Alcuni aforismi su religione e deismo (frammento). Testo originale a fronte 9788898694198, 9788898694785

Nell'estate del 1790, alle prese con i ricorrenti problemi economici, Fichte accetta di impartire lezioni private s

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Alcuni aforismi su religione e deismo (frammento). Testo originale a fronte
 9788898694198, 9788898694785

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Johann Gottlieb Fichte
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Johann Gottlieb Fichte Alcuni aforismi su religione e deismo. (Frammento) con testo tedesco a fronte con una introduzione di

Giannino Di Tommaso

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Quaderni della Rivista

Il Pensiero

Collana diretta da:

Vincenzo Vitiello e Massimo Adinolfi

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Quaderni della Rivista Il Pensiero | 1

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Johann Gottlieb Fichte Alcuni aforismi su religione e deismo. (Frammento) con testo tedesco a fronte Traduzione italiana e introduzione di Giannino Di Tommaso

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Titolo originale

Einige Aphorismen über Religion und Deismus. (Fragment.)

© 2015, INSCHIBBOLETH EDIZIONI, Roma. Proprietà letteraria riservata di Inschibboleth società cooperativa, via A. Fusco, 21 - 00136 - Roma www.inschibbolethedizioni.com e-mail: info@ inschibbolethedizioni.com Quaderni della rivista Il Pensiero ISSN: 2464-935X n. 1 - ottobre 2015 ISBN – Edizione cartacea: 9788898694198 ISBN – E-book: 9788898694785 Copertina e Grafica: Ufficio grafico Inschibboleth Immagine di copertina: Johann Gottlieb Fichte

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Alle origini del «sistema della libertà» di Fichte: Alcuni aforismi su religione e deismo di Giannino Di Tommaso

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Il testo di Fichte, da lui intitolato Alcuni aforismi su religione e deismo, di cui fornisco la traduzione italiana a conclusione di queste riflessioni introduttive, ha un valore che va ben al di là del numero esiguo di pagine che lo compongono poiché, da un lato segna una svolta importante nella maturazione filosofica complessiva di Fichte, dall’altro – ed è l’ipotesi che propongo –, anticipa di un quarantennio la condizione spirituale dalla quale scaturirà un nuovo indirizzo nell’evoluzione del pensiero filosofico del secolo successivo. Per quanto concerne il primo aspetto, si avrà modo di notare che proprio mentre si esprime con nettezza a favore del determinismo, negando in modo reciso e convinto ogni spazio per

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la libertà del volere, Fichte avanza con cautela una riserva che, soprattutto alla luce degli allora imminenti sviluppi del suo pensiero, suona come l’annuncio di un radicale cambiamento di prospettiva1. Quanto al secondo aspetto, mi riferisco anche in questo caso alla riserva fichtiana che lascia emergere il dissidio tra filosofia e religione o, nei termini utilizzati nello scritto, tra cuore e intelletto, con la conseguente necessità, in prospettiva, di decidere se innalzare a unica e ultima istanza la religione o la filosofia. Quando, dopo aver lasciato insieme lo Stift di Tubinga, i giovani pastori D.F. Strauß e Ch. Märklin si trovarono a predicare il vangelo ai loro fedeli2, si accorsero che la loro precedente 1. Nella sua ponderosa ricostruzione dell’evoluzione spirituale del padre, Immanuel Hermann Fichte dichiara, a proposito degli Aforismi, che essi gli sembrano «costituire il passaggio tra la precedente veduta deterministica e la successiva teoria del criticismo» (I.H. Fichte, Johann Gottlieb Fichte’s Leben und litterarischer Briefwechsel, 2 voll., I.E. v. Seidel’schen Buchhandlung, Sulzbach 183031, I, p. 145; 2^ ediz. accresciuta di molto e migliorata, I.A. Brokhaus, Leipzig 1862, p. 106). 2. I due amici, insieme con altri loro brillanti compagni di corso, conclusero gli studi universitari con esiti tanto lusinghieri da far parlare di una «Genienpromotion», di una

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fiducia nella conciliazione hegeliana tra religione e filosofia non reggeva e che al suo posto subentrava, invece, un divario che imponeva una scelta univoca tra l’una o l’altra. I due amici si videro allora confrontati con la medesima alternativa e con il medesimo dissidio evocato da Fichte nell’ultimo dei suoi aforismi; da tale dissidio maturerà la perentoria presa di posizione di Strauß a favore della filosofia che sarà, com’è noto, all’origine della scissione della Scuola hegeliana e del conseguente nuovo orientamento filosofico inaugurato e sostenuto dalla cosiddetta Sinistra hegeliana. 1. Determinismo e libertà umana. Sappiamo con certezza che nei suoi anni giovanili Fichte ha aderito al determinismo ma, a parte gli Aforismi, non disponiamo di scritti nei quali abbia esplicitamente espresso questa sua posizione. Per ricostruirla, dobbiamo perciò rivolgerci alle testimonianze di contempo-

«promozione di geni». Dopo il conseguimento del titolo accademico, Märklin e Strauß iniziarono la loro carriera ecclesiastica destinata, com’è noto, a non essere fortunata e nemmeno lunga.

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ranei o alle indicazioni da lui stesso fornite in altri contesti, in particolare nell’epistolario. Il primo riferimento importante su questo tema è indiretto ed è offerto dal pastore K.G. Fiedler che, proprio riferendosi a una lettera di Fichte a lui indirizzata e andata perduta3, si esprime in termini allarmati sul suo contenuto, che gli ha suscitato il dubbio che l’autore fosse «unus ex illis», vale a dire uno spinoziano. Quella che a Fiedler appariva come l’accettazione della prospettiva spinoziana4 e, soprattutto, la negazione in essa contenuta della libertà del volere, 3. Cfr. la nota 1.1. di R. Lauth e H. Jacob a J. G. Fichte, Gesamtausgabe der Bayerischen Akademie der Wissenschaften, Reihe III, Bd. 1, Briefwechsel 1775-1793, Friedrich Frommann Verlag (Günter Holzboog), Stuttgart-Bad Cannstatt 1968, p. 8. D’ora in poi questa edizione sarà citata con la sigla GA, seguita dal n. romano della serie (I, Werke; II; Nachgelassene Schriften; III, Briefe), e dal n. del volume. 4. La questione della conoscenza di Spinoza e dell’influenza che questi avrebbe avuto su Fichte è da sempre dibattuta nell’ambito della Fichte-Forschung e, per una sua rapida illustrazione, mi permetto di rinviare alla nota n. 56 della Monografia introduttiva alla traduzione di J. G. Fichte, Meditazioni personali sulla filosofia elementare, a cura di G. Di Tommaso, di prossima pubblicazione presso l’Editore Bompiani.

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che Fichte sosteneva con lucidità, apparivano preoccupanti all’onesto pastore, che ne vedeva tutto il pericolo per la religione cristiana. Non a caso egli assimila Fichte agli scettici che, incerti su tutto, sono solo capaci di gettare scompiglio sulla prospettiva dei credenti, senza offrire loro un’alternativa. A proposito di quello che definisce l’idolo di Fichte, la necessità assoluta, egli non esita a riconoscerne i pregi: «La sua figura è esattamente proporzionata, la sua veste splendida, il suo volto ben disegnato», ma non omette di segnalarne anche i numerosi e ingombranti limiti: «soltanto, esso è sordo, muto ed è un ciocco, che è quel che è, è là dov’è, e non può essere altrimenti, perché è così»5. Malgrado queste consistenti riserve, Fiedler lo incoraggia a comporre e a spedirgli il saggio che Fichte, evidentemente, doveva avergli confidato di voler scrivere sull’argomento, ma di esso non abbiamo ulteriori notizie. In realtà l’unico testo in cui Fichte si esprime in modo conciso, ma con precisione, sul tema del determinismo sono, come anticipato, proprio

5. Lettera di Karl Gottlob Fiedler a Fichte, del 28 gennaio 1785, in GA, III, 1, p. 9.

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gli Aforismi, in cui tale sistema, sotto il nome di deismo, è messo in relazione con il cristianesimo. In apertura dello scritto, il cristianesimo viene visto come la religione per anime semplici, che rinunciano a una visione razionale di Dio e si accontentano di una divinità conforme alle esigenze del cuore; il deismo, invece, è presentato come la religione per gente colta e capace di innalzarsi alla speculazione. Mentre la religione cristiana si basa su pochi e semplici principi, ed è paga di rimanere all’interno della prospettiva da essi indicata, la ricerca razionale che li oltrepassa è destinata a sfociare in una concezione della divinità che nega in toto quei caratteri e quegli attributi di Dio che, per il cristiano, sono invece essenziali. Le limitate pretese in materia di coerenza razionale che il cristianesimo avanza, sono viziate dall’assunzione acritica della validità del punto di partenza, che deve essere anche quello di arrivo, mostrando in tal modo la completa soggezione a vincoli che la ragione non può riconoscere. Viceversa, la ricerca libera, guidata esclusivamente dalla ragione, che non si pone limiti nella retrocessione alla ricerca del fondamento, né obiettivi prestabiliti cui approdare nell’esercizio della propria attività, conduce di necessità

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al determinismo, e cioè a una concezione della divinità depurata da ogni componente di natura antropomorfica. Il cristianesimo viene, così, abbassato a religione per credenti che si rivolgono a Dio come a un padre, a un fratello, a un amico, aspettandosi da lui comprensione e vicinanza, oltre che la disponibilità ad accogliere e a soddisfare le esigenze presentate sotto forma di preghiere. La concezione razionale di Dio non può che respingere come fuorviante quell’atteggiamento e come illusorie quelle aspettative, dal momento che un Dio compassionevole e disposto a esaudire le preghiere degli uomini equivarrebbe alla pura e semplice negazione del concetto razionale della divinità. Infatti, dal punto di vista del deismo, aspettarsi che Dio cambi il proprio piano del mondo in funzione della preghiera e dei bisogni di un singolo, è indice della più grossolana incomprensione della sua essenza. Nella misura in cui non deve essere espressione di ingenuo o colpevole antropomorfismo, la divinità deve escludere da sé ogni forma di sentimentalismo e, in generale, di tutto ciò che abbia a che fare con caratteri

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contingenti e mutevoli6. L’unico attributo che può esserle riconosciuto è quello della necessità, e non è un caso che tale categoria modale, nelle sue varie declinazioni, compaia in ciascuno dei capoversi in cui si articola il capitale aforisma n. 15, dedicato a illustrare i caratteri di una religione puramente razionale. Qui è evidente che l’essenza eterna di Dio ne comprende l’esistenza necessaria, mentre, d’altra parte, la stessa esistenza del mondo e di ogni ente finito rinvia a Dio in modo altrettanto necessario. Di conseguenza, la contingenza del mondo è solo apparente, per il fatto che esso

6. Negli aforismi nn. 5 e 6 la presenza dell’antropomorfismo viene colta anche nella religione ebraica, ma il progressivo affermarsi di vedute più raffinate della divinità, grazie all’intervento incisivo della ragione, ne ha fatto via via scemare il carattere pervasivo che aveva in essa e nelle religioni pagane. Anche il cristianesimo (ma, più precisamente, Fichte sta pensando al cattolicesimo, come si evince dal riferimento al papato e ai santi) non è immune da contaminazioni di carattere antropomorfico, che in tale religione hanno assunto una nuova configurazione, basata sulla dottrina cattolica della mediazione (cfr. J.G. Fichte, Einige Aphorismen über Religion und Deismus. (Fragment.), in Id., GA, II, 1, pp. 287-291; le citazioni, con l’abbreviazione: EA, rinviano al n. dell’aforisma).

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riceve la propria realtà dal pensiero di Dio, dal quale mutua anche la necessità. Il pensiero di Dio è, dunque, alla base non solo della creazione dell’universo, ma anche di ogni mutamento che si verifichi in esso e la sua necessità inderogabile si esprime in ogni momento dell’esistenza del mondo, svelando che la vera e profonda natura del contingente è, piuttosto, la necessità7. Il rapporto che sussiste tra il pensiero originario di Dio e ogni ente finito è quello che lega tra loro la causa e l’effetto; inoltre, l’universalità e la necessità di quel nesso, ne fa la struttura portante su cui poggia l’intero universo, con7. Un’eco della persistenza di questo punto di vista può essere rintracciata nelle Eigne Meditationen, dove viene affermata l’equivalenza tra effettivo e necessario, con il conseguente assorbimento della realtà nella necessità, secondo la formula utilizzata in quel contesto: «ogni effettivo è necessario e questa proposizione, nella filosofia teoretica, è senza dubbio esatta». Solo qualche pagina dopo, tuttavia, Fichte è costretto a circoscrivere drasticamente la sua affermazione e a riconoscere che «questa proposizione è però trascendente, assoluta. In questo mondo molte cose effettive sono contingenti» (J.G. Fichte, Eigne Meditationen über die Elementar-Philosophie, hrsg. v. R. Lauth, H. Jacob, con la collaborazione di H. Gliwitzky e P. Schneider, in GA, II, 3, risp. p. 159 e p. 161; trad. it. (Meditazioni personali sulla filosofia elementare), cit.

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fermando la natura necessaria del contingente, che può apparire tale solo in mancanza di una visione adeguata e capace di coglierne l’autentico fondamento. Quel che, in questa prospettiva, va ulteriormente specificato, è che la causalità esercita il suo dominio assoluto non soltanto sull’universo fisico e sulla totalità degli enti diversi da noi ma, per quel che ci riguarda come uomini, anche sul nostro agire e patire8.

8. Cfr. 15, d). Sotto queste argomentazioni fichtiane non è difficile scorgere l’efficacia della lettura del romanzo popolare Alexander von Joch, Über Belohnung und Strafe nach Türkischen Gesetzen, J. A. Lübeck, Bayreuth u. Leipzig 1770, il cui autore è K. F. Hommel. Com’è noto, l’autore vi sostiene che la libertà umana è solo un’illusione derivante dall’impossibilità di conoscere i nascosti meccanismi che sono all’origine delle nostre azioni. Anche la volontà umana, come ogni altro elemento naturale, obbedisce all’universale concatenazione causale: «La parola: io “voglio” non significa altro che molte piccole ruote, nascoste profondamente nella natura, […] spingono sulla mia anima, affinché essa riceva l’inclinazione verso questa cosa» (K. F. Hommel, Über Belohnung und Strafe nach Türkischen Gesetzen, Neudruck der 2. Ausgabe von 1772, hrsg. v. H. Holzhauer, Erich Schmidt Verlag, Berlin 1970, p. 28). I numerosi esempi addotti da Hommel in questo spassoso volume sono tutti finalizzati a illustrare la tesi appena ricordata. Sull’importanza di tale romanzo per la

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Con questa sottolineatura siamo entrati in un ambito nuovo e delicato, poiché si sta affermando che la convinzione di ciascuno di noi, di agire liberamente e altrettanto liberamente determinare i nostri fini, ha invece una diversa spiegazione, che riconduce tutto a una necessità a noi tanto ignota e invisibile, quanto efficace e ineluttabile. Nella medesima prospettiva, anche gli sforzi fatti in vista della realizzazione di un progetto, scelto con apparente libertà, sono cosa vacua, poiché non soltanto il nostro essere, ma anche il nostro modo d’essere è determinato dalla necessità assoluta, che non avrebbe senso contrastare9. Così come Fiedler aveva definito l’idolo di Fichte condannato ad essere eternavisione deterministica di Fichte, cfr. H. Nohl, Miscellen zu Fichtes Entwicklungsgeschichte und Biographie, «KantStudien», XVI (1911), pp. 373 sgg., in partic. p. 374; X. Léon, Fichte et son temps. Avec de nombreux Documents inédits, 3 voll., Librairie Armand Colin, Paris 1954, I, pp. 53-54; cfr. anche la breve, ma efficace nota di C. Cesa, compresa tra le “Note e Notizie” del «Giornale critico della Filosofia italiana», N.S. VIII (1988), III, pp. 442-44. 9. Infatti, ricorda Fichte alla fidanzata, la riuscita o il fallimento delle nostre imprese «è i n t e r a m e n t e nelle mani dell’Eterno» (Lettera a M.J. Rahn (forse) del febbraio 1790, GA, III, 1, p. 57).

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mente quel che è e come è, impossibilitato alla minima variazione non prodotta in modo necessario dalla causalità, quasi con le medesime parole Fichte enuncia le vincolanti restrizioni che competono a ogni ente pensante: «Né il suo agire, né il suo patire possono essere, senza contraddizione, diversi da come sono» (EA, 15, d.). 2. Peccato e finitezza umana. Nella lettera e) dell’aforisma n. 15 si trova un’osservazione riferita al peccato, che tuttavia va ben al di là dell’ambito religioso e investe la dimensione ontologica del nostro esserci. Quel che per la coscienza religiosa va sotto il nome di peccato, assume agli occhi di Fichte e della speculazione una portata che rinvia alla struttura d’essere dell’uomo. La consapevolezza del peccato, che la coscienza religiosa collega a un comportamento contrario alla volontà di Dio, e che perciò richiede la necessità dell’espiazione al fine di ristabilire l’equilibrio turbato nel rapporto con il divino è, in realtà, radicata nella regione più profonda della nostra natura. La coscienza del peccato è certamente universale, ma è tale non secondo la spiegazione for-

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nita dal cristianesimo, che la fa risalire al peccato originale dal quale, notoriamente, nessuno è esente; bensì, per una ragione indipendente, anteriore alla volontà umana e insita nella finitezza che ci caratterizza e che costituisce l’orizzonte intrascendibile della nostra essenza. Riconoscere che ciascuno di noi è così com’è, significa riconoscere che siamo finiti, e la semplice esistenza individuale fornisce la vivente dimostrazione dell’universale validità della nota sentenza: «omnis determinatio est negatio». Dunque, è la nostra finitezza in quanto tale a essere alla base della coscienza della limitazione, vissuta come peccato e come colpa da espiare, e non viceversa. La religione cristiana attribuisce l’origine del peccato a un diretto o indiretto comportamento lesivo della volontà di Dio, con ciò facendola derivare da un nostro atto arbitrario. Poiché, però, la limitazione è un carattere necessario dell’esistenza umana, e questa, in quanto finita, dipende dall’esistenza necessaria di Dio, ne consegue che quel che religiosamente viene presentato come peccato, filosoficamente è piuttosto la traduzione, sul piano della coscienza morale, di quella originaria e intrascendibile finitezza del nostro esserci.

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3. Il cristianesimo come religione per le anime semplici. Quanto finora emerso conferma che cristianesimo e deismo si collocano in dimensioni diverse e parallele: il primo si auto-circoscrive all’interno dell’ambito in cui trova soddisfazione la coscienza credente e non si avventura sul terreno della speculazione; il secondo abita, invece, la regione più rarefatta cui ha libero ed esclusivo accesso la razionalità, che vi esercita la sua attività svincolata da ogni fede preconcetta. Proprio la diversità dei piani su cui, rispettivamente, si muovono, sembra garantire al cristianesimo e al deismo una totale autonomia, ciascuno al riparo da conflitti e ingerenze indebite da parte dell’altro. Non solo, ma Fichte si spinge a sostenere che la situazione descritta presenta perfino un non trascurabile vantaggio per il cristianesimo. Infatti il deismo, che sente come un limite fastidioso il rigore che si auto-prescrive e che invano cerca di superare, non vede di cattivo occhio il cristianesimo. Sicuro della propria solidità sul piano della coerenza concettuale e sapendo di non doverne temere la concorrenza, «lascia la sua piena validità soggettiva» (EA, 16) alla religione cristiana, e la onora come la migliore

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e più convincente delle religioni popolari. Per questo motivo, non esita a raccomandarla a coloro che, incapaci di innalzarsi al deismo a causa della scarsa dimestichezza con la riflessione e con la speculazione, sono invece sensibili ai bisogni che scaturiscono dal cuore e dai sentimenti. Come religione per le anime semplici, accessibile anche senza l’impegno di particolari risorse intellettuali e culturali, il cristianesimo si configura, al di là di valutazioni consolatorie e di facciata, come non più di un ripiego per colui che non è in condizione di aspirare a qualcosa di superiore. Fichte cerca di presentare tale religione nella luce migliore, ma lo fa soltanto in relazione agli aspetti per cui essa soddisfa il cuore, i sentimenti e le aspirazioni più comuni degli uomini, mentre riconosce che si ferma a un livello che, per essere pre-razionale, risulta oggettivamente insoddisfacente per chi si attende dalla religione anche risposte più articolate intorno ai problemi delicati che rientrano nel suo ambito. L’insistenza sulla semplicità del cristianesimo, sul fatto che esso sia riservato a gente culturalmente non molto ferrata, ai puri di cuore, agli ingenui, ai bambini può suggerire la non certo

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lusinghiera interpretazione che la sua validità sia desolatamente circoscritta ai contenuti che solo una coscienza non evoluta può accettare. Infatti, se al cristianesimo si applica la riflessione, questa ne oltrepassa i confini e vi trova una quantità di difficoltà e di contraddizioni insostenibili, già a un esame anche solo superficiale10. Quando dovesse verificarsi una situazione in cui la speculazione, insofferente di ogni limite, sottoponesse a esame critico i suoi principi e li trovasse inadeguati e contraddittori, si verificherebbero inevitabili contraccolpi a svantaggio del cristianesimo. In tal caso, il deista conseguente sarebbe ancora disposto a suggerire al credente di accettare quella cristiana come la migliore religione popolare? La scoperta di contraddizioni al suo interno lascerebbe intatta la fiducia nella capacità della religione cristiana

10. Non a caso le sottili idee dell’apostolo Paolo, in tema di predestinazione e di grazia divina, sono citate come esempi in cui le pretese speculative, applicate al cristianesimo, producono pericolose contraddizioni e rischiano di portare solo confusione nella mente semplice del credente, non attrezzata per i ragionamenti rigorosi. Il riferimento esplicito di Fichte è alla Lettera ai Romani, e quasi certamente a Rm., 8, 28-30.

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di soddisfare il cuore e i sentimenti? Oppure si dovrebbe adottare la conclusione radicale, cui invita la ragione, e cioè abbandonare definitivamente il cristianesimo, in quanto religione razionalmente insostenibile? Qui si fa avanti, con tutte le sue implicazioni, una configurazione del rapporto tra deismo e cristianesimo, tra cuore e intelletto, tra fede e ragione non più basata sul parallelismo tra i termini opposti, ma sulla loro confluenza in una unità comprensiva di entrambi, all’interno della quale può e deve valere un’unica regola comune. Le conseguenze che scaturiscono dalla nuova prospettiva sono tali da produrre una vera e propria rivoluzione, che sembrava finora scongiurata grazie alla distinzione di piani e di ambiti tra fede e speculazione e al rispetto reciproco tra deismo e cristianesimo. Invece, l’insorgere di un’esigenza insospettata, provoca uno scompiglio che stravolge i dati del problema, ed è significativo che Fichte la introduca come una specie di rivolta del cuore, di una sua «vendetta» nei confronti della speculazione (cfr. EA, 17). Il risultato che scaturisce dalla rivalsa che il cuore promuove nei confronti dell’intelletto mette a nudo l’incapacità della riflessione di far tacere in modo definitivo, e

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con un atto di imperio della ragione, un’altra e altrettanto essenziale facoltà umana. L’esercizio della più rigorosa speculazione, da parte del deista, non cancella dal suo animo l’esigenza di rivolgersi a Dio non solo con atteggiamento puramente contemplativo e sulla scorta di argomenti razionali, ma anche come uomo vivo e concreto, bisognoso di essere rassicurato nei momenti difficili della propria esistenza, a dispetto di ogni divieto derivante dalla visione razionale di Dio. Fichte osserva che ci possono essere momenti, nella vita di ogni uomo, e quindi anche nella vita del deista più radicale e conseguente, in cui la propria finitezza anela a una conciliazione con il divino che la ragione, nella sua purezza, non può che rifiutare, oppure accettare in forme lontane dalle modalità che appagherebbero il cuore e la sensibilità. Il fatto che i diritti di queste facoltà umane non siano riconosciuti dalla religione razionale, non significa che siano estirpati dall’animo umano, e quando quelle facoltà li reclamano, lo fanno con una forza insospettata e tale da imporre di essere ascoltate. Ma ascoltare la voce del cuore è ciò che c’è di più inconseguente e contraddittorio per la ragione, per la quale l’assolutezza della condizio-

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ne divina non contempla la presenza di ciò che è estraneo alla pura necessità del meccanismo causale, mentre il cuore non si esprime certo secondo il rapporto causa-effetto, ma secondo la legge dell’amore, che scardina dalle fondamenta il nesso di causalità. A sua volta, il cuore trova inadeguato alla sua misura quel che la speculazione pretende, ed esperisce come inadeguato sia alla ricchezza dell’umano, sia alla perfezione di Dio proprio quel che la speculazione presenta come esempio di coerenza perfetta. La contraddittorietà delle pretese del cuore agli occhi della speculazione trova, così, il suo contraltare nella unilateralità delle pretese della speculazione dal punto di vista del cuore, e ciò dà luogo a un conflitto in cui ora si accampano e si rivendicano, da ciascuna delle due parti e con uguale legittimità, diritti opposti. Fino a quando le esigenze del cuore, divise da quelle dell’intelletto, erano da questo rispettate (come accadeva quando il deismo si spingeva perfino a raccomandare l’adesione al cristianesimo a chi ne aveva bisogno), non c’era spazio per conflitti, né per rivendicazioni di egemonia da parte del cuore o dell’intelletto. Le due facoltà convivevano nella pacifica divisione di ambiti e di competenze, e anche se il deismo

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trovava senz’altro contraddittorio quel che il cuore pretendeva dalla religione, continuava tuttavia a rispettarla, per il fatto che i due ruoli si distribuivano tra due individui diversi, ciascuno dei quali esercitava con pieno diritto la propria autonomia e la libertà di seguire le proprie convinzioni. Le cose cambiano nel momento in cui, come Fichte rimarca nei due aforismi conclusivi, le diverse e opposte esigenze vengono a proporsi nell’animo di un unico individuo. In questo caso la pacifica convivenza tra opposti orientamenti non può più essere garantita, e s’impone la necessità di una risposta univoca e definitiva, che non potrà che scontentare una delle parti in causa. 4. Il ruolo della religione nella vita dell’uomo. La prospettiva muta ora radicalmente e, invece dei ragionamenti che interesserebbero discipline o facoltà contrapposte, Fichte chiama in causa direttamente l’uomo, chiedendosi esplicitamente come sia «da trattare un tale uomo» (EA, 18, corsivo mio). Il piano delle argomentazioni subisce un sensibile spostamento e il riferimento a «un tale uomo», cioè alla contraddittorietà di una coscienza reale, concretamente

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esistente, che custodisce nel suo animo sia la concezione razionale della divinità, sia il bisogno pressante di rivolgersi a Dio con il calore e la devozione che il cuore suggerisce, postula una soluzione finora mancante. Quell’uomo, lacerato nel più profondo, ha urgente bisogno di uscire da tale dolorosa situazione e la via d’uscita, essendo ormai stata consumata la parvente soluzione che consentiva la tollerante formula et-et, sembra prendere invece la piega di un più duro e inevitabile aut-aut. Quest’ultima formula impone una scelta che, come ogni positiva accettazione di qualcosa è, insieme, esclusione e negazione di altro. Ed è esattamente in questo punto che si concentra la drammaticità della situazione attuale, che trascende l’individualità di Fichte, il suo stato d’animo personale, per manifestarsi nella sua portata universale, nella quale una delle due facoltà umane in gioco deve necessariamente vedere negati i propri diritti e, ovviamente, recalcitra davanti a tale prospettiva e al sacrificio che le viene richiesto. Come si è osservato, ai fini della scelta non è possibile adottare un criterio di valutazione puramente logico, poiché le esigenze che si contrappongono appartengono a sfere non omo-

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genee, che perciò non riconoscono un giudice unico o un criterio di giudizio ugualmente unico. Né, ai fini della scelta, potrà servire la dimostrazione della verità della religione cristiana, perché questa sa di non poter certo aspirare, con la riconosciuta limitatezza dei mezzi argomentativi di cui dispone, a convincere delle proprie ragioni il sostenitore di un sistema formalmente agguerrito, come è il determinismo. E tuttavia, quando nei momenti di debolezza evocati sopra, l’arguto deista è assalito dalla struggente attrazione che lo spinge a trovare conforto nell’amichevole disponibilità di un Dio capace di comprendere e sostenere le debolezze umane, quale scelta opererà? Secondo quanto finora acquisito, dovrebbe riuscire a tener testa alle suggestioni del cuore, in nome della solidità e della coerenza della sua prospettiva filosofica; ma se il bisogno di riferirsi direttamente a Dio dovesse essere così profondo e impellente da compromettere la sua resistenza, sarà egli in grado di mantenere i pur chiari e rigorosi propositi? 11. 11. Non è difficile scorgere, alla base di questi dubbi, motivazioni autobiografiche, che rinviano alla contraddizione latente nell’accettazione, da parte di Fichte, insieme

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La risposta di Fichte a tali interrogativi, avane a dispetto del determinismo, anche della provvidenza divina. Infatti, la sua fiducia in essa è completa e senza riserve, tanto da non esitare a dichiararla in più occasioni: «Io credo in una provvidenza che ci guida e faccio attenzione ai suoi segni»; e ancora: «Io credo che la provvidenza vegli su di me» e che essa, nella sua sollecitudine verso tutti gli uomini, si abbassi «fino ai nostri piccoli capricci e convenzioni» (Lettere a M.J. Rahn del 2 e del 15 marzo 1790, GA, III, 1, risp. pp. 73 e 83). Gli sbocchi, spesso sorprendenti, che hanno segnato svolte del tutto inattese e per lui favorevoli in momenti difficili della sua vita, devono confortare Fichte in questa sua convinzione e vengono forse visti come altrettanti interventi della provvidenza, che veglia su di lui e lo trae fuori dalle situazioni complicate o sgradevoli (si pensi, ad esempio, all’incontro, tanto casuale quanto decisivo per il suo destino, con il barone Ernst Haubold von Miltitz, o all’insperata offerta di lavoro che gli perviene la sera del suo ventiseiesimo compleanno, proprio quando, in piena disperazione per il venir meno di ogni mezzo di sostentamento e di prospettive per il suo futuro, stava perfino meditando di porre fine ai suoi giorni. Su questi due significativi episodi, cfr. I.H. Fichte, Johann Gottlieb Fichte’s Leben und litterarischer Briefwechsel, cit., Bd. I, risp. pp. 10-13 e 37-39). Si può forse fin d’ora osservare che la coesistenza tra l’adesione alla necessità assoluta (l’idolo di Fichte) e la fiducia sconfinata nella provvidenza divina, sempre pronta a trarre il bene dal male, mal si combinano tra loro e che il contrasto, inizialmente latente, non tarderà ad esplodere e a

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zata nella forma di domande retoriche, ipo-

rivelarsi insostenibile. In tale prospettiva è significativo che negli Aforismi il termine «provvidenza» non ricorra. In proposito cfr. R. Preul, Reflexion und Gefühl, die Theologie Fichtes in seiner vorkantischen Zeit, W. De Gruyter & Co., Berlin 1969, p. 107. Si può ricordare, di passaggio, anticipando quanto si dirà dell’esperienza di Strauß e di Märklin, che il concetto di provvidenza, in quanto implica un agire di Dio nel tempo, sarà considerato incompatibile con una visione razionale di Dio dal giovane Ch. Märklin (cfr. lettera al padre del febbraio 1728, cit. in D.F. Strauß, Christian Märklin. Ein Lebens- und Charakterbild aus der Gegenwart, Mannheim 1851, ora in: Gesammelte Schriften von D.F. Strauß, nach des Verfassers letztwilligen Bestimmungen zusammengestellt eingeleitet und mit erklärenden Nachweisungen versehen von Eduard Zeller, 12 Bde, Strauß Verlag, Bonn 1876-78, Bd. X, p. 214). Nel medesimo contesto Märklin esprime anche la convinzione che a Dio non possano competere né la personalità, né la coscienza e manifesta la sua propensione per il panteismo (di ispirazione schellinghiana). Inoltre, proprio quei «bisogni del cuore», che per Fichte giocano un ruolo così importante nel rivendicare la legittimità delle esigenze umane nei confronti della religione puramente razionale, sono da Märklin riconosciuti incompatibili con il panteismo e impietosamente abbassati a espressione della debolezza e della finitezza umane, che spingono a cercare un Dio capace di consolarci e tranquillizzarci, e che ci portano anche, in maniera inconsapevole ma non per questo cor-

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tizza una sola via d’uscita, che subito, però, si manifesta difficilmente praticabile. Colui che ha dato libero corso alla ricerca, e per mezzo di essa ha raggiunto risultati che contrastano con i bisogni umani più profondi, ha un unico mezzo a disposizione per superare il conflitto che in lui divampa: «vietare a se stesso quelle speculazioni che oltrepassano la linea di confine» tra religione e filosofia12. In tal modo, il robusto sentimento della dipendenza da Dio e retta, ad adattare l’idea di Dio a noi, invece di adattare la nostra individualità all’idea di Dio (cfr. ib., pp. 214-15). 12. EA, 18. È interessante notare che davanti alla medesima situazione, Strauß risponderà in modo analogo. Il pastore che, per motivi d’ufficio, deve presentare ai fedeli verità che alla luce delle ricerche razionali da lui condotte risultano essere piuttosto menzogne, deve scegliere se mentire ai suoi fedeli (e a se stesso), oppure rinunciare alla ricerca. Strauß non nasconde un certo sarcasmo nell’illustrare questa seconda alternativa, osservando che alla spinta della ragione a ricercare ci si può opporre «con lieve fatica, astenendosi dallo studio e dal pensare, oppure, se non questo, astenendosi almeno dal libero discutere e scrivere» (D.F. Strauß, Das Leben Jesu, kritisch bearbeitet. 2 Bde, Osiander, Tübingen 1835-1836, vol. 2, p. 744). La conclusione di Strauß è che simili personaggi sono già così comuni, che non c’è bisogno di auspicare che il loro numero aumenti.

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la convinzione della sua rassicurante presenza resterebbero al riparo dai dubbi insinuati dalla speculazione, mentre la verità di cui il credente si considera in possesso non sarebbe disturbata da interferenze estranee alla fede. Restare all’interno dei confini che la religione ha ritagliato per sé e lavorare a consolidarli, è la via più sicura per garantire la pace interna e la tranquillità nei confronti degli assalti provenienti dall’esterno. Tuttavia, tale soluzione, apparentemente tanto semplice quanto efficace, presenta notevoli difficoltà di attuazione che Fichte, riferendosi al credente che deve metterla in pratica, introduce così: «Ma è in grado di far questo quando vuole? – è in grado di farlo, quand’anche gli venga dimostrata in modo convincente l’illusorietà di queste speculazioni? […] È in grado di farlo, se questo modo di pensare è ormai divenuto per lui naturale ed è ormai intrecciato con l’intera inclinazione del suo spirito?» (AE, 18). La forza impetuosa del sentimento religioso, che impone di affidarsi a Dio senza tener in alcun conto la resistenza opposta dalla ragione all’introduzione nel suo concetto di elementi incompatibili con la divinità razionalmente intesa, non sembra per nulla indebolita da obie-

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zioni di carattere speculativo. L’energia emotiva, capace di respingere con un’alzata di spalle le obiezioni che la speculazione giudica idonee a far piazza pulita di qualsiasi edificio costruito in contrasto con la loro efficacia, dimostra, in realtà, una sorprendente vitalità. Non solo essa non si fa impressionare dai pur sostanziosi rilievi critici, ma s’impossessa perfino dell’arma che dovrebbe abbatterla: si insinua di soppiatto nell’ingranaggio che regola lo svolgimento delle argomentazioni e lo piega ai suoi fini, con l’obiettivo di rendere razionalmente plausibili le sue ragioni. E può farlo poiché – prolungando il pensiero di Fichte – la natura umana esprime se stessa attraverso la sfera emotiva, non meno che attraverso la speculazione. Ed essendo entrambe parti integranti di quel che siamo, non deve stupire che, rivolgendosi al medesimo contenuto, traggano dal confronto con esso bilanci divergenti. Ma la diversità così prodotta fa capo a un’unica coscienza individuale, la cui sostanza non è né la pura e rarefatta teoria, né le emozioni e i sentimenti privi di qualsiasi consistenza concettuale. Sia l’intelletto che il cuore, nella forma a ciascuno peculiare, contribuiscono a strutturare la concreta personalità individuale, nella

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quale il limite che li separa non ha mai contorni netti, ma frastagliati ed estremamente difficili da cogliere e da tener fermi. Ecco, allora, che il peso dell’inclinazione religiosa, apparentemente relegata alla sfera dei sentimenti, diviene una forza pervasiva, che si espande fino a informare di sé la totalità dell’animo e, assumendo le guise di una apparente razionalità, pretende di sottomettere alla sua regola anche la speculazione. La complessità della situazione è tutta qui, nell’ormai scoperta competizione per affermare la propria supremazia tra cuore e intelletto, poiché anche quest’ultimo, da parte sua, non rinuncia alle sue prerogative e chiama in soccorso l’autorità accumulata nel corso di secoli e suggellata dal riconoscimento della razionalità quale differenza specifica del nostro genere. In virtù della consolidata tradizione e, soprattutto, della lucidità e del rigore con cui è in grado di presentare le sue rivendicazioni, l’intelletto mostra tutta la sua intransigenza e aspira all’egemonia. Questa porta colui che si è innalzato a un concetto della divinità che oltrepassa quello che il cristianesimo è in grado di proporre, a non poter più accettare una visione della divinità che considera non adeguata alla ragione, e a restare fedele a quanto ha conseguito mediante

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la speculazione13. La condizione perché fosse possibile il contrario implicherebbe la deliberata rinuncia all’esercizio della ragione, rinuncia che equivarrebbe alla decisione di non occuparsi di questioni che vanno al di là del circoscritto ambito naturale del cristianesimo. È però facile vedere che un tale divieto si tradurrebbe nel puro e semplice suicidio della ragione, che mai può accettare l’imposizione di limiti, neanche nella forma dell’auto-imposizione. Con le ferite derivanti dal doloroso strappo che in tal modo si consuma con le esigenze del cuore, il determinista coerente continuerà, forse, sulla sua strada, ma ormai è divenuto consapevole della rilevanza della perdita cui si condanna, e possiamo aspettarci che sia indotto a cercare di recuperare per altra via quel che la rigida razionalità sembra rendergli inattingibile. Se il conflitto tra cuore e intelletto si deve concludere con un aut-aut e stabilire un vincitore e un vinto, allora a uscirne sconfitta è, in ogni 13. La ragione sta nel fatto che al deista, ormai, «è impossibile credere» (EA, 18), e ciò nonostante la consapevolezza di rinunciare a sostanziose e ambite contropartite di carattere emotivo.

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caso, la natura umana, dal momento che la vittoria sarebbe sempre solo di una sua parte e sarebbe conseguita a prezzo della sconfitta dell’altra. La soluzione cui alludono le righe conclusive degli Aforismi lascia ancora intravvedere la possibilità di una conciliazione, il cui conseguimento non comporta solo un accordo che renda compossibili religione e filosofia, ma l’emergere di un fondamentale terreno comune su cui possano confrontarsi, con uguale titolo di essenzialità e legittimità, la libertà del volere e la ferrea necessità della filosofia. 5. La libertà del volere. La perdita cui si accennava non concerne soltanto l’insostenibilità del riferimento a Dio e l’inutilità di rivolgergli preghiere che si sa destinate a restare non esaudite, ma il fatto che Dio stesso sia sottoposto all’assoluta necessità, così come, e a maggior ragione, ogni ente finito, compreso l’uomo con il suo agire e patire. Davanti al soffocamento delle esigenze personali e alla prospettiva che abbassa ogni libero fine a irrilevante apparenza, prende sempre maggior forza il rifiuto di accettare, per la totalità della propria persona, l’inflessibile verdetto della

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ragione ed emerge in tutta la sua rilevanza il vero tema che ha accompagnato in sottofondo le riflessioni finora svolte da Fichte, che è quello che concerne la sostenibilità della libertà del volere. Ciò avviene nella nota all’aforisma 15 che cita, con favorevole apprezzamento, un autore definito come il «più acuto difensore della libertà che ci sia mai stato» (EA, 15, n.). Nel medesimo contesto, però, Fichte avanza una consistente riserva nei confronti della via seguita per giungere a tale concetto, a suo avviso ottenuto con l’inserimento, nel corso del ragionamento, di esigenze estranee alle premesse. A Kant, al quale Fichte esplicitamente si riferisce e del quale aveva fino ad allora letto solo la prima Critica, viene sì riconosciuto il merito di aver difeso più di ogni altro la libertà umana, ma viene contestualmente ascritto il limite di averlo fatto grazie a una deviazione rispetto all’ispirazione originaria della Critica della ragion pura, notoriamente diretta a indagare le condizioni di possibilità della conoscenza e non temi di filosofia pratica, tra i quali soltanto rientra il concetto di libertà. Solo a prezzo di una incoerenza, che gli ha fatto accogliere nel suo ragionamento un argomento spurio, attinto «senza

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dubbio dalla sensazione» (EA, 15, n.), e cioè da una facoltà umana diversa da quella conoscitiva14, Kant ha trattato della libertà; ma proprio questo imperdonabile difetto d’origine ne rende inutilizzabile il concetto. La conclusione è che la libertà, pur difesa nel modo migliore 14. Sembra abbastanza chiaro che qui Fichte intenda la sensazione in un senso che va oltre la sua originaria valenza conoscitiva, dal momento che la contrappone proprio a quanto appartiene al processo della conoscenza in senso stretto, come induce a interpretare il riferimento alla Critica della ragion pura. Nella funzione che qui Fichte le attribuisce, la Empfindung viene intesa nel significato che rinvia a empfinden, «sentire», e cioè allo stato delle coscienza, emotivamente caratterizzato, che sempre accompagna e colora di sé (come piacevole, spiacevole, distensivo, irritante etc.) l’avvertimento del contenuto conoscitivo. La libertà, in quanto tale, non può certo essere conosciuta nel senso che di essa si dia un corrispettivo empirico, esperito come tale, ma è piuttosto sentita, in quanto accompagna e orienta uno stato d’animo e fornisce a chi lo vive la convinzione di poter operare in modo autonomo. Alcuni passi del testo sembrano confermare questa indicazione, come quello in cui Fichte parla dei principi primi della religione, che «si fondano più su sentimenti (Empfindungen) che non su convinzioni» (EA, 12), oppure l’altro, nel quale Fichte parla del «sentimento (Empfindung) di un aiuto tangibile» (EA, 17) che spinge il credente a rivolgersi a Dio, contro il parere della speculazione.

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possibile, continua tuttavia a restare bisognosa di fondazione e, fino a quando questa non sarà stata fornita, continuerà ad essere considerato valido l’opposto sistema, il cui principio è dato dalla necessità assoluta. Si sa che la prosecuzione dello studio delle opere di Kant porterà Fichte a mutare rapidamente e radicalmente punto di vista e a dedicarsi alla elaborazione di un sistema del tutto nuovo, in cui la libertà, da lui intesa in modo originale e adeguatamente fondata, avrà un ruolo decisivo. L’inizio di questo processo è segnato dall’entusiasmo con il quale egli saluta gli effetti, su di lui, del pensiero di Kant, la capacità liberatoria e la spinta rivoluzionaria che vi scorge. La lettura della Critica della ragion pratica produce un profondo cambiamento, che non resta privo di effetti sulla sua esistenza personale: «Da quando ho letto la Critica della ragion pratica, vivo in un nuovo mondo. Princìpi, che credevo fossero inconfutabili, mi sono stati confutati, cose che credevo non potessero mai essermi dimostrate, ad es. il concetto di una libertà assoluta, del dovere etc., mi sono state dimostrate e tanto più me ne rallegro. È inconcepibile quale

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rispetto per l’umanità, quale forza ci dia questo sistema!»15. A ben guardare, l’attenzione di Fichte si concentra sui due punti essenziali che, ancora 15. Frammento di lettera a F.A. Weißhun, agosto/settembre 1790, GA, III, 1, p. 167. In una precedente lettera, questa volta indirizzata alla fidanzata, le aveva comunicato di essersi buttato anima e corpo nello studio della filosofia kantiana e che questo portava giovamento alla testa e al cuore (cfr. lettera a M.J. Rahn del 12 agosto 1790, ib., p. 166). Sul profondo impulso ricevuto da Fichte dallo studio della Critica della ragion pratica, cfr. W. Kabitz, Studien zur Entwicklungsgeschichte der Fichteschen Wissenschaftslehre aus der kantischen Philosophie, Verlag von Reuther & Reichard, Berlin 1902, pp. 31-32. Sul medesimo tema, nella prospettiva del superamento della separazione tra «cuore» e «ragione», ancora persistente negli Aforismi, cfr. M. Ivaldo, Ragione pratica. Kant, Reinhold, Fichte, ETS, Pisa 2012, p. 226. Preul, che ha dedicato pagine penetranti agli Aforismi, evidenzia, a ragione, che essi, a dispetto della loro brevità, sono il risultato di un lungo e approfondito processo di maturazione concettuale del giovane Fichte, iniziato già prima dell’incontro con il pensiero di Kant, e non il frutto improvviso derivante dalla scoperta della filosofia kantiana (cfr. R. Preul, Reflexion und Gefühl cit., p. 5 e pp. 106 sgg.). Un punto di vista analogo è sostenuto da G. Duso, Contraddizione e dialettica nella formazione del pensiero fichtiano, Argalìa, Urbino 1974, pp. 90-91.

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irrisolti durante la stesura degli Aforismi, troveranno risposta nel breve volgere di poche settimane: la dimostrazione della fallacia del principio su cui si basa il determinismo (fino ad allora ritenuto inconfutabile), e l’inversa dimostrazione della sostenibilità del concetto di libertà assoluta. Questi risultati, nel loro convergere e fondersi, consentiranno a Fichte di superare i dubbi ancora presenti negli Aforismi e lo porteranno, nel giro di pochi anni, a una nuova e rivoluzionaria concezione della filosofia. Questi affascinanti sviluppi esulano, però, dall’attuale compito, in vista del quale resta solo da illustrare l’annunciata affinità della condizione spirituale di Fichte, caratterizzata dallo stato di lacerazione che traspare dagli Aforismi, con quella che D.F. Strauß e Ch. Märklin vivranno circa quattro decenni dopo. 6. Religione e filosofia: conciliazione o alternativa? Avviati alla carriera ecclesiastica e confrontati con i connessi impegni di predicazione, Strauß e Märklin si comunicano le rispettive esperienze nella quotidiana pratica pastorale. In quel periodo le loro convinzioni religiose,

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sebbene non totalmente al riparo da dubbi e incertezze, armonizzavano però con la visione filosofica allora in auge, quella hegeliana, ed essi ritenevano perciò che religione e filosofia si occupassero del medesimo «oggetto», solo chiamato in modo diverso: Dio dalla religione, assoluto dalla filosofia. Fondate rispettivamente su diverse facoltà umane, la rappresentazione e il concetto, religione e filosofia esprimevano, dunque, anche se ciascuna secondo il proprio registro, il medesimo contenuto16. L’esperienza diretta della predicazione, iniziata nell’autunno del 1830, pone però i giovani neo-vicari davanti al problema inatteso di dover constatare non tanto l’accordo, quanto il divario tra quel che la filosofia hegeliana insegnava sul piano del concetto, e il corrispondente contenuto rappresentativo offerto dal vangelo.

16. Non a caso Strauß ritiene utile riportare già all’inizio del resoconto che sta per fornire del dialogo epistolare con Märklin, questo principio hegeliano (che più avanti chiamerà «dogma»), secondo cui «religione cristiana e filosofia hanno il medesimo contenuto, quella nella forma della rappresentazione, questa nella forma del concetto» (D.F. Strauß, Christian Märklin cit., p. 229; v. p. 233).

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Fino a quando la traduzione del concetto nella forma rappresentativa richiesta dalla predicazione riusciva senza scarti, il pastore – che era insieme seguace della filosofia di Hegel – poteva essere soddisfatto delle spiegazioni fornite ai fedeli. Quando, però, tale operazione risultava impossibile o azzardata, il pastore sentiva che il suo ruolo gli imponeva di fare quel che il filosofo non avrebbe approvato, poiché avrebbe dovuto esprimere in forma rappresentativa e presentare come vero un contenuto che, sul piano concettuale, risultava contraddittorio – e cioè falso. D’altra parte, comportarsi da filosofo davanti ai fedeli, intrattenendoli con lezioni di filosofia hegeliana, anziché presentare in una forma che fosse loro accessibile dogmi e miracoli, sarebbe stato non meno inappropriato17. La regi17. Queste alternative e le rispettive conseguenze vengono dettagliatamente illustrate da Strauß nel § 147 della Schlußabhandlung della Vita di Gesù, intitolato “Dilemma finale” (cfr. D.F. Strauß, Das Leben Jesu cit., pp. 740-41). Qui viene evocato l’abbandono della condizione ecclesiastica, con il passaggio del pastore dal pulpito alla cattedra, in conseguenza della sua presa di consapevolezza di mentire ai fedeli parlando, ad es., della resurrezione di Cristo, quando personalmente non crede più in essa. Tale soluzione sarebbe svantaggiosa per la stessa Chiesa,

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strazione di tale stato di cose spinge Märklin a confessare all’amico il proprio disappunto e a partecipargli il dissidio interiore che gli imponeva di ricercare una soluzione soddisfacente, non escluso nemmeno l’abbandono dello stato ecclesiastico (come peraltro effettivamente avvenne nel 1840, dopo anni di attacchi personali e di sgradevoli polemiche)18. Paradossalmente – se si pensa agli sviluppi che prenderanno le cose proprio ad opera di Strauß dal momento che allora nessun pastore oserebbe istituire o approfondire ricerche che rischierebbero di approdare a conclusioni non più compatibili con l’esercizio della funzione ecclesiastica, con il risultato di privare la Chiesa di ogni contributo di pensiero innovativo proveniente dal suo interno (cfr. ib., pp. 241-42). 18. In una lettera a Strauß, Märklin scrive: «Se fossi solo teologo, me la caverei facilmente con quel rapporto [tra religione e filosofia come si configura nella conciliazione hegeliana]. Ma ora, in qualità di predicatore, mi trovo spesso nella condizione di dover presentare del tutto e x p l i c i t e , come e s s e n z a della c o s a , ciò che, secondo quel sistema [hegeliano] è solo f o r m a della r a p p r e s e n t a z i o n e » (lettera di Märklin a Strauß, ibidem). Tale circostanza porta il giovane vicario Märklin a provare qualche ansiosa esitazione nel salire le scale del pulpito, oltre che a sperimentare un imbarazzante disagio con la propria coscienza (cfr. ib., p. 230).

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–, questi risponde all’amico in tono conciliante e, da buon hegeliano, innalza il problema individuale di Märklin nella più ampia prospettiva dello spirito del tempo19. Davanti ai suoi dubbi e al suo «caso di coscienza»20, egli cerca di tranquillizzarlo, chiarendogli che il dissidio da lui vissuto non è una questione meramente personale, ma investe il livello di maturazione raggiunto dalla storia spirituale dell’umanità. La contraddizione che tormenta l’animo dell’amico, come ogni contraddizione, dovrà trovare la sua conciliazione e, nel frattempo, gli consi19. La medesima impostazione sarà mantenuta da Strauß sei anni dopo, nella cruciale pagina finale della Schlußabhandlung (e, quindi, della Vita di Gesù), a conferma di quanto fosse solida la sua convinzione nella validità del metodo e della prospettiva hegeliani – anche se non più nel suo «dogma». È significativo, poi, che proprio nel collocare in dimensione storica l’origine del dissidio derivante dal contrasto tra le esigenze della fede e quelle della ragione, Strauß dichiari che quel dissidio non è «provocato dall’impertinenza di un singolo, ma è il portato necessario del corso del tempo e dello sviluppo della teologia cristiana; esso coglie l’individuo e si impadronisce di lui, senza che possa difendersene» (D.F. Strauß, Das Leben Jesu cit., vol. 2, p. 744, corsivo mio). 20. L’espressione ricorre nella lettera di Märklin riportata in D.F. Strauß, Christian Märklin cit., p. 231.

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glia di mantenere la chiara e sicura consapevolezza «dell’unità in questa opposizione». In altri termini, in attesa che la storia segua il suo corso, rivelando le vie ancora nascoste attraverso cui la contraddizione si risolve nell’unità che la conciliazione hegeliana tra religione e filosofia ha già anticipato sul piano del pensiero, la cosa migliore da fare è mantenere i nervi saldi e la fiducia nell’efficacia risolutiva del metodo dialettico. La soluzione proposta non è certo semplice, ma è comunque meno complicata e pregiudizievole di altre, a partire dalla rinuncia allo condizione ecclesiastica21. Si tratta, in fondo, di 21. Ecco un passo significativo della lettera di risposta di D. F. Strauß all’amico Märklin che gli aveva confidato i suoi dubbi circa la validità della conciliazione hegeliana tra religione e filosofia: «Ancora una volta a proposito del tuo scrupolo. Pensa soltanto: dipende da me l’essermi imbattuto in questo conflitto? – No, il corso delle cose umane mi ha condotto necessariamente ad esso. – Inoltre, quale via d’uscita mi offre la natura della cosa per liberarmi dal conflitto? Risposta: che tu resti pienamente consapevole dell’unità in questa opposizione. – Domanda: Non c’è, dunque, alcun’altra via d’uscita? Questa non mi sembra soddisfacente. – Risposta: tutte le altre sono pericolose; e, per la verità, nemmeno questa è semplice. Per il momento devi aspettare che lo spirito dell’umanità ne apra una migliore» (Lettera di Strauß a Märklin del 26 dicembre

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prendere atto che la vita si svolge su un piano storico-empirico e non già puramente e astrattamente ideale, ciò che implica che essa debba fare i conti con tutte le contraddizioni che la Fenomenologia dello spirito di Hegel ha insegnato a riconoscere come elementi costitutivi essenziali, come tali ineliminabili, del divenire reale. Quel che avvenne di lì a pochi anni è noto; e quando Strauß, nella citata Schlußabhandlung della sua Vita di Gesù, tenterà di «ristabilire nel dogma quel che è stato distrutto dalla critica»22, scoprirà che l’operazione non era realizzabile. 1830, in Ausgewählte Briefe von David Friedrich Strauß, hrsg. und erläutert v. Eduard Zeller, Verlag v. E. Strauß, Bonn 1895, p. 7). Quanto all’eventuale abbandono della condizione ecclesiastica, Strauß lo paragona al rifiuto di un principe di assumere il governo di uno Stato perché non può introdurvi immediatamente e compiutamente l’ordinamento giuridico basato sul diritto naturale. Pur essendo considerato l’unico perfetto, il diritto naturale può ottenere realtà solo nel corso faticoso e non sempre lineare dell’evoluzione storica concreta, mediante l’avvicendarsi di legislazioni positive sempre meno difettose, e non certo d’un sol colpo (cfr. D.F. Strauß, Christian Märklin cit., pp. 230-31). 22. Cfr. D.F. Strauß, Das Leben Jesu cit., vol. 2, p. 686.

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Se la coscienza credente e quella filosofica appartenessero a uomini diversi, il problema non si porrebbe; ma la circostanza che le due prospettive ineriscano a un’unica, indivisa coscienza, impone la necessità di una scelta, a meno di non voler accettare, in mala fede e nel suo significato deteriore di espediente opportunistico, la teoria della «doppia verità»23. Escludendo ogni compromesso, si tratterà, allora, di decidere se seguire quanto la religione e la teologia propon23. La definizione è di E. Rambaldi, che la propone e illustra nel suo bel volume La Sinistra hegeliana. H. Heine, D.F. Strauß, L. Feuerbach, B. Bauer, La Nuova Italia, Firenze 1966, pp. 82 sgg. Si tratta della teoria che considera valide e compatibili le risultanze della religione cristiana e quelle della filosofia (hegeliana) e che permette a Strauß di conciliare anche la sua condizione personale di vicario con le proprie convinzioni filosofiche. Rambaldi mette in luce che nel periodo di vicariato e fino alla pubblicazione del primo volume della Vita di Gesù (e cioè, negli anni tra il 1830 e il 1835) Strauß, sebbene avesse già perduto la fede in senso proprio, fu sostenitore, in sostanziale buona fede, di tale teoria; solo successivamente la utilizzò consapevolmente in modo opportunistico e come espediente per cercare di mantenere i rapporti con l’ortodossia, e ciò fino a quando taglierà definitivamente i ponti con essa – e anche con ogni prospettiva di carriera accademica (cfr. ibidem).

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gono sul piano della rappresentazione, oppure far prevalere la scelta verso cui indirizzano la filosofia e la ragione, con l’esplicita fissazione di una gerarchia tra le facoltà umane in gioco e tra le discipline con esse connesse. Pur essendo partito con l’intento (almeno in apparenza) pienamente costruttivo, di confermare con la sua opera la conciliazione hegeliana24, alla fine Strauß si sarà condotto a sconfessarla e a riconoscere vano ogni tentativo di conciliazione tra fede e ragione, determinando con la sua netta presa di posizione la scissione della Scuola hegeliana e, con essa, l’inizio di una nuova epoca nella storia del pensiero occidentale. Lo stato d’animo di Fichte al tempo della stesura degli Aforismi non avrà avuto, ovviamente, alcun rilievo sulle vicende successive appena (e solo rapidamente) evocate. L’accostamento

24. In effetti, la Trattazione finale, il cui tema è «Il significato dogmatico della vita di Gesù» e il cui primo § (il n. 140) s’intitola: «Passaggio necessario dalla critica al dogma», sembra ispirata a un atteggiamento costruttivo, ma sfocerà nella nota, definitiva e irreversibile rottura (anche se espressa in termini pacati) della conciliazione hegeliana tra religione e filosofia e nell’aperta negazione di ogni pretesa di validità della fede.

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è stato proposto solo per l’evidente analogia che sussiste tra il dissidio interiore provato da Fichte, davanti alla necessità di scegliere tra le istanze del cuore e quelle dell’intelletto, e la lacerante condizione, che, si è visto, è ben più che un «caso di coscienza» personale, vissuta da Märklin e da Strauß. Quella sofferta scissione interiore spingerà Fichte a cercare una soluzione capace di contemperare le aspettative dell’animo umano – che si sente libero e tiene infinitamente a questo suo irrinunciabile privilegio – e le risultanze della speculazione da lui maturate fino a quel momento, che negavano alla libertà la piena cittadinanza tra i concetti filosofici razionalmente sostenibili. Resta forse soltanto da evidenziare che la medesima esigenza di far chiarezza tra i ruoli di facoltà umane e tra i loro rispettivi prodotti avrà avuto, nei due casi, un esito diverso. Provando ad avanzare una spiegazione di tale differenza, in primo luogo si deve chiamare in causa la sintonia che ciascuna delle due soluzioni deve necessariamente avere con il clima spirituale e culturale, con lo Zeitgeist in cui matura. Fichte riterrà conciliabili la libertà del volere con la razionalità più rigorosa, e il sistema, ancora da edificare, che diverrà l’obiettivo dei suoi sforzi

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speculativi dovrà, pena il suo fallimento, essere in grado di garantire entrambe. Non a caso – per fermarci al primo Fichte – il Saggio di una critica di ogni rivelazione riterrà la religione cristiana perfettamente compatibile con la filosofia, anche a prezzo di accuse di dogmatismo (che infatti non tarderanno)25. E poco tempo dopo, la Dottrina della scienza avrà, ai suoi occhi, il pregio esclusivo e fino ad allora mai raggiunto, di essere, contemporaneamente, il frutto comune e indivisibile della libertà e della necessità. Fichte procederà con instancabile determinazione e coerenza a dare attuazione al progetto ambizioso che, con le sue parole, possiamo chiamare il «sistema della libertà»26, 25. Mi riferisco all’insidiosa accusa rivoltagli da Hegel, di aver dato, nel Versuch einer Kritik aller Offenbarung, pur senza volerlo, una mano agli interpreti dogmatici di Kant, autorizzandoli a riproporre in teologia il vecchio modo di argomentare (cfr. Lettera di Hegel a Schelling di fine gennaio 1795, in G.W.F. Hegel, Briefe von und an Hegel, hrsg. v. J. Hoffmeister, Bd. I: 1785-1812, Akademie-Verlag, Berlin 1970, p. 17; tr. it. (Epistolario), a cura di P. Manganaro, vol. I: 1785-1808, Guida, Napoli 1983, p. 110) 26. La definizione è di Fichte stesso: «Il mio sistema è il primo sistema della libertà», e risale al 1795 (cfr. il secondo

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espressione che, lungi dall’essere una formula astrusa o un vuoto ossimoro, rappresenta l’autentica conquista che egli ritiene di poter consegnare alla posterità come suo lascito imperituro. abbozzo di lettera a J.I. Baggesen (?) dell’aprile/maggio 1795, in GA, III, 2, p. 300). Fichte intende sottolineare, nel contesto, la forza liberatrice della sua filosofia, non a caso accostata alla Rivoluzione francese (e non soltanto per i fini contingenti: Fichte aspirava, il quel periodo, a ottenere una pensione onoraria dalla Repubblica francese, di cui si dichiara pronto a divenire cittadino; cfr. ib., pp. 297-99). Com’è noto, L. Pareyson ha ripreso quella definizione nel titolo del suo ormai classico, Fichte, Edizioni di Filosofia, Tornio 1950; 2^ edizione aumentata, con il titolo: Fichte. Il sistema della libertà, Mursia, Milano 1976. Nel periodo che intercorre tra la prima e la seconda edizione del libro di Pareyson, M. Gueroult accentua l’ossimoro libertà-sistema già nel titolo del suo intervento commemorativo per il Bicentenario della nascita di Fichte: La Wissenschaftslehre comme système nécessaire de la liberté, in «Bulletin de la Societé française de Philosophie: Séance du 4 mai 1963», pp. 58-78, ora in Id., Etudes sur Fichte, Aubier-Montaigne, Paris 1975, pp. 1-15. È appena il caso di accennare che con quella definizione Fichte anticipa uno dei concetti centrali e più fecondi dello Schelling delle Philosophische Untersuchungen über das Wesen der menschlichen Freiheit und die damit zusammenhängenden Gegenstände, del 1809.

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Märklin e Strauß, nati rispettivamente lo stesso anno e quello successivo alla pubblicazione della Fenomenologia dello spirito, appartengono, invece, alla generazione che segue quella del Fichte degli Aforismi. Essi hanno avuto modo di assistere, se non alla nascita, di certo all’irresistibile imporsi su larga scala della filosofia hegeliana e di sperimentare direttamente, nel corso della loro formazione, la forza avvincente del metodo dialettico. Strauß sarà conquistato, come buona parte della gioventù colta dell’epoca, dalla potenza di quel pensiero e, come abbiamo visto, ne assumerà come valido l’esito finale, e cioè la conciliazione del contrasto tra religione e filosofia. Proprio in nome di Hegel, egli sosterrà che natura umana e natura divina sono, non solo senz’altro conciliabili, ma perfino identiche. Per Strauß, tuttavia, tale identità non vale solo nella forma esclusiva e puntuale riconosciuta dal cristianesimo, e cioè riferita a un unico individuo (il Gesù della storia che è, insieme, il Cristo della fede), ma per l’umanità intera, così come implica l’idea hegeliana rettamente intesa. Hegel contro Hegel, dunque, e da una prospettiva rigorosamente hegeliana: proprio questo è, com’è noto, il carattere distintivo e anche il

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pregio significativo della posizione di Strauß, che mette in crisi la filosofia hegeliana dal suo interno, cominciando con l’invalidarne proprio uno dei più delicati e significativi capisaldi. La conclusione cui giunge Strauß è tale, che in essa il cerchio della progressione dialettica non si chiude, non essendo qui la negazione integrata dalla conservazione parziale di ciò che viene negato, mentre l’innalzamento a una nuova figura non ne produce effettivamente una nuova, ma prende piuttosto l’aspetto della conferma di quella di partenza. Ciò significa che il prevalere della filosofia sulla religione non contiene la positiva integrazione della seconda nella prima, ma la sua esclusione definitiva e senz’appello dall’ambito di validità di ogni discorso sensato, con il conseguente abbassamento della religione a momento inessenziale della vita dello spirito. Non c’è più posto, allora, per una pacifica conciliazione tra cuore e intelletto (per quanto riguarda il singolo), e tra religione e filosofia (per quanto riguarda l’umanità e la sua storia spirituale). L’alternativa tra religione e filosofia deve essere sciolta con una decisione univoca e definitiva, consapevolmente escludente e, se anche Strauß la riserva (solo retoricamente) al

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tempo avvenire, non potrà che essere una decisione obbligata e non potrà che «riconoscere liberamente quel che non può più essere occultato»27. Quella scelta, mentre elimina ogni alibi e ogni possibilità di compromesso a livello di coscienza individuale, distrugge anche gli argini, solo apparentemente solidi, in cui sembrava scorrere la vita della Scuola hegeliana, di cui determina la scissione. Lo sconvolgimento provocato dalle conclusioni della Vita di Gesù è così rilevante, da cogliere di sorpresa, come si sa, lo stesso Strauß, mentre gli effetti indotti sono tanto impetuosi, da oltrepassare ben presto il ristretto piano scientifico-speculativo di partenza, per divenire oggetto di accesa discussione pubblica e politicamente connotata.

27. D.F. Strauß, Das Leben Jesu cit., p. 744, corsivo mio.

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Johann Gottlieb Fichte [287] Einige Aphorismen über Religion und Deismus. (Fragment.)

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Johann Gottlieb Fichte [287] Alcuni aforismi su religione e deismo. (Frammento).

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Nota del traduttore

Il breve testo di Fichte qui tradotto porta il titolo: Einige Aphorismen über Religion und Deismus. (Fragment.) Aus dem Jahre 1790, ed è pubblicato nell’ambito della Gesamtausgabe der Bayerischen Akademie der Wissenschaften, Reihe II, Nachgelassene Schriften, hrsg. v. R. Lauth u. H. Jacob, unter Mitwirkung v. M. Zahn, Bd. 1, (Nachgelassene Schriften 1780-1791), F. Frommann Holzboog (Günther Holzboog), Stuttgart-Bad Cannstatt 1962, pp. 287-291. Come si ricava dall’annotazione che segue il titolo (forse di Fichte stesso, o del figlio Immanuel Hermann, che lo ha pubblicato nel suo Johann Gottlieb Fichte’s Leben und litterarischer Briefwechsel, cit., vol. II, pp. 18-25; 2^ ediz. cit., pp. 15-19), lo scritto risale all’anno 1790. Volendo precisare ulteriormente il periodo di composizione, si può fissar-

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ne la conclusione della stesura alla fine di agosto di quell’anno, sulla base delle indicazioni fornite da Fichte stesso in alcune lettere, che riferiscono del suo procedere nella lettura delle opere di Kant portata avanti in quei mesi. Ringrazio sentitamente la Casa Editrice F. Frommann-Holzboog per aver consentito di porre a base della presente traduzione, a titolo gratuito, il testo dell’edizione critica dello scritto fichtiano e di riprodurlo come testo a fronte.

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Aus dem Jahre 1790. 1) Die christliche Religion ist auf einige, als anerkannt vorausgesetzte, Sätze gebaut. Ueber diese hinaus findet keine Untersuchung mehr statt. 2) Um den Inhalt dieser Religion genau zu bestimmen, muß man zuerst diese Sätze aufsuchen. Aus [/] ihnen folgt alles Uebrige durch die richtigsten Schlüsse im klarsten Zusammenhange. Eine Sammlung derselben ohne die geringste Zumischung von philosophischem Raisonnement wäre ein Canon dieser Religion. 3) Gott betrachtet sie nur, in wiefern er Beziehung auf Menschen haben kann. Ueber sein

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Anno 1790. 1) La religione cristiana è fondata su alcuni principi, presupposti come riconosciuti. Al di là di tali principi non ha luogo alcuna ricerca. 2) Per determinare in modo preciso il contenuto di questa religione, si deve innanzitutto indagare tali principi. Da [/] essi consegue tutto il resto mediante le più rigorose deduzioni, nella più chiara coerenza. Una raccolta di quei principi, senza la minima commistione di ragionamento filosofico, sarebbe un canone di questa religione. 3) Essa prende in considerazione Dio unicamente nella misura in cui egli può avere rela-

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objectives Daseyn sind die Untersuchungen abgeschnitten. 4) Es scheint allgemeines Bedürfniß des Menschen zu seyn, in seinem Gotte gewisse Eigenschaften zu suchen, die der erste Schritt zur Speculation ihm absprechen muß. Diese wird ihm Gott als ein unveränderliches, keiner Leidenschaft fähiges Wesen zeigen; und sein Herz heischt einen Gott, der sich erbitten lasse, der Mitleiden, der Freundschaft fühle. Diese zeigt ihn als ein Wesen, das mit ihm und mit jedem Endlichen gar keinen Berührungspunkt gemein habe; und jenes will einen Gott, dem es sich mittheilen, mit dem es sich gegenseitig modifiziren könne. 5) Die Religionen vor Jesu, selbst die jüdische, Anfangs mehr und hernach stufenweise weniger, – bedienten sich des Anthropomorphismus, um diese Bedürfnisse des Herzens zu befriedigen. 6) Dieses Mittel war nur so lange zureichend, bis sich die Vernunft der Menschen zu einem consequentern Begriffe von der Gottheit erhob. In eine Religion für alle Zeiten und Völker paßte sie nicht. In der christlichen Religion, die

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zione con gli uomini. Sono escluse indagini sulla sua esistenza oggettiva. 4) Sembra essere un bisogno universale dell’uomo ricercare nel suo Dio certe proprietà, che il primo passo verso la speculazione gli deve negare. La speculazione gli mostrerà Dio come un essere immutabile, incapace di qualsiasi passione, mentre il suo cuore postula un Dio che ascolti le preghiere, che provi compassione e amicizia. La speculazione gli mostra Dio come un essere che non avrebbe proprio nessun punto di contatto con lui, né con qualsiasi ente finito, mentre il cuore vuole un Dio col quale potersi confidare, dal quale poter essere influenzato e influenzare a sua volta. 5) Prima di Gesù le religioni, anche la religione ebraica, al fine di soddisfare questi bisogni del cuore, si servivano – all’inizio di più, in seguito gradualmente di meno, dell’antropomorfismo. 6) Questo mezzo fu sufficiente solo fino a quando la ragione dell’uomo si innalzò a un concetto più rigoroso della divinità. La ragione era incompatibile con una religione per tutte le epoche e per tutti i popoli. Nella religione cristiana,

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das seyn sollte, wurde das System der Mittlerschaft 1) erwählt. [/] 7) Jesu werden alle Eigenschaften Gottes, die sich auf Menschen beziehen können, [288] beigelegt; er ist zum Gotte der Menschen gesetzt. Weiter hinaus, über das objective Wesen Jesu, sind die Untersuchungen abgeschnitten. 8) Jesu werden auch diejenigen Eigenschaften zugeschrieben, die das Herz des Menschen in seinem Gotte sucht, ohne daß sein Verstand sie in ihm findet: – Mitleiden, herzliche Freundschaft, Beweglichkeit. Ein Gesichtspunkt der Apostel: Er ist versucht allenthalben, damit er lernte barmherzig seyn, und dergl. 2)

1. In den heidnischen Religionen waren die Untergötter, besonders die Penaten, Laren u.s.w., recht persön[/]liche Mittler zwischen den Menschen und den höhern Göttern. Da nach Jesu die Menschheit wieder herabsank, entstanden im Papstthume eine Menge Mittler in den Heiligen. Ein Beweis wie mich dünkt, daß dieses Bedürfniß im Innern der nicht speculirenden Menschheit gegründet ist. [288] 2. Betrachtungen der S c h i c k s a l e J e s u aus diesem Gesichtspunkte, a l s B i l d u n g u n d D a r s t e l l u n g z u m m e n s c h l i c h e n G o t t e d e r M e n s c h e n , würden ein neues Licht über das Ganze der Religion werfen, und dem geringsten Umstande des Lebens Jesu eine neue Fruchtbarkeit geben.

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che doveva essere una religione di questo tipo, si scelse il sistema della mediazione1[/]. 7) A Gesù vengono attribuite tutte le proprietà di Dio che si possono riferire all’uomo. [288] Egli è innalzato a Dio degli uomini. Al di là di questo, sono escluse le ricerche sull’essenza oggettiva di Gesù. 8) A Gesù vengono anche ascritte quelle proprietà che il cuore dell’uomo cerca nel suo Dio, senza che il suo intelletto le trovi in lui: – compassione, affettuosa amicizia, capacità di commuoversi. Un punto di vista degli apostoli: Gesù è stato tentato in tutto, perché imparasse a essere misericordioso e cose simili2. Ancora 1. Nelle religioni pagane erano i semidei, in particolare i penati, i lari etc. i veri e propri mediatori personali [/]tra gli uomini e gli dèi superi. Poiché, dopo Gesù, l’umanità decadde di nuovo, sorsero nell’ambito del papato una quantità di mediatori tra i santi. Una dimostrazione, mi sembra, del fatto che questo bisogno è radicato nell’intimo dell’umanità non speculante. [288] 2. Considerazioni da questo punto di vista sulle v i cende di Gesù, i n q u a n t o formazione e rappres e n t a z i o n e d e l D i o u m a n o d e g l i u o m i n i , getterebbero una nuova luce sulla religione nel suo complesso e conferirebbero una nuova ricchezza al minimo dettaglio della vita di Gesù.

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Ueber die Art, wie diese zarte Menschlichkeit mit seinen höhern göttlichen Eigenschaften zugleich besteht, sind die Untersuchungen abermals abgeschnitten. 9) Es war Grundsatz der alten Religionen, und auch der neuern, so viel ich daran kenne: daß Sünde sey, und daß der Sünder nicht anders, als nach gewissen Aussöhnungen, sich Gott nahen könne. Ein Beweis, daß abermals dieser Satz in der allge[/]meinen Empfindung der nicht speculirenden Menschheit gegründet ist. 10) Die christliche Religion setzt diesen Satz, als einen Empfindungssatz, voraus, ohne sich auf das wie desselben und auf seine objective Gültigkeit einzulassen. – Wer ein Christ wird, bedarf keiner anderweitigen Versöhnung; durch die, vermittelst des Todes Jesu, gestiftete Religion ist jedem, der ihr herzlich glaubt, der Weg zur Gnade Gottes eröffnet. Wer doch Bedürfniß eines Versöhnopfers fühlt, der betrachte nur diesen Tod als das seinige: – Das scheinen mir die Apostel zu sagen. 11) Wenn man von diesen Sätzen ausgeht, so erscheint Alles in der Religion in dem richtigsten Zusammenhange: geht man mit seiner Untersuchung über sie hinaus, so verwickelt

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una volta sono escluse le ricerche relative al modo in cui questa tenera umanità coesista con le sue superiori proprietà divine. 9) Era principio delle religioni antiche e, per quanto ne so, anche delle moderne, che esista il peccato, e che il peccatore non possa avvicinarsi a Dio se non dopo determinate conciliazioni. Una dimostrazione, ancora una volta, che questo principio è fondato sul senso comune [/] dell’umanità non speculante. 10) La religione cristiana presuppone questo principio come principio del sentimento, senza preoccuparsi del suo come e della sua validità obbiettiva. – Colui che diviene cristiano, non ha bisogno di alcun’altra conciliazione. Per mezzo della religione fondata con la morte di Gesù, a chiunque creda sinceramente in essa, è aperta la via verso la grazia di Dio. Tuttavia, colui che sente il bisogno di un sacrificio espiatorio, consideri solo questa morte come la sua: – A me sembra che questo dicano gli apostoli. 11) Se si prendono le mosse da questi princìpi, tutto nella religione appare nella più rigorosa coerenza. Se, con la propria ricerca, li si oltre-

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man sich in unendliche Schwierigkeiten und Widersprüche. 3) 12) Diese ersten Grundsätze der Religion gründen sich mehr auf Empfindungen, als auf Ueberzeugungen: auf das Bedürfniß, sich mit Gott zu vereinigen; auf [289] das Gefühl seines Sündenelendes und seiner Strafbarkeit u.s.w. Die christliche Religion scheint also mehr für das Herz bestimmt, als für den Verstand; sie will sich nicht durch Demonstrationen aufdringen, sie will aus Bedürfniß gesucht seyn; sie scheint eine Religion guter und simpler Seelen. – Die Starken bedürfen des Arztes nicht, sondern die Kranken – Ich bin gekommen, die Sünder zur [/] Buße zu rufen – u. dgl. Aussprüche. – Daher die Dunkelheit, die sie umschwebt und umschweben sollte: daher, daß sehr mögliche Mittel einer dringenden Ueberzeugung, z. E. die Erscheinung Jesu vor der ganzen jüdischen Nation nach seiner Auferstehung, das begehrte Zeichen vom Himmel u. dgl. – nicht angewendet wurden. 3. Selbst Paulus scheint mir in seinem Briefe an die Römer mit seinen subtilen Untersuchungen über die Gnadenwahl diese Gränzlinie des Christenthums überschritten zu haben.

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passa, si resta irretiti in infinite difficoltà e contraddizioni3. 12) Questi princìpi primi della religione si fondano più su sentimenti che non su convinzioni, sul bisogno di unirsi a Dio, [289] sul sentimento della propria miseria di peccatore e della propria punibilità, etc. La religione cristiana, allora, sembra destinata più al cuore che all’intelletto. Essa non vuole imporsi per mezzo di dimostrazioni, ma vuole essere cercata a partire dal bisogno. Sembra una religione per anime buone e semplici. – Non sono i sani che hanno bisogno del medico, ma i malati. – Io sono venuto a chiedere ai peccatori di [/] pentirsi, – e massime simili. – Da qui l’oscurità che aleggia e che doveva aleggiare intorno ad essa; da qui il fatto che mezzi senz’altro impiegabili ai fini di una convinzione immediata, come, ad es., l’apparizione di Gesù davanti all’intera nazione ebraica dopo la resurrezione, il richiesto segno dal cielo e cose simili – non vennero impiegati.

3. Mi sembra che perfino Paolo, nella sua lettera ai Romani, con le sue sottili ricerche sulla predestinazione, abbia oltrepassato questa linea di confine del cristianesimo.

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13) Es ist merkwürdig, daß im ersten Jahrhunderte ungelehrte Apostel eben da ihre Untersuchungen abschnitten, wo der größte Denker des achtzehnten, Kant, gewiß ohne Rücksicht darauf, die Gränze zieht – bei Untersuchung des objectiven Wesens Gottes; bei den Untersuchungen über Freiheit, Imputation, Schuld und Strafe. 14) Wenn man diese Gränzen überschreitet, ohne jedoch seiner Untersuchung ihren freien Gang zu lassen; wenn man beim Ausgehen des Denkens sich schon im Voraus das Ziel setzt, wo man ankommen will, um, so viel möglich, die Speculation mit den Aussprüchen der Religion zu vereinigen: so entsteht ein aus sehr ungleichen Materialien sehr locker zusammengefügtes in die Luft gebautes Haus: – bei einem furchtsamen und weniger Phantasie fähigen Crusius eine religiöse Philosophie, und bei muthigeren und witzigeren neueren Theologen eine philosophische Religion, oder ein Deismus, der nicht einmal als Deismus viel taugt. Man macht sich überdies bei dieser Art von Arbeit verdächtig, daß man nicht sehr ehrlich zu Werke gehe.

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13) È degno di nota che, nel primo secolo, apostoli incolti interrompessero le loro ricerche proprio là dove il massimo pensatore del diciottesimo secolo, Kant, ovviamente senza riguardo per tale circostanza, ha fissato il limite – per quanto concerne la ricerca sull’essenza oggettiva di Dio, e per quanto concerne le ricerche su libertà, imputazione, colpa e punizione. 14) Se si oltrepassano questi limiti, senza peraltro lasciare libero corso alla propria ricerca, se già quando si comincia a pensare ci si pone in anticipo l’obiettivo al quale si vuole arrivare al fine di conciliare, per quanto sia possibile, la speculazione con le massime della religione, ne viene fuori una casa costruita con materiali molto disparati, una casa assemblata in modo molto disinvolto e campata in aria. – Ne vien fuori, nel caso di un Crusius, timoroso e dotato di poca fantasia, una filosofia religiosa; nel caso dei più coraggiosi e più arguti teologi moderni, una religione filosofica o un deismo, che non vale molto nemmeno come deismo. Inoltre, in questo genere di lavoro, si suscita il sospetto di non procedere in modo del tutto onesto.

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15) Geht man mit seinem Nachdenken gerade vor sich hin, ohne weder rechts noch links zu sehen, noch [/] sich zu kümmern, wo man ankommen wird: so kommt man, scheint es mir, sicher 4) auf folgende Resultate: [290] a) es ist ein ewiges Wesen, dessen Existenz, und dessen Art zu existiren, nothwendig ist. b) nach und durch den ewigen und nothwendigen Gedanken dieses Wesens entstand die Welt.

[289] 4. Ich weiß, daß die Philosophen, die auf andere kommen, die ihrigen eben so scharf beweisen; aber ich weiß auch, daß sie in der f o r t g e h e n d e n R e i h e ihrer Schlüsse zuweilen i n n e h a l t e n , um mit n e u e n P r i n c i p i e n , [290] die sich irgendwoher geben lassen, eine n e u e R e i h e anzufangen. So ist z.B. dem scharfsinnigsten Vertheidiger der Freiheit, der je war, dem in K a n t ‘ s Antinomien etc. der B e g r i f f d e r F r e i h e i t ü b e rh a u p t irgendwo anders her (von der Empfindung, ohne Zweifel) g e g e b e n , und er thut in seinem Beweise nichts, als ihn r e c h t f e r t i g e n und e r k l ä r e n : da er im Gegentheil i n ungestört fortlaufenden Schlüssen aus den ersten Grundsätzen der menschlichen Erkenntniß nie auf einen Begriff von der Art würde gekommen seyn.

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15) Se, nelle proprie meditazioni, si procede dritto davanti a sé, senza guardare né a destra, né a sinistra e [/] senza preoccuparsi neppure di dove si giungerà, secondo me si perviene sicuramente4 ai seguenti risultati: [290] a) c’è un essere eterno, la cui esistenza e il cui modo di esistere sono necessari. b) il mondo è sorto in conformità e per mezzo del pensiero eterno e necessario di tale essere.

[289] 4. So che i filosofi che arrivano ad altri risultati dimostrano con altrettanta precisione i loro, ma so anche che essi, nella s e r i e p r o g r e s s i v a delle loro deduzioni, talvolta s i a r r e s t a n o per iniziare una n u o v a s e r i e con n u o v i p r i n c i p i , [290] presi donde che sia. Così è accaduto, ad esempio, al più acuto difensore della libertà che ci sia mai stato, al quale, nelle antinomie di K a n t etc., il c o n c e t t o d i l i b e r t à i n g e n e r a l e è d a t o da una qualsiasi altra parte (senza dubbio dalla sensazione) ed egli, nella sua dimostrazione, non fa che g i u s t i f i c a r lo e s p i e g a r lo. Invece, n e l procedere tranquillo delle deduzioni a partire dai principi primi dell’umana conoscenza, mai sarebbe giunto a un concetto di quel genere.

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c) jede Veränderung in dieser Welt wird durch eine zureichende Ursache nothwendig so bestimmt, wie sie ist. – Die erste Ursache jeder Veränderung ist der Ur-Gedanke der Gottheit. d) Auch jedes denkende und empfindende Wesen also muß nothwendig so existiren, wie es existirt. – Weder sein Handeln, noch sein Leiden kann ohne Widerspruch anders seyn, als es ist. e) was die gemeine Menschen-Empfindung Sünde nennt, entsteht aus der nothwendigen, größern oder kleinern Einschränkung endlicher Wesen. Es hat nothwendige Folgen auf den Zustand [/] dieser Wesen, die eben so nothwendig, als die Existenz der Gottheit, und also unvertilgbar sind. 16) Dieses rein deistische System widerspricht der christlichen Religion nicht, sondern läßt ihr ihre ganze subjective Gültigkeit; es verfälscht sie nicht, denn es kommt mit ihr nirgends in Collision; es hat keinen schädlichen, sondern bei dem, der es ganz übersieht, einen überaus nützlichen Einfluß auf Moralität; es verhindert nicht, sie, als die beste Volksreligion, zu vereh-

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c) ogni mutamento, in questo mondo, viene determinato necessariamente così come è da una causa sufficiente. – La causa prima di ogni mutamento è il pensiero originario della divinità. d) pertanto, anche ogni ente pensante e senziente, deve necessariamente esistere così come esiste. – Né il suo agire, né il suo patire possono essere, senza contraddizione, diversi da come sono. e) quel che il senso comune chiama peccato, deriva dalla necessaria, più grande o più piccola limitazione degli enti finiti. Ciò produce conseguenze necessarie sulla condizione [/] di questi enti, conseguenze che sono tanto necessarie quanto l’esistenza della divinità, e quindi non possono essere eliminate. 16) Questo sistema puramente deistico non contraddice la religione cristiana, ma lascia ad essa la sua completa validità soggettiva. Non la altera, dal momento che in nessun punto entra in collisione con essa. Non ha alcun influsso dannoso; ne ha bensì uno pienamente utile sulla moralità di colui che lo domina in modo completo. Il sistema deistico non impedisce di onorare la religione cristiana come la migliore

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ren, und sie denen, die ihrer bedürfen, wenn man nur ein wenig Consequenz und Empfindlichkeit hat, mit der innigsten Wärme zu empfehlen: aber es wirkt eine gewisse Unbiegsamkeit, und hindert für seine eigene Person an den angenehmen Empfindungen, die aus der Religion fließen, Antheil zu nehmen. 17) Dennoch kann es gewisse Augenblicke geben, wo das Herz sich an der Speculation rächt; wo es sich zu dem als unerbittlich anerkannten Gotte mit heißer Sehnsucht wendet, als ob er eines Individuums wegen seinen großen Plan ändern [291] werde: wo die Empfindung einer sichtbaren Hülfe, einer fast unwidersprechlichen Gebets-Erhörung das ganze System zerrüttet – und, wenn das Gefühl des Mißfallens Gottes an der Sünde allgemein ist – wo eine dringende Sehnsucht nach einer Versöhnung entsteht5.

5. L’edizione tedesca riporta: «ensteht» [N.d.T.].

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religione popolare e, se si ha un minimo di coerenza e di sensibilità, di raccomandarla con il più fervido calore a coloro che ne hanno bisogno. Tuttavia, tale sistema produce una certa rigidità e, per quanto riguarda la sua propria persona, impedisce di prendere parte alle sensazioni piacevoli che derivano dalla religione. 17) Eppure, ci possono essere momenti in cui il cuore si vendica della speculazione, in cui si volge con ardente nostalgia al Dio riconosciuto come inflessibile5, come se questi modificasse il suo grande piano a causa di un individuo. [291] Momenti in cui il sentimento di un aiuto tangibile, di un quasi certo esaudimento della preghiera, manda all’aria l’intero sistema; – momenti in cui, se il sentimento della disapprova-

5. Il termine tedesco unerbittlich rinvia al verbo erbitten, pregare, smuovere qualcuno con le preghiere, preceduto dalla particella «un...», che esprime la negazione o il contrario della parola che la segue. L’uso del termine, in questo contesto, è finalizzato a mostrare la contrapposizione tra la speculazione, che riconosce Dio come colui che non si fa o non si può pregare (e che comunque resta insensibile alla preghiera), e il cuore, che, malgrado questa indicazione, si rivolge fiducioso a Dio proprio con la preghiera. [N.d.T.].

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18) Wie soll man einen solchen Menschen behandeln? Im Felde der Speculation scheint er unüberwindlich. Mit Beweisen der Wahrheit der christlichen Religion ist ihm nicht beizukommen; denn diese gesteht er so sehr zu, als man sie ihm nur beweisen [/] kann: aber er beruft sich auf die Unmöglichkeit, sie auf sein Individuum anzuwenden. Die Vortheile, die ihm dadurch entgehen, kann er einsehen; er kann sie mit der heißesten Sehnsucht wünschen; aber es ist ihm unmöglich, zu glauben. – Das einzige Rettungsmittel für ihn wäre, sich jene Speculationen über die Gränzlinie hinaus abzuschneiden. Aber kann er das, wann er will? wenn ihm die Trüglichkeit dieser Speculationen noch so überzeugend bewiesen wird – kann er‘s? kann er es, wenn ihm diese Denkungsart schon natürlich, schon mit der ganzen Wendung seines Geistes verwebt ist? –

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zione del peccato da parte di Dio è generale, – sorge un imperioso anelito alla riconciliazione. 18) Come si deve trattare un tale uomo? Sul piano della speculazione egli appare insuperabile. Con lui non si può spuntarla mediante dimostrazioni della verità della religione cristiana, perché egli l’ammette tanto, quanto si è in grado di [/] dimostrargliela, ma si appella all’impossibilità di applicarla alla sua persona. Egli può riconoscere i vantaggi che in tal modo gli sfuggono, può desiderarli con il più fervido struggimento, ma gli è impossibile credere. – L’unico mezzo di salvezza, per lui, sarebbe vietare a se stesso quelle speculazioni che oltrepassano la linea di confine. Ma è in grado di far questo quando vuole? – è in grado di farlo, quand’anche gli venga dimostrata in modo convincente l’illusorietà di queste speculazioni? – È in grado di farlo? È in grado di farlo, se questo modo di pensare è ormai divenuto per lui naturale, se ormai è intrecciato con l’intera inclinazione del suo spirito? –

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Indice

Giannino Di Tommaso Alle origini del «sistema della libertà» di Fichte: Alcuni aforismi su religione e deismo 1. Determinismo e libertà umana 2. Peccato e finitezza umana 3. Il cristianesimo come religione per le anime semplici 4. Il ruolo della religione nella vita dell’uomo 5. La libertà del volere 6. Religione e filosofia: conciliazione o alternativa?

p. 9 p. 13 p. 22 p. 24 p. 30 p. 40 p. 45

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Johann Gottlieb Fichte Einige Aphorismen über Religion und Deismus. (Fragment.)

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Johann Gottlieb Fichte Alcuni aforismi su religione e deismo. (Frammento)

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Nota biografica

Giannino Di Tommaso è professore ordinario di Filosofia morale presso l’Università dell’Aquila dove, dal 2005 al 2012, è stato Preside della Facoltà di Lettere e Filosofia. Già allievo di Leo Lugarini, si è interessato e si interessa, in particolare, della filosofia classica tedesca, cui ha dedicato diversi lavori. Di Fichte ha tradotto, e sono in via di pubblicazione presso l’Editore Bompiani, le Meditazioni personali sulla filosofia elementare, con testo a fronte e monografia introduttiva. È membro della Direzione scientifica de «Il Pensiero», e del Consiglio scientifico di «Verifiche».

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Quaderni della rivista

Il Pensiero

Nell’estate del 1790, alle prese con i ricorrenti problemi economici, Fichte accetta di impartire lezioni private sulla filosofia di Kant a un giovane allievo. Lo studio della Critica della ragion pura, intrapreso per tale motivo, esercita su di lui una profonda impressione e lo porta a mettere in discussione il suo precedente sistema deterministico. Nel medesimo periodo cade la conclusione della stesura degli Aforismi su religione e deismo, nei quali trova espressione il travaglio del giovane Fichte, combattuto tra le esigenze del cuore e quelle dell’intelletto e spinto a riconsiderare i rapporti tra fede e ragione, religione e filosofia. Il medesimo dissidio interiore – che va ben al di là di pur significativi «casi di coscienza» individuali – sarà sperimentato, circa un quarantennio dopo, da D.F. Strauß e Ch. Märklin, e darà luogo a una suggestiva, quanto inconsapevole analogia, dalla quale scaturiranno conclusioni e scelte ben diverse da quelle operate da Fichte.

Collana diretta da Vincenzo Vitiello e Massimo Adinolfi Issn: 2464-935X

€ 5,00

ISBN E-book 9788898694785