Zona di guerra. Lettere, scritti e discorsi (1915-1924)

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Zona di guerra. Lettere, scritti e discorsi (1915-1924)

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Storia e Società

L’ITALIA DI PIERO CALAMANDREI a cura di Sergio Luzzatto

Piero Calamandrei Uomini e città della Resistenza a cura di Sergio Luzzatto

Piero Calamandrei Zona di guerra. Lettere, scritti e discorsi (1915-1924) a cura di Silvia Calamandrei e Alessandro Casellato

Piero e Franco Calamandrei Una famiglia in guerra. Lettere (1939-1945) a cura di Alessandro Casellato

Mario Isnenghi Dalla Resistenza alla desistenza. Gli anni del «Ponte» (1945-1947) Mimmo Franzinelli Oltre la guerra fredda. Gli anni del «Ponte» (1948-1953) Sergio Luzzatto Questa nostra repubblica. Gli anni del «Ponte» (1954-1956)

Piero Calamandrei

Zona di guerra Lettere, scritti e discorsi (1915-1924) a cura di Silvia Calamandrei e Alessandro Casellato

Editori Laterza

© 2006, Gius. Laterza & Figli Prima edizione 2006

Proprietà letteraria riservata Gius. Laterza & Figli Spa, Roma-Bari Finito di stampare nell’ottobre 2006 Poligrafico Dehoniano Stabilimento di Bari per conto della Gius. Laterza & Figli Spa ISBN 88-420-7909-X

È vietata la riproduzione, anche parziale, con qualsiasi mezzo effettuata, compresa la fotocopia, anche ad uso interno o didattico. Per la legge italiana la fotocopia è lecita solo per uso personale purché non danneggi l’autore. Quindi ogni fotocopia che eviti l’acquisto di un libro è illecita e minaccia la sopravvivenza di un modo di trasmettere la conoscenza. Chi fotocopia un libro, chi mette a disposizione i mezzi per fotocopiare, chi comunque favorisce questa pratica commette un furto e opera ai danni della cultura.

INTRODUZIONE* di Alessandro Casellato

Piero Calamandrei, ragazzo. Abituati a rapportarci a lui come a un padre della patria, sarà per molti una scoperta trovarlo qui giovane e innamorato, militare controvoglia, interessato alle fotografie più che alle armi, pieno di rimpianti per una carriera interrotta e spaesato di fronte ad un evento impadroneggiabile. Certo, negli anni della Grande Guerra Calamandrei fu contemporaneamente anche altre cose, a prima vista opposte e inconciliabili: intellettuale interventista, ufficiale volontario, funzionario dei servizi di propaganda, mitografo delle ragioni della guerra e subito dopo interprete autentico della sua memoria. Qual è, allora, il vero volto di Calamandrei? I teorici delle identità multiple schiverebbero facilmente la domanda dicendo che gli attori inevitabilmente giocano ruoli diversi su palcoscenici diversi davanti a pubblici diversi. Che degli individui ci è dato conoscere solo la maschera che indossano. E che la guerra – anche in questo – non fa che amplificare le tensioni latenti nella vita quotidiana, complicando terribilmente la questione delle identità. C’è del vero in tutto ciò, ma non basta. Non basta perché queste risposte non colgono proprio uno dei tratti più caratteristici della personalità di Calamandrei: il suo modo di stare nella storia, * Questa Introduzione è frutto del confronto serrato e della collaborazione con Silvia Calamandrei, che sentitamente ringrazio per la generosità e i consigli. Un ringraziamento va anche al personale del Museo storico in Trento e dell’Istituto storico della Resistenza in Toscana per aver agevolato in ogni modo le ricerche, a Giulia Albanese, Mario Isnenghi e Sergio Luzzatto per aver letto e discusso le prime versioni di questo testo.

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di far interagire vissuto e narrato, di porsi di sbieco davanti alle tragedie della nazione e poi di renderle memorabili. E questo è un tratto profondamente suo, che non a caso si riproporrà con minime varianti quasi trent’anni più tardi, in relazione all’altra guerra e alla Resistenza. Per comprensibili motivi le ambivalenze di Piero Calamandrei sono state a lungo rimosse proprio da coloro che lo avevano meglio conosciuto. Non tanto dai familiari – moglie, figlio, nipoti – che ne hanno preservato e anche reso pubblica un’immagine meno stentorea1, quanto piuttosto da parte di coloro che ne avevano ereditato le posizioni ideali, politiche, professionali. Quando quarant’anni fa Norberto Bobbio presentò gli Scritti e discorsi politici del suo maestro, ne fece curiosamente iniziare la vita politica nel 1944, a cinquantacinque anni2. Oggi questa scelta non può che starci stretta. Non solo perché abbiamo nuovi documenti su cui riflettere e una diversa idea di politica con cui interrogarli. Ma anche perché a mezzo secolo dalla morte ci è possibile intrattenere un rapporto diverso con colui che fu per un decennio – decisivo, perché fondante – il massimo sacerdote della religione civile repubblicana. In ogni caso, riconosciamolo apertamente: è proprio quest’ultimo Calamandrei in versione ieratica che è entrato a far parte del nostro paesaggio culturale. Che continua anzi ad agire nel presente, ad abitare le nostre città, le antologie scolastiche, il discorso pubblico, e quindi la memoria collettiva. Come un mito moderno egli vive ormai di vita propria, senza aver più bisogno di tempi e luoghi definiti, affrancato definitivamente dalla propria biografia. Per un sottile paradosso, ha avuto per sé il destino che aveva prefigurato per gli eroi caduti sui campi di battaglia: trattenuto tra la terra e il cielo, a conforto e insieme a monito dei viventi. Non c’è bisogno di essere iconoclasti o insensibili all’aura che ancora sprigiona per toglierlo da quel limbo, almeno per un po’. È sufficiente avvicinarsi a lui scansando l’ombra del monumento che è diventato. Ritrovarlo a poco più di vent’anni, ragazzo in un tempo di guerre.

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1. L’arcigna confraternita Firenze, 21.VII.1911 Preg.mo Sig. Bertelli, il mio amico e compagno di Università Enrico Poggi, che Le porterà questo biglietto, ha avuto poco tempo fa la disgrazia di dover fare il fantaccino per tre mesi, ma ha ora la fortuna di poter descrivere con veridicità d’esperienza queste sue disgrazie in una serie di bozzetti che egli Le farà leggere. A me sembra che sul Giornalino, accanto, per esempio, agli scritti del Tondi sul «Carro dello Stato», potrebbero trovar posto questi scritti del Poggi, il quale spiega piacevolmente ai ragazzi qual’è l’ordinamento del nostro esercito e come i soldati passano le loro giornate, facendo sempre trasparire – a questi lumi di luna di fobia antimilitaristica! – qual forza ideale è contenuta entro le meschine formalità militari. Legga Lei, e giudichi: senza complimenti3.

Un biglietto di Piero Calamandrei, ventiduenne, a Luigi Bertelli, alias Vamba, direttore del «Giornalino della domenica». È il frammento superstite di una rete di relazioni tra le più vitali e durature, anche in una città – Firenze – e in una stagione – il primo Novecento – che furono produttrici ineguagliate di riviste e di gruppi militanti. E a suo modo «Il Giornalino della domenica» fu entrambe le cose, anche se le interpretò in una chiave del tutto particolare: erano bambini e ragazzi – i figli e le figlie della borghesia, e in quanto tali esponenti in formazione della futura classe dirigente – ad essere destinatari della rivista e oggetto della mobilitazione. All’inizio del secolo Vamba chiama i “piccoli” alla riscossa contro il grigiore e il conformismo in cui i “grandi” sono precipitati. Addita loro l’esempio dei nonni, uomini d’azione che furono protagonisti dell’epopea del Risorgimento, per marcare meglio le distanze dai padri, politicanti e parolai, rappresentanti di un mondo ormai senza slanci e senza vigore. In realtà Vamba, classe 1860, in questo complesso gioco di rimandi genealogici, parla a nome e per conto della generazione di mezzo, quella che sente di aver perso l’appuntamento con la storia, di essere nata fuori tempo massimo, «troppo tardi e troppo presto per far qualcosa»4. Per questo mette le proprie illusioni e frustrazioni sulle spalle dei giova-

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nissimi. Affida ad essi il compito di riscattare e rinnovare, allo stesso tempo, la nazione e la sua classe dirigente. Li carica infine di un sentimento di insoddisfazione e di attesa, invitandoli a scrutare l’orizzonte per non lasciarsi sfuggire la loro ora. Sono suggestioni psicologiche e politiche che effettivamente fecero presa sui nati nell’ultimo decennio dell’Ottocento, i quali avrebbero atteso l’arrivo della guerra, la loro guerra, come occasione per mettersi alla prova. Questo il ricordo che ne portò Piero Calamandrei: Grigi tempi furono per la Patria quelli in cui nacquero e crebbero le nostre generazioni: le gesta gloriose del nostro risorgimento garibaldino sfumavano ormai tra le nebbie della leggenda come se mai fossero state realtà; il triste epilogo della impresa d’Africa aveva fatto pietosamente crollare come castelli di cartone le infatuazioni di un imperialismo da operetta; l’Italia, nella triplice alleanza, faceva con molta dignità la parte di sguattera che lava i piatti in cucina; in Roma, alla quale nel 1849 Mazzini e Garibaldi avevano riportato giorni dell’antica grandezza repubblicana, l’imperatore di Germania entrava da trionfatore, in mezzo alle corazze luccicanti dei suoi armigeri; e se anche c’era in noi giovinetti l’aspirazione confusa verso qualche ideale di rivendicazione patria, sembrava a noi stessi come una nostalgia letteraria e romantica, come un rimpianto inerte di tempi eroici che noi stessi credevamo destinati a non ritornare mai più... Ed ecco che in questo grigio tempo di viltà e d’oblii Vamba chiamò a raccolta i ragazzi per parlar loro d’Italia: di tutto ciò che questo nome compendia di bello e d’eroico, dei nostri martiri, dei nostri poeti, del nostro cielo, delle superbe opere compiute nei secoli dal nostro popolo di artisti e di navigatori. Ogni tanto un intero numero del «Giornalino» era dedicato alla memoria di uno dei genii tutelari della Patria: a Giuseppe Garibaldi, a Giosuè Carducci; ma anche negli altri numeri non mancava mai qualche pagina destinata a ricordare ai lettori un nome o una data, a descrivere la bellezza di qualche nostro monumento, a invocar la pietà fraterna sul dolore di qualche terra nostra colpita dalla sciagura, a rivelar l’oscuro eroismo dei nostri emigranti in terra straniera...5

Il settimanale di Vamba non va relegato sotto la categoria un po’ angusta della letteratura per l’infanzia. È in realtà quasi un organo politico. Di fatto, inventa l’ala giovanile di quel partito della borghesia italiana che è nell’aria da anni, ma che tarda a pren-

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der forma. Il «Giornalino» veicola un ambizioso progetto di rieducazione nazionale. Propone una morale laica e rigorista, un modello di gioventù energica e volitiva. Porta dentro di sé lo spirito ribelle di Gian Burrasca – è proprio sulle pagine del «Giornalino» che nel 1907 Vamba comincia a pubblicare, a puntate, il suo capolavoro – ma gli dà uno sbocco e un obiettivo: organizza la spontaneità, disciplina la trasgressione. Per far questo sperimenta forme nuove di comunicazione, di mobilitazione, di fidelizzazione del proprio pubblico. Non solo i concorsi a premi, i gadgets, i romanzi a puntate, le firme di richiamo o la rubrica della posta con i lettori, che Vamba segue in prima persona facendone il cuore pulsante della rivista. Ma anche vere e proprie proposte associative: i raduni primaverili in varie città, le attività educative, sportive, solidaristiche che coinvolgono gli abbonati, e persino una sorta di “repubblica dei ragazzi” – la Confederazione giornalinesca – organizzata come uno stato, con un presidente e un parlamento, con un proprio esercito, strutturato in gradi e in corpi, e con propri rappresentanti istituzionali – prefetti, sottoprefetti, sindaci – in tutte le città d’Italia, finanche nelle terre “irredente”. Autori, lettori e attori del «Giornalino» finiscono per condividere un sistema di simboli, di rimandi linguistici, persino di riti. Ragazzi e ragazze d’Italia dei più diversi lignaggi e delle più disparate provenienze regionali – da Mafalda di Savoia a Edda Mussolini, da Giovanni Ansaldo e Scipio Slataper, da Dino Grandi a Piero Calamandrei – formano una comunità immaginata, che dialoga e si riconosce attraverso le pagine della rivista. Una generazione riceve, in questo modo, un’impronta etica ed estetica che l’accompagnerà ben oltre la stagione del «Giornalino»6. Piero Calamandrei viene inglobato nell’atelier di Vamba per osmosi naturale. Nato a Firenze nel 1889, cresciuto in una famiglia di giudici e avvocati da più generazioni, di cultura laica e radicale, educato all’etica del dovere e al culto della patria, devoto a Mazzini e a Carducci, il giovane Piero trova nell’«arcigna confraternita di dotti»7 che sta dietro al «Giornalino» un primo gruppo di affinità, uno spazio pubblico organizzato in cui fare il suo apprendistato alla scrittura. Comincia a scrivervi nel ’10, pochi mesi dopo firma il suo primo contratto. A metà del 1911 il «Giornalino» si interrompe, ma Calamandrei continua a pubblicare in

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altre riviste per l’infanzia, per poi riprendere con Vamba nel ’19. Si tratta di apologhi in prosa e novelle in versi8. Sono storie per bambini, quasi mai testi apertamente “impegnati”. Ma è il contesto che ne orienta la ricezione. Soggetti, ambientazioni, spie linguistiche rimandano ad una cultura condivisa, tanto forte e permeante da poter essere messa sullo sfondo, senza discussione, come una quinta naturale. In primo piano, invece, la pedagogia della severità, dell’esempio e del sacrificio, anche se presentata col sorriso sulle labbra. Lo stile è quello un po’ desueto e molto toscano di Collodi e di Carducci9; la luce prevalente, quella del crepuscolo, che avvolge anche le invenzioni fantastiche di malinconia. Un tema, infine, ricorre più di altri e funziona come situazione poetica trasversale a molti racconti: quello della morte. Una morte laica, però, senza la consolazione del paradiso, che in quanto tale costringe con ancor più spietatezza i bambini a confrontarsi con il grande mistero che non dà risposte. Non è solo nella psicologia del giovane Piero che dobbiamo guardare per comprendere certi affioramenti. Anch’essi sono il segno di un’epoca. Nei decenni che precedono la Grande Guerra, la cultura europea, laica e liberale, comincia a fare i conti con la morte moderna. Il positivismo crede di essersi sbarazzato delle paure e degli idoli che la religione aveva addomesticato e fatto propri10. Non c’è più il purgatorio, che era servito per secoli a dare dimora alle anime vaganti dei trapassati; sparisce anzi tutto intero l’al di là. Ma questo, invece di rassicurare, crea non pochi problemi di collocazione e di orientamento: Piero, nei Poemetti della bontà, tra altre storie di fanciulli che incontrano troppo presto la morte, racconta quella di una bimba che «spirò sul mattino» e lasciò la sua casa per cercare La via del Paradiso, ma non la trovò, e quando la sera tentò di tornare nessuno più le aprì. Calamandrei passerà tutta la vita a cercare risposte a queste inquietudini11. La sua religione dei sepolcri è anche un modo per dare loro un lenimento, tentando di trasferire il paradiso in terra, nella memoria dei posteri, e confidando nella facoltà dei “piccoli” di essere messaggeri privilegiati tra i due mondi. Piero comincia a costruirla in questi anni, e l’esperienza della guerra gli darà un impulso straordinario, spostandone il cantiere dallo spazio protetto dell’interiorità e della letteratura per l’infanzia a quello aperto e adulto del discorso pubblico e civile. Ma i materiali che

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utilizza non sono solo suoi, li ha trovati tutti nell’ambiente in cui è cresciuto, nell’Italia nostalgica e commemorante che trapassa dall’Otto al Novecento. Che cos’è, infatti, il «Giornalino della domenica», nelle sue pagine più scopertamente pedagogiche, se non una rassegna di morti? Morti per la patria e patrioti morti, da Garibaldi a Carducci: tasselli di un pantheon che poi Vamba proseguirà, al di fuori del «Giornalino», nel pieno del conflitto – come nell’Epitaffio di Francesco Giuseppe12, un libro intessuto di epigrafi dedicate ai martiri del Risorgimento, compresi Fabio Filzi e Cesare Battisti – e anche dopo, fino a progettare di farne uno (che non riuscì a portare a termine) – tutto dedicato ai suoi fanciulli appena cresciuti e subito morti in guerra13. Quando, a sua volta, nel 1920 toccò a Calamandrei recare l’ultimo saluto sul «Giornalino» al vecchio direttore scomparso, lo fece ricordandolo alla testa di quei giovani, coi primi manipoli che sconfinarono il 24 maggio 1915, arruolato «insieme con quegli adolescenti comandanti di plotone, ai quali, pochi anni prima, il «Giornalino» aveva insegnato che l’Italia non terminava all’Isonzo e alle Chiuse di Verona»14. Alla guerra Calamandrei non arriva da solo, ma forte di un legame percepito e rivendicato con un gruppo e con una generazione. Un doppio legame che non avrebbe mai smarrito, neppure attraverso il marasma del conflitto. Quando, al termine di quella guerra collettivamente tanto attesa, Piero avrebbe fatto un bilancio privato e generazionale sempre sulle pagine del «Giornalino», sarebbe tornato indietro al suo io bambino, al sogno di una guerra «come sfrenata corsa dietro bandiere sventolanti», e a quello giovinetto, «pieno di quella vaga nostalgia di eroismo che ogni adolescente cela nel cuore» anelante alle «lontane età leggendarie in cui si aveva diritto di partire per la guerra a diciott’anni». Ma per prenderne ormai pietosamente le distanze. Non avrebbe potuto tacere a sé e ai lettori che vi si rispecchiavano che poi, quando la guerra venne per davvero, fu altra cosa da come se l’erano immaginata.

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2. La guerra di Piero L’impatto di Calamandrei con la vita militare non è esaltante. Appena ne fa esperienza diretta, già durante la visita medica di rito e i periodici richiami estivi negli anni universitari, si accorge che l’esercito condensa non il meglio, ma il peggio della società italiana: lentezza, disorganizzazione, indolenza. Nelle lettere che spedisce alla fidanzata le caserme sono descritte come «stanzacce che paiono carceri», i graduati come «volgarissime bestie che mi tengono qua da due settimane», la guerra che bussa alle porte come un fastidioso diversivo «che minacci da un giorno all’altro la nostra felicità»15. Le lettere ad Ada sono però una fonte infida, su questo versante. Accentuano la dimensione privata e non concedono quasi nulla alle convinzioni e all’immedesimazione che altri corrispondenti avrebbero invece consentito a Piero di esprimere. Anche in quelle circostanze, infatti, un altro noi più pubblico convive, dentro e fuori di lui, con quello intimo e privato della coppia: la cerchia degli amici, dei colleghi e dei compagni d’università, la famiglia mazziniana, la confraternita “giornalinesca”, la galassia dell’interventismo che si esprime nelle riviste (Calamandrei è lettore assiduo di «Lacerba» dal ’13, si abbona alla «Voce» di Prezzolini nel ’14, si fa mandare al fronte «L’Unità» di Salvemini dal ’16)16. Sarà questa comunità di riferimento a solidificarsi nella memoria e ad imprimere, almeno retrospettivamente, il sigillo su quella stagione: «la notte fummo fino a tarda ora a cantare Trento e Trieste per le vie del centro», scriverà nel suo diario, venticinque anni dopo: «C’erano con noi Mazzini, Garibaldi, Carducci... e Battisti vivo: e tutto il Risorgimento e tutta la nostra civiltà»17. Calamandrei chiede di rinunciare all’esonero dall’arruolamento che la miopia gli avrebbe forse consentito e si presenta, quindi, come volontario. Nell’agosto del ’15 viene messo a capo di un battaglione di milizia territoriale, «colle reclute del ’76, cioè coi soldati più vecchi che siano sotto le armi»18. Comincia per lui una guerra di retrovia, defilata, protetta. Ma anche avvilente. Diversa da quella che si era immaginato. Per un anno si occuperà di far costruire strade, camminamenti, fortificazioni, trincee. Sentirà il rumore del cannone da lontano. Godrà dei privilegi dell’ufficiale, con alloggi e mense riservate. Avrà a disposizione un attendente

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incaricato di dargli la sveglia al mattino con una tazza di caffè bollente e di badare alle sue coperte per non fargli prendere freddo durante la notte. Eppure, è in questo clima ovattato e borghesemente dimesso che prende il via, con fatica, lentezza e innumerevoli resistenze, un processo di trasformazione interiore che proprio le lettere ad Ada consentono di indagare sin nelle pieghe più riposte. Per questi aspetti, l’epistolario di guerra di Piero Calamandrei è una fonte inestimabile. Di fatto, è un diario intimo per interposta persona19. La scrittura è quotidiana. Ada è un io dislocato altrove, cui è possibile riferire confidenze e stati d’animo che ad altri sono gelosamente preclusi. C’è un patto di riservatezza tra i due: le lettere ai familiari prevedono una fruizione collettiva, sono scritte perché l’intero gruppo se ne possa appropriare; è inteso, invece, che quelle ad Ada non avranno altro pubblico che lei20. Certo, sappiamo che ogni lettera in realtà è una messa in posa, anche di fronte ad una singola persona: ma queste in particolare accentuano i tratti della introspezione, dell’autoanalisi, più che della presentazione di sé. Esse ci offrono uno spiraglio per osservare da vicino un’esperienza privatissima e individuale, eppure in molti tratti coerente con quella di un’intera generazione di giovani che avevano ambito a rinnovare la società, che si erano opposti al grigiore dei padri e all’invecchiamento di una civiltà, e per i quali lo scoppio della guerra fu – in ultima istanza – un grandioso rito di passaggio all’età adulta21. Nei primi mesi passati sull’Appennino toscano, Calamandrei si osserva dall’esterno e non si riconosce. La vita militare lo ha svestito degli abiti civili e gli ha consegnato un’uniforme che lo fa sentire estraneo a se stesso: «se potessi togliermi in fretta questo vestito che mi fascia e mi trasforma», scrive il 22 agosto 1915. L’assunzione di una nuova identità sociale coincide con la perdita di un ruolo e di un riconoscimento pubblico: il brillante giovane avvocato è costretto a sottostare alla gerarchia dei gradi e alle piccole umiliazioni che ne conseguono: «una bestia di colonnello [...] mi ha messo a scrivere sotto dettatura, rimproverandomi tre o quattro volte», riferisce ad Ada a fine agosto22. Si sente in balia degli eventi. Non può più decidere per sé. Ha informazioni limitate su ciò che accade: i giornali sono screditati, contengono molta propaganda e poche notizie; nelle retrovie im-

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perversano le voci portate da “radio-fante”, che rendono i confini tra il vero e il falso ancor più labili e confusi. «Questi giorni oscuri e incerti (quanti, quanti ancora?)», si chiede il 2 settembre 1915. La guerra rapida e risolutiva che tutti si attendevano si è inceppata. Si apre per lui la fase delle lunghe marce inutili, dell’attesa, dei tempi morti, che fanno cocente la delusione per il presente. La vita civile è stata appena lasciata, ma urge ancora dentro con i suoi rimpianti di occasioni di carriera perdute, con i suoi ritmi incorporati di organizzazione della giornata, con le sue priorità che in tempo di guerra non hanno più corso («porterò con me i miei fogliacci e lavorerò nelle ore in cui gli altri giocheranno a domino»23, scrive Piero, mentre medita di riprendere gli studi sulla Cassazione). Sprofonda nel grigiore, nella depressione, cerca la solitudine appena può; schiva la compagnia degli altri ufficiali: «a tavola sono noto per il religioso silenzio che serbo ininterrottamente, e per la mia remissiva modestia, in virtù della quale non ho mai alcuna opinione da sostenere [...] pur con grande scandalo dei miei commensali, me ne vengo a letto appena mangiato»24. Alla fine del ’15 il distacco si compie: il suo reparto si trasferisce in zona di guerra. Il tempo quotidiano comincia a incardinarsi in una nuova routine: la sveglia, le marce, l’arrivo della posta, i pasti intervallati dai canti, le esibizioni della fanfara del reggimento, il giuramento dei nuovi ufficiali, le lezioni di tecnica militare ai soldati, le visite e i discorsetti di qualche oratore occasionale («questo generale, che dirà due parole tanto per dir qualcosa, guarderà la compagnia senza nulla vedere... e se ne andrà a passo maestoso, superbo della sua missione utilissima...»)25. Sono riti e piccole cerimonie che accompagnano Piero dentro una nuova comunità di riferimento. È un processo graduale e tutt’altro che rettilineo, che lo obbliga a un continuo lavoro mentale su di sé: «vivo osservando me stesso, estraneo a me stesso, trepidando per me stesso»26. Quando piove per dei giorni passa «la maggior parte delle ore a pensare, a pensare, a pensare...»27. Nelle lettere ad Ada si dilunga in descrizioni minuziose dei luoghi, degli accampamenti, degli alloggi; scatta fotografie del paesaggio che ha intorno, disegna mappe della sua tenda, ricostruisce fedelmente ad ogni trasferimento il suo piccolo habitat personale, come per un bisogno di riconoscersi, di situarsi, di ricollocarsi con sicurezza all’interno di un contesto – naturale e so-

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ciale – che non padroneggia pienamente. Vive i momenti di solitudine come occasioni preziose per ritrovarsi. Dorme molto, quando può. Legge assiduamente. Intrattiene corrispondenza quotidiana con la fidanzata e i familiari. Continua ad apprezzare le passeggiate solitarie in mezzo ai boschi. Trova anzi nel contatto con la natura il canale per un dialogo sensoriale con se stesso: ancora nell’ottobre del ’16 si descrive «occupato soltanto a farmi riscaldare passivamente dal sole, abbandonando così all’autunno la mia persona smarrita e inerte»28. Un cambiamento più marcato si registra nel corso dell’estate del 1916. È una conseguenza della guerra che si fa più vicina, con l’offensiva austriaca in Trentino tra maggio e giugno. La Strafexpedition produce smottamenti, anche interiori. La necessità di ripiegare e mettersi in salvo impone un diverso ordine a pensieri e azioni. Si allentano le distanze, cresce la promiscuità. I soldati si avvicinano per sostenersi, condividono il reciproco calore per riscaldarsi: Ierinotte, sul Pasubio, ho dormito in una baracchina di legno, disteso in terra ravvolto in una coperta; ai miei due lati, stretti stretti per star più caldi, erano un ufficiale della mia compagnia, ed un soldato alpino: e sui miei piedi, sulle mie gambe, sulle mie braccia, erano appoggiati, seduti, semisdraiati tanti e tanti soldati infreddoliti, che non potevano passar fuori la notte per via della pioggia gelata e che chiedevano alla nostra baracca l’elemosina di un po’ d’ospitalità29.

Non c’è più spazio per la mediazione intellettuale con la realtà prodotta dalla guerra; ora Piero Calamandrei apprende direttamente con il corpo30. Le lettere ad Ada sono parche di dettagli sulla guerra guerreggiata, ma qualcosa lasciano filtrare di questa immersione e contaminazione corporale: le pulci, che la convivenza ravvicinata con la truppa ha depositato sulla sua persona; la «vita randagia» in tenda, che non consente isolamento, perché se è possibile chiudere gli occhi per tenere a distanza ciò che sta fuori non è possibile schermare i rumori e le voci che penetrano dall’esterno; la «assoluta prevalenza della parte fisica sulla parte spirituale (affaticarsi, e dormire per riposarsi: passar delle ore in marcia con una gran fame nello stomaco e pensare per tutte quelle ore alla voluttà di mangiare al ritorno...)»31; e, infine, la morte vista da

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vicino, i corpi squassati dei feriti che il suo reparto è incaricato di portar giù dal Pasubio, il riconoscere su una barella il volto di un compagno d’università. Calamandrei consegnerà solo a dei versi – scritti a caldo e rimasti inediti sino ad oggi – il ricordo della paura fisica provata nell’attesa della battaglia: «E poi? Staremo immoti / col cuore che più non batte / sotto il truce flagello, / chiedendo ad ogni schianto / perché si viva ancora. / Respireremo l’aria avvelenata / che rode il petto, che brucia / gli occhi (i miei occhi che ti hanno guardata / o mio lontano amore!)... / E poi? e poi? qual parte / della persona che tu mi facesti / sarà straziata, o mamma?»32. A guardar bene, questa poesia, come quelle più note dell’amico Piero Jahier, è un “canto di marcia”: racconta un andare personale e collettivo – Di rincalzo, coi territoriali, appunto – verso la battaglia, ma dice anche dello spostarsi mentale del suo autore, nel corso della guerra: anche il nostro Piero, «al termine della “marcia” [...] sarà un uomo completamente diverso»33. È in corrispondenza di questi eventi che comincia il suo personale percorso di ricomposizione, con se stesso e con la vita militare. Nel giugno 1916 è promosso tenente; nel novembre 1917 passerà al grado di capitano. Nel frattempo si è conquistato la stima dei superiori. Viene invitato sempre più spesso a svolgere mansioni “di concetto”: l’istruttore nei processi, il censore della corrispondenza, il consulente legale presso il comando di reggimento. Ne ricava qualche gratificazione: «seguito a star qui anche col nuovo colonnello, il quale mi chiama professore e non tenente: il che dimostra che anche Marte si inchina alla sapienza»34. È il segno che Piero Calamandrei comincia a trovare un suo posto in questa guerra. D’ora in poi, anche nei giudizi che esprime su colleghi e subalterni, l’acredine si scioglie e lascia spazio alla cordialità, come ad esprimere un senso di condivisione esistenziale nei confronti del «fatale vortice»35 che tutto travolge. Mi domandavi, nella tua di ieri l’altro, perché c’è la guerra... Son tanti mesi che me lo domando, e nessuno ha saputo ancora darmi una risposta. Forse la legge che presiede al mondo ha voluto che, come accanto alla luce del sole esiste la tenebra notturna, così vi fosse una co-

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sa orribile come la guerra per far meglio apprezzare agli uomini una cosa meravigliosa com’è l’amore...36

Le lettere ad Ada registrano l’alternanza di fiducia e scoraggiamento, la dialettica tra posizioni pubbliche e private che si svolge nel segreto della coscienza di Piero. Egli sente che la guerra è un fenomeno imprevedibile e ingovernabile. La convinzione iniziale – poi periodicamente ripetuta, per mesi – che essa sarebbe stata breve e risolutiva si rivela sempre più un’illusione. Anche lui sta in attesa che qualcosa accada e che “scoppi” la pace. I discorsi che si odono in ogni tenda, tra ufficiali e soldati, hanno quasi tutti lo stesso tema: la pace, o, se non la pace, almeno la licenza. Un mio soldato mi raccontava ieri che da quindici mesi non è stato a casa, e che non ha potuto conoscere una sua bambina nata due mesi dopo la sua partenza, la quale ha ora più di un anno... A guardarla da un punto di vista umanitario, la guerra è una cosa incredibilmente, assurdamente folle: non si riesce a capire come mai milioni di uomini ragionevoli consentano per anni a infliggersi reciprocamente così strazianti torture fisiche e morali...37

Ma Calamandrei non arriverà mai a proclamare l’insensatezza di quel conflitto. Di fronte alla «follia mondiale»38, si confonde, oscilla, ma non si perde. La tentazione che talvolta lo assale di abbandonarsi all’anestetizzazione della coscienza che la guerra-macchina produce, oppure di rifugiarsi a difesa del proprio io più privato – la «conservazione del mio avvenire, della mia felicità, della mia vita ch’è la vita tua, amore»39 – è rintuzzata quanto meno dal senso del dovere da compiere. Il ruolo che impersona davanti a se stesso, ai suoi soldati, alla sua cerchia di riconoscimento gli offre un sostegno: ha una faccia da salvare, una reputazione da difendere, una parte da recitare: «a te sola posso e voglio dirlo», scrive ad Ada, «sono stanco, stanco: moralmente, s’intende, non fisicamente... Ma faccio spesso dei discorsi ai soldati per dimostrare loro (e ci riesco) che essere stanchi è stupidaggine e cattiveria...»40. La scrittura, per lui, ha una funzione terapeutica41. Sono proprio le lettere ai familiari, agli amici, a Vamba, allo zio Cecco che lo aiutano a non perdere il filo del ragionamento politico, a preservare i legami con quel noi che aveva voluto la guerra e che con-

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tinuava a difenderne le ragioni. In quei carteggi – purtroppo oggi in gran parte scomparsi – è tutto un parlarsi in codice, e il codice è esso stesso il messaggio. Per intendersi, per rinsaldare il patto basta a volte un biglietto, con poche parole, come quelle che Piero scrive a Vamba il 13 marzo 1916: «Oltre il confine abbattuto, in vista di una Città aspettante che a primavera sarà, non più soltanto di cuore, italiana, Le invio memori affettuosi saluti». Una funzione analoga è svolta dalla lettura. Giornali, riviste, libri di diritto, di narrativa, di poesia. Calamandrei legge spesso e di tutto. Lo fa per trovare un rifugio, un’evasione dallo squallore in cui è precipitato; per rispondere a un bisogno di meditazione, di autoanalisi; per cercare parole capaci di dar conto di quell’esperienza inedita e sconvolgente. Ma qui, in questa guerra claustrofobica più che mai, la lettura non è solo un’esperienza individuale. C’è un movimento frenetico di libri, lungo il fronte, e tra il fronte ed il resto del paese. Sono gli ufficiali che li richiedono a casa e che se li scambiano tra loro. Tessono in questo modo, inconsapevolmente, una fitta rete di relazioni e di significati. Compongono – o, meglio, ricompongono – una comunità narrativa, segmento significativo di una classe e di una generazione, che condivide linguaggi, riferimenti culturali e orizzonti di senso. Riaffiora – negli appunti di lettura disseminati nell’epistolario e nella biblioteca di famiglia a Montepulciano, dove i libri di Piero sono tuttora conservati con l’annotazione della data e del luogo in cui furono letti – il mondo delle riviste d’anteguerra: Papini, Soffici, Serra, Maeterlinck, Panzini, Palazzeschi, D’Annunzio, Gozzano. Calamandrei continua a farsi mandare al fronte «La Voce» e «L’Unità». Ma legge anche Dante, san Francesco, Cicerone. Non è necessario che siano testi sulla guerra, perché – come scrive ad Ada – «la guerra si fa, ma non se ne può più sentir parlare»42, e i soldati hanno bisogno, piuttosto, di coltivare la nostalgia del tempo perduto e di tutto ciò che può ravvicinarli al lontano mondo della giovinezza e dell’amore. Dopo Caporetto, paradossalmente, sarà tutto più facile. Cambierà il segno – psicologico oltre che politico – del conflitto, da guerra di conquista a guerra di difesa, e questo renderà meno faticoso far coincidere ruolo pubblico e pensieri privati.

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3. Lettere d’amore Le lettere ad Ada non sono solo una fonte preziosa per indagare il percorso interiore di Piero Calamandrei attraverso la guerra. Sono innanzi tutto documento – e, anzi, sono in se stesse parte costitutiva – del farsi di una relazione amorosa che proprio negli anni del conflitto tocca tappe fondamentali, con il fidanzamento, il matrimonio e la nascita del primo figlio43. Una storia privata, quindi, che si incardina però in un contesto sociale e in un modello di relazione ben codificato – l’amore borghese negli anni di Belle Époque – ai quali la guerra darà una torsione non indifferente. Piero e Ada si erano conosciuti nell’estate del 1908, a Montepulciano. Ada, orfana di madre, era appena uscita dal collegio con la licenza magistrale; Piero aveva concluso il liceo e si era iscritto a Giurisprudenza a Pisa. Sin da allora, costretti spesso a stare in città diverse, attraverso le lettere avevano costruito il loro rapporto di coppia44. La guerra li risospinge lontani e riattiva il flusso della corrispondenza. Di questo ampio epistolario solo le lettere di Piero sono state conservate, probabilmente per una scelta consapevole di Ada, che dopo la morte di Piero fu attenta custode dell’archivio di famiglia. La posta è l’evento più atteso della giornata: consente alla coppia di riconnettersi per un momento, di continuare a condividere, seppure a distanza, il vissuto reciproco. Piero scrive lettere quotidiane ad Ada, e reclama da lei lo stesso trattamento; si lamenta della sua laconicità e la rimprovera quando lascia passar giorno senza neppure un biglietto. Il legame con Ada è fondamentale per la personalità di Piero: lo sarà per tutta la vita. In tempo di guerra ne ha un bisogno supplementare: rappresenta un’ancora affettiva nel momento in cui lui viene sbalzato fuori dai suoi abiti civili e fatica a trovare una collocazione sicura e gratificante nel nuovo contesto. La lettera di guerra è anche un rito, che serve a lenire l’inquietudine. Ada chiede descrizioni precise dei luoghi e della capanna dove Piero alloggia, per poterlo meglio immaginare. Piero fantastica di portarla «per mano per tutti i luoghi dai quali passo dalla mattina alla sera»45. Entrambi descrivono e ripetono la quotidianità con minime varianti di lettera in lettera: Piero, in particolare, vuol sapere come si svolge la vita a casa,

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ascoltare il reiterarsi, immutabile e rassicurante, delle routine familiari, rievocare episodi del comune passato, come forma di preservazione della memoria comune, manutenzione della casa di parole in cui abita la coppia. Le missive contengono a volte fotografie e disegni. Ada spedisce anche libri, indumenti, cibo, fiori. Gli oggetti – così come le lettere – vengono toccati, annusati, baciati, scrutati in profondità, come estensione e surrogato del corpo assente dell’amata. Subiscono un processo di sacralizzazione. Piero insiste a lungo con Ada per farsi mandare un suo ritratto, che poi incornicia con cura e trasforma in una sorta di altarino, «ch’è il più prezioso mobile della mia stanza» e sul quale non sopporta indugino sguardi profani; durante la ritirata del maggio 1916 di fronte alla Strafexpedition se lo porterà addosso, sopra il cuore, come un talismano46. È un rapporto profondamente passionale, quello tra Ada Cocci e Piero Calamandrei. Le licenze consentono di riannodarlo anche sul piano corporeo. Vedersi, abbracciarsi, accarezzarsi, baciarsi, mordersi: l’epistolario contiene naturalmente tutto il repertorio del discorso amoroso. Agisce però, in questi passaggi più che altrove, un filtro letterario – quello della letteratura erotica dell’epoca, alta e bassa, Gabriele D’Annunzio e Guido Da Verona – che stereotipizza e depotenzia l’espressività. La censura di guerra, inoltre, non incoraggia la confidenza. E la mancanza delle lettere di Ada permette di seguire solo a metà un dialogo che dalle licenze si prolunga a distanza, spesso per accenni e messaggi cifrati. I sei mesi di licenza tra il ’16 e il ’17 consentono a Piero di sposarsi e di sperimentare la convivenza con Ada. La successiva separazione non interrompe il bisogno reciproco non solo di rievocare quei momenti, ma anche di continuare con le parole un processo non concluso di scoperta di sé, dell’altro e della «scienza d’amore che ci siamo a vicenda insegnati»47. «Fin dall’antichità, chiunque abbia avuto esperienza di guerra e d’amore si è reso conto che tra i due esiste un curioso rapporto»: la guerra – spiega Paul Fussell – provocherebbe un rigoglio di attività sessuale dietro le linee, quasi la contropartita della carneficina che avviene al fronte48. E allora non è un caso che Piero si decida a sposarsi proprio nel momento in cui conosce il vero volto della battaglia, nella tarda primavera del ’16, cioè quando

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sente la morte possibile e vicina e comincia a disperare in un esito rapido del conflitto. Il matrimonio gli serve anche a rinsaldare un’identità individuale, fisica e corporale, percepita al massimo della precarietà. La guerra – e questa in particolare – è sessualmente perturbante anche per altre ragioni: attesa da una generazione di giovani maschi come una prova di virilità, essa si rivela un’esperienza molto più complicata da gestire. Costringe all’immobilità, all’obbedienza, alla deferenza, all’astinenza, all’attesa, all’anonimato: finisce per assimilare i soldati a quella che era stata sino allora – almeno nell’immaginario degli uomini – una condizione tipicamente femminile49. Se ne accorge Calamandrei, a modo suo: «Dicono che la guerra rende, fisicamente e moralmente, più maschiamente rudi e insensibili: io trovo in me, invece, almeno per quello che riguarda il morale, che ogni giorno che passa di questa vita assurda l’anima mia diventa sempre più scoperta, quasi femminilmente, ad ogni stimolo di intenerimento e più schiva da ogni proposito di rassegnazione»50. Per contro le donne, rimaste a casa, possono godere di una libertà mai prima sperimentata: sostituiscono gli uomini nei posti di lavoro, sostengono da sole il peso della famiglia, sfuggono al controllo diretto di padri, fratelli, mariti e fidanzati. Tutto ciò non fa che destabilizzare ulteriormente l’identità maschile. Sempre nell’estate del ’16, Piero lascia affiorare questa inquietudine, ma la proietta fuori di sé: «Stanotte ho dormito in una camera abbastanza comoda», scrive ad Ada da Schio: Era una camera matrimoniale, che, per l’occasione, aveva trasformato il suo grande letto in due lettini gemelli: in uno ho dormito io, nell’altro il mio attendente. La camera appartiene alla padrona di casa, una sposina giovane che ha il marito al fronte: ma iersera non mi riusciva di addormentarmi, perché nel salottino accanto alla camera questa sposina ed una sua sorella facevano una rumorosissima conversazione, con quella garrula loquacità ch’è propria delle donne venete, con due soldati d’artiglieria che stavano lì a veglia. Niente di male: ma pensavo al marito al fronte...51

Anche per questo Piero Calamandrei soffre la lontananza da Ada. Ada è sola, la madre è morta da tempo, il padre nel 1911; vi-

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cino a sé ha solo una vecchia nonna, a Prato, e uno zio, a Montepulciano; fa la maestra, ma non è ancora di ruolo, quindi si sposta di scuola in scuola, dove si libera qualche posto. A Piero questa mobilità della fidanzata non dà pace; le scrive con apprensione già ai primi di novembre del ’15: «anche l’anno scorso fui di questa opinione: di non lasciarti andare a far la maestra in qualche borgo sperduto di campagna, dove la vita può riuscire sopportabile soltanto a chi abbia quella energia o quella insensibilità che tu, fortunatamente, non hai»52. Non vede di buon occhio le pur rare trasferte di Ada, invitata dalle amiche a passare qualche giorno in altre città. Non sopporta, in particolare, che la ragazza frequenti le cugine di Montepulciano, Lidia e Clelia, figlie di Nicola Cocci, medico condotto, nonché ipnotista, libero pensatore e socialista: sono due giovani donne, laureate, emancipate, che ai suoi occhi si intromettono indebitamente nel loro rapporto ed esercitano sulla più giovane cugina una cattiva influenza. «Odio Montepulciano», si sfoga Piero quando la sa loro ospite, e le chiede di tornar piuttosto dalla nonna53. Pochi mesi dopo l’arruolamento, durante una breve licenza, Piero ottiene il fidanzamento ufficiale. Ada entra così nell’orbita di casa Calamandrei. «Se la Mamma ti dice di andare con lei a trovare la mia Nonna e tutto il contorno, non dire di no», si raccomanda Piero nella prima lettera che le scrive appena rientrato al fronte54. Ada alloggia presso una signora a Prato, ma passa tutte le domeniche a pranzo con Rodolfo, Laudomia ed Egidia, sedendo al posto che era stato di Piero; poi con la nuova famiglia fa la rituale passeggiata pomeridiana; con Egidia si confida e con Laudomia va a far compere. «A Firenze sei in casa nostra. Puoi andare dove vuoi, e non mi dispiace», le scrive a questo punto Piero, acconsentendo alla richiesta di Ada di andare a teatro55. Dopo il matrimonio, il 10 dicembre 1916, e un periodo di vita coniugale passato a Messina, dove Piero tiene per qualche mese la cattedra di diritto processuale, Ada va a vivere nella casa dei Calamandrei. Questa collocazione le sta stretta, ne soffre, preferirebbe avere già una casa propria dove aspettare il ritorno del marito dalla guerra. Anche per questo odia il conflitto e non sopporta che Piero le manifesti le sue ragioni patriottiche e non metta a frutto le possibilità di farsi congedare: subito dopo le nozze

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è rimasta incinta, il 21 settembre 1917 nascerà il loro bambino, Franco. Ada è il centro della vita affettiva di Piero. Lui ne è geloso. Soffrirà anche dell’arrivo di Franco, faticando a ricollocarsi nella veste di padre, oltre che di marito. Nelle sue lettere Piero riferisce più volte con ironia o con fastidio le vanterie amorose di molti suoi colleghi. A loro oppone quella che definisce la sua teoria sentimentale: «che, nella vita, un solo bene conta, un solo scopo esiste, una sola felicità attrae, una sola necessità impera: l’amore, l’amore unico, in cui la festa sensuale è nobilitata dall’anima e la comunione spirituale è vivificata dal senso»56. È straordinariamente rivelatore questo nesso che si viene a creare tra sfera pubblica e sfera privata, tra teorie sentimentali e discorsi patriottici, in tempo di guerra. Piero professa spesso il suo grande amore per Ada, che definisce «ragione scopo e sostanza della mia vita». Ma non accetta che questo possa intaccare il senso di un dovere civico da compiere. Così le spiega, in una lettera del 14 marzo 1916: Dolce amore mio, io conosco l’anima tua assai più di quanto tu credi, e so qual è il tuo stato d’animo a proposito della mia condizione presente. Fin da quei primi giorni nei quali tu non potevi senza piangere vedermi vestito da militare, ho compreso perfettamente (e ho compreso perché anch’io, se le nostre parti fossero state invertite, avrei sentito così) che tu, in tutto ciò che sapeva di guerra e di patria in questo momento, vedevi un attentato e un pericolo per la nostra unica felicità: e ti è potuto sembrare talvolta, quando hai capito ch’io non intendevo sottrarmi all’elementare dovere di ogni italiano e che partecipavo anch’io, non solo colla persona ma anche col cuore, a questo rinnovamento spirituale del nostro popolo in armi, ch’io peccassi di indifferenza e d’oblio verso il nostro amore ch’è l’unico nostro bene, ch’io rubassi per un’altra meta l’anima mia alla nostra unica meta. Amore, tu non hai inteso, invece, e non intendi come questa forzata lontananza – la più gran parte della quale è forse già trascorsa, come questa possibilità di rischi che pure incombe anche su di me, abbiano fatto in modo quasi religioso risplendere nel mio cuore la fiamma pura del mio santo amore lontano, e com’io possa serenamente –, quasi giocondamente continuar questa vita di privazioni, soltanto perché mai come ora ho sentito vicino a me il soffio animatore della tua tenerezza, la comunione di spiriti che quassù, tanto lontano da te, l’amore

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di te mi concede. Io non saprei, Adina, sentirmi quassù lieto e fiero di quello che faccio, se non avessi dentro di me la coscienza di quello che al ritorno mi attende, la coscienza degli immensi beni che porto con me in pericolo e porterò con me a salvazione; e d’altra parte, Adina, io non saprei, ora, volerti l’infinito bene che ti voglio se non fossi anch’io quassù, al mio posto, a esperimentare ogni giorno che i più grandi e più nobili sentimenti dell’animo mio si fondono nel tuo amore e in esso si illuminano e si integrano. Ma, ripeto, tu forse queste cose non vuoi capirle: e neanch’io, sai, vorrei capirle se fossi al tuo posto, nella trepidante attesa che cumula le ansie e non ammette conforti. E io, sai, tanto comprendo l’anima tua, che sempre ho evitato di farti, per dir così, “discorsi patriottici”, di darti l’impressione, errata ma naturale, di sottrarmi a te verso altra passione, di mettere in seconda linea l’amor tuo, ch’è invece ragione scopo e sostanza della mia vita.

È un raffinato sistema discorsivo – che viene in realtà da lontano, anch’esso portato alla Prima guerra mondiale sull’onda delle memorie risorgimentali – nel quale «famiglia e nazione sembrano costituire l’ordito e la trama di uno stesso tessuto»57. Calamandrei, rivolgendosi alla sua donna, innanzi tutto distingue i rispettivi ambiti e ruoli, ma distinguendo gerarchizza, e gerarchizzando integra. Ada è considerata naturaliter impolitica; è fidanzata e moglie, ma non è “compagna”; con lei non c’è il minimo spazio di dialogo e di condivisione delle ragioni ideali con cui lui sta affrontando la guerra. Ada viene anzi infantilizzata da Piero, il quale cerca di limitarne gli ambiti di autonomia extradomestica, le chiede di restare «la mia povera bambina»58 e – al più – di fargli da segretaria svolgendo «qualche commissioncella»59. Si rasserena solo quando la sa al sicuro nella casa paterna. In ultima istanza – spiega Calamandrei – è per preservare la purezza e pienezza ideale del vincolo familiare, per consentire a sé e ad Ada di godere in futuro della loro privatissima felicità, che la guerra trova la sua giustificazione. Questa argomentazione non resta confinata nella sfera privata, ma è l’asse portante del discorso pubblico che Calamandrei rivolgerà ai soldati quando sarà chiamato a spiegare le ragioni del conflitto. È per difendere l’onore delle donne e l’integrità dei bambini che chiede loro di rinnovare il vincolo di fedeltà alla patria e all’esercito. «Chi non ama la sua casa non può comprendere come sia grande e santa in questi momenti la necessità di star-

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ne lontano», spiega all’uditorio radunato per l’inaugurazione di una Casa del Soldato a Borghetto, in Val Lagarina, nell’estate del ’18. E prosegue con queste parole: Io so, venendo qui ogni sera, che cosa scriverai a casa tua; mi par di leggere fin d’ora il principio di qualcuna di quelle tue lettere così semplici e così inesperte, e pure così profumate di meravigliosa gentilezza: «Mia cara sposa, ti scrivo queste poche parole per dirti che io sto bene e che passo le giornate pensando a te e ai nostri cari figlioli; e se la guerra è lunga, è perché bisogna una volta per sempre ricacciare nelle loro tane questi birbanti che tagliano le mani ai bimbi; che se io sono lontano è perché devo stare al mio posto a difendere l’Italia che poi l’Italia sareste tu e i nostri bambini, perché l’Italia non è altro che la riunione di tutte le nostre famiglie»60.

4. Etnologo in sidecar In guerra Calamandrei affina la sua capacità di osservare e descrivere situazioni, tipi umani, stati d’animo collettivi. Le lettere ad Ada possono essere lette anche come un diario di viaggio, ove l’intento principale è quello di annotare. Sappiamo così che il loro autore cammina in montagna, perlustra villaggi, sosta nei boschi, osserva la natura; incontra persone, pone loro domande, ma anche ascolta le voci anonime che corrono tra la truppa; legge carte topografiche, traccia mappe e disegni, scatta fotografie. Raccomanda ad Ada di conservare le pellicole che le spedisce, per farne «al mio ritorno una raccolta di guerra memorabile»61. La guerra di Piero è effettivamente un viaggio di esplorazione in un’Italia sconosciuta. Nella sua geografia, innanzi tutto. Arrivato al fronte, scopre l’ambiente aspro e fascinoso dell’alta montagna, una natura estrema, romantica, molto diversa dalla collina toscana dolce e antropizzata cui è abituato: «Tu non puoi imaginare, Adina, che cosa è stata di fantastico questa marcia fatta in montagna sotto la nevicata, per una strada serpeggiante tra cime tagliate a picco e tra spaventosi abissi, attraverso paesi disabitati, ove dalle loggette di legno non si vede affacciarsi altro che qualche testa barbuta di soldato»62. I paesi dell’alto vicentino sono descritti con senso di stupore e

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di scoperta. Il paesaggio veneto non gli è familiare: cadenze, abbigliamento, attrezzi d’uso quotidiano lo incuriosiscono. L’ospitalità presso le abitazioni dei paesani lo mette a contatto con persone gentili e carezzevoli, ma «parlanti un linguaggio quasi incomprensibile, per il quale bisogna ripeterci le cose tre o quattro volte prima di intendersi»63. Anche la campana al suo orecchio suona «meccanicamente, malamente, senza la dolcezza e la grazia dei doppi toscani»64. Il vago esotismo dei luoghi gli fa assumere a volte un’aria da turista («la guerra, a parte certi inevitabili inconvenienti, non è che una prolungata villeggiatura»65, scrive a casa); ma l’incanto convive con ombre perturbanti: Ogni sabato la popolazione di questi paesi sgombrati – la quale è tutta raccolta nei paesi della zona meno avanzata – ha il permesso di tornare alle proprie abitazioni, per dare un’occhiata di qualche ora ai nidi abbandonati e invasi: e stamani, quand’ho aperto la finestra, ho avuto la sorpresa di udire, tra le casette del borgo, voci di donne e di bambini, quasi ad annunziare che la guerra è finita. Il padrone della mia casa è venuto qui pieno di rispetto; mi ha detto che ha due fii tutt’e due alla guerra: nelle file austriache. E non son riuscito a capire qual’era il suo cuore verso di noi, verso di me: se di fraternità grata per la redenzione, o di odio ben dissimulato in un sorriso ambiguo...66

In effetti, oltre confine, nei lembi strappati agli austriaci nella primavera del ’16, comincia un territorio trentino insidioso e indecifrabile: «Non c’è, quassù, una vetta che non abbia la sua chiesina e il suo campanile: e c’è la voce che sian tutti segnali fatti erigere durante molti decenni dagli Austriaci, per poi aver in guerra punti di riferimento per dirigere l’artiglieria»67. Quando arriverà a Bolzano, al termine della guerra, più che mai Calamandrei si sentirà esploratore in missione coloniale. Annoterà in un taccuino: Con Callaini siamo andati a fare una prima recognizione in Bolzano. Dal tram abbiamo veduto passare un bel signore lungo lungo e secco secco, con un giubbettino cortissimo di velluto nero a risvolti verdi, col colletto della camicia bianco rovesciato sopra la giubba, con un cappello a tegamino di feltro verdastro guarnito posteriormente di uno spennacchio. Occhiali, barba, una enorme pipa di maiolica e un’aria

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perfettamente idiota completano il tipo. Scoppiamo in una gran risata. Callaini dice: «Se potessimo portarlo vivo a Firenze!»68.

C’è poi la scoperta della truppa, cioè del suo popolo in armi. Delle classi popolari Calamandrei aveva avuto fino allora una conoscenza ristretta e stereotipata, forse l’unica possibile, a quel tempo, per il figlio di un avvocato fiorentino. Sul «Giornalino della domenica», nel suo primo reportage scritto a seguito di un viaggio premio in Tunisia, aveva confrontato il nitore e la compostezza che vedeva negli ambienti e nelle persone di laggiù con le «affumicate e rumorose bettole piene di ebbri» e i bambini dai visi sudici e dai vestiti gualciti che «ad ogni passo avviene d’incontrare nei nostri rioni popolari»69. In un altro racconto di invenzione aveva narrato l’incontro tra una bambina scappata alla governante, uscita dal parco e avventuratasi da sola in mezzo ai campi, e un arcadico pastorello: «Bruno egli era, com’ella era assai bionda, e, com’ella adornata, ei seminudo; com’ella scarna sotto le sue trine, egli volgeva al sol la faccia tonda ov’erano i capelli unico scudo»70. Mettendo in scena un dialogo tra due coetanei che letteralmente non si comprendono, aveva rappresentato due ambienti sociali prossimi ma non comunicanti: un incontro impossibile, che si concludeva infatti con l’arrivo della governante che ripristinava l’ordine e riportava a casa la bambina. Non che al giovane Piero fosse mancata la curiosità per quel mondo popolare che occasionalmente occhieggiava, affascinato e intimorito insieme. Negli anni del liceo si era addirittura spinto dentro la Camera del lavoro («una sala lunga e stretta, a budello, che pareva, non so perché, una sala da club della rivoluzione francese»)71 per ascoltare – pigiato tra la folla – Salvemini parlare del suffragio universale, compiacendosi della capacità dell’oratore di aver rimesso al suo posto con una battuta un operaio anarchico che lo contestava. A Montepulciano andava ogni estate, nella casa di campagna, e certo interloquiva con i contadini e i loro figli, ma sempre protetto e schermato dalla sua condizione di benestante in villeggiatura. La guerra lo costringe ad una immersione più profonda e prolungata. I privilegi dell’ufficiale non sono un bozzolo sufficiente a schermare del tutto la realtà. I soldati entrano a poco a poco nel suo campo di osservazione, prima come individui un po’ curiosi e

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pittoreschi – gli attendenti, cui dedica fulminei ritratti, ironici e bonari – poi come massa di cui impara a riconoscere una soggettività. È un avvicinamento lento, obliquo. Ascolta di nascosto i discorsi che i suoi militari fanno fuori dalle tende: «parlavano della guerra, con quell’accento astioso che questi romagnoli hanno sempre quando ne parlano, come se la colpa di essa fosse nostra. Uno diceva: “Hanno preso Gorizia? Vuol dire aver fatto ammazzare migliaia e migliaia di soldati per prenderla. Ecco il guadagno...”»72. Poi ha accesso ad un osservatorio più ampio, quando viene chiamato presso il comando del reggimento come ufficiale istruttore e censore, per seguire le inchieste a carico dei militari accusati di qualche reato e la revisione della corrispondenza: può leggere le lettere, condurre indagini, porre domande. Infine, da avvocato nei tribunali di guerra raggiunge il massimo grado di osservazione partecipante rispetto alle ragioni di sprovveduti, fuggitivi e disertori. Prende piena coscienza che esiste un’altra guerra, subita e non voluta, portata avanti dai più oscillando tra rassegnazione e rivolta. Il primo processo cui partecipa da difensore sarà ricordato da Calamandrei, quarant’anni dopo, come la scena in cui si erano fronteggiate, ancora senza riuscire a comunicare, due Italie antropologicamente diverse. Arrivai a un ampio spiazzato erboso in mezzo agli abeti, scelto per tenervi il processo. Intorno c’erano già, disposti in un grande quadrato, i reparti dei vari reggimenti a riposo in quella zona, comandati ad assistere alla cerimonia. Al centro del prato un banco di assi messe su alla meglio e una panca lunga per i giudici: gli otto imputati erano già lì, in attesa, tenuti al guinzaglio per i polsi da un’unica catenella: il picchetto di dodici carabinieri armati di moschetto era già pronto per la esecuzione; al loro fianco il cappellano, colla croce rossa sulla divisa grigioverde. Potei scambiare appena qualche parola cogli otto imputati: erano tutti meridionali, quasi tutti di classe anziana. Parevano distaccati ed estranei, come se non capissero la parte di primo piano assegnata loro nello spettacolo. Quando dissi che ero il loro difensore, restarono indifferenti: ero anch’io un ufficiale come tutti gli altri73.

Nell’aprile del 1918 Calamandrei accoglie con entusiasmo l’offerta di abbandonare istruttorie e processi per entrare nel

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Servizio P e dedicarsi a tempo pieno a «vigilare e assistere l’anima dei nostri soldati»74. Si dota di un velocissimo sidecar: nel giro di nove mesi batte palmo a palmo la val Lagarina, frequenta decine di reparti, parla con migliaia di persone. Dove non riesce ad arrivare da solo lo fa attraverso una piccola squadra di attivisti – gli ufficiali di collegamento P –, i quali a loro volta si appoggiano ad una rete più ampia di informatori, veri e propri mediatori culturali. Calamandrei riferisce ogni quindici giorni ai superiori; i rapporti che scrive sono documenti densi di cose viste e ascoltate, un ibrido tra le relazioni di polizia, le visite pastorali e i resoconti etnografici. Sotto la lente c’è la massa dei combattenti, un organismo collettivo che deve essere nella giusta misura mobilitato e contenuto, ma di cui Piero e i suoi pari grado sanno di non avere il pieno controllo, né la piena comprensione. Gli riservano perciò uno sguardo paterno, ma anche indagatore, particolarmente diffidente nei mesi di incertezza che vanno da Caporetto alla battaglia del Solstizio. Vedono “rosso” e vedono “nero” – il pericolo socialista e quello clericale, ovvero gli opposti estremismi antinazionali – ad ogni minimo movimento tra la truppa. Chiamano alla vigilanza in vista del 1° Maggio. Vigilano sulla circolazione di simboli sovversivi e fogli pacifisti tra i soldati. Chiedono di controllare gli autisti e coloro che hanno rapporti con la Svizzera, poiché «potrebbero aver ricevuto o ricevere suggestive disfattiste [sic] da elementi rivoluzionari svizzeri»75. Temono soprattutto le fraternizzazioni con il nemico, che gli austriaci solleciterebbero ad arte attraverso corpi scelti presenti in ogni brigata, addestrati a «entrare in contatto con le nostre truppe, infondervi idee rivoluzionarie e deprimere così lo spirito combattivo»76. La guerra apre le cataratte dell’immaginario collettivo: il grande conflitto partorito dalla più avanzata modernità rivela un’oscura anima religiosa; genera miti, devozioni, superstizioni, o almeno li fa affiorare dagli strati profondi della cultura popolare77. L’illuminista Calamandrei osserva queste cose a volte con divertita curiosità, a volte con allarmato sgomento. Le manifestazioni che più fanno paura, perché impalpabili e incontrollabili, sono le impennate della religiosità popolare. Nel mese di maggio in molte parti d’Italia si segnalano apparizioni miracolose che annunciano una pace prossima: un soldato tornato dalla licenza raccon-

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ta che una santa veggente del suo paese la predice per il 28 maggio, giorno in cui sarebbe morta. A luglio una preghiera inneggiante alla fine della guerra si diffonde tra le truppe come una “catena di sant’Antonio”: promette che chi assolve il compito avrà grazia, e chi lo trascura sarà punito. Lungo le linee vengono rinvenuti dei volantini austriaci che prevedono la pace per il 15 agosto, giorno dell’Immacolata Concezione di Maria. Calamandrei commenta: «è il solito sistema di sfruttare il sentimento religioso dei soldati e della popolazione a scopo di disfattismo», e chiede ai cappellani militari di intervenire, spiegare, rassicurare78. Le false notizie in tempo di guerra sono fenomeni quasi sempre spontanei, che si accendono per autocombustione, catalizzando paure e desideri che allignano nella mente dei soldati. Nascono per lo più da fantastiche interpretazioni di fatti che hanno tutt’altro significato e si diffondono di bocca in bocca nelle retrovie, nelle tradotte, nelle salmerie, lungo le vie di comunicazione79. Calamandrei li spiega ai superiori così: Mai come nei periodi di attesa, simili a quello che attraversiamo, si diffondono con più celerità e con più insistenza i “telegrammi del fante”, nati non già da criminosa intenzione di diffondere voci deprimenti ma da quel naturale e ingenuo desiderio di espansione ciarliera per il quale i nostri soldati sono tratti, pur di interessare il compagno coi loro discorsi, a esagerare e a colorire. Anche qui negli abitati di fondo valle, è corsa la voce che gli austriaci abbiano già sgombrato Udine; una diecina di giorni fa si era sparsa su qualche tratto della nostra linea (specialmente su quello tenuto dalla Brigata Pistoia) la voce che i nemici avessero sgombrato le trincee antistanti; bastò a smentire la diceria l’accoglienza a bombe a mano fatta dai nemici a qualche nostra pattuglia che si spinse fino ai reticolati avversari per verificare se le trincee fossero ancora occupate80.

Dopo Caporetto, sono soprattutto i militari delle terre invase – friulani e veneti – il grande oggetto misterioso per i comandi militari. Gravati da una doppia e incerta fedeltà, vengono percepiti come oscuro, potenziale nemico interno su cui concentrare gli sforzi di vigilanza e prevenzione81. La diffidenza è reciproca. Una strana idea – annota Calamandrei per i superiori – sarebbe «annidata nel cervello di alcuni profughi: certamente deve essere frut-

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to di una manovra nemica. Il nostro Governo, cioè, cestinerebbe la corrispondenza delle terre invase per non far sapere che gli austriaci non trattano male i contadini veneti»82. I soldati sospettano che la ritirata di Caporetto sia il frutto di un infame mercimonio compiuto dalle classi dirigenti sulle loro teste: gira la voce che gli austriaci, giunti sul Piave, avrebbero rivolto agli italiani questo rimprovero: «vigliacchi, avete venduto le terre fino al Po, e ci impedite di passare il Piave!»83. Su questo immaginario collettivo così destabilizzato notizie contraddittorie si inseguono e si smentiscono: quella che vorrebbe i militari delle terre invase subito ritratti in seconda linea per timore di una fuga in massa verso casa non fa che alimentare il corto circuito del sospetto e della reciproca delegittimazione. La guerra patriottica è anche una sorda e strisciante guerra civile: l’ufficiale di collegamento di un raggruppamento di artiglieria scrive a Calamandrei che i soldati profughi tendono a «considerare se stessi quasi più legati alla causa dell’Austria che non a quella dell’Italia. A molti di essi torna più facile considerare la nostra guerra come un’ostilità verso le loro terre che non come uno sforzo per riscattarle da un dominio esecrando»84. E sono convinti che se non passeranno al nemico, saranno considerati come disertori dagli austriaci che si trovano nelle loro terre, e come tali avranno i beni confiscati. Calamandrei imparerà presto che, per le folle, il panico è parente stretto dell’entusiasmo e che una falsa notizia può certo paralizzare un esercito, ma anche sprigionare una straordinaria forza propulsiva. Quando, dopo la battaglia del Solstizio, voci incontrollate amplificheranno l’eco della battuta d’arresto degli austriaci sul Piave e racconteranno della – falsa – rioccupazione di Conegliano e di Sacile e di – inesistenti – cinquemila nemici fatti prigionieri, egli capirà essere giunto il momento di far leva proprio sui militari delle terre invase i quali, soggetti allo scoramento in fase difensiva, sarebbero stati «d’assai superiori ai loro compagni per slancio e per impeto offensivo il giorno in cui potessero essere scatenati alla riconquista delle loro case»85.

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5. Educazione militare, educazione nazionale In guerra non basta controllare, reprimere, zittire. Bisogna saper anche organizzare le voci, modulare le parole, costruire il consenso. Quale miglior mezzo, ad esempio, per prevenire la circolazione di canzoni disfattiste tra i soldati che organizzare un sistema istituzionale di cori e proporre un repertorio musicale controllato e disciplinato? Nel settembre del 1918 il Capo Centro P Piero Calamandrei chiede ai suoi di dare una mano al «nostro confratello» Piero Jahier che sta raccogliendo i Canti dei soldati; e spiega come fare: «si tratta, ogni qualvolta si ode qualche soldato che canta, di annotare le parole della sua canzone, nella forma precisa, magari dialettale, magari spropositata, in cui esse vengono pronunciate; se chi annota conosce anche la musica, può insieme colle parole, prendere appunto anche del canto»86. Qui l’etnografico trascolora nel politico. Attraverso operazioni come queste, la memoria della guerra comincia ad essere costruita nel pieno dell’evento. Nel Servizio P Calamandrei dà il meglio di sé87. Ritrova ciò che aveva lasciato a Firenze: un lavoro intellettuale, un ruolo socialmente riconosciuto e delle motivazioni a fare la guerra. Ma in gran parte si scopre ex novo, come forse non si era immaginato di poter essere. La guerra gli ha fin qui rivelato le sue doti di oratore – la capacità di commuovere l’uditorio aveva stupito innanzi tutto se stesso: «ho scoperto in me una eloquenza che non sapevo di avere»88, confida ad Ada già nel ’15 – e di avvocato, di osservatore e di cronista. Ora fa sbocciare l’organizzatore culturale: tenere collegamenti, far lavorare il gruppo, motivare i collaboratori, inventare forme nuove di comunicazione. All’orizzonte si intravede il futuro direttore del «Ponte»; ma voltandosi indietro non è difficile riconoscere l’impronta di Vamba, del «Giornalino della domenica» e delle altre riviste fiorentine d’anteguerra, militanti e interventiste, di cui il giovane Calamandrei era stato lettore. Non è un caso che dopo Caporetto si trovino quasi tutti lì – nel Servizio Propaganda – gli intellettuali che erano stati l’anima di quella stagione89. Da Salvemini Piero trae la precisione, il concretismo, il metodo di lavoro che propone ai suoi collaboratori: «Niente retorica, niente verbosità burocratica, niente apprezzamenti: fatti circo-

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stanziati, obiettivi esatti minuti. [...] Soprattutto, sostanza non forma; fatti non parole; essere più che parere»90. Da Vamba, l’attitudine a trattare con il “popolo bambino”91, le strategie pedagogiche capaci di convincere e commuovere, e una rete di relazioni già ben collaudata. È proprio in quell’ambiente che, appena nominato responsabile della Sottosezione P del XXIX Corpo d’Armata, Calamandrei cerca i suoi primi collaboratori. Gli serve un disegnatore, e chiede ad Ada di metterlo in contatto – tramite Vamba o l’editore Bemporad – con Filiberto Scarpelli, il più brillante illustratore del «Giornalino», che era stato pochi anni prima anche il capo virtuale dell’esercito di bambini che aveva giocato a fare la guerra. Scrive, sempre alla moglie: «Oggi andrò di nuovo in giro, forse in sidecar, nelle vicinanze: ho saputo che qui vicino deve trovarsi, ufficiale, quel [Vittorio] Podrecca che dirigeva la rivista Primavera e che ha istituito a Roma il Teatro dei Piccoli: e voglio andare a conferire con lui, per metter su anche qui un teatrino di burattini per i soldati»92. Lo manda subito a Roma a recuperare tre teatrini mobili che a fine maggio cominceranno a girare per il fronte, riscuotendo «successo assoluto»93. Il repertorio da principio è quello tradizionale, ma Calamandrei si premura di associare al divertimento anche una qualche forma di propaganda: per ottener ciò – scrive ai superiori – occorrerebbe un certo tirocinio dei burattinai (per fare assimilar loro quella speciale comicità di guerra, quello speciale gergo burlesco dei militari che avrebbe certamente fra le truppe una immediata rispondenza) e soprattutto il lavoro di persona intelligente che componesse le trame a oggetto militare dalle quali i burattinai dovrebbero poi trarre i loro dialoghi94.

Dopo alcuni mesi si convincerà che proprio il linguaggio delle immagini – giornali illustrati, manifesti murali, cartoline umoristiche, semplici fotografie di prigionieri italiani rimpatriati dagli austriaci laceri, affamati, macilenti – è il più efficace per raggiungere la truppa95. Intanto, suggerisce ai suoi di organizzare nei reparti gare di ginnastica e partite di pallone, tutte attività che «mentre costituiscono un ottimo passatempo servono egregiamente all’addestramento fisico del soldato»96. Promuove la diffusione di cori, biblioteche e scuole per soldati analfabeti. Propone di istituire un Notiziario del valore e della bontà che dia ri-

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salto «a quegli atti di valore, di beneficenza, di cameratismo che sono così frequenti fra i nostri soldati e che, se venissero divulgati a titolo di lode, ecciterebbero singolarmente lo spirito di emulazione»97. Come un vescovo ai suoi parroci, sollecita una cura d’anime assidua, puntuale, individualizzata. Raccomanda di andare anche negli ospedali da campo a visitare di persona i malati, senza trascurare i punti di ristoro, le Case del Soldato, i reparti delle retrovie, le salmerie e i battaglioni complementari («punto di afflusso di correnti spesso sospette provenienti dall’interno») affinché «nessun reparto, per quanto piccolo, possa sfuggire alla nostra opera di assistenza, propaganda e vigilanza»98. In ogni reparto è poi necessario stare in contatto con le commissioni di censura, per individuare e far fronte ai casi di stanchezza e scoraggiamento dei singoli dovuti a particolari situazioni familiari e individuali. Ed è indispensabile avere ufficiali e soldati di fiducia che siano corrispondenti dell’Ufficio P: tra questi, i più importanti saranno il cappellano e l’ufficiale medico. Le istruzioni di Calamandrei sono minuziose, l’attenzione ai dettagli quasi maniacale. Egli spiega che i giovanissimi ufficiali di complemento appena mandati al fronte vanno accolti ad uno ad uno e istruiti «sul modo di trattare i soldati e di farsi amare da essi»99; che i materiali di propaganda vanno consegnati loro personalmente, e che poi è necessario tornare da ciascuno per accertarsi di quali siano stati gli effetti della lettura. Calamandrei è convinto che se ci sono reparti che hanno pochissimi disertori, è perché lì esiste un ufficiale subalterno capace di parlare e di stabilire legami di affetto con la truppa: alla massa dei soldati manca forse il senso del dovere, ma non manca la capacità affettiva. Per questo consiglia che prima di concedere le licenze sia necessario parlare e far parlare ai militari da chi è loro più vicino, rafforzare i legami di cameratismo, e poi scrivere alle loro famiglie, per esercitare su entrambi una suggestione morale che scoraggi l’umana tentazione di ritardare il rientro in linea e cadere così nel reato di diserzione. È un rovesciamento rispetto al cadornismo dei primi anni di guerra. Laddove in precedenza si era tentato di separare l’esercito dalla società civile, ora quei legami vengono messi a frutto. Quando viene chiamato a celebrare l’omaggio recato ai combattenti da un comitato civile, Calamandrei esordisce con queste parole:

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Se a ciascuno di questi soldati qui convenuti da tutto il 29° Corpo d’A[rmata] a ricevere il meritato premio voi domandaste, o gentili donatori, qual’è l’ora di tutta la sua giornata che il fante nella sua trincea o l’artigliere nel suo ricovero stimano la più desiderabile e la più dolce, certo ciascuno di questi soldati vi risponderebbe in modo concorde che l’ora più dolce è quella in cui arriva la posta. Bisogna aver veduto, per comprendere ciò, l’ansia febbrile che passa nella trincea quando il caposquadra, dietro un muretto di sacchetti a terra, fa l’adunata dei suoi uomini per scompartire fra loro le preziose lettere dall’indirizzo sgrammaticato: una desolazione accorata si dipinge sul volto dei dimenticati; ma chi ha avuto il suo tesoro, corre per qualche istante a nascondersi lontano da tutti, sotto una roccia o dietro un cespuglio, per obliare un momento la realtà di guerra che lo circonda e tuffarsi un istante nella illusione della felicità lontana. In verità, o signori, la posta è il più gran dono che la Patria possa fare ai combattenti: poiché in quel fascio di lettere che giunge ogni giorno fino alle trincee più avanzate, la Patria appare ai soldati non più come una idealità impersonale ed astratta, ma come una lontana moltitudine di anime care e di noti volti, in mezzo alla quale ciascuno riconosce un bene che è solamente suo, uno sguardo che soltanto per lui riluce, una voce che per lui solo canta100.

La corrispondenza non va quindi scoraggiata, ma disciplinata. Non si devono temere le licenze, ma se ne deve fare uno strumento di governo della truppa. Sono le tecnologie di un potere che dal fronte si irradia all’intero paese, facendo sentire ai soldati che la patria si occupa di loro e non trascura neppure le loro famiglie: «Giova avere in ogni città, fra la popolazione civile, rappresentanti sicuri, perché ove occorra assistano (sia pure con una buona parola, con una visita, con una raccomandazione) le famiglie dei militari bisognosi e meritevoli di aiuto»101. E all’assistenza, questi emissari dell’Ufficio P nei paesi d’origine dei soldati assoceranno la vigilanza, fin su genitori e fratelli, mogli e amanti, figli naturali e adulterini degli uomini al fronte. Non dovrebbe stupire che la grande guerra abbia concepito un siffatto embrione di stato sociale. È un processo che, più che essere pianificato, sembra autoalimentarsi. Il Servizio P, per far fronte alle sue esigenze di sostegno e controllo, si trasforma in poche settimane in una sorta di ufficio legale – o parasindacale – che si occupa degli aspetti più vari della vita al fronte. Metà dei bol-

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lettini sono dedicati alla consulenza su problemi burocratici – permessi, sussidi, trasferimenti, licenze, esoneri, polizze assicurative – che il crescere delle circolari rende sempre più labirintici. La grande guerra è anche una guerra di carte che si moltiplicano. In uno dei bollettini, dedicato alle Norme pratiche per il miglior funzionamento del servizio di collegamento P, Calamandrei suggerisce che per funzioni di vigilanza e di assistenza possa essere opportuno creare degli schedari nominativi innanzi tutto dei militari condannati, di quelli sospetti sovversivi, di quelli che abbiano risieduto a lungo all’estero; e poi anche di coloro che dalla censura hanno rivelato spirito patriottico, che hanno la famiglia nelle terre invase, oppure in condizioni particolarmente pietose. Propone di istituire anche dei libretti informativi sui reparti per facilitare ispezioni e controlli. Chiede agli ufficiali P dipendenti di tenere un diario «nel quale giorno per giorno venga fatta una breve, ma precisa annotazione dell’opera svolta»102: anche questa è una forma di controllo, esercitata sui controllori, affinché sfuggano alla tentazione di assecondare la nomea con cui il Servizio P era stato accolto dai soldati, cioè «una forma di imboscamento» e una congrega di spioni. Certo, questo esercito è diverso da quello che Calamandrei si era immaginato nell’infanzia, sulla scorta dell’epica risorgimentale: un esercito in grigioverde, non in camicia rossa; fatto di coscritti riluttanti, solo in minima parte di volontari. Ai suoi occhi, il Servizio P – «il più nobile ufficio che mi poteva esser dato», aveva scritto ad Ada103 – avrebbe potuto restituire un’anima alla guerra e un ruolo attivo e consapevole ai combattenti. Non ha mai parole di biasimo per lo stile di Cadorna, tanto meno dopo Caporetto. Ma certo la gestione “democratica” di Diaz lo trova più in sintonia. Quando suggerisce ai superiori di riportare i feriti, una volta ristabilitisi, nei loro vecchi reggimenti dove già sono conosciuti e ben inseriti, coglie l’occasione per criticare il «sistema prettamente tedesco di considerare il “materiale uomo” come una sostanza fungibile, in cui ogni unità è uguale a ogni altra unità, mentre la tradizione latina e Garibaldina del nostro Esercito porta a vedere in ogni soldato un’anima, che dev’essere sfruttata nel modo più adatto e adoprata là dove il suo carattere e i suoi sentimenti possono meglio mettere in luce le sue virtù»104.

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Torna la vecchia idea – che era stata di De Amicis, di Vamba e degli altri tardi garibaldini che hanno popolato le letture e il paesaggio mentale del giovane Piero – di poter fare dell’esercito «l’effettiva scuola a tempo pieno uguale per tutti del giovane popolo italiano»105. La guerra, si rende conto, è un’occasione straordinaria di educazione nazionale di massa. Ma se alla truppa è riservata soprattutto una pedagogia del sentimento, del cuore, della bontà, agli ufficiali si destinano i ragionamenti etici e politici. «L’anima dei soldati è uno specchio dell’anima dell’ufficiale», scrive in una relazione su L’educazione morale degli ufficiali subalterni106. È su costoro – delicato anello di congiunzione tra classi dirigenti e masse combattenti – che va operata la prima semina, anche quando il terreno si presenta disastrato. Nella primavera del ’18 Calamandrei fa condurre un’inchiesta sulla preparazione culturale di sottotenenti e aspiranti di fanteria. I risultati sono sconfortanti: In molti non c’è neppure un’idea geografica ben chiara del teatro politico-militare della guerra. Non solo la questione boema e la questione jugoslava, che hanno forse per l’esito di questa guerra una importanza decisiva, sono nella maggioranza dei casi ignorate, ma molti ignorano perfino ove sia la Boemia e quali sarebbero i confini della Jugoslavia. Si ignorano le cause e gli scopi della guerra: si ignora la grandiosità dello sforzo fatto dall’Inghilterra, e di quello che si apprestano a fare gli Stati Uniti; si ignora la storia della Triplice, le infamie diplomatiche dell’Austria e della Germania, si ignorano le ragioni storiche e politiche per cui Trento e Trieste debbono essere dell’Italia. Ora ci si domanda: se gli stessi ufficiali comandanti di plotone sono al buio di tutto questo, come si può pretendere che i soldati posseggano, sia pure in modo elementare, un po’ di barlume su questi argomenti?107

Propone di colmare queste lacune attraverso la creazione di una biblioteca e di una rivista specializzate per ufficiali. Ma punta soprattutto sull’idea di un corso, intensivo e residenziale, da svolgersi nelle retrovie, coinvolgendo a turni settimanali tutti gli ufficiali della I Armata: una specie di “università minima” permanente, in cui insegnanti autorevoli – storici, economisti, pedagogisti, come Ruffini, Salvemini, Ferrero, Einaudi – avrebbero

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impartito lezioni di istruzione politico-militare e morale agli ufficiali subalterni. Nel settembre del ’18, a fronte delle proposte di pacificazione avanzate dagli imperi centrali ormai sull’orlo del collasso alimentare, Calamandrei recupera in pieno la verve mazziniana: «questa volta, la guerra non è un cozzo di egoismo contro egoismo, non è una corsa di conquistatori gareggianti a chi prima giunga ad afferrar la preda, ma è una solenne e definitiva rivendicazione della bontà e della giustizia. Ricordino tutti gli Ufficiali P che in questa guerra i cosiddetti furbi non fanno fortuna: gloriamoci di essere ingenui, come era ingenuo Mazzini, come oggi è ingenuo Wilson!»108. È necessario far conoscere ai soldati che per l’Italia la guerra non sarà finita quando l’Austria cederà Trento e Trieste e diffondere con tutti i mezzi la coscienza del carattere mondiale, umanitario, risolutivo, preso dalla guerra: «bisogna insomma far penetrare più addentro nelle menti e nei cuori l’assoluta necessità del “Delenda Austria”». Trento è comunque un traguardo agognato, il coronamento del sogno di tutta una generazione cresciuta nel mito di Trento e Trieste. Ai primi di novembre si scatena tra gli ufficiali italiani una corsa a raggiungere per primi la città. Anche Calamandrei vi partecipa, in sidecar, schivando turbe spettrali di austriaci in ritirata e colonne di italiani un po’ strafottenti che li incalzano. Ne scrive ad Ada, a caldo, in un lungo racconto dai toni picareschi che trasforma l’ultimo atto di guerra in un’avventura: una «scappata», una «birichinata», celierà Piero109. Memorie “giornalinesche” e memorie garibaldine si sovrappongono. L’ingresso in Trento è narrato avendo chiaramente davanti agli occhi quello di Carlino a Portogruaro, letto nelle Confessioni di un italiano: Piero si presenta come un eroe per caso, creato dalla folla e dalle circostanze. Ma non c’è solo distanziamento autoironico; a dominare è l’entusiasmo vissuto, che non si può descrivere senza un velo di imbarazzo: La gioia provata in quelli istanti da noi non si può ridire: quel senso di artificio, di montatura, di esagerazione che si prova in tutte le manifestazioni di piazza, era, in quei momenti di festa irrefrenabile che scoppiava da tutti i cuori, assolutamente lontano... Mi pareva di ritrovare, in ogni mano che mi si tendeva una persona cara, da tanto cono-

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sciuta e ritornata dopo una lunga assenza. Io non sapevo dire altro che «Fratelli, fratelli»; e mentre ora, se ci ripenso, può darsi che questa parola, guasta ormai da tanta retorica, mi sembri esagerata e mi faccia sorridere, allora la pronunciavo come l’unica parola che potesse pallidamente esprimere il sentimento di esserci finalmente ritrovati110.

A Trento ritornerà spesso, con la parola e con la memoria; nelle riscritture successive l’epica tenderà a crescere, e il picaresco a farsi semplice orpello narrativo111. Ma quel momento fusionale resterà per Calamandrei come il sigillo della sua guerra; alla luce di questa conclusione rileggerà tutta l’esperienza passata, le darà un senso compiuto, rimuoverà le inquietudini e le zone d’ombra che pur lo avevano attraversato, e potrà inscrivere senza scarti, senza incrinature la propria vicenda individuale nella storia più ampia della nazione. Eppure, anche in quei giorni di festa, non erano mancati indizi che avrebbero potuto complicare quell’autorappresentazione tutta felice. Se già lungo la strada per Trento aveva fatto capolino qualche volto enigmatico di contadina «che ci guardava senza rendersi conto di cosa succedesse» – muta rappresentante di quell’ampia parte della società rurale che, al di qua e al di là dei confini, aveva subito il conflitto – è a Bolzano che le ragioni della guerra di liberazione nazionale cominciano a scricchiolare. La popolazione è estranea, se non ostile, ad un esercito che è di occupazione. Calamandrei è costretto a contorsionismi dialettici per spiegare ai suoi stessi soldati l’italianità dell’Alto Adige112. Recupera gli argomenti di Ettore Tolomei: i confini naturali, lo spartiacque, «la bellezza tutta italiana del paesaggio che lo circonda», il processo di germanizzazione che nel corso degli ultimi secoli avrebbe solo occultato «la sostanza italiana che anche in queste terre ha saputo vittoriosamente resistere a tutte le sopraffazioni». Tutto ciò per negare la possibilità di un plebiscito («Il principio delle autodecisioni dei popoli può valere ed è giusto che valga per tutti quei popoli che si trovano a casa loro»), e dirsi anzi convinto della rapida assimilazione della minoranza tedesca nel «giusto e libero Regno d’Italia». Per due mesi, fino al gennaio del ’19, Calamandrei risiede a Bolzano. Fa lavoro di intelligence, volto a preparare il trapasso dei poteri. Nelle relazioni che scrive ai superiori ha qualche caduta di

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stile in chiave antitedesca, che si trascina dietro vecchi stereotipi della propaganda di guerra, ma presto torna ad affidarsi alla già collaudata pedagogia dell’esempio e della bontà. Propone di istituire ricreatori di bimbi nelle località occupate affidati a militari anziani: «Sarebbe al solito un modo d’assistenza che si risolverebbe in una efficacissima propaganda ed il seme di buoni sentimenti patriottici gettato nell’animo di quei bimbi raccolti a scopo di ricreazione darebbe un giorno ottimo frutto»113. Tenta di riconvertire il Servizio P alle nuove esigenze del dopoguerra, facendone un vettore di italianità fra le popolazioni civili, sostenendo giornali, biblioteche, circoli culturali, riunioni e conferenze «con contenuto italiano ma non tedescofobo». Ma si scontra con il riproporsi di un vecchio stile di governo della cosa pubblica che la guerra, nonostante tutto, non era riuscita a rinnovare: in una parola, «burocrazia: arcigna, testarda, incompetente, farraginosa, fannullona burocrazia, aggravata dalle stellette, che non ammettono discussioni»114. Dietro le motivazioni politiche, si consuma in realtà una rottura più privata con l’ambiente militare, che non ha perdonato al capitano Calamandrei quel colpo di testa – l’entrata in Trento “alla garibaldina” – che aveva finito per mettere in ombra ufficiali più blasonati. Nel dicembre del ’19 Piero scrive al suo superiore – l’avvocato Gaetano Casoni – una lettera amara, nella quale annuncia le sue dimissioni dall’esercito. «Ti confesso che a questo mio desiderio di abbandonare al più presto l’ufficio al quale ho dato per otto mesi modesto ma convinto lavoro, contribuisce l’amarezza prodotta in me dal modo col quale io e altri ufficiali da me dipendenti siamo stati trattati dal giorno della Liberazione di Trento. Dopo aver lavorato con tanta passione, dopo aver rinunciato, nella coscienza di compiere un’opera buona, a uffici più comodi e più vantaggiosi, noi ci siamo trovati a dover ringraziare il destino per non esser stati cacciati da queste terre liberate come dei malfattori»115.

6. La guerra dopo la guerra Per certi aspetti la guerra di Piero si chiude con lo stesso spirito con cui era cominciata: disgusto, amarezza, disillusione. È

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stata un farmaco non sufficiente a guarire i mali d’Italia. Questa è una sensazione condivisa, soprattutto tra i giovani ufficiali di complemento. Calamandrei ne aveva scritto pochi mesi prima, riscontrando tra i suoi pari grado il malcontento per le prospettive del dopoguerra, la preoccupazione per il reinserimento nella società, la rabbia nei confronti di «imboscati e riformati» che «hanno approfittato in Paese dell’assenza di chi è alla guerra, per andare avanti negli studi, per farsi la parte migliore nelle professioni, per accaparrarsi i mercati e le piazze commerciali». Chiedeva ai superiori che l’esercito, nel trapasso dalla guerra alla pace, rivolgesse ad essi le proprie attenzioni, affinché sentissero «la certezza che la Patria non li abbandonerà dopo aver chiesto tutto da loro»116. Altri come lui, direttamente coinvolti nel Servizio P, sperano in quei mesi di poter proseguire in tempo di pace l’opera di pedagogia nazionale che hanno sperimentato al fronte. Molti ritroveranno nelle riviste dei punti di aggregazione, di dibattito e di riconoscimento. Anche Calamandrei, dopo la smobilitazione dall’esercito e la ripresa a tempo pieno della docenza universitaria, prima a Modena, poi a Siena, continuerà il dialogo con quei gruppi di affinità che la guerra aveva coagulato e promosso a classe dirigente. Partecipa al dibattito per il convegno degli amici dell’«Unità» che si tiene a Firenze nel marzo del ’19. Propone di applicare alla vita politica quegli spunti di conversazione che furono strumento capace di diffondere le idee e creare una opinione pubblica nelle masse combattenti. «L’Unità», scrive Calamandrei, dovrebbe essere ora un grande pensatoio a servizio della nazione, aperto ai tecnici e ai competenti, i quali sarebbero chiamati non solo ad elaborare le soluzioni, ma anche a spiegarle «in forma chiara, semplice, alla portata di tutte le menti, nello stesso stile in cui erano redatti gli spunti per gli ufficiali»117. C’è, in queste posizioni, una certa diffidenza nei confronti dei partiti, soprattutto dei grandi partiti di massa che si stanno affermando sulla scena politica. Calamandrei crede piuttosto nei piccoli gruppi. Partecipa alla fondazione del fiorentino Circolo di cultura con Gaetano Salvemini, Ernesto Rossi, i fratelli Rosselli, Piero Jahier. Segue da vicino il movimento dei giovani liberali che già nel ’18 hanno fondato la rivista «Volontà» per proporre uno sbocco in chiave attivistica e radical-nazionale agli ideali della

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guerra e ora cercano nuove forme di intervento politico. Si danno convegno a Roma, nel giugno del ’20: sistemazioni spartane, ma incontri premonitori. Piero si trova a dividere la camera d’albergo con «un giovinetto esile e biondo», poco più che adolescente, talmente carico di energie da discutere anche nel sonno: gli si presenta col nome di Piero Gobetti118. Ma non ci sono solo Gobetti, Rossi e Salvemini nell’album del dopoguerra di Calamandrei. Anche Giovanni Gentile tocca corde sensibili; sa come parlare a quella generazione di giovani ufficiali di complemento venuti alla guerra direttamente dai banchi dell’università119; propone loro una innovazione dell’eredità culturale mazziniana, e per questo riceverà da Piero parole di stima e persino di affetto quando, di lì a poco, si appresterà alla riforma della scuola come ministro di Mussolini120. In realtà Calamandrei, come molti dei suoi amici salveminiani, fino alla vigilia della marcia su Roma è su posizioni più afasciste che antifasciste121. Nel primissimo dopoguerra la galassia del combattentismo è fluida; gruppi, amicizie, reti di relazione cementati dalla comune esperienza bellica tardano a polarizzarsi. Gli stessi collaboratori più stretti di Piero all’Ufficio P – i due tenenti con i quali aveva condiviso l’epica “cavalcata” su Trento – fiancheggiano gruppi e partiti diversi ma non si perdono di vista: c’è una stessa matrice che alimenta le scelte politiche di Franco Ciarlantini, che si avvicina ai Fasci di combattimento e che sarà nel giro di pochi anni un influente funzionario del regime122, e quelle di Vittorio Callaini, che dirige a Firenze una vivace sezione del Partito liberale democratico italiano123. Anche nel microcosmo che fa capo al rinato «Giornalino della domenica» si riallacciano i vecchi legami. Piero riprende le collaborazioni. Suggerisce a Vamba di tener conto dei contributi che potrebbe dare l’amico Ciarlantini, che comincia intanto a scrivere sul «Popolo d’Italia». «Il Giornalino» continua anche dopo la guerra la sua azione patriottica, indirizzata ora a Fiume e alla Dalmazia. Numerosi sono gli abbonati che partecipano all’impresa di D’Annunzio. Anche Vamba si reca a Fiume, tra l’ottobre e il dicembre 1919, su invito di D’Annunzio, che lo accoglie con tutti gli onori. Poi fa propaganda del Prestito nazionale in giro per l’Italia. È il suo ultimo grande atto politico. Quando muore, il 27 novembre 1920, Piero gli tributa un ricordo commosso che rielabo-

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ra uno dei temi ricorrenti della sua poetica: i morti che tornano e parlano ai vivi; e immagina che quel grande vecchio sia stato infine accolto dai suoi ragazzi che non sono tornati dalla guerra, «come se anch’egli fosse un loro compagno d’armi caduto sul campo»124. Dall’inizio del 1920, intanto, Calamandrei si è trasferito all’Università di Siena125; per comodità, abita spesso a Montepulciano. Si afferma subito, nel capoluogo e nella piccola città, come l’intellettuale di riferimento del combattentismo. Viene richiesto come opinionista nei giornali locali, è molto apprezzato come oratore nelle cerimonie pubbliche. Collabora con l’Università popolare. Tenta quindi di proseguire dalla cattedra il dialogo con gli operai e i contadini che aveva conosciuto al fronte. Invita la borghesia senese a mettere da parte gli egoismi di classe e la paura del socialismo per promuovere invece l’educazione del popolo, riconoscendo e premiando «l’eroismo semplice e inconsapevole di quei contadini analfabeti, che andavano a morire per una idea di Patria che nessuno ad essi si era curato di insegnare»126. È una retorica tutta interna al paternalismo mazziniano, che la guerra sembra aver rafforzato più che scalfito. Calamandrei cambia registro solo quando è costretto a guardare per davvero negli occhi chi ha avuto un lutto per una scelta non fatta, né condivisa, ma solo subita senza comprenderla. Succede, ad esempio, davanti alla famiglia di Angiolino Corteccioni, il ragazzo che lui stesso ha visto crescere, figlio dei suoi contadini di Montepulciano, morto in guerra. È in questa circostanza che l’epica apre un varco alla tragedia. Piero tocca qui le sue corde più intime e malinconiche, racconta per l’ennesima volta il funerale di un bambino. Nell’estate scorsa, nel terzo anniversario dalla morte di questo soldato di fanteria, che non ebbe medaglie al valore, e che non ha croce sulla sua tomba in mezzo alla petraia, io son voluto andare ad assistere all’ufficio funebre che ad ogni ricorrenza i suoi vecchi gli fanno dire, ora che son restati soli. L’ufficio era nelle prime ore mattutine, in una solitaria chiesetta di campagna: nella chiesa c’eran soltanto i preti che salmodiavano, e i due vecchi contadini piegati sull’inginocchiatoio... Nel mezzo della chiesa, per la cerimonia era stato preparato un piccolo catafalco di ultima classe, una specie di scatola misera e sconnes-

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sa, coperta da un po’ di tela dipinta e inchiodata, come quella dei vecchi scenari: ai quattro lati del catafalco c’erano quattro ceri; quel simulacro di bara pareva, in mezzo alla chiesa, straordinariamente piccolo, quasi che fosse preparato per il funerale d’un bambino: forse perché i genitori rivedono sempre i figli morti, anche se son morti in guerra a vent’anni, sotto l’apparenza di bambini che si portano per mano nei primi anni. Ricordo che quando entrai nella chiesa, io che vi andavo per portare un saluto alla memoria del compagno d’armi, restai sorpreso e addolorato di veder quel preparativo così disadorno e modesto: ma era dunque quello il funerale di un combattente? Ma nessuno aveva dunque pensato a posare su quel feretro almeno un drappo tricolore che dicesse perché era morto quel contadino che lì si commemorava? Ma poi dinanzi al dolore muto di quei due vecchi, in quella chiesa perduta in mezzo alla campagna, compresi, io italiano, che la bandiera italiana sarebbe stata lì, su quel feretro, fuori di posto e sarebbe parsa a quei vecchi ignari come una profanazione del loro dolore: sì, o signori, poiché quei vecchi non potevano intendere, nella loro anima semplice e rude che proprio per difendere quei tre colori la loro creatura si era immolata... 127

È il terzo atto di quel dramma già visto in cui due Italie continuano a fronteggiarsi, senza comunicare. Per la famiglia di Angiolino non c’è ragion politica che tenga, non c’è riscatto che possa compensare quella perdita. Per i suoi vecchi, riferisce Piero citandone le parole, Angiolino «è morto perché Iddio ha voluto così, ma per chi sia morto non possiamo saperlo, perché di guerre noialtri contadini non ce ne intendiamo». Più complicato fare i conti con chi non si rassegna. Calamandrei assiste con apprensione al dilagare tra le masse contadine di un movimento socialista agguerrito, che mette radicalmente in discussione le ragioni della guerra, schernisce la religione della patria, costringe i suoi officianti a disertare la piazza e radunarsi nel chiuso dei palazzi. «Senza pubblico sfoggio di cortei e senza solennità di bandiere al vento», esordisce Calamandrei il 29 maggio 1920, commemorando nell’aula dell’università gli studenti caduti, «raduniamoci qui, o colleghi illustri e cari studenti senesi, come nelle catacombe i fedeli di una religione perseguitata; raduniamoci qui, fra queste mura consacrate alla severità della scienza, per celebrare in segreto il rito di una religione che fuori di qui

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ognuno può impunemente bestemmiare: la religione della patria»128. Poche settimane dopo, a ferragosto, ad Abbadia San Salvatore un gruppo di socialisti infiammati da un comizio dà l’assalto alla processione, alla chiesa e alla caserma; i carabinieri rispondono al fuoco; sei morti restano a terra. I funerali dell’unico militare ucciso si terranno a Montepulciano; spetterà a Piero ricordarlo, in cimitero129. Il dopoguerra è anch’esso una guerra. Neppure l’università è ormai più un sacro sacello impermeabile agli urti violenti della politica. L’insegnamento mette anzi quotidianamente Calamandrei a contatto con una nuova leva di giovani che, se non ha fatto la guerra in prima persona, ne ha certo respirato tutte le passioni, e cerca ora di affermarsi a proprio modo sulla scena pubblica. Calamandrei non sopporta questo protagonismo dei giovanissimi, che contestano il ritorno all’austerità e alla disciplina degli studi. Li rimprovera di tradire proprio «chi, nelle sofferenze della trincea ha sperato che la guerra, oltreché a una vittoria contro i nemici di fuori, potesse portarci a una vittoria su noi stessi»130. Ai suoi occhi, i rampolli della borghesia che disertano per protesta le aule universitarie abdicano in realtà al loro ruolo di classe dirigente e perseverano nei vizi atavici dei loro padri e dei loro nonni. Che ce ne faremmo, domani, di un qualunque cambiamento di regime, se gli uomini al governo fossero sempre gli stessi, se le masse continuassero a vedere nelle classi cosiddette intellettuali i primi esempi di indisciplina e di disorientamento morale, e se le scuole seguitassero a riversare senza pietà sull’Italia questa inondazione di burocrati scansafatiche, di avvocati senza cause, di retori senza fede che è stata finora la rovina della nostra vita nazionale?131

Non c’è solo, in queste parole, la ripresa di toni e di temi che già circolavano tra gli intellettuali prima della guerra. C’è anche, come allora, la riproposizione di un conflitto generazionale, ma a parti invertite. I giovani che dieci anni prima avevano rimpianto l’epopea dei nonni e criticato il grigiore dei padri, diventati adulti alla prova della guerra, prendono ora le distanze rispetto a una nuova generazione di «ragazzi nati troppo tardi».

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La irrequieta generazione di giovani che frequenta oggi (o dovrebbe frequentare) le aule universitarie, ha nel sangue il prurito dell’eroismo, la nostalgia delle “belle gesta” che i loro fratelli maggiori hanno compiuto: quasi invidiosi e gelosi dell’aureola di gloria che circonda i reduci della grande guerra, questi ragazzi nati troppo tardi vivono in una specie di esaltazione a freddo, la quale li spinge a considerare lo studio, questa paziente e oscura abnegazione di tutti i giorni, come una «diminutio capitis» alla quale possono rassegnarsi soltanto le persone mediocri, prive di più alti ideali. Per quattro anni essi hanno sentito dire dai fratelli maggiori, molti dei quali sono partiti per non tornare più, che, nel momento in cui il Paese è in pericolo, tutte le forze individuali debbono esser dedicate a salvarlo: ed ora, nonostante che la guerra sia finita, essi non possono rassegnarsi al ritmo della vita normale che torna senza gloria e senza palesi eroismi, non possono rinunciare a fare anch’essi qualcosa per salvare la Patria, senza occuparsi di quel miserabile giuoco cinese da rammolliti in pantofole che è lo studio; e i professori debbono, naturalmente, aiutare gli studenti a salvare la Patria, largheggiando nelle promozioni, senza meschini calcoli di merito e di profitto: sotto pena, per quell’insegnante nemico della Patria che si ostinasse a bocciare chi non studia, di esser bollato come uno «che ha detto male di Garibaldi»132.

Si consuma, in questo modo, una frattura psicologica, prima ancora che culturale e politica, tra Calamandrei e quei ragazzi che invece il fascismo sarà capace di blandire e far propri. Una frattura destinata ad attraversare tutto il ventennio, a scavare negli anni solchi profondi nel rapporto con il figlio Franco e dare alimento al crescere della ripulsa – ma forse anche dell’incomprensione – nei confronti del fascismo stesso, del suo stile, del fascino che fu in grado di esercitare proprio sulle nuove generazioni. A fronte degli studenti che protestano, delle famiglie che li coprono e dei partiti che li istigano nel nome di una Italia migliore, Calamandrei invita a «proclamar forte che i ragazzi restan ragazzi anche se fan la voce grossa, e che a scuola si va per studiare e non per far della politica da caffè di provincia», poiché di quegli argomenti devono discutere i competenti, in parlamento, sulla stampa, magari in riunioni di classe, ma non a scuola «dove si va per studiare e non per discutere»133. Piero si sente, a poco più di trent’anni, improvvisamente invecchiato. Scrive nell’ultimo saluto a Vamba: «siamo, noi super-

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stiti, della gente che ormai ha vissuto la sua ora più bella, dei sopravvissuti che sentono di avere ormai superato l’apice della loro parabola e che ogni tanto guardano indietro con nostalgia»134. Calamandrei costruisce, a partire da questo stato d’animo, una retorica civile di grande efficacia e di lunga durata, che inserisce l’ultima guerra all’interno della tradizione politica, dei linguaggi e della memoria del Risorgimento. L’impronta di Vamba e del suo mondo si riconosce anche qui, nel proporre una religione civile costruita sui morti – eroi morti, e nel caso specifico eroi in quanto morti – imperniata sul debito morale, incolmabile, che i sopravvissuti e i posteri hanno contratto a fronte del loro sacrificio. È un rapporto difficilmente negoziabile quello che Calamandrei pone alla base del patto di cittadinanza e del patto tra generazioni: se i migliori sono quelli che non sono tornati, se i caduti sono coloro che non hanno tradito e non si sono imboscati, se la guerra ha operato una selezione a rovescio, chi rimane o è arrivato dopo non può che sentirsi schiacciato: finché vive, non sarà mai all’altezza di chi l’ha preceduto. Calamandrei parla ai giovani come portavoce di 500 mila caduti e chiede loro di ricevere con gratitudine quel sacro retaggio e farsene custodi. Si rivolge ai bambini dicendo che per loro la guerra fu vinta, convinto che essi, «che saranno l’Italia di domani, intenderanno ciò che speravano i Morti»135. Non stupisce che gli uni e gli altri abbiano scansato, in tempi diversi, un lascito tanto ingombrante, una memoria così invalidante. Il peso dei morti fa aggio sui vivi. Avremmo bisogno di riflettere meglio sui passaggi di memoria – riusciti e mancati – tra le generazioni, negli anni del dopoguerra. Sono questioni che si possono inquadrare al meglio non tanto in una biografia – per quanto straordinariamente centrata sul tema come quella di Piero Calamandrei – ma piuttosto nel clima culturale di un’epoca, e forse anche in un modello di identità nazionale. Il tema dei morti che tornano a casa per giudicare i vivi non è solo l’ossessione di un uomo abitato da questi fantasmi sin dall’infanzia. Da un lato, è una delle visioni più potenti e dilaganti nella cultura europea, dopo l’immane catastrofe136; dall’altro, rappresenta un luogo dell’immaginario straordinariamente ricorrente nella storia d’Italia, e anzi costitutivo della sua stessa tradizione culturale. Si può però dire che in quegli anni cruciali, di snodo, il fascismo sia stato in grado di declinare questo topos in una

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chiave diversa e tutto sommato vincente. Seppe proporre ai giovani un rapporto non reverenziale, ma attivistico con la memoria della guerra; seppe interpretare quel grande evento non come la conclusione di un ciclo, su cui curvarsi devotamente, ma come un inizio, da cui balzare in avanti137. In fin dei conti, il Fascismo scolastico contro cui Calamandrei comincia a scrivere nella seconda metà del 1921 è proprio quello che offre a chi è «nato troppo tardi» un’altra chance per poter essere protagonista, un’altra guerra – civile, per il momento – in cui cimentarsi. È di fronte all’uso politico della violenza, e quindi al giudizio sull’eredità della guerra come fase da chiudere o tenere aperta, che la posizione di Calamandrei si distingue da quella del fascismo allo stato nascente. Almeno fino alla primavera del 1921 egli vi si colloca a fianco, distinto ma non in antitesi. In aprile il Fascio di combattimento di Montepulciano lo vuole candidare alle elezioni politiche. Piero declina l’invito con questa motivazione: Commosso e grato offerta superiore ai miei meriti dolgomi che mia condizione professionale mi vieti accettarla. Ho sempre pensato che insegnamento imponga doveri inconciliabili con coscienzioso esercizio mandato parlamentare e preferisco contribuire modestamente alla ricostruzione morale del paese restando al mio posto di insegnamento tra i giovani dai quali tutti attendiamo una Italia degna del nostri 500 mila caduti138.

L’estate del ’21 è il vero crinale del dopoguerra, anche nel vissuto di Piero. La violenza fascista non solo dilaga, ma gli entra in casa. Il 20 settembre Nicola Cocci, lo zio di Ada, il medico socialista, l’“amico del popolo”, muore per i postumi di un’aggressione subita quattro mesi prima. Anche i funerali sono funestati: la partecipazione degli amici è impedita, chi interviene subisce minacce e aggressioni, persino la sua tomba viene sorvegliata e lasciata senza fiori139. Il percorso successivo di Piero Calamandrei è piuttosto noto140. Egli ora è un uomo pubblico. Nel ’20 ha dato alle stampe il libro sulla Cassazione civile141, che si impone subito come un testo fondamentale nel dibattito giuridico italiano; si sta affermando professionalmente come avvocato, a Firenze; attende – con gli amici

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Giuseppe Lombardo Radice ed Ernesto Codignola – alla riforma della scuola del ministro Gentile; contribuisce alla nascita della facoltà di Giurisprudenza presso l’università fiorentina, dove si trasferisce nel novembre del 1924; continua a partecipare al Circolo di cultura fino allo scioglimento imposto dal regime, nel gennaio del ’25. Il vecchio “partito della guerra” è ormai attraversato da fratture insanabili, tanto più esacerbate quanto più forti sono stati sino allora i sentimenti di amicizia, le affinità ideali, i sodalizi intellettuali. Il 12 luglio 1924 Salvemini, Jahier ed altri ex combattenti antifascisti trasformano la celebrazione a Firenze dell’ottavo anniversario della morte di Cesare Battisti in una manifestazione di protesta per l’assassinio di Matteotti. Calamandrei detta un’epigrafe, che viene pubblicata il giorno dopo sul settimanale «Fanteria»142. Anche qui, dietro il martirio di Battisti si intravede in controluce quello di Matteotti. Sono segnali di un conflitto ormai incomprimibile sulla memoria della guerra che si consuma all’interno di coloro che pure l’avevano prima immaginata, e poi vissuta, pressoché all’unisono. Anche la famiglia “giornalinesca” si spacca. Ermenegildo Pistelli – l’eminente latinista di cui Piero è ora collega all’ateneo fiorentino, ma che sotto il nom de plume di Omero Redi aveva affiancato Vamba sin dalle prime pagine del «Giornalino» – si schiera con i fascisti. È anzi il capo ideale degli studenti col manganello che attaccano Salvemini; e sarà, di ricambio, uno dei bersagli degli strali clandestini del «Non Mollare». Calamandrei, di fronte a questa guerra civile strisciante che lacera antiche amicizie e penetra anche negli ambienti paludati dell’università, calibra col bilancino difesa di posizioni ideali e preservazione di relazioni personali e accademiche143. Nel febbraio del 1925 scrive a Pistelli questa lettera, dissociandosi dal «Non Mollare»: Chiarissimo Professore, domenica scorsa, prima di partire per Roma dove son trattenuto dai lavori della commissione per i Codici, ebbi occasione di leggere in Battaglie Fasciste un trafiletto intitolato «Manganellate sul serio», dal quale i lettori che non mi conoscono personalmente possono essere indotti a credere che io sia tra i redattori o gli ispiratori del foglio «Non mollare!» di cui quel trafiletto parla. Non protesto pubblicamente, per

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non essere accusato – come altra volta mi è accaduto per aver cercato di ristabilir la verità – di aver paura di quelle manganellate «sul serio» che il settimanale fascista periodicamente mi minaccia. Ma poiché, proprio nei giorni precedenti alla mia partenza per Roma, ho ricevuto per posta in busta chiusa uno stolto sonetto anonimo contro di Lei, non vorrei che quel trafiletto di Battaglie Fasciste potesse farle passar per la mente il dubbio che vi sia in realtà qualche relazione, sia pur lontanissima, tra me e la diffusione di tali pubblicazioni alla macchia. Ritengo che la diversità di opinioni politiche sinceramente professate non possa diminuire la reciproca stima personale tra galantuomini, e che Ella non possa aver dimenticato l’amicizia che aveva per me Omero Redi del vecchio Giornalino: per questo spero che Ella mi crederà quando le dico che io non ho alcuna parte, né diretta né indiretta, sulla pubblicazione di «Non mollate!» [sic] e che, in quanto al sonetto scritto contro di Lei lo ritengo – come farà del resto ogni persona di cuore e di gusto – un cumulo di ingiurie alla grammatica e alla metrica nella forma, e un cumulo di insincere cattiverie nella sostanza144.

Ma in calce alla minuta, che conserva nel proprio archivio, Calamandrei ha cura di far apporre, con diverso inchiostro, un «visto e approvato seduta stante» siglato da Gaetano Salvemini. Comincia così, per Piero, un antifascismo allusivo, garantito in ultima istanza da quell’ideale «visto e approvato» che i suoi amici intransigenti – costretti all’estero o nelle carceri – sempre gli concederanno, quasi per una tacita spartizione dei compiti tra chi rompeva e chi cercava di preservare i legami con la società italiana, tra chi – esattamente come in tempo di guerra – combatteva in trincea, in prima linea, e chi lo faceva da una posizione di rincalzo, nelle retrovie145.

Note 1 Franco Calamandrei, Piero Calamandrei mio padre, in Piero Calamandrei, Diario 1939-1945, a cura di Giorgio Agosti, vol. I, La Nuova Italia, Firenze 1982, pp. VII-XXI; Piero Calamandrei, Ada con gli occhi stellanti. Lettere 1908-1915, a cura di Silvia Calamandrei, Sellerio, Palermo 2005. 2 Norberto Bobbio, Introduzione a Piero Calamandrei, Scritti e discorsi po-

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litici, a cura di Norberto Bobbio, vol. I, t. 1, La Nuova Italia, Firenze 1966, p. XI. 3 Archivio dell’Istituto per la storia del Risorgimento italiano (Roma), Carte Luigi Bertelli, b. 534, n. 64. 4 Vamba, XX settembre, in «Il Giornalino della domenica», a. IV, n. 13, 16 settembre 1909, pp. 1-3. Vedi Roberto Balzani, Nati troppo tardi. Illusioni e frustrazioni dei giovani del post-Risorgimento, in Il mondo giovanile in Italia tra Ottocento e Novecento, a cura di Angelo Varni, Il Mulino, Bologna 1998, pp. 6985. 5 Piero Calamandrei, Vamba nostro, in Vamba, a cura di Aldo Nicolao, Rovereto 1921, pp. 6-7. 6 Vedi Le grandi firme del Giornalino della domenica, a cura di Lea Nissim Rossi, Bemporad-Marzocco, Firenze 1959; Lea Nissim Rossi, Vamba (Luigi Bertelli), Le Monnier, Firenze 1966; Agli albori della letteratura italiana per ragazzi: «Il Giornalino della domenica» (1906-1911), a cura di Claudio Gallo, Biblioteca civica e Società editoriale Grafiche AZ, Verona 1999; Catia Papa, La «Confederazione giornalinesca» di Vamba (1908-1911): una monarchia repubblicana per diritto naturale, in «Annali Istituto Gramsci Emilia-Romagna», n. 4/5, 20002001, pp. 171-183; Editori e piccoli lettori tra Otto e Novecento, a cura di Luisa Finocchi e Ada Gigli Marchetti, Angeli, Milano 2004 (i saggi di Monica Galfré e Claudio Gallo). Per una più ampia contestualizzazione, vedi Antonio Gibelli, Il popolo bambino. Infanzia e nazione dalla Grande Guerra a Salò, Einaudi, Torino 2005. 7 Antonio Faeti, Guardare le figure. Gli illustratori italiani dei libri per l’infanzia, Einaudi, Torino 1972, p. 243. 8 Alcuni di questi testi furono poi raccolti e pubblicati nei volumi: Piero Calamandrei, La burla di primavera e altre fiabe, Alpes, Milano 1920; Id., Colloqui con Franco, Edizioni de La Voce, Firenze 1923; Id., I poemetti della bontà, Bemporad, Firenze 1925. 9 Roberto Barzanti, Alla ricerca della Patria perduta, in Dolce patria nostra. La Toscana di Piero Calamandrei, a cura di Roberto Barzanti e Silvia Calamandrei, Le Balze, Montepulciano 2003, p. 15. 10 Vedi Sergio Luzzatto, La mummia della Repubblica. Storia di Mazzini imbalsamato 1872-1946, Rizzoli, Milano 2001; Dino Mengozzi, La morte e l’immortale. La morte laica da Garibaldi a Costa, Lacaita, Manduria-Bari-Roma 2000. 11 Vedi Piero Calamandrei, L’inventario della casa di campagna, Le Balze, Montepulciano 2002 (I ed. Le Monnier, Firenze 1941). Su questi temi lavora da anni Jana Mrázková: vedi il suo saggio L’«Inventario della casa di campagna» alle origini del linguaggio della libertà, in «Il Ponte», a. LIII, n. 12, dicembre 1997, pp. 69-108 e il più recente Il «linguaggio della libertà» di Piero Calamandrei, in Il Ponte di Piero Calamandrei. 1945-1956, a cura di Marcello Rossi, vol. I, Il Ponte Editore, Firenze 2005, pp. XXXIX-LX. 12 Vamba, L’epitaffio di Francesco Giuseppe, Spinelli, Firenze 1916. Ma vedi anche Id., Resistere per esistere, Bemporad, Firenze 1917: un opuscolo militante rivolto «Alla gioventù delle nostre scuole mentre sul confine d’Italia si decide forse la lotta tra la Civiltà e la Barbarie», scritto a ridosso di Caporetto. 13 Ne dà notizia Omero Redi (Ermenegildo Pistelli) nella prefazione alla II

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ed. di Vamba, I bimbi d’Italia si chiaman Balilla. I ragazzi italiani nel Risorgimento nazionale, Bemporad, Firenze 1921 (I ed. 1915). 14 Piero Calamandrei, La decorazione di Vamba, in «Il Giornalino della domenica», a. VIII, n. 49, 5 dicembre 1920, p. 6. 15 APC (Archivio della famiglia Calamandrei), Lettere ad Ada, 16 agosto 1910, 2 agosto 1912, 12 agosto 1914. Una selezione delle lettere è stata pubblicata in Calamandrei, Ada con gli occhi stellanti. Lettere 1908-1915, cit. 16 Le collezioni sono conservate nella biblioteca di famiglia, a Montepulciano. 17 Piero Calamandrei, Diario 1939-1945, a cura di Giorgio Agosti, vol. I, La Nuova Italia, Firenze 1997 (I ed. cit.), p. 173. 18 APC, Lettere ad Ada, 23 agosto 1915. 19 Ersilia Alessandrone Perona, L’epistolario come forma di autobiografia: un percorso nel carteggio di Piero Gobetti, in «Dolce dono graditissimo». La lettera privata dal Settecento al Novecento, a cura di Maria Luisa Betri e Daniela Maldini Chiarito, Angeli, Milano 2000, p. 20. 20 APC, Lettere ad Ada, 5 agosto 1916. 21 Vedi Robert Wohl, La generazione del 1914, Jaca Book, Milano 1983 (ed. or., 1979). 22 APC, Lettere ad Ada, 31 agosto 1915. 23 Ivi, 26 settembre 1915. 24 Ivi, s.d. (ma 1° ottobre 1915). 25 Ivi, 7 gennaio 1916. 26 Ivi, 12 agosto 1916. 27 Ivi, 8 settembre 1916. 28 Ivi, 19 ottobre 1916. 29 Ivi, 29 maggio 1916. 30 Vedi Eric J. Leed, Terra di nessuno. Esperienza bellica e identità personale nella Prima guerra mondiale, Il Mulino, Bologna 1985 (ed. or., 1979). 31 APC, Lettere ad Ada, 16 giugno 1916. 32 MST (Museo storico in Trento), Fondo Piero Calamandrei, b. 1, f. 1, cc. 1-5, Di rincalzo, coi territoriali, manoscritto in versi, datato «Malga Fieno, 16-18 settembre» [1916]. 33 Le notti chiare erano tutte un’alba. Antologia dei poeti italiani nella Prima guerra mondiale, a cura di Andrea Cortellessa, Bruno Mondadori, Milano 1998, p. 166. 34 APC, Lettere ad Ada, 16 novembre 1916. 35 Ivi, 30 giugno 1917. 36 Ivi, 15 novembre 1916. 37 Ivi, 23 luglio 1916. 38 Ivi, 1° ottobre 1916. 39 Ivi, 3 maggio 1916. 40 Ivi, 17 agosto 1916. 41 Vedi Giovanna Procacci, Soldati e prigionieri italiani nella Grande guerra. Con una raccolta di lettere inedite, Bollati Boringhieri, Torino 2000, p. 108. 42 APC, Lettere ad Ada, 6 agosto 1916. Vedi Piero Calamandrei, Letteratura da trincea, in «Arena» (Verona), 29, 30, 31 maggio 1918. 43 Uno studio esemplare su questa tipologia di fonte è il libro di Rosalba

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Dondeynaz, Selma e Guerrino. Un epistolario amoroso (1914-1920), Marietti, Genova 1992. 44 Vedi Calamandrei, Ada con gli occhi stellanti, cit. 45 APC, Lettere ad Ada, 5 ottobre 1915. 46 Vedi Fabio Caffarena, Lettere dalla Grande Guerra. Scritture del quotidiano, monumenti della memoria, fonti per la storia. Il caso italiano, Unicopli, Milano 2005, pp. 50-52. 47 APC, Lettere ad Ada, 5 marzo 1918. 48 Paul Fussell, La grande guerra e la memoria moderna, Il Mulino, Bologna 1984, p. 345 (ed. or., 1975). 49 Traggo liberamente spunto da Donne e uomini nelle guerre mondiali, a cura di Anna Bravo, Laterza, Roma-Bari 1991, e da Françoise Thébaud, La Grande Guerra: età della donna o trionfo della differenza sessuale, in Storia delle donne in Occidente. Il Novecento, Laterza, Roma-Bari 1992, pp. 25-90. 50 APC, Lettere ad Ada, 22 luglio 1916. 51 Ivi, 12 luglio 1916. 52 Ivi, 2 novembre 1915. 53 Ivi, 1° novembre 1915. 54 Ivi, 12 novembre 1915. 55 Ivi, 23 novembre 1915. 56 Ivi, 5 settembre 1917. 57 Ilaria Porciani, Famiglia e nazione nel lungo Ottocento, in Famiglia, società civile e Stato tra Otto e Novecento, a cura di Paul Ginsborg e Ilaria Porciani, in «Passato e Presente», n. 57, settembre-dicembre 2002, p. 11. Vedi Alberto M. Banti, L’onore della nazione. Identità sessuali e violenza nel nazionalismo dal XVIII secolo alla Grande Guerra, Einaudi, Torino 2005. 58 APC, Lettere ad Ada, 2 novembre 1915. 59 Ivi, 10 marzo 1918. 60 MST, Fondo Piero Calamandrei, b. 1, f. 1, cc. 36-37, Discorso per l’inaugurazione della «Casa del Soldato» in Borghetto, dattiloscritto s.d. (ma 15 settembre 1918). 61 APC, Lettere ad Ada, 17 gennaio 1916. 62 Ivi, 6 marzo 1916. 63 Ivi, 27 dicembre 1915. 64 Ivi, 28 dicembre 1915. 65 ISRT (Istituto storico della Resistenza in Toscana), Fondo Piero Calamandrei, b. XVII, f. 1, Lettera a Egidia, 27 settembre 1916. 66 APC, Lettere ad Ada, 18 marzo 1916. 67 Ivi, 27 marzo 1916. 68 MST, Fondo Piero Calamandrei, b. 1, f. 1, c. 50, Diario bolzanese, quaderno manoscritto, 15-17 novembre 1918. 69 Piero Calamandrei, Visetti bruni e vesti bianche. Profili tunisini, in «Il Giornalino della domenica», a. V, n. 6, 6 febbraio 1910, pp. 10-13, ora in Piero Calamandrei, La burla di primavera con altre fiabe, e prose sparse, Sellerio, Palermo 1987, pp. 69-77. 70 Id., La scappata, in «Il Giornalino della domenica», a. V, n. 5, 30 gennaio 1910, pp. 9-10. 71 ISRT, Fondo Piero Calamandrei, b. XI, f. 2, È tornato Salvemini, appun-

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ti manoscritti s.d. (ma 1947). Il testo sarà ripreso e rielaborato nell’articolo Il nostro Salvemini, in «Il Ponte», a. XI, n. 7, luglio 1955, pp. 1009-1020. 72 APC, Lettere ad Ada, 14 agosto 1916. 73 Piero Calamandrei, «Castrensis jurisdictio obtusior», in «Il Ponte», a. XII, n. 3, marzo 1956, p. 397. 74 APC, Lettere ad Ada, 8 aprile 1918. 75 MST, Fondo Piero Calamandrei, b. 1, f. 3, c. 5, Bollettino riservato n. 1, 20 aprile 1918. 76 Ivi, b. 1, f. 4, cc. 1-4, Bollettino della Sezione P del Comando della I Armata, n. 1 bis, a firma del Cap. Casoni, oggetto «Organizzazione della propaganda nemica sulla nostra fronte (Contatti e fraternizzazione)», 20 maggio 1918. 77 Cesare Caravaglios, L’anima religiosa della guerra, Mondadori, Milano 1935. Vedi Antonio Gibelli, L’officina della guerra. La Grande Guerra e le trasformazioni del mondo mentale, Bollati Boringhieri, Torino 1991; Cesare Bermani, Spegni la luce che passa Pippo. Voci, leggende e miti della storia contemporanea, Odradek, Roma 1996, pp. 1-91. 78 MST, Fondo Piero Calamandrei, b. 1, f. 3, c. 5, Bollettino riservato n. 8, 30 maggio 1918, b. 1, f. 3, cc. 18-29. 79 Imprescindibile, al riguardo, il rimando al classico studio di Marc Bloch, Riflessioni di uno storico sulle false notizie della guerra, in La guerra e le false notizie. Ricordi (1914-1915) e riflessioni (1921), Donzelli, Roma 1994 (ed. or., 1921). 80 MST, Fondo Piero Calamandrei, b. 1, f. 4, cc. 102-106, Relazione quindicinale alla Sezione P dell’Ufficio Informazioni I Armata, 16 ottobre 1918. 81 Vedi, in relazione al fronte interno, lo studio recente di Daniele Ceschin, Gli esuli di Caporetto. I profughi in Italia durante la Grande Guerra, Laterza, Roma-Bari 2006. 82 MST, Fondo Piero Calamandrei, b. 1, f. 3, cc. 40-49, Bollettino riservato n. 11, 5 luglio 1918. 83 Ivi, b. 1, f. 4, cc. 24-31, Relazione quindicinale alla Sezione P dell’Ufficio Informazioni I Armata, 31 maggio 1918. 84 Ibidem. 85 Ivi, b. 1, f. 4, cc. 45-52, Relazione quindicinale alla Sezione P dell’Ufficio Informazioni I Armata, 1° luglio 1918. 86 Ivi, b. 1, f. 3, c. 126, Bollettino riservato n. 17, 28 settembre 1918. Nella biblioteca di Calamandrei, a Montepulciano, sono conservate due copie del libro di Jahier: una prima edizione, più piccola, pubblicata dall’«Astico» è datata «Zona di fuoco, estate 1918»; una seconda, con dedica «con un abbraccio del tuo Jahier», è l’edizione numerata di 5000 esemplari fuori serie, pubblicata dalla Sezione P della I Armata in Trento redenta, Capodanno 1919. 87 Un profilo storico del Servizio P è stato tracciato da Gian Luigi Gatti, Dopo Caporetto. Gli ufficiali P nella Grande guerra: propaganda, assistenza, vigilanza, presentazione di Giorgio Rochat, Goriziana, Gorizia 2000. 88 APC, Lettere ad Ada, 21 novembre 1915. 89 Mario Isnenghi, Il mito della grande guerra, Il Mulino, Bologna 1997 (I ed. 1970), pp. 289-296. 90 MST, Fondo Piero Calamandrei, b. 1, f. 4, c. 10, Circolare agli Ufficiali di Collegamento P con oggetto «Norme per la compilazione della relazione quindicinale», 19 aprile 1918.

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Vedi Gibelli, Il popolo bambino, cit. APC, Lettere ad Ada, 14 aprile 1918. 93 MST, Fondo Piero Calamandrei, b. 1, f. 4, Relazione quindicinale alla Sezione P dell’Ufficio Informazioni I Armata, 15 maggio 1918. 94 Ivi, b. 1, f. 1, Relazione del Capitano Capo Centro, 28 maggio 1918. 95 Ivi, b. 1, f. 4, Relazione quindicinale alla Sezione P dell’Ufficio Informazioni I Armata, 16 ottobre 1918: l’efficacia dei manifesti murali si vede bene dalle lettere passate alla censura, nelle quali «è facile riconoscere dei concetti che certamente son penetrati nella mente dei soldati attraverso la nostra propaganda». 96 Ivi, b. 1, f. 3, cc. 18-29, Bollettino della Sezione P del Comando della I Armata, n. 8, 30 maggio 1918. 97 Ivi, b. 1, f. 3, cc. 125-127, Bollettino della Sezione P del Comando della I Armata, n. 17, 28 settembre 1918. 98 Ivi, b. 1, f. 3, cc. 35-38, Bollettino della Sezione P del Comando della I Armata, n. 10, 25 giugno 1918. 99 Ivi, b. 1, f. 3, c. 4, Bollettino della Sezione P del Comando della I Armata, n. 3, 25 aprile 1918. 100 Ivi, b. 1, f. 1, cc. 51-55, Discorso per il conferimento di un premio ai soldati da parte dell’associazione “Omaggio ai combattenti” di Legnano, 29 giugno 1918. 101 Ivi, b. 1, f. 3, c. 3, Bollettino della Sezione P del Comando della I Armata, n. 2, 22 aprile 1918. 102 Ivi, b. 1, f. 3, cc. 93-105, Bollettino della Sezione P del Comando della I Armata, n. 16, 10 settembre 1918. 103 APC, Lettere ad Ada, 8 aprile 1918. 104 MST, Fondo Piero Calamandrei, b. 1, f. 4, cc. 82-91, Relazione quindicinale alla Sezione P dell’Ufficio Informazioni I Armata, 16 settembre 1918. 105 Mario Isnenghi, L’Italia in piazza. I luoghi della vita pubblica dal 1848 ai giorni nostri, Mondadori, Milano 1994, p. 104. 106 MST, Fondo Piero Calamandrei, b. 1, f. 4, cc. 39-44, Allegato alla relazione quindicinale alla Sezione P dell’Ufficio Informazioni I Armata, avente per oggetto «Educazione morale degli ufficiali subalterni», 5 giugno 1918. 107 Ibidem. 108 Ivi, b. 1, f. 4, cc. 92-100, Relazione quindicinale alla Sezione P dell’Ufficio Informazioni I Armata, 1° ottobre 1918. 109 APC, Lettere ad Ada, novembre 1918. 110 Ibidem. 111 MST, Fondo Piero Calamandrei, b. 1, f. 1, cc. 197-219, Testo manoscritto della conferenza sulla entrata a Trento tenuta alla “Pro Coltura di Firenze” probabilmente nel gennaio 1919 e poi al Touring Club di Milano probabilmente nel febbraio 1919; Piero Calamandrei, Nell’anniversario della vittoria. Come fu liberata Trento, in «La Lettura», rivista mensile del «Corriere della Sera», 1° novembre 1919, pp. 761-772; ISRT, Fondo Piero Calamandrei, b. XII, f. 3, Manoscritto autografo commemorazione a Trento, 3-4 novembre 1948; Trent’anni, in «Il Ponte», IV, n. 11, novembre 1948, pp. 1010-1029. 112 Perché l’Alto Adige è nostro. Spunti di conversazione coi soldati per gli Ufficiali Subalterni, a cura della Sottosezione P del XXIX Corpo d’Armata, s.n.t., pp. 30. 91 92

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113 MST, Fondo Piero Calamandrei, b. 1, f. 4, cc. 71-75, Relazione quindicinale alla Sezione P dell’Ufficio Informazioni I Armata, 17 agosto 1918. 114 Piero Calamandrei, Problemi dell’Alto Adige, in «L’Unità», n. 43-44, 30 ottobre 1919, pp. 217-218. 115 MST, Fondo Piero Calamandrei, b. 1, f. 1, cc. 194-196, Minuta di una lettera al capitano Gaetano Casoni, s.d. (ma dicembre 1918). 116 Ivi, b. 1, f. 4, cc. 82-91, Relazione quindicinale alla Sezione P dell’Ufficio Informazioni I Armata, 16 settembre 1918. 117 Piero Calamandrei, Pel convegno degli “unitari”, in «L’Unità», n. 10, 8 marzo 1919, p. 62. 118 Calamandrei, Il nostro Salvemini, cit., p. 1011; Piero Calamandrei e Federico Comandini, Problemi delle terre redente, in «Volontà», a. III, n. 9-10, maggio 1920, pp. X-XV; e la testimonianza di Calamandrei in Lucangelo Bracci Testasecca. Nel suo diario di guerra e nel ricordo degli amici (1952), Le Balze, Montepulciano 2002, pp. 241-244. 119 Vedi la prefazione di Giovanni Gentile a Luigi Russo, Vita e disciplina militare, Treves, Milano 1919; Giorgio Chiosso, L’educazione nazionale da Giolitti al primo dopoguerra, La Scuola, Brescia 1982, pp. 148-178; Luca Polese Remaggi, La nazione perduta. Ferruccio Parri nel Novecento italiano, Il Mulino, Bologna 2004, pp. 99-105. 120 Giorgio Pasquali, Piero Calamandrei, L’Università di domani, Campitelli, Foligno 1923. 121 Mimmo Franzinelli, Introduzione a «Non Mollare» (1925), riproduzione fotografica, con saggi di Gaetano Salvemini, Ernesto Rossi e Piero Calamandrei, a cura di Mimmo Franzinelli, Bollati Boringhieri, Torino 2005, p. VIII. 122 Era stato un maestro comunale, socialista e antimilitarista, convertito all’interventismo a ridosso del conflitto, promosso ufficiale per meriti di guerra; sarà direttore dell’Ufficio stampa e propaganda del Partito nazionale fascista, poi presidente della Federazione nazionale fascista dell’industria editoriale, nonché autore di molti libri di esaltazione e propaganda del fascismo. Vedi Elisabetta Lecco, Francesco Ciarlantini nel Dizionario biografico degli italiani, v. 25, Istituto della Enciclopedia italiana, Roma 1981, pp. 214-216. 123 Vedi Il partito politico dalla Grande Guerra al fascismo. Crisi della rappresentanza e riforma dello Stato nell’età dei sistemi politici di massa (1918-1925), a cura di Fabio Grassi Orsini e Gaetano Quagliariello, Il Mulino, Bologna 1996, in particolare i saggi di Hartmut Ullrich, Fabio Grassi Orsini e Gaetano Quagliariello. 124 Calamandrei, Vamba nostro, cit., p. 8. 125 Enzo Balocchi, Piero Calamandrei docente nell’Ateneo senese, Facoltà di Giurisprudenza, Siena 1988, estr. da «Studi senesi», 100, 1988, n. 3, pp. 367384. 126 APC, Discorso alle signore senesi, 1921; ora in Piero Calamandrei, La lapide della discordia. Orazioni sulla Grande Guerra. Montepulciano e Siena 19201923, a cura della Società Storica Poliziana, introduzione di Silvia Calamandrei, Le Balze, Montepulciano 2006, pp. 54-56. 127 Ibidem. 128 Piero Calamandrei, In commemorazione dei morti a Montanara ed a Curtatone, in «Il libero cittadino», 5 giugno 1920, e poi in un opuscolo con il titolo In memoria degli studenti caduti per la patria, Siena 1920.

Introduzione

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Vedi Calamandrei, La lapide della discordia, cit. Piero Calamandrei, Sciopero di coscienze, in «L’Era Nuova (Il libero cittadino)», 25 novembre 1920. 131 Id., «Voliamo le vachanze!», in «Il Nuovo Giornale», 2 febbraio 1921. 132 Id., Fascismo scolastico, in «Il popolo romano», 7 ottobre 1921, II ed. 133 Id., «Voliamo le vachanze!», cit. 134 Id., La decorazione di Vamba, in «Il Giornalino della domenica», a. VIII, n. 49, 5 dicembre 1920, p. 6. 135 Id., [Sala dei ricordi], articolo senza titolo firmato Piero Calamandrei, sotto la foto della «Sala dei ricordi», in Monumento Asilo in memoria dei concittadini caduti in guerra. Numero Unico – Ricordo dell’Inaugurazione – Siena 299-1924, Siena 1924. Sono temi che riemergeranno nel secondo dopoguerra. Si legga, ad esempio, il famoso Discorso sulla Costituzione tenuto da Calamandrei all’Umanitaria di Milano nel 1955; vi si troverà una impressionante continuità con quelli sulla Grande Guerra. Le matrici culturali sono identiche, gli espedienti retorici gli stessi. Persino gli aneddoti ricorrono uguali, come quello dell’emigrante in mezzo all’oceano in tempesta che si disinteressa della sorte della nave, sostenendo di non esserne il proprietario, e rischiando così di finire a fondo con essa: Calamandrei lo riferirà ai ragazzi che ha di fronte nel ’55 per convincerli a interessarsi della politica, come aveva fatto nel ’18 per convincerne altri a continuare la guerra. E i parallelismi continuano. Negli articoli della Costituzione sentirà le voci lontane di Mazzini e Garibaldi, di Cavour, Cattaneo e Beccaria, mescolate alle voci recenti dei giovani morti partigiani, proprio come a suo tempo aveva sentito le voci di altre schiere di morti levarsi dai campi di battaglia, dallo Stelvio a Monfalcone. E se nel ’21 aveva invitato le nuove generazioni «nate troppo tardi» a recarsi in pellegrinaggio sul Carso e sul Piave, nel ’55 le spronerà ad andare sui monti, nelle carceri, nei campi di concentramento. Nel 1920 aveva chiesto agli studenti senesi di non tradire il sacrificio di cinquecentomila morti; venticinque anni dopo chiederà agli studenti milanesi di ricevere nelle loro mani la Costituzione come un «testamento di centomila morti». Morti in Russia e in Africa, per le strade di Milano e di Firenze: accostati ancora una volta come se fossero tutti martiri – consapevoli o meno, prima e dopo l’8 settembre 1943 – di un significato che li sovrasta. 136 Jay Winter, Il lutto e la memoria. La Grande Guerra nella storia culturale europea, Il Mulino, Bologna 1998, pp. 27-29. 137 Quello del rapporto con la generazione del fascismo sarà, come è noto, uno dei principali crucci di Calamandrei e condizionerà anche la sua comprensione della Resistenza; oltre al Diario 1939-1945, cit., e al recente saggio introduttivo di Sergio Luzzatto alla riedizione di Uomini e città della Resistenza, Laterza, Roma-Bari 2006, si possono vedere gli appunti di due suoi discorsi conservati presso l’Istituto toscano per la storia della Resistenza, Fondo Calamandrei, b. IX, f. 2, Conferenza tenuta a Bologna [ma Firenze] sul tradimento dei giovani, traditore il fascismo, s.d. (ma databile tra l’autunno del 1944 e la primavera del 1945) e Tre generazioni di studenti, s.d. (ma databile tra il 1955 e il 1956). Che non si trattasse solo di un caso individuale, ma di un problema di cultura politica, lo si intuisce dalla stentata ricezione, tra i giovani degli anni Trenta, di due classici della memorialistica non fascista della Grande Guerra, come i Momenti della vita di guerra di Omodeo, del ’34, e la riedizione, nello stesso anno, di Vita e disciplina militare di Russo, cit. (vedi Alessandro Galante 129 130

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Garrone, Introduzione a Adolfo Omodeo, Momenti della vita di guerra. Dai diari e dalle lettere dei caduti 1915-1918, Einaudi, Torino 1968). 138 Rassegna elettorale, in «La vedetta senese», 20 aprile 1921. 139 Vedi Calamandrei, La lapide della discordia, cit., p. 101. 140 Alessandro Galante Garrone, Calamandrei, Garzanti, Milano 1987, pp. 54-92. 141 Piero Calamandrei, La Cassazione civile, Fratelli Bocca, Torino 1920; dell’anno successivo è il non meno celebre Troppi avvocati!, Edizioni de La Voce, Firenze 1921, riedito in anastatica dalla Fondazione Forense Bolognese, in «Quaderni della Fondazione Forense Bolognese», n. 6, Bologna 2006, con introduzione di Silvia Calamandrei. 142 Poi ristampata da Ernesto Rossi nel saggio L’Italia Libera, che introduce la ristampa di «Non mollare» pubblicata nel 1955 [ora in «Non Mollare» (1925), cit., a cura di Mimmo Franzinelli, p. 50]. 143 Uno spaccato assai persuasivo e documentato del complesso viluppo di relazioni politiche e accademiche all’interno dell’ateneo fiorentino tra le due guerre è offerto da Luciano Canfora, Il papiro di Dongo, Adelphi, Milano 2005. 144 ISRT, Fondo Piero Calamandrei, b. XVII, f. 2, minuta manoscritta, s.d. (ma febbraio 1925). Tra parentesi uncinate < > le parole cancellate dall’autore. Nello stesso Fondo, b. XXIV, f. 4, è conservata anche la risposta di Pistelli, datata Firenze, 13 febbraio 1925. Dopo aver smentito di aver mai pensato a Piero Calamandrei come autore di «Non Mollare» e del sonetto canzonatorio, Ermenegildo Pistelli scrive: «E benché io sia sicuro che molta di questa roba esca da persone che hanno le sue idee antifasciste e che le sono state vicine nel “Circolo di cultura”, so bene che non deve risponderne Lei – come, d’altra parte, in Battaglie Fasciste o altrove io non rispondo che di quel che firmo»; quindi attacca «Rivoluzione Liberale» di Gobetti, annunciando querela per Giovanni Ansaldo che vi ha scritto un «ignobile e calunnioso articolo» in cui lo accusa di aver additato – in occasione della solenne inaugurazione dell’anno accademico all’Università di Firenze, il 20 gennaio 1925 – alle squadre di bastonatori gli studenti da colpire. La figura di Pistelli e questa particolare vicenda sono ricordate in dettaglio – ma senza far cenno allo scambio epistolare – da Piero Calamandrei in Il manganello, la cultura e la giustizia, in «Non Mollare» (1925), cit., pp. 87-90; qui è riportata anche la smentita inviata da Salvemini a «Rivoluzione Liberale» a proposito del ruolo svolto da Pistelli: «Non è in alcun modo vero che il professor Pistelli additasse gli alunni da bastonare ai fascisti bastonatori. Questo è smentito da tutti i presenti, cominciando da alcuni bastonati. Chi conosce il Pistelli sa che in astratto egli può ritenere sante le bastonate, ma sarebbe disperato che una persona concreta fosse bastonata sotto i suoi occhi; e men che mai sarebbe capace di dirigere i bastonatori» (in «Rivoluzione Liberale», n. 7, 15 febbraio 1925, cit. a p. 90). 145 Ne scrive lo stesso Calamandrei in Il nostro Salvemini, cit., ricordando prima il «rammarico» di Carlo Rosselli e poi la «generosa comprensione» di Salvemini di fronte agli equilibrismi e ai piccoli cedimenti a cui il regime costringeva gli antifascisti dell’interno. «Noi in Italia, quando lo sapemmo, a distanza di molti mesi, ce ne amareggiammo. Mi par di ricordare che pensò Nello Rosselli, che, vivendo in Italia con noi, riusciva a far da tramite con Carlo, a dissipare l’equivoco. Certo è che dopo qualche tempo mi arrivò, per via clandestina, un pezzetto di carta da parte dello “zio” (come si chiamava, nel nostro linguag-

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gio, Salvemini), coll’avvertenza, datami verbalmente da chi me lo consegnò, del procedimento chimico che si doveva adoprare per render visibile la scrittura. Sotto l’azione del reagente, apparvero allora sul foglietto bianco queste parole scritte in rosso: “Prendo questa occasione per ricordarmi a te coi saluti più affettuosi. In confronto con noi, che viviamo al sicuro, la vita di voi altri che vivete in Italia salvando l’anima è assai più meritoria. In qualche momento io ho avuto qualche moto di sconforto e di scontento. Ma date le vostre condizioni, certe concessioni erano inevitabili”» (ivi, p. 1016). Calamandrei qui si riferisce ad un’inchiesta, scopertamente intimidatoria, con la quale nei primi mesi del ’26 i fascisti avevano imposto ai loro oppositori più in vista di prendere posizione rispetto al “fuoriuscitismo”. Su «Roma fascista» furono pubblicate decine di risposte – alcune abiure, alcuni mimetismi, alcuni sprazzi di orgoglio – e, in coda, l’elenco di coloro che ancora non si erano pronunciati, con il seguente minaccioso commento: «Aspettiamo ancora una settimana le risposte dei suddetti signori. Al silenzio di quelli che non si faranno vivi risponderemo noi». Questa la risposta che diede Calamandrei: «La questione dei “fuoriusciti” è ormai passata, mi sembra, dal campo politico in quello giuridico. Sono state votate misure eccezionali contro di essi, è stata creata una Commissione straordinaria per perseguirli, si svolge a loro carico una istruttoria. Come potrebbe oggi un cittadino ossequiente alle leggi anticipar giudizi in questa materia, senza invadere il campo dell’autorità competente e senza venir meno al più elementare rispetto dovuto alla condizione di chi è “sub iudice”? Questo penso come giurista, all’infuori di ogni considerazione politica. Ho d’altra parte coscienza che il mio passato – modesto ma coerente – di cittadino, di militare e di studioso basti ad attestare a chi mi conosce che io non posso in alcun modo sentirmi solidale con chi, all’estero o all’interno, operi in danno della Patria». Di fronte alla sottigliezza e alla duplicità di lettura dell’argomentazione, la redazione preferì commentare che nel suo scritto il prof. Calamandrei aveva condannato l’operato dell’opposizione durante l’episodio e l’istruttoria Matteotti e aveva confermato la tesi fascista sull’attività dei fuoriusciti: «La sua dichiarazione riguardo all’opera delittuosa di essi ci soddisfa pienamente» (La risposta degli uomini dell’opposizione alle nostre domande sull’azione proditoria dei fuoriusciti, in «Roma fascista», 13 marzo 1926).

ZONA DI GUERRA LETTERE, SCRITTI E DISCORSI (1915-1924)

Parte prima LETTERE

NOTA AI TESTI di Silvia Calamandrei

Le lettere giovanili di Piero Calamandrei alla fidanzata e poi moglie Ada Cocci datano dall’estate del 1908 al febbraio del 1919 e sono state da lei conservate nell’archivio familiare (APC), ordinate cronologicamente e con le relative buste contenenti talvolta fotografie o fiori seccati. Lo stato di conservazione è relativamente buono, fatta eccezione per lo sbiadimento dell’inchiostro (Calamandrei scriveva di solito con la stilografica, ma talvolta a matita). Le lettere di Ada, salvo una casualmente rimasta tra quelle di Piero, del 6 gennaio 1911, non sono invece conservate: probabilmente è lei stessa ad averle distrutte. Pubblicando l’edizione delle Lettere 1915-1956 di Piero Calamandrei1, i curatori Giorgio Agosti e Alessandro Galante Garrone ringraziavano nell’avvertenza Ada per aver lasciato prendere visione della maggior parte delle lettere del periodo della Grande Guerra e dichiaravano di aver fatto «di necessità una scelta, omettendo quelle lettere, o quei brani, che hanno carattere strettamente personale o familiare». In tale edizione vennero pubblicate parzialmente 157 lettere ad Ada, interpolate da quattro lettere alla sorella Egidia Calamandrei, quattro lettere allo zio Francesco Pimpinelli e una ai genitori Laudomia e Rodolfo (attualmente custodite nell’Archivio dell’Istituto storico della Resistenza toscano: ISRT); c’erano inoltre alcune altre lettere, reperite presso i destinatari: tre a Luigi Bertelli (Vamba), due all’amica di famiglia Zoe Lombardi, una a

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La Nuova Italia, Firenze 1968.

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Parte prima. Lettere

Giuseppe Lombardo Radice e una al rettore dell’Università di Modena Pio Colombini. Per l’attuale scelta, si è proceduto ad una rilettura integrale delle 915 lettere ad Ada del periodo 14 agosto 1915-10 febbraio 1919, ripartite negli anni nel modo seguente: 105 dall’agosto alla fine del 1915; 288 fino alla fine di novembre del 1916, quando Piero parte per la licenza matrimoniale; 214 dal rientro in zona di guerra nel maggio 1917 alla fine del 1917; 293 nel 1918; 15 fino al 10 febbraio 1919, data del congedo definitivo. Sono state inoltre esaminate le lettere custodite nell’Archivio ISRT, reperendone altre ad Egidia Calamandrei. Nella selezione si è cercato di intrecciare più equilibratamente gli aspetti personali con la descrizione dell’esperienza della guerra. Se è vero che il continuum delle lettere d’amore ad Ada viene in qualche modo spezzato dalla partenza per il fronte, ella resta l’interlocutrice privilegiata con cui Piero comunica quasi quotidianamente trasmettendo i suoi sentimenti più intimi e profondi. Premessa essenziale è dunque il primo blocco dell’epistolario, dal 1908 alla prima metà dell’agosto 1915, alla vigilia della mobilitazione di Piero, di cui è stata pubblicata un’antologia con il titolo Ada con gli occhi stellanti2. Rispetto all’edizione del 1968 si è ampliata la scelta delle lettere ad Ada (220), e si è seguita la stessa metodologia dell’edizione delle lettere 1908-1915, privilegiando i brani che danno testimonianza delle varie gamme della comunicazione. I raccordi danno conto delle lettere scartate, riassumendo le notizie più importanti ed estrapolandone passaggi particolarmente significativi. Le parentesi quadre con i tre puntini sospensivi indicano i tagli all’interno delle lettere. Le lettere a Egidia Calamandrei e a Francesco Pimpinelli sono state inserite sulla base degli originali, mentre non sono state incluse una lettera a Zoe Lombardi e la lettera a Pio Colombini. Le lettere a Vamba sono riprodotte dall’edizione del 1968. Nella trascrizione, si è rispettata l’ortografia dello scrivente, ivi compresi i toscanismi come «sodisfazione», «imaginare», «beve2

Sellerio, Palermo 2005.

Nota ai testi

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re», ecc. L’ordine cronologico delle annate è ritmato da sezioni titolate secondo i luoghi d’origine delle lettere e da sottotitoli in corsivo della curatrice.

1915

VERSO LA GUERRA

A partire dall’agosto 1910 Piero Calamandrei, ventunenne, è richiamato annualmente a Firenze per la visita militare. Nelle lettere alla fidanzata Ada Cocci, in coincidenza con tali occasioni, esprime insofferenza per la disciplina e per la stupidità della gerarchia e la «convenzione del servizio militare». Ogni anno ottiene il rinvio per gli studi (si laurea in Giurisprudenza nel luglio del 1912 con il Professor Carlo Lessona) finché nel 1913 alla visita medica gli viene diagnosticata una forte miopia che gli assicura il congedo. Le notizie della guerra nell’estate del 1914, che definisce nelle lettere alla fidanzata «sempre più inumane e minacciose anche per l’Italia»1 gli «mettono sempre in fondo all’anima [...] come un senso di trepida attesa, come un’ombra di paura per qualche oscuro pericolo che minacci da un giorno all’altro la nostra felicità»2. È chiaro che in caso di mobilitazione non si sottrarrebbe: «Se l’ordine di mobilitazione sia imminente o no, non si sa per ora: siamo in un tal periodo che da un giorno all’altro possono verificarsi avvenimenti tali per i quali non solo tutti i soldati di qualunque classe e categoria, ma anche tutti i validi debbano volontariamente recarsi a far la propria parte»3. La prospettiva non sembra suscitare alcun entusiasmo in Piero, che anzi esprime odio per la guerra, tutto concentrato com’è sull’amore per Ada. Le scrive il 10 settembre 1914 di non avere più anima salvo «quella parte dell’anima mia ch’è occupata da te»: dunque non c’è più posto «per il mio avvenire, per le mie aspirazioni, per quelli che nella prima adolescenza parevano ideali politici superiori ad ogni contingen1 Piero Calamandrei, Ada con gli occhi stellanti. Lettere 1908-1915, a cura di Silvia Calamandrei, Sellerio, Palermo 2005, p. 283. 2 APC, Lettera ad Ada [inedita], Montepulciano, 12 agosto 1914. 3 Calamandrei, Ada con gli occhi stellanti, cit., p. 295.

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Parte prima. Lettere

za». Odia tutto ciò che lo allontana da Ada e soprattutto «la guerra che potrebbe farmi morire prima di aver avuto tutte le tue carezze»4. Vinta nell’ottobre 1914 una borsa di studio per perfezionarsi con il giurista Giuseppe Chiovenda, a Roma, vede la guerra come interferenza ai suoi progetti professionali («se la guerra non butterà all’aria ogni cosa») che lo avvicinano all’indipendenza economica e dunque al matrimonio con Ada. Nelle lettere da Roma nella primavera del 1915, nessun cenno a manifestazioni a favore della guerra, né all’entrata in guerra dell’Italia. Il «maggio radioso» non sembra coinvolgerlo. Quando, nell’agosto 1915, si arruola volontario, iniziando le esercitazioni militari a Firenze, definisce la guerra «questa immensa tragedia che ci circonda» che gli appare come «un sogno d’incubo»5. È assegnato ai servizi territoriali, probabilmente a causa del difetto alla vista.

FIRENZE

Dai primi di agosto del 1915 Piero è richiamato per l’addestramento militare a Firenze. L’11 prende congedo da Ada, che dopo aver trascorso alcuni giorni con lui parte per Montepulciano, presso lo zio Nicola Cocci, medico condotto del paese, e le cugine Clelia e Lidia. Fuori le mura di Montepulciano, nel villino di San Lazzaro, trascorre la villeggiatura la famiglia Calamandrei: il padre Rodolfo, avvocato, la madre Laudomia e la sorella minore Egidia. Le esercitazioni militari al Campo di Marte, alle Cascine e sui Colli (luoghi prediletti delle passeggiate con Ada) si alternano all’attività professionale nello studio legale del padre Rodolfo, agli studi per completare l’opera sulla Cassazione, agli svaghi con gli amici e alle visite ai parenti. Piero immagina Ada ammirata da «qualche conte di coteste parti», «tanto triste di non poter servire la patria per le condizioni di deperimento in cui lo ha ridotto il troppo studio», e le descrive le sue giornate, tutt’altro che sublimi.

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Ivi, p. 298. Ivi, lettera ad Ada, Firenze, 11 agosto 1915, p. 310.

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14 agosto 1915 La mia vita è sempre la stessa: quando c’eri tu, essa si divideva in una parte insignificante ed in una sublime... Ora la parte sublime non c’è più. Ho seguitato a levarmi alle cinque, perché sono continuate in questi giorni le istruzioni di plotone dalle 6 alle 9: ho dormito regolarmente dal tocco alle tre ed anche più: ieri sera andai a letto alle 83/4 (otto e tre quarti)! Ti avevo detto che volevo rimettermi a lavorare alla Cassazione6; ma non mi riesce: non ho né voglia, né tranquillità. Compro otto o dieci giornali al giorno e li getto via appena lette le intitolazioni: passo delle ore qui allo Studio a guardare questo mio banco in disordine coll’intenzione di riordinarlo e senza la possibilità di cominciare da una parte in modo conclusivo. Stasera dalle cinque alle sei sono stato alla conferenza al Comando militare, ove ci hanno insegnato a leggere le carte geografiche e topografiche per servircene al campo dove andremo il 29. Domattina non anderò in caserma fino alle 10, per assistere al giuramento dei nuovi ufficiali e nel pomeriggio non so ancora che cosa farò: certamente dormirò e poi andrò forse a fare un bagno ai Rari Nantes. Da lunedì rientriamo in servizio nelle nostre compagnie, e quindi ricominceremo le fatiche dei primi giorni, colla grande sodisfazione di poter comandare una schiera al Campo di Marte. 16 agosto 1915 Stamani mi son levato alle 41/2, salutando al solito il giorno nuovo con una imprecazione alla sveglia e con un sospiro di malinconia per la vanità della giornata che comincia: ho fatto colazione in Piazza del Duomo, e sono andato poi a piedi al Campo di Marte, leggendo per la strada il modo in cui si costruiscono le trincee. Dal Campo di Marte, coi soldati, siamo andati verso S. Gervasio, in una spianata dove il genio ha costruito dei modelli di trinceramenti come quelli che si usano in guerra: poi, dopo la solita sfilata in parata, siamo tornati al solito “rapporto” alla caserma di S. 6 L’opera sarà pubblicata nel 1920 sotto il titolo La Cassazione civile, Fratelli Bocca, Torino. Rist. in Opere giuridiche, Morano, Napoli, voll. II (1966) e III (1968).

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Parte prima. Lettere

Giorgio e alle 11 siamo stati finalmente liberi. Breve visita allo Studio, al principale scopo di trovarvi la tua lettera; pranzo dal Paoli; ritorno a casa ed ivi tre ore di sonno; poi, alle 4, son tornato ancora allo Studio ove tuttora (son le 81/2) mi trovo a conversare con te. Tra poco andrò a cena e poi alla stazione a salutare degli ufficiali che partono per la zona di guerra. Se vai al Villino7, dai alla Mamma tutte le mie notizie; in una lettera di Egidia che non ritrovo qui e che devo aver portata a casa, mi domandavano qualcosa sulla lana per i soldati, ma non ricordo bene che cosa. Dì all’Egidia che, quando avrò riletto la lettera, risponderò a tono; ma per ora avverti lei e la mamma che, se fanno qualche indumento di lana grossa per i soldati (camiciole, corpetti, visiere, guanti etc.), lascino un capo o due di ogni qualità per uso mio: probabilmente non ne avrò bisogno, ma è bene premunirsi. 17 agosto 1915 Ho avuto oggi la fortuna di essere quello che si dice ufficiale di giornata (da non confondersi coll’ufficiale di picchetto, ufficio assai più gravoso), l’ufficiale cioè incaricato di accompagnare i soldati e di sorvegliare la caserma per tutto il giorno e ho dovuto camminare assai, senza dormire quanto avrei voluto, sicché ora mi sento un po’ rimbecillito e non vedo l’ora di andarmi a gettar sul mio letto, per restarvi immobile finché me lo permetterà quella cara signorina sveglia tanto delicata. Stamani mi son levato alle 41/2 ed ho camminato ininterrottamente fino alle 10 per strade piene di sole e di polvere: fino alle 111/2 ci hanno tenuto a San Giorgio ad attender gli ordini, e poi in gran fretta son venuto un momento qui allo Studio, ho mangiato e son corso a casa a dormire. Ma alle due ero già in piedi a spolverarmi i gambali, perché alle tre dovevo trovarmi alle rampe del Piazzale Michelangelo, ove tutti i soldati dovevano essere ad attendermi per ascoltare la spiegazione del regolamento disciplinare fatta da me. Sono andato con un sole feroce fino al luogo dell’appuntamento; ma i signori soldati non c’erano; e allora, salendo di buon passo su per le scalette e per i viali pieni d’ombra fre7 Il villino di San Lazzaro, fuori le mura di Montepulciano, dove i Calamandrei trascorrevano i mesi di villeggiatura.

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sca, sono arrivato al Piazzale, che era deserto: di lì, temendo di avere sbagliato il luogo del ritrovo, mi son precipitato nei Lung’Arni, e, traversando il ponte sospeso, sono arrivato ai Pratoni della Zecca, ove qualche volta vanno i soldati per le esercitazioni. Niente neppur qui: allora, e tu puoi immaginare con che bollore, ho rifatto la via già percorsa e son tornato alle Rampe: e siccome i soldati erano ancora introvabili, ho atteso il tram e mi son fatto portare alla caserma in Piazza S. Croce. Là il piantone mi ha detto che i soldati erano usciti da poco, diretti ai Pratoni della Zecca: ed io, via a gran velocità verso il luogo indicato, ove, naturalmente, non trovo nessuno; domando informazioni a un cocomeraio, e questi mi dice che ha visto passare i soldati oltre il ponte, verso il Viale dei Colli; e io dietro... Insomma, non li ho trovati: avrò fatto dieci chilometri quasi correndo, e alla fine sono tornato in caserma ad aspettarli, e li ho veduti tornare freschi e sorridenti, tutti meravigliati che non li avessi trovati alla prima... Da questa dolorosa storia comprenderai come la mia stanchezza (aggravata anche dal fatto che ieri sera feci mezzanotte per salutare gli ufficiali partenti) sia giustificata. 22 agosto 1915 Novità nella mia vita militare non ce n’è alcuna: iermattina, come ti scrissi, andammo a piedi a Lastra a Signa, e per due volte salutai l’ingresso del convento di Ponticelli, vedendovi entrare col pensiero una signorina colle sottane corte e il fiocco ai capelli8. Vi passai all’andare verso le sei, e al ritorno verso le undici: una marcia abbastanza piacevole, quantunque fatta su una via terribilmente polverosa e, al ritorno, soleggiata, e neanche troppo faticosa. Feci molta strada conversando coi miei commilitoni, o cantando coi soldati, ma molta, anche, marciando solo soletto un centinaio di metri prima della truppa, guardando malinconicamente i prati fioriti di radicchiella che paiono fiordalisi, e i poggi vestiti di pini che si affacciavano in lontananza. Domattina credo che andremo a Camerata, sopra S. Gervasio, a vedere non so che: ho sentito parlare di una “scuola di puntamento”. [...] Stai tranquilla per me e non ti immaginare il presente o l’avvenire prossimo più ter8

Ada, orfana di madre, vi era stata in collegio.

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ribile di quello che in realtà sia: l’unico tormento che veramente mi fa soffrire è la mancanza di te, e per esso guardo con una specie di angoscia, ogni volta che torno in casa, i miei vestiti da uomo, che non ho più indossato dal giorno che tu partisti... Amore, amore mio, se potessi ora togliermi in fretta questo vestito che mi fascia e mi trasforma, e guardando l’orologio per la paura di far tardi all’appuntamento, potessi mettermi la camicia a disegni azzurri che piace a te, e la cravatta che dorme nel cassettone, e il vestito bleu che mi rende ai tuoi occhi meno orribile, e il mio panama... [...] E invece, amore, uscirò colla sciabola e coi gambali: e i soldati mi saluteranno. 23 agosto 1915 Ho passato ieri e oggi due giornate un po’ pensierose, poiché si sapeva che da un momento all’altro dovevano esser chiamati, tra gli ufficiali territoriali che avessero compiuto il mese d’istruzione, alcuni – otto o dieci – per essere destinati non so a quale ufficio; si parlava di condurre i soldati alla linea di fuoco sull’Isonzo, di andare in Libia, di essere inquadrati nella spedizione ai Dardanelli che si sta formando. E tutti noi ci attendevamo di dover partire da un momento all’altro per qualche destinazione lontana. Stamani è stata nota la lista dei chiamati; il mio nome non era tra essi: vi era quello di Giacomo9, e quello del Gatteschi, col quale avevo fatto un’amicizia abbastanza cordiale. Si è saputo poi che la destinazione di questi ufficiali era meno terribile di quella annunziata: essi vanno a comandare due battaglioni che si formano qui a Firenze di milizia territoriale colle reclute del ’76, cioè coi soldati più vecchi che siano sotto le armi; vanno cioè a comandare i soldati più territoriali che si possano imaginare. Mi è dispiaciuto di restare senza il Gatteschi, che era un’ottima compagnia: anche perché tra due giorni va via il prof. Ercole, altro simpatico collega tra i molti indifferenti. Ma oggi, mentre ero andato su a San Giorgio per salutare Gatteschi, è venuto un fonogramma urgente che chiamava anche me al Distretto per la stessa destinazione...10 Il cugino Giacomo Pimpinelli. Piero viene destinato alla 3a Compagnia del 176° battaglione della milizia territoriale. 9

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Così da domani lascio San Giorgio, e la Caserma di S. Croce, e vado a comandare chissà che sgangherato plotone di uomini quarantenni, vestiti color borraccina e col cappellino a lobbia... In verità dal punto di vista militare, faccio un passo indietro... Ma tu, che guardi le cose solo da un punto di vista... non militare, devi esser lieta di questo passaggio che mi unisce stabilmente con truppa destinata a fare pochi salti. 27 agosto 1915 Adina mia, ti scrivo seduto a un piccolo tavolino, all’ombra di un portico monacale. Sono in un gran cortile somigliante a un di quelli della Certosa, sorridente di aiuole nel quadrato centrale, e circondato da porticati: stanotte, illuminato dalla luna mattutina delle quattro che tingeva il cielo quasi di un verde mare (il tuo vestito...), questo cortile era bellissimo... Ora, alle due del pomeriggio, la bellezza se n’è svanita o son io che più non riesco a vederla, un po’ intontito per la notte perduta e per il moto continuo che faccio da dieci ore in su e in giù per la caserma. Ma questo non toglie che io abbia la sodisfazione di essere il signor tenente di picchetto, al quale ogni soldato che entra fa un saluto rispettoso come quello che fanno i fedeli all’altare entrando in chiesa, e che in queste ore è il padrone assoluto di tutta la vita della caserma... [...] Ieri verso mezzogiorno andai a trovare il Prof. De Gregorio, il mio rivale di Messina11 (che, per caso, mi fu presentato per via ieri l’altro e che mi lasciò pregandomi di andare a trovarlo per parlare del nostro “conflitto di interessi”); fu gentilissimo e sincerissimo: e mi fece sperare nella possibilità di un accomodamento, per il quale, senza suo svantaggio, potrei esser chiamato io a Messina. Ma, per ora, si tratta solo di ipotetiche supposizioni. Scrivimi, amore, come mi scrivesti ieri e come mi avrai certo scritto oggi... Io debbo lasciare qui questa mia epistola sconclusionata, perché si attende da un minuto all’altro il colonnello che è un colosso di carne e di imbecillità: e quand’egli entra, io devo essere sull’attenti ai suoi ordini.

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Piero concorre ad una cattedra a Messina.

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28 agosto 1915 Amore mio, ti scrivo da un luogo che ti conosce e che si ricorda di te con tanta malinconia: da quel tavolino del buffet della stazione, presso al quale tante sere ci siamo seduti quando tornavamo dalle nostre passeggiate coi vestiti ancora odorosi di bosco e colle labbra ancora doloranti, e non sazie, di baci. [...] Stamani, amore, non sono più andato alle Cascine come ieri ti scrissi: ierisera tornando a casa trovai nell’uscio un biglietto in cui mi si avvertiva di essere in Caserma alle cinque per accompagnare i soldati a Fiesole, a fare una marcia... a sezione ridotta, da vecchi. E così stamani sono ritornato nei nostri dolcissimi regni, la cui solitudine mi è parsa però profumata dalla presenza dei miei poveri territoriali, più ridicoli che marziali. Siamo arrivati a S. Domenico alle sette, prendendo dalla corta, per la barriera del Pino: da S. Domenico si è presa la via del tram, e verso le otto eravamo sulla piazza di Fiesole, ove, naturalmente, abbiamo fatto qualche piccola manovra al comando del capitano (un ottimo uomo che si cura soltanto, beato lui, di dar noia alle donne che passano!). Durante il riposo, gli altri ufficiali mi hanno portato con loro a prender qualcosa all’Aurora: non vi sarei andato di mia iniziativa, perché... non so... quasi mi dispiace ritornare con altre persone nei luoghi ove sono stato con te: quasi mi pare ch’essi si intromettano come profanatori importuni nel secreto della mia felicità. Firenze si distingueva tra la leggera caligine, tutta tinta dal sole mattutino: pareva, confusa dalla nebbia, come luccicante d’oro. E mi sono seduto, anche lì al tavolino dove ci sedemmo: nello stesso punto, forse nella stessa seggiola. Al ritorno si è preso dalla via più breve: dalla stradicciuola scoscesa che abbiamo percorsa nelle ultime sere tra l’ombra e sotto le stelle, quando Firenze scintillava giù tra i cipressi, con i suoi lumi che facevan pensare a un porto di mare notturno. Stamani la stradicciuola era piena di polvere alzata dalla folla marciante: non l’ho riconosciuta: certo, non era più la stessa... 31 agosto 1915 Oggi ho dovuto recarmi ai magazzini, a contare il corredo dei soldati e a prenderlo in consegna: una bestia di colonnello al quale, quando vesto i miei panni, darei con molta amabilità di..., mi ha messo a scrivere sotto dettatura, rimproverandomi tre o quattro

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volte perché non copiavo il suo dettato o perché scrivevo male: e mi ha detto perfino: «Ma sa che lei è molto distratto?!». Io, per fortuna, non me ne curo: vo avanti benissimo con perfetta filosofia. Domattina vado a far la spesa: ho in tasca tutti gli appunti necessari, so che le carote costano 20 cent. al mazzo e i sedani 30. Nella nostra casa potrò così portare anche una certa esperienza di capocuoco... 1 settembre 1915 Ho il piacere di annunziarti che stamani ho fatto la spesa con molta regolarità e anche con molta genialità: dall’ortolano e dal pizzicagnolo sono stato addirittura sublime: ho saputo trovare una così armoniosa proporzione tra le cipolle e la conserva di pomodoro, il lardo e i fagiuoli, che proprio mi vedo nato per fare il dispensiere. Domattina abbiamo esercitazioni alle Cascine come iermattina, sul primo piazzale. È una cosa molto sodisfacente perché abbiamo la consolazione di veder d’intorno un circolo di spettatori, i quali stanno a sentire con molta convinzione le nostre spiegazioni: iermattina, dopo un discorso che feci al mio plotone per avvertire che il nuovo regolamento stabilisce che i numeri uno, ritornando per due in riga, vadano sempre a destra, vidi che molti degli spettatori avevano le lacrime agli occhi dalla commozione. Firenze, 2 settembre 1915 Adina, mi sono informato di nuovo della famosa lana, al Lyceum ed al comitato di preparazione: per ora in nessuno dei due posti la lana è disponibile, ma al Comitato di preparazione mi hanno assicurato che fra tre o quattro giorni la lana tornerà dal pelatoio e la potranno cedere a prezzi minimi: 5 o 6 lire al kg. Tornerò ad informarmene, e, se sarà il caso, ti invierò tre o quattro kg di questa materia preziosa, di cui farai parte anche alla Mamma e ad Egidia. [...] Per ora la mia vita militare continua abbastanza monotona e abbastanza facile: e, se anche si sente parlare di possibili partenze del nostro battaglione, i luoghi di destinazione ai quali si accenna hanno dei nomi assai poco paurosi: Arezzo, Pistoia, Prato... Sì, perfino Prato: zona di guerra, a tre passi dal fronte... Eppure se

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mi mandassero a Prato, la cosa sarebbe abbastanza divertente: passerei la mattina coi miei soldati dinanzi alla tua casa e tu verresti, piena di compiacimento, ad ammirarmi dalla finestra. Ed io, passando, ti farei un perfettissimo saluto colla sciabola, che, per render più compiuto il quadro, potrebbe anche scintillare al sole, se non fosse brunita... Ogni idea di trasferimento è, del resto, imprecisa: credo che il Battaglione resterà qui ancora per dei mesi, e che al tuo ritorno potrai sempre, se ti piacerà, profittar dell’occasione di venire alle Cascine, a veder come manovrano i soldati ai quali ogni mattina per tre ore, con molta costanza e molta eloquenza (per la quale torno regolarmente in caserma colla voce rauca), insegno i movimenti. [...] Stamani, quando siamo rientrati in caserma dall’istruzione, un soldato, levandosi lo zaino, ha detto ai suoi compagni: «ragazzi, uno di meno...». È il discorso che mi faccio io ogni sera col pensiero: uno di meno di questi giorni oscuri ed incerti (quanti, quanti ancora?) alla fine dei quali dovrà pur giungere, come dopo il temporale, il sole più limpido e più chiaro. Uno di meno, amore... Il 6 settembre Piero trasmette ad Ada un bigliettino dal villino di San Lazzaro del padre Rodolfo, al quale ha confidato il «dolce secreto» dell’amore per Ada. Rodolfo ne «prende atto» ed esprime stima ed affetto per Ada ed «il più fervido sentimento augurale» per la felicità dei due giovani, aggiungendo: «Purtroppo il tragico momento che l’umanità attraversa non è tale che permetta esultanze, ma la tempesta dovrà pur lasciar luogo al sereno, nel quale le vostre giovanili esistenze troveranno tutta la prosperità». Piero ha tre giorni di licenza che trascorre a Montepulciano. A metà settembre la famiglia rientra a Firenze e, in attesa di un trasferimento sempre differito, Piero alterna la vita tra casa, caserma e studio, con qualche puntata al cinematografo, dove «da un pezzo non si danno più che drammi patriottici con a sfondo la guerra, i quali tutti terminano, si intende, colla vittoria dei bersaglieri e colla redenzione del protagonista eroe». Ada attende a Montepulciano notizie per il suo posto di maestra: è cinquantatreesima in graduatoria in provincia di Firenze e Piero si augura che possano entrambi ritrovarsi a Prato, magari approfittando di una supplenza di qualche maestro richiamato. Verso la fine di settembre la destinazione di Piero si precisa come Maresca, sull’Appennino vicino Pistoia. Ripassa una visita militare dove l’esame oculistico ribadisce la sua «meno attitudine» per «diminuita

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capacità visiva»: si conferma dunque la sua assegnazione alla milizia territoriale, con compiti logistici e di supporto.

26 settembre 1915 La nostra partenza per Maresca è ormai irrevocabilmente fissata per martedì sera: partiremo (in treno) di qua con tutto il battaglione verso le dieci, viaggeremo tutta la notte compiendo in sette ore il percorso che i treni ordinari compiono in un’ora e mezzo, e arriveremo verso le cinque della mattina a Pracchia, di dove, con una marcia di un paio d’ore, saremo a destinazione. Il luogo è solitario e quasi selvaggio, specialmente nei mesi autunnali e invernali: il nostro maggiore che stamani ha dato le istruzioni per la partenza, ha consigliato di portare il giuoco del domino e degli scacchi... avvertendo che, nel paese ove andremo, troveremo soltanto boschi, tartufi, castagne e, tra non molto, neve. La destinazione, come vedi, non è molto ridente; ma son sicuro che riusciremo a sopportarla, facendoci coraggio e compagnia tra noi ufficiali e sfruttando alla meglio i divertimenti che può offrire una invernata in montagna. Quanto a me, porterò i miei fogliacci e lavorerò nelle ore in cui gli altri giuocheranno a domino. La destinazione, non certo desiderabile in sé e per sé, non è del resto pessima per la sua vicinanza a Prato e a Firenze: studiando stamani l’orario ho veduto che in meno di un’ora si viene da Pracchia a Prato e che, se tu tornerai a Prato, le nostre comunicazioni potranno essere non dico sodisfacenti, ma certo tali da... pazientare. Certo, per esser vicino a te, è preferibile Maresca ad Arezzo ove si trasferisce l’altro battaglione. Domani, dunque, puoi ancora scrivermi qua; ma, da martedì in avanti, devi mandare le lettere a «Piero Calamandrei – Sottotenente 176° Battaglione M.T. (3a Compagnia) – Pracchia per Maresca».

MARESCA

Piero descrive da Maresca la sua “nuova dimora”. Lasciati i luoghi familiari, c’è uno sforzo ripetuto di “localizzarsi” e ridefinirsi nel nuovo ambiente attraverso una descrizione minuziosa dell’abitazione e dei

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luoghi circostanti, cercando di appropriarsene attraverso la scrittura. È come se volesse avvicinare Ada, farla entrare con lui nella nuova dimensione, agevolarne la presenza almeno nell’immaginazione. Compito del battaglione a cui è assegnato è assicurare la vigilanza di una fabbrica di munizioni a Pian di Zoro, «opificio ove si fabbricano un milione e mezzo di cartucce al giorno». La vita degli ufficiali, alloggiati in albergo, è tranquilla: si tratta di alternarsi settimanalmente di picchetto: altrimenti sono giornate di ozio, che Piero, schivando la compagnia degli altri ufficiali, occupa soprattutto in passeggiate sui monti. L’ozio forzato e il fastidio per le conversazioni degli altri ufficiali creano spesso insofferenza, che riecheggia, attutita, quella espressa da Carlo Emilio Gadda nelle pagine da Eboli del suo Giornale di guerra e di prigionia, quando sottolinea il proprio «isolamento spirituale».

30 settembre Sono in una piccola stanza colle pareti tinte di rosa e decorate da fregi a stampino; il letto è piccolo, di ferro, colla testa appoggiata alla parete in cui s’apre la porta d’ingresso: la finestra è nella parete opposta, che occupa quasi tutta, e si apre sulla via principale del paese. Un cassettone colla specchiera rotta, un tavolino coperto da un tappeto che vorrebb’essere turco: alle pareti di decorativo c’è soltanto, accanto al letto, un quadro simbolico ov’è rappresentata la morte del giusto e, in antitesi, quella del peccatore (ierisera, nell’andare a letto, guardai a lungo con una certa preoccupazione la seconda parte del quadro, la quale forse avrò occasione di vedere un giorno nella realtà: che paurose grinte hanno i diavoli!); due poltroncine, una di vimini e una di stoffa turchina a fiori, completano l’arredamento... In questa piccola camera, ove disposi ierisera tutta la mia roba giunta nella cassetta d’ordinanza e nella tua valigia, mi sono ormai installato da padrone e credo che vi resterò finché resteremo quassù. Molti altri ufficiali sono in altre camere di questo stesso albergo, e in una stanza a terreno tutti ci raduniamo due volte al giorno per la mensa in comune: da una parte il maggiore, e accanto a lui i capitani e poi, sempre più a distanza, i tenenti e i sottotenenti; io mi metto sempre dall’estremo contrario del maggiore, alla coda di tutti, per esser fuori il più possibile dalle conversazioni regolarmente idiote dei commensali. In verità, il livello intellettuale dei signori ufficiali non è,

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se si toglie forse il mio capitano, molto elevato: ed io aspetto il Gatteschi, che da qualche giorno è in Carnia ad accompagnare delle forniture al fronte, per poter fare con lui qualche discorso un po’ più ossigenato... Il paese dove abitiamo è un luogo incantevole: in mezzo ai boschi di castagni (quei bei castagni che lasciano in basso una distesa di prato verde), vicino a una corona di cime alle quali si può salire in poche ore, traversato da due ruscelli che cantano senza interruzione. L’aria è ottima, l’acqua è squisita... Ma... tutto questo sarebbe bello d’estate: ora il freddo, la nebbia, il vento, la pioggia e altri generi simili guastano tutte le bellezze e riducono il paese a una specie di siberia montana... [...] Per quanto si riferisce alle fatiche militari, esse sono quassù assolutamente trascurabili. Il compito del nostro battaglione è quello di fornire gli uomini di guardia ad una fabbrica di munizioni che si trova a Pian di Zoro, a due o tre chilometri da Maresca: e tutti i giorni circa una metà del battaglione si trasferisce a questa fabbrica, sotto il comando di un ufficiale, che deve fare laggiù quello che all’incirca fa nelle caserme di città, l’ufficiale di picchetto. L’unica fatica degli ufficiali è dunque questa guardia di ventiquattro ore che tocca ogni sei o sette giorni; ma negli altri giorni quassù non abbiamo assolutamente nulla da fare: ci leviamo a che ora si vuole, si va un momento verso le dieci a sentir le novità dal maggiore e per il resto della giornata siamo liberi. Io farò, nei giorni di bel tempo, qualche passeggiata sui monti: e nei giorni di pioggia manderò avanti la Cassazione... [...] Amore mio, la mia vita, come vedi, non è punto pericolosa né preoccupante dal lato materiale: non mi manca il riposo né l’aria salubre, né le comodità. E poi, tu lo sai, io prendo tutte le cose rimediabili con una certa filosofia ottimistica che mi permette di essere al di sopra di tutti i piagnistei che i miei compagni fanno, lamentandosi del posto che ci è toccato e della solitudine di questo borgo selvaggio che, senza i villeggianti ormai partiti, comprenderà due o trecento uomini in tutto. Pare del resto che la nostra permanenza quassù non durerà molto e che presto ci riavvicineremo a Firenze: si parla di Pistoia e di altri luoghi più umani di questo.

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A funghi in faggeta Smarrito come Pollicino nel bosco, Piero vorrebbe che Ada potesse seguirlo e ritrovarlo ovunque vada, sia pur da lontano.

2 ottobre 1915 Amore mio, nel pomeriggio di oggi, dopoché a pranzo mi ero obbligato a fornire a tutti per stasera un piatto di funghi in sovrapiù del menu consueto, ho detto ai soldati della mia compagnia la mia intenzione di raggiungere una vetta abbastanza alta per adempiere l’obbligo assunto: tre soldati, tre contadini massicci come tronchi di querce, si sono offerti con entusiasmo di accompagnarmi. E siamo partiti verso le due, con un discreto tempo, mentre tutti gli altri ufficiali, pigri come marmotte, andavano a fare una giratina compassata per la via maestra. Abbiamo attraversato arrampicandoci per più di un’ora un bel castagneto al quale già mi ero spinto da me solo ieri l’altro, e poi verso la vetta, siamo arrivati alla zona dell’abete e del faggio. E qui, amore, mi sono trovato dinanzi a uno degli spettacoli più meravigliosi che mai abbia veduto: le bellezze dell’abetina di Monte Senario alternate con quelle della faggeta di M. Armato. Tu che non hai mai veduto i boschi di faggio, non puoi imaginarti che incanto di colori sia, specialmente in autunno, una faggeta: bei tronchi dritti e nudi, che spariscono in alto in una volta fittissima di un verdolino tenero sfumato di giallo e di rossastro; e in terra neppure un cespuglio, ma il tappeto soffice delle prime foglie cadute, rosse, quasi violacee... Ma l’impressione che più mi ha colpito e che quasi ha del fantastico è quella che ho provato tra gli abeti. Figurati una abetina cupa e misteriosa come quelle del Monte Senario: piena d’ombre che si perdono giù tra la fuga dei fusti paralleli, quasi addormentata in un silenzio strano di incantesimo: e figurati tutto il suolo constellato a perdita d’occhio da una innumerevole fiorita di enormi funghi del più splendido rosso che mai abbia brillato nei colori dell’iride... Hai mai veduto, nei libri per i ragazzi illustrati a colori, qualche quadretto che figura la foresta dove si smarrì Pollicino? Tra il buio della ramaglia, si affaccia qua e là qualche mostruoso fungo rosso constellato di punti bianchi, sul quale vengono a sedersi i

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genietti del bosco, gli gnomi dal cappello aguzzo. Ebbene, il bosco che ho veduto stasera era proprio così; ed ero, passeggiando, lontano dai soldati, sotto la volta nera e tra quella fiammante vegetazione avvelenata, sentivo stringermi il cuore da non so quale terrore arcano, come se mi trovassi in una di quelle foreste stregate nelle quali qualche volta ci portano i sogni, quando si cammina si cammina e la via non si ritrova, e si fa sempre più buio irrimediabilmente... Amore mio, ma sul margine del bosco meraviglioso (dal quale ho anche saputo riportare i funghi benigni che avevo promesso ai commensali) ho trovato un piccolo fiore che non tanto facilmente si trova nei nostri boschi: una viola del pensiero selvatica, che fioriva in autunno, sola soletta, e che mi ha sorriso per cancellare in un attimo l’impressione di magica oppressione che la foresta mi aveva lasciato: e a te, amore, mando la viola del pensiero, che ho colta rispondendo anche colle labbra al suo sorriso e che mi è sembrata sorta lì perché tu da lontano avevi voluto che lì sorgesse... 5 ottobre 1915 Amore, vorrei portarti per mano per tutti i luoghi dai quali passo dalla mattina alla sera e farti assistere a tutta la mia vita di un giorno, affinché poi tu potessi, anche lontana, seguirmi e ritrovarmi con sicuro pensiero. La sveglia, come credo di averti detto, suona alle sei e mezzo: la sento dal letto, ripetuta due o tre volte alle diverse estremità del paese, e quasi subito mi butto giù, quantunque quasi tutti gli altri ufficiali tardino anche fino alle nove a far la loro comparsa. Scendo, e mi trovo sull’unica piazza del paese, sulla quale è la chiesa, e accanto alla chiesa, subito si inizia il castagneto. Siccome in questo paese non si trovavano locali ampi, capaci di contenere tutto il battaglione, così i soldati sono stati alloggiati un po’ qua un po’ là, dove s’è trovato posto: la mia compagnia, per esempio, è accantonata parte in una scuola lontana dal paese un duecento metri e parte in una casa privata – quattro uomini per stanza –, posta al confine opposto del paese colla campagna. Appena sono levato, poiché io sono il comandante di compagnia, ossia faccio la parte del capitano che non c’è, vado subito a visitare i locali dove sono alloggiati i miei uomini, a sentire se vi sono malati, se qualcheduno chiede la licenza, se le armi sono state pulite

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e così di seguito. Dopo questa ispezione, vado alla palazzina del Comando, la quale resta a metà strada tra il paese e una delle case ove alloggia la mia compagnia e lì faccio colazione a caffè-latte, quasi sempre solo, perché gli altri vengon più tardi. Poi torno dai soldati, e per un’oretta o due mi occupo delle mille minuzie che ogni mattina devono essere sbrigate: alle dieci torno al Comando, e, insieme ai tre capitani che comandano le altre tre compagnie, mi presento al maggiore per riferire le novità, che son sempre le stesse. 6 ottobre 1915 Son ritornato, insieme ad un compagno, a quel monte coperto di strani boschi al quale salii un giorno per cercare i funghi; ma non per cercare i funghi sono andato oggi, poiché i boschi sono zuppi di pioggia, ma per arrivare alla vetta dalla quale ci hanno detto che si vede Bologna e il modenese. Siamo partiti verso le due, colla pioggia: e la pioggia ci ha accompagnato per mezza strada, e in cima al monte abbiamo trovato, anziché la veduta sperata, un tappeto bianco formato dalla grandine di ieri congelata e una nebbia folta. Ma, anche senza il panorama, la gita è stata lo stesso meravigliosa: e la faggeta qua e là chiazzata di bianco era di una bellezza indescrivibile. Ho avuto poi, durante tutto il cammino, la divertente compagnia dell’eloquio del mio compagno, il quale è un uomo sui quarantacinque, maestro elementare a Firenze, coi capelli tinti e la faccia rasa, un perfettissimo tipo ferravilliano, dotato, tra le varie qualità sue, della mania di essere un autore drammatico non ancora rivelato, ma chiamato ad alti destini futuri. Costui dunque – che è uno dei tipi più notevoli della nostra tavola – ama molto parlare di sé con discorsi pieni di una divertente ingenua vanagloria; ed io, per tutta la strada, l’ho stuzzicato sugli argomenti più interessanti, sui suoi lavori, sulle sue conquiste femminili, sulla sua vita coniugale... Certe frasi sue valevano un poema ed io ne ridevo pensando a quanto tu ne avresti riso. Mi ha detto, per esempio, che egli è fedele alla sua moglie: «... che vuoi, io sono un uomo fermo e tenace e non mi piace di cambiare: mi sono abbonato una volta da un barbiere, e mi servo sempre da lui. Così per la moglie...». Oh, piacevole filosofia del matrimonio! Ed anche mi ha detto che ora i suoi drammi li scrive sempre in pro-

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sa: «un tempo avevo l’abitudine di scrivere in poesia, ma ora ho perso l’abitudine». Pensa a Dante, che aveva l’abitudine di scrivere la Divina Commedia!!

Carta da lettere Dopo una spedizione a Lucca per accompagnare «una colonna di 49 vacche e buoi», al rientro Piero inaugura una nuova carta da lettere.

21 ottobre 1915 Amore mio, uno degli ultimi giorni che mi trovavo quassù prima di andare a fare il bovaro, fu fatto trovare nel piatto di tutti i componenti la nostra mensa un campione della carta da lettere che qui presente tu vedi12: e l’aiutante maggiore, che ci incitava tutti ad acquistarne una provvista, si rivolse a me in particolare e mi disse con un risolino furbo: «Tu poi devi acquistarla all’ingrosso, perché mi figuro che molta tu ne debba consumare per rispondere a quelle lettere scritte per traverso...». Io risposi seccamente che non mi pareva adatta; ma per una volta voglio darti la... sodisfazione di farti vedere che anche quassù esiste un “circolo ufficiali”, al quale io pure appartengo, senza però conoscerne – come non la conosce nessuno – né la sede, né le ore di funzionamento. E, a proposito di lettere scritte per traverso, non ricordo se ti ho mai scritto che le tue lettere, quantunque indirizzate ferme in posta, vengono in realtà consegnate al comando insieme con tutta la posta del battaglione, e distribuite agli ufficiali dall’aiutante maggiore, il quale ogni mattina, a me che sono il primo a cercar della posta, commenta con un sorrisetto l’indirizzo scritto a traverso. Sono tornato quassù da un’oretta, ed ho trovato prima un serenissimo tramonto ed ora un magnifico ma gelido chiaro di luna che mai avevo veduto quassù; ed ho trovato anche, tra gli ufficiali restati qui, l’eco di una quantità di incidenti accaduti tra loro in questi giorni, con scambio di ingiurie e perfino di sfide cavallere12 In alto a sinistra è stampigliato in blu “Circolo Ufficiali”, uno stemma con corona con il numero 176 e l’iscrizione orizzontale in basso “Battaglione Miliz. Territoriale”.

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sche finite per fortuna in una pace generale. Sono felicissimo di essere stato fuori in questi giorni e di aver trattato semplicemente con dei buoi, che sono assai più ragionevoli degli uomini: se non ero a Lucca e a Firenze, figurati, avrei dovuto fare da padrino in un duello! Piero dà poi notizie della famiglia ritrovata a Firenze ed accenna al fatto che il padre Rodolfo non ha ancora perso «tutte le speranze di arruolarsi come aviatore».

Guglielmo Marconi in visita alla fabbrica di munizioni Campo di Zoro, 25 ottobre 1915 Amore mio, ti scrivo da una stanzuccia dove sta il portiere della Fabbrica, mentre fuori piove placidamente; mi son rifugiato qui perché vi arde nella stufa un bel fuoco, e posso così attendere al caldo la nuova guardia che tra pochi minuti deve venire a darmi il cambio. Ieri mi ero proposto di occupare la serata scrivendo a te; ma verso le 61/2 giunse qui in fabbrica una commissione di generali inglesi e russi accompagnati da Guglielmo Marconi, e finché la visita delle macchine non fu terminata (ci stettero quasi tre ore) dovetti restar qui agli ordini della commissione senza poter andare all’Albergo. Ada continua a soggiornare a Montepulciano, in attesa che le venga proposta una destinazione accettabile come maestra. Piero le sconsiglia le assegnazioni in paesi troppo remoti e la incita a rientrare a Prato, dove risiede la nonna di Ada, cavandosela temporaneamente con lezioni private.

2 novembre 1915 Per andare avanti anche per dei mesi provvederemo alla meglio: riprenderai qualche lezione di piano, e dove non arriverai tu, arriverò io, che, a forza di indennità di residenza, di trasferta, di accantonamento e via, vengo a prendere più di dieci lire al giorno, con una eccedenza di centinaia di lire ogni mese... Anzi, già che ci

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siamo in argomento finanziario, volevo da un pezzo dirti una cosa: che cioè tu, dalla fine di settembre, non devi aver riscosso nulla e devi dunque trovarti leggera leggera...Vero? Ora, tu lo sai, a me dispiace infinitamente che tu non ricorra a me se ti trovi a dover affrontare qualche spesa; sai che mi addolora profondamente che tu ricorra ad altri che a me. Se fossimo marito e moglie (e ci vorremmo anche più bene di quello che ci vogliamo ora, ma non molto di più...), tutti i miei averi sarebbero i tuoi. Perché non potrebbe essere lo stesso ora? Quanto alle prospettive professionali di Piero, dopo la rinuncia del De Gregorio, si augura che la sua nomina a Messina venga approvata dal Consiglio superiore entro l’anno. È in attesa di notizie ed ha scritto ai professori Lessona e Chiovenda, suoi maestri, che stanno sollecitando.

14 novembre 1915 Amore mio, sono uscito in questo momento dalla mensa e son venuto subito qui in camera per mettermi in tenuta regolare (gambali e sciabola al fianco!) poiché dobbiamo scender tutti a Campo di Zoro ad ascoltare una conferenza che un ufficiale terrà laggiù ai soldati sulla nostra guerra: la stessa conferenza che terrò io quassù a Maresca uno di questi giorni. Scriverti per benino dunque non posso. 15 novembre 1915 Amore mio, da quarantott’ore non ho tue notizie; e, qui, da camera mia, attendo di minuto in minuto di udire il rumore del legnetto del postino, il quale mi deve portare stamani due lettere tue. Ierisera, quando tornammo a buio da Campo di Zoro, dopo aver assistito ad una retorica e sconclusionata conferenza, corsi per prima cosa all’ufficio del comando, coll’idea di trovare lì la posta non ricevuta al mattino. Ma lì, invece della posta, mi fu data questa strabiliante notizia: che quassù a Maresca, se il treno postale ritarda di qualche ora, il postino torna in su a mani vuote e va a prendere il sacco della corrispondenza soltanto la mattina dopo! [...]

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Stamani la luce del giorno, filtrando da uno spiraglio attraverso le imposte, batteva sul vetro che ricopre l’imagine tua e si rifletteva verso di me... Sicché il tuo viso, mentre aprivo gli occhi dal sonno, m’è apparso confusamente come una stella posata sul mio tavolino... Ho aperto la finestra, e mi ha salutato un magnifico cielo sereno e una purissima aria frizzante: sui monti che circondano Maresca, anche sul monte Crocicchio ch’è proprio sopra noi, c’era la neve. Poi sono andato a far colazione, pieno di serenità e di speranze: e lì mi hanno detto che il tenente medico, che tutte le mattine deve passar la visita ai malati del battaglione, ha la febbre e incarica me (me!) di sostituirlo. Così mi son messo di buona voglia a adempiere il nuovo ufficio: sono andato da quel soldato che fu colpito qualche giorno fa da un attacco epilettico, che gli ha lasciato una gamba paralizzata, e con una certa interna trepidazione gli ho fatto una puntura di stricnina, che è riuscita perfettamente. Poi sono andato all’ambulatorio, a interrogare e visitare gli infermi: ne ho visitati quattordici, prendendo la temperatura e ispezionando le parti malate, per poi riferirne al dottore... Son venute anche delle donne di Maresca, per farmi visitare dei bambini; ma io mi sono modestamente sottratto alla loro fiducia!

La neve 16 novembre 1915 Amore mio, ti scrivo mentre vedo fuori dai vetri cadere placida placida la neve, la quale stamani, quando mi son levato, aveva già ricoperto tutte queste montagne e i tetti e le vie di Maresca. Ieri, con quel bel sole, pareva una giornata di primavera: e la gita che feci insieme col Gatteschi e colla sua signora in cima al monte Crocicchio riuscì meravigliosa. Lassù trovammo la neve e gli alberi tutti imbrillantati di ghiacciuoli; ma, nel pomeriggio sereno e quasi tiepido, si scorgeva tutta una corona di cime candide, e nella vallata, Firenze tutta nitida alla quale inviai, da quando salendo la potei scorgere a quando nella discesa la vidi sparire, i più desiderosi saluti. Vidi anche, inaspettatamente, tra due montagne, una striscia di mare tutto luccicante nel sole: e in mezzo vi si profilava

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un’isoletta bruna, che il Gatteschi disse essere la Capraia. Scendemmo nel tramonto e arrivammo a Maresca pochi minuti prima del pranzo, accompagnati da un bel chiaro di luna. E mai avremmo pensato di destarci colla neve qui! Così, tolti gli Austriaci, possiamo dire proprio d’essere al fronte! Ma tu, amore, non devi impensierirti per me e per il freddo che mi circonda. Io sto benissimo e caldissimo. Volevo scrivere alla Mamma di mandarmi una di queste maglie di lana grigia che tengono tanto caldo, ma il Gatteschi, che n’aveva una d’avanzo, me l’ha ceduta e me la son messa pochi minuti fa. Ed ora mi sento anche troppo grave e quasi non riesco a muover le braccia sotto questa copertura polare. Ti prego però di dire alla Mamma di comprarmi un paio di guanti di lana grigia molto grossa, che abbiano attaccato un polsino molto lungo e tale da arrivare fino alla manica della maglia o anche più su: me li può mandare per campione raccomandato, semplicemente rinvoltati e legati con uno spago. L’unico problema che per ora non abbiamo risolto è quello del riscaldamento delle stanze, le quali, essendo costruite per il soggiorno estivo, sono tutte sprovviste di stufe; ma, appena sapremo come intendono provvedere per la nostra destinazione, prenderemo anche per le stufe misure adatte. Io spero però che domani o entro la settimana di certo verrà l’ordine di partenza. E allora saluterò Maresca e la sua neve, pur promettendole di tornarla a rivedere – non solo! – in qualche prossima estate.

«Muoiono, lassù, mentre qui si sta intorno alla stufa» Sull’Appennino pistoiese il fronte appare lontano, ma basta la notizia di un caduto ad evocarlo e a far percepire la singolarità dell’atmosfera da villeggiatura.

18 novembre 1915 Adina mia, la mia stanzetta, dalla quale altre volte che montavo la guardia ti potevo scrivere in pace, s’è oggi trasformata in infermeria, e il tavolino è occupato dal tenente medico che interroga ad uno ad uno i soldati che sono o voglion figurare malati. [...] È venuta oggi la notizia (ma non è ancora affidabile) che siamo destinati metà

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a Prato e metà a Empoli: la mia compagnia, a quel che pare, sarebbe nel reparto di Prato. [...] Lessi ierisera sul «Corriere» e ne ho avuto la triste conferma sui giornali di stamani, la morte di Giosuè Borsi13, un caro e bravo figliuolo che avevo conosciuto al 69° quando vi feci l’istruzione di un mese, e che era partito insieme a quei 40 territoriali alla fine di agosto. Era, tra i partiti, una delle figure più pure e più candide: e la sua morte mi ha impressionato molto. Muoiono, lassù, mentre qui si sta intorno alla stufa... 19 novembre 1915 Son qui, amore, nella mia camera, non solo. Il Gatteschi è lì, a un passo da questo tavolino, dinanzi a un gran foglio che abbiamo attaccato al muro, per dipingervi su la carta del Trentino e dell’Istria, che domani l’altro mi dovrà servire per spiegare ai soldati gli scopi della nostra guerra. Con questa compagnia sì prossima, dalla quale ad ogni momento sono interrotto per aver parere sulla geografia, non ti posso scrivere come vorrei: e tu, amore, sarai tanto buona da non impermalirti della mia brevità, pensando, al solito, ch’essa è... per la patria. Avrei voluto oggi scriverti in modo confortante, dandoti la precisa notizia della nostra partenza; ma l’ordine di partire non è giunto neppure stamani, e viviamo sempre nell’incertezza... 20 novembre 1915 Nonostante tutto, qui a Maresca si canta e si suona... Stamani, nella chiesetta del paese, c’è stato uno sposalizio di gente abbastanza danarosa: ed ora, finita la messa alla quale ho devotamente assistito, gli sposi col corteo son venuti qui all’albergo ove abito anch’io a fare un rinfresco in una sala... e giù nella via i ragazzi del popolo stanno in tumulto, attendendo il lancio dei confetti e gridando urrà agli sposi... Intanto – altro numero del programma – la fanfara del battaglione, noncurante della neve, sta nella piazza a suonare in onore della Regina madre. Suona: «Gioia bella, ero lontano...». Io, nonostante queste grida e questi suoni festanti, sto qui rinserrato nella mia camera, scaldandomi a un braciere che tengo qui in permanen13 Giosuè Borsi (1888-1915), giornalista e letterato, partito volontario nonostante i suoi forti sentimenti pacifisti, morì in combattimenti a Gorizia.

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za durante il giorno. Dinanzi a me, nel muro, è attaccata la carta dei nostri confini disegnata ieri dal Gatteschi: oggi Gatteschi tornerà ancora qui, a disegnar la carta d’Europa, della quale anche mi servirò domani per spiegare ai soldati le vicende della guerra. [...] Domani dunque, mentre io – credo verso le due – mi sgolerò dinanzi a un centinaio di uomini, all’augusta presenza del maggiore e dei signori ufficiali, tu sarai nel nostro salotto, e forse parlerete di me.

Un discorso ai soldati Nell’indirizzarsi ai soldati, per spiegare le ragioni e le vicende della guerra, Piero si scopre una capacità oratoria insospettata.

21 novembre 1915 Stamani c’è stata nella chiesa di Maresca una cerimonia funebre per i soldati di quassù morti in guerra: anche noi ufficiali abbiamo preso parte al funerale, che è riuscito, nella sua semplicità e nella sua ingenuità paesana, molto commovente. Poi, dopo pranzo, c’è stato il mio discorso ai soldati, in una sala abbastanza grande ove le feste il popolo di Maresca si raccoglie a ballare – sala che il Gatteschi aveva adornato con bandiere e colle carte geografiche costruite nei giorni scorsi. Son venuti tutti i soldati delle due compagnie che stanno quassù, il maggiore, e tutti gli ufficiali colle signore: e il discorso, in stile semplice e piano, adatto per i soldati ai quali parlavo, è riuscito efficace assai, molto di più di quanto avrei sperato: ho scoperto in me una eloquenza che non sapevo di avere: tanto che, data la immediata commozione del tema che non ha bisogno di rettorica per prendere il cuore, alla fine delle mie parole molti soldati piangevano, e (s’intende!) piangevano le signore e gli ufficiali lacrimavano... Anch’io, se non finivo di parlare, stavo per interrompermi in un singhiozzo... Pareva di essere all’ultimo atto di una tragedia! Ma, prima del pianto, v’è stato, al pranzo di mezzogiorno, anche un po’ di riso. Ti raccontai che ieri, appena mi giunsero i guanti, me li misi col pelo dalla parte di fuori, suscitando con questo le proteste di tutti i miei colleghi. Ora esiste nell’esercito l’uso, antipaticissimo in questi momenti, ma non violabile senza passar da avari, che quand’uno commette qualche svista, qualche

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infrazione ai regolamenti, qualche sbaglio nel portar l’uniforme, etc., debba, in segno di ammenda, pagare qualcosa a tutti. Ora con questa storia dei guanti a rovescio non mi hanno più lasciato in pace da ieri, tanto che oggi, per farla finita, ho fatto venire due bottiglie di champagne (di quella orribile champagne che ogni tanto compare alla nostra mensa), e le ho offerte in espiazione. Nell’alzare il bicchiere ho detto: «Giuro che d’ora in avanti non mi metterò mai più addosso nulla di nuovo senza prima essermi fatto dare l’istruzione per l’uso». E allora l’aiutante maggiore, quello che tutte le mattine mi dà la tua lettera “perpendicolare”, come la chiama lui, ha detto: «E io mi permetto di bevere alla salute della ignota persona che ha mandati i guanti...». Io ho ringraziato sorridendo appena; ma, intanto, amore, anche tu sei stata per un istante presente alla nostra mensa.

Vita di guerra Continuano le giornate d’ozio, di cui Piero confessa di provare quasi vergogna: «Passano i giorni in mezzo all’inerzia e all’attesa snervante, e si perde a poco a poco in questa incertezza la volontà di far qualunque cosa, di lavorare in qualunque modo». E ancora: «Quassù, amore, tolto il giorno della guardia, proprio non si fa nulla: si passano le giornate in vita contemplativa, contentandosi di vedere il sole luccicare sulla scorza grigia dei castagni spogli di foglie». «Stamani con Gatteschi siamo stati per un’ora e mezzo a un bosco a tirar sassi, a gara a chi li chiappava meglio. Vita di guerra...». Con l’esclusione del Gatteschi e di sua moglie, continua anche l’insofferenza di Piero per la compagnia degli altri ufficiali e delle loro consorti, la cui conversazione è «di una asfissiante volgarità». Ammette di essere “selvatico”, e “incorreggibilmente” tale e confessa di aver sabotato il fonografo che allieta in sala da pranzo i pasti degli ufficiali: «Io, come tu intendi, lo detesto: tanto più che v’è un repertorio velenoso di canzonette e di “scene a soggetto”. Ma ieri trovai il modo di renderlo piacevole: c’è, da un lato della macchina, una vitina la quale serve a regolare la velocità del disco e insieme il tono della voce, in modo che girandola si cambia da un momento all’altro la velocità e l’intonazione della musica. Ora ieri scopersi che, girando un po’ in un senso e un po’ in un altro la vitina mentre la sonata è iniziata, si producono delle bellissime stonature e si può da un momento all’altro ottene-

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re che un pezzo, iniziato con voce di baritono, si inalzi a un miagolio di falsetto e precipiti in un boato di basso». I soldati, invece, restano una massa anonima sullo sfondo, di cui raramente riferisce nelle sue cronache tanto minuziose: vengono registrate solo le premure dell’attendente, che ravviva il fuoco e aggiunge una coperta di lana per combattere il freddo. Ai primi di dicembre, Piero viene trasferito a Campo di Zoro, mentre il resto del battaglione è destinato a Pistoia.

CAMPO DI ZORO

3 dicembre 1915 Amore mio, è il penultimo giorno che ti scrivo di quassù: poiché domenica mattina ci trasferiremo a Campo di Zoro stabilmente. C’è stato oggi mare tempestoso a causa delle camere che, laggiù all’Albergo, sono sei soltanto mentre gli ufficiali da albergare sono otto: e il Gatteschi, che, come intendi, vuole una camera tutta per sé, se l’era giustamente presa con chi gli negava il diritto ad avere una camera libera. Poi le cose si sono accomodate: io, per parte mia, al dormire in una camera asciutta e riscaldata insieme con un altro, preferisco starmene solo in una camera un po’ umida e senza stufa. Anzi sarà questo il cavillo del quale mi servirò per venire a Firenze: recarmi a prendere un porcellino per riscaldare la mia camera inabitabile... Un decreto che «sospende tutte le nomine di nuovi impiegati nelle amministrazioni dello Stato» allarma Piero per la sua cattedra a Messina. Ma gli giunge notizia che il decreto di nomina è già firmato e che gliene verrà tra poco la «partecipazione ufficiale». Ne scrive ad Ada come «un altro passo verso l’unica meta», che è quella di poterla sposare grazie all’indipendenza economica acquisita. Dopo una licenza di due giorni a Firenze Piero torna nel «freddo sconfortante esilio» di Campo di Zoro, immalinconito dalla pioggia.

11 dicembre 1915 Ieri credevo, amore, che la infinita malinconia e più che malinconia disperazione, derivasse dalla stanchezza... Ma oggi, dopo es-

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sere stato per quasi dodici ore sul mio giaciglio (ierisera venni in camera prima delle otto e mezzo e stamani mi son levato dopo le otto) – non riuscendo, per i continui rumori, a dormire senza interruzione, ma pur riuscendo a cumulare, tra una interruzione e l’altra, una discreta dose di sonno –, mi accorgo che la malinconia non se ne è andata e che sono oggi, non più stanco, più desolato di ieri... Piove, piove senza tregua: e in questo chilometro di stradaccia che va dall’Albergo alla Caserma la melma è alta un palmo e ci riduce dopo pochi passi in condizione indescrivibile. La mia camera dell’Albergo, nella quale il “porcellino” non è giunto ancora, cola come la grotta di Monsummano: le buste che avevo lasciate lì per servirmene via via ogni giorno, si sono chiuse tutte da sé, per l’umido che ha bagnato l’ingommatura. I miei libri e i miei fogli bagnano le mani a toccarli. Si esce di lì la mattina e si viene in caserma dove questo impiastro del capitano ci assassina con una collezione di cretine inutili formalità: a mezzogiorno si rifà la stessa navigazione nella melma verso l’albergo, alle tre si torna qui in caserma... e così fino alla sera.

Ombra in mezzo alle ombre 13 dicembre 1915 Amore mio, nella mia mano sinistra, proprio sul polpastrello interno del pollice, v’è un piccolo segno color di rubino, che ad ogni momento mi cade sott’occhio. E, anche quando non lo vedo cogli occhi, lo avverto a tasto, non perché mi dolga, ma perché forma sotto la mia pelle una piccola lieve durezza... Amore, in questa tenue stilla di sangue rappreso che la tua bocca ha rapito dalle mie vene per farmene un visibile segno, c’è più luce e più bellezza e più significato che in tutto questo scolorito mondo che mi circonda da mattina a sera, più realtà e più vita che in tutta questa nebbiosa inconsistenza, attraverso alla quale io passo senza vivere i giorni, ombra in mezzo alle ombre... [...] Stamani, prima delle cinque, nella camera di faccia alla mia, uno s’è messo a cantare a squarciagola: così, senza neppure pensare che accanto vi sono altre camere, come se fosse stato in una piazza. E allora, non potendone più, sono uscito nel corridoio

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proprio nella “notturna vesta” in cui ero avvolto, ho aperto senza chieder permesso la camera del cantore, e ho fatto una sonora leticata, alla fine della quale è tornato il silenzio. E così, ho potuto dormire fino alle otto. Poi sono andato in caserma, dove alle dieci il capitano intendeva di passar la rivista: e fino a mezzogiorno ho accompagnato il mio intelligente superiore da una camerata all’altra, urlando, per fargli piacere, ogni volta che si entrava in una stanza, certi attenti tonanti da far tremare il tetto... In assenza dell’aiutante maggiore, Piero deve sostituirlo nelle incombenze amministrative, che definisce «un’enorme seccatura». Continua a trovare “insopportabile” la conversazione degli ufficiali, «intonata – cosa non infrequente tra gli ufficiali che non hanno fatto carriera – a criticare e screditare la nostra guerra». Si diletta a fare fotografie, approfittando del fatto che un collega «ha quassù gli acidi da sviluppo».

15 dicembre 1915 Amore mio, ti scrivo da una stanza dalla quale non ti avevo mai scritto: cioè dall’ufficio del Comando, dove, da ierisera, come ti avvertii, sono alloggiato nella nobilissima funzione di segretario... galante. Ho scritto da stamani una quantità di lettere ed ho fatto una quantità di firme: e questo non è tutto, poiché verso le due, quando mi trovavo qui solo a leggere la corrispondenza d’ufficio, ho dovuto ricevere nientedimeno che il generale comandante il corpo d’armata, il quale è venuto qui all’improvviso a fare una ispezione. Ora sono le cinque e mezzo, il generale se n’è tornato a Firenze, il maggiore è andato all’albergo, e tra poco anch’io me ne tornerò alla mia stanza dell’albergo, nella quale mi attende il porcellino fiammeggiante...

Scambio di battute con l’attendente 16 dicembre 1915 Stamani, quando all’otto e mezzo l’attendente è venuto a portarmi il caffè (poiché gli altri lo fanno, ho accettato anch’io quest’uso: prendo al letto il caffè puro e poi scendo giù a prendere il caffè-

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latte... Siamo in tempo di guerra!), mi ha trovato addormentato ancora e non l’ho sentito entrare in camera: ierisera, in mancanza del Gatteschi e di altri due ufficiali, eravamo in pochi alla mensa, e, quando si fu finito di mangiare, gli altri si squagliarono, e lasciarono me a tu per tu con il maggiore, e con lui mi misi a giuocare a scacchi fino alle undici. Questo giustifica la mia levataccia di stamani... Stamani, dunque, quando l’attendente è entrato in camera, mi ha detto laconicamente, come fa quasi tutte le mattine: «Pioggia, neve e gelo». E siccome io, attraente programma, gli ho domandato senza aprir gli occhi: «il terremoto c’è stato?», lui, senza ridere, m’ha risposto: «Sissignore, il terremoto ha battuto stamani alle sei». Così, mentr’io scherzavo, abbiamo avuto in realtà anche il terremoto: come vedi, siamo in un luogo dove non mancano le comodità...

Ordine di partenza Trascorrono altre giornate in partite a scacchi e guardie, mentre Ada è a Firenze, va ad uno spettacolo del Grand Guignol (che Piero commenta negativamente come una perdita di tempo: un repertorio «fatto tutto di cretinerie a tinte forti che celano sotto un condimento di pepe di Caienna la loro fondamentale scipitezza vuota») e trascorre la domenica con la famiglia Calamandrei (Piero le chiede se siano andati alla commemorazione di Oberdan). Giunge finalmente l’ordine di partenza per Pistoia, per completare l’equipaggiamento e tenersi pronti a partire «non si sa per dove». Piero continua a impiegare un tono rassicurante per Ada, ma per la prima volta esprime una nota di rammarico («purtroppo») per un eventuale congedo dovuto alla cattedra vinta a Messina.

21 dicembre 1915 Non ti allarmare: in qualunque posto ci mandino, sarà sempre per servizi territoriali, e la partenza non ci impedirà di tornare, in gennaio, per la licenza di dieci giorni che ci spetta. In quanto a me, del resto, ricevo proprio ora, insieme colla tua lettera, una lettera del Prof. De Gregorio il quale mi dice che la Facoltà ha fatto un voto al Ministro dell’Istruzione per sollecitare il mio congedo. Prevedo dunque (e direi purtroppo se non temessi di farti inquie-

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tare...) che, anche se ci mandano in zona di guerra, io ne avrò per poco...

SAN VITO DI LEGUZZANO: ZONA DI GUERRA

Il 25 dicembre, dopo aver trascorso «il cominciar del Natale» con Ada, che lo aiuta a sistemare il «bagaglio di guerra», Piero parte da Pistoia per la zona di guerra. Appena arrivato tranquillizza Ada sulla sua nuova destinazione.

26 dicembre 1915 Amore mio, se tu mi vedessi qui in questa camera, che un mio collega dice pare una camera da prete, scriverti mentre attendo di andare a mangiare a mezzogiorno preciso al primo albergo (ed ultimo...) del luogo, saresti forse per me più tranquilla di quanto forse non sei. E anche più tranquilla saresti se, affacciandoti alla finestra, tu vedessi che ci troviamo in un paese abbastanza civile e grande (a 5 km da Schio), che le Alpi nevose, dietro le quali combattono, sono in fondo alla pianura che qui ci circonda, e che di guerresco in questo paese mite e pacifico non ci siamo che noi...

Un paesino calmo e ridente 27 dicembre 1915 La camera dove sono alloggiato e di dove ti scrivo, pare, come ieri ti scrissi, una camera da prete. È una stanza di media grandezza, con due finestre che danno sulla via, con ai muri certe antiche oleografie cretine rappresentanti mare e fanciulli, e coi mobili goffi e antichi, come usavano mezzo secolo fa. Sul cassettone, accanto alla specchiera, ci sono due vasi pieni di nappe di canna pluma tinte a diversi colori... I miei padroni di casa sono due vecchi coniugi pieni di gentilezza carezzevole e parlanti un linguaggio quasi incomprensibile, per il quale bisogna ripeterci le cose tre o quattro volte prima di intendersi. Il paese dove ci hanno mandato in accantonamento, per restarvi, pare, parecchi mesi a sbarrare le re-

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trovie da possibili tentativi di invasione nemica, è un paesino calmo e ridente in mezzo alla pianura, con carattere decisamente veneto. Le Alpi sono a una ventina di chilometri e non mi è riuscito ancora di udire le cannonate che – dicono – si sentono anche di qui. Ieri fu una giornata piuttosto... tragica: soffrimmo freddo, fame e stanchezza. Ma per il freddo ho miracolosamente scoperto in una parete della mia camera un vecchio caminetto nascosto da un paravento, e lo accenderò appena ne sentirò il bisogno; per la fame, la mensa oggi istituita col sistema di Maresca ci ha interamente consolati del pessimo pasto di ieri; per la stanchezza, un sonno di dodici ore mi ha rimesso del tutto a nuovo. [...] Per ora il nostro compito è stato quello di riordinare la compagnia, di trovare alloggio e comodità per noi e per i soldati; ma da domani cominceremo le esercitazioni nelle vicinanze, tanto per tenere svegli e caldi i soldati che sennò si impigriscono e si infreddoliscono. 28 dicembre 1915 Se non fosse per la lontananza (la quale è del resto assai minore di quella che mi pare, poiché in sette ore potrei essere a Firenze) mi troverei qui non peggio che a Maresca e a Campo di Zoro: anzi, per certi rispetti, per esempio per la vicinanza di Schio, assai meglio. Nella tua prima lettera mi domandi, con un certo tono d’allarme, come mai ci troviamo a S. Vito anziché a Schio: l’allarme cesserà un po’ quando saprai che S. Vito è quattro km. più lontano dalla frontiera trentina di quanto non sia Schio, e che mentre a Schio sentono a quando a quando le cannonate, qui non si sente altro che cantare le galline e suonare la campana della chiesa, meccanicamente, malamente, senza la dolcezza e la grazia dei doppi toscani. Perché ci tengono qui? Perché a Schio non c’è posto, mentre qui i soldati sono accomodati alla meglio nelle case dei paesani. Che cosa ci tengono a fare? A fare... i soldati: cioè a far le marce e le manovre, per esser pronti a ricever il nemico quando verrà quaggiù (te lo figuri? gli austriaci ridotti al lumicino che buttano giù d’un colpo le Alpi varcando le quattro linee di un esercito giovane?), come uno che si tira su le maniche e inarca le gambe e dice all’avversario: «vieni qui, se hai coraggio!».

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[...] Il mio attendente, il quale non è un leone, fa grandi sospiri quando la mattina gli domando se ha sentito le cannonate. Disse iermattina: «i’ bell’e ’nteso: qui s’è trovo i’ verso di non tornà più a casa». Ma poi, dietro i miei ragionamenti, si riconforta... E mi disse che tu gli paresti tanto bella e tanto «giovanina». Ora (sono le 11), dopo che, levatomi alle 8, sono stato un’oretta coi soldati a far la rivista ai fucili, torno là in cerca del mio capitano, che non è buono a far nulla e che fa fare tutto a me. Al tocco e mezzo il maggiore passerà la rivista al battaglione, e credo che domani cominceremo le esercitazioni tattiche. Sarà divertente vedere come se la caveranno nella loro perfetta ignoranza i comandanti delle compagnie...

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SAN VITO DI LEGUZZANO

Lezioni militari ed esercitazioni Piero riceve un telegramma di auguri di Ada da Montepulciano, dove è andata a trascorrere le feste dalle cugine Clelia e Lidia Cocci ed è contrariato di non poterla immaginare a Firenze nel proprio salotto di casa, al posto suo, «di fronte alla Mamma, tra il Babbo e l’Egidia». Passa un capodanno malinconico, in attesa di cominciare le esercitazioni. Conosce i vecchi padroni di casa, che gli presentano «il loro fio con tutti i puteli, due tosi e due tose» venuti da Vicenza a passare le feste.

3 gennaio 1916 Amore mio, torno ora da Schio, dove abbiamo avuto (come avremo d’ora innanzi tutti i lunedì, mercoledì, venerdì) due lezioni su argomenti militari dalle tre alle cinque. Siamo andati e tornati in un legno a giardiniera aperto (io, anzi, ero a cassetta) tirato da due pesanti cavalloni d’artiglieria, uno dei quali montato da un soldato: un traino abbastanza eterogeneo e molto affine ad un attacco da corso carnevalesco. E al ritorno la nebbia gelata calata giù colla notte mi ha ridotto a un pezzo di ghiaccio; ma, appena il carro si è fermato a S. Vito, son corso qui nella mia camera, dove ho trovato un magnifico fuoco, custodito dal mio attendente simile ad una Vestale. [...] Oggi ho passato la giornata in un modo meno noioso di ieri. Dalle dieci alle due sono stato fuori coi soldati, a fare delle esercitazioni sui colli che circondano San Vito, dinanzi alla maestosa corona delle Alpi che stamani, al di sopra del mare di nebbia stagnante nel-

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la vallata, erano serenissime. Alle due, appena tornati, si è mangiato in fretta un boccone, per poi ripartire subito sul traino per Schio. Là abbiamo trovato una folla di ufficiali venuti da tutti i battaglioni sparsi nei paesetti vicini e ci siam radunati nella sala del cinematografo principale della città, prendendo posto sulle sedie degli spettatori dinanzi alla tela delle proiezioni, al di sotto della quale un maggiore prima e poi un capitano ci hanno intrattenuto sulle qualità dei cannoni e sul modo di leggere le carte topografiche. 4 gennaio 1916 Oggi sono stato quasi tutto il giorno in marcia con tutto il battaglione: dalle 8 della mattina alle 3 del pomeriggio. Quaggiù a S. Vito, alla partenza, c’era un fitto strato di nebbia gelida, che vi abbiamo ritrovato al ritorno; ma appena siamo usciti dalla pianura sulle colline e dalle colline verso i monti, la nebbia s’è aperta e abbiamo trovato un tepido sole primaverile illuminante un paesaggio incantevole. Ci siamo fermati a mangiare su un poggio erboso sul quale qua e là appariva già qualche primula: di faccia, al di là della valle, si ergeva il Monte Pasubio – un monte che otto mesi fa era austriaco – violaceo alle falde e candido sulla vetta: e dietro, come in uno scenario a più piani, si affacciavano sempre più lontane le altre catene alpine. Non c’era un alito di vento, lassù: soltanto i canti dei pollai e i muggiti delle stalle. Ma da dietro il monte veniva incessante il rombo delle artiglierie e il ronzio dei nostri aeroplani in esplorazione. Siamo tornati alle tre e un tè caldo mi ha subito compensato del pasto frettoloso fatto lungo la via, su una macia di sassi. Poi sono andato a sbrigare qualche faccenda alla mia compagnia, ho scritto qualche cartolina, ho atteso l’automobile della posta, ho assistito allo spoglio della corrispondenza... Poi la mensa: e dopo la mensa, dalle 81/2 alle 9, perlustrazione per tutte le strade del paese, a vedere che tutte le osterie e i caffè siano serrati, secondo la legge della zona di guerra.

Una giornata per filo e per segno Piero vive la vita militare in modo estraniato e pensa alla sua camera di Firenze e perfino alla sua stanza di studio come «a dimore in-

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cantate piene di tanta tranquillità serena, come a fantastici asili di pace ai quali ritornerò, da quella strana vita che qui, quando la considero tra me, tanto mi sorprende, il giorno che la guerra sarà finita colla nostra vittoria». La fine vittoriosa della guerra, è questo che auspica spesso, in tono ottimistico, mentre dà conto minuziosamente ad Ada di una quotidianità meccanica e ripetitiva.

11 gennaio 1916 Amore, la mia giornata... vuoi che ti narri per filo e per segno la mia giornata? Ecco. Mi desto, in un’ora che neppur io so ben precisare, in un letto che non è il mio letto: e mi desta un rintocco uguale e lugubre di campana che non finisce più e che mi dà l’impressione che da tanto duri e ch’io l’abbia udito, già prima di svegliarmi, nel sogno, sicché tra il sogno e la veglia non so trovare un punto di deciso passaggio. Mi desto a mezzo, e non capisco dove sono: penso alla mia camera di Firenze, mi sforzo di ricordare da che parte son le finestre, da che parte è l’uscio: forse, lì dietro la porta, c’è il salottino della Mamma? Ah, no: ho capito. Ho capito dove sono. Ed è ancora presto: bisogna cercar di riaddormentarsi. Ma no, il sonno non ritornerà: salgono e si avviluppano nella mia mente, mentre voglio sforzarmi di non pensare a nulla per riaddormentarmi, mille pensieri sconnessi. Quanto mancherà ancora alla sveglia? Che si deve fare oggi? Ah, ricordo: la marcia. Il mio letto, ad ogni piccolo moto che faccio, manda, giù nella spalliera di fondo, piccoli scoppi secchi, che mi irritano ed accrescono il senso di malessere che mi dà il risveglio... Vorrei star fermo fermo, ma non so più: non riesco più a star bene in nessuna posizione. Mi volto, mi volto ancora sotto le coperte tepide: e le coperte tepide mi sfiorano, mi carezzano tutta la persona... Ah, amore mio, amore mio... Cerchiamo di dormire ancora. La campana ricomincia a suonare. Tra poco sentirò battere alla mia porta. [...] E finalmente, amore, sento bussare alla porta e l’attendente mi domanda il permesso d’entrare. Entra, nella camera ancora al buio: e io accendo, dal letto, la luce elettrica, e richiudo gli occhi. Egli prende le scarpe ed esce e la camera torna al buio per qualche minuto. Poi torna: prende le mollettiere gettate da me per terra nello spogliarmi, e lentamente, metodicamente, si mette a spazzolarle e ad arrotolarle: poi si mette a spolverare i vestiti. Ed io sto

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ad occhi chiusi, ancora, per non vedere la luce della lampadina: in silenzio, desiderando che quell’opera non finisca presto... Ecco, è finita: le finestre, da cui penetra una luce pallida pallida, vengono aperte... E allora il soldato, messi in ordine tutti i miei panni, mi rivolge ogni mattina una domanda ch’è sempre la stessa, collo stesso tono di voce, collo stesso accento: «S’arza?». Ed io: «Sì, m’alzo». Allora egli esce: io resto solo. Bisogna levarsi. E così, amore, ogni mattina: senza la più piccola differenza, senza che il più piccolo particolare sia tralasciato... Stamani sono andato a fare una marcia come martedì scorso: dalle otto alle tre, su un poggio qui vicino. Le marce, qui, non si fanno con tutta la compagnia riunita in un unico gruppo, ma in formazioni speciali, destinate a esercitare i soldati a certe cautele necessarie in guerra; va innanzi un gruppetto di pochi uomini, che devono esplorare la strada, poi, a distanza, un uomo alla volta, fino ad arrivare al grosso della compagnia che marcia riunita. Questa formazione di marcia, che s’è adottata anche oggi, dà a me l’impagabile vantaggio di poter camminare solo; il capitano va avanti, colla prima pattuglia: io resto indietro, tra due dei soldati che procedono alla spicciolata. Oggi la strada si snodava, con mille tortuosità, in mezzo a boscaglie di castagni, che, d’estate, devono essere meravigliosi: ed io, solo soletto, ho fatto tutta la salita, dalla quale via via si scopriva sempre più ampia tutta la pianura veneta (da dove oggi siamo andati, dicono che a giornata chiarissima si vede il mare), immerso nei miei pensieri, malinconici e dolci... Ora, trascorsa tutta la giornata (un altro foglietto sarà stato tolto dal calendario della mia camera lontana) sono tornato qui dove il sonno, il fedele amico, mi attende. Da un pezzetto alla chiesa sono suonate le dieci: da un pezzo tutti i rumori del paese che non deve vegliare, si sono chetati. Passa d’intorno quello strano fruscio, simile al fluire di una immensa corrente, di cui è composto il silenzio: e a volte, strano, ho l’impressione che fuori, nei campi, cantino lungamente i grilli settembrini... Ma no, siamo appena a gennaio: e, se qualcosa odo è a quando a quando la voce sommessa d’una fonticina che c’è giù nella via di faccia alle mie finestre, dove di giorno vengono le donne a prender l’acqua con certi strani recipienti di rame appesi alle due estremità di una pertica ricurva...

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13 gennaio 1916 Amore mio, nei giorni in cui tocca la marcia, come sarebbe oggi, posso godermi al ritorno, che avviene sempre verso le tre, un po’ di tranquillità qui nella mia camera cheta e raccolta. Mi tolgo gli indumenti fangosi e polverosi, mi faccio un po’ di toilette, faccio accendere nel caminetto un buon fuoco ciarliero, e faccio il tè: il tè, nel cui confezionamento (quasi sempre ne faccio anche una tazza per l’attendente, che ne ignorava finora l’esistenza, ma che subito ne ha compreso i pregi) son diventato maestro, tanto da riuscire perfino a versarlo nelle tazzine senza spanderlo sul tavolo. E poi, preso il tè, sto qui pigramente aspettando che l’ore passino. [...] Son uscito stamani verso le otto con la mia compagnia, per andare a fare una marcia in montagna: e siccome stamani il mio capitano era ammalato e spettava a me il comando, i soldati, dei quali, durante le marcie comandate dal capitano, resta per la strada una buona metà, sono venuti su su fino ad uno dietro a me tutti, in vetta a un monte faticoso e lontano: tanto che al ritorno ho avuto dal maggiore una speciale lode per questa mia virtù... incitatrice. Ho mangiato lassù, in un bosco di castagni senza foglie, la colazione portata dal muletto: in compagnia di un altro sottotenente, aggregato qui da due giorni dopoché ha trascorso due mesi nelle trincee dinanzi a Rovereto, a duecento metri dagli austriaci; e insieme con lui, ch’è un giovine molto simpatico e modesto e che mi porta il prezioso sussidio della esperienza abbiamo fatto lassù delle manovre che parevano vere... 15 gennaio 1916 Oggi abbiamo fatto, dalle sette alle tre, una marcia di reggimento sotto un serenissimo cielo, in paesi di pianura vicini a S. Vito: la marcia, del resto breve (una quindicina di km) non è stata per me in nessun modo gravosa, ma gravosa assai per questi poveri territoriali che non sono più tanto allenati e che fanno grandi sospiri di malinconia su tutto quanto accade nel nostro battaglione. C’è il mio attendente, il quale, come lo zio Cecco ti avrà detto1, si rattrista assai quando sente parlare di guerra e di argomenti... analo1 L’avvocato Francesco Pimpinelli, fratello della madre di Piero, era giunto a Schio per una breve visita.

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ghi: e siccome io lo piglio continuamente in giro per questa sua paura, egli mi ripete: «Eh, già, lei la ride sempre...». Oppure (dice così... e io non ci ho colpa): «Già, lei l’ha sempre le coglionerie...». Oggi siamo tornati alle tre, e da allora ho avuto un po’ di libertà di cui godo tuttora: son venuto qui in camera a togliermi le nobili tracce della marcia, ho fatto il tè, ho fatto accendere il fuoco.

Un ruscello di petali di rose carnicine Nella corrispondenza, Ada e Piero si trasmettono spesso fotografie, e Piero raccomanda ad Ada di conservare le pellicole che le manda, per farne «al mio ritorno una raccolta di guerra memorabile». Nel quarto anniversario della prima notte trascorsa insieme a Torino2, Piero vorrebbe riempire la stanza di Ada di rose carnicine.

17 gennaio 1916 Amore caro, se questa lettera potesse obbedire alle intenzioni che sono nascoste in lei, essa dovrebbe, appena giunta nella tua camera e posata sul tuo tavolino, trasformarsi miracolosamente in una rosa: e da questa rosa tante altre dovrebbero nascere in un istante, e cader giù, come un ruscello di petali, dal tavolino sull’impiantito, e dilagare per tutta la stanza inondando tutte le cose che ti vedono ogni mattina alzarti dal letto, e crescere su, come un fantastico padiglione, al di sopra del nido odoroso ove ogni notte tu ti nascondi... Anzi, amore, se la lettera potesse seguire il desiderio che la detta, essa giungerebbe nella tua stanza di notte, mentre tu dormissi: e tutta questa magica fioritura di rose dovrebbe intrecciarsi intorno e sopra di te nell’ombra, in modo che quando tu al mattino ti destassi non riuscissi più a riconoscere la camera della sera prima e sul viso potessi scorgere soltanto una fitta cortina di corolle apertesi per te sopra i tuoi occhi chiusi... E non tutte le rose, amore, dovrebbero restare sospese sopra di te, lontane da te, senza toccarti: qualche tralcio fiorito, qualche gentile tral2

Vedi Calamandrei, Ada con gli occhi stellanti, cit., pp. 206 sgg.

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cio senza spine, dovrebbe pian piano insinuarsi sotto le tue coperte fino a sfiorare la tua persona, fino a confondere il suo profumo di fiore col tuo profumo di carne: silenziosamente esso dovrebbe posarsi su te, lambirti, avvolgerti, imprigionarti... i petali, delicati e molli, saprebbero carezzarti tutta come labbra voluttuose. [...] Amore, vorrei portarti tante rose: le nostre rose di quattro anni fa, le rose carnicine che invano ho cercato a Schio e che, con queste belle giornate, saranno ora a Firenze in piena fioritura; le rose piene insieme di pudore e di lussuria, di innocenza e di passione, di candore e di voluttà, come la tua diurna apparizione di quella notte; le rose che hanno un caldo sentore di giovinezza, tanto che quando mi accade di odorarle, non posso trattenermi dal morderne i petali, quasi rabbiosamente, quasi dolorosamente, ripensando con un brivido alla tua bianca carne che per la prima volta mi stordì col suo profumo, quasi mi sommerse e mi annientò nell’inebriamento. [...] Adina, senti. Io non posso portarti le rose: io neppure posso mandartele. Dunque, appena riceverai questa mia, va’ subito da un fioraio: anzi, se vuoi, da parecchi fiorai, e portale nella tua camera. Son io che te le offro... Voglio così: lo farai?...

Serenità del dovere Piero sa che ad Ada non piace immaginarlo soldato e le racconta il meno possibile delle ore che trascorre fuori della sua stanza. Descrive il suo stato d’animo: nessun entusiasmo guerresco, ma rassegnata fermezza di compiere il proprio dovere e di contribuire ad «affrettare la fine di questo tragico periodo».

20 gennaio 1916 Ricordo sempre l’impressione che ti faceva, nello scorso luglio, il vedermi vestito come son vestito: e intendo, amore, ancora, il tuo stato d’animo verso tutto ciò che, in questa lontananza, sa di guerra e di patria... Oh, Adina, ma tu non sei nel giusto quando tu (è in questo senso che mi confessi di essere qualche volta cattiva?) quasi ti inquieti, senza dirmelo, con me, perché credi ch’io mi diverta a far questa vita, perché pensi ch’io la faccia con entusia-

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smo... Entusiasmo! E invece, vedi, si tratta solo di rassegnata fermezza, di determinata volontà, di risoluzione serena intesa a nascondere, sotto una corazza di fiducia, tanta malinconia, tanto desiderio di fuggire, tanta sete di pace e dei tuoi baci, dei tuoi baci, dei tuoi baci... In fondo, poiché quello che faccio bisogna farlo, è meglio ch’io lo faccia serenamente, e che vi metta anche un po’ di quell’impegno che può giungere a farmi passare un po’ meglio queste giornate, queste settimane, questi mesi di lontananza: tanto più che, facendo anch’io quello che faccio contribuisco anch’io ad affrettare la fine di questo tragico periodo che, quando sarà passato, ci parrà un brutto sogno. 23 gennaio 1916 Ti dirò che stamani sono andato a Malo con tutti i miei colleghi, a assistere, alla sede del reggimento, al giuramento di tre nuovi ufficiali; che, nel pomeriggio, ho cercato di consumar l’ore il più celermente possibile, sia passeggiando per San Vito al sole, sia, qui in camera, scrivendo a casa e rileggendo lentamente una Preghiera per i cittadini di d’Annunzio che lessi già ieri sul «Corriere della sera» e che mi è profondamente piaciuta, perché, caso strano, è semplice, sincera e piena di gagliarda umanità. Poi, già te l’ho detto, ho preparato il tè, ed ho aspettato... Nella tua lettera di stamani mi fai una domanda un po’... indiscreta: vuoi sapere se andremo via di qui, come ti è stato detto dai parenti di un nostro soldato... Ma, Adina, se tu dovessi dar retta a tutte le voci che i soldati accolgono non si sa da quali fonti, tu resteresti sbalordita: ieri un soldato mi assicurava che si doveva partire la sera per... il Montenegro; ieri l’altro tutti dicevano che il battaglione torna a Firenze. Di vero e di serio, in queste voci, non c’è niente: non si sa niente, né si prevede niente. Certo, non sembra improbabile che prima o poi, magari tra qualche mese, il battaglione si muova da Schio per andare in qualche luogo montano nelle vicinanze; ma si tratterebbe sempre di trasferimenti di poca importanza, e sopratutto, senza nulla di... tragico, poiché il nostro battaglione, formato cogli scarti di tutti gli altri battaglioni, non potrà mai essere adibito altro che a servizi territoriali. Del resto sta’ sicura, che appena sapessi qualche novità, te la direi: e, anche, ti direi sempre – nonostante i tuoi dubbi – la verità.

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[A Egidia Calamandrei] 27 gennaio 1916 Egidia carissima, grazie della tua lettera, tanto cara quanto inconsueta, giuntami poco fa e spedita... non so quando, imperocché le signorine che fanno la tesi non hanno l’obbligo, come noi miseri mortali, di mettere la data alle loro epistole. Del libro di biblioteca ho fatto come fece quello, direbbe Sandro: ossia, poiché la storia non insegna esattamente ciò che quello fece, l’ho rimandato proprio quando tu mi scrivevi di non rimandarlo. [...] Sto benissimo; e se non vi scrivo più spesso, accusate soltanto la assoluta mancanza di tempo disponibile. Attenti! Descrizione impressionante. Ieri, mentre ero su un monte insieme con molti altri ufficiali, mi scoppiarono a non più di cento metri una trentina di granate e una trentina di shrapnel, che fischiavano, direbbe il Vacca, come regoli; ma non t’impaurire: erano proiettili delle nostre artiglierie, sparati al bersaglio, per convincere noi territoriali che i cannoni, oltreché il tonfo, hanno anche altre non trascurabili virtù. La mia vita (lasciando da parte questa gita fatta ieri nel pomeriggio al poligono d’artiglieria) continua senza variazioni, come senza variazioni continua il tempo. Scrivetemi spesso, e non state in pensiero per me, perché non ci sarebbe... corrispettivo.

Cioccolata di «Revoire» Piero alterna le marce con i soldati, messi a dura prova dalle sue lunghe gambe («le mie gambe, che sono l’unica cosa della quale, in me, i soldati hanno paura»), l’attività di fotografo, i cui risultati lo lasciano però deluso («ho leticato col fotografo sostenendo che aveva rovinato nello sviluppo i miei capolavori»), le esercitazioni di perlustrazione con la carta topografica alla mano («si figurava di perlustrare tutte le case di campagna per sgombrare il passo da qualche sorpresa: e le galline fuggivano via spaventate dalle mie gambe lunghe e dal luccichio delle baionette inastate»). Tra gli ufficiali è arrivato un fiorentino, il tenente Bianchi, «il quale naturalmente ama molto di stare in conversazione con un concittadino e non intende che questo concittadino si

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chiuda in camera senza dare udienza»; il «non antipatico disturbatore» turba il «raccoglimento» di Piero pretendendo che gli offra del tè e gli faccia assaggiare la cioccolata di Revoire mandatagli dal babbo.

2 febbraio 1916 E anche il febbraio è venuto, portando un po’ di primavera al posto di quel po’ d’inverno che il gennaio s’è rapito con sé: e intorno a Firenze, in quelle vallette che fanno le colline tra Settignano e Fiesole, qualche mandorlo – penso – già comincia a biancheggiare di fiori e affaccia i suoi rametti, tutti constellati di candidi occhi curiosi, a spiare al di sopra di qualche muro le piccole strade tortuose... Quassù il febbraio ha portato soltanto la pioggia: dopo quasi quaranta giorni che siamo a S. Vito, ieri per la prima volta il tempo ci ha impedito di recarci alla consueta marcia del martedì; e abbiamo passato la giornata a fare in caserma mille cose più seccanti, a contare ad uno ad uno i bottoni delle uniformi dei soldati, ad ammonirli sul modo di ricucire i numerini ciondolanti... Poi, nel pomeriggio, quando potei esser libero da queste necessarie meschinità, venni qui in camera, col mio bel fuoco acceso, proponendomi di mettere in ordine tante mie carte disordinate, di stare qualche ora in segreta conversazione col mio mondo. [...] Torno ora, qualche minuto prima di mezzogiorno dall’istruzione, alla quale, come quasi sempre, sono andato per conto mio coi miei uomini, ai quali ho insegnato oggi a riconoscere i punti cardinali e ad intendere alla meglio gli schizzi topografici. Son giunto, in mezzo alla nebbia e a qualche spruzzarello di pioggia, a un ponte su un torrente a un chilometro di qui, e lì mi sono fermato per un’oretta a far la spiegazione, e poi, per vedere se essa aveva servito a qualcosa, ho diviso gli uomini in gruppi e li ho mandati per diverse vie a radunarsi in un unico punto indicato prima colla carta. E così sono restato solo, in mezzo alla campagna grigia, coll’unica compagnia del mio attendente, che non si allontana mai da me. Ieri l’altro, mentre i soldati erano andati per una via che avevo mostrata, io coll’attendente presi un sentiero scosceso in mezzo a un bosco, per giungere prima alla loro stessa meta. La via era ripida e sbarrata a ogni passo da rovi: ed io, che avevo dato a accomodare il mio vestito da strapazzo, m’ero dovuto mettere la tenuta che portavo a Firenze, tutta attillata e delica-

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ta, e le scarpe senza chiodi. Sicché il procedere per quel cammino difficoltoso era una grave impresa. Ma io andavo avanti impavido, facendo miracoli d’agilità, attaccandomi senza cadere ai fili d’erba: e il mio attendente che si spaventa facilmente e che, coi suoi scarponi ferrati, non riusciva a tenermi dietro, si sgolava a raccomandarmi di tornare in su, di non far «coglionerie»... A un certo punto, con un gran sospiro, disse: «Porcamattina, ma se la vedesse la su’ mamma!». Ed io gli risposi ridendo: «Ammirerebbe come io, anche vestito così inappuntabilmente, riesco a trarmi d’impaccio!».

Preparativi di marcia Piero riceve la notizia della morte della nonna materna Angelina e rientra a Firenze per una breve licenza, trascorrendo lunghe ore con Ada, ormai integrata nella famiglia come fidanzata ufficiale. Al ritorno, si preannuncia la partenza del battaglione per un’esercitazione di marcia in montagna che durerà otto o dieci giorni: «Andremo a una ventina di chilometri da Schio, oltre l’antico confine italo-austriaco, ma sempre, s’intende, a rispettosa distanza da tutte le zone pericolose: e poi ritorneremo pacificamente, a piccole tappe giornaliere qui a S. Vito, dove lascio i miei libri e tutta la roba che non mi servirà durante il viaggio». Per rassicurare Ada, Piero spiega che «il nostro reggimento si compone di tre battaglioni e che il comandante del reggimento vuole che ciascuno di questi tre battaglioni passi qualche giorno in montagna per addestrarsi; e che un battaglione è già stato lassù dove noi andremo e ne è già tornato, mentre il secondo è andato ora al suo posto; e che noi, terzo battaglione, andremo a nostra volta quando, giovedì o venerdì, tornerà il secondo... Insomma, Adina, non faremo nient’altro che una divertente passeggiata un po’ più lunga del solito, nella quale mi dà pensiero soltanto la difficoltà di ricever la posta». Piero va in giro «per le diverse botteguccie di ciabattino che ornano questo paese, in cerca di una certa forma all’americana che doveva servire a modificare la punta dei miei nuovi scarponi foderati di pelo» e rievoca con dolce tenerezza la sera «in cui peregrinammo per altre botteghe assai più ricche e luminose di queste, in cerca degli introvabili stivaletti alti, molto alti, tutti dello stesso colore» che forse nel frattempo Ada ha trovato da sola.

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29 febbraio 1916 Oggi sono stato a Schio, a far spese per il viaggio: ho preso quattro rotolini di pellicole, e una macchinetta da caffè, e una posata, e un bicchiere d’alluminio, una scatoletta per metterci il sapone... e tante altre cose ancora. La partenza è fissata per doman l’altro alle sette e mezzo: e la prima tappa è a un paese a 9 km. da Schio, Valli dei Signori (in qualunque carta potrai seguire le mie peregrinazioni). Dormiremo lì, in camere come qui a S. Vito, e venerdì faremo una seconda tappa, non più lunga della prima, ma più faticosa perché in montagna, traversando le Dolomiti a Piano delle Fugazze e fermandoci a un paesetto nell’altro versante, Chiesa. Il terzo giorno di marcia cioè sabato, proseguiremo – sempre sulla strada carrozzabile che mi dicono bellissima – fino a Zocchio o fino a Valmorbia, due paesetti poco distanti tra loro. E lì ci fermeremo per tre o quattro giorni, per poi riprendere in senso inverso la stessa via fatta all’andare. Se il tempo ci assisterà, sarà una girata divertentissima, in luoghi più caldi di questi (eccetto il secondo giorno, per la traversata dei monti) e con tutte le comodità che abbiamo qui, poiché va innanzi al battaglione un ufficiale incaricato di prepararci le camere e ci seguono le carrette con tutta la nostra roba; in quanto a pericolo, non sto a dirti altro che questo: che Valmorbia è distante da Rovereto più di quindici chilometri (la carta te lo dirà meglio di me); mentre la nostra prima linea è a due km. da Rovereto, oltre Lizzana.

«Le notti chiare erano tutte un’alba» La spedizione in montagna ha toni idilliaci, a contatto con paesaggi innevati e fiori che non sanno nulla della guerra. È il paesaggio rievocato da Eugenio Montale nella poesia Valmorbia, con il Lene che risuona roco nel «grembo solitario». Il pensiero di Piero va per un attimo ai proprietari delle case abbandonate nei territori “redenti”, che l’esercito occupa nei suoi spostamenti.

2 marzo 1916 Amore caro, in questo giovedì di carnevale, durante il quale per le vie di Firenze ci sarà forse qualche stupido di buona fede che al

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tuo passaggio ti getterà una manciata di fogliolini nei capelli, io sono arrivato ai picchi delle Alpi tutte bianche, dopo una marcia non tediosa durata fino a mezzogiorno. Abbiamo mangiato nell’Albergo delle Alpi di cui vedrai l’esterno in una cartolina che ti mando, e poi son venuto quassù, in una cameretta assegnata a me fuor dal paese, in una casa privata ove dormono altri quattro ufficiali. La stanzetta dove dormirò stanotte deve avere imparato a far da camera solo da quando c’è la guerra. È piccola come un nido di ragno, con un lettino da una parte e un cassettoncino dall’altra. In terra vi sono tre vasetti di garofani, e per aria, attaccate a una pertica, molte scarpe da uomo e da donna. Poi v’è un tavolino, coperto d’una copertaccia di lana, che non offre resistenza e che mi fa bucare – lo vedi – la carta su cui ti scrivo. 6 marzo 1916 Tu non puoi imaginare, Adina, che cosa è stata di fantastico questa marcia fatta in montagna sotto la nevicata, per una strada serpeggiante tra cime tagliate a picco e tra spaventosi abissi, attraverso paesi disabitati, ove dalle loggette di legno non si vede affacciarsi altro che qualche testa barbuta di soldato. La sera di giovedì, come ti scrissi, dormii a Valli dei Signori, in un letto e in una cameretta tutta per me: la sera dopo, giunti alla tappa che ti avevo indicata, dovemmo alla meglio accomodarci in due per camera. Ebbi però anche lì un letto comodo, e la mattina una cameriera di tipo tedesco (ci disse che il suo marito è soldato in Austria) che venne a portarci il caffè... Giunti invece qui, alla meta (tre compagnie, tra le quali la mia, sono restate a questo paese, l’altra è andata un chilometro più avanti) non abbiamo più trovato né cameriere né letti: e abbiamo dovuto accomodarci alla meglio, sulla paglia e in più d’uno per stanza. La prima notte che dormii qui (la notte tra sabato e domenica) dovetti dormire in una stanza con un altro sottotenente: c’era lì, per caso, un gran letto a due posti, da contadini; ma io volli a tutti i costi dormire in terra, sul pagliericcio, tenendo per guanciale una cassetta tolta da un cassettone, e così potei godermi un sonno non molto comodo ma saporitissimo. Ieri però m’è riuscito di conquistarmi una stanza tutta per me: una bella stanzina di cui ti manderò l’imagine, nuova e pulita, e abbastanza calda. E qui mi son costruito un giaciglio con due pagliericci (il pagliericcio è

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un sacco pieno di paglia): uno per lungo, dove mi distendo, ed uno in cima per traverso, dove appoggio la testa: e stanotte vi ho dormito benissimo, destandomi una volta sola per pochi istanti. [...] Stiamo qui, quasi in riposo: facciamo fare ai soldati piccole passeggiate nei dintorni, tanto per tenerli allenati. Ed essi vengono volentieri, perché i luoghi sono meravigliosi. 7 marzo 1916 ore 22 ...e il Carnevale finisce così: in una stanza arredata come la soffitta di un cenciaiolo, tra pochi mobili scassinati che hanno l’aria di povere ignare bestie impaurite dal forestiero. Lontano, chissà dove, qualcuno pensa con nostalgia a questa stanza sua, a queste povere cose abbandonate che avranno per lui profonde seduzioni di memorie: e qui le stelle, apparse tutte pulite dopo la nevicata che oggi ha durato da mattina a sera, guardano attraverso la finestra senza imposte e senza tende il mio strano candeliere, formato da un pezzo di ramo di castagno con un buco nel mezzo. Oggi, amore, per finir bene il Carnevale (il Carnevale? C’è forse stato costà?) neppure è giunta l’automobile della posta, bloccata forse dalla neve al passo delle Dolomiti: e tutta la giornata è passata qui, tra le case del paese e per le piccole strade sulle quali i balconi di legno fanno un po’ di riparo. [...] Colsi ieri, salendo su per un sentiero nevoso alla testa del mio plotone, questo violaceo annunziatore di primavera3 che ti arriverà già inaridito e scolorito: è nato sopra un dirupo, affacciato a una valle profonda, sbarrata da due fortilizi; e lì, dalla sua zolla, vedeva senza comprendere, giù dove la valle sbocca, i monti nevosi nei quali ancora si annidano gli Austriaci... Ma questo fiore, coraggioso tanto da sfidare la neve, non sa nulla della guerra: esso, amore, non saprà né vorrà dirti nulla di guerresco, ma ti dirà soltanto che il pensiero di te è salito per virtù mia fin su questi monti che ti paiono tanto lontani, e che io ho saputo portare il tuo amore fino a queste terre che non sono più straniere...

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Nella busta c’è una genziana secca.

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9 marzo 1916 Stanotte, figurati, è venuta la neve alta in modo costante quasi un metro: sicché sono coperti tutti i sentieri, e per le strade c’è soltanto un viottolino scavato tra pareti di neve, simile ad una trincea. La nevicata è stata tale che verso mezzanotte il sottotenente che sta di camera sotto a me ha sentito degli ululati ai piedi della nostra casa e ha veduto gironzolare tra la neve due lupi scesi dalla montagna, cacciati dalla neve. Io, naturalmente, che dalle dieci dormivo in pace avvolto nei miei molteplici tegumenti, di nulla mi sono accorto e soltanto ho udito stamani con piacevole meraviglia il racconto, che somiglia molto a quello delle novelle. 11 marzo 1916 Poiché, anche ieri, la neve impedì alla truppa di uscire, io me ne andai con qualche altro ufficiale giù per la via parallela al Leno, per molti chilometri, finché non fu l’ora del tramonto: è una strada che somiglia ai gironi infernali di Dante, sospesa, come un lungo balcone, sull’abisso, difesa dall’altra parte da fantastiche pareti di roccia bruna e turchina; una strada che bisognerebbe fare tu ed io soli soletti, in tempo di pace e sotto un cielo primaverile, quando l’estatica contemplazione non è turbata a ogni istante dal fragore delle valanghe che precipitano nel torrente o dal rombo del cannone che da lontano ammonisce a non spingersi troppo avanti.

Un messaggio patriottico a Vamba e un pensiero alle montanine esiliate Il 13 marzo Piero scrive a Luigi Bertelli, al cui «Giornalino della domenica» collabora dal 1910 con poesie e favole, un ottimistico saluto di tenore patriottico: «Oltre il confine abbattuto, in vista di una Città aspettante che a primavera sarà, non più soltanto di cuore, italiana, Le invio memori affettuosi saluti». Lo stesso giorno, in una lettera ad Ada, conducendola quasi per mano a visitare il villaggio di montagna in cui si trova, dedica un pensiero agli abitanti che hanno dovuto abbandonare il villaggio.

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13 marzo 1916 Poiché le tue lettere giungono con tanto ritardo e temo che non con maggior sollecitudine ti giungano le mie, ti invito – oggi che il tempo sembra tranquillo e disposto a dar tregua per qualche ora – a venir da te a visitare il paese dove mi trovo, tanto per conoscere un po’ meglio la mia solitaria dimora sperduta tra la neve. Vedi, la strada maestra, la grande strada sulla quale passano ogni tanto autocarri sbuffanti e lunghe file di muletti carichi, e soldati di cento reparti, e ciclisti e cavalli, non giunge fin qui al paese, il quale è una trentina di metri più alto della strada, e comunicante con essa solo per un sentieruolo stretto e sdrucciolevole. Se riuscirai a salire su per questo stradellino che è più pericoloso a causa della neve non ancora tutta disciolta, giungerai in mezzo alle venti case che formano il borgo, nell’unica viuzza chiusa tra le mura che quasi si toccano. E vedrai subito, alzando la testa per cercare un po’ di cielo in quell’angusta penombra, che ogni casa sporge un suo balcone di legno, anzi due o tre, uno per ogni piano, costruiti alla meglio con quattro tavole inchiodate, fragili e leggere in apparenza come giuocattoli da bambini. Sotto queste terrazzette che quasi si toccano dai due lati della via, tu passerai, cercando invano, dietro le ringhiere di legno, gli occhi azzurri delle montanine esiliate: e dovrai fuggir lesta a qualche riparo, perché la neve è ancora sui tetti, e a poco a poco si scioglie, e gocciola giù sulla via, sulla via di questo paese che non conosce le docce. L’unico rifugio immediato (poiché la mia casa è più lontana, fuori dal centro della gran città) sarà il locale dove ha sede la mensa: per entrarvi, dovremo passare dalla cucina, e ti chiederò scusa di simile indecorosa anticamera; ma il tuo disgusto sarà placato, quando sarai entrata nella sala da pranzo, e avrai veduto come, nella parete di fronte all’ingresso, faccia bella mostra di sé, entro una corona di quercia, il numero del nostro battaglione, e come sono solenni le due lunghe tavole senza tovaglia che occupano tutta la stanza, e come sono solide le panche zoppicanti e le seggiole sfondate che servono a sostenere i commensali durante il pasto. Anche vedrai che non sono molto trasparenti i vetri della finestra, fatti di carta gialla e di giornali. Ma due cose vedrai, che davvero ti empiranno di stupore: prima di tutto, in un angolo della sala, una enorme stufa quadrata, di maiolica cilestrina, massiccia, gof-

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fa e disciplinata come la testa d’un tedesco (e penso sempre, ogni volta che entro nella stanza riscaldata, al padrone tedesco che forse nello scorso inverno stava lì al calduccino, a leggere sui giornali viennesi le vittorie austriache); e, in secondo luogo – e questo sul serio – la meravigliosa vista che si può godere dalla finestra, quando la nebbia si compiace di sgombrare per un istante la valle. Ecco, ora hai veduto tutto, qui alla mensa, e puoi venire al mio palazzo, al quale già, anche senza conoscerlo, vuoi un po’ di bene. Io ti farò da guida: bisogna stare, se si può, nel mezzo della via, per evitar le gocciole dai tetti; avanzare a balzi, di sasso in sasso, per non cader nell’acqua, per non affondar nella neve. Si volta, si volta ancora: ecco, il paese è finito, ecco la neve, ecco il campo, ecco la montagna coi radi abeti infioccati di bianco. Ed ecco la mia casa. È nuova nuova, vedi, tutta intonacata di calcina grigiastra: appena terminata, anzi non terminata ancora, perché le soffitte sono ancora da rifinire e due stanze non hanno ancora impiantito. S’entra per una porta color rosso bruno e in fondo alla stanza d’ingresso si presenta subito la scala che porta ai piani superiori: una scaletta piccola, senza ringhiera, in cemento fino al primo piano, poi, dal primo al secondo, in legno. Io, come sai, sto al secondo piano, oltre il quale la scala seguita per condurre alle soffitte: sulla mia porta, vedi, c’è attaccato il mio biglietto. Entriamo...

Stati d’animo di fronte alla guerra Piero si sforza di spiegare il suo stato d’animo e le sue ragioni di partecipazione alla guerra, cercando di conciliare amor di patria e amore per Ada, pur intendendo che, se le parti fossero invertite, anche lui non capirebbe le ragioni dell’altro: per questo evita di fare “discorsi patriottici” ad Ada. Si interroga anche sullo stato d’animo della popolazione dei territori “redenti”.

14 marzo 1916 Dolce amore mio, io conosco l’anima tua assai più di quanto tu credi, e so qual è il tuo stato d’animo a proposito della mia condizione presente. Fin da quei primi giorni nei quali tu non potevi senza piangere vedermi vestito da militare, ho compreso per-

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fettamente (e ho compreso perché anch’io, se le nostre parti fossero state invertite, avrei sentito così) che tu, in tutto ciò che sapeva di guerra e di patria in questo momento, vedevi un attentato e un pericolo per la nostra unica felicità: e ti è potuto sembrare talvolta, quando hai capito ch’io non intendevo sottrarmi all’elementare dovere di ogni italiano e che partecipavo anch’io, non solo colla persona ma anche col cuore, a questo rinnovamento spirituale del nostro popolo in armi, ch’io peccassi di indifferenza e d’oblio verso il nostro amore ch’è l’unico nostro bene, ch’io rubassi per un’altra meta l’anima mia alla nostra unica meta. Amore, tu non hai inteso, invece, e non intendi come questa forzata lontananza – la più gran parte della quale è forse già trascorsa –, come questa possibilità di rischi che pure incombe anche su di me, abbiano fatto in modo quasi religioso risplendere nel mio cuore la fiamma pura del mio santo amore lontano, e com’io possa serenamente, quasi giocondamente continuar questa vita di privazioni, soltanto perché mai come ora ho sentito vicino a me il soffio animatore della tua tenerezza, la comunione di spiriti che quassù, tanto lontano da te, l’amore di te mi concede. Io non saprei, Adina, sentirmi quassù lieto e fiero di quello che faccio, se non avessi dentro di me la coscienza di quello che al ritorno mi attende, la coscienza degli immensi beni che porto con me in pericolo e porterò con me a salvazione; e d’altra parte, Adina, io non saprei, ora, volerti l’infinito bene che ti voglio se non fossi anch’io quassù, al mio posto, a esperimentare ogni giorno che i più grandi e più nobili sentimenti dell’animo mio si fondono nel tuo amore e in esso si illuminano e si integrano. Ma, ripeto, tu forse queste cose non vuoi capirle: e neanch’io, sai, vorrei capirle se fossi al tuo posto, nella trepidante attesa che cumula le ansie e non ammette conforti. E io, sai, tanto comprendo l’anima tua, che sempre ho evitato di farti, per dir così, “discorsi patriottici”, di darti l’impressione, errata ma naturale, di sottrarmi a te verso altra passione, di mettere in seconda linea l’amor tuo, ch’è invece ragione scopo e sostanza della mia vita. 17 marzo 1916 Nel pomeriggio di ieri, in un’ora d’ozio, salii, sul pendio del monte ch’è al disopra della mia casa, fino al punto in cui comincia il

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bosco: un bosco rado di pini selvatici, che poi cedono il posto, più in su, agli abeti. Della neve, col sole degli ultimi due giorni, ne resta più poca: e, nei luoghi non riparati già s’erano affacciati in mezzo al bianco larghi tappeti bruni di borraccina, orlati d’ eriche rosse, le quali magicamente hanno continuato a fiorire anche sotto la neve. Con in mano un libretto di istruzioni militari (altro non ho da leggere quassù: e divoro i giornali tutti d’un fiato appena giunti) mi sedei in un’oasi soleggiata che, avendo a pochi metri un largo spiazzato di neve, pareva cumulare in breve spazio tutti i tepidi profumi della primavera (perfino, figurati, vidi posata accanto a me, su un rametto, una lieve farfalla color citrino, nata allora allora, coll’ali ancora lustre...); e di lì, più che a leggere, stetti a guardare... Sotto a me, a pochi metri, i tetti bruni del nostro minuscolo borghetto; più sotto ancora, la bianca strada serpeggiante; giù giù, in fondo alla valle, la traccia verdastra del torrente che mormora nella penombra; e poi, l’improvviso risalire della montagna striata di bruno, di verde e di azzurro alla base, rigata da mille sentieri, rugosa di mille asperità, e sempre più, quanto più sale, coperta dalla neve che imbianca interamente gli ultimi più erti picchi profilati nel cielo, quelle strane guglie coniche tagliate nella roccia, per le quali la montagna prende appunto il nome di Coni Zugna... Questo dinanzi a me; ma a destra la valle continua anche più stretta e più pittoresca, più ricca di luci, di linee, di colori: enormi massicci, quadrati come palazzi incantati, che gli Austriaci avevano tutti scavati internamente per porvi le artiglierie, e che ora sono nostri; piccoli paesini disabitati, sperduti tra le rocce e bersagliati senza pietà dai cannoni; azzurri declivi, là in fondo, verso l’Adige, pieni di quello strano mistero che deriva dal saper vagamente che laggiù si combatte, che laggiù una linea di armati ci spia ed attende, e parla un’altra lingua e spera un evento opposto a quello da noi sperato... Nell’oasi primaverile ove stetti più d’un’ora trovai uno strano fiore che mai avevo trovato nelle campagne toscane: grande quasi come una delle ninfee della nostra terrazza, ma con cinque petali soli, e coloriti di un roseo cangiante in giallastro. Lo colsi e altri ne trovai uguali; e, tornato qui in camera mia, detti ordine al mio attendente di trovarmi subito un vasetto degno di contenere tanto tesoro: mi portò, dopo poco, un barattoletto di latta, di quelli in cui si tiene la carne in conserva, tutto pulito e lustrato. E lì accomodai la mia messe, alla quale

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un minuto fa, proprio mentre scrivevo le ultime tre o quattro righe, si sono aggiunti dei delicatissimi piccoli anemoni violacei e rosei, portatimi con premurosa iniziativa, dallo stesso Maurri4. Vorrei mandarteli... 18 marzo 1916 Poco fa, mentre avevo cominciato questa lettera, lo scritto è stato interrotto da una visita: dal padrone di questa casa, un contadino di mezza età, che s’è affacciato a risalutare la sua roba. Ogni sabato la popolazione di questi paesi sgombrati – la quale è tutta raccolta nei paesi della zona meno avanzata – ha il permesso di tornare alle proprie abitazioni, per dare un’occhiata di qualche ora ai nidi abbandonati e invasi: e stamani, quand’ho aperto la finestra, ho avuto la sorpresa di udire, tra le casette del borgo, voci di donne e di bambini, quasi ad annunziare che la guerra è finita. Il padrone della mia casa è venuto qui pieno di rispetto; mi ha detto che ha due fii tutt’e due alla guerra: nelle file austriache. E non son riuscito a capire qual’era il suo cuore verso di noi, verso di me: se di fraternità grata per la redenzione, o di odio ben dissimulato in un sorriso ambiguo...

VALLI DEI SIGNORI

Di ritorno dalla lunga esercitazione Piero viene inviato a Valli dei Signori, a 9 km da Schio, e descrive la sua nuova camera all’Albergo del Sole, condivisa con un altro ufficiale, ed il paese, «molto più grande e più signorile di S. Vito».

23 marzo 1916 Il paese di Valli è molto più grande e più signorile di S. Vito: vi si scorge appena entrati l’aspetto di un paese fatto per i villeggianti: c’è perfino, in mezzo alla piazza, un chiosco per i giornali, ci sono due farmacie, diversi caffè, diversi alberghi, e, sulla strada principale, niente di meno che un porticato. La guerra, poi, ha fatto di 4

L’attendente.

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questo paese un centro di rifornimenti per il settore di Rovereto: e la mattina verso le cinque cominciano a passare proprio sotto la finestra gli autocarri a gran velocità, che vanno su, verso le Dolomiti, per poi diffondersi nei vari paesi della Vallarsa. Talché io, che mi sveglio di soprassalto a ogni passaggio, sono costretto, nonostante il mio ben noto (e da te mai abbastanza apprezzato...) patriottismo, a mandare piccole imprecazioni al motore prepotente. Riprendiamo, qua, la vita che facevamo a S. Vito: marcie, istruzioni giornaliere a cominciar da domani, mensa qui in paese in una sala dell’Albergo delle Alpi, incubo continuo del colonnello che s’aggira sospettosamente per cogliere gli ufficiali in flagrante reato di pigrizia...

Corolle come «bocchette riceventi di apparecchi telefonici» Piero si attarda nelle descrizioni di scene campestri per non tediare Ada e raccontarle cose «che possano interessarti senza urtarti», ma le sue giornate «sono quasi tutte assorbite da occupazioni che tu non ami»: «gli unici episodi della mia vita giornaliera dei quali posso darti notizia sono quei mille episodi fuggitivi che si svolgono dentro di me di minuto in minuto, di fronte alle siepi coperte di gemme che mi ricordano gli arboscelli di Castel di Poggio, di fronte alle colline rossastre che somigliano a quelle della Certosa, di fronte a questo senso generale di rinascita che accanto a te, amore, si tradurrebbe in baci e carezze». Passeggiando, scrive di averle parlato «attraverso tante corolle, le quali mi son sembrate (senti che idee da futurista!), tante bocchette riceventi di apparecchi telefonici, alle quali mi accostavo per mandarti, attraverso qualche misterioso filo sotterraneo collegato col tuo cuore, i miei saluti primaverili... Primule citrine a branchi, margheritine appena schiuse, anemoni rosei e bianchi, pervinche e violette: e poi tante fogliuzze nuove, nate stanotte, tutte lustre di linfa, tutte delicate e svariate come i petali dei fiori... Ma tu non dai retta a questi incantati telefoni floreali ai quali ricorro ogni volta che percorro i campi rinverditi e i prati in fiore: e il campanello, all’altra estremità dell’invisibile filo, trilla a distesa senza risposta». Anche nelle descrizioni più idilliache si insinuano però le voci del tempo di guerra: che i campanili delle chiesette siano stati eretti apposta nei decenni passati dagli austriaci come punti di riferimento per l’artiglieria?

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Parte prima. Lettere

27 marzo 1916 Sono a scriverti in una piccola stanza a pian terreno, lungo la strada che da Valli porta a Schio: la stanza è tutta piena di fucili, di zaini, di sacchi, di paglia distesa sul pavimento; ed io son qui seduto al tavolino, e mentre faccio da ufficiale di giornata incaricato di passare gran parte del pomeriggio nei locali della compagnia, ho staccato da un registro questa paginetta e scrivo a te. Ho dinanzi una finestra dalla quale si vede, quasi allo stesso mio piano, la strada, ampia e pianeggiante: e, al di là della strada, ci sono degli alberi ancora senza foglie, e delle cataste di travi ai loro piedi, e una corda tesa tra due fusti con tanti panni tesi su che ballano al vento, e una bambina vestita di rosso e coi capelli biondi che si affatica a spalar della paglia con una paletta da focolare... Dietro, i prati verdi: e dietro ancora la collina boscosa, che sale su su fino alla vetta dove biancheggia una chiesa candida con un campanilino a grezzo. Non c’è, quassù, una vetta che non abbia la sua chiesina e il suo campanile: e c’è la voce che sian tutti segnali fatti erigere durante molti decenni dagli Austriaci, per poi aver in guerra punti di riferimento per dirigere l’artiglieria.

Un bagno purificatore 4 aprile 1916 Ho potuto godere, poco fa, una piccola voluttà che da molto tempo invano desideravo: un bagno, un dolce bagno purificatore... Ora non ti scandalizzare, amore, se ti racconto una cosa così umile, così insignificante: in questa vita randagia, anche un bagno diventa una rara felicità. Dunque devi sapere che il colonnello del nostro reggimento con pensiero geniale ci annunciò ieri che aveva fatto preparare per i signori ufficiali una saletta da bagno: e io oggi, verso le cinque, quando finalmente m’è riuscito di esser libero dal mio “servizio”, sono andato zitto zitto a inaugurarla... Ora son qui, a scrivere a te, nella mezz’oretta che precede la mensa: mezz’oretta che non può esser varcata con ritardi soverchi, perché è regola che chi ritarda più di un quarto d’ora a presen-

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tarsi alla mensa, ha l’obbligo di pagare bottiglie di vino scelto a tutta la compagnia: sublimi intelligenze della vita militare! [...] La tua lettera mi accenna alla licenza; è vero che l’Angeleri è qui, a Valli, non però nel battaglione mio: lo conosco benissimo, e ci parlai anche ieri. È vero anche che finalmente hanno aperto le licenze anche per i nostri battaglioni; ma chi, come me, ha avuto da poco una breve licenza, pur senza perdere il diritto a avere questa licenza cosiddetta invernale, prende però, nel turno, l’ultimo posto. Sicché io calcolo che a me la licenza toccherà (se pure tra pochi giorni non revocheranno l’ordine) tra un mese e mezzo o due.

Smembramento del battaglione e trasferimento Piero è preoccupato di uno smembramento del 176° battaglione, che lascerebbe i soldati migliori sul posto per trasferire ad altra destinazione gli inabili e teme di doversi separare dai soldati che ha “tirato su” e dai colleghi a cui si è affezionato, tra cui il sottotenente Policreti, divenuto un caro amico e confidente: «Dicevo ierisera, prima di addormentarmi, all’amico che dorme con me (un vero amico: fine, buono, intelligente): “Ecco, quando verrà la pace, e riavremo tutto quello che ora ci hanno tolto, e risaremo accanto ai nostri beni e alla nostra felicità... chi ce li renderà questi mesi di giovinezza che la guerra ci ruba, questo nostro tesoro che ogni giorno irreparabilmente si consuma?”». Finalmente, il 13 aprile, la sorte del battaglione è decisa, e la destinazione risponde ai desideri di Piero: «Da domani cambio battaglione: resto quassù, coll’VIII reggimento, come desideravo; e vado al battaglione al quale è stato trasferito anche il mio compagno di camera, il sottot. Policreti». Il paesetto della Vallarsa a cui è destinato è Anghebeni, col 129° battaglione, composto soprattutto di romagnoli. Piero si confessa contento dell’assegnazione, ma subito si corregge e relativizza, pensando a «quello che sarebbe avvenuto per noi due se la vita del mondo si fosse svolta in modo normale in questo strano anno turbinoso, quello che ci sarebbe stato concesso se questi folli avvenimenti di cui due anni fa nessuno aveva neppure il lontano presentimento, non fossero venuti a ritardare ancora il nostro bene». Nell’ipotesi che la guerra finisca «tra un mese o tra sei», «appena la guerra finirà, io vorrò che senza più indugio alcuno la nostra felicità ci appartenga». Si tratta di portare «a fondo questo faticoso lavoro che da troppo dura: e poi, amore, ci sposeremo».

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Parte prima. Lettere ANGHEBENI

Fiordalisi e penna stilografica per il compleanno 21 aprile 1916 Amore mio, è uno strano 21 aprile, questo: e anche, oltreché strano, un pochino triste. Ma stamani quando mi sono svegliato, e già la mia stanza era piena di sole, la prima cosa che i miei occhi hanno veduto è stato un tremolio azzurro di fiordalisi sul mio tavolino, freschi e vivaci come se, invece di aver tanto viaggiato per giungere fino a me, fossero ancora dritti su qualche bel prato solatio... Così, amore, anche quassù riesce a trovarmi la lontana felicità. Ierisera, insieme colla tua lettera di auguri (e insieme mi giunsero quelle del babbo, della mamma, di Egidia e dello Zio Cecco) arrivarono anche due scatolette che riconobbi da lontano e che subito portai qui in camera mia, nascoste sotto la mantellina, come un geloso tesoro. E liberai i prigionieri con tanta delicatezza e li immersi subito in un vaso di fiori improvvisato, di latta, brutto ma adatto a dare un comodo ristoro a chi aveva tanto viaggiato... La tua lettera mi parla anche di una bruna signorina che doveva giungere insieme coi fiori, e che forse mi arriverà oggi. Lì per lì, leggendo, non capii di che si trattava: ma poi un lampo di genio mi suggerì che si deve trattare di una penna stilografica. E se è così, non trovo parole per lodare la tua intuizione, la quale ti ha fatto scegliere per me proprio quell’oggetto di cui da tante settimane sento la necessità, proprio quell’oggetto che diverse volte sono stato in procinto di chiederti. Trovare inchiostro quassù, è un grave problema: e, come avrai veduto dalle ultime lettere, ho dovuto per molti giorni scrivere col lapis copiativo. [...] Anche questa camera, che avevo ridotta decente, dovrà, domani essere abbandonata: poiché da domani la mia compagnia si trasferisce a un paese vicino, Matassone, un bel poggio ridente sul quale staremo tranquilli come eremiti: anzi, in previsione dell’ozio che là godremo, scrivo a Firenze per avere libri. Non ti turbare, amore, per questo nuovo trasferimento che non ha niente di pericoloso o di spiacevole; questo Matassone è alla stessa altezza di Zocchio, ma dalla parte opposta della valle: distante, quindi, come Zocchio, dalle prime linee e, come Zocchio, immune da qualunque pericolo. Passerò Pasqua lassù, insieme ad altri cinque o sei ufficiali.

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Uovo di Pasqua Pasqua 1916 Amore mio, gli auguri di Pasqua me li ha portati stamani un uovo fiammante, pieno di dolci ghiottonerie azzurre: un uovo che dai pacchi giunti in perfetta regola ho svoltato trepidando dalle sue molteplici vesti ed ho messo in libertà insieme ai molti altri tesori di cui hanno voluto ricoprirmi le lontane donatrici5. [...] Giunsi iermattina a questa mia nuova residenza e passai tutto il giorno a mettere a posto i soldati e a mettere a posto me stesso. Soltanto nel pomeriggio, dopo tanto cercare, riuscii a trovarmi una stanzetta pulita, la quale era però assolutamente sprovvista di mobili: e allora dovetti andare di casa in casa (il paese è disabitato) e poi nella chiesa ove son depositate tutte le masserizie degli abitanti partiti, per trovarmi la mobilia per metter su casa. Faccio le pratiche... Mi trovai tutto il necessario: ho un bel lettino a molla, di legno lustro, sul quale dormiva, a quanto mi ha detto il carabiniere custode della mobilia, la figlia del sindaco austriaco, ora internata colla sua famiglia in Italia. Lettera di Pasqua alla sorella Egidia Il tono delle lettere alla sorella è molto più scherzoso di quelle indirizzate ad Ada, e meno censurate le notizie sulla vita militare.

[A Egidia Calamandrei]

Pasqua 1916 Cade la neve, brontola il cannone, questo è l’effetto della resurrezione: 5

lia.

Ada spedisce il dono da Montepulciano, insieme alle cugine Lidia e Cle-

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Parte prima. Lettere

se non risorgeva, si stava benone. Amen (N.B. Questi versi, per chi non lo sapesse, non sono endecasillabi.)

Egidia carissima, ebbi per il 21 la tua lettera scritta in carattere ieratico, come quello dei sacerdoti egizi che scrivevano le loro faccende in quel modo affinché nessuno ci capisse nulla (forse questa facezia te l’ho ridetta un’altra volta; ma, a causa del blocco antigermanico, facezie nuove non giungono più). Mi hanno detto che due professori del Magistero, leggendo la tua tesi, si sono presi per i capelli e ferocemente colluttati, perché uno sosteneva che era scritta benissimo e quell’altro, invece, che era scritta malissimo; e poi si è scoperto che avevano ragione tutti e due: misteri. Ho ricevuto in perfetta regola tutto ciò che per le feste hai voluto mandarmi: e forse i doni mi hanno commosso quassù assai più profondamente di quanto mi commovevano quando, gli altri anni, me li portavi in cucina, mentr’io stavo seduto al tavolino col bavero della giacca rialzato e fermato con uno spillo di sicurezza: e tu, quantunque a malincuore, eri costretta ad ammirare la mia leggiadria mattutina. Tutti voi, miei cari lontani, fate miracoli per darmi l’illusione che la distanza che ci separa non esiste: e in questi giorni siete riusciti a pieno a procurarmi tale illusione, non immune, s’intende, da larghe parentesi di malinconia. Vuoi sapere che cosa facciamo quassù; ecco, io te lo direi volentieri; ma siccome il nostro ufficio è così profondamente importante che, ove ne avessero sentore all’estero, la riuscita della guerra sarebbe compromessa, così preferisco tacere. Posso però, per darti un’idea di quello che facciamo quassù a Matassone, dove ci troviamo da ieri mattina, accennarti brevemente quali sono state le nobili occupazioni del mio giorno di Pasqua. Stamani, dalle sette a mezzogiorno, alla testa di un plotone di scope, pale, carrette ed altri veleni, ho, dopo regolare accerchiamento, fatto un’eroica irruzione nelle stalle e nelle cantine di diverse casupole disabitate, dalle quali emanava un odore di tutt’altro che di santità, e, dopo essermi rafforzato nelle posizioni conquistate, ho diretto lo sgombro dei materiali, non certo batteriologicamente puri, che ivi da mesi profughi e truppe di passaggio

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avevan lasciato accumulare. A mezzogiorno i locali erano perfettamente mondi e innaffiati di creolina: e ho potuto recarmi al pranzo pasquale, se non colle mani nette, certo colla coscienza pulita (unica cosa che si può tener pulita in luoghi come questo dove scarseggia il sapone). Dopo pranzo, alle due ho cambiato ufficio: ho preso tutti i soldati della compagnia, e li ho condotti all’infermeria per far infliggere loro la centesima iniezione antitifica. E per più di due ore sono stato lì ad assistere al trivellamento di quei poveri diavoli, che a forza di bucature, hanno la pelle ridotta come un colapomodoro. Poi, finalmente libero, sono venuto nella mia cameretta a darmi buon tempo: ho mangiato qualche caramella fiorentina, ho fatto il tè, offrendone una tazza anche al mio attendente, che, neppure lui, disdegna quest’infusorio di cui il Maurri era ghiotto; e poi mi son messo al mio tavolino di scrittura, per la corrispondenza. Non scherzo: ho, in questo mio nuovo alloggio, perfino un tavolinetto da scrivere, tondo, con sopra intarsiato un motto latino. E poi ci ho un bel lettino di legno lustro, con un saccone a molle che è una meraviglia. Lo zio Cecco, al quale scrissi ieri, ti avrà già detto che io dormo nel letto della figlia del sindaco; la figlia del sindaco, si intende, non c’è; e non c’è nemmeno il sindaco: c’è il letto e mi contento di quello. Al muro esiste poi anche una sacra immagine, ovvero un ritratto di Gesù Cristo in litografia cogli occhi torbi, la fronte corrugata e il naso arricciato: fino a stamani non ero riuscito a comprendere la ragione di cotal sembianza insoddisfatta, ma stamani nel compiere quella funzione di cui più su t’ho parlato, ho capito che l’arricciatura delle nari dev’essere in relazione diretta coll’atmosfera delle stalle abbandonate. La posizione del luogo in cui siamo è bellissima: siamo a 800 metri, ma, riparati da monti più alti, abbiamo una temperatura quasi mite, e anche oggi, quantunque, dopo bellissime giornate piene di sole, un improvviso cambiamento di tempo ci elargisca vento e nevischio, il freddo non si fa sentire più di quanto si farebbe sentire in pianura. Vi manderò presto fotografie del luogo e delle magnifiche vedute che si godono di quassù; ma non riuscirò mai a mandarvi la fotografia dei terribili tonfi che a tutti i momenti, giorno e notte, fanno tremare come ramoscelli le nostre catapecchie. Niente paura: calma e sangue freddo. Bevi un bicchiere d’acqua e ascolta, prima di perdere la bussola, il resto del discorso. Non si tratta di

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cannonate, no; qualcheduna se ne sente anche di quelle, ma alla lontana, come a Zocchio. Si tratta, invece, qui, di mine colle quali il genio fa, a poche centinaia di metri dal paese, certe sue fortificazioni nella roccia che dovrebbero servire qualora l’oste volesse rifar la strada che gli abbiamo fatto far noi in senso opposto. Queste mine scoppiano, a sfilzate di dieci o dodici, a tutte l’ore, come le schidionate di tordi alla Fila6 ove ogni mezz’ora ne levano una dal forno. E la notte questi tonfi così vicini disturbano il pacifico cristiano, che, destato di soprassalto, pensa subito alla mischia e agguanta istintivamente il fido moschetto con relativo sciabolino inastato... A tutto però si fa l’abitudine, anche ai pericoli, anche ai colpi di cannone: io, per esempio, da quando sono alla guerra, dei colpi di cannone ne ho sentiti tanti, che ormai, quando son sicuro che si tratti di mine, non mi fanno più impressione. (N.B. questa è una spiritosaggine; ma siccome è molto fine, c’è caso che tu non l’avverta da te, e quindi te la faccio notare.) Mia cara Egidia, non sto a farti molti ragionamenti per dimostrarti quanto piacere mi ha fatto la tua ultima lettera (dico ultima, ma è un termine improprio perché suppone una serie precedente) e quanto mi saranno gradite quelle che mi scriverai quando avrai liquidato cotesta faccenda della Bartolini7. Anch’io, pur senza la tesi, propendo qualche volta all’“intenerimento”; ma subito me ne correggo poiché il milite territoriale deve avere il cuore fasciato di triplice bronzo. E poi, se ben pensiamo, questa guerra, in confronto alla guerra dei trent’anni e dell’assedio di Troia che ne durò dieci, non è una cosa straordinaria: e quando c’è la salute e l’appetito regge... A proposito, sai che da tre o quattro giorni funziono da direttore di mensa? Faccio il pranzo... ma già, di questo parlerò colla Mamma in una lettera che le scriverò domani: sono cose, queste, che non rientrano nel tuo dicastero. A proposito della tua tesi: hai letto sulla «Domenica dei fanciulli» un notevole articolo di Giuseppe Lesca8 intitolato Luisa GraRosticceria fiorentina. Egidia si stava laureando con una tesi sulla scrittrice e pittrice irlandese Luisa Grace Bartolini (1818-1865), amica di Giosue Carducci. 8 Giuseppe Lesca (1865-1944), letterato e poeta, insegnava a Firenze critica ed estetica. Lettore privato della regina Margherita di Savoia, organizzava l’assistenza scolastica agli orfani di guerra. 6 7

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ce Bartolini sarebbe l’autrice della Vispa Teresa? Tienne conto e citalo in bibliografia: perché l’argomento è interessante e l’autore è chiaro.

«Sbocciava un razzo sullo stelo» Nelle lettere quotidiane ad Ada, piene di inquietudine possessiva perché non arrivano suoi messaggi, trapela ogni tanto un’ansietà più profonda: l’immagine di due schieramenti di uomini che si fronteggiano preparandosi a vicenda la morte.

Matassone, 25 aprile 1916 Stetti, ierisera, fin verso le nove e mezzo a giocare a scacchi, colla scacchiera mandatami da Egidia, col tenente medico, mentre gli altri giocavano a carte. La sala della mensa è abbastanza grande e decorosa, con due finestre, con una gran tavola lunga in mezzo rischiarata la sera da un lume a petrolio, con un finestrino per servir le pietanze comunicante con la cucina, e con un vecchio orologio a pendolo, che siamo riusciti a far camminare. Era quello, dicono, il salotto da pranzo del curato, il quale fu fucilato dai nostri nei primi giorni della guerra, perché di quassù lanciava nel torrente palle di gomma con dentro bigliettini informativi, le quali poi venivano portate dalla corrente a Rovereto, fino al nemico. Sarà vero? Chi sa. Dunque io finisco in quella stanza quasi tutte le mie serate: ma quasi sempre, prima di venire a letto, vado a fare una giratina per la via oltre Matassone, a vedere giù in fondo alla valle lo spettacolo pirotecnico che ogni notte la guerra fornisce gratuitamente. Nel gran silenzio notturno, sotto la volta trapunta di stelle nella quale si profilano nettissime le montagne nere, nascono laggiù strani fiori luminosi che si trattengono in cielo qualche istante per illuminare la campagna, guizzano sprazzi fulminei di riflettore, balenano strane fiammelle di cui non si intende la ragione, ma che riempiono l’anima di misteriosa ansietà, poiché si sente che laggiù ci sono l’una di fronte all’altra due ininterrotte catene di uomini che si spiano, che si attendono, che si preparano a vicenda la morte...

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Serenità e fermezza e fuga nel mondo degli insetti e delle piante Il 2 maggio Piero cita una visita improvvisa del generale Cadorna9 come motivo della brevità della sua lettera. Il giorno seguente, motivando con il suo «tirannico amore» la necessità di ricevere lettere quotidiane da Ada, esplicita il suo contraddittorio stato d’animo, combattuto fra dignità e senso del dovere e salvaguardia dell’avvenire e della felicità.

3 maggio 1916 È vero che qui al 129° mi sento più tranquillo e più soddisfatto che al 176°, poiché tornarmene, io giovane e sano, a scaricar legna con un battaglione di invalidi poteva parere da una parte un comodo e vile imboscamento, mentre mi esponeva dall’altra a essere prima o poi tolto dal battaglione per la mia età e rimandato in qualche reparto combattente di prima linea, cento volte più esposto di questo reparto territoriale dove ora mi trovo stabilmente (non puoi imaginare la ansiosa incertezza di queste riflessioni e di altre simili, fatte nei giorni precedenti al mio trasferimento, e tutte quante inspirate a questo fine: conciliare la mia dignità di uomo che vuol fare il suo dovere colla conservazione del mio avvenire, della mia felicità, della mia vita ch’è la vita tua, amore...). Serenità e fermezza, dunque: ma tutto questo solo a patto ch’io mi senta continuamente l’anima tua accanto, che mi giunga senza ritardi e senza interruzioni il profumo della tua assistenza, il dolce eco dell’unico mio bene che m’attende. 4 maggio 1916 Da quando mi sono giunti quei libri che ordinai a Firenze, del Fabre10, sui costumi degli insetti, fuggo ogni giorno dall’abitato e 9 In un articolo del 1956 in cui Piero rievoca la prima causa penale da lui discussa davanti a un tribunale straordinario di guerra (cfr. infra, p. 93, nota 15), viene ricordata in tono ironico questa visita di Luigi Cadorna, che aveva escluso ogni possibilità di offensiva austriaca nella zona, previsione smentita meno di una settimana dopo dall’offensiva “degli Altipiani”. 10 Jean-Henri Fabre, Souvenirs entomologiques, Delagrave, Paris 1914. Il libro, in due volumi rilegati, conservato nella biblioteca Calamandrei, porta l’iscrizione «Matassone, 1° maggio 1916» e comprende la I e la II serie dell’opera del Fabre, pubblicata in dieci volumi tra il 1879 e il 1907.

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m’inerpico sul fianco del Coni Zugna fino a raggiungere il primo bosco: e lì, disteso sull’erbe odorose, tra gli arboscelli fioriti su cui ronzan le api, all’ombra dei faggi cedui dalle foglie delicate come quelle del capelvenere, m’interesso alla misteriosa vita di questi minuscoli abitatori dell’erbe e quasi dimentico, in quella lettura così serena e così intonata al mio rifugio silvano, di essere alla guerra. Qualcuno, laggiù, si cura ogni tanto di ricordarmelo con opportuni tonfi riecheggianti per le anfrattuosità della valle. Ma la maggior distrazione, amore, non è quella delle cannonate, alle quali a poco a poco si fa l’orecchio: la mia lettura si interrompe quasi sempre in pause più o meno prolungate poiché un lieve spirar di vento odoroso, l’oscillar di una foglia in cima a un rametto, il veloce passaggio di una farfalla, lo scricchiolio degli arbusti che si piegano sotto il peso della mia persona mi trasportano magicamente in un altro bosco lontano, mi rievocano ad un tratto una dolce vita di felicità, il mio bene lontano, il mio adorato tesoro... Vorrei chiederti un piacere. La finestra della mia camera (ti scrivo appoggiando la carta sul vano di essa, per godermi più aria) dà su una terrazzina simile a quella che hai veduto nella fotografia di Anghebeni: e in questa terrazzina esistono due cassette di legno piene di terriccio, entro le quali si vede ancora qualche traccia di piante da fiori. Amerei rimettere in uso le cassette per fiorire un po’ il mio balcone: e a tale scopo bisognerebbe che tu andassi da qualche fioraio a comprarmi qualche semenza di piante rampicanti, che vengan su presto e senza tante cure (convolvoli, tropeoli o qualche cosa di simile). Tali semenze si trovano già pronte in piccole buste che si spediscono per campione senza valore raccomandato: e, appena tu me le mandassi, tenterei, quantunque un po’ in ritardo, la seminagione. 9 maggio 1916 Mi racconti come una grande tua prodezza che d’ora in avanti, per il cambiamento dell’orario scolastico devi levarti nientemeno che alle 61/2 ... Chissà allora come ti vanteresti se tu avessi passato una nottata così parca di sonno come quella che io ho passato stanotte! Ero di giornata da ieri sera alle cinque: e andai a letto presto, pochi minuti dopo le nove, per premunirmi contro la sveglia di

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stamani alle 51/2. Ma mi addormentai col presentimento che il mio sonno non avrebbe durato a lungo: infatti verso il tocco e mezzo sono stato destato di soprassalto da un soldato entrato con un lumicino nella mia camera il quale mi ha annunciato: «Signor Tenente, tra mezz’ora giungono 120 soldati d’artiglieria con 120 muli. Bisogna subito trovare e preparare l’alloggio per tutti». Un salto dal letto, una sommaria toilette (tanto per via non si trovano signore di riguardo...), e giù in piazza, sotto le stelle. E mi metto a cercare i locali: scardino porte, sforzo serrature, sfondo ripari; salgo, attraverso le sudicissime case lasciate dagli abitanti, scalette di legno sospese nel vuoto, soglie ostruite di calcinacci, cumuli informi di mobilia spezzata. Dopo mezz’ora, arrivano uomini e bestie, con un tenente: trovo un letto al tenente, metto a posto i soldati nelle soffitte a tetto, ammucchio i muli nelle cantine. Tutto al buio, a tasto, poiché i lumi son proibiti: filosoficamente, cacciando il sonno con larghe boccate di freschissima aria notturna purificata dai faggi di Coni Zugna... Alle tre tutto è in ordine: e torno a letto, colla speranza di dormire. Tento di riprender sonno: quando sto per riuscirvi, la mia porta si spalanca violentemente e entrano da padroni due soldati che, quando si accorgono di aver sbagliato stanza, fuggono a precipizio per le scale lasciando aperto l’uscio e non tornando indietro neppure ai miei richiami. Mi alzo a chiuder la porta: torno a letto; richiudo gli occhi con tutta la buona volontà... Ma c’è un nuovo inconveniente: la fame. L’aria notturna mi ha messo in dosso una fame feroce che mi fa dimenticare il sonno: penso che lì, quasi a portata di mano, ho il plum-cake giunto ieri sera col pacco della mamma. Sono sul punto di alzarmi ancora, per divorarlo. Ma poi penso che così il sonno andrebbe via del tutto, irrimediabilmente: e poi il plum-cake l’ho promesso a tre dei miei compagni, col tè... Dunque pazienza, dormiamo. Penso a qualcosa di molto indifferente, di insignificante, di blando... Alla fine, credo di essermi addormentato; ma no: bussano alla mia porta. È il mio attendente che mi porta il caffè. Sono, come Dio vuole, le cinque e mezzo.

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Licenze Piero commenta la riluttanza dei Comandi ad accordare licenze e il malcontento diffuso tra ufficiali e soldati.

10 maggio 1916 Eh, amore mio, questa licenza è una faccenda piuttosto oscura... Trascorso, colla fine di febbraio, il periodo delle licenze invernali, il Comando supremo dispose che, dal 1° di aprile, tutti coloro che avessero tre mesi di zona di guerra e non avessero usufruito di licenza invernale, potessero esser mandati in licenza primaverile di dieci giorni: potessero, non dovessero, poiché, mentre la licenza invernale era un diritto, questa licenza primaverile è una specie di concessione rilasciata all’arbitrio dei diversi Comandi. Per quello che riguarda i nostri battaglioni (i quali, nota bene, sono costituiti in gran parte di padri di famiglia che da undici mesi non rivedono le loro case!) fu disposto inizialmente che in tutta la Divisione, composta di parecchie diecine di battaglioni, dovessero andare in licenza primaverile un ufficiale e sette soldati al giorno; ora, se tu consideri che inizialmente gli ufficiali aventi diritto o, meglio che il diritto aventi le condizioni necessarie alla licenza primaverile, erano nella nostra divisione un centinaio; se tu consideri che la precedenza doveva esser stabilita mettendo in coda coloro che, come me, avevano usufruito per motivi di famiglia di una licenza qualunque, comprenderai che la speranza di avere una licenza comincerebbe a sorgere per me verso la fine di giugno... Questo, s’intende, se, una volta stabilito il criterio, ad esso le autorità militari avessero dato costante applicazione. Invece è successo che, dal primo d’aprile in questo battaglione è stato mandato in licenza solo uno (!) tra i soldati (e per questo c’è, in questo battaglione, un sordo malcontento, a reprimere il quale occorre tutta l’amorevole persuasione di noi ufficiali); e, tra gli ufficiali, credo che siano stati mandati in licenza, dal 1° aprile a oggi, tre o quattro al massimo. Recentemente, una quindicina di giorni fa, la Divisione parve stabilire un altro criterio meno avaro, poiché richiese a tutti i battaglioni l’invio periodico, di dieci in dieci giorni, di un elenco di trenta soldati e quattro ufficiali da mandare in licenza. Subito anche il nostro battaglione fece il pri-

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mo elenco, che riaprì le speranze; ma, fino ad oggi, dei trenta soldati messi in nota, nessuno è stato mandato; e, dei quattro ufficiali, solo uno.

Il cuculo 12 maggio 1916 Stamani, come sai, sono salito alle 8 sul fianco del Coni Zugna, a non più di 400 metri dalla vetta: e lì ho disposto gli uomini al lavoro, parte a spalar la neve e parte a ricostruire una baracca di legno addossata a una rupe sotto la strada, sull’orlo di un dirupo tutto verdeggiante di faggi. Sono stato un’oretta lì, figurando sorvegliare il lavoro, ma in realtà occupato soltanto a riconoscere, coll’aiuto di un binocolo prestatomi da un mio collega, il paesaggio sottostante. E mi son seduto proprio sulla cima d’una roccia sollevata e sporgente, di dove potevo tutto contemplare con gran comodità: mentr’ero lì ho veduto a un tratto volare verso di me nel vuoto che mi stava dinanzi un uccello grigio e nero, grosso come un colombo, che probabilmente aveva intenzione di venirsi a posare proprio su quel fico dov’io m’ero seduto. L’uccello (il quale, non t’impaurire, non era un’aquila) veniva tranquillo, colla sicurezza dell’abitudine non sospettando mai di trovare su quel suo belvedere un animalaccio come me: tanto che quasi è venuto a sbattermi l’ali sul viso. Ma appena, a pochi metri di distanza, si è accorto di me, ha fatto, con una grossa voce flautata: «cu, cu!!» ed è guizzato via lontano. Era un cuculo, il canoro nunzio di primavera: ti ho raccontato questo fatterello perché ai cuculi si attribuisce in certi paesi la facoltà di predire col loro canto il tempo che ancora deve passare prima delle nozze. Cu-cu, mi ha detto stamani il cuculo della montagna, e la sua voce ha riempito tutta la valle silenziosa: cu-cu... se fossero due mesi? 17 maggio 1916 Ebbi ieri sera, dopo quattro giorni di silenzio, quattro lettere tue, tutte insieme. E non potei leggerle appena l’ebbi, poiché me le dettero a Matassone in un momento di confuso lavorio, mentre

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stavo per tornarmene in tutta fretta quassù di dove ti scrivo. Io, per tua regola, da ieri non sono più domiciliato nella mia camera, ma sono provvisoriamente alloggiato di giorno alla luce del sole e di notte al lume della luna... Siccome il lavoro di riadattamento della mulattiera va per le lunghe, il Comando ha disposto, per evitare a me e ai soldati la fatica di due o tre ascensioni alpine al giorno, che ci tratteniamo quassù accampati finché il lavoro non sarà finito. Ieri sera venni su verso le nove col mio prezioso sacco sulle spalle e con in tasca la corrispondenza non potuta aprire. Giunto quassù, mi riuscì, al lume della luna, che ogni tanto si celava tra le nuvole, ma ogni tanto, quando si scopriva, inondava di albore tutta la vallata, di leggere piano piano, parola per parola, una delle tue lettere, la più recente: le altre le ho lette stamani, appena mi sono destato (prima delle 5). Ho dormito, stanotte, in un bel letto di fronde, paziente preparazione del mio attendente: avevo, sotto, la mantellina distesa, ero entrato in una coperta cucita da un lato e in fondo, a mo’ di sacco; e sopra avevo due coperte pesantissime, che mi coprivano, secondo il mio solito, anche la testa. Ho dormito benissimo, nonostante che ogni tanto udissi sotto la mia testa, fra l’erbe qualche misterioso fruscio, chissà mai di qual rettile o insetto o altro pauroso essere vivente. E addormentandomi pensavo sorridendo alla paura che avresti avuto tu, alla sola idea di qualche bestia nascosta tra la vegetazione...

L’offensiva austriaca sugli altipiani Il 15 maggio scatta l’offensiva austriaca sugli altipiani (la Strafexpedition), che coglie di sorpresa l’esercito italiano, concentrato sul fronte dell’Isonzo. Sulla linea Coni Zugna-Pasubio, la zona in cui si trova Piero, la situazione sembra ristabilita già il 19 maggio, essendosi la direttrice dell’offensiva austriaca spostata sull’Altipiano dei Sette Comuni. Piero scrive per rassicurare Ada, mentre riserva il racconto delle «avventure militari» alle lettere ai familiari, non conservate.

22 maggio 1916 Mi desto entro una tenda coperta di frasche, entro la quale dormiamo in quattro, due ufficiali e due attendenti. Siamo al di qua

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del confine, adibiti a lavori di fortificazione. Stasera tenterò di scriverti una lettera. Va benissimo. Dai comunicati Cadorna saprai perché non siamo più dove eravamo. Ma il peggio è passato. 23 maggio 1916 La tua lettera che ebbi ieri sera, scritta la sera del 19, mi fa intendere tutta la tua ansietà in questi giorni in cui la mancanza di notizie dirette da me, in questa Zona della quale i giornali danno informazioni un po’... nuvolose, ti suggerirà chissà quali supposizioni sulla mia sorte. Ma a quest’ora qualcuna delle mie cartoline spedite giornalmente dovrebbe esservi giunta, a dimostrarvi che io, pure in mezzo a qualche pericolo nei primi giorni dell’offensiva austriaca, mi trovo ora in un luogo di perfetta tranquillità, come prova questa lettera che posso scriverti a tutto mio agio. Non ti nascondo, Adina (e non te lo nascondo proprio affinché tu mi creda quando ti dò notizie rassicuranti), che, dal 15 al 19 ho passato qualche ora un po’ critica: critica, nota bene, non per me, che ho saputo conservarmi sano e forte di corpo e d’anima davanti ai rischi, ma per le circostanze le quali, risoltesi in fine in modo perfettamente favorevole, si erano iniziate con una cert’aria di minaccia... Siamo venuti via dal luogo dove eravamo e dove avevo seminato i fiori da te inviatimi (speriamo che il sole uccida i germi sul nascere e che la fioritura non allieti occhi non italiani) da tre giorni: s’è camminato molto, quasi venti chilometri. Qui, dove ora siamo, appena appena si ode il cannone al di là del monte: siamo attendati in un bosco di faggi, lungo una via mulattiera alla quale i nostri soldati lavorano, la tenda dove dormo è bellissima e calda; con un soffice fondo di borraccina e di fieno secco, sul quale dormo di notte e di giorno, riprendendo i sonni perduti nella scorsa serie di veglie. Non vi abito solo, poiché le tende scarseggiano; ma vi abito insieme con un altro ufficiale della mia compagnia, e insieme con i nostri due attendenti: questi ai lati, noi due all’interno. Si fanno, quantunque in quattro così ristretti, bellissimi sonni senza interruzioni... Il mio letto a molla, di lassù, è restato abbandonato: forse vi dorme qualcuno che parla un linguaggio barbarico. Ma la mia roba, tutta la roba che dava alla stanza un carattere di intimità, l’ho portata via con me: nella cassetta, che partì prima di me, nel sacco, che mi accompagnò ovunque,

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sulle mie spalle durante la marcia, sotto la mia guancia durante il riposo. Ma il tuo ritratto, che illuminava tutta la mia stanza lo levai la mattina del 15 dalla sua cornice, e lo misi addosso a me, sopra il cuore; ed è ancora qui e mi ha fatto tanta compagnia... Vorrei però Adina, con tutta la forza della mia parola, convincerti, ora, che se qualche giornata un po’ agitata ho passato nella scorsa settimana, ora mi trovo di nuovo e forse definitivamente in un luogo di tranquilla sicurezza. In una zona piena di movimento com’è questa, le territoriali, dopo le necessità ormai superate dei primi giorni, vengono logicamente mandate nelle retrovie per far posto agli enormi rinforzi di truppe giovani che vengono avanti. Qui, in questo settore ora così importante, le territoriali vengono adoprate in linea con assai minor probabilità di quello che possano essere adoprate nei settori secondari, di minor importanza (la nostra zona, prima dell’offensiva austriaca, era infatti ritenuta secondaria): stiamo qui a preparare le strade sulle quali dovranno passare le truppe che affluiscono a combattere, a venti chilometri di qui. [...] Ora la crisi è superata: la via, come un fiume inesausto, versa soldati giovani e cannoni forbiti. Gli austriaci non passeranno. E presto, dietro alle prime linee che rifaranno in avanti la via, tornerò a ritrovare i miei fiori, e lassù, sul banco della montagna, la baracca che avevo fatto costruire con tanta cura, e che volevo battezzare col tuo nome... [...] Io spero che questo colpo austriaco, ormai quasi arginato, sia il principio della fine; se i nostri riusciranno a tornar innanzi, la guerra precipiterà in pochi mesi, forse in poche settimane. 29 maggio 1916 Ierinotte, sul Pasubio, ho dormito in una baracchina di legno, disteso in terra ravvolto in una coperta; ai miei due lati, stretti stretti per star più caldi, erano un ufficiale della mia compagnia, ed un soldato alpino: e sui miei piedi, sulle mie gambe, sulle mie braccia, erano appoggiati, seduti, semisdraiati tanti e tanti soldati infreddoliti, che non potevano passar fuori la notte per via della pioggia gelata e che chiedevano alla nostra baracca l’elemosina di un po’ d’ospitalità. Un modo di dormire da bestie: eppure, lassù, sopra i 2000 metri, in quella confusione di povera carne umana pi-

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giata, il sogno onnipotente mi portò la tua immagine [...]. La posta non giungeva lassù: e l’ho trovata stamani qui alle Dolomiti, dove di nuovo ci siamo comodamente attendati nel solito bosco di faggi. Ho avuto tre lettere tue, tutte piene di pianto e di ansietà perché ti mancavano le mie notizie: ma una lettera della Mamma, spedita il 25, mi avverte che avete finalmente ricevuto, tu e lei, qualche mia cartolina. E ora, spero, sarai più tranquilla. E devi essere tranquilla, non solo per sentimento, ma anche per ragionevole convinzione; poiché ormai, in questo settore qui, dove esistono tre o quattro formidabili linee di truppe giovani, noi territoriali siamo definitivamente adibiti a lavori di fatica, come sarebbe lo spalare la neve e l’allargare delle strade. Allo scoppiare dell’offensiva austriaca, per l’appunto iniziatasi proprio in Vallarsa, anche noi ci trovammo un po’ esposti poiché eravamo le sole truppe poste a guarnire il fondo della valle, ma, colla ritirata ormai arginata e rimediata, fummo rimandati in coda a tutti. E non più gloria, ora; ma non più pericolo. Voglio fare anche a te il racconto particolareggiato dei giorni emozionanti che passai a Matassone, prima di venir qua. Ma ho pensato che se facessi a te tutto il racconto, dovrei ripeterlo tale e quale nelle lettere a casa, poiché le mie lettere a te non devono esser lette... e non potrebbero appagare le curiosità legittime dei miei. Quindi il racconto delle mie avventure militari (colle quali, del resto, tu non hai – e giustamente! poiché la guerra è una orribile cosa – molta simpatia) lo farò nelle lettere che vanno a casa, le quali sono anche per te; non nelle lettere che vanno a te, le quali sono soltanto per te... Tu che, a quanto mi dicono le tue lettere, segui i comunicati e guardi gli schizzi illustrativi (quassù non arriva più neppure il «Corriere»!) devi ora tener presente che il centro dell’azione si è spostato più a nord, verso Arsero e Asiago: qui, dove siamo noi, ci troviamo in una zona laterale, meno esposta. E qui, intorno all’Albergo delle Dolomiti, par di essere proprio in un bel luogo di villeggiatura, nel quale la guerra si conosce solo per il lontano rombo delle nostre cannonate e per lo straordinario movimento di truppe e di rifornimenti. Io ho fondata fiducia che questo improvviso divampare della nostra guerra quasi sopita da mesi segni l’inizio del periodo finale e affretti la pace che finora pareva lontana.

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Albergo delle Dolomiti 30 maggio 1916 Mi sono destato, stamani, dopo le sei, dopo un bel sonno di nove ore filate, quale da molte notti non mi era concesso; e mi sono destato poiché ho udito fuori della tenda le voci dei soldati che gridavano: «Ecco il caffè!». Ho fatto, dopo aver preso il caffè mentre ero ancora coricato, una toilette da gran signore, durata quasi due ore: e sopra le pareti un po’ trasparenti della mia tenda, battute in pieno dal sole levato da poco, vedevo profilarsi con minuta precisione le foglie dei rametti di faggio, dei quali la tenda, per essere invisibile agli aeroplani, è ricoperta. Ho dunque un alloggio coperto da una tappezzeria così preziosa come pochi mortali possono vantarsi di avere... Poi, finora che sono quasi le cinque del pomeriggio, ho trascorso una giornata di ozio quasi perfetto, scrivendo, leggendo, passeggiando giù per la strada mulattiera che di qui porta all’Albergo delle Dolomiti. L’Albergo ormai, non funziona più per il pubblico, poiché da una quindicina di giorni è stato requisito dall’autorità militare per un Comando; ma i padroni dell’Albergo si sono riservati una cucinetta, nella quale, a prezzo di grandi insistenze, si può riuscire a ottenere una minestra o qualche altro cibo caldo, che sembra così desiderabile dopo tanti giorni di vitto conservato. Ma, più che dall’Albergo, quasi soppresso, le comodità sono date qui dal trovarci su un’arteria principalissima di comunicazione, percorsa da una serie ininterrotta di persone e di veicoli che vanno a Schio e a Vicenza, o ne tornano.

IN TENDA

Piero è riuscito a salvare lo zaino con le cose più care, le lettere di Ada e la macchina fotografica; ha lasciato però nella sala della mensa di Matassone gli scacchi regalati da Egidia e si rammarica che siano caduti in mano austriaca («il pensiero che qualche ufficiale austriaco abbia trovato quel mio sapiente passatempo e se ne serva mi riempie di tristezza e d’ira»). Non ne è proprio sicuro però, «perché il paese, prima di lasciarlo, fu fatto in gran parte saltare in aria colle fortificazioni. E

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potrebb’essere che i miei scacchi siano stati seppelliti nello scoppio e che attendano sotto le macerie il ritorno, non lontano, di qualche padrone italiano». Per tranquillizzare Ada sulla sua sistemazione, le descrive la tenda in cui alloggia.

2 giugno 1916 La mia casa ha una superficie di circa quattro metri quadrati alla base, è alta meno di due metri, e va a finire a punta; ha le pareti grigie, con qualche forellino da cui entra un filo dorato di sole; ha quattro pareti, ognuna delle quali forma un lato della piramide, e a mezzo di ogni parete ha una fila di bottoni che tengono uniti tra loro i quattro teli di cui la tenda si compone. L’impiantito è formato da un soffice strato di fieno asciutto, e sopra questo sono distese le coperte sulle quali la notte il sonno è dolcissimo. Intorno intorno, dove le pareti sono fissate al suolo per mezzo di una serie di paletti di legno, è disposto in giro tutto il nostro corredo: sacche, coperte, viveri, armi, giornali, carta da lettere... Come sai, la nostra tenda dovrebbe contenere quattro persone: due ufficiali e due attendenti; ma l’altro ufficiale che dovrebbe dormire qui preferisce dormire in una stanzaccia vicino all’Albergo, insieme a una quindicina di altri ufficiali. Io amo l’aria fresca e pura di questa casina di tela, sulla quale la pioggia crepita senza penetrare; e così sono io il padrone della tenda: io dormo nel mezzo, e gli attendenti ai lati, uno per parte. La sera, verso le otto e mezzo, dopo che ho mangiato cogli altri ufficiali, vengo qui all’accampamento, entro carponi in questo minuscolo edificio dove mi attendono i due soldati, faccio abbottonare il telo che serve da porta, faccio accendere la candela, e prima di dormire passo una mezzora quasi simpatica, quasi... familiare. Prima di tutto leggo la posta e questa è l’unica felicità vera della giornata; poi do una scorsa ai giornali, converso un po’ coi due bravi soldati che mi stanno a lato, fumo con loro una sigaretta, mangio con loro un pezzo di cioccolata... poi si va a letto. Senza spogliarci, s’intende: solo deponendo la calzatura. La mantellina ripiegata mi fa da guanciale: una coperta distesa sul fieno fa da materasso. Mi distendo e poi il mio attendente mi ravvolge le gambe col mio cappotto pellicciato e mi copre tutto con una coperta doppia. Si spenge il lume: una buona notte di qua, una buona notte di là... E si dorme.

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5 giugno 1916 La mia tenda (sono, col nuovo orario, le dieci e un quarto della sera) è già ermeticamente chiusa: ai miei lati sono distesi, ravvolti nelle loro coperte, i due attendenti che costituiscono una specie di guardia d’onore alla mia nobile persona. Ed io sto qui, già ravvolto in una quantità di roba di lana che tra poco riscalderà il mio sonno (ho perfino, per stare più comodo, in luogo delle pesanti scarpe ferrate, quei calzoni di pelle di capretto che comprai a Schio quattro mesi fa e scrivo a te in perfetta tranquillità, tenendo la carta sulle mie ginocchia. Ho risolto perfino, stasera, in modo mirabilmente ingegnoso il problema della illuminazione notturna della tenda, che nelle scorse sere era scomodissima per non avere un luogo stabile ove posare il candeliere. Con un lampo di genio una mezz’ora fa, mentre stavo a frascheggiare sull’erba che circonda il mio palazzo e a guardare ogni tanto, laggiù sopra il piano vicentino, le fiammelle dei nostri forti che sparano (come sparano, ora, contro questi cani che nei primi giorni facevano tanto sfoggio di artiglierie!), ho trasformato il candeliere in una elegante lampada pendula. Così: ho legato al piattello su cui è posata la candela tre spaghi che ho riuniti in alto in un’unica cordicella; ho divaricato questi tre sostegni, affinché non venissero bruciati dalla fiamma troppo vicina, con un coperchietto di latta tolto da un barattolo di pesche allo zucchero (pensa: anche le pesche allo zucchero!) ed ho appeso il tutto al soffitto della mia tenda. 7 giugno 1916 Ho cambiato alloggio da un momento all’altro: e nel giro di un’ora ho fatto, nel pomeriggio di ieri, abbattere il mio palazzo e ricostruirne un altro a un chilometro di distanza. Fino a ieri eravamo accampati vicino all’Albergo delle Dolomiti, alle falde di quel contrafforte del gruppo Pasubio che si chiama Forni Alti (c’è anche nelle cartine del «Corriere»); eravamo dunque, per chi andasse da Valli dei Signori verso Piano delle Fugazze (che è il punto culminante della strada, oltre il quale, col finire della Val di Leogra, comincia la Vallarsa) sulla destra della via: ieri, invece, poiché coll’accampamento davamo impiccio alla mulattiera per il Pasubio, ci hanno fatto sloggiare, e ci hanno collocati sulla sinistra della strada, su un pendio dal quale si vede in faccia l’elegan-

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te padiglione dell’albergo – e, sotto, la strada affollatissima e percorsa continuamente dal transito più multiforme. Il bosco dove abitavamo fino a ieri era ormai diradato e come arso dal dimorarvi degli uomini distruggitori. Ma questo bosco in cui siamo venuti ierisera è ancora folto e intatto, e pieno di fiori e denso di ombre. Venimmo, nel cercare il luogo adatto per alzar le tende, sulla groppa di un piccolo colle, la quale, spoglia del tutto d’alberi, è coperta solo di un prato constellato di fiori gialli, che mi ricordò il prato fiorito del venerdì santo, nel Parsifal. E ci disponemmo poi, plotone per plotone, sui fianchi di questo colle che, mentre la vetta è nuda, sono invece coperti di un fitto bosco di faggi. Dico di faggi, ma in realtà il bosco è costituito da tante varietà di alberi montani che la mia scienza botanica non sa riconoscere, ed è ricchissimo poi, sul terreno, di una dovizia di cespugli che arrivano e sorpassano perfino i miei ginocchi. Ci sono grandi fasci di felci, incatenate fra di loro dai tralci di una piantina rampicante che non avevo mai veduta prima di venire quassù e che fa dei fiori delicatissimi, con quattro grandi petali a losanga disposti a croce di un vaghissimo color violaceo tendente all’azzurro. E poi e poi... qui vicino alla mia tenda c’è un arbusto, di cui non so il nome, che in cima ad ogni rametto ha un grappolo pendulo di fiori vicini a sbocciare, della forma che hanno i grappoli di acacia e quelli di glicine. Non so di che colore saranno i fiori, quando sbocceranno: gialli, bianchi, violacei? Ma spero di restar qui tanto da vederli schiudere e da fare la loro conoscenza. 9 giugno 1916 Devi ancora pensarmi dentro la tenda: la quale varia a tutti i momenti di domicilio, ma resta, nell’interno, sempre la stessa. Ieri l’altro ti annunciai che il nostro accampamento si era spostato di circa un chilometro e si era fermato in faccia dell’Albergo delle Dolomiti. Ora abbiam fatto un’altra tappa: per un ordine fulmineo venuto ieri sera verso le 4, dovemmo fare in fretta i nostri bagagli, buttar giù la nostra casetta, e metterci in via sulla strada che conduce a Valli dei Signori. E ci siamo fermati dopo un chilometro di cammino, in un boschetto ridente e fresco come quello in cui eravamo fino a ieri, ma in una posizione più bella di quella di ieri, poiché la mia tenda è proprio sulla cima di una collinetta che

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si protende a guardare la Val di Leogra e tutta la scopre fino alla lontana pianura. Qui, ieri sera ricostruimmo in meno di un’ora le nostre dimore, e tutto è uguale qui all’arredo che ieri e i giorni precedenti le mie lettere ti hanno descritto. Però oggi c’è qui qualcosa che ieri non era lassù: e cioè un soavissimo profumo, diffuso qui nella mia celletta, di gelsomino misto a garofano... Ieri sera, venendo qui in questo nuovo soggiorno e salendo un prato, che ora costituisce qui, dinanzi alla tenda, una specie di spiazzato... monumentale, trovai dinanzi a me, come a salutarmi, una bella orchidea non molto dissimile da quelle che tante volte ti ho fatto ammirare nei nostri boschi, costituita da un lungo grappolo di fiori bizzarri color bianco crema; ma l’orchidea che trovai ieri sera e subito colsi, aveva qualcosa di più: aveva un soavissimo profumo del quale mi beai lungamente, e che mi accompagnò poi nella tenda, ove ho attaccato l’orchidea a una delle pareti, nell’abbottonatura fra un telo e l’altro. La tenda che avevo fino a ieri sera era, come ti scrissi, tappezzata di paglia: questa ha qualcosa di meglio, poiché ha la base tutta coperta di erbetta e di eriche non ancora legnose, sulle quali le coperte si adagiano mollemente come un soffice elastico a molla. Vi ho dormito stanotte qualche ora, ma non ho potuto godermi questo giaciglio vegetale quanto avrei voluto e quanto lo potrò godere stasera. Poiché stanotte ero di servizio, e verso le due ho dovuto con cento uomini lasciare l’accampamento per recarci a trainare un cannone da 210 dalla strada a una collina lì prossima. Sono tornato, compiuta l’opera, sodisfacentissima (sarei disposto a passar così tutte le notti, purché tutte le notti si potesse mettere a posto un cannone) verso le 7, ho preso una bella ciotola di caffè caldo con abbondante pagnotta spezzettata, mi sono lavato sul prato ch’è dinanzi a casa mia con quella naturale noncuranza degli sguardi altrui che s’acquista in questa vita rustica, e poi son rientrato qui nella tenda che in questo momento serve da salottino. 10 giugno 1916 Davanti alla tenda, seduto su una pietra dalla quale si può ammirare il mondo... Alla mia sinistra, subito incombenti dopo un breve vallone dirupato, le pareti aspre del monte Forni Alti, che fa parte del gruppo Pasubio; dinanzi a me, a quattro o cinque chilo-

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metri, la vetta del Novegno che fulmina ininterrottamente sopra un bersaglio a noi invisibile: e verso destra il Novegno a poco a poco digrada fino a morire nel fondo della valle, ove si indovinano le prime case di Valli dei Signori... Tra il vicinissimo Forni Alti, e il più distante Novegno, appare lontano, sul cielo ambrato nel quale il sole s’è levato da poco, un profilo grigiastro di una montagna che, nel suo fianco, presenta un foro attraverso il quale riluce il cielo. È il Monte Pria Forà, Pietra Forata, di cui già il comunicato annunciò l’abbandono da parte dei nostri; lassù, dunque, dovrebbero esserci gli austriaci. Ma vi sono sempre?... Chissà? Circolano quassù, in armonia colle liete notizie della travolgente offensiva russa11, voci sommesse, dalle quali si arguisce che anche su questa fronte l’assalitore potrebbe trasformarsi in assalito... E ogni notizia che viene o dalla lontana Russia, o dalla vallata vicinissima parla al mio cuore, oltre che un comune linguaggio d’italiano, un idioma a tutti sconosciuto fuori che a me, ricco di promesse tutte mie... 12 giugno 1916 Non potei, ieri, scriverti a lungo, poiché, come ti avvertii in una breve pagina, ero occupato ad accompagnare dei carri ad alcune posizioni qui prossime, sulle quali si trovano alcuni nostri pezzi d’artiglieria. Mentr’io stavo lì, in attesa che i soldati avessero finito la loro fatica, un pezzo tirava, oltre i monti e le valli, su Anghebeni: e ogni volta che un colpo partiva pensavo alla mia camera, e a quella terrazza sulla quale mi feci fare la fotografia – ricordi? – con aria da padrone... Tornai da questa non spiacevole operazione (poiché vedere dei pezzi di grosso calibro in azione è uno spettacolo molto interessante... specialmente per quelli che servono da bersaglio) verso le sei, mangiai alla mensa, apparecchiata sulla nuda terra, con piatti di stagno, bicchieri di ottone e seggiole di sasso, andai sulla strada delle Dolomiti a attendere la posta che da qualche sera giunge dopo le sette, e poi tornai qui, sulla mia collinetta in cima alla quale la mia tenda farebbe bella mostra di sé se ordini severissimi dei Comandi non imponessero di ricoprir le 11 Il 4 giugno 1916 era cominciata l’offensiva russa in Bucovina, che alleggeriva la pressione austriaca sul fronte italiano.

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tende con abbondanti frasche, per impedirne la vista agli aeroplani nemici. E qui, appena l’ombra crepuscolare cominciò a divenir fitta, feci il mio abbigliamento notturno, e, dopo l’inutile tentativo di mettermi a scriverti, mi disposi a dormire, avendo alla destra il mio attendente, e alla sinistra l’altro ufficiale (si chiama Concioli, romano; è un buonissimo ragazzo, ma leggerino come una piuma, e la sua conversazione ha un tema solo, che del resto è abbastanza divertente: le sue innumerevoli, strepitose, incredibili conquiste femminili) col suo attendente. Bisogna stare fermi per non darci noia a vicenda: una volta che la sera ci siamo inviluppati rispettivamente nelle proprie coperte e che abbiamo scelto una posizione, bisogna rassegnarci a non muoverci più per tutta la notte: o, se ci si muove, si scatena un rivolgimento generale. Ma, in compenso, si dorme in tenda abbastanza bene: e, sopra tutto, c’è qui sotto un calduccino simpatico, che consola anche nelle notti più rigide. Si resta stupiti, le prime volte, nel sentire come questo semplice schermo di tessuto serve a mantenere dentro questa casetta così poco solida un’atmosfera di tepore. Ma la sensazione più strana è quella che deriva dal fatto che la tenda, se ripara dalla vista e dalla temperatura esteriore, lascia passare totalmente dall’esterno i rumori: talché, quando s’è chiuso gli occhi per dormire e non si vede più questa piramide di tela che ci protegge, par d’essere a dormire sotto le stelle, tanti sono i rumori, tante le voci che ci giungono da ogni parte. La mia tenda è quasi in mezzo all’accampamento, il quale, per una ragione o per un’altra, non dorme mai del tutto neanche nella più profonda notte: e non manca mai, neanche nell’ore più tarde, qualche soldato che passa cantando a squarciagola a tre passi dal luogo ove dormi; qualche mulo che trotterella a due passi dalla tenda e ti dà l’impressione di venire a metterti uno zoccolo sul viso. Ma poi ci si abitua: e io, ormai, dormo senza destarmi le mie otto ore. Ti mando alcune fotografie del Pasubio: due gruppi di miei soldati in tenuta di... freddo, un argine di neve con due buche scavate e mostrante quali erano lassù gli alloggi più di moda, dei prigionieri austriaci, e la veduta della mulattiera che scende al Dolomiti. Speriamo che ti giungano...

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Piccole sciagure: pulci e promozione a tenente In una lettera a casa, Piero aveva accennato ad una “piccola sciagura”, inquietando Ada, e vuole rassicurarla. Nelle lettere ai familiari, Piero si sofferma più ampiamente sugli avvenimenti militari: «A casa poi, da che son qui, ho scritto – oltre una raccomandata al babbo ed una lettera alla Mamma relativa al tenente Bonacci – sette lettere delle quali cinque relative alle mie “cinque giornate” di Matassone, e le altre due relative ad altre avventure meno pericolose ma altrettanto divertenti». Nello stesso giorno, poi, Piero comunica la promozione a tenente alla sorella Egidia.

15 giugno 1916 Amore mio, spero che ormai la inquietudine suscitata in te da un accenno, contenuto in una mia lettera diretta a casa, a una mia “piccola sciagura” si sia calmata, dopoché una lettera precedente (del 4, mi pare) vi avrà spiegato che la sciagura consisteva solo nella presenza, verificata sulla mia persona, di certe bestioline acquistate sul Pasubio... Come la lettera diffusamente narrava, contro le bestioline sullodate fu subito iniziata una energica battuta di caccia, che dette luogo a vari comici episodi, paragonabili a quelli leggendari di Calandrino: e tutto finì in mezzo alla generale ilarità. Dunque... niente paura! Un’altra “piccola sciagura” paragonabile a quella precedente mi è capitata in questi giorni e ne ebbi notizia ieri sera: sono stato promosso tenente. Sapendo con quanto entusiasmo tu segui i progressi della mia carriera militare, son certo che questa mia promozione ti riempirà di legittimo orgoglio e che d’ora in avanti tu ti metterai con fervore a sognare il momento in cui sarò promosso capitano... Non t’inquietare, amore, e non mi ricoprire da lontano con qualcuno dei tuoi epiteti più feroci... ai quali non posso rispondere, da lontano così, con baci altrettanto feroci. La promozione da sottotenente a tenente non implica, infatti, né trasferimento ad altro corpo, né cambiamento di mansioni, né aumento di responsabilità: continuerò a stare dove stavo facendo quello che facevo, colla sola altissima soddisfazione in più di portare alla manica due stellette invece di una...

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15 giugno 1916 [A Egidia Calamandrei] Carissima Egidia, coll’aiuto di un microscopio, di un sestante, di una bussola e di una vite micrometrica, riuscii a decifrare la tua lettera cara la quale prova ancora una volta che gli spiriti superiori hanno sempre una gran brutta calligrafia. Ma quantunque abbia ad un ad uno interpretato quei segnetti neri che a un attento esame si rivelano per lettere e per parole, non m’è riuscito di leggere la data del giorno in cui discuterai la tua tesi, della quale, già prima di te, Ada mi aveva annunciato la avvenuta felice consegna. Se seguitavi a lavorare come hai lavorato, la Luisa Grace diventava per te una Luisa Dio-Grace; ora, terminata la più grave fatica, non ti resta che mietere i certi allori: e mi duole di non poter esser presente altro che in spirito a questa mietitura, e di non potere in quel fausto dì offrire direttamente un repente, torpedine, o scarabeo colla nuvoletta (vulgo bicchierino di liquore) alla laureata novella. Pazienza; mentre tu, con indefesso lavoro, aggiungi al tuo nome il titolo magniloquente di Prof., io mi sforzo, quassù, di avvicinarmi quanto più posso alla carica ambita di generale di esercito. E a qualcosa son riuscito, poiché iersera ho avuto l’annuncio della mia promozione a tenente. Se fossi in età da farmi eleggere deputato, convincerei a spargere tra le conoscenze la voce che sono stato promosso per merito di guerra; così a poco a poco si formerebbe intorno alla mia testa quell’aureola di eroismo che di fronte agli elettori – avrebbe detto il capitano Migliorini di felice memoria – fa sempre bene... Ma, siccome l’età per esser deputato non è giunta ancora, confesso sinceramente che la promozione è avvenuta per anzianità di grado e che l’eroismo non c’entra per nulla: oh, fortunate età di Amadigi e di Brandimarte, quando non esisteva il bollettino militare pubblicato su tutti i giornali ed ogni cavaliere poteva, senza timore di controllo, affermare a piacer suo che la sua promozione era avvenuta per merito di guerra! Ritornando alla tua tesi e alla discussione che ritengo imminente, voglio senz’altro, valendomi della mia esperienza, toglierti preventivamente una illusione che forse ti sei fatta sulle taumaturgiche

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virtù trasformatrici del titolo professionale. Io, prima di essere professore, ritenevo che chi fosse insignito di cosiffatto titolo dovesse di botto sentirsi un altr’uomo: più ampia respirazione, più celere polso, digestione più gagliarda, idee più chiare, tutto il mondo d’intorno a bocca aperta disposto a farsi ammaestrare. Invece ho veduto per prova che il diventare professore non aumenta il perimetro toracico, né trasforma in miope l’occhio presbite. Le foglie son sempre verdi e il cuculo fa sempre cucù: e gli Austriaci sono così indelicati che non avrebbero ritegno a far prigioniero, ove si lasciasse prendere, anche un professore. In verità la mattina del 15 maggio (compie in questo momento un mese preciso), allorché mi trovai bloccato coi miei soldati in quella caverna scossa a regolari intervalli da un certo tal quale stillicidio, dovetti amaramente esperimentare come il popolo tedesco, dotto per eccellenza, non usa sempre ai titoli accademici quel rispetto che la scienza comanderebbe. Devo confessare che non era una bella situazione quella in cui mi trovavo un mese fa a quest’ora; ma qualche facezia si diceva anche lì, in quel buio appena rischiarato da una lanternina e reso denso da cento fiati rinchiusi senz’aria bastante. Affermai risolutamente, ad esempio, al mio capitano e a due altri ufficiali che erano chiusi nella caverna, che quel ricovero entro il quale ci eravamo rifugiati per evitare i colpi austriaci doveva essere denominato, in omaggio al sapiente nemico, Fifhaus, parola composta di cui intenderai il significato, quando tu rifletta che, in gergo militare, fifa vuol dire paura: e, tra una cannonata e l’altra, si canterellava una canzoncina che finiva sempre collo stesso ritornello: Oh, quant’è comodo Contro i proiettili Dieses Fifhaus! Gli Austriaci tirano, ma non ci pigliano in dem Fifhause!

Sì, ma se non fosse stato questo Fifhaus, me lo saluta lei il professore Piero Calamandrei? Ti serva dunque questo fatterello, mia

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cara sorella, di ammonimento e di esempio, affinché tu, appena avrai vinto il meritato alloro, non ti insuperbisca soverchiamente della tua dignità e tu abbia sempre presente questa inconfutabile verità: che anche un professore, mettendosi a dormire in un sito ove si aggirino animaletti parassitari, può trovarsi a dei grattacapi come un qualsiasi misero analfabeta, digiuno di lettere e di giure. Io seguito a star benissimo, e bene continua ad andare, da qualche giorno, la nostra guerra: non parliamo poi dei Russi, ai quali un di questi giorni invieremo una domanda collettiva affinché di questi Austriaci ne lascino qualcuno... per la razza. Le notizie meno liete vengono invece dall’interno dell’Italia, dove la crisi parlamentare si è svolta in un modo... turpe!12 Lasciamo correre. Quando c’è la salute... Per finire. Mentre scrivevo la terza pagina di questa lettera passa un aeroplano austriaco sul nostro accampamento: cannoni e fucili gli tirano, ma, si capisce, non lo chiappano. Esco dalla tenda per veder lo spettacolo, e trovo a pochi metri di qui il mio attendente che, con un piccone in mano, scava scava febbrilmente, facendo in terra una specie di tana. Sorpreso, gli domando che cosa fa: e lui, accennandomi il velivolo sopra di noi, mi dice serio (relata refero!): «Se el comincia a cagare el reoplano...!».

Quando «la guerra sembrerà un terribile sogno» Piero lamenta la «assoluta mancanza di ogni fatica intellettuale e l’assoluta prevalenza della parte fisica sulla spirituale», tanto che pensa «con nostalgico desiderio perfino ai libri di procedura civile». Il 23 giugno si trasferisce di nuovo all’Albergo Dolomiti, requisito per scopi militari. Il soggiorno all’albergo gli ispira una fantasia di villeggiatura negli stessi luoghi, a guerra finita. Il contrasto tra gli «orrori della guerra» ed il paesaggio idilliaco si traduce in una sorta di dittico pittorico.

25 giugno 1916 Mi hanno lasciato qui di guardia per un altro giorno ancora, e non è detto che stasera alle cinque non mi mandino la riconfer12 Dimissioni del gabinetto Salandra, sostituito il 19 giugno dal gabinetto Boselli.

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ma: ed io passo le ore a far delle figurine su tutti i fogli che mi capitano, proprio come farei se, invece di esser qui di guardia, fossi qui in villeggiatura. A proposito di villeggiatura, amore, io ho la precisa sensazione che un giorno o l’altro, e forse nell’estate prossima, tu ed io torneremo come villeggianti in questo Albergo in cui io sono stato come guerriero. Prenderemo una bella (o due belle) camera luminosa, colle finestre volte verso la montagna, verso le roccie di Forni Alti o del Cornetto: e dalla finestra, amore, io ti insegnerò ad una ad una tutte le vette sulle quali mi sono inerpicato in questi mesi, e ti dirò come la guerra aveva stranamente e paurosamente trasformati questi divini luoghi che allora, di qui a un anno, avranno riacquistato tutta la loro innocente bellezza. Allora, affacciandoci alla finestra dell’Albergo dalla quale oggi si scorgono solo scene di armi e di armati, riudremo anche quassù quelle fresche voci, quei rumori di semplicità e di lavoro che nelle campagne pacifiche passano inavvertiti, e che si notano soltanto quassù, poiché se ne sente la strana mancanza. Da molti mesi io non odo più suonar le campane: né da vicino né da lontano. Non odo più canti di donne nei campi, né strilli di bambini sulle aie. Non odo più muggiti di buoi, né belati di pecore, né coccodè di galline: anche del coccodè, che a S. Lazzaro avvelenava giornalmente il mio sonno, provo quassù la nostalgia; quassù, dove la guerra ha fatto tacere il ritmo laborioso della vita campestre, ed ha nascosto la morte in agguato tra i fieni odorosi che nessuno mieterà. Triste, ma santa necessità. Ma quando ci torneremo noi, amore, la guerra sembrerà un terribile sogno, dal quale ci desteremo tutti, ancora un po’ attoniti per le emozioni provate, ma folli della gioia di rivivere ancora, decisi a godercela tutta, questa nostra dolcissima vita, e a consumarci nei baci. Forse da questa stanzetta, che in tempi normali serviva di passaggio, noi due passeremo ebri di felicità, colle guancie rosee di voluttà: tu sarai vestita di bianco, con un semplice vestitino tenue come il respiro che ti lascierà nudo il collo un po’ arso dal sole: e avrai un grande cappello di paglia chiara, ornato di pochissimi fiori rossi o azzurri. Io, finalmente, non avrò più indosso questo vestito attillato che mi fascia. Sarò, ancora, libero di me, senza l’obbligo di salutare ad ogni passo qualcheduno, di rispondere ad ogni passo a qualche saluto. E un bel giorno prenderemo dei muletti e ci faremo portare in cima al Pasubio; e un

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altro giorno prenderemo un’automobile e andremo a Matassone, a ricercare i miei scacchi. O, forse, non ci muoveremo di qui. Guarderemo dalla finestra: quando ci parrà di aprir la finestra per permettere al sole di farci visita... Su due delle ultime tue lettere ho visto quel sigillo che ti regalò Lidia e quel poco felice motto Pax13 scritto orribilmente. Mi dicesti di pensare qualche disegno un po’ meno brutto, e io ierisera ho passato delle ore a imbrattar fogli per raggiungere l’intento. Ma non ho saputo inventar niente di meglio di questi due sgorbi che ti mando solo per farti vedere che ho lavorato. La migliore sigla sarebbe forse la più semplice, in caratteri romani maiuscoli, o meglio in caratteri maiuscoli un po’ pendenti, così: PAX14.

Processi per reati commessi da soldati Piero ringrazia Ada di avergli spedito la «Lettura» e «Il Secolo XX» di giugno, «due riviste che mi assicurano qualche ora di lettura piacevole». La informa il 27 giugno di esser stato incaricato di «far da istruttore in certi processi per reati commessi da soldati: sarò occupato qui all’accampamento, a udir testimoni e a stender verbali». Nel postscriptum dà notizie positive, con metafora floreale, della situazione sul fronte: «Le cose su questo fronte vanno benissimo... I miei fiori non fioriscono più per occhi non italiani...». Ritorna sulla controffensiva italiana l’indomani: «forse avrai già letto sui bollettini che la mia cameretta di Matassone – o i suoi resti... – ospita di nuovo, e definitivamente, soldati italiani».

30 giugno 1916 Ieri nonostante ogni buona intenzione non potei scriverti. Scrissi a mattina di levata a casa, e riserbai per te qualche ora che prevedevo libera nel pomeriggio, prima di riprendere verso le tre la mia funzione quasi giudiziaria... Invece, mentre ero alla mensa (la qua-

13 La sigla combina le iniziali dei nomi di Piero e Ada e i cognomi Cocci e Calamandrei intrecciati e diverrà il simbolo della loro unione. 14 Nel disegno di Piero la X risulta da due C speculari accostate.

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le si svolge ora con una certa solennità, poiché vi prende parte il colonnello e la lunga tavola con una ventina di commensali ha un suo decoroso asilo sotto una baracca costruita in mezzo al bosco) fui mandato d’urgenza ad accompagnare dei soldati per mettere a posto, al solito, un cannone di grosso calibro (280: tu vedessi che mostro!) che oggi dovrebbe spazzare definitivamente il Col Santo. E partii così, improvvisamente, verso mezzogiorno, tornando qui alla tenda soltanto stanotte verso le due. Ora sono le 91/2 del mattino; mi sono levato da meno di un’ora, e prima di andare a presentarmi al Colonnello per sentire se devo rimettermi a interrogare i testimoni (l’accusato è un fiorentino, un bidello di scuola, che forse tu conosci, il quale è imputato di questa spiritosa impresa: di aver detto a un ufficiale siciliano: «accidenti a Garibaldi che liberò la Sicilia!») scrivo alla lesta a te affinché non mi succeda come ieri. Penso con tanta malinconia che da domani, intorno a Firenze comincia il luglio: e che, di luglio, sono così deliziose sulla sera le ombre del bosco di Vincigliata, dove sui lecci bruni si arrampicano (ricordi?) gli scoiattoli. Quassù niente parla d’estate: l’aria e la vegetazione è primaverile. Ma lo stato d’animo è tutt’altro che primaverile: miei colleghi che sono stati ieri in Vallarsa a portar dei materiali mi dicono che quei paesini così candidi e giocondi sono ridotti in modo che stringe il cuore. Altro che primavera! Ho saputo però ieri sera, contrariamente a quanto credevo, che la mia casetta di Anghebeni (quella colla terrazzina, sulla quale mi feci la fotografia) è intatta, mentre sono bruciate quasi tutte le case d’intorno. Ierisera, a un alpino che andava a Matassone, ho dato l’incarico, facendogli un’esatta descrizione scritta del luogo, di ricercare i miei scacchi; ma son sicuro dell’esito... 4 luglio 1916 Sono costretto anche oggi a scriverti su un mezzo foglio... Ma non ti devi adirare, perché proprio non ho tempo oggi, di scriverti per bene. Tornai dal Pasubio ieri sera alle 11, stanco e insonnolito; ma, appena giunto, fui chiamato dal mio colonnello il quale mi annunciò che stamani alle dieci doveva aver luogo alle Dolomiti un tribunale straordinario di guerra contro nove soldati accusati di

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diserzione, e che incaricava me della difesa15. Ora se tu pensi che il reato ammette una sola pena: la fucilazione immediata, intendi che questa comunicazione non valse a favorire il mio riposo di stanotte. Stamani mi sono alzato presto per leggere il codice militare senza sapere nessun particolare dei fatti oggetto del processo. Poi il processo è stato rinviato: di poche ore, s’intende, o a stasera o a domattina. E di questo tempo bisogna che profitti. Scusami dunque. Qui intorno alla mia tenda tanti arboscelli alti quasi un metro da terra hanno cominciato a fiorire da due o tre giorni: grappoli di fiori rosei, simili – per la forma solo – alle giunchiglie. E la sera, intorno alla mia tenda, brillano le lucciole... 7 luglio 1916 Forse è l’ultima volta che ti scrivo da questa tenda posta così in vedetta sulla Val di Leogra, poiché stanotte il mio battaglione si trasferisce al forte Novegno, per ivi continuare quei lavori di fatica che abbiamo fatto finora in questa zona. Il viaggio non è molto lungo: il battaglione scenderà a Valli dei Signori e di lì risalirà sul gruppo montagnoso che anche di qui si vede vicinissimo. Ma io non parto stanotte, poiché debbo restare anche domani quassù a far l’avvocato: e soltanto domenica sera potrò far la strada già fatta dal battaglione, e raggiungerlo... il più tardi che sarà possibile. Spero, domani sera, di fare il viaggio in camion, e di dormire durante la notte in un letto, a Valli o forse a Schio, dove avrei intenzione di fare una scappata per fare un monte di acquisti. Intanto ti avverto, e ti prego di avvertire, che il mio indirizzo è nuovamente cambiato: così: 129° Battaglione Territoriale 2a compagnia 27a Divisione. Non si deve più mettere 8° Regg., perché il Reggimento si è sciolto e i battaglioni hanno ripreso, per esser più dislocabili, la loro autonomia. E anche, come vedi, è cambiata la divisione. 15 In questa prima esperienza di difesa dinanzi a un tribunale straordinario di guerra, Calamandrei, con un’eccezione di procedura, riuscì a far rinviare il processo al Tribunale di Corpo d’Armata, salvando così la vita ai nove soldati imputati di abbandono di posto dinanzi al nemico. L’episodio è narrato dallo stesso Calamandrei nell’articolo Castrensis jurisdictio obtusior, in «Il Ponte», a. XII, n. 3, marzo 1956, pp. 394-400.

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11 luglio 1916 Amore mio, sono a Schio, in un caffè dal quale qualche altra volta ti ho scritto, cinque o sei mesi fa: in un caffè nel quale sono venuto a chiedere un gelato, come si potrebbe fare a Firenze, alla cooperativa. Ma mi hanno risposto sorridendo che il gelato non c’è. Però, da ieri, ho riveduto e risentito diverse cose di questo mondo, che consideravo ormai come appartenenti al mondo dei sogni. Ieri, scendendo dalle Dolomiti verso Valli, ho udito un gallo che faceva chicchirichì su un’aia; e nei campi ho visto le viti coperte di pampani e di grappoletti d’uva già grossa: e il grano biondo... A Valli, dove mi son trattenuto fino a stamani, ho udito un orologio che suona le ore; ho mangiato sette (sette!) pesche grosse come quelle del Ciofini, ho dormito in un letto coi lenzuoli, ho fatto un bagno... E stamani, su un camion, sono venuto a Schio, dove, dopo aver girato più di un’ora da un ufficio postale all’altro per rintracciare la mia corrispondenza che da due giorni non ricevo (e spero di averla rintracciata e di poter vederla tra poco) ho mangiato alla trattoria col mio colonnello e col mio attendente, poi sono andato a cercarmi – presso la stessa padrona dalla quale stavo quand’ero qua – una camera per stanotte, e ora sono qui, nel caffè che dà sulla piazza principale, sulla quale passano strani esseri che non vestono la divisa militare ma hanno la gonna, il cappello piumato e l’ombrellino aperto dai colori smaglianti... A Schio, «dove nei giorni che piovevano sulle prime case le granate austriache e si udivano dalla piazza i colpi delle mitragliatrici, non era rimasto quasi nessuno», la vita ha ripreso ritmi normali e i negozi sono forniti. Piero può soddisfare la sua ghiottoneria trovando perfino caramelle di Torino. Ada, nel frattempo, è in villeggiatura al Forte dei Marmi, presso la famiglia Pimpinelli. Dopo la puntata a Schio, Piero si attenda sulla vetta del Novegno.

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13 luglio 1916 Stiamo quassù, abbastanza quieti, a far lavori di fortificazione. Assistiamo ai lavori, noi ufficiali, a turno, un giorno sì e due no: e i due giorni liberi li passiamo qui all’attendamento in un ozio perfetto, o in queste vette a scoprir panorami. Abbiamo una bella mensa all’aperto, alla quale ogni giorno vengono da Schio provviste fresche: e la posta arriva ogni sera verso le otto. 14 luglio 1916 Ti è sembrato, amore, che la lettera in cui ti annunciavo lo spostamento del battaglione fosse piena di scoramento; ma in realtà non ricordo che tale scoramento vi fosse, poiché, fin da quando seppi che venivamo al Novegno, credetti buona, com’è infatti, la nuova destinazione. Forse nella mia lettera era rispecchiata la preoccupazione per il processo contro quei soldati che dovevo difendere – processo che mi tenne in pensiero perché l’idea di dover assistere impotente alla loro fucilazione mi riempiva d’orrore. 16 luglio 1916 Mi dici che le tue osservazioni sulla cartina ti fanno credere che il Novegno sia più delle Dolomiti esposto all’artiglieria: ma t’inganni. Tutto il contrario: ho calcolato che dalla punta del Novegno la posizione austriaca più vicina è a circa 12 km. (14 dall’accampamento, che è un po’ più distante): mentre alle Dolomiti, sulle quali incombeva il Pasubio, gli austriaci erano a due o tre chilometri, come dimostrarono in quel loro celebre bombardamento del 2 corrente. Quassù il cannone si sente vicinissimo, ma si tratta di artiglieria nostra: della loro, per ora, non ho udito di qui neppure un colpo.

«La vita continua il suo dolce ritmo» Ada vorrebbe raggiungere Piero per un breve incontro a Schio, ma lui teme che la separazione risulti poi una «orribile pena». «Quassù,

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quassù, amore... Ci si sta, perché ci si deve stare. Ci si sta perché bisogna starci senza debolezze fino all’ultimo, perché è inutile drizzare di fronte al fatale uragano che travolge il mondo il fragile schermo della nostra felicità che tutti gli altri ignorano. Ci si sta... ma il sogno, l’unico sogno affannoso, assillante, tormentoso è quello di fuggire, di fuggire da questi luoghi ove tutto quello che succede è mostruoso e sovvertitore, di tornare, come bambini in grembo alla mamma, al nostro mondo dal quale un’ombra più grande di noi è venuta a strapparci». Una lettera di Ada dal mare provoca in Piero un’emozione così forte da riempirgli l’anima di pianto.

22 luglio 1916 Dicono che la guerra rende, fisicamente e moralmente, più maschiamente rudi e insensibili: io trovo in me, invece, almeno per quello che riguarda il morale, che ogni giorno che passa di questa vita assurda l’anima mia diventa sempre più scoperta, quasi femminilmente, ad ogni stimolo di intenerimento e più schiva da ogni proposito di rassegnazione. Pensavo ieri sera che un anno fa, verso i primi di luglio, proprio nei giorni in cui lo Zio Cecco stava per partire da Firenze per il mare, lo accompagnavo a casa una sera: [...] e quando fummo giunti sul Ponte Santa Trinita (Dio mio, la chiarezza trasparente dei Lung’Arni sul tramonto e l’acqua verde, e lo sfondo sfumato delle Cascine!), parlando non so come della bagnatura, io dissi: «Chissà che un altr’anno non ci venga anch’io a passare un mesetto al Forte: e non solo...». [...] Oggi i miei partono da Firenze per Montepulciano. E quella partenza che gli altri anni mi pareva tutt’ altro che desiderabile (restavi tu, restavi tu...), di quassù mi appare come un dolce episodio di felicità, al quale con tanta gioia commossa parteciperei anch’io. La vita continua così, al mare e nelle campagne, il suo dolce ritmo, la cui dolcezza mai come da questo lontano esilio ho compresa e pregiata. E quassù siamo in un altro mondo proprio, in un altro mondo...

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«Se non la pace, almeno la licenza» 23 luglio 1916 I discorsi che si odono in ogni tenda, tra ufficiali e soldati, hanno quasi tutti lo stesso tema: la pace, o, se non la pace, almeno la licenza. Un mio soldato mi raccontava ieri che da quindici mesi non è stato a casa, e che non ha potuto conoscere una sua bambina nata due mesi dopo la sua partenza, la quale ha ora più di un anno... A guardarla da un punto di vista umanitario, la guerra è una cosa incredibilmente, assurdamente folle: non si riesce a capire come mai milioni di uomini ragionevoli consentano per anni a infliggersi reciprocamente così strazianti torture fisiche e morali...

Uccellacci e uccellini 25 luglio 1916 Sono in cima al Novegno, seduto sull’erba, a assistere ai soliti lavori: e ho seguito fin’ ora, interrompendo la scrittura di questa lettera dopo il terzo rigo, un duello accanito svoltosi nell’azzurro dei cieli tra un nostro aeroplano ed uno austriaco: la lotta, dopo una serie di guizzi, mulinelli e giravolte, tutte destinate a trovare una posizione favorevole per scaricare la mitragliatrice contro l’aeroplano nemico, è finita come finiscono quasi tutti i duelli, nei quali i duellanti lasciano il campo senza essersi fatti nulla più che qualche scalfittura. Ma in cielo, oltre che gli aeroplani, sinistri uccellacci di guerra, ci sono anche i soliti innocui uccelli canori, i quali continuano a cinguettare e ad amarsi nonostante questa follia dalla quale gli uomini sapienti sono stati invasi. E la loro presenza mi fa tollerare con bastante filosofia anche la presenza di questi altri volatili meccanici carichi di morte, così diversi dalle colombe che S. Francesco amava... Vicino al nostro attendamento, sotto una roccia, in un fitto di cespugli fiorito di rododendri, ci dev’essere un nido di usignoli: e c’è uno dei genitori, non so se il padre o la madre, il quale sta lì tutto il giorno e par che sia tutto assorto a insegnare alla sua nidiata le sapienti modulazioni del canto; mi fa proprio l’effetto (sto delle mezz’ore a ascoltarlo dalla mia tenda) che, come per insegnare a par-

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lare ai bambini si cerca di scindere in sillabe le parole e di farle compitare così smembrate, così questo mio usignolo abbia diviso in tante unità semplici ed elementari il suo trillo così complesso e ad una ad una ripeta queste particelle di canto isolato a scopo didattico... Nonostante la guerra il mondo è ancora così bello! [...] Mando questa lettera via per un ufficiale che torna all’attendamento, in tempo per prevenire la partenza della posta (sono ora le 8 del mattino). E resto qui sull’erba, fiorita di campanule violacee, di trifoglio roseo, di orchidee paonazze e di rododendri carnicini, contemplando come l’uomo riesce a distruggere questo bel tappeto fiorito collo scavarvi in mezzo profonde trincee, squadrate e tetre come tombe... [A Egidia Calamandrei] 26 luglio 1916 Carissima Egidia, è proprio vero che le idee chiare vengono insieme col sole, tantoché molte volte riesce facile, colla fresca mente della mattina, compiere quell’ardua impresa che la sera prima fu creduta impossibile. Ieri sera, qui nella mia tenda, aprii e lessi con affettuosa attenzione la tua lettera spedita il 18 (non comprendo perché mai abbia impiegato tanti giorni nel viaggio); ma per quanto prendessi, con tutto il mio zelo, tutte le misure e facessi tutti i calcoli trigonometrici del caso, non mi riuscì, per tutte le divinità dell’Olimpo, di trovare il misterioso ordine nel quale le pagine dovevano essere lette. Non intendo tornare sulla questione della scrittura, sulla quale ormai la scienza ha detto l’ultima parola, come sulla questione gemella dell’addrizzamento delle gambe ai cani; ma mi richiamo solamente alla difficoltà di intendere il complicato sistema geometralchimicabalistico secondo il quale il lettore deve trovare la sua strada nei meandri del labirinto epistolare. Se almeno alla fine di ogni pagina tu ponessi un cartello indicatore come quello del Touring per insegnare a chi legge l’itinerario della lettura!... Ma a parte questi utopistici desideri, torno a dire, riprendendo l’accenno col quale questa mia si inizia, che stamani a mente fresca mi è riuscito di trovare quel «vandalo della matassa» che ieri sera non m’era stato possibile rinvenire (tantoché mi addormentai rimuginando nel cervello che cosa po-

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tesse voler dire questa frase che mi veniva fuori dal riunire la fine della supposta quarta pagina coll’inizio della creduta pagina quinta: «la frittatina che, a parer mio, dev’essere – nei tuoi scaffali...»). Poveri miei scaffali! Penso ad essi, di qui, con una tenerezza della quale mi sarei profondamente vergognato in quell’età leggendaria in cui passavo i miei giorni tra le nobili seduzioni del giure: e se seguito a star qui qualche altro mese, arriverò un giorno o l’altro a credere che la procedura civile sia una scienza intelligente, varia e divertente, fulcro principio e meta d’ogni umana civiltà, fonte d’ogni godimento, aurea chiave d’ogni più affannoso enigma della nostra esistenza... Opino del resto (e il solo fatto che una persona opini è prova del suo intelletto) che quando, fra sedici anni e quattro mesi, nell’anno del Signore 1932, la guerra avrà una breve sosta, spiacevole sì, ma resa inevitabile dalla necessità di far ridare la brunitura alle baionette, io mi troverò ad essere professore di fuori, mentre nell’interno, nella mia scatola cranica nemmeno una stilla resterà di quel tesoro giuridico che già ora, dopo poco più di un anno, comincia ad essere un pio ricordo. E allora, poiché a quel tempo tutte le scienze saranno sovvertite e tutti gli istituti del periodo anteriore alla guerra distrutti, io mi limiterò a insegnare dalla cattedra, in luogo di belle dissertazioni sul codice, tutte quelle nozioni pratiche che la guerra mi ha insegnato già e che più mi avrà insegnato allora, tutte quelle scoperte esperimentali sulle quali dovrà basarsi la futura civiltà. Esempio di qualche soggetto di lezione: «Degli animali domestici addomesticabili che vivono sotto la tenda»; «Se il lavarsi il viso tutte le mattine possa deprimere il morale del combattente»; «Come si diventa eroi: memorie autobiografiche»; «Capitani territoriali e coraggio: parallelo (1)»; etc. Non m’è riuscito di avere ancora da nessuno di voi, l’annuncio del vostro arrivo a Montepulciano, quantunque già ieri l’altro sera (24) abbia ricevuto un biglietto del Babbo impostato il 22, sul momento della partenza; ma stasera, per Zeus, ci deve pur essere qualcosa! Vi penso tuttavia anche nel vostro silenzio, già insediati nel feudo, e v’invidio nostalgicamente tutto ciò che vi circonda, perfino le frittelle del curato Mosconi, perfino il coccodè delle galline che fanno l’uovo, perfino i discorsi del Landi16 relativi al so16

Il fattore del podere Calamandrei a San Lazzaro.

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lito freghio di maialetti e alle solite vigne rigovernate folte, perfino la ferrovia a vapore che non serve nemmeno a fare un buon caffè turco. Grazie dei bellissimi e ingegnosissimi scacchi. Volevo rinnovarli ieri sulla cima del Novegno, ma una serie di piccoli episodi, tra i quali l’arrivo di un colonnello a cavallo a un mulo, il quale (il colonnello non il mulo) voleva ispezionare i trinceramenti in costruzione, impedì a me e a Policreti di iniziare il cavalleresco torneo. Ma oggi incroceremo le armi. Ebbi, come sai, il libro del Papini e attendo la 1a serie, assetato come sono di buoni libri. Scrivimi spesso ora che puoi e narrami tutti gli episodi della villeggiatura. Domani scriverò alla Mamma la quale per oggi sarà tranquilla, spero, per le buone notizie che le mando pel tramite tuo. Un abbraccio stretto al Babbo e alla Mamma e a te da Piero Saluti affettuosi alla zia Nina della quale ebbi ieri una lettera, e allo zio Ste’17. (1) Le parallele sono due rette che non s’incontrano mai [N.d.A.].

Collezionisti di reliquie di guerra 27 luglio 1916 Amore mio, usa molto quassù, fare raccolta di resti guerreschi: basta andare a girare un po’ fuor delle strade per trovare dovunque, a diecine e a centinaia, i resti dei bombardamenti e delle mischie, scheggie mostruose di granate, fondelli e ogive di grossi proiettili, e pallottoline di shrapnels, tonde, luccicanti e numerose come i chicchi d’uva. Molti dei miei colleghi hanno fatto, di questa roba, delle vere provviste: e più che ne trovano, più ci pigliano gusto. Una delle reliquie più ricercate è un certo anello di rame puro il quale sta alla base dei proiettili d’artiglieria: trovare la tazza di un proiettile austriaco che conservi intatto alla sua base l’anello prezioso è, per molti, una perfettissima felicità. E la ragione è questa: che con que17

rugi.

Anna Damaride Calamandrei, sorella di Rodolfo, e il marito Stefano Ta-

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sti anelli, opportunamente staccati e lucidati, si fanno dei braccialetti più o meno eleganti, dei quali quassù quasi tutti gli ufficiali portano adorno il polso. Ho pensato qualche volta, amore, di raccogliere per te un di questi braccialetti di nuovo modello; ma poi ho lasciato andare il pensiero, poiché provo un infinito senso di orrore per tutti questi resti di stragi non ancora cessate. E mi sembra che finita la guerra, non vorrò più vedere dintorno a me neppure un piccolo oggetto che mi ricordi questi mesi d’orrore, che turbi con forme di morte quell’infinita sete di pace e di civiltà dalla quale allora ci sentiremo invasi... E nota bene, amore, che io, con questo, se dipendesse da me far concludere oggi la pace, non vorrei che essa fosse conclusa, quando pochi pochissimi mesi ci separano dalla vittoria totale che permetterà di bandire dal mondo la guerra; ma provo sdegno contro chi considera la guerra come un facile giuoco quasi divertente, contro Fraccaroli18 che parla della gioconda guerra, contro chi nelle scheggie delle granate trova bei modelli di pressacarte da salotto...

Letture e commenti critici: Panzini e D’Annunzio Piero si sofferma sulle sue letture anticipando riflessioni che svilupperà in un articolo sulla letteratura di trincea19.

3 agosto 1916 Ho letto in questi giorni un bellissimo libro del Panzini, prestatomi da Policreti, «La Madonna di Mamà»: è un romanzo tra il satirico e il sentimentale, descrivente con infinita grazia e con profonda filosofia umana il periodo in cui l’Italia entrò in guerra. E non tanto piace per la trama, tenue e semplice, quanto per la originalissima intonazione di bonaria e malinconica poesia colla quale sono tratteggiati i personaggi e gli eventi del libro. Panzini, indubbiamente, è lo scrittore moralmente e sentimentalmente più alto che abbia oggi l’Italia: altro che la ingemmata e pur magnifica insensibilità di D’Annunzio! Altro che le borghesi mediocrità 18 19

Arnaldo Fraccaroli, corrispondente del «Corriere della Sera». Cfr. infra, pp. 269 sgg.

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di Pirandello, Zuccoli, e di Guido da Verona! C’è, in quest’ultimo libro di Panzini tutta l’angosciosa incertezza che tormenta in questi momenti l’anima di chi... ha l’anima: tra la persuasione fredda della necessità di condurre ancora, fino in fondo, questa serie di stragi, e la nausea, il tormentoso orrore febbrile di continuare questo assoluto trionfo della barbarie più selvaggia... Ada si è trasferita in vacanza a Montepulciano e Piero, dal suo rifugio in una nicchia di una trincea, immagina di accompagnarla nelle passeggiate in campagna. Nel suo immaginario, il paesaggio toscano è un riferimento costante.

5 agosto 1916 Anch’io, [...] mi sono ormai trasferito senz’altro sulla collina poliziana: e t’accompagno non tanto per le vie del paese, che sono troppo scoscese e troppo lastricate per le mie gambe, abituate a fare dei passacci irregolari sopra le roccie sulle quali le scarpe ferrate fanno presa (oh, i passettini brevi brevi per non sdrucciolare, giù per la scesa che porta al Pulcinella!), quanto per le vie di campagna, dove l’aria è così tersa e così delicata, quando è sereno, e l’orizzonte è un misto di grazia toscana e di malinconia umbra. Ti scrivo anche stamani dal Novegno: e siccome tira un ventaccio rigido come a Firenze usa in Piazza del Duomo a dicembre, mi sono rifugiato in una trincea già terminata, e mi son messo seduto in un di quei sediletti incassati entro una nicchia della parete, nei quali, in caso che le trincee dovessero essere abitate, dovrebbe stare l’ufficiale. Procedono, sul fianco del Novegno, i lavori di costruzione delle trincee: «I trecento uomini che formano la corvée (parolaccia militare, che vuol dire il complesso dei soldati destinati a un servizio di fatica) vanno avanti, a due a due, facendo una processione lunga quasi un chilometro, che si distende e si snoda per tutte le tortuosità della strada: io vengo in ultimo, come il pastore dietro alle pecore». La sera, per arrivare all’ora in cui si va a dormire, si fa una passeggiata per la strada che va a Cerbero e Piero si accompagna con Policreti, conversando «di libri, di teatri, di musica, di pittura... di tutto meno che di guerra; poiché la guerra si fa, ma non se ne può più sentir parlare!». Di notte, nell’accampamento, «da ogni tenda vien qualche voce che parla un lin-

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guaggio quasi incomprensibile, ma in cui tuttavia si riesce a cogliere qualche parola: “Licenza... Congedo... Bambini... Pace...”».

I ninnoli della zia Contessa 8 agosto 1916 Grazie, amore, della descrizione abbastanza particolareggiata che mi fai della tua visita al palazzo della Contessa20: la attendevo con una certa gaia curiosità, per vedere se quel misto di nausea e di allegria che mi dà sempre l’entrare in quell’aristocratica magione corrispondeva all’impressione che il castello avrebbe lasciato in te. E son lieto della coincidenza... Eppure, vedi, io penso di quassù a quelle stanze piene di cianfrusaglie di cattivo gusto con una specie di nostalgica simpatia: quassù, dove c’è qualcuno che fa collezione di scheggie, di pallottole, di lame contorte e di altri resti della mischia, io penso quasi con desiderio a quelle collezioni di stupidaggini innocue che riempiono i salotti della Contessa Zia: canini di terracotta brutti come quelli veri, portaritratti a mezzaluna di raso celeste sbiadito, cuscini con su una testa di moro, arazzi composti di tanti stracci cuciti insieme, album di fotografie e di cartoline illustrate, penne di pavone, conchiglie fossili e gusci di tartaruga – la rosoliera coi bicchierini rimessi al posto senza lavare. Dolce salotto di cretineria polverosa, ove tutti gli oggetti parlano di pace e d’ozio, dove ogni tavolino offre i campioni di quelle mille scempiaggini innocue che l’uomo si mette a fare quando non ha altro di peggio da fare! Quassù non c’è tempo di perder le giornate così, dietro a un ninnolo ricamato con pazienza di settimane: quassù la vita si riduce alle pure necessità animali, e i giorni passano incerti tumultuosi e febbrili come la corrente torbida di un fiume che tutto travolge... [...] Tre, quattro, dieci anni fa, quando la guerra pareva ormai un lontano ignoto flagello di età superate, la situazione sentimentale che più mi pareva, nei romanzi e nei drammi, ricca di commozione e di tragicità umana era quella del soldato che deve lasciare il 20

rugi.

La zia Annina viveva a Montepulciano in Piazza Grande nel Palazzo Ta-

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suo nido di felicità, la sua fidanzata, la sua sposa, l’amore insomma, per andarsene alla guerra, verso gli ignoti destini della guerra. Ed ora, ecco, io mi trovo in questa situazione: io, proprio io, invoco con tutta l’anima mia la mia bambina che a quest’ora potrebbe essere mia tutta, e la necessità inesorabile mi tiene quassù e mi ci terrà chissà fino a quando.

Sollievo per le vittorie italiane 9 agosto 1916 Stamani alle 41/2, quando mi sono svegliato, cadeva sulle pareti della tenda un’acquerugiola fina fina che faceva d’intorno come un indistinto fruscio; ma mi sono alzato lo stesso, poiché c’è quassù, sulla cima del Novegno, un colonnello che più volte ha messo agli arresti ufficiali per aver fatto restare a casa i soldati nelle mattine di pioggia non battente (espressione sua: non si sa bene quello che significhi). Mi son fatto toilette alla lesta, ho fatto colazione e poi sono uscito nell’accampamento ancora totalmente buio e sono andato all’ufficio telefonico militare lì prossimo a fare un fonogramma al colonnello per domandargli se la pioggia di stamani era o non era battente... Poi, sempre al buio, e in previsione di risposta negativa, sono andato in giro per le tende a tirar fuori i soldati ancora mezzi storditi dal sonno: e dopo un quarto d’ora d’urli m’è riuscito di avere sulla strada, nella penombra stillante umidità, una lunga fila di ombre immantellate. Passano i quarti d’ora, e la risposta al fonogramma non viene: la nebbia a poco a poco si imbianca, la pioggia diminuisce a poco a poco. Bisogna partire: e si parte... Tutte circostanze adatte, come vedi, a provocare il malumore in chi non l’avesse e ad assecondarlo in chi l’avesse già... Ma giunti sulla vetta del Novegno, troviamo, attaccato alla parete esteriore della baracca del Comando, il bollettino di guerra di ieri, telegrafato per noi durante la nottata: M. Sabotino e S. Michele presi, 8000 altri prigionieri, Gorizia sul punto di cadere. Aaoh!! Un sospiro di sollievo: e un improvviso rifiorimento di buonumore. Si vive quassù, dove si sente e si vede che cos’è la guerra (poiché è molto facile affermare solennemente il proposito di combattere per dieci anni ancora, quando questi di-

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scorsi si fanno tra uno sventolio di bandiere nuove nuove da una tribuna di velluto rosso inalzata sulla piazza di una città lontana da ogni traccia della guerra!) in un’alternativa di fiducia e di scoraggiamenti, che va di pari passo colle notizie così malsicure e cosi mutevoli che danno i giornali: di scoraggiamenti derivanti non già dal timore che la guerra non debba prima o poi aver esito favorevole per noi (troppi indizi ormai assicurano la assoluta superiorità potenziale degli Alleati), ma dal timore che la guerra non abbia a finire così presto come si vorrebbe... Ah, poveri i miei ventisette anni, fioriti per me inutilmente in tanta solitudine! Ierisera, alla mensa, il nostro capitano, quello dei granatieri, così gentile e distinto) mi disse: «Ah, Calamus, Calamus, ho capito oggi la ragione della sua tristessa... Sono andato nella sua tenda per dirle una cosa e non avendolo trovato mi sono messo a fare il curioso: e ho veduto... oh che cosa ho veduto! Ho veduto un uovo rosso con dei fiori dentro, e poi una cornicetta con una signorina... Ah, povera signorina! Se sapesse che birbante è diventato questo ragasso!! Ma stia sicuro che quando lei verrà a Parma colla sua signora – il capitano è di Parma e io una volta gli dissi che a Parma è libera la cattedra di procedura e che non è impossibile un mio trasferimento – io racconterò tutte le sue birbanterie...». Quali siano queste birbanterie non si sa bene: uno dei capi d’accusa più compromettente è quello di un verso scritto in una delle sestine di cui si componeva il brindisi per il colonnello: tale verso diceva: «bischeri come lei ’un se n’è mai visti!». Dunque mi pare che non ci fosse niente di male. Piero si rallegra delle notizie sull’avanzata italiana oltre Gorizia. Ha l’impressione che «qualcosa di veramente critico e risolutivo» stia maturando, e spera che per l’autunno la guerra possa essere conclusa. Continua la sensazione di estraniazione, avvertita tanto più acuta di fronte alla bellezza dei paesaggi.

12 agosto 1916 Andavamo, vestiti di grigio, a lenti passi giù per la via sospesa come un lungo balcone su quello sfondo tutto dipinto di mezze tinte tenuissime: e quell’andare con tanta calma, per una via tanto pittoresca, con quell’apparente aspetto di tranquillità soddisfatta

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e sorridente, mi dava stasera più di sempre un senso di acuto malessere, anzi addirittura di insopportabile angoscia. Sogni, sogni: questa mia vita è tutta una strana vita che ha proprio le misteriose e indefinibili sfumature dei sogni... Quando si sogna di essere in un paese tanto bello, che mai se n’è visto l’uguale, e ci son tante palme, e laghi con cigni, e il cielo color d’arancio in fondo ai viali: e si ha paura di questa grande bellezza. E ogni nuova meraviglia accresce il terrore. E si vuol fuggire, perché si ha paura anche di noi, perché quasi ci sentiamo stranieri a quel povero “io” abbandonato così in quella luminosa solitudine... Così è quassù, amore: così è da quando sono partito dal mio mondo, di cui tu sei il centro e il sole. Vivo osservando me stesso, estraneo a me stesso, trepidando per me stesso. Seguo con curiosità e con pietà questo sperduto essere che vive con apparente rassegnazione la sua vita, e al quale pure si legge in fondo agli occhi, quando si lascia sorprendere dalla malinconia, non so quale attonita aria di smarrimento...

Due tormenti: le mosche e i discorsi dei soldati Piero legge un altro libro di Panzini e i numeri appena ricevuti del «Nuovo Giornale» e della «Voce», ma è disturbato dalle mosche all’interno della tenda e dai discorsi dei soldati all’esterno, in cui teme di riconoscere i suoi stessi sentimenti contro la guerra

14 agosto 1916 E poi fuori, a due passi dalla tenda due soldati parlavano ad alta voce: parlavano della guerra, con quell’accento astioso che questi romagnoli hanno sempre quando ne parlano, come se la colpa di essa fosse nostra. Uno diceva: «Hanno preso Gorizia? Vuol dire aver fatto ammazzare migliaia e migliaia di soldati per prenderla. Ecco il guadagno...». E io mi turavo gli orecchi per non udire questi discorsi che mi facevano rabbia e dolore: temevo quasi di riconoscere ch’essi erano logici... e quasi volevo uscire dalla tenda a redarguire, a rimproverare a voce forte, per convincere anche me che erano discorsi sciocchi e cattivi.

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Due enormi trincee sanguinose Ada ha sognato di remare su una piccola barca su un mare tutto liscio, insieme a Piero, e lui le risponde che «sarà per un altr’anno»; ma l’ottimismo ingenerato dall’avanzata italiana si sta già spegnendo nel dubbio sulla durata della tragica situazione del mondo. Tant’è vero che comincia a pensare se non sia meglio sposarsi prima che finisca la guerra, in modo che Ada possa fargli visita più facilmente.

17 agosto 1916 Sarà, dunque, per un altr’anno. Ma anche un anno fa, di questi tempi, quando portavo a spasso per i Viali le reclute, delle quali chissà quante ormai giacciono sotto quattro sassi e un po’ di calce (e fortunati quelli che hanno una crocetta fatta con due fuscelli legati alla meglio!), dicevo con sicurezza: «Tra un anno...». E un anno è passato, e la fine sembra più lontana di quando cominciammo; e non si sa più che cosa sperare, e quasi non si riesce più a tener desta gelosamente, sotto questa veste che tutti assimila e accomuna, la sacra fiamma della nostra personalità, il fuoco, diverso da tutti gli altri, della nostra vera vita, che dovrebbe riprendere il suo scintillio quando la guerra sarà finita... Vedi, si leggono nei giornali notizie favorevoli a noi, favorevoli agli Alleati: e sono, certo, tanti passi verso la vittoria. Ma pure, anche dopo queste notizie, la tragica situazione del mondo non muta: si hanno, ancora, due enormi muraglie di bronzo che si fronteggiano per migliaia di chilometri, due enormi trincee sanguinose alle quali, come le onde sulla riva del mare, vengono a frangersi le vite umane. Che indietreggi più o meno l’una o l’altra muraglia, poco importa; che le trincee si spostino di venti chilometri più a nord o più a sud, nulla decide... E ognuno dei contendenti si trova dinanzi sbarrata la strada dall’altro contendente, e ogni vittoria non è molto dissimile da ogni sconfitta. Io non comincerò a sperare la fine se non quando leggerò che i franco-inglesi hanno sfondato largamente la fronte tedesca e avanzato in un giorno venti chilometri. Ma per ora... Perché tutto questo ti dico?... Perché a te sola posso e voglio dirlo. Poiché a te sola posso dire che sono stanco, stanco: moralmente, s’intende, non fisicamente... Ma faccio spesso dei discorsi

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ai soldati per dimostrare loro (e ci riesco) che essere stanchi è stupidaggine e cattiveria...

MALGA FIENO

Il 22 agosto giunge l’ordine improvviso di lasciare Novegno per una nuova destinazione, appartenente alla 44a Divisione: il compito è sempre lo stesso, alle dipendenze del Genio: costruire strade e trincee di linee arretrate.

24 agosto 1916 Amore mio, sono in una valletta erbosa, tra due coste di monte coperte di bosco, la quale ha un nome odoroso: Valle di Fieno. E il luogo dove andiamo ad accamparci, e dove arriveremo fra una mezz’oretta, sa anch’esso dello stesso profumo: poiché si chiama Malga Fieno... Siamo partiti stamani verso le nove dalle Dolomiti, e alle undici ci siamo fermati qui, presso alla meta, per mangiare. E ripartiremo tra poco. Credo che il luogo dove ci fermeremo sarà molto simpatico, e abbastanza comodo: con un’ora di cammino per una mulattiera, siamo alla strada carrozzabile, vicino all’Albergo delle Dolomiti. Siamo adibiti ad allargare un sentiero e a trasformarlo in una mulattiera. Piero trascorre due giorni di licenza a Montepulciano, dove ritrova Ada dopo i lunghi mesi di separazione e passeggia con lei nei vialetti intitolati ai loro due nomi alle Balze. Al rientro a Malga Fieno la rassicura che «il ricordo dei due giorni di felicità non inasprisce, come temevo, la rinnovata lontananza, ma la riempie di un’infinita malinconia quasi serena». Le descrive dettagliatamente la Valle di Fieno, «che digrada allargandosi fino alla strada di Pian delle Fugazze».

1 settembre 1916 La Valle, in tempi ordinari, doveva essere tutta verde di pascoli e popolata di mandrie: ora l’erba è rigata da mille sentieri bruni che si incrociano e si inseguono a zig zag, e su questi sentieri passano tanti muli, tanti muli tutti neri e piccini e uguali come quelli di legno che si vedono nelle vetrine dei baloccai; e tanti alpini, che van-

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no in su, per poi – forse stanotte... – andare in giù da quell’altra parte. E le montagne, intorno, sono terse e lavate dalla pioggia dei giorni scorsi, e stagliate di netto sul cielo che verso l’orizzonte è più chiaro, come se dietro ci fosse il mare...

«Di rincalzo» Piero scrive ad Ada rientrata a Firenze per assistere la nonna malata; l’11 settembre accenna di «essere stato con dei soldati della mia compagnia a portar viveri a degli alpini su una di queste vette circostanti» e si scusa della brevità della lettera «un po’ sciocca, scritta da chi ha perduto la notte in mezzo a fantastici sentieri alpestri...». Il 12, seduto sulla branda, si allieta delle buone notizie sulla salute della nonna e dice di aver avuto «delle giornate un po’ agitate», menzionando una «escursione sul Coston della Lora». Conclude poi rassicurante: «Ora però tutto è tornato, da questo settore, in piena calma, e riprenderemo domani i soliti lavori di sterro sulla strada». Piero è in verità reduce da un’azione di sostegno degli alpini che descrive nella poesia Di rincalzo, coi territoriali, datata 16-18 settembre 191621. È un esempio di autocensura nella comunicazione con Ada, che risparmia gli echi di episodi di partecipazione diretta al conflitto.

16 settembre 1916 Amore mio, mi ha seccato un po’ l’annuncio che tu mi dai della prima mia lettera aperta dalla censura: e desumo che dall’incrudimento della vigilanza postale (prodotto, negli scorsi giorni, dalle operazioni che erano in corso su questo fronte) sia derivato anche il ritardo delle altre mie lettere a te. [...] Sono contento, come sei contenta tu, della rapidissima guarigione della Nonna, alla quale ti prego di dire per me le cose più affettuose. Sarebbe stata una cieca crudeltà della sorte il negarle, come unico premio della sua vita tutta spesa a far del bene agli altri, la consolazione che da tanti anni le prepariamo e che, se potessimo liberamente disporre di noi, le avremmo già data: ed ella, 21

Cfr. infra, pp. 233 sgg.

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ormai guarita e per molti anni ancora, deve attendere la nostra felicità, per essere anch’ella felice. Ho il piacere che il libro del Panzini, col quale hai un po’ illuminato le tue grigie giornate d’infermiera, ti sia molto piaciuto. La prosa di Panzini, così semplice e così aliena dalla pomposità dannunziana, è tutta poesia, profonda poesia: e, anche in quest’ultimo libro, si trovan pagine che commuovono come purissimi canti. La morte della madre di Aquilino, per esempio: sublime! Panzini è uno di quei pochi, pochissimi autori dinanzi ai quali io non so serbare la mia padronanza critica, la mia indipendenza di lettore che giudica freddamente. Mi bastan poche parole di Panzini, per sentirmi preso tutto dalla sua umanità così profonda e così sincera: e quasi mi irrito, leggendo i suoi libri, di non poter leggere una pagina senza sentirmi addosso un brivido del suo dolore, senza che gli occhi, sfuggendo alla mia signoria, si inumidiscano. Stavo per mandarti, prima che tu partissi per Firenze, le poesie di Gozzano, che comprai a Padova, tornando qua: blando contravveleno di malinconiche superficialità alla tragica realtà in mezzo alla quale vivo. Te le spedirò a Montepulciano, appena saprò il tuo ritorno lassù.

«Una vita in bianco e nero, come le stampe dei libri» Piero ripercorre incessantemente nell’immaginazione i luoghi cari, Firenze e Montepulciano, con una memoria fotografica che indugia su ogni dettaglio: piazza Santa Maria Novella di domenica, «dove la chiesa, lasciata in pace a quest’ora calda dalla folla dei credenti che vanno alla messa la mattina e dalla folla dei ragazzi che la sera corrono sulla piazza, sorride nel roseo sole quieto quieto, senza neppure udire la voce dei giornalai che strillano le notizie della guerra...»; la strada lungo le mura di Montepulciano: «passeggerò per quella strada buia, guardando su tra le alte case nere ritagliate sullo stellato, il chiarore delle finestre della gente che ancora ha una casa»; un muretto sotto la ringhiera del Piazzale Michelangelo da cui si scorge «un tripudio di luci, una fantasmagoria di splendori variopinti, una sterminata ricchezza di petali, di foglie, di iridi, di raggi». Gli sembra che «tutti i colori del mondo, il bel verde dei boschi, l’oro dei tramonti, il rosso fiammante dei fiori siano tutti rimasti costà, nella mia dolce Toscana, e che la vita che mi circonda sia una vita in bianco e nero, come le stampe dei libri».

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19 settembre 1916 Mi sono destato stamani verso le otto avendo in mente una blanda placidità di visioni fiorentine, così lontane da questa mia tenda: vaghe visioni di pace, senza nulla di tragico, intorno alle quali mi sono indugiato col pensiero anche dopo essermi destato, con quel rimpianto che si prova lasciando un asilo di riposo... Prima mi pareva di essere in tram, in Via Cavour, diretto verso Piazza S. Marco: ero vestito da ufficiale, ma colla divisa decente, quella che ho lasciata a Firenze, non con questo disadorno abito da soldato: provavo una strana impressione di dolce meraviglia ritrovandomi seduto entro quella vettura lustra, sui sedili di velluto rosso: e mi pareva che tutti mi guardassero il viso e le mani, diventati così bruni dopo tanti mesi di vita all’aria aperta... Sono sceso in Piazza S. Marco, e di lì mi sono avviato per via Ricasoli verso Piazza del Duomo: mi pareva di dover andare a Palazzo Vecchio, per assistere non so a che cerimonia: e allora guardando la mia sciabola (avevo ancora quella brutta cosa che è la sciabola!) mi sono accorto che aveva perduta l’impugnatura; e, mentre cercavo di nascondere alla meglio la magagna, pensavo (guarda che nei sogni divento un saggio economo!) a quanto avrei dovuto spendere per farla accomodare. Ed era questa la mia unica pena... Poi, non so come, mi sono trovato non imagineresti mai dove: nell’angusto orticello di casa Anselmi, che anche tu conosci, poiché almeno una volta, dopo la prima nostra serata mascagnana, hai dormito in quella casa. Ero lì, in mezzo ai vialetti da bambole, tra le aiuole larghe due palmi: e mi pareva che tutte le aiuole, invece di essere piantate a fiori o coperte di erboline policrome, fossero tutte tappezzate di frutti dai colori chiari, uno accanto all’altro, messi in modo che neppure si vedeva una zolla di terra bruna. Su un’aiuola c’erano come tanti chicchi d’uva spina, ambrati, trasparenti, d’un bel color roseo tendente all’arancio: e ne ho mangiati tanti, ed eran dolcissimi. Su un’altra c’erano altri frutti dello stesso colore ma d’altra forma, come piccoli baccelli rigonfi puntuti qua e là come i ricci dei marroni d’India: e poi, lungo un muro, ho cercato se c’eran fragole mature, e ho trovato le piante, ma i frutti erano stati già colti. E poi la ghiaia dei piccoli vialetti non era grigia, ma azzurra, come i gusci di certe conchiglie marine...

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Che interessanti cose ti vado raccontando, amore! Ma pure io amo tanto trattenermi in queste umili imagini della vita di pace, delle quali ho tanta sete! Per questo comprai a Padova – nella bottega di un libraio dove entrai per prendere in fretta qualche libro da portarmi quassù – le poesie del Gozzano, il quale, senza essere un gran poeta, esprime bene nei suoi versi la suggestiva amabilità della quieta vita provinciale, tutta intessuta di piccole cose insignificanti. Vedrai che anche a te alcune di quelle poesie, che forse, come me, già conoscevi perché pubblicate sulla «Lettura», piaceranno molto: c’è specialmente quella intitolata La signorina Felicita e l’altra L’amica di Nonna Speranza che son piene di quella grazia smorta che hanno le cose semplici e invecchiate. Penso al palazzo della zia Contessa, e al salotto “degli stucchi”, dove c’è un portasigari che, tirando un nastrino, lascia venir fuori una strana musichina antica, tutta ansimante di rantoli metallici...

PIAN DELLE FUGAZZE

«Ha nevato!» L’accampamento si trasferisce lungo la strada in costruzione di Pian delle Fugazze.

21 settembre 1916 Amore mio, ti scrivo stando pacificamente e comodamente a letto, poiché ancora (ore 91/2), quantunque la mia salute sia in stato perfettissimo, non ho avuto coraggio di alzarmi. Stanotte ho dormito profondamente, e soltanto mi sono destato a un certo punto perché mi venivano certe goccioline ghiacce ghiacce in un orecchio: ho allora acceso il lume per prendere provvedimenti, e ho notato, senza però intenderne la ragione, che la parete della tenda che è sopra alla mia branda pareva stranamente abbassata; ho pensato che ciò derivasse dalla pioggia caduta con una certa violenza, e mi son pacificamente riaddormentato. Stamani mi desto, perché sento che Pasini22 si alza: e quand’egli va all’uscita per sbottonare il telo, 22

L’attendente.

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sento che brontola con tono di meraviglia. Gli domando che c’è ed egli mi dice con aria trasognata: «Ha nevato e la tenda non si apre più!». Questa è in verità una gioconda inaugurazione dell’autunno: poiché, infatti, la neve è caduta stanotte alta più di un palmo, e continua a cadere colla massima buona volontà, come se una nevicata per il 21 settembre fosse la cosa più naturale del mondo. Pasini è riuscito finalmente a farsi una strada, ed è uscito dalla tenda: ed ha veduto allora che tutte le pareti della tenda stessa erano coperte da un pesante strato di neve, in modo che noi avevamo dormito in una specie di capanna esquimese, come gli uccelli impagliati sotto le campane di vetro nei salotti buoni. Pasini ha cominciato a mandare robuste bestemmie in romagnolo, le quali non offendono Iddio, perché non le capisce: e si è dato a scagliare altrettanto robusti pugni sulla tenda, per far sdrucciolare giù gli strati di neve, che minacciavano di far franare il fragile nostro palazzo.

[A Egidia Calamandrei] 27 settembre 1916 Carissima Egidia, se ti dicessi che la tua ultima lettera mi fece moltissimo piacere, non solo per la sua rara chiarezza calligrafica e per l’ordine delle pagine non basato sulla trigonometria, ma anche per le cose gioconde e argute e affettuose in essa contenute, ti direi una frase perfettamente idiota: e quindi mi limito a dirti (nota la efficace preterizione per la quale la frase idiota son riuscito a rivogartela senza parere) che tu potresti benissimo impiegare tutti i pomeriggi domenicali in epistole al fratello, delle quali poi, quando sarai matura per la gloria, faremo una raccolta col titolo ciceroniano: Epistulae ad fratrem militem. Come ti sarai accorta il promesso libro di Maeterlinck23 si è trasformato, per via, nelle Lettere del Serra24, prezioso volumetto che vale più di tutte le opere del Mazzoni e del 23 Maurice Maeterlinck, Les débris de la guerre, Paris 1916; il libro è conservato nella biblioteca Calamandrei con l’annotazione: «Piero Calamandrei, Ten. 129° Batt. M.T., Malga Fieno, 31.VIII.16». 24 Renato Serra, Ultime lettere dal campo, pubblicate dopo la sua morte sul Podgora, il 20 luglio 1915.

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Bacci25 messe insieme (pardon!); ma anche Maeterlinck verrà e se non te l’ho inviato finora, la ragione è unicamente nell’assenza di Policreti al quale lo prestai e dal quale potrò riaverlo soltanto stasera o domani al suo ritorno. Maeterlinck, naturalmente, è per la guerra ad oltranza fino alla intera disfatta dei Tedeschi che l’hanno scatenata: e credo sia più nel vero di quella svizzerofila marmotta di Romain Rolland, il quale non pensa (gli scriverò io suggerendogli questo pensiero che la mia mente ha escogitato) che, appunto perché la guerra è un’orribilissima cosa, bisogna, se si può, schiacciare una volta per sempre i popoli amanti della guerra (acuta, vero?!). Del resto qualunque libro tu mi mandi mi giungerà graditissimo: attendi però, a farmi qualunque invio, un mio avviso, poiché nei prossimi giorni avrò da leggere una quantità di volumi che Policreti deve portarmi da Roma. Ieri ho cominciato a leggere, non avendo altro, un libretto stampato alla macchia da un tale che si dà delle arie di poeta: La Vita Nuova di Dante Alighieri; e, per essere un primo saggio, vi ho trovato qualche cosellina di buono: «qualche frase azzeccata» diceva quel tale, dopo aver letto la Divina Commedia. Continuo a passare queste giornate settembrine in vigilanza ai lavori di sterro che fanno i nostri soldati; e penso spesso che anche Pietro26, con un buon berrettuccio grigio-verde, farebbe quassù la sua figura. La mattina, fino a mezzogiorno, mando sul lavoro il mio “subalterno”, un sottotenente d’Imola, venuto in zona di guerra da una diecina di giorni; e nel pomeriggio vado io a sostituirlo. Questa ripartizione di lavoro contenta ambedue: contenta me perché mi permette di levarmi alle nove, e mi evita di lasciare la branda alla fresca ora delle sei mattutine, il che poco si concilia coi miei principi politici; contenta lui, poiché da una settimana i pomeriggi sono allietati da visite di aeroplani esploranti, e questo sottotenente, di carattere un po’... ritirato, non ama le visite. Del resto la vita da che siamo quassù vicini alla strada, passa, esteriormente piena di comodità: di agi, direi. Par d’essere in villeggiatu25 Guido Mazzoni e Orazio Bacci, professori di Letteratura italiana all’Università di Firenze, coi quali Egidia aveva discusso la tesi di laurea. 26 Il contadino del podere di San Lazzaro, ricordato, insieme al figlio Angiolino, caduto sul Carso, nell’opera di Rodolfo, Le balze di San Lazzaro, e poi da Piero nell’Inventario della casa di campagna.

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ra: e infatti la guerra, a parte certi inevitabili inconvenienti, non è che una prolungata villeggiatura. Spero di potervi mandare presto delle fotografie di questi siti, che Policreti dovrebbe riportarmi sviluppate e stampate: e vedrete allora che il luogo dove mi trovo è bello e non superlativamente alpestre. Debbo però onestamente riconoscere che mancano quassù diverse comodità che voi godete; ad esempio: l’uva fragola al Poggio, le mandorle nel giardino, i fichi dottati maturi sull’aia e il trenino lungo la via... E i capperi? Inventeremo una salsa nuova: capperi affumicati alla vaporiera.

Canti di lodolini e usignoli 28 settembre 1916 Ebbi, ierisera, una lettera di Egidia la quale, nell’imminenza del tuo ritorno (la lettera è scritta il 23) si propone di occupare questi ultimi giorni di settembre in passeggiate campestri in tua compagnia. Oggi quassù pioviggina; ma è una pioggia locale, derivante solo dal continuo passaggio di nebbioni che, salendo su dalla pianura vicentina, sboccano, proprio qui, in Vallarsa. Credo però che al piano splenda un bel sole limpido, e che il bel sole riluca anche dove sei tu. E già, verso Poggiano, devono ormai cominciare i canti dei lodolini, che, quand’ero bambino, mi davano tanta malinconia, perché volevano dire l’abbandono dei campi e il ritorno ai libri di scuola. Anche ora i lodolini segnano il finir dell’estate: e intendono cantare malinconia... Al Novegno sentivo cantar gli usignoli; quassù i boschi non hanno più voce: forse si sono taciuti attoniti da tanto fragore. Il crudo passaggio degli uomini in lotta ha spopolato la selva dalle sue creature: soltanto un di questi giorni un soldato trovò, sotto delle foglie secche, un piccolo ghiro che dormiva di già e che si ridestò prigioniero. Ma riebbe, per mia intercessione, la libertà...

Incertezza sulla data del matrimonio Ada rimprovera Piero di aver manifestato incertezza, in una lettera del 22 settembre, sull’opportunità di non attendere la fine della

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guerra per sposarsi. In effetti, in tale lettera, Piero si diceva incerto tra l’ipotesi di un matrimonio per procura, l’attesa della licenza invernale o l’attesa che entro l’anno tornasse la pace, «che sola ci permetterebbe di assaporare senza un nodo alla gola la nostra felicità». Piero torna sui motivi della sua incertezza, pur orientandosi per le nozze durante la licenza invernale, prevista per novembre.

1 ottobre 1916 Eppure, per comprendere la mia incertezza, la mia incertezza spesso tragica e sempre infinitamente tormentosa, bisognerebbe che tu facessi la vita che io faccio, che tu vedessi quello ch’io vedo, che tu pensassi quello ch’io penso. E allora comprenderesti come, quand’io penso al nostro matrimonio celebrato prima che finisca la guerra, un’onda di paurosa tristezza mi riempie l’anima. E spero ancora nella pace vicina? Oh, che mi domandi! Tu non sai l’affanno di queste mie giornate che formano le settimane e i mesi e l’assiduo snervante contrasto tra la ragione che vede ancora lontana, indistinta ancora la meta, e le cieche irragionevoli speranze, che aspettano ogni giorno l’evento impreveduto, che illudono ogni giorno nel miraggio di una improvvisa fantastica resipiscenza di questa follia mondiale... [...] Quando venni a Montepulciano mi sembra di averti detto che, prima di decidere, volevo attendere tutto il settembre, perché ritenevo che dentro questo mese gli eventi avrebbero mostrato la piega che prendeva la guerra. Oggi siamo a ottobre, e la guerra non accenna, neppur lontanamente, a finire: è ora dunque di riprendere il discorso che un mese fa restò sospeso. [...] A Montepulciano, quando ti parlai di sposarci entro l’anno – magari per procura – tu non mi sembrasti, in conclusione, ostile alla proposta. Però, forse, i punti di vista dai quali partiamo per trovarci d’accordo in questa idea di un matrimonio sollecito, sono un po’ diversi. Tu speri così – e speriamo che tu non t’illuda! – di poter rubare al tempo un po’ di quella felicità che altrimenti ci apparirebbe ancora tanto lontana, di poter subito chiedere e donare alle nostre giovinezze innamorate quello che altrimenti esse dovrebbero ancora sospirare invano per tanti mesi. Io miro invece, senza farmi illusioni soverchie (so che fino a che durerà la guerra la lontananza sarà così amara come oggi è!), a tutt’altro: a im-

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pedirti di consumarti per un altr’anno ancora nella arida lotta per l’esistenza, che non ami e che ti logora; a darti forse la possibilità di raggiungermi ogni tanto quassù, per poche ore, come a una moglie meglio si addice che a una fidanzata; a darti soprattutto, per qualsiasi evenienza, diritti e condizioni di favore che le mogli degli ufficiali hanno, e non hanno le loro fidanzate. Purtroppo, poiché dura la guerra, questa infinita sciagura, non credo che si possa, in mezzo alla sciagura, sperare un po’ di felicità: si può solo tentare di correggere, di lenire, di alleviare la sventura. E per questo ho pensato e penso che è opportuno affrettare il nostro matrimonio. [...] Certo, anche senza conoscere le norme – quello che più mi impensierisce è l’autorizzazione, che credo necessaria, del Ministero della Guerra, per la quale chissà quante sono le difficoltà e i ritardi! –, penso che la miglior cosa sia profittare della mia licenza invernale, che calcolo di poter avere entro novembre. 2 ottobre 1916 Tanto sole, tanto azzurro, tanto verde nella tua gita al Trasimeno di cui mi parla la tua lettera di ieri: e qui c’è tanta nebbia, e l’azzurro si vede di rado, e il verde non c’è più... Ieri, nel pomeriggio, tanto per far passare in qualche modo le lentissime ore, scesi con Policreti alla strada di Pian delle Fugazze, e di lì ci spingemmo fino all’Albergo delle Dolomiti, abbandonato e silenzioso. Passammo senza parlare per i vialetti del parco, pestando le foglie cadute: d’intorno i faggi cedui, quei pochi che hanno resistito al passaggio della marea umana che tutto deturpa, mostravano rade chiome gialle e rossastre: e nella nebbia densa, di una triste tinta violacea, si perdevano i fusti biancastri scorticati dai denti dei muli, desolati e irrigiditi come scheletri. Non ti so dire quanta malinconia mi mise addosso quella visita all’Albergo delle Dolomiti, anzi al suo cadavere: chiuse tutte le finestre, dentro le quali un tempo olezzavano camere nuziali: aperta solo qualcuna, perché le imposte sono cadute e i vetri rotti da qualche rimbombo. E poi d’intorno, nella solitudine misteriosa, le tracce dell’oscuro flagello: qualche enorme imbuto scavato tra le aiuole da un proiettile in arrivo, qualche fondello di granata arrugginito in mezzo alle foglie cadute, un elmetto

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perforato gettato lì da qualche ferito che scendeva dal Pasubio... Poveri vialetti tortuosi fatti per gli idilli, povera terrazza fatta per le placide cene estive all’aperto, quando le farfalle vengono a svolazzare intorno alla lampada elettrica, e si fanno discorsi a bassa voce, e non si sta a sentire i soliti valtzer dell’orchestrina che ronza da una parte... Piero ha appreso che per il matrimonio non c’è bisogno dell’autorizzazione del ministero e che avrà una licenza nella prima quindicina di novembre: incarica dunque Ada di predisporre la documentazione necessaria per le pubblicazioni. Mentre è a Vicenza per una visita medica di controllo, riesce a fare una scappata a Firenze, che coincide con la morte della nonna di Ada.

RAOSSI

Il 22 ottobre il battaglione si trasferisce a Raossi, un paesino della Vallarsa.

23 ottobre 1916 Amore mio, una cosa meravigliosa ho da dirti: che ti scrivo da una stanza con l’impiantito di legno, il soffitto fiorito e le pareti di muro, da una stanza con due finestre, un tavolino, molte seggiole e una stufa – capace di essere accesa – di maiolica. È questa la stanza che, in mezzo alle molte case rovinate di questo povero paese – fatto bersaglio in epoche diverse dall’artiglieria nostra e da quella austriaca – abbiamo trovata intatta e scelta per la nostra mensa. [...] Ieri il Babbo mi ha scritto annunciandomi che le richieste di pubblicazioni, nonostante molte difficoltà burocratiche, sono state fatte in modo tale che dal 3 di novembre potrà avvenire il connubio. Non sorridere, non sorridere, amore. So anch’io che la cosa, detta così, considerata esteriormente, è un po’ buffona. Anch’io, quando penso a tutte le cerimonie preliminari, provo una voglia matta di fare una risata. Ma poi, ma poi... che infinita felicità che, al solo pensarla, fa venire negli occhi lacrime di commozione!

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25 ottobre 1916 Ho da darti una notizia che ti farà un pochino rannuvolare, e forse più di quello che meriti: la notizia che me ne vado dal mio vecchio 129° Battaglione, per entrare nel 218° Reggimento. C’è venuto l’ordine ierisera (anche Policreti viene con me) e partiremo domattina per Valli e per Valdagno, di dove ci indirizzeranno a destinazione. Credo che il Reggimento si trovi ora in riposo a Schio o in qualche paese vicino, e quindi, almeno per ora, vado a star meglio. Per il seguito poi ho buone speranze sul mio possibile richiamo alla cattedra. [...]

VALDAGNO

Un nuovo processo come avvocato difensore Il 27 ottobre Piero si reca a Valdagno per sollevare la questione della sua cattedra, in funzione di un congedo: «Ho parlato sul mio caso di professore che non fa lezione: spero che otterrò qualcosa». Mentre sta per ripartire, «m’hanno chiappato per affidarmi la difesa di un capitano detenuto qui che avrà il processo il 31 p.v. al Tribunale di Guerra di Valdagno. Sicché per cinque o sei giorni sono occupato così; e... dormirò a letto». A Valdagno riceve assicurazioni su un possibile congedo invernale nella sua qualità di professore universitario su iniziativa del Comando, anche grazie alle raccomandazioni del “Conte Zio”, Stefano Tarugi.

30 ottobre 1916 Nel pomeriggio di ieri fui a presentarmi al mio nuovo reggimento, dove trovai superiori e colleghi pieni di gentilezza, tantoché confido che mi troverò benissimo nella mia nuova sede. Sono stato assegnato a comandare la VII Compagnia, cosicché il mio indirizzo è ora 218° Reggimento Fanteria 7a Compagnia 32a Divisione. Non so di preciso quanto mi tratterrò a Valdagno: può essere che il processo duri anche tre giorni.

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2 novembre 1916 Ho finito da poche ore la mia fatica di difensore, la quale, per fortuna, è stata compensata da una completa assoluzione. Ed è questa, l’ultima sera che passo a Valdagno, poiché domattina, coll’automobile di Valli, me ne ritornerò a Schio e di lì, nel pomeriggio, a Fusine.

FUSINE

Il nuovo reggimento 4 novembre 1916, ore 71/2 Ho trovato gente gentilissima, più di tutti il colonnello che credo mi vorrà utilizzare per uffici avvocateschi. Non ho visto ancora la mia compagnia, la quale è qui vicina, in baracche; ma oggi, credo, andrò ad assumerne il comando. Siamo a riposo, più distanti dagli Austriaci di quanto fossimo a Malga Fieno. ore 22 Come sai, sono stato assegnato alla VII compagnia, la quale non è qui ma sul ponte, a qualche chilometro (il comando del reggimento è in basso, lungo la strada che corre parallela al torrente Posina, ma le compagnie sono tutte distaccate in borghi montani); ma il Colonnello, il quale, già te l’ho detto, è con me anche più gentile che con gli altri a causa del mio titolo (!) vuole che per ora resti a far servizio presso di lui al comando di Reggimento. Questo significa poter godere grandi comodità e sfuggire, specialmente in una sede scomoda com’è questa, a molti disagi: e significa anche – questo discorso lo faccio a te, perché so che ti consola; ma non lo faccio come militare! – stare abitualmente a quattro o cinque chilometri dagli austriaci anziché, come stanno le compagnie, a un chilometro o giù di lì. Per ora, dunque, resto qui a Fusine, o per dir meglio, a Bazzoni, che è un borghetto prossimo a Fusine, sulla stessa via Arsiero-Posina. Se tutti i giorni sono come oggi, la mia vita non è veramente molto disagiata o pericolosa. Sto dalla mattina alla sera chiuso in una stanza dinanzi a un ta-

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volino, a scriver poco e a legger molto i giornali; mangio alla mensa del Colonnello, la quale è anche più sontuosa, se è possibile, di quella del 129°; e la sera vengo a dormire in questa stanzetta imbiancata da poco di calce viva e solamente disturbata qualche volta dalle corse dei topi sopra il soffitto. La data della licenza continua ad essere imprecisata; Piero resta definitivamente assegnato al Comando, mentre Policreti viene messo a comandare la compagnia. Piero ha chiesto all’avvocato militare di Valdagno «di chiamarmi a difendere quante più volte sia possibile, poiché così potrò nei prossimi mesi recarmi con qualche frequenza a respirare l’aria vicentina»: Vicenza, infatti, non è zona di operazioni, e Ada potrà più facilmente raggiungerlo.

Cambio di colonnello Il colonnello Marchiori lascia il reggimento e viene sostituito dal colonnello Boris che continua a servirsi dei “lumi giuridici” di Piero. Pur conservando dunque la sua posizione al comando, Piero è amareggiato dell’allontanamento di «un uomo di rara intelligenza e bontà».

15 novembre 1916 Ieri partì il colonnello Marchiori: con gran dolore di tutto il reggimento e di noi tutti, che perdiamo così un amico intelligente e pronto ad aiutarci in tutto. Il colonnello che è partito ha parlato di me al colonnello nuovo, persuadendolo della opportunità di proporre per me il congedamento invernale: questi congedamenti devono essere proposti il 18 di ogni mese per poi esser decisi dal Comando di Corpo d’Armata alla fine del mese. E una delle ragioni per cui non ho insistito finora per andare in licenza è stato appunto il desiderio di esser qui il 18, per sorvegliare personalmente la presentazione della proposta. [...] Passano le giornate una uguale all’altra, meravigliosamente stupide. Mi domandavi, nella tua di ieri l’altro, perché c’è la guerra... Son tanti mesi che me lo domando, e nessuno ha saputo ancora darmi una risposta. Forse la legge che presiede al mondo ha voluto che, come accanto alla luce del sole esiste la tenebra not-

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turna, così vi fosse una cosa orribile come la guerra per far meglio apprezzare agli uomini una cosa meravigliosa com’è l’amore... 16 novembre 1916, ore 8 Mi domandi quali sono le mie mansioni al Comando. Mi par di avertelo detto: nominalmente sono ufficiale istruttore e censore, per le inchieste a carico dei militari accusati di qualche reato e per la revisione della corrispondenza. Ma in realtà faccio un po’ di tutto, secondo quello che via via le occasioni presentano: e molti giorni non faccio nulla affatto. Seguito a star qui anche col nuovo colonnello, il quale mi chiama professore e non tenente: il che dimostra che anche Marte si inchina alla sapienza. Seguito a mangiare alla mensa del Comando, dove, da quando è partito il colonnello Marchiori, si fa gran fatica a tener desta la conversazione e bisogna che ogni tanto mi sforzi a raccontare qualche facezia per ravvivare la atmosfera pesante. Vado a letto tra le nove e le nove e mezzo, e mi addormento mentre il capitano medico, nel suo gran letto, seguita a leggere il giornale che parla di guerra. Io odio i giornali: vengono quassù ogni giorno e ci raccontano come se ci interessasse che in Francia c’è la guerra, che in Russia c’è la guerra, che al Polo c’è la guerra, narrandoci novità sbalorditive: cannoni, trincee, granate... Auff! Non si può più neppure leggere i giornali.

[A Egidia Calamandrei] 18 novembre 1916 Carissima Egidia, nella tua lettera del 31 scorso, che ho riletto or ora, supponevi che il mio improvviso arrivo avrebbe reso inutile l’invio della lettera stessa. Oggi, dopo 19 giorni, pare che la corrispondenza epistolare abbia sempre la sua ragione d’essere, dal momento che io sono sempre qua, mentre tu, viceversa, sei sempre costà: e dunque, poiché di scrivere c’è sempre bisogno, scriviamo. Un bell’argomento di conversazione potrebbe essere questo: la licenza. Ma è un argomento ormai sfruttato nelle lettere ai ge-

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nitori, e non riesce facile imbastire su di esso variazioni nuove. Aspetto la licenza, lo sapete, di giorno in giorno; sono sicuro che dentro questo mese l’avrò; ma non forzo la macchina perché, in questi momenti di interregno nel comando di reggimento, ci vuol... tattica e politica, per mettere in valore (concetto pratico, metodo inglese: viva la Quadruplice!) l’opera mia che, finora, mi è costata e mi costa così poca fatica. Nella tua lettera del 31 mi domandavi se un comandante di compagnia, ecc.; in realtà chi ha il comando di compagnia, sia tenente o sia capitano, soffre disagi e pericoli assai minori di chi comanda il plotone. Ma qui, in questa zona, finché la stagione continua ad essere così favorevole (ossia nebbia vento e neve), i pericoli sono pochi per tutti, poiché l’inverno, saggiamente moderando i soverchi bollori degli animi in lotta (!) costringe a una beata inerzia ambidue (o, per dir meglio, calcolando tutte le fronti, ambiquattordici) i belligeranti. Finché dura l’inverno, dunque, le cosine vanno bene: la complicazione, invece, tornerà col ritorno della primavera. Maggio risveglia i nidi... Questo è il problema: lo direi in inglese come Amleto, ma lascio correre per non mi compromettere. Confidiamo nella divina Provvidenza: e intanto, coll’assistenza dell’Eterno Padre, continuiamo quest’ufficio di «addetto al comando» che mi dà alla mensa, fra il dottore e il cappellano, un notevole prestigio. E il bello è questo: che, nel disimpegno delle mie mansioni, io mi trovo spesso (con che core, Morettina) a dover fare da maestro di tattica e di altre misteriose arti militari a tutto il Reggimento. Un di questi giorni, per esempio, scrissi per incarico del Colonnello una lettera circolare a tutti i battaglioni nella quale spiegavo le norme che, a parere del Comando, erano le più opportune per eseguire le recognizioni oltre la prima linea. Mi pareva di essere l’Artusi: si fa così e così, ci si mette in una buca tra le rocce così e così, si guarda così e così, si misura così e così e... si serve caldo. Proprio come se da quando son nato, non avessi mai fatto altro mestiere che quello di imbastire recognizioni sotto le pallottole! Vi ho già detto che il colonnello Marchiori, che quando venni comandava il reggimento, ha dovuto andar via per ragioni che vi spiegherò a voce: eccovi intanto, affinché conosciate la sua simpatica figura, la sua fotografia fatta dinanzi a Pelle (il Comando ha sede in quell’ultima casa alta) poco prima della sua partenza. Ed eccovi anche la fotografia dei due prigionieri ungheresi pre-

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sa mentre essi uscivano dal nostro Comando, dopo aver subito l’interrogatorio, alla fine del quale, nonostante tutta la mia buona volontà di interrogante, manifestata in gesti descrittivi e in insinuanti borbottii gutturali, essi si ostinarono a rimanere più ungheresi di prima. Ho piacere che tu abbia trovato a Firenze una supplenza, che cumula i tre vantaggi del titolo, della sede e della vilissima moneta: mi narrerai presto a voce, se non hai tempo di scrivermi a lungo, come procede la tua fatica... cattedratica (non mi sovviene un vocabolo più acconcio: volevo scrivere cattedrale, ma mi pare che il significato sia un po’ diverso. E chi se ne ricorda più della lingua italiana?). Spero di darti presto in persona l’abbraccio affettuosissimo che, per ora, ti mando per iscritto. Piero

Matrimonio Piero ottiene finalmente la licenza (l’ultima lettera del 1916 dalla zona di guerra è del 28 novembre) e sposa Ada il 10 dicembre 1916. Il congedo invernale viene prolungato fino a maggio consentendo a Piero di occupare la cattedra di Diritto processuale civile a Messina, dove si trasferisce con Ada.

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VICENZA

Il 16 maggio Piero rientra in “zona di guerra”, sempre al 218° reggimento, di stanza in Val Posina, e riprende a scrivere quotidianamente alla moglie Ada, che vive a Firenze con la famiglia di Piero in via del Castellaccio. In attesa di raggiungere il reggimento, si ferma qualche giorno a Vicenza, ove è il Comando di tappa.

Vigne inselvatichite e conigli asfissiati dal cloro 16 maggio 1917, ore 81/2 Sono levato già da due ore, perché stamani, per una visita d’ispezione superiore, abbiamo dovuto un po’ anticipare la nostra levata. È, oggi, una giornata grigia e afosa, piena di noie e di sbadigli. Non c’è neanche un po’ di chiaro sole che sappia dirmi una parola di serenità. Ieri, nel pomeriggio, quando già avevo avuto colla posta la tua lettera piena di malinconia e di non espresso timore per i “movimenti” di questa fronte che nei giornali assumono proporzioni cento volte più grandi della realtà, sono andato col Colonnello a fare una passeggiata ad un paesetto vicino, ove ha sede un reparto appartenente al Reggimento: abbiamo fatto qualche chilometro di strada pianeggiante in bicicletta, in testa un soldato che faceva scansare i muli e rallentare le automobili, dietro il Colonnello e in coda io. Siamo passati attraverso campi fioriti di tanti papaveri e di grosse margherite, lungo torrenti coll’acqua azzurra come i fiordalisi, sotto muretti al di sopra dei quali le vigne inselvatichite da un anno di abbandono sporgevano i loro tralci rigogliosi alla rinfusa, non più educati e disciplinati da mano uma-

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na. Io, ultimo, e lasciandomi qualche volta distanziare per essere più solo e tutto con te, bevevo con una specie di ebbrezza l’aria ossigenata che mi batteva sul viso, e salutavo i fiori e il verde che mi fuggivano via ai due lati, e m’empivo i polmoni di quel profumo di campagna che vaporava d’intorno, così giovanile, così voluttuoso, così tuo, amore. [...] Dopo qualche chilometro di bicicletta, prendemmo una via mulattiera verso il monte; il Colonnello sopra un muletto, io dietro a piedi – mia preferita cavalcatura colla inseparabile macchina fotografica. Salimmo per un’oretta, giungemmo alla meta ove avemmo un adeguato rinfresco, e dove conobbi, tra gli altri, un ufficiale nato a Tunisi col quale rievocai quel mio fantasioso viaggio nei regni delle mille e una notte1 (la signorina Ada mandava allora delle cartoline illustrate di cortesia...)2... E ritornammo indietro con gli stessi mezzi coi quali eravamo venuti, attraverso una nebbiolina azzurra che disfaceva i contorni delle montagne, mentre i grilli cominciavano a far tremare l’aria come se il mondo rabbrividisse per quel frescolino frizzante che porta seco la sera... Alla mensa si giunge quasi sempre a fare le undici: parlando di tristi cose che sono sempre le stesse... Ogni tanto, però, nella conversazione viene fuori qualche oasi galante che, almeno, fa tacere per qualche minuto i racconti di trecentocinque e di reticolati. Ieri sera, per esempio, il capitanino tirò fuori dal suo portafoglio una serie di ritratti di fanciulle, che rappresentano una piccola parte delle sue conquiste amorose: una specialmente la presentò come la sua preferita, come quella del cuore... E il Colonnello, che è un piemontese di poche parole ma di parole chiare, prese questa sacra fotografia, e poi sentenziò: «Ma questa l’è un trombon» (alludendo alla mole piuttosto atletica della fanciulla). Uno scoppio d’urli e di risate si inalzò verso il capitanino, che restò un po’ mortificato. E allora il Colonnello, che è un uomo ancora giovane (ha 43 anni) espose le sue teorie in materia femminile, dettategli 1 Viaggio premio in Tunisia compiuto nel 1908, dopo la licenza liceale, rievocato in Profili tunisini sul «Giornalino della domenica», n. 6 e 7 del 1910, raccolto in La burla di primavera con altre fiabe, e prose sparse, Sellerio, Palermo 1987. 2 Vedi Ada con gli occhi stellanti, cit., p. 17, la lettera in cui Piero ringrazia Ada della cartolina spedita a Tunisi.

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dalla sua esperienza giovanile di brillante ufficiale degli alpini: disse che le sartine sono oche, le canzonettiste più oche ancora; intelligenti, invece, sarebbero le attrici drammatiche... Così, facemmo anche ieri sera le undici: poi uscimmo a tastoni nel buio, attenti a non sdrucciolare colle scarpe ferrate sui ciottoli di queste viuzze e ringraziando la guerra quando la scia di qualche riflettore nei suoi viaggi attraverso le nuvole, batteva per un istante sulla nostra strada, a rischiararci. Il giorno dopo Piero riferisce di una mattinata passata ad «assistere in una campagna qui vicina a certi esperimenti coi gas asfissianti, che non mi hanno divertito... lo capisci». E aggiunge alla fine della lettera: «Forse scriverò una novella: su un povero coniglio innocente che ho visto morire stamani asfissiato dal cloro». Il 18 si reca a Schio per avere notizie precise sulla dislocazione del reggimento e apprende che «è qui prossimo, a due ore di cammino, in mezzo a un bosco alto circa 500 metri sulle falde del Novegno che guardano Schio». Lo informano che il Colonnello lo attende per «farmi sbrigare numerose istruttorie in corso, il che mi fa sperare di potere domani annunciare che il mio indirizzo è al Comando». Poiché il reggimento è per il momento a riposo, spera di poter «lavoricchiare un po’ per la Cassazione», e chiede ad Ada di spedirgli un’opera del giurista tedesco Weiss, che vorrebbe tradurre.

CONTRADA BOSCO

Giunto al reggimento, il colonnello accoglie Piero a braccia aperte e gli riaffida la mansione di “ufficiale istruttore”. Ritrova «gli antichi ufficiali quasi tutti e il mio attendente che quantunque “tenga lergnie” non è stato ancora riformato». La sera del 20 si dilunga in una descrizione accurata del luogo e dell’alloggio, sempre avendo come metro di paragone i luoghi familiari della Toscana: «Siamo a un’altezza come quella di Montepulciano, forse qualcosa di più: gli alberi fruttiferi sono ancora, qua e là, in fiore con qualche fogliuzza verde tra il rosa; non c’è qui l’afa di Firenze e della pianura vicentina, ma neanche un freddo alpino (sono vestito come quando partii, con in più la camiciola più leggera)». Piero accenna con simpatia alla decina di persone che si riunisce a mensa: il colonnello, il capitano aiutante maggiore, il cappellano, il tenente medico, e altri quattro o cinque ufficiali. Il reggimento

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ha anche «una discreta banda, la quale ogni sera si raduna in circolo in un bel prato, come se fosse in Piazza Vittorio, e suona musica nostra: stasera l’ultimo pezzo era un riassunto della Cavalleria rusticana. E i soldati, poveri ragazzi, vengono tutti fuori dalle baracche, e formano intorno alla banda un gran folla pensosa. E quella musica la capiscono tutti: mentre, la guerra, qualcuno non la capisce...».

Difesa di otto soldati che rischiano la pena di morte Piero viene convocato d’urgenza, come ufficiale istruttore, al Comando di reggimento: dopo una camminata di trenta chilometri, scopre che «si trattava di difendere lì per lì, otto soldati imputati di un reato che comportava la pena di morte. Te la figuri la mia consolazione? Senza aver dormito, con quella camminata, mettermi senz’altro a un compito di quella razza? Il processo ha avuto luogo: sei assolti e due condannati a molti anni di reclusione, ma non fucilati. Sono stato soddisfatto del risultato ottenuto in sì perfetta preparazione».

24 maggio 1917, ore 18 Una dormita di dieci ore, fino a stamani alle 8, ed una giornata di quasi assoluto riposo hanno rimesso in perfetto ordine la mia persona che ieri sera era alquanto sconquassata. E mantengo la promessa che ieri sera ti feci con tanta laconica stanchezza di scriverti oggi un po’ più per benino. Dopo averti scritto quelle due paginette, ieri sera, trovai sellato il mio muletto che si chiamava, mi disse il mulattiere, Pascariello: vi salii con discreta agilità, mi misi in viaggio verso il monte, per sentieri in mezzo al bosco che mi permisero di arrivare quassù in meno di due ore. Pensavo a te, durante il viaggio sul mulo, e mi veniva il sorriso sul labbro pensando a quanta ilarità ti avrebbe procurato la visione del mio atteggiamento di perfetto cavalcatore: con in mano una rosa odorosissima che avevo colto per via, e con sotto un braccio una busta di cuoio giallo ove avevo portato le carte dei processi. Le campagne vicine attraverso le quali passavo ieri sera sono, ora, di una meravigliosa freschezza: prati di un verde cupo tutti rugiadosi nel velo azzurro di non ti scordar di me, boschi che hanno messo le foglie nuove da pochi giorni, collinette dolci come quelle di Fiesole. Non sentivo neanche più la stanchezza, ieri sera, tanta era la gioia di quella cam-

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pagna così serena, così lontana dalla guerra: pensavo di ritornarci con te in un’altra primavera... Ma il viaggio che feci nella notte scorsa non fu divertente... Per un paio d’ore andai in compagnia di un soldato il quale doveva portarmi per una mulattiera attraverso i monti, fino a raggiungere nell’altra vallata, la via carrozzabile. Lì giunti, verso la mezzanotte, ci lasciammo: ed io proseguii la mia strada solo soletto, in mezzo a contrade sulle quali la guerra ha portato la sua desolazione tetra. Feci così chilometri e chilometri senza trovare un’anima viva: di qua e di là avevo monti neri neri che si profilavano aguzzi sopra le stelle, e dinanzi la striscia biancastra della strada interminabile. Ogni tanto si accendevano sulle vette, di qua o di là, i raggi lividi dei riflettori che battevano improvvisi su qualche picco conteso, si incrociavano come lame di spade, giravano il cielo enorme come code di comete e si spengevano a un tratto; ogni tanto nelle anfrattuosità delle rocce qualche lontano boato echeggiava. Niente altro di vivo. E io andavo andavo senza neanche vedere il lumicino delle novelle, sfogandomi a fumar sigarette: e passavo attraverso aggruppamenti di macerie che furono paesi, e vedevo il cielo stellato attraverso le finestre vuote come occhiaie. Passai [... censura] deserta e rovinata; e lì trovai per le strade abbandonate dagli uomini una strana vita animalesca: un fuggi fuggi di topi grossi come gatti, che attraversavano la strada dinanzi a me e si rincorrevano stridendo e davano alle case diroccate bizzarri scoppiettii che mi facevano volger la testa e soffermare il passo. Proseguii così per molte ore, sempre per una lunga strada maestra pianeggiante incontrando soltanto due o tre volte qualche gruppo di mulattieri. A un certo punto un divino odore di acacia mi circondò e mi carezzava, come a ricordarmi che, anche in quella solitudine, tu vegliavi su di me: e mi accorsi di traversare un viale di acacie in fiore, i cui grappoli bianchi si intravedevano nell’ombra. Giunsi alfine al luogo dove dovevo lasciare la via maestra e dove trovai finalmente un reparto di soldati: mi feci dare un mulo, perché credevo di dover salire su una vetta ov’è il Comando di Reggimento a cui ero diretto (lo stesso luogo credo, ove andrà – nei soliti paraggi – il nostro Reggimento quando finirà il riposo) e feci così un’altra oretta per la montagna: ma lassù mi fu detto che dovevo tornare indietro, giù in basso, perché dovevo fare da difensore. Tornai in giù a piedi, mentre l’alba incominciava a imbiancare le cime, preoccupato di dover assumere un ufficio così grave in tale stato di

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stanchezza. Tornato alla strada maestra, seppi che in una casa dormiva un ufficiale, e gli andai a chiedere ospitalità per un’oretta: mi sdraiai in terra, su un giaciglio di cappotti. Alle sei mi alzai, mi lavai il viso, presi un po’ di caffè che mi mise a nuovo, e andai a fare l’avvocato: nell’interno di una grande chiesa piena di soldati, adibita a tribunale. E lì dimenticai la stanzetta: ed ebbi la consolazione di non dovere assistere a una tragedia... In questo momento sento la banda del reggimento laggiù tra le baracche che suona la marcia reale, l’inno inglese e la Marsigliese: forse per festeggiare la notizia della vittoria sul Carso3 che ci è giunta poco fa: speriamo che le cose continuino così, come tutto promette che continueranno. E forse non avremo da aspettar tanto... Ieri il Generale, dopo essersi congratulato con me per il risultato della difesa ed aver rimproverato il suo aiutante per avermi fatto venire a piedi, mi disse che d’ora in avanti si servirà di me per i processi della Brigata: ti dico questo perché ciò vuol dire che potrò andare ogni tanto a difendere al Tribunale di guerra ch’è in una città, e quindi avere ogni tanto una parentesi di civiltà e una notte di letto. Piero è in pensiero per la salute di Ada, incinta, e le sue lettere sono piene di raccomandazioni a curarsi. Pensa con nostalgia alla vita insieme a Messina e deplora la guerra che ha intralciato il viaggio di nozze. Vorrebbe chiamare il nascituro o nascitura “Pace”, «se non fosse un nome musicalmente poco simpatico». Le sue giornate sono molto intense «poiché in un reggimento composto di molte migliaia di uomini non passa giorno che non avvenga qualche fatto il quale dia luogo a inchieste». Come ufficiale istruttore, passa le giornate «a interrogar soldati e a stendere verbali degli interrogatori».

Il menu della mensa 30 maggio 1917 La tua lettera del 28 è piena di domande curiose: vuoi avere tutti i particolari della mensa. E poiché stasera la mensa, come poi ti dirò, è proprio un argomento d’attualità, contenterò il tuo desi3

La conclusione vittoriosa della decima battaglia sull’Isonzo.

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derio. Sappi dunque che la mattina appena esco di qui e prima di salire in ufficio prendo alla mensa un discreto caffè-latte con una fetta di pane, fetta che le prime mattine era arrostita, ma che poi per ordine mio diventò senza arrostire, perché l’arrostitura equivaleva sempre ad una affumicatura. Il pasto di mezzogiorno e quello della sera sono composti sempre collo stesso sistema, senza differenza alcuna tra pranzo e cena: qualche volta, ma di rado, c’è dell’antipasto, salumi o acciughe; poi, normalmente, la minestra, asciutta la mattina ed in brodo la sera, un piatto di carne con contorno, formaggio e frutta. Per scendere a maggiori particolari, resi interessanti dalla tua ormai provata intelligenza domestica, ti dirò il menu di oggi. A mezzogiorno, maccheroni al sugo, fritto di cervello, carne e carciofi; stasera, minestra coll’erbe, polpettone con patate fritte. Le frutta consistono sempre in aranci, noci, mandorle e nocciuole. Abbiamo, mattina e sera, un ottimo caffè molto forte e molto abbondante: qualche volta, dopo il caffè, un bicchierino di Strega; mai dolce. Come vedi, il programma non è malvagio; ma c’è un male; che, cioè, il cuoco non sa cucinare, il che produce due inconvenienti; cioè, primo, la frequente imperfezione delle pietanze, secondo lo sciupio enorme di condimenti e la conseguente altissima quota giornaliera. Stasera, appunto, si sono fatti i conti della mensa: ed è venuto fuori che il nostro debito era di L. 4,80 al giorno, più la lira giornaliera di viveri in natura che ci spettano. Ossia una spesa di quasi L. 6 al giorno che, per quassù, è un vero orrore. Finora era Direttore di mensa il Dottore, e stasera, vedendo che noi eravamo un po’ impressionati per la spesa così rilevante, egli voleva dare a tutti i costi le dimissioni, trasferendo a me il difficile incarico. Ma tutti lo abbiamo riconfermato nella carica, facendogli promettere che troverà un cuoco più capace, e sopra tutto che si economizzerà negli inviti a pranzo e nei rinfreschi agli ospiti, che, data la continua affluenza di ufficiali che vi è a un comando di reggimento, portano via molto. Piero passa ore in conversazione con il pastore evangelico, il cappellano assegnato al reggimento: «parla di Cristo e del Vangelo collo stesso tono con cui le indovine sulle piazze predicono la sorte o i ciarlatani vendono il lucido infallibile per le scarpe. Oggi, alla mensa di mezzogiorno, vedendolo pensoso, gli ho domandato: “A che pensi, Del Rosso?”. “Penso che potrebbe giungere stasera”. “Chi?”. “Il figlio dell’uo-

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mo, il Cristo...”. Ed io: “Sarebbe una bella improvvisata. Dove si metterebbe a dormire?”. Stasera, mentre si mangiava il polpettone (non mai buono come quello che le tue mani confezionarono a Messina), m’ha detto gravemente: “La fede è la mano del cuore che afferra la grazia dai cieli”. È un bell’indovinello: e l’abbiamo seppellito sotto le risate». La prima settimana di giugno vede un succedersi di banchetti in onore del nuovo colonnello Pugliani, proveniente dagli alpini, che sostituisce Zampieri, ammalatosi di febbri malariche: i battaglioni fanno a gara a imbandire leccornie (salmone, fragole, gelato alla crema). Si prepara il trasferimento dalla zona di riposo alla zona di guerra: Piero non può dare dettagli sulla dislocazione, ma rassicura Ada che è la medesima dell’anno precedente, sul fronte trentino: «Tu, che non sei una sciocca, avrai tanto discernimento da capire che il fronte trentino è lungo parecchie centinaia di chilometri e che, se qualcosa avviene in una parte di esso, le altre parti non ci hanno nulla a che vedere. Sopra tutto devi ricordare quello che ti ho detto tante volte: che il settore dove va il nostro reggimento è, per ragioni topografiche e tattiche permanenti, destinato continuamente alla calma».

COLLE PASQUALI

Giunto il 12 in zona di guerra, nella stessa dislocazione del novembre 1916, Piero descrive nella lettera del 13 giugno la sistemazione della sua camera ad opera dell’attendente Fuscà, accompagnando il testo con disegni dei mobili: «Fuscà, che è legnaiolo, mi ha fatto oggi una serie di mobili uno più bello dell’altro, in modo che penso di proporgli di venire, a guerra finita, ad ammobiliarci la casa».

La censura 15 giugno 1917 Amore mio, la posta di ieri mi portò insieme tre lettere tue, due arretrate ed una, quella dell’11, giunta senza indugio più lungo di quello solito: questa ultima era stata anche verificata dalla censura... Povera censura, non si sa cosa cerchi nelle lettere tue dirette a me... Forse hanno paura che tu mi parli con notizie troppo det-

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tagliate dei cannoni antiaerei efficacissimi che sono sulle colline fiesolane o sul campanile di S. Miniato, o della rivestitura precauzionale che imprigiona il Perseo in piazza della Signoria: tutte cose altamente importanti dal punto di vista guerresco. O forse, vedendo sulla busta scritta per traverso il tuo carattere grande ed elegante, qualcuno ha sperato di poter leggere, tanto per passare un quarto d’ora, la lettera di una innamorata: e non ha errato... Pazienza, amore: ma la lettera tua del 10, che rievoca con tanta passione la nostra felicità di sei mesi fa, non è stata profanata. Il 19 giugno, approfittando di un processo a Thiene, Piero riesce a fare una scappata a Firenze e nei giorni successivi rievoca le ore trascorse insieme e la fuggevole visione di Firenze, «quasi fantastica e irreale, così breve essa è stata: la Cupola dalla terrazza, ove tu ridevi sotto il tuo cappellino rosso colle tese rivoltate, Piazza della Signoria, il Lung’Arno fuggente nel polveroso luccichio del tramonto».

Dibattimento in chiesa 28 giugno 1917, ore 9 Amore mio, la lettera che iermattina ti scrivevo verso quest’ora, rimase interrotta, perché, come ti accennai, mi arrivò all’improvviso per telefono l’ordine di recarmi al Comando di Brigata, che è a mezz’ora di cammino da qui, per un tribunale straordinario contro un soldato. Andai giù subito, e siccome il processo doveva aver luogo alle sei del pomeriggio, ebbi tutto il tempo di studiare le cose con comodo e quindi la possibilità di assumere la difesa con minore impreparazione di quanto mi capitò l’ultima volta. A mezzogiorno mangiai alla mensa del Generale, – e c’erano nel menu delle grosse trote lesse, delicate e saporose, che mi fecero pensare alle sogliole trovate dopo lunghe ricerche alla pescheria di Messina: dopo le trote, fu servito perfino un piccolo latte alla portoghese per ciascun invitato, il quale però non aveva quel sapore sano e schietto che ha il “portoghese” materno. Dopo mangiato passai diverse ore a studiare la causa, rifugiandomi, per esser libero, nella chiesa lì prossima, povera chiesa abbandonata in cui non vengono più le parrocchiane: e nella chiesa ebbe poi luogo il

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dibattimento, che dalle sei si protrasse fino alle undici della sera. Io parlai molto tardi, quando era già notte, e due candeline illuminavano scialbamente l’interno della chiesa, che pareva più grande, e, nella penombra, i plotoni di soldati che inquadravano il tribunale. L’avvocato fiscale chiese la fucilazione; io chiesi – poiché l’assoluzione non si poteva chiedere, perché il reo era confesso – la pena di una diecina d’anni di reclusione. E il Tribunale, infatti, accolse le mie richieste, in modo che verso mezzanotte me ne tornai quassù coll’animo in pace e contento di me...

Malinconia per le lucciole 30 giugno 1917, ore 91/2 La notte, anche quassù, è costellata di lucciole, che di giorno dormono nel calice dei fiordalisi e dei papaveri, e che, quando vien l’ombra, cominciano la loro danza di scintillii, come se anche quassù ci fossero per i sentieri dei boschi tacite coppie di amanti, per rischiarare ad esse la strada. Ma qualche volta, alle povere lucciole che anche ierisera guardavo vagare intorno alla mia casa, accade di imbattersi nell’aria nel raggio luminoso di un riflettore, entro il quale la loro piccola fiammella si estingue e scompare vinta da quel prepotente balenio crudo d’artificio, inghiottita come una fogliuzza in un vortice impetuoso... E allora, amore, la malinconia per le lucciole mi pare che somigli alla malinconia nostra: presi inconsciamente e inaspettatamente da questo fatale vortice che è la guerra...

Disposizioni per la futura nascita del figlio Piero cerca di definire con Ada il «programma dei prossimi mesi», auspicando che rientri da Montepulciano a Firenze per il parto, previsto per settembre, accompagnata da Egidia. Le notizie dell’offensiva russa ai primi di luglio schiudono «uno spiraglio di luce nel nostro grigio avvenire». Il nuovo colonnello offre una conversazione «abbastanza svariata»: avendo sposato una parigina, conosce bene la letteratura francese; è pittore ed anche amatore di musica: «Sicché si può ogni tanto fare qualche digressione che non abbia per tema i cannoni». L’ami-

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co Policreti arriva al 218°, dove Piero è riuscito a farlo trasferire, e condivide l’alloggio con Piero. Ada cerca una sistemazione a Firenze, un “quartierino” dove stabilirsi, e Piero, nell’ipotesi che la guerra possa finire entro l’anno, consiglia un appartamento ammobiliato in cui vivere in tre finché lui non conoscerà la propria sede stabile (accenna ad un concorso a Genova) e godrà dello stipendio di ordinario. Riferisce di aver scritto al padre quanto ai programmi per il futuro: «gli ho detto che tu a settembre ritornerai a Firenze perché vi troverai maggiori cure ostetriche e quella libertà che a Montepulciano, con parentele e amicizie, non potresti avere; gli ho detto che tu in quei giorni non desideri altro che la solitudine; che andrai alla Maternità, a meno che il Ferroni giudichi che le tue condizioni siano così buone e promettenti da permettere che l’evento avvenga in casa nostra. Gli ho detto che i giorni precedenti li passerai in casa nostra coll’Adele, e che dopo andrai in un quartierino mobiliato». Queste disposizioni, discusse nei dettagli nelle lettere con Ada, sono connesse al “carattere” del padre, che evidentemente Piero non vuole disturbare, e alla sua contrarietà all’idea che Ada si appoggi alle cugine a Montepulciano. Sapendo Ada ormai al villino a Montepulciano, immaginando che abbia già incontrato Clelia e Lidia, Piero scrive: «Non voglio sapere da te nulla che mi faccia inquietare e che rappresenti una sia pur lievissima intromissione in quelli che sono i nostri piani...». Il 14 luglio Piero accenna ad un biglietto di Rodolfo «destinato a persuaderci di restare in casa anche col pargoletto», al quale risponderà «nel senso che vuoi tu». Esprime anche tutta la sua perplessità rispetto alla possibilità che Ada, a Montepulciano, vada a dormire in paese dalle cugine, come Clelia vorrebbe: «Ho sempre sentito dire che si invita a pranzo, ma non che si invita a letto! Non ti pare? Dunque la tua casa è al Villino». Su questo desiderio di tenere Ada al Villino dovrà però cedere, dopo molte insistenze di Ada e della stessa madre Laudomia, che invoca un argomento di salute per evitare ad Ada di far troppo spesso la spola tra il Villino e il paese. Piero autorizza Ada a trasferirsi due o tre giorni dalle cugine, e apprenderà con disappunto che ci si è trattenuta due settimane.

Sigarette 19 luglio 1917 Amore una volta mi domandasti se quassù fumo molto. Come sai, abbiamo qui trentacinque sigarette per settimana gratis: ed io le

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fumo sempre tutte. Ma siccome mi ha sempre dato noia il tabacco che resta sulla lingua (io non ho nel fumare la delicatezza delle tue labbra che sfiorano appena la punta della sigaretta) mi sono fatto un bocchino colle cannuccie di una delle stoie che qui, come ti ho detto, coprono e mascherano ogni stradella. Ho lavorato a questo bocchino qualche ora: l’ho fatto di tre pezzi di canna di uguale lunghezza, ma di diverso diametro, in modo che il più piccolo entra a perfezione in quello di mezzo, e questo nell’ultimo che è il più grande: in bocca sta il cannellino più piccolo, e all’altra estremità sta la sigaretta. In tutto, compresa la sigaretta, il meccanismo è lungo una quarantina di centimetri: in modo che quando alla mensa lo tiro fuori di tasca e lo metto in funzione, urla di ammirazione salutano la sua apparizione e il Colonnello ride asserendo, da pittore quale egli è, che quel bocchino è in istile col fumatore.

Gatti e topi Per dare la caccia ai topi nella sua stanza, Piero si fa trovare un gatto, che l’attendente Fuscà lega ad una corda fuori della camera; disturbato nel sonno dal suo miagolio, Piero taglia la corda e lo fa scappare.

25 luglio 1917, ore 9 Un cattivo topo più audace e più indiscreto degli altri mi ha fatto stanotte uno scherzo quasi sacrilego. È salito sul tavolino che è accanto al mio letto e dopo aver fatto una passeggiatina fra la sveglietta e l’astuccio dell’inchiostro stilografico, ha dato una spinta all’uovino rosso che conteneva quattro fiordalisi e quattro rose e i fiori di malva, e lo ha gettato in terra. Mi son svegliato al colpo, e alla scarsa luce di cui l’alba già tingeva la stanza, ho veduto che sul tavolino mancava l’oggetto più caro. E allora sono balzato giù sullo scendiletto di stoia e mi sono messo disperatamente alla ricerca: ed ho ritrovato l’uovo intatto, trionfalmente intatto, che, come unica protesta contro l’oltraggio, si era limitato a spargere in terra il suo piccolo fascio di fiori. Stamani però, verso le 7, è giunto inaspettatamente il rimedio contro questa crescente traco-

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tanza dei topi: è giunto, cioè, un soldato il quale, avendo udito, qualche giorno fa, che io cercavo un gatto, ne ha trovato uno piccino in una di queste borgate disabitate e me lo ha portato dentro un sacco. Pare che questa bestioletta, la quale è tutta nera ed ha ancora gli occhi imbambolati dei gatti... in fasce, sia di indole molto più malleabile del suo selvaggio predecessore: tanto è vero che dopo aver mangiato con foga inverosimile, dopo una nottata di digiuno passata nel sacco, tutto quello che Fuscà le ha portato, si è messa a dormire sul mio letto ancora disfatto, sul quale è salita da sé. E ora è lì che dorme (io ti scrivo stamani dalla mia camera), dando affidamento che d’ora innanzi i topi troveranno qui chi saprà loro sbarrare il passo. 28 luglio 1917 Ti scrivo stamani con un po’ di malinconia, ossia, per meglio dire, con malinconia più acuta del solito: perché oggi il nostro buono e bravo Colonnello se ne va dal Reggimento, per andare a raggiungere un altro Comando più importante e per lui più sodisfacente. Egli è contento, e considera questa faccenda come una fortuna per la sua carriera; ma noi siamo restati tutti seri seri per la notizia, nella timorosa attesa del successore che non sappiamo ancora chi sarà... Pazienza, la guerra è fatta così: si sta per qualche settimana con una persona, ci si impara a conoscere e a stimare, e poi all’improvviso un brusco cambiamento di scena porta sul teatro altri attori che forse, quando il tempo ha permesso di conoscerli, non sono poi molto peggiori dei precedenti... 30 luglio 1917 Non ho da raccontarti nessuna novità mia. Il nuovo Colonnello per ora non è giunto, né si sa chi sia. Ieri ho passato una giornata di ozio quasi perfetto: ho continuato a leggere le Novelle del Musset, ho fatto un lungo sonno nel pomeriggio, ho fatto un bagno, quasi delizioso per questi posti... E stanotte le mie avventure notturne tutte intessute di topi e di gatti non hanno vista interrotta la loro serie già così variata. Senti: ti scrissi ieri che avevamo accolto qui in camera un nuovo gattuzzo bianco, selvatico in modo impressionante. Ora senti cosa è successo. Ieri, verso mezzogiorno siccome questa bestioletta era stata tutta la mattina rincantucciata sotto il letto

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di Policreti soffiando ogni volta che qualcuno le s’avvicinava, tentai di prenderla per ammansirla. Allora il gattuzzo si impaurì anche di più, cominciò a correre all’impazzata di qua e di là, e finalmente s’arrampicò su una delle pareti di stoia, e sparì su, tra i travi del soffitto. Cercammo, chiamammo, ma il gatto più non si vide. E credevamo che fosse andato via. Ieri sera a mezzanotte vengo qui in camera, io solo, perché Policreti aveva sempre da fare. Mi spoglio piano, piano, entro nel mio lettino rincalzato come un sacco, leggo per un’oretta il libro francese che ti ho detto: poi, ecco Policreti: quand’anche lui è a letto, spengo il lume. E appena spento il lume, oh dolce sorpresa! Il gatto selvaggio, nascosto fra i travi, comincia a miagolare, prima pian piano, poi sempre più forte, con urli rabbiosi di bestia famelica. Lo sopportiamo per più d’un’ora senza poter dormire, poi, verso le tre, mi levo per veder di provvedere. Mi rivesto, m’arrampico su fino ad aprire una delle stoie che formano il primo soffitto della nostra camera, e mi affaccio colla testa al disopra. Policreti ride di veder la mia rabbia. Il gattino, appena acceso il lume, si zitta e non mi riesce di scoprire dove sia. Dopo le tre mi riaddormento, dopo aver preso la decisione eroica di dormire col lume acceso e colle mani premute sugli orecchi... Ridi, ridi, di queste mie sciagure: le quali dimostrano ancora una volta la sapienza di chi, assolutamente, non vuole gatti in casa.

Una piazza intitolata a Cesare Battisti Il 2 agosto Piero comunica che deve difendere al Tribunale di Guerra due ufficiali, uno dei quali «imputato di essere fuggito per qualche giorno a casa senza permesso». Piero annuncia che «si inaugura in un di questi paesetti abbandonati una piazza intitolata a Battisti: ed io debbo fare il discorsetto ai soldati. E bisogna che mi prepari un po’». Si preannuncia anche la messa a riposo del reggimento, ma Piero resterà al Comando di brigata, con la promozione a capitano.

6 agosto 1917, ore 9 Stamani ho sentito la carezza fresca e frizzante dell’autunno: dell’autunno ch’è già arrivato quassù tra la nuvolaglia e che la matti-

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na entra dalle fessure della finestra a dare un brivido ai poltroni dormenti. Mi sono levato dopo un bel sonno di nove ore ed ora sono riposato della stanchezza più morale che fisica dalla quale ero preso ieri sera, dopo la cerimonia inaugurale nella quale io, in una piazzetta circondata di casette deserte e sforacchiate dalle granate, parlai, in tenuta di combattimento (perfino avevo sulla testa l’elmo!) di Cesare Battisti, in presenza del generale, del colonnello e di molte centinaia di soldati... Ti accennai ieri a un mio possibile trasferimento al Comando di Brigata: e ora, siccome la cosa è definitiva e ne ho avuta ierisera la conferma del generale, posso dirti chiaramente quello che da diversi giorni prevedevo, ma che non volevo dirti per non darti notizie premature. Andrò al Comando di Brigata, che risiede stabilmente non lungi da qui, tra due o tre giorni, forse il 9: mi metterò lì per impratichirmi del servizio a fianco del capitano aiutante di campo, per poi probabilmente, quando il capitano sarà promosso maggiore, ed io capitano, prendere io il suo posto stabilmente... Lascio così la compagnia non antipatica di ufficiali che mi circondava, lascio il mio buon Policreti e forse dovrò lasciare anche Fuscà, se il generale ordina che prenda uno degli attendenti già stabili alla Brigata. Il Reggimento, intanto, se ne va a riposo per un mese, ed io resto qui.

FUSINE

Da Vicenza, il 10 agosto, Piero comunica ad Ada che andrà a Fusine, «mio nuovo soggiorno, distante circa due chilometri da Colle Pasquali ov’ero finora». Il giorno seguente descrive la nuova sistemazione: «una bella camera, quasi degna di ricevere anche te».

11 agosto 1917 È un appartamento addirittura principesco! Ma ancora più principesco è l’edificio ove ho la stanza d’ufficio e dov’è la mensa. È una casetta quadrata sul tipo del Villino, formata di otto stanze, quattro a terreno e quattro al primo piano: al primo piano sta il Generale e l’aiutante di campo, al terreno c’è la cucina, la sala della mensa e, per ora, il mio ufficio. Sono stanzette piccoline, tutte uguali, tutte bianche: intorno alla casetta c’è un bel giardino fio-

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rito di giorgine e di gerani. Era la casa di un prete... A una trentina di metri c’è la chiesa, grande e bianca, con un gran campanile che si vede da molte miglia lontano. Stasera, dopo cena, siamo andati in chiesa – io ed il capitano aiutante di campo – insieme col cappellano che è un frate francescano: e questi ha cominciato a suonare sull’organo, che è discreto e abbastanza intonato. E dopo un po’ ch’egli suonava musica sacra non molto variata, il capitano ha preso a forza il suo posto, ed ha cominciato a suonar pezzi d’opera. Tra gli altri la Butterfly, «un bel dì vedremo»: ed era un’impressione strana e nuova e quasi commovente quella di udire nella vasta chiesa, resa più vasta dalle ombre del crepuscolo, la voce austera e grave dell’organo suonare quelle malinconie di profano amore. 14 agosto 1917 Mi chiedi notizie del mio discorso per Battisti. Fu la sera alle sei, in un gruppo di case disabitate e sconquassate che hanno in mezzo uno spiazzato: il Generale vi aveva fatto apporre nel mezzo un ritratto di Battisti dipinto su una tavola, e una tabella «Spiazzo Battisti». E volle che l’inaugurazione fosse fatta con solennità. Vennero molti soldati armati e inquadrati, il Generale e il Colonnello e molti ufficiali. Io mi misi nel mezzo e parlai per una mezz’ora, con stile semplice e chiaro per farmi intendere ai soldati. Mi dissero (senti che frase modesta) che parlai bene, e quando in fondo il Generale corse per il primo a stringermi la mano, vidi – io che avevo gli occhi ben asciutti – che li aveva un po’ luccicanti. Policreti da principio non voleva venire perché, non avendomi mai sentito parlare, stava troppo in pensiero: invece poi mi raccontò che, dopo aver tremato più di me fino all’inizio della cerimonia, si rinfrancò subito appena sentì dalla mia voce che ero padrone dell’ambiente e osò perfino, durante il discorso, guardarmi per due o tre volte colla coda dell’occhio. La scena era quasi eroica: figurati un quadrato di qualche centinaio di soldati, con elmi e fucili; vicino il torrente che canta, il sole che tramonta roseo tra i neri vertici. Intorno casette deserte, colle finestre aperte come occhiaie di scheletri, senza un viso di donna o di bambino che s’affacci. E in fondo un torvo monte misterioso che spia con mille oc-

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chi austriaci e che forse prepara per l’oratore e gli ascoltatori un rumoroso saluto...

«Temprarsi a questa ruvida scuola» 18 agosto 1917, ore 61/2 Mentre ti scrivo, ricomincia a scrosciare la pioggia sulle pareti della tenda. Pasini è lì, accanto al suo giaciglio, che fa l’inventario dei danni prodotti dal temporale nella nottata; paglia inumidita, coperta zuppa, pietre sconnesse alla base della tenda... Eppure non sono affatto questi piccoli inconvenienti materiali che fanno il tormento di questa vita: dormir vestiti, esser bagnati dalla pioggia, soffrire talvolta la fame e la sete (qui non succede, intendiamoci, ma m’è successo assai di frequente nel maggio e nel giugno), sono trascurabili cose alle quali si rimedia con un po’ di filosofia. Forse le nostre generazioni, sempre più abituate alle mollezze della vita comoda, avevano bisogno di temprarsi per qualche mese a questa ruvida scuola... Ma quello che tormenta è il disagio dell’anima: la continua invincibile malinconia che non dà tregua e che ogni giorno, anche attraverso le più liete notizie aumenta e incrudelisce. 20 agosto 1917 Ieri sera, come ti avevo preannunciato, è andato via il generale Franchi, il quale non poteva trattenere le lacrime lasciando la sua Brigata e i suoi ufficiali ed anche questi suoi luoghi che conosceva a palmo a palmo e che, come altra volta ti ho detto, erano stati trasformati da lui in una specie di pomario dovizioso d’ogni prodotto. Colla stessa automobile con cui è partito il gen. Franchi, è giunto il nuovo generale Rolandi Ricci, che non vuol essere chiamato generale, ma colonnello, perché è colonnello coll’incarico del grado superiore (ossia, come si chiamano, “colonnello brigadiere”). È molto giovane, sui quarantacinque anni, e sembra molto più giovane di quello che è, perché è tutto raso. Stamani ha subito iniziato, insieme col Capitano, le gite sulla linea per conoscere il terreno.

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23 agosto 1917, ore 7 Ebbi ieri l’altro l’annuncio che il 25 ossia domani l’altro (sabato) ha luogo a Thiene uno dei due processi nei quali fui nominato difensore prima di venire qui alla Brigata: quello di sabato è un caso antipatico e certamente è inevitabile una condanna a qualche anno di reclusione. Sicché vado là neppure colla soddisfazione di poter riuscire a qualcosa di buono. Partirò domani nel pomeriggio, andrò subito a parlare coll’imputato, dormirò là e tornerò sabato finito il processo, forse nelle ore antimeridiane poiché sarà una cosa lesta. Poi tornerò qui, a ricominciare questa vita di milite impiegato che ogni giorno si ripete senza variazione. Pensa che ogni mattina, verso le nove, arrivano quattro o cinque enormi buste gialle, piene ciascuna di fasci di carte: e ogni carta ha bisogno di essere registrata, e classificata, e letta, e ogni risposta ha bisogno di essere studiata in una selva intricata di regolamenti e di istruzioni che da ventisei mesi di guerra diventa sempre più folta e sempre più impraticabile. In questo lavoro, interrotto solo da frequenti chiamate al telefono e da continui picchiettii discreti di persone che bussano alla mia porta e che s’affacciano a dirmi qualcosa, si consumano le ore; senza che mai vi sia un diversivo o una tregua. Il capitano vorrebbe skatinare sull’impiantito liscio della chiesa che in quest’inverno aveva appunto ridotto a sala di pattinaggio; ma il cappellano si oppone risolutamente dicendo che sarebbe sacrilegio. E così anche questo sport ci è proibito. 25 agosto 1917, ore 151/2 Mi sono levato, sono stato fino alle sette a preparare la difesa, poi mi son fatto bello (!) e sono andato al Tribunale di guerra, ove l’udienza si apriva alle 8. Si trattava – mi par di avertelo detto un’altra volta – di un aspirante che per andare a trovare la fidanzata si allontanò per tre giorni dal suo reparto falsificando il suo foglio di licenza. l fatti erano quelli e per quanto la difesa sia andata benissimo, la condanna – lieve e rimediabile con una amnistia – era inevitabile (l’operazione andò benissimo, e quindi... l’ammalato morì). Il 28 agosto un telegramma di Ada comunica il felice rientro a Firenze, in via del Castellaccio, in attesa del parto. La famiglia di Piero

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resta a Montepulciano, ma Egidia l’accompagna. Il 31 agosto Piero scrive alla sorella: «Se tu fossi maligna, diresti che ti scrivo per interesse, perché tu sia indotta da questa mia lettera a “trattar bene” la mia signora moglie che si accinge, semplicemente e gratuitamente, a renderti zia». Desidera dirle «quanto sono tranquillo sapendo che Ada è con te e quanto ti sono grato (se tra noi si potesse parlare di gratitudine) di quello che fai» e si augura di poter presto essere a Firenze. Ada lamenta che Piero non abbia molto da dirle nelle sue lettere e lui replica giustificandosi con le sue occupazioni, che gli lasciano poco tempo.

5 settembre 1917, ore 23,30 Certo è che, dopo avere impiegato tutte le ore della mia giornata a scriver lettere complicate o crudeli o noiose, in cui si parla di proiettili e di trincee, non è molto facile ritrovare in cima alla penna quella profumata freschezza, pura e ingenua come l’aria mattutina, colla quale dovrebbero e vorrebbero esser scritte tutte le mie lettere per te. Il capitanino stasera mi ha accompagnato a casa: io gli esponevo la mia teoria sentimentale: che, nella vita, un solo bene conta, un solo scopo esiste, una sola felicità attrae, una sola necessità impera: l’amore, l’amore unico, in cui la festa sensuale è nobilitata dall’anima e la comunione spirituale è vivificata dal senso... Gli accennavo queste idee, vagamente e impersonalmente, così, quasi per purificarmi di una lunga giornata passata a scriver lettere di tema guerresco: gli parlavo così lungo il fruscio del torrente che dice le stesse cose colla sua voce di pacifico amatore montanino, a pie’ di quei torrioni di roccia che stanno sopra di noi e che già cominciavano a tingersi di un lieve pallore di luna. Ed egli, che è persona capace di comprendere, assentiva e sospirava su questi begli anni che il destino si porta con sé...

La nascita del figlio Franco Le lettere quotidiane marcano l’attesa del lieto evento, che ritarda rispetto ai calcoli. Piero si augura che avvenga entro settembre perché gli è più facile prendere una licenza, prima che il capitano lasci la Brigata. Il figlio Franco nasce il 21 settembre e Piero ha una breve licenza, ripartendo il 25. Al rientro assume temporaneamente le fun-

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zioni di “aiutante di campo”, ed è oberato di pratiche. Riesce a trovare il tempo di scrivere all’amica di famiglia che ha assistito Ada durante il parto.

[A Zoe Lombardi] 28 settembre 1917 Gent.ma Signora Zoe, penso che, quando ho avuto il piacere di salutarla durante la mia breve apparizione a Firenze, neppur Le ho detto grazie di quanto Ella ha fatto per la mia Ada e per me in occasione della nascita del nostro ritardato ma ben costruito rampollo: del resto, poiché non si poteva esprimere con parole tutta la mia gratitudine, è stato meglio ch’Ella abbia potuto indovinare nel mio silenzio ciò che non ho saputo dirle a voce. Ella comprende da sé come la Sua presenza accanto alla mia Ada nelle ore di angosciosa sofferenza, faccia sì che il Suo nome sia legato per sempre a uno degli eventi più solenni di tutta la nostra vita familiare. Mentre io ero confinato, ancora ignaro di tutto, in questa solitudine d’esilio in mezzo alla quale sono ora tornato, Ella assisteva amorevolmente la persona per cui tanto trepidavo: per ciò, se fino ad oggi eravamo legati a Loro da sincera amicizia, oggi è nato per tutti Loro un più profondo affetto derivante da un di quei ricordi che non si cancellano.

Interrogatorio di prigionieri austriaci 4 ottobre 1917 Sono arrivati tre prigionieri austriaci a farsi interrogare: e ho dovuto perdere così a colloquio con Kaiser Jaeger quell’ora che nella intenzione avrebbe dovuto essere sacra a te non solo nel pensiero (ché tutte nel pensiero sono sacre a te) ma anche nel fatto... [...] I prigionieri austriaci dicono che aspettano la pace entro l’anno...

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Una testa fatta come uno scaffale 7 ottobre 1917 Bisognerebbe, qui, avere una testa fatta come uno scaffale: un bello scaffale di legno secco, con un numerino nero per ogni casella e, in ogni casella un fascio di mille carte scritte con bella calligrafia... Senti, amore, poiché della mia vita d’ufficio non posso raccontarti niente di variato e di interessante, ti dirò qualcosa della mia persona: ti dirò che ho i capelli lunghi lunghi anche sul collo e sugli orecchi e che per ora non ho avuto il tempo di farmeli tagliare; ti dirò che stamani, siccome l’aria è notevolmente raffrescata, mi sono messo per la prima volta una di quelle camicie di lana bigia entro la quale mi sento benissimo; ti dirò... che vuoi che ti dica amore? Mi piglia delle volte come la frenesia di fuggire: di vedere per aria uno svolazzio di carte bianche gettate via e rubate dal vento. E di fare una corsa su su per quella strada che feci a piedi nel pomeriggio del 21 settembre, e di non fermarmi più fino a quando possa giungere nel rifugio delle tue braccia aperte... 8 ottobre 1917 Amore mio, sono venuto da una mezz’ora qui nel mio ufficio, ed ho trovato che durante la notte era accaduto tra queste sacre carte una specie di disastro... Devi sapere che qui al Comando esiste da qualche giorno un gattino, il quale, rustico e salvatico da prima, si è ora addomesticato per persuasione venutagli dal freddo. Ierisera dunque, verso le 10, mentre gli altri giocavano a carte nella sala della mensa (e poi, dalle 101/2 alle 11 potei concedermi anch’io il lusso di una partita a scacchi) io venni qui nel mio ufficio a rimettere in ordine, ognuna nel suo fascicolo, le carte scritte durante la giornata: e portai con me, per compagnia, il gattino, che si addormentò profondamente su una seggiola. Poi me ne andai, come t’ho detto, a giocare a scacchi, e poi a letto, senza tornare qui: in modo che la belva restò chiusa nel regno delle carte, ove stanotte, salendo sul mio tavolino ha fatto, senza alcun rispetto dei regolamenti, tutto ciò che le è occorso di fare sopra le bianche carte ordinate e protocollate... Stamani uno scritturale si è accorto del fatto prima che giungessi io: e si è dato cura con molto zelo di far sparire le traccie del delitto, ricopiando i fogli più danneggia-

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ti e cambiando alcune copertine di fascicoli che erano ridotte in stato... lacrimevole. Così quando sono arrivato io tutto era rimediato: ma ora sto pensando se non si debba infliggere al gatto porchettuolo una punizione di rigore, come sarebbe quella di appenderlo per un’ora per la coda, o non piuttosto insignirlo di una onorificenza, per il giusto concetto che ha delle carte d’ufficio. La morte di Angiolino La notizia della morte di Angiolino Corteccioni, figlio del contadino del podere di San Lazzaro a Montepulciano, turba Piero. Nel dopoguerra lo rievocherà più volte nelle commemorazioni della Grande Guerra, facendone il simbolo del soldato contadino4. Anche Rodolfo Calamandrei, in Le balze di San Lazzaro5, ricorderà la sua «balda giovinezza troncata sul Carso».

15 ottobre 1917 Amore mio, la notizia che mi hai dato della morte in guerra di Angiolino mi ha addolorato moltissimo: non per lui, ché la morte è il minor male, ma per quel povero Pietro, che si vede derubato così del suo bene più geloso, per una causa che appena appena riusciamo a intendere noi, persone colte e educate, ma che certo sfugge alla mentalità di un contadino, estesa quanto è esteso il suo campo. Povero Angiolino! A noi, quassù, la morte non fa tanta impressione: ma per lui, così giovane e così fiducioso da quando era soldato, mi pareva che dovesse essere assicurata l’incolumità. Non mi dici dov’è morto. E vorrei anche sapere lo stato di Pietro e della Cesira dopo informati della sciagura, e se c’è da fare qualcosa per loro: per la liquidazione della pensione, ad esempio, la quale, lo so, nulla conta di fronte al dolore, ma insomma potrà un po’ compensarli della perdita anche economica delle due braccia forti che erano tutto il loro sostegno. Ti assicuro che la morte di Angiolino mi ha proprio addolorato profondamente. Cfr. infra, p. 338. Ristampa anastatica dell’edizione privata del 1932, Editori del Grifo, Montepulciano 1987, p. 13. 4 5

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Castagne caramellate 20 ottobre 1917 La vita invernale, con tutta la sua calma letargica, ci prende a poco a poco, beatamente. Si sono raccolti tre quintali di castagne e il nostro cuoco ce le fa mangiare così (te lo racconto, amore, perché mi piacciono molto: e voglio che tu te ne ricordi, quando lo zucchero sarà ridiventato una cosa mangiabile): prende degli stecchini molto lunghi, di più di un decimetro, e quando le castagne sono cotte arrostite, le sbuccia e le infila cinque per cinque in questi stecchini, come queste frutta candite che vendono le vecchine davanti alla porta delle scuole elementari. Poi vi cola su dello zucchero caramellato, e le serve così, in simili schidionate indorate dal biondo caramello, due per commensale. [...] Guardando queste piccole fotografie, che ti mando perché tu ricostruisca il paesaggio che mi circonda, mi sembra che questa chiesetta bianca la quale ha un aspetto così pacifico sia una di quelle bizzarre costruzioni della fantasia che talora si formano nei sogni, quando sembra di essere diventati diversi da quelli che eravamo prima, messi in tutt’altro luogo ed a tutt’altro mestiere. Chi mi avrebbe saputo descrivere questa vita quattro anni fa, quando, amore, m’illudevo ancora di essere assoluto padrone del mio destino?

Caporetto: col cuore stretto Il 24 ottobre gli austro-tedeschi sfondano il fronte italiano a Caporetto. Il 27 Piero scrive di aver appena inviato un telegramma urgente «perché prevedo che in questi giorni la posta, per i ritardi derivanti da altri settori, sarà fatta ritardare tutta». E aggiunge: «Qui calma assoluta». Il 29 invia di nuovo notizie tranquillizzanti.

29 ottobre 1917 Amore mio, mentre compie un anno da quando, lasciando i miei territoriali, venni qui dove tutt’ora mi trovo, ti mando uno scialbo saluto au-

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tunnale da questo asilo di quiete, mentre lontano di qui si svolgono angosciose ore di lotta. Quello che più mi tormenta, amore, è l’idea che tu, che voi tutti stiate in pensiero per me, mentre vorrei che tu fossi qua accanto a me per vedere come nella mia vita tutto resta tranquillo e invariato. Temo che la posta, a causa dell’intenso traffico ferroviario che in questi giorni certo si svolge sulle retrovie, subisca dei lunghi ritardi, e che tu, non vedendo giungere colla consueta regolarità le mie lettere, ti imagini su di me chissà mai quali tristi cose, mentre io, sia pure col cuore stretto nell’attesa e nell’oppressione delle notizie che giungono, vivo materialmente tal quale come vivevo dieci giorni fa. Bacia il Babbo, la Mamma e Egidia e di’ loro che forse le cose andranno meglio di quello che ora sembra. Carezza il nostro Franco, che fa risatine così serene e candide senza nulla sapere; e tu, amore stai tranquilla, perché ci sono tutte le ragioni per essere tranquilla. 30 ottobre 1917 Mi è tanto dispiaciuto che il mio telegramma che ti arrivò il 27 ti abbia dato, invece di tranquillità come speravo, motivo di ansia e di inquietudine. Ma ora, forse, tu avrai compreso la ragionevolezza di quel telegramma e il fatto che esso ti è giunto ti terrà più tranquilla anche di fronte alle notizie sugli avvenimenti guerreschi. Io pensavo che appena vi fossero giunte le prime voci sulla grande offensiva tedesca, vi sarebbe venuto spontaneo il pensiero che anche la nostra brigata potesse subito essere spostata di fronte per fare argine agli invasori. E appunto per prevenire tale pensiero, non essendo sicuro che le mie lettere potessero giungere colla regolarità consueta, ti mandai il telegramma, nel quale alla parola “località” era sostituita per ragioni evidenti quella di “condizioni”. Ora, amore, tu sarai certo tranquillizzata: noi siamo qui, nel nostro alberghetto ben arredato, mentre la neve scende piano piano (stanotte è giunta fin quasi a lambirci quaggiù). E c’è la solita quiete quantunque sotto l’incubo angoscioso di quello che accade laggiù. Incubo meno angoscioso, però, di quello dei primi due o tre giorni: io ho l’impressione che il periodo più critico sia già passa-

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to, e sono sicuro che avverrà anche questa volta quello che avvenne per l’offensiva austriaca: forse sarà questa impresa tentata dai germanici che, con un improvviso loro rovescio in campo aperto, affretterà la pace vittoriosa come tutti gl’italiani veri la vogliono. [...] Dammi notizie sullo stato d’animo della cittadinanza. 1 novembre 1917 Amore mio, ieri leggendo il «Corriere», vi ho trovato quella bella notizia relativa alla sospensione delle comunicazioni postali in zona di guerra, che certamente avrai letto anche tu prima che te ne desse notizia il mio telegramma di ieri sera: e certamente, dal dolore che tu avrai provato apprendendo tale notizia intenderai il dolore che nell’apprenderla ho provato io, quantunque già da diversi giorni, come ti dicevo nei miei telegrammi, l’avessi preveduta. [...] In chiusura, Piero ringrazia Ada «per quelle parole di fermezza e di fede che mi dici sulla nostra condizione attuale guerresca. In verità questo è un momento in cui la più assoluta fiducia è necessaria in tutti per evitare che tra qualche anno ci dobbiamo vergognare di essere italiani». Nella lettera scritta il giorno seguente ai genitori, Piero si interroga sulle cause della crisi, che lo coglie di sorpresa, e stigmatizza il “nemico interno”, la mancata coesione del paese attorno all’esercito.

[A Rodolfo e Laudomia Calamandrei] 2 novembre 1917 Babbo e Mamma carissimi, le vostre lettere del 29 e del 30, giuntemi ieri nonostante l’annunciata interruzione delle comunicazioni postali, mi dimostrano che per me state tranquilli: e tale dimostrazione è a sua volta motivo di serenità per me, che in questi giorni ho sofferto unicamente per l’idea di non potervi far giungere le mie notizie rassicuranti. Il momento che oggi passa l’Italia è certamente di una gravità estrema, e la angosciosa sorpresa del primo annuncio è stata per

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tutti come una mazzata, poiché sono bastate poche ore per capovolgere una situazione faticosamente conquistata attraverso tante battaglie, con tanto sacrificio di vite umane. Ma, ora che il ripiegamento è compiuto sul Tagliamento, la situazione, a giudizio dei competenti, è ristabilita, in modo che può da un giorno all’altro accadere una seconda battaglia della Marna, forse più decisiva e più concludente della prima, nella quale le sorti della guerra possono finalmente essere risolte a nostro favore. Certo, in questi momenti, bisogna tutti aver fede assoluta nella vittoria e attendere con piena concordia; ma verrà un giorno in cui bisognerà pure cercare di stabilire con chiarezza, per la storia e per il nostro onore di italiani, quali sono state le cause di questo impensato e fulmineo capovolgimento della situazione militare: e allora si vedrà forse che i veri responsabili di questo doloroso episodio di guerra, che ha distrutto – per fortuna non irrimediabilmente – frutti conquistati a prezzo di tanto sangue, sono coloro che, mentre l’esercito faceva la guerra oltre i confini contro i tedeschi, nell’interno del paese facevano indisturbati la guerra contro l’Italia. Credo fermamente che questa crisi sarà superata trionfalmente. Col nemico in casa, ogni stanchezza è sparita dal cuore di tutti: e i tedeschi dall’invasione avranno effetto contrario a quello che si proponevano. Questa volta si tratta non di Zara o di Valona, ma di salvare la nostra terra e, sopra tutto, il nostro onore di Italiani, ché dovremmo vergognarci nei secoli se non riuscissimo, coll’esercito numeroso e agguerrito che abbiamo, a spazzar via gli invasori. Spero che questa lettera mia vi arrivi presto. E voi datemi notizie di tutti i parenti e conoscenti che sono quassù, e dei quali non mi è possibile avere informazioni dirette. Vedo colla mente il viso, fra tragico e trionfante, di molte persone che diranno con aria studiatamente grave: «Purtroppo io l’avevo detto sempre...». Ma credo che dentro un mese questo loro trionfo sarà sbugiardato.

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Il periodo del silenzio L’interruzione della posta spinge Piero a rifugiarsi in fantasie casalinghe. Lui stesso sottolinea la discordanza di sensazioni, tra l’angoscia per le sorti dell’Italia e i suoi pensieri di sposo e di padre.

3 novembre 1917 Ed ecco iniziato da ieri, il triste periodo del silenzio del quale ignoro la durata. [...] Tristi ore di attesa si passano qui, ora: ed anche alla mensa molte volte un grave silenzio cala sui commensali, e neppure ci guardiamo negli occhi per non esser costretti a svelarci ciò che pensiamo. Ma io, in questi momenti di grave raccoglimento, fuggo verso plaghe più liete; ierisera, verso le dieci, nella sala della mensa, eravamo in quattro: due ufficiali che giocavano in silenzio col Colonnello, io che leggevo il giornale colla testa tra le mani... E nel leggere perdevo il filo delle notizie che leggevo: e pensavo possibili sere invernali passate in un salottino caldo ove fossimo solo in due (i ragazzi vanno a letto col sole...), tu ed io, amore, con quella chiara luce di lume casalingo che riempie di tanta gaiezza le stanze piccole, con quel soddisfatto raccoglimento di chi sa che basta fare un cenno per veder dischiudere a piacer suo il paradiso. 5 novembre 1917 Amore mio, ieri ti raccontavo di una certa gattina che era nelle mie ginocchia, e di una singolare abitudine che essa ha. L’abitudine è questa: che, appena essa si trova in qualche situazione adatta ove possa raggomitolarsi a suo agio, cerca subito nel proprio seno quelle piccole fontanelle da cui, quando sarà cresciuta, uscirà il latte per i suoi gattini: e ad una di queste fontanelle si attacca beatamente, e si sente il rumore ritmico della sua piccola bocca che sugge. Così passa delle mezz’ore, suggendo e facendo le fusa: ed è convinta di fare così la sua nutrizione... Io guardo, amore, questa bestiola ignara del mondo degli uomini e delle loro malinconie, e questa sua beatitudine inconscia mi dà uno strano senso di angoscioso smarrimento, confrontandola colle nostre giornate di uomini ragionevoli...

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Amore, ieri la posta non mi portò nulla. E anche ieri nel «Corriere» ho letto che la posta dalla zona di guerra all’interno del paese è sospesa, e penso con un tremito di angoscia nel cuore, che forse a te le mie lettere non giungono da quattro o cinque giorni... Ieri sera ho parlato per telefono col Comando Tappa di Vicenza, ma Stefano non c’era e non gli ho potuto domandare notizie: oggi lo richiamerò. E le giornate passano così, interminabili angosciose e mute, in questa solitudine spirituale, in quest’attesa di notizie su gravi eventi che si svolgono in terra nostra, il mio sangue, ribelle alla ragione, più forte e più selvaggio di tutti i gravi pensieri raccolti, un solo bene chiede, una sola felicità reclama, un solo paradiso invoca con una specie di folle ostinazione irreprimibile...

I diritti della vita in mezzo a tanti orrori e tante stragi 7 novembre 1917 Amore mio, nella tua lettera del 3, che mi è giunta ieri, ho letto una frase che mi ha dato un senso di felicità e di serenità: «Franco mette l’unica nota gaia nella nostra vita di questi giorni...». E ripensando ierisera, mentre ero a letto prima di addormentarmi, a questa frase, ti vedevo, amore, non così profondamente sola come in questi giorni di ansia ti saresti sentita se Franco non fosse nato, non così ininterrottamente triste come forse saresti stata in questi giorni se tu non avessi visto accanto a te il riso di una piccola vita che nasce e che riafferma i diritti della vita in mezzo a tanti orrori e a tante stragi... Il nostro piccolo omino, volato qui senza che noi l’avessimo chiamato, ha saputo scegliere, fin da quando ci accorgemmo che si preparava a nascere, il tempo più adatto per dare minor noia. Ha scelto per nascere e, prima di nascere, per farsi grande a spese dell’armonia della figura della mamma sua il tempo in cui io non c’ero e in cui la mamma, tanto gelosa della sua linea, non era tanto dispiacente di questa sua solitudine. Nascendo, ha permesso alle nostre bocche di trovarsi riunite per qualche ora di felicità, in una breve parentesi di sole che non ci sarebbe stata concessa se egli non fosse nato. Nulla ci ha tolto, amore, e nulla ci toglie: ed ora, mentre il babbo con-

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tinua a stare lontano perché così vogliono le circostanze, egli si incarica di tenere un po’ di compagnia alla mammina, che intanto è guarita ed è ritornata giovane ed attende l’ora in cui potrà ricordarsi di esserlo... Amore, amore, amore mio... che infinita discordanza di sensazioni e di sentimenti è quella che mi occupa in questi giorni! Mentre la guerra con tutte le sue desolazioni mi circonda e, più che circondarmi, mi tiene in angoscia per le notizie che giungono, pensieri gai e leggeri di giovinezza, visioni soleggiate e gioconde di giuochi d’amore volano per la mia mente come farfalle primaverili che si posino sulla mia carne e mi diano strani vellichii... [...] Non vi impressionate se l’avanzata nemica continua e continuerà per qualche giorno: quello che conterà sarà la battaglia, il giorno in cui sarà giunto il momento di darla; per ora si tratta solo di movimenti di preparazione.

Il bollettino con un altro nome: Cadorna sostituito da Diaz Il 10 novembre Piero reagisce alla sostituzione di Cadorna con un commento perplesso: «Ierisera leggemmo il bollettino con un altro nome: e non si sa perché... Forse è accaduto anche questa volta che la colpa è stata data a chi meno l’aveva...».

14 novembre 1917, ore 8 Qui, sul mio banco di noce, i fogli sono abbastanza ordinati stamani: me li ha messi in ordine Fuscà, il quale li tocca con una certa disinvoltura intelligente. Poi, proprio qui dinanzi alla cartasuga c’è un regoletto di legno bianco sul quale sono infissi tre gruppi di spilli, ognuno dei quali porta infisso presso la capocchia un rettangolino di diverso colore, di cartoncino bristol, con sopra degli strani disegni. Sembrano questi strani funghetti, un giuoco da bambini: e credo infatti che Franco, di qui a tre o quattro anni, ci si divertirebbe un mondo. Invece sono simboli innocui di congegni non innocui: poiché rappresentano ognuno qualche arma da combattimento, che io mi prendo la cura di disporre, ognuno al suo posto, in appositi schizzi topografici per

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avere la visione riassuntiva e illustrativa della nostra situazione sulla fronte.. [...] Credo che oggi avrò tempo di scrivere a lungo al Babbo e Mamma, e di rialzare il morale dello zio Cecco, che forse già sarà riconfortato vedendo come verso Asiago la nostra 1a Armata resiste magnificamente all’urto di queste bestiacce. 15 novembre 1917 Siamo qui, perfettamente tranquilli e isolati mentre altrove rumoreggia la mischia, in attesa che i giorni passino portandoci qualche notizia più lieta.

Promozione a capitano 16 novembre 1917 Intanto ti annuncio una solenne cosa: che tu non parli più a un misero tenente, ma a un autorevole capitano. Ho avuto ieri la notizia, non ancora ufficiale ma certa, e attendo l’arrivo del bollettino per farmi cucire le stellette e il filetto. Si intende, come già ti avevo detto, che io resto qui, nella mia cameretta lasciata libera dall’altro capitano. Anche Policreti di cui mi chiedi è stato promosso: e ieri ci siamo fatti per telefono i reciproci rallegramenti. Con Policreti quasi ogni giorno ci scambiamo facezie telefoniche. Egli è molto in alto, tra la neve, lassù dove io ero nel luglio-agosto del 1916, mentre io sono ancora in basso, nel solito luogo. Ogni tanto, quand’egli sente quaggiù qualcuno di quei soliti rumori ai quali io nemmeno mi scuoto, mi telefona per chieder notizie. Stanotte verso mezzanotte, mentre m’ero addormentato da una mezz’ora, il campanellino del tormento ch’è accanto al mio guanciale, vicino vicino in modo che posso parlare e udire senza muovermi, ha squillato. Era Policreti, che avendo sentito in basso dei brontolii (ma non erano qui da noi, erano molto più a destra) voleva sapere qualcosa. Io tra il sonno gli ho risposto: «Novità. Una camera buia, un letto con un uomo dentro che parla al telefono tenendo gli occhi chiusi». E il buon Policreti ha fatto una risatina ed è restato pago.

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«La guerra non deve finire così» Per la prima volta, Piero afferma che non vuole che la guerra finisca, prima di dimostrare che l’Italia è ancora viva: vuole anche che della sua promozione sia data notizia: «una piccola vanità» ma anche un segnale contro i disfattisti della sua immedesimazione nelle ragioni della guerra.

17 novembre 1917 Vuoi sapere, amore, se il capitano ritornerà. Non si sa, ma pare di no. Intanto io ho inaugurato ieri sera la terza stelletta e il terzo filetto: e ierisera alla mensa hanno fatto uccidere per onorarmi (vedi? ogni inalzamento fa le sue vittime) una superba trota che da molti giorni attendeva nel vivaio chi le facesse la festa. Ora mi accade che ogni qualvolta qualcuno, vedendomi, mi dice «signor capitano», mi volto subito, per mettermi istintivamente sull’attenti, quasi che il capitano fosse un altro. Io avevo un tempo vaticinato – e Policreti me lo ricordava ierisera al telefono – che quando io fossi stato capitano sarebbe finita la guerra. Ma, per ora, non desidero che il vaticinio si compia. La guerra non deve finire così... Ma vorrei che chi è nell’interno del paese vedesse come siamo sereni e fiduciosi qui, e come c’è in tutti la ferma volontà (che già comincia quassù ad attuarsi) di far vedere a questi animali che l’Italia è ancora viva nel mondo. Dì allo Zio Cecco che non mi dispiacerebbe se facesse mettere sul «Nuovo» la semplice notizia della mia promozione a capitano «in un reggimento di fanteria alla fronte». È una piccola vanità: ma in questi momenti in cui c’è tanti che sotto sotto gioiscono, non è inopportuno far sapere che c’è chi seguita a fare il suo dovere al suo posto. Ti faccio sorridere, amore? 18 novembre 1917 Il mio braccio destro, cioè Perugi, il caporalino che conosci, è da ieri a letto colla febbre: e devo fare tutto da me, arrabbiandomi di tutto e con tutti, occupandomi in modo tormentoso di tutte le piccole cose. Perugi, al quale ho fatto dare medicine ordinate da me (aspirina e sale inglese) e latte con cognac, non si può abituare a chiamarmi capitano e ogni volta che deve dirmelo fa un risolino.

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Ieri l’altro mi disse: «Ora Lei sarebbe come il cognac». «Cioè?». «Eh, tre stelle!»... 19 novembre 1917 Amore mio, vuoi che ti descriva (mentre il sole non si è ancora affacciato dietro le cime, e la stufetta brontola contro questo freddino frizzante che ogni mattina fa ghiacciare le pozzanghere) una notte di un capitano alla guerra? Dunque sta’ a sentire. Verso le undici entro a letto, sotto un cumulo di coperte mantelline e cappotti che, oltreché riscaldarmi, mi tolgono il respiro col loro peso (anche la testa sparisce sotto questa marea grigioverde): prima però, si capisce, ho chiesto al telefonista l’ora ufficiale e domandato all’osservatorio le ultime novità... della stagione; e poi, essendomi stato detto che tutto era tranquillo, ho spento il lume ed ho messo la testa sotto. Così ho cambiato mondo: pensando a tutto meno che a ciò che mi circonda. Ma appena il sonno è venuto trrrr... il mio amico telefono mi chiama. Al buio, mi riscuoto, afferro il cornetto acustico e mi metto in ascolto. Sento la vocina del telefonista che mi dice: «Signor capitano, la desidera l’osservatorio». «Va bene, sentiamo». Breve tramestio di fili che si congiungono, poi una voce grave: «Pronto, signor capitano, sono il sergente Boschi» (Boschi è il sergente dell’osservatorio). «Dica». «Volevo dirle che cinque minuti fa si è udito un colpo di cannone nel tal posto. Ma ora è tutto calmo». «Niente altro?». «No, signor capitano». «Va bene, buonanotte». Al buio, rimetto la testa sotto le coperte. [...] Ma ecco, trrrr... l’amico telefono mi richiama. «Pronto, che c’è?». «C’è un ufficiale che vuol domandare che cosa era quel colpo che si è udito mezz’ora fa...». «Niente... è un colpo di cannone: di quelli che si tirano quando c’è la guerra, e in città, per segnare mezzogiorno».

Un soldato giardiniere Piero ha la sensazione che Ada non sia contenta della sua promozione: «sulla busta seguiti a darmi un titolo inferiore a quello che mi

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compete... Quasi si direbbe, amore, che non mi prendi sul serio». Se si tratta di timori per le conseguenze di tale promozione, Piero cerca di dissiparli anche se «s’intende che, in questi momenti di incertezza, nessuno può dire nulla di sicuro». Apprende della scomparsa di Alberto Furno, fratello dell’amico Enrico, e si augura che sia tra i prigionieri, lasciandosi sfuggire questo commento: «morti e feriti, purtroppo, lassù non ne furono che pochi, poiché nessuno combatté». In una lettera del 21 novembre descrive il giardinetto curato che c’è di fronte al suo ufficio: «Fa da giardiniere un soldato che dalla mattina alla sera lavora a questa sua occupazione di pace, senza curarsi delle bestie tedesche che sono al di là del monte di cui si vede, nello sfondo, la pendice. Se qualche aviatore nemico lo vede passando, si accorgerà che gl’Italiani non sono molto impressionati per la guerra e che, anche in guerra, non dimenticano la loro gentilezza». Si preoccupa poi della demoralizzazione dei familiari e cerca di confortarli sulla tenuta dell’esercito. Non dimentica l’omaggio floreale ad Ada per l’anniversario delle nozze, raccomandandosi allo zio Cecco.

24 novembre 1917 La mamma nella sua lettera mi sembra molto giù (le scriverò oggi); ma in verità non è il caso. Voi costà coi profughi, udite l’eco soltanto della fronte orientale ove è accaduto il crollo, ormai arginato. Ma, perdinci, l’esercito italiano non era soltanto lì: e il contegno delle altre armate, compresa quella a cui apparteniamo noi, è stato in questi giorni magnifico. E ormai credo che l’arretramento sia per sempre arginato. Dillo anche allo zio Cecco. Su una delle nostre trincee più avanzate ho fatto mettere io un gran cartellone che è stato scritto qui nella mia stanza, con questa dicitura: Kein Frieden mit den deutschen Raubern!6. E quelli di là lo leggono e restano male: perché questo ultimo sforzo essi lo hanno fatto non per vincere, ma per aver finalmente la pace.

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«Niente pace coi briganti tedeschi!».

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[A Francesco Pimpinelli] 24 novembre 1917 Carissimo zio Cecco, questa bella cartolina della nostra Brigata che, come tutte quelle della 1a Armata, tiene e terrà il suo posto fino all’estremo, è il più bel simbolo, in questi giorni, del nostro stato d’animo. Le sciagurate circostanze che hanno per qualche giorno travolto il nostro esercito, appartengono ormai al passato. E vedrai che questo momentaneo rovescio servirà soltanto a farci riprendere lo slancio (dopo tre anni, tutti si erano un po’ stancati...) verso la vittoria che, se la giustizia non è un nome vano, non può mancare. La certezza della vittoria è, qui, decuplicata in confronto a quella che era un mese fa, prima della sciagura. Dillo a tutti. Viva l’Italia!

[A Francesco Pimpinelli] 5 dicembre 1917 Carissimo Zio Cecco, ti scrivo in fretta in fretta per chiederti un piacere. Il 10, come sai (certamente ricordi ancora quale spaventoso ammasso di confetti mi macinasti), compie un anno dal mio coniugamento. Siccome non posso essere io costà e festeggiare la ricorrenza, vorrei mandare a Ada dei fiori per rappresentarmi. Tu dirai che sono presuntuoso credendo che io possa esser rappresentato da dei fiori: e se lo dirai, parlerai come un libro stampato. Ad ogni modo vorrei che tu la sera del 9 andassi da un fioraio, possibilmente quello che è in Via Strozzi (non quello di lusso, ma quello che sta in un atrio di portone) e tu requisissi quanto più puoi rose tee: quelle rose di color incarnato che a Firenze nell’inverno si trovano in quantità. Vorrei proprio che fossero di quelle. Ne puoi prendere, per esempio, venti mazzetti: le vendono a mazzetti di cinque o sei: o anche trenta. Insomma tante da riempire una cestellina modestissima e semplicissima. Il tutto dovrà andare a casa mia, portato da un Tizio anonimo, verso le dieci del giorno 10. Mi raccomando che siano ro-

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se fresche e rose tee: non dire niente a Ada, né prima, né dopo. Le rose, naturalmente, devono essere mandate a Ada, personalmente a lei. Quando verrò in licenza invernale (cioè, forse, nella prossima estate) ti renderò la spesa. Di guerra, niente più di quanto leggete sui giornali: cioè buone notizie. Consolazione dei fiori e degli uccelli 13 dicembre 1917 Amore mio, la tua lettera odorosa di rose, delle nostre rose che sono giunte in tempo a dirti per me tutto il paradiso dei ricordi e delle speranze, mi riempì di serenità e mi appagò più di quanto mi avessero appagato le due lettere precedenti. Anche da lontano così, riesco, amore, a far fiorire intorno a te la primavera: i fiori sono le uniche creature che non si accorgano della guerra: sono freschi e innocenti e puri com’erano prima. Ed è bene, amore, parlare con loro per udir dolci parole misteriose di rinascita e di consolazione. 14 dicembre 1917 Passai, ieri sera, dalle 10 alle 11 una mezz’ora a vedere, dentro una gabbiuzza appesa nella sala della mensa, le mosse di un uccellino che si addormentava e che mi faceva venire l’idea di Franco. È un passerotto che un tenente prese da piccino e che ora tiene in gabbia, perché – dice lui – ci sta bene. Stetti dunque a vedere come faceva a addormentarsi (nella stanza riscaldata dalla stufa c’era soltanto la luce del lume a sospensione, così diversa da quella vera del sole): prima si gonfiò tutto a poco a poco, accorciando il collo e ritraendo la testa a poco a poco tra le piume; poi chiuse un occhio, tenendo aperto l’altro, e dopo qualche istante chiuse anche questo ma riaprì il primo. Poi cominciò a volger la testa verso destra, pian piano, avvicinando il becco all’ala: e a un tratto, come uno che si mette il portafoglio nella tasca interna della giacca, nascose la testina sotto l’ala e diventò un batuffolo rotondo, come un piumino da cipria... E poi, mentre stavo a guardare il suo sonno, una delle due zampette aggrappate alla spranga trasversale della gabbia si ritrasse in mezzo alle

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penne, e restò una zampina sola a sorreggere il dormiente, come voluminoso fiore sostenuto da un esile stelo... Unica cosa gentile di tutta la mia giornata. 20 dicembre 1917 Franco non deve dire che io anche in questo mese mi sia dimenticato di inviargli gli auguri nel giorno in cui si compie il terzo mese dalla sua nascita. Questa lettera ti giungerà quando il 21 sarà già passato (Franco è nato nello stesso giorno in cui nacque il suo Babbo lontano); ma tu domani avrai nell’anima la sensazione di questi auguri, e sentirai che anche quella parte dei miei pensieri che va verso Franco, non si ferma su di lui, ma, come un fascio di luce che si rifrange, si ripercuote su di te, che sei il mondo e la vita... Tre mesi fa, a quest’ora, attendevo con trepidazione infinita: era serena e tiepida l’aria, che ora è brumosa e gelata. E anche gli eventi della guerra erano più sereni e lasciavano sperare una prossima fine vittoriosa... Saluta Franco per me. Quando lo rivedrò, sarà già grandicello, già pronuncerà qualche sillaba appena articolata, già sarà capace di riconoscermi senza avermi conosciuto prima. Ma tu devi essere serena poiché la sua presenza, anche se spesso importuna ed esigente, è garanzia di serenità e di felicità. Di quella nostra piccola casa tutta nostra che tu sogni e che l’avvenire ci donerà, Franco è il primo più prezioso tesoro.

L’ultimo Natale di lacrime 23 dicembre 1917 Amore, è l’ultimo Natale di lacrime, questo: ed io, da questa finestra attraverso la quale vedo un paesaggio così bianco che mi acceca e mi abbaglia, scorgo lontano i giorni primaverili, quando il mondo sarà tornato ragionevole e quando, anima cara, ogni mio sospiro ogni mio battito ogni mio pensiero ogni mia tenerezza ogni mia energia sarà per te, per te sola. Io penso, amore che sarebbe divino potersi uccidere per i troppi baci: consumarci l’un l’altro, follemente, rabbiosamente, spendere tutte per noi le divine grazie delle nostre giovinezze, goderci tutto tutto quello che la

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vita ci ha dato ripagandoci in un’infinita voluttà di questo infinito dolore... Carezza Franco con tutta la mia tenerezza. Un altr’anno, per Natale, gli regalerò il primo balocco: tutto, meno che un fucilino... La neve è così bianca, così spensierata: quattro abeti: quattro alberi di Natale... 25 dicembre 1917, ore 10 Stanotte, a mezzanotte, non ho sentito suonare le campane... Tiravano qualche cannonata, non so se i nostri o i loro, laggiù, dietro i monti ove ogni colpo si ripercuote con un cupo brontolio d’echi. Fuori c’era la neve e la luna: non scoperta e navigante in cielo per conto suo, ma nascosta dietro una cortina di nebbie lattiginose, in modo che sulla neve si spandeva una opaca chiarità diffusa. Sono andato a letto dopo la mezzanotte. Avevo pensato di terminare la vigilia di Natale dormendo. Invece, verso le 10, mi hanno telefonato che doveva giungere un motociclista con un ordine urgente... Ho dovuto aspettare... Siamo stati nella sala della mensa, in quattro, figurando di essere calmi e sereni e di discorrere con interessamento (ma dentro ognuno seguiva la sua via sospirando...). Ho giuocato a scacchi con un tenente di artiglieria ed ho perduto. Ho giuocato con due gattini piccoli piccoli, che furono trovati randagi in una casa bucata dal cannone, e che ora stanno qui da noi, in paradiso, prestandosi gentilmente a farci divertire dopo la mensa colle loro capriole. Pochi minuti dopo mezzanotte ero a letto. Ma non ho dormito prima delle due. Pensavo, e non riuscivo a prender sonno... Auguri, auguri, da ogni parte ci giungono, a voce e per iscritto, gli auguri. I nostri colleghi delle trincee dinanzi a noi e dei comandi alle nostre spalle, persone colle quali abbiamo passato soltanto qualche ora occasionalmente, ufficiali coi quali ci siamo incontrati una volta per caso in questa strana esistenza d’esilio, tutti si cercano e si ricordano in queste ore d’angoscia, che ognuno tenta di nascondere e di raddolcire. Stanotte il telefono invece di portarmi notizie di guerra, mi ha ripetutamente portato la voce di qualche compagno di fede e di destino, il quale mi susurrava: «tanti auguri per il Natale»... [...] Mi sono levato dopo le otto. Ma non ho dormito abbastanza. Sono stordito anche stamani. Verso le due

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verrà Policreti. Starà qui fino a stasera. Forse nel pomeriggio di oggi mi metterò la mia pelliccia (ho una pelliccia, da ieri) e anderò a fare una girata tra la neve, a trovare i soldati che pensano al Natale...

[A Francesco Pimpinelli] 29 dicembre 1917 Carissimo zio Cecco, questa adorna cartina da innamorati è l’unica che il mio attendente sia riuscito a trovare a 25 km da qui, dove esiste ancora qualche resto di umano consorzio. Non te la prendere dunque come una dichiarazione d’amore: non sarebbe il caso. E poi la zia Lina non vorrebbe. Ho sempre da ringraziarti delle rose che giunsero a chi volevo con perfetta tempestività. Quando tornerò in licenza ti rifonderò la spesa, coi frutti, onorari, vacazioni e quant’altro. Tu attendi, mio caro zio Cecco, una letterona lunga nella quale ti dica molte cose, più di quelle, sempre uguali che si leggono (o si saltano) sui giornali. Ma io sono in una valle solitaria, in mezzo a montagne nevose, tra le quali basta una cannonata lontana a scatenare uno stamburamento di echi. E, mentre so molto bene tutto ciò che avviene sulla fronte del nostro settore e tutto ciò che fanno dinanzi a noi quei bestioni di austriaci che qui stanno cheti e chiotti senza mai mettere fuori il naso dalle caverne, non ti so dire quello che avvenga a qualche chilometro di qui dove i nostri ragazzi del ’99 fanno miracoli di eroismo, né quello che avvenga a Roma o a Pietrogrado. Speriamo. Qui siamo tutti, come già ti dissi, pieni di fede e di volontà. Certo il passare qui il terzo Natale, lontano da tutto ciò che ci è caro, è una pena, di cui i non combattenti (e tra questi non comprendo te, che combatti ogni giorno sante battaglie contro i farabutti) non si rendono conto. E forse una delle cause di Caporetto è stata anche questa: che la nazione non ha compreso quali enormi sacrifici abbia compiuto in tre anni il suo esercito e non ha sentito il dovere di donare, all’esercito tutto l’amore e tutte le ricchezze. Intanto, perché tu lo legga a Mino, ti ricopio qui il telegramma che il nostro generale ci ha

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mandato per Natale: «Fino alle più lontane trincee giungano i miei auguri in questi momenti che ricordano il focolare domestico e ogni cosa più caramente diletta. Il ricordo ingagliardisca i vincoli d’affetto fra noi uomini liberi che combattiamo per l’Italia nostra; il ricordo rinfocoli l’odio a morte contro una razza indegna di Cristo, schiava di un governo di banditi». Auguriamoci che il 1918 ci dia la vittoria: qui, sta’ sicuro, faranno e faremo tutti il nostro dovere.

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VAL POSINA

Un anno fausto? 1 gennaio 1918 Amore mio, il 18 è un numero più simpatico del 17. Quest’ultimo, per chi ci crede, è un numero nefasto: quindi con un respiro di sollievo scrivo come intestazione di questa pagina il numero che sarà fausto. Ierisera mi giunse con la posta l’agenda inviata da te, che contiene i 365 giorni dell’anno tutti bianchi, vuoti e misteriosi. Li riempiremo di baci, amore? Sulla prima pagina la tua mano con scrittura malcerta ha posto l’augurio con un punto interrogativo. Ed io, amore, attendo con fede che i giorni che verranno diano alla tua domanda una risposta affermativa. Ho finito l’anno fuggendo disperatamente da questa prigione di carte. Ieri era una bella giornata serena (come oggi, del resto) e la neve sotto il sole luccicava come marmo pulito. È venuto a trovarmi, verso il tocco, il Pitacci, che voleva salire in vetta a un monte che è dinanzi a noi, per conoscere minutamente tutta la vallata e le montagne che ci stanno davanti. E sono stato contento di accompagnarlo, tanto per togliermi un po’ di qui. Ho messo alle scarpe i ramponi da neve, ho agguantato un alpenstock più alto di me, e sono andato a trovare fin sulla vetta l’osservatorio che ogni notte disturba i miei sonni. [...] Stanotte abbiamo finito l’anno svegli. A mezzanotte doveva esserci una scarica generale delle nostre artiglierie contro le linee nemiche, in segno d’augurio. Poi, finita la scarica, siamo andati pacificamente a letto... La notte era serena, di un sereno cristallino e gelido che metteva i brividi. I monti bianchi si profila-

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vano sul cielo bluastro nel quale le stelle si erano infisse immobilmente. La mia camera era desolata, ostile come una prigione... E stamane l’anno è cominciato così: in mezzo a un candore di neve che fa gelare i pensieri, in mezzo a una monotonia di colore e di forma che quasi fa temere che questa immobilità di paesaggio, questa metodicità di vita abbia mai più a cambiare nel misterioso avvenire.

L’Epifania 6 gennaio 1918 È il giorno dell’Epifania... Ma, stamani, quando mi sono svegliato, nessun dono c’era per me... Mi son svegliato tardi, quasi alle nove. Stanotte sono andato a letto quasi alle due: avevo da aspettare una risposta per mandar via subito un foglio, questa risposta non veniva. Sono stato qui, col sottotenente d’artiglieria addetto al Comando, un bravo e simpatico ragazzo, che mi raccontava tutte le avventure sentimentali e... non sentimentali. La stufa era accesa e cantava: io, seduto nella mia poltrona, fumavo una sigaretta e ogni tanto gli dicevo: «Via, tenente, mi racconti qualche avventura...». E poi lo lasciavo raccontare senza più seguire il suo discorso... Alle due sono andato a letto: la mia stanza era tanto fredda, e, quantunque mi sia rannicchiato sotto una vera montagna di coperte, non mi riusciva di riscaldarmi. Era l’ora in cui la Befana passeggia sui tetti... Pensavo a quando prepareremo la calza di doni per Franco.

Il sacco a piuma 8 gennaio 1918 Il passare quasi tre ore al telefono, ricevendo ordini e trasmettendoli all’artiglieria, tra un inferno di telefonisti che non capiscono, di apparati che non funzionano, di fili che s’incrociano, di voci che si confondono, m’aveva ieri messo i nervi (poco vestiti di consueto da qualche settimana a questa parte) completamente a nu-

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do... [...] Così fui placato soltanto quando verso le undici e mezzo, terminato finalmente di dettare una lunghissima serie di lettere d’ufficio, potei infilarmi, come una spada nella guaina, dentro il mio meraviglioso “sacco a piuma”. Ultima novità della stagione, [...] il quale consiste in una specie di busta stretta e lunga più di me, le cui pareti sono fatte da un doppio panno intramezzato da uno strato di lana trapunto come i nostri coltroni. Detto sacco, che ha all’incirca la forma e le dimensioni del mio lettino, si mette sopra il materasso e sotto le coperte, in modo che la sera, invece di entrare sotto le coperte soltanto, si entra in questa specie di morbido astuccio che non lascia passare l’aria da nessuna parte. Piero ha diritto ad una licenza di quindici giorni e gran parte delle lettere della seconda metà di gennaio sono dedicate a questo argomento e a fugare le preoccupazioni di Ada che le due settimane non siano pienamente godibili sia per i doveri verso il piccolo Franco sia per il fatto di non disporre di una casa propria e di dover alloggiare presso la famiglia Calamandrei. Di ritorno dalla licenza, il 22 febbraio, Piero scrive da Vicenza prorompendo in un grido disperato: «Non so dirti, amore, quanto vuoto, quanta amarezza, quanta disperazione ho nel cuore: quanta ribellione, anche. Per che? Per chi?Per che, per chi questo tormento?». Apprende che il reggimento trascorrerà un periodo di riposo in un paese delle retrovie, Marano, vicino Schio.

MARANO

2 marzo 1918, ore 9,30 Stanotte ho dormito in un letto, spogliato, coi lenzuoli bianchi e con una lampadina elettrica a capo del letto... Finalmente ieri mi lasciarono partire dalla valle ove ho passato dieci mesi interrotti solo dalla licenza: e feci fin qui il viaggio comodamente, parte in automobile e parte in sidecar, giungendo qui, nel paesetto ove siamo a riposo, ieri sera a buio, e subito trovando cordiale ospitalità alla mensa del III Battaglione ov’ero atteso. Mi avevano anche già trovato la camera, e gli ufficiali del Battaglione mi ci accompagnarono dopo la mensa, attraverso un labirinto di strette viuzze

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piene di fango e di tenebre; e alle otto e mezzo ero già a letto e già avevo spento la lampadina. [...] La mia camera è al 1° piano. A terreno si passa da una cucina affumicata e oscura, da contadini (sono, infatti, in una casa di contadini: la padrona di casa è una donnotta di una quarantina d’anni, con due bambini già grandetti) e si sale per una brutta scaletta di legno fino alla camera, la quale, invece, mantiene assai di più di quanto la stanza a terreno abbia promesso. È una stanzetta quadrata, larga circa 5 metri, col soffitto basso e coll’impiantito di legno, colle pareti tinte di bianco, e con due finestre, tutt’e due sulla stessa parete. Il letto è di legno, molto alto, a molle, con sopra una coperta bianca e in basso un piumino rosso coperto da una trina bianca. Il cassettone ha uno specchio: le finestre hanno piccoli pendoncini e tende bianche. Al disopra del letto sono appesi due quadri, in uno dei quali è scritto: «Credi in Dio, ed il tuo Angelo custode ti proteggerà»; e nell’altro: «Gesù, Maria, Giuseppe, illuminateci, soccorreteci, salvateci e così sia...». Alle pareti inoltre, esistono vari crocifissi, pilette per l’acqua santa e immagini sacre... La mia condizione, qui, è per ora una condizione d’attesa. Fra tre o quattro giorni torna qui Rolandi Ricci, e forse mi rivorrà con sé; ma con probabilità mi vorranno alla Divisione, dove ieri, passando, mi fermai per un’oretta, e dove da più parti ebbi indizi che stanno preparando una mia ascensione fino al comando di Divisione, nonostante il colonnello Albano il quale, andando in licenza, raccomandò che io dovessi attenderlo qui a riposo, per seguire la sua sorte... 4 marzo 1918, ore 8,30 Anche oggi piove... Notizia non molto interessante né molto intima, dirai; ma anche questa notizia, anzi questa più di ogni altra, serve a darti un’idea esatta di quello che è il paese che mi ospita: paese piovoso, grigio, nebbioso, fangoso... Lasciai la Val Posina colla neve, e, scendendo in pianura, trovai la pioggia che coll’intervallo di qualche pomeriggio, continua da tre giorni pacificamente. E così, il colore locale è questo: uno spianato di casucce più o meno misere, perdute in mezzo ai campi per ora nudi e desolati, e racchiudenti tra di loro delle strade nelle quali la melma è alta

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mezzo metro, tantoché quando vi passo colle mie lunghe gambe avvolte nelle fascie, penso, con molta verosimiglianza, a un trampoliere in palude... Il paese possiede un locale, ove si dà il caffè amaro per mancanza di zucchero e, invece di vera Strega, un liquore giallastro che è, al dire della padrona, una «ottima imitazione della Strega»; possiede una chiesa grande e bianca con un campanile aguzzo, sorella di quella di S. Vito; possiede un ufficio postale, una rivendita di sale e tabacchi, una rivendita di giornali; e, sulle porte, molte donne, molti bambini e qualche vecchio che parla come Zago in pretura... Aggiungi a tutto questo, sotto il cielo basso e plumbeo che si riflette nel fango, un continuo passeggiare di soldati e soldati vestiti dei loro cappottoni scuri che, a cinque a cinque, prendendo tutta la larghezza della via, si ricreano dalle fatiche della trincea. [...] Il Battaglione è comandato da un maggiore giovane, un po’ malinconico e un po’ neurastenico, ma intelligente e simpatico: ed io che sto a mensa accanto a lui cerco di consolare le sue malinconie incitandolo a prender moglie, mentre egli ha l’intenzione appena terminata la guerra, di andare in Eritrea, sotto il gran sole fiammante, in mezzo alle donne nere... 9 marzo 1918, ore 8 E comincia, amore, un’altra giornata: un’altra giornata di cui nulla m’importa e che rappresenterà nella mia vita, come tutte rappresentano qui, un vuoto senza colore... Prima delle sette ero già semisveglio: udivo, giù nella cucina, i passi della padrona mattiniera, e per la via i primi chiacchiericci delle comari che si danno il buon giorno; ma non riuscivo a ricostruire bene dov’io fossi. A tratti, mi pareva che giù dovesse esservi Via del Castellaccio e che questa mia camera fosse un po’ diversa da quella che è... Poi ho udito le sette battere al campanile e una tromba militare squillare l’adunata: ho aperto pigramente gli occhi ed ho veduto sulla parete alla sinistra del mio letto, opposta a quella dove sono le due finestre, un debole riflesso di sole, partente da quella piccola lista di cielo sereno che sta tra la linea dell’orizzonte e la linea grigia delle nuvole basse. Il sole mi ha salutato così, passando per quel breve tratto di cielo sgombro, e poi è disparito. Ho richiuso gli occhi, non so se pensando o sognando. Se tu mi fossi stata vicina, avrei saputo dirti dolcissime co-

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se misteriose: le avresti intese, anzi, senza che te le dicessi colla parola. Avresti risposto loquacemente col tuo silenzio al mio. Saremmo passati senza accorgercene dal sogno alla realtà più dolce del sogno. Avremmo fatto tornare indietro il sole, per noi due soli... Invece... sulla parete, fuggito quel breve palpito di luce, sono restati solamente il mio elmetto grigio, appeso a un chiodo, e la borsetta bruna contenente la maschera antiasfissiante, anch’essa appesa a un altro chiodo: malinconici oggetti dai colori medi, oziosi qui dove si pensa solo a riposare. [...] Ierisera, prima di addormentarmi, ho finito di leggere La petite soeur de Trott1, che m’è piaciuto veramente moltissimo, specialmente negli ultimi due capitoli così malinconici e così delicati: nessuno come noi, amore, è in grado di apprezzare il tenue profumo di verità che emana dalle pagine di questo libro. Oggi, per il tramite della posta borghese, ti rimando per non ingombrare inutilmente il mio bagaglio questo libro insieme coll’altro di Papini che ho già letto. Mandami la «Lettura». [...] Probabilmente a Schio tornerò oggi, per leggere con calma, al Tribunale di guerra, il processo di quel tenente, che deve avere il dibattimento di giorno in giorno: nel pomeriggio di ieri, tanto per far qualcosa, passai più di un’ora qui in camera a rileggere le lettere che egli mi ha scritto e a coordinare gli elementi della difesa. 10 marzo 1918 Dopo la mensa il maggiore con altri ufficiali, invece di limitare la sua passeggiatina serale alle vie interne del paese, si spinse, profittando della notte calma e serena (si vedevano soltanto, lontano lontano, forse verso il Grappa, vampe rossastre di cannonate di cui neppur s’udiva il rombo) sulla strada diritta e piana che conduce a Thiene, distante di qui meno di un’ora di cammino: e camminò camminò chiacchierando senza dire quale fosse la sua intenzione. Finalmente, dopo una mezz’oretta di passeggiata, manifestò la sua intenzione di arrivare fino a Thiene, che è un paese di delizie... Allora io mi feci capo del partito opposto, che sosteneva invece l’opportunità di tornare a Marano: e dopo lunga di1

André Lichtenberger, Parigi 1898.

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scussione ci dividemmo in due gruppi, uno formato dal maggiore con tre ufficiali, che proseguirono, l’altro formato da me con un altro capitano, che retrocedemmo... Ti scrissi, ierimattina, che nella giornata di ieri sarei andato a Schio: vi andai infatti ieri dopo le due, in bicicletta. Giunsi prima delle tre, bevvi una menta al seltz che mi guarì della sudata fatta e poi andai subito al Tribunale di Guerra dove, fino alle cinque e mezzo stetti a scartabellare gli incartamenti dai quali la condizione del mio “cliente” che avrà il processo in questa settimana mi appare sempre più compromessa. Speriamo... Oggi, nel pomeriggio andrò a trovarlo al carcere militare, che è vicino al Comando della Divisione ove stasera sono invitato: andrò e tornerò in bicicletta.

Morte del cugino Carlo 14 marzo 1918 Ieri mattina, mentre ero in attesa della mensa, e leggevo sbadatamente un «Corriere» che avevo tolto di tasca a un commensale, mi caddero gli occhi sulla nota dei morti per la patria: e il leggervi il nome di Carlo2 mi strappò un grido, al quale seguì una infinita malinconia... Un altro, un altro ancora dei mille e mille. Da allora non ho fatto che pensare allo strazio dei Pimpinelli, specialmente a quello della povera zia che certo soffre più di tutti. 15 marzo 1918, ore 8,30 Tu sei un pochino curiosa di sapere con precisione che cosa io faccio qui; ma la tua curiosità non può essere appagata in modo soddisfacente, poiché bene bene non lo so neppure io... Come ti ho detto tutti i miei superiori mi hanno manifestato l’intenzione di darmi un posto «degno di me» (!!), probabilmente al comando di Divisione; ma per ora nulla è deciso, e siccome io non posso andare a sollecitare la decisione, bisogna che stia qui in attesa, facendo quello che mi fanno fare (ossia... quasi niente). 2 Carlo Pimpinelli, cugino primo di Piero, per la cui tomba al cimitero di Scrofiano Piero avrebbe scritto l’iscrizione lapidea: cfr. infra, pp. 350 sg.

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Lessi il racconto fattomi da Franco della sua caduta. Ed io, a Franco voglio rispondere così: «Senti, folletto che non vuoi più star fermo, non tua è la colpa di quel volo fortunatamente innocuo che t’è accaduto di fare. La colpa è della mammina, la quale, non si sa perché, ha sempre avuto poca simpatia per le cune fatte apposta per cullare i bambini (forse perché sono troppo... tradizionali) e non ti ha mai riconosciuto il diritto, povero Franco, di un lettino tutto per te, con i suoi ben fermati cancelletti, che t’impedisca di volare senz’ali... Ma tu, ora, devi colla tua manina prendere una ciocca di capelli dalla fronte della mamma, e cominciare a tirare e ad agitare le manine in modo da farle male: e quand’ella strillerà, dille che tu a tutti i costi vuoi un lettino... piccolo piccolo, che non dia noia a nessuno, che stia nascosto in un angolo... ma insomma un lettino come hanno tutti i bambini buoni! Hai capito, Franco? E allora, se mi prometti di fare come ti ho detto, ti regalo tante carezzine, così…». Speriamo che Franco mi dia retta...

«Questa accozzaglia di persone sconosciute» Piero descrive le sue giornate a Marano, trascorse in compagnia di Policreti, e in gite a Schio. Spesso lo assale un sentimento di totale estraneità.

19 marzo 1918 Amore, amore mio, che giornate vuote, che anima grigia e svogliata, che monotonia d’ore inutili e pesanti, che ripetersi di giorni e di eventi tutti uguali, senza una certezza, senza una ragionevolezza! Certe volte, mentre siamo alla mensa, e anch’io prendo parte alla conversazione, ed ho l’illusione di trovarmi in mezzo ad amici, poiché mi trovo in mezzo a persone che mi danno del tu, mi cade all’improvviso la benda dagli occhi e resto sorpreso, quasi atterrito di trovarmi in mezzo a questa accozzaglia di persone sconosciute, che io non ho mai chiamate a far parte della mia vita, che nulla sanno di me com’io nulla so di loro, che ignorano i miei affetti e le mie speranze, che seguono ognuna un proprio filo di egoismi e mi passano accanto senza infrangere la parete che circonda e tutela il mio egoismo. Così così, per quanto ancora?

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22 marzo 1918 Ho fatto stamani quel tratto di strada piana che separa Marano dal Comando in mezzo a un’arietta un po’ frizzante ma non più cruda, che sapeva proprio di primavera. Ho trovato dei bambini che andavano a scuola, e ho udito, da un gruppo di casolari dove fa i suoi esercizi la musica reggimentale risuonare le note di quella danza rusticana ch’è nel primo atto del Mefistofele: qualche strumento non sapeva la parte, ma in complesso la suonata andava bene. E mi son fermato a udire, parendomi strano che il mondo continui ad esser bello così e così calmo, e che la musica continui ad essere così dolce mentre questa nostra vita seguita a svolgersi immutata così. Il 24 Piero manifesta ansietà per l’offensiva tedesca in Francia ed auspica un esito risolutivo: «Se i Tedeschi le prendessero si sarebbe vicini alla fine». Continua la sua polemica con gli imboscati.

25 marzo 1918, ore 8,30 Il pomeriggio domenicale di ieri fu un po’ diverso da come, seguendo ormai la consuetudine, me l’ero immaginato. All’ora della mensa il Colonnello Albano mi comunicò che verso le due del pomeriggio sarebbe venuto a prenderlo una automobile per portarlo a conferire a un Comando che si trova a S. Martino Buonalbergo, un paesetto a cinque chilometri da Verona: e mi invitò a accompagnarlo per fare una gita di piacere, profittando della giornata serenissima. Accettai volentieri. Così verso le due, arrivò la vettura che doveva portarci a gran velocità molto al di là di Vicenza: appena la vettura vuota giunse dinanzi al nostro Comando, mi parve di riconoscere nel meccanico (cioè in quel soldato che sta a cassetta, accanto al guidatore) uno dei più eleganti ed aristocratici giovani fiorentini, un tipo altezzoso di fannullone che tante volte ho veduto dinanzi al Club dei Nobili in Via Strozzi. Lo guardai fisso, e mi parve che anch’egli mi riconoscesse. Scese da cassetta, ci aprì lo sportello, ci aiutò a metterci i cappotti: e allora, io che non do mai del voi ai soldati veri gli domandai, con aria capitanesca, a voce alta: «Voi, meccanico, siete fiorentino?». «Signorsì». «Come vi chiamate?». «D.» E diventò rosso come un peperone. Ove si vede che il barone D. pur di non andare alla guer-

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ra non disdegna di scendere a servigi che prima della guerra egli si faceva fare dal suo lacchè... Miserie: lasciamo andare. La gita fu invece meravigliosa: più d’un’ora di corsa pazzesca per la pianura dorata dal sole, per larghe strade diritte dove incrociavamo tra nuvoli di polvere lunghi cortei di truppe italiane francesi e inglesi e muli e autocarri e cannoni: e più lontano passavano sui colli torri rossastre di quei paesetti che ridono nei versi del Barbarani3, e ville bianche e coltivazioni immense che ignorano la guerra e riescono ancora a sorridere. 29 marzo 1918, ore 8,30 Ieri sera verso le otto, subito dopo la mensa eravamo – il Colonnello, Policreti, io ed altri due ufficiali – sulla piazza di Marano, tutta piena di soldati che attendevano di sentir suonare la ritirata e si girellava così senza una meta, svogliatamente: il Colonnello domandò che cosa proponevamo per passare la sera: io proposi di andare a letto; gli altri stettero zitti. Quand’ecco, lì sulla piazza, trovammo un gruppo di ufficiali di un altro Reggimento, i quali possiedono una carrozza “requisita” (dicono) durante la ritirata da Udine. Il Colonnello senz’altro li affrontò, domandando loro se ce l’avrebbero prestata per qualche ora per andare a fare una gita a Schio: e quelli, naturalmente, non poteron dire di no. Così dopo una mezz’ora era lì pronta ad attenderci una vettura chiusa tirata da un bel cavallo, un attacco del tutto simile a quello di un fiacre fiorentino: anche il cocchiere, che era un soldato, ricordava Firenze e subito me ne accorsi dalla favella. Alle mie domande, rispose: «Io sono di Prato anzi po’ddì meglio, di Vaiano; mi chiamo Collini e a casa mia facevo i’vvetturino...». Chissà che qualche volta non sia stato il postiglione di qualcuna di quelle terribili diligenze che ti portavano a Jolo... Dunque salimmo: quattro dentro, colle gambe industriosamente intrecciate, e uno fuori, a cassetta. Dentro la vettura era tutta signorilmente imbottita di nero, e coi vetri ben chiusi non lasciava passare neppure un alito del frescolino notturno. Una vettura sciupata, bella così, per quattro ufficiali sfaccendati... Giungemmo a Schio dopo le nove, prendemmo un indefinibile bicchierino in un bar, e poi andammo al solito cinematografo, dove si 3

Berto Barbarani (1872-1945), poeta veronese.

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svolgeva un dramma sentimentale, in cui una principessa russa, venendo a Napoli e incontrando a Posillipo un povero pittore che non dà noia a nessuno, se ne innamora e si mette in testa l’idea di avere un bambino da lui (che gusti hanno le principesse russe!): e in tale lodevole intento lo rapisce e lo porta in giro per l’Italia, finché, accortasi che le cose sono a buon punto, ritorna in Russia lasciando il povero pittore nella disperazione. Come vedi, si tratta di un dramma impressionantissimo; ma quello che mi interessò e un pochino mi commosse fu che la coppia durante la... costruzione dell’erede, va peregrinando di città in città, in modo che a un tratto mi vidi apparire sulla tela Piazza della Signoria, e il David del piazzale Michelangelo e il panorama di Firenze dal Viale dei Colli.

Pasqua festeggiata con putipù e triccaballacche 31 marzo, ore 8,30 Stamani, per festeggiar la Pasqua, il Colonnello ha messo su una festa di tutto il Reggimento a base di corse nei sacchi, cuccagna ed altri giuochi tradizionali; e per la occasione ha fatto costituire fin da ieri una musichetta strana, tipo Piedigrotta, costituita da un flauto, un mandolino, due chitarre e molti strumenti speciali uno dei quali si chiama pu-ti-pu, ed è una specie di tamburello, un altro triccaballacche ed è una coppia di martelletti di legno che si suonano battendoli insieme, e un terzo di cui non ricordo il nome anche più arabo, che è formato con piccole lastre di latta ballonzolanti per una verga di legno. Questa orchestrina, ierisera, venne a provare dinanzi alla mensa per avere l’autorizzazione del Colonnello: e appena si fu mangiato il Colonnello volle seguirla con tutti noi ufficiali e ordinò che andasse in giro per il paese a far le serenate alle autorità. Andammo prima al terzo Battaglione, poi dal Sindaco, poi dal Comandante la Brigata: i suonatori restavano fuori a strimpellare selvaggiamente, e gli ufficiali andavano dentro a prendere il caffè. 1 aprile 1918, ore 8,30 Il giorno di Pasqua, pure in una apparenza di tranquillità e quasi di allegria, non poteva essere più malinconico, e più tormentato,

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sotto le apparenze, da amara mestizia. Iermattina appena ebbi finito di scriverti ed ebbi consegnato la lettera al postino, andai in piazza d’armi a raggiungervi il Colonnello che assisteva alla festa pasquale del Reggimento. La piazza d’armi è un grande spiazzato a un quarto d’ora da Marano, già coperto d’erba, ma ora in gran parte nudo e sterrato per il continuo passarvi dei soldati: e intorno intorno, dove finisce lo sterrato, ha una corona di alberi ancora senza foglie. Era una giornata grigia e caliginosa, ieri: e quando entrai in quel gran campo, nel quale i tre battaglioni erano dispersi qua e là in più gruppi, ebbi un senso di tanta malinconia vedendo profilati sullo sfondo azzurrastro dei monti che terminano la pianura quegli alberelli desolati uno accanto all’altro, che coi loro rami esili senza fogliame costituivano una specie di merletto bruno, troppo invernale per il giorno di Pasqua. Dietro al Colonnello che era a cavallo girai tutta la mattina in bicicletta su e giù per il campo: vidi il giuoco della pentolaccia, la corsa coi sacchi, la cuccagna: due fanfare e quella orchestrina selvaggia che ti descrissi suonavano ininterrottamente durante il trattenimento. Ci trattenemmo lì fin verso mezzogiorno: e tornammo a Marano ognuno per conto suo. Io tornai a piedi, e durante la via, mentre traversavo un gran prato, udii alla chiesa di Marano suonare mezzogiorno: e pensai che a quell’ora andavate a pranzo. [...] Il nostro pranzo pasquale fu al tocco: mangiammo bene, come sempre si mangia quassù, e terminammo con un mille-foglie fatto da un cuoco fiorentino, che non aveva nulla da invidiare a quelli che la Mamma ordinava in Piazza Madonna; fu anche un pranzo rumoroso, come tutti quelli d’ufficiali: e il Colonnello Albano, uomo refrattario alla malinconia, disse che meglio di così la Pasqua non si poteva passare. Un nuovo processo a Schio Piero si scusa per aver lasciato Ada senza notizie, preso da un processo che gli pareva «molto grave e molto problematico». Il risultato, però, è stato positivo.

4 aprile 1918, ore 1,30 pom. A Schio non ebbi un minuto di respiro: il processo, che doveva sbrigarsi in un giorno, durò invece un giorno e mezzo, e soltanto

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ierimattina alle undici si ebbe la sentenza: e fino a quell’ora, tu lo capisci, mi mancò materialmente il tempo per scriverti e moralmente quella libertà da ogni preoccupazione con cui voglio poterti scrivere. Fui molto lieto, però, che la mia fatica di due giorni portasse a un resultato concreto come fu la sentenza di piena assoluzione, nella quale fino all’ultimo momento io sperai pochissimo: e ripartii abbastanza soddisfatto su un omnibus automobile che da Schio parte per Vicenza al tocco, dopo aver mangiato in fretta in compagnia di Policreti che per combinazione iermattina, trasferendosi col Reggimento al Novegno, poteva aver libere un paio d’ore per stare con me. 7 aprile 1918, ore 8 Ierisera verso le otto, subito dopo la mensa, mi venne l’idea di andarmi a provare una giubba nuova che da molti giorni è in fabbricazione presso il sarto militare del reggimento. Il sarto, come tutti i militari qui a Marano, è alloggiato in una casa di borghesi: e la sua macchina da cucire e tutto il suo laboratorio e tutti i suoi ritagli grigioverdi sono stabiliti nella cucina di una casa di contadini che, nonostante l’ospite, seguitano ad abitare le loro stanze ed a attendere alle loro occupazioni. Entrai nella cucina, e vidi, seduta al tavolino, una ragazza, che mi parve discreta ma che non potei giudicare bene perché non alzò la testa, la quale scriveva una lettera con grande attenzione. Il sarto mi disse che bisognava mi levassi la giubba che avevo per provarmi quella nuova: e allora io, da perfetto gentiluomo qual sono, domandai: «permette, signorina...». Soltanto allora la ragazza si accorse di me: e quando ebbe capito di che si trattava, si mise a ridere e disse: «Oh, ch’el faza pure». Così, mentre ella continuava a scrivere, cominciò la prova, durante la quale il sarto si convinse che le maniche erano troppo corte e che conveniva allungarle: mai mi è accaduto, durante la prova di un vestito, che le maniche resultassero troppo lunghe... Udendo le mie proteste sulla eccessiva brevità delle maniche, la ragazza di nuovo alzò la testa, e considerandomi esclamò: «Madona mia, che anima lunga!». Questa osservazione un po’ irriverente mi autorizzò a farle di rimando qualche domanda indiscreta: «Lei, signorina, sta scrivendo al suo fidanzato...». «Sì signor». «È soldato?» «Sì signor: artigliere di montagna». «E cotesta lettera è molto calda?» «Un po’

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calda e un po’ fredda...» «O quando si sposano?» «Eh, quando vegnarà la pace...» «Allora presto, in autunno...» «Volesse il ciel che lu dica il vero!» «Sì, sì, stia tranquilla signorina (intanto la prova era finita): pensi soltanto a prepararsi per allora delle belle camicine ricamate...». E così finì la conversazione.

Un nuovo incarico: propaganda e assistenza morale dei soldati Piero esprime soddisfazione per essere stato inquadrato nell’Ufficio di propaganda dell’esercito, un incarico in cui finalmente sente di poter dare il meglio di sé. Si apre una nuova fase della sua partecipazione alla guerra, di grande attivismo e immedesimazione, con funzioni politiche e culturali e non più esclusivamente amministrative e giudiziarie.

8 aprile 1918, ore 8 Domani tornerò dov’eravamo nel gennaio e nel febbraio, nel mio regno. Torno là, sempre addetto al Comando di Reggimento (che sostituisce l’antico Comando di Settore), con un incarico molto delicato e molto soddisfacente che già ti ho accennato: dedicarmi esclusivamente a vigilare e assistere l’anima dei nostri soldati, cercando in tutti i modi e con tutti i mezzi di render meno dura la loro vita. È il più nobile ufficio che mi poteva esser dato (non è una carica speciale al Reggimento: è una carica nuova istituita in tutti i Reggimenti): e mi ci dedico con piacere.

VERONA

11 aprile 1918, ore 10 Da un caffè pieno di divani di velluto rosso, uno dei quali è occupato da tre vecchi signori che stanno spiegando una sciarada, tento, in una mezz’ora di tempo che mi resta, di spiegarti il mistero di questo mio viaggio. Dunque tu sapevi che avevo avuto al Reggimento l’incarico della propaganda e assistenza morale dei soldati e che mi accingevo a ritornare il 9 scorso nei miei antichi regni.

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Ora nel pomeriggio del giorno stesso, mentre già avevo spedito l’attendente colla roba a trovarmi la camera in qualche catapecchia e mentre attendevo di mettermi anch’io in viaggio con Policreti per la Val Posina, è venuto all’improvviso un ordine del Comando d’Armata il quale mi ingiungeva di partire subito per la località dove sta anche lo zio Stefano, dove avrei dovuto presentarmi al capo dell’Ufficio Propaganda per essere destinato a un incarico di maggiore importanza... Passai la giornata e parte della notte a richiamare il mio attendente, a preparare i bagagli, a salutare gli amici del 218°, e iermattina mi levai alle 5 e da Policreti fui accompagnato con un carrozzino fino a un certo punto della strada dove salii su un autocarro che verso le 12 giunse al Comando d’Armata. Mangiai alla Tappa di Stefano, e poi andai a presentarmi al capo Ufficio Propaganda (che è un avvocato fiorentino, Casoni) il quale, avendo letto il mio nome fra quelli degli ufficiali dell’armata, mi aveva scelto in segno di fiducia per organizzare la propaganda e l’assistenza morale al XXIX Corpo d’Armata, dove senz’altro mi diresse. Venni a Verona, qui mangiai ierisera e ho dormito stanotte dalle nove di ierisera alle otto di stamani in un albergo; e poi mi son ripulito e reso degno di presentarmi a un grande Comando (giubba nuova, berretto nuovo comprato ierisera, ahimè, baffi rasati in segno di solidarietà cogli alleati inglesi), e subito son venuto qui per scrivere a te, riservandomi, si capisce, di scriverti per benino e a lungo appena sarò a destinazione e avrò un bell’ufficio del quale io sarò il riverito capo... Il mio indirizzo preciso è: «Comando XXIX Corpo d’Armata. Centro Collegamento P». Quel P, cabalistico, vuol dire semplicemente Propaganda. Di questo trasferimento sono stato lieto per due ragioni: 1° perché è un incarico di gran fiducia, in cui si possono esplicare attitudini intellettuali e morali; 2° perché so che il trasferimento sarà per te causa di maggior tranquillità.

VAL LAGARINA

12 aprile 1918, ore 9 Giunsi ieri sera qui, affrontai le numerose presentazioni, mi trovai una camera, inaugurai la mensa, vidi il mio ufficio (dal quale

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ora ti scrivo), cominciai un po’ ad orientarmi e ad ambientarmi. Ho trovato persone simpatiche con cui ho già cominciato a intendermi: un capitano dei carabinieri, Conti, che è pistoiese e parla dolcemente toscano; un capitano d’artiglieria, Severi, aretino, nipote del Senatore, che è professore all’Università di Padova e quindi triplicemente collega con me: in grado in cattedra e in regione. Ho tutto da impiantare, qui: ho da metter su l’ufficio, mobili e scritturali: ho da conoscere tutti gli ufficiali dei Reggimenti che dipendono da me, ho da inquadrare il mio lavoro. [...] Ma mentre ierisera, appena arrivai, mi sentivo un po’ scoraggiato per il gran compito che mi è affidato, stamani dopo un buon sonno in un buon letto, mi sento più ottimista: e ho fede che riuscirò a fare qualcosa di buono, e di conseguenza qualcosa che dispiacerà ai tedeschi. Sono in fondo a una valle, in un bel paesino ove son sempre gli abitanti, tra due pareti di montagne rocciose, lungo un bel fiume: ogni tanto sento fischiare il treno che passa... 12 aprile 1918, ore 22,30 Come sai, qui si tratta di fare in grande, su diecine di migliaia di uomini, quello che avevo cominciato a fare nel Reggimento: naturalmente non posso fare ciò direttamente, ma debbo farlo per il tramite di molti ufficiali che stanno nei Reggimenti, coi quali vado via via a mettermi d’accordo radunandoli ai Comandi di Divisione o di Brigata. Fin da oggi ho iniziato questa mia propaganda ambulante: e su un velocissimo sidecar sono andato nel pomeriggio in due paesini della vallata e ho passato così quasi senza accorgermene il pomeriggio. Non so neanch’io capire come mi trovo qui e perché, mentre tre giorni fa mi preparavo a mettermi in viaggio per i soliti luoghi e già pensavo ai peschi fioriti lungo l’acqua limpida ricca di trote!

Un teatro di burattini per i soldati 14 aprile 1918, ore 11,30 Nel pomeriggio di ieri, su una bella automobile messa a mia disposizione, me ne andai per paesi nuovi a tenere due riunioni: una

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in un paese in fondo alla valle, l’altra in cima a una montagna nevosa dove i nostri soldati hanno costruito in modo miracoloso una strada capace di portar su gli automobili. Ritornai a buio, dopo aver parlato con mille persone diverse, e durante il viaggio di ritorno, semidisteso in un angolo del divano molleggiante e quasi ipnotizzato dal rumore ritmico che facevano sulle tendine le goccie di una pioggerella a vento, vedevo la lettera che doveva attendermi nella mia camera. [...] Oggi andrò di nuovo in giro, forse in sidecar, nelle vicinanze: ho saputo che qui vicino deve trovarsi, ufficiale, quel Podrecca che dirigeva la rivista Primavera4 e che ha istituito a Roma il Teatro dei Piccoli: e voglio andare a conferire con lui, per metter su anche qui un teatrino di burattini per i soldati. 14 aprile 1918, ore 21,30 Nel pomeriggio di oggi sono partito alle due, prima che fosse giunta la posta: e mi sono fatto portare dal sidecar alla località più lontana, dove, come ti ho detto, dovevo parlare con Podrecca per metter su un teatrino di marionette da mandare vicino alle trincee. Ho trovato il Podrecca, tenente degli alpini, sono stato con lui a parlare per più di un’ora, promettendogli che dopo guerra andremo a vedere a Roma La bella dormiente nel bosco data dai suoi burattini, e poi, nel tornare indietro per andare all’altra località a trovare un ufficiale pittore che deve farmi delle caricature per cartoline di propaganda... mi sono fermato qui a casa.

Una predica a degli ufficiali riuniti 15 aprile 1918, ore 19 Amore, tu non imagini mai di dove ti scrivo... Sono seduto su un paracarro, lungo una strada maestra: dietro alle mie spalle ho un mascheramento di stuoie, e in un paesetto vicino, abitato solo da soldati, sento dei cori che si diffondono in lunghe cantilene. Il so4 Rivista alla quale Piero aveva collaborato con novelle per ragazzi, una delle quali intitolata La bella dormiente nel bosco.

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le è tramontato, fra poco sarà buio. Su un monte che è di fronte a me, tutto immerso in una nebbia azzurra, sento un usignolo che gorgheggia a gran voce... Sono venuto stamani fino al paese su un’automobile che non era per me solo: sopra c’erano altri ufficiali che dovevano andare più avanti di me e che nel pomeriggio dovevano ripassare in giù coll’automobile per riprendermi. Ora io attendo che ripassino: ho mangiato a mezzogiorno alla mensa di un generale, dalle due alle quattro ho fatto una predica a degli ufficiali riuniti. E poi, esaurito il mio compito, ho salutato tutti e mi son messo sulla strada ad aspettare.

Un particolare comico 17 aprile 1918 Il mio attendente, poveretto, è un brav’uomo, ma come ti ho detto non è eccessivamente geniale. Un particolare comico (chiedo scusa per la... intimità): la prima mattina in cui mi venne a svegliare si accorse, nel mettermi in ordine i panni, che le mutande erano sempre infilate dentro i calzoni: così me le ero tolte in blocco per far prima a entrare a letto. La mattina dopo, nel far la stessa funzione, si accorse che lì sulla seggiola le mutande erano invece separate dai calzoni... E allora con tutta la buona volontà si mise a rinfilarcele, credendo di favorirmi... E così fa ogni mattina, ed io non ho il coraggio di togliergli l’illusione. Soltanto, quando se n’è andato e mi lascia solo, devo per vestirmi sfilare da me le mutande dai calzoni... Il 18 Piero si reca a Verona per rendere conto al capitano Casoni del suo operato. Ne approfitta per andare a trovare lo zio Stefano Tarugi, promosso nel frattempo colonnello, che gli dà notizie dirette e rassicuranti di Ada e di Franco, avendoli visitati a Firenze: «Mi ha parlato di Franco con tanto entusiasmo: di Franco che stava nel bagno con tanta dignità e imperturbabilità, e si reggeva i piedi colle manine, ridendo. E di te, mentre temevo che Stefano mi dicesse, con frase in lui abituale, “l’ho trovata un po’... sciupatina”, mi ha detto invece: “Ada l’ho trovata benissimo”». Piero chiede ad Ada di trovargli l’indirizzo del caricaturista Scarpelli, rivolgendosi magari all’editore Bemporad o a Vamba; ne ha urgente bisogno per il suo lavoro.

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Vita di perpetuo moto Piero è impegnato a organizzare una rete di collaboratori e a dare impulso al Servizio P.

20 aprile 1918 Tu sei preoccupata per la mia vita di perpetuo moto; ma non devi credere che ogni giorno sarà uguale a questi primi, in cui, per organizzare il servizio e conoscere i miei collaboratori, devo girare molto spesso e giungere fin dove può giungere l’automobile. Ieri, per esempio, salvo una piccola corsa in sidecar per trovare Podrecca (che ho già spedito d’urgenza a Roma a prendere tre teatrini per metterli subito in azione) stetti quasi sempre qua nella mia baracca, entro la quale entrano a tutte le ore del giorno ed anche ora, i trilli degli usignoli che fanno all’amore nel parco. 22 aprile 1918, ore 1 pom. Stamani ho avuto molto da fare, e, nonostante il discreto freddino che faceva nella mia baracca (ieri, sui monti, c’è stata la tormenta con mezzo metro di neve) sono arrivato a mezzogiorno quasi senza accorgermene, scrivendo lettere e il testo di manifesti da dare a stampare per la propaganda e meditando qualche articolo per un giornale di Verona molto diffuso tra le truppe. Ora, appena avrò finito di scriverti, tornerò lassù a terminare quello che avevo iniziato, e poi in un sidecar andrò per questi paesetti vicini in cerca di una tipografia che mi serva con sollecitudine ed a poco prezzo. E tornerò verso le sette, come feci anche ieri, e mi resterà appena il tempo per aprire la posta d’ufficio giunta in mia assenza e per venir giù alla mensa, dove siamo liberi e inosservati perché siamo in tanti. Piero si scusa per la brevità delle lettere, occupato com’è a preparare la visita di Comandini5 e poi del poeta Bertacchi6, di cui riferisce

5 Ubaldo Comandini, ministro dell’Assistenza e della propaganda interna, repubblicano. 6 Il poeta e critico letterario Giovanni Bertacchi (1869-1942).

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in lettere successive. A complicare l’organizzazione c’è anche l’annuncio dell’arrivo a Verona di quattordici milanesi «recanti doni per i nostri soldati».

28 aprile 1918 ore 7,30 Mi pare di averti detto nella lettera di ieri l’altro che stavo aspettando l’arrivo del poeta Bertacchi che doveva venire a fare qualche conferenza in questa zona. Difatti egli giunse, e il 26 lo accompagnai in vetta a un monte ove anche nella notte era caduto un palmo di neve e lì, dopo che egli ebbe detto a una riunione di ufficiali cose molto sentite e molto fini e forse troppo alte per essere alla portata delle menti medie, fummo invitati a colazione da una mensa di alpini ove ci fu perfino servito un dolce quasi cittadino che a Firenze certamente non si mangia. Anche nel pomeriggio di ieri l’altro, quando fummo tornati qui, dovetti passare quasi tutte le mie ore col Bertacchi, per non lasciarlo solo e disorientato in mezzo a estranei, dato che (come tutte le persone intelligenti) è un po’ rustico e con me già si era perfettamente affiatato. Ed eccoci a iermattina; nuova partenza per tempo in automobile, per accompagnare Bertacchi in un paese della vallata, ove doveva parlare ad altri ufficiali riuniti in una chiesa: altro ricevimento, altre presentazioni, altro discorso... [...] Vo alla Stazione, aspetto aspetto il treno che aveva un ritardo di mezz’ora, e finalmente, quando il treno arriva... apriti cielo! Dai finestrini ti vedo comparire quattordici teste di sorridenti borghesi maschi, alcuni molto adulti, altri molto adolescenti, i quali si rivolgono a me come se io già da qualche settimana avessi dovuto preparare le loro camere e il programma dei festeggiamenti. Da questo momento la storia precipita in una vertiginosa successione di eventi: ebbi appena tempo di correre a salutare il prof. Bertacchi e di chiedergli scusa perché mi era impossibile accompagnarlo alla stazione; e poi via in giro coi donatori milanesi a cercar camere e mense, via in automobile a concordare il programma per oggi, via a far fonogrammi e a dare e a ricever ordini e contrordini... 1 maggio 1918 Stanotte sono andato a letto alle due. Ieri dovevo scrivere la relazione quindicinale, che oggi ho portata qui alla Armata, e sic-

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come tutto il giorno fui occupato a ricever visite, mi potei mettere al lavoro soltanto verso le sei: e, con un’ora di pausa per la mensa, continuai a scrivere fino al tocco. A quell’ora, lasciato il manoscritto al dattilografo, me ne venni giù dalla villa fino al paese, giù per il viale immerso in un’oscurità fonda come è densa ormai la chioma degli ippocastani. Era, stanotte, una notte limpidissima, piena di stelle e di quella strana luce quasi fosforescente che nelle notti serene par che si irradii misteriosamente da tutte le cose: due o tre volte, nell’ombra, qualche sentinella appostata tra le aiuole e i vialetti del parco, mi ha dato il chi va là: e venendo in giù mi sono incantato a sentire giù verso il fiume un immenso gracidare di rane, un concerto di migliaia di voci che riempivano la valle come di un fruscio di mare agitato: e poi, su in alto, ho sentito un usignolo che cantava a gola piena, nonostante le tenebre, anzi più lieto e più agile per le tenebre. Non ho mai sentito usignoli numerosi e armoniosi come quelli che sono ospiti del parco: si son radunati tutti qui, forse per suggerimento avuto dai loro fratelli dei boschetti della Certosa, coll’incarico di consolarmi e di rasserenarmi colla loro musica che mi trasporta lontano... Certo è che mai avevo udito cantare usignoli di notte: e questa voce così limpida, così solare, che si spandeva nel buio mi ha riempito di meraviglia e mi ha fatto fermare in ascolto... A Vicenza Piero ottiene un nuovo successo come avvocato difensore: «assoluzione per inesistenza di reato!». Continuano le distribuzioni di doni ai soldati e Piero è occupato ad accompagnare «dei signori venerandi e dei saltellanti boy-scout»: «i soldati guardano con aria trasognata questi messaggeri del mondo». Piero progetta una breve scappata di Ada a Verona per giugno, se riuscirà ad affidare il bambino a qualcuno. Ritrova il compagno di università Poggi, al quale propone di venire a lavorare con lui: «Lo trovai ancora sergente e non molto entusiasta di venir con me qui, come gli proponevo, perché non si sente di far cose intellettuali vestito da sergente in mezzo a ufficiali; ma credo che alla fine si persuaderà». Le lettere sono spesso sbrigative per gli impegni, soprattutto nei giorni che precedono il 15 e il 30 del mese, quando Piero deve compilare la relazione quindicinale del suo operato.

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Encomio Come spiega ad Ada, allegandole il testo con l’intestazione del Comando della 1a armata, Piero riceve un encomio «per aver rinunciato volontariamente al trasferimento nel Corpo della Giustizia militare e alla conseguente promovibilità al grado di maggiore» dimostrando «elevato spirito patriottico e militare» e «disinteresse». La sua rinuncia, oltre che dal disagio di fare «l’accusatore dei rei», è dettata dalla soddisfazione dell’incarico nell’Ufficio P.

20 maggio 1918, ore 17 Ho paura che questo foglio a dattilografia, che ti mando con un certo senso di... mortificazione, ti faccia un pochino arrabbiare contro di me e ti faccia credere molto di più di quello che esso significa. A voce ti spiegherò tutto per esteso, e vedrai allora che tu non hai in nulla da lagnarti di me, quantunque, in apparenza, io abbia rinunciato a un passaggio che mi avrebbe reso molto meno militare di quello che sono ora. Per ora ti spiego brevemente questo. Alla fine di febbraio, essendo stato emanato quel decreto che ti avevo preannunciato sulla giustizia militare, per il quale gli straordinari hanno diritto al grado di maggiore e gli ordinari al grado di tenente colonnello, feci domanda anch’io per il passaggio, in considerazione che la mia posizione al 218°, dopo lo scioglimento del Comando di Settore, era alquanto equivoca... Fatta la domanda di passaggio, attesi la nomina, senza per altro volerti dare speranze che forse poi potevano non avverarsi. Improvvisamente accadde il mio trasferimento all’Ufficio P: e allora, per una serie di considerazioni (prima tra tutte perché la tua tranquillità sulla mia lontananza dal pericolo era ormai assicurata, perché i Tribunali di Guerra sono dislocati non più indietro dei Comandi di Corpo di Armata; seconda, che questo ufficio è molto più sodisfacente e nobile che non il fare l’accusatore dei rei) ritirai la domanda, con una seconda domanda trasmessa all’Armata, colla quale chiedevo di restare qui, col mio grado di capitano di fanteria. All’Armata hanno accolto la mia domanda come un atto molto nobile: almeno così si desume da questo encomio che mi è giunto ieri, e che stasera mi costringerà a... pagare in segno di giubilo a tutta la mensa delle bottiglie che io non beverò.

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Il 3 giugno Ada viene a Verona, dopo che Piero le ha dato minutissime istruzioni sul viaggio in treno. Si trattiene tre giorni, trascorsi insieme all’Albergo Riva S. Lorenzo in Corso Cavour. Nella conclusione di un’appassionata rievocazione delle giornate trascorse, Piero le scrive:

7 giugno 1918 Qui la solita vita è ricominciata: a quest’ora tu sei a Firenze... Ma, creatura mia, non sospirare, non perderti di coraggio... Noi abbiamo avuto da un mago la misteriosa chiave del paradiso: quando vogliamo, possiamo dischiudere la porta, e tuffarci con un brivido l’uno nell’altro, come due nubi dorate dal sole che si fondono in una nube sola...

Offensiva austriaca Il 15 giugno comincia una grande offensiva austriaca da Asiago alle foci del Piave, che si conclude il 23 giugno con un completo fallimento.

15 giugno 1918, ore 15 In questi giorni, i giornali te lo diranno, l’atmosfera si è un po’ annuvolata. Non qui, per tua tranquillità; ma insomma nella zona veneta, talché il viaggiare può essere in questi giorni un problema anche più difficoltoso. Sto un po’ in pensiero per Policreti, perché il tempo cattivo dev’essere proprio dov’è lui, e dove prima ero io. Ieri parlai per telefono con Berto7, che sta benissimo: dì alla Zia Maria che egli è molto vicino a me, e che dove siamo noi il tempo è buonissimo. 16 giugno 1918, ore 17 Temo che in questi giorni le mie lettere ti giungano in ritardo, ma spero che tu sia tanto saggia da comprendere che qui... non c’è 7

Il cugino Berto Pimpinelli, fratello gemello di Carlo, caduto al fronte.

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motivo di farti perder la saggezza. Per tutto, del resto, le cose vanno bene: e se l’Austria le piglia questa volta, è finita. 25 giugno 1918, ore 16 Perché non mi hai scritto oggi? E Franco che fa? E la Mamma e il Babbo che dicono della nostra meravigliosa vittoria, la più grande vittoria da quando si è iniziata la guerra; e lo zio Cecco ha ora il morale un po’ più sollevato? 26 giugno 1918, ore 16 Fino a pochi giorni fa l’offensiva in corso su tutta la nostra fronte mi faceva pensare che il periodo critico sarebbe andato avanti per molte settimane, e che, di conseguenza, per molto tempo ancora sarebbero restate chiuse le licenze ordinarie, come ora sono chiuse. Ora però dopo la nostra vittoria così piena e decisa, penso che le licenze non tarderanno ad essere riaperte: e che, quindi, tra un mese o due potrò venire.

Croce di guerra Piero si adombra dello scarso entusiasmo dei familiari per la croce di guerra che gli è stata attribuita. Gli piacerebbe che se ne facesse menzione nei giornali e si dice sorpreso «da ingenuo quale sono» che «non esiste a Firenze un giornale che consenta a pubblicare una notizia non disonorevole e non dannosa ad alcuno relativa a un galantuomo che, a prezzo di sacrifici dei quali egli solo sente il tormento, cerca di fare il suo dovere unicamente... per amore dell’arte, sì, per il piacere di farlo». Ancora una volta torna sulla polemica contro gli imboscati, che tanta parte ha nella letteratura di guerra degli interventisti.

27 giugno 1918, ore 14 Ti devo confessare che io resto ogni tanto un pochino mortificato nel vedere come, non tu sola, ma tutti quanti accogliate, se non con ostilità, con assoluta indifferenza qualche notizia non disonorevole relativa alla mia vita presente. A Callaini, che ha avuto la croce di guerra insieme con me (per averla, bisogna essere stati almeno

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un anno «a contatto col nemico» tenendo condotta esemplare), tutti scrivono facendo rallegramenti esageratamente entusiastici; anche a me il suo Babbo ha scritto una lettera esultante. Per me, invece, la notizia fa così poca impressione che nemmeno si ritiene degna di riferirla al Babbo, e si resta incerti se la croce di guerra sia qualcosa di simile alla croce di cavaliere... Piccinerie, sì, lo so: ma insomma ho l’impressione che tutti quanti mi facciate intendere che a starmene dove sono stato per quasi tre anni e a restare quassù mentre c’è della gente che è riuscita a starsene comodamente a casa, sono semplicemente un coglione e che è molto più da ammirarsi la condotta, per esempio, dell’Avvocato B., che a furia di far conferenze sulle gesta altrui è riuscito a ottenere a casa sua quella croce di cavaliere che non è in nulla diversa dalla croce di guerra... Insomma, da che c’è la guerra, io ho sempre pensato che fossero farabutti quelli che restavano indietro, e persone oneste quelle che venivano quassù. [...] Sono d’accordo nel vedere il lato comico della cosa. Ma in un momento in cui non si vive che di réclame, e in cui fino a prova contraria si presume che il perfetto cittadino debba essere egoista, disonesto e imboscato, non mi pare inutile far sapere che io ho la colpa di non essere tale e che, quando i furbi se ne stanno a casa, io non sono stato furbo. Nella prima quindicina di luglio gli scambi epistolari tra Piero ed Ada si concentrano sull’organizzazione della villeggiatura a Montepulciano, dove Piero conta di raggiungere la famiglia quando avrà una licenza in agosto. Con il caldo che aumenta, Piero si trasferisce in una baracca in costruzione, «fresca ombrosa e silenziosa, abbandonando il forno della stanzetta dove ordinariamente stiamo rinchiusi in sei. Questa gran baracca è il nuovo palazzo del Centro P che vi si trasferirà tra qualche giorno: io e Callaini avremo per noi due soli una sala 6x5 e gli scritturali staranno nelle altre stanze. Sopra abbiamo lo schermo tutelare di due immensi castagni. Ma, finché la baracca non è finita (restano da fare i tramezzi fra stanza e stanza e le finestre) abbiamo dovuto, nei giorni scorsi, adottare un sistema spicciativo per non morire liquefatti o arrostiti: si è portato un tavolino in mezzo al prato, sotto ai cipressi o sotto altre piante a larga ombra, e abbiamo fatto un ufficio campestre». Piero ha «un daffare rabbioso», ma si compiace dell’andamento della guerra: «i Tedeschi le pigliano: e la fine si avvicina!». Avendo ricevuto una fotografia di Ada che insegna a Franco a camminare, Piero esprime la malinconia per la lontananza e «il rimpianto di non po-

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ter assistere da me al miracolo della nostra creaturina che conquista giorno per giorno la sua individualità ancora embrionale, che si adorna ogni giorno di nuove grazie e di nuovi sorrisi».

31 luglio 1918 Giorno di relazione Giorno di desolazione Viene due volte al mese Ed è la mia povera bambina Che deve far le spese...

Ti piace, amore, questa bella poesia? Ma, nonostante la relazione, oggi sono abbastanza allegro: perché domani comincia l’agosto, e in agosto si va in licenza, e perché stamani ho ricevuto da Montepulciano due lettere tue lunghe lunghe, odorose di gelsomini e abbastanza serene. 1 agosto 1918 Amore mio, non potendoti inviare neppure oggi una lettera lunga, perché sto scrivendo la relazione (che bella relazione scriverò il 15 di questo mese!) che domani porterò a Verona, ti mando come compenso (!) due numeri della Tradotta, uno per te e uno per la famiglia. E ti mando anche la fotografia di una distribuzione di doni agli alpini che ebbe luogo il 14 luglio, della quale credo di averti parlato.

In licenza e ritorno L’11 agosto Piero parte da Verona per Firenze, dove ha ottenuto che Ada venga ad accoglierlo da sola, per trascorrere due giorni insieme prima di raggiungere la famiglia e il figlio a Montepulciano. Riparte da Pisa il 26 agosto, passando da Verona, per riprendere le sue funzioni a Borghetto, dove ha difficoltà a «guarire del male della licenza».

28 agosto 1918, ore 16 Dalla camera dove c’è un letto che è troppo grande per una persona sola, ti mando, amore mio dolce, il primo saluto della lonta-

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nanza da ricominciare. Giunsi ierisera pochi minuti dopo le nove, e trovai alla Stazione un branco di ufficiali che mi aspettavano: mangiai senza molto entusiasmo alla mensa e alle dieci venni a letto senza salire alla Villa, perché ero stanco. Poi ho dormito... così e così. C’è una novità: l’orologio del campanile, che finora avevo conosciuto silenzioso, è stato riaccomodato, e batte certe rimbombanti ore che, a pochi metri di distanza, mi riempiono la camera. Questa novità mi ha disturbato fino a mezzanotte: poi le ore piccole mi hanno lasciato dormire senza darmi più noia. Sono andato su alla baracca, sempre più adorna nell’interno di iscrizioni, di figure, di tabelle, verso le nove; ma prima di me v’eri giunta tu, colla tua lettera da Chiusi, che è stata così brava da seguirmi a gran velocità. Ho passato la mattina a legger carte arretrate, ma con infinita svogliatezza, sentendomi come assente da qui. 29 agosto 1918, ore 15 Amore mio, non sono riuscito ancora a riprendere quella mia imperturbabile serenità rassegnata per la quale tu, anche nei giorni scorsi, mi dici che... (riempi tu, amore, con i rimproveri che più siano appropriati, la frase iniziata); nonostante che, come tu dici, «la mia vera vita sia quassù», non riesco ancora ad accorgermi di vivere...

Inaugurazione della Casa del Soldato a Borghetto Piero riprende i suoi giri in sidecar, si reca in visita alle Case del Soldato e prepara un album di stampati per una esposizione. «Le notizie che giungono aprono il cuore a tante speranze».

15 settembre 1918 Amore, ti scrivo in un ritaglio di tempo che mi resta libero tra... una cerimonia e l’altra. Stamani, alle dieci, c’è stata qui in Borghetto l’inaugurazione della nuova Casa del Soldato, preparata e magnificamente adornata in queste ultime settimane (c’è persino, figurati, un cinematografo, che stasera alle dieci darà la sua prima rappresentazione per gli ufficiali!): oratore ufficiale era il «Capo della Sottosezione P» il quale, in presenza di un pubblico foltissimo, è stato ab-

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bastanza contento di sé... Poi c’è stato un modesto rinfresco, poi il pranzo: e tra un’oretta partiremo in automobile per andare ad assistere all’inaugurazione di altre tre Case del Soldato che si aprono oggi, per iniziativa dei P, in altri paesetti della Val Lagarina. 17 settembre 1918 Stasera, appena finita la mensa, è accaduto sulla piazzetta del paese, dinanzi a una gran folla formata di soldati e di donne, un fenomeno nuovo: uno spettacolo cinematografico all’aperto, dato, per gratuito godimento di tutti, dalla macchina di proiezioni della Casa del Soldato. Si rappresentava Salambò, un farraginoso succedersi di scene tratto dal romanzo del Flaubert: noi abbiamo assistito dalle finestre della mensa, che appunto dànno sulla piazzetta e io, nonostante la mia testa stordita, e anzi proprio per questa, ho avuto il coraggio di commentare con delle facezie stupidissime tutti i quadri... 29 settembre 1918 Ieri ed ieri l’altro passai delle giornate infami per il da fare: ebbi qui ospite l’on. Sarrocchi8 da ieri l’altro fino a iermattina alle 11; mentre stava salutandomi, ecco che arriva un’automobile con due signori e una signora americana, che volevano visitare le Case del Soldato in montagna. Stemmo tutto il giorno: a quasi 2000 metri, entro una malga, la signora – che prima di sposarsi era cantante – si mise a cantare la Tosca ai militari incantati...

Preoccupazioni per la “spagnola” e presentimenti di vittoria Piero accenna il 2 ottobre alla preoccupazione per la salute di Franco, che sa infreddato, e raccomanda ad Ada, appena rientrata a Firenze «di non uscire mai, se anche a Firenze è diffusa l’influenza di cui giungono notizie così poco piacevoli». Intanto le manda «l’originale di quel poemetto che a Montepulciano ti fece un pochino ingelosire, ma che poi non ti rubò neanche un quarto d’ora: forse sarà pubblicato, ma 8 Gino Sarrocchi, senese, liberale e poi fascista, deputato dal 1913 al 1928, poi senatore, ministro dei Lavori pubblici nel 1924.

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non so ancora dove; per ora è stato recitato in adunanze di ufficiali e soldati dall’attore Chiantoni, che è uno degli ufficiali dipendenti da me». Apprende poi che il contagio si è diffuso già in Val di Chiana, e che Ada è rientrata a Firenze, senza che siano state prese sufficienti precauzioni. Le raccomanda di nuovo di «non uscire, non andare a far visita a nessuno» e portare Franco «a passeggiare in terrazza». Piero sconsiglia Ada di intraprendere un viaggio a Verona, sia per i rischi della febbre spagnola, sia perché «potrebbe darsi che circostanze... imprevedibili rendessero conveniente di pazientare ancora qualche altra settimana verso qualcosa di più definitivo».

8 ottobre 1918, ore 9 Che ne pensate costà di quello che i giornali raccontano in questi giorni?9 Io non credo che le proposte germaniche possano essere accolte, perché ci toglierebbero il frutto di tante pene proprio mentre stiamo per coglierlo, ma certo, il fatto solo che la Germania si è indotta a chiedere mercé dimostra a qual punto sono i nostri nemici e fa sperare che la vittoria sia vicinissima, vicina così da poterla calcolare sul calendario del 1918. 12 ottobre 1918 Oh, non credo neanch’io che i tedeschi possano accettare la nostra pace entro una settimana; ma insomma ora le pigliano, le pigliano a tutto spiano, su tutta la linea, senza più respiro. E io che, fino a pochi giorni fa ho considerato come una sciagura una pace conclusa prima della prossima estate, ora comincio a credere che l’estate prossima e forse la prossima primavera mi troveranno assai lontano di qui, colla testa nascosta tra i tuoi capelli, amore, nel mio rifugio secreto ove da tanto mi chiami, anima mia... Di buon umore 16 ottobre 1918, ore 15 Amore caro, l’acqua, l’acqua assidua e insistente e petulante che da tre giorni non si zitta mai, tamburella dolcemente sul tetto del9

La richiesta d’armistizio da parte della Germania.

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la mia baracca una sua monotona cantilena che non cambia né sosta un istante: e s’accompagna a questa musica lo scoppiettio della legna dentro la stufa, che dà all’ambiente un che di raccolta intimità. Sono venuto su fino alla villa, solo solo, prima degli altri, ben difeso contro la pioggia dal mio pastrano che sa tante cose, col cappuccio tirato su... Camminavo a testa bassa e a passo lento, guardando con una specie di gioconda curiosità le mie grosse scarpe da soldato che beatamente, ad ogni passo, diguazzavano nel fango; e mi sono accorto, con una specie di meraviglia, che in ogni pozza d’acqua, anche nelle più piccole e nelle più fangose, si rifletteva uno strappo di cielo, come s’io camminassi su uno strano impiantito malfermo e bucherellato, abbandonato così in mezzo allo spazio, col cielo di sotto e col cielo di sopra... Certo, amore, tu pensi che, per fare simili osservazioni strambe, bisogna essere di buon umore... Infatti oggi sono abbastanza di buon umore: e guardando i miei grossi scarponi motosi che spuntano in fondo a uno stinco tutto fasciato da una mollettiera verdastra, pensavo a delle scarpe non proprio gialle come quelle di Nino Ulivelli10, ma insomma eleganti e lustre come quelle che portano i borghesi, sulle quali ricadesse armonicamente la risvolta di un calzone ben stirato. Che strana impressione i primi giorni, quando ricomincerò a portare i vestiti che mi sembrano ora così lontani! 17 ottobre 1918, ore 23 Amore, tornando ora dalla baracca qui nella mia camera, dopo aver passato tutto il pomeriggio e queste ore notturne a dettare a macchina, ho imaginato uno sfogo che una sposina giovane – che potresti anche essere tu – potrebbe fare a qualche sua intima confidente: – Ah, io sono molto, ma molto infelice, perché mi sono accorta che mio marito mi tradisce... – Oh, mio Dio, che cosa mi dice mai, mia povera signora?! – Mi tradisce proprio, quell’infame: e si dimentica di me per una relazione... – Una relazione?!! 10 Avvocato di Montepulciano, avrebbe sposato in seconde nozze Clelia Cocci, cugina di Ada.

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– Precisamente! E almeno ne avesse una sola, sempre la stessa!... Invece, questo libertino, ogni quindici giorni ci ha una relazione nuova... – Ohimè, ma è proprio uno spudorato!... [A Giuseppe Lombardo Radice] 19 ottobre 1918 Carissimo Lombardo Radice, son veramente lieto di riveder la tua firma e di poter trarre da essa la consolante certezza che l’aria montepulcianese – che è quasi la mia aria nativa – ti ha ritemprato per il lavoro nel quale sei maestro a tutti i P11. Ti mando cinquanta copie del catalogo, pieno di orribili scorrezioni tipografiche: stiamo preparando una seconda edizione, per materia. Ti farò mandare la copia del tipo registro prestiti dall’Ufficiale bibliotecario che tornerà dalla licenza fra due giorni. Grazie degli stampati e bollettini che regolarmente ricevo. Affettuosi saluti e auguri di buon lavoro dal tuo Piero Calamandrei

Verso la vittoria Il 24 ottobre inizia l’offensiva italiana che si conclude con la vittoria di Vittorio Veneto. Il fronte si muove anche in Val Lagarina e Piero è tra i primi soldati italiani ad entrare a Trento.

25 ottobre 1918 Passiamo in questi giorni ore di grandissima, ansiosa attesa: si sta decidendo tra quante settimane potremo tornare a casa, dopo aver liquidato queste bestiacce. Qui, assoluta calma. 11 Giuseppe Lombardo Radice era tra gli animatori del Servizio di propaganda, e con lui si era stabilita una proficua collaborazione che sarebbe proseguita nel dopoguerra sui temi dell’istruzione.

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29 ottobre 1918, ore 15 Amore anche qui da noi, qui in Val Lagarina, è accaduto qualcosa di grande stamani. Le speranze sono ogni giorno superate dagli eventi. 1 novembre 1918, ore 22 Amore, avevo cominciato a scriverti ieri. Poi... restai lì: o per dir meglio dovetti scappar via. Anche oggi è una giornata come ieri: solenne, incredibile, fantastica. Accadono cose che non ti posso raccontare: è il trionfo. È arrivata qui la Volturno. Quando avrai questa lettera, i giornali vi avranno portato la notizia che l’Austria si è inginocchiata davanti ai nostri morti. 2 novembre 1918, ore 12 Ma oggi, amore mio, si va a Trento: e da Trento, quantunque sia qualche chilometro più avanti, passa la strada che porta a Firenze... Trento, 4 novembre 1918 Ieri alle 13,30 sono stato io il primo soldato italiano a entrare in Trento ancora tenuta dalla marmaglia austriaca. Ora siamo, qui tutti in tumulto di festa... Dillo a Franco. 5 novembre 1918, ore 19 Amore mio, amore presto tutto mio, sempre mio, mio senza più un solo istante di abbandono, ierisera, tornando da Trento dopo giorni di sogno e di stordimento, trovai le tue lettere che mi aspettavano a Borghetto, nel vecchio Borghetto ormai superato dalla guerra tanto lontana. Stamani, poi, un’altra tua lettera è giunta a dirmi che la mia bambina vive con me questi giorni di gioia, pur essendo un pochino gelosa... Ma non c’è proprio motivo, amore mio, di questa gelosia: ero tanto vicino a te quando entrai a Trento prima di tutti e sono così vicino a te ora. Ho da raccontarti tante cose, una storia lunga lunga...

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7 novembre 1918, ore 16 Amore mio, la tua dolcissima lettera che m’è giunta stamani mi dice che anche tu partecipi con tutta l’anima al trionfo che presto ci compenserà di tutte le pene e che, anche se in questi giorni sono per forza più avaro del solito nella mia corrispondenza, senti da te quanto ti è vicina l’anima mia e con quanta passione essa ti sussurra vicino vicino all’orecchio, in modo che un brivido ti passi per tutta la persona, che presto non l’anima sola sarà con te, non di desiderio soltanto sarà fatto il nostro amore. Sono a Borghetto, tornato ierisera tardi da Trento ove iermattina dovetti andare di nuovo per preparare il nostro trasferimento definitivo: e qui, oggi, sono in mezzo a casse e a imballaggi e a preparativi di sgombero. Ma non si sa dove si andrà, e se si andrà. Fino a ierisera pareva, come ti avevo accennato, che dovessimo trasferirci a nord di Trento, forse a Merano, per restarvi durante le settimane delle trattative di pace; ma poi ierisera è venuto un contrordine: e non è escluso che si resti qui o nelle vicinanze... Ma ormai, amore, dove si resti in queste ultime settimane poco importa. Credo che prestissimo anche la Germania si sottometterà ai patti dell’Intesa: e allora penseremo, non più astrattamente soltanto, al nostro nido, che si costruirà prima della primavera e che, anche in inverno, sarà tutto tepore...

Racconto dell’ingresso a Trento Piero risponde ai rimproveri di Ada per la sua avarizia epistolare spiegando come sia stato occupato a «inquadrare gli ufficiali austriaci prigionieri, a fare arrestare i russi ubriachi, a tentare in qualche modo di rimettere un po’ d’ordine in quel caos». Le promette di raccontarle «tutto lo svolgimento degli eventi in questi ultimi giorni», ma sapendo che «il racconto interesserà anche altre persone, alle quali non mi piace di far leggere una lettera destinata a te sola», scriverà su fogli separati il racconto, senza intramezzarlo di espressioni di tenerezza. Il racconto verrà scritto su 31 foglietti allegati alle lettere, per poi essere rielaborato in un articolo. Piero raccomanda di non dare troppa pubblicità all’episodio perché la notizia data dal «Corriere della Sera» dell’ingresso di questa avanguardia al di fuori delle gerarchie in Trento liberata gli ha già causato delle noie.

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Parte prima. Lettere

12 novembre 1918 Ti mando la continuazione del racconto. Quando lo finirò? Si capisce che queste lettere non sono destinate in nessun modo alla pubblicità. Non mi rendete cattivi servizi oltre quelli che la stampa ha già resi a tutti noi, rendendoci oggetto di tutte le invidie! Amore, la guerra è finita... 14 novembre 1918 La nostra nuova sede è ormai fissata, per queste poche settimane che precedono la smobilitazione, già iniziata a Bolzano, città prettamente tedesca dell’Alto Adige, una cinquantina di chilometri a nord di Trento. So che, dal punto di vista della comodità, andremo a stare benissimo, perché tutto il Comando sarà alloggiato in un Albergo sontuosissimo, il primo della Città, con caloriferi e perfino – mi dicono – il telefono in ogni stanza.

BOLZANO

17 novembre 1918, ore 17 Eccoti la fine della novella dello stento... che dura tanto tempo e non finisce mai. Il seguito te lo racconterò a voce: e ti racconterò la curiosa istoria dello sdegno dei cavalleggeri arrivati dopo contro il fante arrivato prima, e l’origine di una rettifica sui giornali che cerca, per quanto è possibile, di dir male di quelli indiscreti giornalisti che hanno osato raccontare la verità... Oggi, finito il racconto di Trento, non ho tempo di narrarti per benino, come vorrei, la mia vita bolzanese. Lo farò domani, e ti descriverò le stranezze del mio letto d’ora... Il sollievo della vittoria e della fine della guerra restituiscono a Piero una capacità narrativa quasi favolistica: finalmente può scrivere una novella a lieto fine, che rielaborerà poi in forma di articolo per «La Lettura» e a molti anni di distanza per «Il Ponte»12. 12 Come fu liberata Trento, in «La Lettura», a. XIX, n. 11, 10 novembre 1919, pp. 761-772; Trent’anni, in «Il Ponte», a. IV, n. 11, novembre 1948, pp. 1010-1029.

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L’entrata a Trento13 Bisogna dunque, come nelle novelle, risalire un po’ lontano. Devi dunque sapere che, qualche giorno prima dell’offensiva sul Piave il nostro Corpo d’Armata era stato privato di una gran parte delle Sue truppe migliori, mandate a ingrossar le riserve, là dove si preparava il gran colpo. Anche la Brigata Venezia – quella di Berto – se n’era partita verso destini più gloriosi. E noi, qui, eravamo restati in pochi, pieni di malinconia per dover stare soltanto a aspettare le belle notizie dei fatti altrui... Ora proprio qui, in Val Lagarina, settore tranquillo e vedovato di molte truppe, successe negli ultimi giorni d’ottobre, mi pare il 29, un fatto diciamo così storico, che velatamente ti accennai in qualche mia lettera. Iniziata vittoriosamente l’offensiva sul Grappa e sul Piave, rotta la fronte in più punti, il nostro trionfo era ormai delineato: sicché l’Austria, o per meglio dire quei signori generali e diplomatici che restano ancora come reliquia dell’Austria, pensarono bene di chieder pace per conto loro, senza più occuparsi della Germania. Verso le 9 della mattina ero entrato nella stanza del Capo di S.M. a fargli vedere le cartoline del Corpo d’Armata, quelle coll’inno di Bertacchi, arrivate allora dalla stamperia, quand’egli ebbe per telefono una strana notizia: che alla nostra linea avanzata di fondo Adige si era presentato un drappello di austriaci con bandiera bianca a parlamentare. Poiché poteva trattarsi di un inganno, fu spedito a gran velocità un maggiore in automobile, a rendersi conto delle cose sul posto. Chiesi di partire anch’io sull’automobile, e partimmo. Via via, per la strada di Ala e oltre, sotto un tunnel di stuoie e di frasche simile a quelli che erano sulle vie di Val Posina, arrivammo a Serravalle, un piccolo paese rovinato dal quale passava la nostra primissima linea; ma dai soldati delle trincee sapemmo che eravamo giunti troppo tardi, perché i parlamentari nemici si erano già presentati, erano già stati presi e spediti per altra strada a Borghetto. Sapemmo che erano in tre: un capitano di stato maggiore coi gambali rossi (particolare notato dai fanti!) un alfiere e un trombettiere. Erano apparsi all’alba su una gran spianata che c’è dinanzi ai nostri reticolati, con una bandiera bianca (un fante mi disse: «La unn’ era una 13

Senza data, allegato a puntate alle lettere precedenti.

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bandiera: l’era una camicia in cima a un palo»), e s’erano messi a strombettare. I nostri, per tutta risposta s’erano messi a sparare colle “mitraglie” (parola di trincea = mitragliatrice) e avevano smesso soltanto quando avevano visto che la bandiera bianca continuava a avanzare. Allora era uscito un nostro ufficiale, aveva bendato i tre parlamentari uno dei quali, l’alfiere, era rimasto ferito dai nostri colpi e li aveva condotti dentro le nostre linee. Dice che il capitano austriaco era furibondo per questa accoglienza e protestava perché i fanti italiani non conoscono i regolamenti internazionali che vietano di sparare sui parlamentari. I nostri soldati raccontavano questo e ridevano: un fiorentino diceva: «quando i’ ccapitanino gli è entrato dentro alla nostra trincea l’avea un viso più bianco della su’ bandiera. Secondo me gli è stato imboscato per quattr’anni, ma questa volta la deve avere scontata per tutte!». Episodio significativo: l’alfiere ferito, appena fu portato dentro le nostre linee cominciò a mangiare come un lupo e pregò i soldati nostri che lo nascondessero perché, finita l’ambasceria, colla scusa che era ferito preferiva restare di qua... Dunque il capitanino fu portato a Borghetto: aveva una lettera per il Comando Supremo nella quale pare che l’Austria esponesse la grande urgenza ch’essa aveva, date le sue condizioni interne, di fare l’armistizio: per questo avvertiva che a Rovereto era già pronta una Commissione di generali e di diplomatici, pronti a passare le nostre linee per venire a trattare. Il giorno dopo venne la risposta del Comando Supremo nostro che autorizzava i plenipotenziari a venire avanti: e infatti, nella stessa località della nostra linea ove s’era presentato il capitanino – che intanto era stato rimandato indietro a portare la risposta – i messi austriaci si presentarono in due mandate. Prima si presentò, di notte, in mezzo a una fantasmagoria di riflettori che illuminavano la bandiera bianca, un generale d’Armata14, il quale stette quasi due ore fermo dinanzi ai nostri reticolati in attesa che i nostri fanti ricevessero l’ordine di lasciarlo passare. Pensa, un generale austriaco, un gonfio borioso superbo generale austriaco, che sta due ore a fare il comodo dei nostri bravi fanti, dei nostri contadini, dei nostri operai vestiti da soldati! Pare che dopo più di un’ora d’attesa, il generale abbia fatto domandare dall’interprete se c’era molto da aspet14

Il comandante di corpo d’armata generale Weber.

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tare ancora: e allora dalla nostra trincea che era sopra di lui, si sentì nella notte questa risposta: «l’aspetti altri cinque minuti e i ccaffè gli è pronto!!». Alla fine esauriti i controlli anche il generale poté entrare. E il giorno dopo arrivò il grosso della commissione. Ebbi la fortuna di poter vedere l’arrivo, stando affacciato a una trincea che domina come un balconcino lo sbocco della valle: verso le tre del pomeriggio, per la strada imperiale che vien da Rovereto e che era sbarrata dalla nostra linea, si presentò, preannunciato dalle nostre vedette, il gruppo dei dignitari bendati e guidati per mano, su per il sentiero che dalla strada risale fino ai nostri reticolati, dai nostri ufficiali mandati ad incontrarli. Venivano su piano piano, a passo cauto per non inciampare, colle teste chine avvolte nelle bende bianche: generali colle uniformi a tinte vivaci e coi baveri di pelliccia, ammiragli scintillanti d’oro: cinque o sei autentici campioni di quella vecchia Austria maledetta che oggi finalmente è ben morta. E ai parapetti delle trincee c’era una fila interminabile di teste coperte dagli elmetti; – i nostri soldati sorridenti che stavano a vedere questi generali venuti a chieder pietà... Fu una visione grandiosa: accanto a me un ufficiale nostro, anch’egli spettatore, mi strinse il braccio e mi disse: «Guarda: questo corteo strano di gente bendata che vien su non ti rievoca, come una tremenda vendetta, il corteo dei nostri martiri dell’indipendenza che l’Austria tante volte ha condotti al patibolo bendati così?». Arrivarono dentro le nostre linee; salirono in automobili pronte per riceverli in mezzo alle macerie di Serravalle: c’era anche un membro della famiglia imperiale, il principe di Liechtenstein. Poi, dopo una mezz’ora, altro strombettio, altra bandiera bianca fuori dei reticolati: arrivavano gli attendenti austriaci colle valigie dei signori plenipotenziari. Qui il comico vinceva il tragico: era supremamente ridicola questa terribile Austria messa in berlina, che alle nostre linee irte di baionette e di mitragliatrici inviava un branco di servi coi bagagli dei vinti venuti a implorare grazia dai vincitori. Comico anche, miserevolmente comico fu il contegno che i signori parlamentari tennero qui da noi, prima di proseguire per il Comando Supremo. Uno disse: «Noi abbiamo bisogno di far la pace subito, per salvarci dalla rovina: a Vienna ci sono dei generali russi che vendono i fiammiferi per la strada: non ci vogliamo ridurre a questo anche noi!». Un altro confessò che essi venivano a trattare, ma neanche loro sapevano bene per chi. Un altro ancora, quando partì per il Comando Supre-

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mo, lasciò al cameriere 50 corone di mancia: e siccome questo non voleva accettarle, gli disse ridendo: «Prendile, prendile, le terrai per ricordo: tanto non valgono nulla!». Giungemmo così al 1° di novembre, e dalle altre Armate ci giungevano notizie sempre più trionfali dell’avanzata, senza che nessun indizio ci facesse sperare di doverci muovere anche noi. Ormai c’eravamo rassegnati ad aspettar l’armistizio per andare a Trento: e ci sentivamo un po’ mortificati di dover rinunciare a far qualcosa anche noi. Quand’ecco, la mattina del 1° arriva una gran notizia: le trattative vanno per le lunghe, e intanto è necessario dare all’esercito austriaco il colpo mortale: domani anche il XXIX15 deve attaccare». Subito nella giornata cominciano a affluire in Val Lagarina nuove truppe per l’azione: la Brigata Volturno, tra le altre, coi miei antichi soldati, coi miei antichi compagni di Val Posina. La sera andai a Ala a trovare il primo battaglione giunto, il quale per l’appunto era proprio il 3° bgl. del 218°16, quello già comandato dal colonnello Albano: grande entusiasmo in tutti: c’era già in tutti i cuori la certezza che questa volta era proprio la buona. La mattina dopo tornai di nuovo ad Ala, a salutare il Comando di Brigata allora arrivato, e specialmente a salutare Perugi che quando mi rivide fece dalla gioia un viso rosso come un peperone. A mezzogiorno altra notizia: alle tre del pomeriggio comincia l’attacco: si tratta di sfondare la linea austriaca in fondo alla valle e di procedere risolutamente su Rovereto. Mi feci dare una motocarrozzetta e verso le due partii per andare sul punto della nostra linea di dove l’attacco doveva sferrarsi: trovai lì altri due ufficiali, e, dalla stessa trincea a balcone, dalla quale avevo assistito all’arrivo dei parlamentari, ci mettemmo a osservare pacificamente quello che succedeva sotto a noi. In quel tratto della Val Lagarina, dove sulla riva sinistra dell’Adige è posto Serravalle, le due pareti rocciose che limitano la valle si ravvicinano e lasciano passare nel mezzo, nello spazio di circa un chilometro, l’Adige e una striscia di terreno pianeggiante nel quale corrono parallelamente al fiume, la ferrovia Rovereto-Ala e la strada carrozzabile. Il nostro osservatorio guardava verso nord, cioè verso Rovereto: vedevamo giù in fondo le formidabili posizio15 16

Il XXIX corpo d’armata comandato dal generale De Albertis. La brigata Volturno era composta dal 217° e 218° reggimento fanteria.

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ni austriache del Biaena, e sotto a noi a sinistra l’Adige e dinanzi la ferrovia e la rotabile che veniva a battere, per dir così, contro i nostri reticolati. Alle tre i nostri soldati cominciarono a uscire fuori dei varchi: prima il XXIX Reparto d’Assalto, fiamme verdi, poi tre battaglioni alpini17, poi, se ce ne fosse stato bisogno, era pronta a serrar sotto la Brigata Volturno. Stemmo a vedere uscire gli arditi: uscivano a due a due col fucile a bilanc’-arm come se andassero a fare una passeggiata, e cominciarono ad avanzare cautamente parte lungo il terrapieno della ferrovia e lungo la riva dell’Adige, parte sulla strada rotabile. Gli austriaci, a quel che pareva, non si erano accorti di nulla: forse in una lieve caligine che si attardava sul fiume i nostri finora erano passati inosservati. Poi cominciò il bombardamento di tutte le nostre artiglierie sulla linea austriaca, che si intravedeva nella foschia a un paio di chilometri, anch’essa posta a sbarramento della valle. Poi si cominciò a sentire, fra le cannonate, qualche fucilata; ma non si vedeva nulla di concreto... E allora si pensò di andare a vedere più da vicino. Decidemmo dunque di andare a vedere più da vicino come si svolgevano le cose, giù giù per il camminamento coperto arrivammo fino al nostro reticolato, ci facemmo aprire da una vedetta il varco che era chiuso con uno sportellone tutto ricoperto di filo spinoso e uscimmo in quella terra che gli Inglesi chiamano «terra di nessuno», pacificamente avviandoci sulla strada di Rovereto. La strada, in mezzo a vigne ormai dopo tre anni distrutte o inselvatichite, si svolge, parallela all’Adige, tra due muretti a secco alti poco più di un metro. Andammo avanti per più di un chilometro, passando avanti agli alpini che continuavano a sfilare per uno per poi distendersi quando fossero a contatto dei nemici e continuammo così finché non giungemmo a una svolta, molto prossima al luogo dove gli arditi stavano già combattendo, sulla quale cominciammo a sentire qualche fischietto, simile – secondo quanto afferma il Soffici! – al rumore di un lungo bacio, di pallottole austriache che viaggiavano per conto loro. Allora ci mettemmo a sedere lungo il muretto che era alla nostra destra sufficiente ostacolo alle fucilate: e stemmo lì ad aspettare gli eventi. Quand’ecco a un tratto i cannoni austriaci che fino a quel momento, non si sa perché, erano restati in silenzio forse sbalorditi da quell’attacco 17

I battaglioni Arvenis, Feltre e Pavione del IV gruppo alpino.

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improvviso proprio nel settore più tranquillo di tutta la fronte, si risvegliarono: e la prima cosa che fecero, naturalmente, mentre tutte le artiglierie nostre si scaricavano sulle trincee nemiche, fu quella di cominciare a batter la strada di afflusso delle truppe, cioè proprio la strada dov’eravamo noi a assistere all’azione. E qui cominciò un nostro sistematico rannicchiamento accanto al muro ogni volta che si sentiva arrivare un colpo. Si sentiva un fruscio lieve, come di una stoffa di seta raschiata coll’unghia, e poi un gran tonfo sulle nostre teste, una gran fiammata che illuminava la strada di un chiarore giallastro, un ronzio di pallottole e un rimbalzare di schegge di ferro sui sassi, con un leggiadro tintinnio di metallo vecchio... Pensai, mentre ad ogni colpo, premendo i sassi del muretto per ripararmi, mi accorgevo che la pietra non è malleabile e non si lascia plasmare con le buone maniere, che sarebbe stato proprio idiota finire così, l’ultimo giorno: e infatti, poiché io non sono idiota... credetti bene di non farlo. Dopo qualche minuto sopraggiunsero alle nostre spalle il colonnello Faracovi, comandante degli alpini, col suo aiutante maggiore e con un apparato telefonico trasportabile: mi presentai a lui sotto quell’inferno e credo che sia restato favorevolmente impressionato di vedere che il Servizio P non funziona solamente nelle retrovie. E siccome non era igienico andare né avanti né indietro a causa di quello stillicidio di cannonate che battevano tutte sulla stessa svolta, anch’egli si accoccolò sotto il nostro muretto e fece lì il suo posto di comando dove affluivano e di dove partivano le notizie e gli ordini dell’azione. Cominciò ad arrivare qualche ferito. Ne ricordo uno, che aveva un braccio tutto sanguinante e che veniva giù tranquillamente per la strada battuta con lo stesso passo con cui Poldo di Marzuolo va al mercato: quando arrivò davanti al nostro muretto, il colonnello lo chiamò e gli domandò come andavano le cose: e quello, con una faccia serena e sorridente che faceva fremere di commozione, dette le notizie che eran buone e poi se ne ripartì in mezzo alle cannonate dicendoci con un cenno di saluto: «Che Dio gli dia bene a tutti!». Dopo un’oretta di attesa, durante la quale gli alpini continuavano a sfilare verso la battaglia, cantando a bassa voce e dicendo frizzi all’indirizzo dei shrapnels austriaci (io li guardavo passare quasi con religione: dopo quattro anni di sofferenze gente che va alla morte così! E pensare che domani quei nostri eroi, gli unici eroi veri della guerra, torneranno ad essere contadini e operai, i poveri, quelli che respirano il

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puzzo di benzina delle automobili!), si seppe che sulla sinistra il nemico cominciava a cedere e che c’erano già circa 50 prigionieri, mentre sulla destra c’erano due mitragliatrici che bisognava ancora ridurre alla ragione con qualche buona cannonata... Imbruniva e i lampi rossastri davano una intonazione sempre più fantastica alla scena; ma le cannonate austriache diminuivano, e la vittoria si delineava già. Allora io tornai indietro per riferire al Comando: m’accompagnai per la strada con un sottotenente viennese prigioniero e lo consegnai ai primi carabinieri che trovai. Poi riuscii a ritrovare la mia motocarrozzetta, e al buio tornai qui a Borghetto sicuro che le cose andavano bene. E per i dieci e più chilometri di strada che feci nel ritorno fui sempre in mezzo a una fila di soldati che andavano in su, andavano in su in direzione contraria alla mia, tutti felici e superbi di esser chiamati all’ultima battaglia: c’era anche la Volturno e salutai nel buio, passando, molti dei miei vecchi soldati. Giunsi qui a Borghetto, mangiai, andai a dormire parecchio stanco: e la notte, non so a che ora, un ufficiale mi venne a svegliare e giubilando mi annunciò: «È stata presa Rovereto! La nostra cavalleria marcia su Trento!». Non so come feci a riprender sonno. La mattina del 3 mi svegliai prima dell’alba e feci in fretta in fretta i preparativi per partire a gran velocità verso Trento dove credevo che la nostra cavalleria fosse già arrivata. Presi il mio sidecar, vi cacciai l’elmetto, la maschera e la rivoltella, una bottiglia d’acqua, un involtino con pane e carne, una carta topografica. E poi mi venne un’idea: su alla baracca, nel nostro deposito di materiali per le Case del Soldato, dovevano esser restate un centinaio di bandierine tricolori, grandi circa 30 cm. sul lato più lungo. Le mandai a prender d’urgenza e le cacciai in fondo a quella specie di tinozza in cui dovevo viaggiare. Poi poi... avevo l’intenzione di andare a mettere una grande bandiera sulla statua di Dante, che aspettava... E non sapevo a chi chiederla: allora mi ricordai che per le scale di casa mia, di questa casa dove dormo, c’era una bandiera arrotolata, di proprietà dei padroni. Se l’avessi chiesta, non me l’avrebbero data; mandai il mio attendente a prenderla in punta di piedi staccandola dall’asta. Me la portò e partii. Passai Ala, passai Serravalle, cominciai a trovar prigionieri. La via era già praticabile, riempite le interruzioni dai territoriali già al lavoro. Entrai a gran velocità nel territorio che fino alla sera prima era degli austriaci, penetrai oltre le trincee austriache tutte devastate e minate, con quella soddisfatta curiosità di chi è

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giunto finalmente a svelare un mistero finora impenetrabile, a rendersi conto di tutti i secreti di una zona finora vietata e terribile. Mi pareva di esser dietro le quinte di un teatro crollante, o di essere un bambino che finalmente si è deciso a rompere la testa di un fantoccio per vedere cosa c’è dentro... Subito al di là delle linee austriache, sulla straduccia che conduce a Rovereto, mascherata come le nostre, ma tutta buche e tutta sbalzi come le nostre non sono, cominciai a vedere, nella mia corsa, i segni della sconfitta austriaca. La strada era disseminata di fucili rotti, di elmetti, di rottami, di avanzi, di un generale sudiciume accatastato a mucchi. Venivano verso di me branchi di prigionieri sperduti e come trasognati, con certe facce di fame e di stanchezza sotto i loro elmetti a fungo, venivano in giù per conto loro, senza che i nostri soldati li accompagnassero, perché i nostri soldati in quel giorno avevano da pensare a giungere a Trento, e non a badare ai prigionieri. Dopo pochi minuti di corsa, in mezzo a questa desolazione (era una mattina grigia, e lì il paesaggio è scheletrico e lugubre, un po’ per le devastazioni prodotte dalle cannonate, un po’ per la natura del terreno, i celebri Slavini di Marco18 ricordati anche da Dante) arrivai a Rovereto: a Rovereto che nel 1916, quand’ero in Vallarsa, mi pareva una città di sogno, un delizioso mistero inafferrabile per vedere il quale da lungi mi spinsi una volta con Policreti in un osservatorio troppo in vista e per poco non ci restai... Rovereto è una bella città, ridente e luminosa come ho poi veduto ripassandoci nei giorni seguenti. Ma quella mattina mi fece una impressione spettrale. Era del tutto disabitata, con tutte le finestre senza vetri e senza imposte, con molte case senza tetto, scoperchiate da qualche grosso calibro. Rottami, pezzi di mobili, fasci di carte precipitate chissà da quali archivi ingombravano la via: dovetti scendere dalla carrozzetta, perché qua e là erano disseminate bombe inesplose e bisognava andar cauti per non pestarle (son persone permalose). Un terribile tanfo ammorbava l’aria. In piazza c’era un austriaco morto, a pancia all’aria, appena coperto da un panno gettatogli sopra dai nostri... Uscii da quel cimitero e continuai la corsa sulla via di Trento. Appena usciti da Rovereto, si trova un bel viale fiancheg18

Frazione di Rovereto.

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giato da due file di ippocastani: appena lo imboccai, vidi un quadro che mi restò stranamente impresso: la strada diritta, grigia, che si perdeva nella nebbia, ai lati il giallo dei castagni d’India già tinti dall’autunno; e sopra, tra le due file di alberi, dei neri festoni trasversali da mascheramento, lugubri e monotoni come un paramento funebre. Sotto, nella foschia, si avanzavano a turbe i prigionieri austriaci, cupi, affranti, disorientati... Pareva di vedere il degno funerale in giallo e nero dell’Austria maledetta. Finito il viale, cominciai a trovare i primi abitanti borghesi: delle donne che mi salutarono gridando vedendo la bandierina tricolore attaccata al manubrio, ma che erano troppo occupate per conto loro a trascinare dei carrettini carichi di farina lasciata nei depositi dagli austriaci in fuga. Passai senza fermarmi un paesino che si chiama Volano, già adorno di tricolori, e in mezzo a torme sempre più numerose di prigionieri, arrivai a Calliano, altro paese già raggiunto dall’avanzata italiana. Qui trovai fermi i comandanti del Gruppo Alpino e del Reparto d’Assalto che la sera precedente avevano sfondato le linee austriache; i loro soldati erano poco avanti a sbarrare la via di Trento; l’avanzata era momentaneamente sospesa, in attesa che sopraggiungessero le altre truppe nostre, specialmente la Brigata Volturno che era in marcia da Rovereto. Arrivai a Calliano verso le 9: mi trattenni per una mezz’ora con gli altri ufficiali sull’unica piazza del paese, dove s’era radunata una strana folla di donne e di bambini che ci guardavano come bestie rare senza ancora sapersi persuadere che proprio fossimo arrivati e che bisognasse far festa... Osai anche andare in una specie di oscura bettola puzzolente di sego a prendere una tazzina di liquido caldo ed oscuro qualificato per caffè. Intanto si stava fermi: si era diffusa la voce che alle nostre spalle, a Volano, due brigate austriache stessero scendendo dai monti con intenzioni aggressive e non con intenzione di resa. Allora il colonnello degli Alpini, lo stesso con cui ero stato durante l’attacco, mi pregò di tornare indietro con la carrozzetta fino a Volano, per informarmi di come stavano le cose: retrocessi fino al luogo indicato, girellai per una mezz’ora su una collina fiancheggiante la strada per rintracciare da lontano questi malintenzionati; ma seppi alla fine che in realtà si trattava non di due brigate, ma di due compagnie che stavano ormai anch’esse placidamente arrendendosi. Tornai a Calliano, a portar la notizia: e poi, mentre il colonnello dava le di-

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sposizioni per riprender la marcia, tirai via per conto mio, giunsi al punto dove si trovava l’ultimo drappello di arditi fermi sulla strada in attesa d’ordini, e, saputo che più innanzi si era già spinta la cavalleria19, continuai la via col mio trabiccolino. Dopo circa un chilometro, trovai in mezzo alla strada un’automobile austriaca abbandonata lì da quelli che fino a poche ore prima ne erano i padroni. Mi fermai a rovistarla, per vedere se c’era qualche carta interessante, ma non trovai nulla: e il bello è che mentre stavo a fare questa specie di ispezione, vedevo dietro la siepe una diecina di mangiasego che mi stavano a guardare con l’aria più naturale del mondo. Continuai: e poco dopo raggiunsi la cavalleria. Era uno squadrone con alla testa un colonnello che già conoscevo e con diversi ufficiali uno dei quali fiorentino e mio antico compagno d’Università, Rizzotti. Il colonnello, che comandava l’avanguardia, mi fece fermare come erano fermi loro: e mi raccontò che nell’andare avanti avevano trovato un intoppo, cioè un reparto d’assalto austriaco formato di giovinotti che non intendevano di arrendersi, e comandato da un maggiore un po’ prepotente che non era disposto a darsi prigioniero, ma che era disposto invece a lasciarci passare purché gli dessimo il tempo di prender su armi e bagagli e di ritirarsi. Il colonnello aveva consentito e aveva mandato un suo ufficiale a chieder come ostaggio un ufficiale austriaco, che ci avrebbe fatto da guida nell’avanzata: ora si aspettava appunto il ritorno dell’inviato insieme con l’ostaggio. Così attendemmo fin dopo le 10: e finalmente l’ostaggio venne, un tenente biondo, viennese, con pistola e sciabolino e con in testa quel solito elmo tozzo e pesante che portavano le truppe d’assalto austriache. L’avanzata ricominciò: chiesi il permesso al colonnello di unirmi alla pattuglia di punta ed egli me lo concesse. Questa pattuglia formata di un plotone di cavalleggeri e comandata da un tenente, aveva il compito di precedere di un centinaio di metri l’avanguardia, a passo cauto e non celere, per sventare le insidie. Il tenente scese da cavallo, tanto per sgranchirsi un po’ le gambe e si avviò per la strada precedendo il suo plotone. Io mi accompagnai con lui, a piedi, facendo seguire a distanza la carrozzetta vuota: con noi si accompagnò anche l’ufficiale austriaco 19

Uno squadrone del reggimento cavalleggeri Alessandria.

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che faceva da ostaggio e da guida. Dinanzi a noi c’era soltanto un soldato in bicicletta che andava a passo d’uomo. Così percorremmo a piedi un paio di chilometri: la strada era pianeggiante coll’Adige a sinistra e con delle rocce a picco sulla nostra destra dalle quali, se gli austriaci avessero voluto, ci avrebbero letteralmente annientati. La nebbia si era un po’ diradata e s’affacciava un po’ di solicino caldo che veniva opportuno a cacciar via quell’uggia che resta addosso quando ci si alza troppo presto. La passeggiata era veramente geniale... La via, dinanzi, era deserta; il tenente di cavalleria, un siciliano, parlava volentieri di Messina, mentre quel bietolone austriaco veniva a passo con noi come un automa; non si sentiva un colpo né di cannone né di fucile; soltanto, dietro di noi, lo scalpitio della cavalleria che ci seguiva a poca distanza. A un tratto, a una svolta della strada, ecco che ci si pararon davanti, a una cinquantina di metri dinanzi a noi, i signori austriaci: avevano ingombrato la strada con le loro carrette sulle quali stavano caricando i bagagli: i soldati erano tutti affaccendati a preparare le loro robe e in gruppo in mezzo alla via erano fermi gli ufficiali del reparto, che, appena ci videro apparire, puntarono contro di noi... le loro macchine fotografiche, guardandoci senza ridere e senza ira... Il tenente di cavalleria, vedendo gli austriaci fermi, mandò subito a chiedere istruzioni al colonnello che ci seguiva: dovevamo fermarci anche noi, o proseguire? Il colonnello mandò a dire di fermarci finché quei farabutti non avessero continuato a ritirarsi: non era prudente, infatti, lasciarsi alle spalle un reparto che poteva avere delle idee bellicose. E così ci fermammo sulla via, a una ventina di metri dagli austriaci fermi anch’essi. In mezzo a noi c’era un piccolo tratto di strada, di territorio neutro... Stemmo a guardarci così per più di un’ora, con una ostentata fredda indifferenza. Il maggiore austriaco, che stava in mezzo ai suoi ufficiali, era un bell’uomo, alto e rubicondo, con dei baffi neri e con una ghigna da prepotente, ben inquadrata dall’elmetto a fungo. Aveva un pastranino azzurro, corto, con pelliccia, e con delle finiture rosse e d’oro, tipo Vedova Allegra o Ballo Excelsior: in mano aveva un frustino e ogni tanto dava delle frustate sulla faccia ai suoi gregari che non facevano le valigie con sufficiente celerità. Potei fare di questa scena una fotografia con una macchina non mia: eravamo, lì, in una località chiamata Acquaviva, in cui la strada passa tra due grandi casamenti

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(mi ricordava, non so perché, un certo punto di S. Albino20). Spettatrice di questa scena era, dalla finestra di una di queste case, una contadina che ci guardava senza rendersi conto di cosa succedesse. Le mandai per un soldato una delle bandierine ed ella dalla finestra mi ringraziò, ma non la espose: quel maggiore col frustino in mezzo alla strada le faceva ancora ombra... Ad Acquaviva, in attesa che gli austriaci avessero finito il loro sgombero, restammo fino oltre le 12. Avevo una gran fame, ma non mi sapevo decidere a prendere dalla mia carrozzetta l’involto colla colazione, perché speravo che da un momento all’altro la marcia si potesse riprendere: e mi limitavo a sbadigliare e a chiacchierare coi cavalleggeri, che avevano profittato della sosta per dare l’abbeverata ai loro cavalli. Frattanto la nostra fermata aveva dato modo alle truppe che seguivano l’avanguardia di raggiungerci: s’era già radunato lì subito dietro a noi tutto lo squadrone di cavalleria col suo colonnello, e cominciavano a giungere le prime pattuglie del reparto d’assalto. Poi giunse un’automobile con un colonnello dei carabinieri che veniva a informarsi della ragione della sosta; poi due motocarrozzette con vari ufficiali; poi mi vidi comparire dinanzi Callaini che mi abbracciò dalla commozione del momento: anch’egli, senza che io gli avessi detto nulla, aveva pensato bene di raggiungermi con un autocarro pieno di giornali e di cartoline di propaganda da distribuire, appena giunti, alla popolazione di Trento. E si seguitava ad aspettare: alla fine una delle motocarrozzette giunte per ultime accennò a voler partire per conto suo: io che da un’ora pensavo di fare altrettanto, e che temevo che qualcuno arrivato dopo di me mi togliesse la consolazione che ormai m’ero ripromesso, non stetti più alle mosse e detti ordine al mio motociclista d’andare avanti a tutta velocità lasciando i cavalleggeri a tu per tu col maggiore mangiasego. E via, nessuno disse niente, nessuno tentò di fermarci: passai avanti in poche centinaia di metri all’altra motocarrozzetta che s’era già lanciata e fui solo così sulla strada di Trento colla mia bandierina che sventolava nella corsa pazza. Da Acquaviva a Trento la strada è lunga una diecina di chilometri, larga e pianeggiante e sempre parallela all’Adige: ai due lati della via vedevo fuggire nella mia 20

Paesino vicino Montepulciano.

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corsa baraccamenti di austriaci, campi pieni di carrette militari e di cavalli, tutta quella multiforme vita che un esercito in guerra ha nelle retrovie. Per qualche chilometro la strada fu sgombra, poi cominciammo a trovare truppe austriache in marcia o in procinto di mettersi a marciare. Il motociclista suonava a tutta forza la tromba per farsi largo, ed io, quando quelli non si scansavano con prontezza, facevo dei larghi gesti da padrone per ordinar loro di lasciar libero il varco... E i mangiasego guardavano istupiditi quella bandierina che rideva di loro sul manubrio della motocicletta e si scansavano regolarmente facendo un viso tra attonito e ilare. Giunsi al paese prima di Trento, – Mattarello – e vidi lì dei borghesi che scorgendo il tricolore si misero a urlare e ad agitar le braccia. Senza fermarmi cominciai a lanciare qualcuna delle bandierine della mia provvista, e vidi che delle donne correvano a raccoglierle e se le contendevano... Avanti, avanti. Ogni tanto incitavo il motociclista a andar più forte, ma egli ci pensava per conto suo, e per conto suo, oltreché guidar la macchina, urlava a gran voce delle frasi di entusiasmo patriottico e di vituperio contro gli austriaci che poco mancava, in risposta a quelli improperi, non ci presentassero le armi... Via via, eccoci sotto a un viadotto con grandi archi, la ferrovia che da Trento va in Valsugana, eccoci all’improvviso imboccati nella via principale di Trento, in un viale alberato, in mezzo a belle palazzine, in mezzo a un gran via vai di automobili austriaci, di soldati austriaci, di ufficiali austriaci... Largo, largo! La folla si apriva... vidi che alle finestre c’erano già tante bandiere italiane: ebbi la visione di una gran città polverosa e tumultuosa che ad ogni finestra avesse un tricolore. Mentre i carnefici facevano in fretta le valigie per partire, Trento si era già messa i suoi colori e aspettava... Infilai senza fermarmi nel Borgo Nuovo che porta diritto al centro della Città: cominciai a sentir delle grida di gioia dalle finestre e dai marciapiedi, e mi accorsi che qualcheduno cominciava a rincorrermi per farmi festa. Ma io avevo l’intenzione di arrivare senza fermarmi al monumento di Dante, e per tutta risposta alle grida mi sfogavo a lanciar bandierine fuggendo. A un tratto mi trovai davanti a un bivio... non sapevo da che parte voltare per raggiunger la meta: feci fermare un istante per chieder indicazioni ai passanti, coll’idea di continuar poi subito la corsa... Ma non potei muovermi più. Dieci, venti, cento persone mi si buttarono addosso da tutte le parti, urlando, pian-

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gendo, ridendo, pigiandomi, soffocandomi, senza permettermi di alzarmi dal mio carrozzino... Ebbi l’impressione di essere schiacciato da una valanga di mani che facevano a gara per stringer la mia mano, per agguantare la bandierina preziosa... Tentai, per un po’, di seguitare la distribuzione delle bandierine a una a una, ma poi mi sparì tutto: mi presero le bandierine piccole, mi strapparono quella che era al manubrio, mi portaron via anche quella grande, quella rubata ai miei padroni di Borghetto, quella destinata a Dante... Quando mi potei riavere e saltar fuori dalla mia carrozzetta senza essere capace dalla commozione di dire una parola a quel delirio di entusiasmo, mi accorsi che il mio tesoro di bandierine era stato interamente svaligiato; ma non ebbi tempo di stare a occuparmi di ricercar la bandiera di Dante, perché la folla, ingrossata ormai a parecchie centinaia di persone, mi si pigiava d’intorno sempre più calorosamente e cominciava a gridare «Al Municipio, al Municipio!». Erano giunte frattanto altre due motocarrozzette, anch’esse prese d’assalto dalla folla festante: in una c’era il tenente Ciarlantini, di cui parlava anche il «Corriere», in un’altra altri due ufficiali del Corpo d’Armata che i giornali, non so perché, non hanno nominato. Mentre stavamo per dirigerci al Municipio, ecco dietro di noi lo sbuffare di un’automobile: credetti che fosse qualcuna delle nostre e dissi alla folla di aspettare, che altri ufficiali stavano arrivando. Invece, quando la vettura ci fu vicina, vedemmo che vi era sopra un generale austriaco col suo aiutante: avevano tutt’e due una faccia verde sotto i loro pentolini turchini, il bavero tirato su, una coperta tirata fin quasi al collo come per nascondersi; passarono in mezzo alla folla festante, guardando dinanzi a loro, senza nemmeno osar di voltare il viso: e scantonarono in mezzo a una fischiata solenne, e in mezzo a un urlo trionfale di «Viva l’Italia» che soffocò il brontolio del motore... Poi, sempre in mezzo agli sballottamenti dei cittadini fummo portati di peso, più che condotti, al Municipio... La gioia provata in quegli istanti da noi non si può ridire: quel senso di artificio, di montatura, di esagerazione che si prova in tutte le manifestazioni di piazza, era, in quei momenti di festa irrefrenabile che scoppiava da tutti i cuori, assolutamente lontano... Mi pareva di ritrovare, in ogni mano che mi si tendeva una persona cara, da tanto conosciuta e ritornata dopo una lunga assenza. Io non sapevo dire altro che «Fratelli, fratelli»; e mentre ora, se ci ripenso, può darsi

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che questa parola, guasta ormai da tanta retorica, mi sembri esagerata e mi faccia sorridere, allora la pronunciavo come l’unica parola che potesse pallidamente esprimere il sentimento di esserci finalmente ritrovati. «Finalmente, finalmente!»: era questa la parola che più sentivo mormorare dalla folla: donne e vecchi, bambini e giovinotti e signorine e popolane, tutti ci urlavano sulla faccia il loro giubilo, la loro ebrezza: «Quanto vi abbiamo aspettato!». «Quanto abbiamo sofferto!» «Ma ora si dimentica tutto...» Sulla via del Municipio, ci vollero portare in trionfo: sentii le mie gambe sollevate in aria, mi sentii fluttuante sulla folla: e non riuscivo, quantunque mi adoprassi a far gesti colle braccia, a tornare a terra... Quando fummo a un centinaio di metri dal Municipio, ecco che si presentò dinanzi ai miei occhi una visione che non dimenticherò mai: con gran solennità vidi uscire dalla porta incontro a me un corteo di Autorità che venivano a darci il primo saluto. C’erano i membri del governo provvisorio in tuba, c’era in mezzo loro il prelato che faceva le veci del Vescovo (internato perché troppo italiano) vestito di violaceo, c’erano molte signore tutte infioccate dei colori d’Italia, e ai due lati del corteo c’erano due file di guardie civiche, con tanto d’elmo dorato e di spennacchio rosso sulla testa... A vedermi venire incontro questa rappresentanza in pompa magna, destinata a ricevere i «conquistatori» provai un sentimento di imbarazzo e quasi di mortificazione, perché mi vedevo fatto un onore ufficiale che non mi spettava. E allora, quando fui a pochi metri di distanza dal corteo, mi affrettai, dopo aver stretto le mani che mi si tendevano da tutti quei bravi signori vestiti di nero, a dichiarare che io non avevo nessuna veste ufficiale, che l’atto mio e degli altri ufficiali era una «scappata», una «birichinata», ma che l’accoglienza solenne non doveva esser fatta a noi... L’apparato pomposo di quei trentini, che avevan ritirato fuori dalle casse i vestiti di gala per venire incontro ai liberatori finalmente arrivati, non aveva nulla di ridicolo, come avrebbe potuto avere in altra circostanza: anzi era così commovente, così toccante quella ostentazione di solennità con cui tutti quanti i dignitari cercavano di nascondere le loro lacrime, il loro tremito, il loro delirio! Cercavan tutti di mantenere la compostezza che si addiceva al «momento storico», eppur nessuno riusciva a frenare l’emozione che voleva prorompere, che li spingeva a urlare e a gesticolare... Quando ebbi fatto intender loro la mia posizione un

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po’ anormale, il corteo perse la sua rigidezza, ma vollero nello stesso modo portarci in Municipio; lì, invece di salire nella sala, ove era preparato il ricevimento ufficiale, ci fecero fermare nel cortile del palazzo che si riempì subito di una gran folla plaudente; poi il Dottor Faes, facente funzione di Sindaco, salì su un tavolino, tirò su anche me e il ten. Ciarlantini, e fece un discorso pieno di commozione, che terminò offrendomi come dono simbolico un pacco di sigarette che un boemo aveva destinato al primo soldato italiano entrato a Trento, e chiedendomi il permesso di darmi un bacio a nome di Trento. Risposi molto brevemente, ma sodisfacentemente; dissi all’incirca così, a quel che ricordo: «Fratelli trentini! Fra un’ora, forse tra meno, le truppe italiane entreranno a Trento (applausi interminabili). Quando ieri è venuto al nostro Corpo d’Armata l’ordine di avanzare, fra tutti i soldati si è aperta una gara febbrile, perché ognuno voleva essere il primo ad arrivare. Questa indicibile fortuna è toccata a me: ed io vi giuro che ciascuno dei nostri fanti, che da quattro anni soffre le torture indicibili di questa guerra atroce, non vorrebbe rinunciare ad aver tanto sofferto pur di provare la infinita felicità che io provo in questo momento. Ma le vostre dimostrazioni di entusiasmo non devono essere rivolte a noi, che siamo una rappresentanza modesta, una avanguardia sentimentale di quelli che stanno per arrivare, della nostra fanteria santa. Qualche giorno fa, da una trincea di prima linea, ho avuto la ventura di scorgere gli ambasciatori dell’Austria moribonda che, con gli occhi bendati, venivano a implorar mercé dai nostri combattenti, a inginocchiarsi per implorare dinanzi alla nostra fanteria. Or dunque, fratelli di Trento, andiamo tutti incontro alla fanteria!». Così, in mezzo a urli, a canti, a clamori indescrivibili scendemmo giù dalla tribuna improvvisata e circondati da una gran folla mista di popolani e di signori in tuba uscimmo dal Municipio per rifare in senso inverso la strada che avevamo fatto nel venire. Mi trovai, non so come, infioccato e fiorito di bandierine, di lunghi nastri tricolori, di margherite artificiali che sbocciavano su misteriosamente da tutte le mani: continuavano ad affluire intorno a me le persone che volevano sapere il mio nome; giovinotti e signorine ci presero a braccetto come se ci conoscessimo da molti anni e cominciarono a raccontarci tutti insieme le storie delle loro torture, delle angherie sofferte, della fame, degli strazi, dell’uccisione di

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Battisti... Andavamo pian piano verso l’uscita della città di dove stava per arrivare la cavalleria: e gli austriaci scantonavano, tacevano, sparivano. Tutta la strada era ormai un mare di popolo: tutte le finestre erano un trionfo di bandiere tricolori, e di vessilli gialli e azzurri, dei colori di Trento. Mi raccontavano i miracoli di astuzia fatti per preparar le bandiere; una signorina mi fece vedere le mani ancora arrossate dall’anilina: aveva passato la notte a tinger coll’inchiostro dei lenzuoli per fare i drappi rossi... Giungemmo all’uscita sud della Città con quella festante serenità con cui si svolgono in tempo di pace i cortei nelle ricorrenze patriottiche veramente sentite; anzi con una allegrezza così sincera, così commovente e clamorosa come non si vede mai neppure in tempo di pace: e dire che Trento era ancor piena di migliaia di austriaci in armi, e che vi erano, chiusi in un Albergo, due comandanti di Corpo d’Armata, e su tutti i forti circostanti centinaia di cannoni che potevano in pochi istanti spianare al suolo la Città! Quando fummo usciti dal viale, e di nuovo avemmo varcato il viadotto, ecco che finalmente (erano quasi le tre del pomeriggio) si vide giù in fondo alla strada polverosa avanzare confusamente degli enormi strani veicoli, simili a enormi tanks di nuovo modello; e quando furon vicini scorgemmo che eran tre autocarri italiani, carichi ciascuno di una enorme piramide di militari e di cittadini e tutti adorni di tricolori sventolanti. Uno di questi autocarri era quello di Callaini, che scese appena giunto in mezzo alla folla ed ebbe la stessa accoglienza che avevamo avuto noi; negli altri erano altri ufficiali che subito vennero inghiottiti dalla fiumana di popolo, mentre quegli enormi grappoli di cittadini che s’erano arrampicati per via sui tre veicoli riprendevano la corsa e la sbandierata verso l’interno della Città... Alle tre e un quarto arrivò la cavalleria, col suo colonnello alla testa: e il Sindaco in tuba circondato da tutti i dignitari rinnovò il saluto all’esercito vincitore in mezzo ai canti della folla, in mezzo agli applausi scroscianti di quel popolo finalmente liberato, che moltiplicava di minuto in minuto il proprio ardore e la propria espansività. Poi arrivaron gli arditi, poi gli alpini... Tornammo in città confusi tra la folla: eravamo stanchi, polverosi, storditi. La città era piena di uno strano caleidoscopio di facce e di uniformi, di un tumultuoso rimescolio di correnti ognuna delle quali andava per conto suo. Passavano ufficiali e soldati di cento reggimenti, austriaci che cercavano di sfuggire all’accerchiamento e si dirige-

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vano alla stazione ferroviaria, signori in tuba con coccarda tricolore, prigionieri russi che avevan profittato della confusione per liberarsi e per ubriacarsi al suono di strane chitarre, centinaia di nostri prigionieri cenciosi e pallidi che ci venivano incontro piangendo dalla gioia e mettendosi ai nostri ordini per dare addosso agli austriaci. Il contegno dei militari austriaci fu non solo remissivo ma vigliaccamente e sconciamente servile. Ho visto io coi miei occhi tre o quattro ufficiali che, mentre noi passavamo cantando, se ne andavano via ridendo e spingendo con un bastoncino un maialetto rubato chissà dove. Per tutto il giorno la città fu così in subbuglio. La cavalleria seguitò a andare avanti, occupò la stazione ferroviaria, si spinse per la via di Bolzano. Nessuna autorità funzionava ancora: all’imbrunire i riflessi di grandi incendi di magazzini illuminavano le facciate delle case. Andammo a vedere il monumento di Dante, al quale raccontai che la sua bandiera mi era stata rubata: e mi perdonò. Passando sul canale dell’Adige Vecchia, che traversa i giardini, vidi che l’acqua era bianca come il latte: mi dissero che la mattina le autorità austriache prima di fuggire avevano rovesciato nel canale ingenti quantità di farina conservata nei depositi... All’imbrunire ci ricordammo che ancora non avevamo mangiato: e accettammo senza farci pregare l’invito cordialissimo di una famiglia di patrioti, certi signori Bernardi che ci ospitarono come se fossimo stati i tre re magi (me, Callaini e Ciarlantini). Ci narrarono particolari incredibili delle infamie tedesche e della carestia alla quale l’Austria era ridotta: un quintale di grano costava 1500 corone! Ma, nonostante la carestia, ci improvvisarono – colle provviste fatte in magazzini abbandonati in quei giorni di trambusto – un buon pranzetto che ci rimise a nuovo. A notte sapemmo che in Municipio era giunto, inviato dall’Armata il capitano avv. Mazzoni di Firenze e andammo a trovarlo per coadiuvarlo in quelle prime ore di confusione: stemmo fino oltre la mezzanotte a rincorrer prigionieri, a disporre pattuglie, a accompagnare in gattabuia torme di ufficiali austriaci che volevan perfino protestare. Poi andammo a dormire Callaini ed io, in una bella camera a due letti che ci fu messa a disposizione da uno dei più fervidi patrioti di Trento, il signor Suster, che appena arrivati noi si era messo al nostro fianco con in braccio un moschetto austriaco e con un elmetto italiano in capo... E mentre stavamo per addormentarci udivamo ancora giù per la strada, folate di canti che passavano, l’inno

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di Mameli che risvegliava gagliardamente le vecchie strade assopite nel dolore e le voci di modesti popolani che rientrando alle loro case si scambiavano le loro impressioni: «Ma eh, siora Marieta, che zornata!». «Mi no ghe credo ancora!» «I xe vegnúi: finalmente, i xe vegnúi!» E una voce di vecchio: «Li aspettavo da cinquant’anni... ora posso morire contento...».

Nuovi compiti per l’Ufficio P A Bolzano l’Ufficio P comincia ad occuparsi dello stato d’animo della popolazione dei territori redenti: non più persuadere i soldati a far la guerra, ma far propaganda di italianità.

20 novembre 1918, ore 23 Stasera, sia pure per eccezione, torno dal teatro. Potrei dire che anche al teatro sono andato per ufficio, perché non si trattava tanto di divertirsi allo spettacolo (una vecchia operettaccia viennese, Il Conte di Lussemburgo, cantata da attori tedeschi che miagolavano e abbaiavano e che, naturalmente, non si capivano!) quanto di renderci conto dell’atteggiamento dei tedeschi verso di noi. Abbiamo preso un palco, abbiamo mangiato prima perché qui i teatri cominciano alle 71/2, e siamo stati lì dicendo facezie sugli orribili fischi gutturali dei cantanti. Eravamo in quattro, io, Ciarlantini, Callaini, e Casareto (i tre tenenti del mio ufficio); poi a metà spettacolo, abbiamo invitato due ufficiali americani delle Case del Soldato. [...] Il calorifero, ben acceso, e il telefono si trovano nel mio ufficio, che è in una delle stanze dell’Hotel Austria, di cui ti mandai anche la riproduzione in cartolina; ma qui nella Villa Guntschna, dove dormo io con altri due capitani, il lusso non è poi eccessivo, e invece di calorifero vi è una bella stufa di maiolica bianca, che però non accendo perché il freddo, qui, sia per le giornate bellissime, sia perché Bolzano ha un clima quasi meridionale, non si fa molto sentire. La mia stanza, molto grande ma non molto ridente, è in un angolo della villa, al primo piano, ed ha per questo due finestre, in due diverse pareti: grandi finestre colle imposte bianche e con doppi vetri, che danno in un parco. Impiantito di legno

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lustro, carta scura alle pareti, toilette di marmo con sotto cassetti di noce, una piccola scrivania, un divano e in mezzo alla stanza il tavolino sul quale ora ti scrivo. In un angolo il letto... oh, il letto! Senti: la prima sera, quando entrai in quel letto, che come affusto sarebbe abbastanza elegante (di noce anch’esso), mi trovai coperto da un lenzuolo che era largo esattamente quanto il piano del letto, senza possibilità di nessun, sia pur modestissimo, rincalzo (e tu sai se io ci tengo a chiudermi sotto i lenzuoli come in un sacco!); poi, invece delle coperte, vi era un piumino; ma questo piumino era lungo poco più di un metro: in modo che se mi coprivo in alto mi scoprivo in basso, e viceversa. Ma qui non è tutto: al posto del capezzale o del guanciale c’era una specie di materazzino a sdrucciolo, che cominciava alto alto vicino alla spalliera e poi scendeva fino a finire a niente a metà del letto: sicché, per quanto tentassi di star fermo colla testa, mi trovavo ogni tanto a scivolar giù verso gli antipodi... La notte dopo guardai di rimediare facendo volar via questa specie di scivolatoio; e avviluppando e completando il piumino con delle coperte: e ora riesco a dormire senza incidenti. Vuoi sapere che faccio e che cosa... penso di fare. Ecco, qui noi stiamo stabilmente in attesa che la smobilitazione, già attuata per le prime tre classi anziane, segua il suo corso: e intanto il compito di noi ufficiali P, ora che non c’è più da persuadere i soldati a far la guerra, è quello di aiutarli a passar meglio questa loro attesa, e quello di far propaganda di italianità in mezzo a questi tedescacci testardi come muli. Se proprio dovessi dirti con sicurezza tra quanto si arriverà alla smobilitazione della mia classe, mi troverei imbarazzato: qui però si pensa che tra un paio di mesi al massimo, i militari della mia classe debbano già essere a casa. Per me c’è poi di più: che, data la mia qualità di professore, ritengo imminente un provvedimento personale che mi richiami a insegnare.

Prospettive per il futuro 24 novembre 1918 Amore, tu vuoi sapere quando tornerò. Già te l’ho detto: io credo che il mio congedamento, dato il preannunciato richiamo all’inse-

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gnamento di tutti i professori, debba seguire tra pochissimi giorni, certamente prima di Natale. Io qui non ho nulla che mi rattenga: colla conclusione dell’armistizio il nostro compito è stato virtualmente finito e io, ora che chi ha fatto la guerra per solo amor d’Italia comincia a tornarsene a casa, non mi trovo più a mio agio tra i guerrieri di professione. 4 dicembre 1918, ore 17 Qui sono solo oggi: è uscito l’unico ufficiale che mi è restato quassù, perché Callaini e Ciarlantini hanno trasferito i loro uffici nel centro di Bolzano, in due belle stanze di un Hotel, dove si occupano di assistere la popolazione civile, mentre io resto quassù a Gries, a dirigere tutti i meccanismi. Abbiamo anche aperto, nella piazza principale di Bolzano, una libreria italiana, che ostenta nella sua vetrina libri nostri e copertine tricolori, mentre finora, nelle quattro grandi librerie bolzanesi, non si trovavano altro che libri tedeschi. Si fa qualcosa, ma a forza di arrabbiature e di ostacoli: anche cinque minuti fa ho preso una solenne arrabbiatura al telefono perché mi hanno detto che non sono ancora pronti i cartelloni di legno, con scritto su “Libreria Dante” che dovevano essere a posto da una settimana. Io vado a Bolzano (10 minuti di tram elettrico, di qui: figurati che Gries sia, colle dovute differenze, il Vial dei Colli di Bolzano) quasi tutti i giorni, e anche oggi ci sono andato dal tocco alle tre, per divagarmi un po’. [...] E oggi, per la prima volta, sono entrato con altri ufficiali in una bottega di pasticcere, e ho mangiato – pensando alla mia bambina ghiotta – dei canditi e dei bonbons di pasta di castagne che a Firenze non si trovano certo. Mi son messo a fare una specie di inchiesta sui tribunali di questa regione e, avendo conosciuto un vecchio presidente di tribunale, che, nonostante il suo nome tedesco (si chiama Untersteiner) è ben italiano di linguaggio e di sentimenti, sono andato per tre giorni a casa sua per farlo parlare di quello che mi interessava, prendendo così dei preziosi appunti che mi serviranno per la mia prolusione, quando potrò farla: intanto, in questi tre giorni di seduta giuridica, ho potuto sorbire anche tre buoni tè con zucchero in quadretti, offertimi dalla signora del presidente, una vecchia signora di Rovereto alla quale, in cambio della sua

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gentilezza, ho concesso l’opera di Donzelli per spaccare e, segare della legna da ardere nella stufa... Anche in questi ultimi giorni di lontananza che sono così lunghi a passare, ho complottato qualche altra cosa. Ho conosciuto in questi giorni, sotto le spoglie di un tenente del genio, il maestro Gui21, che mi pare abbia diretto anche a Firenze dei concerti orchestrali, e l’ho pregato di metter su un concerto corale di canti di guerra tra i nostri soldati: e domani comincerà l’istruzione, e io anderò a passare qualche mezz’ora a sentir le prove.

Ultimo Natale lontani Ada e Piero si incontrano brevemente a Bologna (dal 14 al 18 dicembre): si preparano a ricongiungersi e a mettere su casa (Ada è alla ricerca di un “quartierino” a Firenze, prima di trasferirsi a Modena, dove Piero avrà la cattedra); il 20 Piero comunica al suo capo di stato maggiore il proposito di andarsene ai primi di gennaio, e non incontra resistenze.

21 dicembre 1918 Qui nei paesi tedeschi celebrano il Natale con gran solennità e stasera in una bottega dov’ero a comprare delle cartoline illustrate una vecchia signora mi ha domandato in cattivo italiano, con aria di compianto, se anch’io non andavo a passare a casa mia le feste natalizie. Le ho risposto di no, con un po’ di malinconia, ma non con grande malinconia. Poiché so che, quando avrò passato in esilio anche quest’ultime feste tradizionali comincerà per me una festa di tutta la vita che gli altri non posson godere, una festa senza formalità esteriori e senza sfarzi artificiali, alla quale ogni sera ed ogni mattina io inviterò il mio amore, ed il mio amore inviterà me...

21 Con Vittorio Gui inizia una collaborazione, testimoniata dall’edizione, nel Capodanno 1919, dei Canti di soldati raccolti da Piero Jahier, armonizzati da Vittorio Gui, a cura della sezione «P» della 1a Armata, con la dicitura «in Trento Redenta». L’amicizia proseguirà nel dopoguerra e Gui sarà menzionato nel Diario e tra i destinatari del dono dell’Inventario della casa di campagna nel 1941.

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23 dicembre 1918, ore 10 Ieri ho faticato tanto non solo spiritualmente ma anche materialmente, nel confezionare varie centinaia di pacchi per bambini poveri, con relativi camiciolini e cuffiette in ciascuno di essi: e nelle lunghe ore che ho passato a scegliere gli oggetti e a legare gli involti con nastrini tricolori ho pensato tanto al nostro Franco, al quale nel giorno di Natale non posso regalare neanche un balocchino fatto perbenino; ma Franco, se tu glielo sai spiegare, perdonerà questa che pare e non è dimenticanza. E sarà contento nel pensare che il suo babbo tra pochi giorni tornerà per sempre e sarà disposto, purché il suo bambino stia quieto di notte, a divertirlo tutti i giorni quasi per una mezz’ora, scherzando con lui e facendo con lui a nasconderello. 23 dicembre 1918, ore 23 Amore, un’altra giornata di battaglia: ho faticato da stamani alle sette fino ad ora, ininterrottamente, andando in su e in giù in automobile, ricevendo due commissioni di donatori coi quali stasera ho pranzato a un albergo di Bolzano, andando con un prete a visitare il presepio che domani si inaugura, presenziando poco fa una adunanza di un comitato di assistenza civile bolzanese.

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TRENTO

Liquidazione e testamento della Sottosezione P Il 2 gennaio Piero si reca a Trento per «prendere accordi sulla nostra... liquidazione».

3 gennaio 1919 Amore mio, il XXIX Corpo d’Armata non esiste più, so che sarà per te un gran dolore, ma cercherò tra qualche giorno di confortarti. Tutto il Comando parte per Trieste, dove va ad assumere un altro Corpo d’Armata (XIII): qui a Bolzano si trasferisce il X Corpo e noi restiamo qui per qualche giorno a fare da «Sottosezione P del X Corpo d’ Armata». Questo è dunque il mio indirizzo; ma sarà opportuno che sulla busta, tra parentesi, tu aggiunga sempre, d’ora innanzi, (Bolzano), pur seguitando a scrivere Zona di guerra. Ho già presentato la domanda di congedo: sarò libero, spero, tra il 10 e il 15. 4 gennaio 1919, ore 22 Amore mio, sto dettando la relazione, che spero sia l’ultima: il testamento della Sottosezione P... L’ultima lettera da Bolzano è del 10 febbraio: Piero è riuscito ad evitare una proroga di tre mesi delle sue funzioni e a ottenere il congedo. Ha trovato un sostituto a cui dovrà dare una settimana di istruzioni per poi «volar via» definitivamente.

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Parte prima. Lettere FIRENZE

Ai primi mesi del 1919 datano due lettere da Firenze e da Modena indirizzate a Vamba, per rinnovare la collaborazione col «Giornalino della domenica» e raccomandargli nuovi collaboratori, che possano raccontare ai ragazzi l’esperienza della guerra.

[A Luigi Bertelli (Vamba)] Carissimo Vamba, da Firenze, ove son giunto da pochi giorni in congedo, ti ho spedito ieri, insieme con una strenna dell’Alto Adige di cui ti ho scritto la prefazione e curata la pubblicazione a Bolzano, quel libello brigantescamente tricolore col quale i poveri “mangiasego” si illudevano di fare gran breccia nel cuore dei nostri soldati. Vedrai che in quelle paginette tu sei ripetutamente ricordato «responsabile» di aver eccitato i giovani alla guerra contro l’Austria: e questa accusa vale per te quanto una decorazione al valore! Ti ringrazio dei primi numeri del «Giornalino» che mi inviasti a Bolzano e ti sarò grato se vorrai tener conto della mia variazione di domicilio; il mio Franco, quantunque non sappia leggere ancora, guarda con solenne gravità le figurine colorate e par già che comprenda che il «Giornalino» sarà fra qualche anno il suo amico migliore. Spero di poterti presto dare una collaborazione costante, se la gradisci; vorrei poter raccontare ai ragazzi quali tesori, non soltanto di valore, ma anche e sopra tutto di bontà, di umanità, hanno rivelato i nostri umili soldati a chi ha vissuto con loro per tre anni. Carissimo Vamba, ho sempre da ringraziarti di quelle parole piene di tanto affetto che scrivesti per me nelle pagine rosa di un «Giornalino»: e lo avrei fatto prima, se non avessi avuto nelle scorse settimane la... sciagura domestica di un trasferimento da Firenze a Modena, dove ho cominciato, da una cattedra alta come un pulpito, a fare l’uomo serio per davvero... Questo ti spieghi anche perché finora non ho potuto mantenere la mia promessa collaborazione al

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«Giornalino», per il quale, appena le vacanze di Pasqua lasceranno in pace il giurista, ti manderò le memorie (autentiche, che possiedo in originale!) di due burattinai al fronte. So che un mio bravo collega di lassù, il tenente Franco Ciarlantini, autore di quel volumetto su L’anima del soldato che contiene dei veri tesori, ti ha mandato o sta per mandarti da Bolzano una fiaba per il «Giornalino». E son certo che tu gli farai buon viso perché è un acquisto veramente prezioso.

Parte seconda SCRITTI E DISCORSI

NOTA AI TESTI di Alessandro Casellato

I documenti pubblicati in questa sezione sono tratti dal Fondo Piero Calamandrei presso il Museo storico in Trento (MST), dal Fondo omonimo presso l’Istituto storico della Resistenza in Toscana, con sede a Firenze (ISRT) e dall’archivio della famiglia Calamandrei conservato a Montepulciano e a Roma (APC). Il Fondo trentino è composto da 4 buste, contenenti manoscritti, corrispondenza, fotografie, diplomi e benemerenze, materiale a stampa e – soprattutto – relazioni scritte da Calamandrei come ufficiale del Servizio P, dall’aprile 1918 al gennaio 1919. Il materiale è stato così raccolto dallo stesso Calamandrei, che pare lo conservasse in una valigia. Nel 1960 è stato versato dalla vedova, Ada Cocci, all’allora Museo del Risorgimento di Trento, nelle mani della sua direttrice, Bice Rizzi, esponente dell’irredentismo e della cultura nazional-democratica trentina, corrispondente per «Il Ponte» nel secondo dopoguerra e legata alla famiglia Calamandrei anche da personale amicizia1. Il Fondo ora è completamente inventariato. Questi documenti sono preziosi non solo per ricostruire la biografia del loro autore, ma anche per le informazioni che contengono sull’organizzazione dell’attività istituzionale di propaganda, assistenza e vigilanza tra le truppe combattenti e sulle modalità in cui si svolsero l’occupazione e il trapasso dei poteri in Trentino e in Alto Adige all’indomani della vittoria militare. Paradossalmente, questo archivio è stato poco valorizzato dagli storici trentini, che pure sono stati negli ultimi trent’anni 1 Vedi Paola Antolini, Bice Rizzi: una trentina per l’Italia, tesi di laurea in Storia, Università di Venezia, rel. Mario Isnenghi, a.a. 2003/2004.

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Parte seconda. Scritti e discorsi

protagonisti indiscussi di un cospicuo rinnovamento degli studi sulla Grande Guerra2, e sembra fosse sconosciuto anche agli studiosi che si sono occupati specificamente del Servizio P3. Il Fondo Piero Calamandrei presso l’Istituto storico della Resistenza in Toscana è invece molto più ampio (37 buste) e cronologicamente dilatato (comprende documenti che vanno dalle scritture infantili di Piero alla rassegna stampa che lo riguarda fino al 1983), ma meno ricco del precedente di materiale relativo all’esperienza durante la Grande Guerra. Si è rivelato prezioso, invece, sul versante dell’elaborazione della memoria della guerra stessa, poiché contiene alcuni discorsi e scritti commemorativi4. L’archivio della famiglia Calamandrei è conservato a Montepulciano e a Roma e custodito dalla nipote di Piero, Silvia Calamandrei. Comprende alcuni manoscritti di Piero, i Fondi del figlio Franco e di sua moglie Maria Teresa Regard e la biblioteca di famiglia. L’archivio non è inventariato ed in parte è ancora inesplorato. Nel corso della ricerca, ad esempio, sono stati trovati appunti autografi di Piero, conservati all’interno di opuscoli d’epoca; alcuni di essi confluiscono in questa antologia. I documenti sono qui pubblicati nella loro integrità correggendo alcuni refusi, ma conservando le scelte ortografiche dell’autore. I titoli, salvo diversa indicazione, sono redazionali. In nota sono indicati la collocazione archivistica, i criteri di edizione ed eventuali altre osservazioni che possano aiutare a contestualizzarli. I testi sono stati ordinati cronologicamente e divisi in quattro sezioni, che corrispondono al diverso posizionamento di Piero Calamandrei negli anni di guerra e immediatamente successivi. Non è stato possibile dar conto omogeneamente di tutto il perio2 Per una sintesi, vedi Quinto Antonelli, Scritture di confine. Guida all’Archivio della scrittura popolare, Trento, Museo Storico in Trento, 1999, e i rimandi bibliografici qui contenuti. 3 Da ultimo Gian Luigi Gatti, Dopo Caporetto. Gli ufficiali P nella Grande guerra: propaganda, assistenza, vigilanza, presentazione di Giorgio Rochat, Goriziana, Gorizia 2000. 4 Un inventario sommario è pubblicato in La Resistenza in Toscana. Atti e studi dell’Istituto storico della Resistenza in Toscana, La Nuova Italia, Firenze 1970, pp. 117-123.

Nota ai testi

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do considerato, poiché la maggior parte dei documenti reperiti riguarda il 1918, cioè l’anno in cui Calamandrei fu ufficiale del Servizio P. Nella scelta, si è cercato di dar conto dei diversi tipi di fonti e generi di scrittura – relazioni, circolari, discorsi, articoli per giornali, appunti diaristici, lettere, poesie, epigrafi – e della loro rilevanza per la biografia di Calamandrei, ma anche di dare un saggio delle potenzialità di questi documenti per gli studiosi della Prima guerra mondiale.

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Di rincalzo, coi territoriali* Rabbiosamente, dalle cuccie nascoste in mezzo ai faggi, i cannoncini di montagna abbaiano. E i soldati, che dalle tende sono balzati, per ascoltare in silenzio, hanno ai lati della bocca due pieghe fonde, e gli occhi assorti vedono oltre le vette quello che non si vede. C’è battaglia su verso la Lora. Si diceva che i nostri dovevano attaccare; ma quando latrano questi mastini vuol dire che qualcuno s’avvicina... Un soldato di quarant’anni, colla barba tutta bianca sospira (e si tocca la fronte rugosa): «Questi colpi me li sento tutti battere qui dentro e mi dicon che lassù anche noi bisogna andare...». * MST, Fondo Piero Calamandrei, b. 1, f. 1, cc. 1-5, Manoscritto in versi datato «Malga Fieno, 16-18 settembre» [1916]. I fatti cui si riferisce sono probabilmente quelli dei mesi precedenti, in corrispondenza con l’offensiva austriaca sugli Altipiani (Strafexpedition). Tra parentesi uncinate < > sono trascritte le parole cancellate dall’autore. Titolo originale.

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Sì, anche noi bisogna andare; un breve ordine è giunto: i nemici tentano di sfondare; gli alpini non reggono più... E a dare una mano agli alpini Anche noi dobbiamo andar su, anche noi, fanteria territoriale. «Avanti, giovinotti! (così li chiamo; ma qualcuno fa un riso amaro, perché serba sotto il farsetto il ritratto ingiallito dei figli più grandi di lui) Avanti giovinotti! Armarsi in tutta fretta, e fare l’adunata. Bisogna salir subito alla Lora: non per portare viveri in trincea né per fare lo sgombero dei feriti. Non occorre piccone o badile. Prendete il vostro fucile e le cartuccie, quante più ne avete.» Prende ognuno senza parlare il fucile grosso che non è buono a sparare. Mormora una voce: «Avessi almeno un fucile di quelli veri che servon per ammazzare!». Sulla strada mulattiera vengono a porsi su due righe gravemente, tacitamente. Voglio essere ilare e calmo, voglio finger di non vedere ciò che gli occhi di tutti mi dicono. «Di buon animo, ragazzi (oh, ragazzi, che qualcuno mi potrebbe essere babbo!) se n’è passate di peggio. Anche questa anderà bene, purché tutti siate allegri

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come sono allegro io...» E tu che mi guardi con supplici occhi e già ti tremano le labbra per parlare, non mi dici nulla. So quello che vorresti dirmi: che sei malato, che camminar non puoi. Ed io dovrei fieramente indignarmi, e gridarti che un vile sei, poiché tu hai paura... Taci. C’è in fondo al cuore di tutti come un vago tremito di lacrime, come uno stordimento di languido sonno. Ma è un istante. Poi passa: non ci si pensa più... «Avanti, ragazzi, per uno!» Ad uno ad uno, su per la stradella, larga non più di un passo, c’incamminiamo verso la montagna: ultimo dopo l’ultimo son io, per guardar che qualcuno più esitante non si fermi tra il bosco e si nasconda. Innanzi a me si snoda nel pomeriggio grigio su tra le grigie roccie una fila d’uomini curvi in grigi mantelli ravvolti che lentamente va verso il combattimento di cui nulla sa... Crosci di mitragliatrici, schianti di bombarde; sembrano scuri scagliate contro le roccie da invisibili giganti folli che al sibilo delle schegge sghignazzano sconciamente in fondo ai valloni. Invano si anela

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intender quello che esprime il linguaggio dei cannoni. Si vince? Si perde? Vengono avanti? Sono fermati? Chissà... Passa nel cielo il brivido di un volo d’acciaio. Vien da loro? Vien da noi? Chissà... Meccanicamente nell’aspra salita il piede si posa nell’orma chiodata dell’uomo ch’è innanzi. Si pensa. Senz’angoscia ma quasi colla cronica curiosità di uno spettatore mi domando quel che sta per accadere a questo me che fa la sua parte senza poterla cambiare. È oggi un di quei giorni in cui del [sic] mio lontano futuro mi distacco: non voglio sapere quel che mi aspetta fra un anno o fra un mese; ma la curiosità s’è ristetta a chieder umilmente quale sarà la mia sorte entro le brevi ore di questo giorno che precipita

Oh, non c’è dubbio ( né vale scacciare questo pensiero quasiché anche i pensieri portassero disgrazia!), non c’è dubbio: fra un’ora

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potrei essere morto... Quasi sorrido per la strana cosa e più non distinguo il tenue confine che separa la misteriosa realtà dalla superstizione. Ma dunque neppure un indizio mi avvertirà dell’evento che forse mi attende in fondo al sentiero? La data del mese, il giorno della settimana, un ragno portafortuna caduto sul mio mantello un rugginoso chiodo lasciato dalla scarpa ferrata di un alpino, il numero dei passi di qui fino a quella rupe? (È vero che serbo nel portafoglio quel ramoscello di gelsomini ch’ella mi dette per farmene scudo. Ma pure mi tenta la prova.) Li conto; ventidue passi; non vuol dir nulla. Oggi è il dodici settembre; dodici: non vuol dir nulla... Con sagaci occhi, mentre salgo verso l’ignoto cerco il mio segno sulle inanimate cose che tutto sanno; un po’ sul serio un po’ per giuoco... Più non distinguo il segno che distingue dalle ingenue superstizioni le realtà misteriose. Fiore di croco esile e pallido

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che t’affacci sul mio cammino me la sai dare tu la risposta del mio destino? «Avanti, soldati, perché vi fermate?» Ah, intendo. Bisogna sostare affinché passino sull’orlo del sentiero i muli che scendono a valle a prendervi pane e cartuccie.

Un conducente m’addita stamani, mentre uno saliva col suo carico tanto grave (ignorava che erano bombe: che vuoi che sappiano loro, poveri muli, della guerra?) è sdrucciolato giù è tracollato nell’abisso balzando di rupe in rupe con fracasso goffo di ferramenta vecchie. Ora, guardate, è laggiù vicino a quel piccolo abete, colle quattro zampe stecchite voltate verso il cielo: pare, così minuscolo, così smagrito dalla morte, un giocattolo rotto un cavallino di legno senza testa che un bimbo capriccioso gettò via... Largo, soldati, ai fraterni muli, che meritano rispetto poiché ne sanno meno di noi. (Ma già, quasi ho dispetto di lasciarmi andare a compiangere i muli: si va lassù, per uccidere gli uomini che vogliono ucciderci,

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e c’è tempo per aver pietà dei muli, che in fondo son bestie?) Vertiginose altalene di passaggi, saliscendi su baratri cupi: torri di roccia, su cui non sventola nessuna bandiera, castelli quadrati senza balconi dai quali al varco invisibili insidie ti spiano. Non so perché, non so perché questo paesaggio così contorto ed aspro mi fa tanto male solo a guardarlo. Mi par d’esser nei sogni, quando in fondo si drizzano montagne sconosciute color di bronzo, verso le quali va la via deserta grigia come una biscia di piombo; e nessun danno aperto ci minaccia e non ci fa soffrire nessun distinto dolore, eppur quei monti così spettrali quella serpeggiante strada così tortuosa ci danno un brivido misterioso, un’oppressura senza perché... Penso che in un cassetto del mio studio a Firenze (a Firenze!!) ho lasciato dei fogli manoscritti nei quali si parlava dell’Assemblea francese quando poneva le basi di questa società

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poggiata sul diritto. Che lontananze! Un tempo anch’io scrivevo i libri per la stampa. Quante giornate vanamente sprecate tra vecchie pergamene, mentre su, verso Fiesole, eran fioriti i mandorli! Quante giornate! E questo oggi mi dà una gran malinconia. Soltanto questo poiché al resto non bisogna pensare. Sempre più su: tra poco ci saremo. Vedo sotto l’incavo di una roccia quattro portaferiti che mi guardano senza salutarmi con smarriti occhi stanchi, come quelli dei muli. Tornano in su, per prendere altro carico che mai non manca; si son fermati lì per un minuto a buttar giù in silenzio una pagnotta trovata in terra (siamo qui al paese della Cuccagna, dove il pane biondo lastrica le vie?) Nel mezzo a loro dritta contro la pietra c’è una barella vuota: e la sua tela cava è tutta un grumo di rappreso sangue nerastro che dette al tessuto una consistenza come di secco cuoio. Uno dei portatori poggia una mano sulla barella, e coll’altra porta alla bocca il raccattato pane.

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Io guardo la barella (chi essa ancora dovrà portare?) senza tremare: e penso. Penso soltanto che anch’io ho fame: e che se battessi il piede sopra un pane abbandonato volentieri saprei raccoglierlo dal fango e portarlo alla bocca. Sempre più su: tra poco ci saremo. Sarà presto appagata la mia curiosità. Ma non mi stanco dal cumular le ipotesi. Sarà tardi? Li avranno già respinti? Perché lassù si è spento ogni rumore? Arriveremo su, sotto il roccione, dove i nostri oramai reggono a stento; carponi infileremo la trincea, scavalcando i cadaveri supini in gran silenzio: e prenderemo il posto dei morti, innanzi alle sconvolte feritoie stillanti sangue. E poi? Staremo immoti col cuore che più non batte sotto il truce flagello, chiedendo ad ogni schianto perché si viva ancora. Respireremo l’aria avvelenata che rode il petto, che brucia gli occhi (i miei occhi che ti hanno guardata o mio lontano amore!)... E poi? e poi? qual parte della persona che tu mi facesti sarà straziata, o mamma? Immagino, senza ribrezzo, che questa mano fatta da mia madre tra un’ora potrebbe esser bianca bianca...

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«Lasciate il passo, soldati.» Sopra una barella vien giù una forma abbandonata ravvolta nelle coperte: avanzano i portatori con cauto passo di funerale: un debole gemito accompagna la lenta cadenza. Guardo con occhi asciutti il passaggio del dolore. «Forse felice te, fratello, che la tua sorte l’hai già saputa che la misteriosa risposta l’hai già ricevuta...» Ecco la vetta. Ad una svolta è apparsa qui, sulle nostre teste. Nessun segno di vita tra quelle torve cuspidi; cessata è la battaglia. Ma certo di lassù essi guardano passare questa lunga processione di formicole grigiastre e forse, mentr’io salgo questo valico scoperto qualcuno di lassù (non lo conosco, non mi conosce) scorge la mia lunga figura e con cura mette in punto la sua mitragliatrice che tra un istante, tra un istante solo... Questo è un passo battuto, si vedono in terra le traccie. Ma qui bisogna prendere le cose con una certa leggerezza. Qui bisognerebbe correre, ma io mi fermo un minuto

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a carezzare colle dita una corolla azzurra di genziana sempre viva sull’orlo di un imbuto scavato dal cannone: e ne gioisco quasi puerilmente, poiché questa corolla anche in mezzo alle scheggie affumicate, è sempre una soave cosa (e poi bisogna pensare che potrebbe essere l’ultimo fiore). C’è lì, in terra, un elmetto azzurrino, con qualche ammaccatura; potrei prenderlo su, per ripararmi la testa, ma lo guardo e non lo prendo. Che direbbero i soldati se vedessero che affretto il mio passo sempre uguale se vedessero che metto uno schermo sulla mia fronte? E poi, bisogna prendere le cose con una certa leggerezza (sì, ma forse un po’ di fretta, forse quell’elmetto che non ho raccolto avrebbe potuto salvare tutto quello di cui ho vissuto finora tutta la mia lontana dolce felicità...) Siam giunti. Là sopra, dietro quell’ultimo picco s’aggrappa la nostra trincea. «Fermatevi: adunatevi in silenzio sotto questo roccione, in attesa, mentre qualcuno va sopra a chiedere gli ordini.» Sotto la roccia cava che incombe su di noi

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con ambigui scricchiolii di misteriose cadute (certo lassù qualche mano contratta si sporge un istante dal suo nascondiglio ed ai macigni che ondeggiano in bilico dà la mossa verso il dirupo) i minuti sono ore. Qualcuno domanda che è, tra quei sassi, chiazzati di rosso quel sacco di cenci dal quale sporgon due scarpe ferrate. Rispondono: «È un alpino rotolato giù dalla vetta mezz’ora fa. Voleva salire, ma gli è mancato un sasso sotto al piede ed è venuto giù a salti portandosi dietro una pazza ridda di pietre. Alla fine s’è fermato lì, con un ultimo tonfo sordo». Domando: «Ma sarà proprio morto?». Rispondono: «Dev’essere morto. Non s’è più mosso di lì. Certo, dev’esser morto...». Siamo qui, zitti e fermi, come i sassi, che quando li spingi, rotolan giù, dove debbono andare; ma se non li tocchi stanno fermi e zitti... C’è un gran silenzio lassù alla trincea; ma tanto, che importa? Faremo tutti fino alla fine quello che si deve fare.

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Torna l’ordine: «Respinto è l’attacco: del rinforzo non c’è più bisogno, alle tende potete tornare». Un brivido di gioia corre per tutti gli occhi come quando da bimbi, dopo una notte d’insonni terrori si rivedeva il chiarore dell’alba. Piccole tende, col letto di paglia caldo e soffice come un nidetto, com’è giocondo scendere ancora verso la cheta valle nella quale vi rivedremo tutte bianche sotto la luna! Sulle livide roccie mentre s’inizia il ritorno, il tramonto ha fatto fiorire magri ciuffi di violette. Il cielo è ranciato dietro le vette, dolce sole, come sei bello nei riflessi di mille goccie! E domattina, quando dalla tenda nell’aurora ci affacceremo ancora una volta, o sole, ancora una volta ti saluteremo!

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Canto di retrovia* In un paese, dove le donne vestite di nero ogni volta che sentono il cannone tuonar dalla montagna, s’affaccian sulla porta e guardano fuori con occhi smarriti come se in fondo alla deserta via, dovesse spuntare d’ora in ora entro una nube di polvere il lugubre galoppo di un messaggero, ho udito sulla piazza la banda militare di un reggimento francese suonar l’inno di Garibaldi. Facevano cerchio i soldati dei nostri reggimenti scesi a riposo dalla trincea: e tutti ascoltando avevano la bocca sorridente, ma gli occhi perduti tanto lontano, quasi ognuno intendesse in fondo al cuore una pena, ma volesse celarla perché a riposo si scende per divertirsi e non conviene guastar la festa colle malinconie. Giammai tumulto di pensieri ho indovinato sul viso * MST, Fondo Piero Calamandrei, b. 1, f. 1, cc. 12-15, Manoscritto in versi: in questo Fondo sono presenti due versioni quasi identiche dello stesso componimento, la seconda essendo la riscrittura quasi completa, in bella copia, della prima. L’edizione qui pubblicata è tratta da una terza versione, dattiloscritta, conservata presso l’ISRT, Fondo Piero Calamandrei, b. XII, f. 3, ottenuta tramite una collazione tra i due manoscritti. La composizione si può datare intorno a marzo-aprile del 1918. Titolo originale.

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degli umili fanti vestiti del color della terra, più febbrile di quello che oggi ho scoperto negli occhi di questi soldati discesi a riposo. Nessuno ebbe in trincea il tempo di pensare lungamente alle dolcezze lasciate indietro: poiché si dormiva di giorno un opaco sonno di fatica vuoto degli iridati sogni di nostalgia; e di notte ogni sguardo era appuntato oltre i reticolati, dove finisce il mondo e incomincia la plaga misteriosa che dicon non abbia padrone perché sembra disabitata, ma poi basta un razzo che in cielo pigramente dischiuda la maligna dondolante pupilla, per farti scorgere in quell’attimo dietro ogni sterpo l’ombra di un’adunca mano, che per ghermirti nella tenebra attende... Lassù non c’era tempo di pensare: ma qui talvolta nell’ozio sembra che non ci sia altro di meglio da fare... Siamo tutti scesi a riposo nel paese di pianura giù dalla montagna, dove i nostri fratelli, venuti in lunga fila all’imbrunire ci hanno dato il cambio nelle nostre fosse di neve,

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e una stretta di mano scambiata tacitamente nel partire è stata la promessa che presto anche noi torneremo. Lassù c’era l’inverno, ma qui c’è la primavera: un mandorlo fiorito dietro una cancellata lungo la via maestra (non erano questi i mandorli in fiore, sotto ai quali, nei tempi delle leggende, si sedevano a sera gli innamorati, in silenzio, senza riuscire tanto era gonfio il cuore, a dirsi parole d’amore?...), e, sotto le siepi che gemmano e già sognano verde, tante violette, come quelle di cui adolescenti riempivano le coppe, che mettevano poi nelle stanze, di notte, quando le finestre disegnano sulla parete nera quadrati di chiaro di luna, un profumo troppo soave. La buona primavera fa festa al nostro arrivo e vuole affrettarsi a donare tutto quello che può: ella ci guarda con pietosi occhi che sanno, come si guarda un giovinetto malato che non può guarire, e si appagano tutte le sue voglie, sorridendo, così, per non piangere...

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Ancora una volta i fanti hanno veduto correr sui prati bambini biondi, che quando passano i soldati si fermano a bocca aperta ammirandoli perché sono grandi e possono andare quando vogliono a fare la guerra; ancora una volta hanno veduto passare la vaporiera miracolosa che ogni giorno può partire verso le terre incantate, dove si andrà in licenza quando ci toccherà. Volti di donne sono apparsi ai balconi, attratti dallo scalpiccio che fa la fanteria a passo di strada; e una fanciulla ferma alla fontana ha sorriso ai passanti polverosi ed ha chiesto con grazia: «se ci fosse qualcuno così gentile da donarle un cerchietto di rame, di quelli che cingono i fondelli delle granate, farmene un braccialetto. A voi nulla costa... Quando lassù tornerete, chissà quant’altri ne troverete!». Tu dici che queste sono cose che devono dare tanta allegrezza a chi torna dalla trincea; ma invece ti giuro che queste son cose fatte per mettere in cuore un po’ di mestizia...

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A riposo... Quante stupefacenti dimenticate meraviglie si ritrovano nel paese dove si scende a riposo! Si vede, passando per via da una finestra aperta a piano terreno una camera linda con appese sui muri le immagini dei santi, e un bel lettino bianco preparato per qualcuno che la notte può dormire; si vede un campanile con in cima la sua cuspide che termina in una croce, con entro le sue campane e coll’orologio che seguita a batter l’ore (penso a un bivio dal quale si passava correndo sulle macerie uno alla volta, e a quel rudere di chiesa con un troncone di campanile e a quella lancetta che segna la stessa ora da due anni... ); si vedono bei campi seminati e dietro una siepe un vecchio rugoso che si ricorda di potar le viti, le quali faranno l’uva d’autunno e non si sa chi la mangerà; si vedon le botteghe colle vetrine luccicanti degli inutili ninnoli che adoprano i borghesi;

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e sulle strade fuori di porta vanno nel vespero domenicale i vecchi signori venerandi che si parano il sole con un ombrello verde, e le processioni di bimbi incappati da sacrestani che cantano litanie odorose di biancospino. A riposo... Bisogna ripulirsi, ritemprarsi, lustrare i fucili arrugginiti nel fango della trincea, liberare il cuore da quell’inerte involucro d’oblio in cui l’ha imprigionato lo stordimento delle notti senza sonno. Si deve cambiare la veste stracciata di fili spinati nei servizi di pattuglia, e rinnovare le mostrine, scolorite dalla neve annerite dal fumo dei ricoveri; poiché ora è necessario essere belli quando usciamo a far le marce per le vie di campagna nei mattini stillanti di rugiada, e la fanfara suona vecchie arie un po’ stonate che fanno alzare a volo gli usignoli dalle vette dei pioppi tuffati nella caligine, e ridestan lontani tormenti provati sui banchi di scuola dai quali un dì ascoltavamo le gioconde fanfare in piazza d’armi

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e ci pareva d’esser prigionieri... A riposo bisogna ricontarsi; ma quando ci ricontiamo non tutti rispondono alla chiamata: è restato lassù chi già riposava sotto la sua croce di legno di un camposantino costruito di notte in fondo a una valletta, dove di giorno non si può passare perché su quella cima c’è qualcuno in vedetta che proibisce di far visita ai morti. Giorni di riposo nei quali si ridesta una pena che non vuol riposare, giorni in cui si torna ad imparare come son fatti i tesori che c’era sembrato di poter dimenticare, giorni di retrovia giorni di malinconia, rinnovata partenza, prolungato addio come quando il treno si ferma appena uscito dalla stazione e si vedono ancora le persone laggiù sotto la tettoia, ma indietro non si torna e troppa è la distanza perché la voce s’oda. Che pensi, o solitario fante che nelle ore della libera uscita vai con incerto passo per la ristretta via serpeggiante diga

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in un mar di ranuncoli ranciati in mezzo al quale i peschi sembrano isole di corallo? Tu guardi un casolare e le galline che beccano sull’aia; ma non vedi quello che guardi... Tu vedi un’altra campagna che ha un sì dolce nome: aspetti che una porta si dischiuda e ne baleni un riso e ne suoni una voce, quella che ti diceva addio con un singhiozzo, quando sulla tradotta dovevi salire e tu la esortavi ad essere calma e serena poiché non è detto che tutti alla guerra si debba morire... Ogni sera all’imbrunire tornan gli attoniti fanti ai casolari sparsi fuori del paese, dove sono accantonati nei fienili insieme coi colombi. Cala dolce la notte: non quella della trincea, tenebroso mistero senza lumi ai casolari, senza canti di carrettieri senza suoni di campane senza il fischio del vapore, notte d’incubo, ostile magia, con folli guizzi di riflettori, lividi strappi nella tenebra, con un silenzio fatto di immobili insidie che si spiano in attesa dello schianto...

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Questa è la notte benigna che in cielo ha le stelle e sulla terra i lumi delle finestre aperte coll’ombra di una testa dietro la tenda gialla, notte piena di voci e di rumori, il vagito di un neonato, una voce di donna che dà la buona notte a un passo che si allontana, il batter di una porta che si chiude dietro a qualcuno che torna a casa sua, dove attende una tovaglia bianca e una lampada appesa che sopra le fa da sole... A quattro a quattro tornano i fanti parlando sommessamente nella penombra; lunghe pause sembran sospiri; qualcuno canta, ma il coro non lo segue... [Qui termina il manoscritto ricopiato e corretto dallo stesso Calamandrei. Mentre il primo manoscritto, quasi identico in ogni sua parte, continua come segue.]

E dopo poco la voce esile di una tremula tromba trema lamento sulla pianura infinita immersa in un caliginoso chiarore verdastro di luna richiama al silenzio i pensosi uomini raccolti che anche senza quel richiamo desiderano solo di tacere;

In retrovia

ma c’è insomma lassù verso i monti il rombo del cannone mentre lontano su verso i monti il rombo del cannone non vuol dormire. Sulla piazza del paese dove siamo scesi a riposo ho udito la banda militare di un reggimento francese suonare l’inno di Garibaldi. Facevano cerchio i nostri fanti, e i rari paesani bambini e vecchi donne vestite di nero. Ma quando la musica è giunta a quella frase che dice: «Va fuori d’Italia o straniero», m’è parso che alla gola mi stringesse. Occhi, occhi perché piangete? Forse per le terre che erano nostre e che riprenderemo forse per la pietà di queste donne che erano felici e più non lo saranno, o per le nostre case che dobbiamo difendere anche se ne morremo, o per questi fanti pensosi che oggi qui riposan per un giorno che forse lassù domani per sempre riposeranno? Non, non per questo: piuttosto perché mi fa tanta pena il confessare a me stesso che a tutti questi dolci tormentosi pensieri che ci insidiano quando si scende a riposo,

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non bisogna dare ascolto. Non si deve pensare non si deve sospirare perché (quell’inno italiano suonato da trombe francesi!) c’è altro da fare, c’è altro da fare.

Parte seconda. Scritti e discorsi

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Consigli di buona scrittura* Agli Ufficiali di Collegamento P 1. Niente retorica, niente verbosità burocratica, niente apprezzamenti: fatti circostanziati, obbiettivi esatti, minuti. 2. Un rapido cenno sulle modalità e sui risultati dell’azione di assistenza e di propaganda: diffondersi, se del caso, in particolari analitici per ciò che si riferisce alla vigilanza. 3. Per la vigilanza, ricordarsi che noi siamo gli osservatori avanzati sul morale della truppa i quali devono segnalare la verità, anche se spiacevole: ogni movimento, ogni tendenza, ogni frase devono essere registrati, affinché le Autorità competenti ne traggano la conseguenza. Basta, talvolta, un gesto individuale per rivelare uno stato d’animo collettivo. 4. Riferire tutti i dati che possano contribuire a ricostruire la fisionomia morale del reparto. Raccogliere notizie statistiche su ufficiali e su truppa, per poter dare un’idea esatta delle forze spirituali sulle quali si può contare, o degli influssi deleteri che si devono combattere: classe, coltura, professioni, attitudini degli ufficiali; classe, regione, istruzione etc. della truppa. 5. Vigilare e riferire sul numero e sul morale dei militari che hanno le famiglie nei territori invasi; sui condannati e con sospensione di pena, su coloro che sono stati lungamente all’estero, o hanno la famiglia all’estero (specialmente in Sviz* MST, Fondo Piero Calamandrei, b. 1, f. 4, c. 10, Circolare agli Ufficiali di Collegamento P avente per oggetto «Norme per la compilazione della relazione quindicinale», 19 aprile 1918.

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zera) o parlano lingue estere. Vigilare e riferire sulle azioni e sull’operato dei militari per qualunque ragione sospetti. Tener conto di tutte le cause di malcontento della truppa, e riferirle senza reticenza (licenze, polizze, rancio, servizio postale, turni etc.). Farsi comunicare dall’Ufficiale istruttore i dati relativi alle denuncie presentate durante la quindicina: il fenomeno patologico della criminalità dev’esser tenuto d’occhio da chi vuole avere un’idea esatta sulla salute mentale del reparto. Se si sono avuti rapporti di fiduciarii, allegarli per iscritto per esteso, non farci accenno in sunto. Riferire sull’attività dei cappellani militari. Riferire sui resultati pratici che nel proprio reparto hanno avuto i mezzi di assistenza e di propaganda escogitati fin qui (giungono gli opuscoli? Sono letti? Piace la “Giberna”? Gli ufficiali intendono lo scopo del nostro ufficio? Etc.); e proporne dei nuovi, ove si reputino opportuni. Se vi fossero fatti sui quali si ritenesse necessario dare o chiedere schiarimenti verbali, segnalare al Capo Centro, anche per telefono, tale necessità. Soprattutto, sostanza, non forma; fatti non parole; essere più che parere.

Come parlare ai soldati* Giovane ufficiale, che riesci al motteggiare scherzoso meglio che ai gravi ragionamenti, ricordati che il riso è un’arma potente colla qual potrai conquistare, se saprai adoperarlo, l’anima del tuo soldato e far di essa un tuo docile strumento. L’italiano ama il frizzo, ed è grato a chi gli procura qualche istante di sana ilarità; e se tu, narrando ai tuoi soldati qualche episodio che sotto una forma satirica e gioconda nasconda un insegnamento di bontà, riuscirai a far loro il dono di una risata schietta, ti accorgerai dal brillare dei loro occhi che questo tuo linguaggio alla buona ha saputo tro* MST, Fondo Piero Calamandrei, b. 2, f. 3, c. 26, «Pagine staccate per giovani ufficiali subalterni», n. 1, 22 aprile 1918.

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var le anime assai meglio che una predica seria, che spesso annoia e non persuade e che tu forse non sapresti fare. Nel cuore di molti soldati allignano idee sulla guerra molto diverse da quelle che tu vorresti insegnare. Per questo devi cercare, vivendo moralmente e materialmente, in ogni ora della giornata, la vita dei tuoi soldati, di acquistarti la loro rispettosa confidenza, sì da indurli a manifestare a te sinceramente i loro sentimenti anche se erronei, i loro pensieri anche se traviati; e quando te li avranno manifestati, non reagire con urlacci e con cattive parole, ché la voce grossa e le ingiurie non hanno mai raddrizzato le storture di un cervello che pensa, ma serviti per confutarli della canzonatura bonaria, della novelletta che metta in caricatura la grossolana ingenuità dell’errore. Per esempio: ti avverrà talvolta di udire un soldato che ragiona così: «La guerra l’hanno voluta i ricchi. Io son povero e vivo col lavoro delle mie braccia: si vinca o si perda, che cosa può darmi la vittoria, che cosa può togliermi la sconfitta? Vincere o perdere per me è la medesima cosa...». A questo soldato, contro il quale il primo impulso ti porterebbe a reagire con aspri rimproveri sdegnosi, devi invece, in presenza di tutto il plotone, raccontare con calma questa storiella: «Per emigrare in America, due contadini, Gianni e Beppe, si imbarcarono una volta su un bastimento che partiva da Genova. In mezzo all’oceano, ecco che comincia un temporale: e allora Gianni se ne andò a dormire nella stiva, mentre Beppe salì sul ponte per veder che piega prendeva la tempesta. Cavalloni su cavalloni, il bastimento ballava come un guscio di noce: finché Beppe, che a malapena riusciva a reggersi a una ringhiera per non esser sbalzato in mare, si decise a chiedere a un marinaio che gli era vicino: “Marinaio, per carità, dimmi tu come vanno le cose...”. Il marinaio lo guardò con aria funebre, e gli rispose: “Se dura questo vento, tra dieci minuti il bastimento va a fondo”. Disperato, fuori di sé dalla paura, Beppe si precipitò a balzelloni dentro la stiva e trovò Gianni che dormiva ancora, nonostante quel finimondo. Lo scosse: “Gianni, Gianni! Svegliati, siamo perduti...”. Gianni sbadigliò, si stropicciò gli occhi senza aprirli: “Che c’è?...” – “C’è... c’è... che se dura questo vento, tra dieci minuti il bastimento va a fondo!”. E allora Gianni, rivoltan-

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dosi dall’altra parte con un altro grande sbadiglio, rispose: “E chi se ne cura? Tanto il bastimento non è mica mio!”». Vedrai che una fragorosa risata scoppierà fra i tuoi uomini a questa uscita; e tutti, compreso il soldato che prima ragionava così male, dimostreranno con questa risata di avere inteso la puerile balordaggine, simile a quella del contadino Gianni, di chi crede, perché operaio, che l’esito di questa guerra non debba ripercuotersi anche su lui, e non capisce che della sconfitta d’Italia e del travolgimento economico di tutte le nostre industrie sarebbero prime vittime appunto i lavoratori, gli umili che hanno per vivere soltanto le proprie braccia.

Propaganda, assistenza, vigilanza* Alla Sezione P dell’Ufficio Informazioni 1a Armata e per conoscenza Al Comando XXIX Corpo d’Armata In ottemperanza a quanto prescrive la circolare 970 Inf. del Comando 1a Armata, pag. 3, riferisco sull’opera compiuta da questo Centro nella quindicina dal 1° al 15 corr.; richiamandomi, per quanto non è esplicitamente ripetuto in questa relazione, a quanto già fu detto nella precedente relazione N° 123 R.P. del 30 Aprile. I. ORGANIZZAZIONE 1. UFFICIALI DI COLLEGAMENTO – Il Servizio di Collegamento è stato organizzato anche nella 26a Divisione: invierò fra giorni la lista degli ufficiali dipendenti, non appena dalla competente Autorità sarà stato disposto per la sostituzione di alcuni che un mese di esperienza ha dimostrati non del tutto idonei al Servizio di collegamento. La collaborazione fra i Comandi e gli ufficiali di collegamento è stata in generale intima ed efficace, dopoché il Comando del Corpo d’Armata ha spiegato ai Comandi dipendenti * MST, Fondo Piero Calamandrei, b. 1, f. 4, cc. 18-23, Relazione quindicinale alla Sezione P dell’Ufficio Informazioni I Armata, 15 maggio 1918.

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con apposita circolare che gli ufficiali di collegamento non devono essere che zelanti cooperatori dei Comandanti di reparto. 2. MEZZI DI TRASPORTO E DI LOCOMOZIONE – L’istituzione di un servizio giornaliero di autocarro Verona-Borghetto1 e viceversa ha eliminato gran parte delle difficoltà finora esistenti in questo argomento. II. ASSISTENZA L’attività corrispondente a questo titolo, come quella corrispondente al titolo seguente, si è in massima parte esplicata in attuazione di idee già esposte a cotesta Sezione nella precedente relazione: riferirò pertanto molto sommariamente. 3. BENEFICIENZA INDIVIDUALE – Nella scorsa quindicina sono stati segnalati a questo Centro n° 111 casi degni di assistenza. 4. DONI – Nei giorni 5, 6, 7 corrente della Commissione del Touring Club e di altre associazioni furono distribuiti più di 10.000 doni ai reparti della Brigata Taro e del XIII Gruppo Alpino: la distribuzione, quantunque ostacolata dal cattivo tempo, si svolse in forma cordialissima e mi risulta che gran parte dei militari beneficati hanno scritto per ringraziamento ai donatori. 5. CASE DEL SOLDATO E POSTI DI RISTORO – Sono state istituite due nuove Case del Soldato in baracca a Canalette ed a S. Valentino dell’Altissimo. Questo Centro, in apposita inchiesta, sta raccogliendo i dati, richiesti da cotesta Sezione, relativi alle Case del Soldato ed ai posti di ristoro istituiti e da istituire nel Corpo d’Armata; ed invierà entro la settimana specifica richiesta dei materiali occorrenti. 6. UFFICIO DI CONSULENZA – Giunto fin da ieri a questo Centro l’Ufficiale destinato a coadiuvare il Capo Centro, l’ufficio di Consulenza sarà tra giorni in grado di funzionare.

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Borghetto sull’Adige era sede del Comando del XXIX Corpo d’Armata.

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7. POLIZZE – La distribuzione delle polizze di assicurazione, messe finalmente a disposizione dalla Intendenza, procede con attività. Reputerei opportuno, per togliere lavoro ai Comandanti di reparto e per dar modo agli ufficiali di collegamento di trattenersi coi soldati, di incaricare detti ufficiali della compilazione e della distribuzione. Chiedo inoltre una ingente quantità di opuscoli esplicanti in modo semplice e chiaro il funzionamento giuridicoeconomico delle polizze. III. PROPAGANDA 8. ISTRUZIONE MORALE DEI GIOVANI UFFICIALI – Nella passata quindicina questo Centro non ha potuto, per assoluta mancanza di tempo, dare lo sviluppo che avrebbe voluto a questo ramo della propria attività. Si riserba di farlo intensamente nella prossima quindicina; l’idea esposta nel n° 19 della passata relazione, accolta ed egregiamente attuata dal Centro di Collegamento del X Corpo d’Armata, è in via di attuazione anche in questo Centro (corrispondenza dei Comandanti di plotone colle famiglie di militari che vanno in licenza, per prevenire ritardi nel rientrare al Corpo). S.E. il Comandante del Corpo d’Armata, approvando l’iniziativa di questo Centro, ne ha fatto oggetto di apposita circolare ai Comandi dipendenti. 9. PERIODICI – Festeggiatissima la Tradotta, il cui beneficio sarà tanto più grande quanto maggiore sarà il numero di copie che cotesta Sezione ne invierà. Molto gradita anche la distribuzione dell’Arena, che col nuovo servizio di autocarro permette al fronte delle primissime linee (ho potuto io stesso constatarle al Trincerone di Zugna) di avere il giornale nello stesso giorno in cui esce. Peraltro, è assolutamente necessario aumentare il numero delle copie da distribuire: 1700 copie al giorno sono una quantità del tutto insufficiente al bisogno. 10. BIBLIOTECHINE – Mi permetto di insistere nel richiedere altre bibliotechine o anche libretti separati (alla costruzione di apposite cassette penserebbe questo Centro) per dotarne i corpi che ancora ne sono sprovvisti e le Case del Soldato istituite o da istituire.

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11. CARTOLINE ILLUSTRATE – Pubblicate cartoline umoristiche in franchigia per il 55° Fanteria, 207° Fanteria; pubblicata la cartolina per il Teatrino dei burattini, adottata anche dagli altri Corpi d’Armata: in fabbricazione cartoline con contenuto sentimentale, disegnate dai pittori Casorati e Carena2. 12. TEATRI – Il giro di rappresentazioni del Teatro di burattini si svolge con successo assoluto. 13. FESTE REGGIMENTALI, GARE GINNASTICHE – A questa forma di ricreazione-propaganda continua a dare notevolissimo impulso la 54a Divisione. IV. VIGILANZA 14. IMPRESSIONE SUL MORALE DI ALCUNI REPARTI a) Brigata Pistoia – (35° e 36° Fanteria) Le circostanze in cui l’attuale Brigata Pistoia è stata costituita e la eterogeneità degli elementi che sono stati chiamati a comporla non sono ignote a cotesta Sezione; ma, mentre credo che sia necessario tener d’occhio i numerosi elementi sospetti che si trovano nei reggimenti (pende tuttora su alcuni fatti specifici di disfattismo una inchiesta condotta dalla competente Autorità), ho l’impressione che la Brigata Pistoia sia oggi, assai superiore alla sua fama. Quattro mesi di intensa opera di riordinamento, durante i quali i militari più anziani sono stati mandati nelle compagnie presidiarie e nei servizi, molti ammalati sottoposti a nuove visite, sono stati riconosciuti inabili ed eliminati, gli elementi sospetti sono stati separati in diversi reparti, hanno valso a dare ai due reggimenti una nuova fisionomia morale e soprattutto a infondere in essi quello spirito di corpo che nelle prime settimane doveva assolutamente mancare in una massa amorfa costituita da mitraglieri, da sbandati, da recuperi di convalescenziari, e da superstiti della Brigata Alessan2 Si tratta probabilmente dei pittori Felice Casorati (1883-1963) e Felice Carena (1879-1966). Su questi ultimi, presenti anche nella collezione privata di Piero Calamandrei, vedi La Toscana di Piero Calamandrei. Dipinti, racconti, fotografie, a cura di Silvia Calamandrei e Francesca Montuori, Le Balze, Montepulciano 2003, pp. 34-35.

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dria. Questa trasformazione morale della Brigata, che mi viene concordemente dipinta da ufficiali seri e spassionati, ha delle riprove innegabili nei fatti seguenti: assoluta mancanza nella Brigata di reati collettivi; reati comuni non in numero superiore a quello medio delle altre Brigate; assoluta mancanza di disertori durante le marce di trasferimento in retrovia (nel Gennaio marcia di 10 giorni da Parma a Pozzolengo; ai primi di Aprile, marcia da Pozzolengo a Valeggio); assoluta mancanza di disertori durante il trasferimento dalle retrovie in linea. Nei due reggimenti, la notizia della partenza per la fronte, non solo non ha dato luogo a manifestazioni sediziose, ma è stata accolta con serenità e quasi con gioia: un Battaglione del 35° Fanteria è partito da Custoza al canto dell’inno di Mameli. I militari della Brigata, abituati alla guerra sul fronte orientale hanno stimato come una fortuna l’essere inviati in un settore montano: ciò si desume specialmente dalla censura epistolare (richiamo l’attenzione di cotesta Sezione sulla relazione della Commissione di Censura della 26a Divisione in data 15 corr. dalla quale si traggono interessanti indizi della generale tranquillità d’animo della Brigata Pistoia). Mi si dice anche che il servizio in linea procede in modo irreprensibile: il fatto di una vedetta che ha ucciso un aspirante dopo avergli inutilmente intimato il chi va là, è un episodio doloroso, ma è anche una dimostrazione del modo con cui sulla linea si veglia e si diffida. Tutto ciò, ben s’intende è tratto da impressioni generiche e forse, superficiali: le quali non distoglieranno questo Centro dal vigilare con particolare attenzione la Brigata Pistoia nelle prossime settimane. b) Brigata Vicenza – Composta in massima parte di elementi giovani ed è ben inquadrata; non ha mai dato occasione a dubbi sul suo morale, quantunque si debba dire che la maggior parte dei suoi elementi non conosce ancora la guerra. In complesso mi è sembrato di scorgere in tutta la 26a Divisione un grande affiatamento e un potente influsso del Comandante su tutti i reparti che da lui dipendono: parlando con diversi ufficiali, ho udito ripetere che l’influenza personale del Sig. Comandante la Divisione riesce a giungere direttamente fino all’animo di ciascun gregario.

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c) Brigata Taro – Ho rilevato diversi sintomi di miglioramento nelle condizioni morali della Brigata, in confronto a quello che erano un mese fa: ho trovato però, nell’ultima mia visita del 14 corr. un senso di generale dispiacere per la malattia che ha tolto il Colonnello Brigadiere Montezemolo ai due Reggimenti nei quali già si era fatto conoscere ed amare. Ho trovato notevolmente diminuito il senso di poca sicurezza dei battaglioni in linea sullo Zugna, che già avevo avvertito nella mia precedente relazione. In particolare: 165° Reggimento. È in esso molto sentito lo spirito di battaglione, perché ufficiali e soldati si gloriano tuttora di far parte di Batt. già appartenenti alla Brigata Liguria. Non mi pare che ugualmente sentito sia lo spirito di reggimento: manca assolutamente, per ora, lo spirito di brigata. Ho udito da soldati e da ufficiali voci di malcontento perché il mese di riposo passato in seconda linea è stato più faticoso del mese di prima linea (lavori campali, traini, etc.); dallo stesso sig. Comandante ho udito lamentare la deficienza numerica degli ufficiali inferiori: vi sono compagnie in linea con un capitano ed un subalterno. 207° Reggimento. Mi sembra che l’energico influsso personale del Sig. Comandante abbia già saputo ridestare ed affiatare la compagine un po’ fiacca del Reggimento, nel quale, dalle ultime statistiche, resta però sempre altissima la percentuale dei ritardatari a rientrare dalla licenza. Percorrendo il 14 corr. la galleria D del Trincerone di Zugna ho udito ufficiali e soldati (del 165°) lamentarsi per la umidità dei ricoveri: ho veduto anch’io che su i soldati, stesi su piccole brande attaccate alla roccia, l’acqua stilla ininterrottamente in modo da bagnarli tutti durante il sonno. Occorrerebbe forse porre al disopra delle brande del cartone catramato o delle lamiere per deviare dai dormienti lo stillicidio inevitabile data la natura del terreno; ma gli ufficiali mi hanno detto che non sono riusciti ad avere i materiali occorrenti per il lavoro. A questo proposito, ho udito io stesso una frase che rivela il malcontento. Nella galleria, in cui per la quasi assoluta oscurità, non avevo veduto che vi fossero soldati coricati, cercavo di spiegare all’ufficiale che parlava di tali materiali, la scarsità generale che vi è ora di essi e la necessità di economizzarli; quando udii nel buio una voce grave che diceva: «Se non ci sono i materiali per fare la guerra, sarebbe meglio

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finirla». Soltanto allora capii che vi erano intorno dei soldati coricati sotto lo stillicidio: l’ufficiale che mi accompagnava redarguì il soldato per la interruzione ed io cercai di confutarla con ragionamenti facili lasciando il soldato, a quanto mi sembrò, convinto; ma la frase resta come un indizio di uno stato d’animo. d) Brigata Marche – È impressionante il numero dei ritardatari a rientrare dalla licenza nel 56° Fanteria: intensificherò in questo reggimento la propaganda per la corrispondenza dei capi-plotone colle famiglie dei militari che vanno in licenza. e) XVII Gruppo Alpino – Da una più profonda e diretta conoscenza dei tre battaglioni che compongono il Gruppo, ho potuto constatare che il morale di essi è veramente, specialmente per il Battaglione M. Suello, eccellente. Mi raccontò un ufficiale che nella notte fra il 14 e il 15 corr., essendo stati svegliati i due btg. che accampano in Val Fredda (Suello ed Exilles) da un intenso cannoneggiamento sullo Zugna, si armarono di propria iniziativa in attesa dell’allarmi, preparandosi con entusiasmo a partire per la linea se ve ne fosse stato bisogno. Il Battaglione M. Suello, composto di Bresciani, ha una ammirevole omogeneità e un caldissimo affiatamento fra ufficiali e soldati: non ha mai avuto disertori. Il Btg. Exilles, in gran parte di Piemontesi, ha un minore affiatamento; pare però che in questi ultimi tempi si siano udite cantare canzoni antipatriottiche da soldati di questo battaglione («vogliam la pace e non vogliam la guerra; prendi il fucile e gettalo per terra», etc.). Il Btg. M. Pelmo è in gran parte formato da militari delle terre invase, il cui morale può esser sollevato solamente dall’affetto per i superiori, che sostituisca in quanto è possibile l’affetto per la famiglia: credo pertanto assolutamente pernicioso per il morale di questo Battaglione l’allontanamento dal Comando di esso per ragioni organiche, del Capitano Mannarini, che da vari mesi lo comandava con affettuoso interessamento. 15. SEGNI DI DISFATTISMO NELLE IMMEDIATE RETROVIE – Furono già segnalate al n° 18 della precedente relazione le voci di pace per il 24 corr. raccolte dal Capitano a Malcesine: il Comando del Corpo d’Armata, con provvedimento immediato e radicale, ha fatto

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subito sostituire tutte le truppe e tutti i servizi del settore. Mie dirette ricerche non hanno confermato le voci soprariferite. Ho fatto indagini alla II Sezione di Sanità per quanto riguarda i fatti segnalati a questo Centro con foglio n° 142 del 2 maggio ’18. Mi è resultato che il militare di detta Sezione, recatosi in licenza nel Comune di Covone (Mondovì) dal 24 marzo al 10 aprile u.s. si chiama Arduino Giuseppe, e appartiene da tre anni alla Sezione, ove ha sempre tenuto condotta irreprensibile. Non è indiziato come sovversivo; abilmente interrogato per mezzo di un Cappellano di sicura fede, ha escluso in modo assoluto di aver mai raccolto o trasmesso voci relative a proposito di resa in massa. Da tutte le indagini di cui sopra è parola, sono venuto nella convinzione (confermatami anche da ufficiali medici e da Cappellani) che i luoghi più adatti per conoscere senza veli lo stato d’animo della truppa in linea siano gli stabilimenti sanitari, di transito o di cura: pertanto sarebbe opportunissimo collocare dei fiduciari nelle Sezioni di sanità e nelle infermerie. Farò proposte concrete. 16. POPOLAZIONE BORGHESE – Da diverse parti mi viene segnalato lo stato d’animo tutt’altro che patriottico della popolazione borghese di Ala, Pilcante e paesi limitrofi; tale stato d’animo può facilmente divenire contagioso per le truppe che accantonano nelle località di retrovia, a continuo contatto colla popolazione borghese. Questa promiscuità di vita fra militari e borghesi dà luogo inoltre ad una rapidissima diffusione pubblica di notizie militari che dovrebbero restare segrete. Agli ultimi di Aprile un alpino del XIII° Gruppo, parlando con una donna di Vò Sinistro, le esprimeva il dubbio che il Gruppo dovesse presto lasciare la zona; la donna allora gli dava precisa e formale assicurazione che se anche la 37a Divisione avesse avuto il cambio, il che poi avvenne, il XIII Gruppo Alpino sarebbe restato colla nuova Divisione; chiestole da chi avesse avuto tali informazioni, rispose che le aveva avute da un automobilista. 17. CAUSE VARIE DI MALCONTENTO PER LA TRUPPA a) Nei militari delle terre invase hanno fatto profonda impressione le notizie delle deportazioni delle loro famiglie. Bisogne-

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rebbe che i giornali che vanno in mano delle truppe sfiorassero con discrezione questi argomenti deprimenti. Sarebbe utilissimo inoltre portare a conoscenza di questi soldati provvedimenti concreti relativi a risarcimento dei danni ai cittadini dei territori invasi e sgombrati in dipendenza della guerra; ciò tranquillizzerebbe molti che stanno in pena per i loro modesti averi distrutti dalla guerra. b) Il malcontento per le distribuzioni di riso e di baccalà continua, ma con minore intensità. Ho raccomandato agli ufficiali di collegamento di fare propaganda fra i soldati, cercando di dimostrar loro le necessità economiche da cui hanno origine le distribuzioni di riso; questo del resto, è ormai ben accetto in tutti questi reparti in cui si è ricorsi ai metodi di cottura suggeriti dai competenti, metodi che per altro sono sconosciuti ancora e quindi non praticati nel più gran numero di reparti. Ho udito ripetere che la razione di riso quale attualmente viene distribuita è troppo abbondante: in molti reparti ve ne sono eccedenze inutilizzate: la 4a Batteria del 29° Campagna ha restituito al Commissariato una notevole quantità di riso non consumato: bisognerebbe trovare il modo di sostituire queste eccedenze con della verdura. c) Molti soldati si lagnano che le domande fatte per il loro esonero dalle loro famiglie alle Autorità Territoriali non abbiano avuto riscontro: altri si lagnano di concessioni, a loro opinione, ingiuste. Un caso tipico, verificato alla 4a Batteria del 29° Campagna: il Serg. Maggiore Scatolini ottiene l’esonero agricolo, coi seguenti estremi: classe 1889, ammogliato, senza prole, padre vecchio, conduttore di 8 ettari in Quinto di Treviso. L’appuntato Giovanni Pastorelli non ottiene l’esonero agricolo coi seguenti estremi: classe 1887, ammogliato con tre figli, padre vecchio di 78 anni, conduttore di 50 ettari in Vergantino di Rovigo. d) Il provvedimento del Comando Supremo che permette di inviare in licenza i condannati proposti per il condono totale, è stato accolto con grande soddisfazione da Comandi e da truppa. Il problema, peraltro, non è ancora interamente risolto: poiché molte volte passano molti mesi prima che si sappia se è stata accolta la proposta di condono parziale e quindi se si possa presentare la proposta per il condono totale, condizione necessaria per la concessione della licenza.

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Letteratura da trincea* Chi fa la guerra non legge, di regola, libri di guerra: il fante accovacciato nella trincea, sopra la quale a stormi frullano le vagabonde scheggie di granata, iridate e ronzanti come sinistri farfalloni notturni, non si diverte a far collezione di rottami bellici, come usa qualche maniaco delle retrovie; e se talvolta lucida la corona di rame divelta da qualche fondello, è indotto all’opera dal pensiero della licenza vicina e dalla speranza di veder brillare l’inusato braccialetto sul polso contadinesco della fidanzata. Le narrazioni di guerra, le drammatiche descrizioni di battaglia piene d’urti e di bagliori, di incendio, i fuochi artificiali della ipotiposi a forti tinte, sono fatti per il borghese che, una volta almeno nella sua giornata, sente il bisogno di distrarsi dalla pace del consueto lavoro, per provare, sia pure soltanto letterariamente, il brivido della guerra misteriosa e lontana; ma non son buoni per divertire chi è del mestiere. Chi legge, in guerra, mira unicamente a divertirsi, a liberarsi, in qualche istante di fugace oblio, dalla dura tenaglia della necessità, a sciogliere, per un attimo, le catene dell’anima, facendole credere d’esser superiore al destino. Divertirsi: illudersi, dimenticare, far vela per i fantastici arcipelaghi della follia, sbizzarrirsi a capriccio per lunghissimi viali di sogno fiancheggiati da strane flore immaginarie, perdersi nell’oriente della menzogna; avere quello che invano si desidera, vedere quello che non vedremo mai, lacerare miracolosamente l’involucro grigio della solita vita per aprirvi una parentesi di aerea fantasia, luminosa e fresca come uno squarcio di turchino fra nuvole di temporale... A tredici anni, quando il dovere senza sacrifici e senza martirio, era dentro il vocabolario di Georges1, e la realtà senza cavalleria e senza eroismi, prendeva forma nei quinterni dai margini rossi e dalla copertina d’incerato, lo squarcio d’azzurro erano i Tre moschettieri, col loro balenar di lame insofferenti tra uno svolazzio di cappelli piumati. * Pubblicato con questo stesso titolo in tre puntate sul quotidiano «L’Arena» (Verona), il 29, 30 e 31 maggio 1918. Gli articoli sono conservati in MST, Fondo Piero Calamandrei, b. 1, f. 1, cc. 90, 91, 92. 1 Karl Ernst Georges (1806-1895), lessicografo tedesco, autore di un importante dizionario della lingua latina.

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Passata l’età delle fate, la guerra ci sembrava allora la più seducente fra le irraggiungibili fantasie: con che nostalgico rimpianto abbiamo pensato da giovanetti a quelle età ormai superate, quasi perdute in un polverio luminoso di leggenda romantica (parevano tali, allora!), in cui gli adolescenti partivano per la guerra e potevano così d’un balzo ingigantirsi e tuffarsi dalla prosa nell’epopea! Invidiavamo quei privilegiati che, non per virtù loro, ma per sola virtù delle circostanze, riuscivano ad esser protagonisti di situazioni sentimentali non più concesse alla nostra scialba generazione di imbelli, quei fortunati, che avevano dalle circostanze il dono di vestirsi da eroi, di partire, giovani e pieni di gagliardia, verso l’avventura e verso la morte, di salutare, con un malinconico riso sul labbro, un grande amore, e di scrivere, da tanto lontano, prima di slanciarsi nella mischia, un’ultima breve lettera di rinuncia e di commiato alla giovinezza non ancora gustata... Tutto questo era bello a leggersi sui libri, per noi giovinetti che udivamo i grandi affermare che le guerre non si facevano più: e per questo ci divertivano e ci commuovevano i libri di guerra, allora. Ma ora, ora che la guerra, più enorme, più meravigliosa, più incredibile di qualunque leggenda, è divenuta da tre anni la nostra realtà quotidiana; ora che il più umile e il più pacifico dei borghesi è stato svegliato da un improvviso squillo del destino su dalla sua monotona pigrizia e si è trovato dall’oggi al domani vestito di ferro e pronto a partire, e ha sentito il suo cuore, già impicciolito dall’abitudine, dilatarsi e lacerarsi per contenere un più grande amore, un dolore più grande; ora che la realtà si è miracolosamente portata all’altezza della leggenda, e la vita comune è diventata un seguito naturale di sacrifizi e di eroismi, ora la guerra non è più un motivo adatto per far della piacevole letteratura. Le parti sono ora invertite: l’epopea di un tempo è divenuta oggi la realtà ordinaria; e la vita umile e triste, che prima ci sembrava così priva di contenuto estetico e sentimentale, che ci appariva come un susseguirsi istintivo e automatico di piccoli episodi insignificanti, ha preso oggi, vista dalle trincee, una suggestiva luce di lontana fantasia, uno strano colore di novità, di curiosità, di esotismo. Non descrizioni di guerra, per divertire il fante, per chi considera ormai la trincea come sua dimora abituale, e vede nella guerra un lavoro professionale, pazientemente metodico e disciplinato. L’ignoto, l’illusione, il sogno sono andati a posarsi là dove un tempo

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era la prosa: le più piccole sfumature di quella vita senza drammi profondi che era nostra un tempo e che risarà nostra quando avremo vinto, sono diventate nel ricordo, per chi da tre anni guarda un pezzo di reticolato attraverso una feritoia, luminose e affascinanti come avventure di fiabe. Mi diceva un soldato, dopo aver visto durante la licenza in una città dell’interno affollarsi la gente ad una esposizione di guerra ove erano raccolti fondelli arrugginiti, frammenti di ogive, elmetti ammaccati e sudici cinturini austriaci, che per i combattenti dovrebbero farsi quassù esposizioni dei cimeli tratti dalla vita civile, di quella borghesia che sembra, ormai, a chi da tre anni veste il grigio verde, così strana e così inconsueta; chi abbia veduto con quale meravigliata ilarità il fante saluta il cappello da borghese di qualche visitatore estraneo che capita per un istante sulla linea, comprende che l’idea non è poi tanto paradossale, e immagina lo schietto successo che toccherebbe in trincea a una esposizione che raccogliesse curiosità di questo genere: un cappello a cilindro, un ombrellino da sole, un pappagallo impagliato sotto una campana di vetro, una lampada elettrica da salotto, col suo paralume di merletto ranciato. Ho pensato talvolta, quando giungeva al Reggimento il Corriere della Sera e tutta la prima pagina ci appariva scritta in corsivo, occupata da un articolo di Barzini2 o di qualche altro corrispondente di guerra, se dei giornali non sarebbe opportuno pubblicare una “edizione speciale per i combattenti”, che della guerra contenesse solamente i bollettini ufficiali e poche notizie austeramente sobrie, e che sostituisse nel resto le “corrispondenze dal fronte” con le “corrispondenze dall’interno”. Gli articoli del Barzini e dei suoi epigoni sono fonte di svago e insieme di sana educazione per i lettori borghesi, che, in quella prosa colorita, imparano sempre meglio a conoscere le virtù del nostro soldato; ma i combattenti, come volete che i combattenti si divertano a sentir descrivere la loro vita, la vita che essi hanno assaporato attraverso una paziente esperienza di anni? Argomenti da trattare in un giornale che deve servire da svago ai combattenti potrebbero invece essere questi: avventure in un tram elettrico sui viali di circonvallazione: viaggio di scoperta in 2 Luigi Barzini senior (1874-1947), giornalista e scrittore, corrispondente di guerra del «Corriere della Sera».

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un negozio di stoffe, fra le ondate di seta verde a fiorami d’oro; descrizione di un giardino di città, colla vasca dei pesci rossi, le balie e i venditori di frutta candite... Come volete che un soldato in trincea si diverta a leggere un passo di bella prosa ove si descrive una via mascherata di scenari di stuoie, ingombra di rovine, e una chiesetta che al bivio mostra con aria desolata un troncone di campanile, nel quale un orologio scolorito segna da due anni sempre la stessa ora? Il soldato in trincea preferisce che gli si descriva un campanile colle campane (che emozione, le prime campane, quando si scende a riposo!), una chiesa bianca e dritta, dalla quale, nel vespro domenicale, scende giù per la scalinata una processione di piccoli sacrestani vestiti di bianco (l’aria è tutta odorosa delle rose fiorite dietro il cancello)... Come volete che un soldato in trincea si diverta a leggere come è fatta la notte di guerra, egli che vive le sue notti contando i guizzi dei riflettori e il fluttuante sbocciar dei razzi in quella ostile tenebra misteriosa, che non ha lumi ai casolari e non ha sulle strade canti di caratteri? No: egli vuol che le letture dolcemente gli ricordino come è fatta la notte benigna dei tempi che torneranno quando i banditi saranno cacciati, la notte in cui ridono le luci delle finestre aperte coll’ombra di una testa dietro, la tenda gialla, la notte in cui si ode il vagire di un neonato, il rumore di una porta che si chiude dietro a qualcuno che torna a casa sua, una voce di donna che dà la buona notte a un passo che s’allontana. Chi fa la guerra legge solamente i libri che lo divagano dalla guerra: ma quali sono poi, in pratica, questi libri? Non so rispondere in modo assiomatico alla domanda, perché le risposte potrebbero essere tante quanti sono i lettori, ognuno coi suoi gusti e colle sue tendenze, e perché per ogni lettore la risposta dovrebbe ridursi a una lunga scheletrica catalogazione. A me per altro è dato, come a qualunque altro ufficiale che sia stato in guerra e che durante i giorni di attesa e di riposo abbia avuto a fedele consolatrice la compagnia di qualche volume, ricercare nel ricordo quali letture abbian saputo regalarmi durante la guerra le ore di più dolce oblio, quali siano meglio riuscite ad aprire un intermezzo di sogni nella dura realtà che subito mi si richiudeva d’intorno. Non dunque dissertazione critica sarà questa mia, ma solamente frammentario e disordinato saluto di gratitudine verso qualche soave fruscio di pagine che ancora odo svolgersi in mez-

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zo al rombo delle cannonate, verso qualche vivace copertina policroma che ancora vedo spiccare sul bruno colore dei monti arsi e scorticati dal combattimento. Non voglio ricordare a quali vicende della mia vita di guerra si riannodi il simpatico ricordo di un libro: penso prima che ad ogni altro momento al maggio di due anni or sono, a quel maggio del 1916 in cui l’irruzione austriaca si franse contro i baluardi di Coni Zugna e del Pasubio. Ero in Vallarsa, allora, e comandavo un plotone: un piccolo plotone quasi isolato in mezzo a un bosco, dove il bombardamento austriaco non veniva a cercarci perché ignorava ancora la nostra esistenza, sulla cresta di costone dal quale si dominava tutta la valle, giù, giù, fino alle prime case di Rovereto. Il contrasto fra la furia delle artiglierie nemiche e la sorridente quasi estatica impassibilità della natura era pieno di profonda solennità: mentre i proiettili da 305, rumoreggiando in aria come sgangherati veicoli precipitanti fuor di strada giù per un precipizio, si abbattevano con bestiale metodica violenza contro le borgate deserte, la primavera per suo conto era tutta assorta a lustrare le foglie giovani non ancora velate dalla polvere e dall’arsura, a spargere senza avarizia una lussuosa fiorita fino in vetta alle rocce, a suscitar su dal Leno una nebbiolina azzurra che dava a tutte le cose un che di aerea inconsistenza; e la nebbia, sfumando nel sole, avvolgeva di un festante polverio d’oro i bianchi campanili, come se volesse assorbirli, renderli evanescenti, trasfigurarli proprio nell’istante in cui si preparavano a morire... Noi guardavamo col cuore stretto questo grandioso contrasto fra la gioconda serenità delle cose e la furia degli uomini: e, nonostante la tragicità dell’ora, la solenne imperturbabilità della primavera ci soggiogava. Ed ecco che, nel mio sacco alpino che fedelmente mi aveva seguito fino alla improvvisata trincea, scoprii, non so come, venuto fin lassù dalla mia cassetta d’ordinanza, uno di quei volumi del Fabre3, dell’Omero degli insetti, nei quali con tanta pazienza è studiata, con tanta evidenza descritta la vita delle piccole creature che abitano nell’interno delle corolle, o nei labirinti scavati sotto la corteccia dei tronchi: quel volume così lontano e insieme così vicino 3 Jean-Henri Fabre (1823-1915), entomologo francese, celebre per i suoi studi sul comportamento degli insetti (cfr. supra, p. 70, nota 10).

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alla realtà che mi circondava, fu accolto come la compagnia più adatta alle circostanze; e durante le pause del bombardamento, sul tramonto, mentre i miei uomini cercavano di dormire appoggiati ai faggi e qualcuno guardava con aria di trasognata malinconia quel ranciato vespero che forse poteva essere l’ultimo, la lettura di quelle pagine così semplici e serene, in cui si scoprono i misteri di un mondo troppo piccolo per essere turbato dalle nostre risse di giganti mi riempiva di una infinita pace... A quella lettura riannodo un altro episodio di quei giorni che sembra quasi riassumere di essa il più delicato profumo: in uno di quei pomeriggi sfolgoranti in cui il nemico continuava la sua metodica distruzione a forza di grossi calibri, stavo nel mio sicuro osservatorio, con in mano la macchina fotografica, pronto a ritrarre una di quelle magnifiche corolle che le granate di grosso calibro fanno sbocciare magicamente dal terreno. Stavo lì pronto, coll’obbiettivo puntato sulla località dove i colpi andavano a cadere più di frequente, nascosto in mezzo a degli arbusti fioriti; quand’ecco, proprio nel momento in cui udii il fragore del proiettile in arrivo e vidi balzare in aria giù nella valle quell’immenso zampillo che mi premeva di fissare nella fotografia, proprio in quell’istante mi accorsi che su un rametto, distante da me pochi metri e compreso anch’esso nel campo di vista dell’obbiettivo, si era posata ad ali aperte una delle farfalle più meravigliose che conti la nostra fauna, un podalirio dalle caudate ali che sul fondo giallo hanno due splendidi occhi simili a quelli delle penne dei pavoni... Così la mia “Kodak” scattando colse in un unico quadro il malefico fiore di distruzione sbocciato in lontananza, e, lì vicino, il piccolo insetto ignaro che si beava di far l’altalena su un fuscello, tuffando le sue aluccie nel sole. E ancora, ancora... Ricordi, o lontano amico, che per due anni mi sei stato fratello di guerra, quella specie di gabbia di arelle che i nostri attendenti ci avevano costruita entro le mura cadenti di una soffitta per meglio difendere il nostro sonno dalle incursioni dei topi? Ma i topi facevano all’amore sulle arelle e non ci lasciavan dormire: e non bastò a spaventarli quello spelacchiato gattuccio selvatico che ci fu portato dentro un sacco e che miagolò una notte intera, cento volte più molesto dei topi; e, poiché i sorci rispettavano la luce, bisognò ricorrere al sistema di tener tutta la notte accesa la candela in mezzo alla stanza, infilata – ricordi? – nel collo di una tua bottiglia di Valpolicella... Quando ripenso a quella nostra ca-

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mera zingaresca, devo per forza ripensare insieme a Li fioretti di sancto Franciesco e al De officiis di Cicerone che tu ogni tanto colla tua flemmatica gravità tiravi fuori dalla misteriosa chincaglieria del tuo bagaglio... Leggevamo i Fioretti durante le ore di riposo, ma non per attingere insegnamenti pratici; poiché anche tu, con tutto il tuo misticismo, dopo aver ammirato come San Francesco insegnava a Frate Leone la gioia di farsi maltrattare, eri pronto dopo la lettura a parlare di bombe a mano e di mitragliatrici, istrumenti destinati piuttosto a maltrattare altrui; e quegli epiteti così primitivi ed ingenui, coi quali il santo nella narrazione antiquata, maltrattava il demonio, si adattavano così bene ad ingiuriar gli austriaci di buon mattino, quando aprendo la finestrella, li chiamavamo trecentescamente “gagliofi”. Al tuo De officiis poi si riannoda nel mio ricordo una tua superstizione, ma di quelle ingenue superstizioni nate un po’ per burla e un po’ sul serio, che sono così comuni fra i combattenti: ti vedevo ogni giorno, nei primi tempi in cui ti conobbi, leggere con grande attenzione una di quelle paginette stampate in corsivo su grossa carta ingiallita; e poiché ti espressi la mia meraviglia per tale predilezione, tu, dopo avermi spiegato le ragioni estetiche e filosofiche che ti inducevano alla lettura, anche mi confessasti sorridendo una tua credenza: che quando saresti giunto all’ultima pagina del De officiis, in quel giorno avremmo finalmente riportato la vittoria definitiva. Passarono le settimane, passarono i mesi, e le paginette si svolgevano una dopo l’altra: e finalmente tu giungesti alla penultima pagina, e ti accorgesti che avevi precorso gli eventi. E allora, ricordandoti che un tempo, prima di essere guerriero eri anche cavilloso giurista, mettesti tra la penultima pagina e l’ultima un segno tricolore, e chiudesti il libro, pronto a legger l’ultima pagina il giorno non più lontano ormai in cui la vittoria sarà raggiunta, e in cui tu, in perfetta buona fede, sarai pronto a sostenere che la tua predizione si sarà perfettamente avverata. Ma non soltanto di libri austeri trovo traccia fra le mie letture di guerra. Ho in mente una appariscente copertina di un libro francese, Le Bandeau, sulla quale spicca in tricromia la figura di un Eros biricchino che annoda una benda sugli occhi di una giovane donna: il libro fa parte di una collezione che si intitola «Livres pour lire dans les tranchées» e in ogni sua pagina reca quattro o cinque disegnetti, che commentano piacevolmente ogni frase, vergati alla brava dalle più spigliate matite di caricaturisti parigini. È un libro

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leggero e mussante, senza pretese di grande arte o di filosofia, senza intenti morali o educativi: storie di pittori e di modelle, di mogli infedeli e di mariti tolleranti, svolazzio di gonne e di trine, un po’ di “Bohème”, un po’ di amore gaio e seminudo, un po’ di “champagne”... In fondo, del libro non resta nulla, come nulla resta dello “champagne”: ma la lettura lascia nell’anima un senso di gaiezza fresca e frizzante, un po’ di quel buon umore, che l’autore, nella dedica, getta in faccia ai “Boches” ed ai loro complici, come prova dell’inestinguibile sorriso francese. I libri che, come questo, senza essere libertini o immorali, riescono a portare fino alle trincee più avanzate una folata di profumo femmineo, un motto arguto, una vignetta che faccia fiorire un sorriso sulle labbra arse dal sole della trincea, hanno gran fortuna tra i combattenti, che li ricordano poi con un senso di profonda gratitudine. Molte volte, anzi, questa preferenza dei lettori in trincea per i libri in cui l’eterno femminino prevale, è stata la prima causa della gran diffusione tra i combattenti di libri che forse, per sola virtù d’arte, non avrebbero saputo farsi tanta strada: un esempio, forse, si ha nei romanzi di Guido da Verona... Alla stessa naturale tendenza di questi forzati cenobiti delle trincee, che prediligono tutto ciò che dà loro l’illusione di ravvicinarli al lontano mondo della giovinezza e dell’amore, si deve la grande, quasi maniaca diffusione che hanno in trincea le cartoline illustrate a soggetto femminile; quelle figurine muliebri un po’ convenzionali disegnate dal Mauzan4 o dal Corbella5, quelle flessuose signore vestite con un’eleganza un po’ sfacciata ed equivoca, hanno il coraggio di spingere fino alla piccola guardia dell’ultimo posto avanzato i loro occhi cerchiati di bistro; e per questo i soldati le amano, e le comprano per tenerle con loro, per adornarne le loro baracchette e i loro ricoveri: per illudersi di adorare, entro il piccolo rifugio oscuro fatto di lamiere e di sacchi a terra, il fruscio di una gonna di seta... Libri di serena scienza, libri ascetici, solenni libri latini, scapigliati libri di amore e di gaiezza... non mai libri di guerra: ciò avviene non solamente perché i libri di guerra – l’ho già detto – non 4 Lucien Achille Mauzan (1883-1952), pittore e cartellonista francese, lungamente attivo in Italia, fece parte del movimento artistico Art Déco. 5 Tito Corbella (1885-1966), pittore e cartellonista, specializzato in ritratti.

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riescono a divertire chi vive la guerra; ma anche perché il combattente, che soffre i rischi, ma anche prova la gloriosa soddisfazione del combattere, è pieno di ombrose gelosie per il suo mestiere e non tollera che i profani si permettano di far scuola di guerra a chi della guerra potrebbe far scuola al mondo. La guerra non è un gioco su cui estranei possano far della letteratura: essa è una solenne e austera prova, di cui si deve parlare con reverenza come delle cose sante; e nulla più irrita e sdegna il fante di quella leggerezza facilona con cui qualcuno crede di poter descrivere, sedendo su una poltrona, come si fa ad espugnare una trincea nemica. Un solo libro che parla della guerra ed è scritto da un non combattente ho potuto leggere senza repulsione mentre ero in linea: è un libretto del Panzini, breve e di modesta apparenza tipografica, intitolato, mi pare, Il libro della guerra6. È una raccolta di appunti buttati giù senza pretese nei primi tempi del cataclisma europeo, giorno per giorno a commento di quell’angoscioso periodo precedente alla battaglia della Marna, nel quale, con un nodo di pianto alla gola, pensammo rabbrividendo quando vedemmo la Francia sgozzata dal pugnale dei briganti, che la forza potesse aver ragione della nostra civiltà latina. La trepidazione di quei giorni oscuri, quella crisi sentimentale per cui allora, perfino in ogni più mite e più raffinato spirito, innamorato dell’arte e degli studi e per natura rifuggente alla violenza, si venne formando la convinzione della necessità tragica ma ineluttabile di entrare anche noi italiani nell’immane lotta all’ultimo sangue, è accennata in questo libretto con tocchi così tremanti, così pieni di bonaria umiltà e direi di pudore (lo stesso avviene nell’altro volume del Panzini, La Madonna di Mamà7), che la lettura suscita commozione anche in chi combatte, senza eccitar la protesta contro la retorica vana di chi tratta colle parole la guerra che si tratta solamente coi fatti. Parrà strano, dopo tutto quello che ho detto finora, ch’io ritenga come libro da leggersi in trincea il recente volume scritto dal Sof6 Alfredo Panzini, Il romanzo della Guerra nell’anno 1914, Studio Editoriale Lombardo, Milano 1914. 7 Id., La Madonna di Mamà. Romanzo del tempo della guerra, F.lli Treves, Milano 1914.

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fici (A. Soffici, Kobilek, Libreria della «Voce»8), che descrive la conquista compiuta dai nostri fanti nell’agosto 1917, del Monte Kobilek, primo gradino verso la nostra avanzata sull’altopiano della Bainsizza. Parrà strano, dico, perché nessun volume parla di guerra in modo immediato e realistico, come ne parla questo, nessun volume più di questo è vicino alla battaglia vera, alla mischia dei fanti, al tumultuoso e tormentato incalzare delle ondate lanciate all’“assalto”. Eppure questo Kobilek del Soffici è un libro che ogni vero combattente leggerà con piacere e con commozione, per due ragioni: prima di tutto perché è scritto da un soldato, da uno dei nostri, da uno che prima di scrivere ha agito e che anzi in tanto scrive in quanto ha agito; in secondo luogo perché questo libro, pur trattando fatti di guerra e non mirando quindi ad allontanare il soldato lettore dalla sua realtà quotidiana, racconta con una tale verità, una freschezza, una immediatezza, che l’anima del lettore combattente riconosce sé stesso in quelle pagine e vi trova, miracolosamente scritta da altri, la propria autobiografia... «Giornale di battaglia», descrizione di combattimenti; ma non descrizione macchinosa in cui risaltino teatralmente come in una parata i piani e gli urti delle masse, sul tipo della descrizione di Waterloo fatta da Victor Hugo; e non ricostruzione meramente descrittiva di piccoli episodi di guerra immaginati ma non vissuti, realistici ma non ardenti di personale convinzione, di diretta esperienza, come si trovano in Stendhal, in Tolstoi, in Zola. Qui il Soffici, prima di essere uno scrittore (e quale scrittore!), è un soldato: prima in qualità di comandante di plotone, poi in qualità di aiutante maggiore di battaglione, egli, ufficiale subalterno di fanteria, ha preso parte insieme col suo reggimento a una vittoriosa impresa di guerra, alla conquista del M. Kobilek; il libro, in forma di diario (ricordate le indimenticabili pagine del Giornale di bordo?9), comprende la storia di due settimane, dal 10 al 26 agosto del 1917: si apre a Plava, con una visita di S.E. Capello al comando di battaglione. Si chiude a Cormons nell’ospedale da campo 026, ove il Soffici vien ricoverato per una ferita all’occhio 8 Ardengo Soffici, Kobilek. Giornale di battaglia, Libreria della Voce, Firenze 1918. 9 Id., Giornale di bordo, Libreria della Voce, Firenze 1915.

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sinistro, causata dallo scoppio di una granata durante l’ultima ora del combattimento, che termina il 23 agosto coll’occupazione della quota 652 del Kobilek; tra queste due date si svolge la storia di cui lo scrittore è il protagonista, l’azione intensa di cui un tenente di fanteria ci narra in forma frammentaria, spezzata, talora commossa, talora estatica, talora scherzosa, italianissima nell’arte e nello spirito sempre, gli episodi sublimi od orribili, tragici o sorridenti, dai quali la conquista del Kobilek esce in tutta la sua mirabile grandezza: grandezza mirabile, notate, non già perché la gesta sia stata qui più eroica di tutte quelle alle quali la nostra fanteria ci ha ormai abituato, ma perché alla conquista ha preso parte in veste di fante un artista capace di sentire e di descrivere le grandi ore della gloria e della morte. Ardengo Soffici, borghese fino a ieri, spirito naturalmente inquieto ed indisciplinato quant’altri mai, è un ufficiale improvvisato come i più grandi di noi siamo in questa guerra: e quindi egli porta nel combattimento non solamente una sete febbrile di sensazioni per lo spettacolo di tragica grandezza che si svolge così da vicino dinanzi ai suoi occhi; ma anche un senso di straordinaria curiosità verso sé stesso, che lo porta ad osservare e ad analizzare rigorosamente ogni più fuggevole impressione che la sua anima di borghese prova, messa a contatto con questa straordinaria, fino a ieri quasi incredibile, realtà della guerra. Chi per trenta anni visse tra i libri e i pennelli, inseguendo nel suo vagabondaggio spirituale ogni gioia ed ogni bellezza, resta meravigliato nel contemplare sé stesso trasformato in poche settimane in guerriero d’Italia, col suo moschetto e il suo elmetto azzurrastro; il borghese osserva ed ammira questo combattente che per improvviso miracolo s’è destato entro la sua stessa carne: e, trepidando, spia come il combattente sa reagire alle emozioni del lavoro inusitato, come in faccia alla morte e con in pugno la sorte di cinquanta vite, sa con saldo cuore praticamente trarsi d’impaccio d’innanzi alle fulminee necessità della mischia. Tale è l’atteggiamento del Soffici, che più seduce e commuove in molte pagine di questo libro. Egli è un destro e valoroso ufficiale, e insieme un acuto e spietato osservatore di sé medesimo: il Soffici artista osserva il Soffici soldato; e l’artista osserva ed annota, talora ammira ed esalta, tal’altra perfino disprezza e condanna il suo fratello guerriero che corre di trincea in trincea sotto l’infuriar delle granate.

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Da questa rara, se non unica, felice riunione di una stessa persona fisica di uno scrittore di genio con un fante di coraggio (quanti soldati che hanno fatto la guerra sul serio non sanno descriverla; e quanti scrittori che vogliono descriverla non l’hanno mai veduta) derivano tutte le virtù morali ed estetiche di questo libro. Nessun combattente, leggendo queste pagine, potrà accusarle di esserle una vana esercitazione letteraria, e le accoglierà per questo con quel naturale disprezzo che gli uomini d’azione hanno oggi per i parolai, per i dilettanti: qui la narrazione è vera in ogni parola, vissuta in ogni suo palpito, grande e solenne com’è grande e solenne la vita di chi sta in trincea; qui non per manierismo «cantano le belle mitragliatrici», la cui voce può senza sforzo sembrar dolce a chi per gioco se la immagina nella tranquillità della sua stanza da studio, ma i proiettili sibilano veramente a stormi sulla testa del soldato scrittore, come non solo letterariamente cadono intorno a voi, o fanti d’Italia, o santa umile fanteria vivente rimorso dei chiacchieroni e dei vili! Ogni combattente in questo libro ritrova sé stesso, poiché s’imbatte in ogni pagina in osservazioni che egli stesso in qualche momento difficile ha fatte in silenzio, in espressione di sentimenti che egli stesso, messo di fronte al pericolo, ha certo in qualche istante provati: la stupefazione, nei momenti del più atroce tumulto di guerra, per la misteriosa, fredda, quasi estranea impassibilità della natura esterna, che guarda sorridendo le nostre lotte con i suoi impenetrabili occhi di sfinge; la centuplicata acutezza dei nostri sensi che in faccia alla morte si assottigliano e quasi si purificano e riescono a rendersi conto di fenomeni che in momenti ordinari passerebbero inosservati, a percepire, ad esempio, le diverse tonalità del suono delle pallottole «che, a secondo della distanza onde provengono, dall’accelerazione del tiro, può sembrare un fischio, un miagolio, un ronzio, e talvolta rassomiglia a quello di un bacio, lungo, fine, e che ha persino qualcosa di dolce e di voluttuoso»; quel senso di inerzia, di assoluto oblio del pericolo, che dà talvolta la stanchezza spinta all’estremo, per cui uno si siede su una roccia a uno svolto di mulattiera ove più battono le cannonate, e l’idea della morte imminente lo spaventa meno di quello sforzo fisico che sarebbe necessario per rialzarsi e per riprendere il cammino; quella specie di indisciplinata vivacità e molteplicità delle facoltà dello spirito,

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per cui, anche nei momenti di più tremendo pericolo, l’anima non riesce a raccogliersi e a persuadersi che la morte sta per giungere, e c’è un senso di curiosità che si burla della tragicità dell’ora come un ragazzo maleducato e scappa per conto suo ad ammirare qualche piccola cosa insignificante eppur affascinante che lì presso sorride forse per l’ultima volta, come farebbe un fior di genziana sull’orlo di un cratere scavato un istante prima da un colpo di 305... Racconto frammentario, slegato, episodico, in cui la battaglia non sempre si abbraccia, in cui si ha di frequente l’impressione del disorientamento e del disordine dopo il quale con maggior ammirazione si ritrova la fatale concatenazione di eventi che ha prodotto la vittoria: «quello che mi era parso per più ore un caos, finiva con l’apparirmi un’operazione della più grande semplicità. Comprendevo finalmente il piano, e solo allora mi rendevo conto di quanto ne fosse stato logico lo svolgimento»; libro, soprattutto, che colla sua franca e veritiera schiettezza infiamma ed esalta più di qualunque artifizio convenzionale composto di parole e non di fatti. Kobilek, letto da chi vive in pace, servirà meglio di qualunque altro libro a far comprendere ai borghesi quali sono i pericoli e i disagi che i nostri fanti affrontano e vincono, e darà loro, nel Soffici, ufficiale in gamba ed anima elettissima di artista italiano (toscano, anche: ed è caro scriverlo a chi gli è conterraneo) un modello di quello che possono essere i nostri insuperabili ufficiali di fanteria, di questi improvvisati pattuglieri che, balzando fuor dalle scuole, dagli studi d’arte, dagli uffici, dai commerci, hanno portato alla patria devotamente il più prezioso tributo di ardire e di intelligenza. Ma sopra tutto servirà a commuovere e ad entusiasmare i combattenti: poiché essi, che sono diffidenti e restii a raccogliere parole di incitamento da chi non ha provato la guerra e non ha quindi diritto di insegnare ad altri ciò che egli non conosce, dovranno restare incantati dinanzi alla parola di questo scrittore di razza, di questo italiano non più giovanissimo, che, mentre avrebbe potuto restarsene indietro per meglio sfruttare le sue qualità intellettuali, affronta tutti i rischi e tutti i pericoli, fante fra fanti e dopo aver sofferto la fame e l’arsura, dopo aver dormito nel fango e nel sangue, e dopo essere stato egli stesso due volte ferito, ha ancora tanta anima per scrivere. «Quello che è avvenuto mi sem-

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bra di una bellezza indicibile. Rimpiango i giorni passati lassù, ne porto un ricordo delizioso, come di qualche cosa di aperto e di puro. Sento che non ritroverò mai momenti così pieni e così grandi. Vorrei che tutti fossero alla guerra perché potessero poi sentire questa seconda gioia di ricordarla.» Un’impressione riassuntiva sul libro del Soffici. Un ufficiale di fanteria che lo legga prova un gran rammarico per non averlo scritto... Sì, perché sembra così facile, per chi ha fatto la guerra, mettere insieme un libro come questo, ove siano semplicemente registrate con verità le cose che vede chi prende parte a un combattimento, le sensazioni che prova chi partecipa a una avanzata. Sì, ma bisogna saperlo scrivere...

Ai Cappellani militari* Al Cappellano del... e per conoscenza All’Uff. Colleg. P del... I Cappellani reggimentali che, intendendo come in questi momenti solennemente decisivi la voce di Dio non può non essere voce di Patria, hanno fatto del loro ufficio un apostolato di amor patrio e dalla fede hanno tratto un incitamento potente per ricordare ai credenti il loro dovere di soldati, hanno potuto credere che l’ufficio di Collegamento P istituito di recente in ogni Reggimento e Raggruppamento, tenda a creare una specie di monopolio dell’assistenza morale della truppa, e ad accentrare nell’ufficiale di Collegamento P la parte non strettamente religiosa di quei compiti che finora molti Cappellani, per loro personale iniziativa, si erano volontariamente assunti. Niente di più erroneo di questa impressione: poiché l’ufficio di Collegamento P, mentre vuole coordinare tutte le energie che tendono all’assistenza, propaganda e vigilanza fra le truppe, nessuna buona volontà esclude, nessuna iniziativa sana ostacola, ma * MST, Fondo Piero Calamandrei, b. 1, f. 5, c. 12, Circolare ai Cappellani militari avente per oggetto: «Collaborazione dei Cappellani all’opera degli Ufficiali di Collegamento P», 8 giugno 1918.

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anzi tutte le accoglie e le utilizza, senza apriorismi politici e senza preconcetti personali, ma nel solo sacro ed augusto scopo del bene della nostra Italia. Nella nostra opera, che mira unicamente a ottenere dei risultati obiettivi, non a mettere in mostra capacità subiettive, tutte le attività che cooperino al raggiungimento del nostro scopo sono bene accette: pertanto questo Centro invoca caldamente la sincera collaborazione dei Cappellani Reggimentali, e invita gli ufficiali di Collegamento P a mettersi in contatto con essi per il più facile adempimento dei doveri che sono comuni a tutti i militari, per il più fecondo raggiungimento degli scopi che sono comuni a tutti gli italiani. Alcuni Cappellani, offrendo spontaneamente la loro collaborazione a questo Centro, hanno già mostrato coll’esempio quanto essa potrebbe riuscire proficua all’opera degli ufficiali di Collegamento: nessuno più dei Cappellani, nei quali i soldati hanno molta confidenza, è in grado di conoscere il vero stato d’animo della truppa, di indovinare in essa le cause di perturbamento morale, di sventare i tentativi delittuosi che cercassero di minare il suo spirito di resistenza. Da nessuno meglio che dai Cappellani possono essere inseguite e svelate fra la truppa quelle voci di prossima pace a data fissa, che sotto parvenze di superstizione mistica, mascherano intenti nettamente criminosi. Questo Centro vorrebbe che tali esempi sporadici diventassero la regola, e che i Cappellani, d’accordo cogli ufficiali di Collegamento P, diventassero in ogni Reggimento i nostri collaboratori più efficaci, segnalando i casi pietosi degni di assistenza, combattendo fra le truppe la nefasta opera di propaganda disfattista, spargendo fra i soldati parole di fermezza e di fiducia, riferendo subito a questo Centro gli indizi di ogni stato d’animo allarmato o sospetto. La nostra è opera d’amore e di fede, e diciamo grazie a chiunque ci porti un contributo: pensino i Cappellani nell’aiutarci che in nessuna guerra come in questa, la causa della bontà e della giustizia cristiana ha coinciso così mirabilmente colla causa dell’Italia e della civiltà.

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Agli Ufficiali medici* A tutti gli Ufficiali medici inferiori del XXI Corpo d’Armata Le superiori Autorità Militari, in questo momento decisivo della nostra storia in cui le sorti d’Italia e della civiltà dipendono dalla resistenza morale dei popoli combattenti, hanno ritenuto conveniente creare, nei Centri di Collegamento P presso i Comandi di Corpo d’Armata e negli ufficiali di Collegamento P presso i Comandi di Divisione, reggimento, Raggruppamento e Gruppo Alpino, degli organi incaricati esclusivamente di occuparsi del morale dei reparti svolgendo in essi, sulle direttive impartite loro dai Comandi cui sono addetti, un’assidua opera di assistenza, di propaganda, di vigilanza. L’esplicazione di tale incarico, che per riuscire a risultati pratici deve esser compiuto, più che come un dovere d’ufficio burocratico e statico, come una calda, fervente, convinta, dinamica missione di apostolato, ha bisogno di riunire attorno a sé la simpatia di tutti gli spiriti veramente italiani, la collaborazione spontanea di tutte le anime che comprendono, dopo la tragica lezione di Caporetto, come l’assistere e il vigilare, in ogni istante e sotto tutte le forme la vita spirituale dei combattenti, possa essere questione di suprema salvezza per la nostra Patria. Tutti gli ufficiali dei reparti, e in specie i giovani ufficiali che portano in guerra il tesoro di energie non ancora logorate da anni di lotta, potrebbero e dovrebbero essere collaboratori della nostra opera. Ma più che dagli ufficiali combattenti, che molte volte, specialmente durante i turni di linea, hanno assorbite gran parte delle loro energie da occupazioni di carattere strettamente tattico, tale opera di assiduo apostolato morale può essere esplicata fra la truppa, oltreché dai Cappellani, dagli ufficiali medici, che, per il loro continuo contatto coi soldati, per la natura della loro missione di scienza e d’amore, per la loro stessa cultura sono in grado di comprendere la importanza teorica di tale collaborazione, ed hanno a disposizione i mezzi pratici per esplicarla. L’attività degli ufficiali di Collegamento P può riassumersi in questi tre doveri: * MST, Fondo Piero Calamandrei, b. 1, f. 5, cc. 13-14, Circolare agli Ufficiali medici del XXIX Corpo d’Armata avente per oggetto: «Collaborazione degli Ufficiali medici cogli Ufficiali di Collegamento P», 14 giugno 1918.

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a) rendersi conto di tutti i casi di scoraggiamento esistenti fra la truppa a causa di disgrazie familiari, coll’aiuto di enti di beneficenza del Paese, apporvi sollecito rimedio pecuniario e spirituale (assistenza); b) con un lavoro assiduo, paziente, individuale, cercar di combattere fra i soldati le idee antipatriottiche molte volte derivanti da ignoranza, e di diffondere tra essi sentimenti di resistenza, di coraggio, di fede nella vittoria (propaganda); c) ricercare nei reparti le tracce di ogni movimento contrario alla disciplina, gli indizi di stati patologici eventualmente esistenti nella compagine morale dei reparti, per renderne subito edotte le Autorità Superiori prima che sia troppo tardi (vigilanza). In ciascuno di questi tre rami in cui può ripartirsi l’opera degli Ufficiali di Collegamento P, nessun collaboratore più adatto può trovarsi dell’ufficiale medico, il quale, giornalmente a contatto coi militari ammalati, può accorgersi che accanto alla malattia fisica esiste la malattia morale, e può quindi, nel medicare il corpo, intendere quali sono i mezzi per guarire anche le anime. La importanza che può avere questa specie di fervorosa alleanza fra gli ufficiali medici e gli ufficiali di Collegamento P non può passare inosservata a chi, come gli ufficiali medici, ha temprato la sua giovinezza negli studi; la scienza, che presso i nostri nemici è stata un raffinamento di ferocia, una superba e cieca tirannia dell’intelletto sul sentimento, è, per fortuna nostra, nei paesi latini, scuola di bontà e di civiltà morale, e questo Centro è sicuro di trovare negli ufficiali medici, in nome della scienza, preziosi entusiasmi di fede per la causa della Patria, che è causa santa di umanità e di giustizia. Questo centro invierà d’ora in avanti personalmente a tutti gli ufficiali medici il periodico «Il medico italiano», edito dall’Unione dei medici italiani per la resistenza nazionale; pubblicazione che riesce ad essere scientifica senza essere tedesca e che pertanto è pronta ad ospitare, per il tramite di questo Centro, gli scritti coi quali gli ufficiali medici vorranno render conto di questa loro opera di risanamento morale fra le truppe; questo Centro confida che tutti gli ufficiali medici ai quali la presente è diretta vorranno mettersi in comunicazione cogli ufficiali di Collegamento P dei diversi reparti, per lavorare con loro agli scopi che in questi momenti devono essere comuni a tutti i soldati e a tutti gli italiani.

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Patria amorevole e materna* Se a ciascuno di questi soldati qui convenuti da tutto il 29° Corpo d’A. a ricevere il meritato premio voi domandaste, o gentili donatori, qual’è l’ora di tutta la sua giornata che il fante nella sua trincea o l’artigliere nel suo ricovero stimano la più desiderabile e la più dolce, certo ciascuno di questi soldati vi risponderebbe in modo concorde che l’ora più dolce è quella in cui arriva la posta. Bisogna aver veduto, per comprendere ciò, l’ansia febbrile che passa nella trincea quando il caposquadra, dietro un muretto di sacchetti a terra, fa l’adunata dei suoi uomini per scompartire fra loro le preziose lettere dall’indirizzo sgrammaticato: una desolazione accorata si dipinge sul volto dei dimenticati; ma chi ha avuto il suo tesoro, corre per qualche istante a nascondersi lontano da tutti, sotto una roccia o dietro un cespuglio, per obliare un momento la realtà di guerra che lo circonda e tuffarsi un istante nella illusione della felicità lontana. In verità, o signori, la posta è il più gran dono che la Patria possa fare ai combattenti: poiché in quel fascio di lettere che giunge ogni giorno fino alle trincee più avanzate, la Patria appare ai soldati non più come una idealità impersonale ed astratta, ma come una lontana moltitudine di anime care e di noti volti, in mezzo alla quale ciascuno riconosce un bene che è solamente suo, uno sguardo che soltanto per lui riluce, una voce che per lui solo canta. Questa stessa Patria amorevole e materna che invia ogni giorno ai combattenti le sue missive, un’altra attestazione, con diversa forma ma con ugual sentimento, vuol darvi oggi, o soldati, della sua tenerezza: e per mezzo di questo onorevole comitato che da Legnano, nome sacro all’Italia, qui giunge a rappresentare una associazione che si intitola Omaggio ai combattenti, a voi che avete dato esempio di disciplina e di valore invia una cospicua somma da ripartirsi in premi. A nome vostro, o soldati, ringrazio l’onorevole comitato della munifica offerta; ma la grandezza del dono voi non dovete misu* MST, Fondo Piero Calamandrei, b. 1, f. 1, cc. 51-55, Discorso per il conferimento di un premio ai soldati da parte dell’associazione “Omaggio ai combattenti” di Legnano, 29 giugno 1918.

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rarla soltanto dal suo valore pecuniario, che già è grande, ma dovete misurarla soprattutto pensando al significato del dono, alla sua fonte, alla sua origine primitiva e remota. Certo, o soldati, se a voi fosse dato riconoscere in questa somma che la Patria vi invia i piccoli modesti oboli onde è stata formata e risalire da essa a quelle piccole offerte individuali che in essa, quasi piccoli rigagnoletti, hanno confluito, voi restereste sorpresi e commossi di ritrovare in essa l’offerta della vostra stessa famiglia, il dono stesso dei vostri cari che dopo tanto viaggio, quasi miracolosamente, è potuto giungere fino a voi, proprio fino a voi ai quali nel pensiero era stato dedicato. Due vecchi, un padre e una madre, che da tre anni vivono in attesa in una casetta solitaria, che da tre anni guardano con fede e senza impazienza al loro desco silenzioso il terzo posto che è vuoto e che sarà di nuovo occupato al di là della vittoria, quando il figlio soldato ritornerà, due vecchi decidono di offrire ai combattenti l’ultimo gruzzolo dei loro risparmi: e nell’offrirlo pensano: «Oh se la sorte volesse che questa nostra offerta, fatta impersonalmente a tutto l’esercito che combatte, giungesse proprio in mano all’unico figlio nostro, che anch’egli è lassù tra i combattenti!». Ed ecco che la misteriosa sorte benignamente accoglie il desiderio dei vecchi: e a te manda, o soldato, per mano dei donatori, l’offerta dei tuoi genitori, del tuo babbo e della tua mamma, che ti aspettano e ti benedicono... Così o signori il vostro dono non è un dono impersonale ed anonimo; ed i soldati riguardano commossi, perché riconoscono nella vostra mano il gesto di tenerezza della loro famiglia che da lontano carezza maternamente le loro fronti bruciate dal sole. Ma io vorrei, o signori, che quando la cerimonia sarà finita voi poteste leggere nel cuore di questi soldati, che avranno ciascuno con sé il proprio dono, in che modo ciascuno di essi vorrà spenderlo. Io leggo nel cuore di un territoriale: di un territoriale anziano, che ha la faccia rugosa e due grossi baffi spioventi e un pensoso sguardo da Babbo: egli dice tra sé: «Cento lire, cento lire... Che gran somma è questa! Quando anderò in licenza... un paio di scarpette nuove per il mio piccino... un vestitino rosso per la mia bimba: che mi accompagnino a spasso per la sera di mezz’agosto, se in quel giorno il loro babbo sarà in licenza...».

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Ed ora leggo nel cuore di un giovinetto del ’99 che ha gli occhi ridenti e sembra abbia voglia di saltare per la consolazione di aver tutto per sé un così gran tesoro. Egli dice fra sé: «Cento lire, cento lire... Quando sarò in licenza... Oh che bel fazzoletto di seta voglio regalare alla mia bionda! Sì perché il fante che va in licenza dopo aver combattuto deve avere la sua fidanzata ben vestita...». In tal modo o signori le anime dei soldati vi dicono che i doni che la Patria invia ai combattenti, essi, i combattenti, sapranno di restituirli alla Patria, a questa lontana folla di affetti nostri ai quali tanto più ci sentiamo spiritualmente vicini e legati, quanto più grande è la lontananza materiale, quanto più imminente è il pericolo che rinfresca gli amori, che rinsalda la fede, che mette a nudo tutta la bontà e tutta la tenerezza. Oh, in questi giorni in cui la Vittoria sorride trionfalmente alle nostre armi, soli non devono sentirsi i congiunti restati in paese, come soli non si sentono i fanti nella trincea. Qual maggior solitudine può, in apparenza, pensarsi, di quella che circonda di notte la vedetta in un posto avanzato? D’intorno c’è la notte fonda e impenetrabile, piena di misteri e di magie: ogni stormir di foglie può essere il pasticcio di una insidia nemica; ogni razzo lurido che sboccia in cielo e guarda per un istante come un pigro occhio sonnacchioso, svela d’intorno uno strano paesaggio di sogno, dove sembra in ogni ombra appiattarsi un tranello... Eppure la vedetta non si sente sola: sente due mani morbide che gli carezzan la fronte, che gli cingono il collo e una voce soave che gli sussurra: «Non vacillare poiché tu non sei solo: la tua Patria [manca probabilmente una riga nell’originale: N.d.C.] E la vedetta aguzza l’occhio nella tenebra per far buona guardia, e il suo cuore risponde alla Patria lontana: «O madre mia, o moglie mia, o miei figli... Non lo sapete? Volevano calare a saccheggiar Bassano e le rocce del Grappa li han sepolti; volevano arrivare colla loro mano adunca fino alla nostra Venezia bella, e le acque del Piave li hanno annegati; avevano preparato per fregiarsene il petto una targhetta di piombo, e son tornati via portando sulla schiena il piombo dei nostri fucili; avevano preparato una grossa riserva di carreggio per rubare le messi della nostra pianura feconda, e i carri hanno lor servito per formare sulle vie della ritirata un lugubre corteo di feretri... Oh, Patria, per l’amore con cui tu ci assisti, io la vedetta del XXIX Corpo ti giuro che se anche qui vor-

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ranno tentare i barbari, anche qui, a costo della mia vita, tra l’Altissimo e Coni Zugna, non passeranno».

Sui militari delle terre invase* Alla Sezione P – Ufficio Informazioni – I Armata e per conoscenza Agli altri Centri P dell’Armata 1. Prima della recente sconfitta austriaca1 lo stato d’animo dei militari delle terre invase, che hanno lasciato la loro famiglia oltre Piave, era, in maggioranza, stato di depressione morale e di scoraggiamento cronico: la lunga immobilità della guerra difensiva, che mette in esercizio, anziché le virtù più propriamente soldatesche di impeto e di ardire, le qualità di resistenza e di paziente serenità, lascia ai militari delle terre invase troppo tempo per pensare ai loro cari e per farsi vincere dalla malinconia. In periodo di stasi nelle operazioni guerresche, il militare delle terre invase è, in genere, un militare più scoraggiato degli altri e quindi un soldato meno buono degli altri: non lo conforta a sopportare serenamente la vita di trincea l’arrivo giornaliero della posta e la speranza della licenza in famiglia; il pensiero dei parenti, dei figli, della moglie (specialmente della moglie!) in mano ai tedeschi, lo strazia; il sentimento, più o meno consapevole, che anima tutti i soldati in linea, di costituire una barriera infrangibile tra i nemici e la sua famiglia che si ripara dietro a lui, non lo assiste. Molti soldati delle terre invase hanno la sensazione di essere dei “senza Patria” e arrivano perfino a pensare, nella loro emozione ingenua e ristretta della Patria, che ormai essi sono più dell’Austria che dell’Italia, poiché dall’Austria sono stati occupati i loro focolari. L’idea di riconquistare i loro territori colla violenza non li seduce, poiché sanno, da quanto è avvenuto in Francia, come il tedesco in fuga lascia le ter* MST, Fondo Piero Calamandrei, b. 1, f. 5, cc. 24-26, Relazione alla Sezione P dell’Ufficio Informazioni della I Armata avente per oggetto: «Relazione circa lo stato d’animo dei militari delle terre invase (richiesta dal paragrafo ultimo del I Bollettino N° 7 della Sezione P)», 10 luglio 1918. 1 La battaglia d’arresto della grande offensiva austriaca lungo il Piave, nel giugno del 1918 (battaglia del Solstizio).

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re da cui si ritira, e qual sorte tocca agli abitanti di esse. Nelle anime ingenue e rozze si può giungere a conoscere l’idea della Patria attraverso quella della famiglia; ma se l’idea della famiglia porta il soldato in direzione opposta a quella della Patria, il soldato, in genere, dimentica la Patria. Ciò spiega come da molti soldati delle terre invase sia stata desiderata, anziché la rivincita, la pace a qualunque costo; l’onore politico dell’Italia va in seconda linea, quando si tratta di salvare la vita alla propria famiglia. Ciò spiega anche come tra i militari delle terre invase siano stati frequenti i reati di passaggio al nemico; tutti i reati di questa natura verificatisi nel Corpo d’Armata da quando vi funziona questo Centro P, sono stati commessi, in diversi Reggimenti, da militari che avevano la famiglia nelle terre invase e che si illudevano, passando al nemico, di andarle a ritrovare: come documento tipico del tragico stato d’animo da cui hanno origine questi reati potrà codesta Sezione richiedere al Comando della 32a Divisione copia di una lettera lasciata da due alpini del Battaglione Tonale disertati dalla linea di Sogli Bianchi la notte del 25 dicembre 1917, la quale venne a conoscenza del sottoscritto, quando faceva parte del III Battaglione del 218° Fanteria (Settore Basso Posina). Di questo stato d’animo dei militari delle terre invase parmi che non [si] sia tenuto il dovuto conto tutte le volte che si è creduto di rialzare il loro spirito rappresentando alle loro menti, con immagini e con descrizioni, le efferatezze commesse dai nemici nelle terre invase: tali rappresentazioni servono solamente ad aumentare la loro angoscia e quindi diminuire il loro rendimento militare. «La lettura di notizie sul barbaro trattamento fatto dal nemico alle terre invase, ha in loro un tristissimo effetto... Tantissime volte, specialmente la sera, li ho visti piangere, confessandomi di passare notti intere insonni...» (così scrive a questo Centro il Cappellano del Battaglione Alpino M. Antelao). Tale verità è stata così ben compresa dagli austriaci, che in questi ultimi tempi molti dei foglietti lanciati dai loro aeroplani per deprimere lo spirito dei nostri soldati sono semplici riproduzioni di paesi delle terre invase ridotti dalla guerra a desolate macerie: le stesse riproduzioni che altra volta sono state da noi diffuse tra i soldati per eccitare in essi l’odio contro il nemico! 2. La recente sconfitta austriaca ha, moralmente, trasformato in ardore e in entusiasmo il precedente scoramento dei militari

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delle terre invase. Mentre, in periodo di difensiva, essi invocano la pace e non la rivincita, nella quale vedono un pericolo per la incolumità dei loro cari, la notizia dello scacco nemico e della nostra travolgente controffensiva ha avuto ragione di ogni loro diffidenza e l’idea dei tedeschi in fuga ha provocato in essi (potrei citare diversi episodi caratteristici) vere esplosioni di gioia, specialmente l’annuncio, poi purtroppo smentito, della cavalleria italiana al di là del Piave dietro il nemico fuggente, ha suscitato in loro un vero delirio e molti hanno reclamato dai loro superiori l’onore di essere inviati alla riconquista delle loro terre. Da questa rapida trasformazione dello stato d’animo dei soldati delle terre invase presumo che, mentre la loro particolare condizione psicologica li rende militari scadenti in periodo difensivo, li rende invece soldati ottimi in periodo offensivo, qualora siano opportunamente destinati, nel momento dell’azione, a operare in direzione del loro territorio natio. «Giudicherei non essere consigliabile porre questo Battaglione in prima linea per tanto tempo... Il giorno però in cui il nemico abbandonasse le posizioni e si mettesse in ritirata, questo Battaglione renderebbe tutto, farebbe scommetto, cento chilometri al giorno!» (Cappellano del Battaglione Cadore). In questo caso, e in questo caso soltanto, sarebbe opportuna anche sui militari delle terre invase una intensa propaganda fatta all’ultimo momento per diffondere la conoscenza delle crudeltà commesse dai nemici nei territori oltre Piave: ciò allo scopo di suscitare nei soldati quell’impeto di odio e di accanimento, che è un’arma ottima nella celere offensiva, ma che si trasforma nella difensiva in deprimente veleno. 3. In particolare, le cause concrete in cui si riassumono le sofferenze dei militari delle terre invase sono tre: a) il pensiero della famiglia restata oltre Piave; b) il pensiero dei loro averi lasciati in mano al nemico; c) la deficienza di quella assistenza individuale, morale e pecuniaria, che a ciascun militare deriva dalla famiglia. Per quanto si riferisce alla prima causa, occorre intensificare con ogni mezzo i mezzi di comunicazione colle famiglie delle terre invase: la corrispondenza per il tramite della Croce Rossa per ora funziona in modo irregolare e incompleto: da Feltre e da Belluno non si riesce a ricevere notizie, mentre qualche mese fa da Feltre giunsero lettere e cartoline con bolli austriaci (al Battaglio-

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ne M. Antelao). L’idea di non poter vedere i caratteri autografi delle persone che scrivono, rende i soldati incerti e diffidenti. Nella Posta Aerea si ha scarsa fiducia: pochissimi sono, specialmente fra gli alpini, i soldati che si inducono a ricorrervi, il timore delle rappresaglie contro i loro famigliari, suscitato dal leggere negli stampati della posta aerea motti patriottici, li allontana dal servirsene. Produce anche cattiva impressione il veder riprodotti sui giornali (anche sull’Arena) con specificazione di nomi e di località scritti patriottici sfuggiti alla censura austriaca, di qualche famiglia delle terre invase, la pubblicazione dei quali può mettere in avviso i nemici e produrre conseguenze gravi a carico degli autori. Il Notiziario vien sempre accolto con grande interesse. Per quanto riguarda la seconda causa, è opportuno diffondere quanto più possibile la conoscenza dei provvedimenti governativi intesi a garantire il risarcimento dei danni prodotti dalla guerra. Per quanto riguarda la terza causa, occorre intensificare, come si fa, la elargizione dei sussidi fissi e straordinari, l’assistenza morale per parte degli Ufficiali P alla fronte e per parte degli Enti di beneficenza del Paese, i mezzi di svago e di ricreazione. Ho notato in qualche militare delle terre invase che ha la famiglia profuga nell’interno del Paese, una grave preoccupazione prodotta dall’annuncio del censimento dei profughi, e dalla conseguente temuta diminuzione del sussidio finora goduto dalla famiglia. 4. Richiamo quanto sull’argomento fu già scritto da questo Centro nelle relazioni 269 del 15 Maggio (n. 7); 427 del 31 Maggio (n. 11); 550 del 15 Giugno (n. 14); 904 del 1° Luglio (n. 15).

La Casa del Soldato* Ho visto che entrando in questa bella stanza apprestata e adornata dal solerte comandante del Presidio, un soldato dal volto bruno e dai lineamenti marcati, un tipo di siciliano pensoso, ha * MTS, Fondo Piero Calamandrei, b. 1, f. 1, cc. 36-37, Discorso per l’inaugurazione della «Casa del Soldato» in Borghetto, dattiloscritto s.d. (ma 15 settembre 1918). Vedi la lettera ad Ada in data 15 settembre 1918.

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guardato l’iscrizione che è sopra alla porta, e leggendo “Casa del Soldato” ha fatto un oscuro volto di malinconia: certamente egli ha pensato così: «Casa del Soldato, così è scritto sulla porta; ma io sono soldato e questa non è la mia casa. La mia casa non è bianca ed adorna come la stanza che qui si dischiude, la mia casa ha due piccole stanze annerite dal fumo dove viviamo tutta una famiglia, ma dalle finestre il mare non si vede solamente dipinto e ogni sera quando torno da lavorare il mio campo mi vengono incontro festosi i miei bambini». E un altro soldato ho visto, che entrando ha letto anch’egli la scritta sulla porta, e da una lacrima che ho visto brillare nei suoi occhi ho capito che egli era un friulano; e leggendo così egli ha pensato melanconicamente nel suo cuore: Casa del Soldato, così c’è scritto ma io sono soldato e la mia casa è tanto lontana al di là del Piave e forse gli austriaci alloggiano sotto il mio tetto e non ho notizie della mia moglie e dei miei bambini che saranno stati cacciati via come mendicanti da quella soglia dove un tempo albergava la mia felicità. Malinconie, figlioli, malinconie. Malinconie dolorose ma anche sante malinconie; e proprio per confortare queste vostre tristezze, ma insieme anche per custodirle come un prezioso tesoro, i vostri superiori aprono oggi per voi questo locale di svago e di riposo dove voi potrete raccogliervi in quiete a pensare alle vostre case e a desiderarle. O[h], non abbiamo noi la presunzione di darvi, o soldati, in questa candida stanza qualche cosa che possa tenere nel vostro cuore il posto della vostra casa lontana: casa mia, casa mia, benché piccola tu sia, tu mi sembri un’abbadia, dice la storia dei bambini, che sono i più puri interpreti dei grandi sentimenti del cuore umano; di case nostre ce n’è una sola per ciascuno di noi, e sarebbe non solo presuntuoso ma anche cattivo chiunque credesse di poter trovare il modo di spengere nel tuo cuore o soldato il desiderio del tuo focolare che ti aspetta, l’amore della tua famiglia che ti chiama. No, no; questa Casa del Soldato è fondata appunto perché tu ti ricordi della tua casa lontana, perché tu senta più stretto e più intimo il legame che anche qui, anzi qui più che altrove [t]i ricongiunge ad essi. Nessun sentimento più forte e più santo di quello dell’amore della famiglia può esservi per farti intendere, o soldato, l’idea della Patria per farti comprendere la ragione per cui noi

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tutti, padri di famiglia combattiamo per le nostre spose e per i nostri bambini contro quelle orde di sciagurati che hanno fatto scempio nel Belgio e nel Friuli. Chi non ama la sua casa non può comprendere come sia grande e santa in questi momenti la necessità di starne lontano. Tu forse ti sei messo in testa l’idea che i tuoi superiori non amino che tu, finché devi servire agli obblighi tuoi di combattente, pensi alla tua famiglia: che i tuoi superiori pensino quasi a elevare dietro di te una gran muraglia che t’impedisca di guardare indietro, dove sono i tuoi beni più cari. Ma tu sbagli se pensi così o soldato: poiché il combattente deve, sì guardare innanzi a sé verso le ultime imminenti vittorie, ma deve anche ogni giorno potersi volgere indietro a chiedere alla sua famiglia un pensiero di affetto e di fede. Tutti coloro che ti comandano, i tuoi superiori che dividono con te disagi e pericoli, hanno anche essi lasciato lontano le loro famiglie, i loro bambini che essi amano come tu ami i tuoi; tutti, soldati, ufficiali e generali sono uguali dinanzi al sacro amore della famiglia; a tutti, finché la guerra dura, questo stesso amore stringe la gola di uno stesso pianto; anche il nostro augusto Sovrano, che da tre anni passa la sua vita sul campo di battaglia, sente come te, o soldato il desiderio dell’augusta famiglia ch’egli ha lasciato lontana, la tristezza di dover passare lunghi periodi senza salutare il suo primogenito, al cui nome questa Casa del Soldato ha l’onore di intitolarsi. Tu dunque verrai qui o soldato ogni sera per sentirti più vicino ai tuoi cari, come si entra in una chiesa per sentirsi più vicini a Dio. Nell’ora in cui andresti all’osteria o in cui t’aggireresti senza una meta per le polverose strade battute dagli autocarri potrai entrare in questa stanza tranquilla, dove troverai chi ti darà un libro facile da leggere, chi ti darà un giuoco onesto per divagarti, chi, sopra tutto ti darà un foglio di carta e una penna per scrivere con calma e raccoglimento alla famiglia lontana. Tu verrai qui all’imbrunire nell’ora in cui, quando prima della guerra eri un pacifico lavoratore, tornavi dal lavoro a casa tua. Tornavi stanco, sì, te ne ricordi? Ma lieto perché sapevi che qualcheduno a casa ti aspettava. Era l’ora in cui nel cielo verdastro cominciano a fiorire le prime stelle, l’ora in cui in ogni casa le finestre si accendono di un loro lume. Tornavi stanco ma per la strada cantavi: e da lontano lo riconoscevi tra mille il lume del-

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la tua casa, quella finestrella di una stanza in cui t’aspettava una zuppa fumante, e da lontano, dietro la tenda gialla vedevi profilarsi l’ombra della persona che più di tutte al mondo ti è cara. Che bei tempi, non è vero? erano quelli! Ma torneranno, non dubitare torneranno purché tu lo voglia, purché tu senta qual è la preghiera che da lontano ti mandano i tuoi cari, invocandoti perché tu li salvi dal furore dei nemici assassini. Io so, venendo qui ogni sera, che cosa scriverai a casa tua; mi par di leggere fin d’ora il principio di qualcuna di quelle tue lettere così semplici e così inesperte, e pure così profumate di meravigliosa gentilezza: «Mia cara sposa, ti scrivo queste poche parole per dirti che io sto bene e che passo le giornate pensando a te e ai nostri cari figlioli; e se la guerra è lunga, è perché bisogna una volta per sempre ricacciare nelle loro tane questi birbanti che tagliano le mani ai bimbi; che se io sono lontano è perché devo stare al mio posto a difendere l’Italia che poi l’Italia sareste tu e i nostri bambini, perché l’Italia non è altro che la riunione di tutte le nostre famiglie». O, soldati, questa nitida stanza preparata per voi non solamente vuol ricordarvi la vostra piccola casa, quella di cui ciascun di voi è padrone, ma vuole anche ricordarvi una casa più grande, che si chiama l’Italia, nella quale abita una grande famiglia composta di tanti fratelli, che si chiama il popolo italiano. Grande e maestosa è questa Casa, soldati; ha un gran soffitto azzurro trapunto di stelle e illuminato dal sole, ha delle pareti massicce e solenni che si chiamano Alpi, ha tante stanze, una più bella dell’altra, e tutte chiamate con dolcissimi nomi: Sicilia e Toscana, Piemonte e Veneto... O soldato, questa casa meravigliosa, dove noi tutti alberghiamo per diritto di nascita, fratelli tutti, sotto questa divisa grigio verde, di uno stesso sangue, è in pericolo. Una masnada di banditi l’assale, cerca di forzarne le porte, vuol fare rapina dei tesori che essa contiene. O soldato, non difenderesti tu la tua casa? O, ma c’è di più: i predoni all’improvviso, non si sa come, si sono aperti un varco in una delle pareti, hanno fatto irruzione in una delle nostre stanze più belle, nella stanza che si chiama Veneto, e insozzano il sacro domicilio dei padri tuoi. Soldato non vorrai tu ricacciarli? Sentili, sono lì nella stanza accanto che schiamazzano e saccheggiano: se tu non resisti, anche la seconda parete cederà: dietro a te c’è la tua donna, pallida e scarmigliata,

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che s’aggrappa al tuo collo e ti scongiura di non farli passare; dietro a te, impauriti e tremanti, ci sono tutti in un gruppo i tuoi bambini, che si avvinghiano ai tuoi ginocchi e ti invocano piangendo perché tu ricacci dalla stanza accanto l’orco feroce che li minaccia. O soldato, non senti tu nelle tue vene la febbre di ricacciare gli invasori, il bruciante desiderio di liberare per sempre la tua piccola casa e insieme questo Grande magnifico palazzo che si chiama l’Italia? Sì, o soldato, tu senti questa febbre, come noi tutti la sentiamo: ed è per questo appunto che questa stanza ospitale s’apre oggi a te, qui in Borghetto, come un augurio e come una promessa.

Offensiva pacifista* Mentre su tutte le fronti i vittoriosi eserciti alleati non solo soffocano gli ultimi vani sforzi del nemico, ma audacemente prendono l’offensiva e col loro impeto travolgono potenti difese da anni ritenute insuperabili; mentre sulle vie dell’Oceano, in fondo al quale nereggia ancora l’ombra del Lusitania1, affluiscono a milioni verso i nostri campi i giovani Eserciti Americani, disinteressati vendicatori di tutto il sangue innocente; mentre, dagli occhi dell’illuso popolo germanico la benda ormai cade, e la visione della sconfitta sempre più netta e più vicina si disegna; mentre sentimento e ragione, lungi da ogni pernicioso ottimismo, additano ai popoli dell’Intesa il premio già certo al quale quattro anni di duri sacrifici ci danno diritto, l’Austria, la vecchia Austria tirannica che un soffio di giovinezza e di libertà condanna al crollo, stende la mano ai popoli che fino a ieri tentò di assassinare, e chiede loro in elemosina la pace.

* MST, Fondo Piero Calamandrei, b. 1, f. 1, c. 35, Dattiloscritto; un biglietto allegato scritto a matita porta la seguente dicitura: «Offensiva pacifista. Circolare alle Autorità per conservare nella truppa l’alto spirito combattivo, in seguito al rifiuto alla nota di pace austriaca avanzata mentre su tutte le fronti avanzavano gli eserciti alleati», s.d. (ma ottobre 1918). 1 Il 7 maggio 1915, il transatlantico inglese Lusitania, partito da New York con milletrecento passeggeri, venne affondato da un sottomarino tedesco.

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La recente nota austriaca, che sì riconoscibile porta l’impronta della grossolana doppiezza tedesca, ha già avuto, non solo nelle repliche ufficiali dei Governi dell’Intesa, ma soprattutto nel cuore degli Eserciti combattenti e dei popoli che in silenzio vogliono resistere fino alla vittoria, l’unica accoglienza che simili documenti d’ipocrisia si meritano: lo sprezzante rifiuto. Ma poiché la pace, questa radiosa meta per cui combattiamo, ha un volto sorridente e fascinatore, che potrebbe, ancora una volta, far nascere nell’anima dei nostri soldati un tremito di prematura speranza e distrarli dalla coscienza dei cimenti che ancora ci attendono, è necessario che i comandanti di truppe svolgano in quest’ora più intensamente che mai una sagace opera di persuasione e di ragionato chiarimento per far comprendere che l’offerta nemica è un’insidia e che essa non è meno temibile di un attacco in grande stile a base di gas asfissianti. I nostri soldati, i quali non sanno combattere ciecamente come un gregge ignaro, ma riescono a compiere prodigi di eroismo solo quando comprendono la santità della causa per cui sono in campo, devono essere a pieno illuminati dai Comandi sui veri scopi della recente proposta nemica: e prima di tutto occorre che di tali scopi siano pienamente edotti gli Ufficiali, a cominciare da quelli dei Comandi, affinché essi possano far comprendere ai loro soldati che se la Patria chiede un altro inverno di trincea, questo domanda perché vuol donare ai superstiti, quando li rimanderà alle loro case dopo raggiunta la vittoria, la certezza che la pace ottenuta sarà una pace intera e duratura, in cui i popoli liberi potranno riprender gli aratri o riaprir gli opifici, e non dovranno ricominciare a costruire affannosamente nell’ombra i nuovi mostruosi cannoni, destinati a massacrare, in un prossimo più terribile urto, i loro figliuoli. Dispongo pertanto che le Autorità alle quali la presente è diretta, mentre prenderanno tutte quelle misure che riterranno opportune per conservare nelle truppe dipendenti l’alto spirito combattivo che finora ho con piacere in esse conosciuto, diffondano con ogni mezzo e colla massima rapidità fra i dipendenti Ufficiali e truppe la precisa conoscenza delle ragioni che hanno determinato la nota austriaca e di quelle che hanno determinato il nostro rifiuto: i nostri combattenti siano così messi in grado di comprendere che, se sarebbe un delitto protrarre un istante di più

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questa guerra, quando vi fosse la possibilità, sinceramente dimostrata dai nostri nemici, di una pace giusta, più atroce delitto sarebbe dimenticare per sottrarsi ai sacrifici di qualche altro mese i nostri sacrifici di quattro anni, e rattenere i nostri nemici sull’orlo del precipizio, fino al quale ha saputo spingerli l’eroismo dei nostri morti. Come un brigante da strada, che, dopo aver fatto scempio di donne e di bambini, e dopo aver rapito ai tempii i sacri arredi preziosi, al fine, quando si vedesse raggiunto e sopraffatto dagli armati soccorsi all’inseguimento, celasse sotto gli abiti l’oro rubato ed il pugnale, e stendesse ai suoi inseguitori la mano insanguinata dicendo con un sorriso: «Dimentichiamoci le offese, e torniamo buoni amici», così l’Austria e la Germania dopo aver massacrato il Belgio e la Serbia, dopo aver devastato la Francia e il nostro Friuli, dopo aver depredato la Rumenia e la Russia, vorrebbero ora, impinguate dalle inique paci imposte ai vinti d’oriente, spuntare le armi in occidente ai vincitori di domani. Ma è troppo tardi. Il nostro soldato, se mai invano non si fa appello alla sua generosità sentimentale, non manca di quel naturale acume che indovina e sventa i tranelli: per questo egli deve comprendere che gl’Imperi Centrali, i delinquenti della vita internazionale, tentano di burlarsi atrocemente di lui, del nostro soldato buono ed umano, col richiamarsi a quei sentimenti di bontà e di umanità che in lui sono sinceri, ma che in essi sono scaltra finzione; per questo egli deve comprendere che la vita non meriterebbe di esser vissuta, se una pace monca ed immatura, quale, per salvarsi dal castigo, la vogliono gli Imperi Centrali, ci costringesse [a] tornare a casa con questa amara verità nel cuore: che nelle relazioni internazionali può uno Stato, per un suo folle capriccio scatenare nel mondo una strage che duri quattro anni, può a suo piacimento uccidere gli innocenti e saccheggiare le terre pacifiche, e poi, quando sembri bastante ai suoi appetiti il frutto dei latrocinii, può troncare a piacer suo la lotta e tornare impunito e arricchito a spese delle sue vittime, a presiedere da arbitro il congresso dei popoli da lui assassinati.

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Psicologia dei vincitori* Alla Sezione P Ufficio Informazioni I Armata e per conoscenza Al Comando del XXIX Corpo d’Armata Il meraviglioso precipitare degli eventi verso la vittoria finale e la imminente possibilità di rapidi mutamenti nella dislocazione del Corpo d’Armata dispensano anche questa volta questa Sottosezione dal fare una relazione quindicinale dettagliata e minuziosa; e consigliano di riassumere l’opera svolta nella precedente quindicina soltanto per sommi capi. Ritengo peraltro opportuno aggiungere qualche considerazione sull’opera che il servizio P dovrebbe, a parere di questa Sottosezione, proporsi di svolgere nel periodo tra l’armistizio e la pace che sta per aprirsi. A. OPERA SVOLTA NELLA QUINDICINA 1. Organizzazione. Nella precedente quindicina si è dovuto riorganizzare il servizio a causa dei mutamenti avvenuti nelle truppe di questo Corpo d’Armata. Partiti tutti gli Ufficiali P della 34a Divisione, sono venuti al loro posto i seguenti Ufficiali: Capitano Manaresi per il 4° Gruppo Alpino; Tenente Salvadori per il Battagl. Compl. per il medesimo Gruppo; Tenente Campisi Sig. Aristide per il 17° Reggimento di Marcia; Tenente Vigorelli Sig. Antonio per il 18° Reggimento di Marcia. I dati precisi di ciascun Ufficiale saranno trasmessi in seguito. 2. Assistenza. Erano in costituzione quattro nuove Case del Soldato a Malga Campi, Talpina, Crosano, Pozzo Basso. Ma si è sospeso il loro completamento data la possibilità di imminenti spostamenti. Anche i materiali per le altre Case del Soldato sono stati trattenuti presso questa Sottosezione, ad eccezione della carta da lettera. * MST, Fondo Piero Calamandrei, b. 1, f. 4, cc. 138-140, Relazione quindicinale alla Sezione P dell’Ufficio Informazioni della I Armata, 1° novembre 1918.

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3. Propaganda. Distribuzione degli stampati inviati da codesta Sezione e di quelli editi da questa Sottosezione ha dato anche in questa quindicina risultati oltremodo soddisfacenti: ma, naturalmente, la miglior propaganda è stata fatta e continua ad essere fatta dai trionfali Bollettini di guerra. 4. Vigilanza. Ho passato in questi ultimi giorni gran parte del mio tempo in linea: a Zugna, sulla linea dei Fortini, a Serravalle, a Sottocastello, a quota 940. Ho assistito all’ingresso dei parlamentari nemici nella nostra linea. Lo spirito dei nostri soldati è degno del momento e si riassume in una frase dettami ieri da un fante del Battagl. Compl. Brigata Pistoia: «Siamo contenti perché presto si andrà a casa; ma prima si vuol fare una scappata a Trento». B. OPERA DA SVOLGERE NEL PERIODO CHE S’INIZIA Se, come gli eventi lasciano prevedere, le truppe italiane, nel periodo certamente non breve che andrà tra l’armistizio e la pace, dovranno occupare le terre che si estendono fino al nostro confine geografico e se, come i nostri cuori sperano con febbrile commozione, sarà riservata al XXIX Corpo d’Armata la marcia su Trento, la condizione morale in cui verranno a trovarsi i nostri soldati sarà del tutto diversa da quella in cui si son trovati nel periodo che sta per chiudersi, talché l’opera del servizio P, in tutto l’Esercito, ma specialmente in quelle Unità destinate ad occupare le terre finora irredente, dovrà dalle nuove circostanze trarre orientamenti nuovi e non isterilirsi in attività ormai sorpassate dagli eventi. Quando le nostre truppe avranno raggiunti i nuovi confini sembra che i problemi da risolvere saranno i seguenti: a) dare ai nostri soldati la serenità e la costanza per attendere senza impazienza il giorno della smobilitazione. A tale scopo bisognerà cercare di dar il massimo impulso, fra le truppe destinate a presidiare fino alla conclusione della pace le nuove terre, ai mezzi di ricreazione che tengono alacre e calmo lo spirito: Case del Soldato, Cinematografi, Spettacoli Teatrali, Scuole, Biblioteche, Gare ginnastiche, Cerimonie Militari;

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b) creare nei nostri soldati la psicologia dei vincitori, in modo che essi serbino nelle terre che occuperanno quel contegno disciplinato ed umano, ma anche fiero e cosciente della nostra forza, che si addice a chi dopo tre anni di sacrifici raggiunge finalmente col proprio valore il meritato premio. A tale scopo dovranno essere indirizzate le pubblicazioni di propaganda; e dovranno essere intensificate specialmente fra gli Ufficiali, le conferenze sul tipo di quelle già proposte da questa Sottosezione per l’Università libera degli Ufficiali subalterni; c) dare alle popolazioni delle terre irredente una immediata e chiara sensazione della grandezza spirituale d’Italia, divulgare anche tra loro quegli ideali di giustizia per i quali l’Intesa combatte, diffondere subito, a mezzo di giornali, di conferenze, di edicole librarie, le manifestazioni più moderne e più generose della nostra cultura nazionale, in modo che ai nostri nuovi fratelli l’Italia appaia fin dal primo giorno non solo come maestra di guerra, ma anche come maestra di civiltà e di bontà. Questa Sottosezione, sotto la saggia ed illuminata guida di codesta Sezione e coll’entusiastico concorso di tutti i dipendenti Ufficiali P alcuni dei quali hanno particolari attitudini per questa opera di divulgazione culturale e di conquista intellettuale, ha la certezza di poter anche in questo nuovo campo della propria attività raggiungere risultati soddisfacenti. Ma occorrono mezzi, mezzi e mezzi. Codesta Sezione comprende, senza bisogno che il sottoscritto lo suggerisca, come questa azione di orientamento iniziale degli spiriti nelle terre redente possa avere larghe ripercussioni anche nel dopoguerra e come possa spettare al servizio P l’avviare questa sagace opera di penetrazione sentimentale e culturale che potrà in pochi anni spazzare dai nuovi territori oggi restituiti all’Italia ogni traccia di quei sospetti e di quelle diffidenze che il Governo Austriaco aveva seminato contro di noi. C. OPERA DA SVOLGERE IN RELAZIONE AI PROBLEMI DEL DOPOGUERRA

Questa azione di conquista spirituale da svolgersi nelle terre redente ha carattere per dir così locale, poiché mira a risolvere un

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problema che si riferisce unicamente ad alcuni territori. Ma altri problemi, di ben più larga importanza, potrà e dovrà affrontare il servizio P se vorrà nell’ambito dei propri compiti, cooperare a che il nostro Esercito di vincitori di oggi torni senza scosse e senza convulsioni ad essere il popolo dei tranquilli lavoratori di domani. Nei mesi che ancora ci separano dalla smobilitazione, nessuno come gli Ufficiali P, può essere a diretto contatto con quei reparti di combattenti che saranno domani le masse lavoratrici; nessuno come gli Ufficiali P può essere in grado di indirizzare fin da ora il pensiero di queste masse verso un’Italia più grande e più rispettata, verso un avvenire di più intenso lavoro e di più fervida solidarietà umana. L’Esercito, in questa guerra, forma una cosa sola colla Nazione: e non credo, nell’interesse dei più grandi destini dell’Italia di domani che sarebbe opportuno disprezzare i grandi servigi che il servizio P, dopo aver nobilmente contribuito alla grandezza militare dell’Italia, potrebbe offrire per costruire domani la sua grandezza politica. Le proposte concrete per l’esplicazione della nostra attività in questo campo saranno fatte a codesta Sezione tra qualche giorno, in un periodo meno commosso e meno febbrile di questo.

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Sulla popolazione trentina* Pro-Memoria per il Sig. Capo della Sezione P Osservazioni sui servizi non attinenti direttamente al servizio P 1. Depositi di viveri: a Trento e specialmente a Calliano vi sono ingenti depositi di viveri e di altri materiali che fino a ieri sera si trovavano assolutamente incustoditi. 2. Alimentazione della popolazione borghese: i trentini sono tutti convinti che coll’ingresso degli italiani la carestia è cessata e quindi sprecano senza economia le poche riserve individuali accumulate. 3. Problema urgentissimo è quello dei nostri prigionieri liberati, che nelle ore immediatamente seguenti all’occupazione hanno fatto miracoli di buona volontà e patriottismo e che per tutta ricompensa hanno avuto l’ordine di incolonnarsi a piedi verso Rovereto coi prigionieri austriaci. 4. Gli Ospedali di Trento sono pieni di ammalati senza medici, senza infermieri e senza mangiare: se non si provvede subito la febbre spagnola avrà una grave recrudescenza. 5. Un migliaio di prigionieri russi liberati si aggirano per le vie di Trento in stato di ubriachezza. Sarebbe urgentissimo riunirli ed isolarli così dai nostri soldati come dai prigionieri austriaci. 6. I territori a nord della nostra linea d’occupazione sono abbandonati all’anarchia: l’Austria non ha più Governo, in modo

* MST, Fondo Piero Calamandrei, b. 1, f. 5, cc. 58-59, Relazione avente per oggetto: «Pro-Memoria per il Sig. Capo della Sezione P», 5 novembre 1918.

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che Bolzano, Merano ecc., finché non giungeranno gli Italiani, sono senza viveri e in balia delle truppe in fuga. Osservazioni attinenti direttamente al nostro servizio. 1. L’entusiasmo, il fervore d’Italianità della popolazione di Trento è incredibile. Bisogna evitare ad ogni costo che le Autorità Militari compiano atti capaci di raffreddare tale fervore. 2. I trentini vogliono un loro giornale subito. È buona politica favorirlo. Il Ten. Ciarlantini che si è occupato della cosa mi riferisce che sono pronti scrittori, carta tipografica e denari per far uscire fin da stasera il giornale «Alto Adige» che ha tradizioni di Italianità. Bisognerebbe che la Sezione P ne facesse un suo organo ufficioso. 3. Tutte le energie dei cittadini sono a nostra disposizione. Si è cominciato a raccogliere adesioni tra giovani e signorine per la costituzione di una specie di milizia cittadina per l’assistenza civile. Bisogna promuoverla, favorirla, farne un organo nostro. 4. Occorre aprire subito a Trento una Casa del Soldato, non tanto per i soldati quanto per dare ai borghesi la prova dell’affetto con cui l’Italia tratta i suoi soldati. La popolazione di Trento è in uno stato di febbre sentimentale e non si può intendere se non vivendo in mezzo ad essa qual profonda impressione lasciano su di lei le manifestazioni di bontà e di intelligenza alle quali l’Austria l’aveva disabituata. Per esplicare questa nobilissima nostra opera occorre assolutamente un mezzo di trasporto a completa disposizione di questa Sottosezione. Ieri il sottoscritto, quando le Autorità militari dal Municipio si recarono al Castello, vide malinconicamente sfilarsi davanti un corteo di vetture, in alcune delle quali si trovavano ufficiali commissari veterinari dell’Intendenza ecc., mentre la povera Sottosezione P che da otto mesi dà tutto il suo cuore per preparare la giornata di ieri, dové fare il tragitto a piedi e arrivare al Castello a cerimonia compiuta.

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Diario bolzanese* 15 novembre Siamo giunti a buio fatto, intravedendo soltanto, al buio delle lampade elettriche, grandi iscrizioni tedesche in caratteri gotici: tra i rari passanti, neppure una parola italiana. Alla mensa il tenente racconta: «Stamani S.E. poiché le autorità cittadine non si erano ancora volontariamente presentate, ha scritto una lettera al Borgomastro e al Giudice distrettuale [?], avvertendoli che domattina alle 10 è disposto a riceverli. Sono andato io personalmente a portare le lettere ai destinatari e a farmi far ricevuta. E li ho trattati come si meritano: entrando negli uffici mi sono levato il cappello, sì, ma soltanto quando essi si sono alzati per venirmi incontro. Prima no». Da quando Nerazzini è stato adibito a fare la parte di Ermes, che accompagna i messi all’Olimpo, ha acquistato una mirabile profondità diplomatica! Durante il pranzo parliamo della freddezza, quasi direi della ostilità dei bolzanesi: mi si accenna che i giornali della città proclamano apertamente che Bolzano vuol essere riunit[a] alla nuova Repubblica austro-tedesca. Io osservo che se veramente dalla pace uscisse una Lega delle Nazioni che rendesse impossibili le guerre e quindi trascurabile nella determinazione dei confini il criterio strategico, e se d’altra parte la maggioranza dei bolzanesi si pronunciasse per l’unione alla Germania, i principii di giustizia wilsoniana potrebbero farci restare incerti sulla soluzione da noi sostenuta. Nerazzini mi obietta: «Signor capitano, ormai queste belle ville e questi meravigliosi alberghi li abbiamo presi noi, e non dobbiamo più lasciarceli scappare!». 16 novembre Con Callaini siamo andati a fare una prima recognizione in Bolzano. Dal tram abbiamo veduto passare un bel signore lungo lungo e secco secco, con un giubbettino cortissimo di velluto nero a risvolti verdi, col colletto della camicia bianco rovesciato sopra la giubba, con un cappello a tegamino di feltro verdastro guarnito * MST, Fondo Piero Calamandrei, b. 1, f. 1, c. 50, Quaderno manoscritto (solo tre pagine), 15-16 novembre 1918.

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posteriormente di uno spennacchio. Occhiali, barba, una enorme pipa di maiolica e un’aria perfettamente idiota completano il tipo. Scoppiamo in una gran risata. Callaini dice: «Se potessimo portarlo vivo a Firenze!». Ride anche una signorina tedesca che è in faccia a noi nel tram. In piazza del Duomo entriamo in una libreria, per comprar delle cartoline illustrate: è un negozio molto ricco, con vari sporti e un grande assortimento di volumi tedeschi. Domando se vendono libri italiani: mi fanno vedere... I promessi sposi. E basta. Compriamo i giornali del luogo, Bozner Nachrickhen e Der Tiroler: in essi è chiaramente detto che il Comitato provvisorio costituitosi in Bolzano e presieduto dal Borgomastro Perathoner agisce in accordo e in rappresentanza della Repubblica tedesca sudtirolese: sono anche riportate notizie di movimenti rivoluzionari a Parigi, in Inghilterra, nel Belgio. L’occupazione per parte delle truppe italiane sembra ignorata. Per le strade sono affissi [qui la scrittura si interrompe: N.d.C.]

Biblioteca di guerra* Signore e Signori, quando fondammo questa biblioteca che ora è nelle sale del vostro circolo ci domandammo: «Ecco, questa biblioteca è cara e preziosa finché la guerra ci stringe in questa grande famiglia che è l’Esercito, finché la Val Lagarina ci vede stretti in questa famiglia che è il XXIX Corpo d’Armata. Ma quando la vittoria sarà ottenuta, quando la pace sarà venuta, quando ognuno di noi tornerà borghese alla sua casa a chi resterà questa raccolta preziosa di volumi, a chi la daremo noi in custodia quando tutti ci saremo allontanati? Ed ecco, signori, che la vittoria ci ha dato la risposta: poiché nessun luogo più fraterno e più degno noi potevamo sperare per la nostra biblioteca di guerra di questa prima famiglia italiana risorta in Bolzano. Oh, fratelli, quattro anni ci sono vo* MST, Fondo Piero Calamandrei, b. 1, f. 1, cc. 56-59, Discorso per la consegna della biblioteca per gli ufficiali del XXIX Corpo d’Armata al circolo “Concordia” di Bolzano, novembre-dicembre 1918.

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luti per portare fino a voi la nostra biblioteca; e da tutte le parti d’Italia i fanti sono partiti per portarvela, fin dalla Sardegna e dalla Sicilia, tutti concordi per portare fin quassù il simbolo della civiltà italiana. Lungo e talvolta duro è stato il viaggio: e le tappe son segnate da solinghi cimiteri. Ma alla fine la meta è stata raggiunta: e se presto in Bolzano rinnovata altri istituti di civiltà italiana sorgeranno, altre biblioteche più grandi e più floride di questa si apriranno, nessuna come questa, o signori, saprà testimoniarvi tutta la grandezza degli umili fanti d’Italia e tutta la loro bontà. Alle parole fraternamente affettuose del presidente del Circolo, alle parole italianamente ed umanamente marziali del Signor Generale Comandante del Presidio, sono invitato ad aggiungere la mia parola modesta, non per portare a voi o cittadini, la espressione di un pensiero individuale, ma per portarvi il saluto di mille grandi anime che, materialmente invisibili ma pur intensamente presenti, gioiscono con noi di questa festa di italianità: io parlo, o cittadini, delle anime dei mille poeti, filosofi e scienziati dalle quali sono usciti i volumi che compongono la biblioteca a voi offerta in fraterno omaggio dal comando del Corpo d’Armata; io parlo delle mille anime di pensatori che da quei libri, in nome d’Italia, oggi vi gridano così: «Le armi dei nostri fanti ci hanno aperto la strada fino a voi: eccovi ora, o fratelli, la scienza, eccovi l’arte, eccovi l’amore». Il Comando del Corpo d’Armata, quando volle dedicare a voi, o soci del circolo Concordia, questa biblioteca che già fu fondata durante la guerra per i nostri ufficiali, volle anche col dono farvi persuasi di questa grande verità: che la vittoria d’Italia, di questa nostra Italia oggi finalmente compiuta dalla Sicilia al Brennero, non è stata soltanto la vittoria di oggi, dovuta alla forza delle baionette e alla potenza dei cannoni, ma è stata sopra tutto la grande vittoria di tutta una tradizione di civiltà, una vittoria di spiriti, una vittoria di bontà. E voi, leggendo questi libri, dovete anche più di prima imparare ad amare questi bravi fanti, così modesti e così gioviali, che vedete per via; perché essi hanno saputo essere valorosi in guerra, ma anche e perché soprattutto in guerra hanno saputo mantenersi buoni e mai in tante battaglie hanno tradito quella sacra eredità di civiltà che i pensatori italiani, da Dante a Mazzini, ci hanno tramandato nei secoli.

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Nell’interno di ciascuno dei volumi che formano la biblioteca, era stato inserito, quando i libri dovevano servire agli ufficiali combattenti, un breve saluto con il quale la Patria offriva fino in trincea ai suoi figli un’ora di svago e di conforto fra una cannonata e l’altra. Nell’offrire al Circolo Concordia i volumi, si è voluto che quei saluti restassero al loro posto, perché ogni lettore possa ricordarsi, aprendoli, che questi volumi hanno fatto la guerra anch’essi, e conoscono anch’essi le trincee di Zugna dall’alto delle quali i nostri combattenti hanno serenamente atteso l’attuarsi della loro volontà. E da ogni pagina balzerà dinanzi agli occhi del lettore l’immagine indimenticabile dei nostri ufficiali combattenti, di questi giovani fino a ieri studiosi e professionisti che al primo chiamar della Patria furono al loro posto e che per quattro anni nel loro esilio dinanzi ai reticolati sono stati paghi di ritrovar la parola materna della Patria lontana in questi libri di poesia e di scienza, che si potevano leggere in qualche ora di riposo, dentro una caverna umida o dietro un parapetto di trincea, al lume vacillante di una candela infilata nel collo di una vecchia bottiglia, e che poi bisognava chiudere senza arrivare in fondo alla pagina perché c’era da andar di pattuglia o magari, con tutta serenità, all’assalto, alla morte. [spazio bianco; poi prosegue a piè di pagina: N.d.C.] Oh, fratelli, per portare questa biblioteca fin quassù si è dovuto un po’ lavorare! Quattro anni ci son voluti, e da tutte le parti d’Italia si son mossi i pazienti operai per portare la biblioteca italiana fino a Bolzano: anche dalla Calabria si sono mossi i fanti, anche dalla Sicilia, anche dalla Sardegna tutti per portare fin quassù questi pochi libri che son tutto il nostro tesoro che son tutta l’Italia. Ma finalmente ci siamo riusciti: e ora che il lavoro è compiuto ecco ora i fanti, gli artieri invincibili della nostra Patria, possono tornare a casa soddisfatti. Ma voi, cittadini di Bolzano, ricordatevi questo: che se, nella rinnovata fecondità della pace, altre biblioteche sorgeranno in Bolzano, più ricche di questa e più copiose potranno essere; ma nessuna potrà avere come questa nelle sue pagine tanta fiamma di devozione, di fede, d’amore!

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Stranieri in patria* Alla Sezione P – Ufficio Informazioni – I Armata e per conoscenza Al Comando del XXIX Corpo d’Armata Da ieri è stato affisso per le vie di Bolzano un avviso del Comando di Presidio il quale invita «tutti gli ex prigionieri austriaci appartenenti alle terre liberate e gli ex militari austriaci appartenenti alle medesime terre prosciolti dal servizio militare austriaco» a presentarsi al Comando medesimo per ricevervi un documento di identificazione ed una licenza di 10 giorni, allo scadere della quale il Comando predetto li riunirà «in speciali reparti e li impiegherà nei lavori militari e di pubblica utilità nelle vicinanze dei loro paesi» con trattamento simile a quello fatto ai nostri militari. Poiché risulta a questa Sottosezione, per rapporti già pervenutile da dipendenti Ufficiali P e da fiduciari borghesi, che questo provvedimento ha prodotto nelle popolazioni tedesche dell’Alto Adige un senso di dolorosa meraviglia e insieme quasi un senso di ribellione contro di noi, ritengo mio dovere riferire d’urgenza in proposito a cotesta Sezione. I primi commenti della folla che ieri si assiepava dinnanzi ai manifesti appena affissi erano inspirati da un senso di amarezza e di risentimento: «Ecco, dopo quattro anni di guerra, ci portano via i nostri uomini!»; «Guardate di che cosa son capaci i liberatori!»; «promettevano il pane, e invece ci ripigliano i figliuoli». A un nostro Ufficiale in una bottega di Bolzano ha detto oggi una venditrice tedesca: «I primi giorni accogliemmo gli Italiani con speranza e simpatia, ma da ieri non proviamo contro di loro che odio!». A Caldaro, ierisera, nell’osteria Zum Weissen Rössl i giovanotti del paese, già informati del manifesto affisso a Bolzano, erano eccitatissimi per la notizia e parlavano testualmente di esser pronti alla “Burgerkrieg”. Un commesso della nostra libreria mi ha riferito che voci di propositi consimili circolano fra i giovani di Bolzano.

* MST, Fondo Piero Calamandrei, b. 1, f. 5, cc. 71-74, Relazione alla Sezione P dell’Ufficio Informazioni della I Armata avente per oggetto: «Effetti sulla popolazione dell’Alto Adige di un recente provvedimento», 7 dicembre 1918.

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La ragione per la quale il suddetto provvedimento delle Autorità militari ha irritato la popolazione civile è anzitutto una ragione di carattere sentimentale: finalmente, dopo quattro anni di disastrosa guerra, i superstiti erano tornati a casa loro colla sicurezza che la guerra fosse finita; avevano, nella convinzione di non più dover ripartire, ripreso le loro occupazioni, riallacciato le relazioni d’affari rotte da sì lunga assenza; e si assuefacevano senza proteste alla presenza di truppe straniere (poiché è inutile negarlo, la maggioranza tedesca qui ci considera ancora come stranieri) perché queste truppe sembravano la garanzia migliore della pace definitiva, della definitiva ripresa del traffico privato: all’Austria che per quattro anni aveva tenuto lontani i padri dai loro focolari, succedeva l’Italia che almeno garantiva la tranquillità e il lavoro alle famiglie stancate da tante prove. Invece il recente provvedimento interpretato forse in un senso più rigoroso di quello che esso realmente ha, ha fatto succedere a questa serena e laboriosa rassegnazione un sentimento di delusione profonda; e la parola d’ordine che passa nella popolazione tedesca è questa: «Se dobbiamo esser venuti sotto l’Italia per continuare ad esser soldati, vogliamo ritornar soldati del Tirolo tedesco, che è la nostra patria!». A questa ragione di natura sentimentale, si uniscono, a quanto è stato oggi riferito, nelle classi più elette, considerazioni di ordine giuridico. Avvertii già cotesta Sezione che gli elementi più colti della regione fanno oggetto di assidua osservazione la condizione giuridica creata all’Alto Adige dall’armistizio: e non si stancano dal discutere dal punto di vista del diritto internazionale tutti i provvedimenti delle Autorità militari. Ora, contro il recente provvedimento, circolano già accuse di illegalità e di violazione dei patti di armistizio. Si dice che mentre il Trentino è stato occupato militarmente prima della cessazione delle ostilità ed è oltre a ciò abitato da popolazione che spontaneamente vuole essere unita all’Italia, l’Alto Adige è stato consegnato all’Italia provvisoriamente, in attesa delle decisioni del Congresso della pace, senza che per questo i suoi abitanti cessino di essere austriaci; si dice che i tedeschi dell’Alto Adige, se sono stati «prosciolti dal servizio militare austriaco» non per questo hanno assunto ancora alcun obbligo militare verso l’Italia, poiché solo col trattato di pace diventeranno politicamente italiani; e poiché molti tedeschi dell’Alto Adige, considerando che l’armistizio non fa cessare lo stato di

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guerra, si reputano ancora sudditi di uno Stato in guerra contro l’Italia, essi dicono che quando l’Italia vuol forzarli a servire come militari italiani ed eventualmente, in una ripresa delle ostilità, a prender le armi contro il Tirolo transalpino, essa commette una violazione di quella norma di diritto internazionale che vieta agli Stati belligeranti di costringere gli abitanti dei territori occupati a prender le armi contro la propria patria. Si dice finalmente che gli abitanti di queste regioni non possono, anche se si rifiutassero di obbedire al provvedimento, esser considerati come prigionieri di guerra, dal momento che i patti d’armistizio espressamente lasciano agli abitanti di queste terre la facoltà di restare indisturbati a casa loro.

Propaganda di italianità* Alla Sezione P – Ufficio Informazioni – I Armata Mi è stato oggi riferito da fiduciari bolzanesi che fra la popolazione si è diffusa la notizia che il Commissariato per la Lingua e per la Cultura, diretto dal Prof. Tolomei, sarà prossimamente sciolto o trasferito. Non so quanto di fondato vi sia nella diceria; certo è che i patrioti italiani che mi hanno riferito la voce, me l’hanno riportata con senso profondo di scoraggiamento, perché è certo utile che i caporioni pangermanisti, i quali vedevano nel Prof. Tolomei il più fervido assertore della italianità dell’Alto Adige, interpreteranno la sua partenza come il segno più certo della sua vittoria e della assoluta precarietà della nostra occupazione in questa regione. Segnalo inoltre che, collo scioglimento del Commissariato si produrranno in Bolzano i seguenti inconvenienti: 1) Sparirà l’unico centro di cultura italiana civile, tecnicamente competente sui problemi regionali, che finora esisteva nell’Alto Adige, e che alle Autorità militari e a questa Sottosezione ave-

* MST, Fondo Piero Calamandrei, b. 1, f. 5, cc. 68-69, Relazione alla Sezione P dell’Ufficio Informazioni della I Armata avente per oggetto: «Scioglimento del Commissariato per la Lingua e per la Cultura», 7 dicembre 1918.

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va fornito in questi giorni preziosi materiali di studio e sicuri schiarimenti su questioni così profondamente diverse da quelle che si agitano nel Trentino; 2) Non avrà seguito l’idea di fondare un circolo di cultura e di ritrovo dei cittadini italiani che già, appoggiata dal Commissariato, era sorta ed era stata approvata dal Comando di questo Corpo d’Armata; 3) Si confermerà in modo trionfale nelle menti dei tedeschi l’idea che l’Alto Adige non è destinato all’Italia, e i cittadini di fede italiana dovranno sempre più rinchiudersi nel loro riserbo e nella loro diffidenza, quando vedranno che viene soppressa anche quell’unica manifestazione di italianità che l’Autorità civile aveva saputo finora creare in Bolzano.

Congedo* Caro Casoni Per un riguardo personale a te, che tante prove di amicizia e di stima mi hai dato da quando mi chiamasti al posto che occupo, non ho fatto finora alcuna pratica per farmi richiamare in Paese alla mia Università; ma, se non verrà entro un mese un provvedimento generale che dia il congedo a tutti gli insegnanti, io chiederò ai primi di gennaio, quando saranno sbrigate le ultime cerimonie natalizie, di essere inviato in congedo invernale; e son certo che tu non ostacolerai, ora che la guerra è finita, questo mio desiderio. Ti confesso che a questo mio desiderio di abbandonare al più presto l’ufficio al quale ho dato per otto mesi modesto ma convinto lavoro, contribuisce l’amarezza prodotta in me dal modo col quale io e altri ufficiali da me dipendenti siamo stati trattati dal giorno della Liberazione di Trento. Dopo aver lavorato con tanta passione, dopo aver rinunciato, nella coscienza di compiere un’opera buona, a uffici più comodi e più vantaggiosi, noi ci siamo trovati a dover ringraziare il * MST, Fondo Piero Calamandrei, b. 1, f. 1, cc. 194-196, Minuta di una lettera al capitano Gaetano Casoni, non datata (ma dicembre 1918). Tra parentesi uncinate < > sono trascritte le parole cancellate dall’autore.

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destino per non esser stati cacciati da queste terre liberate come dei malfattori. Poco importa ciò: un po’ d’amaro, e poi non ci si pensa più: o, meglio, ci si pensa come a una logica riprova di una ormai lunga mesta esperienza. Ma quello che profondamente mi importa è invece questo: che, dopo la malaugurata pubblicità data non per colpa nostra all’episodio, questa specie di congiura del silenzio colla quale si cerca di sotterrare ogni memoria del fatto e di disperdere ogni sua traccia ufficiale, rischia di farci passare presso i nostri amici e conoscenti del Paese, che hanno dato all’episodio una importanza forse superiore a quella che meritava dargli, come dei volgari mistificatori, che hanno fatto bere ai giornalisti frottole poi smentite dalla verità storica ufficialmente documentata. Se posso intendere, come benissimo intendo che considerazioni relative alla “carriera” possano spingere qualcuno a farsi credere più valoroso di quello che fu in realtà, e a monopolizzare le distinzioni e le onorificenze che per noi hanno talvolta un significato morale ma per altri hanno sempre un significato professionale, non posso rassegnarmi a vedermi d’intorno questa specie di “consegna di russare”, colla quale si spera non solo di svalutare il significato di un fatto, ma anche di cancellare, in pubblicazioni e in cerimonie, la esistenza del fatto medesimo. Ora io mi rivolgo a te, pochi giorni prima di abbandonare il mio posto, per chiederti di appagare una mia forse meschina, forse ingenua, ma pur legittima e onesta, debolezza: io desidero portar con me a casa mia un documento, un foglio solo, dal quale resulti che, bene o male, il tre di novembre noi siamo giunti a Trento, in servizio, due ore prima che altri, oggi onorato, vi giungesse; un foglio che tra vent’anni io possa far vedere al mio figliuolo non per dimostrargli il nostro valore – ché dei pericoli, in quel giorno, si accorsero soltanto quelli che arrivarono

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dopo – ma per dimostrargli la fortuna che a me ed ai miei ufficiali la sorte volle riserbare, concedendo proprio a noi di ricevere il primo abbraccio di Trento liberata. Avevo pensato di chiedere alla cortesia del Sig. Colonnello Galba che mi rilasciasse in iscritto il rimprovero ch’egli mi fece a voce l’8 di novembre; ma sarebbe una sciocca mancanza disciplinare. Avevo pensato di scrivere al Sindaco di Trento; ma mi ripugna mendicare un certificato di benservito. Ho concluso quindi col rivolgermi a te che, oltre che amico sei anche mio superiore, per chiedere a te quello che ad altri non so chiedere. Tu ricevesti il mio rapporto del 5 novembre, tu sai che quanto noi, bene o male, facemmo, lo facemmo in esecuzione di un tuo ordine del 2 novembre, che ci faceva intravedere la possibilità «di raggiungere per primi la meta lungamente sognata». E non credo che tu voglia permettere che noi torniamo fra pochi giorni nella vita borghese con questa convinzione nel cuore: che per la presa di Trento, mentre onorificenze e promozioni a bizzeffe toccheranno a tutti coloro che giunsero dopo, si dia come unico premio lo sprezzante silenzio a chi commise l’errore di arrivare due ore prima degli altri! Io non ti chiedo, intendiamoci chiaro, che tu suggerisca o appoggi propositi di ricompense: sono lieto, anzi, di tornarmene a casa senza sentire sul petto quel peso che certo devon produrre i nastrini non meritati. Ti chiedo soltanto che a tre ufficiali P, i quali il 3 novembre hanno creduto di agire da buoni soldati in conformità delle tue direttive tu dica che il loro superiore diretto, che li conosce e che non ha motivi di occultare la verità, non vuole esimersi dal compiacersi di una fortuna e di un onore che, in un giorno memorabile, è toccato a tre gregari del servizio da lui istituito.

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La guerra tradita* Senza pubblico sfoggio di cortei e senza solennità di bandiere al vento, raduniamoci qui, o colleghi illustri e cari studenti senesi, come nelle catacombe i fedeli di una religione perseguitata; raduniamoci qui, fra queste mura consacrate alla severità della scienza, per celebrare in segreto il rito di una religione che fuori di qui ognuno può impunemente bestemmiare: la religione della patria. Fuori di qui, mentre stan per compiere due anni da quella vittoria del Piave, che liberò l’Italia e il mondo dal minacciato servaggio, è ormai lecito bruciare sulle piazze la bandiera d’Italia e per sollazzo domenicale; fuori di qui, coloro che portano sulle vesti e più sulle carni i segni del loro valore e del loro martirio, i mutilati in divisa, sono ingiuriati, inseguiti come ladri, percossi, pugnalati alle spalle; fuori di qui, le turbe esaltate che passano in corteo cantano una loro canzone, il cui stolto ritornello dice che la bandiera bianca rossa e verde si deve abbassare; e noi pensiamo mestamente, con un nodo di pianto alla gola, che proprio perché il bianco rosso e verde non fosse abbassato, cinquecentomila giovinezze si sono immolate tra lo Stelvio e Monfalcone, cinquecentomila nostri caduti giacciono lassù, nei solitari cimiteri di guerra, dove nessuno più li ricorda, fuorché le madri che non dimenticano mai.

* Discorso pronunciato il 29 maggio 1920 nell’Università di Siena, pubblicato col titolo In commemorazione dei morti a Montanara ed a Curtatone, in «Il libero cittadino», 5 giugno 1920, e poi in un opuscolo con il titolo In memoria degli studenti caduti per la patria, Siena 1920.

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Eppure, ciò che più ci amareggia e ci offende non è questa follia delle turbe esaltate. Quando vediamo passare per le strade dietro ai drappi rossi le folle ubriacate dalla passione di parte, noi riusciamo tuttavia a ritrovare, in quelle faccie trasfigurate dall’odio, noti volti che già ci furono fraternamente cari in altri tempi, quando un’altra passione li ardeva sotto l’elmetto grigio del combattente. E vorremmo, ora, chiamar fuori dal tumulto uno qualunque di loro e parlargli pacatamente così: «Fermati, o tu che oggi gridi abbasso la patria: e guardami in faccia. Non mi riconosci? Eppur ti conosco bene io, che ti ho incontrato un tempo sulla prima linea, dove non eran che i buoni. Quale brigata era la tua? La brigata Volturno: ricordo, la brigata verde e rossa. Quale reggimento? Il 218. Ah, quello che il 2 luglio ebbe mille morti sul Pasubio e non lasciò la posizione. E quale battaglione? Il terzo. Ah, quello che a Candelù ricacciò gli austriaci al di là del Piave... Ecco, sì, ti ravviso: tu eri uno dei più valorosi; eri sempre primo nelle pattuglie; tre volte sei stato ferito; non hai medaglie, soltanto perché si sono dimenticati di dartele... E ora, dopo tutto questo, ora tu gridi abbasso la patria? Ora vorresti abbassare la nostra bandiera?... Ma dimmi, perché sei stato fante rassegnato e tenace, se non per questa bandiera? Perché per tre volte hai dato il tuo sangue, se non per questa bandiera? Perché per tre anni hai pazientato al gelo e al sole, e hai combattuto e trepidato, e hai sperato e vinto, se non per questa bandiera nostra, ch’è la tua terra e la tua casa, la tua donna e i tuoi figliuoli, il tuo onore e il tuo lavoro, o Italiano?». E forse difronte a chi gli parlasse così, quel reduce abbasserebbe la testa senza saper rispondere, né più vorrebbe rinnegare col ritornello insensato il grande ricordo che può dormire, ma non può essere morto nel cuore. No, non è questa esasperazione delle turbe che più ci oltraggia: abbiamo imparato in guerra a conoscere il nostro popolo e ad amarlo; e sappiamo che egli risponde sempre a chi gli va incontro con una parola di amore. Ma ciò che più ci offende, è che le sorti d’Italia siano ancora in mano di una genia di sordidi, di mercanti e di pingui banchieri senz’anima, i quali, mentre non trovano pane da dare ai mutilati o, se anche lo trovano, lo gettan loro con gesto di elemosina come si getta il soldo al mendicante nella polvere della strada, giocano in borsa sulle miserie della patria e con-

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sentono che i loro compari continuino ad ostentare le loro ricchezze in faccia alle vedove dei nostri caduti, con il sangue dei quali si sono arricchiti durante la guerra; e se poi le plebi indignate tumultuano dinanzi a questi sconci sperperi, non trovano per placarle altro rimedio più degno che quello di far assassinare per le vie d’Italia i giovani rei di credere ancora nella patria, e di fare gettare in galera, insieme con le prostitute, le giovanette dalmate e fiumane che nelle carceri dell’Italia liberatrice rimpiangono amaramente la mitezza dell’Austria imperiale, clemente e generosa al confronto. Mi vien fatto talvolta di immaginare quale deve essere in questi tristi tempi il cuore di coloro che sui campi di guerra hanno lasciato la parte migliore della loro giovinezza fiorente. Ecco: lungo una via popolosa di una città, vanno due poveri resti umani della grande strage; uno di essi lasciò le braccia sul Carso, nel far brillare un tubo di gelatina sotto i reticolati nemici; l’altro sul Monte Grappa s’ebbe le pupille bruciate da un lanciafiamme nemico. I due vanno tristemente per strada, poveri e curvi, facendosi compagnia a vicenda: e il cieco dice al mutilato: – Raccontami, o fratello, ciò che vedi nel dolce mondo, che i miei occhi non vedon più. – Vedo – risponde il mutilato – femmine ricoperte d’oro e gemme, che quando ci passano accanto torcon la faccia con malcelato ribrezzo... E il cieco dice: – Per queste non mi duole di aver perduto la vista; ma dimmi che altro tu vedi... – Vedo – risponde il mutilato – passar su sfarzose automobili ben pasciuti signori, nei cui nobili volti mi par di riconoscere le sembianze dei ladri di ieri. E il cieco dice: – Neppur per questi mi duole di aver perduto la vista; ma dimmi che altro tu vedi... – Vedo – risponde ancora il mutilato – passeggiar sorridendo a fianco delle loro belle i giovani robusti che, mentre noi eravamo lassù a consumarci, eran quaggiù disertori in sicuri nascondigli; ed anzi, ecco, il glorioso sorriso del disertore mi par di scorgerlo anche sulla faccia di un eletto, che le turbe chiamano “onorevole”... Il cieco non risponde, e si mette a piangere; ma non di dolore egli piange; egli piange di gioia, poiché il destino gli ha consenti-

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to di perder la vista in buon punto e di conservare per sempre in fondo ai suoi occhi disseccati lo sfolgorio del sole senza macchia che sorrideva ad ogni combattente attraverso la feritoia della sua trincea. Né basta: ché ai combattenti non tocca ormai soltanto l’indifferenza e l’oblio; ma anche, ogni giorno [di] più, l’ironia e la malcelata acrimonia. Non passa ora che a chi ha combattuto ed ha sfidato la morte per serbare l’Italia agli italiani, a tutti gli italiani, anche a quelli che la rinnegano e la tradiscono, non accada di sentirsi dire da qualche patriota saggio, che s’imboscò quando era tempo e che oggi lacrima sulle dissestate finanze del Paese: «Ecco, l’avete voluta fare questa guerra? Ebbene, vedete a che cosa ci avete condotti?». E così, se lo zucchero scarseggia, onde la signora deve fare a meno di qualche pasticcino, la colpa è dei combattenti; e se scarseggia la benzina, sicché il signore non può per un giorno ostentare al pubblico passeggio la sua macchina lucente, la colpa è dei combattenti; e se, per riassestare le finanze dello Stato, occorre finalmente colpire senza pietà gli averi vecchi e nuovi di chi non lavora, la colpa è ancora e sempre dei combattenti. Sicché andremo un giorno in mesto corteo noi combattenti d’Italia rei di tanti delitti, a chieder con compunzione perdono a queste povere vittime che noi abbiamo condannato agli stenti e alle trepidazioni della loro ricchezza; e anche voi, o cinquecentomila nostri morti, verrete dai vostri cimiteri solinghi, e porterete le vostre povere ossa martoriate dal piombo nemico a inginocchiarsi dinanzi alle belle dame d’Italia, e a chieder loro mercé della vostra follia, che ha fatto rincarare le vesti di seta ed il belletto! Nostri morti, o morti di Montanara, e voi più vicini nostri commilitoni del Carso e del Col di Lana, solo per dirvi queste sconsolate parole abbiamo oggi disturbato dalla quiete del sepolcro i vostri spiriti? No: non saremo noi a dirvi che la guerra in cui siete caduti è stata vana, che la fede per cui vi siete immolati è stata irreparabilmente tradita. Solo vi diciamo, o morti, che la guerra nella quale abbiamo combattuto e in cui vi siete sacrificati, non è finita ancora, poiché la sacra meta, per raggiungere la quale noi la volemmo combattere, non è stata ancora raggiunta. Quando partimmo per la guerra, ci fu detto che andavamo a

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morire perché tutta la latinità muoveva in armi alla riscossa contro il germanesimo; ma, quando arrivammo lassù, ci accorgemmo che non questo, o non questo soltanto era vero. Sì, noi combattevamo innanzi tutto per liberare dall’oppressione Trento nostra e Trieste nostra e Fiume nostra; ma anche per qualche altra conquista noi combattevamo più universale e più umana, per vincere non solo i nostri nemici ma anche noi stessi, per liberare da un giogo secolare non solo i nostri fratelli ma anche i nostri nemici. Ricordo che una volta, in Val Posina, in una notte di vento e di neve, il comandante di una pattuglia austriaca fu ucciso in uno scontro con un nostro posto avanzato. Il suo cadavere fu portato entro le nostre linee, per dargli sepoltura: era un aspirante cadetto, un giovinetto imberbe che non dimostrava venti anni. E quando gli togliemmo di dosso, per identificarlo, le carte personali, apprendemmo da esse che egli era uno studente universitario di Innsbruck; e nella sua tasca insanguinata trovammo una fotografia dalla quale i suoi genitori, due buoni borghesi del Tirolo, sorridevano con lui piccino in mezzo a loro, e un calendarietto, nel quale la sua mamma aveva sottolineato e commentato con frasi affettuose le date più significative della sua breve vita: la nascita, la scuola, la prima comunione, la partenza per la guerra... Ed ecco, noi sentimmo che quel cadavere steso nella nostra trincea non era più un guerriero nemico, ma era soltanto un povero figliuolo rubato alla sua mamma dalla guerra inesorabile: e sentimmo in quell’istante che anche al di là delle nostre linee vi erano dei cuori umani e delle madri in pianto. Non, dunque, guerra di razza, non guerra di conquista, di predominio, di imperialismo fu la nostra, ma guerra di idee e di purificazione, nella quale ci sentimmo più buoni e credemmo che tutto il mondo, dopo di essa, sarebbe stato più buono. Voi ricordate, o studenti che avete combattuto, quali erano i sogni che lenivano, lassù nelle trincee, le pene di chi combatteva. Questa è l’ultima guerra, si diceva: tutti gli errori, tutte le colpe, tutti i delitti che hanno portato necessariamente a questa immensa catastrofe, dobbiamo bruciarli in questo rogo una volta per sempre e liberare per sempre i nostri figliuoli da questa follia. Il sentimento di tenerezza fraterna, di umana solidarietà, di generoso sacrificio che ci stringe nella trincea con coloro che soffrono le nostre stesse pene, sarà portato dai superstiti come preziosa con-

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quista nella pace: l’età dei mercanti, dei politicanti, dei bevitori d’oro, la triste età delle plutocrazie e dei militarismi sarà finita; morendo, daremo alla patria una nuova anima, una giovinezza nuova. E finalmente vedranno i nostri figli nel mondo il mutuo amore di tutte le patrie pacificate ed inermi. E invece, ecco: se noi ripetiamo oggi queste parole, a mormorar le quali lassù gli occhi dei morituri si inumidivano prima dell’assalto, sorridono dietro le loro lenti i tristi maestri di politica cosiddetta realistica: e vi mormorarono in faccia: «Utopie, ragazzi, utopie». Ebbene, o giovani, a questi sapienti calcolatori, che non possono perdonare alla gioventù d’Italia il delitto di aver portato la patria alla vittoria, voi dovete gridare in faccia che i combattenti hanno imparato a pensare non solo con il cervello, ma anche con il cuore, dal quale, al dir di Mazzini, rampollano le idee più belle; e dite loro (sono fiero di ripetervelo, io, vostro modesto insegnante, in questa casa dello studio) che nulla vale la fredda scienza dei libri, se non la riscalda un alito di fede patria, una fiamma di sentimento umano; e dite loro che se qualcuno, per timore della morte ha gettato il fucile e si è sbandato mentre il suo reggimento marciava all’attacco, più spregevoli disertori abbiamo conosciuto in coloro che alla patria in pericolo hanno negato la loro solidarietà spirituale, che non hanno voluto esser partecipi di questa tragica crisi di purificazione alla quale il destino ha trascinato inesorabilmente i popoli del mondo. No, no, studenti, non sono utopie, non sono illusioni quelle grandi idee che noi abbiamo apprese sulle vette battute dalla mitraglia: bontà, giustizia, lavoro, sacrificio, dovere, disciplina; e quando pocanzi vi ammonivo che la guerra non è finita, volevo dirvi che proprio a voi incombe il dovere di continuarla, non già con le armi della trincea, ma con l’esempio dell’umile, paziente vita quotidiana, tutta dedicata a far sì che le idee trasmesseci in retaggio dai nostri caduti non restino davvero illusioni. Voi siete ben degni, o giovani, di farvi banditori di questa fede; ne siete degni per il vostro passato e per il vostro avvenire. Per il vostro passato, poiché se v’è stata in Italia durante la guerra una classe che abbia fatto il suo dovere senza sottintesi, senza esitazioni, senza tradimenti, questa è stata, insieme con i lavoratori della terra, la vostra classe, o studenti.

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Se le masse dei contadini furono le larghe ondate di quel gran mare grigio-verde che sommerse l’Austria, voi foste, o studenti, l’impulso di quelle ondate, l’anima di quei plotoni lanciati all’assalto. Quante volte, al mio reggimento, ho assistitito all’arrivo in linea dei nuovi aspiranti usciti allora dalle scuole militari del Paese, e mi son sentito commosso dinanzi alla sublime naturalezza colla quale quei ragazzi di ieri, che, fino a pochi mesi addietro, passavano le loro giornate sull’Eneide o sulle Pandette, venivano lassù ad assumere il compito di guidare gli altri al sacrificio col sacrificarsi per primi! Nella notte fonda, rotta solo dalle strane comete dei riflettori o dal guizzo giallastro di qualche granata, giungevano alla guerra quelli adolescenti che non avevano mai veduto la guerra; dal comando di reggimento, che era già nella zona del fuoco, ricevevano l’ordine di recarsi subito in linea, ché all’alba doveva cominciare l’assalto. Ignari del luogo, col loro zaino sulla spalla, trovavano quasi a tastoni la mulattiera, avanzavano a stento, fermati ad ogni passo nell’ombra dalle barelle dei feriti, dalle colonne di muli che scendevano a rifornirsi di munizioni, da strani sibili che viaggiavan per aria nella tenebra... E tuttavia raggiungevano senza sostare il loro battaglione, la loro compagnia; e poi ciascuno di essi proseguiva per il suo plotone, che forse era già più avanti di tutti, isolato e sperduto in un posto di osservazione sotto la linea nemica... L’adolescente trovava nell’ombra i suoi soldati, si presentava nell’ombra dicendo: «Sono il vostro tenente»: e quando l’alba cominciava a schiarire dietro la vetta da conquistare, a quegli uomini anziani, reduci di venti battaglie, ognuno dei quali avrebbe potuto essergli padre, egli diceva semplicemente: «Ragazzi è l’ora: andiamo a morire»; e quegli uomini anziani, poiché quel ragazzo lo diceva, andavano. Ma anche per il vostro avvenire voi ne siete degni, o studenti; perché voi, usciti dall’Università andrete domani ad aggiungervi allo stuolo dei lavoratori dell’intelletto, a quell’esiguo stuolo nel quale soltanto sembra ormai essersi rifugiato il sentimento del dovere e della disciplina nazionale. Da voi non usciranno, o studenti, gli oziosi plutocrati ingordi, unico lavoro dei quali è quello di staccare alla fine del semestre le cedole dalle cartelle che il lavoro altrui fa fruttare per loro; né d’altra parte andrete, o studenti, a

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rafforzare le nuove tirannie del lavoro, che con la prepotenza del numero son disposte, purché cresca la paga, a mandare in malora la patria e ad affamare con essa coloro che faticano silenziosamente senza urlare in piazza. No, voi sarete quella umile ed eroica borghesia lavoratrice, che più dà e meno chiede; la media borghesia, da cui escono gli scienziati e gli artisti, gl’insegnanti e i medici, i giudici e i letterati: la media borghesia lavoratrice che dona alla patria i frutti della scienza e i fiori dell’arte e patisce la fame in segreto sotto le sue vesti consunte ma decorose, che non ha automobili e non va ai teatri e passa l’estate nelle città affocate dal sole, e pur non osserva le otto ore di lavoro e non ha riposo festivo e non sciopera e non bestemmia. Così, o studenti, voi passerete tra il disprezzo dei ricchi che nell’intelletto scorgono l’unico bene che non si compra con l’oro, e l’odio di qualche lavoratore del braccio, che vi chiamerà parassiti soltanto perché non finirete alla bettola le vostre laboriose domeniche... E tuttavia voi continuerete sereni per la vostra via, e sarete pur sempre la parte migliore della Patria, lo spirito della nazione, sentimento e intelletto, volontà e memoria: sì, anche memoria; poiché a voi più che a tutti, spetterà nell’avvenire, o studenti divenuti professionisti, il grande ufficio di ricordare agli immemori la vittoria che i nostri morti ci hanno donata. Oh! giovani, quando vediamo, come in questi mesi, il nostro Paese convulso e dilaniato dalle fazioni, ognuna delle quali giuoca la sua schermaglia politica col sangue dell’Italia che va in rovina, dovremmo ricordare agli onesti di tutti i partiti, ai lavoratori di tutte le classi la solennità dell’evento che si compié nell’autunno del 1918 dinanzi ai nostri occhi. Il 29 ottobre 1918, alle tre del pomeriggio (lasciate che io rievochi innanzi a voi quell’ora sacra che la sorte mi concesse di vivere) la Valle Lagarina, tra l’Altissimo e Coni Zugna aspettava in silenzio, sotto il sole: tacevano dalle opposte trincee i cannoni e la fucileria; solo cantava in quella religiosa attesa l’Adige, italiano ormai dalle sorgenti alla foce. Ed ecco, laggiù tra le grigie pietraie di Marco corrose dai bombardamenti, una bandiera bianca sventolò; e sul terrapieno della ferrovia di Rovereto, allora tagliato dalla linea nemica e dalla nostra, un drappello apparve ed avanzò verso di noi. Camminavano lentamente, faticosamente, come un cor-

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teo funebre; e in verità un corteo funebre era quello, poiché lo componevano i plenipotenziari dell’Impero austriaco in agonia, che veniva a chiedere mercé e ad abbattersi vinto a piè della trincea tenuta per tre anni dal nostro popolo paziente. Vedemmo avvicinarsi ai nostri reticolati i parlamentari: illustri personaggi erano essi, generali, ammiragli e principi di sangue reale; vestivano sfarzose uniformi, sfolgoranti di oro e di decorazioni, così superbe a confronto delle vesti terrose dei nostri fanti. Ma queste illustri persone dovettero umilmente lasciarsi bendare se vollero essere accolte, e dovettero curvar la schiena quando, nel nostro reticolato, si aprì dinanzi a loro la bassa porticina di filo spinoso, dalla quale per tre anni erano uscite ogni notte le pattuglie italiane incontro alla morte. E allora, in quell’istante solenne che io non so rievocare senza un brivido di pianto, noi sentimmo che sulla trincea di Serravalle, dinanzi all’Austria che moriva, non eravamo più soli: tutti voi, o nostri morti antichi e recenti, o cari martiri nostri sacrificati dal piombo e dal capestro, da Ciro Menotti a Oberdan e a Cesare Battisti, dai caduti di Curtatone e Montanara a quelli del Carso e di Passo Buole, tutti vi sentimmo presenti, dritti sul parapetto della nostra trincea, ad esultare con noi, a benedire quella ora, premio degno di tutti i sacrifici, in cui dinanzi all’umile fante italiano venivano ad agonizzare insieme con l’Impero austriaco, tutti gli imperialismi, tutte le tirannidi, tutte le aristocrazie, tutte le iniquità e tutte le prepotenze di un’età che il vostro sacrificio aveva condannato a morire. In quel giorno, o giovani, alla resa e alla morte dell’Austria assisté soltanto, insieme con i morti, la fanteria: essa sola dalla sua trincea, soldati ed ufficiali, ebbe quel premio; ciò che videro i fanti dalla loro trincea non poterono vederlo né i disertori né gli imboscati, né gli oscuri parecchisti che giurarono prima della guerra sulla viltà del nostro popolo, né gli infiammati predicatori di rivoluzione da comizi, i quali oggi sulle piazze si empion la bocca di libertà, ma non si ricordarono di venire lassù, dove la libertà dei popoli si comprava con la vita. Rievocando quel giorno, dal quale una nuova storia comincia, noi possiamo giurarvi, o nostri morti, di non avervi traditi; e possiamo gridare alto che il vostro martirio non è stato vano. Ripetetelo a tutti, o studenti, che i nostri cinquecentomila caduti non so-

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no inutilmente caduti: fate di questo grido la ragione della vostra vita, il programma delle vostre azioni. E se qualcuno non vi ascolta, compiangetelo meglio che odiarlo: egli è un triste residuo del passato moribondo, voi, con la bontà e con la scienza, siete l’avvenire dell’Italia e dell’Umanità.

Vamba nostro* Noi non dobbiamo parlare di quel Vamba che sarà ricordato dai grandi: di Vamba uomo politico, che fino alla morte restò tra quei pochi idealisti i quali non chiedono ai partiti fortune elettorali e grancassa professionale; né di Vamba giornalista ed umorista, instancabile nel tormentare a colpi di spillo quella genia di politicanti che da un cinquantennio tentano di uccidere in parlamento questa nostra Italia che non vuol morire; né di Vamba letterato ed erudito, che amava con tenerezza di bibliofilo i vecchi libri, nei quali ricercava le imperiture testimonianze del genio italiano, gli oscuri episodi dimenticati del nostro faticoso dramma nazionale... No: quel Vamba di cui dobbiamo parlare oggi, quel Vamba che tutto ci appartiene, è il Vamba dei ragazzi, il Vamba di “Ciondolino” e di “Giamburrasca”: il nostro Vamba, che i grandi non possono contenderci, del «Giornalino della domenica». L’imperatore mancato Per onorare Vamba, miei cari ragazzi, niente si può far di più degno che rileggere, come io ho riletto in questi giorni, le pagine meravigliosamente fresche che egli scrisse per voi. Il libro di “Ciondolino”, per chi vi torni a trent’anni con quella malinconia con cui a trent’anni si comincia a riprendere in mano i libri divorati da ragazzi, appar veramente più che un racconto di avventure divertenti ed argute, una specie di poema eroico in miniatura nel quale il mondo degli insetti è rievocato, meglio che da un naturalista erudito, buono soltanto a misurare e a clas* Pubblicato con questo stesso titolo nell’opuscolo «Vamba», numero unico commemorativo edito dal Comitato Città redente ed olocauste, a cura di Aldo Nicolao, Rovereto 1921.

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sificar le cose morte, da un poeta che rivive la misteriosa vita palpitante fra l’erbe e che candidamente ci conduce per mano a mostrarci quanto sia grande quel piccolo mondo che gli uomini ignari calpestano superbamente col piede. Siamo in campagna, d’estate; ci distendiamo su di un prato, all’ombra di una quercia; affondiamo la faccia, affocata dal solleone, entro quell’intricato tappeto di verzura che ricopre la terra, ed ecco, noi ci accorgiamo che un popolo di piccoli esseri laboriosi è in faccende sotto queste fogliuzze che per loro sono boscaglie, e intuiamo che quel paese minuscolo dove una pozza è un mare e dove un formicaio è una metropoli, è piccolo, come le stelle del cielo, solamente per chi lo guarda da lungi. In questo mondo di piccole creature, tra le formiche e le api, Vamba conduce il suo “Ciondolino”, bambino trasformato in formica per aver una volta invidiato la sorte delle formiche che non studiano la grammatica latina; e gli fa vedere quale volonterosa disciplina, quale istinto di solidarietà fraterna, quale ordine armonioso regna tra questi esseri minimi, il cui ordinamento sociale può esser d’esempio non solo ai bambini svogliati ma anche agli uomini presuntuosi. Ma l’originalità più saporosa del libro è il contrasto continuo tra la vita di quel mondo degli insetti, che ha le sue leggi così diverse da quelle del mondo umano, e il modo di pensare e di giudicare di questo bimbo diventato formica, il quale pur nella sua nuova incarnazione, conserva immutati i gusti, l’intelligenza, l’arguzia ed anche un po’ la vanagloria della sua natura anteriore... Io ricordo che, da ragazzo, quando in campagna, nelle mattinate estive, leggevo e rileggevo la storia dei generosi e sfortunati ardimenti di “Ciondolino”, sentivo una profonda mestizia per quel suo esilio imperiale, e quasi prendevo sul serio i suoi sogni di dominatore incompreso. “Pinocchio” mi divertiva di più, ma “Ciondolino” mi faceva sospirare; “Pinocchio” era un allegro burattino di legno, ma in “Ciondolino”, pur sotto la sua buccia di formica, riconoscevo i battiti del mio stesso cuore di fanciullo: poiché in fondo all’anima di ogni fanciullo, e forse anche in fondo a quella di ogni uomo grande, si cela un formicolino ambizioso, che colla sua corazza di seme di canapa e colla sua corona di cera va in cerca di un regno da conquistare...

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L’eroe della sincerità Accanto a “Ciondolino”, l’eroe dell’ideale, il nostalgico Donchisciotte delle formiche, Giannino Stoppani, detto Giamburrasca è il martire della sincerità: di quella benedetta sincerità che tutti i babbi insegnano a parole ai loro figlioli, pronti poi a prenderli a scapaccioni se i figlioli si arrischiano ad esser sinceri sul serio. “Giamburrasca” è il tipo perfetto del “ragazzo terribile” che in buona fede guasta sempre sul più bello, con quella sua indiavolata mania di dir la verità, qualche pasticcio dei grandi... Così la narrazione delle avventure di “Giamburrasca”, che Vamba intitola “Memorie di un ragazzo sbarazzino” è in fondo una spietata requisitoria contro le mille piccole bugie di cui è intessuta la vita delle persone cosidette benpensanti; essa è, in forma comica e paradossale, una efficacissima critica dei tradizionali metodi di educazione, a base di apparenze e di restrizioni mentali. La bontà sotto il riso Ma quello che più ci avvince e ci commuove nei libri di Vamba, in mezzo alla continua zampillante arguzia di cui tutte queste pagine sono fiorite, è la bontà che anima tutti questi racconti, senza troppo mostrarsi di fuori, anzi quasi dissimulata sotto il brio della narrazione. Poche parole serie, lasciate lì quasi per dimenticanza in mezzo a pagine scoppiettanti di riso, bastano a render pensoso e commosso il lettore più di qualsiasi predicozzo sentimentale. Questo avviene perché i bambini di Vamba non sono figurini costruiti di maniera fuori della realtà, modelli di bambini, eternamente primi della classe, come qualcuno di quelli descritti dal De Amicis, troppo perfetti per essere veri: i ragazzi di Vamba, come la maggior parte dei ragazzi veri, sono svogliati, sbarazzini, rompicolli, sempre pronti a fare una bizza o un dispetto, ma essi sono, in fondo, dei ragazzi di cuore, che non sanno mai essere sordi alla voce della pietà e della generosità: e quando si commuovono, si sente alla prima che questa loro commozione è sincera, e la loro bontà ci conquista come se la vedessimo in una persona viva... Il secreto di Vamba Orbene, sapete voi qual’è il secreto della grande naturalezza dei bambini descritti da Vamba? Il secreto è questo: che egli,

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quando scriveva i suoi libri per i ragazzi, non presumeva di mettere assieme una collana di gaie scempiaggini, com’è di moda oggi tra gli scrittori seri, i quali ogni anno, tra un romanzo ed una commedia destinati al pubblico dei grandi, preparano a tempo perso per le feste natalizie la loro brava strenna per il pubblico infantile, convinti che, a contentar questo, bastino quattro lazzi e quattro figurine condite con un po’ di fantasia. No: Vamba scriveva per i ragazzi soprattutto perché i ragazzi li amava profondamente; e profondamente li amava perché egli era, prima che un artista, un babbo innamorato dei suoi figlioli. Quel sentimento di tenerezza paterna, che ingrandisce l’anima umana e che solo la rende capace di intendere a pieno il significato della esistenza, forma la sostanza intima di tutto quello che Vamba ha scritto in questi ultimi due decenni: i suoi libri sono, prima che la creazione di uno scrittore, il dono di un babbo ai suoi figlioli; ed è pieno di significato il fatto che il primo «Giornalino» apparve nel 1906, quando Beppino, il primogenito di Vamba, cominciava a gorgheggiare le sue prime parole di bimbo. L’origine del «Giornalino»: le piccinerie dei grandi Non si può intendere il primo movente dell’apostolato di Vamba in mezzo ai fanciulli, se non si ricorda che la prima idea di creare il nostro «Giornalino» fu suggerita al cuore di Vamba da una culla che allietò la sua casa. Vi ricordate la dedica di Ciondolino? «Ho pensato, bambini, di farvi vedere molte cose grandi negli esseri piccoli... Più tardi, nel mondo, vedrete molte cose piccole negli esseri grandi». Nell’anima di Vamba, quand’egli si mise a scrivere per i fanciulli, c’era appunto un senso di profondo disgusto per l’Italia dei grandi, per l’Italia degli uomini politici, che egli finora, per la sua professione di giornalista, aveva conosciuto da vicino: per quella Italia di cinici astuti, la quale non sapeva allora trovare un esponente parlamentare più degno di quel ministro della malavita, che ancor oggi, dopo che cinquecentomila giovinezze si sono sacrificate per una Italia più pura, la borghesia italiana ha risollevato sugli altari come salvator della Patria. Da questo sconsolato disgusto lo risolleva la nascita di una creatura sua: egli assiste, trepidante ed adorante, a quel miracolo sempre nuovo che è il destarsi di un’anima in un bambino che

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comincia a balbettar le prime sillabe, a tentare i primi passi: e, mettendo a confronto la purezza intatta di quel piccolo essere nuovo con tutte le inveterate turpitudini della cloaca parlamentare, sente che là, tra i grandi, le cui miserie egli aveva bersagliato finora, c’è soltanto un passato frollo di cui bisogna liberarsi, mentre tra i piccoli, tra le creature virginee la cui anima è ancor profumata come un fiore in boccio, c’è la speranza di un avvenire che bisogna creare. Così, da questo amore per il figlio suo, dalla coscienza del grande ufficio educativo che spetta a un padre di fronte alla sua creatura, Vamba fu tratto naturalmente a considerare il problema della rinascita morale dell’Italia e ad accorgersi che tutti i nostri problemi nazionali si riducono, in sostanza, a un fondamentale problema di educazione. Profondamente repubblicano, egli concepì la sua repubblica non tanto come un esteriore mutamento di regime scompagnato da intimo rinnovamento degli uomini, quanto come una lunga, paziente ricostruzione di anime: e volle creare per il Paese di domani una classe dirigente migliore di quella che finora aveva retto le sorti d’Italia, traendola con un apostolato di fede dalle nuove generazioni alle quali è affidato l’avvenire. Come Vamba risolse il problema della scuola Il Giornalino, invece che un adulator dei ragazzi, fu una scuola per i ragazzi: una scuola viva, agile, spontanea, originalissima, italianissima, in un periodo in cui la scuola ufficiale, e specialmente la scuola media, sembra avere smarrito la sua via. Quando pensiamo alla desolata condizione in cui si trascina oggi, tra un passaggio col sei e uno sciopero per avere il passaggio col cinque, la scuola media italiana, fabbrica a getto continuo di avvocati senza cause e di impiegati senza voglia di lavorare, e quando vediamo che il problema della sua riforma, dal quale dipende la formazione intellettuale e morale dei dirigenti di domani e quindi l’avvenire stesso del nostro Paese, è stato ridotto dalle schermaglie parlamentari a una miserabile competizione di chiesuole e di sette, siamo tratti naturalmente a dubitare che il risanamento della scuola possa attendersi dallo Stato, e ad ammirare di gran cuore l’opera di Vamba, che, senza attendere i responsi delle sibille

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ministeriali, senza speculare sulle alchimie dei partiti, senza invocar la manna dell’olimpo dei commendatori di Roma, aveva risolto il problema per conto suo, forte della sola sua fede, colla quale aveva chiamato a raccolta d’intorno a sé tutti i ragazzi d’Italia. Il programma di questa grande scuola di carattere che fu il «Giornalino» si può riassumere tutto in una sola idea: l’idea del dovere. In una età egoistica e materialistica, in cui la smodata esaltazione del proprio diritto doveva necessariamente portare all’adorazione della violenza, Vamba seppe fondare intorno a sé una scuola diversa da tutte le altre, la quale negli italiani di domani coltivava sopra tutto la coscienza del proprio dovere; e chi estragga dalle pagine del «Giornalino», così varie nelle loro manifestazioni artistiche, e pur così coerenti nella loro inspirazione morale, il credo spirituale che tutte le informa, riconoscerà sempre a base di esse le solenni e semplici verità dei Doveri dell’uomo di Giuseppe Mazzini. L’insegnamento che Vamba, con fervore mai intiepidito, dette alle migliaia di ragazzi radunati intorno a lui, si può tutto riassumere intorno a due grandi concetti, che furono sempre presenti nel suo apostolato: Patria e Umanità. Nel programma del primo «Giornalino», che apparve nel 1906, erano contenuti questi due propositi, ai quali Vamba tenne fede fino all’ultimo giorno: «Accendere e tener viva sempre nel cuore dei piccoli lettori la fiamma degli eterni ideali per la Patria e per la Umanità, non con la vana rettorica di frasi fatte, ma con la forza che viene dalla sincerità dell’accento di chi comunica affetti profondamente sentiti; «e soprattutto schiudere l’anima delle giovani generazioni alla religione del Dovere, che affratella tutti i buoni e i giusti di tutti i tempi e di tutti i luoghi». Per la Patria Patria, innanzi tutto: poiché Vamba, convinto che per assurgere a più alte forme di solidarietà internazionale, non si possa saltare a occhi chiusi quella grande realtà storica che è la Patria, mirò principalmente a ridestare nei giovani la coscienza del nostro passato e del nostro avvenire di nazione. Grigi tempi furono per la Patria quelli in cui nacquero e crebbero le nostre generazioni: le gesta gloriose del nostro risorgi-

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mento garibaldino sfumavano ormai tra le nebbie della leggenda come se mai fossero state realtà; il triste epilogo della impresa d’Africa aveva fatto pietosamente crollare come castelli di cartone le infatuazioni di un imperialismo da operetta; l’Italia, nella triplice alleanza, faceva con molta dignità la parte di sguattera che lava i piatti in cucina; in Roma, alla quale nel 1849 Mazzini e Garibaldi avevano riportato giorni dell’antica grandezza repubblicana, l’imperatore di Germania entrava da trionfatore, in mezzo alle corazze luccicanti dei suoi armigeri; e se anche c’era in noi giovinetti l’aspirazione confusa verso qualche ideale di rivendicazione patria, sembrava a noi stessi come una nostalgia letteraria e romantica, come un rimpianto inerte di tempi eroici che noi stessi credevamo destinati a non ritornare mai più... Ed ecco che in questo grigio tempo di viltà e d’oblii Vamba chiamò a raccolta i ragazzi per parlar loro d’Italia: di tutto ciò che questo nome compendia di bello e d’eroico, dei nostri martiri, dei nostri poeti, del nostro cielo, delle superbe opere compiute nei secoli dal nostro popolo di artisti e di navigatori. Ogni tanto un intero numero del «Giornalino» era dedicato alla memoria di uno dei genii tutelari della Patria: a Giuseppe Garibaldi, a Giosuè Carducci; ma anche negli altri numeri non mancava mai qualche pagina destinata a ricordare ai lettori un nome o una data, a descrivere la bellezza di qualche nostro monumento, a invocar la pietà fraterna sul dolore di qualche terra nostra colpita dalla sciagura, a rivelar l’oscuro eroismo dei nostri emigranti in terra straniera... Ma più che ricordare ai ragazzi quello che s’era già fatto, Vamba volle insegnare ad essi quello che c’era da fare. «Non dimenticate!...» Ricordate qual’era il distintivo degli abbonati del primo «Giornalino»? Due bambini, uno più grande e l’altro ancora in sottanina, sedevano in vista dell’Adriatico: e il più grande, colla mano tesa, insegnava al più piccino una terra che vagamente si profilava al di là del mare; il piccolo sorrideva, quasi ignaro di ciò che il fratello gli additava; ma la fronte del bimbo più grande era accigliata e i suoi occhi che guardavan lontano sembravano pieni di tanta mestizia. E pareva ch’egli dicesse: «Laggiù, laggiù... Non dimenticare!». Le stesse parole che nel distintivo sim-

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bolico il ragazzo più grande pareva dicesse al fratellino minore, Vamba le ripeté ogni settimana, da ogni pagina del suo giornale, alla gioventù d’Italia che s’era raccolta intorno a lui: «Laggiù, di là dal mare, lassù, all’ombra delle nostre Alpi – egli diceva – ci sono dei fratelli doloranti che aspettano e non disperano. Nei grandi essi non sperano più, poiché i grandi, tutti intenti a empire il sacco, hanno altro da fare che perder tempo colle romanticherie; ma in voi, ragazzi, essi sperano ancora, poiché sanno che nei cuori giovani non entra l’oblio e l’ingratitudine. E voi ragazzi, non dovete tradire la loro attesa, non dovete rinnegare in faccia a loro la nostra storia, non dovete irridere alla missione che i nostri padri ci hanno lasciato da compiere. Se un re d’Italia è andato a Vienna vestito da colonnello austriaco a fare omaggio al vecchio impiccatore, se ministri bancarottieri proibiscono nelle librerie d’Italia perfino la esposizione delle «Mie prigioni» di Silvio Pellico, se i vecchi sono immemori o degeneri, non importa, non importa, o ragazzi: purché serbiate voi le vostre anime pronte ed accese per un giorno di liberazione che certo verrà, purché gridiate voi ai fratelli di Trento e di Trieste che non vale viltà di politicanti a stroncare l’Italia, e che quando l’ora suonerà, se i grandi vorranno tradire chi da tanto aspetta, voi, ragazzi, non tradirete, e anderete!». Quelli che non tradirono Oh, Vamba nostro, Vamba caro dei nostri anni migliori, tu sai se i tuoi ragazzi, quando l’ora suonò, seppero andare: tu sai quanti di loro seppero giocondamente cadere sulle trincee d’Italia, i migliori, i più puri, i più degni, quelli che marciarono nelle prime schiere senza voltarsi indietro. E forse, pur nello strazio paterno che certo suscitò in te l’immenso olocausto di giovani vite a te care, dové riuscire per te di supremo conforto il vedere com’era profonda e solenne in quei cuori adolescenti la fede che tu avevi loro comunicata, se essi, colla stessa gioconda arditezza colla quale pochi anni prima avevano in cento convegni giornalineschi gridato con te: «Abbasso l’Austria!» se ne partivano ora oltre il confine, ciascuno alla testa del suo plotone di fanteria, a immolarsi sul Carso o sul Pasubio per dar l’ultimo colpo a quell’Austria imperiale, che tu avevi insegnato loro a odiare...

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L’aver vissuto tanto da veder la nostra vittoria e lo sfacelo del mostruoso impero di Absburgo fu per Vamba il premio più degno di tutta la sua vita d’apostolo: e quando egli ci volle lasciare, io penso che sulle soglie dell’eternità debbano essergli venuti incontro tutti gli adolescenti eroici che la grande famiglia giornalinesca sacrificò alla vittoria d’Italia, e innanzi a tutti Giosuè Borsi e Scipio Slataper, che nell’amare l’Italia e nel morire per essa vollero essere i primi. Dov’è andato Vamba Con questa schiera di adolescenti che tutto hanno dato senza nulla chiedere, Vamba se n’è fuggito serenamente: e con loro essi l’hanno voluto trattenere, come se anch’egli fosse un loro compagno d’armi caduto sul campo. Sappiate, o ragazzi, che gli spiriti dei morti in guerra non si staccano dai luoghi dove sono caduti combattendo: coloro che prima di morire hanno passato lunghi anni in una trincea ed hanno visto per un seguito interminabile di giorni nascere il sole dalla stessa feritoia, diventano una cosa sola colla terra ch’essi difendono; e troppo si innamorano di quelle zolle estreme sulle quali la Patria li ha posti a vedetta, perché essi possano allontanarsene poi, quando le hanno consacrate col loro sangue. I nostri cinquecentomila morti sono ancora tutti lassù, dritti nelle trincee crollanti che il terzo inverno finisce di devastare, vigilanti dalle vette nevose, che un tempo furono tormentate dalla mitraglia, i nuovi confini ch’essi hanno dato all’Italia; sono tutti lassù, tanto più alti di noi, ignari delle furibonde risse in cui i vivi son ripiombati nella bassura, sorridenti e belli, a benedire dalle cime la Patria. Vamba, ragazzi miei, è voluto restare con loro: e noi non dobbiamo piangerlo; poiché forse egli è più felice di noi... Per l’Umanità Ma io vi ho detto poco fa che l’insegnamento di Vamba si compendiò in due grandi concetti: Patria e Umanità. Il suo programma, infatti, schiettamente mazziniano, non si fermava alla Patria: come l’amor della famiglia fu per lui il punto di partenza per ascendere a un più ampio senso di solidarietà nazionale, così dal-

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l’idea di Patria egli trasse l’inspirazione per assurgere all’idea di una Umanità pacificata nella fratellanza di tutti i popoli liberi. Finita e vinta la guerra, Vamba con ardor giovanile aveva ripreso sul «Giornalino» il suo apostolato, perché sapeva che la via del progresso umano non finisce e che formidabili doveri incombono alle generazioni di domani, nelle quali bisogna, in nome dei nostri morti, alimentar la coscienza di una nuova missione da compiere dopo quella che i vincitori hanno compiuta. Le generazioni che hanno fatto la guerra e che con un martirio di tre anni hanno salvato il mondo dal servaggio, sembra quasi che si siano invecchiate, inaridite, consumate nell’opera ciclopica che hanno compiuto: siamo, noi superstiti, della gente che ormai ha vissuto la sua ora più bella, dei sopravvissuti che sentono di aver ormai superato l’apice della loro parabola e che ogni tanto guardano indietro con nostalgia verso le vette i cui nomi sacri non ci possono uscire dal cuore. E poi, vedete, par quasi che la guerra, come un immenso incendio, che si lascia indietro le scorie, abbia lasciato nelle anime dei rimasti una triste eredità di odio, una bestiale abitudine alla violenza, che ci vieta di rimetterci sulla via della bontà. Ma voi, ragazzi, avete una grande opera da compiere, e saprete compierla, poiché le vostre anime non hanno speso ancora le loro energie migliori: fate che da questo immenso olocausto di vite umane, al quale i vostri fratelli maggiori hanno dato sì generoso tributo, sorga veramente un’era di pace e di fratellanza, entro la nostra Patria e fra tutte le Patrie del mondo. La nostra generazione è stata la generazione della violenza; la generazione dell’odio contro gli ultimi imperatori e contro gli ultimi carnefici, la generazione della mitragliatrice rabbiosa e della bomba a mano vendicatrice contro l’Austria maledetta che ci impiccò Cesare Battisti; fate ora, o ragazzi, che le vostre generazioni siano le generazioni dell’amore, le generazioni del libro e dell’aratro, pacifico livellator dei campi dove noi sapemmo soltanto scavare interminabili trincee. La voce dei morti Dai campi di battaglia ormai deserti dallo Stelvio a Monfalcone, dai mille cimiterini solinghi, abbandonati sotto le nevi alpine,

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una parola di dolcezza scende a voi, o ragazzi, dopo tanto soffrire. Dicono i nostri cinquecentomila morti: «Quarantadue mesi ci siamo restati, e quando gli altri tornarono a casa ci siamo restati per sempre; ma quando l’ora è venuta, sul gelo dell’alpe o nel fango della dolina, una speranza ci ha carezzato, soave nell’ultimo addio come una mano materna: la speranza che tanti tormenti avrebbero lasciato ai vivi un po’ più di bontà. Dimenticatelo pure o voi, per i quali siamo morti, tutto quello che abbiamo sofferto, tutto quello che abbiamo combattuto. Non importa che ci veniate a visitare in questi squallidi cimiteri così fuori di mano; ci vuol troppa fatica per salire su queste mulattiere: noialtri ve lo possiamo dire, che per tre anni ci s’è incamminato. E non importa che ci portiate fiori: sotto le croci di legno, anche se la tormenta stinge i nomi, non ci si sta poi tanto male; poiché ci si consola solo a pensare che il nostro dovere meglio che si poteva l’abbiamo compiuto, e che la vittoria che v’abbiamo lasciato è di quelle che non fanno vergogna ai figliuoli dei vincitori. Il più acuto strazio, la pena più amara non era la sete nei solleoni o il gelo nelle vedette o le gambe stroncate negli assalti: era l’ansia del cuore che diceva, minuto per minuto, durante gli anni che non finivano mai: – E se non si vincesse? e se non si vincesse?... E vi parrebbe giusto, o nostro Signore, se non si dovesse riuscire a dare almeno la nostra vita perché questi tormenti anche i nostri figliuoli non li abbiano a soffrire?... Ma ora che s’è veduto che noi siamo stati più forti unicamente perché eravamo più buoni di loro, e che con una gente che chiede solo di lavorare, agricoltori e marinai, non ce la può la cattiveria di due imperatori, ora bisogna anche ricordare che i bimbi son sempre bimbi, anche se non sanno dir mamma nel dolce linguaggio d’ Italia». Ragazzi, ascoltate la parola dei morti; l’opera che voi dovete compiere per non tradire il sacrificio fatto dai vostri fratelli maggiori, è lunga e faticosa. Ma mentre lavorerete per compierla gli occhi sereni del nostro Vamba vi guarderanno: essi vi diranno che non vi è conquista durevole, di individui o di popoli, che non sia basata sulla giustizia e sull’amore.

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Quelli che non vollero tornare* Ancora una commemorazione, ancora uno sventolio di bandiere, ancora un discorso. Ohimè, cittadini. In Italia, in questa nostra Italia terra dei fiori e dei canti, fioriscono anche i discorsi e le commemorazioni. L’Italia non è più la terra dei fiori e dei canti, essa è, ancora meglio, la terra dei discorsi e delle commemorazioni. Da ogni piazza dei più lontani villaggi fino a quella gran piazza di chiacchiere che è il Parlamento fiumi di parole allagano: e non si pensa che in questo agitato e appassionato dopoguerra in cui tante ferite ci sono da rimarginare, più di cento forbiti oratori vale un cittadino modesto che faccia il suo dovere nell’ambito della sua attività, più di cento discorsi sonanti vale una piccola opera buona, e non si pensa che il mondo non lo rifanno i ciarlatani e i demagoghi colle loro frasi altisonanti, ma lo rifà il contadino che zappa e il maestro che insegna nella scuola rurale e il medico che lenisce il dolore e l’artista che nel secreto del suo studio crea l’opera per il godimento dei suoi simili. Eppure, amici montepulcianesi, io vi parlo: anch’io son qui dinanzi a voi per farvi un di quei passatempi di gente oziosa che sono i discorsi. E vi parrà che questo mio discorso sia in contraddizione. Ma oggi non è un discorso come gli altri: oggi non sono io che vi parlo: non siamo qui per parlare, ma per ascoltare in silenzio: non noi, piccoli uomini vivi, incattiviti dalle nostre ansie e dalle nostre passioni, siamo qui a parlare e a morderci, ma essi parlano, i morti: oggi parlano da questa epigrafe or ora scoperta, oggi parlano da questo raccoglimento i quattrocento morti che Montepulciano lasciò nella guerra. Ascoltiamoli in religioso silenzio, o amici: le parole che essi dicono non sono le solite: sono più alte delle nostre bassure, dei nostri egoismi: le parole che essi vi dicono sono parole di pace, di bontà, di fratellanza.

* APC, Bozza di discorso che Calamandrei intendeva pronunciare il 20 settembre 1921 a Montepulciano, in occasione dell’inaugurazione di una lapide ai caduti. Vedi ora Piero Calamandrei, La lapide della discordia. Orazioni sulla Grande Guerra. Montepulciano e Siena 1920-1923, a cura della Società Storica Poliziana, introduzione di Silvia Calamandrei, Le Balze, Montepulciano 2006.

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Quattrocento morti: quattrocento nomi, che, a volerli scrivere tutti, riempirebbero tutta una parete. Quattrocento morti: quattrocento tragedie di madri e di spose, quattrocento pianti, che pure sono una stilla di tutte le lacrime che hanno avuto le madri dei 500.000 morti d’Italia. Parlare di loro degnamente, noi non possiamo. Che volete che possiamo dire noi di grande adeguato alla semplicità serena della loro morte? Onorarli sarebbe stolta presunzione: come possiamo onorare colla nostra presenza di vivi coloro che sono tanto più alti di noi? Una sola forma di onoranza sarebbe degna di loro: come quando, prima dell’avanzata, sotto il roccione, lungo l’ultimo camminamento, cinque minuti prima che venisse l’ordine di avanzata, il tenente faceva la chiama del suo plotone: via via che pronunciava i nomi, si sentiva nell’ombra una voce bassa ma ferma, che diceva: Presente. Così, per onorare questi nostri morti, nessuna altra forma migliore che quella di chiamarli ad uno ad uno, qui sulla piazza del loro paese, tutti ufficiali e soldati: e a quell’appello nel cuore delle madri sentirebbe anche qui i loro figliuoli: Presente! Presente! Come presenti sono questi nostri morti in tutti i borghi d’Italia, in tutte le piazze d’Italia: presenti che non vale ira o faziosità di partiti a disconoscerli: presenti che non vale miseria di politicanti, fango di corrotti a insozzarli. Peregrinate, o amici, per tutte le terre d’Italia, dalle Alpi alla Sicilia, andate nei più remoti borghi alpestri, fin nei paesi distrutti dal terremoto, ed ivi nella casa comunale, nella piazza troverete un segno di marmo, che ricorda la unità nazionale d’Italia, col nome dei morti. Ma no, essi non sono i morti: io amo meglio ritenere che in questi mille cartelli vi siano i nomi dei vincitori. Poiché la guerra non siamo noi che l’abbiamo vinta, noi che siamo tornati: la guerra l’hanno vinta quelli che sono restati. Io non posso ricordare senza sentirmi un nodo di profonda commozione alla gola quel giorno dei morti che fu l’ultimo della guerra, quel 2 di novembre in cui le fanterie italiane mossero per l’ultimo assalto sulla via di Trento. Era un pomeriggio cupo e grigio, pieno di funebre malinconia: e fu verso le tre di quel pomeriggio senza sole che dalle trincee di fondo valle, tra l’Altissimo e Coni Zugna, da quelle linee che da tre anni erano ferme a sbarrare la via, che i reparti d’assalto si mossero a sfondare le linee austriache. Dopo poco più d’un’ora dall’inizio la linea di battaglia si

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spostò in avanti, verso Rovereto: e mentre giù in fondo alla valle il fumo del bombardamento rendeva anche più cupo quel tramonto senza sole, in quella terra di nessuno che c’era tra le antiche trincee e la linea di combattimento, una strana calma piena di tanta repressa gioia e di tanta malinconia era nei nostri cuori. Io andavo silenzioso con qualche compagno sulla via maestra che porta a Rovereto, su quella via che da cinque anni era tagliata dalle opposte trincee e nella quale ora finalmente, dopo quattro anni, si poteva camminare di giorno, mentre la linea di battaglia si spostava in avanti. La via sulla quale da anni uscivano soltanto le pattuglie durante la notte era libera e sola: elmetti e fucili arrugginiti, muretti di sassi; appostamenti. E mentre camminavamo verso Rovereto, in questa terra misteriosa come una terra nuova, colla sensazione precisa che quella era la volta buona e che finalmente le immobili trincee si lasciavano indietro, [d’]improvviso, come se una voce me lo avesse soffiato mi sovvenni che quello era il giorno dei morti: pensai che a quell’ora, in mille cimiteri di mille paesi, milioni di madri piangevano i loro morti, quei morti il sacrificio dei quali aveva preparato questo giorno di vittoria e quasi sentii rammarico di lasciare lì i cimiteri seminati da quattr’anni di resistenza, di lasciare soli soli i nostri morti: e quasi vergogna che ad andare avanti, ora che la via era libera, toccasse a noi, e non a loro che soli erano artefici di quel giorno... Le trincee alle quali da quattro anni eravamo attaccati mi apparirono allora non più come una fascia di fosse e di reticolati dallo Stelvio al mare, ma come una fascia di croci e di tombe: i nuovi confini della patria segnati da una striscia di cimitero. E una preghiera nel cuore: «O nostri morti, o voi che siete caduti in questi quattro anni di passione, o voi che vi siete immolati per mettere più avanti di un metro un paletto di reticolato e per riconfermare con la vostra fede la via nell’ora dello sconforto, o cari fratelli morti, questa è l’ora vostra. Ora che la vittoria sta per giungere, voi dovete coglierla: alzatevi e avanzate a bandiere spiegate verso Trento e verso Trieste, o grande esercito di fantasmi. Passate in avanti come una ventata di spiriti verso la gloria che è vostra...». Ma i morti non sanno che farsi della gloria: non sentirono quella festa che era per loro. Stettero rannicchiati in silenzio sotto le loro piccole croci, chiudendo nel cuore la serenità del loro dovere compiuto, serbando gelosamente nel cuore il dolore sottile di

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quella palla nemica che aveva consacrato al dovere la loro giovinezza spezzata, e ci lasciarono andare avanti noi, i superstiti, i peggiori. Ma i vincitori furono loro: essi che non vollero tornare. Quando la vittoria fu raggiunta e la pace fu firmata tutti tornarono alle loro case, ma non essi; tornarono i disertori, che avevano tradito la patria, ma non essi; tornarono i traditori, ma non essi; tornarono gli imboscati che avevano fatto la guerra a cento chilometri dalla fronte a far gli scritturali o i meccanici, ma non essi; tornarono tutti gli speculatori che della guerra avevano fatto un commercio per trarne un milione o una croce di cavalieri, ma non essi. Essi non tornarono, che andarono avanti e non si voltarono indietro; e non udirono le voci delle madri e delle spose che li richiamavano indietro; e non si misero in mostra, e non si nascosero, e guardarono avanti... I migliori: e stanno in prima fila gli ufficiali, questi figli della borghesia che si è svenata senza ritegno nella guerra. Dolci nomi, che non posso ricordare senza un singhiozzo delle più care memorie dell’adolescenza. Ve li dico come mi vengono alla mente, non per ordine di merito, ma per ordine... Ma anche, in questi morti, non bisogna dimenticare i soldati semplici: i fanti, gli alpini, i figlioli della terra, i contadini, i plotoni grigi di fanteria. Nessuno ricorda i loro nomi all’infuori delle madri. Ma uno solo voglio ricordare io, che tutti li simboleggia. Angiolino Corteccioni, il contadino delle Grazie, della leva 1895, morto a... Voglio ricordarlo perché egli è partito per la guerra, è stato alla guerra e alla guerra è morto con la stessa semplicità con cui zappava il suo campo, come un’opera da secoli stabilita, senza chieder perché. Scoppia la guerra: i contadini non sanno perché. L’Italia entra in guerra: la Patria li chiama e i contadini non sanno perché. Cosa sia questa patria non lo sanno: lo intravedono forse, ma la borghesia non gliel’ha insegnato. Eppure partono. Angiolino era un giovinetto pieno di vita: di quella spensierata giovinezza che hanno i lavoratori dei campi. Viene la sua ora: parte senza chiedere perché: parte perché bisogna partire. Parte perché tutti partono. Fa i suoi mesi d’istruzione, la sua mano abituata alla zappa impara a maneggiare il fucile e la bomba a mano. Scrive ai suoi vecchi che la vita militare non è bella. Poi va in trincea: gli mettono l’elmetto, gli danno il suo pacchetto di medica-

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zione: arriva in trincea: impara a conoscere il sibilo delle fucilate, il fischio dei proiettili. Fa la vedetta: scrive ai suoi vecchi che la guerra non è poi tanto brutta... Un giorno, nel cambiare, mentre va per un camminamento, una granata austriaca lo stronca. Una croce di più in un cimiterino. Nient’altro. I suoi vecchi non hanno più lettere. Sanno che è morto. I giornali non parlano di lui. Così, semplicemente: così per centomila e centomila altri. E i vecchi, che zappano la terra, domandano: ma perché son morti? Perché... Perché? Oh, il perché non possiamo dirlo noi, piccoli uomini ignari! Grandi leggi, superiori a noi, guidano questo nostro misterioso mondo verso i suoi destini. Ma certo, e questa è la fede che ci guida, questo sacrificio non può essere stato vano: non solo perché esso ha dato all’Italia le terre che erano sue, ma perché esso ha avvicinato un’era di fratellanza tra i popoli, checché ne pensino i pessimisti, che regnerà la concordia di tutte le Patrie. No, la loro morte non è stata vana (ma che essa non sia stata vana dobbiamo noi superstiti pensare, avvelenati da tutto ciò che c’era di cattivo). E forse, o madri in pianto, di tutta la gioventù, di tutte le generazioni che hanno fatto la guerra, i morti non sono i più infelici: essi infatti hanno avuto la serena coscienza di morir per una causa giusta. Tutti quelli che hanno fatto la guerra sul serio, là dove ogni nuova alba pareva un dono insperato e si pensava che ogni notte poteva esser l’ultima, e ogni tramonto visto attraverso la feritoia dava l’impressione di un addio, sanno che profonda impressione di tranquillità e di serenità quasi ascetica dava la coscienza del preciso dovere da compiere. La vita della giornata era fermamente segnata: si sapeva cosa si doveva fare: si sapeva da che parte guardare. Gomito a gomito, coi fucili spianati in una sola direzione, si sapeva da che parte era il nemico: e quanto più grande era la certezza che al di là di noi c’era la morte, tanto più forte era il vincolo di fraterna solidarietà e tenerezza che ci stringeva con quelli della nostra stessa trincea... Dolcemente son morti, quelli che son morti così. E a ripensare quel tempo, in cui si moriva, ma si sapeva perché si moriva, noi che siam restati in questo caos di odi scatenati che è il dopoguerra, con questo ribollir di bestiali passioni per le quali c’è da temere che colui che ti sta a lato e parla la tua lingua sia il tuo nemico, si prova un infinito senso di amarezza e di nostalgia. Quasi si pensa che la morte in guerra sia sta-

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ta per loro, che erano migliori di noi, un premio che noi non ci siamo saputi meritare. Certo nelle anime dei morti in guerra c’è un profondo sereno: c’è uno stellato senza nubi. E se qualche nube è capace di intorbidare ancora per un momento la loro serenità, essa svapora fino a loro, come una maligna caligine delle bassure, da questo nostro mondo pieno di risse: i morti, in cambio di tutto ciò che ci hanno donato senza nulla chiedere, una sola cosa chiedono a noi superstiti: di non far dubitare ad essi neppure per un momento che il loro sacrificio sia stato vano... Io so che i morti non abbandonano le vette e i piani dove sono stati per tre anni. Se noi andiamo a visitare oggi, col cuore stretto da una infinita malinconia, quelle trincee che ancora restano, ci sembran vuote e rovinate; ma i nostri occhi mortali non vedono: le ombre dei morti son ancora lì, ognuno dinanzi alla propria feritoia, a guardare quei pochi metri di terra che per quattro anni furono il mondo di ciascuno. E talvolta questi morti si riuniscono nei ricoveri delle trincee: nei ricoveri fondi, ove tante volte, mentre di fuori infuriava il bombardamento, essi son stati da vivi, al lume di candelina, a scrivere una cartolina in franchigia alla famiglia lontana. Si riuniscono nell’ombra, in quei ricoveri mezzi crollanti, dove filtra attraverso l’imboccatura un chiarore di luna: stanno lì, in silenzio, senza nulla dirsi. Solo paghi di esser ancora insieme, colle stesse mestizie, a guardare i monti, il Grappa, il Sabotino, il Pasubio, e guardare il Piave che canta... Eppure qualcosa turba quel loro sereno raccoglimento di spiriti: da lontano lontano par che il vento porti ogni tanto come il fragore di una battaglia: e i morti ne trasaliscono. Da dove viene quel lontano fragore di fucileria? I morti scuoton la testa. No, non son quelli gli ululati di 305 austriaci, tremendi come un bolide precipitante dai cieli; non sono il lacerante fragor delle bombarde, che squarciavano il terreno; non è il caratteristico fischio delle artiglierie di medio calibro, non è il crepitio delle mitragliatrici o il fragore dei fucili... Ohimè più terribile è quel fragore... È il fragore della guerra civile: sono armi italiane che spezzano cuori italiani... E i morti che per quattro anni non hanno tremato al fragor della guerra vera, rabbrividiscono a quel fragore lontano che vien dalle guerre d’Italia e sale fin su al silenzio di quelle vette ora deserte; e cadono lacrime sulle loro ombre, come una triste rugiada...

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Ohimè, amici miei, non macchiamoci ancora di questo pianto dei morti che ricade su noi. Udite udite quello che ci dicono i morti di lassù: Dimenticatelo pure, o voi per i quali siam morti, tutto quello che abbiamo sofferto, tutto quello che abbiam combattuto: non importa che ci veniate a visitare... Sotto le croci di legno non ci si sta poi tanto male... La pena più amara... Ma ora che s’è veduto, ora, ricordatevi, o fratelli che avete combattuto nella stessa trincea, che le armi con cui s’è combattuto nella guerra contro il nemico diventano sacre e portano sciagura a chi contro il fratello le vuole adoprare. Attaccate accanto al focolare le sacre armi con cui per quattro anni avete difeso la vostra terra e il vostro diritto: ponete al chiodo del muro l’elmetto ammaccato, e la baionetta arrugginita e il fucile che le vostre mani hanno lustrato. Serbateli come un ricordo, che li vedano i vostri nipoti, quelli che avranno tutto il bene nato da questo grande male. Ma maledetto tra voi quello che ancora stacchi le armi dal chiodo quando la Patria non chiama: maledetto quello che crede di poter contro il fratello adoprar l’arma fatta contro il nemico... Altre armi ci vogliono, ora che la guerra è finita: l’aratro che spezza la terra, la penna che dissoda i cuori: basta coll’uccidere, fratelli; seminare bisogna, seminare. Noi che per quattr’anni sul confine sostenemmo l’atroce violenza della guerra, noi che per quattr’anni chiudemmo nel cuore l’amore per far del nostro odio freddo l’arma della vittoria, vi diciamo, o nostri fratelli, che colla violenza e coll’odio non si fondano i regni. Arate le trincee, arate i solchi, scavati nei cuori. Fede, amore, pensiero, o fratelli superstiti. Basta colle violenze, basta coll’odio. Insegnate, non uccidete. Persuadete. L’eredità che vi abbiamo lasciato non è la violenza, santa se usata a tempo; non è l’odio, che svanisce in fumo maligno come il fumo di una granata; non è il coraggio, non è l’eroismo... È soprattutto la bontà, l’amore, lo spirito di sacrificio. Non insozzate questa eredità colle lotte fratricide. Pensate, fratelli, che ogni colpo sparato nelle contese civili ferisce i nostri cadaveri. Sui nostri petti squarciati dalla mitraglia austriaca non colpite con proiettili italiani!

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Lezione di una vittoria* Tra le canzoni di guerra – non quelle composte per arte dinanzi al piano da maestri esperti di musica, ma quelle intendo sbocciate su spontanee ed anonime come fiorita alpina dall’anima del nostro popolo grigioverde e trasmesse di trincea in trincea, di plotone in plotone – tra le canzoni di guerra, tutte grandi e solenni, una ve n’è che a parer mio è la più bella e la più solenne, tanto da raggiunger le vette del sublime: è quella che canta il ritorno dell’alpino. Voi ne conoscete, o amici combattenti, il sublime ritornello, straziante e tragico come un grido che lacera il cuore; ma anche chi non è stato alla guerra ha avuto occasione di udir di recente, per merito di una benemerita società cittadina, questo canto meraviglioso. Ma se la musica è bella, non meno belle sono le parole che la accompagnano. Ricordate? La canzone si apre con un fresco esordio di sapore idillico, sorridente e gaio. C’è «Teresina in cameretta – che ricama rose e fiori». Ed ecco, mentre ella è lì che forse prepara il suo corredo (e par di vedere la sua testa bionda che ogni tanto fa capolino fra il basilico e i garofani della finestrella), qualcuno dalla strada le grida che è tornato dalla guerra il suo fidanzato: Vieni abbasso Teresina ch’è riva il tuo primo amore...

E Teresina, tremante di gioia, ma con un’aria furba di simulata indifferenza, risponde: Se l’è riva lassa ch’el riva che mi son pronta a far l’amore.

E l’alpino si presenta sulla porta. Ma qui la canzone, da idillio scherzoso, si trasforma a un tratto, con un di quei colpi d’ala che

* ISRT, Fondo Piero Calamandrei, b. XI, f. 2, Discorso pronunciato il 15 aprile 1923 nella sala del Risorgimento del Palazzo Comunale di Siena, per la consegna delle medaglie ricordo agli ufficiali decorati. Poi pubblicato in «Il Ponte», novembre 1962, pp. 1443-1450, col titolo Lezione di una vittoria.

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son dono soltanto del genio o dell’istinto anonimo del popolo, in solenne epica. La ragazza, alzando la testa dal suo lavoro, s’era immaginata di rivedere il suo fidanzato come lo vide partire coscritto: un bell’adolescente roseo e biondo, fiero delle sue verdi mostrine e della sua penna baldanzosa, sorridente nei suoi occhi azzurri di montanaro. E invece... chi è quella figura che s’inquadra nella porta e l’occupa tutta colla sua maschia possanza? Sul gran petto quadrato il grigio verde lacero ed arso cade a brandelli: le mostrine sono scolorite come foglie di quercia strappate dall’uragano: la penna sul cappello sgualcito è troncata a metà. E la faccia... oh quella faccia: bruna ed arida, come imbevuta di fango o di fuliggine: rugosa la fronte, sulla quale cadono ciocche di capelli scomposti; e i grandi occhi torbidi e profondi come un cielo procelloso... e la ragazza, difronte a quella scarna faccia abbronzata, non si sa se più smarrita dalla sorpresa, o più tremante dalla commozione, gli rivolge una triplice domanda, degna di una grande epopea. Dove sei stato, mio bell’alpino, dove sei stato, mio bell’alpino, dove sei stato, o bell’alpino mio, che tu ha’ cambia’ colore?

«Cambia’ colore». Null’altro. Ma queste due sole parole sono grandi, umanamente e artisticamente sono un poema. E più grande è la risposta dell’alpino, che parla pacato e sobrio, senza vanti e senza verbosità, come parlano gli eroi veri: È stata l’aria dell’Ortigara È stata l’aria dell’Ortigara che mi ha cambia’ colore.

Semplicemente; lo dice con la voce rotta, quasi volendo sfuggire alla curiosità. Non vuole che la sua donna sappia quel che c’era lassù: egli è mutato così solamente perché il sole di montagna abbronza la pelle, solamente perché la brezza delle cime scompiglia i capelli. L’aria dell’Ortigara... ma della mitraglia e delle bombe che facevano strazio lassù, e delle bombarde che fioccavano come sinistri uccellacci di preda, e del veleno dei gas asfissianti, e dei ruscelli di sangue onde si abbeverarono le rupi della tragica cima

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l’alpino non parla: degli orrori e delle grandezze vissute egli vuol tacere: egli sa che ogni parola umana sembrerebbe ormai una profanazione di quel sacro ricordo: egli ha, il grande alpino, il pudore del valore. A questo grande alpino che non ama narrare quanti orrori ha visto e quanto ha sofferto, a questo alpino taciturno che ha il pudore dei ricordi, io penso o amici decorati di medaglia al valore, quando guardo il vostro nastrino azzurro, col quale voi rispondete in silenzio alle domande di chi vorrebbe da voi un dettagliato racconto delle vostre gesta d’eroi. Azzurro è il vostro nastrino, come il cielo sereno, come i fiordalisi che fiorivano nei campi del Veneto durante le giornate della vittoria sul Piave, come il fior di genziana che sulle vette combattute vi salutava dall’orlo della trincea, come gli occhi dei bimbi dei paesi di confine che vi guardavano supplici invocando da voi che risparmiaste loro la prova della invasione straniera. Ma se esso è azzurro, quante nubi di tempesta [ci sono] dietro quell’azzurro, quanta foschia di bombardamenti, quanto guizzare di sinistri incendi, quanto sangue e quante lacrime, amici! Medaglia al valore: chi non è stato alla guerra è tratto a considerare la medaglia al valore come il premio dell’episodio di un’ora o di un momento, come il segno di un fortunato scatto di ardire che portò alla conquista di una trincea o alla cattura di qualche prigioniero. Nella medaglia al valore vedono i profani solamente l’avventura eroica che appare dalla motivazione, quasi che la medaglia al valore fosse poco più che il premio di una gara ginnastica... E invece quanto più profonda e più ricca è per ognuno di voi la storia di quel nastrino; quanta parte di voi, delle vostre gioie e delle vostre speranze, c’è immolata e consacrata dietro quel simbolo, quanto ardore di dolorante umanità c’è racchiuso in esso! Dolorante umanità, virtù più pura e più grande del valore italiano, fatto, più che di temeraria gagliardia violenta, di cosciente sacrificio. Spesso mi torna alla mente, come uno dei ricordi più significativi di tutta la mia vita di combattente un episodio, semplice, modesto, appena una sfumatura, come mille anche voi ne serberete fra le vostre memorie di guerra. Fu nel maggio del 1916, durante la prima offensiva austriaca nel Trentino. Ricordo che col mio plotone di fanteria ero stato distaccato a difendere un costo-

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ne boscoso sul fianco dello Zugna, che incombeva sulla Vallarsa. Eravamo lì, distesi fra gli alberi senza trincea, senza reticolati, in attesa che gli austriaci, finito il bombardamento, avanzassero: ma i grossi calibri risparmiavano il bosco nel quale noi eravamo ignorati, e di lassù potevamo con tutta calma assistere al metodico svolgersi del piano nemico, le cui artiglierie distruggevano ad uno ad uno giù sotto di noi, inesorabilmente, i paesini bianchi della sottostante vallata, e noi, col cuore stretto, potevamo misurare in tutto il suo orrore anonimo questa opera di distruzione, e vedere ad uno ad uno i campanili delle chiese in quei grandi rosoni di fumo e di rottami che sollevano da terra i 305 e tanto più sentire la crudeltà di quelle raffiche di morte in mezzo alla festa di quella bella campagna fiorita dal maggio. Io mi aggiravo qua e là, tra gli alberi per parlare coi miei soldati: ed ecco che ai piedi di un querciolo scorsi, mi par di vederlo ancora, si chiamava Cerrini, uno dei miei soldati, uno di classe anziana, che seduto col fucile accanto a sé posato tra l’erba guardava intensamente, assorto, qualcosa di bianco che teneva tra le mani. Mi avvicinai cautamente alle sue spalle senza che egli udisse e vidi: vidi che aveva in mano una fotografia ingiallita, di queste fotografie un po’ goffe come se le fanno i contadini nei giorni di fiera da qualche fotografo girovago, nella quale erano raffigurati una donna non più giovane e due bambini in abito domenicale, in quell’atteggiamento un po’ artificioso e impacciato delle persone che posano dinanzi all’obiettivo. E quando, dopo qualche istante, chiamai il mio soldato per nome per risvegliarlo da quella sua contemplazione, egli si alzò di scatto e col rovescio della mano si asciugò rapidamente gli occhi perché non m’accorgessi che piangeva... Così [il] Soldato Cerrini, della classe del 1878, in quelli che forse erano gli ultimi istanti della sua vita perché l’attacco austriaco si attendeva di minuto in minuto e la consegna era semplicemente quella di morire sul posto, si preparava al sacrificio piangendo sulla scolorita fotografia della sua moglie e dei suoi figli... E anche voi, o medaglie d’argento, e anche voi forse, un minuto prima di compiere la vostra gesta eroica, avete pianto pensando al vostro amore lontano: e la vostra virtù più alta non è stata quella di compiere nell’ora vostra l’atto eroico quanto la paziente tenacia colla quale per quattro anni avete saputo aspettare, serenamente aspettare quell’ora. E c’era forse una testa canuta di madre che da lungi vi tendeva le braccia tre-

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manti, e siete restati; e c’erano forse rosee manine di bimbi, che da lungi vi facevano cenno di tornare e siete restati: e c’era forse l’amore, tutto il sogno tutta la ragione della vostra giovinezza che da lungi vi invocava coi singhiozzi e voi siete restati. E non avete voluto guardare indietro: e quando l’ora è giunta, col cuore che vi si spezzava ma col riso sul labbro, avete mormorato: «Addio mamma, addio figliuoli miei; addio amore... Soldati avanti, fuori dalla trincea!». Ah, compagni d’arme, ora che la guerra è finita colla vittoria possiamo ben dirlo: non tutte le partenze e non tutti gli addii sono stati pieni di ebrezze, pieni di giocondità, pieni di festa, come quella prima partenza del maggio 1915, quando tutte le piazze d’Italia palpitavano di tricolori e di canti, e tutti s’aveva paura di arrivar troppo tardi, e ci pareva che varcato il confine tutta la guerra dovesse essere fino a Trento e a Trieste, una marcia trionfale. Dopo quella prima partenza tante altre partenze abbiamo dovuto passare, e ripeter gli addii che sembravano sempre più duri quanto più la guerra durava, e rinnovare mille e mille volte con reiterati voti la fede che parea vacillare. Ricordate amici, quanta amarezza, quanto lento veleno noi abbiamo accumulato nei nostri cuori in quelle brevi licenze, pause di sogno nella dura realtà della trincea, che venivano di tanto in tanto a interrompere la monotonia dell’attesa? Si tornava coll’impressione di affacciarsi in un altro mondo: si ritrovava la vita, colle sue carezze, colle sue mollezze, coi suoi sorrisi: c’erano le finestre illuminate, le campane, i tram: le città erano belle; gaie spensierate come prima più di prima; c’era gente nuova che si arricchiva: furbi compari che si facevano pagare i cannoni due volte e gente che sembrava gioire perché la guerra non accennava a finire. Per le vie si udivano strani discorsi. Qualcuno ti fermava, e con aria di paterno compatimento diceva: «Ah, tu sei lassù? Da quanto, da un anno e mezzo? Eh, l’avete voluta la guerra...». E vi piantava lì... E poi incontravate un vecchio amico, robusto e ben pasciuto, con tanto di tricolore al braccio (povero tricolore, quante tristi cose hai coperto!) il quale vi abbracciava: «Oh, caro amico! Come ti rivedo volentieri. Te felice che sei lassù, dove si respira aria di gloria! Noi qui senza una soddisfazione, senza un momento di esaltazione. E poi... manca anche lo zucchero». E un terzo: «Oh, Lei è qui: o quando torna lassù?» «Sa, appena ho finito la licenza» «Ah, e in che arma è...»

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«Fanteria.» «Eh, fanteria: uh, auguri»... E il tempo volava vertiginoso: e fin dal primo giorno di licenza si aveva la impressione quasi fisica, come di una lima che consumasse il cuore, di questo ultimo respiro di felicità che si sfaceva, quasi si polverizzava... L’idea della partenza era presente fin dal giorno dell’arrivo: e in un soffio s’arrivava alla partenza. La tradotta, lunga lugubre come un convoglio funebre, piena di soldati che tornavano in su: la stazione immersa nelle ombre notturne, con qualche lampione fioco e giallastro tra la pioggerella invernale... Le ultime strette, le ultime promesse. Si cercava di ridere: «Sciocca, non è mica detto che tutti alla guerra si debba morire»... E poi lo squillo di tromba... Ancora una stretta di mano dal finestrino... Eppoi un’ombra laggiù sulla banchina... poi più nulla: e il cuore che martellava: si ritornerà? E siete ritornati, voi, i superstiti tra i migliori, feriti, invecchiati, consumati, ma colla certezza di aver conquistato una di quelle vittorie di cui non hanno da vergognarsi i figli dei vincitori. E la Patria ha voluto premiare in voi non solo l’eroismo di un’ora, ma la mirabile tenace resistenza a quattro anni di attesa, di sconforti, di amarezze, di sofferenze, la miracolosa resistenza a questo logorio di quattr’anni in cui per quattro anni, minuto per minuto, avete avuto la stessa fede e la stessa volontà, avete minuto per minuto rinnovato il proposito di sacrificare al bene d’Italia ogni cosa più diletta. E oggi il Comune di Roma, offrendovi, per generosa iniziativa della benemerita Sezione senese dell’Associazione Uff. in congedo, le medaglie coniate nel bronzo nemico, vuol dirvi ancora una volta grazie della vostra tenacia e della vostra fede, resistente oscura e gagliarda come il bronzo di cui sono coniate. Ma a ricever queste medaglie, o amici, voi non siete soli. Qui, mentre noi parliamo, in questo meraviglioso palazzo edificato dai vostri padri, che porta in una delle sue sale più antiche una celebre effigie della Pace, di quella Pace per cui voi avete combattuto e vinto, una folla silenziosa, una infinita gente di ombre s’è radunata dietro di voi e vi circonda e vi preme... Non li vedete? Sono mille e mille... sono centinaia di migliaia... Questa grande sala piena di storia è troppo angusta per contenerli: le pareti si dissolvono... I cieli di Palestro e di S. Martino si slargano: dietro quei colli già consacrati dalla leggenda grandi vette ugualmente gloriose e tanto irrorate dallo stesso sangue italiano ma tanto più copioso e re-

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cente si affacciano tra le nuvole: il Col di Lana, Montenero, il Pasubio, il S. Michele, già nomi di leggenda, eppure ancora, o fratelli, nel vostro cuore nomi di tremenda realtà... Ed ecco da queste finestre spalancate per miracolo sugli austeri orizzonti dell’epopea, ecco a mille a mille, dai cimiterini del Carso e dello Zugna, ecco a mille a mille i nostri morti, i vostri morti, o decorati, i vostri soldati, i fidi compagni delle vostre gesta e della vostra gloria. Lasciateli passare. Son essi che divisero con voi il fango della trincea e il gelo delle vette alpine, essi che nella notte infida solcata dai riflettori uscirono con voi fuori dei reticolati nella pattuglia, essi che con voi si lacerarono sulle aguzze roccie le mani e i ginocchi per arrampicarsi con eroici acrobatismi sulla vetta ardua strappata al nemico, essi che quando ordinaste l’avanzata avanzarono, essi che quando indicaste loro la via che portava alla morte vi entrarono senza esitare e morirono... Lasciateli entrare: hanno, sulle lor vesti di fantasmi, i colori delle vostre brigate, i numeri dei vostri reggimenti: sono i soldati delle vostre compagnie e dei vostri plotoni: vengono qui, silenziosi e fedeli ancora ad assistere alla gloria dei loro ufficiali: vengono qui, a gioire con voi delle vostre medaglie: poiché sentono, o decorati al valore, che quelle vostre medaglie sono un po’ anche di loro, che questa vostra gloria è anche la loro gloria... Gloria tanto più grande, in quanto questi umili fanti si sono immolati alla Patria senza che nessuno avesse mai loro insegnato a conoscerla. Noi, figli della borghesia educati nella scuola classica fin da bambini abbiamo imparato, nella famiglia e nella scuola, a conoscere la Patria e a venerarla nelle opere di Virgilio e di Dante, e quando la guerra contro l’Austria è scoppiata abbiamo sentito dalla voce della storia quale era la via che l’Italia doveva seguire se non voleva rinunciare a se stessa. Ma a loro, ai fanti, ai pastori della Sardegna, ai minatori delle zolfare siciliane, ai montanari della Calabria o dell’Abruzzo, ad essi, lasciati senza scuole e senza strade, ai quali lo Stato non è apparso sotto altra veste che quella del carabiniere o dell’agente delle tasse, ad essi chi insegnò la Patria? Oh, amici combattenti, a voi che siete un vivente esempio di valore e di amor patrio, a voi che quando parlate avete il diritto di essere ascoltati e creduti, perché prima di parlare avete saputo operare, spetta, meglio che ad ognuno, di essere i maestri di carattere delle nuove generazioni.

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A queste nuove generazioni, irrequiete ma piene di promesse come una giornata di marzo, che non hanno fatto la guerra ma che sono cresciute in un’atmosfera arroventata di eroismo che ha dato loro la nostalgia della gloria e il desiderio generoso ma spesso irragionevole e scomposto di far qualcosa di grande per la Patria, a queste generazioni dalle quali dipende l’avvenire del nostro Paese, additate questa infinita schiera di umili morti, e mostrate quello che essi hanno fatto e quello che resta da fare. Tre anni fa, io lo ricordo, nell’anniversario della battaglia di Curtatone e Montanara, se volemmo celebrare la memoria dei nostri morti e salutare la bandiera tricolore bagnata del loro sangue, dovemmo rinchiuderci, come a celebrare il rito di una religione proibita, nell’atrio della nostra Università, poiché il Prefetto non ci permise di tener la commemorazione tradizionale in pubblico. Oggi, dopo tre anni, il tricolore sventola trionfante a tutte le finestre e su tutte le torri; è qualcosa: ma non è tutto, o amici. Poiché il tricolore non dev’essere soltanto alle finestre, forse anzi è bene che alle finestre non vi sia tanto spesso perché i simboli sacri non debbono essere logorati e impiccoliti dall’abitudine, ma deve esser sopratutto nei cuori, dove potrà farlo fiorire solo un’opera lunga, paziente, amorosa di educazione, solo un apostolato di decenni e forse di cinquantenni a base di scuole, a base di bontà, a base di fratellanza. Ai giovani irrequieti che aspettan la vostra parola, dite, o decorati al valore, che la Patria si insegna, ma non si impone; dite che finita la guerra, la Patria si serve non più colle armi in pugno, ma col lavoro disciplinato, modesto, oscuro, col fare umilmente il proprio dovere nella vita normale di tutti i giorni, che ha anch’essa le sue trincee, meno epiche ma spesso non meno eroiche; dite che per la Patria è oggi un fedele servitore, come fu ieri il combattente nella trincea, il contadino che ara il suo campo o il pescatore che veleggia il nostro mare, o anche sì, l’impiegato che consuma le sue giornate in una grigia stanza, facendo da mattina a sera il suo dovere senza sorrisi e senza gloria; dite, voi che siete esempi di valore italiano, che il valore di cui son simbolo i vostri nastrini azzurri, è raccolto spirito di sacrificio, non esaltazione retorica; è consapevole ardire, non incosciente violenza; dite voi, ricordando i celebri versi in cui il Poeta contrapponeva il valore italiano alla tedesca rabbia che nella bella tradizione latina il valore si chiama «virtù» e non «furore».

350

Parte seconda. Scritti e discorsi

Epigrafe per Cesare Battisti* PER LA LIBERTÀ CONTRO TUTTE LE TIRANNIE PER LA DIFESA DELLA NOSTRA PATRIA E DI TUTTE LE PATRIE CONTRO LE TORBIDE FOLLIE DEI CONQUISTATORI PER LA INERME SIGNORIA DEL PENSIERO CONTRO LA BESTIALE TRACOTANZA DEI VIOLENTI PER LA GIUSTIZIA CONTRO LA FRODE PER L’UMILTÀ DELL’ONESTO LAVORO CONTRO LA SPUDORATA BARATTERIA PER LA UMANA BONTÀ CONTRO LE MINACCE CONTRO LE PERCOSSE CONTRO IL BASTONE CONTRO IL PUGNALE PER TUTTO QUESTO TU SALISTI IL PATIBOLO COME UN TRIONFATORE E L’AUSTRIA FU CONDANNATA NON TU BATTISTI DOPO OTTO ANNI DAL TUO SACRIFICIO I TUOI FRATELI DI TRINCEA COLLA GOLA STRETTA DAL PIANTO COME ALLORA TUTTO QUESTO RICORDANO O BATTISTI IN ITALIA

* ISRT, b. IX, f. 3, Epigrafe per Cesare Battisti. Destinata idealmente al busto apposto all’università di Firenze il 16 luglio 1924, nell’ottavo anniversario del martirio di Battisti, venne pubblicata in «Fanteria» (Firenze), il 13 luglio 1924 e poi ristampata da Ernesto Rossi nel saggio L’Italia Libera, che introduce la ristampa di «Non mollare» pubblicata nel 1955 [ora in «Non Mollare» (1925), riproduzione fotografica con saggi di Gaetano Salvemini, Ernesto Rossi e Piero Calamandrei, a cura di Mimmo Franzinelli, Bollati Boringhieri, Torino 2005, p. 50]. Nello stesso fascicolo conservato presso l’ISRT, insieme ad altre epigrafi commemorative della Resistenza, sono conservati i manoscritti autografi di due testi relativi alla guerra 1915-18. Uno fu scritto per la tomba di Carlo Pimpinelli, cugino di Piero Calamandrei, caduto in guerra: CARLO PIMPINELLI / SOTTO-

TENENTE NEL 13° BERSAGLIERI / COLPITO DA BOMBARDA AUSTRIACA / IL 3 MARZO 1918 / MENTRE ERA IN VEDETTA OLTRE IL PIAVE / ALLA TESTA DI PONTE DI CAPO SILE / FU UNO DEI CINQUECENTOMILA / CHE TUTTO DETTERO SERENAMENTE ALLA PATRIA / SENZA NULLA CHIEDERE / FUORCHÉ L’ONORE DI SACRIFICARSI A 20 ANNI / PER INSEGNARE AGLI ITALIANI / AD ESSERE IN GUERRA ED IN PACE / CONCORDI NEL NOME D’ITALIA. L’altra epigrafe, invece, pur ascrivibile all’immediato dopoguerra, non consente una più precisa contestualizzazione: NON FASTOSE ONORANZE / NON SONANTI PAROLE / CHIEDONO I NOSTRI MORTI / PAGHI DI UN’UMILE CROCE / IN UN CIMITERO DI GUERRA / ESSI CHE TUTTO DETTERO / PER NOI VIVENTI / CI DICONO CHE OGGI LA PATRIA / SI SERVE IN SILENZIO / IN PACE FRATERNA / CON OPERE DI BONTÀ.

INDICI

INDICE DEI NOMI

Absburgo, casa regnante, 330. Agosti, Giorgio, L, LII, 5. Albanese, Giulia, Vn. Albano, colonnello, 168, 173, 176, 202. Alessandrone Perona, Ersilia, LII. Alighieri, Dante, XVIII, 205, 212, 216, 307. Angeleri, 63. Ansaldo, Giovanni, IX, LVII. Anselmi, famiglia, 111. Antolini, Paola, 229n. Antonelli, Quinto, 230n. Antonio da Padova, santo, XXX. Arduino, Giuseppe, 267. Artusi, Pellegrino, 123. Asburgo, dinastia, 332. Bacci, Orazio, 114 e n. Balocchi, Enzo, LVI. Balzani, Roberto, LI. Banti, Alberto M., LIII. Barbarani Berto, 174 e n. Bartolini, Luisa Grace, 68 e n, 69, 87. Barzanti, Roberto, LI. Barzini, Luigi senior, 271 e n. Battisti, Cesare, XI-XII, XLIX, 138-140, 215, 323, 333, 350 e n. Beccaria, Cesare, LVI. Bemporad, R., XXXIII, 182. Bermani, Cesare, LIV. Bernardi, 216. Bertacchi, Giovanni, 183-184, 199. Bertelli, Giuseppe (Beppino), 327. Bertelli, Luigi (Vamba), VII-XI, XXVII-

XXVIII, XXXII-XXXIII, XXXVII, XLII, XLVI-XLVII, XLIX, LI-LII, LVII, 5, 55, 182, 224, 324-334. Betri, Maria Luisa, LII. Bianchi, 49. Bloch, Marc, LIV. Bobbio, Norberto, VI, L-LI. Bonacci, tenente, 86. Boris, colonnello, 121. Borsi, Giosuè, 30 e n, 332. Boschi, sergente, 156. Boselli, Paolo, 89n. Bracci Testasecca, Lucangelo, LVI. Bravo, Anna, LIII.

Cadorna, Luigi, XXXVI, 70 e n, 76, 153. Caffarena, Fabio, LIII. Calamandrei, Anna Damaride, 100 e n, 103 e n. Calamandrei, Egidia, XXII, LIII, 5-6, 10, 12, 17, 41, 49, 64-65, 68-69, 79, 86-87, 98, 113, 115, 122, 134, 143, 148. Calamandrei, Franco, XXIII, XLVI, LLI, 143, 148, 152-153, 159-161, 166167, 172, 182, 188-189, 192-193, 196, 221, 224, 230. Calamandrei, Rodolfo, XXII, 5, 10, 114n, 135, 146, 149. Calamandrei, Silvia, V, L-LI, LVI, LVIII, 9n, 230, 263n, 335n. Callaini, Vittorio, XXVI-XXVII, XLII, 188-189, 210, 215-217, 219, 305306.

356 Campisi, Aristide, 299. Canfora, Luciano, LVIII. Capello, Luigi, 278. Caravaglios, Cesare, LIV. Carducci, Giosue, VIII-XII, 68n, 330. Carena, Felice, 263 e n. Casareto, tenente, 217. Casoni, Gaetano, XL, LIV, LVI, 179, 182, 312. Casorati, Felice, 263 e n. Cattaneo, Carlo, LVII. Cavour, Camillo Benso, conte di, LVII. Cerrini, soldato, 345. Ceschin, Daniele, LIV. Chiantoni, 193. Chiosso, Giorgio, LVI. Chiovenda, Giuseppe, 10, 27. Ciarlantini, Franco, XLII, LVI, 212, 214, 216-217, 219, 225, 304. Cicerone, Marco Tullio, XVIII, 275. Ciofini, 94. Cocci, Ada, XII-XV, XVII-XXV, XXXIIXXXIII, XXXVI-XXXVIII, XLVIII, LIILV, 5-6, 9-10, 18, 26, 37, 41, 43, 4647, 51, 55, 57, 61, 65 e n, 69-70, 75, 79-80, 86-87, 91, 94-96, 102, 107109, 115, 118, 121, 124-125, 130, 132, 135, 139, 142-144, 149, 156157-159, 167, 176, 182, 185-187, 189-190, 192-194, 220, 229. Cocci, Clelia, XXII, 10, 41, 65n, 135. Cocci, Lidia, XXII, 10, 41, 65n, 91, 135. Cocci, Nicola, XXII, XLVIII, 10. Codignola, Ernesto, XLIX. Collini, soldato, 174. Collodi, Carlo, X. Colombini, Pio, 6. Comandini, Federico, LVI. Comandini, Ubaldo, 183. Concioli, 85. Conti, capitano, 180. Corbella, Tito, 276 e n. Corteccioni, Angiolino, XLIII-XLIV, 114 e n, 146, 338. Corteccioni, Cesira, 146.

Indice dei nomi Corteccioni, Pietro, 114 e n, 146. Cortellessa, Andrea, LII. Costa, Andrea, LI. D’Annunzio, Gabriele, XVIII, XX, XLII, 48, 101. Da Verona, Guido, XX, 102, 276. De Albertis, Vittorio, 202. De Amicis, Edmondo, XXXVII, 326. De Gregorio, Alfredo, 15, 27, 36. Del Rosso, cappellano, 131. Diaz, Armando, XXXVI, 153. Dondeynaz, Rosalba, LIII. Donzelli, 220. Einaudi, Luigi, XXXVII. Ercole, 14. Fabre, Jean-Henri, 70 e n, 273 e n. Faes, Filippo, 214. Faeti, Antonio, LI. Faracovi, Giovanni, 204. Ferrero, Guglielmo, XXXVII. Ferroni, 135. Filzi, Fabio, XI. Finocchi, Luisa, LI. Flaubert, Gustave, 192. Fraccaroli, Arnaldo, 101 e n. Francesco d’Assisi, santo, XVIII, 97, 275. Francesco Giuseppe, imperatore d’Austria, re d’Ungheria, XI, LI. Franchi, generale, 141. Franzinelli, Mimmo, LVI, LVIII, 350n. Furno, Enrico, 157. Furno, Alberto, 157. Fuscà, attendente, 132, 136-137, 139, 153. Fussell, Paul, XX, LIII. Gadda, Carlo Emilio, 20. Galante Garrone, Alessandro, LVIII, 5. Galba, colonnello, 314. Galfré, Monica, LI. Gallo, Claudio, LI.

LVII-

357

Indice dei nomi Garibaldi, Giuseppe, VIII, XI-XII, XLVI, LI, LVII, 92, 246, 255, 330. Gatteschi, Roberto Pio, 14, 21, 28-33. Gatti, Gian Luigi, LIV, 230n. Gentile, Giovanni, XLII, XLIX, LVI. Georges, Karl Ernst, 269 e n. Gibelli, Antonio, LI, LIV-LV. Gigli Marchetti, Ada, LI. Ginsborg, Paul, LIII. Giolitti, Giovanni, LVI. Gobetti, Piero, XLII, LII, LVIII. Gozzano, Guido, XVIII, 110, 112. Grandi, Dino, IX. Grassi Orsini, Fabio, VLI. Gui, Vittorio, 220. Hugo, Victor, 278. Isnenghi, Mario, Vn, LIV-LV, 229n. Jahier, Piero, LIV.

XVI, XXXII, XLI, XLIX,

Landi, 99 e n. Lecco, Elisabetta, LVI. Leed, Eric J., LII. Lesca Giuseppe, 68 e n. Lessona, Carlo, 9, 27. Lichtenberger, André, 170. Liechtenstein, principe di, 201. Lombardi, Zoe, 6, 144. Lombardo Radice, Giuseppe, 6, 195 e n. Luzzatto, Sergio, Vn, LI, LVII.

Maria di Nazareth, santa, XX. Matteotti, Giacomo, XLIX, LIX. Maurri, 60, 67. Mauzan, Lucien Achille, 276 e n. Mazzini, Giuseppe, VIII-IX, XII, XXXXVIII, LI, LVII, 307, 320, 329-330. Mazzoni, 216. Mazzoni, Guido, 113, 114n. Mengozzi, Dino, LI. Menotti, Ciro, 323. Migliorini, 87. Montale, Eugenio, 52. Montezemolo, colonnello brigadiere, 265. Montuori, Francesca, 263n. Mosconi, 99. Mrázková, Jana, LI. Musset, Alfred de, 137. Mussolini, Benito, XLII. Mussolini, Edda, IX. Nerazzini, 305. Nicolao, Aldo, LI, 324n. Nissim Rossi, Lea, LI. Oberdan, Guglielmo, 36, 323. Omodeo, Adolfo, LVII-LVIII.

XLIX,

Maeterlinck, Maurice, XVIII, 113 e n, 114. Mafalda di Savoia, IX. Maldini Chiarito, Daniela, LII. Mameli, Goffredo, 217, 264. Manaresi, capitano, 299. Mannarini, capitano, 266. Marchiori, colonnello, 121-123. Marconi, Guglielmo, 26. Margherita di Savoia, regina d’Italia, 68n.

Palazzeschi, Aldo, XVIII. Panzini, Alfredo, XVIII, 101-102, 106, 110, 277 e n. Paoli, Giulio, 12. Papa, Catia, LI. Papini, Giovanni, XVIII, 100, 170. Parri, Ferruccio, LVI. Pasini, attendente, 112 e n, 113, 141. Pasquali, Giorgio, LVI. Pastorelli, Giovanni, 268. Pellico, Silvio, 331. Perathoner, Julius, 306. Perugi, caporale, 155, 202. Pimpinelli, Angelina, 51. Pimpinelli, Berto, 187 e n, 199. Pimpinelli, Carlo, 171 e n, 350n. Pimpinelli, Francesco (Cecco), XVII,

358 5-6, 45n, 64, 67, 96, 154-155, 157158, 162, 188. Pimpinelli, Giacomo, 14 e n. Pimpinelli, Laudomia, XXII, 5, 10, 135, 149. Pimpinelli, Lina, 162. Pimpinelli, Maria, 187. Pimpinelli, Mino, 162. Pirandello, Luigi, 102. Pistelli, Ermenegildo (Omero Redi), XLIX-LI, LVIII. Pitacci, 165. Podrecca, Vittorio, XXXIII, 181, 183. Poggi, Enrico, VII, 185. Polese Remaggi, Luca, LVI. Policreti, Sandro, 63, 100-102, 114-115, 117, 119, 121, 135, 138-140, 154-155, 162, 172, 174, 177, 179, 187. Porciani, Ilaria, LIII. Prezzolini, Giuseppe, XII. Procacci, Giovanna, LII. Pugliani, colonnello, 132. Quagliarello, Gaetano, LVI. Regard, Maria Teresa, 230. Rizzi, Bice, 229n. Rizzotti, ufficiale, 208. Rochat, Giorgio, LIV, 230n. Rolandi Ricci, Vittorio, 141, 168. Rolland, Romain, 114. Rosselli, Carlo, LVIII, XLI. Rosselli, Nello, LVIII, XLI. Rossi, Ernesto, XLI-XLII, LVI, LVIII, 350n. Rossi, Marcello, LI. Ruffini, Francesco, XXXVII. Russo, Luigi, LVI-LVII. Salandra, Antonio, 89n.

Indice dei nomi Salvatori, tenente, 299. Salvemini, Gaetano, XII, XXVII, XXXII, XXXVII, XLI-XLII, XLIX-L, LIII-LIV, LVI-LIX, 350n. Sarrocchi, Gino, 192 e n. Scarpelli, Filiberto, XXXIII, 182. Scatolini, sergente maggiore, 268. Serra, Renato, XVIII, 113 e n. Severi, capitano, 180. Slataper, Scipio, IX, 332. Soffici, Ardengo, XVIII, 203, 275 e n, 277, 278 e n, 279, 282. Stendhal, pseud. di Henri Beyle, 278. Suster, 216. Tarugi, Stefano, 100 e n, 119, 152, 179, 182. Thébaud, Françoise, LIII. Tolomei, Ettore, XXXIX, 311. Tolstoj, Lev Nicolaevicˇ, 278. Tondi, VII. Ulivelli, Nino, 194 e n. Ullrich, Hartmut, LVI. Untersteiner, 219. Vacca, 49. Varni, Angelo, LI. Vigorelli, Antonio, 299. Weber von Webenau, Viktor, 200n. Weiss, Egon, 127. Wilson, Thomas W., XXXVIII. Winter, Jay, LVII. Wohl, Robert, LII. Zago, 169. Zampieri, colonnello, 132. Zola, Émile, 278. Zuccoli, Luciano, 102.

INDICE DEL VOLUME

Introduzione di Alessandro Casellato

V

1. L’arcigna confraternita, p. VII - 2. La guerra di Piero, p. XII - 3. Lettere d’amore, p. XIX - 4. Etnologo in sidecar, p. XXV - 5. Educazione militare, educazione nazionale, p. XXXII - 6. La guerra dopo la guerra, p. XL - Note, p. L

PARTE PRIMA

Lettere

Nota ai testi di Silvia Calamandrei

5

1915

9 Verso la guerra, p. 9 - Firenze, p. 10 - Maresca, p. 19 - Campo di Zoro, p. 33 - San Vito di Leguzzano: zona di guerra, p. 37

1916

41 San Vito di Leguzzano, p. 41 - Valli dei Signori, p . 60 - Anghebeni, p. 64 - Matassone, p. 65 - In tenda, p. 79 - Schio, p. 94 - Forte Novegno, p. 95 - Malga Fieno, p. 108 - Pian delle Fugazze, p. 112 - Raossi, p. 118 - Valdagno, p. 119 - Fusine, p. 120

1917

125 Vicenza, p. 125 - Contrada Bosco, p. 127 - Colle Pasquali, p. 132 - Fusine, p. 139

1918

165 Val Posina, p. 165 - Marano, p. 167 - Verona, p. 178 - Val Lagarina, p. 179 - Bolzano, p. 198

360

Indice del volume

1919

223 Trento, p. 223 - Firenze, p. 224

PARTE SECONDA

Scritti e discorsi

Nota ai testi di Alessandro Casellato

229

In retrovia

233

Di rincalzo, coi territoriali, p. 233 - Canto di retrovia, p. 246

All’Ufficio P

257

Consigli di buona scrittura, p. 257 - Come parlare ai soldati, p. 258 - Propaganda, assistenza, vigilanza, p. 260 - Letteratura da trincea, p. 269 - Ai Cappellani militari, p. 282 - Agli Ufficiali medici, p. 284 - Patria amorevole e materna, p. 286 - Sui militari delle terre invase, p. 289 - La Casa del Soldato, p. 292 - Offensiva pacifista, p. 296 - Psicologia dei vincitori, p. 299

A Trento e Bolzano

303

Sulla popolazione trentina, p. 303 - Diario bolzanese, p. 305 - Biblioteca di guerra, p. 306 - Stranieri in patria, p. 309 - Propaganda di italianità, p. 311 - Congedo, p. 312

Di ritorno

315

La guerra tradita, p. 315 - Vamba nostro, p. 324 - Quelli che non vollero tornare, p. 335 - Lezione di una vittoria, p. 342 - Epigrafe per Cesare Battisti, p. 350

Indice dei nomi

355