Wolfgang Amadé Mozart. Nuovi percorsi
 8875924686, 9788875924683

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Volumi pubblicati:

'R. Murray Schafer, Ilpaesaggio sonoro 2. Edgar Varèse, Il suono organizzato 3. John Blacking, Come è musicale l'uomo? 4. Bruno Brévan, Musica e Rivoluzione Francese 5- Jànos Maróthy, Musica e uomo 6. Ferenc Liszt, *Un continuo progresso” 7- Marcello de Angelis, Leopardi e la musica 8. Luigi Pestalozza, La musica in Urss: cronaca di un viaggio 9. John Shepherd, La musica come sapere sociale IO. Ferruccio Busoni, Lettere 11. Georg Knepler, La storia che spiega la musica 12. Valentina Cholopova, Jurij Cholopov, Anton Webem 13- Michel Imberty, Le scritture del tempo 14. Charles Hamm, La musica degli Stati Uniti 15- Emilio Jona, Sergio Liberovid, Canti degli operai torinesi 16. Armando Gentilucd, Oltre l'avanguardia Un invito al molteplice 17. Robert Schumann, Gli scritti critici 18. Antonio Trudu, La “scuola”di Darmstadt 19- Jean-Rémy Julien, Musica epubblicità 20. Edoardo Sanguined, Per musica 21. Roberto Favaro, L'ascolto del romanzo 22. Manuel de Falla, Scritti sulla musica e i musicisti 25: Sergio Miceli, Morricone, la musica, il cinema 24. Harry Goldschmidt, Schubert 25. Michela Garda, Musica sublime. Metamorfosi di uriidea nel Settecento musicale 26. Georg Knepler, Wolfgang Amadé Mozart. Nuovi percorsi

Georg Knepler

Wolfgang Amadé Mozart Nuovi percorsi

RICORDI LIM

Le Sfere Collana di stùdi musicali diretta da Luigi Pestalozza

Comitato di. consulenza: Mario‘Baroni, Franco Fabbri

Titolo originale: Wolfgang Amadé Mozart: Annàherungen © 1991 by Henschel Verlag GmbH, Berlin

© 1995 by CASA RICORDI - BMG RICORDI S.pA. e Libreria Musicale Italiana Editrice, P. O. Box 198, 55100 Lucca Traduzione dal tedesco di Gabrio Taglietti Copertina: da “Bianco”, rettangolo di Michi Cima È vietata la riproduzione, anche parziale, a uso interno o didattico, con qualsiasi mezzo effettuata, non autorizzata. Printed in Italy ISBN 88—7592-468-6 (Casa Ricordi, Milano) ISBN 88-7096-168-0 (LIM)

per John

Indice

Prefazione

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1

Compendio di una vita non comune

15

2

Da bambino prodigio a genio

21

3

“Esprimere con i suoni... sentimenti e idee”

31

4

Mozart lettore

35

5

La “differenziazione”

39

6

L’opposizione maggiore-minore

45

7

Mozart visto con gli occhi dei posteri

51

8

Un punto di svolta

61

9

Bilancio salisburghese

85

10

Vienna: il grande passo

111

11

Altre vite non comuni

157

12

“Mozart della Beneficenza”

175

13

Sentimenti e idee — da un punto di vista più concreto

195

14 Tradizionalista?

205

15

La questione dell’imitazione

211

16

Zeriina e i tre modi della musica

221

17

Le “pure forme naturali” della musica

239

18

Ritratti musicali

257

19

Drammatizzazione dell’opera per mezzo della tecni­ ca sinfonica 271

20 Semantizzazione della musica strumentale per mez­ zo della musica vocale 283

21 Che cosa si può dedurre dalle conclusioni

319

22 Pietre da costruzione e princìpi costruttivi

339

23 “Destino avverso — ma solo a Vienna..365 24 Mozart nel suo tempo e nel nostro

387

Appendice

407

Frammenti da:

1. 2. 3.

4. 5. 6. 7.

Melchior Grimm, Voce “Poème lyrique” 408 Giovanni Battista Casti, Prefazione al libretto dell’Opera II re Teodoro in Venezia 416 Pierre-Augustin Caron de Beaumarchais, Prefazione a Le mariage de Figaro 418 Johann Pezzi, Faustin, ossia il secolo filosofico 425 Joseph Franz Ratschky, La beneficenza fra i massoni 440 Johann Pezzi, Monumento biografico di Risbeck 442 Lettera di Mozart ad Aloysia Weber 446

Ringraziamenti

447

Indice delle abbreviazioni e delle sigle

449

Bibliografia (scelta)

451

Indice dei nomi e degli argomenti

465

Prefazione

Infinite volte durante tutta la sua vita Mozart si è firmato Wolfgang Amadé Mozart, tre sole volte — e sempre in uno dei suoi momenti di umore bizzarro — WolfgangAmadeus*, ad esempio così: Wolfgang et Amadeus Mozartich, Augspurg den 25 octobrich 1700 Siebenzigich.

In realtà non è certo un problema centrale scrivere il secondo nome di Mozart nella sua forma francese o in quella latina; d’altronde nessuna delle due corrisponde esattamente al suo nome di battesimo (cioè Theophilus, dunque la versione greca del nome), mentre talvolta incontriamo anche il corrispondente tedesco Gottlieb. Il fatto però che i posteri di Mozart si siano con tanta decisione uniformati nella scelta di Amadeus è sintomatico della scarsa attenzione riservata (oggi come allora) alle fonti, peraltro tanto riccamente disponibili. È dunque programmatica la scelta di indicare nel titolo di que­ sto libro il nome di Mozart come egli lo scriveva. Principio del lavoro è stato interrogare le molte centinaia di pagine delle sue let­ tere e le molte migliaia di pagine delle sue partiture anche nei par­ ticolari apparentemente secondari in quanto espressione di uno spirito incomparabile, analizzandoli nel modo più preciso possibile

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WolfangAmadé Mozart

nelle loro intenzioni manifeste e recondite. Fortunatamente oggi una tale impostazione non è più una rarità. Tra i musicologi come fra gli interpreti musicali si sta sempre più facendo strada la con­ vinzione che ciò che Mozart ha scritto nelle sue musiche e nelle sue lettere è ben lontano dall’essere stato compiutamente compreso. Ma ciò che egli ci ha lasciato riesce solo con difficoltà a imporsi. Montagne di interpretazioni e di giudizi, alcuni nati sulla base di pregiudizi vecchi dì circa due secoli, un numero ormai innumere­ vole di esecuzioni delle sue opere, di traduzioni dei suoi testi in altre lingue, di messe in scena delle sue opere si sono stratificate sulla sua produzione; è ormai un dovere riportarla per così dire alla luce nella sua veste originale. In tal senso va inteso il sottotitolo1 del mio libro. Sarebbe fuor­ viarne credere di poter rendere perfettamente penetrabile una pro­ duzione creativa di tali dimensioni. È e resta incomprensibile il fatto che questa enorme ricchezza di musica stupenda sia nata da un solo individuo nel lasso di tempo incredibilmente breve di appena tre decenni; opere alcune delle quali appaiono addirittura incompatibili l’una con l’altra, tanto diversi sono i colori in cui sono intinte. Così come ci sembra incomprensibile che Shake­ speare possa aver scritto in un solo anno Macbeth e La tempesta. Ma la nostra incapacità di spiegare la nascita di tali straordinarie produzioni dello spirito umano (non dovremmo però trascurare il fatto che non siamo in grado di penetrare processi mentali ben più semplici), non dovrebbe essere scambiata con l’inspiegabilità delle opere stesse. Certo: la musica di Mozart è di inesauribile ricchezza, lascia sempre intrawedere qualcos’altro, offre sempre nuovi lati, non si finisce mai di conoscerla. Ma queste sono qualità ben diver­ se dall’essere oscuro, ermetico, enigmatico. Mozart stesso cercava e offriva confidenza, era lieto e orgoglioso quando incontrava qual­ cuno che sembrasse amare e comprendere la sua musica. Un genio è un essere umano come altri, solo più “umano” e più “essere”. Non abbiamo motivo di comportarci come se la sua musica fosse per noi di principio incomprensibile. In ogni caso il tentativo di accostarsi a lui non viene certo aiuta­ to se isoliamo il Mozart compositore dal Mozart pensatore. Il pre­ 1 L’Autore si riferisce qui al sottotitolo dell’edizione originale tedesca, “Annaherungen”, traducibile in italiano con “avvicinamenti” o “accostamenti”, N.d.R.

Prefazione

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sente libro parte dall’idea che il compositore Mozart non debba essere separato dal Mozart acuto osservatore, che pensava in modo critico, che leggeva con attenzione, che voleva farsi un’opinione personale delle cose, che come massone cercava di capire quel che gli sembrava necessario, che imparò a pensare secondo le categorie della filosofia illuminista. Sarà altrettanto importante considerare il modo in cui egli reagì musicalmente a ciò che avveniva intorno a lui, e come egli abbia subordinato la sua vita all’impulso creativo: per esempio trasferendosi a Vienna nel 1781, una decisione presa quasi con violenza, apparentemente contro ogni ragionevolezza. Di un siffatto concetto non si può render ragione con un libro che si concentri esclusivamente sulla musica. Nemmeno tutte le migliori analisi di singole opere o di gruppi di opere ci permettono di capire da che cosa nascesse l’ispirazione, né in che modo si orga­ nizzavano i processi di trasformazione che si svolgono fra l’accen­ sione iniziale, i processi mentali creativo-variativi, la stesura del testo musicale, l’esecuzione dei pezzi musicali e la loro ricezione da parte di gruppi d’ascoltatori di differente preparazione. D’altra parte un libro basato soprattutto o esclusivamente sulla biografia non potrebbe certo far emergere un vivo ritratto del Mozart musicista. Appare dunque indispensabile ricorrere a metodi interdisciplinari di ricerca e di esposizione, come anche il presente libro testimonia. Il che non significa che le specifiche caratteristiche della musica debbano dissolversi nella storia o nella storia della cul­ tura, e nemmeno in una teoria estetica generale. Se si parla di Mo­ zart si parla di musica. Nostro compito principale resta interrogare la musica in modo conforme alle sue leggi nella misura in cui essa è intimamente intrecciata con altri atteggiamenti e procedimenti. L’opera di Mozart parte da certe premesse; alla sua nascita hanno contribuito i più svariati eventi, vicende, esperienze. Bisogna accostarsi a essa da sempre diversi punti di vista, da lati sempre nuovi. I lettori di questo libro sono dunque invitati a seguirne l’impostazione, che ora parlerà della vita di Mozart, ora affronterà analiticamente un problema musicale, ora getterà uno sguardo sulla storia generale e sull’ambiente intellettuale in cui Mozart componeva, per finire poi sempre col concentrarsi sull’argomento più interessante, ossia la musica di Mozart. Una cosa non può offrire questo libro: la completezza. Ho evita­ to di dire qualcosa di più o meno generico a proposito della mag­

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Wolfang Amadé Mozart

gior parte delle opere o addirittura di parlare di ciascuna di esse, scegliendo invece di esporre, sulla scorta di esempi selezionati, ciò che ritengo degno d’essere detto. Si è potuto rinunciare alle note a piè di pagina e alle note in generale. Le indicazioni delle fonti sono inserite nel testo stesso; i rimandi e le abbreviazioni utilizzati si possono facilmente interpre­ tare grazie all’indice bibliografico. Diciamo subito quale è il senso del rimando più frequentemente utilizzato: le date poste fra paren­ tesi si riferiscono sempre a lettere della famiglia Mozart. L’ortogra­ fia e l’interpunzione dei testi sono state (tranne che per i titoli delle opere e dei libri) adeguate alle attuali regole pur mantenendone inalterata qualche particolarità. L’ortografia spesso buffa di Mozart non deve nascondere la precisione espressiva e l’attualità delle sue parole.

Georg Knepler

Berlin-Grunau, maggio 1990

1

Compendio di una vita non comune

Il 27 gennaio 1756 Anna Maria Mozart diede alla luce il settimo figlio del suo matrimonio con Leopold Mozart, violinista e Kammermusiker dell’Arcivescovo di Salisburgo: un maschietto. Il giorno dopo fu battezzato coi nomi di Joannes Chrysostomos Wolfgangus Theophilus. Cinque figli nati da questo matrimonio erano morti prematuramente: sopravvissero solo Wolfgangerl, come presto venne chiamato, e la sorella Maria Anna, detta Nannerl, maggiore di cinque anni e mezzo. Quando il padre iniziò a dare lezioni di musica alla dotatissima Nannerl, che allora aveva circa otto anni, si vide ben presto che Wolfgangerl possedeva qualità musicali ancor più straordinarie, ben presto sopravanzando la sorella maggiore. Non aveva ancora sei anni quando il padre decise di portare i due bambini-prodigio alla corte del principe elettore a Monaco, dove essi diedero prova del proprio talento. Negli anni dal 1762 al 1775 i Mozart intrapre­ sero molti lunghi viaggi, fra i quali uno che richiese più di tre anni, in parte con padre, madre, bambina e bambino, in parte senza la mamma, talvolta solo padre e figlio. Giunsero alle grandi corti di Vienna, Parigi, Londra, nei grandi centri musicali italiani, in numerose piccole corti, palazzi nobiliari, case di borghesi; ci furo­ no anche concerti pubblici. Spesso i bambini facevano musica per ore intere, talvolta due o addirittura tre volte in un giorno.

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Wolfang Amadé Mozart

Nel frattempo il padre era diventato vice-maestro di cappella a Salisburgo, incarico oltre il quale non riuscì però ad andare nei successivi anni della sua vita, con sua grande rabbia e delusione. Fu così che il figlio, col suo straordinario talento, dovette procacciarsi entrate più sostanziose per il benessere proprio e della famiglia, cer­ carsi un posto più sicuro, immune da umiliazioni e da delusioni. Già nel 1769, infatti, (a dieci anni) era diventato Konzertmeister (non retribuito) alla corte del principe elettore di Salisburgo, già nel 1772 era maestro di cappella del Duomo con un (modesto) onorario, che però fu più tardi addirittura triplicato. Ma di ciò non ci si poteva contentare, tant’è vero che anche il padre Leopold, eccellente e colto musicista, la cui opera Versuch einer grundlichen Violinschule [Metodo per Io studio del violino], pubblicata nell’anno di nascita di Wolfgang (1756), era assai apprezzata, ristampata in molte copie anche in traduzione francese e olandese, sperava di potersene venir via da Salisburgo. A circa quindici anni Mozart era già troppo vecchio per essere considerato bambino prodigio, troppo giovane per mettersi seria­ mente alla ricerca di un posto di lavoro. Nel frattempo Nannerl era diventata un’eccellente pianista, apprezzata anche dal fratello, e a Salisburgo attiva come insegnante di pianoforte. Perciò il terzo viaggio in Italia di padre e figlio (1772-1773) e i viaggi a Vienna (1773) e Monaco (1774—1775) avevano come scopo principale l’ottenimento di una scrittura} di una commissione di un’opera, oltre che dare concerti. Le soste a Salisburgo tendevano a essere pause di riposo e periodi di preparazione ai viaggi. Per trovare un soggiorno salisburghese di una certa lunghezza dobbiamo arrivare al periodo da marzo 1775 a settembre 1777, dovuto probabilmen­ te alle dure condizioni di servizio imposte dal principe arcivescovo Colloredo, insediato nel frattempo. Ma quando Mozart ebbe compiuto i ventidue anni sembrò giunto il momento di instaurare profondi cambiamenti. Furono date le dimissioni dal posto a Salisburgo, e il 23 settembre \777 Mozart, questa volta accompagnato dalla madre, si mise in viaggio per cercar fortuna cominciando dalle corti di Monaco e Mannheim. Quando ci si accorse che non si concretizzava un impiego né qui né là, dopo un’iniziale esitazione fu deciso di pro1 In italiano nel testo, N.óLR.

Capitolo primo

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lungare il viaggio a Parigi. Ma anche qui le cose non andarono per nulla bene, benché il padre cercasse di essere d’aiuto dando per let­ tera buoni consigli e suggerendo utili contatti. Naturalmente Mozart ebbe un gran successo suonando in pubblico e in privato, alcune composizioni furono molto apprezzate, ma il progetto prin­ cipale di ottenere la commissione di un’opera non si realizzò. Un posto abbastanza vantaggioso di organista a Versailles, che il padre raccomandava di valutare seriamente, fu rifiutato da Mozart. Nel frattempo un duro colpo si abbatté su di lui: nell’estate del 1778 la madre si ammalò e morì nel giro di due settimane. Circostanze di vario tipo fecero sì che Mozart dovette abbando­ nare Parigi, dove pure sembravano dischiudersi alcune possibilità. Dopo un nuovo inutile tentativo di trovare impiego a Mannheim e dopo un’amara delusione (aveva ricevuto un rifiuto da Aloysia Weber, cantante di grandi doti e suo primo grande amore) non gli rimaneva altro che ammettere la sconfitta e tornare al servizio dell’arcivescovo, dal quale il padre nel frattempo aveva ottenuto la promessa di riammissione, stavolta , come organista di corte e del Duomo, con un modesto stipendio. Ciò avveniva a metà di gen­ naio del 1779. Mozart era nel frattempo diventato un compositore magistrale. Aveva composto tredici opere teatrali e altre musiche di scena, sedi­ ci messe, numerosi pezzi liturgici e molte sinfonie, divertimenti, quartetti per archi, pezzi pianistici, Lieder. Era chiaro allo stesso Mozart, ma anche al padre e alla sorella, che egli non «sarebbe rimasto a Salisburgo. L’occasione immediata per questo cambiamento da lungo tempo atteso fu offerta curiosa­ mente dal padrone salisburghese, il quale in occasione dell’incoro­ nazione di Giuseppe II si trasferì a Vienna con la sua corte. Per la realizzazione della sua musica di corte ordinò a Mozart di seguirlo, proprio a lui cui Vienna appariva già da tempo un luogo favorevo­ le, e specialmente adesso che Giuseppe, con le cui idee riformiste Mozart simpatizzava, era divenuto sovrano assoluto dopo la morte della madre Maria Teresa nel novembre del 1780. Deciso a rimane­ re a Vienna, Mozart provocò la rottura con l’arcivescovo. Da que­ sto momento in poi, da marzo 1781 alla sua morte, dunque all’incirca undici anni, Vienna rimase il domicilio di Mozart. I primi anni promettevano bene. Mozart sposò Konstanze Weber, sorella di Aloysia, con grande disappunto del padre e di

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Wolfang Amadé Mozart

Nannerl, che non ritenevano la famiglia Weber di livello adeguato. Dal matrimonio nacquero sei figli, due soli dei quali sopravvissero però ai genitori. La serie dei successi viennesi iniziò con la prima rappresentazione del Ratto dal serraglio, nel marzo del 1782, su commissione dell’imperatore. Negli anni successivi Mozart riscosse brillanti successi come compositore, come pianista virtuoso e improvvisatore e come maestro di pianoforte. Ma un impiego fisso con uno stipendio regolare non si trovò. Solo nel 1787 Mozart ricevette il titolo di imperial-regio Kammerkompositeur, con l’obbli­ go di scrivere danze per i balli di corte, per un compenso annuale di 800 fiorini. Gluck, titolare di questa carica onorifica prima di Mozart, riceveva 2000 fiorini. Nel 1784 Mozart era entrato a far parte di una loggia massonica viennese. Scopi della massoneria dell’epoca erano il superamento dei privilegi della società feudale, il rispetto e l’aiuto reciproco fra gli uomini. Che Mozart credesse seriamente in questi scopi è testi­ moniato dagli altri affiliati alla sua loggia, e soprattutto dalle sue composizioni degli ultimi anni. Già la maggior parte delle composizioni del quindicenne erano di una fattura talmente magistrale, di un così armonico equilibrio nell’uso dei diversi elementi del linguaggio musicale e di una tale originalità di invenzione da far intendere chiaramente come l’ado­ lescente fosse sulla strada che conduceva dalle stupefacenti presta­ zioni di un bambino prodigio alla genialità del compositore. Ma solo negli anni Ottanta, quando Mozart iniziò a utilizzare per i propri lavori scenici argomenti di esplosiva attualità e imparò a far sì che tra lavori vocali e lavori strumentali nascesse un rapporto di fruttuosa interazione, allora egli davvero toccò la vetta del secolo, diventandone il più eminente compositore. Ma doveva pagar caro questo privilegio. Non c’è alcun dubbio, ad esempio, che i suoi nobili protettori l’abbiano abbandonato dopo che lui con Le nozze di Figaro, rappresentata a Vienna il 1° maggio 1786, prese dichiaratamente le parti del terzo stato. Nel 1788, quando l’imperatore Giuseppe intraprese una nuova campa­ gna militare contro i Turchi, molte famiglie patrizie lasciarono la capitale, la vita teatrale e concertistica si impoverì, Konstanze si ammalò, e Mozart si trovò in una situazione catastrofica. Ma contemporaneamente la sua fama cresceva al di fuori di Vienna. A Praga, a Mannheim, a Magonza, alle opere di Mozart

Capitolo primo

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(specialmente a quelle dell’ultimo periodo) spettò un ruolo parti­ colare nella formazione di una vita spirituale borghese democratica e nella rivolta contro i privilegi dell’aristocrazia. Là dove il teatro e la sala da concerto erano diventati, come diceva Schiller, l’agorà della vita pubblica borghese, là si suonava Mozart, lo si stimava, lo si amava. E così i brevi viaggi a Praga del 1786, 1787 e 1791 e il viaggio in Renania del 1790 con la breve sosta a Magonza furono veri raggi di luce in un ambiente che per lui andava gradualmente oscurandosi. Anche a Vienna ci fu uno di . questi squarci di luce. Per la prima volta Mozart si presentò con un grande lavoro teatrale a un pubblico formato per la maggior parte da non aristocratici, non altor-borghesi, quando il 30 settembre 1791, appena nove set­ timane prima della sua morte, Il flauto magico ebbe un durevole successo in un teatro di periferia. C’è qualcosa di consolante nel fatto che i suoi ultimi giorni di vita siano stati gratificati e riscaldati da quello ch’egli chiamava il "plauso muto” oltre che dall’applauso scrosciante, che richiede il bis. Sulle cause della morte di Mozart non si può riportare nulla di attendibile. Probabilmente (secondo Landon, 1988, pp. 178 sg.) morì per un’infezione da streptococco, contratta presenziando a una riunione della loggia massonica il 18 novembre 1791, per insufficienza renale, per i salassi che gli furono praticati, per emor­ ragia cerebrale, cui si aggiunse infine una broncopolmonite. Ma non si può escludere che fosse fondato il suo sospetto di essere stato avvelenato. Chi in tal caso fosse l’assassino non sappiamo. Mozart morì il 5 dicembre 1791 poco dopo la mezzanotte.

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Da bambino prodigio a genio

La musicalità di Mozart bambino era palesemente straordinaria. Non è forse fuori dai limiti della norma il fatto che già a tre anni cercasse di formare delle terze al pianoforte compiacendosi della loro eufonia, ma lo è di certo il fatto che a quattro anni, prenden­ do lezioni dal padre Leopold, nel corso di un anno imparò a ese­ guire circa dodici piccoli pezzi al pianoforte. Non aveva ancora compiuto cinque anni quando imparò due pezzi di una certa lun­ ghezza impiegando per ciascuno solo mezz’ora. All’età di cinque anni compose i suoi primi pezzi, cioè li inventò al pianoforte: non sapendo ancora scriverli, della stesura si occupò il padre. Non molto più tardi Wolfgang suonava su un piccolo violino, senza aver preso lezioni, la seconda parte strumentale di un trio, e aveva sette anni e mezzo quando risultò che, sempre senza aver preso lezioni, sapeva suonare l’organo utilizzando anche la pedaliera. Durante il settimo anno di vita apprese anche a scrivere le proprie composi­ zioni (ma pare che già a cinque anni avesse fatto i primi tentativi), e aveva otto anni quando gli venne regalato un quaderno tutto per lui che nel giro di un anno egli riempì con pezzi di stupefacente varietà, pieni di fantasia, alcuni alquanto ampi. Era evidente che nel ragazzo stava succedendo qualcosa di straordinario. Osservando più attentamente, possiamo rilevare che queste capacità erano formate da diverse componenti. Mozart aveva un

22

Wolfang Arnadé Mozart

orecchio stupefacente; si dice che sapesse distinguere differenze di intonazione di un ottavo di tono. La sua memoria musicale era fenomenale; deve aver avuto in testa a memoria migliaia di pezzi di musica per intero. Ancora più stupefacente la sua capacità di improvvisare. Già da bambino era in grado di elaborare senza pre­ parazione una fuga al pianoforte su tema musicale assegnato. L’abi­ lità tecnica con cui suonava pianoforte, organo, violino pare non avesse limiti. Tali componenti di talento possono, se si vuole, essere quantificate. Si possono misurare con più o meno successo e con­ frontarle con le prestazioni di altri. Anche questo è stato esplorato nella vasta letteratura di psicologia musicale. (Troviamo un abboz­ zo generale del problema del talento in Helga de la Motte-Haber, pp. 257-^401). Ma non è che da ciò si ricavi poi molto. Innanzitutto perché solo certe componenti del talento musicale sono misurabili: difficilmente, ad esempio, si potrebbe applicare un ago misuratore alla fantasia con cui Mozart a otto anni scriveva le sue idee. E poi perché anche la più rara predisposizione musicale,, se non procede mano nella mano con altre predisposizioni e se non incorre in circostanze favorevoli (e siamo già a due condizioni), non conduce a nulla di fruttuoso e di certo non porta automaticamente dal talento al genio. Si può addirittura osservare che in alcu­ ni casi persone affette da malattie mentali hanno manifestato alti gradi di particolari doti musicali. (Di un caso simile riferisce de la Motte-Haber, pp. 334 sg.). Dobbiamo dunque guardarci dalla apodittica convinzione che fin dall’infanzia la strada di Mozart fosse tracciata in direzione del genio; il genio dovrebbe in realtà essere considerato come un livello particolarmente elevato di capacità musicali. I fisiologi dicono che ciò che gli uomini ricevono in dono dalla natura sono disposizioni; se e come queste si sviluppino dipende dalle circostanze. La pratica conferma questa opinione. Si può osservare che assolutamente non tutti i bambini prodigio dotati di straordinarie predisposizioni sono diventati compositori significativi, così come viceversa non tutti i compositori più significativi hanno iniziato la loro carriera come miracolosi bambini prodigio. È invece più facile che i bambi­ ni prodigio in campo musicale diventino da grandi famosi stru­ mentisti virtuosi. Dobbiamo inoltre ricordare che i bambini prodi­ gio offrono prestazioni straordinarie anche in altri campi (matematica, scacchi, recentemente cibernetica) senza che le loro

Capitolo secondo

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successive carriere siano poi necessariamente straordinarie. Una cosa hanno in comune: i loro cervelli sono organizzati in modo tale da riuscire a produrre qualcosa di straordinario in un preciso e cir­ coscritto campo grazie a un’interazione (allo stato attuale del nostro sapere difficilmente spiegabile) fra capacità di osservazione, ricchezza di idee, abilità combinatoria e memoria. È un problema del massimo interesse psicocreativo (ma un problema a quanto mi consta finora non approfondito) se — e, se sì, come — le esperien­ ze del mondo al di fiiori di quel preciso campo penetrino nel cer­ vello di questi bambini: un problema che per gli scacchi è di sicuro irrilevante, mentre determinante è certamente nel campo della creazione artistica. Per quanto riguarda Mozart, abbiamo fortunatamente a nostra disposizione abbondante materiale d’osservazione. Abbiamo ad esempio una testimonianza sulla sua prima infanzia offertaci con intelligenza e sensibilità dalla sorella, la quale fin da bambina guar­ dava al suo piccolo grande fratello con molto affetto e apparente­ mente senza invidia, una testimonianza formulata dopo la morte di Mozart (Dokumente, p. 426): “La ricchissima fantasia di Mozart, negli anni dell’infanzia, quando nell’uomo comune è di solito ancora addormentata, era già così desta, così viva, in grado di rea­ lizzare ciò che aveva sentito una volta sola, che non si può pensare a qualcosa di più straordinario, e per certi versi di più commoven­ te, delle immaginose opere di quella stessa fantasia, opere che — poiché come bambino sapeva ancora tanto poco del mondo reale — erano da lui sideralmente distanti. Per citare un solo esempio: poiché i viaggi che noi facevamo (lui e io, sua sorella) lo conduce­ vano in paesi diversi [il periodo dei viaggi dei bambini iniziò quan­ do Mozart aveva sei anni, Nd.A\> mentre ci spostavamo da un posto all’altro lui si era inventato da solo un regno che chiamava il Regno di. Schiena [Ruckeri^ non so più perché lo chiamasse così. Questo regno e i suoi abitanti erano dotati di tutto ciò che ne avrebbe potuto fare dei buoni e allegri bambini! Lui era il re di questo Regno; e questa idea era tanto radicata in lui, e a tal punto elaborata, che un nostro servitore che sapeva un po’ disegnare dovette realizzarne una carta geografica, per cui lui gli dettò i nomi delle città, dei borghi e dei paesi”. Analoghe fantasie giovanili delle poetesse inglesi Charlotte ed Emily Brontè (1816-1855 e 1818-1848) sono perciò interessanti

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WolfangAmadé Mozart

dal nostro punto di vista in quanto le notizie forniteci dal loro padre ci aiutano a capire come le fantasie infantili e le impressioni del mondo reale si mettano gradualmente in relazione. Quando le due sorelle avevano rispettivamente sette e nove anni, avevano ini­ ziato col fratello Branwell di otto anni e poi anche con la più gio­ vane sorella Anne a inventare delle storie. A dodici soldatini di sta­ gno, che i bambini avevano ricevuto in regalo e a cui avevano dato dei nomi, facevano vivere delle avventure fantastiche in cui essi ini­ ziarono gradualmente a inserire notizie e fatti che il padre aveva loro raccontato traendoli'da riviste e libri. In tal modo essi stessi divennero curiosi lettori, inventando romanzi di migliaia di pagine intrecciati l’uno nell’altro e che costituirono una sorta di lavoro preparatorio per le geniali opere poi scritte da Charlotte ed Emily Brontè negli anni della maturità. Mozart non divenne un romanziere, e la differenza è importante in quanto il rapporto della musica con la realtà concreta è natural­ mente di altro tipo di quello dell’epica. Poiché abbiamo a che fare con un campo appena esplorato ma proprio perciò tanto più vio­ lentemente discusso, faremo bene a osservare con attenzione non solo di che natura erano le esperienze e le impressioni sotto la cui influenza si sviluppò la musicalità di Mozart, ma anche quali altre predisposizioni vi si accompagnavano. Una propensione all’univer­ salità è spesso uno dei segni distintivi del genio: si pénsi a Michelangelo, a Leonardo o a Goethe. La citata informazione circa il Regno di Schiena è una delle tante prove della ricchissima fantasia del ragazzo. In essa ci viene comunicato che il ragazzo non ancora dodicenne aveva imparato a tirare di scherma, che quando qualcuno gli insegnava dei giochi di prestigio con le carte lui sapeva ripeterli con grande abilità, e che i lavori dei compositori, dei pittori e degli incisori su rame lo interessavano talmente che aveva chiesto di avere delle prove dei loro lavori, conservandole poi gelosamente. La multiformità del talento e la sua apertura in tutte le direzioni vengono testimoniate anche da un buon amico della famiglia Mozart, lo scrittore e musicista Schachtner {Dokumente^ pp. 597 sg.): “[Mozart bam­ bino] era pieno di fuoco, la sua attenzione si infiammava facilmente per ogni oggetto... gli era indifferente che cosa gli si desse da imparare: lui voleva solo imparare... quando per esempio imparò a contare, il tavolo, le sedie, le pareti, perfino il pavimento erano

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coperti di cifre scritte col gessetto”. L’interesse per i numeri rimase poi sempre in Mozart. Esiste “un foglio con degli schizzi musicali su cui lui aveva cominciato a calcolare la somma del premio che secondo il famoso aneddoto spettava al persiano inventore degli scacchi” [il quale aveva chiesto un chicco di grano sulla prima casella della scacchiera, e via via sempre il doppio su ogni casella successiva, N.d.A\ (Einstein, 1947, p. 43). Anche la sorella scrive (aprile 1792) che il fratello già da bambino aveva “gran desiderio di apprendere ógni cosa gli capitasse sottocchio, e mostrava grande abilità nel disegno e nei conti”. Anche nel seguito della sua vita, come ci dice la sorella (ibidem), “la sua testa era sempre occupata con la musica e oltre a questa con altre scienze [il corsivo è mio]. “Tu apprendi tutto con la massima facilità nelle scienze”, gli conferma il padre (23 febbraio 1778). Né va trascurata una suc­ cessiva testimonianza, di solito ignorata per la ben nota disistima nutrita per Konstanze Mozart. In relazione a una progettata biografia di Mozart, il 28 agosto 1799 Konstanze spedi a Breitkopf & Hàrtel a Lipsia un “epistolario”, allegando un significativo commento: che da esso c’era molto da apprendere “sul suo carattere. Il suo grado di istruzione, la sua enorme tenerezza nei miei confonti, la sua bontà d’animo, i suoi passatempi, il suo amore per l’arte dei conti e per l’algebra (come dimostrano molti libri [!]), il suo buonumore, che talora era davvero shakespeariano, come il Signor Rochlitz ha avuto modo di dire dello spirito della sua musica e di cui Vi manderò testimonianza. . Ben documentate sono anche la predisposizione e la passione di Mozart per il teatro. Forse non significa molto che a cinque anni egli sia comparso sulle scene in una rappresentazione di studenti dell’università di Salisburgo, una commedia per musica, in qualità di uno dei salii (ossia “saltatori”, o meglio: ballerini). Di certo più significativo il fatto che nel periodo viennese abbia concepito due abbozzi (frammentari) rispettivamente per una farsa e per una commedia nello stile del teatro arlecchinesco viennese (Lettere IV, pp. 167-173), ambedue tutt’altro che irrilevanti e la seconda in particolare teatralmente molto efficace. Come pure molto efficace in senso teatrale — pur in un senso non immediatamente mozar­ tiano — dev’essere stata la sua apparizione sulle scene in veste di Arlecchino. Durante il carnevale del 1783 (Mozart aveva ventisette anni) nell’intervallo di un balletto egli eseguì una pantomima della

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durata di mezz’ora da lui stesso inventata e composta (Lettere III, p. 259, e NMAII/6/2, pp. 120 sg.). Cinque personaggi incarnava­ no figure tradizionali della commedia dell’arte. Aloysia Weber, amata da Mozart e ora sua cognata, recitava il ruolo di Colombina, suo marito, l’attore e pittore Joseph Lange, era Pierrot, altre due persone interpretavano Pantalone e il Dottore. Mozart aveva riser­ vato per sé il ruolo di Arlecchino. Alla sua prima uscita, che con astuta finezza è ritardata fino al settimo numero musicale (su un totale approssimativo di due dozzine di numeri), fa capolino “da un armadio”; travestito da turco, sostiene poi un combattimento con suo cognato Pierrot per la conquista di Colombina-Aloysia, alla fine del quale soccombe e muore, ma per poi resuscitare. La prima metà del brano musicale n. 14 è da intendere sicuramente come una parodistica marcia funebre per la morte di Arlecchino, mentre la seconda metà, in cui ha una certa importanza la variante maggiore della musica del suo ingresso, accompagnava probabil­ mente la resurrezione di Mozart-Axlecchino. Complessivamente un brano teatrale in cui, come si vede, non mancano buffoneria, sati­ ra, ironia e un più profondo significato. Il che vale anche per l’apparizione di Mozart a un ballo mascherato vestito da filosofo indiano (si noti che “filosofo” aveva nel XVIII secolo un particolare significato determinato in parte dall’illuminismo), distribuendo foglietti su cui si potevano leggere acri commenti critici sui nobili. Gioverà dunque vedere le doti teatrali di Mozart tanto nelle loro diverse componenti quanto nel loro sviluppo. La prima componen­ te elementare va probabilmente ricercata nella disposizione fisica di Mozart, agile e nervosa, nella sua passione per il movimento, per la danza, la gestualità e la mimica. In un post-scriptum di poche righe aggiunto in calce a una lettera del padre alla madre (Vienna, 8 settembre 1773) un Mozart di diciassette anni scrive: “Wolfgangerl non ha tempo per scrivere, perché non ha niente da fare, e quindi gira per la camera come un cane che si spulcia”. La sorella più giovane di Konstanze, Sophie Haibl, anch’essa osservatrice attenta e sensibile che pare godesse della stima di Mozart e che ci ha lasciato una commovente testimonianza sugli ultimi giorni di lui (Dokumente, pp. 449-^452), descrive questo aspetto del carattere di Mozart come segue {Dokumente^ p. 460): “Anche quando al matti­ no si lavava le mani, andava su e giù per la camera, non stava mai fermo, batteva i calcagni l’uno contro l’altro, e pensava sempre a

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qualcosa... Era sempre in movimento con le mani e coi piedi, giocherellava sempre con qualcosa come se stesse suonando il pia­ noforte: per esempio col suo cappello, con le tasche, col cordoncino dell’orologio, sul tavolo, sulle sedie”. Vale la pena di ricordare a questo proposito ciò che Mozart quindicenne scrive alla sorella da Milano (31 agosto 1771): “Il mio unico divertimento è comunicare con i muti [il che naturalmente significa farsi intendere a gesti dai sordomuti, N.d.A}, perché lo so fare alla perfezione”. Le doti teatrali non si basano solo su capacità specifiche; in buona parte hanno bisogno di qualità umane in generale. Chi non ha conoscen­ za dell’uomo, chi non osserva gli altri, non sa mettersi nei panni de­ gli altri, non ha la minima idea di che cosa sia la psicologia, costui non è certo fatto per il teatro. L’acutezza con cui Mozart osserva fin da bambino e la sensibilità talvolta inquietante con cui egli si rap­ porta agli altri, in positivo e in negativo, sono parte del suo genio. In questo contesto sarà chiaramente interessante osservare un altro lato della sua personalità, per così dire più oscuro, cui già Jean Massin ha accennato con intelligente precisione (JKblloquium, pp. 211-214). Massin, che nel 1954 ha scritto in collaborazione con Brigitte Massin uno dei più importanti libri su Mozart (che pur­ troppo ha riscosso poca attenzione da parte della critica di lingua tedesca e degli Stati Uniti), attira la nostra attenzione sul continuo interrogarsi, da parte di Mozart, “sulla reale identità delle persone e forse anche di se stesso”. Da Parigi Mozart scrive (29 maggio 1778) che le cose gli vanno “passabilmente bene”, e prosegue: “[...] del resto neanch’io spesso so se va bene o se va male, non ho né caldo né freddo, non trovo gioia particolare in nulla”. E ancora in una delle sue ultime lettere (7 luglio 1791), indirizzata a Konstanze a Baden, Mozart dichiara un analogo stato d’animo. Anche se lo mette in relazione con la forzata separazione dalla moglie, contrap­ ponendola al ricordo “di come siamo stati a Baden insieme, felici come due bambini”, dovremo tuttavia ammettere con Massin che simili affermazioni ci lasciano penetrare negli strati profondi della psiche di Mozart. Dice infatti: “non riesco a spiegarti il mio stato d’animo: è come un certo vuoto che mi fa male, un certo desiderio che non trova soddisfazione, e di conseguenza non cessa mai, per­ dura continuamente, anzi cresce di giorno in giorno”. La concentrazione, per quanto intensa, sul mestiere musicale non avrebbe di per sé potuto condurre allo sviluppo delle doti tea­

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trali di Mozart e della sua passione per le scene. Il che non solo è evidente, ma può anche essere documentato nell’un caso come nell’altro. Mozart aveva nove anni, quando — per desiderio del dotto inglese Daines Barrington, che aveva fatto visita ai Mozart nel 1765 nel loro appartamento londinese, facendone poi un reso­ conto {Dokumente, pp. 86—91) — improvvisò al pianoforte un’aria d’ira o di furore. Questa improvvisazione doveva essere basata sulla parola “perfido”, una parola assai comune nell’opera seria italiana e che avrà una certa importanza anche nel Don Giovanni. Durante quest’aria di furore Mozart “si era a tal punto agitato... che pic­ chiava i tasti del pianoforte come un ossesso, talora addirittura sal­ tando in piedi dalla sedia”. Possiamo ben immaginarci che cosa si potesse sentire in tale occasione. Perché il racconto di Barrington, scritto con una certa prudenza, non nasconde che il pezzo così pro­ dotto si atteneva alle convenzioni, che certo era superiore alla media, ma nemmeno di strabiliante eccezionalità [amazingly capi­ tai}} e siamo in possesso di un’aria d’opera scritta nello stesso anno del viaggio a Londra (KV 21), la sua prima in assoluto che ci sia pervenuta. E corrisponde. È stupefacente che un bambino di nove anni sapesse scrivere (non parliamo poi improvvisare) un’aria d’opera di così perfetta professionalità, anche se qua e là un po’ impacciata; non è eccezionale, ma nemmeno anticonvenzionale. Ciò che il bambino di nove anni metteva in musica non poteva essere palesemente ispirato a un’autonoma osservazione della realtà. Nei confronti degli stati d’animo — “affetti”, nel linguaggio dell’epoca — rappresentati nei suoi brani musicali egli si compor­ tava come il re del Regno di Schiena col suo regno. Si mescolavano doti singolari e una rara capacità ricettiva in un bambino che pos­ sedeva una non sviluppata esperienza del mondo. In quel momen­ to per la sua musica egli si basava necessariamente sulle convenzio­ ni della tradizione (che certo in origine non si erano formate senza l’osservazione della realtà). Non si sbaglierà avanzando il sospetto che il saltare in piedi dalla sedia durante l’esecuzione della sua aria di furore fosse soprattutto un’imitazione infantile di esperienze tea­ trali. Si dà il caso che abbiamo precise testimonianze dello stesso Mozart — sia in musica sia in scritti vari — di come egli in anni più maturi traducesse l’ira in musica. Stiamo parlando della celebre Aria di furore di Osmin “Solche hergelaufne Laffen” [Questi bel­ limbusti vagabondi], n. 3 del Ratto dal serraglio, che, come si

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dimostrerà in altro contesto, sarebbe impensabile senza un’espe­ rienza personale del tutto extramusicale. Le esperienze teatrali furono una parte essenziale della formazio­ ne di Mozart. Nel corso della sua vita deve essere stato a teatro cen­ tinaia di volte, a Salisburgo, nei paesi da lui visitati, e a Vienna, e probabilmente il numero delle opere che egli ascoltò non fu mag­ giore delle tragedie, commedie e farse cui assistette. Come diremo nel capitolo 10, all’epoca in cui Mozart si trasferì a Vienna si stava­ no verificando radicali trasformazioni nella vita teatrale, le quali ebbero una certa importanza per la nascita di quella nuova consa­ pevolezza storica che egli trovò in quella città. Da una delle sue let­ tere dell’estate 1781 sappiamo che gli attori viennesi avevano lasciato in lui durevoli impressioni; uno dei grandi personaggi del mondo teatrale del suo secolo, Friedrich Ludwig Schròder (1744-1816) aveva iniziato alcuni mesi prima a recitare al Wiener Burgtheater. Il genio di Mozart non è frutto solo delle sue doti musicali. Il “fuoco” del ragazzo, come diceva Schachtner (Dokumente, p. 597), è ad esempio uri altra componente, e una qualità che non necessa­ riamente si accoppia alle qualità musicali è lo sfrenato desiderio di imparare. Una qualità che ricevette nutrimento dapprima dagli anni passati in viaggio, saggiamente pilotati dal padre nel senso di viaggi di formazione, capaci di offrire oggetti di studio. Lo stesso Mozart lo sapeva. “Gliel’assicuro”, scriveva 1’11 settembre 1778 da Parigi, “senza viaggi si rimane per davvero dei poveri di spirito! (almeno nel mondo dell’arte e delle scienze); e Le assicuro che se l’Arcivescovo non mi permette di fare un viaggio ogni due anni mi sarà impossibile accettare l’impiego; un uomo di mediocre talento rimarrà pur sempre mediocre, che viaggi o no; ma un uomo di talento superiore (il che non posso negare di essere, se non voglio mentire di fronte a Dio) guasta le proprie qualità se rimane sempre nello stesso posto”. Con occhi e orecchi ben aperti Mozart impara, negli anni in cui si è più predisposti all’apprendimento, come si comportano gli uomini più diversi, nel bene e nel male, nella loro reale esistenza quotidiana, anche nei luoghi di lavoro, e nelle rap­ presentazioni mimetiche del teatro; nelle platee, nelle fiere e duran­ te le esecuzioni capitali in pubblico, a corte, nel palazzo nobiliare e nella casa borghese, in chiesa e nella loggia massonica. E tutto ciò in uriepoca in cui i contemporanei del compositore compivano

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azioni di cui gli uomini sono capaci solo quando le situazioni stori­ che sono giunte a secolare maturazione. Solo all’interno di tale contesto generale si può comprendere l’idea di musica che Mozart esprime in una situazione impreve­ dibile.

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“Esprimere con i suoni... sentimenti e idee”

Esiste una lettera di Mozart al padre, scritta in occasione del suo cinquantottesimo compleanno (da Mannheim, 8 novembre 1777): Mozart aveva allora quasi ventidue anni, e dunque un’età in cui già aveva compiuto passi decisivi in direzione di una gloria inegua­ gliabile. È spettato a un fisico (Gunthard Born, p. 12), autore di un importante e simpatico libro su Mozart (su cui torneremo più avanti), richiamare l’attenzione sul significato riposto delle righe che seguono, del resto già da tempo note e spesso citate:

Carissimo papà! Io non sono in grado di scrivere parole poetiche; non sono un poeta. Non sono capace di distribuire le frasi con arte tale ch’esse possano dare ombre e luci; non sono un pittore. E perfino sono incapace di esprimere sentimenti e idee per mezzo dei gesti e della pantomima; non sono un danzatore. Ma lo posso fare coi suoni; io sono un musici­ sta. E così domani da Cannabich suonerò al pianoforte un intero augurio musicale per il Suo onomastico e il Suo compleanno.

La cosa più sorprendente di questi auguri è la scelta delle parole usate per indicare ciò che chi scrive sa di poter esprimere per mezzo dei suoni. Secondo lo stile dell’epoca, a maggior ragione in

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un augurio di compleanno, avrebbe potuto scrivere qualcosa come moto dell’animo, affetto o simili. Invece no: sono sentimenti e idee [ Gesinnungen und Gedanken\1. La parola Gesinnungen si può trovare altre volte nel patrimonio lessicale di Mozart. In un caso ad esempio egli protesta (30 gen­ naio 1782) perché il padre attribuisce a Konstanze “sentimenti cat­ tivi \schlechte Gesinnungsari^”, dichiarando ch’egli non potrebbe amarla se lei nutrisse “tali sentimenti \Gesinnungeri\”. Questa paro­ la e l’equivalente “avere certi intendimenti, opinioni” non erano infrequenti nell’uso linguistico del XVIII secolo, entravano nell’uso forse ancor più frequentemente che nel nostro e avevano più o meno lo stesso significato odierno: ma con la sfumatura che allora veniva posta una più forte sottolineatura sull’oggetto pro o contro il quale veniva indirizzata l’opinione. “L’atteggiamento \Gesinnung\ di Nathan nei confronti di ogni religione positiva è da sempre uguale al mio”, scriveva Lessing in una prefazione al suo Nathan der Weise più o meno nello stesso periodo in cui Mozart scriveva la sua lettera. Bisognerebbe agire, scriveva Moses Mendelssohn (1789, p. 91), quando “i nostri sentimenti \Gesinnungeri\ sono nobili, le nostre azioni ragionevoli e quando la nostra vita può esse­ re utilizzata con profitto”. In Goethe troviamo fra l’altro una frase in cui egli afferma che qualcuno “non è intenzionato [gesinnì\ a cedergli”; in Schiller si dice che il principe sa “quali sono le mie opinioni [gesinnt biri\ nei suoi confronti”; e quando nel 1791 fu pubblicata l’autobiografìa di Schubart, questa recava come titolo Schubarts Leben und Gesinnungen [Vita e idee di Schubart]. La lettera di Mozart è formulata con grande coerenza fin nella punteggiatura: l’alternanza di punto e virgola e punto è ripetuta esattamente quattro volte. Anche la parola sogar [perfino] è signifi­ cativa; ciò che Mozart definisce “gesto e pantomima” era palese­ mente realmente la sua seconda dote in ordine di importanza, ma perfino essa era insufficiente a esprimere le sue idee e i suoi pensieri. Abbiamo ogni motivo per prendere queste righe nel loro senso let­ terale, anche se non vogliamo trascurare il fatto che qui Mozart, 1 Gesinnung significa “modo di pensare, sentimento, opinione”: è impossibile tro­ vare un termine italiano che comprenda interamente tali significati. Si è scelto, con qualche forzatura, il termine “sentimento”, sostituendolo nelle citazioni successive con il termine eventualmente più adatto, N.d.T.

Capitolo terzo

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come sempre nei suoi rapporti col padre, cercava di porsi in una luce favorevole. Ma allora dobbiamo trarre la conseguenza che Mozart, diver­ samente da qualche suo moderno interprete, riferiva le espressioni musicali a una realtà non-musicale. Se è vero che la parola Gedanken [pensieri, idee], se fosse isolata, potrebbe riferirsi senz’altro alla musica (anche nel vocabolario mozartiano si parla di Gedanken quando si parla di ispirazione musicale), Gesinnungen non può essere riferito ad altro che a un complesso di concetti quali "posizioni”, “atteggiamento spirituale” o anche “scala di valori”. La conferma del fatto che questa era l’intenzione viene ancora una volta da una fonte inattesa. Se fra i contemporanei di Mozart c’era qualcuno che lo comprendesse veramente, costui non era Salieri, come vuole il film Amadeus (peraltro drammaturgicamente assai efficace); questo qualcuno era Haydn. E quest’ultimo, dopo aver appreso a Londra della morte di Mozart, scrisse nel gennaio del 1792 a Michael Puchberg, massone e comune amico di Haydn e Mozart: “[...] Dopo aver saputo della sua morte sono rimasto per lungo tempo completamente fuori di me e non riuscivo a cre­ dere che la Provvidenza volesse chiamare tanto presto nell’altro mondo un uomo insostituibile. Non posso che rimpiangere ch’egli non sia prima riuscito a convincere gli inglesi, ancora immersi nel buio dell’ignoranza, di ciò ch’io quotidianamente prèdico loro”. Poiché né Haydn né Mozart potevano “predicare” altro che per mezzo della musica, Haydn dice a modo suo ciò che Mozart aveva espresso con altre parole: la musica può esprimere Gesinnungen und Gedanken [sentimenti e idee] in modo penetrante e convincente. Nelle pagine che seguono non dovremo dunque più argomenta­ re se ciò possa avvenire; bisognerà invece mostrare come Mozart ne abbia dato applicazione. E tale prova sarà da condurre su più campi. Converrà riflettere sulle parole di Goethe, che nel 1790 scriveva nel Torquato Tasso-. Es bildet ein Talent sich in der Stille, Sich ein Charakter in dem Strom der Welt. [Un talento va formandosi nel silenzio, Un carattere nel fiume del mondo].

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soprattutto cercando di capire in che modo Mozart affrontò il fiume dèi tempo; partendo dalle idee di Mozart dovremo ripercor­ rere le tracce di questo rapporto, che spesso fu improntato a crisi e conflitti tempestosi; e da qui bisognerà poi gettare un ponte che conduca alle concrete strutture musicali, alle linee melodiche e agli impianti tonali, al mondo formale mozartiano e alle sue tecniche di sviluppo e di variazione, al suo trattamento degli strumenti e così via. E da questo compito deriva la necessità di alternare fra loro capitoli biografici, storici e musicali.

4 Mozart lettore

Non solo i cineasti autori di Amadeus, ma anche molti dei suoi biografi ritengono inimmaginabile un Mozart che si informa attra­ verso le letture. Lo stesso Hildesheimer ritiene che è “poco imma­ ginabile” (p. 203) un Mozart lettore, sia pure lettore di opere teatrali o di partiture. Ma ciò appare infondato. Abbiamo innanzi­ tutto la testimonianza di Konstanze sul fatto che Mozart “leggeva volentieri” [was fond of reading e che lei stessa, Konstanze, allora sessantaseienne, possedeva nove volumi di uno degli autori preferiti da Mozart e che tuttora li leggeva spesso. L’informazione fu fornita a Mary Novello, la quale nel 1829 era venuta sul continente alla ricerca di ricordi mozartiani insieme con il marito, l’editore e musicista londinese Vincent Novello. Mary Novello cosi commen­ ta l’informazione circa questa opera: “...ma poiché negli stati austriaci è un frutto proibito, non ha detto il titolo: ho il sospetto che si trattasse di una delle opere rivoluzionarie francesi” (Novello, 1829, p. 95). Tale sospetto non appare infondato. Mary Novello sapeva che Mozart aveva conosciuto perfettamente almeno un lavoro di un autore francese prerivoluzionario; e nell’elenco dei libri di Mozart stilato dopo la sua morte, comprendente quarantun titoli, avrebbe potuto trovare altre informazioni circa i suoi interes­ si di lettura. Circa la metà dei libri era rappresentata da raccolte di poesie, di opere teatrali, di aneddoti; a parte i sette volumi di

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Magazin der Musik, la rivista di C.F. Cramer in cui si potevano leg­ gere competenti analisi di numerose composizioni di Mozart, solo due dei quarantun libri avevano per tema la musica: fra gli altri si trovavano un’opera storica, una di filosofia, tre di scienze naturali, un libro sul carattere e le gesta di Giuseppe II, le opere di Federico II; sette illuministi vi erano rappresentati: Moses Mendelssohn, Joseph von Sonnenfels, Salomon Gessner, Aloys Blumauer, barone Adolph von Knigge, Johann Pezzi e Heinrich Campe; due di loro, detto per inciso, ebrei. Non abbiamo motivo di ritenere che Mozart abbia tralasciato la lettura di tutti questi libri: “allora tiro fuori dalla mia tasca un libro e leggo” (20 dicembre 1777), ci dice lui stesso che era sua abitudine fin da Salisburgo. Hildesheimer (p. 138) sottovaluta questa frase, contenuta in una lettera: Mozart vor­ rebbe solo apparire bravo e serio agli occhi del padre. Potrebbe anche essere: c’era qualcosa del suo soggiorno a Mannheim che Mozart avrebbe desiderato tener celato al padre. Tuttavia il passag­ gio dimostra che Mozart a Salisburgo ogni tanto tirava fuori di tasca un libro e lo leggeva; e lui era abbastanza furbo per addurre a prova della propria serietà un fatto che il padre avrebbe senz’altro approvato. E nemmeno corrisponde all’immagine di un Mozart che non legge il fatto che egli fosse interessato agli annunci riguar­ danti le nuove pubblicazioni librarie. Lo sappiamo in quanto nel 1787 ordinò il Wochenblatt far Kinder zur angenehmen lehrreichen Beschaftigung in ihren Freystunden [Rivista settimanale per bambini per la piacevole e istruttiva occupazione delle loro ore di libertà] e nel 1788 prenotò le Poesie di Gottlieb Leon e gli Ósterreichische und turkische Kriegslieder [Canti di guerra austriaci e turchi] (Dokumente, pp. 251 e 272). Ma anche la diffusa opinione che i giornali non interessassero a Mozart viene da lui stesso contraddetta: “Non ne ho letto nulla sui giornali”, scrive al padre durante la guerra di successione in Baviera (1778/79) in un ampio passaggio di una lettera (20 luglio 1778) che offre molti spunti di riflessione circa l’attenta lettura dei gior­ nali da parte di Mozart e la sua posizione nei confronti degli eventi esterni alla sua musica; a tal punto che desidero riportarlo integral­ mente (nell’originale alcune parole chiave, come imperatore, arcidu­ ca o i nomi propri, sono scritte nel cifrario di Mozart): Bene, Lei che cosa ha sentito della guerra? Da tre giorni a questa

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parte sono cosi triste e abbattuto: non mi riguarda minimamente, ma è che sono troppo sensibile, e mi interesso allo stesso modo per ogni cosa. Ho sentito che l’imperatore è stato sconfitto. Innanzitutto si dice che il re di Prussia avrebbe colto di sorpresa l’imperatore, cioè le trup­ pe comandate dall’arciduca Massimiliano, che vi sarebbero stati 2000 caduti di parte austriaca e che per fortuna sarebbe arrivato in suo aiuto l’imperatore con 40.000 uomini, il quale sarebbe però poi stato costretto a ritirarsi. In secondo luogo si dice che il re avrebbe attaccato l’imperatore in persona, circondandolo completamente, e se il generale Loudon non gli fosse venuto in aiuto con 1800 corazzieri, sarebbe stato fatto prigioniero. Di questi 1800 corazzieri ne sarebbero caduti 1600, e lo stesso Loudon sarebbe stato colpito a morte... Ma oggi ho di nuovo sentito che l’imperatore avrebbe invaso la Sassonia con 40.000 uomini (se sia vero non lo so): un bel grattacapo, non è vero?... A proposito: sui giornali c’è scritto che nelle scaramucce tra Sassoni e Croati un capitano dei granatieri sassoni di nome Hopfgarten ha perso la vita, del che molto ci si rammarica. Non sarà per caso il bravo e caro barone Hopfgarten che abbiamo conosciuto a Parigi col signor von Bose? Mi spiacerebbe molto, anche se preferisco che egli sia morto di una morte tanto gloriosa anziché a Parigi nel suo letto ma di una morte disonorevole, come la maggior parte dei giovani di qui...

Queste parole non sono strane nelle lettere di Mozart. “Sui gior­ nali ho letto...” lo scrive anche il 7 agosto 1778 da Parigi all’amico abate Bullinger, ed è abbastanza interessante che cosa egli ha letto e come lo riferisce e lo commenta. “Il re di Prussia”, scrive (e si tratta ovviamente di Federico II e della sua guerra con Giuseppe II per il possesso della Baviera), sarebbe “davvero un po’ preoccupato”; i Croati e due reggimenti di corazzieri avrebbero duramente incalza­ to i Prussiani, riducendoli in una situazione pesante. E poi il fatto viene registrato dicendo che i “contadini boemi” hanno creato dif­ ficoltà a Federico; e la frase “[...] i Francesi hanno costretto gli Inglesi al ripiegamento...” è la dimostrazione del fatto che Mozart stesso era attento a eventi che si verificavano nella lontana America; si trattava infatti di truppe francesi che combattevano contro le truppe inglesi al fianco delle tredici colonie americane ribelli. Poiché Mozart si dimostra dunque un attento lettore dei giorna­ li siamo autorizzati, anticipando di molto la cronologia dell’esposi­ zione, a vedere secondo la prospettiva del suo bisogno di informa­ zione anche il breve ma molto significativo soggiorno a Magonza

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nell’ottobre del 1790, suo penultimo anno di vita. Là egli aveva preso alloggio a quello che in seguito avrebbe preso il nome di Arnsberger Hof, in Schustergasse 45, che allora si chiamava “Caffè Noble”, ma che in realtà era una modesta locanda che, come affer­ ma uno storico di Magonza (Gottron, 1952, p. 47), “egli aveva scelto a ragion veduta perché di fronte ad essa c’era il... ‘Kasino zum Gutenberg’ (così chiamato in quanto nel suo giardino vi era il primo monumento dedicato a Gutenberg da Magonza), in cui si trovavano anche le sale di quella società di lettura che la guida del viaggiatore di Krebel del 1792 definisce come una delle meglio organizzate in Germania. ‘Le sale delle raccolte sono aperte dalle 9 di mattina alle 10 di sera’. Il che doveva naturalmente essere molto gradito a Mozart”. Così Gottron. Quanto gradita dovesse essere questa vicinanza per Mozart si può misurare sapendo che il mini­ stero di polizia di Vienna aveva emesso il 23 gennaio 1790 una cir­ colare che sottoponeva a stretta censura tutti i giornali del paese (Wangermann, 1959, pp. 48 sg.). Se fino ad allora a Vienna la gente era bene informata sugli avvenimenti di Francia, fra cui la presa della Bastiglia e la dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino, avvenimenti che dovevano ben interessare al composito­ re delle Nozze di Figaro, dopo quella circolare le comunicazioni si erano interrotte. Ma a Magonza Mozart si trovava fuori della por­ tata della censura viennese. La composizione sociale degli uomini che frequentavano la società di lettura (le donne non erano ammesse) era simile a quella dei frequentatori dei circoli viennesi di cui Mozart era assiduo. E se mai avesse avuto bisogno di una presentazione come frequentatore della corte di Magonza (vi aveva dato un concerto), l’avrebbe di certo potuta avere dall’intendente del teatro di corte, Friedrich Cari von Dalberg, un vecchio cono­ scente di Mozart e dal 1781 membro di quella società di lettura. In quelle sale regnava una placida atmosfera: si serviva “tè, cioccolata, caffè, latte di mandorle, limonata e punch” (Priisener, p. 207). Non c’è da dubitare che Mozart abbia deciso di attraversare la stra­ da per sapere dai giornali dove stavano portando gli eventi del momento. Di vario genere possono essere i rapporti che legano un tale interesse all’opera d’arte musicale. Per comprenderli dobbiamo includere nell’analisi anche procedimenti puramente tecnico-musi­ cali.

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La “differenziazione”

Mi servo di un concetto formulato da Harry Goldschmidt. Ogni evento musicale, per quanto poco appariscente, indifferente o ricorrente migliaia di volte, può essere sottolineato, marcato, reso significativamente riconoscibile per mezzo di determinati procedi­ menti musicali o extramusicali: può appunto essere “differenziato”. Si può trattare di una breve fioritura melodica o di una configura­ zione ritmica, di un timbro, in particolari casi anche di una singola nota o anche di figure più complesse. Mentre i procedimenti possi­ bili vanno dalla ripetizione della figura, invariata o modificata, al suo collegamento a parole, immagini, eventi teatrali, eccetera. Il senso dell’operazione può consistere nell’attribuire alla figura diffe­ renziata una funzione nella costruzione della forma musicale, nel trattarla dunque come unità sintattica, ma può anche essere quello di attribuirle una funzione semantica. I segni musicali si distinguono in vario modo dai segni lingui­ stici, coi quali sono tuttavia imparentati, non foss’altro che per l’u­ tilizzo del canale acustico. I segni musicali non sono più o meno immediatamente comprensibili come i segni linguistici (all’interno di una comunità linguistica). A tale scopo le figure musicali, sia che siano portatrici di carattere segnico sia che si muovano al di sotto del piano segnico, dispongono di un ben maggiore patrimo­ nio di modi espressivi che attingono alla sfera biologica, e che

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dunque vanno molto al di là della comunanza linguistica. Anche altre differenze tra i due sistemi di segni possono essere interessan­ ti per noi. Ma ciò che nel nostro contesto ci deve maggiormente interessare è il fatto che i segni musicali possono solo relativamen­ te in pochi casi raggiungere quel grado di costanza e di durevole validità che costituisce una delle basi della comunità linguistica. La maggior parte dei segni musicali, se è consentito un impoetico paragone, deve essere consumata fresca, come i cibi in cucina, se si vuole ottenere un risultato rispettivamente digeribile o comprensi­ bile. E in ciò gioca un ruolo di importanza decisiva quel processo di “differenziazione” di cui qui si tratta e di cui ora presenterò un’esemplificazione sulla base di due esempi tratti dall’opera di Mozart. Betulia liberata, un Oratorio scritto da Mozart a quindici anni su un brutto testo di Metastasio, non appartiene al gruppo dei suoi capolavori. Ma l’Ouverture, saldamente in re minore, è un pezzo grandioso. Alla base di essa sta un motivo comunissimo che inizia forte sulla tonica e per due volte muove sulla terza minore e ritorna sulla tonica: esempio 1

Non voglio ora analizzare nei particolari come questo salto di terza si ripete e quanto spesso, trasposto su altri gradi, rivoltato, trasportato in altre tonalità, con la terza minore allargata a maggio­ re, variato in mille modi; già a battuta 16, se consideriamo anche le varianti che compaiono contemporaneamente, siamo già a tre doz­ zine di ricorrenze, e l’intero pezzo è di 172 battute. Lo si può rile­ vare facilmente in partitura (NMA 1/4/2), ma lo si vive in modo stringente quando se ne ascolta un’esecuzione; è evidente che quel poco appariscente salto di terza viene “differenziato”. Ciò emerge in modo impressionante quando nelle ultime cinque battute dell’ouverture i violini ripetono due volte il motivo di terza nel piano e senza accompagnamento, subito seguiti dagli accordi con­ clusivi (quegli apparentemente convenzionali zum-zum dell’orche­

Capitolo quinto

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stra, forte) su cui i bassi chiudono il pezzo ripetendo un’ultima volta l’intero motivo: esempio 2

Lasciamo aperta la questione se il giovane compositore abbia voluto lasciare una parentela con una musica sacra a cui stava lavo­ rando in quello stesso periodo (se consapevole o inconsapevole, non si può certo dire): una parentela che, dal punto di vista della psicologia creativa, doveva essere difficilmente evitabile. Per il secondo esempio attingerò al ricco repertorio che Gunthard Born nel suo già citato libro su Mozart trae dal linguag­ gio musicale mozartiano. Egli mostra in quella sede, credo in modo corretto e convincente, che la musica di Mozart utilizza cen­ tinaia di figure sonore tradizionali come segni musicali, un dato di fatto che la bibliografia mozartiana cerca di mettere in ombra o addirittura di ignorare. In un passaggio del suo libro (pp. 188 sg.), Born si occupa di una figura musicale discendente: le figure che Hugo Riemann chiamava schuppenformig [a scaglie], in cui cioè la prima nota di un gruppo discendente è identica all’ultima del pre­ cedente. La versione di una tale figura viene trovata da Born (p. 189) nella scena delle Nozze di Figaro in cui il Conte racconta ai presenti di aver scoperto poco prima Cherubino sotto un tavolo. E “dimostra con il primo pezzo di stoffa che vede sulla sedia davanti a sé” che cosa aveva fatto. Mozart avrebbe dunque “immaginato in dettaglio questo toglier via un panno che nasconde qualcosa”. “Prima la stoffa viene spostata (due minime legate), poi le due mani si spingono di nuovo ad afferrare (due semiminime) e dopo una breve rincorsa (pausa) tirano via un altro pezzo di stoffa (due minime legate)” (p. 190). Ciò che Born non ha notato è che il tema da lui citato, in un certo senso il tema principale del brano

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(n. 7), compare in tutto quattro volte, la prima e la quarta volta nella tonalità d’impianto, la seconda alla sottodominante, tutte e tre le volte affidato a Basilio, e la terza volta (la sola citata da Born), in sol minore, affidato al Conte. Le tre versioni affidate a Basilio non hanno nulla a che fare con la stoffa tirata via. A batt. 16 sg. Basilio dice di essere arrivato in un momento sbagliato; a batt. 85 sg. di aver espresso semplicemente una congettura sul paggio; a batt. 175 sg. ripete in tono di scherno queste parole, che dunque sembrano essere state più che una semplice congettura. Poiché le quattro versioni non differiscono in altro che nelle altezze (il che viene trascurato nel seguente esempio), l’interpretazione di Born non può reggere: esempio 3

batt. batt. batt. batt.

16 (Basilio) 85 (Basilio) 129 (Conte) 175 (Basilio)

In Ah ed Ah

mal del al ■del

pun - to pag- gio zan- do pag- gio

son quel pian quel

qui che ho pia che ho

giun - to det - to ni - no det - to

Meglio documentata appare un’altra apparizione di quella figura che Born definisce — tra virgolette — “Enthiillungsmotiv” [moti­ vo della rivelazione] (p. 190); si trova al n. 13 (batt. 177 sg.) del Don Giovanni, la scena in cui le tre maschere si recano alla festa di Giovanni con l’intenzione di smascherarlo. A prescindere dalle tre maschere visibili in scena, di cui già si intuisce che più tardi cadranno, a prescindere dalle intenzioni dei tre personaggi, già conosciute anche dagli ascoltatori, la parola decisiva viene detta esplicitamente: scoprir. Ed ecco che il motivo è sufficientemente differenziato:

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esempio 4

Chiaramente, qui come ovunque bisogna considerare che i ‘ pas­ saggi” evidenziati mantengono il loro senso solo nel contesto musi­ cale complessivo; pochi sono i pezzi del Don Giovanni, fra Ouverture e Finale, in cui motivi scalari ascendenti e discendenti non abbiano un qualche ruolo. Poco evidente, di nuovo, è un altro esempio di un motivo scala­ re discendente, il quale, secondo quanto sostenuto da Born, sta per “Enthullung”; è uno dei pochi che egli riprende dalla musica stru­ mentale, senza parole. Nella celebre Kleine Nachtmusik di Mozart emerge già a battuta 12 del primo movimento una figura che, con­ siderata sul piano puramente figurale, sembra simile a quella prece­ dentemente citata:

esempio 5

ma che non viene in nessun modo differenziata. Il fatto che ovvia­ mente non siano in gioco azione scenica e parola non significa niente; Mozart conosce, come è stato chiaramente mostrato nel caso della Betulia liberata, anche altri metodi di “differenziazione”.

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ma, come si vede, qui non li utilizza. La figura discendente compa­ re solo tre volte, viene ripetuta solo una volta, non ha nessun ruolo nello sviluppo, è nella sua presentazione parte integrante di una frase più grande, all’interno della quale non ha un ruolo preminen­ te. In breve, Born non considera il dato di fatto che i segni musica­ li non sono così costanti e stabili come si potrebbe affermare sulla base di un materiale tanto ridotto.

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L’opposizione maggiore-minore

Con l’espressione “opposizione maggiore-minore” intendiamo due modelli di impianto armonico-formate del brano musicale. Se ne può parlare: 1) quando in un brano musicale di una certa lunghezza si trova una parte estesa (di norma almeno un terzo della lunghezza com­ plessiva) in uno dei due modi, mentre le altre due sono nell’altro modo, cioè:

maggiore — minore — maggiore oppure minore — maggiore — minore; 2) quando un brano musicale di una certa lunghezza inizia in un modo e termina nell’altro, dunque da maggiore a minore o viceversa. Per dualismo madore-minore— da non confondersi con l’appena definita opposizione madore~mlnore — si intende invece una concezione musicale che si diffuse nella musica europea a partire dal XVII secolo, “affermandosi verso il 1700 nella comune consa­ pevolezza musicale” (Benary, p. 107). Da un certo numero di cosiddetti toni ecclesiastici, due modi in particolare hanno ampia­ mente soppiantato gli altri: sono il maggiore e il minore, imperanti nel XVIII e nel XIX secolo e senza i quali anche la musica mag­

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giormente diffusa del nostro secolo sarebbe impensabile. Peter Benary afferma in modo convincente che i toni ecclesiastici sono a lungo restati in vita nei canti sacri. (Anche in Mozart essi, sotto forma di corali, hanno un ruolo di grande importanza in almeno due suoi capolavori: nella Maurerische Trauermusik [Musica fune­ bre massonica] del 1785 e nella scena degli armigeri nel Flauto magico). Non fosse stato per l’obbligo di rispettare certe strutture melodiche di origine gregoriana, anche nelle opere per coro e per organo dell’epoca “si sarebbe battuta la strada del dualismo mag­ giore-minore così come da tempo succedeva per la normale musica strumentale” (Benary, p. 39). Già durante l’infanzia Mozart si era imbattuto nell’opposizione maggiore-minore. Le arie col da-capo dell’opera seria si servivano occasionalmente della prima delle due citate possibilità. Mozart l’ha conosciuta anche altrove in precursori e contemporanei, in Bach, Hàndel, Gluck. Bellissimi esempi di come egli si sia con­ frontato con questo procedimento ci sono offerti dal Ratto dal ser­ raglio, 1782, dalle Nozze di Figaro, 1786, e dal Don Giovanni, 1787. Ovviamente il modo minore era stato trattato nelle lezioni paterne, e fra i dieci e gli undici anni di età Mozart lo padroneggia­ va perfettamente. Ciò viene testimoniato in particolare dai cosid­ detti preludi modulanti, i quali, in realtà “improvvisazioni scritte”, avevano numerose funzioni nelle esecuzioni pubbliche. “Dapprima Io strumento (se è sconosciuto) deve essere provato o (se è proprio) presentato”; poi il preludio deve preparare al pezzo principale scel­ to, e, se devono essere eseguiti più pezzi, “si può passare dall’uno all’altro modulando (interludiando)” mostrando in tal modo la propria abilità di musicista compiuto (Plath, pp. XII e XIV). Lo stesso Mozart ha senza alcun dubbio improvvisato infinite volte pezzi di questo tipo; e il fatto che egli occasionalmente abbia anno­ tato l’uno o l’altro di questi è da mettere ,in relazione col desiderio della sorella di godere della stessa ammirazione: lei studiava a memoria ciò che lui aveva scritto. Ma aver pratica di minore e maggiore, saper modulare da un modo all’altro, e perfino contrap­ porli in vicendevole contrasto è ancora qualcosa di ben lontano dal riconoscere le possibilità che la loro opposizione può rivestire per una chiara semantica musicale. Un dettaglio delle sue Messe consente di gettare uno sguardo nel pensiero musicale di Mozart in relazione alla problematica maggio-

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re-minore. Come è noto, nel Credo si susseguono immediatamen­ te due frasi assai toccanti di contenuto emotivo opposto: Et incamatus est de Spirita sancto ex Maria, virgine et homo factus est,

Fu incarnato per mezzo dello Spirito Santo in Maria Vergine e fu fatto uomo.

Crucifixus etiam pro nobis sub Pontio Pilato passus, et sepultus est.

Fu crocifisso anche per noi sotto Ponzio Pilato patì e fu sepolto.

Dal punto di vista del linguaggio musicale mozartiano degli anni Ottanta è univoco il modo in cui i due passaggi vengono musicati: il primo in maggiore, il secondo in minore. Questo vale anche per altre tre Messe, KV 257, 259 e 317, scritte fra i diciotto e i ventiquattro anni d’età. (Quella in do minore del 1783 è incom­ piuta; il suo Et incamatus est è in maggiore, e si può essere certi che il Crucifixus, se Mozart l’avesse scritto, sarebbe stato in minore). Per quanto ovvia possa apparire questa impostazione formale allo sguardo retrospettivo di noi posteri, ovvia non era per nulla. Possiamo assistere dal vivo allo svolgersi di un pezzo di storia dello sviluppo della semantica musicale se confrontiamo questi con i passaggi corrispondenti delle Messe mozartiane precedenti. Nella sua prima Messa, KV 49, il Mozart dodicenne conclude ambedue le parti in maggiore; nella terza, KV 65, scritta un anno dopo, ci troviamo addirittura di fronte al capovolgimento esatto della solu­ zione successiva: il passaggio dell’incarnazione si conclude in mino­ re, quello della morte sulla croce in maggiore. Un geniale caso par­ ticolare è rappresentato dalla KV 337: Vhomo factus sconclude in minore palesemente perché il Crucifixus attacca in minore direttamente sull’ultima nota e sull’ultima parola est\ Non meno di dieci volte Mozart conclude l’una o l’altra parte, anzi due volte ambedue le parti, con un’ottava vuota o con una quinta vuota. È un mezzo assai efficace. Lascia per così dire in sospeso gli ascoltatori, per cui gli accordi maggiore e minore fanno parte del linguaggio musicale comune. È un arcaismo che giunge da un’epoca in cui non ci si era ancora pienamente decisi per il dualismo maggiore-minore e per

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l’equivalenza maggiore=gioia e minore=dolore, ovviamente nelle varie caratterizzazioni e sfumature. A un’opposizione nel senso sopra definito Mozart si avvicina per la prima volta nelle sue Variazioni per pianoforte, e anche in esse non prima dei ventidue anni d’età. Esistono quattro serie di Variazioni, scritte fra il 1766 e il 1774, in cui tutti i pezzi sono in maggiore. Solo nelle dodici Variazioni su Je suis Lindor, KV 354, che Mozart scrive nel 1778 a Parigi, viene per la prima volta instaurata una particolare consuetudine, che d’ora innanzi Mozart manterrà anche nelle raccolte di Variazioni della piena maturità. Una delle variazioni — sempre solo una —, tenuta in serbo con arte raffinata per l’ultimo terzo dell’opera, è nella variante minore della tonalità principale. E, con il cambio di modo, alla serena leg­ gerezza e brillantezza virtuosistica che per lo più caratterizzano le variazioni pianistiche di Mozart si mescola una sfumatura di rifles­ sività e addirittura di malinconia. Una nuova qualità oppositiva — semanticamente abbinata all’opposizione fra gioia e dolore — è presente nel Ratto dal serra­ glio. 1782, in modo tanto più incisivo in quanto nelle parti cantate del libretto vengono tematizzate in modo antitetico le parole Freude (gioia, o anche Wonne, estasi) e Schmerz (dolore, o anche Kummer, affanno, e Traurigkeit, tristezza). Il paradigma della corre­ lazione musicale è offerto in modo identico nell’ouverture e nella prima Aria del Singspiel (n. 1), uno dei pezzi che Mozart dice esse­ re stato aggiunto al libretto per suo espresso desiderio (26 settem­ bre 1781). L’Ouverture, in tempo Presto, in un limpido do mag­ giore, ha una parte centrale lenta in do minore e offre con ciò il modello più chiaramente delineato di opposizione maggiore-mino­ re. Poiché le due sezioni principali dell’Ouverture, prese insieme, occupano quasi esattamente due terzi del tempo complessivo, mentre la parte centrale ne occupa un terzo, anche le proporzioni in cui gioia e dolore si mescolano in questo divertente Singspiel sono preannunciate in senso musical-programmatico. Ma non è tutto. Non appena il sipario si alza, si rivela che nella parte centrale dell’Ouverture avevamo avuto a che fare con una variante minore, anticipata in forma strumentale, della prima aria di Belmonte. “Hier soli ich dich denn sehen, Konstanze!” [Alfine qui ti rivedrò, Costanza] e: “Schenk mir dafur nun Freuden” [Donami in cambio la gioia] egli canta in corrispondenza della variante maggiore della

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melodia già ascoltata nelTOuverture. Si capisce: nella sezione cen­ trale dell’Ouverture viene rappresentato il carattere doloroso della separazione, nella prima Aria di Belmonte il presentimento del nuovo incontro degli amanti. “Ich duldete der Leiden... allzuviel!”: troppo (in passato) ho sofferto, egli dice cantando in mag­ giore

esempio 6

ricordando i “dolori” che nelle battute seguenti:

esempio 7

erano stati — come Mozart dice in questi casi — “exprimiert” o “ausgedriickt” [espressi]. Non poteva essere più semplice, penetran­ te, teatrale!

Vedremo come la grandiosità con cui Mozart tratta l’opposizio­ ne maggiore-minore nel Don Giovanni e nel Figaro — qui in un’unica scena, ma con un effetto assolutamente singolare — assu­ me il significato di elemento formante musicale e di struttura sim­ bolica.

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Ricondurre, come abbiamo appena fatto, particolari procedi­ menti musicali a una visione del mondo in evoluzione e con ciò a un’esperienza di vita e alla formazione di una convinzione politica sarebbe curiosamente stato escluso dalla vecchia musicologia mozartiana. Ma anche gli studi biografici mozartiani si stanno muovendo.

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Mozart visto con gli occhi dei posteri

Comincia ormai a diventare sempre più diffusa la consapevolez­ za che, se si vuole dire qualcosa sulla musica di Mozart, si devono conoscere anche gli eventi extramusicali della sua epoca, le circo­ stanze in cui si verificarono e i riflessi ideali spesso contrastanti che essi ebbero nelle menti dei contemporanei. Volkmar Braunbehrens (classe 1941) con il suo Mozart in Wien (1986) ha non solo porta­ to in luce episodi della vita quotidiana di Mozart assai importanti e sinora trascurati, ma ha anche dimostrato come questi permettano — uniti a una non prevenuta osservazione dei processi compositivi di Mozart — di giungere a conclusioni affatto nuove nella biblio­ grafia mozartiana. Nel libro di Braunbehrens possiamo ad esempio trovare la seguente descrizione delle posizioni spirituali di Mozart (p. 259): benché non siano reperibili suoi “commenti politici schierati” si può comunque “considerare Mozart un osservatore attento e informato, vivamente interessato agli eventi politici, che nelle sue opere osò accostarsi con grande precisione e immediatezza ai problemi più pressanti del suo tempo e non certo in modo sovratemporale o dal punto di vista ‘dell’universalità umana’. Il che presuppone un vivace intuito per i processi sociali, prossimità d’osservazione e distanza di giudizio”. A risultanze analoghe giunge anche Gunthard Born (classe 1935). Il suo libro è stato pubblicato nel 1985. Si articola in due

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parti, la seconda delle quali dedicata al linguaggio musicale di Mozart, mentre la prima, significativamente intitolata Die Szene [La scena], si allontana consapevolmente dal più ostinato dei cliché mozartiani, quello secondo il quale (secondo le parole di Hildesheimer, p. 23) “gli eventi del suo tempo... per quanto ne possiamo dire non hanno mai raggiunto il piano della sua consape­ volezza”. Born adduce numerose prove — tratte da fonti perfetta­ mente accessibili — del fatto che gli eventi del tempo raggiunsero sicuramente la consapevolezza di Mozart. Lo stesso Hildesheimer, nonostante abbia contribuito a rafforzare il citato mito mozartiano, ha per altri versi smontato con successo ed eleganza alcuni dei più vecchi fondi di magazzino della biografia mozartiana. A Wolfgang Ruf è toccato già nel 1977 di distruggere un altro pregiudizio, apparentemente inamovibile: cioè che il Figaro di Mozart e Da Ponte avesse limato le unghie all’opera di Beaumarchais, così che non ne rimanesse altro che una misera commediola. Dopo attento confronto tra opera originale e libretto, infatti, egli giunge alla con­ clusione che la “polarizzazione tra le classi” viene in Da Ponte “ancor più nettamente accentuata” che in Beaumarchais (p. 90) e che “almeno per la maggior parte del libretto non si può parlare di sostanziale modificazione del tendenzioso contenuto di fondo dell’originale” (p. 84). Ma questo nuovo orientamento della musicologia mozartiana — che ovviamente si ripercuote su altri scritti qui non citati — è tutt’altro che generale. Le chiacchiere più insulse varranno sempre come ultima possibilità fintantoché ci si baserà su pregiudizi ben fondati nella tradizione. Il che naturalmente è sempre. Vale la pena considerare più da vicino uno di questi testi. In una diffusa pubbli­ cazione sul Figaro si può leggere: “Può definirsi l’interesse di Mozart per questo libretto una posizione rivoluzionaria? Troviamo in Mozart idee di ribellione o addirittura di lotta di classe?... Le sue lettere sono straordinariamente povere di temi attuali o di allu­ sioni all’attualità. Consistono per la maggior parte in informazioni sulla musica, idee di musica, opinioni sui musicisti, esperienze musicali. Naturalmente egli ha preso parte agli eventi del suo tempo, in quanto uomo di mente aperta. Ma i suoi veri interessi uscivano poco e raramente dal campo musicale. In nessuna delle sue affermazioni che ci sono state riportate, in nessuna delle sue molte lettere potremmo trovare un solo passaggio che lo possa

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anche vagamente accreditare come consapevole creatore di un’ope­ ra rivoluzionaria...” (Kurt Pahlen, 1979, pp. 234 sg.). Vedremo più avanti con maggiore precisione come stiano le cose circa il fatto che le lettere di Mozart fossero “straordinariamente povere di temi attuali o di allusioni all’attualità”, e contemporanea­ mente proverò che si può trovare ben più di “un solo passaggio” che accrediti Mozart per quello che invece nega decisamente l’autore di queste preziose righe. La confusione che egli in tal modo induce, tanto più efficace in quanto egli stesso ne pare totalmente schiavo, si basa su un uso impreciso delle parole, dei loro significati e della loro valutazione. L’autore si serve di una serie di espressioni che per lui e per i lettori scelti come referenti possiedono un significato negativo: “lotta di classe”, “ribellione”, “rivoluzionario”, a cui si aggiunge una parola qui non detta esplicitamente ma sempre implicita: “politica”. Mozart era una persona aperta, si concede, ha preso parte agli eventi del suo tempo, ma non lo si può certo considerare un rivoluziona­ rio, o nutrire il semplice sospetto che sostenesse certe posizioni! Con la lotta di classe e con la ribellione non può avere avuto nulla a che fare, e non si pensi nemmeno di collegare quest’uomo alla politica! Gli Illuministi del XVIII secolo hanno combattuto l’uso impreciso delle parole. “Quante impreviste difficoltà emergono... quando si cerca di definire il significato delle espressioni più comuni!”. E: “Bisogna definire ogni parola...”, diceva al vento Diderot (in una delle sue voci per l’Enciclopedia, 1755, p. 151). E in un altro passag­ gio: “È possibilissimo che voi definiate vizio ciò ch’io dico virtù, e virtù ciò ch’io dico vizio”. La grande Enciclopedia a cui lavorarono per decenni le migliori menti dell’illuminismo francese è fra l’altro un consapevole tentativo di ricondurre la lotta per un’esatta defini­ zione dei concetti all’interno della lotta contro i rapporti feudali ormai divenuti insopportabili. Parole come “nazione”, “patria”, “proprietà”, “diritto naturale”, “filosofia” e molte altre, fra cui anche “rivoluzione”, ricevettero una nuova valutazione. Dobbiamo riflet­ tere su ciò. Quando si utilizza senza commenti un concetto come “lotta di classe” (coniato solo in seguito) introducendolo nell’ambi­ to della valutazione del mondo spirituale di Mozart non si aiuta certo a chiarire le cose, e il risultato non potrà che essere uno scuote­ re la testa con disapprovazione. Compito della letteratura mozartiana è invece studiare i cambia­ menti di significato delle parole: non da ultimi quelli verificatisi

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durante la vita di Mozart, e anche quelli subentrati in seguito. Prendiamo la parola “rivoluzione”. Diderot, che era più vecchio di Mozart di circa mezzo secolo, utilizzava questa parola con cautela e raramente. Correttamente, a mio parere, i traduttori e i curatori delle opere di Diderot hanno tradotto la parola revolution ora con “rivoluzione”, ora con “sovvertimento”, cosa che in effetti significa in senso letterale. Quando per esempio Diderot dice (alla voce “Enciclopedia” della sua opera, a proposito della discussione sull’ampiezza e la rapidità dell’influenza del progresso nella cultura umana): “Ma i sovvertimenti {revolution^ sono necessari: ci sono sempre stati e sempre ci saranno...”, con tali parole egli formula un’opinione diffusa tra la borghesia dell’epoca senza che vi fosse la consapevolezza che la tenacia dei rapporti feudali — di quelle forme politiche, sociali, di pensiero e di comportamento — avreb­ be posto all’ordine del giorno l’utilizzo della forza per il loro supe­ ramento. Negli ultimi anni di vita di Mozart — Diderot allora non viveva già più — la parola révolution assunse invece un significato concrer tamente politico. Dal 1789 viene pubblicato a Parigi il giornale Révolution de Paris, e in bocca a Marat, Desmoulins, Georg Forster e altri, la cui data di nascita è vicina a quella di Mozart, la parola assume quel significato di “rivoluzione” che da allora le è rimasto legato. “Vorrei proprio vedere espresso come rapporto numerico”, scriveva Georg Christoph Lichtenberg nel 1797 (p. 955), “quante volte è stata detta e stampata in Europa la parola rivoluzione negli otto anni dal 1781 al 1789 e quante negli otto anni dal 1789 al 1797: difficilmente il rapporto sarebbe meno di uno a un milione”. È necessario analizzare la posizione di Mozart nei confronti della fase iniziale della Rivoluzione Francese, cui egli assistette. È ormai insostenibile affermare che essa sia stata per lui indifferente così come lo sono eventi analoghi per il borghese di oggi. Prendiamo infine il concetto di “politica”. Abbiamo in questo caso un suo contemporaneo, più giovane di soli sette anni rispetto a Mozart, che già nel 1805 lamentava la rapidità con cui erano decadute l’idea e la parola, anche queste dagli Illuministi formulate e definite con grande profondità. Johann Gottfried Seume (in: Mein Sommer im Jahre 1805} definisce innanzitutto, pienamente nello spirito dell’illuminismo, ciò di cui egli parla: “Politico è ciò che contribuisce o dovrebbe contribuire in qualche modo al bene

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comune: quod bonum publicum promovet”, e prosegue: “Questa parola è stata molto deformata, travisata e svalutata o anche, in modo non molto onesto, si è cercato di avvolgerla in una nebbia tale per cui essa appaia all’uomo onesto e semplice come una spa­ ventosa figura spettrale. E per lo più ciò riesce purtroppo assai bene”. Sappiamo quanto ciò riesca bene anche oggi, e che quando molta brava gente afferma di essere apolitica normalmente significa tre cose: che aborrisce la sporcizia oggi tanto spesso connessa alla politica; e/o: che è contenta delle proprie condizioni di vita e non vuole vedere la sofferenza dei meno favoriti; e/o: che non crede a un possibile cambiamento di questa situazione. Qualunque sia la motivazione che adduce chi si ritiene apolitico, tali virtù borghesi non possono essere riferite a Mozart. Una conclusione si può trarre infatti dalla nostra analisi di quei furbi giochi di parole che abbiamo analizzato a proposito del com­ mento al Figaro (e che avremmo potuto con pari successo applicare a un altro testo: ce ne sono fin troppi): per quanto inadeguati a comprendere il fenomeno Mozart, essi lasciano tuttavia intrawedere involontariamente una precisa consapevolezza: che i problemi dell’epoca di Mozart sono analoghi ai nostri in una prospettiva importantissima. La vita di Mozart si svolge in una di quelle epo­ che in cui l’umanità, che lo sappia oppure no, vive il passaggio da una forma sociale a un’altra. Esattamente come il nostro tempo. Non è necessario soffermarci a lungo sulla descrizione delle dif­ ferenze che separano i nostri anni dal XVIII secolo: sono abbastan­ za evidenti. Ma le somiglianze non sono meno palesi: risiedono nella sostanza dei fatti. Quanto più superficiale sarà il commenta­ tore, tanto più disinvoltamente egli svelerà, moderno Mime (“l’orrido nano”), le sue recondite intenzioni. Interessante dialetti­ ca! Alle frasi sopra citate segue un’analoga rivelazione. Quando Mozart lasciò il servizio dell’arcivescovo, espresse molto chiaramen­ te a lui e al conte Arco la propria rabbia. “Vuole forse in tal modo”, si chiede il nostro autore, “scuotere la gerarchia sociale in vigore?”, e si risponde: “No, vuole semplicemente soddisfazione per se stes­ so”. Quasi con ansia si. vuole difendere Mozart dal sospetto che possa aver fatto qualcosa che oggi comporterebbe il Berufsverbot o analoghe misure punitive e che all’epoca di Mozart voleva dire rischiare la vita. Sono problemi grossi. E allora non solo l’autore deve chiarire di non volerne sapere di idee di trasformazione sociale

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(il che crediamo sulla fiducia); non solo Mozart deve essere confor­ mato alle opinioni di un piccolo borghese d’oggi, la cui maggiore preoccupazione può solo essere la "soddisfazione per se stesso ; ma la grandezza dell’arte stessa non può essere in alcun modo messa in relazione all’identificazione con i problemi dell’umanità e i relativi tentativi di soluzione. Mozart non può aver pensato diversamente dal suo commentatore. — (E se qualcuno volesse rigirare la frittata e dire che anche l’autore di questo libro corre il medesimo rischio in direzione opposta, questi risponde che è vero, ma che egli ha un vantaggio dovuto alla superiorità non della sua persona bensì della sua posizione. Chi si identifica con tendenze obiettivamente evolu­ tive, cioè prende — come dice Werner Krauss — “le parti della storia”, ha migliori possibilità di giudicare in modo obiettivo). Abbiamo parlato prima di come il citato commento al Figaro si richiamasse a radicate tradizioni; sarà ora nostra cura provare tale affermazione, e da ciò dovrebbe anche apparire evidente che in questo momento, alla fine del nostro secolo, l’apologià dei rapporti borghesi tende a piegare la ricezione di Mozart a un modello improponibile perfino all’inizio del secolo. Citiamo ad esempio un libro ancor oggi importante, fondato su posizioni umanitarie c, per quanto riguarda i fatti biografici e in particolare l’evoluzione musi­ cale, elaborato in modo serio e approfondito: il W A. Mozart di Hermann Abert. Non è il caso di ripetere in questa sede i suoi meriti e pregi. Il libro è nato fra il 1919 e il 1921, fu almeno in pane elaborato durante la Prima Guerra Mondiale, negli anni del dopoguerra, della Rivoluzione Russa e degli interventi armati. Ciononostante Abert riconosce e dichiara che Mozart “alla fine della sua vira era ancora intriso di quel potente movimento spiri­ tuale che due anni prima aveva trovato la propria più significativa espressione nella Rivoluzione Francese” (Abert, II, p. 767). Ben lontano, però, dal voler fere di questo pregnante pensiero l’idea portante del proprio libro su Mozart, in altra sede Abert smorza i toni o addirittura ritratta. Non so dire se ciò sia dovuto a un’inde­ cisione, a un cambiamento di idee durante il lavoro o a che altro; non sarebbe strano immaginare che anche Abert, in un’epoca movimentata, non abbia voluto arrischiarsi troppo in là in direzio­ ne di una simpatia nei confronti di sviluppi rivoluzionari. In un altro passaggio, ad esempio, egli cerca di liquidare un’idea fonda­ mentale di Mozart — cioè che non per rango e posizione sociale,

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ma per cuore e mente gli uomini sono fondamentalmente uguali — con la sprezzante osservazione che non si tratta qui di occasio­ nali “effusioni democratiche, quali spesso venivano alla bocca della borghesia di allora” (II, p. 13)! Come se sentisse di muoversi su un terreno pericoloso, Abert cerca di sostenere le proprie posizioni aiutandosi con lo sfortunato tentativo di distinguere la passione per la politica del padre Leopold dalle posizioni di Mozart, che considerava gli uomini in senso apolitico, così come essi sono: “non li giudica assolutamente sulla base del bene e del male”. È possibile che Abert non abbia notato che i personaggi operistici di Mozart sono proprio “giudicati” sulla base del bene e del male e musicalmente trattati di conseguenza? Ma secondo Abert, Mozart “non è mai stato un politico”, come si può chiaramente dedurre dal fatto significativo “che il più importante evento politico di cui egli fu testimone, la Rivoluzione Francese, non viene degnata nelle sue lettere di una sola parola!” (II, p. 12). Questa affermazione, per quanto esatta, non dimostra in realtà ciò che vuole dimostrare. Anche sulla massoneria, la cui importanza per Mozart viene dallo stesso Abert ampiamente affermata e approfondita, non troviamo — letteralmente — una sola parola nelle lettere, e le occasioni per Mozart di scriverne per lettera sarebbero state tre-quattro volte più numerose che non parlare della Rivoluzione Francese. I Mozart, che per anni utilizzarono una scrittura cifrata quando dovevano affrontare per lettera argomenti delicati preoccupandosi sempre che le loro lettere potessero capitare in mani sbagliate, sapevano perfettamente che cosa potevano affidare alla posta e che cosa no. Ci mancava altro che Mozart si mostrasse in una lettera non cifrata interessato alla Rivoluzione Francese o addirittura simpatizzante! (Vedremo peraltro più avanti una cifrata identificazione di Mozart con i movimenti rivoluzionari francesi). E non ha forse accennato lo stesso Abert, circa quattrocento pagine prima nella sua opera gigantesca, al fatto che il Flauto magico del “non-politico” Mozart aveva a che fare con quel movimento rivoluzionario? Che una ben informata analisi delle fonti possa essere coniugata a un basso livello intellettuale lo dimostra un libro di Erich Schenk, Mozart — sein Leben — seine Welt [Mozart - la sua vita — il suo mondo], apparso nel 1955 in prima edizione e in versione rive­ duta nel 1975. H modo in cui Schenk descrive Mozart e il suo mondo si può capire se confrontiamo due gruppi di giudizi per

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quanto attiene a estensione, scelta dei termini e valutazione: da una parte i giudizi sui protettori aristocratici di Mozart, dall’altra quelli relativi agli Illuministi. Nel primo gruppo non manca nemmeno il titolo dell’ultimo “valletto" o del “segretario cardinalizio di stato”; di un chierico Schenk non ci risparmia uno solo dei suoi sette tito­ li, e nemmeno i nomi dei villaggi di cui era “signore e padrone” (p. 157), mentre una dama a casa «iella quale (e solo “probabilmente”) i Mozart bambini facevano musica viene presentata come “Marie Louise de Rohan (n. 1720), sposata a Gaston-Jean-BaptistcCharles de Lorraine, comte de Marsan, e governante dei figli e discendenti legittimi del re (‘Enfants de France')” (p. 104). Fin da adolescente Mozart non si lasciava ceno impressionare dagli aristo­ cratici che incontrava: ma il suo biografo sembra voler compensare tale carenza. Né si vuole risparmiare la figuraccia di parlare degli Enciclopedisti come di “inteÙcctuali e begli spiriti filosofici del tipo di Diderot, Rousseau, d’Alembert, d’Holbacn...”! E, quasi a vanta­ re la propria lunga pratica dei profondi giudizi di quelle persone, che proprio non ne volevano sapere di una posizione per «mi Schenk ha coniato l’espressione “mentalità rivoluzionaria”, scrive questa frase che ha dell’incredibile (p. 642): “Questo ambiente”, ossia quello «di Mozart durante gli ultimi anni della sua vita, “era in quei giorni schiavo della mentalità rivoluzionaria ed esprimeva quindi certi giudizi alla leggera”. Ma ovviamente la letteratura musicologie^ mozartiana non può competere sul piano dell’efficacia e della popolarità con un film così brillantemente realizzato quanto miserabilmente concepito quale Amadeus. Non è in fondo sbagliato, dice ironicamente Braunbehrens, che il film e l’opera teatrale da cui il film è tratto abbiano questo titolo: Mozart chiamava se stesso sempre Amadé o Amadeo, per cui il film “«dichiara a gran voce di non aver nulla a «die fine con la vita reale di Mozart” (p. 11). (A questo proposito ve«di anche Brigitte Thurm, in Weimarer Beitràge, 12/1987). Ancor più chiaramente Friedrich Dieckmann ha messo a nudo la posizio­ ne di fondo degli autori del film nel suo saggio sull’ideologia del nostro tempo (in NDL, 11/1986). Partendo dalla situazione in cui al giorno d’oggi si trovano i talenti in altri campi molto più perico­ losi «di quanto sia la musica, e cioè i fisici e i tecnici, Dieckmann giunge alla conclusione che il film ci fa vedere un Mozart “come lo si vorrebbe a Hollywood: un uomo incapace «li agire e addirittura

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di vivere, che si riduce sul lastrico perché non si lascia guidare per mano da uomini onesti, così come i monopoli vedono l’ideale per­ sonificato di ciò che viene definito un grande talento” (p. 69).

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Un punto di svolta

Nessun altra fase della vita di Mozart meglio di quella che andia­ mo adesso ad analizzare può essere raccontata secondo i buoni vec­ chi metodi di quei biografi di cui si dava per scontato che sapessero e capissero tutto, i dati di fatto e le relative motivazioni spirituali. Il primo viaggio che Mozart intraprese senza il padre segna un punto di svolta nella sua vita. Durò alTincirca sedici mesi, dal 23 settembre 1777 al gennaio del 1779, e portò con sé profondi scon­ volgimenti, in parte crisi vere e proprie. Ciò si può ampiamente documentare, in quanto le lettere intercorse in quel periodo fra i Mozart — padre e figlio, moglie e marito, fratello e sorella — sono incredibilmente ricche di informazioni nella loro ampia estensione: insieme -alle lettere scambiate con poche altre persone occupano cinquecentoquaranta pagine a stampa. E a nostra disposizione esi­ stono anche altre fonti. La vita di Mozart in questo periodo è guidata da molti desideri, mete, massime morali, il desiderio forse più pressante, e al tempo stesso il più consapevole, era quello di essere adulto. Il che signifi­ cava innanzitutto indipendenza interiore ed esteriore dal padre, il quale aveva per troppo tempo determinato la vita di Mozart in veste di maestro di musica, educatore, impresario e, non da ultimo, modello ideale. Tutto sembra voler dimostrare che Mozart deside­ rava la fine di questà fase, immaginandola come la naturale conse­

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guenza di questo viaggio, senza traumi. Viaggiava con la madre, che per lui era una specie di compagna, e con la quale riusciva sempre a imporre la propria volontà. Lei lo sapeva e lo accettava con una certa rassegnazione. Nelle intenzioni di Mozart doveva trattarsi di un piacevole viaggio verso l’età virile. Il primo giorno di viaggio scriveva di buon umore a casa: “Sono io l’altro papà”, il che voleva dire anche che non aveva più bisogno di tutela; e la prosecu­ zione: “sto attento a tutto” sottintende: e lo posso fare. Questo viaggio rappresentò un momento di frattura nella vita della fami­ glia, anche perché, col consenso del padre, il servizio alla corte arci­ vescovile era stato abbandonato. I ponti con Salisburgo erano dun­ que rotti. Wolfgang pensava, e non in sogno, di tornarci solo per visitare i genitori. (A Vienna si aggiunse peraltro un ulteriore moti­ vo per una visita a Salisburgo, e cioè “dare un calcio in culo” al conte Arco [13 giugno 1781]: ma di questo ci occuperemo più tardi). E che gli interessasse diventare adulto ce lo rivela Io stesso Mozart quando scrive al padre (11 settembre 1778: in quel periodo era stato raggiunto il punto più critico nel rapporto col suo pater­ no protettore Melchior Grimm) che quest’ultimo era “in grado di aiutare i bambini ma non gli adulti”. Dell’età adulta fa parte un introito sicuro; di ciò Mozart era fin troppo consapevole. Non era colpa sua se non si erano realizzate le prospettive di un impiego alle corti di Mannheim e Monaco e neanche una vaga speranza di un posto a Magonza. Madre e figlio si trattennero quattro mesi e mezzo a Mannheim, e in questo periodo ci fu la prima occasione di abbozzare progetti di vita auto­ noma. Mannheim possedeva un’eccellente orchestra, e non sarebbe stata una cattiva idea mettersi insieme con tre dei suoi migliori musicisti, il flautista Johann Baptist Wendling, l’oboista Friedrich Ramm e il fagottista Georg Wenzel Ritter, e andarsene a Parigi per dare concerti: con composizioni di Mozart, si capisce. Viaggiare per conseguire (nella preziosa espressione di Leopold Mozart, 11 maggio 1778) “onore e guadagni” era diventato per Mozart quasi un’abitudine di vita. Quello in corso non era il suo primo viaggio, anzi era per la precisione il decimo. E dunque anche il padre giu­ dicò benevolmente il progetto; Wendling era uno dei migliori stru­ mentisti del suo tempo, era stato più volte a Parigi e non apparte­ neva alla generazione di Wolfgang, bensì alla sua, il che aveva sicuramente un peso per il padre. Le cose stavano a questo punto

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quando la giovane autonomia di Wolfgang si manifestò in una nuova prospettiva. Si innamorò seriamente. Si trattava di Aloysia Weber, cantante e musicista di notevoli doti, che a diciassette anni aveva già raggiunto grande successo. Fa parte dell’habitus di un giovane uomo indipendente decidere da sé a che donna legarsi e quando. L’esperienza del padre non lo rendeva per principio con­ trario a un legame amoroso. “Tutti i giovani devono seguire le pro­ prie follie” scriveva (3 settembre 1778). Ma ci si può figurare con quale disperazione apprese dalla lettera del figlio del 4 febbraio 1778 che il progetto di andare a Parigi con Wendling, Ramm e Ritter era stato sostituito da un nuovo piano, cioè di cercare fortu­ na in Italia con Aloysia, suo padre e la sorella maggiore Josepha; e che per piacere il padre fosse tanto gentile da informarsi presso un conoscente in Italia quanto fosse pagata a Verona una primadonna. E come se non fosse abbastanza chiaro che questo folle progetto era destinato a fallire, Mozart aggiungeva in un tono che fino ad allora il padre non gli aveva mai sentito: “Credo che andremo in Svizzera, e forse anche in Olanda”. La prima prova seria sulla strada per diventare adulto non era stata superata troppo bene da Mozart. In una lunga lettera (12 feb­ braio 1778) Leopold deplorava l’avventatezza del progetto, e il figlio non poteva che essere d’accordo con la furibonda missiva, ogni parola della quale non faceva che dimostrare l’impraticabilità del piano di viaggio in Italia, per non parlare di Svizzera e Olanda. Dopo le violente proteste del padre, egli cercò addirittura (in modo poco credibile, bisogna dirlo) di far credere ch’egli aveva elaborato quel progetto solo per fare un piacere alla famiglia Weber e dietro loro insistenza (19 febbraio). In ogni caso finì per ubbidire all’ordi­ ne con cui culminava la lettera: “Sùbito a Parigi!”. Probabilmente Mozart non si sentiva così sicuro come voleva far apparire nel suo nuovo ruolo di persona che prendeva le proprie decisioni in modo autonomo; e forse anche la famiglia Weber, ben lontana dall’aver ispirato il progetto, ne era ancor meno entusiasta del padre. In breve: il 23 marzo 1778 madre e figlio entravano a Parigi; lo stesso Leopold aveva decretato che dovesse venire anche la madre. Ma neanche qui la situazione era favorevole, né per le possibilità di guadagno e di conseguenza per i progetti matrimoniali, né per i rapporti interni della famiglia Mozart. Un’idea sembra che al padre Leopold non sia mai venuta in mente: cioè che suo figlio fosse in

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effetti cresciuto (per quanto anche potesse essere giusti cata a preoccupazione per la sua candida ingenuità) e che, se non vo eva disgustarlo e allontanarlo da sé, doveva lasciarlo uscire dalla sua tutela. Per quanto egli desiderasse trasformare il rapporto col figlio in una paterna amicizia, troppo spesso e con troppa facilita ricade­ va dall’atteggiamento del consiglio in quello dell’ordine. Talora, forse più per diplomazia che per convinzione, riusciva ad assumere il tono giusto, ad esempio nella sua lettera del 5 febbraio: “Nei tuoi confronti, mio caro Wolfgang, io non nutro la minima sfiducia, anzi ripongo ogni fiducia e speranza nel tuo amore filiale”. Subito Wolfgang reagisce positivamente (12 febbraio); egli “farà tesoro della lettera paterna e ne farà sempre buon uso”. Ma questa con­ cordia non dura a lungo; né da una parte né dall’altra. I mòniti e i consigli si trasformano troppo facilmente in rimproveri (già in pre­ cedenza ascoltati e che nei mesi successivi erano purtroppo destina­ ti a rinforzarsi); così ad esempio il 12 febbraio, quando si chiede che cosa mai aveva trattenuto Wolfgang e la madre dal chiedere a lui, Leopold, un consiglio e dall’agire poi di conseguenza secondo la sua volontà: lui aveva in fondo il miglior senso pratico. Dove avrebbe portato questo senso pratico lo si capisce bene se si leggo­ no le indicazioni di Leopold su come comportarsi a Parigi (più volte espresse, ma in particolare il 5 febbraio). Sarebbe importante ottenere il favore dei personaggi più rispettabili, continuo dovreb­ be essere lo sforzo di porsi sotto la loro protezione; non fidarsi delle persone meno distinte, non essere franchi nei rapporti con loro. Circa settanta nomi di personalità parigine vennero inviati dal padre ancora a Mannheim; fra di essi si trovavano grandi nomi che però non potevano significare nulla per Mozart: d’Alembert, Diderot, Voltaire, Madame d’Epinay. Gli altri erano per la maggior parte nobili, ed espressamente si raccomanda di tutto cuore al figlio di seguire il modello del padre, che abitualmente aveva cerca­ to “la conoscenza... e l’amicizia solo di persone di alto lignaggio” (5 febbraio). Parole d’oro e certamente regole di comportamento assai efficaci. Ma abbiamo qualche dubbio che davvero Mozart ne “facesse tesoro”; è notorio, infatti, ch’egli non vi si attenne. In un paio di occasioni espresse al padre il proprio odio per il servilismo (10 dicembre YTH e poi ancora, anni dopo, il 9 giugno 1786); chiaramente un po’ seccato, questi replicò già la prima volta che per lui non era possibile fare altrimenti. Ma c’era una differenza,

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anche generazionale. Come sempre malvolentieri, Leopold riusciva perfettamente a mantenere un atteggiamento secondo le regole con le persone di alto lignaggio e considerava ovvio agire in tal modo. Consideriamo, per non far torto a Leopold, che anche i grandi reputavano inevitabile utilizzare occasionalmente questo tono fra gli altri loro stili di linguaggio; si pensi solo a Goethe o a Voltaire. Wolfgang Amadé non amava invece questo modo di fare e non voleva apprenderlo. E sintomatico che fosse il padre a scrivere di proprio pugno le lettere di richiesta di congedo e di riassunzione. A Parigi Wolfgang avrebbe dovuto passare un bel po’ di tempo col cappello in mano per estinguere la lunga lista di indirizzi; ma lui non se ne occupava, e trovava motivi più o meno plausibili per non farlo. Per tutta la vita il padre non si smosse dalla convinzione che suo figlio avrebbe potuto ottenere molto di più, a Parigi come altrove, se solo l’avesse ascoltato. Il tragico è che il padre aveva ragione a proporre per Parigi quel codice di comportamento. Nel suo libro su Mozart, Alfred Einstein descrive con vivido umorismo (pp. 69 sg.) come solo pochi anni prima Gluck fosse stato in grado di far furore a Parigi utilizzando i metodi che oggi vanno sotto il nome di public relations e di cui si trovava già un primo abbozzo nell’alta società del XVIII secolo. Ma Mozart non sapeva e non voleva starci. Era un adeguamento che voleva spingersi anche nella sfera crea­ tiva. Il padre non si stanca mai di raccomandare a Wolfgang di stu­ diare e imitare il gusto francese, capire ciò che piace, non dimenti­ care il gusto popolare, consultarsi con Melchior Grimm e col famoso maestro di danza Jean Georges Noverre (1727-1810) e attenersi rigorosamente ai loro consigli. “Quando si ha successo e si viene ben pagati: il resto in soffitta!” (20 aprile), era la sua massi­ ma. Mozart stesso non era alieno dal tener conto dèlie aspettative delle persone per cui componeva: e scriveva per ogni genere di per­ sone, di diversi paesi e con i più diversi gusti; cercava di andar loro incontro, seguiva le tradizioni dei differenti generi musicali da lui praticati, rispettava nel modo più scrupoloso le richieste e le possi­ bilità dei cantanti e degli strumentisti cui doveva affidare le proprie composizioni. Ma al di là di tutto ciò, e soprattutto nel più profondo del suo animo, desiderava che gli venisse resa giustizia. Al suo desto intelletto si ponevano problemi che non potevano essere risolti adeguandosi. Nel periodo parigino Mozart stesso non sapeva

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ancora, pur presagendolo, che il suo lavoro musicale aveva anche un aspetto extramusicale, anzi extraestetico (come vedremo più avanti); mentre il padre non ne aveva nemmeno la minima idea. Il rapporto padre-figlio visse tuttavia il momento di massima tensione quando Mozart dovette comunicare al padre che la madre era morta. Egli lo fece nel modo più delicato e prudente possibile. La notte in cui ella morì, vegliando accanto alla madre morta, Mozart scrisse tre lettere (3 luglio), una al padre e alla sorella, in cui, per prepararli al peggio, parla solo di una malattia quasi ingua­ ribile; una seconda al fedele amico di famiglia Joseph Bullinger (1744—1810) con la preghiera di comunicare al padre e alla sorella la notizia della morte con la massima delicatezza. (La terza lettera, al padre di Aloysia, è andata perduta). Leopold reagì in un modo che apportò danni irreparabili al rap­ porto col figlio. Non c’è dubbio che la morte della moglie l’avesse colpito profondamente e che il crescente indebitamento dovuto allo sfortunato viaggio a Parigi fosse diventato un peso quasi inso­ stenibile. È anche comprensibile ch’egli si aspettasse che il figlio tornasse al più presto a Salisburgo, in modo da assumere il posto di organista nel frattempo richiesto e ottenuto dall’arcivescovo e con­ tribuire così a pagare i debiti. Ma Leopold fece anche qualcos’altro. Prima in vaghi accenni, poi sempre più esplicitamente e decisa­ mente, espresse al figlio il rimprovero di essere colpevole della morte della madre, e per due motivi. Se non fosse stato così volubi­ le, a Parigi sarebbe potuto andarci da solo, e la madre sarebbe così rimasta sicura e sana a Salisburgo. Ma anche una volta che l’aveva accompagnato a Parigi, il medico doveva essere chiamato prima, e cavarle più sangue; se lui, Leopold, fosse stato presente, non si sarebbe giunti al peggio. Poiché Mozart rimandava il ritorno, in parte per i suoi progetti matrimoniali (tra la mone della madre e il suo ritorno a Salisburgo passarono più di sei mesi), il padre diven­ ne sempre più lamentoso e rimproverante. Il 19 novembre 1778 scriveva a Wolfgang:. “[...] io spero che tu, dopo che tua madre mal à propos è dovuta morire a Parigi, che tu non voglia avere sulla coscienza anche la responsabilità della morte di tuo padre”. Non avrebbe dovuto pensarlo, né tanto meno scriverlo. Mozart reagiva così (3 dicembre): ..] del fritto che io non Le abbia risposto per così lungo tempo la colpa non è d’altri se non Sua: per la prima Sua lettera a Mannheim; non avrei giammai immaginato che —

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basta: non voglio più parlarne; perché ormai è cacto passato”. Probabilmente questo passaggio non va riferito solo alla morte della madre; solo poche settimane prima, il 22 novembre, Mozart aveva dato comunicazione al padre delle sue intenzioni matrimo­ niali in un modo ch’egli stesso aveva definito come segue: “[...] è abbastanza sibillino, non è vero? — oscuro, ma comprensibile”. Probabilmente anche la conclusione dello scambio epistolare sulla morte di Maria Anna va letta e intesa in modo “sibillino”, inten­ dendo che anche i tempi di un sereno amore filiale erano “ormai passati”. In ogni caso da allora in poi il rapporto fra padre e figlio non riuscì a liberarsi di una punta di amarezza. La frattura aveva, per quanto riguarda Leopold, motivi assai profondi. Ancora qual­ che anno più tardi (23 agosto 1782) scriveva, per di più a una fedele amica di Wolfgang, che quest’ultimo sapeva che lui, Leopold, “per la sua condona aveva dovuto subire conseguenze tanto sul piano spirituale quanto su quello fisico". Ma nemmeno per quanto riguardava gli scopi del viaggio a Parigi — un posto, guadagni, “prestigio” — le prospettive sembra­ vano buone. C’erano sì commissioni, esecuzioni, successi, e anche le realizzazioni compositive non erano scarse: otto pezzi corali per un Miserere di Holzbaucr, tredici pezzi per Les petits riens, un bal­ letto di Novene, due Sinfonie, e inoltre una Sinfonia concertante, un Concerto per flauto e arpa, tre Sonate per pianoforte e una per violino, tre raccolte di Variazioni e un Capriccio per pianoforte, Un’Aria per Aloysia Weber, una Scena per un castrato. Ma la fatica non veniva equamente premiata. Degli otto pezzi corali solo due vennero eseguiti, e quasi nessuno sapeva che fossero di Mozart; anche i brani per il balletto di Novene, in parte davvero affascinan­ ti, furono eseguiti in forma quasi anonima; la Sinfonia concertante, composta per i colleghi di Mannheim Wendling, Ramm, Punto (corno) e Ritter, sembra che non sia stata nemmeno eseguita. Solo per le due Sinfonie (delle quali una è perduta) impegno e risultato si può dire siano stati in accordo; furono ambedue eseguite con successo al Concert spiritueL Ma della progettata grande Opera francese, di un Intermezzo per un balletto di Novene e dell’ipotesi di un Oratorio francese (progetti su cui Mozart puntava moltissi­ mo) non se ne fece niente. Uno dei motivi principali, per cui Mozart non fece carriera a Parigi ci è dichiarato da lui stesso (1 maggio 1778). Aveva iniziato

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con serio impegno a fare le sue visite quando subito una delle prime andò male. In occasione della prima visita a una signora distinta gli era stato prospettato un invito per la settimana successi­ va; anche se nulla era giunto, al momento indicato si ripresentò senza l’invito ufficiale. Lo avevano lasciato aspettare mezz’ora in una stanza non riscaldata, poi, quando finalmente la signora appar­ ve, lui dovette aspettare un’altra ora — tremando in tutto il corpo, ci dice — prima di decidersi a suonare su un pessimo pianoforte, senza che nessuno gli prestasse attenzione: aveva suonato letteral­ mente “per sedia, tavolo e muri”. È tipico di Mozart che, quando finalmente il padrone di casa si presentò e si sedette ad ascoltarlo attentamente, “freddo, mal di testa e... il miserabile pianoforte” furono dimenticati. Ma di simili ascoltatori interessati ed esperti Mozart ne incontrò assai pochi negli ambienti da lui frequentati a Parigi. D’altra parte era capitato anche in un momento sfavorevole. Il 30 maggio di quell’anno parigino di Mozart era morto Voltaire, il 2 luglio, un giorno prima della madre, Rousseau. Parigi era profondamente sconvolta dalla morte di questi uomini, la cui popolarità superava ogni cosa, il che in terra tedesca era all’epoca a malapena immaginabile. Cera ben altro di cui preoccuparsi che non del giovane straniero. Chi conosceva Mozart si ricordava di lui come di un bambino di sette anni. Come Madame d’Epinay gli confermò “in tutta serietà”: “Qui mi si tratta come un principian­ te” (31 luglio). Forse anche Grimm non la pensava molto diversamente. E fu così che, anche dopo il trasferimento in casa Grimmd’Epinay, Mozart non trovò molti ascoltatori attenti e interessati. Friedrich Melchior Grimm (1723-1807) si era stabilito a Parigi in giovane età come segretario e confidente di un conte tedesco e aveva presto preso contatti con la cerchia degli Enciclopedisti. Conosceva bene d’Holbach, d’Alembert, Helvetius, e a Diderot e Rousseau lo legò una lunga e intima amicizia. Nel 1753 iniziò a pubblicare la Correspondance httéraire-. manoscritta e in pochi esemplari, ma indirizzata a persone influenti, fra le quali Federico II e Caterina di Russia, molto interessate alla diffusione delle idee dell’illuminismo francese. La Correspondance riportava comunica­ zioni, recensioni teatrali e di libri e pubblicava scritti, fra i quali molti di Diderot. Anche Madame d’Epinay faceva parte della cer­ chia degli Illuministi come autrice di numerosi contributi alla

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Correspondence. Era moglie di un ricco esattore di imposte, amica di Voltaire c di Rousseau (a cui aveva ceduto, dopo averla sistema* ta, una delle sue residenze preferite, l’£remitagè) e quando Mozart la conobbe viveva con Melchior Grimm. Per la verità in quel momento i rapporti d’amicizia tra Voltaire e Madame d’Epinay, tra Rousseau e Grimm (e anche alai) si erano raffreddati o interrotti, se non addirittura trasformati in dura ostilità. Ma a Diderot Grimm rimase legato per tutta la vita. Mozart visse dunque quasi tre mesi in un centro dell’illuminismo francese. All’inizio tutto andava bene. Mozart, all’unisono con padre, madre e sorella, considerava Grimm il migliore c più fidato amico di famiglia. Come tale egli si era d’altronde già dimostrato quando la madre si era ammalata. Lui c Madame d’Epinay avevano voluto mandare subito il loro medico dall’inferma, il che però non fu gra­ dito, dato che — cosa che non potevano sapere — la madre prefe­ riva un medico tedesco. Dopo la disgrazia Mozart fu senz’altro accolto in casa Grimm-d’Epinay; non solo gli fu assegnato un alloggio, ma anche cibo e bevande. Abitava “una graziosa cameret­ ta” (9 luglio), come comunica al padre. Passano però solo due mesi c di bello “non c’è che la vista; sono solo quattro mura” (1 settem­ bre). La variata disposizione d’animo aveva morivi profondi, che non possono essere ricercati solo in litigi personali. Può èssere che Mozart non fosse del tutto nel torto quando giudicava Grimm avaro e piccino, benché gli volesse pagare il viaggio a Salisburgo; è davvero difficile capire perché Grimm abbia finito per cacciare di casa il giovane ospite in modo tanto brusco, insistendo perché se ne andasse. Vorrà pur dire qualcosa se anche Mozart padre, altri­ menti sempre dalla parte di Grimm, giunge a privarlo del titolo di barone, fino ad allora sempre riconosciuto, dicendo di essere “molto seccato con Monsieur Grimm” per avere lui “sollecitato in modo sorprendente” la partenza dei figlio (1 ottobre), e questo poco tempo dopo che Grimm era stato degradato a “barone di fre­ sca nomina” agli occhi di Wolfgang (11 settembre). Può essere che abbiano avuto un certo ruolo anche i 15 luigi d’oro che Mozart aveva chiesto in prestito a Grimm “un bocconcino alla volta” durante la malattia della madre, e forse c’entravano anche diversità di opinioni politiche: Mozart desiderava infetti che nella guerra di successione 1 Prussiani fossero bastonati per bene” (31 luglio), ma aggiungeva: “[...] ma qui in casa non lo posso dire”.

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Ma il significato che rivesti per Mozart l’incontro con Grimm non può essere compreso sui piani finora considerati. Mozart non passò a bandiere spiegate nelle fila degli Illuministi: al contrario. Erano passate solo poche settimane da quando egli aveva commen­ tato la morte di Voltaire con parole che lasciano intrawedere un antagonismo apparentemente insanabile. Il “senza Dio”, l’“arcifurfente” era “crepato come un cane, come una bestia”, scrive nella stessa lettera in cui cercava di comunicare in modo allusivo a padre e sorella la morte della madre (3 luglio 1778). Anche l’episodio relativo a Grimm si chiuse, come vedremo fra poco, con una netta rottura. Non si trattava ovviamente del primo incontro di Mozart con l’illuminismo. Suo padre era per certi aspetti da annoverare tra gli Illuministi; Mozart era stato educato secondo princìpi vicini all’illuminismo. (È sintomatico che il commento del padre per la morte di Voltaire non sia così implacabile come quello del figlio. “Anche Voltaire è morto! Ed è morto così come era vissuto; per la sua gloria postuma avrebbe potuto fare di meglio”, scriveva Leopold Mozart il 29 giugno 1778). Mozart doveva trovare la propria via e seguirla, ma questa non procedeva in linea retta. Anche l’incontro con Grimm non può ricondursi a una semplice formula. E soprattutto non può mancare in questo il lato specifico musicale. Che è l’aspetto decisivo. “L’immagine che la musicologia tedesca ci presenta di Grimm come critico musicale", scrive il romanista Martin Fontius (1989, p. 47), “somiglia più a una caricatura che a un ritratto serio e scientifico”. Fontius ha ragione; mi atterrò nel seguito alle sue indi­ cazioni, anche se la sua pur fondata richiesta che “prima o poi venga scritto un libro dal titolo ‘Le idee estetiche di Grimm’” (p. 49) non potrà ovviamente essere soddisfatta in questa sede. Il nostro peggiore peccato d’omissione consiste nel non aver preso atto della competenza di Grimm nel campo musicale. Grimm non era un musicista provetto, ma aveva fatto molta musica, anche composto qualcosa, era giunto a possedere conoscenze tecniche precise e aveva riflettuto sui temi della musica in stretto contatto con le migliori menti d’Europa. Rousseau riferisce (1770, p. 484) che la sua amicizia con Grimm èra iniziata nel 1749, dopo aver “passato l’intera giornata a fere musica insieme”. All’epoca Grimm, venciseienne, si era appena trasferito a Parigi e aveva allacciato rap­ porti amichevoli anche con Diderot e Helvétius. Tre anni più tardi

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scriveva una satira maligno-brillante Sull’Opera francese dal titolo Le petit prophète de Boehmisch Broda, 1753. Due importanti voci per Y Enciclopedia di Diderot apparvero nel 1765- nel decimo volu­ me la voce rigorosamente teorico-musicale “Motif” e nel dodicesi­ mo la voce “Poème lyrique”, che fino ad allora era stato analizzato dalla musicologia come se si trattasse di un qualunque genere liri­ co. Si tratta di un’analisi competente e critica del libretto d’opera dell’epoca e della questione operistica nel suo complesso, un’analisi ricca di provocatori stimoli e suggerimenti. Ricordiamo fra l’altro che anche alla voce “Lyrique” del Dizionario di musica di Rousseau si poteva leggere che “al giorno d oggi” (1767) il termine “lyrique” veniva utilizzato per indicare “l’insulsa poesia dei nostri melodram•M mi . Immaginiamoci la situazione. All’inizio, quando il rapporto con Grimm era ancora intatto e la cameretta in casa sua era ancora gra­ ziosa, Mozart era tutto orecchi quando gli capitava di sentire le acute opinioni di Grimm, dettate dall’esperienza. Non c’era moti­ vo per non prenderle sul serio. Due volte (1’ 11 e il 28 maggio) il padre aveva caldamente consigliato di discutere con Grimm il libretto della progettata Opera francese. Il che Mozart fece: “...ho ascoltato anche il consiglio del Barone Grimm e di altri buoni amici”, scrive il 3 luglio. Se pure questo consiglio può riferirsi a qualcos’altro — ad esempio al rifiuto dell’offerta tu un posto di organista alla corte di Versailles — non può comunque sussistere alcun dubbio sul fatto che Mozart abbia parlato con Grimm anche del problema del libretto d’opera. Di tempo per le discussioni ce nera abbastanza. In più di due mesi, scrive al padre (11 settembre), in casa Grimm non avrà pranzato “più di 14 volte a far tanto”. Non vogliamo controllare il numero dei suoi pasti in casa Grimm, ma la madre già il 12 giugno aveva scritto che Wolfgang aveva mangiato con Raff da Grimm; e la comunicazione relativa alla con­ corde condanna della musica francese e alla buona armonia con Grimm, allora chiamato ancora Barone Grimm, risale all’inizio di aprile del 1778. Ciò appare importante in quanto prova che c’erano state numerose occasioni di dialogo. Come andarono le cose si può ampiamente ricostruire. I colloqui di Mozart con Grimm avevano luogo in un’epoca di aspre controversie, a cui Grimm partecipò in modo decisivo. Uno dei principali punti di dissenso era se l’Opera francese avesse anco­

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ra una possibilità di sopravvivenza, in particolare rispetto all’Opera italiana. II dibattito fu risolto dall’arrivo di una compagnia di can­ tanti italiani, che in un’epoca in cui Mozart non era ancora nato, cioè fra il 1752 e il 1754, avevano eseguito a Parigi La serva padro­ na di Pergolesi e altre opere buffe italiane. I pensatori e i musicisti più avanzati, fra i quali Diderot, Rousseau e Grimm, restarono affascinati dalla freschezza di questi piccoli capolavori, da ciò che veniva percepito come spontaneità, dalla ricchezza di idee di quei compositori, tanto da rafforzarsi nell’opinione che la lingua france­ se fosse inadatta al canto operistico; il futuro della musica risiedeva secondo loro soprattutto negli italiani. Rispetto a questa esperienza Rousseau ebbe una duplice reazione. Già nel 1752 si lasciò ispirare alla composizione dell’operetta Le devin du village (in lingua fran­ cese), che gli valse un inatteso successo, e scrisse l’anno dopo la Lettre sur la musique frangaise, apparsa anonima ma immediata­ mente da tutti riconosciuta come sua. In un’estremizzazione quasi grottesca dei suoi argomenti, Rousseau metteva sotto accusa la musica francese; analizzava un celebre brano dall’ylrw^ di Lulli (1686) dimostrando — non del tutto a torto — che in esso la poe­ sia non era declamata correttamente, che il pezzo non possedeva né melodia né un accompagnamento utilizzabile, e che nemmeno i suoi collegamenti armonici erano adeguati all’azione. E l’intera let­ tera — occupa quasi cinquanta pagine a stampa — culmina nell’assurda affermazione “che i Francesi non hanno e non possono avere alcuna musica” (1753, p. 95). Tutto ciò doveva apparire tanto più provocatorio in quanto Rousseau aveva osato scrivere di proprio pugno una piccola operetta contro i due grandi dell’Opera francese, Lulli e Rameau. E questa operetta, oggi lo possiamo dire, ebbe successo non per spiccate qualità musicali (che non ha) ma per la sua posizione ideologica. Il che non avviene certo di rado nella storia della musica. Le devin du village spostava il baricentro su melodie cantabili e semplici, si allontanava dalle situazioni allegorico-mitologiche privilegiando invece le quotidiane cure degli uomini, anche se questi uomini erano pastori che agli occhi nostri non appaiono oggi particolarmente umani e autentici. (Non sap­ piamo se fra Mozart e Grimm si sia parlato del fatto non irrilevante che Mozart dodicenne aveva, quindici anni dopo Rousseau, musi­ cato lo stesso testo in traduzione tedesca nel Singspiel Bastien und Bastienne, 1768).

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Anche Grimm, come già detto, si convinse della superiorità della musica italiana e della maggiore adattabilità della lingua ita­ liana alla musica, a tali convinzioni attenendosi saldamente. Ancora nel 1778 voleva che Mozart “guardasse sempre in direzione di Piccini [w]”, del “suo Piccini”, come Mozart sottolineava vele­ nosamente, “e anche di Caribaldi, perché adesso qui hanno appena fatto una miserabile opera buffa...” (11 settembre). Pare dunque che Grimm assumesse a modello i compositori italiani indipenden­ temente dal fatto che componessero su testo italiano o francese: Piccinni aveva infatti appena rappresentato a Parigi un’opera in lin­ gua francese. Mozart, deciso a cimentarsi in un’opera francese, in quel momento non poteva prevedere quali sviluppi avrebbero potuto avere in seguito per lui le possibilità dell’opera buffa. E per contro Rousseau (com’era complicata la situazione!) aveva appena ritrattato i suoi dubbi circa la musicalità della lingua francese. Del che era stato causa determinante Gluck. Quest’ultimo era arrivato a Parigi per far conoscere le proprie opere in francese: Iphigénie en Aulide e Orphée (ambedue del 1774), Alceste (1776) e Armide (1777). La cosa fece grande scalpore e il pubblico musicale della capitale si divise in due partiti. Nicola Piccinni (1728-1800), com­ positore per nuha secondario, fu assunto dagli oppositori di Gluck a suo rivale, e le differenze d’opinione divisero anche il mondo degli Enciclopedisti. Con quella magnanimità da gran signore che lo distingueva, durante il suo soggiorno parigino Gluck si tenne al di sopra della divisione in partiti. Si recò a far visita a Rousseau, gli espresse la propria stima e gli chiese non solo un consiglio per la versione francese delle proprie opere, ma anche una copia delle composizioni di lui, di Rousseau. Quest’ultimo approfondì per parte sua la conoscenza delle opere di Gluck, vi trovò molto di ammirevole, ne analizzò più d’un brano con partecipe sensibilità artistica. (Per approfondire l’argomento cfr. Giilke, 1984a, pp. 180-211, e 1984b, pp. 158-168). Grimm non ne fu invece per nulla impressionato. Non è difficile intuire che il problema decisivo non era la lingua italiana o francese. Quando Gluck solo pochi anni dopo parlava della “risibile differenza fra musiche nazionali” e dichiarava auspi­ cabile “una musica propria di tutte le nazioni”, si poneva concreta­ mente da un punto d’osservazione più elevato che non le liti sulla lingua. Anche Mozart, come verrà analizzato in altra sede, si è sem-

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pre espresso (in termini puramente musicali, non nelle parole) in senso sovrannazionale. Ancor meno pertinente alla sostanza del problema era un altro punto, attorno a cui si disputava in modo assai violento. Oggetto di polemica tra Rameau e Rousseau era infatti divenuta la questio­ ne se la melodia dovesse essere l’elemento trainante della musica o se invece la melodia dovesse derivare dai collegamenti armonici. Ma il punto centrale non era nemmeno questo. Jean-Philippe Rameau (1683-1764), importante come compositore quanto come teorico, era vicino agli Enciclopedisti. Era in rapporti d’ami­ cizia con Diderot, e d’Alembert, che lo ammirava come composi­ tore, ne divulgò le teorie in uno scritto pubblicato nel 1752. In tali teorie c’era un punto assai particolare. Quella parte della teoria secondo cui gli eventi armonici potevano essere ricondotti a un numero limitato di funzioni, le quali a loro volta potevano essere assunte da diversi accordi, è infatti una prospettiva acuta e utilizza­ bile in ugual misura per lo studio della composizione e per l’analisi solamente se ne limitiamo l’applicazione a una ben precisa fase sto­ rica. Ma di ciò Rameau non voleva assolutamente accontentarsi, così come — ahimè — tanti altri teorici dopo di lui. La teoria deve sempre derivare da leggi di natura ed essere di universale validità. Così che — se vogliamo interpretare — le composizioni di Rameau non possano non ricevere il marchio della gloria imperitu­ ra. In non meno di ventiquattro fra libri e articoli, scritti nello spa-’ zio di circa quarantanni, ciascuno dei quali tentava di migliorare e modificare il precedente e finendo in parte per contraddirlo, Rameau cercò di produrre la prova del fatto che gli eventi armonici sfionderebbero su dati aritmetici (o, come in seguito pensò, fisici). Che le leggi artistiche fossero riconducibili a leggi di natura doveva essere cosa assai gradita proprio agli Enciclopedisti con l’implicito superamento di un’idea teocentrica. Ancora negli anni Cinquanta Rameau avrebbe dovuto scrivere le voci musicali A&W Enciclopedia, ma ciò non si realizzò, forse anche perché in Diderot e Grimm erano sorti dei dubbi sulla correttezza delle teorie di Rameau. Dubbi d’altronde giustificati. Al più tardi nel 1863, l’anno in cui il naturalista e fisico Hermann von Helmholtz (1821-1894) pub­ blicò la sua Lehre von den Tonempfindungen [Trattato di acustica], si afferma chiaramente che “la costruzione delle scale e del tessuto armonico sono prodotti dell’invenzione artistica e in nessun modo

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immediatamente determinati per costruzione naturale o per mezzo della naturale attività del nostro orecchio”; e in un altro punto Helmholtz dice: “[...] non si basano su immutabili leggi di natura [...] come sinora si è per lo più affermato. Peraltro le leggi naturali dell’attività del nostro orecchio svolgono un ruolo grande e signifi­ cativo; esse sono per così dire le pietre di costruzione utilizzate daU’impulso artistico degli uomini...” (1863, pp. 587 e 386). Il che è importante nel nostro contesto, in quanto nella cerchia di Diderot venivano elaborate riflessioni del medesimo tenore già cent’anni prima di Helmholtz. Ovviamente non erano suffragate da esperimenti e nascevano palesemente senza conoscere gli esperi­ menti condotti nel medesimo periodo (ma resi pubblici solo in seguito) da Ernst Florens Friedrich Chladni, coetaneo di Mozart. Le sue Entdeckungen uber die Theorie des Klanges [Scoperte sulla teoria del suono], Lipsia 1787, accennano (sulla base delle rappre­ sentazioni grafiche di suoni, già famose a quell’epoca) al fatto che in acustica vanno osservati i più diversi tipi di vibrazione, non solo i più semplici rapporti determinati dalla corda vibrante, così come si era fatto fino ad allora. Il che ebbe notevoli conseguenze sul piano teorico. Nel 1771 fu pubblicato a Parigi il libretto Legons de clavecin et prìncipes d'harmonie^ come autore era indicato Monsieur Bemetzrieder, e non abbiamo motivo di dubitare che le argomenta­ zioni musicali in esso esposte fossero realmente di pugno di Anton Bemetzrieder (1743 o 1748-ca.l817), musicista stimato e appog­ giato da Diderot. Il libretto potrebbe però essere stato scritto essen­ zialmente da Diderot. Anche Grimm era d’accordo con Bemetzrieder, come apprendiamo da una lettera di Diderot aH’amico Charles Burney, in cui Diderot raccomanda caldamente questo libro. I passaggi decisivi per il nostro contesto sono quelli in cui si riconosce l’importanza che in musica rivestono il gusto, l’intuizione, la libera scelta dell’interprete, addirittura il mistero. L’ultima parola potrebbe non spettare alla fisica; la scala cromatica è ‘prodotto comune di natura e arte” (1771, p. 347). Le critiche alle teorie di Rameau, sprezzantemente definite “chiacchiere”, determinano il tono del libro, scritto in forma dialogica; il maestro, i suoi allievi, un allieva (la figlia di Diderot) e il filosofo sono i per­ sonaggi. Se Mozart fosse stato uno degli interlocutori di questo dialogo è sicuro quale posizione avrebbe assunto. La sua afferma-

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zione (citata a p. 206) circa l’inutilizzabilità delle antiche regole chiarisce quale potesse essere la sua opinione sulle leggi immodificabili. Un altro passaggio del medesimo libro (p. 342) contribuisce a illuminare ulteriormente lo sfondo sul quale Grimm parlava col suo giovane protetto. Diderot fa dire al “maestro” che “la musica di Cramer” (un compositore citato nel dibattito) "è per una piccola minoranza, mentre la musica che io amo è destinata alla grande massa. E questo bisogna sempre porselo come meta: l’istruzione o il divertimento della grande massa”. Questo è il tenore degli argo­ menti su cui Grimm era d’accordo. Nel suo Piccolo Profeta, la brillante satira del 1753, “una voce” parla in tono biblico a un piccolo musicista di balletto; costui viene miracolosamente trasportato a Parigi, e proprio a lui, chiamato “Waldstòrchel”, il cui padre viene dalla “strada degli ebrei nella città vecchia di Praga” e lui stesso da “Boehmisch Broda in Boemia”, proprio a lui la “voce” affida il compito di risanare l’Opera parigina. Egli dovrà far sparire quello strano miscuglio chiamato Opera, insieme di danze, salmodie, canzonette, metten­ do cantanti veri al posto di miserabili urlatori, mandando a capo dell’orchestra anziché dei taglialegna dei musicisti che possiedano gusto e sensibilità per il genio; facendo sparire dalla scena i demoni e le ombre, le fate e gli spiriti e tutti gli altri mostri, e solo allora la “voce” darà vita e genio a un uomo, a lui affidando il compito di impadronirsi di quella specie di teatro chiamata “Académie de Musique”. Con toni affatto diversi ma nello stesso spirito, nell’ampia voce dedicata all’Opera (v. Appendice, p. 408) Grimm critica la vita operistica parigina. Può un ascoltatore ragionevole, egli si chiede, lasciarsi incantare da quegli esseri favolosi che popo­ lano la scena dell’Opera, può immedesimarsi in essi, provare quei sentimenti? Anche le opere francesi devono assumere a oggetto il destino degli uomini reali, così come è già successo in altri paesi. Altrimenti la musica stessa finirebbe per rinunciare alla sua vera forza, svuotarsi in pura routine. — La voce Sull’Opera era stata scritta da almeno dodici anni quando Grimm parlò con Mozart, ed è improbabile che egli abbia inserito nella discussione ogni singola opinione allora espressa, tanto più che nel frattempo si era aggiun­ to almeno un nuovo elemento: l’arrivo di Gluck a Parigi La fonte più importante delle opinioni di Grimm in campo musicale è

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naturalmente la Correspondance littéraire. Ma Grimm era stato direttore responsabile ai questa pubblicazione (dal maggio 1753) solo fino al 15 febbraio 1773. “Dopodiché l’incarico fu assunto da Jakob Heinrich Meister, che veniva da Zurigo, con piena responsa­ bilità a partire dal 1775” (Fontius, p. 48). Comunque non sarem­ mo troppo lontani dal vero supponendo che le opinioni esposte sul problema deU’Opera dopo Gluck in un articolo della Correspon­ dance dell’aprile 1774 (vol. X, pp. 416—419) concordassero con le opinioni di Grimm. VI si riferisce come ormai il mondo degli amanti dell’Opera sia diviso in tre partiti. Il giudizio peggiore espresso nella descrizione della Correspondance è riservato al gruppo dei sostenitori della vecchia Opera francese. Costóro, si cuce, lamentano il fatto che si sia messo da pane un genere senza averlo sostituito con qualcosa di meglio. Invece di dormire come d’abitu­ dine durante l’azione [durant la scène] adesso si è costretti ad ascol­ tare, e ciò a fronte del fatto che non c’è niente da scoprire che valga l’essere stati svegli. — Poi, si continua, c’è il partito di coloro che hanno giurato fedeltà alI’Opera italiana, a Jommelli, Piccioni, Sacchini. In quell’ambiente si rimprovera a Gluck una carenza in campo melodico, senza poter negare la sua conoscenza dei segreti dell’armonia. Con la distanza concessa dall’ironia, ma non senza rispetto (d’altronde mai mancato anche nelle precedenti critiche alle opere di Gluck), viene rappresentata la posizione di Gluck e dei gluckisti. Costoro affermerebbero che Gluck ha trovato la musica ideale per il teatro, una musica “che sgorga dalla sorgenti eterne dell’armonia” (col che Gluck veniva accostato a Rameau) e al tempo stesso “dai nostri più segreti sentimenti e intime sensazio­ ni”. Poi, dopo un accenno all’ideale di Gluck di una musica sovrannazionale e all’affermazione che egli sarebbe riuscito ad ade­ guare la propria musica alla lingua francese, giunge una frase che, stizzita e non lontana dalle posizioni di Grimm,1 allude a Rousseau: “Quest’ultimo partito può vantare un’illustre conversio­ ne” (p. 416). Tale scetticismo nei confronti della situazione operistica non può essere ridotto a controversie su questioni specifiche. Sia che dibattessero l'idoneità di questa o quella lingua, che contestassero

1 Gioco di parole; grimmig»stizzito, o aggettivo derivato da Grimm, Nd. T

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la validità di leggi eterne, dichiarassero la propria preferenza o l’insofferenza per un genere o per un soggetto, al di là delle diffe­ renze di opinione ciò che maggiormente interessava gli Enci­ clopedisti era il superamento di una vita musicale dominata dall’aristocrazia. D’Alembert sta a dimostrare (1759, p. 520) che abbiamo capito bene; fiutando con acuto istinto politico qual era il loro scopo e facendo (com’era vecchia e cattiva abitudine) il pro­ cesso alle intenzioni, gli Enciclopedisti erano secondo lui conside­ rati “un gruppo... formatosi per distruggere in un sol colpo religio­ ne, autorità, morale e musica”. Quando Mozart sedeva di fronte al cinquantacinquenne Grimm, aveva davanti a sé un uomo che aveva precise e approfon­ dite opinioni circa i principali eventi di questa epoca di transizio­ ne. Con i suoi ventidue anni, Mozart aveva già fatto concretamen­ te per questa transizione più di quanto potessero fere le migliori teorie, e solo pochi anni sarebbero dovuti trascorrere prima che la sua opera divenisse l’essenza stessa di tale evento. Ma fino ad allora egli aveva percorso questa strada senza troppo riflettere. Aveva appreso un mestiere senza tante discussioni critiche, e di dibattiti critici in generale ne aveva ascoltati ben pochi. Si pensi all’oppor­ tunismo del padre. Era dunque prevedibile che fra l’esperto Grimm e il Mozart alla ricerca di una propria autonomia, anche intellettuale, vi fossero dei punti di contatto. Uno di questi lo conosciamo con precisione: la scarsa considerazione per la musica francese. “Il Barone Grimm ed io diamo spesso libero sfogo alla nostra rabbia nei confronti della musica di questo paese”, scriveva Mozart il 5 aprile 1778. Su un altro punto Mozart poteva ben apprendere qualcosa dall’acuto senso critico di Grimm e sembra proprio averlo fatto. Grimm si dimostra nella sua analisi del libretto d’opera quello che egli stesso definisce “un critique éclairé”, un critico illuminato; si occupa non solo del libretto in quanto tale, ma anche delle circo­ stanze della sua nascita. Di ciò Mozart non aveva mai neppure sen­ tito parlare. Grimm si occupava della totalità del problema. Ad Atene, così egli argomenta (p. 830), quando Sofocle portava in scena un dramma lavorava per la patria, per la religione, per la sal­ dezza della repubblica, per lo stato; quando oggi uno dei poeti più in vista e stimati, Metastasio a Vienna, ha a che fere con lo stato è solo per questioni di polizia, che gli impone mille piccoli impedi­

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menti. Il teatro servirebbe al giorno d’oggi al divertimento di gente inetta, di quell’élite che viene chiamata “la bonne compagnie”, la buona società. E poi Grimm prosegue (p. 831) parlando dell’impresario d’opera, “I’entrepreneur”, “fra tutti i tiranni del poeta il più ingiusto e assurdo”; il suo credo viene espresso in un lungo discorso in prima persona articolato in otto punti. Comincia col chiarire al poeta che l’impresario non ha bisogno di lui; e dopo il poeta il compositore. Il mestiere dell’impresario è di far soldi. Perciò tutti i collaboratori devono fare ciò che il pubblico vuole e, da non dimenticare, ciò che vogliono i cantanti. A partire da que­ ste premesse l’impresario deduce poi tutte le insensate regole dell’opera seria che Mozart conosceva fin troppo bene. Ciò che Grimm aveva da sempre detto su questo tema — e nel 1778 aveva da dirne quanto ai suoi tempi se non di più — cadeva in Mozart su un terreno già dissodato. Quando alcuni anni dopo egli scrive da Vienna (21 maggio 1785) che “la locale direzione del teatro è troppo attenta al risparmio e troppo poco patriottica...” i suoi pensieri andavano esattamente nella direzione di Grimm. (Detto incidentalmente: è comprensibile che un conservatore come Hermann Kretzschmar non avesse grande interesse per un pensato­ re radicale come Grimm; con l’ingiusto giudizio secondo il quale l’estetica di Grimm mancherebbe “delle basi tecniche e storiche” e con l’infelice annotazione che lo si potrebbe tranquillamente “get­ tare a mare” [1903, p. 214], Kretzschmar ha contribuito alla disistimadi Grimm). In un altro campo, basilare per comprendere la successiva pro­ duzione mozartiana, Grimm è andato a toccare un nervo sensibile di Mozart. Un concetto centrale nella teoria dell’opera di Grimm è la rapidtté, concetto che solo approssimativamente può essere tra­ dotto con “rapidità”, e che invece implica “rapidità di sviluppo, brevità e concisione dell’azione e del dialogo”. (Nel seguito ripor­ terò il termine tale e quale, senza traduzione). “Come la rapidtté è un carattere inseparabile dalla musica e una delle principali cause dei suoi prodigiosi effetti”, si dice nella voce di Grimm dedicata al libretto (pp. 826 sg.), “così il corso dell’opera [la marche dupoéme fyrique] deve essere sempre rapide. I discorsi lunghi e oziosi [oùi/r] saranno del tutto inopportuni”. Sulla necessità della rapidité Grimm deve essersi espresso anche di fronte a Mozart; c ci sono numerose occasioni per osservare il fatto che Mozart era in grado

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di imparare rapidamente quando una nuova consapevolezza era venuta a maturazione. Quanto profondamente l’idea della neces­ sità, nell’opera, della massima concisione e brevità possibile l’avesse conquistato, ciò si può innanzitutto dedurre dalle lettere svSl Idomeneo indirizzate al padre da Monaco, e il fatto che l’idea fosse del tutto nuova per l’estetica della famiglia Mozart lo si può dedurre dalla reazione del padre. Quale grande risultato si potrà ottenere tagliando solo un paio di battute?, egli pensava. Ma Wolfgang non poteva essere frenato. Nelle lettere scritte tra il set­ tembre del 1780 e il gennaio del 1781 si può leggere in non meno di quindici passaggi il suo essere quasi posseduto dall’idea della brevità. I recitativi devono essere accorciati, arie e duetti eliminati, e viene introdotto — riferito ai dialoghi — il vocabolo “unnòtig” [inutili] (15 novembre 1780), che rimanda all’ oisifi di Grimm; la parte della voce sotterranea viene abbreviata due volte, e così pure due scene. Significativa per la successiva evoluzione è anche la presa di coscienza del fatto che le arie in una sola parte possono perfetta­ mente prendere il posto delle abituali arie in due o tre parti. Così, sintomaticamente, scrive Mozart a proposito di un’aria: “[...] fosse stata in una parte sola sarebbe andata bene lo stesso, anzi per me forse anche meglio” (5 dicembre 1780). E che il principio della rapidité non valga solo per l’opera è chiarito da un passaggio di una lettera dell’ 11 settembre; in quel caso si sta parlando del fatto che Mozart aveva l’intenzione di accorciare alcune delle sue prime sinfonie e dei concerti per violino: “perché da noi in Germania va molto il gusto lungo, ma in realtà è meglio breve e buono”. Anche a proposito del rapporto fra poeta e compositore le discussioni con Grimm diedero spunto a nuove idee e comporta­ menti. Fino ad allora i Mozart — padre e figlio — non avevano pensato di poter eccepire qualcosa a proposito dei libretti da mette­ re in musica; non si poteva che essere contenti di averne uno. Ma dopo Parigi Mozart non sarà mai sazio di esporre nuove e precise richieste al suo librettista, già in parte con sicuramente con il Ratto. L’autore del testo diventa per Mozart un partner che deve però subordinarsi a lui. Si confrontino ad esempio i due pas­ saggi seguenti: uno è tratto dalla voce dedicata al libretto da Grimm (p. 826), e precede immediatamente il già citato passaggio sulla rapidité, l’altro è un celebre passaggio da una lettera di Mozart datata 13 ottobre 1781: “Questa economia interiore dello spettaco­

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lo in musica, fondata da una parte sulla verità dell’imitazione e dall’altra sulla natura dei nostri organi, deve servire da poetica ele­ mentare al librettista [poete lyriquè\. In verità è necessario ch’egli si sottometta in tutto al musicista; egli non può ambire che al secon­ do ruolo; ma gli rimangono pur sempre buoni mezzi per condivi­ dere la gloria del suo compagno. Scelta e disposizione del soggetto, l’ordine e il percorso di tutto il dramma sono compito del poeta”. — “[...] in un’opera la poesia deve assolutamente essere la figlia obbediente della musica... la situazione ideale è che si incontrino un buon compositore, che si intende di teatro ed è in grado di pro­ durre egli stesso qualcosa, e un poeta intelligente, il che è una vera araba fenice”. L’incontro di Mozart con Melchior Grimm sarebbe dunque stato di grandissima importanza, quantomeno in campo professio­ nale, se non fosse intervenuta una discussione, che deve aver avuto luogo alla fine di luglio, a modificare radicalmente la disposizione di Mozart nei confronti del suo più anziano amico. Poiché Grimm comunicò in una lettera (perduta) al padre ciò che Wolfgang aveva detto, poiché il padre cita letteralmente lunghi passaggi di questa lettera in una lettera al figlio (13 agosto) e poiché anche quest’ulti­ mo per parte sua informa per lettera il padre della discussione (31 luglio), possiamo ricostruire la cosa. Wolfgang sarebbe zu treuherzig [troppo ingenuo] (nella lettera di Grimm, scritta in francese, sono queste le uniche parole in tedesco), troppo inattivo, troppo poco deciso a usare le strade per il successo, dovrebbe procedere con maggiore furbizia, avere più iniziativa, essere più ardito; sareb­ be meglio se avesse solo la metà del suo talento e in compenso una doppia porzione del giusto comportamento. Nulla poteva servire meno a Mozart in questa fase del suo sviluppo che sentire gli stessi consigli già tante volte espressi dal padre detti da un altro paterno consigliere. Mozart aveva già un suo piano di battaglia, e non era così fuori dal mondo come Mozart padre e Grimm sembravano credere. Già a Mannheim, Mozart progetta Un’Opera per Parigi. “L’idea di scrivere Un’Opera ce l’ho fissa in testa! Francese meglio che tedesca, ma italiana ancor meglio che tedesca o francese”, scri­ ve il 7 febbraio. E il 28 febbraio parla della sua intenzione di con­ centrarsi a Parigi sulla sua “composizione in assoluto favorita... cioè i cori”; del fatto che a Parigi li sanno eseguire bene, e anche apprezzare, che là “sono abituati ai cori di Gluck”. E prosegue:

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“[-•-] si fidi di me; curerò con tutte le mie forze di fare onore al nome Mozart”. Segue un lungo passaggio in cui giunge a scongiu­ rare il padre di aver fiducia in lui. A Parigi, Mozart giunse molto vicino alla realizzazione di questi progetti; sembrava ormai sicuro che giungesse la commissione per scrivere uri Opera francese. Due soggetti erano in discussione: un libretto da uriidea di Noverre si sarebbe dovuto intitolare Alexandre et Roxane, come Mozart riferi­ sce il 5 aprile e poi ancora il 3 luglio (un atto del libretto sarebbe stato già finito); l’altro sarebbe stato la traduzione del Demofoonte di Metastasio. Possiamo ben immaginare che cosa Mozart avesse in mente se confrontiamo i citati passaggi epistolari con la sua prossi­ ma grande Opera, YIdomeneo. L’ambizione di Mozart era niente di meno che sconfiggere Gluck sul suo stesso terreno, pur in un rap­ porto di grato e sincero rispetto. Doveva nascere una grande Opera francese con ampie parti corali, per la quale Gluck sarebbe stato uno stimolo, non un modello ineguagliabile. E proprio nel momento in cui il giovane genio progettava il passo in direzione dell’autonomia, del “diventare grande” sul suo terreno più proprio, mettendo in gioco tutte le sue forze, arriva Grimm che preferirebbe che lui avesse metà del talento che ha e in cambio una maggiore quantità di quel comportamento che è per Mozart sinonimo di fare anticamera. A ciò si aggiunge un evidente malinteso: perché ha anche sfiducia... nel mio talento”, scrive Mozart 1’11 set­ tembre, anzi: “Mio” scritto con la M maiuscola, “ma d’altronde lo sapevo già, perché una volta mi aveva detto direttamente che non credeva ch’io fossi in grado di scrivere uri Opera francese”. — Qualunque cosa abbia detto Grimm, va sicuramente riferito al suo insuperabile scetticismo nei confronti della grande Opera francese. Dobbiamo inoltre considerare, a sua giustificazione, che egli aveva innanzi a sé il giovane compositore della Finta giardiniera e dei Petits riens, non quello del Figaro. Che nella sua casa albergasse un profeta destinato a ben altri miracoli che quelli del collega di Boehmisch Broda egli non poteva certo saperlo, né abbiamo alcun indizio ch’egli anche solo lo sospettasse. L’incidente era ormai successo e seguì il suo corso. Per quanto alcune idee di Grimm siano state importanti per la futura estetica mozartiana, il suo nome non compare più, ed è molto probabile che Mozart abbia dimenticato o rimosso ciò che gli era capitato di ascoltare a casa di Grimm. Dell’uomo che ancora a marzo era “il

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nostro caro amico Grimm”, con cui ancora a luglio c’era piena intesa sui problemi musicali, adesso di lui si diceva che a casa sua l’ambiente era “sempliciotto e sciocco” (11 settembre). Può anche darsi che Grimm abbia espresso questa o quell’altra delle sue poche idee progressiste, perché non si può ricondurre solo a un risenti­ mento personale il giudizio totalmente negativo espresso da Mozart. Può darsi che Grimm abbia consigliato al suo giovane ospite di distinguere due tipi di declamazione, uno che scorre tran­ quillamente e che ha il proprio campo d’elezione nel recitativo, l’altro di carattere passionale e che è di casa nelle arie (Grimm, p. 825), mentre non solo in Mozart spesso può accadere esattamente il contrario; forse avrà voluto convincerlo della necessità di siste­ mare i cantanti in orchestra e lasciare agire in scena solo dei balleri­ ni (pp. 835 sg.); oppure gli avrà comunicato la propria convinzio­ ne che fosse innaturale che in un assieme o in un brano corale i cantanti pronunciassero le stesse parole sulla stessa melodia, in quanto non avrebbero potuto accordarsi prima (p. 832). È infine assai probabile che nei suoi discorsi a tavola Grimm abbia assunto un tono simile a quello con cui nella sua voce Sull’Opera tendeva a fissare che cosa un’opera dovesse o non dovesse essere. Oggi noi possiamo comprendere da dove provenissero simili idee; Diderot aveva infatti elaborato analoghe posizioni in campo teatrale. Tutto doveva: servire a che sulla scena, e anche sulla scena musicale, si potesse offrire a un pubblico nuovo uno spettacolo più penetrante, legato al presente, in cui riconoscersi. Già allora tali idee non pote­ vano essere estranee a Mozart, ma sul piano musicale egli andava in un’altra direzione. Ascoltando le idee di Grimm, Mozart deve essersi sentito mancare un po’ l’aria. Possiamo dunque immaginarci lo stato d’animo di Mozart quando il 7 agosto scriveva all’amico Bullinger. L’argomento era costituito dalla musica di corte di Salisburgo, l’occasione specifica la prospettiva di dover di nuovo presto lavorare in quelle condizio­ ni. Ma il tema è più ampio: i pensieri di Mozart vanno al di là dell’immediata prospettiva salisburghese. Nello spazio di due pagi­ ne a stampa viene proposta una descrizione amaramente ironica di tutto ciò che di falso è sempre stato fatto e continua a farsi a Salisburgo. Invece di procurarsi un bravo Kapellmeister si cercano solo nuove cantanti, di cui d’altronde non v’è certo penuria: una sarebbe brava solo a partorire, un’altra merita la galera, una terza

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dovrebbe essere frustata e un’altra decapitata. E se anche così si facesse, ci sarebbero pur sempre i castrati. Basterebbe solo commis­ sionare a Metastasi© a Vienna un paio di dozzine di opere in cui il primo uomo e la prima donna “non appaiano mai insieme. In tal modo il castrato potrebbe fare contemporaneamente l’innamorato e l’innamorata, e l’opera sarebbe resa più interessante magnificando la virtù dei due amanti, che li conduce a evitare con ogni possibile sforzo anche solo l’occasione di parlarsi in publico\ — ed ecco l’opi­ nione di un vero patriota!”. Ma abbiamo così anche una vera e pro­ pria estetica operistica definita in negativo. Sappiamo così che Mozart intende portare in scena i suoi innamorati con tutti i loro conflitti, che le loro più profonde conflittualità devono essere espresse non solo nelle arie ma anche nell’azione. Sappiamo che tale concezione porterà alla conseguenza di introdurre nell’Opera tecniche mutuate dall’ambito strumentale. Un’idea assai lontana dalle posizioni di Grimm. (A differenza peraltro di Diderot, che considera espressamente i bruits physicales fra le componenti origi­ narie della musica). C’era dunque sufficiente materiale infiamma­ bile anche in senso puramente musicale nei consigli che Grimm impartiva a Mozart. Si capisce dunque perché quest’ultimo finisse per non sentire altro, nei discorsi di questo amico paterno, che ciò di cui egli voleva liberarsi: il lato razionalistico e pedantesco delle opinioni di suo padre. Solo in tal senso possiamo capire quella bel­ lissima frase in cui Mozart si lascia andare con Bullinger, una frase che rappresenta il culmine del suo sfogo e con cui chiude: “Faccia tutto il possibile affinché la musica possa presto avere un culo: que­ sta è la cosa più importante; una testa ce l’ha già: e questa è davve­ ro una disgrazia!”. Durante il viaggio a Mannheim, Monaco e Parigi la maggior parte dei progetti era fallita e qualcosa era andato perso. E l’incon­ tro con i pensatori dell’illuminismo francese fu alquanto ambiva­ lente. Ponendosi sulla difensiva nei loro confronti, giudicandoli in modo unilaterale, addirittura insultandoli, Mozart ne ricavò tutta­ via insegnamenti che non avrebbe potuto ricevere altrove. E tutto ciò senza saperlo. Nei periodi tempestosi gli sviluppi delle idee hanno questa caratteristica: spesso percorrono strade indirette.

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Bilancio salisburghese

Per venticinque anni Salisburgo fu la residenza di Mozart. Ma sarebbe inesatto definirla la sua patria; troppo frequenti e consistenti sono i suoi amari giudizi non solo sulla corte, ma anche sulle condizioni di vita a Salisburgo in generale, sulla mancanza di “divertimento”, il che per Mozart significava sempre anche stimolo, e sul rozzo stile di vita dei salisburghesi. E se il giudizio di Mozart vi pare troppo unilaterale, sappiate che quello del padre non era più tenero. Naturalmente i Mozart passarono a Salisburgo anche ore spensierate e piacevoli in cerehie familiari o amicali o al Pdlzelschiefien, x uno dei divertimenti preferiti a Salisburgo, a cui più volte i Mozart presero parte. Nella cerchia dei loro amici troviamo Johann Andreas Schachtner (1731-1795), musicista, scrittore e attento cronista di alcuni episodi dell’infanzia di Mozart, e Franz Joseph Nepomuk Bullinger (1744-1810), persona di multiforme cultura, educato dai gesuiti, assai devoto ai Mozart, che peraltro intorno al 1781 sembra diventare amico più del padre che del figlio (E.F. Schmid, 1953, p. 21). Parleremo nel capitolo 11 di altri amici salisburghesi. Il cuore di Mozart non fu mai a Salisburgo. Ricordiamo però anche che più di nove anni di questa fase della sua vita egli li trascorse in viaggio, cioè — se non consideriamo i sei 1 Una specie di tiro al piattello, N.tLT

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anni di infanzia — la metà esatta del suo periodo salisburghese. Il bilancio della produzione compositiva di questo periodo dovrà cominciare precisando che quantitativamente più della metà dell’opera di Mozart fù scritta prima che egli facesse di Vienna la sua definitiva residenza: ma anche qui non si potrà parlare di patria. Nei lunghi periodi dedicati ai viaggi, l’attività compositiva di Mozart non diminuiva assolutamente, ma riceveva anzi nuovi stimoli, mentre le modalità produttive non erano diverse da quelle di Salisburgo. Mozart componeva ciò che gli veniva richiesto dai committenti o dalle semplici circostanze. Non che ciò fosse una cosa fuori dal comune. È noto che nella seconda metà del XVIII secolo era ancora regola che i compositori, a parte esibizioni priva­ te in cerehie di amici, producessero dietro pagamento opere musi­ cali che venivano loro richieste da personaggi agiati e colti per il soddisfacimento del loro bisogno di musica. Teniamo a mente che tale bisogno era ancora per la stragrande maggioranza delle persone realizzato da un far musica in prima persona o, nelle città, in modi comunque poco dispendiosi; questa circostanza comporta certe conseguenze nello sviluppo di Mozart così come in quello della musica del suo tempo: da questi strati sociali potevano arrivare nuovi ascoltatori per una musica che si poneva al massimo livello dell’epoca. Il compito che Mozart si era autonomamente prefisso di conquistare “il plauso dell’incolto” (13 ottobre 1781) si riferiva a costoro. Ma solo a Vienna egli si trovò di fronte un pubblico com­ posito. A Salisburgo e nei suoi viaggi era comunemente considera­ to normale che i compositori, chiaramente non sempre senza un disagio interiore, si adeguassero ai desideri del committente. Tali desideri si intersecavano con i limiti di volta in volta fissati, mante­ nersi all’interno dei quali faceva parte del mestiere di compositore: limiti stabiliti dal luogo, dalle circostanze, dalla tradizione esecuti­ va, differenziati in senso nazionale, regionale, sociale, determinati dalle capacità degli esecutori e dalla preparazione degli ascoltatori, e anche dall’estensione degli strumenti e delle voci cantanti. Tutto ciò sembrava per Mozart essere uno stimolo, più un incentivo che un freno. Fin nelle sue ultime composizioni egli è stato brillantemente in grado di armonizzare circostanze esteriori e interiori esi­ genze. All’epoca di Mozart e a lui stesso era ancora sconosciuta la ribellione di Beethoven contro le condizioni materiali del far musi­ ca, posizione che classicamente si esprime nella sua nota afferma­

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zione secondo la quale egli non poteva pensare ai miserabili stru­ menti quando lo Spirito scendeva su di lui. Ciò ha certo a che fare col fatto che Beethoven viveva la situazione musicale del suo tempo come qualcosa di rigido e immutabile, come una costrizione impo­ sta dall’esterno, mentre Mozart rivendicava il diritto di collaborate al suo cambiamento e ne sentiva la necessità interiore. E ciò implica che lui, con gli anni, divenne sempre più insoddi­ sfatto delle condizioni in cui faceva musica. Il suo disagio si espri­ me principalmente in tre forme reciprocamente interrelate. Innanzitutto la sua furia contro la situazione musicale salisburghese non conosce confini. Egli tuona contro “questa rozza orchestra di corte, sciatta e cialtronesca” (9 luglio 1778) e afferma che “noi ci distinguiamo in tutto dall’orchestra di corte” (24 marzo 1781). Lo schema operistico di Metastasio viene liquidato sarcasticamente (cfr. p. 84). In secondo luogo s’accresce la sua amarezza nei con­ fronti dei diversi principi che gli accennano vaghe promesse che finiscono in nulla e che gli costano tempo e denaro. La conversa­ zione fra Mozart e lo Hofmusikintendant [intendente musicale di corte] di Mannheim (10 dicembre 1777) così si conclude: “[...] in ogni caso io Le sono, signor conte, ... molto obbligato per essere intervenuto così cortesemente in mio favore e La prego di ringra­ ziare a nome mio il principe elettore [quest ultima parola scritta nella scrittura cifrata di Mozart] per la notizia, arrivata in ritardo ma gradita: e comunque Le assicuro che non si sarebbe mai pentito di avermi assunto”. Tre mesi più tardi, già a Parigi, dice lapidario: “...i prìncipi tedeschi sono tutti spilorci” (7 marzo 1778). In terzo luogo a partire da questo malumore si cristallizzò la consapevolezza — tanto più chiara quanto più esperto del mondo Mozart diventa­ va, ma per molti anni ancora, e ancora negli anni viennesi, cercata a tentoni — che il futuro sviluppo intuitivo del suo stile necessita­ va di una meta e una direzione. Già a ventidue anni è per lui chia­ ro che il rinnovamento dello stile è un processo costante. Sulla Allgemeine musikalische Zeitung di Lipsia fu pubblicata fra il 1881 e il 1882 in non meno di venti puntate un’interessante analisi delle opere teatrali giovanili di Mozart. L’occasione era stata offerta dall’uscita dei volumi relativi appunto a tali opere della Alte MozartGesamtausgabe (che fu pubblicata in 69 volumi dal 1877 al 1905); l’autore della dissertazione era Friedrich Chrysander (1826-1901), l’uomo che aveva pubblicato grazie a uno straordinario impegno

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personale gli opera, omnia di Handel (in 93 volumi, 1858-1901), opera di un vero esperto e uomo eccezionale. L’analisi di Chrysander parte confrontandosi con Otto Jahn, il quale nella sua biografia mozartiana (1856—1859) aveva attribuito un alto valore artistico anche alle opere teatrali giovanili. Il lavoro di Jahn, pionieristico nell’analisi delle fonti e nelle posizioni filosoficoestetiche, aveva però un punto di debolezza nelle limitate conoscenze musicali dell’autore. Càpita ad esempio che Jahn, non conoscendo i precursori di Mozart, li sottovaluti, attribuendo di conseguenza un eccessivo valore alle opere di Mozart fanciullo e che veda inoltre una consequenzialità nel suo sviluppo, quasi una logica prevedibilità. Un concetto quest’ultimo che è senza dubbio strettamente collegato con l’indiscutibile postulato (la cui inconsistenza è già stata analizzata nel capitolo 2) secondo il quale le singolari doti musicali di Mozart l’avrebbero organicamente condotto alle vette dell’arte compositiva. Chrysander introduce invece tre principi metodologicamente corretti: riabilita i precursori di Mozart, in particolare i compositori italiani di opere e oratori, in modo che “si possano ripresentare nella buona società”; si farebbe loro torto e si disconoscerebbe inoltre il valore delle opere di Mozart se si pretendesse che i compositori prima di lui non avessero fatto altro che fissare convenzioni che il genio precoce si sarebbe poi incaricato di superare. In secondo luogo Chrysander colloca nella giusta prospettiva il “lavoro giovanile, per non dire infantile, del grande Mozart” (si parla di Mitridate, l’opera seria di un autore non ancora quindicenne): Mozart non poteva allora certo avere la maturità necessaria a padroneggiare la complessità psicologica del dramma metastasiano, a parte il fatto che egli era stato educato dal padre più alla “musica strumentale sinfonica” che allo stile del belcanto. Una parzialità di formazione che lascia chiare tracce che non vanno a vantaggio dell’opera. Infine Chrysander polemizza con l’idea di Jahn dello sviluppo sistematico e graduale di Mozart. Egli si domanda indignato: “Che egli non si sia manifestato a salti, per esplosioni? Ma dove sta scritto? Che cosa sono Idomeneo, Ratto, Figaro, Don Giovanni, Flauto magico, Requiem, se non i più imprevedibili salti? Erano forse prevedibili come le eclissi di luna, calcolabili come le orbite di una cometa?” (a. 81, col. 810; a. 82, col. 85, 103, 107, 122). Chrysander ha ragione in ciascuno dei tre punti. Da allora in poi tutti gli autori credibili hanno visto le cose

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più o meno così. Manca ancora, però, un’analisi complessiva dei differenti tipi di processi d’apprendimento. Uno di questi processi, che caratterizza il periodo salisburghese, è continuativo: la crescente padronanza dell’artigianato compositi­ vo. (Che aumenta fino a giungere verso la metà degli anni Ottanta all’apice raggiungibile). Ma inestricabilmente legati alla padronan­ za troviamo una serie di processi che obbediscono a condizioni e regole ben diverse da quelle del basso continuo. È cominciato come un gioco. Non è un caso determinato linguisticamente che già a quattro anni lui sapesse suonare vari strumenti avendo imparato a suonarli giocando e che giocando producesse qualcosa su di loro.2 E ciò vale anche per il fatto che, parlando in generale, con un atteggiamento ludico si fa più di quanto normalmente sia accettato. La lezione si svolgeva secondo le regole di un gioco, non sulla base di un senso esecutivo. Da bambino egli imparò che cos’è un accordo di quinta e sesta, che cosa una falsa relazione e come si risolve una dissonanza, come si possono imitare gli affetti e la natura; anche la varietà dei generi musicali derivò naturalmente dal modo in cui il bambino imparava. Il padre era un compositore prevalentemente strumentale, e come tale- cominciò dunque anche Wolfgang; il suo primo strumento fu il pianoforte, i primi modelli che egli apprese, tramite le lezioni di musica della sorella, furono piccoli pezzi per pianoforte. Solo a Londra, e allora (a otto anni) aveva già alle spalle due o tre anni di attività compositiva, scrisse i suoi primi pezzi vocali. Aveva nove anni quando compose i primi pezzi sacri, un Mottetto, forse anche un Kyrie, e dieci anni quando scrisse il primo pezzo che poteva ricadere nei poco rigidi confini della categoria dei Divertimenti, Cassazioni e Serenate, che hanno in comune il fatto di articolarsi in una divertente alternanza di contrasti e di sorprese; il primo contributo di Mozart a questo genere si intitola Galimathias musicum, KV 32, 1766. La prima Sinfonia era invece già stata composta, a soli otto anni. I Concerti e le opere sceniche entrarono nel suo repertorio quando aveva dodici anni, e con il primo Quartetto per archi (KV 80, scritto a quattordici anni, nel 1770) egli affronta, a partire dalla categoria di Divertimenti e Serenate, il genere della musica da camera. — Dobbiamo registrare il fatto che 2 Spielen significa in tedesco giocare e suonare, Nd T

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Mozart, fra i sei e i dodici anni, affrontò tutti i generi musicali (meno uno) che avrebbe poi affrontato nel resto della sua vita. L’eccezione: il suo primo canto massonico fu scritto a sedici anni. È assai facile ricostruire il corso secondo cui il bambino apprese le regole allora in vigore. In un fascicolo musicale manoscritto che papà Mozart regalò a Nannerl quando aveva nove anni come libro di studio e di esercizio e sul quale anche Wolfgangerl ben presto iniziò a imparare il basso continuo, si trovano fra l’altro tre compiti, consi­ stenti in un basso sul quale viene indicato per mezzo di numeri quali accordi deve suonare l’esecutore; la conduzione delle voci nella rea­ lizzazione degli accordi è libera, nei limiti fìssati dalle regole:

Anche questa capacità è stata rapidamente appresa da Mozart; aveva solo sette anni quando nella Correspondence littéraire di Melchior Grimm (Parigi, 1 dicembre 1763) si poteva leggere che il più perfetto maestro di cappella non poteva superarlo nella scienza dell’armonia e della modulazione. Il metodo del padre aveva evi­ dentemente dato buoni risultati, e Mozart, quando nel 1785 darà lezioni all’allievo inglese Attwood, ad esso si atterrà. Ma se nel basso continuo c’era qualcosa di saldo da trasmettere, qualcosa di chiaramente formulabile e assimilabile, le cose stavano diversamente per altri non meno importanti aspetti del processo compositivo. Anche un argomento apparentemente solido come la teoria della forma, che non potrà mancare nella formazione del compositore del XIX e del XX secolo, all’epoca .ancora non esiste­ va. “La forma musicale costituiva nella... didattica compositiva del XVIII secolo un problema assolutamente secondario”, si legge in un affascinante studio di Peter Benary (1961, p. 148), ma sappia­

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mo anche che all’epoca in cui Mozart stava imparando le cose ini­ ziavano a cambiare; concetti come variazione, alternanza, sezione, simmetria e il concetto, di certo non facilmente delimitabile, di goùt o gusto verso la metà del secolo iniziano a diventare di uso normale nei manuali e nei dizionari di composizione. Ma il tratta­ to di Leopold Mozart, d’altronde concepito per il violino e non per la composizione, non ne tratta neanche uno, mentre l’opera che giustamente Benary considera il vertice dei trattati di composizione del XVIII secolo, cioè il trattato in tre volumi di Heinrich Christoph Koch (1749-1816), iniziò a diffondersi solo verso gli anni Ottanta, in un periodo cioè in cui Mozart poteva essere in una fase di apprendistato solo nella massoneria. Accanto all’istruzione attraverso le regole svolgeva infatti un certo ruolo un’altra forma di apprendimento, quella deU’imitazione. Attraverso l’imitazione, il bambino apprendeva come si costrui­ scono frasi di quattro, otto, sedici battute, come dai contrasti può emergere l’unità, come si devono far susseguire le sezioni di un brano musicale e cose simili. — Nel già citato quaderno sulle cui pagine bianche Wolfgang scrisse le sue prime composizioni si trova un Minuetto (oggi n. 48), da lui composto a sei anni e mezzo, ma che non era ancora in grado di scrivere. La stesura, ad opera del padre, è accompagnata da questa annotazione: di Wolfgango Mozart d. 16ten July 1762. Il pezzo inizia così: esempio 8

Un anno e mezzo più tardi nacquero le prime Sonate di Mozart, sei di numero, pubblicate all’Aja. La prima ha come Terzo movi­ mento due Minuetti, il secondo dei quali, con funzione di Trio, è identico al brano sopra citato. Però con una correzione poco appa­ riscente ma il cui principio è della massima portata. Nella prima versione la conduzione melodica in contrattempo si estende solo nelle prime quattro battute: da battuta 5 in poi il ritmo sincopato viene sospeso e non ritorna più per tutto il pezzo, che pure si

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estende per ventidue battute. Questo è uno stile non buono, ma la regola per cui non è buono non è facilmente comprensibile. Il problema in questione è antico come la musica. L’inizio è libero, la prosecuzione no. Alla domanda “Wie fang ich nach der Regel an?” [Come dovrei cominciare secondo la regola?] Richard Wagner risponde nei Maestri cantori per bocca di Hans Sachs: “Ihr stellt sie selbst und folgt ihr dann” [Fissatela voi stesso e poi seguitela]. E que­ sta risposta non vale solo per l’epoca dei maestri cantori e non solo per l’Europa. Se cantando o suonando si è utilizzato un qualunque pro­ cedimento (nel nostro caso il contrattempo nella voce principale), ciò ha valore vincolante. Entra in vigore un principio che nasce da un indubbio bisogno psicologico e ad esso corrisponde, producendo l’unità o l’unitarietà di un prodotto estetico. È importantissimo il fatto che nelle teorie artistiche europee siano state formulate soprat­ tutto le deviazioni dalla regola dell’unitarietà: sotto i vari nomi di varietasy modulation sviluppo e simili (si vedano le voci neWHandworterbuch di Eggebrecht). La regola dell’unitarietà è sempre stata data per scontata e a tutt’oggi lo è, sentita come ‘naturale”. Ma in verità ambedue le cose fanno parte della produzione estetica: il manteni­ mento della via iniziata così come la deviazione da essa, l’introduzio­ ne di nuovi elementi, fino ad arrivare al contrasto sorprendente. In una delle sue prime composizioni, dunque, — si tratta del KV 6 — il Mozart di sei anni non ha ancora appreso per imitazio­ ne la regola dell’unitarietà; a battuta 5 la melodia si muove sui tempi buoni della battuta, a battuta 6 vi sono sei note da un otta­ vo, a battuta 9 dodici note da un sedicesimo. Ha introdotto troppi elementi nuovi. Ma già la versione del Mozart di otto anni correg­ ge questo errore. In essa la battuta 5 prosegue la sincope della voce principale, e le battute 7, 15 e 17 la ripropongono:

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II movimento-base viene in tal modo conservato per più di un terzo della durata complessiva (nella prima versione lo era solo per poco più di un quinto, e per di più isolato all’inizio), potendosi così evidenziare opportunamente anche gli elementi nuovi. Può darsi che il padre abbia sollecitato o realizzato questa correzione; ma ceno non c’è bisogno di sottolineare che il bambino di otto anni ha imparato la lezione. Dobbiamo comunque considerare quanto vasto fosse il campo delle cose da imparare per Mozart bambino e adolescente. Un campo che si estendeva da un far musica non professionale in città e campagna fino ai pezzi più dotti ed elaborati, dalla musica sacra all’opera nelle loro diverse applicazioni, dalla canzone scherzosa alla musica per i drammi tragici, dal genere divertente-amichevole al profondo-riflessivo, dal vocale allo strumentale e anche al parlato accompagnato dalla musica, e tutto ciò in innumerevoli varianti nazionali e diverse lingue, fra le quali non dobbiamo pensare solo all’italiano, al tedesco, al francese e all’inglese, ma anche al boemo, al viennese, ai dialetti alpini. — È di Robert Schumann questa acuta osservazione (intorno al 1834, p. 207): “[...] provate a rin­ chiudere Beethoven per dieci anni in una cittadina di provincia (la sola idea mi ripugna) e guardate se riesce a scrivere una Sinfonia in re minore...”. Anche Mozart non sarebbe diventato se stesso se non avesse avuto l’opportunità di assorbire tutto ciò che si era pro­ dotto in mezza Europa in campo musicale. È possibile e, credo, assai produttivo delineare la forma specifica dell’apprendimento imitativo. Sarà opportuno fare un esempio ver­ bale di ciò che intendo. Nella Vienna degli inizi del XX secolo, negli ambienti borghesi, quando un bambino normale cresceva (per le bambine era diverso) gli veniva insegnato un saluto, preceduto da: “Di’ bene...”, che poi lui avrebbe utilizzato rivolgendosi agli adulti. Ma se in prima ele­ mentare gli fosse stato richiesto di scrivere questo saluto, sulla lava­ gna avrebbe scritto qualcosa come xtiant. Qualche anno dopo quel bambino avrebbe avuto una specie di illuminazione, riconoscendo in quel familiare balbettio ripetuto centinaia di volte un’espressione di cui era in grado di riconoscere parole non meno familiari: kuss die Hand! [bacio la mano]. Possiamo chiamare questa presa di coscienza apprendimento esplorativo', viene scoperto un nuovo significato a un espressione apparentemente familiare. — Anche il bambino pro-

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digio Mozart ha appreso le sue prime figure musicali in senso morfologico — non semantico —, come pietre di costruzione sono­ re percepite come divertenti, che possono essere messe in fila per gioco. Fu poi una successiva scoperta (probabilmente permessa o facilitata dalle parole dei pezzi vocali) che i suoni possono esprimere o “imitare” qualcosa, come certamente gli avrà detto il padre. Le fonti a nostra disposizione non sono tanto precise quanto vorremmo per quanto riguarda tale processo nel bambino. Nell’adolescenza di Mozart abbiamo invece un esempio che può essere inequivocabil­ mente visto come un risultato dell’apprendimento esplorativo. Delle sue musiche per Thames - Konig in Àgypten [Thamos, re d’Egitto], KV 345, oltre alla versione riveduta del 1779 si sono for­ tunatamente conservati anche due pezzi di una precedente versione del 1773. In ambedue le versioni il sipario si alza su un ampio brano corale di duecento battute; i cori delle vergini del sole e dei sacerdoti cantano in versi (non fra i migliori) un inno al sole che sorge; si riti­ ri “la notte, nemica della luce”, dicono, e dall’Egitto potranno dun­ que essere offerti al sole “nuovi sacrifici”. È tipico dello stile musica­ le dell’epoca che le cesure nel corso della pane corale (determinate dall’articolazione metrica e dalle corrispondenti pause di respiro) siano riempite da inserti strumentali di più o meno retorica natura. Così anche qui. Due di questi riempitivi (assai più di due nella prima versione) sono interessanti nel nostro contesto, in quanto la mano del compositore è intervenuta a correggere in modo significa­ tivamente radicale sci anni dopo la prima stesura, e perché il risulta­ to di questo intervento è sopravvissuto nella sua memoria per altri dodici anni, cioè fino all’anno della mone. Si tratta degli inserti alle battute 12 e 17 del coro; il primo dopo le parole “[...] des Lichtes Feindin, die Nacht” [la notte, nemica della luce], il secondo dopo “[...] neues Opfer gebracht” [offerti nuovi sacrifici]. Nella prima versione ecco cosa si ascolta nel primo frammento:

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esempio 10

e nel secondo:

esempio 11

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Nella versione riveduta del 1779 avviene qualcosa di inatteso: le triadi arpeggiate degli archi vengono mantenute anche nel primo dei due episodi, ma in una strumentazione non abituale nell’opera mozartiana: due corni e due trombe all’ottava. Poiché i ritmi di fanfara vengono inoltre affidati a tromboni e timpani, mentre le figure ascendenti degli oboi vengono rinforzate rispetto alla prima versione, e poiché infine l’intera figura segue il piano del coro che parla della none che si sta ritirando, il frammento in questione, eseguito da un intero assieme di fiati con timpani, suona come un potente e raggiante simbolo sonoro della luce:

La figura degli archi di battuta 17 del coro rimane al suo posto anche nella seconda versione del brano, ma viene addirittura raddop­

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piata dai fagotti, in modo tale che l’ascoltatore attento noterà la diffe­ renza. Se nella prima versione si trattava semplicemente di un orna­ mento, di una triade arpeggiata come tante altre, qui — dopo essere stata articolata così distintamente solo cinque battute prima e imme­ diatamente dopo la parola “Nacht” [notte] — il passaggio assume un significato che nella prima versione era forse latente ma che non sarebbe mai emerso a consapevolezza (forse nemmeno a quella del compositore) se non fosse stato “differenziato”. A trentadue anni il compositore scoprirà poi un nuovo senso in una figura apparente­ mente familiare che aveva scrino una volta a diciassette anni. Che la nostra spiegazione di questo processo non pecchi di eccesso di interpretazione è infatti dimostrato da un passaggio del Requiem. Per il passaggio — di impareggiabile bellezza — sulle parole “et lux perpetua” Mozart ricorre proprio a quel simbolo sonoro del Re Thamos. Probabilmente è l’idea della luce che si espande contemporaneamente verso l’alto e verso il basso che ha ispirato questa figura, perché non solo è mantenuta la triade arpeg­ giata in senso discendente, sottolineata dalle acciaccature sulla prima nota, ma viene mantenuto anche il contemporaneo movi­ mento ascendente nelle altre voci, qui in particolare affidato alla progressione ascendente in sequenza delle voci corali:

esempio 13

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Osserviamo con attenzione questa figura e riflettiamo. Una figu­ ra ad essa imparentata (e probabilmente sentita dal compositore come di simile significato) è infatti fondamentale nel Figaro. Ciò che finora abbiamo chiamato triade arpeggiata si distingue in realtà dalle comuni simili figurazioni in quanto, dopo un inizio normale: esempio 14

prosegue la discesa saltando due volte una nota, per poi — per così dire — recuperarla dal basso:

esempio 15

Le formule seguenti: esempio 16

sono tipiche degli Jodler, e nel tempo lento del suo Concerto per pia­ noforte e orchestra KV 537 Mozart se ne è voluttuosamente saziato: esempio 17 Larghetto

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ripetendolo qui cinque volte in quattro battute, e innumerevoli altre nel corso del pezzo. (Si tratta del Concerto che Mozart suonò nel 1790 a Francoforte, e forse voleva portare sulle rive del Meno un saluto austriaco). Per i cantanti questo tipo di triade arpeggiata ha il vantaggio che essi possono restare per un po’ nell’àmbito sonoro dell’accordo; se la direzione fosse univocamente discenden­ te, ben presto arriverebbero al limite delle possibilità umane. Potrebbe essere questo il motivo nel caso delle scritture vocali. Perché, come ha osservato Christian Kaden, abbiamo a che fare sempre con un suono in quanto evento melodico. — Nelle sua Ouverture per il balletto Les petits riens, Parigi 1778, dopo un primo tema abbastanza convenzionale Mozart scrive un secondo tema molto charmant, il quale, dopo essersi esteso per più di ventiquattro battute, procede con un conseguente che in otto battute porta tutto l’episodio a una durata di cinquanta battute esatte. In questo conseguente compare, tre volte successive, la nostra figura, in una versione che anni dopo, in bocca a Susanna, riceverà un peso e significato assolutamente particolari, come vedremo:

esempio 18

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Ma le figure da sole, siano esse configurazioni melodiche o aggre­ gati di suoni, non fanno la musica. (Il che, per inciso, fa apparire un po’ presuntuoso lo slogan editoriale secondo il quale il benemerito libro di Gunthard Born avrebbe “decifrato” il linguaggio musicale di Mozart, Con il solo significato delle figure, se non si conoscono i principi costruttivi secondo i quali esse sono combinate fra loro e con altri elementi, pensare di avere decifrato una musica è come pensare di decodificare una lingua di cui si sappia il significato delle singole parole ma non se ne conosca la grammatica). Per spiegare la sicurezza da sonnambulo con cui Mozart bambi­ no si confrontava con i principi costruttivi della musica, bisogna però ammettere l’esistenza di uri altra forma di apprendimento: un processo intuitivo, caratterizzato dal fatto che né maestro né allievo sono in grado di razionalizzare ciò che viene imparato. (Anche un

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insegnante di composizione assolutamente razionale quale ad esempio Hanns Eisler aveva a disposizione, per frasi che riteneva carenti, una silenziosa mimica di dolore, e per ciò che mancava un vago e tacito gesto della mano). — Prendiamo la Prima Sinfonia di Mozart. Reca il numero 16 del catalogo Kòchel: il numero delle composizioni fino ad allora fissate per iscritto è di circa sessanta. Il compositore non aveva più di otto anni e mezzo. L’autografo del pezzo, con le correzioni del padre, è giunto fino a noi, per cui pos­ siamo tra l’altro dire: nell’ultimo movimento il padre non apporta nessuna correzione essenziale, e ha ragione. Abbiamo a che fare con un piccolo capolavoro, e la parola ‘piccolo” si riferisce solo alla sua estensione; è costituito da sole 108 battute, l’esecuzione non richie­ de più di due minuti. Con piena padronanza di mezzi (incredibile in un bambino di otto anni e mezzo) gli elementi contrastanti ven­ gono derivati dal dato di partenza (un tema di otto battute) e con esso perfettamente equilibrati. Al contrario, Mozart ci mostrerà nella sua piena maturità come non bisogna fare (ma spesso vien fatto) in uno dei suoi più feroci divertimenti, Ein musikalischer Spafi \\Jno scherzo musicale], KV 522, del giugno 1787. Affida a un musicista pasticcione lo stesso compito che quasi un quarto di secolo prima lui aveva tanto brillantemente risolto. Il pasticcione sa che la sua composizione sinfonica in tre movimenti deve finire con un tempo veloce; decide senz’altro per un Presto e inventa un tema in fa maggiore: non brillante in verità, ma utilizzabile, se solo si sapesse come trattarlo:

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Nei confronti del suo immaginario personaggio negativo si comporta al tempo stesso in modo crudele e generoso. Subito all’inizio gli fa fare due strafalcioni (“quinte parallele”, assolutamente proibite, a battute 4 e 5, e “ottave nascoste”, un peccato in

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verità veniale e fàcilmente correggibile, ma pur sempre un peccato, a battute 7 e 8), ma gli consente poi una non pessima conclusione del primo cosiddetto periodo del pezzo (questo termine verrà intro­ dotto solo più avanti): dopo la modulazione, non molto riuscita, a re minore (il cosiddetto parallelo minore) a battuta 8, vengono aggiunte due battute che intervengono opportunamente a rompere lo schema di otto battute tornando, in modo un po’ chiassoso ma corretto, alla tonalità principale:

esempio 20

Ma adesso il nostro compositore immaginario non sa proprio come andare avanti. Cerca da bravo di modulare, ma in modo assai impacciato, e alla fine della prima pane non è ancora riuscito ad allontanarsi dalla tonalità d’impianto né, ciò che è peggio, da quel continuo:

esempio 21

il n

>0 p?

j

.

Non seguiamo ulteriormente i suoi tentativi di liberarsi da que­ sta palla al piede; fra l’altro si incontra addirittura una scolastica esposizione di fuga, un assolo di corno e qualche altro artificio. Ma non riesce a sfuggire alla noia, continuando a rimasticare stereotipi.

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Le cose erano andate diversamente per il bambino di otto anni. Anche il movimento conclusivo della Prima Sinfonia di Mozart è un Rondò, il cui tema di sedici battute appartiene aneli esso alla categoria del periodo', le prime otto battute terminano con una cadenza sospesa alla dominante, le seconde otto — uguali alle prime tranne che per le due battute conclusive — riconducono alla tonica. Le quattro battute all’unisono di tutta l’orchestra (oltre agli archi due oboi e due corni) con cui il pezzo inizia presentano tre figure ritmiche:

esempio 22 2 Ob. 2 Corni e Archi su quattro ottave

Presto

e tutte e tre vengono subito attivate nelle seguenti quattro battute: il movimento di ottavi viene proseguito ai bassi:

esempio 23

* (/)

la figura di battuta 2 viene ripresa a battuta 7 e trasformata a battu­ ta 8:

esempio 24

e la nota di un quarto puntato viene ripresa nella melodia: esempio 25 V.niI

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Attraverso questi e pochi altri elementi viene agilmente raggiun­ ta la dominante e su di essa viene costruita una sorta di secondo tema tratto dalle battute 5 e 6 della prima idea:

esempio 26

La melodia discendente dei primi violini si estende per otto bat­ tute coprendo un intervallo di sesta; contemporaneamente il moti­ vo di tre note dei bassi sale più di un’ottava. Così non si può anda­ re avanti a lungo; chi conosce la musica dell’epoca si aspetta che arrivi la cadenza conclusiva. La quale arriva con una sorpresa: alle quattro+quattro battute in sé autosufficienti vengono aggiunte una nona e una decima, e queste due ultime battute conducono, secon­ do uno stilema napoletano, alla stessa cadenza con cui si era con­ cluso il primo tema: sei sedicesimi in una battuta: esempio 27

Questo procedimento ricorda un disegno che Mozart ha fatto sul diario di Nannerl (23—30 settembre 1780): la parte convessa e la concava della figura si corrispondono come i due gruppi di quat­ tro battute del tema, mentre la parte di destra (una specie di cer­ chio) del disegno appare diversa, seppure derivata dal modellobase, così come le due ultime battute del tema:

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E così infatti va bene. Poiché il tema del Rondò compare tre volte, occupando dunque complessivamente quarantotto battute, per le due sezioni intermedie — nel XVIII secolo venivano chiamate episodi — rimangono cinquantasette battute, dunque la parte maggiore. È comprensibile. Mozart padroneggiava già da bambino quella tecnica che solo in seguito verrà definita di sviluppo. (All’epoca di Mozart tale termine veniva utilizzato solo per la Fuga). Avviene secondo un tipico processo che dapprima si faccia intuitivamente ciò a cui solo più tardi verrà dato un nome e di cui, spesso in modo molto approssimativo, si cercherà di fissare le regole. Se vogliamo sapere da dove è giunta a Mozart l’idea di un tema (qui e altrove), basta consultare il Wyzewa/Saint-Foix. Ma non è così che potremo capire che cosa lo rendeva capace di afferrare e sviluppare l’essenziale partendo dalle molte pietre di costruzione delle figure musicali che di volta in volta lo stimolavano: il princi­ pio costruttivo, o comunque lo si voglia chiamare. — Che Mozart già a tre, quattro o cinque anni sapesse cose che non aveva ancora studiato è già stato visto nel capitolo 2. Con le lacrime agli occhi per la gioia e scuotendo la testa il padre non poteva che ammettere che queste cose egli le aveva ricevute in dono dal buon Dio, e così pure gli amici. E con parole efficaci il padre testimonia (in una let­ tera da Londra, 28 maggio 1764) come questo misterioso processo di apprendimento sia andato avanti fino agli otto anni. Wolfgang ha fatto cose meravigliose al pianoforte davanti al re, scrive a casa e prosegue: “In poche parole, ciò che lui sapeva quando siamo partiti da Londra” — era stato il 9 giugno 1763, quindi appena un anno prima — “è una pura ombra di ciò che sa adesso. Sopravanza ogni immaginazione”. Questo fenomeno ricorda qualcosa di noto in campo linguistico. Si tratta, come racconta concisamente Manfred Bierwisch (1989, p. 2), di quel problema “che Chomsky ha formu­ lato sotto il titolo di problema di Platone’. Lo si può circoscrivere con questa domanda: ‘In che modo un bambino elabora una strut-

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tura conoscitiva tanto complessa sulla base di un’esperienza tanto limitata?’. O più brevemente: ‘Come mai sappiamo più di ciò che abbiamo potuto studiare?3”. Cerchiamo di evitare frettolose analogie fra linguaggio e musica; i due sistemi comunicativi acustici dell’uomo sono sostanzialmente diversi per gran parte delle loro strutture, funzioni e modalità d’azione. Ciononostante in alcuni linguisti (ad esempio Noam Chomsky, fra l’altro 1980, pp. 185 sg.) o in dizionari linguistici seri e approfonditi (ad esempio in Lewandowski, alle voci “Acquisizione del linguaggio” e “Teorie dell’acquisizione del lin­ guaggio”)^! trovano interi passaggi che potrebbero tranquillamente essere riferiti alla musica. Dovremo dunque ammettere che, analo­ gamente a ciò che in linguistica si definisce language capacities [competenza linguistica], nel sistema nervoso e nel cervello di ogni uomo normale esiste una competenza musicale. Da qui deriverebbe ad esempio quella capacità che ha ogni bambino sano di imparare una qualunque musica a condizione che sia venuto per tempo a contatto con un ambiente musicale, presumibilmente prima di aver compiuto il secondo anno di vita. Anche se (a mia conoscen­ za) non è ancora stato dimostrato scientificamente, non è da dubi­ tare che — poniamo — un bambino cinese, cresciuto in Germania, sappia muoversi nella musica tedesca con la stessa faci­ lità con cui si muoverà un bambino tedesco cresciuto in Cina, un bambino russo con la musica araba e così via. Mozart condivide senz’altro questo tipo di competenza musicale con ogni altro bambino. Le sue disposizioni musicali — probabil­ mente uniche nel senso pieno della parola — si differenziano da quelle di un qualunque altro essere umano per il fatto di essere state attive in giovanissima età, sviluppandosi in modo più rapido e apparentemente illimitato ed estendendosi a tutti i campi della competenza musicale (quali manualità, memoria, inventiva, pen­ siero combinativo e altro), mentre le normali disposizioni sono di regola presenti selettivamente, sviluppandosi più lentamente ed entro confini più ristretti. Stiamo parlando di capacità che possiamo osservare nei bambi­ ni, i cui risultati possiamo (approssimativamente) descrivere, di cui possiamo postulare l’esistenza nel patrimonio genetico umano. Ogni bambino normale possiede queste capacità in misura mag­ giore o minore; anche il più evoluto fra gli animali non può nem­

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meno accostatisi. In tal senso sono paragonabili competenza mu­ sicale e competenza linguistica. Ma qui finisce la possibilità di un confronto e iniziano le diffe­ renze sostanziali. La capacità linguistica ha a che fare con operazio­ ni logiche, la capacità musicale con un complesso di operazioni, circoscrivibile da concetti quali simmetria e asimmetria, piacevo­ lezza e fastidio, predilezione e rifiuto. Si può bensì parlare di logica musicale, ma a ragione si preferisce spesso porre il termine fra vir­ golette; la “logica” musicale ha a che fare col parallelismo, con l’aspettativa (eventualmente negata) di determinate prosecuzioni o corrispondenze nel seguito del percorso musicale, con la ripetizio­ ne, con l’equilibrio fra somiglianza e dissimiglianza, con l’uso di contrasti e di altri elementi difficilmente descrivibili. Nel linguag­ gio non-poetico e nella comunicazione quotidiana tali concetti sono del tutto assenti, al massimo secondari. Solo in poesia, dun­ que in un settore parziale del linguaggio, sono presenti come nella musica. Anche in un Mozart non può essere innata la capacità di trattare con queste qualità difficilmente definibili; è necessaria una laborio­ sa fatica? come lui stesso definiva la sua acquisizione della tecnica quartettistica. Non è ancora del tutto chiaro alla musicologia (e tanto meno alla letteratura mozartiana) il fatto che anche l’intui­ zione non prescinde apprendimento, e che certi elementi di questo processo possono essere individuati e isolati. Naturalmente sarebbe bello sapere le cose che non si possono (o non si possono ancora) sapere. Ma da questi livelli siamo ben lontani. È stato ad esempio poco analizzato il modo in cui Mozart, nel suo periodo salisburghese, inizia a trattare la musica come un grande campo indivisibile pur rispettando con la massima attenzione le specifiche caratteristiche dei singoli generi. È da notare che a nostra disposi­ zione abbiamo solo un barlume di teoria musicale che meriti tale nome; e che la musicologia è da decenni abituata a suddividere la musica in generi, gruppi di opere, epoche, stili, campi settoriali, fasi evolutive, a ciò indotta da una divisione del lavoro in sé neces­ saria. Per cui non è ancora stata realmente affrontata l’analisi del fatto che Mozart, contro il consiglio del padre, cominci a trapian-

3 In italiano nel testo, N.Ó.R.

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tare tecniche tradizionali di un genere in un genere diverso; che, violando consapevolmente le antiche e buone regole, vada a pren­ dere ciò di cui ha bisogno dovunque lo possa trovare; che addirit­ tura accantoni le formule imitative apprese per inventarne di nuove, e per di più ogni volta nuove. In ciò egli segue bensì una tendenza seguita da molti fra i più importanti compositori del XVIII secolo, e consapevolmente formulata in affermazioni circa il superamento dei confini nazionali e stilistici. Ma la sovrana padro­ nanza e consequenzialità con cui Mozart crea capolavori a partire da tale tendenza è ben difficilmente eguagliabile, e lo stesso Joseph Haydn non può stargli alla pari (le sue opere teatrali restano ad esempio del tutto estranee a questo processo).

Si era nel giusto quando si rimproverava a Mozart che la sua musica sacra era operistica: giusta, naturalmente, l’osservazione del dato di fatto, non la critica. Una melodia come la seguente, tratta dalla Litania KV 109, che Mozart compose a quindici anni proba­ bilmente per la cappella di corte della residenza estiva dell’arcive­ scovo (NMA 1/2/1, S. XI), potrebbe stare benissimo in un Sing­ spiel, prima di un’infinita serie di figure musicali di apparenza mondana in opere sacre di Mozart:

Già a tredici anni Mozart, nel Minuetto di una Cassazione, ela­ bora in modo “dotto” o “ragionato” un tema che in sé non appare particolarmente colto:

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esempio 29 RVfl.Q

Minnftttn

E che nella Finta giardiniera si discuta il problema dell’identità di tre signore in una rigorosa scrittura a quattro parti che potrebbe tranquillamente essere affidata a un quartetto d’archi e in cui si intrecciano le voci delle tre donne è un fatto che avrà notevoli con­ seguenze nello stile di Mozart: esempio 30

i Vni II

Vie

Ve. e Cb.

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Accostandoci più da vicino alla musica di Mozart non perdere­ mo d’occhio le tendenze di sviluppo evidenziate con gli esempi sopra riportati. Gli accenni, i tentativi, l’incompiutezza (“fiamme di genio s’alzano qua e là”, scriveva Schubart a proposito della Finta giardiniera^ da Mozart composta a nove anni) sono in un certo senso più caratteristiche del periodo salisburghese che non le opere più perfette. Ciò vale addirittura per il capolavoro del giova­ ne venticinquenne che conclude la fase salisburghese, Xldomeneo. Le grandi Opere del decennio viennese non si ricollegheranno infatti a esso, anche se Mozart stimava e amava questo lavoro. E non è solo un caso, come vedremo. Le parole di Chrysander circa il procedere a salti dell’evoluzione compositiva di Mozart si rivelano dunque sempre più esatte e penetranti a mano a mano che ci addentriamo nella sua vita e nella sua opera.

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Vienna: il grande passo

Stavolta la decisione di vivere la propria vita Mozart l’ha presa sul serio. Sarà bene, se vogliamo comprendere il grande passo a Vienna insieme alle sue conseguenze, considerare in tutte le pro­ spettive e una per una le ampie premesse che stanno alla base di questa decisione. Relativamente facili da capire sono quei fattori che si potrebbero definire sociologici e che potrebbero essere analizzati quasi in ter­ mini numerici. Nemmeno il padre considerava una soluzione per­ manente il suo secondo incarico salisburghese, assunto nel gennaio del 1779 dopo il viaggio a Parigi. Ma mentre Leopold continuava a vedere Salisburgo come base da cui il figlio potesse allontanarsi per congedi gentilmente concessi per assumere temporanei incarichi presso altre corti e, dopo aver trovato un posto più conveniente, lasciare nuovamente l’incarico salisburghese e farsi raggiungere infi­ ne dal padre e dalla sorella (un piano che anche il figlio sostanzial­ mente non rifiutava), Wolfgang fece letteralmente il secondo passo avanti al primo: restando così senza la certezza di un posto fisso a Vienna. La descrizione che abbiamo degli eventi che portarono alla definitiva e insanabile rottura con l’arcivescovo e perciò anche con Salisburgo è di mano di Mozart, ma non c’è da dubitare che tale descrizione sia sostanzialmente corretta pur se emotivamente di parte. Non dobbiamo sicuramente sorvolare suH’ammissione, ripe­

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tuta tre volte (8 maggio, 12 maggio, 9 giugno 1781), che egli era deciso a restare a Vienna “al di là di tutti gli altri motivi”. Già par­ tendo da Monaco pensa “con vero piacere a Vienna”; per lui era “come se qui la sorte mi attendesse” (26 maggio). Mentre l’arcive­ scovo gli appariva, come dice con palpabile chiarezza, uno “scher­ mo paraluce” (24 marzo) che si frapponeva fra lui e Io splendore delle possibilità viennesi, soprattutto con la possibilità di entrare in rapporti diretti con l’imperatore Giuseppe. E una cosa che lo rende “disperato” (11 aprile) il fatto che la stessa sera in cui lui e i suoi colleghi di Salisburgo erano dall’arcivescovo “con quella merda di musica”, lui era stato invitato dalla contessa Thun, ma non era potuto andarci: “e chi c’era là? — l’imperatore”. E così un paio di settimane dopo si rifiutò con un pretesto di obbedire all’ordine di ritornare a Salisburgo, attirando su di sé le rampogne del suo padrone e a queste rispondendo di essere pronto a lasciare il servi­ zio, il che ebbe come conseguenza un ulteriore scoppio d’ira; Mozart tentò ormai inutilmente di far pervenire le proprie dimis­ sioni a chi di dovere. Aveva buoni motivi nell’insistere per dimet­ tersi formalmente, il che però non gli fu mai concesso. Non sap­ piamo dire se egli fosse a conoscenza dell’esperienza analoga patita da Johann Sebastian Bach (il quale nel 1717 aveva subito un arre­ sto di quattro settimane per lo stesso delitto di cui si sarebbe mac­ chiato anche Mozart: voleva che gli fosse concesso di dimettersi dal servizio alla corte di Weimar). Ma quando due anni dopo, tornan­ do a Salisburgo per una visita, Mozart si preoccupava che l’arcive­ scovo potesse farlo arrestare (18 maggio 1783), certamente egli era a conoscenza del fatto che all’epoca in cui lui scriveva quella lettera il battagliero Christian Friedrich Daniel Schubart (1739-1791) languiva ormai da anni prigioniero nella fortezza di Hohenasperg. E quando il conte Karl Joseph Arco, nella sua qualità di grande cuciniere della corte arcivescovile responsabile anche dell’imbanditura dei piaceri musical-culinari, non volle accogliere nemmeno la terza richiesta di dimissioni e dopo un colloquio inizialmente benevolo pose fine agli anni salisburghesi di Mozart con uno stori­ co calcione, al disprezzo per questo “cortigiano” (22 gennaio 1782) si aggiunse in Mozart anche una buona dose di sano odio. Del favore di gente simile si ripromise di fare a meno in futuro. Il suo proposito era ardito, ma non impossibile. Anche Hàndel viveva indipendente da un servizio principesco, ma ciò avveniva in

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Inghilterra, che all’epoca era il paese con l’economia più avanzata del mondo; anche a Gluck era riuscito di sopravvivere con un’ampia autonomia, ma era già un uomo famoso; Haydn riuscì a trascorrere almeno gli ultimi anni della propria vita a Vienna indi­ pendente e sicuro sul piano finanziario, ma solo con l’aiuto del denaro guadagnato a Londra e di una pensione onorifica concessa­ gli dal principe dopo che per decenni lui era stato suo lacchè for­ malmente e praticamente. Si possono capire le preoccupazioni del padre. In definitiva non si trattava solo del futuro del figlio, ma del destino dell’intera famiglia: il padre poteva attendersi che Wolfgang avrebbe mantenuto lui e la sorella. Mozart gli espose i suoi piani fin dai primi mesi del suo soggiorno a Vienna (12 gen­ naio 1782): un posto fisso a corte, possibilmente dall’imperatore stesso (col che pensava sempre solo a un posto come compositore, non come responsabile della musica di corte, che comportava noiosi doveri); lezioni private di pianoforte; ogni anno la commis­ sione di un’opera; ogni anno un concerto pubblico; infine la pub­ blicazione di composizioni per sottoscrizione. Non tutti e cinque i punti si poterono realizzare. Il posto fisso non si concretizzò mai. — Mozart era addirittura pronto ad accettare un posto adeguato in altra sede, anche se avrebbe comunque preferito la corte imperiale di Vienna. Tutto ciò che qui ottenne fu il posto di Kammermusikus dell’imperatore, il che gli fruttava 800 fiorini di guadagno annuo. (Per capire: l’affitto annuo del miglior appartamento in cui abitò Mozart, quello in Schulerstrafie [oggi Domgasse 5], ammontava a 480 fiorini; ma il posto arrivò troppo tardi per poterselo permette­ re: nel dicembre 1787, quando i Mozart avevano da tempo lasciato Schulerstrafte per motivi economici). Di commissioni operistiche alla corte viennese Mozart ne ebbe solo quattro in undici anni, e la pubblicazione delle sue composizioni non portò un grande introi­ to. Le cose andavano meglio con le lezioni di pianoforte, ma si trattava chiaramente di un lavoro incerto, a lui non gradito e negli ultimi anni della sua vita sempre più avaro di guadagni. Per quanto riguarda i concerti fra il 1784 e il 1785 Mozart ebbe straordinari successi. Abbiamo testimonianze di venti, ma probabilmente furo­ no di più. Solo nel marzo del 1784 Mozart fu ascoltato almeno diciotto volte nelle case della nobiltà e della borghesia. Nel complesso, durante i primi cinque anni i conti tornavano. Quando IT 1 febbraio 1785 il padre arrivò per la sua prima e unica

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visita a Vienna condividendo per circa dieci settimane la vita della giovane famiglia, Mozart era molto occupato e ben pagato come virtuoso e come compositore; abitava con la famiglia nell’apparta­ mento più comodo e più bello della sua vita, appunto quello in Domgasse; sulla base dei suoi due criteri “onore e guadagno” il padre poteva essere più che contento. Per quanto riguarda l’onore, già il quinto giorno della sua visita Leopold poteva dar conto del fatto che il figlio aveva suonato in pubblico “un magnifico Concerto” [molto probabilmente KV 456], di tale effetto da fargli venire “le lacrime agli occhi per il piacere”; e che l’imperatore, pre­ sente allo spettacolo, “col cappello in mano gli fece un cenno di congratulazioni e gridò bravo Mozart;’. Potè inoltre ascoltare un giudizio espresso dalla bocca del più competente giudice (tutto ciò viene riportato nella lettera del 16 febbraio), il che naturalmente lo fece orgoglioso e felice, come immediatamente scrive alla figlia a Salisburgo, comunicandolo così anche a noi: “Le dico davanti a Dio e con tutta sincerità che Suo figlio è il più grande compositore ch’io conosca di persona e di nome; ha gusto e oltre a ciò possiede la più alta scienza compositiva”. A dirlo era Joseph Haydn in per­ sona, in occasione dell’esecuzione (in casa di Haydn) di tre Quartetti per archi a lui dedicati, in cui probabilmente lui suonava la viola e il padre il primo violino. Per quanto infine riguarda il benessere economico, il padre, sicuramente un critico attento, era convinto che il figlio “se non ha da pagare debiti può mettere in banca 2000 fiorini: il denaro c’è sicuramente, e l’organizzazione della casa è, per quanto riguarda mangiare e bere, improntata a una grande economia...” (19 marzo), un giudizio che però solo poche settimane dopo egli doveva profondamente modificare, dopo esser­ si accorto che il figlio e la nuora, per una visita a Salisburgo poi non concretizzatasi, “si sono fatti fare sei paia di scarpe ciascuno, che sono già qua” (16 aprile). Con ben altri argomenti Leopold Mozart avrebbe potuto dimostrare di aver avuto ragione sostenen­ do il pericolo di un’esistenza senza un posto fisso se avesse potuto vedere il successivo catastrofico crollo del livello di vita di Wolfgang. Ma lui era morto il 28 maggio 1787 a Salisburgo, in un periodo quindi in cui la crisi era appena cominciata. A parte l’aspetto finanziario, la situazione creativa di Mozart in quanto compositore si era radicalmente modificata, in una direzio­ ne che può essere considerata non indipendente dalla sostanza stes­

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sa delle composizioni. D’ora in poi diminuirono drasticamente le commissioni regolari, pagate con un compenso fisso, quali erano state le composizioni sacre e profane per la corte salisburghese. Le uniche cose che alla corte viennese gli venivano commissionate con una certa regolarità e regolarmente pagate (a parte le quattro com­ missioni di opere, a distanza irregolare l’una dall’altra) erano le danze. A Vienna, Mozart non ha più avuto alcun incarico di scri­ vere musica sacra, a parte quello per la composizione del Requiem, datogli in forma anonima dal conte Walsegg solo poche settimane prima della mone. Anche le occasioni di scrivere allegre serenate o cassazioni divennero sempre più rare e infine nulle. In cambio, però, si presentavano altre occasioni, come la composizione di con­ certi pianistici per uso proprio, di opere su soggetti scelti da lui stesso, e soprattutto di pezzi scritti per spettacoli organizzati in prima persona o dagli editori. La cosa più importante per il com­ positore era che in tal modo nella sua cerchia entravano nuovi generi di ascoltatori. È questo un punto particolare dei progetti e delle aspettative di Mozart, e possiamo con sicurezza dire che egli lo aveva calcolato con precisione. Ciò che lo interessava era l’amichevole e partecipe comprensione, continua e immune da invidie, di persone che anche lui per parte sua potesse stimare, apprezzare, amare. “Come io amo Mannheim, così Mannheim mi ama” è una frase sintomati­ ca (da una lettera scritta nel 1778, anno di viaggi, il 12 novembre da Mannheim). Questa necessità vitale viene altrimenti formulata in una lettera da Parigi dell’ 1 maggio 1778: “Datemi pure il mi­ glior pianoforte d’Europa, ma come pubblico gente che non capi­ sce nulla o non vuole capire nulla, e non vive con me le cose che io suono, e io perderò ogni gioia”. Avrebbe trovato questa amorosa comprensione più rapidamente di quanto potesse aspettarsi. Erano trascorsi solo otto giorni dal suo arrivo a Vienna e già poteva dire: “[...] ho già pranzato due volte dalla contessa Thun e vado da lei quasi ogni giorno — è la signora più cara e affascinante ch’io abbia mai visto in vita mia; e anch’io sono tenuto in gran conto da lei” (24 marzo 1781). La contessa Wilhelmine von Thun, che allora aveva trentacinque anni, era una donna straordinaria. “In nessuna capitale al mondo esistono persone come le contesse Thun e Pergen, distinte da doti naturali e da uno spirito altrettanto aperto e libero; le loro case sono il punto d’incontro di tutti coloro che

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credono nella cultura raffinata, e sono le massime risorse per gli inglesi durante il loro soggiorno a Vienna”. Così scriveva un viag­ giatore inglese (cit. in Schenk, p. 70). E un altro cronista, anch’egli inglese e, come dimostra la finezza del suo resoconto, uomo di raf­ finata sensibilità, scrive: “La contessa [Thun] possiede l’arte di tenere società e meglio di chiunque altro io abbia conosciuto sa fare in modo che gli ospiti si divertano. Accanto a un grande spiri­ to e una perfetta conoscenza del mondo ella possiede il più disinte­ ressato dei cuori... Uno dei suoi maggiori piaceri consiste nell’eliminare i pregiudizi in coloro ch’ella conosce, far nascere e prosperare amicizie... Mai ho conosciuto qualcuno che abbia una tale quantità di amici, profondendo per ciascuno di loro la stessa generosa amicizia. Nella sua casa ha creato un piccolo sistema di felicità, di cui ella costituisce il centro di attrazione e di unità” (cit. in Braunbehrens, p. 167). Citiamo infine un ultimò testimone, di cui avremo modo nel prossimo capitolo di riconoscere la compe­ tenza nelle cose umane: Georg Forster. Di passaggio a Vienna fra l’estate e l’autunno del 1784, egli fu accolto nel modo più amiche­ vole nella cerchia della contessa Thun; in proposito scriveva a un’amica il 3 settembre 1784: “Se confronto i nobili di qui con quei piccoli servitori di piccoli signorotti, i primi mi appaiono infi­ nitamente migliori. Lei non può credere quanto siano amichevol­ mente condiscendenti. Ci si accorge a malapena d’essere fra gente di rango, e ad ogni momento lo si vorrebbe dimenticare e trattare con loro con la medesima confidenza con cui si tratta con gli amici di pari grado: una confidenza che mi prenderei volentieri specialmente quando sono dalla contessa Thun, la migliore donna del mondo, e da quelle tre Grazie che sono le sue figlie”. E ancora, riassumendo: “La migliore conversazione, la maggiore delicatezza, e in più una totale libertà di spirito, vaste letture, approfondite e ben assimilate, una religiosità pura, sincera, lontana da ogni super­ stizione, in un cuore soave, innocente e vicino alla natura e alla creazione...”. E una fortuna che noi possiamo confermare il giudizio calda­ mente entusiasta di Mozart sulla contessa grazie a queste tre testi­ monianze tanto convincenti. Esse dimostrano infatti che in questo caso ci possiamo fidare totalmente della capacità di giudizio di Mozart: una capacità che invece in altre occasioni lo tradiva, spe­ cialmente quando voleva convincere il padre che le sue decisioni

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erano giuste. La contessa Thun fù l’artefice del suo incontro con il conte Orsini-Rosenberg (che portava il pomposo titolo di direttore generale degli spettacoli), da cui scaturì l’incarico della composizio­ ne del Ratto dal serraglio*, a lei si deve l’esecuzione AdN Idomeneo in forma di concerto, che permise di far conoscere la statura composi­ tiva di Mozart se non altro a una piccola cerchia di intenditori. E la partecipazione personale della contessa al procedere della com­ posizione del Ratto è in netto e simbolico contrasto con l’indiffe­ renza del padre. Già nel settembre 1781 Mozart aveva inviato a quest’ultimo alcune parti del Primo atto (assieme a quella puntuale descrizione della propria opera), e poi ancora altre parti del Ratto. E aveva atteso (31 luglio 1782): “Farà addirittura fatica ad aprire il pacchetto per l’impazienza di vedere il lavoro di Suo figlio, che a Vienna non è semplicemente piaciuto, ma ha fatto tanto rumore che la gente non vuole sentire altro, e il teatro è costantemente brulicante di pubblico: ieri l’opera è stata data per la quarta volta e venerdì ancora. — Solo — Lei non avrà abbastanza tempo-------—”, scrive Mozart (31 luglio 1782), concludendo con tre lineette sospensive tanto espressive quanto le corone nella sua musica. Il padre gli aveva inviato “uno scritto tanto freddo e indifferente” che la calda cordialità della contessa Thun dovette sembrargli doppia­ mente gradevole. Già all’inizio di agosto 1781 le aveva “fatto ascol­ tare il lavoro ultimato fino a quel momento”, e poi le aveva “esibi­ to” il Secondo atto 1’8 maggio 1782 e il Terzo il 30 maggio (il che nel suo linguaggio significa che li aveva suonati al pianoforte can­ tando le parti vocali). Poteva anche essere certo dell’attivo aiuto della sua nuova amica. Che ne avesse bisogno è testimoniato dal fatto che alla prima rappresentazione del Ratto “l’intero primo atto... fù disturbato da sibili che zittivano la musica” (20 luglio 1782). E la Wiener Realzeitung (Dokumente, p. 243) riferisce che anche alla prima rappresentazione del Figaro “alcuni turbolenti bricconi” avevano dato aria “ai loro polmoni prezzolati per assorda­ re cantanti e spettatori” coi loro sibili. A Vienna Mozart aveva i suoi nemici. Costoro avevano capito prima ancora di lui stesso che egli apparteneva al partito del cambiamento, delle riforme, dei giuseppini. Possiamo in gran parte ricostruire il giudizio di Mozart circa la struttura sociale del suo ambiente (cfr. cap. 13). Era proprio del suo carattere il fatto che egli, musicista borghese, cosciente delle

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proprie doti e del valore delle proprie opere, non sapesse subordi­ narsi a un principe. Una posizione che talvolta si esprimeva in forme di autoaffermazione commoventemente ingenue. Fin dai primi giorni deh’autonomia viennese, ad esempio: il 24 marzo 1781 scriveva al padre di essere stato invitato dal principe Galitsin e che in base all’etichetta avrebbe dovuto attendere finché il came­ riere personale non lo affidasse al domestico che avrebbe dovuto condurlo dal principe, nelle stanze interne. “Ma io”, dice, “non badai né al signor cameriere personale né al signor domestico, e attraversai subito la stanza per entrare nella sala da musica — giac­ ché le porte erano tutte aperte — presentandomi difilato dal prin­ cipe a cui porsi i miei omaggi, restando poi lì continuando a parla­ re con lui”. Ove dobbiamo immaginare di completare la frase: “... proprio come fossi un suo pari”. Non si può dire che questa azione avesse un significato politico, nel senso della definizione attuale: politico è ciò che contribuisce o deve contribuire al bene comune. Appare tutta destinata alla gratificazione del giovane e orgoglioso Mozart. Ma le cose dovevano cambiare nell’atmosfera dei giuseppini viennesi. Nella misura in cui Mozart si poneva al di fuori delle convenzioni pur sempre in vigore, con ciò stesso si poneva aU’interno di una cerchia per la quale il superamento delle conven­ zioni era il risultato parziale di un movimento indirizzato a più alti risultati. Mentre Mozart letteralmente sfondava porte aperte nel palazzo del principe Galitsin, con ciò egli si apriva la strada a più ampie consapevolezze. Fra i primi contatti di cui Mozart rende conto al padre (26 mag­ gio 1781) accanto a quelli del conte Rosenberg e della contessa Thun troviamo i nomi “van Swieten e Signor von Sonnenfels” (26 maggio 1781). Gottfried van Swieten (1722-1803) non era scono­ sciuto ai Mozart, che l’avevano incontrato a Vienna già nel 1768, quando Leopold aveva inutilmente tentato di stupire la Vienna amante dell’arte con l’Opera La finta semplice, KV 51, del figlio dodicenne, ottenendo però come risultato nulla più del fatto che Wolfgang eseguisse l’Opera al pianoforte di fronte a un piccolo gruppo di persone, fra cui van Swieten. Van Swieten era abbastanza esperto per poter giudicare l’enorme progresso compiuto da Mozart nel frattempo; ed era presente quando Mozart eseguì al pianoforte il suo Idomeneo dalla contessa Thun. Allora van Swieten non era ancora molto più che il figlio di un uomo famoso. Suo

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padre, Gerhard van Swieten, medico personale dell’imperatrice Maria Teresa, era abbastanza influente da ottenere dall’imperatrice una concessione con cui ella appoggiava l’istituzione nell’impero di scuole per le nuove leve della medicina. Ormai Gottfried van Swieten era succeduto al padre come prefetto della biblioteca imperiale, abitava in una casa sua, aveva uno stipendio annuo quattro volte più alto di quello che in seguito Mozart avrebbe rice­ vuto dalle casse imperiali, e proprio nel 1781 era diventato presi­ dente della commissione degli studi, posizione nella quale prese decisivi provvedimenti per la riforma scolastica dell’imperatore Giuseppe. Egli si rivelò fedele amico di Mozart, lo aiutò come poteva, ad esempio in occasione dei concerti alI’Augarten di Vienna, che nel 1775 l’imperatore aveva apeno al pubblico. A van Swieten si deve anche la conoscenza da parte di Mozart di alcune delle principali opere di Johann Sebastian Bach e di Hàndel, un avvenimento su cui torneremo più avanti. Altre due vecchie conoscenze di Mozart che egli qui incontrò di nuovo erano Tobias Philipp von Gebler (1726-1786), per il cui dramma eroico (assai debole) Thamos, re d'Egitto già nel 1773 Mozart aveva scritto alcuni pezzi corali e interludi musicali, e che ora in quanto membro del Consiglio di Stato era un fidato collabo­ ratore dell’imperatore Giuseppe, e il barone Otto von Gemmingen-Hornberg (1755-1836), che Mozart conosceva fin da Mannheim e che si era trasferito a Vienna nel 1782; ambedue erano massoni. Tra i molti nuovi conoscenti troviamo anche il barone Joseph von Sonnenfels (1732-1817). Anche la sua carriera è caratteristica per la situazione sociale nell’Austria di allora. Sonnenfels discende­ va da una famiglia ebrea: suo nonno era rabbino, ma suo padre si era fatto battezzare quando Joseph era ancora piccolo, per cui secondo il codice morale dell’epoca potevano godere ambedue di un quasi illimitato accesso alla buona società e agli incarichi statali. Quasi. In ogni caso il padre era stato professore di lingue orientali all’università di Vienna; Joseph, anch’egli molto portato per le lin­ gue (ne conosceva perfettamente nove), fu membro e poi vicepresi­ dente della Commissione di corte per gli affari legali, titolare della cattedra di nuova istituzione di Scienze giudiziarie e finanziarie e di molti altri incarichi; a lui si deve (nel bene o nel male) l’organizza­ zione del linguaggio burocratico austriaco. Sonnenfels era membro

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della loggia massonica Zur wahren Eintracht [Alla vera concordia]. Nella biblioteca di Mozart si trovavano i primi quattro volumi dei suoi Piccoli scritti (1783 sg., complessivamente 10 volumi); forse gli erano stati donati dallo stesso Sonnenfels. Di sicuro quest’uomo assai influente e molto noto (fra le sue conquiste va ricordata l’abo­ lizione della tortura in Austria, almeno in parte fin dai tempi di Maria Teresa) va annoverato fra i protettori di Mozart: e in questo caso protettore è proprio la parola giusta. Anche Mozart padre, quando venne a Vienna nel 1785, andò da lui in visita di riguardo. Ma fra Mozart c Sonnenfels non si stabilirono mai rapporti di par­ ticolare confidenza, nonostante le molte occasioni d’incontro, ad esempio l’affiliazione di ambedue alla massoneria. Per quanto riguarda le rispettive concezioni artistiche non credo si possa comunque trovare un comune denominatore; ritengo anzi possibi­ le che certe opinioni e decisioni di Mozart vadano intese come cosciente opposizione a Sonnenfels. Nello stesso periodo, infetti, in cui Mozart si occupava dei temi, dei soggetti e dei metodi delle sue nuove opere, Sonnenfels elaborava idee razionalistiche che Mozart avrà senz’altro conosciuto (si potevano leggere su riviste e pamph­ let) senza restarne per nulla colpito. D’altra parte dobbiamo anche considerare che su un piano più alto le opinioni dei due uomini non erano tanto distanti. Un punto di contatto esisteva infetti nel desiderio di fere del teatro uhiniziativa morale. Questo nuovo ambiente offriva un particolare stimolo in quanto in uno spazio ristretto si mescolavano, indipendentemente dalle differenze di classe, rappresentanti delle più diverse professioni, con la sola eccezione dei lavori manuali. Un falegname, un ciabat­ tino — ammoniva Lessing — molto difficilmente potevano essere ammessi, e potevano essere massoni solo in senso figurato. Ma cer­ tamente Mozart incontrò uomini dell’industria e del commercio. Il gentiluomo Johann Thomas von Trattner (1717-1798) era, all’epoca in cui Mozart giunse a Vienna, proprietario di una grande impresa a Vienna e fuori {Lettere VI, p. 88); già nel 1759 aveva costruito un “palazzo tipografico”, in cui si trovava tutto, “dalla fonderia del piombo per i caratteri fino al banco di vendita”, c che era allora all’avanguardia nella produzione libraria. Trattner posse­ deva fabbriche di carta, trentasette presse, otto negozi di libri e dava lavoro a duecento persone (Schenk, pp. 463 sg.). Anche quest’uomo era un protettore di Mozart. La sua giovane moglie fu

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tra i suoi primi allievi di pianoforte, e i Trattner furono padrini di non meno di quattro dei sei figli di Konstanze e di Wolfgang. — Johann Michael Puchberg (1741-1822) era fabbricante e commer­ ciante all’ingrosso di seca, velluto, panni e guanti. Era massone e aiutò Mozart con generosi prestiti nei momenti più disperati, quantomeno risparmiandogli il peggio, cioè di cadere nelle mani degli usurai. Altre due persone vanno ricordate in questo contesto. Il fatto che Mozart le frequentasse dimostra il suo non avere pregiudizi: erano infatti ebrei. Il barone Raimund Wetzlar von Plankenstem (1752—1810), figlio di un ebreo battezzato e insignito di titolo nobiliare, era un banchiere e per sei mesi circa, fra il 1782 e il 1783, fu anche il padrone di casa di Mozart. In un primo momen­ to i Mozart avevano abitato per tre mesi in una casa di proprietà di Wetzlar in Wìpplingerstrafie vicino alla Hohe Briicke [Ponte Alto], e poi, lasciata la casa per far piacere a Wetzlar, in un appartamenti­ no ben più misero in Kohlmarkt, ma anche qui, come là, senza pagare affitto; Wetzlar aveva anche pagato il trasloco. Era padrino del primo figlio di Mozart, e anche, assieme al padre e a una sorel­ la, fra i sottoscrittori dei concerti al Trattnerhof. Mozart definiva Wetzlar “onesto”, “vero e buon amico” (21 maggio, 18 giugno 1783). D’altronde già nel primo anno a Vienna Mozart aveva abi­ tato in subaffitto da.un ebreo, dal luglio 1781 per undici mesi. A ragione Braunbehrens sottolinea (pp. 74 sg.) che nessuna biografia di Mozart menziona questo fatto, anche se prova la sua spregiudi­ catezza e la sua autonomia decisionale. Il fattore di corte (leggi: il responsabile delle finanze e del commercio) Adam Isaac Amsteiner era infatti letteralmente l’unico ebreo non battezzato cui fosse con­ sentito prendere in affitto una casa a proprio piacimento, mentre gli altri ebrei non battezzati vivevano in case loro assegnate, dove­ vano portare sugli abiti una pezza gialla e pagare forti tasse di tolle­ ranza, non potevano entrare nei locali pubblici e nemmeno gettare un’occhiata sulle processioni cristiane. Hilde Spiel (1962) ha rico­ struito la storia della famiglia Arnstein (nome assunto in seguito) per poter mettere in luce u destino della nuora di Nathan, Fanny Arnstein, che aveva tenuto con spirito ed eleganza il più importan­ te salotto viennese. Ciò si verificò solo dopo la morte di Mozart, ma quest’ultimo deve senz’altro averla incontrata; suo marito, Nathan Adam Arnstein, era infatti tra i sottoscrittori dei concerti

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che Mozart tenne al Trattnerhof. È plausibile ipotizzare che pro­ prio Fanny Arnstein abbia donato a Mozart la copia del Phadon di Moses Mendelssohn che si trovava nella sua biblioteca (Braunbehrens, pp. 77 sg.). A un altro gruppo professionale appartenevano invece gli scien­ ziati, i dotti e i professori universitari che Mozart incontrava nelle logge massoniche, nei salotti in cui faceva musica, o in occasione dei suoi concerti. Joseph von Sonnenfels aveva già scritto nel 1765 in una rivista da lui pubblicata due volte alla settimana: Vienna non sospetta quasi nemmeno resistenza all’interno delle proprie mura di un gruppo di uomini che si consacrano alle scienze non per essere considerati dotti dal mondo, ma per il semplice piacere di esserlo, uomini che nelle loro riunioni si presentano vicendevol­ mente i propri studi per poterne amichevolmente criticare le imperfezioni... Un tale gruppo di persone esiste realmente” (1783, I, p. 17). Fra i più stretti amici di Mozart vanno annoverati i fratel­ li Gottfried (1763-1792) e Joseph Franz Jacquin (1766-1839), figli deU’illustre botanico Nikolaus Joseph von Jacquin (17271817), nella cui casa e nel cui giardino Mozart era spesso ospite. Mozart tentò fin dall’inizio di instaurare rapporti con i letterati attivi a Vienna che avessero opinioni giuseppino-massoniche. Con Johann Baptist Alxìnger (1755-1797), un poeta con cui Gluck aveva tradotto in tedesco la sua Ifigenia in Tauride, da Mozart con­ siderato “un eccellente poeta” tanto da dichiararsi disposto ad affi­ dargli la traduzione àtVI Idomeneo (12 settembre 1781), non abbia­ mo però testimonianze che si sia mai realizzata una collaborazione e nemmeno che vi sia stato un incontro personale. Non sappiamo nemmeno quali fossero le poesie di Alxinger che Mozart conosce­ va. Ma che le opinioni di Alxinger siano assai vicine a quelle di Mozart negli anni Ottanta è testimoniato anche dai suoi testi messi in musica in quel periodo. Non sappiamo se Mozart e Alxinger si siano incontrati in una loggia massonica. Lo stesso vale per Aloys Blumauer (1755-1798). Una sua raccolta di poesie, pubblicata a Vienna nel 1784, si trovava fra i libri di Mozart; una sua poesia successiva, il Lied der Freiheit [Canto della libertà], apparso nel Wiener Musenalmanach auf das Jahr 1786, è stata da lui musicata (KV 506). E ancora si noti che le opinioni di Mozart coincidono in punti decisivi con quelle di un poeta le cui parole egli mette in musica. Blumauer aveva pubblicato negli anni Ottanta le

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Wdchentliche Wahrheiten uber die Predigten in Wien [Verità settima­ nali sulle prediche a Vienna]. Uno studioso che ben conosce la situazione dell’epoca descrive come segue questa pubblicazione che era stata violentemente attaccata dal clero: “Le Wdchentliche Wahrheiten cercavano di risvegliare l’interesse del pubblico per la grande discussione in corso sulla religione. I fedeli iniziavano ad ascoltare le prediche con maggiore attenzione e a formarsi opinioni personali sui temi in esse affrontati... Ci sono segnali del fatto che alcuni predicatori, che si erano liberati del più stretto tradizionali­ smo e avevano fatto qualche tentativo di mettere in qualche misura d’accordo il dogma cattolico e la sua prassi con la filosofia dell’illuminismo e con le esigenze dello stato, trovarono un note­ vole seguito nei nuovi popolosi sobborghi di Vienna” (Wangermann, 1989, p. 7). Il serio tentativo di Mozart di armonizzare cattolicesimo e massoneria è più comprensibile se si conoscono gli scritti di Blumauer e i loro lettori. — Mozart ha pure musicato testi di due altri poeti massoni. Franz Joseph Ratschky (1757-1810) è l’autore del testo di un Lied che Mozart compose presumibilmente in occasione della promozione del padre al secon­ do grado della scala gerarchica massonica, datandolo 26 marzo 1785: il Lied zur Gesellenreise [Canto per il viaggio del compagno, KV 468]. — Lorenz Leopold Haschka (1749-1827) scrisse le parole per la Cantata (incompiuta) Dir, Seele des Weltalls [A te, anima dell’universo] (KV 429). L’elenco potrebbe continuare. Ma già dovrebbe essere servito a chiarire che Mozart frequentava una cerchia di uomini e donne che gli offriva di più che il semplice riconoscimento come composito­ re. Se nel periodo salisburghese. il suo rapporto con gli ascoltatori della sua musica era determinato da tradizioni e convenzioni che non richiedevano una concordia con i suoi “sentimenti” e le sue “idee”, di cui peraltro la gente nulla chiedeva, ora nasceva invece un nuovo tipo di relazione fra il compositore e i suoi ascoltatori. Qui ci si attendeva, si trovava e si apprezzava una musica in cui potessero formarsi e rafforzarsi nuovi valori, cristallizzarsi nuove idee sul mondo, articolarsi nuove qualità morali e modelli alterna­ tivi al vecchio mondo. E ciò vale in particolar modo per la masso­ neria. Come ogni società classista anche la società feudale tendeva a soffocare i rapporti umani attraverso un fitto intreccio di privilegi,

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rapporti di dipendenza e gerarchie. Totalmente subordinate al puro sfruttamento erano le forme di pensiero e di vita, come pure pre­ giudizi di casta e atteggiamenti di sottomissione, forme di dominio e mentalità servile, invidie e intrighi: un’atmosfera decisamente sfa­ vorevole all’esistenza dell’umanità. Ma il sistema feudale era profondamente scosso. In Europa poteva perdurare nelle sue barbare forme originarie per non più di pochi decenni c solo nelle periferie estreme. In Inghilterra, aove la fusione tra aristocrazia e borghesia si era già avviata e consolidata da alcuni decenni, in Francia, che anche in ciò aveva assunto una posizione di primo piano in Europa, ma anche nei paesi tedeschi e austriaci la nobiltà feudale non era più già da lungo tempo una classe unitaria sul piano economico-politico. Già da secoli si erano innescati processi il cui risultato parziale era stato che una mino­ ranza della nobiltà si era trasferita nelle corti attirata dal potere centrale (rappresentato da re, imperatori, zar), separandosi così dal resto dell’aristocrazia. All’interno del sistema feudale erano gra­ dualmente nate forme di produzione, di commercio e di pensiero che per certi aspetti andavano opponendosi alla nobiltà feudale ori­ ginaria, proprietaria terriera e basata sullo spietato sfruttamento dei contadini cui non veniva riconosciuto alcun diritto. Artigiani e mercanti si erano trasferiti nelle città. Il commercio, anche con l’estero, aveva una certa importanza, la borghesia cittadina vedeva aumentare la propria influenza e il proprio potere. Tutto ciò richie­ deva una forza lavoro Ubera (alla quale libertà si opponeva l’antica nobiltà feudale), una produzione in crescita, strade sicure, smantel­ lamento dei privilegi feudali. In questo senso il potere centrale del re aveva un preciso compito e una valida occasione. Venne così a instaurarsi una precaria e instabile comunanza di interessi fra monarchia assoluta e borghesia cittadina. In ciò un particolare ruolo era rivestito dalla nobiltà di corte, la cosiddetta aristocrazia burocratica, di cone e di spada. Da lì venivano i ministri, i funzio­ nari, i generali, e con l’aiuto di "uno stile e una capacità rappresen­ tativa conquistati in secoli di esercizio del potere” (Werner Krauss 1952, p. 8) essa contribuiva a tener alto lo splendore della corte. In un certo senso gli interessi deUa nobiltà residente a corte coincide­ vano con quelli della borghesia. Tanto più in quanto a quest ultima essa non era per nulla inferiore nell’esercizio delle moderne forme produttive. Nella Francia del tardo XVIII secolo la nobiltà possedè-

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va una buona metà degli stabilimenti metallurgici e delle miniere di carbone. Ma anche negli altri paesi si verificavano analoghi svi­ luppi, anche se non altrettanto vasti. D’altra parte i borghesi arric­ chiti, insigniti di titolo nobiliare, vicini al potere centrale, non sen­ tivano particolarmente le differenza di classe. È vero che, presi in quanto classe, i nobili (anche quelli residenti a cone) avevano ogni motivo per tenere in piedi lo stato assolutistico col suo antico ordi­ namento e relativo sistema di privilegi, e in ciò avevano l’appoggio del re o dell’imperatore, come pure viceversa i borghesi avevano tutti i motivi per innovare quel tipo di stato e tendenzialmente rovesciarlo. Ma anche in Francia ciò non era ancora all’ordine del giorno, anche se lontano pochi anni dal momento in cui Mozart giunge a Vienna. Tali tendenze di sviluppo, diffuse in tutta Europa, possedevano a Vienna una particolare colorazione, ed è II che Mozart le vide per la prima volta. Se per “assolutismo illuminato” si intende un regi­ me che, al fine di evitare in linea di principio la soluzione rivolu­ zionaria dei conflitti ormai maturi, scende a patti con le richieste della borghesia seguendo come politica la limitazione dei privilegi feudali, tale espressione può certo essere utilizzata per definire il regno di Maria Teresa (1740-1780). Il suo primo figlio, Giuseppe (1741-1790), già nel 1765, dopo la morte del padre, era diventato imperatore tedesco e co-reggente con la madre; a quell’anno si può datare l’inizio dell’epoca giuseppina. Il periodo di massima fioritu­ ra va dal 1780 al 1790, quando Giuseppe fu unico sovrano, con una coda nel breve regno del successore, suo fratello Leopoldo (1790-1792). — Con instancabile entusiasmo Giuseppe lavorò a una grande quantità di norme e decreti, vigilando sulla loro appli­ cazione. Lince d’indirizzo erano: lucida valutazione dell’utilità delle nuove istituzioni e delle misure più adeguate, assoluto risparmio anche nelle spese di corte e nello stile di vita personale, abolizione della servitù della gleba, della schiavitù e della censura, affermazio­ ne di tolleranza che garantisse libertà di religione, introduzione di un codice legislativo e giudiziario, istituzione dell’assistenza per malati e poveri: tutto ciò fece sì che Giuseppe apparisse come una nuova speranza agli occhi di Herder, Klopstock, Wìeland, Lessing e Goethe. Alla religione cattolica Giuseppe intendeva affidare un ruolo importante; essa doveva, d’accordo con le moderne tendenze che andavano delineandosi anche nel clero (in ciò fu importante

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l’influenza del teologo italiano Muratori), rappresentare un’istanza morale all’interno dello stato, ma assai più sotto l’influenza dell’imperatore e del suo apparato burocratico che non di Roma e del cleroJ monasteri e gli ordini monastici che non svolgessero un lavoro utile, come ad esempio l’istituzione di scuole o la cura degli ammalati, furono sciolti e i loro patrimoni confiscati; le processio­ ni, le esposizioni di ostensori e analoghe manifestazioni furono limitate o addirittura proibite. Non è da dubitare che con Giuseppe abbiamo a che fare con un uomo di ricche doti, animato da un puro amore umanitario. Ma anche così non poteva venire a capo di molti dei problemi più scottanti. La situazione politica estera era e rimaneva minacciosa; accordare le ambizioni di Prussia, Francia, Russia, Turchia con la sopravvivenza del Regno asburgico si era rivelato impossibile. Guerre di conquista o scambi di territori, concordati fra un princi­ pe e l’altro per mezzo della diplomazia segreta, non erano strade che potessero condurre a una maggiore felicità dei popoli. Le aspi­ razioni all’autonomia nazionale afl’intemo di uno stato plurietnico non potevano risolversi per mezzo di una forte centralizzazione e germanizzazione. E anche per i problemi sociali interni erano maturate soluzioni più radicali di quanto non fossero nella pro­ spettiva di Giuseppe. Durante gli ultimi anni dclla.$ua vita dovette ritirare molte delle rifórme che con tanto impegno aveva realizzato o avviato, e altrettanto dovette fare il fratello dopo la sua morte. Ciò non era da ascrivere in primo luogo a insufficienze da pane di Giuseppe o dei suoi collaboratori, ma alle incongruenze del pro­ gramma e dei metodi della sua realizzazione. Il consolidamento della società feudale, per quanto riformata, e l’emergere di una società nuova, basata sui metodi di produzione borghese, non potevano ridursi a un comune denominatore. Comprendere la complessità dei problemi non era forse impos­ sibile per gli uomini dell’epoca, ma certo assai difficile. Per quanto riguarda Mozart, a Vienna egli era giunto più vicino di ogni altro artista (a pane Goethe) alla realizzazione di quella massima di vita che lo stesso Goethe aveva in tarda età sintetizzato come segue, parlando con Eckermann: “Non basta avere ingegno: ci vuole qual­ cosa in più per diventare saggi; bisogna vivere in situazioni partico­ larmente vantaggiose, avere l’occasione di vedere le cane in mano ai personaggi importanti dell’epoca e saperle giocare con loro par­

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tecipando alla vincita e alla perdita” (1829, p. 285). Mozart non ha certo vissuto in situazioni di particolare vantaggio, ma fin da bam­ bino aveva avuto l’occasione di vedere le carte in mano ai perso­ naggi importanti dell’epoca con vivo e precoce discernimento criti­ co; e adesso a Vienna le giocava., nei primi anni vincendo, nella seconda metà del suo decennio viennese perdendo catastroficamen­ te. Si trovò a essere accolto in una cerchia di persone (accolto forse non con la stessa parità di diritti che avrebbe preferito vedere) che nei paesi austriaci partecipava attivamente alla conduzione degli affari di stato, allo sviluppo dell’industria e del commercio avendo un significativo influsso sull’opinione pubblica. E Tultima di queste possibilità, cioè che la sua musica potesse raggiungere e commuovere il pubblico più ampio, è fin dalla gio­ ventù uno scopo che Mozart riconosce esplicitamente. nella mia opera la musica è per ogni genere di ascoltatori, tranne che per quelli con le orecchie lunghe”, scriveva (16 dicembre 1780) con una certa sicurezza di sé già durante le prove Idomeneo a Monaco, riprendendo una scherzosa espressione utilizzata dal padre nella lettera del 13 dicembre 1780. Un celebre passaggio epi­ stolare, scritto già a Vienna e riferito stavolta ai suoi Concerti per pianoforte (KV 413, 414, 415), dimostra con quanta profondità egli avesse riflettuto sul problema dell’interazione fra il composito­ re e i suoi ascoltatori, con quale precisione sapesse formulare il pro­ blema e con quale consapevolezza esporre le proprie intenzioni: “Questi Concerti sono proprio una via di mezzo fra il troppo diffi­ cile e il troppo facile: sono molto brillanti — piacevoli all’orecchio — naturali senza cadere nella vuotezza — qui c là solo gli intendito­ ri possono ricavarne soddisfazione — ma anche i non intenditori ne proveranno piacere pur non sapendo perché” (28 dicembre 1782). E in una delle sue ultime lettere scrive a Konstanze a propo­ sito della reazione del pubblico al Flauto magica “Ciò che più mi soddisfa è il plauso muto!” (7/8 ottobre 1791). Il nuovo ambiente viennese in cui si trovò Mozart è dunque da analizzare anche dal punto di vista di una struttura in corso di tra­ sformazione. Una struttura più favorevole di tutte quelle all’inter­ no delle quali egli si era mosso finora. Ma proprio per questo moti­ vo si aprivano sempre nuove dimensioni. Quando le cose sono così in movimento, come erano a Vienna in quel periodo, dove sono i confini di un pubblico in crescita? Perché il benevolo messaggio

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della musica non dovrebbe guadagnare un nuovo pubblico di “non intenditori” che vadano ad aggiungersi al numero limitato, ma anch’esso in crescita, degli intenditori? Non è un caso che nelle ultime opere di Mozart emerga anche il concetto di Menschheìt, umanità. Proprio negli anni Ottanta la letteratura, nel senso lato del ter­ mine, visse a Vienna un imprevisto momento di slancio. Con l’abolizione della censura e con la crescente consapevolezza della necessità e della possibilità di formare un’opinione pubblica, sulla città si riversò una marca di giornali, riviste, libelli, recensioni lette­ rarie e teatrali, glosse e raccolte poetiche. Se pure buona parte di questa produzione va annoverata nella categoria “cartastraccia” (Blumauer, 1782, p. 164), negli scritti degli autori che Mozart apprezzava (e anche in quelli di moki altri) si possono tuttavia tro­ vare molte cose sensate, giuste, critiche intelligenti e spiritose. Coi loro articoli, comunicazioni e dibattiti letterari essi costruivano l'agorà dei giuseppini. Si capisce dunque perché Mozart stimasse questi uomini, a prescindere dal fatto ch'essi gli fossero ideologica­ mente vicini. Alxinger era un poeta dorato; con Blumauer, Mozart condivideva il senso umoristico per le debolezze della società e degli uomini. Basta gettare uno sguardo alla produzione dello stes­ so Mozart in questo genere per riconoscere appieno la sua affinità con le forme popolari degli autori viennesi (e la sua prudenza nei confronti di Sonnenfels). Dobbiamo comunque ricordare che la stampa, anche in un periodo grafomane come il XVIII secolo, poteva raggiungere solo una piccola pane di persone. Diversa era la situazione del teatro, se lo si considera nelle mille sfaccettature che caratterizzavano l’epoca e soprattutto Vienna. — Quando Mozart cornava a casa (una delle tredici che abitò nel suo decennio viennese) da uno dei suoi concerti o da una delle sue lezioni di pianoforte era facile che incontrasse una di quelle scene che in quegli anni erano pane integrante dell’immagine della città e della vita cittadina, la più primitiva delle quali era costituita da un paio di assi su un paio di botti. Ce rierano, a pochi passi dalle varie case di Mozart, al Mercato Nuovo, al Mercato Alto, sulla Freyung, al Graben, anche al Glacis (una zona non costruita, in parte attrezzata a parco, in parte lasciata allo stato selvaggio, che si stendeva tra le mura della città e i sobborghi), nei sobborghi di

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Landstrafie, Joscphstadt, Lerchenfeld, a Penzing, nei pressi del castello imperiale di Schonbrunn, allora appena costruito, e chissà dove ancora. Sappiamo abbastanza di questo mondo teatrale per poter dire che vi si poteva trovare tanto il livello brillante quanto il miserabile, l’originale e lo sciocco, la vera comicità e l’insulsaggine. E che queste categorie di valore non coincidevano con la distinzio­ ne “arte superiore”—"arte inferiore”. Riportiamo tre brevi esempi di opere di questo genere. — Ecco qui una bourlesque dal titolo Die Braut von ohngefdhr [La sposa per caso], che inizia come segue: Su un ritornello dì trombe e timpani entra Arlecchini vestito da Ufficiale e canta unAria.

Numero 1 Mortai, caricate! Sciabole, roteare! Timpani, orsù muovetevi! Trombe, strillate e imperversate. Bum bum! Tarara! Figli di Mane, fatevi avanci, Levate un alto grido di battaglia! E fate conoscere al mondo intero La vita e l’onore del soldato, Gridate! Fra un bum bum e un tararà diciamo Viva Marte! Vittoria!

E avanti come prevedibile. Arlecchino viene minacciato dal padrone della casa in cui si è introdotto per far la corte a sua moglie, ed è costretto, nonostante tutte le sue armi mortali, a chie­ dere umilmente scusa. Ha salva la vita, perché invece della padrona si contenta della cameriera Colombina, la quale è ben contenta così. £