sono imposti dalla società»), lei segue proprio questo modello di argomentazione. Come abbiamo visto, non solo questa connessione non è necessaria - ma è anche illuso­ ria. Non solo Isabel Archer non potrà fare a meno di indossare i suoi vestiti. Anche se decidesse di indossarli con completa noncuranza o di trattare determinate forme di comportamento con indifferenza, non potrà evitare, facendo ciò, di esprimere qualcosa; a maggior ragione nel tempo e nello strato sociale in cui vive, esprimerà comunque qualcosa, che lo voglia o no. «Un sé che può resistere e opporsi» non solo deve essere reale, ossia capace di dare forma alla sua realtà e di dare forma a se stesso nel confronto con essa. Deve soprattutto essere anche un sé capace di riflettere sulle relazioni in cui, nel bene o nel male, è coinvolDel tutto non riuscita mi sembra invece l’interpretazione dello stesso Hoffman, che vede nella concezione di Isabel una concezione del sé maschile di contro a una conce­ zione reificata del sé femminile (rappresentata da Merle), nella quale le donne sono rap­ presentate come instabili, non autonome e vuote, cosicché possono raggiungere stabi­ lità e durata solo attraverso requisiti materiali. Secondo la sua interpretazione, il con­ cetto di interiorità di Isabel è emancipativo, mentre a mio parere proprio nel corso del romanzo la dialettica di una tale emancipazione e il carattere illusorio di tale concezione del sé divengono visibili e oggetto di discussione.

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to. Il destino di Isabel sarà quello di dover imparare tutto questo. La con­ cezione dell’indipendenza come interiorità fallisce per ragioni interne.

3. Invenzione di sé e molteplicità del sé Non sono me. Gena Rowlands309

Se confrontandomi con Harry Frankfurt ho argomentato contro una posizione che assume in maniera troppo forte un’unitarietà del sé e cer­ ca di legare il soggetto troppo strettamente a un nucleo base della sua identità, la mia «concezione appropriativa» del sé implica anche una di­ stanza critica da posizioni che vogliono dissolvere completamente tanto l’unità del sé quanto la sua natura condizionata. Adesso mi confronterò quindi con approcci e temi - associabili, in un senso approssimativo, a visioni postmoderne o poststrutturaliste - che muovono dalla prospet­ tiva di una «critica del soggetto» e si orientano all’idea di un’identità non più fissabile, ma fluida, «multipla» o «trasformativa». Senza potere trattare qui in modo esaustivo la complessa e sfaccet­ tata discussione attorno al problema della soggettività, che è emersa soprattutto in relazione al lavoro di Michel Foucault sul problema del­ la soggettività310, discuterò qui alcuni temi che hanno acquisito impor­ tanza nel contesto di questo dibattito: 1) l’idea inventare se stes­ si311, contrapposta all’idea «tradizionale» del trovare se stessi, e 2) l’i­ dea della molteplicità^ della pluralità e del carattere ibrido dell’identità postmoderna, che si oppone alla concezione tradizionale dell’unità del soggetto.

309. Nel film di Cassavetes Opening Night. • 310. Per un confronto sistematico sul tema si veda Saar M., Selbstkritiky tesi di dotto­ rato, Johann-Wolfgang-Goethe Universitàt, Frankfurt am Main, 2004. 311. L’idea dell’inventare se stessi è ispirata per lo più a Nietzsche ed è da molto tem­ po in voga tra i teorici più diversi (tra i quali Foucault, Rorty e Alexander Nehamas sono solo i più noti). A questo riguardo, Dieter Thomà parla di un’«inflazione di con­ cetti come quelli di self-making, self-fashioning e self creation, il cui fascino sta nel fat­ to che in essi la sobria scepsi contro ciò che è dato sembra unirsi al sentimento esube­ rante della creatività». Thomà D., Erzdhle Dich selbst. Lebensgeschichte als philosophisches Problem, C.H. Beck, Miinchen, 1998.

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La mia tesi è che l’idea dell’appropriazione di sé trascende le alterna­ tive qui riportate. Dal momento che l'appropriazione di sé è opposta tanto al modello dell’ invenzione di sé quanto a quello del trovare se stessi, la mia posizione condivide la critica all’essenzialismo fatta dallo schieramento nietzscheano-poststrutturalista, senza d’altra parte rinunciare ai criteri per misura­ re un rapporto riuscito con se stessi. E dal momento che i processi di ap­ propriazione coinvolgono sempre anche un’integrazione di elementi di­ versi e malleabili, il modello appropriativo, in quanto concezione dell’unità nella molteplicità, considera indispensabile un’unità nella rela­ zione con se stessi (a prescindere da come questa venga poi prodotta)312.

(1) IL SÉ COME OPERA D’ARTE. INVENTARE SE STESSI VS. TROVARE SE STESSI

Già per Nietzsche, che può essere considerato la figura fondatrice del motivo deW inventare se stessi, l’idea della formazione creativa di se stessi si contrappone all’idea del trovare se stessi che sottende la ricerca del vero sé. Nietzsche scrive:

E mitologia credere che troveremo il nostro vero io dopo aver lasciato questo e quello. Così ci sbrogliamo come una matassa, all’infinito: in­ vece costruire noi stessi, modellare tutti gli elementi in una forma questo è il nostro compito! Sempre quello di uno scultore, di un uomo creativo313314 ! Muovendo evidentemente dalla stessa distinzione, il tardo Foucault formula questo punto nel modo seguente: «Dall’idea che il sé non ci è da­ to credo si possa trarre una sola conseguenza: che noi dobbiamo fonda­ re, creare e disporre noi stessi come un'opera d'arte»014. E anche Wilhelm Schmid localizza l’alternativa tra un «soggetto dell’identità» pensato in

312. Sul problema di una simile unità, cfr. Pollmann A., Integritàt, Transcript, Bielefeld, 2003. 313. Nietzsche E, Frammenti postumi 1880-1882, trad. it. Amoroso L. e Montinari M., Adelphi, Milano, 1982. 314. Foucault M., Dell'amicizia come modo di vita, in «Aperture», n. 3, 1997.

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termini sostanziali e ciò che deve essere ripensato come «il soggetto del­ l’esperienza e della sperimentazione» in un campo conflittuale, seguen­ do la domanda dell’autenticità del sé.

Se non c’è più alcun soggetto sostanziale, alcun soggetto che esista co­ me fondamento immutabile del nostro rapporto con noi stessi e con il mondo, allora è aperto lo spazio per un soggetto che deve essere confi­ gurato dal niente in modo artistico: questo sé non è «autentico». Que­ sta autocostituzione non è una «realizzazione di sé» - non ha niente a che vedere con un sé che bisognerebbe rintracciare in una qualche profon­ dità, in cui esso avrebbe vissuto finora come qualcosa di completamen­ te sconosciuto315. Quindi la creatività nel rapporto con se stessi prende il posto dell’i­ deale di autenticità. Questo «produrre se stessi» non rappresenta solo il superamento (a volte presentato in modo polemico) del classico pro­ getto umanistico-illuministico dell’emancipazione, ma ne è anche la con­ tinuazione. Anche se l’ideale della creazione di sé nel frattempo è di­ ventato «un imperativo economico» - come nota Diedrich Diederichsen316, riferendosi a una situazione in cui l’idea della creazione di sé è realizzata in misura crescente con la chirurgia plastica - la creazione di sé rappresenta comunque, per lo meno in Foucault, anche un potenzia­ le di resistenza. In questo contesto, produrre se stessi è una strategia del soggetto per non consegnarsi senza resistenza alla formazione attraver­ so il potere (che allo stesso tempo lo costituisce).

Invenzione di sé vs. appropriazione di sé In che modo questa interpretazione del «rapporto con se stessi» si dif­ ferenzia dal modello qui sostenuto dell’appropriazione di sé? E in che senso contraddice la possibilità di una diagnosi dell’alienazione317? 315. Schmid W., Uns selbst gestalten - Zur Philosophic der Lebenskunst bei Nietzsche, in «Nietzschestudien», voi. 21,1992, pp. 50-62, p. 50. 316. Diedrichsen D., Supergirls biologische Hardware, in «Siiddeutsche Zeitung», 6/7 maggio 2000. 317. E ovvio che qui non posso approfondire questo confronto in maniera dettagliata, come pure meriterebbe, perché ciò tra l’altro significherebbe differenziare diversi

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Se l’idea dell’invenzione di sé è in contrasto con l’idea di un lavoro di eliminazione degli strati che coprono il «vero sé» - ossia «il soggetto come fondamento immutabile» - emergono immediatamente quelli che sono i punti di comunanza tra il modello dell’invenzione di sé e quello dell’«appropriazione di sé». Anche quest’ultimo mira a un «soggetto del­ l’esperienza e della sperimentazione» (Schmid), e anche a me interessa evitare esplicitamente ogni appello a un soggetto sottostante che si «do­ vrebbe rintracciare in una qualche profondità». Entrambi i modelli s’in­ contrano quindi nell’antiessenzialismo, in entrambi i casi il sé è «un sé in costruzione» che esiste in quanto si produce agendo. D’altra parte voglio, in base a due aspetti, elaborare due differenze tra l’idea della produzione e dell’invenzione di sé da una parte e la tesi della creazione pratica e dell’appropriazione di sé dall’altra: • La prima differenza tra l’idea dell’invenzione di sé e il concetto del­ l’appropriazione di sé consiste nel fatto che in quest’ultima è possibile identificare dei criteri per valutare la riuscita dei processi di appropria­ zione e così per rilevare i disturbi nella relazione con se stessi. Di contro, il punto cruciale dell’idea di un «sé come opera d’arte» che inventa se stes­ so sembra essere che qui - dal momento che ci si orienta a ciò che è nuo­ vo e non è mai stato pensato prima, a qualcosa che non si conforma a nessuno standard - si escludono proprio tali criteri di valutazione; • Una seconda differenza tra i due approcci emerge nel rapporto con quella dimensione che «precede» il processo di costituzione (in quanto invenzione o appropriazione). Se l’appropriazione di sé, come abbiamo visto318, è un processo in cui il «trovare» e l’«inventare», il «costruire» e il «ricostruire» sono cooriginari, allora il processo di appropriazione fa sempre i conti con l’esistenza di qualcosa di «precedente», che recupe­ ra e trasforma. Ciò differisce dall’idea di un’invenzione di sé, poiché que­ sta, facendo appello a un processo di «invenzione», suggerisce per lo me­ no l’idea che qui si tratti di una «creazione dal nulla».

concetti di invenzione di sé e soprattutto prendere in esame, nel confronto con Fou­ cault, la controversa questione del significato etico di un’«estetica dell’esistenza» e del rapporto tra la critica del potere e l’«etica» del tardo Foucault. 318. Cfr. su questo in particolare le trattazioni svolte sul raggiungimento di una «con­ cezione di se stessi» nella parte II, capitolo 3 e le osservazioni sul concetto di appro­ priazione nella prima parte di questo capitolo.

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Voglio approfondire per prima questa differenza per poi ritornare in seguito alla questione della normatività. Le differenze tra il modello del­ l’invenzione di sé e quello appropriazione di sé possono essere ricon­ dotte essenzialmente al carattere del processo di formazione (del sé) che viene assunto con esse. La differenza che emerge qui può essere intesa in termini approssimativi - come la differenza tra un processo di produ­ zione pensato in modo demiurgico e una prassi di attuazione di azioni.

Il sé come demiurgo e il paradigma della produzione del sé

C’è una tensione peculiare (e molto discussa) nel lavoro di alcuni fau­ tori dell’idea dell’invenzione di sé: la tensione cioè tra l’idea che non c’è un soggetto e l’idea quasi demiurgica di produzione, tra una concezione del soggetto come «errore grammaticale» (Nietzsche) o come effetto del potere (Foucault) e l’idea del soggetto come creatore apparentemente on­ nipotente di un’opera d’arte (che è egli stesso)319. Questa idea della for­ mazione di sé sembra andare di pari passo, per certi aspetti, con un vo­ lontarismo che ha i tratti di una Hybris. Da dove viene infatti l’attore che improvvisamente è dotato di così tanto potere di azione da potersi «crea­ re come un’opera d’arte»? Chi crea il creatore qui? O si tratta qui non solo di una creatio ex nihilo ma anche di una creatio senza creatori. Presa sul serio, l’analogia con lo scultore o con l’opera d’arte che ca­ ratterizza l’idea dell’invenzione di sé suggerisce in primo luogo l’idea di una creazione di qualcosa che non esisteva prima e per costruire la qua­ le, in secondo luogo, non ci sono «istruzioni» né regole che governano la sua formazione. Non si tratta solo di formazione in generale ma della formazione libera e innovativa di se stessi. Che il sé si inventa Urfindet) significa quindi anche che inventa se stesso come qualcosa di nuovo, e che in questo processo di formazione è libero e non impedito. Ora, però, la metafora dell’opera d’arte solleva problemi sotto mol­ teplici aspetti. Primo: nella misura in cui un’opera d’arte viene inventa­

va. Undine Eberlein rimanda al fatto che questa tensione esiste già in Nietzsche e può essere seguita fino alle successive assunzioni poststrutturaliste: la tensione tra il «congedo dal soggetto» da una parte e il carattere demiurgico del «paradigma della produzione del sé» dall’altra. Cfr. Eberlein D..Einzigartigkeit. Das romanesche Individualitàtskonzept der Moderne, Campus, Frankfurt/New York, 2000.

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ta non si riferisce a qualcosa che già esiste o che potrebbe determinarla o condizionarla. Secondo, chi crea se stesso come un’opera d’arte ha nei confronti di se stesso l’approccio che si ha nei confronti di un materiale che deve essere lavorato, è quindi nello stesso tempo soggetto e ogget­ to. Terzo, il sé come opera d’arte è il risultato di un processo di produ­ zione, è un prodotto. L’invenzione di sé è concepita secondo il modello della poiesis™ - e l’idea della creazione di sé rimane impigliata proprio nel paradigma e nella metafora della produzione.

Il Sé come prassi La differenza tra l’invenzione di sé e l’appropriazione di sé può esse­ re formulata servendosi della differenziazione aristotelica tra praxis e poiesis™: se l’invenzione di sé segue il paradigma della produzione del sé, l’appropriazione di sé è concepita secondo il modello della prassi. L’idea demiurgica di creazione che è propria AeTTinvenzione di sé è op­ posta all’idea AeW appropriazione di sé nella quale praticamente, nelle proprie azioni, si è già da sempre coinvolti. In quest’ultima idea, il sé è meno un’opera d’arte che qualcuno fa di se stesso, che non un processo pratico-sperimentale in cui si è coinvolti. Questa impostazione ha delle implicazioni per quanto riguarda da una parte la relazione del sé con la dimensione di ciò che la «precede» e con il suo essere condizionato, dall’altra il suo rapporto con la dimensione dell’intersoggettività. Poiché l’appropriazione non è una creazione «dal nulla», c’è già da sempre qualcosa di cui ci si appropria, che allo stesso tempo in questa ap­ propriazione viene trasformato e per certi versi prodotto per la prima volta. Se ciò che esiste precedentemente è d’altra parte il risultato di un processo di appropriazione, l’inizio e la fine di un simile processo non possono essere identificabili, né c’è alcuna condizione che possa essere sensatamente identificabile fuori o prima di tale processo. Se quindi il sé, come è stato formulato prima, è allo stesso tempo «dato» e «fatto», 320. Anche Judith Butler concepisce l’idea foucaultiana di «costituzione di sé» come una sorta di poiesis. Cfr. Butler J., Critica della violenza etica, trad. it. Rahola E, Feltri­ nelli, Milano, 2006, p. 225. 321. Molto semplificato: Aristotele differenzia tra poiesis come creazione di un pro­ dotto guidata da conoscenza tecnica, dalla praxis come azione il cui scopo giace nella stessa esecuzione di questa azione e non in un prodotto esterno.

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non è quindi «dato» ma non sorge nemmeno per la prima volta nel mo­ mento della sua creazione: è piuttosto un processo di trasformazione che già da sempre deve fare i conti con alcuni condizionamenti. L’appro­ priazione di sé significa quindi una formazione di sé senza però l’onni­ potenza di un demiurgo che inventa se stesso. Ciò si manifesta anche in un aspetto ulteriore: come risultato di azioni (nel senso arendtiano) noi siamo sempre soltanto coautori di noi stessi. Agendo in una «rete di azio­ ni», siamo soggetti all’influsso degli altri nel nostro rapporto con noi stes­ si. Non siamo soli, come invece è il demiurgo che inventa se stesso. Questa differenza tra il sé come risultato di un processo di produzio­ ne, e il sé come risultato di una prassi che consiste nell’interazione con ciò che è altro, ha anche conseguenze per la questione della normati­ vità, per la domanda cioè se ci siano dei criteri in base ai quali misurare la riuscita di questo processo. I «sé in costruzione» postulati dal model­ lo dell’appropriazione diventano qualcosa nella misura in cui si rendo­ no tali, in questa formazione non sono però del tutto liberi, ma sono con­ frontati da un lato con l’ostinazione del materiale (con cui del resto an­ che lo scultore deve fare i conti), e dall’altro lato con l’ostinazione di un processo sociale. Come «sé in costruzione» essi sono esposti ad un pro­ cesso inesauribile di interazione e scambio con gli altri e con l’altro. L’«appropriazione» allora non è né un processo di invenzione di sé né di formazione demiurgica, ma un esperimento. Tale esperimento ha però delle condizioni per la sua riuscita322. In contrasto con la produzione demiurgica di sé, che ha il proprio ideale nell’assenza di parametri di misura e nell’indipendenza da tutto ciò che è dato, ci sono qui criteri per valutare l’adeguatezza e il funzionamento del sé. Quindi, dal fatto che è impossibile «trovare» se stessi, il mio ap­ proccio non deduce che è impossibile mancare se stessi o fallire. An­ che senza «trovare» qualcosa ci può essere una buona riuscita del pro­ cesso di appropriazione, che può essere descritto come il riuscire o meno di una prassi. •

322. Per la differenza tra un modello estetico-romantico di sperimentazione e quello di cui mi servo qui, che prendo in prestito dalla concezione pragmatista dell’esperi­ mento, cfr. parte III capitolo 2. Qui critico anche l’idea dell’assenza di criteri e l’idea di nuovo.

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(2) Il sé che non è uno - identità multiple, ibridità E DISSOCIAZIONE

Nella discussione sulle «identità postmoderne» c’è un secondo topos che è divenuto popolare anche al di là della discussione strettamente fi­ losofica: il topos dell’«identità multipla». Wilhelm Schmid formula nel modo seguente il programma di un nuovo concetto del sé, non più ba­ sato sul modello dell’«identità»:

La forma fissata deve essere rotta attraverso una trasformazione; la for­ mazione finita del soggetto deve essere dischiusa attraverso un’espe­ rienza infinita che è sempre L'esperienza dell'altro in tutti i sensi della parola. Così si costituisce un soggetto che è caratterizzato da trasforma­ bilità e da malleabilità; un sé molteplice e di conseguenza non un sé del­ l'identità: essere sempre uguale a se stesso e lo stesso rende impossibile l’irrompere dell’altro e rende impossibile ogni cambiamento. Il sogget­ to dell’identità oggi non è più man tenibile323. I termini che qui vengono impiegati ricorrono continuamente nella marea di dibattiti psicologici e sociologici sulle «identità postmoder­ ne». Essi descrivono ciò che dovrebbe sostituire il vecchio «soggetto del­ l’identità». Trasformabilità, apertura all’esperienza, malleabilità, molte­ plicità: si tratta di un sé che mon è uno», di un soggetto che è in grado di fare l’esperienza del «totalmente altro» senza con ciò acquisire un’i­ dentità chiaramente delimitata e delimitabile. Anche una concezione del sé caratterizzata in questi termini sembra escludere ogni possibile ripresa della discussione dell’alienazione. Può ancora un sé che è pro­ grammaticamente «un altro», «alienarsi da se stesso»? Ciò che qui vie­ ne messo in questione è la natura unitaria del soggetto, la possibilità di un’identità dell’individuo «con se stesso» che si contrapporrebbe ad una «perdita di sé» alienante. Ora, i problemi puramente concettuali posti da una tale concezione dell’identità e della trasformazione sono ovvi. Un «sé» che fa esperien­ ze è in una certa misura sempre «uno» - anche se diventa «altro» nelle esperienze che fa con se stesso e con il mondo. Se non ci fosse nessuno 323. Schmid W., Uns seihst gestalten - Zur Philosophic der Lebenskunst bei Nietzsche, op. cit., p. 50, corsivi miei.

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a integrare queste esperienze nel proprio vissuto e nella propria storia, e a poterle fare proprie, non si potrebbe parlare in alcun modo di un’e­ sperienza. Questo vale addirittura per il caso di in cui l’esperienza viene pensata come «esperienza limite» o «trasgressione». I casi sono due: o una simile «esperienza limite» cambia il soggetto, e allora esso - in quan­ to qualcosa di mutato - rimane «uno» ed è sempre un «soggetto dell’i­ dentità», anche se questa identità è flessibile o mutevole; oppure il sog­ getto non rimane «uno», nel qual caso non è più chiaro in che senso si tratti qui di un’esperienza che il soggetto ha avuto324. Anche il discorso sulla «molteplicità» rimane intrecciato in simili contraddizioni. Non devono forse le diverse identità rimanere correlate ad un portatore di queste stesse identità, per essere in generale ricono­ scibili o esperibili come tali? Non dipendono anch’esse da qualcosa che le possa integrare? Per questa ragione, questa molto invocata moltepli­ cità va riferita a diversi aspetti di una persona o a diverse identità che devono essere distinte l’una dall’altra. Nel primo caso, sembra più ade­ guato parlare, piuttosto che di un’«identità multipla», di una moltepli­ cità di identità di ruolo sovrapposte, oppure di ambivalenze all’interno della persona. Un’«autentica» molteplicità, in cui gli orientamenti in questione siano totali e si escludano reciprocamente, equivarrebbe al contrario ad una frammentazione della persona (come del resto viene de­ scritto il sintomo clinico della «personalità multipla», in contrasto con la spensierata assunzione della parola nell’uso linguistico quotidiano). Allora non avremmo più semplicemente delle esperienze limite e delle trasgressioni, ma esperienze (traumatiche) di cui si può dire che impe­ discono proprio di fare esperienze. Un simile soggetto non sarebbe al­ lora «molteplice» ma minacciato nella sua esistenza. Non è chiaro il modo in cui dovremmo immaginare un «sé multiplo» che non sia più un «sé dell’identità»; allo stesso modo resta una questione aperta quella di come dovremmo pensare l’«irrompere dell’altro» senza fare riferi• 324. Questa obiezione riguarda anche il discorso che fa Foucault sulla dissoluzione del sé nelle esperienze. L’affermazione, diretta contro la fenomenologia, che le espe­ rienze, così come lui le concepisce, servono «al soggetto per staccarsi da sé, in modo tale che egli non è più se stesso oppure in modo tale che è spinto al suo annientamen­ to e alla sua dissoluzione» è incoerente. Se, come sottolinea Foucault, «un’esperienza è qualcosa da cui si esce mutati», allora egli deve presupporre un portatore, un soggetto di questo mutamento. Cfr. Trombadori D., Colloqui con Foucault. Pensieri, opere, omissioni dell'ultimo maitre-à-penser, Castelvecchi, Roma, 2005, p. 32.

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mento a qualcosa che si trasforma. Da questo punto di vista, parlare di un soggetto multiplo, che «non è fissabile» nella sua identità, è inconsi­ stente. In altri termini: questi modi di dire sono infelici drammatizzazioni teoriche di fenomeni che possono essere compresi più adeguatamente con altri concetti. La mia tesi sostiene dunque che abbandonare il pun­ to di riferimento di un sé che fonda un’unità - che si appropria della mol­ teplicità dei suoi possibili ruoli e aspetti, ma anche dei suoi atteggiamenti e dei suoi desideri, che elabora e integra esperienze conflittuali - gene­ ra gravi conseguenze. Mentre la posizione di Frankfurt che abbiamo di­ scusso prima concepisce la continuità del sé in maniera troppo statica, al­ l’inverso appare controintuitivo, riguardo alla nostra percezione e alla nostra interpretazione di noi stessi, abbandonare ogni idea di relazione consistente con sé. Il concetto di «appropriazione» riesce a catturare in maniera molto più adeguata i fenomeni qui in questione della flessibi­ lità e molteplicità delle identità: concepito come atto di appropriazio­ ne, il sé è «non uno» in quanto consiste in una molteplicità di differenti aspetti che devono essere integrati. Costituendosi nelle esperienze che fa con se stesso e con il mondo, esso è un sé caratterizzato dal cambia­ mento. Nella misura in cui anche i processi di appropriazione hanno un carattere creativo-sperimentale, questo sé non è anticipabile. D’altra par­ te, in quanto portatore di simili processi di appropriazione, il sé rimane in ogni caso un punto di riferimento in cui si manifesta la buona riusci­ ta o il fallimento di queste prestazioni d’integrazione (senza la necessità di conferire loro un’unità in senso forte). Anche se non si vuole conce­ pire il sé come una sostanza immutabile e come una grandezza unitaria e libera da conflitti (anche se non si presuppone la struttura teleologica di un romanzo di formazione), esso rappresenta un presupposto per quel tipo di identità (non alienata) che può integrare diversi aspetti e parti di se stessa. Appropriazione significa quindi l’appropriazione di se stessi nella molteplicità di possibili aspetti e attraverso la molteplicità di pos­ sibili esperienze. Le considerazioni concettuali da sole non bastano tuttavia a superare la discussione a cui si è prima accennato, dal momento che l’invenzione del sé e l’identità post-moderna e multipla sono diventate metafore or­ mai influenti e sono state «assorbite» in vari modi nella critica culturale contemporanea. Con questo vocabolario è stato possibile articolare una posizione che, distinguendosi anche polemicamente dai modelli tradi­

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zionali di identità, dà espressione all’intuizione secondo cui il soggetto oggi forma la propria identità in costellazioni molteplici e in parte con­ flittuali. In considerazione dell’eco che questa posizione filosofica ha tro­ vato nella riflessione critica sul nostro tempo, vorrei infine discutere que­ sta concezione del sé soffermandomi su un caso in cui la tesi filosofica dell’identità postmoderna sembra aver assunto realtà empirica, ossia le identità mutevoli e il gioco con le identità che emergono nel contesto di un nuovo medium, Internet.

(3) Life on the Screen - Una realizzazione DEL «SÉ POSTMODERNO»?

Diventa la persona che la chatroom crede tu sia! Pubblicità di auto, New York City 1999

Nel suo libro Life on the Screen - Identity in the Age of the Internef25, la psicoioga statunitense Sherry Turkle avanza una tesi che sembra, in prima battuta, molto convincente: Internet non produce soltanto una nuova realtà sociale; in Internet si sono sviluppate anche nuove forme d’identità che per la prima volta permettono di immaginare concreta­ mente ciò che le teorie postmoderne o poststrutturaliste hanno già da tempo annunciato. In Internet si materializza la situazione «postmoder­ na». La stessa Turkle scrive che non poteva immaginarsi nulla di con­ creto in riferimento al teorema del poststrutturalismo, circolato dai tar­ di anni Settanta, fino a quando come psicoioga e «cybershrink»526 non è venuta in contatto con la realtà sociologica e psicologica di nuovi media come Internet:

Più di venti anni dopo aver incontrato le idee di Lacan, Foucault, De­ leuze e Guattari, le sto incontrando di nuovo nella mia vita sullo scher­ mo. Ma questa volta le astrazioni galliche sono più concrete.325 * 326

325. Turkle S., Life on the Screen - Identity in the Age of the Internet, Simon & Schus­ ter, London, 1997. 326. Sherry Turkle è nota per aver condotto le prime terapie psicologiche in Internet; da queste, e dai suoi progetti di ricerca al Massachusetts Institut of Technology, ha tratto anche gran parte del suo materiale empirico.

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Nei miei mondi mediati dal computer il sé è multiplo, fluido e costitui­ to nell’interazione con connessioni di macchine; è fatto e trasformato dal linguaggio; il rapporto sessuale è uno scambio di significati; la com­ prensione segue dal navigare e dal bricolage piuttosto che dall’analisi327. Si può considerare questa un’inadeguata applicazione concreta di una teoria sofisticata. È interessante tuttavia che Turkle abbia compiuto delle ricerche empiriche sulle interazioni e sui processi di rappresentazione e di formazione di sé in Internet e che abbia perseguito queste ricerche in diversi progetti su larga scala. Quando Turkle afferma: «Internet è dive­ nuto un laboratorio sociale significativo per sperimentare le costruzioni e le ricostruzioni del sé che caratterizzano la vita postmoderna», è perché essa stessa ha accompagnato questo «esperimento» in maniera scientifi­ ca328. Dalla sua analisi delle interviste a internauti e dalle sue stesse espe­ rienze in Internet, si ottiene una comprensione di quelli che sono senza dubbio nuovi momenti della realtà sociale e psichica, i quali tuttavia, questo è ciò che sostengo, non sono in grado di supportare la tesi che In­ ternet permette modi completamente nuovi di formazione delle identità. Per chiarire: quando Sherry Turkle scrive della «vita sullo schermo», non parla di coloro che utilizzano Internet come strumento, come si utilizza per esempio una rubrica telefonica, quindi come un bacino este­ so di informazioni con cui si può fare delle ricerche in modo rapido ed efficace. Altrettanto poco è qui in questione l’estensione delle possibi­ lità di comunicazione messe a disposizione attraverso le email. Per quan­ to le forme di comunicazione possano essere state trasformate da questi sviluppi, queste pratiche rimangono all’interno dell’ambito «classico» dello scambio di informazioni. L’oggetto della ricerca di Turkle sono in­ vece quegli utenti che si muovono su Internet come in uno spazio inte­ rattivo e virtuale: il mondo delle «comunità virtuali» e dei «domini multidimensionali» (MUD), nei quali gli utenti entrano in contatto gli uni con gli altri per lo più tramite nomi e «identità» anonime e qualche vol­ te multiple, partecipando a giochi interattivi (talvolta a mondi di fanta­ sia molto complessi, che hanno regole complesse e a cui si gioca per an­ ni), o a forum di discussione, chat flirts o cybersex. Per una parte di co­ loro che Turkle ha intervistato, a volte anche per anni, la vita online è 327. Turkle S., Life on the Screen, op. cit. 328. Ivi, p. 180.

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divenuta una seconda vita virtuale, in cui hanno luogo contatti ed espe­ rienze importanti, se non addirittura i più importanti. (Esemplare in que­ sto senso è la chiara affermazione: «La mia vita reale è solo un’altra fi­ nestra. E di solito non la migliore»). Secondo Turkle, è questa vita nei e con i MUDs che porta alla crea­ zione di un «sé postmoderno», che si differenzia in termini fondamentali dal sé tradizionale, più o meno autentico.

I MUDs implicano differenza, molteplicità, eterogeneità e frammenta­ zione. Una simile esperienza di identità contraddice la radice latina del­ la parola idem, che significa «lo stesso». Ma questa contraddizione defi­ nisce in misura crescente le condizioni della nostra vita al di là del mon­ do virtuale. I MUDs diventano quindi un insieme di oggetti con i quali pensare i sé postmoderni. [...] Le idee tradizionali sull’identità sono le­ gate a una nozione di identità che simili esperienze virtuali sovvertono at­ tivamente. Quando ciascun giocatore può creare molti personaggi e partecipare a molti giochi, il sé non è solo decentrato ma moltiplicato senza limiti329. Al centro dell’interesse di Turkle si pongono i due problemi seguenti (molto interessanti anche nel nostro contesto): 1) Come ha luogo la for­ mazione del sé in un medium che, rispetto al «mondo reale», sembra imporre meno limiti alla formazione dell’identità? Qualsiasi cosa si pos­ sa dire contro l’idea del demiurgico creatore di se stesso, qui essa sem­ bra essere divenuta realtà: «Nella realtà virtuale noi diamo forma a noi stessi e creiamo noi stessi»330. 2) Come si svolge il gioco con molte iden­ tità in medium che offre più spazio rispetto alla realtà (convenziona­ le)? «Internet [...] ha contribuito a pensare l’identità come moltepli­ cità. Su Internet le persone sono capaci di formarsi un sé pedalando at­ traverso molti sé»331. Nel quadro della mia discussione, le domande che emergono dalle tesi di Turkle sono dunque le seguenti: che cosa s’intende precisamente qui (semplificando molto) per creazione del sé, e in che rapporto sta quest’ultima con il discorso dell’appropriazione di sé, come Tho descritto io? 329. Ivi, p. 185. 330. Ibidem. 331. Ivi, p. 178.

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Cosa si deve dire riguardo ai sé multipli? Vengono esperiti effettivamente come diversi sé oppure come varianti di una persona che deve in ultima istanza integrarli - e in ciò può anche fallire? E in ultima istanza: in che senso simili processi di formazione dell’identità sovvertono effettiva­ mente il concetto di «autenticità»? Voglio utilizzare alcuni degli esempi discussi da Turkle per esamina­ re due ipotesi: la prima è che questi modelli di formazione dell’identità non sono interamente nuovi o differenti dai modelli tradizionali; la se­ conda è che anch’essi non possono fare a meno del riferimento a un concetto di autenticità. La seguente dichiarazione di un giocatore che descrive i vantaggi del­ la sua vita-MUD offrono testimonianza dell’utopia di una creazione di sé illimitata:

Tu puoi essere ovunque tu voglia. Se vuoi puoi ridefinire completamen­ te te stesso. Puoi essere il sesso opposto. Puoi essere più loquace. Puoi essere semplicemente chi vuoi tu, davvero, chiunque tu abbia la capa­ cità di essere.. ?32 In Internet - questa è l’affermazione - si può essere ciò che si vuole e chi si vuole. Questo ha innanzi tutto ragioni molto banali. Nell’anonimità e nell’immaterialità del medium nessuno può essere fissato alla sua «rea­ le identità» (nel senso quotidiano). Nessuno sarà in grado di richiamare l’attenzione sui caratteri biologici dell’uomo grasso, che si presenta in MUD come una giovane donna attraente. Le persone che s’incontrano qui sono identificate in primo luogo soltanto da descrizioni di sé non verificabili. L’affermazione «tu puoi essere più loquace» segue comun­ que un’altra logica. Infatti, io posso essere più loquace in MUD, solo se effettivamente parlo di più. Che in rete ci si possa rendere una persona­ lità più comunicativa rispetto al «mondo reale» può dipendere solo dal fatto che la propria identità in Internet è meno fissata, dal momento che qui non c’è nessuno che mi conosce già come una timida ragazza che fa solo da tappezzeria. E tuttavia, anche in «rete», per l’accesso al gioco con le identità rima­ ne decisivo il loro riconoscimento sociale. Questo emerge subito nel mo-332

332. Ivi, p. 184.

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mento in cui si domanda agli utenti su cosa si basa la possibilità di sce­ gliersi l’identità: «È più facile cambiare il modo in cui la gente ti percepi­ sce perché tutto ciò che hanno è ciò che si mostra loro», spiega il gioca­ tore intervistato. Questo rivela due aspetti della «vita sullo schermo»: da una parte la mancanza di contesto delle identità su Internet - ci si presenta qui senza passato e senza contesto sociale; d’altra parte il controllo che gli individui hanno sulle loro dichiarazioni. Ora, la logica del «nuovo ini­ zio» che sta dietro al primo aspetto non è particolarmente inusuale e non è in ogni caso esclusiva del nuovo medium. Chiunque abbia cambiato clas­ se o scuola o abbia ricominciato daccapo in una nuova città conosce que­ sta esperienza. Non si tratta quindi di un fenomeno qualitativamente nuovo. La facilità di cambiare e l’assenza di conseguenze rendono queste esperienze in Internet semplicemente più probabili e in generale più ac­ cessibili. Il secondo punto è forse più importante: qui si ha la chance di fare di se stessi qualcosa di diverso rispetto a ciò che si era perché si con­ trollano tutti gli elementi della propria rappresentazione di sé. Gli altri non vedono ciò che non devono vedere. Ma anche questo non è vero in misu­ ra illimitata: c’è infatti da dubitare del fatto che anche qui non ci siano degli elementi del nostro comportamento (per esempio il linguaggio che noi utilizziamo) che involontariamente rivelano cose su di noi. Inoltre, si deve già avere e usare la capacità di chattare in un modo divertente, altri­ menti anche in MUD si verrà ben presto considerati noiosi. Questo è ve­ ro perfino per l’identità di genere: anche questa deve essere per certi ver­ si padroneggiata realmente dal giocatore. Certamente non c’è bisogno di possedere le caratteristiche sessuali primarie o secondarie di un uomo o di una donna per poter agire come tale su Internet; si deve avere piutto­ sto una certa capacità di empatia e di osservazione precisa del comporta­ mento di ruolo del rispettivo genere per essere riconosciuti e accettati come rappresentativi di esso. Questo non è così semplice, ed effettiva­ mente talvolta «viene fuori», come dimostrano quelle «discussioni sma­ scheranti», apparentemente non rare, che vengono riferite dagli intervi­ stati. Certo, gli altri non possono vedere chi sono io, cosa sono «realmen­ te», in senso biologico, ma a maggior ragione devono «credere» al ruolo (sociale) che fingo. Devo quindi riuscire a recitarlo in modo plausibile. Nella «rete» si può quindi fare di sé ciò che si vuole - ma, come nota una delle persone intervistate da Turkle: «Tu puoi essere tutto ciò che sei capace di essere». Questo dimostra che l’utopia della libera costruzione di sé è illusoria e rivela i suoi limiti sotto due aspetti: in primo luogo io pos­

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so fare di me solo ciò che in qualche modo già «sono»; in secondo luogo posso mutare la mia «identità» (anche la mia identità cyber) solo se ven­ go riconosciuto in questo ruolo da altri, da coloro che giocano con me. Le condizioni di questo riconoscimento possono essere soddisfatte in mo­ do più semplice e le possibilità di costruire la mia identità possono esse­ re maggiori sotto vari aspetti, ma in generale le condizioni per creare un’identità sono simili a quelle che valgono all’«esterno». Perché allora le identità che sono prodotte in MUD hanno per i par­ tecipanti un carattere di realtà così forte? Perché è così facile immaginare il mondo online come una «realtà propria, a parte», come evidentemen­ te fanno molti cybernauti333? Ciò può essere ricondotto al carattere ef­ fettivamente intersoggettivo di questa esperienza mediale - che è effet­ tivamente qualcosa di nuovo. Infatti qui si può diventare un altro da quello che si è, e non solo nella propria fantasia (questo è sempre stato possibile per tutti): in Internet la costruzione di sé può entrare in un processo interattivo e acquisire realtà sociale attraverso la reazione de­ gli altri. Così, in ogni caso, come si è detto in precedenza, l’onnipotenza che caratterizza la fantasia privata è posta di fronte a dei limiti. E si po­ trebbe persino affermare che tanto più forte si rivela il carattere di realtà che acquista un tale gioco, tanto più debole è l’onnipotenza, ovvero tanto meno il singolo ha il pieno controllo su ciò che gli accade334. Questo di nuovo suggerisce che anche nella «rete» ci saranno conflit­ ti di ruolo e che anche qui qualche volta si è fissati a ruoli che non ci van­ no più bene (o forse non sono mai andati bene). Anche qui quindi pos­ sono affacciarsi problemi di alienazione, anche se questi possono essere eliminati in modo più facile rispetto alla «vita reale», attraverso un cam­ bio di identità o semplicemente uscendo dal gioco. Ma anche l’opzione dell’uscita dal gioco è meno lineare di quanto possa sembrare: se si osserva

333. Non posso ora soffermarmi su questa concezione problematica, che esigerebbe una discussione del modello di realtà che ne sta alla base. Su questo, comunque, si ve­ da la critica, articolata da un punto di vista fenomenologico, di Lucas D. Introna (1997): «Ogni cybernauta dovrà eventualmente fare i conti con il fatto di essere già da sempre nel mondo» Introna L.D., On Cyberspace and Being: Identity, Self and Hyperreality, in «Philosophy in the Contemporary World», vol. 4, nn. 1-2, 1997, pp. 16-25, p. 57. 334. Da ciò si possono trarre conclusioni interessanti riguardo alla questione della realtà e dell’irrealtà di simili mondi, che non operano con un concetto di realtà ingenuo. E interessante che la caratteristica peculiare della «realtà» sia infatti qualcosa come l’in­ controllabilità.

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l’intensità con la quale i giocatori definiscono la loro identità, formano le reti sociali, competono per lo status, allestiscono i propri rispettivi spazi virtuali come fossero casa propria, e perfino celebrano grandi «matri­ moni» in MUD, ciò parla a favore della tesi che l’abbandono di una simile identità è una cosa tutt’altro che semplice, e causerà costi psichici (ansie di abbandono, mancanza di orientamento, nostalgia). Anche le identità virtuali possono essere minacciate. Da questo punto di vista, Turkle ha qui effettivamente a che fare con un «laboratorio sociale»; il «materiale di base» con cui si sperimenta non è però interamente nuovo. In contrasto con le tesi di Turkle, in ogni caso, le riflessioni dei suoi intervistati toccano la questione dell’autenticità del sé:

Mi sento molto diversa online. Sono molto più estroversa, meno inibita. Direi che mi sento molto più me stessa. Ma questa è una contraddizio­ ne. Mi sento di più quello che desidererei essere335. Quindi, la prassi della moltiplicazione delle identità solleva sempre la domanda su ciò che uno è realmente e questa domanda è connessa a propria volta ad un’idea di unità che deve essere definita più precisamente. Come spiega un impiegato del comune di ventisei anni:

Non sono solo una cosa, sono più di una cosa. Ogni parte riesce ad es­ sere espressa più pienamente in MUD che nel mondo reale. Così anche se recito più di un me stesso su MUD, mi sento più me stesso quando sto su MUD336. Le «molte cose» che egli dice di essere, nella frase successiva sono in­ tese come «parti» e perciò come aspetti del sé che egli è. Ma allora, si può concludere, si tratta meno di una molteplicità reale che non di uno svi­ luppo più ricco e molteplice della propria personalità (proprio nel sen­ so di Schiller e di Marx). Ciò però significa; si tratta di un ampliamento che a sua volta è integrato e deve essere integrato. E si tratta di un gioco con diversi aspetti di un’identità, non della lo­ ro moltiplicazione: è quindi un gioco che dipende sempre dalle presta­ zioni di integrazione di colui che gioca. 335. Truckle S., Life on the Screen, op. cit., p. 179. 336. Ivi, p. 185.

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In Internet, quindi, si possono vivere aspetti della propria persona­ lità che nella vita quotidiana non possono essere vissuti; si è più liberi di provare nuovi orientamenti e nuovi desideri. Tutto ciò in ogni caso non rappresenta una discontinuità, ma una continuità con le esperienze tra­ dizionali della molteplicità e della trasformabilità dell’identità. Ciò si­ gnifica che anche nel caso delle identità su Internet ci sono delle condi­ zioni per un’integrazione riuscita di tali esperienze e quindi dei casi di in­ tegrazione riuscita o fallita - e anche ciò è documentato da Turkle in maniera incisiva. L’autosperimentazione qui descritta sarà produttiva, quindi, solo quando gli individui potranno comprendere questi vari sé come parti ed estensioni della propria personalità, e ciò si dimostra nel fatto che essi passano senza sosta da un’identità all’altra. Altri casi si av­ vicinano invece a esperienze-limite patologiche. Entrambe le tesi, quindi, quella della perdita dell’«autenticità» come grandezza di riferimento, e quella della scomparsa dell’idea tradiziona­ le dell’unitarietà del sé, non possono essere mantenute, per lo meno in base al materiale empirico presentato. Ciononostante, i nuovi media creano sicuramente spazi più ampi e maggiori possibilità di interazione ludica con diverse identità. Ci sono meno limiti imposti a queste possi­ bilità: si possono provare ed ampliare diversi aspetti della propria iden­ tità e della propria immagine ideale con meno conseguenze. E che que­ sto offra l’opportunità di ampliare i propri orizzonti e di approfondire la propria capacità di empatia trova conferma nei resoconti di un ma­ cho confesso che, dopo aver giocato per mesi recitando nel gioco un ruolo femminile, ora sa meglio come si sentono le donne quando sono esposte a stupidi tentativi di approccio o quando vengono loro conti­ nuamente negate determinate competenze. Il mio esame critico dei risultati di Turkle supporta la tesi che ogni concezione del sé plausibile dipende dall’assunzione di un’«unità» e di un’«autenticità» degli agenti (che deve essere più precisamente definita). E in effetti i fenomeni che Turkle descrive suggeriscono una continuità tra le forme «nuove» e quelle tradizionali di relazione con se stessi e con il mondo. Ciò rimanda d’altra parte al fatto che la questione dell’«essere se stessi» e dell’«alienazione» - di una relazione con sé riuscita o non riuscita all’interno della propria esistenza - si pone ancora, anche nelle identità «postmoderne».

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2. Vivere la propria vita - autodeterminazione, realizzazione di sé e autenticità

Qual è il concetto opposto a quello di alienazione? A quali criteri po­ sitivi rimandano quei disturbi che ho descritto come fenomeni di alie­ nazione? E cosa significa poter vivere la nostra vita come la propria, in maniera non alienata? A partire dalla prospettiva sviluppata in questa ricerca la risposta a queste domande è che l’alienazione impedisce una vita in libertà. Noi sia­ mo liberi solo quando possiamo esperire la nostra vita come «propria» in un senso pieno. Il concetto di «alienazione» si riferisce a quei proces­ si e a quei disturbi che impediscono una simile appropriazione della nostra vita. Se l’alienazione è intesa come l’opposto della libertà positi­ va - come «ostacolo centrale» alla «libertà reale»337 - allora è possibile trarre alcune conclusioni per quanto riguarda le varie dimensioni della libertà positiva338. Ma un approccio impostato in questo modo riesce ancora a catturare il problema dell’alienazione come problema indipendente e autonomo, che può essere distinto concettualmente da fenomeni come la mancan­ za di autonomia e l’eteronomia da una parte, e la minaccia all’autenti­ cità dall’altra? E ancora: qual è esattamente il «vantaggio» di una pro­ spettiva sull’alienazione cosi «debole» e «formale»? Se nei capitoli precedenti ho argomentato in favore della possibilità di una ricostruzione del concetto di alienazione da se stessi, ora devo mo­ strare qual è il guadagno che si ottiene da questa prospettiva, e dove ci conduce. Per far ciò dobbiamo innanzitutto esaminare, dalla prospetti­ va della teoria dell’alienazione, quali sono le relazioni esistenti tra i con­ cetti di autodeterminazione, di realizzazione di sé e di autonomia. Que­ sto è il compito del presente capitolo. Condurre la propria vita come la propria vita in senso forte presuppone varie condizioni - e sono proprio queste condizioni che sono tematizzate dal concettosi alienazione. 337 Lukes S., Marxism and Morality, Oxford University Press, Oxford, 1985, p. 80. 338 Raymond Geuss nota che il concetto di libertà positiva comprende, in un modo per lo più non ordinato, tutto ciò che realizza la capacità (appunto positiva) «di essere pa­ droni di se stessi» o «di vivere la propria vita». In una sorta di «cartografia», Geuss rende elementi di una libertà positiva il potere, l’autodeterminazione, l’autenticità e l’autorealizzazione. Cfr. Geuss R., Auffassungen der Freiheit, in «Zeitschrift fiir philosophische Forschung», voi. 49, gennaio-marzo 1995, pp. 1-14.

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La mia tesi guida è quindi la seguente: l’alienazione non coincide con l’eteronomia. La capacità di potere disporre di se stessi o di essere acces­ sibili a se stessi in ciò che si fa - a cui abbiamo contrapposto diverse forme di alienazione da sé - dipende da qualcosa di più dell’autodeter­ minazione. Questa capacità presuppone la possibilità qualificata di de­ terminarsi come qualcosa, di potersi relazionare a qualcosa in modo iden­ tificativo-affettivo e di potersene appropriare. Essa si realizza nel rap­ portarsi a progetti, nel dare forma a progetti nel mondo come «realizzazione delle proprie capacità nel mondo». La prospettiva dell’a­ lienazione conduce, quindi, attraverso un concetto formale di autode­ terminazione, a una concezione materiale che va nella direzione di ciò che possiamo chiamare realizzazione di sé. Il concetto di realizzazione di sé che emerge da questa prospettiva si distingue dai concetti rivali di autenticità - come quelli romantici - in quanto qui la realizzazione di sé è concepita come una capacità che può realizzarsi soltanto nella relazio­ ne con un mondo sociale e materiale. Quindi, la prima parte di questo capitolo illumina la relazione esistente tra l’alienazione e l’eteronomia. Qui voglio riesaminare gli esempi dei pri­ mi quattro capitoli con l’occhio rivolto alla differenza tra eteronomia e alienazione, per poter poi trarre alcune conclusioni circa la relazione tra autonomia ed eteronomia. Nella seconda parte articolerò una concezione della realizzazione di sé che si inserisce nella costellazione di idee che ho descritto e che for­ ma lo sfondo delle analisi che ho finora svolto. Se la realizzazione di sé viene intesa qui come la capacità di dare realtà a se stessi nel mondo in modo autodeterminato, emergeranno allora delle differenze significati­ ve rispetto alle concezioni contemporanee di autenticità «romantica», che io criticherò nella terza parte, confrontandomi con la posizione di Ri­ chard Rorty.

1. Autodeterminazione e alienazione da sé Ci si può autodeterminare e ciononostante essere alienati da se stes­ si? O, viceversa, si può essere eterodeterminati ma allo stesso tempo con­ durre una vita non alienata? In che rapporto stanno eteronomia e alie­ nazione? Ho affermato che l’alienazione da se stessi non deve essere con­

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siderata equivalente all’eteronomia. E tuttavia, non c’è alcun rapporto con se stessi non alienato se non c’è autodeterminazione339. Il problema che qui deve essere spiegato può essere formulato nel mo­ do seguente: quando si è alienati da se stessi non si è determinati da una volontà estranea - e tuttavia non si segue la propria volontà. Formulato in termini kantiani: non si vive né sotto una legge estranea né in accordo con una legge propria. Come va compreso ciò? Per potere spiegare que­ sta descrizione - apparentemente paradossale - torno di nuovo sugli esempi discussi prima. 1) Nel momento in cui il ricercatore di provincia è «incappato» nella sua nuova vita, questi non si è assoggettato a una volontà estranea. Per comprendere il fenomeno illustrato da questo caso è stato decisivo chia­ rire la dinamica propria di questo processo e la reificazione delle situazioni pratiche. Per dirlo con i concetti già introdotti con Tugendhat (secondo cui l’autodeterminazione significa «porsi la domanda pratica'. Che cosa devo fare?»): se la situazione del ricercatore deve essere intesa come «rei­ ficante», ciò non è perché alla domanda pratica risponde qualcun altro invece che egli stesso, ma perché non viene posta affatto. La possibilità di vedere qualcosa come potenziale oggetto di una decisione presuppo­ ne la domanda di chi decide o a cosa ci si orienta in questa decisione. La possibilità di percepire uno spazio in cui è possibile porsi domande pra­ tiche è quindi il presupposto per poter porre queste stesse domande e dar loro una risposta. L’alienazione non consiste quindi - come l’Eteronomia - nel fatto che alle nostre domande pratiche rispondono altri, ma neW oscuramento delle domande pratiche stesse. Chi si fa semplicemente trascinare dalla propria vita, non solo vive senza determinare se stesso, ma in realtà non vive affatto340. 2) Anche l’appropriazione di ruoli, che è stata tematizzata nel secon­ do esempio, va al di là del problema dell’eteronomia. Sebbene chi reci­ ta un ruolo qui abbia un rapporto puramente strumentale con le sue azio­ ni, è pur sempre lui a decidere prima facie. Anche se egli agisce in accordo con una «legge estranea», ossia con la legge del ruolo, per potere far

339. Nella prima parte ho definito questo aspetto la caratteristica centrale del proble­ ma dell’alienazione nella modernità. 340. Si può denominare questo fenomeno come «eteronomia strutturale» - senza un’ul­ teriore spiegazione non è chiaro, tuttavia, cosa questo significhi. Sono meno interessa­ ta qui alla terminologia che non alla struttura del fenomeno.

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proprie le sue azioni in modo non alienato ha bisogno di qualcosa di più della semplice liberazione da un dominio estraneo. Qui la qualità del­ la possibile appropriazione di un ruolo dipende anche dall’identificazione, dalla capacità di espressione e dal coinvolgimento in ciò che ac­ cade. Quindi, anche qui, per colui che recita un ruolo in modo inauten­ tico, il problema non è solo che le risposte alle sue domande pratiche sono già date da altri, ma che egli in generale ha problemi a porre tali domande. 3) Anche nel caso della femminista scissa, noi vediamo che prendere decisioni autonomamente non è sufficiente per vivere la propria vita co­ me propria. È necessario piuttosto prendere decisioni che si possano comprendere come proprie ed essere guidati in ciò da desideri e da im­ pulsi con cui ci si può identificare. Sebbene nel caso di H. la volontà con cui si trova in conflitto sia prima facie la sua stessa volontà, lei sente tuttavia di essere dominata da un potere estraneo. In questo caso, il confine tra una legge estranea e una legge interna passa all’interno della stessa persona. La persona scissa non vive la propria vita, in quanto non è chiaro in generale chi in realtà la stia vivendo. Per lei, di fronte alla domanda «cosa devo fare?» non c’è soltanto una, ma molte risposte tra loro contraddittorie, che sembrano appartenere a diverse persone. L’au­ todeterminazione presuppone quindi l’identificazione con se stessi. Questa a propria volta si basa, come avevo argomentato, su una forma di accessibilità a se stessi, che d’altra parte mostra come sussistano for­ me di padronanza di sé in cui tuttavia si può essere alienati da sé. Chi è rigido è padrone di sé e dei suoi stessi desideri - ma lo è forse troppo341. Dalla prospettiva del problema dell’alienazione non si pone dunque soltanto la domanda se, ma anche come si domini se stessi. 4) Infine il caso di Perlmann mostra che, anche di qualcuno che non prova interesse per la propria vita, che accetta ciò che gli accade con in­ differenza e disinteresse, non possiamo dire che conduca una vita auto­ determinata o autonoma. Se l’indifferenza significa non avere alcun de­ siderio, alcuna pretesa e alcun interesse nei confronti del mondo - in che senso allora una relazione con il mondo partecipativa, capace di imprimergli una forma, è una condizione necessaria per essere una per­ sona autodeterminata? Il problema di Perlmann non è quello di non poter determinare egli stesso ciò che fa; il suo problema è che egli non 341. Lòw-Beer M., Rigiditàt, inedito, Berlin, 2001.

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può determinarsi in qualcosa di determinato. E proprio questa situazio­ ne gli impedisce di esperire la propria vita come propria. Anche qui non è quindi qualcun altro che risponde alle «domande pratiche» della sua vita: colui al quale le domande quanto le risposte appaiono senza si­ gnificato, in ultima istanza, non si pone nessuna domanda. Le conclusioni delle mie analisi finora svolte possono essere sintetiz­ zate nel modo seguente: condurre la propria vita significa portare avanti in essa progetti che vengono perseguiti in un modo autodeterminato, che si possono fare propri e con i quali ci si può identificare affettivamen­ te. Ciò include in primo luogo la relazione con il mondo, nella misura in cui essa implica che il mondo, e ciò che si fa in esso, siano esperiti come qualcosa che ha un significato. In secondo luogo, ciò ci ha condotti a una comprensione complessa di quando si è padroni di sé nel rapporto con sé, ossia padroni dei propri desideri e delle proprie decisioni. In ter­ zo luogo ciò rimanda alla questione della qualificazione dei progetti e del come li si persegue: su ciò dovrò tornare discutendo il concetto di realizzazione di sé. Per essere capaci di porre la domanda pratica «che cosa devo fare?» io devo a) poterla identificare come tale e come possi­ bilità, b) essere interessato a essa (e a una sua riposta), c) essere in accor­ do con me stesso (in quanto colui che si pone questa domanda). La pro­ spettiva dell’alienazione può cogliere così quelle che si possono definire le condizioni materiali di realizzazione dell’autonomia.

Autonomia etica

La recente discussione sull’autonomia «etica» o «personale» - che vo­ glio qui ripercorrere a larghi tratti attraverso una breve panoramica sul­ le posizioni più influenti - condivide molti dei problemi che sono stati discussi qui. Muovendo dalla tesi che l’autonomia non si ha semplicemente, ma la si deve piuttosto acquisire e realizzare, questa discussione mira a una concezione dell’autonomia «più ricca di contenuto», a volte persino «perfezionistica». In questo senso, nel suo saggio A Theory of Freedom042, S.I. Benn con342. Benn S.L, A Theory of Freedom, Cambridge University Press, Cambridge 1988. Questo approccio è già sviluppato in Id., Freedom, Autonomy and the Concept of a Person, in «Aristotelian Society Proceedings», vol. 76, 1975, pp. 109-130.

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cepisce l’autonomia come un ideale. A differenza della condizione di autarchia, caratterizzata soltanto da una fondamentale indipendenza del­ la scelta e della decisione personale, che richiede soltanto il soddisfaci­ mento delle condizioni minime di una razionalità cognitiva e pratica, l’autonomia, all’opposto, designa l’ideale di una vita auto determinata che va al di là di queste condizioni minime. In un senso più ampio ri­ spetto a chi è meramente indipendente, chi è autonomo è «l’autore del­ la propria personalità»343 e con ciò l’autore della propria vita. Mentre il convenzionalista autarchico accetta le istanze del mondo in modo acri­ tico e irriflessivo, chi è l’autore autonomo della propria vita esamina ciò che fa nel contesto di una condotta sperimentale e riflessiva della propria vita. Con questa idea, Benn solleva la domanda di cosa rende qualcosa la «propria legge», ma nel far ciò rimane focalizzato sul problema del convenzionalismo, e quindi si orienta al problema dell’influsso degli al­ tri che non viene esaminato criticamente. Nella concezione dell’autonomia di Gerald Dworkin e di John Christ­ man (che condivide con Harry Frankfurt l’idea di una relazione riflessiva con sé, o caratterizzata da due livelli) la necessità di identificarsi con i pro­ pri desideri gioca un ruolo fondamentale per la riuscita dell’autodetermi­ nazione344. Anche qui i propri desideri e i propri orientamenti non sono con­ siderati, senza esame critico, come standard validi per definire un agire au­ todeterminato; la domanda fondamentale è piuttosto quali dei propri orientamenti possano essere considerati realmente «propri». Secondo que­ sto approccio, quindi, l’autonomia si basa tanto sulla capacità di valutare criticamente e di riflettere sui propri desideri, quanto sulla corrispondente assunzione di responsabilità riguardo ad essi. Questa capacità può essere minacciata da manipolazione, condizionamento sociale o disintegrazione psichica, di modo che anche in questa discussione si può notare un interesse per lo svelamento di quegli influssi che minano l’autonomia. Così, la «full formula for autonomy» di Gerald Dworkin recita:

Una persona è autonoma se s’identifica con i propri desideri, con i pro­ pri scopi e valori, e se questa identificazione non è influenzata in modi

343. Benn S.L, A Theory of Freedom, op. cit., p. 155. 344. Dworkin G., The Theory and Practice ofAutonomy, Cambridge University Press, Cambridge 1988; Christman J., The Inner Citadel, Oxford University Press, New York, 1989.

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che rendono il processo d’identificazione in qualche modo estraneo al­ l’individuo345. Cosa, all’interno di questa teoria dell’autonomia, renda il processo d’i­ dentificazione «estraneo all’individuo» è definito da Dworkin conside­ rando il processo di riflessione (non quindi il contenuto, ma la procedura della formazione della volontà): questo deve essere libero da manipola­ zione e da costrizione. In modo del tutto simile, John Christman concepisce i presupposti dell’autonomia con lo sguardo rivolto alla formazione non manipolata delle preferenze:

Essere padroni di sé significa qualcosa di più dell’avere un certo atteg­ giamento nei confronti dei propri desideri del momento. Significa inol­ tre che i propri valori sono formati in una maniera o in un processo su cui si aveva (o si poteva avere) voce in capitolo346. Il limite di questa discussione, in ogni caso, consiste (come abbiamo già visto nel capitolo 3 della parte II) nel fatto che i propri desideri sono concepiti esclusivamente come quelli generati in assenza d’influssi ester­ ni o di manipolazioni, così che un’identificazione riuscita con se stessi viene ridotta in ultima istanza all’assenza d’influssi manipolatori, e in questo modo è definita in termini puramente negativi. L’identificazione con se stessi diventa quindi l’assenza di repressione, ma così essa non può essere spiegata nella sua dimensione positiva. E, troppo facilmente, que­ ste posizioni rimangono focalizzate sul problema del convenzionalismo e dell’influsso degli altri, così che tale influsso è assunto come la sorgen­ te principale dell’eteronomia. Joseph Raz, infine, sviluppa un concetto di autonomia personale che insiste sull’opposto del «lasciarsi trascinare» (che è stato importante anche nella mia discussione): «l’autonomia personale contrasta con una vita senza scelta o con il lasciarsi trascinare per la vita, senza eser­ citare la propria capacità di scelta»347. Come abbiamo visto, queste af­

345. Christman J., op. cit, p. 7. 346. Ivi, p. 346. 347. Raz J., The Morality of Freedom, Oxford University Press, Oxford, 1986, p. 371, corsivo mio.

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fermazioni non risultano immediatamente dal concetto stesso di auto­ nomia. Ciò significa che quello di Raz è un concetto di autonomia molto ampio, ricco di contenuto e «perfezionistico», che difficilmen­ te può essere compreso - così come nei casi da me discussi - come concetto simmetricamente opposto a quello di eteronomia: è un con­ cetto che va nella direzione di una teoria della realizzazione di sé. In altri termini: anche la concezione di Raz presuppone un concetto di alienazione. Se Raz definisce l’autonomia come la capacità di essere au­ tori della propria vita - di dare a essa una forma e un significato - non sta affermando soltanto che la persona autonoma deve dare forma al­ la sua vita in modo attivo e indipendente. Sta affermando anche che la persona autonoma deve pensare che nella propria vita ne vada di qualcosa. L’idea che l’autonomia si basi sull’avere a disposizione delle possibilità di scelta significative è una componente importante della critica al concetto diluito-liberale di autonomia348 - e tuttavia, sono pro­ prio questi «arricchimenti» del concetto di autonomia a essere con­ troversi. Così, ogni approccio che si rifà ad un simile concetto di au­ tonomia è messo di fronte al compito di esplicitare la relazione tra l’autonomia e la sua realizzazione. Si può comprendere questa connessione con l’aiuto di un tema hege­ liano (che ho già trattato nell’introduzione) : la capacità di autodetermi­ nazione dipende, in primo luogo, dalla capacità di riflessione che, nel processo denominato da Hegel nei Lineamenti della Filosofia del diritto «purificazione degli impulsi», affranca la volontà libera dalla sua condizionatezza naturale e con ciò dalle costrizioni del mero reagire a ciò che è già dato. In secondo luogo, essa dipende da una realizzazione in cui la propria volontà si dà una realtà. Sullo sfondo del concetto di cultura (Bz7dung) (così come Hegel lo definisce nel § 187 dei Lineamenti della Filo­ sofia del diritto) questa realizzazione nel mondo rappresenta il «lato materiale» (e la concretizzazione) dell’autodeterminazione. Determina­ re se stessi, quindi, significa determinarsi in qualcosa. Se, per Hegel, l’autodeterminazione non è localizzata nelle mere preferenze della «li­ bertà dell’arbitrio», ma è da pensare piuttosto come un processo di li­ berazione in cui ciò che inizialmente è meramente dato è reso qualcosa 348. Così, per esempio, con l’aiuto dell’idea di possibilità di scelta significative può essere differenziato un pluralismo dei valori autentico da uno falso di un mondo «uni­ dimensionale» nonostante tutta la varietà.

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di «proprio», allora questo processo di estinzione attraverso il lavoro (Abarbeitung) dell’estraneo dev’essere allo stesso tempo concepito come un’appropriazione del mondo. Il fatto che questa appropriazione sia concepita come un’attività pratica è reso manifesto dal concetto di «cul­ tura»: nella trasformazione del mondo l’individuo forma anche se stes­ so. Forma se stesso nel e con il mondo, giunge «a sé» solo attraverso la mediazione del mondo. Più avanti approfondirò più dettagliatamente la concezione di realiz­ zazione di sé, i cui tratti dovrebbero essere già divenuti chiari sullo sfon­ do della mia discussione precedente. Quando qui ho parlato di «realiz­ zazione di sé», non si trattava della realizzazione del proprio sé dato, che sta a fondamento della persona, ma di un realizzarsi perseguendo i propri progetti, dandosi così realtà in questo riferimento identificativo, nelle proprie attività e nell’«appropriazione» del mondo. Senza potere esporre in questa sede una concezione complessiva della realizzazione di sé, mi concentrerò su due aspetti decisivi per la teoria dell’alienazio­ ne: il nesso tra la realizzazione di sé e l’autodeterminazione e il rappor­ to con il mondo, presupposto dal modello della realizzazione di sé che qui è stato presentato.

2.

Realizzazione di sé e appropriazione del mondo L’individuo non può sapere che cosa esso è, prima di es­ sersi tradotto, mediante l’attività, nella realtà G.W.E

Hegel

Il concetto di realizzazione di sé che emerge dalle riflessioni che ho fin qui compiuto si differenzia da un uso diffuso del termine, secondo cui l’orientamento alla realizzazione di sé farebbe parte di una «cultura del narcisismo» (Christopher Lasch). Esso si differenzia anche da quelle comprensioni per le quali l’orientamento alla realizzazione di sé rap­ presenterebbe l’atteggiamento di individui egocentrici, che si vogliono realizzare nella propria ossessione, senza alcuna considerazione per i bisogni e per i diritti degli altri. D’altra parte, seguendo il modello antiessenzialistico «dell’appropriazione» sviluppato prima, la compren­ sione della realizzazione di sé deve mirare anche a qualcosa di diverso dalle idee di una «crescita interiore» o da uno sviluppo interiore conce­

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pito in termini teleologici. Il concetto di realizzazione di sé che svilup­ però qui segue una tradizione che, come è stato detto da Adorno, non è focalizzata su un «culto dell’individualità» che «come una pianta deve essere innaffiata per poter fiorire»:

Per tutti loro (Kant, Goethe, Hegel) il soggetto perviene a se stesso non attraverso la preoccupazione, narcisisticamente controriferita a se me­ desimo, per il suo essere-per-sé, bensì attraverso l’estraneazione, attra­ verso la dedizione a ciò che lo stesso soggetto non è349. In rapporto al concetto di realizzazione di sé si pongono quindi di­ verse domande: cosa è che si realizza qui quando si parla di realizzazio­ ne di sé? In che senso ci dobbiamo (o questo «sé» si deve) in primo luo­ go realizzare e come accade ciò? Per rispondere a queste domande svi­ lupperò solo qualche breve osservazione. Dalle analisi condotte finora è emersa una concezione della realizza­ zione di sé come realizzazione dell’individuo nel mondo o mediante il mondo. In questo senso, la realizzazione di sé non consiste solo nello sviluppo delle proprie capacità. Mediata da queste «capacità e poten­ zialità», la realizzazione di sé significa piuttosto un processo di appro­ priazione attiva del mondo. Quindi, la realizzazione di sé non è intesa co­ me una realizzazione di qualcosa né come una forma di «crescita inte­ riore» o di «sviluppo» (come per esempio nella «psicologia umanistica»), ma come un modo di divenire attivi. Non si realizza se stessi ma ci si realizza in ciò che si fa. Ci si deve realizzare in quanto solo attraverso questa «esteriorizzazione» si passa «dalla notte delle possibilità al gior­ no della realtà» (Hegel). Ora, «realizzare se stessi» in un’attività sembra essere un modo spe­ cifico di essere attivi. Non ci si realizza in tutto ciò che si fa. Come pos­ sono essere identificate allora quelle attività o quei modi di essere attivi nei quali noi «possiamo realizzare noi stessi»? Pensare che qui si tratti so­ lo di attività particolarmente importanti o impegnative sarebbe fuor­ viarne. Un’attività diventa un eventuale candidato per la realizzazione di sé solo in base alla struttura che le inerisce. Per potersi realizzare in

349. Adorno T.W., Parole chiave. Modelli critici, trad. it. Agrati M., SugarCo Edizioni, Milano, 1974, p. 73.

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un’attività, questa la mia tesi, devono essere soddisfatte due condizioni che Friedrich Kambartel sintetizza nel modo seguente:

Noi ci realizziamo nelle azioni che facciamo per se stesse, sulla base di de­ cisioni proprie, cioè sulla base di una decisione che compiamo in ragio­ ne della sua relazione con la nostra vita350. Con questa definizione, Kambartel si riferisce a due aspetti della rea­ lizzazione di sé tra loro correlati. In primo luogo, le attività nelle quali sia­ mo capaci di realizzare noi stessi devono essere auto-determinate o au­ tonome'. per poter realizzare me stesso, devo poter porre io stesso i miei fini. D’altra parte, gli atti di realizzazione di sé devono avere fini di un certo tipo, che noi perseguiamo per se stessi. La prima condizione può sembrare relativamente banale. Da una parte, essa esclude dal dominio delle attività in cui posso «realizzare me stessa» quelle attività nelle quali sono determinata o costretta da altri (o da ciò che è più in generale un «altro»).

Chi conduce la propria vita in modo tale da seguire soltanto richieste e aspettative altrui, in particolare oggettivate, manca - come possiamo di­ re - se stesso351. D’altro lato, il legame tra autodeterminazione e realizzazione di sé così stabilito può servire a marcare il confine tra la concezione moderna della realizzazione di sé e le concezioni premoderne del «compiere i propri scopi essenziali» o di una vita dotata di significato. Il fatto di po­ tersi realizzare nelle proprie attività non può essere considerato uguale allo svolgere delle attività oggettivamente significative, ricche di senso e piene di significato. Un’attività può infatti essere ricca di significato sul­ la base di criteri esterni o significativa in senso sovraindividuale: ma fin­ ché non ci si è esplicitamente appropriati di questo senso non ci si realizza in esso, ma si realizza altro - per esempio un’idea352. 350. Kambartel E, Universalitàt als Lebensform, in Id., Philosophic derhumanen Welt, Suhrkamp, Frankfurt am Main, 1989, p. 24. 351. Iw, p. 22, 352. Un esempio di attività significative ma non autodeterminate lo offre il film di Tarkovskij Andrej Rublev, che descrive il processo complicato ed elaborato del fonde­ re una campana in un villaggio medievale. Il processo di lavoro qui si avvicina a un ri-

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La seconda dimensione della realizzazione di sé, il carattere fine a se stesso o «intrinseco» delle attività nelle quali ci si può realizzare necessi­ ta di una spiegazione ulteriore. L’idea che un’attività può essere un fine in sé, deriva dalla distinzione aristotelica tra due forme di attività: quel­ la che viene compiuta per se stessa e quella che viene compiuta in fun­ zione di altro. La mia tesi è che noi «realizziamo noi stessi» in un’atti­ vità nella misura in cui la svolgiamo per se stessa, non la compiamo cioè solo come un mezzo per qualcos’altro. (Così anche Tugendhat riformu­ la l’idea del «lavoro non alienato» nei termini del concetto aristotelico di «valore intrinseco»: un’attività è alienata nella misura in cui non la si svolge o non là si può svolgere solo come fine a se stessa)353. Ciò implica che la differenza tra la realizzazione di sé e l’alienazione può essere descritta come una differenza tra i rapporti o i modi di vive­ re fini a se stessi e quelli strumentali. Questo è anche il significato che sta dietro la tesi di Kambartel, secondo cui si fallisce o si perde il fine della realizzazione di sé non solo quando non possiamo porre noi stessi i nostri fini, ma anche quando {noi stessi!) consideriamo le nostre atti­ vità e così, in ultima istanza, la nostra vita in generale, solo come mezzo per un fine. Possiamo parlare di realizzazione di sé solo quando nella nostra vita facciamo cose fini a se stesse o, più precisamente: laddove orientiamo la nostra vita nella sua totalità a fini che perseguiamo come fi­ ni in sé e non in vista di altro. Ora, però, non è mai possibile evitare completamente le azioni fon­ date su una razionalità rispetto allo scopo (ossia orientate al raggiungi­ mento di uno scopo esterno). È infatti verosimile che il raggiungimento

di ciascuno scopo sia preceduto da «catene di azioni» nelle quali non tut­ ti gli elementi hanno un valore intrinseco. (Anche per suonare il pia­ noforte con il puro scopo di suonare devo fare esercizi con le dita che ese­ guo solo in vista del fine a essi esterno, ossia per acquisire l’abilità tecnituale: condotto religiosamente, in modo dotato di senso e comunitario. E il creatore (o il costruttore) della campana non solo concepisce la sua attività come una sorta di culto, egli ha anche bisogno, come viene suggerito, di un’ispirazione mistico-divina. Dal momento però che per gli individui non c’è alcun margine di libertà nel rapportarsi a questo lavoro, e questi sicuramente non conducono una vita «autodeterminata» nel senso odierno, mi parrebbe tuttavia inadeguato definire questo processo lavorativo come un atto di realizzazione di sé. Ciò che si realizza in questo lavoro è un’idea più alta, non però il lavoratore stesso. 353. Tugendhat E., Autocoscienza e autodeterminazione. Interpretazioni analitiche, op. cit., p. 212.

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ca per poi suonare una sonata di Beethoven). Le possibilità della realiz­ zazione di sé sono però minacciate precisamente nel momento in cui si cade in un «circolo teleologico», ossia in una situazione in cui si fa ogni cosa soltanto al fine di un’altra, senza mai legare una cosa a uno «scopo ultimo», a un fine rispetto al quale non si può più ulteriormente do­ mandare: a che scopo lo faccio? Quando questa dinamica caratterizza una vita intera ciò conduce a una struttura fatale:

Noi comprendiamo allora il nostro agire e con questo la nostra vita at­ tuale solo come mezzo in vista dello scopo di un’altra azione e di un’al­ tra vita, in cui soltanto noi siamo noi stessi354. Quindi, sebbene un agire razionale rispetto allo scopo sia sempre parte del perseguimento dei fini di una vita, esso è sensato solo quando sfocia in un agire che conduce a uno scopo che non è a sua volta un mezzo per qualcos’altro, ma è perseguito come un fine, per se stesso. Perché allora si è «alienati» in un’attività, e quindi si è alienati da se stessi in essa, se questa attività non «ha in sé» il suo scopo? Se qualcosa è un mero mezzo, allora ciò è indifferente, interscambiabile. Nel conte­ sto del problema del lavoro alienato Andreas Wildt elabora questo pun­ to nel modo seguente:

Ciò [...] che è un mero mezzo è indifferente per l’agente in un senso decisivo: esso potrebbe essere sostituito da qualsiasi altra cosa, da un qualsiasi altro mezzo adatto allo scopo, senza perdita alcuna355. La realizzazione di sé si basa su un rapporto non strumentale con le proprie attività e si compie in attività che non vengono intese in termini esclusivamente strumentali. Anche la realizzazione di sé può essere in­ tesa come un concetto che si riferisce alla realizzazione delle azioni, sen­ za alcuna indicazione di contenuto o sostanziale riguardo a ciò che si­ gnifica condurre una «vita buona»: si tratta meno di che cosa quanto di come qualcosa è realizzato, ovvero di come noi ci realizziamo compien­ do le nostre azioni. 354. Kambartel, op. cit., p. 24. 355. Wildt A., Die Anthropologic des jungen Marx, inedito, Studienbrief der Fern Universitàt, Hagen, 1987.

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3. Alienazione da se stessi e unicità

Muovendo dall’assunzione che, per rendere reale la propria autode­ terminazione, le persone devono «darsi una realtà nel mondo», siamo ap­ prodati a un concetto di realizzazione di sé che non si limita a concepi­ re quest’ultima come «realizzazione dell’individualità» ma piuttosto la collega al «mondo». Se consideriamo le implicazioni di questo concetto di realizzazione di sé vediamo che dobbiamo distinguere tra concetti di realizzazione di sé in «assenza di mondo» e realizzazione di sé «monda­ ne». La realizzazione di sé significa in un caso realizzare se stessi, realiz­ zare se stessi come individuo unico; nell’altro caso significa realizzare se stessi in qualcosa, quindi passando per la mediazione dell’attività nel mondo o del contatto con esso (seguendo Theunissen, queste due con­ cezioni possono essere contrapposte come una variante hegeliana e una variante post-hegeliana della realizzazione di sé)356. Più avanti, sullo sfondo della posizione qui sviluppata, criticherò una delle più influenti concezioni contemporanee della realizzazione di sé o dell’autenticità, perché «senza mondo»357. Con ciò mi riferisco a quel mo­ dello di «autenticità romantica»358 in cui la realizzazione di sé è intesa come realizzazione di un’unicità individuale o di un’«originalità». Seguendo la concezione di realizzazione di sé che ho sviluppato fin qui, «vivere la propria vita» - vivere in un modo non alienato o realiz­ zare la propria vita - non significa, in primo luogo, realizzare se stessi come individui «unici» nel senso della concezione romantica di autenti­ cità. Non voglio con questo contestare l’esistenza di un’unicità degli in­ dividui né criticarla (subordinando l’individuo all’universale). Voglio so­ lo rendere l’idea di questa unicità meno «drammatica». L’«unicità» del­ l’individuo, questa è la mia tesi, non può essere direttamente afferrata, perseguita o intesa. L’unicità dell’individuo è semplicemente un pro­

356. Theunissen M., Selbstverwirklung und Allgemenheit, op. cit. 357. Utilizzo qui intenzionalmente il concetto generale di mancanza di mondo per esprimere il fatto che ciò che è in questione sono le relazioni con gli altri e più in ge­ nerale con «l’altro» - ossia con il mondo-ambiente (Umwelt) e con il mondo-del-con (Mitwelt) Heidegger - e il fatto che, a parer mio, entrambi rischiano di andare perdu­ ti nell’autoreferenzialità della posizione che qui viene discussa. 358. Questo è un uso un po’ vago del termine «romantico», che però si trova nello stesso Rorty, che definisce la sua posizione come quella di un «intellettuale roman­ tico».

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dotto secondario della realizzazione di se stessi nel mondo in modo au­ tonomo. In quanto segue, mi limiterò a discutere la posizione di Ri­ chard Rorty, il più interessante fautore contemporaneo di un «indivi­ dualismo romantico»359. La posizione di Rorty mi sembra particolar­ mente sofisticata nella misura in cui unisce insieme liberalismo, romanticismo e postmodernismo e ci permette di vedere in maniera particolarmente chiara i punti di disaccordo rispetto all’approccio fa­ vorito dalla teoria dell’alienazione.

Autenticità e originalità (Rorty) Rorty identifica la possibilità di essere «se stessi» o di condurre una «vi­ ta realmente propria» con l’idea dell’unicità dell’individuo: realizzarsi co­ me individui significa fare di se stessi qualcosa di «originale» che non può essere scambiato con nient’altro di già esistente. Il più grande «or­ rore»360 per l’individuo (che Rorty stesso descrive in termini «romanti­ ci») consiste nel dovere riconoscere che egli è una mera copia:

Invece di aver impresso il proprio segno sul linguaggio si sarebbe pas­ sata la vita a farsi strada fra materiali già inventati. Così non si sarebbe avuto veramente un io. Le proprie creazioni e il proprio io sarebbero solo esempi più o meno buoni di una tipologia nota361. Avere un «io proprio» significa quindi essere unici. La vita unica è con ciò prima di tutto una vita che si differenzia da tutte le altre e da tutte quelle che ci sono state; ciò che viene realizzato qui è il nuovo, rispetto a cui non ci si sono né predecessori né standard. Così Rorty fa del «for­ te poeta» Harold Bloom, che riesce a inventare un linguaggio proprio, il paradigma dell’individualità. L’individualità significa riuscire a vivere le idiosincrasie. • 359. Eberlein U., Linzigartigkeit. Das romantische Individualityskonzept der Moder­ ne, op. cit. 2000. 360. Rorty cita qui Harold Bloom, che parla dell’«ansia del forte poeta di essere in­ fluenzato, e del suo orrore nel dover riconoscere di essere solo una copia o una repli­ ca», Rorty R., La filosofia dopo la filosofia. Contingenza, ironia e solidarietà, trad. it. Boringhieri G., Laterza, Roma-Bari, 1990, p. 55. 361. Ivi, p. 34.

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Rorty propone un modello di produzione di sé estetico-sperimenta­ le, che può essere inteso come un’attuale versione antiessenzialista di una concezione romantica di autenticità che non si appella all’idea di «inte­ riorità». Egli combina il culto romantico del genio con un’idea che pro­ viene da Nietzsche: non si tratta di trovare la propria individualità ma di crearla e di darle forma. Ora, il punto decisivo nella concezione di Rorty è che essa cerca di mi­ tigare le possibili conseguenze antisociali di una simile concezione radica­ le dell’individualità (dal ritiro indifferente fino a un amoralismo aperta­ mente elitario) attraverso un deciso pladoyer in favore della divisione tra privato e pubblico, e tra individuale e universale. Il fatto di sviluppare e vivere «fantasie idiosincratiche» è pensato come esperimento privato, e non come esperimento politico. L’autenticità è una questione di «autono­ mia privata». Per Rorty, questa differenza tra pubblico e privato è neces­ saria affinché entrambe le sfere si sviluppino e coesistano una accanto al­ l’altra senza nuocersi a vicenda. I progetti di vita sperimentali, perseguiti nei luoghi privati del ritiro dal mondo, possono essere idiosincratici pro­ prio perché rimangono (e devono rimanere) privati. Ciò che Rorty cerca di evitare con la propria concezione è la trasposizione di questa idea di au­ tenticità alle comunità politiche. Nell’ordinaria amministrazione della vi­ ta comune all’interno delle comunità politiche devono vigere le regole procedurali delle istituzioni liberali; le aspirazioni perfezionistiche alla rea­ lizzazione di sé individuale appartengono all’ambito degli esperimenti privati. Cosi Rorty caratterizza la figura degli «intellettuali romantici» che riescono ad attuare questa divisione tra pubblico e privato:

Un’intellettuale di questo genere trova la sua identità morale, vale a dire il senso della propria relazione con la gran parte dei suoi simili, nelle isti­ tuzioni democratiche in cui vive. Ma lei non pensa che nella sua identità morale si esaurisca la propria descrizione di sé. Perché non pensa che il suo modo di comportarsi nei confronti degli altri esseri umani sia la cosa in assoluto più importante per se stessa. La cosa più importante invece è il suo rapport à soi, la privata ricerca della propria autonomia, il suo rifiu­ to di poter venire descritta esaustivamente tramite parole applicabili a chiunque altro362. 362. Rorty R., Identità morale e autonomia privata: il caso di Foucault, in Id., Scritti fi­ losofici, voi. il, trad. it. Agnese B., Laterza, Roma-Bari, 1993, pp. 261-262.

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Quando più avanti criticherò il modello di autenticità proposto da Richard Rorty, mi interesseranno meno le conseguenze sociali e morali della sua posizione, il suo relativismo, spesso discusso, o la sua negazio­ ne di una fondazione ultima dell’universalismo morale. Ciò che m’inte­ ressa è la plausibilità del modello di autenticità che sta alla base della sua teoria. Criticherò perciò due aspetti della concezione di Rorty: l’autoreferenzialità, che deriva dall’«assenza di mondo», e la rivendicata «privatezza» degli esperimenti di vita individuali.

Unicità e interesse

E la mancanza di originalità ciò che ci impedisce di vivere la nostra vita come una vita propria? La nostra ricerca di «autonomia privata» fallisce quando non riusciamo a comprenderci come esseri unici? Ernst Tugendhat ha criticato la concezione dell’individualità come unicità nel modo seguente:

Chi si ponesse in maniera autonoma la domanda, concernente la pro­ pria identità qualitativa: «che uomo sono e che uomo voglio essere?», giungerebbe difatto a delle conclusioni che lo farebbero sembrare uni­ co, ma chi facesse dell’unicità il problema e mirasse&A. essa, introdurreb­ be nel problema della verità un fattore estraneo alla questione: lo scopo della domanda, invece di essere unicamente: «qual è realmente la situa­ zione riguardo alla mia esistenza e a quella degli altri e quale potrebbe es­ sere la situazione migliore?», sarebbe: «come posso distinguermi dagli altri?» - ci si preoccuperebbe, cioè, di una «contrapposizione commi­ surante» che Heidegger ha attribuito (secondo me a ragione) al modo dell’inautenticità363364 . Martin Lòw-Beer riprende questa tesi - ossia chj l’unicità non assi­ cura una prospettiva sensata a partire dalla quale rispondere alla do­ manda su come si voglia vivere - nel suo saggio Sind wir einzigartig? Zum Verhdltnis von Autonomie und Individualitdt5^ e la utilizza per argo­ 363. Tugend hat E., Autocoscienza e autodeterminazione. Interpretazioni analitiche, op. cit., p. 296. 364. Low-Beer M., Sind wir einzigartig? Zum Verhàltnis von Autonomie und Individualitàt, in «Deutsche Zeitschrift fiir Philosophic», voi. 42, n. 1,1994, pp. 121-139.

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mentare contro l’idea di Rorty dello sviluppo di sé negli esperimenti di vita privati. Questa idea, egli argomenta, è «troppo debole»:

Nessuno è soddisfatto semplicemente perché è originale. L’individua­ lità non può consistere nell’obiettivo di esser essenzialmente diversi da ogni altro; un individuo non può darsi pace perché sa che «non è una copia». Non è chiaro come questo da solo possa essere soddisfacente. Contro Rorty bisognerebbe perciò mostrare che egli spiega in un modo erroneo ciò a cui gli esseri umani mirano nello sviluppo della propria individualità365. Voglio rafforzare questa supposizione: ciò che rende la descrizione del­ l’individualità di Rorty «debole», tra le altre cose, è il suo oscuramento del fatto che l’individualità si sviluppa solo in relazione con qualcosa o nel coinvolgimento in qualcosa, e che gli individui per questa ragione pos­ sono realizzarsi solo rapportandosi a qualcosa - ovvero al mondo. Il giovane accademico con il quale ho cominciato la mia analisi non è «alienato da se stesso» perché la sua vita assomiglia a quella di molti al­ tri - perché sarebbe «una mera copia» - ma piuttosto perché in questa vita non è presente in un modo specifico. L’esistenza di convenzioni può di fatto aver favorito l’«irrigidimento» della sua vita, ma ciò non è identico al processo di irrigidimento che ho analizzato. Anche il comportamento di ruolo (visto nel capitolo 2 della parte II) può essere interpretato in questo modo: chi si conforma ai ruoli non è inautentico perché è una copia, ma perché non ha un interesse reale, ma solo strumentale, per ciò che fa. Anche qui il conformismo è un ef­ fetto o una conseguenza, ma non la causa. Allo stesso modo l’unicità, quando appare, è una conseguenza e un prodotto secondario del reale interesse per qualcosa, un risultato del «lasciarsi prendere» dai proble­ mi che emergono con i progetti che si perseguono. Anche ciò che è «nuo­ vo» sorge come prodotto secondario. Se il recitare un ruolo in un modo autentico può essere distinto da uno inautentico, ciò è perché ci si ap­ propria individualmente dei ruoli che gli schemi di ruolo ci offrono e li si modifica: non si tratta di formare questi ruoli con l’obiettivo del nuo­ vo in sé. Se un esempio di comportamenti di ruolo non alienati è quello di un seminario in cui si accende una vera discussione, dalla quale i por­ 365. Ivi, p. 298.

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tatori dei diversi ruoli sono trascinati con entusiasmo, ciò è perché qui si mostra il coinvolgimento nella cosa e l’interesse nei suoi confronti. Se quindi la questione è «esprimersi» o trovare il «proprio linguaggio», ciò che è decisivo è se si dice effettivamente qualcosa o meno, non se ciò che si è detto è nuovo366. Questo dipende dal fatto di trovare un lin­ guaggio che renda giustizia ai problemi con i quali ci si confronta. An­ che nel caso dei cliché linguistici, ciò che irrita non è il fatto che tutti li utilizzino, ma il fatto che essi non siano più utilizzabili, che non siano o non siano più appropriati per esprimere adeguatamente le esperienze. Si tratta infatti di esprimere qualcosa, non di esprimer^/', e ci si esprime con successo nella misura in cui si riesce ad esprimere qualcosa. Da questa prospettiva, la realizzazione di sé significa essere presenti nella propria vita e avere interesse per ciò che si fa - una modalità au­ tentica e autodeterminata dell’essere coinvolti nel mondo e del con­ frontarsi con esso - e non «non essere una copia». L’idea di Rorty della realizzazione dell’individualità è perciò così «stranamente debole», per­ ché si esaurisce in una concezione autoreferenziale dell’individualità, che per questo rimane peculiarmente vuota. Il modello di realizzazione di sé da me delineato afferma invece che si ha accesso a se stessi solo attra­ verso il mondo, e che ci si sviluppa attraverso le cose con le quali ci rap­ portiamo e così ci «formiamo». In confronto, l’individualità di Rorty è invece senza mondo. Se invece l’individuo unico di Rorty entra nel mon­ do in quanto «creatore», ciò non riguarda il mondo ma l’individuo. Da questo punto di vista, la critica di Cari Schmitt ai romantici e alla loro «relazione occasionale con il mondo» riguarda anche Rorty:

Il romanticismo è occasionalismo soggettivizzato; il soggetto romanti­ co, cioè, considera il mondo come occasione e pretesto per la sua pro­ duttività romantica367. Qui è interessante che questa autoreferenzialità del soggetto del mo­ dello di Rorty si rovesci in ciò che già Tugendhat aveva discusso facen­

366. Il fatto che l’originalità e l’imparagonabilità o la novità siano effetti secondari, mi sembra evidente se si considerano la letteratura e l’arte: un romanzo che punta essen­ zialmente all’originalità, avrà raramente una grande qualità estetica. 367. Schmitt C, Romanticismo politico, trad. it. Galli C., Giuffrè, Milano, 1982, p. 21.

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do riferimento all’idea di Heidegger della «contrapposizione commisu­ rante» (Abstàndigkeit): chi punta direttamente all’originalità nello svi­ luppo della sua individualità mostra di essere vincolato agli altri in for­ ma negativa, in quanto può provare la propria unicità solo con la sua distanza da essi. Allora però, coloro che cercando un’espressione au­ tentica e un linguaggio proprio vogliono sfuggire al conformismo del «Si», rimangono legati ad esso in modo indissolubile. Il «forte poeta» diventa un «personaggio eterodiretto». Il punto qui è che proprio l’autoreferenzialità accresce la dipendenza dagli altri, perché non c’è alcun parametro di misura al di fuori di questo rapporto. Proprio quando la soggettività romantica assume il mondo come «pretesto», rimane legata a esso in una dipendenza negativa.

Gli esperimenti di vita individuali sono «privati»?

A partire da questa critica e dal concetto di realizzazione di sé che ho qui sostenuto, come si pone allora la separazione di Rorty tra pubblico e privato, tra «identità morale» pubblica e autonomia privata idiosincratica? E pensabile tale separazione? È questa una contrapposizione sensata? Di nuovo, io non voglio affrontare tali questioni direttamente; piuttosto, voglio mettere in questione la plausibilità dell’idea stessa di una creazione di sé idiosincratica che si attua in esperimenti di vita pri­ vati. Io mi distinguo da Rorty già nella comprensione di cosa è un espe­ rimento (di vita) e di come esso funziona. Come devono essere immaginati questi esperimenti di vita, come la creazione privata e idiosincratica di un’identità unica? Prendiamo una persona che passa attraverso una serie di forme di vita differenti, nelle quali essa non solo si mette alla prova in interessi e in attività molto di­ verse, ma fa esperienza anche di diverse forme di relazione e di diverse «scene»368. Con cosa si sperimenta qui, in che senso si sperimenta e qual è l’occasione dell’esperimento? Anche qui a me sembra - in contrasto con l’idea di una sperimentazione meramente «estetica» - che sia cru­

368. Se io comprendo bene, il modello di Rorty non esclude simili esperimenti collet­ tivi, in quanto il «privato» non viene equiparato all’«isolamento», ma significa solo che con ciò che si fa non si solleva alcuna pretesa di validità pubblica e intersoggetti­ va, e che si tratta di progetti di vita che non sono generalizzabili.

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ciale l’orientamento alla cosa, in questo caso l’orientamento alla pro­ pria vita, quindi alla domanda: come si deve condurre la propria vita e come ci si deve determinare in essa? Noi intraprendiamo questi esperi­ menti non solo per sperimentare, ma per risolvere problemi (fosse an­ che il problema della noia o dell’irrigidimento), problemi che emergo­ no da un determinato modo di vivere. Chi prova nuove forme di rela­ zione vivendo «relazioni aperte» e cresce bambini in rapporti allargati, non familiari, fa questo a causa dell’esperienza dell’insufficienza di mo­ delli esistenti, ossia sulla base di esperienze che fa con se stesso e con la sua vita369. Ciò che qui viene vissuto - se compresi correttamente - sono degli esperimenti. Se però con ciò si mira a trovare la giusta forma di vi­ ta, allora «la fluidificazione processuale di tutto ciò che è dato e di tutto ciò che è raggiunto»370 è solo un mezzo. Questa fluidificazione non è quin­ di fine a se stessa, anche se il processo di sperimentazione dovesse rive­ larsi infinito. Da questo punto di vista, gli esperimenti di vita vanno com­ presi come un agire sperimentale volto alla risoluzione dei problemi, non come esperimenti fini a se stessi. Questa concezione dell’esperimento ha due conseguenze: in primo luogo, anche qui, l’originalità o l’unicità dell’esperimento è un effetto secondario; la soluzione può essere di fatto unica, imparagonabile, irri­ petibile, perché si adatta solo a una situazione determinata, non ripro­ ducibile, o perché è una nuova soluzione per un nuovo problema. Un esperimento di vita, inteso in questo modo, non mira comunque all’ori­ ginalità. In secondo luogo, ciò che si fa in simili tentativi sperimentali non è privo di criteri: ci sono «standard» che si trovano nella cosa stes­ sa. Un esperimento è «riuscito» se una forma di vita funziona sotto de­ terminati aspetti. Quando con gli esperimenti si vogliono risolvere dei problemi si mira alla soluzione giusta del problema, quella adeguata. Questa soluzione presume di essere, fino a prova contraria, la soluzione appropriata al problema dato. Ciò significa che questa soluzione solle­ va una pretesa di validità e così è criticabile. Si «sostiene» la propria forma di vita in quanto essa è una soluzione almeno della situazione 369. Un’illustrazione meravigliosa di ciò la offre il film di Lukas Moodysson Insieme (2000), che con sguardo retrospettivo rivolto agli anni Settanta illustra i diversi pro­ blemi di questi esperimenti con l’esempio di una comune e con ciò tematizza in maniera estremamente equa gli irrigidimenti e il potenziale di autoillusione tanto dei modelli convenzionali quanto dei modelli non convenzionali. 370. Menke C., Spiegelungen der Gleichheit, Akademie Verlag, Berlin, 2000.

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specifica alla quale si reagisce con essa. Proprio quando si «fluidifica­ no» i modi di vita, si riflette su di essi, li si sostiene con argomenti e si è più o meno aperti per alcuni argomenti - per lo meno, se si sono real­ mente «fluidificate» le pratiche in questione371. Gli esperimenti di vita privati e idiosincratici che Rorty ha in mente differiscono da quelli che, nel senso ora accennato, possono fallire o riuscire rispetto alle loro pretese di validità: non solo non è necessario che questi esperimenti di vita privati siano comprensibili agli altri, anzi, essi non devono proprio esserlo, poiché non vogliono essere né copie né pro­ totipi. Questo modo di vita sperimentale è «privato», quindi, perché da esso non emerge alcuna pretesa di validità né alcuna proposta per la convivenza sociale. Il mio scetticismo nei confronti di questa prospettiva è il seguente: se una forma di vita è comprensibile o meno deve essere dimostrato. Mi sembra assurdo, e un sintomo della «contrapposizione commisurante» (nel senso prima precisato), misurare la riuscita di una forma di vita dal fatto che essa non è comprensibile da altri. Viceversa, è difficile com­ prendere come sia possibile che qualcuno, capace di un certo livello di riflessione, non avanzi in ciò che fa alcuna pretesa di validità - neanche di fronte a se stesso. Non solo noi, per assicurarci della buona riuscita di una forma di vita, dipendiamo dal riconoscimento degli altri; non so­ lo anche le forme di vita private sconfinano facilmente nella sfera di ciò che è «comune». Inoltre, per il mio dubbio, è decisivo questo: se la se­ parazione delT«autonomia privata» dalla sfera pubblica e comune non serve solo a proteggere la sfera pubblica dalle idiosincrasie private, ma anche a offrire alla realizzazione di sé individuale (o alla formazione di sé) uno spazio protetto in cui questa possa svilupparsi, allora mi sembra (contro le intenzioni di Rorty) che simile impostazione rimandi a un idea­ le di individualità come qualcosa che si sviluppa in modo «naturale». Ancora una volta, l’individualità sarebbe qualcosa che fiorisce in se­ greto in uno spazio nascosto e si sviluppa al meglio laddove è libera da influssi esterni. Ma non solo si rimane legati agli altri nella «cura della 371. Del resto - dal punto di vista di una critica del nostro tempo - è una strana coin­ cidenza, ma forse non casuale che l’enfasi liberale sull’inaggirabilità di forme di vita idiosincratiche vada di pari passo con un ritorno ad un convenzionalismo sociale. Ciò suggerisce che un confronto pubblico sulle forme di vita - che sollevi una pretesa di verità - contribuisca di più a promuovere forme di vita non convenzionali di quanto non faccia una mera coesistenza «protetta».

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contrapposizione commisurante» - rimanendo cosi dipendenti dagli al­ tri; inoltre, solo tematizzando pubblicamente le forme di vita si dischiu­ de la possibilità di dar loro una forma. Tematizzando il rapporto con l’universalità vengono tematizzate le relazioni in cui bene o male si è già da sempre immersi. In questo senso, non solo non si vive mai la «pro­ pria vita» da soli, ma non la si vive neanche «privatamente» come qual­ cosa di proprio. Il rapport à soi, se inteso come relazione con se stessi mediata dal mondo, non è così facilmente separabile dal «modo di com­ portarsi con gli altri». Tuttavia, quelle relazioni nelle quali si è catturati senza poter dare loro una forma, sono alienate.

3. Conclusione: essere se stessi nell’altro - socialità del sé, socialità della libertà

L’uomo è nel senso più letterale uno zoon politikon, non solo un animale sociale, bensì un animale che

può isolarsi solo nella società.

Karl Marx372

Cosa consegue dalla mia posizione fin qui sviluppata per quanto ri­ guarda il rapporto degli individui con le relazioni sociali, con le prati­ che e con le istituzioni nelle quali conducono la loro vita? Le mie riflessioni conclusive si riallacciano direttamente alla mia cri­ tica a Rorty. Sebbene in Rorty l’autenticità non debba essere esplicita­ mente realizzata a spese degli altri, essa non dipende nemmeno in senso significativo da essi. La sua inclusione di aspirazioni romantiche nel do­ minio della realizzazione di sé, concepita in termini individualistici e privati, pone fuori gioco la problematica dell’alienazione - e anche la tesi di una cooriginarietà tra l’alienazione da sé e l’alienazione sociale. Se proprio l’essere situati in un vocabolario «comune», in un linguag­ gio comune e nelle pratiche comuni di un mondo sociale appare come una minaccia all’individualità autentica, allora la domanda se e come gli 372. Marx K., Grundrisse, Lineamenti fondamentali della critica dell'economia politica (1857-58), vol. I, trad. it. Grillo E., La Nuova Italia, Firenze, 1997, p. 5.

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individui possano «ritrovarsi» nelle istituzioni sociali cessa di avere sen­ so - almeno finché essi riescono a convivere l’uno accanto all’altro in ma­ niera indolore. La realizzazione di sé viene concepita come qualcosa che ha luogo al di là della dimensione sociale, e così la necessità di entrare in relazione con gli altri è concepita come una minaccia nei confronti del­ l’essere se stessi in modo indisturbato. Queste considerazioni ci riportano all’ambiguità che nella prima par­ te ho attribuito a Rousseau e all’inizio della discussione moderna sull’a­ lienazione: l’alienazione appare o come alienazione per mezzo del mon­ do sociale o come alienazione dal mondo sociale, o come alienazione per mezzo degli altri o come alienazione dagli altri e, in ultima istanza, o come alienazione per mezzo «^//'universale o ^//universale. A seconda del punto di vista che qui si assume, la possibilità dell’autenticità o del­ la realizzazione di sé deve essere localizzata o in un dominio posto al di là delle pratiche, dei ruoli e delle istituzioni sociali condivise con altri, op­ pure in esse™. La mia ricostruzione del concetto di alienazione ha lo scopo di mo­ strare che un rapporto con se stessi non alienato è possibile solamente rapportandosi alle pratiche sociali che determinano le nostre vite e ap­ propriandosene, non attraverso una loro negazione astratta (per dirla in termini hegeliani). Se, come ho argomentato, il sé emerge solo nella re­ lazione con qualcosa - come risultato di ri-stratificazione permanente di un processo (umschichtend) in cui ci si appropria del mondo - allora que­ sto mondo è anche sempre un mondo sociale. Essere coinvolti in que­ sto mondo - il fatto che gli individui siano «intrecciati» ( Verwoben) in una rete di significati sociali nella quale agiscono e a partire dalla quale comprendono le loro azioni - è ineluttabile. Se i casi che ho discusso han­ no mostrato che l’alienazione da sé è anche alienazione nel e dal mondo sociale, allora il problema dell’alienazione - inteso come relazione di­ sturbata con sé e con il mondo - può essere risolto solo nel mondo del­ le pratiche sociali, non al di là di esso.

373. Di fronte a questa domanda le linee che ho schizzato all’inizio - da Rousseau passando per Hegel fino a Marx, da una parte, e da Rousseau a Kierkegaard e a Hei­ degger dall’altra - sono in contrapposizione.

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«Inazione dell’uno è l’azione dell’altro» • Se nel caso del comportamento di ruolo (capitolo 2 della parte II) gli individui formano se stessi nei loro ruoli e attraverso essi, allora la dicotomia tra sé e ruolo, così come il confine tra «interno» ed «esterno» sono messi in questione: l’individuo e i suoi ruoli si formano come par­ ti di uno stesso processo, e questi ruoli si trasformano nella misura in cui ce ne appropriamo. L’individuo si aliena da se stesso alienandosi dai ruoli e viceversa. Se «l’autenticità» non può essere più cercata in un luogo immaginario al di fuori delle aspettative e dei ruoli sociali, il su­ peramento dell’alienazione non significa il superamento della socialità rappresentata dai ruoli, ma la loro appropriazione e trasformazione. Ciò significa però anche: il superamento dell’alienazione richiede la di­ sponibilità di ruoli sociali e di istituzioni che rendano possibile l’identi­ ficazione con essi e la loro appropriazione. • L’analisi della mancanza di potere dell’accademico inchiodato in provincia (capitolo 1 della parte II) non mirava solo al carattere con­ venzionale di questa forma di vita. Il fatto che in questa forma di vita egli abbia sviluppato soltanto una «mera copia» (come direbbe Rorty con Bloom) è invece stato considerato solo un sintomo o una conse­ guenza del fatto che le «domande pratiche» erano rimaste oscurate. Quindi, la riconquista del potere di disporre della propria vita non ap­ pare come un ritirarsi da ciò che è comune, ma come una reale appro­ priazione di una forma di vita che è sempre condivisa anche con altri. • L’ineluttabile carattere sociale anche di quegli atteggiamenti che si hanno nei confronti di se stessi e dei propri desideri, è illustrato in mo­ do vivido dal caso della femminista scissa (capitolo 3 della parte II). Il conflitto che questa vive con se stessa non può essere compreso sempli­ cemente senza fare riferimento al significato e all’interpretazione socia­ le delle sue azioni. Che lo voglia o no, lei si muove in una situazione in cui le attribuzioni sociali, le aspettative di ruolo e le pratiche sociali vigenti riguardo a i rapporti tra i generi toccano non solo il rapporto tra indivi­ dui ma anche il rapporto degli individui con se stessi. Anche in questo caso, la soluzione del problema non richiede semplicemente la libera­ zione dagli altri - l’astrazione da ogni condizionamento, o da ogni di­ mensione di significato sociale delle sue azioni e del suo volere - bensì la capacità di stabilire relazioni con queste cose e quindi, anche qui, l’appropriazione della situazione che ne risulta.

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• Nella misura in cui l’indifferenza di Perlmann (capitolo 4 della par­ te II) può essere interpretata come un fenomeno di alienazione, noi ve­ diamo che per assicurarsi della sua esistenza egli ha bisogno di una rela­ zione non soltanto con ciò che è «altro» in generale, ma anche con altre persone. Le cose che amiamo, con cui ci identifichiamo, i progetti che perseguiamo, sono ciò che sono in primo luogo sullo sfondo di significati condivisi, formati socialmente. L’essere coinvolti in progetti presuppo­ ne l’esistenza di altri esseri umani. Non si potrebbe in alcun modo com­ prendere cosa è un padre competente, ma neanche cosa è un bravo mu­ sicista o un bravo eremita, se non ci fossero le istituzioni sociali o i ruo­ li che definiscono la genitorialità, il virtuosismo musicale o la contemplazione religiosa. L’identificazione con progetti (anche quando questi sembrano completamente idiosincratici) - si compie sempre nel contesto di un mondo sociale condiviso con altri - anche quando que­ sto avviene distanziandosi dal mondo374.

Quindi, l’esortazione a ignorare le attribuzioni sociali e con ciò a vi­ vere non più «nell’opinione degli altri», ma «in se stessi», (secondo la for­ mula di Rousseau), sarebbe problematica in tutti questi casi. Una rela­ zione con se stessi che si forma astraendo, sulla base di una negazione astratta dell’influsso degli altri, è illusoria. Come abbiamo visto, «l’ac­ cessibilità a se stessi» presuppone sempre la capacità di comprendersi nei propri condizionamenti sociali; «disporre di se stessi» significa sempre essere capaci di muoversi liberamente nelle relazioni sovraindividuali. Esaminando la questione di cosa può significare «ritrovarsi nelle pro­ prie azioni» si era imposta l’evidenza che le azioni che sono «proprie» non sono mai le nostre azioni meramente private; sono sempre anche le azioni di altri, influenzate da loro in molti modi, intrecciate con loro in molti modi. Quindi ci possiamo «ritrovare» in esse solo se impariamo a intenderci come parte di un contesto sovraindividuale che allo stesso tempo rende possibile e forma, determina e limita la nostra compren­ 374. In questo contesto, confrontandosi con l’idea di G.H. Mead che «le possibilità coo­ perative di azione definite dai ruoli [...] sono l’unica possibile offerta di senso», Ernst Tugendhat formula la tesi che «si può pensare a una critica al senso delle attività coo­ perative socialmente date solo avendo in mente un progetto di società migliore e non a partire dalla prospettiva di un’attività che non abbia riferimento alla sfera sociale; que­ st’ultimo tipo di attività non è neppure una possibile fonte di senso». Tugendhat E., Autocoscienza e autodeterminazione. Interpretazioni analitiche, op. cit., p. 279.

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sione di noi stessi. La «propria vita» allora è qualcosa che emerge non nell’astrazione da, ma nell’appropriazione della vita comune; una parti­ colarità individuale può essere acquisita solo appropriandosi indivi­ dualmente di un «vocabolario comune», non astraendo da esso. Il problema dell’alienazione conduce, così inteso, alla questione del­ la qualità del nostro rapporto con le pratiche e le istituzioni sociali e al­ la formulazione di richieste nei confronti di esse - in quanto esse sono le condizioni sovraindividuali che rendono possibile la determinazione di sé e la realizzazione di sé. Come avevo affermato, è alienato chi non può rapportarsi ai suoi stessi presupposti. Dal momento che la socialità della nostra esistenza fa parte di questi presupposti, l’alternativa tra libertà e alienazione si decide nel modo e nella misura in cui ci riesce di fare proprie queste stesse condizioni. Alcune implicazioni

In conclusione, vorrei tratteggiare alcune conseguenze di questo mio approccio. Primo, la tesi che dobbiamo rapportarci ai nostri presupposti sociali non mira ad un assorbimento dell’individuo nella comunità o all’affer­ mazione del primato della comunità sull’individuo. Se, come afferma Marx, noi possiamo «isolarci solo nella società», ciò significa che anche dove ci affermiamo come individui, siamo determinati e condizionati dalla socialità della nostra esistenza. Da ciò non consegue però che un rapporto riuscito con noi stessi possa svilupparsi soltanto laddove, sot­ to certi aspetti, ci «fondiamo con gli altri» in forme di vita comuni. Da ciò consegue soltanto che il riconoscimento del fatto che «si è associa­ ti»375 fa parte delle condizioni per poter disporre liberamente della pro­ pria vita. Dal momento che si tratta sempre di intraprendere una rela­ zione, quest’ultima è sempre una relazione tra diversi. L’alienazione so­ ciale non significa dunque (come spesso viene assunto) una perdita di comunità, ma l’incapacità di porsi in rapporto con altri agendo. Secondo, non solo l’appropriazione delle pratiche e delle istituzioni 375. Amengual G., Ganungswesen als Solidaritàt, in Braun H.-J., Sass H.-M., Schuffenhauer W., To mas on i R, (a cura di), Ludwig Feuerbach und die Philosophie derZukunfi, Akademie Verlag, Berlin, 1990, pp. 345-368; Akademie, Berlin, 1990.

III. l’alienazione come appropriazione disturbata di sé e del mondo

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sociali include la loro trasformazione e il dare loro una forma; anche al­ la questione di quali siano, sotto questo aspetto, i presupposti inelutta­ bili della propria esistenza, non si può rispondere appellandosi ad argo­ mentazioni essenzialistiche. Anche la «solidarietà» (come opposto del­ l’alienazione sociale) è - come ho argomentato prima riguardo al rapporto individuale con se stessi - allo stesso tempo «data» e «fatta». L’appropriazione di relazioni sovraindividuali è allo stesso tempo rico­ struttiva e costruttiva, essa reagisce al «fatto dell’essere legati» e pro­ prio allo stesso tempo lo crea376. Terzo, mentre io qui ho considerato i casi di alienazione discussi dal­ la prospettiva del soggetto, rimane da compiere l’analisi dell’altra parte, ossia l’analisi e la valutazione della struttura delle istituzioni. Come devono essere fatte le istituzioni per far sì che gli individui che vivono in esse possano comprendersi come loro co-autori e possa­ no identificarsi - come agenti - con esse? Che aspetto hanno le istitu­ zioni sociali che potrebbero essere comprese come «incarnazioni della libertà»? Contrariamente alle virulente preoccupazioni contemporanee riguardo alla «perdita del senso» nelle società moderne, dovremo ri­ spondere a queste domande se vogliamo scoprire delle risorse del sen­ so, inteso come rapporto di identificazione ricco di significato con ciò che facciamo.

376. Ho sviluppato questo punto in maniera diffusa in Jaeggi R., Solidarity and Indif­ ference, in Termeulen R. e Houtepen R. (a cura di), Solidarity in Health and Social Ca­ re in Europe, Kluwer, Dordrecht, 2001, pp. 287-308.

Postfazione alla seconda edizione

Yet another book on alienation? Può essere esagerato parlare già di un’ampia renaissance del concetto1. E tuttavia è corretto affermare che il concetto di alienazione è stato al centro negli ultimi anni di una nuo­ va attenzione. Lo si è assunto nell’ambito della teoria sociale come concetto opposto a quello di «risonanza»2 oppure ci si è riferiti ad esso nel contesto delle diagnosi contemporanee sulla depressione, il burnout, la «fatica di esse­ re se stessi»3, la «società della stanchezza»4: in ogni caso si è avvertito un bisogno crescente di fare nuovamente ricorso a questo concetto per com­ piere un’autocomprensione della nostra società. Ma si è ricorso al con­ cetto di alienazione anche nell’ambito delle discussioni sui modi in cui intendere la «malattia psichica»5 oppure quando, nei dibattiti sulle iden­ tità collettive, si è riflettuto sulla forza dei legami culturali; è emersa per­ sino la proposta di ridefinire classici concetti come quelli di libertà e di uguaglianza a partire dall’ideale di una vita non alienata6. Altri autori han­ no interpretato come fenomeni di alienazione l’esclusione sociale7, il «di­ venire superflui», la «dissociazione»8 di interi gruppi sociali o le tenden­

1. Sulle congiunture mutevoli di questo concetto, in particolare riguardo alle sue trat­ tazioni sociologiche, cfr. ora anche Yuill C., forgetting and Remembering Alienation Theory, in «History of the Human Sciences», 24 (2), 2011, pp. 103-119. 2. Cfr. Rosa H., Resonanz. Eine Soziologie der Weltbeziehung, Suhrkamp, Berlin 2016. 3. Cfr. A. Ehrenberg, La fatica di essere se stessi. Depressione e società, trad. it. S. Arecco, Einaudi, Torino 2010. 4. Cfr. Han B.-C., La società della stanchezza, trad. it. Buongiorno F., Nottetempo, Ro­ ma 2012. 5. Cfr. Heinz A., DerBegriff derpsychischen Krankheit, Suhrkamp, Berlin 2014, cap. 3. 6. Bilgrami A., Rationality and Alienation, manoscritto inedito, 2015. 7. Sul dibattito attorno al tema dell’esclusione cfr. Bude, H./Willisch, A. (a cura di), Exklusion. DieDeabtte ùherdie Uberflùssigen, Suhrkamp, Frankfurt/M. 2007. 8. Castel R., Die Metamorphosen der sozialen Frage. Eine Chronik der Lohnarbeit, UVH, Konstanz 2000.

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ze più volte diagnosticate di apatia politica e di agonia della democrazia, e si è cominciato a muovere i primi passi verso una «teoria politica del­ l’alienazione»9. Anche il motivo del lavoro alienato comincia, timida­ mente, ad essere ripreso nell’ambito della filosofia sociale del lavoro - il terreno originario della classica discussione sull’alienazione10. D’altra parte il liberalismo politico, sotto il cui predominio le dia­ gnosi di alienazione erano divenute sospette in quanto orientate in ter­ mini perfezionistici, sembra aver ormai superato il suo punto di massi­ ma attrattività filosofica11. La «crisi della filosofia politica» di questo ti­ po12, così come il dibattito metodologico su «teoria ideale e non ideale» hanno accresciuto la sensibilità per i problemi di taglio filosofico-sociale e hanno condotto ad uno spostamento del fuoco dell’attenzione. Co­ sì la discussione sulle patologie sociali si è differenziata al proprio inter9. C£r. Medearis J., Why Democracy is Oppositional, Harvard University Press, Cam­ bridge 2015; Sorensen P, Entfredmung als Schlusselbegriffeiner kritischen Theorie der Politik. Eine Systematisierung im Ausgang von Karl Marx, Hannah Arendt und Corne­ lius Castoriadis, Nomos, Baden-Baden 2016. 10. Una buona panoramica sulle ricerche volte a rinnovare, in chiave di filosofia so­ ciale, la discussione sul lavoro la offrono Nicholas H. Smith e Jean-Philippe Derany (Deranty, J.-P./Smith, N., New Philosophies of Labour. Work and the Social Bond, Boston, Leiden 2011). Per una ricerca impegnata a riattualizzare in modo differenziato il concetto di alienazione - «l’ormai stanco decano della filosofia del lavoro» - si ve­ da Festl, M.G., Gemeinsam einsam, in «Zeitschrift fiir praktische Philosophic», I, 2014. Nel contesto delle sue ricerche sul significato della cura di sé nei rapporti di la­ voro moderni, Flick si ricollega al concetto di alienazione e, in particolare, alla mia ricostruzione di questo concetto come appropriazione di attuazioni di vita. Flick S., Leben durcharbeiten, Suhrkamp, Frankfurt/M. 2013. Nel contesto di lingua inglese, gli effetti dei rapporti di lavoro sulla salute sono indagati alla luce della chiave di let­ tura dell’alienazione da Yuill C., Marx: Capitalism, Alienation and Health, in «Social Theory and Health», (3), 2005; Id., Health and the Workplace: Thinking About Sick­ ness, Hierarchy and Workplace Conditions, in «International Journal of Management Concepts and Philosophy», 3 (3), 2009. Cfr. anche Crinson L/Yuill C., What Aliena­ tion Theory Can Contribute tot he Study of Health Inequalities, in «International Jour­ nal of Healt Service», 38 (3), 2008. • 11. Si veda su questo tra gli altri: Geuss R., Philosophy and Real Politics, Princeton University Press, Princeton 2008; Miller D., Poltiical Philosophy for Earthlings, in Leopold D., (a cura di), Political Theory; Methods and Approaches, Oxford Univerity Press, Oxford 2008, pp. 164-184. Un’utile panoramica sul dibattito attorno a teoria ideale e non ideale lo offre Schaub J., Ideale und/oder nicht-ideale Theorie - oder weder noch? Ein Literaturbericht zum neusten Methodenstreit in der politischen Philoso­ phic, in «Zeitschrift fiir philosophische Forschung», 64 (3), 2010. 12. Cfr. su questo Hamburger Institut fiir Sozialforschung (a cura di), Schwerpunk Krise der politischen Philosophie, in «Mittelweg», 36,2,2016.

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no e dall’essere una sorta di «presidio» di tutto ciò che non era messo a tema mediante la categoria di giustizia, ha dato vita ad un dibattito mol­ to vivo, in cui il punto d’incontro tra individuo e società - ossia dove sono situate le patologie sociali a cui fanno riferimento i concetti di alie­ nazione o di reificazione - comincia ad essere misurato nel frattempo an­ che nel quadro di un’ontologia sociale13. Il discorso sull’autonomia, ini­ zialmente plasmato dall’orizzonte filosofico kantiano, ha ampliato il suo quadro di riferimento sotto la parola d’ordine dell’«autonomia re­ lazionale», in un modo che lo rende capace di connettersi con la pro­ blematica dell’alienazione14. Certo non c’è la discussione sull’alienazione: abbiamo a che fare con un numero di rimandi, più o meno deboli, che solo talvolta si riferisco­ no l’uno all’altro15. Tuttavia, anche se manca in questo ambito unità e coe­ renza, da tempo ormai nel campo delle riflessioni teoriche sull’aliena­ zione non «tutte le vacche sono nere». Questo concerne anche il confronto con il contributo specifico che al­ la teoria dell’alienazione ha offerto Karl Marx. In questo contesto, la te­ si di Althusser della «rottura epistemologica» tra il Marx «filosofo-uma­ nista» e quello «scientifico» aveva fissato un’alternativa poco produtti­ va, che poneva in ombra il versante della teoria dell’alienazione16. La nuova situazione interpretativa è emersa tra l’altro in seguito all’in­ tegrazione con pari diritti all’interno dei Manoscritti economico-filosofici degli estratti di Mill17. Questo ha fatto emergere nuovi criteri interpreta­ 13. Cfr. Neuhouser E, Rousseau und die Idee einer pathologischen Gesellschaft, in «Politische Vierteljahresschrift», 53 (4), 2012, pp. 628-645; Honneth A., Die Krankheiten der Gesellschaft. Anndherung an einen nahezu unmògfichen Begnff in «WestEnd», 11(1), 2014, pp. 45-60; Neuhouser, E, Rousseau: The Idea ofSocial Pathology, manoscritto inedito; Zum C:, Social Pathologies as Second-Order Disorders, in Petherbridge D. (a cura di): Axel Hon­ neth: Critical Essays. With a Reply by Axel Honneth, Boston, Leiden 2011, p. 345-370. 14. Si veda Christman, J., The Politics of Persons: Individual Autonomy andSocio-historical Selves, Cambridge University Press, Cambridge 2009, pp. 512-533. 15. In Rosa H, Resonanz, cit., capitolo V, si trova uno dei pochi tentativi produttivi di riprendere i fili della discussione (in ogni caso della discussione tedesca) e di radicalizzarla fino alla delineazione di alternative. 16. Sulle possibilità connesse di collegamento alla discussione etica contemporanea, si veda Quante M., Das gegenstàndliche Gattungswesen. Bemerkungen zum instrinschen Wert menschicher Dependenz, in Jaeggi R./Loick, D. (a cura di), Nach Marx. Philoso­ phic, Kritik, Praxis, Surhrkamp, Berlin 2013. 17. Si rivela utile in questo senso l’edizione critica dei Manoscirtti economico-filosofici commentata da Michael Quante, che sottolinea la paritaria importanza di tutte le par-

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tivi della teoria dell’alienazione di Marx: l’alienazione si presenta ora in­ nanzitutto come un momento deficitario dei rapporti di cooperazione sociale18. In secondo luogo, la nuova discussione, avvenuta passando per il concetto di riconoscimento, sul concetto hegeliano di «libertà socia­ le», può essere messa in relazione all’opera di Marx, cosicché (con Marx) l’alienazione risulta identificabile ora come una forma di perdita della li­ bertà. Con ciò risulta infine comprensibile la continuità della problema­ tica dell’alienazione nell’intera opera di Marx e la complessità del suo approccio rispetto a quella forma di critica dell’alienazione più vaga, ra­ dicata in una critica della modernità di stampo romantico. Questa registrazione in presa diretta di sviluppi tra loro molto diversi e non sempre uniti non ambisce certo a raggiungere una forma di com­ pletezza. Ciò che io voglio fare in questo contesto è piuttosto cogliere la felice occasione di questa nuova edizione del mio libro, uscito per la pri­ ma volta nel 2005, per prendere posizione nei confronti di alcune do­ mande che sono emerse in questo lasso di tempo. Voglio soffermarmi in­ nanzitutto (nella parte II) sullo statuto metodico delle mie riflessioni e sul rapporto con l’attualità dell’alienazione in quanto strumento di dia­ gnosi del tempo; voglio (III) quindi discutere la necessità e la potenzia­ lità di una ricostruzione del concetto di alienazione, a partire dalla que­ stione del lavoro alienato e dall’ampliamento della problematica dell’a­ lienazione verso la questione del politico e della democrazia; infine (IV.) voglio prendere posizione nei confronti di una delle domande più im­ portanti che sono state sollevate nei confronti del mio progetto, ossia in che modo esso può essere letto come una forma di critica sociale.

IL C’è ancora realmente alienazione? Sono in crescita oggi fenomeni di alienazione e se sì cosa si può fare contro di essi? Con queste e simili domande si vedono inevitabilmente confrontati tutti coloro che si oc­

ti del manoscritto. Cfr. Marx K., Òkonomisch-philosophische Manuskripte, herausgegeben und kommentiert von Michael Quante, Suhrkamp, Frankfurt/M. 2009. 18. Per una pregnante valutazone di questa connessione si veda Kiibler L., Marx’ Theorie derEntfremdung, in JAEGGI R./Loick D. (a cura di) Karl Marx. Perspektiven der Gesellschaftskritik, Suhrkamp, Berlin 2013.

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cupano «a livello teorico dell’alienazione». Le ragioni di ciò sono evi­ denti: in ultima istanza ciò che rende interessante questo concetto, al di là della discussione disciplinare interna alla filosofìa sociale, non sono possibili sottigliezze fìlosofìco-concettuali ma la sua capacità di dischiu­ dere diagnosi del nostro tempo. Può essere deludente, quindi, che il mio libro si limiti a tracciare i contorni dei fenomeni piuttosto che sof­ fermarsi su concrete diagnosi empiriche o su nuove evidenze della viru­ lenta attualità del problema dell’alienazione19. Ad essere riattualizzata nel mio libro non è appunto una diagnosi del nostro tempo alla luce dell’alienazione - nel senso dell’applicazione di un vocabolario già esistente a fenomeni nuovi e rilevanti della nostra contemporaneità. È riattualizzato, piuttosto, il taglio concettuale di base del problema dell’alienazione, così come l’ambito filosofico all’interno del quale esso può articolarsi. Le ragioni che stanno alla base di questa scel­ ta non risiedono però soltanto nella divisione disciplinare del lavoro tra filosofia, sociologia e diagnosi del tempo, ma in primo luogo nel fatto che, se si volge lo sguardo al concetto stesso, c’è bisogno di una ricostru­ zione. Queste ragioni risiedono però anche nel fatto che, secondo il mio modo di vedere, uno dei «compiti della filosofia sociale»20 è quello di svol­ gere una metariflessione attorno a diagnosi del tempo troppo affrettate: ossia non solo compiere la marxiana «autocomprensione delle lotte e dei desideri del proprio tempo» ma anche condurre «un’autocomprensione della propria autocomprensione» - in un’epoca, come la nostra, in cui si insinuano mediaticamente una gran quantità di proposte di orientamen­ to. In questo senso, ciò che è dirimente non è il fatto che una ricostruzione del concetto di alienazione - come quella da me intrapresa - contenga già una diagnosi del tempo, ma se essa la rende possibile e, nel dubbio, se la può accompagnare criticamente e istruttivamente. Se quindi principalmente io dispongo riflessioni preliminari, orienta­ menti teorici e “ attrezzi “ per la diagnosi di problemi sociali, allora an­ 19. Cfr. per uno sguardo panoramico sugli aspetti sociologici dell’alienazione, dal mon­ do del lavoro alle esperienze dei media, alla sfera privata e il tempo libro fino alla pub­ blicità, Zima P., Entfremdung. Pathologien der postmodernen Gesellschaft, Mohr, Tu­ bingen 2014. 20. Cfr. Honneth A., Patologie del sociale (1996) in La libertà negli altri, trad. it. Peri E, Il Mulino, Bologna 2017; Jaeggi R., Celikates R., Sozialphilosophie - Eine Einfuhrung, Miinchen 2017.

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che le descrizioni fenomenologiche che, nella forma di abbozzi, ho com­ piuto nella parte centrale del libro, non devono essere intese come un’e­ numerazione dei casi di alienazione oggi più impellenti. Se fossero inte­ se in questo modo apparirebbero effettivamente - come sono apparsi ad un critico - come dei casi scelti in modo troppo univoco e troppo schiacciato su situazioni di vita «da ceto medio» per poter pretendere di avere valore rappresentativo per l’intera società21. (Il disagio dell’ac­ cademico per le sue situazioni di vita è certo per lo più, rispetto a ne­ cessità ben più impellenti, un “lamento da una posizione di privilegio”). La funzione di questi schizzi era piuttosto di carattere metodico. In quanto relazione in assenza di relazione l’alienazione non coinvolge solo un deficit, ma un intero spettro di deficit. Le descrizioni di stati di per­ dita di potere, di inautenticità, di scissione e di perdita d’identità dove­ vano servire a rendere visibili le diverse dimensioni della relazione di alie­ nazione, a renderle comprensibili nella loro dinamica e analizzabili nei loro singoli momenti. Nei fenomeni complessi di alienazione, come per esempio quello del lavoro alienato, entrano in gioco contemporanea­ mente di norma molte delle dinamiche isolate in questo modo; essi rap­ presentano pertanto nessi complessi di perdita di potere e d’identifica­ zione così come di frammentazione di contesti pratici. L’allestimento dei singoli momenti - pensati in primo luogo come ten­ tativi di chiarificazione e di selezione - rende possibile quindi svolgere l’analisi ad un più alto livello di astrazione. In questo modo, i problemi di alienazione possono essere osservati nella loro multidimensionale complessità, in quanto i fenomeni corrispondenti, che emergono dalle sfere più disparate della vita sociale, possono essere iscritti nella strut­ tura concettuale definita22. Per fare solo un esempio: la discussione sul 21. In questo senso si veda per esepio la recensione di Klinkauer T., Review of Rahel Jaeggi’s Alienation in Marx and Philosophy http://marxandphilosophy.org.uk/reviewofbooks/reviews/2014/1372. Anche Richard Bernstein (in una Jettera e in un dialo­ go privato) ha espresso la sua sorpresa per il fatto che nel mio libro non gioca nessun ruolo l’alienazione nei rapporti di lavoro che coinvolgono i “colletti blu”. 22. In questo senso, volendo rispondere a un altro dubbio che è stato avanzato, il mio procedimento non può essere ritenuto carente perché ha evitato un diretto confronto con Marx o perché ha rifiutato la teoria dell’alienazione marxista. Come accennavo pri­ ma, considero questa teoria non solo produttiva, ma anche non ancora interamente esplorata; ritengo perfino che una comprensione non essenzialista del concetto di alienazione, nel senso da me proposto, può essere ricavata anche da una ricostruzione dell’opera di Marx e che molte delle obiezioni contro il Marx «antropologico» del

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senso d’impotenza e sull’autonomizzazione delle proprie azioni (capi­ tolo ILI) può essere utilizzata, con la dovuta cautela metodica, anche per la discussione sui problemi connessi alla dinamica di autonomizzazione sistemica dei rapporti economici. Il teorema dell’«oscuramento delle do­ mande pratiche», guadagnato in relazione al campo di decisioni di vita individuali - insieme al teorema deir«oscuramento dell’esser creato» delle pratiche23 - si presta a divenire il punto d’avvio di analisi dei mec­ canismi interni di quei rapporti che - come anche Marx ha mostrato pur essendo sociali e fatti da uomini diventano quasi naturali, acqui­ stando una curiosa vita propria. Il mio scopo era quindi quello di ela­ borare gli strumenti concettuali per la problematizzazione della dina­ mica di autonomizzazione, senza ricorrere all’ideale sviante di una pie­ na trasparenza e di una piena pianificabilità - ciò che, in modo corrispondente, dovrebbe essere svolto anche riguardo ai rapporti sovraindividuali ed economici, affinché la critica dell’economia e ai rap­ porti di vita capitalistici, in quanto rapporti che tendono ad inglobare tutto, non sia svolta in modo troppo precipitoso.

III. Che una ricostruzione di un concetto, anche critica, non possa essere in alcun modo equiparata ad un «congedo» da esso24, è qualcosa di tal-

primo periodo sono troppo affrettate. Il mio modo di procedere è tuttavia un altro: non è un procedimento critico-ermeneutico e nememno una ricostruzione ermeneutica. Qui però si tratta, per lo meno in parte, di una questione di gusto metodico o anche di temperamento filosofico. Certamente la mia ricerca è informata su Marx e su una se­ rie di altri autori, ma è interessata primariamente ad una ricostruzione di taglio siste­ matico orientata sui problemi. In questo senso, io non procedo nè con Marx nè contro Marx - e neanche «dopo Marx» -, ma, per così dire, accanto a Marx (ma anche ac­ canto ad Hegel o accanto a Sartre). Questo significa in ogni caso che la descrizione dei problemi di Marx in qualche aspetto può essere inscritta nella analisi strutturali da me elaborati attorno ai concetti fondamentali. 23. Su questo, in modo più dettagliato, si veda Jaeggi R., Was ist eine (gute) Institution?, in Forst R./Jaeggi R./Hartmann M./Saar M., Sozialphiloosphie und Kritik, Suhrkamp, Frankfurt/M. 2009; Jaeggi R., Peritile der Lebensformen, Suhrkamp, Berlin 2014. Sull’economia come prassi sociale e il problema dell’oscuramente della prassi si veda ora anche R./Jaeggi R., Economy as a Social Practice in Deutscher P./ Lafont C. (a cura di), Critical Theory in Criticai Time, New York 2016. 24. E ciò che ha sospettato un recensore anonimo.

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mente ovvio che non meriterebbe, in realtà, alcuna menzione. È infatti vero il contrario. E ciò che si fa - in filosofia, come anche nella vita per appropriarsi nuovamente di un concetto e per mantenere viva la di­ scussione attorno ad esso. Di più: dal momento che i problemi che ine­ riscono al concetto di alienazione e che sono stati molte volte articolati - dall’essenzialismo talvolta non sufficientemente indagato criticamen­ te che esso si trascina con sé, all’idea della trasparenza e della riconcilia­ zione, fino ai problemi legati alla sottostante teoria dell’azione - non la­ sciano intatto il suo potenziale interpretativo, simile ricostruzione è pro­ prio la precondizione per una sua rinnovata efficacia, passata al vaglio di una riflessione critica25. Ora, nel mio libro ho fondato questo bisogno di ricostruzione rife­ rendomi essenzialmente ai suoi fondamenti teorici26. E tuttavia, è suffi­ ciente gettare uno sguardo su alcuni dei possibili campi di problemi so­ ciali nei quali il concetto di alienazione ha classicamente esercitato la sua efficacia, per rendersi conto di come una sua ricostruzione non es­ senzialistica e non perfezionistica (nel senso abituale del termine) sia necessaria anche per la diagnosi di impellenti problemi sociali, quindi non solo per i problemi relativi alla struttura sistematico-concettuale e al­ la sua fondazione filosofico-normativa.

Lavoro e alienazione

Al concetto di lavoro alienato si associa di solito l’immagine di atti­ vità stancanti, monotone e frammentate, il cui ambito di azione è pre­ definito in modo eccessivamente vincolante e in cui le facoltà e le po­ tenzialità dell’individuo - dell’«uomo intero» - sono atrofizzate in un modo peculiare. Simbolo di un tipo di lavoro di questo tipo è per molti • 25. Sulla mia tesi che il concetto di alienazione ha bisogno di una ricostruzione per poter essere di nuovo reso fertile, si veda supra pp. 57-70. Simile bisogno di rico­ struzione lo fanno valere anche Medearis, 2015, cit., Sorensen P., 2016, cit., e Rosa H., 2016, cit. Henning sospetta invece che dietro il bisogno di ricostruzione qui ri­ chiamato si nascondano semplici stati d’animo accademici. In questo modo però egli evita la sfida filosofica e politica che accompagna la riattualizzazione della dis­ cussione. Cfr. Henning C., Theorien der Entfredmung zur Einfùhrung, Junius Verlag, Berlin 2015. 26. Cfr. supra pp. 98-100.

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il lavoro tayloristico alla catena di montaggio inserito all’interno di una rigida divisione del lavoro. E la figura alternativa, tante volte evocata (e attribuita spesso anche a Marx, sebbene non sempre a ragione) è il pie­ no sviluppo di una personalità che, autodeterminata, si realizza nel pro­ dotto delle proprie attività e può riconoscersi in esso - il cosiddetto ideale artistico e artigianale di un lavoro non alienato. Tuttavia, adottando simile prospettiva non possiamo più afferrare in alcun modo molte delle forme di alienazione con cui oggi abbiamo a che fare nel contesto del lavoro sociale, anche prescindendo del tutto dal­ la problematica generale di una fondazione filosofica essenzialistica o perfezionistica27. Nei lavori nel settore dei servizi, per esempio, non ab­ biamo più a che fare con la produzione di un prodotto, per cui questi lavori (anche nella loro forma ideale) non possono più essere compresi alla luce del modello di un’attività «prometeica» creativo-produttiva. In questo caso vale proprio la pena di ragionare su una «riformulazione processuale», che sposta l’accento sul «come» dell’attività (come da me proposto facendo riferimento a Ernst Tugendhat). Nicholas Smith ha di­ feso28, per esempio, l’ideale artistico-artigianale, ritraducendolo nel cri­ terio della non strumentalità del lavoro, ossia se una prassi è attuata «per se stessa». Questa formula deve essere ulteriormente qualificata perché certo non è facile, in fin dei conti, astrarre dal fatto che un’atti­ vità lavorativa è svolta anche in vista di un fine esterno. Se si muove però da un criterio molto ampio, come quello per cui un lavoro è qualitativa­ mente buono e non alienato quando può essere reso proprio sulla base di un’attitudine ostinata, e quando in esso ci si confronta con il «mate­ riale» o con la «realtà»29 in modo arricchente, allora si è guadagnato certamente un punto di partenza per la valutazione critica dei rapporti di lavoro esistenti, nell’orizzonte di una teoria dell’alienazione. Ora, il problema più grave per la «classica» concezione perfezionistica del lavoro alienato consiste in ciò, che molti rapporti di lavoro contempo­ 27. Si veda per esempio la critica di Axel Honneth all’estensione limitata di questo ideale di lavoro non alienato, in Honneth A., Lavoro e riconoscimento. Per una ridefinizione, in Id., Capitalismo e riconoscimento, trad. it. di Solinas M., Firenze University Press, 2010. 28. Cfr. Deranty/Smith, cit. 29. L’approccio psicodinamico di Christophe Dejours rende possibile in particolare articolare questa prospettiva sull’attività del lavoro, che mette a fuoco la qualità del con­ fronto con la realtà. Si veda su questo Dejours C., Subjectivity, Work and Action, in «Cri­ ticai Horizons», 7 (1), 2006, pp. 45-62.

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ranei sono caratterizzati dal fatto che l’identificazione con la propria atti­ vità e la formazione del proprio «potenziale» non sono affatto interdetti. Al contrario, ciò che è imposto è proprio l’«ottimizzazione di sé» e la pro­ pria identificazione con le richieste del lavoro30. Qui il lavoratore diventa un «imprenditore di se stesso», un imprenditore della propria forza lavo­ ro, e la soggettività diventa essa stessa un fattore della produzione, per cui nella discussione di questo «mutamento di forma del lavoro salaria­ to» è stato introdotto il concetto di «soggettivizzazione del lavoro»31. Que­ sti rapporti di lavoro non sono affatto frammentati, impoveriti o iperroutinizzati - quindi alienati nel senso classico. Non sono richieste disciplina e conformità ma creatività, flessibilità, coinvolgimento emotivo e dispo­ nibilità alla cooperazione. E qui in questione «l’uomo intero», laddove i limiti tra lavoro e tempo libero saltano (di nuovo). E questo vale non solo nel settore - ipertematizzato32 - dell’economia creativa delle IT. Nel suo pionieristico studio II cuore venduto, Ari Hochschild ha mostrato già da molto tempo - continuando a farlo nei suoi studi più recenti33 - la stru30. Sul lavoratore come «imprenditore di se stesso» cfr. la classica ricerca di Ulrich Bròckling (Bròckling U., Das unternehmerischeSelbst, Suhrkamp, Frankfurt/M. 2007) che però non è svolta all’interno di una teoria dell’alienazione, ma nel quadro di una teoria dei processi di soggettivazione che si collega all’analitica del potere di Foucault. E una di­ scussione ancora da svolgere quella relativa al modo in cui si rapportano l’una all’altra queste due prospettive e se sullo sfondo di un concetto non essenzialistico di alienazio­ ne analisi di questo tipo possono essere recuperate normativamente. 31. Cfr. su questo per esempio Rau A., Suizid und neue Leiden am Arbeitsplatz, in «Widerspruch», 56,2009. 32. Parlo qui di ipertematizzazione perché negli ultimi anni è stata attribuita a questo ambito un’attenzione sproporzionata rispetto ad altri ambiti di lavoro. In questo mo­ do, però, passa in secondo piano il fatto che noi oggi abbiamo a che fare con un mer­ cato del lavoro molto segmentato. Questo concerne non solo la coesistenza tra classi­ ci lavori nella produzione industriale (includendo la loro estensione nelle parti più povere del mondo) e i lavori nel settore dei servizi, ma anche la coesistenza tra vecchie e nuove esperienze di alienazione. Al di là di ciò noi ci confrontiamo oggi con una si­ tuazione nella quale la precarietà dei rapporti di lavoro coesisteicon classici problemi di sfruttamento così come con vecchi e nuovi fenomeni di alienazione. Per una descri­ zione dello stato dei conflitti contemporanei attorno al lavoro sociale e anche per un tentativo di interpretare l’alienazione insieme ad altre «patologie del lavoro» come una impedita partecipazione a capacità universali, si veda Jaeggi R./Kubler L. Pathologien der Arbeit. Zur Bedeutung eines gesellschaftlichen Kooperationsverhàltnisses, in «WSI-Mitteilungen», 7,2014; Jaeggi R., Arbeit als Anteilhabe am allgemeinen Vermógen, manoscritto inedito, 2015. 33. Hochschild A. R., Per amore o per denaro. La commercializzazione della vita inti­ ma, trad. it. di E. Lalumera, Il Mulino, Bologna 2015.

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mentalizzazione dei sentimenti nel settore dei servizi, come per esempio quella che compiono le accompagnatrici di volo. In modo simile, muo­ vendo questa volta dall’analisi delle richieste rivolte al personale degli ho­ tel di lusso, Rachel Sherman ha mostrato la diffìcile tensione in cui si trovano coloro che offrono servizi di alto livello, dovendo corrisponde­ re a molteplici richieste contemporaneamente: empatia e assunzione di multiple prospettive, formazione flessibile e esercizio di diverse facoltà combinate34. Tutte queste sono diagnosi di alienazione, anche se non ri­ corrono al vocabolario della teoria dell’alienazione. Possono essere però discusse come tali solo se ci si svincola dal caso paradigmatico del lavo­ ro alienato, che era stato parametrato, non senza ragione, sul lavoro nel­ l’industria, e quindi se si ridefiniscono i corrispondenti strumenti con­ cettuali35. Devono essere qualificate qui le forme della stessa identifica­ zione (e della stessa appropriazione), e devono essere introdotte nel vocabolario della teoria dell’alienazione differenze tra forme d’identifi­ cazione o di appropriazione illusorie, ideologiche e che divengono stru­ mentali dietro le spalle degli attori sociali. Non ultimo, in relazione a que­ sti nuovi rapporti di alienazione, sarebbe necessario riprendere il moti­ vo del «rapportarsi alle proprie condizioni»36. Sulla scorta di esso lo sguardo si sposta dall’attività individuale ai suoi caratteri sociali: ossia al suo inscriversi in e al suo avere effetti su un contesto sociale di rapporti di cooperazione. Con lo sguardo rivolto ai burnouts o agli esaurimenti, in quanto patologie paradigmatiche dei nuovi rapporti di lavoro, Alexan­ dra Rau nota puntualmente: «il sé esaurito di norma anche perché l’i­ dea di solidarietà è stata denunciata ideologicamente e disarticolata pra­ ticamente, e per questo il suo sovraffaticamento o la sua fatica non pos­ sono essere più socializzate»37. Anche in relazione al classico lavoro industriale si fa strada la ne­

34. Sherman R., Class Acts - Service, Inequality, Luxury, University of California Press, Los Angeles 2007. 35. Sull’alienazione nel lavoro industriale rimane ancora ineguagliato: Popitz H., Hans P, Jures E. A., Technik und Industriearbeit. Soziologische Vntersuchungen in der Hiittenindustrie, Mohr, Tubingen 1957 Uno studio istruttivo sul «mondo di vita azienda­ le», che può collegarsi bene alla teoria dell’alienazione, è offerto da Leithàuser T./ Volmerg B., Betriebliche Lebenswelt. Zur Sozialphilosophie industrieeller Arbeitsverhdltnisse, Heidelberg/New York 1987. 36. Si veda supra pp. 263-268. 37. Cfr. Rau A., cit..

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cessità di una ricostruzione più complessa (e non perfezionistica) di esperienze di alienazione. Se in questo ambito, sotto il motto «uma­ nizzare il mondo del lavoro», si stanno sperimentando attualmente l’eliminazione della catena di montaggio, forme di lavoro di gruppo, riorganizzazione della produzione in modo conforme al mercato38 - le parole d’ordine corrispondenti sarebbero: revoca della frammenta­ zione delle attività di lavoro, riqualificazione e arricchimento del lavo­ ro, promozione di interazione e di assunzione di responsabilità del singolo rispetto al gruppo - rimane controverso, agli occhi delle stes­ se persone coinvolte, se in questo modo l’alienazione è eliminata o piut­ tosto rinnovata39. Ciò che da un lato appare come aumento di autode­ terminazione e arricchimento del processo lavorativo, d’altro lato rap­ presenta un’interiorizzazione di costrizioni sistemiche e un’assunzione forzata di responsabilità per cose di cui, in realtà, i lavoratori non so­ no responsabili. Sabine Flick chiarisce perfettamente il punto: «Que­ sto è uno dei paradossi delle nuove forme di lavoro: si lavora nell’illu­ sione di potere creare qualcosa in prima persona. Si è accresciuto così innanzitutto il peso della responsabilità, ma contemporaneamente ci si trova impotenti di fronte ad un sistema enorme»40. Non è quindi l’ec­ cesso di autonomia, la sovrabbondante molteplicità di opzioni, la co­ strizione alla decisione, ciò che risulta affliggente, ma la forma para­ dossale, illusoria o anche contraddittoria che assume qui l’autonomia - un dato, questo, che può essere trasferito anche ad altri ambiti della vita sociale. Secondo la mia proposta, di nuovo, è il concetto di alie­ nazione che si offre per descrivere questo intreccio tra autonomia e impotenza41. Proprio la convinzione che i rapporti di lavoro possono essere de­ finiti «alienati» o «alienanti», anche se non corrispondono più alla 38. Cfr. su questo BYNKELMANN P./Braczykh.-J./ SELTZR. (a cura di), Entwicklung der Gruppenarbeit in Deutschland, Suhrkamp, Frankfurt/M. 1993 ; Kocyba H./Vormbusch U., Partizipation als Managementstrategie. Gruppenarbeit und flexible Steurung in Automobilindustrie und Maschninenbau, Suhrkamp, Frank£urt/M. 2000. 39. C£r. su questo la redazione comune del «dialogo tra teoria e prassi» organizzato da «IG Metall» sul tema Alienazione e lavoro a cui Lukas Kubler, Lea Prix e io abbiamo partecipato agli inizi del 2013. 40. Flick S., Interview mit Sabine Flick, http://www.changex.de/Article/interview_flick _ein£ach_durcharbeiten/kXTHeusZ10393vT7PNhE3niXJiP35K. 4L Per un’analisi strutturale di simili «contraddizioni pratiche» c£r. Jaeggi R, Kritik der Lebensformen, cit., cap. 9, pp. 377-382.

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descrizione classica, genera l’interesse per una ricostruzione e per un ampliamento del vocabolario della teoria dell’alienazione. In que­ sta prospettiva il mutamento di forma del lavoro, la sua «soggettivizzazione», non conduce ad un superamento, ma ad un mutamento di forma dell'alienazione42. Per riconoscere questo mutamento è tuttavia necessario definire il concetto di alienazione con un vocabolario che non rimanga legato all’idea sostanzialistica sopra richiamata dell’«interezza» e dell’«autorealizzazione» nel lavoro. L’analisi categoriale da me proposta, attuando una svolta formale in direzione del concetto di impedimento di atti di appropriazione, nonché un cambio di pro­ spettiva dal che cosa al come delle attuazioni43, rende possibile ana­ lizzare le attività e le loro capacità di connettersi con i loro presup­ posti pratici, senza rimanere vincolati al criterio della «ricchezza delle attività»44. Con il concetto psicodinamico di lavoro elaborato da Christophe Dejour è possibile ricostruire, inoltre, una concezione del lavoro, delle attività e del prodotto, che si libera da alcuni problemi propri della «clas­ sica» concezione dell’autorealizzazione nel lavoro e attraverso esso, che operavano nella stessa teoria dell’alienazione, ed è possibile in questo modo riprendere la tematica dell’alienazione. Se, secondo Dejour, il la­ voro è inteso come un superamento della divaricazione tra intenzione e realizzazione, richiedente un tipo di confronto peculiare con la realtà la quale in caso di dubbio oppone resistenza - allora anche qui, in que­ stione, è la differenza tra modelli di appropriazione riusciti, falliti op­ pure deficitari. L’attività lavorativa è concepita non come ciò che è a di­ sposizione del soggetto, ma come un confronto pratico con il mondo -

42. Con questo è toccato anche il tema molto discussa con riferimento alle tesi di Lue Boltanski e di Ève Chiappello del paradossale servizio offerto dalla «critica artistica» all’alienazione. Si veda Boltanski L./Chiappello È., Il nuovo spirito del capitalismo, trad, it. Schianchi M., Mimesis, Milano 2015. 43. Cfr. supra pp. 87-97. 44. Anche Festl intraprende il tentativo di rivitalizzare il concetto di alienazione con lo sguardo al tema lavoro «in modo non essenzialistico», nella misura in cui assume come punto di riferimento normativo dell’alienazione non la perdita di una costante antropologica fondamentale dell’autorealizzazione nel lavoro, ma la non realizzazione di aspettative scaturite da esperienze passate. Cfr. Festl M. G., cit. Questo mi sembra un tentativo interessante, la cui riuscita, tuttavia, dipende dal modo in cui si attribuis­ ce legittimità a queste aspettative. Per una riflessione in una direzione simile si veda Jaeggi R./Kiibler L., cit.

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e quindi come una relazione, il cui fallimento è vissuto come dolore e alie­ nazione4546 . Democrazia e il politico Se la ricostruzione del concetto è quindi importante per la compren­ sione delle nuove forme di lavoro alienato, la produttività di questa stes­ sa ricostruzione emerge soprattutto quando ci si pone un’ulteriore que­ stione: ossia se il concetto di alienazione può essere esteso anche ad espe­ rienze al di fuori del lavoro, il che non vuol dire dilatarlo oltre misura per afferrare stati d’animo sociali più vaghi e poco localizzati e specifi­ cati. Si può vedere questa questione applicando il concetto di alienazio­ ne all’ambito dell’agire politico e della democrazia. Se l’alienazione non è intesa come la perdita di un’essenza, ma come l’impedimento di una determinata capacità di azione, ossia come un bloc­ co dei processi di appropriazione di sé e del mondo (Jaeggi) o di «con­ nessione con il mondo» (Rosa), allora essa è un problema legato al riferi­ mento agente al mondo. E se la tesi dell’alienazione non muove dal pre­ supposto che il mondo da cui ci si è alienati lo si è fatto e lo si controlla o lo si dovrebbe controllare, bensì dal ripensamento di questo riferimento come una prassi di coinvolgimento in un mondo mai pienamente dispo­ nibile, allora l’idea di un agire politico che supera l’alienazione è facil­ mente plausibile. Questo agire si sforza di dare forma politicamente al mondo (insieme con altri) e di porsi in un rapporto attivo con le condi­ zioni di vita collettive. In questo senso, Paul Sòrensen estende la teoria dell’alienazione in una teoria dell’alienazione politica^ e anche John Medearis segue una linea di ricerca simile quando contrappone democrazia e alienazione nell’ambito di una teoria della democrazia47. Il punto fon­ damentale di questa discussione politica dell’alienazione, interna ad una teoria della democrazia, consiste nella doppia interpretazione della con­ nessione tra politica o democrazia e alienazione: non solo la democrazia, le istituzioni politiche (democratiche) sono un ambito dal quale e nel quale ci si può alienare, come provano i fenomeni di apatia politica, di 45. Cfr. Dejours, cit. Sulle obiezioni al «modello di esteriorizzazione del lavoro» e alla «metafora dello spècchio» con cui è concepita l’autorealizzazione attraverso il lavoro cfr. Lange E.-M., Das Prinzip Arbeit, Berlin 1981. 46. Cfr. Sòrensen P., cit. 47. Cfr. Medearis J., cit.

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ritiro dalla politica o la percezione dell’atrofizzazione delle istituzioni politiche. Si potrebbe dire che è l’alienazione stessa un problema politi­ co: un problema dell’agire politico o anche del non poter agire politico. Le nostre pratiche e istituzioni democratiche non sono solo un campo ulteriore in cui può dominare l’alienazione; la democrazia - l’autogover­ no democratico e l’agire politico democratico - sono anche la chiave per comprendere e per superare l’alienazione. Detto in modo più preciso: è il medium in cui dovrebbe avvenire l’appropriazione non alienata del mondo, in quanto qui sono in questione la riflessione collettiva e la mes­ sa in forma delle nostre comuni condizioni sociali di vita. In questo senso, la contrapposizione compiuta da John Medearis tra «alienazione e democrazia» porta ad evidenza una connessione impor­ tante: la democrazia è una continua «struggle against alienation»48. Le lotte collettive - dalle proteste poco notate contro le pratiche economi­ che di Walmart fino a Occupy Wall Street - sono istanze di lotta contro l’alienazione, in cui deve essere riconquistata una capacità di agire e un potere d’interpretazione nei confronti delle strutture sociali che si sono autonomizzate. All’opposto di ciò, quindi, l’alienazione è il complesso di atti di ap­ propriazione bloccati e il blocco di esperienze collettive che impedisco­ no questa partecipazione e questa messa in forma, o anche, secondo la formulazione di Sorensen, guadagnata sullo sfondo del confronto con la discussione francese, la «chiusura del politico». Il sentimento di per­ dita di potere e l’incapacità di porsi in relazione con sé e con il mondo che ne risultano, concernono direttamente i fondamenti della politica de­ mocratica. In questo senso chi è alienato, è «senza parte», è in modo sottile derubato della sua parte nel mondo49. Il fatto che il superamento dell’alienazione non può essere concepito come la riconquista di una familiarità originaria, ma solo come un’appropriazione attiva e colletti­ va del mondo, può essere definito come una specifica appropriazione po­ litica del mondo - di carattere specificamente moderno50.

48. Ivi, cap. 5. Si veda anche Christman J., The Politics of Persons: Individual Autono­ my and Socio-historical Selves, University Cambridge Press, Cambridge 2009. 49. Nella sua eccellente ricerca Paul Sorensen sviluppa questa tesi muvendo da Marx facendo riferimento a Hannah Arendt e Cornelius.Castoriadis. Cfr. Sorensen P, cit. 50. Questo lo sottolinea anche Rosa nella sua bella introduzione al libro di Sòrensen, ponendo in una (leggera) tensione questo tono attivistico così guadagnato con le sue proprie riflessioni.

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IV. Si può leggere nell’alienazione un’esperienza fondamentale dell’esse­ re umano oppure stilizzarla come l’inevitabile e originaria lacerazione della nostra esistenza. Il mio interesse per questo concetto, tuttavia, è rivolto ad esso in quanto concetto della critica sociale. Come tale, esso ha di mira i rapporti e le istituzioni sociali che causano o rafforzano l’a­ lienazione dei soggetti. Il mio scopo è stato quindi quello di rendere accessibile questo con­ cetto come una risorsa della critica sociale, nel solco della tradizione della teoria critica. Tuttavia, come ha notato Frederick Neuhouser nella sua appassionata recensione del libro, l’analisi delle condizioni sociali dei fenomeni di alienazione è rimasta incompiuta51. Se in questione sono pri­ mariamente i fenomeni di alienazione dei soggetti, rimane fuori dall’in­ dagine «l’analisi della controparte, ossia l’analisi e la valutazione della struttura delle istituzioni», come io stesso sottolineo nell’ultima frase del libro. Ci si può dispiacere per questo. E tuttavia l’affermazione di un recensore meno equilibrato nei miei confronti che «la prospettiva di una trasformazione dei rapporti sociali non fa parte della determinazio­ ne di una vita non alienata qui delineata» o che questa determinazione incoraggia perfino un acritico «predisporsi» del singolo ai rapporti dati o addirittura un «adattamento attivo al progetto di vita neoliberale»52, di­ sconosce non solo lo statuto metodico delle mie riflessioni, ma non ve­ de nemmeno i luoghi del testo che rinviano ad un’analisi di questo tipo, ossia dove si parla del tipo di offerte di ruoli sociali, della loro mancan­ za di alternative, della dinamica di autonomizzazione dei rapporti so­ ciali o del carattere limitante delle offerte d’identificazione. Detto di­ versamente: la mia analisi presuppone che esista questa «controparte» e che le istituzioni in cui gli individui alienati sono irretiti sono pratiche e strutture sociali - e senza questa presupposizione non è nemmeno possibile comprendere sensatamente il fenomeno dell’alienazione. Nel­ la misura in cui l’alienazione è inoltre una condizione da superare - che 51. Cfr. Neuhouser E, Review of Rahel Jaeggi, Entfremdung, in «Notre Dame Review of Books», http://ndpr.nd.edu/news/entfremdung-zur-aktualit-228-t-eines-sozialphilosophischen-problems/. Ringrazio anche Richard Bernstein per le ripetute domande su questo punto. 52. Così la recensione di Armin Kuhn. Cfr. Kuhn A., Jaeggi, Rahel, Entfremdung. Zur Aktualitàt eines sozialphilosophischen Problems, in «Das Argument», 268,2006.

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si può superare, ma anche che deve essere risolta - l’analisi ha di mira la trasformazione critica di questa controparte. Le ragioni di una perdita d’identificazione alienante e di un rappor­ to deficitario di appropriazione del mondo non possono essere trovate soltanto nel soggetto, già solo perché in questione sono sempre prassi e rapporti con sé e con il mondo già da sempre sociali. Il fatto che la mia ricerca prenda in considerazione primariamente il versante del soggetto, quindi, non significa che io presenti l’alienazione come un problema sog­ gettivo, ossia che la separi dalle sue dimensioni sociali e la ponga in rela­ zione solo con fenomeni individuali o psicologici53, o perfino che voglia rendere l’individuo alienato responsabile della sua condizione. La critica sociale svolta nel quadro di una teoria dell'alienazione si ri­ volge alle istituzioni che causano l’alienazione. Quali trasformazioni del­ le istituzioni esistenti siano necessarie per superare l’alienazione così de­ scritta e in che senso ci sia bisogno di un radicale cambiamento dei rapporti esistenti, sono tutte questione che spettano ad un’analisi con­ creta della società, che localizza l’alienazione all’interno di una concre­ ta formazione storico-sociale, di una concreta forma di vita storica o ordine sociale e istituzionale. Un’analisi e una critica del capitalismo svolta alla luce di una teoria dell’alienazione troverebbero qui il pro­ prio luogo naturale e, in caso di dubbio, le riflessioni di ordine struttu­ rale qui proposte possono essere inscritte nel quadro teorico qui deli­ neato54. 53. Naturalmente, ci possono essere anche problemi psichici individuali o «malattie» che possono essere descritte con il concetto di alienazione. Heinz, per esempio, discu­ te in modo istruttivo l’«alienazione» come una possibile chiave per comprendere il con­ cetto di malattia psichica. Heinz A., cit. Se però non si vuole perdere di vista la di­ mensione sociale delle malattie psichiche, allora questi rapporti patologici non posso­ no essere l’oggetto di interesse della filosofìa sociale; quest’ultima deve piuttosto analizzare le «malattie della società». Come chiarisce la discussione condotta da Neuhouser (Neuhouser F., Rousseau und die Idee einer pathologischen Gesellschaft, in «Politische Viérteljahresschrift», 53 (4); Id., Marx (und Hegel) zur Philosophic der Freiheit, in Jaeggi, R./Loick, D., a cura di, Nach Marx. Philoosphie, Kritik, Praxis, Ber­ lin 2013; Honneth A., Die Krankheit der Gesellschaft. Annhdherung an einen nahezu unmòglichen Begriff, in «WestEnd», 11 (1) 2014) se il concetto di patologie sociali de­ ve avere valore filosofico aggiunto, allora con esso deve essere messo a tema qualcosa di diverso dalla semplice aggregazione di patologie individuali. 54. Sulla problematica di una critica del capitalismo fondata su una critica dell’alie­ nazione si veda anche la mia discussione in JAEGGI R., 2016, Economy as a Social Practi­ ce, cit.

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In questo contesto non posso intraprendere questa indagine sul ver­ sante sociale e istituzionale. Questo richiederebbe un nuovo libro e non solo una postfazione. Devo però rispondere alla domanda che è stata sol­ levata, ossia se l’approccio da me sviluppato rende possibile compiere questo passo successivo oppure copra in termini sistematici il contenu­ to critico del concetto.

Alienazione in quanto categoria riferita al sé e alle strutture sociali La mia tesi è quindi che l’alienazione non è affatto un disturbo uni­ voco della relazione, che concerne soltanto il lato del soggetto. La «re­ lazione in assenza di relazione» è una relazione biunivoca. Il vissuto (sog­ gettivo) dell’alienazione, il rapporto deficitario che si ha con il mondo, reagisce a corrispondenti deficit che riguardano il «lato del mondo»: il versante delle istituzioni politiche e sociali, i modelli di comportamento sociali disponibili, i rapporti di lavoro e di consumo o, più in generale, i modi di condurre la vita che sono socialmente offerti. Il concetto di alienazione concerne sempre entrambe le cose, in quanto mette a tema questo punto di sutura. Se, come giustamente pone in evidenza Soren­ sen, l’alienazione è «una categoria che si riferisce tanto al soggetto quan­ to alla struttura»55, non si deve esaminare la sensazione soggettiva di alienazione astraendo dalle strutture e dalle istituzioni che rendono pos­ sibile e plasmano la vita individuale degli attori e che, in certi casi, la li­ mitano dolorosamente. Se tuttavia, in chiave di filosofia sociale e di critica sociale, si vuole andare al di là della mera affermazione che le istituzioni e le pratiche sociali hanno effetti negativi sugli individui, allora si deve chiarire me­ glio, in merito al problema dell’alienazione, il rapporto che è presup­ posto tra individuo e società, tra soggetto e struttura. Non è affatto ov­ vio affermare - e la mia ricerca serviva proprio a chiarire questo nodo concettuale - che i soggetti sono a tal punto «influenzati» dal mondo da potersi, in questa stessa relazione, alienarsi da se stessi e dal mondo.

55. Cfr. Sòrensen 2016, cit., che si richiama qui a Jaeggi R., Entfremdung, Campus Verlag, New York/Frankfurt 2005 e a JAEGGI R., Freiheit als Nicht-Entfremdug, in Hon­ neth A./Hindrichs G., (a cura di), Freiheit. Internationaler Hegelkongress, Frankfurt/M. 2011.

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E diventa meno ovvio chiedersi in che modo il «mondo» può esercita­ re i suoi effetti sul soggetto se la questione non è semplicemente quella di attribuire correttamente la causa dell’alienazione ad uno dei due poli. Non si comprende da sé il fatto che determinate caratteristiche del mondo (sociale) «causano» esperienze di alienazione individuale. In questo senso, anche 1’ «interfaccia» tra individui e istituzioni de­ ve essere analizzato in modo più preciso56. Il concetto di prassi, elabo­ rato in chiave di teoria sociale, e la ricostruzione dell’alienazione come contesto (alienato e alienante) pratico e istituzionale vanno in questa direzione57. Nella prospettiva di una ricostruzione in chiave di teoria della prassi - nei termini in cui l’ho proposta in Kritik der Lebensformen con riferimento alle forme di vita sociali, intese come «fasci inerti di pratiche sociali» - le pratiche sociali si sedimentano in istituzioni e di­ ventano limitazioni e condizioni strutturali del nostro agire. Se questo è dunque il terreno in cui emerge l’alienazione, ci sono due conseguen­ ze: 1) se si intende l’alienazione come prassi sociale e si muove dall’as­ sunto che una prassi rappresenta il modello di comportamento (già da sempre sociale) in cui ci muoviamo e che allo stesso tempo riproducia­ mo, allora la prassi sociale determinata dall’alienazione è allo stesso tem­ po alienata e alienante. Produce alienazione e d’altro canto è un pro­ dotto di alienazione. Così si può comprendere da un altro punto di vi­ sta anche il rapporto apparentemente paradossale per cui noi, da alienati, ci vediamo dominati da qualcosa che abbiamo «fatto», o detto diversamente: le pratiche sono allo stesso tempo «date e fatte». Ci pre­ scrivono modelli di azione, ma questi esistono solo perché gli attori so­ ciali agiscono nel quadro di questi modelli. 2) Dal momento che le pra­ tiche sociali (anche nella forma di ruoli e istituzioni), in quanto model­ li di comportamento sovraindividuali, sono allo stesso tempo possibilitanti e limitanti - appunto, come io ho accennato nelle mie ri­ flessioni sui «ruoli»58, generano innanzitutto le possibilità di azione in­ dividuali - il versante «soggettivo» e quello sociale non possono essere separati, suggerendo che il versante istituzionale per così dire sempli56. Questa concezione è condivisa anche da Medearis J., cit. Con il rinvio alla teoria del­ la strutturazione di Giddens egli propone una via simile a quella da me proposta. 57. Ho elaborato in modo dettagliato questa comprensione delle pratiche sociali in Jaeggi, Kritik der Lebensformen, cit. 58. Cfr supra, pp. 42-44.

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cernente «impatta» su quello individuale. Gli effetti di questo rappor­ to non sono causali ma costitutivi.

Non essere a casa in un mondo dove non vi è alcuna dimora

Se però l’alienazione è una relazione biunivoca ne consegue qualcosa di ulteriore: l’alienazione è il non essere a casa in un mondo dove non vi è alcuna dimora. Sul piano soggettivo, essere alienati significa non potersi sentire «a ca­ sa» nel mondo sociale (quindi: non avere fiducia nelle istituzioni socia­ li, non potersi identificare con esse o non poterle fare proprie). La di­ mensione oggettiva dell’alienazione59 rimanda invece al fatto che il mon­ do sociale non offre alcuna occasione per un’identificazione di questo tipo e non offre alcuna possibilità di appropriazione. Esso è, per rima­ nere nella metafora, «inabitabile»60. Ma come deve essere fatto il mondo perché ci si possa sentire a casa in esso? Cosa devono offrire le istituzioni affinché gli individui, relazio­ nandosi ad esse, possano «ritrovarsi in esse» e non alienarsi in questa identificazione e proprio in virtù di questa identificazione? Quando un’i­ stituzione è «appropriabile»? E che cosa caratterizza un contesto di pras­ si sociale tale da non offrire alcuna (o solo deficitarie) possibilità di rife­ rimento appropriante, che quindi, in un certo senso, non è una «casa abi­ tabile»? Esempi che possono chiarire intuitivamente simili istanze sociali di alienazione possono trovarsi facilmente: sono cause strutturali di alie­ nazione i rapporti di lavoro prima ricordati, che offrono agli individui o troppo poche possibilità d’identificazione oppure li costringono a false identificazioni. La gentrification delle nostre città e l’omogeneizzazione di spazi pubblici urbani che ne consegue possono essere definite alie­ nanti, in quanto portano alla frammentazione di esperienze sociali e al blocco di possibilità d’azione solidali. E possibile ahche affermare che la logica di consumo del nostro tempo libero o la nostra esistenza me­ 59. La differenza tra alienazione soggettiva e oggettivay che è stata introdotta nella dis­ cussione, è parzialmente sviante perché rischia di scambiare la domanda sulla validità oggettiva con la domanda sul luogo dell’alienazione - nel soggetto o nelle istituzioni sociali. In questo senso sarebbe meglio qui parlare della dimensione non soggettiva, che risiede nel lato del mondo sociale. 60. Devo questa espressione a Terry Pinkard.

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diatizzata promuovano forme alienate di rapporto con sé stessi; ci si può spingere ad affermare che la logica del mercato in generale offra mo­ dalità di relazione univoche e strumentali. E anche lo stato in cui versa lo spazio pubblico e politico di alcune società, il predominio di non­ luoghi61 che ostruiscono identificazioni, può essere descritta come osti­ le all’appropriazione e alienante. Ma: cosa rende propriamente il mondo appropriabile oppure inap­ propriabile - anche in relazione agli esempi qui presentati - non è in al­ cun modo autoevidente. Volgiamo lo sguardo a quattro tentativi di spiegazione: il «romantico», l’hegeliano, quello che punta sul motivo del «dare una forma» e quello che si riallaccia ad una teoria della risonanza. Le risposte «romantiche» di vario genere alla domanda sulle condi­ zioni di appropriabilità suonano, come è noto, in questo modo: patria, storia, tradizione e identità. Il fatto che le istituzioni abbiano la qualità di essere «casa propria» è legato quindi alla loro capacità di fornire pun­ ti di sostegno e spazi d’identificazione. Simili «identificazioni amorevo­ li» si fondano su: provenienza, discendenza, prossimità, legami personali (per lo meno in forma indiretta), ma anche storia, che unisce ciascuno a qualcosa; esse possono fondarsi su particolarità di storie di vita e d’i­ dentità - come l’amore - e sono per certi versi infondate e incondizio­ nate. Secondo questo modo d’intendere «l’essere a casa» le istituzioni so­ no invece respingenti, fredde, senza amore o inaccessibili, se rendono difficoltose queste identificazioni agli individui. La critica culturale è colma di lamenti e di descrizioni di simili mo­ menti che favoriscono alienazione e impediscono identificazione. E que­ ste osservazioni non sono nemmeno totalmente false. Il punto è che si perde di vista in modo troppo affrettato il fatto che, in una teoria critica dell’alienazione, non ogni tipo d’identificazione è normativamente au­ spicabile. Ci sono anche identificazioni e desideri d’identificazione pro­ blematici o persino regressivi. Se si considera per esempio la messa in scena perfino sacrale degli Apple-Flagship-Store o l’estasi collettiva che accompagna l’apparizione di nuove varianti di iPhone, allora risulta evi­ dente che il capitalismo non offre solo «non-luoghi», ma anche qualco-

61. Così Augé M., Non luoghi, trad, it Rollan D., Milani G., Elèuthera, Milano 2010. In ogni caso non si dovrebbe sottovalutare proprio in questo caso la capacità dei sog­ getti di un’appropriazione contraddittoria.

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s’altro in termini di possibilità d’identificazione, ossia esperienze comu­ nitarie e perfino esperienze di risonanza. E viceversa, anche quelle for­ ze sociali che sono alla ricerca di argomenti per politiche xenofobe e di esclusione possono lamentarsi per la perdita alienante di «patria» e «identità». (Adorno, lui stesso senza dubbio un teorico dell’alienazio­ ne, ha da sempre messo in guardia da questa sfumatura del concetto: nel concetto dell’alienazione risuona l’odio contro l’estraneo). Un’alternativa a questa concezione è quella hegeliana, per certi ver­ si condivisa anche da Marx (anche se con segno invertito): un contesto di pratiche e d’istituzioni capace di rendere un ordine sociale un ordi­ ne etico non alienante (appropriabile), deve essere un ordine etico ra­ zionale. Le istituzioni sociali, perfino il mondo sociale nella sua inte­ rezza, al di là di ogni malinteso cognitivistico oppure volontaristicoemozionale, deve offrire possibilità d’identificazioni razionali o di appropriazioni razionali, e non semplicemente (come ho detto prima) d’identificazioni amorevoli. Un ordine sociale è - secondo la formula­ zione di Terry Pinkard - «inabitabile», se non soddisfa questa pretesa. L’appropriabilità del mondo è qualificata quindi nel modo seguente: es­ sa è presente (solo) se si può rappresentare la partecipazione a prati­ che e istituzioni sociali come partecipazione ad un contesto di prassi cooperativa, in cui si può essere liberi in un modo specifico (sociale). In questo senso, un ordine sociale non alienante e non alienato deve offrire pratiche e istituzioni alle quali è sensato partecipare, sensato in riferimento alla realizzazione dei nostri scopi essenziali (Neuhouser): nelle quali quindi come individui ci determiniamo in qualcosa e ci espri­ miamo come qualcosa, potendo esperire noi stessi come liberi. Gli in­ dividui sono «a casa» nelle pratiche sociali e nelle istituzioni, in quanto hanno un posto nell’ordine sociale e possono realizzarsi - in più sensi: trovare la loro esistenza - in esso. Una terza risposta (compatibile con l’idea di un ordine etico raziona­ le) alla domanda circa i tratti di un mondo appropriabile è già stata evo­ cata in relazione al tema dell’alienazione politica. Nel mio libro io pro­ pendo per essa, con la formula del «poter disporre di se stessi» a livello in­ dividuale e collettivo: il potere di dare forma. Non la distruzione d’identità, di comunità, di «patrie» originarie, di legami tradizionali o di abitudini conduce all’alienazione, ma - pensato in modo dinamico - l’in­ capacità di porsi in relazione alla dinamica di cambiamento, di dare ai rap­ porti una forma politica. Il mondo non è allora (nel senso della prove­

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nienza) di per sé una dimora62, ma deve essere reso tale - deve essere ap­ propriato in quanto tale. Corrispondentemente l’accessibilità ai tentativi d’imprimere su di esso una forma, nel senso di un’autodeterminazione de­ mocratica volta a dare forma a istituzioni economiche, sociali, politiche, è ciò che lo rende un luogo non alienato. Per questa interpretazione, quin­ di, il mondo non preclude identificazioni perché è troppo poco stabile, è insicuro o non (ri-)conoscibile dagli individui, ma al contrario perché è troppo poco - o in una maniera falsa - dinamico. In un’imponente monografia Hartmut Rosa ha esposto un’interpre­ tazione, secondo la quale il concetto opposto a quello di alienazione è quello di risonanza. Secondo questa interpretazione, il carattere alienante del mondo consiste in ciò, che esso è «muto», ossia non è più capace di risonanza. La risonanza è qui intesa come una relazione e per certi aspet­ ti come un rapporto di tensione: entra in gioco tra un mondo che in quanto corpo risonante è adatto, e un soggetto che può riprendere le vibrazioni che provengono dal mondo. Questo rapporto di risonanza, sempre precario e per certi versi anche inafferrabile, non deve essere con­ fuso con le «identificazioni amorevoli» da me criticate, perché non ha un carattere «identitario» né è legato fin dall’inizio a tradizione e discen­ denza. Anche la risonanza è un rapporto fluido che deve essere guada­ gnato. La differenza decisiva rispetto al concetto, da me preferito, del po­ ter disporre (individualmente e collettivamente) giace nella dimensione dell’indisponibilità che Rosa ascrive al rapporto di risonanza. Mentre per me la soluzione del problema dell’alienazione è una determinata idea, de­ bitamente arricchita, di autodeterminazione o di libertà sociale e positi­ va, per Rosa quest’ultima soluzione è ancora parte del problema63. Abbiamo così raggiunto lo stadio di un autentico dibattito (che per certi versi si svolge già da anni), propizio alla rivitalizzazione del concet­ to di alienazione. Da parte mia, io sono chiamata a chiarire il fatto che la mia concezione dell’avere disponibilità su di sé e dell’appropriazione del mondo nella forma di un’autodeterminazione che dà forma ad esso, non coincide con un tipo di rapporto strumentale con il mondo e con sé, ciò che per Rosa (comprensibilmente) è parte della problematica dell’alie­

62. Riallacciandosi a Bloch Sòrensen propone su questo punto un’appropriazione non conservativa e non orientata alla conservazione del concetto di patria. Seguire ques­ to tentativo oppure no è una questione di concetti politici. Cfr. SÒRENSEN, cit. 63. Cfr. Rosa H., Resonanz. Rine Soziologie der Weltbeziuhung, Berlin 2016, cap. 4.

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nazione. D’altra parte, a parer mio, Rosa può sottrarsi al rimprovero che la sua prospettiva non si differenzia dalle critiche all’alienazione di stam­ po anti-moderno, solo se riesce a presentare il suo concetto di risonanza come una forma di autocritica della modernità (come egli ha fatto con il concetto di accelerazione). La domanda sollevata in precedenza su una buona e una cattiva risonanza e su come possano essere identificati mo­ menti di risonanza regressivi (l’esempio con cui Rosa è costretto sempre a confrontarsi è quello del fascismo, che potrebbe passare per un feno­ meno di risonanza, ciò che Rosa ovviamente contesta radicalmente), può trovare una risposta solo chiarendo in termini complessivi il punto di ri­ ferimento normativo della critica dell’alienazione. Non è questo il luogo per portare avanti questo interessante dibatti­ to sul modo in cui intendere l’alienazione: come un concetto opposto a quello di risonanza oppure come una complessiva forma deficitaria di appropriazione e del potere di dare forma. Qui forse non è in questione nemmeno tanto la giusta interpretazione del concetto quanto piuttosto il suo ambito di applicazione. Se «alienazione» è il nome di una struttu­ ra molto generale allora la prospettiva della mia ricerca è quella di una teoria moderna dell’alienazione - che non si sviluppa come critica della modernità, ma come la sua autocritica. La critica dell’alienazione può essere concepita allora in modo imma­ nente e negativistico, come una contraddizione tra la promessa dell’auto­ determinazione moderna e la sua mancata realizzazione o la sua sistema­ tica elusione, quindi non necessariamente all’interno di una teoria della buona vita oppure di un concetto forte di vita riuscita - come invece aspira ad essere quello di «risonanza». La valutazione nella sua interezza di questa forma di vita, legata a questi valori, può essere svolta di nuovo nella forma di una critica delle forme di vita: il criterio per misurare la loro buona riuscita o il loro fallimento è se la loro dinamica è determina­ ta da processi di esperienza che si arricchiscono o viceversa da blocchi sistematici di esperienza - di cui certamente l’alienazione è uno.

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Indice

Prefazione Introduzione del curatore

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ALIENAZIONE

Introduzione

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I. La relazione in ASSENZA DI RELAZIONE: RICOSTRUZIONE DI UN TEMA DELLA FILOSOFIA SOCIALE

1. A stranger in the world that he himself has made Il concetto e il fenomeno dell’alienazione 2. Exursus: Marx e Heidegger, due varianti della critica dell’alienazione 3. Struttura e carattere problematico della critica dell’alienazione 4. Poter disporre di se stessi- Ricostruzione del concetto di alienazione

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IL Vivere la propria vita come una vita estranea: QUATTRO CASI

1. Le stesse cose ritornano - Il senso d’impotenza e l’autonomia delle proprie azioni 2. «Un uomo sbiadito, dimezzato, estraneo, artefatto»Ruoli sociali e perdita di autenticità 3. Lei come se non fosse lei - Alienazione da se stessi come scissione interiore 4. Come attraversare una parete di vetro - Indifferenza e alienazione da sé

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III. L’alienazione come appropriazione disturbata DI SÉ E DEL MONDO

1. Come una struttura di zucchero filato', essere se stessi come appropriazione di sé 1.1 II se come processo di appropriazione 1.2 Indisponibilità e interiorità 1.3 Invenzione di sé e molteplicità di sé 2. Vivere la propria vita - autodeterminazione, realizzazione di sé e autenticità 2.1 Autodeterminazione e alienazione da sé 2.2 Realizzazione di sé e appropriazione del mondo 2.3 Alienazione da se stessi e unicità 3. Conclusione: essere se stessi nell'altro socialità del sé, socialità della libertà

Postfazione alla seconda edizione Bibliografìa

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