Aggressività, angoscia, senso di colpa 9788833971599

Se oggi possediamo raffinate capacità di analisi delle turbe infantili il merito è sicuramente di Melanie Klein, fra le

378 35 676KB

Italian Pages 115 Year 2012

Report DMCA / Copyright

DOWNLOAD FILE

Polecaj historie

Aggressività, angoscia, senso di colpa
 9788833971599

Table of contents :
Indice......Page 115
Frontespizio......Page 5
Presentazione......Page 3
Prefazione......Page 7
Aggressività, angoscia, senso di colpa......Page 11
Tendenze criminali nei bambini normali (1927)......Page 13
Situazioni d’angoscia infantile espresse in un’opera musicale e nel racconto di un impeto creativo (1929)......Page 37
Contributo alla teoria dell’inibizione intellettiva(1931)......Page 50
Criminalità (1934)......Page 67
1.......Page 72
2.......Page 73
3.......Page 75
4.......Page 79
5.......Page 82
6.......Page 90
7.......Page 93
Le influenze reciproche nello sviluppo dell’Io e dell’Es (1952)......Page 96
Riferimenti bibliografici......Page 101

Citation preview

Presentazione «All’origine dell’angoscia depressiva vi è, come ho già detto, il processo di sintesi da parte dell’Io degli impulsi distruttivi e dei sentimenti d’amore nei riguardi di uno stesso oggetto. Il senso di colpa è, a mio parere, sostanzialmente determinato dalla sensazione che il male procurato all’oggetto d’amore sia causato dagli impulsi aggressivi del soggetto».

Biblioteca Bollati Boringhieri 220

Titoli originali Criminal Tendencies in Normal Children (1927) Infantile Anxiety-Situations Reflected in a Work of Art and in the Creative Impulse (1929) A Contribution to the Theory of Intellectual Inhibition (1931) On Criminality (1934) © 1948 The Melanie Klein Trust Tratti da Contributions to Psycho-Analysis, The Hogarth Press, London 1948 On the Theory of Anxiety and Guilt (1948) The Mutual Influences in the Development of Ego and Id (1952) © 1952 Melanie Klein Trust Tratti da Developments in Psycho-Analysis, The Hogarth Press, London 1952 I testi qui raccolti sono tratti da Melanie Klein, Scritti 1921-1958, Boringhieri, Torino 1978 © 2012 Bollati Boringhieri editore Torino, corso Vittorio Emanuele II, 86 Gruppo editoriale Mauri Spagnol ISBN 978-88-339-7159-9 Schema grafico della copertina di Enzo Mari www.bollatiboringhieri.it Prima edizione digitale settembre 2012 Quest’opera è protetta dalla Legge sul diritto d’autore. È vietata ogni duplicazione, anche parziale, non autorizzata

Prefazione Melanie Klein approfondì coraggiosamente e magistralmente lo studio di quella parte oscura della mente umana, su cui Freud soffermò con meno enfasi la sua indagine: la dimensione violenta e terribile che angoscia la vita affettiva del bambino fin dal periodo prenatale. I sei saggi di questa raccolta testimoniano diverse fasi di sviluppo del suo pensiero nel periodo londinese (1926-60). Dall’inizio del 1924 sino a maggio 1925 fu in analisi con Karl Abraham a Berlino. Rigorosa sul piano tecnico, si era impegnata in quel periodo a indagare, in sintonia con Abraham, il sadismo dell’Io arcaico, la natura stessa dell’aggressività originaria e delle angosce sadico-cannibalesche. Esemplare in questo senso il caso del piccolo Peter, analizzato dalla Klein in questo periodo. Discusso presso la Società psicoanalitica di Berlino, esso era stato ripreso nel 1927 (Tendenze criminali nei bambini normali) e nel 1934 (Criminalità) negli interventi a due convegni della sezione medica della British Psychoanalytical Society – segno dell’importanza che la Klein attribuiva a questo caso come momento strategico nello sviluppo delle sue nuove elaborazioni teoriche. Durante una seduta, Peter aveva fatto qualche gioco dal significato sessuale con un bambolotto e poi lo aveva decapitato. Quindi, aveva deciso di venderne il corpo a un immaginario macellaio perché questi lo smembrasse e ne commerciasse i vari pezzi come carne da mangiare. Peter però aveva tenuto per sé la parte che considerava più prelibata, la testa, che intendeva gustarsi con grande appetito. Tutto il processo analitico – analogo a quello di altri piccoli pazienti della Klein – si era snodato attraverso una serie di smembramenti e divoramenti di figurine o bambolotti. Tanto impressionanti che l’analista li associò alle efferatezze di serial killer come Fritz Haarmann,1 Karl Denke o Karl Grossmann, di cui si parlava molto in Germania negli anni

venti. La Klein era ormai giunta alla piena convinzione, comprovata dai risultati delle sue numerose analisi infantili, che le fantasie e le tendenze criminali siano presenti nella realtà psichica di tutti i bambini, i quali temono «ciò che i genitori possono fare loro: ucciderli, cucinarli, evirarli e via di seguito».2 Fantasie terrifiche che derivano, in base alla legge del taglione, dal fatto che nel profondo la psiche infantile è popolata da pensieri e desideri di crudeltà, che giungono fino all’aggressione omicida diretta alle figure degli amati genitori. Benché quasi mai questi genitori immaginari (su cui il bambino struttura il proprio Super-io) corrispondano alle persone reali, gli stessi genitori reali vengono però vissuti con terrore, come se fossero enormemente pericolosi. Nel corso del normale sviluppo il bambino riesce a governare l’angoscia, a tollerare i conflitti interni, ma talvolta, a causa di molteplici fattori ambientali e costituzionali (tra i quali la Klein introdurrà nel 1932, la pulsione di morte), egli, anziché conformare le violente fantasie alla realtà, conforma questa alla proprie fantasie. Esperienze di una realtà in qualche modo persecutoria, come per esempio genitori eccessivamente severi o un ambiente miserabile e squallido, intensificano le fantasie di persecuzione. Tuttavia, precisa l’autrice, queste variabili ambientali non andrebbero sopravvalutate. Il fattore determinante non è l’ambiente, ma il grado di angoscia intrapsichica determinata dalla crudeltà costituzionale del Super-io. Verso la fine degli anni venti Melanie Klein iniziò a pensare al fondamentale ruolo svolto dalla riparazione relativa al senso di colpa per il male arrecato, nelle fantasie sadiche, al corpo materno, depredato di tutti i suoi contenuti. Riparazione e atti creativi intesi come forme di sublimazione: idee decisive nella teoria della posizione depressiva che la Klein elaborerà qualche anno dopo. Grazie al senso di colpa e alla capacità di riparazione e gratitudine il bambino può aumentare la fiducia nei suoi genitori e nelle

persone che lo circondano. Nel gergo metapsicologico, ora – con l’introduzione della posizione depressiva – l’Io può sì essere indebolito dall’angoscia persecutoria, ma può anche ricevere da essa uno «slancio alla crescita dell’integrazione e allo sviluppo intellettivo»,3 può sì essere sopraffatto dall’angoscia depressiva e dalla colpa, ma anche, grazie a un Super-io mitigato, essere stimolato a riparare e sublimare. In seguito la Klein preciserà con sempre maggiore chiarezza che i processi da cui scaturiscono l’angoscia e il senso di colpa dipendono fondamentalmente dai giochi di forza nell’interazione tra pulsione di morte e pulsione di vita.4 Il piccolo capolavoro di Maurice Ravel L’enfant et les sortilèges (1925), fantasia lirica in due parti su libretto di Colette, colpì enormemente la Klein per la straordinaria concordanza tra la vicenda evocata dall’opera e le sue scoperte sul mondo interno. Ne nacque il saggio Situazioni d’angoscia infantile espresse in un’opera musicale e nel racconto di un impeto creativo (1929), che bene si presta a testimoniare un importante punto di svolta del suo pensiero, là dove già si intravedono in nuce i concetti di posizione depressiva e di riparazione. La storia narra di un bambino di sette anni che reagisce a un castigo materno facendo il diavolo a quattro in casa (nell’interpretazione della Klein la stanza rappresenta il corpo della madre), e alla fine del pandemonio (i vari oggetti maltrattati simboleggiano il pene del padre e i bambini contenuti nel corpo della madre) si abbandona esausto sulla poltrona. All’improvviso, tutt’intorno a lui gli oggetti si animano (diventano cattivi e insopportabili a causa delle proiezioni delle fantasie distruttive del protagonista). Terrorizzata, la piccola peste fugge in giardino, ma anche lì gli alberi, i cespugli e gli animali gli danno contro (rimproveri che rappresentano gli attacchi superegoici). Mentre piovono accuse da tutte le parti, uno scoiattolo cade da un ramo e si ferisce. Subito il bambino lo soccorre amorevolmente e come d’incanto tutti lo perdonano cantando le sue lodi

(l’atto d’amore verso lo scoiattolo segnala la capacità di riparazione che ristabilisce, col senso di realtà, il mondo umano). Nel breve contributo Le influenze reciproche nello sviluppo dell’Io e dell’Es, letto al 17° Congresso dell’International Psychoanalytical Association, tenuto ad Amsterdam nel 1951 e introdotto da Anna Freud, la Klein riprende il tema del perenne interagire delle pulsioni di vita e di morte e ribadisce in conclusione che, in base alle sue tesi sui processi inconsci che riguardano lo sviluppo primitivo dell’Io e la formazione del Super-io, la concezione di Freud della struttura della psiche andrebbe rivista dalle fondamenta. Facevano ormai parte del sistema teorico kleiniano i rudimenti di un nuovo linguaggio e molte idee che si andavano approfondendo sempre più, come il ruolo determinante dell’angoscia nello sviluppo infantile, la retrodatazione – rispetto alla concettualizzazione di Freud – del complesso di Edipo e del crudele Super-io, la fantasia infantile del coito dei genitori come obiettivo degli attacchi sadici presenti in fantasia e del terrore di rappresaglie vendicative provenienti dai genitori reali, le difese primitive contro tali violente e spaventose fantasie, l’intensità straordinaria dell’angoscia primitiva e il predominio di un Super-io crudele e irrealistico nella genesi delle psicosi e delle inibizioni intellettive,5 fino ad arrivare agli ultimi fondamentali contributi sulla posizione depressiva e le difese maniacali (1935-45), sulla posizione schizoparanoide (1946-52), sulla metapsicologia alla luce, come già indicato, del conflitto tra le pulsioni di vita e di morte che preme fin dalla nascita sulla capacità dell’Io di controllare l’angoscia (1952-60). Giorgio Meneguz

Aggressività, angoscia, senso di colpa

AVVERTENZA BIBLIOGRAFICA Edizioni originali dei testi qui raccolti: Criminal Tendencies in Normal Children, in «British Journal of Medical Psychology», vol. 7, 1927, letto in occasione del simposio tenuto dalla British Psychoanalytical Society il 4 e il 18 maggio 1927; Infantile Anxiety-Situations Reflected in a Work of Art and in the Creative Impulse, in «International Journal of Psycho-Analysis», vol. 10, 1929 e «Internationale Zeitschrift für Psychoanalyse», vol. 17, 1931, letto alla British Psychoanalytical Society il 15 maggio 1929; A Contribution to the Theory of Intellectual Inhibition, in «International Journal of Psycho-Analysis», vol. 12, 1931, letto alla British Psychoanalytical Society nel marzo 1931; On Criminality, in «British Journal of Medical Psychology», vol. 14, 1934, contributo al «Symposium on Crime» tenuto alla Medical Section della British Psychoanalytical Society il 24 ottobre 1934; On the Theory of Anxiety and Guilty, in «International Journal of Psycho-Analysis», vol. 29, 1948; The Mutual Influences in the Development of Ego and Id, in «The Psychoanalytic Study of the Child», vol. 7, 1952.

Tendenze criminali nei bambini normali 1927

Una delle basi su cui poggia la psicoanalisi è la scoperta di Freud che nell’adulto si rinvengono tutti gli stadi del primo sviluppo infantile. Noi li ritroviamo in tutte le fantasie e le tendenze rimosse conservate nell’inconscio. Come è ben noto, il meccanismo della rimozione è governato soprattutto dall’attività di critica e di condanna del Super-io. È perciò naturale e ovvio che le rimozioni più profonde siano quelle che colpiscono le tendenze più antisociali. Così come l’individuo ripete l’evoluzione dell’umanità sotto l’aspetto biologico, la ripete anche sotto l’aspetto psichico. Troviamo perciò nello sviluppo dell’individuo, poi rimossi e inconsci, stadi che tuttora osserviamo nei popoli primitivi: lo stadio del cannibalismo e di tendenze omicide dal carattere più disparato. Questa componente primitiva della personalità è in totale contrasto con la componente civilizzata, quella che in effetti genera la rimozione. L’analisi infantile, e in particolare l’analisi dei bambini più giovani, cioè di quelli che hanno da tre a sei anni, dà una visione veramente illuminante del modo in cui, in tenerissima età, ha inizio la lotta fra la componente civilizzata e quella primitiva della personalità. I risultati che mi sono stati forniti dalle analisi di bambini piccoli mi hanno dato la prova che il Super-io opera fin dal secondo anno di vita. A quest’età il bambino ha già attraversato stadi estremamente importanti del suo sviluppo psichico; è passato attraverso lo stadio delle fissazioni orali, da distinguersi nella fissazione orale della suzione e nella fissazione orale del mordere. Quest’ultima è strettamente legata alle tendenze cannibalesche. La frequenza con cui vediamo bambini molto piccoli mordere il seno materno ne è una dimostrazione.

Nel primo anno di vita, inoltre, si sono anche già manifestate gran parte delle fissazioni sadico-anali. L’espressione erotismo sadico-anale designa il piacere che trae origine dalla zona erogena anale e che deriva dalle funzioni escretorie, nonché il piacere della crudeltà, del dominio, del possesso ecc., che si è scoperto essere strettamente connesso appunto con l’analità. Le pulsioni sadico-orali e sadico-anali hanno una funzione grandissima nelle tendenze che mi propongo di trattare in questo scritto. Ho detto poco fa che il Super-io opera fin dal secondo anno di vita, benché sicuramente si trovi allora ancora in via di sviluppo. La sua entrata in scena è determinata dall’avvento del complesso edipico. La psicoanalisi ha dimostrato che il complesso edipico ha una parte decisiva nello sviluppo globale della personalità, sia di coloro che diventano normali sia di coloro che diventano nevrotici. Il lavoro psicoanalitico ha inoltre comprovato sempre di più che dal complesso edipico dipende l’intera formazione del carattere, con tutte le varie sfumature dei disturbi caratteriali, da quelli lievemente nevrotici alle vere e proprie distorsioni criminali. Per quanto concerne lo studio dell’individuo criminale, finora sono stati fatti soltanto i primi passi ma sono passi che promettono sviluppi di grande portata.1 Tema di questo scritto è mostrare come si possano rilevare le tendenze criminali operanti in ogni bambino e avanzare alcune ipotesi su che cosa determini il farsi avanti e l’affermarsi o meno di tali tendenze nella personalità. Torniamo al punto di partenza. Quando il complesso edipico si instaura, cosa che, secondo i risultati del mio lavoro, accade al termine del primo anno di età o agli inizi del secondo, quei primi stadi di cui ho parlato – il sadicoorale e il sadico-anale – sono in piena attività. Le relative pulsioni si connettono allora alle tendenze edipiche e si orientano sugli oggetti sui quali si incentra lo sviluppo del complesso edipico, i genitori. Il maschietto, che

odia il padre quale suo rivale nell’amore della madre, lo odierà allora con l’ostilità, l’aggressività e le fantasie originate dalle sue fissazioni sadico-orali e sadico-anali. Fantasie di introdursi nella camera da letto e ammazzare il padre si riscontrano nell’analisi di ogni bambino, anche normale. Vorrei riferire un caso particolare, quello di un bambino di quattro anni, Gerald, assolutamente normale e il cui sviluppo era soddisfacente sotto ogni riguardo. Si tratta di un caso per molti versi veramente istruttivo. Gerald era un bambino vivacissimo e apparentemente felice, che non aveva mai dato a vedere angoscia e che era stato posto in analisi esclusivamente a fini profilattici. Nel corso dell’analisi mi accorsi però che il bambino aveva patito di intensa angoscia e che ne era tuttora oppresso. Mostrerò più avanti come un bambino possa dissimulare perfettamente le sue paure e i suoi disturbi. Durante l’analisi venimmo a scoprire che uno degli oggetti angosciosi era un animale, che aveva solo certe manifestazioni animalesche, ma che in realtà era un uomo. Questo animale, che faceva un gran rumore, era il padre, e il rumore proveniva dall’attigua camera da letto. Gerald desiderava introdurvisi per accecare, castrare e uccidere il padre, ma questo desiderio suscitava in lui la paura di essere trattato allo stesso modo dall’animale. Certi suoi gesti fugaci, come un movimento delle braccia che l’analisi dimostrò rappresentare il tentativo di respingere l’animale, erano appunto determinati da questa paura. Gerald possedeva un giocattolo, una piccola tigre, a cui era molto affezionato; la sua affezione per la tigre era in parte dovuta alla speranza che essa l’avrebbe protetto dall’animale. Certe volte, però, la tigre non era immaginata come difensore ma come aggressore. Gerald pensava allora di mandarla nella camera attigua perché realizzasse i suoi desideri aggressivi contro il padre. Nell’occasione avrebbe anche dovuto strappargli con un morso il pene, che sarebbe poi stato cucinato e mangiato. Questi desideri

erano determinati per una parte dalle fissazioni orali e per un’altra costituivano la rappresentazione di un modo di combattere il nemico; il bambino in genere, infatti, non disponendo di altre armi che dei denti, usa come arma questi mezzi primitivi. La componente selvaggia, primitiva, della personalità era in questo caso rappresentata dalla tigre, con la quale, come poi si accertò, Gerald si immedesimava; al tempo stesso, però, Gerald avrebbe voluto che questa sua componente non si realizzasse. Cionondimeno egli fantasticava di fare a pezzi sua madre oltre che suo padre, e queste fantasie erano connesse ad attività anali come l’insozzare con le feci i genitori. A seguito di fantasie del genere organizzava pranzetti nei quali comparivano lui e sua madre che mangiavano il padre. È difficile descrivere quali sofferenze patiscano i bambini molto affettuosi – e Gerald era uno di questi – a causa di queste fantasie, che la componente civilizzata della loro personalità condanna severamente. L’amore e la tenerezza che per controbilanciare tutto ciò Gerald manifestava a suo padre non erano quindi mai abbastanza. Possiamo vedere qui in azione uno dei motivi più forti della rimozione dell’amore per la madre, che è in una certa misura la causa delle fantasie, e del rimanere legato al padre con una fissazione di intensità raddoppiata, che può costituire la base di una futura permanente disposizione omosessuale. Accennerò al caso analogo di una bambina. La rivalità con la madre e il desiderio di prenderne il posto nell’amore del padre generavano anche in questo caso fantasie sadiche di ogni tipo. E anche nella bambina il desiderio di distruggere la bellezza della madre, di deturparle il viso e il corpo, di appropriarsi del corpo materno – espresso nelle tipiche fantasie primitive di mordere, di fare a pezzi e via di seguito – era connesso a un forte senso di colpa, che finiva col rafforzare la fissazione alla madre. Non è raro, insomma, osservare bambini piccoli, fra i due e i cinque anni, che, se femminucce per esempio, sono straordinariamente affezionate alla

madre, ma con un affetto basato in gran parte sull’angoscia e sul senso di colpa sicché ne consegue un allontanamento dal padre. Questa complessa situazione psichica diventa quindi ancora più complessa perché, per difendersi dalle tendenze riprovate dal Super-io, il bambino fa appello alle proprie tendenze omosessuali, le rafforza, e sviluppa quello che chiamiamo complesso edipico «negativo». Questo si manifesta nella bambina con una fortissima fissazione alla madre e nel bambino con una fortissima fissazione al padre. Ancora un passo e si perviene allo stadio in cui il bambino non riesce neppure a conservare questo tipo di rapporto e si distacca da entrambi i genitori. Questa è sicuramente la situazione di base della formazione di una personalità asociale, perché il rapporto con il padre e con la madre è determinante per tutti i successivi rapporti della vita. Ma c’è anche un altro rapporto che ha una funzione fondamentale: quello con i fratelli e le sorelle. L’analisi dimostra che nessun bambino manca di avvertire un sentimento di forte gelosia nei confronti dei fratelli e delle sorelle, dei più grandi come dei più piccoli. Anche il bambino molto piccolo, che apparentemente ignora tutto della nascita, ha una cognizione inconscia nettissima del fatto che i bambini crescono nel grembo materno. La gelosia suscita un odio violento contro il bimbo ancora nel grembo materno e ciò porta al desiderio – che riscontriamo come un desiderio tipico nelle fantasie dei bambini che hanno la madre in stato interessante – di squarciare il grembo gravido della madre e di sfregiare e mutilare il bimbo mordendolo e facendolo a pezzi. I desideri sadici che hanno come oggetto il nascituro saranno poi diretti contro il neonato, ma hanno anche come oggetto i fratelli e le sorelle più grandi, perché in confronto a loro il bambino si sente trascurato, anche quando ciò non corrisponde alla verità. Sta comunque di fatto che questi sentimenti di odio e di gelosia producono nel bambino un forte senso di colpa, che può influenzare per sempre i suoi rapporti con i fratelli. Il piccolo

Gerald, per esempio, possedeva un bambolotto che curava con grande tenerezza e che spesso fasciava e ninnava. Il bambolotto rappresentava il fratellino minore che il suo severo Super-io gli imponeva di trattare così perché, mentre era ancora nel ventre materno, egli l’aveva mutilato ed evirato. In tutti questi rapporti in cui prevalgono i sentimenti negativi dell’affettività il bambino reagisce con l’odio potente e intenso tipico delle prime fasi sadiche dello sviluppo. Poiché gli oggetti odiati sono però al tempo stesso gli oggetti d’amore del bambino, nasce un conflitto che ben presto diventa intollerabilmente pesante per il suo debole Io; l’unico scampo è la fuga attraverso la rimozione, sicché l’intera situazione conflittuale, che non viene mai chiarita, permane operante nell’inconscio. Ad onta di quella psicologia e pedagogia che continuano sempre a conservare la convinzione che il bambino sia un essere felice e senza conflitti e a presumere che le sofferenze dell’adulto siano prodotte dal peso e dalle asprezze della realtà, occorre proclamare che è vero esattamente il contrario. Ciò che mediante la psicoanalisi apprendiamo sul bambino e sull’adulto è che tutte le sofferenze della vita sono per la maggior parte ripetizioni di quelle della prima infanzia e che in quest’età ogni bambino passa attraverso sofferenze smisurate. Per il momento non negherò che le apparenze sembrano contraddire queste affermazioni. A un’osservazione attenta in effetti non sfuggono i segni di tali difficoltà, ma l’impressione è che il bambino le superi più o meno facilmente. La domanda di come si spieghi il contrasto fra le apparenze e la situazione psichica reale avrà una risposta più avanti, allorché tratteremo delle vie e dei mezzi diversi di cui si serve il bambino per superare le sue difficoltà. Riprendiamo ora l’argomento dei sentimenti negativi del bambino. Essi sono indirizzati contro il genitore dello stesso sesso e contro i fratelli senza

distinzione di sesso. Ma, come ho accennato, la situazione diventa poi più complessa per il fatto che i sentimenti negativi sono successivamente diretti anche contro il genitore di sesso opposto, in parte a causa delle frustrazioni che anche questo genitore impone, in parte perché nello sforzo di sfuggire al conflitto il bambino si distacca dal suo oggetto d’amore e trasforma l’amore in ostilità. In realtà la situazione è ancora più complessa, perché le tendenze amorevoli, i sentimenti positivi, sono permeati, al modo stesso in cui lo sono i sentimenti negativi, dalle teorie e fantasie sessuali tipiche degli stadi pregenitali. L’analisi degli adulti ci ha rivelato molto sulle teorie sessuali dei bambini, ma l’analista che si occupa direttamente dei bambini scopre una quantità stupefacente di teorie sessuali. Mi intratterrò ora brevemente sul modo, sulla tecnica con cui si ottiene dal bambino tutto il materiale di cui ho parlato. Se guardiamo da una posizione psicoanalitica al bambino che gioca e attuiamo determinati provvedimenti tecnici che riducono le sue inibizioni, possiamo veder emergere tutte le sue fantasie e teorie, scoprire quali esperienze ha provato e osservare l’azione delle sue pulsioni e la reazione delle sue istanze critiche. Operare con questa tecnica non è facile: essa richiede una grande capacità di identificarsi con le fantasie del bambino e un atteggiamento e comportamento particolari nei suoi riguardi; ma è straordinariamente remunerativa. Essa ci fa arrivare a livelli così profondi dell’inconscio da lasciare stupiti gli analisti di adulti. Interpretando al bambino il significato dei suoi giochi, dei disegni, di tutto il suo comportamento, l’analista infantile perviene a poco a poco a dissolvere le rimozioni operanti contro le fantasie che sottendono il gioco e permette a tali fantasie di avere libero sfogo. Con giocattoli come bambolotti che rappresentano persone di età e sesso diversi, con animali, veicoli, trenini e così via, il bambino rappresenta vari personaggi – la madre, il padre, fratelli, sorelle – e attraverso i giocattoli vive e mette in scena il materiale inconscio

più profondamente rimosso. Dato l’ambito di questo scritto non mi è possibile addentrarmi a fondo nei dettagli della mia tecnica. Devo limitarmi a dire che ho ottenuto tale materiale in tante rappresentazioni diverse e con espressioni così varie da escludere ogni possibilità di errore circa il suo significato, comprovato, d’altronde, dal risultato risolutivo e liberatorio determinato dalle interpretazioni. Nelle fantasie ludiche compaiono chiaramente le tendenze primitive e le reazioni delle istanze che le riprovano. Per quanto riguarda le prime, per esempio, in un gioco nel quale il bambino ha mostrato che un omino, combattendo un uomo grande e grosso, è riuscito a vincerlo, accade spesso che l’uomo grande e grosso muore, viene messo in un carro e portato dal macellaio perché lo squarti e lo faccia cucinare. Poi l’uomo piccolo ne mangia con piacere le carni, e addirittura invita al festino una signora che certe volte rappresenta la madre (la madre che al posto del padre ha accolto il piccolo omicida). La situazione, naturalmente, può anche essere opposta. Se è in primo piano la fissazione omosessuale, possiamo assistere a uno spettacolo nel quale è la madre che viene cucinata e mangiata, e sono due fratelli a condividere il pasto. Come ho già detto, le forme in cui si manifestano queste fantasie sono innumerevoli, e possono addirittura variare, in uno stesso bambino, a seconda del diverso stadio della sua analisi. La manifestazione di queste tendenze primitive è però sempre seguita da angoscia e da comportamenti che mostrano come il bambino cerchi ora di fare il bravo e di riparare a ciò che ha fatto. Talvolta tenta di aggiustare il pupazzo, il trenino o comunque ciò che ha appena rotto; talvolta esprime queste stesse tendenze di natura reattiva nel disegno, nel gioco delle costruzioni ecc. Sia ben chiaro che i giochi di cui sto parlando, tramite i quali il bambino fornisce il materiale in questione, differiscono in misura considerevole da quelli che di solito si vedono fare ai bambini. Per poter ottenere tale

materiale, infatti, l’analista segue delle vie ben precise. Il suo atteggiamento verso le associazioni e i giochi del bambino si dimostra totalmente aperto, non si presenta mai critico o moralistico. Questo è uno dei modi con cui si può stabilire la traslazione e la situazione analitica, grazie alle quali il bambino manifesta all’analista ciò che non rivelerebbe mai a una madre o a una governante: egli sa perfettamente infatti che queste rimarrebbero enormemente scosse dal notare in lui l’aggressività e gli impulsi antisociali contro i quali si è diretta tutta la loro azione educativa. L’analisi, inoltre, dissolve le rimozioni, e ciò fa sì che emergano le manifestazioni dell’inconscio. Naturalmente a questo si arriva lentamente, passo dopo passo; alcuni dei giochi da me riferiti hanno avuto luogo non all’inizio ma nel prosieguo dell’analisi. Occorre tuttavia dire che tutti i giochi dei bambini, anche quelli estranei alla situazione analitica, sono oltremodo istruttivi e dimostrano la maggior parte degli impulsi qui esposti. Ma per discernerli bisogna essere degli osservatori particolarmente esperti e possedere una certa conoscenza del simbolismo e dei metodi psicoanalitici. Le teorie sessuali costituiscono la base di una quantità di fissazioni estremamente primitive e sadiche. Da Freud sappiamo che il bambino possiede, si direbbe per filogenesi, un certo sapere inconscio. In questo rientrano idee, piuttosto vaghe e confuse, sul rapporto sessuale dei genitori, sulla nascita dei bambini ecc. Quando il bambino attraversa la fase sadicoorale e sadico-anale il rapporto sessuale significa per lui un atto nel quale entrano principalmente il mangiare, il cucinare, lo scambio di feci e ogni sorta di azioni sadiche (picchiare, fare a pezzi e così via). Vorrei si tenesse ben presente che il nesso fra queste fantasie e la sessualità è destinato ad avere effetti importanti nel corso ulteriore della vita. Anche quando tutte queste fantasie saranno palesemente scomparse, esse avranno un effetto inconscio di notevolissimo peso per esempio nella frigidità, nell’impotenza o

in altri disturbi sessuali. Il nesso tra fantasie e sessualità lo possiamo osservare chiarissimamente nell’analisi di bambini piccoli. Il maschietto che esprime con fantasie estremamente sadiche i suoi desideri nei riguardi della madre cerca scampo eleggendo al posto dell’oggetto materno l’imago paterna; se le sue fantasie sadico-orali appaiono poi connesse a questo oggetto il bambino si distaccherà anche da esso. Troviamo in questo nesso il fondamento di tutte le perversioni, che, come Freud ha scoperto, hanno la loro origine nel primo sviluppo del bambino. Alcuni esempi della concezione infantile del rapporto sessuale sono l’immaginare il padre, o se stesso, che sventra la madre, la percuote, la squarcia con le unghie, la taglia a pezzi. Per inciso dirò che sono proprio fantasie di questo genere quelle che vengono tradotte in atto da certi criminali, del tipo, tanto per dirne uno, di Jack lo Squartatore. Nel rapporto omosessuale queste fantasie si trasformano nell’evirazione del padre, nel tagliargli il pene o nello strapparglielo a morsi, e in ogni sorta di altre violenze. Anche la nascita è molto frequentemente connessa con fantasie nelle quali si taglia questa o quella parte del corpo materno e si estrae il bambino. Questi sono solo alcuni esempi della grande varietà di fantasie sessuali che si rinvengono in ogni bambino, anche normale; un punto, questo, che desidero sottolineare in modo particolare e che posso sostenere con certezza perché ho avuto la fortuna di avere in analisi, a fini puramente profilattici, numerosi bambini normali. Quanto più diventiamo familiari con la psiche profonda del bambino, tuttavia, questo aspetto repellente della sua vita di fantasia ci appare sotto tutta un’altra luce. Vediamo certo che il bambino è totalmente dominato dalle sue pulsioni, ma che queste sono anche alla base di tutti i suoi slanci creativi, delle sue tendenze ad amare ed essere amato, dei suoi impulsi alla socialità. Devo dire che il modo in cui perfino il bambino più piccolo lotta contro le proprie tendenze antisociali lascia in me un’impressione veramente commovente e

incancellabile. Lo vediamo far mostra di una grandissima capacità di amare, e del desiderio di compiere qualunque sacrificio pur di essere amato, un momento dopo aver manifestato i suoi impulsi più sadici. A questi impulsi non possiamo applicare alcun metro di valutazione etica; dobbiamo dare per scontato che essi esistono e senza ergerci a critici aiutare il bambino ad affrontarli; così facendo diminuiamo le sue sofferenze, rafforziamo le sue capacità, ma al tempo stesso il risultato finale sarà di aver compiuto un lavoro sociale di importanza considerevole. È impressionante vedere in analisi come queste tendenze distruttive, allorché risolviamo le fissazioni, possano essere sublimate e le fantasie possano trovare libero sfogo in attività artistiche e costruttive. Ma l’analisi provoca questi risultati solo in forza di provvedimenti rigorosamente analitici e mai consigliando, ammonendo o stimolando il bambino. L’esperienza mi ha insegnato che questo secondo modo di operare, che è quello pedagogico, non può essere realizzato dall’analista unitamente all’attività analitica; l’analisi, però, spiana il terreno per un lavoro pedagogico altamente proficuo. Alcuni anni or sono, in una comunicazione alla Società psicoanalitica di Berlino, misi in rilievo l’analogia tra certi orrendi delitti avvenuti non molto tempo prima e talune fantasie che avevo rilevate in analisi di bambini abbastanza piccoli. Uno dei delitti costituiva una vera e propria combinazione di perversione e di criminalità. Comportandosi con estrema abilità, tanto da non essere scoperto per parecchio tempo, il criminale, che si chiamava Harmann, aveva compiuto le sue nefandezze nei confronti di numerosissime persone agendo in questo modo: entrava in amicizia intima con dei giovani e, dopo essersene servito per soddisfare le sue tendenze omosessuali, li decapitava bruciandone poi il corpo o eliminandone le parti in qualche altro modo; dopodiché addirittura vendeva i loro indumenti. Un altro caso veramente raccapricciante era stato quello di un uomo che aveva assassinato

diverse persone e si era servito di parti dei cadaveri per farne salsicce. Le fantasie infantili di cui dicevo prima trovano una corrispondenza puntuale nei particolari che caratterizzano questi crimini. Per esempio, in una fantasia di un bambino fra i quattro e i cinque anni, le stesse cose venivano commesse sulle persone del padre e del fratello, ai quali egli era legato da una fortissima fissazione sessuale. Dopo aver dato, utilizzando un bambolotto, la rappresentazione simbolica di masturbazione reciproca e di altre azioni sessuali da lui desiderate, decapitava il bambolotto e ne vendeva il corpo a un macellaio immaginario perché questi ne rivendesse a sua volta i pezzi come carne da mangiare. Per sé teneva la testa che voleva mangiare egli stesso perché trovava che era la parte più appetitosa. Come il criminale del primo caso, anche lui si appropriava di tutto quanto apparteneva alla vittima. Poiché credo che chiarisca meglio le cose fornire maggiori particolari su un solo caso che non dare una serie di esempi, illustrerò più a fondo questo caso particolare. Quando mi fu condotto in analisi, questo maschietto, Peter, era un bambino oltremodo inibito, straordinariamente timoroso, molto difficile da educare e totalmente incapace di giocare; con i suoi giocattoli non riusciva a fare altro che romperli. La sua inibizione nei riguardi del gioco, come la sua angoscia, le sue paure, erano strettamente connesse a fissazioni sadico-orali e sadico-anali. Non riusciva a giocare perché le sue fantasie – quelle fantasie che sono il vero motore del gioco – erano crudeli e dovevano restare rimosse. Avendo paura delle cose che inconsciamente provava il desiderio di fare agli altri, si aspettava sempre che quelle stesse cose fossero fatte a lui. Gli impulsi sadici collegati alla brama della madre l’avevano portato ad allontanarsi da lei e ad avere comunque con lei rapporti abbastanza cattivi. La libido era quindi stata diretta sul padre ma, poiché egli era anche molto intimorito dal padre, l’unico vero rapporto che riusciva a mantenere era quello con il fratello minore. Beninteso, anche questo rapporto era molto

ambivalente. Come si manifestasse il continuo timore del bambino di essere punito può essere illustrato nel modo migliore con l’esempio che segue. Una volta si mise a giocare con due pupazzetti che rappresentavano lui e suo fratello in attesa di essere puniti dalla madre perché si erano comportati male. La madre arriva, trova che si sono insudiciati, li punisce e se ne va via. I bambini tornano a sporcarsi, sono di nuovo puniti e la faccenda continua a ripetersi. Alla fine la paura della punizione diventa così forte che i due bambini decidono di ammazzare la mamma; cosa che Peter fa uccidendo una bambola, il cui corpo viene poi fatto a pezzi e mangiato. Ma ecco comparire il padre, venuto in soccorso della madre, e anche lui viene ucciso atrocemente, fatto a pezzi e mangiato. Adesso i due bambini appaiono felici: possono fare quello che vogliono. Ma poco dopo insorge una grande angoscia, perché pare che i genitori uccisi siano resuscitati e stiano ritornando. Appena insorge l’angoscia il bambino nasconde i due pupazzetti sotto il divano affinché i genitori non possano trovarli e non possa quindi aver luogo ciò che il bambino chiama «essere educati». Ma i genitori trovano i due pupazzi e mentre il padre taglia la testa a lui, la madre la taglia al fratello; dopodiché anche i fratelli vengono cucinati e mangiati. È caratteristico, e ci tengo a sottolinearlo, che dopo poco tempo i misfatti tornino a essere ripetuti, anche se per così dire, in sceneggiature diverse; ogni volta c’è l’aggressività contro i genitori e ogni volta segue la punizione dei bambini. Del meccanismo che si esprime in questa circolarità ci occuperemo più avanti. E ora qualche parola sull’esito di questo caso. Benché il bambino avesse dovuto attraversare alcune esperienze penose mentre era ancora in analisi, in quanto i genitori divorziarono e tutti e due, venutisi a trovare in condizioni economiche precarie, si risposarono, la sua nevrosi si risolse completamente. Egli non soffrì più di angoscia e di inibizione nei confronti del gioco, divenne

un bravo scolaro, un bambino socialmente ben adattato e di animo lieto. A questo punto potrebbe porsi la domanda del perché io mi sia così minuziosamente addentrata nell’esposizione del caso di un bambino chiaramente affetto da nevrosi ossessiva mentre il titolo di questo scritto fa riferimento ai bambini normali. Come ho già detto parecchie volte, l’identico materiale si riscontra in tutti i bambini, anche in quelli normali, solo che il nevrotico presenta con uno spicco maggiore quanto si rileva del pari operante nel bambino normale, ma con minore intensità. È questa intensità l’elemento di importanza primaria nella spiegazione del problema di come lo stesso psichismo di base possa portare a risultati tanto diversi. Nel caso del piccolo Peter l’intensità delle fissazioni sadico-orali e sadico-anali era così alta che tutto il suo sviluppo ne era dominato. Talune esperienze costituirono inoltre un fattore determinante del prodursi della sua nevrosi ossessiva. Quando aveva circa due anni il bambino subì un cambiamento straordinario. I genitori me lo descrissero dicendo che non sapevano come spiegarlo. Il bambino era ricaduto nell’abitudine di sporcarsi, aveva smesso completamente di giocare, aveva cominciato a rompere i giocattoli ed era diventato molto difficile da allevare. L’analisi mise in luce che, nel corso dell’estate in cui era avvenuto il cambiamento, il bambino aveva condiviso la camera da letto dei genitori ed era stato presente mentre essi avevano un rapporto sessuale. L’impressione che ne aveva ricevuto era che si trattasse di un atto orale estremamente sadico, cosa che aveva rafforzato le sue fissazioni. Egli aveva allora già raggiunto parzialmente lo stadio genitale ma per effetto dell’impressione ricevuta era regredito agli stadi pregenitali. Così il suo intero sviluppo sessuale era rimasto dominato da questi stadi. Sei mesi più tardi la nascita del fratellino aveva accresciuto ancor più i suoi conflitti e la sua nevrosi. Ma un altro fattore ancora, di somma importanza nello sviluppo della nevrosi

ossessiva in genere, operava in modo particolare nel caso di Peter: il senso di colpa ingenerato dal Super-io. In Peter, un Super-io non meno sadico delle sue tendenze era attivo già in tenerissima età. L’intensità del conflitto con il Super-io, insopportabile per un Io debole, aveva portato a una rimozione fortissima. Un altro elemento di rilievo è che vi sono bambini che riescono a tollerare misure molto modeste di angoscia e di senso di colpa. Peter ne poteva sopportare molto poco; il conflitto fra le sue pulsioni sadiche e il suo sadico Super-io, il quale minacciava di punirlo con azioni sadiche dello stesso tipo, era per lui un peso spaventoso. Nell’inconscio la massima biblica «occhio per occhio» funziona! E ciò spiega perché troviamo nei bambini quelle loro fantastiche rappresentazioni di ciò che i genitori possono fare loro: ucciderli, cucinarli, evirarli e via di seguito. Come è noto, i genitori sono la fonte del Super-io, in quanto i loro ordini, i loro divieti e così via vengono assimilati dal bambino. Ma il Super-io non coincide con i genitori; in parte è costituito dalle fantasie sadiche peculiari del bambino. Le forti rimozioni non fanno altro che rendere stabile il conflitto, senza però farlo mai cessare. In più, bloccando l’attività fantastica, rendono impossibile al bambino di abreagire tali fantasie attraverso il gioco o di portarle in qualche altro modo a sublimarsi, sicché le fissazioni restano con tutto il loro peso nella circolarità di un processo che non ha mai fine. Il senso di colpa, anch’esso rimosso, non è meno gravoso; perciò il bambino continua a ripetere una quantità di azioni che esprimono sia i suoi moti pulsionali sia il suo desiderio di essere punito. Il desiderio di punizione, che nel bambino è una causa determinante del suo ripetere continuamente azioni riprovevoli, si ritrova più o meno eguale nel criminale che continua a delinquere, come chiarirò meglio più avanti. Ricorderete il gioco del piccolo Peter con i due pupazzetti che rappresentavano lui stesso e suo fratello, i quali si comportavano male e venivano puniti, uccidevano i genitori ed erano quindi

uccisi da loro, dopodiché tutto ricominciava da capo. In ciò vi era una coazione a ripetere che dipendeva da cause diverse ma sulla quale influiva moltissimo il senso di colpa che esige la punizione. In tutto questo abbiamo già potuto rilevare alcune delle cause più importanti della differenza tra bambino normale e bambino nevrotico: l’intensità delle fissazioni, il modo e il tempo in cui si ha la connessione delle fissazioni con talune esperienze, il grado di severità del Super-io e il modo in cui questo si costituisce – che dipendono contemporaneamente da fattori interni e da fattori esterni – e, inoltre, la capacità del bambino di tollerare l’angoscia e il conflitto. Quanto alla rimozione, essa è utilizzata sia dal bambino normale che da quello anormale per far fronte ai conflitti; poiché però nel bambino normale i conflitti sono meno intensi l’intero processo circolare descritto in precedenza opererà meno energicamente. Ma vi sono anche altri meccanismi di cui si avvale tanto il bambino normale quanto il bambino nevrotico, e ancora una volta a determinare il risultato finale sarà il grado di intensità del loro funzionamento: uno di essi è la fuga dalla realtà. Il bambino risente della sgradevolezza della realtà molto più di quanto appaia superficialmente, e cerca di conformare la realtà alle sue fantasie invece che le fantasie alla realtà. Troviamo qui la spiegazione di una questione che ho lasciata in sospeso, e cioè del perché un bambino può non dare vistose manifestazioni esterne delle sue sofferenze interne. Ci capita infatti molto spesso di vedere un bambino rasserenarsi, e talvolta rallegrarsi per un nonnulla, subito dopo aver pianto disperatamente, e di trarne quindi la conclusione che è un bambino felice. Il bambino ha queste possibilità perché dispone di una via di scampo che è più o meno preclusa all’adulto: la fuga dalla realtà. Chi ha familiarità con la vita ludica dei bambini sa che essa è totalmente occupata dalla vita pulsionale e dai desideri infantili, che trovano espressione e

appagamento attraverso la fantasia. Dalla realtà, alla quale può anche essere più o meno ben adattato, il bambino prende solo quanto gli è assolutamente indispensabile. Proprio per questo noi ci accorgiamo dell’insorgere di una serie di disturbi in quei momenti della vita del bambino nei quali le esigenze della realtà si fanno più pressanti, come per esempio quando il bambino comincia ad andare a scuola. Ho già detto che il meccanismo della fuga dalla realtà è operante in ogni forma di sviluppo, in quello normale come in quello anormale, e che nei due casi è diversa solo la misura della sua attività. Dove sono in funzione, accanto ad altri fattori particolari, alcuni di quelli che ho indicati come fattori determinanti della nevrosi ossessiva, possiamo veder operare la fuga dalla realtà in misura talmente alta da dare l’idea che si stiano ponendo le basi di una psicosi. Talvolta invece possiamo avvertirla in bambini che apparentemente danno l’impressione di essere abbastanza normali e che non manifestano nulla di più che una propensione al gioco e una vita di fantasia molto intense. Il meccanismo dell’evasione dalla realtà e del rifugio nella fantasia è collegato qui a un modo di reagire molto consueto nel bambino, e cioè al consolarsi continuamente della frustrazione dei propri desideri dimostrando a se stesso, nella reiterazione dei giochi e delle fantasie, che tutto va bene e tutto finirà bene. E questo comportamento riesce perfettamente a dare agli adulti l’impressione che il bambino sia molto felice mentre in realtà non lo è. Ora, sotto questo aspetto, e con riferimento all’analisi, rifacciamoci al caso del piccolo Gerald. La sua allegria e la sua vivacità servivano in parte a nascondere a se stesso e agli altri l’angoscia e l’infelicità. L’analisi mutò radicalmente questa situazione, in quanto aiutò il bambino a liberarsi dall’angoscia e a sostituire la sua contentezza artificiosa con uno stato di soddisfacimento ben più valido e sicuro. È in quest’ambito che l’analisi dei

bambini normali trova la sua massima occasione di rendimento. Non esiste nessun bambino che non soffra di qualche disturbo, di paure, di senso di colpa, e anche quando questi sembrano avere scarso rilievo possono in realtà causare sofferenze molto più grandi di quanto non sembri ed essere per di più i primi segni di assai più gravi disturbi futuri. Quando ho parlato del caso di Peter ho precisato che il senso di colpa ha una funzione di primo piano nella coazione a ripetere continuamente azioni proibite anche se, come ho detto, in sceneggiature diverse. Che in ogni bambino cosiddetto «cattivo» sia in funzione anche il desiderio di essere punito si può considerare una vera e propria norma. Vi è qui la rappresentazione, per citare Nietzsche, di quello che egli chiamava il «pallido delinquente»; a Nietzsche era già ben nota la figura del delinquente mosso dal senso di colpa.2 A questo punto siamo arrivati alla parte più ardua del mio tema: al problema di quale sviluppo debbano subire le fissazioni perché si abbia come risultato il criminale. La questione è di difficile soluzione perché la psicoanalisi non si è ancora occupata molto di questo problema. Purtroppo in questo campo oltremodo stimolante e importante neppure io posseggo un’esperienza di lavoro sufficientemente grande da potervi fare riferimento. Tuttavia taluni casi, che si approssimavano abbastanza a casi di soggetti criminali, mi hanno consentito di farmi qualche idea sul modo in cui si produce tale sviluppo. Esporrò un caso dal quale mi pare si possano trarre molti insegnamenti. Si trattava di un ragazzino di dodici anni che doveva essere inviato in riformatorio e che intanto mi fu affidato in analisi. Le manifestazioni della sua condotta traviata consistevano nel forzare gli armadi della scuola, in una tendenza a rubare in genere ma in ispecie a scassinare, e nell’aggredire sessualmente le ragazzine. Non aveva rapporti se non a fine aggressivo e distruttivo; anche le sue relazioni con altri ragazzi avevano principalmente questo scopo. Non aveva interessi particolari e sembrava

addirittura indifferente sia alle punizioni che ai premi. La sua intelligenza era molto al disotto della norma; questo però non si dimostrò un ostacolo per l’analisi, che si avviò molto bene e sembrò promettere buoni risultati. Solo poche settimane dopo l’inizio mi fu riferito che il ragazzo cominciava a cambiare positivamente. Purtroppo, due mesi dopo avere iniziato l’analisi dovetti interromperla a lungo per assolvere a certe mie esigenze private. Nei due mesi il ragazzino avrebbe dovuto venire da me tre volte alla settimana ma io lo vidi quattordici volte in tutto perché la vicemadre alla quale era affidato fece del suo meglio per impedirgli di venire alle sedute. Nel periodo dell’analisi, pur così poco favorita, il ragazzino non commise nessun misfatto, ma ricominciò a commetterli quando l’analisi fu interrotta; dopodiché fu subito messo in riformatorio e tutti i tentativi che feci al mio ritorno per riaverlo in analisi furono vani. L’esame della situazione, nel suo complesso, non lascia in me alcun dubbio che il fanciullo aveva percorso il primissimo tratto della strada della criminalità. Farò ora una breve esposizione delle cause di questo sviluppo, almeno nella misura in cui ho potuto coglierle durante l’analisi. Da bambino era cresciuto in condizioni rovinose. La sorella maggiore aveva costretto lui e il fratello più piccolo a compiere atti sessuali con lei già in tenera età. Il padre era morto durante la guerra, la madre si era ammalata, la sorella spadroneggiava su tutta la famiglia; nel complesso era una situazione desolante. Quando la madre morì, egli fu affidato a varie vicemadri e il suo sviluppo andò di male in peggio. Il fattore principale di tutto il suo sviluppo pareva essere l’insieme di paura e di odio per sua sorella. Egli odiava la sorella, che per lui incarnava il principio del male, non solo a causa delle violenze sessuali di cui ho parlato, ma anche perché lo aveva maltrattato, non si era data pena per la madre morente e così via. Al tempo stesso egli era legato a sua sorella da una fissazione potente, che non poteva evidentemente

fondarsi su altro che sull’odio e l’angoscia. Ma in realtà c’erano altre origini, di gran lunga più profonde, del suo traviamento. Per tutta l’infanzia aveva condiviso la camera da letto dei genitori, e i loro rapporti sessuali avevano prodotto in lui un’impressione di grande sadismo. Come ho già detto altre volte, esperienze di questo genere aumentano il sadismo peculiare del bambino. Nel caso di cui stiamo trattando, la brama del rapporto sessuale con il padre e con la madre rimase dominata dalle fissazioni sadiche e si collegò a una intensa angoscia. In queste condizioni la sorella violentatrice prese nell’inconscio del bambino il posto del padre violento e, alternativamente, della madre. In ogni caso egli doveva attendersi di essere evirato e punito e, anche qui, le punizioni minacciate dal suo Super-io primitivo coincidevano esattamente con quelle configurate dalle sue fissazioni estremamente sadiche. Era peraltro chiaro che le sue aggressioni alle bambine erano una replica di quanto egli stesso aveva subito con la differenza però che adesso era lui l’aggressore. Il suo forzare gli armadi, il rubare e le altre tendenze distruttive avevano la stessa origine inconscia e lo stesso significato delle sue aggressioni sessuali. Il ragazzino, sentendosi sopraffatto ed evirato, doveva cambiare la situazione dimostrando a se stesso di poter essere l’aggressore. Un movente importante delle sue attività distruttive era di provare continuamente a se stesso di essere ancora un maschio oltre che di abreagire l’odio per la sorella e altri oggetti delle sue relazioni. Tuttavia era pur sempre il senso di colpa ciò che lo spingeva a ripetere continuamente atti che dovevano essere puniti da un padre o da una madre crudeli o da tutti e due insieme. La sua apparente indifferenza alle punizioni e la sua apparente mancanza di paura erano del tutto ingannevoli. Il fanciullo era in realtà sopraffatto dalla paura e dal senso di colpa. A questo punto si pone il problema del perché si fosse data e in che cosa consistesse la diversità del suo sviluppo rispetto a quello del bambino nevrotico di cui ho trattato in

precedenza. In proposito non posso fare che delle ipotesi. Può darsi che, per via delle esperienze con la sorella, il suo Super-io crudele e primitivo fosse per un verso rimasto fissato allo stadio che aveva allora raggiunto e per un altro continuasse a essere legato a tali esperienze e fosse sempre impegnato a farvi fronte. Era quindi inevitabile che questo fanciullo fosse più oppresso dall’angoscia che il piccolo Peter. In relazione a tutto ciò una rimozione ancora più forte bloccava ogni sbocco alla fantasia e alla sublimazione sicché non rimaneva altro che ripetere continuamente il desiderio e la paura in azioni dello stesso tipo. Inoltre il Super-io opprimente derivava nel nostro caso da un’esperienza reale, mentre nel caso del bambino nevrotico derivava esclusivamente da fonti interne. Lo stesso si può dire per l’odio che, nel nostro caso, si manifestava con azioni distruttive la cui fonte originaria era un’esperienza reale. Ho già accennato al fatto che, come probabilmente avviene in altri casi dello stesso tipo, la fortissima e precoce rimozione, bloccando la fantasia, aveva privato il fanciullo della possibilità di rielaborare le fissazioni e quindi di sublimarle. Non c’è tipo di sublimazione in cui non scopriamo anche fissazioni aggressive e sadiche. Tra i vari modi di rielaborare notevoli quantità di aggressività e di sadismo desidero indicarne uno capace di farlo addirittura fisicamente, lo sport. Nello sport le aggressioni all’oggetto odiato possono essere compiute in una forma che è socialmente consentita; al tempo stesso lo sport serve da sovracompensazione dell’angoscia, in quanto prova all’individuo che non è destinato a cedere all’aggressore. Nel caso del piccolo delinquente era molto interessante vedere quale tipo di sublimazione si profilava a mano a mano che l’analisi riduceva la forza della rimozione. Il ragazzo, che non aveva avuto altro interesse se non quello distruttivo di rompere e rovinare gli oggetti, manifestò un interesse assolutamente nuovo per la costruzione di congegni di sollevamento e per

ogni tipo di lavoro da fabbro. Si può pensare che questa avrebbe potuto essere la via giusta per arrivare a sublimare le sue tendenze aggressive e che, con l’analisi, il ragazzo avrebbe potuto un giorno diventare un buon fabbro anziché il criminale che ormai ci si deve attendere. Per tornare alla diversità tra lo sviluppo di questo ragazzino e quello del bambino nevrotico, a me pare che una delle cause più importanti risieda nella maggiore angoscia, determinata dall’esperienza traumatica con la sorella. Questa maggiore angoscia aveva operato e operava, a mio modo di vedere, in diverse direzioni. La maggiore paura aveva provocato una rimozione maggiore, e ciò in uno stadio in cui non era ancora aperta alcuna via alla sublimazione, sicché era rimasta priva di ogni altra possibilità di sfogo o di rielaborazione. La maggiore paura accresceva poi la crudeltà del Super-io, rimasto fissato allo stadio raggiunto al momento dell’esperienza. Vorrei trattare anche di un’altra direzione dell’operare di questa maggiore angoscia, ma per chiarirla sono costretta a fare una breve digressione. Parlando dei diversi esiti dello sviluppo, che tuttavia si fonda su un terreno comune a tutti, ho fatto riferimento al normale, al nevrotico ossessivo, allo psicotico e, nel mio sforzo di accostarmici, al criminale. Non ho però parlato del perverso sessuale. Come è noto, Freud scrisse che «la nevrosi è per così dire la negativa della perversione» (1905, p. 477). Un’aggiunta importante alla psicologia della perversione è stata fatta da Sachs (1923) con la sua conclusione che non è per carenza di coscienza morale che il perverso consente a se stesso ciò che il nevrotico reprime per effetto delle inibizioni. Egli ha riscontrato che nel perverso esiste una coscienza morale non meno rigida; solo che opera in modo diverso. Essa ammette una parte delle tendenze proibite per escludere altre parti che al Super-io appaiono ancora più riprovevoli. Ciò che rigetta sono desideri propri del complesso edipico; e l’assenza di inibizioni del

perverso è prodotta da un Super-io che non è meno severo ma funziona semplicemente in modo diverso. Io sono arrivata a una conclusione dello stesso genere riguardo al criminale alcuni anni or sono, come si può rilevare dalla mia comunicazione alla Società psicoanalitica di Berlino citata in precedenza e nella quale esponevo particolareggiatamente l’analogia fra certe azioni criminali e certe fantasie infantili. Nel caso del ragazzino appena riferito, e in altri casi non così chiaramente caratterizzati ma tuttavia abbastanza dimostrativi, ho trovato che la disposizione criminale non dipendeva da un Super-io meno severo ma da un Super-io operante in un senso diverso. Sono pur sempre l’angoscia e il senso di colpa che spingono il criminale a commettere i suoi misfatti, ma nel compierli egli cerca anche di sfuggire alla propria situazione edipica. Nel caso del mio piccolo criminale forzare gli armadi e aggredire le ragazzine erano sfoghi sostitutivi del suo desiderio di violentare la madre. Questo modo di vedere richiede ovviamente di essere ulteriormente esaminato ed elaborato, ma secondo me tutto induce a concludere che il fattore principale della criminalità non è una carenza del Super-io bensì un suo diverso sviluppo, probabilmente la sua fissazione a uno stadio molto precoce. Nel caso questa ipotesi sia valida, si aprono prospettive pratiche di grande importanza. Se la causa dello sviluppo criminale non è una carenza del Super-io e della coscienza morale ma una loro diversa evoluzione, l’analisi dovrebbe essere in grado di modificare lo sviluppo criminale così come è in grado di eliminare la nevrosi. Certo, come per i casi di perversione e di psicosi, può rivelarsi impossibile instaurare il rapporto analitico con i criminali adulti, ma quando si tratta di bambini la situazione è diversa. Infatti non occorre che il bambino sia particolarmente motivato perché l’analisi

possa aver luogo; stabilire la traslazione e far procedere l’analisi è solo questione di provvedimenti tecnici. Io non credo che esistano bambini dai quali non si possa ottenere la traslazione e nei quali non si possa mobilitare la capacità di amare. Il mio piccolo criminale appariva totalmente privo di capacità d’amare ma l’analisi dimostrò che ciò non era affatto vero. Egli sviluppò nei miei riguardi una buona traslazione, sufficientemente salda da consentire l’analisi, e ciò nonostante che non vi fosse affatto motivato, dato che non mostrava neppure alcuna particolare avversione a essere inviato in riformatorio. L’analisi mise inoltre in luce che questo fanciullo insensibile aveva avuto per sua madre un amore profondo e genuino. La madre era morta di cancro in circostanze tremende; l’ultimo stadio del male l’aveva ridotta in uno stato di totale sfacelo. La sorella non le si era voluta neanche avvicinare, ed era stato lui ad assisterla. Allorché morì, nessuno della famiglia rimase accanto al suo cadavere. Quando cercarono il ragazzo, per un po’ non riuscirono a trovarlo: si era chiuso nella camera della madre morta. Un’obiezione che si potrebbe sollevare è che nell’infanzia le tendenze non sono ancora precisate con chiarezza, sicché spesso non siamo in grado di riconoscere quando un bambino ha imboccato la strada della criminalità. Ciò è verissimo, ma proprio questo fatto mi induce alle mie osservazioni conclusive. Indubbiamente non è facile sapere a quali risultati porteranno le tendenze di un bambino: se produrranno un individuo normale o un nevrotico, uno psicotico, un perverso sessuale o un criminale. Ma appunto perché non lo sappiamo dobbiamo cercare di saperlo. La psicoanalisi ce ne dà i mezzi. Fa anzi ancora di più: non solo ci consente di farci un’idea del probabile sviluppo futuro di un bambino, ma ci consente anche di mutarlo e di indirizzarlo su strade migliori.

Situazioni d’angoscia infantile espresse in un’opera musicale e nel racconto di un impeto creativo 1929

Il mio primo tema concerne l’interessantissimo materiale psicologico che sottende il contenuto di un lavoro di Ravel attualmente rappresentato a Vienna. Riferirò questo contenuto riprendendolo quasi parola per parola da una recensione di Eduard Jakob pubblicata sul «Berliner Tageblatt». Un bambino di sei anni siede oziosamente davanti ai suoi compiti di scuola e mordicchia la penna. Il suo atteggiamento mostra quello stadio estremo dell’accidia in cui l’ennui si è trasformata in cafard. «Non voglio fare questi stupidi compiti», piagnucola con voce di soprano. «Voglio andare a passeggiare nel parco. Meglio ancora, vorrei mangiare tutte le torte del mondo, o tirare la coda al gatto, o strappare tutte le penne al pappagallo. Mi piacerebbe sgridare tutti. Ma soprattutto vorrei mettere la mamma in castigo». A questo punto si apre la porta. In scena ogni cosa è rappresentata molto ingrandita allo scopo di far risaltare, per contrasto, la piccolezza del bambino; così quello che vediamo della madre che entra è la gonna, il grembiule e una mano. Un dito indica i compiti e una voce affettuosa chiede al bambino se li ha svolti. Il bambino si agita con insofferenza sulla sedia e mostra la lingua alla madre. Costei se ne va. Tutto ciò che udiamo è il fruscio delle vesti e le parole «Avrai pane secco e tè senza zucchero». Il bambino è preso dalla rabbia. Si alza di scatto, va a tempestare di pugni la porta, spazza via dal tavolo la tazza e la teiera mandandole in frantumi. Si arrampica su un sedile posto nel vano della finestra, apre la gabbia dello scoiattolo, cerca di colpirlo con la punta della penna e lo scoiattolo fugge attraverso la finestra aperta. Il bambino salta giù e rincorre il gatto. Poi urlando brandisce le molle del camino, le agita, sconvolge furiosamente le braci nel focolare, fa rotolare a calci il bollitore per tutta la stanza, che così è invasa da una nuvola di cenere

e di vapore. Fa roteare le molle come una spada e si mette a lacerare la tappezzeria. Spalanca lo sportello dell’orologio a colonna del nonno e ne strappa il pendolo di rame. Rovescia il calamaio sul tavolo. Fa volare in aria libri e quaderni. Urrah!... Ma ecco che tutti gli oggetti maltrattati si animano. Una poltrona gli impedisce di sedercisi e di prendere i cuscini per dormirci sopra. Il tavolo, la sedia, lo scrittoio e il divano all’improvviso si ribellano e gridano: «Fuori il piccolo furfante!» La pendola ha un tremendo mal di pancia e si mette a battere le ore follemente. La teiera si inclina sulla tazza e le due cominciano a parlare in cinese. Ogni cosa si trasforma e diventa spaventosa. Il bambino si ritira contro una parete e si mette a tremare dalla paura e dalla disperazione. Una stufa sputa contro di lui un turbine di faville ed egli si nasconde dietro i mobili. I brandelli strappati dalla tappezzeria si ergono ritti e appaiono, animate, le figure che vi sono stampate: pastori, pastorelle, greggi. Lo zufolo del pastore suona un lamento straziante. Uno squarcio nella tappezzeria, che separa Coridone dalla sua Amarilli, è come uno squarcio nella struttura del mondo. La triste storia continua; giungerà al suo scioglimento con molta lentezza. Ora di sotto un libro caduto semiaperto e rimasto appoggiato sui bordi della copertina viene fuori, come da un canile, un piccolo vecchietto. I suoi abiti sono fatti di numeri e il suo cappello rassomiglia a una pi [greca]. Ha un regolo calcolatore e si muove rumorosamente a piccoli passi di danza. È lo spirito della matematica e comincia a fare l’esame al bambino parlando senza posa di millimetro, centimetro, barometro, trilione, otto e otto fa quaranta, tre per nove è il doppio di sei. Il bambino si accascia come svenuto! Quasi senza respiro, il bambino cerca poi scampo nel bosco che circonda la casa. Ma anche qui l’atmosfera è da incubo; insetti, rane – le cui lamentose deplorazioni sono rese con terze musicali in sordina –, il tronco di un albero ferito dal quale colano lentamente gocce di linfa – basse note prolungate –,

libellule, mosconi si lanciano tutti all’attacco dell’intruso. Gufi, gatti e scoiattoli gli si accalcano intorno. La disputa che si accende tra loro su chi debba mordere il bambino diventa una zuffa. Uno scoiattolo che ha ricevuto un morso cade a terra strillando davanti al bambino. E questi, istintivamente, si toglie il fiocco che ha al collo e benda la zampa ferita della bestiola. Gli animali sono presi da un grande stupore e si raccolgono titubanti al fondo della scena. Il bambino ha sussurrato: «Mamma!» Ha ristabilito il mondo umano in cui ci si aiuta, in cui «si è buoni». «È un bambino buono, un bambino che si comporta molto bene» cantano le bestiole mentre, nel finale, con una marcia lenta e dolce lasciano la scena; e qualcuna non può trattenersi dall’invocare a sua volta: «Mamma!» Consideriamo ora attentamente come il bambino ha espresso il piacere di distruggere. Il modo in cui l’ha fatto mi richiama alla mente quella situazione della prima infanzia che nei miei scritti più recenti ho definito di importanza fondamentale per lo sviluppo normale o nevrotico dei bambini. Mi riferisco in particolare alle aggressioni contro il corpo materno e il pene del padre che vi sarebbe contenuto. Lo scoiattolo nella gabbia e il pendolo strappato dalla cassa dell’orologio sono simboli evidenti del pene contenuto nel corpo materno. Che si tratti del pene del padre così come è concepito nell’atto del coito con la madre è indicato dal particolare dello squarcio nella tappezzeria «che separa Coridone dalla sua Amarilli» e che per il bambino, secondo quanto è stato riferito, «è come uno squarcio nella struttura del mondo». E infine, come opera il bambino la sua aggressione, che è aggressione contro i genitori accoppiati? Il calamaio rovesciato sul tavolo, il bollitore fatto rotolare per la stanza, invasa da una nuvola di ceneri e di vapore, sono rappresentazioni di una modalità aggressiva peculiare dei bambini molto piccoli, quella cioè di insudiciare con gli escrementi. Fracassare, strappare, usare le molle come una spada sono altre

rappresentazioni del sadismo primario nel quale i bambini piccoli si avvalgono dei denti, delle unghie e via di seguito. Nel mio contributo all’ultimo Congresso (1927)1 e in altre riunioni della nostra Società ho trattato questa prima fase dello sviluppo nella quale l’aggressione al corpo materno è condotta con tutte le armi di cui dispone il sadismo del bambino. Vorrei ora aggiungere qualcosa a quanto in precedenza ho detto al riguardo e precisare più esattamente in quale punto dello schema dello sviluppo libidico proposto da Abraham (1924, p. 349) va inserita questa fase. I risultati del mio lavoro mi hanno indotta a concludere che la fase in cui il sadismo è al suo culmine, in tutte le zone erogene da cui trae origine, precede il primissimo stadio anale, e che essa assume un’importanza speciale per il fatto di coincidere con lo stadio di sviluppo nel quale compaiono per la prima volta le tendenze edipiche. Ciò vuol dire che il conflitto edipico esordisce sotto il dominio assoluto del sadismo. La mia tesi che la formazione del Super-io si conforma strettamente fin dal principio alle tendenze edipiche e che pertanto l’Io cade sotto il potere del Super-io già in età molto precoce spiega, a mio parere, perché questo potere ha una forza tanto tremenda da far sì che, quando gli oggetti sono introiettati, gli attacchi sferrati contro di essi con tutte le armi del sadismo suscitino nel soggetto la paura di subire attacchi dello stesso tipo da parte degli oggetti esterni e di quelli interiorizzati. Voglio ora richiamare la vostra attenzione sul come queste mie concezioni si possono collegare a una tesi di Freud che costituisce una delle più importanti nuove conclusioni esposte in Inibizione, sintomo e angoscia (1925), e cioè a quella che postula l’esistenza di situazioni di angoscia o di pericolo nella primissima infanzia. Io ritengo che questa conclusione collochi l’attività analitica su un fondamento più solido e più esattamente definito di quanto lo fosse in passato, fornendoci con ciò un indirizzo metodologico ancora più chiaro. Ma, a mio parere, essa pone anche un’esigenza nuova all’analisi.

Freud ipotizza che la situazione di pericolo della primissima infanzia subisca delle trasformazioni nel corso dello sviluppo e che costituisca la fonte dell’operare di una serie di situazioni d’angoscia. Ora, la nuova esigenza che si pone all’analista è che l’analisi dovrebbe riportare completamente alla luce tali situazioni d’angoscia risalendo sino a quella che è la più profonda di tutte. Quest’esigenza di un’analisi completa è dello stesso ordine di quella che Freud, nella parte finale di Dalla storia di una nevrosi infantile (1914), indicò a suo tempo appunto come un’esigenza nuova, e cioè che un’analisi completa deve portare alla luce la scena primaria. Ma l’assolvimento di questa condizione riesce pienamente efficace solo se vi si aggiunge quello della condizione che ho appena esposta. Solo se l’analista riesce a riportare alla luce le situazioni di pericolo della primissima infanzia e a risolverle chiarendo, in ogni singolo caso, i rapporti che le situazioni d’angoscia hanno da un lato con la nevrosi e dall’altro con lo sviluppo dell’Io, solo allora, ritengo, egli raggiungerà lo scopo principale della terapia psicoanalitica: l’eliminazione della nevrosi. In conclusione, mi pare che tutto ciò che può contribuire a chiarire e definire con precisione la situazione di pericolo della primissima infanzia sia di somma importanza non solo sotto l’aspetto teorico ma anche sotto quello terapeutico. Freud pensa che l’anzidetta situazione di pericolo consista, in ultima analisi, nella perdita (mancanza) della persona amata (agognata). Ritiene inoltre che la situazione di pericolo che agisce più potentemente nelle bambine è la perdita dell’oggetto mentre nei bambini è la paura dell’evirazione.2 Le mie analisi mi hanno dimostrato che entrambe le situazioni di pericolo sono modificazioni di altre ancora più antiche. Ho riscontrato che nei bambini la paura di essere evirato dal padre si riconnette a una situazione particolarissima che, a mio parere, è la situazione di angoscia più antica di tutte. Come ho già precisato, l’aggressione contro il corpo

materno, che psicologicamente si dà al momento in cui la fase sadica è al suo culmine, implica anche quella contro il pene paterno nel corpo della madre. Il bambino si trova quindi di fronte a un’unione dei due genitori, e ciò conferisce un’intensità particolare a questa sua situazione di pericolo. Per l’inizialmente sadico Super-io, che in quest’epoca si è già instaurato, i genitori in tal modo uniti sono estremamente crudeli e appaiono essi stessi come assalitori molto temibili. La situazione d’angoscia relativa alla paura dell’evirazione da parte del padre, che si ha nel corso dello sviluppo, è dunque una modificazione della primissima situazione d’angoscia che ho appena descritta. Ora, a me pare che il libretto dell’opera dal quale ha preso lo spunto questo mio scritto rappresenti chiaramente proprio l’angoscia che trae origine da tale situazione. Riferendo il contenuto del libretto, ho esposto abbastanza dettagliatamente la fase iniziale: è evidente che essa esprime l’aggressione sadica. Prendiamo adesso in esame ciò che accade dopo che il bambino ha dato libero sfogo al suo piacere di distruggere e vediamone il significato. Innanzitutto rileviamo qualcosa che osserviamo nell’analisi di ogni bambino: gli oggetti materiali rappresentano esseri umani che sono fonte di angoscia. L’autore della recensione scrive infatti: «Tutti gli oggetti maltrattati si animano». Dopo di che poltrona, cuscini, tavolo, sedia ecc. si rivoltano aggressivamente contro il bambino, rifiutano di essere usati da lui e lo scacciano. Sappiamo già che gli oggetti che servono per sedersi e per sdraiarsi, al pari del letto, appaiono regolarmente nelle analisi dei bambini come simboli della madre amorevole e protettrice; ciò va tenuto nel debito conto in rapporto alla situazione d’angoscia del piccolo protagonista. I brandelli della tappezzeria strappata rappresentano le parti interne del corpo materno che è stato leso e danneggiato. Il piccolo vecchietto che emerge di sotto il libro è invece il padre (più precisamente la rappresentazione del suo

pene); ora, in veste di giudice, il padre chiama il bambino, che si sente venir meno dall’angoscia, a rendere conto del fatto di aver danneggiato e depredato il corpo della madre. Quando il bambino si rifugia nel mondo della natura, questo mondo rappresenta la madre che egli ha aggredito. Gli animali ostili sono rappresentazioni multiple del padre che, insieme ai bambini immaginari presenti nel corpo della madre, è stato anche lui aggredito. Gli eventi che si sono già verificati all’interno della casa si ripetono ora in scala più ampia, in uno spazio più grande, in numero maggiore. Il mondo, trasformazione del corpo materno, è per il bambino un insieme ostile e persecutore. Nello sviluppo ontogenetico il sadismo viene superato a mano a mano che il soggetto progredisce verso la fase genitale. Quanto più vigorosamente, poi, si instaura questa fase, tanto più il bambino diventa capace di amore oggettuale e quindi di dominare il sadismo con la pietà e la partecipazione affettiva. Nel libretto dell’opera di Ravel queste tappe dello sviluppo appaiono condensate nella scena in cui il bambino prova pietà per lo scoiattolo ferito e lo soccorre. Il bambino ha imparato ad amare e crede nell’amore. Il mondo ostile diventa perciò un mondo amichevole e benevolo. Le bestiole concludono: «È un bambino buono, un bambino che si comporta molto bene». La profonda intuizione psicologica dell’autrice del libretto, Colette,3 traspare nel modo in cui avviene la trasformazione dell’atteggiamento del bambino: quando soccorre lo scoiattolo ferito egli sussurra: «Mamma!», e gli animali che lo circondano ripetono la parola. È da questa parola di redenzione che l’opera prende il titolo: Das Zauberwort (La parola magica).4 Dal testo possiamo capire infine che cosa ha messo in moto il sadismo del bambino. Egli dice: «Voglio andare a passeggiare nel parco. Meglio ancora, vorrei mangiare tutte le torte del mondo!» La madre invece minaccia di dargli tè senza zucchero e pane secco. A suscitare il sadismo è stata la frustrazione orale, che peraltro ha trasformato la compiacente «madre

buona» in «madre cattiva». Credo che a questo punto possiamo spiegarci perché il bambino, invece di fare tranquillamente i compiti, è stato trascinato in una situazione tanto spiacevole. Doveva accadere così perché vi è stato spinto dal premere dell’antica situazione di angoscia che fino a questo momento non è ancora riuscito a dominare. L’angoscia intensifica la coazione a ripetere, e il bisogno di punizione del bambino contribuisce all’ossessione (ora fattasi fortissima) di assicurarsi una punizione reale affinché l’angoscia possa essere placata da un castigo meno severo di quello che la situazione d’angoscia lo induce ad aspettarsi. Ci è ben noto che i bambini si comportano male perché desiderano essere puniti, ma appare di somma importanza scoprire quanta e quale parte abbia l’angoscia nella brama della punizione e quale contenuto rappresentativo vi sia al fondo di questo premere dell’angoscia. Illustrerò ora con un altro esempio, tratto dalla letteratura, l’angoscia quale l’ho riscontrata nello sviluppo delle bambine, legata alla primissima situazione di pericolo. In un racconto intitolato Lo spazio vuoto, Karin Michaelis5 racconta la storia di una sua amica, la pittrice Ruth Kjär. Ruth Kjär era dotata di un notevole gusto artistico, che si manifestava specialmente nell’arredamento della sua casa, ma non aveva mai dato prova di alcun talento creativo. Bella, ricca e indipendente, aveva trascorso gran parte della sua vita in viaggi che l’avevano tenuta spesso e a lungo lontana dalla casa alla quale si era dedicata con tanta cura e con tanto gusto. Talvolta aveva delle crisi di depressione profonda, che Karin Michaelis descrive così: «C’era però un neo nella sua esistenza. Mentre era nel pieno della letizia che le era connaturale, e pareva che nessun pensiero la turbasse, piombava all’improvviso nella melanconia più profonda, una melanconia da suicida. Tutto ciò che riusciva a dire nel tentativo di darne una spiegazione era: “In me c’è uno spazio vuoto, che non

posso mai riempire!”» A un certo punto Ruth Kjär si sposò e pareva perfettamente felice. Ma dopo qualche tempo ricomparvero le crisi di melanconia. «Il dannato spazio vuoto era ogni volta più vuoto», dice Karin Michaelis e continua il suo racconto così: «Non vi ho ancora detto che la sua casa era una vera galleria d’arte moderna. Il fratello di suo marito era uno dei maggiori pittori del paese e i suoi quadri migliori ornavano le pareti del soggiorno. Ma prima di Natale il cognato si riprese un quadro che le aveva lasciato solo temporaneamente e lo vendette. Così nella parete rimase uno spazio vuoto, che in qualche modo inesplicabile divenne per lei la materializzazione dello spazio vuoto che aveva dentro di sé. Ella cadde allora in uno stato di profonda tristezza. Lo spazio vuoto sulla parete le fece dimenticare la sua bella casa, la sua felicità, gli amici, tutto. Naturalmente si poteva acquistare un altro quadro, si sarebbe acquistato, ma occorreva tempo per trovare proprio quello giusto: si doveva cercare. Dall’alto, lo spazio vuoto le rivolgeva un ghigno orrendo. Un mattino, marito e moglie sedevano l’uno di fronte all’altra al tavolo della colazione. Gli occhi di Ruth erano pieni di disperazione. Ma all’improvviso il suo volto fu trasfigurato da un sorriso: “Ascolta! Mi è venuta l’idea di impiastricciare qualcosa, di dipingere una crosta da appendere su quella parete finché non avremo un quadro!” “Sì, cara, fa’ così”, disse il marito. Era certo che qualunque crosta ella avesse dipinto non sarebbe poi stata un orrore. Non appena il marito lasciò la stanza lei telefonò febbrilmente al negozio dove si serviva suo cognato perché le mandassero subito colori come quelli che lui usava abitualmente, pennelli, tavolozza e tutto il resto dell’“armamentario”. Ma non aveva la più pallida idea di come cominciare. Non aveva mai spremuto il colore da un tubetto, non aveva mai preparato una

tela o impastato i colori sulla tavolozza. In attesa che arrivasse quanto aveva ordinato per telefono si mise davanti al vuoto nella parete stringendo tra le dita un carboncino e cominciò a disegnare dei tratti a caso, così come le venivano in mente. Avrebbe dovuto prendere l’automobile e precipitarsi dal cognato per chiedergli come si fa a dipingere? No, piuttosto sarebbe morta. Verso sera il marito tornò a casa e lei gli corse incontro con gli occhi che le brillavano come avesse la febbre. Si sentiva poco bene, forse? Lei se lo tirò dietro dicendo: “Vieni, vedrai!” E lui vide. Non riusciva a staccare lo sguardo da ciò che vedeva; non riusciva a capire, non ci credeva, non poteva credere. Ruth si lasciò cadere su un divano completamente sfinita: “Non ti pare impossibile?” La sera stessa mandarono a chiamare il cognato. Ruth trepidava angosciosamente in attesa del suo verdetto di esperto. E il pittore proruppe: “Non penserai di farmi credere che sei stata tu a dipingere questo! È tutta una frottola! Questo è stato dipinto da un artista sperimentato. Chi diavolo è? Io non lo conosco!” Ruth non riuscì a convincerlo. Lui pensava che lo stessero prendendo in giro. Al momento di congedarsi disse: “Se questo l’hai dipinto tu, io vado domani a dirigere una sinfonia di Beethoven nella Cappella reale anche se non so che cosa sia una nota musicale!” Quella notte Ruth non riuscì a dormire. Ciò che aveva dipinto sulla parete non era un sogno; questo era sicuro. Ma come era potuto succedere? E domani? Si sentiva bruciare, divorare da un fuoco interiore. Doveva provare a se stessa che la sensazione divina, l’indicibile senso di felicità che aveva provato poteva ripetersi». Karin Michaelis prosegue il racconto dicendo che dopo questo primo tentativo Ruth Kjär dipinse con mano maestra molti quadri che furono

presentati ai critici in mostre aperte al pubblico. Karin Michaelis viene in parte già incontro alla mia interpretazione dell’angoscia in rapporto allo spazio vuoto nella parete allorché scrive: «Così nella parete rimase uno spazio vuoto, che in qualche modo inesplicabile divenne per lei la materializzazione dello spazio vuoto che aveva dentro di sé». Ma che cosa significa questo spazio vuoto dentro Ruth, o meglio, per essere più precisi, la sensazione che nel suo corpo mancasse qualcosa? Siamo qui, ancora una volta, di fronte all’affiorare alla coscienza di una delle rappresentazioni connesse a quell’angoscia che nel mio lavoro, letto all’ultimo Congresso (1927),6 ho definito la più profonda provata dalle bambine, e il cui equivalente, nei bambini, è l’angoscia di evirazione. La bambina piccola ha un desiderio sadico, che si origina nei primi stadi del complesso edipico, di depredare il corpo della madre di ciò che contiene, cioè del pene paterno, delle feci, dei bambini, e di distruggere la madre stessa. Questo desiderio fa nascere nella bambina l’angoscia che la madre la depredi a sua volta di quanto è contenuto nel suo corpo (specie bambini), e che le distrugga o mutili il corpo. A mio parere questa situazione d’angoscia, che analisi di bambine e di donne mi hanno fatto rilevare come la più profonda di tutte, è un’espressione della primissima situazione di pericolo delle bambine. La paura di restare sola, della perdita (mancanza) dell’amore e dell’oggetto d’amore, che Freud considera come la situazione di pericolo di base nelle bambine, è a mio avviso una modificazione della situazione d’angoscia prima indicata. Quando la bambina piccola, che teme l’aggressione della madre contro il proprio corpo, non vede la madre, quest’angoscia diventa più forte. La presenza della madre reale e amorevole, invece, fa diminuire la paura della terrorizzante immagine materna che la bambina ha introiettata. In uno stadio più avanzato dello sviluppo questa paura si trasforma da paura della madre aggressiva in paura di perdere la madre reale, amorevole, e di restare

sola, abbandonata. Per intendere meglio queste varie rappresentazioni sarà utile prendere in esame alcuni soggetti dei quadri che Ruth Kjär dipinse dopo il suo primo tentativo, quello in cui riempì lo spazio vuoto sulla parete con il nudo, a grandezza naturale, di una negra. Salvo un quadro di fiori, non dipinse che ritratti. Ritrasse due volte la sorella minore venuta a stare da lei per farle da modella e, più tardi, fece un ritratto di vecchia e quello della propria madre. Ecco come Karin Michaelis descrive questi ultimi: «Ora Ruth non riesce a fermarsi. Ha dipinto un quadro che rappresenta una vecchia con tutti i segni degli anni e delle delusioni. La pelle è grinzosa, i capelli bianchi, gli occhi dolci ma stanchi sono pieni di afflizione. Guarda fissamente davanti a sé con la sconsolata rassegnazione della vecchiaia, con uno sguardo che sembra dire: “Non preoccupatevi più per me. Il mio tempo è così prossimo alla fine!” Non è questa l’impressione che ci dà l’ultimo lavoro di Ruth, il ritratto di sua madre, una canadese di origine irlandese. Sembra una signora che abbia davanti a sé molto tempo prima che debba bere alla coppa della rinuncia. Asciutta, imperiosa, con un’espressione di sfida, se ne sta eretta con le spalle avvolte in uno scialle argenteo; dà l’idea di una splendida donna di epoche remote e selvagge, pronta a battersi ogni giorno, a mani nude, contro i figli del deserto. Il disegno del suo mento esprime la sua grande volitività. Il suo sguardo orgoglioso esprime tutta la sua energia. Lo spazio vuoto ormai è riempito». È chiaro che al fondo dell’impeto incoercibile a dipingere questi ritratti vi è il desiderio di riparare, di sanare le ferite inferte psicologicamente alla madre e quindi di ricostruire anche se stessa. Il ritratto della vecchia, sulla soglia della morte, appare come un’espressione del desiderio primario sadico di distruggere. Il desiderio della figlia di distruggere la madre, di vederla vecchia, logora, devastata, fa poi nascere il bisogno di raffigurarla nel pieno

del suo vigore e della sua bellezza. Grazie a questa raffigurazione della madre restaurata, rinnovellata, la figlia può placare la propria angoscia. Nelle analisi dei bambini rileviamo sempre, quando all’espressione di desideri distruttivi fanno seguito tendenze reattive, il ricorso al disegno e alla pittura con l’intento di restaurare ciò che prima si è danneggiato. Il caso di Ruth Kjär dimostra chiaramente che l’angoscia della bambina piccola, il tipo di angoscia di cui ho parlato in precedenza, ha una grandissima importanza per lo sviluppo dell’Io delle donne e che è uno degli stimoli della loro creatività e della loro riuscita. Quest’angoscia, però, può anche essere la causa di malattie gravi e di molte inibizioni. L’effetto di quest’angoscia – come dell’angoscia di evirazione nel caso dei bambini – sullo sviluppo dell’Io dipende dal mantenimento di un equilibrio ottimale e da una interazione soddisfacente tra i diversi fattori in gioco.

Contributo alla teoria dell’inibizione intellettiva 1931

Mi propongo qui di trattare alcuni meccanismi dell’inibizione intellettiva. Comincerò col dare una succinta esposizione dei punti più significativi di due sedute consecutive dell’analisi di un bambino di sette anni. Il bambino era affetto da una nevrosi caratterizzata in parte da sintomi nevrotici, in parte da disturbi del carattere e in parte da inibizioni intellettive abbastanza gravi. Al momento delle due sedute che mi accingo a esporre, il bambino era in trattamento da più di due anni e il materiale in causa, quello cioè relativo alle inibizioni, era già stato analizzato in misura considerevole. A quest’epoca dell’analisi il complesso delle inibizioni intellettive si era gradualmente ridotto, ma fu solo nel corso delle due sedute che il nesso fra tale materiale e una particolare difficoltà del bambino ad apprendere divenne chiaro. Ciò portò a un miglioramento notevole in merito alle sue inibizioni intellettive. Il bambino si era lamentato con me di non riuscire a differenziare l’uno dall’altro taluni vocaboli francesi, benché vi fosse in classe un cartello, nel quale erano raffigurati vari oggetti, che aveva lo scopo di aiutare i bambini a intendere e distinguere i vocaboli. I vocaboli che lui confondeva erano poulet, poisson e glace, cioè pulcino, pesce e ghiaccio. Ogni volta che gli si chiedeva che cosa significasse uno di tali vocaboli rispondeva invariabilmente con la traduzione di uno degli altri due; se per esempio gli si domandava che cosa significasse poisson lui rispondeva magari ghiaccio, se la domanda era poulet la risposta era pesce, e così via. La cosa lo faceva sentire impotente e disperato; diceva che non avrebbe mai imparato ecc. Nel corso delle due sedute egli mi fornì il materiale attraverso normali associazioni, ma continuando al tempo stesso a giocare pigramente qua e là nella stanza. Cominciai col chiedergli di dirmi che cosa gli veniva in mente alla parola poulet. Mentre se ne stava disteso sul tavolo dei giochi, agitando le gambe e

disegnando con una matita su un foglio di carta, rispose che gli veniva in mente una volpe che irrompeva in un pollaio. Gli chiesi di precisarmi quando accadeva questo fatto e lui invece di dire lo scontato «di notte» rispose: «Alle quattro del pomeriggio», un’ora nella quale, come io sapevo, sua madre era perlopiù fuori di casa. «La volpe entra nel pollaio e ammazza un pulcino», continuò, e intanto tagliò via un pezzo del suo disegno. Gli domandai che cosa avesse disegnato e lui disse: «Non so». Guardai insieme a lui e vidi che era una casa dalla quale aveva tagliato via il tetto. Spiegò che era di lì che la volpe entrava in casa. Riconobbe con me che la volpe era lui stesso, il pulcino il fratello più piccolo e che il momento dell’irruzione della volpe corrispondeva all’ora in cui sua madre era fuori casa. In precedenza avevamo fatto molto lavoro analitico sui suoi forti impulsi aggressivi e sulle sue fantasie di aggredire il fratellino sia mentre era ancora nel corpo della madre sia dopo il parto, nonché sul gravissimo senso di colpa collegato a tali impulsi e fantasie.1 Il fratellino aveva ora circa quattro anni. Il mio piccolo paziente, John, era stato tremendamente tentato di rimanere solo con lui, sia pure per qualche minuto, quando era ancora lattante. Ma perfino adesso era possibile osservare come i suoi desideri ridiventassero attivi quando la madre era fuori casa. In parte ne era causa l’estrema gelosia per il lattante che gode del seno materno. Quando gli chiesi che cosa gli venisse in mente alla parola poisson cominciò a muovere le gambe più violentemente, ad agitare le forbici vicino agli occhi e a cercare di tagliarsi delle ciocche di capelli, tanto che dovetti chiedergli di darmi le forbici. Rispose che poisson gli faceva venire in mente che il pesce fritto è molto buono e che gli piaceva. Poi ricominciò a disegnare, questa volta un idrovolante e una barca. Non potei ottenere nessun’altra associazione al pesce e passai a proporgli glace. Disse: «Un grosso pezzo di ghiaccio è bello e bianco, e diventa prima rosa e poi rosso».

Gli chiesi perché e lui rispose: «Fonde». «Come mai?» «Il sole lo scioglie». A questo punto fu preso dall’angoscia e non potei ottenere altro. Separò con le forbici il disegno dell’idrovolante da quello della barca e li mise sull’acqua per vedere se galleggiavano. Il giorno dopo raccontò con palese angoscia che aveva fatto un brutto sogno. «Il pesce era un gambero». Egli si trovava – continuò, ma ciò che raccontava era ormai una fantasia – su un molo che si protendeva in mare dove era stato spesso con la madre. Doveva uccidere un gambero enorme che veniva fuori dall’acqua e si arrampicava sul molo. Gli aveva sparato con il suo piccolo fucile e quindi lo aveva ucciso con la spada, che però non era un’arma molto efficace. Subito dopo aver ucciso questo gambero aveva dovuto ucciderne molti altri che continuavano a emergere dall’acqua. Gli domandai perché dovesse farlo e mi rispose che doveva impedire che i gamberi andassero per il mondo, altrimenti avrebbero ucciso tutti. Non appena aveva cominciato a parlare si era disteso sul tavolo nella stessa posizione del giorno prima agitando le gambe più che mai. Gli chiesi perché agitava le gambe in quel modo, come se scalciasse, ed egli rispose: «Sono nell’acqua completamente circondato dai gamberi». Il giorno prima le forbici avevano dunque rappresentato i gamberi che lo mordevano e ferivano e lui aveva disegnato l’idrovolante e la barca per sfuggire loro. Gli feci notare che aveva detto di trovarsi su un molo, ed egli replicò: «Oh, sì, ma ormai ero caduto in acqua già da molto tempo». I gamberi – continuò poi a raccontare – volevano soprattutto penetrare in un grosso pezzo di carne che era nell’acqua e rassomigliava a una casa. Era carne di montone, quella che lui preferiva. Disse che i gamberi ancora non c’erano mai entrati, ma potevano penetrarci attraverso le porte e le finestre. In questa complessa rappresentazione l’acqua e tutto ciò che vi era dentro simboleggiavano l’interno della madre, il mondo. La casa di carne rappresentava però al tempo stesso il corpo della madre e il

proprio. I gamberi erano innumerevoli peni del padre. Erano grossi come elefanti, neri di fuori e rossi di dentro. Erano neri perché qualcuno li aveva fatti diventare di questo colore, e così nell’acqua tutto si era fatto nero. Erano entrati in acqua dall’altra parte del mare. Ce li aveva fatti entrare qualcuno che aveva voluto far diventare nera l’acqua. Appariva chiaro che i gamberi rappresentavano non solo il pene paterno ma anche le feci del bambino. Uno di essi non era più grande di un’aragosta ed era rosso di fuori e di dentro; rappresentava il suo proprio pene. Molto altro materiale aveva mostrato in precedenza altrettanto chiaramente che egli identificava le proprie feci con animali pericolosi i quali, a un suo comando (una specie di magia), sarebbero penetrati nel corpo della madre e l’avrebbero danneggiato e avvelenato insieme al pene del padre. Questo tipo di materiale, a mio parere, concorre a chiarire la teoria della paranoia. In questa sede non posso che accennare brevemente all’argomento. Come sappiamo, van Ophuijsen (1920) e Stärcke (1919) hanno ricollegato il «persecutore» alla rappresentazione inconscia che il paranoico ha della massa fecale, particolarmente in quanto scibala, contenuta nel proprio intestino; egli la identifica con il pene del suo persecutore. Le analisi di molti bambini e adulti, tra cui quella del caso che sto illustrando, mi hanno indotta a ritenere che la paura delle proprie feci in quanto persecutori ha origine, in ultima analisi, dalle fantasie sadiche del soggetto, nelle quali l’urina e le feci sono da lui utilizzate, nelle aggressioni al corpo materno, come strumenti di distruzione e di avvelenamento. In tali fantasie il soggetto trasforma le proprie feci in persecutori degli oggetti; mediante una qualche magia (è l’idea sulla quale, secondo me, si fonda la magia nera che informa le pratiche delle fattucchiere) egli le introduce segretamente nell’ano e negli altri orifizi degli oggetti e per queste vie le insedia all’interno dei loro corpi. Poiché il soggetto ha fatto tutto ciò, insorge in lui la paura sia nei riguardi dei propri escrementi

in quanto sostanze pericolose o lesive per il suo stesso corpo sia nei riguardi degli escrementi degli oggetti che ha introiettati; da questi ultimi si attende infatti aggressioni del pari segrete e del pari eseguite con l’impiego delle pericolose feci. Questo dà origine tanto al terrore di avere nel proprio corpo una quantità di persecutori e di essere avvelenato quanto alle paure ipocondriache. Il punto di fissazione della paranoia si situa, a mio parere, in quel periodo della fase di massimo sadismo nel quale il bambino conduce le sue aggressioni contro l’interno del corpo della madre, e contro il pene paterno che immagina vi sia contenuto, mediante le proprie feci trasformate in sostanze o animali pericolosi e velenosi.2 Il fatto che il bambino, per effetto delle pulsioni sadico-uretrali, consideri già l’urina come qualcosa di pericoloso che ustiona, taglia, avvelena, lo predispone a concepire anche il pene come un oggetto sadico e pericoloso. Operano inoltre in questo stesso senso, in virtù della parificazione delle feci al pene, anche le sue rappresentazioni fantastiche dell’aggregato della scibala come persecutore – rappresentazioni fantastiche che si sono formate al momento del predominio delle tendenze sadico-anali e che sono precedenti, a quanto si può osservare, alle rappresentazioni del pene come persecutore. A seguito della parificazione delle feci al pene, le proprietà pericolose delle feci concorrono ad accentuare il carattere pericoloso e sadico tanto del pene quanto dell’oggetto persecutore identificato con le prime e con il secondo. Nel caso di John i gamberi rappresentavano una combinazione delle feci e del pene, entrambi pericolosi, del bambino e del padre. Al tempo stesso il bambino si sentiva colpevole dell’operare di tutti questi strumenti e cause di distruzione; responsabili della trasformazione del pene e degli escrementi paterni in animali pericolosi erano infatti i suoi desideri sadici nei riguardi dei genitori mentre si accoppiavano sessualmente, sicché padre e madre si sarebbero distrutti l’un l’altro. Nella sua immaginazione, inoltre, John aveva

aggredito il pene paterno con le proprie feci, rendendolo quindi ancora più pericoloso, e aveva inserito le proprie feci pericolose nel corpo della madre. Quando tornai a riproporgli il vocabolo glace si mise a parlare di un bicchiere (glass), andò al rubinetto e bevve un bicchiere d’acqua. Disse che l’acqua era orzata – la bibita che preferiva – e cominciò a parlare di un bicchiere di vetro dalla cui superficie esterna erano stati tolti, «rotti», tanti «piccoli pezzi» (ciò che aveva in mente era un bicchiere di vetro intagliato). Poi disse che il sole aveva rovinato questo bicchiere così come aveva rovinato il grosso blocco di ghiaccio di cui aveva parlato la volta prima. Il sole aveva «sparato» al bicchiere, disse, e così aveva guastato anche tutta l’orzata. Quando gli chiesi come avesse fatto il sole a sparare al bicchiere, rispose: «Con il suo calore». Intanto scelse fra le numerose matite che aveva davanti a sé una matita verniciata esternamente di giallo e cominciò a fare dei grossi punti neri su un foglio di carta e a perforarli finché non ridusse il foglio a brandelli. Poi prese un coltello e lo usò per tagliuzzare la matita e per staccarne la vernice gialla. La matita gialla rappresentava evidentemente il sole che, a sua volta, simboleggiava il suo pene e la sua urina, cose che bruciavano. (Il sole (sun) rappresentava lui stesso, il figlio (son), anche per via dell’assonanza delle due parole). In molte delle sue ore d’analisi egli aveva bruciato pezzettini di carta, acceso dei fiammiferi e dato fuoco alle relative scatolette nonché, contemporaneamente o alternando le operazioni, lacerato, strappato, inzuppato d’acqua i vari oggetti. Questi oggetti rappresentavano il seno o l’intero corpo della madre. Aveva inoltre rotto abbastanza spesso dei bicchieri di forma tondeggiante che si trovavano nella stanza; questi rappresentavano al tempo stesso il seno della madre e il pene del padre. Anche il sole rappresentava per lui il pene sadico del padre. Mentre infatti tagliuzzava la matita, pronunciò una parola che risultò una combinazione di

go (va’) e del nome del padre. Il bicchiere era stato dunque rovinato dal figlio e dal padre; e il bicchiere stava a significare il seno materno, il cui latte era simboleggiato dall’orzata. Il grosso blocco di ghiaccio, che aveva le stesse dimensioni della casa di carne, rappresentava il corpo materno; esso era stato fuso dal calore del pene e dell’urina di John e di suo padre; il colore rosso che alla fine aveva assunto simboleggiava il sangue che usciva dalle lesioni inferte alla madre. John mi presentò poi una specie di cartoncino illustrato con un bulldog vicino al quale giaceva un pulcino morto, evidentemente ucciso dal cane, entrambi di colore marrone scuro, e disse: «E già, sono tutti uguali, pulcino, ghiaccio, bicchiere e gamberi». Gli chiesi perché erano tutti uguali, e lui rispose: «Perché sono tutti scuri, rovinati e morti». Ecco dunque perché non riusciva a fare distinzione tra i vari oggetti: erano tutti morti; i gamberi li aveva uccisi lui direttamente, ma anche i pulcini, che rappresentavano i bambini, e il ghiaccio e il bicchiere, che rappresentavano la madre, erano stati sporcati, lesi, o uccisi. Dopo di ciò disegnò due linee divergenti, molto vicine nei punti di partenza e piuttosto distanziate nei punti terminali. Non poteva disegnare un simbolo più evidente della vagina. Poi mise la sua piccola locomotiva sui tratti iniziali delle linee e la fece andare avanti, come su dei binari, verso un’immaginaria stazione. Nel fare questo era molto sollevato e contento. Dentro di sé sentiva, ora, di potere avere simbolicamente rapporti sessuali con sua madre; nel corso precedente dell’analisi, invece, il corpo della madre era stato concepito come un luogo di orrori. Questa concezione, di cui si può trovare conferma nell’analisi di ogni uomo, mi sembra indicare fondatamente che la paura del corpo femminile in quanto luogo di orrende distruzioni può essere una delle cause principali di menomazione della potenza sessuale. Ma questa paura angosciosa costituisce anche un fattore fondamentale

dell’inibizione della pulsione epistemofilica, e ciò per il fatto che l’interno del corpo materno rappresenta il primo oggetto di tale pulsione. Quando esso viene immaginariamente esplorato e perlustrato viene anche, nella fantasia, aggredito con l’intero armamentario sadico del bambino, inclusa quella pericolosa arma di offesa che è il pene. In ciò può risiedere un’altra causa della eventuale futura impotenza del maschio, perché nell’inconscio penetrare ed esplorare (conoscere) sono in gran parte sinonimi. Se si tiene conto di tutto questo, si spiega perché, a seguito dell’analisi dell’angoscia di John connessa al sadico pene proprio e del padre – la trafiggente matita gialla assimilata al sole bruciante –, il bambino poté agevolmente produrre una rappresentazione simbolica di se stesso nell’atto di avere rapporti sessuali con la madre e di esplorarne il corpo. Il giorno dopo riuscì a osservare con attenzione e con interesse il cartello appeso in classe e a differenziare senza difficoltà i vocaboli francesi illustrati dalle figure. Strachey (1930) ha fatto rilevare che, nell’inconscio, leggere significa attingere, estrarre conoscenza dal corpo materno, e che la paura di depredarlo è un agente importante dell’inibizione a leggere. Io aggiungerei che per uno sviluppo positivo del desiderio di conoscere è essenziale che il corpo della madre sia sentito come un corpo sano e integro. Nell’inconscio esso rappresenta la stanza del tesoro, l’unica dalla quale è possibile ottenere tutto ciò che si può bramare; perciò se non è rovinato o distrutto, se non è troppo in pericolo e quindi esso stesso pericoloso, il desiderio di trarne alimento per la mente può essere realizzato più facilmente. Riferendo il sogno-fantasia nel quale John aveva sostenuto, all’interno del corpo materno, una lotta con gli innumerevoli peni del padre (i gamberi), ho accennato al fatto che la casa di carne non ancora violata e che John cercava di difendere dall’irruzione dei gamberi rappresentava non solo l’interno del corpo della madre ma anche del proprio. Nella fantasia le sue difese contro

l’angoscia erano espresse e attuate con spostamenti e capovolgimenti elaborati. Il buon pesce fritto che egli mangiava al principio si trasformava poi in un gambero. Nella versione iniziale del racconto egli si trovava sul molo e cercava di impedire ai gamberi di venir fuori dall’acqua, ma nella versione successiva appariva che egli si trovava nell’acqua e che qui – dentro il corpo materno – si sentiva alla mercé del padre. In questa versione egli cercava ancora di attenersi all’idea di stare impedendo ai gamberi di penetrare nella casa di carne ma era in effetti dominato dalla profondissima paura che i gamberi vi fossero già penetrati e la stessero distruggendo; i suoi sforzi erano ormai diretti a ricacciarli fuori. Nel quadro generale e complesso della fantasia, quindi, sia il mare sia la casa di carne rappresentavano il corpo della madre. Devo ora far rilevare un’altra fonte d’angoscia intimamente connessa con la paura della distruzione del corpo materno e mostrare come essa operi nelle inibizioni intellettive e nei disturbi dello sviluppo dell’Io. Teniamo ancora presente il caso di John e consideriamo in particolare che la casa di carne non significava soltanto il corpo della madre ma anche quello del bambino. Troviamo qui una rappresentazione delle prime situazioni d’angoscia che derivano, in entrambi i sessi, dalla pulsione sadico-orale di divorare ciò che è contenuto nel corpo materno e in particolare i peni che il bambino immagina vi si trovino. Il pene paterno, che nel quadro dell’oralità specifica della suzione è assimilato al seno e diventa così un oggetto di desiderio,3 viene pertanto a essere incorporato, e nella fantasia del bambino, in conseguenza delle sadiche aggressioni contro di esso, è trasformato molto rapidamente in un terrorizzante aggressore interno e assimilato ad animali pericolosi e armi micidiali. Secondo la mia concezione, inoltre, questo pene del padre introiettato costituisce il germe del Super-io paterno. Da tutto ciò risulta, come evidenzia l’esemplificativo caso di John: a) che

la distruzione che si immagina essere stata compiuta nel corpo materno si immagina altresì – o si prevede – che sia compiuta anche nel proprio corpo; b) come il soggetto viva effettivamente la paura che l’interno del proprio corpo sia aggredito dalle feci e dai peni paterni introiettati. Ora, proprio come l’angoscia estrema relativa alla distruzione operata nel corpo materno inibisce la capacità di farsi un’idea chiara di quanto vi è contenuto, così l’angoscia relativa a ciò che di pericoloso e di tremendo si prevede o si immagina avvenga all’interno del proprio corpo può reprimere del pari ogni capacità di indagare in merito; questo è da considerarsi un secondo fattore dell’inibizione intellettiva.4 Ce lo dimostra, per esempio, il comportamento tenuto da John il giorno successivo all’analisi del sognofantasia concernente i gamberi, il giorno cioè in cui scoprì di essere improvvisamente capace di fare distinzione tra i vocaboli francesi. Arrivato in studio, disse: «Vuoto il mio cassetto e faccio pulizia». Si riferiva al cassetto che gli era stato riservato per tenervi i giocattoli e i vari oggetti che adoperava nel corso dell’analisi; per mesi vi aveva gettato ogni sorta di avanzi, pezzi di carta, roba impiastricciata di colla, residui di sapone, pezzetti di spago ecc., senza essere mai riuscito a decidersi di mettervi ordine. Quel giorno invece ne trasse fuori ciò che vi era contenuto e buttò via tutta la cianfrusaglia inutile e gli oggetti rotti. Lo stesso giorno aveva rinvenuto in un cassetto di casa sua la penna stilografica che aveva cercato vanamente per mesi. Con ciò aveva simbolicamente guardato nel corpo della madre, lo aveva rimesso a posto, riparato, e aveva anche ritrovato il proprio pene. Ma il cassetto rappresentava contemporaneamente il suo proprio corpo; e il suo impulso, ormai meno inibito, a conoscerne il contenuto si manifestò, come dimostrò il procedere dell’analisi, nella sua molto maggiore cooperazione all’attività analitica e nella più profonda comprensione dei propri disturbi. La più profonda comprensione derivava dal progresso dello sviluppo dell’Io

seguito a questa specifica parte dell’analisi concernente, in definitiva, il suo minaccioso Super-io. Infatti, come ci ha insegnato l’esperienza fatta con i bambini, specie con quelli più piccoli, l’analisi dei primi stadi della formazione del Super-io favorisce lo sviluppo dell’Io in quanto riduce il sadismo del Super-io e dell’Es. Ma, oltre che su questo fatto, ciò su cui desidero richiamare l’attenzione è il rapporto, costantemente rilevabile in analisi, tra il ridursi dell’angoscia dell’Io di fronte al Super-io e l’accrescersi della capacità del bambino di rendersi conto dei propri processi intrapsichici e di sottoporli più efficacemente al controllo dell’Io. Nel caso di John mettere ordine significava appunto fare un controllo della realtà intrapsichica. Mettendo ordine nel cassetto egli metteva ordine nel proprio corpo e separava ciò che apparteneva a questo da ciò che era stato sottratto al corpo materno, separando al tempo stesso le feci «buone» dalle «cattive», gli oggetti «buoni» dai «cattivi». In sintonia con il funzionamento dell’inconscio, nel quale l’oggetto danneggiato diventa «cattivo» e «pericoloso», John identificava, nel mettere ordine, quanto era rotto, danneggiato, sporco, con l’oggetto «cattivo», le feci «cattive» con i bambini «cattivi». Oramai in grado di esaminare i diversi oggetti, di giudicare quale uso se ne potesse fare, quale danno avessero sofferto e così via, John si dimostrava capace di osare far fronte all’immaginaria rovina operata dal Super-io e dall’Es; di compiere, cioè, l’esame di realtà. Ciò consentiva al suo Io di funzionare meglio nel decidere quali oggetti fossero utilizzabili, quali si potessero riparare o fossero da buttare e via di seguito; Es e Super-io ne risultavano al tempo stesso meglio armonizzati e potevano perciò essere affrontati più convenientemente dall’Io rafforzato. In relazione a quanto detto mi si consenta di ritornare sul rinvenimento della penna stilografica. La nostra interpretazione di questo episodio, finora

implicita, è che in John la paura delle proprietà distruttive e pericolose del suo pene – in definitiva del suo sadismo – aveva subito una riduzione che gli aveva consentito di riconoscere e accettare il possesso di quest’organo. Questa linea interpretativa ci svela il substrato originario tanto della potenza sessuale quanto della pulsione epistemofilica. Ci rende infatti chiaro che nell’inconscio l’attività dello scoprire e quella del penetrare nelle cose sono equivalenti e, in più, che la potenza virile (o, nel fanciullo, i suoi presupposti psicologici) costituisce il fondamento dello sviluppo di numerose attività nonché di capacità e interessi creativi. Ma – ed è questo il punto che voglio mettere in evidenza – un tale sviluppo dipende dal fatto che il pene si sia trasformato nel rappresentante dell’Io. Nei primi stadi della vita il maschietto considera il proprio pene come l’organo esecutivo del sadismo e perciò esso diventa il veicolo del suo originario senso d’onnipotenza. Per questo motivo, e poiché, essendo un organo esterno, può essere esaminato e messo alla prova in vari modi, esso acquisisce per il bambino il significato e il valore del suo Io, delle sue funzioni dell’Io, della sua coscienza; e ciò mentre l’invisibile pene interiorizzato del padre – il Super-io –, sul quale non può venire a conoscere nulla, diventa il rappresentante del suo inconscio. Se la paura del bambino nei confronti del Super-io e dell’Es sarà troppo forte, egli non solo non sarà in grado di acquisire conoscenza dei contenuti del proprio corpo e dei propri processi psichici, ma sarà anche incapace di usare il pene, nella sua configurazione psicologica, come organo regolatore ed esecutivo dell’Io. Ne saranno del pari inibite le funzioni dell’Io in rapporto alla conoscenza del proprio corpo e dei propri processi psichici. Nel caso di John, il rinvenimento della stilografica non indicava soltanto che egli aveva riconosciuto l’esistenza del proprio pene, e che ciò lo rendeva orgoglioso e gli procurava piacere, ma che aveva altresì riconosciuto

l’esistenza del proprio Io, cosa che si manifestava in un progresso ulteriore del suo sviluppo dell’Io, in un’espansione delle sue funzioni dell’Io, nonché in una riduzione del potere del Super-io che fino a quel momento aveva dominato la situazione. Per riassumere quanto si è detto: mentre la migliorata capacità di John di farsi un’idea più realistica dell’interno del corpo della madre determinò una maggiore attitudine a capire e valutare il mondo esterno, la riduzione dell’inibizione a conoscere realisticamente l’interno del proprio corpo promosse al tempo stesso una comprensione più profonda e un controllo più valido dei propri processi psichici e mentali; il fanciullo fu quindi in grado di portare ordine e chiarezza nel proprio spirito e nella propria mente. Il primo risultato, la maggiore attitudine a capire il mondo esterno, comportò una più grande capacità di acquisire sapere; il secondo, la comprensione più profonda ecc., implicò una migliore abilità a elaborare, organizzare e correlare le nuove conoscenze, nonché a ritrasmetterle, cioè a riferirle, a formularle, a esprimerle. In conclusione, ne derivò un progresso dello sviluppo dell’Io. Ora, tutto questo è in rapporto al fatto che i due contenuti di fondo dell’angoscia relativa al corpo materno e dell’angoscia relativa al proprio corpo si condizionano vicendevolmente e interreagiscono tra loro punto per punto, per cui la riduzione dell’angoscia legata a queste fonti determina uno svincolo, una maggiore libertà delle due funzioni dell’introiezione e dell’espulsione (o proiezione) e consente che queste possano essere impiegate più convenientemente e meno coattamente. Se però il Super-io esercita un potere troppo esteso sull’Io, questo, nello sforzo di conservare mediante la rimozione il controllo sull’Es e sugli oggetti esterni introiettati, perlopiù si chiude alle influenze del mondo esterno e degli oggetti che vi si trovano privandosi in tal modo di tutte le fonti di stimoli – sia di quelle esterne sia di quelle che risiedono nell’Es – che costituiscono la

base delle acquisizioni e degli interessi dell’Io. Nei casi in cui rimane preponderante il significato della realtà e degli oggetti reali come riflessi del mondo e delle imago interni di cui si ha paura, gli stimoli provenienti dal mondo esterno possono essere sentiti dal soggetto quasi altrettanto allarmanti del potere degli oggetti introiettati che nella fantasia hanno assunto ogni iniziativa e ai quali l’Io si sente obbligato coattivamente a cedere l’esecuzione – e, naturalmente, la responsabilità – di tutte le attività e le funzioni intellettive. In certi casi, gravi inibizioni ad apprendere si combinano con una grande e generale intrattabilità, con un’analoga insofferenza nei riguardi dell’educazione e con un atteggiamento di saccenteria; in questi casi ho riscontrato che l’Io si sente oppresso e paralizzato per un verso dall’azione del Super-io – avvertito come tirannico e pericoloso – e per l’altro dalla propria diffidente riluttanza ad accogliere le influenze degli oggetti reali, spesso perché esse sono sentite in totale contrasto con le pretese del Super-io ma ancora più spesso perché gli oggetti esterni sono identificati troppo strettamente con i temuti oggetti interni. In questa situazione l’Io cerca (con la proiezione nel mondo esterno) di dimostrare la propria indipendenza dalle imago, dalle figure introiettate, ribellandosi a tutte le influenze provenienti dagli oggetti reali. Il miglioramento dell’accessibilità del paziente all’influenza del mondo esterno e la progressiva eliminazione delle inibizioni intellettive sono determinati dalla misura in cui si riesce a ottenere una riduzione del sadismo, dell’angoscia e dell’attività del Super-io, una riduzione che fa acquisire all’Io una base più ampia su cui funzionare. Abbiamo visto che i meccanismi di cui qui abbiamo trattato portano a certi specifici tipi di inibizione intellettiva. In taluni quadri clinici, però, essi assumono il carattere di meccanismi psicotici. Dev’esserci già apparso chiaro che la paura di John per i gamberi in quanto persecutori interni al proprio

corpo, era di natura paranoica. Questa angoscia, inoltre, lo spingeva a isolarsi dalle influenze, dagli oggetti e dalla realtà esterni; uno stato psichico che di norma consideriamo segno di disturbi psicotici. Nel caso specifico l’effetto principale, più appariscente, era una riduzione delle capacità intellettive del paziente; ma che in casi del genere la produzione di inibizioni intellettive non sia l’unico effetto dell’operare di tali meccanismi lo si rileva chiaramente dal fatto che, a mano a mano che l’analisi delle inibizioni intellettive procede, si assiste – specie se il paziente è un bambino o un adolescente –, oltre che alla diminuzione dei tratti nevrotici, al sopravvenire di grandi trasformazioni del carattere e dell’intera personalità. Nel caso di John, per esempio, potei costatare, nel corso dell’analisi, la scomparsa totale della spiccata apprensione, della tendenza a tenere tutto segreto, dell’insincerità, nonché della profondissima diffidenza verso tutto e tutti, che facevano parte della sua conformazione psichica; e potei anche rilevare che il carattere e lo sviluppo dell’Io subirono notevolissime trasformazioni in meglio. Nel suo caso i meccanismi psicotici avevano dato luogo a tratti paranoici che avevano assunto per la maggior parte la forma attenuata di particolari deformazioni del carattere e di inibizioni intellettive, ma avevano anche determinato un certo numero di sintomi nevrotici. Accennerò a questo punto a taluni altri meccanismi dell’inibizione intellettiva che hanno un carattere nettamente nevrotico ossessivo e che appaiono determinati dall’intenso operare delle prime situazioni d’angoscia. Talvolta vediamo sostituirsi a inibizioni del tipo prima descritto qualcosa di diametralmente opposto, e cioè la brama di assorbire tutto ciò che si presenta associato all’incapacità di distinguere tra quanto ha un valore e quanto non ne ha. In parecchi casi ho notato che questo meccanismo – o quelli analoghi di cui sto per parlare – comincia a operare e a far sentire la sua influenza quando l’analisi è riuscita a ridurre l’attività di quelli di carattere psicotico dei quali

ho trattato poco fa. A questa brama di alimentazione della mente, che subentra al posto della precedente incapacità del bambino di assorbire, di assimilare, si accompagnano spesso altri meccanismi, altri impulsi ossessivi, tra i quali in particolare la bramosia di raccogliere, di collezionare, di accumulare oggetti, e la spinta ossessiva, opposta ma equivalente, a disfarsene, a buttarli via indiscriminatamente, cioè a espellerli. L’ossessione di assorbire è frequentemente connessa a sensazioni di vuoto all’interno del corpo, di impoverimento ecc. – sensazioni che John avvertiva spesso molto intense – e si fonda su quell’angoscia del bambino che trae origine dai livelli più profondi della psiche e che consiste nel timore che l’interno del proprio corpo possa essere distrutto o riempito di sostanze «cattive» o pericolose ovvero impoverito o privato completamente delle sostanze «buone». Questo materiale generatore d’angoscia è rimaneggiato e modificato in misura maggiore dai meccanismi ossessivi che da quelli psicotici. Quanto ho osservato nel caso di John, come in altri casi di nevrosi ossessive, mi ha portato ad alcune conclusioni sui particolari meccanismi ossessivi che hanno a che fare con il fenomeno dell’inibizione intellettiva di cui qui ci stiamo occupando. Prima di riferirle succintamente premetterò per inciso che a mio parere i meccanismi ossessivi e i sintomi in genere assolvono al fine di vincolare, modificare e deviare l’angoscia originaria dei primissimi stadi dello sviluppo psichico; e che le nevrosi ossessive sono quindi costruite sull’angoscia delle prime situazioni di pericolo. Tornando in argomento: io ritengo che nel bambino il quasi avido raccogliere e accumulare ossessivamente cose (comprese cose astratte come il sapere) sia determinato, oltre che da fattori di cui non è necessario parlare qui, dal suo sforzo sempre rinnovato: a) di impossessarsi di sostanze e di oggetti «buoni» (in definitiva di «buon» latte, di «buone» feci, di un «buon» pene e di «buoni» bambini) e paralizzare con il loro aiuto l’azione delle

sostanze e degli oggetti «cattivi» contenuti nel suo corpo; e b) di ammassare dentro di sé riserve sufficienti per poter resistere alle aggressioni degli oggetti esterni introiettati e, se necessario, restituire al corpo materno o, meglio, agli oggetti dei suoi rapporti, ciò che ha loro sottratto. Il fatto che i suoi tentativi di riuscirvi mediante attività ossessive siano continuamente disturbati da attacchi di angoscia proveniente da molte fonti di natura diversa (per esempio dal dubbio che quanto ha appena assorbito sia veramente «buono» e che quanto ha espulso sia veramente «cattivo», oppure dalla paura che nell’introdurre dentro di sé altro materiale si renda colpevole ancora una volta di depredare il corpo della madre) ci permette di capire perché il bambino sia continuamente costretto a ripetere i suoi sforzi e come questa costrizione sia in parte responsabile delle caratteristiche ossessive del suo comportamento. Nel caso di John abbiamo visto come i meccanismi che abbiamo riconosciuto di carattere psicotico e che erano all’origine delle sue inibizioni intellettive perdevano efficacia e vigore a mano a mano che l’influenza del crudele e irrealistico Super-io del bambino diminuiva. A me pare che un’analoga diminuzione della severità del Super-io indebolisca anche i meccanismi di carattere nevrotico ossessivo dell’inibizione intellettiva. Se così è, sarebbe comprovato che l’esistenza di situazioni d’angoscia precoci straordinariamente intense e il predominio di un Super-io minaccioso risalente ai primi stadi della sua formazione costituiscono i fattori fondamentali non solo della genesi delle psicosi5 ma anche dei disturbi dello sviluppo dell’Io e delle inibizioni intellettive.

Criminalità 1934

Signor Presidente, Signore e Signori, quando qualche giorno fa il segretario della Società mi chiese di partecipare ai lavori del convegno di questa sera, risposi che l’avrei fatto con piacere ma che, dato il breve preavviso, non avrei potuto preparare nulla che equivalesse a una relazione o a una comunicazione sul tema. Faccio questa precisazione perché quanto mi accingo a esporre non è in realtà che una raccolta sommaria di alcune conclusioni da me formulate in connessione con altri argomenti o in altri scritti.1 In un lavoro letto nel 1927 in questa stessa sede2 cercai di dimostrare che anche nei bambini normali sono attive tendenze criminali e feci alcune ipotesi sui fattori che stanno alla base di uno sviluppo asociale o criminale. I bambini, rilevai, mostrano tendenze asociali e criminali, e le traducono continuamente in atto (naturalmente nel loro modo infantile), quanto più temono di essere puniti con rappresaglie atroci dai genitori che hanno fatto oggetto delle loro fantasie aggressive. I bambini che, inconsciamente, si attendono di essere squartati, decapitati, divorati e così via si sentono spinti coattivamente a essere cattivi onde essere puniti, perché la punizione concreta, per quanto grave, rappresenta qualcosa di rassicurante in confronto alle aggressioni omicide che essi si aspettano di continuo dagli immaginari genitori crudeli. Nel lavoro citato arrivai alla conclusione che responsabile del comportamento tipico degli individui asociali e dei criminali non è, come si ritiene comunemente, la debolezza o la carenza del Super-io, non è, in altre parole, la mancanza di coscienza morale, ma la schiacciante severità del Super-io. La successiva attività nel campo dell’analisi infantile ha confermato le anzidette ipotesi e mi ha fornito una comprensione più profonda dei

meccanismi psichici implicati. Il bambino piccolo inizialmente alberga dentro di sé impulsi e fantasie aggressive nei riguardi dei genitori, che successivamente proietta su di loro; accade così che egli si forma un’immagine fantastica e distorta delle persone che lo circondano. Allo stesso tempo, però, opera in lui anche il meccanismo dell’introiezione, in forza del quale le imago irreali vengono interiorizzate; il risultato è che il bambino si sente governato e dominato da genitori fantastici enormemente pericolosi e crudeli; questo è il Super-io che ha dentro di sé. Nella prima fase sadica – attraverso la quale passano tutti gli esseri umani – il bambino si protegge contro la paura dei suoi oggetti violenti, sia introiettati che esterni, raddoppiando nella fantasia le sue aggressioni nei loro confronti; il fine, nello sbarazzarsi in tal modo dei suoi oggetti, è in parte di far tacere il Super-io intollerabilmente minaccioso. Si instaura così un circolo vizioso: l’angoscia spinge il bambino a distruggere i suoi oggetti; da ciò deriva un aumento dell’angoscia stessa; e l’angoscia accresciuta torna a spingere il bambino contro i suoi oggetti. Questo circolo vizioso costituisce il meccanismo psichico che sembra essere alla base delle tendenze asociali e criminali. Nel corso normale dello sviluppo, allorché il sadismo e l’angoscia si riducono, il bambino trova mezzi e modi migliori e più sociali per padroneggiare l’angoscia. Il migliore adattamento alla realtà gli consente di trovare nei suoi rapporti con i genitori reali un sostegno maggiore contro le imago fantastiche. Mentre nei primissimi stadi dello sviluppo le sue fantasie aggressive nei confronti dei genitori, dei fratelli e delle sorelle suscitavano l’angoscia principalmente per il timore che questi oggetti si rivoltassero contro di lui, le sue tendenze aggressive diventano ora la base del senso di colpa e del desiderio di riparare. Cambiamenti dello stesso tipo si hanno anche per effetto dell’analisi.

L’analisi del gioco dimostra che quando le pulsioni aggressive e l’angoscia del bambino sono molto forti, egli non si stanca mai di strappare, tagliare, rompere, bagnare e bruciare ogni sorta di oggetti – carta, fiammiferi, scatolette, giocattolini – che rappresentano i suoi genitori, i suoi fratelli e sorelle, il corpo e il seno materno; scopriamo inoltre che a queste attività distruttive si alterna un’angoscia grave. Ma quando in analisi l’angoscia viene gradualmente dissolta, e perciò il sadismo si riduce, emergono il senso di colpa e le tendenze costruttive. Per esempio, un maschietto che in precedenza non aveva fatto altro che sminuzzare pezzettini di legno, cominciò a un certo punto a tentare di ricostruire una matita. Raccolse dei frammenti di mina tolti da matite che prima aveva fatte a pezzi e li sistemò in una scanalatura incisa in un bastoncino di legno grezzo, attorno al quale cucì un pezzetto di stoffa per farlo apparire più rifinito e gradevole da vedere. Che questa matita rappresentasse il pene di suo padre, da lui distrutto nella fantasia, nonché il proprio – di cui temeva la distruzione per rappresaglia –, apparve chiaro da tutto il contesto del materiale da lui fornito e dalle relative associazioni. Quanto più aumentano la tendenza e la capacità a riparare e quanto più crescono la confidenza e la fiducia nelle persone che circondano il bambino, tanto più mite diventa il Super-io, e viceversa. Ma, nei casi in cui, dato il forte sadismo e l’angoscia opprimente (qui non posso accennare che ad alcuni dei fattori più importanti), il circolo vizioso costituito dall’odio, dall’angoscia e dalle spinte distruttive non può essere rotto, l’individuo rimane sotto la pressione delle prime situazioni d’angoscia e conserva i meccanismi di difesa propri degli stadi primitivi. Se poi la paura del Super-io, per cause esterne o intrapsichiche, supera certi limiti, l’individuo può sentirsi spinto a distruggere persone e questa spinta coattiva può costituire la base dello sviluppo o di un comportamento di tipo criminale o di una psicosi. La radice psicologica della psicosi e della criminalità è dunque la stessa.

Nel criminale operano taluni fattori che generano in lui una più forte tendenza a reprimere le fantasie inconsce e ad attuarle nella realtà, ma sia la situazione psicotica che quella criminale hanno come elemento comune le fantasie di persecuzione; il criminale distrugge gli altri appunto perché si sente perseguitato. Naturalmente nei bambini che sperimentino una certa quale persecuzione, non solo nell’immaginazione ma realmente, da parte di genitori troppo duri o di un ambiente miserabile e squallido, queste fantasie diventano molto più intense. Vi è però una tendenza generale a sopravvalutare l’importanza di siffatti ambienti e a non tenere abbastanza conto dei fattori di disturbo psichico interni che sono solo in parte effetto dell’ambiente. Se il semplice miglioramento dell’ambiente può o meno giovare al bambino dipende infatti dall’entità della sua angoscia intrapsichica. Uno dei grandi problemi, che ha reso incomprensibili i criminali al resto del mondo, concerne la mancanza in essi dei buoni sentimenti che sono naturali negli esseri umani. Ma questa mancanza è soltanto apparente. Allorché in analisi si giunge a quei profondissimi conflitti dai quali hanno origine l’odio e l’angoscia si rinviene anche l’amore. Nel criminale l’amore non è assente ma è talmente celato e sepolto che solo l’analisi può portarlo alla luce. Poiché l’odiato oggetto persecutore era originariamente, quando il bambino era in tenerissima età, l’oggetto di tutto il suo amore e della sua libido mentre ora l’oggetto amato è da odiare e perseguitare, il criminale si trova in una situazione intollerabile, per cui ogni ricordo e coscienza d’amore per qualunque oggetto devono essere repressi. Se al mondo non esistono che nemici – ed è questo che il criminale sente dentro di sé – l’odio e la distruttività appaiono ai suoi occhi in gran parte giustificati, e questo modo di vedere allevia un poco il suo inconscio senso di colpa. L’odio è spesso utilizzato come il più efficace mascheramento dell’amore, ma non bisogna neppure dimenticare che per chi vive sotto la permanente oppressione della

persecuzione la prima e unica preoccupazione è la sicurezza del proprio Io. Riassumendo e concludendo, dunque, quando il Super-io opera principalmente in funzione di suscitatore d’angoscia, attiva nell’Io meccanismi di difesa violenti e di natura amorale e asociale; ma non appena il sadismo del bambino si riduce, e il carattere e la funzione del Super-io mutano in modo da suscitare minore angoscia e maggiore senso di colpa, si attivano i meccanismi di difesa che sono alla base dell’atteggiamento morale, e il bambino comincia ad avere considerazione e riguardo per i suoi oggetti e a essere capace di senso sociale. È noto quanto sia difficile istituire un rapporto con il criminale adulto e curarlo, anche se non abbiamo fondate ragioni per essere troppo pessimisti a questo riguardo; l’esperienza ci prova però che è possibile istituire un rapporto e curare i bambini criminali o psicotici. Il rimedio migliore nei confronti della delinquenza appare perciò quello di analizzare per tempo i bambini che mostrino segni di anormalità sotto l’uno o l’altro aspetto.

Sulla teoria dell’angoscia e del senso di colpa 1948

Le mie tesi sull’angoscia e sul senso di colpa si sono sviluppate gradualmente, nel corso di molti anni; penso che possa giovare ripercorrere alcune delle tappe attraverso le quali sono pervenuta alle mie conclusioni. 1. Circa l’origine dell’angoscia, Freud avanzò inizialmente l’ipotesi che l’angoscia derivasse da una trasformazione diretta [«automatica»] della libido. In Inibizione, sintomo e angoscia (1925), dopo aver ripreso in esame le sue varie teorie sull’origine dell’angoscia, si espresse in questi termini: «Propongo, adesso, di procedere in un altro modo: noi vogliamo, senza prendere partito, mettere insieme tutto quel che possiamo dire dell’angoscia rinunciando con ciò all’aspettativa di una nuova sintesi» (p. 285). Pur in questo quadro, riconfermò che l’angoscia deriva da una trasformazione diretta della libido, ma attribuì – a quanto appare dalle sue enunciazioni – una rilevanza minore a questo aspetto «economico» dell’origine dell’angoscia. Egli illustrò il suo punto di vista nelle seguenti precisazioni: «Speriamo di chiarire la faccenda dichiarando esplicitamente che l’atteso deflusso dell’eccitamento dell’Es non si verifica affatto a causa della rimozione; che l’Io riesce a inibirlo o a deviarlo. Allora si scioglie l’enigma della “trasformazione dell’affetto” nella rimozione» (ibid., pp. 244-45) e «Il problema di come si origini l’angoscia nella rimozione può non essere semplice; ciononostante si ha il diritto di mantenere l’idea che l’Io sia il luogo proprio dell’angoscia e di respingere la formulazione precedente che l’energia d’investimento dell’impulso rimosso si trasformi automaticamente in angoscia» (ibid., p. 246). Relativamente al manifestarsi dell’angoscia nei bambini piccoli, Freud scrisse che l’angoscia è provocata dalla «mancanza della persona amata

(agognata)» (ibid., p. 290). Trattando dell’angoscia primaria della bambina, egli descrisse la paura infantile della perdita d’amore in termini che appaiono essere validi per i lattanti di entrambi i sessi; disse infatti: «Se la madre è assente o ha tolto al bambino il suo amore, questi non è più sicuro del soddisfacimento dei suoi bisogni e si trova eventualmente esposto alle più penose sensazioni di tensione» (1932, p. 197). Nell’Introduzione alla psicoanalisi (nuova serie di lezioni) (1932), facendo riferimento alla teoria che l’angoscia si origina da una trasformazione della libido insoddisfatta, Freud ha poi detto che tale teoria trova «un appoggio in certe fobie regolarmente ricorrenti nei bambini piccoli ... Le fobie infantili e l’angoscia d’attesa ci offrono due esempi di uno dei modi in cui sorge l’angoscia nevrotica: mediante trasformazione diretta della libido» (ibid. p. 193). Da queste, e da altre analoghe enunciazioni di Freud, si possono trarre due conclusioni: a) ciò che nei bambini piccoli si trasforma in angoscia è l’eccitamento libidico insoddisfatto; b) il primissimo contenuto dell’angoscia è la sensazione di pericolo che insorge nel lattante per il timore che il suo bisogno non possa essere soddisfatto perché la madre è «assente». Tornerò più tardi su queste conclusioni. 2. Per quanto concerne il senso di colpa, Freud sostiene che esso si origina all’epoca del complesso edipico e che insorge in conseguenza di questo. In un suo scritto vi sono però dei brani nei quali parla esplicitamente dell’insorgere del conflitto e del senso di colpa in un’epoca molto precedente. Nel Disagio della civiltà (1929, p. 267) scrive infatti che «il senso di colpa è l’espressione del conflitto ambivalente, dell’eterna lotta tra l’Eros e la pulsione distruttiva o di morte...» e, poche righe dopo, «l’esaltazione del senso di colpa [è] conseguenza del conflitto ambivalente innato, dell’eterna disputa fra amore e

desiderio di morte...» (corsivi miei). Inoltre, criticando per un certo verso la teoria proposta da alcuni autori1 secondo la quale qualunque tipo di frustrazione aumenta il senso di colpa, scrive (ibid., p. 273): «Infatti, come riuscire a spiegare dinamicamente ed economicamente che al posto di una pretesa erotica inappagata subentra un senso di colpa? Mi sembra possibile farlo solo per via indiretta, supponendo che, se il soddisfacimento erotico è impedito, nasca una certa aggressività contro la persona che turba il soddisfacimento e che questa aggressività debba a sua volta venir repressa. Insomma, solo l’aggressività si trasforma in senso di colpa, quando viene repressa e passata al Super-io. Sono convinto che, limitando alle pulsioni aggressive le scoperte della psicoanalisi circa l’origine del senso di colpa, potremo raffigurarci molti processi più semplicemente e più limpidamente» (corsivo mio).2 Qui Freud fa intendere inequivocabilmente che il senso di colpa trae origine dall’aggressività e ciò, insieme a quanto citato prima con riferimento al «conflitto ambivalente innato», metterebbe in evidenza che il senso di colpa insorge in uno stadio molto precoce dello sviluppo. Ma se prendiamo in esame le opinioni di Freud al riguardo, quali si ritrovano riepilogate in complesso nell’Introduzione alla psicoanalisi (nuova serie di lezioni) (1932, lez. 32), appare chiaro che egli ha continuato a sostenere la tesi che il senso di colpa si instaura a seguito del complesso edipico. Abraham ha fatto molta luce sulle primissime fasi dello sviluppo, specie nel suo studio sull’organizzazione libidica (1924). Le sue scoperte nel campo della sessualità infantile comportano un punto di vista nuovo circa l’origine dell’angoscia e del senso di colpa. Nell’anzidetto studio egli dice infatti: «Nello stadio del narcisismo con meta sessuale cannibalesca [secondo stadio], come prima inibizione pulsionale provabile appare l’angoscia. Il superamento del cannibalismo è strettamente connesso all’insorgenza di

sentimenti di colpa; essi si manifestano al terzo stadio [primissimo stadio sadico-anale] come tipiche manifestazioni inibitorie».3 Abraham è stato quindi colui che ha contribuito concretamente alla nostra comprensione delle origini dell’angoscia e del senso di colpa appunto in quanto è stato il primo a mostrare il nesso dell’angoscia e del senso di colpa con le pulsioni cannibalesche; e ciò anche se ha paragonato lo schema da lui delineato dello sviluppo psicosessuale «pressappoco all’orario di un treno rapido, in cui sono indicate soltanto alcune grandi stazioni» e ha tenuto a far presente che in un prospetto sintetico di tal genere non era possibile segnare le fermate intermedie (ibid.). 3. Il mio lavoro non solo ha convalidato quanto messo in luce da Abraham circa l’angoscia e il senso di colpa e ne ha evidenziato l’importanza in una prospettiva giusta, ma l’ha anche sviluppato ulteriormente integrandolo con una serie di fatti nuovi riscontrati nelle analisi di bambini piccoli. Analizzando le situazioni d’angoscia infantili, mi sono resa conto dell’importanza basilare delle fantasie e delle pulsioni sadiche, provenienti da tutte le fonti, che confluiscono tra loro e raggiungono il loro culmine nei primissimi stadi dello sviluppo. Mi sono resa conto altresì che i primi processi di introiezione e di proiezione fanno sì che all’interno dell’Io, accanto a oggetti estremamente «buoni», si stabiliscano oggetti estremamente terrificanti e persecutori. Queste figure vengono viste nella prospettiva delle pulsioni e delle fantasie aggressive del lattante; egli cioè proietta la sua aggressività sulle figure interne che costituiscono parte del suo Super-io primitivo. E all’angoscia che nasce da queste fonti si aggiunge il senso di colpa derivante dagli impulsi aggressivi del lattante nei confronti del suo primo oggetto d’amore, sia esterno sia interiorizzato.4 Successivamente, come si rileva da un mio scritto5 nel quale, presentando

un caso eccezionalmente grave, ho illustrato gli effetti patologici dell’angoscia suscitata nel lattante dai suoi impulsi aggressivi, sono pervenuta alla conclusione che le primissime difese dell’Io (tanto nello sviluppo normale che in quello anormale) sono dirette contro le angosce suscitate dalle pulsioni e dalle fantasie aggressive.6 Qualche anno più tardi, nello sforzo di giungere a una comprensione più completa delle fantasie sadiche infantili e delle loro origini, ho considerato il materiale clinico ottenuto in analisi di bambini piccoli alla luce della teoria freudiana della lotta tra pulsioni di vita e pulsioni di morte. Ricordo che al riguardo Freud dice tra l’altro (1922, p. 515): «Le minacciose pulsioni di morte subiscono nell’individuo svariate elaborazioni. In parte sono rese inoffensive mediante un impasto con componenti erotiche, in parte vengono dirottate verso l’esterno sotto forma di aggressività; ma in buona misura naturalmente procedono, senza venire ostacolate, nel loro lavoro interno». Conformemente a questa enunciazione teorica ho avanzato l’ipotesi (1932, pp. 179-80) che l’angoscia è attivata dal pericolo derivante dalla pulsione di morte che minaccia l’organismo, e ho indicato in ciò la causa primaria dell’angoscia. Quanto Freud dice circa la lotta tra pulsione di vita e pulsione di morte (che comporta in parte la deviazione all’esterno della pulsione di morte e in parte l’impasto delle due pulsioni) conterrebbe in sé la conclusione che l’angoscia ha origine nella paura della morte. Nel suo scritto sul masochismo (1924),7 Freud giunge a conclusioni fondamentali circa il rapporto del masochismo con la pulsione di morte, ed esamina in tale prospettiva le varie angosce che derivano dall’attività della pulsione di morte rivolta all’interno. Ma tra queste angosce non menziona la paura della morte. Un anno dopo, in Inibizione, sintomo e angoscia (1925), Freud espone le ragioni per cui non considera la paura della morte (o paura per la propria vita)

come un’angoscia primaria. Egli fonda questa sua opinione sul punto di vista che «nell’inconscio, peraltro, non è presente nulla che possa dare un contenuto al nostro concetto di annientamento della vita» (ibid., p. 283). Precisa inoltre che «nulla di simile alla morte è mai stato provato», salvo forse lo svenimento, e conclude che «la paura della morte debba considerarsi come un che di analogo a quella dell’evirazione...» (ibid.) Io non condivido questa opinione semplicemente perché le mie osservazioni analitiche mostrano che nell’inconscio la paura dell’annientamento della vita esiste. A parte ciò riterrei logico pensare che se presumiamo l’esistenza di una pulsione di morte, dobbiamo anche presumere che negli strati più profondi della psiche si dia una reazione a tale pulsione nella forma appunto di paura dell’annientamento della vita. Pertanto è mia convinzione che il senso di pericolo suscitato dall’operare interno della pulsione di morte è la causa prima e originaria dell’angoscia.8 E poiché la lotta tra pulsione di vita e di morte persiste per tutta la vita, questa causa di angoscia non viene mai eliminata ed è un fattore che rientra costantemente in tutte le situazioni di angoscia. La mia tesi che l’angoscia ha origine dalla paura di annientamento della vita deriva dall’esperienza accumulata con le analisi di bambini piccoli. Quando, in tali analisi, vengono rivissute e replicate le primissime situazioni d’angoscia del lattante, la forza intrinseca di pulsioni dirette in ultima istanza contro il Sé può rivelarsi con tanta potenza da escludere ogni dubbio sulla loro esistenza. Ciò resta valido anche quando teniamo nel debito conto la parte che nelle vicende delle pulsioni distruttive svolge la frustrazione interna ed esterna. Non è questo il luogo per fornire dimostrazioni particolareggiate a sostegno della mia tesi; riferirò tuttavia a titolo esemplificativo un caso al quale ho accennato nella Psicoanalisi dei bambini (1932, p. 181, n. 19). Un bambino di cinque anni affermava di possedere ogni specie di animali

selvaggi, elefanti, leopardi, iene e lupi, che lo tutelavano contro i suoi nemici. Gli animali rappresentavano oggetti pericolosi, persecutori; egli li aveva domati e poteva servirsene per proteggersi dai nemici. Ma l’analisi rese chiaro che essi erano anche simboli del suo sadismo, che ogni animale rappresentava una specifica fonte di sadismo e gli organi esecutivi ad essa relativi. Gli elefanti simboleggiavano il suo sadismo muscolare, i suoi impulsi a calpestare e schiacciare. I leopardi che laceravano rappresentavano i suoi denti, le sue unghie, e le loro funzioni nelle aggressioni. I lupi simboleggiavano i suoi escrementi dotati di proprietà distruttive. Talvolta egli appariva terrorizzato dalla paura che gli animali selvaggi, che aveva domato, gli si rivoltassero contro e lo distruggessero. Questa paura era segno del suo sentirsi minacciato dalla propria distruttività (oltre che dai propri persecutori interni). Come risulta da questo esempio, l’analisi delle angosce che si producono nei bambini piccoli ci fornisce una quantità di informazioni sulle forme in cui nell’inconscio la paura della morte esiste e opera, vale a dire sulla parte che ha nelle varie situazioni d’angoscia. Ho accennato prima allo scritto di Freud, Il problema economico del masochismo (1924), che poggia appunto sulla nuova teoria della pulsione di morte. In tale scritto egli passa in rassegna le prime situazioni di angoscia, e la prima che cita è «la paura di essere divorato dall’animale totemico (il padre)». Questa, secondo il mio modo di vedere, non è che una schietta espressione della paura del totale annientamento del Sé. La paura di essere divorato dal padre è un derivato della proiezione degli impulsi del lattante di divorare i suoi oggetti. In forza di questo meccanismo il seno materno (e la madre) diventa nella psiche del lattante un oggetto divoratore,9 e ben presto la paura dell’oggetto divoratore si estende al pene paterno e al padre. Al tempo stesso, poiché divorare implica fin dal principio interiorizzare l’oggetto divorato, l’Io sente di contenere oggetti divorati e

divoratori. Ne consegue che il Super-io primitivo viene a essere costituito, per un aspetto, dal seno materno (madre) al quale si aggiunge il pene paterno (padre) nella loro configurazione di divoratori. Queste figure interne crudeli e pericolose sono i rappresentanti della pulsione di morte. Contemporaneamente, però, il Super-io primitivo viene a essere costituito per l’altro aspetto dal seno buono interiorizzato, al quale si aggiunge il pene paterno buono, percepiti come oggetti interni che forniscono nutrimento e aiuto, e che sono quindi i rappresentanti della pulsione di vita. Nella paura dell’annientamento è insita l’angoscia della distruzione del seno (e pene) buono interno perché quest’oggetto è sentito come indispensabile alla conservazione della vita. La minaccia per il Sé proveniente dalla pulsione di morte operante all’interno viene messa in rapporto con i temuti pericoli provenienti dalla madre e dal padre divoratori interiorizzati, ed equivale alla paura della morte. Secondo questa concezione, la paura della morte rientra fin dal principio nella paura del Super-io e non ne è, come Freud scrive (1925, p. 293), l’«ultima metamorfosi». Per quanto concerne un’altra importante situazione di pericolo menzionata da Freud nel suo lavoro sul masochismo (1924), la paura dell’evirazione, sono dell’opinione che la paura della morte fa parte della paura di evirazione e la rafforza, e non ne è «un che di analogo».10 Dato che il genitale è non solo la fonte del più intenso soddisfacimento libidico ma anche il rappresentante dell’Eros, e dato che la riproduzione costituisce il mezzo più importante di contrastare la morte, la perdita del genitale significa la fine della potenza procreativa che preserva e perpetua la vita. 4. Se vogliamo cercare di raffigurarci concretamente l’angoscia primaria costituita dalla paura dell’annientamento dobbiamo richiamare alla mente

l’impotenza del lattante di fronte ai pericoli interni ed esterni. Io ritengo che la situazione di pericolo primaria derivante dall’operare interno della pulsione di morte è avvertita da lui come un’aggressione opprimente, come persecuzione. In questo quadro prendiamo innanzitutto in esame alcuni dei processi che derivano dalla deviazione all’esterno della pulsione di morte e i modi in cui essi influenzano le angosce relative a situazioni esterne e interne. È lecito presumere che la lotta tra pulsioni di vita e di morte sia in atto già al momento della nascita e che accentui l’angoscia persecutoria suscitata da questa dolorosa esperienza. Sembrerebbe che tale esperienza abbia l’effetto di fare apparire ostile il mondo esterno, incluso il primo oggetto esterno, il seno. A ciò si aggiunge il fatto che le pulsioni distruttive sono rivolte dall’Io contro questo oggetto primario. Il neonato avverte quindi le frustrazioni ad opera del seno, che in effetti comportano un pericolo per la vita, come una rappresaglia per aver diretto contro di esso i suoi impulsi aggressivi, e sente perciò il seno che infligge le frustrazioni come un persecutore. In più egli proietta sul seno i suoi impulsi distruttivi, devia cioè all’esterno la pulsione di morte; in tal modo il seno aggredito diventa il rappresentante esterno della pulsione di morte.11 Il lattante introietta, inoltre, il seno «cattivo», cosa che, possiamo presumere, acutizza la situazione di pericolo interno, cioè la paura dell’operare interno della pulsione di morte. Con l’interiorizzazione del seno «cattivo», infatti, la parte della pulsione di morte – e tutti i pericoli ad essa connessi – che era stata deviata all’esterno, torna a essere rivolta all’interno e l’Io imputa la paura dei suoi impulsi distruttivi a questo oggetto interno. Questi processi possono aver luogo simultaneamente, sicché l’esposizione che ne ho fatta non deve indurre a pensare che essi si determinino in successione cronologica. Per riassumere: il seno esterno (cattivo) che infligge frustrazioni diventa, per effetto della proiezione, il rappresentante esterno della pulsione di morte; attraverso l’introiezione esso rafforza la situazione

primaria di pericolo interno; questo accresce la spinta dell’Io a deviare (proiettare) i pericoli interni (innanzitutto l’operare della pulsione di morte) nel mondo esterno. Vi è perciò un continuo oscillare tra paura degli oggetti cattivi interni e paura degli oggetti cattivi esterni e tra pulsione di morte operante all’interno e pulsione di morte deviata all’esterno. In ciò possiamo vedere uno dei modi più importanti dell’interagire – sin dal principio della vita – della proiezione con l’introiezione. I pericoli esterni sono vissuti nel loro aspetto di pericoli interni e sono perciò intensificati; per parte sua ogni pericolo che minaccia dall’esterno acutizza la perenne situazione di pericolo interna. In una certa quale misura questo interagire persiste per tutta la vita. Il fatto che il conflitto sia almeno in parte esteriorizzato allevia l’angoscia. L’esteriorizzazione delle situazioni di pericolo interne è uno dei primissimi sistemi di difesa dell’Io contro l’angoscia e resta fondamentale durante tutto il corso dello sviluppo. L’attività della pulsione di morte, sia deviata all’esterno che operante all’interno, non può essere presa in considerazione separatamente dalla contemporanea attività della pulsione di vita. Nel tempo stesso in cui si produce la deviazione all’esterno della pulsione di morte, la pulsione di vita, in virtù della libido, si fissa all’oggetto esterno – il seno soddisfacitorio (buono) – che ne diventa così il rappresentante esterno. L’introiezione di questo oggetto buono, a sua volta, rinsalda la forza della pulsione di vita all’interno. Il seno buono interiorizzato, che è sentito come la fonte della vita, viene a costituire una parte essenziale dell’Io, e la sua conservazione diventa una necessità categorica. L’introiezione di questo primo oggetto d’amore è perciò inestricabilmente connessa con tutti i processi promossi dalla pulsione di vita. Il seno buono interiorizzato e il cattivo seno divoratore costituiscono il nucleo del Super-io, nei suoi aspetti buoni e cattivi, e diventano i rappresentanti, nell’Io, delle pulsioni di vita e delle pulsioni di morte in lotta

tra loro. Il secondo oggetto parziale importante introiettato, al quale sono del pari attribuite qualità buone e cattive, è il pene paterno. I due oggetti pericolosi costituiti dal seno cattivo e dal pene cattivo sono i prototipi dei persecutori interni ed esterni. Le esperienze dolorose, le frustrazioni dovute a cause esterne e interne, e che sono sentite come persecuzioni, vengono attribuite in primo luogo agli oggetti persecutori esterni e interni. In tutte queste esperienze l’angoscia persecutoria e l’aggressività si rafforzano reciprocamente. Infatti mentre gli impulsi aggressivi del lattante svolgono con la proiezione una parte di primo piano nella costituzione delle sue figure persecutorie, queste stesse figure accrescono la sua angoscia di persecuzione e rafforzano a loro volta gli impulsi e le fantasie aggressive dirette contro gli oggetti interni ed esterni sentiti come pericolosi. I disturbi paranoidi degli adulti hanno il loro fondamento, secondo il mio modo di vedere, nelle angosce persecutorie vissute nei primissimi mesi di vita. Nel paranoide l’essenza delle sue paure di persecuzione è costituita dalla sensazione che esista un’istanza ostile risoluta a infliggergli sofferenze, a recargli danno e, in definitiva, ad annientarlo. Quest’istanza persecutrice può configurarsi come una o molte persone e perfino come qualche forza della natura; le forme specifiche che l’attacco temuto può assumere nei singoli casi sono innumerevoli, ma la radice dell’angoscia persecutoria del paranoide risiede, a mio avviso, nella paura dell’annientamento dell’Io ad opera, in ultima analisi, della pulsione di morte. 5. Mi occuperò ora più specificamente del rapporto tra senso di colpa e angoscia e a questo riguardo riprenderò innanzitutto in considerazione alcune delle idee di Freud e di Abraham relative all’angoscia e al senso di colpa. Freud vede il problema del senso di colpa sotto due aspetti. Per un verso non

vi è, secondo lui, alcun dubbio che l’angoscia e il senso di colpa sono strettamente connessi tra loro. Per l’altro verso le conclusioni a cui arriva lo inducono ad affermare che non è esatto parlare di senso di colpa se non in rapporto a manifestazioni della coscienza morale che sono frutto dello sviluppo del Super-io. Poiché, come è noto, nella sua concezione il Super-io si costituisce a seguito e per effetto del complesso edipico che, sempre secondo la sua concezione, si produce tra il quarto e il quinto anno di età, nel caso di bambini al di sotto di questa età non ha senso parlare di «coscienza morale» e di «senso di colpa», e l’angoscia dei primi anni di vita è da tenersi distinta dal senso di colpa.12 Secondo Abraham (1924), l’insorgenza del senso di colpa – come abbiamo visto nel paragrafo 2 – si ha, superata la fase delle pulsioni cannibalesche, cioè aggressive, nel corso del primissimo stadio sadico-anale (vale a dire in un’epoca dello sviluppo che precede di molto quella indicata da Freud); egli però non si occupa della differenziazione fra angoscia e senso di colpa. Ferenczi – che al pari di Abraham non prende in considerazione la questione della differenziazione – pensa che qualcosa di analogo al senso di colpa si origini nel corso dello stadio anale. Egli ritiene (1925, p. 202) che esisterebbe una sorta di antecedente fisiologico del Super-io e lo denomina «moralità sfinterica».13 Jones (1929), occupandosi dell’azione reciproca tra paura, senso di colpa e odio, distingue due stadi nello sviluppo del senso di colpa e suggerisce per il primo la denominazione di stadio «pre-nefario». Egli lo collega agli stadi pregenitali sadici dello sviluppo del Super-io e afferma che in esso il senso di colpa è sempre e inevitabilmente associato all’impulso di odio. Il secondo stadio è quello del senso di colpa vero e proprio, che ha la funzione di proteggere dai pericoli esterni. Nel mio Contributo alla psicogenesi degli stati maniaco-depressivi (1935)

ho distinto due forme principali di angoscia – quella persecutoria e quella depressiva – precisando al tempo stesso che tra di esse non vi è una delimitazione netta e precisa. Pur tenendo presente ciò, ritengo che questa distinzione sia di grande valore tanto sul piano teorico quanto su quello pratico. Nello scritto citato ho detto che l’angoscia persecutoria attiene prevalentemente all’annientamento dell’Io e che l’angoscia depressiva attiene prevalentemente al male inferto dagli impulsi distruttivi del soggetto ai suoi oggetti d’amore interni ed esterni. I contenuti dell’angoscia depressiva sono molteplici: l’oggetto buono è danneggiato, è morente, è deteriorato; si trasforma in oggetto cattivo; è annientato; è perduto e non tornerà mai più. Ho anche detto che all’angoscia depressiva è intimamente legato il senso di colpa e la tendenza alla riparazione. Quando, appunto nello scritto anzidetto, ho introdotto per la prima volta il concetto di posizione depressiva, ho esposto il punto di vista che l’angoscia depressiva e il senso di colpa si originino con l’introiezione dell’oggetto totale. La successiva elaborazione del concetto di posizione schizoparanoide,14 posizione che precede quella depressiva, mi ha portata a concludere che nella prima posizione, benché predominino gli impulsi distruttivi e l’angoscia di persecuzione, l’angoscia depressiva e il senso di colpa hanno già una certa parte nella primissima relazione oggettuale del lattante, quella con il seno materno. Nello stadio della posizione schizo-paranoide – ossia nei primi tre o quattro mesi di vita – i processi di scissione, che includono al tempo stesso la scissione del primo oggetto (il seno) e quella dei sentimenti nei suoi confronti, attingono il loro culmine. Allora l’odio e l’angoscia persecutoria vengono fissati al seno che frustra (cattivo) e l’amore e la rassicurazione al seno soddisfacitorio (buono). Ma anche in tale stadio i processi di scissione non sono mai totalmente efficienti; infatti sin dall’inizio della vita l’Io tende

alla propria integrazione, che è contemporaneamente sintesi dei diversi aspetti dell’oggetto. (Questa tendenza si può considerare un’espressione della pulsione di vita). Perfino nei lattanti più piccoli compaiono stati transitori d’integrazione – che si fanno più frequenti e duraturi con il progredire dello sviluppo – nei quali la scissione fra seno buono e cattivo è meno marcata. Negli stati di integrazione si ha una certa sintesi tra amore e odio relativi all’oggetto parziale, sintesi che, secondo il mio odierno modo di vedere, è all’origine dell’angoscia depressiva e del senso di colpa nei suoi confronti nonché del desiderio di riparare l’oggetto d’amore leso, in primo luogo il seno buono.15 Con tutto ciò intendo dire che oggi io collego l’origine dell’angoscia depressiva al rapporto con l’oggetto parziale. Questa modifica del mio precedente punto di vista è frutto di una più approfondita indagine sui primissimi stadi dell’Io e di un più preciso discernimento dei gradi di sviluppo affettivo del lattante. Ma questo non altera la mia opinione che alla base dell’angoscia depressiva vi è la sintesi tra impulsi distruttivi e sentimenti di amore nei confronti di uno stesso oggetto. Vediamo ora se e fino a che punto la modifica del mio punto di vista incide sulla concezione della posizione depressiva. Ecco adesso come descriverei ciò che avviene nella fase della posizione depressiva, e come quindi essa si configuri. Nel periodo che va dai tre ai sei mesi di età si produce un progresso considerevole nell’integrazione dell’Io. Nelle relazioni oggettuali e nei processi di introiezione del lattante sopravvengono cambiamenti di rilievo. Il lattante percepisce e introietta la madre sempre più come persona, nella sua totalità. Ciò implica un’identificazione più completa e un rapporto più stabile con lei. Sebbene questi processi restino ancora polarizzati soprattutto sulla madre, il rapporto del lattante con il padre (e con altre persone dell’ambiente) subisce cambiamenti analoghi, e anche il padre si insedia nella psiche del

lattante come persona totale. Contemporaneamente, i processi di scissione, che nella fase precedente riguardavano principalmente oggetti parziali, diminuiscono d’intensità e riguardano soprattutto oggetti totali. Gli aspetti contrastanti degli oggetti e i sentimenti, gli impulsi e le fantasie conflittuali ad essi relativi, tendono a unificarsi nella psiche del lattante. L’angoscia persecutoria continua a essere presente e seguita a svolgere la sua parte nella posizione depressiva, ma si riduce quantitativamente, sicché rispetto ad essa l’angoscia depressiva diventa predominante. Poiché il lattante sente ora che l’oggetto leso dai suoi impulsi aggressivi è una persona amata (interiorizzata ed esterna) soffre di sentimenti depressivi più intensi e di durata più lunga di quelli delle fugaci esperienze di angoscia depressiva e di senso di colpa vissute nello stadio precedente. L’Io maggiormente integrato si trova sempre più di fronte a una realtà psichica molto dolorosa – le lagnanze e i rimproveri provengono da genitori interiorizzati lesi che sono ora persone, oggetti totali – e, pressato da una sofferenza più forte, è obbligato ad affrontarla; di qui la spinta imperiosa e spossante a preservare, a riparare o a ridar vita agli oggetti d’amore: ossia la tendenza alla restaurazione. Un sistema alternativo – e molto probabilmente contemporaneo – è l’energico ricorso dell’Io alla difesa maniacale.16 Tutti questi sviluppi non comportano soltanto importanti trasformazioni qualitative e quantitative dei sentimenti d’amore, dell’angoscia depressiva e del senso di colpa, ma anche una nuova combinazione dei fattori costitutivi della posizione depressiva. Dalla descrizione fin qui fatta si può vedere che la modifica del mio punto di vista circa l’origine dell’angoscia e del senso di colpa, collocata in una fase più precoce, non altera la mia concezione della posizione depressiva in nessuno dei suoi aspetti essenziali. A questo punto vorrei prendere in considerazione più specificamente i

processi che causano l’insorgenza dell’angoscia depressiva, del senso di colpa e della spinta a riparare. All’origine dell’angoscia depressiva vi è, come ho già detto, il processo di sintesi da parte dell’Io degli impulsi distruttivi e dei sentimenti d’amore nei riguardi di uno stesso oggetto. Il senso di colpa è, a mio parere, sostanzialmente determinato dalla sensazione che il male procurato all’oggetto d’amore sia causato dagli impulsi aggressivi del soggetto. (Il senso di colpa del lattante può arrivare a connettersi con qualunque danno patito dall’oggetto d’amore e può arrivare a includere addirittura il male fatto dai suoi oggetti persecutori). La spinta imperiosa ad annullare il male, ossia a riparare, deriva dalla sensazione del soggetto di averlo causato, cioè dal senso di colpa. La tendenza a riparare può perciò considerarsi una conseguenza del senso di colpa. Viene ora da domandarsi se il senso di colpa sia una componente dell’angoscia depressiva, se siano entrambi aspetti di un medesimo processo, oppure se l’uno sia un prodotto o una manifestazione dell’altra. Oggi come oggi non sono in grado di fornire risposte precise al riguardo. Tutto ciò che posso dire è che, a quanto mi risulta, l’angoscia depressiva e il senso di colpa, come anche la spinta a riparare, sono perlopiù provati contemporaneamente. È probabile che l’angoscia depressiva, il senso di colpa e la spinta a riparare siano avvertiti solo quando i sentimenti d’amore per l’oggetto predominano sugli impulsi distruttivi. In altri termini, si può presumere che il ripetersi di esperienze nelle quali l’amore prevale sull’odio – nelle quali, in definitiva, la pulsione di vita prevale sulla pulsione di morte – sia una condizione essenziale della capacità dell’Io di integrare se stesso e di operare la sintesi degli aspetti contrastanti dell’oggetto. In tali stati o momenti il rapporto con l’aspetto cattivo dell’oggetto, nel quale rientra l’angoscia persecutoria, perde consistenza, svanisce. Ricordiamo che nei primi tre o quattro mesi di vita, nello stadio cioè in

cui (secondo la mia concezione attuale) hanno origine l’angoscia depressiva e il senso di colpa, i processi di scissione e l’angoscia persecutoria attingono il loro culmine. L’angoscia persecutoria, quindi, interferisce molto presto nel processo di sviluppo dell’integrazione, e le esperienze di angoscia depressiva, di senso di colpa e di riparazione non possono essere che di carattere transitorio. A causa di tutto ciò, l’oggetto d’amore danneggiato può trasformarsi molto rapidamente in persecutore, e la spinta a riparare o ridar vita all’oggetto d’amore può trasformarsi nel bisogno di placare e propiziarsi il persecutore. Ma anche nello stadio successivo, quello della posizione depressiva, nel quale l’Io maggiormente integrato introietta e insedia dentro di sé sempre più saldamente la persona totale, l’angoscia persecutoria continua a essere presente. In questo periodo, come ho detto allorché ne ho fatto la descrizione, il lattante prova non solo afflizione, depressione e senso di colpa, ma anche angoscia persecutoria collegata all’aspetto cattivo del Super-io; e accanto a difese contro l’angoscia depressiva esistono in tale periodo anche difese contro l’angoscia persecutoria. Ho precisato a suo tempo che tra angoscia depressiva e angoscia persecutoria non vi è una delimitazione netta e precisa. Tuttavia nella pratica psicoanalitica numerosi operatori hanno riscontrato che la distinzione tra angoscia persecutoria e angoscia depressiva è di notevole utilità per comprendere e chiarire situazioni emotive. Per esempio essa permette di intendere un accadimento tipico di fronte al quale possiamo venire a trovarci in analisi di pazienti affetti da depressione. In una determinata seduta il paziente appare afflitto da forti sentimenti di colpa e di disperazione per la sua incapacità di riparare il danno che sente di aver causato quando sopravviene un cambiamento radicale. Il paziente, cioè, comincia improvvisamente a produrre materiale di carattere persecutorio: accusa l’analisi e l’analista di non fare altro che del male e si lagna di torti subiti che

in effetti riconducono a frustrazioni sofferte in tenerissima età. Ebbene, i processi che sono alla base di tale cambiamento si possono spiegare sinteticamente in questi termini: a un certo punto l’angoscia persecutoria si è fatta predominante, il senso di colpa è svanito e con esso sembra sia scomparso l’amore per l’oggetto; in questa mutata situazione emotiva l’oggetto è trasformato in oggetto cattivo, che non può essere amato, e quindi gli impulsi distruttivi nei suoi confronti appaiono giustificati. Tutto ciò sta a indicare che l’angoscia persecutoria e le difese contro di essa sono state rafforzate per sfuggire alla schiacciante oppressione del senso di colpa e di disperazione. In molti casi, naturalmente, il paziente può mostrare una notevole quantità di angoscia persecutoria e al tempo stesso senso di colpa, e non sempre il repentino passaggio alla situazione di predominio dell’angoscia persecutoria si manifesta nella maniera vistosa da me illustrata più sopra. Ma anche in casi del genere la distinzione tra angoscia persecutoria e angoscia depressiva è utile per capire i processi sottostanti. La distinzione tra angoscia depressiva, senso di colpa e spinta a riparare da un lato, e angoscia persecutoria e difese contro di essa dall’altro, oltre a dimostrarsi utile nel lavoro analitico ha anche implicazioni di più ampia portata. Essa consente di far luce su molti problemi attinenti all’indagine delle emozioni e del comportamento umano in generale.17 Io l’ho trovata inoltre veramente illuminante nel campo specifico dell’osservazione e della comprensione dei bambini. Sintetizzerò ora le conclusioni teoriche presentate in questo paragrafo relativamente al rapporto tra angoscia e senso di colpa. Il senso di colpa è inestricabilmente connesso con l’angoscia (più esattamente, con una forma specifica di angoscia, quella depressiva). Il senso di colpa, così connesso all’angoscia, determina la tendenza a riparare e si origina, nei primi mesi di vita, in coincidenza con i primissimi stadi del Super-io.

6. La relazione tra pericolo interno primario e pericolo che minaccia dall’esterno permette di rischiarare il problema dell’angoscia «reale» in contrapposizione all’angoscia «nevrotica». Freud precisa la differenza tra angoscia reale e angoscia nevrotica in questo modo (1925, pp. 319-20): «Il pericolo reale è un pericolo che conosciamo, l’angoscia reale è l’angoscia di fronte a un tale pericolo. L’angoscia nevrotica è angoscia di fronte a un pericolo che non conosciamo. Il pericolo nevrotico è dunque un pericolo ancora da scoprire: l’analisi ci ha insegnato che esso è un pericolo pulsionale». E di nuovo (ibid., p. 322): «il pericolo reale minaccia da un oggetto esterno, quello nevrotico da una esigenza pulsionale». Freud tuttavia accenna a casi di interazione tra le due cause d’angoscia,18 e in genere l’esperienza analitica ha dimostrato che non si può tracciare una demarcazione netta tra angoscia reale e angoscia nevrotica. Mi ricollego ora all’enunciazione di Freud che l’angoscia infantile è causata dalla «mancanza della persona amata (agognata)». Illustrando la prima e fondamentale paura di perdita [dell’oggetto] che insorge nel lattante, Freud dice (ibid., p. 324): «Il poppante non può ancora distinguere la mancanza temporanea della perdita duratura: se una volta non riceve l’impressione del viso della madre, si comporta come se non dovesse rivederla mai più, e ha bisogno di ripetute esperienze rassicuranti sinché non ha imparato che a questo sparire della madre suole seguire la sua ricomparsa» (corsivo mio). Trattando altrove della paura della perdita dell’amore Freud scrive (1932, p. 197) che essa è «palesemente una prosecuzione dell’angoscia del lattante allorché sente la mancanza della madre. È facile capire quale reale situazione di pericolo sia indicata da questa angoscia. Se la madre è assente o ha tolto al bambino il suo amore, questi non è più sicuro del soddisfacimento dei suoi

bisogni e si trova eventualmente esposto alle più penose sensazioni di tensione» (corsivo mio). Nello stesso libro, però, poche pagine prima,19 Freud parla della medesima situazione di pericolo nella prospettiva dell’angoscia nevrotica, il che sembra dimostrare che egli vede questa particolare situazione infantile da entrambe le angolazioni. Ora, secondo il mio modo di vedere, le due cause principali della paura infantile della perdita si possono precisare come segue. Una causa è costituita dalla totale dipendenza del lattante dalla madre per il soddisfacimento dei bisogni e l’alleviamento della tensione. Potremmo chiamare l’angoscia dovuta a questa causa angoscia reale. L’altra causa è costituita dal timore del lattante che la madre amata sia stata distrutta, o rischi di essere distrutta, dalle sue pulsioni sadiche; e questa paura, che potremmo chiamare angoscia nevrotica, è in rapporto alla madre in quanto indispensabile oggetto buono esterno (e interno) e concorre a far sì che il lattante provi la sensazione di «non dover rivederla mai più». Esiste infine sin dall’inizio un’interazione costante tra le due cause o fonti di angoscia, il che vuol anche dire tra l’angoscia reale e l’angoscia nevrotica ovvero, espresso in altri termini, tra la causa esterna e quella interna dell’angoscia. Ora, se il pericolo esterno è connesso e commisto sin dal principio col pericolo interno derivante dalla pulsione di morte, nessuna situazione di pericolo che abbia origine da cause esterne potrebbe mai essere avvertita dal bambino piccolo come un pericolo esclusivamente esterno e conosciuto. E non è solo il lattante a non essere in grado di avvertire situazioni di pericolo esterno nettamente distinte da situazioni di pericolo interno; in una certa quale misura l’interazione e la commistione tra le due situazioni di pericolo permane per tutta la vita.20 Quest’ultimo fatto è apparso chiaramente nelle analisi compiute in tempo di guerra. Si è visto che perfino in adulti normali l’angoscia suscitata da

incursioni aeree, bombardamenti, incendi ecc. – cioè da situazioni di pericolo «reale» – non poteva essere ridotta se non analizzando, in aggiunta all’influsso della situazione effettiva, le varie angosce primitive riattivate da tale situazione. In molti individui l’angoscia esorbitante ingenerata da entrambe le cause determinava un diniego della situazione di pericolo reale tanto poderoso (difesa maniacale) da tradursi in palese mancanza di paura. Questa mancanza di paura la si osservava comunemente nei bambini e non poteva essere spiegata semplicemente con il fatto che essi non si rendevano completamente conto del pericolo reale. L’analisi rivelava che la situazione di pericolo reale aveva riattivato le angosce fantasmatiche primitive del bambino in misura tale che la situazione di pericolo reale aveva dovuto essere denegata. In altri casi la relativa stabilità psichica dei bambini nonostante i pericoli del tempo di guerra era determinata non tanto da difese maniacali quanto da trasformazioni delle primitive angosce persecutorie e depressive più fortunate e benefiche, che si traducevano in maggior senso di sicurezza nei riguardi del mondo interno ed esterno e in un valido rapporto buono con i genitori. Nel caso di questi bambini, anche se il padre era assente, la rassicurazione tratta dalla presenza della madre e dalla vita familiare contrastava con successo le paure suscitate dai pericoli reali. Tutte queste considerazioni diventano perfettamente chiare se ricordiamo e teniamo presente che la percezione della realtà e degli oggetti esterni da parte del bambino piccolo è costantemente influenzata e in qualche modo alterata dalle sue fantasie, e che entro certi limiti ciò perdura per tutta la vita. Esperienze esterne che suscitano angoscia attivano simultaneamente, anche in individui normali, angoscia di origine intrapsichica. All’interazione tra angoscia reale e angoscia nevrotica – o, per dirlo in altri termini, all’interazione tra angoscia originata da cause o fonti esterne e angoscia originata da cause o fonti interne – fa riscontro l’interazione tra realtà esterna

e realtà psichica. Per stabilire se un’angoscia è nevrotica o meno dobbiamo considerare un elemento al quale Freud ha fatto spesso riferimento: la quantità di angoscia originata da cause interne. Questo elemento è però intimamente connesso con la capacità dell’Io di difendersi adeguatamente contro l’angoscia; occorre quindi tener conto del rapporto proporzionale tra la forza dell’angoscia e la forza dell’Io. 7. Dall’esposizione dei miei punti di vista sui temi trattati in questo scritto emerge implicitamente che essi sono frutto di un modo di affrontare e considerare l’aggressività che si discosta sostanzialmente dalla corrente principale del pensiero psicoanalitico. Il fatto che Freud avesse messo inizialmente in luce l’aggressività come un elemento della sessualità infantile – come, per così dire, un complesso della libido (sadismo) – ebbe come conseguenza che l’interesse psicoanalitico si polarizzasse per lungo tempo sulla libido e che l’aggressività fosse considerata più o meno come qualcosa di «ausiliario» della libido.21 Nel 1920 Freud formulò la teoria che la pulsione di morte si manifesta nella distruttività e che opera mescolata con la pulsione di vita. A questo seguì, nel 1924, l’approfondita indagine di Abraham sul sadismo del bambino piccolo. Ma anche dopo queste nuove scoperte e messe a punto, il pensiero psicoanalitico, come si può rilevare nella maggior parte della letteratura, ha continuato a interessarsi preponderantemente della libido e delle difese nei confronti delle pulsioni libidiche sottovalutando in misura corrispondente l’importanza dell’aggressività e di ciò che essa implica. Fin dall’inizio della mia attività psicoanalitica il mio interesse si è polarizzato sull’angoscia e sulle cause che la determinano, e ciò mi ha portata a conoscere più a fondo il rapporto tra aggressività e angoscia.22 La

particolare angolazione del mio metodo d’indagine ha trovato appoggio e conferma nelle analisi dei bambini piccoli, per condurre le quali ho sviluppato la tecnica del gioco; esse infatti hanno rivelato che l’angoscia dei bambini piccoli può essere alleviata solo analizzando le loro fantasie e i loro impulsi sadici con una considerazione maggiore della parte che spetta all’aggressività e nel sadismo e come causa di angoscia. Questa maggiore considerazione dell’importanza dell’aggressività mi ha portata alle conclusioni teoriche che ho esposto nel mio scritto I primi stadi del conflitto edipico (1928), dove ho anche formulato l’ipotesi che nello sviluppo del bambino – sia normale che patologico – le angosce e il senso di colpa che insorgono nel corso del primo anno di vita sono strettamente connessi con i processi dell’introiezione e della proiezione, con i primi stadi dello sviluppo del Super-io e con l’istituirsi del complesso edipico; e che in tali angosce l’aggressività e le difese contro di esse sono di somma importanza. Seguendo questi indirizzi, ulteriore lavoro è stato compiuto nell’ambito della Società psicoanalitica britannica pressappoco dal 1928 in poi. Parecchi psicoanalisti della Società, operando in stretta collaborazione, hanno apportato numerosi contributi alla conoscenza della funzione di primissimo piano dell’aggressività nella vita psichica. Nel pensiero psicoanalitico in genere, invece, un cambiamento di punto di vista al riguardo è apparso solo in contributi sporadici nel corso degli ultimi dieci o quindici anni; negli ultimissimi tempi, però, questi contributi sono aumentati. Uno dei risultati delle nuove ricerche sull’aggressività è stato il riconoscimento della grande funzione della tendenza a riparare, che è un modo di manifestarsi della pulsione di vita nella sua lotta contro la pulsione di morte. A seguito di tale riconoscimento non solo si sono viste le pulsioni distruttive in una prospettiva più corretta, ma è divenuta più chiara l’interazione tra pulsioni di vita e pulsioni di morte, e perciò anche la

funzione della libido in tutti i processi mentali e affettivi. In questo scritto ho cercato di chiarire il mio assunto che la pulsione di morte (la distruttività) è il fattore primario dell’angoscia. Nella mia esposizione dei processi che producono l’angoscia e il senso di colpa è però anche implicito che l’oggetto primario contro il quale è diretta la distruttività è l’oggetto della libido, e che quindi è l’interazione tra aggressività e libido – in definitiva sia l’impasto che la polarità delle due pulsioni – ciò che causa l’angoscia e il senso di colpa. Ma un altro effetto dell’interazione è l’attenuazione della distruttività ad opera della libido. Perché si abbia un’interazione ottimale tra libido e aggressività occorre che l’angoscia originata dalla costante attività della pulsione di morte, sebbene non possa essere mai eliminata, sia contrastata e arginata dalla forza della pulsione di vita.

Le influenze reciproche nello sviluppo dell’Io e dell’Es1 1952

In Analisi terminabile e interminabile (1937, p. 53), che contiene le ultime considerazioni di Freud sull’Io, egli dice: «Non abbiamo nessun motivo di contestare l’esistenza e l’importanza di caratteri distintivi, originari e connaturati, propri dell’Io». Io sostengo da molti anni il punto di vista, e l’ho esposto nella Psicoanalisi dei bambini (1932), che l’Io è attivo sin dall’inizio e che tra le sue prime attività vi sono la difesa contro l’angoscia e l’impiego dei processi di introiezione e di proiezione. Nel libro anzidetto ho anche avanzato la tesi che la capacità iniziale dell’Io di tollerare l’angoscia dipende dalla sua forza innata, vale a dire da fattori costituzionali. Ho altresì manifestato ripetutamente l’opinione che l’Io stabilisce relazioni oggettuali sin dai suoi primi contatti con il mondo esterno. Più di recente ho precisato che la tendenza all’integrazione costituisce un’altra delle funzioni primarie dell’Io.2 Intendo ora prendere in esame quale parte abbiano le pulsioni – ma più specificamente la lotta tra pulsione di vita e pulsione di morte – nelle funzioni dell’Io. Nella concezione freudiana delle pulsioni di vita e di morte è insito che l’Es è ab initio il serbatoio delle pulsioni. Mentre concordo pienamente con questa concezione, dissento da Freud su un punto particolare: la mia tesi infatti è che la causa prima dell’angoscia risiede nella paura dell’annientamento, della morte, che nasce dall’operare della pulsione di morte all’interno dell’organismo. La lotta tra pulsione di vita e pulsione di morte promana dall’Es e coinvolge l’Io. La paura primordiale di essere annientato spinge l’Io a diventare attivo e ingenera le prime difese. La fonte originaria delle attività dell’Io è l’operare della pulsione di vita. La tendenza dell’Io all’integrazione e all’organizzazione rivela chiaramente la sua derivazione dalla pulsione di vita; difatti, per dirlo con le parole di Freud

(1922, p. 507), «il fine principale dell’Eros ... [è] l’unire e il legare». In temporanea e alternativa contrapposizione alla spinta all’integrazione vi sono poi i processi di scissione che, insieme all’introiezione e alla proiezione, costituiscono alcuni dei meccanismi primitivi di importanza fondamentale. Tutti quanti, sotto il premere della pulsione di vita, sono posti sin dal principio a servizio della difesa. Un altro apporto di primaria importanza fornito dalle pulsioni alle prime funzioni dell’Io, e che occorre qui considerare, è l’attività fantastica. Secondo la mia concezione della prima infanzia, quest’attività affonda le sue radici nelle pulsioni e ne è, per usare un’espressione di Susan Isaacs (1943), il corollario psichico. Io ritengo che le fantasie, come le pulsioni, siano attive sin dagli esordi della vita e che siano l’espressione psichica dell’attività sia della pulsione di vita che di quella di morte. L’attività fantastica è alla base di quei meccanismi di introiezione e di proiezione che mettono in grado l’Io di compiere una delle funzioni fondamentali accennate più sopra e precisamente quella di istituire relazioni oggettuali. La prima relazione oggettuale del lattante si produce per proiezione, rivolgendo all’esterno libido e aggressività e impregnandone l’oggetto. Questo processo, a mio parere, è alla base dell’investimento oggettuale. Mediante il processo dell’introiezione l’oggetto primario è al tempo stesso assunto nel Sé. Fin dall’inizio, inoltre, la relazione con l’oggetto esterno e quella con l’oggetto interno interagiscono tra loro. Il primo degli «oggetti interiorizzati» – come io ho denominato gli oggetti che hanno subito il processo dell’introiezione – è un oggetto parziale, il seno materno; secondo la mia esperienza questa prima interiorizzazione si ha anche quando il bambino è allattato artificialmente, ma spiegare qui i processi che determinano l’assimilazione simbolica del poppatoio al seno mi porterebbe troppo lontano. Il seno in quanto oggetto interiorizzato, al quale ben presto si aggiungono altre peculiarità della figura materna, esercita

un’influenza capitale nello sviluppo dell’Io. A mano a mano che poi le relazioni oggettuali si sviluppano in relazioni con oggetti totali, la madre, il padre o altri familiari vengono introiettati come persone, e come persone sotto un aspetto buono o sotto un aspetto cattivo a seconda delle esperienze nonché dei sentimenti e delle fantasie che si alternano nel lattante. In tal modo si costituisce in lui un mondo di oggetti buoni e cattivi che diventa fonte tanto di persecuzioni interne quanto di arricchimento e di stabilità interiori. Nei primi tre o quattro mesi di vita predomina nel lattante l’angoscia persecutoria, la quale esercita sull’Io una pressione che ne mette seriamente alla prova la capacità di tollerare l’angoscia. L’angoscia persecutoria a volte indebolisce l’Io, altre volte, invece, dà slancio alla crescita dell’integrazione e allo sviluppo intellettivo. Nei secondi tre mesi di vita il lattante prova il bisogno di proteggere e conservare gli oggetti d’amore interni che egli sente lesi dai suoi impulsi aggressivi; ciò determina angoscia depressiva e senso di colpa, i quali a loro volta possono di nuovo avere un duplice effetto sull’Io: possono minacciare di sopraffarlo o stimolarlo a riparare e sublimare. In questi vari modi – ai quali qui non posso che accennare fugacemente – l’Io è per un verso messo in pericolo e per un altro arricchito dalle sue relazioni con gli oggetti interni.3 Il particolare ordine di fantasie centrate sul mondo interno del lattante è di somma importanza per lo sviluppo dell’Io. Gli oggetti interiorizzati, sentiti come dotati di vita propria, si armonizzano o contrastano tra loro e con l’Io a seconda delle emozioni e delle esperienze del lattante. Quando egli sente di contenere oggetti buoni prova fiducia e sicurezza; quando invece sente di contenere oggetti cattivi si attiva in lui il sospetto e il senso di persecuzione. La relazione buona e cattiva del lattante con gli oggetti interni procede di pari passo con quella con gli oggetti esterni e ne influenza costantemente l’andamento. Inversamente, essa è sin dal principio influenzata dalle

frustrazioni e dai soddisfacimenti che derivano dalla vita quotidiana. Vi è dunque un’interazione permanente tra mondo oggettuale interno, che rispecchia fantasticamente le impressioni ricevute dal di fuori, e mondo esterno, che è influenzato radicalmente dalla proiezione. Come ho spesso chiarito, gli oggetti interiorizzati costituiscono anche il nucleo del Super-io,4 che poi si evolve nel corso dei primi anni dell’infanzia e giunge alfine allo stadio in cui – conformemente alla teoria classica – si configura come l’erede del complesso edipico. Poiché lo sviluppo dell’Io e quello del Super-io sono connessi ai processi di introiezione e proiezione essi sono inestricabilmente collegati tra loro sin dall’inizio, e poiché lo sviluppo dell’uno e dell’altro è influenzato in misura sostanziale dalle pulsioni, esiste fin dal principio della vita un’azione reciproca strettissima fra tutte e tre le istanze psichiche. Mi rendo conto che parlare qui di tutte e tre le istanze psichiche significa non attenersi al tema in discussione, ma la mia concezione della primissima infanzia impedisce che io possa prendere in considerazione esclusivamente le influenze reciproche dell’Io e dell’Es. Dato che la vita psichica è governata dal perenne interagire delle pulsioni di vita e di morte e dai conflitti derivanti dal loro impasto e disimpasto, vi è nell’inconscio un fluire sempre mutevole di eventi, di emozioni e di angosce che si influenzano a vicenda. Ho cercato finora di indicare sommariamente la molteplicità dei processi incentrati sulla relazione con oggetti interni ed esterni, che dai primissimi stadi in poi sono presenti e operanti nell’inconscio; esporrò ora alcune conclusioni. 1) La tesi da me qui delineata molto sinteticamente rappresenta una visione dei primi processi inconsci molto più ampia di quella insita nella concezione di Freud della struttura della psiche. 2) Se ammettiamo che il Super-io si sviluppa da questi primi processi

inconsci, che altresì plasmano l’Io, ne determinano le funzioni e modellano la sua relazione con il mondo esterno, lo sviluppo dell’Io e la formazione del Super-io vanno riesaminati dalle fondamenta. 3) La mia tesi, quindi, comporterebbe una riconsiderazione della natura e della sfera dell’Io e del Super-io nonché dell’interconnessione tra le parti della psiche che costituiscono il Sé. Terminerò riaffermando qualcosa di ben noto, ma di cui tuttavia diventiamo tanto più convinti quanto più a fondo penetriamo nella psiche: soltanto esplorando nella sua profondità e nella sua estensione l’inconscio, che riconosciamo essere all’origine di tutti i processi psichici e influenzare radicalmente l’intera vita psichica, possiamo riuscire ad analizzare la personalità totale.

Riferimenti bibliografici Abraham Karl 1924 Tentativo di una storia evolutiva della libido sulla base della psicoanalisi dei disturbi psichici, in Id., Opere, a cura di Johannes Cremerius, 2 voll., Boringhieri, Torino 1975, vol. 1, poi in Libido e carattere 1916-25, Bollati Boringhieri, Torino 2012. Ferenczi Sándor 1925 Psicoanalisi delle abitudini sessuali, in Id., Fondamenti di psicoanalisi, a cura di Glauco Carloni ed Egon Molinari, 4 voll., Guaraldi, Rimini 1972-74, vol. 1. Freud Sigmund 1905 Tre saggi sulla teoria sessuale, in Id. Opere, ed. diretta da Cesare L. Musatti, 12 voll., Boringhieri, Torino 1966-80, vol. 5. 1914 Dalla storia di una nevrosi infantile (Caso clinico dell’uomo dei lupi), in Id. Opere cit., vol. 7. 1916 Alcuni tipi di carattere tratti dal lavoro psicoanalitico, in Id., Opere cit., vol. 8. 1922 L’Io e l’Es, in Id., Opere, cit., vol. 9. 1924 Il problema economico del masochismo, in Id., Opere cit., vol. 10. 1925 Inibizione, sintomo e angoscia, in Id., Opere cit., vol. 10. 1929 Il disagio della civiltà, in Id., Opere cit., vol. 10. 1932 Introduzione alla psicoanalisi (nuova serie di lezioni), in Id., Opere cit., vol. 11. 1937 Analisi terminabile e interminabile, in Id., Opere cit., vol. 11. Heimann Paula 1952a Notes on the Theory of the Life and Death Instincts, in Joan Riviere (a cura di), Developments in Psycho-Analysis, Hogarth Press, London.

1952b Certain Functions of Introjection and Projection in Early Infancy, in Riviere, Developments in Psycho-Analysis cit. Isaacs Susan A. 1943 The Nature and Fuction of Phantasy, in Joan Riviere (a cura di), Developments in Psycho-Analysis cit. Jones Ernest 1929 Paura, senso di colpa e odio, in Id., Teoria del simbolismo, Astrolabio, Roma 1972. Klein Melanie 1928 I primi stadi del conflitto edipico, in Id., Scritti 1921-1958, Boringhieri, Torino 1978, poi in Il complesso edipico 1928-45, Bollati Boringhieri, Torino 2012. 1930 L’importanza della formazione dei simboli nello sviluppo dell’Io, in Id., Scritti cit. 1932 La psicoanalisi dei bambini, Martinelli, Firenze 1969. 1935 Contributo alla psicogenesi degli stati maniaco-depressivi, in Id., Scritti cit. 1940 Il lutto e la sua connessione con gli stati maniaco-depressivi, in Id., Scritti cit. 1945 Il complesso edipico alla luce delle angosce primitive, in Id., Scritti cit. 1946 Note su alcuni meccanismi schizoidi, in Id., Scritti cit. 1948 Sulla teoria dell’angoscia e sul senso di colpa, in Id., Scritti, cit. 1952 Alcune conclusioni teoriche sulla vita emotiva del bambino nella prima infanzia, in Id., Scritti cit. Money-Kyrle Roger E. 1945 Psicoanalisi ed etica, in Melanie Klein, Paula Heimann e Roger E. Money-Kyrle (a cura di), Nuove vie della psicoanalisi, il Saggiatore, Milano

1966. 1951 Psycho-Analysis and Politics, Gerald Duckworth, London. Reik Theodor 1925 Geständniszwang und Strafbedürfnis, Internationaler Psychoanalytischer Verlag, Wien. Joan Riviere (a cura di) 1952 Developments in Psycho-Analysis, Hogarth Press, London. Sachs Hanns 1923 Zur Genese der Perversionen, in «Internationale Zeitschrift für Psychoanalyse», vol. 14. Stärcke August 1919 Die Umkehrung des Libidovorzeichens beim Verfolgungswahn, in «Internationale Zeitschrift für Psychoanalyse», vol. 5. Strachey James 1930 Some Unconscious Factors in Reading, in «The International Journal of Psycho-Analysis», vol. 11. Van Ophuijsen Johan H. W. 1920 On the Origin of the Feeling of Persecution, in «The International Journal of Psycho-Analysis», vol. 1.

Note Prefazione 1

Cfr. Theodor Lessing, Haarmann. Storia di un lupo mannaro (1925), Adelphi, Milano 1996. 2

Cfr. oltre, p. 29.

3

Cfr. oltre, p. 108.

4

Cfr. oltre, p. 78.

5

Cfr. oltre, p. 54.

Tendenze criminali nei bambini normali 1 2

Vedi Freud (1916) e Reik (1925).

[La citazione è ripresa da Freud (1916): § 3, I delinquenti per senso di colpa, p. 652].

Situazioni d’angoscia infantile espresse in un’opera musicale e nel racconto di un impeto creativo 1

[Verosimilmente si tratta del Congresso del 3 settembre 1927 a Innsbruck, al quale l’autrice aveva contribuito con I primi stadi del complesso edipico]. 2

[Vedi l’esposizione completa e precisa dell’argomento in Freud (1925, cap. 8)]. 3

[Sidome-Gabrielle Colette, autrice tra l’altro dei romanzi del ciclo di Claudine, del ciclo di Chéri, e del notissimo Gigi. (Yonne, 1873-Parigi, 1954)]. 4

[Il titolo originale della «fantasia lirica» di Ravel, rappresentata per la prima volta a Montecarlo nel 1925, è L’enfant et les sortilèges]. 5

[Scrittrice danese (Randers, 1872-Thuro, 1950), autrice di una cinquantina di opere, tra cui i romanzi del ciclo di Bibi, e di cinque volumi di racconti autobiografici]. 6

[Verosimilmente si tratta del Congresso del 3 settembre 1927 tenutosi a Innsbruck, al quale l’autrice aveva contribuito con I primi stadi del conflitto edipico].

Contributo alla teoria dell’inibizione intellettiva 1

Queste tendenze nei confronti del fratellino minore avevano contribuito non poco a disturbare i suoi rapporti col fratello maggiore, che aveva quattro anni più di lui; lo avevano infatti indotto a immaginare che il fratello maggiore nutrisse gli stessi propositi nei suoi riguardi. 2

Vedi «L’importanza della formazione dei simboli nello sviluppo dell’Io». Il punto di vista qui avanzato concorda con la teoria di Abraham secondo la quale, nella paranoia, la libido regredisce al primissimo stadio anale; secondo la mia concezione, infatti, la fase dello sviluppo nella quale il sadismo raggiunge il suo culmine copre un arco che comincia con l’emergere delle pulsioni sadico-anali e termina con il declino del primissimo stadio anale. Il periodo della fase indicato nel testo che per me costituisce il punto di fissazione della paranoia, si situa però in un momento nel quale il primissimo stadio anale è in ascesa. Su questa base la teoria di Abraham viene ad essere ampliata in due direzioni. In primo luogo veniamo a rilevare che nel corso di tale fase vi è una intensa cooperazione tra le varie forme di sadismo del bambino, e a rilevare in particolare quale enorme peso abbiano, oltre al sadismo orale, le finora ben poco riconosciute tendenze sadico-uretrali nel rafforzamento e nell’ulteriore sviluppo di quelle sadico-anali. In secondo luogo perveniamo a una comprensione più profonda e dettagliata della struttura delle fantasie del bambino nelle quali si manifestano pulsioni sadicoanali appartenenti al primissimo stadio. [Vedi la suddivisione dello stadio anale in «primissimo» e «più tardo» fatta da Abraham (1924, p. 349)]. 3

Nella fantasia di John ciò appare manifesto nell’associazione relativa al «pesce fritto molto buono e che gli piaceva». 4

In uno scritto pubblicato parecchi anni fa (Analisi infantile) ho trattato di un effetto particolare dell’inibizione della capacità di farsi un’idea dell’interno del corpo materno e delle sue specifiche funzioni attinenti al

concepimento, alla gravidanza e al parto: mi riferisco al disturbo del senso dell’orientamento e alla perdita di interesse per la geografia. Già allora feci tuttavia rilevare che l’effetto di questa inibizione può avere una portata molto maggiore; può incidere sull’intero atteggiamento nei confronti del mondo esterno e menomare la capacità dell’orientamento nel suo senso più ampio e perfino in senso traslato. Ricerche successive mi hanno dimostrato che tale inibizione deriva dalla paura del corpo materno insorta in conseguenza delle aggressioni sadiche ad esso rivolte; mi hanno inoltre dimostrato che le prime fantasie sadiche concernenti il corpo materno e la capacità di elaborarle con successo costituiscono il tramite che conduce alle relazioni oggettuali e all’adattamento alla realtà, ed esercitano così un’influenza fondamentale sul futuro rapporto del soggetto con il mondo esterno. 5

Per un’esposizione di questa teoria vedi i miei scritti La personificazione nel gioco infantile e L’importanza della formazione dei simboli nello sviluppo dell’Io nonché La psicoanalisi dei bambini.

Criminalità 1

Vedi Psicoanalisi dei bambini (1932), il «Primo sviluppo della coscienza morale nel bambino» (pp. 282-92) e «Tendenze criminali nei bambini normali» (pp. 197-213). 2

Vedi il terzo scritto citato nella nota 1. La sede era la Medical Section della Società psicoanalitica britannica.

Sulla teoria dell’angoscia e del senso di colpa 1

[Nota di Freud: «In particolare Ernest Jones, Susan Isaacs e Melanie Klein; a quanto capisco, però, anche Reik e Alexander» (ibid., p. 273, n. 2)]. 2

Nello stesso scritto Freud accoglie la tesi (espressa nei miei due lavori I primi stadi del conflitto edipico, 1928, e L’importanza della formazione dei simboli nello sviluppo dell’Io, 1930) secondo cui la severità del Super-io deriva in una certa quale misura dall’aggressività nel bambino proiettata sul Super-io. 3

[Per il quadro degli stadi di organizzazione della libido delineato da Abraham, 1924, p. 349]. 4

Vedi il mio scritto I primi stadi del conflitto edipico (1928), letto al Congresso psicoanalitico internazionale di Innsbruck nel 1927. 5

L’importanza della formazione dei simboli nello sviluppo dell’Io (1930), letto al Congresso psicoanalitico internazionale di Oxford nel 1929. 6

Ho inoltre trattato questi problemi più approfonditamente e da angolazioni diverse nella Psicoanalisi dei bambini (1932, capp. 8 e 9). 7

Nel Problema economico del masochismo (1924) Freud applicò per la prima volta la sua nuova classificazione delle pulsioni a problemi clinici e, individuata e descritta la forma del masochismo morale, scrisse: «Il masochismo morale diventa così una dimostrazione classica dell’esistenza dell’“impasto pulsionale”». 8

Vedi il mio scritto precedente (1946). In esso sono arrivata peraltro alla conclusione che a svolgere una funzione considerevole nella schizofrenia è proprio questa situazione d’angoscia primaria. 9

Vedi, per esempio, i casi presentati dalla Isaacs (1943) del bambino che diceva che il seno della madre lo aveva morso e della bambina che pensava che la scarpa della madre voleva divorarla. 10

Per una esposizione particolareggiata delle fonti di angoscia che

interagiscono con la paura di evirazione vedi il mio scritto sul Complesso edipico alla luce delle angosce primitive (1945). 11

Nella Psicoanalisi dei bambini (1932, pp. 176-83) ho fatto intendere che, nei lattanti, i primissimi disturbi di alimentazione sono una manifestazione delle paure di persecuzione (e mi riferivo anche a quei disturbi che compaiono nonostante il fatto che il latte materno sia abbondante e che non sembra sussistere alcun fattore esterno che impedisca una situazione di alimentazione soddisfacente). Ho anche detto, sebbene implicitamente, che queste paure di persecuzione, se eccessive, determinano inibizioni dei desideri libidici di grande portata. [Nota aggiunta nel 1952]. Vedi anche il mio scritto Alcune conclusioni teoriche sulla vita emotiva del bambino nella prima infanzia (1952). 12

Un riferimento significativo alla connessione tra angoscia e senso di colpa è contenuto tuttavia nella frase seguente (Freud 1929, p. 270): «Forse cade qui a proposito osservare che, in fondo, il senso di colpa non è che una diversa specie topica di angoscia...» In generale, però, Freud distingue rigorosamente tra angoscia e senso di colpa. Trattando dello sviluppo del senso di colpa egli fa riferimento all’uso dell’espressione «senso di colpa» in rapporto a manifestazioni di «cattiva coscienza» in qualche stadio precoce dello sviluppo e dice (ibid., pp. 259-60): «Questo stato d’animo si chiama “cattiva coscienza”, ma propriamente è un nome immeritato, poiché a questo stadio il senso di colpa è chiaramente solo paura della perdita d’amore, angoscia “sociale”. Prima della fanciullezza non può essere mai nient’altro, ma anche in molti adulti cambia solo per quel tanto che il posto del padre o dei due genitori è stato preso dalla più vasta comunità umana ... Un grande mutamento sopravviene solo se l’autorità, per lo svilupparsi di un Super-io, diventa interiore. I fenomeni della coscienza morale si pongono allora su un gradino più alto; in fondo solo adesso si dovrebbe parlare di coscienza e di

sentimento di colpa». 13

[Nel testo citato l’espressione letterale è «morale degli sfinteri»].

14

Vedi Note su alcuni meccanismi schizoidi (1946).

15

Dobbiamo ricordare, tuttavia, che già nello stadio in questione il volto, le mani e l’intera sembianza corporea della madre partecipano sempre di più all’istituirsi graduale del rapporto con lei come persona. 16

Il concetto di difesa maniacale e l’ampio impiego di questa nella vita psichica sono stati trattati abbastanza diffusamente nei miei scritti Contributo alla psicogenesi degli stati maniaco-depressivi (1935) e Il lutto e la sua connessione con gli stati maniaco-depressivi (1940). 17

R. E. Money-Kyrle, nel saggio Psicoanalisi ed etica (1945), ha utilizzato la distinzione tra angosce persecutorie e angosce depressive in rapporto agli atteggiamenti verso l’etica in generale e verso le convinzioni politiche in particolare. I suoi punti di vista in proposito sono poi stati ampliati nel libro Psycho-Analysis and Politics (1951). 18

Freud parla di interazione tra angoscia derivante da cause interne ed esterne facendo riferimento a casi di angoscia nevrotica. Al riguardo dice infatti (Freud 1925, p. 320): «Il pericolo è conosciuto e reale, ma l’angoscia di fronte ad esso è smisuratamente grande, maggiore di quanto, a nostro giudizio, dovrebbe essere. In questo sovrappiù si tradisce l’elemento nevrotico ... L’analisi mostra che al pericolo reale conosciuto si riallaccia un pericolo pulsionale sconosciuto». 19 20

[Vedi Freud 1932, p. 194].

Come ho precisato nella Psicoanalisi dei bambini (1932, p. 268): «Qualora una persona normale venga sottoposta a una grave tensione interna o esterna, oppure si ammali o comunque fallisca in qualche modo, potremo osservare che le sue situazioni d’angoscia più profonde sono completamente attive. Per cui, dato che qualsiasi persona sana può cadere vittima di una

nevrosi, ne consegue che le proprie originarie situazioni d’angoscia non vengono mai interamente superate». 21

Vedi Paula Heimann (1952a). Nello scritto l’autrice mette in risalto questa propensione teorica a favore della libido e la sua incidenza sulla evoluzione della teoria psicoanalitica. 22

Già nei miei primi scritti appare quale forte rilievo avesse per me l’angoscia.

Le influenze reciproche nello sviluppo dell’Io e dell’Es 1

[Intervento al simposio The Mutual Influences in the Development of Ego and Id tenutosi in occasione del 17° Congresso psicoanalitico ad Amsterdam nell’agosto 1951]. 2

Vedi Note su alcuni meccanismi schizoidi (1946).

3

L’esposizione più particolareggiata di questi processi primitivi è contenuta oltre che nei miei scritti Note su alcuni meccanismi schizoidi (1946), Sulla teoria dell’angoscia e del senso di colpa (1948), Alcune conclusioni teoriche sulla vita emotiva del bambino nella prima infanzia (1952), in lavori di Susan Isaacs (1943) e di Paula Heimann (1952b). 4

Al riguardo ci si può domandare in quale misura l’oggetto interiorizzato diventi parte dell’Io e in quale misura diventi parte del Super-io. Questa domanda pone problemi che a mio parere sono ancora oscuri e richiedono di essere chiariti ulteriormente. Alcune indicazioni in proposito sono state fornite da Paula Heimann (1952b).

Indice Prefazione, di Giorgio Meneguz

Aggressività, angoscia, senso di colpa Tendenze criminali nei bambini normali (1927) Situazioni d’angoscia infantile espresse in un’opera musicale e nel racconto di un impeto creativo (1929) Contributo alla teoria dell’inibizione intellettiva (1931) Criminalità (1934) Sulla teoria dell’angoscia e del senso di colpa (1948) 1. 2. 3. 4. 5. 6. 7.

Le influenze reciproche nello sviluppo dell’Io e dell’Es (1952) Riferimenti bibliografici