Wonderland. La cultura di massa da Walt Disney ai Pink Floyd 8858129210, 9788858129210

Nel 1933 viene lanciato nei cinema USA I tre porcellini di Walt Disney. Questo piccolo avvenimento segna l'inizio d

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Wonderland. La cultura di massa da Walt Disney ai Pink Floyd
 8858129210, 9788858129210

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Cultura storica

Di Alberto Mario Banti nelle nostre edizioni: Eros e virtù. Aristocratiche e borghesi da Watteau a Manet L’età contemporanea. Dalle rivoluzioni settecentesche all’imperialismo L’età contemporanea. Dalla Grande Guerra a oggi Napoleone e il bonapartismo Le questioni dell’età contemporanea Il Risorgimento italiano Sublime madre nostra. La nazione italiana dal Risorgimento al fascismo (con A. Chiavistelli, L. Mannori, M. Meriggi)

Atlante culturale del Risorgimento. Lessico del linguaggio politico dal Settecento all’Unità Ha inoltre curato: Nel nome dell’Italia. Il Risorgimento nelle testimonianze, nei documenti e nelle immagini

Alberto Mario Banti

Wonderland La cultura di massa da Walt Disney ai Pink Floyd

Editori

Laterza

© 2017, Gius. Laterza & Figli www.laterza.it Progetto grafico di Riccardo Falcinelli Prima edizione ottobre 2017

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Anno 2017 2018 2019 2020 2021 2022 L’Editore è a disposizione di tutti gli eventuali proprietari di diritti sulle immagini riprodotte, là dove non è stato possibile rintracciarli per chiedere la debita autorizzazione. Proprietà letteraria riservata Gius. Laterza & Figli Spa, Bari-Roma Questo libro è stampato su carta amica delle foreste Stampato da SEDIT - Bari (Italy) per conto della Gius. Laterza & Figli Spa ISBN 978-88-581-2921-0

Indice

Introduzione

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Parte prima. Over the Rainbow I.

Industria culturale e cultura di massa

5

1. L’industria culturale, p. 5 - 2. Generi, p. 11 - 3. Serialità, p. 15 - 4. Intermedialità, p. 21

II.

Narrazioni mainstream

26

1. There’s no place like home, p. 26 - 2. Terra di eroi, p. 29 - 3. ...e vissero (quasi sempre) felici e contenti, p. 42 - 4. Drammi morali, p. 52 - 5. Genere, razza, classe, p. 56 - 6. Lieto fine, p. 61

III. Contronarrazioni in musica: blues, hillbilly, folk

69

1. La «Anthology of American Folk Music», p. 69 - 2. Da New Or­ leans a Chicago, p. 71 - 3. Canti dalle prigioni, p. 76 - 4. Storie blues, p. 82 - 5. Musica dalle campagne, dalle montagne e dalle pianure, p. 92 - 6. Costellazioni hillbilly, p. 99 - 7. Folk radicale, p. 106 - 8. Canzoni militanti, p. 113 - 9. Mappe dell’audience, p. 120

IV.

Un mondo giovane e inquieto

124

1. Essere giovani negli States, p. 124 - 2. Convergenze culturali, p. 133 - 3. Identità controcorrente, p. 139 - 4. «Khaki-wackies», p. 150 - 5. Pin-up, p. 155

V.

Prove di normalizzazione 1. La casa dei nostri sogni, p. 162 - 2. Allarme rosso, p. 165 - 3. Arriva la televisione, p. 174 - 4. Forme della libertà, p. 180 - 5. «Going ­steady», p. 187 - 6. Gli uomini preferiscono le bionde, p. 195

162

vi

INDICE

VI. «Popular music»

201

1. La «popular music» nel secondo dopoguerra, p. 201 - 2. «Pop songs», p. 205 - 3. Storie pop, p. 208 - 4. Hard country, p. 215 - 5. R&B, p. 221

Parte seconda. The Times They Are a-Changin’ VII. Rock and roll

235

1. Giovani delinquenti, p. 235 - 2. Nascita di una nuova musica, p. 238 - 3. Rock and roll e «moral panic», p. 243 - 4. Parabole r’n’r, p. 247 - 5. Tipi da spiaggia, p. 261

VIII. Beat Generation

268

1. «Hipsters testadangelo», p. 268 - 2. Un reading, p. 276 - 3. Sulla strada, p. 283 - 4. Beatnik, p. 289

IX. I Want to Hold Your Hand

299

1. Gioventù ribelle, p. 299 - 2. We Shall Overcome, p. 309 - 3. Il primo Bob Dylan, p. 311 - 4. Dall’altra parte dell’Atlantico, p. 320 - 5. I Beatles, p. 331

X.

Feed Your Head!

338

1. La British Invasion, p. 338 - 2. Dylan goes electric, p. 347 - 3. La metamorfosi dei Beatles, p. 355 - 4. Sulla West Coast, p. 364 - 5. Straniamento rituale, p. 372 - 6. Hey Joe!, p. 384

XI. Suoni e parole del rock

395

1. Nuovi suoni, p. 395 - 2. Narrazioni rock, p. 404 - 3. Rock e movimenti, p. 423 - 4. Un-happy ending, p. 434

XII. L’allineamento dei pianeti

440

1. Hollywood Renaissance, p. 440 - 2. Broadway e dintorni, p. 453 3. Pop art, p. 462 - 4. Radio, news e intrattenimento TV, p. 471 - 5. Un sistema alternativo, p. 477

Conclusioni. Back to the Future

481

Note

503

Bibliografia 569 Referenze iconografiche 585 Indice dei nomi 587

Introduzione

C’era una volta Wonderland, una terra di racconti meravigliosi, narrati con i più potenti mezzi di comunicazione a un pubblico sempre più numeroso e sempre desideroso di ascoltarli: le parole dei romanzi o delle trasmissioni radio, le figure dei fumetti, le immagini in movimento del cinema o della televisione, i suoni delle hit del momento offrivano divertimento, brivido, sollievo, consolazione, proiettando il pubblico nel passato, nel futuro, nel mito o in selezionate declinazioni della contemporaneità. Nato nell’Europa dell’Ottocento, questo mondo si è sviluppato potentemente negli Stati Uniti del XX secolo, epoca nella quale l’industria culturale e la cultura di massa si sono trasformate in uno dei più efficaci strumenti del soft power americano – termine che indica la forza egemonica che la popular culture statunitense è riuscita a esercitare sull’Europa e su gran parte del mondo. C’era una volta Wonderland... ...e ancora c’è, nel senso che le figure archetipiche, le storie, i modi per raccontarle, che hanno caratterizzato la cultura di massa ai suoi albori (diciamo negli anni Trenta-Quaranta), continuano tutt’oggi a colonizzare gran parte dell’immaginario collettivo. Certo, nessuno può negare che molto sia cambiato dagli anni Trenta a oggi, non fosse altro che dal punto di vista degli strumenti tecnologici a disposizione di chi produce intrattenimento e di chi lo consuma. Tuttavia, nonostante le trasformazioni, molte figure, molte storie o le stesse corporations mediatiche che

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introduzione

le producono, ci riconducono alle origini della cultura di massa. Solo un esempio, tra i molti possibili: nel 2016 i primi cinque film per incassi al box office statunitense sono stati distribuiti tutti dalla Disney. Due sono film di fantascienza (Captain America: Civil War, Anthony e Joe Russo; e Rogue One: A Star Wars Story, Gareth Edwards); due sono film di animazione (Finding Dory [Alla ricerca di Dory], Andrew Stanton, Angus MacLane; Zootopia [Zootropolis], Byron Howard, Rich Moore, Jared Bush); e uno è un remake in live action di un classico dell’animazione (The Jungle Book [Il libro della giungla], Jon Favreau). Queste che ho appena citato sono creazioni culturali molto diverse tra loro, che però hanno alle spalle una lunga storia: la fantascienza come genere nasce nell’Ottocento, ma si impone negli Usa con i primi pulp magazines che pubblicano racconti fantastici, come «The Thrill Book» (1919), «Weird Tales» (1923) o «Amazing Stories» (1926); il primo cortometraggio di successo che Disney manda nelle sale è Three Little Pigs (I tre porcellini), che esordisce nel 1933; Captain America è stato inventato nel 1941, ma Superman, il modello originario di tutti i supereroi, è del 1938. Tutto ciò mostra chiaramente che la cultura di massa ha una sua storia che credo debba essere esplorata per capire come siano organizzate le storie che la attraversano, come funzionino, quali riferimenti etici offrano e quale impatto esercitino ancora oggi sulla società contemporanea. Wonderland, però, non è una terra dai paesaggi piatti e omogenei. Le storie che vi risuonano possono appartenere al sistema narrativo dominante, quello che nel libro chiamo la «cultura di massa mainstream». Ma ci sono anche modi per divertirsi che vanno in controtendenza. Ci sono segmenti di pubblico che non si contentano delle consolazioni etico-narrative che vengono dall’area mainstream della popular culture e vogliono storie o forme espressive che diano voce alla propria profonda inquietudine. Possono essere segmenti di pubblico che soffrono per una pesante segregazione razziale, come le comunità afroamericane; o per un senso di inferiorità sociale, come le comunità di contadini, o di montanari, o di operai statunitensi, negli Appalachi,

introduzione

ix

nella Harlan County o nelle grandi pianure; segmenti di pubblico che non trovano una loro collocazione sociale o morale, come molti ragazzi e ragazze alle prese con le difficoltà del «diventare grandi»; o segmenti di pubblico in esplicita rivolta, come i militanti e le militanti del Movimento per i diritti civili, o come i ragazzi o le ragazze che entrano in una delle tante subculture giovanili – pachucos, teddy boy, mod, rocker, biker, surfer, beat, hippie –, o come coloro che partecipano attivamente all’uno o all’altro dei movimenti studenteschi che si formano negli Usa o nell’Europa degli anni Sessanta. Tutti costoro prediligono forme di espressione, storie, atmosfere sonore o visuali che vanno in netta controtendenza rispetto alla cultura di massa mainstream, disegnando una vera e propria «altra» Wonderland, al centro della quale campeggia la musica rock. Se forme di espressione underground esistono sempre e dovunque, in qualunque contesto storico e sociale, la controcultura che prende forma tra la metà degli anni Cinquanta e la metà degli anni Settanta del XX secolo ha qualcosa di profondamente diverso, poiché non resta confinata in ambiti comunicativi marginali, ma si impone sul mercato di massa, portando gli LP dei gruppi rock in testa alle classifiche delle vendite, trasformando i film della cosiddetta «Holly­ wood Renaissance» in successi di cassetta, imponendo i musical Off-Broadway nei teatri di tutto il mondo. Ora, per quanto possa sembrare ovvio, credo vada sottolineato che questa controcultura non nasce certo all’improvviso e dal nulla; al contrario, anche questa, come ogni altra formazione culturale (compresa la cultura di massa mainstream), attraversa un suo processo generativo che le dà forma, imprimendo un segno fondamentale sulle storie e sulle sensibilità che la abitano. In una parola, anche la controcultura ha una storia. E questa storia deve essere ricostruita, se se ne vogliono comprendere gli orizzonti etici e le eredità che tutt’oggi solcano l’immaginario dell’Occidente contemporaneo1.

Wonderland La cultura di massa da Walt Disney ai Pink Floyd

Parte prima Over the Rainbow

I Industria culturale e cultura di massa

1. L’industria culturale Primavera del 1933. È sabato. Sabato 27 maggio. Siamo in un cinema qualunque degli Stati Uniti, in uno dei periodi più drammatici dal punto di vista economico e sociale nella storia del pae­se. Buio in sala. Molta gente. Qualche brusio. Qualche fischio. Poi una musichetta ritmata, appena screziata da una sfumatura epica, accompagna la schermata di apertura: Mickey Mouse presents Walt Disney’s Silly Symphony In Technicolor Three Little Pigs United Artists Picture

Dopodiché inizia la storia. Ed ecco il primo dei tre porcellini, Fifer Pig, che al ritmo di un’allegra canzoncina ci informa che sta costruendo una casa di paglia e non vede l’ora di finirla perché vuole suonare il suo flauto, e ridere, e scherzare. Lo segue il fratellino, Fiddler Pig, anche lui svogliatamente impegnato a costruire una casa di legno, ma desideroso solo di tirar fuori il suo violino per unirsi al concertino iniziato da Fifer Pig. Il terzo fratello, infine, Practical Pig, si costruisce con calma e perizia

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PARTE PRIMA. OVER THE RAINBOW

una solida casa di mattoni. Lui è perfettamente consapevole che solo un rifugio saldo e sicuro potrà proteggerlo dalla minaccia del gran lupo cattivo. Gli altri due fratelli, invece, suonando e cantando, fanno i gradassi, dichiarando ai quattro venti di non temerlo in alcun modo. Ma quando il lupo arriva, il loro coraggio svanisce e le loro case non sono in grado di proteggerli: il lupo ha un soffio talmente potente che le sradica entrambe. A Fiddler Pig e Fifer Pig non resta che chiedere riparo a Practical Pig che li ospita nella sua bella e robusta casetta di mattoni. Quando il lupo arriva, si rende conto che non riuscirà a buttar giù la terza casa con la sola forza del suo soffio. E allora tenta di entrarvi dal camino. Ma Practical Pig lo aspetta, accendendo il fuoco nel camino e ponendoci sopra a bollire un pentolone con della trementina. Quando il lupo scivola giù, sprofonda il suo sedere dentro il pentolone: dopo un attimo di sconcerto, il dolore provocato dal contatto con la trementina bollente lo fa schizzare su per il caminetto come un razzo. Nel finale si vede il lupo che corre a perdifiato per cercare di dare sollievo al suo sedere ustionato, mentre finalmente i tre fratelli possono festeggiare: i due perdigiorno suonano il violino e il flauto, e il fratello saggio suona il suo pianoforte, anche questo fatto di cemento e mattoni. Storiellina da bambini? Non proprio. Nonostante le apparenze, tecnicamente Three Little Pigs è un pezzo di eccezionale bravura, dovuto alla regia di Burt Gillett e alle animazioni di Fred Moore, Art Babbitt, Dick Lundy, Jack King e Norm Ferguson. Dal punto di vista narrativo ha una densità che – in prima battuta – proprio non si sospetterebbe. D’altronde queste due caratteristiche – raffinatezza compositiva e densità narrativa – sono peculiarità che appartengono a gran parte delle produzioni che danno forma a quella che, proprio a partire dagli anni in cui Three Little Pigs viene proiettato nelle sale, comincia a essere descritta come una cultura di massa. Ma in che cosa consiste questa cultura di massa? Consiste in un sistema di produzione e circolazione di informazioni e narrazioni trasmesse attraverso una serie di media (giornali, libri, immagini, film, musiche, canzoni), pensati come strumenti di in-

i. industria culturale e cultura di massa

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formazione e di intrattenimento per persone mediamente colte e con disponibilità di reddito relativamente contenute. Basandosi sul principio della semplificazione argomentativa o narrativa, ed essendo offerte a prezzi molto contenuti, queste produzioni culturali sono in grado di raggiungere un pubblico di vaste dimensioni. In questa dinamica, anche i progressi dell’alfabetizzazione hanno certamente un ruolo. Tuttavia ci sono ambiti della cultura di massa che non richiedono alcun particolare training formativo: la fotografia, la radio, il cinema, la musica si basano su sistemi uditivi e visivi che possono essere seguiti e apprezzati da chiunque, anche da chi possieda un’istruzione appena rudimentale. Ciò non toglie che talora i prodotti della cultura di massa siano di ottima qualità e sprigionino una forza di seduzione che può incantare anche gli intellettuali più colti e raffinati; ed è proprio questo loro enorme potere attrattivo che trasforma queste produzioni in un fenomeno sociale di grande importanza, in grado di contribuire in modo determinante alla formazione delle strutture cognitive di molti milioni di persone. La produzione di queste forme comunicative ha un obiettivo commerciale apertamente dichiarato. Gli editori, i produttori di film, i discografici, gli autori non creano le loro opere solo perché desiderano conquistarsi la gloria o perché vogliono esprimere in questo modo la loro creatività: lo fanno principalmente perché sperano di ricavare molti soldi dalle loro iniziative. Il deliberato orientamento verso il profitto fa di questo sistema produttivo una vera e propria «industria culturale»1. E in tutti i settori di questo spazio produttivo si manifesta chiaramente la tendenza a una forte concentrazione della produzione nelle mani di un numero ristretto di imprenditori o di aziende, evidente e precoce soprattutto nel contesto degli Usa dei primi quattro decenni del XX secolo. Nella cinematografia il sistema produttivo statunitense degli anni Venti e Trenta è dominato da otto grandi società. Le prime cinque – Paramount Pictures, 20th Century Fox, Warner Bros., Metro-Goldwyn-Mayer (Mgm) e Radio-Keith-Orpheum (Rko) – sono in grado di produrre e distribuire pellicole di buona qualità

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PARTE PRIMA. OVER THE RAINBOW

tecnica; inoltre possiedono intere catene di sale cinematografiche, disseminate in tutto il paese, in cui possono proiettare i propri film. Le tre case di produzione relativamente più piccole (Universal, Columbia e United Artists) si occupano solo della produzione e della distribuzione2. A queste otto società si deve la realizzazione di circa tre quarti di tutti i lungometraggi proiettati negli Stati Uniti dal 1930 al 19493. Un altro settore di spicco per la formazione della cultura di massa, la radiofonia, nasce all’inizio del XX secolo, e inizialmente viene impiegata solo per usi militari durante la Grande Guerra. Poi, dai primi anni Venti, negli Usa e in Europa hanno inizio le trasmissioni per il pubblico. Negli Usa degli anni Trenta la struttura dell’emittenza ha già una forma assai ben definita: su una miriade di stazioni radio locali si sovrappongono tre grandi network nazionali, Nbc (National Broadcasting Company), Cbs (Columbia Broadcasting System) e Mbs (Mutual Broadcasting System)4. Questi network, di proprietà privata, acquistano le emittenti locali, o stringono accordi commerciali con esse, inserendole in una programmazione nazionale che obbliga le emittenti più piccole ad alternare le trasmissioni imposte dal network nazionale alla programmazione pensata per i gusti del pubblico regionale a cui l’emittente locale intende rivolgersi5. Tutte le trasmissioni, locali o nazionali, sono finanziate col sistema delle inserzioni pubblicitarie: negli anni Trenta le aziende che producono beni di consumo finanziano e producono direttamente i programmi offerti ai network, che incorporano la pubblicità dei prodotti in apertura dello show, o anche nel corso del programma6. Tra gli anni Venti e Trenta il mercato discografico muta ripetutamente la sua forma, ma – come anche in altri settori – acquista una struttura semplificata per effetto della crisi del 1929, quando molte piccole etichette vengono acquisite da aziende di dimensioni già cospicue. Nel 1938 praticamente l’intero mercato discografico americano è controllato da tre etichette soltanto, la Rca Victor, la Decca e la Columbia/Arc7. Una forte concentrazione è presente anche nel campo produttivo del fumetto, una forma espressiva nata alla fine del XIX se-

i. industria culturale e cultura di massa

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colo. Negli anni immediatamente a ridosso della Grande Guerra negli Usa si crea il sistema dei Syndicates, un numero limitato di aziende che hanno contratti esclusivi con disegnatori e allocano le strisce disegnate ai diversi quotidiani statunitensi con i quali hanno sottoscritto degli accordi (i più importanti sono i Syndicates posseduti da grandi magnati della stampa americana: il King Features, di William Randolph Hearst; il Tribune-News, di Joseph Medill Patterson; lo United Feature Syndicate, della E.W. Scripps Company)8. Nel 1938 il fumetto si emancipa da quotidiani e periodici, con il lancio del primo comic book. Si tratta di una pubblicazione autonoma che contiene una o più storie a fumetti i cui protagonisti principali sono delle figure nuove nell’immaginario di massa: i supereroi. Il primo comic book lanciato sul mercato esce nel giugno 1938 come numero 1 della rivista «Action Comics» e contiene le avventure di Superman, un personaggio concepito da Jerry Siegel per la storia e da Joe Shuster per i disegni9. Il successo del primo supereroe fa sì che sia immediatamente seguito da una ricca serie di suoi «simili», tra cui Human Torch (1939), Sub-Mariner (1939), Captain Marvel (1940), Green Lantern (1940), Captain America (1941), Wonder Woman (1942) e altri ancora. Anche in questo caso si impongono grandi case editrici – come DC National, Timely Comics/Marvel e Fawcett – che dominano questo particolare ambito10. Sin da questi decenni, inoltre, è possibile individuare una chiara tendenza alla formazione di grandi concentrazioni intermediali. La Rca, fondata nel 1919, ha acquisito l’etichetta discografica Victor nello stesso anno, ribattezzandola Rca Vic­ tor; nel 1926 ha creato il network radiofonico Nbc; e nel 1928 ha costituito la casa cinematografica Rko, che controlla sino al 1943. Nel 1938 il network radiofonico Cbs, nato nel 1928, ha acquistato l’etichetta discografica Columbia/Arc, ribattezzandola Columbia Recording Company11. È chiaro che non si tratta soltanto di operazioni finanziarie: sono strategie che mirano a costruire rapporti sinergici tra radio, discografia e cinema; e la portata delle operazioni sta nel fatto che le aziende coinvolte sono già tutte dei giganti nei loro settori di competenza. Proprio

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PARTE PRIMA. OVER THE RAINBOW

per questo, a cavallo della seconda guerra mondiale vi sono importanti interventi delle autorità antitrust che pongono un limite alla costituzione di concentrazioni intermediali: nel 1943 la Nbc viene costretta a vendere uno dei suoi due network, il che porta alla costituzione di un nuovo network concorrente, la Abc; nel 1948, una sentenza della Corte Suprema costringe le majors hollywoodiane a disfarsi della loro rete di sale cinematografiche. Lo stop, tuttavia, è solo temporaneo, poiché con una varia cronologia, la tendenza alla concentrazione continuerà ancora nei decenni seguenti. Gran parte delle produzioni culturali lanciate dalle singole aziende o dalle concentrazioni che dominano nei vari settori considerati appartiene di diritto allo spazio della cultura di massa mainstream12: condividendo una stessa prospettiva etica e medesime forme narrative, le produzioni mainstream (film hollywoodiani, fumetti, radiodrammi, musiche da hit parade, romanzi popolari) hanno, per la maggior parte del periodo che va dagli anni Trenta all’inizio del XXI secolo, il massimo successo prima presso il pubblico statunitense, e poi presso quello dell’intero Occidente. Tuttavia occorre sin da ora sottolineare che, in spazi relativamente marginali del mercato di massa statunitense degli anni Trenta e Quaranta, soprattutto nel campo della produzione musicale, emergono stili culturalmente molto significativi, perché regolati da principi formali e da orizzonti etici completamente diversi da quelli delle produzioni mainstream: contronarrazioni, dovremmo dire; o più opportunamente, controculture. Mi occuperò di questi stili controculturali nel capitolo III, mentre nei paragrafi che seguono, e ancora nel prossimo capitolo, esplorerò le caratteristiche fondamentali della cultura di massa mainstream. E lo farò constatando intanto che, al di là dell’apparente varietà dei media che le veicolano, le produzioni culturali mainstream sono strettamente legate tra loro dall’intreccio di tre fondamentali dispositivi: l’articolazione del campo narrativo in generi; la struttura seriale delle narrazioni; e un altissimo grado di intermedialità.

i. industria culturale e cultura di massa

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2. Generi L’esistenza e il numero dei generi narrativi sono oggetto di un dibattito infinito tra gli studiosi, molti dei quali hanno sottolineato l’impossibilità di collocare con precisione definitiva opere letterarie o cinematografiche complesse all’interno di un genere piuttosto che di un altro13. Tuttavia queste considerazioni non si applicano alle opere che più propriamente appartengono alla sfera della cultura di massa. Se si osserva la letteratura popolare, la produzione cinematografica hollywoodiana, i fumetti o i radiodrammi, non si fa fatica a distinguere i gialli dalle storie d’avventura, i western dalle commedie sentimentali, le vicende di fantascienza da quelle ambientate nel passato14. E può anche essere che uno dei dispositivi più usati dall’industria culturale per differenziare l’offerta consista nel mescolare le connotazioni narrative fondamentali: tuttavia nessuno ha molti dubbi nel collocare mentalmente un romanzo o un film con James Bond nell’area delle spy stories, anche se il protagonista è coinvolto – in parallelo – in una storia d’amore, o se ci sono, qua e là, battute o scene comiche che servono ad allentare la tensione. E ciò perché l’identificazione di un genere deriva da alcune semplici caratteristiche principali – l’ambientazione della storia nel tempo e nello spazio, la natura del protagonista e i compiti che gli sono assegnati – che di solito sono scrupolosamente rispettate dalle narrative della cultura di massa. Ed è proprio tale strutturazione che modella le aspettative del pubblico, il quale, in tal modo, può facilmente orientarsi verso il genere che predilige. Ciò detto, si possono osservare ancora altri effetti incorporati nella geografia dei generi15. Intanto, coloro che apprezzano i prodotti della cultura di massa ne valutano la qualità sulla base dei legami intertestuali che l’opera intrattiene con altre che appartengono allo stesso genere. Un appassionato di fumetti supereroici non confronta la qualità di un racconto di Superman con le emozioni che potrebbe ricavare da un film western: paragona quel fumetto con altri precedenti di Superman, e poi lo mette a confronto con l’ultimo racconto che ha Batman, o Wonder Woman, o Green Lantern come protagonisti.

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PARTE PRIMA. OVER THE RAINBOW

Inoltre, le narrazioni di genere hanno di regola un impianto dualistico, nel senso che contrappongono valori culturali positivi e negativi, affidati prevalentemente a diversi personaggi chiave: lo sceriffo e il fuorilegge, il detective e il gangster, l’eroe suo malgrado e gli alieni, Snow White (Biancaneve) e la Evil Queen (Grimilde). In ragione di questa fondamentale struttura duale, le storie di genere tendono a essere ripetitive, giacché utilizzano costantemente gli stessi sviluppi. In ogni storia si incontra lo stesso regolamento di conti, il medesimo attacco a sorpresa, la stessa scena d’amore che culmina in un identico duetto. Ogni nuovo film cambia i dettagli, ma lascia invariato lo schema di base. Le comparse di un film d’avventura o di guerra muoiono davvero mille morti – cambiano solo costume o location, ma tornano a girare sostanzialmente la stessa scena. I film di genere rappresentano la replica infinita dello stesso confronto, della stessa sequenza con i due protagonisti (two-shot), della stessa scena d’amore16.

La ripetitività rende le narrazioni anche estremamente prevedibili; la stessa organizzazione dello star system nel cinema hollywoodiano, che comporta l’associazione di un attore o di un’attrice a un ruolo e a un contesto filmico prevalente, aumenta il tasso di prevedibilità dei generi: se uno sa che in un film recita Boris Karloff, Errol Flynn, John Wayne o Ginger Rogers, quasi non ha bisogno di guardare il titolo o il cartellone pubblicitario per farsi un’idea del possibile contenuto. Per gli spettatori, quindi, il piacere offerto dai film di genere deriva dalla riconferma più che dalla novità; essi vanno a vederli per rinnovare il contatto con vecchi amici, assistere a storie avvincenti e prender parte a eventi in qualche modo familiari. Possono anche ricercare forti emozioni, scene eccitanti, situazioni nuove e dialoghi originali ma, come chi va al parco dei divertimenti in cerca d’avventure, essi preferiscono vivere le proprie esperienze esaltanti in un ambiente che sentono di poter controllare. Di conseguenza quella del film di genere è quasi sempre una falsa suspense: per poter godere le emozioni che il film è in grado di offrirci dobbiamo momentaneamente fingere di non sapere che alla fine l’eroina verrà salvata, l’eroe liberato e la coppia riunita17.

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E lo stesso, ovviamente, vale per gli altri media: basta la copertina per saper collocare una storia di Superman nello spazio di un genere e una di Sherlock Holmes in un altro. Il processo di standardizzazione prodotto dalla geografia dei generi intende creare nel pubblico degli orizzonti d’attesa che sono estremamente limitati. Lungi dall’essere percepita come una mancanza, questa prevedibilità delle strutture narrative può essere accolta con piacere da gran parte dei lettori, spettatori o ascoltatori, i quali possono lasciarsi andare alla seduzione delle immagini o al ritmo frenetico della storia, senza preoccuparsi di altro, tanto sanno già – a grandi linee – verso quale direzione si muove la macchina narrativa. Il pubblico, dunque, è invitato a divertirsi con questi materiali, affrontandoli in un modo confortevolmente passivo: in fondo sono sempre le stesse vicende, e l’unica cosa che c’è da decidere è se la storia è stata interpretata bene o male. Con grande severità, Horkheimer e Adorno scrivono al riguardo: «Lo spettatore non deve lavorare di testa propria; il prodotto gli prescrive ogni reazione»18. Ciò che i due studiosi vogliono dire è che questo tipo di produzioni culturali non fa che incoraggiare il pubblico ad accontentarsi di strutture cognitive povere, rigide, conformiste. In tutto ciò Horkheimer e Adorno vedono all’opera macchine comunicative che, con l’intento dichiarato di divertire, in realtà annullano le capacità critiche di milioni di persone che sono attratte dallo scintillio e dalla seduzione dei prodotti dell’industria culturale, ma non sono incoraggiate a pensare in modo autonomo. Corrispettiva della passività è la regressione intellettuale, ovvero l’infantilizzazione psicologica del fruitore della cultura di massa: «Insieme con lo sport e il cinema, la musica di massa e il nuovo tipo d’ascolto contribuiscono a rendere impossibile l’evasione da una generale situazione di infantilismo»19, che ha la sua celebrazione assoluta proprio nei testi delle canzoni pop, regolarmente connotati da un baby talk fatto di pochi argomenti (l’amore, essenzialmente, affrontato nel modo più sentimentale e sdolcinato possibile), da una grande ripetitività di situazioni e da una tremenda povertà lessicale20.

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PARTE PRIMA. OVER THE RAINBOW

Le narrazioni di genere, infine, hanno anche un essenziale valore simbolico poiché le vicende raccontate sono dotate di un metasignificato che è scandito con particolare chiarezza dal modo con il quale queste narrazioni vengono concluse, ovvero con un frequente approdo a un finale positivo. Il senso di una simile conclusione è talora accentuato dalla parabola narrativa prediletta dalle narrazioni mainstream: inizialmente sembra che le aspettative coltivate dal pubblico stiano per essere tradite (i cattivi stanno per imporsi; la coppia non armonizza; l’eroe positivo va verso l’insuccesso); ma poi la prospettiva si rovescia, più o meno credibilmente, e la storia procede verso un finale positivo. La diminuzione dello stress emotivo – osserva Altman – adesso è resa possibile da un meccanismo di riconversione, cioè dal ritorno alla conformità ai modelli culturali prefissati, e a questo punto l’intensità del piacere è proporzionale alla distanza che separa la tensione e l’escalation sovversiva dal ritorno alla pace, all’ordine e alla comunità. E ciò che rende il successo dei generi hollywoodiani così travolgente e incondizionato è proprio il sapiente dosaggio con cui combinano gli eventi e le occasioni che scatenano il piacere, da un lato, e la restaurazione finale dei valori culturali, dall’altro21.

In senso proprio, finali che portano i protagonisti al successo (affettivo, sentimentale, eroico) devono essere catalogati sotto l’etichetta dell’happy ending. Esistono tuttavia anche altri tipi di esito narrativo, egualmente positivi da un punto di vista «morale», ma non per questo necessariamente «felici». Vi sono generi (per esempio il family melodrama o il noir) che mostrano nei dettagli anche più truci il comportamento di un «cattivo», oppure illustrano le tensioni che si scatenano all’interno di una coppia, o ancora descrivono le incomprensioni che possono nascere tra genitori e figli. Sono percorsi narrativi che esercitano un doppio effetto: da un lato, senza dubbio avvicinano il pubblico a una più complessa percezione della realtà; dall’altro, tuttavia, lo indirizzano verso un rigoroso disciplinamento morale, poiché la conclusione della parabola narrativa è affidata a finali che rassicurano, puniscono i «cattivi» (o le «cattive») e restaurano l’ordine, secondo una scala di valori morali su cui torneremo più avanti.

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3. Serialità Un altro dispositivo che accomuna le più diverse produzioni della cultura di massa mainstream è la serialità, che consiste nel ricorso frequente al racconto intervallato e sequenziale. Le storie possono essere serializzate secondo tre distinte modalità: (1) singola storia a puntate; (2) storia articolata in una sequenza di episodi autonomi; e (3) serial continuo, con storie che si snodano in un numero di puntate potenzialmente illimitato. (1) La storia a puntate narra una vicenda sequenziale nell’arco di un numero limitato di episodi, con il frequente ricorso alla tecnica del cliffhanger (cioè della suspense mozzafiato) nella parte conclusiva di ciascuna puntata. Si tratta di una modalità narrativa che si afferma sin dall’inizio dell’Ottocento, quando i racconti a puntate vengono proposti settimanalmente in fascicoli autonomi, oppure vengono presentati su riviste che si specializzano nella pubblicazione di romanzi a puntate, oppure vengono editi su periodici e quotidiani. Una parte molto significativa della letteratura ottocentesca viene proposta al pubblico in una di queste forme: e così, per esempio, La vieille fille, un romanzo di Balzac, esce in dodici puntate dal 23 ottobre 1836 su «La Presse»; ma poi anche Madame Bovary, i romanzi di Dickens, quelli di Zola e di molti altri autori ancora escono normalmente a puntate, prima di essere raccolti e venduti come volumi singoli22. Negli Stati Uniti del secondo Ottocento si impongono i dime novels, romanzi di genere pubblicati su riviste specializzate come il «New York Ledger», settimanale fondato nel 1855: I titoli promettevano emozioni mozzafiato: The Gunmaker of Moscow, Karmel the Scout, The Mystic Bride, The Scourge of Sefton Dale, The Wild Knight, Orion the Goldbeater, The Smuggler of King’s Cave, The Painter of Parma, The Brigands of Como, The Scourge of Damascus e Alaryc, or the Tyrant’s Vault. Tutte queste storie erano altamente moraleggianti: i cattivi venivano sempre puniti, mentre gli eroi finivano sempre per vincere [...]. Questa letteratura costituì il vero antenato del cinema popolare e della televisione di massa. Gran parte di questa narrativa made in Usa non venne esportata, ma creò le fondamenta di un’industria culturale formidabile23.

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Negli Usa le storie a puntate diventano veramente popolari con l’imporsi dei pulp magazines, periodici a basso prezzo stampati su carta di bassa qualità («pulp paper», da cui il nome), il cui capostipite è «Argosy», settimanale il cui primo numero esce nel 188224. Negli ultimi decenni dell’Ottocento e nei primi del Novecento i pulp magazines si moltiplicano, e pubblicano storie sensazionalistiche attraverso le quali prendono forma i principali generi narrativi popolari: storie d’avventura, esotiche (Tarzan of the Apes, di Edgar Rice Burroughs, esce in «All Story» nell’ottobre del 1912), fantascientifiche, di investigazione (la prima storia di Dashiell Hammett esce su «Black Mask» nel 1922)25. Dopodiché negli Usa di inizio Novecento la storia a puntate irrompe anche in altri media. Nel luglio del 1912 viene prodotto il primo film seriale: si tratta di What Happened to Mary, che esce in dodici puntate a cadenza mensile in parallelo agli episodi del romanzo con lo stesso soggetto, che vengono pubblicati su «The Ladies’ World»; insieme viene anche lanciato un concorso a premi che offre 100 dollari a chi riesce a indovinare cosa sia effettivamente successo al personaggio di Mary26. Da allora sino al 1956, quando viene mandato nelle sale l’ultimo film a puntate (Blazing the Overland Trail, prodotto dalla Columbia), vengono realizzati più di 500 serial cinematografici, per un totale di 7.200 episodi (in genere si tratta di film dalle dieci alle venti puntate, da 20-30 minuti ciascuna, mandati nelle sale a cadenza settimanale)27. Ancora più che nelle pagine scritte, è in queste versioni visive che il meccanismo della suspense dispiega tutto il suo potenziale ipnotico: il meccanismo terrorizzante più caratteristico del serial è il cliff-hanger, procedimento che consiste nel troncare l’episodio nell’istante esatto in cui il protagonista sembra destinato a morte sicura. Regolarmente, a pochi istanti dalla fine, la storia imbocca una strada che sembra senza sbocco, gli eventi precipitano, il montaggio accelera, e l’ultima inquadratura ci consegna l’immagine di un corpo palpitante sotto la minaccia di un pericolo mortale. [...] Ovviamente, tutte queste situazioni senza via d’uscita ven-

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gono regolarmente risolte all’inizio dell’episodio successivo, spesso grazie allo svelamento retrospettivo di un’ellissi (si scopre, per esempio, che mentre l’eroina giace gemendo sotto un macigno che cala inesorabilmente su di lei, un alleato sta accorrendo in suo soccorso). In casi estremi, ma abbastanza frequenti soprattutto nel serial sonoro, non si esita nemmeno a negare l’evidenza, introducendo un ciak alternativo che contraddice il finale della settimana precedente: il tempo si riavvolge come un film alla moviola, e l’eroina, che abbiamo visto precipitare in una trappola piena di lance acuminate, questa volta si gira ed evita la caduta28.

I fumetti avventurosi a puntate sequenziali esordiscono nello stesso giorno, il 7 ottobre 1929, quando su diversi giornali statunitensi escono le storie dedicate ai personaggi di Buck Rogers (sceneggiatura di Philip Nowlan e disegni di Dick Calkins) e di Tarzan (inizialmente disegnato da Hal Foster): Buck Rogers a fumetti deriva da una storia fantascientifica dello stesso Nowlan, pubblicata nel 1928 sul pulp magazine «Amazing Stories»; Tarzan a fumetti deriva dalla lunga serie di storie che E.R. Burroughs ha cominciato a pubblicare sin dal 191229. Subito dopo, i primi due eroi a fumetti vengono seguiti da molti altri: Dick Tracy (di Chester Gould, 1931); Tim Tyler’s Luck (in italiano Cino e Franco, di Alex Raymond, 1932); Flash Gordon (di Alex Raymond, 1934); Prince Valiant (di Hal Foster, 1937); e altri ancora30. La serialità a puntate passa poi anche alla radio, in parte con programmi dedicati agli stessi personaggi le cui storie serializzate sono derivate dai pulp magazines o dai fumetti: la trasmissione radiofonica con le avventure di Buck Rogers (Buck Rogers in the Twenty-Fifth Century) inizia il 7 novembre 1932 per la Cbs e viene trasmessa alle 19.15 dal lunedì al venerdì sulla costa orientale; e innumerevoli altre dello stesso tipo le fanno seguito. (2) Egualmente a metà Ottocento hanno un grande successo anche le storie articolate in episodi autonomi, legati dalla presenza del medesimo protagonista o del medesimo gruppo di protagonisti (sequel, se il nuovo episodio segue cronologicamente il precedente; prequel, se è invece l’inverso). Nel 1884 John Russell Coryell lancia negli Usa il personaggio di Nick Carter, detective

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privato intelligente e gentile, alle cui storie nel 1891 viene dedicata un’intera rivista, la «Nick Carter Detective Library». Nel 1887, in Gran Bretagna, Arthur Conan Doyle pubblica sul «Beeton’s Christmas Annual» A Study in Scarlet (Uno studio in rosso), il racconto in cui esordisce Sherlock Holmes, le cui avventure proseguono poi con The Sign of the Four (Il segno dei quattro), del 1890, e poi ancora in numerosi altri romanzi31. Anche in questo caso il sistema narrativo seriale a episodi autonomi supera rapidamente i confini della letteratura popolare, per farsi strada anche in altri media. Molte storie a fumetti sono narrate attraverso il ricorso al sistema delle puntate autonome, con vicende che si concludono nell’arco della puntata, sia nelle fulminanti narrazioni delle strip pubblicate sin dall’inizio del Novecento sui periodici o sui giornali statunitensi, sia nelle più articolate storie edite nei comic books, ovvero nelle riviste centrate su un personaggio principale32. Ben presto, il sistema viene adottato anche da tipi diversi di trasmissioni radiofoniche, per esempio i radiodrammi, che spesso riprendono personaggi che hanno già calcato la scena della letteratura, o del cinema, o del fumetto, e adesso vengono raccontati dalla voce di attori e attrici in brevi puntate, normalmente di quindici minuti, e in successioni temporali varie (ogni giorno, oppure a giorni alterni, dal lunedì al venerdì, con un orario fisso all’interno della programmazione delle varie stazioni radiofoniche)33. Alla radio nasce anche un altro tipo di racconto seriale, a metà strada tra la storia a puntate e la sequenza di episodi autonomi, ovvero la sitcom. La prima sitcom radiofonica è creata da due attori bianchi, Freeman Gosden e Charles Correll, che dal 1926, per la stazione radio Wgn di Chicago, danno vita al programma radiofonico Sam ’n’ Henry, nel quale interpretano in chiave comica una coppia di neri emigrati dall’Alabama a Chicago in cerca di fortuna. Nel 1928 i due attori cambiano stazione radiofonica, passando alla Wmaq, sempre di Chicago, e nel passaggio sono costretti a cambiare nome al programma, che da allora si chiama Amos ’n’ Andy. Nel 1929 il programma viene trasmesso dalla Nbc,

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con la sponsorizzazione della Pepsodent, e lì riscuote un travolgente successo nazionale34. Infine, anche il cinema adotta il sistema con la produzione dei sequel, ovvero le prosecuzioni delle storie di personaggi che il pubblico aveva accolto con particolare favore. Non solo esistono i sequel «semplici», nel senso di singoli film che riportano sullo schermo lo stesso personaggio per una o più volte ancora; ma esistono anche sequel di serial, ovvero la prosecuzione di serie cinematografiche a puntate. È ciò che accade, per esempio, nel caso del personaggio di Flash Gordon: al primo serial cinematografico del 1936 (Flash Gordon, in 13 puntate da 20 minuti circa ciascuna), ne segue un secondo nel 1938 (Flash Gordon’s Trip to Mars [Flash Gordon alla conquista di Marte], 15 puntate sempre da 20 minuti circa), e poi ancora un terzo nel 1940 (Flash Gordon Conquers the Universe [Flash Gordon - Il conquistatore dell’universo], 12 puntate, stessa lunghezza). (3) Il terzo tipo di serial è quello continuo: si tratta di una narrazione composta da un indeterminato numero di episodi, con molti temi narrativi che si intrecciano, la maggior parte dei quali raccontati – a volte anche in parallelo – in una determinata successione di puntate. Con ritmi vari, a seconda del tipo di narrazione, i vari temi narrativi trovano poi una loro risoluzione mentre la storia nel suo complesso continua potenzialmente all’infinito, perché, man mano che un tema narrativo viene esaurito, altri vengono introdotti per tener vivo l’interesse di chi segue la vicenda. In questo caso è la radio che impone con enorme successo questo modello narrativo, nella forma specifica delle soap opera, trasmissioni radiofoniche a puntate che in qualche caso durano anche per decenni35. Si tratta, in effetti, di un’invenzione tutta statunitense, che debutta nel 1925, quando la stazione Wenr, di Chicago, manda in onda, una sera a settimana, il programma The Smith Family, considerato il prototipo originario delle soap radiofoniche. Tuttavia il format si stabilizza effettivamente nel 1932 con la prima vera e propria soap, Clara, Lu ’n’ Em, scritta e interpretata da Louise Starkey (Clara), Isobel Carothers (Lu) e Helen King

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(Em), e trasmessa originariamente dalla Wgm di Chicago, dal 16 giugno 1930; dal 27 gennaio 1931 al 12 febbraio 1932 è trasmessa di sera dalla Nbc, con la sponsorizzazione della Colgate-Palmolive; dal 15 febbraio 1932 passa in orario daytime, per quindici minuti, da lunedì a venerdì, in modo da orientarsi soprattutto verso un pubblico di casalinghe. Il personaggio centrale è Em, che ha cinque figli e un marito irresponsabile (che non compare nel programma); Lu è una vedova che vive in un appartamento al piano di sopra; Clara è la governante; e la struttura del programma è semplicemente costituita dalle chiacchiere delle tre donne36. Anche in questo caso, come per ogni altra produzione di massa, a un prodotto di successo seguono immediatamente innumerevoli imitazioni, più o meno efficaci, più o meno innovative. Nel 1932 vengono lanciate altre due soap (entrambe per la Nbc), e nel 1933 sette (sei per la Cbs e una per la Nbc): poi il flusso di nuove soap continua ininterrottamente negli anni seguenti, con quelle di successo che durano a lungo, e quelle meno popolari che escono presto dalla programmazione, sostituite da nuove produzioni37. Le storie delle soap sono ambientate quasi invariabilmente in interni domestici, e descrivono le vicende di una famiglia, eventualmente allargata ai vicini; quasi mai intervengono eventi pubblici o politici significativi a «turbare» la vita di queste famiglie; invece le tempeste affettive, economiche, passionali che ne sconvolgono gli equilibri hanno a che fare con le scelte di vita dei personaggi in campo sentimentale o professionale. Il tono può variare dall’umoristico al melodrammatico. Dominano i personaggi femminili, soprattutto quelli materni, che spesso sono i punti di riferimento effettivi della rete di personaggi. Tipica delle soap è la fissità dei personaggi, che tendono a reagire in modo sempre coerente con gli assunti di fondo che li caratterizzano: parlano in modo semplice, sono di estrazione sociale varia, ma – in questi anni iniziali – non elevata, e creano una molteplicità di plot paralleli, ciascuno dei quali ha uno sviluppo narrativo lentissimo: per un’ascoltatrice o un ascoltatore che seguano – diciamo – tre puntate su cinque in una settimana, è essenziale

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non perdere niente di importante nello sviluppo della storia, per poter riprendere a seguirla senza troppe difficoltà38. E il modello funziona molto bene, perché le soap di successo battono tutti i record di ascolto e di durata nella programmazione. Nel 1930 ne vengono trasmesse 10; nel 1940 ne vanno in onda 62 e occupano la maggior parte della programmazione nell’orario compreso tra le 8.00 e le 18.00; nel 1948, infine, tra i primi 30 programmi più ascoltati, 25 sono delle soap opera39. Tra le soap più longeve si distinguono Ma Perkins e The Romance of Helen Trent, che durano ininterrottamente dal 1933 al 1960 (e la conclusione di queste e altre soap radiofoniche nel 1960 è imposta solo dalla concorrenza delle soap televisive). 4. Intermedialità La serialità contribuisce potentemente alla diffusione delle produzioni culturali mainstream attraverso una forte fidelizzazione del pubblico alla storia prediletta e ai personaggi preferiti. La risoluzione positiva dei cliffhangers riproduce, puntata dopo puntata, in una forma abbreviata e ripetuta, l’effetto consolatorio del lieto fine, a cui si arriva comunque alla fine complessiva della storia. Lo stesso accade con le soap opera: strutturalmente non possiedono una conclusione, che non sia data dalla decisione della stazione radio di interromperne la programmazione. Tuttavia le numerose trame parallele delle soap, per quanto drammatiche siano, si concludono spesso con dei micro-happy ending, che ristabiliscono – almeno temporaneamente – l’armonia della comunità. Inoltre, la semplicità di accesso ai generi serializzati (i comic books o i biglietti per il cinema costano molto poco; le puntate dei radiodrammi, delle sitcom o delle soap sono brevi, possono essere ascoltate mentre si fanno altre cose, non richiedono un particolare impegno intellettuale) dà un ulteriore incentivo all’accettazione degli schemi narrativi incorporati nelle narrazioni seriali. Infine è impressionante la facilità con la quale le storie di successo passano da un mezzo di comunicazione all’altro, tanto che a volte è possibile trovare

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gli stessi personaggi (anche se non necessariamente le stesse storie) attivi contemporaneamente al cinema, nei fumetti, alla radio e sulla carta. Buck Rogers, per esempio, passa dai pulp magazines (19281929) ai fumetti (1929-1967; 1979-1983), al serial radiofonico (1932-1956), al serial cinematografico (1939) e più tardi anche a quello televisivo (1950; 1979-1981). Flash Gordon va dai fumetti (1934-1944) ai serial cinematografici (1936, 1938, 1940), alla serie televisiva (1954 e 2007). The Lone Ranger esordisce invece come serial radiofonico in 2.956 episodi, trasmesso dalla Wxyz di Detroit dal 30 gennaio 1933 al settembre del 1954; nel 19381939 la Republic Pictures Corporation ne fa due serial cinematografici; dal 1949 al 1957 ne viene trasmessa una serie televisiva; per quattro volte diventa lungometraggio cinematografico (1958; 1961; 1981; 2013, quest’ultimo con Johnny Depp); e nel 2003 è un film per la televisione. Dick Tracy va dai fumetti (dal 1931 fino a oggi) al serial radiofonico (1934-1948), ai serial cinematografici (1937, 1938, 1939, 1941), ai lungometraggi cinematografici (1945, 1946, 1947, 1990), alla serie televisiva (1950-1951). Don Winslow of the Navy esordisce nel 1934 come fumetto, centrato su un ufficiale del controspionaggio navale, per trasmigrare in un serial radiofonico nel 1937, e in due serial cinematografici nel 1942 e nel 1943. E gli esempi potrebbero continuare a lungo, magari con una sterminata serie di supereroi che nascono come fumetti e passano poi incessantemente da un medium all’altro, fino a debordare nei primi anni del XXI secolo in numerosissimi film live action di produzione hollywoodiana. Altre fitte reti intermediali si intrecciano intorno a Holly­ wood, come crocevia ideale: i passaggi più frequenti sono dal libro al film (gli esempi qui sono troppo numerosi perché abbia senso elencarli; e comunque ci torneremo nel capitolo II); dal musical di Broadway al film; dal musical (di Broadway o di Hollywood) alla hit radiofonica e fonografica (per esempio Cheek to Cheek, canzone di Irving Berlin, da Top Hat [Cappello a cilindro], Mark Sandrich, 1935; Over the Rainbow, di Harold Arlen e E.Y. Harburg, da The Wizard of Oz [Il mago di Oz], Victor Fleming,

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1939; As Time Goes By, di Herman Hupfeld, da Casablanca, Michael Curtiz, 1942; White Christmas, di Irving Berlin, eseguita da Bing Crosby nel film Holiday Inn [La taverna dell’allegria], Mark Sandrich, 1942; e un’infinità di altre ancora)40. In diversi casi l’intermedialità riguarda anche le soap o le ­sitcom. The Guiding Light nasce originariamente nel 1937 come soap radiofonica trasmessa dalla Nbc; nel 1947 passa ai programmi radiofonici della Cbs; dal 1952 al 1956 la Cbs la trasmette contemporaneamente sia alla radio che alla televisione; dal 1956 il programma radiofonico si interrompe e prosegue solo la soap televisiva, che continua sino al 2009, per una ininterrotta durata complessiva di ben 72 anni. La già citata sitcom radiofonica Amos ’n’ Andy, invece, ha la sua traduzione cinematografica nel film del 1929 Check and Double Check, con gli stessi attori, Charles Correll e Freeman Gosden, che interpretano sullo schermo i loro personaggi radiofonici41. In un caso importante, il rapporto è inverso: il 6 agosto 1937 nelle sale cinematografiche statunitensi viene lanciato il film Stella Dallas (Amore sublime), diretto da King Vidor, con Barbara Stanwyck nel ruolo della protagonista. Si tratta del remake di un film muto, prodotto nel 1925, tratto, come il film del 1937, dal romanzo omonimo di Olive Higgins Prouty, edito nel 1922. Sulla scia del successo del film, dal 25 ottobre 1937 al 3 giugno 1938 la stazione radio Weaf di New York trasmette la continuazione della storia nella forma di soap opera radiofonica prodotta dai coniugi Anne e Frank Hummert; dal 6 giugno del 1938 la Rca, proprietaria della Weaf, trasferisce la soap alla Nbc, che è il suo network nazionale, dove viene trasmessa sino al 30 dicembre del 195542. Questa fittissima intermedialità è sin dalle origini una delle caratteristiche proprie della cultura di massa mainstream. L’impatto delle narrazioni di massa viene moltiplicato vertiginosamente da questa particolare soluzione narrativa, che consente ad alcuni personaggi di restare quasi permanentemente «vivi» nell’immaginario collettivo attraverso la loro molteplice presenza nei più diversi spazi mediatici. Naturalmente possono esserci molte differenze di stile, di concezione, di accento, di compo-

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sizione del pubblico e di modalità di ricezione, tra, per dire, il fumetto di Dick Tracy, disegnato da Chester Gould nel 1931, e il film del 1990, diretto da Warren Beatty, e da lui interpretato insieme ad Al Pacino e Madonna: resta tuttavia che il profilo del personaggio e l’impianto narrativo sono – nelle loro grandi linee – i medesimi, a sottolineare la tenuta del modello che nasce negli anni Trenta. A maggior ragione questo discorso dev’essere fatto per i film di animazione Disney che, fra le loro varie caratteristiche, possiedono anche quella di essere riproposti – normalmente con una medesima accoglienza positiva – sugli schermi cinematografici a cadenza periodica, avendo peraltro anche numerosi sequel e trasposizioni in molti altri formati. Snow White and the Seven Dwarfs (Biancaneve e i sette nani, David Hand), che è il primo lungometraggio d’animazione della Disney, esce nel 1937, dopodiché torna nelle sale cinematografiche statunitensi nel 1940, nel 1944, nel 1952, nel 1958, nel 1967, nel 1975, nel 1983, nel 1987 e nel 1993; passa poi in Vhs e in Dvd, oltre che su svariati libri illustrati, nei parchi a tema Disney e in film derivati minori. Traiet­ toria ancora più trionfale è quella di Cinderella: il film Disney su Cenerentola, diretto da Wilfred Jackson, Hamilton Luske e Clyde Geronimi, esce nelle sale nel 1950 come lungometraggio animato. Negli Usa viene riproposto nel 1957, nel 1965, nel 1973, nel 1981 e nel 1987; viene poi tradotto in Vhs e in Dvd, oltre che in libri, gadget e parchi a tema e ha due sequel animati, il primo dei quali nel 2002, direttamente su Vhs e poi su Dvd (Cinderella II - Dreams Come True [Cenerentola II - Quando i sogni diventano realtà], John Kafka), e il secondo nel 2007, direttamente in Dvd (Cinderella III - A Twist in Time [Cenerentola - Il gioco del destino], Frank Nissen); dopodiché nel 2015 viene lanciato il sontuoso remake live action, diretto da Kenneth Branagh. E non sono, appunto, che due esempi, perché questo sistema di rinascita continua è la regola per tutta la serie di cartoni, lungometraggi classici, animazioni Pixar, ecc., usciti dal cantiere Disney. Il che mostra, se ancora ce ne fosse bisogno, la potentissima presa di questo tipo di produzioni.

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Forse, almeno per quel che riguarda la cultura di massa mainstream, hanno ragione Horkheimer e Adorno quando osservano che la civiltà attuale conferisce a tutti i suoi prodotti un’aria di somiglianza. Il film, la radio e i settimanali costituiscono, nel loro insieme, un sistema. Ogni settore è armonizzato al suo interno e tutti lo sono fra loro43.

Si potrebbe comunque obiettare che l’insieme delle produzioni mainstream è composto da materiali che narrano storie talmente diverse da mettere in dubbio l’idea di un compatto sistema narrativo, fondato su poche, semplici architetture. Mi sento di respingere questa considerazione, nel senso che, se si guarda con attenzione ai contenuti, si possono identificare alcune fondamentali forme narrative che – pur indirizzate a sensibilità diverse, e persino a pubblici diversi, se si bada all’età o al genere – compongono tuttavia un quadro organico e coerente dal punto di vista degli orizzonti etici proposti.

II Narrazioni mainstream

1. There’s no place like home Nel 1938, quando viene scelta per la parte di Dorothy nella nuova produzione cinematografica della Mgm, Judy Garland ha sedici anni. Alle spalle ha già un film di un certo successo – Thorough­ breds Don’t Cry, del 1937, con Mickey Rooney, regia di Alfred E. Green –, successo che sta per rinnovarsi con Everybody Sing (Viva l’allegria, Edwin L. Marin), e soprattutto con Love Finds Andy Hardy (L’amore trova Andy Hardy, George B. Seitz), quest’ultimo di nuovo in coppia con Mickey Rooney, in uscita proprio in quello stesso 1938. Ma quello che le si prospetta adesso è qualcosa di diverso. Judy viene scelta per la parte di protagonista in The Wizard of Oz, un film tratto da The Wonderful Wizard of Oz, romanzo per bambini di Frank L. Baum, uscito nel 1900. La Mgm ne vuole fare un film epocale e investe un budget considerevole per gli standard dell’epoca, accompagnato da un’imponente promozione pubblicitaria1. Il risultato è in effetti straordinario: il film, che peraltro nel 1939 al momento della sua uscita ha un successo buono ma non travolgente, negli anni seguenti si impone come uno dei luoghi fondamentali dell’immaginario collettivo statunitense2. Diviso in tre parti (un prologo e un epilogo, girati entrambi con una pellicola virata in una delicata tonalità seppia, e un lungo interludio centrale, girato in uno sfavillante technicolor), il film

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è accompagnato da musiche che si impongono subito in classifica, prima fra le quali Over the Rainbow, cantata con eccezionale espressività dalla voce piena e intensa di Judy Garland. La storia raccontata dal film è semplice. Eppure nella sua semplicità ripercorre una delle più importanti forme mitiche e narrative che ricorrono nella cultura occidentale, il viaggio di ricerca (quest): un eroe deve allontanarsi da casa per affrontare un viaggio pericoloso, in cui deve combattere uno o più nemici, aiutato da uno o più compagni, per procurarsi un oggetto o compiere un’azione che gli consenta di tornare finalmente a casa, recando con sé dei benefici per se stesso e per la sua comunità di appartenenza3. La gamma dei significati contenuti nelle varie articolazioni narrative di questa struttura mitica può essere anche molto ampia. Ma nel caso di Dorothy, la protagonista di The Wizard of Oz, il senso del viaggio è piuttosto chiaro. Si tratta di un percorso di formazione, di crescita e di maturazione, che consente alla piccola protagonista di acquistare la serenità e la sicurezza necessarie per sentirsi parte integrante della sua comunità. Paul Nathanson, nella sua ricca e sfaccettata lettura del film, osserva che in questo caso la quest assume anche i caratteri di un rito di passaggio dall’infanzia alla pubertà4. In riti di passaggio di questo genere si abbandona l’originario status di bambini per passare allo status di adolescenti, o di adulti, accettati dal resto della società; per oltrepassare la soglia tra uno status e l’altro occorre superare prove rituali all’interno di uno spazio «liminale», cioè estraneo tanto alla società prima del rito (quando l’iniziando è ancora un bambino), quanto alla società dopo il rito (quando l’iniziando ritorna ed è accettato dalla società). All’inizio – osserva Nathanson – Dorothy sente di non avere un posto preciso nella sua comunità; Aunt Em le dice di trovarsi un luogo dove starsene tranquilla, e lei sogna della terra «over the rainbow»; poi – come gli iniziandi in un rito di passaggio – è bruscamente, ma temporaneamente, allontanata dalla sua comunità a causa del tornado, che la porta nello spazio della prova rituale. Lì, cioè nel mondo di Oz, supera le prove di passaggio, scortata dai suoi compagni di viaggio: The Scarecrow (lo Spaventapasseri), The

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Tin Man (il Boscaiolo di Latta) e The Cowardly Lion (il Leone Codardo); e proprio come succede nei riti di passaggio, in cui gli iniziandi che si trovano sottoposti alle stesse prove sviluppano un forte legame di amicizia fra loro, anche Dorothy e i suoi tre compagni diventano buoni amici. Giunta al termine del percorso, Dorothy – come iniziata – deve rientrare nella società; per farlo deve recitare un mantra («Non c’è posto migliore della mia casa») mentre compie un gesto rituale (battere fra loro per tre volte le scarpette rosse che indossa). Le scarpette rosse sono originariamente appartenute alla Cattiva Strega dell’Est, schiacciata dalla casa di Dorothy nel suo atterrare nel mondo di Oz; dopo la morte della Strega, magicamente le scarpette vengono calzate da Dorothy; e questa è la ragione dell’ostilità della Cattiva Strega dell’Ovest, sorella della defunta, che vorrebbe le scarpette per sé. Nathanson ritiene che la Strega Cattiva, e i simboli che le sono associati, alludano all’immaturità sessuale di Dorothy: da un lato la Strega vuole a tutti i costi le scarpette rosse, che sarebbero il simbolo del sangue mestruale, e viaggia su un manico di scopa, simbolo fallico; dall’altro lato Dorothy ha le scarpette rosse, senza tuttavia conoscerne il potere; e non ha il manico di scopa, fino a che non se ne procura uno, uccidendo la Cattiva Strega dell’Ovest per ordine del Mago di Oz. A quel punto Dorothy, avendo imparato a conoscere il significato delle scarpette e avendo superato il confine che porta a una consapevole pubertà, può tornare a casa5. Quando si risveglia nel suo letto, Dorothy si ricorda di tutto ciò che ha imparato, e per questo è pronta a reintegrarsi positivamente nella sua comunità di appartenenza6. The Wizard of Oz è dunque un romance di formazione, centrato sul crescere, sul trovare una piena accoglienza nella propria famiglia di adozione (i genitori biologici di Dorothy non ci sono) e sul culto della propria casa, anzi sul bisogno spasmodico di tornare alla propria casa. Che la protagonista di questa particolare storia sia una bambina che oltrepassa la soglia della pubertà è essenziale, giacché nella cultura mainstream diffusa all’epoca il luogo deputato per l’esistenza di una donna è, senza dubbio alcuno, la domesticità. Inoltre «nel 1939 – osserva Nathanson

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– dopo gli spostamenti e le migrazioni di massa causati dalla Depressione, e con la minaccia di nuove separazioni a venire a causa di un’altra guerra, la forza di seduzione di ogni film che celebri il valore della domesticità non è difficile da capire»7. Né è difficile capire perché – riprendendo un topos classico della letteratura per l’infanzia di età moderna – questa e altre storie del periodo, da Snow White and the Seven Dwarfs a Cinderella, parlino di famiglie ricostruite, più o meno disfunzionali, e bisognose di una ricomposizione: un’altra esperienza ben nota a molti che avevano visto le proprie famiglie letteralmente disgregate dagli effetti della Depressione, delle migrazioni e, successivamente, della guerra. Infine, il tono di volitiva speranza che accompagna il percorso di Dorothy e dei suoi compagni, rimarcato da una delle canzoni più significative del film – Optimistic Voices –, che voci celestiali cantano nel momento in cui Dorothy e i suoi tre compagni si avvicinano alla Città di Smeraldo, avrà sicuramente contribuito a dare un po’ di conforto e una – per quanto fugace – serenità a molti spettatori oppressi dalle durezze della vita8. Ciascuna di queste prospettive aiuta certo a capire il significato di un’opera cardine nella cultura mainstream, ma non ne esaurisce il lascito, giacché Dorothy ha ancora un’altra preziosa traccia da offrirci. 2. Terra di eroi «There’s no place like home»: questo è il mantra che guida Dorothy verso casa. Ma quello è anche un verso di Home Sweet Home, una canzone composta all’inizio dell’Ottocento da Henry Bishop e John Howard Payne e popolarissima negli Usa per tutto il XX secolo. La musica di questa canzone si sente in sottofondo nella scena finale di The Wizard of Oz in cui Dorothy si sta risvegliando al momento del suo ritorno in Kansas. La musica della canzone ricompare in un altro classico hollywoodiano di questo periodo, Meet Me in St. Louis (Incontriamoci a Saint Louis, Vincente Minnelli, 1944), storia di una famiglia che non vuole perdere la propria casa a St. Louis, per trasferirsi

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a New York, dove il capofamiglia ha ottenuto una promozione: la scena nella quale si ode Home Sweet Home è quella in cui Esther (personaggio interpretato proprio da Judy Garland) danza con suo nonno al ballo di Natale. Un quadretto con la frase «Home Sweet Home» campeggia nella stanza principale della casa della famiglia Vanderhof, minacciata di sfratto dalla avida cupidigia di un palazzinaro, nel film di Frank Capra, You Can’t Take It with You (L’eterna illusione), del 1938. Poco dopo la sua prima elezione F.D. Roosevelt indica Home on the Range come una delle sue canzoni preferite; il testo della canzone, che è stato pubblicato nel 1873 da Brewster M. Higley col titolo My Western Home, per essere musicato subito dopo da Daniel E. Kelley, colloca la «home» nel mitico panorama western, tra sentimenti romantici e natura incontaminata. La canzone, riscoperta dal musicologo John Lomax nel 1910, diventa uno dei brani più popolari ed eseguiti negli anni Trenta e Quaranta9. Nel 1944, il film Since You Went Away (Da quando te ne andasti, John Cromwell), ambientato nel contesto della guerra e dedicato al tema del ritorno a casa dei soldati impegnati al fronte, si apre con una scritta particolarmente enfatica: «This is a story of the Unconquerable Fortress, the American Home... 1943»; in questo caso, i molteplici significati della parola «home» si sovrappongono l’uno sull’altro: «home» è la casa, intesa come abitazione; è il focolare domestico; è la comunità alla quale si appartiene; è la patria. Su un diverso piano mediatico, ma nella stessa direzione simbolica, agiscono molte pubblicità commerciali del tempo di guerra, come per esempio quella dei frigoriferi Servel, in cui una donna di mezza età, che guarda diritto negli occhi di chi osserva l’immagine, dice: «La mia patria [home] è in guerra! I nostri nemici colpiscono le radici di tutto ciò che ha significato sicurezza e pace e dignità nelle relazioni umane – ogni cosa che noi riassumiamo in quella preziosa parola CASA [HOME]»10. La «home» come patria/casa è celebrata, infine, in una famosissima canzone di Irving Berlin, eseguita per la prima volta dalla cantante Kate Smith in una trasmissione radiofonica dell’11

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novembre 1938, e poi trionfalmente rilanciata in un musical di Broad­way e in un film musicale della Warner Bros. nel 19421943; la canzone è God Bless America, i cui ultimi due versi dicono: «God bless America, / My home sweet home». Intorno alla solidità di una «home» si snoda anche il raccontino dei Three Little Pigs, il cortometraggio Disney del 1933: nel capitolo I ho già detto che questo film animato sembra banale nel suo sviluppo, per poi aggiungere che in realtà possiede una densità narrativa che non si sospetterebbe a prima vista. Ebbene, è arrivato il momento di esplicitare in che cosa consista questo aspetto del primo film animato di successo della ditta Disney. Dunque, che cosa c’è di così interessante in questa brillante storiella? C’è che il cartone di Disney contiene un altro modello narrativo fondamentale della cultura popolare americana, che si struttura secondo questa ricorrente sequenza: (a) un’armoniosa comunità è minacciata da una qualche forza maligna; (b) le istituzioni vigenti non ci sono, o non sono in grado di contrastare questa aggressione; (c) un eroe altruista emerge e adempie al compito redentivo di liberare la comunità dal male, o di vendicarla, se torti sono stati perpetrati; (d) la comunità torna all’originario stato di armonia11. Le declinazioni narrative di questo modello sono innumerevoli, come lo sono i luoghi minacciati e i «cattivi» che scatenano il terrore: Ora si tratterà di una casa vera e propria, ora di uno spazio chiuso che somiglia a una casa: una diligenza, un’automobile, un treno, una metropolitana, un ascensore, una navicella spaziale, un corpo umano. Ora avremo degli indiani veri e propri, ora presenze facenti le veci di indiani: banditi, killer, mostri, poliziotti, G-men, lupi, pesci, balene, voci, sguardi, nebbie, aure avvolgenti12.

Punto cardine di questa sequenza narrativa è comunque l’idea della tranquilla «home» (o di un suo sostituto metaforico) assalita da una qualche terribile minaccia che rischia di comprometterne irrimediabilmente l’armonia. L’origine di questa storia va fatta risalire all’idea – diffusa sin dalle prime società di coloni britannici approdati nell’America

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del Nord nel XVII secolo – secondo la quale il nuovo continente è un nuovo Eden, o, nei termini della cultura puritana, una nuova terra promessa, da conquistare facendosi largo in un mondo selvaggio e ricco di pericoli. Tra XVII e XIX secolo prosperano racconti, novelle, romanzi, che trattano del tema della piccola e tranquilla comunità accerchiata e attaccata dagli indiani minacciosi e brutali. Non importa che le cose stiano al contrario, cioè che siano i coloni bianchi ad attaccare gli indiani; il mito declina la storia nella forma ansiosa del timore dell’accerchiamento13. Nella letteratura popolare della seconda metà del­l’Ottocento o dell’inizio del Novecento, il tema della comunità accerchiata e minacciata è largamente diffuso, con la variante, spesso ripetuta, della bella eroina aggredita sessualmente dagli indiani o dai neri, e in qualche caso liberata dall’eroe di turno: la trama viene integrata nel Buffalo Bill’s Wild West Show, spettacolo organizzato sin dal 1883 da William Cody (alias Buffalo Bill); e soprattutto viene rielaborata in forma sfacciatamente razzista in The Birth of a Nation (Nascita di una nazione), fondamentale film di David W. Griffith, proiettato nelle sale nel 191514. Come rispondere alla minaccia? Di fronte all’attacco esterno non si erge solo l’alacre ingegnosità di personaggi come Practical Pig. Fuori dalla dimensione della storiella per bambini, nelle modalità narrative che esplorano il tema della minaccia, si profila sistematicamente la fondamentale figura del virile eroe salvifico. Ora, la figura dell’eroe non è certo un prodotto autonomo della cultura e della società americana, avendo alle spalle una tradizione narrativa plurisecolare, riccamente elaborata dalla cultura europea. Ciò che è importante osservare qui, tuttavia, è che – tra Ottocento e Novecento – l’immagine dell’eroe viene sviluppata in una doppia declinazione, l’una prevalente nel contesto culturale europeo, l’altra particolarmente rilevante invece nella cultura di massa statunitense. Nel contesto dell’Europa di fine Settecento-inizio Ottocento, proprio quando nasce una «nuova politica», cioè un modo nuovo di concepire i rapporti di potere, è la variegata costella-

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zione nazionalista a dare corpo e anima alla figura degli eroi15. Costoro sono degli uomini che devono esser capaci di difendere la libertà e l’onore della nazione armi alla mano. Devono essere leali, puri e rispettosi dei deboli. Ma le qualità che connotano più in profondità questi eroi guerrieri, senza le quali la lealtà, la dedizione alla causa, la cortesia non possono valere granché, sono il coraggio e lo sprezzo del dolore fisico, del pericolo, della paura, qualità costantemente circonfuse di un’aura di morte. Se sono vincitori, la morte aleggia intorno a loro non solo nei corpi dei nemici uccisi, ma anche nei rituali di sangue che sembrano dover suggellare la vittoria: un portato decisivo della sacralizzazione del discorso nazionale è costituito proprio da questa nobilitazione dell’aggressività eterodiretta, come dato essenziale della vita della comunità. Ma ancor più confusi con un’immagine cultuale della morte sono gli eroi sfortunati, uccisi in battaglia, destinati alla sconfitta, catturati dal nemico. Da molti punti di vista, queste sono le figure più tipiche e più rappresentative dell’eroismo nazional-patriottico europeo, perché nel loro destino si può veder trasparire la figura del martirio, così cara alla retorica nazionalista. La natura sacrificale della morte in battaglia è ciò che rende santa la guerra per la libertà della nazione e perfino desiderabile la morte per un patriota. L’esempio sacrificale è essenziale perché altri abbiano il coraggio di affrontare il medesimo, necessario, martirio. La morte sacrificale viene letta sotto una luce sacrale-cristologica, e in effetti il modello archetipico per questa declinazione dell’eroismo è il Cristo della Passione e i santi martiri che hanno scelto di imitarlo per dare testimonianza della loro fede in Lui. Intorno a questa idea si costruisce, nel tempo, un intensissimo culto dei caduti, considerati come martiri politici che si sono sacrificati per il bene dell’idea per la quale hanno combattuto. Centrale per le varie declinazioni dell’ideologia nazionalista, questa rappresentazione della figura eroica è incorporata anche negli schemi concettuali dell’ideologia socialista, che celebra con eguale intensità i propri eroi-martiri, caduti per la difesa dell’ideale rivoluzionario.

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Nella tradizione narrativa statunitense (e anche nelle storie raccontate dai prodotti della cultura di massa) talora l’eroe ha in effetti i tratti sacrificali che appartengono al contesto culturale europeo: il caso più noto di questa particolare declinazione della figura dell’eroe è certamente quello di George Armstrong Custer e della «valorosa» morte sua e dei suoi soldati a Little Big Horn (25 giugno 1876); nel cinema hollywoodiano degli anni a ridosso della seconda guerra mondiale figure simili trovano la loro collocazione in racconti ambientati in contesti esotici (almeno da una prospettiva statunitense), come il Messico o la Spagna della guerra civile, o in storie che illustrano atti eroici di soldati americani nel corso di una guerra (e in particolare della seconda guerra mondiale)16. Tuttavia, nella cultura mainstream statunitense a questa figura si affianca anche il modello dell’eroe vittorioso, già presente sin dai captivity tales diffusi dal XVII secolo in avanti, che raccontano degli attacchi indiani a qualche comunità di coloni, seguiti dal rapimento e dalla prigionia di qualche bianco o, soprattutto, qualche bianca, e dal successivo arrivo dell’eroe combattente che libera i prigionieri e li conduce in salvo. Dalle opere di Fenimore Cooper a innumerevoli dime novels, che introducono varianti sul tema, la figura dell’eroe vittorioso e salvifico precisa il suo profilo fino a fissarsi definitivamente nell’immaginario collettivo statunitense con la pubblicazione del romanzo western The Virginian. A Horseman of the Plains (Il Virginiano), di Owen Wister, edito nel 1902 e dedicato al presidente Theodore Roosevelt. In breve, la storia raccontata da Wister è questa: nel Wyoming una comunità di allevatori è ossessionata e danneggiata da bande di ladri di cavalli, guidate dall’arcicattivo di turno; le istituzioni statali, sia perché sono corrotte, sia perché non sono adeguatamente attrezzate, non possono far nulla e la comunità locale si difende come può, fra l’altro ricorrendo al linciaggio dei banditi che vengono catturati. Lo stato di tensione dura, finché non arriva un misterioso Virginiano: non se ne conosce il nome; non se ne conosce il passato; si sa solo che è un uomo fiero e d’onore, che decide di lottare a fianco dei membri della comunità,

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anche perché si innamora della maestrina del paese. Lo scontro tra il «bene» e il «male» si risolve con il duello finale tra il Virginiano e il capo dei cattivi, nel quale l’eroe positivo vince e restituisce l’armonia perduta alla società locale. Come conclusivo sigillo positivo, l’eroe alla fine può sposare la bella maestrina, ponendo le fondamenta simboliche per un ulteriore sviluppo della comunità. Il libro ha un grande successo: vende più di due milioni di copie e viene usato come lettura nelle high schools; secondo la tipica struttura intermediale della cultura di massa, se ne traggono, a breve distanza l’uno dall’altro, quattro film, uno nel 1914, con la regia di Cecil B. DeMille, uno nel 1923, diretto da Tom Forman, uno nel 1929, diretto da Victor Fleming, con Gary Cooper nei panni del protagonista, e uno nel 1946, con la regia di Stuart Gilmore17. In queste versioni, la vicenda del Virginiano viene raccontata nel format della storia in sé conclusa. Ma nei decenni seguenti, e in particolare, significativamente, dal 1929 in avanti, attraverso le trasmissioni radiofoniche, le strip a fumetti e il cinema, personaggi analoghi vivono le loro avventure attraverso il formato del racconto seriale a puntate. Sebbene in questo nuovo panorama mediatico ci siano altri eroi western (particolarmente popolare The Lone Ranger, in onda alla radio dal 1933), troviamo anche molti altri eroi che si dislocano un po’ dovunque, nello spazio e nel tempo: nel passato (Prince Valiant, fumetto neomedievale di Hal Foster, 1937); in lontani luoghi esotici (Tarzan, fumetto dello stesso Foster, 1929); nella giungla della città moderna (The Shadow, programma radiofonico in onda dal 1930; Dick Tracy, intelligentissimo e tostissimo detective di Chicago, fumetto di Chester Gould, 1931); nel futuro (Buck Rogers, fumetto di Philip Nowlan e Dick Calkins, 1929; e Flash Gordon, fumetto di Alex Raymond, 1934)18; come abbiamo già osservato nel capitolo precedente, ciascuno di questi personaggi successivamente continua a vivere le sue storie anche in media diversi da quelli sui quali ha avuto origine. Diversamente dagli eroi sacrificali, tutta questa nuova costellazione eroica è composta da personaggi che non muoiono mai

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e restano – per così dire – permanentemente in servizio. Certamente la struttura seriale dei formati che ospitano le loro storie incoraggia l’adozione di questa soluzione: se si devono replicare – potenzialmente all’infinito – le storie degli eroi, è chiaro che questi non possono morire. In qualche raro caso, se non muoiono, invecchiano, si sposano e hanno dei figli che continuano la saga del padre, il quale poi diventa pure nonno, man mano che le generazioni si susseguono, come accade nella storia di Prince Valiant, che vive narrativamente dal 1937 al 1982, e a un certo punto appare anche in pubblicazioni specializzate dopo la originaria edizione come striscia a fumetti destinata ai giornali quotidiani19. Questa, tuttavia, è piuttosto un’eccezione, poiché la soluzione che si impone contempla un eroe che non invecchia mai ed è sempre lo stesso, puntata dopo puntata. Sebbene non siano – per statuto, diciamo così – personaggi immortali e invincibili, questi nuovi eroi lo sono nei fatti: in ogni nuova storia il meccanismo del cliffhanger è giocato in modo da far vedere l’eroe quasi sul punto di soccombere; ma la suspense si risolve inevitabilmente con qualche mirabolante soluzione – azione fisica, intuizione intellettuale, colpo di fortuna – che consente il trionfo del «bene», la sconfitta dei «cattivi» e il ritorno dell’armonia. L’immortalità e l’invincibilità, che in questi racconti sono solo implicite, diventano invece un dato strutturale del personaggio eroico nel 1938, quando compare la prima storia a fumetti di Superman, opera di Jerry Siegel e di Joe Shuster20. Superman estremizza i caratteri dell’eroe vincente, perché il supereroe non solo non muore mai, ma essenzialmente è proprio immortale, ed è dotato di superpoteri. È anche – come sostanzialmente anche i suoi predecessori – un supereroe particolarmente «etico»: anche se fa un sistematico ricorso alla violenza che gli serve per proteggere la comunità in cui vive, se non addirittura il mondo intero, non uccide nessuno e non ha nemmeno bisogno delle armi, poiché gli bastano i pugni21. Il ricorso alla forza per annullare la minaccia è essenziale nell’orizzonte morale della cultura popolare statunitense, poiché asserisce senza mezzi termini che esiste una «violenza giusta» e che, in determinate condizioni, è assolutamente

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necessario impiegare questo tipo di violenza, se si vogliono proteggere i valori positivi della propria comunità. A controbilanciare lo straordinario potere che Siegel e Shuster attribuiscono al loro personaggio si aggiunge una sorta di doppio «tallone di Achille». Superman, che in realtà viene dal pianeta Krypton, diventa vulnerabile quando entra in contatto con la kryptonite, una roccia proiettata nello spazio dall’esplosione del suo pianeta di origine; e i «cattivi» della storia cercano di farne l’uso migliore a loro vantaggio, senza peraltro mai riuscire a sconfiggere il supereroe. L’altro dispositivo narrativo inventato dai due creatori di questo personaggio per attenuarne il connotato eroico è semplicemente geniale, perché consente al lettore (specie se è un maschio un po’ frustrato) di identificarsi senza problemi col supereroe fortissimo, buonissimo e immortale: Superman, infatti, si cela sotto l’identità di Clark Kent, un giornalista imbranato, privo di fascino virile e inutilmente innamorato della collega Lois Lane, la quale, a sua volta, è infelicemente innamorata di Superman. Questo triangolo non compiuto consente di attribuire indirettamente una qualità sacrificale anche al supereroe, rendendolo meno distante e relativamente più credibile: per svolgere le sue missioni deve rinunciare a una sua vita affettiva, scelta che gli permette di continuare a dedicarsi integralmente al bene dell’umanità; mentre per il resto delle sue giornate non è che un tizio normalissimo, con le debolezze e le fragilità di tutti. I tratti strutturali di Superman sono replicati dalla intera prima generazione di supereroi, con qualche variante: la sequenza che gemma da Superman è in maggioranza composta da maschi, con un’interessante eccezione, Wonder Woman, personaggio a fumetti lanciato nel 1942, con testi dello psicologo William Moulton Marston e disegni di Harry G. Peters22. Marston, che ha posizioni dichiaratamente «femministe», costruisce il suo personaggio sulla base della stessa matrice di Superman; Wonder Woman, che in origine è una principessa amazzone, ed è tratteggiata in un costume – al tempo stesso – patriottico e sexy, ha «la bellezza di Afrodite, la saggezza di Atena, la forza di Ercole e la velocità di Mercu-

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rio»23. In origine vive col suo popolo in un’isola del Pacifico fino a che Steve Trevor, un aviatore americano, non precipita sull’isola; lei se ne innamora, e decide di riportarlo negli Usa, dove inizia la sua carriera di supereroina combattendo il male e «difendendo la democrazia»24. Nel mondo degli umani vive lo stesso triangolo irrisolto di Superman: Wonder Woman non può amare Steve Trevor, perché è vietato dalle leggi delle Amazzoni; Steve, d’altro canto, non è attratto dall’infermiera Diana Prince, l’identità «normale» assunta da Wonder Woman per vivere negli States accanto a lui, perché è perdutamente innamorato di Wonder Woman. La presenza di un’eroina combattente in un universo immaginario in cui l’eroismo è considerato un elemento quintessenziale della mascolinità introduce certo uno scarto nelle simmetrie simboliche della cultura popolare mainstream, che è però ridimensionato da una serie di importanti particolari narrativi. In un episodio del settembre 1942, quando la vera Diana Prince rientra in scena e poi decide di abbandonare il lavoro all’ospedale per occuparsi della famiglia, lasciando che Wonder Woman si serva della sua identità, la supereroina le dice: «Sono contenta di poter riavere la mia identità, ma invidio la tua, come moglie e come madre»25. Inoltre a più riprese Wonder Woman spiega che non vuole sposare Trevor, perché non potrebbe sopportare di essere una moglie sottomessa e ubbidiente, ma in alcuni episodi in effetti sogna di diventarlo, tradendo così tutto il suo disagio interiore26. Ma soprattutto Wonder Woman soffre strutturalmente di un limite che è specialmente rivelatore, poiché mostra che la sua forza e la sua autonomia devono comunque rispettare la fondamentale e ineludibile asimmetria nei rapporti tra i generi che domina la scala valoriale mainstream: la supereroina, infatti, perde tutta la sua forza e non può più liberarsi, se un maschio «cattivo» la imprigiona collegando i suoi braccialetti di Afrodite a delle catene; a quel punto, solo un intervento esterno di un maschio «buono» (e spesso si tratta proprio di Steve Trevor) le può restituire la libertà27. Quali che siano le caratteristiche di Wonder Woman, sia lei, sia Superman, sia tutti gli altri supereroi combattono contro le

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brutali minacce rivolte contro la «home» alla quale appartengono o per la quale hanno deciso di lottare. E così non sorprende che possano anche essere «arruolati» per opporsi ai nemici della «home» intesa come madrepatria: accade a Superman, a Wonder Woman, e ad altri ancora, mentre uno dei supereroi, Captain America, nella fantasia dei suoi creatori (Joe Simon e Jack Kirby, 1941) nasce proprio come derivazione di un progetto scientifico finanziato dall’esercito americano per creare un supersoldato capace di combattere più efficacemente contro le truppe naziste. Ora, chi incontra queste storie è incoraggiato a confondere in qualche misura i confini tra finzione e realtà, se le vuole veramente apprezzare. Spesso ai fumetti, ai radiodrammi o ai film sono collegati gadget messi in commercio, soprattutto per gli adolescenti, che vogliono dare spessore di realtà a queste storie, sebbene in forma infantilmente ludica; negli anni immediatamente precedenti all’entrata degli Usa nella seconda guerra mondiale, per esempio, i ragazzi che si fossero iscritti alla Don Winslow’s Squadron of Peace, un’associazione fittizia collegata al fumetto Don Winslow of the Navy, ricevevano un attestato nel quale si poteva leggere il giuramento di adesione che diceva: Consacro la mia vita alla Pace e alla protezione di tutti i miei connazionali dovunque si trovino. La mia battaglia contro Scorpia rappresenta la battaglia tra il Bene e il Male. Non aderirò mai ad alcuna associazione sciovinista, ma dedicherò tutta la mia vita a proteggere il mio Paese. Il proponimento di tutta la mia vita è di promuovere la Pace – non la Guerra. Lavorerò negli interessi della Pace e cercherò di realizzare tutto ciò che è senza macchia, sano e integro. Unisciti a me non solo per osservare questo credo, ma per essere patriottico. Ama il tuo Paese, la sua bandiera e tutte le cose che simboleggia. Segui il consiglio dei tuoi genitori e superiori e aiuta qualcuno ogni giorno28.

L’invito a un acquiescente rispetto della gerarchia, pur nel contesto di un patriottismo democratico, è esplicitato qui con i toni di un gioco da bambini. Tuttavia l’aspetto realmente interessante nella cultura di massa è che i confini tra immaginario e realtà sono permeabili ben al di là degli spazi delle fantasie ado-

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lescenziali, com’è mostrato dal caso del fumetto Terry and the Pirates, di Milton Caniff, edito dal 1934, che negli anni di guerra acquista – come accade anche ad altri fumetti eroici – impegnativi contenuti patriottici: La tavola domenicale più nota degli anni della guerra è quella del 17 ottobre 1943, nella quale, in un campo d’aviazione, il colonnello Corkin spiega lungamente a Terry nel corso di dieci vignette (l’ultima è muta, con Terry che si allontana da solo) le ragioni «ideologiche» e «morali» dell’impegno militare statunitense in una guerra lontana dai confini del paese. La pagina è celebre e nota come Il credo del pilota; dopo essere stata letta nel Congresso Usa è stata stampata e distribuita per molti anni agli aspiranti piloti delle forze armate statunitensi29.

Non solo: «quando Terry [nella storia a fumetti] viene promosso sul campo, quotidiani serissimi ne danno ufficialmente la notizia e l’aviazione americana, in forma autorizzata e ufficiale, gli invia (o meglio invia all’autore, per l’inoltro) una tessera con numero di matricola»30. Si può immaginare che una simile confusione tra finzione e realtà sia un effetto dettato dalla tensione degli anni di guerra; ma certo, se è stato così, si è trattato di un effetto che si è prolungato a lungo: il 9 giugno 1980 il presidente Jimmy Carter ha consegnato alla vedova di John Wayne, morto da un anno, la Presidential Medal of Freedom, con queste motivazioni: Il Presidente degli Stati Uniti conferisce questa Medaglia Presidenziale della Libertà a John Wayne. John Wayne è stato sia un esempio che un simbolo della vera determinazione americana. Attraverso i suoi innumerevoli ruoli, il «Duke» conduce ancora milioni di individui verso avventure eroiche in difesa dell’equità e della giustizia. Incorpora i solidi valori americani dell’individualismo, del tenace coraggio e della perseveranza in nome di ciò che è giusto. Egli è stato la quintessenza del patriota e sarà ricordato particolarmente ogni volta che la nostra Nazione debba affrontare una sfida che richieda un fermo coraggio31.

Più che il tono enfatico colpisce il fatto che l’onorificenza sia stata conferita non tanto alla persona-John Wayne, che non ha

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mai combattuto nessuna battaglia nella sua vita reale, ma ai personaggi eroici da lui interpretati. Lawrence e Jewett, che ricordano questo episodio, osservano che a loro sembra un esempio chiaro della enorme forza persuasiva di queste narrazioni eroiche, le quali peraltro presuppongono che i cittadini diventino membri di una spectator democracy, ovvero di un sistema nel quale passivamente e conformisticamente ci si limita a osservare gli eventi e ad attendere che un eroe, o l’uomo solo al comando, risolva i problemi di tutti32. Le figure eroiche compaiono, naturalmente, anche nei maggiori successi hollywoodiani del periodo, con l’aggiunta di varianti narrative che – in qualche caso – si muovono in direzione diversa rispetto ai racconti seriali, pur senza mettere in discussione il sistema valoriale di fondo. E così, per esempio, talora l’eroismo degli adulti è propiziato dal coraggioso comportamento di una bambina – come in The Littlest Rebel (La piccola ribelle, David Butler, 1935) o in Wee Willie Winkie (John Ford, 1937), entrambi con Shirley Temple nei panni della protagonista. In altri casi l’eroe salvifico arriva, sbroglia una complicata situazione, sbaraglia i cattivi, salva la comunità, e poi se ne va, solitario, verso il tramonto... – come in North West Mounted Police (Giubbe rosse, Cecile B. DeMille, 1940). In altri casi ancora, infine, l’eroe di turno, oltre a salvare la comunità (grande o piccola che sia), torna dal suo amore, nella sua «home», o trova l’amore per il quale – fra le altre cose – ha cercato di combattere. Se Sergeant York (Il sergente York, Howard Hawks, 1941), A Yank in the R.A.F. (Il mio avventuriero, Henry King, 1941) e Stagecoach (Ombre rosse, John Ford, 1939) hanno, in modi diversi, sviluppi narrativi dotati di una loro complessità sulla quale tornerò più avanti, The Adventures of Robin Hood (La leggenda di Robin Hood, Michael Curtiz, 1938) palesa invece un gioviale ottimismo, di una superficialità veramente disarmante: la riconquista della serena armonia della comunità di Nottingham deve passare attraverso l’eliminazione dello stesso ostacolo che impedisce a Robin (interpretato da Errol Flynn) di amare Lady Marian (Olivia de Havilland). L’ostacolo è costituito

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dal principe Giovanni e dai suoi infidi sgherri, debitamente sbaragliati da R ­ obin in un film nel quale non manca niente dell’immaginario più banalmente eroico, compreso l’inevitabile salvataggio dell’inerme donzella in pericolo. Peraltro è chiaro che la matrice narrativa di un film che, a dispetto (o a causa) della sua banale trivialità, incassa quasi 4.000.000 di dollari, è quella di The Virginian. Un virginiano ilare e in calzamaglia verde, certo, ma animato da un orizzonte etico che è lo stesso del suo più serioso predecessore. 3. ...e vissero (quasi sempre) felici e contenti Alla fine narrazioni di questo tipo risolvono situazioni ansiogene («una continua minaccia incombe su di noi...») con esiti sistematicamente rassicuranti («...ma un eroe verrà a salvare noi e i nostri cari»). Secondo Will Hays, autorevole presidente della Mppda (Motion Picture Producers and Distributors of America), la potente organizzazione che riunisce e coordina le maggiori case cinematografiche statunitensi, questo è proprio ciò che Hollywood deve fare; e nel 1934, con preveggente fiducia e con orgoglio, afferma che gli storici del futuro dovranno riconoscere che l’industria cinematografica «ha letteralmente spazzato via il grande lupo cattivo della Depressione dalla mente del pubblico con una risata»33. L’espressione usata da Hays fa pensare che abbia in mente proprio Three Little Pigs nel formulare la sua previsione-programma: ed effettivamente, nel cortometraggio Disney, brivido leggero e risata liberatoria sono gli effetti suscitati negli spettatori. Nei film, nei fumetti, nei radiodrammi o nei romanzi eroici, più che una risata, è un sospiro di sollievo ciò che, alla fine, scaccia via le ansie. Viceversa, nei sottogeneri della romantic comedy o del musical è proprio l’ilarità che rallegra gli spettatori e le spettatrici, oltre ai brillanti numeri musicali o di danza che costellano diversi di quei film. Tuttavia, ancora più che sui generici effetti comici che costellano le commedie romantiche o i film musicali, è sulla struttura narrativa di questi film e sulle

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sue implicazioni etiche che conviene soffermarsi. Anche in questo caso si deve osservare che il plot essenziale che domina in questi importantissimi settori della cultura mainstream non è un’invenzione dei produttori, degli sceneggiatori o dei registi di Hollywood, ma costituisce una delle modalità narrative più a lungo presenti nella tradizione letteraria dell’Occidente34: un giovane vuole una ragazza (o viceversa), ma il compimento del loro desiderio è impedito da un ostacolo (l’opposizione di un familiare, un equivoco, una incomprensione tra i due che nasconde in realtà una forte attrazione), finché, alla fine, l’impedimento viene superato, gli antagonisti sbaragliati, l’equivoco dissipato, le incomprensioni cancellate e i due cuori innamorati possono finalmente «vivere per sempre felici e contenti»35. Di nuovo Walt Disney dà un contributo determinante al consolidamento dello schema, con un lavoro fondamentale come Snow White and the Seven Dwarfs, che trasferisce la storia di una contrastata felicità affettiva nel mondo al tempo stesso profondo e infantile delle favole animate36. Non meno importanti sono i musical interpretati dalla coppia Fred Astaire e Ginger Rogers, tra i quali spicca, in particolare, Top Hat, per il grande successo delle musiche e delle canzoni di Irving Berlin che costituiscono l’essenziale colonna sonora. Anzi, sia in Snow White che in Top Hat alle canzoni è affidato il compito di illustrare, in forma brillantemente pedagogica, il senso etico complessivo della storia. Giacché le commedie romantiche in senso proprio, o i cartoni animati e i musical che raccontano storie di innamoramento, hanno un andamento tra i più formalmente standardizzati in tutto l’universo della cultura mainstream, non è difficile identificarne tre tratti strutturali fondamentali: (1) L’amore romantico è considerato come l’ingrediente assolutamente necessario perché due cuori possano felicemente incontrarsi; il testo di Cheek to Cheek, canzone che Fred Astaire canta mentre danza con Ginger Rogers in uno dei numeri più spettacolari di Top Hat, spiega la magia dell’innamoramento, mentre, al tempo stesso, suggerisce quanto il sentimento d’amo-

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re possa fortunosamente aiutare a superare le preoccupazioni della vita quotidiana: Paradiso, sono in Paradiso E il mio cuore batte così tanto che faccio fatica a parlare; E mi sembra di trovare la felicità di cui vado in cerca Quando siamo insieme, ballando guancia a guancia. Paradiso, sono in Paradiso, E le preoccupazioni che mi opprimono durante la settimana Sembrano svanire come per il colpo fortunato di un giocatore d’azzardo Quando siamo insieme, ballando guancia a guancia.

(2) L’obiettivo dell’innamoramento è uno e uno solo: la fondazione di un nucleo matrimoniale ordinato e felice, che è ciò che costituisce la sostanza etica del lieto fine di queste storie, giacché è evidente che quello familiare (la «home» come famiglia) è considerato il nucleo essenziale dell’intera comunità (la «home» come patria). In realtà, in questo periodo, quasi nessuno dei film di maggior successo, che narrano storie d’amore che si concludono felicemente, descrive effettivamente un matrimonio al termine della storia37; piuttosto la scena finale standard è quella della coppia finalmente riunita, che danza, o che parte, o che si allontana dagli altri per vivere la propria appagante intimità. Anche Snow White finisce in questo modo, col Principe Azzurro che sul suo cavallo porta via la rediviva Biancaneve verso il suo castello. Tuttavia, anche in questo caso la canzone che accompagna la scena offre la chiave interpretativa complessiva per questo e per altri finali consimili: Un giorno il mio principe verrà Un giorno ci incontreremo di nuovo E ce ne andremo al suo castello Per essere felici per sempre, lo so. Un giorno quando la primavera arriverà Ritroveremo il nostro amore E gli uccellini canteranno E le campane nuziali suoneranno Il giorno in cui i miei sogni diventeranno realtà38.

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A sottolineare l’importanza della istituzione matrimoniale concorre anche quel particolare sottogenere cinematografico, diffuso negli anni Trenta e Quaranta, e studiato in dettaglio da Stanley Cavell, che è la commedia del rimatrimonio39. Claire Mortimer ne riassume così i termini: Le commedie del rimatrimonio come Adam’s Rib [La costola d’Adamo, ­George Cukor, 1949, con Spencer Tracy e Katharine Hepburn] e The Awful Truth [L’orribile verità, Leo McCarey, 1937, con Cary Grant e Irene Dunne] vedono lui e lei che mandano in crisi il loro matrimonio, si ribellano contro l’istituzione, ma alla fine arrivano a realizzare che hanno bisogno l’uno dell’altra, riguadagnando una fede rinnovata nel loro matrimonio. Il matrimonio è un mezzo per restaurare l’ordine e garantire la felicità ai personaggi, integrandoli nella società e risolvendo lo sconvolgimento e il conflitto. La commedia romantica è senza dubbio più conservatrice di altre commedie, giacché rispetta la struttura sociale e le ideologie dominanti, offrendo una risoluzione che rafforza la tradizione e il conformismo40.

(3) Al sesso, in questi film, si allude al massimo con qualche bacio appassionato ma breve, e niente di più; e naturalmente, non solo ogni allusione sessuale, ma ovviamente anche la stessa relazione erotica tra i due protagonisti, non può che essere di natura eterosessuale; si tratta di scelte alle quali tutte le maggiori case cinematografiche statunitensi soggiacciono dal 1934 in avanti, quando si sottomettono a un Codice di autocensura che impedisce che nei film possano essere descritte la prostituzione, l’omosessualità, l’incrocio erotico-affettivo tra bianchi e neri, le oscenità verbali, le nudità e «i baci eccessivi e lascivi» (e intelligentemente Horkheimer e Adorno osservano che nelle commedie romantiche spesso si ride come estrema forma di sfogo a un’insopportabile tensione libidica che nasce dalla negazione del desiderio sessuale41). Le commedie romantiche, quelle del rimatrimonio, i musical sentimentali chiudono il racconto nel momento in cui la coppia si è felicemente unita (o si è ricomposta dopo una crisi); ma in condizioni normali cosa succede dopo? Le coppie vivono veramente per sempre felici e contente?

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Questo interrogativo, che non trova risposta in questi generi cinematografici, è invece al centro delle storie raccontate da quel format tipico della cultura di massa statunitense che è la soap opera radiofonica. Concepite appositamente per attrarre un pubblico femminile di casalinghe, e scritte spesso da donne, le soap, per quanto varie siano le trame che esplorano, si concentrano prevalentemente su vicende postmatrimoniali, osservate dall’interno della «home»42. Rarissimamente si vedono personaggi svolgere il loro lavoro, e sebbene nel corso degli anni il numero di figure femminili dotate di un’occupazione aumenti, resta tuttavia sempre sottorappresentato rispetto alla realtà statistica coeva43. Ciò che è però veramente essenziale è che le soap hanno in genere uno sviluppo molto drammatico: nelle storie che vengono raccontate c’è spazio per adulteri, stress da lavoro, scoperte di qualche terribile segreto – tipo un figlio illegittimo o l’alcolismo di qualche congiunto –, crisi professionali, incomprensioni all’interno della famiglia. Normalmente, le soap risolvono i numerosi climax drammatici che si aprono attraverso una narrazione che ha una forma ciclica: uno o più drammi si aprono, e poi arrivano a compimento, con un esito moralmente positivo; i personaggi «buoni» trovano una qualche loro soddisfazione; i personaggi «cattivi» sono debitamente puniti; dopodiché altre crisi si aprono e il ciclo continua44. Viceversa, uno sviluppo melodrammatico troppo insistito, senza adeguati micro-happy ending o senza una ricomposizione delle crisi moralmente accettabile, risulta sgradito al pubblico, come nel caso di Betty and Bob, una soap che esordisce nel 1932, per diventare sempre più cupa, ed essere interrotta dopo sette anni perché, commenta all’epoca «Newsweek», le ascoltatrici non vogliono più sentire storie relative alle infinite gelosie all’interno di una famiglia, col coinvolgimento di un adorabile piccolo bambino, Bobby, il figlio della coppia, che certamente viene ferito dalle numerose tempeste che coinvolgono i suoi45. La tavola della moralità, in queste narrazioni, è stabilita da personaggi femminili di collocazione e di convinzioni molto tradizionali: madri di famiglia, casalinghe, nonne sagge, ma anche

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madri professionalmente attive e tuttavia impegnate principalmente nella difesa dei propri figli e della propria «home», e nella risoluzione dei piccoli o grandi drammi che si scatenano intorno a loro, mentre i personaggi maschili sono sempre piuttosto sullo sfondo. L’orizzonte etico delle narrazioni è generalmente regolato dal principio, più volte ripetuto nei dialoghi da parte dei personaggi chiave, secondo cui il massimo valore positivo è da attribuire a un matrimonio stabile e felice; i personaggi femminili trasgressivi, che si discostano da questi principi, vanno incontro a un qualche tipo di punizione morale (emarginazione, solitudine, condanna da parte della comunità, condanna giudiziaria vera e propria)46. Del resto, l’essenza delle soap sta soprattutto nel costruire storie che attribuiscono importanza a donne che – nella vita reale – non avrebbero poi molti motivi di orgoglio per la loro condizione sociale o familiare. Il caso limite, da questo punto di vista, è dato da una delle soap più longeve (esordisce nel 1933 e dura fino al 1960), The Romance of Helen Trent, storia di una trentacinquenne abbandonata dal marito che tuttavia, dopo questo duro colpo, riesce ad avere ancora numerosi spasimanti e a conservare una discreta posizione professionale. Secondo molti critici – osserva Raymond W. Stedman – l’attraente situazione romantica di Helen Trent, inconsueta [all’epoca] per una donna della sua età, era la chiave della popolarità del programma. Ecco un’eroina con la quale donne sentimentali di trentacinque anni e più potevano identificarsi. Oltre tutto, i risultati ottenuti da Helen sembravano alla portata di tutte, se la personalità era la cosa che contava. Helen Trent era l’eroina seriale più scialba mai immaginata. David Gothart [attore che interpretava uno dei personaggi ricorrenti nella soap] può essere stato scortese, ma di certo diceva il vero quando osservava che Helen poteva anche essere l’oggetto di tutta quella frenesia romantica, ma non se ne vedeva proprio una sola dannata ragione47.

Ma, ovviamente, era proprio il carattere ordinario del personaggio e al tempo stesso le sue continue storie non concluse ad attrarre diverse generazioni di ascoltatrici. Che nessuna delle

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storie sentimentali di Helen arrivi a compimento è una necessità narrativa dettata dalla serialità del format, così com’è una necessità narrativa il fatto che Helen resti eternamente trentacinquenne (come accade a molti altri personaggi seriali, dei più diversi generi). Comunque, quando la Cbs decide che è il momento di chiudere il programma, nel 1960, fa finire la storia nel modo più prevedibile: Helen alla fine accetta la proposta di matrimonio di John Cole, un suo spasimante, candidato a un seggio senatoriale48. Fino a che la televisione non si impone come nuovo mezzo di comunicazione, le soap radiofoniche sono un universo mediatico piuttosto chiuso in se stesso. Tuttavia c’è qualche notevole eccezione, che riguarda il rapporto tra il mondo delle soap e la produzione cinematografica coeva. Il caso più diretto e importante è certamente quello di Stella Dallas. Come abbiamo già visto, la storia esordisce sugli schermi cinematografici il 6 agosto 1937. Si tratta di un weepy movie, un melodramma strappalacrime, particolarmente mortificante per la protagonista, Stella: costei, di umile estrazione sociale, riesce a sposarsi con un manager rampante di buona famiglia, Stephen Dallas; il rapporto ben presto naufraga, per l’eccessiva distanza culturale tra i due; nondimeno Stella, pur essendo una donna incolta e un po’ volgare, è una mamma affettuosissima per la figlia Laurel; e quando si accorge che la sua presenza può danneggiare Laurel adolescente, si sacrifica e induce Laurel a trasferirsi dal padre, che nel frattempo ha divorziato da Stella e si è risposato con una donna del suo stesso livello sociale. La scena finale, sadicamente straziante, descrive Stella che, sotto la pioggia, bagnata fradicia, guarda dall’esterno, attraverso un finestrone, il matrimonio che unisce Laurel a un rampollo dell’alta borghesia, che la giovane ha conosciuto grazie alle relazioni sociali del padre e della sua nuova moglie: dopodiché Stella, sollecitata da un poliziotto, se ne deve andare. Muovendosi a passo deciso in direzione della macchina da presa, mostra tuttavia al pubblico uno sguardo trionfante: nonostante tutto, il suo sacrificio ha dato il frutto sperato.

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Il film appartiene a un gruppo di melodrammi nei quali personaggi femminili identificati come portatori di una qualche colpa (in questo caso, una smodata ed eccessiva ambizione sociale) trovano la dovuta punizione al debordare dei loro incontrollati desideri. Ci tornerò più avanti. Nel caso di Stella Dallas, tuttavia, credo che il film non possa essere letto separatamente dalla soap che ne deriva, che è prodotta da Anne e Frank Hummert, e che esordisce alla radio il 25 ottobre del 1937 (quindi più di due mesi dopo l’uscita del film) per durare sino al 1955. In questo caso (e non è certo l’unico), il mutamento di mezzo di comunicazione comporta anche un cambiamento di prospettiva. La soap inizia infatti lì dove il film finisce, con Stella che si autoestromette dalla vita della figlia, con un gesto sacrificale che propizia l’ingresso di Laurel in società. Ma da lì in avanti lo sviluppo capovolge l’essenza etica del racconto cinematografico, giacché Stella – spinta da uno sconfinato amore materno – rientra poi nella vita della figlia. Jim Cox riassume così la trama della soap: Rientrando nella vita di Laurel a dispetto della sua mancanza di istruzione e cultura, Stella dà prova del suo coraggio in una quantità di modi: difende fermamente i suoi principi etici, proteggendo molti poveracci; rintraccia e sbaraglia cattivi di ogni sorta; esibisce una sorprendente abilità nell’individuare la perversione morale prima ancora che sia percepibile a tutti gli altri. In un lungo scontro con Mrs. Grosvenor, la suocera di Laurel, Stella viene offesa profondamente dalla gran dama della élite di Boston. Ma Dick Grosvenor, il marito di Laurel, che ammira Stella, si mette spesso nel mezzo, per dividere le matriarche in conflitto. Sebbene la storia sia rozzamente esagerata, Stella diventa un’eroina drammatica per milioni di ascoltatrici dei programmi pomeridiani che seguono la sua indefessa ricerca del decoro in patria e all’estero49.

In altri casi si può notare una somiglianza solo strutturale tra le soap e l’architettura narrativa di alcuni film, costruiti intorno a un’incessante sequenza di alti e bassi esistenziali (ovviamente compressa nello spazio concesso a un film – dalle 2 alle 3 ore). La struttura ciclica, fatta di slancio positivo, crisi, rinascita, nuovo slancio positivo, nuova crisi e nuova rinascita, e così via, caratterizza proprio la struttura narrativa di un buon successo del 1940,

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Boom Town (La febbre del petrolio), diretto da Jack Conway, con Clark Gable, Spencer Tracy e Claudette Colbert come interpreti. Ma molto più importante di questo film è un altro grandissimo successo dell’anno prima, organizzato intorno alla stessa struttura ciclica: Gone with the Wind (Via col vento, Victor Fleming, 1939). Tratto fedelmente dal romanzo omonimo di Margaret Mit­chell, pubblicato nel 1936 e diventato immediatamente un best seller, il film – ambientato nel Sud a cavallo della guerra di secessione – è centrato sulla complessa formazione esistenziale di Scarlett O’Hara (Vivien Leigh), e sul suo tormentato rapporto da un lato con Ashley Wilkes (Leslie Howard), diafano gentiluomo del Sud, e dall’altro con Rhett Butler (Clark Gable), un tipo d’uomo del tutto diverso, sanguigno, virile ed eroticamente esplosivo. Nel suo disperato cercare se stessa, Scarlett attraversa una sequenza ciclica di felicità, crisi, climax drammatico, rinascita - nuova felicità, nuova crisi, nuovo climax drammatico, nuova rinascita, e così via, che costituisce una delle attrattive fondamentali del romanzo e del film, fino alla famosissima sequenza finale, impreziosita da due battute storiche dei protagonisti. Quando Scarlett cerca di fermare Rhett, ormai già oltre la porta di casa, e gli dice: «Se te ne vai, che sarà di me? Che farò?», lui, senza pensarci tanto su, le risponde: «Francamente, me ne infischio». Disperata e sola nella sua grande casa di Atlanta, Scarlett risente allora nella sua testa le voci del padre, di Ashley e dello stesso Rhett che nel passato le hanno più volte detto che il suo destino è a Tara, la villa della sua famiglia, circondata da una vasta piantagione. E lei riprende ancora una volta coraggio; è lì che se ne andrà, e da lì tornerà all’attacco con Rhett: «Tara! A casa. A casa mia. E troverò un modo per riconquistarlo. Dopotutto, domani è un altro giorno!». Dire che il film ha una struttura da soap opera non significa proporne un’interpretazione svalutativa. È che appare evidente la struttura ciclica complessiva della narrazione, molto simile a quella delle soap. Va anche aggiunto che il racconto – che, nella dimensione del film, occupa la durata record di 3 ore e 50 minuti – avrebbe potuto facilmente essere reso anche più lungo

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quando fosse stato affidato alla declinazione vocale di una soap radiofonica. Inoltre, con le soap Gwtw – acronimo normalmente usato per indicare il film – condivide anche la centralità positiva del personaggio femminile, circondato da una lunga serie di nullità maschili (con la fondamentale eccezione di Rhett, ovviamente). D’altronde, che Scarlett abbia degli evidenti difetti non fa che renderla più umana, più realistica, più commovente nella sua lotta determinata. Che cosa abbia potuto significare un personaggio così per il pubblico femminile degli anni Trenta-Cinquanta è molto ben illustrato da Helen Taylor, autrice di una preziosa ricerca sulle reazioni al libro e al film di un campione composto prevalentemente da lettrici e spettatrici britanniche. I suoi risultati possono essere riassunti dall’opinione espressa da una lettrice del libro: si è trattato, scrive questa donna, del primo libro che abbia mai letto in cui una donna non è solo l’«eroina», ma è il motore primo della storia, nella quale usa tutti i mezzi che ha a disposizione per essere padrona del suo destino. L’idea è stata una rivelazione e un’ispirazione per me, allevata con i film hollywoodiani degli anni Cinquanta in cui le donne erano la ricompensa in palio e facevano ben poco, a parte salutare, con gli occhi lacrimosi, i guerrieri in procinto di partire50.

Molte altre donne che fanno parte del campione di Taylor commentano positivamente anche la capacità di azione autonoma che è propria di Scarlett, indipendentemente dai suoi difetti morali, che, anzi, aggiungono un elemento positivo in più, cioè la possibilità di identificarsi con una donna «vera» e non con un’icona. Scarlett – commenta Taylor – non offre alle donne comode rassicurazioni e conforto sentimentale. Dove è di aiuto è nel dimostrare coraggio al femminile, nel proporre una semplice filosofia che sembra molte donne abbiano portato con sé nelle loro vite per contrastare la disperazione, la depressione e l’inerzia: «Ci penserò domani. Domani è un altro giorno»51.

Più in generale, poi, il libro e il film sono apparsi come un invito a non demordere, a non cadere davanti ai colpi del destino: e questo, per un pubblico femminile, ma anche maschile, travolto

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dalla Depressione e, subito dopo, dalla guerra, dev’essere stato enormemente importante52. 4. Drammi morali Le soap, così come i libri o i film del tipo di Stella Dallas o di Gwtw, introducono la dimensione del dramma familiare, risolvendola in una prospettiva favorevole (per quanto limitatamente favorevole, come vedremo fra poco) al genere femminile. In altri casi, le narrazioni drammatiche hanno un più esplicito intento morale, tanto che spesso – nella letteratura critica – si ricorre alla definizione di «modern morality plays» per descriverne i caratteri. L’obiettivo diventa evidente in quelle storie in cui il vizio è contrapposto alla virtù, fino alla risoluzione del contrasto – in forma spesso un po’ manichea – con la punizione del vizio e la restaurazione dell’ordine morale originario. Di nuovo, anche in questo caso si deve ricordare che questo sviluppo narrativo non è certo sconosciuto alla tradizione letteraria occidentale. Le storie messe in campo, qui, sono quelle del capro espiatorio, la cui eliminazione assicura un nuovo equilibrio a una comunità moralmente in pericolo; il loro rassicurante ruolo etico, ha scritto Northrop Frye, spiega ampiamente la popolarità dei romanzi polizieschi, la cui formula è costituita da un cacciatore di uomini che individua un pharmakos [cioè un capro espiatorio] e si sbarazza di lui. Il romanzo poliziesco inizia nell’epoca di Sherlock Holmes [...], affinando l’attenzione ai particolari così da trasformare i più banali e trascurati incidenti della vita quotidiana in fatti enigmatici e decisivi. Ma, allontanandoci sempre più da tutto questo, andiamo verso un dramma rituale intorno a un cadavere, in cui la condanna sociale si aggira come un esitante dito accusatore puntato sopra un gruppo di «sospetti», finché finalmente ne indica uno. La sensazione di trovarsi di fronte a una vittima estratta a sorte è molto forte poiché gli indizi contro di essa sono soltanto probabili. [...] Nella crescente brutalità di questo tipo di letteratura (brutalità tutelata dalla convenzione impossibile che il cacciatore di uomini possa sbagliarsi nel credere che una delle persone di cui sospetta è un assassino) il lato puramente investigativo e deduttivo si fonde con il giallo in una forma di melodramma. Nel melodramma sono rilevanti due temi: il trionfo della virtù morale sulla malvagità e la conseguente idea-

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lizzazione delle concezioni morali che si presuppone siano quelle del pubblico. Nel brutale e melodrammatico «thriller» ci avviciniamo, per quanto all’arte è consentito, all’autogiustificazione della folla responsabile di un linciaggio53.

Partendo da testi classici o di epoca moderna, Frye giunge a tratteggiare con sintetica efficacia i caratteri essenziali delle moderne crime stories (gialli, polizieschi, storie di spie, thriller, film noir), avvicinandoli tuttavia al melodramma, come altro modo narrativo per affrontare questioni di rilievo morale. Si tratta di un’indicazione preziosa anche per quel che concerne la cultura mainstream che domina negli Usa tra anni Trenta e anni Quaranta: il nesso, come vedremo fra un momento, è assicurato dalle particolari gerarchie di genere che vigono all’interno di queste storie. Una delle fondamentali declinazioni del giallo, sia nella letteratura popolare che nei radiodrammi, nei fumetti o al cinema, consiste nella descrizione di un’indagine condotta da un investigatore, non di rado coadiuvato da una «spalla», che cerca – sulla base dei soli elementi logici e informativi di cui dispone – di identificare il responsabile di un crimine a volte efferato (un omicidio, o anche più di uno). Questa forma, che ha origine nell’Ottocento con E.A. Poe (Auguste Dupin), Wilkie Collins (il sergente Cuff ), John Russell Coryell (Nick Carter), Arthur Conan Doyle (Sherlock Holmes), continua a esser praticata con successo anche nella prima metà del Novecento, quando si impongono i lavori di Agatha Christie (Poirot; Miss Marple), S.S. Van Dine (Philo Vance), Frederic Dannay e Manfred B. Lee (Ellery Queen), Erle Stanley Gardner (Perry Mason), Rex Stout (Nero Wolfe), Carolyn Keene – uno pseudonimo che cela un gruppo di autrici e autori – (Nancy Drew)54: diversi dei personaggi di queste storie trovano vie intermediali dalla letteratura ad altri media. A partire dagli anni Venti e Trenta, con l’affermarsi della hard-boiled school di Dashiell Hammett e Raymond Chandler, la crime story muta prospettive attraverso una «virilizzazione» del genere: se il detective resta un professionista indipendente,

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spesso con una passata attività in qualche istituzione statale (la procura, la polizia), abbandonata dopo qualche incidente imprecisato, muta tuttavia l’atmosfera complessiva; il detective è un «vero uomo», vissuto, pronto a tutto, abituato a ingurgitare litri di superalcolici (con una implicita polemica contro le intense campagne proibizioniste dell’epoca); lo sguardo che getta sulla società circostante appare cinico e disilluso, mentre torna all’azione e alla violenza agita, che di solito nelle storie dei detective «logici» restano piuttosto sullo sfondo55. Inoltre compare un altro aspetto essenziale, ovvero la figura della donna perduta, straordinariamente bella e seducente, ma moralmente pericolosa quanto e più dei truculenti scagnozzi che le girano intorno: Brigid O’Shaughnessy (The Maltese Falcon [Il falcone maltese], romanzo di Hammett, edito nel 1930, da cui il film, diretto da John Huston nel 1941, con Mary Astor e Humphrey Bogart) e Phyllis Dietrichson (interpretata da Barbara Stanwyck, in Double Indemnity [La fiamma del peccato], Billy Wilder, 1944) ne sono l’illustrazione massima. In quest’ultimo film, diretto da Billy Wilder, basato su un romanzo di James Cain uscito a puntate nel 1943, e cosceneggiato dallo stesso Wilder insieme a Raymond Chandler, la prospettiva narrativa è originale e coinvolgente: la storia è raccontata in flash­ back, e la voce narrante è quella di Walter Neff (Fred MacMurray), un agente assicurativo che si fa convincere dalla bella Phyllis Dietrichson a diventare suo complice ed esecutore dell’omicidio del marito di lei, per incassarne la pingue assicurazione sulla vita. Phyllis è disegnata in modo efficacissimo dalla Stanwyck: bella, seducente e inquietante, nella sua prima scena compare coperta solo da un telo da bagno in cima alle scale al primo piano della sua abitazione, mentre Walter Neff la guarda incantato dal basso. Ancora più stordito dal suo fascino Walter si sente quando la signora si ripresenta poco più tardi, elegantemente abbigliata, e soprattutto con la caviglia fasciata da un sottile braccialetto, particolare che colpisce la fantasia di Walter con la forza di un cazzotto nello stomaco. Il telo da bagno e la cavigliera sono dettagli che a un pubblico dell’inizio del XXI secolo possono anche appa-

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rire buffamente innocui; nel contesto di un cinema come quello hollywoodiano degli anni Trenta, ingabbiato nel severo Codice di autocensura che le majors hanno accettato dal 1934, hanno il valore di una torrida allusione a ciò che potrà succedere tra i due protagonisti (e che in effetti succederà, sebbene solo nello spazio vuoto della dissolvenza cinematografica). Fondamentale, in tutta questa costruzione narrativa, è che si arrivi a una punizione finale dei responsabili del piano e dell’azione criminale: e non importa che a risolvere il caso sia il tipico personaggio del detective (Sam Spade, interpretato da Humphrey Bogart in The Maltese Falcon) o il capo dell’ufficio indagini dell’assicurazione (Barton Keyes, interpretato da Edward G. Robinson in Double Indemnity). Ciò che è imperativo è la restaurazione dell’ordine morale, con la punizione del pharmakos, in una moderna messa in scena rituale che deve rassicurare sul fatto che se – inevitabilmente – capita che si creino disordini che turbano l’armonia della comunità, essi, tuttavia, non resteranno mai impuniti. Se i crimini di cui si occupano i film noir sono frutto di una pianificazione violenta e sono motivati da un’immorale avidità di beni materiali, altri crimini trovano la loro punizione nel contesto di storie di natura diversa, e nondimeno assai popolari a partire dagli anni Trenta, i melodrammi cinematografici56. Anche in questo caso sono le figure femminili a ricoprire il ruolo di portatrici di minacciose devianze, per questo meritevoli di essere severamente punite. In Becky Sharp (Rouben Mamoulian, 1935), Camille (Margherita Gauthier, George Cukor, 1936), The Rains Came (La grande pioggia, Clarence Brown, 1939), una donna perduta trova il suo riscatto attraverso un amore infelice e poi una morte precoce, così come accade in Jezebel (La figlia del vento, William Wyler, 1938). Questo film, concepito come una risposta anticipata da parte della Warner a Gwtw, in preparazione per la Mgm, è ambientato a New Orleans, a metà del XIX secolo. Il personaggio centrale è Julie Marsden (Bette Davis), una giovane ed esuberante gentildonna, fidanzata con Preston «Pres» Dillard (Henry Fonda), un ricco banchiere in ascesa. Pur essendo perdu-

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tamente innamorata di Pres, Julie vuole a tutti i costi affermare la sua personalità su quella di lui, e fa cose che la società locale e lo stesso fidanzato giudicano intollerabilmente disdicevoli (tipo indossare un vistosissimo abito rosso al principale ballo della stagione, quando ci si aspetta che tutte le giovani da marito vadano vestite integralmente di bianco). L’anticonformismo e l’indipendenza di Julie stancano Pres, che la lascia e se ne va da New Orleans, per tornare un anno dopo con Amy, la sua giovane sposa. Julie, che fin allora ha atteso trepidante il ritorno di Pres per chiedergli di perdonarla e riaccoglierla tra le sue braccia, ne ha il cuore spezzato. Capisce però che la colpa è solo sua, e quando Pres cade vittima del colera che ha investito la città, decide di sostituirsi alla sua giovane moglie, per accompagnarlo all’isola della quarantena, dalla quale, sicuramente, nessuno dei due farà ritorno. Per convincere Amy a lasciarle il posto, Julie le dice: «Io ho un dovere da compiere. Concedetemi il diritto di seguirlo. Dimostrerete un coraggio molto più grande che affrontando la morte. Se riuscirò a ridonargli la vita, egli vivrà per voi, solo per voi». Amy: «Per me, dite?». Julie: «Siate generosa, lasciatemi provare che non sono la perfida donna che mi si crede. Voglio redimermi. Aiutatemi a rifarmi pura come lo siete voi. Lasciate che dimostri di essere degna dell’amore che gli porto».

E così, nella scena finale, si vede il carro degli ammalati dirigersi verso l’imbarco per il lazzaretto, con Pres adagiato in grembo a Julie, l’unica sana, a parte una suora-infermiera, tra un ammasso informe di corpi contagiati: Julie, così, si autoinfligge la «giusta» punizione per la sua precedente condotta inammissibilmente trasgressiva. 5. Genere, razza, classe L’accanimento morale contro la minaccia rappresentata da «donne pericolose» trova la sua adeguata contestualizzazione all’interno di una visione fondata sul riconoscimento di una rigida gerarchia tra i generi, secondo la quale gli uomini hanno compiti

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«attivi» (sessualmente e professionalmente), mentre le donne veramente virtuose sono «passive» e adeguatamente soddisfatte nello spazio della domesticità. Nella screwball comedy, cioè nel genere di commedia romantica più diffuso negli anni Trenta, con colpi di scena ed esilaranti gag comiche, le protagoniste sono spesso delle donne brillanti, vitali, un po’ svitate e irresistibili, che tuttavia trovano la loro felicità (e il loro contenimento) solo attraverso il matrimonio con «Mr. Right»57; e da questo punto di vista It Happened One Night costituisce il modello fondamentale: Claudette Colbert vi recita la parte di una giovane ricchissima e viziata che si innamora di un giornalista di estrazione popolare, rude ma affettuoso (interpretato da Clark Gable), che alla fine sa metterla in riga. La coppia di attori si ritrova anche in Boom Town, dove recita due scene importanti nell’economia del film, entrambe di un machismo talmente scatenato da poter suscitare perfino (adesso) una certa ilarità. Nella prima, Big John McMasters (Clark Gable), rude cercatore di petrolio, dichiara il suo amore alla tenera maestrina Betsy Bartlett (Claudette Colbert): lei è appena arrivata nella disordinata città ai margini dei giacimenti, e lui le ha fatto da cavaliere, scortandola a cena e in giro per la città; alla fine – a poche ore dall’arrivo di Betsy! –, quando è chiaro che lui la ama, lei confusamente e in lacrime allude a un suo precedente impegno e cerca di scappare via di corsa nella sua camera; ma McMasters, da «vero uomo», con fare deciso le dice: «Ehi, vieni un po’ qui!»; lei si ferma e scende; lui la stringe tra le braccia e dice: «Prendo in fretta le mie decisioni. Questa l’ho presa non appena ti ho visto. Non te ne andrai mai più», e la bacia appassionatamente. Al mattino dopo i due risultano già sposati... Passa un po’ di tempo e nel corso di una crisi familiare Big John teme che Betsy lo voglia lasciare. Allora si precipita a casa come una furia, la prende per le braccia, e con uno sguardo che incenerisce le dice: «Sei la mia donna e lo sarai sempre, a costo di picchiarti per provartelo»; e lei, mentre si scioglie in un sorriso estatico: «Sono tua, sì. Picchiami, se ti fa piacere»; e lui: «Se ce ne sarà bisogno»; e poi la bacia appassionatamente.

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Gable decisamente rappresenta il sogno di ogni regista, sceneggiatore o spettatore che voglia alimentare le sue più scatenate fantasie sessiste; ed è naturalmente ancora lui, in uno dei pochi film di questo periodo (forse l’unico) in cui una donna attiva e indipendente abbia uno spazio centrale (ovviamente, Gwtw), a farsi protagonista di una scena talmente celebre da essere sistematicamente rappresentata nei manifesti del film (Fig. 1): Rhett, un po’ ubriaco e profondamente deluso da Scarlett, che gli ha appena dato prova di essere ancora innamorata di Ashley, aspetta che lei ritorni a casa, a tarda notte, dopo un ricevimento a casa di Ashley e Melanie (dolcissima moglie di Ashley e fedele amica di Scarlett). Dopo un breve alterco, mentre Scarlett si allontana altezzosa, per recarsi a letto, Rhett si lancia furibondo dietro di lei, la prende in braccio a forza e si dirige su per le scale, verso la camera, dove si può solo immaginare un movimentato intercorso sessuale. La scena, contenuta anche nel romanzo, ha tutta l’apparenza di uno stupro coniugale. Qualunque cosa si voglia dire, Scarlett – proprio lei, la forte, volitiva, indipendente Scarlett – ha apprezzato: la scena successiva la vede, al mattino dopo, crogiolarsi nel letto, con un sorriso di appagata soddisfazione stampato sul volto58. L’incanto di questa scena postcoitale è interrotto dall’irrompere di Mammy, uno dei personaggi più celebri di Gwtw: Hattie McDaniel, l’attrice che la interpreta, è la prima della comunità afroamericana a essere premiata con un Oscar. Nondimeno, il ruolo di Mammy, la schiava nera addetta alle cure domestiche, madre sostituta, brontolona ma affettuosa, e ancor di più il personaggio di Prissy (Butterfly McQueen), la giovanissima schiava scema fino all’irresponsabilità, sono il modello (in negativo) delle presenze che si aprono agli afroamericani nell’universo narrativo mainstream di questi anni. Che i film siano ambientati prima della guerra di secessione, o dopo, in epoca contemporanea, non fa alcuna differenza: i neri sono sempre confinati in ruoli di schiavi, di umili domestici, oppure non ci sono proprio. La cosa è persino peggiorata dai toni idilliaci con cui film come Jezebel o Gwtw descrivono la società schiavista del Sud; anzi in Gwtw, e

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nel libro ancor più che nel film, la simpatia di Margaret Mitchell per il Ku Klux Klan è evidente; d’altronde lei stessa ha più volte affermato di aver tratto ispirazione per il suo lavoro da due capisaldi del razzismo americano, come The Clansman, romanzo di Thomas F. Dixon, pubblicato nel 1905, e The Birth of a Nation, il film di Griffith del 191559. Una delle poche eccezioni a questo quadro è costituita dalla già citata Amos ’n’ Andy, sitcom radiofonica iniziata nel 1929, nella quale due attori bianchi (Freeman Gosden e Charles Correll) interpretano i due protagonisti afroamericani del titolo, più altri personaggi ancora. In origine l’intento è ironico, un po’ sulla falsariga dei minstrel shows, in cui attori bianchi col volto dipinto di nero interpretavano in chiave spesso sarcastica e denigratoria figure delle comunità afroamericane60. Tuttavia, secondo diversi autori, l’evoluzione di questa sitcom porta a un apprezzamento positivo della presenza nera nella vita sociale statunitense: la comunità afroamericana viene descritta come uno spazio complesso e stratificato, composto da una varietà di personaggi, tra cui anche professionisti o uomini d’affari di successo; per un pubblico abituato alla rappresentazione dei neri come soggetti marginali, servili e inaffidabili, Amos ’n’ Andy apre nuove prospettive e un modo nuovo di guardare alla questione61. Solo che è un esempio quasi isolato: la gran massa della produzione mainstream, soprattutto nei lavori di maggior successo, accetta la regola secondo la quale i neri, nella migliore delle ipotesi, sono invisibili o sono irrilevanti. Che possano esserci stati registi, sceneggiatori, attori, e persino produttori, che hanno accettato questa regola con disagio, è certo possibile, ma non cambia nulla nel quadro complessivo. Questi aspetti delle narrazioni mainstream si uniscono, infine, a un’altra caratterizzazione presente in molte delle produzioni di successo dell’epoca, nelle quali gli eroi positivi provengono spesso da ambienti popolari, o al più di ceto medio, mentre le figure negative vestono i panni di avidi banchieri, di imprenditori rapaci o di giovani donne ricchissime, viziate e prive di sentimenti. L’autore che, con maggiore coerenza, dà corpo a questa

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rappresentazione «populista» dei rapporti sociali, è sicuramente Frank Capra62. In una ricca serie di notevoli successi cinematografici, Capra descrive i suoi eroi come persone semplici, che appartengono al ceto medio, o che vengono dalla provincia, e che si trovano a combattere contro «squali» della finanza, dell’imprenditoria o della politica che vengono dalla grande città, respingente e corrotta63. La lotta è impari, ma il finale è, invariabilmente, a favore degli «umili e giusti». Ma la prospettiva populista non appartiene certo solo alle opere di Frank Capra; i romanzi hard-boiled e i film derivati, molte soap opera, le screwball c­ omedies, The Grapes of Wrath (Furore, 1940) di John Ford, come anche l’altro suo capolavoro, Stagecoach, alimentano coerentemente questa visione etico-politica. In Stagecoach, i personaggi veramente positivi sono Ringo Kid (John Wayne), un carcerato appena evaso dalla prigione dov’era rinchiuso ingiustamente, e Dallas (Claire Trevor), una puttana cacciata dalla cittadina del West nella quale lavorava, insieme a Doc Boone (Thomas Mitchell), un medico perennemente ubriaco; viceversa, il banchiere, la gentildonna del Sud, e le pie donne che cacciano Dallas e Doc Boone, capeggiate dalla moglie del banchiere, si rivelano dei rottami umani e solo a fatica sono toccati dall’umanità dei personaggi più umili (come la gentildonna del Sud, aiutata nella sua gravidanza proprio da Dallas e da Doc Boone). Alla fine, «la giustizia trionfa», dovrebbe dirsi: il banchiere corrotto è arrestato; Ringo vince (incredibilmente, peraltro) il duello finale contro i tre fratelli che l’avevano ingiustamente fatto condannare; lo sceriffo Curly Wilcox (George Bancroft), animato da un superiore senso di equità, lascia libero Ringo, e insieme a Doc Boone fa sì che si unisca a Dallas, di cui si è innamorato, cosicché nella scena finale Ringo e Dallas partono verso il Messico dove potranno rifarsi una vita. Ora, la prospettiva populista non intende affatto alludere a possibili radicali trasformazioni sociali nell’ordine democratico della società statunitense; semmai da un lato rilancia l’utopia della democrazia dei piccoli produttori in grado di temperare l’eccessiva ingordigia dei super-ricchi; e dall’altro invita a essere contenti di posizioni sociali medie, senza nutrire troppe ambi-

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zioni, che rischiano di far dimenticare il mondo degli affetti, la «home», la famiglia, i veri amici64. Inoltre il populismo non muta niente degli altri aspetti essenziali delle narrative mainstream, giacché l’esaltazione del singolo eroe, l’apprezzamento della violenza redentrice e la valutazione positiva della razza come fattore fondamentale ne sono elementi cruciali, a volte impliciti, a volte – come in Stagecoach – del tutto espliciti65. In questo film di John Ford c’è il modello narrativo della «home», in questo caso la diligenza, assediata dall’insidia esterna degli indiani; c’è il valore della violenza doppiamente salvifica, contro le minacce esterne (gli indiani) e interne (i pistoleri criminali); e c’è, infine, una netta sottolineatura dell’alterità razziale degli «altri da noi», affidata non soltanto alla lunga sequenza in cui la carrozza viene assalita dagli indiani, ma soprattutto alla scena in cui la moglie indiana dell’oste che gestisce l’ultima stazione di posta nella quale la carrozza si è dovuta fermare per permettere alla gentildonna di partorire, tradisce i suoi ospiti, facendo scappare i cavalli e avvisando i «suoi» che è il momento di attaccare: non solo misteriosi e violenti, questi indiani, ma infidi, privi di ogni umana sensibilità, e redimibili solo attraverso l’uso della forza. 6. Lieto fine Nel passaggio da un mezzo di comunicazione all’altro le storie possono cambiare le loro caratteristiche. Ci sono adattamenti necessari, dettati dalle proprietà dei diversi media. Ma ci sono anche mutamenti che hanno un altro significato, di tipo ideologico, verrebbe da dire. Prendiamo tre esempi che si verificano nel passaggio dal testo letterario (romanzo, pièce teatrale) al grande cinema hollywoodiano. (1) Nel 1934 Lillian Hellman completa The Children’s Hour, una sua pièce teatrale; dopodiché la stessa Hellman si occupa della sceneggiatura del film che ne deriva, prodotto dalla Mgm e diretto da William Wyler, These Three (La calunnia, 1936). Nella pièce teatrale un’alunna insinua che due sue giovani insegnanti

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abbiano una relazione omosessuale; l’accusa travolge le due insegnanti, nonostante non abbiano mai avuto un affaire lesbico. Alla fine la calunnia viene smontata. Tuttavia, una delle due insegnanti prova effettivamente una forte attrazione per l’altra, e per il senso di colpa sia nei confronti del proprio sentimento, sia per la disgrazia che si è abbattuta su di loro, alla fine si uccide. Il film riprende la storia, ma elimina ogni accenno al lesbismo. L’allieva maligna sostiene che Martha, una delle due insegnanti, ha avuto una storia con un giovane dottore, Joe, fidanzato dell’altra insegnante, Karen. La calunnia produce il suo effetto, screditando le due insegnanti, e rovinando la storia d’amore della coppia di fidanzati. Tuttavia alla fine la calunnia viene smontata, e la coppia etero si riunisce. L’incontro dei due innamorati è propiziato da Martha, che nel film non ci pensa proprio a suicidarsi; e il film si chiude con Joe e Karen che si ritrovano a Vienna, dove lui si era trasferito in conseguenza allo scandalo: quando si vedono, i due innamorati si abbracciano felici e si abbandonano a un bacio appassionato. (2) Nel 1939 John Steinbeck dà alle stampe The Grapes of ­Wrath (Furore), un potente romanzo che denuncia il disastro economico ed esistenziale che si è abbattuto sulle famiglie di agricoltori delle pianure centro-meridionali degli Usa, e in particolare su quelle dell’Oklahoma, travolte dalla Depressione e al centro del Dust Bowl66. Il romanzo racconta del tentativo di emigrazione in California della famiglia Joad, in cerca di una nuova vita, che si conclude con la disgregazione della famiglia e un finale da tragedia biblica: ciò che resta della famiglia Joad non ha più lavoro; la giovane Rose of Sharon, lasciata dal marito, ha partorito un bambino morto; un’inondazione colpisce l’accampamento nel quale si trovano e così, sotto la pioggia che cade a dirotto, i Joad si rifugiano in un fienile. Ci entrano e ci trovano un ragazzo che assiste il padre che sta malissimo. Il ragazzo spiega che suo padre, per far mangiare lui, ormai da giorni non mangia più nulla e sta morendo per denutrizione. A quel punto Ma Joad guarda Rose of Sharon; le due si capiscono al volo; fanno uscire tutti gli

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uomini e Rose – in una riedizione della «Carità romana» – allatta il pover’uomo. «Con la mano gli sosteneva la testa e le sue dita lo carezzavano delicatamente tra i capelli. Ella si guardava attorno, e le sue labbra sorridevano, misteriosamente»67. Nel 1940 esce la riduzione cinematografica, per la regia di John Ford. Il film è fedele al romanzo nella sua prima parte. Nella seconda parte la sequenza degli avvenimenti è mutata, ma soprattutto è cambiato il finale: Rosasharn è ancora incinta; i Joad, diminuiti in numero dalle vicissitudini sofferte, non sono ancora piegati; muovendosi per andare a lavorare nei campi di cotone a Fresno sul loro scassatissimo furgone, non hanno ancora perso la speranza di un futuro migliore. A Ma Joad che parla col marito, sui sedili anteriori del furgone guidato dal più giovane dei figli, è affidato il discorso finale, pieno di tensione, ma anche di speranza: Non sarò più spaventata. Lo ero, certo. Per un po’ ho pensato che fossimo stati battuti per bene. Sembrava che nel mondo non avessimo altro che nemici. Che nessuno ci fosse più amico. Mi faceva sentire male, e spaventata anche, come se fossimo perduti e a nessuno importasse. [...] I ricchi saltan fuori e poi muoiono, e i loro figli non sono buoni e muoiono, ma noi teniamo duro. Noi siamo il popolo che vive. Non ci possono spazzare via, non ci possono battere. Andremo avanti per sempre, Pa, perché noi siamo il popolo.

(3) Nel 1939 Raymond Chandler pubblica The Big Sleep (Il grande sonno), un romanzo in cui una coppia di giovani sorelle, ricchissime e inquiete, sono al centro di un intricato avvicendarsi di eventi criminali, sui quali indaga il detective privato Philip Marlowe. Il nucleo finale del romanzo è questo: la più giovane delle sorelle, Carmen, mentalmente squilibrata, ha ucciso il marito di Vivian, che aveva rifiutato le sue profferte sessuali; Vivian ha cercato di proteggerla, facendosi aiutare dal proprietario di un casinò, che poi l’ha ricattata. Marlowe scopre l’intrigo, ma invece di assicurare le due donne alla giustizia decide di salvarle dal ricattatore e di lasciarle poi al loro destino. Nel 1946 Howard Hawks dirige il film tratto dal libro, e tra gli sceneggiatori ha William Faulkner. Ora nel film i riferimenti

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sessuali più spinti scompaiono del tutto: due personaggi, che nel libro vivono una relazione omosessuale, qui sono legati solo da un rapporto di lavoro; due scene del libro in cui Carmen compare completamente nuda, nel film la vedono invece integralmente vestita. Ma soprattutto, cambia il finale: nel film Marlowe scopre che Sean Regan, il marito di Vivian, non è stato ucciso da Carmen, ma dal losco figuro che la ricatta e nella scena conclusiva riesce a fare in modo che siano gli stessi scagnozzi del ricattatore a ucciderlo; dopodiché può rassicurare la sorella «sana» Vivian, dalla quale è evidentemente attratto. Lo scambio di battute che chiude il film appartiene alla galleria del più scatenato machismo hollywoodiano: Marlowe (interpretato da Humphrey Bogart) dice a Vivian (Lauren Bacall) che lei dovrà preoccuparsi di allontanare sua sorella Carmen da molte cose, mandandola in una clinica psichiatrica, e che dovrà informare suo padre della morte di Regan, al quale il vecchio era particolarmente affezionato. Vivian dice a Marlowe: «Hai dimenticato una cosa: me»; Marlowe le risponde: «Cos’hai che non va?»; e Vivian, con uno sguardo che farebbe sciogliere un pezzo di cemento: «Niente che tu non possa sistemare». I tre esempi illustrano un aspetto già molto evidente dalle analisi precedenti: tutte e tre le dislocazioni intermediali esaminate sono regolate dall’imperativo assoluto del lieto fine. In effetti, come abbiamo visto, l’happy ending è una delle componenti centrali del processo di standardizzazione formale attribuito da Horkheimer e Adorno alla cultura di massa. La natura normativa acquistata dalle forme narrative mainstream trae forza, in gran parte, dalla funzione consolatoria che esse hanno: «io non sono così come gli eroi della storia (così forte, o così coraggioso, o così bella, o così fortunata), ma potrei esserlo; non lo sono ma potrei trovare la via per un riscatto»; così dice a se stesso o a se stessa chi apprezza queste narrazioni. Il meccanismo di identificazione in questo caso segue una logica simile a quella che spinge una persona verso il gioco d’azzardo: sa fin dall’inizio che le probabilità di successo sono pochissime, ma ci prova

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lo stesso, perché è talmente disperata da augurarsi comunque di farcela. Ciò peraltro spiega anche perché il messaggio di ottimismo rias­sunto dal lieto fine che è proprio delle narrazioni mainstream riscuota un successo particolarmente significativo proprio negli anni più bui che seguono allo scoppio della crisi economica del 1929. Da questo punto di vista il film di Woody Allen The Purple Rose of Cairo (La rosa purpurea del Cairo, 1985) ha il valore di un saggio di interpretazione degli effetti di questo tipo di cinema: Cecilia, povera cameriera che lavora in un bar di una cittadina del New Jersey negli anni della Grande Depressione, è oppressa da un marito disoccupato e violento; per lenire le sue tristezze va continuamente al cinema Jewel, a vedere il film di avventure romantiche The Purple Rose of Cairo, fino a che il personaggio principale, un esploratore bello e gentile, accortosi della tristezza di Cecilia, e della sognante passione con la quale segue le sue avventure, esce dal film, entra nella vita reale della donna e intreccia con lei un’impossibile relazione. Ovviamente, la storia non ha alcun futuro, e anche il personaggio di fantasia la abbandona. A Cecilia non resta che sprofondarsi di nuovo nel cinema Jewel, per andare a vedere il nuovo film hollywoodiano adesso in programmazione, in cerca di un qualche nuovo lenimento cinematografico che allieti la sua triste vita68. Se queste narrazioni hanno la capacità di far sognare e di allontanare, almeno temporaneamente, gli spettatori dalle tristezze della vita quotidiana, esse hanno anche delle implicazioni di più vasta portata. Alcuni autorevoli interpreti hanno individuato origini e risonanze religiose in lati diversi di queste storie69. Tuttavia, per quanto convincenti possano essere queste analisi, a me sembra che il tratto più marcato della cultura di massa mainstream sia il suo assoluto distacco da uno dei fondamenti centrali delle classiche tradizioni religiose. Nella sua basilare analisi dei sistemi religiosi, Clifford Geertz ha sostenuto che le religioni classiche non sono uno strumento per edulcorare le esperienze della vita; al contrario, se si considera che due aspetti importanti della vita, la malattia e la morte, sono al centro dell’attenzione religiosa in genere, bisogna anche riconoscere che i modi di trattare queste

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esperienze sono finalizzati non tanto a esorcizzarle, quanto a includerle – tali e quali – in un sistema dotato di senso: «In quanto problema religioso, il problema della sofferenza non è, paradossalmente, come evitare la sofferenza, ma come soffrire, come fare del dolore fisico, del lutto personale, della sconfitta terrena o della contemplazione impotente dell’agonia altrui qualcosa di sopportabile, di sostenibile; qualcosa, come diciamo, di soffribile»70. Il che, com’è chiaro, è particolarmente vero per la tradizione cristiana. Ebbene, se le cose stanno così, credo si debba osservare che le storie imperniate sul must del lieto fine operano una rimozione quasi integrale della sofferenza e della morte. Se muore qualcuno, si tratta di personaggi che lo meritano (gangster, psicopatici, cattivi), oppure di comprimari, la cui triste fine consente di introdurre un lieve velo di tristezza. Ma le figure principali, quelle nelle quali ci si deve identificare, rischiano, lottano, e poi, alla fine, trovano la loro giusta ricompensa: e soprattutto non muoiono mai, né da un punto di vista affettivo («...and they lived happily ever after...»), né da un punto di vista fisico, fino al parossismo dell’immortalità garantita ai supereroi. In tal modo le intimazioni di mortalità sono rimosse, piuttosto che accolte ed elaborate, in una visione interamente materialistica dell’esperienza e del mondo. Il lieto fine si affianca, così, ad altre formazioni etico-narrative che abbiamo già individuato: l’inclinazione al conformismo promossa dalla standardizzazione; i contenuti e le modalità di montaggio delle storie, che incoraggiano reazioni paranoidi di fronte a minacce reali o potenziali; il culto della violenza «giusta», sorretto da una visione del mondo radicalmente manichea. In tutto ciò si possono vedere altrettante manifestazioni di una regressione permanente verso l’infantilismo emotivo ed etico che il pubblico degli spettacoli di massa accoglie come una nuova – e diversamente connotata – religione della modernità, condensata nell’imperativo del «divertimento», un termine che va letto in senso proprio e in senso figurato: e in questa seconda accezione «divertirsi» significa «distogliere lo sguardo», non doverci pensare, non vedere né dentro sé stessi né fuori; «divertirsi significa essere d’accordo»71.

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Certo, questa diagnosi critica della cultura di massa main­ stream che si sta formando negli Usa degli anni Trenta e Quaranta può apparire, da più di un punto di vista, ingenerosa. Certamente lo è quando si confronti la reazione della società statunitense alla crisi del 1929 con ciò che succede in molti paesi europei, Germania in testa, o quando la si paragona al successo del fascismo in Italia o del comunismo in Russia: per quanto conformista, razzista e sessista sia, la società americana risponde al disastro della crisi economica rinnovando per quattro volte la sua fiducia a un leader politico come Franklin D. Roosevelt, che cerca di trovare una soluzione alle difficoltà socioeconomiche senza mettere minimamente in discussione il valore delle istituzioni democratiche. Negli stessi anni in Germania, in Russia, in Italia e in molti altri paesi europei il crollo delle democrazie apre le porte ai regimi peggiori che siano mai stati prodotti dalla storia dell’Occidente. Inoltre è anche vero che la cultura americana non si esaurisce interamente nelle produzioni di successo del cinema di Hollywood, nelle pop songs che entrano in classifica, nei comic books che contengono le più rocambolesche storie dei supereroi o nelle soap opera più melodrammatiche e lacrimose. Le numerose opere di qualità che affollano il campo letterario, teatrale o poe­ tico americano negli anni Venti e Trenta disegnano certamente un’episteme molto diversa, e molto più complessa, rispetto a quella edificata dal sistema narrativo mainstream. In qualche caso si tratta non soltanto di opere che esplorano le nuove forme del modernismo narrativo, ma anche di lavori che attaccano frontalmente gli aspetti essenziali della nascente società di massa. Gli esempi sono talmente numerosi che è quasi imbarazzante farne un elenco: comunque, è difficile non ricordare almeno le opere di Sinclair Lewis, di Theodore Dreiser, di William Faulkner, di James Cain, di Francis Scott Fitzgerald, di Djuna Barnes, di Gertrude Stein, di Ernest Hemingway, di Eugene O’Neill; e la lista dovrebbe continuare ancora per essere completa. Tuttavia il punto è che queste opere non funzionano proprio sul terreno decisivo su cui si misura la forza della produzione di massa, ov-

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vero il mercato: la quantità di persone che si fanno conquistare dalle creazioni culturali più elaborate è infinitamente minore di quella che cede alle seduzioni del sistema narrativo mainstream. E ciò è tanto più vero proprio nel periodo della Grande Depressione: come in ogni momento di crisi, le tirature delle opere impegnative crollano; i teatri di qualità chiudono; i film più audaci non circolano; mentre, al contrario, i lavori con minori ambizioni intellettuali riscuotono un successo che comparativamente è anche maggiore di prima, proprio in ragione del loro potere consolatorio72. Nondimeno sarebbe anche sbagliato ritenere che questa descrizione esaurisca ogni aspetto della nascente cultura di massa. Di certo lo spazio della cultura di massa non è qualcosa di simile a un blocco monolitico pervaso esclusivamente dai sistemi narrativi che ho descritto sinora73. Infatti, accanto alle forme mainstream circolano anche altri prodotti culturali di massa che possiedono aspetti strutturali diversi da quelli appena esaminati, e che offrono al pubblico orizzonti etici ed emotivi ben differenti. Si tratta di produzioni che in questi anni riscuotono un certo successo solo presso specifici settori di pubblico, e solo all’interno di aree geografiche molto ben definite. Tuttavia, giacché nei decenni successivi alla fine della seconda guerra mondiale queste produzioni offriranno il modello per elaborazioni controculturali di molto maggiore impatto e diffusione, è necessario cominciare a osservarne i caratteri fondamentali.

III Contronarrazioni in musica: blues, hillbilly, folk

1. La «Anthology of American Folk Music» Nel 1952 la Folkways Records, una piccola casa discografica newyorchese fondata nel 1948 da Moses Asch e Marian Distler, pubblica la Anthology of American Folk Music, una specie di monumento discografico al folk americano in sei LP, per un totale di 84 brani. La raccolta, curata da Harry Smith, comprende incisioni registrate tra il 1927 e il 1932 e affianca brani che al momento della loro pubblicazione originaria sono destinati a sezioni di pubblico completamente diverse. La Carter Family, per esempio, è una band composta da tre musicisti bianchi (un uomo e due donne), che negli anni precedenti alla seconda guerra mondiale si sono conquistati il titolo di star della hillbilly music (questa la definizione, inizialmente senz’altro spregiativa, della musica che dagli anni Quaranta è conosciuta come country, o country & western1). Insieme ai loro, la Anthology contiene i brani di numerosi altri musicisti hillbilly, tra cui, per esempio, Prince Albert Hunt o Eck Robertson, autori di musiche da ballo eseguite prevalentemente con il fiddle (violino). Ma non ci sono solo pezzi hillbilly o folk eseguiti da bianchi. La raccolta contiene anche canzoni di Blind Lemon Jefferson, di Mississippi John Hurt e di diversi altri musicisti blues afroamericani, da Charley Patton a Furry Lewis, da Sleepy John Estes a Blind Willie Johnson. Inoltre la Anthology fa spazio anche a brani gospel, eseguiti dal Rev.

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J.M. Gates o dal Rev. F.W. McGee, predicatori e musicisti afroamericani2. Un’operazione come quella compiuta con la Anthology sarebbe impensabile prima della seconda guerra mondiale, giacché in quel periodo i segmenti del mercato musicale, a cui fanno riferimento i diversi stili documentati da Harry Smith, sono rigorosamente segregati. La musica hillbilly – cantata o strumentale – è eseguita esclusivamente da musicisti bianchi per un pubblico bianco. Viceversa la musica blues e quella gospel sono eseguite da musicisti neri per un pubblico nero. Tra anni Venti e anni Quaranta, interscambi di mercato, essenzialmente, non ce ne sono. Ci sono, però, molte e profonde influenze reciproche, giacché – indipendentemente dalle pratiche sociali e dalla struttura del mercato discografico – molti nessi legano i diversi stili documentati nella Anthology sia dal punto di vista musicale che dal punto di vista poetico. Peraltro, la costellazione folk statunitense non si esaurisce con la musica hillbilly, blues o gospel, ma comprende almeno un’altra importante declinazione, ovvero il folk sindacale e di protesta. Il progetto originario di Harry Smith prevedeva tre ulteriori raccolte, da aggiungere alla Anthology, che avrebbero dovuto documentare gli sviluppi del folk americano dal 1890 fino agli anni Cinquanta3. Questa parte del lavoro, alla fine, non si è realizzata: e chissà se Smith avrebbe incluso in questi tre volumi supplementari anche le canzoni folk più militanti, per esempio quelle di Woody Guthrie o Huddie «Leadbelly» Ledbetter4. Nel caso la cosa si fosse verificata, non sarebbe stato strano vedere queste musiche al fianco di brani hillbilly, gospel e blues, perché la rete intertestuale del folk statunitense abbraccia anche aspetti fondamentali del canzoniere di protesta che si sviluppa dall’inizio del XX secolo sino agli anni del New Deal e della seconda guerra mondiale. Tutte queste diverse musiche sono infatti legate tra loro da prestiti, scambi, calchi che riguardano sia la forma musicale e poetica, sia i contenuti narrativi. Tali connessioni sono importanti poiché disegnano un orizzonte che non ha quasi niente in comune con i valori della cultura di massa mainstream,

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tanto da tracciare le coordinate di un sistema etico quasi integralmente «altro». Per esplorare questo reticolo contronarrativo dobbiamo però abbandonare il 1952 e la Anthology of American Folk Music per ritornare ai decenni precedenti alla seconda guerra mondiale, quando i variegati panorami espressivi di queste musiche emergono e si ritagliano un loro spazio all’interno della cultura di massa statunitense. 2. Da New Orleans a Chicago Nel 1897 un consigliere comunale di New Orleans, Sidney Story, redige l’ordinanza che intende isolare un’area della città entro il perimetro disegnato da Iberville Street, Basin Street, St. Louis Street e North Robertson Street, per riservarla all’esercizio della prostituzione. Il 6 luglio di quell’anno il consiglio comunale approva e si forma così quella che viene popolarmente chiamata Storyville, il quartiere a luci rosse della città. Il quartiere, posto vicino alla stazione, ci mette poco a prosperare e a diventare una notevole attrazione cittadina: i visitatori possono trovare bordelli di livello e prezzi diversi, e in quelli migliori si può ascoltare una strana nuova musica, suonata anche altrove in città, ed eseguita inizialmente solo da musicisti neri, poi anche da bianchi. La vita del quartiere dura sino al 1917, quando il Secretary of Navy – una sorta di ministro della Marina – ne impone la chiusura, in ragione dei presunti effetti demoralizzanti che le attività del quartiere avrebbero avuto sulle truppe. Da allora in avanti molti dei musicisti che vi suonavano cercano lavoro altrove: da un lato si dirigono nelle città dove esistono grosse comunità afroamericane, che in genere mostrano di apprezzare quel tipo di musica (come Memphis o Kansas City); dall’altro seguono i flussi migratori che stanno portando molti afroamericani del Sud a Filadelfia, Detroit, New York (Harlem) e Chicago (South Side), dove spesso continuano a suonare in quartieri e locali malfamati5. Il 1917 è anche l’anno della prima incisione discografica di un gruppo che nel proprio nome esibisce il termine che finirà per designare stabilmente quel particolare genere musicale: in quell’anno la Original

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Dixieland Jass Band, un gruppo di musicisti bianchi, incide con la Victor due facciate di un disco a 78 giri, Dixieland Jass Band One-Step e Livery Stable Blues, che riscuote un grande (e – agli occhi dei discografici bianchi – inaspettato) successo presso il pubblico afroamericano6. «Jass» (poi ben presto jazz) è un verbo/ sostantivo originariamente diffusosi a Chicago nel 1915 che vuole dire «scopare/scopata»7. Come spesso accade, anche in questo caso un termine dal significato volgare e un po’ dispregiativo si capovolge nel suo contrario, per diventare una sorta di positiva bandiera identitaria che finisce per indicare non solo il nuovo stile musicale, ma persino l’intera atmosfera socioculturale degli anni successivi alla Grande Guerra (è del 1922 Tales of the Jazz Age [Racconti dell’età del jazz], di Francis Scott Fitzgerald, che proietta il termine «jazz» ben al di là dei suoi confini musicali). Molta della musica jazz sin dall’inizio mostra caratteristiche strutturali che la distanziano radicalmente dalla tradizione della musica occidentale a cui appartengono sia la più sofisticata musica classica, sia le produzioni di Tin Pan Alley, ovvero le canzoni pop che all’epoca sono di gran moda tra la maggior parte del pubblico bianco statunitense8. Nella tradizione occidentale, la musica è rigorosamente scritta; gli accenti ritmici e gli strumenti percussivi sono marginali o del tutto banditi; agli esecutori e agli ascoltatori è richiesta una rigida e distinta compostezza; e le musiche da ballo incoraggiano figurazioni standard ottenute attraverso una rigorosa disciplina dei movimenti corporei. Le musiche delle comunità afroamericane, invece, e tra queste il jazz, seguono criteri completamente diversi: nascono dall’improvvisazione e di conseguenza non hanno bisogno di notazioni musicali se non, eventualmente, per i riff, ovvero le cellule melodiche fondamentali che nel jazz introducono le sezioni improvvisate; possiedono scansioni e strumentazioni ritmiche che hanno un ruolo centrale nell’architettura complessiva del suono; si sviluppano spesso attraverso una dialettica antifonale affidata al dialogo tra gli strumenti o tra le voci (call and response); consentono una libera performatività corporea sia agli esecutori che agli ascoltatori e accompagnano danze che sono anch’esse più aperte all’improvvisazione e che si

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fondano su figurazioni corporee più fantasiose e libere da costrizioni rispetto a quelle proprie delle danze occidentali9. La musica jazz, che possiede tutte queste caratteristiche, nel primo dopoguerra si diffonde soprattutto come musica strumentale da ballo, adatta a forme coreutiche nuove, come il charleston, che si impongono sia tra i giovani delle comunità afroamericane, sia tra i ragazzi e le ragazze delle comunità bianche. Tuttavia, piccole jazz band, composte da musicisti afroamericani attivi in varie città degli States, si accompagnano talora anche a delle cantanti nere, la più nota delle quali è Mamie Smith, che riscuote un clamoroso successo nel 1920 con Crazy Blues, un brano inciso, dopo dure resistenze iniziali, dalla casa discografica OKeh: il disco vende 10.000 copie nella prima settimana di lancio, 75.000 nel primo mese, 1 milione in sette mesi10. Da allora, e per circa un decennio, la moda delle cantanti si impone sia nei teatri delle città del Sud, sia sul mercato discografico, dove – salvo rare eccezioni – le loro musiche sono apprezzate solo da acquirenti neri11. Tra le star femminili della musica nera si distinguono allora Gertrude «Ma» Rainey, Ethel Waters, Clara Smith, Trixie Smith, Rosa ­Henderson, Alberta Hunter, Lucille Hegamin, Edith Wilson, Victoria Spivey, Sippie Wallace e Ida Cox12: ma tra tutte brilla soprattutto Bessie Smith, che nel 1925 registra, con l’accompagnamento di Louis Armstrong alla tromba e di Fred Longshaw all’harmonium, il brano St. Louis Blues, scritto nel 1912 da W.C. Handy; il brano ha un notevole successo e la Smith, tra 1923 e 1933, incidendo per la Columbia, riesce a vendere in totale 10 milioni di copie dei suoi dischi13. Anche solo uno sguardo distratto ai titoli citati sinora suggerisce che la musica jazz ha un rapporto diretto con un’altra forma musicale di origine afroamericana, ovvero il blues. Che cosa sia il blues, specie in questi decenni di inizio secolo, non è facile da dire, poiché l’etichetta è applicata a musiche molto varie, a volte persino più vicine al patetismo tardo-romantico in stile Tin Pan Alley (come nel caso di Crazy Blues, di Mamie Smith) che a qualsiasi altra cosa14. Tuttavia, una forma molto meglio definita di blues si sviluppa proprio in questi anni in un circuito paral-

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lelo e, almeno inizialmente, più nascosto rispetto a quello delle cantanti e delle jazz band. È un circuito itinerante, percorso da musicisti neri che si muovono di città in città, di villaggio in villaggio, per suonare alle feste, alle fiere, nei juke joints (che sono dei pub dove si può anche ballare, frequentati da uomini e donne delle comunità afroamericane). Questi bluesmen si spostano saltando su treni merci, o con altri mezzi di fortuna, si esibiscono da soli o in piccoli gruppi e usano una strumentazione facile da trasportare (chitarra, banjo, armonica a bocca). L’area nella quale vivono è racchiusa – grosso modo – tra il Texas, la Louisiana, il Mississippi, l’Alabama e la Georgia; ma lo spazio elettivo di diversi tra questi musicisti è il Delta del Mississippi, un’area alla confluenza tra i fiumi Mississippi e Yazoo, tra Memphis e Vicksburg; si tratta di una zona fertile ma caratterizzata da feroci disuguaglianze, nella quale il 90% della popolazione è costituita da neri, in gran parte impiegati come mezzadri di proprietari bianchi, nel contesto di una durissima segregazione razziale15. Diversi bluesmen vengono da infanzie difficili, costellate da malattie, violenze, privazioni. Alcuni (Blind Lemon Jefferson, Blind Willie McTell, Blind Willie Johnson, Furry Lewis) sono menomati e proprio perché incapaci di svolgere qualunque altro lavoro si sono dedicati alla musica; altri hanno vissuto vite disordinate, e non di rado violente (Skip James, Robert Johnson, Huddie «Leadbelly» Ledbetter, Son House, Washington «Bukka» White). Sebbene spesso eseguano musiche stilisticamente varie, suonate anche da musicisti bianchi, si caratterizzano soprattutto per un tipo di canzone, semplice nella forma musicale e nella struttura poetica, che alla fine si impone come la «vera» espressione della musica blues. Si tratta di un modello fissato dal primo di questi musicisti che esce dall’anonimato rurale imponendosi con successo sul mercato discografico, Blind Lemon Jefferson, che nel marzo del 1926 a Chicago incide quattro brani blues per la Paramount16. I primi due a essere pubblicati sono Booster Blues e Dry Southern Blues; subito dopo vengono pubblicati anche gli altri due, Got the Blues e Long Lonesome Blues, che ottengono un ottimo riscontro di mercato. Da allora in avanti, oltre alla Para-

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mount, anche la Columbia – che nel 1926 acquisisce la OKeh – e la Victor si lanciano su questo promettente nuovo mercato, come fanno anche altre più piccole case discografiche, inaugurando collane che – in genere – sono identificate con l’etichetta coniata nel 1921 dalla OKeh per la musica nera: «race records»17. I blues registrati da Blind Lemon Jefferson hanno tutti la stessa struttura. Sono articolati in una sequenza variabile di strofe (da 7 a 10), tutte organizzate internamente allo stesso modo: i primi due versi sono uguali, sia dal punto di vista testuale sia dal punto di vista melodico (salvo qualche piccola variante), mentre il terzo verso sviluppa e varia la riflessione poetica e la linea melodica introdotte nei due versi precedenti, con un sistema di rima sistematicamente ancorato alla triade AAB (la più diffusa), ma anche alla triade AAA, con successive varianti delle rime in ciascuna delle strofe seguenti: I walked from Dallas, I walked to Wichita Falls. I say, I walked from Dallas, I walked to Wichita Falls. Hadn’t have lost my sugar, well, I would not have walked at all. Some women see you comin’, man, they go get the rocker chair. Women see you comin’, go get the rocker chair. «I wanna fool this man and make out he’s welcome here»18.

Nelle registrazioni di Blind Lemon Jefferson il ritmo è abbastanza sostenuto e non prevede pause all’interno dei versi; ma molti altri blues introducono ben presto una soluzione che si impone come la norma, secondo la quale ogni verso di una strofa è diviso in due emistichi con una pausa strumentale più o meno lunga che li divide. La ragione di questa struttura complessiva, e soprattutto la ragione della ripetizione dei primi due versi, sta nella natura originariamente improvvisata del blues: la ripetizione dei due versi dà al cantante il tempo per escogitare il terzo verso che chiude il ragionamento, all’interno di esibizioni che possono durare ininterrottamente anche molto a lungo. Questo modello, che nasce come espediente per ovviare a un limite, si trasforma poi in una

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matrice estetica che persiste anche quando il blues diventa una musica registrata in studio e – per ragioni tecniche – non può durare più di due-tre minuti19. Naturalmente, possono intervenire varianti (per esempio strofe di quattro versi, invece che di tre, o con una diversa successione delle rime), ma il paradigma poetico fondamentale è questo. Già la fedeltà a questa architettura fa del blues una delle musiche più standardizzate che si incontrino nel panorama della popular culture. Se si aggiunge poi che un’analoga standardizzazione connota anche la forma musicale (dodici battute; un giro armonico che si articola negli accordi di tonica/I, sottodominante/IV e dominante/V; impiego delle blue notes, con la terza e la settima nota di una scala abbassate di un semitono), si arriva a una struttura complessiva che avrebbe sicuramente fatto inorridire Theodor Adorno, se mai l’avesse ascoltata (come gli sarà senz’altro capitato)20. La semplicità della forma-blues contribuisce certo al suo successo presso gli ascoltatori afroamericani che sino al 1929, anche nelle più povere aree rurali, acquistano i dischi dei country blues­ men o delle blueswomen (le quali peraltro occasionalmente avevano già impiegato la forma-blues anche prima del 192621). Tuttavia, la crisi del 1929 dà un colpo durissimo al mercato. Le famiglie afroamericane, molte delle quali molto povere, devono fronteggiare tempi drammatici, e le prime spese a esser tagliate sono quelle superflue. La produzione di dischi crolla, e a stento questa musica continua a vivere grazie alle performance dal vivo e alle non numerose stazioni radio che continuano a trasmetterla. Ed è a questo punto che, a sostenerla, intervengono degli altri personaggi che vengono dal mondo dei bianchi, e che peraltro sono fondamentali per lo sviluppo dell’intera costellazione folk: gli etnomusicologi. 3. Canti dalle prigioni Sul modello della ricerca folclorica sviluppatasi in Europa sin dal XVIII secolo, anche gli Usa assistono, nel corso dell’Ottocento, e poi ancora ai primi del Novecento, a un costante interesse per la musica folk da parte di un numero crescente di appassionati e

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studiosi impegnati nella ricerca di ciò che dovrebbe esprimere l’«anima», o una pluralità di «anime», del «popolo» statunitense. Diversi autorevoli ricercatori nel campo della musica folk, come il britannico Cecil J. Sharp, o la sua collaboratrice Maud Karpeles, che raccolgono musiche nelle aree rurali della Carolina del Nord, Tennessee, Kentucky e Virginia, e altri ancora che lavorano sul loro solco, si interessano solo ai canti diffusi nelle comunità rurali bianche, derivati dalle ballate provenienti dalla Gran Bretagna, dall’Irlanda o dal Nord Europa. Tuttavia, negli anni Venti, intellettuali afroamericani come Arthur Schomburg, James Weldon Johnson, Langston Hughes e Zora Neale Hurston, legati più o meno direttamente alla Harlem Renaissance, cercano di documentare la forza e la qualità di una tradizione folclorica nera, con una serie di contributi che valorizzano i blues, gli spiritual e i gospel22. La loro sollecitazione accompagna o stimola l’interesse anche di studiosi bianchi, come Howard W. Odum, Newbell Niles Puckett, Lawrence Gellert e altri ancora, che esplorano sistematicamente l’insieme delle produzioni musicali, religiose o meno, prodotte dalle comunità afroamericane del Sud23. Ora, tra tutti i ricercatori attivi in questo campo, John Lomax e suo figlio Alan hanno un rilievo del tutto particolare, non solo per la continuità del loro lavoro di ricerca, che copre praticamente tutto il XX secolo (John nasce nel 1867 e muore nel 1948; Alan nasce nel 1915 e muore nel 2002), ma anche per una particolare sensibilità che li induce a interessarsi tanto alle espressioni poe­ tiche e musicali delle comunità rurali bianche, quanto a quelle delle comunità afroamericane. Le loro ricerche superano così una «linea del colore» che anche in questo campo aveva spesso impedito di vedere connessioni, prestiti, influenze tra le diverse tradizioni musicali. Nel 1933 John – che si è già costruito una solida fama di etnomusicologo – viene nominato Honorary Curator presso l’Archive of American Folk Song della Library of Congress, e decide di intraprendere un viaggio di ricerca nel Sud, insieme al figlio diciottenne Alan, avvalendosi delle risorse tecniche (una – per l’epoca – mirabolante macchina portatile per l’incisione di dischi)

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che l’Archive gli mette a disposizione. Essendo un purista che disprezza il jazz o le contaminazioni commerciali della musica folk, ritiene di poter trovare buoni esempi di pura musica folk all’interno delle prigioni, dove l’isolamento dal mondo esterno può aver conservato tracce di un precedente passato musicale. È così che, nel 1933, mentre fanno visita all’Angola State Penitentiary della Louisiana, John e Alan Lomax si imbattono in Huddie «Leadbelly» Ledbetter, un galeotto nero con un passato burrascoso e grandi capacità musicali24. Nato nel 1888 nei pressi di Mooringsport, Louisiana, figlio di un piccolo proprietario terriero, Huddie Ledbetter si è mostrato subito ribelle a ogni disciplina che non fosse quella della sua chitarra, e sin da ragazzino se n’è andato più volte di casa per andare a suonare in qualche juke joint dei dintorni. Poiché quelli sono luoghi estremamente pericolosi, per il suo sedicesimo compleanno il padre gli ha regalato una Colt, per difendersi da eventuali aggressioni; e Huddie ha pensato bene di usarla subito contro un tizio che gli vuole contendere una ragazza. La pistola, però, si inceppa e per quella volta Huddie la passa liscia: lo sceriffo locale, che conosce il padre di Huddie, si limita a multarlo per 25 dollari e lo lascia libero. Intanto Huddie ha messo incinta la sua ragazza di allora, Margaret Coleman, e per liberarsi dalle incombenze di una precoce paternità, decide di imboccare la strada del musicista girovago. Per diversi anni Huddie Ledbetter viaggia per il Texas lavorando ogni volta che può come raccoglitore di cotone e come musicista nei juke joints. Nel 1908 si sposa con Lethe Henderson; nel 1910 la coppia si trasferisce a Dallas; lì, nel 1912, Huddie conosce il non ancora famoso Blind Lemon Jefferson, che all’epoca è un busker (un artista di strada) diciannovenne, già molto ammirato dai suoi occasionali ascoltatori; i due cominciano a lavorare insieme, suonando sui treni delle linee locali o nei bar, nei saloon e nei bordelli di Dallas e dintorni. Nel 1915 Huddie viene arrestato, forse per aver aggredito una donna che ha rifiutato le sue avance, e viene condannato a trenta giorni di lavori forzati: dopo tre giorni riesce a scappare e si nasconde prima a New Orleans e poi, insieme a Lethe, nel Nord-Est del Texas, dove vive sotto

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falso nome e riprende a lavorare come raccoglitore di cotone e come musicista girovago. Non passano due anni, e nel dicembre del 1917 a Beaver, in Texas, con un colpo di pistola uccide un suo conoscente, un afroamericano, col quale aveva litigato di nuovo per via di una donna. Arrestato, viene condannato a non meno di sette/non più di trent’anni di carcere presso la prigione locale. Dopo due anni Huddie viene trasferito nella terribile «Sugarland», cioè la Central State Prison Farm, presso Houston25. Nel 1924 il governatore del Texas, Pat Neff, va in visita alla prigione. A Ledbetter, che ha potuto conservare la sua chitarra, viene dato il compito di organizzare un concerto per il governatore, cosa che il prigioniero fa con ottimi risultati. Fra l’altro, durante la sua esibizione Ledbetter improvvisa anche una canzone nella quale chiede al governatore di dargli la grazia: Neff ne resta impressionato e, per quanto possa sembrare incredibile, il 16 gennaio 1925 gliela concede. Tornato a essere un uomo libero, negli anni seguenti Ledbetter vive un po’ a Houston, un po’ a Shreveport, e riprende la sua vita di musicista girovago. Riprende anche le sue vecchie abitudini, e nel 1930, a Mooringsport, durante una rissa, ferisce un bianco con un coltello. Nuovo arresto, nuovo processo e nuova condanna: da sei a dieci anni di lavoro duro in una delle più micidiali carceri del Sud, l’Angola State Penitentiary della Louisiana. Tre anni dopo, nel 1933, è lì che John e Alan Lomax lo scoprono e, avendone apprezzato le qualità di musicista, lo incontrano di nuovo il 1° luglio del 1934, per registrare alcune delle sue performance. Durante la sessione di registrazione incidono anche una ballata in cui Ledbetter, rivolgendosi al governatore della Louisiana, O.K. Allen, di nuovo chiede la grazia. Ottemperando a una richiesta di Ledbetter, i Lomax recapitano la registrazione della canzone alla segreteria del governatore. Non è chiaro se costui abbia mai ascoltato il disco. Nondimeno il 25 luglio del 1934, sulla base di una legge vigente e in considerazione della buona condotta del detenuto, Allen firma un decreto di liberazione per Ledbetter. Uscito di prigione, Ledbetter, convinto di esser stato liberato grazie ai buoni uffici di John Lomax, insiste perché

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costui lo assuma come autista e come guida presso le prigioni e i bassifondi dei centri urbani e dei villaggi del Sud nei quali il musicologo intende scoprire nuove e inedite testimonianze musicali: Lomax accetta e nei mesi seguenti i due viaggiano per il Sud-Est alla ricerca di nuove perle della musica folk. Alla fine del 1934, concluso il tour di ricerca, Lomax e Ledbet­ ter si spostano a Washington, Filadelfia e New York, dove John Lomax ha organizzato alcuni concerti in cui intende far conoscere alla migliore élite intellettuale dell’area le eccezionali qualità di autore e interprete che egli ritiene di vedere in Ledbetter. E così costui il 28 e il 29 dicembre 1934 si esibisce due volte nel corso del Meeting annuale della Modern Language Association, la più importante associazione statunitense di studiosi di lingua e letteratura, che si tiene a Filadelfia; poi suona al Bryn Mawr College, nei pressi di Filadelfia, il 30 dicembre 1934, e a un party di professori della Columbia University e della New York University, che ha luogo a New York il 1° gennaio 1935. Il 3 gen­naio 1935 lo «Herald Tribune» pubblica un clamoroso articolo sul suo caso. L’articolo esce il giorno prima di un altro concerto che deve tenersi a New York, presso l’Hotel Montclair. Si tratta di un’esibizione organizzata per l’associazione degli ex allievi della University of Texas, dove lo stesso John Lomax aveva studiato; la natura particolare dell’evento e l’articolo dello «Herald Tribune» attirano l’attenzione della stampa, sollecitata dal sensazionalismo della storia: l’ex galeotto nero, diventato chauffeur del raffinato etnomusicologo, che porta nel cuore della élite intellettuale bianca musiche che narrano di vite pericolose e disastrate... e difatti la sala si riempie presto di reporter e di fotografi. Su suggerimento di John Lomax, Leadbelly si presenta sulla scena vestito come un rude contadino nero, giacché in tal modo il pubblico (reporter compresi) potrà avere la sensazione di trovarsi davanti a un «vero» uomo del Sud che esegue della «vera» musica folk. L’espediente – non privo di condiscendenza razzista – ha un pieno successo, tant’è che due anni dopo «Life», che dedica a Leadbelly un breve articolo, lo presenta in una bella foto di ambientazione rurale, vestito grosso modo nella stessa foggia

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usata per il concerto, e sotto un titolo che riassume, ovviamente sempre a beneficio di un pubblico bianco, il senso della sua esperienza: Lead Belly. Bad Nigger Makes Good Minstrel26. Il 5 gennaio 1935, John Lomax fa firmare a Ledbetter un contratto nel quale lui e il figlio Alan diventano i suoi manager; i profitti ricavati dal tour di concerti che John Lomax gli organizza sono divisi in modo piuttosto squilibrato: un terzo a Ledbetter; due terzi a John e Alan Lomax. Alla fine gli aspetti materiali del rapporto e anche quelli psicologici portano a una rottura e a un aspro contenzioso legale che oppone Ledbetter a John Lomax. Viceversa, con Alan il rapporto si conserva. Se John Lomax è conservatore e, in fondo, velatamente razzista, Alan, invece, diversamente dal padre, ha maturato in quegli anni un orientamento culturalmente e politicamente radicale: le terribili condizioni nelle quali sono costretti a vivere gli afroamericani nel Sud segregato lo hanno profondamente colpito, avvicinandolo agli ambienti intellettuali newyorchesi che simpatizzano con il Communist Party americano (CP-Usa). Ed è proprio attraverso Alan che Ledbetter stesso entra in contatto con l’ambiente radicale newyorchese, impegnato nella valorizzazione del patrimonio musicale afroamericano, ed è attraverso di lui che può tentare persino la via dell’incisione discografica. Sul finire degli anni Trenta, infatti, le iniziative del New Deal migliorano leggermente le condizioni economiche generali, e anche quelle di una sezione almeno delle comunità afroamericane. Di certo non tutte le famiglie afroamericane traggono benefici dalle nuove misure; tuttavia, sezioni delle comunità nere tornano a disporre di risorse che consentono l’acquisto di un fonografo, una radio, qualche disco27. E soprattutto, dopo l’abolizione del proibizionismo (1933), i locali pubblici, anche quelli riservati ai neri, cominciano ad attirare un nuovo vasto pubblico e a dotarsi di una macchina introdotta nel 1927, il jukebox, la cui diffusione è rapidissima (25.000 modelli in funzione in tutto il paese nel 1934; 500.000 nel 1940) ed è tale da rilanciare la domanda per ogni genere di produzione discografica: così anche il mercato dei race records riprende un po’ di vita28.

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Ledbetter stesso incide tre 78 giri per la Arc nel 1935-1936 – senza grande successo, per la verità –, per pubblicare poi, nel 1939-1942, diverse raccolte di canzoni di vario stile musicale29. Non è il solo, ovviamente: proprio in questo contesto, fra gli altri musicisti che riprendono a incidere, c’è anche un giovane chitarrista nero, fin allora conosciuto solo nei juke joints disseminati tra Mississippi e Arkansas, Robert Johnson, che in due diverse sessioni di registrazione, nel novembre 1936 e nel giugno 1937, incide più di quaranta tracce, diverse delle quali tra il 1937 e il 1939 sono pubblicate su disco dalla Vocalion. La parabola vitale di Johnson sarebbe durata poco (muore nell’agosto del 1938 a 27 anni). Quella artistica sarebbe durata molto di più, giacché negli anni Sessanta sarebbe stato riscoperto da numerosi appassionati di blues, per diventare poi l’oggetto di un vero e proprio culto musicale. 4. Storie blues Quando la musica blues viene trasferita sulla gommalacca dei 78 giri, venduti negli empori o nei negozi specializzati, perde sicuramente quell’aura di purezza e autenticità che John Lomax cercava testardamente di preservare, ed entra a pieno diritto nello spazio dell’industria culturale30. Con ciò, cambiano aspetti essenziali della forma-blues: la forza creativa dell’esecuzione improvvisata si attenua o si perde e la durata delle storie raccontate in musica viene necessariamente abbreviata. Tuttavia non si perde un intero universo narrativo che esercita su molti ascoltatori – allora e oggi – un fascino irresistibile: la musica, melanconica o rude, ma semplice e prevedibile, ospita storie che a stento o per niente si sarebbero potute trovare tra le narrazioni mainstream. Studiosi del blues, come Gussow o Lawson, hanno giustamente sostenuto che per capire questo particolare orizzonte narrativo bisogna ricordare in quali circostanze e in quali luoghi il blues venisse originariamente suonato31. Il quando e il dove è presto detto: lo si suona al sabato sera, alla fine di una settimana di lavoro, nei juke joints o nelle barrelhouses, locali talvolta davvero mol-

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to mal frequentati, dove spesso circola droga, e dove si beve forte, anche nel periodo del proibizionismo (sebbene allora di nascosto, e talora ricorrendo ad alcolici pericolosamente adulterati). In quei locali ci vuol poco perché qualcuno tiri fuori un coltello o una pistola e faccia danni. Nondimeno la gente ci va volentieri, per liberarsi dal peso della settimana, per divertirsi, ballare, dimenticare, ma forse anche per sentire qualcuno che condivida con la sua musica le stesse ansie, esistenziali o affettive. Poi il giorno dopo, la domenica, si pensa a purificarsi, magari andando in qualche chiesa per cantare i gospel. E lunedì via di nuovo con un’altra settimana di lavoro vissuta in luoghi dove la discriminazione è riconosciuta per legge e dove il razzismo e le aggressioni razziali (fino al linciaggio) sono eventi di tutti i giorni. Ora, sebbene nascano in un contesto di degrado sociale, violenza, sfruttamento, la maggior parte dei blues non costruiscono un corpus poetico che affronti sistematicamente in modo diretto e polemico le condizioni di vita delle popolazioni afroamericane. Indubbiamente, ci sono singoli blues che denunciano situazioni di sfruttamento e di povertà estrema, o che descrivono terribili catastrofi naturali che devastano senza possibilità di salvezza persone già costrette a una vita di stenti32. Tuttavia il loro numero è modesto rispetto all’intera produzione blues; e, inoltre, non affrontano mai esplicitamente il tema della segregazione razziale, e men che meno la paura dell’aggressione o del linciaggio, evidentemente radicati in profondità nell’esperienza di vita e nella psiche di molti afroamericani33. Semmai, il senso di ansia permanente, di fragilità, di disperata vulnerabilità, è evocato in forma indiretta e più astratta: che è ciò che offre a una musica molto «locale» delle potenzialità comunicative che vanno ben oltre i confini sociogeografici da cui ha origine. Questo senso di disagio è reso, intanto, da una poetica che esplora brevi frammenti di vita da una prospettiva integralmente individuale e soggettiva. I blues non raccontano per esteso delle storie. Offrono dei lampi esistenziali, raccontati come in un dialogo con sé stessi. I testi non danno alcun particolare dettaglio relativo al contesto narrativo; inoltre lavorano per sottrazione,

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riassumendo intense situazioni esistenziali in abbaglianti flash poetici. Inoltre, non c’è un «noi», nel blues; c’è un «io», una singola persona esposta a restare disastrosamente sola quando le cose cominciano ad andare male34. Questo «io» soggettivo è permanentemente assediato da una qualche minaccia esterna: può essere qualcosa di molto concreto, tipo la povertà, l’alluvione, la siccità; ma può essere anche qualcosa di molto più indefinito (il «blues», il «jinx», il «devil»), e per questo di molto più spaventoso: un senso di ansia indecifrabile ma raggelante, che ti assale durante la notte, quando ti svegli, mentre cammini, che assedia la tua casa, il tuo letto, persino35. Bessie Smith, in una delle sue canzoni più intense, canta: «Mi sono svegliata stamattina con un’ombra attorno al mio letto / Mi sono svegliata stamattina con un’ombra attorno al mio letto / Non avevo il mio uomo che tenesse la mia testa dolorante»36. Con la sua vertiginosa essenzialità, questa strofa espone una situazione narrativa che non è lontana da uno dei pilastri fondamentali delle narrazioni mainstream: ovvero la paura dell’accerchiamento, il timore di essere aggrediti da qualche minaccia esterna. Solo che nei blues, diversamente che nelle narrazioni mainstream, non arriva alcun eroe salvifico ad allontanare vittoriosamente la minaccia; in questo senso la terzina della canzone di Bessie Smith è persino didattica nello spiegare che la donna, spaventata, non ha nessuno che allevii la sua angoscia; d’altronde tutti coloro che cantano dei «blues» che li ossessionano non si presentano mai come personalmente in grado di annientare definitivamente le spaventose minacce (metaforiche o reali) che li assillano. Semmai, un modo per cercare di salvarsi è quello di mettersi in viaggio e non fermarsi mai, finché non si arriva in qualche luogo in cui si può sperare di star meglio37. Per gli afroamericani il viaggio – fondamentale in generale per tutta la cultura americana – ha uno speciale rilievo, poiché nega la forzata immobilità geografica a cui i neri erano stati costretti durante la schiavitù: e così, viaggiare, per esempio, sul treno merci – altra figura mitica nell’immaginario blues –, oltre a essere un gesto funzionale alla ricerca del lavoro, è anche una scelta che equivale a una riconferma della ri-

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conquistata libertà. La figura, che ricorre spesso anche negli spiritual («Swing low, sweet chariot / Coming for to carry me home»), è parte dell’esperienza di vita sia dei country bluesmen, sia delle cantanti blues; ma nell’elaborazione poetica di cantanti come Gertrude «Ma» Rainey, Bessie Smith e altre ancora, il racconto del viaggio acquista un’ulteriore risonanza, giacché muoversi mette in discussione il legame stabile che, secondo la cultura egemone, una donna deve avere con la sua casa e la domesticità38. Peraltro, non è detto che il viaggio valga sempre l’enorme fatica fatta per compierlo; canta Bessie Smith in Long Old Road (1931): È una vecchia lunga strada ma devo vederne la fine È una vecchia lunga strada ma devo vederne la fine E quando ci sarò arrivata stringerò la mano a un amico. [...] A forza di piangere e con le lacrime che cadevano in terra, A forza di piangere e con le lacrime che cadevano in terra, Quando arrivai alla fine non ce la facevo più. [...] Trovai il mio amico da tanto tempo perduto ed era meglio [se rimanevo a casa39.

In altri casi il viaggiare, il muoversi, lo spostarsi di città in città, diventa un’ossessione speculare a quella provocata dai «blues», come suggerisce con una ineguagliata potenza poetica Robert Johnson in Hellhound on My Trail (1937): Mi devo muovere, mi devo muovere, i blues vengon giù come grandine, [i blues vengon giù come grandine Umm mmm mmm, i blues vengon giù come grandine, i blues vengon giù [come grandine E il giorno continua a tormentarmi, ho un segugio infernale alle calcagna, [un segugio alle calcagna, un segugio alle calcagna40.

Se lo spostamento fisico non reca sollievo, si può provare con un altro tipo di viaggio, quello che viene offerto dalla droga o dall’alcol41. In qualche caso, vie d’uscita di questo genere sono vissute con un tenue senso di colpa42. Ma in genere i testi sono

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radicalmente distanti dall’ottimismo moralistico e pieno di rimozioni dell’etica mainstream, giacché la tossicodipendenza o l’alcolismo sono descritti senza ipocrisia alcuna, in forma neutra e senza alcun particolare accento di condanna: «Fammi dare solo un’altra sniffata, un’altra sniffata a quella roba / Fammi dare solo un’altra sniffata, un’altra sniffata a quella roba / Prenderò una mucca come un cowboy e catturerò un toro senza lazo», canta Victoria Spivey, con una voce da tossica terminale, in Dope Head Blues, descrivendo poi di seguito l’iperbole parossistica tracciata dai pensieri di questa donna strafatta di coca43. Molto spesso, il senso di angoscia che assale l’«io narrante» ha una specifica causa concreta, e quasi invariabilmente questa causa è una delusione d’amore. È chiaro che questo è un tema esploratissimo, sia nelle tradizionali ballads di origine anglo-scoto-irlandese, all’epoca recuperate dagli etnomusicologi, sia nelle canzoni alla moda sfornate da Tin Pan Alley. Tuttavia, rispetto a queste ultime, in particolare, c’è una differenza essenziale. La delusione d’amore non è mai soffusa da una dolce malinconia; piuttosto, è uno shock brutale, qualcosa che ti porta via il cuore e non te lo restituisce più; è qualcosa, infine, che può spingere a reazioni di una violenza che certo non è contemplata né nelle canzoni di Tin Pan Alley, né nei melodrammi hollywoodiani (nean­che in quelli più dark, figuriamoci poi nelle commedie romantiche). Billy Higgins, in un duetto con Josephine «Josie» Miles (A to Z Blues, 1924), interpreta la parte di un uomo che spiega alla sua donna che, poiché lei lo ha tradito e lo vuole lasciare, la concerà propriamente per le feste: «Ti taglierò la testa ricciuta in quattro modi differenti / E cioè in lungo, in largo, in superficie e in profondità», e poi va avanti, enunciando dalla A alla Z i diversi modi in cui ha intenzione di seviziarla col suo coltello44. Robert Johnson non ha fantasie più pacifiche di quelle di Billy Higgins, poiché in 32-20 Blues (1937) spiega: Mando a chiamare la mia baby e lei non viene Mando a chiamare la mia baby e lei non viene Tutti i dottori di Hot Springs di sicuro non la potranno aiutare per niente.

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E se diventa riottosa, pensa di non volerlo fare E se diventa riottosa e pensa di non volerlo fare Prendo la mia 32-20, be’, e la spezzo in due45.

Non si pensi che questi siano esempi chiari di una unilaterale vittimizzazione delle donne; già il verso successivo di 32-20 Blues chiarisce che nel contesto della musica blues la «guerra dei sessi» è un’espressione assai meno metaforica di quanto non si assuma di solito: «Lei ha una 38 Special, ma mi sa che è troppo leggera / Lei ha una 38 Special, ma mi sa che è troppo leggera / Io ho una 32-20, devo rimettere le cose a posto»46. Anche nelle canzoni eseguite da interpreti femminili, un torto ricevuto può essere la causa di una devastante depressione, così come può scatenare una reazione estremamente violenta; in Sinful Blues, del 1924, Bessie Smith canta: Sono convinta che il mio uomo non si comporterà bene Così sarò dura con lui già a partire da questa sera Mi procurerò un fucile lungo come il mio braccio destro Sparerò a quell’uomo perché mi ha maltrattato Signore, ora ho questi blues immorali.

Victoria Spivey, in Murder in the First Degree (1927), interpreta un personaggio femminile non meno tragico: Beh, me ne sto in questa prigione, terrorizzata da matti Beh, me ne sto in questa prigione, terrorizzata da matti E a quanto mi ha detto l’avvocato credo che mi impiccheranno. Il mio uomo se ne andava in giro con una che io non sopportavo Il mio uomo se ne andava in giro con una che io non sopportavo Ora sul mio fucile c’è una tacca, e il mondo si è liberato di una nullità47.

Non sorprende che un canzoniere come quello blues, così ricco di storie di violenza, ospiti anche numerose prison songs. Sono canti in cui un carcerato o una carcerata, in prigione per un qualunque motivo, spesso non precisato, esprime la sua sofferenza per il trattamento ricevuto in posti, di norma, poco

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meno che infernali, e in cui manifesta tutta la sua nostalgia per i luoghi e per le persone amate, evocate talora dal fischio di un treno che passa vicino e se ne va nella notte. Certo, nei brevi flash soggettivi tratteggiati dai prison blues non c’è un universo morale condiviso che deve essere restaurato attraverso un’adeguata punizione comminata al pharmakos; non sono storie in cui il pentimento o la reclusione (e, nei casi estremi, la condanna capitale) rimettono in ordine il giusto equilibrio etico, come accade nelle narrazioni mainstream. Al contrario, in qualche caso c’è uno spavaldo rifiuto della logica stessa dell’imprigionamento: «Non me ne importa di essere in prigione – canta Bessie Smith in Jail House Blues (1923) – ma devo starci così a lungo»; in altri (Bukka White, Parchman Farm Blues, 1940), c’è solo il desiderio di uscire, quanto prima tanto meglio: «Ooh, sono giù alla vecchia Parchman Farm [Mississippi State Penitentiary], di sicuro me ne voglio andare a casa, sì / Sono giù alla vecchia Parchman Farm ma di sicuro me ne voglio andare a casa, sì / E prima o poi spero di farcela». E se c’è un agente delle istituzioni, non è un personaggio salvifico, ma un aguzzino che ti marca la schiena con i segni delle battiture48. Se l’amore violento può anche condurre a gesti estremi che rischiano di far sprofondare in qualche prigione, non sempre le storie d’amore finiscono così tragicamente. Ma, anche se nessuno si fa male fisicamente, nei blues ci si fa sempre male affettivamente e di sicuro non ci sono storie d’amore a lieto fine. Semmai, in una relazione, l’unico vero momento positivo sta nelle gioie del sesso, che talora sono cantate attraverso l’impiego di doppi sensi un po’ grevi, talaltra sono descritte in modo eccezionalmente diretto per gli standard dell’epoca49. E così, per esempio, Bessie Smith, in Empty Bed Blues (1928), interpreta una lei che si lamenta perché il suo nuovo amore se n’è andato e ha lasciato il suo letto vuoto; dopodiché spiega meglio perché lei sia così disperata: Sa come eccitarmi e mi eccita notte e giorno Signore, sa come eccitarmi e mi eccita notte e giorno Ha un modo nuovo di fare l’amore che quasi mi lascia senza fiato.

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Signore, ha quel dolce non so che di cui ho parlato alla mia amica Lou Ha quel dolce non so che di cui ho parlato alla mia amica Lou Dal modo in cui va fuori di testa, dev’esserci andata e averlo provato [anche lei. [...] Prima ha bollito la mia patata e l’ha resa bella calda Prima ha bollito la mia patata e l’ha resa bella calda Poi ci ha messo il bacon, e ha fatto traboccare la pentola.

Racconti di questo tipo, basati su interazioni eterosessuali, sono la norma nel blues. Tuttavia Gertrude «Ma» Rainey, notoriamente bisessuale, non teme di raccontare la sua passione per le donne in Prove It on Me Blues (1928), una canzone che viene pubblicizzata con l’immagine di una tizia vestita da uomo mentre tenta di sedurre due donne all’angolo di una strada, davanti allo sguardo perplesso di un poliziotto. La stessa Rainey in Sissy Blues (1928) interpreta una donna mollata dal suo uomo che si è innamorato di una «sissy» («checca»). Il racconto non è accompagnato da alcun tipo di condanna morale: il blues nasce dalla sofferenza di esser stata lasciata, che sia per un’altra donna o per un uomo fa poca differenza50. Di fronte a sequenze narrative di questo tipo, non sorprende che le congregazioni protestanti nere abbiano condannato il genere come una musica immorale; né che autorevoli esponenti dell’intellettualità nera – come W.E.B. Du Bois, o Robert Abbott, direttore del «Chicago Defender» – abbiano preso le distanze, considerando il blues troppo volgare, troppo poco middle class, troppo poco autocontrollato51. E tuttavia è questa forza sovversiva delle regole etiche dominanti che rende il blues straordinariamente importante in una storia della cultura di massa52. Altro aspetto difforme, rispetto alla mentalità mainstream: nella poetica blues le gerarchie di genere sono disposte in modo simmetrico, nel bene e nel male. Da un lato ci sono «io narranti» maschili che reagiscono alle difficoltà affettive minacciando sfracelli fisici, o che non fanno mistero di essere impenitenti cacciatori di donne53. Ma le donne non sono certamente da meno; in Mama’s Got the Blues, di Bessie Smith, che ho già citato in pre-

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cedenza, le ombre che ossessionano la donna che canta vengono scacciate in un modo molto semplice: Per prima cosa mi metterò in salvo procurandomi un amante Ne ho uno ad Atlanta, due in Alabama, tre a Chattanooga Quattro a Cincinnati, cinque in Mississippi, sei a Memphis, Tennessee E se non vi piacciono le mie pesche, per favore lasciate stare il mio frutteto.

Allo stesso modo, se capita di incrociare narrazioni in cui un uomo maltratta la sua donna con fare distratto, ce ne sono anche di interessantissime in cui la tipica figura dell’arroganza maschilista – il breadwinner, quello che guadagna, quello da cui dipende il sostentamento delle componenti femminili della famiglia – viene attaccata e umiliata nella forma più diretta possibile: in One and Two Blues (1926) e in Put It Right Here (1928), Bessie Smith interpreta il ruolo di una donna che avvilisce senza pietà il suo uomo perché non è in grado di portare a casa più di quel poco che guadagna. Davanti a sfide così dirette non sorprende che si trovino esempi di blues in cui un uomo dichiara la tragica crisi della propria mascolinità, assaltata (esplicitamente o implicitamente) da molti fronti: dai bianchi razzisti e sfruttatori, dall’evoluzione negativa del contesto economico, da donne che dialogano con gli uomini da pari a pari. Robert Johnson è tra i più efficaci nel descrivere questi uomini tristi, abbandonati, incapaci di riaversi dai colpi che la vita ha inferto loro, e lo fa, per esempio, nello straziante lamento dell’amante abbandonato di Love in Vain Blues, o con la figura patetica dello Steady Rollin’ Man, un uomo che si spezza la schiena dal lavoro e vede la propria donna spendere con un altro tutti i soldi che lui ha guadagnato54. Specularmente, se nel blues femminile ci sono figure di donne maltrattate, si incontrano anche esplicite dichiarazioni di indipendenza, come in Wild Women Don’t Have the Blues (1924), in cui Ida Cox canta: Ho un’indole e un modo tutto mio Quando il mio uomo comincia a scalciare, lo mando a cercarsi un’altra casa Mi riempio di alcolici e cammino per strada tutta la notte

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Vado a casa e caccio il mio uomo se non mi tratta per bene Le donne scatenate non si preoccupano, le donne scatenate non hanno [i blues. Non ottieni niente se fai l’angioletto È meglio che tu cambi il modo di comportarti, meglio che ti scateni Voglio dirti una cosa, non ti dirò una bugia Le donne scatenate sono le uniche che ce la fanno Perché le donne scatenate non si preoccupano, le donne scatenate [non hanno i blues55.

In apparenza si potrebbe dire che almeno un aspetto accomuna le narrazioni mainstream e quelle blues: il mondo del blues, infatti, è decisamente terreno, pieno di un disperato vigore, che sembra non aver niente a che fare con una dimensione minimamente spirituale. Nondimeno, il blues non è – da questo punto di vista – per niente unidimensionale. Da un lato ci sono musicisti, come Blind Willie Johnson, capaci di esprimere con le forme vocali e musicali di un blues intensissimo tutta la propria spiritualità, e – per esempio nel caso specifico di Nobody’s Fault but Mine, 1927 – tutta la disperazione per non essere stati in grado di seguire a dovere gli insegnamenti della Sacra Bibbia56. Dall’altro lato c’è chi – come Blind Lemon Jefferson – al momento del suo esordio discografico, oltre a registrare i blues che ho ricordato sopra, e che hanno segnato una svolta storica nella parabola di questo tipo di musica, incide anche, sotto il nome di Deacon L.J. Bates, due pezzi gospel, I Want to Be Like Jesus in My Heart e All I Want Is That Pure Religion. E viceversa: Thomas A. Dorsey, considerato il fondatore del gospel contemporaneo, inizia la sua carriera come bluesman, con il nome di Georgia Tom. E altri esempi di questo tipo potrebbero essere forniti57. Christopher Small ha osservato, al riguardo: Si dice che il gospel sia l’attuale paradigma della musica religiosa afroamericana, e che il blues ne sia la controparte secolare. Sarebbe più corretto dire che il blues e il gospel sono due moderne forme gemellari di quel rituale di sopravvivenza che è l’atto musicale, e che si sono non solo vicendevolmente influenzate, ma si sono mostrate anche una inesauribile fonte di ispirazione per diverse generazioni di musicisti sia neri che bianchi.

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Inoltre [...] c’è un bel po’ di puro godimento secolare nella esecuzione sia degli spiritual che del gospel, così come nel blues [...] c’è un forte elemento religioso, anche se non appare ovvio all’osservatore casuale58.

Si tratta di un punto di vista avvalorato da una testimonianza come quella della scrittrice Maya Angelou (1928-2014), che nella sua autobiografia, I Know Why the Caged Bird Sings, [...] racconta di quando, al tempo della sua infanzia, tornando a casa dalla preghiera del sabato sera, si era soliti fermarsi in un jukejoint nel quale risuonava un barrelhouse blues cantato a squarciagola per coprire il rumore delle scarpe picchiate sul pavimento di legno. Non c’era molta differenza, solo due modi diversi di esprimere lo stesso tormento: «Per uno non abituato a quella musica, distinguere tra i pezzi cantati pochi minuti prima (in chiesa) e quelli che venivano ballati nel locale vicino ai binari della ferrovia poteva essere impossibile. Tutti chiedevano la stessa domanda. Per quanto ancora, Dio? Quanto tempo?»59.

Comunque stiano le cose, per chi non fa parte delle comunità afroamericane, inoltrarsi nel territorio dei blues, magari per sconfinare da lì nella spiritualità gospel (o viceversa), significa ritrovarsi in paesaggi quasi del tutto ignoti per gli standard cognitivi della cultura di massa bianca. Peraltro, all’epoca, questa è un’esperienza rarissima. Qualunque cosa sia immessa sul mercato discografico da musicisti neri in questi anni finisce sotto l’etichetta race records: che è un modo non solo per constatare un dato di fatto, ma per incoraggiare la conservazione della segregazione razziale anche nel mercato discografico. E difatti, negli Usa degli anni Venti e Trenta, a eccezione dei coraggiosi etnomusicologi di cui ho parlato in precedenza, solo pochissimi bianchi prendono minimamente in considerazione questo particolare universo sonoro e poetico: tra questi vi sono anche dei musicisti che ascoltano sia il blues che il gospel e ne traggono nuove suggestioni creative. 5. Musica dalle campagne, dalle montagne e dalle pianure Nel 1921, un anno dopo aver lanciato Mamie Smith, la OKeh cerca di procurarsi un nuovo possibile mercato per i suoi dischi, orientandosi verso un tipo di musica che sembra apprezzato da

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ascoltatori bianchi delle aree rurali sud-orientali degli States. L’impulso, per la verità, viene da un giovane commerciante di Atlanta, Polk Brockman, che lavora nel negozio di mobili posseduto dalla famiglia; a lui spetta la cura del reparto fonografi, che all’epoca sono venduti nei negozi di arredamento, dove, fra l’altro, si possono acquistare anche i dischi. In questo ruolo Brockman si accorge che la produzione corrente, cioè le canzoni pop prodotte a Tin Pan Alley, non ha un grande smercio, né tra gli acquirenti neri, né tra quelli bianchi. Quindi, prima si procura un contratto di vendita con la OKeh, il cui catalogo gli permette di vendere dischi come Crazy Blues di Mamie Smith: e la mossa si rivela indovinata, perché tra la clientela afroamericana che frequenta il negozio di Brockman i dischi di Mamie Smith vanno alla grande, così come anche quelli di jazz. Dopodiché, Brockman si propone come talent scout a Ralph Peer, che all’epoca lavora per la OKeh come produttore degli specialty records (cioè, in sostanza, i dischi per i mercati etnici); e così, nel giugno del 1923, i due organizzano un’audizione ad Atlanta per scoprire nuovi talenti. Nello studio di registrazione temporaneo messo su dalla OKeh, Brockman porta un variegato gruppo di musicisti, e tra questi, in particolare, Fiddlin’ John Carson, un violinista bianco che – a suo parere – ha buone chance di successo. Carson registra due pezzi per un disco su cui invece Peer non punta per niente, perché la registrazione che ne viene fuori tecnicamente è modesta e perché la musica gli sembra troppo strana. Peer fa fare una tiratura limitata del disco e lo fa commercializzare solo in loco. Nondimeno, contro le sue aspettative, la musica di Fiddlin’ John Carson ha un grande successo, tanto che, su richiesta di Brockman, la OKeh deve affrettarsi a ristamparne altre copie e a spedirle in fretta e furia ad Atlanta. E da lì in avanti sia quella casa discografica che altre si mettono sulle tracce di musicisti che siano in grado di suonare «old time tunes», come – in modo molto generico – si classifica questo nuovo tipo di musica60. Nel 1925, poi, Ralph Peer trova un modo relativamente più preciso per definire questa musica, e la chiama «hillbilly», usando un

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termine piuttosto dispregiativo che indica i campagnoli bianchi del Sud o i montanari bianchi degli Appalachi61. Intanto la moda delle musiche hillbilly basate sul violino, à la Fiddlin’ John Carson, comincia a esaurirsi, e allora il solito ­Ralph Peer si rimette in moto per cercare di rinnovare il repertorio. È così che in una nuova serie di audizioni organizzate nell’estate del 1927 a Bristol, Tennessee (questa volta per conto della Rca Victor), Peer scopre un gruppo di musicisti che non solo riscuotono un grande successo, ma che finiscono per diventare le vere stelle fondative di questo particolare nuovo genere musicale: si tratta di Jimmie Rodgers e della Carter Family (un gruppo formato da Alvin Pleasant Carter, da sua moglie Sara e da Maybelle Carter, cugina di Sara e moglie di Ezra Carter, fratello di Alvin)62. Questi giovani musicisti (Maybelle Carter ha 18 anni, Sara Carter 28, Jimmie Rodgers 30 e Alvin Pleasant Carter 36) vengono da un ambiente rurale ancora relativamente isolato e privo di comunicazioni: i Carter, da Maces Spring, Virginia, dove risiedono, a Bristol, Tennessee, dove si tiene l’audizione, ci vanno in macchina, e per fare un viaggio di 25 miglia, che oggi richiede una quarantina di minuti, impiegano l’intera giornata, dall’alba alla sera63. Sono, loro come molti altri musicisti che suonano questo tipo di musica, di estrazione sociale medio-bassa (A.P. Carter fa occasionalmente il fabbro, il carpentiere, il venditore di alberi da frutto; Jimmie Rodgers ha fatto il ferroviere). Solo raramente scrivono la musica che suonano; piuttosto attingono a un patrimonio folclorico che hanno ascoltato qua e là, lavorando come musicisti girovaghi nelle fiere, per i medicine shows (spettacoli itineranti durante i quali si vendono farmaci e pozioni), o viaggiando in treno, di città in città. In effetti è quello stesso universo sonoro e poetico che ha interessato – e ancora in quegli anni sta interessando – etnomusicologi come Sharp, Karpeles o Lomax: prevalentemente ballate o musiche da danza, talora di immediata derivazione da modelli anglo-scoto-irlandesi. Ma i musicisti hillbilly non si limitano a questo: A.P. Carter, che è un appassionato ricercatore di musica folk, curiosamente fa la stessa cosa che qualche anno dopo

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farà anche John Lomax; ovvero dal 1928 organizza dei personali viaggi di ricerca nell’area intorno a Maces Spring insieme a un musicista afroamericano, Lesley Riddle, che lo aiuta a scovare le canzoni e – in mancanza di un registratore – a ricordare le musiche. In questo modo, grazie alla collaborazione di Riddle, nel repertorio della Carter Family entrano anche brani che vengono dall’elaborazione musicale afroamericana, come i gospel o i blues64. La scelta di aprirsi a musiche della tradizione nera non riguarda solo la Carter Family, ma vale anche per moltissimi altri musicisti hillbilly – Jimmie Rodgers in testa – che, collaborando con musicisti afroamericani, ne ascoltano le musiche e le inseriscono nel loro repertorio65. Che tipo di musica fanno? Si tratta di una musica suonata con strumenti a corda (violino, banjo, chitarra, autoharp), dalla struttura molto semplice, in genere organizzata intorno a scansioni ritmiche elementari; le linee melodiche sono essenziali e si articolano talora in sequenze di strofe identiche intervallate da intermezzi strumentali, talaltra in sequenze ordinate di strofa e ritornello, con una varietà di combinazioni metriche66. Quando suonano dei blues usano un sistema metrico elementare (AAA), con un tempo assai più vivace delle versioni afroamericane, e con soluzioni ritmiche prive della struttura sincopata e delle blue notes che caratterizzano i blues classici, tanto che – in qualche caso – è perfino difficile riconoscerne la matrice originaria. L’essenzialità della musica sembra autorizzare gli sforzi di coloro che in questi anni cercano di presentare questo particolare universo musicale come l’espressione della «vera» anima rurale, primitiva, genuina e moralmente retta, dell’America bianca67. In apparenza l’operazione può anche sembrare sensata, e comunque funziona senz’altro per molti ascoltatori bianchi che apprezzano questo tipo di musica e comprano i dischi dei musicisti che la eseguono. Si tratta di un pubblico costituito soprattutto da gente di estrazione sociale medio-bassa, in gran parte rurale, che spesso conosce bene quelle canzoni, o altre che sono somiglianti, per averle cantate frequentemente in casa o nei ritrovi comunitari; adesso che quelle musiche vengono fuori da un fonografo, o

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da una radio, o da un jukebox, prodotte da qualche industria di New York o di qualche altra grande e remota metropoli, acquistano uno speciale valore aggiuntivo che va oltre il significato intrinseco delle storie cantate: significano che si può far sapere al mondo che si esiste e che, in qualche modo, si ha diritto a un riconoscimento pubblico e collettivo68. Paradossalmente, la forza comunicativa di questa musica esce consolidata dalla crisi del 1929, poiché, sebbene anche il mercato discografico hillbilly sia duramente colpito dalla crisi, la musica continua a circolare largamente per tutti gli States grazie a una serie di programmi radiofonici e di produzioni cinematografiche, che non solo tengono vivo il campo espressivo hillbilly, ma ne istituzionalizzano i caratteri identitari fondamentali. Il 12 aprile 1924 debutta a Chicago la stazione Wls (World’s Largest Store), di proprietà della Sears, Roebuck and Company, la ditta di vendite postali con sede a Chicago. La sera del 19 aprile, che è un sabato, viene trasmesso The National Barn Dance, un programma di varietà ma con una parte significativa dedicata alla musica hillbilly. Nel 1928 la stazione viene venduta a Burrid­ ge D. Butler, proprietario della rivista «Prairie Farmer»; la sede resta a Chicago e Sears, Roebuck and Company continua a essere uno dei principali inserzionisti pubblicitari. Nel maggio del 1932 l’ultima mezz’ora del programma viene trasmessa sul network Nbc; dal settembre del 1933 il programma diventa un punto fisso nel palinsesto del Blue Network della Nbc, sponsorizzato dai Miles Laboratories che producono l’Alka Seltzer69. Il 5 ottobre 1925 comincia a trasmettere un’altra stazione radio, la Wsm di Nashville, Tennessee. La radio è di proprietà della National Life and Accident Insurance Company, e l’acronimo significa «We Shield Millions». Nel 1927 la stazione comincia a trasmettere il Grand Ole Opry, uno spettacolo di musica hillbilly registrato in diretta a Nashville. Nel 1939 il programma viene sponsorizzato dalla R.J. Reynolds, che produce il Prince Albert, una qualità di tabacco piuttosto a buon mercato. Nell’ottobre del 1939, visti i buoni risultati della promozione, la Reynolds sponsorizza la trasmissione del Grand Ole Opry sul Red Network

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della Nbc: in questo modo il programma acquista una diffusione nazionale70. Il presentatore del Grand Ole Opry – George Hay – cerca di dare al suo spettacolo, e anche alla trasmissione, una connotazione decisamente rustica, invitando i suoi musicisti a vestirsi da «veri hillbilly», con abiti da lavoro da contadini o da montanari71. Si ripete così, per l’ennesima volta nella storia della cultura popolare, la dinamica per la quale un epiteto insultante – nel linguaggio comune, come detto, «hillbilly» equivale sostanzialmente a «zoticone» – viene assunto come una bandiera identitaria, raccolta adesso attraverso le onde radio anche dai moltissimi contadini che il Dust Bowl o la Depressione hanno costretto a emigrare in California o nelle città del Nord. Tuttavia questa immagine rustica viene presto soppiantata da un’altra imprevedibile dinamica, avviata dall’accostamento tra musica hillbilly ed epopea western72. Dal 1927 al 1936 alla Nbc c’è già un programma, affidato a John I. White, che presenta insieme canzoni western e hillbilly. Tuttavia la vera svolta si ha con i film in cui compare la figura del singing cowboy, cioè in cui il protagonista non solo compie le imprese tipiche delle narrazioni western hollywoodiane, ma ogni tanto – in momenti particolari del racconto – canta una canzone hillbilly che ha un collegamento con lo svolgersi dell’azione. Il genere decolla per iniziativa della Republic Pictures, una casa cinematografica specializzata in B-movies, creata da Herbert Yates nel 1934: nel genere del ­western, con il singing cowboy Yates vede la possibilità di far concorrenza alle grandi produzioni dei musical lanciati dalle majors hollywoodiane. Per i western che ha in mente, infatti, basta un budget infinitamente più contenuto, giacché è sufficiente un attore protagonista che sappia suonare la chitarra e sappia cantare, senza che ci sia alcun bisogno di schiere di ballerini e di grandi scene di gruppo; d’altronde il set può anche essere ricostruito in studio o in location esterne vicine agli studios senza bisogno di grandi investimenti; dopodiché, se la scommessa funziona, si può lucrare anche sulle canzoni della colonna sonora tradotte in dischi da lanciare sul mercato discografico. Yates, che possiede anche una casa discografica, la Arc, sa che per registrare le can-

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zoni hillbilly non c’è bisogno di una grande orchestra e di grandi mezzi; in qualche caso può bastare persino il solo cantante accompagnato dalla sua chitarra. La scelta del cantante a cui attribuire il ruolo da protagonista cade su Gene Autry, un apprezzato musicista hillbilly che sa anche cavalcare bene: e si rivela una decisione indovinata. Prima di approdare al cinema, Autry – che è nato nel 1907 – si è esibito brevemente con un medicine show, e poi ha lavorato per tre anni come telegrafista ferroviario in Oklahoma. Un incontro casuale con Will Rogers, che lo ascolta cantare, lo ha spinto a tentare una audizione a New York, nel 1929. Prima ha lavorato in una radio di Tulsa, poi è passato subito alla National Barn Dance della Wls a Chicago, incidendo dischi e raccolte di canzoni di buon successo. Nello show della Wls viene ribattezzato «Oklahoma’s Singing Cowboy» e all’epoca il suo repertorio è costituito in gran parte da cover di Jimmie Rodgers (ne registra 28 tra il 1929 e il 1937, e ha come produttore Peer e come casa discografica la Arc di Herbert Yates). Oltre alle cover, durante questo periodo Autry registra canzoni sentimentali (The Tie That Binds), canzoni folk (Methodist Pie), novelty songs (cioè canzoncine umoristiche, in qualche caso ai limiti del nonsense, come Slue-Foot Sue), e perfino una labor ballad (The Death of Mother Jones). Il suo massimo successo è un duetto con Jimmy Long, That Silver Haired Daddy of Mine, una caramellosa dichiarazione di affetto per il vecchio padre. Il repertorio, dunque, è molto eterogeneo. Comunque quando Nat Levine, capo produzione della Republic Pictures, lo sceglie, Autry ha già una fama piuttosto solida nel mondo hillbilly, e un suo autonomo (per quanto ancora astratto) profilo da singing cowboy. Il suo esordio è in una parte minore in un film che ha Ken Maynard come attore principale (In Old Santa Fe [Il mistero del ranch], David Howard, 1934): ma l’esito è così positivo che nel 1935 la Republic Pictures promuove Autry a protagonista di un serial cinematografico in dodici puntate, basato su una trama che mescola spregiudicatamente una storia western con un intreccio fantascientifico (The Phantom Empire)73. Nello stesso anno esce anche il film Tumbling Tum-

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bleweeds, diretto da Joseph Kane, integralmente ambientato nel West, con un buon successo sia della pellicola sia delle canzoni che vi vengono cantate. La carriera di singing cowboy cinematografico di Autry prosegue negli anni seguenti con un gran numero di film; nel 1939 il suo successo è tale che riceve 12.000 lettere alla settimana dai fan, anche se adesso è insidiato da altri attori che recitano come singing cowboys, il principale dei quali è Roy Rogers. Le trame dei film ripercorrono incessantemente sentieri noti, conducendo così una parte almeno della scena hillbilly all’interno dell’immaginario mainstream: il singing cowboy, persona di buon cuore e buoni principi, circondato da un gruppo di amici, alcuni dei quali musicisti pure loro, per caso o per scelta si trova a difendere persone o comunità ingiustamente minacciate dal cattivo di turno, e lo fa con successo. Ora, sebbene non ci sia alcun contributo documentabile della categoria dei cowboy allo sviluppo della musica hillbilly, e sebbene solo poche canzoni a tema western riscuotano un successo significativo, l’immagine del cowboy finisce per affascinare musicisti e fan e dalla fine degli anni Trenta soppianta quella del rozzo zoticone come cifra identitaria della scena hillbilly, che significativamente adesso prende a essere chiamata non solo hill­ billy, ma anche country & western: e qualunque tipo di canzone country & western cantino, i musicisti adottano come loro generale cifra distintiva la «divisa» da cowboy – talora rielaborata in una forma piuttosto fantasiosamente kitsch. 6. Costellazioni hillbilly Radio e cinema, dunque, costruiscono un ponte che conduce la musica hillbilly direttamente nel cuore delle narrazioni egemoni. Tuttavia l’universo musicale e testuale della musica hillbilly si adatta solo in parte alle soluzioni di immagine proposte dai management radiofonici e cinematografici, giacché il suo orizzonte narrativo è assai più variegato, e in qualche misura persino in radicale contraddizione con i valori mainstream. In effetti, se si prende in esame il vasto canzoniere hillbilly degli anni che precedono

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la seconda guerra mondiale si trovano, le une accanto alle altre, canzoni che sembrano appartenere a mondi etici completamente diversi. E così, si possono incontrare inni positivi, che suggeriscono una visione ottimistica della traiettoria vitale e dell’evoluzione dei rapporti personali, affettivi e sociali, come in Keep on the ­Sunny Side della Carter Family: ci sono difficoltà terribili da affrontare nell’esistenza, cantano Sara, Maybelle e A.P. Carter, ed è proprio per questo che dobbiamo cercare di mantenerci «sempre sul lato soleggiato, sempre sul lato soleggiato della vita»74. You Are My Flower, ancora della Carter Family, non è da meno: Sei il mio fiore Che sboccia per me sulla montagna Sei il mio fiore Che sboccia là per me Così metti su un bel sorriso E varrà la pena di vivere Dimentica le tue lacrime E non dimenticarti di sorridere75.

Tipicamente, in una visione positiva dell’esistenza, gli affetti familiari sono centrali, e i musicisti hillbilly li interpretano in una forma piuttosto nettamente gerarchica e, al tempo stesso, sentimentale; in Daddy and Home, del 1928, Jimmie Rodgers canta con aria ispirata questi versi: Stanotte ho sognato una vecchia città del Sud E il miglior amico che abbia mai avuto Poiché sono ormai stanco di andarmene in giro Me ne torno a casa dal mio papà I tuoi capelli si stanno imbiancando E so che stai invecchiando Paparino caro vecchio paparino Me ne sto tornando da te76.

Testi come questi sembrano collocare le narrazioni hillbilly all’interno di uno spazio quanto meno contiguo rispetto agli uni-

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versi etici mainstream. E tuttavia, gran parte della produzione hillbilly va in tutt’altra direzione. Da un lato ci sono diverse canzoni integralmente attratte nell’universo di una religiosità che talora è persino quella del fondamentalismo biblico, come nel caso di The Great Speckled Bird, un inno che difende le ragioni di una confessione religiosa contro le invidie e le critiche delle altre religioni, interpretato nel 1936 da Roy Acuff. Meno esclusiviste, ma non meno enfatiche, sono le canzoni religiose interpretate dalla Carter Family: La tempesta è finita La pericolosa tempesta è finita Sono salvo per sempre Il mio ancoraggio è solido, sono salvo per sempre Quale gioia, quale estasi è la mia Quale gioia, quale estasi è la mia Il pericolo è passato Le acque sono tranquille, il pericolo è passato Alla fine sono ancorato Il mio spirito è felice, alla fine sono ancorato Sono ancorato all’amore divino Sono ancorato all’amore divino77.

Da un altro lato, tuttavia, una notevole quantità di brani hill­ billy esplora un mondo assai particolare per gli standard main­ stream: una sorta di underworld fatto di amori infelici, attraversato da vite senza speranza, accompagnato dall’incessante incombere della morte78. Le storie di amori infelici sono affidate spesso a una voce narrante esterna, che racconta – in genere senza alcuna emozione – storie gotiche non di rado concluse da un finale gore: lei, respinta da lui, lo uccide e, aiutata da altre donne, lo getta in un pozzo; lei, respinta da lui, si uccide e viene ritrovata dai suoi genitori; lei lascia per sempre il marito e il figlio, incantata dalla seduzione di uno zingaro; lui seduce lei, e dopo averla messa incinta, se ne libera affogandola in uno stagno79. Storie di questo genere derivano, sia dal punto di vista musicale che da quello poetico, dalla tradizione folk di origine anglo-scoto-irlandese, e dell’immaginario popolare europeo conservano l’atmo-

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sfera da incubo dark, attraversato come in uno stato di stralunato dormiveglia: Era il dieci di maggio Me lo ricordo bene Proprio la notte in cui il corpo [di Annie] scomparve In un modo che nessuno può raccontare La dolce Annie era amata sia nelle vicinanze sia più lontano Aveva moltissimi amici nei dintorni E in un piccolo ruscello davanti alla porta del cottage Il corpo della dolce Annie venne ritrovato.

Annie e Willie Moore, che tanto l’aveva corteggiata, avevano deciso di sposarsi; ma i genitori di lei avevano proibito il matrimonio e Annie, disperata, si era uccisa; così cantano Burnett & Rutherford in Willie Moore, una canzone del 1927. Quando il punto di vista si sposta e diventa soggettivo, come capita spesso nelle canzoni hillbilly degli anni Trenta-Quaranta, l’influenza musicale e poetica del blues diventa evidente: in uno dei suoi Blue Yodels, Jimmie Rodgers descrive la reazione di un uomo che, lasciato dalla sua donna per un altro uomo, vuole prendere un fucile e sparare a lei, per farla saltare e cadere, e al suo amante, al quale non vuole affatto risparmiare la vita80; in un altro caso Rodgers assume il ruolo di uno che, abbandonato da lei, viene assalito dai «blues», e prima reagisce dicendo che di donne se ne procurerà altre cento, poi, consapevole dell’inconsistenza della spacconata, dice che salirà su un treno per non sentire più nemmeno il nome di lei, andando poi nei pressi di un fiume per vedere di liberarsi col canto da questi «blues» maledetti81. In altri casi ancora la storia vira verso il più calcato melodramma, vissuto sia da una prospettiva maschile che da una femminile. Lei è lasciata da lui e fantasticando pensa: morirò, e dopo che sarò morta, lui tornerà e verserà una lacrima per me, una lacrima sulla tomba di colei alla quale ha spezzato il cuore82. In un’altra canzone lui, abbandonato da lei che se n’è andata con un altro, pensa che morirà e formula tre soli desideri: che lei gli

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procuri una bara, un sudario e una tomba; dopodiché, aggiunge in un muto dialogo con lei: una volta che io sia morto, non versar lacrime per me, ma limitati a baciare le labbra che hai tradito83. Come nel blues, tutta questa costellazione di storie sentimentali infelici diventa una sorta di sublimata metafora per parlare in via indiretta di vite difficili, di famiglie disfunzionali, di disastri economici, sociali e ambientali che non danno tregua. Ma in altri casi, i temi vengono affrontati anche direttamente, e anzi le disaster songs (incidenti ferroviari, stradali, sul lavoro) sono uno dei generi di maggior successo della prima onda hillbilly84. Peraltro anche i temi che hanno a che fare con lo sfruttamento economico e sociale sono intensamente esplorati: migranti che non trovano lavoro; macchine che producono disoccupazione; mezzadri che devono fronteggiare padroni di infinita avidità; minatori che vengono distrutti dalla fatica85. In nessun caso, però, questa sensibilità sociale si trasforma in un’agguerrita coscienza di classe. Disagio, certo; rabbia, anche; persino un evidente rifiuto della favola bella dell’ascesa sociale, sicuro. Ma il tutto è circondato da un ferreo fatalismo, che induce ad accogliere la sconfitta con tetra e cristiana rassegnazione, come in No Depression (1936), della Carter Family: Là fuori i cuori degli uomini stanno venendo meno Perché questi sono i nostri ultimi giorni La grande depressione si sta diffondendo Le parole di Dio hanno deciso che fosse così Sto andando dove non c’è depressione In quella bella terra che è libera dalle preoccupazioni Lascerò questo mondo di duro lavoro e di difficoltà La mia casa è in cielo, sto andando lì In quella terra luminosa non ci sarà fame Né orfani che implorano il pane Né vedove piangenti, lavoro duro e lotta Né sudari, né bare, né morti86.

Peraltro, persone disperate, senza una soluzione politica a portata di mano per alleviare la loro sofferenza, senza alcuna

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possibilità di riscatto che sia alle viste, possono cedere, e abbandonarsi alla delinquenza. Ecco, allora, che nelle storie hillbilly si fa largo una vera e propria parata di hoboes, spostati, ubriaconi, banditi, galeotti che tentano senza successo una loro estrema carta delinquenziale: un furto, una rapina, un’aggressione. Quasi mai c’è una condanna moralistica per il gesto violento87. Assolutamente mai arriva il detective a mettere trionfalmente in carcere il reo e a ricordare a tutti qual è il giusto ordine morale. D’altro canto, non c’è nemmeno una reale partecipazione al dramma: queste storie sono raccontate come una delle tante cose che possono accadere, punto e basta. Può capitare che un treno deragli; può capitare che una macchina sbandi e che i passeggeri siano maciullati dalle lamiere; può capitare che un fiume straripi; e allo stesso modo, può capitare che un tizio ne ammazzi un altro, magari senza che si sappia nemmeno bene per quale motivo, e che finisca sul patibolo, accompagnato dalla moglie dolente, come in John Hardy Was a Desperate Little Man (1928), della Carter Family: John Hardy si incamminò verso la forca Con l’amorevole moglie al suo fianco E le ultime parole che lei ascoltò dal suo povero John furono «Ti incontrerò in quel dolce aldilà».

L’underworld criminale della canzone hillbilly è un mondo esclusivamente maschile. Gli uomini tentano qualche carta disperata e le donne assistono, piangono o sono lontane dai loro compagni imprigionati nel buio di una cella. In ogni caso reagiscono in modo più fiacco, come ricorda Jimmie Rodgers in uno dei suoi versi più maschilisti: «Quando una donna è preda dei blues, abbassa la sua testolina e piange / Quando una donna è preda dei blues, abbassa la sua testolina e piange / Ma quando un uomo è preda dei blues, salta su un treno e se ne va» (Jimmie Rodgers, Train Whistle Blues, 1929)88. Questa visione, modellata intorno all’etica delle sfere separate, trova espressione soprattutto in quelle canzoni, più spavaldamente identitarie, in cui si

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descrive la vita del vero montanaro, o ancor di più la vita del vero cowboy, indurito da un lavoro pesante, ma libero e solitario in groppa al suo destriero. Ora, in una forma che possiede qualche analogia con ciò che accade nei blues, anche nelle musiche hillbilly questa etica è oggetto di una contestazione femminile piuttosto continua. In Single Girl, Married Girl, la Carter Family espone in forme assai dirette il problema: da ragazza la vita ti sorride; dopodiché, quando diventi una moglie, la vita diventa un inferno privo di libertà89. Certo è per questo che Patsy Montana nel 1935 dichiara senza mezzi termini il suo programma: I Wanna Be a Cowboy’s Sweetheart, ma non tanto per lavargli i calzini, quanto per fare le stesse cose che fa lui; e se non fosse stata abbastanza chiara, ribadisce il concetto nel 1937 con I Only Want a Buddy, Not a Sweetheart, una canzone nella quale spiega: Non dirmi che mi ami, dimmi che ti piaccio Niente litigi da innamorati, né due cuori e una capanna Non si tratta di rifiutare la strada dell’amore Semmai continua a ripetermi «Voglio solo un’amica, non un’innamorata».

Non è necessario intravedere in questi testi una consapevolezza protofemminista, che in effetti non c’è, così come nelle canzoni «sociali» non si può intravedere alcuna forma di coscienza di classe, né alcuna – neanche remota – sensibilità per il problema razziale, assolutamente assente da tutto il canzoniere hillbilly90. Piuttosto vi si trova conferma della complessità dell’immaginario hillbilly che è variegato, contraddittorio, «weird», «strano» – come dice Greil Marcus91. O meglio: una parte dell’universo hillbilly è «strana»; perché poi c’è un intero côté che è vicino, per sensibilità etica, sviluppi narrativi e impianto musicale, al mondo delle pop songs di Tin Pan Alley. Non a caso, sin dal 1943, diverse canzoni che nascono come hillbilly vengono riarrangiate e rilanciate come pop songs, e con un discreto successo92. Certo le canzoni scelte per il crossover sono quelle più adatte: le novelty songs come Pistol Packin’ Mama, successo hillbilly riadattato e rivisto da Bing Cro-

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sby insieme alle Andrews Sisters proprio nel 1943; o Chattanoogie Shoe Shine Boy, portata in vetta alla classifica delle vendite da Red Foley nel 1950. Oppure sono le canzoni natalizie, nelle quali si lancia con ottimi risultati di vendita Gene Autry, andando al primo posto delle classifiche pop con Rudolph the Red-Nosed Reindeer (1949). O ancora canzoni sentimentali/malinconiche, come Tennessee Waltz, cantata da Patti Page (1950), e Cold, Cold Heart, che Hank Williams porta al n. 1 nella classifica delle musiche hillbilly/ country nel 1951, mentre contemporaneamente Tony Bennett la conduce al primo posto nella classifica pop. Dopodiché, come abbiamo visto, a questa zona di confine col pop si affianca un vasto spazio dell’immaginario hillbilly nel quale le narrazioni hanno una connotazione etica completamente diversa da quella che è propria dell’orizzonte mainstream. Ciò, ovviamente, non equivale affatto a dire che le contronarrazioni hillbilly (o quelle blues, se è per questo) siano migliori di quelle esplorate nelle pop songs di Tin Pan Alley, o nei film hollywoodiani, o nelle soap radiofoniche, o nei fumetti supereroici. Migliori, no, non necessariamente: ma costruite secondo un codice etico molto diverso, questo, indubbiamente, sì. 7. Folk radicale Il jazz, il blues, la musica hillbilly non hanno una dichiarata valenza politica. Sono lamenti individuali; o descrizioni straniate di eventi più o meno particolari, più o meno dolorosi, che possono capitare in una qualche comunità popolare bianca o afroamericana degli Usa contemporanei, o in un qualche luogo indecifrato di una qualunque parte del mondo. Esprimono emozioni; cercano di coinvolgere; lasciano agli ascoltatori il compito di attribuire un senso alle storie cantate. E in ogni caso da quelle storie non traggono quasi mai delle conclusioni morali, e certamente mai delle conclusioni politiche. Tuttavia, nel panorama folclorico statunitense di questi anni cominciano a emergere canzoni che invece vogliono prendere una chiara posizione politica. In parte sono diffuse da organiz-

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zazioni sindacali radicali, come nel caso del canzoniere degli Industrial Workers of the World, I.W.W. Songs: To Fan the Flames of Discontent, pubblicato a Chicago nel 1923. In parte nascono sul campo – per così dire –, per esempio durante i durissimi conflitti sindacali promossi dai lavoratori tessili di Gastonia (Carolina del Nord), nel 1929, o dai minatori di Harlan County nel Kentucky, in un lungo ciclo di lotte operaie che ha il suo acme più drammatico nel 1931. In queste occasioni, durante gli scioperi o le riunioni dei lavoratori e delle loro famiglie, vengono cantate canzoni che parlano dei fatti che stanno avvenendo o delle ragioni per le quali si sta combattendo, canzoni create da donne e uomini che partecipano attivamente alle battaglie sindacali, come Ella May Wiggins (uccisa a Gastonia in un’imboscata il 14 settembre 1929), Jim Garland, Aunt Molly Jackson, Sarah Ogan Gunning o Florence Reece (tutti coinvolti nelle lotte nella Harlan County)93. Le musiche sono semplici e spesso sono derivate dal patrimonio di canzoni che appartengono alla musica hillbilly, mentre i testi, ovviamente, sono adattati alle esigenze delle lotte sindacali. Negli scioperi di Gastonia e della Harlan County un ruolo cruciale è svolto dalle organizzazioni sindacali (come la National Miners Union) costituite dal Communist Party. La dirigenza del partito, fondato nel 1919, ha deciso di incoraggiare, dove possibile, le lotte sindacali più radicali; ma ha anche scelto di attaccare frontalmente la segregazione razziale, da un lato perché la considera una testimonianza evidente delle distorsioni sociali del sistema capitalistico statunitense, dall’altro perché spera – ove le leggi lo consentano – che tale scelta frutti al partito un buon sostegno elettorale tra la popolazione afroamericana; fra l’altro è per questo che nel 1931 il CP-Usa assicura la difesa legale agli Scottsboro Boys, nove ragazzi neri ingiustamente accusati di aver stuprato due donne bianche in Alabama, un caso che richiama l’attenzione dell’opinione pubblica nazionale94. Tuttavia, a dispetto di questi orientamenti, fino ai primi anni Trenta il CP-Usa non sembra particolarmente incline a ­sostenere e diffondere una musica come quella creata a Gastonia e nella Harlan County: le organizzazioni musicali create dal CP-Usa

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(come la Workers Music League, costituita nel 1931) o quelle fondate da musicologi vicini al partito (come il Composers Collective, fondato nel 1932 da Henry Cowell, Charles Seeger e altri) criticano duramente il carattere semplice e ripetitivo delle musiche blues o hillbilly, che giudicano poco adatte a trasmettere contenuti e spirito rivoluzionari; preferiscono, invece, musiche di impianto modernista, avendo come modello l’opera di Hanns Eisler, un musicista tedesco che ha lavorato con Bertolt Brecht e che nel 1933, con l’avvento del nazismo, è emigrato negli Usa95. Dal 1933 però, sulle pagine dei giornali comunisti, come «New Masses» o «Daily Worker», intellettuali autorevoli, come Mike Gold, o critici musicali, come Lan Adomian, propongono un deciso mutamento di rotta. Nel 1934 Lan Adomian sostiene sul «Daily Worker» che «le canzoni di protesta dei neri, le canzoni di lavoro, le canzoni sulla ferrovia, le canzoni dei cowboy e delle colline... sarebbero un’aggiunta vivace al nostro repertorio»96. E alla fine questa nuova linea si impone, anche perché canzoni dalle forme melodiche più semplici riescono ad avere una maggiore presa sui militanti sindacali comunisti, che non le più astruse costruzioni musicali predilette da Eisler. Da allora fioriscono le iniziative che intendono lanciare musicisti afroamericani o bianchi, meglio se in grado di scrivere ed eseguire canzoni con un contenuto politico manifesto. Un musicista che sembra particolarmente adatto a interpretare la nuova linea del partito è Woody Guthrie, un giovane che viene dall’Oklahoma e che si è fatto un nome in California grazie a una trasmissione radiofonica – The Woody and Lefty Lou Show – prodotta nel 1938-1939 dalla stazione radio Kfvd di Los Angeles, di orientamento radicale. Guthrie vi si è esibito insieme a Maxine Crissman (Lefty Lou) in canzoni hillbilly e tradizionali, che col passare del tempo si sono riempite di testi di critica sociale e politica: Lefty e io – ha dichiarato più tardi Guthrie – cantavamo canzoni che puntavano il dito contro le ricche e pigre case dei sognatori inutili, gli uffici degli imbroglioni, gli alberghi imbottiti dei capi dei rackets, i pezzi grossi, gli accaparratori di terre, ladri di petrolio, latifondisti, poliziotti corrotti,

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sceriffi ubriachi, padroni senza scrupoli, capoccia ladri, tutto quel macello di gente costretto a vivere di paura e avidità sotto il sistema dei monopoli97.

Dal maggio del 1939 Guthrie ottiene anche una rubrica sul «People’s World», giornale comunista di San Francisco, intitolata «Woody Sez», in cui liberamente commenta i fatti del giorno98. Quando nel 1940 si sposta a New York, incontra un ambiente vivace in cui personaggi come Alan Lomax o John Hammond, giovane e brillante produttore discografico, si fanno promotori di iniziative ricche di significato politico e culturale. Due delle più importanti tra queste iniziative vengono organizzate a New York proprio da Hammond il 23 dicembre 1938 e il 24 dicembre 1939, con la sponsorizzazione di «New Masses»: si tratta di due concerti, intitolati From Spirituals to Swing, organizzati presso la Carnegie Hall, che vogliono dare testimonianza dell’evoluzione e della varietà della produzione musicale afro­ americana. Vi partecipano musicisti blues – come Big Bill Broonzy, Big Joe Turner o Ida Cox –, cantanti gospel – come l’eccezionale Sister Rosetta Tharpe –, e orchestre jazz, come quella di Count Basie o quella di Benny Goodman99. Indubbiamente John Hammond è un tipo sveglio. Nel 1933, quando ha solo 23 anni, ha scoperto una cantante afroamericana, Billie Holiday, poco più giovane di lui (18 anni), alla quale – negli anni seguenti – ha fatto registrare numerosi dischi con la Columbia, casa discografica per la quale Hammond lavora100. Nonostante la giovane età, Billie Holiday ha già alle spalle esperienze abbastanza tremende (compresi tre mesi di carcere per prostituzione). E ha un carattere particolarmente spigoloso. Nel 1938, Hammond e Holiday sono ai ferri corti, e lui la esclude dal concerto From Spirituals to Swing. Tuttavia le procura un ingaggio presso un nuovo locale che si inaugura a New York, nel Greenwich Village (West Side, Lower Manhattan), proprio nel dicembre del 1938: il Café Society, di proprietà di Barney Josephson, un commerciante di scarpe di Trenton, New Jersey, di famiglia ebraica e di idee radicali. Il locale, che per primo accetta una clientela mista e che fa esibire artisti sia bianchi sia neri, ha uno

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straordinario successo, anche grazie alla band che vi suona, guidata dal trombettista Frankie Newton, e grazie a Billie Holiday, che interpreta con grandissima intensità torch songs con eleganti arrangiamenti jazz101. Non molto dopo l’apertura del locale Abel Meeropol, un insegnante di inglese, di famiglia ebraica, iscritto al CP-Usa, si fa avanti con Josephson per proporgli una canzone che ha scritto nel 1937. Meeropol, che si firma Lewis Allan, è infatti anche poeta, scrittore e musicista, e vorrebbe che la canzone fosse eseguita da Billie Holiday: si tratta di Strange Fruit, un brano che descrive, con immagini poetiche di grande suggestione, gli effetti di un linciaggio. Meeropol l’ha scritta dopo aver visto su un giornale la foto di un doppio linciaggio avvenuto a Marion, Indiana, le cui vittime sono due giovani neri. Billie Holiday interpreta il brano dal vivo al Café Society, suscitando reazioni di shock e di grande ammirazione: per la prima volta, in modo così diretto, viene descritta una pratica tanto orripilante quanto diffusa, in particolare negli Stati del Sud102. Quando Billie Holiday, visto il successo, intende registrare la canzone, la sua casa discografica, la Columbia, si oppone, timorosa di offendere il pubblico bianco meridionale. Billie Holiday allora si rivolge alla Commodore Records, una piccola casa discografica newyorchese gestita da Milt Gabler. La Columbia dà il permesso per una registrazione extracontratto, e Holiday il 20 aprile 1939 può incidere il disco, che viene lanciato sul mercato il 22 luglio dello stesso anno: le reazioni, questa volta, sono varie; a recensioni quasi insultanti, come quella pubblicata da «Time», se ne contrappongono altre entusiastiche, come quella di Samuel Grafton sul «New York Post». Il disco commercialmente va bene e fa definitivamente di Billie Holiday una delle star dei race records dell’epoca. Pochi mesi più tardi, New York è nuovamente teatro di un’altra importante iniziativa: il 3 marzo 1940 l’attore radicale Will Geer organizza al Forrest Theater il concerto intitolato Grapes of Wrath Evening, in occasione di una raccolta di fondi a favore dei lavoratori migranti della California di cui, come abbiamo già visto, parla l’omonimo libro di Steinbeck; al concerto prendono

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parte musicisti bianchi, come Woody Guthrie, Burl Ives, Alan e Bess Lomax e Aunt Molly Jackson, e musicisti neri come Josh White, i membri del Golden Gate Quartet e Huddie «Leadbelly» Ledbetter103. Guthrie, che ha vissuto personalmente la tragedia del Dust Bowl e della migrazione in California, si sente particolarmente ispirato dal tema. Dopo aver assistito alla versione cinematografica di John Ford, scrive sul «Daily Worker»: Visto il film, ieri sera, Grapes of Wrath, miglior dannato film che abbia mai visto. The Grapes of Wrath parla di noi che ce ne andiamo dall’Oklahoma e dall’Arkansas e giù dal Sud, alla deriva verso lo stato della California, rovinati e amareggiati, a terra e in cerca di lavoro. [...] Dice che dobbiamo unirci e fare riunioni e stare uniti e fare un casino d’inferno finché non ci danno lavoro e non ci ridanno la terra e le case e le galline e il cibo e i vestiti, e i soldi. Va’ a vedere Grapes of Wrath, amico, vallo a vedere e non te lo perdere. Sei tu la star in questo film. Va’ a vedere te stesso, a sentire le tue parole e la tua canzone104.

A distanza di quasi due mesi dal concerto al Forrest Theater, in due sessioni di registrazione tenutesi il 26 aprile e il 3 maggio 1940, Guthrie incide Dust Bowl Ballads, una raccolta di 6 dischi a 78 giri per la Rca Victor, alla quale lo ha indirizzato Alan Lomax. Diversamente da Strange Fruit, le canzoni di Guthrie non hanno un grande successo commerciale, ma sia il «People’s World» che il «Daily Worker» pubblicano recensioni molto positive105. Intanto, sul finire del 1940 un gruppo di giovani cantanti radicali – Pete Seeger, Lee Hays e Millard Lampell – fonda gli Almanac Singers, una band alla quale collaborano, fra gli altri, anche Bess Lomax e Woody Guthrie. Suonano musiche di impostazione militante, in costante polemica col music business, tanto che firmano collettivamente le canzoni e i loro nomi non compaiono sulle copertine dei loro album106. All’inizio sono risolutamente contro la guerra: nel marzo del 1941 incidono Songs for John Doe, un album che contiene una canzone che descrive il sacrificio dell’uomo comune americano, John Doe, con «a bayonet sticking in his side» («una baionetta conficcata nel fianco») senza una vera ragione [Strange Death of John Doe]; una canzone che

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loda Billy Boy, l’oppositore della guerra che si era rifiutato di morire «to defend Republic Steel» («per difendere la Republic Steel») o «for Dupont in Brazil» («per Dupont in Brasile»); una canzone che condanna l’intenzione del governo di «plow under every fourth American boy» («seppellire un ragazzo americano su quattro») come se non fossero «no better than a cotton plant» («meglio di una pianta di cotone») [Plow Under]107.

Le reazioni al disco sono contrastanti: recensioni favorevoli di «Daily Worker» e «New Masses»; negative sulla stampa mainstream (tra cui «Time»); giudizi sprezzanti di Eleanor e Franklin D. Roosevelt; giudizi favorevoli da parte degli isolazionisti di destra. Pochi mesi dopo, sempre nella primavera del 1941, pubblicano il loro secondo album, Talking Union, che fra l’altro contiene Union Maid di Guthrie e Which Side Are You On? di Florence Reece. Nel maggio del 1941 le canzoni pacifiste di Guthrie e degli Almanac Singers sono oggetto di una seduta dell’House Un-American Activities Committee (Huac) – una commissione d’inchiesta parlamentare costituita dal 1938 –, durante la deposizione della informatrice anticomunista Hazel Huffman. Nel numero di giugno 1941 di «Atlantic Monthly», il politologo Carl Friedrich pubblica il saggio intitolato The Poison in Our System, un attacco durissimo a Songs for John Doe, nel quale Friedrich dice che gli Almanac Singers sono «o dei comunisti o al soldo dei nazisti»108. Intanto Guthrie e i suoi amici stanno virando nettamente a favore di una sorta di interventismo democratico. Dopo che il 31 ottobre 1941 un U-boat tedesco affonda il Reuben James, nave della marina statunitense di scorta a un convoglio di pattugliamento neutrale al largo delle coste islandesi (115 marinai morti), Guthrie scrive The Sinking of the Reuben James, accesa canzone di condanna dell’aggressione109. Ovviamente Pearl Harbor (7 dicembre 1941) dà un’ulteriore spinta al cambiamento, sia perché il repertorio pacifista adesso è del tutto vanificato, sia perché la decisione del CP-Usa di impegnare il partito in una linea di non-sciopero a sostegno della guerra, vanifica anche il repertorio che esalta le lotte sindacali110.

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Nell’immediato, la conversione degli Almanac Singers alla guerra patriottica sembra funzionare e frutta loro partecipazioni a trasmissioni radiofoniche e una proposta di contratto con la Decca111. A più lungo termine, però, gli Almanac Singers vanno in crisi, giacché non sanno più bene che tipo di rapporto mantenere col CP-Usa, col pubblico operaio, col loro passato. Ma soprattutto, la loro conversione filobellicista non passa inosservata agli occhi dei commentatori mainstream, che stigmatizzano duramente la loro incoerenza: prima comunisti e pacifisti, adesso patriottici, una giravolta che molti di costoro ritengono opportunistica e strumentale. Le critiche costano caro: gli Almanac Singers perdono il contratto con la Decca e la possibilità di apparire nei programmi radiofonici dell’Owi (Office of War Information, l’ufficio stampa dell’esercito). E queste non sono che le prime avvisaglie di difficoltà politiche che negli anni seguenti si faranno sempre più incalzanti112. 8. Canzoni militanti Se si esamina l’insieme dei brani politicamente impegnati cantati dai musicisti appena evocati, ci troviamo di fronte a tre tipi diversi di narrazione. La meno frequente è quella straniata: una voce narrante esterna descrive, in tono neutro, eventi sui quali non esprime alcun giudizio morale. È una modalità tipica della tradizione hillbilly, che Woody Guthrie conosce bene, e interpreta anche, sebbene raramente, nelle canzoni di maggior impegno politico113. In questo registro narrativo il vertice espressivo è raggiunto sicuramente da Strange Fruit, che però si pone come un caso a parte sia dal punto di vista musicale che poetico. Billie Holiday canta la canzone su una languida base jazz, affrontando il tema del linciaggio, terribilmente inquietante e fin allora sistematicamente rimosso dalla cultura di massa: Gli alberi del Sud hanno uno strano frutto Sangue sulle foglie e sangue alle radici Un corpo nero che ondeggia alla brezza meridionale Uno strano frutto pende dai pioppi.

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Una scena pastorale del galante Sud Occhi fuori dalle orbite e bocca scomposta Profumo di magnolia fresco e dolce E poi l’odore improvviso della carne bruciata. Ecco un frutto beccato dai corvi Raggrinzito dalla pioggia, risucchiato dal vento Marcito dal sole, caduto dall’albero Ecco uno strano e amaro raccolto.

Il testo, che ha una sua struggente nobiltà, non ha bisogno di aggiunte che spieghino il senso morale dello spettacolo che descrive. Oppure sì? Per molti, al Sud, compresi i senatori che più volte hanno bloccato l’approvazione di una legge antilinciaggio, forse le cose non sono così evidenti. Ed allora occorre osservare la finezza delle scelte di Meeropol. Per esempio, non riesco a trattenermi dal pensare che il riferimento alla «scena pastorale del galante Sud» sia non solo una generica allusione polemica alla mitografia letteraria relativa alle classi alte meridionali; ma che sia un riferimento – implicito ma devastante – al best seller di Margaret Mitchell Gone with the Wind, uscito appena un anno prima della pubblicazione di Strange Fruit, con la sua esaltazione del latifondo meridionale, delle gentildonne che vi abitano e dei gentiluomini pronti a difenderne l’onore. Billie Holiday, da parte sua, è capace di un’interpretazione perfetta nel suo integrale minimalismo114. In assoluta coerenza col testo, non ha bisogno di enfatizzare niente: la pronuncia è limpida e rallentata; il tono è dolente, ma controllato; in questo modo raggiunge il massimo dell’intensità, senza trasformare la canzone in un melodramma, «come avrebbe fatto Barbra Streisand»115. Il disco viene lanciato appena qualche mese prima dell’uscita del film tratto dal romanzo della Mitchell (22 luglio 1939, il disco - 15 dicembre 1939, il film): e così il senso delle parole cantate da Billie Holiday si riverbera implacabilmente sulle immagini in technicolor del kolossal hollywoodiano. Ad ogni modo, dal punto di vista testuale, oltre che musicale, Strange Fruit non ha praticamente niente in comune col resto del-

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la produzione militante: nasce negli stessi ambienti, questo sì; ma l’impianto complessivo è decisamente diverso, nel senso che l’elegante minimalismo che è proprio sia del testo, sia della musica, sia dell’interpretazione vocale di Billie Holiday, è sideralmente distante dalla produzione di Guthrie, degli Almanac Singers, e del resto dei musicisti militanti. Musicalmente le canzoni militanti sono di una povertà assoluta: strofe ripetute, al massimo intervallate da un ritornello, su linee melodiche semplicissime, eseguite da una strumentazione acustica più che essenziale. Ma ancor più distante è l’atteggiamento narrativo/etico. Se Strange Fruit non ha bisogno di imporre all’ascoltatore una morale, il folk militante non può trattenersi dal farlo. Chi canta ricorre sempre a una voce narrante che si presuppone abbia una dignità morale superiore a chi ascolta, giacché deve svolgere la funzione didattica di portatrice di un messaggio politico che gli ascoltatori devono capire e introiettare. Quando si canta in soggettiva il pubblico militante si aspetta che il musicista sia «uno di noi», o quanto meno uno che abbia fatto esperienza diretta delle sofferenze di cui parla. È così per Jim Garland, Aunt Molly Jackson, Sarah Ogan Gunning, che hanno partecipato alle lotte dei minatori della Harlan County; è così per Woody Guthrie, che ha vissuto personalmente la migrazione dall’Oklahoma e dal Texas negli anni bui della Depressione e del Dust Bowl, cosicché nelle canzoni che rievocano quella tragedia può effettivamente dare alle sue parole un senso di verità precluso ad altri cantanti. Autenticità, però, non significa necessariamente autobiografismo: con assoluta credibilità, Guthrie può interpretare anche personaggi che non coincidono perfettamente con la sua esperienza di vita, come nel caso di Dust Can’t Kill Me, una delle Dust Bowl Ballads, in cui assume il ruolo di un migrante al quale il disastro ecologico delle pianure centrali ha portato via tutto, compresi gli affetti più cari, ma che nondimeno resiste indomito, un po’ come Ma Joad nel finale del film di John Ford: Quella vecchia tempesta di polvere ha ammazzato il mio piccolo, Ma non me, Signore Con me non ce la fa.

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Quella vecchia tempesta di polvere ha ammazzato la mia famiglia, Ma non me, Signore Con me non ce la fa.

Lo stesso vale per Huddie Ledbetter che, dopo esser stato inserito da Alan Lomax nel circuito della sinistra radicale newyorchese, si mette a scrivere canzoni politicamente impegnate. Tra queste ve n’è una che parla della discriminazione che ha dovuto subire, insieme a sua moglie, quando, nel 1937, invitato a Washing­ton da Alan Lomax per registrare dei brani da includere nell’archivio folclorico della Library of Congress, non è stato accettato da nessun albergo; scrive allora Bourgeois Blues, inciso nel 1938 e donato alla Library of Congress, in cui canta: Patria del coraggioso, terra del libero Non voglio essere maltrattato da nessun borghese Signore, in una città borghese Ah, la città borghese Ho il blues della borghesia E devo far circolare la notizia. Beh, io e mia moglie ce ne stavamo di sopra Quando abbiamo udito il bianco dire: «Non voglio negri là sopra» Signore, in una città borghese Ah, la città borghese Ho il blues della borghesia E devo far circolare la notizia116.

Le canzoni più politicamente dense, tuttavia, si affidano a una voce narrante esterna, che sa come sono andati i fatti, e per questo si colloca su un piano morale superiore a quello dei suoi ascoltatori, che devono essere istruiti, illuminati e guidati verso la verità. È una modalità narrativa tipica del sermone religioso, del testo politico o del comizio pubblico così come ha preso forma nel quadro della «nuova politica» di massa che si è andata delineando sin dall’inizio dell’Ottocento. Tuttavia questa modalità narrativa costituisce uno scarto netto rispetto alla maggior parte della produzione poetica blues o hillbilly, nella quale la voce nar-

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rante è una voce della comunità che non si pone mai su un piano morale superiore rispetto ai suoi potenziali ascoltatori. La verità di cui si parla, nel canzoniere radicale, si fonda su una visione semplice e nettamente dicotomica (ma sarebbe meglio dire manichea) della struttura sociale: buoni, da una parte, cattivi, dall’altra; oppure, nel lessico di Guthrie, working folks da un lato, bankers, landlords e preachers, dall’altro. O con noi, o contro di noi, che è poi il senso di un’appassionata canzone come la già ricordata Which Side Are You On?, scritta da Florence Reece nel 1931 e incisa dagli Almanac Singers nel 1941: Mio papà era un minatore Ed io sono la figlia di un minatore E starò col sindacato Finché ogni battaglia non sarà vinta. Tu da che parte stai? Tu da che parte stai?

Le storie raccontate in queste canzoni devono essere esse stesse passion plays, cioè dei racconti dotati di una loro evidente verità etica, che però viene rimarcata in forma didattica, cosicché la libertà interpretativa di chi ascolta viene ridotta solo all’alternativa secca tra accettare o rifiutare in toto. La struttura appare particolarmente evidente nel caso delle agiografie degli «eroi», cioè dei personaggi offerti alla memoria e al culto laico dei militanti. In questo caso, secondo un dispositivo retorico che nasce nel XIX secolo, si evocano individui costretti a una morte ingiusta che li trasforma in martiri politici. È questo il caso delle canzoni che Guthrie dedica a Sacco e Vanzetti, tra le quali Two Good Men, in cui la storia della terribile ingiustizia giudiziaria che nel 1927 ha condotto all’esecuzione capitale dei due anarchici italiani si conclude con il tipico ammonimento militante: Voi gente dovreste essere come me E fare come Sacco e Vanzetti E ogni giorno impegnarvi nella lotta Col sindacato per i diritti dei lavoratori117.

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Non meno didattica è una canzone scritta nel 1930 dal drammaturgo e poeta radicale Alfred Hayes, e musicata nel 1936 da Earl Robinson, Joe Hill, in cui il fantasma del leader sindacale, giustiziato – probabilmente a torto – nel 1915, torna e predica le buone ragioni della lotta per i lavoratori, spiegando direttamente che un martire non muore mai quando vive nella memoria della sua comunità: Ho sognato di vedere Joe Hill l’altra notte, Vivo come te e me Gli dico: «Ma Joe, tu sei morto da dieci anni» «Non sono mai morto», ha detto lui «Non sono mai morto», ha detto lui.

Fin qui, l’orizzonte di queste canzoni è quello proprio dei principali movimenti politici ottocenteschi, come il nazionalismo o il socialismo. Ma in qualche caso, bizzarramente, la struttura etica delle narrazioni mainstream si insinua nella prospettiva militante (anche se – ovviamente – nel quadro di una strategia politica che ha obiettivi molto diversi: l’abbattimento della società capitalista; l’edificazione di una società più giusta; ecc.). Questa torsione appare evidente in una canzone che Guthrie dedica a una donna del movimento sindacale e comunista; la canzone, che si intitola Union Maid, viene scritta da Guthrie nel maggio del 1940, quando, dopo essersi recato a Oklahoma City, viene ospitato, con Pete Seeger, a casa di Ina e Bob Wood, due militanti del CP-Usa. Ina critica i due musicisti perché non cantano mai delle donne del movimento dei lavoratori e Guthrie reagisce con una nuova composizione basata sulla melodia di una canzone tradizionale, Red Wing, che parla di una squaw che ama tanto il suo nobile guerriero, e ne aspetta trepidante e preoccupata il ritorno che mai avverrà, perché lui cade in uno scontro combattuto molto lontano dall’accampamento. Nella canzone di Guthrie il melodramma si rovescia nel profilo di una specie di Wonder Woman sindacale che però, diversamente dalla supereroina dei fumetti, riesce anche a costruirsi una famiglia felice:

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C’era una volta una ragazza del sindacato che non aveva paura di nessuno [...] Questa ragazza del sindacato era abituata ai tranelli orditi dalle spie [della compagnia Non era facile metterla nel sacco neanche per gli infiltrati della compagnia, Riusciva sempre a organizzare i ragazzi L’aveva sempre vinta quando lottava per un salario migliore Mostrava la sua tessera a quelli della Guardia Nazionale E poi diceva loro «Oh no, non mi fate certo paura, io sono una del sindacato Sono una del sindacato, una del sindacato Oh no, non mi fate certo paura, io sono una del sindacato Sono una del sindacato finché vivrò». E voi ragazze che volete essere libere, ascoltate questo consiglio Trovatevi un uomo che sia un uomo del sindacato e unitevi alle volontarie La vita matrimoniale non è dura se hai in tasca la tessera del sindacato E poi uno del sindacato vive una vita felice se ha una moglie nel sindacato118.

Dall’amore coniugale al moralismo più puritano, in nome della rispettabilità sindacale, il passo è breve, e gli Almanac Singers lo compiono con Get Thee Behind Me, Satan, inciso nell’album che contiene anche una loro versione di Union Maid (Talking Union, 1941): Il capo viene con un biglietto da cinque dollari E mi dice: «Procurati un po’ di whisky, ragazzo, e fatti una bevuta» Vattene, Satana Smamma Sono un sindacalista E ti lascerò alle mie spalle Una donna dai capelli rossi mi porta fuori a cena E mi dice: «Fai l’amore con me, e dimenticati del sindacato» Vattene, Satana Smamma Sono un sindacalista E ti lascerò alle mie spalle.

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E così via, perché il vero sindacalista sa resistere tanto alle tentazioni della carne, quanto a quelle che gli fa balenare il politico corruttore o l’imprenditore disonesto. 9. Mappe dell’audience Il 23 febbraio del 1940, stanco di sentire alla radio Kate Smith che canta l’inno di Irving Berlin, God Bless America, Guthrie decide di scrivere un controinno, inciso nel 1944, This Land Is Your Land. La canzone ha acquistato nel tempo una celebrità «anfibia»: senza due delle strofe centrali si è trasformata in un inno alla maestà del panorama americano, e così è stata spesso usata nelle scuole o in luoghi pubblici con intenti patriottici; con le due strofe, una contro la proprietà privata, e una di denuncia della disoccupazione, è diventata una bandiera della sinistra radicale. Ora, al di là di questi aspetti, pur importanti, ce n’è un altro ancora che vale la pena di osservare. Come capita spesso a Guthrie e a tutti i musicisti dell’universo musicale blues, folk o hillbilly, se il testo è originale, la musica non lo è, ed è copiata di peso da altre canzoni. «Amore e furto», direbbe Bob Dylan, più tardi anche lui protagonista di operazioni di questo genere. Ed è una pratica che all’epoca è largamente accettata. Il modello da cui Guthrie attinge è interessante. Si tratta della linea melodica di due canzoni originariamente incise dalla Carter Family: la prima – Little Darling Pal of Mine, incisa nel 1928 – è una triste canzone d’amore; la seconda, che è il vero modello originario, è intitolata nella versione della Carter Family, incisa nel 1930, When The World’s on Fire, ed è un gospel a contenuto religioso. Dalla Bibbia al libretto rosso delle canzoni di protesta, si potrebbe dire... E il punto rilevante è proprio che a un esempio come questo se ne potrebbero affiancare decine di altri. Così come decine e decine sono le cover incrociate di canzoni che nascono come blues o hillbilly, e che poi sono cantate rispettivamente da cantanti bianchi o da cantanti neri. Il reticolo degli scambi intertestuali è fittissimo; e non può sorprendere, poiché i musicisti di questo universo musicale si conoscono, si frequen-

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tano, si scambiano informazioni, si ascoltano gli uni con gli altri alla radio o sui dischi, e mescolano matrici e modelli, superando avanti e indietro la «linea del colore» che divide le comunità afroamericane da quelle bianche. E sebbene spesso le musiche abbiano una architettura diversa, le storie raccontate, e l’atteggiamento col quale sono raccontate, seguono coordinate spesso assai simili. L’eccezione più evidente è costituita dai testi delle canzoni militanti, che impiegano una retorica molto diversa rispetto alle liriche blues o hillbilly; tuttavia – come mostra l’esempio di This Land Is Your Land – anche queste canzoni possono essere legate musicalmente – in forma diretta o indiretta – sia al blues, sia al gospel, sia alla musica hillbilly. Ma, a dispetto del fitto reticolo intertestuale che lega questi diversi stili, fino agli anni della seconda guerra mondiale essi continuano ad appartenere a circuiti comunicativi nettamente distinti: salvo rarissime eccezioni, i luoghi in cui si eseguono queste musiche, il pubblico dei concerti, gli acquirenti dei dischi sono razzialmente o politicamente separati. Musicisti neri eseguono gospel o blues per un pubblico nero; musicisti bianchi eseguono musica hillbilly per un pubblico bianco; il folk militante, sostenuto dal CP-Usa, attira un pubblico di militanti fedele anche se quantitativamente ridotto119; e se ci sono dei crossover, di solito vengono rimossi o negati: quando, nel 1927, il brano Chattanooga Blues, eseguito dagli Allen Brothers, un duo di musicisti bianchi che suonano musica hillbilly, viene per errore inserito dalla casa discografica Columbia nel catalogo dei race records, i due musicisti minacciano di fare causa per danno d’immagine120. E così tutte queste contronarrazioni restano, di fatto, isolate le une dalle altre, confermando a pieno la geografia razziale e sociale degli Usa alla vigilia della seconda guerra mondiale. E proprio per questo, al momento, non sono in grado di minacciare, nemmeno lontanamente, l’egemonia delle musiche e delle narrazioni mainstream. Del resto, se la separatezza è la cifra essenziale di questi particolari stili musicali, quasi l’esatto contrario vale invece per la cultura di massa mainstream. Le sue produzioni sono pensate

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per rimuovere o ignorare i confini di classe, di etnia, di orientamento politico, di età, offrendosi, in questi anni di crisi, come una panacea per tutti coloro che hanno bisogno di un qualche tipo di sollievo, di un raggio di speranza, di un’illusione di futuro. In linea generale, le produzioni mainstream di questi anni non si rivolgono a pubblici specializzati; il cinema, soprattutto, è pensato come un prodotto per famiglie, se non per individui di tutte le età. Certo, qualche accenno di articolazione e di specializzazione comincia a vedersi: una delle più innovative produzioni dell’epoca, la soap opera, come abbiamo già visto è concepita – per l’orario in cui le puntate vengono messe in onda, per la forma organizzativa della narrazione, per la disposizione delle figure principali – come un prodotto orientato soprattutto verso le ascoltatrici. Ma questo è un esempio che, per il momento, resta ancora isolato. Piuttosto, adesso è molto più importante la struttura intermediale delle produzioni mainstream, poiché l’attraversamento trasversale di media e generi rende le narrazioni universalmente adattabili a diversi segmenti di pubblico; un fumetto che abbia come protagonista Flash Gordon, pubblicato su un giornale o su un comic book, attira quasi esclusivamente l’attenzione di un pubblico di adolescenti; ma un radiodramma centrato sullo stesso eroe può interessare l’intera famiglia, magari su richiesta dei più giovani; e un lungometraggio che abbia quello stesso eroe come protagonista non attira solo un pubblico di adolescenti, ma può attrarre anche delle giovani coppie, se non addirittura intere famiglie con padre, madre e i loro bambini piccoli. Certo, termini come «le ascoltatrici» o «gli adolescenti», e simili, sono macrocategorie che mettono forzatamente insieme persone diversissime tra loro per collocazione sociale, etnica, geo­grafica o religiosa, specie in relazione a una società vasta, complessa e differenziata com’è quella americana tra anni Trenta e Quaranta. Il che ci dà la misura della forza attrattiva che la cultura di massa riesce a esercitare, suscitando le curiosità o accendendo i sogni di donne e di uomini che, talora, hanno formazioni ed esperienze di vita molto diverse tra loro.

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Ma quanto diverse, in realtà? L’analisi di un segmento importante del pubblico verso il quale si rivolgono le produzioni mainstream, quello dei «giovani», mostrerà non solo le potenzialità conformistiche della comunicazione di massa, ma anche gli spazi di autonomia creativa che si aprono – quasi sempre del tutto a sorpresa –, creando esperienze controcorrente alle quali molti osservatori coevi rispondono abbandonandosi ripetutamente a una isterica sequenza di moral panics.

IV Un mondo giovane e inquieto

1. Essere giovani negli States I giovani e le giovani negli States tra gli anni Trenta e la seconda guerra mondiale, dunque; oppure – come si comincia a dire in questi anni – i/le «teenager»1. Ma chi sono? Che cosa fanno? E da quale mentalità sono guidati? A queste domande, così generalizzanti, proprio in questi anni viene data una risposta che nella comunicazione giornalistica si impone come un’indiscussa verità di senso comune. Ciò accade intanto per l’influente intervento di autorità scientifiche riconosciute, come il sociologo Talcott Parsons, che in un saggio del 1942 (e poi in altri articoli successivi) descrive il mondo giovanile, in particolare quello raccolto nelle high schools (cioè, le scuole superiori), come uno spazio sociale relativamente compatto al suo interno, dotato di rituali, pratiche e valori propri che lo separano nettamente dal mondo degli adulti2. Si tratta di una prospettiva che influenza molto la stampa di informazione, nel senso che i media mainstream sono prontissimi a riprendere e sviluppare l’idea di un ideale mondo giovanile come un ambiente omogeneo e armonicamente distinto da quello delle generazioni più anziane; nel dicembre del 1944 «Life», che dedica un ricco servizio fotografico a un gruppo di giovani ragazze di Webster Groves, Missouri, introduce le immagini della sua photo story con queste parole:

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C’è un’epoca nella vita di ogni ragazza americana in cui la cosa più importante al mondo è essere parte del gruppo delle altre ragazze e comportarsi e parlare e vestire esattamente come fanno loro. Questa è la teen age. All’incirca 6 milioni di adolescenti americane vivono in un mondo tutto loro – una società graziosa, allegra, entusiasta, buffa e beata, quasi non sfiorata dalla guerra. È un mondo di maglioni e di gonne e calzini e mocassini, di capelli lunghi, di montature per gli occhiali laccate di rosso, di coetanei non ancora partiti per la guerra. È un mondo ancora rispettoso dei genitori che sono amici, anche quando le ragazze usano troppo a lungo il telefono. È un mondo fatto di Eneide di Virgilio, di lingua francese, di geo­metria piana, di giochi in classe, di hockey su prato, di scherzi «scemi» e di accenti ostentati. È un mondo di pijama parties e di Hit Parade, di burro di noccioline e di popcorn e di infinite collezioni di menu e di scatole di fiammiferi e di animaletti di peluche3.

Nelle righe seguenti, l’articolo ricorda che il mondo delle teen­ager è fatto di mode mutevoli, e anche di esclusioni per chi non le segua con adeguata prontezza, anche se il tutto è descritto con una certa fatua leggerezza: niente che non possa essere rimediato facilmente; niente che non rientri in una rassicurante normalità. In parte questa immagine ha un suo fondamento, giacché è vero che un miglior processo di scolarizzazione tende a mantenere più a lungo nel tempo i ragazzi e le ragazze all’interno di circuiti di sociabilità composti quasi esclusivamente da pari età; a scuola, e in realtà anche fuori dalla scuola, i giovani tendono a frequentare altri giovani, e a vedere gli adulti (genitori, insegnanti, datori di lavoro) come una sorta di «altro da sé». Tuttavia il quadro proposto – a diversi livelli – da Parsons e da «Life» contiene anche degli elementi di distorsione: intanto non tutti i giovani sono nelle high schools, poiché molti abbandonano la scuola dopo l’ottava classe (che è l’ultima del ciclo scolastico inferiore) o poco dopo aver cominciato il curriculum superiore; il che comporta una più alta segmentazione nelle forme di aggregazione giovanile, dato che a fianco della sociabilità scolastica si delinea una vivace e variegata sociabilità di strada; in secondo luogo, anche l’ambiente delle high schools o – per chi prosegue ancora gli

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studi – quello dei college è segnato da profonde separazioni e da acute fratture relazionali. Sin dagli anni Settanta-Ottanta dell’Ottocento gran parte degli Stati degli Usa ha portato l’obbligo scolastico ai 14 anni4. Inoltre all’inizio del XX secolo, sotto la suggestione dei lavori di G. Stanley Hall e John Dewey, un articolato movimento di riforma del sistema scolastico, guidato spesso da imprenditori, giornalisti e politici locali, si è mosso per riorganizzare completamente l’intera costellazione delle high schools5. Dietro queste iniziative non c’è solo la forza di una retorica democratica (peraltro smentita in molti modi nella società e all’interno dello stesso sistema educativo): c’è piuttosto il progetto di togliere dalle strade adolescenti privi di controllo, che spesso vengono da famiglie di recente immigrazione, e che – a torto o a ragione – sono consi­ derati come dei potenziali delinquenti; c’è la richiesta di personale qualificato per le industrie e per le amministrazioni pubbliche e private; e c’è il culto dell’ascesa sociale, che spinge molti genitori a convincersi che una migliore educazione può consentire ai propri figli di ottenere lavori più gratificanti e retribuzioni più alte6. E così, dal 1870 al 1910, le high schools crescono da 500 a 10.000, mentre i loro curricula educativi si rinnovano integralmente. Le high schools finanziate dagli Stati e dalle comunità locali vengono prevalentemente riorganizzate come istituti comprensivi, all’interno dei quali gli studenti possono scegliere se seguire un curriculum preparatorio al college, di formazione generale o professionalizzante7. Dopo la fine dell’orario scolastico, che si protrae sino al primo pomeriggio, i ragazzi e le ragazze possono restare a scuola anche nel tardo pomeriggio per partecipare a varie attività parascolastiche (dal giornale della scuola, agli allenamenti delle squadre sportive, alle prove del gruppo di recitazione o di musica, ecc.)8. La crescita globale della frequenza nelle high schools statunitensi rimane costante anche in periodi particolarmente sfavorevoli. È quel che accade, per esempio, negli anni della Grande Depressione, quando molte famiglie decidono che è meglio tenere

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i figli a scuola piuttosto che lasciare che ciondolino inutilmente intorno a casa, o che scappino su qualche treno alla ricerca disperata di una vita propria; cosicché anche in questa fase gli iscritti aumentano stabilmente: nel 1920 erano il 23% sul totale della popolazione di età compresa tra i 15 e i 19 anni; nel 1930 sono il 41%; nel 1940, il 57%9. Si tratta di una scelta che è attivamente incoraggiata dall’amministrazione Roosevelt, che nel 1935 istituisce la National Youth Administration, un’agenzia che nel corso dei suoi otto anni di vita si occupa di sostenere economicamente i ragazzi o le ragazze di famiglie disagiate con borse di studio e finanziamenti ad hoc10. Sebbene siano risultati significativi, e molto migliori rispetto a quelli conseguiti dai sistemi scolastici superiori europei, resta vero che, nonostante tutti questi sforzi, circa il 50% dei ragazzi e delle ragazze di età compresa tra i 15 e i 19 anni è fuori della scuola, o perché dopo l’ottava classe interrompe il curriculum scolastico, o perché, pur essendosi iscritto in una high school, non completa il curriculum fino al diploma. Anche più selettivi sono i college e le università. Dagli anni Venti fino allo scoppio della seconda guerra mondiale si registra una crescita piuttosto modesta delle iscrizioni, dal 3 al 13% sul totale della popolazione compresa tra i 20 e i 24 anni11. All’epoca, conseguire un diploma universitario può aprire la strada verso le libere professioni, o verso la carriera manageriale, accademica o diplomatica, con la conseguenza di ottime retribuzioni e di un apprezzabile livello di vita; ma il costo delle iscrizioni è molto alto, sia nelle università pubbliche che nelle private, e in questo periodo le istituzioni statali non concedono alcun tipo di sostegno allo studio, cosicché questa strada finisce per essere accessibile solo a giovani che provengono da famiglie di classe medio-alta12. La maggior parte dei ragazzi e delle ragazze che abbandonano precocemente la scuola cercano di procurarsi un qualche tipo di impiego. Le loro possibilità dipendono molto dalla collocazione sociale e dal radicamento locale della famiglia di provenienza. In genere, le famiglie di origine di questi ragazzi sono piuttosto

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povere e non di rado gravemente disfunzionali: un padre che se n’è andato o che è disoccupato e alcolizzato; o una madre tossica o sopraffatta dal lavoro per mantenere famiglie a volte molto numerose; o una varia combinazione di queste eventualità, in un contesto complessivo culturalmente depauperato13. I ragazzi e le ragazze che vengono dalle famiglie più disastrate, quando la loro condizione sia localmente conosciuta, difficilmente trovano impieghi qualificati, o stabili, o a lungo termine, poiché i potenziali datori di lavoro li scartano a favore di altri giovani che sembrano dare garanzie di maggior affidabilità. Ma anche costoro, cioè quelli che vengono da famiglie più stabili ed economicamente più solide, negli anni immediatamente successivi alla crisi del 1929 fanno fatica a trovare offerte di lavoro, anche le più umili e le meno retribuite. Se sono disoccupati, e comunque nel loro tempo libero dal lavoro, i ragazzi passano pochissimo tempo in casa, e formano piccoli gruppi che stazionano all’angolo di una strada del quartiere nel quale abitano, o in un locale delle vicinanze (un bar, il negozio di un barbiere, una stanza in un edificio abbandonato). Se abitano in zone urbane periferiche, possono ritrovarsi in capannoni dismessi o in aree ancora disabitate, dove accendono falò, e vi si riuniscono intorno per giocare a dadi, bere alcolici (di contrabbando, durante il proibizionismo) e talora fare uso di qualche droga14. I gruppi amicali di strada che si formano sono molto numerosi e di varia dimensione; Frederic M. Thrasher, in un suo fondamentale studio sociologico sulle gang giovanili nella Chicago dei primi anni Venti, ne conta 1.313, per un totale stimato di 25.000 ragazzi che vi partecipano a vario titolo e per vari periodi; le dimensioni di questi gruppi possono oscillare dai 3-4 membri fino ai 15-2015. Le gang giovanili sono molto segmentate, nel senso che sono divise per appartenenza etnica, per quartiere, per confessione religiosa (anche se ci sono pure gang di strada che radunano ragazzi di estrazione mista)16. Ciascuna gang cerca di dotarsi di segni di riconoscimento identitari, in genere nomi collettivi, luoghi di ritrovo, qualche tipo un po’ particolare di attività; qualche gang si trasforma anche in un’associazione formale, per esempio

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un athletic club, con una sede nella quale – oltre a pianificare le attività sportive – si svolgono le consuete attività socievoli (giocare d’azzardo, fumare, bere, o semplicemente stare insieme a passare il tempo chiacchierando)17. In alcuni casi i ragazzi delle gang adottano abitudini che sono al confine tra atteggiamenti conformistici (darsi da fare per sostenere il boss politico del quartiere) e gesti di ribellione antiestablishment (minori attività vandaliche o iniziative effettivamente delinquenziali)18. Le risse contro gang di altri quartieri che vogliono violare i confini del «territorio» sono frequenti, e possono scoppiare se la posta in palio è concreta (gang di spacciatori che vogliono ampliare il proprio raggio d’azione), ma anche se è simbolica (far vedere chi ha più coraggio, chi è più audace, insomma chi è il più macho)19. La lealtà verso la propria gang è fondamentale nella socialità di strada; tuttavia vale la regola che quando uno comincia a frequentare stabilmente una ragazza, o a maggior ragione quando uno si sposa, abbandona la gang, perché entra in un’altra prospettiva di vita che conduce verso il vero e proprio mondo degli adulti20. Con ciò appare chiaro che – per molti ragazzi – l’appartenenza alle gang è una sorta di status temporaneo che accompagna il passaggio dall’infanzia all’età adulta, anche se coloro che fanno parte di gruppi amicali che si dedicano a piccole attività delinquenziali possono poi restare permanentemente nel mondo delle gang criminali vere e proprie per tutto il resto della loro vita21. Raramente nelle gang di strada ci sono anche delle ragazze; altrettanto rare – anche se attestate – sono le gang composte da sole ragazze. Whyte, a conclusione della sua ricerca sulle gang di un quartiere italoamericano di Boston, condotta tra il 1936 e il 1940, osserva: Con il passar del tempo cominciai ad accorgermi che, a differenza di quella dei giovani, la vita delle ragazze locali non era né interessante né piacevole: un ragazzo era completamente libero di girare e bighellonare, ma una ragazza non poteva trattenersi per le strade. Le ragazze trascorrevano infatti il loro tempo in casa, o presso amiche e parenti, o sul luogo del lavoro, se ne avevano uno. Molte sognavano a occhi aperti un giovanotto non di Corner-

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ville, con un po’ di denaro, un buon lavoro e una certa educazione, che le chiedesse in moglie e le portasse via da quel quartiere22.

Talora, nel loro tempo libero le ragazze di estrazione popolare tendono a riunirsi in piccoli gruppi e a frequentarsi a casa ora dell’una ora dell’altra, costruendo un sistema valoriale basato su una intensa frequentazione dei popular media (per esempio le riviste per adolescenti come «Seventeen»)23. In tal modo la cultura delle ragazze tende a celebrare aspetti della femminilità – amore romantico, moda, bellezza – che sono una parte essenziale del sistema di valori mainstream24. Tuttavia ci sono occasioni sociali – nel fine settimana, in particolare – in cui possono uscire in gruppo e andare a divertirsi nei locali da ballo o nei juke joints frequentati dai ragazzi del quartiere o anche da estranei al quartiere o alla città25. Le gang di strada sono un fenomeno essenzialmente urbano, con una territorialità molto rigida, specificamente legata al quartiere nel quale si abita e si è cresciuti. Una connotazione territoriale molto diversa, e continuamente cangiante, hanno altri gruppi di giovani che, essendo orfani o in fuga da famiglie disfunzionali, abbandonano la scuola e si uniscono alle comunità itineranti degli hoboes – i lavoratori avventizi migranti – o entrano nelle «giungle» urbane degli homeless. La Hobohemia – cioè la comunità dei lavoratori vaganti o degli homeless urbani – è assai variegata per età ed estrazione etnica; nondimeno, secondo Nels Anderson, autore di un pionieristico studio sul fenomeno, è anche uno spazio nel quale gruppi differenti di persone – in particolare afroamericani e bianchi – talora riescono a coabitare senza riprodurre le tensioni razziali e le gerarchie sociali che vigono nella società mainstream; e se c’è una frattura sociale evidente, essa distingue marcatamente gli outsiders dagli insiders, cioè le persone «normali» dai membri della Hobohemia26. Ciò non toglie che le traiettorie percorse da coloro che entrano nella Hobohemia possano essere varie: e così si oscilla tra chi continua, per tutta la vita, a spostarsi di città in città in cerca di lavoro, viaggiando clandestinamente sui vagoni merci dei treni o su altri mezzi di fortuna, e chi, invece, sperimenta questa esperienza

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solo per un breve periodo della propria vita, per poi trovare una qualche forma di stabilizzazione. Con la Grande Depressione questa seconda soluzione diventa particolarmente difficile, e il fenomeno dei perenni migranti assume dimensioni di massa, travolgendo non solo singoli individui isolati e sradicati, ma anche intere famiglie che negli anni precedenti avevano avuto una stabile collocazione economica e sociale che però è stata distrutta dalla crisi economica o dal disastro ecologico del Dust Bowl. Molto più fortunati di costoro sono i ragazzi e le ragazze che frequentano le high schools, che mediamente sono di estrazione sociale superiore, sia in generale, sia per quanto riguarda la coorte di quelli che completano gli studi sino al diploma di maturità27. Il che non significa che l’ambiente delle high schools sia psicologicamente riposante, giacché la struttura relazionale interna alle high schools dà vita a una mappa della sociabilità che è molto frastagliata e gerarchica. Nelle scuole si formano molti gruppi di ragazzi e ragazze, che sono gerarchicamente distinti per il prestigio che la comunità degli studenti e le autorità scolastiche attribuiscono loro. La fondamentale linea di demarcazione che distingue i diversi gruppi amicali è di carattere sociale ed etnico. I gruppi sociali più popolari, più apprezzati dalle autorità scolastiche, più influenti nel dettare le mode interne alla scuola, sono composti – nella loro grande maggioranza – da ragazzi e ragazze che vengono da famiglie di classe medio-alta; i gruppi meno popolari sono invece composti da ragazzi di estrazione sociale inferiore28. Nel caso (raro) di high schools collocate in quartieri etnicamente compositi, è quasi impossibile che ragazzi e ragazze della comunità afroamericana, o messicana, o cinese, possano entrare nei gruppi amicali più in29. Talora – e soprattutto nei college – la frammentazione relazionale non è affidata solo al libero strutturarsi dei rapporti informali, ma è regolata anche dall’affiliazione ad associazioni formalizzate (le fraternities e le sororities), distinte per genere, per gruppo etnico, per confessione religiosa, per estrazione socioeconomica o per una varia combinazione tra queste diverse variabili30. Le distinzioni sociali si esprimono attraverso sistemi di valori che incorporano atteggiamenti e comportamenti specifici. In

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linea generale, i gruppi di élite passano una buona parte del loro tempo libero a scuola, anche dopo la fine dell’orario scolastico, impegnati in attività sportive (le squadre di basket, football o baseball sono molto importanti nella socialità scolastica), nella redazione del giornale della scuola o dell’annuario scolastico, nella organizzazione del team delle cheerleader, nei gruppi di lettura o nelle prove dei gruppi musicali o teatrali. Il tipo di attività svolte segue, tuttavia, una rigida linea di genere: affinché un ragazzo con l’estrazione sociale giusta sia anche popolare, deve essere di aspetto piacevole, deve essere un atleta di successo e deve avere la macchina. Per le ragazze, invece, è importante essere carine e vestite nel modo giusto, far parte del gruppo delle cheerleader, avere una personalità positiva e una buona reputazione. Per entrambi i gruppi, i buoni risultati scolastici non sono particolarmente significativi per essere considerati popolari, anche se sono necessari per chi vuole proseguire il training educativo e andare al college o all’università31. Il sistema relazionale nelle high schools è estremamente crudele (molto più di quanto non ammetta il giornalista di «Life» nell’articolo del 1944). A volte i maltrattamenti subiti, insieme ad altri fattori economici e sociali, possono indurre qualche ragazzo o qualche ragazza ad abbandonare la high school per andare a cercarsi precocemente un lavoro. Naturalmente, nel «gioco» dell’in e dell’out, le differenze di classe (ricchezza, educazione, rispettabilità familiare) contano moltissimo; ma lo stile può contare altrettanto, talora anche a prescindere dalla sua associazione col livello socioeconomico della famiglia. Una delle testimonianze raccolte da Hollingshead, nella sua ricerca su 735 adolescenti di una piccola città dell’Illinois (1941-1942), dà la misura della violenza psicologica dei meccanismi di selezione; a parlare è la figlia di un contadino benestante, che ha abbandonato la high school urbana che aveva cominciato a frequentare per mettersi a lavorare in campagna con i suoi genitori: Voglio dirle una cosa su quella scuola. Tutti i ragazzi sono distribuiti in piccoli gruppi. Queste gang si formano nella settima o nella ottava clas-

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se [quindi nelle ultime classi del ciclo scolastico inferiore] e proseguono nella high school. Se sei in una gang, sei a posto, ma se non lo sei, sei messa al margine. Quando ho iniziato la high school, mi sono sentita perduta. Non conoscevo nessuno, ad eccezione di Harry Swenson. [...] Ho cercato di fare amicizia con qualche ragazza, ma non ci sono riuscita. Mi hanno fatto sentire indesiderata. Durante la quarta settimana di frequenza, ho sentito Anne Hogate chiamarmi «quella contadinotta». A quel punto me ne volevo andare subito, ma mamma mi ha fatto continuare per qualche settimana. Poi papà ha detto che se volevo abbandonare potevo farlo, e io ho mollato32.

Naturalmente, i gruppi di élite hanno anche una loro socialità extrascolastica, importante – come per tutti gli altri – soprattutto nei fine settimana: allora, la scelta dei bar o dei cinema da frequentare è egualmente ispirata alle strategie della distinzione che caratterizzano la struttura generale della socialità scolastica, giacché questi ragazzi e ragazze vanno nei bar più chic o nei cinema che proiettano prime visioni e hanno biglietti che costano di più; oppure organizzano feste private egualmente molto selettive; o anche feste sponsorizzate dalla scuola (tra cui importante il Prom di fine anno) che, richiedendo un abbigliamento molto formale, finiscono egualmente per essere di fatto socialmente esclusive33. I gruppi di studenti e studentesse socialmente o etnicamente marginali, invece, tendono a sviluppare una socialità centrifuga rispetto alla scuola; evitano le attività parascolastiche pomeridiane; si riuniscono nei bar o nei juke joints meno eleganti; non di rado hanno rapporti con ragazzi e ragazze che non frequentano le high schools, sia perché non si sono mai iscritti, sia perché hanno abbandonato i corsi poco dopo l’iscrizione. In qualche caso, la socialità di questi gruppi marginali imita quella delle gang di quartiere; oppure, attraverso la frequentazione con ragazzi o ragazze delle gang di quartiere, gli studenti o le studentesse più marginali entrano definitivamente in quest’altro universo di sociabilità34. 2. Convergenze culturali Hollingshead descrive in questo modo le differenze di mentalità che connotano i teenager che fanno l’esperienza delle high s­ chools da quelli che le abbandonano:

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Il complesso culturale proprio delle classi sociali superiori prepara i ragazzi e le ragazze che vi appartengono [e che frequentano la high school] a rispondere positivamente a situazioni competitive come quelle che connotano gli esami o i test di intelligenza. L’esperienza proietta su di loro un bisogno di realizzazione personale che si esprime nella loro costante ricerca del successo, insegnando loro sin dall’infanzia ad affrontare ogni nuovo ostacolo e a superarlo al meglio delle loro possibilità. [...] Viceversa, l’adolescente che viene da una classe sociale disagiata è stato esposto a una famiglia e a una mentalità nella quale il fallimento, l’inquietudine e la frustrazione sono comuni. A casa non è stato preparato a dare il meglio di sé nelle prove scolastiche. I suoi genitori non gli hanno instillato l’idea secondo cui deve ottenere buoni risultati scolastici se vuole avere successo nella vita. Inoltre, la scuola [che ha un impianto duramente classista] non lo aiuta a superare la povera educazione ricevuta a casa o nel vicinato35.

Si tratta di una descrizione che enfatizza le differenze culturali che derivano da una distinta collocazione di classe, e Hollingshead vi giunge al termine di una ricerca analitica brillante e persuasivamente documentata. Tuttavia, queste divergenze formative sono controbilanciate dal fatto che sia i diversi gruppi amicali delle high schools che quelli dei giovani delle gang di strada sono egualmente esposti all’impatto della cultura di massa, che valorizza potentemente il momento del consumo e del tempo libero rispetto a quello della produzione e del lavoro: del resto è proprio nel tempo libero, nelle attività svolte al di fuori del momento del «dovere» (compiti scolastici; compiti lavorativi) che una giovane persona dell’uno o dell’altro mondo sociale costrui­ sce veramente la sua identità, la sua popolarità, il suo modo di rapportarsi agli altri. La vera popolarità scolastica, per i ragazzi e le ragazze della high school, si costruisce nel doposcuola (sport, redazione del giornale, team delle cheerleader, giri in macchina, consumi culturali – dischi, radio, cinema); viceversa, nessuno, nemmeno i ragazzi o le ragazze che vogliono andare al college e che vanno bene a scuola, cita il buon successo scolastico come un tratto identitario importante o positivo36. Analogamente, i ragazzi e le ragazze che hanno abbandonato la scuola considerano il lavoro non tanto come una vocazione, secondo la declinazione più esigente dell’etica protestante,

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ma soltanto come un mezzo per ottenere i soldi da spendere nel momento più significativo, quello del tempo libero37. Dopodiché, che in qualche caso vi siano gang giovanili che possono spingere questo tipo di etica fino a considerare la possibilità di delinquere per ottenere più rapidamente i soldi necessari a realizzare sé stessi (una possibilità, si badi bene, non la regola), è una questione che può porre naturalmente problemi di ordine pubblico, o che può separare socialmente i giovani delinquenti dagli altri; ma non cambia la gerarchia dei valori simbolici di riferimento38. La considerazione vale anche per i rapporti di genere che sono molto tradizionali in tutti gli ambienti giovanili. Il machismo delle gang di strada è strutturale e molto evidente: i ragazzi possono circolare liberamente nel quartiere, e devono mostrare la loro abilità e la loro forza quando gli è richiesto (quando devono scontrarsi con un’altra gang; quando devono scappare per sottrarsi a una retata della polizia). Viceversa, la forza fisica non è richiesta alle ragazze, a meno che non siano dei «maschiacci», quindi con caratteristiche non particolarmente apprezzate nella scala dei valori delle gang di strada. In questi ambienti vale, in modo rigoroso, la doppia morale che vige anche nella società adulta: i ragazzi possono spassarsela un po’, mentre alle ragazze è chiesto un comportamento ossessivamente morigerato. Non appena hanno un po’ di soldi, i ragazzi si comprano una macchina, di solito usata: in una serata-tipo, tre o quattro ragazzi in macchina se ne vanno in giro per vari locali, magari con una puntata alla città vicina, tanto per vedere chi c’è e se riescono ad agganciare qualche ragazza; se poi ne «rimorchiano» qualcuna, vanno da qualche parte per bere qualcosa, e poi – se le ragazze sono d’accordo – si fermano in aperta campagna per un qualche tipo di intercorso sessuale39. Se la relazione non ha alcuno sviluppo, le ragazze che hanno partecipato alla serata rischiano di vedersi bollate con un qualche epiteto ingiurioso che le mette al margine della socialità di quartiere come «ragazze facili». Se, viceversa, sono state in grado di tenere a bada i ragazzi, e hanno acconsentito a farsi baciare o a fare petting «sopra la cintura», conservano una loro rispettabilità, e magari può anche darsi che

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l’avventura di una sera possa trasformarsi nel going steady, cioè in una relazione permanente che porta quasi sempre a matrimoni molto precoci, spesso accelerati da gravidanze impreviste40. Nel contesto delle high schools, invece, i rapporti erotico-affettivi sono organizzati piuttosto attraverso il cosiddetto dating system. Si tratta di un sistema che si fonda su una serie di regole abbastanza semplici: un ragazzo invita formalmente una ragazza a uscire; non c’è controllo dei genitori, e quindi non ci sono accompagnatori o chaperons; ci vuole, tuttavia, per le ragazze, l’autorizzazione formale dei genitori; economicamente, l’uscita ricade sulle spalle del ragazzo che deve avere una macchina a disposizione; il cinema è una destinazione standard, ma possono esserlo anche i locali da ballo; la rotazione degli appuntamenti è alta, nel senso che si cambia partner molto spesso41. Il dating system è una soluzione relazionale apprezzata dai ragazzi e dalle ragazze, che considerano ovvio che si possa cambiare partner frequentemente, senza che in ciò si veda niente di male42; viceversa il going steady (cioè, il fare coppia fissa) è criticato da tutta la «migliore» comunità scolastica, ragazzi e ragazze in, genitori di classe alta e insegnanti, come una pratica troppo connotata socialmente, poiché diffusa tra i ragazzi e le ragazze di classe bassa o tra gli afroamericani, e troppo pericolosa perché induce a eccessive intimità erotiche. Ciò non significa che il dating system non comporti alcuna attività erotica: al contrario, è chiaro che uscire in coppia per andare al cinema, in un locale, o in una sala da ballo, è una pratica che non è mai disgiunta da un certo grado di intimità erotica. Naturalmente, anche in questi contesti, fin dove spingersi col petting è una questione dirimente per l’etica adolescenziale, che è rigorosamente monitorata dai gruppi amicali ai quali si appartiene. Anche qui, la regola fondamentale è quella del doppio standard: le ragazze «facili», che «vanno fino in fondo» e che notoriamente «non sono più vergini», hanno una bassa reputazione, e vengono estromesse dai gruppi più in; le ragazze che «sanno tenere a bada i partner», partecipando a pratiche erotiche di vario tipo, purché non comportino la deflorazione e non siano troppo pubblicizzate in giro, sono le più ammirate e rispettate. Viceversa, i ladies’ men,

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cioè i ragazzi che hanno storie con molte ragazze diverse, in genere sono al top della considerazione di tutti43. Ma fino a che punto ci si spinge davvero? All’epoca la questione non è esplicitata in nessun modo. Ma i dati che vengono offerti dalla doppia inchiesta di Alfred Kinsey sulla sessualità maschile (edita nel 1948) e sulla sessualità femminile (edita nel 1953) gettano retrospettivamente luce su ciò che – presumibilmente – molti ragazzi e molte ragazze fanno negli anni che precedono la seconda guerra mondiale. Dalle risultanze del suo lavoro, Kinsey arriva alla conclusione che per il campione di maschi che ha studiato (5.300 uomini bianchi) la masturbazione e il petting eterosessuale sono virtualmente universali; all’incirca 2/3 dei maschi intervistati hanno avuto intercorsi sessuali prematrimoniali e il 50% ha poi avuto anche intercorsi sessuali extramatrimoniali; 1/3, infine, ha avuto esperienze omosessuali. I 3/5 delle femmine intervistate (5.940 donne bianche) praticano la masturbazione, il 90% ha accettato di fare petting, la metà ha avuto intercorsi sessuali prematrimoniali e 1/4 ha avuto intercorsi sessuali extramatrimoniali44. Il che significa che i comportamenti effettivi divergono drammaticamente dall’etica pubblica che domina la socialità giovanile, sia nelle high schools che tra le gang di strada; e significa anche – sia per i ragazzi, sia, soprattutto, per le ragazze – vivere in uno stato di terrificante tensione, giacché ciò che si fa effettivamente nella comunità dei pari status, e ciò che si dice di fare, sono due realtà che possono contrastare terribilmente e avere ricadute molto pesanti sugli uni e sulle altre45. Peraltro, qualunque siano le esperienze erotico-affettive vissute dai teenager, le strade di maschi e femmine divergono sempre. Sia che non completino gli studi liceali, sia che arrivino al diploma e proseguano con i corsi universitari, i maschi hanno di fronte a loro un obiettivo chiaro: cercare un lavoro (posto che le condizioni economiche consentano loro di trovarlo) e, in subordine, farsi una famiglia. Per le ragazze, gli obiettivi sono rovesciati: qualunque sia l’esito del training educativo (ammesso che ne pratichino uno), la prospettiva è quella di sposarsi, stare a casa e occuparsi del marito e dei figli, abbandonando ogni attività lavorativa, nel caso ne ab-

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biano trovata una46. Questa, almeno, è la retorica che domina – in forma anche un po’ isterica – negli anni della Depressione, quando vengono perfino introdotte norme che limitano le assunzioni delle donne sposate47. Rotocalchi, saggi di autorevoli «esperti», film di successo, come per esempio Woman of the Year (La donna del giorno, George Stevens, 1942, con Spencer Tracy e Katharine Hepburn), una brillante commedia romantica, o Mildred Pierce (Il romanzo di Mildred, Michael Curtiz, 1945, con Joan Crawford), un melodramma a tinte dark, stigmatizzano duramente, o sbeffeggiano allegramente, le ambizioni professionali dei personaggi femminili48. L’opinione pubblica plaude, almeno secondo le risultanze di un sondaggio realizzato negli anni Trenta, secondo il quale il 78% degli intervistati, maschi e femmine, approva l’idea che le donne sposate debbano starsene a casa49. In realtà, la tendenza sul mercato del lavoro è un po’ diversa, e contrasta con questi orientamenti normativi, in particolare per le ragazze di classe medio-bassa che si ritrovano sposate con un operaio, o un manovale, o un contadino e che hanno bisogno di far quadrare il bilancio familiare: costoro devono abbandonare per sempre i sogni da Cenerentola e trovarsi un lavoro, mentre al tempo stesso si occupano della casa, del marito e dei figli. Le donne sposate che hanno un’occupazione crescono dal 12% sul totale delle maritate nel 1930 al 15% nel 194050; e in totale, negli anni Trenta, l’occupazione femminile cresce dal 25% delle donne adulte al 27,6%51. Non si tratta comunque di un segnale che testimoni di una qualche forma di emancipazione: i lavori riservati alle donne sposate sono di bassa qualità (per esempio, donne delle pulizie nei grandi uffici, con turni di lavoro nelle ore notturne; oppure una vasta gamma di lavori impiegatizi di livello inferiore); inoltre nel 1939, a parità di mansioni, le donne guadagnano il 59% di quello che guadagnano gli uomini52. Soluzioni di questo genere confermano la mentalità dominante secondo la quale le donne che lavorano lo fanno perché ne hanno un assoluto bisogno o sono motivate da una perversa spinta carrieristica, mentre le femmine ideali sanno «mettere la testa a posto», abbandonando le loro ambizioni a favore di una

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«giusta» collocazione domestica, che è di solito proprio quello che fanno le ragazze delle high schools: magari sono state brillanti a scuola; magari hanno completato gli studi superiori, preso il diploma di high school, iniziato l’università... e poi si ritrovano sposate e messe di fronte all’alternativa tra un matrimonio stabile e una carriera; e così, alla fine, la maggior parte di loro sceglie di abbandonare ogni ambizione professionale. Le convergenze culturali che connotano i diversi mondi giovanili, a volte tanto diversi da non sfiorarsi nemmeno dal punto di vista relazionale, non dovrebbero sorprendere, giacché il tipo di cultura diffusa che circonda sia i ragazzi e le ragazze delle high schools, sia quelli che frequentano la socialità di strada, è in effetti molto simile. I media più seguiti (che sono il cinema, la radio, i fumetti, i dischi) veicolano i miti e i sistemi narrativi fondamentali che innervano la cultura mainstream, e sono apprezzati trasversalmente da tutti i diversi segmenti della cultura giovanile53. Tanto i ragazzi delle high schools che quelli delle gang di strada costruiscono la loro identità su immagini di mascolinità eroica e vincente, trasmesse dai film hollywoodiani o dai fumetti supereroici, anche se gli uni le declinano nella direzione di un civismo conformistico e gli altri – magari – nell’esibizione della forza e dell’audacia richiesta in qualche rissa o in qualche trasgressione minore (rubare la benzina a una macchina; o un’automobile; o oggetti di maggiore o minor valore in qualche negozio)54. Tanto le ragazze delle high schools che le ragazze che hanno abbandonato precocemente la scuola sognano di riuscire a diventare, prima o poi, una cantante, o una ballerina, o un’attrice come Joan Crawford o Claudette Colbert. Tra le ragazze di classe bassa, in particolare, è molto diffuso il sogno di un evento miracoloso, in stile Cenerentola, che le porti a sposare un ricco gentiluomo o che le faccia diventare attrici di successo55. 3. Identità controcorrente Ora, il fatto interessante è che all’interno di questo universo si nota anche l’emergere di comportamenti nettamente divergenti, sia che vogliano rimarcare la distanza di uno specifico gruppo

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giovanile dalla società degli adulti, sia che vogliano esprimere una alterità più profonda e radicale rispetto ai valori egemonici che dominano nella società americana. Significativamente, tale alterità si esprime attraverso particolari scelte culturali che vogliono costruire uno stile distintivo: scelte di consumo, di abbigliamento, di comportamento nell’impiego del tempo libero. In alcune delle gang giovanili studiate da Thrasher sono molto popolari jail songs o crime songs di derivazione folk-hillbilly, in cui si cantano i destini nefasti di qualche tragico antieroe56. Si tratta di una cultura musicale che è condivisa anche dai giovani hoboes, che vivono una vita molto particolare e molto distante da quelle dei giovani che hanno un setting familiare più o meno stabile. Va notato, però, che gli hoboes, per quanto li riguarda, non hanno alcun interesse a costruirsi delle strategie della distinzione che li differenzino particolarmente dagli altri e che – in qualche misura – «li mettano in mostra»; anzi la vita che hanno scelto, i quartieri urbani che frequentano, i mezzi che usano per spostarsi tendono a sottrarli sistematicamente alla vista degli altri. Nonostante ciò, proprio in questi anni, la figura dell’hobo comincia a conquistarsi una sua dignità culturale; molte canzoni hillbilly o blues ne raccontano ansie e sofferenze, e per questo sono popolari anche nella Hobohemia; d’altronde, i primi resoconti giornalistici che ricostruiscono le vite di artisti o musicisti girovaghi, come la Carter Family o Huddie «Leadbelly» Ledbetter, proiettano un alone romantico intorno a queste figure; ed infine, con i devastanti effetti della Grande Depressione, l’Hobohemia ottiene anche una sua dolente proiezione letteraria e iconografica, per esempio attraverso le foto di Dorothea Lange, diverse delle quali corredano gli articoli per il «San Francisco News» (5-12 ottobre 1936) che Steinbeck dedica agli Harvest Gypsies, cioè ai contadini senza terra costantemente in movimento alla ricerca di un lavoro. Su una scala ancora più ampia operano nella stessa direzione romanzi come The Grapes of Wrath dello stesso Steinbeck, o film come la già ricordata traduzione cinematografica del romanzo, realizzata da John Ford, o canzoni come quelle cantate da Woody Guthrie.

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Se gli hoboes – giovani o adulti che siano – sono più un oggetto di una costruzione culturale che non i protagonisti di una loro propria consapevole strategia della distinzione, lo stesso non può dirsi per altri tre gruppi giovanili particolari, che in questi anni si conquistano una loro speciale visibilità: i pachucos californiani; alcuni gruppi di giovani afroamericani; e alcuni gruppi di giovani e giovanissime ragazze. (1) Se la barriera etnica più dolorosamente vistosa negli Usa è quella che separa le comunità bianche da quelle a­ froamericane, altre forme di segregazione e discriminazione colpiscono anche altre minoranze, tra cui la comunità messicana, addensata soprattutto in California del Sud, dove da tempo molte famiglie sono emigrate dal Messico per lavorare nelle miniere e nelle campagne. La crisi economica ha indotto molte di queste famiglie a trasferirsi, e in una certa misura a disperdersi, a Los Angeles; lì i pachucos e le pachuquitas, cioè i ragazzi e le ragazze della comunità (in particolare quelli nati e cresciuti negli Usa), si trovano, in qualche misura, sospesi tra due mondi: né ben integrati nella comunità di origine, piuttosto in disfacimento; né accettati nella società bianca. La loro risposta è quella di creare delle gang giovanili proprie, e di segnare i confini sociogenerazionali che li separano dal resto della società con l’adozione di un abbigliamento particolarmente vistoso, lo zoot suit57. Probabilmente è il primo esempio evidente di una subcultura giovanile che costruisce strategie della distinzione attraverso scelte di consumo particolarmente bizzarre, e tuttavia dotate di un senso simbolico chiaro: distinguersi dagli altri ed esprimere un proprio mondo di valori58. L’abbigliamento che prende il nome di «zoot suit» è composto da pantaloni abbondanti in vita e stretti in fondo, con giacche piuttosto lunghe e cappelli a tesa molto larga: il modello è l’abbigliamento dei gangster o dei musicisti jazz, solo che i pachucos lo estremizzano molto, sia nelle fogge dei vestiti, sia nei colori dei tessuti, che sono sempre molto brillanti; l’insieme viene completato da scarpe bicolori e da una pettinatura in stile duck tail, ovvero con i capelli imbrillantinati, portati indietro, e

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pettinati sulla nuca in due onde convergenti al centro. Anche le pachuquitas hanno una loro elaborata cifra stilistica, particolarmente provocatoria: indossano gonne al ginocchio e camicette, portano rossetto rosso scuro e mascara nero, ed esibiscono un atteggiamento sfrontato e aggressivo, che non nasconde certo la loro attrattiva erotica59. Abbigliamento vistoso e atteggiamento sfrontato, con una citazione dei comportamenti o delle scelte estetiche di outsiders come i mafiosi o i musicisti jazz, impiegati da giovani di una comunità etnica emarginata, non sono fatti per suscitare l’apprezzamento di una società profondamente razzista: e difatti la stampa locale accusa in blocco i pachucos di far parte di gang delinquenziali, di far uso di marijuana, di essere coinvolti in gravi episodi criminali. Le tensioni, che si accumulano tra fine anni Trenta e inizio anni Quaranta, alla fine esplodono dopo l’ingresso degli Usa in guerra. L’occasione è offerta da una norma che nel 1942 – per risparmiare sull’impiego dei tessuti – proibisce la produzione di vestiti ampi come quelli richiesti dallo zoot suit. Nonostante ciò, i giovani pachucos californiani continuano a procurarsi clandestinamente e a esibire pubblicamente le loro mises. Intanto a Los Angeles arrivano migliaia di soldati e di marinai dell’esercito, in attesa di partire per la guerra. Alcuni di costoro ritengono che i vestiti eccessivi indossati dai pachucos in un periodo di razionamento dei tessuti a causa della guerra siano poco meno che uno sberleffo antipatriottico: l’animosità che ne nasce è certamente alimentata non solo da questa considerazione, ma anche dai profondi pregiudizi razzisti di molti soldati bianchi. Dal 3 giugno del 1943, per i dieci giorni seguenti, lo stato di tensione esplode in una serie di aggressioni – una vera caccia all’uomo – che gruppi di soldati bianchi, coadiuvati da civili locali, scatenano contro i pachucos (e occasionalmente anche contro neri e filippini) incontrati per le strade di East Los Angeles, mentre la polizia non fa niente, e l’opinione pubblica bianca – nella maggior parte dei casi – plaude. Alla fine la polizia interviene e riesce a sedare i tumulti anche se, paradossalmente, in carcere o sotto giudizio ci finiscono più pachucos che soldati. Quanto allo zoot suit, il comu-

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ne di Los Angeles il 9 giugno lo proibisce del tutto: «se possiamo arrestare le persone perché sono poco vestite allora possiamo farlo anche se sono troppo vestite»60. (2) Appena pochi giorni più tardi, le tensioni che hanno investito i pachucos si scaricano anche contro i gruppi di giovani neri, duramente segregati al Sud e scarsamente integrati anche nelle grandi città del Nord. Alla fine di giugno del 1943 a Detroit scoppiano durissimi scontri tra migliaia di giovani bianchi e neri; ad agosto scoppia una rivolta a Harlem, New York, a causa del diffondersi della notizia falsa dell’uccisione di un soldato nero da parte di un poliziotto bianco; e altri scontri occasionali si registrano a Filadelfia, San Diego e Chicago. Certo non sono episodi nuovi; altre race riots sono scoppiate nelle grandi città americane nei decenni precedenti, mentre la discriminazione legale e l’aggressione illegale con la tecnica del linciaggio sono una realtà permanente in tutti gli Stati del Centro-Sud-Est. Notoriamente, le comunità afroamericane rispondono allo stato permanente di segregazione legale o informale, fra le altre cose, anche con un’impressionante creatività musicale e coreutica. Non si tratta solo del blues che, come abbiamo visto, è uno stile musicale che resta confinato all’interno delle comunità afroamericane, ma soprattutto del jazz e delle danze costruite intorno agli stili jazz che si susseguono sin dall’immediato primo dopoguerra. Dopo la prima guerra mondiale, infatti, una sezione piccola ma significativa del pubblico bianco ha cominciato a frequentare locali dove si mettono in scena spettacoli di varietà con artisti e musicisti neri; è in questa fase che si diffonde per la prima volta la moda di danze di derivazione afroamericana, come il charleston. Nel corso degli anni Venti e Trenta l’interesse per il jazz cresce, anche se resta ancora limitato ad ambiti geosociali piuttosto circoscritti, in particolare le grandi città, come New York o Chicago, dove un pubblico bianco di estrazione sociale medio-alta va ad ascoltare questa musica in locali nei quali è vietato l’accesso a clienti neri. Nei suoi gusti il pubblico bianco è comunque molto selettivo, poiché l’apprezzamento maggiore va

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a chi, come Paul Whiteman (bandleader bianco di una jazz band composta da musicisti bianchi), esegue lo sweet jazz, cioè un jazz sinfonico connotato da un ampio impiego di arrangiamenti classici, un invadente utilizzo degli archi e una assoluta minimizzazione delle improvvisazioni e della componente ritmica61. Intanto, però, nei quartieri e nei locali frequentati dai neri, e in particolare dai giovani neri, qualcosa sta rapidamente cambiando, giacché sono molti quelli che a New York, a Chicago, a San Francisco, cominciano ad apprezzare piuttosto l’hot jazz, uno stile suonato da band guidate da musicisti sia bianchi che neri, come Benny Goodman, Artie Shaw, Tommy Dorsey, Glenn Miller, Count Basie o Duke Ellington, che non impiegano alcuna strumentazione classica, usano ritmi veloci e fanno un largo spazio alle sezioni ritmiche (percussioni e contrabbasso)62. Ciò che i ragazzi e le ragazze delle comunità nere apprezzano particolarmente in questa musica è che si presta a esser ballata con stili di danza esuberanti e allegramente fisici (Fig. 2). Balli come il jitterbug, lo shag, il Lindy Hop, il Susie-Q, il ­boogie-woogie63 si trasformano ben presto in un doppio simbolo identitario: poiché sono balli evidentemente derivati dalle tradizioni coreutiche afroamericane, diventano un forte segno di appartenenza comunitaria; inoltre, siccome sono balli che possono essere danzati solo da giovani coppie, dato che la rapidità dei movimenti e la creatività delle figurazioni risultano fisicamente proibitive per gente di età più avanzata, creano una frattura generazionale all’interno delle comunità. Oltre a ciò, consentono anche di fare una cosa estranea alla cultura bianca di derivazione europea: ovvero permettono di vivere la musica con il corpo, incoraggiando i ballerini a costruire figure di una sensualità che colpisce l’immaginazione dei giornalisti bianchi, che descrivono le nuove danze con un linguaggio spesso appesantito da sovratoni razzisti – tipo «contorsioni degne di tribù primitive», o «selvaggi rituali della giungla». Il fatto che le nuove danze siano ballate soprattutto in locali frequentati da giovani neri, il più famoso dei quali è il Savoy Ballroom di Harlem (New York), non fa che esasperare le critiche, giacché fra le altre

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cose in quei locali – come scrivono per esempio i giornalisti di «Life» – le giovani coppie nere si abbandonano a incontrollate e sconvenienti intimità64. La critica razzista si trasforma in stridula isteria quando si ha la sensazione che questi atteggiamenti «barbarici», propri dei giovani neri, stiano «contagiando» anche un numero imprecisato, ma giornalisticamente rilevante, di adolescenti bianchi delle grandi città, incantati dalla moda delle nuove danze: anche per loro il jitterbug sembra avere un particolare significato identitario e generazionale che già turba molti benpensanti; ma oltre a questo aspetto, in diversi commenti dell’epoca si fa strada l’ossessiva inquietudine per la dannosa «perversione» che la cultura musicale africana porterebbe con sé, inducendo i giovani bianchi ad abbandonarsi a comportamenti incontrollati e sessualmente allusivi. Il fatto che, spesso, le danze di derivazione afroamericana che attirano i giovani bianchi siano ballate in ambienti etnicamente e socialmente segregati tranquillizza, almeno in parte, i benpensanti, che tuttavia trovano presto ben altre questioni che alimentano le loro ansie. (3) Il 3 marzo 1937, alle sette del mattino, i musicisti della Benny Goodman Orchestra che si incontrano al Paramount Theater di New York per le prove del concerto che si sarebbe tenuto più tardi in giornata si trovano di fronte a uno spettacolo sorprendente: le biglietterie non sono ancora aperte, e nonostante ciò c’è una fila di sei o settecento fan, in gran parte studenti e studentesse di high school, desiderosi di procurarsi il biglietto per uno dei 3.664 posti del locale. Più tardi, quando il concerto ha inizio, il pubblico scatta in piedi e «comincia a ballare impazzito nelle corsie e ad ammassarsi sotto il palco mentre le maschere cercano di riportare l’ordine con le buone e con le cattive»65. Scene di questo tipo continuano a ripetersi nelle repliche, e soprattutto, su scala anche più imponente, quando Goodman e i suoi suonano alla Carnegie Hall, nel gennaio del 1938. Il fatto di trovarsi nel tempio della musica classica non trattiene né i ragazzi né le ragazze presenti: tutti si muovono sui sedili, si dondolano,

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fischiano, gridano66. Le giovani, poi, non si limitano a esternare il loro entusiasmo per la musica che ascoltano urlando e ballando: come ricorda il sassofonista di Benny Goodman, Art Rollini, [le ragazze] ci facevano segno, poi tanti single della band indicavano alle fanciulle di aspettarli all’uscita degli artisti. La posta delle fan arrivava a pacchi a tutti i membri della band, corredata dei loro numeri di telefono67.

Il Paramount Theater di New York sembra il luogo propizio per lo scatenamento di questi «strani» comportamenti. Il 30 dicembre del 1942 Frank Sinatra inizia da lì la sua stagione di concerti. Sinatra, che all’epoca ha 27 anni, ma ne dimostra molti di meno, è l’idolo dei ragazzini e soprattutto delle ragazzine. Canta canzoni che parlano di amori romantici, privi di una precisa contestualizzazione sociale o temporale, con una voce calda e sensuale. La sua musica non sembra tale da dover scatenare alcuna reazione particolarmente marcata: è perfettamente in linea con la tradizione musicale di Tin Pan Alley, fatta di canzoni prive di scansione ritmica, sostenute da ingombranti arrangiamenti orchestrali, con testi sentimentali di scarso spessore narrativo. E nondimeno, tanto basta a suscitare l’entusiasmo soprattutto delle giovani fan, che sono talmente prese dalle canzoni di Sinatra da indossare la cravatta a farfalla che all’epoca è la cifra distintiva del cantante; e poiché – secondo la moda dell’epoca – le ragazzine indossano anche i calzini corti («bobby socks»), sono collettivamente indicate col soprannome di «bobbysoxers»68. Nel corso dei concerti che Sinatra tiene al Paramount Theater, sia nel dicembre del 1942 che, di nuovo, nel maggio del 1943, gli spettatori e le spettatrici si mettono a battere i piedi, agitandosi sui sedili, alzandosi e applaudendo ancora prima che il pezzo sia concluso. Ma sono soprattutto le ragazzine – che gridano a squarciagola coprendo perfino la voce del cantante – a fare sensazione. In origine, questo particolare modo di manifestare entusiasmo viene in effetti indotto dallo staff del cantante, che ha assunto un gruppo di ragazze alle quali ha affidato il compito di gridare per l’entusiasmo durante l’esecuzione dei brani, tanto per «scaldare l’ambiente»:

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ma in realtà non ce n’era bisogno – hanno ricordato anni dopo gli addetti stampa di Sinatra –. Le decine di ragazze che pagavamo per urlare e sdilinquirsi facevano esattamente come gli avevamo detto noi, ma altre centinaia che non avevamo pagato urlavano anche più forte. Altre squittivano, ululavano, baciavano le sue foto con le labbra sporche di rossetto e lo tenevano prigioniero in camerino tra uno spettacolo e l’altro al Paramount Theater di New York. Era una cosa selvaggia, folle, totalmente fuori controllo69.

Da allora, il Paramount Theater diventa una sorta di tempio di questo nuovo culto di massa, la cui devozione rimbalza tra il sentimentalismo pop di Sinatra e il nuovo stile jazz, lo swing, di cui Benny Goodman e altri sono i portabandiera. E così, nell’aprile del 1943, durante un concerto di Harry James, trombettista e bandleader di un’orchestra swing che peraltro ha inciso anche con Sinatra, le giovani si dimenano estasiate sulla poltrona, si muovono in modo convulso ogni volta che Harry James «le manda al settimo cielo»... si alzano dal posto, travolgono le preoccupate maschere e si mettono a ballare nelle corsie moquettate. Ore dopo, uscendo, centinaia di ragazze, le Hep Jills, lasciano impronte di rossetto sul vetro che protegge la foto della band nell’atrio70.

Su scala ancora più grande, questo spettacolo si ripete il 12 ottobre 1944, quando Sinatra si esibisce per la terza stagione di concerti al Paramount. Il fotogiornalista Weegee (Arthur Fellig), che all’epoca lavora per il «New York Daily News», descrive così la giornata: La fila sulla Broadway di fronte al Paramount Theater inizia a formarsi a mezzanotte. Alle quattro del mattino ci sono più di cinquecento ragazze... in calzini corti (ovviamente), cravattini (come quello che porta Frankie) e foto di Sinatra spillate al vestitino71.

Quando inizia lo spettacolo, la voce di Sinatra viene quasi integralmente coperta dalle grida delle spettatrici. Intanto all’esterno del teatro, in Times Square, si radunano diverse migliaia di altre ragazze che protestano perché non sono riuscite a entrare. Bruce Bliven, direttore di «The New Republic», scrive che si tratta

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di un fenomeno di isteria collettiva che si può vedere solo due o tre volte in un secolo. Bisognerebbe risalire non solo a Lindbergh e a Valentino per capirlo, ma ai balli folli in certi villaggi tedeschi nel Medioevo oppure alla Crociata dei bambini72.

In linea generale, questi comportamenti sono forme rituali che manifestano una distinta identità generazionale: tributare una specie di culto al musicista che fa ballare danze che solo i giovani possono affrontare, o al cantante che è praticamente giovane quanto te, significa rimarcare un processo di allontanamento e di estraneità rispetto al mondo dei «grandi», degli «adulti», dei «vecchi»73. Ma per le ragazze c’è qualcosa di più. Perdere il controllo, gridare, svenire, muoversi freneticamente in massa – hanno scritto Ehrenreich, Hess e Jacobs che hanno studiato il fenomeno della «Beatlemania» – è un modo per manifestare in forme esplosive tutta l’insofferenza nei confronti delle regole che condizionano l’espressione dell’identità e della sessualità femminile74. Come abbiamo visto, peraltro, non c’è bisogno di aspettare i Beatles – come fanno Ehrenreich, Hess e Jacobs – per osservare le manifestazioni di esaltazione delle giovani fan. Il fenomeno comincia adesso, tra la fine degli anni Trenta e l’inizio degli anni Quaranta75. Ma l’interpretazione delle tre studiose conserva comunque il suo interesse. Certo non mi spingerei fino a dire, come fanno loro, che quei comportamenti sono «la prima drammatica espressione della rivoluzione sessuale femminile», una valutazione che comporta un’imputazione di consapevolezza programmatica che non mi sembra si possa rintracciare né nelle manifestazioni di entusiasmo per Benny Goodman o per Frank Sinatra, né in quelle seguenti per Elvis Presley, Paul Anka, i Beatles, fino agli One Direction. Trovo invece persuasiva la loro analisi dove considerano quei comportamenti come un’espressione di un giovanissimo protagonismo femminile, sessualmente molto connotato: gridare, investire energie libidiche nel musicista prediletto, una figura in fondo immaginaria, in quanto (forse) concretamente irraggiungibile, significa liberarsi da un sistema di norme, segni, valori, tattiche retoriche messe in atto per tra-

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smettere un’immagine di «ragazze per bene», sessualmente autocontrollate, che è (o sta per essere, a seconda dell’età) tremendamente falsa. Al concerto per un attimo le ragazze possono vivere in un mondo di scatenata libido, senza che la paura per la sanzione del gossip, per il disprezzo dei maschi o delle amiche più abili, o – peggio che mai – per l’umiliazione di una gravidanza indesiderata, guasti irrimediabilmente i momenti più intensi dell’abbandono sessuale. E possono vivere liberamente la fantasia di un’intensa relazione erotica senza esser costrette a vedere la prospettiva ravvicinata del traguardo matrimoniale e della domesticità, che – per chi volesse pensarci bene – ha aspetti assai mortificanti; come ricorda, senza tanti complimenti, la Carter Family nella sua canzone Single Girl, Married Girl – che abbiamo già citato altrove –, «la ragazza single si veste bene, quella sposata si mette addosso quel che capita; la ragazza single va al negozio e compra, quella sposata dondola la culla e piange; la ragazza single va dove le pare, quella sposata c’ha il bimbo sulle ginocchia»76. Le esperienze dei pachucos e delle pachuquitas, degli appassionati ballerini di jitterbug, o delle giovanissime fan di Sinatra, mostrano che gli universi giovanili stanno sperimentando autonomi percorsi identitari costruiti attraverso il ricorso a pratiche cariche di imprevedibili significati simbolici; ciascuno di questi gruppi riprende materiali già diffusi nella cultura di massa (gli abiti dei mafiosi; i balli alla moda nel primo dopoguerra; le grida isteriche delle scream queens dei film horror77) e li ricompone in una cornice di senso nuova: la distinzione, carica di sfida, dei giovani messicani; un irrefrenabile senso di libertà, per i giovani afroamericani; la negazione integrale del comportamento «da vera signora», e del sistema di valori connesso, per le ragazze ululanti ai concerti dei loro musicisti preferiti. L’indeterminatezza sociale di questi sistemi simbolici o l’assenza di evidenti contenuti politici non li rende meno urticanti per gli osservatori mainstream. E anzi, entrambi questi aspetti suggeriscono che altri rituali divergenti possono essere costrui­

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ti, senza che il campo semantico dei simboli che vengono scelti debba esser predeterminato da niente; questi esempi, cioè, suggeriscono l’idea che se non ci si sente a proprio agio nella collocazione sociale nella quale ci si ritrova, si possono inventare forme espressive creative che fra l’altro, proprio per la loro indeterminatezza, possono attrarre chiunque, tanto i ragazzi o le ragazze delle élite scolastiche, quanto – e probabilmente con maggior facilità – i ragazzi e le ragazze di strada. Questa è la forza di queste nuove strategie della distinzione; ed è anche la loro fragilità... a meno che questi stili alternativi non entrino in dialogo stretto con sistemi narrativi più articolati e più chiaramente strutturati dal punto di vista degli orizzonti etici e valoriali. Al momento, peraltro, niente di tutto ciò è ancora in vista. Anche se l’inventario dei comportamenti giovanili inquietanti – almeno nella prospettiva dei benpensanti – non è affatto finito: nel corso della guerra ben altre sorprese sono in serbo per loro. 4. «Khaki-wackies» Il 7 dicembre del 1941 l’attacco a Pearl Harbor determina l’ingresso degli Stati Uniti in guerra. L’arruolamento di circa 16.500.000 giovani maschi comporta che le donne, fin allora ai margini del mercato del lavoro, siano assunte in massa in ogni tipo di settore professionale, negli uffici pubblici, in quelli privati e – soprattutto – nelle fabbriche, per sostituirsi alla manodopera maschile che adesso scarseggia. Dal 1941 al 1945 le donne che lavorano passano dal 27,6% al 37% sul totale della popolazione femminile. Nel 1945 le lavoratrici sono il 36,1% sul totale di tutti coloro che lavorano78. Nella pressante campagna governativa che chiama le donne al lavoro si dice incessantemente che questa situazione dev’essere valida «only for the duration». Ma intanto i rapporti di genere cambiano e sembrano prendere un nuovo profilo. Non solo. Con l’ingresso degli Stati Uniti nella seconda guerra mondiale le cose sembrano farsi anche più serie per chi pretende di avere a cuore il «morale» della nazione, come non si stanca di ricordare il capo dell’Fbi, J. Edgar Hoover, in numerosi interven-

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ti di questo periodo79. Dal 1942 al 1945 molti giovani americani devono andare nei campi di addestramento militare e poi partire per la guerra nel Pacifico o in Europa. Molte donne prendono il posto degli uomini richiamati nell’esercito, e vanno a lavorare in fabbrica o negli uffici. E molte giovani sono incoraggiate a compiere il loro dovere patriottico partecipando alle iniziative di solidarietà per i soldati organizzate dall’Uso80 e da altre associazioni locali. Nei pressi dei campi di addestramento dei soldati le autorità militari americane allestiscono dei luoghi di svago che comprendono anche dei locali da ballo. Naturalmente, perché tutto funzioni, è necessario che ci siano donne disposte a partecipare: prendendo probabilmente spunto dal rischioso modello delle taxi-dance halls81, le autorità militari, attraverso associazioni femminili locali, o attraverso altri canali istituzionali, reclutano ragazze perché si presentino ai locali da ballo allestiti per i militari e siano disposte a ballare per una serata con i giovani sconosciuti in procinto di partire per la guerra. Ora, se ci sono molte ragazze che si limitano a ballare con i soldati, così com’è richiesto dalle autorità, ve ne sono poi anche molte altre, tra le quali numerose adolescenti, che sfruttano l’insolita situazione creata dalla guerra per mettere in pratica una loro più assertiva e sfrontata sessualità, intrecciando rapporti – a volte anche solo occasionali – con i giovani soldati che incontrano. Sono le cosiddette khaki-wackies («pazze per il grigioverde»), o victory girls, o good-time Charlottes82. È chiaro che il fenomeno delle khaki-wackies non è generalizzato, e riguarda soprattutto quelle ragazze che vengono da famiglie nelle quali i meccanismi di controllo e di socializzazione si sono temporaneamente o definitivamente allentati, o perché la famiglia è disgregata sin dai tempi della Grande Depressione, oppure perché con la guerra il padre o i fratelli si sono arruolati e la madre è assente da casa perché lavora in un ufficio o in una fabbrica. Tuttavia gli spazi che si aprono coinvolgono anche ragazzi e ragazze che vengono da famiglie stabili, sollecitati da un contesto di maggiori facilità relazionali che un teenager dell’epoca descrive come un vero e proprio «sex paradise»83.

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Indubbiamente è un fenomeno vistoso, che non tarda ad attirare l’attenzione dell’opinione pubblica. Inizialmente le autorità militari cercano di arginarlo distinguendo le ragazze che sono state contattate e mobilitate dall’Uso, automaticamente ritenute rispettabili, da quelle che invece si avvicinano da sole ai campi militari o alle sale da ballo per i coscritti, senza una formale autorizzazione dell’Uso, e che – a torto o a ragione – sono considerate delle prostitute, o potenzialmente tali. È comunque difficile dare un senso operativo alla distinzione, perché anche tra le ragazze mobilitate dall’Uso ve ne sono di quelle che, finita l’iniziativa patriottica, si danno appuntamenti con i soldati che hanno conosciuto, e finiscono per avere rapporti sessuali occasionali con uno, o anche con diversi, di loro. Quando il fenomeno sembra diventare incontrollato, nelle reazioni delle autorità militari o degli organi di stampa mainstream, tipo «Newsweek», «Time» o «Life», le preoccupazioni moralistiche si trasformano in ansie sanitarie, alimentate da una campagna ossessiva volta a proteggere i giovani soldati dalle infezioni veneree. L’intera questione viene affrontata impiegando uno schema concettuale semplice, anche se alla fine piuttosto contraddittorio84: (1) le donne sono considerate naturalmente più inclini degli uomini alla sensualità; e le donne nere lo sono più di quelle bianche; (2) le donne – prostitute o no – sono considerate i principali vettori delle malattie veneree, e per questo devono essere controllate, curate, e – soprattutto – represse, poiché è proprio la loro sensualità a causare il diffondersi delle infezioni; le donne nere sono ritenute costituzionalmente più recettive nei confronti delle infezioni; (3) i soldati hanno diritto alle loro soddisfazioni sessuali, un tratto comportamentale che fa di loro dei «veri uomini»85; (4) il comportamento sessuale dei soldati non è reputato causa di infezione; piuttosto, i militari infetti sono delle vittime e per questo non vanno repressi, ma solo curati. Quest’ultima considerazione si basa sul fatto che al momento dell’arruolamento i coscritti vengono sottoposti a screening medici e coloro che sono affetti da gonorrea e sifilide vengono scartati e indirizzati verso istituti di cura; tuttavia non si prende mai in considerazione l’ipotesi, peraltro al-

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tamente probabile, che un soldato infettato dopo l’arruolamento diventi egli stesso vettore di infezione attraverso rapporti sessuali con ragazze sane: la tenacia con la quale le autorità militari escludono questa ipotesi mostra il sessismo di fondo che guida tutte le loro iniziative operative, la principale delle quali consiste nel compiere delle retate con l’arresto di tutte le ragazze «sospette» che si aggirano intorno ai campi militari, o che sono sorprese in locali pubblici o per strada con dei soldati in atteggiamento «promiscuo». Una volta operato l’arresto, le donne vengono visitate da un medico; poi sono forzosamente detenute in campi di prigionia in attesa dei risultati dei test; infine, se risultano malate, sono sottoposte a un periodo di cura e di quarantena in istituti appositi. Sebbene non ci sia una statistica complessiva, è certo che durante il periodo della guerra molte migliaia di donne e di ragazze, a volte anche giovanissime, vengono sottoposte a questo trattamento86. In tutta questa vicenda le donne sono considerate dei soggetti pericolosamente sensuali. Si tratta di un’idea molto diffusa, che si era già fatta strada nella cultura popolare come in quella accademica sin dalla fine del XIX secolo87. Ed è un’idea che ovviamente viene contrastata dal suo «doppio positivo», attraverso le rappresentazioni femminili utilizzate dall’Owi per spingere le donne a partecipare attivamente allo sforzo di guerra. Si tratta di immagini di donne al tempo stesso rassicuranti e volitive, impegnate a occupare i posti di lavoro lasciati dagli uomini, dedite alla famiglia e non particolarmente dotate di attrattiva sessuale. Su quest’ultimo aspetto si insiste molto perché si vuole essere sicuri che la figura della donna che va a lavorare in ambienti ancora prevalentemente maschili non sia associata a un’inaccettabile licenziosità sessuale. Rosie the Riveter, l’immagine dipinta da Norman Rockwell per la copertina del «Saturday Evening Post» del 29 maggio 1943, è una delle più note e popolari declinazioni di questo tipo di retorica iconografica e di etica civica. Rockwell la disegna come una massiccia operaia in salopette di jeans, con un volto non particolarmente seducente, ma con l’espressione decisa di una vera democratica (sotto i piedi ha una copia del Mein Kampf); è in pausa pranzo e il suo nome – Rosie – è scritto

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sulla valigetta per la colazione, che lei tiene in braccio insieme a «un grosso martello pneumatico molto fallico»88. Tuttavia il problema che si pone all’Owi è che dar sostegno all’immagine di donne serie e determinate, che si trovano un lavoro o si arruolano nei corpi femminili, risulta minaccioso per molti uomini che temono che a guerra finita le donne non se ne tornino docili a casa, o che ritengono francamente respingente l’idealtipo di genere trasmesso da immagini come quella della Rosie di Rockwell: si tratta di preoccupazioni mostrate molto chiaramente da diversi sondaggi compiuti sin dall’inizio della guerra89. È così che si preferisce una diversa figura femminile, più graziosa e seducente. Il processo si avvia autonomamente nella grafica pubblicitaria: in molte immagini pubblicitarie del periodo di guerra si vedono giovani donne attraenti, con una struttura corporea slanciata, impiegate per promuovere le merci più varie (nel caso della Fig. 3, l’immagine pubblicizza pratici vestiti prodotti dalla Realsilk per donne che vogliono partecipare allo sforzo bellico andando a lavorare in una fabbrica o in un ufficio); oppure si vedono immagini di ragazze con un corpo «a clessidra» (seno prominente e vita stretta) accogliere il loro uomo «in licenza» (come nella pubblicità dei costumi Jantzen, riprodotta in Fig. 4, edita su «Life» negli stessi giorni in cui il «Saturday Evening Post» pubblica la copertina con Rosie the Riveter); o abbracciare il «loro» soldato che torna dal fronte portando in regalo con sé una bella scatola di cioccolatini (pubblicità della cioccolata Whitman’s)90. La nuova immagine viene accolta anche dalla propaganda militare ufficiale, com’è mostrato dallo spot radiofonico per il reclutamento nel Waves (Women Accepted for Volunteer Emergency Service), il corpo di ausiliarie volontarie attive nella marina militare americana, che recita: Le ragazze nel Waves sono delle vere donne americane – del tipo che ama le feste e i vestiti carini, e sanno anche cucinare e cucire. E sono anche molto femminili, ed orgogliose di esserlo91.

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Ed è in questo particolare contesto retorico che fanno irruzione le pin-up92. 5. Pin-up Immagini di ragazze da attaccare al muro: queste sono le pin-up che popolano i sogni di milioni di soldati (e di civili) americani a partire dagli anni della guerra. Infatti, nell’intento di diffondere una rappresentazione seducente della «vera donna americana», così come se la immaginano all’Owi, le cartoline o i manifesti con le pin-up inondano i servizi della posta destinata ai soldati impegnati nella guerra contro le forze dell’Asse. Le immagini sono di due tipi: da un lato si tratta di foto di giovani attrici in voga, prodotte dagli uffici promozionali delle case cinematografiche, come quella che Frank Powolny scatta nel 1941 a Betty Grable per la 20th Century Fox, richiestissima tra i soldati, tanto che si stima ne siano state diffuse 5 milioni di copie tra i militari al fronte (Fig. 5)93. Dall’altro lato, hanno un grande successo i disegni che, sin dall’ottobre del 1940, vengono realizzati da Alberto Vargas per «Esquire», una rivista orientata soprattutto verso un pubblico maschile. Sin dal 1939, per un accordo stretto tra l’editore e le forze armate americane, «Esquire» pubblica un’edizione gratuita per i soldati, priva di pubblicità, e in qualche caso con retrocopertine appositamente preparate per queste edizioni: e anche in questo caso si stima che le copie della rivista diffuse tra le truppe nel corso della guerra siano state 9 milioni94. Al centro di ogni numero di «Esquire» c’è un manifesto a doppia pagina che riproduce la Varga Girl del mese95, con una breve poesiola in rima, scritta da Phil Stack, a commento della figura: ed è uno degli oggetti più ambiti e attesi da molti soldati americani. Molto più delle foto delle attrici, le Varga Girls sono esplicitamente sessualizzate; hanno un corpo attraente, di proporzioni quasi impossibili; un seno prosperoso, una vita strettissima, delle gambe lunghissime; e guardano quasi sempre in direzione di chi le osserva con un’aria di gioiosa provocazione. Sebbene non siano esplicitamente pornografiche (non ci sono nudità esposte,

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e le ragazze rappresentate sono quasi sempre sole, in atteggiamenti provocatori ma non eroticamente connotati), il messaggio inviato è evidente, e in qualche caso è reso pesantemente esplicito dalle didascalie di Stack o dai titoli attribuiti alle immagini, come nel caso di Something for the Boys, titolo del manifesto centrale pubblicato nel numero di giugno del 1943 di «Esquire», o di Target for Tonite, del marzo 1944 (Figg. 6-7). Immagini di questo genere adornano gli alloggiamenti dei soldati, li accompagnano nelle azioni di guerra, e decorano le fusoliere dei loro aerei. Tra tutti gli usi, questo è il più ambivalente di tutti: da un lato, l’immagine della bella donna dovrebbe far vedere ai nemici per chi si sta combattendo; dall’altro, le didascalie che talora vi sono collegate («The Dark Angel», «Double Trouble», «War Goddess», ecc.) trasferiscono la «pericolosa sensualità» della ammaliante ragazza alla pericolosità dello strumento da guerra che deve decorare96. Tuttavia, la retorica che circonda tutte queste immagini tende a ricontestualizzare l’esplosività erotica che le caratterizza entro un quadro molto più rassicurante, giacché diverse Varga Girls sono concepite in modo da suggerire che la loro attrattiva erotica non è «per tutti», ma solo per «lui», solo per l’uomo speciale che lei aspetterà fino alla fine della guerra. È questo il messaggio contenuto, per esempio, in Peace, It’s Wonderful, manifesto centrale di «Esquire», aprile 1943 (Fig. 8), accompagnato da questa poesia di Stack: Quando questa bellezza militare Suona un taratatata Come segnale che la Vittoria è nostra... E il suo soldato si rilassa Dopo aver abbattuto l’Asse E poi la conduce al volo all’altare... Lei lo lascerà dormire pesantemente Mentre una volta si svegliava alla squilla E non lo rimprovererà mai per il suo cedimento; Ma, a meno che i miei occhi non mi ingannino, Lui non sarà così moscio, credetemi, Quando la sveglia sul loro caminetto segnerà l’ora di spegnere la luce!

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Più ovvio e rassicurante il significato di Hail and Farewell, pagina centrale del numero di luglio 1943 (Fig. 9). La retorica disciplinante che circonda le immagini fotografiche delle attrici non è diversa da quella che sostiene questi disegni. Nel caso di Betty Grable, di Donna Reed e di altre star del cinema, il ruolo che viene costruito intorno a loro è quello delle ragazze belle, giovani e forse un po’ ingenue, ma in fondo per bene, le classiche «ragazze della porta accanto». Si tratta di una retorica che Betty Grable declina sino in fondo, nella modalità più didattica possibile, quando in un’intervista del 1943 dispensa consigli alle ragazze su come comportarsi con gli uomini: Ricordatevi di seguire la loro guida, dal ballo alla conversazione. Parlate di loro. Le ragazze più popolari, alla Hollywood Canteen, per esempio, sono delle ottime ascoltatrici: sono quelle che pendono dalle labbra di un uomo come se fosse l’Oracolo della Guerra e l’unica persona nella stanza97.

Il disciplinamento morale delle pin-up riesce perfettamente: la popolarità di Betty Grable non diminuisce affatto quando si sposa con il musicista swing Harry James (1943), e si consolida definitivamente l’anno seguente, quando la coppia ha un figlio98. D’altronde, nelle lettere che i soldati indirizzano direttamente a questi oggetti del loro desiderio, risuona spesso una casta nota sentimentale. In una cartolina spedita a Donna Reed il 18 agosto 1944, il sergente William F. Love, impegnato in Nuova Guinea, scrive: «I ragazzi della nostra unità pensano che tu sia la tipica ragazza americana, una dalla quale vorrebbero tornare, una volta a casa!!!!!». Il sergente John C. Dale, in servizio come mitragliere di coda su un B-17, le scrive, il 28 marzo del 1944, che la considera la ragazza della porta accanto, per la quale si sente di dover combattere99. Come osserva Nancy Cott, «le pin-up preferite tra i soldati suggeriscono che non era solo l’attrattiva sessuale, ma le visioni del matrimonio, della famiglia e del comfort domestico che rendevano desiderabili queste icone della femminilità»100. Il modello diventa talmente popolare da essere proposto esplicitamente come standard di bellezza nelle pubblicità di prodotti cosme-

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tici indirizzati alle ragazze101: e nel caso di una pubblicità per i prodotti Jergens, significativamente accompagnata dallo slogan «Be his Pin-up Girl!» (pubblicata su «True Story» nel giugno del 1944), l’autore del disegno è proprio Alberto Vargas. Come hanno mostrato Robert B. Westbrook e Maria Elena ­Buszek, numerosi esempi di foto che varie ragazze inviano ai loro fidanzati al fronte mostrano che il modello si è imposto al punto da far assumere anche a loro delle pose da pin-up «fatte in casa»: niente di esageratamente provocante, ma nondimeno qualcosa che sia allegramente seducente, come lo sono le foto di Betty Grable o i disegni meno osé di Vargas102. Certo non tutta l’opinione pubblica statunitense è pronta ad accettare senza batter ciglio il «modello pin-up», specie nella declinazione «Esquire»103. E difatti, Frank Walker – un avvocato del Montana, democratico e cattolico, che nel 1940 è stato nominato Postmaster General (cioè ministro delle Poste) da Franklin D. Roosevelt – nel settembre del 1943, in virtù della sua carica istituzionale, intenta una causa contro «Esquire» per cercare di bloccarne la diffusione, sulla base della scarsa moralità delle immagini pubblicate104. La causa procede attraverso diversi livelli di giudizio, ma non ferma la diffusione della rivista tra le truppe; e soprattutto si conclude, nel 1945, con una definitiva sentenza della Corte Suprema che riconosce l’infondatezza delle pretese censorie del Postmaster General e conferma la legittimità della libera circolazione della rivista. A quel punto, ormai, nonostante le voci critiche che di tanto in tanto avrebbero continuato ancora a levarsi anche negli anni seguenti, la figura delle pin-up si è definitivamente imposta nelle riviste per le donne o per le adolescenti, nelle pubblicità e negli articoli di costume delle riviste mainstream, come lo standard normativo femminile di riferimento105. E la sequenza di star del cinema che si impone subito dopo la guerra (Elizabeth Taylor, Jane Russell, Marilyn Monroe, Jayne Mansfield, Doris Day, Janet Leigh, Lana Turner, Susan Hayward, Ann Sothern, Kim Novak, Ava Gardner) traduce in realtà corporea l’ideale delle Varga Girls, fin allora rimasto solo un’astratta fantasia106.

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Questo modello normativo, che diviene ubiquitario man mano che la guerra si avvicina alla fine, è particolarmente esigente: le donne devono essere seducenti, ma al tempo stesso capaci di conservare la propria rispettabilità, in un estenuante esercizio di autocontrollo. Alle giovani donne si chiede di essere attraenti, di restare vergini (o far credere di esserlo) prima del matrimonio, di trovare il «principe azzurro», di sposarsi, fare figli e stare (o tornare) a casa – se appena il reddito del «principe azzurro» lo permette – e di conservarsi caste e virtuose. La stessa propaganda bellica rilancia, con insistente tenacia, la centralità valoriale del matrimonio: d’altronde negli anni di guerra l’età al matrimonio si abbassa, soprattutto per le donne, e il numero di matrimoni – spesso celebrati in fretta e furia, prima che il fidanzato parta per il fronte – aumenta rispetto agli anni precedenti. Intanto la retorica bellica esalta la assoluta necessità di difendere la «home» – intesa come patria e come nucleo familiare – contro le pretese imperialiste e razziste dei giapponesi e dei nazisti. Ma, così facendo, si descrive nuovamente la «home»/casa come un luogo esclusivamente femminile, lo spazio deputato per la realizzazione della femminilità. Nel corso di un programma radio intitolato To the Young, sponsorizzato dal governo federale e trasmesso da tutti i network nel corso del 1942, si può sentire una giovane voce maschile che dice: «Questa è una delle ragioni per le quali si combatte la guerra». Al che una voce femminile risponde: «La ragione siamo noi?». E il ragazzo replica: «La ragione siamo tutti noi giovani. La ragione è l’amore, e lo sposarsi, e l’avere una casa e qualche bambino, e respirare l’aria fresca dei sobborghi... è vivere e lavorare in modo decente, come un popolo libero». Coerentemente, pubblicità come quella della Union Central Life Insurance Company descrivono l’impegno bellico come «una lotta per fare del nostro paese un posto sicuro per le mogli che amiamo, un posto in cui i nostri figli possano crescere liberi e sereni». Sulla stessa linea è lo spot per l’aspirapolvere Eureka che, rivolgendosi alle donne impegnate al lavoro, dice che anche loro stanno combattendo «per la libertà e tutto ciò che essa significa per tutte le donne. State combattendo per una casetta tutta vostra, e per un

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marito da aspettare ogni sera sulla porta... per il diritto di crescere i vostri bambini libere dall’ombra della paura»107. Proiettata verso la fase del dopoguerra, una retorica di questo genere vuol dire che ci si aspetta che – a guerra vinta – le donne che lavorano tornino a casa a fare le mogli, per lasciar spazio ai giovani uomini reduci dal fronte, i veri e unici breadwinners108: una gerarchia etica e relazionale che stabilisce precedenze su cui nessuno – dai leader politici ai creativi pubblicitari – manifesta il sia pur minimo dubbio, giacché la retorica patriottica ha presentato i soldati secondo le linee tracciate dalla cultura di massa mainstream degli anni prebellici, trasformandoli in eroi che hanno rischiato un consapevole martirio e hanno combattuto come guerrieri probi e virili, sbaragliando sia i minacciosi «musi gialli» (come la propaganda definisce, con sovratoni razzisti, i giapponesi) che gli invasati nazisti109. In questo contesto, le ragazze che tra la fine degli anni Trenta e la guerra sono impazzite per il jitterbug, che hanno immaginato di potersi conquistare una loro autonomia sessuale, che hanno assaporato la libertà dai controlli familiari, adesso devono rigare dritto (se ci riescono). D’altronde anche gli spazi per le musiche e le danze che hanno portato la cultura della gioventù bianca a contatto con tradizioni e pratiche afroamericane sembrano chiudersi ermeticamente. Durante la guerra lo stesso swing cambia identità quando diventa una sorta di musica ufficiale dell’esercito americano. Glenn Miller, arruolatosi in aviazione, si trasferisce in Europa e con la sua band suona per i soldati americani uno swing sempre più sentimentale e sempre più simile alla musica orchestrale delle sweet bands di Guy Lombardo o di Sammy Kaye. Inoltre la composizione della sua orchestra, nella quale non c’è alcun musicista nero, si adatta perfettamente alla struttura di un esercito come quello americano, in cui vige una rigida segregazione razziale110. Niente di sorprendente, in tutto ciò, per le comunità afroamericane, per le quali però la guerra ha l’effetto di un trauma definitivo. Andare a combattere in nome di ideali antirazzisti, subendo al tempo stesso, anche nell’esercito, l’esperienza della segrega-

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zione razziale, per molti neri risulta davvero insopportabile. Vi è chi reagisce cercando una propria radicale via espressiva: per esempio, allontanandosi dalle forme ormai irrigidite dello swing, per sperimentare un nuovo tipo di jazz, ritmicamente complesso, armonicamente innovativo, melodicamente spigoloso – il bebop –, che musicisti come Dizzy Gillespie, Charlie Parker o Thelonious Monk vivono come una deliberata e consapevole opposizione alla musica e alla società bianca111. Altri, invece, reagiscono pensando che sia arrivato il momento di prendere iniziative che portino i neri fisicamente, psicologicamente e normativamente fuori dai ghetti. Ed entrambe queste traiettorie avranno un ruolo importante nello sviluppo della nostra storia. Ma per il momento, subito dopo la fine della guerra, quello che si prospetta all’orizzonte è qualcosa di ben diverso, qualcosa che non prevede né creatività sessuale, né opposizione politica radicale, né libertà dal razzismo: è un vero e proprio tentativo di normalizzazione politica e morale della società americana in tutte le sue articolazioni, quello che è annunciato dalla costruzione di lunghe serie di linde villette nei nuovi sobborghi che portano le ideali famigliole da American dream via dai fatiscenti centri urbani, verso luoghi residenziali più salubri, piacevoli e graziosi.

V Prove di normalizzazione

1. La casa dei nostri sogni Jim Blandings è un pubblicitario con una bella famiglia: una moglie graziosa e tranquilla, Muriel, che fa la casalinga, e due belle figliolette, Betsy e Joan. L’appartamento nel quale vivono a Manhattan è carino ma piccolo, e Muriel vorrebbe farci dei lavori di ristrutturazione per acquistare un po’ di spazio. Jim non è d’accordo, inizialmente perché gli pare di buttare via soldi; poi, perché anche lui si mette a inseguire il sogno che nell’immediato dopoguerra è coltivato da milioni di persone negli Usa: abbandonare il centro città e farsi una bella villetta nei sobborghi, fuori dal caos urbano. È così che Jim compra, a un prezzo spropositato, una bellissima villa ottocentesca nella deliziosa campagna del Connecticut: solo che lì cominciano i guai. La villa non sta in piedi, va rasa al suolo e integralmente ricostruita. Jim e Muriel, dunque, sperimentano il calvario delle continue trattative con l’architetto, il capomastro, i muratori, i falegnami, mentre il budget che devono spendere per la casa dei loro sogni continua a crescere a vista d’occhio. I guai di Jim non finiscono qui. L’azienda pubblicitaria per la quale lavora lo ha incaricato di preparare uno slogan per la ditta Wham, che produce prosciutti; ma intanto che insegue falegnami e muratori, sprofonda in una crisi professionale, perché lo slogan per quel maledetto prosciutto proprio non gli viene, e

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se non gli viene in tempo, rischia di perdere il lavoro e di finire letteralmente sul lastrico. Inoltre è attraversato dal sospetto – infondato, si direbbe – che il flemmatico amico di famiglia, l’avvocato Bill Cole, che è spesso a casa sua e lo consiglia sui lavori per la nuova casa, abbia una relazione con sua moglie. Ma, alla fine, le minacce oscure si dissipano e tutto va a posto: la casa viene costruita; Muriel lo ama; e soprattutto Gussie, la domestica nera che è al loro servizio (e sembra una riedizione allegra di Mammy di Gone with the Wind), se ne viene fuori con uno slogan brillante che risolve tutti i problemi di Jim: «Il prosciutto non mangiam, se non è di marca Wham!». Questa, in breve, è la trama di Mr. Blandings Builds His Dream House (La casa dei nostri sogni), una commedia del 1948, diretta da H.C. Potter e superbamente interpretata da Cary Grant e Myrna Loy. La recitazione deliberatamente understated, le battute brillanti, la struttura del racconto rendono il film qualcosa di molto più intenso di quanto non si potrebbe dire dopo una visione distratta. La famiglia Blandings è l’immagine normativa del nucleo familiare middle class negli Usa postbellici: lui lavora, con un ottimo stipendio; lei sta a casa, e si occupa di buon grado delle figlie e della carta da parati; i rapporti di classe sono anche rapporti di razza, accettati, anche in questo caso, di buon grado: Jim prende dei soldi per il suo genio creativo, e ci si costruisce una villa in campagna; ma in realtà, una parte almeno di quei soldi spetterebbe alla domestica nera Gussie, che ha avuto l’idea dello slogan per il prosciutto Wham. Non è così, e ovviamente non c’è ombra di critica sociale nella risoluzione del plot relativo. Con la massima naturalezza, dopo aver sentito Gussie pronunciare lo slogan, tutto ciò che Jim fa è illuminarsi di un sorriso radioso, abbracciare Muriel e dirle: «Cara, da’ un aumento di dieci dollari a Gussie». Dopodiché, l’unica ulteriore ricompensa che Gussie si conquista è di apparire nella foto della pubblicità, edita da un rotocalco che Jim tiene in mano soddisfatto nell’ultima scena del film: Gussie, un po’ corpulenta e sorridente, vestita da cuoca, con tanto di cappellone bianco in testa, mostra un vassoio con un prosciutto arrostito, proprio sopra lo slogan che

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ha inventato. Razzismo, consumismo, crescita economica, invincibile ottimismo si fondono in una storia che attraversa molti dei temi più rilevanti per le narrazioni e le pratiche mainstream. Ma soprattutto il film proietta tutti questi importanti aspetti della società statunitense dentro una nuova cornice, anch’essa estremamente rilevante sia dal punto di vista pratico che dal punto di vista simbolico: la croce e la delizia della corsa alla nuova casa nei sobborghi, un processo che, al momento dell’uscita del film, è in pieno svolgimento. Nel secondo dopoguerra, infatti, molte famiglie bianche di varia estrazione sociale abbandonano davvero i centri delle città e si spostano verso nuovi sobborghi residenziali extraurbani, dove si registra un’espansione edilizia di portata straordinaria: «tra 1950 e 1970 la popolazione suburbana raddoppia, da 36 milioni a 74 milioni; l’83% della crescita nazionale durante quegli anni ebbe luogo nei sobborghi»1. La trasformazione demografica e urbanistica è favorita da apposite politiche governative che la incoraggiano, con la costituzione della Federal Housing Authority, un ente creato nel 1934, che si occupa di assicurare facilitazioni creditizie alle famiglie interessate a comprare case nei sobborghi residenziali. L’accesso ai nuovi sobborghi è agevolato dalla costruzione di una nuova rete stradale, che prevede anche un sostanziale ampliamento del sistema autostradale2. Certo, non tutti sono incantati dal modello. Un raffinato intellettuale come Lewis Mumford nel 1961 descrive i nuovi sobborghi in questo modo: Una moltitudine di case uniformi, inflessibilmente allineate a distanze uniformi su strade uniformi, in uno spazio sterminato e privo di vegetazione, e abitate da persone della stessa classe, dallo stesso reddito, e più o meno della stessa età, che assistono agli stessi spettacoli televisivi, mangiano gli stessi insipidi cibi prefabbricati, tratti dalle stesse celle frigorifere e si uniformano del tutto, interiormente ed esteriormente, a un comune modello imposto dalla metropoli centrale3.

Omogenei in tutto, i nuovi quartieri lo sono anche dal punto di vista razziale, un aspetto del nuovo panorama suburbano

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che viene ottenuto attraverso la radicale esclusione dei neri dai sobborghi residenziali. Dal 1942 al 1970, mentre è in corso l’edificazione delle zone residenziali periferiche, più di 5 milioni di afroamericani si spostano dal Sud alle grandi città del Nord e dell’Ovest. Al loro arrivo non trovano ospitalità nei sobborghi; negli anni Cinquanta non possono proprio, nemmeno se si tratta di famiglie nere di classe media e se lo potrebbero permettere, sia perché le banche non concedono loro i mutui per l’acquisto della casa, sia perché i regolamenti informali delle nuove comunità dicono che le famiglie nere non devono entrare nelle dream houses che le popolano4. I bianchi poveri e la stragrande maggioranza dei neri restano confinati nelle grandi città, in vecchi quartieri – veri e propri «ghetti» sociali e razziali – in cui i contesti edilizi e urbanistici si degradano a vista d’occhio e le tensioni sociali crescono a dismisura5. E se i neri entrano nei sobborghi, lo fanno col ruolo di Gussie nel film che abbiamo citato: come domestiche oppure, se sono uomini, come lavoranti o manovali. Niente di più di questo. Tuttavia, a dispetto delle critiche che intellettuali come Mum­ ford gli rivolgono, o delle ingiustizie che ne accompagnano la costruzione, i sobborghi diventano un luogo dello spirito. La famigliola, con la bella casa, il giardinetto curato davanti, la macchina per raggiungere il lavoro o il centro della città più vicina, è un’immagine che assume subito un valore simbolico: una nuova declinazione del concetto di «home», luogo identitario fondamentale, che da ora in avanti viene celebrato in innumerevoli proiezioni mediatiche proprio nella forma della villetta suburbana. 2. Allarme rosso Negli anni successivi alla seconda guerra mondiale, la «home», nel senso della propria casa come metafora della comunità di appartenenza, è vissuta con un misto di incontenibile ottimismo e di cupa paranoia. La società statunitense esce dalla guerra con i suoi problemi: 15 milioni di soldati di ritorno dalle zone di guerra devono ritrovare la loro collocazione nella società;

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le industrie che hanno lavorato in funzione dello sforzo bellico dovrebbero convertirsi nuovamente alla produzione per un normale mercato dei consumi, il che – nell’immediato – comporta tagli ai salari, mentre un’inflazione galoppante peggiora ulteriormente la situazione. Il riadattamento non è facile, tanto che il 1946 è uno degli anni più ricchi di scioperi e contenziosi sindacali che gli Usa ricordino, tant’è che nel 1947 il Congresso approva il Taft-Hartley Act che pone dei severi limiti alle libertà sindacali. Poi la macchina produttiva decolla. Nel 1944 il Congresso ha approvato il G.I. Bill (Servicemen’s Readjustment Act), che risolve efficacemente il problema dei reduci: la legge vuole evitare l’ondata di disoccupazione che può essere causata dal ritorno alla vita civile di milioni di soldati, e per questo concede ai «veterani di guerra» (cioè ai giovani che tornano dal fronte) prestiti a tassi agevolati per comprare una casa o per avviare un’attività, oppure un finanziamento per sostenere i loro studi universitari o la loro formazione professionale, più un’assicurazione che copre un eventuale anno di disoccupazione6. Dal 1946 lo stato di tensione internazionale fa sì che le spese militari riprendano a crescere, passando dal 5,1% sul Pil del 1946 al 12,3% del 19537. Nel 1947, poi, il Piano Marshall apre i mercati europei alle aziende statunitensi. E per effetto di queste varie dinamiche, il Pil cresce costantemente, la disoccupazione è contenuta entro percentuali molto basse, salari, stipendi e redditi pro capite sono in aumento, così come lo sono i consumi. L’ottimismo sembra giustificato, e i gusti del pubblico statunitense ne sono una prova: negli anni che vanno dalla fine della guerra alla metà del decennio seguente, per fare solo un esempio, il numero di commedie, musical o drammi cinematografici a lieto fine è assai più della metà del totale dei film che si piazzano ai primi posti nelle classifiche di incasso. Film come Song of the South (I racconti dello Zio Tom, Harve Foster, Wilfred Jackson, 1946), Cinderella, Alice in Wonderland (Alice nel Paese delle Meraviglie, Clyde Geronimi, Hamilton Luske, Wilfred Jackson, 1951), Peter Pan (Le avventure di Peter Pan, Clyde Geronimi, Ha-

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milton Luske, Wilfred Jackson, Jack Kinney, 1953) – tutti della Walt Disney –, oppure I Was a Male War Bride (Ero uno sposo di guerra, Howard Hawks, 1949), Annie Get Your Gun (Anna prendi il fucile, George Sidney, 1950), Father of the Bride (Il padre della sposa, Vincente Minnelli, 1950), Singin’ in the Rain (Cantando sotto la pioggia, Stanley Donen e Gene Kelly, 1953), How to Marry a Millionaire (Come sposare un milionario, Jean Negulesco, 1953) o White Christmas (Bianco Natale, Michael Curtiz, 1954) spopolano al botteghino e sebbene, ovviamente, si affianchino a film di altro genere, danno tuttavia il senso delle preferenze del pubblico in questo periodo. Solo che ora la componente paranoica che attraversa le narrazioni di massa (e – secondo la classica analisi di Richard Hofstadter – anche la cultura politica americana8) esplode in modo ossessivo e rafforza il peculiare ossimoro proprio della mentalità mainstream, fatto di paura e di spasmodico desiderio di happy ending. A propiziare il mutamento di orizzonti è certamente l’evoluzione dei rapporti internazionali, caratterizzati da uno stato di tensione sempre più manifesto tra Stati Uniti e paesi comunisti (l’Urss e, dal 1949, la Cina). La guerra fredda si inasprisce proprio a partire dal 1949: quando i sovietici compiono con successo il loro primo test atomico, una vera e propria psicosi da bomba si diffonde nella cultura popolare statunitense; ci sono aziende che vendono la costruzione dei rifugi antiatomici nel giardino di casa (e c’è gente che se li fa costruire per davvero), mentre nelle scuole le scolaresche sono tenute a compiere esercitazioni antiatomiche che, nel caso di una vera e propria guerra atomica, servirebbero a ben poco, ma che aiutano molto bene a realizzare una capillare socializzazione all’anticomunismo. Quando, nel 1950, scoppia la guerra di Corea, si ha persino la sensazione che il conflitto da «freddo» possa diventare «totale». Per fortuna di tutti (ma non degli sventurati coreani e delle truppe combattenti coinvolte), lo scontro resta circoscritto alla penisola asiatica, ma la tensione internazionale tra i due blocchi diventa ancora più pervasiva e non si scioglierà davvero che molti anni dopo.

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Il contesto internazionale ha pesantissime ripercussioni interne. Tanto l’amministrazione democratica di Truman che quella repubblicana di Eisenhower mettono in atto una parossistica ricerca e repressione dei comunisti negli apparati amministrativi statunitensi, così come nel sistema dei media e nelle università, sino alla norma che nel 1954 proibisce definitivamente l’esistenza di un partito comunista sul territorio degli Stati Uniti. Brilla, in tutta questa operazione, per spregiudicatezza e determinazione, un senatore repubblicano del Wisconsin, Joseph McCarthy, che dal 1950 al 1954 è il protagonista della «caccia alle streghe», etichetta giornalistica con la quale si indica appunto la complessiva operazione di indagine che coinvolge diversi milioni di persone e ne colpisce molte migliaia, costrette ad abbandonare il lavoro per le loro convinzioni politiche, senza che, in realtà, abbiano commesso alcun particolare reato9. Le forme narrative mainstream, così come si sono evolute già nei decenni precedenti alla seconda guerra mondiale, aderiscono perfettamente a queste spinte politico-culturali che vengono dalla società statunitense; non solo – come si è già osservato – offrono tranquillizzanti narrazioni che danno conferma all’ottimismo sollecitato dalle buone performance del sistema economico, ma danno anche una forma eticamente connotata alle ansie paranoiche che si impadroniscono di una parte significativa dell’opinione pubblica a livelli forse mai visti nella precedente storia Usa. La metafora della «home» attaccata da qualche nemico, interno o esterno, funziona perfettamente come dispositivo di base su cui costruire storie che conducano all’esibizione della nequizia morale dei nemici, alla loro «giusta» sconfitta e punizione, e alla trionfale, anche se in qualche caso dolorosa, vittoria dei «nostri». I generi tradizionali del western o del giallo, nella forma del romanzo, del fumetto, del radiodramma o del film, conservano talora una declinazione allusiva alle minacce vere o presunte che turbano i sogni americani degli anni Cinquanta; talaltra trovano un più diretto adattamento ai timori coevi, narrando di soldati, detective privati, poliziotti, scienziati o supereroi in lotta pro-

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prio contro la minaccia comunista. Tra i maggiori successi del periodo vanno ricordati i romanzi che Mickey Spillane incentra su Mike Hammer, un veterano di guerra divenuto detective: capace di enorme violenza, in qualche caso ai limiti del piacere sadico, Hammer si riscatta con le finalità per le quali la usa, e cioè non solo catturare e distruggere criminali, come di ordinario, ma anche sventare complotti comunisti, come in One Lonely Night (Tragica notte), un romanzo del 195110. Hammer, il personaggio di Spillane, dà alla figura dell’eroe maschile una torsione estrema, non solo nel modo in cui fa uso della violenza, ma nell’evidente inclinazione misogina che il detective manifesta nei suoi rapporti con le donne. Meno oltranzisti, e quindi di più universale apprezzamento, sono i personaggi maschili interpretati da John Wayne in film di guerra o in western come la trilogia di John Ford, Fort Apache (Il massacro di Fort Apache, 1948), She Wore a Yellow Ribbon (I cavalieri del Nord Ovest, 1949) e Rio Grande (Rio Bravo, 1950). In apparenza duri, scontrosi e solitari, ma in realtà saggi, giusti e alla fine emotivamente appassionati, i suoi personaggi danno corpo a un profilo di mascolinità eroica che in qualche caso, come in un altro grande film di Ford, The Searchers (Sentieri selvaggi, 1956), è capace di ripercorrere in una forma ricca di sfumature psicologiche l’immagine classica del cavaliere solitario implacabilmente in lotta contro i minacciosi «altri» (in questo caso gli indiani Comanche). In ogni caso, nei film con Wayne, come nei molti altri western di questo periodo, vale il principio della legittimità etica di una violenza redentrice, capace di liberare dai nemici o di vendicare i torti subiti dalla propria comunità; come osserva Richard Slotkin, «giacché il western stesso si propone come un mito delle origini americane, ciò implica che la sua violenza è una parte essenziale e necessaria del processo attraverso il quale la società americana si è strutturata e attraverso il quale i suoi valori democratici vengono difesi e potenziati»11. Molti aspetti dei dispositivi narrativi che anche in questo periodo raccontano della minaccia alla «home» non sono che varianti, più o meno raffinate, di modelli già integralmente spe-

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rimentati nei decenni precedenti. Tuttavia, in un quadro nel complesso già noto, spiccano tre specifiche evoluzioni. (1) Sin dal periodo di guerra, a fianco di storie che continuano a raccontare dell’eroico sforzo del cavaliere solitario (per esempio High Noon [Mezzogiorno di fuoco, Fred Zinnemann, 1952]; o Shane [Il cavaliere della valle solitaria, George Stevens, 1953]), si impongono anche storie che descrivono team eroici in azione, una soluzione più adatta alle esperienze che molti hanno vissuto nel corso della seconda guerra mondiale, o che stanno vivendo adesso con la guerra di Corea. Si tratta di film che seguono le avventure di un gruppo di soldati in zone di guerra, esplorandone i reciproci rapporti, e descrivendone anche la decisiva sfida bellica con i nemici (per esempio, Battleground [Bastogne, William A. Wellman, 1949]; Sands of Iwo Jima [Iwo Jima, deserto di fuoco, Allan Dwan, 1949]; Mister Roberts [La nave matta di Mister Roberts, John Ford, Mervyn LeRoy, 1955]; Battle Cry [Prima dell’uragano, Raoul Walsh, 1955]). Questi film indagano le psicologie dei componenti dei team; talora pongono una certa enfasi sulla loro composizione plurietnica (anche se i teamleaders sono inesorabilmente Wasp); e permettono una combinazione che contempla contemporaneamente le morti sacrificali, proiettate in genere (ma non necessariamente sempre) su personaggi relativamente marginali del team, e le vittorie eroiche ma dense di pensosa sofferenza, conseguite alla fine dai sopravvissuti del team. (2) La seconda innovazione riguarda l’imporsi definitivo del racconto di fantascienza quale strumento narrativo capace di descrivere nel modo più suggestivo le paure legate a una ipertecnologizzazione dei conflitti bellici. La produzione letteraria fantascientifica è molto varia ed è animata da intenzioni etiche diverse, che possono oscillare dalla costruzione di apologhi critici nei confronti della società contemporanea a storie che sconfinano nella pura e semplice propaganda antisovietica. In tutti i casi, la suggestione che promana da un libro che trascende i

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confini del genere come Nineteen Eighty-Four (1984), di George Orwell, pubblicato nel 1949, offre un modello enormemente influente anche se, ovviamente, sottoposto negli anni successivi a infinite rielaborazioni. Nonostante le dichiarazioni in contrario dello stesso Orwell, al momento della pubblicazione gran parte della critica (e del pubblico) interpreta la storia come una drammatica riflessione sulla minaccia del totalitarismo comunista: in forma molto più militante, storie che partono da presupposti non dissimili esplorano i disastri di società post-totalitarie o post-atomiche, come accade in Atlas Shrugged (La rivolta di Atlante), di Ayn Rand, romanzo pubblicato nel 1957; o in Alas, Babylon (Addio Babilonia), di Pat Frank, del 195912. In altri casi ancora l’intenzione critica sembra piuttosto rivolta alle strutture fondanti della società statunitense contemporanea, come nel caso di Fahrenheit 451, di Ray Bradbury, pubblicato nel 1951: anche qui, tuttavia, resta intatta la struttura narrativa di un «giusto» che si sottrae al nuovo totalitarismo di una società nella quale i libri sono proibiti, per raggiungere i nuclei di resistenza che forse riusciranno a riportare la civiltà sulla terra. Con I Am Legend (Io sono leggenda), di Richard Matheson (1954), uno scenario post-apocalittico è ricondotto – almeno inizialmente – alla più classica delle strutture narrative mainstream: una casa, l’unica ancora abitata da un vero essere umano, è costantemente posta sotto attacco da pericolosissimi umani mutanti, colpiti da una terribile epidemia; il sacrificio finale dell’eroe, però, non lascia spazio ad alcuna speranza: lui, l’umano, è la deviazione genetica, mentre i mutanti sono ormai la norma. Tipicamente, nel passaggio dal romanzo al film (che avviene tre volte, nel 1964, nel 1971 e nel 2007), e quindi nel passaggio da un pubblico più ristretto a un pubblico di massa, il finale viene corretto; l’eroe principale muore, ma non è più l’ultimo uomo sulla terra, poiché il suo sacrificio consente ad altri sopravvissuti di continuare a resistere, dotati adesso di un rimedio contro l’epidemia che il protagonista nel frattempo è riuscito a trovare13. Più in generale, la produzione cinematografica post-apocalittica lanciata nel secondo dopoguerra semplifica molto l’evolu-

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zione talora problematica delle analoghe narrazioni romanzesche, esplorando ripetutamente il filone dell’attacco che esseri mutanti, la cui trasformazione è causata da esperimenti o da disastri atomici, sferrano contro la società, o ciò che ne resta: l’inesorabile lieto fine rassicura sulle capacità di reazione che la tecnologia ha (o dovrebbe avere), come accade per esempio in The Beast from 20.000 Fathoms (Il risveglio del dinosauro, ­Eugène Lourié, 1953); Them! (Assalto alla Terra, Gordon Douglas, 1954); It Came from Beneath the Sea (Il mostro dei mari, Robert Gordon, 1955); The Amazing Colossal Man (I giganti invadono la Terra, Bert I. Gordon, 1957). La voga del periodo è tuttavia quella – più consona al nucleo fondamentale della narrativa mainstream – di storie che raccontano dell’attacco che gli alieni portano alla terra, dove talora il parallelismo alieni = nemici comunisti è talmente evidente da farne quasi delle opere di propaganda: funziona in questo modo The Puppet Masters (Il terrore dalla sesta luna), romanzo di Robert A. Heinlein, del 1951, nel quale l’equazione è resa esplicita dallo stesso autore. Derivato dalla medesima fantasia, e legittimamente interpretabile nella stessa chiave, è anche uno dei film fantascientifici di maggior impatto del periodo, Invasion of the Body Snatchers (L’invasione degli ultracorpi, Don Siegel, 1956), tratto dal romanzo The Body Snatchers, di Jack Finney, edito nel 195414. Viceversa, The Day the Earth Stood Still (Ultimatum alla Terra, Robert Wise, 1951) è un film che capovolge il punto di osservazione: l’alieno è più umano, e certamente più saggio, degli umani, destinati all’autodistruzione, ove non abbandonino le loro bellicose attitudini. (3) Infine, senza mezzi termini e senza passare attraverso allusive metafore, talora le majors di Hollywood accettano di produrre opere di pura e diretta propaganda, come The Iron Curtain (Il sipario di ferro, William A. Wellman, 1948, 20th Century Fox), The Woman on Pier 13, in origine intitolato I Married a Communist (Lo schiavo della violenza, Robert Stevenson, 1949, Rko), The Red Menace (R.G. Springsteen, 1949, Republic Pictures), I Was

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a Communist for the FBI (Gordon Douglas, 1951, Warner Bros.), My Son John (Leo McCarey, 1952, Paramount) e Big Jim McLain (Marijuana, Edward Ludwig, 1952, Warner Bros., con John Wayne come protagonista). Questi film – osservano Gorman e McLean –, esprimendo appieno le ossessioni maccartiste, presentavano un mondo in cui capoccia comunisti spietati, corrotti e cinici, praticamente indistinguibili dai personaggi dei film di gangster, tramavano il rovesciamento della democrazia americana e sfruttavano la credulità di insegnanti, intellettuali, sindacalisti e neri per raccogliere reclute a favore della propria causa. Nel dubbio riguardo alla disponibilità dell’industria cinematografica a dare il proprio contributo alla Guerra fredda, gli studios collaborarono con il Dipartimento di stato e con altri organi del governo federale per assicurare che non fossero esportati film inopportuni. Si facevano consigliare sul contenuto dei film da rappresentanti dei Capi di stato maggiore riuniti e da agenti della CIA appositamente distaccati a Hollywood15.

Produzioni di questo tipo sono indotte anche dal pesantissimo attacco politico che Hollywood subisce nel 1947, con un’inchiesta aperta dall’Huac16. L’inchiesta viene sollecitata da un’associazione conservatrice attiva a Hollywood, la Motion Picture Alliance for the Preservation of American Ideals, e si avvale di testimonianze rilasciate da celebrità come Walt Disney, Jack Warner, Gary Cooper, Robert Taylor, Robert Montgomery, Lela Rogers (la madre di Ginger), Ronald Reagan e Adolphe Menjou. Diciannove sceneggiatori, attori e registi sospettati di attività sovversive sono convocati davanti alla Commissione. Dieci di loro (sette sceneggiatori, due registi e un produttore)17 si rifiutano di rispondere in nome della libertà di espressione, e per questo sono incarcerati con pene fino a un anno per «disprezzo del Congresso». In una riunione che si tiene al Waldorf Astoria di New York il 24 novembre 1947 i responsabili delle majors cinematografiche decidono di licenziare i dieci condannati e di allontanare tutte le persone sospettate (a torto o a ragione) di filocomunismo. Le liste di proscrizione di Hollywood colpiscono circa 300 persone. Chi vuole evitare l’ostracismo deve denunciare all’Huac i colleghi filocomunisti, dimostrando così di aver abbandonato la fede comuni-

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sta, come in un moderno autodafé. In effetti, sia i dieci condannati che molte altre vittime della repressione sono, o sono stati, comunisti; tuttavia non hanno compiuto alcun atto criminale, e lo stesso CP-Usa all’epoca dell’inchiesta è ancora legale. Loro, come molti altri coinvolti, vengono colpiti per un reato di opinione che la Costituzione statunitense, alla quale i dieci si sono inutilmente appellati, risolutamente esclude18. 3. Arriva la televisione La tempesta anticomunista non è l’unica grana che il mondo di Hollywood deve fronteggiare, giacché altre, anche più concretamente minacciose, si materializzano proprio nello stesso momento. Nel 1948 una sentenza della Corte Suprema, che chiude una lunga causa antitrust intentata sin dal 1938 dal Dipartimento della Giustizia contro le maggiori case cinematografiche, le costringe a vendere le catene di sale cinematografiche che possedevano (cosa non da poco, visto che le majors avevano il 70% delle sale di prima visione). Le norme antitrust, inoltre, costringono tutte le majors a recedere dalle pratiche commerciali che negli anni precedenti, grazie ai vantaggi oligopolistici di cui godevano, le avevano messe in grado di forzare gli esercenti autonomi ad accettare in blocco le loro produzioni. Si tratta di norme che costringono le case cinematografiche a mutare le loro modalità organizzative e ad abbandonare la struttura verticalmente integrata (dalla concezione alla produzione, alla distribuzione, alla proiezione dei film) che era tipica del cinema americano dei decenni precedenti. Adesso il sistema cambia: la produzione dei film viene affidata a singole aziende indipendenti che contattano sceneggiatori, registi e attori, mentre le majors si riservano il ruolo di finanziamento e distribuzione19. Nonostante questa riorganizzazione, la decisione della Corte Suprema è comunque un duro colpo. Ma non è niente in confronto alla concorrenza che il cinema deve subire dall’immediato e travolgente successo riscosso da un altro mezzo di comunicazione di massa, la televisione. Negli Usa le trasmissioni televisive a

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Tab. 1. Diffusione della televisione negli Usa, 1946-1959. Numero di televisioni

1946

20.000

% di famiglie che possiede una TV

0,02

Numero di stazioni TV

6

1950

3.900.000

8,1

104

1955

30.500.000

64,0

458

1959

44.000.000

86,0

609

Fonte: Gary R. Edgerton, The Columbia History of American Television, Columbia University Press, New York 2007, pp. 103 e 124; e da Lyn Gorman - David McLean, Media e società nel mondo contemporaneo, il Mulino, Bologna 2011, p. 153.

carattere commerciale sono autorizzate dal 1945 e le aziende più pronte a costruire un loro network nazionale sono le stesse che già dominano le trasmissioni radiofoniche, ovvero la Nbc, la Cbs e la Abc20. La diffusione degli apparecchi televisivi avviene a una rapidità impressionante (Tab. 1), e il mercato delle attrezzature è uno di quelli che danno una spinta straordinaria all’economia statunitense di questi anni. Il sistema televisivo si modella sin da subito sulla forma di quello radiofonico. Le emittenti sono aziende private che si finanziano attraverso la vendita di spazi di programma a inserzionisti pubblicitari. Inizialmente il sistema prevede che le aziende che pagano per la pubblicità si occupino anche della produzione dei programmi. In questo caso, in un programma di mezz’ora, interamente prodotto a spese dell’inserzionista, c’è uno slot pubblicitario iniziale di alcuni minuti, un’interruzione pubblicitaria dopo un quarto d’ora, e uno slot di chiusura, dopo la fine, o immediatamente prima della fine del programma. Il sistema cambia, nel corso degli anni Cinquanta, e in particolare dopo che nel 1959 uno scandalo mostra che diversi programmi a quiz, prodotti da agenzie pubblicitarie, erano stati manipolati per far vincere concorrenti particolarmente telegenici. Da allora in avanti le emittenti vendono singoli slot di tempo, mentre la produzione o la supervisione dei programmi passa interamente alla dirigenza dell’emittente. Fondamentale, in tutto ciò, è la valutazione dell’audience, giacché dal maggiore o minor successo del pro-

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gramma dipende il maggiore o minor valore dello slot temporale contiguo riservato alla pubblicità21. Similmente al sistema radiofonico, anche quello televisivo si struttura attraverso l’espansione dei network nazionali: ogni network può possedere un numero limitato di stazioni, ma può sottoscrivere contratti con le emittenti autonome per la trasmissione di programmi concepiti dal network centrale. Quasi tutte le emittenti autonome sono collegate a uno dei grandi network (Cbs, Nbc, Abc) e riservano più del 60% del tempo di trasmissione a programmi nazionali, forniti dal network centrale22. La concorrenza della televisione dà un duro colpo all’industria cinematografica. Dal 1946 al 1950 gli spettatori nelle sale scendono a meno della metà. La gente apprezza la comodità e la novità della televisione, specie se ha una certa età. Preferisce stare a casa, con i familiari (e inizialmente anche con gli amici che ancora non possiedono un apparecchio televisivo), soprattutto se si tratta di famiglie che si sono trasferite nei sobborghi residenziali dove ancora i cinema non ci sono. L’eccezione è costituita dal pubblico giovanile, il quale predilige, in particolare, la novità dei drive-in, perché i biglietti costano meno, e in macchina, al buio, è più facile avere esperienze sessuali: nel 1945 ci sono 20 drive-in in tutto il paese; tra 1945 e 1948 ne vengono costruiti più di 800, che diventano 2.000 nel 1950 e più di 4.000 nel 195623. Oltre a cercare di sfruttare questo cambiamento nella demografia del pubblico, con la produzione di film calibrati sui gusti giovanili, l’industria cinematografica cerca di reagire adottando anche importanti innovazioni tecnologiche, come la proiezione su grande schermo con le tecniche Cinerama, Vistavision e Cinemascope, l’uso sistematico del colore, o il tentativo – peraltro fallimentare – di introdurre il 3D24. Ignorando le direttive antitrust, inoltre, continua il processo di concentrazione societaria, sebbene in forme diverse da quelle realizzate negli anni Trenta. E così, nel 1952 la Universal Pictures è acquistata dalla Decca Records Corporation, ed entrambe sono poi acquisite nel 1962 dalla Mca, originariamente un’agenzia di talenti per le produzioni cinematografiche. Più tardi la Paramount viene acquistata dalla Gulf

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and Western Industries Corporation, una conglomerata che opera prevalentemente nel settore siderurgico e minerario (1966); la United Artists viene acquisita dalla Transamerica Company di San Francisco, colosso delle assicurazioni e dei servizi finanziari (1967); la Warner Bros., che ha costituito un suo ramo discografico, la Warner Records, acquisendo il controllo di varie case discografiche indipendenti (Reprise; Atlantic; Elektra), viene acquistata in blocco dalla Kinney National Services, un gruppo di New York che si occupa di parcheggi, autonoleggi, costruzioni e pompe funebri (1969); dopodiché la Kinney acquista anche la Ashley, agenzia di talenti di Hollywood, la National Periodical Publications (DC Comics), un editore che pubblica anche Superman e Batman, e la Panavision, un’azienda che produce fotocamere e attrezzature cinematografiche25. Ma nessuna di queste soluzioni riesce a invertire la tendenza, e anzi una delle majors hollywoodiane – la Rko – deve chiudere i battenti26. In effetti, non sono queste le soluzioni che rilanciano l’industria cinematografica: ciò che consente di superare la grave fase di crisi è proprio un’alleanza strategica con i network televisivi. L’alleanza assume due forme: da un lato, le TV noleggiano o acquistano gli archivi filmici delle case cinematografiche holly­ woodiane, potendo con ciò trasmettere in prima serata film di più o meno recente produzione27; dall’altro, i network televisivi e le majors hollywoodiane cominciano a collaborare direttamente per la produzione di telefilm, ovvero di film (autoconclusi o a puntate) espressamente pensati per la televisione. Questo sviluppo è particolarmente significativo, ed è avviato dal minore (all’epoca) dei network televisivi, la Abc. Il network viene acquistato nel 1953 dalla United Paramount Theaters (Upt), ovvero dall’azienda che gestisce la catena di sale cinematografiche un tempo di proprietà della Paramount, e ora autonoma per effetto della sentenza della Corte Suprema del 1948. A capo della Upt, e di conseguenza della Abc, c’è Leonard Goldenson che, nell’aprile del 1954, sottoscrive un contratto con la Walt Disney Co., secondo il quale la Disney si impegna a produrre un programma televisivo esclusivo per la Abc, mentre la

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Abc si impegna a cofinanziare la costruzione di un parco a tema, progettato dalla Disney ad Anaheim, alla periferia di Los Angeles. L’operazione si rivela uno straordinario successo. La Disney produce Disneyland, una trasmissione settimanale di un’ora, articolata in quattro parti corrispondenti alle quattro sezioni tematiche del parco (Frontierland, Tomorrowland, Adventureland e Fantasyland), che debutta sulla Abc il 27 ottobre del 1954. Poco meno di un anno dopo ad Anaheim apre Disneyland (17 luglio 1955), mentre nello stesso 1955 la Abc trasmette anche Mickey Mouse Presents. L’iniziativa ha un impatto impressionante, con una serie di spin off transmediali, una sequenza di ri-trasmissioni delle varie puntate dei programmi già trasmessi e una infinita produzione di gadget collegati ai personaggi principali dei programmi. A partire da questo esperimento, i contratti con le altre majors hollywoodiane per la produzione di film o di serie televisive si moltiplicano, e spingono anche gli altri network a seguire la Abc su questa strada, tanto che alla fine del 1956 Hollywood – in una forma o nell’altra – produce il 71% della programmazione televisiva di prima serata, una percentuale che nel 1965 raggiunge il 90%28. Inizialmente le trasmissioni televisive sono dei riadattamenti dei programmi radiofonici, trasferiti in video. Riproducendo i caratteri della programmazione radiofonica, i produttori televisivi concepiscono programmi che evitano argomenti complessi, concentrandosi quasi esclusivamente su varietà leggeri e su serie TV per famiglie. L’eccezione è costituita dalle pièce teatrali riprese dal vivo, un ciclo di trasmissioni di qualità che tuttavia, a metà degli anni Cinquanta, viene abbandonato da tutti i network a favore di una programmazione meno impegnativa29. Queste scelte sono il frutto di una deliberata strategia che da un lato vuole evitare di esporre i network a eventuali indagini come quella che l’Huac ha avviato sul mondo di Hollywood, e dall’altro soddisfa una convinzione radicata negli inserzionisti pubblicitari che ritengono che i programmi drammatici, o non divertenti, o privi di un rassicurante lieto fine, facciano fuggire il pubblico, e quindi rendano inefficienti gli spot pubblicitari che vi sono associati30.

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Inoltre, sino alla fine degli anni Sessanta, l’intera programmazione è pensata per un pubblico bianco: gli afroamericani non compaiono nei programmi, se non in ruoli marginali e di secondo piano31. Tra le produzioni televisive di maggior successo si impongono subito i varietà, i quiz e soprattutto le serie televisive, tra le quali riscuotono un buon successo le soap, molte delle quali trasmigrano dalla radio al nuovo mezzo televisivo32. Ma un impatto anche maggiore hanno le serie televisive che ripercorrono (e irrigidiscono) i moduli delle narrazioni mainstream, coltivando generi già molto radicati nella letteratura popolare, nella radiofonia o nel cinema, come i gialli (Dragnet, Nbc, 1952-1959, 19671970; 77 Sunset Strip, Abc, 1958-1964); i western (Gunsmoke, Cbs, 1955-1975; Wagon Train, Nbc-Abc, 1957-1965; Bonanza, Nbc, 19591973); i legal thriller (Perry Mason, Cbs, 1957-1966). In queste serie a puntate autonome è essenziale il riproporsi dello stesso protagonista, circondato da un numero limitato di comprimari, con una struttura narrativa che ripercorre spesso la medesima parabola, modellata intorno a una polarizzazione dicotomica tra bene e male che si conclude invariabilmente con un happy ending e con la restaurazione dell’armonia iniziale33. Ciascuna di queste componenti delle serie a puntate produce subito un fenomeno assai rilevante sia dal punto di vista economico che culturale, ovvero una evidente fidelizzazione di sezioni significative del pubblico al serial televisivo prediletto. Proprio per questo motivo tali programmi sono particolarmente apprezzati dagli sponsor che, associandosi ai serial, sanno di poter contare su un pubblico di riferimento non solo quantitativamente numeroso, ma anche relativamente costante nel tempo34. Gran parte di questa produzione aveva già i suoi precedenti, come abbiamo visto, nelle programmazioni radiofoniche o cinematografiche. Ma accanto a questi format se ne impone uno che, pur avendo già avuto il suo esordio alla radio, trova tuttavia ora nella televisione il suo mezzo d’elezione, ovvero la sitcom: nella versione che si impone dalla metà degli anni Cinquanta si tratta di una commedia che ha al suo centro un nucleo familiare, nor-

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malmente collocato nella nuova ambientazione dei sobborghi residenziali. Le storie, tutte di impianto gentilmente comico, ironizzano sulle tensioni interne al matrimonio e alla famiglia, descrivendo per esempio gli sconclusionati tentativi che una casalinga compie per ritagliarsi un qualche ruolo professionale, senza mai riuscirci (I Love Lucy, Cbs, 1951-1957), o le tensioni intrafamiliari provocate dalle varie esigenze di figli e figlie adolescenti (Father Knows Best, Cbs-Nbc, 1954-1960; The Adventures of Ozzie and Harriet, Abc, 1952-1966). La conclusione positiva dei piccoli drammi comici che attraversano questi nuclei familiari vuole rimarcare la rassicurante centralità della «home», identificata come la vera struttura portante della società americana35. Inoltre, come altre forme narrative seriali basate su puntate autoconcluse, anche le sitcom disegnano una parabola narrativa che ha – nella sua stessa forma – un messaggio rassicurante da offrire: all’inizio di un episodio – spiega Jerry Palmer – la situazione dev’essere la stessa che all’inizio di tutti gli altri, e quindi la struttura narrativa della sitcom è sempre circolare: all’inizio di ogni episodio accade qualcosa che turba il normale andamento delle cose; alla fine dell’episodio lo status quo è stato restaurato. Questo status quo è sempre implicitamente dato dal sistema di relazioni che dà vita a una famiglia, giacché i personaggi delle sitcom compongono sempre delle pseudo-famiglie o delle famiglie reali [come nel caso dei Nelson di The Adventures of Ozzie and Harriet o di Lucille Ball e Desi Arnaz, in I Love Lucy], nel senso che sono legati per la durata della serie da un sistema di intense relazioni, costantemente riprodotte. Il contrasto con altre forme di commedia è chiaro: laddove queste ultime raccontano di un cambiamento [per esempio nella forma dei due giovani che sono ostacolati nel loro amore all’inizio, e che alla fine fanno trionfare il loro amore], la sitcom ritorna sempre al punto iniziale, dato dal gruppo famigliare; per questo [...] la sitcom è un genere profondamente conservatore36.

4. Forme della libertà In ciascuno dei programmi televisivi citati, e in particolare nelle sitcom, la pubblicità entra immediatamente dentro le storie, a volte quasi senza soluzione di continuità. La puntata iniziale di The Adventures of Ozzie and Harriet (3 ottobre 1952, sulla Abc),

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per esempio, è strutturata in questo modo: schermata di apertura sul cancello di casa della famiglia Nelson, poi movimento della macchina verso una ripresa esterna della graziosa villetta suburbana nella quale Ozzie, Harriet e i loro due figli vivono; in sovrapposizione compare il nome della Hotpoint Appliances, la ditta di elettrodomestici che sponsorizza il programma, mentre una voce fuori campo ricorda che lo spettacolo è offerto da quella ditta, e passa a presentare brevemente, uno per uno, i protagonisti del programma. Siamo all’incirca alla fine del primo minuto. Poi si apre un’inquadratura su un lavandino domestico (potrebbe essere quello dei Nelson), con una donna che lava i piatti, e una voce fuori campo che introduce lo spot: «Piatti, piatti, piatti... tre volte al giorno, ogni giorno della tua vita...». La voce si materializza nella figura di un attore, vestito in giacca e cravatta (come, peraltro, anche i personaggi adulti del programma), che pubblicizza una lavastoviglie Hotpoint; lo spot dura fino al terzo minuto; un cartiglio nero con scritte bianche, che ricorda ancora il nome della ditta, serve da brevissima separazione tra la pubblicità e l’inizio della storia, che però al minuto 16 si interrompe di nuovo per un altro spot Hotpoint che dura sino al minuto 18, quando la storia riprende; al minuto 28 c’è il terzo spot, che dura 40 secondi, per lasciar spazio ai 40 secondi conclusivi della storia; poi scorrono i titoli di coda, chiusi da un breve spot della Listerine, e da una pubblicità istituzionale sulla donazione di sangue. Nel sistema di comunicazione mainstream – che si tratti di rotocalchi, di trasmissioni radiofoniche o di programmi televisivi – gli spazi pubblicitari non sono mai chiaramente distinti dagli spazi della programmazione ordinaria. In tal modo la pubblicità entra a far parte del sistema narrativo, integrandosi inestricabilmente con le pagine dei quotidiani o dei rotocalchi, o con le storie raccontate dalle serie televisive. Sia dal punto di vista tecnico che da quello economico – osservano Horkheimer e Adorno – la pubblicità e l’industria culturale si fondono fra di loro. Nell’una come nell’altra la stessa cosa appare in luoghi innumerevoli, e la ripetizione meccanica dello stesso prodotto culturale è già quella dello

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stesso slogan propagandistico. Nell’una come nell’altra, sotto l’imperativo dell’efficienza operativa, la tecnica diventa psicotecnica, tecnica della manipolazione degli esseri umani. Nell’una come nell’altra valgono le norme di ciò che dev’essere sorprendente e tuttavia familiare, di ciò che dev’essere facile e leggero e tuttavia penetrante e incisivo, di ciò che dev’essere esperto e qualificato e tuttavia semplice e banale; si tratta sempre di trovare il modo di soggiogare e conquistare il cliente, che ci si rappresenta come distratto o riluttante a lasciarsi indirizzare come si deve37.

Ovviamente, le narrazioni pubblicitarie tendono a minimizzare valori quali la frugalità o la semplicità, enfatizzando invece il valore positivo del consumo come acquisizione di simboli di status. Per farlo, invocano il parere degli esperti, che vogliono apparire come dispensatori di consigli che aiutano i lettori, gli ascoltatori o i telespettatori a compiere scelte decisive per la salute e la felicità propria e dei propri cari. Ai potenziali consumatori si vuole far credere che l’acquisto di un particolare oggetto possa aiutare ad allontanare le più ovvie cause di infelicità: la fatica dei lavori domestici, la malattia, la solitudine, l’invecchiamento. In qualche caso è la pubblicità stessa che esagera la minaccia che normalissimi disturbi – gli odori corporei, la forfora, l’alitosi – possono arrecare alla vita sociale di una persona: tutte minacce che possono essere sventate con l’acquisto del prodotto «giusto». Si punta anche esplicitamente al pubblico femminile, sottolineando che le scelte di consumo compiute dalle donne attribuiscono loro importanza e sono un’espressione della loro sovranità. Resta comunque dominante un’immagine tradizionale della femminilità: e anzi, quanto più il mercato si popola di prodotti «per la casa» (elettrodomestici, detersivi, mobili di arredamento), tanto più la pressione si orienta verso le donne, identificate come i soggetti che presiedono alla cura degli spazi domestici. Inoltre, la pubblicità vuole trasmettere l’idea che già esista qualcosa di simile a una società senza classi, in cui ognuno, con appena un po’ di iniziativa e di fortuna, può fare come tutti, e comprare ciò che il mercato offre. A questo servono locuzioni molto diffuse negli slogan come «ogni donna può acquistare...», «ogni famiglia può permettersi...»38. L’ideologia di fondo sugge-

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risce che non c’è bisogno di combattere per l’eguaglianza, perché essa esiste già, sotto forma della disponibilità di una enorme quantità di beni di consumo a prezzo relativamente basso. La fase di grande espansione economica e la crescita dei redditi disponibili per le famiglie di ogni collocazione sociale sembrano dare fondamento a questa visione che invece distorce la realtà statunitense, ancora attraversata da profondissime diseguaglianze socioeconomiche, giacché alla fine degli anni Cinquanta un quarto dei cittadini americani, pari a 42,5 milioni di persone, vive in condizioni di povertà39. Se non c’è una netta divisione di classe, nelle narrazioni pubblicitarie c’è di sicuro una netta divisione di razza e di genere. Nelle trasmissioni televisive o giornalistiche non ci sono pubblicità con o per neri/nere, se non negli annunci pubblicitari editi nelle pubblicazioni destinate a un pubblico nero, come «Ebony» (mensile, dal 1945) o «Jet» (settimanale, dal 1951). Al tempo stesso, sia nelle pubblicità per la middle class afroamericana sia in quelle per il pubblico bianco, le distinzioni di genere sono piuttosto marcate, nel senso che ci sono prodotti associati ai valori ideali della mascolinità e prodotti associati ai valori ideali della femminilità. Riunioni professionali, auto, sport all’aria aperta, caccia, pesca son cose da uomini; i bambini, la casa, la cucina, l’arredamento son cose da donne. Le stesse pubblicità per gli apparecchi televisivi, che insistono molto sulla forza coesiva della televisione, strumento in grado di tenere unita una famiglia nella sua casa, scandiscono implacabilmente le differenze e i ruoli di genere, rappresentando per esempio il capofamiglia seduto in poltrona che guarda la tv, mentre la moglie in piedi sparecchia sbirciando appena verso lo schermo40. La grande e positiva valorizzazione della domesticità come «regno» della donna che non lavora e che soprintende agli acquisti domestici viene – in un certo senso – investita anche di un significato politico-istituzionale attraverso il cosiddetto «kitchen debate» («dibattito della cucina»), ovvero la discussione fra il vicepresidente statunitense Richard Nixon e il premier sovietico Nikita Chruščëv, che ha luogo a Mosca, all’apertura dell’Esposi-

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zione nazionale americana (National American Exhibition), il 24 luglio 1959, con Nixon impegnato a mostrare le nuove e straordinarie libertà (di tempo, di movimento) che le casalinghe americane ricavano dall’acquisto e dall’uso dei nuovi ritrovati della tecnologia nel campo dell’economia domestica (lavatrici, frigoriferi, detersivi). Da questo punto di vista, e in un dialogo implicito ma evidente con le narrazioni pubblicitarie, film di successo come Cinderella e Sabrina (Billy Wilder, 1954, con Audrey Hepburn, Humphrey Bogart e William Holden) illustrano l’ideale perfetto delle donne costruite dalla cultura mainstream: chiuse in casa, capaci di fare ogni tipo di lavoro domestico, e persino anche in grado di stupire con qualche «numero» da casalinghe perfette, come farsi un bel vestito da danza tutto da sola (Cinderella, sebbene con l’aiuto dei topini domestici...) o spaccare le uova per una frittata con una mano sola (Sabrina); ma, al tempo stesso, romanticamente perse dietro al sogno di un principe azzurro, la cui conquista, in questo caso più esplicitamente che nelle commedie di prima della guerra, prelude a un fastoso matrimonio (mostrato solo in Cinderella). Che il principe azzurro sia ricco sfondato non è affatto un male, da due punti di vista. Da un lato propone una particolare declinazione del sogno americano di ascesa dalle stalle alle stelle, sebbene adattato all’immagine di donna che domina nel periodo: e quindi, è il matrimonio di una donna povera con un uomo ricco che consente a lei di passare da una condizione sociale a un’altra, non una qualche sua particolare qualità professionale. Dall’altro segnala una tendenza, presente anche in altri film del periodo (da How to Marry a Millionaire a Gentlemen Prefer Blondes [Gli uomini preferiscono le bionde], Howard Hawks, 1953), del tutto coerente con il clima politico dominante: il populismo che connotava almeno una parte della produzione mainstream degli anni della Grande Depressione in opere così diverse come The Grapes of Wrath o It’s a Wonderful Life (La vita è meravigliosa, Frank Capra, 1946) e molte altre ancora, adesso è messo da parte. La crescita economica, la casetta nei sobborghi, il reddito crescente, l’economia che funziona, ora fanno pensare ai ricchi come ai leader naturali della comuni-

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tà, piuttosto che immaginarli come squali affamatori del popolo. Né si tratta di scelte prive di input strategici, poiché già nel 1946 il presidente della Motion Picture Producers and Distributors of America, Eric Johnston, annunciando una nuova era nella produzione hollywoodiana, dice agli sceneggiatori: Non si faranno altri Furore, non si faranno altri La via del tabacco, non faremo più film che trattino del lato brutto della vita americana. Non si faranno più film dove il banchiere fa la parte del cattivo41.

È chiaro che anche le storie che hanno a che fare con l’amore e il matrimonio comportano rilevanti implicazioni etiche. D’altronde, la valorizzazione della famiglia intesa come nucleo fondamentale per il quale si deve vivere e si dev’essere anche pronti a morire è stato – accanto alla difesa della democrazia – uno degli ingredienti fondamentali della propaganda di guerra. Ebbene, questo tipo di valorizzazione simbolica della famiglia non viene affatto abbandonato nel dopoguerra. Cambia il nemico, ma la ragione per combattere resta la stessa: contro le malevole trame delle spie comuniste – così potrebbe riassumersi la cifra propagandistica dominante – si deve essere vigili e patriottici, per difendere la libertà di costruirsi una famiglia in un ambiente economicamente prospero e baciato dal valore della libertà42. Naturalmente sono una libertà e un modello ideale di famiglia che hanno dei confini ben precisi. Di sicuro sono una libertà e una famiglia razzialmente segregate. Nel 1945 trenta Stati della Federazione possiedono leggi che, in varia forma, proibiscono i matrimoni interrazziali, e in primo luogo i matrimoni tra una persona di «razza» bianca e una di «razza» nera. In un sondaggio coevo il 92% dei bianchi del Nord e il 99% di quelli del Sud ritengono giuste le norme che proibiscono i matrimoni tra le «razze»; e, ancora a metà degli anni Sessanta, più della metà dei bianchi intervistati al Nord e 3/4 di quelli intervistati al Sud si dichiarano contro i matrimoni interrazziali43. Inoltre l’ideale familiare dominante non ammette altro che una sessualità etero: fino al 1961 in tutti gli Stati degli Usa esisto-

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no leggi che trattano la sodomia come un reato penale; inoltre sin dalla pubblicazione, nel 1952, del primo Diagnostic and Statistical Manual of Mental Disorders (DSM-1), l’Associazione degli psichiatri americani considera le preferenze omosessuali come sintomi di uno specifico disturbo di personalità44; ne consegue che, anche nell’opinione comune, gay e lesbiche attirano su di sé riprovazione e disprezzo. Se ciò non bastasse, in nome del rinnovamento politico e morale, e in parallelo alla crociata anticomunista, se ne lancia anche una omofoba: la cosiddetta «lavender scare» è la persecuzione contro gay e lesbiche nell’apparato federale e statale, dettata dal principio secondo il quale queste persone potevano essere esposte a ricatti e pressioni che avrebbero potuto distorcere la loro attività professionale45. Nell’aprile del 1953 Eisenhower emana un ordine esecutivo che proibisce l’assunzione di gay o lesbiche in tutte le strutture federali. L’Fbi ha l’incarico di sorvegliare che gli omosessuali non si insinuino nei ranghi federali. La polizia in varie città compie sistematici raid antigay, mentre anche la stampa monta campagne denigratorie46. John D’Emilio ed Estelle B. Freedman, autori di un’importante storia della sessualità nell’America contemporanea, così commentano queste misure: Che una nazione mobilizzasse risorse così ingenti contro una minaccia immaginaria alla sua sicurezza è indice della profondità delle tensioni nella società americana postbellica. [...] Gli americani dopo la seconda guerra mondiale stavano tornando alla domesticità con un rinnovato fervore come al fondamento della stabilità sociale. Negli anni Cinquanta del baby boom, con il loro peana all’unità domestica, la visibilità di gay e lesbiche suggeriva la potenziale fragilità delle norme familiari eterosessuali47.

Da qui, la durezza inusitata della reazione, orientata a sedare ansie, più che a debellare minacce. L’altra faccia dell’omofobia è la preoccupazione dilagante per ciò che all’opinione pubblica più conservatrice sembra un vero e proprio crollo morale, testimoniato dai rapporti di ricerca di Alfred Kinsey, Sexual Behavior in the Human Male (1948) e Sexual Behavior in the Human Female (1953), che abbiamo già ricordato

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nel paragrafo 2 del capitolo IV, e che mostrano la grande diffusione di pratiche sessuali (masturbazione, omosessualità, sessualità pre- ed extramatrimoniale) che all’epoca sono largamente condannate. Lo shock collettivo che ne deriva è impressionante: opinion makers, politici, pedagogisti, accademici sono coinvolti in una discussione collettiva su come ricondurre americani e americane a comportamenti moralmente più accettabili, e tra le varie ipotesi prese in considerazione c’è anche quella di incoraggiare un matrimonio precoce48. In realtà il processo è già autonomamente in corso: dagli anni della guerra c’è un aumento costante nel numero dei matrimoni e un netto abbassamento dell’età al matrimonio, che dal 1930 al 1956 passa da 24,3 anni a 22,5 per i maschi e da 21,3 a 20,1 per le femmine49. I nati vivi ogni 1.000 donne tra i 15 e i 44 anni passano da 76/1.000 nel 1937 a 123/1.000 nel 195750: si tratta di una crescita demografica imponentissima, che opportunamente, in linguaggio giornalistico, viene descritta come un vero e proprio «baby boom». L’aumento delle nascite è certamente frutto dell’entusiasmo suscitato dalla fine della guerra e dell’ottimismo collettivo alimentato dalle possibilità di realizzazione economica che adesso sembrano facilmente raggiungibili. Ma certo è frutto anche di una pressione ideologica e normativa che converge sulla positiva valorizzazione etica della famiglia nucleare, che una parte cospicua dei teenager che si radunano nelle high s­ chools americane del secondo dopoguerra accolgono e rielaborano in forme originali all’interno delle loro comunità. 5. «Going steady» L’ulteriore crescita di iscrizioni nel corso degli anni Cinquanta rende le high schools ancora più importanti di prima nella formazione di un’identità generazionale specifica. Tra 1950 e 1960, la percentuale dei ragazzi e delle ragazze che frequentano le scuole superiori sul totale della classe di età corrispondente passa dal 60% al 72%; e negli anni seguenti la crescita non si arresta affatto51. Non meno significativi sono i mutamenti che riguarda-

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no la frequenza nei college e nelle università52. Come detto nel paragrafo 1 del capitolo IV, dagli anni Venti fino allo scoppio della seconda guerra mondiale si è registrata una crescita piuttosto modesta delle iscrizioni, dal 3 al 13% sul totale della popolazione compresa tra i 20 e i 24 anni53. La situazione cambia completamente nel 1944 con l’approvazione del G.I. Bill54. Per garantire il successo dell’operazione le università modificano i loro regolamenti, ammettendo all’iscrizione anche i «veterani» che non hanno conseguito il diploma di scuola superiore. Coloro che utilizzano questi benefici sono molti (2.300.000, di cui oltre 1.000.000 si iscrivono ai college universitari). I risultati ottenuti dalla maggioranza di queste particolari matricole sono relativamente buoni; e ciò significa che un numero considerevole di giovani di classe medio-bassa, che in condizioni normali non sarebbero andati al college, adesso completano con successo uno dei curricula universitari55. Nel 1950 il Congresso approva il Selective Service Act, che autorizza gli studenti universitari a rinviare il servizio militare. Nel 1953, con la fine della guerra di Corea, una nuova leva di «veterani» sceglie di nuovo la via dell’iscrizione ai corsi universitari. Intanto un numero cospicuo di genitori dei ragazzi e delle ragazze iscritti nelle high schools incoraggia i figli e le figlie a proseguire gli studi, non solo perché quella sembra la strada migliore per tentare un’ascesa sociale, ma anche perché i posti di lavoro che possono essere ottenuti col solo diploma di scuola superiore cominciano a scarseggiare56. Si tratta anche di un’importante esperienza di vita, poiché la grande maggioranza degli studenti e delle studentesse si trasferisce dalle case di famiglia nei campus dei college e delle università. Le istituzioni universitarie private rispondono all’aumento della domanda facendo lievitare gli standard di ammissione e le rette di iscrizione57. Gran parte dei nuovi iscritti si orientano così verso le istituzioni universitarie pubbliche, dove si adotta un’altra soluzione: l’accesso ai college è garantito a tutti; però solo i diplomati delle high schools con un curriculum particolarmente buono vengono ammessi ai corsi quadriennali offerti dalle uni-

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versità o dai senior colleges, mentre gli altri vengono dirottati verso i corsi biennali offerti dai community colleges58. Si tratta di un sistema che tra anni Cinquanta e anni Sessanta viene adottato da tutti gli Stati e che incentiva le iscrizioni, poiché nel corso del ventennio buona parte della crescita delle immatricolazioni è dovuta proprio all’incremento degli iscritti nei corsi biennali59. In tutti i livelli educativi universitari, inoltre, aumentano costantemente le studentesse, che nel 1950 sono il 32% di tutti gli studenti universitari, diventando il 37% nel 196060. Più in generale, infine, i dati aggregati ci dicono che la crescita della popolazione universitaria sulle corrispettive classi di età è costante e significativa (nel 1940 è il 13% sul totale della popolazione di età compresa tra i 20 e i 24 anni; nel 1950 è il 23%; nel 1960, il 30%)61. Gran parte dei nuovi iscritti viene da famiglie a basso reddito delle comunità afro- o latinoamericane. Tuttavia gli studenti neri, i latinos e i bianchi di famiglia povera tendono a restare sottorappresentati tra gli studenti universitari rispetto al loro peso complessivo sulla fascia d’età, concentrandosi soprattutto nei corsi biennali e costituendo una percentuale minima nelle università private o statali più prestigiose. Negli Stati del Sud, poi, continua ancora a funzionare un sistema educativo segregato, con college riservati esclusivamente a studenti e studentesse della comunità afroamericana, di solito sottofinanziati e di minor prestigio ed efficienza62. Al di là di questi meccanismi istituzionali di selezione, sia nelle high schools che nei college o nelle università continua a vigere una segmentazione relazionale animata dall’esistenza di diverse fraternities o sororities, distinte per genere, per gruppo etnico, per confessione religiosa, per estrazione socioeconomica, e dalle consuete – e severe – strategie della distinzione. Il sistema centrato sulla popolarità come criterio per essere ammessi nelle leading crowds, cioè nei gruppi amicali di élite composti da ragazze e ragazzi di classe medio-alta, continua a essere il meccanismo discriminante primario. Ora la selettività sociale e razziale in vigore nella costruzione della socialità scolastica non è certo minore di quel che fosse prima della seconda guerra mondiale;

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anzi, adesso la distinzione tra leading crowds delle high schools e le gang amicali marginali si fa anche più netta di prima, giacché l’aumento della frequenza scolastica nelle high schools richiede la messa in atto di più efficaci strategie della distinzione. La principale frattura sociale corre tra i gruppi centrati sulla scuola e sulle attività parascolastiche e i gruppi che invece rifiutano l’inserimento a tempo pieno nella cornice di valori offerta dalle high schools, per crearsi una loro socialità extrascolastica; questi gruppi centrifughi sono composti prevalentemente da ragazzi e ragazze di estrazione sociale medio-bassa o di gruppi razzialmente discriminati: diversi di questi ragazzi e ragazze marginali entrano a far parte – occasionalmente o permanentemente – delle gang di strada63. All’interno delle high schools, in termini generali, i criteri selettivi che determinano la popolarità di una ragazza o di un ragazzo non sono cambiati rispetto ai decenni precedenti alla seconda guerra mondiale. Per essere popolari tra le ragazze, i ragazzi devono essere bravi atleti e avere la macchina – requisito assolutamente indispensabile per frequentare i drive-in; le ragazze devono far parte delle cheerleader, vestire alla moda ed essere attraenti64. Le ragazze, in particolare, adesso sono incoraggiate dalla pubblicità che costella le loro riviste, o le riviste delle loro mamme, ad acquistare e usare prodotti di bellezza, reggiseni di «ultima generazione» e makeup seducenti, tutti strumenti necessari per incontrare «Mr. Right»65. Per le ragazze si tratta in qualche modo di essere scoperte e scelte: la passività relazionale e la cura per l’aspetto esteriore si inscrivono infatti in una concettualizzazione delle virtù femminili che prevede – in linea di principio – che sia il maschio a scegliere la femmina che più lo attira, sulla base di un ideale di bellezza (interiore ed esteriore) interamente definito dai media66. Già da prima della seconda guerra mondiale, come abbiamo visto nel capitolo IV, nelle high schools si è imposto il dating system, cioè il sistema di appuntamenti per le uscite in coppia in uso tra ragazzi e ragazze67. Nel secondo dopoguerra c’è un mutamento ancor più significativo in un aspetto importante del da-

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ting system, poiché la pratica della rapida e frequente rotazione del partner viene sostituita dal going steady, cioè dalla formazione di una coppia fissa, pratica che in precedenza era diffusa quasi esclusivamente tra i ragazzi e le ragazze che non frequentavano le high schools. Per i genitori di classe medio-alta, questa del going steady è un’assoluta novità; e, diversamente dal dating system, molti di loro continuano a non vederla di buon occhio, poiché la considerano come una pratica socialmente squalificante e come una premessa a un’intimità sessuale inaccettabile per gli standard correnti68. Invece, sia le ragazze, sia soprattutto i ragazzi, apprezzano molto lo «stare insieme», perché è un tipo di relazione assai meno ansiogeno del dating system anteguerra. Non si rischia in continuazione di dover dire di no, o di sentirsi dire di no: una volta che ci si è messi insieme, è fatta (più o meno...)69. Dopodiché è anche vero che lo «stare insieme» apre effettivamente maggiori possibilità per pratiche erotiche di vario tipo, spesso non prive anche di una notevole intensità affettiva, sebbene resti valida la regola del doppio standard, per cui le ragazze «facili» hanno una bassa reputazione, quelle che «sanno tenere a bada i partner» sono le più rispettate, e i tombeurs de femmes sono i più in70. Nelle high schools, ciò che determina la reputazione è la pratica informale del gossip. Ma ci sono anche monitoraggi più formali: per esempio, molto spesso le riviste scolastiche pubblicano vere e proprie «schedature» delle coppie che si stanno frequentando: Negli anni Cinquanta le riviste delle high schools davano assidue informazioni sul panorama delle coppie. Sotto una varietà di rubriche, le riviste pubblicavano liste delle coppie attive, chiacchieravano delle coppie che si erano spezzate da poco, spingevano le coppie che stavano per formarsi a rendere pubbliche le loro intenzioni e costruivano indovinelli sull’argomento. Il «Saint Paul Central High School Times» pubblicava ogni anno – evidentemente sulla base di fonti ufficiali – una lista di tutte le coppie che partecipavano al cruciale Junior-Senior Prom71.

Ma lo stesso succede anche nelle università: quando si formano nuove coppie può capitare che la rivista del campus ne dia

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notizia al resto della comunità, come fa il «Tiger Rag», periodico della Memphis State University, facendo precedere l’articolo da commenti tipo «Quel monello di Cupido lascia che la sua freccia voli ancora», seguiti dalla lista degli innamorati72. Tutti questi aspetti mostrano che lo «stare insieme» è un sistema relazionale rivolto verso il gruppo dei pari e non verso i genitori o gli altri membri anziani delle famiglie, come il fidanzamento vecchio stile: ciò che è importante è che la coppia sia riconosciuta dal gruppo dei pari; la presentazione e il riconoscimento da parte dei membri della famiglia sono eventi non previsti dalla pratica del going steady73. Nondimeno, questa è anche una pratica che – in un certo senso – possiede una sua «istituzionalità»: Fare coppia fissa non significava essere in una situazione prematrimoniale, ma si era comunque incanalati in un percorso che comportava alcuni dei sentimenti e delle qualità richieste in un matrimonio. La «famiglia» trovava una controparte adolescenziale nella coppia fissa [...] Così, quando il «Saint Paul Central High School Times» pubblicava le sue liste di coloro che partecipavano ai Junior-Senior Proms, i nomi non erano distinti per genere ma erano pubblicati per coppia, ed erano disposti per ordine alfabetico del cognome del ragazzo. La pubblicazione di tali liste serviva a rafforzare il profilo istituzionale della coppia fissa e forse incoraggiava una più lunga durata delle relazioni. Se si mettono a confronto le liste di due anni successivi si scopre che quando i ragazzi ( junior evidentemente) tornavano per un secondo Prom, una metà circa ci tornava con la stessa ragazza, l’altra metà con una nuova ragazza. La coppia fissa, che era una relazione privata, e in una certa misura una relazione ad hoc, diventava in un certo senso una proprietà dell’intera comunità della high school, una rappresentazione della capacità che quella comunità aveva di promuovere e proteggere un’area relazionale privata in mezzo a un ambiente sociale altamente istituzionalizzato e in qualche caso ansiogeno74.

L’ideologia che circonda questa pratica, ovviamente, è quella dell’amore romantico, «secondo la quale il vero amore è unico, strettamente identificato col matrimonio coronato dai figli, e se possibile santificato dall’esclusione del sesso extraconiugale»75. E in effetti, al di là di tutto, i dati disponibili dimostrano non solo

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che lo «stare insieme» inclina a fantasie matrimoniali, ma che effettivamente predispone a un matrimonio precoce, d’altronde ampiamente incoraggiato dal clima culturale generale. L’età media al matrimonio scende nel secondo dopoguerra, sia per gli uomini che per le donne, e non di rado coinvolge due «fidanzatini» già insieme dai tempi della high school76. Inoltre, molte ragazze dichiarano non solo che il loro ideale è il matrimonio, ma un matrimonio baciato dalla nascita di un buon numero di figli a cui dedicarsi. Una ragazza, intervistata in un sondaggio nazionale del 1953, si esprime così al riguardo: «[avere figli] è la vera finalità del matrimonio. Non ci sarebbero figli se la gente non si sposasse, la vita non esisterebbe se la gente non avesse figli. Se non potessi avere figli diventerei pazza. Una casa [home] non è una casa senza dei bambini»; e un’altra risposta dice che «[tirar su dei bambini] è ciò che tiene insieme una famiglia. Perché una casa [home] non è completa senza bambini. I bambini sono il centro di ogni famiglia e la ragione del matrimonio»77.

Più in generale, secondo un sondaggio del 1945, il 35% delle donne bianche ritiene che quattro figli siano l’ideale; nel 1955 la percentuale sale al 41%78. Ed effettivamente il numero medio di figli per famiglia cresce da 2,4 negli anni Trenta a 3,2 negli anni Cinquanta, l’era del «baby boom»79. A questo approdo non si arriva senza tensioni. Un numero crescente di ragazze bianche si iscrive al college (cioè all’università), senza tuttavia arrivare alla laurea: l’abbandono degli studi corrisponde a un matrimonio precoce e, se lo stipendio del marito lo consente, a una vita da casalinga80. Tra 1946 e 1949 i 2/3 di quelle che riescono a laurearsi si sposano in un periodo compreso fra i tre e i sei anni dopo la laurea; la maggior parte di queste abbandona la carriera per ritrarsi in una vita da casalinga; tra quelle che lavorano, invece, solo chi si è formata come insegnante, infermiera o segretaria trova un’attività corrispondente alla sua formazione; tutte le altre sono fuori ruolo rispetto agli studi compiuti. Altre loro compagne, bianche di estrazione popolare

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o afroamericane, non completano nemmeno gli studi superiori, che abbandonano per andare a lavorare come domestiche o impiegate, o – più raramente – come operaie; in ogni caso trovano collocazioni sistematicamente meno qualificate di quelle offerte agli uomini, e con una paga inferiore rispetto a quella percepita dai colleghi maschi, anche a parità di mansioni81. Quindi, giovani donne con un buon training formativo si sentono costrette ad abbandonare la carriera a favore di un matrimonio precoce e di un ruolo da casalinga; mentre altre loro compagne sono costrette a lavorare per ragioni economiche, rinunciando a completare il ciclo di studi superiori che avrebbe permesso loro di cercare una migliore collocazione professionale. A dare un senso a questo quadro, non particolarmente confortante per le donne, c’è la pressione della cultura mainstream (cinema, pubblicità, sitcom), ma anche l’autorevole avallo di pubblicazioni «scientifiche», all’epoca di buon successo, che sono duramente colpevolizzanti nei confronti delle donne che lavorano. Nel 1947 il sociologo Ferdinand Lundberg e la psichiatra Marynia F. Farnham pubblicano Modern Woman. The Lost Sex, un best seller che è anche un duro attacco alle ambizioni delle donne che vogliono trovare una realizzazione professionale fuori delle mura domestiche. Esprimendosi in un lessico freudiano all’epoca piuttosto di moda anche nella cultura popolare, Lundberg e Farnham sostengono che le donne che si sono arruolate nei servizi ausiliari durante la guerra, e hanno indossato uniformi, vivendo nelle caserme, sono la massima e certificata testimonianza delle deviazioni cui può portare «un’incontrollata invidia del pene». Un comportamento non meno distorto è – secondo loro – la preferenza per il sesso clitorideo, piuttosto che per la penetrazione vaginale: in tal modo, cercando un piacere egoistico, «la donna moderna si aliena dal proprio marito, dal proprio godimento sessuale e dal suo compito biologico procreativo, senza il quale il sesso non può essere interamente apprezzato». D’altronde, un’equilibrata maternità è il fine sociale che una vera donna si deve proporre, lontana tanto dalle «deviazioni» sessuali, quanto dalle «attrattive» di un’attività lavorativa che la porti fuori casa e lontano dai figli82.

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Intanto, nel corso degli anni Cinquanta il numero di donne sposate con figli che vanno a lavorare è in crescita. Le esigenze imposte dal bilancio familiare incoraggiano le famiglie a cercare una seconda fonte di entrate: tra il 1948 e il 1960 la proporzione di donne sposate che lavorano, con figli tra i sei e i diciotto anni, passa dal 21 al 36%; quella relativa alle donne con bambini con meno di sei anni passa dall’11 al 23%83. E si può immaginare con quale serenità vivano la loro scelta, visto il clima culturale diffuso. 6. Gli uomini preferiscono le bionde Dunque, in definitiva, come devono essere le giovani donne negli Usa degli anni Cinquanta? Casalinghe, non appena sia possibile; tranquillamente sottoposte al marito, senza dubbio; ma al tempo stesso anche belle e seducenti come pin-up. Contemperare queste esigenze non dev’essere stato facile. In effetti, nota Bennet Berger, un sociologo intervistato da «Life» per un articolo sulle teenager delle high schools, «sembra che per la metà del tempo le nostre adolescenti cerchino di soddisfare il compito di essere sexy, affascinanti e attraenti, mentre per l’altra metà cerchino di soddisfare il compito tradizionale di essere virtuose, difendendosi dalle avance che sono una testimonianza del loro successo»84. Insomma, una specie di missione impossibile, che solo figure di celluloide possono portare a compimento con un pieno e integrale successo. Nella fantasmatica impresa riescono molti dei personaggi femminili interpretati da Doris Day, un’attrice capace di costrui­ re immagini cinematografiche di donne fisicamente attraenti, talora anche con qualche ambizione, ma sempre pronte a vestire, con entusiasmo e dedizione, i panni della mogliettina perfetta85. Ora, se i personaggi di Doris Day riassumono in forma piuttosto unilaterale l’ideale normativo della femminilità mainstream, quelli interpretati da Marilyn Monroe attraversano invece un processo di elaborazione più complesso86. E in tutto ciò l’anno 1953 è cruciale per definire il profilo della sua «persona pubblica»: il 21 gennaio esce Niagara, dramma noir diretto da Henry

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Hathaway; il 15 luglio esce Gentlemen Prefer Blondes, un musical diretto da Howard Hawks; il 5 novembre esce How to Marry a Millionaire, commedia brillante diretta da Jean Negulesco. Tutti e tre i film hanno MM come protagonista, o coprotagonista; e a dicembre, infine, esce il primo numero di una nuova rivista, «Playboy», che dedica all’attrice sia la copertina che la foto nella pagina centrale. Il nudo fotografico su «Playboy» inaugura la cifra stilistica di questa rivista: un’elegante reificazione porno-soft del corpo femminile, esposto allo sguardo come oggetto primario del desiderio sessuale. Le narrazioni cinematografiche che impegnano MM, tuttavia, sdoppiano questa immagine in due direzioni diverse, specie se si prendono in considerazione Niagara e How to Marry a Millionaire. Nel primo film il personaggio di Rose Loomis, che le viene affidato, è la tipica femme fatale hollywoodiana, irresistibilmente sexy e perversa, tanto da destinare inesorabilmente se stessa e chi la incontra a una perdizione terminale. In questo caso, come nella gran parte dei drammi noir del periodo, la «perdizione» non consiste tanto nel puro e semplice deragliamento dei sensi; questo aspetto, che pure nel film è accennato in una forma leggermente più osé del solito, è tuttavia solo un mezzo che conduce al vero e proprio definitivo smarrimento: Rose non solo ha un amante, ma lo convince anche a uccidere il marito, George Loomis (sembrerebbe per il puro gusto di sbarazzarsene, giacché non pare proprio che il marito possieda una qualche ricchezza); ma il piano va storto; George prima uccide l’amante della moglie; poi uccide Rose; e alla fine si lascia morire cadendo con un motoscafo dalle cascate del Niagara. E così, tipicamente nella formula drammatica di Hollywood, i peccatori, di cui abbiamo visto o intuito i peccati, trovano la loro giusta punizione87. Molto diverso è il personaggio che Monroe interpreta in How to Marry a Millionaire: si tratta di Pola Debevoise, una delle numerose incarnazioni della dumb blonde (l’oca bionda) a cui dà vita MM; sessualmente attraente, eppure resa innocua dalla sua assoluta stupidità, Pola fa parte di un terzetto di cacciatrici di dote, composto dalle altre due sue amiche Schatze Page (Lauren

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Bacall) e Loco Dempsey (Betty Grable). Diverse per carattere, le tre ragazze – tutte e tre molto simpatiche – condividono un materialismo scatenato che è descritto senza il minimo accenno di critica; allo stesso modo – come già si è accennato – i personaggi dei ricconi hanno vari profili di personalità ma, se sono antipatici, non lo sono perché ricchi, ma per altri aspetti del loro carattere. Il film, in conclusione, ha comunque una torsione moralizzante, perché tutte e tre le ragazze decidono di sposarsi con un uomo del quale si sono innamorate, rinunciando a «beccarsi il pollo giusto». Il finale è particolarmente didattico e rassicurante: Schatze sta per sposarsi con un ricco gentiluomo, molto più vecchio di lei (interpretato da William Powell), ma, al momento del sì, proprio non ce la fa; è innamorata di un bel giovane, che lei ritiene faccia il benzinaio, o qualcosa di simile, e preferisce dire addio ai soldi, mandando a monte il matrimonio con l’attempato signore, per sposarsi col suo giovane amore, salvo scoprire poi, nell’ultima scena, che quest’ultimo non è un benzinaio, ma un multimilionario. Molto attraente – quasi una bomba sexy – e intimamente casta e di buoni sentimenti, sebbene legittimamente tentata dal mondo del successo, della ricchezza e dei consumi: questo, dunque, è il modello di ragazza proposto da un film come quello di Negulesco. In apparenza Gentlemen Prefer Blondes si muove nella medesima direzione. Anche in questo caso il musical diretto da Howard Hawks si affida, oltre che a Marilyn Monroe, a un’altra travolgente bellezza, Jane Russell: i personaggi interpretati dalle due attrici – Lorelei Lee (Monroe) e Dorothy Shaw (Russell) – sono due grandi amiche, entrambe ballerine e cantanti, ed entrambe alla scatenata ricerca di un uomo (o anche più di uno...). La prima è una spregiudicata cacciatrice di dote, che è riuscita a incastrare un giovane milionario un po’ tonto (Gus Esmond, interpretato da Tommy Noonan); l’altra è meno interessata al soldo, e più alla bellezza maschile, anche se poi anche lei, insieme a Lorelei, si abbandona con entusiasmo a un momento di consumismo compulsivo, visitando a raffica i negozi di grandi firme (con le marche ben in vista nel film: Dior, Guerlain, Schiaparelli, ecc.), e comprando

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ogni ben di Dio. La filosofia di fondo delle due ragazze è illustrata da due numeri musicali molto famosi e altrettanto efficaci, rispettivamente Diamonds Are a Girl’s Best Friend per Lorelei/Monroe e Ain’t There Anyone Here for Love? per Dorothy/Russell. Infine, alla conclusione di un plot da slapstick comedy, entrambe le ragazze si sposano con una doppia cerimonia: Dorothy con un ex detective privato che il padre di Gus aveva messo alle costole di Lorelei, per smascherarne le trame da cacciatrice di dote; e Lorelei proprio con Gus, dopo essere riuscita a convincere il padre che – in fondo – lei è la donna giusta per il figlio. Il finale matrimoniale nobilita il materialismo di entrambe le ragazze, che tuttavia è comunque presentato con sfacciata impudicizia nel dialogo che Lorelei ha col ricchissimo padre di Gus: Mr. Esmond Sr. (rivolgendosi sdegnato a Lorelei e indicando suo figlio): «Non vorrà farmi credere che non lo vuole sposare per il suo denaro?» Lorelei (indicando a sua volta Mr. Esmond Sr.): «Oh, certo che no. Voglio sposarlo per il SUO denaro!» Mr. Esmond Sr.: «Lei ammette che mira al denaro di mio figlio!» Lorelei: «No, io no. Lo sa che è buffo? Non lo sa che per un uomo essere ricco è come per una donna essere bella? Magari una ragazza non si sposerà solo perché bella, ma santo cielo non è una dote? E se avrebbe [sic] una figlia, sarebbe contento che sposerebbe [sic] uno spiantato? O vorrebbe che avesse le cose più belle del mondo e che sarebbe [sic] tanto felice? Beh che c’è di male se io voglio queste cose?» Mr. Esmond Sr.: «Glielo concedo. Ah, m’avevano detto che era cretina. A me non sembra cretina davvero!» Lorelei: «Divento intelligente quando mi serve. Ma al più degli uomini non piace. Tranne a Gus. Si è sempre interessato della mia intelligenza.» Mr. Esmond Sr.: «No, di tutto fuorché dell’intelligenza.»

E così, in questo modo, il film si mantiene in bilico tra l’essere l’ennesimo avallo alla morale matrimoniale corrente e l’abbracciare un’ideologia materialistica particolarmente spregiudicata, entrambi aspetti accolti positivamente nel contesto dell’etica mainstream. In forma più corrosiva, la lettura ambivalente e intimamente contraddittoria dei valori correnti, apparentemente normaliz-

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zata dal lieto fine, connota anche un altro dei grandi capolavori della commedia hollywoodiana dell’epoca, Some Like It Hot (A qualcuno piace caldo), diretto da Billy Wilder nel 1959. Il film racconta di due musicisti jazz, Joe (Tony Curtis) e Jerry (Jack Lemmon), che, per sfuggire ai sicari della mafia che li vogliono far fuori perché hanno assistito a un’esecuzione tra bande, si travestono da donne e si fanno assumere in un’orchestra tutta al femminile, nella quale si esibisce anche la deliziosa Sugar Kane (Marilyn Monroe), cantante e suonatrice di ukulele. Il gioco del travestitismo già di per sé mette in ridicolo il machismo eroico che è parte integrante dell’etica mainstream. Ma Wilder si spinge anche più in là: Joe, che si è innamorato di Sugar Kane, architetta un complicato marchingegno al fine di sedurla, per realizzare il quale si traveste ulteriormente da milionario impotente, bisognoso delle «cure» della ingenua Sugar Kane per poter superare il suo blocco psicosessuale. Intanto Jerry, nei suoi panni femminili, fa innamorare di sé un ricchissimo milionario (vero, questo, non finto), Osgood Fielding III (interpretato da Joe E. Brown). La conclusione del film ci conduce a un paradossale e straordinario lieto fine: da un lato Joe e Sugar Kane si innamorano talmente tanto che lei è pronta a superare il fatto che lui si sia finto ricco per sedurla (di nuovo il gioco morale dell’oca bionda, materialista, ma in realtà con un cuore da Cenerentola in cerca del suo Principe Azzurro); dall’altro, nei secondi conclusivi del film, si arriva all’inevitabile chiarimento tra Jerry/Josephine, ancora in abiti femminili, e il suo ricchissimo innamorato, in un immortale dialogo finale: Osgood: «Ho telefonato a mammà, ha pianto dalla felicità: ti darà il suo vestito da sposa, è di merletto bianco.» Jerry/Josephine (con la voce in falsetto): «Ma non posso sposarmi con l’abito di tua madre. ... Vedi... io e lei non siamo fatte allo stesso modo.» Osgood: «Qualche colpo di forbice...» Jerry/Josephine: «Ah no, te lo scordi. Osgood, voglio essere leale con te: non possiamo sposarci affatto!» Osgood: «Perché no?» Jerry/Josephine: «Beh, in primo luogo non sono una bionda naturale.»

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Osgood: «Non mi importa.» Jerry/Josephine: «...e fumo, fumo come un turco.» Osgood: «Non mi interessa.» Jerry/Josephine: «Ho un passato burrascoso, per più di tre anni ho vissuto con un sassofonista.» Osgood: «Ti perdono.» Jerry/Josephine: «Non potrò mai avere bambini.» Osgood: «Ne adotteremo un po’.» Jerry/Josephine (riacquistando il tono di voce da uomo): «Ma non capisci proprio niente, Osgood» – e a quel punto si toglie la parrucca, e grida: – «Sono un uomo!» Osgood: «Beh, nessuno è perfetto.» THE END

Grande finale, certo. Tuttavia, ove si considerasse il film di Billy Wilder alla stregua di una critica sociale agli eccessi del machismo o alla repressione dell’omosessualità si andrebbe – a mio parere – molto al di là del ragionevole. Il film manifesta un intelligente disagio per i valori del senso comune, è chiaro. Ma certo non li esamina a fondo; né prova nemmeno a decostruirli; e la chiave comica, come accade molto spesso, invece di produrre una corrosiva presa di coscienza, serve da premessa a una frettolosa archiviazione: «è solo vaudeville, in fondo, ridiamoci su, non è una cosa seria». Qui, come in tutta la struttura dell’etica mainstream, ridere serve a rimuovere divertendosi: e – come osservano acidamente Horkheimer e Adorno – alla fin fine, divertirsi non significa altro che volgere lo sguardo da un’altra parte88.

VI «Popular music»

1. La «popular music» nel secondo dopoguerra Nel dicembre del 1949 nelle classifiche dei successi musicali americani compilate dalla rivista «Billboard», al numero 1 delle pop songs si piazza una buffa canzoncina natalizia, Rudolph the Red-Nosed Reindeer, cantata da Gene Autry1. La musica, allegra e saltellante, narra la storia della renna Rudolph che, a causa del suo strano naso rosso brillante, viene emarginata e sbeffeggiata dalle altre renne che non la vogliono con loro quando giocano. Ma in un Natale nebbioso Santa Claus chiede a Rudolph di mettersi in prima fila nel trainare la sua slitta, perché col suo naso scintillante aiuterà a illuminare la strada: da allora tutte le altre renne ammirano e rispettano Rudolph, che diventa così la più famosa delle renne natalizie. Una tipica storia americana: alla lettera «dalle stalle alle stelle», si direbbe; il povero emarginato che – grazie a una sua qualità trascurata – alla fine ce la fa nella scalata per il successo. Può darsi che il senso sia questo. Per il momento, non carichiamo la canzoncina di troppi significati, e limitiamoci invece a osservare che da tempo, ormai, le hit natalizie spopolano. Prima di Rudolph ci sono state All I Want for Christmas Is My Two Front Teeth, cantata da Spike Jones & His City Slickers, del 1949; e prima ancora Here Comes Santa Claus, sempre di Autry, del 1947; Let It Snow! Let It Snow! Let It Snow!, cantata da Vaughn Monroe nel 1946; Have Yourself a Merry Little

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Christmas, eseguita da Judy Garland nel 1943; e soprattutto White Christmas, cantata da Bing Crosby, che aveva incantato chiunque nel Natale del 1942: in tempo di guerra, il racconto di uno che, lontano da casa sua, sogna il Natale felice dei tempi passati, tocca il cuore di milioni di persone. E continua a farlo nel 1949, quando ha ancora un enorme successo. Un successo che adesso si traduce in una valanga di dischi venduti. Dal 1948 la Columbia – una delle grandi case discografiche americane – ha messo in commercio il 33 giri in vinile (LP - Long Playing), un «album» che raccoglie un certo numero di canzoni, molto più resistente e più a buon mercato del classico disco a 78 giri. Pochi mesi più tardi, un’altra grande major discografica, la Rca, risponde lanciando il 45 giri, un disco che – come il 78 giri – contiene solo due canzoni, una per facciata, della durata di non più di tre minuti e mezzo; solo che il 45 giri è molto più pratico e maneggevole del vecchio formato, e ha anche il vantaggio di essere alla portata di tutte le tasche e di poter essere riprodotto su un giradischi economicissimo, messo sul mercato dalla stessa Rca al prezzo di 12,95 dollari2. Inoltre i 45 giri sono particolarmente adatti ai jukebox, che già negli anni Trenta hanno dato un contributo fondamentale affinché l’industria discografica superasse le strette della Grande Depressione. E il contributo continua a essere determinante anche nel secondo dopoguerra: «Il mezzo milione di jukebox in funzione a metà degli anni Cinquanta si divora tra un quarto e un terzo di tutti i dischi prodotti in America, ma funziona anche come pubblicità “gratuita” per i singoli dischi, stimolando perciò gli acquisti dei consumatori»3. E infatti adesso, oltre al mercato dei jukebox, decollano nuovamente gli acquisti dei dischi compiuti dai singoli acquirenti per cifre globali che si fanno sempre più consistenti. Il mercato è dominato da un numero limitato di majors (Rca, Capitol, Columbia, Decca, Mercury e Mgm), tutte con sede a New York; tuttavia, l’effervescenza economica che segue la fine della seconda guerra mondiale sollecita molti imprenditori che, in varie parti del paese, mettono in piedi piccole etichette discografiche, spesso specializzate in stili musicali di nicchia, o aperte alle

vi. «popular music»

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registrazioni dei singoli utenti che vogliono incidere un disco per sé, da regalare agli amici o ai parenti: si calcola che nel 1949, a fianco delle sei case discografiche più grandi, ne esistano diverse centinaia di altre più piccole, alcune delle quali riescono a imporsi, altre invece non durano che lo spazio di un mattino4. La forma del mercato discografico ha un suo corrispettivo nell’ambito delle trasmissioni radiofoniche. Nel 1949 il 95% delle famiglie americane ha almeno una radio; nel 1954 il 70% ne ha almeno due; e 1/3 ne ha almeno tre; nel 1959 in tutto il paese ci sono 156 milioni di radio, tre volte più del numero delle televisioni possedute da privati, che pure sono già tantissime; inoltre si diffondono rapidamente anche le nuove radio a transistor, piccole e facilmente trasportabili, e le autoradio5. Nondimeno, il posto della radio nel sistema complessivo dei mass media cambia, e con ciò cambia anche la struttura dell’emittenza radiofonica. Da un lato, i grandi network (Nbc, Cbs e Abc) con l’inizio delle trasmissioni TV concentrano la loro attenzione e i loro sforzi finanziari sul nuovo settore televisivo, enormemente promettente, trascurando di aggregare alle loro reti radiofoniche le numerosissime nuove emittenti radio che sono nate dopo la seconda guerra mondiale, giacché giudicano l’operazione destinata a non fruttare più molto nel futuro6. Dall’altro, le trasmissioni radiofoniche subiscono duramente la concorrenza della TV: molti programmi (soap, gialli, sitcom) si trasferiscono in video, e cessano la programmazione radio, lasciando uno spazio nel palinsesto radiofonico, che viene riempito dai programmi musicali. Se nelle stazioni più importanti, ancora dopo la seconda guerra mondiale, si continuano a trasmettere brani musicali registrati dal vivo, magari da una delle grandi ballrooms di qualche metropoli, nelle stazioni più piccole si utilizzano invece i dischi scelti dal conduttore della trasmissione, che prende il nome di disc jockey (DJ)7. A metà anni Cinquanta, dopo che la Rca ha lanciato i 45 giri, la pratica diventa ancora più diffusa, in ragione degli enormi risparmi che si possono ottenere organizzando la scaletta di una trasmissione musicale sulla base di una selezione di economici dischi in vinile, invece di mandare

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Tab. 2. Dischi pubblicati, distribuiti e trasmessi alla radio, 1948-1953. Genere musicale

Pubblicati

Distribuiti

Trasmessi alla radio

Pop

62%

66%

77%

Country

26%

26%

19%

R&B

12%

8%

4%

Fonte: Philip H. Ennis, The Seventh Stream. The Emergence of Rocknroll in American Popular Music, Wesleyan University Press, Hanover-London 1992, p. 401, n. 56.

in qualche locale tecnici e costose attrezzature affinché siano effettuate le registrazioni dal vivo. Giacché il numero delle stazioni indipendenti con trasmissioni musicali di successo aumenta nei primi anni Cinquanta, il ruolo dei DJ si fa particolarmente significativo: dalle loro scelte (oltre che da altre più sperimentate forme di pubblicità, ovviamente) può dipendere il successo o l’insuccesso di una nuova canzone, specie se un DJ alla moda decide di lanciare un brano in heavy rotation, cioè facendolo passare più di una volta, a intervalli regolari, nel corso della sua trasmissione. Nonostante tutti questi mutamenti, sia sul mercato discogra­ fico che alla radio la parte del leone la fanno ancora le pop s­ ongs, ovvero i nuovi brani scritti sul modello delle canzoni di Tin Pan Alley ed eseguiti da musicisti bianchi per un pubblico bianco. Una grande ricerca coordinata da Paul Lazarsfeld nel 1947 sull’ascolto radiofonico statunitense mostra che il pubblico delle pop songs è socialmente e generazionalmente variegato e che – in generale – anche le giovani generazioni, e in particolare le ragazze, apprezzano questo specifico stile musicale (Tab. 2)8. Il che ha una sua rilevanza economica, giacché i teenager e le teenager sono una delle forze trainanti nella ripresa dei consumi postbellici, animando il mercato nel settore dei dischi, della moda, dei film, delle bevande, degli alimenti9. «Life» non si fa sfuggire il fenomeno, e nell’articolo del dicembre 1944 dedicato alle teenager di Webster Groves, Missouri, osserva: Gli uomini d’affari americani, molti dei quali hanno figlie adolescenti, solo di recente hanno cominciato a capire che le teenager costituiscono un mer-

vi. «popular music»

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cato grande e particolare. [...] Ogni pomeriggio dopo l’uscita da scuola, i negozi di dischi di tutto il paese pullulano di ragazze che ascoltano i loro cantanti e i loro direttori d’orchestra preferiti che loro hanno trasformato in figure di importanza nazionale. [...] Nessuno ha ancora provato a stimare il contributo adolescenziale al business degli hamburger, della coca-cola e dei jukebox [ma è senz’altro di notevole rilievo]10.

2. «Pop songs» Tra la fine degli anni Quaranta e l’inizio degli anni Cinquanta nelle scuole, nei juke joints, nelle sale da ballo si riduce vertiginosamente lo spazio per balli considerati pericolosamente al confine con l’universo della decadenza sociale e morale. Coerentemente con la più generale normalizzazione etica in corso, anche lo stile delle pop songs di successo vira completamente. «Life» come al solito ha dei buoni sensori e in parte descrivendo una tendenza in atto, in parte dando una consegna normativa, nel suo articolo sulle teenager commenta così: Di solito gli appuntamenti delle ragazze con i ragazzi sono riservati al sabato sera e sono dei double dates [due coppie che escono insieme]. Si comincia con un film e si finisce con una coca, del latte in polvere e degli hamburger. Qualche volta si va in un juke joint [un locale col jukebox] dove si sta insieme seduti ma non si balla, perché è più divertente limitarsi ad ascoltare11.

Nel 1944, anno di pubblicazione dell’articolo, l’allontanamento dalle danze scatenate al suono dello swing verso musiche romantiche, ascoltate con gli occhi di lei persi negli occhi di lui, è dunque già in atto12. Passano solo pochi anni e il mutamento nei gusti è compiuto. Tra il 1950 e il 1954 «Billboard» registra 65 canzoni che, per periodi variabili, si collocano al numero 1 di una delle sue hit parade13. La composizione del campione sulla base degli stili musicali è illustrata dalla Tab. 3. Il genere orchestrale domina. La presenza di altri generi musicali è molto ridotta; pochi brani country & western, jazz o swing si impongono al vertice della classifica in questo periodo, e in molti casi gli arrangiamenti sono tali da avvicinare molte di

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Tab. 3. Pop songs al n. 1 delle classifiche stilate da «Billboard», 1950-195414. Stile musicale

Orchestrale Ballata romantica Country & western Swing/boogie-woogie/rag Jazz Doowop Polka/mazurka Tango Folk

numero

30 6 5 6 4 2 2 1 1

percentuale

52,63 10,52 8,77 10,52 7,01 3,50 3,50 1,75 1,75

quelle esecuzioni alla struttura delle pop songs orchestrali che, a loro volta, si collocano rigidamente all’interno della tradizione sinfonico-romantica europea. Del tutto coerentemente con l’impostazione classica ottocentesca, la strumentazione di queste canzoni orchestrali esclude la presenza di basso e batteria; ogni scansione ritmica è del tutto assente; il tempo è lento; la melodia integralmente diatonica. La struttura interna delle canzoni orchestrali prevede una varia articolazione in pochi elementi ricorrenti (Grafico 1)15: una breve introduzione strumentale; una sequenza di strofe, talora intrecciate a dei ritornelli; un interludio orchestrale e infine una breve coda. La linea melodica fondamentale e il tema narrativo delle canzoni sono presentati nelle strofe collocate subito dopo l’introduzione e alternate spesso a un ritornello. L’interludio strumentale, piazzato a metà o ai due terzi della canzone, serve da sospensione lirica. Nella seconda parte delle canzoni orchestrali la strofa, da un lato, e il ritornello, dall’altro, sono intrecciati in combinazioni varie che riprendono sia la struttura melodica, sia i versi esposti nelle parti iniziali. All’interno di questa semplice struttura possono variare la durata delle differenti articolazioni (peraltro compresse in brani che vanno dai 2 minuti e mezzo ai 3 e mezzo al massimo) e anche la disposizione. Comunque sia, il numero di soluzioni possibili è limitato, e un ascoltatore sa che la sezione iniziale seguirà una

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introduzione e coda strofe ritornelli intermezzo strumentale

Grafico 1. La struttura di due canzoni pop: You, You, You, Ames Brothers, 1953 (durata: 2:58) (a sinistra); Secret Love, Doris Day, 1954 (durata: 3:35) (a destra).

sequenza standard (introduzione – strofe – ritornello – interludio), e che dopo l’interludio strumentale tornerà almeno una o anche entrambe le strutture che erano comparse nella prima parte: con quale durata e in quale sequenza è tutto ciò che di inaspettato ci può essere nell’ascolto di una pop song. Si tratta, nel complesso, di una configurazione listener friendly, perché, ripercorrendo un numero elementare di regole (scala diatonica, assenza di ritmo, strumenti classici in primo piano e una forma prevedibile), rassicura chi ascolta, ponendolo all’interno di un orizzonte di aspettative assai angusto16. D’altro canto, rassicuranti le star del pop lo sono anche per come si presentano sulla scena, dal vivo, alla radio o in televisione. Intanto non sono giovanissime: le cantanti che portano una canzone al n. 1 della classifica tra 1950 e 1954 hanno un’età media di 28 anni, con un’oscillazione che va da 19 anni (Teresa Brewer, 1950) a 37 (Jo Stafford, 1954). I cantanti sono un po’ più anziani: l’età media è di 33 anni, con un range che va da 21 anni (Pat Barrett, dei Crew-Cuts, 1954) a 46 (Phil Harris, 1950). Con due sole eccezioni – Nat King Cole e Mills Brothers –, sono tutti

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bianchi, e tutti – dai più giovani ai più anziani – si vestono allo stesso modo: gli uomini hanno giacca e cravatta (o fiocchino); le donne hanno vestiti a vita stretta, con una gonna ampia spesso coperta di volant, di tulle e di altri decori. La gestualità in scena è coerente con un tipo di musica che esclude ogni accentazione ritmica: normalmente sia i cantanti che le cantanti stanno fermi sulle gambe, ondeggiando leggermente col corpo, limitandosi a una contenuta gestualità con le braccia e con le mani, a rimarcare i passaggi più intensi della canzone. In qualche caso questa nuova impostazione comporta un notevole cambiamento stilistico: il gruppo vocale delle Andrews Sisters aveva già riscosso un grande successo negli anni Quaranta esibendosi spesso per le truppe, e aveva interpretato in pieno l’epoca in cui lo swing e il boogie-woogie erano la moda dominante anche nella musica pop: coerentemente, le loro esibizioni degli anni Quaranta erano piene di brio, con una ricca serie di mosse di danza e di coreografie spigliate e piene di movimento. Dopo la guerra le loro hit sono due canzoni sentimentali e sognanti (I Can Dream, Can’t I? e I Wanna Be Loved, entrambe del 1950), del tutto prive di scansione ritmica, come la nuova estetica pop dell’epoca impone che si faccia. 3. Storie pop Se dalla morfologia musicale si passa alle strutture narrative, ci si trova di fronte a una gamma di possibilità egualmente piuttosto limitata. Nel campione ci sono 4 brani strumentali; 6 novelty songs; e 7 situation songs (cioè canzoni che descrivono qualche personaggio curioso, o qualche situazione buffa): il tono va dall’allegro al sentimentale, con il kitsch che deborda soprattutto nelle hit di Natale. A parte queste due sezioni tematiche, sono le canzoni d’amore che dominano completamente, essendo 48 su 65, pari, dunque, al 74% dell’intero campione. Di queste canzoni, 11 descrivono esperienze infelici (e di queste 6 raccontano di amori che finiscono e 5 di amori non corrisposti); 9 parlano di due amanti che sono costretti a separarsi; 26

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sono canzoni di corteggiamento o di positiva passione amorosa; 2, infine, hanno un profilo più particolare17. Nelle canzoni del primo sottogruppo (amori finiti o non corrisposti), l’infelicità amorosa non è mai presentata in toni drammatici, né dal punto di vista narrativo, né dal punto di vista delle soluzioni musicali adottate; né vi si descrivono situazioni relazionali particolarmente complesse. (1) Quelle che accennano ai rapporti più articolati sono solo tre. In Cold, Cold Heart, del 1951, scritta da un grande della musica country, Hank Williams, e cantata da Tony Bennett in una versione che musicalmente non ha più alcun legame con le sue originarie radici country, si narra di lui che tenta di liberare lei da una traumatica esperienza amorosa vissuta nel passato, senza tuttavia riuscire nell’intento. Le altre due canzoni adottano invece un punto di vista femminile; in Half as Much, del 1952, scritta da Curley Williams e cantata da Rosemary Clooney, lei si lamenta perché, pur amando follemente il suo uomo, si sente trascurata da lui. In The Song from Moulin Rouge (Where Is Your Heart), del 1953, eseguita dall’orchestra di Percy Faith e cantata da Felicia Sanders, si narra di lei che bacia appassionatamente lui e ne è innamorata, ma teme che lui stia pensando a un’altra: in effetti non è sicura che sia veramente così, ma è comunque turbata dal sospetto. (2) Altre due hit di questo gruppo, una del 1952 e una del 1953, hanno una struttura narrativa identica, col solo mutamento della prospettiva di genere: un fidanzamento è stato rotto; l’ex amante ha deciso di sposarsi con un’altra persona; e gli ex fidanzati abbandonati decidono egualmente di andare al matrimonio, soffrendo in silenzio in nome di un amore che non vuole finire18. (3) In altre due canzoni prevale, sebbene in forma diversa, una sensibilità «da vero macho». In Wanted, del 1954, Perry Como racconta che lei l’ha mollato per un altro e lui, che le si rivolge sempre con un tono esplicitamente inquisitorio, sarebbe pronto

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a perdonarla solo se lei confessasse per iscritto di essersi pentita di ciò che ha fatto. Più risolta la narrazione che viene presentata in una cavalcata western «da veri uomini», Cry of the Wild Goose, del 1950, in cui Frankie Laine, con vocione impostato, racconta che sebbene lei lo ami e gli sia fedele, lui deve lasciarla, perché il richiamo della natura selvaggia e di una vita libera e indipendente sono troppo forti per poter resistere. (4) Nelle restanti quattro canzoni, infine, il sogno o l’ottimismo che spinge verso un nuovo inizio aiutano a stemperare la delusione di una storia infelice19. Un altro gruppo di hit, composto da nove canzoni, racconta di due amanti che sono costretti a separarsi, per periodi brevi o lunghi: cinque sono cantate da una voce femminile; tre da una voce maschile; e una da una coppia. Il senso di queste canzoni è sempre lo stesso: la tristezza dell’allontanamento; la forza persistente del desiderio; la speranza di rincontrarsi; l’eternità dell’amore che non viene spezzato dalla lontananza. La distribuzione per anno di queste hit mostra il diretto legame del genere con la guerra di Corea: 1 nella classifica del 1950; 2 nel 1951; 3 nel 1952; 3 nel 1953; nessuna nel 1954. Tutto questo gruppo di canzoni ci dice che l’infelicità è contemplata, ma non è mai considerata così devastante da condurre a gesti drammatici, a tensioni profonde o a depressioni che non possano essere superate: la malinconia, il sogno, la speranza, l’eternità dell’amore sono tutti aspetti che aiutano a sostenere una fase difficile nella vita di una persona o di una coppia. La sezione più ricca del campione (26 canzoni) è comunque quella che descrive il corteggiamento. In questo caso lo stile musicale orchestrale, una melodia interamente tonale e un atteggiamento pieno di trasporto romantico da parte di chi canta sono lo standard ricorrente. In genere le canzoni di corteggiamento o di desiderio cantate da uomini sono più ripetitive e convenzionali nel «donare il proprio cuore», «guardare sognanti le stelle», «fantasticare della incontenibile felicità una volta che lei abbia

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detto sì». Quelle cantate da donne hanno – almeno qualche volta – una marcia in più, nel senso che il desiderio fisico è relativamente più visibile, sebbene sia naturalmente contenuto entro i canoni della rigorosa moralità dell’epoca. In una delle canzoni più divertenti, Music! Music! Music!, del 1950, Teresa Brewer, che all’epoca ha 19 anni, invita lui a mettere un’altra monetina nel jukebox, perché tutto ciò che lei vuole è della musica che la accompagni mentre lui la bacia: Metti un’altra monetina Nel jukebox Tutto ciò che voglio è averti E musica, musica, musica Farei qualunque cosa per te Qualunque cosa tu vorresti che io facessi Tutto ciò che voglio è baciarti E musica, musica, musica Più vicino, mio caro, vieni più vicino La parte più bella di ogni melodia È quando danzi vicino a me E così, metti un’altra monetina Nel jukebox Tutto ciò che voglio è averti E musica, musica, musica.

In una cover di un brano del 1933 – I Wanna Be Loved – le Andrews Sisters si fanno relativamente più audaci: chi canta ci dice che sente di aver superato l’età in cui ci si accontenta di tubare e basta; ora è venuto il momento di qualcosa di più intenso (mentre una voce fuori campo giudiziosamente suggerisce di fare attenzione a quel che si fa...): Voglio essere amata con sentimento Voglio essere amata a partire da stanotte Invece di limitarci a parlare Abbracciami stretta

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Voglio essere baciata fino a fremere Voglio essere baciata a partire da stanotte Abbracciata finché i battiti dei nostri cuori non si uniscano Giusto o sbagliato che sia Mi sento di essermi comportata come la mia età richiede Adesso sono oltre lo stadio in cui ci si limita a tubare (Stai attenta, stai attenta a ciò che fai) Non sono in condizione di resistere E insisto: il mondo mi deve un innamorato Voglio che mi si faccia fremere fino alla disperazione Voglio che mi si faccia fremere a partire da stanotte (Amami, amami, amami) Con ogni tipo di meravigliosa sensazione Voglio essere amata.

Diverse altre hit si muovono in questa direzione, da Come On-A My House, di Rosemary Clooney (1951), a Kiss of Fire, di Georgia Gibbs (1952), a Make Love to Me, di Jo Stafford (1954). Una delle più brillanti è Mr. Sandman, hit cantata nel 1954 dalle Chordettes, un quartetto vocale bianco: per apprezzare la canzone bisogna tener presente che a metà degli anni Cinquanta l’età media al matrimonio per le ragazze è molto bassa (intorno a 20 anni), e che già quando è sui 25 anni una ragazza comincia a temere di essere nient’altro che una old maid20. Le componenti del gruppo delle Chordettes, che sono in quella fascia d’età borderline, chiedono all’omino della buona notte (Mr. Sandman) che faccia il miracolo e che porti loro un bell’uomo da amare: Mr. Sandman, qualcuno da abbracciare (qualcuno da abbracciare) Sarebbe meraviglioso prima che diventiamo troppo vecchie Così attiva il tuo raggio magico Mr. Sandman portaci, per favore, per favore, per favore Mr. Sandman portaci un sogno.

Rappresentazioni di questo genere puntano a descrivere la personalità femminile come relativamente più sensuale e pas-

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sionale di quella maschile, un profilo che può anche diventare minaccioso, come nel caso della vamp descritta con fare paternalistico da Nat King Cole in Mona Lisa, hit del 1950 («Molti sogni sono stati deposti alla tua porta / Giacciono là e là muoiono / Sei viva, sei reale, Mona Lisa? / O sei solo una fredda e piacevole opera d’arte?»). Cosa ci vuole per sciogliere il cuore di ghiaccio di una donna così? Cosa ci vuole per contenerne la passione? Semplice: il matrimonio, che è il coronamento del sogno d’amore e che – a stare all’universo delle pop songs – per una donna funziona anche da mezzo per disciplinarne la sensualità. È così che una donna abbandona ogni intemperanza e si lascia andare placida al tranquillo piacere delle piccole cose, come ricorda nel 1954 (quando ha 32 anni) la cantante Kitty Kallen in Little Things Mean a Lot: Mandami un bacio attraverso la stanza Di’ che sono carina quando non lo sono Toccami i capelli mentre mi passi la sedia Le piccole cose vogliono dir tanto.

In tutto questo orizzonte color pastello (del resto, il tipo di colore che domina nella moda femminile dell’epoca), solo in un caso si sfiora il dramma, ed è con Goodnight Irene, brano scritto originariamente da Huddie «Leadbelly» Ledbetter, ma portato al successo nel 1950 dal gruppo degli Weavers, una band fondata nel 1949 da Pete Seeger, Ronnie Gilbert, Lee Hays e Fred Hellerman21. Dal 1940 al 1943 Seeger e Hays hanno già fatto parte degli Almanac Singers che, come abbiamo visto, è uno dei gruppi di punta della scena folk filocomunista dell’epoca. Pur condividendo ancora con Gilbert e Hellerman le loro originarie convinzioni radicali, nel contesto del maccartismo hanno dovuto cambiare repertorio, per orientarsi verso canzoni folk prive di contenuti politici troppo manifesti; oppure hanno fatto ricorso a cover per le quali hanno provveduto a elaborare una riscrittura del testo e un nuovo arrangiamento musicale. Capita così anche per Good­ night Irene. La versione originale narra la storia di un uomo già

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sposato che ha incontrato Irene e l’ha chiesta – forse in sposa – alla madre; la donna gliel’ha negata perché Irene è troppo giovane; ma lui è talmente innamorato da andarsene in giro minacciando di suicidarsi, gettandosi in un fiume; una voce saggia lo rimprovera, invitandolo a smettere di comportarsi come un pazzo e a tornare a casa dalla sua famiglia; ma lui non si piega: ama Irene e l’amerà finché i mari non si prosciugheranno, e se lei lo rifiuterà, lui si suiciderà con la morfina. Nella versione che va in classifica nel 1950 sono tagliate sia la prima strofa (quella della richiesta alla madre di Irene) sia l’ultima (quella con la minaccia di una fine drammatica causata dall’abuso di morfina): ne viene fuori la storia di una coppia sposata che va in crisi perché lui non si abitua alla vita matrimoniale; e lei è tanto disperata da pensare di gettarsi in un fiume; ma la voce del super-io arriva imperiosa a ingiungere a lui di mettere la testa a posto: «Smetti di andare in giro, smetti di giocare d’azzardo / Smetti di star fuori fino a tarda notte / Va’ a casa da tua moglie e dalla tua famiglia / E stattene accanto al fuoco del camino». E così tutto ritorna nel «naturale» ordine delle cose22. Del resto, che nell’universo delle pop songs le cose non possano veramente andare male è testimoniato con grande evidenza dalla peculiare interazione tra testo e musica in un successo del 1954, This Ole House, cantata da Rosemary Clooney23. La canzone è l’unica che in tutto il campione osi affrontare il tema della morte, sebbene non una morte già avvenuta, ma solo imminente: un uomo vive in una vecchia casa malandata che ha visto giorni migliori, risate di bambini e la vitalità di una famiglia felice; ora la casa è cadente e avrebbe un disperato bisogno di essere riparata; ma ormai non c’è più tempo, perché lui è solo, ed è alla fine della sua vita, «pronto a incontrare i santi». È vero che già il testo dà le sue belle rassicurazioni, perché ci spiega che, pur vicino a morire, «lui non prova alcuna paura / perché vede un angelo che fa capolino / dal vetro rotto di una finestra». Tuttavia non è solo questo dettaglio un po’ kitsch a rassicurare; è il tipo di musica scelta, apparentemente la più inadatta possibile: un country allegrissimo, che capovolge completamente la tristezza della sto-

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ria con uno scatenato piano honky tonk che è come se dicesse: «niente paura, alla peggio andiamo tutti in paradiso». E così, nel mondo delle pop songs, tutto è bene quel che finisce bene. È un mondo nel quale niente che non sia un qualche passeggero turbamento amoroso, niente che non sia ordinario, banale, inoffensivo – e dunque né la violenza, né la guerra, né la povertà, né la depressione, né il dolore che strappa il cuore – sopraggiunge a turbare un’ossessiva intimazione di felicità. E va bene. In definitiva, sin dalla nascita di un’industria culturale di massa, è proprio per questo che qualcuno scrive e canta le pop songs: divertire, nel senso proprio di allontanare i turbamenti e le preoccupazioni. Questo devono fare le canzoni alla moda. Ma, come prima della guerra, anche adesso questo tipo di canzoni subisce la concorrenza di altre proposte che, almeno in una certa misura, destabilizzano l’orizzonte etico dominante. 4. Hard country La musica country si è imposta sin dagli anni Trenta a un pubblico specifico: ascoltatori di classe medio-bassa, originari delle aree centro-sud-orientali degli States. All’interno del genere già a quell’epoca potevano essere distinti due differenti filoni narrativi, uno più drammatico e l’altro più vicino al mondo delle pop songs. Nel secondo dopoguerra la divaricazione tra queste due distinte sensibilità si approfondisce ulteriormente. Da un lato, infatti, prosperano cantanti che propongono canzoni i cui testi affrontano i temi classici del pop (malinconiche o dolci storie d’amore; canzoni di Natale; personaggi buffi), e tra questi, come abbiamo già visto, Gene Autry è certamente uno di quelli che hanno maggior successo. Non solo nel 1949 va al primo posto della classifica pop con Rudolph the Red-Nosed Reindeer, ma si qualifica come un vero specialista nel settore, lanciando altre canzoni del genere, sia prima che dopo, con brani come Here Comes Santa Claus (1947) e Frosty the Snowman (1950). Uno dei suoi successi del dopoguerra è Have I Told You Lately That I Love You?, una cover di una canzone scritta da Scotty Wi-

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seman e da lui lanciata nel 1945 in duo con la moglie, Lulu Belle (Myrtle Eleanor Cooper); Autry la riprende nel 1946, portandola al terzo posto nelle vendite della classifica country. Se la musica è melensa, il testo lo è ancora di più: la prima strofa e il ritornello possono bastare per dare un’idea dell’universo etico-narrativo all’interno del quale ci troviamo: Ultimamente ti ho detto che ti amo? Potrei dirtelo un’altra volta? Ti ho detto con tutto il mio cuore quanto ti adori? Beh, cara, te lo sto dicendo adesso. Il mio mondo finirebbe senza che mi ricordassi di te Senza di te non sono buono a niente Oh, ultimamente ti ho detto che ti amo? Beh, cara, te lo sto dicendo adesso.

Il lato soft della musica country viene tuttavia vigorosamente rovesciato da un musicista come Hank Williams, che propone un panorama testuale più aspro, quasi tutto proiettato verso la descrizione di antieroi senza speranza di riscatto, annegati nell’alcol, incapaci di tenersi un lavoro, sopraffatti da amori andati dolorosamente male; al tempo stesso, sdoppiandosi in una sorta di super-io musicale, Williams pubblica anche canzoni che hanno l’impianto di dolenti sermoni religiosi, sotto lo pseudonimo di Luke the Drifter. Una parte del pubblico che apprezza la musica country viene da ambienti economicamente e socialmente disagiati. E così il fatto che Williams abbia una figura pubblica particolarmente tormentata, scandita da un’infanzia affettivamente ed economicamente difficile e da un presente costantemente minacciato da un evidente alcolismo, conferisce alle sue canzoni una commovente aura di «autenticità»: a molti ascoltatori il disagio esibito da Williams sembra «credibile» e, in una forma o nell’altra, vicino a quello che loro stessi sperimentano, e questa dinamica fondata sull’identificazione contribuisce in modo determinante al successo dell’hard country, ovvero di uno stile che rifugge l’ot-

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timismo e il candore della coeva cultura mainstream24. Dal 1947, data del suo esordio discografico, al 1952, quasi tutte le sue canzoni vanno ai primi posti della classifica country, e di queste una buona parte si piazza al numero 1. Né sono solo gli estimatori del country a seguirlo e apprezzarlo, magari dopo aver ascoltato una sua canzone alla radio. La prima volta che sentii Hank fu al Grand Ole Opry, uno spettacolo radiofonico del sabato sera trasmesso da Nashville – scrive Bob Dylan parlando della sua adolescenza a Hibbing, Minnesota, ben distante dal Tennessee –. Hank non era una testa vuota. Non aveva niente del pagliaccio. Anche da ragazzo mi immedesimavo completamente in lui. Non avevo bisogno di passare attraverso le sue stesse esperienze per capire di che cosa cantava. Non avevo mai visto piangere un pettirosso, ma me lo immaginavo e mi metteva tristezza25.

Dylan in questo caso si riferisce a un verso di I’m So Lonesome I Could Cry (1949): Hai mai visto un pettirosso piangere Quando le foglie cominciano a morire? Vuol dire che ha perso la voglia di vivere Sono così solo che mi metterei a piangere Il silenzio di una stella cadente Illumina un cielo di porpora E mentre mi chiedo dove tu sia Sono così solo che mi metterei a piangere.

Credo si possa notare facilmente la totale diversità di atmosfera che corre tra questa canzone e Have I Told You Lately That I Love You? di Autry; ma non si tratta solo di questo; nelle parole di Williams c’è spesso una dolorosa intensità poetica che dà alle sue canzoni uno spessore tale da trasformarle nel modello fondamentale dello stile hard country, al quale in effetti si ispirano molti altri autori successivi come Merle Haggard, Buck Owens o Hank Williams Jr. (che è suo figlio)26. Nonostante le caratteristiche hard di gran parte della sua produzione, alcuni dei suoi brani sono «coverizzati» da artisti pop e

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hanno anche un buon successo nelle relative classifiche. Le modalità dello spostamento sono interessanti: vengono scelte due canzoni che sono tra le pochissime allegre e spigliate dell’intera produzione di Williams, come Hey Good Lookin’ e Jambalaya (On the Bayou). La prima, lanciata da Williams nel 1951, viene interpretata da Frankie Laine e Jo Stafford nello stesso anno, con un arrangiamento swing che non tradisce troppo l’impianto originario. Jambalaya (On the Bayou), del 1952, viene reinterpretata da Jo Stafford con un arrangiamento che ne fa una specie di mambo e che, in questo caso, intrattiene ben pochi rapporti con l’originale. Egualmente irriconoscibili dopo la «coverizzazione» sono gli altri tre brani di Williams che vengono reinterpretati da artisti pop, ovvero Cold, Cold Heart, Your Cheatin’ Heart e Half as Much, tutte canzoni scritte tra il 1951 e il 1952 e interpretate rispettivamente da Tony Bennett, Joni James e Rosemary Clooney; i testi parlano di amori drammatici o tormentati, anche se la sofferta esecuzione country di Williams viene sostituita da ingombranti arrangiamenti orchestrali e da impostazioni vocali che trasformano i brani in pop weepies, incontenibilmente e innocuamente sentimentali. Nondimeno queste cover sono una testimonianza del successo di Williams, che nel 1952 raggiunge l’apice. E tuttavia quello, per lui, è un vero e proprio annus horribilis: la prima moglie lo caccia di casa e chiede il divorzio; lui incontra un’altra e se la sposa; una terza donna lo accusa di averla messa incinta e lui accetta di pagare per il figlio (anche se poi viene fuori che il padre non è lui); in tutto ciò, Williams è più spesso ubriaco che sobrio27. Inoltre la necessità di curare dei dolori di schiena che lo accompagnano da anni lo induce ad abusare nell’assunzione di morfina e di altri farmaci. Il 31 dicembre del 1952 deve andare da Nashville a Charleston, in West Virginia, per il concerto di fine anno; a causa di una tempesta di neve in corso non può prendere un aereo e così noleggia un autista e una macchina. Durante il percorso si fermano a Knoxville, dove Williams, che non si sente bene, si fa visitare da un medico, che gli inietta una soluzione

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di vitamina e morfina. Il viaggio riprende, ma, durante la notte, Williams muore sul sedile posteriore della macchina. Williams ha 29 anni e la sua morte prematura inaugura una triste galleria di star della cultura di massa che muoiono giovani e godono – post mortem – di una fama ancora più grande di quella goduta in vita. Come terribile ironia, l’ultimo singolo di Hank Williams – I’ll Never Get Out of This World Alive – è una sorta di bilancio autosarcastico, nel quale canta: Ora stai guardando un uomo che sta diventando matto Ho avuto un sacco di fortuna ma è andata tutta a male Non importa quanto io lotti o mi batta Non uscirò mai vivo da questo mondo.

Il funerale di Williams si tiene a Montgomery, Alabama, il 4 gennaio 1953. All’incirca 15-20.000 persone si raccolgono per sfilare davanti alla bara. Nelle settimane seguenti le richieste di foto rivolte alla Mgm, che è la casa discografica per la quale Williams incideva, così come le richieste di suoi dischi, aumentano enormemente, mentre molte radio mandano sequenze ininterrotte di sue canzoni, o ne programmano una ogni segmento di quindici minuti28. Dopodiché, nei mesi seguenti, la madre di Williams e la prima moglie cominciano a pubblicare articoli e interviste che trasformano Hank in una sorta di santo. La sua prima moglie recita la parte della «vera» vedova; i suoi avvocati pagano alla seconda moglie una somma perché esca di scena, cosa che lei fa senza opporre grande resistenza. Il 31 marzo 1953, per un accordo tra varie radio, viene proclamato lo «Hank Williams Day», mentre entro la fine dell’anno vengono pubblicate almeno 16 canzoni-tributo29. La commistione di interessi commerciali e di sentito cordoglio da parte dei fan è un aspetto tipico della cultura di massa30. Le produzioni dell’industria culturale sono un business, tanto quanto un contributo alla vita dello spirito di chi le voglia apprezzare, e questa duplice faccia si riverbera anche sui rituali funebri costruiti intorno al povero Hank Williams. Tuttavia c’è anche un’altra dinamica in atto, derivante dalla collettiva rimo-

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zione della morte che connota la società statunitense (e l’Occidente nel suo complesso), specie dopo la fine della seconda guerra mondiale. Si ha paura della morte. La si nega. Non se ne vuole parlare. È un atteggiamento del tutto nuovo, rispetto a quello che si aveva in epoche passate, come molti dei più autorevoli tanatologi hanno già da tempo osservato. Scrive Philippe Ariès che in epoca medievale e moderna davanti alla morte se anche si era infelici, non si perdeva tuttavia la testa. Da un lato, non tutta l’affezione di cui un individuo era capace si concentrava su un piccolissimo numero di persone (la coppia ed i figli), e si distribuiva piuttosto su un gruppo più esteso di parenti e di amici. La morte di una persona, anche fra le più accoste, non distruggeva tutta la vita affettiva; restavano possibili delle sostituzioni. Infine la morte non era mai la sorpresa brutale che [è diventata]. Faceva parte dei rischi quotidiani. Fin dall’infanzia, ci si era più o meno preparati. [Adesso, nel tardo XX secolo] la società non sopporta più la vista delle cose attinenti alla morte, e quindi né la vista del cadavere, né quella dei parenti che piangono. Pertanto chi resta è come schiacciato tra il peso del suo dolore e quello dell’interdetto sociale31.

A tale processo di rimozione contribuisce certo la grande nuvola di morte che ha avvolto il mondo tra il 1939 e il 1945 e che ci si vuole mettere definitivamente alle spalle. Vi contribuisce anche la straordinaria ripresa economica, che induce a un ottimismo isterico e che molti e molte abbracciano come una salvifica boccata d’ossigeno. Vi contribuisce il materialismo estremo sollecitato dalla cultura di massa mainstream, il suo culto del lieto fine, l’indugiare in fantasticherie supereroiche e immortaliste. E vi contribuiscono sicuramente i miglioramenti della scienza medica che hanno permesso l’abbattimento dei tassi di mortalità, specie di quella infantile: e così la morte, che non colpisce più, come un tempo, i bambini o i ragazzi, viene associata unilateralmente con la vecchiaia, con la decadenza, con la fine di un percorso. Tutti questi processi spingono a considerare le morti premature come qualcosa di assolutamente insopportabile, poiché sono la più evidente testimonianza della inconsistenza di queste fantasie. È per questo che le scomparse premature di star della

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cultura di massa sono investite di un significato simbolico particolare. I rituali esprimono l’idea di una terribile ingiustizia, di un insopportabile tiro mancino giocato dal destino nel rapire una vita ancora nel fiore degli anni. In questi rituali, il gioco della rimozione da individuale si fa collettivo, e le giovani star morte diventano qualcosa di simile a «divinità della morte ingiusta», ingiusta, appunto, perché troppo anticipata, ingiusta perché tale da smentire le promesse di felicità e di immortalità che il consumismo e le narrative mainstream profondono a piene mani. Che questa dinamica coinvolga anche un artista come Williams, non certo incline a vedere la vita dalla prospettiva etica della cultura mainstream, segnala la forza di questi processi, e la capacità che quella cultura ha di impossessarsi anche di sistemi discorsivi intimamente difformi dall’episteme che la pervade32. 5. R&B Quando li vede arrivare, in una domenica di agosto del 1941, McKinley Morganfield non ha proprio idea di chi diavolo siano: due signori, uno bianco e uno nero, che si fermano con la loro macchina alla Stovall Plantation, dalle parti di Clarksdale, in Mississippi. I due dicono di essere in cerca di gente che suoni vecchi blues. E McKinley Morganfield di blues se ne intende. I due tizi, Alan Lomax, il bianco – una nostra vecchia conoscenza33 –, e John Work, il nero, un professore della Fisk University, tirano fuori un’apparecchiatura per la registrazione e lo registrano mentre suona la sua chitarra: quando, pieno di meraviglia, riascolta la registrazione, lui, McKinley Morganfield, un contadino di ventott’anni, detto anche Muddy Waters, non crede alle proprie orecchie. Del resto, come ha poi dichiarato, «era la prima volta che ascoltavo la mia voce». Dopo però comincia a ragionarci su. Forse – pensa – la musica potrebbe diventare qualcosa di diverso da un semplice passatempo; forse là da dove vengono quei due signori, ce ne sono altri che vogliono ascoltare la mia musica. E così Muddy Waters nel 1943 decide di andarsene dal Mississippi, e di trasferirsi a nord, a Chicago34.

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Non è il solo a muoversi. Sia prima sia dopo la guerra molti milioni di neri se ne sono andati dal Sud, e si sono trasferiti nelle grandi città dell’Ovest e del Nord, in cerca di fortuna. A Oakland, a San Francisco, a New York o a Chicago non è detto che le cose vadano poi così sostanzialmente meglio: i neri sono reclusi in quartieri-ghetto; le condizioni educative, economiche e lavorative che li accolgono sono scadenti, a volte disastrosamente scadenti. E tuttavia, nonostante tutto, quelli sono luoghi profondamente diversi rispetto alle campagne e alle città del Sud. In California o negli Stati del Nord non vigono le Jim Crow Laws. D’altro canto, la ripresa economica del dopoguerra, che si fa sentire soprattutto nelle città industriali del Nord, porta benefici anche alle famiglie afroamericane che vi si sono trasferite: i redditi riprendono a crescere, il livello di vita migliora, il mercato dei consumi si apre anche a un buon numero di gente nera, sebbene in forma decisamente meno ricca e promettente che per la media dei consumatori bianchi. Tra i beni di consumo ci sono anche i nuovi ritrovati tecnologici dell’industria culturale. I più ricchi tra i neri si comprano un apparecchio televisivo, anche se i programmi sembrano pensati solo ed esclusivamente per i bianchi. Altri afroamericani, se ancora non ce l’hanno, si comprano una radio; e poi, magari, acquistano anche i dischi che passano nei programmi radiofonici, oppure vanno in un juke joint per ascoltare al jukebox le loro canzoni preferite35. Ancora negli anni successivi alla fine della seconda guerra mondiale il mercato discografico resta socialmente e razzialmente separato. Musicisti neri suonano per un pubblico nero. Adesso, però, è evidente che qualcosa sta cambiando, un mutamen­to segnalato dalla decisione presa da «Billboard» che, dal 25 giugno 1949, fa cadere le rubriche «Best-Selling Retail Race Records» e «Most-Played Juke Box Race Records» per sostituirle con due nuove rubriche che si chiamano «Best-Selling Retail Rhythm & Blues Records» e «Most-Played Juke Box Rhythm & Blues Records»: da allora «Rhythm and Blues» (o R&B) diventa il termine standard per indicare l’intero insieme della musica pop afroa-

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mericana36. Considerare il mutamento di etichetta come il segno di un nuovo rispetto per la comunità afroamericana forse non è del tutto sbagliato. Tuttavia la svolta terminologica è più certamente dettata dalla constatazione che la musica nera sembra in rapidissima evoluzione. I blues acustici, di cui sono stati maestri Blind Lemon Jefferson e Robert Johnson, e che Muddy Waters sa suonare così bene, non vanno più di moda. La gente, e in particolare i giovani, al Nord o all’Ovest, non hanno voglia di sentire musiche che li riconducano alle condizioni e alle abitudini del Sud: hanno voglia di emozioni nuove, qualcosa che sia al passo coi tempi, qualcosa che apra prospettive diverse. Con ciò non si perde del tutto la tradizione del blues. Anzi, proprio Muddy Waters è uno dei grandi innovatori di questo stile quando – nel 1945, poco dopo essere arrivato a Chicago – cambia la sua chitarra acustica per uno strumento nuovo, eccitante, appena lanciato sul mercato: la chitarra elettrica. Con la chitarra elettrica può farsi sentire sopra il frastuono della gente che si accalca nei ritrovi; e se c’è un microfono, poi, anche la voce può viaggiare sulle onde delle sonorità metalliche della Gibson hollow body, la prima chitarra elettrica disponibile sul mercato37. D’altronde proprio i bluesmen sono tra i primi musicisti a fare delle chitarre elettriche il loro strumento d’elezione, come nel caso di B.B. King e John Lee Hooker, che si impongono a Detroit; o come nel caso di Aaron T-Bone Walker, che già da qualche tempo a Los Angeles sta suonando con chitarre dotate di amplificazione elettrica e che nei concerti dal vivo si inventa coreografie scatenate che nel pop bianco coevo sono del tutto impensabili (tipo suonare la chitarra appoggiandola sulla schiena). Non solo la chitarra viene amplificata, ma anche l’armonica a bocca: è Little Walter, trasferitosi giovanissimo a Chicago dalla Louisiana, che si inventa un sistema per amplificare l’armonica, così che possa essere ascoltata senza che la chitarra elettrica e i microfoni per le voci ne coprano le sonorità38. Peraltro, nel nuovo universo del blues elettrico la fondamentale matrice stilistica e poetica del country blues viene conservata: il modello delle strofe articolate in tre versi, distinti in due

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emistichi, e declinati nel sistema di rime AAB, viene mantenuto, così come si replica anche la maggior parte dei temi lirici sperimentati nei decenni precedenti alla seconda guerra mondiale. Ciò che cambia è il ritmo, che in genere viene accelerato: la scansione ritmica, affidata adesso permanentemente alla batteria e al contrabbasso, si fa più evidente e marcata ed è contrappuntata dai riff, brevi sequenze melodiche che sin dall’inizio dei brani ne stabiliscono l’atmosfera narrativa39. È difficile trascurare l’importanza del blues elettrico, soprattutto per l’enorme influenza che questo stile musicale e poetico esercita sulla successiva evoluzione della popular music e della cultura di massa. Tuttavia è bene osservare che dall’inizio degli anni Cinquanta questo stile perde progressivamente appeal presso il pubblico nero. Se si osserva l’insieme delle canzoni che si piazzano al n. 1 delle classifiche R&B stilate da «Billboard» per gli anni che vanno dal 1950 al 1954 si può vedere che dei 67 brani che costituiscono il campione, solo 6 possono essere propriamente classificati come blues elettrici40. A questi se ne possono aggiungere altri 9, che sono suonati da band che incorporano anche altri strumenti, in particolare il piano, il sassofono, la tromba, e che, anche se non hanno la chitarra elettrica al centro della formazione strumentale, rispettano tuttavia la classica matrice blues: ma siamo ancora a 15 brani, pari al 22% del totale. E il resto delle hit R&B in che stile è suonato? Se si escludono 3 brani strumentali di impronta jazz, 1 mambo e 12 canzoni sentimentali che, pur conservando tracce delle forme musicali afroamericane (il blues, il jazz, il gospel), sono tuttavia anche molto influenzate – per stile vocale e arrangiamento – dalle pop songs orchestrali che hanno maggior successo presso il pubblico bianco, restano 36 brani che costituiscono l’essenza del R&B dei primi anni Cinquanta. Ciò che caratterizza questo blocco di canzoni è che sono il frutto di una disinvolta ibridazione che mescola essenzialmente tutti i generi della popular music afroamericana, dal blues al jazz, al gospel, e che in qualche caso traggono spunti anche dal pop o dal country. Fermo restando che il nucleo originario – abbastanza ben visibile – di molte di que-

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ste canzoni continua a essere il blues, è tuttavia innegabile che il risultato conclusivo sia assai originale e diverso. I gruppi di maggior successo uniscono la strumentazione jazz e quella del nuovo blues elettrico (tromba, sassofono, contrabbasso, batteria, piano, chitarra elettrica, armonica), a supporto di un cantante (o di una cantante) che in qualche caso può contrappuntare la sua parte con un piccolo gruppo di vocalists di sostegno, sul modello dialogico del gospel. Il ritmo è molto più accelerato che nel country blues o anche nel blues elettrico. Le linee melodiche sono spigliate, elettrizzanti, in qualche caso decisamente allegre. E l’obiettivo evidente è quello di costruire una musica da ballo che, diversamente dalle ingessatissime pop songs per bianchi, consenta delle figure coreutiche dinamiche, rinnovando una pluridecennale tradizione di scatenate danze afroamericane, che va dal charleston al jitterbug. Oltre che nella impostazione musicale, la differenza tra il blues elettrico, da un lato, e le nuove canzoni R&B, dall’altro, si misura anche sul terreno lirico. Il blues elettrico continua a esplorare i territori poetici propri del canone fissatosi nei decenni precedenti alla seconda guerra mondiale. Domina il tradizionale tema dei «blues» che ti prendono e non ti mollano più, ovvero il tema dell’ossessivo sconforto personale che sembra non poter trovare sollievo, e che si traduce nella constatazione di essere stato abbandonato, deluso, maltrattato dalla società o dalla persona amata. La depressione blues può essere vinta andando via, o affondando nel whisky, o abbandonandosi al conforto di una sensualità che non rispetta alcun tipo di ordine familiare costituito. E in effetti qui si può notare una divaricazione molto netta tra gli orizzonti narrativi blues e quelli mainstream: in Still a Fool, del 1951, Muddy Waters canta del suo irresistibile amore per la moglie di un altro; in I Can’t Quit You Baby (1956), scritta da Willie Dixon per Otis Rush, il protagonista racconta di essersi talmente innamorato di una «lei» da aver vergognosamente trascurato il suo unico figlio, un tema ripreso in You Shook Me (1962), di nuovo ­scritta

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da ­Willie Dixon ma questa volta per Muddy Waters; mentre Howlin’ Wolf, interprete di una ricca serie di blues elettrici, poderosi e sempre un po’ minacciosi, si vanta di essere quello che passa dalla porta di dietro delle case per «farsi», con grande e reciproca soddisfazione, le mogli degli altri (Back Door Man, 1960, scritta ancora da Dixon)41. Allo stesso modo che nel blues di prima della seconda guerra mondiale, il tema della «guerra dei sessi» è al cuore delle narrazioni anche del nuovo blues elettrico, con una serie di scarti e di contrasti che testimoniano della effervescente instabilità dell’ordine del discorso blues. Completamente travolto dal desiderio, il protagonista di I Just Want to Make Love to You, brano del 1954, di nuovo scritto da Dixon per Muddy Waters, è pronto a rinunciare a ogni sua pretesa di maschio dominante: Non voglio che tu sia la mia schiava Non voglio che tu sia sincera Che tu lavi i miei vestiti Che mi tenga la casa in ordine Voglio solo far l’amore con te.

In assoluto controtempo, la versione (credo) più straordinariamente efficace del brano, eseguita nel 1961 da Etta James, presenta un panorama etico completamente rovesciato: Non voglio che tu sia il mio schiavo Che tu lavori tutto il giorno Che tu sia sincero Voglio lavarti i vestiti Non voglio trattenerti in casa Voglio cucinarti il pane Saperti ben nutrito Purché tu continui a far l’amore con me.

L’orizzonte tradizionalista di questa versione è anticipato da uno dei brani più maschilisti dello stesso Muddy Waters, Sugar Sweet (1955), in cui, descrivendo le ineguagliabili qualità della sua donna, spiega:

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Mi serve a letto Mi taglia le unghie Mi scuote la forfora dalla testa Quando dico ciò che voglio, è così che sarà Si fa in quattro per compiacermi.

Tipicamente, la versione femminile del gioco dei generi capovolge integralmente questo quadro: Willie Mae «Big Mama» Thornton, una ragazzona trasgressiva di 26 anni e 130 chili, per un’altezza adeguata, che suona la batteria e l’armonica, arriva al numero 1 della classifica R&B nel 1953 con Hound Dog, un trascinante blues accelerato, in cui interpreta la parte di una lei che maltratta un lui che, come un cagnolino, le scodinzola dietro solo perché vuole un po’ di ospitalità, anche se in realtà non la ama affatto: ma ora il gioco è finito e lui si deve togliere di torno42. In parallelo, per ogni autoesaltazione della potenza di un macho43 si incontra una simmetrica autodestrutturazione dell’identità di un uomo, piegato dalla vita e dall’incontro con la donna sbagliata, elaborata in una nutrita serie di canzoni di Muddy Waters, Howlin’ Wolf, Fats Domino, Eddie Boyd e di molti altri44. Una parte di questi temi trova spazio anche nei testi delle canzoni più propriamente R&B. Tuttavia con questo nuovo stile si entra spesso in un orizzonte valoriale piuttosto diverso da quello tipico del blues. Che si tratti dell’effetto della crescita economica che segue la fine della guerra, o che si tratti del desiderio di costruire una musica da ballo che trasmetta good vibrations, per così dire, sta di fatto che molti testi sono ispirati a un programmatico edonismo, che si traduce nell’esaltazione del piacere del ballo, del trovarsi insieme, del fare sesso, e persino dell’abbandonarsi a qualche sensazione «proibita» senza che si debbano esibire particolari sensi di colpa. Nel 1946 Louis Jordan in Let the Good Times Roll invita tutti quanti a divertirsi, e aggiunge: Non statevene lì a borbottare, non dite fesserie Se volete divertirvi per davvero Andate fuori e spendete un po’ di soldi, e

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Diamo inizio alla festa! Diamo inizio alla festa! Non mi importa se siete giovani o vecchi Troviamoci tutti e diamo inizio alla festa.

Nello stesso spirito, in Good Rockin’ Tonight, del 1947, Roy Brown dice a un’ipotetica lei: Dai, raggiungimi alla svelta dietro il fienile Non aver paura non ti farò alcun male Portami le scarpe da ballo Perché stanotte scaccerò tutta la mia tristezza Hai sentito la novità? C’è del bel movimento stasera.

Dopodiché, nei ritrovi può succedere di tutto; alla ragazza sedicenne interpretata da Julia Lee, in I Didn’t Like It the First Time (Spinach Song), una canzone che nel 1949 si piazza al n. 4 delle classifiche R&B, è successo di provare la marijuana: «Non mi era piaciuta la prima volta, ero così giovane, sapete / Cercavo di fuggire via da quella roba ma ora chissà come non ne ho mai abbastanza / Non mi era piaciuta la prima volta, ma oh, come mi è cresciuta addosso»45; oppure può capitarle di incontrare un «Mr. Right» ben diverso dal principe azzurro delle favole disneyane; sempre Julia Lee, nel 1948, canta del suo King Size Papa, e dice: «È alto due metri e mezzo, ha spalle larghe più di un metro, e questo non è nemmeno tutto... / Paparino king size, è il mio paparino king size / Strappo la porta dai cardini quando lui viene a trovarmi». Non manca, in queste canzoni, il tradizionale confronto dei sessi; ma anche in questo caso è ripresentato in un tono più scherzoso che drammatico, come nel confronto a distanza contenuto in due delle canzoni più brillanti dell’epoca: in Sixty Minute Man (1951), dei Dominoes, l’uomo che parla (che ha anche un nome: Lovin’ Dan) è un tizio in grado di durare sessanta minuti e di far felici tutte le donne scontente dei loro uomini («Ci saranno quindici minuti di baci / Poi griderai “per favore non ti fermare” / Poi ci saranno quindici minuti di coccole / E quindici minuti di abbracci / e quindici minuti di “mi mandi fuori di te-

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sta”»). A questa canzone risponde nel 1952 Ruth Brown con 5-1015 Hours, in cui lei dice a lui: «Voglio eccitarti finché il sole non brilli / E così dammi cinque, dieci, quindici ore con te»; ...altro che la semplice oretta di Lovin’ Dan... Allegria e spontanea eversione – mai virata, peraltro, in una qualche discernibile direzione politica – si incontrano praticamente in ogni angolo dell’universo R&B. Per dire: tra la fine degli anni Quaranta e l’inizio degli anni Cinquanta cominciano a emergere dei gruppi vocali, prevalentemente maschili, che rielaborano la tradizione degli spiritual e dei gospel, cantando delicate e lente canzoni sentimentali arricchite da sofisticati intrecci canori46. Tra il 1950 e il 1954 al n. 1 delle classifiche arrivano The Five Keys, The Orioles, The Clovers e Johnnie Ray and the Four Lads (quest’ultimo è un gruppo bianco: l’unico esempio di musicisti non di colore che abbiano un brano al n. 1 delle classifiche R&B in questo quinquennio). Lo stile – poi denominato «doowop» (parola onomatopeica, che imita le sillabe cantate dal coro che accompagna il cantante solista) – si impone in particolare tra il 1954 e il 1956 con successi come Sincerely dei Moonglows, Earth Angel dei Penguins, Only You e The Great Pretender dei Platters. L’impianto vocale è ammirevole; la presenza scenica è ordinata, organizzata in controllate scenografie in cui i membri dei gruppi, vestiti, di solito, in completo scuro, camicia bianca e cravatta a farfalla, si muovono a tempo, con movimenti aggraziati. La cosa vale anche per i Ravens e i Drifters, due gruppi di buon successo che tuttavia nel 1948 gli uni, e nel 1954 gli altri, registrano due cover di White Christmas che funzionano come una travolgente e aggressiva destrutturazione di uno dei must assoluti del sentimentalismo natalizio bianco: cantano come qualcosa di simile a un Bing Crosby sotto acido (ascoltare integralmente per credere...). Dubito che l’effetto sia intenzionale47: ma ciò mostra che in qualche caso, quando la cultura afroamericana entra nel cuore etico delle narrazioni mainstream, la deflagrazione estetica è uno dei risultati possibili. Il successo di tutta questa variegata costellazione di musiche è reso possibile dall’esistenza di una articolata rete di case

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PARTE PRIMA. OVER THE RAINBOW Pop songs

Rhythm & Blues

Majors Indipendenti

Grafico 2. Settimane di permanenza delle hit al n. 1 delle classifiche di «Bill­ board» suddivise per case discografiche, in percentuale sul totale, 1950-1954.

discografiche e di radio indipendenti. Sin dal 1929 le majors discografiche hanno giudicato il mercato della musica nera come economicamente irrilevante e lo hanno del tutto trascurato, per concentrarsi sulla musica pop e anche sulla musica country; il che ha lasciato campo libero a una serie di imprenditori che fondano una miriade di piccole etichette indipendenti che si dedicano a stili musicali di nicchia, tra cui – in primo luogo – il R&B (Grafico 2)48. Molti di questi imprenditori sono già stati produttori, o hanno lavorato in negozi di dischi, o sono stati proprietari di nightclub, o sono stati giornalisti musicali, o hanno lavorato alla radio, o come autori di brani musicali, o hanno gestito catene di jukebox. Quasi tutti sono bianchi49; tra il 1950 e il 1954 le case discografiche indipendenti che hanno una canzone al n. 1 di una delle classifiche di «Billboard» sono 18, di cui la Peacock, che nel 1953 piazza per sette settimane in testa alla classifica Hound Dog di «Big Mama» Thornton, è l’unica di proprietà di un nero (Don Robey). Inoltre, dopo la fine della seconda guerra mondiale, i grandi network radiofonici hanno concentrato energie e capitali nel mercato della televisione, trascurando di setacciare il campo delle nuove emittenti radiofoniche, anche a prescindere dai limiti

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imposti dall’antitrust. E così, dalla fine degli anni Quaranta le stazioni radiofoniche indipendenti (cioè non affiliate a uno dei grandi network) sono in rapido aumento numerico. Le nuove emittenti radio cercano di intercettare quegli ascoltatori che per un motivo o per l’altro non sono attratti dalla programmazione televisiva. Giacché i radiodrammi o altre trasmissioni sceneggiate perdono rapidamente appeal a favore degli sceneggiati televisivi, non resta che orientarsi verso il mercato delle musiche, tra cui – per l’appunto – il R&B; nel 1956 ci sono 28 stazioni radio con una programmazione interamente orientata a un pubblico afroamericano, mentre altre 36 dedicano almeno 30 ore settimanali a programmi indirizzati ad ascoltatori neri, e molte altre ancora una sezione temporale minore ma pur sempre significativa50. Quest’ultima dinamica è importante per capire perché è soprattutto un pubblico giovanile quello che si orienta verso il R&B: in televisione i ragazzi neri non trovano che le pop songs orchestrali cantate da bianchi, un genere che proprio non va tra le comunità afroamericane. E però possiedono le nuove radio a transistor, che costano poco e sono molto maneggevoli, oltre ad avere talvolta la radio in macchina51. È così che possono ascoltare musiche che sentono come loro proprie, soprattutto perché – com’era già stato per lo swing – si prestano a danze che servono da simbolico confine generazionale: solo i giovani possono ballare a quei ritmi, i loro «vecchi», no. Ora, ciò che colpisce gli opinion makers dell’epoca è che – proprio come con lo swing – non sono solo i giovani neri che apprezzano questo nuovo tipo di musica: un numero non alto, ma tuttavia visibile, di ragazzi e ragazze bianchi comincia a mostrare interesse per il R&B. Che ciò accada è testimoniato dai crossover, ovvero dai passaggi di classifica di brani originariamente orientati verso il mercato R&B che riescono a sfondare anche sul mercato pop, un fenomeno che dall’inizio degli anni Cinquanta diventa sempre più evidente52. Peraltro la considerazione che l’opinione pubblica bianca più conservatrice ha del R&B è molto negativa; un DJ di Louisville, Kentucky, spiega così la ragione per cui non trasmette dischi R&B:

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PARTE PRIMA. OVER THE RAINBOW

Non è perché i musicisti sono di colore, ma è il ritmo e il tono delle cose. [Il R&B] non è melodico. Chi ci ascolta non ama questo genere di cose. Si vergognerebbe se i suoi amici scoprissero che ascolta questa roba. La qualità di questa musica è povera, davvero. Porta fuori ciò che... beh... ciò che di selvaggio c’è nella gente53.

Nel 1952 due famosi giornalisti, Jack Lait e Lee Mortimer, nel loro libro U.S.A. Confidential, collegano le nuove musiche apprezzate dai teenager alla delinquenza giovanile, osservando che quelle forme musicali rimbombano di tom-tom, di orge rituali, di danze erotiche, di marijuana e di manie di massa, con la giungla africana come sfondo; secondo i due giornalisti, molti negozi di dischi vendono erba e procurano ragazze bianche per uomini di colore; gli amanti dei dischi sono prevalentemente dei tossici, comunisti, contrari a ogni convenzione sociale; e attraverso i DJ i ragazzi conoscono i musicisti neri e frequentano locali verso i quali sono indirizzati dalle radio, un’operazione mirata a procurare alla mafia una nuova generazione di schiavi54. Isteria pura. Ma il tono iperbolico di queste critiche non è che la prima avvisaglia di un nuovo e ben più esteso moral panic che sta per attraversare l’opinione pubblica bianca in relazione all’uso che i giovani fanno dei prodotti della cultura di massa.

Parte seconda The Times They Are a-Changin’

VII Rock and roll

1. Giovani delinquenti Linde villette nei sobborghi; buffe famiglie felici; teneri amori romantici; drammi che hanno il loro immancabile happy ending; eroi impavidi a protezione della comunità: queste sono le rassicuranti immagini che attraversano la cultura di massa mainstream negli States degli anni Cinquanta. Ciò nonostante, la componente paranoica della tradizione culturale statunitense continua ad alimentarsi incessantemente non solo della paura del «nemico esterno», ovvero il comunista, ma anche della paura del «nemico interno», ovvero il giovane delinquente. Le violenze dell’estate del 1943 (zoot suit riots, race riots, scontri tra gang), o le notizie sui costumi dissoluti delle victory girls, hanno ingigantito i timori, amplificati adesso da studi che prevedono un aumento dei comportamenti delinquenziali degli adolescenti, come effetto della disgregazione di molte famiglie, prodotta dalla «anomia» della Grande Depressione e degli anni di guerra1. I segni di questa ondata sembrano esserci tutti. Ma soprattutto si ha l’impressione che tutti quegli atteggiamenti devianti, che nei decenni precedenti sono stati riconosciuti come tipicamente propri dei giovani delle classi basse o delle minoranze etniche, stiano contagiando anche la gioventù bianca di classe media. In realtà i dati disponibili non giustificano affatto queste preoc­ cupazioni. I reati gravi commessi dagli adolescenti non sono per

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PARTE SECONDA. THE TIMES THEY ARE A-CHANGIN’

nulla in crescita, e a parità di criteri di indagine appare chiaro che nel secondo dopoguerra, in aree urbane cruciali come New York, i reati commessi da giovani sono persino in diminuzione rispetto ai decenni precedenti2. Semmai, la sensazione che la criminalità giovanile sia in aumento è dettata dall’adozione di nuovi criteri criminologici che inseriscono tra i «reati» (effettivi o potenziali) anche pratiche relativamente innocue, come disubbidire ai genitori, far coppia fissa (going steady), tornar tardi a casa la sera, prendere la macchina di famiglia per attraversare il confine statale e andare a bere birra anche se non si ha l’età giusta: e così un pregiudizio che vuole trovar conferma a tutti i costi, alla fine riesce a trovarla, anche a dispetto dei dati della realtà3. L’ansia che attraversa l’opinione pubblica, alimentata da voci autorevoli come quella di J. Edgar Hoover, capo dell’Fbi, o quella di Tom Clark, ministro della Giustizia dal 1945 al 1949, nasce da una fonte ben diversa: deriva, cioè, dalla constatazione di un cambiamento radicale nella composizione della popolazione scolastica, specie degli istituti di istruzione superiore, che sta mettendo fianco a fianco ragazzi e ragazze di ambienti sociali molto diversi, e talora anche di ambienti etnici diversi. Ciò è più che sufficiente per scatenare la paura di un «pericoloso contagio» culturale di cui questi ragazzi e ragazze sarebbero portatori, con possibili conseguenze «degenerative» nel comportamento e nella morale della gioventù più genuinamente Wasp e middle class4. Dando credito a questa presunta ondata di criminalità giovanile, qualche osservatore ne trova le cause in alcune delle più recenti innovazioni della cultura di massa mainstream. Offrendo una lettura parallela rispetto a quella proposta proprio in quegli anni da Adorno e Horkheimer, Fredric Wertham, uno psichiatra progressista, che è anche un rigorosissimo critico dei nuovi comic books, considera i fumetti come un medium che popolarizza e, in definitiva, «glamourizza» stili di vita e comportamenti delinquenziali5. In parte ha ragione. Diversamente dal cinema o dalla radio, l’editoria specializzata in comic books non si è dotata di alcuno strumento di autocensura: e così, in un mercato di

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grande successo e in enorme espansione come quello dei fumetti, circolano anche crime stories sensazionalistiche che cercano di attrarre i giovani lettori con immagini violente o eroticamente allusive. Wertham è partito all’attacco sin dal 1948, ma nel 1954 ha pubblicato Seduction of the Innocent, un saggio in cui le critiche sono minuziosamente e brillantemente argomentate. Il libro apre una polemica di impatto tale da provocare un’inchiesta condotta da una sottocommissione del Senato, alla quale i principali editori di comic books rispondono decidendo di introdurre un codice di autoregolazione che mette fuori mercato la gran parte dei crime comic books pubblicati fin allora6: È un esempio di autocensura senza precedenti per la sua drasticità. Non solo non possono essere più raffigurate scene di violenza o di accenno alla droga e al sesso, ma non possono più essere nominate neppure le parole relative a tali argomenti. Viene creato un marchio a forma di francobollo, da stampare in evidenza in alto a destra sulla copertina di ogni comic book, contenente la frase Approved by the Comics Code Authority (Approvato dall’Authority del Codice del Fumetto): quell’album, cioè, era stato esaminato dal comitato di censura degli editori, e quel marchio certificava l’avvenuta approvazione. Se un editore si rifiutava di sottoporre un suo album all’esame di quel comitato gli edicolanti non esponevano l’album sul banco vendita per timore di interventi e sequestri da parte delle forze di polizia. Tutti gli editori, ovviamente, furono costretti, per sopravvivere, ad accettare le nuove regole di autocensura. L’editore Gaines è quello più colpito e deve chiudere in pratica tutte le sue serie, cercando l’anno successivo di produrne altre analoghe molto più annacquate e prive di attrattiva per i lettori delle vecchie serie7.

Naturalmente, le majors di Hollywood non possono restare indietro: e così come producono film allineati alla crociata anticomunista, colgono l’occasione – didattica e di mercato – per illustrare la minaccia che viene dal nuovo – presunto – diffondersi della delinquenza giovanile. I film più rilevanti di questa new wave hollywoodiana sono The Wild One (Il selvaggio, László Benedek, 1953), Blackboard Jungle (Il seme della violenza, Richard Brooks, 1955) e Rebel Without a Cause (Gioventù bruciata, Nicholas Ray, 1955). Ciascuno di questi film vuole mettere in guardia

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dalle degenerazioni teppistiche, violente o autodistruttive, che si immagina stiano impadronendosi della gioventù americana dell’epoca, e non più soltanto di sezioni marginali di estrazione popolare, ma anche di ragazzi della media borghesia. Ciascuno di questi film è costruito in modo da portare la storia verso una soluzione moraleggiante, nella quale ai danni tragici prodotti – volontariamente o involontariamente – da comportamenti delinquenziali fa seguito un’adeguata punizione dei responsabili. Tuttavia, in una strana eterogenesi dei fini, non infrequente nella storia della cultura, opere di questo genere, invece di servire a stigmatizzare la diffusione di stili subculturali, finiscono per «glamourizzarli» per davvero. Questo, anche perché la produzione dei film si muove su un doppio crinale, in un equilibrio evidentemente difficile da mantenere. Da un lato deve dare delle descrizioni realistiche del deragliamento giovanile, giungendo anche a qualche conclusione moralmente «positiva» che perora un ritorno all’ordine. Dall’altro lato, però, deve descrivere le comunità giovanili in modo non troppo negativo, poiché il pubblico dei film (e di questi film, in modo particolare) sta cambiando il suo profilo demografico, e proprio in questi anni sta diventando un pubblico di giovani, come il proliferare dei drive-in, frequentati quasi esclusivamente da loro, dimostra chiaramente8. E così, il bomber da aviatore e lo stile da biker di Marlon Brando (The Wild One), o la t-shirt a pelle indossata da James Dean (Rebel Without a Cause), diventano cifre distintive dei gruppi di ragazzi e ragazze che vogliono darsi una propria eccentrica cifra stilistica alternativa9. 2. Nascita di una nuova musica Ma non si tratta solo di questo. C’è una musica che si carica di significati simbolici anche più coinvolgenti. Ed è proprio Blackboard Jungle a lanciarla. Il film racconta di un nuovo professore (Glenn Ford) che inizia a insegnare in una high school «vocational» maschile, posta in un quartiere popolare; lì deve scontrarsi con i comportamenti aggressivi di una gang semidelinquenziale,

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che però alla fine riesce a ricondurre all’ordine grazie all’appoggio di un carismatico studente afroamericano (Sidney Poitier). Nelle intenzioni di regista e produttori la storia vuole avere un impianto didattico che rimarca la superiorità etica degli adulti che sanno guidare i giovani volenterosi (afroamericani compresi) verso i valori che costruiscono una società stabile e ordinata. Tuttavia, sui titoli di apertura e su quelli di coda gli autori del film hanno avuto l’idea di inserire un brano di un musicista bianco, uscito già da qualche mese: il musicista è Bill Haley, e il brano è Rock Around the Clock. La canzone, sia nella musica che nel testo, trasmette il desiderio di divertirsi abbandonandosi a un ballo scatenato. Lo stile è strano: sembra un R&B, salvo che è eseguito e cantato da musicisti bianchi. L’idea fondamentale del regista del film è semplice: associare questa nuova, strana musica alla violenza o alla dissolutezza giovanile10. Nella primissima scena, dopo i titoli di testa, mentre la canzone sfuma in sottofondo, si vede il nuovo professore che si avvicina al cortile della scuola, dove dei ragazzi stanno ballando al ritmo della musica di Haley, mentre altri, con lo sguardo ben poco raccomandabile, scrutano torvi il nuovo venuto. Tuttavia, contrariamente alle intenzioni degli autori, il film diventa una specie di incontenibile trampolino di lancio per questa nuova canzone. Anni dopo Frank Zappa, che all’epoca aveva quindici anni, ricorda di aver reagito così: Quando il titolo apparve sullo schermo Bill Haley e i suoi Comets spararono fuori «One Two Three O’Clock, Four O’Clock Rock»... Era il suono rock più forte che i ragazzi avessero mai sentito a quei tempi. Ricordo di esserne rimasto intimorito. Nelle micragnose stanzette da adolescenti di tutta l’America, i ragazzi si erano accalcati intorno a vecchie radio e giradischi da due soldi per ascoltare la «sporca musica» che esprimeva il loro stile di vita («Va’ in camera tua se vuoi ascoltare quello schifo... e metti il volume al minimo»). Ma al cinema, guardando Blackboard Jungle, non potevano dirti di abbassare il volume. Non mi importava se Bill Haley era bianco o sincero... stava suonando l’Inno Nazionale degli Adolescenti ed era COSÌ FORTE che io saltavo su e giù. Blackboard Jungle, anche senza considerare la trama (che mostrava gli adulti che alla fine si imponevano), rappresentò uno strano tipo di «appoggio» alla causa dei teenager: «Hanno fatto un film su di noi, quindi esistiamo...»11.

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La reazione descritta da Zappa si verifica in tutti i cinema nei quali venga proiettato il film: quando parte Rock Around the Clock i giovani spettatori presenti si mettono a cantare la canzone, si alzano, qualcuno balla nei corridoi, qualcuno salta sulle sedie. È un pandemonio che allarma moltissimo le autorità, tanto che in diversi cinema i titoli di testa e di coda sono fatti scorrere con l’audio spento12. Nondimeno Rock Around the Clock diventa un successo incredibile: alla fine del 1955 ha venduto 2 milioni di copie e alla fine del decennio il disco ha raggiunto White Christmas di Bing Crosby come singolo più venduto di sempre (attualmente è quarto, con 25 milioni di copie vendute nel mondo)13. Blackboard Jungle consacra in forma quasi rituale il successo di una musica che in realtà circola già da diversi mesi. La nascita di questo nuovo stile viene raccontata di solito attraverso una specie di «mito di fondazione» che ha il pregio di illustrare alcuni aspetti essenziali dei processi generativi che danno forma alla nuova musica. Memphis, Tennessee. Centro-Sud degli Usa. Fine estate del 1953. Sabato pomeriggio. Un giovane diciottenne che ha appena terminato la high school si presenta negli uffici della Sun Records, una piccola etichetta discografica indipendente, dove si possono registrare dischi per uso proprio. Il ragazzo, appassionato di musica pop, ne vorrebbe incidere uno, e presentandosi a Marion Keisker, segretaria della Sun Records, fra l’altro le chiede se per caso lei conosce qualcuno che ha bisogno di un cantante; lei, di rimando, vuole sapere che tipo di musica lui sia in grado di interpretare; e lui: «qualunque genere». «E a chi somigli?», replica Marion: «A nessuno», risponde il ragazzo. Dopo un po’ di attesa, il giovanotto paga i suoi 4 dollari e registra i suoi pezzi. Sam Phillips, che è il direttore della Sun Records, non ne resta particolarmente impressionato, ma la segretaria prende egualmente nota del suo nome: Elvis Presley. Qualche tempo dopo, nel gennaio del 1954, il giovane Presley torna alla Sun Records per registrare un altro disco, con risultati più incerti che nel corso della prima

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registrazione: anche in questo caso, Sam Phillips non mostra alcun particolare interesse14. Alla fine di giugno del 1954, però, Phillips ritiene di avere tra le mani un bel pezzo da incidere, ma non riesce a trovare l’uomo giusto al quale farlo cantare. È una ricerca che lo tormenta da un po’; ed è da un po’ che pensa che se riuscisse a scovare un bianco capace di cantare con la voce e con il sentimento di un nero, potrebbe fare un sacco di soldi15. Ed è allora che Marion chiama Presley per telefono per provare a fargli registrare il brano. In una prima sessione Phillips lo fa esibire da solo, voce e chitarra, ma la cosa non decolla per niente. Phillips, allora, decide di affiancargli due esperti session men, il chitarrista Scotty Moore e il contrabbassista Bill Black, e fissa una nuova seduta di prove. Il 5 luglio del 1954, nella sala di registrazione della Sun Records, i tre provano qualche pezzo, ma di nuovo non viene fuori niente di buono. Poi, all’improvviso, in un momento di pausa, Elvis si mette a cantare un blues di qualche anno prima, saltando per la stanza e facendo un po’ lo scemo. Scotty Moore lo guarda meravigliato. Bill Black, invece, prende il contrabbasso e comincia a darci dentro. E allora anche Scotty Moore si unisce ai due. Sam Phillips, che è nella stanza accanto, si affaccia e chiede: «Ehi, ma che fate?». «Boh, non abbiamo idea». «Beh, fermi un momento: cercate un punto da cui ricominciare, e fatelo di nuovo». I tre riprendono le prove, e alla fine la session decolla. Il pezzo è That’s All Right, un blues di Arthur Crudup, già inciso nel 1946. Una volta completata la registrazione, Sam decide di far ascoltare il pezzo a Dewey Phillips, DJ della stazione radiofonica Whbq di Memphis, una vera celebrità locale16. L’8 luglio del 1954 Dewey chiama Sam e gli chiede di avere due copie della registrazione, perché alla fine si è convinto della bontà del brano che Sam gli ha passato, e vuole lanciarlo la sera stessa nel suo programma radiofonico; in effetti quella sera Dewey mette in onda il brano in heavy rotation, sette volte di fila, e poi altre ancora, ottenendo una risposta immediata dagli ascoltatori, che telefonano alla stazione o mandano telegrammi di apprezzamento. Elvis è andato al cinema, anche se ha detto ai suoi genitori di tenere la radio accesa, per ascoltare la canzone.

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Dewey chiama a casa di Elvis perché lo vuole subito alla stazione radio; il papà e la mamma di Elvis vanno a cercarlo al cinema vicino casa, e poco dopo Elvis è alla radio, dove Dewey lo intervista. A quel punto Sam ha assolutamente bisogno di un altro pezzo per l’altro lato del disco, e il trio, venerdì 9 luglio 1954, torna allo studio di registrazione. Tentano varie canzoni, poi un po’ per gioco, su iniziativa di Bill Black, si mettono a suonare Blue Moon of Kentucky di Bill Monroe, che nell’originale è un melensissimo pezzo country sentimentale: ed ecco trovato il secondo brano. Il disco con That’s All Right su un lato e Blue Moon of Kentucky sull’altro viene recapitato ad altre stazioni radio, con ottimo successo, e viene messo in commercio lunedì 19 luglio 1954, quando già ci sono 6.000 preordinazioni di acquisto17. Rispetto agli originali, That’s All Right si differenzia dalla versione di Crudup per l’uso della chitarra, e per la voce più piena e profonda di Presley; ma la struttura ritmica resta sostanzialmente la stessa; ciò che cambia, in maniera decisiva, è il fatto che qui c’è un bianco che canta una musica che appartiene alla tradizione culturale afroamericana e lo fa senza mutare niente degli stilemi blues. Anche più innovativo il trattamento che Presley riserva a Blue Moon of Kentucky: in questo caso un brano country, parte della tradizione musicale più bianca possibile, viene affrontato come se fosse un R&B, rendendolo quasi irriconoscibile sia per il ritmo, che è enormemente accelerato, sia per l’intensità espressiva, che è freneticamente incontrollata, lontanissima dal piagnucolare onirico dell’originale. In entrambi i casi si attraversano confini etnoculturali invisibili, ma, fin allora, rigidissimi. Per qualcuno è un vero e proprio scandalo. Lo è, per esempio, per Randy Blake che, in un articolo di apertura per «DownBeat» del 26 gennaio 1955, afferma che questa mescolanza di generi è un po’ come far fare le tubature di una casa a un elettricista e l’impianto elettrico a un idraulico: puro nonsense. E prosegue: La musica country è la musica country. Punto. Il Rhythm and Blues è un campo a sé. Lo stesso per il pop. E allo stesso modo per il grand opéra. Ciascun genere ha raggiunto l’acme del suo successo rivolgendosi solo al proprio pub-

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blico di riferimento. Le cose andavano bene in ciascuno di questi settori, fino a che qualcuno non ha seminato il panico. [...] Non è forse arrivato il momento di capire che un brano Rhythm and Blues non è un brano country, anche se è registrato da un apprezzato esecutore di country e prodotto da una major discografica? [...] Lasciamo che questa gente si rovini da sola, se lo vuole. Ma perché dovremmo permettere loro di infangare la nostra integrità?18

La stroncatura è pesante e autorevole, ma non ha nessun effetto perché quel nonsense riscuote un enorme successo: da quando Dewey Phillips dalla sua stazione radio ha mandato in onda That’s All Right in heavy rotation, la nuova onda musicale è dilagata senza fermarsi più, travolgendo un numero enorme di ragazzi e ragazze, prevalentemente bianchi. Poi, nel 1955, ci pensa Blackboard Jungle a imporre definitivamente la nuova musica. 3. Rock and roll e «moral panic» Dal 1955 al 1957 la nuova musica si afferma definitivamente e acquista un suo nome specifico: «rock and roll»19. Nell’imporre questo nome ha un ruolo importante Alan Freed, un DJ che trasmette dalla Wjw di Cleveland, con un programma serale dedicato a musiche afroamericane (black gospel, secular quartets, jump bands)20. Nel 1952, prendendo spunto dal testo di Sixty Minute Man dei Dominoes, dove si usano i verbi «rock» e «roll», Freed battezza il suo programma Alan Freed’s Moondog Rock and Roll House Party21. Nel 1954 Freed passa alla Wins di New York. Quando arriva a New York un musicista locale, Louis Hardin, di soprannome Moondog, lo cita per uso improprio del nome e costringe Freed a cambiare nome al programma, che da allora si chiama Rock ’n’ Roll Party. Nel suo programma Freed ospita volentieri le nuove musiche di Presley, Haley e di altri che stanno facendo una musica simile, ed estende il nome del programma al nuovo stile22. In realtà le espressioni «rock», «rocking», erano già molto usate, soprattutto nella musica nera; nel 1922 Trixie Smith aveva inciso una canzone intitolata My Daddy Rocks Me (With One Steady Roll); nel 1931 Duke Ellington aveva lanciato Rockin’ in Rhythm; nel 1934 le Boswell Sisters (un trio di cantanti bianche) avevano

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presentato Rock and Roll (un’espressione che, in realtà, nello slang nero alludeva al rapporto sessuale). Nel 1947 Roy Brown, e poi nel 1948 Wynonie Harris, incidono Good Rockin’ Tonight, di cui poi Elvis Presley nel 1954 fa una cover per il suo secondo 45 giri per la Sun Records; nel 1949 Harris registra anche Rock Mr. Blues e All She Wants to Do Is Rock, nel quale canta di una lei che «wants to rock and roll all the night long». Né si tratta solo delle parole, giacché la struttura musicale di diversi brani R&B (per esempio quelli di Wynonie Harris) si fonda su un’accelerazione ritmica della forma musicale blues; ebbene, l’operazione è ripetuta da diversi musicisti r’n’r, che però imprimono alla struttura blues un ritmo che è ancora più sostenuto (l’operazione risulta particolarmente chiara se si confronta la versione originaria di Hound Dog, cantata da «Big Mama» Thornton, con la cover che ne fa Presley nel 1956). Quindi Freed, che del resto nei suoi programmi fa largo spazio anche a brani R&B, non inventa niente, anche se di certo lancia il termine che tra 1954 e 1956 si impone per designare il nuovo stile musicale23. Nel 1956 sia l’Encyclopedia Britannica Book of the Year che la rivista «Billboard», con un articolo di Paul Ackerman, consacrano definitivamente il termine. L’articolo in Encyclopedia Britannica Book of the Year è sguaiatamente critico: La musica più popolare è quasi del tutto o una riesumazione di vecchi materiali o una flagrante imitazione di canzoni folk, e raggiunge il suo livello più basso nel cosiddetto «rock ’n’ roll», uno stile canoro ritmato [che] si sostanzia di un minimo di linea melodica e di un massimo di rumore ritmico, competendo deliberatamente con gli ideali artistici della giungla24.

L’articolo di Paul Ackerman su «Billboard» (4 febbraio 1956) riconosce invece il vasto successo della nuova musica e soprattutto la sua derivazione dal R&B: Gli strilli e il tumulto si sono placati, ma il R&B, o come lo chiamano i teen­ ager, il rock and roll, non è scomparso. Anzi, si può dire che abbia acquistato rispettabilità. La vera misura di questo sviluppo sta nella frequenza con cui questo idioma viene usato in aree più o meno ovvie dell’intrattenimento e della pubblicità.

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Sul palco del Roxy Theater, per esempio, The Rock ’n’ Roll Ice Revue apre il 1° febbraio, annunciata come «la produzione più calda mai messa in scena sul ghiaccio». [...] Un’altra indicazione di questa legittimazione ad alti livelli è l’imminente programma radio della Cbs che mette in scaletta il cosiddetto rock and roll, con Alan Freed come deejay. L’accordo, che la settimana scorsa era dato per concluso, prevedrebbe la Camel come sponsor. Per inciso, ultimamente Freed ha impiegato il suo tempo come consulente per il film della Columbia, Rock Around the Clock, nel quale reciteranno Bill Haley e Freed in persona, nella parte di se stesso25.

Dopodiché Ackerman prosegue elencando altre prove dell’universale successo del r’n’r, accolto in programmi televisivi, nelle pubblicità e, soprattutto, largamente rappresentato nelle classifiche dei dischi più venduti. In effetti il nuovo stile trascina il mercato discografico verso una crescita impressionante: dai 213 milioni di dollari di dischi venduti nel 1954 si passa infatti ai 613 milioni del 195926. La spinta determinante è data dai teenager – soprattutto bianchi – che, in questo modo, diventano una forza trainante nel mercato dell’industria musicale: acquistano dischi, fondano fan club, richiedono foto autografate, vogliono riviste a loro destinate. Inizialmente le majors sembrano resistere al r’n’r, specie nel mercato dei singoli, dove i maggiori successi sono tutti indie (i 33 giri richiedono maggiori capacità produttive, e lì le piccole case discografiche sono più in difficoltà). Peraltro, le eccezioni non mancano, e sono importanti: Presley passa ben presto dalla Sun alla Rca; Gene Vincent incide con Capitol; Bill Haley e Buddy Holly con la Decca; The Big Bopper con la Mercury. Tuttavia, tutti gli altri musicisti che fanno r’n’r – tra cui autori di grandissimo successo, come Chuck Berry, Little Richard, Carl Perkins, Jerry Lee Lewis, Eddie Cochran – continuano a incidere per piccole case discografiche27. Di fronte al diffondersi di questa nuova musica, sono poche le voci autorevoli che commentano con compostezza, come nel caso di Hilda Schwartz, presidente del Tribunale per i minori di New York, secondo la quale in sé e per sé il r’n’r non è più pericoloso del charleston che andava di moda molti anni prima28. Non è que-

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sta, tuttavia, la norma, giacché la reazione più diffusa tra i media mainstream è istericamente negativa. E così, per esempio, in un articolo della rivista «Time» del 18 giugno 1956 si sostiene che, secondo autorevoli psicologi, i giovani fan del r’n’r seguono i loro idoli nei concerti con la stessa attitudine con la quale i militanti nazisti seguivano Hitler nei raduni di massa. Il «New York Times» del 28 marzo 1956 riporta le dichiarazioni di Francis Braceland, psichiatra, secondo il quale il r’n’r è una musica «cannibalistica e tribale» che fa appello alle insicurezze e alle inclinazioni ribelli dei giovani; Braceland pensa inoltre che sia una forma di espressione musicale particolarmente pericolosa perché ha essenzialmente gli stessi effetti di una «malattia contagiosa»29. Un altro psichiatra, A.M. Meerio, docente di psichiatria alla Columbia University, sostiene che «se non riusciamo ad arginare la marea del r’n’r con le sue onde di narcosi ritmica e di pazzia riflessa, stiamo preparando il nostro crollo nel bel mezzo del dilagare di danze funebri»30. Nel 1958, d’altronde, Frank Sinatra afferma che il r’n’r è qualcosa di falso. È cantato, suonato e scritto per la gran parte da degli stupidi buffoni, e per mezzo delle sue ripetizioni da deficienti e dei suoi testi allusivi, volgari, e in realtà del tutto osceni, si sforza di essere la musica marziale di ogni delinquente sulla faccia della terra31.

In effetti i giornali danno un grande risalto agli scontri fisici, ai tafferugli o alle risse che si scatenano durante alcuni concerti di r’n’r, generalizzando e stringendo un’associazione immediata tra r’n’r e delinquenza giovanile (la stessa associazione che sta alla base dell’uso di Rock Around the Clock come musica di apertura del film Blackboard Jungle). Proprio sulla base di questo stesso assunto, ad Atlanta un’ordinanza comunale proibisce ai ragazzi e alle ragazze di meno di 18 anni di partecipare a danze pubbliche se non accompagnati dai genitori o in possesso di una loro autorizzazione scritta. L’amministrazione comunale di San Antonio, nel Texas, elimina i dischi di r’n’r dai jukebox delle piscine comunali, perché il ritmo primitivo della musica attira «elementi indesiderabili». Nel 1956 il sindaco di Jersey City, nel New Jersey, nega a Bill

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Haley il permesso di tenere un concerto al Roosevelt Stadium, di proprietà comunale. Dopo un tafferuglio avvenuto a un ballo pubblico al quale partecipano 2.700 giovani, sempre nel 1956 il Consiglio comunale di Asbury Park, New Jersey, vieta che si suonino in pubblico «musiche swing e blues». Nel 1958 a Boston il sindaco John D. Hynes nega a un promoter di un concerto di r’n’r lo spazio pubblico richiesto, perché – spiega – spettacoli di quel genere attirano invariabilmente dei «piantagrane»32. Anche a molti genitori il r’n’r non piace: in una lettera anonima di questi anni, inviata a «Seventeen», una ragazza si lamenta delle critiche che i suoi genitori riversano sulla musica che lei e il suo ragazzo ascoltano; suo padre trova il r’n’r «musicalmente atroce, la monotonia portata al livello di tortura». «Tortura? – ribatte la ragazza –. Ma se è meraviglioso. Monotono? Quel ritmo scandito mi dice: sei giovane – sii felice! – sei giovane – sii felice!»33. Ethan Russell, invece, vorrebbe essere come Elvis Presley, e passa ore nel bagno a cercare di acconciarsi i capelli con la brillantina per averli come ce li ha lui, mentre tenta di imitarlo allo specchio. Ethan trova che la musica di Tony Bennett, adorata dai genitori, sia insopportabile; i genitori lo ricambiano, non capendo assolutamente il r’n’r. Un giorno il padre di Ethan, «esasperato» per i rituali di preparazione che Ethan svolgeva nel bagno e per il rock ’n’ roll suonato a tutto volume dal giradischi o dalla autoradio ogni volta che Ethan e suo fratello erano a portata di interruttore, li prese tutti e due e li portò dal barbiere per fargli tagliare i capelli a spazzola. La punizione inflitta dal sig. Russell non cambiò niente, ovviamente. E l’imitazione di Elvis, fatta da Ethan, ricominciò molto prima che i capelli fossero ricresciuti34.

Ma cosa può esserci mai, in questa musica, di così urticante? 4. Parabole r’n’r Il r’n’r parla di esperienze che molti teenager americani conoscono assai bene: la noia per la scuola, le corse in macchina, l’amore adolescenziale. Lo specialista delle canzoni romantiche è di gran lunga Elvis Presley, che nel cantarle alterna stile-

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mi propriamente r’n’r con soluzioni da cantante pop (vedi, per esempio, Don’t Be Cruel [13 luglio 1956] e All Shook Up [22 marzo 1957], per il primo versante; e Love Me Tender [6 ottobre 1956], per il secondo). Chuck Berry è invece geniale nell’ambientare le storie adolescenziali in un contesto narrativo che è quello specificamente proprio dei teenager americani degli anni Cinquanta. Si prenda, per esempio, School Days (1957); il testo contrappone brillantemente il dovere della scuola alla libertà offerta dalla musica, dal ballo e dall’interazione con la propria ragazza: Sveglia al mattino e poi via a scuola L’insegnante spiega la Regola Aurea Storia americana, matematica pratica Tu studi forte, sperando di passare Ti mangi le unghie fino in fondo E intanto il tizio di dietro non ti lascia in pace un momento Drin, drin, la campanella suona Il cuoco a mensa è pronto per il pranzo Sei fortunato se riesci a trovare un posto Sei fortunato se hai il tempo di mangiare Di nuovo in classe, apri i tuoi libri Mamma mia l’insegnante non si rende proprio conto Di quanto sembri squallida Appena suonano le tre Ti liberi finalmente di questo peso Chiudi i libri e ti spari fuori dal banco Via per i corridoi e fuori in strada Giù in fondo subito dietro all’angolo Via dentro al bar dove c’è il jukebox Infili la moneta nella fessura Hai bisogno di sentire qualcosa di davvero forte Con quella che ami stai avendo una storia È tutto il giorno che hai voglia di ballare E ti senti la musica che corre dalla testa ai piedi E balli balli balli balli Viva, viva il rock’n’roll Che mi libera dal passato

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Lunga vita al rock’n’roll Il ritmo della batteria è irresistibile Rock rock rock’n’roll Il sentimento è là, anima e corpo.

Come dice Chuck Berry, col r’n’r non si può fare a meno di muovere il corpo e di ballare in danze che enfatizzano ulteriormente la distanza che separa i giovani dagli «altri», cioè dagli adulti: Rock Around the Clock di Bill Haley e Roll Over Beethoven (1956) di Chuck Berry sono, insieme a School Days, dei veri manifesti. D’altronde, nelle loro esibizioni dal vivo, i musicisti r’n’r fanno della corporeità una componente essenziale dello show. La cosa vale per Little Richard, come Chuck Berry, noto per la sua duck walk, ovvero la particolare postura che assume per attraversare il palco sul quale sta suonando la chitarra: ma la cosa più innovativa è che non sono solo i musicisti afroamericani (come Richard e Berry) a impiegare il corpo come parte integrante della coreografia di uno show, ma anche musicisti bianchi come Elvis Presley, con il suo famosissimo scuotimento delle anche, compiuto con le ginocchia parzialmente piegate, o come Jerry Lee Lewis, che nelle esecuzioni dal vivo dei suoi brani di maggior successo (Whole Lotta Shakin’ Going On, o Great Balls of Fire, entrambe del 1957) suona il pianoforte con un’incontrollata energia selvaggia35. Lo scatenamento del corpo richiede balli adeguati, lontani mille miglia dalla compostezza delle danze cheek to cheek sollecitate dalla soporifera pop music di successo dei primi anni Cinquanta: e quando nei juke joints parte qualche motivo r’n’r, è difficile che i ragazzi o le ragazze riescano a trattenersi dal ballare. D’altronde, il r’n’r è capace di esplorare anche altri aspetti delle esperienze giovanili. In Summertime Blues, brano del 1958 di Eddie Cochran, la difficoltà che un ragazzo incontra nell’avere un po’ di soldi e la macchina a disposizione è presentata con humour brillante e con una struttura musicale semplice, basata però su un riff assolutamente contagioso. Altra canzone chiave è Maybellene (1955), di Chuck Berry, che narra della fine di un amore collegandolo a

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un tema fondamentale per i giovani del periodo, ovvero il fascino dell’automobile e della corsa in macchina. Il r’n’r è anche una musica che suggerisce che si può diventare famosi e ricchi anche se si viene da ambienti poveri; e di nuovo è Chuck Berry che trasforma questo aspetto del r’n’r in una storia, e in una canzone di grande successo, Johnny B. Goode (1958), un testo che parla – in brillante sintesi – della vita di quasi tutte le star del r’n’r36: Nel cuore della Louisiana, subito fuori New Orleans In mezzo ai boschi tra il sempreverde C’era una capanna di tronchi e fango Dove viveva un ragazzo di campagna chiamato Johnny B. Goode Non aveva mai imparato a leggere o scrivere Ma sapeva suonare la chitarra come uno suona il campanello Dai, dai, dai Johnny, dai Dai, dai, Johnny B. Goode Portava in giro la chitarra in un sacco militare E sedeva sotto un albero lungo i binari I macchinisti lo vedevano seduto all’ombra Mentre ricreava sulla chitarra i ritmi del treno La gente che passava si fermava e diceva «Ehi, quel ragazzo di campagna sì che sa suonare» Dai, dai, dai Johnny, dai Dai, dai, Johnny B. Goode Sua madre gli disse: «Un giorno sarai un uomo, E avrai un gran complesso E un sacco di gente verrà da miglia e miglia intorno Per sentirti suonare quando cala il sole Forse un giorno il tuo nome scintillerà sulle insegne: “Stasera, Johnny B. Goode”»37.

In definitiva, quindi, il r’n’r è una musica molto fisica, che invita al ballo e al divertimento, mentre le storie che racconta esaltano identità centrifughe rispetto alla scuola, al lavoro, al do-

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vere, tipiche delle gang giovanili socialmente marginali. Proprio per queste ragioni, almeno all’inizio, il r’n’r acquista una specifica connotazione sociale, giacché non è il tipo di musica che piaccia alle leading crowds delle high schools, né il tipo di ritmo che si balli nei Proms, mentre è accolto con entusiasmo nei juke joints frequentati dai ragazzi e dalle ragazze che hanno una collocazione sociale più marginale, o che addirittura sono già fuori dalla scuola. Come spiega una studentessa di Baltimora, «tra le élite alla Eastern [High School] non si smania per il rock and roll. Sono le squinzie e le escluse che stanno nei fan club e smaniano per questi cantanti»38. Questa dinamica è illustrata molto chiaramente dal comportamento mostrato da tre gruppi amicali femminili che spiccano nel network relazionale di una delle high schools studiate da James Coleman39: queste ragazze indossano giubbotti di pelle nera e apprezzano il tempo libero fuori dalla scuola, le macchine, il r’n’r, il pattinaggio, il juke joint; quasi tutte fumano o bevono, o fanno entrambe le cose. Il loro cantante preferito è Elvis Presley, mentre quello della sezione dominante della cultura adolescenziale è Pat Boone, che offre un rock and roll senza l’implicita devianza ribelle che appartiene all’immagine di Presley. In breve, queste ragazze sono estremamente edonistiche, stufe marce della scuola e inquiete40.

Per ragazzi e ragazze delle gang marginali (sia bianchi che neri), investire in una musica come il r’n’r significa rovesciare il senso di inferiorità che sentono nei confronti delle leading crowds e delle gerarchie sociali stabilite a scuola41. Gli insegnanti non li apprezzano, perché ottengono risultati modesti, o perché non partecipano alle attività parascolastiche del pomeriggio: non sono buoni atleti o brave cheerleader. Ebbene, poter esibire una passione musicale e coreutica propria e – almeno al primo diffondersi della moda – esclusiva può portare a un rovesciamento delle gerarchie, specie se la moda musicale assume proporzioni di massa42. È un po’ come se dicessero: non siamo gli «sfigati» marginali che credete, destinati al fallimento; abbiamo il nostro «inno nazionale», e i nostri idoli, che sono proprio ra-

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gazzi come noi. Possiamo addirittura suonarla noi stessi, questa musica, sfoggiando delle abilità che non sono contemplate nella scala dei valori dell’universo scolastico. Del resto, questa è la storia di Johnny B. Goode, che nella parabola estrema di Chuck Berry addirittura non sa né leggere né scrivere, ma suona la chitarra da dio. In effetti, come ha mostrato William T. Bielby in una ricerca sulla diffusione del r’n’r tra gli adolescenti dei quartieri operai della periferia di Chicago, il r’n’r ha costituito per loro un modo per acquistare una dignità «altra» rispetto a quella – istituzionalmente riconosciuta – dei migliori atleti della scuola. Mostrare buone capacità nel campo del r’n’r suonando la chitarra, uno strumento non molto costoso, la cui tecnica può essere affinata ascoltando le canzoni alla radio, è una strategia della distinzione alternativa per chi non vuole finire schiacciato nel compressore relazionale scolastico: mentre il prestigio derivante dalle attività atletiche è integralmente centripeto rispetto alla scuola, il prestigio derivante dal r’n’r è totalmente centrifugo e ti porta fuori, non solo come chitarrista, ma anche come ascoltatore, verso il juke joint, o verso la dance hall, o – alla peggio – verso l’autoradio della macchina43. Alla musica si uniscono abbigliamenti e acconciature che sembrano fatti apposta per capovolgere o negare gli stili prevalenti diffusi tra le leading crowds: se i ragazzi delle élite scolastiche indossano maglioni sportivi e giacche, e le ragazze kilt, pullover e camicette, i giovani dei gruppi marginali usano una sintassi vestimentaria del tutto diversa e originale. Riprendendo il modello cinematografico offerto da The Wild One o da Rebel Without a Cause, ecco che i giovani e le giovani rocker si vestono con giubbotti di pelle e t-shirt bianche attillate, oppure con mises dai colori brillanti e molto contrastanti (tipo il rosa e nero, spesso apprezzato dallo stesso Presley), mentre per i capelli i ragazzi imitano lo stile dei pachucos, con un folto ciuffo imbrillantinato e portato sulla nuca, dove viene pettinato in due onde convergenti al centro44. I benpensanti non hanno dubbi nel considerare questo tipo di abbigliamento come indizio di una deriva verso

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l’antisocialità o la vera e propria delinquenza; a Buffalo, nel 1955, il sovrintendente alle scuole pubbliche, per contrastare questa moda, che egli ritiene socialmente diseducativa, propone che i locali istituti di istruzione superiore adottino un Dress ­Right Code; nel caso della locale Lafayette High School, tale codice prevede che i ragazzi che si presentano senza cravatta a scuola non siano ammessi alle lezioni. L’iniziativa ha una notevole copertura mediatica e negli anni seguenti viene imitata in molte altre scuole del paese45. Nonostante tutta questa aura ribelle, i produttori, le case discografiche e i musicisti r’n’r sono abbastanza cauti nel racconto delle esperienze sessuali, che talora sono appena evocate dai testi. A volte le liriche sono modificate, per evitare ogni tipo di reazione negativa o censoria, come accade nel caso di Tutti Frutti (novembre 1955) di Little Richard: il testo originario, proposto dal musicista, è concepito nel classico stile del R&B più osé e contiene allusioni grevi che derivano dalla bisessualità del musicista, all’epoca non dichiarata46; il produttore Bumps Blackwell, dei J&M Studios di New Orleans, presso i quali Little Richard registra la canzone, non ne vuole assolutamente sapere e decide che dal testo venga eliminata la parte più scabrosa: e così è47. Nel febbraio del 1954 Big Joe Turner, un musicista afroamericano, incide Shake, Rattle and Roll, un brano che nella migliore tradizione R&B contiene qualche allusione sessuale, sebbene – nel complesso – abbastanza velata; nel giugno del 1954 Bill Haley ne fa una cover in stile r’n’r, seguita nel settembre del 1956 da un’altra versione registrata da Elvis Presley; entrambe queste ultime conservano le allusioni più infantili, ed entrambe cancellano il passo che all’epoca potrebbe risultare più scioccante per un pubblico bianco («Il modo in cui indossi quei vestiti, il sole ci risplende attraverso / Non riesco a credere ai miei occhi, che tutto quel ben di Dio appartenga a te»)48. Le allusioni contenute nei testi r’n’r, per quanto controllate siano, sono comunque sempre unilateralmente dirette da voci maschili verso interlocutrici femminili; del resto il r’n’r ha una connotazione di genere molto squilibrata, giacché l’unica rocker

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che raggiunge una certa notorietà è Wanda Jackson, la cui popolarità, tuttavia, non è paragonabile a quella di Presley, Haley, Berry o Little Richard. Nondimeno, le ragazze che apprezzano questa nuova musica si conquistano subito un ruolo da protagoniste, orientandosi soprattutto verso la venerazione di Elvis Presley. Sherry Reed ricorda di aver scoperto il r’n’r da ragazzina, tra il 1956 e il 1957; e il suo racconto riassume l’esperienza di un’intera generazione: Me lo ricordo come fosse ieri. Ero in sesta e la mia amica Susan Logan stava ospitando me e qualche altra ragazza a casa sua per un pigiama party. Susan stava mettendo un po’ di dischi sul suo giradischi, tipo Perry Como o Tennessee Ernie Ford, credo, che appartenevano ai suoi genitori, e poi ne tirò fuori uno dal cassetto e disse: «Avete mai sentito Elvis Presley?». Nessuna di noi lo conosceva e lei mise Blue Suede Shoes. Fu incredibile, ovvio, e dobbiamo averlo messo dieci o quindici volte quella notte, finché i genitori di Susan non sono entrati e ci hanno detto di stare buone e andare a letto. Per il resto della mia vita, da quella notte, ho amato Elvis Presley49.

Ma il culto, ben presto, esce dal chiuso delle camerette e irrompe nei concerti. Nelle esibizioni dal vivo Presley ha l’abitudine di muovere il bacino con uno strano movimento ritmico. Le testimonianze più attendibili ci dicono che, in origine, Presley non vuole dare alcun significato a quel particolare atteggiamento, che è semmai frutto del suo nervosismo50. Ma non importa, perché le fan lo interpretano come qualcosa di selvaggio e di erotico, strillando e buttandosi letteralmente per terra dall’entusiasmo51. In definitiva, per molte ragazze, Presley diventa «un “eroe maschile idealizzato”, un pin-up, un maschio che consentiva di risolvere le confusioni della sessualità adolescente, permettendone un pieno (ma immaginario) dispiegamento, trattenendo la sognatrice dal dover metter in atto la fantasia con i ragazzi vicini a lei, in carne ed ossa (e per questo imprevedibili)»52. D’altronde questo tipo di interpretazione viene accolta e rilanciata dalla stampa, di solito con toni critici, condivisi da una buona parte dell’opinione pubblica americana:

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Bill Van Dyke, residente a Los Angeles, scrisse il 20 ottobre del 1957 ai suoi genitori, ricchi proprietari di una fabbrica di materiali metallici a Memphis, accludendo un ritaglio dal numero di quello stesso giorno del «Los Angeles Mirror News»: il giornale esprimeva il sentimento della rispettabile classe media della West Coast e ovviamente il sentimento era condiviso da Bill e dalla sua famiglia: «L’esibizionista sessuale [“sexibitionist”] Elvis Presley è comparso infine di persona davanti a un palpitante pubblico di ragazzine di Los Angeles per dare alle libido di tutte quelle lì la scossa della loro vita: “Seimila giovani, prevalentemente femmine in un rapporto di 10 a 1, si sono strizzate come sardine nel Pan Pacific Auditorium. Le ragazze hanno gridato incessantemente a pieni polmoni mentre Elvis ha vibrato, rimbalzato e saltato da un lato all’altro del palco finché non si è accasciato tremolante a terra 35 minuti più tardi”. Con chiunque altro [commenta Bill Van Dyke] la polizia avrebbe interrotto lo show dopo 10 minuti. Ma non con Elvis il nostro nuovo eroe delle adolescenti»53.

E certo, una delle principali preoccupazioni esternate dalle voci più critiche del r’n’r riguarda proprio i significati sessuali impliciti che le fan di Elvis Presley (e poi di Chuck Berry, di Jerry Lee Lewis, e del resto della costellazione) vedono nelle loro performance e in quello stile musicale. Ma, alla fine, le ragioni più profonde che spiegano l’ondata di critiche suscitata dalla nuova moda giovanile sono altre. Intanto il r’n’r è considerato la prova del generale «contagio» che la cultura delle classi inferiori sta diffondendo tra la «più sana» gioventù d’America: e infatti la preoccupazione per una presunta nuova ondata di criminalità giovanile si riacutizza proprio tra il 1954 e il 1956, in corrispondenza con il successo della nuova musica54. Come sostiene nel 1958 un esperto interpellato dalla Sottocommissione senatoriale sulla delinquenza, Elvis Presley è un simbolo, ovvio, ma è un simbolo pericoloso. Tutte le sue pagliacciate da strip-tease rischiano di spingere [«to rock’n’roll»] il mondo giovanile verso un’aperta rivolta contro la società. Il gangster di domani è il rocker [«Elvis Presley type»] di oggi55.

Ma la preoccupazione principale viene dal superamento della «linea del colore», dalla confusione razziale che il r’n’r sembra

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provocare, con musicisti bianchi e neri che creano la stessa musica e la eseguono per un pubblico giovanile, prevalentemente bianco ma aperto anche alla presenza di giovani della comunità afroamericana. Le critiche si diffondono rapidamente dal SudEst degli States, dove ci sono sezioni dell’opinione pubblica bianca ferocemente razziste. A Birmingham, Alabama, il 10 aprile del 1956, Nat King Cole viene aggredito da un gruppo di razzisti bianchi durante la sua esibizione al Municipal Auditorium. Le polemiche che seguono all’episodio e al processo a carico dei quattro aggressori sono orchestrate da Asa Carter, responsabile del giornale locale «The Southerner», razzista radicale, simpatizzante del Ku Klux Klan. Particolarmente pesante, nei mesi seguenti all’aggressione, è la campagna scatenata da Carter proprio contro Cole perché si esibisce con cantanti bianche (in particolare June Christy), con tutto il seguito di allusioni e accuse sulla minaccia sessuale nera alla purezza delle donne bianche. Confondendo lo stile di Nat King Cole (che è puramente pop) col r’n’r, a più riprese, nella primavera del 1956, Carter denunciò il rock and roll come una «sensuale musica negra», che – «non appena ha fatto emergere tutta la sua bestialità» – ha eroso «l’intera struttura dell’uomo, la Cristianità, la spiritualità del Santo matrimonio... tutto ciò che l’uomo bianco ha costruito con la sua devozione a Dio: tutto ciò è crollato e spazzato via, da quando ragazze e ragazzi bianchi sono abbassati al livello di animali». «Essenzialmente [il rock and roll] è il pesante ritmo dei negri. Fa appello all’istinto basico dell’uomo, fa emergere l’animalismo e la volgarità»56.

Più correttamente filologico, Roger Thames, critico musicale del «Birmingham News», se la prende con Elvis Presley, accogliendo le critiche dei suoi lettori, che nel r’n’r sentono solo il caos disturbante di «ritmi africani»; quanto a lui, proprio non rie­sce a capire come gli ascoltatori possano preferire la cacofonia delle canzoni di Presley alla limpida eleganza di The Lord’s Prayer di Perry Como, o di Whatever Will Be Will Be di Doris Day57. Ma anche altre voci dell’opinione conservatrice, provenienti da altre aree e da altre prospettive, si uniscono a questo

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tipo di critiche. Il reverendo John Carroll, per esempio, in una sua conferenza al Teachers’ Institute of the Archdiocese of Boston dell’aprile del 1956, afferma che «il rock and roll infiamma ed eccita la gioventù come i tom-tom della giungla... I testi insinuanti ovviamente sono materia per le istituzioni di pubblica sicurezza»58. Nel novembre del 1958 «American Mercury», un periodico di orientamento conservatore, si esprime così sul r’n’r: Prove del sistematico abbassamento del livello letterario, drammatico, artistico e musicale vi guardano negli occhi da tutte le parti. È ovviamente uno dei principali strumenti nel lavaggio del cervello necessario ad assicurare il potere del welfare state internazionale [...] Come sia che questo sinistro programma di mescolanza razziale possa essere spinto così avanti senza suscitare un’evidente reazione da parte dei genitori americani rimarrà per sempre un mistero59.

Il r’n’r, in definitiva, risulta problematico per una parte dell’opinione pubblica conservatrice perché, superando stilisticamente la «linea del colore», sembra voler negare l’etica della discriminazione razziale; e perché, circolando in prima battuta tra ragazzi e ragazze delle gang di strada, sembra porre le premesse per la nascita di una minacciosa controcultura, socialmente molto connotata. Ma non è così. Questa musica, e lo stile comportamentale al quale è associata, non contiene niente di veramente eversivo. Le sue matrici originarie sono il blues e il country: ma la prima musica è filtrata attraverso il R&B, di cui il r’n’r non è che una variante; e della seconda si scelgono le declinazioni più pop, certo non l’hard country. Il che significa che se le architetture musicali di base di queste musiche sono rifuse e riorganizzate nel nuovo stile, dal punto di vista testuale passano solo le narrazioni più edonistiche e meno problematiche, che appartengono già al R&B e al pop country. E così, nel canzoniere r’n’r non ci sono drammi veri; non c’è l’incombere della tragedia; né c’è alcuna espressione, nemmeno indiretta, di sentimenti di protesta, niente che sia eticamente davvero controcorrente: tutto ciò che c’è, è una narrazione e una serie di pratiche sociali che rimandano all’uni-

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verso giovanile dei gruppi più marginali, stufi marci della scuola, del lavoro, del dovere, e desiderosi solo di andarsi a divertire, con – al massimo – qualche allusione alla sessualità, derivante più da un esercizio di sovrainterpretazione messo in atto dalle giovani fan che dalla sostanza delle cose. Punto. Nient’altro. E così si capisce abbastanza facilmente perché non ci voglia molto prima che il r’n’r sia integralmente riassorbito nell’alveo accogliente della cultura di massa mainstream. L’operazione è facilitata dal lancio di musicisti e di programmi che danno del r’n’r un’interpretazione ripulita e corretta, e quindi accettabile non tanto per gli adulti benpensanti quanto per le leading crowds di classe medio-alta che popolano le high schools e i college americani, che inizialmente hanno guardato con un certo sospetto a Presley & Co. I protagonisti di questa operazione sono Pat Boone e Dick Clark. Pat Boone, nato nel 1934, bianco, belloccio, cresciuto in una famiglia di devoti cristiani, membri della Church of Christ, una congregazione protestante, segue un curriculum di studi integrale fino all’università. Nel 1953, quando ha 19 anni, si sposa. Lanciato nel 1956, raccoglie subito un notevole successo con un canzoniere che comprende sia canzoni pop sentimentali (la più famosa delle quali è Love Letters in the Sand, una cover di una canzone del 1932, portata al successo da Boone nel 1957); sia cover di brani R&B o r’n’r, cantati con un’energia gentile e contenuta (il primo dei suoi successi su questo versante è Ain’t That A Shame, di Fats Domino, registrata nel 1955, a cui fanno seguito, poi, Tutti Frutti e Long Tall Sally, di Little Richard). Nel 1958, quand’è un ventiquattrenne all’apice del successo, Boone pubblica un libro, ’Twixt Twelve and Twenty, in cui espone la sua moderatissima filosofia di vita indirizzata agli adolescenti, la cui essenza può essere rapidamente riassunta in questo: obbedite ai genitori e rispettate i valori del vostro paese60. Parallela alla carriera di Boone è quella di Dick Clark: nato nel 1929, formatosi come DJ radiofonico e come giornalista televisivo, nel 1956, quando ha ventisette anni, riceve l’incarico di condurre un programma per una televisione locale di Filadelfia,

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che si chiama Bandstand; nel 1957 il programma viene trasmesso con grandissimo successo dal network Abc con un nuovo titolo, American Bandstand. Si tratta di una trasmissione riservata agli adolescenti che presenta i nuovi successi musicali, mostra i passi delle nuove danze, fa ballare i ragazzi e le ragazze al suono della nuova musica, ed è sempre ipermorigerata, con Clark vestito di tutto punto, giacca e cravatta comprese61. Nel 1959 anche Clark pubblica un libro simile a quello di Boone, Your Happiest Years, nel quale invita i teenager a comportarsi come si deve, e a discutere, sì, con i genitori e gli adulti, ma con moderazione e rispetto62. Leggere tutti questi sviluppi come una sorta di «complotto» per mettere a tacere il r’n’r più ribelle non ha il minimo fondamento. Il r’n’r è già, in sé, una musica che sostiene un’etica che condivide aspetti essenziali dell’edonismo consumista, proprio della società americana coeva. Inoltre gli stessi «eroici» rocker dei primordi non desiderano altro che essere abbracciati dal mercato e dalla cultura di massa mainstream. La migliore dimostrazione di questa inclinazione la si trova nella moda dei film musicali, che Hollywood sforna a ripetizione, coinvolgendo Presley, Haley e Boone come protagonisti in film che, nella maggior parte dei casi, sono blande commedie romantiche di ambientazione giovanile63. Si prenda The Girl Can’t Help It (Gangster cerca moglie), uscito il 1° dicembre 1956. Diretto da Frank Tashlin e distribuito dalla 20th Century Fox, il film, che ha un budget di 1.310.000 dollari e ha un buon successo, incassandone 6.250.000, ha come protagonista Jayne Mansfield e sfodera una colonna sonora di prim’ordine64. La storia è improbabilmente leggera: Marty Murdock, un gangster, si mette in testa di lanciare Jerri (Jayne Mansfield), la sua ragazza, come cantante; ma Jerri vorrebbe solo diventare una moglie e una madre, e non una star, e fa di tutto per far deragliare il progetto, fingendosi persino stonata anche se sa cantare benissimo. La missione impossibile di fare di Jerri una star della musica è affidata a Tom (Tom Ewell), gentile talent scout profondamente in crisi, che ovviamente fallisce nel compito, ma fa innamorare di sé la bella Jerri. Murdock, però, non se la prende più di tanto: ha scoperto di avere un vero ta-

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lento per il r’n’r e di poter diventare lui stesso una star, facendo tranquillamente a meno di Jerri. Il finale è addirittura stucchevolmente didattico, Tom si presenta in scena e rivolgendosi agli spettatori, come in un teatro, dice: «Questa è la storia, una storia nella quale c’è musica e... amore». A quel punto entra Jerri seguita da quattro bambini piccoli, e dice: «Una storia nella quale c’è musica, amore e matrimonio». Entra allora Murdock che spinge la carrozzina con un quinto bambino, e dice: «... e bambinai». Allora i bambini chiedono a «zio» Murdock di cantare una canzone, ma Murdock si schermisce e, rivolto a Tom, dice: «Chiedetelo al mio agente»; e Tom: «Che comprino i tuoi dischi!»; dopodiché, dopo aver chiesto che il sipario venga chiuso, Tom si abbandona a un bacio appassionato con Jerri. E tutti vissero felici e contenti, all’ombra del mercato discografico, dell’amore romantico, del matrimonio come valore e della domesticità disciplinare scelta dalla «bellona» di turno come la più intima vocazione del suo cuore. Certo, in un impianto così didatticamente valoriale, non si rie­ sce a trovare proprio niente di ribelle. E non sorprende che anche le leading crowds giovanili accettino ben presto una musica e uno stile che, in definitiva, non hanno assolutamente niente di minaccioso, com’è mostrato da James Coleman che ha censito le preferenze musicali degli studenti del campione di high schools che ha studiato (Tab. 4). Nella versione di Presley, o in quella di Boone, è un r’n’r ormai in via di normalizzazione quello che entra nel circuito dei giovani di classe medio-alta che dominano la vita sociale delle high schools. L’integrazione del r’n’r, comunque, è totale: da un lato lo stesso Presley comincia a registrare canzoni che si allontanano dall’energia post-R&B dei primordi, per orientarsi verso il pop più ovvio e sentimentale con canzoni tipo It’s Now or Never, del 1960, che è una cover di ’O sole mio, oppure Surrender, del 1962, che è una cover di Torna a Surriento; dall’altro, per un breve momento anche il pubblico dei giovani neri si allinea a questa predilezione per un r’n’r a stento distinguibile dal pop mainstream, giacché tra il 1956 e il 1963 le classifiche dei

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Tab. 4. Preferenze musicali tra gli studenti delle high schools, 1957-1958. Tipo di musica preferita

Ragazzi

Ragazze

Rock ’n’ roll

51,6%

48,1%

Pop

17,5%

27,5%

Country & western

6,3%

3,8%

Calypso

7,1%

5,5%

10,1%

5,2%

Jazz Classica

6,5%

9,4%

Nessuna risposta

0,8%

0,5%

Totale Cantanti preferiti

100% (4.020)

100% (4.134)

Ragazzi

Ragazze

Pat Boone

43,5%

45,2%

Elvis Presley

21,5%

17,5%

Tommy Sands

7,8%

10,7%

Perry Como

10,5%

10,1%

Harry Belafonte

10,3%

9,0%

5,1%

7,1%

Frank Sinatra Nessuna risposta Totale

1,5% 100% (4.020)

0,5% 100% (4.134)

Fonte: James Coleman, The Adolescent Society. The Social Life of the Teenager and its Impact on Education, Greenwood Press, Westport (Conn.) 1981, p. 23.

dischi prediletti dagli acquirenti neri registrano il successo di Presley nella sua fase più pop, così come di Paul Anka, di Frankie Avalon, di Connie Francis e di Neil Sedaka, tutti cantanti che si muovono sulla scia stilistica di un pop sentimentale e assolutamente innocuo65. 5. Tipi da spiaggia La parabola tracciata dal r’n’r testimonia la capacità attrattiva esercitata dalla cultura mainstream anche nei confronti di una subcultura che – allo sguardo di molti osservatori coevi – sembrava irriducibilmente ribelle. E non è nemmeno l’unico caso,

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poiché la stessa dinamica – su un piano appena minore – la si può osservare seguendo la traiettoria di un’altra subcultura giovanile che si forma in parallelo, sebbene con meno clamore: la comunità dei surfisti californiani. Prima della seconda guerra mondiale nella California del Sud ci sono all’incirca 500 surfisti, prevalentemente giovani di classe media, che praticano quello sport che è stato importato dalle Hawaii intorno al 1910. La metà di costoro sono organizzati in sette o otto club. Quando scoppia la seconda guerra mondiale molti surfisti devono partire, lasciando sulle spiagge californiane solo un gruppo di giovanissimi adolescenti, alcuni dei quali hanno abbandonato la scuola dopo l’ottava classe e non fanno altro che passare tutto il loro tempo in spiaggia66. Tra i leader della piccola comunità c’è Dale Velzy, un adolescente che sta giornate intere sulla spiaggia, diventando un bravissimo surfista, e riuscendo a imporsi sulla scena locale come uno dei più abili nel riparare e costruire le tavole da surf. Intorno a lui, nelle spiagge di Manhattan Pier, Hermosa Beach, Malibu, Windansea, la Jolla, si raccoglie quasi permanentemente un gruppo di giovani che, alla fine degli anni Quaranta, è ancora abbastanza piccolo; tuttavia li si nota per la mise caratteristica: pantaloni da marinaio tagliati corti, camicie floreali, piedi scalzi. Dopo la fine della guerra, a questo nuovo nucleo comunitario si aggiungono reduci o giovani sbandati, disillusi dalle promesse del dopoguerra, o respinti dalla selettività dell’ambiente delle high schools o dei college67. Il senso della comunità è di godere di una vita selvaggia, a contatto con la natura, distanti dalla frenetica rat race (letteralmente, «corsa fra topi»), che connota l’esistenza degli square (le persone normali, «inquadrate», che prendono un diploma, si cercano un lavoro e mettono su famiglia). La spettacolarità dello sport in sé, la duratura presenza di un gruppo di giovani impegnati full time in quell’attività, la bellezza dei luoghi, la seduzione di una vita libera a contatto con la natura, ma anche in rischiosa competizione con le onde e con sé stessi, conferiscono alla comunità postbellica dei surfisti molti e notevoli elementi di attrattiva che alla metà degli anni Cinquanta, quando cominciano a circolare

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le prime foto e i primi servizi sui giornali o al cinema, si fanno sentire anche oltre i confini delle spiagge da loro frequentate68. La prima proiezione mediatica attira verso questa comunità un numero crescente di giovani delle high schools circostanti: sono soprattutto gli outsiders delle high schools della California del Sud che cominciano a vestirsi e a presentarsi in giro come surfisti provetti, scegliendo lo stile di vita bohémien di chi, facendo surf, rifiuta i valori della società ordinaria; lo fanno perché vogliono opporsi alle leading crowds e alle attività, ordinate e competitive, che si svolgono a scuola, attribuendo alla pratica lo stesso senso di chi, su un altro versante, decide di imparare a suonare la chitarra per dedicarsi al r’n’r. Micki Dora, che a un certo punto abbandona la scuola e fa surf a tempo pieno, spiega così l’appeal esercitato su di lui da questo sport e dalla comunità circostante: Quando sono entrato nella high school ogni fottuta cosa era organizzata. Mini-baseball, la ricreazione, i tre sport maggiori... ogni cosa era modellata sulla sociabilità amicale. Non ti lasciavano mai solo. Ma col surf posso andarmene in spiaggia e non devo dipendere da nessuno. Posso prendere un’onda e dimenticarmi di tutto il resto69.

Non è solo il fatto di isolarsi come dei nuovi pionieri selvaggi; talora si tratta anche di assumere atteggiamenti provocatori contro tutto il mondo degli integrati – giovani o adulti che siano –, come per esempio mostrare le natiche mentre si fa surf alla gente che si è radunata sulla spiaggia, o andare in giro con le tavole o i pick-up decorati con simboli nazisti70: in quest’ultimo caso, similmente a ciò che sarebbe successo due decenni più tardi nelle comunità britanniche dei punk, l’esibizione dei simboli nazi non comporta affatto un’adesione all’ideologia; è solo un modo estremo – e incosciente – per esprimere un atteggiamento «contro». In realtà quello della comunità dei surfisti è un mood ribelle dal contenuto molto incerto: analogamente all’etica del r’n’r, l’asse principale della «filosofia esistenziale» della comunità sta nel rifuggire il mondo della scuola, del lavoro, del dovere, espandendo edonisticamente lo spazio del tempo libero fino a farlo

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diventare l’unico universo possibile. Certo, in questo modo, si pongono anche problemi di sopravvivenza: alcuni surfisti vivono con quel che ottengono dai genitori; altri ricavano un po’ di soldi riparando o costruendo le tavole; altri, man mano che la moda si diffonde, danno lezioni di surf ai neofiti; altri, infine, pur contentandosi di poco (vivere sulla spiaggia; pasti frugali) non disdegnano di procurarsi ciò che serve con piccoli furti nei negozi dell’area. Queste connotazioni bastano a suscitare sdegnati attacchi critici nei media locali, oppure la netta opposizione dei giovani che fanno parte delle élite delle high schools, che si contrappongono a questo nuovo stile di vita alternativo così apprezzato dagli studenti più marginali. Ma poi il mondo del surf trova la via della cultura di massa mainstream, sia attraverso la pubblicazione di riviste specializzate, ricche di foto, che insistono sull’aspetto estetico dell’insieme (corpi seminudi, atletici, con muscoli scolpiti; mises brillanti ed eccentriche; la bellezza del contesto naturale), sia attraverso il cinema, sia, infine, attraverso l’irruzione della musica pop. Al cinema nel 1959 esce Gidget (seguito poi da diversi altri surf films)71: il film, diretto da Paul Wendkos e distribuito dalla Columbia, ha come star Sandra Dee e narra l’ingresso di Frances, una ragazzina di buona famiglia, in una banda di surfisti; tipicamente il plot evolve descrivendo i rischi che tanto la ragazzina quanto i suoi nuovi amici surfisti corrono a condurre una vita selvaggia e controcorrente; ma alla fine della storia, il leader della comunità abbandona i suoi propositi ribelli e si trova un lavoro, mentre Frances scopre che Moondoggie, il suo surfista preferito, non è altri che il figlio di cari amici di famiglia: e così i due – mentre si apprestano a rientrare nei ranghi dei «bravi ragazzi» – possono finalmente dichiararsi il loro amore senza che i genitori abbiano più niente da ridire. I protagonisti della svolta musicale, invece, sono i Beach Boys, un gruppo di giovanissimi californiani che esordiscono nell’ambiente musicale locale nel 1961. Abilissimi nel costruire canzoni che rielaborano le armonie vocali doowop su ritmi sostenuti propri del R&B o del r’n’r, tra 1962 e 1965 i Beach Boys entrano

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in classifica con canzoni come Surfin’ Safari, Surfin’ USA, Surfer Girl, I Get Around, California Girls, Fun Fun Fun, Barbara Ann, che presentano la cultura della comunità surf con i tratti rassicuranti di un allegro edonismo, fatto di spiagge californiane, tavole da surf, macchine sportive, ragazze, feste e amori adolescenziali; da questa visione viene espunto del tutto il romanticismo selvaggio di chi non vuole far altro che isolarsi a contatto con gli amici e con la natura, che era la cifra essenziale della comunità dei primordi72. A quel punto la moda del surf (abbigliamento, sport, slang) viene adottata anche dalle élite delle high schools locali: i «fusti» della scuola, bravi a basket, baseball o football, non ci mettono molto a imparare ad andare sulla tavola, mentre gli stessi Beach Boys, con Be True to Your School (1963), sono lestissimi a celebrare il «patriottismo» scolastico, esaltando la propria high school, con la sua squadra di football, le sue ragazze pom pon, i suoi colori e i suoi simboli; associando l’etica delle leading crowds all’edonismo della vita sulla spiaggia, esaltato in molti altri brani, i Beach Boys sono così in grado di ricontestualizzare la comunità dei surfisti dentro un quadro moralmente del tutto rassicurante. A quel punto, le originarie peculiarità controcorrente della comunità vanno del tutto perdute: agli outsiders in cerca di altre forme di distinzione non resta che spostarsi altrove, per esempio a San Francisco, nella zona di Haight-Ashbury, dove sembra stia nascendo una diversa comunità alternativa, anche più bizzarra di quella dei surfisti73. Le storie parallele del r’n’r e del surf mostrano che la fragilità ontologica – per così dire – di quelle proposte controcorrente le espone facilmente a un depotenziamento e a un riassorbimento all’interno della cultura di massa mainstream, non importa quanto stridule fossero le grida di chi le ha criticate come immorali, decadenti o pericolose; la loro mancanza di un’elaborazione narrativa ed etica articolata e ricca ne fa delle mode passeggere, che non sembrano lasciare alcuna particolare traccia. L’impressione sembra essere confermata anche dalla nuova mappa della popular music statunitense, che si è formata dopo che

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l’impatto del r’n’r ha perso la sua propulsione iniziale. Uno degli aspetti più importanti – e più inquietanti, per i più conservatori – di questo stile musicale è che, per la prima volta nella storia della popular music, sembra si stia costituendo una scena musicale nella quale artisti bianchi e neri si esibiscono gli uni a fianco degli altri (e non solo in senso metaforico). Ma l’esperienza dura poco. All’inizio degli anni Sessanta le nuove mode pop, tra cui anche la surf music dei Beach Boys, tendono a dislocarsi nuovamente lungo una divisiva «linea del colore»: i bianchi suonano per comunità bianche, mentre il pubblico afroamericano è attirato da due nuovi generi musicali, entrambi eseguiti da musicisti neri. «Billboard», che nel 1963 ha eliminato la classifica dei successi R&B, quasi a constatare che giovani neri e bianchi ascoltano la stessa musica, nel 1965 la reintroduce, giacché i gusti del pubblico nero sembrano essere diventati, di nuovo, diversi e distinti rispetto a quelli del pubblico bianco74. I generi musicali che attirano le comunità afroamericane sono la soul music e lo stile Motown. La soul music è prodotta prevalentemente da due case discografiche dirette da bianchi, la Atlantic Record – fondata nel 1947 e originariamente specializzata in R&B – e la Stax Records di Memphis, fondata nel 195775. Il soul annovera tra i suoi artisti – tutti afroamericani – una serie di talenti di prim’ordine come Ray Charles, James Brown, Aretha Franklin e Otis Redding. Musicalmente, rispetto al R&B, da cui deriva, il soul accentua e rende più sincopate le linee del basso, dà più spazio ai fiati e aumenta il complessivo volume sonoro. Importanti sono anche le influenze gospel, evidenti nella evoluzione musicale di musicisti come Ray Charles, Sam Cooke o Solomon Burke76. L’impatto del gospel è evidente anche nell’interazione – call and response – che in questo caso si sviluppa non tanto nel rapporto tra solista e coro, ma tra performer e pubblico; nelle performance di artisti particolarmente attenti alle coreografie, e dotati di speciali capacità di coinvolgimento, come James Brown, Wilson Pickett o Aretha Franklin, il pubblico partecipa attivamente muovendosi, danzando o sottolineando con grida e applausi i momenti cruciali dell’esibizione77. Narrativamente, infine, almeno in alcune

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delle sue canzoni, il soul tende a rilanciare un senso di orgogliosa appartenenza alle comunità afroamericane78. L’altro genere musicale viene prodotto dalla Motown, una casa discografica fondata a Detroit nel 1959 da un afroamericano, Berry Gordy Jr.79. Questa casa discografica, con un organigramma integralmente afroamericano (direzione, management e artisti), fa una musica del tutto disimpegnata dal punto di vista etico e narrativo, ed esercita un certo appeal anche tra gli ascoltatori bianchi80: lo stile costruito da Gordy e dai suoi collaboratori privilegia i cori di derivazione doowop rispetto al cantante solista, e preferisce una ritmica delicata invece del battito sincopato della musica soul. Una delle soluzioni vincenti adottate da Gordy nasce dalla considerazione secondo la quale il pubblico di riferimento per la musica della Motown è soprattutto giovane, e ascolta i pezzi con l’autoradio o attraverso la radio a transistor. Si tratta di mezzi di riproduzione limitati che non possono sostenere arrangiamenti complessi, e per questo la musica Motown è suonata da un gruppo di sostegno con una composizione piuttosto semplice (quelli che lavorano stabilmente con la Motown sono i Funk Brothers, con un piano, una batteria, un basso e una chitarra): in aggiunta c’è la sezione dei fiati. A partire da questo impianto la Motown comincia a utilizzare una strumentazione più ampia e complessa, retrocedendo i fiati e inserendo gli archi; ma soprattutto dosa l’equilibrio tra le varie componenti, portando in primo piano le parti vocali per la melodia, e il basso e la batteria per il ritmo, e lasciando tutto il resto sullo sfondo. Tra gli artisti principali lanciati dalla Motown dal 1959 ai primi anni Settanta vi sono Smokey Robinson & The Miracles, The Temptations, The Supremes, Martha and The Vandellas, The Four Tops, Marvin Gaye e Stevie Wonder, artisti eccellenti che cantano canzoni con testi che elaborano in forme variamente romantiche il classico tema pop dell’amore, in tutte le sue innumerevoli varianti81. E con ciò la forza eversiva di stili contronarrativi come il blues o il jazz sembrerebbe persa per sempre. Ma nella cultura di massa di questi anni, le vie del crossover sono infinite.

VIII Beat Generation

1. «Hipsters testadangelo» Ho visto le migliori menti della mia generazione distrutte da pazzia, morir di fame isteriche nude strascicarsi per strade negre all’alba in cerca di una pera di furia, hipsters testadangelo bramare l’antico spaccia paradisiaco che connette alla dinamo stellare nel meccanismo della notte, che povertà e stracci e occhiaie fonde e strafatti stavan lì a fumare nel sovrannaturale buio di case con acqua fredda librati su tetti di città contemplando jazz, che il cervello spogliavano al Cielo sotto l’Elevata vedendo angeli maomettani barcollare su tetti di condominî illuminati, che in università eran di passaggio con occhi raggianti e cool allucinandoArkansas e Blake-lumilievi tragedie tra studiosi della guerra [...]1.

È l’inizio di Howl (Urlo, 1956), il poema di Allen Ginsberg che legittima in forma definitiva le ambizioni culturali di una nuova costellazione intellettuale, la Beat Generation, fin allora sconosciuta ai più. Il destino critico di questo poema, sia dal punto di vista etico che estetico, è stato molto vario. Ma una cosa penso debba essergli riconosciuta: ha uno degli incipit più straordinariamente incisivi che si possano ricordare nella letteratura americana: Ho visto le migliori menti della mia generazione distrutte da pazzia, morir di fame isteriche nude strascicarsi per strade negre all’alba in cerca di una pera di furia.

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È qualcosa di molto particolare: un urlo di rabbia; una chiamata a raccolta generazionale; una celebrazione sfrontata («le migliori menti della mia generazione [...] in cerca di una pera di furia») delle abitudini autodistruttivamente bohémien che Ginsberg condivide con altri giovani intellettuali, tra alcol, droghe leggere e droghe pesanti di ogni genere; ed è anche un modo per collegare, con un elegantissimo modernismo poetico, queste esperienze al romanticismo antieroico che attraversa – al tempo stesso – la popular counterculture del blues e dell’hard country, così come la migliore produzione letteraria della Lost Generation, quella di cui hanno fatto parte, prima della seconda guerra mondiale, Francis Scott Fitzgerald, Gertrude Stein ed Ernest Hemingway. Tuttavia, diversamente dai letterati della Lost Generation, Ginsberg fa parte di una generazione di outsiders che non ha lasciato gli States per vivere lontano, in Europa, la sua esperienza socialmente e culturalmente marginale; fa parte invece di una comunità di outsiders che vive prevalentemente tra Upper West Side e Greenwich Village (New York), tra North Beach (San Francisco) e Venice Beach (Los Angeles), o che attraversa il continente in lungo e in largo, da New York a Denver, da San Francisco a New Orleans, dal New Jersey alla California del Sud e oltre, fino a Città del Messico e all’America del Sud, in una disperata ricerca di un’identità che consenta di sfuggire alla cappa normalizzante imposta dalla cultura e dall’etica mainstream. Peraltro, come i letterati della Lost Generation, come i musicisti del blues, dell’hard country, del bebop – come Robert Johnson, Hank Williams o Charlie Parker –, anche Ginsberg conosce per esperienza diretta il mondo che vuole celebrare. Non è una posa, la sua. Ha veramente incontrato giovani brillantissime menti, ciascuna delle quali ha sperimentato la sua propria, talvolta terribile, «stagione all’inferno». Le ha incontrate una decina di anni prima, nel 1944, quando un gruppo di giovani studenti o ex studenti della Columbia University – com’è lui – si sono conosciuti nell’Upper West Side di New York e hanno cominciato a scambiarsi sogni, progetti, ambizioni letterarie,

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affetti, tristezze. Il gruppo originario è molto piccolo; ne fanno parte Jack Kerouac (che all’epoca ha 22 anni), Allen Ginsberg (18 anni), William Burroughs (30 anni), Lucien Carr (19 anni), Joan Vollmer (21 anni) ed Edie Parker (22 anni). Altri, poi, si aggregano più tardi: Herbert Huncke, un piccolo delinquente newyorchese, dotato, tuttavia, di una certa fantasia intellettuale, che viene introdotto nel gruppo da Burroughs nel 1946, quando ha 31 anni; Neal Cassady, che arriva a NY nel dicembre dello stesso anno, quando ha 20 anni, accompagnato da sua moglie LuAnne Henderson, sedicenne; John Clellon Holmes che si unisce, sebbene un po’ marginalmente, alla costellazione nel 1948, quando ha 22 anni; Gregory Corso, infine, che ha 20 anni nel 1950, quando Ginsberg fa la sua conoscenza in un bar del Green­ wich. Intelligenti e creativi quanto si vuole, tutti questi giovani hanno alle spalle infanzie e adolescenze a dir poco disastrate. E ancora da giovani adulti continuano a percorrere traiettorie di vita che giustificano pienamente la loro pretesa di essere degli outsiders permanenti, degli «hipsters testadangelo [quasi del tutto] distrutti dalla pazzia»2. William Burroughs nasce il 5 febbraio 1914 a St. Louis, da Mortimer e Laura; nel 1888 suo nonno ha inventato la prima macchina calcolatrice da cui ha ricavato una certa fortuna economica. Nondimeno, la famiglia è piena di problemi: una sorella del padre di William è alcolizzata; un fratello è morfinomane. Lo stesso William mostra i segni di una personalità complessa; da ragazzo fa fatica a inserirsi con i coetanei; quando è alla high school, compagni e professori lo giudicano intelligente ma strano, un giudizio su cui pesa senz’altro anche l’inclinazione – evidente ma ancora inespressa – verso l’omosessualità. Ad ogni modo, dopo essersi laureato a Harvard in letteratura, i genitori gli assegnano un vitalizio mensile di 200 dollari, che gli consente di condurre la vita che preferisce, senza alcun problema. Viaggia per un certo tempo in Europa, poi torna negli States, si iscrive di nuovo a Harvard e alla Columbia, con l’intenzione di diventare psicanalista. Alla fine del 1939 ha un compagno, un ragazzo che si vende sia agli uomini che alle donne, cosa che fa soffrire Wil-

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liam che si automutila, tagliandosi l’ultima falange del mignolo della mano sinistra. Il suo psicanalista, dopo questo incidente, lo convince a ricoverarsi al Bellevue Hospital di New York, da cui viene poi trasferito alla Payne Whitney Psychiatric Clinic. Dopo esser stato dimesso, vive per un po’ a Chicago, e poi nel 1943 si trasferisce a New York. Lì abita insieme a una sua vecchia conoscenza di St. Louis, David Kammerer, innamorato perso di uno studente della Columbia, Lucien Carr. Attraverso Carr, Burroughs conosce Ginsberg, anche lui studente alla Columbia3. E così il gruppo comincia a formarsi. Allen Ginsberg nasce il 3 giugno 1926 da Louis e Naomi, entrambi di confessione ebraica. Naomi è emigrata negli Usa dalla Russia dopo la rivoluzione del 1905, ed è una fervente comunista4; Louis è un socialista, aspirante poeta, che trova un impiego come insegnante in una high school di Paterson, New Jersey. Nel 1929 Naomi soffre del primo grave episodio di schizofrenia, che la costringe a un ricovero in ospedale. Dopodiché le ricadute e i ricoveri si fanno sempre più frequenti, fino a che non viene internata permanentemente in un ospedale psichiatrico. Allen soffre molto per la mancanza di sua madre, nonostante Louis faccia di tutto per crescere lui e suo fratello più grande, Eugene, nel migliore dei modi possibili. Alla high school Allen è molto brillante, anche se si trova in grave difficoltà per l’irresistibile trasporto erotico che lo spinge verso gli altri ragazzi. Dopo la maturità, nel 1943, viene accettato alla Columbia. Nella primavera del 1944, sempre attraverso Carr, Ginsberg conosce Kerouac, del quale subito si innamora, sostanzialmente non ricambiato5. Jack Kerouac nasce il 12 marzo 1922 a Lowell, Massachusetts, da Leo e Gabrielle. I suoi genitori, di estrazione operaia, vivono nel culto del fratello più grande di Jack, Gerard, che muore quando Jack ha 4 anni. Dopo la morte di Gerard, la famiglia mostra tutte le sue crepe disfunzionali. Gabrielle vive nella memoria del figlio perduto, costruendo un rapporto morboso con Jack, che resta soggiogato da lei essenzialmente per tutta la vita. Leo diventa alcolizzato. E anche Jack fa fatica a inserirsi nei circuiti

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della socialità adolescenziale. Lo salvano le sue capacità atletiche, poiché emerge come uno dei migliori giocatori di football della sua scuola, ciò che gli fa ottenere una borsa di studio per andare a studiare alla Columbia. Jack arriva a New York nel settembre del 1940, comincia a seguire i corsi e a giocare per la squadra dell’università, ma dopo due partite si rompe la tibia, e da allora il suo legame con la Columbia e con gli studi universitari si fa sempre più fragile. Dopo un anno Kerouac è già stufo: abbandona l’università e torna a casa; poi fa ancora un tentativo di riprendere l’attività sportiva e gli studi, ma molla definitivamente nel 1943. Fa disordinatamente vari lavori, finché non conosce prima Edie Parker e Joan Vollmer, e poi Lucien Carr, attraverso il quale entra in contatto con Ginsberg e con Burroughs6. L’adolescenza di altri membri del gruppo è anche più complicata di quella di William, Allen e Jack. Neal Cassady nasce nel 1926 in un charity hospital di Salt Lake City, Utah, mentre i suoi genitori si stanno trasferendo sul loro camion Ford a Des Moines, Iowa. Il matrimonio dei genitori naufraga ben presto, e quando Neal ha 6 anni, il padre – che è un barbiere alcolizzato – se lo porta a Denver, dove lo fa vivere in condizioni di estrema povertà, abbandonato a se stesso. Poi Neal torna a vivere con la madre, la sua sorellina e il suo fratellastro più grande, un sadico che lo tormenta incessantemente, mentre la madre – psicologicamente assente – non è in grado di intervenire. A 9 anni Neal ha la sua prima esperienza sessuale con delle ragazzine, a casa di un amico di bevute del padre, e da allora in avanti sperimenta qualunque tipo di rapporto, con donne soprattutto, ma anche con uomini (fra cui Allen Ginsberg). Appassionato di auto, dai 14 ai 21 anni ne ruba 500; viene arrestato dieci volte e incarcerato sei. Passa dieci mesi in un riformatorio. A 16 anni decide di darsi una cultura, leggendo compulsivamente qualunque cosa gli capiti sottomano, da Schopenhauer a Proust. Nell’ottobre del 1945 sposa la quindicenne LuAnne Henderson; nel dicembre del 1946 i due si trasferiscono a New York con una macchina rubata e 300 dollari, pure rubati; lì Neal conosce Kerouac e Ginsberg, per i quali diventa – almeno per un certo numero di anni – amico inseparabile, oggetto del de-

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siderio, modello intellettuale e sociale (Kerouac lo immortalerà in On the Road nelle vesti di Dean Moriarty)7. Gregory Corso, il più giovane del gruppo, nasce nel 1930 a New York. Sua madre, Michelina, diciottenne, si imbarca per l’Italia sei mesi dopo la sua nascita, e suo padre, Fortunato, lo mette in un orfanotrofio. Quando Gregory torna con suo padre, a 10 anni, ha già vissuto con tre diverse coppie di genitori affidatari. Il ritorno dal padre e dalla matrigna non è felice. Comunque a 12 anni, accusato di aver rubato una radio, viene condannato a quattro mesi e finisce in riformatorio, dove lo picchiano in continuazione, tanto che si ferisce volontariamente la mano con un vetro e per questo viene inviato al reparto pediatrico del Bellevue. Dopo pochi mesi, una volta dimesso, comincia a vivere per strada, dormendo nei sottopassaggi o sui tetti, rubando la merenda alle scolarette, rubacchiando per sopravvivere. A 16 anni, dopo una rapina più in grande stile, viene preso dalla polizia e spedito, dopo il processo, alla Clinton State Prison, un posto terrificante, dove tuttavia la sua origine etnica gli vale la protezione dei mafiosi che vi sono internati. Sta tre anni in prigione, e passa il tempo a leggere e studiare. Torna in libertà nel 1950 e va a New York: Ginsberg lo incontra al Pony Stable di Greenwich, un bar per lesbiche dove Gregory se ne sta a riflettere e a creare le sue poesie8. E si potrebbe proseguire, con i profili biografici di altri che – per un verso o per l’altro – entrano nel reticolo relazionale di questi giovani aspiranti intellettuali. La definizione – all’epoca – è del tutto pertinente, perché nel periodo di tempo in cui si frequentano più intensamente, dal 1944 al 1946, Carr, Kerouac, Ginsberg e gli altri elaborano un’ambiziosa new vision della letteratura che vorrebbero produrre, guidata dall’idea secondo la quale una autoespressione priva di censure dovrebbe essere il nucleo fondante dell’attività creativa, alimentata da un sistematico ampliamento della sensibilità, attraverso l’uso di droghe, l’impiego di visioni derivanti dagli stati allucinatori indotti dalle sostanze, la rielaborazione dei sogni – qualunque cosa consenta di liberarsi dall’oppressione di quella che loro giudicano l’ottusa moralità convenzionale dominante9. Al momento, però, tutto ciò resta

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allo stato dei propositi e delle fantasie, non solo perché nessuno dei membri del gruppo ha ancora scritto niente di pubblicabile, ma anche perché adesso le loro vite prendono svolte ancor più disordinate e tragiche di prima, tanto da lasciar loro poco tempo e poche energie da dedicare alla riflessione creativa. Nel 1944 Lucien Carr uccide David Kammerer, disperatamente innamorato di lui, coinvolgendo nella vicenda anche Burroughs e Kerouac, che lo hanno consigliato, e aiutato a occultare le prove: e per questo passa due anni in riformatorio10. Poco tempo dopo, a New York, Burroughs ha cominciato a sperimentare ogni tipo di droga, in particolare morfina ed eroina. Ha anche conosciuto Joan Vollmer, una giovane bella, intelligente e problematica, già sposata, con una figlia, ma separata dal marito; tra loro sboccia un amore che peraltro non impedisce sia a Burroughs sia a Vollmer di fare sesso occasionalmente con altri uomini11. Nel 1946 Burroughs viene arrestato per aver contraffatto prescrizioni mediche per la morfina; Vollmer, che è interamente dipendente dalla benzedrina, viene ricoverata per dieci giorni al reparto psichiatrico del Bellevue. Superata questa doppia crisi, a gennaio del 1947 i due decidono di trasferirsi in una fattoria in Texas, dove coltivano marijuana. Nella loro nuova residenza il 21 luglio del 1947 nasce il loro figlio, Bill; nato da una madre dipendente dalle amfetamine, appena partorito deve sopportare una crisi di astinenza12. Dopodiché, dal Texas William e Joan si spostano in Louisiana e poi, nel 1949, per evitare un processo per possesso di droghe, se ne vanno a vivere a Città del Messico, dove la loro convivenza diventa anche più disastrata di prima: Burroughs è dipendente da eroina e alcol, frequenta regolarmente giovani prostituti locali, poi si mette con un ventunenne americano, in Messico per ragioni di studio; Joan, già devastata dalle amfetamine, diventa anche del tutto dipendente dalla tequila. Il 6 settembre del 1951, infine, in un appartamento di conoscenti, Burroughs, da sempre appassionato di armi, sfida Joan a fare una sorta di gioco alla Guglielmo Tell: lei si mette un bicchiere in testa e gira il volto di profilo; lui prende la mira e la colpisce in pieno alla tempia, uccidendola.

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Burroughs sta in prigione per tredici giorni; poi il suo avvocato, che ha istruito i testimoni affinché descrivano la vicenda come un puro e semplice incidente, riesce a tirarlo fuori col pagamento di una cauzione; Burroughs rischia comunque un processo che potrebbe costargli anni di carcere ma, prima che la situazione precipiti, nel dicembre del 1952 riesce a scappar via dal Messico13. Tre anni e mezzo prima, nel 1949, Ginsberg, che ha cominciato a frequentare un circuito di piccoli delinquenti, dopo un rocambolesco incidente su un’auto rubata, carica di merce trafugata, viene arrestato e condannato a un ricovero psichiatrico di otto mesi presso il Columbia Presbyterian Psychiatric Institute (giugno 1949-febbraio 1950)14. Intanto Kerouac e Cassady conducono vite alcoliche e caotiche, immersi in un dedalo di confuse relazioni affettive e sessuali, continuamente in viaggio avanti e indietro per gli States. Travolti da queste vicende private, fino ai primi anni Cinquanta questi giovani aspiranti intellettuali non hanno alcuna visibilità esterna che non sia legata alle cronache giudiziarie relative agli omicidi di Kammerer e di Vollmer. È vero che nel 1950 Kerouac riesce a pubblicare il suo primo libro, The Town and the City (La città e la metropoli), per una buona casa editrice, la Harcourt Brace: tuttavia il romanzo, commercialmente e criticamente è un flop che passa del tutto inosservato15. Peraltro, sin dagli anni Quaranta tra i membri del gruppo ha preso già a circolare una privata autodefinizione che qualche anno dopo li identificherà anche pubblicamente: «beat». Il termine ha due accezioni: quella originaria di «battuto», «prostrato», «distrutto»; e quella meno ovvia, lanciata da Kerouac qualche tempo dopo, che trasforma questo stato di prostrazione in una condizione di grazia, o meglio di beatitudine («beat» = «beatitude»), la beatitudine del perdente16. Già nel 1952, un articolo di John Clellon Holmes per il «New York Times Magazine» – This Is the Beat Generation – fa sì che il termine esca dall’anonimato per indicare non tanto il circolo letterario di cui anche Holmes fa parte, ma addirittura un’intera generazione di giovani ribelli e marginali. Scrive dunque Holmes:

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Le origini della parola «beat» sono oscure, ma il significato è chiarissimo alla maggior parte degli americani. Più che un semplice abbattimento, implica il sentimento di essere stati usati, scorticati. Comporta una specie di nudità della mente, e, alla fine, dell’anima; un sentimento di esser stati ricondotti al sostrato della consapevolezza. In breve, significa essere messi con le spalle al muro, davanti a sé stessi. Un uomo è «beat» ogni volta che sia ridotto sul lastrico e punti tutto quello che ha su un solo numero; e questo, la giovane generazione, l’ha fatto continuamente, sin dalla sua prima adolescenza17.

Naturalmente, nel momento in cui scrive, Holmes non fa che mettere in piedi una pura e semplice costruzione giornalistica, giacché, pur cogliendo un disagio sociale e generazionale effettivamente diffuso, lo attribuisce in blocco a un’intera coorte di giovani, ciò che non corrisponde affatto alla realtà; negli Usa degli anni Cinquanta di certo non c’è un’unica generazione giovanile, ma c’è una miriade di scene subculturali, tra le quali quelle dei rocker o dei surfer non sono che le più note; così come c’è una vastissima area di giovani square, integrati, conformisti, ­proiettati verso l’American dream. Quanto alla «Beat Generation», non esiste che nella testa di Holmes, Kerouac o Ginsberg... ...almeno per il momento, giacché appena tre anni dopo si avvierà un’imprevedibile sequenza di eventi che darà a quell’etichetta un suo compiuto senso artistico, culturale e sociale. 2. Un reading Tutto prende avvio nel 1955, lontano da New York, a San Francisco. Lì, sin dagli inizi degli anni Cinquanta, si sono trasferiti prima Neal Cassady, e poi Ginsberg, occasionalmente raggiunti anche da Kerouac. A San Francisco Ginsberg, oltre a Peter Orlovsky (che diventa il compagno della sua vita), conosce anche Lawrence Ferlinghetti, un raffinato intellettuale, proprietario della libreria City Lights e della omonima casa editrice di avanguardia; e Wally Hedrick, un poeta locale, che gli propone di organizzare una lettura pubblica nella quale si possano ascoltare le produzioni di una nuova generazione di poeti. Dopo un’iniziale

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incertezza, Ginsberg accetta e contatta prima Kenneth Rexroth (50 anni), autorevole poeta californiano, al quale chiede di fare da chairman della serata; poi invita Philip Lamantia (28 anni), Michael McClure (23 anni), Philip Whalen (32 anni) e Gary Snyder (25 anni), che insieme a lui si impegnano a leggere pubblicamente delle composizioni poetiche. La lettura pubblica ha luogo alle 20 del 7 ottobre 1955 alla Six Gallery, 3119 Fillmore Street, San Francisco; prima si esibiscono gli altri invitati; poi alle 23 arriva il turno di Ginsberg, che legge la prima parte di Howl18. Jack Kerouac, presente alla serata, la descrive così in The Dharma Bums (1958): Comunque seguii tutta la banda di poeti schiamazzanti al reading alla Gallery Six quella sera, che fu, fra le altre cose importanti, la sera in cui ebbe inizio il Rinascimento poetico di San Francisco. C’erano tutti. Fu una notte pazzesca. E fui io a scaldare l’ambiente andando in giro a raccogliere monetine e quarti di dollari da un pubblico piuttosto sulle sue in piedi in galleria e tornando con tre enormi brocche da quattro litri di borgogna californiano e facendoli ubriacare sicché verso le undici mentre Alvah Goldbrook [Allen Ginsberg] leggeva, ululava il suo poema Ululato [Howl/Urlo] ubriaco fradicio e a braccia tese, tutti si misero a urlare “Vai! Vai! Vai!” (come in una jam session) mentre il vecchio Reinhold Cacoethes [Kenneth Rexroth] padre della ribalta poetica di Frisco piangeva dalla felicità19.

La performance pubblica in cui per la prima volta viene letta la prima parte di Howl ha una risonanza inizialmente solo locale. Le testimonianze disponibili, tuttavia, insistono tutte su un aspetto particolare, ovvero la intensa fisicità della lettura, che in questa occasione è scandita dagli interventi di Kerouac, mezzo ubriaco, che a ogni pausa incoraggia Ginsberg ad andare avanti, gridando «Go! Go! Go!». Come scrive lo stesso Kerouac, la ritmicità complessiva assume quasi la prosodia di un’improvvisazione jazz; e del resto già da qualche anno autori come ruth weiss, per esempio, hanno cominciato a leggere pubblicamente le loro poesie con l’accompagnamento di musicisti jazz20. È un aspetto importante, teorizzato e praticato nel modo più esplicito da Jack Kerouac che, in Mexico City Blues – un poema

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pubblicato nel 1959, ma scritto tra il 1954 e il 1957 –, asserisce: «Voglio essere considerato un poeta jazz che suona un lungo blues in una jam session di domenica pomeriggio»; e a più riprese riflette sulla tecnica di scrittura, i cui principi fondamentali sono la spontaneità («first thought, best thought»), l’improvvisazione, il ritmo21. In realtà Ginsberg non ha seguito del tutto fedelmente i consigli dell’amico; il testo di Howl è stato lungamente lavorato, ritoccato, corretto, cosicché la versione letta alla Six Gallery non è modellata davvero sull’esempio di un’improvvisazione jazzistica; ma ciò che Ginsberg ha deciso di perdere nell’elaborazione testuale lo riacquista nella dimensione performativa, che non si limita alla serata del 7 ottobre 1955, ma si ripeterà ancora in una serie di letture pubbliche che egli continuerà a tenere nelle più diverse location22: la fisicità, la corporeità, l’oralità, la apparente immediatezza delle associazioni sono tutti aspetti che sfidano l’elegante compostezza della forma poetica prediletta dall’establishment critico, e reinterpretano componenti essenziali delle principali manifestazioni artistiche e musicali afroamericane. Lawrence Ferlinghetti è talmente colpito da Howl che il giorno dopo la lettura alla Six Gallery propone a Ginsberg di pubblicarlo. E così Ginsberg continua ancora a lavorare al testo, aggiungendo alla prima parte (quella letta pubblicamente il 7 ottobre) altre sezioni, fino a giungere alla versione definitiva che viene pubblicata in Howl and Other Poems, uscito nell’ottobre del 1956 come n. 4 della City Lights Pocket Poets Series. Il poema non è certo semplice, né per la struttura del verso – libero e guidato da associazioni visionarie –, né per i temi che vi sono affrontati. Nella prima parte, la descrizione di una generazione visceralmente «contro» si accompagna a una esplicita celebrazione della pazzia, di una sessualità priva di limiti, etero- od omosessuale che sia, della bellezza e della creatività delle visioni derivanti dall’uso della droga: il tutto è descritto con la sfrontata provocatorietà di chi sa benissimo (e lo sa perché l’ha sperimentato sulla sua pelle) quanto queste idee e queste pratiche siano

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osteggiate, marginalizzate e represse nella società americana di metà anni Cinquanta: Ho visto le migliori menti della mia generazione [...] che trombavano in limousine col cinese di Oklahoma su impulso di invernal mezzonotturna illampionata pioggia di provincia, che ciondolavano affamati e soli per Houston cercando jazz o sesso o zuppa, e seguivano quel brillante spagnolo per conversar d’America e d’Eternità, tempo sprecato, e poi via per nave in Africa, che sparivan nei vulcani in Messico lasciandosi dietro nient’altro che l’ombra di una tuta jeans e la lava e ceneri di poesia sparse nel focolare Chicago, che riapparivan sulla West Coast a investigare l’Fbi con barba e short e grandi occhi pacifisti sexy su pelle bruna dando via volantini incomprensibili, che con sigarette si bruciavan buchi nelle braccia per protesta contro la foschia tabacco narcotica del Capitalismo, che distribuivan pamphlet Supercomunisti a Union Square piangendo e spogliandosi mentre le sirene di Los Alamos ululando li zittivano, ululando giù per Wall Street, e ululava lo Staten Island ferry, che crollavano in pianto in bianche palestre nudi e tremanti davanti al macchinismo di altri scheletri, che mordevan sul collo poliziotti e poi gridolini di piacere una volta in macchina per non aver commesso altro crimine che la propria ganza pederastia e intossicazione, che urlavano in ginocchio nella metro e li trascinavan giù dal tetto sventaglianti genitali e manoscritti, che se lo facevan dare in culo da pii motociclisti e strillavano di gioia, che facevan pompe a ed erano pompati da quei serafini umani, i marinai, carezze d’Atlantico e d’amor caraibico, che mattino e sera scopazzavan tra roseti ed erba di parchi pubblici e cimiteri spargendo seme liberalmente in chiunque si trovasse a passare, che tutti una risatina singhiozzante finivan poi in un gemito dietro un tramezzo di bagno turco quando l’angelo biondo e nudo veniva a trapassarli con la spada, che perdevan i ragazzi amore tolti loro dalle tre megere del fato la megera guercia del dollaro eterosessuale la megera guercia che ci strizza l’occhio dall’utero e la megera guercia che sta lì seduta sul culo pronta a tranciare gli intellettuali fili d’oro del telaio artigiano, che copulavano estatici e insaziati con una bottiglia di birra col morosocon pacchetto di sigarette con candela e cadevano dal letto e continuavano per terra e giù nell’ingresso finendo svenuti contro il muro con

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una visione di superna fica e venute eludendo l’ultima sborata della coscienza, che addolcivan la fregna a milioni di ragazze tremanti nel tramonto e avevan gli occhi rossi la mattina pronti però ad addolcire la fregna dell’alba, con le chiappe all’aria nei granai e nudi nel lago, che andavano a battere per il Colorado in macchine da notte rubate a miriadi, N.C.23, eroe segreto di queste poesie, uomo tutto cazzo e Adone di Denver – gioia alla memoria di innumerevoli ragazze che ha scopato in terreni incolti e parcheggi ristoro da camionisti, e sedie sgangherate di cinema, su cime montane in caverne o con cameriere ossute per strade familiari a desolata sottoveste alzata e soprattutto segreti solipsismi da cesso di stazione di servizio, e in stradine della sua città [...]24.

È bene insistere sulla forza innovativa del molteplice coming out di cui Ginsberg si fa portavoce per conto della comunità di outsiders a cui appartiene. Fin allora – come abbiamo già visto – il tema della sessualità è stato sistematicamente rimosso dalla cultura mainstream, in particolare nella sua declinazione omosessuale; e se è vero che nelle grandi città americane esiste una subcultura gay e lesbica, organizzata in speciali centri di ritrovo – bar, caffetterie, associazioni –, è anche vero che fino a ora questa cultura ha vissuto nell’ombra della massima discrezione possibile, sostanzialmente nella invisibilità quasi assoluta. D’altro canto, le non molte opere letterarie che hanno esplorato una trama gay lo hanno fatto trasformando la storia in un melodramma autopunitivo, guidato da un incontrollabile senso di colpa. In The City and the Pillar (La statua di sale, 1948), di Gore Vidal, per esempio, il protagonista nega la sua omosessualità, considerandola una innocua diversione, da attribuire alla sua difficoltà di aver rapporti con le donne; nel finale, quando Bob, il suo amore giovanile ritrovato, lo rifiuta, lui lo uccide. In Finistère (1951), di Fritz Peters, un giovane, trasferitosi in Francia con la madre divorziata, avvia una relazione con un suo insegnante, più vecchio di lui, in un contesto di rapporti personali e affettivi assai complesso; da un lato la storia erotica è descritta come una vera liberazione del proprio sé più intimo; dall’altro, però, il romanzo finisce col suicidio del giovane, dopo che la madre, alla quale ha rivelato la sua vi-

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cenda, lo rifiuta. In Giovanni’s Room (La stanza di Giovanni, 1956), di James Baldwin, il protagonista, David – un americano espatriato in Francia –, ha una fidanzata, rispettabile, con la quale però non prova alcun piacere sessuale, e un amante, un giovane italiano – Giovanni –, col quale ha una storia intensa, che tuttavia gli procura senso di colpa e di vergogna; alla fine, dopo aver cercato di vivere solo nella dimensione etero, David incontra e uccide un anziano omosessuale, Guillaume, il che lo porta a essere lui stesso giustiziato25. Ben diversamente da tutto ciò, Ginsberg ha il coraggio di dichiarare, con immagini gioiosamente e aggressivamente dirette, la bellezza e la legittimità del desiderio sessuale, di ogni desiderio sessuale. Non dissimile è l’atteggiamento di Ginsberg riguardo all’uso delle droghe. Anche in questo caso la questione era stata affrontata, in precedenza, in forme censorie e anche legittimamente preoccupate, nel campo del giornalismo, della memorialistica o della saggistica. Lo stesso Burroughs, che ha già trattato il tema nel 1953 col suo primo libro – Junkie. Confessions of an Unredeemed Drug Addict (La scimmia sulla schiena) –, lo ha tuttavia fatto in un modo peculiarmente difforme da quello scelto da Ginsberg. Intanto il libro di Burroughs è uscito in una collana economica di libri – la Ace Books – in cui in un solo volume sono contenuti due romanzi; e il testo accoppiato a quello di Burroughs è la riedizione di un libro del 1941 – Narcotic Agent. Gripping True Adventures of a T-Man’s War Against the Dope Menace – che contiene le memorie di Maurice Helbrandt, ex agente del Federal Bureau of Narcotics. Questo secondo testo è scelto dai responsabili della casa editrice con l’evidente intento di attenuare, o quanto meno contestualizzare moralmente, l’impatto del romanzo di Burroughs, che in pratica rielabora in forma fic­ tional la sua propria esperienza di tossicomane e spacciatore. Burroughs scrive in un periodo in cui è dipendente da eroina: questo aspetto, oltre alla scelta di seguire uno stile hard-boiled particolarmente distaccato, dà alla sua narrazione un tono chirurgico, neutrale, quasi del tutto anaffettivo, che non sarà privo di influenze su rivisitazioni letterarie e musicali del tema che

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si incontreranno negli anni seguenti. Ginsberg, invece, sceglie un tono alto, enfatico, gridato, celebrativo, rivendicativo: la voce che emette lo Howl non ha nulla da nascondere, nulla di cui si debba vergognare. E tuttavia la litania cerimoniale di Ginsberg ha un incombente tono tragico, che deriva dalla perfetta consapevolezza dello stato di marginalità in cui si trova chi voglia sfidare l’orizzonte etico dominante. Questo aspetto del poema appare particolarmente evidente nella sua seconda parte, nella quale Ginsberg spiega la ragione profonda della ribellione bohémien, descrivendo la società americana come Moloch, una divinità patriarcale che sacrifica i suoi figli in nome dell’ossessione per la ricchezza, talmente pervasiva da rendere tutti completamente insensibili alla bellezza e all’intelligenza critica. La terza e la quarta parte concludono l’opera con un dolente inno all’amicizia tra intellettuali alternativi – il riferimento costante è a Carl Solomon, conosciuto durante il ricovero nell’istituto psichiatrico –, e, infine, con una celebrazione della «santità» controculturale dei «battuti» – i beat26. Il testo di Ginsberg ha una sua consapevole complessità letteraria, che non ne fa certo, in sé e per sé, un prodotto adatto al mercato di massa. Tuttavia, a trasformarlo in un oggetto mitico e attrattivo ben al di là delle cerchie dei letterati più chic, ci pensa Chester MacPhee, funzionario delle dogane dello Stato della California, che il 25 marzo del 1957 ordina il sequestro di 520 copie del libro di Ginsberg per proteggere i bambini – come lui stesso dichiara – dall’oscenità di cui grondano quelle poesie. Prevedendo che, prima o poi, la tempesta si sarebbe addensata su Howl, Ferlinghetti ha da tempo allertato gli avvocati della American Civil Liberties Union (Aclu) che, il 3 aprile 1957, entrano in azione e contestano la legittimità dell’iniziativa di MacPhee. Al tempo stesso Ferlinghetti fa una nuova edizione riservata al mercato statunitense, il che sottrae il libro alla giurisdizione delle dogane, mentre su diverse riviste, letterarie e non, si sviluppa una intensa discussione sul caso, con diversi interventi critici nei confronti dell’iniziativa di MacPhee. Questa specifica iniziativa,

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peraltro, si chiude il 29 maggio 1957, quando il procuratore di San Francisco decide di lasciar cadere l’accusa di oscenità sollevata da MacPhee, imponendo alle dogane la restituzione delle copie sequestrate. Ma intanto il caso giudiziario si riapre in un’altra forma, perché in quello stesso 29 maggio 1957 il capitano William Hanrahan, della polizia di San Francisco, invia alla City Lights Bookstore due poliziotti in borghese i quali, dopo essersi fatti vendere una copia di Howl da Shigeyoshi Murao, il commesso della libreria, gli notificano un mandato d’arresto per lui e per Ferlinghetti per spaccio di materiale osceno. Ginsberg non è coinvolto solo perché in quel periodo è in Marocco, a Tangeri, con Peter Or­lovsky e William Burroughs. Il 3 ottobre 1957, al termine del procedimento giudiziario, il giudice Clayton Horn assolve gli imputati basandosi sia su una sentenza emessa dalla Corte Suprema degli Usa il 24 giugno 1957 per un caso analogo, sia sul diritto costituzionale alla libertà di espressione. Il «San Francisco Chronicle», nell’articolo che descrive la seduta, informa i lettori che la sentenza di assoluzione viene accolta dal pubblico che si è affollato nell’aula con applausi e grida di approvazione27. L’intera vicenda ha creato un notevole clamore intorno al libro, che vale – sia a Ginsberg che a Ferlinghetti – la notorietà su scala nazionale e un insperato lancio promozionale che, nelle settimane seguenti, ha come risultato la vendita di 10.000 copie: un esito tutto sommato mediocre se lo si confronta con le dimensioni del pubblico raggiunto normalmente dalle produzioni culturali mainstream (cinema, radio, televisione, fumetti); e nondimeno, di fatto, un risultato eccezionale, considerata l’audacia tematica ed estetica della poesia di Ginsberg28. 3. Sulla strada Tutto ciò non basterebbe a fare del fenomeno beat qualcosa di veramente nazionale, se il procedimento a carico di Howl non si incrociasse con la pubblicazione di On the Road (Sulla strada) di Jack Kerouac, che ha luogo il 5 settembre del 1957. Il roman-

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zo narra del giovane Sal Paradise (Jack Kerouac stesso), della sua amicizia con Carlo Marx (Allen Ginsberg) e soprattutto con Dean Moriarty (Neal Cassady), e di quattro viaggi che Sal compie avventurosamente attraverso gli States, da solo o con Neal, dei personaggi che incontrano, degli amori che nascono e muoio­no, dell’inquietudine che impedisce a Sal e a Dean di restare fermi e cercare una qualche loro stabile collocazione. I rapporti che si intrecciano sono – al tempo stesso – intensi e superficiali, distorti spesso dal continuo ricorso all’alcol e alle droghe nel contesto di feste che in qualche caso sembrano dei pre-rave party. Ma il tema principale è il viaggio senza meta, giocato in disperata contrapposizione all’idea di entrare definitivamente nella rat race, nell’ingranaggio distruttivo della società americana post­ bellica. All’arrivo a New York, alla fine del suo primo viaggio, Sal osserva: All’improvviso mi trovai a Times Square. Avevo fatto tredicimila chilometri su e giù per il continente americano, e adesso ero tornato a Times Square; e proprio all’ora di punta, anche, e ai miei occhi innocenti da vagabondo toccava di vedere l’assoluta follia e il fantastico, fragoroso via vai di New York con i suoi milioni e milioni di abitanti che sgomitano instancabili per qualche dollaro, l’allucinante sarabanda del prendi, arraffa, dai, sospira, muori, solo per esser sepolti in quelle orribili città funerarie dietro a Long Island City29.

Tutti i viaggi descritti nel libro non sono propriamente una fuga, giacché si ritorna sempre al punto di partenza, come nel modello letterario della quest, da poco rilanciato dal successo di The Lord of the Rings (Il Signore degli Anelli), che John Ronald Reuel Tolkien ha pubblicato tra il luglio del 1954 e l’ottobre del 195530. In effetti, ciò che rende particolare On the Road è la sua deliberata destrutturazione del modello della quest. In apertura Sal sembra presentarsi – a suo modo – come il tipico eroe di una quest, o almeno spera di esserlo: «Sapevo che a un certo punto di quel viaggio ci sarebbero state ragazze, visioni, tutto; sapevo che a un certo punto di quel viaggio avrei ricevuto la perla»31. Ma da un lato questa «perla» non viene mai scoper-

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ta; e dall’altro non c’è alcun senso sociale o comunitario nel viaggiare, e ciò che resta è un disordinato e frenetico muoversi, dotato della stessa disperazione che ha guidato il movimento che gli hoboes hanno compiuto appena una o due generazioni prima: solo che gli hoboes erano mossi dalla speranza di trovare un modo per sopravvivere in una società disastrata; qui, invece, ci si muove instancabilmente perché non si ripone alcuna fiducia in un società scandita dalle norme del conformismo post­ bellico. La risonanza mitica del viaggio intreccia strette relazioni intertestuali non certo con un qualche consunto «mito della frontiera», quanto col viaggio disperatamente, e non di rado illusoriamente, liberatorio tante volte cantato nelle canzoni folk, o blues, o hard country. Al tempo stesso, una parte non piccola dell’innegabile fascino di On the Road sta nello stile, consapevolmente inseguito da Kerouac qui e in altri romanzi. Le circostanze della creazione sono circondate da un alone quasi mitico: all’inizio di aprile del 1951, in un travolgente raptus creativo, Kerouac si mette alla macchina da scrivere, carico di benzedrina, e scrive il suo testo su un rotolo da telescrivente così da non dover mai interrompere il flusso creativo, andando avanti ininterrottamente per tre settimane32: ne viene fuori una sorta di stream of conscious­ ness, nervoso e frammentato, ma perfettamente comprensibile e godibile, capace, tuttavia, di trasmettere bene il senso di incontrollata inquietudine che connota la vita dei personaggi di questo libro (e anche del suo autore). La struttura formale non viene persa nemmeno nella versione effettivamente data alle stampe nel 1957, passata attraverso la revisione degli editor della Viking Press, la casa editrice che ne cura la pubblicazione. La segmentazione sincopata deriva – secondo la teorizzazione di Kerouac – dall’influenza del bebop; è lo stile dell’improvvisazione jazz che conduce lo scrittore a quella che lui stesso chiama «wild form», «bop prosody» o «spontaneous prose». La passione per il jazz si accompagna a un amore dichiarato per le culture altre, afroamericana o messicana, contrapposte al rapace disastro emotivo prodotto dalla cultura bian-

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ca. All’inizio della terza parte del romanzo Sal Paradise descrive una triste e solitaria serata passata a Denver: Nella sera violetta camminavo con i muscoli dolenti tra le luci della 27a e Weldon nel quartiere di colore di Denver, e avrei voluto essere anch’io un negro, perché nel meglio che il mondo bianco mi aveva offerto non c’era abbastanza estasi per me, non c’era abbastanza vita, gioia, divertimento, oscurità, musica, non c’era abbastanza notte. Mi fermai a un baracchino dove un uomo vendeva chili rosso e piccante in contenitori di carta; ne comprai un po’ e lo mangiai camminando per le strade buie e misteriose. Avrei voluto essere un messicano di Denver, o perfino un povero giapponese stremato dal lavoro, qualunque cosa tranne quello che tristemente ero, un «bianco» disilluso33.

In espressioni programmatiche di questo genere, che si rincorrono in On the Road, come in altre opere di Kerouac, c’è la pregiudiziale preferenza per i marginali, gli sfruttati, i disturbati, i derubati, osservati con un’estetizzante passione romantica, come nelle pagine di apertura di On the Road, dove Sal Paradise dice: A quel tempo [Dean e Carlo] danzavano per le strade come pazzi, e io li seguivo a fatica come ho fatto tutta la vita con le persone che mi interessano, perché le uniche persone che esistono per me sono i pazzi, i pazzi di voglia di vivere, di parole, di salvezza, i pazzi del tutto e subito, quelli che non sbadigliano mai e non dicono mai banalità ma bruciano, bruciano, bruciano come favolosi fuochi d’artificio gialli che esplodono simili a ragni sopra le stelle e nel mezzo si vede scoppiare la luce azzurra e tutti fanno «Oooooh!»34.

Certo che la scelta del bebop come modello estetico ed etico di riferimento ha un senso che non può andare perduto: da una delle manifestazioni più consapevolmente controculturali, emerse dalla creatività di artisti afroamericani, Kerouac trae incoraggiamento e ispirazione per delineare la sua personale traiettoria contronarrativa35. Ora, intorno all’atteggiamento che Kerouac manifesta verso neri e messicani si sono moltiplicati innumerevoli rilievi critici ispirati al «politically correct». Condiscendente; inconsapevolmente razzista, nel voler vedere nei neri

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solo estasi, gioia, divertimento, oscurità, musica; in effetti incapace di capire davvero le questioni che attraversano le comunità afroamericane (o messicane, se è per questo): queste le critiche principali36. Non ha molto senso cercare qui di «difendere» Kerouac da questi giudizi37. Mi sembra più importante considerare la forza che si sprigiona dalla popular culture nera, in molte direzioni diverse, che sia il rock ’n’ roll o la letteratura beat. Tanto più che oltre al jazz, mi pare che anche il blues lasci una sua impronta profonda sulla narrativa beat attraverso la produzione di Kerouac, non solo perché il termine ricorre variamente nelle sue opere, ma perché la struttura del romanzo pubblicato immediatamente dopo On the Road, e cioè The Subterraneans (I sotterranei, 1958), ripercorre una delle matrici narrative tipiche del blues: un uomo – Leo – è irresistibilmente attratto dal fascino sensuale di una donna – Mardou; dopo averla avuta se ne vuole liberare, per passare ad altri rapporti; lei gioca d’anticipo e lo tradisce; colto dalla gelosia, lui allora è in preda alla sofferenza e la rivorrebbe tutta per sé; ma ormai il rapporto è compromesso, anche per i comportamenti insensibili di lui, cosicché inevitabilmente la storia finisce; subentra allora in lui il doloroso rimpianto per quel che avrebbe potuto essere e non è stato. Certo, rispetto a un blues c’è una differenza ovviamente imposta dalla diversità del formato: mentre nei blues il centro focale è ora su uno ora sull’altro di questi momenti dello sviluppo amoroso, nel romanzo di Kerouac ognuno di quei momenti costituisce una fase del rapporto amoroso tra Leo e Mardou. Ciò non toglie che, a mio parere, l’influenza narrativa sia molto evidente. In aggiunta a questo aspetto, c’è ancora da osservare che Mardou è una afroamericana e che Leo, che è un bianco, manifesta di tanto in tanto degli odiosi pregiudizi razziali che complicano il rapporto, fino al momento in cui Leo si abbandona a un’impietosa autodecostruzione del razzismo che – malgrado se stesso – ha finito per inquinare i suoi pensieri e il suo rapporto con Mardou38. A completare la triade dei romanzi che accompagnano l’esplosione del fenomeno beat, nello stesso 1958 Kerouac pubblica anche The Dharma Bums (I vagabondi del Dharma), un romanzo

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in cui descrive il lato californiano del reticolo beat, e in cui – sulla suggestione che gli viene in particolare da Gary Snyder (nel romanzo descritto sotto le spoglie di Japhy Ryder) – un po’ confusamente indica nel buddismo zen una possibile strada per difendersi dallo scioglimento del sé nel conformismo mainstream: «Dammi un altro sorso di quel fiasco. Uauh! Oh! Uhu!» Japhy balzando in piedi: «Sto leggendo Withman, sapete cosa dice, Allegri, schiavi e inorridite despoti stranieri, vuol dire che questo è l’atteggiamento giusto per il Bardo, il Pazzo Bardo Zen delle antiche piste del deserto, capite è tutto un mondo pieno di nomadi con lo zaino in spalla, Vagabondi del Dharma che si rifiutano di cedere all’imperativo generale che li porta a consumare e dunque a lavorare per il privilegio di consumare, tutte quelle schifezze che nemmeno volevano davvero tipo frigoriferi, televisori, macchine, o perlomeno macchine nuove ultimo modello, certe brillantine per capelli e deodoranti e un sacco di robaccia varia che nel giro di una settimana trovi comunque nella spazzatura, tutti prigionieri di un sistema per cui lavori, produci, consumi, lavori, produci, consumi, con l’occhio della mente vedo una grandiosa rivoluzione di zaini migliaia addirittura milioni di giovani americani che girano con lo zaino in spalla, che salgono sulle montagne a pregare, fanno ridere i bambini e rallegrano i vecchi e ancor più felici le vecchie, tutti Pazzi Zen che girano scrivendo poesie che prendono forma nella loro testa senza una ragione precisa e inoltre essendo gentili e avendo anche certi imprevedibili gesti strani continuano a elargire visioni di libertà eterna a tutti e a tutte le creature viventi, ecco cosa mi piace di voi Goldbook [Allen Ginsberg] e Smith [Jack Kerouac], voi due figlioli di una East Coast che io ritenevo defunta»39.

Tuttavia, il lato critico di Kerouac o di Ginsberg non presuppone un qualche tipo di specifica controproposta politica. Come scrive John Clellon Holmes nel 1952, «per lo hipster più radicale, che trasforma il bop, le droghe e la vita di notte in un’esperienza mistica, non c’è il desiderio di fracassare la società “normale” [square] in cui vive, c’è solo il desiderio di eluderla»40. Lo ripete nel suo saggio del 1957 The White Negro, con sincera partecipazione, Norman Mailer, là dove scrive: l’hipster [...] si rende conto che se la nostra condizione collettiva è di vivere sotto la minaccia di una morte istantanea per guerra atomica, di una

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morte relativamente veloce a opera dello Stato inteso come l’univers concentrationnaire, o di una morte lenta per conformismo, essendo soffocato ogni istinto di creazione e di rivolta [...], allora l’unica risposta vitale è [...] estraniarsi dalla società, esistere senza radici, avventurarsi in itinerari inesplorati all’interno degli imperativi ribelli del proprio essere. [...] Un individuo è hip o square (l’alternativa che ogni nuova generazione che entra nella vita americana sta cominciando a percepire), è un ribelle o un conformista, un pioniere nel selvaggio West della vita notturna americana o una cellula square, intrappolata nei tessuti totalitari della società americana e destinata, volente o nolente, a conformarsi per raggiungere il successo41.

L’hipster o il beat per Kerouac sono la stessa cosa: Dean e Carlo – scrive in On the Road – «erano come l’uomo che usciva da sotto il macigno con la sua angoscia, anche loro venivano dai sotterranei, i sordidi hipster d’America, una nuova generazione beat della quale stavo lentamente entrando a far parte anch’io»42. E il loro modo di allontanare l’angoscia esistenziale che li attanaglia – ha scritto Bruno Cartosio – consiste nello scegliere la disaffiliazione, spinta talora sino all’autodistruzione: Il loro stile di vita, contrariamente a quello che scrivono i critici malevoli, «non è individualistico, ma comunitario, basato su una rete di piccoli gruppi. Si sceglie di vivere negli interstizi di una società sufficientemente prospera da consentirlo, ma non lo si fa in modi asociali». Le loro opere faticano a vedere la luce; la loro eccentricità crea scandalo ed è osteggiata e apertamente denigrata dalla pubblicistica. Tuttavia, i beat mostrano ai loro coetanei e ad altri appena più giovani di loro, che è possibile «vivere in appartamenti senza acqua calda, in quartieri di immigrati o di neri, dormendo sul pavimento in un sacco a pelo, o girare in autostop senza essere barboni veri e propri»43.

4. Beatnik Nello stesso giorno in cui On the Road va nelle librerie esce sul «New York Times» una recensione estatica di Gilbert Millstein, che scrive: «Proprio come più di ogni altro romanzo degli anni Venti The Sun Also Rises [Fiesta, di Ernest Hemingway] ha finito per essere considerato il manifesto della Lost Generation,

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[...] così sembra certo che On the Road verrà conosciuto come il manifesto della Beat Generation»44. Accompagnato da un simile viatico, il libro ha subito un grande successo, entrando nella classifica dei best seller, con una seconda edizione in stampa a due settimane dalla pubblicazione, mentre Kerouac viene intervistato da riviste popolari e va in TV – una pressione mediatica alla quale, peraltro, non sa rispondere, facendosi sopraffare dallo stress, e dall’alcol, come scudo contro lo stress. In ogni caso, l’apprezzamento per la produzione beat è limitato solo a poche recensioni o interventi critici. Le critiche letterarie negative si fanno rapidamente più numerose e si trasformano in un altro degli innumerevoli attacchi isterici che abbiamo visto scatenarsi già più volte contro produzioni artistiche innovative che attirano l’interesse di un pubblico di massa. Uno dei protagonisti dell’offensiva antibeat è Norman Podhoretz, un giovane brillante intellettuale, all’epoca di orientamento liberal. Nel settembre del 1957 Podhoretz pubblica su «New Republic» una recensione negativa di Howl e dell’intera nuova scena poe­ tica californiana. Non è che la premessa a un attacco ben più radicale, sferrato dalle pagine di «Partisan Review» nella primavera del 1958, con l’articolo The Know-Nothing Bohemians, nel quale, fra le altre cose, sostiene che mentre la bohème intellettuale degli anni Venti e Trenta, quella della Lost Generation, cioè, ripudiava il provincialismo e l’ipocrisia della società americana a favore di una visione colta e intelligente del processo di civilizzazione, la bohème intellettuale dei beat è tutta un’altra cosa, poiché è ostile alla civilizzazione, venera il primitivismo, l’istinto, l’energia, il «sangue». Nella misura in cui ha un qualche tipo di interesse, esso è rivolto alle dottrine mistiche, alle filosofie irrazionaliste e a un reichianismo [Wilhelm Reich] di sinistra. L’unica arte che i nuovi bohémien apprezzano è il jazz, principalmente il cool jazz. La loro predilezione per il linguaggio bop è un modo per dimostrare solidarietà con la vitalità primitiva e con la spontaneità che trovano nel jazz. È anche un modo per esprimere disprezzo nei confronti del discorso razionale e coerente, che, essendo un prodotto della ragione, è secondo loro una forma di morte. Essere chiari è ammette-

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re che non si hanno sentimenti (perché come sarebbe possibile esprimere dei sentimenti con un linguaggio razionale?), che non si può rispondere a niente (Kerouac risponde sempre dicendo «Wow!») e che probabilmente si è impotenti45.

L’attacco coglie, con velenosa intelligenza, punti effettivamente fragili dell’elaborazione beat, ampliandone tuttavia la portata fino ai limiti di una deformante caricatura: nei romanzi di Kerouac – prosegue Podhoretz – il sesso è vissuto con ansia da performance; l’ammirazione per gli afroamericani è stereo­ tipata, priva di vera sostanza; l’esibito intellettualismo è fatto di frasi smozzicate, pensieri banali, trite ovvietà; il lessico è desolante e le frasi sono costruite con il sistematico accumulo di una sequenza di aggettivi («greatest», «tremendous», «crazy», «mad», «wild», e pochi altri), che resta sempre la stessa, o nella migliore delle ipotesi subisce minime variazioni («really crazy», «really mad», «really wild», ecc.)46. Ma il vero veleno sta nella coda, ovvero nella conclusione dell’articolo, nella quale Podhoretz riassume ciò che gli sembra il senso sociale complessivo di una produzione letteraria che a lui appare priva di valore; e questo senso consiste nei pericoli del primitivismo, dell’esaltazione dell’istintività, della celebrazione della criminalità – non importa se micro o macro. E alla fine anche lui riconduce la costellazione beat nello stesso spazio nel quale viene ricondotta la costellazione rock ’n’ roll da parte dei suoi critici, ovvero quello della criminalità giovanile, giacché l’etica beat può facilmente trasformarsi in brutalità, poiché c’è un grido a stento represso in questi libri [quelli di Kerouac e di Ginsberg]: uccidi gli intellettuali che sanno parlare con coerenza, uccidi la gente che sa star seduta tranquilla per almeno cinque minuti, uccidi quelle incomprensibili personalità che riescono a farsi coinvolgere seriamente da una donna, un lavoro, una causa. Come può chiunque sia sano di mente far finta che tutto ciò abbia a che fare con la proprietà privata o con la classe media? No. Essere [...] contro ciò che la Beat Generation rappresenta vuol dire negare che l’incoerenza sia superiore alla precisione; che l’ignoranza sia superiore alla conoscenza; che la razionalità sia una forma di morte. Vuol dire combattere l’idea che sordidi atti di violenza siano giustificabili nella misura in cui

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siano commessi in nome dell’«istinto». Vuol dire anche combattere la velenosa glorificazione dell’adolescente americano. Vuol dire, in altre parole, [difendere] l’intelligenza stessa47.

Herb Caen, che interviene sul tema con un articolo pubblicato nel «San Francisco Chronicle» del 2 aprile 1958, non è meno duro quando ribattezza il gruppo col nomignolo di «beatnik», una parola che fonde insieme «beat» e «Sputnik», il nome del primo satellite lanciato dai sovietici nello spazio nell’ottobre del 1957. La crasi contiene una critica massimamente ingiuriosa nel contesto degli Stati Uniti di fine anni Cinquanta, giacché suggerisce non solo che i beat siano nemici della civilizzazione, come sostiene Podhoretz, ma che probabilmente siano anche nemici della regina di tutte le civiltà, quella americana, e forse in qualche modo da associare direttamente alla minaccia sovietica48. Il suggerimento si fa strada nella mente degli opinion makers più conservatori, come J. Edgar Hoover, che nel corso della convention repubblicana del 1960 dichiara che «i comunisti, le teste d’uovo e i beatnik» sono le tre più gravi minacce che mettono in pericolo la nazione49. L’attacco ha anche una sua declinazione più direttamente semplificata che viene accolta dal cuore della cultura di massa mainstream, il cinema hollywoodiano, che si muove su due livelli: la denigrazione parodistica e la normalizzazione moralistica. Da un lato, infatti, la Mgm nel 1959 distribuisce The Beat Generation, film diretto da Charles F. Haas, in cui il protagonista è un beatnik-stupratore, alla fine catturato dal poliziotto, la cui moglie è stata stuprata dal beatnik ed è rimasta incinta; dall’altro lato, sempre la stessa Mgm nel 1960 lancia The Subterraneans (La nostra vita comincia di notte), tratto dal romanzo di Kerouac e diretto da Ranald MacDougall. Come spesso capita nelle rielaborazioni hollywoodiane di opere letterarie, la sceneggiatura cambia aspetti essenziali della storia. Mardou non è nera ma bianca (Leslie Caron); la storia tormentata tra Mardou e Leo (George Peppard), fatta di incomprensioni e tradimenti vissuti nel contesto di una comunità beat, si conclude quando Mardou annuncia

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a Leo la sua gravidanza, e Leo si rende conto del suo immenso amore per lei: i due si rimettono insieme e decidono di abbandonare la comunità beat per prepararsi a vivere una vita «normale»50. In parallelo, la Cbs lancia una sitcom intitolata The Many Loves of Dobie Gillis (1959-1963), nella quale, tra i vari personaggi, c’è anche Maynard Krebs, un giovane beatnik ridicolmente stereotipato (pizzetto, maglioncino e bongo), pronto a reagire con orrore ogni volta che qualcuno pronunci le parole «lavoro», «matrimonio», «polizia» – un ridicolo alter ego della protagonista, carina, ordinata e square51. Il gioco della contrapposizione tra square e beatnik – così presente in queste produzioni audiovisive – è adoperato anche da altri media. Nel numero del 21 settembre 1959, «Life» pubblica un articolo intitolato Squaresville U.S.A. vs. Beatsville52. L’artico­lo prende spunto da una lettera che tre ragazzine molto per bene di Hutchinson, Kansas, hanno inviato a Lawrence Lipton, un poe­ta, protagonista della scena culturale di Venice Beach, Los Angeles, e autore di The Holy Barbarians, un libro edito nel 1959, in cui si fa sostenitore delle ragioni etiche ed estetiche dei beat. Le tre ragazze, provocatoriamente, lo invitano a Hutchinson, perché possa vedere com’è fatta una città «normale», e lui, inaspettatamente, accetta: a quel punto le ragazze annullano l’invito, e scoppia il caso, di cui si appropria la stampa locale e nazionale, tra cui, appunto, anche «Life». L’articolo è costruito in modo perfidamente efficace. Da un lato si descrive la vita square a Hutchinson, con adeguato corredo di fotografie, com’è consuetudine della rivista; dall’altro, si fa lo stesso illustrando le abitazioni e le abitudini dei beatnik californiani. Il confronto non ricorre a termini forti, tipo quelli messi in campo da Podhoretz o da Caen; è semmai affidato all’impressione suscitata dalle foto (la casa ordinata di una felice famigliola di Hutchinson viene contrapposta a un caotico pad di Venice Beach in cui vive una coppia di beat, con la presenza occasionale di qualche loro amico) e da un uso attento dell’aggettivazione e del lessico (la casetta di Hutchinson è «confortevolmente arredata»; quella di Venice Beach è una «traballante

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casa in affitto»; a Hutchinson i giovani possono andare in piscina, al bowling, al pattinaggio, al cinema e a ballare il venerdì sera nella Convention Hall; a Venice se ne vanno in una sala bingo dismessa, e si piazzano lì con i loro bongo, a declamare poesie e ad ascoltare jazz, finché i vicini non chiamano la polizia...). Viceversa, due mesi più tardi «Life» torna sull’argomento con un altro articolo, più diretto e più aggressivamente critico, nel quale Paul O’Neil scrive: La diffusa credenza che i beat siano solo persone sporche che indossano sandali è solo una piccola – per quanto repellente – parte della verità; [la verità intera è che i beat sono contro tutto ciò che di buono si può trovare nella società americana]: contro Mamma, Papà, la Politica, il Matrimonio, le Casse di Risparmio, la Religione Organizzata, l’Eleganza Letteraria, la Legge, la divisa da Ivy League, e l’Istruzione Universitaria, senza parlare della Lavatrice Automatica, i Cracker Impacchettati nel Cellophane, la Casa a Due Piani, e la Bomba-H, pulita e portatrice di pace. [...] Loro [i beat] sono contro il lavoro, e sono spesso malnutriti, malvestiti e male alloggiati, a scelta [...]. [Come scrittori] sono dei dilettanti sciatti e indisciplinati che si sono autoillusi pensando che le loro lugubri assurdità siano arte semplicemente perché hanno respinto la forma, lo stile e gli atteggiamenti delle generazioni precedenti e si sono convinti che l’oscenità sia un’espressione di una «personalità totale»53.

Il tentativo di «criminalizzare» o di «normalizzare» l’immagine della Beat Generation, però, riesce solo a metà. Soprattutto non riesce l’operazione, che invece dà così buoni frutti nel caso dei rocker o dei surfer, di «integrare» i beat dentro l’orizzonte della cultura mainstream. In questo caso, i materiali concettuali di cui in definitiva è fatta la proposta beat risultano decisamente troppo in controtendenza. L’esaltazione di una libera sessualità, dell’abbandono di sé nell’alcol o nella droga, del buddismo zen come via per l’illuminazione, o degli antieroi underground, sono tutti temi che non trovano alcuna possibilità di integrazione dentro il quadro narrativo ed etico della cultura di massa mainstream. Viceversa, una varia costellazione di giovani uomini e di giovani donne trova nella letteratura beat, e nel modello di vita offerto dalle biografie dei suoi campioni, una via da seguire. Persino l’ag-

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gressione denigratoria – che può certo aver tenuto lontani diversi giovani dal modello beat – funziona per altri come una calamita. Nell’articolo di «Life», citato sopra, si riporta una dichiarazione di uno studente della high school di Hutchinson (naturalmente non è possibile appurare se sia uno studente reale o una finzione giornalistica...), che testimonia dell’interesse che il fenomeno sta suscitando, anche in remote località dell’«America profonda», sebbene sia espresso in una forma reticente e condizionale: Mi piacerebbe fare il beat per una settimana. Vorrei fare ciò che voglio e dire ciò che voglio e non avere preoccupazioni e so che ciò non si ripercuoterebbe sul mio futuro54.

Non solo i ragazzi sono attratti dal modello beat. Giovani donne, queste sicuramente in carne e ossa, prendono la beat craze con molta serietà: per Joyce Johnson, Hettie Jones, Diane di Prima, Jan Clausen, Annie Dillard o Janis Joplin, la lettura di Howl o di On the Road, oppure di un articolo di «Time» dedicato a Kerouac, oppure il racconto di un’amica sulla «strana» atmosfera al Village e sulla «strana» gente che lo frequenta, bastano a rompere l’incantesimo di una vita che sentono come incredibilmente piatta, vuota, opprimente; oppure è sotto questa luce che appare loro, quando la confrontano col fascino dei beat come beautiful losers (per inciso, oltre che losers, Kerouac e Cassady sono indubbiamente assai belli; dopo la pubblicazione di On the Road e di articoli fotografici come quello edito da «Mademoiselle» nel febbraio del 1957, Kerouac diventa una specie di star, spesso associato a Marlon Brando o a James Dean)55. Le ragazze e i ragazzi che sentono di aver trovato in Ginsberg o Kerouac dei modelli spirituali talora entrano anche a far parte delle comunità beat che si formano a North Beach (San Francisco), a Venice Beach (Los Angeles) o al Greenwich Village (New York), tre aree che da tempo ospitano comunità di artisti e intellettuali bohémien, e che ora diventano le «capitali» della piccola subcultura beat. Un ritratto prezioso di quella del Greenwich è offerto da Ned Polsky, che in un saggio pubblicato originaria-

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mente su «Dissent» nel 1961 dà conto di una ricerca compiuta tra il 1957 e il 1960, a contatto con circa 300 beat che vivono nel quartiere56. In quel periodo la comunità dei beat è cresciuta costantemente, arricchita da un numero sorprendentemente alto di teenager (13-15 anni) che hanno abbandonato la scuola e la famiglia per condurre una vita precaria in questa nuova Hobohemia (la metà di loro sono homeless, e dormono dove capita). Socialmente, la composizione della comunità è varia; secondo la valutazione di Polsky, il 35% dei beat del Village viene da famiglie di classe bassa, il 60% da famiglie di classe media, il restante 5% viene da famiglie di classe alta. Anche etnicamente la comunità è mista: ci sono ragazzi e ragazze di altre città degli States, o di altre zone di New York, come anche della vicina Little Italy; ci sono neri, portoricani, ebrei, un certo numero di giovani ex prostitute, fuggite dalla zona di Times Square, un buon numero di omosessuali. Nel complesso, non è una comunità che voglia dare nell’occhio, o voglia imporre la sua presenza. In linea generale i beat del Village evitano, per quanto è loro possibile, di lavorare. Si tratta di un rifiuto perfettamente consapevole: Diversamente dalla maggior parte dei loro pari-età, i beat sono dei critici acuti della società nella quale sono cresciuti. La loro ideologia antilavoro non è tanto un segno di incapacità ad accettare il principio di realtà, quanto un segno di disaffiliazione da realtà specifiche e mutevoli. Sensibili all’ineguale distribuzione dei redditi nella società americana e alla crescente spersonalizzazione del lavoro e del divertimento e alle sue ingiustizie razziali e alla sua Permanente Economia di Guerra, i beat hanno risposto con uno Sciopero Permanente. Si tratta di una risposta tragicamente sbagliata, autodistruttiva e incapace di promuovere qualunque cambiamento sociale; ma è un errore virtuoso, che deriva dallo sgomento per la degradazione del tessuto sociale circostante57.

Qualche beat vive alle spalle dei genitori o della fidanzata. Altri si arrangiano: accettano lavori temporanei; vivono con poco; chiedono l’elemosina; cambiano residenza senza pagare l’affitto; vendono marijuana; molti dichiarano che è meglio questo che essere costretti a partecipare alla rat race. Se si chiamano fuori

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dalla società che li circonda – continua Polsky –, non per questo devono essere considerati apolitici; al contrario sono perfettamente al corrente delle questioni politiche attuali, e semmai sono consapevolmente «antipolitici»: non soffrono di «apatia politica», ma di «antipatia politica». Questo loro atteggiamento spiega perché la comunità non cerchi alcun leader; e anche se, per esempio, i giovani beat apprezzano molto Ginsberg, non per questo lo ritengono un loro «capo». Le varie forme di sessualità rifiutate nella società mainstream sono tutte accettate dai beat; le relazioni interrazziali pure sono accettate e relativamente frequenti. Molto diffusa tra i beat maschi, sia bianchi che neri, è la bisessualità, un tratto che Polsky attribuisce all’influenza della cultura nera. Inoltre, le coppie che si formano non durano molto, e in generale c’è un alto turn over. L’uso di droghe è un tratto identitario della comunità; qualcuno finisce nella spirale della dipendenza dall’eroina, ma la maggior parte usa solo marijuana, peyote e hashish, fumati come rito sociale, insieme agli altri, in modo da consolidare i legami comunitari. Se le comunità specificamente beat non sono poi così numerose, la moda intellettuale e gli atteggiamenti beat si diffondono rapidamente, trasversalmente, contagiando il modo di vestirsi, di esprimersi, e persino di organizzare il proprio mondo etico, di molti giovani sparsi nelle high schools e nei college americani: «Tra il 1958 e il 1959 – scrive Todd Gitlin, in parte basandosi anche sulla propria esperienza personale –, nelle coffeehouses e nelle associazioni studentesche disperse per il paese, il discorso beat, il discorso pseudobeat, il discorso dell’avanguardia, il discorso sul sesso, e il discorso sull’arte e la letteratura stavano ronzando e si stavano mescolando, non sempre in modo logico, da un tavolo all’altro»58. Interessi per musiche controcorrente, impulsi ad aprirsi a forme letterarie che spingono verso nuovi orizzonti etici attraversano l’area del pubblico giovanile attratto – in una forma o nell’altra – dalla costellazione beat. Accanto alla passione per il jazz si fa strada un rinnovato interesse per la musica folk. Né si tratta solo del jazz o del folk. Quand’anche si avvicinino alla letteratu-

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ra beat superficialmente, magari senza andare in profondità, o senza leggere «tutto» Kerouac, o Ginsberg, o Burroughs, ecc.59, i giovani uomini e le giovani donne che, al Greenwich Village come altrove, negli States, entrano in contatto con questa nuova letteratura, trovano impulsi e stimoli per ampliare il loro orizzonte verso altri testi, non propriamente parte della cultura di massa, da The Catcher in the Rye (Il giovane Holden, 1951) di J.D. Salinger a Tropic of Cancer (Tropico del Cancro) di Henry Miller, scritto nel 1934 ma pubblicato per la prima volta negli Usa, come abbiamo visto, dopo una lunga battaglia giudiziaria nel 1961, alle pièce teatrali di Arthur Miller o di Tennessee Williams, alla produzione letteraria della Lost Generation, fino ai numi tutelari della Beat Generation – Walt Whitman, Arthur Rimbaud, Fëdor Dostoevskij, Jean Genet. E, naturalmente, l’elenco potrebbe continuare60. Tutto ciò ha certo una sua grande rilevanza. Tuttavia trovo ancora più significativo che per la prima volta un fenomeno in origine raffinatamente letterario come quello beat si collochi – da molti punti di vista – in uno spazio socioculturale largamente borderline: i suoi leader creativi scelgono di dialogare, al tempo stesso, con la tradizione letteraria alta (Whitman, in primo luogo) e con la popular culture (il jazz, il blues); attraversano la «linea del colore» in modo più programmaticamente determinato di quanto non abbiano mai pensato di fare i musicisti rock ’n’ roll, eleggendo la comunità afroamericana a modello etico ed estetico; e la stessa formazione di comunità subculturali beat fa sì che l’etica beat non si disperda tra mille mode letterarie, né resti confinata solo nello spazio rarefatto dei locali d’avanguardia o delle riviste, ma entri nelle high schools, nelle caffetterie, nei college. Se poi si pensa, anche solo per un attimo, che i luoghi principali delle comunità beat sono il Greenwich Village, Venice ­Beach e North Beach, un quartiere non distante da Haight-Ashbury, ecco che ci si trova di fronte a una geografia subculturale straordinariamente densa di innumerevoli sviluppi futuri.

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1. Gioventù ribelle Che qualcosa di importante stia accadendo, appare già molto chiaro a chi si aggiri proprio per il Greenwich Village tra la fine degli anni Cinquanta e l’inizio degli anni Sessanta, magari in compagnia dei giovani beatnik che hanno eletto il quartiere a loro centro di incontro. Per quasi tutto il XX secolo questo angolo di New York è stato uno dei luoghi di culto dell’avanguardia artistica e letteraria americana. Vi si sono variamente incrociati – fra gli altri – Isadora Duncan, Eugene O’Neill, John Reed, e poi Thomas Wolfe, Anaïs Nin, Salvador Dalí e molti altri ancora. Billie Holiday si è esibita regolarmente al Café Society di Barney Josephson. Poi, negli anni Cinquanta la Beat Generation vi ha lasciato la sua impronta. E all’inizio degli anni Sessanta la scena artistica del Village è più viva che mai. A pochi isolati di distanza l’uno dall’altro si trovano locali, tea­tri, gallerie d’arte che ospitano alcune tra le più eccitanti sperimentazioni artistiche in atto all’epoca negli States, e forse nel mondo1. Sin dal 1924 il Cherry Lane Theater ospita rappresentazioni teatrali innovative, tra cui – dal 1951-1952 – anche le pièce del Living Theatre di Judith Malina e Julian Beck. Nel 1958 Joe Cino apre il Caffe Cino e nel 1963 Ellen Stewart inaugura il Café La MaMa, altri due spazi in cui vengono allestite numerose rappresentazioni di opere sperimentali (al Caffe Cino diversi lavori

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sono di autori omosessuali e a soggetto omosessuale). In varie gallerie d’arte del Village si mettono in scena i primi happening, o si espongono le opere pop di Claes Oldenburg, Roy Lichtenstein o Andy Warhol (la cui Factory – cioè il suo proprio spazio creativo, aperto nel 1962 – è tuttavia in un’altra area di Manhattan). Dal 1961 al Village opera il gruppo Fluxus, fondato da Geor­ ge Maciunas, del quale fanno parte musicisti come La Monte Young, danzatrici come Yvonne Rainer e Trisha Brown, artiste visuali come Yoko Ono. Nel campo musicale è al Village Vanguard (attivo sin dal 1935) o al Village Gate (aperto nel 1958) che si può ascoltare il miglior jazz in circolazione. Ma la vera novità del momento è il folk revival: nel giro di pochissimi anni, a partire dal 1958, vengono inaugurati numerosi locali dove si può bere, mangiare e passare la serata ascoltando musicisti che suonano con la chitarra acustica, l’armonica a bocca e qualche percussione, da soli o in piccoli gruppi, ed eseguono canzoni tratte dal repertorio folk, hard country, e qualche volta anche blues. Polsky, nel suo studio sulla subcultura beat del Village, osserva che nel momento in cui sta scrivendo (1960-1961) i giovani beat stanno spostando i propri interessi musicali dal jazz al folk, e perciò vanno a passare le loro serate al Gaslight (aperto nel 1958), al Cafe Wha? (1959), al Gerde’s Folk City (1960) o al Bitter End (1961). Certo non si tratta di un fenomeno legato esclusivamente a questo vivacissimo piccolo angolo di Manhattan, poiché è già da qualche anno che il folk sta prendendo un suo vigore in molte altre aree degli States, in diretto collegamento con la rinascita di movimenti politici di protesta, il più importante dei quali è certamente il Movimento per i diritti civili. La prima manifestazione di risonanza nazionale di questo Movimento ha luogo tra il dicembre 1955 e il dicembre 1956 a Mont­ gomery, Alabama, dove la comunità afroamericana locale organizza un boicottaggio dei trasporti pubblici a seguito dell’arresto di Rosa Parks, una quarantaduenne nera colpevole di essersi seduta nella parte di un autobus riservata ai passeggeri bianchi2. Da allora il Movimento contro la segregazione razziale, guidato

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da Martin Luther King, si irradia e prende vigore. Orientato verso principi rigorosamente gandhiani e nonviolenti, il Movimento si esprime organizzativamente attraverso la Southern Christian Leadership Conference (Sclc), una confederazione di associazioni fondata nel gennaio del 1957, che si appoggia sul reticolo organizzativo delle chiese protestanti nere del Sud degli States, oltre che su autorevoli associazioni preesistenti come la Naacp o il Core3. Nell’arco di un decennio il Movimento deve affrontare gli attacchi verbali, giudiziari e sfortunatamente anche brutalmente fisici che i razzisti bianchi gli sferrano contro, e che costano ai neri del Sud vite, umiliazioni e sofferenze. Nondimeno, le violenze non fermano il Movimento, incoraggiato anche dalle caute aperture che John F. Kennedy, presidente dal 1961, ha incluso nel suo programma politico4. Il maggior successo simbolico del Movimento viene celebrato a Washington il 28 agosto del 1963, quando 250.000 persone (prevalentemente, ma non esclusivamente, afroamericane) sfilano per la città fino al Lincoln Memorial, dove Martin Luther King tiene un emozionante discorso, nel quale dice di sognare che i bianchi e i neri possano vivere in pace e che il principio enunciato nella Dichiarazione d’Indipendenza, secondo cui tutti gli uomini sono stati creati uguali, possa diventare realtà. «I have a dream», scandisce più volte Martin Luther King. Un sogno che, con molta cautela, anche Kennedy condivide5. Non passano tre mesi che il presidente John F. Kennedy viene assassinato a Dallas, il 22 novembre 1963. Ciò nonostante, la tenacia dei leader e dei militanti neri non viene meno e conduce a risultati – almeno formalmente – straordinari: tra il 1964 e il 1965, su iniziativa del nuovo presidente Lyndon B. Johnson, il Congresso approva una serie di norme fondamentali (tra cui il Civil Rights Act, il XXIV Emendamento alla Costituzione e il Voting Rights Act) che cancellano ogni base legale per la discriminazione razziale. Ora, se è vero che le norme approvate nel biennio 1964-1965 pongono le fondamenta di un’eguaglianza solo formale, giacché la gran parte della popolazione afroamericana resta irrimediabilmente povera, sottoistruita e socialmente emarginata, si deve pur tuttavia

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riconoscere che il pacchetto normativo antidiscriminazione è un grandissimo successo del Movimento per i diritti civili, assolutamente impensabile appena dieci anni prima. Questo successo è garantito intanto dall’attenzione che i media nazionali danno alle iniziative del Movimento, documentando anche le violenze selvagge cui ricorrono i bianchi razzisti per fermarne la marcia. Per la prima volta nella storia degli Usa intere sezioni delle opinioni pubbliche del Nord e dell’Ovest del paese vengono informate in modo piuttosto completo sull’evolversi della situazione negli Stati del Sud, e sull’ingiustizia e sulla brutalità della segregazione razziale che vi è praticata e normativamente riconosciuta. Inoltre contribuiscono alla popolarità mediatica del Movimento anche le originali iniziative di protesta nonviolenta messe in atto dai militanti afroamericani. Uno degli episodi più clamorosi è il sit-in organizzato il 1° febbraio 1960 da quattro studenti universitari neri (David Rich­ mond, Franklin McCain, Ezell Blair Jr. e Joseph McNeil) che si siedono nella zona ristorante di un emporio Woolworth’s a Green­sboro, nella Carolina del Nord, riservato ai bianchi, e chiedono di essere serviti. Gli inservienti si rifiutano e li invitano a uscire. Viene chiamata la polizia che non interviene perché non sono in atto disordini. I ragazzi, imperturbabili, rimangono seduti, immobili, fino alla chiusura del locale. Il giorno dopo la scena si ripete, con altri giovani che si alternano nel portare avanti il sit-in. Non è la prima iniziativa di questo genere che sia stata organizzata dai militanti del Movimento, ma di certo è quello che ha la massima risonanza mediatica. E così, già dopo pochi giorni, iniziative analoghe vengono organizzate in tutto il Sud, coinvolgendo esercizi commerciali, biblioteche e altri luoghi pubblici che praticano la segregazione razziale. Alla fine dell’anno si stima siano stati 70.000 i giovani, maschi e femmine, che hanno partecipato alle proteste, che non sono mai una passeggiata di piacere, giacché capita spesso che i dimostranti siano insultati, aggrediti, picchiati o arrestati6. Non meno brillante (e non meno pericolosa) è l’iniziativa presa dai Freedom Riders, ovvero dai giovani militanti del Mo-

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vimento che dal 4 maggio 1961 cominciano a imbarcarsi sugli autobus che coprono lunghe tratte interstatali: i militanti salgono in Stati nei quali non vige la segregazione razziale e poi, all’arrivo nelle aree di servizio, nei terminal o nelle tratte stradali degli Stati segregazionisti, chiedono di continuare a essere trattati come tutti gli altri passeggeri. Con queste iniziative di protesta i giovani afroamericani si conquistano uno spazio tale da convincere alcuni dirigenti del Movimento che è arrivato il momento di costituire un’organizzazione specifica che li raccolga e li coordini: e così tra il 15 e il 17 aprile 1960 alcune centinaia di giovani provenienti da tutto il paese si riuniscono a Raleigh, nella Carolina del Nord, presso la Shaw University (un’università nera) per fondare lo Student Nonviolent Coordinating Committee (Sncc)7. Nel giugno del 1960 comincia a essere stampato «The Student Voice», bollettino di informazione dello Sncc, che vive fino al 1965. Il programma dello Sncc, fondato sui principi della nonviolenza, ha come obiettivo la costruzione di «una comunità integrata, interrazziale, nella quale [sia] possibile per ognuno la piena realizzazione di sé attraverso il rapporto con gli altri»8. La risonanza mediatica delle iniziative prese dal Movimento per i diritti civili, e l’esempio dello Sncc, in modo particolare, colpiscono la sensibilità di alcuni giovani studenti bianchi dell’Università di Ann Arbor, Michigan, tra cui Al Haber e Tom Hayden, che prendono l’iniziativa di far rinascere su basi nuove una preesistente (e ormai quasi inesistente) organizzazione giovanile della League for Industrial Democracy (Lid), una vecchia associazione socialista anticomunista, anch’essa con un peso politico e culturale ormai molto ridotto: nasce così Students for a Democratic Society (Sds)9. Il nucleo fondatore dell’organizzazione studentesca è composto dai cosiddetti «red diaper babies», ragazzi e ragazze che vengono da famiglie in cui i genitori coltivano ideali radicali, e che a volte sono anche degli ex comunisti che, pur non manifestando apertamente le loro convinzioni, hanno mantenuto fede ai loro ideali senza farsi piegare dalla «caccia

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alle streghe». In altri casi, pur venendo da famiglie di opinioni più conservatrici, altri ragazzi e ragazze entrano in contatto con i red diaper babies e si lasciano conquistare dalla loro sensibilità politica10. Non si tratta affatto di una conversione agli ideali comunisti. Si tratta di altro: di un modo specifico di affrontare il disagio percepito nelle high schools o nei college di fronte alla spinta al conformismo che viene sia dalle istituzioni scolastiche, sia dalla rete di socializzazione delle leading crowds; si tratta di un modo specifico di affrontare l’ansia che deriva dalle esercitazioni antiatomiche che si devono fare a scuola, che certo consolidano un forte sentimento di estraneità nei confronti dei comunismi realizzati, ma al tempo stesso trasmettono una sensazione di paura permanente ravvivata dalla politica estera statunitense, sempre piuttosto minacciosamente aggressiva; si tratta, infine, di un modo specifico per rispondere alla «scoperta» del Movimento per i diritti civili, del razzismo, della segregazione. Ora, non è detto che queste inquietudini siano condivise o risolte allo stesso modo da tutti i loro coetanei. Ci sono molti giovani americani che sono perfettamente integrati – in un modo o nell’altro – nelle strutture sociali e culturali mainstream. Ce ne sono molti altri che, invece, pur sentendosi a disagio, scelgono altre vie per acquietare le loro ansie – per esempio ascoltando il r’n’r, entrando in una comunità di surfisti, facendo parte di una gang di quartiere, leggendo la letteratura beat, o aderendo a qualche altro gruppo subculturale. Il piccolo nucleo che fonda Sds, invece, pensa di poter rispondere a quel disagio rielaborando in forma completamente nuova l’esperienza – in fondo del tutto fallimentare – della Old Left socialista e comunista. Naturalmente, per avere qualche speranza di successo, bisogna uscire allo scoperto e precisare i contorni della proposta politica che, nei primi mesi di vita di Sds, resta ancora assai nebulosa. E così dopo che, con qualche fatica, l’organizzazione ha cominciato a diffondersi in altre università del paese, i militanti si riuniscono per definire meglio il loro programma, cosa che accade tra l’11 e il 15 giugno 1962 a Port Huron, a nord di Detroit,

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nel villaggio vacanze costruito dal sindacato dell’automobile (Uaw) e concesso loro per l’occasione. All’incontro partecipano anche rappresentanti della Lid, dello Sncc, del Core, della Naacp e di altre organizzazioni giovanili. In quella circostanza viene approvato il documento programmatico noto come Port Huron Statement, redatto, in prima versione, da Tom Hayden e poi rielaborato collettivamente dai delegati presenti. Il testo, che non contiene alcun accenno al marxismo come sistema ideale di riferimento, si apre descrivendo le ragioni fondamentali che hanno portato alla costituzione dell’associazione: Mentre stavamo crescendo, il nostro benessere è stato colpito da eventi troppo significativi perché li potessimo trascurare. Primo, il fatto diffuso e violento della degradazione umana, simboleggiata dalla lotta condotta nel Sud contro il fanatismo razziale, ha spinto la maggior parte di noi dal silenzio all’attivismo. Secondo, il fatto collegato della guerra fredda, simboleggiata dalla presenza della Bomba, ci ha fatto capire che noi stessi, e i nostri amici e milioni di astratti «altri» che conoscevamo più direttamente a causa del nostro comune pericolo, potevamo morire in qualunque momento. Potevamo deliberatamente ignorare, o evitare, o fare a meno di sentire tutti gli altri problemi umani, ma non questi due, perché questi due erano troppo immediati e pressanti nel loro impatto, erano una sfida troppo impegnativa che ci chiedeva di assumerci individualmente la responsabilità di affrontarli e risolverli. Mentre questi e altri problemi ci opprimevano direttamente, scuotevano le nostre coscienze e diventavano nostre personali preoccupazioni, cominciammo a vedere paradossi complicati e perturbanti nell’America intorno a noi. La dichiarazione «tutti gli uomini sono creati uguali...» suonava vuota di fronte alla realtà della vita dei neri nel Sud e nelle grandi città del Nord. Le intenzioni pacifiche proclamate dagli Stati Uniti contraddicevano i loro investimenti economici e militari nello status quo della guerra fredda. [...] Mentre due terzi del genere umano soffrono di denutrizione, le nostre élite si crogiolano in una inutile abbondanza. [...] [Per questo crediamo che] la ricerca di alternative veramente democratiche a ciò che sta davanti a noi, e un correlato impegno alla sperimentazione sociale, sia una impresa umana significativa e appagante, tale da muovere noi oggi e, speriamo, anche altri11.

Ciò detto, il Port Huron Statement enuncia i punti programmatici fondamentali che dovrebbero orientare l’azione di Sds:

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Vorremmo sostituire al potere radicato nella ricchezza, nel privilegio o nelle circostanze, un potere radicato nell’amore, nella ponderatezza, nella ragione e nella creatività. Come sistema sociale cerchiamo la costruzione di una democrazia a partecipazione individuale, governata da due finalità centrali: che il singolo condivida quelle decisioni sociali che determinano la qualità e la direzione della propria vita; che la società sia organizzata per incoraggiare l’indipendenza degli uomini e per fornir loro i mezzi per una loro comune partecipazione12.

Un processo di questo tipo deve muoversi dall’interno delle università, dove in realtà gli studenti sono piuttosto educati al conformismo che non alla partecipazione; e se ciò è vero per chi ha un’educazione superiore, certo non è meno vero per il resto della società13. Nondimeno le università possono anche essere un luogo di discussione franca, di formazione di nuove idee, aperte al contributo che viene dalla tradizione liberal e socialista. Naturalmente per crescere il movimento deve guardare sia dentro che fuori dalle università, cercando di sostenere ogni tipo di lotta contro l’ingiustizia, così come ogni tipo di lotta contro la discriminazione e la povertà14. E proprio in ragione di quest’ultimo punto, alla fine del 1963 i militanti e le militanti di Sds si impegnano nell’Erap (Economic Research and Action Project), un tentativo di mobilitare le comunità povere bianche e nere di grandi città come Cleveland, Chicago, Boston, Newark, per la richiesta di servizi, assistenza, diritti; con scarsi risultati peraltro, se non quello di dare a Sds l’immagine di un’associazione non sterilmente chiusa all’interno dell’ambiente universitario15. Alla riunione di Port Huron partecipano anche dei delegati dello Sncc; e da allora comincia un’informale collaborazione tra le due associazioni, con lo Sncc nel ruolo di guida, soprattutto quando – nel giugno del 1964 – lancia il Mississippi Summer Project (Msp): si tratta di un’iniziativa che vuole aiutare la popolazione nera di quello Stato a iscriversi nelle liste elettorali dalle quali fin allora è stata esclusa più o meno legalmente16. Il progetto viene organizzato dal Council of Federated Organizations (Cofo), una federazione delle sezioni del Mississippi delle quattro principali associazioni per i diritti civili (Sncc, Core, Naacp e Sclc).

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L’iniziativa, alla quale partecipano un migliaio di giovani neri del Sud e qualche centinaio di studenti bianchi e neri che vengono dagli Stati del Nord, è ostacolata dalla violentissima reazione dei bianchi razzisti: molti militanti ne escono feriti; alcuni vengono uccisi, tra cui – subito all’inizio dell’operazione – James Chaney (militante nero del Core), Mickey Schwerner (militante bianco del Core, di New York) e Andrew Goodman (un volontario bianco, anche lui di New York). Nonostante i lutti, le sofferenze, le difficoltà, l’iniziativa dà risultati apprezzabili, poiché il numero di neri iscritti nelle liste del Mississippi passa da meno del 10% al 43% del totale degli afroamericani che ne hanno teoricamente diritto17. Inoltre funziona anche da ulteriore spinta motivazionale per i giovani bianchi che vi hanno preso parte. Il 1° ottobre 1964, al ritorno dall’esperienza del Msp, Jack Weinberg, un ex studente della University of California, a Berkeley, sfida la norma amministrativa interna dell’università, che vieta la propaganda politica nel campus, e organizza un tavolo informativo all’aperto sulle attività del Core, di cui egli fa parte. Per questo viene arrestato, ma la macchina della polizia che è entrata nel campus per prelevarlo viene circondata da una grande quantità di studenti che la tengono bloccata lì per un’intera giornata. Nei mesi seguenti a Berkeley si forma un movimento di protesta – il Free Speech Movement – guidato da Mario Savio, uno studente reduce pure lui dal Msp, che chiede sia riconosciuto agli studenti il diritto di discutere liberamente di questioni politiche e d’attualità anche dentro i confini del campus. A dicembre del 1964 la decisione presa dal rettore di sanzionare disciplinarmente quattro studenti dà ulteriore impulso al movimento; la polizia interviene e arresta 768 manifestanti; allo sciopero di protesta partecipa la metà dei 27.000 iscritti all’università; d’altronde, la presenza della polizia nel campus induce la maggioranza del corpo docente a schierarsi contro l’amministrazione universitaria. Alla fine, per evitare ulteriori disordini, il 3 gennaio del 1965 il rettore concede uno spazio specifico all’interno del campus, riservato alla propaganda e alla discussione politica. Secondo Alessandro Cavalli e Alberto Martinelli,

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i dati sulla composizione politica dei dimostranti arrestati sono molto indicativi per spiegare il tipo di mobilitazione e di generalizzazione della protesta che si verifica a Berkeley nel dicembre del ’64: il 4,5% appartiene a gruppi radicali di sinistra (Du Bois Club, Young Socialist Alliance, Young People’s Socialist League, Independent Social Club), il 18,2% a gruppi liberali (ad esempio, gli Young Democrats), il 25,6% a gruppi del movimento per i diritti civili (Naacp, Core, Sncc), l’1,2% a gruppi conservatori, il 7,3% ad organizzazioni religiose, ma ben il 57% non appartiene ad alcuna organizzazione politica18.

È evidente che si tratta di un movimento composito; ma è evidente anche che è un movimento che sta crescendo quantitativamente, e sta attirando anche studenti fin allora non troppo motivati all’azione politica. D’altronde, la stessa Sds è in crescita, giacché dai circa mille militanti del 1963 passa ai circa 5.000 della fine del 196519. Peraltro, la diffusione del movimento riceve una spinta determinante dalla decisione presa dal nuovo presidente Usa, Lyndon B. Johnson, nel 1964 (e approvata dal Congresso quasi all’unanimità) di inviare truppe americane in Vietnam, e dalla conseguente diffusione di un vasto movimento pacifista, che comincia a palesarsi sin dalla primavera del 1965, quando Sds organizza a Washington una marcia di protesta. Molte altre ne seguono, e attirano il sostegno di una parte cospicua dell’opinione pubblica giovanile, anche perché i soldati che partono per il Vietnam sono coscritti, e il rischio di andare a combattere riguarda quindi tutti i giovani maschi arruolabili. Un sondaggio tra gli studenti delle high schools, condotto nel 1960, aveva mostrato che al 60% degli adolescenti piaceva l’idea di andare a fare il militare; nel 1969 la cifra è scesa al 14%20. Dallo scoppio della guerra all’abolizione della coscrizione obbligatoria, diverse centinaia di migliaia di giovani (soprattutto di classe media) si sottraggono agli obblighi di leva, bruciano la cartolina precetto, scappano in Canada o altrove, si registrano come obiettori di coscienza21. Intanto, sulla spinta della posizione antibellicista assunta sin dall’inizio, Sds vede crescere ulteriormente le sue fila, giacché nel giugno 1967 raggiunge i 30.000 aderenti che nel novembre 1968 diventano 80-100.00022.

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2. We Shall Overcome In ciascuna di queste iniziative, dalle origini del Movimento per i diritti civili, ai sit-in, alle proteste nelle università, alle manifestazioni pacifiste, la musica svolge un ruolo essenziale. Nei primi anni del Movimento per i diritti civili è particolarmente importante la musica religiosa di origine afroamericana, gli spiritual, i gospel, che hanno una larga diffusione non solo perché la struttura organizzativa del Movimento è assicurata dal reticolo di chiese protestanti afroamericane, dove queste musiche sono parte integrante dell’esperienza spirituale comunitaria, ma anche perché possiedono delle caratteristiche che le rendono particolarmente funzionali alle esigenze militanti: i testi – mantenuti immutati, oppure opportunamente cambiati – descrivono la speranza di raggiungere un mondo migliore, che nella forma originaria è un mondo al di là della vita, mentre nel contesto del Movimento è un mondo migliore in questa vita; inoltre la struttura al tempo stesso corale e a call and response è particolarmente adatta alle finalità del Movimento perché fa sentire uniti e dà coraggio contro gli attacchi, non di rado fisici, degli avversari. Ma al canzoniere del Movimento per i diritti civili, e poi delle associazioni studentesche bianche, dà un contributo cruciale anche la gente che lavora in una istituzione didattica molto particolare, la Highlander Folk School23. Fondata nel 1932 a Monteagle, Tennessee, da Myles Horton (1905-1990) e Don West (1906-1992), due giovani educatori con una preparazione universitaria in campo teologico, di simpatie socialiste e con esperienze di studio in Danimarca, dove erano rimasti impressionati dalle locali scuole del popolo, la Hfs collabora con i sindacati e con le organizzazioni antisegregazioniste (tra cui la Naacp), e poi anche con il Movimento per i diritti civili, offrendo un curriculum formativo per gli aspiranti attivisti di queste associazioni. Nelle attività didattiche della scuola la musica ha sin dall’inizio un ruolo rilevante, anche grazie al lavoro di ricerca e di insegnamento di Zilphia Horton (1910-1956) e di Guy Carawan (1927-2015).

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Quest’ultimo – laureato in sociologia alla Ucla (University of California, Los Angeles) – conosce molto bene la produzione folk di musicisti come Pete Seeger, Leadbelly o Big Bill Broonzy, e attraverso la sua attività didattica alla Hfs trasmette al Movimento per i diritti civili una parte almeno della tradizione della canzone folk di protesta che – come abbiamo visto – ha avuto una sua significativa fioritura tra gli anni Trenta e la seconda guerra mondiale. In particolare, poi, proprio attraverso il lavoro di Zilphia Horton e di Guy Carawan il Movimento si impossessa di una canzone che finisce per diventare il suo inno ufficioso: We Shall Overcome. La canzone viene scritta nel 1900 da Charles Tindley, come inno religioso, col titolo I’ll Overcome Someday; tra gli anni Venti e Quaranta, quando il brano viene impiegato da varie organizzazioni sindacali in occasione di scioperi e manifestazioni, il titolo e il testo passano dal pronome singolare a quello plurale, We Will Overcome, anche se la canzone resta conosciuta e impiegata solo in aree circoscritte. Quando Zilphia Horton la impara, ne rallenta il tempo, vi aggiunge nuovi versi e la diffonde alla Hfs. Pete Seeger la impara a sua volta proprio alla Hfs, ma ne cambia ulteriormente il titolo in We Shall Overcome. Nell’aprile del 1960, infine, Guy Carawan la insegna agli studenti neri riunitisi a Raleigh per la costituzione dello Sncc. In un articolo della rivista dell’associazione, «The Student Voice», dell’ottobre 1960, si può leggere: Guy Carawan, artista della folk music, ha fatto conoscere We Shall Overcome agli studenti. Questa grande ballata è diventata un canto emblematico e Guy ne è l’esecutore. [...] È stato pubblicato di recente dalla Folkways l’LP The Nashville Sit-In Story, concepito e prodotto da Guy insieme con gli studenti e i pastori di Nashville. Questi sono i suoni che percorrono il Sud oggi24.

La canzone ha un ruolo particolare ad Albany, Georgia, dove il movimento locale – l’Albany Movement, una costellazione associativa coordinata da Ralph Abernathy, che include la Ministerial Alliance, la Federation of Women’s Clubs, la Negro Voters’ League, il Criterion Club, la Naacp e lo Youth Council – decide di

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mettersi in azione nel novembre del 1961 per contrastare la segregazione razziale e per favorire la registrazione dei neri nelle liste elettorali. Ad Albany, il canto collettivo nelle manifestazioni diventa una delle pratiche fondamentali, un aspetto al quale i media nazionali danno un particolare rilievo: la buona copertura televisiva degli eventi di Albany rende popolare We Shall Overcome, ormai il più cantato tra gli inni del movimento; inoltre il 20 agosto del 1962 Robert Shelton pubblica sulla prima pagina del «New York Times» un suo articolo su Albany intitolato Songs a Weapon in Rights Battle, nel quale, ignorando le origini sindacali del canto, ne enfatizza invece la derivazione religiosa, sotto­ lineando tuttavia l’importanza della musica come elemento costitutivo del movimento; dopodiché, il 23 luglio del 1963 Shelton dedica a We Shall Overcome un altro articolo, sempre sul «New York Times», intitolato Rights Song Has Own History of Integration, in cui ne spiega la storia, con tanto di spartito e indicazione degli accordi per suonare la canzone25. Un mese più tardi una giovane musicista bianca, Joan Baez (nata nel 1941), esegue We Shall Overcome alla marcia di Washing­ ton del 28 agosto 1963. Con lei, in quell’occasione, ci sono anche altri musicisti – dalla soprano nera Marian Anderson alla star del gospel Mahalia Jackson, al bluesman Josh White, alla cantante folk nera Odetta, al trio folk bianco Peter, Paul & Mary. E infine c’è anche un altro giovane musicista, coetaneo di Joan Baez, che a Washington esegue un suo pezzo inedito intitolato Only a Pawn in Their Game: questo giovane musicista si chiama Bob Dylan. 3. Il primo Bob Dylan Dall’originario Minnesota, Dylan è arrivato a New York nel gennaio del 1961 quando ha appena vent’anni, col progetto chiarissimo di inserirsi nel circuito locale della musica folk. Il percorso che lo conduce a questo genere musicale è quello stesso sperimentato da molti altri ragazzi e ragazze statunitensi, che dalla high school di provincia se ne vanno in qualcuna delle grandi uni-

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versità americane. Da ragazzino, quando frequenta il liceo della città nella quale abita (Hibbing, Minnesota), Dylan si appassiona alle musiche di Johnnie Ray e di Hank Williams, da cui, come abbiamo già visto, resta stregato quando lo sente per la prima volta al Grand Ole Opry, trasmissione radiofonica country del sabato sera; ma ascolta molto anche Muddy Waters, John Lee Hoo­ker, Jimmy Reed e Howlin’ Wolf, trasmessi dalla stazione radio di Shreveport, Louisiana, specializzata in blues26. Ama il cinema e tra i suoi film preferiti ci sono Blackboard Jungle e soprattutto Rebel Without a Cause27. Nel 1954-1955 Elvis Presley diventa un suo idolo, anche se lo abbandona quasi subito per orientarsi piuttosto verso Little Richard e Gene Vincent. Dylan, però, si stanca presto di questa musica: Il punto era che il rock’n’roll non mi bastava più [...]. Tutti Frutti e Blue Suede Shoes erano azzeccate e avevano un ritmo trascinante: ti inebriavano con la loro energia ma non erano canzoni serie e non rispecchiavano la vita in modo realistico28.

Nel 1959, diplomatosi alla Hibbing High School, lascia Hibbing e se ne va a Minneapolis, per frequentare l’Università del Minnesota. Là scopre altre forme di espressione che vanno molto tra gli studenti: il folk di Seeger, di Leadbelly, di Odetta e soprattutto di Woody Guthrie; la letteratura beat e in particolare On the Road, di Kerouac; tutte cose che lo colpiscono profondamente29. Ed è allora che la musica folk diventa lo stile che gli è più congeniale. Nell’estate del 1960 se ne va in autostop a Denver, un po’ per ripercorrere le tracce dei protagonisti di On the Road, che a Denver fanno tappa costantemente; un po’ per cercarvi – peraltro senza successo – un ingaggio per esibirsi in uno dei numerosi locali della città. Quando torna a Minneapolis un amico gli presta Bound for Glory (Questa terra è la mia terra, 1943), le memorie romanzate di Woody Guthrie: inizia allora la vera e propria infatuazione di Dylan per Guthrie, che all’epoca è ricoverato in un ospedale del New Jersey, affetto da una malattia ereditaria, la

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corea di Huntington, che di lì a poco lo porterà alla morte. A casa di un amico Dylan telefona all’ospedale dov’è ricoverato Guthrie annunciando una sua visita. Poi si procura il supporto per l’armonica usato da Guthrie e si mette a suonare come lui30. A metà dicembre del 1960 torna a casa e informa i suoi genitori che se ne andrà a New York per tentare di fare il musicista. Tornato a Minneapolis passa il Natale da solo, e poi parte. Sulla strada per New York si ferma a Madison, Wisconsin, dove c’è un’università con un importante Dipartimento di Storia americana e un vivace interesse per la musica folk. Mentre è a Madison ascolta Pete Seeger in concerto. Poi riparte per New York nella macchina di un amico e vi arriva il 24 gennaio 1961: la prima cosa che fa, una volta arrivato, è andare a visitare Woody Guthrie31. Intanto, in questi primi mesi del 1961, Dylan comincia a costruirsi una fama locale, esibendosi spesso col suo nuovo repertorio folk in diversi locali del Greenwich Village. Nell’estate del 1961 conosce Suze Rotolo, che diventa la sua ragazza; attraverso la sorella di Suze, che è la segretaria di Alan Lomax, conosce e frequenta il musicologo, e conosce e apprezza anche la produzione di Brecht e Weill: le loro canzoni – musicalmente sofisticate – gli sembrano affini ai brani folk che ama di più, giacché parlano anch’esse di «ladri, gente che razzola tra i rifiuti, buoni a nulla, tutti a ruggire o a ringhiare»32. Intanto qualcuno si sta accorgendo di lui: sul «New York Times» del 29 settembre del 1961 esce un pezzo di Robert Shelton che recensisce in termini entusiastici una sua esibizione live al Gerde’s Folk City33; un mese più tardi, John Hammond, che abbiamo già incontrato come mentore di Billie Holiday, lo scrittura per una delle più importanti majors discografiche, la Cbs34. Firma il contratto e quando sta per andarsene Hammond gli regala due dischi: La Columbia aveva comprato le scorte di etichette minori degli anni Trenta e Quaranta, Brunswick, OKeh, Vocalion, Arc, e stava per ripubblicare parte del materiale. Uno dei dischi che mi diede era The Delmore Brothers con Wayne Rainey. L’altro si chiamava King of the Delta Blues ed era di un cantante di nome Robert Johnson35.

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Dylan conosce Rainey, ma non Johnson. E così corre a casa per ascoltare questo nuovo disco e ne resta profondamente impressionato. Nei giorni seguenti lo ascolta e lo riascolta e ne trascrive i testi, trovandoli suggestivi, evocativi, essenziali36. Nel suo primo album (Bob Dylan), pubblicato nel marzo del 1962, tutte queste influenze sono piuttosto evidenti, giacché l’LP è una raccolta di 11 cover (3 blues, 1 country, 1 gospel, 6 folk), con solo due brani originali, uno dei quali dedicato a Woody Guthrie. L’LP si perde nella miriade di lavori folk promossi dall’intensa ondata di revival in atto già da qualche anno e non riscuote alcun successo, nonostante i temi affrontati (il viaggio, la morte, la marginalità sociale), lo stile, gli arrangiamenti e il modo di cantare possiedano già un’evidente cifra distintiva che lo allontana radicalmente dalla cultura mainstream, e in parte anche dal folk militante che si ode ai raduni del Movimento per i diritti civili37. Il discorso cambia radicalmente con i due successivi album, The Freewheelin’ Bob Dylan (maggio 1963) e The Times They Are a-Changin’ (gennaio 1964). Delle 23 canzoni che vi sono contenute solo due sono cover; tutte le altre sono originali, in tutti i sensi possibili. Come nel primo disco, le canzoni sono musicalmente molto semplici, suonate con la chitarra acustica e l’armonica, e cantate con un timbro vocale molto particolare, graffiante e nasale. Rispetto al repertorio del primo disco, adesso i suoi testi disegnano scenari di grande varietà: si va da sermoni straordinariamente ricchi di pathos (The Times They Are a-Changin’) a bozzetti sentimentali, intensi e diretti (Don’t Think Twice It’s All Right; Girl from the North Country; Boots of Spanish Leather), alla denuncia di alcuni tra i più vergognosi atti del razzismo statunitense (Oxford Town; Only a Pawn in Their Game; The Lonesome Death of Hattie Carroll), a canzoni antimilitariste che rielaborano, in forma originale, uno dei punti fondamentali del programma dei movimenti giovanili. Tra di esse Masters of War, With God on Our Side, e soprattutto A Hard Rain’s a-Gonna Fall, una descrizione originale e raggelante di uno spettrale mondo post-atomico. Tra tutte, infine, spicca la canzone di apertura di The Freewheelin’ Bob Dylan, ovvero Blowin’ in the Wind, che il

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13 luglio del 1963, nella versione registrata dal trio Peter, Paul & Mary, raggiunge il secondo posto nella classifica di «Billboard», vendendo più di un milione di copie38. Ciascuno di questi nuovi brani ricordati tocca corde profonde tra i giovani della Sds o dello Sncc, e si impone nel repertorio dei raduni del Movimento per i diritti civili o del nascente movimento studentesco: Dylan sembra così candidarsi al ruolo di più autentico portavoce dei movimenti di protesta che stanno cominciando ad attraversare la società americana39. E in effetti nel periodo che intercorre tra Freewheelin’ e The Times They Are a-Changin’, egli ha modo di partecipare a occasioni pubbliche dense di significato, esibendosi in manifestazioni organizzate dal Movimento per i diritti civili. Lo fa nel luglio del 1963, partecipando con Theodore Bikel, Pete Seeger e i Freedom Singers a un concerto organizzato dallo Sncc a Greenwood, Mississippi40. Si esibisce di nuovo, come abbiamo visto, il 28 agosto seguente alla grande marcia di Washington nella quale Martin Luther King pronuncia il suo «I have a dream...». Tuttavia, nonostante il sostegno pubblico al Movimento per i diritti civili, la politicità dei testi di Dylan non si traduce nella militanza diretta a favore di un preciso programma partitico. Le canzoni mostrano un’acuta sensibilità per i marginali, i neri, i poveri, che gli deriva dalle matrici beat, folk, blues e hard country dalle quali trae ispirazione; mostrano un modo nuovo di guardare alla società e ai nuovi stili di comunicazione e manifestano anche la netta percezione che l’attrito generazionale stia arrivando a un punto di rottura; ma non si può proprio dire che ci sia un qualunque tipo di endorsement per un partito, o per un’organizzazione, o per un particolare progetto politico. Dylan avverte che nuove possibilità si aprono: ma non vuole fare il portavoce di nessuno, né le sue sono parole di propaganda. L’impianto testuale delle canzoni di maggior impatto, del resto, non è per niente rassicurante o consolatorio. Si prenda la canzone più celebre di questa fase, appunto Blowin’ in the Wind. La struttura testuale è elegantissima, articolata in tre strofe, ciascuna delle quali si apre con tre interrogativi diversi, tutti altrettanto inquietanti:

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(1) Quante strade deve percorrere un uomo prima che lo si possa chiamare [uomo? Sì, e quanti mari deve sorvolare una bianca colomba prima che possa [riposare nella sabbia? Sì, e quante volte le palle di cannone dovranno volare prima che siano [bandite per sempre? (2) Sì, e quanti anni può esistere una montagna prima di essere spazzata fino [al mare? Sì, e quanti anni la gente deve vivere prima che possa essere finalmente [libera? Sì, e quante volte un uomo può voltare la testa fingendo di non vedere? (3) Sì, e quante volte un uomo deve guardare verso l’alto prima che riesca [a vedere il cielo? Sì, e quante orecchie deve avere un uomo prima che possa ascoltare [la gente piangere? Sì, e quante morti ci vorranno perché egli sappia che troppe persone [sono morte?41

Una risposta evidente a questi interrogativi trasformerebbe la canzone in un pesante inno retorico. Ma risposte evidenti non ce ne sono; la chiusa di ogni strofa è sempre uguale e dice «La risposta, amico, sta soffiando nel vento / La risposta sta soffiando nel vento». Dylan non vuole affatto rassicurare: la risposta alle angosciose domande, qualunque essa sia, è portata via dal vento; spetta a ciascuno cercare di afferrarla autonomamente, per riempire il vuoto lasciato dalle interrogative in sospeso, come spiega lo stesso Dylan in due diverse interviste, la prima rilasciata nel 1962 a «Sing Out!» in occasione della pubblicazione del testo da parte della rivista, e la seconda nel 1963 a Nat Hentoff per le note di copertina pubblicate su Freewheelin’: Non c’è molto che possa dire su questa canzone, se non che la risposta sta soffiando nel vento. Non è in un libro o in un film, in uno show televisivo o in un gruppo di discussione. Amico, è nel vento – e sta soffiando nel vento.

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Troppi di questi intelligentoni vogliono dirmi dov’è la risposta, ma io non me la bevo. Insisto, è nel vento e come un inquieto pezzo di carta è destinata a venir giù qualche volta... Ma l’unico problema è che nessuno coglie la risposta quando scende giù, così non sono molti quelli che si preoccupano di scoprirla... e allora lei vola via di nuovo... Il primo modo per rispondere alle domande poste dalla canzone è formularle. Ma sono molte le persone che prima devono individuare il vento42.

Questo tipo di posizione, polemica ma aperta, è sviluppata in alcuni dei più importanti pezzi di The Times They Are a-Changin’, là dove Dylan osserva il funzionamento dei sistemi di costruzione del consenso, che passano attraverso i fondamentali istituti di socializzazione come la scuola o la comunicazione pubblica. In With God on Our Side è il processo di nazionalizzazione delle masse che conduce a un’introiezione acritica del bellicismo come valore: Il paese dal quale vengo è chiamato Midwest Sono cresciuto lì e mi hanno insegnato a obbedire alle leggi [...] I libri di storia lo dicono e lo dicono così bene [...] e i nomi degli eroi li ho imparati a memoria43.

Only a Pawn in Their Game parla dell’assassinio di Medgar Evers44. Dylan guarda alla violenza segregazionista dalla prospettiva del razzista bianco del Sud, povero e ignorante, responsabile dell’omicidio. Costui è la tragica vittima deforme di una manipolazione cognitiva che non gli consente di capire di esser solo una pedina in un gioco ben più grande: Gli viene insegnato a scuola sin dall’inizio come una regola Che le leggi sono con lui per proteggere la sua pelle bianca Per tenere alto il suo odio cosicché non la pensi mai in modo giusto Sulla condizione in cui si trova. Ma non è lui da incolpare è solo una pedina nel loro gioco Dalla misera capanna, guarda dalla crepa verso il viottolo Ed il rumore degli zoccoli gli martella il cervello E gli viene insegnato come far parte di un branco A sparare alla schiena con i pugni stretti

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A impiccare e linciare a nascondersi sotto il cappuccio A uccidere senza dolore come un cane alla catena Non ha alcun nome Ma non è da incolpare è solo una pedina nel loro gioco45.

Per Dylan, ciò che deve imporsi è una decostruzione di questa rete conformista; tuttavia la liberazione non può essere frutto di un altro e diverso conformismo, non può passare attraverso l’accettazione di un’altra e diversa verità – per quanto buona essa sia –, ma come l’altra egualmente calata dall’alto. Lo ha già detto suggestivamente in Blowin’ in the Wind: ho domande da fare, ma non risposte da offrire. Lo ripete adesso in With God on Our Side: «io non posso pensare per voi / solo voi dovete decidere». È la riconquista di una piena autonomia di pensiero che può condurre a una più vera e più giusta libertà. In tal modo, Dylan interpreta in forme assai anticonformiste il suo ruolo di portavoce delle nuove generazioni. Ma, in realtà, è un ruolo che non ha cercato e che gli sta stretto, tanto che nei primi mesi del 1964 matura una svolta che si concretizza nelle canzoni per il nuovo album, Another Side of Bob Dylan, pubblicato nell’agosto del 196446. Dal punto di vista musicale il nuovo LP non contiene novità: i brani sono ancora suonati dal solo Dylan con strumenti acustici (la chitarra, l’armonica e, in un solo caso, il pianoforte). È l’impianto testuale che segna un punto di svolta. Su undici canzoni, sette raccontano storie d’amore (o di dis-amore, come da tradizione country blues). Non ci sono più commenti sull’attualità politica statunitense, anche se c’è uno spassoso e urticante attacco all’ottusità dell’America profonda (Motorpsycho Nitemare) e una potentissima esortazione all’empatia verso tutti i reietti (Chimes of Freedom)47. Ma soprattutto c’è My Back Pages, canzone-manifesto nella quale Dylan è molto severo con se stesso, e dichiara apertamente di aver sbagliato ad assumere pose da profeta politico, da persona capace di distinguere, senza alcun dubbio, il bene dal male. In realtà – come abbiamo visto – nei due LP precedenti non l’ha quasi mai fatto: ha scritto canzoni-reportage sulla discrimi-

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nazione razziale o sulla sconsolata disperazione causata dalla povertà; ha accusato i signori della guerra; e ha invitato i suoi ascoltatori a pensare con la propria testa e a cercare da soli, nel vento, le risposte agli interrogativi più angosciosi. Nondimeno adesso dichiara di voler andare in un’altra direzione che non è più quella del commento diretto alle vicende più scottanti della contemporaneità. E affronta questo passo con un senso di vera liberazione: Bugie che la vita è bianca e nera Parlavano dal mio teschio. Sognavo Romantiche gesta di moschettieri [...] In posa militare, puntavo la mano Verso quei cani bastardi che insegnano Senza preoccuparmi del fatto che sarei diventato il mio nemico Nel momento stesso in cui avessi cominciato a pontificare [...] Ah, ma ero molto più vecchio allora Sono molto più giovane adesso48.

Una parte del pubblico che fin allora l’ha apprezzato non reagisce positivamente a questo cambio di direzione e fra tutti gli album di Dylan Another Side è uno di quelli che vende di meno. D’altronde nel novembre del 1964 su una rivista prestigiosissima in ambito folk, come «Sing Out!», che nei due anni precedenti ha pubblicato numerosi articoli su Dylan, il direttore, Irwin Silber, parlando a nome di chi vuole una musica folk politicamente impegnata, gli indirizza una durissima Lettera aperta nella quale, dopo avergli riconosciuto i grandi meriti che si è conquistato con i suoi primi album, aggiunge: Le tue nuove canzoni sembrano tutte intimiste, introspettive, autoriflessive, forse persino un po’ malinconiche o crudeli in qualche caso. [...] Ora, va tutto bene, se è quello che vuoi, Bob. Solo che sei un Bob Dylan diverso da quello che avevamo conosciuto. Il vecchio non ci avrebbe mai fatto perdere del tempo prezioso. [...] In un certo senso, penso che siamo tutti responsabili di quello che sta accadendo a te e a molti altri artisti giovani e bravi. La Macchina Americana del Successo mastica geni al ritmo di uno al giorno ed è ancora affamata. Incapace di produrre arte da solo, l’Establishment

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alimenta la creatività nella protesta contro il sistema o nell’anticonformismo. E poi, attraverso la notorietà, i soldi facili e il prestigio, fa in modo che l’artista non possa continuare a funzionare e a crescere. È un processo che dovrebbe essere costantemente monitorato e combattuto49.

La critica è durissima. L’accusa è di aver tradito ideali e militanza. Ma Dylan non si fa intimidire. E anzi ha in serbo altre sorprese per i suoi vecchi fan. Nel febbraio del 1964 ha fatto un viaggio in macchina con alcuni amici, in direzione della California, dove ha avuto modo di incontrare e conoscere Lawrence Ferlinghetti e Allen Ginsberg, apprezzando ancor più la poetica beat che peraltro conosce già da tempo50. Inoltre mentre è in viaggio ha ascoltato alla radio I Want to Hold Your Hand, brano di un gruppo inglese emergente e, all’epoca, ancora semisconosciuto negli States, i Beatles51. Dylan ne è rimasto impressionato. E non solo lui. 4. Dall’altra parte dell’Atlantico Finora l’Europa non ha avuto alcuno spazio in questa storia. E non ce l’ha avuto, perché il contributo di stampa, radiofonia, televisione, cinema e popular music europei alla cultura di massa è stato, fino ai primi anni Sessanta, ridotto o derivativo. L’Europa ha subito – affascinata – l’impatto delle varie forme che l’intrattenimento culturale ha assunto negli Usa. E l’ha subito non solo per la forza seduttiva delle narrazioni popular statunitensi, ma anche per il rapporto di dipendenza economica e politica che si è creato in parte dopo la prima guerra mondiale e, in forma anche più diretta, dopo la fine della seconda. I soldi del Piano Marshall servono a ricostruire economie distrutte; ma servono anche ad aprire i mercati dell’Europa occidentale ai prodotti statunitensi, compresi quelli dell’industria culturale. Certo, gli intellettuali americani hanno guardato, e continuano a guardare, alle produzioni artistiche europee con attenzione e interesse. Autori come Genet, Ionesco, Beckett, Sartre, de Beauvoir, i britannici Angry Young Men, i registi del neorealismo italiano, quelli della nouvelle vague francese, hanno tutti il loro peso e la

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loro influenza. Se in una storia della cultura alta ciascuna di queste correnti, ciascuno di questi autori, meriterebbe il suo spazio, è tuttavia inevitabile osservare che questa innovativa costellazione di autori europei colpisce e influenza solo un’area molto piccola e qualificata del pubblico statunitense: giovani beat, aspiranti scrittori, gruppi artistici d’avanguardia. E così lo scambio culturale resta ineguale: prodotti di massa, economicamente e socialmente di grande impatto – dagli Usa all’Europa; prodotti di nicchia, diretti a élite colte – dall’Europa agli Usa. Questo fino all’inizio degli anni Sessanta. Perché allora qualcosa di piuttosto importante cambia. E cambia nello spazio della popular music del paese europeo più vicino agli Usa, non fosse altro che per affinità linguistica, ovvero la Gran Bretagna. Fino agli inizi degli anni Sessanta il mercato dell’intrattenimento di massa in Gran Bretagna assorbe le produzioni statunitensi e in parte ne riproduce i modelli – per esempio con produzioni autoctone di sitcom o di soap opera localmente di grande successo. Nel campo della musica succede qualcosa di simile. Un po’ più rapidamente che in altri paesi europei, la popular music statunitense irrompe sul mercato discografico britannico. L’accoglienza che i media (soprattutto la carta stampata) o gli opinion makers (giornalisti, intellettuali, politici) riservano a questo processo è ambigua. Da un lato le produzioni statunitensi sono apprezzate in blocco come manifestazione del «moderno» che «finalmente» irrompe anche in una società molto legata a rituali, culture, simboli piuttosto tradizionali: e così, per esempio, nel 1957 il «Daily Mirror», all’epoca un quotidiano per la working class, sponsorizza il tour di Bill Haley in Inghilterra52. Dall’altro, invece, talune manifestazioni di entusiasmo che accolgono l’arrivo del r’n’r scatenano le consuete reazioni negative, se non – anche qui – vere e proprie forme di moral panic: nel 1955 va nelle sale cinematografiche Blackboard Jungle; nel 1956 Heartbreak Hotel di Elvis Presley va in cima alle classifiche britanniche; nel 1956 viene lanciato anche il film Rock Around the Clock, la cui proiezione viene sospesa nei cinema di alcune città per timore di tafferugli (capita che in alcune sale i giovani spettatori si alzino

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dai loro posti per danzare nei corridoi, e tanto basta per suscitare la reazione isterica della stampa più conservatrice)53. Comunque, al di là di queste prime reazioni, ciò che colpisce soprattutto è la notevole apertura di una vasta e variegata sezione del pubblico britannico a una grande varietà di musiche statunitensi che circolano non tanto attraverso i canali ufficiali, come la Bbc, quanto grazie a reti di diffusione extraistituzionali (American Forces Network o Radio Luxembourg), con i jukebox dei nuovi coffee bar e attraverso tour concertistici organizzati da imprenditori locali e nazionali, che portano in Gran Bretagna numerosi artisti americani (da Buddy Holly a Bill Haley, da Muddy Waters a Bo Diddley)54. È così che, oltre al jazz, al r’n’r e al R&B, anche un genere che all’epoca negli Stati Uniti è completamente di nicchia – il blues – comincia a farsi strada in Gran Bretagna, in primo luogo attraverso la mediazione dello skiffle, uno stile musicale diffuso quasi solo nel Regno Unito, basato su una disinvolta fusione di jazz, folk e blues, e suonato di solito con un’originale strumentazione improvvisata – una chitarra, un asse per lavare usato come strumento ritmico e un basso ricavato da una scatola da tè55. Questo genere, che riscuote un grande successo tra il 1954 e il 1958, ha un notevole rilievo, perché attraverso le sincopate rivisitazioni di classici della tradizione musicale afroamericana, l’universo narrativo del blues – con tutto il suo sottomondo di addolorati perdenti – comincia a farsi strada anche nell’immaginario popular britannico56. All’operazione contribuisce anche Alan Lomax, che dal 1950 è emigrato in Gran Bretagna per sfuggire alla «caccia alle streghe» in atto negli Usa, e che nel 1951 ha curato due trasmissioni su folk e blues afroamericano per la Bbc (febbraio 1951, Adventures in Folk Song; dicembre 1951, The Art of the Negro). Osservando il successo dello skiffle, Lomax nota quella che gli sembra una strana incongruenza: a eseguire l’addolorato repertorio del blues, tra cui anche delle prison songs, sono dei giovani bianchi che hanno sofferto comparativamente poco [rispetto alle comunità afroamericane del Sud degli States]. Ma ben presto – ag-

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giunge – mi sono reso conto che questi giovani devono essersi sentiti in prigione, intrappolati nel sistema di classe e di casta del morente Impero Britannico57.

L’interpretazione di Lomax ha un suo senso: tuttavia le ragioni del successo delle musiche che arrivano dagli States sono molteplici e rispecchiano la grande varietà e complessità del pubblico giovanile che caratterizza anche la scena britannica. Infatti, come e forse persino di più che negli Stati Uniti, anche qua il pubblico, soprattutto nel suo côté giovanile, è frammentato in una serie multiforme di comunità interpretative, diverse per stili e consumi culturali, anche se talora contigue per origini sociali e bisogni espressivi58. Nel dare forma alla complessa mappa del pubblico giovanile incidono tanto la provenienza sociale quanto la struttura educativa britannica, che è istituzionalmente più rigida di quella americana. Nel 1944 il Butler Act riorganizza il sistema educativo scolastico, prevedendo un ciclo inferiore di insegnamento (dai 5 agli 11 anni) alla fine del quale allievi e allieve devono sostenere un esame selettivo (il cosiddetto «Eleven-plus»); sulla base dei risultati dell’esame, ragazzi e ragazze vengono indirizzati in uno dei tre cicli scolastici successivi, riservati alla fascia di età compresa tra gli 11 e i 15 anni: le secondary modern schools e le secondary technical schools, professionalizzanti, e le grammar schools, che consentono l’accesso al ciclo superiore e da lì all’università59. Non sorprendentemente, le ricerche coeve sottolineano che i ragazzi e le ragazze che vengono da famiglie di classe medio-­alta si indirizzano prevalentemente verso le grammar schools e – in qualche caso – proseguono il training formativo fino all’università; a differenza dei coetanei di origini operaie, questo gruppo di adolescenti mostra il massimo grado di conservatorismo nelle sue scelte culturali e di consumo: Peter Lewis, per esempio, ricordando la sua adolescenza in una scuola pubblica degli anni Cinquanta, pone l’accento sull’abisso che lo separava dai suoi compagni di estrazione operaia: «i teenager, visti dallo spazio protetto di questa enclave di classe media, erano un fenomeno di estrazione ope­

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raia... I ragazzi come me cercavano di vestirsi come gli adulti (giacchette di tweed, pantaloni di flanella grigia) e di parlare anche come gli adulti... [Per noi], nella fase compresa tra l’essere dei ragazzini e il diventare uomini, non c’era spazio per nessuno stile distintivo o per nessuna affermazione di identità»60.

Anche i reportage dal mondo delle università britanniche dei primi anni Sessanta descrivono gli universitari come conservatori, piuttosto docili alle direttive delle amministrazioni universitarie, anche perché – diversamente dai loro colleghi americani, che spesso si trovano a studiare in università molto affollate – i britannici studiano in istituzioni di lunga tradizione, con ottime attrezzature, e con barriere selettive all’ingresso che fanno sì che essi siano solo una piccola percentuale sulla corrispettiva classe di età61. Inoltre, dal punto di vista culturale sembrano manifestare una certa resistenza nei confronti della cultura di massa americana, sia per ragioni di orgoglio nazionale, sia all’opposto per l’adesione all’opinione progressista di chi – come Horkheimer, Adorno, Marcuse e altri – aborre la popular culture perché politicamente obnubilante e artisticamente scadente62. Solo una più piccola sezione dei giovani di classe media sembra orientarsi verso opinioni politiche eterodosse, per esempio militando in un movimento piuttosto controcorrente rispetto agli orientamenti più diffusi, come il Campaign for Nuclear Disarmament (Cnd); fondata nel 1957, questa associazione organizza nel 1958 una marcia da Londra ad Aldermaston, sede dell’Atomic Weapons Establishment, per protestare contro il ricorso ad armamenti nucleari; la marcia, in direzione Aldermaston-Londra, viene poi ripetuta negli anni seguenti, sino al 1963, quando la manifestazione richiama all’incirca 100.000 partecipanti, ed è occasione di disordini nel centro di Londra63. Dal 1965 è attiva anche un’altra organizzazione pacifista, il British Council for Peace in Vietnam, che negli anni seguenti organizza diverse manifestazioni per protestare contro la guerra e contro il sostegno che il governo laburista di Wilson ha garantito agli Usa64.

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Diverso è il panorama che si osserva nei contesti di classe operaia. Molti dei ragazzi di estrazione popolare mantengono legami solidi con le tradizioni sociali da cui vengono, partecipando attivamente alla vita collettiva della comunità di lavoro di cui fanno parte, frequentando la sociabilità del pub, conservando (con maggiore o minore convinzione) legami con le associazioni sindacali e politiche delle quali hanno già fatto parte anche i genitori. Tuttavia, ce ne sono anche altri che, pressati dalla retorica del consumo potentemente diffusa in forma diretta dalle pubblicità sui giornali o in forma indiretta dalle narrazioni hollywoodiane, guardano con insofferenza al sistema valoriale degli ambienti operai da cui provengono, e pur svolgendo spesso lavori relativamente umili o scarsamente retribuiti, sognano per sé non solo un futuro, ma anche un presente diverso e più brillante. Per conquistarselo, alcuni entrano temporaneamente o permanentemente nelle gang di strada. Altri, invece, danno vita a gruppi subculturali connotati da particolari e vistose scelte di stile, alle quali la stampa britannica presta molta attenzione, trattandole sia come bizzarri fenomeni di costume, sia come preoccupanti forme di degenerazione morale65. La prima subcultura giovanile britannica che attrae l’attenzione dell’opinione pubblica è quella dei teddy boy, che si forma nei primi anni Cinquanta: si tratta di ragazzi che provengono prevalentemente dagli ambienti più disagiati delle classi operaie britanniche, tagliati fuori dalla prima ondata di sviluppo economico perché privi di una buona educazione scolastica, e tuttavia desiderosi di uscire a tutti i costi dal ghetto sociale nel quale si trovano rinchiusi. Per farlo, adottano stili di abbigliamento e consumi culturali che sono direttamente derivati dalla cultura di massa statunitense: copiano l’esempio degli zoot ­suiters, per quanto riguarda l’adozione di vestiti eccentrici, con uno stile che tuttavia è declinato in modo del tutto nuovo – in parte basato sull’abbigliamento del periodo edoardiano (1901-1910; da qui il nome del gruppo: Edward = Ted), in parte desunto dall’iconografia del gangster o del fuorilegge dei film holly­woodiani66.

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Particolari scelte vestimentarie possono essere dotate di specifici significati simbolici: Tony Jefferson ha notato che l’adozione della cravatta a stringa può essere letta come un’allusione al personaggio cinematografico western del baro-fuorilegge, capace di costruirsi uno status sociale elevato solo attraverso il suo ingegno e le sue abilità che – peraltro – non soddisfano in nessun modo la tavola dei valori morali dei seri e onesti lavoratori; e così – osserva Jefferson – il significato simbolico di quel particolare dell’abbigliamento dei ted «diventa comprensibile sia come espressione della loro realtà sociale (essenzialmente degli outsiders, costretti ad arrangiarsi per vivere), sia delle loro aspirazioni sociali (cercare di conquistarsi uno status sociale elevato, sebbene criticato, attraverso la loro capacità di vivere in modo edonisticamente brillante all’interno di un contesto urbano)»67. Coerenti con questo impianto sono i consumi culturali che si orientano verso il culto di Marlon Brando, di James Dean e di Elvis Presley, declinati talora anche in una forma pesantemente maschilista e razzista68. Dalla fine degli anni Cinquanta la subcultura dei ted viene affiancata e assorbita da quella dei mod (da «modernists»), che nasce a Londra e in altre città dell’Inghilterra meridionale. Anche per i mod lo stile è fondamentale; la loro cifra è data da abiti eleganti modellati sui tagli dell’alta moda italiana e francese dell’epoca, anche in questo caso allusivi allo stile dei gangster hollywoodiani, e – un po’ contraddittoriamente – dall’eskimo come soprabito, e dalla Vespa, di solito molto accessoriata, come principale mezzo di locomozione. Si tratta, anche in questo caso, di ragazzi e ragazze che vengono dagli ambienti popolari, e che già lavorano, ma che cercano di negare la noia e la frustrazione derivanti dai lavori umili cui sono costretti, con uno stile di vita ancora più vistoso di quello esibito dai ted69. Intervistato dal «Sunday Times» nell’aprile del 1964, Denzil – un diciassettenne londinese – descrive così la settimana ideale di un mod: Lunedì sera, a ballare al Mecca, allo Hammersmith Palais, al Purley Orchard o allo Streatham Locarno. Martedì nei club di Soho. Mercoledì al Marquee. Giovedì è la serata del rituale lavaggio dei capelli. Venerdì di nuovo a Soho. Sabato pomeriggio, shopping alla ricerca di vestiti e di dischi;

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sabato sera a ballare, e di rado si finisce prima delle 9.00 o delle 10.00 di domenica mattina. Domenica sera di nuovo al Flamingo, o se uno comincia ad accusare segni di stanchezza, a casa a dormire70.

Difficilmente un’agenda così fitta può essere rispettata integralmente da ragazzi impegnati in qualche tipo di lavoro, anche se il larghissimo uso di amfetamine che adesso circolano negli ambienti giovanili britannici aiuta di sicuro a tenere il ritmo. Al di là di questo, l’intervista trasmette chiaramente la tavola dei valori mod, proiettata in un mondo fatto di consumi di lusso e di ostentata ricchezza che chiaramente è solo fantasmatico. La verità è ben diversa; una ricerca sociologica compiuta nel 1964 mostra che il mod-tipo è un giovane con un lavoro a bassa specializzazione, o con un impiego da commesso in negozi, uffici, grandi magazzini, che ha lasciato la scuola a quindici anni, alla fine del ciclo inferiore, e che, essendo perfettamente consapevole di avere ben poche chance di ascesa sociale, compensa questa consapevolezza con un «rituale di resistenza» che vuole rovesciare – sia pure solo simbolicamente – la realtà delle cose. Come molte altre subculture, anche quella dei mod non ha confini rigidi. I consumi culturali, in campo musicale, sono piuttosto vari, ed evolvono da un’originaria passione per il jazz al R&B, alla nuova musica beat suonata dagli Who e da Rod «the Mod» Stewart, allo ska giamaicano, introdotto dagli emigrati caraibici. Come segno di netta dissociazione simbolica dalla società circostante, ma anche dai teddy boy che hanno manifestato più volte inclinazioni e valori maschilisti e razzisti, diversi gruppi mod sono formati da ragazze, vestite con pantaloni, camicie e giacche casual, mentre alcuni dei ragazzi mod adottano in pubblico l’eye-liner. La passione per la musica ska è favorita anche dal fatto che molti dei club frequentati dai mod sono aperti anche ai giovani neri delle Indie Occidentali71. Contemporanei ai mod, ma in netta opposizione alle loro scelte stilistiche, sono i rocker, un gruppo subculturale che rielabora il modello dei biker americani portati alla ribalta da Marlon Brando in The Wild One. Di conseguenza la loro «divisa» consiste in giubbotti di pelle decorati con le borchie, jeans,

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scarponi pesanti, e moto Triton (o simili), mentre il loro sistema di valori vuole distinguerli dalla presunta effeminatezza dei mod, con un’esibizione di vigoria maschile, da tipi duri che non hanno paura di sfidare il sistema e che amano una musica diretta e vigorosa come il r’n’r, senza le ricercatezze musicali a cui i mod sembrano appassionarsi. Anche qui, il codice simbolico alla fin fine è molto più fantasmatico che reale: Barker e Little, in una loro ricerca del 1964, mostrano che anche i rocker, nella loro vita «normale», sono giovani impiegati in lavori manuali sottopagati72. Ciascuno di questi gruppi, in una forma o nell’altra, suscita reazioni preoccupate nell’opinione pubblica più conservatrice, anche perché occasionalmente si fanno coinvolgere in tafferugli, scontri, episodi di violenza. E così, per esempio, in un articolo dello «Evening News», del 12 maggio 1954, si può leggere: I teddy boy sono... incapaci di intendere e volere nel senso che soffrono di una forma di psicosi. Al di là di quanto sia necessario stringere la corda, in relazione alla gravità dei loro crimini, ciò di cui hanno bisogno è una riabilitazione in una istituzione psicopatica [sic]... giacché non hanno la forza mentale di vivere autonomamente, sentono il bisogno di riunirsi in gang. Non solo questi scatenati giovinastri hanno sviluppato una certa paranoia associata a un complesso di inferiorità, ma sono effettivamente inferiori, al di là del loro disturbo... È il desiderio di fare del male, non la mancanza di comprensione, che li spinge nel crimine73.

Commenti e interventi di questo genere continuano durante tutto il decennio sino a culminare nella vera e propria esplosione di panico che investe la stampa e l’opinione pubblica nella primavera del 1964, quando un gruppo di mod londinesi si scontra con alcuni giovani di Clacton-on-Sea, una località costiera a sud di Colchester. L’episodio viene molto amplificato dalla stampa, e pone le premesse per scontri di maggior rilievo tra mod e rocker, che hanno luogo nei fine settimana seguenti a Brighton e a Hastings: anche in questo caso, eventi sgradevoli, ma in definitiva di modesto significato, vengono ingigantiti dalla stampa che trova un ottimo motivo per rilanciare la storia della gioventù perduta

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e senza ideali, sebbene la rivalità tra rocker e mod si spenga da sola, lasciando – in un certo senso – la stampa più conservatrice temporaneamente a corto di argomenti per quel che riguarda le cover stories sui «ribelli senza causa»74. Con l’eccezione dei mod, gli altri gruppi giovanili, sia quelli integrati, sia le gang dei ted o dei rocker, sono a chiara dominante maschile. Le ragazze sono piuttosto defilate, e del resto ricevono un’educazione (formale o informale) che le orienta verso atteggiamenti, impieghi, sensibilità «tipicamente femminili». In una sua ampia e ricca panoramica della società inglese negli anni Sessanta, Dominic Sandbrook ha scritto: Nel 1959, nella loro analisi del sobborgo di Woodford [nei pressi di Londra], Peter Willmott e Michael Young hanno osservato che la vita di una ragazza dopo la scuola segue un percorso predeterminato: «La figlia segue la madre nelle sue principali occupazioni – curarsi dei piccoli, rassettare la casa». Sia nelle famiglie di classe operaia che in quelle di classe media le ragazzine sono educate a essere casalinghe e madri. Sebbene l’istruzione pubblica e gratuita rappresenti una grande opportunità per le ragazze, molti concordano col famoso educatore John Newsom, che ha scritto che i loro insegnanti non dovrebbero cercare di «appianare le differenze rispetto agli uomini, riducendole a qualcosa di neutro, ma dovrebbero insegnare alle ragazze come diventare donne e imparare di nuovo le grazie che così tante hanno dimenticato negli ultimi trent’anni». Nel 1963 Newsom scrive che l’educazione delle ragazze dovrebbe riguardare «gli ampi temi dell’essere una casalinga, includendovi non solo le attività materiali e pratiche, ma l’intero campo delle relazioni nel corteggiamento, nel matrimonio e nella famiglia». Il lavoro di cucito, per esempio, è una buona idea: «da giovani spose le ragazze saranno responsabili dell’acquisto dei vestiti e dei mobili per la famiglia; avranno bisogno di una qualche formazione nel gusto e di occhio per distinguere la qualità nella lavorazione, nei materiali, nella moda, nel design». Come molti altri educatori dell’epoca, Newsom sostiene che «l’influenza delle donne sullo svolgersi delle cose si esercita soprattutto nel loro ruolo di madri e di mogli. Quasi tutte le donne intelligenti concordano che la maternità sia la funzione femminile essenziale nella società». [D’altronde] nel 1961 Monica Dickens informa le lettrici di «Woman’s Own» che le donne sono «nate per amare, nate per essere le partner degli uomini... e che la cosa più importante che possano fare nella vita è essere mogli e madri, fissare i loro cuori su un uomo e amarlo e occuparsi di lui con tutta la disinteressata generosità che l’amore può ispirare»75.

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È bene tener presente che questo quadro educativo è sostenuto non solo da pedagogisti come Newsom, o da giornaliste come Dickens, o dalle pratiche educative accolte dalle famiglie, ma anche dalle storie sentimentali raccontate nella narrativa popolare (romanzi rosa pubblicati da case editrici specializzate come Mills & Boon, o Harlequin), e dal linguaggio della pubblicità, che crea una forte tensione tra un «prima-del-matrimonio», in cui le ragazze sono descritte come spensierate, eleganti, seducenti e libere di scegliere, e un «dopo-matrimonio», in cui le donne sono costrette nel grigiore della domesticità, appena allietato dai beni di consumo e dai nuovi elettrodomestici (sempre che il nucleo familiare neocostituito se li possa permettere...)76. Lo spazio di sociabilità alternativo, per le adolescenti, è la loro cameretta, nella quale si incontrano con le amiche per parlare, scambiarsi opinioni, ascoltare dischi e praticare il culto di qualche cantante pop, sulla scia di ciò che già è capitato negli Usa. Fino ai primi anni Sessanta, le ragazzine britanniche partecipano ai concerti, applaudono, si conquistano piccoli spazi di libertà77: ma di lì a poco il loro protagonismo diventerà molto più evidente e accentuato, anche molto di più di quanto non sia già capitato negli Stati Uniti. Messa in prospettiva, questa intera panoramica trasmette, di nuovo, la sensazione di un pubblico giovanile non meno segmentato di quello che si può incontrare negli Usa. Dal punto di vista delle scelte culturali, tutti questi gruppi costituiscono comunità interpretative potenziali o in atto, in cerca di forme espressive capaci di offrire loro una struttura emotiva che dia una risposta al loro bisogno di integrazione o di alterità rispetto alla struttura sociale e normativa nella quale si trovano a vivere. Di nuovo, come nel caso statunitense, anche in quello britannico si può notare che le subculture giovanili più creative compiono scelte espressive che entrano in netto contrasto con i valori largamente condivisi nelle comunità operaie o di classe media alle quali appartengono i genitori: ai principi della frugalità e della rispettabilità si contrappongono scelte di vita che enfatizzano l’edonismo, il consumo vistoso (o qualcosa che vorrebbe somigliar-

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gli), stili di vita creativi ed eccentrici, e un rifiuto quasi integrale dell’etica del lavoro. Per tutti questi gruppi, le musiche hanno naturalmente un grande significato: quelle che vengono dagli Usa, esotiche per l’ambiente europeo e legate a immagini (un po’ superficiali) di una gioventù ribelle (Marlon Brando, James Dean, Elvis Presley) sono le preferite. Tuttavia, il vero fenomeno culturale che nasce nel Regno Unito, e poi si impone anche negli Usa, almeno inizialmente non dialoga tanto con il disagio manifestato dalle varie subculture giovanili, giacché si inserisce perfettamente bene nell’alveo della cultura di massa, così com’è già successo per altri stili musicali affini, tipo il r’n’r o la surf music: analogamente a queste musiche, d’altronde, la nuova moda suscita in qualcuno la consueta reazione di rifiuto isterico; ma, al tempo stesso, ottiene un esplicito endorsement da molti altri opinion makers che la considerano invece, e con buon fondamento, del tutto innocua. 5. I Beatles La nuova moda musicale – che prende il nome di beat music (con un improprio riferimento all’esperienza letteraria della Beat Generation) – viene lanciata dai Beatles, un gruppo di giovani musicisti di Liverpool che, dopo aver svolto un intenso tirocinio nei locali della loro città e in quelli di Amburgo, riescono a imporsi all’attenzione del grande pubblico non appena cominciano a pubblicare i primi dischi: dopo l’uscita del loro primo singolo, Love Me Do (con P.S. I Love You sul lato B, ottobre 1962), che ha un successo buono ma non travolgente, piazzano un’impressionante sequenza di dischi ai primi posti delle classifiche britanniche sia dei 45 giri (gennaio 1963: Please Please Me; aprile 1963: From Me to You; agosto 1963: She Loves You), che dei 33 giri (maggio 1963: Please Please Me, titolo anche del loro primo LP). In ragione di questi risultati, il 13 ottobre 1963 vengono invitati a prender parte al Sunday Night at the London Palladium, una trasmissione televisiva capace di incollare davanti al video ben 15 milioni di telespettatori, che li consacra come le star della «musica leggera»

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britannica: intanto, fuori dal teatro, la folla, prevalentemente di ragazzine, che non è riuscita a entrare, viene trattenuta a stento dalla polizia. Il giorno dopo le prime pagine dei quotidiani sono dedicate all’evento; poco più tardi entra in uso il termine «Beatle­ mania», per descrivere l’impatto immediato e debordante di questi quattro giovani musicisti e del loro sound78. In realtà, negli anni compresi tra il 1962 e il 1964, la proposta musicale dei Beatles non è poi così diversa da quella di molti altri musicisti pop che si orientano verso un pubblico giovane: prendendo come forma-base quella delle canzoni r’n’r, brillantemente rivisitate con una semplice strumentazione elettrica, i Beatles costruiscono dei testi che semplificano ulteriormente l’orizzonte narrativo, già piuttosto esile, che appartiene a quel tipo di musica. I testi della maggior parte delle canzoni che i Bea­tles lanciano in questo periodo narrano soprattutto di semplici storie d’amore che sono vissute da protagonisti giovani, forse addirittura da degli adolescenti, collocate, peraltro, in uno spazio sociale sostanzialmente vuoto: in queste storie non c’è alcun riferimento alla scuola; o a qualche ambiente lavorativo specifico; o a qualche luogo geografico particolare; né ci sono riferimenti, neanche impliciti, alla politica. È un’indeterminatezza che ha un valore strategico, giacché in realtà permette a chiunque di identificarsi con una grande facilità nelle vicende narrate. Il «contratto narrativo» che i Beatles propongono invita chi ascolta a riempire a piacimento gli spazi vuoti delle canzoni; gli indefiniti protagonisti delle esili trame possono essere fantasticati come qualunque persona possibile: possono essere uno studente, un operaio, o un commesso, tanto quanto una studentessa, un’operaia, o una commessa, senza che niente della narrazione proposta sia minimamente compromesso. Certo, le loro musiche sono contagiosamente efficaci, sebbene anche da questo punto di vista non facciano altro che perfezionare una forma-canzone più che nota, strutturata in strofa-ritornello-bridge, e via da capo, suonata con brio e ritmo travolgente e con contagiose armonie vocali, certo, ma nel rispetto di uno standard già largamente sperimentato.

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Tutto ciò è quanto basta, peraltro, a decretare il successo di questi giovani musicisti. Le ragazzine, in particolare, sono quelle che offrono le risposte più entusiastiche alla musica dei Beatles. Ai loro concerti le giovani ascoltatrici cantano, si muovono, si tirano i capelli, ridono, piangono; ma soprattutto strillano talmente tanto che già il 13 ottobre 1963 al London Palladium, alla fine della loro esibizione, i Beatles fanno persino fatica ad annunciare i brani che intendono eseguire. Come sappiamo, non si tratta di un fenomeno nuovo. E nel suo rinnovato manifestarsi, trae alimento anche dalle semplici strutture narrative contenute nelle canzoni dei Beatles-prima maniera (1962-1964). Sebbene in forme appena abbozzate, nelle loro canzoni i Beatles parlano di giovani che intendono compiere le loro prime esperienze affettive senza il resto della storia che normalmente viene raccontata soprattutto alle ragazze, cioè il dopo-innamoramento, ovvero il matrimonio, le cure domestiche, l’attenzione per i figli, l’attesa del marito (o peggio ancora, tutto ciò, più gli impegni di lavoro, se si è di classe medio-bassa). Questa dualità narrativa (prima si dev’essere giovani ninfe, poi si diventa madri di famiglia oberate di compiti) emerge chiaramente dalla stampa popolare britannica di quegli anni, i cui articoli affiancano immagini di ragazze belle, single, desiderabili e libere di divertirsi, alle rubriche di cucina o ai consigli per la maternità e per l’educazione dei piccoli, corredati di figure di donne non più giovani e molto meno seducenti delle loro giovani controparti79. D’altronde i dati statistici disponibili mostrano che nel 1960 il 31% delle ragazze che si sposano ancora adolescenti lo fanno perché sono incinte già prima del matrimonio80, e dunque vivono le gioie del sesso in modo contratto e (probabilmente) poco consapevole. Ebbene, i Beatles tagliano via questa seconda parte della storia. La fine triste la eliminano. E così decidono di dialogare esclusivamente con le loro coetanee o con ragazzine anche più giovani, le quali sono elettrizzate dal sentire le prime allusioni al sesso e dall’essere invitate in uno scatenato mondo di gioioso abbandono, dove non ci sono divise scolastiche, professori, genitori o la minaccia di una gravidanza

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indesiderata e di un futuro da moglie e madre di famiglia, ma dove c’è solo «lui», che a volte va amato, a volte merita di essere mollato, a volte è una vera delizia e va abbracciato, baciato e – chi lo sa? – pure «soddisfatto» (Please Please Me). Certo, questo impianto narrativo non può essere considerato nuovo in assoluto: lo è, però, per la generazione di ragazze che stanno uscendo dall’adolescenza agli inizi degli anni Sessanta, in una società che molti osservatori coevi descrivono come piuttosto opacamente tradizionalista81. Intanto la fama della «Beatlemania» sta varcando i confini del Regno Unito, come capita anche ai dischi dei Beatles. Nel novembre del 1963 la nuova hit del gruppo – I Want to Hold Your Hand – schizza immediatamente al primo posto nelle classifiche britanniche dei 45 giri. A quell’epoca negli Usa i Beatles sono ancora sconosciuti, perché la Capitol – consociata americana della Parlophone/Emi, che è la casa discografica del gruppo – non è convinta delle loro possibilità di successo in terra americana. Alla fine le incertezze vengono superate e I Want to Hold Your Hand viene pubblicata anche negli Usa il 26 dicembre 1963. Grazie alla heavy rotation che si guadagna subito nelle radio, il disco in tre giorni vende negli States 250.000 copie; al 10 gennaio del 1964 si è già a 1 milione di copie vendute. Indubbiamente un ottimo viatico per potersi affermare anche nella patria dell’industria culturale, dove i quattro giovani musicisti arrivano il 7 febbraio 1964 accompagnati da una intensissima campagna promozionale organizzata dalla Capitol che si basa sulla distribuzione massiccia di poster, spille, adesivi e gadget vari, e sulla immediata partecipazione dei Beatles all’Ed Sullivan Show, una delle più seguite trasmissioni di varietà del network Cbs82. La puntata che va in onda il 9 febbraio 1964 vede il gruppo esibirsi per 13 minuti, durante i quali i Beatles eseguono cinque canzoni. Il successo è enorme: il programma è seguito da 73 milioni di spettatori, un vero e proprio record di audience. L’11 febbraio del 1964 i Beatles si esibiscono dal vivo, e con eguale successo, al Washington Coliseum, nel loro primo concerto americano. Nelle settimane seguenti l’impatto del gruppo

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britannico è travolgente: l’LP Meet The Beatles!, uscito negli Usa il 20 gennaio del 1964, va in testa alla classifica delle vendite statunitensi il 15 febbraio del 1964, e ci resta per undici settimane consecutive; Introducing... The Beatles, altro LP pubblicato negli Usa il 10 gennaio 1964, raggiunge la posizione numero 2 il 29 febbraio 1964, e vi resta per nove settimane di seguito; contemporaneamente diversi singoli del gruppo sono nelle prime posizioni delle classifiche di vendita83. Tutto questo entusiasmo intorno alle nuove stelle del pop britannico turba i sonni di qualche commentatore, che vede nel fenomeno i segni di una decadenza morale e culturale inarrestabile. In un articolo del 29 febbraio 1964 (The Menace of Beat­ lism), pubblicato su «New Statesman», un’autorevole rivista di sinistra, Paul Johnson (all’epoca un giornalista trentaseienne in ascesa) esprime tutto il suo disprezzo per il fenomeno, assumendo il tipico atteggiamento dell’intellettuale progressista che vede nella cultura di massa un pericolo devastante. Guardate i ragazzini e le ragazzine che partecipano alle trasmissioni televisive dedicate a questo nuovo tipo di musica, scrive Johnson: Mentre si sente la musica, le telecamere indugiano ferocemente sui volti del pubblico. Che baratro infinito di vacuità rivelano! Facce larghe, gonfiate da dolciumi a buon mercato e sporcate da make-up acquistato ai grandi magazzini, bocche aperte, pendule, occhi vitrei, tacchi a spillo rovinati: ecco una generazione schiavizzata dal sistema del consumo. Dietro questa immagine di «gioventù» c’è evidentemente la macchinazione di gente più vecchia e più scaltra84.

D’altronde, prosegue Johnson, la «gioventù» che partecipa a un concerto dei Beatles non vuole ascoltare la musica, ma vuole partecipare a un umiliante rituale collettivo in cui si venerano divinità che non hanno niente da dire, non solo perché le loro canzoni non dicono niente, ma anche perché non c’è verso di sentire ciò che cantano, visto il clamore che si scatena a ogni esibizione pubblica. Ma chi sono i fan e le fan dei Beatles? Sono i marginali, i falliti, gli scarti, i risultati di un sistema scolastico

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che non riesce a educare i suoi teenager più fragili. Per fortuna, aggiunge Johnson, ci sono anche altri giovani che non hanno tempo per queste sciocchezze e che sanno riconoscere la «vera» cultura nelle opere fondamentali della tradizione classica occidentale. L’attacco è evidentemente durissimo, e riecheggia, per temi e intensità, le reazioni che abbiamo già incontrato contro il r’n’r e – soprattutto – contro la Beat Generation. Ma, in questo caso, l’articolo di Johnson non rappresenta la reazione dominante, giacché molti altri autorevoli commentatori guardano con simpatia al fenomeno Beatles. Anzi, due aspetti particolari della proposta culturale offerta dal gruppo entrano in consonanza con altrettanti temi fondamentali che attraversano il dibattito pubblico britannico di questi anni: la grande valorizzazione della gioventù come sinonimo di modernità, e l’idea che la società sia in via di trasformazione e stia assumendo l’aspetto di una classless society, una società senza classi. Con le loro musiche di derivazione americana, suonate con strumenti elettrici, con la loro giovane età (nel 1962 John Lennon e Ringo Starr hanno 22 anni; Paul McCartney 20; e George Harrison 19), col loro pubblico di teenager, i Beatles sembrano il simbolo assoluto del rinnovamento che alcuni leader politici, e in particolare i nuovi dirigenti del Partito laburista riuniti intorno a Harold Wilson, vorrebbero realizzare. Nel suo diario, alla data del 23 gennaio 1964, l’allora ghost writer di Wilson, Anthony Wedgwood Benn, scrive che il tema della prossima campagna elettorale laburista dovrà essere quello della «rigenerazione», che Benn pensa «suggerisca l’immagine della gioventù (una nuova generazione), che si differenzia totalmente dalla filosofia Tory»85. Nel 1965 Wilson, che ama recitare la parte dell’uomo in sintonia con i gusti popolari, una volta diventato primo ministro insiste con la regina affinché conceda ai Beatles l’onorificenza di Mbe (Member of the Most Excellent Order of the British Empire). Ma i conservatori non sono da meno, e anzi non si vogliono far sottrarre dai laburisti il tema dei giovani e della modernità. Lo stesso articolo di Johnson è una reazione a una dichiarazio-

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ne pubblica rilasciata da William Deeds, membro del governo conservatore, nella quale ha sostenuto che i Beatles sono l’espressione di un movimento culturale positivo, che vede i giovani ribellarsi a un mondo dominato da un ottuso automatismo, per valorizzare nuove energie creative. E il leader conservatore, Alec Douglas-Home, un elegante e aristocratico sessantenne, commenta con entusiasmo il successo dei Beatles negli States, sostenendo che se ce l’hanno fatta è perché «sono un gruppo di giovani molto spontanei e molto buffi»86. D’altronde il tono dominante delle reazioni negli Usa, al primo apparire delle nuove stelle del pop britannico, non è poi molto diverso; subito dopo l’esibizione della band all’Ed Sullivan Show, sul «Washington Post» del 10 febbraio 1964, per esempio, si può leggere: Dopo tutto, i Beatles non sono poi dei brutti tipi. Si sono comportati in un modo più civilizzato della maggior parte dei nostri eroi del r’n’r. A parte la bizzarra acconciatura in stile tappetino da bagno, i quattro giovanotti son sembrati dei veri conservatori... asessuati e alla buona87.

In fin dei conti, tutti questi commenti positivi hanno un senso. In questa fase i Beatles non eseguono canzoni straordinariamente diverse, come tono e come struttura, da quelle dei Beach Boys, o di Paul Anka, o dei molti altri musicisti pop che hanno spopolato nelle classifiche americane prima di loro. Almeno fino al 1965 i Beatles non fanno niente di strutturalmente difforme da ciò che circola nello spazio della popular music americana sin dalla moda del r’n’r. Loro stessi sono il modello originario di tutte le boy band che verranno. Certo, sono una boy band che fa musiche di straordinaria freschezza ed efficacia: ma con tutta l’ammirazione per le loro capacità creative, già adesso molto evidenti, non credo si possa dire che la loro musica di questi primi anni si discosti poi molto dagli orizzonti etici e normativi della cultura di massa mainstream.

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1. La British Invasion Ma, di nuovo, nella cultura di massa le vie del crossover sono infinite e del tutto imprevedibili. I Beatles appartengono a una più vasta generazione di musicisti britannici loro coetanei, che in qualche caso fanno musiche molto simili alle loro, in qualche altro caso si muovono secondo coordinate musicali piuttosto diverse. Grazie ai Beatles, tutti questi musicisti sono protagonisti di un processo che è una delle più chiare testimonianze del conformismo che domina i circuiti comunicativi di una cultura di massa. Il successo dei Beat­les, infatti, apre le porte del mercato statunitense all’intera coorte del pop britannico contemporaneo: le ascoltatrici e gli ascoltatori statunitensi, non contenti di comprare compulsivamente i dischi dei Beatles, cominciano ad apprezzare anche altre canzoni, di altri gruppi, purché siano cantate con accento britannico. Non era mai successo prima che il mercato statunitense dei consumi di massa, e in particolare il mercato statunitense della pop music, accogliesse un numero così alto di musicisti non americani, tanto che per descrivere il fenomeno in corso nel 1964-1966 i giornalisti coniano l’espressione «British Invasion»: una invasione che nasce come fenomeno mainstream, e poi dà vita a una vera e fondamentale rivoluzione nell’universo della popular culture. Dunque, la British Invasion porta negli Usa musicisti che fanno musiche di natura molto diversa. Alcuni di essi – tipo i Dave

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Clark Five, Petula Clark, gli Herman’s Hermits – fanno un pop piuttosto semplice, fondamentalmente dotato delle stesse caratteristiche possedute dalle canzoni dei Beatles: brani brevi, struttura basic articolata in strofa-ritornello-bridge-strofa-ritornello, linee melodiche orecchiabili, testi elementari e sentimentali. Insieme a questi gruppi, però, se ne impongono anche altri che rendono più duri e spigolosi gli arrangiamenti delle canzoni, fino quasi ad adombrare i futuri sviluppi dell’hard rock o addirittura del punk; e tra questi spiccano i Kinks che, nell’agosto del 1964, pubblicano You Really Got Me, un brano effettivamente eccezionale, sia per la musica, distorta e aggressiva, sia per il testo che parla di una devastante ossessione amorosa1. Infine c’è un terzo gruppo di band (i Bluesbreakers di John Mayall, gli Yardbirds, gli Animals o i Rolling Stones), i cui componenti sono animati da una grande passione per il blues e il R&B. Alcuni di questi musicisti hanno scoperto il blues durante la moda britannica dello skiffle, a metà degli anni Cinquanta, quando erano poco più che ragazzini; altri ci arrivano dopo aver ascoltato qualcuno dei più famosi interpreti di blues o di R&B (come Robert Johnson, Bo Diddley, Fats Domino o Muddy Waters) alla radio, o su disco, o – qualche volta – dal vivo. Secondo Roberta Freund Schwartz, questi giovani musicisti, molti dei quali provenienti da famiglie di classe medio-bassa, vedono la «terra desolata» del blues come una trasposizione metaforica del loro sentimento di emarginazione sociale. John Steel, il batterista degli Animals, ha affermato che il duro panorama industriale di Newcastle, città dalla quale il gruppo proviene, e il suo isolamento dal resto dell’Inghilterra, lo hanno spinto verso «un’istintiva identificazione emotiva con il blues nero americano». Eric Clapton, in questa fase chitarrista prima degli Yardbirds e poi dei Bluesbreakers, figlio illegittimo allevato dai nonni, ha dichiarato: [da ragazzo] mi sentivo con le spalle al muro e pensavo che l’unico modo di sopravvivere era con dignità, orgoglio e coraggio. Ho sentito tutto ciò in certe forme di musica, e in particolare l’ho sentito nel blues... Si trattava di un uomo e la sua chitarra contro il mondo... quando si arrivava al dunque, si trattava di un tizio completamente solo e senza possibilità, senza alter-

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native, se non di cantare e suonare per placare i propri dolori. E tutto ciò rispecchiava quello che sentivo2.

Altri apprezzano la «autenticità» del blues. Bill Wyman, a lungo bassista dei Rolling Stones, ha detto: «Tutte quelle canzoni melense sul rossetto che ha macchiato il tuo colletto e roba così, erano veramente risibili... ma quando qualcuno cantava del suo lavoro sulla ferrovia a un dollaro al giorno... lo potevi apprezzare, perché probabilmente l’aveva fatto davvero... era ciò che accadeva nella vita». Ed Eric Burdon, leader degli Animals, ha affermato che la prima volta che ha sentito Five Long Years di Eddie Boyd ha pensato: «Questa è roba che succede alla gente... agli uomini cresciuti nel mio quartiere»3. Freund Schwartz osserva anche che il blues ha un notevole appeal anche per le ascoltatrici britanniche, che quando scoprono le canzoni di Bessie Smith o di Gertrude «Ma» Rainey riescono a trovarci un’infinità di suggestioni, sia che le blueswomen cantino il loro disagio affettivo, sia che cantino di una qualche loro brusca reazione all’insensibilità o alla superficialità dell’uomo amato. Altri musicisti ancora, infine, si orientano verso il blues o il R&B come un’intelligente strategia della distinzione, un modo per differenziarsi dal pop più opaco e ripetitivo che satura il mercato, con una musica ruvida, dai testi più diretti e trasgressivi4. Alcune band britanniche, come i Bluesbreakers di John Mayall o la Blues Incorporated di Alexis Korner e Cyril Davies, hanno un approccio al blues piuttosto rigorosamente filologico, sia che suonino cover sia che eseguano loro brani originali. Altre band, invece, come gli Yardbirds, gli Animals o i Rolling Stones, impiegano la matrice blues nel quadro di un repertorio che accoglie anche il folk, l’hard country, il R&B e il r’n’r, producendo talora cover o brani nuovi che, dall’ibridazione tra questi diversi generi, traggono nuova linfa e originalità. È ciò che accade, per esempio, con la prima produzione degli Animals che, nel 1964, reinterpretano con grandissima intensità due brani che appartengono alla tradizione folk americana – Baby Let Me Take You Home, proveniente dal mondo musicale afroamericano, e The

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House of the Rising Sun, che appartiene invece al canone del folk bianco. Entrambi i brani sono stati incisi anche da Bob Dylan nel suo primo album, uscito nel 1962 (la prima delle due canzoni con un titolo leggermente diverso, Baby, Let Me Follow You Down). Le versioni di Dylan, eseguite con chitarra acustica e armonica, e con un impianto vocale esile e tremolante, da cantante folk rurale, non hanno destato alcuna particolare attenzione; quelle degli Animals, eseguite con chitarra elettrica, basso elettrico e organo elettrico, con una batteria che imprime una forte accelerazione ritmica ai brani, e con un cantante – Eric Burdon – che sfodera una voce potente e decisa, fanno tutto un altro effetto. Il singolo degli Animals con Baby Let Me Take You Home, che esce nel marzo del 1964 in UK e ad agosto dello stesso anno negli Usa, ha un buon piazzamento in patria, ma un risultato abbastanza modesto oltre Atlantico. Viceversa The House of the Rising Sun, uscita nel giugno del 1964 in UK e di nuovo ad agosto del 1964 negli Usa, va al primo posto delle classifiche in entrambi i paesi5. Nel complesso, l’applicazione di uno stile R&B a un pezzo folk tradizionale dà vita a un brano che viene considerato come il primo vero e proprio esempio di folk-rock nella storia della popular music, con un risultato che è doppiamente notevole: in primo luogo mostra che le potenzialità comunicative e commerciali della nuova strumentazione elettrica, largamente usata dai giovani musicisti della British Invasion, sono infinitamente maggiori di quelle possedute dai più tradizionali arrangiamenti acustici – una lezione sulla quale Dylan proprio in questi mesi ragiona a lungo; in secondo luogo brani di questo tipo, che ricavano le loro strutture testuali dalla tradizione blues-folk-hard country, si aprono a universi narrativi lontani dalle rassicuranti storielline da boy band che i Beatles e gli altri gruppi pop stanno producendo in quegli stessi mesi. The House of the Rising Sun, per dire, parla di un ragazzo che segue le orme del padre e tenta la carriera di giocatore d’azzardo in una bettola di New Orleans per finire male e meritarsi il carcere6. Se gli Animals, i Kinks e gli Yardbirds producono della ottima musica nuova, nessuno di questi gruppi ha tuttavia la forza e la

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presenza scenica dei Rolling Stones. In un certo senso la band ha origine alla fine del 1961, quando due diciottenni, Mick Jagger e Keith Richards, si incontrano alla stazione di Dartford, nei sobborghi di Londra. I due hanno fatto le scuole elementari insieme, poi hanno seguito percorsi diversi – Richards frequenta prima una technical school e poi una art school, mentre Jagger va a una grammar school e poi prosegue gli studi all’università, ottenendo un posto alla London School of Economics. Quando si incon­trano a Dartford, Jagger ha in mano dei dischi che ha acquistato per posta dagli Usa; Richards, che è appassionato di blues e di R&B, vede che Jagger ha anche dei dischi di Muddy Waters e di Chuck Berry, che sono tra i suoi musicisti preferiti7. Richards prende coraggio e si fa avanti; i due si riconoscono e si mettono a parlare della loro comune passione per il blues; Jagger, che con qualche altro amico si diverte a suonare, invita Richards a unirsi a lui. La band vera e propria comincia a formarsi poco dopo, quando Jagger e Richards si aggregano a Brian Jones (20 anni), con cui condividono la stessa maniacale passione per il blues. Ispirato da questa passione, Jones sceglie il nome del gruppo adattando il titolo di un brano di Muddy Waters (Rollin’ Stone, del 1950). Nel 1963, poi, arrivano Bill Wyman (27 anni) e Charlie Watts (22 anni). All’epoca gli Stones, che si esibiscono in vari locali londinesi, fanno amicizia con i Beatles, e poi incontrano anche Andrew Loog Oldham, un diciannovenne che diventa il loro manager e riesce a convincere la Decca a offrire loro un contratto8. Il loro esordio discografico si muove in una zona compresa tra tutte le componenti musicali che connotano la nuova musica britannica: blues, R&B, r’n’r, soul e pop. Dopo aver pubblicato dei singoli di buon successo, il 13 aprile del 1964 lanciano il loro primo LP – The Rolling Stones – che spodesta dalla vetta della classifica britannica With the Beatles, uscito nel novembre del 1963. Nel giugno del 1964, infine, anche gli Stones sono a New York per il loro primo tour negli States, che però non riscuote un grande successo. Tuttavia a luglio del 1964 il loro nuovo singolo – It’s All Over Now – va in testa alla classifica dei singoli britannici; e

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il 20 novembre anche il loro successivo singolo – Little Red Rooster (una cover di un brano di Willie Dixon, uno dei più brillanti autori di blues elettrico) – va in testa alla medesima classifica. Da allora anche gli Stones in patria piazzano un successo dopo l’altro, sia con i singoli che con gli album, finché nel giugno del 1965 riescono a imporsi anche nelle classifiche americane con (I Can’t Get No) Satisfaction. A ottobre del 1965 ecco la prova del definitivo successo americano: il nuovo album – December’s Children (And Everybody’s) – viene pubblicizzato a Times Square con un cartellone gigante (12 x 18 m) che contiene i ritratti fotografici dei membri del gruppo, eseguiti da David Bailey9. L’insieme della musica suonata, dei testi, del modo di muoversi sul palco, del modo di comportarsi, trasforma gli Stones in una presenza decisamente urticante per una parte significativa del pubblico, specie per le sue sezioni più anziane e più conservatrici10. Strafottenti, arroganti, trasandati, cantano versi intensi e aggressivi, come quelli di I Just Want to Make Love to You, un altro brano di Willie Dixon che gli Stones incidono nel 1964, nel quale cantano: Non voglio che tu faccia la schiava Non voglio che tu lavori tutto il giorno Non lo voglio perché sono triste e depresso Voglio solo far l’amore con te, bella.

che per l’epoca sono versi decisamente insoliti nell’universo del pop11. In parte tutta questa enfasi sull’aggressività nei comportamenti e nelle musiche è una strategia pianificata da Oldham, il loro manager, per differenziarli il più possibile dai Beatles12; in parte si tratta di una loro sensibilità culturale che deriva dalla loro preferenza per il blues e il R&B. Le narrazioni scabrose, l’atmosfera poetica rude e diretta, che sono proprie di questa musica, vengono rivissute dagli Stones con un’intensità tale da trasformarli nell’avanguardia radicale – per così dire – dello schieramento della nuova musica.

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Fino al 1965 il loro repertorio dipende quasi interamente dalle cover (38 su un totale di 66 brani pubblicati sin dall’esordio). La svolta arriva solo nel 1966, quando i brani originali, scritti in coppia da Richards e Jagger, diventano la maggioranza. Un’analisi comparata delle cover eseguite dai Beatles e dai Rolling Stones nei loro primi anni di carriera mostra meglio le matrici musicali dalle quali si muovono i due gruppi e soprattutto la maggiore importanza che la tradizione blues e R&B ricopre per i Rolling Stones (Tab. 5): Tab. 5. Cover eseguite dai Beatles (1962-1965) e dai Rolling Stones (19631965). R’n’r

Blues

R&B

Pop

Soul

Beatles

10 (47,6%) 0

2 (9,5%)

Rolling Stones

8 (21%)

9 (23,6%) 4 (10,5%) 8 (21%)

8 (21%)

Country

6 (28,5%) 3 (14,2%) 0

Totale

% delle cover sul totale della produzione

21 (100%)

30,4

1 (2,6%) 38 (100%)

57,5

Se dal confronto aridamente statistico si passa a una comparazione testuale, appare chiaro che la differenza tra i due gruppi non è dettata solo dall’atteggiamento, dall’abbigliamento, dal modo di comportarsi sul palco, col pubblico o con la stampa. La differenza è il frutto di chiare scelte stilistiche: i Beatles preferiscono scrivere brani originali gentilmente sentimentali; i Rolling Stones si affidano invece al canone più ruvido della musica afroamericana. Il che consente loro di rilanciare – ma questa volta su un mercato di massa – storie, figure, scelte linguistiche che da decenni circolano in spazi comunicativi molto più marginali, riservati solo o prevalentemente al pubblico afroamericano. Le vicende di amori andati male; le vanterie del macho che nasconde dietro la sua brutalità una fragilità incredibile, fragilità che emerge in tutta la sua umiliante realtà quando la donna invariabilmente lo lascia; la forza irresistibile del desiderio sessuale; l’inquietudine profonda – il «blues», il devil – che ti insegue senza

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lasciarti mai tregua: sono tutte figure dell’immaginario musicale afroamericano che i Rolling Stones sanno comunicare con originale potenza. Naturalmente c’è anche un lato oscuro in questa storia: il blues riesce a conquistarsi le luci del palcoscenico negli Usa solo quando dei musicisti bianchi, anche se un po’ esotici – come i giovani protagonisti della British Invasion devono apparire agli ascoltatori statunitensi –, lo rendono «razzialmente» accettabile. È vero che poi il successo dei nuovi giovani musicisti che suonano il blues riapre spazi di mercato e di pubblico anche per musicisti neri come Muddy Waters, o B.B. King, o Howlin’ Wolf, ecc. Resta, tuttavia, che affinché la musica nera si imponga sul mercato di massa è necessario di nuovo che, come con il r’n’r, a eseguirla siano in prima battuta dei musicisti bianchi. Ciò detto, bisogna anche aggiungere che i Rolling Stones, e in particolare Richards e Jagger, sanno fare tesoro di questo training centrato sull’arrangiamento di brani che appartengono ai generi musicali afroamericani più borderline, perché, quando arriva il momento, sono capaci di scrivere brani propri che rivisitano in forme molto originali le atmosfere musicali e narrative dei generi-matrice da cui hanno tratto ispirazione. Gli elementi di novità che gli Stones sanno introdurre sono soprattutto due: dal punto di vista musicale sono tra i primi a saper usare con straordinaria efficacia il riff, cioè la breve cellula melodica che introduce un brano e ricorre poi nel corso dell’esposizione come il costante leitmotiv che dà un’aura unitaria specifica a tutta quanta l’esecuzione; dal punto di vista narrativo sono tra i primi a saper articolare in modo nuovo il disagio di molti giovani, il loro profondo senso di disaffiliazione da un contesto sociale nel quale non riescono a trovare un loro spazio13. Proprio perché possiedono entrambe queste caratteristiche, due brani, tra i molti di successo che costellano i primi passi della loro carriera, meritano una particolare attenzione. (I Can’t Get No) Satisfaction esce come singolo il 6 giugno del 1965 negli Usa e il 20 agosto 1965 nel Regno Unito: il riff di chitarra che apre il brano è tra i più famosi della popular music mondiale, una sorta di inno breve, rabbioso, ripetuto, affidato alle note basse e distor-

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te della chitarra elettrica di Richards, che introduce un testo nel quale il rifiuto infastidito del consumismo contemporaneo si associa a un bruciante e irridente autosarcasmo: Non riesco ad avere nessuna soddisfazione [...] Sto guidando la mia macchina, e quell’uomo viene fuori alla radio Continua a darmi qualche inutile informazione Supponendo di accendere la mia immaginazione [...] Sto guardando la mia tv e quell’uomo viene fuori per dirmi Quanto possano essere bianche le mie camicie Ma, non può essere un uomo perché non fuma le mie stesse sigarette [...] Viaggio intorno al mondo, e faccio questo e firmo quello E cerco di farmi una tizia, che mi dice Bello, meglio che ritorni la prossima settimana perché, vedi, adesso ho [le mie cose Non riesco. Oh no, no, no. Ehi, ehi, ehi È quel che dico. Non riesco, non riesco Non riesco ad avere nessuna soddisfazione, nessuna soddisfazione Nessuna soddisfazione, nessuna soddisfazione.

Paint It Black, invece, esce come singolo il 7 maggio del 1966 negli Usa e il 13 maggio 1966 in UK. Con questo brano Jagger e Richards affrontano con coraggio un tema assolutamente tabù nella cultura di massa mainstream, e invece molto ben presente nel blues, nel folk e nell’hard country, ovvero la morte, o meglio, in questo caso, la difficile elaborazione del lutto davanti alla morte della ragazza amata: Guardo dentro di me e vedo che il mio cuore è nero Vedo la mia porta rossa ed è stata dipinta di nero Forse allora scomparirò e non dovrò affrontare la realtà Non è facile affrontarla quando l’intero tuo mondo è nero Il mio verde mare non diventerà più di un blu più profondo Non potevo prevedere che ti sarebbe successa una cosa simile.

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In Paint It Black – ancor più che in Satisfaction – Richards e Jagger danno voce a una struttura emotiva che può essere considerata certamente blues; dal punto di vista musicale, invece, entrambi i brani abbandonano con decisione la rigida forma-blues, assolutamente irriconoscibile soprattutto in Paint It Black: il riff di quel brano è affidato al sitar, suonato da Brian Jones, che introduce una linea melodica esotica e cupa, resa esplosiva dal battito forsennato delle percussioni di Watts. Il pensiero ossessivo della morte, che abita la mente del narratore, e che lo spinge a vedere il sole che si oscura nel cielo rendendo nera qualunque altra cosa intorno a lui, si adagia su una «melodia oscura, misteriosa, di sapore indiano-orientale, che suona un po’ come la colonna sonora di un film di Bollywood sparata in totale hyperdrive»14: la descrizione di Richie Unterberger è forse eccessiva, ma serve a rendere l’impatto sconcertante, il senso di elettrizzante novità, l’effetto del tutto «inaudito» che canzoni come queste devono aver esercitato su ascoltatori e ascoltatrici abituati fin allora alle gentili melodie dei primi Beatles e di altri gruppi consimili. 2. Dylan goes electric Nel febbraio del 1964 Bob Dylan, dall’autoradio della macchina nella quale sta viaggiando con un gruppo di amici, ascolta I Want to Hold Your Hand dei Beatles, e ne resta impressionato. Dylan e i Beatles, poi, si incontrano per la prima volta il 28 di agosto del 1964 all’Hotel Delmonico di New York; poi si incontreranno ancora, diverse altre volte. È un incrocio di geni creativi, questo, che ha un effetto fondamentale per la nuova musica: sia l’uno che gli altri prendono spunto dalla loro reciproca conoscenza per approfondire un processo di mutamento, o per avviarlo ex novo. Ma Dylan matura un suo cambiamento anche ascoltando musiche come quelle degli Animals, o dei Rolling Stones. Apparentemente la chiave della svolta sembra stare nella strumentazione elettrica e nella sezione ritmica, che questi gruppi impiegano regolarmente e che Dylan, fin allora, non ha mai utilizzato. In effetti questo è l’aspetto più ricordato di ciò che si consuma

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nel 1965 quando Dylan abbandona la strumentazione esclusivamente acustica per adottare la nuova strumentazione tipica dei gruppi britannici. Il 22 marzo 1965 esce il suo nuovo LP – Bringing It All Back Home – con una facciata acustica e una nella quale Dylan suona la chitarra elettrica, accompagnato da un nutrito gruppo di ottimi musicisti15. Dopodiché, nel luglio seguente, il mutamento di stile diventa un caso nazionale. Dylan deve esibirsi al Newport Folk Festival. È una manifestazione nella quale è di casa. Vi si è esibito nel 1963 e nel 1964, riscuotendo già un grande successo; e adesso le aspettative sono notevoli, viste le novità che si sono accumulate in Another Side of Bob Dylan e Bringing It All Back Home. Nel pomeriggio di sabato 24 luglio 1965, all’apertura del Festival, Dylan esegue alla chitarra acustica All I Really Want to Do, una delicata canzone d’amore e amicizia, tratta da Another Side of Bob Dylan. Nello stesso pomeriggio la band di Paul Butterfield, alla quale appartiene anche Mike Bloomfield con il quale Dylan, nel maggio precedente, ha registrato dei brani inediti destinati a un nuovo album, si esibisce all’interno del Festival, nel Bluesville Workshop. L’esibizione della band elettrica è occasione di un alterco tra Alan Lomax, difensore della purezza del folk e del blues e quindi del tutto contrario all’uso di strumenti elettrici, e Albert Grossman, produttore di Dylan, che pensa di proporsi alla band di Butterfield come nuovo manager. Quasi a sfidare le pretese dei puristi come Lomax, e per rompere definitivamente un legame con un mondo e un pubblico che gli sembra lo stiano soffocando, Dylan decide di esibirsi il giorno dopo con una band elettrica16. Fa le prove durante la notte con Bloomfield alla chitarra, Al Koo­ per all’organo, Barry Goldberg al piano, Jerome Arnold al basso e Sam Lay alla batteria. La sera del giorno dopo, domenica 25 luglio 1965, Dylan va sul palco vestito in modo inconsueto per un musicista folk: pantaloni attillati, stivali a punta, camicia a pois molto grandi, un giubbotto di pelle nera e occhiali scuri. Pete Seeger presentò il concerto serale come un evento destinato a richiamare l’attenzione su alcune delle più serie questioni mondiali: la lotta per

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i diritti civili e la guerra in Vietnam, dove le truppe statunitensi avevano da poco lanciato l’offensiva contro la popolazione del Nord. La maggior parte dei musicisti che si esibivano al festival erano tradizionalisti folk convinti sostenitori dei valori democratici, e il pubblico, che ignorava che Bob avesse provato con un gruppo vero e proprio, si aspettava di ascoltare canzoni di alto impegno sociale17.

Dylan, invece, va sul palco col gruppo e inizia un’esecuzione di Maggie’s Farm molto rumorosa e con il mixer sballato, tanto che a un certo punto il gruppo va fuori tempo18. La gente comincia a fischiare. Seeger chiede ai membri dello staff di Dylan di regolare i suoni, ma quelli non ci pensano proprio. Dopodiché, Dylan e il suo gruppo eseguono due nuove canzoni, Like a Rolling Stone e It Takes a Lot to Laugh, It Takes a Train to Cry; la qualità del suono resta pessima e il pubblico fischia, sia perché non sente niente, sia perché l’uso degli strumenti elettrici sembra un tradimento, una debole resa agli imperativi del music business19. Dopo questi tre brani i musicisti escono di scena. Dylan viene invitato a ripresentarsi sul palco, e lui ci ritorna con la chitarra acustica; si fa dare un’armonica ed esegue It’s All Over Now, Baby Blue, e Mr. Tambourine Man, due enigmatici brani tratti dalla facciata acustica di Bringing It All Back Home. E lì si chiude l’epica giornata20. Il turbolento mutamento stilistico viene coronato, infine, con il completamento delle registrazioni del nuovo album, questa volta integralmente elettrico, che viene pubblicato il 30 agosto 1965 col titolo Highway 61 Revisited21. Se tutto il senso del cambiamento attraversato da Dylan fosse questo, sarebbe in fondo ben poca cosa: un musicista folk che smette gli arrangiamenti esclusivamente acustici e indossa i panni del rocker. Ma in effetti non è questa la cosa più importante. Ciò che conta veramente è la trasformazione integrale nello stile poetico, oltre che musicale, che connota i tre album «elettrici» del 1965-1966 (Bringing It All Back Home; Highway 61 Revisited; e Blonde on Blonde), come anche John Wesley Harding, un LP uscito nel dicembre del 1967, che segna il ritorno a una strumentazione acustica. In effetti, questi album tracciano le linee di una svolta fondamentale per l’intera storia della popular music: non

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solo Dylan amplia la sua gamma espressiva in direzione del r’n’r, del R&B, del blues elettrico e del country; ma lo fa adottando una poetica neomodernista, derivata in primo luogo dall’esperienza beat di Ginsberg, Corso e Ferlinghetti, spinta talora a livelli estremi di provocatorio ermetismo. Con un gesto semplice quanto coraggioso, Dylan mostra che la popular music non è condannata a sostenere testi semplici, metriche piane, e rime baciate «amore-cuore», ma può dialogare con forme poetiche stilisticamente complesse, ricche di risonanze simboliche, metricamente elaborate e lessicalmente ricercate. E così, per esempio, nelle mani di Dylan, la forma-blues si apre a fantasiose descrizioni dei percorsi di un io narrante. Outlaw Blues, tratto da Bringing It All Back Home, è un brano nel quale la struttura della strofa segue la morfologia tipica della poetica blues. In ogni strofa ci sono tre versi, divisi in due emistichi; i primi due versi si ripetono, il terzo porta a una soluzione la premessa introdotta dai due precedenti: Ain’t it hard to stumble – pausa – And land in some funny lagoon? Ain’t it hard to stumble – pausa – And land in some muddy lagoon? Especially when it’s nine below zero – pausa – And three o’clock in the [afternoon 22.

Coerentemente, la struttura della musica è quella di un blues elettrico che si trasforma in un elettrizzante r’n’r. Solo che il testo è più anarchico ed enigmatico che in qualunque altro esempio blues (non parliamo poi del r’n’r): Non è dura inciampare ed atterrare in lagune strane? Non è dura inciampare ed atterrare in lagune fangose? Soprattutto quando ci sono nove gradi sotto zero e sono le tre in punto [del pomeriggio Non appendo nessun quadro e non appendo nessuna cornice Non appendo nessun quadro e non appendo nessuna cornice Beh, potrei assomigliare a Robert Ford23 ma mi sento proprio come [Jesse James

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Beh, vorrei trovarmi su qualche catena montuosa australiana Oh, vorrei trovarmi su qualche catena montuosa australiana Non ho motivo di trovarmi lì, ma suppongo che in qualche modo sarebbe [un cambiamento Porto i miei occhiali da sole scuri, ho il mio dente nero portafortuna Porto i miei occhiali da sole scuri, ho il mio dente nero portafortuna Non domandatemi niente su niente potrei dirvi la verità Ho una donna a Jackson non voglio dire il suo nome Ho una donna a Jackson non voglio dire il suo nome È una donna dalla pelle scura, ma l’amo lo stesso24.

Alcuni frammenti di senso sembrano abbastanza facilmente decifrabili: l’artista difende la sua libertà e indipendenza; si sente come un fuorilegge (Jesse James), anche se c’è chi lo considera piuttosto un traditore (Robert Ford); potrebbe dire la verità, ma probabilmente non ne vale più la pena e quindi, tutto sommato, vorrebbe essere altrove, in un altrove qualsiasi, tipo una qualunque catena montuosa australiana. I riferimenti alla sua traiettoria artistica (l’allontanamento dalla scena folk) sono cifrati ma trasparenti; e il senso, nonostante un primo momento di smarrimento, forse è abbastanza chiaro, anche se il gioco interattivo con l’ascoltatore resta aperto: per dire, che rapporto c’è tra questo asse narrativo e il quadro da appendere, il dente nero portafortuna o la donna nera di Jackson? In testi come questi Dylan intende ancora sfidare chi ascolta, come peraltro aveva già ripetutamente fatto nelle canzoni degli album precedenti: lui non ha la verità in tasca; ha intuizioni, suggestioni, visioni, che ciascuno ha la possibilità di rielaborare poi in forma autonoma25. È un po’ come se dicesse: avete pensato che qualcuno – io, per esempio? – avesse la verità in tasca? O magari l’ho pensato io stesso, in qualche momento? Ebbene, comunque sia, è stato un grave errore: nessuno ha con sé una chiave per decifrare alcunché attraverso un qualche semplice schema interpretativo. E ve lo dimostro. Scompongo la realtà in un caleidoscopio di figure apparentemente familiari, ma sparate inte-

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gralmente fuori da ogni contesto comprensibile. E così ciascuno è libero di seguire un suo filo. Se la cosa disorienta i benpensanti come Mr. Jones (il protagonista di Ballad of a Thin Man, dall’album Highway 61 Revisited), tanto meglio. Mr. Jones è l’idealtipo del raffinato intellettuale, che per quanto colto sia, si smarrisce a contatto con i tempi che stanno cambiando e non afferra ciò che gli sta accadendo intorno («Perché qui sta succedendo qualcosa / Ma tu non sai cos’è / Vero, mister Jones?»26). Patetico lui, tanto quanto lo sono quelli che, imbarcati sul Titanic e quindi destinati al disastro, cantano una canzone militante come Which Side Are You On? (da Desolation Row, anch’essa presente in Highway 61 Revisited). L’uno e gli altri sono lo specchio di tutti coloro che pretendono di aver gli strumenti giusti per capire come stanno le cose: ma le cose sono complesse, quasi indecifrabili, e certo non suscettibili di essere collocate in un semplice ordine del discorso; e per far fronte alla marea del mutamento c’è bisogno di strutture cognitive ben più complesse di quelle che sono trasmesse dal sistema scolastico o mediatico americano, o anche di quelle richieste dalle canzoni folk del suo – un tempo – amato Woody Guthrie. In secondo luogo, nel passaggio dalle canzoni di protesta a canzoni più surreali Dylan non smette di guardare con empatia all’underworld contronarrativo che ama sin da quando è ragazzino, a tutte quelle «donne fuorilegge, supercattivi, demoni amanti e verità sacre... [a quelle] strade e vallate, paludi ricche di fango, con proprietari terrieri e padroni del petrolio, e vari Stagger Lee, Pretty Polly e John Henry»27. Solo che adesso lo fa con una poetica più ricca ed evocativa, senza l’atteggiamento populista o paternalista del folk degli anni tra le due guerre, per il quale era imperativo parlare chiaro e semplice, altrimenti nessuno ti avrebbe capito. Con coraggio, dentro la cornice del suo nuovo stile poetico spigolosamente neomodernista, Dylan costruisce una appassionata galleria di antieroi, inaugurata dalla memorabile protagonista di Like a Rolling Stone (canzone uscita come singolo nel luglio del 1965, e poi inclusa, come brano di apertura, in Highway 61 Revisited): il testo parla di una ragazza di buona famiglia, abituata a frequentare le scuole

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più prestigiose, che ha preso ad abusare dell’alcol e a frequentare le persone sbagliate; tra di loro, il peggiore è l’affascinante «diplomatico in moto» che le ha rubato tutto quello che aveva, costringendola così a vivere per la strada come una homeless, lei che, in realtà, non l’ha mai fatto prima in vita sua. Disperatamente sola, non le resta che impegnare quel poco che le è rimasto, imparando a rispettare i marginali che quand’era ricca guardava con disprezzo: Come ci si sente Come ci si sente A contare sulle proprie forze Senza un posto dove andare Come una completa sconosciuta Come una pietra che rotola?28

Se in storie come questa Dylan continua a esplorare un sottomondo di reietti, adesso lo stile più ermetico rimarca in modo netto ciò che egli cercava di dire da tempo: e cioè che non esiste alcuna grande costruzione concettuale (politica, religiosa o filosofica) che dia un senso al dolore; solo una nuova, intelligente e decostruttiva empatia può aiutare a immaginare un nuovo umanesimo rasoterra, un umanesimo aperto agli umili, ai marginali, ai sofferenti. In un certo senso la sperimentazione lessicale e poetica nella quale Dylan si impegna appare particolarmente evidente e suggestiva nelle canzoni d’amore, che adesso si arricchiscono di risonanze veramente insolite. Dylan, per esempio, apre in questo modo Visions of Johanna, adagiando le parole su un tappeto musicale indolente e sognante: Ti pare questa la serata di far giochetti quando uno ha solo voglia di star [quieto? Siamo qui come dei naufraghi, anche se facciamo finta di niente Louise ti tenta a sfidare la pioggia che le riempie la mano Nell’appartamento di fronte la luce va e viene In questa stanza il calorifero tossisce La radio manda musica country a basso volume Ma non c’è niente, proprio niente da spegnere Solo Louise e il suo uomo che stanno abbracciati E queste visioni di Johanna che mi invadono la mente29.

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Alessandro Carrera commenta così questa strofa: Anticipando una tecnica di narrazione non lineare che porterà poi a perfezione in Blood on the Tracks, Dylan opera una dissoluzione cubista dell’identità alternando i pronomi di prima, seconda e terza persona. «Siamo qui come dei naufraghi», informa il narratore; aggiunge che nella stanza ci sono «Louise e il suo uomo che si tengono stretti» e le visioni di Johanna che stanno prendendo il possesso della «sua» mente, della mente del narratore stesso. Ma nulla impedisce che il narratore e l’uomo di Louise siano la stessa persona, intento voyeuristicamente a osservare se stesso in un gioco di rifrazione multipla, attivo e passivo allo stesso tempo. Allo stesso modo, i personaggi che nelle strofe successive appaiono e scompaiono nello spazio di un verso potrebbero essere solo allucinazioni, le «visioni di Johanna», appunto, oppure persone reali che dividono la stanza con Louise e il suo uomo e che appaiono distorte da un’immaginazione drogata30.

Il testo poi prosegue inanellando immagini evocative che per lo più sembrano raccontare, in forma onirica e surreale, di una serie di spostamenti notturni in una grande città compiuti dal narratore insieme a Louise e (forse) all’uomo di costei; nel muoversi da un imprecisato punto della città a un altro, la voce narrante coglie frammenti di immagini, di conversazioni rubate, di dialoghi vissuti, mentre la presenza/assenza di questa desiderata e inarrivabile Johanna ossessiona senza posa la mente di colui che sta raccontando la storia31. Non meno straordinaria è Sad-Eyed Lady of the Lowlands, una intensa ode a una donna amata (quasi certamente Sara Lownds, all’epoca moglie di Dylan), piena di immagini suggestive, romantiche, enigmatiche, perfino commoventi nel trasporto emotivo che suggeriscono. Lei sembra circondata da una folla di persone che vogliono metterla in discussione, ma nessuno può farcela di fronte alle sue qualità, stranamente esotiche e sacrali: Con le tue lenzuola come metallo e la tua cintura come merletto E il tuo mazzo di carte senza il fante e l’asso E i tuoi vestiti da cantina e il tuo viso scavato Chi tra loro potrebbe mai pensare di ingannarti? Con la tua silhouette quando la luce del sole si abbassa Nei tuoi occhi dove nuota la luce lunare

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E le tue canzoni scritte su scatole di fiammiferi e i tuoi inni zingari Chi tra loro vorrebbe cercare di impressionarti? Signora delle pianure dagli occhi tristi Dove il profeta dagli occhi tristi dice che nessun uomo giunge I miei occhi di magazzino, i miei tamburi arabi Devo lasciarli alla tua porta O, signora dagli occhi tristi, devo aspettare?32

Cercare una decifrazione letterale di ciascuno dei passaggi contenuti in testi di questo genere sarebbe assolutamente inutile: vale piuttosto la grande suggestione delle scelte lessicali, figurali e poetiche, che chi ascolta deve tradurre in paesaggi emotivi, piuttosto che in concrete e banali vicende biografiche. 3. La metamorfosi dei Beatles Se Dylan prende nuove strade, anche i Beatles lo fanno: l’incontro con Dylan, infatti, si è rivelato enormemente fruttuoso anche per loro. Dylan li ha, in qualche modo, rimproverati per essersi adagiati, sino ad allora, in brani brillanti e accattivanti, ma banali dal punto di vista testuale. Da un lato i Beatles reagiscono allo stimolo con la loro proverbiale insolenza. John Lennon, rievocando il suo scetticismo sulla virata neomodernista di Dylan, ha poi detto: «Da Dylan si accettava di tutto. Pensai: posso scriverne anch’io, di questa robaccia»33. In un certo senso, Lennon svela così un pericolo insito nella traiettoria tracciata dalla «trilogia elettrica» di Dylan: incoraggiare ogni aspirante musicista a scrivere testi di un ermetismo facile quanto dozzinale. Più seriamente, tuttavia, i Beatles sono toccati dalla critica e cominciano a esplorare davvero nuovi territori testuali. Certo, lo stimolo al cambiamento non viene solo dall’incontro con Dylan. Nel corso del loro secondo tour negli Usa, iniziato nell’agosto del 1964, l’assedio della folla si è fatto sempre più asfissiante, e le grida di entusiasmo delle fan sono diventate un muro sonoro talmente massiccio e costante da impedire ai quattro di sentire persino ciò che stanno suonando. E così, nel 1966 i Beatles

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decidono che è ora di non esibirsi più dal vivo per dedicarsi di più alla loro musica, sia in fase di scrittura sia in sala di registrazione: una scelta coraggiosa, visti gli ingaggi che sono ormai in grado di spuntare34. In questa fase è soprattutto Paul McCartney a interessarsi a una gran varietà di altre esperienze artistiche. Ha una ragazza upper class, l’attrice Jane Asher, che gli fa ascoltare Vivaldi e apprezzare i Concerti Brandeburghesi di Bach; ma è aperto anche all’avanguardia, e ascolta con passione la musica di Stockhausen, Berio e Cage. Lennon lo segue in questi nuovi interessi, mentre Harrison, dal canto suo, si sta avvicinando con curiosità alla cultura, alla religione e alla musica dell’India. D’altronde la traiettoria seguita da Dylan, qualunque cosa se ne voglia pensare, li ha colpiti profondamente. Lo stesso Lennon, che pure – come abbiamo visto – ha parole assai aspre per i nuovi testi dylaniani, in un’altra occasione afferma: «Dylan ci mostra il cammino»; e con ciò vuole dire che ascoltando le sue canzoni ha capito che le potenzialità liriche di un testo possono andare ben al di là delle semplici narrazioni minimaliste di storie adolescenziali35. Con questa nuova sensibilità, dal 1965 al 1967 i Beatles pubblicano cinque album (Help!, agosto 1965; Rubber Soul, dicembre 1965; Revolver, agosto 1966; Sgt. Pepper’s Lonely Hearts Club Band, giugno 1967; Magical Mystery Tour, novembre 1967) che contribuiscono a rivoluzionare la popular music come la si era conosciuta fin allora. In parte, forse, la loro nuova creatività è incoraggiata dall’uso della cannabis o dell’Lsd, «sostanze che rallentano i processi mentali e amplificano le sensazioni, rendendo affascinanti le cose di tutti i giorni e rendendo difficoltoso giudicare il valore delle sensazioni individuali»36. Ma ciò che cambia interamente il quadro è soprattutto la nuova considerazione che cominciano ad attribuire al loro lavoro. Le strutture narrative del triennio 1965-1967 sono multiple. Da un lato alle produzioni di questi anni appartengono ancora canzoni d’amore che, pur essendo talora più mature di quelle della fase 1962-1964, continuano a collocarsi dentro un’area tematica assolutamente tipica della popular music; oppure ci sono allegri e brillantissimi inni

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all’amicizia (With a Little Help from My Friends, 1967) o all’amore (All You Need Is Love, 1967), che fanno sì che una notevole sezione del pubblico originario, che li ha seguiti nella loro prima incarnazione di boy band, continui ancora a seguirli; dall’altro lato, però, ora i Beatles sentono di avere risorse liriche tali da renderli capaci di affrontare anche altri argomenti, di solito del tutto estranei al pop o al r’n’r: la solitudine, la sofferenza, la morte. E lo fanno in brani che testualmente e musicalmente sono dei veri gioielli, come per esempio Yesterday (Help!, 1965), Eleanor Rigby (Revolver, 1966), She’s Leaving Home e A Day in the Life (Sgt. Pepper’s Lonely Hearts Club Band, 1967). In Yesterday il centro della canzone sembra essere una storia d’amore che sta finendo, e il rimpianto che ne deriva; ma il vero soggetto è il mutare di atteggiamento che si fa strada in un giovane che sta crescendo e l’ansia oscura che questa nuova situazione comporta. L’intensità del testo è rafforzata dalle scelte musicali: se Yesterday conserva la tradizionale sequenza strofa-ritornello, l’arrangiamento del produttore George Martin la spinge già in un’altra dimensione. L’esecuzione, affidata a un quartetto d’archi accompagnato solo dalla chitarra acustica di Paul McCartney, le conferisce un’eleganza che ha uno spazio a sé nella popular music, poiché coniuga felicemente un’estensiva citazione delle modalità performative della musica colta con la più tipica struttura della canzone pop. Eleanor Rigby sviluppa questa nuova poetica, esplorandola attraverso un’interazione intensa e commovente tra il testo e la musica; l’arrangiamento di George Martin sfrutta un doppio quartetto d’archi, a cui si uniscono la voce solista di McCartney e quelle di Lennon e Harrison per i cori: l’uso dell’ostinato affidato ai violoncelli e agli altri archi, che corre per tutto il brano, e che si sviluppa in brevi figure decorative attribuite ora ai violini, ora alle viole, ora ai violoncelli, dialoga con un testo particolarmente ispirato. Il tema viene dichiarato sin dall’inizio, con un invito perentorio: «Ah, guardate tutta quella gente sola»; dopodiché viene presentata la prima figura della solitudine: si tratta di Eleanor Rigby, una donna che passa le sue giornate racco-

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gliendo il riso nella chiesa nella quale si è appena celebrato un matrimonio, e che ne sogna uno per lei, che non arriverà mai; poi si chiude in casa e lì, a tu per tu con la sua solitudine, sente di non essere più nessuno; la sua faccia (la sua identità) è lì accanto alla porta, e la indossa solo quando esce e cerca di darsi un filo di dignità37. Da dove viene questa donna?, si chiede il narratore; a quale comunità appartiene? Domande che restano senza risposta e che introducono la seconda figura della canzone, il parroco della chiesa nella quale si è svolto il matrimonio: padre McKenzie scrive sermoni che nessuno ascolta; non è in contatto con nessuno; e anche lui se ne sta chiuso nella sua casa, rammendandosi i calzini, senza più passione per nulla, nemmeno per il suo ruolo. Alla fine i due si incontrano, perché Eleanor Rigby muore e la messa funebre viene celebrata proprio da padre McKenzie. Ma al funerale della donna non c’è nessuno; e nemmeno padre McKenzie sembra interessarsi minimamente a lei, o alla sua anima («No one was saved»): con un gesto che riassume il senso di tutta la storia, il prete, finita l’inumazione, si pulisce le mani dalla terra mentre si allontana dalla tomba desideroso solo di archiviare al più presto anche questa morte che per lui non vuol dire proprio nulla. Anche in She’s Leaving Home i Beatles e George Martin scelgono la strada dell’arrangiamento classico, affidando l’esecuzione di nuovo a un doppio quartetto d’archi con l’aggiunta di un contrabbasso e di un’arpa. Qui, però, il tema è il conflitto generazionale: una ragazzina fugge per sempre da casa sua, per costruir­ si una nuova vita con il suo uomo. Non c’è alcun abbandono a un’ovvia retorica generazionale, perché la vicenda è raccontata sia dal punto di vista della ragazza, desiderosa di ribellarsi a una vita grama, sia dal punto di vista dei genitori, feriti e preoccupati per il gesto della figlia. Lei, dunque, se ne va perché è «stata sola per anni» in quella casa e vuole conquistarsi la libertà e «il divertimento» che lì le sono sempre stati negati, giacché «il divertimento» è l’unica cosa che il denaro dei genitori non ha saputo comprare, come non ha saputo comprare quella serenità familiare di cui, probabilmente, la ragazza avrebbe avuto bisogno. Però

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non c’è rabbia nel suo gesto; la ragazza lascia un breve messaggio per i genitori, che spera possa dire loro più di quanto c’è scritto; e poi se ne va, in silenzio, la mattina presto, stringendo convulsamente un fazzoletto tra le mani, un particolare che spacca il cuore degli ascoltatori più attenti, rivelando tutta la trepidazione della giovane ribelle. Poi, come in una sequenza cinematografica, la prospettiva cambia: il padre dorme ancora, quando la madre si sveglia e scopre il biglietto; lo legge lì, in vestaglia, bloccata in piedi in cima alle scale, e poi scoppia a piangere gridando: «papà, la nostra piccola è andata via!»; in controcanto le immagini della ragazza che se ne va sono contrappuntate dalle frasi pronunciate dai genitori, ancora addolorati, anche dopo aver superato lo shock iniziale: «le abbiamo dedicato la maggior parte delle nostre vite, ci siamo sacrificati per lei, le abbiamo comprato tutto ciò di cui aveva bisogno, non abbiamo mai pensato a noi stessi, abbiamo lottato con tutte le nostre forze per farcela»; e, anche in questo caso, non c’è alcun risentimento nelle parole, ma sconcerto e dolore per non essere riusciti a stringere un vero rapporto con la figlia. In A Day in the Life, infine, si parla proprio di un qualunque giorno nella vita, come dice il titolo, e anche in questo caso lo si fa con un arrangiamento classico, che stavolta comporta l’uso di un’intera orchestra sinfonica, insieme a John Lennon (voce, piano e chitarra), Paul McCartney (voce, basso e piano), Ringo Starr (percussioni e piano) e George Harrison (maracas)38. In questo «giorno nella vita» accadono le cose più svariate, dalle più tragiche alle più normali, alle più insulse: un uomo muore in un incidente stradale tra la morbosa curiosità dei testimoni dell’incidente che si chiedono se per caso non sia un membro della Camera dei Lord; un altro tizio va al cinema a vedere un film di non grande successo; un altro ancora si sveglia e va al lavoro, sebbene non ne abbia poi così tanta voglia; mentre sul quotidiano di quel giorno si può leggere un articolo che spiega quante buche ci sia­no nelle strade di Blackburn, Lancashire. Quest’ultima cosa è veramente priva di senso; messa a fianco agli altri flash, e soprattutto al primo quadro, funziona da commento disperata-

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i s s r s r s

Grafico 3. Struttura compositiva di Yesterday (durata: 2:03).

cd

mente ironico su come la vita stessa possa essere tragicamente senza senso, un aspetto enfatizzato dal contrasto tra la melodia delle parti cantate e i due bridge orchestrali, drammaticamente rumoristici, che accentuano l’atmosfera nel complesso straziante dell’intera canzone. Man mano che sperimentano nuove soluzioni testuali, i Beatles rendono anche più complessa la struttura delle loro canzoni. Naturalmente di per sé la maggiore complessità strutturale non garantisce esiti più suggestivi. Nel canzoniere dei Beatles c’è una grande quantità di canzoni basate sulla elementare struttura strofa-ritornello, cioè sulla più semplice forma-canzone, che, ciò nonostante, raggiungono livelli espressivi eccelsi. L’esempio più clamoroso che si può fare è certamente Yesterday: nella canzone una breve introduzione strumentale (i) è seguita da due strofe (s) e un ritornello (r), e poi di nuovo dalla sequenza strofa-ritornello-strofa, con la chiusa che è affidata a una fugace coda strumentale (Grafico 3). La semplicità compositiva di Yesterday, che si appoggia su un modello larghissimamente diffuso nella musica angloamericana,

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i c b c cd

Grafico 4. Struttura compositiva di Tomorrow Never Knows (durata: 2:56).

dal pop più banale al r’n’r più aggressivo, non compromette affatto le qualità del brano, che anzi sono in una certa misura esaltate proprio da questa sua linearità. Tuttavia, in questi anni di sperimentazioni, i Beatles percorrono anche altre strade complicando la struttura compositiva dei loro brani. Le soluzioni adottate sono prevalentemente due: mantenere una struttura compositiva semplice ma rendere complesso l’arrangiamento; oppure unire un arrangiamento sofisticato a una struttura compositiva stratificata e più articolata. Un esempio piuttosto estremo della prima soluzione è offerto da Tomorrow Never Knows (Revolver, 1966), di Lennon, che parla dell’illuminazione indotta dall’uso di droghe con parole molto suggestive. La canzone ha la durata complessiva di un normale brano pop (2:56) e un’architettura compositiva abbastanza semplice (Grafico 4): un’introduzione strumentale (i) apre su tre strofe della stessa durata (c), seguite da un bridge strumentale (b), e poi da altre quattro strofe simili a quelle del primo blocco (c), mentre una doppia coda (cd), vocale e strumentale, chiude la canzone.

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Dunque, la forma complessiva della canzone è in sé e per sé molto semplice. Tuttavia, ciascuna di queste parti è intersecata da effetti sonori ottenuti attraverso una serie di quattro tape-­ loops, realizzati con dei registratori Brenell, che si ripresentano costantemente nel corso del brano: (1) un effetto simile al canto di un gabbiano, ottenuto distorcendo una risata di McCartney; (2) una varietà di suoni orchestrali ottenuti col mellotron e ulteriormente distorti39; (3) una scala ascendente di sitar, anch’essa distorta; (4) l’assolo di chitarra di Taxman (che è la canzone che apre l’LP Revolver sul quale compare anche Tomorrow Never Knows), rovesciato e rallentato. Tutto il brano, poi, è accompagnato da un particolare suono delle percussioni, ottenuto grazie a una «coppia di tomtom accordati “lenti” – [col suono] smorzato, compresso, e registrato con un uso massiccio dell’eco»40. L’effetto complessivo è sorprendente: la musica è distorta, ipnotica, rumoristica, e si fatica a riconoscere in questo brano la filigrana di una «classica» canzone dei Beatles. Sebbene in Tomorrow Never Knows il risultato finale sia molto innovativo, la struttura compositiva, in sé, è piuttosto semplice. Viceversa l’architettura di A Day in the Life è molto più complessa. Nel brano convivono due nuclei compositivi distinti (Grafico 5). Il primo è introdotto da un breve brano strumentale (i1), a cui fanno seguito tre strofe cantate da Lennon (s1), seguite da un ­bridge strumentale (b1) realizzato attraverso l’impiego di un glissando orchestrale rumoristico e drammatico, che apre lo spazio a un’altra breve introduzione strumentale (i2): a questo punto melodia e tempo mutano, così come mutano queste due componenti anche nelle due strofe seguenti (s2), affidate alla voce di McCartney. Questa parte viene chiusa da un altro bridge strumentale (b2), sorretto da un vocalizzo che riconduce alla strofa iniziale (s1), cantata di nuovo da Lennon, e poi ancora una volta al bridge orchestrale rumoristico (b1), che conduce la canzone a una conclusione piuttosto insolita: prima c’è una coda realizzata con un sonoro accordo di pianoforte mantenuto per 40 secondi mentre svanisce lentamente; poi, dopo un brevissimo intervallo c’è un loop di voci e rumori, che chiude la canzone e l’intero

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i1 s1 b1 i2 s2 b2 coda loop

Grafico 5. Struttura compositiva di A Day in the Life (durata 5:35).

disco (Sgt. Pepper), e che sul vinile non si interrompe fino a che non si solleva la puntina dal solco. Esperimenti di questo tipo, apprezzabilissimi anche per gli esiti estetici ottenuti, scuotono tutto il mondo della popular music. Da allora in poi, le strade della sperimentazione si aprono per tutti coloro che vogliano «fare come i Beatles»: e in effetti sono molti i musicisti che si sentono liberati dalla gabbia della

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canzone pop e iniziano a sperimentare in tutte le direzioni, dialogando con tutte le possibili tradizioni musicali. È adesso che prendono veramente forma le costellazioni originarie di questa nuova musica che, proprio in questi anni, la stampa specializzata ribattezza «musica rock»41. 4. Sulla West Coast Anche sulla West Coast, da North Beach (San Francisco) a Venice West (Los Angeles), i giovani musicisti in contatto con le locali comunità beat, che inizialmente avevano seguito il modello del folk revival come lo eseguivano Joan Baez e il primo Dylan, restano colpiti dalle nuove soluzioni stilistiche introdotte dai loro colleghi britannici, e come Dylan cominciano a cambiare direzione, suonando blues, imbracciando strumenti elettrici e cercando nuove combinazioni musicali42. In qualche caso il mutamento è subito accompagnato da un grande successo, come nel caso dei Byrds, che trasformano Mr. Tambourine Man, una canzone di Bob Dylan, in una delicata cover elettrica, tagliando le due strofe finali e facendo durare il brano metà tempo rispetto alla versione originale: il tutto sembra funzionare, poiché il singolo, uscito il 5 giugno 1965, va al n. 1 della classifica statunitense. Il successo di questo esperimento spinge ad altre cover, o a canzoni che imitano lo stile di Dylan: in quello stesso 1965 i Byrds riprendono Turn, Turn, Turn, un brano di Pete Seeger; loro stessi, e poi Cher, eseguono All I R ­ eally Want to Do, di Dylan; i Turtles eseguono It Ain’t Me, Babe, sempre di Dylan43. La musica che i Byrds suonano gioca sul meccanismo della commistione degli stili, come stanno facendo anche i Rolling Stones, i Beatles e altri ancora, e nel luglio del 1965 la rivista «Hit Parader», ricostruendo le molteplici «genealogie musicali» dei Byrds, sostiene che nella loro musica si possono trovare tracce di Bach, di Chuck Berry, dei Beatles, di Ravi Shankar, dei Beach Boys, di Pete Seeger, di Odetta, di Bob Dylan e di John Coltrane44. L’enfasi che la rivista pone sulla complessità e ricchezza della

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musica dei Byrds è francamente eccessiva: i loro risultati musicali non giustificano una simile ricostruzione nella quale si vanno a scomodare musicisti di ben altra complessità, come Bach o Coltrane. Tuttavia è vero che l’etica della sperimentazione e dell’innovazione si sta facendo strada. È un modo per affermare la propria «autenticità», il proprio distacco dal pop più commerciale, la ricerca di una via nuova per esprimere una struttura emotiva che vuole dichiarare il senso di profonda estraneità rispetto alla cultura mainstream, che molti di questi musicisti sentono. È quello che fanno alcuni gruppi che operano sulla West Coast, introducendo innovazioni anche più coraggiose di quelle immaginate dai Byrds. I Grateful Dead, per esempio, nelle loro esibizioni dal vivo, trasformano brani blues o folk in lunghe performance centrate su elaborati assolo e su improvvisazioni che, se non nella forma (il ritmo è molto lento, talora del tutto sognante), certo nello spirito e nella durata traggono ispirazione dalle improvvisazioni jaz­zistiche45. Dal canto loro i Jefferson Airplane sono capaci di coniugare testi efficaci e suggestivi con soluzioni musicali ricche di novità: White Rabbit (da Surrealistic Pillow, febbraio 1967), scritta e interpretata superbamente da Grace Slick, è un sorprendente bolero in crescendo, con un cantato vagamente risentito, che descrive in una forma piuttosto minacciosa gli effetti esercitati dalle droghe su una moderna Alice nel paese delle meraviglie. Anche più sperimentale l’introduzione strumentale di The Ballad of You and Me and Pooneil, brano di apertura dell’album After Bathing at Baxter’s (novembre 1967), giacché la chitarra elettrica di Jorma Kaukonen, dissonante e carica di feedback, vi costruisce un’atmosfera sonora all’epoca del tutto insolita: L’introduzione all’album – scrive Christopher Gair – fornisce un momento drammatico di autodefinizione, collocando il San Francisco sound a eguale distanza sia dalle precedenti forme di controcultura [cioè il folk], sia dalla accumulazione ossessiva dell’America che va disciplinatamente al lavoro dalle-nove-alle-cinque. Sebbene il resto di After Bathing at Baxter’s si muova tra interludi acustici, momenti di free jazz e improvvisazioni libere, più tipiche del rock psichedelico di San Francisco, il tono [dell’intero album]

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è stabilito da un’introduzione che, registrata nel maggio del 1967, all’inizio della Summer of Love, segna un marcato scostamento dai primi due album dei Jefferson, [musicalmente] molto più convenzionali46.

Nondimeno, gli esperimenti tentati da questi musicisti rischierebbero di cadere nel vuoto se – prima ancora che un’etichetta discografica sia disposta a pubblicare le loro musiche – non trovassero un ambiente locale pronto ad accoglierli, sostenerli e incoraggiarli. E questo nuovo pubblico locale in effetti è in corso di formazione, attraverso la nascita di una nuova subcultura giovanile che prima ha un riverbero solo locale e poi diventa un fenomeno nazionale-mondiale. Il nucleo originario della nuova subcultura è costituito da ciò che resta della comunità beat di San Francisco, che dopo il 1960 si è spostata da North Beach all’area che si trova all’incrocio tra Haight Street e Ashbury S ­ treet, attraente perché in via di trasformazione, con vecchi edifici che possono essere affittati per pochi dollari. Un altro luogo di incontro è a Perry Lane, a Palo Alto, vicino alla Stanford University, dove va a stabilirsi Ken Kesey, uno scrittore che ha riscosso un grande successo col suo romanzo One Flew Over the Cuckoo’s Nest (Qualcuno volò sul nido del cuculo), pubblicato nel 196247. A formare la nuova comunità, oltre ai reduci dell’esperienza beat e agli studenti del vicino San Francisco State College, sono nuove leve di giovani di varia estrazione sociale, prevalentemente (ma non esclusivamente) di classe media, che cercano una via di fuga dalla high school, dal college, dalla rat race, aderendo a uno stile di vita che rielabora molti aspetti della «liminalità» beat, in primo luogo l’adesione a un ideale di povertà che è la conseguenza di un radicato rifiuto del lavoro (se non per quel tanto che basta per sbarcare il lunario)48. La derivazione di questa nuova comunità dalla preesistente costellazione beat è testimoniata anche dal nome col quale i suoi membri vengono identificati, hippie, che è una deformazione di «hip», «hipster», termini chiave – come si è visto – del lessico beat49. Come per altre subculture giovanili, anche per questa l’elaborazione polemicamente identitaria di codici vestimentari, stili di

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vita e consumi culturali, che la mettono al margine della società «normale», è tra gli aspetti chiave della vicenda. L’abbigliamento impiegato è vario e stravagante: vestiti molto colorati, giacche da cowboy con lunghe frange, scarpe con l’abbottonatura alta, occhialini tondi alla Benjamin Franklin, fasce da indiani, definiscono uno stile composito, bizzarro e insolito. Inoltre, in reazione a un asse portante della cultura mainstream, i giovani hippie scelgono anche un’immagine androgina, con i ragazzi che portano i capelli lunghi e le ragazze che spesso indossano pantaloni di fogge varie, anche se i rapporti tra ragazzi e ragazze non sono sempre e del tutto paritetici. Egualmente in forma oppositiva, e anche qui come autonoma rielaborazione di un aspetto già importante per la cultura beat, c’è un’apertura assoluta a ogni forma di sessualità, accolta positivamente purché non comporti violenza o coercizione; e – di converso – c’è anche il radicato rifiuto del matrimonio o della costruzione di un nucleo familiare stabile50. Inoltre, come già nella cultura beat, e anzi adesso con ancora maggiore determinazione, l’omosessualità è accettata come ogni altra libera interazione sessuale, perché una persona deve poter fare il sesso che vuole senza essere costretta a nascondere le sue preferenze sessuali51. Sempre in forma di derivazione dalle idealità beat, anche la comunità hippie accoglie con convinzione gli ideali antibellicisti, tanto più radicati adesso che la guerra nel Vietnam è in corso e molti ragazzi corrono il concretissimo rischio di essere arruolati e spediti a combattere; d’altro canto – simmetricamente alla linea beat – gli hippie si conservano fedeli a un atteggiamento rigorosamente agnostico per quanto riguarda gli orientamenti politico-partitici, per i quali non manifestano alcun particolare interesse. Sempre come ulteriore derivazione dalla traiettoria beat, molti giovani hippie si avvicinano all’una o all’altra religione orientale (buddismo e induismo sono i principali punti di riferimento): spesso l’interazione con la spiritualità orientale è confusa e sincretica, ma funziona anch’essa come l’espressione di un desiderio di disaffiliazione dal cuore della società statunitense mainstream52.

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Fondamentale per l’esperienza hippie è l’uso di una notevole varietà di sostanze allucinogene. I beat erano abituati all’uso di marijuana e alcol; la nuova comunità comincia a sperimentare anche nuove droghe, incoraggiata dalla pubblicazione di Doors of Perception (Le porte della percezione, 1954) di Aldous Huxley, che rende popolare la mescalina, una droga ricavata dal peyote, e di The Psychedelic Experience (1964), di Timothy Leary, Richard Alpert e Ralph Metzner, che rendono pubblici i risultati – a loro dire integralmente positivi – raggiunti al termine di una ricerca sull’impiego di varie droghe e in particolare dell’Lsd, durante esperimenti condotti all’Università di Harvard53. La larga diffusione locale dell’Lsd avviene nel 1965, quando un giovane chimico, Owsley Stanley, impara a sintetizzare la droga e comincia a produrla e a distribuirla nella Bay Area, operazione legale in California fino all’ottobre del 1966. La cultura hippie della droga si basa su una distinzione non rigida ma chiara tra droghe che ampliano i confini della percezione e droghe che producono un effetto di obnubilamento. Generalmente sono considerate «buone droghe» la marijuana, l’hashish, l’Lsd, la psilocibina, la mescalina, il peyote e i semi di ipomoea violacea; sono considerate «cattive droghe» le amfetamine, la metedrina, il Dmt, le metilamfetamine, i barbiturici, gli oppiacei, l’eroina e talvolta la cocaina54. Normalmente le droghe non sono un’esperienza che porta all’isolamento individuale, ma sono impiegate in gruppo, rafforzando i vincoli comunitari, anche se la diffusione dell’eroina fa breccia in personalità più fragili, spingendole talora verso tragiche traiettorie di autodistruzione55. Parte della concezione comunitaria che anima l’esperienza hippie si esprime nell’organizzazione di happening multimediali che talora hanno un particolare asse tematico (la protesta contro la guerra in Vietnam, per esempio), e che comunque rivestono una grande importanza nel modellare la nuova sociabilità giovanile. Il primo nucleo di queste nuove pratiche viene sperimentato per iniziativa di Ken Kesey, che – due anni dopo il successo raggiunto con One Flew Over the Cuckoo’s Nest – de-

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cide di rivivere l’esperienza del viaggio beat in una nuova declinazione psichedelica: compra uno scuolabus e poi, insieme a un gruppo di suoi amici e amiche, lo dipinge di vivaci colori fosforescenti, ne affida la guida a un patito dei lunghi viaggi come Neal Cassady, il compagno di Kerouac, che ha conosciuto nel 1962, e insieme a tutti costoro – ribattezzati Merry Pranksters – parte per un viaggio in lungo e in largo per gli Usa, in un velleitario tentativo di portare il nuovo verbo psichedelico oltre i confini della California. Al suo ritorno, nel 1965, comincia a organizzare i cosiddetti «acid tests», ovvero delle feste a base di Lsd, alcol e altre droghe, ravvivate da una serie di innovativi giochi di luce e dalle sperimentazioni musicali di un gruppo che all’epoca si chiama ancora Warlocks, ma che di lì a poco assumerà il nome di Grateful Dead56. L’idea del raduno video-musicale viene raccolta da un piccolo gruppo di hippie di San Francisco, il Family Dog, composto da Luria Castell, Ellen Harmon e Alton Kelley, che organizza una serata in cui danza, grafica, fumetti e nuova musica vengono vissuti insieme: l’evento – che si tiene il 16 ottobre 1965 alla Longshoremen’s Hall di San Francisco – viene presentato come un «Tributo a Dr. Strange», un personaggio dei fumetti Marvel. Suonano i Marbles, i Great Society con Grace Slick, i Charlatans e i Jefferson Airplane, e vi partecipano tra le 400 e le 1.200 persone, in parte provenienti da una grande manifestazione antimilitarista tenutasi il giorno prima al centro di reclutamento di Oakland57. Dopodiché, tra la fine del 1965 e il 1966 sulla scena di San Francisco emergono due manager che con successo organizzano decine di eventi: l’uno, Bill Graham, una figura quasi leggendaria, ha una visione più strettamente imprenditoriale dell’attività concertistica, che si svolge in un locale collocato in un quartiere nero di San Francisco, il Fillmore58; l’altro, Chet Helms, più interno alla comunità e all’etica hippie, e più attento ai risvolti socioculturali delle sue iniziative, gestisce invece l’Avalon Ball­ room; entrambi i locali, vecchie costruzioni riadattate dai due manager, sono vicini tra loro e non distanti da Haight-Ashbury.

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Al Fillmore e all’Avalon si tengono sia concerti di singoli gruppi, sia happening in cui più gruppi suonano in sequenza, insieme a letture di poesia o a esibizioni di comici. Secondo le testimonianze di persone dello staff o di spettatori, all’epoca l’attenzione per la musica non è altissima; è più attraente l’idea di andare a ballare, a stare insieme, a gustarsi lo spettacolo allestito con le luci stroboscopiche, anche perché gran parte dei musicisti e degli spettatori sono «fatti» di qualche sostanza, e non troppo in grado di imbastire una buona comunicazione estetica. Ciò nonostante, ci sono gruppi musicali che – sotto acido o no – producono musiche che trascendono i modelli fin allora noti, tra cui in primo luogo i Grateful Dead, che – come si è detto – si lanciano in lunghissimi brani strumentali, in cui gli assolo di chitarra o di tastiera, che oscillano tra il jazz e una musica estatica, quasi da meditazione trascendentale, dominano l’intero tessuto sonoro. In generale, poi, i musicisti condividono gli ideali anticonsumistici che sono propri della comunità hippie, anche se non disprezzano affatto di essere pagati per i concerti che fanno, i musicisti della scena di San Francisco – almeno inizialmente – aborriscono l’industria culturale: Il nemico era l’industria dello spettacolo, la sua grossolanità, la sua falsità e l’indifferenza all’arte. I musicisti di San Francisco non erano disposti a produrre successi da classifica da due minuti e mezzo per compiacere le case discografiche e i deejay radiofonici, e nemmeno avrebbero accettato di adattare il proprio stile in modo da apparire al programma televisivo American Bandstand o sulla rivista «Sixteen». Erano artisti, non schiavi del pubblico. Quando Bill Graham suggerì agli Airplane di tornare sul palco e fare un inchino dopo uno spettacolare concerto di tre ore, Paul Kantner [chitarrista e leader del gruppo] sibilò: «Vaffanculo. Quello è show business»59.

Non meno importanti dei concerti nei locali sono gli happening all’aperto, tra cui particolarmente significativo lo Human Be-In, che si tiene il 14 gennaio 1967 nel campo da polo del Golden Gate Park di San Francisco. Organizzato da Allen Cohen e Michael Bowen, direttori del «San Francisco Oracle», organo non ufficiale della locale comunità hippie, mette insieme un

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nutrito gruppo di poeti beat (Allen Ginsberg, Gary Snyder, Michael McClure, Lawrence Ferlinghetti e Lenore Kandel) e altre personalità della controcultura (Timothy Leary, Richard Alpert, Jerry Rubin), con un gruppo di band, tra cui Jefferson Airplane, Grateful Dead, Big Brother and The Holding Company e Quicksilver Messenger Service, attirando una folla stimata sulle 20.000 persone60. Incoraggiati dal successo dell’evento, Lou Adler (manager della Dunhill Records di Los Angeles) e John Phillips (membro dei Mamas & Papas, un gruppo prodotto dalla Dunhill) organizzano per il 16-18 giugno del 1967 un grande festival musicale, il Monterey International Pop Music Festival, con una grande varietà di musicisti, tutti grosso modo distanti dalla pop music più commerciale, ma dediti a musiche, stili esecutivi e pratiche performative estremamente differenti61. Il successo di pubblico è altrettanto clamoroso di quello riscosso dallo Human Be-In, con parecchie decine di migliaia di spettatori62: e da allora negli Stati Uniti e in Europa i festival rock si moltiplicano, riunendo davanti ai palchi un pubblico crescente di giovani ascoltatori, fino a eventi-monstre, come il Festival di Woodstock (15-18 agosto 1969), al quale partecipano 400-500.000 persone63. L’insieme delle iniziative che hanno luogo a San Francisco attira l’attenzione della stampa, che trasforma il fenomeno hippie in un argomento di rilevanza nazionale. Nell’estate del 1967 la risonanza mediatica di iniziative come lo Human Be-In o il Festival di Monterey attira a San Francisco decine di migliaia di giovani, convinti di trovarvi una specie di meravigliosa Shangri-La. La cosiddetta «Summer of Love» di Haight-Ashbury è un grande successo e, al tempo stesso, un vero disastro. Il quartiere diventa invivibile, perché non ci sono strutture adatte a ospitare tutti i nuovi arrivati; l’affollamento porta con sé delinquenti, spacciatori, violenti, spostati, agenti dell’Fbi; e furti, stupri, malattie veneree, droga pesante e di pessima qualità. Alla fine dell’estate l’originaria comunità hippie si disperde, lasciando dietro di sé un quartiere terribilmente degradato, in cui l’esperienza alternativa si trasforma in un semplice pretesto per attività puramente e tristemente commerciali (Love Bar, Love Burger, e così via)64.

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Diversi hippie ancora fedeli all’etica originaria, ma disgustati o respinti dal degrado di Haight-Ashbury, cercano nuove strade aderendo a gruppi religiosi eccentrici (Hare Krishna, Jesus ­Freaks); altri invece provano a fondare delle comuni in altre città o in aree rurali, un’esperienza suggestiva ma nel complesso del tutto fallimentare65. Nondimeno il modello comportamentale ed etico degli hippie ha egualmente una larghissima diffusione, negli Usa così come in Europa; e se fenomeni dotati della stessa creativa vitalità della Haight-Ashbury delle origini non rinascono più, i valori e le aspirazioni hippie non si perdono integralmente, ma si riversano nel tessuto di quella peculiare controcultura di massa che – proprio alla fine degli anni Sessanta – si va addensando intorno alla variegata costellazione rock. 5. Straniamento rituale Se si osserva in superficie la molteplicità delle esperienze musicali e la pluralità delle subculture giovanili che emergono in soli sette o otto anni, dal 1960 al 1967, si fa fatica a capire in che modo abbia potuto formarsi un’omogenea controcultura di massa, di portata transatlantica, fondata sulla nuova musica rock. Eppure è questo uno dei fenomeni più significativi che hanno luogo nell’universo della popular culture del XX secolo. Se ciò può accadere è principalmente per tre ragioni: (1) perché le nuove musiche e i nuovi movimenti condividono tutti alcune tematiche comuni, eticamente molto rilevanti; (2) perché i vari generi del rock si strutturano nella forma di un «palinsesto» sul quale si intersecano variamente dei ricorrenti stili-matrice, dalla cui varia ibridazione la musica rock prende forma66; (3) e infine perché si creano spazi rituali all’interno dei quali fruire – l’uno accanto all’altro – tutti i diversi generi che convergono nel campo culturale del rock.

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È da questi processi che prende forma una nuova «cultura convergente» che attira poi, nella sua orbita, anche produzioni destinate ad altri media che, sin dalle origini, stanno al cuore della cultura di massa mainstream (il cinema, la radio, la televi­ sione)67. Approfondiamo la questione a partire dal terzo dei punti che ho appena enunciato. Il principale luogo che dà omogeneità alla cultura rock è lo spazio del concerto, e in particolare lo spazio del concerto di massa, del grande festival, che allinea una varietà di musicisti di diversa estrazione, stile e provenienza68. Come abbiamo visto, il modello viene sperimentato inizialmente nel contesto delle comunità hippie della California per poi estendersi agli interi States, al Canada e anche all’Europa (Isle of Wight Festival, 1968-1970; Glastonbury Festival, 1970-1971 e poi dal 1978 a oggi; Pinkpop Festival, Landgraaf, Paesi Bassi, dal 1970 a oggi; Festival dell’avanguardia e delle nuove tendenze, Viareggio-Roma, 1971-1972; e innumerevoli altri). In genere, nel discutere dei concerti della fine degli anni Sessanta, l’attenzione si concentra inesorabilmente sulla contrapposizione tra due iniziative che si tengono a distanza di quattro mesi l’una dall’altra: il Festival di Woodstock (Woodstock Music & Art Fair, 15-18 agosto 1969), e l’Altamont Speedway Free Festival (6 dicembre 1969). Il primo viene considerato come il luminoso apogeo della cultura hippie-rock: organizzato da Michael Lang, John Roberts, Joel Rosenman e Artie Kornfeld, attira una quantità tale di ragazzi e ragazze (si parla, come abbiamo già accennato, di 400-500.000 partecipanti) da far saltare l’intera organizzazione iniziale (fra l’altro, gli spettatori sono talmente tanti che le barriere vengono abbattute, dopodiché nessuno ha più bisogno del biglietto per entrare); e tuttavia, nonostante il potenziale disastro organizzativo, acuito dal fatto che il 15 e il 16 agosto piove ripetutamente e dalla circolazione di droga di cattiva qualità, il concerto si svolge regolarmente, senza troppi intoppi (peraltro ci sono due morti, uno per overdose di eroina e uno per un incidente); inoltre, nel corso della tre-giorni musicale, il pubblico può ascoltare performance di eccezionale livello (Santana,

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Ten Years After, Joan Baez, Joe Cocker, Jimi Hendrix), rimaste nell’immaginario collettivo anche grazie al film diretto da Michael Wadleigh lanciato nelle sale di tutto l’Occidente con grande successo nel 197069. Il concerto di Altamont è organizzato dai Rolling Stones ed è sin dall’inizio concepito come un evento gratuito, scelta che gli Stones compiono per rispondere alle critiche che hanno ricevuto nei mesi precedenti per il costo eccessivo dei biglietti del loro tour americano del 1969. Per assistere al concerto arrivano più di 300.000 spettatori che vogliono ascoltare i musicisti in programma (oltre agli Stones dovrebbero esserci Jefferson Airplane, Santana, Crosby Stills Nash & Young, Grateful Dead e Flying Burrito Brothers). Il concerto, però, è organizzato malissimo; gli Stones hanno la pessima idea di affidare il servizio d’ordine agli Hells Angels, ed è il disastro: costoro, una banda di semicriminali ubriachi e violenti, minacciano e in qualche caso picchiano gli spettatori, fino a che un ragazzo nero – Meredith Hunter –, che peraltro ha estratto una pistola proprio davanti al palco, viene ucciso a coltellate da uno dei biker del servizio d’ordine70. Secondo Alice Echols, in realtà, anche Woodstock è stato un vero e proprio incubo: fango, mancanza di rifornimenti, carenza di servizi igienici, droga pesante, acustica pessima perché l’impianto viene danneggiato dalla pioggia: «Riesco sempre a capire chi c’è stato veramente», sostiene Barry Melton dei Country Joe and The Fish. «Se uno mi dice che è stato fantastico, allora vuol dire che ha visto il film e non è stato al concerto»71.

E anche la differenza con Altamont, secondo Echols, è molto più sottile di quanto non voglia la mitologia ex post: «Grace Slick degli Airplane, che suonò a entrambe le manifestazioni, riassume perfettamente la differenza: “Woodstock era un mucchio di straccioni stupidi nel fango e Altamont era un mucchio di straccioni incazzati nel fango”»72. Al di là di queste valutazioni, l’aspetto di gran lunga più importante è che, nonostante la pessima organizzazione che connota entrambe le manifestazioni, il

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modello del grande concerto non si conclude affatto allora, ma continua a essere praticato sia negli Usa che in Europa, tanto che l’incontro di grandi masse di giovani con i musicisti che suonano la «loro» musica finisce per diventare una modalità di comunicazione standard del rock per tutti e quattro i decenni che vanno dal 1970 a oggi. Se abbandoniamo il palco dei concerti, e passiamo tra la folla degli spettatori e delle spettatrici, occorre osservare che alla fine degli anni Sessanta si delineano due diverse modalità di comportamento. Da un lato c’è il modello che si è imposto con il r’n’r, e che continua a vivere ancora nei primi concerti organizzati al Fillmore o all’Avalon di San Francisco, e poi in moltissime altre occasioni, che vede gli spettatori e le spettatrici partecipare attivamente all’evento, gridando, muovendosi, e danzando con un grado notevole di fisicità: e spesso l’assunzione di amfetamine e di alcol stimola un simile modo di vivere l’esperienza musicale. In parecchi concerti, specie quando il pubblico è incoraggiato dai musicisti a prendere attivamente parte all’esperienza, ci sono anche scontri con la polizia, che talora viene persino schierata sul palco o nella cavea tra gli spettatori. Col diffondersi dell’etica hippie e delle droghe «psichedeliche» – Lsd, ma anche marijuana o hashish –, l’atteggiamento si fa più contemplativo: gli spettatori assistono al concerto con attenzione, talora persino in una specie di trance estatica, immobili e tranquilli, in cerca di visioni o di illuminazioni che li portino in un’altra dimensione spirituale. Questo secondo modello è importante, perché si diffonde anche a prescindere dall’adesione all’etica hippie o dall’assunzione di droghe «psichedeliche»: molti spettatori preferiscono seguire con attenzione il concerto, anche in ragione della notevole evoluzione della musica rock che – come vedremo più avanti – si spinge verso elaborazioni testuali, melodiche e armoniche talora di considerevole complessità. Nell’un caso e nell’altro, il pubblico è sempre composto di ragazzi e ragazze molto giovani, un dato che rispecchia non solo le scelte in materia di consumi culturali, ma anche il notevole impegno fisico che è richiesto dalla partecipazione a un concerto

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rock (bisogna arrivare molto presto, aspettare a lungo, spesso in condizioni non agevoli, talora affrontare le intemperie – caldo, freddo, pioggia –, apprezzare un impatto sonoro che cresce col migliorare vertiginoso degli impianti di amplificazione). Ora, in tutto ciò c’è un aspetto che non mi pare sia stato finora adeguatamente sottolineato. I grandi concerti sono esperienze piuttosto disagevoli anche per persone giovani, e si impongono in un momento in cui – in parallelo – la tecnologia riproduttiva fa passi da gigante (proprio in questi anni vengono commercializzati gli impianti stereo ad alta fedeltà, e i vinili adatti a restituire un’adeguata esperienza sonora sono venduti a un prezzo relativamente contenuto). La qualità del suono che si può apprezzare attraverso un album in vinile riprodotto anche con un impianto di media qualità è spesso incomparabilmente superiore a quella che si prova nei concerti dal vivo, dove le condizioni acustiche sono – nella maggior parte dei casi – piuttosto sfavorevoli. E allora perché il fenomeno dei grandi concerti si impone? Perché milioni di giovani vanno ai concerti, invece di starsene a casa ad ascoltare in tutta tranquillità i dischi riprodotti dai loro impianti Hi-Fi? Ritengo che la speciale importanza del concerto rock derivi più da fattori extramusicali che da aspetti specificamente estetici e consista essenzialmente nel tipo di relazione che si instaura tra musicisti e pubblico, che è sempre di carattere rituale. Con il termine «rito» qui si intende ogni atto, o insieme di atti, che venga eseguito secondo un’iterazione codificata, sebbene non necessariamente formalizzata. L’iterazione serve a fare in modo che il rito conferisca un significato speciale, in certi casi quasi trascendente, all’identità dei soggetti coinvolti. E i concerti rock hanno strutture morfologiche tali da farli considerare effettivamente dei riti di separazione, e di ri-aggregazione liminale73. Sono riti di separazione perché attraverso l’esperienza del concerto ci si libera simbolicamente dell’appartenenza al «sistema», qualunque cosa indichi questo termine: la famiglia, i genitori, la scuola, la routine del lavoro, l’angoscia del non-lavoro, la minaccia della guerra, le pratiche del potere politico o religioso dominante74. Sono riti di ricollocazione del sé in uno spazio limi-

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nale, che non è quello abituale, perché per il concerto si adottano un abbigliamento, un’acconciatura, una pratica corporea, una gestualità che sono specifici di gruppi (o che sono ammessi in momenti e luoghi) pensati come estranei, marginali, liminali rispetto al «sistema», e proprio per questo sentiti come ricchi di valori, di significati, di emozioni formative. Sono, infine, dei riti di aggregazione, perché attraverso il concerto si entra a far parte di un corpo sociale nuovo e particolare, di una nuova communitas, che comporta il nascere a nuova vita spirituale e sociale: si fanno amicizie; si vivono esperienze sessuali; si condivide la droga; oppure si condivide semplicemente il piacere di ascoltare della musica nuova e insolita. Naturalmente per un rito ci vuole un officiante, regola che vale anche per i concerti rock: e tale è il frontman – normalmente il cantante o il chitarrista (ma alternativamente possono essere anche gli altri musicisti della band). Atteggiamenti che possono apparire ridicoli a chi non apprezza o non conosce i linguaggi del rock – la gestualità strana, enfatica, teatrale di alcuni frontmen o viceversa la glaciale imperturbabilità di altri – devono essere letti in quest’ottica: sul palco dei concerti i musicisti non si limitano solo a eseguire la loro musica nel modo migliore, ma officiano anche un rito denso di significati simbolici. Jim Morrison dei Doors, che è uno dei più scatenati frontmen del rock delle origini, descrive i concerti dei Doors come pratiche sociali all’interno delle quali lui stesso ricopre il ruolo dello sciamano di una nuova tribù: Il nostro lavoro, le nostre performance, sono uno sforzo di metamorfosi. È come un rituale di purificazione, nel senso alchemico del termine. Anzitutto, dev’esserci il momento del disordine, del caos, il ritorno a una primigenia regione di disastro. Superato quello, si purificano gli elementi e si trova un nuovo seme di vita, che trasforma tutta la vita, tutta la materia, tutta la personalità; finché, in fondo a tutto, se tutto va bene, se ne esce e si combinano tutti i dualismi e le opposizioni. Non si parla più di bene e di male, ma di qualcosa di unico e di puro. [In un concerto] ci rivolgiamo a quei basilari bisogni umani già affrontati nella tragedia classica o, se vogliamo, dal blues del Delta. Immaginatela come una seduta spiritica in un ambiente diventato ostile alla vita, freddo,

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limitativo. Le persone sentono che stanno morendo in un brutto paesaggio. Allora si radunano insieme per levare le loro invocazioni, per lenire il dolore e il dispiacere, per cacciare gli spiriti di morte: perciò cantano, ballano, intonano le loro cantilene, fanno musica. Loro [gli sciamani] cercano di curare una malattia, vogliono riportare armonia nel mondo75.

La natura rituale del concerto rock, dunque, provoca una sorta di sospensione dell’appartenenza, introducendo le ragazze e i ragazzi all’interno di una communitas sentita come integralmente «altra» rispetto alla cultura mainstream circostante. Da un lato, chi partecipa a un concerto rock e appartiene già a un circuito relazionale subculturale (hippie, biker, mod, rocker, Sds) trasferisce nel concerto la sua liminalità originaria; dall’altro lato, si trova immerso all’interno di specifiche modalità di comunicazione culturale che rinnovano l’esperienza di separazione rispetto alla società circostante76. In tal modo i confini dell’appartenenza a un particolare gruppo subculturale vengono superati: chi partecipa a questi «rituali» si ritrova all’interno di un nuovo e più ampio spazio comunitario, oltre che al centro di una fittissima rete di relazioni culturali e simboliche. Credo sia importante sottolineare che lo straniamento rituale indotto dalla partecipazione ai grandi concerti entra direttamente in corto circuito con un sentimento diffuso da decenni – ma adesso elaborato in modo molto più diretto e consapevole –: ovvero la distanza, e in certi casi la totale assenza di comunicazione, tra giovani e adulti. In linea generale, questo è certamente uno degli assi portanti di un senso di disagio che anche giovani di generazioni precedenti hanno sentito, articolandolo in forme molto varie, dalla costituzione di una leading crowd in una high school, alla formazione di una street gang, alla disperata celebrazione delle «migliori menti della mia generazione» – come ha fatto poeticamente Allen Ginsberg –, alla partecipazione a gruppi di ted, mod, rocker, biker, ecc. Adesso, tuttavia, questa struttura emotiva diventa oggetto di un’elaborazione rituale e culturale, compiuta nel contesto dei concerti rock, che, avvicinando giovani che appartengono a subculture diverse, li trasforma in una comunità interpretativa relativamente compatta.

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In effetti, negli anni Sessanta la sensazione che tanto gli oggetti quanto le persone del passato (vecchi miti, vecchie figure) debbano essere lasciati definitivamente da parte è talmente pervasiva da abitare le menti di giovani dalla formazione e dall’orientamento più diversi. In un’intervista rilasciata al «San Francisco Chronicle» nel novembre del 1964, Jack Weinberg, l’iniziatore del Free Speech Movement, pronuncia una storica frase: «Non ci fidiamo di nessuno che abbia più di trent’anni». Weinberg ha poi spiegato che intendeva dire che gli studenti del Free Speech Movement non si sarebbero fatti manipolare da nessuno, tanto meno dai vecchi militanti della Old Left, in particolare dai comunisti; ma al di là delle sue intenzioni, la frase diventa una sorta di slogan che attraversa l’intera esperienza controculturale, finendo anche per ingabbiarla in una struttura di senso inevitabilmente resa obsoleta dal rapido passare degli anni77. D’altro canto è vero, ed è stato osservato più volte, che un movimento politico giovanile come Sds negli Usa nasce in esplicito contrasto con le sensibilità e gli orientamenti di dirigenti politici radicali che appartengono alle generazioni più anziane, e in particolare quelli che sostengono la Lid, la formazione politica di cui la Sds, inizialmente, è la branca giovanile: la ribellione contro le prescrizioni o i suggerimenti di questi dirigenti costituisce se non l’atto di nascita effettivo, quanto meno il battesimo emotivo di questa, come di altre formazioni politiche giovanili che emergono in questi anni78. Ma al di là di questa vicenda specifica, la constatazione di un cleavage profondo e insanabile circola in una forma molto più generale e trasversale. Da un articolo pubblicato da «News­ week» il 21 marzo 1966, per esempio, emerge un atteggiamento oppositivo di molti studenti delle high schools nei confronti del mondo degli adulti (genitori, ma anche politici, leader religiosi e culturali, insegnanti...). Jan Smithers, una diciassettenne di Los Angeles, dichiara: «Gli adulti sono così stupidi. Sono così malfidati... Non pensano ad altro che a tenerci in riga»79. Un’altra diciassettenne della Berkeley High School aggiunge:

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Gli adolescenti di oggi non riescono a parlare con la maggior parte degli adulti, [genitori compresi]. Loro si limitano a dire: «Oh no, tieni i capelli lunghi, vai in giro con la gente sbagliata, e quindi ti lascerò a piedi [senza macchina] per tre mesi». [...] Non potrò mai far parte della società mainstream. La società deve accettarci: o è così, o questa maledetta società è destinata a collassare80.

Quando «Newsweek» interpreta il nuovo stile unisex (scarpe con il tacco alto, pantaloni stretti alla coscia, camicie col jabot, capelli lunghi sia per i ragazzi che per le ragazze) come prova del dominio femminile nel mondo degli adolescenti, i giovani lettori si risentono per la banale superficialità di questa interpretazione: Protestiamo contro la gente miserabile e ottusa (ci sembrano tutti uguali) che ci fissa quando camminiamo per le strade. Noi cerchiamo di essere l’esatto opposto di quello che sono loro – scrive un adolescente a «News­ week» – così che non ci sia la minima possibilità che noi finiamo per diventare come loro81.

Nel settembre del 1966 la rivista «Look» fa un sondaggio tra i teenager: Un terzo di coloro che rispondono è d’accordo nel dire che gli Stati Uniti non sono più una democrazia, mentre la grande maggioranza ritiene che la guerra nel Vietnam sia immorale e ingiusta. Il 42% non si fida della polizia locale, e più della metà crede che il sistema economico nazionale non funzioni a beneficio di tutti. Le high schools non ricevono valutazioni migliori. Quasi il 60% del campione contattato ritiene che il curriculum non sia interessante e che gli insegnanti siano mediocri e impreparati82.

Ciò che i ragazzi pensano, lo ascoltano poi nello spazio rituale dei concerti, poiché i musicisti rock sanno dar voce con grande tempestività e con altrettanto grande lucidità a queste profonde linee di frattura. Nei primi tempi in cui vive a New York, Dylan, in dichiarazioni informali e in interviste radiofoniche, si inventa un significativo «romanzo famigliare», sostenendo di essere di discendenza sioux, di aver viaggiato e vissuto a lungo con un circo, e tacendo ogni informazione sulla sua origine ebraica e

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sui suoi veri genitori: in questo c’è, al tempo stesso, il desiderio di darsi un’immagine misteriosa e affascinante, come anche il desiderio di tagliare i ponti con la sua educazione ebraica; ma certo tutta questa costruzione fantastica tradisce anche la netta intenzione di lasciarsi la sua famiglia d’origine definitivamente alle spalle83. Nel 1964, in The Times They Are a-Changin’, canta: Venite senatori e deputati [...] C’è una battaglia fuori che infuria E presto scuoterà le vostre finestre E farà tremare i vostri muri Perché i tempi stanno cambiando Venite madri e padri Da tutto il paese E non criticate Quello che non potete capire I vostri figli e le vostre figlie Non li potete comandare La vostra vecchia strada Sta rapidamente invecchiando Andatevene vi prego dalla nuova Se non potete anche voi dare una mano Perché i tempi stanno cambiando84.

L’anno dopo, in My Generation – una canzone che diventa un inno generazionale (e un cavallo di battaglia nei loro concerti dal vivo) – gli Who cantano: La gente cerca di umiliarci Solo perché ce ne andiamo in giro Le cose che fanno sembrano terribilmente sorpassate Spero di morire prima di diventare vecchio Questa è la mia generazione Questa è la mia generazione bello85.

Jim Morrison, figlio di un ammiraglio, radicalizza l’esempio di Dylan e nella brochure fatta preparare dalla casa discografi-

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ca Elektra per la campagna promozionale del primo album dei Doors, nella sua scheda biografica, tra le altre cose, fa scrivere: «INFORMAZIONI SULLA FAMIGLIA: deceduti», nonostante i suoi genitori siano vivi e vegeti86. A parte questo aspetto, è sul palco di un concerto che Morrison e i Doors danno il massimo spessore possibile alla frattura generazionale, cosa che accade domenica 21 agosto 1966, quando si esibiscono al Whisky a Go Go, sul Sunset Boulevard, West Hollywood. Quel giorno, quando i Doors stanno per cominciare a suonare, Morrison non c’è. I suoi compagni fanno la prima parte del concerto senza di lui, ma poi Phil Tanzini, il manager del locale, minaccia di licenziarli se nella seconda parte non arriva anche il cantante. E dunque Ray Manzarek e John Densmore (tastierista e batterista del gruppo) vanno a cercare Jim Morrison. Lo trovano stravolto da una dose massiccia di Lsd, ma alla fine riescono comunque a trascinarlo sul palco, dove lui sembra riprendersi. I musicisti cominciano a suonare. Dopo tre canzoni Morrison chiede The End, che di solito è il brano conclusivo delle loro esibizioni: nata come la storia della fine di un amore, quella canzone si è man mano ampliata, con stratificazioni successive aggiunte a ogni nuova interpretazione dal vivo. Di solito al centro del brano il gruppo crea un tappeto sonoro che permette al cantante di improvvisare versi di stile beat, dialoghi col pubblico, oppure quello che in quel momento gli passa per la testa87. Quella sera, al momento dell’improvvisazione, Morrison recita un verso che dà vita a quella che sarà la versione definitiva della canzone: «Il killer si è svegliato prima dell’alba, ha indossato gli stivali...». Mentre Morrison va avanti, Ray Manzarek capisce dove il vocalist voglia andare a parare: A quel punto, me ne resi conto. Lo vidi. E con me tutta la sala. Pensai: Mio Dio! Sta facendo l’Edipo Re! E poi pensai: Mio Dio! So cosa sta per succedere88.

Succede che Jim Morrison improvvisa versi assolutamente mai ascoltati prima all’interno di una canzone pop:

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Il killer si è svegliato prima dell’alba, ha indossato gli stivali Ha preso una faccia dall’antica galleria e ha percorso la sala È entrato nella stanza dove viveva sua sorella, e... poi Ha fatto una visita a suo fratello, e... poi Ha attraversato la sala, e È arrivato a una porta... e ha guardato dentro Padre... sì figlio... ti voglio uccidere Madre... voglio... scoparti... SCOPARTI MAMMA SCOPARTI MAMMA SCOPARTI MAMMA PER TUTTA LA NOTTE – SCOPARTI PER TUTTA LA NOTTE – [SCOPARTI PER TUTTA LA NOTTE – UAAAUUUGGGHHH!!!89

Alla fine di questa parte, Jim Morrison caccia un empio strillo di peccato originale che penetra nel midollo di quanti sono presenti quella sera. La band esplode in una frenesia folle e rapace, e il pubblico, ipnotizzato dalla drammaticità della scena, comincia a scuotersi in una furiosa danza liberatoria. Jim resta in piedi a un lato del piccolo palco, salmodiando «Kill – fuck – kill – fuck» mentre il gruppo fa la sua parte, poi si prepara a concludere il brano. «This... is... the... end» canta Jim, e i Doors escono di scena. Non ci sono applausi, e una strana quiete scende sulla sala90.

I proprietari del Whisky a Go Go, furiosi per l’esibizione, licenziano i Doors con effetto immediato: ma il brano resta, e nella sua bruciante esplorazione freudiana del contrasto generazionale, dà una quantità di suggestioni a tutti quelli che vogliano ragionare sul senso del solco che li separa dai loro genitori, o in generale dalle figure parentali (insegnanti, opinion leaders, politici). In questo modo la liminalità rituale che permea i concerti dal vivo acquista uno spessore e un contenuto precisi, che ancora i Doors riescono a tradurre in immagini folgoranti: Lo sai che il giorno distrugge la notte La notte divide il giorno Ho cercato di correre Ho cercato di nascondermi Fatti strada verso l’altra parte Fatti strada verso l’altra parte

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Qui abbiamo dato la caccia ai nostri piaceri Lì abbiamo sepolto i nostri tesori. Puoi ancora ricordare la volta in cui abbiamo pianto? Apriti una breccia verso l’altra parte91.

È così che funzionano i concerti, sia quelli della prima fase hippie, sia i grandi raduni: portali virtuali per passare «dall’altra parte», in uno spazio semantico e simbolico che di per sé resterebbe indefinito, se il processo generativo che accompagna la nascita della musica rock non ne precisasse panorami estetici ed etici. 6. Hey Joe! La liminalità rituale che dà un senso simbolico al sentimento di disaffiliazione e di distacco nei confronti delle «vecchie generazioni» fa sì che gruppi che propongono soluzioni stilistiche molto diverse possano essere accettati da una comunità interpretativa convergente. Ma ciò avviene anche perché nei vari stili musicali rock sono compresenti le figure profonde che appartengono ai generi-matrice di riferimento (blues, R&B, hard country, folk, r’n’r, jazz, poesia beat), che ibridandosi danno vita a palinsesti musicali e testuali che creano una struttura emotiva del tutto insolita per la popular music mainstream92. Inoltre questo processo fa sì che un’evidente «aria di famiglia» accomuni delicati brani folk, per esempio quelli di Joan Baez, di Joni Mitchell o di Neil Young, ai ruvidi brani di blues rock, con scatenati guitar hero, tipo Jimi Hendrix o Alvin Lee (Ten Years After), che fanno letteralmente esplodere la loro chitarra elettrica: ed è questa convergenza culturale che fa sì che ai grandi festival nessuno trovi strano che si possano ascoltare, in sequenza, artisti apparentemente tanto diversi come – appunto – Joan Baez e Jimi Hendrix, Neil Young e Ten Years After. Il complessivo reticolo testuale, fatto di rimandi, citazioni, ibridazioni, sovrapposizioni tra generi come il blues elettrico, il R&B, l’hard country, il folk, il r’n’r, il jazz o la poesia beat, emerge con assoluta chiarezza in alcuni particolari brani-palinsesto,

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che incorporano in sé se non tutte, molte di queste relazioni intertestuali. Tra i vari esempi possibili, Hey Joe, proprio di Jimi Hendrix, un brano eseguito più volte in occasione dei grandi raduni rock, offre un esempio molto chiaro di come funzioni il processo generativo che struttura questa nuova musica, e quali ne siano le implicazioni culturali. Il 16 dicembre del 1966 la Polydor – una sussidiaria della Deut­ sche Grammophon – lancia nel Regno Unito Hey Joe, il primo 45 giri della Jimi Hendrix Experience, un neonato trio rock composto da Hendrix alla chitarra, Noel Redding al basso e ­Mitch Mitchell alla batteria. Il disco riceve un’ottima accoglienza: nel gennaio del 1967 entra nella Top Ten britannica, dove giunge fino al sesto posto in classifica. A maggio dello stesso anno la Reprise pubblica il brano anche negli Usa, dove però non riesce a entrare nella locale classifica dei singoli. Tuttavia non passano due mesi che Hey Joe viene eseguito dalla Jimi Hendrix Experience al Monterey Pop Festival (18 luglio 1967); poi il brano è incluso nella versione americana di Are You Experienced?, il primo LP del trio, pubblicato il 23 agosto 1967, che si colloca al quinto posto nella classifica delle vendite93. L’esibizione a Monterey, il singolo e l’LP aprono la strada al successo di Hendrix sia nel Regno Unito che negli Usa, e Hey Joe diventa ben presto uno dei brani-simbolo per il chitarrista, che due anni dopo lo esegue a Woodstock come canzone di chiusura della sua esibizione. Quando esce la prima prova discografica di Hendrix, l’atmosfera sociale e politica negli Usa e in Europa si è fatta particolarmente tesa. I soldati americani in Vietnam sono ormai poco meno di 500.000. La pregiudiziale nonviolenta del Movimento per i diritti civili è stata criticata e superata da formazioni come la Organization of Afro-American Unity, fondata da Malcolm X nel 1964, di fronte alla percezione che le conquiste normative ottenute dal Movimento non siano sufficienti a sradicare del tutto la discriminazione razziale e la marginalità economica di molti afroamericani. D’altronde le tensioni nei ghetti urbani riservati ai neri esplodono più volte in risposta a interventi brutali della polizia: gravi rivolte scoppiano il 18 luglio 1964 a Harlem; tra l’11

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e il 17 agosto del 1965 a Watts, un quartiere di Los Angeles; nel 1967 a Detroit, Newark, Tampa, Cincinnati, Milwaukee, Atlanta. Il 21 febbraio 1965, inoltre, Malcolm X viene assassinato. Tutte queste circostanze accelerano la radicalizzazione dei movimenti: nel 1966 lo Sncc abbandona formalmente la pregiudiziale nonviolenta; nell’ottobre del 1966 Huey P. Newton, Bobby Seale e Bobby Hutton fondano il Black Panther Party, una formazione politica dotata di piccoli gruppi paramilitari94. Tuttavia, di tutto ciò, nel brano-simbolo della Experience non vi è traccia. La storia sembra appartenere a un altro tempo e a un altro mondo. Raccontata in forma di dialogo, narra di un uomo che passa con un fucile in mano mentre qualcuno che lo conosce gli chiede: «Ehi Joe, dove vai?»; e lui: «Me ne vado a far secca la mia donna; sai, se la fa con un altro». Quando Joe torna indietro, l’amico gli chiede: «Ehi, ma è vero che hai steso la tua donna?»; e Joe risponde: «Certo che le ho sparato, l’ho sorpresa in città che se la stava spassando. E non solo le ho sparato una volta, ma due volte!». «E ora dove te ne vai?» – replica l’altro. «Scappo in Messico; stai pur sicuro, lì nessuno mi metterà un cappio al collo»; «Beh, Joe, allora è meglio che ti muova», commenta l’osservatore. Strana storia per i tempi che corrono: non ci sono eroi luminosi; non ci sono valori positivi; non c’è alcun riferimento al contesto contemporaneo; c’è «solo» un «femminicidio», come diremmo oggi, descritto nel più indifferente dei modi. Che significato possiamo dare a una canzone di questo tipo? In forma generica si può anche osservare che il testo trasuda inquietudine, e persino rabbia a stento trattenuta. Ma perché inquietudine e rabbia dovrebbero essere espresse proprio in questo modo? E perché la canzone è così apprezzata da un vasto pubblico giovanile, in Europa e poi anche negli Usa? Come abbiamo già visto, molte reazioni giovanili antisistema, dettate dai più vari motivi, si manifestano spesso nella forma di resistenze rituali che nascono attraverso la costruzione di stili culturali dissonanti. Tale straniamento stilistico si forma attraverso l’impiego e il nuovo assemblaggio di materiali preesistenti:

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espressioni idiomatiche, anche volgari, prese in prestito da gruppi proletari o marginali; acconciature femminili per i ragazzi; vestiti con fogge di altre epoche, indossati, ovviamente, senza alcun interesse filologico; oggetti, motocicli, tipi di macchine, soprabiti, scelti come altrettante «firme identitarie». E poi la musica: dalla metà degli anni Sessanta, anche attraverso la ritualità dei concerti, è la musica rock a diventare uno dei consumi culturali fondamentali per esprimere la propria alterità rispetto alla cultura di massa mainstream95. Questo non significa affatto che le canzoni rock acquistino il loro significato esclusivamente, o principalmente, attraverso l’investimento simbolico che specifiche subculture giovanili proiettano su questa particolare forma di espressione culturale; al contrario, ritengo che la musica rock abbia in sé una autonoma carica controculturale che le deriva in modo determinante dal processo generativo attraverso cui si forma. Come già è successo con il r’n’r, anche le forme del rock nascono da un sistematico crossover tra stili musicali e letterari (tra cui fondamentali sono il blues, l’hard country o la letteratura beat), che normalmente sono ai margini della cultura di massa mainstream, ma che proprio grazie alla loro marginalità offrono due vantaggi: (1) contengono soluzioni sonore che appaiono «esotiche», sia perché non corrispondono affatto a quelle della musica pop mainstream, sia perché sono talmente di nicchia da sembrare integralmente inedite; (2) contengono forme narrative che disegnano orizzonti etici inaspettati e – di nuovo – completamente diversi da quelli delle produzioni egemoni nella cultura di massa mainstream, dando vita, in tal modo, a una struttura emotiva fondata su un profondo senso di estraneità rispetto al sistema di valori della cultura dominante. In questo processo generativo, basato sull’ibridazione tra generi marginali, il peso della tradizione che l’archivio stilistico dei singoli generi-matrice si porta con sé è fondamentale e condiziona in modo rilevante le forme della nuova musica. Questo processo generativo, realizzato attraverso l’incrocio sistematico di stili-matrice di riferimento, fa sì che le singole componenti

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dell’intero universo rock (cioè i singoli brani musicali) debbano essere viste come dei ricchissimi palinsesti sui quali si addensa una notevole molteplicità di relazioni intertestuali. Con ciò non voglio dire che questa sia una peculiarità esclusiva della musica rock: non lo è96. Voglio dire, invece, che la decifrazione di un palinsesto-rock ci consente di osservarne gli strati costitutivi e l’intensità del condizionamento che essi esercitano sulla nuova forma-canzone che ne deriva. Cominciamo, dunque, a decifrare il palinsesto di Hey Joe a partire dalla sua storia interna. Il brano è scritto da un busker bianco che si esibisce a New York e in California, Billy Roberts, che nel 1962 ne deposita il copyright, senza tuttavia inciderlo su disco. Nel novembre (o nel dicembre) del 1965 The Leaves, una band californiana, registra la canzone per la prima volta; nei mesi seguenti ne fa poi altre due versioni per un 45 giri che il 21 maggio del 1966 entra nella Top 100 di «Billboard» al n. 84, per poi salire fino alla posizione n. 31. Nell’arco di tempo che intercorre tra questa prima registrazione e l’incisione di Jimi Hendrix (che ha luogo nell’ottobre del 1966) escono altre sette cover, o come uno dei lati di un 45 giri o come parte della scaletta di un LP97. Considerando tutte e otto le incisioni che precedono la versione di Hendrix dal lato musicale, si può osservare che ce ne sono 6 che hanno un arrangiamento beat, eseguito a un ritmo molto sostenuto (The Leaves; Love; The Standells; The Surfaris; The Byrds; The Cryan’ Shames); una che, pur conservando l’arrangiamento beat, è arricchita da rifiniture chitarristiche di influenza orientale (una sorta di raga-rock), che si dispiegano appieno in un bridge strumentale relativamente lungo (The Shadows of Knight); e una, infine, eseguita con chitarra acustica e batteria a un ritmo molto più lento delle altre (Tim Rose). Dal punto di vista testuale ci sono poche varianti significative; le interpretazioni di The Leaves, The Standells, The Surfaris, The Shadows of Knight contengono un testo praticamente identico alla versione di Hendrix; quelle di Love, The Byrds, Tim Rose e The Cryan’ Shames hanno in più una variante: all’inizio la voce narrante chiede a Joe dove se ne stia andando con tutti quei soldi

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in mano; e Joe risponde che va a comprarsi una calibro .44; poi la narrazione prosegue – grosso modo – seguendo la traccia della versione-madre. Per quanto riguarda l’interpretazione, infine, la variante più significativa è quella di Tim Rose, che rallenta il ritmo del brano e – soprattutto – canta i singoli versi dividendoli nettamente in due emistichi distinti, mentre tutti gli altri gruppi li cantano senza alcuna interruzione interna. Tra tutte le cover, quella che costituisce il modello per Hendrix è proprio la versione di Tim Rose. Nell’estate del 1966 Tim Rose si esibisce al Greenwich Village, al Cafe Wha?; Hendrix, che frequenta il locale, modella la sua interpretazione sulla base della versione di Rose. Nello stesso momento Chas Chandler, che è stato il bassista degli Animals, ma ha deciso di smettere di suonare per fare il manager, sta cercando un cantante per una nuova cover di Hey Joe. È Linda Keith, ex ragazza di Keith Richards, a segnalare Hendrix a Chandler. Linda e Chas vanno insieme al Cafe Wha?, dove all’epoca si esibisce anche Hendrix, e in quella circostanza il chitarrista esegue proprio la sua cover di Hey Joe. Chandler non ha dubbi sul futuro di quel pezzo e del chitarrista che lo esegue, e si propone a Hendrix come il suo primo manager98. In effetti, la versione di Hendrix è molto simile a quella di Tim Rose e accoglie anche la variante di esecuzione che prevede la divisione dei versi in due emistichi distinti: «Hey Joe – pausa – where you goin’ with that gun in your hand?», e via di seguito in questo modo. Questa soluzione dà all’interpretazione del brano una connotazione che manca a tutte le altre versioni, sia per via del ritmo lento, sia per la riarticolazione dei versi, sia per il riff di chitarra, che Rose esegue alla chitarra acustica e Hendrix all’elettrica. Tuttavia, mentre nella versione di Rose il brano conserva una coloritura country, dall’esecuzione di Hendrix viene fuori un blues diviso in tre strofe di quattro versi, ciascuno dei quali declinato in due emistichi. Del blues Hendrix conserva il tono colloquiale e l’abitudine di aggiungere frasi ponte fra una strofa e l’altra, o persino tra un verso e l’altro, per dare maggior pathos ai diversi momenti narrativi.

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Il che ci permette una prima considerazione. La nuova versione di Hendrix intreccia una relazione intertestuale intensa con un genere che – come abbiamo visto – è stato a lungo integralmente di nicchia negli Usa, non molto popolare nemmeno tra il pubblico afroamericano, specie tra i giovani neri. Tuttavia, come sappiamo, il mondo del blues è una miniera testuale straordinaria, all’interno della quale i racconti di amori brutali che si concludono con un omicidio e con un imprigionamento sono molto numerosi. E – occorre sottolinearlo ancora – non sono cantati solo da uomini, giacché ci sono molti esempi, specie nel blues delle origini, di canzoni di amore violento in cui le cantanti impersonano donne tragicamente brutali, se non addirittura omicide per amore (o meglio, per una delusione d’amore). Naturalmente, l’universo narrativo blues non si esaurisce solo in questo, ma resta all’interno di un paesaggio etico attraversato da un’inquietudine che sembra non avere fine, oltre che da un modo di concepire la sessualità e l’amore che è distante anni luce dagli orizzonti etici mainstream. Inoltre – come pure abbiamo già visto –, ad appoggiarsi a un repertorio vasto e peculiare come quello blues non è solo Hendrix: già cinque anni prima, all’interno del folk revival, Bob Dylan nel suo primo disco ha «coverizzato» diverse canzoni blues; dopodiché, soprattutto in Gran Bretagna, il blues è stato riscoperto proprio da un pubblico bianco che desidera uscire dalla prigione delle pop songs, sia dal punto di vista musicale che dal punto di vista narrativo: è a questo pubblico che musicisti come i Rolling Stones, gli Yardbirds o gli Animals si sono rivolti. Il che colloca stabilmente la Hey Joe hendrixiana all’interno di un quadro più generale, che fra l’altro aiuta a spiegare il successo immediato che la canzone riscuote in Gran Bretagna. Tuttavia Hey Joe propriamente non è un blues. In un blues, Joe parlerebbe in prima persona, e non in forma indiretta, o attraverso l’espediente del dialogo, giacché il blues è sempre un’effusione narrativa soggettiva, mai – o quasi mai – una narrazione esterna di vicende che accadono ad altri. La narrazione esterna,

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anche in forma di dialogo, appartiene invece a un altro genere di nicchia, l’hard country. Già sappiamo che profonde differenze stilistiche e di pubblico separano il country dal blues; e tuttavia occorre ricordare di nuovo i numerosi rapporti intertestuali che legano i due generi, accomunati da una medesima sensibilità per un underworld di perdenti, antieroi, gente senza speranza, di cui si osservano le vicende in racconti che non manifestano mai né una vera partecipazione etica, né una chiara sanzione morale, nemmeno quando descrivono le gesta di un qualche orribile assassino. Che Hey Joe attinga a questo ulteriore repertorio è provato non solo dall’impostazione narrativa, ma dalle fonti individuate per la versione originaria del brano; l’autore, Billy Roberts, si è mosso lavorando su tre esempi testuali: (1) una canzone country intitolata Hey Joe, scritta da Boud­ leaux Bryant e incisa da Carl Smith nel 1953, con buon successo, dal momento che dal 19 maggio 1953 si è collocata al primo posto tra i singoli più venduti nella classifica country di «Billboard»: la canzone parla di due amici che litigano per una bella ragazza, e ha anch’essa una struttura dialogica, sebbene si senta parlare solo la voce del personaggio che si rivolge all’amico Joe; (2) una canzone della ragazza di Roberts, Niela Miller, intitolata Baby, Please Don’t Go to Town; anche questa canzone ha una struttura dialogica, con una imprecisata voce narrante che si rivolge alla protagonista, e costei che risponde dicendo che se ne vuole andare per i bar della città perché il suo uomo l’ha delusa e ne vuole parlare con tutti i ragazzi che incontra; al che la voce narrante la mette in guardia, perché a flirtare in quel modo, magari piena di gin, la protagonista corre davvero un bel rischio99; (3) infine, la fonte più importante è una tradizionale murder song, incisa per la prima volta nel 1930 da Clarence Ashley, un banjoista hillbilly bianco, che narra – peraltro in soggettiva – di

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un tizio che, avendo ucciso una Little Sadie, tenta di fuggire ma viene ripreso e condannato a un’infinità di anni di carcere100. E così, dunque, allo strato blues del palinsesto si aggiunge anche lo strato country, che porta con sé una particolare attenzione a storie tragiche di perdenti senza riscatto. Aggiungiamo ancora un terzo strato del palinsesto. Il successo del brano – come di tutto il repertorio iniziale di Hendrix – è propiziato dal modo in cui il chitarrista si esibisce a Monterey e in altri concerti. A Monterey, in particolare, Hendrix esegue il bridge strumentale di Hey Joe suonando la chitarra con i denti, mentre nella coda strumentale esegue l’assolo tenendo la chitarra dietro la schiena. A parte questo, a conclusione dell’ultimo brano della performance, Hendrix dà fuoco alla sua chitarra, poi la sfascia per terra e la getta al pubblico – come ha già fatto in altri concerti in Europa. Qua Hendrix impiega un codice performativo già da tempo sperimentato da numerosi artisti afroamericani R&B o blues (da Chuck Berry ad Aaron T-Bone Walker), che lui ha imparato suonando ininterrottamente dal 1963 al 1965 sia nel cosiddetto Chitlin’ Circuit – il circuito di locali per neri del «profondo Sud» –, sia in diversi locali di New York101. Al tempo stesso questa soluzione visuale apre un canale intertestuale con un universo artistico del tutto diverso, quello dell’arte d’avanguardia; a Monterey, Pete Townshend, chitarrista degli Who che si esibiscono prima di Hendrix, ha già messo in atto una performance simile, sfasciando la sua chitarra contro il palco; Townshend, che lo ha già fatto altre volte sin dal 1964, segue in ciò Gustav Metzger, un artista d’avanguardia, creatore della pratica dell’arte autodistruttiva; negli Usa, viceversa, è Nam June Paik che – nel 1962 – ha ideato e realizzato la performance intitolata Solo for Violin, in cui il performer lentamente solleva il suo violino sopra la testa e poi lo sfascia sbattendolo con violenza contro un tavolo: gesti estremi di ribellione e di autodistruzione che vogliono deliberatamente decostruire l’aura sacrale che – nella tradizione artistica occidentale – circonda l’artista e le sue produzioni102.

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Infine, quarto strato del palinsesto: Hendrix, che pratica superbamente l’assolo di chitarra elettrica, non è certo colui che inventa questa modalità performativa; tuttavia Hendrix gli dà un’impronta propria, prolungandone la durata, arricchendone la struttura armonica, dandogli una rilevanza particolare nel complessivo equilibrio espressivo dei suoi brani, e così aprendo la strada a brani rock che ospitano sezioni strumentali sempre più lunghe. Anche se si deve riconoscere che Hendrix crea i suoi assolo sulla base di una sua autonoma creatività, si deve anche notare che egli modella le strutture delle sue parti strumentali per chitarra sugli assolo strumentali da tempo sperimentati dai musicisti jazz, primo dei quali Roland Kirk (il cui modo di suonare il flauto avrebbe poi influenzato profondamente anche Ian Anderson, leader dei Jethro Tull); altri musicisti jazz che apprezzano lo stile di Hendrix (e viceversa) sono Miles Davis, Gil Evans, John McLaughlin e Tony Williams. Osserviamo, in definitiva, e in forma panoramica, gli aspetti principali di questo specifico processo generativo: (1) il rock è una musica che nasce dall’ibridazione di stili musicali di nicchia, e dalla loro ricombinazione attraverso un montaggio in cui la sintassi combinatoria si impone come fondamentale regola creativa; (2) il rock prende forma attraverso il recupero di tradizioni musicali che già per conto loro hanno un impianto controculturale, giacché mostrano la parlabilità delle esperienze di un sottomondo di antieroi, amanti disperati, tossici, e così via, del tutto ignorati dalle narrazioni mainstream; (3) queste storie sono narrate spesso con un atteggiamento che è privo di ogni intento moralistico; piuttosto, domina un sentimento di profonda empatia per gente che si trova in una disperata condizione di liminalità, che può essere assunta – almeno metaforicamente – come propria; in tal modo, brani come Hey Joe spingono verso un’aperta sensibilità cognitiva, e delegano

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agli ascoltatori ogni decisione etica sul senso della storia e sul destino riservato ai vari personaggi; (4) c’è infine un lato della pratica combinatoria che ha a che fare con le strutture musicali e più in generale con l’etica della scena rock di fine anni Sessanta: il pubblico e i musicisti sono guidati da un imperativo che spinge incessantemente verso l’innovazione senza compromessi, che – a sua volta – conduce a una complessità strutturale dei brani che si fa sempre più densa; è un codice etico comune alle più diverse subculture (musicali, giovanili), ciascuna alla tenace ricerca di una cifra che la distingua dalle altre e dalla società circostante103: in tal modo i musicisti sono incoraggiati a moltiplicare le dimensioni della rete intertestuale, che non si ferma al blues, al R&B, al r’n’r e al jazz, ma si muove in direzione della musica classica, della musica contemporanea – dalla dodecafonia alla musica elettronica, al rumorismo della musique concrète –, qualche volta con l’impiego di tutti questi riferimenti dentro uno stesso album, o persino dentro uno stesso brano. E così, facendosi affascinare da canzoni come Hey Joe, gli ascoltatori vengono proiettati nelle più diverse e inusuali direzioni narrative e musicali, dando un senso estetico ed etico compiuto alla struttura emozionale trasmessa dal rituale del concerto, che potremmo riassumere così: «non facciamo più parte della rete di senso che usualmente ci è offerta, ma siamo dentro una diversa communitas». A questo punto il processo di straniamento è integrale: e tale appare per davvero quando si esplorino più in profondità suoni e parole del rock.

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1. Nuovi suoni Ciò che colpisce nei migliori musicisti rock è l’audacia creativa che si traduce nell’incessante esplorazione di nuovi universi sonori. È un tipo di mentalità che deriva dal culto dell’autenticità, proprio di molte subculture artistiche o sociali pregresse, come la beat, la mod o la hippie; culto che – nella popular music americana – ha avuto accoglienza anche nei contesti blues, folk o country: per le comunità interpretative che apprezzano questi stili è fondamentale che il singolo musicista non sia «phoney», cioè non sia un falso, una parodia, ma sia una persona che, provenendo dalla comunità che apprezza quel tipo di musica, e avendo sperimentato di persona le esperienze che quella comunità attraversa ogni santo giorno, è «autentica» e proprio per questo è «credibile»1. Inoltre, sin dagli anni Trenta, negli ambienti dei musicisti jazz questo tipo di mentalità acquista una declinazione particolare: la differenza tra le swing bands (del tipo di quelle di Benny Goodman e di Duke Ellington) e le sweet bands (del tipo di quelle di Paul Whiteman e di Guy Lombardo) consiste nella pretesa di superiorità etica che le prime manifestano sulla base della complessità e innovatività della loro proposta estetica2. Questo tipo di sensibilità si acuisce in modo anche più netto nella storia seguente del jazz: i beboppers come Charlie Parker,

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Dizzy Gillespie, Thelonious Monk, gli innovatori fuori dagli schemi, come Miles Davis, i portabandiera del free jazz, come John Coltrane, Ornette Coleman, Cecil Taylor, aggiungono alla diade «ricerca estetica-superiorità etica» anche un atteggiamento di sfida (apprezzatissimo da Kerouac e dagli intellettuali beat), che dichiara preferibile l’insuccesso commerciale al sacrificio del proprio genio creativo. Sebbene il modello venga – in prima battuta – dalla elaborazione estetica di intellettuali e artisti afroamericani, nel corso degli anni Sessanta accende nella mente dei giovani musicisti rock, e in particolare di quelli che vengono dal Regno Unito e magari hanno studiato in una art school, un corto circuito che collega le nuove proposte musicali che emergono nello spazio della popular music contemporanea, al culto dell’avanguardia artistica romantica che hanno imparato ad ammirare a scuola. Almeno in prima battuta, poi, questo tipo di sensibilità viene virato nella direzione di un radicale anticommercialismo. Se ciò che è tipico della musica pop è ripetere strutture sonore (e testuali) sempre uguali a sé stesse, salvo innovazioni marginali che non ne mettono in discussione l’architettura complessiva, i musicisti rock vogliono fare qualcosa di molto diverso, sperimentare incessantemente forme nuove che certifichino la loro consapevole superiorità etica nei confronti dei musicisti che creano, suonano, cantano, animati solo dal desiderio di fare soldi. Tutto questo viene spiegato molto chiaramente, per esempio, nel testo che compare sulla copertina dell’album Acquiring the Taste, dei Gentle Giant, pubblicato nel 1971, nel quale i musicisti scrivono: Il nostro obiettivo è quello di espandere le frontiere della popular music contemporanea, a rischio di diventare molto impopolari. Abbiamo registrato ogni composizione con questo solo pensiero: che fosse unica, avventurosa e affascinante. C’è voluto ogni pezzetto della nostra conoscenza musicale e di quella tecnica, combinate insieme, per riuscirci. Fin da principio abbiamo abbandonato qualsiasi preconcetto di plateale commercialità. Invece, speriamo di darvi qualcosa di molto più sostanziale e soddisfacente. Tutto quello che dovete fare è sedervi, e assaporarlo3.

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Nello spazio delle sperimentazioni musicali, due sono i principali percorsi innovativi, gravidi peraltro di innumerevoli sviluppi ulteriori: da un lato ci sono musicisti che modificano progressivamente le strutture e le sonorità del blues, fino a costruire un ambiente sonoro al tempo stesso spettacolare e drammatico, sul quale proiettare le desolanti storie proprie dell’archivio blues; dall’altro ci sono musicisti che radicalizzano la sintassi combinatoria che appartiene strutturalmente al rock, ibridando i modelli musicali originari con una grande quantità di altre esperienze musicali. Il fatto che, negli anni Cinquanta e Sessanta, giovani musicisti britannici si siano avvicinati al blues o al R&B senza alcun rigore filologico, magari scoprendo prima Muddy Waters, poi Robert Johnson, poi Fats Domino, mentre ascoltano contemporaneamente anche Chuck Berry o Lonnie Donegan, non solo non è un limite, ma si trasforma in un considerevole vantaggio. Affrontando il materiale musicale come qualcosa di vivo, non come un’esperienza inerte da incasellare in qualche spazio estetico irrigidito da una mentalità scolastica, musicisti come Eric Clapton (con i Cream), Jimmy Page (con i Led Zeppelin) o Tony Iommi (con i Black Sabbath) sanno ampliare le strutture del blues, piuttosto costrittive, soprattutto grazie a un uso nuovo e peculiare della chitarra elettrica. L’impiego del riff è fondamentale: gli Stones ne hanno mostrato l’efficacia espressiva con Satisfaction, e di seguito, a catena, una impressionante sequenza di brevi cellule melodiche, suonate normalmente da una chitarra minacciosamente distorta, disegna il nuovo panorama sonoro (e tra i riff fondativi di questi anni vanno ricordati almeno quelli di Sunshine of Your Love, Cream, dicembre 1967; di In-A-Gadda-Da-Vida, Iron Butterfly, giugno 1968; di Whole Lotta Love, Led Zeppelin, novembre 1969). La scelta di dare uno spazio particolare all’improvvisazione chitarristica (o anche di altri strumenti: tastiere o fiati, per esempio) dipende dalla perfetta consapevolezza del carattere limitativo della struttura blues, anche nelle sue derivazioni R&B o r’n’r. Ian Anderson, flautista e leader dei Jethro Tull, una band britannica che si presenta sulla scena suonando del buon blues

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rock (in particolare nei primi due album, This Was, 1968 e Stand Up, 1969), chiarisce il punto con grande lucidità: Vedi, il terreno comune in una jam di solito è il blues... una sequenza di dodici battute. Sostanzialmente suoni su un accordo. Ora, cosa puoi dire con dei limiti così stretti che non sia già stato detto un migliaio di volte prima. Io non voglio ripetere dei cliché blues iperconsunti, tipo le sequenze di B.B. King, o quel che fa Eric Clapton. L’hanno già fatto loro, molto meglio di quanto possa fare io, o chiunque altro4.

Da questa consapevolezza nasce il desiderio di allontanarsi dalla gabbia blues, oppure di espanderla, attraverso l’impiego di accelerazioni ritmiche, un cantato estremamente melodrammatico, e soprattutto l’uso intenso della distorsione e dell’assolo chitarristico. I musicisti che scelgono questa soluzione fondano il canone dell’hard rock, genere che – nelle sue manifestazioni migliori – ha una sua bella coerenza interna: le nuove strutture emotive sollecitate dalle innovazioni musicali conferiscono all’universo narrativo tipico del blues un’enfatizzazione drammatica che risulta perfettamente adeguata ai sentimenti – il dolore, lo spaesamento, un senso selvaggio di isolamento e di marginalità – narrati nelle canzoni (come è particolarmente evidente nel canzoniere dei Led Zeppelin). Al tempo stesso, come capita a molti altri gruppi rock di questo periodo, anche i Led Zeppelin e i Black Sabbath si aprono ad altre influenze musicali, inserendo, per esempio, nel loro repertorio anche rivisitazioni di brani folk, affrontati egualmente con un mood oscuro e drammatico5. Tuttavia, per quanto suggestive siano le creazioni hard rock, niente può eguagliare la vastità e la ricchezza dei tessuti sonori costruiti da un musicista che emerge nel 1966 dal fervido contesto sociale e artistico della California: Frank Zappa. Nel suo caso la lucidità di una ricerca musicale animata da un’infinità di passioni e interessi che si muovono da Edgar Varèse al doo­ wop, dalla dodecafonia al r’n’r, da Stravinsky al jazz, da Carl Stalling all’hard rock, si affianca alla costruzione di paesaggi narrativi urticanti e polemici, che si scagliano contro quelli che Zappa giudica gli effetti nefasti del consumismo e della cultura

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di massa. All’interno di una produzione sterminata ci troviamo nel bel mezzo di una decostruzione senza quartiere dei valori fondamentali della cultura mainstream. Naturalmente, l’assunto fondamentale che guida anche Zappa è la polemica serrata contro la commercializzazione della musica, sardonicamente esposta, per esempio, in una caotica sezione parlata di Flower Punk (dall’album We’re Only in It for the Money, 1968), nella quale Zappa interpreta il ruolo di un musicista ipocrita che dice, con tono retorico, quanto sia bello stare in una band di r’n’r e fare musica che fa star bene i kids; per poi confessare, senza ritegno, che quel che gli interessa veramente sono i soldi e le ragazze che può tentare di farsi dopo il concerto; da qui anche il titolo sarcastico dell’album nel quale è inclusa questa canzone: We’re Only in It for the Money – suoniamo solo per fare un po’ di soldi (e la copertina dell’album che imita Sgt. Pepper è un chiaro riferimento ai Beatles – un po’ ingeneroso, direi)6. Ma la polemica contro il consumismo ricorre costantemente nei lavori di Zappa, così come ricorre lo smascheramento impietoso di ogni tipo di conformismo – quello delle vecchie generazioni, quello delle élite al potere, quello indotto dal sistema delle high schools che produce dei mostri, socialmente disadattati, nonostante le apparenze; ma anche quello delle ragazzine che pensano solo ai vestiti di moda, o quello di coloro che «fanno» gli hippie solo perché a un certo punto la cosa è à la page7. In molti brani di Zappa la musica è strutturata per collage musicali che mettono insieme gli stili più disparati; normalmente Zappa procede per giustapposizione o per sovrapposizione: per esempio, inizia il brano con uno stile riconoscibile (country; doo­ wop; pop) e poi lo fa esplodere con l’inserimento di parti vocali o di linee melodiche del tutto aliene rispetto allo stile inizialmente scelto. L’effetto di una soluzione compositiva di questo genere è di scuotere costantemente l’ascoltatore, reclamando intera la sua attenzione. Prendiamo come esempio Concentration Moon (anche questo da We’re Only in It for the Money), brano in cui si denuncia l’ipotetica intenzione governativa di costituire campi di concentramento per una possibile emergenza nazionale8. La

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delirante fantasia concentrazionaria è cantata con un indolente stile country; un ascoltatore disattento potrebbe fraintendere, scambiando il sanguinoso sarcasmo per un innocuo gioco un po’ surreale; ma ecco che la musica cambia direzione, e la filastrocca country diventa una spigolosa melodia cromatica. Il meccanismo, alla fine, è quello dello straniamento. È come se, incessantemente, Zappa dicesse a chi l’ascolta: aguzza le orecchie; vedi bene quel che ti faccio vedere; non ti distrarre; guarda che se uso il country o il doowop, non è per rendere la mia musica più ovvia, o piacevole; semmai è il contrario, voglio farti vedere quanti danni tragici possano fare musichette di quel tipo, se non sono ben contestualizzate nel quadro complessivo della società americana. Che è propriamente ciò che Zappa stesso dichiara di voler fare: La musica commenta la società, e di certo le atrocità sul palco non sono niente rispetto a quelle condotte in nome e per conto del nostro governo. A volte non riesci a scrivere accordi abbastanza dissonanti per esprimere a fondo quello che hai in mente, e allora devi affidarti [a qualche espediente scenico]. Inoltre, la gente non sa ascoltare, si interessa sempre meno alle cose, e ha bisogno di qualcosa che l’aiuti a ritrovare le capacità di concentrarsi9.

Oltre che in funzione espressiva, di interlocuzione col testo e con gli ascoltatori, la musica di Zappa ha un respiro autonomo e si muove nelle più imprevedibili direzioni: hard rock, jazz, classica atonale, con intrecci che talora si fondono nel contesto di uno stesso brano. Ciascuna di queste esperienze amplia gli orizzonti e supera i confini, e tra le varie vesti musicali indossate – chitarrista hard rock, direttore di un’orchestra jazz, compositore classico – quest’ultima è quella che per certi versi gli si addice di più. Oltre alle innumerevoli citazioni o rielaborazioni di materiali cromatici, atonali, rumoristici, presenti un po’ in tutta la sua produzione, spiccano in effetti le opere per orchestra, che hanno ricevuto una sorta di legittimazione ai massimi livelli quando Pierre Boulez ha deciso di dirigerne e inciderne alcune, insieme all’Ensemble InterContemporain (si tratta di The Perfect Stran-

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ger, Naval Aviation in Art? e Dupree’s Paradise, nell’album Boulez Conducts Zappa: The Perfect Stranger, 1984). Tuttavia Zappa raggiunge probabilmente il suo vertice crea­ tivo nel 1992, poco prima della sua morte prematura, quando l’Ensemble Modern registra dal vivo, nel corso di una tournée tedesca, brani orchestrali inediti o arrangiamenti per orchestra di brani precedentemente eseguiti con altri combo (la registrazione è raccolta nell’album The Yellow Shark, 1993). La musica, variamente e riccamente atonale, riesce a colorare una varietà di paesaggi con un’intensità espressiva che difficilmente altri musicisti classici riescono a toccare: e così si va dalla divertentissima irrisione per musica e parole del modulo che gli stranieri devono riempire prima di far ingresso negli Usa (Welcome to the United States) all’abbandono gioioso e travolgente dei sensi (G-Spot Tornado), alla complessa delicatezza lirica di Times Beach II e Times Beach III, in un quadro che – com’è evidente – trascende di molto le specificità e i confini dell’esperienza rock. La curiosità nei confronti dei generi musicali più diversi e l’interesse per la loro combinazione e ibridazione, che è tipico di Zappa, appartengono anche a un sottogenere rock che prende forma dal 1969 in avanti, soprattutto in Europa, e cioè il «progressive rock» (prog)10. I gruppi che eseguono questo tipo di musica (tra cui anche i Gentle Giant e i Jethro Tull) condividono certamente con Zappa il disprezzo per la commercializzazione dell’arte, così come per l’ottundimento procurato dall’etica del consumismo11. Il punto essenziale della traiettoria prog, comunque, sta nell’ibridazione a 360 gradi della originaria matrice rock, in un dialogo fitto con la musica classica sette-ottocentesca, con la classica contemporanea, con il jazz, con il folk, con la musica etnica, con le nuove forme dell’hard rock. Il risultato qualche volta è deludente, quando i musicisti procedono per pura giustapposizione di forme (una parte di un brano suonata in forma rock, un’altra parte affidata a un’orchestrazione sinfonica). Nella maggior parte dei casi, tuttavia, la musica risulta innovativa, ricca, espressiva, profonda, capace tutt’oggi di reggere all’ascolto.

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Come già nel caso di Zappa, i brani suonati da gruppi come i King Crimson, i Genesis, i Pink Floyd, gli Yes, i Soft Machine, da Robert Wyatt e altri ancora, si allungano progressivamente, fino a costruire delle suite che occupano intere facciate di un LP (come per Atom Heart Mother dei Pink Floyd, 1970; Thick as a Brick dei Jethro Tull, 1972 – un unico brano su due facciate; o Tales from Topographic Oceans degli Yes, 1973 – quattro brani per quattro facciate di LP). I brani strumentali diventano più lunghi e più ricchi e costringono gli ascoltatori a un atteggiamento più concentrato e riflessivo, sia che ascoltino la musica da un impianto stereo, sia che la ascoltino dal vivo, nel corso di un concerto. Le sequenze musicali si fanno multiformi, variate, con improvvisi mutamenti di ritmo, di tempo, di linea melodica, offrendo universi emotivi suggestivi e tra i più fantasiosi creati nel contesto rock, tanto che ogni volta che si mette un nuovo disco prog sul piatto – specie nel caso dei gruppi più creativi, come i King Crimson o i Pink Floyd – davvero non si sa mai cosa aspettarsi. E, naturalmente, la struttura interna dei brani si complica enormemente, come si può vedere, per esempio, dal grafico che descrive la complessità di The House, the Street, the Room, che i Gentle Giant includono nell’album Acquiring the Taste (1971) (Grafico 6). La musica di The House, the Street, the Room è composita ed elaborata, e comporta l’uso di strumenti insoliti (clavicembalo, vibrafono, violino, tromba, flauto dolce, violoncello, celeste). La linea melodica è scandita da repentini cambi di atmosfera che conducono gli ascoltatori da un dialogo fitto con la musica classica a un’interazione suggestiva col jazz, fino a un trionfale ritorno alle modalità più tipiche del rock. Franco Fabbri, che ha costruito il grafico impiegato qui, descrive anche in modo magistrale il senso dell’assolo di chitarra elettrica al centro del brano (corrispondente al segmento più lungo dell’istogramma, Grafico 6): Al termine del crescendo [...] irrompe, da sola, al centro del panorama stereo, la chitarra elettrica [suonata da Gary Green]: un re «tirato» (col bending), con una sonorità distorta, saturata anche grazie all’uso del wah wah, che subito riconosciamo (e a maggior ragione doveva essere riconosciuta nel 1971) come strettissima parente del sound preferito dai chitarristi del

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r c bv bs c bv bs inc ace c bv bs inc

Grafico 6. Struttura compositiva di The House, the Street, the Room (durata: 6:01). rock-blues inglese e da quelli emersi verso la psichedelia o l’hard rock. [...] L’ingresso di Gary Green nel centro della scena (e questa spesso era la funzione del chitarrista anche dal vivo) diceva e ci dice, urlando: «Qualunque cosa voi pensiate di questa musica astrusa che avete appena ascoltato, eseguita con strumenti che non vi sareste mai aspettati di trovare qui, questo è un gruppo rock, noi stiamo suonando del rock, e adesso ve lo facciamo sentire». Ma è un rock particolare12.

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Questo rock particolare, poi, nel caso specifico, sostiene un testo cantato che ci parla del profondo senso di disagio provato dalla voce narrante, che riesce a uscirne solo attraverso un passaggio a uno stato di liminalità comunitaria13. In questo modo la complessità della musica si collega direttamente a un’elaborazione narrativa che dà un senso culturale esplicito al percorso rituale di cui abbiamo parlato nel capitolo precedente. 2. Narrazioni rock Il 28 giugno 1968 «Life» esce con i Jefferson Airplane in copertina, e con una lunga cover story sul nuovo rock, che si concentra in particolare su Janis Joplin and The Holding Company, Jefferson Airplane, Zappa and The Mothers of Invention, The Doors, Cream, The Who e Country Joe and The Fish. I responsabili della sezione – che suscita reazioni sconcertate nei lettori – mostrano un intelligente apprezzamento dell’esperienza della nuova musica, osservando che il rock nasce meticcio dalla fusione tra stili diversi e ha cose significative da dire: Il rock è sovversivo non perché sembri autorizzare sesso, droga e brividi facili, ma perché incoraggia il suo pubblico a farsi un’idea propria intorno ai tabù sociali. Come canta John Phillips, dei Mamas & Papas, «devi andare dove vuoi andare / Fa’ quel che vuoi fare / Con chiunque / Tu voglia farlo»14.

E non è particolarmente tanto lo spessore poetico dei testi delle nuove canzoni, che deve colpire, quanto piuttosto la sensibilità che le guida. Che è una sensibilità che in larga misura – come abbiamo già visto – deriva dai principali generi-matrice che danno avvio al processo generativo, ovvero il blues e l’hard country. Meglio di chiunque altro, in Chimes of Freedom (1964) Bob Dylan ha espresso la filosofia dell’antieroismo – che costitui­sce l’essenza etica delle contronarrazioni blues e hard country – con un’enfasi biblica intensa e appassionata: Lontano tra la fine del tramonto e il rintocco spezzato di mezzanotte ci riparammo in un androne mentre il tuono esplodeva con fragore

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mentre squille maestose di lampi colpivano ombre negli abissi come se fossero lampeggianti campane di libertà lampeggianti per i guerrieri la cui forza è non combattere lampeggianti per i rifugiati sull’inerme via della fuga E per tutti i poveri soldati nella notte e noi alzammo gli occhi alle lampeggianti campane di libertà 15.

Dopodiché, strofa dopo strofa, si infittisce l’elenco dei marginali per i quali suonano le campane della libertà: il ribelle, il miserabile, lo sfortunato, l’abbandonato, il rifiutato, l’escluso, «messo costantemente al rogo», il gentile, il mite, i guardiani e i protettori della mente, il poeta e il pittore «giunti troppo tardi», il sordo e il cieco, il muto, «la bistrattata madre senza marito», «la prostituta ingiuriata», «il delinquente da poco, inseguito e imbrogliato», «chi è stato condannato a vagare o altrimenti forzato a restare», «quelli che cercano sui loro sentieri di ricerca senza parole», «gli amanti con la solitudine nei cuori con una storia troppo personale», «ogni gentile anima innocua messa ingiustamente dentro una prigione», «i malati le cui ferite non possono essere lenite», «le schiere dei confusi, accusati, maltrattati, intossicati e peggio ancora», «ogni persona ossessionata nell’intero universo». Dylan costruisce il suo elenco come un programmatico invito all’empatia, propiziato da un temporale apocalittico i cui suoni si trasformano nelle campane della libertà, che suonano per il riscatto di tutta questa comunità di marginali. Tuttavia, nelle narrazioni rock (e in primo luogo in quelle del Dylan seconda maniera) la descrizione di un sottomondo di antieroi non assume il carattere della finger-pointing song, del reportage di denuncia in cui chi narra ha anche una chiara percezione del bene e del male; viceversa l’atteggiamento è piuttosto quello della sospensione del giudizio, dello sguardo inquieto e curioso che si apre su realtà ed esperienze sistematicamente escluse dall’ottimismo della cultura di massa mainstream16. Lo riconosce anche George P. Hunt, caporedattore di «Life», osservando che se i musicisti rock non rendono le cose semplici, né dal punto di vista testuale, né dal punto di vista musicale, riescono tuttavia a toccare il cuore di una gran parte del pubbli-

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co giovanile, perché tutti loro mostrano una particolare empatia («compassion») per la gente, per tutta la gente – e per le loro storie, per tutte le loro storie17. Tra le quali – come da matrice blues-country – ci sono anche quelle di amori che vanno male, che lasciano ferite sull’anima o che portano a relazioni drammaticamente disfunzionali. Tra i numerosi esempi che si possono considerare, la storia raccontata in Berlin, di Lou Reed – un concept album pubblicato nel 1973 – esemplifica nel modo più crudele e coraggioso il tipo di modalità narrativa che si fa strada nei testi rock18. Alti, bassi: puoi essere figlio di un ricco o venire da una famiglia modesta, non è così importante, perché la strada che percorri è quella che tu scegli. Due americani, Jim e Caroline, sono a Berlino. L’inizio del loro amore è un incanto romantico. Ma poi ciascuno di loro si fa prendere dalle sue fragilità. Lei vorrebbe cantare, ma può farlo solo in posti malfamati che spingono i due a vivere in albergacci di second’ordine. Inoltre a Caroline Jim non basta, e lo umilia cercandosi altri uomini. Lui reagisce sfondandosi di droga (come anche lei, peraltro) e rivalendosi su di lei con violenza, picchiandola. Ma lei è di una freddezza glaciale, la chiamano «Alaska», e quando lui la picchia, lei – carica di lividi ma ancora più determinata di prima – gli dice: «mi fai schifo, non ti amo più». Nondimeno, la condotta di lei è talmente dissoluta che a un certo punto i servizi sociali decidono di separarla dai figli; forse è lo stesso Jim che ha denunciato Caroline; ma anche se non è così, Jim guarda egualmente la scena con soddisfazione, come se fosse una rivalsa per i tradimenti che ha subito, come se le botte che le ha inferto non fossero ancora abbastanza per ripagarlo. Alla fine Caroline non regge e si suicida tagliandosi i polsi: e Jim descrive la scena con uno straniamento robotico, appena attraversato da una vena di rimorso; ma il rimorso si converte presto in un ghigno satanico, quando Jim pensa che forse sarebbe stato meglio se lui – prima di ogni cosa – a Caroline avesse spezzato entrambe le braccia... La grande forza di questa storia sta nella scelta delle musiche che la accompagnano, che – come capita spesso nella pro-

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duzione di Lou Reed, sia con i Velvet Underground sia nella sua carriera solista – non sono drammatiche o violente, come ci si potrebbe aspettare, ma semplici e talora persino delicate e gentili, sostenute da un elegante arrangiamento neoclassico. Il contrasto è fortissimo, e il tipo di riflessione a cui Reed invita è piuttosto chiaro: l’ideale dell’amore romantico, che sempre deve imporsi affinché tutti vivano poi felici e contenti, può valere forse per Cenerentola, può trovare ospitalità nelle moderne favole per adulti-bambini, ma di sicuro non appartiene a tutti. Ciò detto, non è neanche tanto l’ipotetica attendibilità sociologica di racconti come questo a renderli rilevanti, quanto il fatto che facciano entrare nella scena del visibile, del parlabile, del pubblicamente concepibile, nel cuore della cultura di massa, nel cuore dell’intrattenimento collettivo – e quindi ben al di là della letteratura colta, dei saggi accademici, dell’arte d’avanguardia –, l’idea che le famiglie possono essere infelici, e anzi qualche volta tragicamente infelici: e chi subisce la devastazione di una vita affettiva instabile merita un’attenzione anche maggiore di chi vive il sogno della famiglia-cuore. Non meno importante è la sospensione del giudizio: Reed non ci vuole fare la lezione; non ci vuole spiegare chi ha ragione o chi ha torto; non parteggia né per Caroline, né per Jim; a chi ascolta il compito di decidere, naturalmente se vuole farlo. Capita in questo contesto ciò che capita anche in altri mondi narrativi affini, costruiti ancora da Reed, per esempio in Heroin, una canzone tanto sconvolgente quanto coraggiosa, contenuta nel primo album dei Velvet Underground (Velvet Underground & Nico, 1967). La canzone racconta l’esperienza di un eroinomane, ed è strutturata musicalmente in strofe all’interno delle quali la musica accelera progressivamente man mano che l’eroina viene iniettata in vena e va in circolo: la voce narrante, il drogato raccontato da Reed (che ha una conoscenza di prima mano di questa esperienza) non vuole compassione, non cerca di giustificarsi, né di aggredire i suoi interlocutori; piuttosto è consapevole, al tempo stesso, dell’incredibile sollievo che ricava dalla droga, e del tracciato verso l’autodistruzione che sta percorrendo:

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Io non so proprio dove sto andando Ma proverò a raggiungere il regno, se ci riesco Perché mi fa sentire un uomo Quando mi infilo un ago in vena Credimi, le cose non sono più le stesse Quando sono fatto E mi sento come il figlio di Gesù E mi sa che non so proprio niente E mi sa che non so proprio niente [...] Eroina, sii la mia morte L’eroina è mia moglie e la mia vita Perché una dose nella vena centrale Arriva dritta a un centro del mio cervello E sto meglio che da morto E non me ne frega più niente...19

Di nuovo, non si tratta tanto di documentare un’esperienza per sollecitare un giudizio; si tratta piuttosto di offrire una tragica istantanea di vita contemporanea, e che poi ciascuno si regoli come meglio preferisce. Torniamo per un momento ancora a Berlin o a Hey Joe, due racconti che potrebbero essere visti sotto la luce di un bieco maschilismo; e più volte questa accusa è stata rivolta alla musica rock e ai suoi racconti di disastri affettivi20. Così facendo, credo che si perda di vista il fatto, fondamentale, che alle spalle delle narrazioni rock ci sono il blues e l’hard country. Il modo in cui funzionano le relazioni amorose in questi due generi – nel blues anche più che nel country – consiste nel dichiarare, perfino ideo­ logicamente, l’adesione a una scatenata aggressività di genere, per sovvertirla poi dall’interno e sbriciolarne la sostanza nel suo inverso, cioè nella più disperante e impotente debolezza. Funziona così anche nell’universo narrativo di alcuni dei musicisti o dei gruppi più esposti alle accuse di maschilismo, per esempio i Rolling Stones. Tra le «prove» addotte per mostrare l’inclinazione misogina di Jagger & Co. si cita il testo di Under My Thumb

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(1966), una canzone nella quale, con tono di rivalsa, lui dice a lei: «prima mi dominavi, adesso sei tu che sei sotto il mio potere!»; oppure di Brown Sugar (da Sticky Fingers, 1971), in cui si elencano fantasie estreme di dominio sessuale di uomini su donne; oppure il manifesto promozionale per l’album Black and Blue del 1976, in cui si vede una modella (Anita Russell), legata e piena di lividi, seduta sopra l’interno di copertina dell’album, a fianco della scritta «I’m “Black and Blue” from the Rolling Stones – And I love it!». Ora, il punto è che ciascuno di questi flash trova il suo simmetrico rovesciamento in molti altri testi del canzoniere degli Stones, e in modo particolarmente evidente proprio nei due album evocati (Sticky Fingers e Black and Blue) – poiché l’autosovversione avviene nello spazio comunicativo dell’album stesso. Il testo di Brown Sugar, che apre Sticky Fingers, è certamente attraversato da un’onda selvaggia di desiderio, che sembra deragliare continuamente verso fantasie di puro dominio sessuale di un uomo su una donna; tuttavia c’è anche un’evidente coloritura autoironica in tutta questa costruzione: in che senso – se non in forma autodenigratoria – uno vorrebbe identificarsi con figure maschili vittimizzanti, come un vecchio negriero sfregiato o come un padroncino britannico dal sangue caldo, che vive con una mamma preoccupata per ciò che succede in casa sua (i principali personaggi maschili della canzone)? In effetti, poi, questa declinazione autosarcastica si colora di una luce tragica quando le immagini di Brown Sugar sono proiet­ tate sulla galleria degli altri personaggi maschili che popolano Sticky Fingers. La figura del macho che sottomette le sue donne-schiave si trasforma così nell’incubo del tossicomane che è diventato un rottame per l’abuso di droghe e di alcol (Sway; Sister Morphine; Dead Flowers), così fragile da non avere altra speranza che l’aiuto di una donna che lo conforti e lo tiri su (Sway; Can’t You Hear Me Knocking); è un uomo talmente debole da dipendere integralmente dalla donna, sia sul piano psicologico (Sway: «Un giorno mi sono svegliato per scoprire / Proprio nel letto vicino al mio / Qualcuno che mi ha distrutto limitandosi ad

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accennare un sorriso»), che su quello affettivo (Moonlight Mile), che su quello erotico (Bitch: «Sì quando chiami il mio nome / Salivo come un cane di Pavlov / Sì quando mi sbatti giù / Il mio cuore batte più forte di una grande sezione ritmica»). Alla fine i rapporti di forza sono completamente capovolti rispetto alle fantasie di Brown Sugar, giacché in I Got the Blues e in Wild Horses di nuovo si impone il classico tema blues dell’uomo abbandonato dalla donna e pieno di rimpianti per un rapporto che non è riuscito a conservare; mentre in Moonlight Mile tutto ciò che abita la mente di un musicista in tournée è il desiderio di tornare a casa da lei, anche se la strada, che è quasi alla fine, in effetti sembra non finire mai. La struttura autosovversiva è fondamentale anche in Black and Blue. Il manifesto pubblicitario dell’album mostra una scena di un possibile rapporto sadomaso consenziente con lo slogan giocato sul doppio senso di «Sono stata pestata dai RS» oppure «Sono il nuovo disco dei RS», ma in ogni caso «mi piace» – che certo è osé, ma è anche molto ben trovato. Tuttavia, la cosa più importante è che il rapporto tra l’immagine pubblicitaria e il contenuto del disco inscena ancora una volta il capovolgimento delle fantasie di dominio maschile che ricorre di frequente in momenti importanti del lavoro creativo di Jagger e Richards. L’idea di un gruppo di uomini che possiede e domina violentemente una donna finisce per contrapporsi alle storie narrate in Cherry Oh Baby, Memory Motel, Hey Negrita, Melody e Fool to Cry, dove campeggiano fallimentari figure di uomini duramente minacciati o maltrattati da forti figure femminili. Solo Crazy Mama ristabilisce – per così dire – l’equilibrio, descrivendo un rapporto devastato tra una donna e un uomo che si minacciano reciprocamente: ascoltiamo solo la voce dell’uomo, ma capiamo che la donna potrebbe metterci un attimo a usare il suo fucile a canne mozze e far saltare il cervello del protagonista; il quale, di rimando, le promette una pallottola nel ginocchio. Nella devastazione relazionale che caratterizza il panorama affettivo del disco, l’uomo può, al massimo, cercare di reagire al comportamento particolarmente aggressivo e minaccioso di una donna,

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scagliando minacce altrettanto violente. Di certo, se ha fantasie di dominio, se le deve tenere ben chiuse in qualche angolo della sua mente. O se le manifesta (come avviene in questo caso col cartellone pubblicitario), è solo per autodenunciarne la pateticità. Altro che maschi alfa dominatori: nelle storie cantate si trovano dei poveracci affettivamente instabili, incapaci di trovare un punto di equilibrio in un mondo in cui le relazioni tra le persone sono tutto meno che facili, idilliache, romanticamente semplici e fiabescamente infantili. Allo stesso modo, la matrice blues-hard country funziona anche da una prospettiva femminile; e così, per esempio, nel loro primo album i Jefferson Airplane inseriscono una cover di un brano di Memphis Minnie, originariamente registrato nel 1941, Chauffeur Blues (da Jefferson Airplane Takes Off, agosto 1966), e lo affidano alla voce, bella e spavalda, della loro cantante, Signe Toly Anderson, che canta di una lei che vuole che lui sia il suo autista, e che la porti in giro per il mondo: ma se provasse a portare in giro delle altre ragazze, beh allora lei è pronta a sparargli. Tipico brano da «guerra dei sessi blues», è accompagnato, nello stesso album, da altre canzoni che, come da tradizione blues e country, esplorano da prospettive varie, talora maschili talora femminili, un mondo affettivo e sentimentale tormentato e teso21. Negli album seguenti i Jefferson Airplane abbandonano la matrice blues per sperimentare altre tematiche e altre forme sonore. Invece legata a lungo al blues e al mondo musicale afroamericano è Janis Joplin, il cui repertorio, per tutta la sua breve carriera, oscilla incessantemente tra i due poli classici della poetica blues – autodenigrazione / aggressività affettiva. L’operazione autodistruttiva risulta particolarmente devastante perché deriva da un incontenibile tormento interiore: lei, la voce narrante, in qualche caso vorrebbe disperatamente conformarsi al modello normativo vigente, essere perdutamente innamorata del suo principe azzurro, che prima o poi arriverà («Ho bisogno di un uomo da amare / Ma credo che qualche giorno e da qualche parte è destino che appaia / Perché non è possibile che tutti i miei sogni

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e tutti i miei piani si rivelino sbagliati» [I Need a Man to Love]); e quando sia arrivato, lei sarebbe disposta a fare di tutto, parlare, emozionarsi, lavorare e perfino soffrire, per lui (Try [Just a Little Bit Harder]), purché dimostri di essere la persona giusta, l’amore di una vita (One Good Man). Nella narrativa mainstream è il sogno di ogni Cenerentola: e regolarmente si avvera. Nello spazio narrativo costruito da Janis Joplin, così dichiaratamente debitore alla tradizione blues, le cose vanno diversamente. Il sogno non ha alcuna possibilità di realizzazione e anzi rischia di trasformarsi in un incubo: lui è un principe azzurro che vittimizza e poi scappa («tu mi ferirai sempre / mi deluderai sempre» [Kozmic Blues]), un carnefice che non fa che prendersi «pezzi del suo cuore» (Piece of My Heart); lei è sottoposta a una crudeltà psicologica (e forse anche fisica) imposta dall’avidità sessuale e dall’aridità affettiva del mondo maschile (Ball and Chain) e oscilla fra il desiderio di strisciare e implorare (Maybe) e l’impulso a ripagare con la stessa moneta (As Good as You’ve Been to This World). La sostanza è che non c’è alcun lieto fine salvifico (To Love Somebody). Qualche volta la donna resta lì, sotto la pioggia, sentendosi finita, al massimo con la voce di un’amica che le dice di non cedere, non ancora, almeno (Little Girl Blue). Qualche altra volta lei, fragile e sensibile, forse ha trovato davvero il suo principe azzurro (My Baby); ma poi è incerta di fronte all’ipotesi di accasarsi per davvero (Trust Me), un’incertezza che le costa, perché poi viene inesorabilmente mollata (Me and Bobby McGee). E ciò nonostante, come in un ciclo perverso, lei è pronta ad accogliere di nuovo il suo «lui», anche quando se ne torni da lei solo perché «l’altra» l’ha lasciato (Cry Baby), anche quando ritorna da una qualunque assenza, lunga e dolorosa (Half Moon). Dall’altro lato la donna sarà pure devastata psicologicamente e fisicamente, ma al tempo stesso è capace di reazioni che rovesciano del tutto i rapporti di forza: ed ecco che arriva una figura femminile diversa, spavaldamente o dolentemente rabbiosa (Move Over; A Woman Left Lonely), che alla fine si prende l’amore là dove lo trova, senza poi star lì a fare tante storie (Get It While You Can)22. «Non sono il tipo di donna – canta Janis in

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Turtle Blues – che trasforma la vita degli uomini in un letto di rose: vuoi dire per questo che sono cattiva? beh, fai un po’ come ti pare, mi han già chiamato in così tanti modi; quello che è certo è che mi prenderò buona cura di me stessa, e nessuno mi metterà mai sotto»23. Si tratta di una dialettica che polverizza l’immagine normativa della brava ragazza, controllata, dolce, al massimo un po’ manipolatrice, ma niente più di questo. E non si tratta solo del lato testuale, peraltro già molto intenso; perché poi c’è la forza passionale dell’interpretazione di Janis Joplin; e c’è il rilievo narrativo del personaggio di «Pearl», che Janis recita sul palco e in pubblico: sessualmente disinibita, sboccata, estrema nell’aggressività come nella tenerezza, spesso strafatta di alcol come il più incallito scaricatore di porto, vestita come la più estrema delle hippie, audace al punto da posare nuda per Bob Seidemann in una foto famosa e molto bella che, non appena comincia a circolare per San Francisco e oltre, la trasforma nella prima audace pin-up controculturale, elegante e attraente, tenera ed esplosiva, altro che le ragazze tutte tulle e volant, pienamente padrone di sé e del tutto sottomesse ai tradizionali schemi di genere. In aggiunta, Janis è anche una consapevole antistar: non è bella, anche se è sessualmente attraente; ed è dolorosamente consapevole di questa sua particolarità. In definitiva, è per questo che tante ragazze e tanti ragazzi la adorano: Una delle ragioni per cui Janis era amata follemente era il suo non essere star. Per i loro articoli, i giornalisti intervistavano ragazzi e ragazze e chiedevano i motivi per cui la adoravano tanto. E le risposte non riguardavano mai la voce, l’aspetto fisico, le canzoni, la carica. Quello era il corollario. La risposta comune era: «Perché è una di noi. È esattamente come noi». Sapevano che Janis non aveva il phisique du rôle della star; aveva le stimmate intese come cicatrici. Era la portavoce di chi voce ne aveva sempre avuta poca: la gente comune, che poteva sentirsi protagonista anche se era brutta, goffa e sgraziata, anche se era sola o incompresa, perché c’era una di loro che, dal palco, ogni volta gridava: «Avanti, vieni, prendi un altro pezzettino del mio cuore, tesoro, spezzalo! Sai che è tuo, se ti fa stare bene». Come disse una volta a David Dalton: «Non sono cambiata, sono la stessa ragazza di sempre, lo so perché la conosco e non è una star. È una ragazza triste e brava. Quando mi cambio, a fine spettacolo, i miei vestiti sono

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rovinati, i tacchi consumati, la biancheria intima sdrucita, i capelli sono viscosi, ho mal di testa e devo andare a casa, e sono sola e malinconica, e i miei vestiti sono tutti all’aria, le scarpe tutte scombinate, e io prego il mio road manager di darmi uno strappo a casa, ti prego, ti prego, così posso togliermi questi vestiti e questa non è una star, amico, questa è una persona e basta. So di essere una persona fortunata, perché sono stata a terra per tanto tempo, ma non mi dire che sono una star. Se i ragazzi hanno anche solo una certezza nella vita, quella certezza è che io non sono una star. Sanno perfettamente che sono una ragazza di mezz’età [sic] che ha un problema con l’alcol, una voce forte e anche altre cose. Non sarò mai una star come Jimi Hendrix o Bob Dylan. E so anche perché: perché io dico la verità. Se i ragazzi vogliono sapere chi sono, basta che me lo chiedano e io glielo dico»24.

Poco più tardi, dopo che Janis Joplin è morta (4 ottobre 1970, a 27 anni), Grace Slick e i Jefferson Airplane tematizzano in modo diretto questo tipo di considerazioni; in Crazy Miranda (dall’album Bark, 1971), Slick descrive una ragazza incapace di liberarsi dalla pressione dei media e schiava della mentalità corrente che vuole che una donna faccia di tutto per piacere a Mr. Right, uniformandosi ai dettami della moda corrente: ma – proseguono i Jefferson nella canzone seguente dell’album, Pretty as You Feel – una ragazza non deve risultare schiava di queste norme sociali, dev’essere libera di sentirsi carina così com’è, senza inseguire ideali stabiliti da altri. Amori devastati, dunque. E vite ai margini. Giacché la struttura emotiva promossa dalle matrici testuali del rock incoraggia i musicisti (e di conseguenza gli ascoltatori) ad avvicinarsi a quella lunga sequela di emarginati enumerata da Dylan in Chimes of Freedom. Con grande sensibilità, incoraggiato dalla produzione letteraria beat, così come dall’elaborazione artistica della Factory di Warhol, Lou Reed aggiunge alla lista anche chi possiede identità di genere «altre» – transessuali, omosessuali –, usando sia il registro della descrizione realistica, sia quello della deformazione onirica. Questa seconda soluzione è adottata nel primo brano di Reed che affronta un tema complesso come la transessualità (Lady Godiva’s Operation, contenuto nell’album dei Velvet Underground, White Light/White Heat, uscito nel gen­

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naio del 1968). La storia è quella di un transessuale che va a farsi un’operazione chirurgica, presumibilmente per cambiare sesso: tuttavia l’operazione va male, il paziente muore, e in ogni caso l’asportazione dei genitali si era già trasformata in una lobotomia, mentre sul finale una voce in sottofondo sussurra «non sei una ragazza, non sei una ragazza». La linea melodica è delicata e inizialmente è cantata con dolcezza da John Cale; tuttavia l’accompagnamento musicale è affidato a una chitarra elettrica spigolosa e a bordoni dissonanti prodotti dalla viola di Cale, mentre nella parte finale la musica si fa sempre più caotica25. Anche più duro e impersonale è il racconto contenuto in Sister Ray (nello stesso album dei Velvet Underground). La storia, di impianto cinematografico e visivo, è ispirata al romanzo Last Exit to Brooklyn (Ultima fermata Brooklyn, 1964), di Hubert Selby Jr.26. Reed ha riassunto la trama della sua canzone in questo modo: È costruita intorno a un racconto che avevo scritto su una scena di decadenza e dissolutezza assolute. Mi piace immaginare Sister Ray come un travestito che spaccia eroina. La situazione è questa: un gruppo di travestiti si porta a casa alcuni marinai, si mettono a bucarsi di eroina e comincia un’orgia: a quel punto arriva la polizia27,

anche perché, nel bel mezzo dell’orgia, uno dei marinai è stato ucciso, senza che nessuno dei protagonisti se ne sia minimamente reso conto. La strofa che contiene questo passaggio illustra molto bene l’atteggiamento di distacco totale assunto dalla voce narrante – e in realtà dall’autore stesso; Reed non ha intenzione di impartire alcun tipo di lezione; si limita a raccontare una storia estrema, una storia possibile – come tutte le storie –, ampliando di molto la gamma delle tematiche che possono essere ammesse dall’industria culturale: Cecil ha in mano la sua nuova pistola scioglie la roba e se la inietta tra le tre e le quattro punta la pistola contro il marinaio

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gli spara e l’uccide, stecchito per terra ah, non avresti dovuto farlo non sai che sporchi la moquette? non lo sai che sporchi la moquette? e a proposito, non hai per caso un dollaro? oh, no amico, non ho il tempo-tempo troppo occupata a succhiare un batacchio lei è occupata a succhiarmi il batacchio oh, lei fa proprio come dice Sorella Ray.

Queste due canzoni circolano un anno prima che Stonewall faccia del tema dell’omosessualità una questione di rilievo pubblico. Stonewall Inn è un locale frequentato da gay, lesbiche e drag queen di varia estrazione e origine etnica, che si trova a Sheridan Square, nel Greenwich Village, a New York. In questo locale, come in molti altri simili, con una certa regolarità la polizia fa irruzione, arresta i travestiti o chi sembra avere un’identità incerta, procede alla chiusura del locale che poi, poco tempo dopo, viene riaperto, anche perché spesso i proprietari o i gestori pagano bustarelle al distretto di polizia. E dunque, all’1.20 del 28 giugno 1969, otto agenti del distretto fanno irruzione nello Stonewall Inn e portano fuori un certo numero di travestiti per caricarli sul cellulare; all’improvviso, dall’interno del cellulare una gamba in calze e tacco a spillo sferra un calcio in pieno petto a un agente mandandolo per terra: i travestiti che sono dentro il cellulare escono tumultuosamente, mentre la gente assembrata fuori dal locale getta pietre, bottiglie e monetine; gli agenti si rifugiano allora dentro al locale e chiedono aiuto alla Tactical Patrol Force: si tratta di una forza antisommossa urbana, gente armata di tutto punto; arrivano una ventina di agenti della Tpf in formazione compatta, che però si trovano – davanti e dietro – circondati da una folla ululante. La gente lancia oggetti. Qualcuno chiama la stampa, che dà una grande risonanza al caso. E sulla scia dell’episodio, in breve tempo nasce il Fronte di liberazione gay, organizzazione che – nonostante le incertezze e le difficoltà iniziali – resiste e si diffonde28. Piuttosto brillantemente, Paul Berman spiega il successo del Fronte di liberazione gay osservando che si

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presenta non solo come una delle tante organizzazioni che chiedono «libertà», ma come un movimento che difende il diritto all’amore: in questo riprende una fondamentale tematica della grande narrativa del XIX secolo, dopo quella dell’eccentricità della vita urbana – la tematica dell’amore naturale che si scontra con le leggi e i costumi artificiali della società, che osa addirittura affrontare la morte – e trasforma la storia d’amore in crociata di strada. Il movimento gay è la campagna politica più romantica mai condotta29.

Un anno dopo, nel 1970, Marc Bolan e soprattutto David Bowie danno una piena dignità artistica all’ambiguità sessuale, presentandosi sul palco con un abbigliamento, un’acconciatura e un trucco femminili, e portando sulla scena e sulle copertine dei dischi una perturbante e seducente immagine bisessuale (Fig. 10)30. Viceversa Suzi Quatro, giovane vocalist e bassista tutta vestita di pelle, prima leader di una band rock, nel suo album d’esordio (Suzi Quatro), pubblicato nel 1974, include anche una versione di I Wanna Be Your Man, brano in origine «regalato» da Lennon e McCartney ai Rolling Stones, che lo hanno inciso nel 1963; Suzi Quatro reinterpreta il brano, senza cambiare niente del testo, e canta: Voglio essere il tuo amante, baby Voglio essere il tuo uomo Ti amo come nessun altro, baby Come nessuno sa fare Voglio essere il tuo uomo, voglio essere il tuo uomo.

Non cambiando il genere del testo, Suzi Quatro dà al brano un possibile significato doppio; può voler dire: «nel nostro rapporto etero, sono io il vero uomo, io quella che ha più intensità da esprimere, più passione da manifestare»; oppure: «nel nostro rapporto lesbico, sono io il butch e tu la femme», distinzione di ruoli diffusa in specifici ambienti lesbici statunitensi31. In modo più chiaro e diretto, nel suo primo album (Horses, 1975) Patti Smith rovescia il senso di un brano di grande successo, Gloria,

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scritto da Van Morrison nel 1963. Nell’originale, inciso nel 1964 come lato B di un 45 giri dei Them, il gruppo di Morrison, Gloria è un’appassionata dichiarazione di amore eterosessuale; nella sua versione Patti Smith cambia il genere della voce narrante, ma non quello dell’oggetto del desiderio, cosicché la canzone diventa una luminosa dichiarazione di amore lesbico, dotata anche di un surplus di passione erotica che nell’originale non è altrettanto evidente. La natura provocatoria e trasgressiva di queste canzoni è resa possibile dallo statuto di parlabilità che il rock riconosce a esperienze fin allora considerate «oscene», cioè «fuori dalla scena», «fuori dai confini della visibilità», come il desiderio sessuale, anche il desiderio non canonico, anche quello estremo. Naturalmente non è sorprendente constatare che inizialmente siano soprattutto i gruppi che dialogano col blues a essere in grado di affrontare – con maggiore o minore immediatezza – il tema dell’erotismo, come per esempio in Back Door Man, un brano di Willie Dixon eseguito dai Doors, nel loro primo album (1967); o in Light My Fire, sempre dei Doors, nello stesso album; o in Honky Tonk Women, dei Rolling Stones, singolo del 1969. Ma la passione erotica viene espressa anche in un’ulteriore varietà di forme. Nelle esibizioni dal vivo, musicisti come Jimi Hendrix o Jim Morrison usano la chitarra o l’asta del microfono come un’estensione sostitutiva del fallo, mimando in scena masturbazioni o fellatio, provocazioni che – dopo un concerto a Miami tenutosi il 1° marzo del 1969 – costano a Morrison un’incriminazione per atti osceni in luogo pubblico. In qualche caso Morrison indossa pantaloni molto stretti e si strofina con l’asta del microfono fino a provocarsi un’erezione. Secondo Stephen Davis, Back Door Man, con le sue evidenti allusioni a un rapporto anale, era torrida e traboccante di sesso, e Jim la cantava con uno sguardo da sballato, che celava a stento il sorriso estatico di chi contempla schiere di ragazzine mezze nude che ballano sotto il palco. Le più impudenti di queste diciottenni [...] a volte si avvicinavano per toccargli la vistosa protuberanza. [...] Quando le ragazze lo toccavano in pubblico, faceva un mezzo sorriso, con gli occhi chiusi32.

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La grafica degli album è egualmente utilizzata per enfatizzare una nuova libertà nell’avvicinarsi al corpo, alla nudità o all’erotismo. L’esempio più significativo e precoce è offerto dalla copertina del primo album registrato da John Lennon e Yoko Ono, Unfinished Music No. 1: Two Virgins, un LP edito nel novembre del 1968, che contiene una successione di musiche sperimentali eseguite con piano, organo, batteria, voce ed effetti elettronici. La copertina all’epoca suscita scandalo, perché ritrae Lennon e Ono completamente nudi e viene venduta dentro una busta di carta marrone che lascia vedere solo il volto dei due artisti (Fig. 11); anche la musica suscita sconcerto: un problema che ha a che fare con le aspettative – giacché i materiali sonori contenuti nel disco sono lontanissimi dalla produzione dei Beatles –, ma non con la qualità estetica, che è sicuramente interessante. L’aspetto più rilevante di questo lavoro è l’evidente relazione che intrattiene con le recenti elaborazioni dell’avanguardia musicale e visuale, con la quale Yoko Ono è stata in contatto sin dai primi anni Sessanta, quando ha seguito le lezioni di John Cage alla New School for Social Research e ha collaborato con George Maciunas e con il musicista La Monte Young, nell’ambito del movimento Fluxus33; al tempo stesso nel 1964-1966 Ono ha presentato a Tokyo, a New York e a Londra una sua performance di arte concettuale, Cut Piece, in cui lei, inginocchiata su un palco con delle forbici davanti, e vestita con i suoi migliori abiti, invita i partecipanti alla performance a farsi avanti per tagliarli, portandone via dei pezzi, finché lei stessa non resta quasi nuda; nel 1966, poi, ha presentato un film sperimentale, intitolato Bottoms, in cui riprende ininterrottamente le natiche di una serie di partecipanti all’esperimento che camminano su un tapis roulant. Tuttavia, ancor più importanti di queste personali elaborazioni sono i rapporti che l’immagine della copertina intrattiene con altri due lavori dell’avanguardia del periodo. Uno è un balletto di Yvonne Rainer e Steve Paxton, Word Words (1963), in cui i due danzano all’unisono indossando solo un perizoma; il senso dell’operazione consiste nel sovvertire la tradizione del balletto classico, in cui i ruoli maschili e quelli femminili sono nettamen-

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te differenziati: «con le sue posture dirette, non condizionate da identità sessuali stereotipate ed eseguite all’unisono dai due ballerini, Word Words usava un abbigliamento minimale non per mostrare i corpi come sessualmente differenziati, ma per fare in modo che fossero visti come uguali»34. L’altra opera di riferimento è un dittico di una brillantissima artista pop inglese, Pauline Boty, intitolato It’s a Man’s World I (1964) e It’s a Man’s World II (1965) (Figg. 12-13). Cogliendo perfettamente la differente rappresentazione delle presenze maschili e femminili nella vita pubblica, Boty da un lato costrui­sce un collage di autorevoli figure maschili di varia età, professione ed epoca (tra cui Proust, Lenin, Einstein, Fellini, Mastroianni, Kennedy a Dallas, e poi Ringo Starr e John Lennon), mentre dall’altro lato mette insieme una sequenza di nudi di donne giovani e belle, a sottolineare la pesante asimmetria nella rappresentazione visiva dei generi, propria della cultura contemporanea. Non so dire con quanta intenzionalità la copertina di Lennon e Ono intenda riprendere direttamente la destrutturazione della gabbia visiva evocata da Boty e messa in questione da Rainer e Pax­ton, anche se mi sembra altamente probabile che Lennon e Ono conoscessero questi lavori, sia perché Ono aveva frequentato gli ambienti nei quali nascono entrambe le opere, sia per la citazione diretta di Lennon in uno dei due quadri di Boty; in ogni caso, presentando con grande naturalezza le loro nudità come introduzione a un’opera alla quale hanno lavorato insieme, elaborano un ragionamento concettuale che appartiene allo stesso ordine del discorso al quale appartengono i quadri di Boty e la performance di Rainer e Paxton. Questo tipo di rappresentazione visuale, d’altro canto, evoca anche la politica del nudo incorag­giata da varie comunità hippie, a suo modo precorsa da Allen G ­ insberg: un corpo nudo è parte della natura, e non c’è alcun motivo per nasconderlo, come appare evidente dalla serenità con la quale molti partecipanti maschi e femmine al Festival di Woodstock si lasciano riprendere dalla cinepresa di Michael Wadleigh mentre fanno il bagno o giocano o camminano, integralmente nudi.

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Se la foto di Lennon e Ono appare neutra per quanto riguarda l’erotismo, non altrettanto si può dire per il secondo LP dei Santana, Abraxas (1970), nel quale il tema del desiderio è giocato in modo particolarmente efficace attraverso il dialogo tra la copertina, sulla quale è riprodotta Annunciation, un’opera di Mati Klarwein del 1961 (Fig. 14), e Black Magic Woman, suonata con torrida intensità dal gruppo. Nel direzionamento dello sguardo sollecitato da immagini come quella di Mati Klarwein si potrebbe riconoscere una tradizionale gerarchia di genere: uomini che guardano corpi femminili come se fossero oggetti. Da un lato non credo che in questo caso l’interpretazione valga, quando l’immagine della copertina di Abraxas sia messa in rapporto con la musica e con il testo di Black Magic Woman. Dall’altro lato, altri brani rock aprono prospettive che rimettono in discussione consolidate gerarchie di genere: Whole Lotta Love, per esempio, dei Led Zeppelin, brano di apertura del loro secondo album (1969), contiene una parte intermedia free form in cui il cantante del gruppo, Robert Plant, si abbandona a un’improvvisazione vocale che mima espressamente un orgasmo femminile. Con diversa forza espressiva, Triad, scritta da David Crosby nel 1967, parla di un possibile ménage à trois, e ha una plurima declinazione di genere, poiché nella versione pubblicata su 4 Way Street (1971), album live di Crosby, Stills, Nash & Young, è un uomo a essere al vertice del triangolo amoroso, mentre nella versione dei Jefferson Airplane (inclusa nell’LP Crown of Creation, 1968) la protagonista della storia è una donna (la voce è quella di Grace Slick). In questo secondo caso la donna dichiara serenamente che vuole essere libera e vuole amare contemporaneamente entrambi gli uomini che si sono innamorati di lei; davanti al loro sconcerto, lei li invita a scacciare dalle loro menti il fantasma delle loro madri che – livide e fredde come il ghiaccio – intimano loro di non tradire le regole che hanno imparato a scuola: ma perché non farlo, se quelle regole sono inadeguate e rendono infelici? Infine, egualmente in assoluta controtendenza rispetto all’etica dominante, Venus in Furs dei Velvet Underground (1967) – che cita espressamente Venus im Pelz (Venere in pelliccia, 1870) di Leo-

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pold von Sacher-Masoch – mette in scena la volontaria sottomissione sessuale di Severin nei confronti della sua dominatrice. E così in queste, come in molte altre canzoni, ciò che emerge con chiarezza è la sovversione sistematica delle strutture etiche che dominano la cultura di massa mainstream, un aspetto che ha anche una sua significativa proiezione nelle pratiche concrete che appartengono al mondo della musica rock: sin dalla fine degli anni Sessanta, intorno ai concerti e alle band di questa nuova musica si addensa una ricca nebulosa di ragazze (le groupies) che, grazie anche alla possibilità di gestire consapevolmente la propria sessualità attraverso un uso oculato degli anticoncezionali femminili e maschili, trasforma le fantasie delle bobbysoxers nella realtà di relazioni sessuali libere e di durata molto varia con i musicisti dei più diversi gruppi rock35. L’assenza di serie ricerche sociologiche non consente considerazioni troppo approfondite su un fenomeno che a più riprese ha ricevuto anche valutazioni pesantemente negative. Tuttavia mi pare che lo si dovrebbe leggere – come fa Norma Coates – come un gioioso e coraggioso gesto trasgressivo di giovani ragazze che, decidendo liberamente di vivere appieno la propria sessualità e le proprie pulsioni desideranti, vanno in una direzione completamente diversa rispetto al sistema normativo che le vorrebbe docilmente rispettose del loro destino di angeli del focolare; e ciò, nonostante i comportamenti di alcune delle groupies abbiano avuto anche risvolti piuttosto tradizionalisti, quando hanno accettato di svolgere la funzione più subalterna di temporanee quasi-mogli delle star in tournée. Resta indubbio, comunque, che nell’immaginario dell’epoca le reazioni negative che criticano pesantemente la moralità delle groupies sono animate dal senso di disagio che si impadronisce di uomini – giornalisti, musicisti, spettatori – che si trovano di fronte a modelli di femminilità inediti ed evidentemente del tutto trasgressivi36. Il rock, dunque, con le sue produzioni artistiche e con le pratiche sociali che lo accompagnano, apre prospettive inedite per quanto riguarda le dimensioni private dell’amore, del sesso, dell’identità di genere. Ma questo stile musicale non è certo

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chiuso nella dimensione del privato, giacché è egualmente capace di affrontare anche questioni che riguardano la sfera pubblica contemporanea e le sue contraddizioni. 3. Rock e movimenti Dove sei stato? Che c’è là fuori? Niente. Non c’è più niente. Niente davvero. Ci sono solo autostrade che si accartocciano su sé stesse, oceani morti e un cimitero che si estende per diecimila miglia. Ma che cosa hai visto? Dimmelo, cosa hai visto? Ho visto la devastazione più nera: un neonato abbandonato, circondato da lupi; un’autostrada completamente deserta; rami bruciati da cui gocciola sangue; una casa piena di uomini con dei martelli insanguinati; una fiumana di gente che non riesce più a parlare; e un esercito di guerrieri-bambini con spade e fucili... Non c’è alcuna speranza di salvezza in questo paesaggio desertificato, incessantemente dilavato da una dura, dura pioggia. E non c’è eroe salvifico che ci porti via. Nessun supereroe. Nessuna navicella spaziale. Nessuna speranza. È il giovane Bob Dylan (21 anni, all’epoca) che dà voce a questa terrificante apocalissi distopica, costruendo immagini che rendono visualmente inesorabile la paura della distruzione atomica. Dylan scrive A Hard Rain’s a-Gonna Fall nell’autunno del 1962, proprio quando la crisi dei missili che contrappone Urss e Usa sembra sul punto di trasformarsi in un devastante conflitto. Se accadesse, cosa si potrebbe fare? Solo avvertire, parlare, cantare, dice Dylan. Quella che anima Hard Rain è una sensibilità che dialoga direttamente con la tradizione beat ed è evidentemente influenzata dal blues e dal country, una tradizione che non lascia spazio alcuno per la figura dell’eroe redentore. Né si tratta solo di un impianto emotivo e culturale proprio di Dylan, giacché permea gran parte della produzione rock. Solo raramente – per esempio in una parte del canzoniere dei Beatles – vi si incontrano storie e musiche che sollecitano una visione ottimistica del presente o una fiduciosa aspettativa negli sviluppi futuri. La preoccupazione per la guerra, o l’auspicio di una pace

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universale, che animano molti importanti testi rock oltre Hard Rain, conducono a visioni che nella migliore delle ipotesi sono illuminate solo da una tenue speranza, come in Imagine (John Lennon, 1971) o Wooden Ships (Crosby, Stills & Nash / Jefferson Airplane, 1969). Molti altri testi, però, non lasciano alcuno spazio alla speranza, e non si tratta solo di Hard Rain, ma anche di Eve of Destruction, canzone di Barry McGuire, che nel 1965 va in testa alla classifica dei singoli Usa; di Gimme Shelter (Rolling Stones, Let It Bleed, 1969); o di Unknown Soldier, dei Doors: quest’ultima canzone, pubblicata nell’album Waiting for the Sun, del 1968, è particolarmente dura nell’evocare una famiglia che fa colazione, con i genitori che leggono il giornale, i bambini che guardano le notizie alla televisione, e all’improvviso, bum!, «La pallottola colpisce la testa sotto l’elmetto / Ed è tutto finito per il milite ignoto / È tutto finito per il milite ignoto». In questo caso – gennaio del 1968 – i Doors preparano anche un videoclip promozionale per la canzone: molto diretto, mescola le immagini di una «esecuzione» subita da un Morrison-Cristo con immagini dal Vietnam e spezzoni in bianco e nero delle feste per la fine della seconda guerra mondiale; nonostante solo pochissime stazioni TV lo trasmettano, i Doors lo fanno proiettare durante le loro performance dal vivo37. Peraltro non tutti gli artisti rock hanno una posizione chiara di fronte alla questione della guerra o, in generale, di fronte a temi di natura più schiettamente politica. Jimi Hendrix, per dire, costituisce uno dei casi più evidenti di distorsione interpretativa. Da un lato, in qualche occasione sembra aderire agli ideali pacifisti che attraversano gran parte delle scene giovanili coeve; per esempio a Ottawa, nel marzo del 1968, durante un concerto, parlando del Vietnam dice al pubblico: «Invece di starsene laggiù, perché non se ne vanno tutti a casa, e invece di mettersi in spalla mitragliatrici M16, granate e bombe a mano, perché non se ne tornano indietro con chitarre elettriche a tracolla? Sono meglio delle armi»38. Affermazioni di questo genere fanno sì che alcuni suoi brani siano stati interpretati – sia all’epoca, che in anni seguenti – come altrettante fondamentali testimonianze della sua

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critica alla società statunitense contemporanea e al bellicismo che la pervade: tra questi, i principali sono la versione di Star Spangled Banner eseguita al Festival di Woodstock, e Machine Gun, brano incluso nell’album Band of Gypsys (1970). L’atmosfera musicale di questi due brani – le minacciose distorsioni chitarristiche che deformano l’inno americano, la struttura drammaticamente sincopata dell’altro brano – ha indotto molti a interpretarle come soluzioni espressive che evocano, in chiave negativa, l’esperienza del Vietnam39. Ora, se questa interpretazione non è, forse, del tutto infondata, sembra tuttavia non corrispondere alle più intime convinzioni del musicista. Intanto, il testo di Machine Gun non sembra palesare sentimenti integralmente pacifisti40. Inoltre, altre dichiarazioni che Hendrix ha rilasciato sembrano tracciare il profilo non tanto di un hippie pacifista, quanto di un buon patriota statunitense. Nel corso della puntata del 9 settembre 1969 del Dick Cavett Show (un programma trasmesso sul network Abc), il conduttore definisce la sua interpretazione dell’inno nazionale «eterodossa», e Hendrix reagisce, un po’ risentito, dicendo: «Tutto ciò che ho fatto è suonarlo. Sono americano, e l’ho suonato. [...] L’interpretazione non era eterodossa. Ho pensato che fosse bella»41. Affrontando poi più in generale il tema della guerra nel Vietnam durante un’altra intervista rilasciata nel 1969 in Inghilterra, Hendrix dichiara: Avete mandato via gli americani quando sono sbarcati in Normandia? Anche in quel caso si trattava di un’interferenza. No, perché quella volta si trattava della vostra pelle. Gli americani stanno combattendo in Vietnam per un mondo completamente libero. Non appena se ne andranno quella gente sarà alla mercé dei comunisti. Per questo motivo il pericolo giallo [la Cina] non deve essere sottovalutato. Ovviamente, la guerra è una cosa orribile, ma al momento è ancora l’unico modo sicuro per mantenere la pace42.

Questo atteggiamento patriottico, in parte motivato dal fatto che tra il 1961 e il 1962 Hendrix ha prestato servizio presso la 101a divisione aviotrasportata di stanza a Fort Campbell, Kentucky, è confermato anche da una testimonianza di Eric Burdon, risalente allo stesso periodo:

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L’appartamento di Brook Street [in cui abitava Kathy Etchingham, all’epoca ragazza di Hendrix] si trovava nei pressi dell’ambasciata americana di Londra, ed Eric Burdon ricordava di aver assistito, comodamente seduto sul tetto della casa di Jimi, a una gigantesca manifestazione di protesta contro la Guerra del Vietnam che si svolgeva nelle strade sottostanti. Burdon chiese a Jimi che cosa ne pensasse dei dimostranti. «La sua reazione fu per me una certa sorpresa», racconta Burdon. «Disse che era ancora un soldato. Era incazzato nero per la protesta». Man mano che la manifestazione diventava sempre più rumorosa, Jimi si infuriava sempre di più. A un certo punto disse: «Quando dalla Cina arriveranno i rossi e si prenderanno il Vietnam del Nord, e poi quello del Sud, e poi arriveranno al Giappone e oltre, allora lo capirete il motivo per cui gli Stati Uniti sono là a combattere contro quella gente?»43.

Il caso di Hendrix è piuttosto particolare, ma non è l’unico, soprattutto per quel che riguarda il gioco della ricezione. I suoi brani sono interpretati come geniali critiche al militarismo americano, nonostante le sue intenzioni creative siano, con tutta probabilità, opposte. Casi simili si incontrano anche nelle reazioni davanti ad altri pezzi rock che commentano l’evoluzione dei movimenti sul finire degli anni Sessanta. Dal 1965 in avanti la protesta giovanile contro la guerra in Viet­ nam è andata progressivamente crescendo e negli Usa ha finito per spostare un buon numero di giovani militanti di Sds verso un apprezzamento positivo dell’esperienza comunista (per quanto superficiale possa essere questo atteggiamento). Il deterioramento del clima pubblico statunitense (il 4 aprile 1968 viene assassinato Martin Luther King; il 6 giugno seguente viene ucciso Robert Kennedy) e le dure iniziative repressive della polizia inducono una parte dei militanti Sds a rivalutare l’uso della violenza come mezzo di azione44. Nel 1969 Sds – che ha visto crescere costantemente la sua base, passata da 30.000 aderenti nel giugno 1967 a 80-100.000 nel novembre 1968 – si spezza in gruppi diversi, uno dei quali – Weatherman, poi Weather Underground Organization – accoglie l’idea del ricorso alla violenza come strumento di lotta politica, mettendola in pratica per la prima volta l’8, il 9 e l’11 ottobre 1969, quando organizza una sorta di guerriglia urbana per le strade di Chicago45. In parallelo, nell’Europa

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continentale, e in particolare in Francia e in Italia, tra l’autunno del 1967 e la primavera del 1968, si forma un grande movimento studentesco che passa molto rapidamente dalle proteste dentro università e scuole a scontri di piazza, all’adesione all’idea del valore positivo della violenza come «levatrice di storia»46. In parallelo, e su tutto un altro versante, si alzano voci critiche sulla posizione riservata alle donne nella società statunitense e all’interno dei vari movimenti. Nel 1964, e poi ancora nel 1965, Mary King e Casey Hayden, militanti dello Sncc, fanno circolare all’interno dell’associazione giovanile del Movimento per i diritti civili, e poi anche all’interno di Sds, un testo (Sex and Caste: A Kind of Memo from Casey Hayden and Mary King to a Number of Other Women in the Peace and Freedom Movements), in cui le autrici sostengono che nella società come all’interno dei movimenti le donne, come i neri, sono una casta oppressa, del tutto priva di riconoscimenti e di autonomia. La reazione dei leader e dei militanti maschi all’interno delle due organizzazioni non è particolarmente positiva, ma non basta a fermare una rivendicazione di spazio e di eguaglianza che, se prende spunto dal modello del Movimento per i diritti civili, ha tuttavia anche materiali propri su cui riflettere, elaborati da intellettuali di prim’ordine, come Simone de Beauvoir (Le Deuxième Sexe [Il secondo sesso], 1949) o Betty Friedan (The Feminine Mystique [La mistica della femminilità], 1963). È dall’insoddisfazione e, al tempo stesso, dalle speranze e dalle riflessioni alimentate dalla loro contrastata partecipazione al movimento studentesco che nasce in molte giovani donne l’impulso che porta alla formazione di un nuovo movimento femminista. Nelle università, sulle pagine di riviste di settore, entro associazioni appositamente create per discutere e promuovere la condizione femminile (come la National Organization for Women, Now, fondata a Washington nel 1966) prende forma un movimento variegato, e talora contraddittorio, che trova tuttavia una rapida diffusione sia negli Usa che nel contesto dell’Europa occidentale47. Di fronte a questi scenari, in così rapido mutamento, la maggior parte dei musicisti rock semplicemente ignora le questioni più di-

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rettamente politiche ed essenzialmente sceglie di non esprimersi in alcun modo. Un piccolo gruppo di altri musicisti occasionalmente ricorre alle tradizionali finger-pointing songs, per condannare azioni di repressione, o per incoraggiare all’azione politica48. Tuttavia i casi più rilevanti, o per la statura pubblica dei musicisti, o per la continuità con la quale affrontano le questioni politiche all’ordine del giorno, sono essenzialmente tre. (1) Il primo caso è un altro chiaro esempio di ricezione deviata. Il 17 marzo del 1968 Mick Jagger partecipa a Londra a una manifestazione contro la guerra in Vietnam: il corteo si dirige a Grosvenor Square, sede dell’ambasciata americana, e ne deriva una giornata di duri scontri con la polizia. Il 17 maggio 1968 l’«International Times», una delle riviste che danno voce alla controcultura inglese, pubblica un’intervista con Mick Jagger, nella quale il musicista non prende le distanze dal movimento, ma nemmeno sostiene apertamente le ragioni di una rivolta sociale49. Questa ambigua posizione è perfettamente rispecchiata in Street Fighting Man, brano che esce come singolo il 31 agosto del 1968 e come parte dell’album Beggars Banquet il 6 dicembre 1968. Il testo ha la forma di un dialogo: da un lato la voce di un militante dice che si sentono piedi di gente che marcia, perché è arrivata l’estate, ed è il momento giusto per combattere nelle strade e fare una rivoluzione, il momento giusto per uccidere il re; al che la voce del leader della band risponde ogni volta dicendo: ma che posso fare io, che sono un povero ragazzo, se non cantare per una band di r’n’r, posto che nella sonnolenta Londra non c’è spazio per un combattente di strada? Direi che il testo rispecchia perfettamente la posizione espressa da Jagger nell’intervista all’«International Times»: non sconfessa il movimento, ma nemmeno lo sostiene con convinzione, specie nelle sue declinazioni più radicali. Nonostante ciò, sia all’epoca che ancora oggi, il brano è spesso considerato un contributo apertamente militante degli Stones alla radicalizzazione politica in atto: ma questo è un completo fraintendimento. Molti ascoltatori che militano nei gruppi politici radicali desiderano così tanto

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che i loro eroi musicali siano al loro fianco, anche politicamente, da distorcere integralmente il senso della canzone, dalla quale espungono la voce del musicista che piuttosto evidentemente si rifiuta di marciare al loro fianco: «Che può fare un povero ragazzo / Se non cantare per una band di r’n’r / Perché nella sonnolenta Londra / Non c’è spazio per un combattente di strada»50. (2) Inizialmente non meno ambigua è la posizione di John Lennon. Il 30 agosto del 1968 i Beatles pubblicano un singolo con Hey Jude sul lato A e Revolution, di Lennon, sul lato B; in questa canzone, che pure ha la forma di un dialogo con un ipotetico militante di un qualche movimento, Lennon sembra prendere nettamente le distanze dalla radicalizzazione politica: Tutti vogliamo cambiare il mondo Ma quando mi parli di distruzione, Non sai che puoi considerarmi fuori? [...] Ma se te ne vai in giro con i ritratti del presidente Mao Non ce la farai con nessuno in nessun modo51.

Pochi mesi dopo, la stessa canzone viene pubblicata sul White Album (novembre 1968), col titolo di Revolution 1, e con un leggero, ma significativo, cambiamento nel testo: Revolution (agosto 1968)

Revolution 1 (novembre 1968)

We all want to change the world But when you talk about destruction Don’t you know that you can count me out

We all want to change the world But when you talk about destruction Don’t you know that you can count me out, in52

Il «count me out, in» della seconda versione mostra un’incertezza di Lennon, rispetto alla risoluta posizione liberal della prima versione. Da allora in poi, anche grazie alla collaborazione con Yoko Ono, il suo orientamento si chiarisce in direzione – se si può dir così – di un «pacifismo rivoluzionario», che dà uno spazio significativo (probabilmente il più significativo nel rock di questi anni) anche ai temi del femminismo.

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Già nel marzo, e poi nel maggio del 1969, per celebrare il loro matrimonio, Lennon e Ono organizzano un’originale forma di protesta contro la guerra in Vietnam, il bed-in, in cui per una settimana, prima ad Amsterdam e poi a Montréal, ricevono la stampa a letto, rilasciando dichiarazioni pacifiste e incoraggiando all’amore universale. Durante le interviste, quando i giornalisti gli chiedono cosa intenda fare, Lennon risponde spesso: «give peace a chance», frase da cui, alla fine, gemma una canzone, registrata al termine del bed-in di Montréal, il 1° giugno 1969, con la partecipazione di Timothy Leary, Allen Ginsberg, Petula Clark e di altri amici. Give Peace a Chance, con un testo che declina la posizione pacifista di Lennon e Ono in una versione allegramente surreale, viene pubblicata nel luglio del 1969 come lato A di un 45 giri. Il 25 novembre seguente Lennon restituisce l’onorificenza di Mbe, ricevuta nel 1965, per protesta contro il sostegno che il governo britannico dà allo sforzo bellico americano in Vietnam53. Poi, nel dicembre del 1969, Lennon e Ono finanziano l’affissione in varie città del mondo di grandi cartelloni che recano la scritta «La guerra è finita! Se lo volete – Buon Natale da John e Yoko» (testo ampliato e rielaborato in Happy Xmas, lato A di un singolo pubblicato negli Usa il 1° dicembre 1971). Dopodiché, in rapida sequenza, nel marzo del 1971 Lennon e Ono pubblicano Power to the People, lato A di un 45 giri in cui – piuttosto succintamente – si chiede che il potere sia attribuito ai lavoratori, ma si chiede anche «ai compagni e ai lavoratori» un maggior rispetto per le proprie donne, che hanno tutto il diritto di realizzare sé stesse. L’11 ottobre 1971, poi, pubblicano in UK un altro singolo con Imagine sul lato A e Working Class Hero sul lato B. La delicata ed eterea innodia pacifista, da una parte, e la malinconica protesta per gli effetti delle disuguaglianze di classe, dall’altra, costruiscono un accostamento piuttosto suggestivo. Appena nasci – canta Lennon in Working Class Hero –, se sei un ragazzo di classe operaia, sei costretto a sentirti piccolo, ti feriscono a casa, ti feriscono a scuola, e che sia in gamba o no, non importa, perché ti disprezzano lo stesso; poi, dopo che ti hanno torturato per vent’anni o giù di lì, si aspettano che tu intraprenda una carriera, mentre ti drogano di religione, sesso e TV, per farti

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pensare che sei bravo, vivi in una società senza classi e sei libero, quando evidentemente non lo sei affatto. In tutto ciò il testo di Working Class Hero ha un valore speciale perché cancella definitivamente l’associazione originaria che tra 1962 e 1964 aveva fatto dei primi Beatles, in un certo senso, gli alfieri di una ipotetica e inesistente classless modernity. Infine, nel giugno del 1972, arriva un altro singolo ancora, con Woman Is the Nigger of the World sul lato A54. La canzone è importante, perché è uno dei primi e più diretti incontri col femminismo nella storia del rock: La costringiamo a dipingersi la faccia e ballare Se lei non è una schiava, diciamo che non ci ama Se è vera, diciamo che tenta di essere un uomo Mentre la mortifichiamo, facciamo finta di adorarla [...] La mettiamo incinta e le facciamo allevare i nostri bambini E poi la molliamo perché è diventata una vecchia grassa madre Le diciamo che la casa è l’unico posto dove può stare Poi ci lamentiamo che sia troppo sempliciotta per essere nostra amica [...] La insultiamo ogni giorno in TV E ci chiediamo perché non abbia coraggio o fiducia Quando è giovane uccidiamo il suo desiderio di essere libera Mentre le diciamo di non fare troppo la furba La disprezziamo per essere così sciocca.

Si tratta di una sorta di confessione autoaccusatoria, una diversa forma di decostruzione dell’identità maschile, che di lì a poco musiciste come Patti Smith, Suzi Quatro o The Runaways sapranno riprendere con vigore e intensità da prospettive tutte al femminile. (3) Terzo caso, i Jefferson Airplane, i quali sin dal 1968-1969 prendono una posizione netta e manifestano una chiara simpatia per i movimenti che nascono intorno a loro, assumendo spesso, in occasioni pubbliche, atteggiamenti provocatori e irriverenti. E così, per esempio, il 30 aprile del 1968 registrano a New York

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una puntata di The Tonight Show, un programma televisivo molto seguito, condotto dal popolare Johnny Carson: i Jefferson eseguono Today e Somebody to Love, ma non hanno un buon feeling con Carson, che li ricambia di cuore. Bill Thompson, all’epoca manager della band, ricorda così l’episodio: A Carson la band non piaceva. Aveva fatto mettere una piccola giostra [sul set], e Grace [Slick] sedeva lì su un cavallino, cantando Somebody to Love. Alla fine della canzone, [Slick] prese il microfono e lo infilò su per il culo del cavallino, guardando in direzione di Johnny Carson. Pensai che lui fosse sul punto di cascare dalla sua fottuta sedia55.

Pochi mesi più tardi Grace Slick dà maggiore sostanza al suo atteggiamento irriverente. Il 10 novembre 1968 va in onda la puntata della Smothers Brothers Comedy Hour in cui i Jefferson eseguono Crown of Creation dal vivo e Lather in playback. Grace ­Slick – bellissima come al solito – è vestita di bianco; si è dipinta la faccia di nero; indossa dei guanti neri; e alla fine dell’esecuzione di Crown of Creation ripete il gesto compiuto qualche mese prima alle Olimpiadi dai velocisti neri Tommie Smith e John Carlos, cioè alza il pugno chiuso in alto, nel saluto del Black Power56. Un anno più tardi, due membri del gruppo, Kant­ner e Balin, danno ulteriore spessore a questo tipo di posizioni, con due canzoni particolarmente militanti, contenute in Volunteers, LP del novembre del 1969, ovvero We Can Be Together (che è la canzone d’apertura dell’album) e Volunteers (che è quella di chiusura), entrambe molto belle, con una chitarra solista che scandisce un riff graffiante e trascinante. Kantner sostiene che con queste due canzoni lui e Balin hanno voluto descrivere le posizioni dei militanti dei vari movimenti, raccontandone le intenzioni in soggettiva, con un cantato in prima persona57; e le intenzioni sono molto evidentemente quelle di chi vuole compiere una violenta rivoluzione politica e sociale: Siamo fuorilegge agli occhi dell’America Per sopravvivere rubiamo inganniamo mentiamo falsifichiamo fottiamo [ci nascondiamo e spacciamo Siamo osceni dissoluti odiosi pericolosi sporchi violenti e giovani

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Ma dovremmo unirci Dai, tutti voi che state lì intorno La nostra vita è troppo bella per lasciarla morire e Dovremmo unirci Tutta la vostra proprietà privata è L’obiettivo del vostro nemico E il vostro nemico siamo noi Siamo le forze del caos e dell’anarchia Qualunque cosa voi diciate che noi siamo, lo siamo per davvero E siamo molto orgogliosi di noi Spalle al muro Spalle al muro figli di puttana Buttiamo giù i muri Buttiamo giù i muri58.

Si tratta di un orientamento che viene esplicitato ancora in lavori successivi. Per esempio in Sunfighter (novembre 1971), un disco di Kantner e Slick, ci sono ben due brani che ricordano con commozione la morte di Diana Oughton, terrorista del gruppo Weathermen, morta a causa dell’esplosione di una bomba che stava preparando con un compagno per compiere un attentato. E in Baron von Tollbooth & the Chrome Nun (album di Kantner, ­Slick e Freiberg, maggio 1973), il brano Flowers of the Night, scritto da Jack Traylor, è un vero e proprio inno alle rivoluzioni e ai rivoluzionari del passato e del presente. Ciò che tuttavia allontana la narrazione politicamente militante dei Jefferson (e di Kantner in particolare) dalla più banale propaganda rivoluzionaria è la descrizione dell’esito di questa possibile rivoluzione: ogni racconto del dopo, nelle loro canzoni, è il racconto di un dopo-catastrofe. La catastrofe può essere causata da una guerra atomica, con i suoi effetti devastanti, come in Crown of Creation, The House at Pooneil Corners (entrambe da Crown of Creation, settembre 1968), Wooden Ships (da Volunteers, novembre 1969). Ma può essere causata anche dal fallimento della rivoluzione e dall’incapacità di cambiare una società re-

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pressiva e totalitaria, come in Star Track, di Kaukonen (da Crown of Creation), o nella storia raccontata in Blows Against the Empire (LP di Kantner, novembre 1970), ripresa – sia pure assai confusamente – in tre diverse canzoni di Kantner contenute nell’album Bark, dei Jefferson Airplane (settembre 1971)59. In entrambi i casi l’esito è sempre lo stesso: la fuga come unica possibilità; e nella visione da fantascienza politica incorporata in tutti questi brani, la fuga è in direzione di mondi «altri», altre terre, altri pianeti. Sarà una fuga coronata da successo? Altrove si troverà l’Eden che non si trova qui? Non si può dire, perché tutte queste storie descrivono la partenza (o il desiderio di partire), ma nessuna dice se il viaggio o la ricerca avrà successo. E così, in questa struttura narrativa, si fondono due temi importanti della tradizione controculturale: da un lato, il tema del viaggio come straniamento sociale e, dall’altro, la totale assenza di happy ending. Per i Jefferson, ribellarsi è giusto; se poi la ribellione porti davvero a qualche concreta e positiva soluzione è qualcosa che non sono in grado di dire; e non perché siano vittime di una qualche incapacità concettuale, ma perché ragionano all’interno di coordinate – quelle della controcultura, dal blues alla letteratura beat – che non ammettono un esito consolante, rassicurante e positivo. 4. Un-happy ending Coerentemente con questa struttura emotiva, la stragrande maggioranza delle narrazioni rock (comprese canzoni come quelle appena evocate) sovverte sistematicamente uno dei capisaldi etico-narrativi della cultura mainstream, ovvero l’happy ending. Se la percezione di una minaccia incombente è sempre ben presente, l’idea che l’ordine sia ristabilito da qualche tipo di intervento salvifico, di gloriosa risoluzione, di armonico accordo viene piuttosto sistematicamente negata. Tre esempi, dei molti possibili, meritano di essere osservati più da vicino, perché la negazione del lieto fine giunge al termine di complessi concept album nei quali una sofisticata concatenazione narrativa tra le diverse canzoni costruisce storie ricche di suggestioni.

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(1) In the Court of the Crimson King (1969), primo album dei King Crimson, di solito non è considerato un concept album, sebbene i testi traccino un percorso dotato di senso, nel quale chi ascolta si trova proiettato avanti e indietro nel tempo verso dimensioni distopiche diverse ma egualmente disperanti60. Ogni scenario raccontato trova il suo sviluppo e il suo approfondimento nel brano successivo, fino a una conclusione che dà senso all’intero percorso. Prova a guardare nel futuro – dicono i KC nel primo brano dell’album (21st Century Schizoid Man) – e quello che vedi è il panorama della devastazione futura che opprimerà l’umanità schizoide del XXI secolo: sangue, tortura, filo spinato, innocenti violentati dal fuoco del napalm, il morir di fame dei poeti, il sanguinare dei bambini, il più sfrenato consumismo. C’è modo di liberarsi da tutto ciò? C’è un luogo in cui ci si possa salvare? Al termine dell’orizzonte desolato, descritto dal primo brano, una musica arcaizzante, guidata da un soave flauto traverso, introduce in un contesto da gentile Medioevo fantasy (I Talk to the Wind), un passato che tuttavia ben presto si rivela altrettanto inospitale del terribile XXI secolo. Un uomo «normale» si rivolge a un viandante chiedendogli ragione del suo comportamento non conforme alle regole; e il viandante gli risponde in modo evasivo, rifiutandosi di dare spiegazioni. Tuttavia, quando poi effettivamente ne sentiamo la voce, capiamo che il viandante ribelle sa di essere condannato all’incomprensione, nonostante sia in grado di vedere la degradazione delle relazioni sociali che lo circondano. In ogni modo, la coscienza della sconfitta non lo piega: certo è turbato da chi vorrebbe sopraffarlo, ma è guidato dalla serena consapevolezza che nessuno potrà cancellare le sue convinzioni. E alla rinnovata domanda dell’uomo «normale», continua a rispondere in modo evasivo: tanto il suo interlocutore non capirà, né accetterà ciò che lui ha da dire. E che cosa ha da dire? Che cosa ha visto? Ha visto un mondo desolato dalla violenza, nel quale la conoscenza è al servizio della follia (Epitaph). Certo, vale comunque la pena di cercare un sentiero per la salvezza, che conduca forse a un mondo nel quale si possa vivere sereni. E

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tuttavia la sensazione è che questo domani sereno non arriverà mai («Se ce la facciamo, potremo lasciarci andare / e ridere. / Ma temo che domani piangerò, / Sì, temo che domani piangerò»). Un momentaneo sollievo lo si può trovare incontrando una fiabesca e gentile «figlia della luna» (Moonchild). Ma si tratta solo di un momento, forse una parentesi onirica, interrotta da una lunga improvvisazione dissonante che lascia spazio a una sinistra inquietudine. E difatti quando il saggio viandante riprende il suo viaggio, finisce per sprofondare in un lacerante incubo dark (The Court of the Crimson King): arriva infatti alla corte di un re rosso, in un regno che inizialmente si palesa come un luogo forse strano, ma all’apparenza non così desolato; vi si giostra in un torneo; un pifferaio suona una melodia; un coro canta dolcemente ninne nanne in un arcaico linguaggio. Dopodiché, però, il regno si mostra per ciò che è veramente: un luogo livido di soprusi e di arbitrii. Il sonno indotto dalle tre ninne nanne è senza sogni, poiché il custode della città li proibisce. L’idea di scappare appare non attuabile, mentre figure minacciose (la Regina Nera, la Strega di Fuoco) annunciano la loro presenza. Certo, le attività nel Regno Cremisi continuano ottusamente tranquille. E tuttavia i segni dell’arbitrio non possono essere cancellati. Le vedove (forse di soldati, forse di oppositori) piangono; i saggi sono presenze inutili; il viandante non sa trovare i mezzi per reagire a ciò che vede; mentre un artista, piegato ai voleri del potere, guarda sarcastico i sudditi-burattini, inesorabilmente manovrati dal volere del Re Cremisi. (2) In questo mondo, dunque, futuro e passato si saldano: sia nell’uno che nell’altro, non c’è alcuna salvezza possibile; nessuna via di fuga che ci preservi da un orizzonte minaccioso. E allo stesso modo nessuna salvezza dà sollievo nel racconto costruito dai Pink Floyd per Animals, LP pubblicato nel gennaio del 1977 e ispirato da Animal Farm (La fattoria degli animali, 1945) di Geor­ge Orwell. Roger Waters, il bassista del gruppo, che è anche autore della musica e dei testi, ne racconta la storia con un paio di spettacolari varianti rispetto al modello orwelliano. Descrive

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una società in cui si incontrano tre profili umani in sembianze animali: i cani, il braccio armato del potere, esecutori opportunisti e rapaci, destinati a un qualche successo, ma anche a morire da soli, in una vita desolata, priva di affetti e di sentimenti; i maiali – che sono di tre tipi: l’uomo d’affari, duro e spietato; la leader politica, fredda e aggressiva; la moralista, del tutto priva di sentimenti –; egualmente disgustosi, questi tre soggetti meritano derisione e anche una qualche acida compassione, anche se sono quelli che detengono il potere. E infine ci sono le pecore: sottomesse, destinate al macello, apparentemente prive di ogni capacità di reazione... e invece, contro le apparenze, nascostamente si stanno preparando alla ribellione che un bel giorno, finalmente, riescono a scatenare... per instaurare una società che forse è anche peggiore di quella di prima. Nel finale di Sheep, nel penultimo brano dell’album, i sottomessi diventano tiranni nello spazio di una manciata di righe, la loro arroganza trasforma la momentanea presa di potere in una sorta di terrore intimidatorio dalle connotazioni fasciste. Un fascismo strisciante che cerca consenso e sfrutta le frustrazioni [...]. In sostanza, nulla è cambiato, le pecore si sono sostituite ai cani e la tripartizione gerarchica della società resta immutata61.

E qual è, alla fine, il destino dei maiali? Ce lo rivela l’ultimo brano, che è una ripresa del primo: e lì si capisce che la storia è raccontata da due umani-cani che in qualche modo si sono salvati dal massacro perpetrato dai nuovi padroni, le pecore, e che trovano sollievo nella scoperta di amarsi tanto da volersi prendere cura l’uno dell’altra, stando però attenti a nascondersi dai maiali volanti che – evidentemente – anche nel regime delle pecore sono riusciti a prendere di nuovo il controllo della politica e dell’economia. (3) The Wall (1979), altro grandioso concept dei Pink Floyd, con i testi scritti da Waters, narra una storia che si svolge interamente nella testa di una rockstar, di nome Pink, profondamente in crisi. Il successo che riscuote non allevia il suo disagio,

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provocato da una serie di traumi che progressivamente l’hanno indotto a erigere una sorta di muro che lo protegge e lo separa dal resto del mondo. Quali traumi? La morte di suo padre nella seconda guerra mondiale, quando lui era solo un bambino, e il senso di vuoto che questa morte gli ha scavato nell’anima; gli effetti nefasti di un’educazione affidata a una madre iperprotettiva e a un sistema scolastico rigido e conformista; la rovina del rapporto affettivo con la moglie; la disumana avidità dello show business; la sua assoluta incapacità di avere rapporti positivi con gli altri. Tutto ciò lo porta a isolarsi dietro l’immagine del muro e a fantasticare un’unica via d’uscita: quella di trasformare il suo carisma di rockstar, fino a farne la base per la costituzione di un movimento neonazista. Alla fine, travolto dal suo stesso deragliamento, immagina di mettere in scena una sorta di autoprocesso, con un giudice che chiama a testimoniare contro di lui le persone che hanno avuto un ruolo nella costruzione del suo muro psichico: il professore, la moglie, la madre. La sentenza finale è che questo muro dev’essere distrutto, il che avviene con una possente esplosione, che sembra portare Pink a liberarsi, finalmente, dalle sue ossessioni. Lieto fine? Non proprio, perché le ultime parole che si odono sul vinile sono: «Non è da qui che...»; sono parole che completano la frase che si sente all’inizio del disco, quando, avviando la riproduzione del primo brano si sente: «... siamo venuti?». Dunque il finale è a doppio taglio: da un lato c’è il contenuto manifesto, che suggerisce che se chiunque, anche il peggiore deragliato mentale, si apre alle persone che lo amano, tutto può andare per il meglio; dall’altro lato c’è il contenuto latente, sullo sfondo, che suggerisce che non c’è salvezza, che distrutto un muro mentale, ne verrà eretto un altro, ricominciando il percorso da capo in una specie di eterno ciclo che non lascia alcuna speranza. E con ciò, il must narrativo ed etico più quintessenziale della cultura mainstream, cioè il lieto fine, viene destrutturato in modo irrimediabile. A questo mood non resistono nemmeno le canzoni più ottimistiche dei Beatles, che talora sono sottoposte a

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riletture che ne cambiano completamente il senso. A Woodstock Joe Cocker, ruvido e intenso cantante inglese, propone una reinterpretazione di With a Little Help from My Friends, che resta per sempre nel cuore di chi abbia partecipato al concerto o abbia visto il film: l’allegra dichiarazione comunitaria dei Beatles (ce la faremo, ce la faremo tutti insieme) diventa una richiesta d’aiuto, prima rallentata, intensissima, straziante, e poi progressivamente rabbiosa e parossistica; nemmeno l’ottimismo dei Beatles resiste a una visione che non trova particolari ragioni per palesare un qualunque tipo di allegra spensieratezza62. «Ma sono solo canzonette», dirà qualcuno. E se lo dicesse sbaglierebbe, da due punti di vista: primo perché non sono affatto «solo canzonette», né dal punto di vista musicale, né dal punto di vista testuale; secondo perché le strutture narrative ed etiche che attraversano l’esperienza della nuova musica si irradiano anche verso altri media, disegnando un reticolo intertestuale e intermediale che si oppone con vistosa evidenza alla egemonia della mainstream pop culture.

XII L’allineamento dei pianeti

When the moon is in the Seventh House And Jupiter aligns with Mars Then peace will guide the planets And love will steer the stars This is the dawning of the age of Aquarius. (Aquarius, di James Rado, Gerome Ragni e Galt MacDermot)

1. Hollywood Renaissance Da molti punti di vista la formazione di una controcultura rock è un’esperienza che riguarda un segmento importante di pubblico, composto da varie e diverse comunità giovanili: tuttavia non tutti i giovani ne sono attratti; e, soprattutto, la musica rock non vuol dire nulla per la gran parte delle persone più anziane, qualunque sia la loro estrazione sociale o la loro cultura. Il che significa che – in sé e per sé – la controcultura rock non è poi un fenomeno così potente da mettere in discussione l’egemonia della cultura di massa mainstream. Nondimeno, in questi stessi anni (seconda metà dei Sessanta-prima metà dei Settanta) una fitta rete di relazioni intertestuali collega la controcultura rock ad altre forme espressive destinate al mercato dell’intrattenimento. Ciò comporta che la medesima sensibilità, se non proprio la stessa impostazione etica, connoti narrazioni che si muovono attraverso media diversi (il cinema – soprattutto quello di Holly­wood –, il teatro musicale – Broadway e Off-Broadway –, l’arte visiva, la

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radio e – sebbene solo per aspetti specifici – persino la televisione). Una simile irradiazione dell’estetica e dell’etica proprie della controcultura rock finisce per coinvolgere sezioni di pubblico socialmente, culturalmente, generazionalmente e territorialmente diverse e più ampie della originaria mappa dell’audience disegnata dai giovani cultori del rock. Ed è precisamente questo processo a condurre alla creazione di una costellazione controculturale di massa, questa sì in grado di competere (e persino minacciare) l’egemonia dell’intrattenimento mainstream. Non tutte le irradiazioni mediatiche hanno la stessa importanza: ma certo quella che connota la cosiddetta «Hollywood Renaissance» ha uno speciale rilievo, in ragione dell’impatto comunicativo del mezzo cinematografico. Geoff King ha mostrato persuasivamente che la nascita – a metà degli anni Sessanta – di un nuovo stile filmico hollywoodiano, prima ancora che da una pianificata strategia estetica, deriva da un tentativo di dare risposte economicamente convincenti a uno stato di crisi che nel secondo dopoguerra ha colpito l’industria cinematografica americana1. Abbiamo già ricordato in precedenza che la responsabilità maggiore della crisi va attribuita all’irrompere della televisione, e che un modo per contrastare la diminuzione degli incassi ottenuti dalle proiezioni cinematografiche nelle sale viene trovato attraverso due forme di collaborazione con le reti TV: la vendita o il noleggio degli archivi cinematografici delle majors alle televisioni e la collaborazione produttiva di majors e network TV nella produzione di programmi televisivi. Per quanto importanti possano essere queste soluzioni, non sono tuttavia sufficienti ad arrestare il trend negativo, anche perché nel 1968 il processo di vendita degli archivi cinematografici alle TV si è praticamente esaurito. Per contrastare il declino, le majors hollywoodiane hanno da tempo deciso di mettere in atto una progressiva revisione del Codice di autocensura; nel 1956 si sono accordate su una deroga alle norme, che consente un trattamento «responsabile» di temi come la droga, la prostituzione o le relazioni sessuali interrazziali, in precedenza del tutto esclusi; nel 1966 il Codice viene ulteriormente mitigato; nel 1968, infine,

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viene sostituito da un sistema di rating che ammette anche film più osé2. In questo modo le majors possono lanciare film come Peyton Place (I peccatori di Peyton Place, Mark Robson, 1957), pellicola tratta fedelmente dal romanzo di successo di Grace Metalious, pubblicato nel 1956: come il libro, il film descrive la rovina morale che si nasconde dietro la composta apparenza di una località del New England negli anni della seconda guerra mondiale. L’impatto di questo film sul mercato cinematografico è decisamente positivo: la 20th Century Fox spende 2 milioni di dollari per produrlo, distribuirlo e promuoverlo, e ne ricava 25 milioni; nel 1961 ne fa un sequel e nel 1964 la sua divisione televisiva ne ricava una soap, trasmessa dal network Abc, che dura sino al 1969. La decostruzione della linda facciata di una ridente cittadina americana è impietosa; insieme a molte vicende minori, tutte avvelenate dai pettegolezzi che avvolgono ogni singola relazione sociale, spiccano due fondamentali assi narrativi: da un lato Connie McKenzie (Lana Turner), una donna della media borghesia, si finge vedova, nascondendo alla figlia Allison (Diane Varsi) di averla avuta in seguito a una relazione illegittima con un uomo sposato, consumata anni prima a New York; il che fa sì che i suoi rapporti con la figlia, ormai adolescente, siano sempre più problematici, tanto che Allison decide di lasciare la casa e andarsene da sola a New York; dall’altro lato, in una povera famiglia disfunzionale, un ubriacone violento stupra Selena (Hope Lange), la sua figliastra, e la mette incinta, causando il suicidio della moglie; la ragazza deve abortire; quando poi il patrigno si ripresenta ancora per aggredirla di nuovo, Selena reagisce e lo uccide. Sull’orlo della implosione tragica, la storia, alla fine, trova un suo positivo equilibrio: Selena viene assolta, e può sposare il suo amore, Ted Carter (David Nelson); Allison, tornata a casa per il processo a Selena, sua amica, si riconcilia con sua madre; costei, infine, accetta la relazione che Allison ha con lo schivo e gentile Norman Page (Russ Tamblyn). In tal modo, in una forma classica per Hollywood, l’esplorazione di un universo relazionale disturbato è tuttavia compensata da un finale moralmente positivo, in

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cui le cose tornano – in qualche modo – a posto (anche se le ferite psichiche, ovviamente, restano). Il meccanismo di «pesi e contrappesi» funziona anche in Cat on a Hot Tin Roof (La gatta sul tetto che scotta, Richard Brooks, 1958), adattamento cinematografico dell’omonimo dramma teatrale di Tennessee Williams (1954). Aspra descrizione delle fratture interne a una famiglia, il film ruota soprattutto intorno alla crisi coniugale in atto tra Brick (Paul Newman) e Maggie (Elizabeth Taylor), che si traduce in una perdita di intesa sessuale testimoniata dal fatto che i due non hanno figli. Al termine di una drammatica resa dei conti davanti al pater familias, il vecchio «Big Daddy» (Burl Ives), ormai condannato da un cancro terminale, Brick e Maggie si riconciliano con un bacio che sembra annunciare una ricomposizione anche erotica della coppia. In questo caso, perché l’operazione di riequilibrio morale abbia successo, la versione filmica deve espungere gli aspetti più inquietanti del lavoro di Tennessee Williams: in particolare deve nascondere l’evidente omosessualità di Brick, che nella pièce tea­trale risulta bloccato nei rapporti con la moglie perché perdutamente innamorato di un suo amico, suicidatosi per amor suo. All’inizio degli anni Sessanta altri film affrontano con un certo coraggio anche questioni di rilievo pubblico, pur conservando il sistema di garanzia assicurato da una conclusione che riequilibra traumi e conflitti. West Side Story (Jerome Robbins, Robert Wise, 1961), film di grande successo, tratto da un musical di Broadway (1957) con la musica di Leonard Bernstein, ricolloca nell’Upper West Side di New York la storia tragica di Giulietta e Romeo: adesso le due fazioni in lotta sono due gang giovanili, una di immigrati portoricani e una di bianchi americani, la cui ostilità pone un terribile ostacolo all’amore tra la portoricana Maria (Natalie Wood) e il bianco americano Tony (Richard Beymer). Alla fine Tony ricopre – contro la sua volontà – il ruolo di eroe sacrificale3: la sua uccisione permette a Maria di esprimere tutto il suo tragico disprezzo per l’inutile guerra tra le gang, che finalmente intorno al corpo morto di Tony trovano la forza morale per ricomporsi in un’unica armonica unità.

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To Kill a Mockingbird (Il buio oltre la siepe, Robert Mulligan, 1962), tratto dal libro omonimo di Harper Lee, pubblicato nel 1960, e ambientato nell’Alabama degli anni Trenta, è in larga parte un courtroom drama: l’avvocato Atticus Finch (Gregory Peck) tenta di difendere Tom Robinson (Brock Peters), un giovane nero, ingiustamente accusato di aver picchiato e forse stuprato Mayella Ewell (Collin Wilcox Paxton), una ragazza bianca. Nonostante gli sforzi dell’avvocato, l’imputato viene riconosciuto colpevole dalla giuria popolare, integralmente composta da bianchi. Dopo la conclusione del processo lo sceriffo (Frank Overton) informa Atticus che Tom è stato ucciso perché – così sostiene il poliziotto responsabile – ha tentato di scappare durante il trasferimento dal tribunale alla prigione. In sottofinale, Bob Ewell (James Anderson), padre di Mayella, e vero responsabile della violenza alla figlia, tenta di vendicarsi di Atticus, aggredendo i suoi due figlioletti, Scout (Jean Louise) e Jem (Jeremy) (Mary Badham e Phillip Alford); a salvarli interviene provvidenzialmente «Boo» Radley (Robert Duvall), un vicino di casa, socialmente disadattato, ma a suo modo affezionato ai bambini, che uccide Bob. Consapevole delle implicazioni del caso, lo sceriffo decide di archiviare la morte di Ewell, considerandola frutto di un incidente. Pur col gioco della dislocazione temporale, il film affronta, senza sconti, il tema della discriminazione razziale, diventato ormai una questione d’attualità nazionale per effetto delle iniziative del Movimento per i diritti civili e delle violenze selvagge dei razzisti bianchi nel Sud degli States. Nondimeno, dopo aver narrato dei nefasti effetti del razzismo, anche questo film offre un finale consolatorio, con l’uccisione «redentiva» del brutale Bob Ewell da parte dell’anima candida «Boo» Radley. Più diretto, nel raccontare la tremenda pericolosità del ricorso ad armamenti atomici come strumento per giocare la partita internazionale della guerra fredda, è Dr. Strangelove or: How I Learned to Stop Worrying and Love the Bomb (Il dottor Stranamore - Ovvero: come ho imparato a non preoccuparmi e ad amare la bomba, Stanley Kubrick, 1964), in cui la critica al forsennato militarismo, che conduce a un conclusivo disastro atomico, è resa

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tuttavia più accettabile dal tono, che è quello di una commedia nera, in certi momenti quasi surreale. Il film di Kubrick ha un buon successo commerciale: viceversa, un film coevo, che narra la stessa vicenda ma con i toni del dramma tragico – Fail Safe (A prova di errore, Sidney Lumet, 1964) – non ha la stessa buona riuscita. Eguale esito sfortunato ha The Children’s Hour (Quelle due, William Wyler, 1961), film che mette in scena un tormentato caso di omosessualità femminile, concluso da un finale tragico: anche questo, un insuccesso al botteghino4. La cosa, in definitiva, non dovrebbe sorprendere; d’altro canto i film di maggiore successo in questo scorcio iniziale degli anni Sessanta sono quelli che rispondono ai classici criteri narrativi ed etici rispettati da Hollywood sin dagli anni Trenta: le commedie romantiche; i film spionistici, con il semisupereroe macho James Bond; i musical per famiglie (Mary Poppins, Robert Stevenson, 1964; The Sound of Music [Tutti insieme appassionatamente], Robert Wise, 1965); i cartoni animati Disney (The Sword in the Stone [La spada nella roccia], Wolfgang Reitherman, 1963). Tuttavia i tempi stanno davvero cambiando e nel 1967, in coincidenza con la prima vera affermazione della controcultura rock, sugli schermi vengono proiettati due film piuttosto in controtendenza rispetto agli standard mainstream: The Graduate (Il laureato, Mike Nichols) e Bonnie and Clyde (Gangster Story, Arthur Penn); il primo, che ha un budget di 3 milioni di dollari, ne ricava 105, finendo al numero 1 nella classifica dei successi cinematografici statunitensi di quell’anno; il secondo, con un budget di 2,5 milioni di dollari, ne ricava 50, finendo al quarto posto; da allora, e per un periodo che arriva sin verso la metà degli anni Settanta, altri film che hanno una struttura narrativa insolita, o che appartengono a generi normalmente considerati marginali, si collocano nelle posizioni di vertice del box office, oltre a conquistarsi un positivo apprezzamento da parte della critica più esigente: tra questi spiccano 2001: A Space Odyssey (2001: odissea nello spazio, Stanley Kubrick, 1968); Rosemary’s Baby (Roman Polanski, 1968); Planet of the Apes (Il pianeta delle scimmie, Franklin J. Schaffner, 1968); Night of the Living Dead (La notte dei morti viventi, G ­ eorge Ro-

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mero, 1968); Easy Rider (Dennis Hopper, 1969); Midnight Cowboy (Un uomo da marciapiede, John Schlesinger, 1969); Butch Cassidy and the Sundance Kid (Butch Cassidy, George Roy Hill, 1969); The Wild Bunch (Il mucchio selvaggio, Sam Peckinpah, 1969); Little Big Man (Piccolo grande uomo, Arthur Penn, 1970). Ciascuno di questi film riscuote un notevole successo di cassetta. Altri, talora meno fortunati al botteghino, hanno tuttavia una loro audience e un riscontro positivo di critica, e soprattutto condividono con i film ricordati sopra alcune strutture narrative fondamentali: They Shoot Horses, Don’t They? (Non si uccidono così anche i cavalli?, Sidney Pollack, 1969); Alice’s Restaurant (Arthur Penn, 1969); Five Easy Pieces (Cinque pezzi facili, Bob Rafelson, 1970); M*A*S*H (Robert Altman, 1970); The Strawberry Statement (Fragole e sangue, Stuart Hagmann, 1970); Zabriskie Point (Michelangelo Antonioni, 1970); Soldier Blue (Soldato blu, Ralph Nelson, 1970); McCabe & Mrs. Miller (I compari, Robert Altman, 1971); Carnal Knowledge (Conoscenza carnale, Mike Nichols, 1971); A Clockwork Orange (Arancia meccanica, Stanley Kubrick, 1971); Mean Streets (Martin Scorsese, 1973); Pat Garrett & Billy the Kid (Sam Peckinpah, 1973); The Conversation (La conversazione, Francis Ford Coppola, 1974); Nashville (Robert Altman, 1975); Taxi Driver (Martin Scorsese, 1976); Buffalo Bill and the Indians, or Sitting Bull’s History Lesson (Buffalo Bill e gli indiani, Robert Altman, 1976)5. Sono film apprezzati da un pubblico giovane, che all’epoca costituisce il 70% del totale degli spettatori6. Si può immaginare che gran parte di questa sezione di pubblico appartenga all’una o all’altra delle subculture che siamo andati enumerando e che sono attratte dalla controcultura rock (il che, per inciso, spiega anche lo straordinario successo di un documentario musicale come Woodstock). Ma evidentemente questi film coinvolgono anche altri gruppi giovanili e soprattutto altri gruppi generazionali, più anziani, attirati dalla spinta conformistica che li induce a guardare con curiosità a quella che si annuncia come una nuova moda nel campo delle produzioni cinematografiche. E che si tratti di una new wave non ci sono dubbi, giacché questi film – pur nella varietà di stili e accenti – possiedono fondamentali

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tratti comuni che li avvicinano tra loro, e li collegano strettamente alla controcultura rock7. Il primo aspetto essenziale è che le storie raccontate da questi film hanno come protagonisti degli antieroi, diversi dei quali richiamano la galleria dei reietti tanto amata dalle musiche controculturali – dal blues, dal country, dal rock: delinquenti; emarginati; disadattati sociali; marginali per scelta; vittime di forze più grandi di loro. Nel proporre personaggi di questo tipo come soggetti portanti delle storie, molti di questi film invitano a un’empatia che è incoraggiata anche dalla connotazione negativa con la quale sono tratteggiati i personaggi che normalmente nelle narrazioni mainstream svolgono un ruolo positivo: poliziotti; soldati; gente di estrazione popolare; i benpensanti della middle class; le istituzioni nel loro complesso. Non che si tratti necessariamente di film militanti, da cui si possa ricavare una critica organica ed esplicita alla società americana coeva. Piuttosto, è il gioco di contrapposizioni che è eloquente. Negli antiwestern, gli indiani sono le vittime di una selvaggia pulsione imperialista che guida quelli che, nei western classici, sono gli eroi positivi: i soldati in divisa blu, o i coraggiosi e impavidi cowboy, che qui diventano poco meno che dei sadici sanguinari8. In Easy Rider, Billy (Dennis Hopper), Wyatt (Peter Fonda) e George (Jack Nicholson), i tre protagonisti, non sono certo degli eroi positivi: hippie spacciatori i primi due; un avvocato ubriacone, l’altro; e tuttavia la confusa ricerca di una loro libertà risulta inaccettabile ai rednecks (popolani bianchi) che incontrano sul loro cammino, come spiega George a Billy in una delle conversazioni chiave del film: George: «Lo sai? Una volta questo era proprio un gran bel paese. E non riesco a capire quello che gli è successo.» Billy: «Beh, che tutti hanno paura, ecco cos’è successo. Noi non possiamo neanche andare in uno di quegli alberghetti da due soldi, voglio dire proprio di quelli da due soldi, capisci? Credono che si vada a scannarli, o qualcosa... hanno paura.» George: «Sì, ma non hanno paura di voi. Hanno paura di quello che voi rappresentate.»

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Billy: «Ma quando...? Per loro noi siamo solo gente che ha bisogno di tagliarsi i capelli.» George: «Ma no... quello che voi rappresentate per loro è la libertà.» Billy: «Che c’è di male nella libertà, la libertà è tutto.» George: «Sì, è vero, la libertà è tutto, ma parlare di libertà ed essere liberi sono due cose diverse. Voglio dire che è difficile essere liberi, quando ti comprano e ti vendono al mercato. E bada, non dire mai a nessuno che non è libero, perché allora quello si darà un gran daffare a uccidere e massacrare per dimostrarti che lo è. Ah, certo, ti parlano e ti riparlano, e ti riparlano di questa famosa libertà individuale, ma quando vedono un individuo veramente libero, allora hanno paura.» Billy: «La paura però non li fa scappare.» George: «No, ma li rende pericolosi.»

In The Graduate, il neolaureato Benjamin Braddock (Dustin Hoffman) è piuttosto confuso sul suo futuro, ma certo è disgustato dal modello che i suoi genitori e i loro amici sembrano offrirgli: [...] che cosa gli viene offerto esattamente? «La plastica», raccomanda il signor Robinson (Murray Hamilton). Una carriera nella plastica, l’epitome di tutto ciò che è falso, innaturale e superficiale. Il mondo dei genitori è presentato come un mondo di plastica, brillante, frivolo e irreale come l’interno dell’acquario nella camera di Benjamin. La sua figura talvolta è inquadrata attraverso il vetro dell’acquario a sottolinearne l’alienazione9.

Bonnie and Clyde non è meno brillante nel rovesciamento del sistema morale tipico delle narrazioni mainstream. I protagonisti sono due giovani socialmente disadattati. Vediamo Bonnie (Faye Dunaway) nella prima inquadratura del film, a casa sua, nuda, annoiata fino alla disperazione, finché – a pochi minuti dall’inizio – non incontra Clyde (Warren Beatty) e comincia con lui, quasi per caso, una corsa a capofitto verso il niente. Lui è un delinquentello con gravi problemi psicologici (è sessualmente impotente: problema che si risolve solo verso la fine del film), che si atteggia un po’ goffamente a Robin Hood, senza crederci per davvero. Il fratello di Clyde e sua moglie (Gene Hackman ed Estelle Parsons), così come il quinto membro della banda – C.W.

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Moss (Michael J. Pollard) –, sono non meno sbandati di Bonnie e Clyde. In apparenza la soluzione del film sembra rispettare la struttura del noir classico: i cattivi sono puniti e la giustizia trionfa; solo che, diversamente dalla struttura classica, colui che propizia il ritorno all’ordine è uno dei personaggi più inquietanti nella storia dei noir hollywoodiani: Frank Hamer (Denver Pyle), un Texas Ranger che la gang di Bonnie e Clyde ha catturato e umiliato, prima di lasciarlo andare, è un taciturno e robotico terminator in carne e ossa, che si vota alla missione di annientare i suoi personali nemici; cosa che fa in un violentissimo agguato finale, crivellando di colpi Bonnie e Clyde fino a ridurli a pupazzi di pezza che si muovono meccanicamente sotto l’impatto di una inutile pioggia di proiettili, in uno dei finali – credo – più crudeli nella storia del cinema. La giustizia non è una vera giustizia; gli antieroi non sono eroi nei quali ci si possa identificare; e alla fine resta un universo desolante in cui accadono cose alle quali si fa fatica ad attribuire un significato o una qualunque eticità. Il secondo aspetto da rimarcare è la assoluta mancanza di un happy ending che conferisca un senso che non sia tragico o nichilistico alle storie narrate. La morte si abbatte senza scampo non solo su Bonnie e Clyde, ma su una lunga sequenza di altri protagonisti di questi film10. E al di là della fine tragica di antieroi votati all’autodistruzione, colpiscono alcune vicende, così dure da mettere a disagio, in cui perfino la speranza di riscatto viene annientata dalla tragedia. I tre protagonisti di Easy Rider vengono uccisi, uno dopo l’altro, da scalcinati rednecks, senza che costoro abbiano un motivo preciso per farlo. In Midnight Cowboy Ratso/Rico Rizzo (Dustin Hoffman) è un truffatorello zoppo, amico di Joe Buck (Jon Voight), un macho texano costretto a far marchette con chi gli capita, uomini o donne, per sbarcare il lunario. Rico vive a New York, in una catapecchia senza riscaldamento, dalla quale spera di andar via prima dell’inverno, per recarsi al caldo di Miami; ma quando l’inverno arriva Rico e Joe sono ancora a New York, e il primo si ammala gravemente (una polmonite? non è chiaro: sta di fatto che non prova nemmeno a curarsi, non avendo un dollaro). Quando Joe si rende conto che

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Rico ha bisogno di andarsene al più presto da New York, raccoglie un po’ di soldi (forse uccidendo un cliente), carica l’amico su un pullman e insieme se ne vanno verso il sole. Rico sta male, e durante il viaggio se la fa addosso; Joe, amorevolmente, gli compra dei vestiti nuovi, lo cambia, e gli parla delle meraviglie della loro nuova destinazione; ma intanto che gli parla, Rico, con la sua bella camicia hawaiana addosso, silenziosamente muore: ed è a quel punto che, per la prima volta, Joe gli mette una mano sulla spalla e lo abbraccia11. Non meno tragico e senza speranza è il finale di They Shoot Horses, Don’t They?: negli anni della Grande Depressione, la protagonista, Gloria (Jane Fonda), partecipa a una maratona di ballo, sperando di vincerla e ottenere il premio in denaro promesso dagli organizzatori. Quando, stremata dopo ore di ballo, scopre che in realtà la manifestazione è tutta una truffa, si sente finita e disperata, e vorrebbe suicidarsi. Giacché non ne ha il coraggio, chiede al suo partner di spararle, cosa che costui pietosamente fa. E quando la polizia gli chiede una spiegazione del suo gesto, lui risponde: «Non si uccidono così anche i cavalli?». Il genere che resiste maggiormente a questa sovversione di una delle norme fondamentali nelle narrazioni hollywoodiane è la commedia romantica; nondimeno, proprio The Graduate, che apre la stagione della Hollywood Renaissance, offre un esempio brillantissimo di scardinamento del finale felice. Il film si conclude con Benjamin che cerca di impedire il matrimonio di Elaine (Katharine Ross), la donna che ama, ma che ha profondamente offeso lasciandosi sedurre da Mrs. Robinson (Anne Bancroft), la madre di lei. Nonostante i suoi sforzi Benjamin arriva a matrimonio di Elaine già celebrato; e nondimeno, rocambolescamente, riesce a portarsela via, scappando in pullman con lei che è ancora in abito da sposa. Quindi sembrerebbe esserci l’happy ending. Ma dopo la fuga, che succederà? Vivranno per sempre felici e contenti? Ben ed Elaine, seduti nell’ultima fila del pullman che li porta via, inizialmente ridono contenti come bambini; ma poi la cinepresa si sofferma sui loro sguardi, che si fanno sempre più perplessi, quasi tristi, mentre in sottofondo inizia The Sound of

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Silence di Simon & Garfunkel («Ciao oscurità, mia vecchia amica / son tornato a parlarti di nuovo [...]»). Come a dire: e ora, che facciamo? Non sarà che abbiamo commesso ancora un altro errore?12 Una conclusione intelligentemente audace, rielaborata in altra forma da Annie Hall (Io e Annie, Woody Allen, 1977), con un finale particolarmente brillante: Alvy è un commediografo che ha avuto un’importante storia d’amore con Annie, la quale ha tuttavia deciso di troncare la loro relazione. In una «normale» commedia romantica l’eroe e l’eroina, alla fine, nonostante tutto e tutti, si ritroverebbero, magari giusto un momento prima di perdersi per sempre. E questo è proprio ciò che succede nella commedia che Alvy si sta preparando a mettere in scena. Ma l’happy ending appartiene solo alla fantasia della fiction. Nella «realtà» le cose vanno diversamente. Rompendo la convenzione della quarta parete, e dialogando con gli spettatori, Alvy spiega francamente che lui e Annie non si sono rimessi insieme; si sono solo incontrati un po’ di tempo dopo la fine della loro storia. A questo punto il primo piano di Alvy lascia spazio alle immagini che rievocano il loro ultimo incontro, un appuntamento in un bar per ricordare insieme i vecchi tempi, illustrati da una rapida silloge di frammenti del film relativi ai momenti salienti della loro storia. Poi Alvy e Annie stanno per salutarsi definitivamente. La scena è ripresa dall’interno di un bar, all’angolo di una strada, con i due personaggi che sono all’esterno, visibili attraverso la vetrata. I due si danno la mano e un bacio di commiato; Annie se ne va, lasciando Alvy per un attimo da solo a guardarla per un’ultima volta; infine anche Alvy si allontana e la cinepresa inquadra l’angolo della strada vuoto, con il traffico urbano che scorre, mentre la voce fuori campo di Alvy chiude la storia con un’ironia mestamente surreale sul senso delle relazioni uomo-donna13. Lavori di questo tipo hanno una forza notevole nel mutare le coordinate di generi più che consolidati. E tuttavia, di tutti i film di questo periodo, forse quello che con maggiore lucidità e determinazione colpisce al cuore uno dei fondamentali modelli narrativi della cultura di massa mainstream, quello della «home» assediata e poi salvata, è Night of the Living Dead di George Romero, film

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noto per aver fondato un intero sottogenere horror, quello degli zombie. La struttura narrativa del film è semplice e geniale. Una delle più ancestrali paure, diffusa nelle più diverse culture, quella dei morti che tornano vivi, diventa – nella finzione filmica – realtà: la tranquilla normalità degli Usa è turbata da questi strani esseri, morti i cui circuiti cerebrali sono stati riattivati dalle radiazioni emesse da una sonda di ritorno dal pianeta Venere. Non è tutto: i morti riprendono vita, ma sono presenze robotiche, animate da una fame incessante, che li spinge ad aggredire e dilaniare a morsi ogni essere vivente che incontrino sul loro cammino. Una ragazza (Judith O’Dea), aggredita insieme al fratello in un vicino cimitero, e un afroamericano (Duane Jones) riescono a sottrarsi all’attacco degli zombie rifugiandosi in una casa isolata, persa in una brulla campagna. Una volta dentro, scoprono che nella cantina della casa si sono rinserrati una giovane coppia e una famiglia composta da padre, madre e figlioletta, ferita dal morso di uno zombie. Il team che si crea non è affatto affiatato: Ben (l’unico afroamericano del gruppo) è il più lucido e determinato; Harry (Karl Hardman), il capofamiglia, è il più pavido e infido. Intanto la casa viene assediata da torme di zombie: in un susseguirsi ansiogeno di tentativi di fuggire o di difendersi, tutti i membri di questo mal assortito team vengono uccisi; l’unico a salvarsi è Ben, che, quando gli zombie fanno irruzione nella casa, si chiude in cantina, in un ultimo disperato tentativo di difesa. Poi, alla fine, come in ogni thriller che si rispetti, ecco i salvatori: all’esterno sopraggiungono le forze di polizia, coordinate da una schiera di volontari armati, tutti bianchi, con l’atteggiamento e l’abbigliamento dei rednecks. Ben sente l’abbaiare dei cani, i colpi di arma da fuoco dei soccorritori che stanno eliminando gli zombie uno a uno, e finalmente pensa di essere in salvo. Con cautela esce dalla cantina e si avvia verso la porta di casa. Ma prima ancora che possa dire qualcosa, uno dei volontari, che l’ha intravisto muoversi all’interno della casa e l’ha scambiato per uno zombie, con mira infallibile lo colpisce alla testa con una fucilata. E così i presunti salvatori si rivelano non meno letali degli zombie. Dopodiché arriva il finale del film, che anche in

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questo caso è visivamente ed eticamente brillante: gli ultimi fotogrammi riproducono immagini fotografiche piuttosto sgranate dei «salvatori» che con uncini da macellaio arpionano il corpo di Ben, lo trascinano all’esterno, e lo gettano sulla catasta composta dai corpi degli zombie uccisi, a cui poi viene dato fuoco; e più che la sequenza conclusiva di un film horror, sembra la documentazione fotografica di un linciaggio. In questo caso il riferimento alle tensioni razziali che stanno continuando a scuotere gli Usa ancora alla fine degli anni Sessanta è evidente ma del tutto incidentale. Il tema, del resto, è sistematicamente assente nelle produzioni della Hollywood Renaissance. Come del tutto assente è ogni riferimento diretto alla guerra in Vietnam, anche se allusioni implicite possono essere facilmente colte negli antiwestern, dove gli indiani possono essere considerati il doppio storico dei vietnamiti14. Egualmente pochi sono i film che documentano le vicende del movimento studentesco, e anche in questo caso talora in forme oniriche o quasi surreali (Zabriskie Point; If... [Se..., film inglese, diretto da Lindsay Anderson nel 1968]), e in soli due casi in forme più realistiche (The Strawberry Statement; e Medium Cool [America, America, dove vai?, Haskell Wexler, 1969])15. Egualmente piuttosto cauti sono questi film sul versante dell’erotismo e della sessualità, con pochi frammenti di fotogrammi che mostrano – in modo sempre abbastanza pudico – intercorsi sessuali, anche all’interno di film che hanno come oggetto principale la mercificazione sessuale in un contesto urbano degradato, come nel caso di Midnight Cowboy. Al di là di tutto, Hollywood si mantiene prudente e guardinga per ciò che concerne tanto la politica in senso proprio, quanto la politica del corpo, della sessualità o del gender, anche quando innova con coraggio le strutture elementari della narrazione filmica. 2. Broadway e dintorni Alcuni dei temi che Hollywood non affronta volentieri sono invece oggetto di una serie di importanti messe in scena teatrali a Broadway, quasi sempre nella forma del musical, un altro ge-

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nere che, in questo modo, subisce una radicale decostruzione che lo riorienta verso temi narrativi e visivi che appartengono pienamente alla controcultura rock. Alle spalle delle produzioni di maggior successo c’è tuttavia un’importante elaborazione teatrale d’avanguardia che ha luogo in vari teatri collocati soprattutto a New York, nel Greenwich Village o nel circuito Off- e Off-Off-Broadway16. Tra le varie compagnie che calcano queste scene, particolarmente influente è il già citato Living Theatre di Judith Malina e Julian Beck, attivo nel circuito Off-Off sin dal 195117. Tra le molteplici caratteristiche che sono proprie di questo collettivo teatrale c’è da un lato l’idea di una diretta fusione tra l’elaborazione artistica e la vita quotidiana, che trova la sua massima espressione in The Connection, 1959, storia di un gruppo di drogati, nel corso del quale recitano persone effettivamente affette da tossicodipendenza18; dall’altro c’è il «teatro della crudeltà», teorizzato negli anni Trenta da Antonin Artaud, secondo il quale una rappresentazione teatrale deve aggredire emotivamente lo spettatore con scene intensamente violente, una prescrizione messa in atto in The Brig, pièce del 1963, che descrive la giornata tipo di un marine recluso in una prigione militare. Per quanto la traiettoria del Living Theatre sia innovativa e importante, il lavoro di questo collettivo resta comunque ai margini dei circuiti teatrali di maggior successo; nel 1964 Judith Malina e Julian Beck sono inoltre costretti ad abbandonare gli Stati Uniti, a causa di un pesante contenzioso con gli uffici fiscali, e a trasferirsi in Europa, dove conquistano la simpatia della critica più eterodossa e del pubblico più radicale con spettacoli politicamente polemici e drammaturgicamente intensi; tuttavia anche qui non riescono a imporsi nei circuiti di maggior rilievo, restando protagonisti solo in spazi teatrali minori e alternativi19. Ben diversa è invece la parabola percorsa da altri spettacoli che, pur nascendo nel medesimo contesto dell’avanguardia teatrale all’interno della quale circolano i lavori del Living Theatre, riescono tuttavia a imporsi a un pubblico di massa. La prima rappresentazione che cambia radicalmente le coordinate dei musical di Broadway è Hair: The American Tribal Love-Rock Musical.

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Il libretto e i testi delle canzoni sono di Gerome Ragni e James Rado; la musica è di Galt MacDermot; e il musical debutta in una prima versione a New York, al Public Theater di Joseph Papp, un teatro proprio del circuito Off-Broadway, il 17 ottobre del 1967; passa poi dal dicembre 1967 al gennaio 1968 al nightclub Cheetah; infine, visto il successo riscosso, viene accolto in uno dei teatri del circuito principale di Broadway, il Biltmore Theatre, dove esordisce il 29 aprile 1968 e lì va avanti per 1.750 repliche. Nel passaggio a Broadway la regia viene affidata a Tom O’Horgan, un regista che aveva in precedenza lavorato al Café La MaMa (Green­wich Village, circuito Off-Off ); in questa circostanza anche la trama viene modificata rispetto alla messa in scena originaria20. Sebbene la struttura del musical sia articolata in quadri relativamente autonomi gli uni dagli altri, essa disegna tuttavia una storia coerente al centro della quale c’è Claude Hooper Bukowski: costui è un ragazzo di classe media che abbandona la casa dei suoi, nel Queens, per unirsi a una comunità hippie del Greenwich Village, dove conosce Berger, un giovane creativo e carismatico. I rapporti affettivi all’interno della comunità sono relativamente complessi, come spiega Jeanie, una ragazza del gruppo, incinta non si sa bene di chi: «Le cose stanno così: io sono cotta di Claude. Sheila [una studentessa della NY University, che milita nel movimento studentesco] è cotta di Berger. Berger svolazza dovunque. E Claude è cotto alternativamente di Sheila e di Berger»21. Al di là delle loro complicazioni sentimentali, questi personaggi sperimentano insieme agli altri hippie una nuova libertà sessuale, fanno uso di droghe, marcano le distanze che li separano dalla società «normale» e criticano la violenza imperialista che attraversa la storia degli Usa. Sebbene l’ideale pacifista sia condiviso dalla maggioranza dei membri della comunità, Claude, che è stato reclutato per il Vietnam, alla fine decide di partire. Scelta tragica, perché in Vietnam muore. Alla fine, i suoi amici e le sue amiche celebrano la sua morte insensata con uno dei brani musicali di maggior successo, The Flesh Failures (Let the Sunshine In), in un finale di grande impatto emotivo costruito intorno al corpo senza vita del «soldato» Claude Hooper

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Bukowski22. Let the Sunshine In è un brano musicale che ha un grande successo anche al di fuori del contesto teatrale; ma certo non è l’unico brano di rilievo tra i 32 del musical: «Molte canzoni di Hair avevano testi che commentavano questioni politiche o sociali d’attualità inclusa la guerra del Vietnam (Three-Five-Zero-Zero), l’uso della droga (Hashish, Walking in Space), l’amore libero (Black Boys/White Boys, Sodomy) e il gap generazionale (Hair)»; altre hanno invece contenuti introspettivi e lirici, necessari a chiarire lo stato d’animo dei diversi personaggi23. Nel complesso Hair ha diverse caratteristiche che lo rendono fondamentale nella storia della cultura di massa: è il primo musical dedicato alla descrizione di una comunità hippie; è il primo musical che affronta in modo diretto il dramma della guerra in Vietnam; e il primo a usare intensivamente forme musicali rock24. Ciascuno di questi aspetti spiega perché il musical attiri molti spettatori giovani, cosa piuttosto insolita per la tradizione di Broadway25. Oltre a ciò il musical ha un successo che travalica l’ambiente specificamente newyorchese. Contemporaneamente all’allestimento di Broadway, altre messe in scena parallele sono allestite in varie altre città degli Usa, in Europa, in Sudamerica, in Australia, in Giappone e in Israele; la rappresentazione londinese, che esordisce il 27 settembre 1968, ha una particolare riuscita con 1.997 repliche. Non solo: la colonna sonora del musical viene pubblicata come LP il 6 maggio del 1968 e resta al primo posto delle vendite Usa per 13 settimane nel corso del 1969, vendendo più di tre milioni di copie26. Più tardi, nel 1979, dal musical viene tratto un film diretto da Miloš Forman, con le stesse musiche, ma con una trama significativamente rimaneggiata. Tra i vari aspetti che caratterizzano il grande successo di Hair ci sono anche le polemiche (e in qualche caso anche le noie giudiziarie) provocate da ciò che succede alla fine del primo atto, quando i membri della comunità hippie, nel corso di un be-in (una pacifica manifestazione collettiva), si spogliano, restando per un breve momento integralmente nudi sul palco27. Come abbiamo visto nel precedente capitolo, l’esibizione della nudità maschile e femminile, come testimonianza di un sereno e paritetico

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dialogo con la natura, è stata già illustrata da Word Words (1963) di Yvonne Rainer e Steve Paxton; poco dopo la messa in scena di Hair a Broadway, Lennon e Ono pubblicano Unfinished Music No. 1: Two Virgins, la cui copertina, come abbiamo già ricordato, li ritrae entrambi candidamente nudi. In nessuno di questi lavori, tuttavia, e nemmeno in Hair, all’esposizione dei corpi nudi fa seguito una rappresentazione – mimata o realistica – di un atto sessuale. Sin dall’Ottocento, in Europa e negli Usa rappresentazioni di questo genere, attraverso fotografie, fotonarrazioni e, più tardi, anche attraverso brevi filmati, sono commerciate nel mercato pornografico clandestino. Ma agli inizi degli anni Sessanta i lavori sperimentali di un gruppo di registi, incoraggiati dal critico Jonas Mekas, che a New York organizza cineforum riservati a queste produzioni, conferiscono alla rappresentazione di atti sessuali il valore di una trasgressione etica e di un gesto esteticamente significativo28. In qualche caso l’idea chiave che orienta diversi registi dell’avanguardia artistica newyorchese verso la rappresentazione della sessualità consiste nel dare dignità a banali atti di vita quotidiana sulla base dell’insegnamento di Duchamp e di Cage29. Alcuni dei film di Andy Warhol (Sleep; Haircut; Eat; Empire; 1963-1964) illustrano particolarmente bene questo tipo di intento. A questi si aggiungono – animati dalle medesime intenzioni – anche altri suoi film come Kiss (1963) o Blow Job (1964); come pure gli straordinari filmati di Barbara Rubin, una regista che nel 1963, a soli 18 anni, gira Christmas on Earth, e di Carolee Schneemann che nel 1964-1967 realizza Fuses30. In questi lavori la presentazione dei gesti quotidiani (e tra questi le interazioni sessuali) è filtrata attraverso una peculiare interpretazione visiva che invita chi guarda a una sorta di straniamento radicale, che allontana queste pellicole dalle produzioni puramente pornografiche (cioè quelle realizzate per eccitare chi le guarda). I film di Warhol, girati con la camera fissa, con una tecnica volutamente amatoriale, lentissimi, quasi immobili, hanno una durata abnorme (50 minuti Kiss; 35 minuti Blow Job; peraltro niente in confronto a Empire, che dura poco più di 8 ore). Il corto di Barbara

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Rubin, Christmas on Earth (29 minuti), invece, ritrae alcuni attori e attrici col corpo dipinto e talora con delle maschere, impegnati in varie interazioni sessuali sia etero che omo; le immagini in bianco e nero sono talora filtrate attraverso lenti colorate, mentre i fotogrammi di due diverse bobine vengono sovrapposti producendo effetti onirici e psichedelici che adombrano l’utopia di una società in cui le relazioni sessuali siano liberate da ogni possibile costrizione31. Fuses, infine, ritrae Schneemann che fa l’amore con il suo compagno, James Tenney: la pellicola, macchiata, bruciata, o direttamente ridisegnata dall’artista, offre segmenti di immagini molto espliciti, alternati a panorami visuali di grandissima suggestione32. L’importanza di questa produzione sta nello strappare la visualità erotica sia al dominio pornografico, sia alla più nascosta intimità, rendendola dunque pubblica e legittimandola da un punto di vista estetico. Ma, certo, tutto ciò resta confinato in circuiti cinematografici o teatrali piuttosto ristretti. In forma piuttosto clamorosa, è di nuovo un musical a rompere la marginalizzazione e a portare a un pubblico più vasto anche la rappresentazione della sessualità: Oh! Calcutta! viene creato da Kenneth Tynan, un critico e drammaturgo britannico, che intende celebrare i tempi nuovi con uno spettacolo – come dice lui stesso – «intelligentemente erotico»; per questo chiede brevi copioni a Samuel Beckett, Sam Shepard, Leonard Melfi, Jules Feiffer, Dan Greenburg, Sherman Yellen e John Lennon, che collaborano con lui (anche se i loro nomi sono tenuti segreti al momento della messa in scena della rivista); la musica è di Peter Schickele, Stanley Walden e Robert Dennis; e il regista è Jacques Levy33. Il titolo del lavoro è la deformazione grafica di un gioco di parole («Oh, quel cul t’as!») derivato dal titolo di un dipinto di Clovis Trouille (Oh! Calcutta! Calcutta!) che rappresenta un sensuale deretano di una donna nuda e sdraiata di schiena34. Il lavoro esordisce Off-Broadway, all’Eden Theatre, il 21 giugno 1969; poi – com’è accaduto a Hair –, vista la buona riuscita, viene trasferito a Broadway, al Belasco Theatre, dove esordisce il 17 febbraio 1971; intanto ha avuto anche una sua messa in scena a Londra, dove esordisce al Roundhouse il 27 luglio 1970. Lo spettacolo è compo-

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sto da singole scene in cui attori e attrici, tutti bianchi, descrivono varie possibili situazioni erotiche, non di rado con accenti surreali o umoristici. Nonostante, a posteriori, il lavoro sia stato criticato perché esclude ogni forma di interazione omosessuale o interrazziale, all’epoca della sua messa in scena suscita reazioni forti, o molto polemiche, o di aperto apprezzamento per la franchezza con la quale finalmente a teatro si può affrontare la sessualità. Al di là dei pareri critici contrastanti, lo spettacolo ha un successo clamoroso: a Broadway, tra il 1971 e il 1972, ha 1.314 repliche; a Londra, dove passa da un teatro all’altro, ha 3.918 repliche; viene poi allestito di nuovo a Broadway nel 1976, e resta in cartellone fino al 1989, con la bellezza di 5.959 repliche35. L’esempio di Oh! Calcutta! apre la strada ad altre produzioni che affrontano il tema della sessualità con una maggiore audacia. Il 19 giugno 1973 a Londra esordisce The Rocky Horror Show, uno spettacolo con testo e musiche scritti da Richard O’Brien, prodotto e diretto da Jim Sharman. Ironico e scatenato, lo spettacolo, seguendo una trama fantascientifica, illustra liberamente la legittimità di un erotismo plurimo – eterosessuale, omosessuale o bisessuale. Anche questo lavoro ha un enorme successo: a Londra sta in scena dal 1973 al 1980, con 2.960 repliche. Negli Usa debutta a Los Angeles nel 1974 (e vi resta in scena per nove mesi); a New York viene messo in scena al Belasco Theatre, dove però non decolla (solo 45 repliche). Nel 1975 Jim Sharman ne fa un film – The Rocky Horror Picture Show –, distribuito dalla 20th Century Fox, che negli Usa ha un impatto travolgente (il film costa 1,4 milioni di dollari e ne guadagna 140); sul lungo periodo il film e il musical diventano dei fenomeni di culto, con un seguito permanente di fan, e una ininterrotta sequenza di proiezioni e allestimenti in varie parti del mondo: per dire, il 15 novembre del 2000 Broadway accoglie di nuovo la messa in scena del musical, che questa volta va avanti per 476 repliche36. Più impegnativo, e più diretto, è – infine – Let My People Come: A Sexual Musical, realizzato da Earl Wilson Jr. e dal produttore e regista Phil Oesterman come risposta a Oh! Calcutta!, che i due hanno trovato fondamentalmente poco coraggioso. Vi-

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ceversa nel loro musical vogliono descrivere il sesso in tutte le sue dimensioni come una cosa positiva, non come una cosa da guardare dal buco della serratura ridendo nervosamente. I titoli di alcune canzoni dello spettacolo possono dare un’idea del contenuto delle varie scene: I’m Gay; Come in My Mouth; Give It To Me; The Cunnilingus Champion of Company C. Il musical esordisce Off-Broadway al Village Gate l’8 gennaio 1974, e poi passa a Broadway, al Morosco Theater, il 7 giugno del 1976, per chiudere il 2 ottobre seguente dopo 108 repliche, quindi con un risultato buono ma non eccezionale: salvo che poi lo spettacolo viene allestito con ottimi risultati anche in molte altre città, negli Usa, in Canada, in Europa, in Australia; e a Filadelfia e a Toronto resta molto a lungo in cartellone37. All’interno del musical, tre scene sono dedicate all’illustrazione di amori omosessuali: in una, che si svolge in un gay bar, un uomo chiede al suo occasionale partner di portarlo con sé, a casa sua, e non solo per un breve incontro di sesso; in un’altra, molto commovente, due giovani ragazzi cantano una canzone (I’m Gay), il cui testo corrisponde a quello della lettera che pensano di scrivere ai genitori per il loro sofferto coming out; la terza, accompagnata dalla canzone And She Loved Me, descrive con delicatezza l’amore di una coppia lesbica. Non si tratta peraltro della prima volta che Off-Broadway e Broadway descrivono relazioni gay; in un certo senso il lavoro più importante da questo punto di vista è The Boys in the Band, di Mart Crowley, che esordisce Off-Broadway al Theater Four, il 15 aprile 1968, e narra dell’incontro di un gruppo di amici gay (con, in più, l’imprevista visita di un altro amico etero), che si confessano timori, angosce, ansie: per quanto la critica gay abbia stigmatizzato il tono autodenigratorio che connota le riflessioni dei personaggi omosessuali, questo è – come dice con orgoglio l’autore – il primo lavoro in cui i gay non si fanno fuori, in un modo o nell’altro, alla fine della storia38. L’importanza della pièce di Crowley non si limita a questo, giacché nel 1970 William Friedkin (che solo tre anni più tardi sarebbe diventato internazionalmente famoso con The Exorcist [L’esorcista]) ne ricava un film che ha lo stesso titolo

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(in italiano il titolo del film diventa: Festa per il compleanno del caro amico Harold)39. Il film, prodotto e distribuito da due società indipendenti dalle majors, porta dunque sul grande schermo le tematiche omosessuali per la prima volta in forma esplicita: e paga l’audacia con un secco insuccesso al box office. Diversa la storia commerciale delle produzioni cinematografiche per il grande pubblico che puntano in un’altra direzione, ovvero quella di un’esplicita rappresentazione del sesso etero: questo nuovo fenomeno, che riguarda tanto gli Usa quanto molti paesi europei, deriva non solo dall’influenza dei lavori cinematografici e teatrali d’avanguardia, ma anche da una generale depenalizzazione della produzione e della fruizione dei materiali pornografici, che ha luogo sul finire degli anni Sessanta40. Il primo film con scene esplicite che circola nelle sale Usa è Blue Movie, di Andy Warhol (1969), che, seguendo l’estetica della quotidianità che l’artista da tempo sostiene, descrive una coppia che, all’interno della propria casa, discute di politica e di altre varie questioni, compie gesti quotidiani, e – fra le altre cose – fa anche intensamente l’amore41. Di impatto commerciale incomparabilmente maggiore è Ultimo tango a Parigi (Bernardo Bertolucci, 1972), che narra dell’incontro casuale tra un americano disilluso (Marlon Brando) e una giovane borghese annoiata (Maria Schneider), che si abbandonano a una relazione sessuale intensa e affettivamente inesistente (nemmeno si dicono come si chiamano); le scene di sesso sono meno esplicite di quelle di Blue Movie, anche se intensissime nella resa drammaturgica; il finale è tragico: lui, dopo averla rifiutata, si rende conto di amarla e la segue fino al suo appartamento per dichiarale il suo amore; nel preciso momento in cui lui, dolcemente, si dichiara, lei gli spara a bruciapelo e lo uccide, liberandosi della sua presenza come ci si libera di un oggetto importuno; poi, una volta che lui è caduto a terra senza vita, lei comincia a recitare l’alibi che offrirà alla polizia: «non lo conosco, è uno che mi ha seguita, mi voleva violentare...»; la borghese non è pronta a barattare il suo agio o la sua rispettabilità per una storia di sesso selvaggio con uno che lei non conosce e non sa dove possa portarla.

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Per film di questo tipo (e per altri che incastonano scene di sesso all’interno di un sistema narrativo o simbolico complesso, come per esempio il giapponese Ai no korîda [Ecco l’impero dei sensi, 1976], di Nagisa Oshima) sembrerebbe abbastanza appropriata l’etichetta di «porno chic» coniata da Ralph Blumenthal in un articolo sul «New York Times» del 21 gennaio 197342. In realtà Blumenthal non si riferisce affatto a Ultimo tango a Parigi, ma a un altro film uscito qualche mese prima del lavoro di Bertolucci, ovvero Deep Throat (Gola profonda, Jerry Gerard [Gerard Damiano], 1972), un film con scene di sesso esplicito, che racconta di una donna, Linda (Linda Lovelace), che scopre di avere il clitoride nella gola, e per questo riesce a trovare soddisfazione sessuale solo praticando dei blow jobs integrali. Il film ha un grande successo anche presso un pubblico «normale»43, e accende una duratura discussione sul suo significato culturale. Secondo Linda Williams, da un lato il film propone un insistito feticismo del pene e un’idea di sessualità piuttosto degradante per le donne attraverso la centralità della fellatio, che Erica Jong definisce una banale fantasia maschile; dall’altro, però, Williams sostiene anche che tutto il gran parlare del clitoride e della sua importanza che si fa nel corso del film rovescia il senso comune freudiano, diffuso all’epoca, secondo cui l’orgasmo vaginale è superiore a quello clitorideo, ed è l’unico tipo di piacere che faccia di una donna una «vera» donna44. L’interpretazione è interessante ma discutibile: in ogni caso, ciò che va osservato è che il successo di Deep Throat è seguito da una miriade di film simili (tra cui alcuni grandi successi: Behind the Green Door, Artie e Jim Mitchell, 1972; Emmanuelle, Just Jaeckin, 1974; Histoire d’O, Just Jaeckin, 1975), fatti di insistite scene di sesso esplicito all’interno di costruzioni narrative esili o alquanto pretestuose45. 3. Pop art Se c’è una proposta artistica che, pur emergendo dagli ambienti dell’avanguardia più oltranzista, riesce tuttavia a imporsi all’attenzione di un pubblico di massa, questa è la pop art. Nella sua essenza più minimale, sia in Inghilterra (dove in effetti nasce)

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che negli Usa, la pop art si propone come una reazione al modernismo antifigurativo, che in America viene identificato con l’etichetta di «espressionismo astratto»: è, questa, una variegata corrente animata da artisti come Jackson Pollock, Robert Motherwell o Mark Rothko che, negli anni Quaranta, hanno cominciato a sperimentare l’elaborazione di uno stile pittorico ermeticamente astratto46. Clement Greenberg, Harold Rosenberg o Meyer Schapiro, autorevoli critici progressisti, suggeriscono che nelle opere di questi artisti si possa vedere un’arte che non vuole accettare gli orrori del mondo contemporaneo e per questo rifugge da ogni rappresentazione realistica, rifugiandosi in un mondo visivo a parte, tumultuoso o rarefatto, ma sempre interamente ermetico47. Si tratta di una lettura che enfatizza l’aggressività polemica che si può trovare nelle tele di questi pittori. Negli anni Cinquanta, poi, a questo tipo di lettura si aggiungono le interpretazioni che legano l’action painting di Pollock all’improvvisazione bebop in musica o alla spontaneous prose di Kerouac in letteratura48. Questi aspetti, insieme all’inaccessibilità immediata delle opere di Pollock e degli altri espressionisti astratti, suscitano un’iniziale reazione critica nei confronti di questa proposta artistica. E tuttavia, un’imprevedibile torsione della fortuna commerciale ne cambia interamente il significato socioculturale. Alcuni mecenati e collezionisti di grande influenza, tra cui Peggy Guggenheim o la famiglia Rockefeller, per sensibilità o per calcolo cominciano ad acquistare i quadri di questi artisti, seguiti ben presto anche da importanti istituzioni museali americane, come il Moma di New York. Questo imprevedibile successo commerciale incoraggia una paradossale revisione del discorso critico relativo a questa corrente, giacché nel corso degli anni Cinquanta, nel contesto della guerra fredda, Pollock e gli altri cominciano a essere presentati – in patria e all’estero – come la testimonianza più evidente della straordinaria libertà creativa che vige negli Usa, a differenza di ciò che accade invece nei paesi comunisti. Il fatto che tutti questi artisti siano bianchi e che le loro opere siano connotate da un’assoluta irrilevanza narrativa fa sì che la

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loro proposta estetica appaia, in definitiva, piuttosto inoffensiva, e quindi socialmente e politicamente accettabile; che è l’esatto contrario di ciò che in quegli stessi anni accade al jazz d’avanguardia, una musica nera, dunque senza dubbio del tutto inammissibile, o alla letteratura beat, per niente astratta ed eticamente in rotta di collisione con i valori della cultura mainstream49. Ora, da un lato la proposta artistica pop nasce proprio come reazione al dominio antifigurativo dell’espressionismo astratto; dall’altro nasce anche da una sorta di attrazione/repulsione nei confronti della cultura di massa, dei suoi oggetti, dei suoi divi, delle sue forme espressive, che diventano altrettanti temi cruciali del ritorno al visuale che connota questo nuovo stile. Peter Blake, capofila del pop britannico, è un appassionato cultore di jazz e di r’n’r, ed è un fan di Elvis Presley, tanto che nel 1961 si ritrae in un Self-Portrait with Badges, completamente vestito di jeans, col giubbotto ricoperto di spille, e con in mano la copia di una rivista dedicata al suo eroe musicale. Non c’è niente di ermetico in un’operazione di questo genere: tutto è chiarissimo, persino infantilmente evidente. Ma è proprio ciò che Blake si ripropone di fare: realizzare un’arte che possa dialogare immediatamente con la cultura di massa. Parlando col critico britannico Lawrence Alloway, ricorda di avergli spiegato in questo modo i suoi intenti artistici: «Gli dissi che stavo cercando di fare un tipo d’arte che potesse agire allo stesso livello della musica, in modo che se qualcuno avesse ascoltato un disco di Elvis Presley, avrebbe potuto, allo stesso livello, guardare una mia immagine di Elvis»50. Altri artisti, come Andy Warhol o, soprattutto, Roy Lichtenstein, lavorano utilizzando i fumetti come oggetto principale della loro elaborazione artistica; o, in forma anche più provocatoria, le lattine della zuppa Campbell o le scatole del sapone Brillo, come fa Warhol dal 1962-1964. Da qui il senso dell’etichetta che raccoglie le opere di questi artisti (la cui creazione è attribuita proprio a Lawrence Alloway): «pop» art, nel senso di arte «popular», arte che non ha paura di prendere come punto di riferimento fondamentale la più banale quotidianità delle

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masse, delle loro scelte di consumo, delle loro preferenze culturali. Inizialmente la reazione di alcuni critici non è affatto positiva. Il che, in definitiva, non è né insolito, né strano. Interessanti, semmai, sono le argomentazioni che vengono utilizzate per tentare di sbarrare la strada a una produzione artistica che molti considerano truffaldina, buffonesca e priva di un vero spessore culturale. Nel 1962 il critico Max Kozloff definisce gli artisti pop i «new vulgarians»; quanto alle loro opere, osserva: «Le gallerie d’arte si stanno riempiendo dello stile vacuo e spregevole di mastica-gomme, bobby soxers, e ancor peggio, teppistelli»51. Che questo critico senta il bisogno di collegare pop art e mondo giovanile, per quanto nelle sue declinazioni peggiori (almeno secondo i criteri di un benpensante), è piuttosto significativo: sembra che l’intento di Blake – dipingere così da fare in modo che le sue opere possano essere guardate come si ascolta una canzone di Elvis Presley – abbia sortito un qualche effetto. Nondimeno, se inizialmente la ricezione critica è negativa, poi, con una rapidità perfino maggiore di quella che ha santificato l’espressionismo astratto, anche la pop art si impone sul mercato, sulle riviste di tendenza, nelle istituzioni museali e nella grafica pubblicitaria (dalla quale, peraltro, diversi degli artisti pop provengono – Warhol, Rosenquist, Ruscha, tra gli altri). Ora, se la traiettoria di questa proposta artistica è certamente interessante in sé, ciò che ha per noi un particolare rilievo sono i molteplici nessi che la collegano alla controcultura rock. Intanto alcuni artisti-cardine del movimento pop sono autori delle copertine di alcuni degli album più influenti nella storia del rock. Peter Blake e Jann Haworth realizzano la copertina di Sgt. Pepper’s Lonely Hearts Club Band dei Beatles (1967); Richard Hamilton, altra figura di primo piano nel pop britannico, è il responsabile della copertina del White Album degli stessi Beatles (1968). Andy Warhol firma le copertine di The Velvet Underground & Nico (1967), di Sticky Fingers (1971) e Love You Live (1977) dei Rolling Stones e di The Academy in Peril (1972) di John Cale, ex membro dei Velvet Underground52. Il rapporto

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di Warhol col rock è anche più profondo e strutturato, avendo lanciato la carriera di uno dei più influenti gruppi rock, i Velvet Underground. Nel 1965, anche grazie alla mediazione di Paul Morrissey, Warhol ascolta i Velvet Underground al Cafe Bizarre, al Greenwich Village, e li invita a diventare la band della Factory, cioè del gruppo di artisti e bohémien che si radunano nel suo studio: Warhol impone però ai Velvet (composti da Lou Reed alla chitarra elettrica, John Cale alla viola elettrica, Sterling Morrison al basso e Maureen Tucker alla batteria) di accogliere Nico (pseudonimo di Christa Päffgen, bellissima aspirante attrice e musicista tedesca) come vocalist. Nel 1966 Warhol realizza il film The Velvet Underground & Nico: A Symphony of Sound, 67 minuti di ripresa di un concerto dei Velvet alla Factory – camera fissa, salvo i movimenti di zoom – che si interrompe a causa dell’irruzione della polizia, intervenuta poiché i vicini si sono lamentati per il rumore. Nel febbraio del 1966 i Velvet suonano dal vivo durante Andy Warhol Tight-Up, un happening con proiezioni, giochi di luce e diretto coinvolgimento del pubblico. Pochi mesi dopo Warhol organizza l’Exploding Plastic Inevitable, uno spettacolo in cui dodici attori salgono sul palco con fruste, siringhe ipodermiche e croci di legno, per mettere in scena uno show sadomaso basato su libere associazioni e con il sottofondo musicale dei Velvet. Nel 1967, infine, viene pubblicato The Velvet Underground & Nico, album per il quale Warhol disegna la copertina; dopodiché i destini di Warhol e Nico, da un lato, e dei Velvet, dall’altro, si dividono53. Rapporti di questo genere sono solo casuali e superficiali, o c’è una relazione più profonda? L’interrogativo può essere declinato in un’altra forma: il dichiaratissimo debito che molti lavori pop hanno nei confronti del consumismo e della cultura di massa esprime un atteggiamento di accettazione o di distacco critico? Spesso le opere degli artisti pop sottopongono le icone della contemporaneità a una intensa operazione di straniamento che sradica fumetti, lattine, scatole di detersivo, star del cinema dal loro scenario abituale e li ricolloca in uno spazio assoluto, privo di contesto. Trovo persuasiva l’opinione argomentata da Alastair

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Sooke, secondo il quale questa operazione è del tutto ambivalente, giacché affida allo spettatore il compito di decidere se quegli oggetti – isolati e rielaborati – meritino rispetto o disprezzo critico: e in effetti può apparire legittimo considerare la medesima opera pop tanto come una manifestazione di sentimenti antiestablishment, quanto come una produzione piattamente conformista. Ma trovo altrettanto convincente l’osservazione dello stesso Sooke quando sostiene che se ci sono molte opere ambivalenti, ce ne sono poi anche molte altre che dissipano più chiaramente i dubbi54: la serie Death and Disaster (1962-1965) di Andy Warhol è una di queste (Figg. 15-16). Nota Andrea Mecacci al riguardo: Uno sguardo complessivo su questa serie mostra l’America non più come la tanto celebrata Terra promessa ma come un immenso Ade. La morte di Warhol è una morte che non conosce volto, che mimetizza le sue vittime, una morte perennemente astratta che rende figurabili, con un facile paradosso, tutti i volti possibili: da Marilyn a qualsiasi americano. In una sequenza ininterrotta si susseguono suicidi, incidenti automobilistici, sedie elettriche, scontri razziali, cibi avariati, foto segnaletiche di criminali, sale parto, ospedali psichiatrici, incendi55.

Alla stessa costellazione appartengono altri lavori graficamente e tematicamente severi, come Zone (1961), President Elect (1964) o F-111 (1964-1965), di James Rosenquist; come anche i lavori di un brillantissimo gruppo di artiste, che pongono al centro della loro arte i temi dell’identità di genere56. Marjorie Strider, per esempio, è autrice di Girl with Radish (1963), un ritratto di una seducente e giovane bellezza, con un rosso ravanello in bocca modellato in modo da sporgere dalla superficie della pittura; o di Green Triptych (1963), in cui un’altra giovane bellezza all American è ritratta in tre pose diverse, con i seni e il deretano che materialmente escono fuori dal quadro, a rimarcare polemicamente ciò che può interessare davvero a uno sguardo maschile («Stavo prendendo in giro le riviste per uomini», ha dichiarato Strider a commento di questi suoi lavori) (Fig. 17)57.

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D’altro canto, Love (1962) (Fig. 18), di Marisol [Escobar], è una dura metafora della ferocia del desiderio maschile e dell’impari battaglia tra i sessi. Si tratta di una versione più incisiva e risoluta dell’idea espressa l’anno dopo dalla Strider in Girl with Radish. Se la Strider flirtava con le fantasie maschili sulla fellatio, espresse dall’inflazionata cultura visiva dei mass media, allo scopo di ridicolizzarle, Marisol le prendeva direttamente di petto, in modo acutamente brutale. Certo, si potrebbe interpretare Love anche in tutt’altro modo. Rappresenta una critica alla violazione del nostro spazio personale da parte del capitalismo il quale, attraverso infinite pubblicità e annunci commerciali, ci propina di con­tinuo prodotti che non vogliamo e che non ci servono, infilandoceli giù per la gola. Eppure, il sottotesto inerente alla sessualità – cui allude il ­titolo – è ciò che conferisce alla scultura la sua forza di protesta proto-femminista58.

Rosalyn Drexler è un’artista newyorchese che ha una traiettoria personale piuttosto particolare: nel 1951 abbandona marito e figli per diventare una wrestler; nel corso del tour itinerante entra in contatto col razzismo del Sud, che la turba profondamente, tanto da indurla ad abbandonare quel lavoro; a metà anni Cinquanta – tornata dal marito – si trasferisce con lui a Berkeley, dove inizia la sua attività di scultrice. Nel 1960 espone le sue sculture astratte alla Reuben Gallery di New York, che nel 1959 aveva ospitato gli 18 Happenings in 6 Parts di Kaprow. Non trovando poi alcuna collocazione commerciale alle sue sculture, decide di passare alla pittura e comincia a lavorare su foto di fatti di cronaca tratte dai giornali, poste su tele monocrome, poi ripitturate. Fra le altre cose, fa anche un’impressionante serie di quadri, che si intitola Love and Violence, il cui tema è – appunto – la violenza fisica contro le donne (Fig. 19)59. La caratteristica fondamentale di queste opere, cioè la loro capacità di dialogare con la cultura artistica più raffinata, così come con la popular culture più dozzinale, fa sì che quadri come quelli di Strider, Marisol, Drexler intrattengano un rapporto potenziale con opere influenti a cui abbiamo già accennato, come The Feminine Mystique di Betty Friedan, ma sappiano parlare anche a chi ascolti, all’epoca, una sorprendente canzone pop, You

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Don’t Own Me, una ferma dichiarazione di autonomia femminile, lanciata da Lesley Gore nel dicembre del 1963: Non sono una tua proprietà Non sono uno dei tuoi tanti giocattoli E non dirmi cosa devo fare E non dirmi cosa devo dire E non mi esibire quando usciamo insieme perché Non sono una tua proprietà60.

Quale, in definitiva, il rapporto di questa variegata produzione grafica con l’universo della controcultura rock? Da un lato va rimarcata una convergenza nell’atteggiamento: porre sotto gli occhi dello spettatore materiali più o meno scioccanti (per niente scioccanti: una scatola di Brillo; molto scioccanti: un’aggressione sessuale), lasciando a chi guarda il peso di decidere cosa ci sia da dire in merito, è una soluzione che accomuna in profondità la pop art e il rock. In questo mi sembra che un lavoro come Put It This Way di Drexler, per esempio, potrebbe commentare perfettamente tanto il testo di una canzone come Hey Joe di Jimi Hendrix, quanto la storia raccontata da Lou Reed in Berlin (o viceversa). D’altro canto trovo che il deliberato dialogo con la cultura di massa, e persino con gli aspetti folclorici della cultura di massa, che gli artisti e le artiste pop decidono di sperimentare, li spinga nella stessa direzione verso la quale si muovono musicisti come Bob Dylan, Mick Jagger, Keith Richards, Eric Clapton, Janis Joplin e infiniti altri. Cioè, credo che, per fare solo un esempio, la serie Death and Disaster di Warhol costituisca la miglior reinterpretazione visiva della tragica costellazione di murder, prison e disaster songs che appartengono di diritto alla tradizione del blues e dell’hard country; allo stesso modo, i film sperimentali di Paul Morrissey, che Warhol produce a cavallo tra anni Sessanta e Settanta, in particolare Flesh, 1968, e Trash, 1970, sono un omaggio estremo e radicale all’underworld di drogati, travestiti, marchettari, marginali e reietti che costituiscono una parte cruciale delle narrazioni controculturali tanto nelle loro declinazioni musicali quanto in quelle della Hollywood Renaissance. Posti questi nessi

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intertestuali, mi pare che si debba ritenere che il rapporto che artisti pop come Blake, Hamilton o Warhol intrattengono col mondo del rock non sia né occasionale, né superficiale. A ciò bisogna però aggiungere che non tutta la grafica che accompagna la prima traiettoria del rock può essere circoscritta entro le sole coordinate della pop art. Tutt’altro. Una parte significativa della produzione grafica per i manifesti dei concerti che si tengono in California o a New York, alla fine degli anni Sessanta, insegue un’estetica molto più eclettica: un aspetto rilevante è la reiterazione della linea curva, monocroma o policroma, che avvolge personaggi prevalentemente femminili, molto direttamente influenzati dal revival di artisti liberty come Beardsley e Mucha, in voga in Inghilterra in questo periodo, o dal successo della grafica Jugendstil resa popolare in California dalla mostra Jugendstil and Expressionism in German Posters, che si tiene alla Berkeley’s University Art Gallery nel 1965; ai riferimenti Jugendstil, altri artisti, come Rick Griffin, Alton Kelley e Stanley Mouse, noti per i poster dei concerti e le copertine dei dischi dei Grateful Dead, aggiungono altre componenti grafiche, tra il surreale, lo psichedelico e il fumettistico61. Nel contesto britannico, invece, si impongono lavori più nettamente segnati da una vena surreale, esplorata da un gruppo di artisti di grande originalità che collaborano soprattutto con gruppi prog: Paul Whitehead (Genesis, Van Der Graaf Generator) si orienta verso un surrealismo naif, talora sinistramente infantile (Nursery Cryme, Genesis, 1971); Storm Thorgerson (Pink Floyd, Genesis, Led Zeppelin) predilige invece una dimensione più intensamente onirica; Roger Dean (Yes, e un’infinità di altri gruppi), infine, preferisce una sorta di suggestivo surrealismo che sta a metà tra il fantasy e la fantascienza62. Molti di questi lavori (certamente quelli di Rick Griffin, di Stanley Mouse e di Roger Dean) tradiscono un evidente rapporto con la grafica per i comic books (e in effetti Rick Griffin ha una ricca produzione come autore di storie a fumetti); d’altro canto i fumetti sono anche uno degli oggetti di maggior interesse per molti artisti pop, oltre a essere uno strumento di comunicazione

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ovvio per le comunità interpretative giovanili che più si interessano al rock. Non sorprende, dunque, che tra le convergenze che caratterizzano la cultura «altra» che si forma in questo periodo, vi siano fumetti – pubblicati su giornali a larga diffusione o su riviste specializzate (non di rado riviste underground, a diffusione locale) – che affrontano molti dei temi prediletti dall’elaborazione narrativa del rock, della Hollywood Renaissance, del teatro Off-Off-Broadway63. Tra i fumetti più importanti dell’area alternativa ci sono senz’altro quelli di Robert Crumb, che – insieme ad altri – nel 1968 lancia a San Francisco la rivista «Zap Comix»; oltre a ospitare una delle sue più importanti creazioni (Mr. Natural), la rivista pubblica anche le storie di Rick Griffin; e, all’inverso, lo stesso Crumb si fa brillante illustratore della copertina di Cheap Thrills, LP di Janis Joplin con i Big Brother and The Holding Company, uscito nel 1968. 4. Radio, news e intrattenimento TV Il successo della TV come medium per le famiglie, evidente dovunque sin dagli anni Cinquanta, ha da tempo mutato la natura della programmazione radiofonica, sempre più orientata verso i programmi musicali. La pluralità delle comunità interpretative esistenti si rispecchia nella vasta molteplicità di programmi radiofonici che negli Usa soddisfano i gusti musicali delle audience più diverse, dal pop al soul, al jazz, al rock. Nel Regno Unito la compassata produzione radiofonica della Bbc, l’unica emittente autorizzata a trasmettere programmi, è comunque messa in questione da emittenti radiofoniche particolari come American Forces Network o Radio Luxembourg che, come abbiamo visto, sin dagli anni Cinquanta fanno circolare anche nell’etere britannico le musiche americane di maggior successo, dal R&B al r’n’r; più tardi alcune «radio-pirata», come Radio Caroline (1964) e Radio London (1964-1967), che trasmettono da navi ancorate in acque internazionali al largo delle coste inglesi, o come Radio Jackie (1969-1985), un’emittente pirata con sede nei dintorni di Londra, trasmettono musica pop e rock, inducendo alla fine la stessa Bbc

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a introdurre nella sua programmazione anche trasmissioni più o meno simili a quelle lanciate dalle radio-pirata. Anche le TV, sia in UK che negli Usa, ospitano abbastanza precocemente programmi di musica «per giovani», che alternano successi pop a produzioni più specificamente rock, all’interno di palinsesti per l’intrattenimento che sono peraltro dominati da format tipicamente mainstream (soap opera, sitcom, telefilm, film delle majors hollywoodiane). Coerentemente, dal punto di vista dei servizi di informazione, molte emittenti statunitensi hanno un orientamento nettamente filogovernativo, o comunque molto conservatore64. Tuttavia ci sono delle importanti eccezioni. Sulle emittenti del network Cbs dal 1951 al 1958 viene trasmesso il programma di approfondimento See It Now, condotto da Ed Murrow (già affermato giornalista radiofonico); il programma tra il 1953 e il 1954 presenta servizi rigorosamente documentati che hanno un ruolo determinante nello screditare la credibilità del senatore McCarthy, fin allora protagonista assoluto della crociata anticomunista. La carriera politica di McCarthy ne viene danneggiata seriamente. Tuttavia la sua uscita di scena viene determinata da un’indagine svolta da una commissione senatoriale che impone a McCarthy un’audizione pubblica per verificare la fondatezza delle sue accuse. La Nbc e la Cbs non trasmettono che spezzoni delle audizioni; Abc e DuMont, invece, optano per la trasmissione integrale. A conclusione del procedimento, il 2 dicembre 1954 il Senato approva un voto di censura contro l’attività svolta da McCarthy, che sostanzialmente ne chiude la carriera; politicamente marginalizzato, McCarthy muore alcolizzato nel 1957 a 49 anni. Appena un anno più tardi, la direzione della Cbs e lo sponsor del programma di Murrow, Alcoa (Aluminium Company of America), non apprezzando lo spregiudicato stile giornalistico della sua trasmissione, decidono di chiudere definitivamente See It Now65. Nell’immediato Murrow continua a lavorare ancora per la Cbs; tuttavia, giacché la direzione del network gli riduce progressivamente gli spazi di programmazione, nel febbraio del 1961 il giornalista decide di mollare la rete, accettando la pro-

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posta rivoltagli dal presidente Kennedy di diventare il direttore della U.S. Information Agency66. In quello stesso periodo sia Abc che Nbc trasmettono sulle loro emittenti dei documentari sulla condizione degli afroamericani nel Sud degli States e su aspetti diversi della lotta condotta dai militanti del Movimento per i diritti civili, che hanno un grande impatto su intere sezioni dell’opinione pubblica statunitense. Negli anni seguenti il tema viene affrontato non solo in programmi singoli, ma anche all’interno dei notiziari o dei programmi di approfondimento, con servizi sulla marcia di Washington o sulle violenze che le forze di polizia commettono contro i pacifici manifestanti afroamericani a Selma, a Birmingham e altrove. L’importanza di queste trasmissioni per la causa del Movimento è assolutamente enorme, perché per la prima volta molti cittadini statunitensi degli Stati settentrionali e occidentali si rendono conto della vera natura della segregazione razziale nel profondo Sud del paese67. Non meno importante è il ruolo che una parte delle trasmissioni TV e delle testate giornalistiche svolgono nel caso della guerra in Vietnam. Al momento dell’intervento il governo americano decide di non imporre alcuna forma di censura, sia perché non c’è stata una formale dichiarazione di guerra, e quindi non ci sono gli estremi giuridici per attivare controlli censori, sia perché tale misura sembra difforme dagli obiettivi della guerra (la difesa della libertà e della democrazia). Di conseguenza immagini filmate delle crudezze della guerra passano abbastanza facilmente nei servizi televisivi. Per questo opinion makers favorevoli alla guerra, membri dello Stato maggiore Usa e politici di primo piano, come i presidenti Johnson e Nixon, affermano che la guerra rischia di essere persa a causa dei media che allontanano l’opinione pubblica dalle ragioni del conflitto. In realtà le cose non stanno così. Inizialmente gran parte dell’opinione pubblica e dei media è a favore della guerra: ma il numero crescente di soldati americani caduti e l’esito incerto del conflitto introducono dubbi in larghe sezioni dell’opinione pubblica. Certo, questa incertezza sulla vera natura della guerra è

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poi effettivamente potenziata dalla documentazione giornalistica delle violenze compiute dalle truppe statunitensi in Vietnam. Tra gli altri casi, particolarmente importante è la documentazione della strage di My Lai: il 16 marzo 1968 i soldati statunitensi della Compagnia Charlie, 11a Brigata di Fanteria Leggera, agli ordini del tenente William Calley, uccidono 347 civili – vecchi, donne, bambini e neonati – del villaggio vietnamita di My Lai, 840 chilometri a nord di Saigon. Alcune donne del villaggio sono anche pesantemente brutalizzate. Notizie della strage arrivano alle autorità militari e ad alcuni parlamentari, che ricevono lettere e testimonianze dei soldati che hanno visto gli effetti della strage. Seymour Hersh, un giornalista indipendente, raccoglie le informazioni sul caso e il 12 novembre 1969 rende pubblica la vicenda con un lancio della agenzia Associated Press; dopodiché la notizia è ripresa da «Time», «Life» e «Newsweek», mentre la Cbs manda in onda un’intervista a un soldato che ha partecipato al massacro. Il 20 novembre 1969, «The Plain Dealer», quotidiano di Cleveland, pubblica un servizio sul massacro con un’impressionante foto sparata in prima pagina, intitolata A Clump of Bodies on a Road in South Vietnam (Un mucchio di cadaveri su una strada del Vietnam del Sud). Grazie all’inchiesta sul massacro di My Lai, nel 1970 Seymour Hersh vince il premio Pulitzer. Nel 1971, poi, il «New York Times» pubblica i Pentagon Papers, ovvero una fitta raccolta di documenti prodotti dal Dipartimento della Difesa Usa, che illustrano – anche nei loro aspetti più brutali – le strategie seguite dai governi statunitensi in Vietnam negli anni che vanno dal 1945 al 196868. Mentre la guerra in Vietnam è ancora in corso scoppia anche lo scandalo Watergate, che nasce da un’operazione di spionaggio politico illegale messa in atto dal presidente Nixon a danno del Partito democratico. La vicenda diventa di pubblico dominio dopo l’uscita dei brillanti servizi giornalistici scritti da Bob Wood­ward e Carl Bernstein, pubblicati nel 1972 sul «Washing­ ton Post»; le notizie diffuse da questo giornale sono subito riprese da altri organi di stampa ed emittenti televisive, il che pone le

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premesse per la crisi dell’amministrazione Nixon, e per le sue dimissioni da presidente, formalizzate il 9 agosto del 197469. Al di là di questi aspetti, pur importanti, va osservato che in questi anni anche la programmazione TV per l’intrattenimento sembra aprirsi alle nuove sensibilità. Come si è detto, nei palinsesti delle emittenti televisive statunitensi (come anche di quelle britanniche) sin dalla fine degli anni Cinquanta vengono inclusi programmi destinati esplicitamente a un pubblico di giovani ascoltatori e ascoltatrici, con una programmazione di musica prevalentemente pop, ma in qualche caso aperta anche a generi più impegnativi, come il R&B, il soul o il rock. Tuttavia il pubblico televisivo è mediamente piuttosto anziano. Se ne rende chiaramente conto Bob Wood, dal 1969 responsabile dei programmi di intrattenimento alla Cbs. Wood non ne fa un problema culturale, ma economico. Per un’emittente privata non è soltanto importante quanti sono gli spettatori, ma quanto possono spendere; e il pubblico giovane, da questo punto di vista, a Wood sembra di gran lunga il più promettente. La strategia che mette in atto, dunque, è quella di dividere virtualmente la massa indistinta del pubblico in gruppi di età, associando ogni gruppo di età alla fascia oraria in cui è più probabile che sieda davanti alla TV. L’operazione vuole identificare il punto più adatto del palinsesto nel quale piazzare trasmissioni innovative, capaci di attirare sia, in modo generico, le più giovani generazioni, sia coloro che – tra i giovani – sono più sensibili al nuovo clima culturale. Per ottenere questo risultato Wood e il presidente della Cbs, William Paley, decidono di collaborare con società di produzione indipendenti, come la Tandem di Norman Lear o la Mtm Productions di Grant Tinker, e con l’autore di sitcom Larry Gelbart, che sembrano in grado di elaborare proposte capaci di rinnovare significativamente la programmazione. Ne vengono fuori soprattutto tre programmi particolarmente innovativi. Il primo – The Mary Tyler Moore Show (1970-1977) – è prodotto dalla Mtm, ed è una commedia centrata sul personaggio di una single trentenne che cerca di farsi strada in una stazione televisiva minore di Minneapolis, e cioè in un mondo completamente domi-

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nato dagli uomini. Il secondo è All in the Family, realizzato dalla Tandem e lanciato con grande successo nel gennaio del 197170; si tratta di una sitcom derivata da Till Death Us Do Part, una serie britannica trasmessa dalla Bbc dal 1965 al 1975, che ruota intorno al personaggio di Archie – una specie di redneck urbano, bonaccione ma pieno di pregiudizi e risolutamente conservatore –, contrastato da Michael, che è il genero, un sociologo ex hippie di origini polacche, dalla figlia Gloria, che abbraccia posizioni femministe, e dalla moglie Edith. Nel 1972, infine, viene lanciata M*A*S*H, una serie scritta da Larry Gelbart che dura fino al 1983: basata sul film di Altman, uscito nelle sale nel 1970, la serie è ambientata in un ospedale militare durante la guerra di Corea, ed è caratterizzata da vicende comiche che coinvolgono il personale sanitario e i soldati della base, animate da una moderata satira antimilitarista. In una forma comica, dunque, questi programmi accolgono almeno alcuni frammenti dei sistemi narrativi ed etici della costellazione controculturale: in queste trasmissioni compaiono degli afroamericani; si affronta il tema del ruolo delle donne, dell’aborto, della sessualità; si allude, sebbene in forma un po’ obliqua, ai disastri affettivi e fisici prodotti dalla guerra. Dopodiché, il modello offerto dai tre show Cbs viene ripetuto da numerose copie lanciate da network concorrenti, o anche da spin off derivanti dagli stessi programmi-matrice71. Inoltre, accanto a queste trasmissioni, di tono più leggero, entrano in programmazione anche film per la televisione che affrontano questioni più complesse; tra questi, Roots (Radici, una miniserie in 8 puntate, tratta dal romanzo omonimo di Alex Haley, trasmessa nel 1977 dalla Abc) e Holocaust (Olocausto, una miniserie in 4 puntate trasmessa dalla Nbc nel 1978) pongono gli spettatori televisivi direttamente di fronte al tema del razzismo più violento (contro i neri; contro gli ebrei) come non era mai successo prima in televisione72. Naturalmente sarebbe un errore pensare che tutta la programmazione televisiva sia connotata da trasmissioni di questo tipo: e tuttavia è chiaro che i tempi stanno cambiando anche all’interno del mezzo di comunicazione di

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massa che ha manifestato sin dall’inizio la massima resistenza ad accettare novità culturali e sociali. 5. Un sistema alternativo L’insieme di queste produzioni, legate da nessi testuali talora più tenui (programmazioni TV), talaltra ben più solidi e diretti (Hollywood Renaissance, Off-Broadway, pop art, avanguardie artistiche), disegna una entertainment culture alternativa che, coinvolgendo una varietà di spazi e di media, oltre a quelli specializzati nella comunicazione musicale, trasforma la connotazione giovanile che è propria del rock in una più complessiva proposta trans­generazionale, che coinvolge persone che appartengono anche a un pubblico più adulto. Inoltre, similmente a ciò che accade per la cultura di massa mainstream, anche questa costellazione alternativa sviluppa una rete di relazioni intermediali che forse non è così potente e strutturata come quella mainstream, ma che nondimeno ha egualmente una sua notevole irradiazione. In primo luogo, gran parte dei film più significativi della Holly­ wood Renaissance derivano da un romanzo o da un copione teatrale (Horace McCoy, They Shoot Horses, Don’t They?, 1935; Edmund Naughton, McCabe, 1959; Anthony Burgess, A Clockwork Orange, 1962; Charles Webb, The Graduate, 1963; Pierre Boulle, La Planète des Singes [Il pianeta delle scimmie], 1963; Thomas Berger, Little Big Man, 1964; James Leo Herlihy, Midnight Cowboy, 1965; Ira Levin, Rosemary’s Baby, 1967; Richard Hooker, MASH: A Novel About Three Army Doctors, 1968; Arthur Kopit, Indians – servito come base per la sceneggiatura di Buffalo Bill and the Indians, 1968; James Simon Kunen, The Strawberry Statement, 1969). In secondo luogo, i nessi sono talora anche più articolati di così. Si passa, per esempio, da un concept album pubblicato originariamente come LP in vinile alla trasposizione cinematografica o tea­ trale della storia che vi è narrata (o viceversa): è ciò che accade, per esempio, con Jesus Christ Superstar, originale rilettura delle

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ultime settimane di Cristo, con testi e musiche scritti da ­Andrew Lloyd Webber e Tim Rice, affidata inizialmente a un disco singolo e poi a un doppio LP; il singolo viene lanciato nel 1969, e contiene il brano Superstar sul lato A, e lo strumentale John Nineteen ­Forty-One sul lato B; poi, nel 1970, la Decca pubblica il doppio album, eseguito da un gruppo di musicisti che comprende anche Ian Gillan, vocalist dei Deep Purple. L’LP riscuote un notevole successo internazionale, tanto che ne viene tratto un musical che esordisce a Broadway il 12 ottobre 1971 con la regia di Tom O’Horgan, lo stesso regista di Hair; Jcs, nella sua forma di musical, resta in cartellone fino al 30 giugno 1973, con 711 repliche; appena un mese e mezzo più tardi, il 15 agosto 1973, viene lanciato nelle sale cinematografiche anche il film omonimo, diretto da Norman Jewison e distribuito da Universal Pictures: e anche questo spin off viene accolto dal pubblico con grande favore. Un percorso appena leggermente difforme è quello tracciato dal concept album Tommy, storia in musica di un’infanzia e di un’adolescenza disturbate, pubblicato dagli Who nel 1969, anche questo come doppio LP. Nel 1970 la compagnia di ballo Les Grands Ballets Canadiens di Montréal ne ricava un adattamento, che nel 1971 viene messo in scena anche a New York. Nello stesso 1971 la Seattle Opera ne cura la prima messa in scena come musical teatrale per il Moore Theatre di Seattle. Nel 1972 l’opera viene re-incisa dalla London Symphony Orchestra, con la partecipazione non solo di Roger Daltrey e Pete Townshend (rispettivamente cantante e chitarrista degli Who), ma anche di altri musicisti rock come Rod Stewart, Ringo Starr, Steve Winwood e Sandy Denny. Infine, nel 1975, la Columbia Pictures distribuisce il film, diretto da Ken Russell, nel quale recitano, oltre ai quattro membri degli Who (Townshend, Daltrey, John Entwistle, Keith Moon), anche Ann-Margret, Oliver Reed, Elton John, Eric Clapton, Jack Nicholson e Tina Turner: e anche questo film riscuote un grande successo. Con un passaggio in meno anche The Wall nel 1982, come già detto, si trasforma in un film – Pink Floyd - The Wall – diretto da Alan Parker e prodotto dalla Mgm. Traiettorie simili, infine,

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sono attraversate, come abbiamo visto, anche da Hair (musical – LP – film) e da Rocky Horror Show (medesimo percorso), mentre innumerevoli sono i film della Hollywood Renaissance che incorporano musiche di gruppi rock, talora con una funzione di commento diretto alla trama (come per esempio in Easy Rider o in Zabriskie Point), più che come generico completamento sonoro delle vicende filmate73. Al di là di questi aspetti, occorre ancora ricordare che l’intero complesso della controcultura che ha il rock nel suo nucleo più profondo incoraggia le comunità interpretative più curiose ad ampliare il loro orizzonte culturale in direzione di produzioni letterarie o musicali più complesse e articolate. La visione drammatica delle storie, la predilezione per le figure degli antieroi, il tema del viaggio come fuga disperante, l’esplorazione del corpo e della sessualità aprono un dialogo possibile con opere letterarie più complesse e che tuttavia hanno un impianto paragonabile – da Portnoy’s Complaint (Lamento di Portnoy, 1969) di Philip Roth a Slaughterhouse-Five, or The Children’s Crusade: A Duty-Dance with Death (Mattatoio n° 5 o La crociata dei Bambini, 1969) di Kurt Vonnegut, a Catcher in the Rye di Salinger, a The Sheltering Sky (Il tè nel deserto, 1949) di Paul Bowles, a Tropic of Cancer di Henry Miller, all’intera produzione della Lost Generation, e poi ancora oltre, verso i classici della letteratura contemporanea. Lo stesso vale per impegnative opere di riflessione filosofica: in un suo saggio uscito in parte nel 1968, e poi integralmente nel 1969, Theodore Roszak osserva persuasivamente il sostegno teo­rico che opere recenti di Herbert Marcuse (Eros and Civilization [Eros e civiltà], 1955; One-Dimensional Man [L’uomo a una dimensione], 1964) o di Norman Brown (Life Against Death: The Psychoanalytical Meaning of History [La vita contro la morte], 1959) offrono al variegato universo controculturale74. Lo stesso, infine, vale anche per la musica: ascoltatori che si imbattono in Pictures at an Exhibition, album del gruppo prog Emerson, Lake & Palmer (1971), possono sentirsi indotti ad ascoltare l’originale versione per piano di Modest Petrovič Musorgskij, o la ver-

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sione orchestrale curata da Maurice Ravel; oppure, chi ascolti la musica del gruppo prog britannico Curved Air, può sentirsi incoraggiato a cercare di ascoltare anche il lavoro fondativo del compositore minimalista Terry Riley, A Rainbow in Curved Air (1969), a cui il nome del gruppo si ispira; e così via, in una quantità di nessi aperti alla curiosità dei singoli ascoltatori o ascoltatrici, sollecitati dalla struttura compositiva, narrativa ed etica delle produzioni che appartengono all’area della controcultura di massa, che – da questo punto di vista – appare molto di più che una semplice cultura per l’intrattenimento; e che se, in una certa misura può anche divertire chi l’apprezza, non lo fa incoraggiandolo a «voltare il viso dall’altra parte». Anzi, la suggestione che promana da questa costellazione culturale è quella stessa formulata originariamente da Bob Dylan in una delle sue prime canzoni: «io non posso pensare per voi / solo voi dovete decidere». Nella maggior parte dei casi le opere della controcultura di massa non pensano per il pubblico; non hanno rigide coordinate ideologiche; né stabili affiliazioni partitiche; non hanno ricette facili da offrire; e semmai al contrario invitano il pubblico a riflettere con la propria testa. Un gesto che sembra lontanissimo dall’invito a entrare in Wonderland, il paese incantato del divertimento e della rassicurazione, edificato sin dagli anni Trenta dalla cultura di massa mainstream.

Conclusioni Back to the Future

Della costellazione controculturale che si forma nel corso degli anni Sessanta si possono avere opinioni molto varie. Vi è chi l’ha considerata (e continua a considerarla) come la causa possibile o effettiva di una minacciosa decadenza morale e culturale dell’Occidente; chi l’ha considerata come la premessa di un nuovo cieco individualismo che si sarebbe imposto a partire dagli anni Settanta («The Me Decade»)1; e chi l’ha vista (e continua a vederla) sotto una luce diversa e positiva, come un raro esempio di cultura di massa «intelligente», nel senso di dotata di notevoli qualità intrinseche e positivamente aperta ai contatti con i più diversi aspetti della cultura alta. Ciascuna di queste valutazioni è troppo netta, e in definitiva insoddisfacente. E soprattutto, non così rilevante dal nostro punto di vista. Ciò che nel quadro di una storia della società contemporanea dovrebbe invece interessarci di più, è il particolare timing della controcultura di massa. Formatasi nel corso degli anni Sessanta, quella articolata costellazione acquista rapidamente una sua complessità intertestuale e intermediale che poi, nel corso degli anni Settanta-Ottanta, si disintegra, lasciando ai decenni seguenti frammenti di controculture che circolano in un variegato spazio mediatico. A fronte della breve durata della costellazione controculturale sta invece la tenace permanenza della cultura di massa mainstream, la quale, pur conservando i caratteri strutturali che abbiamo descritto all’inizio di questo percorso, si è tuttavia rinnovata sia dal punto

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di vista organizzativo, sia da quello mediatico e narrativo. Quali le ragioni di questi due diversi tracciati? Una questione importante riguarda l’evoluzione dei gusti e della composizione del pubblico. Lo spazio occupato dalla rete delle comunità interpretative che – negli anni Sessanta – mostrano di essere sensibili a forme di intrattenimento che non sia­no connotate solo da materiali «divertenti» (nel doppio senso adorniano della parola) comincia a contrarsi man mano che i diversi movimenti radicali vanno incontro alla loro disfatta politica. La cosa ha certamente a che fare con la radicalizzazione dei movimenti alternativi, molto diversi tra loro, che negli Usa e in Europa, tra la fine degli anni Sessanta e l’inizio degli anni Settanta, scelgono di ricorrere alla violenza come strumento per combattere «il sistema». Non importa che i movimenti possano essere molto diversi, animati da orizzonti ideologici confusi, ovvero cristallinamente fedeli a un’ortodossia marxista-leninista, maoista o terzomondista: sta di fatto che una per una (da Black Panther Party a Weather Underground, negli Usa, e poi più tardi anche ai gruppi ideologicamente od operativamente rivoluzionari, in Germania o in Italia) tutte le iniziative che immaginano azioni terroristiche o violente come modi per appiccare l’incendio rivoluzionario vengono impietosamente represse dagli apparati militari e polizieschi dei singoli Stati. Che le forze di polizia statunitensi, incoraggiate da esponenti politici come Ronald Reagan o Richard Nixon, compiano atti di inusitata (e talora sinceramente ingiustificata) violenza non toglie niente al fatto che, alla metà degli anni Settanta, di movimenti radicali negli Usa non resti praticamente più niente. Lo stesso si dica per i casi europei più esposti all’azione di formazioni politiche radicalizzate; sebbene con una cronologia più lenta, anche lì (in Germania e in Italia in particolare), tra la fine degli anni Settanta e l’inizio degli anni Ottanta, quei gruppi scompaiono del tutto. Altre esperienze implodono per l’autonomo fallimento delle ipotesi immaginate: le comuni hippie non reggono negli Usa così come in Europa, sconfitte dalle tensioni

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organizzative interne e dall’impraticabilità economica e sociale della vita comunitaria. Con ciò, restano ampie comunità interpretative che non hanno necessariamente né militato con i gruppi politici radicali, né tentato la via dell’alternativa hippie, e che nonostante ciò hanno apprezzato e sostenuto la costellazione controculturale. Su queste aree hanno un impatto molto forte gli effetti della devastante crisi economica che si abbatte sull’Occidente con la decisione presa dai paesi dell’Opec di alzare bruscamente i prezzi del petrolio (1973). La stagflazione che ne deriva mette in ginocchio le economie dell’Occidente, mettendo a repentaglio risparmi, progetti di vita, possibilità di lavoro di molti milioni di persone nell’area occidentale transatlantica. Il trauma è particolarmente forte per i baby boomers: giovani (o ex giovani) vissuti in un mondo dell’abbondanza si ritrovano quasi dall’oggi al domani a dover fare i conti con un contesto economico diventato improvvisamente minaccioso e sfavorevole. In un ambiente così mutato, molti iniziano a non aver più un così gran desiderio di immergersi in narrazioni tragiche, in storie di antieroi, in vicende sistematicamente prive di happy ending, riorientandosi così verso altre scelte: mutare completamente i gusti e abbracciare nuovamente le produzioni mainstream; oppure oscillare tra le une e le altre. Dall’altro lato, occorre considerare che, anche nel momento di maggior successo della controcultura alternativa, una parte cospicua del pubblico statunitense ed europeo ha continuato tenacemente a prediligere produzioni mainstream. E così, basta scorrere le classifiche delle musiche, dei film, delle produzioni teatrali, per rendersi conto che altre proposte hanno un successo pari, o talora anche maggiore, rispetto a quello riscosso dalle musiche di Jimi Hendrix, da Hair o da Bonnie and Clyde. Nel 1966 The Ballad of the Green Berets, una canzone patriottica cantata da Barry Sadler, un militare americano, si piazza al primo posto delle classifiche statunitensi, raggiungendo buoni risultati anche in altri paesi europei. Nel 1968 la Warner Bros. lancia The Green Berets (Berretti verdi), un’epica patriottica ambientata nel Vietnam,

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sceneggiata, diretta e recitata da John Wayne: e anche questo film ottiene un positivo riscontro al box office. Straordinario, poi, nel 1965, il successo del film The Sound of Music i cui incassi, nell’immediato e sul lungo periodo, polverizzano quelli ottenuti da tutti i film della Hollywood Renaissance2. La colonna sonora del film (1965), dal canto suo, resta nella Top Ten britannica ininterrottamente per cinque anni: «Con più di diciassette milioni di copie vendute in tutto il mondo dal 1965 al 1975, The Sound of Music sbaragliava facilmente Abbey Road, l’album di maggior successo dei Beatles, che aveva venduto nove milioni di copie»3. Questa particolare geografia del pubblico spiega un processo di fondamentale importanza nella destrutturazione della costellazione controculturale, ovvero la chiusura completa della breve stagione della Hollywood Renaissance, che ha luogo dalla metà degli anni Settanta in avanti. All’epoca, i manager delle case di produzione cinematografica scelgono di puntare di nuovo sull’intrattenimento puro, anche in ragione del maggior impatto che film con una struttura classica sembrano esercitare nuovamente sul pubblico, complice il desiderio di trovare un sollievo alle angustie della crisi economica: i film d’azione, di fantascienza e fantasy, insieme alle commedie romantiche e ai cartoni animati, dominano nuovamente il campo. The Towering Inferno (L’inferno di cristallo, John Guillermin, 1974); Jaws (Lo squalo, Steven Spielberg, 1975); Star Wars (Guerre stellari, George Lucas, 1977) aprono la strada; poi segue una infinita scia di successi che rispettano rigorosamente le regole della narrativa cinematografica classica: lieto fine, messaggi rassicuranti, eroi muscolosi o intelligenti che salvano la comunità, amori contrastati che vanno a buon fine4. Tra i blockbuster fantascientifici vanno ricordati almeno Close Encounters of the Third Kind (Incontri ravvicinati del terzo tipo, Steven Spielberg, 1977), Superman (Richard Donner, 1978), Star Trek: The Motion Picture (Star Trek, Robert Wise, 1979), The Empire Strikes Back (L’Impero colpisce ancora, Irvin Kershner, 1980), E.T. the Extra-Terrestrial (E.T. l’extra-terrestre, Steven Spielberg, 1982), Return of the Jedi (Il ritorno dello Jedi,

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Richard Marquand, 1983) e Back to the Future I-III (Ritorno al futuro I-III, Robert Zemeckis, 1985-1990). Tra i numerosissimi film d’azione spiccano quelli che hanno come protagonisti Arnold Schwarzenegger e Sylvester Stallone. Tra le commedie: Saturday Night Fever (La febbre del sabato sera, John Badham, 1977); Fame (Saranno famosi, Alan Parker, 1980); Beverly Hills Cop (Martin Brest, 1984); Ghostbusters (Ghostbusters - Acchiappafantasmi, Ivan Reitman, 1984); Dirty Dancing (Emile Ardolino, 1987). E poi, ancora, e in generale, negli anni Novanta e all’inizio del nuovo secolo: Jurassic Park (Steven Spielberg, 1993 – con tre sequel, 1997-2015); The Lion King (Il re leone, Roger Allers e Rob Minkoff, 1994)5; Independence Day (Roland Emmerich, 1996); Pearl Harbor (Michael Bay, 2001); Harry Potter (otto film, vari registi, 2001-2011); The Lord of the Rings (Il signore degli anelli: tre film, Peter Jackson, 2001-2003); Spider Man (cinque film, tre diretti da Sam Raimi e due da Marc Webb, 2002-2014); Pirates of the Caribbean (Pirati dei Caraibi: quattro film, vari registi, 20032011); The Da Vinci Code (Il codice da Vinci, Ron Howard, 2006 – con due sequel, 2009-2016). E il trend non si è ancora interrotto. Molti di questi film sono costosissimi, sia per la produzione in sé, sia per la promozione e il marketing: e le case di produzione accettano di rischiare somme colossali perché si trovano al centro di un processo di ristrutturazione proprietaria, che prende forma integrale dagli anni Ottanta, quando le politiche neoliberiste della Thatcher nel Regno Unito, di Reagan negli Usa, e poi di molti altri governi nel mondo, tolgono i residui ostacoli ai processi di concentrazione6. Diversamente da ciò che era successo negli anni Sessanta e Settanta, quando i processi di concentrazione, che pure non si erano fermati, avevano visto la costruzione di megacorporations eteroclite, che raccoglievano sotto un’unica cupola proprietaria aziende dei più disparati settori (tra cui anche società attive nel campo dei media), i processi che si delineano dai primi anni Ottanta in avanti si connotano per due caratteristiche: la razionalizzazione (nel campo mediatico si creano megacorps merceologicamente omogenee) e il gigantismo (le dimensioni delle corporations diventano assolutamente spropositate)7.

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Queste nuove formazioni proprietarie possiedono simultanea­ mente case di produzione cinematografica, emittenti TV di vario tipo, giornali, radio e anche diversi dei sistemi comunicativi sviluppatisi con i nuovi media che sono nati tra la fine del XX e l’inizio del XXI secolo. La maggior parte delle più potenti megacorps ha sede negli Usa; ma ve ne sono altre che hanno collocazioni nazionali specifiche; e altre ancora che hanno un impianto multinazionale, cioè possiedono mezzi di comunicazione situati nelle più svariate parti del mondo. Tra le più importanti megacorps vi sono: Comcast Corporation, che è il più grande operatore Usa nel settore della TV via cavo e possiede anche Nbc Universal, azienda nata dalla fusione tra un network televisivo (Nbc) e una casa di produzione cinematografica (Universal); Microsoft, società fondata negli anni Settanta da Bill Gates (nato nel 1955), che si è imposta come l’azienda dominante nel campo dei software per computer, producendo varie versioni del sistema operativo Windows: attiva anche nel settore dei videogiochi, con la produzione della piattaforma X-Box, nel 2007 ha acquistato quote di Facebook e nel 2011 ha acquisito Skype, sistema di collegamento via computer; Time Warner, nata nel 1990 dalla fusione tra Time Inc., proprietaria del giornale omonimo e di altre importanti testate giornalistiche e televisive (tra cui la Cnn), e la Warner, storica casa di produzione cinematografica; News Corporation di Rupert Murdoch (nato nel 1931): nel 1954 Murdoch eredita dal padre un giornale australiano, l’«Adelaide News»; da lì ha iniziato la sua ascesa nella carta stampata, prima australiana, poi britannica, poi statunitense; poi entra nel campo delle emittenti televisive americane; nel 1985 acquisisce il 50% delle azioni della 20th Century Fox e lancia la Fox Broadcasting News; nel 1989 lancia nel Regno Unito Sky Television; nel 1996 nasce Fox News, canale di informazioni h24; acquista emittenti in Asia e in Turchia; nel 2005 acquisisce Intermix Media, società attiva in internet, che controlla MySpace; nel 2007 acquisisce Dow Jones & Company, proprietaria del «Wall Street Journal»; nel 2013 Murdoch ha diviso il suo impero in due megacorps distinte: 21st Century Fox, che possiede il Fox Entertainment Group, a cui fanno capo la casa di produzione cinema-

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tografica 20th Century Fox e la Fox Television, che a sua volta controlla Star TV (una pay-tv asiatica) e Sky plc; e News Corp, che si occupa di giornali ed editoria. Gli esempi potrebbero continuare. Ricorderemo ancora, per le dimensioni e la molteplicità degli interessi, la Walt Disney Corp., la Sony (prodotti elettronici e media/intrattenimento, con sede in Giappone), la Vivendi (francese), la Thomson Corporation (canadese) e altre ancora. L’impero mediatico di Silvio Berlusconi, che ha un irradiamento prevalentemente nazionale, ha tuttavia una struttura paragonabile alle megacorps che si muovono su spazi internazionali, come la News Corporation di Rupert Murdoch. Giacché le case di produzione cinematografica sono state progressivamente inglobate dentro questi colossi mediatici, hanno potuto disporre di un’ampia rete di protezione che le ha sorrette e che ha consentito loro di lanciarsi verso film che chiedono finanziamenti ingenti8: I costi di produzione delle majors balzano da cifre inferiori ai 10 milioni di dollari che si spendono in media per un film nei primi anni Settanta agli oltre 40 milioni dei tardi anni Novanta e ai 106 del 2007. La «conglomerazione» ha fornito una chiara logica finanziaria a sostegno di questi investimenti. Nel peggiore dei casi, le perdite al botteghino vengono compensate dai proventi della vendita di video, Dvd, diritti televisivi e da altre operazioni collaterali portate avanti dalla società madre. Nella migliore delle ipotesi, una pellicola baciata dal successo porta profitti smisurati, generati non solo dal film, nelle sue varie forme di commercializzazione – il cinema, i video/Dvd, la pay-TV, la messa in onda sui network – ma anche dal product placement, la pubblicità occulta, che a partire dai primi anni Ottanta ha acquisito sempre più importanza, e dagli accordi di «promozione incrociata». Queste pellicole non vengono promosse da sole ma fanno parte di un pacchetto di marketing che include pupazzetti ispirati ai personaggi del film, giochi, libri, oggetti di cancelleria, capi d’abbigliamento, dischi con le colonne sonore, e menu speciali proposti dai fast food. La strategia del blockbuster punta in modo particolare a due fasce della popolazione, considerate quelle che vanno più di frequente al cinema: i giovani dai 10 ai 24 anni e le «famiglie» (bambini, genitori, nonni)9.

Ciò che non si deve perdere di vista, inoltre, è che la strategia delle megacorps rilancia modalità di intrattenimento che ripro-

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pongono in blocco le strutture narrative proprie della cultura di massa mainstream sin dagli anni Trenta. Il pubblico le apprezza anche perché la programmazione dei canali TV, anch’essi inclusi nelle megacorps mediatiche, si allontana rapidamente dalle timide aperture a temi nuovi che caratterizzano l’inizio degli anni Settanta, per tornare ai format e alle narrazioni classiche (si pensi al passaggio da una sitcom relativamente innovativa come All in the Family, 1971-1979, a una sitcom neoconformista come Happy Days, 1974-1984)10. Sia al cinema che alla TV le storie tendono a farsi standardizzate; le differenze tra l’una e l’altra sono minime e non mettono in discussione la morfologia narrativa complessiva; il dovere assoluto del lieto fine o della «positività morale» dei protagonisti trasmette un messaggio rassicurante; e agli spettatori il sistema chiede solo che si divertano, cioè, alla lettera, che voltino la testa e smettano di guardare i problemi che li circondano per sognare a occhi aperti, come bambini dentro un grande parco giochi virtuale; dopodiché, se lo desiderano, possono anche andare a divertirsi davvero nel parco a tema preferito, Disneyland o quant’altro11. Dentro la struttura delle megacorps, anche i sistemi informativi della stampa e della TV cambiano caratteristiche. Da un lato subiscono pesantemente il riallineamento dei media compiuto nel corso delle esperienze di guerra successive al Vietnam, quando i giornalisti vengono selezionati dalle autorità militari e controllati in forme dirette e indirette12. Inoltre, e in termini più generali, i media controllati dalle megacorps tendono a modellare le notizie sulla base degli interessi economici e politici dei gruppi di direzione. Tendono inoltre a costruirle in un modo che è molto condizionato dalle modalità di raccolta delle notizie13. I media hanno bisogno di fonti sicure che offrano informazioni a flusso continuo. Per questo i giornalisti si concentrano soprattutto nei pressi dei luoghi del potere (negli Usa a Washington, alla Casa Bianca, al Pentagono e al Dipartimento di Stato). Localmente le notizie vengono invece dall’amministrazione cittadina o dalle stazioni centrali di polizia. Le fonti ufficiali hanno il van-

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taggio di apparire credibili e di avere una legittimazione formale che mette al riparo da querele nel caso di inesattezze. Per comunicare meglio con i media, ogni struttura statale possiede da tempo imponenti servizi informativi che funzionano da agenzie di stampa semiufficiali. Una paragonabile potenza mediatica è messa in campo dagli uffici stampa delle più grandi aziende. In tal modo, poggiando su queste fonti di informazione, molti giornali stampati, o molti servizi di TV-news, con poche eccezioni, tendono a replicare gli orientamenti dominanti nei centri del potere, invece di sorvegliarli e criticarli incessantemente. Inoltre, per quanto grandi e potenti siano le megacorps mediatiche, hanno una caratteristica che già in origine apparteneva al mondo dei media: le loro attività informative e di intrattenimento televisivo dipendono dalle inserzioni pubblicitarie che continuano a essere decisive nei bilanci dei mezzi di comunicazione di massa. E dunque i programmi trasmessi devono essere attraenti per il pubblico, altrimenti non riescono ad attirare le inserzioni pubblicitarie. Questa caratteristica non è priva di implicazioni; come hanno osservato Noam Chomsky ed Edward S. Herman, gli inserzionisti non vogliono che i prodotti pubblicizzati siano associati a programmi TV che suscitino sentimenti critici nei confronti del mercato e del consumo; né vogliono che siano associati a programmi di intrattenimento che risultino problematici o troppo innovativi per i gusti degli spettatori (o per ciò che i programmisti TV ritengono siano i gusti degli spettatori): e così preferiscono piazzare le pubblicità televisive a ridosso di innocui programmi di intrattenimento (dai quiz a premi ai telefilm, agli eventi sportivi, alle commedie romantiche, agli action movies), condizionando in tal modo la programmazione dei palinsesti14. Nel processo di concentrazione sono naturalmente coinvolte anche le case discografiche15, che – similmente a ciò che fanno le majors cinematografiche – sin dagli anni Settanta puntano nuovamente investimenti produttivi e promozionali in direzione della musica pop, rinnovata nelle sue strutture musicali grazie all’impiego di forme ritmiche, strumentazione e modalità di

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canto che in origine sono state sperimentate dal rock. Enorme rilevanza, in questo processo, ha anche la nascita di Mtv (1° agosto 1981), lanciata originariamente dalla Warner Communications e poi acquisita nel 1985 da Viacom, che trasforma i videoclip in un genere video che da allora in avanti colonizza permanentemente l’immaginario collettivo16. Se inizialmente Mtv fa spazio anche a costruzioni video piuttosto sofisticate e complesse (la clip per Thriller, di Michael Jackson, diretta da John Landis, dura quasi quattordici minuti e nonostante ciò è trasmessa da Mtv nel dicembre del 1983), col passare del tempo lo spazio video diventa piuttosto costrittivo: le clip devono rispettare i tempi della rotation e accompagnano o illustrano brani che hanno la durata standard di una canzone pop (dai tre ai cinque minuti). Costrette in slot temporali così limitativi, le canzoni pop continuano a rispondere alle forme essenziali identificate ormai molti anni fa da Adorno: e tali caratteristiche conservano ancora all’inizio del nuovo millennio (struttura standardizzata; differenze di dettaglio molto enfatizzate per valorizzare il nuovo «prodotto»; centralità del marketing e della promozione)17. Nel campo tanto del cinema, che della TV o della pop music, le megacorps non si limitano a restaurare, ma adottano un’intelligente strategia di restyling. Da un lato, all’interno delle storie cinematografiche o televisive, sono regolarmente incorporate figure che – in origine – erano invece escluse come inaccettabili: le presenze omosessuali (più maschili che femminili) si moltiplicano, talora nella forma di personaggi un po’ buffi e marginali, talaltra, invece, in una declinazione più risolta e complessa; afroamericani o altre minoranze etniche hanno spazi da protagonisti sia nelle narrazioni cinematografiche che nei format televisivi (sitcom e soap, spazio specifico in cui, a partire dagli anni Ottanta, debordano le telenovelas brasiliane); le presenze femminili si fanno articolate, complesse, certo non più condannate entro lo spazio normativo della domesticità, e tuttavia modellate sull’etica del successo, nella professione o nell’azione eroica: si va in tal modo da narrazioni che raccontano della realizzazione profes-

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sionale femminile (Working Girl [Una donna in carriera], di Mike Nichols, 1988, con Melanie Griffith) al variegato protagonismo femminile negli action movies anche più estremi, da Resident Evil (Paul W.S. Anderson, 2002, con Milla Jovovich – quattro sequel dal 2004 al 2012) a Hunger Games (Gary Ross, 2012, con Jennifer Lawrence – tre ulteriori sequel, 2013-2015). Al tempo stesso, l’invasivo ritorno dei supereroi, soprattutto all’inizio del XXI secolo, presenta personaggi che pongono l’accento su un tratto strutturale originario di queste figure, ovvero il loro essere personalità complesse, per un certo verso persino sofferenti: orfani, con un’infanzia difficile, socialmente disadattati sin dall’origine, o diventati tali dopo aver ottenuto i superpoteri. In tal modo le storie acquistano risonanze e implicazioni leggermente meno banali di quanto talora non fossero negli originari comic books o nelle prime versioni filmiche. Con tutto ciò, e pur tenendo conto di queste nuove sfumature, ciò che non cambia affatto è l’impianto strutturale delle storie narrate. Torna sistematicamente la vicenda della minaccia portata a una tranquilla comunità; e dell’eroe, o dell’eroina, o del team eroico, che intervengono a sventare la minaccia e a restaurare l’armonia; debordano le commedie romantiche, in tutte le loro possibili variazioni, ma con il lieto fine assolutamente incorporato; innumerevoli gli action movies in cui i protagonisti – alla fine di rocambolesche imprese – riescono a portare a termine felicemente la missione, anche quando si tratti di una Mission: Impossible (due serie TV, 1966-1973 e 1988-1990; e cinque film in sequenza, dal 1996 al 2015). La resa visuale sempre più maestosa ed efficace chiede agli spettatori la regressione psicologica necessaria per entrare dentro l’universo di storie talmente stereotipate da non lasciare spazio a nessuna aspettativa che non sia la più ovvia e scontata. Oltre a ciò, soprattutto nei palinsesti televisivi – generalisti e a pagamento – si stanno imponendo format che sviluppano, articolano ed espandono il modello originario dei quiz televisivi, costruendo un reticolo di trasmissioni che celebrano una sorta di permanente «culto della performance»18. L’idea che ogni esperienza umana, ogni attività professionale, ogni forma del sape-

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re possa essere tradotta in una competizione che ha come posta un compenso monetario risale ai primordi della televisione e ha, naturalmente, nello spettacolo degli sport professionistici (a loro volta determinanti per i palinsesti dei mezzi di comunicazione di massa) un modello fondamentale. Tuttavia negli ultimi decenni le trasmissioni di intrattenimento basate su una competizione tra concorrenti hanno occupato parti crescenti dei palinsesti televisivi: competizioni canore, competizioni di aspiranti chef, competizioni in giochi surreali, competizioni in giochi disgustosi, competizioni su isole lontane, o basate sulle capacità mnemoniche dei concorrenti, attirano l’attenzione di un numero sempre molto alto di telespettatori. L’idea di fondo di queste trasmissioni sembrerebbe suggerire un’analogia tra il contest televisivo e il libero mercato: il concorrente più bravo (o simpatico, o telegenico, o dotato di capacità di resistenza) ha il diritto di vincere in TV, così come l’imprenditore più bravo ha il diritto di imporsi sul mercato (un’idea che peraltro ha investito anche la politica e si è tradotta in una personalizzazione del confronto democratico: non vincono solo le idee di una comunità, ma la personalità – doti fisiche, affabulatorie, carismatiche – del singolo leader politico); e in qualche caso, in effetti, è così. Ma talora la logica della competizione è diversa, giacché le vere star di alcuni di questi format televisivi non sono tanto i concorrenti (che hanno una breve notorietà per lo spazio della competizione, e poi spariscono), quanto i giudici, che nella finzione narrativa ricoprono il loro ruolo per le loro grandi qualità professionali, certificate dal potere anonimo di una qualche invisibile entità superiore che li ha scelti. Il potere assoluto col quale questi giudici emettono i loro verdetti è apprezzato dal pubblico, che è così indotto ad accogliere una nuova declinazione della spectator democracy: passivamente e conformisticamente, ci si limita a osservare gli eventi e ad attendere che qualche autorità decida per tutti, senza che nessuno possa o voglia davvero opporsi19. Con tutto ciò, le stesse majors si preoccupano anche di non desertificare del tutto il campo delle narrazioni alternative, che pure continuano a circolare sugli schermi cinematografici (mol-

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to, ma molto meno, su quelli TV). In questo caso, il sistema è quello dell’appalto a sezioni specializzate delle majors, oppure a case di produzione indipendenti, che finanziano lavori di complessità narrativa e psicologica maggiore, spesso strutturati in modo da riprendere o rinnovare temi o attitudini controculturali20. I lavori più sofisticati di Christopher Nolan o di M. Night Shyamalan, coprodotti o distribuiti dalle majors, conservano il loro spazio, vanno nelle sale, sono recensiti sui media generalisti, o sulle riviste, o nei siti web specializzati. Tuttavia se si vanno a vedere i risultati commerciali di queste produzioni (talora piuttosto buoni) e si confrontano con gli esiti dei blockbuster, è evidente che la differenza nell’impatto è enorme. In altri casi, quando ottimi film sono prodotti da consorzi indipendenti dalle majors (e quindi dispongono di finanziamenti inferiori sia per il film che per la promozione) i risultati sono anche più marginali (si vedano, solo per fare qualche esempio, Mulholland Drive, David Lynch, 2001; Melancholia, Lars von Trier, 2011; Cosmopolis, David Cronenberg, 2012). D’altronde, la struttura visuale – al tempo stesso infantile e straordinariamente seduttiva – dei blockbuster attrae infinitamente di più di un’opera austera e tematicamente complessa, ma costretta in uno spazio visivo da messa in scena teatrale, com’è quello esplorato – per restare a uno degli esempi citati – da David Cronenberg in Cosmopolis. In altri casi, come per esempio nella varia produzione di Tarantino, la costruzione di raffinatissime macchine narrative ha come contrappunto una esaltazione forsennata della violenza, in qualche caso in una forma piuttosto cinica (Reservoir Dogs [Le iene], 1992; Pulp Fiction, 1994), poi in forme più classicamente «etiche» (Kill Bill, 2003-2004; Inglorious Basterds [Bastardi senza gloria], 2009; Django Unchained, 2012). Allo stesso modo, anche nello spazio della pop music vengono ammessi figure e comportamenti che, sino agli anni Sessanta, erano considerati assolutamente inaccettabili. Il brivido della sessualità facile viene inglobato in brillantissimi ritmi da discoteca (Lady Marmalade, Labelle, 1974)21; figure sessualmente ambigue trasmigrano dal glam rock al pop (nel caso, per esempio, di

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Boy George); viceversa, le figure femminili, costruite da artiste dotate di qualità non necessariamente banali (Britney Spears, Spice Girls, Shakira, Beyoncé), sembrano mettere in scena un profilo di femminilità apparentemente nuovo e assertivo, salvo rilanciare per l’ennesima volta una seduttività declinata nei termini di corpi femminili come puri oggetti del desiderio (ma questo, per la verità, può valere anche nel caso dei cantanti maschi, e in particolare dei componenti delle più recenti boy band, dai Take That agli One Direction)22. Viceversa, l’esperienza di Madonna costituisce, almeno in parte, una controversa rilettura in controtendenza dei profili di femminilità dominanti, sin dal suo primo album, Like a Virgin (1984): gli elementi di novità lì stanno nella copertina, ipersessualizzata (indossa persino una cintura sulla quale si può leggere «Boy Toy»), nel testo della canzone (lei ha avuto una storia con uno che la vittimizzava; ora ha trovato un altro amore, e con quello ha riconquistato una sorta di verginità), nel gioco di rimandi tra tutto ciò e il nome della cantante. Inoltre, osserva Graham Thompson, «l’ambiguità, e gran parte dell’attrattiva di Madonna, in quel momento della sua carriera, si basa sul fatto di presentarsi non tanto come un oggetto del desiderio, ma come un soggetto femminile desiderante»23. A conferma di questa persuasiva considerazione, mi pare si possa dire che anche nel seguito della sua produzione Madonna ha continuato a giocare intelligentemente con la trasgressione delle regole: lo ha fatto incoraggiando pubblicamente la ricerca scientifica per una cura contro l’Aids; oppure sfidando le identità razziali nel video che accompagna Like a Prayer (1989); oppure baciando sensualmente sulla bocca prima Britney Spears e poi Christina Aguilera al termine di una esibizione in trio sul palco degli Mtv Video Music Awards (2003). Al tempo stesso, però, Madonna è anche passata rapidamente da provocazioni progressiste a posizioni a dir poco ambigue, impietosamente decostruite da bell hooks, che ha messo in rilievo il suo cinismo imprenditoriale e il suo atteggiamento, in definitiva, più condiscendente che empatico nei confronti di neri e gay24.

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Oltre che dall’insieme di questi processi, che rilanciano stili, narrazioni, orizzonti etici mainstream, l’implosione del reticolo controculturale è assicurata dalla crisi profonda attraversata dalla musica rock25. Intanto, nel corso degli anni Settanta, uno degli aspetti che connotavano l’esperienza rock, ovvero la stretta interrelazione tra stili musicali distinti, sebbene accomunati da un dialogo convergente con una originaria costellazione-matrice (blues, hard country, ecc.), viene meno, sostituita da una grande segmentazione delle scene musicali e delle comunità interpretative di riferimento. Il sistema dei generi, che è un principio d’ordine tipico della cultura di massa mainstream, si impone anche nel campo del rock. I musicisti, i dischi, i programmi radio, i concerti cominciano a distinguersi a seconda del sottogenere di appartenenza: hard rock, country rock, glam rock, prog, e poi, col passare del tempo, assecondando un’infinità di altre etichette di riferimento – heavy metal, punk, new wave, grunge, indie, alt rock, darkwave, gothic metal, ecc. Si potrebbe pensare che il sistema di etichettatura serva solo a meglio orientarsi; in realtà si ossifica progressivamente, cosicché chi è un fan heavy metal non ascolterà certo la new wave, mentre chi ama il grunge difficilmente seguirà il new prog, uno stato di fatto certificato dal moltiplicarsi di riviste di settore, fanzine, e poi siti web specializzati ed esclusivi. In parte questo tipo di segmentazione è frutto di scelte di marketing compiute da promoter e da giornalisti. In parte testimonia l’emergere di fratture all’interno del campo del rock, e più in generale, all’interno della popular music. Nei primi anni Settanta, quando i movimenti giovanili più politicizzati si radicalizzano, capita che i loro militanti non apprezzino poi molto la natura non immediatamente politica di gran parte della musica rock. Nel loro orizzonte di attesa queste persone si aspettano che gli artisti controculturali diventino dei portabandiera, o almeno degli speaker che parlino col loro stesso lessico – prevalentemente desunto dalla tradizione del marxismo radicale e rivoluzionario. La ripetuta constatazione della distanza che li separa da artisti come i Doors, Frank Zappa, Santana o i Genesis viene vissuta

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come un tradimento; e la sensazione è acuita dall’estremo moralismo rivoluzionario che anima molti militanti; il fatto che i potenziali leader culturali non parlino il loro stesso linguaggio è già considerato grave; che poi costoro stiano sul mercato di massa, e si arricchiscano con le loro produzioni, è una constatazione che a molti risulta insopportabile. Il che, alla fine, spiega perché, in particolari contesti politici (per esempio, in Germania o in Italia) questa divergenza negli orizzonti etici conduca a dure contestazioni, talora ad aggressioni verbali o fisiche. Ciò che molti militanti dei movimenti antagonisti chiedono è un conformismo concettuale di nuovo tipo; un’adesione e una ripetizione, in qualche forma, degli slogan politici del movimento, mentre non sembrano cogliere l’intrinseca politicità contenuta nell’estetica delle più avanzate proposte controculturali. All’attacco militante al rock, poi, si affianca anche un attacco culturale che stigmatizza proprio ciò che rende il rock dei primi anni Settanta una musica antimainstream, ovvero la complessità – un aspetto molto ben illustrato dalle musiche di gruppi come Pink Floyd, Yes o King Crimson. Le case discografiche non sono insensibili alla questione; alla lunga i costi di produzione di dischi con musiche ricche e varie, e di concerti con scenografie imponenti, a fianco di un marketing difficile (i brani sempre più lunghi e articolati difficilmente possono essere adeguatamente promossi alla radio), portano i produttori a incoraggiare altri generi che si esprimono con canzoni brevi e strutturalmente semplici, tipo la pop music, oppure la disco music, o, paradossalmente, anche una musica antisistema come il punk26. Da un punto di vista socioculturale l’importanza del punk consiste soprattutto nel suo essere una subcultura giovanile molto connotata, con un suo specifico stile visuale e musicale, e un’etica prevalentemente nichilista27. L’esperienza punk ha tuttavia una breve durata e, per quanto sia seguita dai sistemi di informazione come fenomeno di costume curioso e (al solito) preoccupante, resta anche un’esperienza culturalmente molto isolata, giacché non si formano – su scala di massa – un cinema punk, una letteratura punk, una grafica punk. Questo stile par-

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ticolare non fa più parte di un continuum metanarrativo e anzi tende a chiudere la proposta musicale e culturale entro i confini di uno spazio generazionale e sociale molto specifico e piuttosto isolato dal più generale orizzonte della cultura di massa. Sebbene il punk tragga ispirazione da forme musicali di origine africana (ska e reggae, in particolare), non dialoga né musicalmente né testualmente con la parallela evoluzione della più rilevante musica nera coeva; l’evoluzione stilistica del soul e del funk, che ha occasionali punti di contatto con la scena rock, va in un’altra direzione. I testi di questi generi talora mostrano un’acuta e poetica consapevolezza di un grave peggioramento delle condizioni delle comunità afroamericane, dopo le conquiste normative ottenute alla metà degli anni Sessanta28. E lo fanno in una vasta varietà di modi. Da un lato si sviluppano musiche che sul piano ritmico invitano alla danza, mentre sul piano testuale costruiscono un fantasioso universo utopico-mistico, fondamentalmente di natura escapista (George Clinton; Earth, Wind & Fire; Aquarian Dream)29. Dall’altro, e all’inverso, presentano testi, e talora interi LP, che descrivono con una certa crudezza di toni le condizioni di vita nei ghetti o la mancanza di speranza che si sta impossessando delle comunità afroamericane; ne sono esempi LP come There’s a Riot Going On, di Sly and the Family Stone (1971); What’s Going On (1971) di Marvin Gaye; o Songs in the Key of Life (1976) di Stevie Wonder30; oppure singoli come Is It Because I’m Black? (1969) di Syl Johnson; Compared to What (1969) di Les McCann; Message from a Black Man (1969) dei Whatnauts; Ball of Confusion (1970) dei Temptations; Slippin’ Into Darkness (1971) dei War; Smiling Faces Sometimes (Tell Lies) (1971) degli Undisputed Truth; o Just My Soul Responding (1973) di Smokey Robinson31. In altri casi ancora, sviluppando la visione brutalmente misogina dei rapporti tra i generi sostenuta e praticata da leader del radicalismo nero coevo come Eldridge Cleaver, George Jackson o Huey Newton, diversi autori maschi di musica soul/funk scrivono testi che elaborano lo schema concettuale secondo il quale difendere la propria identità di neri contro i bianchi e difendere la

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propria identità di maschi contro le donne sono due pratiche che dovrebbero andare di pari passo32. Se tutte queste traiettorie narrative possono legittimamente essere considerate come uno dei retroterra etici e lirici da cui deriva la parabola dell’hip-hop/rap, e se dialogano con la blaxploitation cinematografica coeva, occorre osservare che non costruiscono relazioni intertestuali che vadano oltre lo spazio di nicchia delle comunità afroamericane. Lo stesso dovrebbe dirsi dell’hip-hop. La matrice nera viene imitata (più o meno brillantemente) da autori bianchi (Eminem), ma solo in pochi casi sollecita processi di ibridazione che, pur essendo stilisticamente rilevanti, restano inesorabilmente chiusi in uno spazio culturale circoscritto (Rage Against the Machine; Massive Attack)33. Il punto essenziale è una evidente difficoltà che stili musicali espressivi e alternativi incontrano nel ricreare reti intermediali di ampiezza almeno paragonabile a quelle proprie della controcultura di massa degli anni Sessanta. E così le produzioni rock e le popular cultures afroamericane, cambiano natura rispetto al panorama dei tardi anni Settanta: non sono più parte di un complessivo panorama controculturale, ma tornano a essere delle manifestazioni circoscritte di resistenza rituale, proprie di gruppi giovanili che si susseguono l’uno all’altro col succedersi delle generazioni, esperienze segmentarie, più o meno vaste, che coltivano stili che fanno appello a comunità interpretative diverse (il soul a comunità afroamericane transgenerazionali, oltre che – occasionalmente – a segmenti di pubblico bianco, negli Usa e in Europa; la disco a giovani edonisti o a gruppi Lgbt; il rap e l’hip-hop ai giovani afroamericani più ribelli; la techno a comunità generazionalmente più giovani ma egualmente inclini a cercare un sollievo edonistico alle fatiche di una società ipercompetitiva; e così via)34. I successi ciclici di nuovi gruppi rock (Nirvana, U2, Rem, Radiohead, ecc.), e le classifiche di vendita che ne celebrano i trionfi anche commerciali, non vanno letti come manifestazione delle preferenze di un pubblico globale, ma di singole e specifiche comunità interpretative, molto nettamente connotate da un punto di vista generazionale. Gli stessi concerti cambiano pro-

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fondamente di significato, poiché da rituali di aggregazione a una communitas culturalmente alternativa, com’erano i raduni di fine anni Sessanta-inizio anni Settanta, si trasformano in puri e semplici riti di passaggio, temporanee esperienze liminali vissute in una circoscritta fase adolescenziale, che si abbandonano una volta che gli impegni dell’età adulta (il lavoro, la famiglia, le responsabilità) spingano a un’accettazione più o meno incondizionata dell’etica mainstream; come ha osservato Wendy Fonarow, autrice di un’importante ricerca sul campo, adesso partecipare a un concerto e interessarsi di popular music sono attività che connotano una persona come «giovane», in uno status di passaggio tra infanzia e età adulta. Nell’organizzazione sociale dello spazio di un concerto vediamo una progressione che passa attraverso questa categoria liminale di «giovinezza». Le persone smettono di andare ai concerti perché non li trovano più soddisfacenti; e questo coincide sia con un senso di disincanto, sia con la crescente importanza di altre questioni, come le relazioni impegnative, la famiglia, gli obblighi lavorativi – in una parola, l’età adulta35.

Le diverse forme rock che si susseguono tra la fine del XX secolo e l’inizio del nuovo millennio (punk, new wave, trip hop, indie rock, ecc.) finiscono così per trovarsi chiuse in uno spazio generazionalmente e culturalmente circoscritto. Proprio per il loro carattere temporaneo, e al tempo stesso per la mancanza di relazioni intertestuali con stili e narrazioni che passano attraverso altri media, le comunità interpretative giovanili che si formano intorno alle varie nuove declinazioni rock non riescono a funzionare da punto di aggregazione di un nuovo reticolo controculturale36. Il processo ha un suo parallelo nel mutamento più generale delle forme della sociabilità giovanile. Nei tre-quattro decenni di fine-inizio secolo, una parte progressivamente crescente delle opinioni pubbliche giovanili aderisce a modelli culturali mainstream. Le manifestazioni collettive di dissenso nei confronti delle istituzioni o delle generazioni adulte si fanno sempre meno numerose e significative (dal movimento studentesco italiano del 1977 ai movimenti no global, da Seattle, 1999, a Genova,

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2001). Le espressioni di disagio si fanno individuali, chiuse nello spazio della famiglia, di ristrette cerchie amicali, o di specifiche istituzioni assistenziali (reparti psichiatrici; consulenza psicologica; centri di disintossicazione). Al tempo stesso si formano nuove scene giovanili, molto diverse tra loro, e culturalmente segmentate o scarsamente rilevanti: legate alle pratiche del dancing club, dell’after hours, dell’apericena o del rave, si affiancano l’una all’altra senza appartenere a un più vasto contesto culturale convergente, così com’era accaduto con le subculture collegate al rock e alla controcultura di massa a cavallo tra gli anni Sessanta e Settanta37. Nonostante tutto ciò, nonostante l’assenza di una evidente controcultura integrata, materiali «resistenti» alle logiche mainstream continuano tenacemente a persistere. Intanto, per quanto se ne possa celebrare la crisi, o persino la morte, la musica rock non è scomparsa affatto. Certo, non ha più la centralità che si era conquistata negli anni Sessanta; e tuttavia resiste, con voci narrative ancora autorevoli, da Bruce Springsteen ai Rolling Stones, da Patti Smith a Bob Dylan, e con sperimentazioni musicali di grandissimo valore che si susseguono incessantemente, da David Sylvian a Massive Attack, My Bloody Valentine, The Knife, Steven Wilson38: e non si citano, qui, che pochissimi nomi di un panorama veramente ricchissimo. Lo stesso vale – come si è detto – per la cinematografia, dove le produzioni indipendenti non mancano di emergere e di raccontare storie alternative, sebbene con un seguito di pubblico sempre meno ampio e convinto. Lo stesso vale anche per i comic books, i fumetti, un’altra area nella quale pullulano straordinarie sperimentazioni grafiche e narrative. Altre sorprese, anche più desituanti, si incontrano muovendosi tra le più recenti serie televisive lanciate da case di produzione spesso legate alle megacorps mediatiche. Si tratta di serie come The Sopranos (I Soprano, 1999-2007) o Game of Thrones (Il Trono di Spade, dal 2011), prodotte da Home Box Office (Hbo), il canale via cavo di proprietà della Time Warner; o come Breaking Bad (2008-2013), prodotta da Amc; o come House of Cards (dal 2013),

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prodotta da Netflix. Sono tutte serie televisive che rompono con le convenzioni delle narrative mainstream: i personaggi sono complessi; non ci sono figure unilateralmente buone e altre unilateralmente cattive; non è detto che il bene trionfi, anzi spesso non trionfa affatto, e i personaggi si trovano costantemente di fronte a dilemmi morali che ciascuno risolve in modi vari e non stereotipati39. Gli spazi per la creatività alternativa, dunque, non sono del tutto soffocati dal peso preponderante delle megacorps e della cultura dell’intrattenimento mainstream che esse principalmente incoraggiano. Inoltre internet offre sicuramente opportunità potenziali per sottrarsi alla presa delle narrazioni egemoni, se uno lo desidera. Siti come YouTube, MySpace, Spotify consentono di mantenersi informati su sperimentazioni musicali, cinematografiche o visive che di sicuro non passano dai canali mediatici primari (TV o cinema). Non solo: secondo alcuni (Henry Jenkins, Simone Arcagni) la rapidissima evoluzione delle tecnologie informatiche e mediatiche sta ponendo le premesse per una nuova società tecnologica che consente a chi naviga in internet, o a chi usa Facebook, Twitter, iPhone, iPad e l’intera galassia in espansione di app e programmi, di collocarsi al centro di una rete convergente, interattiva, partecipativa, apertissima alle spinte dal basso che provengono dagli utenti o dalle microcomunità interpretative40. Non so dire se tutto ciò sia veramente la premessa per la nascita di nuove formazioni discorsive che abbiano un respiro sociale ed etico diverso dalla cultura di massa mainstream, e che abbiano anche la forza di sfidarne l’egemonia. A dire il vero, al momento mi sembra che la tecnologia convergente incoraggi piuttosto la moltiplicazione di segmenti comunitari alternativi idiosincratici e scollegati gli uni dagli altri, in una geografia attraversata da teorie del complotto, dicerie, voci, pettegolezzi, rappresentazioni satiriche, più o meno eleganti, più o meno sgangherate, appropriazioni periferiche dell’esercizio del name calling e spazi per coltivare le più varie ed esoteriche estetiche «altre». Ma si tratta di spazi talmente segmentati, specializzati e settoriali, da non fare ombra, nemmeno in forma remota, alle megacorps e alle loro strategie. Che intanto

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si proiettano ben oltre l’Occidente, verso mercati nuovi, da affrontare peraltro con strategie già ben sperimentate. Come ha detto Blaise Fernandes, di Warner Bros. India, a Frédéric Martel, gli indiani vogliono restare indiani: vogliono vedere i loro film hindi, con songs & dances, con melodrammi flashy, stravaganze e risse eccessive. Vogliono film lunghi, anche di tre ore, pieni di dialoghi, anche dopo scene di suspense. Vogliono che il bene vinca sempre sul male e che il cattivo continui a restare tale. Povertà, bidonville, analfabetismo: gli indiani vogliono fuggire dalla realtà e lasciare spazio alla fantasia. Tuttavia, all’interno di un film tutto deve essere prevedibile, non c’è spazio per la sorpresa. È così. E non cambierà. Tocca a noi adattarci. Una major come la nostra, anche se americana, qui deve produrre film indiani, non americani. Ed è ciò che faremo41.

Ed è molto probabile che lo stiano facendo benissimo, senza troppo sforzarsi o troppo cambiare, poiché ciò che Blaise Fernandes immagina debba essere offerto alle opinioni pubbliche indiane è proprio ciò che l’industria culturale ha offerto per decenni alle opinioni pubbliche occidentali, dando così vita alla durevole egemonia della cultura di massa mainstream.

Note

Introduzione 1 Alcuni dei titoli delle sezioni, dei capitoli o dei paragrafi di questo libro sono in inglese, e fanno tutti riferimento a canzoni, film o fenomeni molto noti o spiegati all’interno del testo. L’unico titolo che può risultare più oscuro è quello che ho scelto per il capitolo X, Feed Your Head! (Nutri la tua mente); si tratta dell’ultimo verso di White Rabbit (1967), una canzone dei Jefferson Airplane, scritta e splendidamente cantata da Grace Slick: «When logic and proportion / Have fallen sloppy dead / And the White Knight is talking backwards / And the Red Queen’s “off with her head!” / Remember what the dormouse said: / “Feed your head! Feed your head!”». Come capita spesso nella popular culture, le produzioni che le appartengono rivivono anche a distanza di molti anni attraverso remake, reboot e cover, e questo succede anche a White Rabbit: di recente la si è potuta ascoltare in una bella esecuzione di Emiliana Torrini, nella colonna sonora di Sucker Punch, film di Zack Snyder uscito nelle sale italiane il 25 marzo del 2011.

I. Industria culturale e cultura di massa 1 Max Horkheimer - Theodor W. Adorno, Dialettica dell’illuminismo, Einaudi, Torino 1980, pp. 126-181. 2 Three Little Pigs, prodotto dalla Walt Disney Productions, è distribuito proprio dalla United Artists. 3 Lyn Gorman - David McLean, Media e società nel mondo contemporaneo, il Mulino, Bologna 2011, pp. 41-42; Douglas Gomery, «Early Hollywood». La nascita delle strutture produttive; Richard Koszarski, Il cinema degli anni venti; e Giuliana Muscio, Cinema: produzione e modelli sociali e culturali negli anni trenta; in Gian Piero Brunetta (a cura di), Il cinema americano, vol. I, Einaudi, Torino 2006, pp. 113-142, 393-430 e 583-638. 4 Ai quali, nel 1943, si aggiunge la Abc (American Broadcasting System), che rileva una parte del network della Nbc, venduto per ottemperare alle norme anti-

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NOTE

trust, su indicazione della Federal Communications Commission (Michele Hilmes, Only Connect. A Cultural History of Broadcasting in the United States, Wadsworth, Boston 2011, pp. 165-166; Gorman-McLean, Media e società, cit., p. 65). 5 Hilmes, Only Connect, cit., pp. 57 e 78-79; Gorman-McLean, Media e società, cit., pp. 64-65. 6 Hilmes, Only Connect, cit., pp. 84-85 e 89; Susan Currell, American Culture in the 1920s, Edinburgh University Press, Edinburgh 2009, p. 132; David Eldridge, American Culture in the 1930s, Edinburgh University Press, Edinburgh 2008, pp. 93-94. L’altra soluzione, in questo periodo meno diffusa, consiste nell’acquisto di brevi slot di programmazione tra una trasmissione e l’altra. 7 Andre Millard, America on Record. A History of Recorded Sound, Cambridge University Press, Cambridge 2005, p. 174. 8 Franco Restaino, Storia del fumetto da Yellow Kid ai manga, Utet, Torino 2004, pp. 36-37 e 65. 9 Ivi, pp. 123-124; Raymond William Stedman, The Serials. Suspense and Drama by Installment, University of Oklahoma Press, Norman 1971, p. 215. Il formato del comic book è questo: per dieci centesimi di dollaro si compra una rivista di 64 pagine (poi 48, e poi ancora 32, quando il costo della carta impone una riduzione). Le prime 10-13 pagine del numero sono riservate all’eroe principale; poi seguono 6 pagine con protagonisti minori – non dei supereroi – in classiche storie d’azione o di spionaggio (questa parte viene eliminata quando le pagine si riducono); poi 2 pagine di una storia in forma narrativa; le ultime 9 o 10 pagine sono riservate al second lead, personaggio interessante, ma non di rilievo come il protagonista. Nel comic book dedicato a Superman, il second lead è Zatara the Master Magician, un personaggio molto simile a Mandrake. Infine, il retro di copertina è riempito da una fittissima serie di annunci pubblicitari dei gadget più strani e a costi bassissimi, organizzata dalla Johnston Company di Detroit (ivi, pp. 219-221). 10 Restaino, Storia del fumetto, cit., cap. 4. 11 Millard, America on Record, cit., pp. 161 e 174; Marcel Danesi, Popular Culture. Introductory Perspectives, Rowman & Littlefield Publishers, Lanham 2008, p. 99; Hilmes, Only Connect, cit., pp. 57 e 78. 12 Traggo il termine da Frédéric Martel, Mainstream. Come si costruisce un successo planetario e si vince la guerra mondiale dei media, Feltrinelli, Milano 2010. 13 Cfr. Donald Sassoon, La cultura degli europei dal 1800 a oggi, Rizzoli, Milano 2008, pp. 425-427; Danesi, Popular Culture, cit., p. 159; Rick Altman, Hollywood e i generi, in Brunetta (a cura di), Il cinema americano, vol. I, cit., pp. 746-749; Id., Film / Genere, Vita e Pensiero, Milano 2014; Geoff King, La Nuova Hollywood. Dalla rinascita degli anni Sessanta all’era del blockbuster, Einaudi, Torino 2004, pp. 147155; Brigid Cherry, Horror, Routledge, London-New York 2009, cap. 1. 14 Ken Gelder, Popular Fiction. The Logics and Practices of a Literary Field, Routledge, London-New York 2004, pp. 40-43. 15 Seguo, in questa sezione, l’analisi proposta da Altman, Hollywood e i generi, cit.; e Id., Film / Genere, cit. 16 Altman, Hollywood e i generi, cit., p. 751; sul punto, in relazione ai gialli seriali o ai fumetti supereroici, cfr. anche Umberto Eco, Apocalittici e integrati. Comunicazioni di massa e teorie della cultura di massa, Bompiani, Milano 2003, pp. 246-250.

i. industria culturale e cultura di massa

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Altman, Hollywood e i generi cit., pp. 751-752. Cfr. anche Monica Dall’Asta, I serials, in Brunetta (a cura di), Il cinema americano, vol. I, cit., p. 314. 18 Horkheimer-Adorno, Dialettica dell’illuminismo, cit., p. 145. 19 Theodor W. Adorno, Il carattere di feticcio della musica e la regressione nell’ascolto, in Theodor Adorno et al., La Scuola di Francoforte. La storia e i testi, Einaudi, Torino 2005, p. 140. 20 Theodor W. Adorno, Sulla popular music, Armando Editore, Roma 2006, p. 92. 21 Altman, Hollywood e i generi, cit., p. 762. 22 Sassoon, La cultura degli europei, cit., pp. 93-94, 365-366, 369-371. 23 Ivi, pp. 480-481. 24 Danesi, Popular Culture, cit., p. 76; Gelder, Popular Fiction, cit., pp. 57-58; Richard Slotkin, Gunfighter Nation. The Myth of the Frontier in Twentieth-Century America, University of Oklahoma Press, Norman 1998, pp. 194-195. 25 Slotkin, Gunfighter Nation, cit., pp. 195-228. 26 Stedman, The Serials, cit., pp. 3-6; Dall’Asta, I serials, cit., pp. 289-290. 27 Ivi, p. 318; Stedman, The Serials, cit., p. 142. 28 Dall’Asta, I serials, cit., p. 308; cfr. anche Stedman, The Serials, cit., p. 46. 29 Restaino, Storia del fumetto, cit., pp. 63-66. 30 Ivi, pp. 65-76. Si veda anche l’analisi che Umberto Eco dedica alla prima puntata di Steve Canyon, edita il 13 gennaio 1947 (Umberto Eco, Lettura di Steve Canyon, in Id., Apocalittici e integrati, cit., pp. 130-145). 31 Sassoon, La cultura degli europei, cit., p. 664. 32 Restaino, Storia del fumetto, cit., pp. 16 e 123. 33 Nel 1930, anno in cui Conan Doyle muore, il Doyle Estate, che amministra le sue opere, autorizza la Nbc a procedere con la drammatizzazione radiofonica delle storie di Sherlock Holmes, sponsorizzate da G. Washington Coffee. Il programma – The Adventures of Sherlock Holmes – va in onda il 20 ottobre 1930 con la prima puntata, intitolata The Speckled Band, e prosegue poi, per varie stazioni e con qualche interruzione, fino agli anni Sessanta (Stedman, The Serials, cit., pp. 149-152). 34 Ivi, pp. 228-232; Eldridge, American Culture in the 1930s, cit., pp. 105-108. 35 Jerry Palmer, Potboilers. Methods, Concepts and Case Studies in Popular Fic­ tion, Routledge, London-New York 1991, pp. 155-156. Il termine «soap opera» entra nel linguaggio giornalistico nel 1939, e deriva dal fatto che all’epoca la Procter & Gamble, importante azienda produttrice di detersivi, spende 4.500.000 dollari all’anno di pubblicità, il 90% dei quali destinati a questo tipo di programmi radio (Jim Cox, The A to Z of American Radio Soap Operas, The Scarecrow Press, Lanham-Toronto-Plymouth 2009, pp. 2 e 11). 36 Stedman, The Serials, cit., pp. 240-241. Il programma si interrompe nel 1937, quando Isobel Carothers muore, e riprende poi nel 1942, sulla Cbs. 37 Ivi, p. 256. Cfr. anche Cox, The A to Z of American Radio Soap Operas, cit.; Robert C. Allen (ed.), To Be Continued... Soap Operas Around the World, Routledge, London-New York 2001; e Sam Ford - Abigail De Kosnik - C. Lee Harrington (eds.), The Survival of Soap Opera. Transformations for a New Media Era, University Press of Mississippi, Jackson 2011. 38 Stedman, The Serials, cit., pp. 270-275. 17

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NOTE

Hilmes, Only Connect, cit., p. 122; Cox, The A to Z of American Radio Soap Operas, cit., p. 1. 40 White Christmas viene eseguita in anteprima da Bing Crosby nel suo show radiofonico trasmesso dalla Nbc il 25 dicembre 1941; Holiday Inn, con Bing Crosby e Fred Astaire, esce nelle sale l’8 agosto 1942. Per un’efficace panoramica complessiva sui successi musicali promossi dai musical si veda Franco Fabbri, Around the clock. Una breve storia della popular music, Utet, Torino 2008, pp. 54-58. 41 Tipicamente i due attori, che sono bianchi, recitano con la faccia dipinta di nero, nella più classica tradizione dei minstrel shows (spettacoli popolari, diffusi sin dalla metà dell’Ottocento, in cui, appunto, attori bianchi col volto dipinto di nero interpretavano in chiave spesso sarcastica e denigratoria personaggi appartenenti alle comunità afroamericane). Alla radio vi sono diversi altri spettacoli che, come Amos ’n’ Andy, traggono ispirazione dal modello del minstrel show (Hilmes, Only Connect, cit., pp. 95-96). 42 Cox, The A to Z of American Radio Soap Operas, cit., pp. 211-212; Stedman, The Serials, cit., p. 313. 43 Horkheimer-Adorno, Dialettica dell’illuminismo, cit., p. 126. 39

II. Narrazioni mainstream 2.777.000 dollari; in genere, all’epoca, i film di successo avevano budget che oscillavano tra i 500.000 e gli 800.000 dollari; oltre a The Wizard of Oz spicca Gone with the Wind, di cui parleremo più approfonditamente più avanti, prodotto nello stesso anno dalla Mgm insieme a David O. Selznick, con un budget di 3.850.000 dollari; la regia di entrambi i film è accreditata a Victor Fleming. Sul tour promozionale di Judy Garland, accompagnata da Mickey Rooney, si veda Jon Savage, L’invenzione dei giovani, Feltrinelli, Milano 2009, pp. 352-353. 2 Fondamentale, al riguardo, Paul Nathanson, Over the Rainbow. «The Wizard of Oz» as a Secular Myth of America, State University of New York Press, Albany 1991. 3 Prospettive diverse – ma egualmente illuminanti – sul tema della quest sono offerte da Vladimir Ja. Propp, Morfologia della fiaba. Con un intervento di Claude Lévi-Strauss e una replica dell’autore, Einaudi, Torino 1996, cap. 2; Joseph Campbell, L’eroe dai mille volti, Lindau, Torino 2016; e Northrop Frye, Anatomia della critica. Teoria dei modi, dei simboli, dei miti e dei generi letterari, Einaudi, Torino 1996, pp. 248-249. 4 Nathanson, Over the Rainbow, cit., pp. 102-103. I testi di riferimento per la natura rituale della quest di Dorothy sono Arnold Van Gennep, I riti di passaggio, Bollati Boringhieri, Torino 2009, e Victor Turner, The Ritual Process. Structure and Anti-Structure, Cornell University Press, Ithaca (New York) 1991. 5 Nathanson, Over the Rainbow, cit., p. 85. Sul significato del colore rosso nelle fiabe, in associazione a personaggi di giovani fanciulle, si veda Bruno Bettelheim, Il mondo incantato. Uso, importanza e significati psicanalitici delle fiabe, Feltrinelli, Milano 1977, pp. 168 e 223-224, a cui Nathanson fa esplicito riferimento. 6 Nathanson, Over the Rainbow, cit., pp. 102-103. 7 Ivi, p. 55. 1

ii. narrazioni mainstream

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Questo è il testo della canzone: «You’re out of the woods / You’re out of the dark / You’re out of the night / Step into the sun, step into the light / Keep straight ahead / For the most glorious place / On the Face of the Earth / Or the sky / Hold on to your breath / Hold on to your heart / Hold on to your hope / March up to the gate / And bid it open». 9 Home on the Range, Library of Congress, http://www.loc.gov/item/ ihas.200196571/. 10 In «Saturday Evening Post», 3 April 1943, p. 79, cit. da Maureen Honey, Crea­ ting Rosie the Riveter. Class, Gender, and Propaganda during World War II, The University of Massachusetts Press, Amherst 1984, p. 131. 11 Fondamentali esplorazioni di questa struttura narrativa si trovano in Slotkin, Gunfighter Nation, cit.; John Shelton Lawrence - Robert Jewett, The Myth of the American Superhero, William B. Eerdmans Publishing Company, Grand Rapids (Mich.)-Cambridge (UK) 2002; Francesco Dragosei, Lo squalo e il grattacielo. Miti e fantasmi dell’immaginario americano, il Mulino, Bologna 2002. 12 Dragosei, Lo squalo e il grattacielo, cit., p. 39. 13 Slotkin, Gunfighter Nation, cit., pp. 14-21; Lawrence-Jewett, The Myth of the American Superhero, cit., pp. 22-27; Dragosei, Lo squalo e il grattacielo, cit., pp. 3739. Mi pare si possa affermare che questo nucleo narrativo dia un contributo essenziale alla presenza di uno «stile paranoico» nella politica americana, su cui è fondamentale la raccolta di saggi di Richard Hofstadter, The Paranoid Style in American Politics and Other Essays, Vintage Books, New York 2008; il saggio originale di Hofstadter sul Paranoid Style è del 1963-1964. 14 Slotkin, Gunfighter Nation, cit., cap. 2; Lawrence-Jewett, The Myth of the American Superhero, cit., cap. 3 e pp. 27-29. Su The Birth of a Nation cfr. Michael Rogin, «The Sword Became a Flashing Vision»: D.W. Griffith’s «The Birth of a Nation», in «Representations», 1985, n. 9; Alessandra Lorini, Rituals of Race. American Public Culture and the Search for Racial Democracy, University Press of Virginia, Charlottesville-London 1999, pp. 226-236; e Bram Dijkstra, Perfide sorelle. La minaccia della sessualità femminile e il culto della mascolinità, Garzanti, Milano 1997, pp. 271-280. 15 Cfr., al riguardo, George L. Mosse, La nazionalizzazione delle masse. Simbolismo politico e movimenti di massa in Germania dalle guerre napoleoniche al Terzo Reich, il Mulino, Bologna 1975; Id., Sessualità e nazionalismo. Mentalità borghese e rispettabilità, Laterza, Roma-Bari 1984; Id., Le guerre mondiali. Dalla tragedia al mito dei caduti, Laterza, Roma-Bari 1998; Id., L’immagine dell’uomo. Lo stereotipo maschile nell’epoca moderna, Einaudi, Torino 1997; Mark Girouard, The Return to Camelot. Chivalry and the English Gentleman, Yale University Press, New Haven-London 1981; Alberto M. Banti, L’onore della nazione. Identità sessuali e violenza nel nazionalismo europeo dal XVIII secolo alla Grande Guerra, Einaudi, Torino 2005. 16 Evoluzioni narrative di questo genere si trovano in film come Viva ­Villa! (Jack Conway, 1934); For Whom the Bell Tolls (Per chi suona la campana, Sam Wood, 1943); Bataan (Tay Garnett, 1943); Objective Burma (Obiettivo Burma!, ­Raoul ­Walsh, 1945). 17 Seguono ancora una serie televisiva in 249 episodi, trasmessa dal 1962 al 1971; un film per la TV del 2000; e un ulteriore remake nel 2014. Cfr. Slotkin, Gunfighter 8

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NOTE

Nation, cit., pp. 173-183; e Lawrence-Jewett, The Myth of the American Superhero, cit., pp. 31-35. 18 Ivi, pp. 36-40. 19 Renato Bordone, Editoria tra Ottocento e Novecento. Fumetto, in Enrico Castelnuovo - Giuseppe Sergi (a cura di), Arti e storia nel Medioevo, IV, Il Medioevo al passato e al presente, Einaudi, Torino 2004, pp. 172-175. 20 Lawrence-Jewett, The Myth of the American Superhero, cit., p. 43; Restaino, Storia del fumetto, cit., p. 141. 21 Lawrence-Jewett, The Myth of the American Superhero, cit., p. 43; Restaino, Storia del fumetto, cit., pp. 123-124. 22 Cfr. Lillian S. Robinson, Wonder Women. Feminisms and Superheroes, Rout­ ledge, London-New York 2004. 23 «Wonder Woman», Summer 1942, n. 1, p. ii. 24 «Wonder Woman», September 1942, n. 9, cit. in Michael L. Fleischer (coll. Janet E. Lincoln), The Encyclopedia of Comic Book Heroes, vol. 2, Wonder Woman, Collier Books-Collier Macmillan Publishers, New York-London 1976, p. 194. 25 Fleischer, The Encyclopedia of Comic Book Heroes, cit., p. 224. 26 Ivi, pp. 226-228 e sgg. Il disagio emotivo non è solo suo, né solo di Superman; e talora il dissesto affettivo di questi supereroi è compensato da una amicizia omosociale, come quella che lega la stessa Wonder Woman al gruppo delle sue amiche dell’Holliday College, o come quella che lega Batman al suo più giovane aiutante Robin. 27 Wonder Woman non perde la sua forza se viene incatenata da una donna; solo la sottomissione a un uomo attraverso l’incatenamento dei braccialetti la rende totalmente inoffensiva; nei primi numeri chiunque può liberare Wonder Woman dalle catene; dopodiché solo l’intervento di un maschio può riuscire a restituirle la libertà (cfr. Fleischer, The Encyclopedia of Comic Book Heroes, cit., pp. 206-207; e Donna B. Knaff, Beyond Rosie the Riveter. Women of World War II in American Popular Graphic Art, University Press of Kansas, Lawrence 2012, pp. 123-132). 28 Stedman, The Serials, cit., pp. 200-201. 29 Restaino, Storia del fumetto, cit., p. 85. 30 Eco, Apocalittici e integrati, cit., p. 225. 31 Public Papers of the President of the United States. Jimmy Carter, 1980-81, May 24 to September 26, 1980, Washington: Office of the Federal Register, National Archives and Records Service, General Services Administration, vol. 4, bk. 2, p. 1061, in https://books.google.it/books?id=ByS9UqIswqsC&pg=PA1061&dq=presidential+medal+of+freedom+john+wayne&hl=it&sa=X&ved=0ahUKEwirkMSP7dDQAhXGbxQKHaTmCJ8Q6AEIGjAA#v=onepage&q=presidential%20medal%20 of%20freedom%20john%20wayne&f=false. 32 Lawrence-Jewett, The Myth of the American Superhero, cit., pp. 99 e 29. 33 Eldridge, American Culture in the 1930s, cit., pp. 65-67. Su Hays e la Mppda cfr. Gomery, «Early Hollywood». La nascita delle strutture produttive; Lee Grieveson, Nascita del divismo; Giuliana Muscio, L’era di Will Hays. La censura nel cinema americano; Ead., Cinema: produzione e modelli sociali e culturali negli anni trenta, in Brunetta (a cura di), Il cinema americano, vol. I, cit., pp. 131, 361, 525-555, 601. 34 Si veda, al riguardo, Frye, Anatomia della critica, cit., pp. 216-217 e passim.

ii. narrazioni mainstream

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Cfr. Stanley Cavell, Alla ricerca della felicità. La commedia hollywoodiana del rimatrimonio, Einaudi, Torino 1999; Rick Altman, Il musical, in Brunetta (a cura di), Il cinema americano, vol. I, cit.; Steve Cohan (ed.), Hollywood Musicals, The Film Reader, Routledge, London-New York 2002; Tamar Jeffers McDonald, Romantic Comedy: Boy Meets Girl Meets Genre, Wallflower, London-New York 2007; Claire Mortimer, Romantic Comedy, Routledge, London-New York 2010. A questi testi rimando per le analisi delle sottotipologie (screwball comedy, commedia del rimatrimonio, ecc.) che connotano sia i musical che le commedie romantiche. 36 Cfr. Amy M. Davis, Good Girls and Wicked Witches. Women in Disney’s Feature Animation, John Libbey Publishing, New Barnet 2011, Kindle file, cap. 4. 37 It Happened One Night (Avvenne una notte, Frank Capra, 1934); Top Hat; Mr. Deeds Goes to Town (È arrivata la felicità, Frank Capra, 1936); San Francisco (W.S. Van Dyke - D.W. Griffith, 1936); Snow White and the Seven Dwarfs; Alexander’s Rag­ time Band (La grande strada bianca, Henry King, 1938); You Can’t Take It with You (L’eterna illusione, Frank Capra, 1938); The Adventures of Robin Hood; Stagecoach. L’unica eccezione è costituita da The Barretts of Wimpole Street (La famiglia Barrett, Sidney Franklin, 1934). 38 Frank Churchill - Larry Morey, Someday My Prince Will Come. Biancaneve canta integralmente la canzone quando è nella casetta dei nani, come storia della buonanotte raccontata ai suoi ospiti; la seconda strofa viene poi ripresa nella sequenza finale, e sfuma mentre si vede la pagina conclusiva del libro delle fiabe sulla quale si può leggere «...and they lived happily ever after». 39 Cavell, Alla ricerca della felicità, cit. 40 Mortimer, Romantic Comedy, cit., p. 76. 41 Horkheimer-Adorno, Dialettica dell’illuminismo, cit., pp. 148-151. Cfr. anche Mortimer, Romantic Comedy, cit., pp. 81-82. Sul Production Code cfr. James Gilbert, A Cycle of Outrage. America’s Reaction to the Juvenile Delinquent in the 1950s, Oxford University Press, New York-Oxford 1986, pp. 167-168; Muscio, L’era di Will Hays, cit.; Gorman-McLean, Media e società, cit., pp. 48-51; Eldridge, American Culture in the 1930s, cit., p. 66. 42 Palmer, Potboilers, cit., p. 155; Cox, The A to Z of American Radio Soap Operas, cit., p. 2; Allen, Introduction, in Id. (ed.), To Be Continued, cit., p. 6. Tra le sceneggiatrici di rilievo, vanno ricordate almeno Irna Phillips, autrice di una lunga serie di soap radiofoniche di successo, e Anne Hummert, che lavora in collaborazione col marito Frank (Hilmes, Only Connect, cit., pp. 125-127; cfr. anche Stedman, The Serials, cit., passim). 43 Palmer, Potboilers, cit., pp. 158-159. 44 Cox, The A to Z of American Radio Soap Operas, cit., p. 3. 45 Stedman, The Serials, cit., p. 249. 46 Ivi, p. 253; Danesi, Popular Culture, cit., p. 105; Dorothy C. Anger, Other Worlds. Society Seen Through Soap Opera, Broadview Press, Peterborough 1999, pp. 110-113. 47 Stedman, The Serials, cit., pp. 257-258. 48 Ivi, pp. 394-397. Peraltro nello stesso momento la Cbs chiude altre quattro soap (Right to Happiness; Ma Perkins; Young Dr. Malone; e The Second Mrs. Burton), tutte con un trionfale lieto fine (un matrimonio felice o la famiglia finalmente riunita e rasserenata). 35

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NOTE

Cox, The A to Z of American Radio Soap Operas, cit., p. 211. Helen Taylor, Scarlett’s Women: «Gone with the Wind» and its Female Fans, Virago, London 2014, Kindle file, cap. 4. 51 Ibid. 52 Molly Haskell, Frankly, My Dear. «Gone with the Wind» Revisited, Yale University Press, New Haven-London 2009, p. 11; Taylor, Scarlett’s Women, cit., passim. 53 Frye, Anatomia della critica, cit., pp. 63-64. Cfr. anche Gilbert, A Cycle of Outrage, cit., p. 168. 54 Sassoon, La cultura degli europei, cit., pp. 428-432 e 664-669; Gelder, Popular Fiction, cit., pp. 56-57; Eldridge, American Culture in the 1930s, cit., pp. 54-55. 55 Palmer, Potboilers, cit., p. 150. 56 Christine Gledhill (ed.), Home is Where the Heart Is. Studies in Melodrama and the Woman’s Film, British Film Institute, London 2002; John Mercer - Martin Shingler, Melodrama. Genre, Style, Sensibility, Wallflower-Columbia University Press, New York-Chichester 2004, Kindle file; Veronica Pravadelli, Il cinema «classico» 1930-60: modelli narrativi, stili di vita e desideri sociali, in Sara Antonelli - Giorgio Mariani (a cura di), Il Novecento USA. Narrazioni e culture letterarie del secolo americano, Carocci, Roma 2009. A metà tra i melodrammi e le soap sono le storie pubblicate nelle riviste femminili popolari, come «True Story», in cui si narrano vicende – talora con sottotrame sensazionalistiche (incesto, violenza sessuale, aborto) – di donne che cercano l’amore, commettono errori, soffrono, si pentono, e in qualche raro caso riescono ad approdare al matrimonio (cfr. Honey, Creating Rosie the Riveter, cit., pp. 139-148). Sulla popolarità di «True Story» cfr. anche Robert S. Lynd - Helen Merrell Lynd, Middletown, vol. I, Edizioni di Comunità, Milano 1970, pp. 249-250. 57 Mortimer, Romantic Comedy, cit., p. 21. 58 Non tutte le interpreti sono d’accordo. Helen Taylor osserva che la maggioranza delle donne del suo campione di lettrici o spettatrici di Gwtw ritiene che quella sia «una scena di sesso burrascoso, ma vicendevolmente piacevole. [...] Di gran lunga la maggioranza delle donne che mi hanno risposto hanno visto l’episodio come eroticamente eccitante, emotivamente appassionante e decisamente memorabile. Poche lo hanno descritto come “uno stupro”» (Taylor, Scarlett’s Women, cit., cap. 5). Diversamente dal film, che è più ambiguo, il romanzo giustifica pienamente questa interpretazione (cfr. Margaret Mitchell, Via col vento, Mondadori, Milano 2015, pp. 999-1000). 59 Taylor, Scarlett’s Women, cit., cap. 3. Cfr. Mitchell, Via col vento, cit., pp. 685694 e 788. 60 Come si è detto, nel 1929 Gosden e Correll recitano in un film tratto dalla sitcom (Check and Double Check), interpretando i loro personaggi con la faccia dipinta di nero. 61 Cfr., al riguardo, Stedman, The Serials, cit., pp. 229-230, n. 1; Eldridge, American Culture in the 1930s, cit., pp. 106-107; e Jacqueline Foertsch, American Culture in the 1940s, Edinburgh University Press, Edinburgh 2008, p. 76. 62 Eldridge, American Culture in the 1930s, cit., pp. 68-78. Il termine «populista» viene usato da Richard Slotkin per designare queste narrative (Slotkin, Gun­fighter 49 50

ii. narrazioni mainstream

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Nation, cit.); il termine va interpretato con riferimento al populismo politico sta­ tunitense di fine Ottocento-inizio Novecento, e non va confuso con l’impiego, spesso carico di valori negativi, che se ne fa adesso nel discorso pubblico italiano ed europeo. 63 It Happened One Night; Mr. Deeds Goes to Town; You Can’t Take It with You; Mr. Smith Goes to Washington (Mr. Smith va a Washington, 1939); Meet John Doe (Arriva John Doe, 1941); It’s a Wonderful Life (La vita è meravigliosa, 1946). 64 Slotkin, Gunfighter Nation, cit., p. 155. L’accettazione di una posizione sociale media, al riparo da inutili e pericolose ambizioni, è il cuore del messaggio di uno dei più duraturi successi di Capra, It’s a Wonderful Life. Una delle canzoni di maggior successo del periodo, lanciata nel 1932 dal musical di Broadway Americana e portata in classifica da Bing Crosby (ma cantata anche da Al Jolson e Rudy Vallée), è Brother, Can You Spare a Dime?, in cui un uomo si dispera per esser stato ridotto in miseria, nonostante abbia contribuito alla costruzione del sogno americano, e come soluzione chiede lamentosamente cinque centesimi di elemosina. 65 Ivi, p. 136. 66 Dust Bowl («bacino di polvere») è un termine che indica il disastro ecologico, economico e sociale che dal 1935 al 1940 si abbatte sulle grandi distese pianeggianti degli Usa situate in Kansas, Colorado, Oklahoma, Texas e Nuovo Messico. Negli anni precedenti in queste aree si erano organizzate monocolture commercialmente molto redditizie (cotone, granturco, grano), una scelta che aveva reso friabile la superficie coltivata. Nel 1935 a prolungate siccità, che rendono ancor più friabili le terre, sono seguite delle violentissime tempeste di vento; di conseguenza si sollevano enormi nuvole di polvere che seppelliscono qualunque cosa incontrino sul loro cammino per chilometri e chilometri: attrezzi, animali, case, villaggi. L’agricoltura delle zone colpite, già duramente provata dalla Grande Depressione, ne esce praticamente distrutta, e centinaia di migliaia di mezzadri, irrimediabilmente indebitati, sono costretti (dai proprietari, o dalle banche, o dalle aziende produttrici di macchine agricole) ad abbandonare le loro terre per cercare fortuna in California. 67 John Steinbeck, Furore, Bompiani, Milano 2012, p. 474. 68 Peraltro, Robert S. Lynd e Helen Merrell Lynd, nel loro fondamentale studio sociologico su Muncie, Indiana, compiuto nel 1924-1925 e pubblicato nel 1929, mostrano come questo atteggiamento sia apprezzato anche prima dello scoppio della crisi economica; i libri di narrativa più diffusi nella comunità sono quelli che raccontano storie – in qualche misura – edificanti: «Come nelle leggende primitive, la funzione sociale di queste scorrerie nel regno della fantasia esige che le esperienze vissute in modo surrogatorio siano felici o eroiche. “Ci sono già abbastanza guai nel mondo in cui viviamo, perché se ne dovrebbero mettere anche nei libri?” – è un’opinione che si sente spesso ripetere in relazione con l’esigenza prevalente “di storie che finiscano bene, o almeno, se non proprio bene, in modo da esaltarci e da farci sentire che il mondo continua la propria vita”» (Lynd-Merrell Lynd, Middletown, vol. I, cit., p. 246; vedi anche p. 274). 69 Nathanson, Over the Rainbow, cit., vede nella quest di Dorothy una replica di una progressione verso il Paradiso; Lawrence e Jewett, in The Myth of the American Superhero, cit., vedono nella fattiva etica protestante del successo come chiamata

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NOTE

mistica (ma anche, si potrebbe aggiungere, nell’etica religiosa ebraica) una delle radici che modellano l’idea del supereroe. 70 Clifford Geertz, Interpretazione di culture, il Mulino, Bologna 1987, p. 157. 71 Horkheimer-Adorno, Dialettica dell’illuminismo, cit., pp. 154-155. 72 Cfr. Eldridge, American Culture in the 1930s, cit., pp. 32, 53, 57 e 67. 73 E questo è il limite che trovo nelle analisi di Horkheimer e Adorno che altrimenti, secondo me, meritano tutt’ora il massimo rispetto.

III. Contronarrazioni in musica: blues, hillbilly, folk Nel sistema di etichettatura delle diverse classifiche, adottato dalla rivista «Billboard», fino al numero dell’8 gennaio 1944 non c’è una classifica a parte per questo genere di musica; da quel numero compare la classifica che ha questa titolatura: «Most-Played Juke Box Folk Records»; nei numeri precedenti e in quelli successivi, peraltro, nei titoli di singoli articoli o in specifiche rubriche, si usano indifferentemente i termini «Hillbilly Tunes», «Cow Boy Songs», «American Folk Tunes»; nelle pubblicità compaiono poi sempre più spesso anche le etichette «Country» e «Western». Dal numero del 25 giugno 1949 la titolatura «Folk» è sostituita da «Folk (Country & Western) Record Section». Dal 1953 la titolatura viene semplificata in «Country» (Cfr. Richard A. Peterson, Creating Country Music. Fabricating Authenticity, The University of Chicago Press, Chicago-London 1997, p. 185). Sulla valenza negativa del termine «hillbilly» si veda più avanti, par. 5. 2 Discutendo del libretto di corredo curato da Harry Smith per la Anthology, Greil Marcus osserva: «Nonostante le sue meticolose annotazioni, nessun interprete fu mai identificato in base alla razza, instillando deliberatamente una confusione che, alle orecchie di certi ascoltatori, persiste tutt’oggi. “Ci vollero degli anni” disse [Harry Smith] raggiante nel 1968 “prima che qualcuno scoprisse che Mississippi John Hurt non era un hillbilly”» (Greil Marcus, Bob Dylan. La repubblica invisibile, Arcana, Padova 1997, p. 87). 3 Harry Smith, Foreword, p. 2, ristampa anastatica del libretto allegato all’edizione del 1952, adesso allegato all’edizione in cd della Anthology of American Folk Music, Smithsonian Folkways Recordings-Sony Music, 1997. 4 Harry Smith è morto nel 1991. Nel 2000 la Revenant Records ha in effetti pubblicato la Harry Smith’s Anthology of American Folk Music, Volume 4, un cofanetto di due LP curato in collaborazione con lo Harry Smith Archives, che contiene un’ulteriore selezione di folk songs, tra cui anche un brano di Huddie «Leadbelly» Ledbetter, Packin’ Trunk Blues (1935), che però non è uno dei suoi brani più militanti. 5 Dal 1916 al 1930 un milione di neri si muove dal Sud. Dal 1917 al 1923, 50.000 neri si trasferiscono dal Sud a Chicago, concentrati nel South Side (Currell, American Culture in the 1920s, cit., p. 74). Una vivace descrizione «dall’interno» dei locali dove si fa del jazz a Chicago, Detroit o New York la si trova in Milton Mezzrow Bernard Wolfe, Ecco i blues, Club degli Editori, Milano 1973, autobiografia di Mezz Mezzrow, un musicista jazz bianco, di famiglia ebraica, con uno sconfinato rispetto per i neri, tanto da dichiararsi egli stesso di «Razza negra» (ivi, p. 255). Il libro è stato originariamente pubblicato nel 1946 col titolo Really the Blues. 1

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Vincenzo Martorella, Il Blues, Einaudi, Torino 2009, p. 115. Fabbri, Around the clock, cit., p. 36. 8 A New York, tra la 28a e Broadway, «avevano sede le principali case editrici musicali. I loro uffici erano invasi in permanenza da songwriters che cercavano di piazzare le proprie composizioni, dandone un rapido saggio al piano. La cacofonia delle innumerevoli dimostrazioni suonate contemporaneamente su altrettanti pianoforti fu paragonata con felice ironia al frastuono di centinaia di tin pans, tegami di stagno, per l’appunto. Per estensione, il nome del rione dove questo frastuono si produceva è passato a indicare, nel linguaggio comune, una lunga stagione dell’industria della canzone americana, che durò fino a metà del Novecento, i suoi autori e i suoi canoni stilistici» (Edoardo Fassio, Blues, Laterza, Roma-Bari 2006, p. 40). 9 Cfr. Christopher Small, Music of the Common Tongue. Survival and Celebration in African American Music, Wesleyan University Press, Hanover 1998; e Martorella, Il Blues, cit., p. 13. 10 Currell, American Culture in the 1920s, cit., p. 75; Fassio, Blues, cit., p. 16; Martorella, Il Blues, cit., p. 116. Gussow accetta la stima di 75.000 copie vendute nelle prime quattro settimane, ma avanza dubbi sul milione di copie, ritenendo che la cifra possa includere non solo i dischi ma anche gli spartiti o i rulli per pianole automatiche (Adam Gussow, Seems Like Murder Here. Southern Violence and the Blues Tradition, University of Chicago Press, Chicago-London 2002, pp. 160 e 299, n. 2). La OKeh si convince a registrare Mamie Smith perché la concorrenza della radio sta facendo flettere le vendite dei dischi: e così i dirigenti di questa casa discografica si decidono a tentare la via del mercato afroamericano, in precedenza del tutto trascurato, nella convinzione che le famiglie afroamericane che già possiedono un fonografo preferiscano continuare a comprare dischi anziché acquistare un costoso apparecchio radio. 11 Tra le eccezioni c’è anche Mezz Mezzrow (cfr. Mezzrow-Wolfe, Ecco i blues, cit., pp. 36-37). 12 Currell, American Culture in the 1920s, cit., p. 78; Ronald D. Cohen, Folk Music. The Basics, Routledge, New York 2006, pp. 34-35; David Evans, The Development of the Blues, in Allan Moore (ed.), The Cambridge Companion to Blues and Gospel Music, Cambridge University Press, Cambridge 2002, p. 27; Martorella, Il Blues, cit., pp. 146-171. 13 Currell, American Culture in the 1920s, cit., p. 78. 14 Cohen, Folk Music, cit., pp. 33-34. Sulle premesse e le origini lontane del blues si vedano LeRoi Jones, Il popolo del blues. Sociologia dei negri americani attraverso l’evoluzione del jazz, Einaudi, Torino 1974, pp. 27-84; Evans, The Development of the Blues, cit., pp. 22-27; e Martorella, Il Blues, cit., pp. 5-69. 15 Martorella, Il Blues, cit., pp. 47-55; e Allan Moore, Surveying the Field: Our Knowledge of Blues and Gospel Music, in Id. (ed.), The Cambridge Companion To Blues, cit., p. 2. Nel Delta sono nati Charley Patton (?-1934), Mississippi John Hurt (1893-1966), Tommy Johnson (1896-1956), Ishmon Bracey (1901-1970), Son House (1902-1988), Skip James (1902-1969) e Robert Johnson (1911-1938). 16 Martorella, Il Blues, cit., p. 121. 17 William G. Roy, «Race Records» and «Hillbilly Music»: Institutional Origins of Racial Categories in the American Commercial Recording Industry, in «Poetics», 6 7

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NOTE

2004, vol. 32, nn. 3-4, p. 273; Evans, The development of the blues, cit., pp. 28-30; Martorella, Il Blues, cit., pp. 118 e 123-125; R.A. Lawson, Jim Crow’s Counterculture. The Blues and Black Southerners, 1890-1945, Louisiana State University Press, Baton Rouge 2010, pp. 130-131. 18 Blind Lemon Jefferson, Long Lonesome Blues, marzo 1926, prime due strofe, in http://weeniecampbell.com/wiki/index.php?title=Long_Lonesome_Blues. 19 Martorella, Il Blues, cit., pp. 76-77; Alessandro Portelli, Prefazione. La sua voce parla per noi, in Luigi Monge, Robert Johnson. I Got The Blues. Testi commentati, Arcana, Roma 2008, p. 18. 20 Anche nella forma musicale possono esserci varianti che sono comunque limitate (sequenze da 8 o da 16 battute; diversa successione di tonica, dominante e sottodominante; differente rapporto tra parte cantata e parte strumentale), che tuttavia non mettono in discussione l’impianto complessivo. 21 Cfr., per esempio, Mama’s Got the Blues, registrato da Bessie Smith nel 1923; Barrel House Blues, inciso da Gertrude «Ma» Rainey nello stesso anno, ha un testo strutturato nella forma-blues, mentre l’arrangiamento e l’esecuzione differiscono notevolmente dalla forma-blues, che invece è già adottata da Bessie Smith nel brano citato. 22 Gli spiritual sono i canti religiosi creati sin dal XVIII secolo dagli afroamericani convertiti alla religione cristiana, soprattutto dalle comunità dei metodisti e battisti bianchi, di norma eseguiti «a cappella» (cfr. Don Cusic, The Development of Gospel Music, in Moore (ed.), The Cambridge Companion To Blues, cit., pp. 46-50; e Martorella, Il Blues, cit., pp. 26-33). I gospel sono i canti religiosi impiegati nelle congregazioni protestanti afroamericane, derivati dagli spiritual, e influenzati sia dal blues che dal jazz; la forma standard del gospel viene fissata dalle creazioni musicali di Thomas A. Dorsey (1899-1993), che è stato il direttore musicale della Pilgrim Baptist Church di Chicago dal 1932 fino agli anni Settanta. I gospel sono basati su una struttura a call and response, con il leader che enuncia una frase, e il coro che risponde con un’altra frase di completamento o di dialogo; i testi, sempre di carattere religioso, contrappongono una radicale disperazione per la vita terrena a una radiosa speranza riposta nella vita che verrà (cfr. Cusic, The Development of Gospel Music, cit.; Brian Ward, Just My Soul Responding. Rhythm and Blues, Black Consciousness, and Race Relations, University of California Press, Berkeley-Los Angeles 1998, pp. 194-195). Sulla Harlem Renaissance, movimento letterario e artistico newyorchese promosso da intellettuali afroamericani nei primi decenni del XX secolo, si veda Paola Boi, Un modernismo esemplare: il Rinascimento di Harlem, in Antonelli-Mariani (a cura di), Il Novecento USA, cit. Sulle resistenze che molti intellettuali della Harlem Renaissance oppongono al blues, con le importanti eccezioni di Zora Neale Hurston e Langston Hughes, cfr. Angela Y. Davis, Blues Legacies and Black Feminism. Gertrude «Ma» Rainey, Bessie Smith, and Billie Holiday, Vintage Books, New York 1999, pp. 144-160. 23 Ampie panoramiche sulla ricerca etnomusicologica si trovano in Cohen, Folk Music, cit., capp. 1 e 2; Currell, American Culture in the 1920s, cit., pp. 60-64; Martorella, Il Blues, cit., pp. 33-36 e 134-138; William G. Roy, Reds, Whites, and Blues. Social Movements, Folk Music, and Race in the United States, Princeton University Press, Princeton-Oxford 2010, capp. 2-5.

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Sull’incontro tra i Lomax e Ledbetter cfr. Lawson, Jim Crow’s Counterculture, cit., pp. 28-44; e Roy, Reds, Whites, and Blues, cit., pp. 106-110. I paragrafi seguenti sono basati su Charles Wolfe - Kip Lornell, The Life And Legend Of Leadbelly, Da Capo Press, New York 1999, Kindle file. 25 Secondo Wolfe e Lornell, probabilmente è qui che gli viene dato il soprannome «Leadbelly»: «Il suo soprannome derivò dalla sua capacità di svolgere il ruolo di leader tra i gruppi di detenuti che lavoravano nei campi di cotone a Sugarland. Lui lavorava velocemente, e le canzoni che conosceva e cantava rendevano il lavoro più leggero per tutti. Un giorno il cappellano della prigione, il reverendo “Sin Killer” Griffin, andò da lui. “Mi dice, sei un tipo tosto. Invece delle viscere, ci devi aver del piombo nella pancia. Ecco che cosa sei, vecchio Leadbelly!”» (Wolfe-Lornell, The Life And Legend Of Leadbelly, cit., Kindle file, cap. 10). 26 In «Life», April 19, 1937, pp. 38-39. 27 Evans, The Development of the Blues, cit., pp. 33-34. 28 Philip H. Ennis, The Seventh Stream. The Emergence of Rocknroll in American Popular Music, Wesleyan University Press, Hanover-London 1992, p. 101; Fabbri, Around the clock, cit., p. 76; Millard, America on Record, cit., pp. 169-170; Kelly Schrum, Some Wore Bobby Sox. The Emergence of Teenage Girls’ Culture, 1920-1945, Palgrave Macmillan, New York 2004, p. 102. 29 Negro Sinful Songs, per la Musicraft, 1939; «The Midnight Special» and Other Southern Prison Songs, per la Rca Victor, 1941; Play Parties in Song and Dance as Sung by Lead Belly, per la Asch Recordings, 1941; e Work Songs of the USA Sung by Leadbelly, sempre per la Asch Recordings, 1942. Cfr. Cohen, Folk Music, cit., p. 82. 30 Sul concetto di «aura» in relazione alla riproduzione tecnica delle opere d’arte, si veda il fondamentale saggio di Walter Benjamin, L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica [1936], in Id., L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica. Arte e società di massa, Einaudi, Torino 2008. 31 Gussow, Seems Like Murder Here, cit.; Lawson, Jim Crow’s Counterculture, cit. 32 La peggiore è l’alluvione del Mississippi, del 1927, durante la quale centinaia di migliaia di neri sono sottoposti a terribili angherie e vessazioni; cfr., al riguardo, Davis, Blues Legacies and Black Feminism, cit., pp. 108-111. Cfr., come esempi di blues «di denuncia», Blind Lemon Jefferson, Rising High Water Blues, 1927; Barbecue Bob, Mississippi Heavy Water Blues, 1927; Bessie Smith, Backwater Blues, 1927; Sippie Wallace, Flood Blues, 1927; Bessie Smith, Homeless Blues, 1927; Bessie S ­ mith, Poor Man’s Blues, 1928; Mississippi John Hurt, Spike Driver Blues, 1928; Charley Patton, High Water Everywhere, 1929; Memphis Minnie, When the Levee Breaks, 1929; The Masked Marvel [Charley Patton], Mississippi Boweavil Blues, 1929; Son House, Dry Spell Blues (part 1 - part 2), 1930; Skip James, Hard Time Killing Floor Blues, 1931; Hezekiah Jenkins, The Panic Is On, 1931; Victoria Spivey, TB’s Got Me, 1936; Lonnie Johnson, Hard Times Ain’t Gone No Where, 1937; Josh White, One Meat Ball, 1944. 33 Con pochissime eccezioni, tra cui Strange Fruit, cantata da Billie Holiday, che tuttavia – stilisticamente – non è un blues, e non nasce all’interno degli ambienti tipici del blues. Esamino più avanti il rilievo di questa straordinaria canzone. Tra i blues, un riferimento relativamente diretto alla fuga dal Sud razzista lo si può tro24

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vare in Northbound Blues, 1925, di Maggie Jones («Got my ticket in my hand / And I’m leaving Dixieland / Going North, child, where I can be free / Where there’s no hardships, like in Tennessee / Going where they don’t have Jim Crow laws» [«Jim Crow laws» è il modo in cui sono popolarmente designate le leggi che fondano il sistema della segregazione]); e in Jim Crow Blues, 1929, di Cow Cow Davenport. In 99 Years Blues, 1927, di Julius Daniels, la voce narrante racconta di aver ucciso coloro che lo hanno frustato, spiegando poi che questo omicidio gli è costato una condanna a 99 anni di lavori forzati: se c’è un conflitto razziale, resta tuttavia implicito, giacché il testo non chiarisce se le persone uccise siano dei bianchi o dei neri. 34 Si veda, per esempio, Nobody Knows You When You’re Down and Out, 1929, di Bessie Smith. 35 Cfr. Portelli, Prefazione. La sua voce parla per noi, cit. 36 Mama’s Got the Blues, 1923, scritto da Sara Martin e Clarence Williams. Altri esempi di questa figura narrativa in Ida Cox, Rambling Blues, 1925; Blind Willie McTell, Mama, Tain’t Long Fo’ Day, 1927; Blind Lemon Jefferson, Lonesome House Blues, 1927; Bessie Smith, Blue Spirit Blues, 1930; Little Brother Montgomery, The First Time I Met You, 1936; Robert Johnson, Hellhound on My Trail, 1937; Robert Johnson, Preachin’ Blues (Up Jumped The Devil), 1939; Big Bill Broonzy, Conversation with the Blues, 1941; Son House, The Jinx Blues, 1942. 37 In diversi blues si fa esplicito riferimento all’esperienza della migrazione nera dal Sud verso le città industriali del Nord e dell’Ovest (cfr., per esempio, Maggie Jones, Northbound Blues, 1925; Blind Arthur Blake, Detroit Bound Blues, 1928; Cow Cow Davenport, Jim Crow Blues, 1929; Robert Johnson, Sweet Home Chicago, 1937; Jelly Roll Morton, Levee Man Blues, 1938). 38 Davis, Blues Legacies and Black Feminism, cit., pp. 67-74. 39 Trad. in Elena Clementelli - Walter Mauro (a cura di), Antologia del blues, Guanda, Milano 1976, p. 77. Impianto simile ha anche Lost Wandering Blues, di Gertrude «Ma» Rainey. 40 Trad. in Monge, Robert Johnson, cit., p. 191. 41 Sul larghissimo consumo di alcol e droga nelle comunità afroamericane, cfr. Gussow, Seems Like Murder Here, cit., p. 178; e Lawson, Jim Crow’s Counterculture, cit., pp. 70 e 222, n. 121. Sulla diffusione di alcol, marijuana, oppio, cocaina tra i musicisti jazz, cfr. anche Mezzrow-Wolfe, Ecco i blues, cit., pp. 53-59, 73-82, 134, 164-167, 176-185 e 225-229: Milton Mezzrow vi si autodescrive come abituale consumatore di queste droghe e spacciatore di marijuana. 42 «Mi piace il whisky e mi piace il gin / Ma il modo in cui mi butto sulla coca è un maledetto peccato / Ehi, ehi, dolcezza, fammi dare una sniffata» (Memphis Jug Band, Cocaine Habit Blues, 1930). 43 Victoria Spivey, Dope Head Blues, 1927. Altri esempi in Gertrude «Ma» Rainey, Barrel House Blues, 1923; Bessie Smith, The Gin House Blues, 1926; Tommy Johnson, Canned Heat Blues, 1928; Luke Jordan, Cocaine Blues, 1929; Peetie Wheat­straw, Good Whiskey Blues, 1935; Robert Johnson, Malted Milk, 1937; Jelly Roll Morton, The Winin’ Boy, 1938; Jimmie Gordon, Bleeding Heart Blues, 1938; Peetie Wheatstraw, You Can’t Stop Me from Drinking, 1939. 44 Cfr. anche Blind Willie McTell, A to Z Blues, 1924; e Uncle Skipper, Cuttin’

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My ABCs, 1937. Su questi testi si vedano le osservazioni di Gussow, Seems Like Murder Here, cit., pp. 41-42 e 198. 45 Trad. in Monge, Robert Johnson, cit., p. 108. 32-20 è il calibro della pistola che l’io narrante vorrebbe usare. La canzone viene registrata da Johnson il 26 novembre 1936, ma viene pubblicata nel 1937. «Il pezzo costituisce l’unica cover del canzoniere di Johnson ed è un riadattamento per chitarra dell’anarchico blues pianistico di Nehemiah “Skip” James intitolato 22-20 Blues, registrato a Grafton, Wisconsin, nel 1931» (ivi, p. 106). Cfr. anche Gussow, Seems Like Murder Here, cit., p. 43. 46 Trad. ibid. 47 Altri esempi in Davis, Blues Legacies and Black Feminism, cit., pp. 34-36. 48 Altri esempi: Julius Daniels, 99 Years Blues, 1927; Blind Lemon Jefferson, Penitentiary Blues, 1928; Blind Lemon Jefferson, Prison Cell Blues, 1928; The Memphis Jug Band, K.C. Moan, 1929; Son House, Country Farm Blues, 1942. 49 Ma non per le comunità afroamericane, all’interno delle quali, già in questi anni, i comportamenti sessuali sono molto più disinvolti e meno moralmente normati che nel resto della società statunitense (John D’Emilio - Estelle B. Freedman, Intimate Matters. A History of Sexuality in America, Harper & Row, New York 1988, p. 187). 50 Davis, Blues Legacies and Black Feminism, cit., pp. 39-41; e Martorella, Il Blues, cit., p. 154. 51 Cfr. Lawson, Jim Crow’s Counterculture, cit., pp. 19-20; Davis, Blues Legacies and Black Feminism, cit., pp. 152-154. 52 Angela Davis enfatizza persuasivamente la natura sovversiva dei blues a tema sessuale cantati da donne (Davis, Blues Legacies and Black Feminism, cit., pp. 11 e sgg.). Altri esempi, oltre a quelli citati nel testo, in Gertrude «Ma» Rainey, Barrel House Blues, 1923; Bessie Smith, Reckless Blues, 1925, Careless Love Blues, 1925 e Squeeze Me, 1926; Blind Lemon Jefferson, Black Snake Moan, 1927; Memphis Minnie, Bumble Bee, 1929; Bessie Smith, Take Me for a Buggy Ride, 1933; Bo Carter, Don’t Mash My Digger So Deep, 1936; Robert Johnson, Come on in My Kitchen, They’re Red Hot, Milkcow’s Calf Blues, tutte e tre edite nel 1937, e Little Queen of Spades, 1938. 53 Cfr., per esempio, Minglewood Blues, 1928, dei Cannon’s Jug Stompers con Noah Lewis, incluso nella Anthology of American Folk Music. 54 Love in Vain Blues è registrata nel 1937 e pubblicata nel 1939; I’m a Steady Rollin’ Man viene registrata e pubblicata nel 1937. 55 Cit. in Davis, Blues Legacies and Black Feminism, cit., p. 38. 56 Del brano ci sono innumerevoli altre cover, tra cui una reinterpretazione dei Led Zeppelin, prima nell’album Presence (1976) e poi ancora nell’album No Quarter, di Jimmy Page e Robert Plant, edito nel 1994. Da tutti i punti di vista, la versione di Blind Willie Johnson non ha niente da invidiare a quelle – peraltro eccellenti – dei Led Zeppelin. Un’altra delle sue eccezionali performance (John the Revelator, 1930, cantata insieme a Angeline Johnson) è ospitata nella Anthology of American Folk Music. 57 Tra di essi Charley Patton, Blind Willie McTell, Rosetta Tharpe, ecc. (cfr. Steve Tracy, «Black twice»: Performance Conditions for Blues and Gospel Artists, in

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Moore (ed.), The Cambridge Companion To Blues, cit., pp. 97-98); Gertrude «Ma» Rainey ed Ethel Waters alla fine della loro carriera si dedicano solo alla spiritualità e alla loro congregazione (Davis, Blues Legacies and Black Feminism, cit., p. 125), mentre Sara Martin abbandona il blues per il gospel (Marcus, Bob Dylan. La repubblica invisibile, cit., p. 125). 58 Small, Music of the Common Tongue, cit., p. 191. 59 Martorella, Il Blues, cit., p. 214. Cfr. anche la testimonianza simile di Ida Goodson, in Davis, Blues Legacies and Black Feminism, cit., pp. 6-7. 60 Peterson, Creating Country Music, cit., pp. 17-20; Don Cusic, Discovering Country Music, Praeger, Westport (Conn.) 2008, pp. 7-8; Cohen, Folk Music, cit., pp. 29-30. 61 Peterson, Creating Country Music, cit., pp. 196-197; Cusic, Discovering Country Music, cit., pp. 12-17. 62 Peterson, Creating Country Music, cit., pp. 37-43. 63 Tony Russell, Country Music Originals. The Legends and the Lost, Oxford University Press, New York 2007, p. 65. 64 Vedi, per esempio, della Carter Family, Worried Man Blues, 1929; Hello Stranger, 1938; o Coal Miner’s Blues, 1938. 65 Charles K. Wolfe, Classic Country. Legends of Country Music, Routledge, New York-London 2001, p. 6; Peterson, Creating Country Music, cit., pp. 48-50; Russell, Country Music Originals, cit., pp. 69-70. Peraltro, Jimmie Rodgers si apre anche a tradizioni che non hanno alcun rapporto col folklore statunitense, inserendo nelle sue canzoni degli intermezzi yodel che il cantante usa come sua esclusiva «firma» musicale, raggiungendo vette di straniante sincretismo in brani in cui mescola strutture blues, esecuzione folk e yodeling, come in Blue Yodel No. 1, registrato nel 1927 e commercializzato nel 1928, brano che apre un’intera sequenza di canzoni con queste caratteristiche; invece in Blue Yodel No. 4 (California Blues), 1928, Rod­ gers unisce struttura blues, yodeling e arrangiamento musicale in stile dixieland. In seguito anche altri artisti hillbilly, ispirandosi a Rodgers, ricorrono allo yodeling, da Patsy Montana a Gene Autry, a Hank Williams. 66 La soluzione dominante è articolata in strofe di quattro versi, con tre sistemi di rima prevalenti: ABCB; AABB; ABAB. 67 Su questi aspetti della storia del country cfr. Peterson, Creating Country Music, cit., cap. 4. 68 Marcus, Bob Dylan. La repubblica invisibile, cit., pp. 97-98. 69 Cusic, Discovering Country Music, cit., pp. 26-28. 70 Ivi, pp. 28 e 40-42. 71 Cfr., al riguardo, Peterson, Creating Country Music, cit., pp. 71-77; Cohen, Folk Music, cit., pp. 32 e 57. 72 Per quanto segue cfr. Peterson, Creating Country Music, cit., pp. 83-88; e Cusic, Discovering Country Music, cit., pp. 38-45. 73 Stedman, The Serials, cit., pp. 98-99. 74 La canzone è tratta da The Young People’s Hymnal No. 2, ed è stata scritta originariamente nel 1899 da Ada Blenkhorn (Wolfe, Classic Country, cit., p. 4); la prima incisione della Carter Family risale al 9 maggio 1928 (Tony Russell, Country Music Records. A Discography, 1921-1942, Oxford University Press, New York 2004, p. 187).

iii. contronarrazioni in musica: blues, hillbilly, folk

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La Carter Family incide la canzone l’8 giugno 1938 (Russell, Country Music Records, cit., p. 195). 76 Dello stesso tenore sono altri successi hillbilly, come la già citata That Silver Haired Daddy of Mine, di Gene Autry, 1931; Mother the Queen of My Heart, di Jimmie Rodgers, 1932; Can the Circle Be Unbroken (Bye and Bye), della Carter Family, 1935; Dear Brother, di Hank Williams, 1949. 77 Anchored in Love, registrato dalla Carter Family il 9 maggio 1928; cfr. Russell, Country Music Records, cit., p. 187. Altri esempi: Ernest Phipps and His Holiness Singers, Shine on Me, 1928; Bascom Lamar Lunsford, Dry Bones, 1928; The Carter Family, Little Moses, 1929; The Carter Family, When the World’s on Fire, 1930; The Carter Family, Lonesome Valley, 1930; Hank Williams, I Saw the Light, 1948. 78 Il tema della morte è esplorato in uno specifico tipo di canzone, il commiato funebre: cfr., per esempio, The Carter Family, Will You Miss Me When I’m Gone, 1928; Jimmie Rodgers, T.B. Blues, 1931; The Carter Family, Darling Little Joe, 1934; The Carter Family, Can the Circle Be Unbroken (Bye and Bye), 1935; Hank Williams, Six More Miles (to the Graveyard), 1948; Hank Williams, Dear Brother, 1949. Cfr., al riguardo, Charles Reagan Wilson, Digging Up Bones: Death in Country Music, in Melton A. McLaurin - Richard A. Peterson (eds.), You Wrote My Life. Lyrical Themes in Country Music, Gordon and Breach, Philadelphia 1992. 79 Le canzoni citate sono, nell’ordine: Henry Lee, di Dick Justice, 1929; The Butcher’s Boy, di Buell Kazee, 1928; Black Jack David, della Carter Family, 1940; Ommie Wise, di G.B. Grayson, 1927. 80 Jimmie Rodgers, Blue Yodel No. 1 (T for Texas), 1927. 81 Jimmie Rodgers, Memphis Yodel, 1928. 82 The Carter Family, I’m Thinking Tonight of My Blue Eyes, 1935. 83 The Carter Family, Little Darling Pal of Mine, 1928. 84 Tra le canzoni più celebri: Vernon Dalhart, The Wreck on the Southern Old 97, 1924 e Wreck of the Titanic, 1927; Roy Acuff, Wreck on the Highway, 1942. In realtà, il genere – di cui Vernon Dalhart è quasi uno specialista – conta un numero altissimo di canzoni simili, come si può facilmente constatare scorrendo il repertorio discografico di Tony Russell (Russell, Country Music Records, cit.). 85 Kelly Harrell, My Name Is John Johanna, 1927; The Williamson Brothers and Curry, Gonna Die with My Hammer in My Hand, 1927; The Carolina Tar Heels, Peg and Awl, 1928; Bascom Lamar Lunsford, I Wish I Was a Mole in the Ground, 1928; Uncle Dave Macon, Buddy Won’t You Roll Down the Line, 1928; Jimmie Rodgers, Train Whistle Blues, 1929; The Bently Boys, Down on Penny’s Farm, 1929; The Carolina Tar Heels, Got the Farm Land Blues, 1930; Ken Maynard, The Lone Star Trail, 1930; The Carter Family, Coal Miner’s Blues, 1938. 86 La Carter Family incide No Depression il 9 giugno 1936 (Russell, Country Music Records, cit., p. 194). In forma più diretta Jimmie Rodgers, in No Hard Times, brano inciso il 15 agosto del 1932, interpreta il ruolo di uno che nega risolutamente che ci sia una crisi. Cfr. Alessandro Portelli, Canzone politica e cultura popolare in America. Il mito di Woody Guthrie, DeriveApprodi, Roma 2004, pp. 58-61; e Richard A. Peterson, Class Unconsciousness in Country Music, in McLaurin-Peterson (eds.), You Wrote My Life, cit. 75

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NOTE

In qualche caso si narrano storie di criminali pentiti, come in Bandit Cole Younger, di Edward L. Crain (1930). 88 In una incisione del 1931 (C & A Blues), il bluesman nero Peetie Wheatstraw ripete quasi alla lettera questi versi. 89 Single Girl, Married Girl, della Carter Family, è del 1927 e deriva da un’altra canzone, registrata nel 1925 dall’etnomusicologo Robert Winslow Gordon col titolo di Single Girl. Questa versione, più lunga ed elaborata di quella della Carter Family, è stata più volte interpretata – in diverse varianti – da numerosi artisti hillbilly. Sul tema cfr. anche Ruth A. Banes, Dixie’s Daughters: The Country Music Female, in McLaurin-Peterson (eds.), You Wrote My Life, cit. 90 E ciò, nonostante le frequentazioni che molti artisti hillbilly hanno avuto con bluesmen afroamericani, da cui imparano tecniche chitarristiche e – soprattutto – la forma-blues. 91 Greil Marcus, Quella vecchia strana America. I «Basement Tapes» di Bob Dylan e la metamorfosi culturale del grande paese, Arcana, Roma 2002; il titolo originale del libro è The Old, Weird America; la precedente edizione di questo stesso libro ha un titolo diverso: Bob Dylan. La repubblica invisibile, cit. 92 Cfr. Peterson, Creating Country Music, cit., pp. 191-192; e Cusic, Discovering Country Music, cit., p. 56. 93 Portelli, Canzone politica e cultura popolare, cit., pp. 140-141; Will Kaufman, Woody Guthrie. American Radical, Arcana, Roma 2012, p. 70. 94 Eldridge, American Culture in the 1930s, cit., pp. 6-7; Roy, Reds, Whites, and Blues, cit., pp. 23 e 80-87. 95 Ivi, pp. 90-92. 96 Kaufman, Woody Guthrie, cit., p. 69. 97 Woody Guthrie, American Folksong, ed. by Moses Asch, Oak Publications, New York 1961, cit. da Portelli, Canzone politica e cultura popolare, cit., p. 79. 98 La rubrica esce 174 volte tra maggio 1939 e gennaio 1940 (Kaufman, Woody Guthrie, cit., p. 47). 99 Lewis A. Erenberg, Swingin’ the Dream. Big Band Jazz and the Rebirth of American Culture, The University of Chicago Press, Chicago-London 1998, pp. 120-121. 100 E non è finita qui: negli anni seguenti Hammond, che peraltro viene da una delle più importanti e ricche famiglie statunitensi, come produttore per la Columbia sarebbe diventato uno dei personaggi più significativi nel mondo musicale americano, scoprendo e ingaggiando autori del calibro di Bob Dylan, Leonard Cohen, Bruce Springsteen e un’infinità di altri di prima grandezza; per la sua attività negli anni Trenta cfr. Erenberg, Swingin’ the Dream, cit., pp. 124-129. 101 Le torch songs sono le canzoni che parlano di amori infelici. 102 Su tutta la vicenda cfr. David Margolick, Strange Fruit. Billie Holiday, Café Society, and an Early Cry for Civil Rights, Running Press, Philadelphia-London 2000; e Meg Greene, Billie Holiday. A Biography, Greenwood Press, Westport (Conn.)-London 2007, cap. 6. 103 Kaufman, Woody Guthrie, cit., p. 66. 104 Cit. in Portelli, Canzone politica e cultura popolare, cit., p. 240. 105 Ivi, p. 182. 106 Kaufman, Woody Guthrie, cit., p. 106. 87

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Ivi, p. 107. Ivi, pp. 108-109. 109 Ivi, p. 119. 110 Ivi, p. 122. 111 Ivi, pp. 124-125. 112 Ivi, pp. 126-127. 113 Come nel caso di Tom Joad, una delle Dust Bowl Ballads, che è un efficace riassunto in musica della trama di The Grapes of Wrath. 114 Parlo della registrazione del 1939. In seguito, ne vengono fatte altre quattro: la prima durante il concerto Jazz at the Philarmonic, 1945; la seconda allo Storyville di Boston, 1951; una versione in studio del 1956; e la quarta in una trasmissione televisiva da Londra, del 1959 (Margolick, Strange Fruit, cit., p. 125). 115 Ned Rorem, citato da Margolick, Strange Fruit, cit., pp. 66-67. 116 Il primo verso è una citazione da The Star-Spangled Banner. Il termine «borghese», assolutamente assente nel resto del canzoniere di Ledbetter, è una trasposizione diretta dal lessico dei suoi nuovi conoscenti, radicali e marxisti. La regola della «autenticità» non è assoluta: Pete Seeger è figlio del musicologo Charles Seeger, e viene da un ambiente e da un’educazione pienamente middle class. 117 Trad. in Woody Guthrie, Le canzoni di Woody Guthrie, a cura di Maurizio Bettelli, Feltrinelli, Milano 2008, pp. 152-153. 118 Trad. ivi, pp. 184-187. 119 Nel 1935 il CP-Usa ha 31.000 iscritti; durante la guerra ne ha da 60.000 a 80.000 (Portelli, Canzone politica e cultura popolare, cit., p. 143; Todd Gitlin, The Sixties. Years of Hope, Days of Rage, Bantam, New York 1993, p. 72). 120 Cohen, Folk Music, cit., p. 63. 107

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IV. Un mondo giovane e inquieto 1 Secondo lo Oxford English Dictionary il termine sarebbe stato usato per la prima volta in «Popular Science Monthly» nell’aprile del 1941 (Grace Palladino, Teenagers. An American History, Basic Books, New York 1996, p. 268, n. 9); Kelly Schrum, tuttavia, osserva che se non il termine preciso, certamente il concetto era già largamente in uso sin dagli anni Venti (Schrum, Some Wore Bobby Sox, cit., p. 18). 2 Talcott Parsons, Age and Sex in the Social Structure of the United States [1942], in Id., Essays in Sociological Theory, The Free Press of Glencoe, New York 1964; Id., The School Class as a Social System: Some of Its Functions in American Society, in «Harvard Educational Review», vol. 29, n. 4 (Fall 1959); Id., Youth in the Context of American Society, in «Daedalus», vol. 91, n. 1 (Winter 1962). Parsons non è l’«inventore» di questa visione, che comincia a prendere forma sin dal tardo Ottocento: al riguardo cfr. Graham Murdock - Robin McCron, Consciousness of Class and Consciousness of Generation, in Stuart Hall - Tony Jefferson (eds.), Resistance Through Rituals. Youth Subcultures in Post-War Britain, Routledge, London-New York 2006, pp. 162 e sgg.; e Savage, L’invenzione dei giovani, cit. Questi autori, come anche Michael Brake, Comparative Youth Culture. The Sociology of Youth Cultures and Youth Subcultures in America, Britain and Canada, Routledge, London-New York 2003,

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NOTE

pp. 39-40, danno conto anche di altri importanti sviluppi della sociologia americana, promossi dalla cosiddetta «scuola di Chicago», che offre prospettive analitiche molto più articolate e ricche di quelle suggerite da Talcott Parsons; su questo importante panorama sociologico si veda anche Ken Gelder, Subcultures. Cultural Histories and Social Practice, Routledge, London-New York 2007, cap. 2. 3 Teen-Age Girls. They Live in a Wonderful World of Their Own, in «Life», December 11, 1944, p. 91; l’autore poi aggiunge: «[Queste ragazze] Hanno una condizione di vita migliore di molte loro coetanee [cioè sono di classe medio-alta] ma il loro modo di vita è tipico delle teenager di oggi. Tutte vanno alla stessa scuola, seguono gli stessi corsi, conoscono la stessa gente e generalmente mostrano l’appassionata uniformità di una cricca adolescenziale» (ivi, p. 92). Nel 1945 un servizio più sintetico viene dedicato ai teenager di Des Moines, Iowa (Teen-Age Boys. Faced with War, They Are Just the Same as They Have Always Been, in «Life», June 11, 1945, pp. 91-97). 4 Schrum, Some Wore Bobby Sox, cit., p. 12. Sul piano nazionale l’istruzione primaria diventa obbligatoria «solo nel 1918, ma il Massachusetts l’aveva introdotta già nel 1852 e lo Stato di New York nel 1853» (Sassoon, La cultura degli europei, cit., p. 36). 5 David Nasaw, Schooled to Order. A Social History of Public Schooling in the United States, Oxford University Press, Oxford 1981, pp. 87-89; Savage, L’invenzione dei giovani, cit., pp. 80-87. 6 Mary Beth Norton et al. (eds.), A People and a Nation. A History of the United States, Houghton Mifflin Company, Boston-New York 2008, pp. 600-601; Nasaw, Schooled to Order, cit., pp. 115 e sgg., e p. 161; Lynd-Merrell Lynd, Middletown, vol. I, cit., pp. 219-223. 7 Cfr. August B. Hollingshead, Elmtown’s Youth. The Impact of Social Classes on Adolescents, John Wiley & Sons, Inc., New York-London 1961, p. 168. In qualche caso, tuttavia, il sistema di istruzione superiore viene organizzato con l’attivazione di due tipi di scuole fisicamente e amministrativamente distinte: una «vocational», cioè professionalizzante; l’altra «academic», cioè orientata alla prosecuzione degli studi dopo la «graduation» (cioè la maturità) (cfr. William Graebner, Coming of Age in Buffalo. Youth and Authority in the Postwar Era, Temple University Press, Philadelphia 1990, pp. 103-106). 8 Hollingshead, Elmtown’s Youth, cit., pp. 192-203; James Coleman, The Adolescent Society. The Social Life of the Teenager and its Impact on Education, Green­ wood Press, Westport (Conn.) 1981; Palladino, Teenagers, cit., pp. 8-9. 9 Si consideri che nel 1930-1933 la percentuale corrispondente in Inghilterra e Galles era del 12%; in Francia dell’11%; in Germania del 25% (scesa al 16% nel 1939); e in Italia del 9% (dati tratti da B.R. Mitchell, International Historical Statistics. Europe 1750-1993, Macmillan, London 1998, pp. 20-23, 28-29, 41-43, 882-883 e 886). 10 Palladino, Teenagers, cit., pp. 39-42; Norton, A People and a Nation, cit., p. 732; Nasaw, Schooled to Order, cit., p. 163; Savage, L’invenzione dei giovani, cit., cap. 19; Alberto Martinelli, Università e società negli Stati Uniti, Einaudi, Torino 1978, p. 91. 11 B.R. Mitchell, International Historical Statistics. The Americas 1750-1993, Macmillan, London 1998, pp. 21, 23 e 724. 12 Nasaw, Schooled to Order, cit., pp. 165-166.

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Si vedano i dati presentati nell’importante ricerca sul campo che Hollings­ head ha compiuto tra il 1941 e il 1942 in una piccola città dell’Illinois (Hollings­ head, Elmtown’s Youth, cit., pp. 103-120, e l’intera parte IV del libro). 14 Frederic M. Thrasher, The Gang. A Study of 1.313 Gangs in Chicago, The University of Chicago Press, Chicago 2013; William Foote Whyte, Street corner society. Uno slum italo-americano, il Mulino, Bologna 2011. Cfr. anche Albert K. Cohen, Ragazzi delinquenti, Feltrinelli, Milano 1974, che alle pp. 104-105 del suo studio osserva che i ragazzi delle gang vengono di solito da famiglie di classe operaia che, per scelta o per la forza delle circostanze, controllano poco le attività extra-scolastiche dei ragazzi, i quali, dal canto loro, sin dall’infanzia hanno preso l’abitudine di avventurarsi liberamente per le strade del quartiere insieme ai loro coetanei di pari estrazione sociale. 15 Thrasher, The Gang, cit., p. 5; Hollingshead, Elmtown’s Youth, cit., pp. 393394. 16 Thrasher, The Gang, cit., pp. 191-193. 17 Ivi, p. 63. 18 Ivi, p. 95; e Whyte, Street corner society, cit. 19 Ivi, pp. 47-48. 20 Thrasher, The Gang, cit., pp. 284 (sulla lealtà di gruppo) e 36, 80 (sul significato del matrimonio); Hollingshead, Elmtown’s Youth, cit., pp. 394-395. 21 Thrasher, The Gang, cit., pp. 66-70; Whyte, Street corner society, cit., p. 82. 22 Whyte, Street corner society, cit., pp. 378-379. 23 «Seventeen» è una rivista fondata nel settembre del 1944; pensata esplicitamente per le adolescenti, contiene consigli su come comportarsi a scuola e con i ragazzi, e sezioni dedicate alla moda e alle star del cinema o della musica pop. Dopo il suo lancio, la tiratura cresce in breve da 530.000 copie a 1.000.000 (cfr. Palladino, Teenagers, cit., pp. 20-31 e 103; e Savage, L’invenzione dei giovani, cit., pp. 468-469). 24 [Stuart Hall - Tony Jefferson], Once More Around «Resistance Through Rituals», in Id. (eds.), Resistance Through Rituals, cit., p. xviii. 25 William Foote Whyte, A Slum Sex Code, in «American Journal of Sociology», vol. 49, n. 1 (July, 1943), p. 24. 26 Nels Anderson, Il vagabondo. Sociologia dell’uomo senza dimora, Donzelli, Roma 2011; Gelder, Subcultures, cit., pp. 33-34. 27 Hollingshead, Elmtown’s Youth, cit., pp. 168-174. 28 Ivi, pp. 201-215. 29 In molti Stati del Sud le high schools sono segregate razzialmente. Nel 1910 solo lo 0,8% (8.000 su 970.000) dei ragazzi e delle ragazze delle comunità afroamericane frequenta una high school (Norton, A People and a Nation, cit., p. 604). Nel 1930 la percentuale sale solo al 3%. Le high schools per neri passano da 67 nel 1916 a 1.860 nel 1928, ma a quella data ancora 300 contee di 14 Stati non offrono alcuna high school per neri; il rapporto insegnanti-studenti è di 1:210 per i neri contro 1:60 per i bianchi; e i finanziamenti statali ammontano in media a 20 dollari per studente nero e a 50 dollari per studente bianco (Palladino, Teenagers, cit., p. 12). 30 Graebner, Coming of Age in Buffalo, cit., pp. 60-62. «Life» documenta questi aspetti della sociabilità universitaria, pubblicando, per esempio, immagini delle affiliate alle sororities della University of Missouri («Life», June 7, 1937, p. 36) o di 13

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NOTE

un rituale di accettazione in una sorority di una high school («Life», December 11, 1944, p. 94). Sul sistema associativo delle fraternities e delle sororities nelle università cfr. Nicholas L. Syrett, The Company He Keeps. A History of White College Fraternities, The University of North Carolina Press, Chapel Hill 2009; Tamara L. Brown - Gregory S. Parks - Clarenda M. Phillips (eds.), African American Fraternities and Sororities. The Legacy and the Vision, The University Press of Kentucky, Lexington 2005; e Matthew W. Hughey - Gregory S. Parks (eds.), Black Greek-Letter Organizations 2.0. New Directions in the Study of African American Fraternities and Sororities, University Press of Mississippi, Jackson 2011. 31 Lynd-Merrell Lynd, Middletown, vol. I, cit., p. 224; Hollingshead, Elmtown’s Youth, cit., p. 220; Coleman, The Adolescent Society, cit., pp. 41-42. 32 Hollingshead, Elmtown’s Youth, cit., p. 343. 33 Ivi, pp. 196-198. Il Prom è il ricevimento di fine anno (Prom è un’abbreviazione per «Promenade»). 34 Ivi, pp. 390-412. 35 Ivi, pp. 175-176. Osservazioni simili in Cohen, Ragazzi delinquenti, cit., pp. 91-107. 36 Lynd-Merrell Lynd, Middletown, vol. I, cit., p. 224; Hollingshead, Elmtown’s Youth, cit., p. 220; Coleman, The Adolescent Society, cit., pp. 41-42. 37 Brake, Comparative Youth Culture, cit., pp. 55-56. 38 Cohen, Ragazzi delinquenti, cit., pp. 25 e 147-148. 39 Hollingshead, Elmtown’s Youth, cit., pp. 398-399; Whyte, A Slum Sex Code, cit. 40 Cohen, Ragazzi delinquenti, cit., pp. 156-158. 41 Hollingshead, Elmtown’s Youth, cit., pp. 228-230; John Modell, Into One’s Own. From Youth to Adulthood in the United States, 1920-1975, University of California Press, Berkeley-Los Angeles-London 1989, pp. 88-89; Elaine Tyler May, Homeward Bound. American Families in the Cold War Era, Basic Books, New York 2008, p. 114; Palladino, Teenagers, cit., p. 9. 42 Modell, Into One’s Own, cit., p. 228. 43 Hollingshead, Elmtown’s Youth, cit., pp. 221 e 233-234; Coleman, The Adolescent Society, cit., pp. 122-123; D’Emilio-Freedman, Intimate Matters, cit., pp. 261263; Modell, Into One’s Own, cit., pp. 99-100; Palladino, Teenagers, cit., pp. 25-27; Alice Echols, Graffi in Paradiso. La vita e i tempi di Janis Joplin, Arcana, Roma 2010, p. 34. 44 D’Emilio-Freedman, Intimate Matters, cit., p. 286; Modell, Into One’s Own, cit., pp. 40 e 97; Vicki L. Eaklor, Queer America. A GLBT History of the 20th Century, Greenwood Press, Westport (Conn.)-London 2008, p. 80; http://www.kinseyinstitute.org/research/ak-data.html. 45 Questa considerazione, che vale in particolare per le ragazze eterosessuali, vale certamente anche per ragazzi e ragazze omosessuali: all’epoca la sodomia è un reato penale e l’omosessualità, sia maschile che femminile, oltre a essere socialmente condannata, è considerata un disturbo mentale. Per tutte queste ragioni, pratiche e identità omosessuali sono tenute rigorosamente in the closet, cioè nascoste alla vista quanto più sia possibile. 46 Palladino, Teenagers, cit., pp. 20-21. 47 Come nella Section 213 dell’Economy Act del 1932, che proibisce a due perso-

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ne della stessa famiglia di essere entrambe impiegate nei ruoli federali: quando le persone coinvolte sono di genere diverso, quella licenziata è, sistematicamente, di genere femminile; la norma viene eliminata nel 1939 (cfr. May, Homeward Bound, cit., p. 49; Nancy F. Cott, Public Vows. A History of Marriage and the Nation, Harvard University Press, Cambridge (Mass.)-London 2000, p. 173). 48 In Woman of the Year una giornalista di grande successo è disposta a rinunciare alla propria carriera pur di trattenere «lui», che è un rude giornalista sportivo. In Mildred Pierce una intraprendente divorziata si impegna con grande determinazione nella gestione di un ristorante, sino a perdere di vista ciò che la figlia e il suo nuovo uomo fanno alle sue spalle. 49 Mary P. Ryan, Mysteries of Sex. Tracing Women and Men Through American History, The University of North Carolina Press, Chapel Hill 2006, p. 223. 50 Cott, Public Vows, cit., p. 173. 51 Knaff, Beyond Rosie the Riveter, cit., pp. 4 e 7. 52 Ryan, Mysteries of Sex, cit., p. 225. 53 Cfr. Thrasher, The Gang, cit., pp. 102-105; Lynd-Merrell Lynd, Middletown, vol. I, cit., pp. 251, 271-275; Hollingshead, Elmtown’s Youth, cit., pp. 301-302 e 401408; Brake, Comparative Youth Culture, cit., p. 55. 54 Francis Scott Fitzgerald nei suoi racconti ci ricorda peraltro che la bravata trasgressiva non è certo un’esperienza limitata ai ragazzi di strada (cfr., per esempio, Il fannullone [1920], in Francis Scott Fitzgerald, Racconti dell’età del jazz, Mondadori, Milano 2014). 55 Hollingshead, Elmtown’s Youth, cit., p. 385. Questo sistema di valori è in vigore anche nel dopoguerra: cfr. Coleman, The Adolescent Society, cit., p. 28. 56 Thrasher, The Gang, cit., pp. 269-275. 57 Palladino, Teenagers, cit., p. 58; Savage, L’invenzione dei giovani, cit., pp. 419420. 58 L’analisi teorica fondamentale, che ha permesso il riconoscimento e la valorizzazione analitica di strategie identitarie di questo tipo, è stata proposta – a metà degli anni Settanta del XX secolo – dal gruppo di studio del Centre for Contemporary Cultural Studies, attivo presso la University of Birmingham e coordinato da Stuart Hall. Cfr. Hall-Jefferson (eds.), Resistance Through Rituals, cit.; e Dick Hebdige, Sottocultura. Il fascino di uno stile innaturale, Costa & Nolan, Genova 1990. Per un inquadramento critico complessivo del lavoro svolto sulle subculture giovanili dal gruppo dei Cultural Studies, cfr. Richard Middleton, Studiare la popular music, Feltrinelli, Milano 2009, cap. 5; e Gelder, Subcultures, cit., cap. 5. Una importante messa a punto retrospettiva è offerta dal già citato saggio Once More Around «Resistance Through Rituals» (non firmato, ma presumibilmente di Hall e Jefferson), che apre l’edizione del 2006 di Resistance Through Rituals. 59 Palladino, Teenagers, cit., pp. 58-59. 60 Savage, L’invenzione dei giovani, cit., p. 423; Gilbert, A Cycle of Outrage, cit., pp. 30-31; Gelder, Subcultures, cit., p. 126. 61 Erenberg, Swingin’ the Dream, cit., pp. 10-11. 62 Un esempio del ruolo particolare che la sezione ritmica ricopre nelle swing band è offerto dalla straordinaria versione di Sing, Sing, Sing registrata nel 1937 dalla Benny Goodman Orchestra, con la batteria di Gene Krupa in bella evidenza.

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NOTE

In origine il boogie-woogie è un blues strumentale per piano (Evans, The Development of the Blues, cit., p. 35; Fassio, Blues, cit., pp. 60-62; Martorella, Il Blues, cit., pp. 216-217). 64 Life Goes to a Party. At the Savoy with the Boys and Girls of Harlem, in «Life», December 14, 1936, pp. 64-68. Sul Savoy Ballroom cfr. Erenberg, Swingin’ the D ­ ream, cit., pp. 38-41, 111-112 e 154-155. 65 Erenberg, Swingin’ the Dream, cit., pp. 4 e 46-47; Savage, L’invenzione dei giovani, cit., p. 336; Schrum, Some Wore Bobby Sox, cit., p. 99. 66 Erenberg, Swingin’ the Dream, cit., pp. 65-68; Savage, L’invenzione dei giovani, cit., p. 341. Lo scatenamento dei fan ai concerti swing anche di altri artisti si ripete diverse volte negli anni seguenti (cfr. Erenberg, Swingin’ the Dream, cit., p. 47). 67 Savage, L’invenzione dei giovani, cit., p. 341. 68 Schrum, Some Wore Bobby Sox, cit., pp. 122 e 62. 69 Arnold Shaw, Sinatra. The Entertainer, Delilah Books, New York 1982, p. 21, cit. da Savage, L’invenzione dei giovani, cit., p. 463; Schrum, Some Wore Bobby Sox, cit., p. 124. Secondo Nick Sevano, un amico di Sinatra, le ragazzine ai concerti lanciavano sul palco anche capi di biancheria intima (Erenberg, Swingin’ the Dream, cit., pp. 196-197). 70 Max Lerner, Dionysus and the Hepcats, cit. da Savage, L’invenzione dei giovani, cit., p. 425; l’articolo di Lerner viene publicato originariamente il 29 aprile del 1943 sulla rivista «PM»; poi viene raccolto, insieme ad altri suoi articoli, nel volume dal titolo Public Journal: Marginal Notes on Wartime America, The Viking Press, New York 1945. 71 Weegee, Naked City, Essential Books, New York 1945, cit. da Savage, L’invenzione dei giovani, cit., p. 462. 72 Bruce Bliven, The Voice and the Kids, in «The New Republic», November 6, 1944, cit. da Savage, L’invenzione dei giovani, cit., p. 463. 73 Erenberg, Swingin’ the Dream, cit., pp. 40-41, 52-53, 88-90. 74 Barbara Ehrenreich - Elizabeth Hess - Gloria Jacobs, Beatlemania: Girls Just Want to Have Fun, in Lisa A. Lewis (ed.), The Adoring Audience. Fan Culture and Popular Media, Routledge, London-New York 2001. Persuasivamente Gelder contrappone questo saggio ai lavori di Angela McRobbie la quale, sottolineando l’importanza dei popular mass media per le subculture femminili, enfatizza tuttavia la passività e il conformismo che a suo parere caratterizzerebbero il sistema valoriale costruito in questi anni, e nei seguenti, dalle ragazze (Gelder, Subcultures, cit., pp. 97-98). 75 Spetta a Jon Savage questa persuasiva retrodatazione (Savage, L’invenzione dei giovani, cit., cap. 29). 76 La Carter Family registra Single Girl, Married Girl il 2 agosto 1927 e poi ancora l’8 maggio 1935 (Russell, Country Music Records, cit., pp. 187 e 193). 77 Le scream queens sono le attrici dei film horror a cui è affidato il compito di rimarcare i momenti di tensione con drammatiche e prolungate grida di spavento; tra di esse si possono ricordare Fay Wray in King Kong (Merian C. Cooper, Ernest B. Schoedsack, 1933); Evelyn Ankers in The Wolf Man (L’uomo lupo, George Waggner, 1941); Ramsay Ames in The Mummy’s Ghost (Reginald Le Borg, 1944). 78 Cott, Public Vows, cit., p. 185; Knaff, Beyond Rosie the Riveter, cit., p. 7. 63

iv. un mondo giovane e inquieto

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Marilyn E. Hegarty, Victory Girls, Khaki-Wackies, and Patriotutes. The Regulation of Female Sexuality During World War II, New York University Press, New York-London 2008, p. 134; e Gilbert, A Cycle of Outrage, cit., pp. 28-29. 80 United Service Organizations; si tratta del dipartimento militare che si occupa di tenere alto il morale dei soldati organizzando spettacoli e altre iniziative a loro riservate. 81 Le taxi-dance halls sono locali da ballo in cui gli uomini possono «noleggiare», per uno o più balli, delle giovani «professioniste» (le taxi-dancers), assunte dal locale per ballare a pagamento con i clienti. Sul fenomeno, diffuso in molte grandi città americane sin dal primo dopoguerra, si veda un importante classico della sociologia statunitense, edito nel 1932, e ripubblicato di recente: Paul G. Cressey, The Taxi-Dance Hall. A Sociological Study in Commercialized Recreation and City Life, The University of Chicago Press, Chicago 2008. Cfr. anche Gelder, Subcultures, cit., pp. 37-39. 82 Fondamentale, al riguardo, Hegarty, Victory Girls, cit. Cfr. anche Gilbert, A Cycle of Outrage, cit., pp. 32-33; D’Emilio-Freedman, Intimate Matters, cit., pp. 260-261; Maria Elena Buszek, Of Varga Girls and Riot Grrrls: The Varga Girl and WWII in the Pin-Up’s Feminist History, in Maria Elena Buszek - Stephen Goddard (eds.), Alberto Vargas: The Esquire Pinups, Spencer Museum of Art, University of Kansas, Lawrence 2001; Beth Bailey, Sex in the Heartland, Harvard University Press, Cambridge (Mass.)-London 2002, pp. 27-35; Palladino, Teenagers, cit., pp. 75-76; e Savage, L’invenzione dei giovani, cit., pp. 426-427. 83 D’Emilio-Freedman, Intimate Matters, cit., p. 260. 84 La descrizione seguente è interamente basata su Hegarty, Victory Girls, cit. 85 L’addensamento di un gran numero di giovani maschi nelle caserme facilita anche interazioni omosessuali; tuttavia questo è un fenomeno molto meno visibile, e comunque sostanzialmente rimosso sia dalle autorità militari sia dagli organi di stampa (cfr. Eaklor, Queer America, cit., pp. 68-69). 86 Hegarty ricorda – per dare un’idea delle dimensioni del fenomeno – che secondo una statistica del 1942 in soli sei mesi sono state arrestate all’incirca 7.500 ragazze in quindici Stati della Federazione; una precisa valutazione statistica globale per tutto il periodo di guerra non è possibile per la frammentarietà della documentazione (Hegarty, Victory Girls, cit., pp. 147 e 151). 87 Cfr. Bram Dijkstra, Idoli di perversità. La donna nell’immaginario artistico filosofico letterario e scientifico tra Otto e Novecento, Garzanti, Milano 1988; e Id., Perfide sorelle, cit. 88 Arnaldo Testi, Il secolo degli Stati Uniti, Bologna, il Mulino 2008, p. 162; cfr. anche Melissa Dabakis, Gendered Labor. Norman Rockwell’s Rosie the Riveter and the Discourses of Wartime Womanhood, in Barbara Melosh (ed.), Gender and American History Since 1890, Routledge, London-New York 1993. 89 Maureen Honey, The «Varga Girl» Goes to War, in Buszek-Goddard (eds.), Alberto Vargas: The Esquire Pinups, cit.; Testi, Il secolo degli Stati Uniti, cit., pp. 161-162. 90 Honey, Creating Rosie the Riveter, cit., p. 114. Cfr. anche Dabakis, Gendered Labor, cit., pp. 190-193. 91 Honey, Creating Rosie the Riveter, cit., pp. 113-114; e Id., The «Varga Girl» Goes to War, cit. Poiché lo spot fa parte della campagna «Women in the War», probabil79

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mente risale al 1944. Il sottotesto della pubblicità vuole stornare anche il sospetto (piuttosto fondato, sembrerebbe) che nei corpi ausiliari femminili possano essere diffuse pratiche omosessuali (cfr. Paul Berman, Il risveglio gay, in Id., Sessantotto. La generazione delle due utopie, Einaudi, Torino 2006, p. 111). 92 Robert B. Westbrook, «I Want a Girl Just Like the Girl That Married Harry James»: American Women and the Problem of Political Obligation in World War II, in «American Quarterly», 1990, vol. 42, n. 3; Buszek-Goddard (eds.), Alberto Vargas: The Esquire Pinups, cit.; Despina Kakoudaki, Pinup: The American Secret Weapon in World War II, in Linda Williams (ed.), Porn Studies, Duke University Press, Durham-London 2004; Maria Elena Buszek, Pin-Up Grrrls. Feminism, Sexuality, Popular Culture, Duke University Press, Durham-London 2006, cap. 5. 93 Westbrook, «I Want a Girl», cit., p. 596. 94 Kakoudaki, Pinup, cit., p. 353; Buszek, Of Varga Girls and Riot Grrrls, cit.; e Honey, The «Varga Girl», cit. Il successo delle pin-up tra i soldati è immortalato anche da una canzone di grande notorietà del 1944 – Peggy, The Pin-Up Girl – eseguita e cantata in stile swing dalla Army Air Force Orchestra di Glenn Miller (Erenberg, Swingin’ the Dream, cit., p. 194). 95 Nel dare questo nomignolo alle immagini dipinte da Alberto Vargas, deliberatamente si fa cadere la «s» dal cognome dell’autore. 96 Buszek, Pin-up Grrrls. Feminism, Sexuality, Popular Culture, cit., pp. 212-213. 97 Westbrook, «I Want a Girl», cit., p. 605. La Hollywood Canteen era un locale aperto da Bette Davis e John Garfield a Los Angeles proprio per i militari in licenza, e attivo dal 1942 al 1945 (cfr. Foertsch, American Culture in the 1940s, cit., pp. 123-124). Per consigli simili offerti da Claudette Colbert e da Ann Sothern si veda May, Homeward Bound, cit., pp. 63-64. 98 Westbrook, «I Want a Girl», cit., p. 600; ed Erenberg, Swingin’ the Dream, cit., pp. 200-201. Altri esempi di esaltazione della maternità delle star del cinema, relativi a Lana Turner, Carole Landis Wallace, Maureen O’Hara, Rosalind Russell, Dorothy Lamour e Loretta Young, sono esaminati in May, Homeward Bound, cit., pp. 134-135. 99 Larry Rohter, Dear Donna: A Pinup So Swell She Kept G.I. Mail, in «The New York Times», May 24, 2009; cfr. anche Westbrook, «I Want a Girl», cit. 100 Cott, Public Vows, cit., p. 187. 101 Westbrook, «I Want a Girl», cit., pp. 603-605; Hegarty, Victory Girls, cit., cap. 5. 102 Westbrook, «I Want a Girl», cit., pp. 605-606; e Buszek, Pin-up Grrrls. Feminism, Sexuality, Popular Culture, cit., pp. 224-231. 103 Stephen Goddard, Alberto Vargas and the Esquire Pinups, in Buszek-Goddard (eds.), Alberto Vargas: The Esquire Pinups, cit. 104 Sulla vicenda si veda Jean Preer, Esquire v. Walker. The Postmaster General and «The Magazine for Men», in «Prologue Magazine», 1990, vol. 23, n. 1, in https:// www.archives.gov/publications/prologue/1990/spring/esquire-v-walker-1.html; e Joanne Meyerowitz, Women, Cheesecake, and Borderline Material: Responses to Girlie Pictures in the Mid-Twentieth Century U.S., in «Journal of Women’s History», 1996, vol. 8, n. 3, pp. 15-18. 105 Peraltro senza mezzi termini, e francamente con molte buone ragioni, Andrea Dworkin sostiene che tutta questa iconografia ha un impianto sessista, razzi-

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sta (quasi non ci sono pin-up nere, a parte Lena Horne) e misogino (Andrea Dworkin, Vargas’ Blonde Sambos, in Buszek-Goddard (eds.), Alberto Vargas: The Esquire Pinups, cit.). 106 Honey, The «Varga Girl», cit. 107 Cott, Public Vows, cit., pp. 187-188. Cfr. anche Honey, Creating Rosie the Riveter, cit., pp. 131-134. 108 In effetti la forza lavoro femminile scende da 18,6 milioni di donne che lavorano nel 1945 a meno di 17 milioni nel 1946; in percentuale sul totale della popolazione femminile, le donne che lavorano sono il 35% nel 1944 e meno del 29% nel 1947; le percentuali sul totale della forza lavoro scendono dal 36,1% nel 1945 al 31% nel 1947 (Knaff, Beyond Rosie the Riveter, cit., pp. 7 e 144). Inoltre, le donne che continuano a lavorare sono impiegate quasi esclusivamente nei settori lavorativi che già prima della guerra erano riservati alle donne: segretarie, cameriere, domestiche, maestre, ecc. (Honey, Creating Rosie the Riveter, cit., p. 24). 109 I film hollywoodiani descrivono i nemici giapponesi con notevole enfasi razzista. Sul contributo che Hollywood dà alla propaganda di guerra cfr. Gorman-McLean, Media e società, cit., pp. 112-119. 110 Erenberg, Swingin’ the Dream, cit., pp. 186-194. 111 Lewis A. Erenberg, Things to Come: Swing Bands, Bebop, and the Rise of a Postwar Jazz Scene, in Lary May (ed.), Recasting America. Culture and Politics in the Age of Cold War, The University of Chicago Press, Chicago-London 1989, pp. 237-238; Erenberg, Swingin’ the Dream, cit., pp. 225-239.

V. Prove di normalizzazione May, Homeward Bound, cit., p. 162. Ivi, pp. 161-162; Norton, A People and a Nation, cit., p. 830. 3 Lewis Mumford, La città nella storia, vol. III, Bompiani, Milano 1977, p. 605. Nel 1962 la cantante folk Malvina Reynolds scrive la canzone Little Boxes, che contiene una critica non meno severa; registrata nel 1963 da Pete Seeger, la canzone entra nella Top 100 di «Billboard» (ringrazio Sante Lesti per aver richiamato la mia attenzione su Reynolds e sul suo brillantissimo brano). 4 Norton, A People and a Nation, cit., p. 831; May, Homeward Bound, cit., pp. 9-11. 5 Bruno Cartosio, I lunghi anni Sessanta. Movimenti sociali e cultura politica negli Stati Uniti, Feltrinelli, Milano 2012, p. 71. 6 Glenn C. Altschuler - Stuart M. Blumin, The GI Bill. A New Deal for Veterans, Oxford University Press, New York 2009. 7 Nasaw, Schooled to Order, cit., p. 185. «Le spese annuali per la difesa e gli affari internazionali, in dollari depurati dell’inflazione, balzarono da 25 miliardi nel 1950 a 65 miliardi nel 1953, assestandosi poi intorno ai 50 miliardi, più della metà del bilancio federale. [...] Degli otto segretari che guidarono il Dipartimento della difesa nei suoi primi vent’anni di vita, uno era un generale, tre erano banchieri e tre presidenti di giant corporations» (Testi, Il secolo degli Stati Uniti, cit., p. 181). 8 Hofstadter, The Paranoid Style, cit. 9 Norton, A People and a Nation, cit., pp. 834-837; Testi, Il secolo degli Stati Uniti, cit., pp. 182-185. 1

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«In One Lonely Night (1951), Mike racconta che “c’è voluta la guerra per mostrarmi [...] il piacere osceno della brutalità e della forza, la dolcezza speziata dell’assassinio consacrato dalla legge”» (Foertsch, American Culture in the 1940s, cit., p. 39). Cfr. anche May, Homeward Bound, cit., p. 94. 11 Slotkin, Gunfighter Nation, cit., p. 352. 12 M. Keith Booker, Science Fiction and the Cold War, in David Seed (ed.), A Companion to Science Fiction, Blackwell Publishing, Malden 2005, p. 173. 13 Le traduzioni cinematografiche del romanzo di Matheson sono: The Last Man on Earth (L’ultimo uomo sulla terra, Ubaldo Ragona, Sidney Salkow, 1964); The ­Omega Man (1975: Occhi bianchi sul pianeta Terra, Boris Sagal, 1971, con Charlton Heston); I Am Legend (Io sono leggenda, Francis Lawrence, 2007, con Will Smith). 14 Cfr. Booker, Science Fiction and the Cold War, cit., pp. 178-179. Altri titoli con lo stesso impianto sono The Thing from Another World (La cosa da un altro mondo, Christian Nyby e Howard Hawks [non accreditato], 1951), Invaders from Mars (Gli invasori spaziali, William Cameron Menzies, 1953), The War of the Worlds (La guerra dei mondi, Byron Haskin, 1953) e I Married a Monster from Outer Space (Ho sposato un mostro venuto dallo spazio, Gene Fowler Jr., 1958). 15 Gorman-McLean, Media e società, cit., pp. 136-137. 16 L’House Un-American Activities Committee (Huac) che, come abbiamo visto, ha il compito di organizzare indagini sulle attività antipatriottiche di cittadini americani, nel 1945 diventa una commissione permanente, presieduta da Edward Hart, democratico, ed è uno degli strumenti fondamentali nella repressione anticomunista. 17 Edward Dmytryk, Dalton Trumbo, Samuel Ornitz, Herbert Biberman, Lester Cole, Alvah Bessie, Ring Lardner, Adrian Scott, Albert Maltz, John Howard Lawson. 18 Gorman-McLean, Media e società, cit., pp. 134-135; Foertsch, American Culture in the 1940s, cit., pp. 121-123; Norton, A People and a Nation, cit., p. 835. 19 Robert Sklar, Il cinema americano, 1945-60, e Douglas Gomery, La nuova Hollywood. Le strutture produttive si rinnovano, entrambi in Gian Piero Brunetta (a cura di), Il cinema americano, vol. II, Einaudi, Torino 2006, pp. 1092 e 1228-1229; Gorman-McLean, Media e società, cit., pp. 196-197. 20 A cui va aggiunto un quarto polo televisivo costituito dalla DuMont Television, che tuttavia chiude le sue trasmissioni nel 1955. 21 Gary R. Edgerton, The Columbia History of American Television, cit., pp. 123124; Hilmes, Only Connect, cit., pp. 216-218; Gorman-McLean, Media e società, cit., pp. 155-156. 22 Edgerton, The Columbia History of American Television, Columbia University Press, New York 2007, p. 137; Gorman-McLean, Media e società, cit., p. 153. 23 Gilbert, A Cycle of Outrage, cit., p. 175; Martel, Mainstream, cit., p. 41 e note on line (http://fredericmartel.com/wp-content/uploads/2014/04/NOTES-BASDE-PAGE.pdf ); Gomery, La nuova Hollywood, cit., p. 1127. 24 Sklar, Il cinema americano, 1945-60, cit., pp. 1110-1113; Gomery, La nuova Hollywood, cit., pp. 1132-1136. 25 Gomery, La nuova Hollywood, cit., pp. 1139, 1145-1146, 1150-1151; Gorman-McLean, Media e società, cit., p. 198; Hilmes, Only Connect, cit., p. 224. 26 Gomery, La nuova Hollywood, cit., p. 1143. 10

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Ivi, pp. 1138-1139; Hilmes, Only Connect, cit., pp. 225-226. Edgerton, The Columbia History of American Television, cit., pp. 182-193; Hilmes, Only Connect, cit., p. 224. 29 Hilmes, Only Connect, cit., pp. 189-190; Ella Taylor, Prime-Time Families. Television Culture in Postwar America, University of California Press, Berkeley-Los Angeles-London 1989, pp. 21-22. 30 Martin Halliwell, American Culture in the 1950s, Edinburgh University Press, Edinburgh 2007, p. 152. 31 Taylor, Prime-Time Families, cit., p. 26; Edgerton, The Columbia History of American Television, cit., p. 105. 32 Hilmes, Only Connect, cit., p. 197. 33 Taylor, Prime-Time Families, cit., p. 34; Edgerton, The Columbia History of American Television, cit., pp. 195-196; Cecilia Penati, To be Continued. Storia e linguaggi della serialità televisiva drama americana, in Aldo Grasso - Cecilia Penati, La nuova fabbrica dei sogni. Miti e riti delle serie tv americane, il Saggiatore, Milano 2016, Kindle file. 34 Gorman-McLean, Media e società, cit., p. 155. 35 Fondamentale, al riguardo, Taylor, Prime-Time Families, cit. 36 Palmer, Potboilers, cit., p. 184. 37 Horkheimer-Adorno, Dialettica dell’illuminismo, cit., p. 177, che – scrivendo prima dell’inizio delle trasmissioni televisive – formulano le loro considerazioni basandosi sull’analisi delle pubblicità presenti nelle trasmissioni radiofoniche e sulle pagine dei giornali. 38 «A guardare gli annunci pubblicitari e gli articoli delle riviste eri in grado di fare tutto quello che volevi, ignorare i tuoi limiti, sconfiggerli. Se eri una persona indecisa potevi diventare un capo e metterti i lederhosen. Se eri una casalinga potevi diventare una ragazza-copertina con gli occhiali di strass. Eri un po’ lento di comprendonio? Niente paura, potevi diventare un genio. Se eri vecchio potevi diventare giovane. Tutto era possibile. Era come una guerra contro se stessi» (Bob Dylan, Chronicles, vol. 1, Feltrinelli, Milano 2009, p. 84). 39 Oliviero Bergamini, Storia degli Stati Uniti, Laterza, Roma-Bari 2002, p. 194. 40 Cfr., al riguardo, Lynn Spigel, Make Room for TV. Television and the Family Ideal in Postwar America, University of Chicago Press, Chicago-London 1992, in particolare p. 95. 41 Gorman-McLean, Media e società, cit., p. 136; Richard Maltby, Cinema, politica e cultura popolare a Hollywood nel dopoguerra (1945-60), in Brunetta (a cura di), Il cinema americano, vol. II, cit., p. 1419. 42 May, Homeward Bound, cit., p. 9. 43 Tra il 1948 e il 1955 sono quattro gli Stati che aboliscono le leggi che impediscono i matrimoni interrazziali; tra il 1955 e il 1967 altri dieci Stati procedono all’abolizione. Le leggi ancora attive nei restanti sedici Stati, tutti collocati nel SudEst degli Usa, vengono definitivamente abolite nel 1967, come conseguenza di una sentenza emessa dalla Corte Suprema nel corso della causa Loving vs. Virginia, che dichiara quelle leggi contrarie ai principi della Costituzione americana. Sulle origini storiche di questa legislazione si veda Cott, Public Vows, cit., pp. 40-43, 100-104, 184-185. I dati dei sondaggi da May, Homeward Bound, cit., p. 11. 27

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Eaklor, Queer America, cit., p. 81. May, Homeward Bound, cit., pp. 13 e 92. 46 D’Emilio-Freedman, Intimate Matters, cit., p. 293. 47 Ivi, p. 294. 48 May, Homeward Bound, cit., p. 97. 49 Si tratta dell’età mediana al matrimonio (Gilbert, A Cycle of Outrage, cit., p. 21; May, Homeward Bound, cit., p. 3; cfr. anche Cott, Public Vows, cit., pp. 187-188; e Wini Breines, Young, White, and Miserable. Growing up Female in the Fifties, The University of Chicago Press, Chicago-London 2001, p. 50). 50 Norton, A People and a Nation, cit., p. 829. 51 In Europa, solo Inghilterra e Galles tengono il passo. Le percentuali per il 1951 e il 1961 sono: 65% e 88%; in Francia (1954 e 1962) sono 31% e 54%; in Germania 22% e 33%; in Italia 30% e 40% (Mitchell, International Historical Statistics. Europe 1750-1993, cit., pp. 20-23, 28-29, 41-43, 882-883 e 886). 52 A grandi linee le istituzioni di livello universitario sono le seguenti: (1) i community colleges, che impartiscono corsi biennali; (2) i senior colleges, che impartiscono corsi quadriennali, e conferiscono il diploma di laurea (il conseguimento del diploma biennale o quadriennale può peraltro consentire la prosecuzione degli studi in altre istituzioni universitarie, attraverso una adeguata valutazione e commutazione dei crediti ottenuti); (3) le università propriamente dette, che sono istituzioni che oltre a offrire corsi undergraduate (corrispondenti al primo quadriennio di studi), offrono anche corsi postgraduate e conferiscono il Ph.D. (dottorato di ricerca). Tutte queste istituzioni possono essere sia pubbliche che private (Martinelli, Università e società, cit., pp. 202-203, 207-211 e 217). 53 Mitchell, International Historical Statistics. The Americas 1750-1993, cit., pp. 21, 23, 751, 753-754. 54 Si veda il capitolo V, par. 2 di questo libro. Cfr. inoltre Altschuler-Blumin, The GI Bill, cit. 55 Nasaw, Schooled to Order, cit., pp. 178-182 e 197. Dati sul caso specifico della University of Kansas, a Lawrence, in Bailey, Sex in the Heartland, cit., pp. 83-84. 56 Nasaw, Schooled to Order, cit., p. 206. 57 Ivi, p. 207. Nel dopoguerra anche nelle università pubbliche le tasse di iscrizione aumentano, ma a ritmi incomparabilmente più bassi che nelle università private (cfr. Martinelli, Università e società, cit., p. 169). 58 Nasaw, Schooled to Order, cit., pp. 209-210. «Nel sistema accademico della California, l’università accetta solo il 12,5 per cento superiore della popolazione studentesca, il sistema dei colleges statali il 33 per cento e i colleges di comunità e una molteplicità di atenei privati non selettivi il resto» (Martinelli, Università e società, cit., p. 232). 59 Nasaw, Schooled to Order, cit., p. 214. 60 Ivi, p. 217. Dati diversi, ma valutazioni analoghe, in Martinelli, Università e società, cit., p. 163. Cfr. anche U.S. Bureau of the Census, Historical Statistics of the United States, Colonial Times to 1970, Part 1, U.S. Government Printing Office, Wash­ington (DC) 1975, p. 380. 61 In Europa le percentuali di frequenza all’università sono molto più basse. I dati corrispondenti per Gran Bretagna, Francia, Germania e Italia sono i seguenti: 44 45

v. prove di normalizzazione

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Gran Bretagna: 2%, 3%, 4%; Francia: 4%, 5%, 10%; Germania: 1%, 3%, 5%; Italia: 3%, 3%, 5%. Dati tratti da Mitchell, International Historical Statistics. The Americas 1750-1993, cit., pp. 21, 23, 753; e da Id., International Historical Statistics. Europe 1750-1993, cit., pp. 20-23, 28-29, 41-43, 897-898. 62 Martinelli, Università e società, cit., pp. 223-225. 63 Molte indicazioni rilevanti al riguardo si trovano in Coleman, The Adolescent Society, cit.; la ricerca di Coleman è stata compiuta tra 1957 e 1958 in 10 high schools dell’Illinois, di diversa collocazione sociogeografica; sebbene Coleman adotti un impianto analitico parsonsiano (società adolescenziale raccolta nelle high schools e contrapposta alla società adulta), offre tuttavia una ricca serie di informazioni che descrivono le fratture e i meccanismi selettivi operanti all’interno delle scuole superiori da lui studiate. Cfr. anche John Irwin, Scenes, Sage Publications, Beverly Hills-London 1977, pp. 65-66, che contiene anche importanti osservazioni metodologiche; e Graebner, Coming of Age in Buffalo, cit., pp. 52-55. 64 Coleman, The Adolescent Society, cit., pp. 44-50. 65 Breines, Young, White, and Miserable, cit., p. 95. 66 Ivi, p. 106; Coleman, The Adolescent Society, cit., p. 42. 67 Modell, Into One’s Own, cit., p. 228. 68 Ivi, p. 235. 69 Ivi, pp. 235 e 237-238. 70 Coleman, The Adolescent Society, cit., pp. 122-123; D’Emilio-Freedman, Intimate Matters, cit., pp. 261-263; Breines, Young, White, and Miserable, cit., pp. 111115; Echols, Graffi in Paradiso, cit., p. 34. 71 Modell, Into One’s Own, cit., p. 231. Il Junior-Senior Prom è l’ambitissimo ricevimento di fine anno che, oltre a comprendere gli alunni e le alunne dell’ultimo anno (Senior), può includere anche quelli del penultimo anno (Junior). «Prom», come abbiamo visto, è un’abbreviazione per «Promenade»; il ricevimento consiste in una cena e in un ballo; è richiesto un abbigliamento formale (giacca e cravatta per i maschi; vestito da sera per le ragazze). Un momento atteso del Prom è la proclamazione del Prom King e della Prom Queen, scelti in votazioni compiute prima del ricevimento: di solito la scelta non riguarda solo la coppia più bella, ma la più popolare e apprezzata. 72 Arthur Marwick, The Sixties. Cultural Revolution in Britain, France, Italy, and the United States, c. 1958-c. 1974, Oxford University Press, Oxford-New York 1998, p. 51. 73 Modell, Into One’s Own, cit., p. 241. 74 Ivi, p. 239. 75 Ivi, p. 269. 76 Ivi, p. 250; May, Homeward Bound, cit., p. 3. 77 Modell, Into One’s Own, cit., p. 257. 78 Breines, Young, White, and Miserable, cit., p. 50. 79 Ivi, pp. 131-133. 80 Un quarto delle iscritte al college nel 1956 segue questa traiettoria (May, Homeward Bound, cit., p. 78). 81 Ivi, pp. 75-78. 82 Foertsch, American Culture in the 1940s, cit., pp. 30-31; May, Homeward Bound, cit., p. 138.

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NOTE

Modell, Into One’s Own, cit., p. 221. Queen Bee of the School, in «Life», October 11, 1963, p. 85. 85 Halliwell, American Culture in the 1950s, cit., p. 42. 86 Sulla contrapposizione tra good girl e bad girl nel cinema e nella cultura popolare americana degli anni Cinquanta si veda Breines, Young, White, and Miserable, cit., p. 102. 87 Il personaggio di George è affidato a Joseph Cotten. All’intreccio partecipa, in maniera significativa per la storia, ma non essenziale per il mio ragionamento, una coppia di sposini in viaggio di nozze (interpretati da Jean Peters e Casey Adams), che casualmente conoscono i Loomis. 88 Horkheimer-Adorno, Dialettica dell’illuminismo, cit., pp. 154-155. 83

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VI. «Popular music» Su Gene Autry si veda il capitolo III, par. 5. Ennis, The Seventh Stream, cit., p. 133; Millard, America on Record, cit., pp. 201-207. 3 Ward, Just My Soul Responding, cit., p. 22. 4 Halliwell, American Culture in the 1950s, cit., p. 119. Le piccole case discografiche indipendenti dispongono spesso di attrezzature tecnologicamente non aggiornate, e diverse di esse per tutti gli anni Cinquanta continuano a stampare su 78 giri in gommalacca (Millard, America on Record, cit., pp. 201-207). 5 Hilmes, Only Connect, cit., p. 176; Glenn C. Altschuler, All Shook Up. How Rock ’n’ roll Changed America, Oxford University Press, Oxford-New York 2004, p. 15. 6 Gorman-McLean, Media e società, cit., pp. 218-219; Ennis, The Seventh Stream, cit., p. 136; Hilmes, Only Connect, cit., p. 176; Halliwell, American Culture in the 1950s, cit., pp. 119-120; Millard, America on Record, cit., p. 231. 7 Ennis, The Seventh Stream, cit., pp. 104-105 e 132-136. 8 Ivi, p. 141. Sul Princeton Radio Research Project, diretto da Paul Lazarsfeld, al quale collabora attivamente anche Theodor Adorno, cfr. Rolf Wiggershaus, La scuola di Francoforte. Storia. Sviluppo teorico. Significato politico, Bollati Boringhieri, Torino 1992, pp. 248-253; e Marco Santoro, Presentazione. Adorno e la sociologia critica della musica (popular), in Adorno, Sulla popular music, cit. 9 Cfr. Palladino, Teenagers, cit., cap. 7; Altschuler, All Shook Up, cit., pp. 121-125 10 Teen-Age Girls, cit., p. 91. 11 Ivi, p. 95. Cfr. anche Erenberg, Swingin’ the Dream, cit., p. 195. 12 Together, la canzone citata come la preferita dal gruppo di teenager di Webster Groves, Mo, ed eseguita in duetto da Dick Haymes e Helen Forrest, è proprio un brano di questo tipo. 13 Che, per quel che riguarda le pop songs, sono tre: «Best-Selling Pop Singles», «Records Most-Played by Disc Jockeys» e «Most-Played Juke Box Records» (cfr., per esempio, «Billboard», June 9, 1951, pp. 22, 24, e 28). 14 Sono esclusi 8 pezzi che sono dei brani umoristici parlati o delle filastrocche, una delle quali cantata da un dodicenne. 15 Gli istogrammi vanno letti dall’alto verso il basso e descrivono il tempo oc1

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vi. «popular music»

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cupato da ciascuna articolazione strutturale sulla durata totale di una determinata canzone. Sull’impiego di questo metodo si veda Franco Fabbri, Il suono in cui viviamo. Saggi sulla popular music, il Saggiatore, Milano 2008, pp. 155-255. 16 La forma delle pop songs si concede solo qualche piccola sorpresa (un peculiare stile vocale del/della cantante, qualche ricercatezza nell’arrangiamento, qualche strumento particolare in bella evidenza), adatta a differenziare una canzone dalle altre del suo stesso genere e ad attirare così l’attenzione di chi ascolta – varianti che, nella sua magistrale analisi della popular music, Theodor Adorno ha chiamato «pseudo-individualizzazioni» (Adorno, Sulla popular music, cit., pp. 79-84). 17 Goodnight Irene e Mona Lisa, su cui si veda oltre. 18 Si tratta di I Went to Your Wedding, scritta da Jessie Mae Robinson, una afroamericana, ma cantata da una star bianca, Patti Page, del 1952; e di I’m Walking Behind You, scritta da Billy Reid e cantata da Eddie Fisher, del 1953. 19 I Can Dream, Can’t I?, The Andrews Sisters, 1950: lei non può avere lui ma si rifugia nel sogno. Tennessee Waltz, Patti Page, 1950: a un ballo una sua amica le ruba l’uomo, e lei ricorda il triste episodio con una vena malinconica. Cry, Johnnie Ray and The Four Lads, 1951: lei lo lascia e lui si abbandona al pianto, ma pensa che dietro un cielo nuvoloso possa ritrovarsi comunque la luce del sole. Hey There, Rosemary Clooney, 1954: una ragazza cerca di consigliare a se stessa di lasciar stare il tipo di cui è innamorata, perché lui sembra non volerne sapere; ma lei non riesce a liberarsi dall’illusione di poterlo avere. 20 Modell, Into One’s Own, cit., p. 250; Breines, Young, White, and Miserable, cit., p. 53. 21 Su Ledbetter e Pete Seeger si veda il capitolo III. Sulla traiettoria dei Weavers cfr. Cohen, Folk Music, cit., pp. 103-104 e 106; Halliwell, American Culture in the 1950s, cit., p. 126; Roy, Reds, Whites, and Blues, cit., p. 152; Kaufman, Woody Guthrie, cit., p. 236. 22 Quanto all’arrangiamento sonoro della versione eseguita dagli Weavers, William G. Roy osserva che «sarebbe suonato sdolcinato perfino per Doris Day o per Guy Lombardo» (Roy, Reds, Whites, and Blues, cit., p. 152). 23 Struttura simile ha I Need You, di Eddie Fisher, che, sebbene sia una canzone d’amore, ha lo stesso contrappunto testo-musica che si trova in This Ole House. La canzone di Fisher va in classifica subito dopo la hit della Clooney. 24 Peterson, Creating Country Music, cit., cap. 10; Barbara Ching, Wrong’s What I Do Best. Hard Country Music and Contemporary Culture, Oxford University Press, New York 2001, pp. 47-48. 25 Dylan, Chronicles, cit., p. 89. 26 Ching, Wrong’s What I Do Best, cit., pp. 47-88. 27 Peterson, Creating Country Music, cit., pp. 179-181. 28 Ivi, pp. 182-183. 29 Ivi, p. 183. 30 Il primo esempio di rituale funebre pubblico costruito intorno a una star della cultura di massa dev’essere visto nei funerali di Rodolfo Valentino tenutisi a New York e a Beverly Hills nell’estate del 1926. 31 Philippe Ariès, L’uomo e la morte dal Medioevo a oggi, Laterza, Roma-Bari 1980, pp. 687-688.

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NOTE

Charles Reagan Wilson, citando Jessica Mitford e Philippe Ariès e concordando sulla difficoltà che la società americana mostra nel confrontarsi con la morte, osserva persuasivamente come, a differenza della cultura mainstream, una parte almeno della musica country affronti il tema della morte in modo diretto e in qualche caso anche molto crudo (Reagan Wilson, Digging Up Bones: Death in Country Music, cit.). 33 Vedi capitolo III, par. 3. 34 Robert Gordon, Can’t Be Satisfied. The Life and Times of Muddy Waters, Canongate, Edinburgh-London 2013, pp. 20-23. 35 Ward, Just My Soul Responding, cit., pp. 9 e 454, n. 11. 36 «Billboard», June 18, 1951, p. 34; June 25, 1949, p. 30. 37 Nel 1936 viene messa in commercio la Gibson ES-150, una hollow body (cioè una chitarra con cassa armonica) e un pickup; nel 1950 vengono commercializzate la Fender Esquire e la Fender Broadcaster (poi rinominata Telecaster), due chitarre solid body (cioè col corpo compatto, senza cassa armonica); dal 1951 è disponibile il basso elettrico Fender; dal 1952 la Gibson «Les Paul»; e dal 1953 la Fender Stratocaster con tre pickup. 38 Molto semplicemente, insieme all’armonica Little Walter tiene in mano un piccolo microfono collegato a un amplificatore per la chitarra. 39 Di gran lunga il riff più famoso è quello che introduce Hoochie Coochie Man, un blues del 1954 scritto da Willie Dixon, contrabbassista e produttore, per Muddy Waters: il riff, che in questo caso è una breve sequenza di cinque note ed è suonato all’unisono dalla chitarra elettrica di Muddy Waters e dall’armonica amplificata di Little Walter, diventa una sorta di cifra fondamentale di molte altre canzoni dello stesso Muddy Waters, come di innumerevoli altri musicisti, a partire da Bo ­Diddley, che pochi mesi dopo Hoochie Coochie Man lancia I’m a Man, brano introdotto da un riff di cinque note disposte in una sequenza appena leggermente diversa rispetto al brano di Waters-Dixon. 40 Si tratta di Bad Bad Whiskey (1951), di Amos Milburn; I’m in the Mood (1951), di John Lee Hooker; 3 O’Clock Blues (1952), Please Love Me (1953) e You Upset Me Baby (1953), tutte e tre di B.B. King; e The Things That I Used to Do (1954), di Guitar Slim. 41 Cfr. Luigi Monge, Howlin’ Wolf. I’m The Wolf. Testi commentati, Arcana, Roma 2010, pp. 246-254. 42 Cfr. Maureen Mahon, Listening for Willie Mae «Big Mama» Thornton’s Voice. The Sound of Race and Gender Transgressions in Rock and Roll, in «Women and Music: A Journal of Gender and Culture», 2011, vol. 15. 43 Cfr., per esempio, Big Joe Turner, Honey Hush (1953); Muddy Waters, Hoochie Coochie Man (W. Dixon) (1954) e I’m Ready (W. Dixon) (1954); e Bo Diddley, Who Do You Love (1956). 44 Cfr., per esempio, Eddie Boyd, Five Long Years (1952); Fats Domino, Goin’ Home (1952); Muddy Waters, Trouble No More (1956) e Forty Days and Forty Nights (1956); e praticamente gran parte del canzoniere di Howlin’ Wolf. 45 Fassio, Blues, cit., p. 12. 46 In origine i gruppi sono l’espressione canora di singole gang giovanili dei quartieri neri di grandi città americane (cfr., al riguardo, Ward, Just My Soul Responding, cit., pp. 59-63). 32

vii. rock and roll

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Mentre Brian Ward sembra intravedervi un intento strategicamente parodistico (Ivi, p. 81). 48 Ennis, The Seventh Stream, cit., pp. 171 e 176; Altschuler, All Shook Up, cit., p. 15; Millard, America On Record, cit., pp. 226-227. 49 Millard, America On Record, cit., pp. 226-227; Ward, Just My Soul Responding, cit., pp. 20-24; Altschuler, All Shook Up, cit., p. 15. 50 Gorman-McLean, Media e società, cit., pp. 218-219; Ennis, The Seventh S ­ tream, cit., pp. 132-136; Ward, Just My Soul Responding, cit., pp. 30-33; Millard, America On Record, cit., pp. 231-232; Altschuler, All Shook Up, cit., p. 14. Fino al 1960 ci sono solo quattro stazioni di proprietà nera: Werd-Atlanta; Weup-Birmingham; Wchb-Inkster; Kprs-Kansas City. 51 Altschuler, All Shook Up, cit., p. 15; Hilmes, Only Connect, cit., p. 176. 52 Ennis, The Seventh Stream, cit., cap. 6; Ward, Just My Soul Responding, cit., p. 20; Palladino, Teenagers, cit., p. 114. 53 Ennis, The Seventh Stream, cit., p. 233. 54 Altschuler, All Shook Up, cit., p. 6. 47

VII. Rock and roll Gilbert, A Cycle of Outrage, cit., pp. 25-39. Ivi, pp. 67-69. 3 Ivi, p. 69; Palladino, Teenagers, cit., p. 161. Per quel che riguarda Buffalo, Graeb­ ner sottolinea tanto un effettivo aumento dei casi di criminalità giovanile, quanto una reazione sommaria e isterica da parte della stampa e delle autorità pubbliche (Graebner, Coming of Age in Buffalo, cit., pp. 87-88). 4 Graebner, Coming of Age in Buffalo, cit., p. 88. 5 La discussione sui fumetti è solo un aspetto di un più generale attacco critico alla cultura di massa, elaborato – sulla scia di Dialettica dell’illuminismo – soprattutto da intellettuali liberal. Per una panoramica generale sul dibattito cfr. Gilbert, A Cycle of Outrage, cit., cap. 7. 6 Ivi, pp. 107-108. 7 Restaino, Storia del fumetto, cit., p. 134. 8 Gilbert, A Cycle of Outrage, cit., p. 175; Martel, Mainstream, cit., p. 41; Gomery, La nuova Hollywood, cit., p. 1127. 9 I biker sono gruppi di motociclisti formatisi nel secondo dopoguerra. Prevalentemente, se non esclusivamente, maschi, adottano e arricchiscono l’abbigliamento indossato da Brando in The Wild One, ed esibiscono una tavola di valori controcorrente, se non decisamente fuorilegge. L’universo biker è peraltro molto vario, e può andare da gruppi di destra razzista a gruppi confusamente antisistema. Tra i più famosi ci sono certamente i californiani Hells Angels, un club di biker dediti, fra l’altro, a svariate attività criminali; fondamentale, al riguardo, Hunter S. Thompson, Hell’s Angels: A Strange and Terrible Saga of the Outlaw Motorcycle Gang, 1966, che peraltro descrive questa comunità di biker alla metà degli anni Sessanta (cfr. Thomas Newhouse, The Beat Generation and the Popular Novel in the United States, 1945-1970, McFarland, Jefferson-London 2000, pp. 124-127). 1

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538

NOTE

L’intento è reso esplicito dal testo che apre il film nel quale si legge: «Noi, negli Stati Uniti, siamo fortunati ad avere un sistema scolastico che è un tributo alle nostre comunità e alla nostra fede nella gioventù americana. Oggi siamo in ansia per la delinquenza giovanile – le sue cause – e i suoi effetti. Siamo particolarmente preoccupati quando questa delinquenza si introduce nelle nostre scuole. Le scene e gli eventi descritti qui sono inventati. Nondimeno crediamo che la pubblica consapevolezza sia il primo passo verso il rimedio per qualunque problema. È in questo spirito e con questa fede che BLACKBOARD JUNGLE è stato prodotto». 11 Frank Zappa, The Oracle Has It All Psyched Out, in «Life», June 28, 1968, p. 85. 12 Altschuler, All Shook Up, cit., pp. 32-33. 13 Ivi, p. 33. 14 Peter Guralnick, Last Train to Memphis. The Rise of Elvis Presley, Back Bays Books, New York 1994, pp. 58-65. 15 Ivi, p. 96; e Gitlin, The Sixties, cit., p. 38. 16 Pura omonimia: Sam e Dewey non sono parenti. 17 Guralnick, Last Train to Memphis, cit., pp. 84-104. 18 Cit. in Ennis, The Seventh Stream, cit., p. 237. 19 Nelle pagine seguenti adotto la grafia «r’n’r»; nelle citazioni possono tuttavia comparire grafie diverse («rock and roll»; «rock ’n’ roll»; «rock’n’roll»), variamente impiegate per rispettare la soluzione scelta dagli autori citati. 20 Ennis, The Seventh Stream, cit., p. 18. 21 Paul Friedlander - Peter Miller, Rock & Roll. A Social History, Westview/Perseus, Cambridge (Mass.) 2006, p. 22. Cfr. anche Ennis, The Seventh Stream, cit., p. 405, n. 29, dove spiega che il termine «Moondog» deriva invece da un popolare R&B, di Todd Rhodes, inciso per la King, dal titolo Blues for Moondog. La data – 1952 – viene indicata in Simon Frith - Will Straw - John Street (eds.), The Cambridge Companion to Pop and Rock, Cambridge University Press, Cambridge 2001, p. xii. 22 Altschuler, All Shook Up, cit., p. 21; Ennis, The Seventh Stream, cit., p. 405, n. 29. Sull’importanza della radio nel far circolare questa musica cfr. anche Graebner, Coming of Age in Buffalo, cit., pp. 27-34. Sulla traiettoria di Freed, Palladino, Teenagers, cit., pp. 122-123. 23 Altschuler, All Shook Up, cit., p. 23; Ennis, The Seventh Stream, cit., p. 218. 24 Cit. ivi, p. 219. 25 Paul Ackerman, Square Circles Peg Rock and Roll Idiom as a Beat to Stick – Carnegie Hall, Theaters, Movies, Radio, TV – All Are Getting Hip, in «Billboard», February 4, 1956, p. 1. Cfr. anche Ennis, The Seventh Stream, cit., p. 219. 26 Altschuler, All Shook Up, cit., p. 131; Ward, Just My Soul Responding, cit., p. 460, n. 65, che però – per il 1959 – indica la cifra di 603 milioni di dollari. 27 Altschuler, All Shook Up, cit., pp. 132-133. 28 Ivi, pp. 5-6. 29 Ivi, p. 6. 30 Friedlander, Rock & Roll, cit., p. 27. 31 Altschuler, All Shook Up, cit., p. 6. 32 Ivi, p. 4. 33 Ivi, p. 110. 34 Ivi, p. 109. 10

vii. rock and roll

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Ivi, pp. 95-98. Bill Haley è figlio di un operaio di un cantiere; Chuck Berry è figlio di un piccolo imprenditore nel settore delle riparazioni edilizie e ha 5 tra fratelli e sorelle; Little Richard è figlio di un muratore e ha 11 tra fratelli e sorelle; Elvis Presley viene da una famiglia molto povera – suo padre è stato in prigione per otto mesi per spaccio di moneta falsa; Jerry Lee Lewis è figlio di un carpentiere che è stato in prigione per contrabbando di alcolici; Buddy Holly è figlio di un sarto, poi impiegato in un negozio di vestiti. 37 Sul retroterra autobiografico della canzone cfr. Ward, Just My Soul Responding, cit., pp. 207-208. 38 Coleman, The Adolescent Society, cit., p. 126, n. 1; Coleman riassume il punto dicendo che «le ragazze e i gruppi di ragazze che dedicano la massima attenzione alla popular culture esterna [alla scuola] sono ai margini del sistema sociale adolescenziale» (p. 127). 39 La scuola si trova nella stessa località dell’Illinois studiata da Hollingshead nel suo Elmtown’s Youth, cit. 40 Coleman, The Adolescent Society, cit., p. 205. 41 Ivi, pp. 128 e 205. Sul successo di Elvis Presley anche tra giovani neri, cfr. Ward, Just My Soul Responding, cit., p. 135. 42 Nel 1956 Presley da solo vende 10 milioni di dischi su un totale di 90 milioni sul mercato americano (Palladino, Teenagers, cit., p. 129). 43 William T. Bielby, Rock in a Hard Place. Grassroots Cultural Production in the Post-Elvis Era, in «American Sociological Review», 2004, 69. 44 Palladino, Teenagers, cit., p. 114; Coleman, The Adolescent Society, cit., p. 205. 45 Graebner, Coming of Age in Buffalo, cit., pp. 99-102. 46 «A-wop bop-a loo-mop, a good goddamn! / Tutti Frutti, good booty, / If you don’t fit, don’t force it / You can grease it, make it easy / A-wop-bop-a-loo-mop, a good goddamn!» (cfr. Altschuler, All Shook Up, cit., pp. 57-60). 47 Nella versione finale il testo diventa un’efficacissima sequenza onomatopeica, priva tuttavia di un qualunque significato: «A-wop-bop-a-loo-lop a-lop bam-boom! / Tutti Frutti, all rooty, / Tutti Frutti, all rooty, / Tutti Frutti, all rooty, / A-wop-bop-a-loo-lop a-lop bam-boo!»; «all rooty» equivale a «all right». 48 Al riguardo cfr. Iain Chambers, A Strategy for Living, in Hall-Jefferson (eds.), Resistance Through Rituals, cit., p. 136. 49 Stephen Hinerman, «I’ll Be Here with You». Fans, Fantasy and the Figure of Elvis, in Lewis (ed.), The Adoring Audience, cit., p. 123. 50 Guralnick, Last Train to Memphis, cit., pp. 109-110. 51 Altschuler, All Shook Up, cit., pp. 87-88. 52 Hinerman, «I’ll Be Here with You», cit., p. 121. 53 Marwick, The Sixties, cit., p. 49. 54 Gilbert, A Cycle of Outrage, cit., pp. 64-66. 55 Ivi, cit., p. 18. 56 Ward, Just My Soul Responding, cit., pp. 103-104. 57 Ivi, p. 110. 58 Ivi, p. 107. 59 Cit. in Marwick, The Sixties, cit., p. 49. 35

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NOTE

Altschuler, All Shook Up, cit., pp. 78-81. Ivi, pp. 82-85. 62 Ivi, pp. 113-114. 63 Tra i numerosi «musicarelli» r’n’r si ricordino almeno Shake, Rattle and Rock! (Processo al rock and roll, Edward L. Cahn, 1956); Rock, Pretty Baby (Gli indiavolati, Richard Bartlett, 1956); Rock Around the Clock (Senza tregua il rock’n’roll, Fred F. Sears, 1956, con Alan Freed e Bill Haley); Love Me Tender (Fratelli rivali, Robert D. Webb, 1956); Loving You (Amami teneramente, Hal Kanter, 1957); Jailhouse Rock (Il delinquente del rock’n’roll, Richard Thorpe, 1957); King Creole (La via del male, Michael Curtiz, 1958; questi ultimi quattro tutti con Elvis Presley); Bernardine (La donna del sogno, Henry Levin, 1957); April Love (Il sole nel cuore, Henry Levin, 1957; questi ultimi due con Pat Boone). 64 Si possono ascoltare The Girl Can’t Help It, Ready Teddy e She’s Got It, di Little Richard; Cool It Baby, di Eddie Fontaine; Be-Bop-A-Lula, di Gene Vincent and His Blue Caps; Twenty Flight Rock, di Eddie Cochran; Blue Monday, di Fats Domino; e You’ll Never, Never Know, dei Platters. 65 Ward, Just My Soul Responding, cit., pp. 140-141. 66 Irwin, Scenes, cit., p. 84; a dispetto del titolo minimalista, il libro di Irwin, che si occupa delle «scene» californiane dei surfisti e degli hippie, è fondamentale sia dal punto di vista informativo che teorico, giacché introduce il concetto di «scene», comunità meno strutturate delle subculture, più aperte all’ingresso di neofiti, ma al tempo esposte a un forte hype mediatico. 67 Ivi, pp. 85-88. 68 Ivi, pp. 92-94 e 125. 69 Ivi, p. 132. 70 Ivi, p. 145. 71 Ivi, p. 126; Ernesto Assante - Gino Castaldo, Blues, jazz, rock, pop. Il Novecento americano. La guida a musicisti, gruppi, dischi, generi e tendenze, Einaudi, Torino 2004, p. 270. Il successo del film viene replicato con due sequel, mentre nel 1963, dopo la fortunata uscita di Beach Party, la casa di produzione indipendente Aip lancia un’intera serie di altri surf films che si muovono intorno alle stesse caratteristiche (spensierate commedie adolescenziali) del ciclo di Gidget. 72 La musica di Surfin’ USA deriva – francamente oltre i confini del plagio – da Sweet Little Sixteen di Chuck Berry; Brian Wilson, accreditato come autore di Surfin’ USA, ha poi riconosciuto il calco. 73 Irwin, Scenes, cit., pp. 127-135. 74 Ward, Just My Soul Responding, cit., p. 174. 75 Il termine «soul» viene impiegato nelle classifiche di «Billboard» dall’agosto del 1969 (ivi, p. 176). 76 Ivi, pp. 183-201; Cusic, The Development of Gospel Music, cit., pp. 56-58. 77 Ward, Just My Soul Responding, cit., pp. 201-202. 78 Friedlander, Rock & Roll, cit., pp. 156 e 162; Ward, Just My Soul Responding, cit., pp. 261-362. 79 Ward, Just My Soul Responding, cit., pp. 259-261; Martel, Mainstream, cit., pp. 113-121. 80 Altschuler, All Shook Up, cit., p. 177. Tra il 1960 e il 1969 la Motown pubblica 60 61

viii. beat generation

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535 singoli, 357 dei quali entrano nelle classifiche R&B e/o pop (Ward, Just My Soul Responding, cit., p. 268). 81 Friedlander, Rock & Roll, cit., p. 173; Altschuler, All Shook Up, cit., p. 178; Sharon Monteith, American Culture in the 1960s, Edinburgh University Press, Edinburgh 2008, pp. 66-67.

VIII. Beat Generation Allen Ginsberg, Urlo & Kaddish, il Saggiatore, Milano 2010, p. 23. La traduzione è di Luca Fontana. 2 Sin dagli anni Trenta «hip», «hipster» sono termini che indicano un tossicomane e le sue pratiche; passano poi a indicare una persona controcorrente ma molto cool (cfr. Ned Polsky, Hustlers, Beats and Others, Aldine, Chicago 1967, p. 151; Steven Watson, The Birth of the Beat Generation. Visionaries, Rebels, and Hipsters, 1944-1960, Pantheon ­Books, New York 1998, pp. 9 e 121; Emanuele Bevilacqua, Beat & Be bop. Jack Kerouac, la musica e le parole della Beat Generation, Einaudi, Torino 1999, p. 121). 3 Watson, The Birth of the Beat Generation, cit., pp. 7-17 e 33-35; il libro di Watson è fondamentale, perché mette in ordine una ricchissima messe di notizie biografiche su tutti i singoli membri della Beat Generation. 4 Jonah Raskin, American Scream. Allen Ginsberg’s «Howl» and the Making of the Beat Generation, University of California Press, Berkeley-Los Angeles-London 2004, p. 29. 5 Watson, The Birth of the Beat Generation, cit., pp. 23-29, 33-37, 65. 6 Ivi, pp. 17-23 e 29-33. 7 Ivi, pp. 78-82. 8 Ivi, pp. 122-124. 9 Ivi, p. 40. 10 Ivi, pp. 42-48 e 105; Raskin, American Scream, cit., p. 53. 11 Watson, The Birth of the Beat Generation, cit., pp. 51-60 e 90. 12 Ivi, pp. 66-68. 13 Ivi, pp. 142-156. 14 Ivi, pp. 110-116. 15 Ivi, p. 132. 16 Sulle origini del termine cfr. Watson, The Birth of the Beat Generation, cit., pp. 3-4; Christopher Gair, The Beat Generation. A Beginner’s Guide, Oneworld, Oxford 2008, p. 39; e Bevilacqua, Beat & Be bop, cit., pp. 109 e 119-120. 17 John Clellon Holmes, This Is the Beat Generation, in «The New York Times Magazine», November 16, 1952, ora http://www.litkicks.com/ThisIsTheBeatGeneration. 18 Preston Whaley, Jr., Blows Like a Horn. Beat Writing, Jazz, Style, and Markets in the Transformation of U.S. Culture, Harvard University Press, Cambridge (Mass.)-London 2004, che fra l’altro è convincente nell’indicare la data della lettura pubblica al 7 di ottobre, e non al 13 di ottobre, come si dice in molti altri saggi (pp. 207-208, n. 11). Cfr. anche Raskin, American Scream, cit., pp. 12-19; e Watson, The Birth of the Beat Generation, cit., pp. 177-187. 1

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NOTE

Jack Kerouac, I vagabondi del Dharma, Mondadori, Milano 2013, p. 18. Whaley, Jr., Blows Like a Horn, cit., p. 65. Christopher Gair avvicina la performance di Ginsberg anche all’action painting di Jackson Pollock e alle esibizioni live di Elvis Presley (Christopher Gair, The American Counterculture, Edinburgh University Press, Edinburgh 2007, pp. 28-29). Negli anni Cinquanta la poetessa ruth weiss, nata in Germania nel 1928 in una famiglia di confessione ebraica e fuggita negli States nel 1933, fa parte della scena beat californiana; è lei stessa che decide di scrivere il suo nome con le iniziali minuscole, come immediato segno grafico di radicale anticonformismo. 21 Bevilacqua, Beat & Be bop, cit., pp. 30 e 39. 22 Raskin, American Scream, cit., pp. 168-173. In alcune di queste letture Ginsberg si spoglia integralmente, un gesto che vuole mostrare la naturalità e la credibilità delle emozioni che esprime nel testo; lungi dall’essere irrilevante, questa bizzarra pratica attuata da Ginsberg finirà per funzionare da modello di riferimento per una rivalutazione della nudità all’interno delle controculture sociali e artistiche degli anni Sessanta, su cui tornerò nei capitoli XI e XII. 23 Si tratta di Neal Cassady. 24 Ginsberg, Urlo & Kaddish, cit., pp. 29-33. 25 Newhouse, The Beat Generation and the Popular Novel, cit., pp. 74-81. 26 Carl Solomon (1928-1993) – intelligentissimo, ma psichicamente instabile – conosce Ginsberg nel 1949 presso il Columbia Presbyterian Psychiatric Institute, dove anche lui è ricoverato. Quando viene dimesso, inizia a lavorare alla Ace Books, casa editrice di proprietà di suo zio, Aaron A. Wyn. È proprio grazie ai buoni uffici di Solomon che Ginsberg riesce a far pubblicare dalla Ace Books il primo romanzo di Burroughs, Junkie. 27 Raskin, American Scream, cit., pp. 211-223. Altre due cause storiche relative alla censura di testi letterari riguardano la pubblicazione negli Usa di Tropic of Cancer (Tropico del Cancro) di Henry Miller, che si conclude positivamente nel 1964, e la causa relativa alla pubblicazione di Naked Lunch (Il pasto nudo) di William Burroughs, anch’essa finita con un’assoluzione nel 1966 (cfr. Watson, The ­Birth of the Beat Generation, cit., pp. 281-284). 28 Gair, The Beat Generation, cit., p. 74; Halliwell, American Culture in the 1950s, cit., p. 76. 29 Jack Kerouac, Sulla strada, Mondadori, Milano 2012, p. 134. La traduzione è di Marisa Caramella. 30 Sulla quest si veda il capitolo II, par. 1, e note relative, in particolare Frye, Anatomia della critica, cit., pp. 248-249. 31 Kerouac, Sulla strada, cit., p. 14, ripetuto, grosso modo, ancora a p. 176. 32 Questa versione di On the Road è adesso disponibile in tutto il suo straordinario fascino estetico (Jack Kerouac, On the Road. Il «rotolo» del 1951, Mondadori, Milano 2013). 33 Kerouac, Sulla strada, cit., pp. 231-232. 34 Ivi, p. 11. 35 E sulla base di considerazioni analoghe Norman Mailer, in un saggio pubblicato sulla rivista «Dissent» nell’estate del 1957, definisce gli hipsters come dei bianchi-negri, cioè come dei bianchi che dai confratelli neri traggono la vitalità, 19

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l’energia e la forza per staccarsi dal conformismo dominante (Norman Mailer, The White Negro. La solitudine dell’hipster, Castelvecchi, Roma 2015). 36 Si veda un esempio di questo atteggiamento critico in Sara Antonelli, Narratori degli Stati Uniti contemporanei, in Antonelli-Mariani (a cura di), Il Novecento USA, cit., pp. 378-380. Le medesime critiche sono state indirizzate al saggio di Norman Mailer citato in precedenza. 37 Che comunque mi sembra pecchino di grave anacronismo: trovare – negli Usa degli anni Cinquanta – uno scrittore che a voce alta tessa le lodi di comunità etniche marginali non mi sembra così banale; e del resto intellettuali o militanti neri come LeRoi Jones o, più tardi, Eldridge Cleaver, mostrano di apprezzare l’atteggiamento simpatetico che i beat manifestano nei confronti della cultura afroamericana (cfr. Gair, The American Counterculture, cit., pp. 48-49). 38 Jack Kerouac, I sotterranei, Mondadori, Milano 2012, pp. 53-61. 39 Kerouac, I vagabondi del Dharma, cit., p. 104. La traduzione è di Nicoletta Vallorani. 40 Holmes, This Is the Beat Generation, cit. 41 Mailer, The White Negro, cit., pp. 9-10. 42 Kerouac, Sulla strada, cit., p. 68. 43 Cartosio, I lunghi anni Sessanta, cit., pp. 216-217; le citazioni interne provengono da Mario Corona, Jack Kerouac, o della contraddizione: storie degli anni Cinquanta, in Jack Kerouac, Romanzi, Mondadori, Milano 2001, pp. xxxvi-xxxvii. 44 Cit. da Watson, The Birth of the Beat Generation, cit., p. 253. 45 Norman Podhoretz, The Know-Nothing Bohemians, in «Partisan Review», Spring 1958, vol. XXV, n. 2, http://sitesarchive.unc.edu/tech/webdesignws/basic/ graphics/Readings/knownothing.pdf. Non meno dura è la critica «da sinistra» di Paul Goodman, che non apprezza il disimpegno etico-politico dei beat, né le – per lui presunte – qualità estetiche dei loro lavori (Paul Goodman, La gioventù assurda. Problemi dei giovani nel sistema organizzato, Einaudi, Torino 1971, pp. 70-77). 46 Podhoretz, The Know-Nothing Bohemians, cit. 47 Ibid. 48 Watson, The Birth of the Beat Generation, cit., p. 260; Gair, The Beat Generation, cit., p. 121. 49 Raskin, American Scream, cit., p. 202; Gair, The Beat Generation, cit., p. 121. L’epiteto «testa d’uovo» viene coniato per Adlai Stevenson – candidato democratico battuto per due volte da Eisenhower alle presidenziali (1952; 1956) e da J.F. Kennedy alle primarie democratiche del 1960 – e indica, per estensione, gli intellettuali con propensioni politiche astratte e radicali. 50 Whaley, Jr., Blows Like a Horn, cit., pp. 85-88. 51 Ivi, p. 86. 52 Squaresville U.S.A. vs. Beatsville, in «Life», September 21, 1959, pp. 31-37. 53 Paul O’Neil, The Only Rebellion Around. But the Shabby Beats Bungle the Job in Arguing, Sulking and Bad Poetry, in «Life», November 30, 1959, pp. 115 e 124. Paul O’Neil è un giornalista che collabora regolarmente con «Life» e «Time». 54 Squaresville U.S.A. vs. Beatsville, cit., p. 36. 55 Breines, Young, White, and Miserable, cit., pp. 135-141. Tutte giovani, o molto giovani, quando entrano in contatto con la Beat Generation, queste donne han-

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NOTE

no vite intellettuali (e in qualche caso sessuali) molto intense. Janis Joplin (19431970) diventa una luminosa star del rock. Joyce Johnson (nata Glassman, nel 1935) ha una storia con Kerouac dal 1957 al 1959, rievocata in Minor Characters. A Young Woman’s Coming-of-age in the Beat Orbit of Jack Kerouac, edito nel 1987; Hettie Jones (nata Cohen, nel 1934) sposa LeRoi Jones nel 1958 e con lui fonda «Yūgen», una rivista che raccoglie contributi dal mondo beat; anche lei torna sul suo passato con How I Became Hettie Jones, edito nel 1980; Diane di Prima (nata nel 1934) vive intensamente la vita della bohème del Greenwich, diventando l’amante di LeRoi Jones, e attraversando poi un suo percorso liberamente bisessuale; nel 1958 pubblica la sua prima raccolta poetica per Totem Press, This Kind of Bird Flies Backward, e nel 1969 esce Memoirs of a Beatnik (Watson, The Birth of the Beat Generation, cit., pp. 265-273). Jan Clausen (nata nel 1950) ha una brillante evoluzione letteraria, sperimentando anche lei una intensa e consapevole vita bisessuale. Annie Dillard (nata nel 1945) ha una carriera di docente e scrittrice. 56 Ned Polsky, The Village Beat Scene: Summer 1960, in Id., Hustlers, Beats and Others, Aldine, Chicago 1967, pp. 150-185. Un resoconto simile della comunità beat di North Beach, San Francisco, è presentato dalla ricerca compiuta da due psicologi, Francis J. Rigney e L. Douglas Smith, tra 1958 e 1959, che realizzano interviste e test psicologici somministrati a 51 giovani membri della comunità su un totale stimato di 180-200 (cfr. John Arthur Maynard, Venice West. The Beat Generation in Southern California, Rutgers University Press, New Brunswick-London 1991, pp. 17-19). Paul O’Neil ritiene che la comunità beat di Venice West sia composta da circa 2.000 persone, mentre a North Beach sarebbero circa 1.000 (O’Neil, The Only Rebellion Around, cit., p. 129); di qualche migliaio sarebbe la comunità beat del Green­wich, secondo Polsky (citato da Gitlin, The Sixties, cit., pp. 45 e 444). 57 Polsky, The Village Beat Scene, cit., p. 160. 58 Gitlin, The Sixties, cit., p. 53. 59 Polsky, The Village Beat Scene, cit., p. 175. 60 Cfr., al riguardo, Newhouse, The Beat Generation and the Popular Novel, cit., cap. 1.

IX. I Want to Hold Your Hand 1 Sull’avanguardia artistica attiva al Village in questo periodo è fondamentale Sally Banes, Greenwich Village 1963. Avant-Garde Performance and the Effervescent Body, Duke University Press, Durham-London 2007, Kindle file. 2 Per un inquadramento storico complessivo del Movimento si veda Cartosio, I lunghi anni Sessanta, cit. 3 La National Association for the Advancement of Colored People (Naacp) viene fondata nel 1909 per iniziativa di William E.B. Du Bois (1868-1963). Il Congress of Racial Equality (Core) viene fondato a Chicago nel 1942, ed è la prima organizzazione antisegregazionista che fa appello a principi nonviolenti. 4 Oltre alle aperture dell’amministrazione Kennedy, Todd Gitlin ricorda anche la scarsa sensibilità che Robert Kennedy – ministro della Giustizia nel governo del fratello – mostra verso il Movimento per i diritti civili, e più in generale la circo-

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spezione con la quale si muove lo stesso J.F.K., dettata dalla preoccupazione di perdere l’importantissimo sostegno degli elettori democratici (prevalentemente razzisti) degli Stati del Sud-Est (Gitlin, The Sixties, cit., pp. 137-143). 5 Ivi, pp. 143-146. 6 Cartosio, I lunghi anni Sessanta, cit., pp. 105-106. 7 Nella costituzione dello Sncc ha un ruolo primario Ella Baker (1903-1986), una delle principali leader del Movimento per i diritti civili. Cfr. Gitlin, The Sixties, cit., p. 81; Cartosio, I lunghi anni Sessanta, cit., p. 108. 8 Ibid. 9 Gitlin, The Sixties, cit., pp. 110-111; Cartosio, I lunghi anni Sessanta, cit., pp. 111-112. 10 Gitlin, The Sixties, cit., pp. 65-76; Cartosio, I lunghi anni Sessanta, cit., pp. 8691. 11 The Port Huron Statement, in Alexander Bloom - Wini Breines (eds.), «Takin’ It to the Streets». A Sixties Reader, Oxford University Press, New York-Oxford 2003, pp. 51-52. Sul timore della «Bomba» da parte dei giovani cresciuti negli anni Cinquanta, cfr. Gitlin, The Sixties, cit., pp. 21-23. 12 The Port Huron Statement, in Bloom-Breines (eds.), «Takin’ It to the Streets», cit., p. 55. 13 Ivi, pp. 56-59. 14 Ivi, pp. 61 e 55-56. 15 Cartosio, I lunghi anni Sessanta, cit., p. 116. 16 Per poter esercitare il diritto di voto bisogna iscriversi nelle liste elettorali; e per poterlo fare, bisogna affrontare un’intervista con la quale gli impiegati dell’amministrazione pubblica verificano che il richiedente possieda i requisiti necessari (per esempio, la conoscenza delle norme costituzionali); un impiegato ostile all’iscrizione di un nero non ha alcuna difficoltà a infarcire l’intervista di domande molto difficili, così da poter negare l’iscrizione con una parvenza di legalità. 17 Gitlin, The Sixties, cit., pp. 150-151; Cartosio, I lunghi anni Sessanta, cit., p. 203; Ward, Just My Soul Responding, cit., p. 178; Monteith, American Culture in the 1960s, cit., p. 157. 18 Alessandro Cavalli - Alberto Martinelli, Il campus diviso. Crisi istituzionale e protesta studentesca nell’università americana, Marsilio, Padova 1971, p. 23. 19 Gitlin, The Sixties, cit., p. 106; Cartosio, I lunghi anni Sessanta, cit., p. 117. 20 Palladino, Teenagers, cit., p. 216. 21 Gitlin, The Sixties, cit., p. 291; Palladino, Teenagers, cit., pp. 221-222. 22 Cartosio, I lunghi anni Sessanta, cit., p. 125. 23 Quanto segue da Roy, Reds, Whites, and Blues, cit., capp. 7-8; Gitlin, The Sixties, cit., pp. 74-76; Cartosio, I lunghi anni Sessanta, cit., pp. 91-94. 24 Music of the Movement, in «The Student Voice», I, 3 (October 1960), p. 5, cit. da Cartosio, I lunghi anni Sessanta, cit., pp. 93-94. La Folkways è la casa discografica fondata da Moses Asch e Marian Distler, di cui abbiamo già parlato nel capitolo III. 25 Roy, Reds, Whites, and Blues, cit., pp. 200-201. 26 Dylan, Chronicles, cit., pp. 89-90; Howard Sounes, Bob Dylan, Guanda, Parma 2002, p. 37. Johnnie Ray è un cantante pop degli anni Cinquanta che anticipa forme assunte poi dal r’n’r.

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NOTE

Sounes, Bob Dylan, cit., p. 41. Dalle note di copertina di Biograph, 1985, cit. in Sounes, Bob Dylan, cit., pp. 51-52. 29 «La mia vita non era stata più la stessa da quando avevo sentito Woody per la prima volta su un giradischi a Minneapolis alcuni anni prima. Quando lo sentii per la prima volta fu come se fosse caduta una bomba da un milione di megatoni» (Dylan, Chronicles, cit., p. 204; cfr. anche pp. 217-221). Cfr. anche Sounes, Bob Dylan, cit., pp. 59-60. 30 Ivi, pp. 77-80. 31 Dylan, Chronicles, cit., pp. 92-93. Cfr. anche Sounes, Bob Dylan, cit., pp. 82-86 e 90-92. 32 Dylan, Chronicles, cit., p. 243. Suze lavora al Theatre de Lys per Brecht on Brecht, spettacolo diretto da Gene Frankel e George Tabori, con la partecipazione – fra gli altri – di Eli Wallach e Lotte Lenya (ivi, p. 270). Cfr. anche Sounes, Bob Dylan, cit., p. 108. 33 Robert Shelton, Bob Dylan: A Distinctive Folk-Song Stylist, in «The New York Times», Friday, September 29, 1961, contenuto in Bob Dylan, cd booklet, pubblicato nel 2005, p. 6; cfr. anche Sounes, Bob Dylan, cit., p. 113; e Friedlander, Rock & Roll, cit., p. 136. 34 Dylan, Chronicles, cit., p. 248; Sounes, Bob Dylan, cit., pp. 111 e 114. 35 Dylan, Chronicles, cit., p. 250. 36 Ivi, pp. 250-254. 37 Le canzoni che affrontano, molto esplicitamente, il tema della morte sono: In My Time of Dyin’ (Blind Willie Johnson); Fixin’ to Die (Bukka White); See That My Grave Is Kept Clean (Blind Lemon Jefferson); Pretty Peggy-O (trad.). Nelle note sul disco Robert Shelton (che si firma con lo pseudonimo di Stacey Williams) osserva: «Per essere così giovane, Bob Dylan ha un curioso interesse per canzoni che trattano della morte. Sebbene sappia argomentare, Dylan non sa spiegare l’attrazione esercitata da queste canzoni, al di là dell’impatto emozionale che hanno esercitato su di lui, e che lui passa agli ascoltatori» (Stacey Williams, in Bob Dylan, cd booklet, pubblicato nel 2005); più di qualunque ragione biografica vagamente evocata da Shelton per spiegare questo interesse, c’è da considerare l’intelligenza culturale con la quale Dylan si avvicina al blues e al folk tradizionale, non evitandone affatto il pessimismo cosmico, ma anzi abbracciandolo con coraggio. 38 Sounes, Bob Dylan, cit., p. 147. R. Clifton Spargo e Anne K. Ream sostengono, persuasivamente, che se in queste canzoni appaiono evidenti toni profetici di derivazione biblica, emergono anche riferimenti alla tradizione cristiana, che si faranno chiarissimi negli album immediatamente successivi, ben prima della conversione come cristiano rinato, che dura – grosso modo – dal 1979 alla metà degli anni Ottanta (R. Clifton Spargo - Anne K. Ream, Bob Dylan and Religion, in Kevin J.H. Dettmar [ed.], The Cambridge Companion To Bob Dylan, Cambridge University Press, Cambridge 2009). 39 «Lo stile, oltre il valore testuale, era di per sé un significato, esprimeva una scelta senza ritorno verso il totale abbandono di ogni compromesso commerciale. Questa incontaminata purezza produsse un effetto irresistibile sulla confusa nebulosa del nuovo movimento generazionale che ancora stava cercando il volto di un 27

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eroe perfetto e senza macchia. Dylan rispondeva in modo quasi messianico a questi requisiti. Era il profeta che il Nuovo vangelo attendeva» (Assante-Castaldo, Blues, jazz, rock, pop, cit., p. 298). 40 Sounes, Bob Dylan, cit., p. 146. 41 Blowin’ in the Wind, in The Freewheelin’ Bob Dylan, maggio 1963. Trad. da http://www.maggiesfarm.it/ttt4.htm. 42 Intervista a «Sing Out!», giugno 1962, cit. in Michael Gray, The Bob Dylan Encyclopedia, Continuum, New York-London 2006, p. 64; Nat Hentoff, Liner notes, in The Freewheelin’ Bob Dylan, cd booklet, pubblicato nel 2003, p. 3. 43 With God on Our Side, in The Times They Are a-Changin’, gennaio 1964. Trad. da http://www.maggiesfarm.it/ttt22.htm. 44 Medgar Evers è un avvocato, attivista e leader del Movimento per i diritti civili, ucciso da un razzista del Ku Klux Klan a Mound Bayou, nel Mississippi, il 12 giugno 1963. 45 Only a Pawn in Their Game, in The Times They Are a-Changin’, gennaio 1964. Trad. da http://www.maggiesfarm.it/ttt25.htm. 46 Secondo Friedlander, la svolta sarebbe stata indotta da un sentimento di paura, causato dall’inasprirsi del clima politico, testimoniato dall’assassinio del presidente Kennedy; tuttavia Friedlander non offre alcun tipo di prova che dia forza a questa sua opinione (Friedlander, Rock & Roll, cit., p. 138). 47 In un’intervista del febbraio 1966, nella quale spiega – con modi paradossali – che ritiene priva di senso la musica che voglia «mandare un messaggio», afferma anche: «la mia simpatia va alle cose zoppe, storpie e belle», che riassume bene il senso di Chimes of Freedom (Nat Hentoff, Playboy Interview: Bob Dylan, in «Playboy», February 1966, http://www.interferenza.com/bcs/interw/66-jan.htm). Cfr. al riguardo anche David Yaffe, Bob Dylan and the Anglo-American tradition, in Dettmar (ed.), The Cambridge Companion to Bob Dylan, cit., p. 23. 48 My Back Pages, in Another Side of Bob Dylan, agosto 1964. Trad. da http:// www.maggiesfarm.it/ttt38.htm. Cfr. Anthony Decurtis, Bob Dylan as Songwriter, in Dettmar (ed.), The Cambridge Companion To Bob Dylan, cit., p. 51. 49 Irwin Silber, An Open Letter to Bob Dylan, in «Sing Out!», November, 1964, http://www.edlis.org/twice/threads/open_letter_to_bob_dylan.html; cfr. anche Halliwell, American Culture in the 1950s, cit., pp. 130 e 265, n. 40. 50 Sounes, Bob Dylan, cit., pp. 59-60 e 158-161; Dylan, Chronicles, cit., pp. 209210. 51 Sounes, Bob Dylan, cit., p. 160. 52 Bill Osgerby, Youth in Britain Since 1945, Blackwell, Oxford 1998, p. 33. 53 Roberta Freund Schwartz, How Britain Got the Blues. The Transmission and Reception of American Blues Style in the United Kingdom, Ashgate, Aldershot-Burlington 2007, p. 59; Keith Gildart, Images of England Through Popular Music. Class, Youth and Rock ’n’ Roll, 1955-1976, Palgrave Macmillan, Houndmills-Basingstoke 2013, Kindle file, pp. 31-33. 54 Osgerby, Youth in Britain, cit., p. 40; Gildart, Images of England Through Popular Music, cit., pp. 25, 30, 35-37; Freund Schwartz, How Britain Got the Blues, cit., pp. 75-82. Diversamente dal sistema televisivo statunitense, quasi interamente privato, quello britannico è pubblico, e inizialmente in regime di monopolio (la Bbc

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NOTE

è l’unica emittente). Il governo nomina i membri del consiglio di amministrazione, cui spetta la nomina del direttore generale e dei principali funzionari. La Bbc non può accettare le inserzioni pubblicitarie ed è finanziata col canone pagato dai possessori di radio o televisioni. Nel 1954 viene autorizzata la costituzione di una rete commerciale privata concorrente – la Itv –, posta tuttavia sotto il controllo di una commissione statale. American Forces Network (Afn) è il canale radio riservato alle forze armate americane, che tuttavia viene captato anche dalle radio dei «civili» britannici. 55 La star dello skiffle è Lonnie Donegan, che significativamente va in testa alla classifica dei singoli nel 1956 con Rock Island Line, che è una cover di una canzone folk americana (Gildart, Images of England Through Popular Music, cit., p. 38; Fre­ und Schwartz, How Britain Got the Blues, cit., pp. 63-66). 56 «George Harrison si è detto grato al movimento [skiffle] che gli ha fatto conoscere “il folk, il country, il blues e le canzoni tradizionali, e gente come Leadbelly che è ancora [1997] uno di miei cantanti-autori-chitarristi preferiti”. Mick Jagger pure ricorda di essersi interessato al blues durante la moda dello skiffle», che gliene ha fatto scoprire l’esistenza (Freund Schwartz, How Britain Got the Blues, cit., p. 70). 57 Ivi, p. 69. 58 Derivo il concetto di «comunità interpretativa» da Stanley Fish, C’è un testo in questa classe? L’interpretazione nella critica letteraria e nell’insegnamento, Einaudi, Torino 1987. 59 Osgerby, Youth in Britain, cit., p. 14; Dominic Sandbrook, White Heat. A History of Britain in the Swinging Sixties, Little, Brown Book Group, London 2011, cap. 16. 60 Osgerby, Youth in Britain, cit., p. 27. 61 Gli studenti universitari britannici nel 1951 sono il 3,03% sulla classe di età compresa tra i 20 e i 24 anni; nel 1961 sono il 4,11%, e nel 1971 il 6,27%; i dati corrispet­tivi per gli Usa sono: 23,30% nel 1950; 30,10% nel 1960; 46,88% nel 1970 (Mitchell, International Historical Statistics. Europe 1750-1993, cit., pp. 27, 41-43 e 898-899; Mitchell, International Historical Statistics. The Americas 1750-1993, cit., pp. 21, 23, 751, 753-754). 62 Marwick, The Sixties, cit., pp. 64-65; Sandbrook, White Heat, cit., pp. 539-541. 63 Marwick, The Sixties, cit., pp. 66-67; Osgerby, Youth in Britain, cit., pp. 84-85. 64 Sandbrook, White Heat, cit., pp. 535-536. 65 Phil Cohen, Sub-cultural Conflict and Working Class Community, in «Working Papers in Cultural Studies», 1972, n. 2 (Spring), CCCS, University of Birmingham, cit. in John Clarke - Stuart Hall - Tony Jefferson - Brian Roberts, Subcultures, Cultures and Class, in Hall-Jefferson (eds.), Resistance Through Rituals, cit., pp. 21-28. 66 Brake, Comparative Youth Culture, cit., p. 73; Osgerby, Youth in Britain, cit., pp. 9-13. 67 Tony Jefferson, Cultural Responses of the Teds, in Hall-Jefferson (eds.), Resistance Through Rituals, cit., p. 70. 68 Brake, Comparative Youth Culture, cit., p. 73. Gruppi di teddy boy partecipano attivamente alle aggressioni contro gli immigrati caraibici, che hanno luogo a Nottingham e a Londra nel 1958.

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Ivi, pp. 74-75; Osgerby, Youth in Britain, cit., p. 42; Paolo Hewitt, Mods. L’anima e lo stile, Arcana, Roma 2002; Gildart, Images of England Through Popular Music, cit., capp. 4 e 5. 70 Cit. da Dick Hebdige, The Meaning of Mod, in Hall-Jefferson (eds.), Resistance Through Rituals, cit., p. 74. 71 Brake, Comparative Youth Culture, cit., pp. 74-75; Gildart, Images of England Through Popular Music, cit., p. 97. In Quadrophenia, doppio LP, pubblicato nel 1973, gli Who danno una descrizione intensa e appassionata della subcultura mod, della quale, in una certa misura, sono stati il gruppo simbolo. Nel 1979 l’album è stato trasposto in un film omonimo con la regia di Franc Roddam. 72 Cfr. Hebdige, The Meaning of Mod, cit., p. 74, che fa riferimento a P. Barker A. Little, The Margate Offenders: A Survey, in «New Society», 30th July 1964. 73 Cit. in Brake, Comparative Youth Culture, cit., p. 73. 74 Stanley Cohen, Folk Devils and Moral Panics. The Creation of the Mods and Rockers, Routledge, London-New York 2002; Sandbrook, White Heat, cit., pp. 208209. 75 Ivi, pp. 689-690. Il saggio di Willmott e Young a cui Sandbrook fa riferimento è Family and Class in a London Suburb, 1960. All’epoca John Newsom è uno dei maggiori pedagogisti britannici, fra le altre cose presidente del comitato nominato dal governo conservatore di Harold Macmillan, che nel 1963 redige il cosiddetto Newsom Report (titolo effettivo: Half our Future), sullo stato del sistema educativo nel paese. «Woman’s Own» è un periodico femminile a larga diffusione, fondato nel 1932. 76 Simon Szreter - Kate Fisher, Sex Before the Sexual Revolution. Intimate Life in England 1918-1963, Cambridge University Press, Cambridge 2010, pp. 39-41. 77 Angela McRobbie - Jenny Garber, Girls and Subcultures, in Hall-Jefferson (eds.), Resistance Through Rituals, cit., pp. 177-188. 78 Ian MacDonald, The Beatles. L’opera completa, Mondadori, Milano 2011, p. 362. Secondo John McMillian la parola «beatlemania» compare per la prima volta il 2 novembre 1963 in un servizio del «Daily Mirror» (John McMillian, Beatles vs Stones, Laterza, Roma-Bari 2014, p. 276, n. 23). Originariamente il gruppo è costitui­to da John Lennon, Paul McCartney, George Harrison, Stuart Sutcliffe e Pete Best. Sutcliffe lascia il gruppo nel 1961; nel 1962 Pete Best viene sostituito alla batteria da Ringo Starr. 79 Szreter-Fisher, Sex Before the Sexual Revolution, cit., pp. 39-41. 80 Marwick, The Sixties, cit., pp. 99-100. 81 Ehrenreich-Hess-Jacobs, Beatlemania, cit.; Osgerby, Youth in Britain, cit., pp. 59-60. 82 In totale le partecipazioni dei Beatles alla trasmissione saranno quattro (9, 16 e 23 febbraio 1964, e 12 settembre 1965), http://www.edsullivan.com/artists/ the-beatles/. 83 «Billboard», February 15, 1964, p. 35, e February 29, 1964, p. 18. Cfr. anche Sandbrook, White Heat, cit., p. 112. 84 Paul Johnson, The Menace of Beatlism, in «New Statesman», February 29, 1964, in http://www.newstatesman.com/culture/2014/08/archive-menace-beatlism. 85 Cit. in Sandbrook, White Heat, cit., p. 7. 69

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NOTE

Ivi, p. 112. Ivi, p. 111.

X. Feed Your Head! Sui Kinks e le loro radici nelle comunità operaie britanniche, cfr. Gildart, Images of England Through Popular Music, cit., cap. 6. 2 Freund Schwartz, How Britain Got the Blues, cit., p. 74. 3 Cit. ivi, p. 136. Lipstick on Your Collar è una canzone cantata da Connie Francis, che nel 1959 va in cima alla classifica delle vendite nel Regno Unito, negli Usa e in Australia. 4 Ivi, pp. 74-75. Cfr. anche Sandbrook, White Heat, cit., pp. 135-139. 5 Ivi, p. 138. 6 Questa la storia nella versione degli Animals; in quella di Dylan la protagonista è una prostituta che lavora nella Casa del sole che sorge, dove il giocatore d’azzardo era il suo ragazzo; la rovina di costui l’ha poi costretta a fare la professione che fa. 7 Keith Richards, Life, Feltrinelli, Milano 2012, pp. 80-83. 8 Sandbrook, White Heat, cit., pp. 139-146; Andrea Orlandini - Luca Polese Remaggi, I Rolling Stones, Ediesse, Roma 2013. 9 Sandbrook, White Heat, cit., pp. 148-149; Friedlander, Rock & Roll, cit., pp. 106107. 10 Sandbrook, White Heat, cit., pp. 150-152. 11 Si tratta di una cover del brano di Muddy Waters, che ho già ricordato nel capitolo VI, par. 5. 12 Orlandini-Polese Remaggi, I Rolling Stones, cit., p. 77; McMillian, Beatles vs Stones, cit., p. 38. 13 Anche se ben presto i Rolling Stones mostrano di sapersi adattare piuttosto bene alle comodità dello stardom e del jet set (come peraltro fanno anche i Beatles): cfr. Sandbrook, White Heat, cit., p. 273. 14 Richie Unterberger, Paint It Black, in Allmusic, http://www.allmusic.com/ song/paint-it-black-mt0010717040. 15 Dylan intitola il suo disco «Bringin’ It All Back Home, un’espressione che sta tra “portarsi tutto a casa” e “far vedere chi è il padrone”, perché vuole far sapere che la musica rock non è una faccenda inglese, va ricondotta al paese al quale appartiene e che lui, Dylan, è l’unico in grado di farlo» (Alessandro Carrera, La voce di Bob Dylan. Una spiegazione dell’America, Feltrinelli, Milano 2011, p. 177). Cfr. anche Friedlander, Rock & Roll, cit., pp. 138-139; e Sounes, Bob Dylan, cit., p. 177. 16 Ivi, p. 189. 17 Ivi, p. 190. 18 Maggie’s Farm è, tra le canzoni di Bringing It All Back Home, quella con il testo che più ricorda l’impianto narrativo delle canzoni di Freewheelin’ o di The Times They Are a-Changin’: la canzone parla di una famiglia di arroganti che maltrattano un lavorante della fattoria e della reazione risentita di costui, che non ha più voglia di essere sfruttato. 1

x. feed your head!

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Nat Hentoff, Playboy Interview: Bob Dylan, in «Playboy», February 1966 (http://www.interferenza.com/bcs/interw/66-jan.htm); Sounes, Bob Dylan, cit., pp. 190-191. 20 Ivi, p. 192. 21 La Highway 61 è una strada americana che va dal Minnesota (Stato di nascita di Dylan) fino alla foce del fiume Mississippi. 22 Outlaw Blues, in Bringing It All Back Home, marzo 1965, http://www.bobdylan.com/us/songs/outlaw-blues. 23 Si tratta dell’assassino di Jesse James. 24 http://www.maggiesfarm.it/ttt46.htm. 25 «I can’t think for you / You’ll have to decide», With God on Our Side, cit. 26 Trad. in http://www.maggiesfarm.it/ttt57.htm. 27 Dylan, Chronicles, cit., p. 210. 28 http://www.maggiesfarm.it/ttt53.htm. Il 20 luglio 1965 esce Like a Rolling Stone come singolo 45 giri: «Benché durasse quasi il doppio dei singoli dell’epoca, con i suoi cinque minuti e cinquantanove secondi, e fosse poco adatto ai passaggi radiofonici, scalò inesorabile le classifiche e, soprattutto, ebbe grande influenza sugli altri musicisti. “Era la voce più potente che avessi mai sentito” ricorda Bruce Springsteen, che all’epoca era un ragazzo e viveva a Freehold, nel New Jersey. John Lennon e Paul McCartney avevano sentito il disco un giorno in cui si erano incontrati per scrivere dei brani. “[Bob] ha fatto vedere a tutti che ci si poteva spingere ancora un po’ più in là”» (Sounes, Bob Dylan, cit., pp. 188-189). Il 4 settembre 1965 Like a Rolling Stone arriva al secondo posto della classifica di «Billboard», e ci resta per due settimane. 29 Visions of Johanna, in Blonde on Blonde, 1966, trad. di Alessandro Carrera, in Carrera, La voce di Bob Dylan, cit., p. 53. 30 Ivi, pp. 53-54. 31 Cfr. Bill Janowitz, Visions of Johanna, in Allmusic, http://www.allmusic.com/ song/visions-of-johanna-mt0007733833. 32 http://www.maggiesfarm.it/ttt75.htm. 33 MacDonald, The Beatles, cit., p. 384, n. 11. 34 L’ultimo concerto è quello tenuto al Candlestick Park di San Francisco il 29 agosto 1966 (ivi, p. 436). 35 Sandbrook, White Heat, cit., pp. 212-216; Assante-Castaldo, Blues, jazz, rock, pop, cit., p. 306. 36 MacDonald, The Beatles, cit., p. 248. Fino al 1964 i Beatles hanno fatto uso «solo» di alcol e amfetamine. Quando Dylan li incontra, nell’agosto del 1964, li introduce alla cannabis. Nel gennaio-febbraio del 1965, poi, cominciano ad usare anche l’Lsd, anche se osservano la regola di essere relativamente sobri e puliti quando registrano le loro musiche (Sandbrook, White Heat, cit., p. 217). 37 «Waits at the window, wearing the face / That she keeps in a jar by the door». MacDonald osserva che «Il viso che l’eroina “conserva in un vaso vicino alla porta” (per mascherare la disperazione, inammissibile per il galateo della middle-class inglese) resta la singola immagine più memorabile di tutta l’opera dei Beatles»; e aggiunge: «La romanziera A.S. Byatt, secondo la quale il testo possiede “la perfezione minimalista di un racconto di Beckett”, mette in evidenza che, se il “viso” di Eleanor fosse stato conservato in un barattolo vicino a uno specchio, avrebbe 19

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NOTE

suggerito la meno disturbante immagine del makeup. Invece, l’immagine implica la considerazione che dietro la sua porta, dentro casa sua, miss Rigby “è senza volto, è niente” (Conversazione alla Bbc Radio 3, 11 maggio 1993)» (MacDonald, The Beatles, cit., pp. 200-201 e 376, n. 86.3). 38 Per scrivere la canzone Lennon si ispira a due notizie lette sul «Daily Mail» del 17 gennaio 1967: la morte, in un incidente automobilistico, di un suo ricchissimo amico, Tara Browne; e la conta delle buche nelle strade di Blackburn, Lancashire (MacDonald, The Beatles, cit., p. 221). 39 Il mellotron è uno strumento elettrico a tastiera che riproduce campioni di suoni preregistrati su nastro. 40 MacDonald, The Beatles, cit., pp. 187-188. 41 Richard Middleton ha osservato che il semplice termine «rock» comincia ad essere usato per indicare questa nuova musica su «Melody Maker» a partire dal biennio 1967-1968, per distinguere con chiarezza la nuova musica dalle più semplici canzoni pop, legate a strutture musicali e tematiche tradizionali, e orientate principalmente al mercato (Fabbri, Il suono, cit., p. 209, n. 1). 42 Irwin, Scenes, cit., pp. 90-91. 43 Sounes, Bob Dylan, cit., p. 186; Ennis, The Seventh Stream, cit., p. 325. 44 La pagina di «Hit Parader» è riprodotta ivi, p. 327. 45 Ivi, p. 335. 46 Gair, The American Counterculture, cit., p. 171. 47 Irwin, Scenes, cit., p. 88; Newhouse, The Beat Generation and the Popular Novel, cit., pp. 67-70. 48 Irwin, Scenes, cit., pp. 118-119 e 134-135; Timothy Miller, The Hippies and American Values, The University of Tennessee Press, Konxville 2011, p. xvi; Echols, Graffi in Paradiso, cit., pp. 98, 14; Jeff Tamarkin, Got a Revolution! The Turbulent Flight of Jefferson Airplane, Atria Books, New York 2003, p. 67. Partendo da Van Gennep, è Victor Turner che si sofferma sulla «liminalità», cioè su quando, in un rito, sei in una sorta di terra di mezzo, che comporta che tu sia deprivato delle relazioni o delle caratteristiche (vestiti, attributi) che possedevi prima; la liminalità dà vita a una communitas, cioè un sistema di relazioni in cui le differenze sociali, economiche, o altro, non hanno più senso, in cui sei al pari di tutti gli altri che si trovino in un medesimo stato di liminalità (Turner, The Ritual Process, cit.). 49 «Fino alla primavera del 1967, sia la stampa ufficiale sia quella underground avevano sempre usato le due parole [hippie e beatnik] con significato intercambiabile. La prima volta che la parola “hippie” apparve sulla stampa fu nel settembre del 1965 [5 settembre 1965], in un articolo del “San Francisco Examiner” [scritto da Michael Fallon] che definiva Haight-Ashbury una specie di “West Beach” sotto il titolo A New Paradise for Beatniks» (Echols, Graffi in Paradiso, cit., p. 106). 50 Miller, The Hippies, cit., pp. 25-28 e 99. 51 Ivi, pp. 28-29. 52 Irwin, Scenes, cit., pp. 115-116. 53 Ivi, p. 89. Peraltro nel 1963 Leary e Alpert vengono licenziati da Harvard, per aver condotto i loro esperimenti senza rispettare i protocolli stabiliti dall’Università. 54 Concezione chiaramente espressa in The Pusher, canzone di Hoyt Axton (1967), poi incisa dagli Steppenwolf nel 1968; questa seconda versione è inclusa

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come brano di apertura nella colonna sonora del film Easy Rider (Dennis Hopper, 1969). 55 Irwin, Scenes, cit., p. 95; Miller, The Hippies, cit., pp. 1-2, 19, 75-76. Il carattere comunitario dell’assunzione di marijuana è illustrato molto chiaramente da Don’t Bogart Me, brano dei Fraternity of Man, del 1968, anche questo incluso nella colonna sonora di Easy Rider. 56 Assante-Castaldo, Blues, jazz, rock, pop, cit., pp. 371-372. 57 Tamarkin, Got a Revolution!, cit., pp. 50 e 74; Echols, Graffi in Paradiso, cit., p. 114. 58 Nato in Germania nel 1931 in una famiglia di confessione ebraica, ha un’infanzia estremamente difficile, pur riuscendo fortunosamente a far parte di un piccolo gruppo di bambini ebrei che trova scampo negli Usa prima della fine della seconda guerra mondiale (cfr. Tamarkin, Got a Revolution!, cit., pp. 53-55). 59 Echols, Graffi in Paradiso, cit., p. 139. 60 Cartosio, I lunghi anni Sessanta, cit., pp. 223-224; Tamarkin, Got a Revolution!, cit., p. 124; Assante-Castaldo, Blues, jazz, rock, pop, cit., p. 373; Friedlander, Rock & Roll, cit., pp. 194-195; Echols, Graffi in Paradiso, cit., p. 145. Jerry Rubin (1938-1994) è, insieme ad Abbie Hoffman (1936-1989), il fondatore degli Yippies (Youth International Party), non un vero partito ma una cellula «creativa» del movimento: nell’ottobre del 1967 organizzano una manifestazione pacifista nella quale i partecipanti tentano di far levitare il Pentagono; il 22 marzo 1968 organizzano una specie di pre-flash mob di massa alla Grand Central Station di New York; nel 1968, dopo gli scontri alla Convention democratica di Chicago, Rubin viene arrestato e processato per incitamento alla rivolta, insieme a Abbie Hoffman, Rennie Davis, John Froines, David Dellinger, Lee Weiner, Tom Hayden e Bobby Seale; Rubin sfrutta anche questa circostanza per inscenare una serie di immaginifiche proteste contro la corte e – più in generale – contro il «Sistema» (Gitlin, The Sixties, cit., pp. 233-238 e 342). 61 Fra gli altri ci sono Eric Burdon and The Animals, Simon & Garfunkel, Canned Heat, Big Brother and The Holding Company (con Janis Joplin), Country Joe and The Fish, Al Kooper, The Butterfield Blues Band, Quicksilver Messenger Service, The Byrds, Laura Nyro, Jefferson Airplane, Hugh Masekela, Otis Redding, Ravi Shankar, Buffalo Springfield (con David Crosby), The Who, Grateful Dead, The Jimi Hendrix Experience e The Mamas & the Papas. 62 Friedlander (Rock & Roll, cit., p. 196) sostiene che gli spettatori sono circa 200.000; Echols (Graffi in Paradiso, cit., p. 149) ritiene siano stati da 55.000 a 90.000. 63 Ernesto Assante - Gino Castaldo, Il tempo di Woodstock, Laterza, Roma-Bari 2011. 64 Irwin, Scenes, cit., pp. 135-140 e 147-150; Echols, Graffi in Paradiso, cit., pp. 171-172; Tamarkin, Got a Revolution!, cit., p. 137. 65 Irwin, Scenes, cit., p. 153. Una stima suggerisce che nel 1970 ci siano state 500 comuni con 10.000 membri; un’altra del 1971 indica invece 1.000 comuni rurali e 200 urbane (Miller, The Hippies, cit., pp. 74 e 81-82). 66 Fondamentale, come riferimento teorico, è Gérard Genette, Palinsesti. La letteratura al secondo grado, Einaudi, Torino 1997 (come dichiarato dal sottotitolo, il

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NOTE

lavoro di Genette riguarda solo la produzione letteraria «alta», prevalentemente francese). 67 L’espressione «cultura convergente» è stata coniata da Henry Jenkins (Cultura convergente, Apogeo, Milano 2007), che la applica tuttavia esclusivamente al mondo dei nuovi media formatosi tra la fine del XX e l’inizio del XXI secolo. 68 Le considerazioni seguenti sono basate su questi materiali video: Monterey Pop (D.A. Pennebaker, 1968); The Stones in the Park (Jo Durden-Smith, Leslie Wood­ head, 1969); Woodstock (Woodstock: tre giorni di pace, amore, e musica, Michael Wadleigh, 1970; il Director’s Cut è uscito nel 1994); Gimme Shelter (David Maysles, Albert Maysles, Charlotte Zwerin, 1970); Message to Love. The Isle of Wight Festival. The Movie (Murray Lerner, 1970-1997); The Last Waltz (L’ultimo valzer, Martin Scorsese, 1978); The Doors: When You’re Strange (Tom DiCillo, 2009). Questi film sono stati più o meno recentemente ripubblicati in Blu-Ray o Dvd. Altre testimonianze video relative a questi eventi e a molti altri sono facilmente reperibili on line. 69 Il film, realizzato con un budget di 600.000 dollari, ne guadagna 50 milioni. 70 Sugli Hells Angels cfr. nota 9, cap. VII; Tamarkin, Got a Revolution!, cit., pp. 211-212; Friedlander, Rock & Roll, cit., p. 113. Le violenze al concerto sono molto chiaramente documentate nella seconda parte di Gimme Shelter, cit. 71 Echols, Graffi in Paradiso, cit., p. 232. 72 Ivi, p. 233. 73 Van Gennep, I riti di passaggio, cit.; Turner, The Ritual Process, cit. 74 «Di solito capitava che quando la gente usciva per andare ad ascoltare della musica, era come se se ne stesse andando in chiesa» (Bill Graham, cit. da Friedlander, Rock & Roll, cit., p. 186). «Molti giovani ora sentono che non vengono offerte loro buone possibilità, e così si rivolgono a qualcosa di forte, di duro, che rasenta quasi la violenza... È più che musica. È come una Chiesa, come una istituzione per gente perduta o potenzialmente perduta» (Jimi Hendrix, cit. ivi, p. 206). 75 Stephen Davis, Jim Morrison. Vita, morte, leggenda, Mondadori, Milano 2013, pp. 227 e 280. Il nome del gruppo deriva dal titolo del libro di Aldous Huxley, The Doors of Perception. 76 Cfr. Turner, The Ritual Process, cit., in particolare pp. 138-139. 77 Gitlin, The Sixties, cit., p. 161. 78 Ivi, pp. 112-120 e 173-174; Paul Berman, La storia morale della generazione del Baby Boom, in Id., Sessantotto, cit., pp. 13-15 e 23-49; Berman, in particolare, osserva che queste considerazioni valgono anche per il Sozialistische Deutsche Studentenbund in Germania e per gli altri movimenti politici giovanili a sinistra del Pcf in Francia e del Pci in Italia. 79 Sometimes I Feel Like Dropping Out, in «Newsweek», March 21, 1966, p. 67, cit. in Palladino, Teenagers, cit., p. 232. 80 Letters to Editor, in «America», November 26, 1966, pp. 685-687; I Could Never Join Mainstream Society Now, in «Newsweek», March 21, 1966, p. 70, cit. in Palladino, Teenagers, cit., p. 232. 81 Unisex, in «Newsweek», February 14, 1966, p. 59; Letters to Editor, in «Newsweek», February 28, 1966, pp. 2-4, cit. in Palladino, Teenagers, cit., p. 232. 82 Palladino, Teenagers, cit., p. 233. 83 Sounes, Bob Dylan, cit., pp. 99, 117, 133; Spargo-Ream, Bob Dylan and Reli-

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gion, cit., p. 90. Ancora nei profili biografici pubblicati sul primo e sul secondo LP restano tracce delle sue invenzioni biografiche, definitivamente svelate da «News­ week» all’inizio del 1964. 84 Trad. di Stefano Rizzo, in Bob Dylan, Blues, ballate e canzoni, Newton Compton, Roma 1972, pp. 69 e 71. 85 Nel 1969 gli Who pubblicano Tommy, un album doppio considerato una fondamentale opera rock, in cui raccontano una storia tormentata di disagio giovanile, tradotta in film da Ken Russell nel 1975. Più tardi, nel 1979, anche i Pink Floyd hanno musicato un complesso romanzo di formazione – The Wall –, anche questo tradotto in film nel 1982 per la regia di Alan Parker. 86 Davis, Jim Morrison, cit., p. 195. 87 Ivi, pp. 166-169. 88 Ivi, p. 170. 89 Metto insieme il testo definitivo, come compare nell’album The Doors (1967), e il resoconto della serata del 21 agosto 1966, per l’improvvisazione contenuta nelle righe finali (ibid.). 90 Ivi, pp. 170-171. 91 The Doors, Break On Through (To The Other Side) (1967), trad. di Aurelio Pasini, in Id., The Doors. Until the End. Testi commentati, Arcana, Roma 2008, pp. 24-25. 92 Cfr. Genette, Palinsesti, cit. 93 Hey Joe non è incluso nella versione britannica di Are You Experienced?, che comunque in UK arriva al n. 2 della classifica delle vendite. I 45 giri che contengono Hey Joe hanno un lato B diverso: nel Regno Unito la Polydor sceglie Stone Free; la Reprise, invece, sceglie 51st Anniversary. 94 Gitlin, The Sixties, cit., pp. 348-349. 95 Hall-Jefferson (eds.), Resistance Through Rituals, cit. Sui consumi musicali letti dalla prospettiva dei Cultural Studies cfr. anche le sagge osservazioni di Middleton, Studiare la popular music, cit., pp. 222-235. 96 Cfr., ovviamente, Genette, Palinsesti, cit. 97 Charles R. Cross, La stanza degli specchi. Jimi Hendrix: la vita, i sogni, gli incubi, Feltrinelli, Milano 2010, p. 217. Queste le diverse versioni che precedono quella di Hendrix: The Leaves, Hey Joe, Where You Gonna Go, dicembre 1965 (con due successive reincisioni all’inizio del 1966); Love, Hey Joe, nell’album Love, marzo 1966; The Standells, Hey Joe, Where You Gonna Go?, nell’album Dirty Water, maggio 1966; The Surfaris, Hey Joe, Where Are You Going, 45 giri, giugno 1966; The Byrds, Hey Joe (Where You Gonna Go), nell’album Fifth Dimension, 18 luglio 1966; Tim Rose, Hey Joe, 45 giri edito nel 1966 dopo i precedenti; The Cryan’ Shames, Hey Joe (Where You Gonna Go), nell’album Sugar & Spice, 17 ottobre 1966; The Shadows of Knight, Hey Joe, nell’album Back Door Men, ottobre 1966. 98 Cross, La stanza degli specchi, cit., pp. 193-195. 99 https://heyjoeversions.wordpress.com/2011/01/17/mail-from-niela-halleckmiller-ex-girlfriend-of-billy-roberts/ 100 Due brani eseguiti da Clarence Ashley – The House Carpenter e The Coo Coo Bird – sono incisi nella Anthology of American Folk Music pubblicata dalla Folkways Records nel 1952; del disco e della sua importanza ho parlato nel par. 1 del capitolo III.

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NOTE

In tutta questa fase Hendrix suona, fra le altre, anche nelle band di Solomon Burke, Otis Redding, Curtis Mayfield, Little Richard e Ike & Tina Turner, facendosi licenziare regolarmente perché incapace di trattenersi negli assolo (Cross, La stanza degli specchi, cit., pp. 142, 145-147, 159-160 e 187-188). 102 Su Solo for Violin di Nam June Paik cfr. Banes, Greenwich Village 1963, cit., pos. 2458 e 2476. 103 Gildart, Images of England Through Popular Music, cit., pp. 117-118, sull’ossessione per la «autenticità» manifestata da giovani ragazze mod; Freund Schwartz, How Britain Got the Blues, cit., pp. 47 e sgg., sull’apprezzamento per l’«autenticità» dei musicisti blues, skiffle, ecc., nelle comunità di fan britannici. 101

XI. Suoni e parole del rock 1 Osservazioni interessanti sulla natura «ideologica» di questo assunto si trovano in Elizabeth L. Wollman, The Theater Will Rock. A History of the Rock Musical, from «Hair» to «Hedwig», The University of Michigan Press, Ann Arbor 2006, pp. 24-30. 2 Keir Keightley, Reconsidering Rock, in Frith-Straw-Street (eds.), The Cam­ bridge Companion to Pop and Rock, cit., pp. 111 e 131-139. 3 Gentle Giant, Acquiring the Taste, LP, 1971. Trad. di Franco Fabbri, Acquiring the Taste, in Id., Il suono in cui viviamo, cit., p. 223. 4 Freund Schwartz, How Britain Got the Blues, cit., p. 242. 5 Ai Led Zeppelin e ai Black Sabbath vanno aggiunti anche i Deep Purple, che hanno una fase iniziale di carriera molto meno influenzata dal blues e aperta piuttosto a suggestioni più eterogenee (dai Beatles a Donovan, a Hendrix – eseguono anche loro una cover di Hey Joe –, a un’ingenua sperimentazione con un’orchestra sinfonica). Poi, impressionati dai primi lavori dei Led Zeppelin, passano a un intensissimo hard rock sin dall’album Deep Purple in Rock, del 1970. 6 La battaglia di Zappa per la difesa della propria creatività inizia molto presto: nel 1968 rifiuta un premio assegnatogli in Olanda, perché al momento della premiazione si accorge che gli organizzatori stanno trasmettendo la sua musica dopo averla tagliata e modificata; nel 1977 si libera dalla produzione delle majors, fondando la Zappa Records, e affidandosi alle majors solo per la distribuzione, perché il punto essenziale per lui è mantenere il controllo della produzione dei dischi, anche a rischio di una loro meno efficace commercializzazione (Stefano Marino, La filosofia di Frank Zappa. Un’interpretazione adorniana, Mimesis, Milano-Udine 2014, pp. 63-65). 7 Cfr. Michele Pizzi, Frank Zappa For President! Testi commentati, Arcana, Roma 2011. 8 Gitlin, The Sixties, cit., p. 314; e Pizzi, Frank Zappa For President!, cit., p. 91. 9 Cit. in Barry Miles, Frank Zappa. La vita e la musica di un uomo «Absolutely Free», Feltrinelli, Milano 2007, pp. 174-175. 10 Cfr. Giancarlo Nanni, Rock progressivo inglese. La storia, i gruppi, le tendenze: quando il rock diventò europeo (1965-1974), Castelvecchi, Roma 1998; Piersandro Pallavicini, Quei bravi ragazzi del rock progressivo, Theoria, Roma-Napoli 1998; Paul Hegarty - Martin Halliwell, Beyond and Before. Progressive Rock Since the

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1960s, Continuum, New York-London 2011; Donato Zoppo, Prog. Una suite lunga mezzo secolo, Arcana, Roma 2011. 11 Tra i brani più significativi, da questo punto di vista, Cat Food (King Crimson, 1970); Money (Pink Floyd, 1973); Dancing with the Moonlit Knight (Genesis, 1973). 12 Fabbri, Acquiring the Taste, cit., p. 243. 13 Cfr. ivi, pp. 237-239. 14 Richard Goldstein, Wiggy Words That Feed Your Mind, in «Life», June 28, 1968, p. 68. Le reazioni dei lettori sono testimoniate dalle lettere di commento pubblicate su «Life», July 19, 1968, p. 18A. 15 http://www.maggiesfarm.it/ttt34.htm; e Alessandro Carrera, in Bob Dylan, Lyrics 1962-2001, Feltrinelli, Milano 2006, p. 235. 16 Cfr., al riguardo, anche Yaffe, Bob Dylan and the Anglo-American Tradition, cit., p. 23. 17 George P. Hunt, Editor’s Note. Grace Slick vs. White Tie and Tails, in «Life», July 19, 1968, p. 3. 18 «Concept album» è un’espressione che indica un LP nel quale la sequenza dei brani racconta una storia coerente, grosso modo con un inizio, uno svolgimento, e una fine; oppure in cui i brani hanno una coerenza tematica, e affrontano una medesima questione da diversi punti di vista. Sulla influenza che la letteratura beat, la poesia di Delmore Schwartz e naturalmente l’ambiente della Factory di Andy Warhol esercitano sulla poetica di Reed, si veda Richard Witts, The Velvet Underground, Equinox, London 2006, cap. 3. 19 Trad. di Paolo Bassotti, in Id., Lou Reed. Rock and Roll. Testi commentati, Arcana, Roma 2012, pp. 440 e 442. 20 Simon Reynolds - Joy Press, The Sex Revolts: Gender, Rebellion and Rock ’n’ Roll, Harvard University Press, Cambridge (Mass.) 1996; Sheila Whiteley, Women and Popular Music. Sexuality, Identity and Subjectivity, Routledge, London-New York 2000. 21 Sin dal primo album i brani dei Jefferson Airplane sono cantati sia dalla cantante (prima Signe Toly Anderson; poi la carismatica Grace Slick), sia da uno dei chitarristi (Marty Balin, Paul Kantner, Jorma Kaukonen). Memphis Minnie (18971973) è una brillante musicista blues, con una carriera ricca e longeva. 22 Più esplicito il testo di One Night Stand, registrata il 28 marzo 1970 e pubblicata solo nel 1983, in Farewell Song: nella canzone, con una certa durezza, la voce narrante parla di un incontro erotico del dopo concerto, e dice: «Just because we loved tonight, please don’t you think it’s gonna stay that way / Don’t you know you’re nothing more than a one night stand?» («Solo perché ci siamo amati stanotte, per favore non pensare che sia per sempre / Non sai che non sei altro che uno da una botta e via?») (Massimo Cotto [a cura di], Cry Baby. I testi di Janis Joplin, Arcana, Roma 2007, pp. 266-268). 23 Rispetto al repertorio live di Janis Joplin, l’altra faccia della donna presentata nei brani registrati nei suoi quattro LP è relativamente controllata; perché quando interpreta il repertorio di Bessie Smith o di Leadbelly, si sprofonda nella più estrema delle rivolte femminili; in Black Mountain Blues, lei, abbandonata da lui, non ci mette niente a prendere un fucile e un coltello e ad annunciare (a se stessa o alla sua comunità): «Gli sparerò se starà fermo, lo accoltellerò se proverà a scappare»

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(Ivi, p. 169); in Careless Love il tradimento costa la vita a lui e alla sua amante: «Maledetto, ora io ti sparerò, Dio, vi ammazzerò entrambi ora / Non risparmierò nessuno di voi fino a quando sarete davvero morti» (ivi, p. 177). 24 Ivi, p. 74. 25 La sensibilità di Reed per storie di questo tipo è dettata anche dal suo tracciato biografico: Reed, che scopre di essere gay a 13 anni e resta poi bisessuale per tutta la sua vita, a 17 anni viene costretto dai genitori a sottoporsi a 24 sedute di elettroshock presso il Creedmoor State Psychiatric Hospital, per cercare di correggere la sua «devianza» (Witts, The Velvet Underground, cit., p. 17). 26 Bassotti, Lou Reed, cit., pp. 73-75. Su Last Exit to Brooklyn cfr. anche Newhouse, The Beat Generation and the Popular Novel, cit., p. 87. 27 Bassotti, Lou Reed, cit., p. 72. 28 Berman, Il risveglio gay, cit., pp. 93-101; Monteith, American Culture in the 1960s, cit., p. 167. 29 Berman, Il risveglio gay, cit., p. 107. 30 Lo stesso Lou Reed partecipa all’esperienza glam grazie a Bowie che insieme a Mick Ronson produce Transformer, LP del 1972 che contiene Walk on the Wild Side. Sulla fase glam di Bowie cfr. Gildart, Images of England Through Popular Music, cit., pp. 159-172. 31 Cfr. Eaklor, Queer America, cit., pp. 94-95. 32 Davis, Jim Morrison, cit., pp. 155-156. Non ho trovato filmati video che confermino quanto dice Davis, né lui cita le fonti che usa; è certo, comunque, che in alcuni spettacoli, documentati dai filmati che sono riuscito a visionare, le allusioni sessuali messe in scena da Morrison sono piuttosto evidenti. 33 Banes, Greenwich Village 1963, cit., cap. 2, pos. 1437-1545. 34 Ivi, cap. 6, pos. 4765. 35 Per le bobbysoxers si veda sopra, il par. 3 del capitolo IV. 36 Norma Coates, Teenyboppers, Groupies, and Other Grotesques: Girls and Women and Rock Culture in the 1960s and Early 1970s, in «Journal of Popular Music Studies», 2003, 1. Ricchi di spunti i libri autobiografici di una delle più famose groupies dell’epoca, Pamela Des Barres, tra cui Sto con la band. Confessioni di una groupie, Castelvecchi, Roma 2006, e Let’s spend the night together. Stanotte stiamo insieme, Castelvecchi, Roma 2007. 37 Davis, Jim Morrison, cit., pp. 281-282 e 294. 38 Cross, La stanza degli specchi, cit., p. 285. 39 Cfr., per esempio, Thomas Ward, Machine Gun, http://www.allmusic.com/ song/machine-gun-mt0012403996. 40 «[...] fai pur volare le tue pallottole come pioggia / Perché io continuo a sapere che hai torto, bello / E tu riceverai proprio la stessa cosa [...]». 41 Video in http://www.historyvshollywood.com/video/jimi-hendrix-interview-dick-cavett-show/. 42 Cross, La stanza degli specchi, cit., p. 319. 43 Ivi, pp. 319-320. Secondo Charles Cross, la permanenza nei ranghi dell’esercito di Hendrix non è circondata da un’aura propriamente eroica: il 2 maggio 1961 Hendrix viene arrestato perché sorpreso a bordo di un’auto rubata; una settimana dopo viene arrestato di nuovo per lo stesso reato, e passa otto giorni in carcere; al

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processo patteggia: gli vengono attribuiti due anni di reclusione, da sospendere nel caso di un arruolamento nell’esercito; e Jimi firma per farsi tre anni di leva. Tuttavia, dopo dieci mesi di ferma Jimi non ne può più; e così dichiara al medico della base di avere tendenze omosessuali; il medico conferma la dichiarazione ed Hendrix viene effettivamente congedato in anticipo (ivi, pp. 114-115 e 129-131). 44 Le manifestazioni che si tengono dal 25 al 30 agosto a Chicago, in occasione del Congresso nazionale del Partito democratico, per convincere i leader a sostenere la conclusione della guerra in Vietnam, vengono brutalmente represse dalla polizia, mentre i delegati al Congresso democratico votano contro il piano di pace che i manifestanti intendevano appoggiare (Gitlin, The Sixties, cit., pp. 321-331). 45 Il nome del gruppo deriva da un verso di Subterranean Homesick Blues, di Bob Dylan (1965): «You don’t need a weatherman to know which way the wind blows». 46 Cfr. Gitlin, The Sixties, cit.; Cartosio, I lunghi anni Sessanta, cit.; Berman, La storia morale della generazione del Baby Boom, cit.; Peppino Ortoleva, Saggio sui movimenti del 1968 in Europa e in America, Editori Riuniti, Roma 1988; Marcello Flores - Alberto De Bernardi, Il Sessantotto, il Mulino, Bologna 2003. 47 Cfr. Cartosio, I lunghi anni Sessanta, cit., cap. 9; e Gitlin, The Sixties, cit., pp. 169 e 362-371. 48 Stephen Stills (For What It’s Worth, 1967), Neil Young (Ohio, 1970; Southern Man, 1970; Alabama, 1972) e Graham Nash (Chicago, Military Madness, 1971) sono tra i musicisti che con più frequenza scrivono canzoni di commento all’attualità politica. Nel 1971 e nel 1976 anche Dylan torna a occuparsi di questioni di rilevanza pubblica, con George Jackson (singolo del 1971, dedicato all’uccisione in carcere di un militante del Black Panther Party) e Hurricane (dall’album Desire, del 1976, dedicata al caso giudiziario che ha coinvolto il pugile nero Rubin «Hurricane» Carter); tuttavia, più che un ritorno alla canzone politica, questi due brani di Dylan testimoniano della sua incessante sensibilità per i marginali e i derelitti, e andrebbero accostati ad altre storie di antieroi che Dylan pubblica in questo periodo, da Pat Garrett and Billy The Kid (1973) a Lily, Rosemary and the Jack of Hearts (da Blood on the Tracks, 1975), a Joey e Romance in Durango (da Desire, 1976). 49 «International Times», May 17, 1968, vol. 1, n. 31, http://www.internationaltimes.it/archive/index.php?year=1968&volume=IT-Volume-1&issue=31&item=IT_1968-05-17_B-IT-Volume-1_Iss-31_001-016. 50 Condividono la mia opinione Richie Unterberger, Street Fighting Man, http:// www.allmusic.com/song/street-fighting-man-mt0006430249; McMillian, Beatles vs Stones, cit., pp. 207-217; e Gitlin, The Sixties, cit., pp. 287-288. Viceversa Orlandini e Polese Remaggi ritengono che la canzone esprima un pieno endorsement alle posizioni politiche più radicali (Orlandini-Polese Remaggi, I Rolling Stones, cit., pp. 127-129). 51 Trad. in http://www.pepperland.it/the-beatles/discografia/singoli/hey-jude/revolution. 52 La variante – perfettamente udibile nell’esecuzione – non è riportata nel testo, pubblicato nel poster accluso all’LP. 53 La restituzione viene comunicata in una lettera, indirizzata alla Regina, nella quale Lennon scrive: «Vostra Maestà, restituisco il mio Mbe come protesta contro

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il coinvolgimento britannico nella roba Nigeria-Biafra [«Nigeria-Biafra thing»], contro il nostro sostegno all’America nel Vietnam e contro il fatto che Cold Turkey [brano contenuto in un singolo pubblicato il 20 ottobre 1969] sta scivolando in basso nella classifica delle vendite. Con amore, John Lennon di Bag [il titolo sarcasticamente paraonorifico fa riferimento alla Bag Productions Ltd, compagnia appena fondata da Lennon e Yoko Ono]» (https://www.beatlesbible.com/1969/11/25/ john-lennon-returns-his-mbe-to-the-queen/). 54 La canzone viene pubblicata anche nell’LP di Lennon e Ono, Sometime in New York City (1972), che contiene anche altri brani militanti. 55 Cit. in Tamarkin, Got a Revolution!, cit., p. 165. Cfr. anche una testimonianza di Bill Thompson sul suo blog, che è identica (http://www.jeffersonairplane.com/ ja-air/viewtopic.php?f=4&t=1714). In internet non trovo alcuna testimonianza video dell’episodio. 56 http://www.smothersbrothers.com/episodes.htm. Il video di Crown of Crea­ tion, col gesto del pugno chiuso, è reperibile all’indirizzo https://www.youtube. com/watch?v=D_oJ64K-z2g. Due foto relative alla trasmissione sono nel libretto del cd (Crown of Creation), pubblicato nel 2003. Cfr. anche Tamarkin, Got a Revolution!, cit., pp. 177-178. 57 Ivi, p. 196. 58 Paul Kantner, We Can Be Together, in Jefferson Airplane, Volunteers, novembre 1969. Il verso «Up against the wall motherfucker» fa riferimento a un gruppo di guerrilla theater fondato a New York nell’autunno del 1967, che si chiama, appunto, Up Against the Wall, Motherfucker, frase tratta da un verso di una poesia di LeRoi Jones, Black People (Gitlin, The Sixties, cit., p. 239). L’ultimo brano dell’album – Volunteers – esplicita ulteriormente il punto: «Guarda cosa sta succedendo fuori nelle strade / C’è la rivoluzione, vai alla rivoluzione / Sto ballando giù nella strada / C’è la rivoluzione, vai alla rivoluzione / Non è straordinaria tutta la gente che incontro? / C’è la rivoluzione, vai alla rivoluzione / Una generazione è diventata vecchia / Una generazione ci ha messo l’anima / Questa generazione non ha nessuna meta da raggiungere / Basta piangere! / È giunto il momento per te e per me / C’è la rivoluzione, vai alla rivoluzione / Forza adesso stiamo avanzando verso il mare / C’è la rivoluzione, vai alla rivoluzione / Chi la continuerà dopo di te? / Lo faremo noi, e noi chi siamo? / Siamo i volontari d’America» (trad. in http://www. musicaememoria.com/JeffersonAirplane-Volunteers.htm). 59 When the Earth Moves Again; Rock and Roll Island; War Movie. 60 Tutti i testi dell’album sono scritti da Peter Sinfield. 61 Alessandro Besselva Averame, Pink Floyd. The Lunatic. Testi commentati, Arcana, Roma 2008, p. 292. 62 Wadleigh, Woodstock, cit., 1:16:00-1:23:00.

XII. L’allineamento dei pianeti King, La Nuova Hollywood, cit., pp. 31-39. Ivi, p. 39; Maltby, Cinema, politica e cultura popolare a Hollywood nel dopoguer­ ra (1945-60), cit., p. 1409; Martel, Mainstream, cit., p. 28. I rating sono: G, quando 1

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un film è adatto a tutti; M (poi GP, infine PG), adatto soprattutto a un pubblico maturo; R, vietato ai minori di 17 anni, a meno che non siano accompagnati dai genitori; X, vietato ai minori di 17 anni (Art Simon, La struttura narrativa del cinema americano (1960-80), in Brunetta, a cura di, Il cinema americano, vol. II, cit., p. 1674). 3 Su questa particolare figura eroica si veda il capitolo II. 4 Il film è la seconda versione cinematografica di un testo teatrale di Lillian Hellman, che in questo caso viene seguito fedelmente; sulla prima versione, sempre diretta da William Wyler (These Three), si veda il capitolo II. 5 Per una panoramica completa cfr. Simon, La struttura narrativa del cinema americano (1960-80), cit.; King, La Nuova Hollywood, cit.; ed Emanuela Martini (a cura di), New Hollywood, Il Castoro, Milano 2014. Nella maggior parte dei casi la produzione di questi film è esternalizzata, un metodo comunemente adottato dalle majors in questo periodo: la produzione è affidata ai registi stessi, o a produttori indipendenti, col parziale sostegno finanziario delle majors, che garantiscono in forma esclusiva la distribuzione. Fanno eccezione The Graduate, Night of the Living Dead, Little Big Man, They Shoot Horses, Don’t They? e Soldier Blue, prodotti e distribuiti da gruppi autonomi, senza la partecipazione delle majors. Ringrazio Tommaso Banti per avermi incoraggiato a esaminare con attenzione la produzione cinematografica di George Romero, e per aver discusso con me del rilievo culturale di Night of the Living Dead. 6 Il dato è riferito al 1973 (Simon, La struttura narrativa del cinema americano, 1960-80, cit., p. 1653). 7 Ampiamente riconosciuta dalla letteratura è anche l’influenza della cinematografia europea (il neorealismo italiano, e – ancor di più – la nouvelle vague francese) sugli stili di regia, sul montaggio e sull’organizzazione della narrazione adottati dai registi della Hollywood Renaissance (cfr., in particolare, King, La Nuova Hollywood, cit., pp. 45-49; e Mark Harris, Pictures at a Revolution. Five Movies and the Birth of the New Hollywood, The Penguin Press, New York 2008, Kindle file). 8 King, La Nuova Hollywood, cit., pp. 160-161; Will Kaufman, American Culture in the 1970s, Edinburgh University Press, Edinburgh 2009, pp. 83-84. 9 King, La Nuova Hollywood, cit., p. 20. 10 Simon, La struttura narrativa del cinema americano (1960-80), cit., p. 1654; King, La Nuova Hollywood, cit., p. 23. 11 Rispetto al romanzo omonimo di James Leo Herlihy (1965), il film rispetta il finale, ma attenua od omette altri traumatici aspetti della vita di Joe. 12 Simon, La struttura narrativa del cinema americano (1960-80), cit., pp. 16541655; Jeffers McDonald, Romantic Comedy, cit., pp. 62-63. 13 Cfr. Jeffers McDonald, Romantic Comedy, cit., pp. 73-79; e Mortimer, Romantic Comedy, cit., pp. 83-92. 14 Kaufman, American Culture in the 1970s, cit., p. 102. 15 King, La Nuova Hollywood, cit., p. 58. Medium Cool è un film che combina documentario e fiction nel dar conto degli scontri e delle violenze che hanno avuto luogo durante le manifestazioni organizzate per contestare la Convention democratica di Chicago, 25-30 agosto 1968. 16 Il termine Off-Broadway emerge nei primi anni Cinquanta per indicare tea-

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tri che non sono collocati nella zona tipica delle sale teatrali newyorchesi (Times Square) e che offrono rappresentazioni più audaci o innovative di quelle proposte a Broadway; Off-Off-Broadway è un termine che nasce nei primi anni Sessanta, e indica sale che ospitano produzioni anche più sperimentali (Wollman, The Theater Will Rock, cit., pp. 42-43). 17 Banes, Greenwich Village 1963, cit., cap. 2. 18 Il modello originario di un’arte che dialoga con la quotidianità è offerto tanto dal lavoro di Marcel Duchamp quanto dalle elaborazioni musicali e concettuali di John Cage: «Sin dal 1940 con Living Room Music, Cage ha usato come strumenti musicali “oggetti che possono trovarsi in un salotto”, e, in altri lavori, ha usato vasi da fiori, bottiglie di birra, lattine, e i suoi famosi pianoforti preparati con bulloni, viti ed elastici. Imaginary Landscape #4 (1951) richiedeva l’uso di dodici radio. Con 4’33’’ (1952), il suo brano leggendario scritto per il pianista David Tudor, in cui “nessun suono viene prodotto intenzionalmente”, Cage apriva la strada a una musica fatta interamente di sonorità ambientali» (Ivi, cap. 4, pos. 2552). Sull’importanza di Duchamp e di Cage per l’avanguardia artistica dei primi anni Sessanta, oltre al fondamentale libro di Banes, si veda anche Alessandro Del Puppo, L’arte contemporanea. Il secondo Novecento, Einaudi, Torino 2013, e Alastair Sooke, Pop Art. Una storia a colori, Einaudi, Torino 2016. 19 Banes, Greenwich Village 1963, cit., cap. 5, pos. 3761-3885. 20 Wollman, The Theater Will Rock, cit., p. 46; e Ead., Hard Times. The Adult Musical in 1970s New York City, Oxford University Press, Oxford-New York 2013, pp. 91-95. 21 Ivi, p. 92. 22 Wollman, The Theater Will Rock, cit., p. 47. 23 Ivi, p. 52. 24 Ivi, p. 12. 25 Le stime variano: secondo alcuni il 50% circa del pubblico è composto da spettatori che hanno meno di trent’anni; secondo altri, questo 50% riguarda gli spettatori che hanno fra i 18 e i 25 anni (ivi, pp. 54-55). 26 Ivi, p. 53. Alcune canzoni di Hair finiscono nella Top 40 dei singoli più venduti; di particolare successo è il medley Aquarius/Let the Sunshine In (The Flesh Failures), eseguito dai 5th Dimension. 27 Wollman, The Theater Will Rock, cit., p. 55; Id., Hard Times, cit., p. 11. 28 Sul ruolo svolto da Jonas Mekas si veda Banes, Greenwich Village 1963, cit., cap. 2, pos. 1687-1758. 29 Ivi, cap. 4, pos. 2632-2719. Al riguardo, vedi anche più sopra la nota 18. 30 Altri film che appartengono a questo tipo di produzione, ma che hanno un impianto più provocatorio negli intenti e nella resa visuale, sono: Little Stabs at Happiness (1960) e Blonde Cobra (1963), entrambi di Ken Jacobs; Queen of Sheba Meets the Atom Man, di Ron Rice (1963); Flaming Creatures, di Jack Smith (1963); Twice a Man, di Gregory Markopoulos (1963); Scorpio Rising, di Kenneth Anger (1963). Tra i film proiettati da Mekas nelle sue rassegne un ruolo importante ha Un chant d’amour (1950), di Jean Genet, fonte di ispirazione per molti di questi registi. In altri campi dell’avanguardia artistica newyorchese (danza, performance) si incontrano altre opere che lavorano sugli stessi temi: Terrain (1962), un bal-

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letto di Yvonne Rainer e Bill Davis; Meat Joy (1964), una performance di Carolee ­Schneemann (Banes, Greenwich Village 1963, cit., cap. 5, pos. 3599-3684; e cap. 6, pos. 4487-4509 e 4802-4807). 31 Ivi, pos. 4476-4480. 32 Ivi, pos. 4509-4524. 33 Wollman, Hard Times, cit., pp. 27-29. 34 Ivi, p. 30. Pauline Boty con Bum (1966), commissionato da Tynan, ne dà una notevole reinterpretazione pittorica. 35 Ivi, pp. 30-33. 36 Wollman, The Theater Will Rock, cit., pp. 216-219. 37 Wollman, Hard Times, cit., pp. 60-63. 38 Ivi, pp. 42-44. 39 Anche in questo caso gli ambienti dell’avanguardia artistica hanno già affrontato il tema, in forme più dirette e provocatorie, come nel caso – tra gli altri – di My Hustler, film di Andy Warhol del 1965, su cui cfr. Andrea Mecacci, Introduzione a Andy Warhol, Laterza, Roma-Bari 2014, Kindle file, cap. IV, pos. 1518. 40 Wollman, Hard Times, cit., pp. 137-138. 41 Cfr. Mecacci, Introduzione a Andy Warhol, cit., cap. IV, pos. 1556, che contestualizza il film nel quadro della torrenziale produzione cinematografica warholiana del periodo. 42 Ralph Blumenthal, «Hard-core» Grows Fashionable – and Very Profitable, in «The New York Times», January 21, 1973, in http://www.nytimes.com/1973/01/21/ archives/pornochic-hardcore-grows-fashionableand-very-profitable.html. 43 Prodotto da una casa cinematografica indipendente di Louis Peraino (collegato alla famiglia mafiosa dei Colombo), costa 47.500 dollari e ne guadagna dai 30 ai 50 milioni. 44 Wollman, Hard Times, cit., p. 140; Wollman fa riferimento a Linda Williams, Hard Core. Power, Pleasure, and the «Frenzy of the Visible», University of California Press, Berkeley 1999. Su un piano del tutto diverso, non meno importante nella valorizzazione dell’orgasmo clitorideo, è L’atto sessuale nell’uomo e nella donna di William H. Masters e Virginia E. Johnson, pubblicato nel 1966: si tratta di un rapporto di ricerca che documenta i risultati derivati dall’osservazione di circa 10.000 rapporti sessuali tra 382 donne e 312 uomini, che partecipano volontariamente alla ricerca compiuta in un arco di tempo che va dal 1957 al 1965. 45 Al di là della retorica della «liberazione» che connota la promozione di questi film, ciascuno di essi racconta storie centrate sulla vittimizzazione sessuale – consenziente o meno – delle protagoniste. Inoltre questi film, come tutti gli altri della galassia porno chic, puntano molto più alla sollecitazione sessuale che alla costruzione di storie articolate ed esteticamente elaborate. Il nuovo moralismo che si fa strada a partire dagli anni Ottanta condurrà alla marginalizzazione di questo genere, confinato nel mercato (peraltro ricco) dei Vhs, dei Dvd e poi in internet. In linea generale, e con un timing simile, la rappresentazione della nudità integrale e degli intercorsi sessuali scompare quasi del tutto anche dalla produzione cinematografica standard, perfino là dove avrebbe un suo senso narrativo. 46 Gair, The American Counterculture, cit., p. 81. 47 Ivi, pp. 82-83; e Del Puppo, L’arte contemporanea, cit., pp. 12-14.

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NOTE

Nel caso del jazz il rapporto si estende anche al free jazz: Free Jazz: A Collective Improvisation, di Ornette Coleman, album fondativo di questo stile, pubblicato nel settembre del 1961, ha in copertina la riproduzione di White Light, un quadro di Jackson Pollock del 1954. 49 Gair, The American Counterculture, cit., pp. 84-87. 50 Sooke, Pop Art. Una storia a colori, cit., p. 23. 51 Ivi, pp. 59-60. 52 In realtà Warhol ne fa anche molte altre di copertine, e per gli artisti più disparati (Thelonious Monk, Paul Anka, Liza Minnelli, Diana Ross, Miguel Bosé, ecc.); la stessa cosa si dica per Peter Blake, che, fra le altre, firma le copertine di Sweet Child, dei Pentangle, 1968, fino a Gettin’ in Over My Head di Brian Wilson, 2003, e Stop the Clocks, Oasis, 2006 (Luca Beatrice, Visioni di Suoni. Le arti visive incontrano il Pop, Arcana, Roma 2010, pp. 25 e 40-44). 53 Witts, The Velvet Underground, cit., pp. 108-119; Mecacci, Introduzione a Andy Warhol, cit., pos. 1251-1295; Beatrice, Visioni di Suoni, cit., pp. 32-35. 54 Sooke, Pop Art, pp. 62-93. Molto più severo (e negativo) è il giudizio critico di Del Puppo, L’arte contemporanea, cit., cap. III. 55 Mecacci, Introduzione a Andy Warhol, cit., cap. II, pos. 621; cfr. anche Sooke, Pop Art, cit., pp. 11-12. 56 Grande merito del bel libro di Sooke è dare un largo spazio all’analisi dei lavori di questo gruppo di artiste (Pop Art, cit., cap. IV). Fra le altre cose Sooke osserva anche che, nonostante la qualità delle loro produzioni e nonostante la presenza delle loro opere nelle esposizioni che lanciano la pop art, queste artiste sono state messe in ombra dalla critica, e che solo di recente si è avviata una loro seria rivalutazione. Elizabeth Wollman fa la stessa osservazione per quanto concerne un gruppo di autrici di Broadway, di ispirazione variamente femminista, come Myrna Lamb, Eve Merriam, Gretchen Cryer e Nancy Ford. Nella Hollywood Renaissance, poi, non c’è traccia alcuna di registe. Ebbene, vista da questa prospettiva, la geremiade costante sul carattere quasi esclusivamente maschile del rock sembra piuttosto ingiustificata; non solo sono numerose le musiciste che emergono sin dai primordi del rock, ma alcune di esse restano permanentemente sulla scena, con un buon apprezzamento sia della critica che del pubblico (Janis Joplin, Grace Slick, Sonja Kristina, Joan Baez, Joni Mitchell, Patti Smith, Suzi Quatro, Joan Jett... per non citarne che alcune). 57 Sooke, Pop Art, p. 145. 58 Ivi, pp. 145-146. 59 Ivi, pp. 155-163. 60 Gli autori della canzone sono John Madara e David White. All’inizio del 1964 la canzone si piazza al secondo posto nella classifica delle vendite di «Billboard», e vi resta per tre settimane, superata solo da I Want to Hold Your Hand, dei Beatles. 61 Sandbrook, White Heat, cit., p. 447; Gair, The American Counterculture, cit., pp. 188-189. 62 Cfr. Roger’s Words Around the World..., in «Prog Music», 2016, n. 5, pp. 8-13. 63 Cfr. Restaino, Storia del fumetto, cit., cap. 5, per una panoramica complessiva. 64 Gorman-McLean, Media e società, cit., pp. 175-176. 65 Ivi, p. 176; Edgerton, The Columbia History of American Television, cit., pp. 148-154; Halliwell, American Culture in the 1950s, cit., p. 155. 48

conclusioni. back to the future

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Edgerton, The Columbia History of American Television, cit., p. 155. Hilmes, Only Connect, cit., pp. 238-240. 68 Neil Sheehan et al., I documenti del Pentagono pubblicati da «The New York Times», 2 voll., Garzanti, Milano 1971; Gorman-McLean, Media e società, cit., pp. 229-232. 69 Kaufman, American Culture in the 1970s, cit., pp. 68-70. 70 All in the Family è una delle sitcom di maggior successo nei cinque anni seguenti, e viene trasmessa sino al 1979. 71 Irwin, Scenes, cit., pp. 171 e 217; Taylor, Prime-Time Families, cit., pp. 44-49 e 67-85; Kaufman, American Culture in the 1970s, cit., pp. 61-63 e 96; Gorman-Mc­ Lean, Media e società, cit., p. 161. 72 Taylor, Prime-Time Families, cit., p. 51; Kaufman, American Culture in the 1970s, cit., p. 67. 73 Federico Pedroni, Tales, music & lyrics. Racconti e canzoni della New Holly­ wood, in Martini (a cura di), New Hollywood, cit., ne offre un’ampia panoramica. 74 Theodore Roszak, La nascita di una controcultura. Riflessioni sulla società tecnocratica e sulla opposizione giovanile, Feltrinelli, Milano 1975, cap. 3. 66 67

Conclusioni. Back to the Future Tom Wolfe, The Me Decade and the Third Great Awakening, in «New York», August 23, 1976, in http://nymag.com/news/features/45938/; cfr. anche Kaufman, American Culture in the 1970s, cit., p. 6. 2 Il film è tratto dall’omonimo musical di Broadway, del 1959, con la musica di Richard Rodgers, i testi delle canzoni di Oscar Hammerstein II e il libretto di Howard Lindsay e Russel Crouse. 3 Sandbrook, White Heat, cit., p. 413. 4 King, La Nuova Hollywood, cit., pp. 99-100; Kaufman, American Culture in the 1970s, cit., pp. 89-93; Graham Thompson, American Culture in the 1980s, Edinburgh University Press, Edinburgh 2007, p. 98. 5 Il film di animazione Disney ha anche una traduzione in musical, che esordisce prima a Minneapolis e poi a Broadway nel 1997, riscuotendo un grandissimo successo; dopodiché viene messo in scena anche in molti altri paesi (cfr. Wollman, The Theater Will Rock, cit., pp. 143-144). 6 King, La Nuova Hollywood, cit., pp. 77-79; Gorman-McLean, Media e società, cit., p. 199; Thompson, American Culture in the 1980s, cit., p. 91; Martel, Main­ stream, cit., pp. 72-94. 7 Gorman-McLean, Media e società, cit., pp. 289-291. 8 20th Century Fox è parte del gruppo 21st Century Fox; Warner Bros. è inglobata in Time Warner; Paramount Pictures fa parte di Viacom; Nbc Universal è parte di Comcast; Columbia Pictures è parte della Sony; il controllo della Mgm è suddiviso tra alcune corporations, tra cui la Sony. 9 Gorman-McLean, Media e società, cit., p. 200; cfr. anche King, La Nuova Hollywood, cit., pp. 62, 69-73, 83-87; Colin Harrison, American Culture in the 1990s, Edinburgh University Press, Edinburgh 2010, p. 111. 10 Kaufman, American Culture in the 1970s, cit., p. 63. 1

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NOTE

Il sistema narrativo consente di affrontare efficacemente anche traumi collettivi come quello del 9 settembre 2001, che danno corpo e realtà al tratto paranoico di fondo che anima l’immaginario mainstream (cfr. al riguardo Franco Marineo, Il cinema del terzo millennio. Immaginari, nuove tecnologie, narrazioni, Einaudi, Torino 2014, pp. 3-19). 12 Gorman-McLean, Media e società, cit., pp. 233-244; Harrison, American Culture in the 1990s, cit., pp. 98-99. 13 Noam Chomsky - Edward S. Herman, La fabbrica del consenso, ovvero la politica dei mass media, Marco Tropea Editore, Milano 1998, cap. 1. 14 Ivi, pp. 32-37. 15 Warner Music Group fa parte della Access Industry; Universal Music Group (che ha assorbito Rca, Mca, Polygram ed Emi) è parte di Vivendi; Sony Music Entertainment è parte della Sony; Bmg è del gruppo Bertelsmann. 16 Thompson, American Culture in the 1980s, cit., p. 183. 17 Adorno, Sulla popular music, cit. 18 Su cui è fondamentale Alain Ehrenberg, Le culte de la performance, Hachette, Paris 2005. 19 Lawrence-Jewett, The Myth of the American Superhero, cit., p. 29 (cfr. sopra, capitolo II, par. 2). 20 King, La Nuova Hollywood, cit., pp. 104-105; Gorman-McLean, Media e società, cit., pp. 200-201; Harrison, American Culture in the 1990s, cit., pp. 114-115; Martel, Mainstream, cit., pp. 99-103. 21 Gelder, Subcultures, cit., p. 60; Kaufman, American Culture in the 1970s, cit., pp. 132-133. 22 Harrison, American Culture in the 1990s, cit., pp. 79-80; Martel, Mainstream, cit., pp. 139-141. 23 Thompson, American Culture in the 1980s, cit., p. 130. 24 bell hooks, Madonna: padrona della piantagione o sorella nera?, in Ead., Elogio del margine. Razza, sesso e mercato culturale, Feltrinelli, Milano 1998. 25 Cfr., da diverse prospettive e in relazione a fasi diverse, Simon Frith, Il rock è finito. Miti giovanili e seduzioni commerciali nella musica pop, Edt, Torino 1990, pp. 2-3; e Gino Castaldo, Il grande silenzio del rock. «Questa volta è finita davvero», in «la Repubblica», 6 gennaio 2012. 26 Iain Chambers, Ritmi urbani, Costa & Nolan, Genova 1996, pp. 166-178; Will Straw, Dance music, in Frith-Straw-Street (eds.), The Cambridge Companion to Pop and Rock, cit., pp. 166-167. 27 Con rilevanti eccezioni: i Clash fanno una musica punk connotata da testi politicamente radicali e molto militanti. Sul punk sono fondamentali Dave Laing, Il punk. Storia di una sottocultura rock, Edt, Torino 1991, e Hebdige, Sottocultura, cit. 28 Sul peggioramento generale delle comunità afroamericane negli States a partire dai primi anni Settanta si veda Ward, Just My Soul Responding, cit., pp. 340-343. 29 Ivi, pp. 353-357. 30 Ivi, pp. 359 e 366-368. 31 Ivi, pp. 363 e 369. 32 Joe Tex e James Brown sviluppano ampiamente questo versante; sul rapporto tra queste evoluzioni liriche, il maschilismo dei gruppi politici radicali, e le sto11

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rie cinematografiche narrate nei film della blaxploitation, vedi ivi, pp. 370-378. In contrapposizione, secondo una dialettica propria già della più lontana tradizione blues, ci sono anche voci femminili di grande successo, che rovesciano la dialettica maschilista, come nel caso di Respect (1967), scritta da Otis Redding per Aretha Franklin (ivi, pp. 362 e 383). Blaxploitation (black + exploitation) è un termine che indica un insieme di B-movies d’azione con registi e attori afroamericani, prodotti nel corso degli anni Settanta; questi film, caratterizzati da notevoli dosi di violenza ed erotismo a buon mercato, riescono a ottenere un considerevole successo sia presso il pubblico nero sia anche presso sezioni del pubblico bianco. 33 Russell A. Potter, Soul into Hip-Hop, in Frith-Straw-Street (eds.), The Cambridge Companion to Pop and Rock, cit. 34 Si può considerare il gangsta rap di Snoop Doggy Dogg o di Ice Cube come una rivisitazione, particolarmente spregiudicata, della tradizione di murder songs, prison songs, disaster songs, con la variante che in molte delle loro canzoni l’atteggiamento nei confronti della violenza non è affatto anaffettivo, ma di convinta esaltazione: certamente questo tipo di rap parla delle esperienze di molti giovani nei contesti brutali delle metropoli americane (cfr., al riguardo, Thompson, American Culture in the 1980s, cit., pp. 140-146; Harrison, American Culture in the 1990s, cit., pp. 82-85). 35 Wendy Fonarow, Empire of Dirt. The Aesthetics and Rituals of British Indie Music, Wesleyan University Press, Middletown (Conn.) 2006, p. 165. 36 Quand’anche la passione per la musica rock continui a restare accesa in fasi adulte del ciclo di vita, la partecipazione ai concerti, l’ascolto dei cd o dei file mp3, la lettura delle fanzine, sono tutti gesti che non dialogano più con una rete intertestuale e intermediale ampia, ma tendono a rinchiudersi nello spazio esclusivo di una passione culturalmente isolata. 37 [Hall-Jefferson], Once More Around «Resistance Through Rituals», cit., pp. xix-xxii; Paul Hodkinson, Youth Cultures. A Critical Outline of Key Debates, in Paul Hodkinson - Wolfgang Deicke (eds.), Youth Cultures. Scenes, Subcultures and Tribes, Routledge, New York-London 2007, pp. 8-12. 38 Cfr., al riguardo, Kaufman, American Culture in the 1970s, cit., pp. 120-125; Thompson, American Culture in the 1980s, cit., pp. 133-140; Alessandro Portelli, Bad­lands. Springsteen e l’America: il lavoro e i sogni, Donzelli, Roma 2015. 39 Grasso-Penati, La nuova fabbrica dei sogni, cit. 40 Cfr. Jenkins, Cultura convergente, cit.; Simone Arcagni, Visioni digitali. Video, web e nuove tecnologie, Einaudi, Torino 2016. Opinioni critiche nei confronti dell’ipotesi di Jenkins sono espresse nel forum curato da James Hay e Nick Couldry, Rethinking Convergence/Culture, in «Cultural Studies», 2011, 25 (4-5); alle osservazioni lì contenute Jenkins ha risposto in Rethinking «Rethinking Convergence/Culture», in «Cultural Studies», 2014, 28 (2). Una visione che pone l’accento sull’effetto inverso del web (moltiplicazione delle differenze e delle fratture) è in Frédéric Martel, Smart. Inchiesta sulle reti, Feltrinelli, Milano 2015. 41 Martel, Mainstream, cit., pp. 238-239.

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Figg. 1, 5: © Mondadori Portfolio/Album. Fig. 2: © Library of Congress. The Prints & Photographs Division, FSA/OWI Collection. Washington. Fig. 14: © Mati Klarwein, by Siae 2017. Figg. 15-16: © The Andy Warhol Foundation for the Visual Arts Inc., by Siae 2017. Fig. 17: © Private Collection. Courtesy of Hollis Taggart Galleries. Fig. 18: © Escobar Marisol, by Siae 2017. Fig. 19: Hirshhorn Museum and Sculpture Garden, Smithsonian Institution. Photography by Cathy Carver. © Rosalyn Drexler, by Siae 2017.

Indice dei nomi

Abbott, Robert, 89. Abernathy, Ralph, 310. Ackerman, Paul, 244, 538. Acuff, Roy, 101, 519. Adams, Casey (Max Showalter), 534. Adler, Lou, 371. Adomian, Lan, 108. Adorno, Theodor W., 13, 25, 45, 64, 76, 181, 200, 236, 324, 503, 505-506, 509, 512, 531, 534-535, 566, 569, 577, 582. Aguilera, Christina, 494. Alford, Phillip, 444. Allan, Lewis (Abel Meeropol), 110. Allen Brothers, The, 121. Allen, Oscar Kelly, 79. Allen, Robert C., 505, 509, 569. Allen, Woody (Allan Stewart Konigsberg), 65, 451. Allers, Roger, 485. Alloway, Lawrence, 464. Almanac Singers, 111-113, 115, 117, 119, 213. Alpert, Richard, 368, 371, 552. Altman, Rick, 504-505, 509, 569. Altman, Robert, 446, 476. Altschuler, Glenn C., 529, 532, 534, 537541, 569. Ames Brothers, The, 207. Ames, Ramsay (Phillips Ames), 526. Anderson, Ian, 393, 397. Anderson, James, 444.

Anderson, Lindsay, 453. Anderson, Marian, 311. Anderson, Nels, 130, 523, 569. Anderson, Paul William Scott, 491. Andrews Sisters, The, 106, 208, 211, 535. Angelou, Maya (Marguerite Ann Johnson), 92. Anger, Dorothy C., 509, 569. Anger, Kenneth (Kenneth Wilbur Anglemyer), 562. Animals, The, 339-341, 347, 389-390, 550, 553. Anka, Paul, 148, 261, 337, 564. Ankers, Evelyn, 526. Ann-Margret (Ann-Margret Olsson), 478. Antonelli, Sara, 510, 514, 543, 569-570, 581. Antonioni, Michelangelo, 446. Aquarian Dream, 497. Arcagni, Simone, 501, 567, 569. Ardolino, Emile, 485. Ariès, Philippe, 220, 535-536, 569. Arlen, Harold, 22. Armstrong, Louis, 73. Army Air Force Orchestra, 528. Arnaz, Desi, 180. Arnold, Jerome (Romeo Maurice Arnold), 348. Artaud, Antonin, 454. Asch, Moses, 69, 520, 545.

588 Asher, Jane, 356. Ashley, Clarence, 391, 555. Assante, Ernesto, 540, 547, 551, 553, 570. Astaire, Fred (Frederick Austerlitz), 43, 506. Astor, Mary, 54. Autry, Gene (Orvon Grover «Gene» Autry), 98-99, 106, 201, 215-217, 518-519, 534. Avalon, Frankie (Francis Thomas Avallone), 261. Axton, Hoyt, 552. Babbitt, Art, 6. Bacall, Lauren (Betty Joan Perske), 64, 196-197. Bach, Johann Sebastian, 356, 364-365. Badham, John, 485. Badham, Mary, 444. Baez, Joan, 311, 364, 374, 384, 564. Bailey, Beth, 527, 570. Bailey, David, 343. Baker, Ella, 545. Baldwin, James, 281. Balin, Marty (Martyn Jerel Buchwald), 432, 557. Ball, Lucy, 180. Balzac, Honoré de, 15. Bancroft, Anne (Anna Maria Louisa Italiano), 450. Bancroft, George, 60. Banes, Ruth A., 520, 570. Banes, Sally, 544, 556, 558, 562-563, 570. Banti, Alberto Mario, 507, 570. Banti, Tommaso, 561. Barbecue Bob (Robert Hicks), 515. Barker, P., 328, 549. Barnes, Djuna, 67. Barrett, Pat, 207. Bartlett, Richard, 540. Basie, Count (William James «Count» Basie), 109, 144. Bassotti, Paolo, 557-558, 570. Baum, Frank L., 26. Bay, Michael, 485. Beach Boys, The, 264-266, 337, 364.

INDICE DEI NOMI

Beardsley, Aubrey, 470. Beatles, The, 148, 320, 331-339, 341-342, 344, 347, 355-364, 399, 429, 431, 438439, 465, 484, 549-551, 556, 564. Beatrice, Luca, 564, 570. Beatty, Warren, 24, 448. Beck, Julian, 299, 454. Beckett, Samuel, 320, 458, 551. Belafonte, Harry, 261. Benedek, László, 237. Benjamin, Walter, 515, 570. Bennett, Tony (Anthony Dominick Benedetto), 106, 209, 218, 247. Benny Goodman Orchestra, 145, 525. Bently Boys, The, 519. Bergamini, Oliviero, 531, 570. Berger, Bennet, 195. Berger, Thomas, 477. Berio, Luciano, 356. Berlin, Irving (Israel Isidore Perske), 2223, 30, 43, 120. Berlusconi, Silvio, 487. Berman, Paul, 416, 528, 554, 558-559, 570. Bernstein, Carl, 474. Bernstein, Leonard, 443. Berry, Chuck (Charles Edward Anderson «Chuck» Berry), 245, 248-250, 252, 254-255, 342, 364, 392, 397, 539-540. Bertolucci, Bernardo, 461-462. Besselva Averame, Alessandro, 560, 570. Bessie, Alvah, 530. Best, Pete (Randolph Peter «Pete» Best), 549. Bettelheim, Bruno, 506, 570. Bettelli, Maurizio, 521. Bevilacqua, Emanuele, 541-542, 570. Beymer, Richard, 443. Beyoncé (Beyoncé Giselle Knowles-Carter), 494. Biberman, Herbert, 530. Bielby, William T., 252, 539, 570. Big Bopper, The (Jiles Perry Richardson), 245. Big Brother and The Holding Company, 371, 404, 471, 553. Bikel, Theodore, 315.

INDICE DEI NOMI

Bishop, Henry, 29. Black, Bill (William Patton «Bill» Black), 241-242. Black Sabbath, 397-398, 556. Blackwell, Robert Alexander «Bumps», 253. Blair Jr., Ezell, 302. Blake, Blind Arthur, 516. Blake, Peter, 464-465, 470, 564. Blake, Randy, 242. Blenkhorn, Ada. Bliven, Bruce, 147, 526. Bloom, Alexander, 545, 570. Bloomfield, Mike (Michael Bernard «Mike» Bloomfield), 348. Blues Incorporated, 340. Blumenthal, Ralph, 462, 563, 570. Blumin, Stuart M., 529, 532. Bogart, Humphrey, 54-55, 64, 184. Boi, Paola, 514, 570. Bolan, Marc (Mark Feld), 417. Booker, M. Keith, 530, 570. Boone, Pat (Charles Eugene Boone), 251, 258-261, 540. Bordone, Renato, 508, 570. Bosé, Miguel, 564. Boswell Sisters, The, 243. Boty, Pauline, 420, 563. Boulez, Pierre, 400. Boulle, Pierre, 477. Bowen, Michael, 370. Bowie, David (David Robert Jones), 417, 558. Bowles, Paul, 479. Boy George (George Alan O’Dowd), 494. Boyd, Ed/Eddie (Edward Riley «Ed/Eddie» Boyd), 227, 340, 536. Braceland, Francis, 246. Bracey, Ishmon, 513. Bradbury, Ray, 171. Brake, Michael, 521, 524-525, 548-549, 571. Branagh, Kenneth, 24. Brando, Marlon, 238, 295, 326-327, 331, 461, 537. Brecht, Bertolt, 108, 313.

589 Breines, Wini, 532-535, 543, 545, 570, 571. Brest, Martin, 485. Brewer, Teresa (Theresa Veronica Breuer), 207, 211. Brockman, Polk, 93. Brooks, Richard, 237, 443. Broonzy, Big Bill (Lee Conley Bradley), 109, 310, 516. Brown, Clarence, 55. Brown, James, 266, 566. Brown, Joe E. (Joseph Evans Brown), 199. Brown, Norman, 479. Brown, Roy, 228, 244. Brown, Ruth, 229. Brown, Tamara L., 524, 571. Brown, Trisha, 300. Browne, Tara, 552. Brunetta, Gian Piero, 504, 508-509, 530531, 561, 572, 575, 577-578, 580, 582. Bryant, Boudleaux, 391. Buffalo Bill (William Cody), 32. Buffalo Springfield, 553. Burdon, Eric, 340-341, 425-426, 553. Burgess, Anthony (John Anthony Burgess Wilson), 477. Burke, Solomon (James Solomon McDonald), 266, 556. Burnett, Richard Daniel «Dick», 102. Burroughs, Edgar Rice, 16-17. Burroughs, William, 270-272, 274-275, 281, 283, 298, 542. Bush, Jared, viii. Buszek, Maria Elena, 158, 527-529, 571, 573, 575, 577. Butler, Burridge D., 96. Butler, David, 41. Butterfield, Paul, 348. Butterfield Blues Band, The, 553. Byatt, Antonia S. (Antonia Susan Drabble), 551. Byrds, The, 364-365, 388, 553, 555. Caen, Herb (Herbert Eugene «Herb» Caen), 292-293. Cage, John, 356, 419, 457, 562.

590 Cahn, Edward L., 540. Cain, James, 54, 67. Cale, John, 415, 465-466. Calkins, Dick, 17, 35. Calley, William, 474. Campbell, Joseph, 506, 571. Caniff, Milton, 40. Canned Heat, 553. Cannon’s Jug Stompers, 517. Capozzi, Eugenio, 571. Capra, Frank, 30, 60, 184, 509, 511. Caramella, Marisa, 542. Carawan, Guy, 309-310. Carlos, John, 432. Carolina Tar Heels, The, 519. Caron, Leslie, 292. Carothers, Isobel, 19, 505. Carr, Lucien, 270-274. Carrera, Alessandro, 354, 550-551, 557, 571. Carroll, John, 257. Carson, Fiddlin’ John, 93-94. Carson, Johnny, 432. Carter, Alvin Pleasant, 94, 100. Carter, Asa, 256. Carter, Bo (Armenter Chatmon), 517. Carter, Ezra, 94. Carter Family, The, 69, 94-95, 100-101, 103-105, 120, 140, 149, 518-520, 526. Carter, Jimmy, 40. Carter, Maybelle, 94, 100. Carter, Rubin «Hurricane», 559. Carter, Sara, 94, 100. Cartosio, Bruno, 289, 529, 543-545, 553, 559, 571. Cassady, Neal, 270, 272, 275-276, 284, 295, 369, 542. Castaldo, Gino, 540, 547, 551, 553, 566, 570-571. Castell, Luria, 369. Castelnuovo, Enrico, 508, 570. Cavalli, Alessandro, 307, 545, 571. Cavell, Stanley, 45, 509, 571. Chambers, Iain, 539, 566, 571. Chandler, Chas (Bryan James «Chas» Chandler), 383. Chandler, Raymond, 53-54, 63.

INDICE DEI NOMI

Chaney, James, 307. Charlatans, The, 369. Charles, Ray (Horace Charles Robinson), 266. Cher (Cherilyn Sarkisian LaPierre), 364. Cherry, Brigid, 504, 571. Ching, Barbara, 535, 571. Chomsky, Noam, 489, 566, 571. Chordettes, The, 212. Christie, Agatha, 53. Christy, June (Shirley Luster), 256. Chruščëv, Nikita, 183. Churchill, Frank, 509. Cino, Joe, 299. Clapton, Eric, 339, 397-398, 469, 478. Clark, Dick (Richard Augustus Wagstaff «Dick» Clark), 258. Clark, Petula, 339, 430. Clark, Tom, 236. Clarke, John, 548, 571. Clash, The, 566. Clausen, Jan, 295, 544. Cleaver, Eldridge, 497, 543. Clementelli, Elena, 516, 572. Clinton, George, 497. Clooney, Rosemary, 209, 212, 214, 218, 535. Clovers, The, 229. Coates, Norma, 422, 558, 572. Cochran, Eddie, 245, 249, 540. Cocker, Joe (John Robert «Joe» Cocker), 374, 439. Cohan, Steve, 509, 572. Cohen, Albert K., 523-524, 572. Cohen, Allen, 370. Cohen, Leonard, 520. Cohen, Phil, 548. Cohen, Ronald D., 513-514, 518, 521, 535, 572. Cohen, Stanley, 549, 572. Colbert, Claudette (Émilie «Lily» Claudette Chauchoin), 50, 57, 139, 528. Cole, Lester, 530. Cole, Nat King (Nathaniel Adams Coles), 207, 213, 256. Coleman, James, 251, 260-261, 522, 524525, 533, 539, 572.

INDICE DEI NOMI

Coleman, Margaret, 78. Coleman, Ornette, 396, 564. Collins, Wilkie, 53. Coltrane, John, 364-365, 396. Como, Perry (Pierino Ronald «Perry» Como), 209, 254, 256, 261. Conway, Jack, 50, 507. Cooke, Sam (Samuel Cook), 266. Cooper, Gary, 35, 173. Cooper, James Fenimore, 34. Cooper, Merian Caldwell, 526. Coppola, Francis Ford, 446. Corona, Mario, 543. Correll, Charles, 18, 23, 59, 510. Corso, Gregory, 270, 273, 350. Coryell, John Russell, 17, 53. Cott, Nancy F., 157, 525-526, 528-529, 531532, 572. Cotten, Joseph, 534. Cotto, Massimo, 557, 572. Couldry, Nick, 567. Country Joe and The Fish, 404, 553. Cowell, Henry, 108. Cox, Ida, 73, 90, 109, 516. Cox, Jim, 49, 505-506, 510, 572. Crain, Edward Leroy, 520. Crawford, Joan (Lucille Fay LeSueur), 138-139. Cream, 397, 404. Cressey, Paul G., 527, 572. Crew-Cuts, The, 207. Crissman, Maxine (Lefty Lou), 108. Cromwell, John, 30. Cronenberg, David, 493. Crosby, Bing (Harry Lillis «Bing» Crosby), 23, 105-106, 202, 229, 240, 506, 511. Crosby, David, 421, 553. Crosby, Stills, Nash & Young, 374, 421, 424. Cross, Charles R., 555, 558, 572. Crouse, Russell, 565. Crowley, Mart, 460. Crudup, Arthur, 241-242. Crumb, Robert, 471. Cryan’ Shames, The, 388, 555. Cryer, Gretchen (Gretchen Kiger), 564. Cukor, George, 45, 55.

591 Currell, Susan, 504, 512-514, 572. Curtis, Tony (Bernard Schwartz), 199. Curtiz, Michael (Mihaly Kertesz), 23, 41, 138, 167, 540. Curved Air, 480. Cusic, Don, 514, 518, 520, 540, 572. Custer, George Armstrong, 34. Dabakis, Melissa, 527, 572. Dale, John C., 157. Dalhart, Vernon (Marion Try Slaughter), 519. Dalí, Salvador, 299. Dall’Asta, Monica, 505, 572. Dalton, David, 413. Daltrey, Roger, 478. Danesi, Marcel, 504-505, 509, 572. Daniels, Julius, 516-517. Dannay, Frederic, 53. Dave Clark Five, The, 338-339. Davenport, Cow Cow (Charles Edward «Cow Cow» Davenport), 516. Davies, Cyril, 340. Davis, Amy M., 509, 572. Davis, Angela Y., 514-518, 572. Davis, Bette, 55, 528. Davis, Bill, 563. Davis, Miles, 393. Davis, Rennie (Rennard Cordon «Rennie» Davis), 553. Davis, Stephen, 418, 554-555, 558, 572. Day, Doris (Doris Mary Anne Kappelhoff ), 158, 195, 207, 256, 535. Deacon L.J. Bates (Blind Lemon Jefferson), 91. Dean, James, 238, 295, 326, 331. Dean, Roger, 470. de Beauvoir, Simone, 320, 427. De Bernardi, Alberto, 559, 574. Decurtis, Anthony, 547, 573. Dee, Sandra (Alexandra Zuck), 264. Deeds, William, 337. Deep Purple, 556. de Havilland, Olivia, 41. Deicke, Wolfgang, 567, 576. De Kosnik, Abigail, 505, 574.

592 Dellinger, David, 553. Delmore Brothers, The, 313. Del Puppo, Alessandro, 562-564, 573. D’Emilio, John, 186, 517, 524, 527, 532533, 573. DeMille, Cecil Blount, 35, 41. Dennis, Robert, 458. Denny, Sandy (Alexandra Elene ­MacLean «Sandy» Denny), 478. Densmore, John, 382. Depp, Johnny, 22. Des Barres, Pamela, 558, 573. Dettmar, Kevin J.H., 546-547, 573, 582. Dewey, John, 126. DiCillo, Tom (Thomas A. «Tom» DiCillo), 554. Dickens, Charles, 15. Dickens, Monica, 329-330. Diddley, Bo (Ellas McDaniel), 322, 339, 536. Dijkstra, Bram, 507, 527, 573. Dillard, Annie, 295, 544. di Prima, Diane, 295, 544. Disney, Walt, viii, 24, 31, 42-43, 167, 173, 565. Distler, Marian, 69, 545. Dixon, Thomas Frederick, 59. Dixon, Willie (William James Dixon), 225-226, 343, 418, 536. Dmytryk, Edward, 530. Domino, Fats (Antoine «Fats» Domino), 227, 258, 339, 397, 536, 540. Dominoes, The, 228, 243. Donegan, Lonnie, 397, 548. Donen, Stanley, 167. Donner, Richard (Richard Donald Schwartzberg), 484. Donovan (Donovan Philips Leitch), 556. Doors, The, 377, 382-383, 404, 418, 424, 495. Dora, Micki, 263. Dorsey, Thomas Andrew, 91, 514. Dorsey, Tommy (Thomas Francis «Tommy» Dorsey), 144. Dostoevskij, Fëdor, 298. Douglas, Gordon, 172-173.

INDICE DEI NOMI

Douglas-Home, Alec, 337. Doyle, Arthur Conan, 18, 53, 505. Dragosei, Francesco, 507, 573. Dreiser, Theodore, 67. Drexler, Rosalyn, 468-469. Drifters, The, 229. Du Bois, William Edward Burghardt, 89, 544. Duchamp, Marcel, 457, 562. Dunaway, Faye, 448. Duncan, Isadora, 299. Dunne, Irene, 45. Durden-Smith, Jo (John Antony «Jo» Durden-Smith), 554. Duvall, Robert, 444. Dwan, Allan, 170. Dworkin, Andrea, 529, 573. Dylan, Bob, 120, 217, 311-320, 341, 347-356, 364, 390, 404-405, 414, 423, 469, 480, 500, 520, 531, 535, 545-547, 550-551, 555, 557, 559, 573. Eaklor, Vicki L., 524, 527, 532, 558, 573. Earth, Wind & Fire, 497. Echols, Alice, 374, 524, 533, 552-554, 573. Eco, Umberto, 504-505, 508, 573. Edgerton, Gary R., 175, 530-531, 564-565, 573. Edwards, Gareth, viii. Ehrenberg, Alain, 566, 573. Ehrenreich, Barbara, 148, 526, 549, 573. Einstein, Albert, 420. Eisenhower, Dwight David, 186. Eisler, Hanns, 108. Eldridge, David, 504-505, 508-510, 512, 520, 573. Ellington, Duke (Edward Kennedy «Duke» Ellington), 144, 243, 395. Emerson, Lake & Palmer, 479. Emmerich, Roland, 485. Ennis, Philip H., 204, 515, 534, 537-538, 552, 573. Ensemble InterContemporain, 400. Ensemble Modern, 401. Entwistle, John, 478.

INDICE DEI NOMI

Erenberg, Lewis A., 520, 525-526, 528529, 534, 573. Escobar, Marisol, 468. Estes, Sleepy John (John Adam Estes), 69. Etchingham, Kathy, 426. Evans, David, 513-515, 526, 574. Evans, Gil (Ian Ernest Gilmore «Gil» Evans), 393. Evers, Medgar, 317, 547. Ewell, Tom (Samuel Yewell Tompkins), 259. Fabbri, Franco, 402, 506, 513, 515, 535, 552, 556-557, 574. Faith, Percy, 209. Fallon, Michael, 552. Family Dog, 369. Farnham, Marynia F., 194. Fassio, Edoardo, 513, 526, 536, 574. Faulkner, William, 63, 67. Favreau, Jon, viii. Feiffer, Jules, 458. Fellini, Federico, 420. Ferguson, Norm, 6. Ferlinghetti, Lawrence, 276, 278, 282283, 320, 350-371. Fernandes, Blaise, 502. 5th Dimension, The, 562. Finney, Jack, 172. Fish, Stanley, 548, 574. Fisher, Eddie (Edwin John «Eddie» Fisher), 535. Fisher, Kate, 549, 583. Fitzgerald, Francis Scott, 67, 72, 269, 525. Five Keys, The, 229. Fleischer, Michael L., 508, 574. Fleming, Victor, 22, 35, 50, 506. Flores, Marcello, 559, 574. Flying Burrito Brothers, The, 374. Flynn, Errol, 12, 41. Foertsch, Jacqueline, 510, 528, 530, 533, 574. Foley, Red, 106. Fonarow, Wendy, 499, 567, 574. Fonda, Henry, 55.

593 Fonda, Jane, 450. Fonda, Peter, 447. Fontaine, Eddie (Edward Reardon), 540. Ford, Glenn (Gwyllyn Samuel Newton «Glenn» Ford), 238. Ford, John (Sean Aloysius Feeney), 41, 60-61, 63, 111, 115, 140, 169-170. Ford, Nancy, 564. Ford, Robert, 350-351. Ford, Sam, 505, 574. Ford, Tennessee Ernie (Ernest Jennings Ford), 254. Forman, Miloš (Jan Tomáš « Miloš» Forman), 456. Forman, Tom, 35. Forrest, Helen (Helen Fogel), 534. Foster, Hal, 17, 35. Foster, Harve, 166. Four Tops, The, 267. Fowler Jr., Gene (Eugene Devlan), 530. Francis, Connie (Concetta Rosa Maria Franconero), 261, 550. Frank, Pat (Harry Hart Frank), 171. Frankel, Gene (Eugene V. «Gene» Frankel), 546. Franklin, Aretha, 266, 567. Franklin, Sidney, 509. Fraternity of Men, The, 553. Freed, Alan (Albert James «Alan» Freed), 243-245, 538, 540. Freedman, Estelle B., 186, 517, 524, 527, 532-533, 573. Freedom Singers, The, 315. Freiberg, David, 433. Freund Schwartz, Roberta, 339-340, 547548, 550, 556, 574. Friedan, Betty (Betty Naomi Goldstein), 427, 468. Friedkin, William, 460. Friedlander, Paul, 538, 540-541, 546-547, 550, 553-554, 574. Friedrich, Carl, 112. Frith, Simon, 538, 556, 566-567, 574, 577, 581, 583. Froines, John, 553.

594 Frye, Northrop, 52-53, 506, 508, 510, 542, 574. Funk Brothers, The, 267. Gable, Clark, 50, 57-58. Gabler, Milt, 110. Gair, Christopher, 365, 541-543, 552, 563564, 574. Garber, Jenny, 549. Gardner, Ava, 158. Gardner, Erle Stanley, 53. Garfield, John, 528. Garland, Jim, 107, 115. Garland, Judy (Frances Ethel Gumm), 26-27, 30, 202, 506. Garnett, Tay (William Taylor «Tay» Garnett), 507. Gates, Reverend J.M. (James M. Gates), 70. Gaye, Marvin (Marvin Pentz Gay), 267, 497. Geer, Will (William Aughe Ghere), 110. Geertz, Clifford, 65, 512, 574. Gelbart, Larry, 475-476. Gelder, Ken, 504, 510, 522-523, 525-527, 566, 574. Gellert, Lawrence (Laslow Grünbaum), 77. Genesis, 402, 470, 495, 557. Genet, Jean, 298, 320, 562. Genette, Gérard, 553-555, 575. Gene Vincent and His Blue Caps, 540. Gentle Giant, 396, 401-402, 556. Georgia Tom (Thomas Andrew Dorsey), 91. Gerard, Jerry (Gerard Damiano), 462. Geronimi, Clyde, 24, 166. Gibbs, Georgia, 212. Gilbert, James, 509-510, 525-527, 530, 532, 537, 539, 575. Gilbert, Ronnie, 213. Gildart, Keith, 547-549, 556, 558, 575. Gillan, Ian, 478. Gillespie, Dizzy (John Birks «Dizzy» Gillespie), 161, 396. Gillett, Burt, 6.

INDICE DEI NOMI

Gilmore, Stuart, 35. Ginsberg, Allen, 268-278, 280-284, 288, 291, 297-298, 320, 350, 371, 378, 420, 430, 541-542. Ginsberg, Eugene, 271. Ginsberg, Louis, 271. Ginsberg, Naomi, 271. Girouard, Mark, 507, 575. Gitlin, Todd, 297, 521, 538, 544-545, 554556, 559, 575. Gledhill, Christine, 510, 575. Goddard, Stephen, 527-529, 571, 573, 575, 577. Gold, Mike, 108. Goldberg, Barry, 348. Golden Gate Quartet, 111. Goldenson, Leonard, 177. Goldstein, Richard, 557. Gomery, Douglas, 503, 508, 530, 537, 575. Goodman, Andrew, 307. Goodman, Benny (Benjamin David Good­ man), 109, 140, 145, 147-148, 395. Goodman, Paul, 543, 575. Goodson, Ida, 518. Gordon, Bert Ira, 172. Gordon, Jimmie, 516. Gordon, Robert, 172. Gordon, Robert, 536, 575. Gordon, Robert Winslow, 520. Gordy Jr., Berry, 267. Gore, Lesley, 469. Gorman, Lyn, 173, 175, 503-504, 509, 529531, 534, 537, 564-566, 575. Gosden, Freeman, 18, 23, 59, 510. Gothart, David, 47. Gould, Chester, 17, 24, 35. Grable, Betty (Elizabeth Ruth «Betty» Grable), 155, 157-158, 197. Gracyk, Theodore, 575. Graebner, William, 522-523, 533, 537-539, 575. Grafton, Samuel, 110. Graham, Bill (Wulf Wolodia Grajonca), 369-370, 554. Grant, Cary (Archibald Alec Leach), 45, 163.

INDICE DEI NOMI

Grasso, Aldo, 531, 567, 581. Grateful Dead, 365, 369-371, 374, 470, 553. Gray, Michael, 547, 575. Grayson, Gilliam Banmon, 519. Great Society, The, 369. Green, Alfred E., 26. Green, Gary, 402-403. Greenberg, Clement, 463. Greenburg, Dan, 458. Greene, Meg, 520, 575. Grieveson, Lee, 508, 575. Griffin, Rick (Richard Alden «Rick» Griffin), 470-471. Griffith, David Wark, 32, 59, 509. Griffith, Melanie, 491. Grossman, Albert, 348. Guggenheim, Peggy (Marguerite «Peggy» Guggenheim), 463. Guillermin, John, 484. Guitar Slim (Eddie Jones), 536. Guralnick, Peter, 538-539, 575. Gussow, Adam, 82, 513, 515-517, 575. Guthrie, Woody (Woodrow Wilson Guthrie), 70, 108-109, 111-113, 115, 117118, 120, 140, 312-314, 352, 520-521, 576. Haas, Charles Friedman, 292. Haber, Al (Robert Alan «Al» Haber), 303. Hackman, Gene (Eugene Allen «Gene» Hackman), 448. Haggard, Merle, 217. Hagmann, Stuart, 446. Haley, Alex, 476. Haley, Bill (William John Clifton «Bill» Haley), 239, 243, 245-247, 249, 253254, 259, 321-322, 539-540. Hall, Granville Stanley, 126. Hall, Stuart, 521, 523, 525, 539, 548-549, 555, 567, 571, 576-578, 580. Halliwell, Martin, 531, 534-535, 542, 547, 556, 564, 576. Hamilton, Murray, 448. Hamilton, Richard, 465, 470. Hammerstein II, Oscar, 565. Hammett, Dashiell, 16, 53-54.

595 Hammond, John, 109, 313, 520. Hand, David, 24. Handy, William Christopher, 73. Hanrahan, William, 283. Harburg, Edgar Yipsel, 22. Hardin, Louis «Moondog», 243. Hardman, Karl, 452. Harmon, Ellen, 369. Harrell, Kelly, 519. Harrington, C. Lee, 505, 574. Harris, Mark, 561, 576. Harris, Phil, 207. Harris, Wynonie, 244. Harrison, Colin, 565-567, 576. Harrison, George, 336, 356-357, 359, 548, 549. Hart, Edward, 530. Haskell, Molly, 510, 576. Haskin, Byron, 530. Hathaway, Henry, 195-196. Hawks, Howard, 41, 63, 167, 184, 196-197, 530. Haworth, Jann, 465. Hay, George, 97. Hay, James, 567, 576. Hayden, Casey (Sandra Cason), 427. Hayden, Tom (Thomas Emmet «Tom» Hayden), 303, 305, 553. Hayes, Alfred, 118. Haymes, Dick (Richard Benjamin «Dick» Haymes), 534. Hays, Lee, 111, 213. Hays, William, 42. Hayward, Susan (Edythe Marrenner), 158. Hearst, William Randolph, 9. Hebdige, Dick, 525, 549, 566, 576. Hedrick, Wally, 276. Hegamin, Lucille, 73. Hegarty, Marilyn E., 527-528, 576. Hegarty, Paul, 556, 576. Heinlein, Robert Anson, 172. Helbrandt, Maurice, 281. Hellerman, Fred, 213. Hellman, Lillian, 61, 561.

596 Helms, Chet (Chester Leo «Chet» Helms), 369. Hemingway, Ernest, 67, 269, 289. Henderson, Lethe, 78. Henderson, LuAnne, 270, 272. Henderson, Rosa, 73. Hendrix, Jimi (James Marshall «Jimi» Hendrix), 374, 384-385, 388-389, 391393, 414, 418, 424-426, 469, 483, 554556, 558-559. Hentoff, Nat (Nathan Irving «Nat» Hentoff ), 316, 547, 551. Hepburn, Audrey (Audrey Kathleen Hep­ burn Ruston), 184. Hepburn, Katharine, 45, 138. Herlihy, James Leo, 477, 561. Herman, Edward S., 489, 566, 571. Herman’s Hermits, 339. Hersh, Seymour, 474. Hess, Elizabeth, 148, 526, 549, 573. Hewitt, Paolo, 549, 576. Higgins, Billy, 86. Higgins Prouty, Olive, 23. Higley, Brewster M., 30. Hill, George Roy, 446. Hilmes, Michele, 504, 506, 530-531, 534, 537, 565, 576. Hinerman, Stephen, 539, 576. Hitler, Adolf, 246. Hodkinson, Paul, 567, 576. Hoffman, Abbie (Abbot Howard «Abbie» Hoffman), 553. Hoffman, Dustin, 448-449. Hofstadter, Richard, 507, 529, 576. Holden, William (William Franklin Beedle), 184. Holiday, Billie, 109-110, 113-115, 299, 313, 515. Hollingshead, August B., 132-134, 522525, 539, 576. Holly, Buddy (Charles Hardin Holley), 245, 322, 539. Holmes, John Clellon, 270, 275-276, 288, 541, 543, 576. Honey, Maureen, 507, 510, 527-529, 577. Hooker, John Lee, 223, 312, 536.

INDICE DEI NOMI

Hooker, Richard (Hiester Richard Hornberger), 477. hooks, bell, 494, 566, 577. Hoover, John Edgar, 150, 236, 292. Hopper, Dennis, 446-447, 553. Horkheimer, Max, 13, 25, 45, 64, 181, 200, 236, 324, 503, 505-506, 509, 512, 531, 534, 577. Horn, Clayton, 283. Horne, Lena, 529. Horton, Myles, 309. Horton, Zilphia (Zilphia Mae Johnson), 309-310. House, Son (Eddie James «Son» House), 74, 513, 515-517. Howard, Byron, viii. Howard, David, 98. Howard, Leslie (Leslie Howard Steiner), 50. Howard, Ron (Ronald William «Ron» Howard), 485. Howlin’ Wolf (Chester Arthur Burnett), 226-227, 312, 345, 536. Huffman, Hazel, 112. Hughes, Langston (James Mercer Langston Hughes), 77, 514. Hughey, Matthew W., 524, 577. Hummert, Anne, 23, 49, 509. Hummert, Frank, 23, 49, 509. Huncke, Herbert, 270. Hunt, George P., 405, 557. Hunt, Prince Albert, 69. Hunter, Alberta, 73. Hunter, Meredith, 374. Hupfeld, Herman, 23. Hurston, Zora Neale, 77, 514. Hurt, Mississippi John (John Smith Hurt), 69, 512-513, 515. Huston, John, 54. Hutton, Bobby (Robert James «Bobby» Hutton), 386. Huxley, Aldous, 368, 554. Hynes, John D., 247. Ice Cube (O’Shea Jackson), 567. Ike & Tina Turner, 556.

INDICE DEI NOMI

Iommi, Tony (Anthony Frank «Tony» Iommi), 397. Ionesco, Eugène (Eugen Ionescu), 320. Iron Butterfly, 397. Irwin, John, 533, 540, 552-553, 565, 577. Ives, Burl, 111, 443. Jackson, Aunt Molly, 107, 111, 115. Jackson, George, 497. Jackson, Mahalia, 311. Jackson, Michael, 490. Jackson, Peter, 485. Jackson, Wanda, 254. Jackson, Wilfred, 24, 166-167. Jacobs, Gloria, 148, 526, 549, 573. Jacobs, Ken, 562. Jaeckin, Just, 462. Jagger, Mick (Michael Philip Jagger), 342, 344-347, 408, 410, 428, 469, 548. James, Etta (Jamesetta Hawkins), 226. James, Harry, 147, 157. James, Jesse, 350-351, 551. James, Joni (Giovanna Carmella Babbo), 218. James, Skip (Nehemiah Curtis «Skip» James), 74, 513, 515, 517. Janowitz, Bill, 551, 577. Jeffers McDonald, Tamar, 509, 561, 577. Jefferson Airplane, 365-366, 369-370-371, 374, 404, 411, 414, 421, 424, 431-434, 503, 553, 557, 560. Jefferson, Blind Lemon (Lemon Henry Jefferson), 69, 74-75, 78, 91, 223, 514517, 546. Jefferson, Tony, 326, 521, 523, 525, 539, 548-549, 555, 567, 571, 576-578, 580. Jenkins, Henry, 501, 554, 567, 577. Jenkins, Hezekiah, 515. Jethro Tull, 393, 397, 401-402. Jett, Joan (Joan Marie Larkin), 564. Jewett, Robert, 41, 507-508, 511, 566, 578. Jewison, Norman, 478. Jimi Hendrix Experience, The, 385, 553. John, Elton (Reginald Kenneth Dwight), 478. John Mayall & the Bluesbreakers, 339-340.

597 Johnnie Ray and the Four Lads, 229, 535. Johnson, Blind Willie, 69, 74, 91, 269, 517, 546. Johnson, James Weldon, 77. Johnson, Joyce (Joyce Glassman), 295, 544. Johnson, Lonnie (Alonzo «Lonnie» Johnson), 515. Johnson, Lyndon Baines, 301, 308, 473. Johnson, Paul, 335-336, 549, 577. Johnson, Robert, 74, 82, 85-86, 90, 223, 313-314, 339, 397, 513, 516-517. Johnson, Syl, 497. Johnson, Tommy, 513, 516. Johnson, Virginia E. (Mary Virginia Eshelman), 563. Johnston, Eric, 185. Jolson, Al (Asa Yoelson), 511. Jones, Brian, 342, 347. Jones, Duane, 452. Jones, Hettie (Hettie Cohen), 295, 544. Jones, LeRoi, 513, 543-544, 560, 577. Jones, Maggie, 516. Jong, Erica (Erica Mann), 462. Joplin, Janis, 295, 404, 411-414, 469, 471, 544, 553, 557, 564. Jordan, Louis, 227. Jordan, Luke, 516. Josephson, Barney, 109-110, 299. Jovovich, Milla (Milica Bogdanovna «Milla» Jovovich), 491. Justice, Dick (Richard «Dick» Justice), 519. Kafka, John, 24. Kakoudaki, Despina, 528, 577. Kallen, Kitty, 213. Kammerer, David, 271, 274-275. Kandel, Lenore, 371. Kane, Joseph, 99. Kantner, Hal, 540. Kantner, Paul, 370, 432-434, 557, 560. Kaprow, Allan, 468. Karloff, Boris, 12. Karpeles, Maud, 77, 94.

598 Kaufman, Will, 520, 535, 561, 565-567, 577. Kaukonen, Jorma, 365, 434, 557. Kaye, Sammy (Samuel Zarnocay), 160. Kazee, Buell, 519. Keene, Carolyn (pseudonimo collettivo), 53. Keightley, Keir, 556, 577. Keisker, Marion, 240-241. Keith, Linda, 389. Kelley, Alton, 369, 470. Kelley, Daniel E., 30. Kelly, Gene, 167. Kennedy, John Fitzgerald, 301, 420, 473, 543-545. Kennedy, Robert, 426, 544. Kéroack, Léo-Alcide, 271. Kerouac, Gérard, 271. Kerouac, Jack, 270-277, 283-292, 295, 298, 312, 369, 463, 542-544. Kershner, Irvin (Isadore Kershner), 484. Kesey, Ken, 366, 368. King, B.B. (Riley Ben King), 223, 345, 398, 536. King, Geoff, 441, 504, 560-561, 565-566, 577. King, Helen, 19. King, Henry, 41, 509. King, Jack, 6. King, Martin Luther, 301, 315, 426. King, Mary, 427. King Crimson, 402, 435-436, 496, 557. Kinks, The, 339, 341, 550. Kinney, Jack, 167. Kinsey, Alfred, 137, 186. Kirby, Jack, 39. Kirk, Roland, 393. Klarwein, Mati, 421. Knaff, Donna B., 508, 525-526, 529, 577. Knife, The, 500. Kooper, Al (Alan Peter Kuperschmidt), 348, 553. Kopit, Arthur, 477. Korner, Alexis, 340. Kornfeld, Artie, 373. Koszarski, Richard, 503, 577.

INDICE DEI NOMI

Kozloff, Max, 465. Krupa, Gene (Eugene Bertram «Gene» Krupa), 525. Kubrick, Stanley, 444-446. Kunen, James Simon, 477. Labelle, 493. Laine, Frankie (Francesco Paolo LoVecchio), 210, 218. Laing, Dave, 566, 578. Lait, Jack, 232. Lamantia, Philip, 277. Lamb, Myrna, 564. Lamour, Dorothy (Mary Leta Dorothy Slaton), 528. Lampell, Millard, 111. Landis, John, 490. Landis Wallace, Carol (Frances Lillian Mary Ridste), 528. Lang, Michael, 373. Lange, Dorothea, 140. Lange, Hope, 442. Lardner, Ring (Ringgold Wilmer «Ring» Lardner Jr.), 530. Lawrence, Jennifer, 491. Lawrence, John Shelton, 41, 507-508, 511, 566, 578. Lawson, John Howard, 530. Lawson, R.A., 82, 514-517, 578. Lay, Sam, 348. Lazarsfeld, Paul, 204, 534. Lear, Norman, 475. Leary, Timothy, 368, 371, 430, 552. Leaves, The, 388, 555. Le Borg, Reginald, 526. Ledbetter, Huddie «Leadbelly», 70, 74, 78-82, 111, 116, 140, 213, 310, 312, 512, 515, 521, 535, 548, 557. Led Zeppelin, 397-398, 421, 470, 517, 556. Lee, Alvin (Graham Anthony Barnes), 384. Lee, Harper, 444. Lee, Julia, 228. Lee, Manfred B., 53. Leigh, Janet (Jeannet Helen Morrison), 158. Leigh, Vivien, 50.

INDICE DEI NOMI

Lemmon, Jack, 199. Lenin (Vladimir Ilyich Ulyanov), 420. Lennon, John, 336, 355-357, 359, 361-362, 417, 419-421, 424, 429-431, 457-458, 549, 551-553, 559-560. Lenya, Lotte (Karoline Wilhelmine Charlotte Blamauer), 546. Lerner, Max, 526. Lerner, Murray, 554. LeRoy, Mervyn, 170. Lesti, Sante, 529. Lévesque, Gabrielle-Ange, 271. Levin, Henry, 540. Levin, Ira, 477. Levine, Nat, 98. Levy, Jacques, 458. Lewis, Furry (Walter E. Lewis), 69, 74. Lewis, Jerry Lee, 245, 249, 255, 539. Lewis, Lisa A., 526, 539, 573, 576. Lewis, Noah, 517. Lewis, Peter, 323. Lewis, Sinclair, 67. Lichtenstein, Roy, 300, 464. Lincoln, Janet E., 508, 574. Lindbergh, Charles Augustus, 148. Lindsay, Howard (Herman Nelke), 565. Lipton, Lawrence, 293. Little, A., 328, 549. Little Richard (Richard Wayne Penniman), 245, 249, 253-254, 258, 312, 539-540, 556. Little Walter (Marion Walter Jacobs), 223, 536. Living Theatre, The, 299, 454. Lloyd Webber, Andrew, 478. Logan, Susan, 254. Lomax, Alan, 77-81, 94, 109, 111, 116, 221, 313, 322-323, 348, 515. Lomax, Bess, 111. Lomax, John, 30, 77-82, 94-95, 515. Lombardo, Guy (Gaetano Alberto «Guy» Lombardo), 160, 395, 535. Long, Jimmy, 98. Longshaw, Fred, 73. Lorini, Alessandra, 507, 578. Lornell, Kip, 515, 584.

599 Lourié, Eugène, 172. Love, 388, 555. Love, William F., 157. Lovelace, Linda (Linda Susan Boreman), 462. Lownds, Sara (Shirley Marlin Noznisky), 354. Loy, Myrna (Myrna Adele Williams), 163, 443. Lucas, George, 484. Ludwig, Edward, 173. Luke the Drifter (Hank Williams), 216. Lulu Belle (Myrtle Eleanor Cooper), 216. Lumet, Sidney, 445. Lundberg, Ferdinand, 194. Lundy, Dick, 6. Lunsford, Bascom Lamar, 519. Luske, Hamilton, 24, 166-167. Lynch, David, 493. Lynd, Robert S., 510-511, 522, 524-525, 578. MacDermot, Galt, 440, 455. MacDonald, Ian, 549, 551-552, 578. MacDougall, Ranald, 292. Maciunas, George, 300, 419. MacLane, Angus, viii. Macmillan, Harold, 549. MacMurray, Fred, 54. Macon, Uncle Dave (David Harrison «Uncle Dave» Macon), 519. MacPhee, Chester, 282-283. Madara, John (John L. Medora), 564. Madonna (Madonna Louise Veronica Ciccone), 24, 494. Mahon, Maureen, 536, 578. Mailer, Norman, 288, 542-543, 578. Malcolm X (Malcolm Little), 385-386. Malina, Judith, 299, 454. Maltby, Richard, 531, 560, 578. Maltz, Albert, 530. Mamas & the Papas, The, 371, 404, 553. Mamoulian, Rouben, 55. Mansfield, Jayne (Vera Jayne Palmer), 158, 259. Manzarek, Ray (Raymond Daniel «Ray» Manzarek), 382.

600 Marbles, The, 369. Marcus, Greil, 105, 512, 518, 520, 578. Marcuse, Herbert, 324, 479. Margolick, David, 520-521, 578. Mariani, Giorgio, 510, 543, 514, 543, 569570, 581. Marin, Edwin L., 26. Marineo, Franco, 566, 578. Marino, Stefano, 556, 578. Markopoulos, Gregory, 562. Marquand, Richard, 485. Marston, William Moulton, 37. Martel, Frédéric, 502, 504, 530, 537, 540, 560, 565-567, 578. Martha and the Vandella, 267. Martin, George, 357-358. Martin, Sara, 516, 518. Martinelli, Alberto, 307, 522, 532-533, 545, 571, 578. Martini, Emanuela, 560, 565, 578, 580. Martorella, Vincenzo, 513-514, 517-518, 526, 578. Marwick, Arthur, 533, 539, 548-549, 578. Masekela, Hugh, 553. Masked Marvel, The, (Charley Patton), 515. Massive Attack, 498, 500. Masters, William Howell, 563. Mastroianni, Marcello, 420. Matheson, Richard, 171, 530. Mauro, Walter, 516, 572. May, Lary, 529, 573. Mayfield, Curtis, 556. Maynard, John Arthur, 544, 578. Maynard, Ken, 98, 519. Maysles, Albert, 554. Maysles, David, 554. McCain, Franklin, 302. McCann, Les (Leslie Coleman «Les» McCann), 497. McCarey, Leo, 45, 173. McCarthy, Joseph, 168, 472. McCartney, Paul, 336, 356-357, 359, 362, 417, 549, 551. McClure, Michael, 277, 371. McCoy, Horace, 477.

INDICE DEI NOMI

McCron, Robin, 521, 580. McDaniel, Hattie, 58. McGee, Reverend F.W., 70. McGuire, Barry, 424. McLaughlin, John, 393. McLaurin, Melton A., 519-520, 570, 581. McLean, David, 173, 175, 503-504, 509, 529-531, 534, 537, 564-566, 575. McMillian, John, 549-550, 559, 578. McNeil, Joseph, 302. McQueen, Butterfly, 58. McRobbie, Angela, 526, 549, 578. McTell, Blind Willie (William Samuel McTier), 74, 516-517. Mecacci, Andrea, 467, 563-564, 579. Meerio, A.M., 246. Meeropol, Abel, 110, 114. Mekas, Jonas, 457, 562. Melfi, Leonard, 458. Melosh, Barbara, 527, 572. Memphis Jug Band, The, 516-517. Memphis Minnie (Lizzie Douglas), 411, 515, 517, 557. Menjou, Adolphe, 173. Menzies, William Cameron, 530. Mercer, John, 510, 579. Merrell Lynd, Helen, 510-511, 522, 524525, 578. Merriam, Eve (Eva Moskovitz), 564. Metalious, Grace, 442. Metzger, Gustav, 392. Metzner, Rakph, 368. Meyerowitz, Joanne, 528, 579. Mezzrow, Milton, 512-513, 516, 579. Middleton, Richard, 525, 552, 555, 579. Milburn, Amos, 536. Miles, Barry, 556, 579. Miles, Josephine «Josie», 86. Millard, Andre, 504, 515, 534, 537, 579. Miller, Arthur, 298. Miller, Glenn, 144, 160, 528. Miller, Henry, 298, 479, 542. Miller, Niela, 391. Miller, Peter, 538, 574. Miller, Timothy, 552-553, 579. Mills Brothers, The, 207.

INDICE DEI NOMI

Millstein, Gilbert, 289. Minkoff, Rob (Robert R. «Rob» Minkoff ), 485. Minnelli, Liza, 564. Minnelli, Vincente, 29, 167. Mitchell, Artie, 462. Mitchell, B.R., 522, 532-533, 548, 579. Mitchell, Jim (James Lloyd «Jim» Mit­ chell), 462. Mitchell, Joni (Roberta Joan «Joni» Mit­ chell), 384, 564. Mitchell, Margaret, 50, 59, 114, 510. Mitchell, Mitch (John Graham «Mitch» Mitchell), 385. Mitchell, Thomas, 60. Mitford, Jessica, 536. Modell, John, 524, 533-535, 579. Monge, Luigi, 514, 516-517, 536, 579, 581. Monk, Thelonious, 161, 396, 564. Monroe, Bill (William Smith «Bill» Monroe), 242. Monroe, Marilyn (Norma Jeane Baker Monroe), 158, 195-199. Monroe, Vaughn, 201. Montana, Patsy (Ruby Rose Blevins), 105, 518. Monteith, Sharon, 541, 545, 558, 579. Montgomery, Little Brother (Eurreal Wilford «Little Brother» Montgomery), 516. Montgomery, Robert, 173. Moon, Keith, 478. Moonglows, The, 229. Moore, Allan, 513-514, 518, 577, 579, 583. Moore, Fred, 6. Moore, Rich, viii. Moore, Scotty (Winfield Scott «Scotty» Moore), 241. Morey, Larry (Lawrence L. «Larry» Morey), 509. Morrison, Jim, 377, 381-383, 418, 424, 558. Morrison, Sterling, 466. Morrison, Van (George Ivan «Van» Morrison), 418. Morrissey, Paul, 466, 469. Mortimer, Claire, 45, 509-510, 561, 579.

601 Mortimer, Lee, 232. Morton, Jelly Roll (Ferdinand Joseph LaMothe), 516. Mosse, George L., 507, 579-580. Mothers of Invention, The, 404. Motherwell, Robert, 463. Mouse, Stanley (Stanley George Miller), 470. Mucha, Alfons Maria, 470. Muddy Waters (McKinley Morganfield), 221, 223, 225-226, 227, 312, 322, 339, 342, 345, 397, 536, 550. Mulligan, Robert, 444. Mumford, Lewis, 164, 529, 580. Murao, Shigeyoshi, 283. Murdoch, Rupert, 486-487. Murdock, Graham, 521, 580. Murrow, Ed (Egbert Roscoe Murrow), 472. Muscio, Giuliana, 503, 508-509, 580. Musorgskij, Modest Petrovič, 479. My Bloody Valentine, 500. Nanni, Giancarlo, 556, 580. Nasaw, David, 522, 529, 532, 580. Nash, Graham, 559. Nathanson, Paul, 27-28, 506, 511, 580. Naughton, Edmund, 477. Neff, Pat, 79. Negulesco, Jean (Ioan Negulescu), 167, 196-197. Nelson, David, 442. Nelson, Harriet, 180. Nelson, Ozzie, 180. Nelson, Ralph, 446. Newhouse, Thomas, 537, 542, 544, 552, 558, 580. Newman, Paul, 443. Newsom, John, 329-330, 549. Newton, Frankie (William Frank New­ ton), 110. Newton, Huey Percy, 386, 497. Nichols, Mike (Mikhail Igor Peschkow­ sky), 445-446, 491. Nicholson, Jack (John Joseph «Jack» Nicholson), 447, 478. Nico (Christa Päffgen), 466.

602 Nin, Anaïs, 299. Nirvana, 498. Nissen, Frank, 24. Nixon, Richard, 183-184, 473-475, 482. Nolan, Christopher, 493. Noonan, Tommy, 197. Norton, Mary Beth, 522-523, 529-530, 532, 580. Novak, Kim (Marilyn Pauline Novak), 158. Nowlan, Philip, 17, 35. Nyby, Christian, 530. Nyro, Laura (Laura Nigro), 553. Oasis, 564. O’Dea, Judith, 452. Odetta (Odetta Holmes), 311-312. Odum, Howard Washington, 77. Oesterman, Phil, 459. Ogan Gunning, Sarah, 107, 115. O’Hara, Maureen (Maureen FitzSimons), 528. O’Horgan, Tom, 455, 478. Oldenburg, Claes, 300. Oldham, Andrew Loog, 342-343. One Direction, 148, 494. O’Neil, Paul, 294, 543-544. O’Neill, Eugene, 67, 299. Ono, Yoko, 300, 419-421, 429-430, 457, 560. Original Dixieland Jass Band, 72. Orioles, The, 228. Orlandini, Andrea, 550, 559, 580. Orlovsky, Peter, 276, 283. Ornitz, Samuel, 530. Ortoleva, Peppino, 559, 580. Orwell, George, 171, 436. Osgerby, Bill, 547-549, 580. Oshima, Nagisa, 462. Oughton, Diana, 433. Overton, Frank, 444. Owens, Buck (Alvis Edgar Owens), 217. Pacino, Al, 24. Page, Jimmy (James Patrick «Jimmy» Page), 397, 517. Page, Patti (Clara Ann Fowler), 106, 535.

INDICE DEI NOMI

Paik, Nam June, 392, 556. Paley, William Samuel, 475. Palladino, Grace, 521-525, 527, 534, 537539, 545, 554, 580. Pallavicini, Piersandro, 556, 580. Palmer, Jerry, 180, 505, 509-510, 531, 580. Papp, Joseph, 455. Parker, Alan, 478, 485, 555. Parker, Charlie, 161, 269, 395. Parker, Edie, 270, 272. Parks, Gregory S., 524, 571, 577. Parks, Rosa, 300. Parsons, Estelle, 448. Parsons, Talcott, 124-125, 521-522, 580. Pasini, Aurelio, 555, 580. Patterson, Joseph Medill, 9. Patton, Charley, 69, 513, 515, 517. Paxton, Steve, 419-420, 457. Payne, John Howard, 29. Peck, Gregory, 444. Peckinpah, Sam (David Samuel «Sam» Peckinpah), 446. Pedroni, Federico, 565, 580. Peer, Ralph, 93-94. Penati, Cecilia, 531, 567, 580-581. Penguins, The, 229. Penn, Arthur, 445-446. Pennebaker, D.A. (Donn Alan «D.A.» Pennebaker), 554. Pentangle, The, 564. Peppard, George, 292. Peraino, Louis, 563. Perkins, Carl, 245. Peter, Paul, & Mary, 311, 315. Peters, Brock (George Fisher), 444. Peters, Fritz, 280. Peters, Harry G., 37. Peters, Jean, 534. Peterson, Richard A., 512, 518-520, 535, 570, 581. Phillips, Clarenda M., 524, 571. Phillips, Dewey, 241-243. Phillips, Irna, 509. Phillips, John, 371, 404. Phillips, Sam, 240-242. Pickett, Wilson, 266.

INDICE DEI NOMI

Pink Floyd, 402, 436-438, 470, 478, 496, 555, 557. Pizzi, Michele, 556, 581. Plant, Robert, 421, 517. Platters, The, 229, 540. Podhoretz, Norman, 290-293, 543, 581. Poe, Edgar Allan, 53. Poitier, Sidney, 239. Polanski, Roman, 445. Polese Remaggi, Luca, 550, 559, 580. Pollack, Sidney, 446. Pollard, Michael John, 448. Pollock, Jackson, 463, 564. Polsky, Ned, 295-297, 300, 541, 544, 581. Portelli, Alessandro, 514, 516, 519-521, 567, 581. Potter, Henry Codman, 163. Potter, Russell A., 567, 581. Powell, William, 197. Powolny, Frank, 155. Pravadelli, Veronica, 510, 581. Preer, Jean, 528, 581. Presley, Elvis, 148, 240-244, 247, 249, 251256, 258-261, 312, 321, 326, 331, 464465, 539-540. Press, Joy, 557, 581. Propp, Vladimir Ja., 506, 581. Proust, Marcel, 272, 420. Puckett, Newbell Niles, 77. Pyle, Denver, 449. Quatro, Suzi (Susan Kay «Suzi» Quatro), 417, 431, 564. Quicksilver Messenger Service, 371, 553. Radiohead, 498. Rado, James (James Alexander Radomski), 440, 455. Rafelson, Bob, 446. Rage Against the Machine, 498. Ragni, Gerome (Jerome Bernard Ragni), 440, 455. Raimi, Sam (Samuel Marshall «Sam» Raimi), 485. Rainer, Yvonne, 300, 419-420, 457, 563. Rainey, Gertrude «Ma» (Gertrude Malis-

603 sa Nix Pridgett), 73, 85, 89, 340, 514, 516-518. Rainey, Wayne, 313-314. Rand, Ayn (Alisa Zinov’yevna Rosen­ baum), 171. Raskin, Jonah, 541-543, 581. Ravel, Maurice, 480. Ravens, The, 229. Ray, Johnnie (John Alvin Ray), 312, 545. Ray, Nicholas, 237. Raymond, Alex, 17, 35. Reagan, Ronald, 173, 482, 485. Reagan Wilson, Charles, 519, 536, 581. Ream, Anne K., 546, 554, 582. Redding, Noel, 385. Redding, Otis, 266, 553, 556, 567. Reece, Florence, 107, 112, 117. Reed, Donna (Donna Belle Mullenger), 157. Reed, Jimmy (Mathis James Reed), 312. Reed, John, 299. Reed, Lou (Lewis Allan «Lou» Reed), 406-407, 414-415, 466, 469, 557-558. Reed, Oliver, 478. Reed, Sherry, 254. Reich, Wilhelm, 290. Reid, Billy, 535. Reitherman, Wolfgang, 445. Reitman, Ivan, 485. Rem, 498. Restaino, Franco, 504-505, 508, 537, 564, 581. Rexroth, Kenneth, 277. Reynolds, Malvina, 529. Reynolds, Simon, 557, 581. Rhodes, Todd, 538. Rice, Ron, 562. Rice, Tim (Timothy Miles Bindon «Tim» Rice), 478. Richards, Keith, 342, 344-347, 389, 410, 469, 550, 581. Richmond, David, 302. Riddle, Lesley, 94. Rigney, Francis J., 544. Riley, Terry (Terrence Mitchell «Terry» Riley), 480.

604 Rimbaud, Arthur, 298. Rizzo, Stefano, 555. Robbins, Jerome, 443. Roberts, Billy (William Moses «Billy» Roberts), 388, 391. Roberts, Brian, 548, 571. Roberts, John, 373. Robertson, Eck, 69. Robinson, Earl, 118. Robinson, Edward G. (Emanuel Goldenberg), 55. Robinson, Jessie Mae, 535. Robinson, Lillian S., 508, 581. Robinson, Smokey (William «Smokey» Robinson), 267, 497. Robson, Mark, 442. Rockwell, Norman, 153-154. Roddam, Franc (Francis George «Franc» Roddam), 549. Rodgers, Jimmie, 94-95, 98, 100, 102, 104, 518-519. Rodgers, Richard, 565. Rogers, Ginger (Virginia Katherine McMath,), 12, 43, 173. Rogers, Lela, 173. Rogers, Roy, 99. Rogers, Will (William Penn Adair «Will» Rogers), 98. Rogin, Michael, 507, 582. Rohter, Larry, 528, 582. Rolling Stones, The, 339-340, 342-345, 347, 374, 390, 397, 408-410, 417-418, 424, 428, 465, 500, 550. Rollini, Art, 146. Romero, George, 446, 451, 561. Ronson, Mick (Michael «Mick» Ronson), 558. Rooney, Mickey, 26, 506. Roosevelt, Eleanor, 112. Roosevelt, Franklin Delano, 30, 67, 112, 158. Roosevelt, Theodore, 34. Rorem, Ned, 521. Rose, Tim (Timothy Alan Patrick «Tim» Rose), 388-389, 555. Rosenberg, Harold, 463. Rosenman, Joel, 373.

INDICE DEI NOMI

Rosenquist, James, 465, 467. Ross, Diana (Diane Ernestine Earle Ross), 564. Ross, Gary, 491. Ross, Katharine, 450. Roszak, Theodore, 479, 565, 582. Roth, Philip, 479. Rothko, Mark (Markus Yakovlevich Rothkowitz), 463. Rotolo, Suze (Susan Elizabeth Rotolo), 313, 546. Roy, William G., 513-515, 520, 535, 545, 582. Rubin, Barbara, 457-458. Rubin, Jerry, 371, 553. Runaways, The, 431. Ruscha, Edward, 465. Rush, Otis, 225. Russell, Anita, 409. Russell, Ethan, 247. Russell, Jane, 158, 197-198. Russell, Ken (Henry Kenneth Alfred «Ken» Russell), 478, 555. Russell, Rosalind, 528. Russell, Tony, 518-519, 526, 582. Russo, Anthony, viii. Russo, Joe, viii. Rutherford, Leonard, 102. Ryan, Mary P., 525, 582. Sacco, Nicola, 117. Sadler, Barry, 483. Salinger, J.D. (Jerome David Salinger), 298, 479. Sandbrook, Dominic, 329, 548-551, 564565, 582. Sanders, Felicia (Felice Schwartz), 209. Sandrich, Mark, 22-23. Sands, Tommy (Thomas Adrian «Tommy» Sands), 261. Santana, 373, 421, 495. Santoro, Marco, 534, 582. Sartre, Jean-Paul, 320. Sassoon, Donald, 504-505, 510, 522, 582. Savage, Jon, 506, 521, 523, 525-527, 582. Savio, Mario, 307. Schaffner, Franklin James, 445.

INDICE DEI NOMI

Schapiro, Meyer, 463. Schickele, Peter, 458. Schlesinger, John, 446. Schneemann, Carolee, 457-458, 563. Schneider, Maria, 461. Schomburg, Arthur, 77. Schopenhauer, Arthur, 272. Schrum, Kelly, 515, 521-522, 526, 582. Schwartz, Delmore, 557. Schwartz, Hilda, 245. Schwarzenegger, Arnold, 485. Schwerner, Mickey (Michael Henry «Mickey» Schwerner), 307. Scorsese, Martin, 446, 554. Scott, Adrian, 530. Seale, Bobby (Robert George «Bobby» Seale), 386, 553. Sears, Fred F. (Frederick Francis Sears), 540. Sedaka, Neil, 261. Seed, David, 530, 570. Seeger, Charles, 108, 521. Seeger, Pete, 111, 118, 213, 310, 312-313, 315, 348, 364, 521, 529, 535. Seidemann, Bob, 413. Seitz, George B., 26. Selby Jr., Hubert, 415. Selznick, David O., 506. Sergi, Giuseppe, 508, 570. Sevano, Nick, 526. Shadows of Knight, The, 388, 555. Shakira (Shakira Isabel Mebarak Ripoll), 494. Shankar, Ravi (Rabindra Shankar Chowdhury), 364, 553. Sharman, Jim (James David «Jim» Sharman), 459. Sharp, Cecil James, 77, 94. Shaw, Arnold, 526. Shaw, Artie (Arthur Jacob Arshawsky), 144. Sheehan, Neil, 565. Shelton, Robert, 311, 313, 546, 582. Shepard, Sam (Samuel Shepard Rogers), 458. Shingler, Martin, 510, 579. Shuster, Joe, 9, 36-37.

605 Shyamalan, M. Night (Manoj Nelliyattu «M. Night» Shyamalan), 493. Sidney, George, 167. Siegel, Don, 172. Siegel, Jerry, 9, 36-37. Silber, Irwin, 319, 547. Simon, Art, 561, 582. Simon, Joe, 39. Simon & Garfunkel, 451, 553. Sinatra, Frank, 146-149, 246, 261, 526. Sinfield, Peter, 560. Sklar, Robert, 530, 582. Slick, Grace (Grace Barnett Wing), 365, 369, 374, 414, 421, 432-433, 503, 557, 564. Slotkin, Richard, 169, 505, 507, 510, 530, 582. Sly and the Family Stone, 497. Small, Christopher, 91, 513, 518, 582. Smith, Bessie, 73, 84-85, 87-90, 340, 514517, 557. Smith, Carl, 391. Smith, Clara, 73. Smith, Harry Everett, 69-70, 512. Smith, Jack, 562. Smith, Kate, 30, 120. Smith, L. Douglas, 544. Smith, Mamie (Mamie Robinson), 73, 9293. Smith, Patti (Patricia Lee «Patti» Smith), 417-418, 431, 500, 564. Smith, Tommie, 432. Smith, Trixie, 73, 243. Smithers, Jan, 379. Smokey Robinson & the Miracles, 267. Snoop Doggy Dogg (Cordozar Calvin Broadus), 567. Snyder, Gary, 277, 288, 371. Snyder, Zack (Zachary Edward «Zack» Snyder), 503. Soft Machine, 402. Solomon, Carl, 282, 542. Sonja Kristina (Sonja Christina Shaw), 564. Sooke, Alastair, 466-467, 562, 564, 582.

606 Sothern, Ann (Hariette Arlene Lake), 158, 528. Sounes, Howard, 545-547, 550-552, 554, 582. Spargo, R. Clifton, 546, 554, 582. Spears, Britney, 494. Spice Girls, The, 494. Spielberg, Steven, 484-485. Spigel, Lynn, 531, 583. Spike Jones & His City Slickers, 201. Spillane, Mickey, 169. Spivey, Victoria, 73, 86-87, 515-516. Springsteen, Bruce, 500, 520, 551. Springsteen, Robert G., 172. Stack, Phil, 155-156. Stafford, Jo, 207, 212, 218. Stalling, Carl, 398. Standells, The, 388, 555. Stanley, Owsley, 368. Stanton, Andrew, viii. Stanwyck, Barbara, 23, 48, 54. Starkey, Louise, 19. Starr, Ringo (Richard Starkey), 336, 359, 420, 478, 549. Stedman, Raymond William, 47, 504-506, 508-510, 518, 583. Steel, John, 339. Stein, Gertrude, 67, 269. Steinbeck, John, 62, 110, 140, 511. Steppenwolf, 552. Stevens, George, 138, 170. Stevenson, Adlai Ewing, 543. Stevenson, Robert, 172, 445. Stewart, Ellen, 299. Stewart, Rod (Roderick David «Rod» Stewart), 327, 478. Stills, Stephen, 559. Stockhausen, Karlheinz, 356. Story, Sidney, 71. Stout, Rex, 53. Stravinsky, Igor, 398. Straw, Will, 538, 556, 566-567, 574, 577, 581, 583. Street, John, 538, 556, 566-567, 574, 577, 581, 583. Streisand, Barbra, 114.

INDICE DEI NOMI

Strider, Marjorie, 467-468. Supremes, The, 267. Surfaris, The, 388, 555. Sutcliffe, Stuart, 549. Sylvian, David (David Alan Batt), 500. Syrett, Nicholas L., 524, 583. Szreter, Simon, 549, 583. Tabori, George (György Tábori), 546. Take That, 494. Tamarkin, Jeff, 552-554, 560, 583. Tamblyn, Russ, 442. Tanzini, Phil, 382. Tarantino, Quentin, 493. Tashlin, Frank (Francis Fredrick von Taschlein), 259. Taylor, Cecil, 396. Taylor, Elizabeth, 158, 443. Taylor, Ella, 531, 565, 583. Taylor, Helen, 51, 510, 583. Taylor, Robert, 173. Temple, Shirley, 41. Temptations, The, 267, 497. Tenney, James, 458. Ten Years After, 374, 384. Testi, Arnaldo, 527, 529, 583. Tex, Joe (Joseph Arrington), 566. Thames, Roger, 256. Tharpe, Sister Rosetta (Rosetta Nubin o Rosether Atkins), 109, 517. Thatcher, Margaret, 485. Them, 418. Thompson, Bill (William Carl «Bill» Thompson), 432, 560. Thompson, Graham, 494, 565-567, 583. Thompson, Hunter Stockton, 537. Thorgerson, Storm, 470. Thornton, Willie Mae «Big Mama», 227, 230, 244. Thorpe, Richard (Rollo Smolt Thorpe), 540. Thrasher, Frederic Milton, 128, 523, 525, 583. Tindley, Charles, 310. Tinker, Grant, 475. Tolkien, John Ronald Reuel, 284.

INDICE DEI NOMI

Toly Anderson, Signe, 411, 557. Torrini, Emiliana, 503. Townshend, Pete, 392, 478. Tracy, Spencer, 45, 50, 138. Tracy, Steve, 517, 583. Traylor, Jack, 433. Trevor, Claire, 60. Trouille, Clovis, 458. Trumbo, Dalton, 530. Tucker, Maureen (Maureen Ann «Moe» Tucker), 466. Tudor, David, 562. Turner, Big Joe (Joseph Vernon «Big Joe» Turner), 109, 253, 536. Turner, Lana (Julia Jean Turner), 158, 442, 528. Turner, Tina (Anna Mae Bullock), 478, 556. Turner, Victor, 506, 552, 554, 583. Turtles, The, 364. Tyler May, Elaine, 524-525, 528-533, 583. Tynan, Kenneth, 458. Undisputed Truth, 497. Unterberger, Richie, 347, 550, 559, 583. Up Against the Wall, Motherfucker, 560. U2, 498. Valentino, Rodolfo, 148, 535. Vallée, Rudy (Hubert Prior «Rudy» Vallée), 511. Vallorani, Nicoletta, 543. Van Der Graaf Generator, 470. Van Dine, S.S. (Willard Huntington ­Wright), 53. Van Dyke, Bill, 255. Van Dyke, Woodbridge Strong, 509. Van Gennep, Arnold, 506, 552, 554, 583. Vanzetti, Bartolomeo, 117. Varèse, Edgar, 398. Vargas, Alberto, 155, 158, 528. Varsi, Diane, 442. Velvet Underground, The, 407, 414-415, 421, 465-466. Velzy, Dale, 262. Vidal, Gore (Eugene Louis «Gore» Vidal), 280. Vidor, King, 23, 48.

607 Vincent, Gene (Vincent Eugene Craddock), 245, 312, 540. Voight, Jon, 449. Vollmer, Joan, 270, 272, 274-275. Vonnegut, Kurt, 479. von Sacher-Masoch, Leopold, 421-422. von Trier, Lars, 493. Wadleigh, Michael, 374, 420, 554, 560. Waggner, George, 526. Walden, Stanley, 458. Walker, Aaron T-Bone (Aaron Thibeaux «T-Bone» Walker), 223, 392. Walker, Frank, 158. Wallace, Sippie (Beulah Belle Thomas), 73, 515. Wallach, Eli, 546. Walsh, Raoul, 170, 507. War, 497. Ward, Brian, 514, 534, 536-541, 545, 566, 583. Ward, Thomas, 558, 583. Warhol, Andy (Andrew Warhola), 300, 414, 457, 461, 464-467, 469-470, 557, 563-564. Warner, Jack, 173. Waters, Ethel, 73, 518. Waters, Roger, 436-437. Watson, Steven, 541-543, 584. Watts, Charlie (Charles Robert «Charlie» Watts), 342, 347. Wayne, John (Marion Robert Morrison), 12, 40, 60, 169, 173, 484. Weavers, The, 213, 535. Webb, Charles, 477. Webb, Marc, 485. Webb, Robert D., 540. Weegee (Arthur Fellig), 147, 526. Weill, Kurt, 313. Weinberg, Jack, 307, 379. Weiner, Lee, 553. weiss, ruth, 277, 542. Wellman, William Augustus, 170, 172. Wendkos, Paul, 264. Wertham, Fredric, 236-237. West, Don, 309.

608 Westbrook, Robert B., 158, 528, 584. Wexler, Haskell, 453. Whalen, Philip, 277. Whaley Jr., Preston, 541-543, 584. Whatnauts, The, 497. Wheatstraw, Peetie (William Bunch), 516, 520. White, David, 564. White, John I., 97. White, Josh, 111, 311, 515. White, Washington «Bukka» (Booker T. «Bukka» Washington White), 74, 88. Whitehead, Paul, 470. Whiteley, Sheila, 557, 584. Whiteman, Paul, 140, 395. Whitman, Walt, 298. Who, The, 327, 381, 404, 478, 549, 553, 555. Whyte, William Foote, 129, 523-524, 584. Wiggershaus, Rolf, 534, 584. Wiggins, Ella May, 107. Wilcox Paxton, Collin, 444. Wilder, Billy, 54, 184, 199. Williams, Clarence, 516. Williams, Curley, 209. Williams, Hank (Hiram King «Hank» Williams), 106, 209, 216-219, 221, 269, 312, 518-519. Williams Jr., Hank ( Randall Hank Williams), 217. Williams, Linda, 462, 528, 563, 577. Williams, Stacey (Robert Shelton), 546. Williams, Tennessee (Thomas Lanier Williams), 298. Williams, Tony (Anthony Tillmon «Tony» Williams), 393. Williamson Brothers and Curry, The, 519. Wilmott, Peter, 329, 549. Wilson, Brian, 540, 564. Wilson, Earl Jr., 459. Wilson, Edith, 73. Wilson, Harold, 324, 336. Wilson, Steven, 500. Winwood, Steve (Stephen Lawrence «Steve» Winwood), 478. Wise, Robert, 172, 443, 445, 484. Wiseman, Scotty, 215-216.

INDICE DEI NOMI

Wister, Owen, 34. Witts, Richard, 557-558, 564, 584. Wolfe, Bernard, 512-513, 516, 579. Wolfe, Charles K., 515, 518, 584. Wolfe, Thomas, 299. Wolfe, Tom (Thomas Kennerly «Tom» Wolfe), 565, 584. Wollman, Elizabeth L., 556, 562-565, 584. Wonder, Steve (Stevland Hardaway Morris), 267, 497. Wood, Bob, 118. Wood, Bob (Robert D. Wood), 475. Wood, Ina, 118. Wood, Natalie (Natalia Nikolaevna Zakharenko), 443. Wood, Sam (Samuel Grosvenor «Sam» Wood), 507. Woodhead, Leslie, 554. Woodward, Bob (Robert Upshur «Bob» Woodward), 474. Work, John, 221. Wray, Fay, 526. Wyatt, Robert, 402. Wyler, William, 55, 61, 445, 560. Wyman, Bill (William George Perks), 340, 342. Wyn, Aaron A. (Aaron Abraham Weinstein), 542. Yaffe, David, 547, 557, 584. Yardbirds, The, 339-341, 390. Yates, Herbert, 97. Yellen, Sherman, 458. Yes, 402, 470. Young, La Monte, 300, 419. Young, Loretta (Gretchen Young), 528. Young, Michael, 329, 549. Young, Neil, 384, 559. Zappa, Frank, 239-240, 398-402, 404, 495, 538, 556. Zemeckis, Robert, 485. Zinnemann, Fred, 170. Zola, Émile, 15. Zoppo, Donato, 557, 584. Zwerin, Charlotte (Charlotte Mitchell), 554.