Volta ’a carta. Motivi tradizionali di Cappella e dintorni

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PLINIO CAGNIN

‘volta ‘a carta” MOTIVI TRADIZIONALI DI CAPPELLA E DINTORNI

1992

Plinio Cagnin è nato a Peseggia (VE), dove tuttora risiede,il 21 aprile 1950. Tra il 1969

e il 1975 hafatto parte del Circolo Piranesi di Mogliano Veneto, partecipandoalle atti-

vità culturali di quel sodalizio e a numerose mostre e concorsi d'arte, realizzando alcune personali. In seguito ha preferito dedicarsiall'insegnamento e si è impegnato nel-

la vita politica locale ricoprendo,tral'altro, la carica di consigliere comunale a Scorzè. Come insegnante ha spesso scelto di operare in attività di sperimentazione (Campo-

nogara, Cappella). Attualmente insegna a Cappella (Scorzè) e collabora conla rivista «La Voce»di Noale.

PLINIO CAGNIN

«VOLTA ’A CARTA» MOTIVI TRADIZIONALI A CAPPELLA E DINTORNI

A Federico Zanesin e a Giovanni Vianello in memoria.

A Giuseppe «Bianco» Marcato, a Mauro, a Renato,

agli amici e all'amicizia.

PREMESSA Dàghe aqua a ‘sto fior dàghela che no ’l mòra; fin che ’l ga in fior ‘a fiora falo durar. E dopo no butàrlo quando che ’l sarà séco;

anca se °l pare on stéco lossalo star. Ti vedarà, ‘sto inverno, in mèso a la brunèsta, on pètirosso in festa sora ghe cantarà. (P. Cagnin, 31.8.1988)

Nonsonounabile scrittore nè un esperto di folclore o etnologia. Per me

questo lavoro è stato una fatica e una causa di frustrazione per la battaglia non vinta alla ricerca di una forma soddisfacente. L'ho concluso in qualche modograzie alla mia testardaggine e per tener fede alla promessa fatta a degli amici. Ma, in più d’una occasione, sono stato sul punto di confinare il tutto nel fondo di un cassetto e di dimenticarmene. Alla fine voglio sperare che,

per aver dato retta al mio orgoglio, non debbasoffrirne il mio amor proprio. Può darsi che gli amici avessero ragione e che valesse la pena di accasare questi materiali nelle pagine d’un libro. Se non altro, così conservati e documentati, potranno godere d’una modesta lapide alla memoria. Può anche darsi che sopravviva per davvero dell'interesse pertali cose, oltre la curiosità e il gusto per il colore locale. É una speranzuccia esigua che mi viene dalle persone che mi hanno avvicinato negli ultimi tempi informandosi, oltre che del mio stato di salute, dei miei progressi. Non potevo certamenteresistere a tali entusiastiche attese e perciò, nonostante la mia natura

prudente e schiva, le ho secondate. Forse si tratterà realmente di un «nuovo utile contributo alla causa» e preferisco illudermi che sia così. Il lettore avvertito, però, non mi giudichi troppo severamente, bensì con

cordiale benevolenza. Tralasci, gli consiglio, il tedio della decifrazione di note e raccordi e consideri senza indugioil resto che troverà indubbiamente degno di maggior attenzione. Ma se per la qualità del «resto» riterrà che l'insieme abbia del merito, fingerò di credere che me ne sia concessa almeno una porzione.

Poiché questa raccolta si è costituita quasi per intero a margine d’una attività didattica chesi incentravapiuttosto su un itinerario di ricerca sugli aspetti della

vita quotidiana e della tradizione contadina di Cappella e dintorni, si dirà brevemente dei luoghi. Cappella è un paesino che numera poco più di mille anime, la più piccola frazione di Scorzè che, nel veneziano, si incunea tra le province di Padova e Treviso. Il centro è poca cosa: un elegante campanile, a picco sulla Moglianese, svetta davanti alla bella e misuratissima patrocchiale dei primi del secolo che sfoggia, da poco, un nuovissimo sagrato in sampietrino. Più indietro, poco discosta dalla chiesa, la casa canonica. Dall’altro lato della strada è rimarchevole una villa veneta quasi interamenterestaurata: vi risiede un anziano signore piccolo e curvo, Teto, tutto solo da che gli è mancata la moglie. Pochi i negozi per unascarsa clientela. La scuola elementare si offre ad una piazzetta arzigogolata dovesi fronteggiano duebrevi fileri di tigli e un acero e un ailanto agonizzano uno accanto all’altro, vittime offese dell'imbecillità. i Per tutto il paese, tra coltivi e s.=pi residue, resta qualche casa di buon concetto e qualche cascinale deserto. Nia la gran parte degli edifici è di recente costruzione e conferisce all'insieme quel tanto di disordinato e casuale sufficiente ad apparentare questo ad ogni altro borgo della campagna veneta. A mezzogiorno, ben arginato tra le terre basse visitate dalla «brentana» ad ogni intemperanza di Giove Pluvio, scorre lentamente il Dese. Qui, lungo il fiume, si possono incontrare aironi, gallinelle d’acqua, gracchi e qualche squarcio di paesaggio d’altri tempi, il prato, la siepe, il largo fossato, l’angolo pittoresco col mulino... Ma quanto resta è ormai ben poca cosa. Cappella, protetta dalla sua pochezza, dall’isolamento e dal fatto che le industrie si sono allocate altrove, non è stata turbata da fenomenidi immigrazione comele vicine frazioni. Così la gente del luogo ha provveduto quasi da sola all'incremento demografico, con un impegno solitamente ben temperato da razionalità e buon senso. Perciò, scorrendo i registri anagrafici, risalta il monotonoprevalere dei cognomistorici della contrada, con l’inconvenientedi omonimie che giustificano l’uso tipico dei soprannomidistintivi. Inoltre, l’inflazione di tanti Bepi, Maria, Nani, Berto e così via, denota una onomastica

tradizionale e piuttosto circoscritta, interrotta ogni tanto da sprazzidi originalità. Da qualche anno il campo discelta si è allargato, indulgendo verso un certo gusto esotico che risente della frequentazione di rotocalchi, cinema e televisione: ma in altri tempi c’era chi non stava troppo ad arrovellatsi e attaccava la serie con Primo, Secondo, Terzo e tirava dritto, pragmatico e ottimista.

gi

L’agricoltura mantiene un ruolo di rilievo nell'economia del paesino il quale, sotto una scorza modernista e nonostante che le ultime generazioni abbiano ampiamente variato occupazioni ed interessi, conserva una propria fisionomia contadina di fondo. Intervistando gli alunni si rileva che solo una sparuta minoranza dei padri è stabilmente occupata in agricoltura. Ma basterà risalire ai nonni perché le proporzionisi invertano. Molti, impiegati nel terziario, nell’industria o nell’artigianato, possiedono un loro podere o anche solo un orto che non trascurano difar fruttare.

E, mentre tutti vivono ormai in famiglie mononucleari che dispongono di una propria abitazione, la famiglia di tipo patriarcale e la promiscuità della grande cascina restano nell’esperienza diretta di molti. Si può ritrovare ancora, vivo e straordinario, il gusto di formare brigate per stare in compagnia e per momenti di convivio fra persone e censi diversi, amici di vecchia data o recenti o casuali, quasi a surrogare i vecchi «filò» o le «ganzèghe» di fine mietitura. Oppure può accadere, comel’altro anno la gente dei «Barbòi», che si raduni un intero parentado e che qualche centinaio di personesiritrovialla messa e sotto un tendone a pranzare e a cantare, sottolineando un senso di identità e di appartenenza che la società contemporanea pare aver dimenticato o delegato ad altre forme di aggregazione. È un paesein cui un matrimonio, una nascita, una morte, hanno ancora

un significato e una risonanza per l’intera comunità e‘dove chi viene da «fuori» è pesato, misurato, provato come ad una sorta di esame di ammissione. Vi si incontrano, è vero, dei caratteri bizzarri ed eccentrici; ma vi ho conosciuto

una gente generalmente pensosa e solida e qualche persona che, nonostante ciò che potràriservareil futuro, avrà sempre la mia stimae il mio affetto. Potrei attardarmi ancora nella descrizione ma,oltre al fatto che mi piacerebbe abitarci, non credo serva aggiungere altro a questa breve annotazione su Cappella, un luogo che offre consistenti branidiciviltà rurale e la possibilità di considerarli in un contesto umano e paesistico non ancora del tutto estraniato.

Ora,invece, vorrei dire di come siano stati messi insieme questi materiali. La maggior parte dei testi documentari è stata raccolta occasionalmente dagli alunni, mescolata a memorie di episodi di vita vissuta, di vecchi modi di lavorare e mestieri scomparsi, a storie di stalle e filò, avvalendosi di trascrizioni più o meno accurate, di registrazioni al magnetofono e persino di una telecamera. I bambini hanno attinto dall'ambiente familiare e da ogni aculto sufficientemente attempato e disposto a ricordare, a raccontare e a ve dere un po’ di tempo conloro. In un secondo momento, poiché mi sembravache si fosse creata unacerta disponibilità, ho sollecitato una raccolta più puntuale e mirata ma, tranne qualche rara eccezione, l'apporto è stato modesoe il flusso si è lentamente esaurito. Forse perché è andato scemandol’interesse o perché il sacco era vuoto, o per altre ragioni. Oppure perché, come ha candidamente osservato una signora mentre, quest'anno, consegnavo le schede di valutazione del primo quadrimestre, i bambini di quinta non hanno troppo tempo da perdere in giochi e «xe mèjo che i studia ’a storia so ’l libro, sa, maestro, parché ’st’ano che vièn i va so ’e medie...!». La casualità iniziale ha comportato il difetto di non aver stistematicamente annotato il nome degli informatori e pertanto ci sono testi chesi ritrovano orfanidiattribuzione o, addirittura, del nome dell’alunno cheli hariferiti. In quel momento erano elementi che non rivestivano alcun particolare

interesse se non all’interno della classe e sono stati trascurati; quindi, nonostante i successivi tentativi di rimediare, non è stato più possibile recuperarli e risultano perduti. Il repertorio è stato rimpolpato da qualche contributo personale e con le novelline della collega e «complice» Giovannina Simionato che, ad evitare una forma artefatta, le ha registrate mentre le narrava alla figlia Chiara. Tutte queste storie fanno parte del nucleo utilizzato nell’attività scolastica. Infine, poiché mi parevano significative, ho voluto aggiungere ad integrazione alcune «barzeéte», tre delle quali mi sono state fornite dall'amico Mario Lessio (un

compassato signore nativo del Cavarzerano, a lungo cittadino di Dese e, da qualche anno, residente a Gardigiano). Sebbenela ricerca vera e propria indagasse sui temi del lavoro rurale, del calendario contadino, del bestiario domestico, delle credenze e delle consuetudini del locale passato prossimo, rime e novelle hanno presto assunto, per proprio conto e necessariamente, un ruolo non secondario nell’attività didattica. Nell’anno scolastico 1989/90 mi era stato assegnato un estemporaneo compito di supporto nell’area dell’educazione linguistica ed uno spazio che ritenni di utilizzare per condurre in maniera più approfondita e sistematica l’attività di «ricerca d'ambiente» già avviata l’anno prima. Disponevo di qualche ora da spendere ogni settimana in ciascuna delle tre classi del secondo ciclo, in piena autonomia e senza particolari vincoli. Ho ritenuto perciò interessante cogliere l'opportunità di adoperare i materiali che provvidenzialmente e su percorsi di tale divertita e curiosa partecipazione affluivano a scuola. In tal modoevitavo di sovrappormi al lavoro dei colleghi, inserivo un elemento di «leggerezza» (solo in apparenza gratuito) nell’attività didattica ed il mio intervento assumeva una organicità complessiva, senza rigidità e disposta a cogliere diverse occasioni, allargandosi «anche» nell’area dell'educazionelinguistica. Unallettante risvolto del caso stava nel fatto cheil tanto vilipeso dialetto assumeva una temporanea funzione protagonista in un luogo ove, solitamente, viene declassato e castigato pur essendo la lingua materna e d’uso ‘corrente per la quasi totalità della popolazione e degli alunni. Un dialetto che, per di più, in questa circostanza, si proponeva nei panni evoluti della fabulazione o conformato ai precisi canoni di cantilene e filastrocche: prodotti linguistici, cioè, a lungo elaborati dalla tradizione orale, pregni di contenuti e di quegli umori che, nella loro ingenua immediatezza, rappresentano uno specchio autentico dello spirito popolare. Perciò rime e novelle, trascritte, in gran parte stampate in una serie di quaderni, sono diventate occasione diinusuali letture, di esercizi di traduzione e di arricchimento degli striminziti vocabolari individuali degli alunni. Ma erano anche fonte prodiga di scoperte, di curiosità e nozioni, spunto per conversazioni che introducevano nelle classi una realtà familiare ai bambini e che 10

integravano egregiamente altri aspetti più o meno seriosi della ricerca. Altrimenti, alcune filastrocche hanno prestato la loro «macchina» strutturale per operare su rime e ritmi, per giocare con parole, suoni ed immagini e per la costruzione, infine, di nuovi testi poetici. Come questo, ad esempio, composto da Manuel Betto partendo da una curiosa antitesi al primo verso di «La Befana vien di notte»: La Befana vien di giorno e al camino vola intorno. Un bambino guarda in su e le dice: scendi giù. La Befana indispettita non gli bada e tira dritta. Tra le altre cose è accaduto che ci fosse una influenza positiva sul comportamento di alcuni bambini che, per varie ragioni, parevano solitamente poco motivati e faticavano a sintonizzarsi sul lavoro del gruppo. Bambini come ovunque, compressi dal maggior dinamismo di altri compagni «più bravi», un po’ insicuri, un po’ annoiati, che in classe cercano di mimetizzarsi e scomparire, scoraggiati anzitempo dalle fioriture di segni rossi sui segni blu delle loro biro maldestre. Le circostanze avevano fornito ad alcuni, una volta tanto, qualcosa da esibire ed era bello osservarli in quei momenti quando, col viso illuminato dalla contentezza, scoprivano di conoscere cose ignorate dagli altri e che quanto avevano portato in classe era «importante». Era bello vederli raccontare e chiacchierare, pavoneggiarsi nel crocchio che si faceva loro intorno. C'era sempre qualcosa che pareva riequilibrarsi e portare sereno, voglia di fare e di giocare e tanto mifacevatollerare anche l’inevitabile dose di confusione aggiuntiva. Voglio quindi ringraziare tutte quelle persone che hanno secondatol’attività, arricchendola ed alimentandola conil loro contri-

butoe il loro interessamento. La loro disponibilità ha fornito quei raccordi tra scuola e ambiente, sempre auspicati ma difficili da costruire, che riescono a vivificare un percorso didattico e a conferirgli un particolare senso di concretezza e di partecipazione. Mi rendo conto che queste ultime annotazioni potranno sembrare poco

pertinenti all’oggetto specifico del libro e di non riuscire, neppure in questa occasione, a svincolarmi dalla contestualità di tutta un’esperienza e da una certa deformazione professionale. Credo però che sarebbe fuori luogo se camuffassi artifictosamente ciò che, in larga misura, è frutto dell’occasionalità e delle circostanze. D'altra parte ritengo che soltanto confermandol’ambito in cuisi è costituita la raccolta sia possibile giustificarnei limiti e la natura. Si tratta, infatti, quasi esclusivamente di materiali destinati all’infanzia o adeguati ad un uditorio infantile. Il numeroe la varietà risultano dunqueassai ridotti rispetto alle potenzialità del «giacimento» che è la nostra tradizione

orale. Né poteva darsi altrimenti dal momento che, rivolgendosi a dei bambini, gli informatori stessi hanno selezionato a priori quanto ritenevano idoneo e confacente a questo tipo di interlocutori. Fra i testi registrati non emergonoparticolari novità ed è un dato chesi poteva scontare in partenza, già che il repertorio popolare è ormaistato rovistato e saccheggiato in lungo e in largo ed è stato esemplificato e trattato in numerose pubblicazioni. Ancora una volta, dunque, l’originalità dovrà essere ricercata altrove, nel lessico, nelle variazioni di temi noti, nelle connotazioni paesistiche e neiriferimenti alla cultura materiale, alle tradizioni e all’universo umano e fantastico del luogo nativo. Alla luce di queste considerazioni, il mio si è rivelato un compito di redazione quasi notarile nel quale ho cercato di attenermi ad alcuni semplici criteri che, pur nella loro arbitratietà, hanno consentito di organizzare questa sorta di zibaldone e di giustificarne le scelte. Si è trattato, innanzitutto, di riconoscere ogni componimento per la sua motivazione pratica e di collocarlo in una sezione appropriata: una catalogazione non priva di qualche forzatura e di qualche interpretazione soggettiva perché,in ognicaso,è valso il rifarmi costantemente, oltre che alle indicazioni degli informatori, alla mia personale esperienza (autorizzato, se non peraltro, dal fatto che anch’io provengo da una famiglia contadina locale, di tipo schiettamente tradizionale, e tutte queste fiabe e filastrocche appartengono alla mia infanzia). Il secondocriterio cui mi sono attenuto è stato quello di non scartare alcun testo. Non ho scartato quelli, ad esempio, che si scostavano talmente dal dialetto che, tolta la pronuncia, erano quasi brani di lingua italiana; né ho scartato quelli che denotavano una provenienza da realtà sociali diverse o da modelli “‘colti’’ perché, a parer mio,il carattere primo di una cultura tradizionale sta nell’oralità e non nell’uso del dialetto. Questo, infatti, varia da luogo a luogo e nel tempo, ed è permeabile a influssi, contaminazionie sollecitazioni d'ogni sorta che lo inducono a una perpetua evoluzione. «Popolare» è, dunque, tutto ciò che viene inglobato stabilmente nella tradizione di una comunità, sia perché elaborato in seno alla comunità stessa, sia perché da essa adottato perle proprie specifiche esigenze: la sua persistenza è affidata alla memoria e la sua trasmissione all’oralità e ciò gli permette una costante coerenza con la realtà sociale che lo esprime. Non hovoluto scartare neppure queitesti che, tranne qualche particolare, si ricalcavano perché questo altro non rappresenta se non la più immediata (pur se modesta) conferma di come, affidate alla memoria collettiva o individuale, ovvero alle circostanze, per varie ragioni queste formerisultino continuamente sottoposte a rielaborazioni e adattamenti funzionali. Per l’ortografia ho creduto bene attenermi alla vecchia e semplicissima norma consigliata da Giulio Nazari («Dizionario Vicentino/Italiano e regole di

grammatica ad uso delle scuole elementari..», Oderzo 1876, Vicenza 1989); «Le parole si devono scrivere come si hanno da pronunciare...», e da Giuseppe Piccio che, nelle «Note grammaticali» del suo «Dizionario Veneziano/Italiano (Venezia 1928, Filippi ed. Venezia 1989)», scrive: «I cultori del nostro dialetto sono, generalmente, in massima, più o meno d’accordo sull’opportunità di scrivere le parole come si pronunziano, salvo casi determinati dai diversi usi particolari e dalla necessità di non confondere tra loro certe parole che mutanosignificato secondoil differente modo con cui sonoscritte, pronunziate, accentate. Ma non tutti scrivono alcune parole seguendo la pronunzia più comune, né tutte sono pronunziate allo stesso modo; e perciò si ha tuttora una certa libertà nei criteri che regolano la grafia, tanto più che di regole precise fino ad ora, ne furono accolte ben poche». Non ho cercato, quindi, la conformità ad ogni costo con altre lezioni, bensì il rispetto dei modi e della pronuncia locali e confido che le forme adottate suggeriscano la più corretta interpretazione anche a chi non abbia nell’orecchio gli accenti e le sonorità peculiari del nostro vernacolo. Affidandomi ai consolidati modelli letterari per organizzare rimee ritmi, la trascrizione delle filastrocche è risultata abbastanza agevole. Più problematica,

invece, è stata la scelta di un metododi trascrizione delle novelle per le quali ho infine deciso di affidarmi all'esempio di D. Coltro («Paese perduto:la cultura dei contadini veneti», Bertani ed. Verona 1976), il più sensibile e rispettoso, a mio avviso, nel cogliere l'andamento della narrazione e i modi dei narratori, pur con tutte le limitazioni che compotta il trasferimento di un racconto orale nella forma scritta che, di fatto, lo snatura. Ciò nonostante chi avesse avuto l'opportunità di ascoltare da viva voce unafiaba saprà leggere lentamente, espressivamente comesi conviene perfar riverberarei suoni, le emozioni, le immagini nella propria mente e potrà apprezzare a sufficienza gli umori, la fresca e domestica ingenuità, la natura giocosa e arguta di queste novelline. L’inclusione di alcuni canti ha richiesto il corredo della notazione musicale, senza la quale i testi non avrebbero avuto sensoe interesse. Nel frangente, essendo quasi del tutto profano, sono stato soccorso dalla collaborazione preziosa del professor Giuseppe Scala. In realtà ero già rassegnato a cancellare la sezione dal progetto ed è stato puro caso che trovassi la soluzione ai miei problemi. Una sera, mentre ascoltavo un concerto per tromba e orchestra di FJ. Haydn, mi ricordai improvvisamente di questo amico e mi diedi del somaro per non averci pensato prima.Il fatto è che avevo sempreassociato il professore alla pittura e al Circolo Piranesi, uno splendido gruppo moglianese di dilettanti dell’arte del quale avevo fatto parte tra il '69 e il ’75. La squillante voce della tromba mi rammentò cheil professor Scala, siracusano diplomato al conservatorio di Catania, oltre che pittore e segretario del Circolo, era stato solista di flicorno sopranino e tromba nella Banda Municipale di Venezia e aveva suonato con l’orchestra del Teatro «La Fenice».

In questi ultimi anni, dopo essersi ritirato in pensione, aveva fondato e condotto la Banda Musicale Città di Mogliano, curando anche la formazione degli strumentisti. Ho chiesto perciò la sua collaborazione ed egli, con la disponibilità e la generosità consuete, ha provveduto alla notazione musicale deitesti raccolti. Infine, non prima di aver ringraziato quanti hanno concorso alla formazione dellibro, vorrei dar ragione del suo titolo. «Volta ’a carta» erail titolo dei quadernisui quali si registravano man manoi materiali della ricerca scolastica, scelto in accordo coi bambini. Un titolo che contenevaun invito significativo e, allo stesso tempo, riprendeva una filastrocca tra le più note e tipiche della tradizione. Ho voluto pertanto conservarlo, a ricordo di una esperienza ricca di incontri e di allegria ed anche perché ho ritenuto si potesse ben adattare a quest’ultimo suo esito. P. CAGNIN Peseggia 25 agosto 1991

NOTA. * La «e»intervocalica nelle parole sotto elencate è evanescente e quasi non si pronuncia se non come uno slittamento modulato e veloce dalla prima alla terza vocale: mò(e)a, farfà(e)a. In altre lezioni tale «e» viene

diversamente rappresentata: ad esempio con il grafema «l» sbarrato (Y). Nel testo non viene evidenziata con alcun carattere distintivo per cui si troveranno: bestidea, caridea, cavàeo, còeo, còtoea, cùeo, diàvoeo, fidea, gàea, pàco, mòea, nissideo, nénsoco, pàco, paròea, piàgoea, pìcoea, piassdea, piroea, quàea, sàntoeo, scàea, sciàboea, scudea, séeo, sonarideo, stàea, tàvoea. Inoltre: bacaeà, coeòmba, coeombìna, cueàte, brontoeàva, naeòdco, doegri, pascoeàre, svoeàe, sacà-

ta, nugoeòni... * Si pronunciano comel’italiano «micio» i termini: vècio, vècia, conìcio,récia... * Si troveranno:s.ciòpo,s.ciànta,fis.ciàre, s.ciafisàre..

E evidente la funzione del punto che scinde «s» da «ci» onde evitare la pronunzia «sci».

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Parte I RIME PER GIOCARE

Cap. I°

LE RIME PER I BAMBINI

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NA

Le filastrocche e le nenie comprese in questo primo capitolo servivano ad accompagnare i semplici giochi che gli adulti eseguivano per intrattenere i più piccini, sollecitandone l’attenzione con la proposta di immagini buffe e sorprendenti, con il ritmo e con il contatto fisico; ma avevano altresì lo scopo non secondario di trasmettere nozioni minute, di educare la percezione dello «schema corporeo» e di rafforzare i legamiaffettivi. Erano,infatti, le madri o le sorelle maggiori che le utilizzavano nell’accudire o nel quietare i bambini. Durante la stagione invernale quando, per sfuggire ai rigori del «bèto», anchei più grandicelli cercavano ristoro nel tepore della stalla, l’intrattenimento si arricchiva con la riproposizione di cantilene e filastrocche scherzose, con le «storie senza fine» o con il gioco degli indovinelli.

«PER I PIÙ PICCINI» Un gruppo di giochi per contare e riconoscerele dita. 1. El primo xe ‘ndà so’l fosso el secondo lo ga tirà su el tèrso lo ga portà casa el quarto ga fato ‘a panàda el quinto la ga magnàda. 2. Deo menèo so fradèo piàio onga tira ci

copa peòci. (Deo menèo = mignolo; so fradèo = anulare; piàio onga = medio,il più lungo;tira òci = l'indice che serve a fare gli occhi da cinesino; copa peòci= il pollice, perché tra le unghie deipollici contrappostesi schiacciavano pulci e pidocchi Per la successiva numerazionesi parte dal pollice e quandosi giungeal «coro su par il camìno»si infila il dito del bambino in una narice. In questi giochi la madre tiene sempre la mano del piccolo con la sinsitra mentre con la destra gli prende le dita una ad unae recita il verso relativo).

3. Questo ga catà el vòvo questo lo ga metùo sol fògo questo lo ga peà

questo lo ga magnà e mi che sò picolîno coro su par il camìno. 4. Manîìna bèa.

— Manìna bèa fata a penèa (oppure: «cùeo de gatèa») dove sìto stà? — Da ‘a nona. — Cossa ghèto magnà? — Pane late. — Gate gate gate... (La mammaprende la mano del piccino con la sinistra mentre, con la destra, ne accarezza delicatamenteil palmo. Al «gate gate gate» gli fa il solletico, provocandoneil riso).

5. Reciéta bèa. a) Reciéta bèa

b) Reciéta bèa

so sorèa;

ociéto bèo

so fradèo, ‘a cieséta,

el campanèo: don don don.

so sona

òcio béo so fradèo, cieséta de’l frate

campanèl che bate. (La mammatocca le varie parti del viso del bambino indicate man manodalla filastrocca. Al «don don don» afferra il nasino e scuote il campanello. La «cieséta» è la bocca. La versione «b» proviene da Tarzo,

TV).

6. In boca a ti In boca a ti, in boca a mi, in boca a ’l can abm! (Per far mangiare il piccolino. La mamma, con il cucchiaio pieno di pappa, mima il gesto annunciato da ciascun verso. Quando artiva ad «ahm!», porta il cucchiaio alla bocca del bambino).

7. Varda ‘na màcia!

Puénta petàcia! {Si indica una presunta macchia sul petto del bambino. Questi china il capo perverificare e allora, con l’indice di traverso, lo si colpisce delicatamente sul naso).

8. Man morta, man morta, man morta...

Bati so ‘sta porta! (Si prende il polso del braccio sinistro del bambino, invitandolo a tenere la manorilassata o «morta»; si scuote ritmicamente la mano, ripetendo a piacere «man morta» e, al «bati», si fa in modo checolpisca improvvisamente la guancia o la bocca al bambino. Naturalmente con delicatezza).

9. Bati bati le manìne.

Bati bati le manìne che arriverà 'l pupà; el portarà i momoni e (Paolino) i magnarà. (Il piccino sta cavalcioni sulle ginocchia dell’adulto, fronte a lui. L’adulto gli prendei polsi e gli fa battere ritmicamente le mani, ripetendo la brevestrofa).

10. Mano manini lò è arrivao lu vicirè e portào ‘na cosa nova: (Fabiana) fatta cu l’ova. (È corrispondente di «Bati bati le manine»,nella lezionesiciliana della nonna di Fabiana O.).

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Le cantilene che seguono avevano la funzione di distrarre e divertire i bambini ma li educavano ad un certo controllo emotivo perché il bambino, alla fine del gioco («a dio..») veniva lanciato verso l’alto per poi essere subito ripreso dall’adulto. Si tratta della versione veneta del «duru duru sardo, cioé dell’uso di far saltellare ritmicamente il bambino sulle ginocchia della madre (o chi per essa), mentre si snocciolavala tiritera.

11. Ciù ciù ciù musséta ‘a mama l'è nà messa

pupà l'è nà pa i campi co tre cavài bianchi bianca ‘a sèa

a dio morosa bèa. 12. Ciùciù ciùciù musséta

‘a mama xe ‘nda messa 7] pupà xe ‘nda a ’l marcà

‘na sèa el ga crompà bianca ‘a sèa el ga crompà ‘a pì bèa. 13. Tutù tutù cavàlo

la mama è andata a ’l balo co tre cavài bianchi bianca ‘a sèa i putîni no voéa

presto presto se fa “na casa soto ’l ponte de Verona do che canta, do che sona

do che vende ròba bona. 14. Tutù cavàlo biso in tròto se va Treviso comprar la ciabatina pa ‘a siora Meneghina i òmeni la vede la mete in presòn ‘a presòn ‘a jèra vèrta salta so ’l lèto el lèto jèra duro salta so ’l muro 19

el muro jèra bianco salta so ’l banco el banco jèra roto salta so ’l posso el posso pièn de aqua a dio Meneghina negàda soto aqua. 15. Salto biralto

me rompo el capo me rompo el viso salto in Paradiso L’andamentocantilenante delle tiritere, modulato su una semplice frase musicale che si ripeteva uguale e monotona, permetteva che fossero usate a mo’ di nenia finché «i putèi no i ’ndava via co ’1 sòno». La lunghezza «ad libitum» del testo (privo di ogni intento narrativo e composto di figurazioni sterotipe, al limite del nonsenso, la cui sequenzasi giustifica spesso solo pet motivi di rima o di assonanza) favoriva questa funzione. Le «composizioni» seguenti esemplificano questi caratteri, sottolineando altresì l'elemento di «improvvisazione» che, utilizzando una semplice «macchina» strutturale, origina ognivariante.

16. Nana buràta i spini par ‘a gata i ossi par î cani i fasiòi pa i furlani ‘a còta pari preti ‘a moéna pari vèci

el méjo pa i osèi ‘a papa pa iputèi. 17. Tutù tutù musséta

‘a mama xe ‘nda messa co ‘e tetàne piène par dar magnara i putèi (oppure: pa dàrghee a i so putti) ‘sti putòi non ‘e vòe ‘a ciòca se ‘e tòe ‘a monta so ’l punàro ‘a ciùma el gainàro el gainàro fa sòcoi e scarpe ‘a vècia fa ‘e sciarpe ‘a monta so ‘a piasséta 20

‘a piasséta de Verona ‘a cata erba bona erba bona che sa da don Teresina va in namor va in namor co ‘na rodèa

dàmea a mi che so’ pì bèa e so’ bèa da maridare dàmea a mi che so’ so mare.

13. Din don campanon quatro vècie sol belcon una che fia, una che tàja una che fa capèi de pàja una che fa i cortèi d'argento pa tajàrghe ‘a testa a ’l vento. 19. Din don ‘e campane de San Bruson quatro vècie sol belcon una che fia, una che naspa

una che fa capèi de pasta una che prega el bon Dio che ghe manda on bon marìo che sia grando o picenìn che ‘l se ciùma Nadaìn Nadìn de ‘a Francia imprestème ’l s.ciopetìn ghe go da ‘ndare in Francia a massàr che l'ucelìn che tuta ‘a nòte ’l canta e no posso mai dormir. 20. Din dan don

quatro mùneghe su ’l balcon una che fia, una che naspa

n'altra che fa i capèi de spin pa métarghei ‘n testa a quel putìn quel putìn co ‘a baretîna rossa quanti ani che ‘a ghe costa ‘a ghe costa on quarant'an fin'a ‘e porte de Miàn fin'a ‘e porte de Verona dove cresse l'erba bona 21

l'erba bona mai pestàda la Ninèa inamoràda inamoràda su quel boschéto dove che canta quel gaéto che va vanti nòte e dì e che ’l fa chirichirichichì. 21. Din den don cento mùneghe so ‘n belcòn una che fia, una che naspa una che fa capèi de pasta pa crompàre on ucelìn che tuta nòte canta canta el gàeo risponde ‘a gaìna salta fòra ‘a vècia Cerebìna co n bèl piàto de menèstra ben consà sensa Òjo, sensa sal ‘a vècia Cerebìna ‘a vòe baedr. 22. Volta ’a carta.

Il precedente gruppo di cantilene, col motivo delle vecchie/monache/streghe le quali, in una figurazione dal sapore magico e onirico, sono intente alle loro pratiche misteriose sull’alto balcone ventoso, evidenziano la consueta facilità di interscambio e la libertà di associazione di materiali compositivi cooptati a largo raggio da tutto il repertorio popolare. È quanto si rileva anche nella serie successiva di variazioni sul motivo di «volta ’a carta». Questo gesto, tipico di alcuni giochi popolari come le «tre carte», «pea camìsa», solitario e altri, nel testo serve a introdurre immagini sempre nuove e sorprendenti. È classico, pur non essendoil solo, l’attacco onomatopeico del suono delle campane e il suo andamento cullante che sostiene tutta la cantilena,

giustificandone la funzione di nenia. Le campanecitate sono, di norma, quelle di Dosson (per l’area trevigiana) e quelle di San Bruson (per l’area centrale veneziana), che si prestavano alla rima immediata col «din den don» dell’en-

trata. Ma i bambini, nelle loro rielaborazioni, hanno facilmente scoperto altre combinazioni come «din don dan / ’e campane de Gardigian», «dan don din / ’e campane de San Martin» e, in omaggio al loro paese, «din don dèa / ’e campane de Capèa». La diffusione del modello in tutta l’Italia settentrionale, in ogni caso, comporta dei particolari adattamenti testuali per ogni contrada. Resta pressoché inalterato, invece, l'andamento imitativo dello scampanio a festa, che è il medesimo che informa i numeri 18, 19, 20 e 21. 22

_



den

din

e

don

na- va mas- 54

cam- |a- h®

de San Bru- son

e

for-Te che'e bu- ta-va 20 ’e por-le

por-Te «Je “ro. de

So-

© ‘e

.....

e continuala filastrocca.

a) Din den don ‘e campane de San Bruson ‘e sonava massa forte

b) Din den don

‘e campane de Dosson ‘e sonava massa forte

che ‘e butava zo ‘e porte e ‘e porte ‘e jèra de fèro

‘e butava zo ‘e porte e porte che jèra de fèro

volta ‘a carta ghe xe on tajèro on tajèro pièn de pan

volta ‘a carta ghe xe on pulièro on pulièro pièn de puldi volta ‘a carta ghe xe do puti

volta ‘a carta ghe xe on can

on can che fa i cagnéti volta ‘a carta ghe xe do biréti do biréti che zòga a 'e bae volta ‘a carta ghe xe do cavàe do cavàe che magna fen volta ‘a carta ghe xe on putìn on putìn che fa ostarìa volta ‘a carta che ‘a xe finìa.

c) Din den don ‘e campane de San Bruson ‘e sonava tanto forte ‘e butava zo ‘e porte e ‘e porte ‘e jèra de fèro volta ‘a carta ghe xe on pulièro on pulièro che mòea peàe volta ‘a carta ghe xe do bae 4

2

"=

do bae par zogare volta ‘a carta ghe xe ‘na mare na mare e ‘na marina volta ‘a carta ghe xe ‘na gaîna na gaîna e on gaéto

“ti puti zoga ‘e bae volta ‘a carta ghe xe do cavàe “te cavàe ga el còlo rosso volta ‘a carta ghe xe on posso

“to posso pièn de aqua volta ‘a carta ghe xe ‘na vaca “ta vaca ga i vedèi

volta ‘a carta ghe xe do putèi “ti putèi fa comarìa volta ‘a carta che ‘a sia finìa. Din den don le campane di Dosson che le sona tanto forte

da butare zo le porte e le porte xe de fèro

volta ‘a carta ghe xe on capèo el capèo pièn de piòva volta ‘a carta ghe xe ‘na rosa e la rosa sa da bon

volta ‘a carta ghe xe el meon el meon xe massa fato volta ‘a carta ghe xe on mato el mato liga tuti 23

volta ‘a carta ghe xe on musséto el musséto de ‘a Maria volta ‘a carta che ‘a xe fenìa. e) @ baréta xe a ‘a piòva volta ‘a carta ghe xe ‘na rosa

e ‘a rosa ‘a sa da bon volta ‘a carta ghe xe on meon el meon xe massa fato volta ‘a carta ghe xe on mato on mato da igàre volta ‘a carta ghe xe ‘na mare ‘na mare e ‘na marìna volta ‘a carta ghe xe ‘na gaîna ‘a gaîna fa cocodè volta ‘a carta ghe xe on re on re che porta crusca volta ‘a carta ghe xe ‘na mosca na mosca insoénte volta ‘a carta ghe xe on dente on dente masseàro

volta ‘a carta ghe xe on peràro on peràro che fa i peri volta ‘a carta ghe xe do sbiri do sbiri che zoga 'e bae

volta ‘a carta ghe xe do cavàe do cavàe che magna fen volta ‘a carta ghe xe on putìn on putin che fa ostarìa volta ‘a carta che ‘a xe finìa.

«NINNENANNE»

23. Nana bobò nana bobò tuti i putèi fa nana e (Federico) no. 24. Nana cunéta ‘a mama xe ‘ndà messa

el pupà l'è ‘ndà so i campi co tre cavài bianchi

24

volta ‘a carta ghe xe tre puti i tre puti fa ostarìa volta ‘a carta e ‘a xe finîa. f (narrativo) ghe jèra on tajèr pièn de pan (nenia a seguire) volta ‘a carta ghe xe on can on can co i cagnéti

volta ‘a carta ghe xe i puteéti

i puteéti che salta che bàea volta ‘a carta ghe xe ‘na farfàea ‘na farfàea in mèso a i fiori volta ‘a carta ghe xe î signori i signori i xe ‘ndài via volta ‘a carta e ‘a xe finìa.

bianca ‘a sèa bianco el seùn

fa la nana bèl bambiìn. 25. Nina nana bèl putìn fa la nana sol cussìn el cussìn xe scampà nina nana te farà. 26. Ninna nanna, ninna ò

fa la nana sol comò el papà l'è ‘ndato a Ròle a crompare on par de tòle pa far su ‘na carioéta (oppure: ‘na bèa cunéta) pa far nana ‘a me toséta. 27. Nina nana, nina è

‘sto bambino a chi lo do? Ghe ‘o darémo a la Befana che se ’o tègna ‘na setimana;

ghe ‘o darémo a l'Omo Nero che se ‘o tègna on meseintièro

ghe ‘o darémo a so papà quando casa el tornarà.

«LE STORIE SENZA FINE» Erano forme giocose di intrattenimento. In esse non vi è alcun intento narrativo quale si può rilevare, invece, nelle novelline iterative del tipo «Petìn e Petèe» ed ho ritenuto, perciò,di inserirle in questa sezione. Si tratta di scelte senza dubbio discutibili ma è put vero checi si trova di fronte a dei materiali che,per il loro carattere ambiguoe stilizzato, rappresentano una fase intermedia fra i generi. «C'era una volta un re» funziona con un meccanismodiscatole cinesi,

una dentro l’altra, senza soluzione: la serva racconta al re di una serva che racconta al re di una serva che racconta... Non ne conosco la provenienza. Me la raccontava mia madre nelle sere d’inverno quandol’ultima luce verdognola baluginava daivetri coperti d’alga e di vapori della stalla. Forse l'aveva appresa a scuola o, forse, da qualche sua sorella che l’aveva riportata da una famiglia dove era collocata a servizio.

La «Storia de ’1 sior Intento» è, comelealtre, una storia breve, di poco conto (di fatto si potrebbero tutte definire «non storie» perché vengono solo annunciate e non raccontate!), che però non finisce mai, «no ’a se desbtiga». Essa è entrata nel parlare figurato popolare e, quando unafaccendatira per le lunghe e comincia a venire a noia, si dice che «'a xe come ’a storia de ’1 sior

Intento». Così è un «sior Intento» qualsiasi persona lenta nel suo operare. Questa e la «Storia beòria» vedono il narratore proporre una scelta («vuto che te ’a conta o vuto che te ’a diga»), sempre pronto, però, a respingere la richiesta del bambino («Che te me ’a conti» o «Che te me ’a disi»), con un «No se dise mai che..». I bambinisi prestavano volentieri al gioco mapoisi spazientivano e cercavano delle soluzioni «furbe» con l’intento di costringere il natrtatore a proseguire finalmente la storia o di metterlo in difficoltà. Ad esempio, un bambino poteva chiedere «che te me ’a conti e che te me ’a disil». Il narratore, allora, si difendeva rispondendo ritualmente che «no vae! Te ghè dadire o conti o disi, parché tuti do no se pòe!» e riprendeva. Infine qualche piccolo, all'ennesimo «vuto che te ’a conta o vuto che te ’a diga?», sbottava con seccata impertinenza: «Chete tasi su!» In «So e Nonsò»tutto si gioca sul doppio senso dei nomiassegnatiai duefratelli protagonisti, So e Nonsò, appunto,percuiil quesito poteva essere continuamente ripetuto. La prassi di scegliere nomi di comodo è abbastanza caratteristica, specialmente per formulare alcuni «scherzi» verbali comei vari «Terimpo e Terompo» o «Temeìn e Temeéchi» che appartengono al repertorio adulto dell’osteria. Questi e altri piccoli «divertimenti», assieme alle storielle senza senso o paradossali, o a qualche indovinello con la «coda», erano spesso prologo al racconto di una fiaba, oppure preavviso, dopo la narrazionee l’intrattenimento, che la serata era giunta al termine ed era l’ora di andare «in dove che no passa càri, a punàro, a Colsaràti»: i fuochi d’artificio alla fine della sagra. 28. C'era una volta un re. C'era una volta un re

seduto sul sofà che disse a la sua serva: «Raccontami una storia!»

E la serva incominciò: «C'era una volta un re

seduto sul sofà che disse a la sua serva: «Raccontami una storia!»

E la serva incominciò: «C'era una volta un re

seduto sul sofà

27

che disse a la sua serva: «Raccontami una storia!»

E la serva... 29. ’a storia de "1 sior Intento.

— Questa xe ‘a storia de ’l sior Intento che dura poco tempo che mai no ‘a se desbrìga (oppure: destrìga) vuto che te ‘a conta o vuto che te ‘a diga? — Che te me ‘a conti!

— Non se dise mai «che te me ‘a conti!»

perché ‘a xe ‘a storia de ’l sior Intento che dura poco tempo che mai no ‘a se desbrìga vuto che te ‘a conta o vuto che te ‘a diga? — Che te me ‘a disi!

— Nonse dise mai «che te me ‘a disi»

perché ‘a xe ‘a storia de ’l sior Intento che dura poco tempo che mai no ‘a se desbrìga vuto che te ‘a conta o vuto che te ‘a diga? — Che te me ‘a conti!

— Nonsedise mai «che te me ‘a conti»

perché ‘a xe ‘a storia de ’l sior Intento che dura poco tempo che mai no ‘a se desbrìga... 30. Storia beòria.

— Storia beòria mussa contòria

el prete soto ‘a zésta ‘a storia xe questa e mai no ‘a se destrìga vuto che te ‘a conta o vuto che te ‘a diga? — Céntemea! — Nonse dise «cOntemea»

perché questa xe ‘a storia beòria de ‘a mussa contòria

el prete soto ‘a zésta ‘a storia xe questa e mai no ‘a se destrìga vuto che te ‘a conta o vuto che te ‘a diga? — Dìmea! — Nonse dise «dìmea» perché questa xe ‘a storia... 31. So e Nonsò — Ghejèra do fradéi uno se ciamàva So e st'altro Nonsò. E xe morto So. Chixe restà?» d4?

x

— «Nonsòl

— «A mo' te rispiègo: ghe jèra do fradéi uno se ciamàva So e st'altro Nonsò. E xe morto So. Chi xe restà”» 9

4

x

— «Nonsò!» — «A mo’ te rispiègo:

ghe jèra do fradéi...»

«GLI INDOVINELLI»

tw SD

Forse da quando l’uomoha incominciato a radunarsicoi suoi simili attorno ad un fuoco, fare indovinelli è stato anche una forma di intrattenimento, un gioco di società per mettere alla proval’intelligenza e le facoltà logiche e analogiche delle persone, o per sottolinearne l’ottusità e divertirsi a loro spese. L’interesse per questo tipo di gioco ha portato ad una notevole variabilità di forme, dalla sciarada, al cruciverba, all’anagramma,al rebus e così via, tanto che la sua diffusione non conoscelimiti di censo e di età. Nella tradizione popolare, anche per limiti strumentali, si ritrova l’indovinello propriamente detto che si propone spesso come un breve componimento in versi che fa uso ambiguo delle parole o si avvale di perifrasi e metafore per definire un oggetto e, al medesimo tempo, per rendere problematica la

sua individuazione.Il linguaggio allusivo e schermante si presta facilmente a «doppi sensi» maliziosi su argomenti che, di solito, erano tabù fatti rispettare e rispettati con rigorosità (44, 45). Assieme ad un linguaggio piuttosto semplice, il prolungamento oltre la soluzione che ritroviamo in qualche esempio, con giochi verbali di botta e risposta, segnala come anchel’indovinello facesse parte del repertorio destinato al pubblico infantile. 32. Se ben no sia pitére fo’ ritrati a tute l'ore; ne fo’ al bruto, ne fo’ al bello... indovina indovinello. 33. Tondo tondo come on crivèo longo longo come on buèo. 34. Dòna Rebèca vestita cafè porta corona e regina n0 è

ha tanti figli e marito no ha indovinala còssa sarà. 35. Càcia de qua cùcia de eà: mai no ‘a ride mai no ‘a canta. Còssa xe? 36. Gò ‘na stàea de cavài bianchi:

uno de mèso che ghè tra tuti quanti. Còssa xe? 37. Alto altîn

fato de marmo cuèrto delin. Còssa xeo?

38. ‘na volta ghe jèra on musso in fièra, tuti ‘o vardàva nissùno ‘o comprava.* * Di questo, che è senza dubbio un indovinello, non conoscola risposta. Forsesiriferisce all'insegna della «fièra de i mussi» di Trebaselghe o di Noale, che tutti vedono ma nessuno acquista.

30

39. Ve lo digo ve lo dago ve lo torno a dire ve lo torno a dare. È un asino chino sa indovinare.* * Larisposta è contenutaall’interno dell’indovinello, nella ripetizione di «ve lo». Nelsuccessivo, l’informatrice fornisce anchela risposta.

40. Vao via

e trovo on omo Su pa ‘a casa. Quando che torno, a sera, ghe trovo ‘na dòna su pa ‘a casa. Dunque, còssa vòl dir?

(Vòl dir che andando gò trovà el soe

e tornando gò trovà ‘a luna e ‘na bèa serenata. A dio Nina!) 41. a) Pindolìn che pindolava Mostaciéti lo vardava.

b) Bindolìîn che bindolava Mostacèa che lo vardava

Pindolîn xe cascà,

e se Bindolìn cascava

Mostaciéti ‘o ga magnà.

Mostacèa se consolava. Chi xei?

42. Ghe xe zento cavài rossi.

Co pissa uno, pissa tuti. Còssa xei?

43. Do lusénti do sponzénti quatro massòcare

e on paramosche. Cossa xeo? Due esempi di «indovinello» a doppio senso malizioso che alludono all’attività sessuale ma, in seconda battuta, propongono una soluzione più che castigata.

31

44. La bèla moretìna,

prima te vardo e po’ te monto in sìma. Fraco e spenzo, so’ tuto stà. ‘o meto drento suto e ‘o tiro fòra bagnà. Còssa xei? 45. On péo su on péo z0

e do bae che zoga.* * «Un pelo su, un pelo giù» nel significato letterale ovvero nel senso di «un po’ su e un po' giù».

Due esempi di indovinelli con la «coda»: dopo la risposta, segue un battibecco scherzoso. 46. — Cùcia de qua cùcia de là. Còssa xea? — ‘a scoa!

— Merda in boca toa! — Echi‘a ga dita xe tuta soa!

47. — Vao drio ontroséto cato on veciéto

ghe peo ‘a barba e ghe magno el cuéto. Còssa xeo?

— El nèspoeo! — Drento de ’l cuéto còssa ghe xe? — l'osso! — Drento l'osso

còssa ghe xe? — E a màndoea! — Eorael diàgoeo che te stràngoea!

32

48. Vao so on prà e trovo on veciéto Tòo el cortèo e gh tàjo ‘a coa. Còssa xeo? 49. Mi gò ‘na ròba inarà, inquarà, co ‘a trécia forà. Nissùni xe boni inararla, inquararla, come quéi che ‘a ga inarà, inquarà,

co ‘a trécia forà.* 7 {inarare, inquarare = intrecciare, ordinare)

50. Vègnocòto in pì de on modo se so’ duro so’ anca sodo; te me magni séeo che roto co sò cruo o co so’ còto.

Stare drito no ghe provo né sentà parché so’ el... 51. Bon giorno, zento osèi! — «Nosemo zento!

Par farne zento

gh'in vòl el dopio pì la metà de tuti quanti pì uno soprazonto,

par farne zento in conto!»

— Quanti xio? 52. Onta bisonta soto tèra sconta

bona da magnare catàa da indovinare. Cossa xea?

53. Te ‘a buti su e l'è verda; ‘a vièn zo e ‘’a deventa rossa. Còssa xea?

54. Ghe xe ‘na bèa stàea co trentadò cavài bianchi e co ‘na frusta rossa. Còssa xea?

33

55. Te vè drento da ‘na porta e te vièn fòra par tre. Còssa xe? 56. So ’l colmo de ’l cuèrto gà fato vòvo el gàeo. Da che banda xeo vegnesto 20? 57. Alto alto bel vedere quatro cento cavalière co la spada destirata co la testa insanguinata. 58. Brìncoi bràncoi va pa i campi,

brìncoi bràncoi va pa ‘e sponde brìncoi bràncoi no responde.

SOLUZIONI 32, lo specchio; 33, il pozzo; 34, la chioccia; 35, la scopa; 36, la lingua; 37,

l’altare; 38, (2); 39, il velo; 40, il sole e la luna; 41a e 41b,il salamee il gatto; 42, i coppi; 43, il bue;44,la barca e il remo; 45, gli occhi; 46, la scopa; 47, la nespola; 48, il radicchio; 49, l’alveare; 50, l'uovo; 51, trentatre; 52, l’anguilla; 53, l’anguria; 54, la bocca; 55, la maglia; 56, il gallo non fa uova;57,le ciliegie; 58, l’aratro.

34

Parte I RIME PER GIOCARE

Cap.II°

LE RIME DEI BAMBINI Una cospicua quantità di filastrocche e cantilene, che informano una parte o l’intera sequenza di un gioco, viene direttamente e autonomamente usata dai bambini. Ancora una volta sonole finalità che consentonodidistinguere questi testi e perciò troviamo rime per «cojonare», conte, formule ordinative, giochi di parole e scioglilingua, formule di tipo magico e rituale, che i bambini recitavano o cantavano a solo, in coro o a contrasto. La conoscenza

dei testi non proveniva necessariamente da una comunicazione degli adulti; al contrario, nella maggior parte dei casile filastrocche erano appreseall’interno del gruppo,nella pratica ludica stessa, dai compagniche loro volta le avevano apprese in analoghe circostanze. Non può sfuggire, ad ogni buon conto, la naturale e implicita funzione educativa connessa all’uso di questi materiali, soprattutto per quanto concerne il senso del ritmo, la coordinazione motoria e la destrezza, l’uso dello

spazio e la socializzazione.

«COJONARE» Certe rime particolari servivano a «cojonare», a canzonate i membri del gruppo momentaneamente caduti in ‘disgrazia’, o avversari. Di norma erano

l’espressione di un gruppo contro un singolo. Nelle «società» dei bambinisi registrano continuamente momenti di insofferenza, si compongono e scom-

pongonoalleanze e sodalizi, nascono incomprensioni e invidie, momentanee antipatie, e c'è sempre qualcuno a farne le spese e a subire i «dispetti» del

gruppo.

Una forma di dispetto consisteva nell’insistita ripetizione di una filastrocca canzonatoria che si recitava in coro all'indirizzo del malcapitato di turno, sfruttando il suo nome o il suo nomignolo. La filastrocca non era offensiva di per sé stessa; da questo punto divista, taluni epiteti o «soranomi», che sottolineavano con crudeltà tipicamente infantile i difetti individuali, erano assai più pesanti. A rendere insopportabile per la vittima la pratica del «cojonare», era l'incapacità di controbattere efficacemente, il senso di esclusione e di impotenza che coglievano il bambino «cojonè» il quale, non di rado, finiva in lacrime. Ma ci sarebbe stato anche il suo turno e avrebbe potuto ricambiareil torto. 59. Per Federico, o per un bambino grasso (Cìcio) Cìcio bomba canonièra

ga tre busi so ‘a pansièra uno che tira, uno che mòea

Cìcio bomba va in carioèa. 60. Per un bambino di nome Marco. Marco Polo

deto fagiolo nato a Milano

tèrso piano via poénta nùmero trenta

telefono mile Marco imbecìle. 61. Per Maria Maria Maria

co ‘a pansa descusìa co ‘e tete de veùdo Maria te saeùdo. 37

62. Per Pietro. Pièro cocén che tira on baebn che tira ‘na bàea

Pièro farfàea. 63. Per Pietro o Antonio (Tòni). Pièro Pieréto

Toni Tonéti

che bate ‘l tachéto che fuma tabàco

che bate i tachéti che fuma tabàco

Pièro macaco.

Toni macaco.

64. Per Giuseppe. Bèpo crèpo insemenìo ga on buso par da drio ga ‘a s.ciòpa che no trà Bèpo crèpo xe s.ciopà. 65. Per Claudio (Caio) o per Mario. Caio Mario caciatore 7l ga on can che no ’l core "l ga on s.ciòpo che no trà Caio Mario sofegà sofegà da i petussi Caio Mario magna mussi. 66. Per Giovanni (Nani o Nane) Nane xe nane* nane da on tòco Nane naeòco. * («nane» significa stupido, per cui: «Giovanni è stupido, stupido da un pezzo, Giovanni è un allocco).

«LE CONTE» «Fare ’a conta, fare el toco», cioè «fare a chi tocca», serviva a sorteggiare il bambino che doveva «star sotto» (ad esempio, doveva fare il cercatore nel nascondino, la «mussa», l’uomo nero ecc.), o per formare le squadre digioco. Lafilastrocca, molto ritmata, venivasillabata e, ad ognisillaba, ordinatamente, 38

si additava uno dei bambini disposti a cerchio attorno all’incaricato del «toco». Il bambino indicato dall’ultima sillaba era il sorteggiato. «Conta» o «toco» è, perciò, la definizione di queste particolati filastrocche. 67. «Ucelîn che vièn da 'l mare quante pene pòl portare?» «Ventitre!» (ventiquattro, ventotto...) «Un due tre!» (quattro,otto...) 68. Risi bisi moscatèi

tuti quanti xe fradèi fora che mi fòra che ti an tan toca el can toca ’l musso marcia a ’l cùcio. (var. Risi bisi moscatèi/ tuti quanti xe porsèi/ fòra che mi/ fòra che ti/ an dan/ toca ’l can/ toca ’l musso/ marcia cùcio).

69. Soto ’l ponte de Verona ghe xe ‘na vècia scoresbna che sonava la chitàra un due tre sbàra. 70. Soto ‘a capa de ’l camìno ghe xe on vècio contadino che sonava la chitàra un do tre sbàra. 71. Ambrabà cicì cocò tre civéte so ’l comò

che facevano l’amore co la figlia de ’l dotore il dotore si rabìò ambrabà cicì cocò.

72. Piè piexugno

madre sugno bèa boschièra comanda a voi: «Gli ucèli che vièn da ‘l mare

quante pene dovran portare?» Ica balìca

‘a forca te pica bèl porsèl manda intra conìcio e conèl. ‘73. A bici caràsa

copa ‘a maestra e cori casa.

74. Fric froc gloria e onor. El me paese se ciàma: Stai de son sir mon ba ri ghè i. 75. Unara donara ténara quara quarèa

pichéto martèa boîn boése questo fa dièse. 76. L'asinello ba una soma pesante che porta a ’l mulino. Ariari somarîno ari ari su a °l mulino! Il mulino sta là su ari ari porta su.

71. Ai bai tu mi stai

mi e ti compàri ameràco tico taco

ai bai bu.

78. Unzi dunzi trinzi cara carìnzi mini mininzi

tic tac, fora! 40

79. Sète quatòrdici ventàno ventòto Polcinèla è vinto a ’l lòto el ga vinto on bèl biscòto sète quatòrdici ventùno ventòto. 80. Milavo le mane

per fare il pane per uno per due per tre per quatro per cinque per sei per sète per òto

pan biscòto. 81. Piè piedìn cufiéta bianca mile cento cinquanta

mi un, mi do, mi tre mi quatro, mi sìnque, mi siè mi sète, mi òto

pan biscòto biscotìn. 82. Tre narànze, tre limoni

per andare a l’ostarìa s.cìchete s.ciàchete màndalo via. 83. Olio ligo lago

salta fòra ’l mago co la pipa in boca guai a chi lo toca chi lo tocarà

mile lire pagarà. 84. Lo scerìfo BI BI BI vuole fare la pipì la pipì de tre colori rosso giàlo e verde fuori! Lo scerìîfo BO BO BO

vuole fare la popò la popò de tre colori rosso giàlo e verde fuori!

41

85. Pom pon d'oro la li re in lancia questo gioco

si fa in Francia li le lèro mi li le lèro ti pom pon d'oro sta fora ti! 86. An ghin gon tre gaîne e tre capon dove i ’ndava no ‘o so,

forse andavano a °l marcà a crompare pan pepà

forse andavano ne l'orto a becàre on pòro storto forse andavano in cità a studiar zento busìe che no ‘e fa ‘na verità. 87. Soto ’l ponte de Caràca na putèa fa ‘a caca fa ‘a caca verdoîna (moesìna) ‘a se sporca la vestìna e so mama ‘a lavarà. Quante bòte ‘a ghe darà? Chi ‘o sa? Un due tre quatro... no se sa.

«FORMULE PER IL GIOCO» Nella nostra zona sono ancora comuni alcune cantilene che accompagnano deiparticolari giochi o che ne dettano l’azione (ordinative). Si tratta di giochi strutturati nella forma del girotondo, con mimo, o giochi verbali o di destrezza che comportano la partecipazione di bambini e bambine. Il repertorio locale comprende «Ho perso unacavallina», «O quante belle figlie, Madama Dorè, «Nella città di Genova», «La bella lavanderina», «Oh, che belcastello!», «L'elefante», «Rinoceronte», e così via, tuttora assai praticate, tanto che nessun bambino le ha prese in considerazione come testi da

42

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raccogliere. Si tratta di brani arcinoti che, quasi senza variazioni né testuali né musicali, risultano diffusi in tutta la penisola e godono già di un’ampialetteratura. Non miè parso necessario, perciò, includerli in questo contesto dove, invece, si registrano altri giochi un po’ desueti, illustrandone brevementel’azione. 88. Careghéta d’oro. Careghéta d'oro che porta '] mio tesoro

che porta ’l mio bambìn careghéta careghin. ‘Comela successiva «San Pièro in careghéta», è una cantilena che accompagnail gioco di tre bambini. Due incrociano le braccia agganciandosi ai polsi con le mani, in modo da formare unaseggiola (careghéta) su cuisi fa sedere il terzo bambino(di normail più piccolo) che viene trasportato avanti e indietro, facendolo

oscillare al ritmo della filastrocca).

89. San Pièro in careghéta San Pièro in caregbn el ga bevo 0 ‘n'ombréta o ‘n'ombréta de chél bon. 90. Andémoa la guèra. Andémo a la guèra co ’l sciòpo partèra co °l s.ciòpo par man pim pum pam! (Marcetta a coppie. Due bambinisi afferravano le mai, destra con destra, sinistra con sinistra, e procedevano spalla a spalla sulla cadenza della filastrocca. Al «pim pum pam», compivano un secco dietrofront, lasciando e riprendendo velocemente la presa delle mani, e continuavano la marcia in senso opposto. Le

marcette a seguire utilizzavano lo stesso procedimento).

91. Tîrin tirintina la mama va in cusìna

la lava le scodèle

la rompe le più bèle la va fora le buta dho par sora ’l piòl* *(dho = giù; piò! = poggiolo, balcone. Tarzo, TV)

92. Piòva piovesìna ‘a gata va în cusìna 43

‘a magna el bacacà e ‘a poéntaresta là. 93. Bìgoi bàgoi pan gratà ciàpa ‘a mussa e va a ’l marcà el marcà xe finìo bìgoi bàgoi torna indrìo.* *(variazione: Risi e bisi pan gratà/ tòte ’a mussa e va a ’l marcà/ el marcà xe finìo/ tòte *a mussa e torna indrìo).

94. Mama pupà Gigéto me dà. Tòte ‘a cariòea e méname scuòea.

Scuòea no î fa. Tòte ‘a caridea e méname a ’l marcà.

Marcà xe finìo tòte ‘a cariòea e méname indrìo.* *(variazione: Mama pupà/ Gigéto me dà/ Tòte °a carioèa/ e pòrteo scudea/ e se scudea/ no ’l vòe ’ndar/ tòte "a scùria/ e fàeo ’ndar). (La prossima marcetta si arricchisce di un nuovo movimento: un bambino spinge con la destra e tira con la sinistra e l’altro compie l’azione contraria, ritmicamente. Questo avvienesuiversi 1, 2, 3, 4, della 95 e sui versi 5 e 6 della 96).

95. Su e zo

quarantanove case nòve

da fitàr. Dagbe la papa a ’l vècio dàghela co ’l cuciàr. 96. Piòva piovesìna ‘a mama xe in cusìna che lava ‘e scodèle

‘a rompe ‘e tre pì bèle lavale bén lavale mal

buta l'aqua zo in canàl. 97. A la larga a la stréta Pinòchio in bicicréta.

44

Oilì

Oilà Pinòchio se ga rabaltà. - bambini stanno spalla a spalla, immobili, le mani unite come nelle precedenti: ‘a la larga”, scostano le spalle; ‘a la stréta, le riavvicinano; ‘“‘Pinòchio in bicicréta”, marciano speditamente; “oilì’’, si scostano; ‘allà”, si riavvicinano; ‘‘Pinòchio se ga rabaltà”’ riprendono la marcia e fanno dietro front. Il gioco può =ssere fatto anche coi bambinidifronte che si tengono per le mani, destra con destra, sinistra con sinistra: s: allontanano,si riavvicinano, imitano la pedalata con le braccia ecc. e chiudono cadendoa terra).

98. Giro giro tondo. Il girotondo è un gioco semplicee fra i più diffusi per i piccini ma, in :orme complesse ed articolate, viene praticato anche dai più grandicelli. In realtà, come per le marcette, si tratta di forme elementari di danza. Nonsi deve dimenticare che molte danze tradizionali, nel mondo contadino, erano veri e propri girotondo con sequenze di figure che, nella loro stilizzazionee ritualità, alludevano al corteggiamento o a gesti di lavoro e non erano prive di accenti scherzosi e ludici. Sono gli stessi motivi che, pure adattati all’infanzia, si possono riscontrare in forme evolute come

‘Nella città di Genova” o ‘La bella lavanderina”’, giochi che mettono insieme momenticorali ed esibizione individuale, la necessità di accordarsi con gli altri su schemiprestabiliti (il ritmo, le sequenzefigurative, l’intonazione del canto) e il contatto fisico e, così facendo, informano senza

parere su una serie di comporatamentilegati al ruolo futuro del singolo e del gruppo. La raccolta propone solo tre esempi di girotondo peri più piccoli. In questo gioco i bambini, tenendosi per mano, formano unacatenacircolare e si muovono a passo piano o saltellando ritmicamente, sulla cadenza impressa dalla filastrocca cantata in coro. Al termine della cantilena si fermanodiscatto e si siedono per terra. Quindi si rialzano e riprendono il movimento in senso contrario e così via finché non si siano stancati. Se i partecipanti sono numerosi il girotondo può essere composto di due o più catene circolari concentri che, ognuna delle quali procede in direzione opposta a quelle vicine. Nei girotondo più complessi, a bambini singoli o in coppia viene assegnato il compito di eseguire azioni indipendenti, con entrate e uscite dal cerchio, danzando all’esterno o all’interno, con attività di mimo o diinterlocutori

coi bimbi della catena. Un esempio è rappresentato da ‘Il castello dei bambini”’, del quale non conosco la provenienza e che non ho più visto eseguire dai tempi della mia infanzia e che riporto con la notazione musicale del professor G. Scala. Si sviluppa su queste modalità: un bambino (o bambina), in centro, canta mentre gli altri formano la catena e si muovono saltellando, fino a ‘‘girar”’. A questo punto il bambino in centro sceglie una bambina(o viceversa) e i due, tenendosi agganciati col braccio destro, si muovono in tondo saltellando mentre cantano la seconda strofa e i 45

bimbidella catena, sul posto, battono le mania ritmo. Al ‘‘cascà”’, la bambina prescelta si lascia cadere a terra e, alla ripresa, sarà lei il centro del gioco mentre l’altro entra nella catena. Giro giro tondo casca il mondo casca la tèra tuti zo par tèra.

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20

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tè - ra

99. Pinochiéto va so i copi a catàre î vòvi rossi vòvirossi no ghejèra Pinochiéto zo par tèra. 100. Cavalîno biso la mama va ‘a Treviso

el papà va so i campi co tre cavàli bianchi bianca la sèla

tuti dho par tèra.* *(Tarzo, TV)

101. Il castello dei bambini

è il più bello checisia Sto cercando una bambina che lo sappia ben girar. Ecco qua che l'ho trovata tutta bella incoronata E cantava, e ballava

e sul più bello l'è cascà.

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102. Mussa vègno. bambino: ‘Mussa, vègno!” .

mussa:

“Viè

hi

x

FEZA

Vien che te tégno!

(Per il gioco della ‘‘mussa’’. Un bambino si metteva, piegato ad angolo, ben aggrappato a un palo. Gli altri dovevano balzargli in groppa, dopo una breve rincorsa. Ad un certo punto la ‘‘mussa’’ crollava sotto il peso dei compagni. Era un gioco rischioso perché poteva provocare lesioni alla schiena. La formula è una domanda del bambino chesta per saltare, seguita dalla risposta/invito della ‘‘mussa’’).

Un gruppo di formule che accompagnavano giochi eseguiti con le mani. «Pin pin pin» vede chi comanda il gioco tenere la mano destra protesa in avanti, aperta e con il palmorivolto versoil basso. Gli altri partecipanti mettono gli indici tesi a contatto col palmo. Quandoil «capo»arriva al «te masso», chiude la mano di scatto. Chi rimane preso paga pegno. Il bambino che comanda decideil ritmo e i tempi della filastrocca allo scopo di sorprendere gli altri). 103. Pin pin pin. Pin pin pin chi ghe xe soto ’l me camìn

chi ghe xe soto ’l me paeàsso? Scampa via se no te masso! (var. Pin pin/ soto ’l me camìn/ soto il mio palazo/ scampasi no te ciàpo/ uhh!)

104. Bdea Tonìn che bàeo anca mi

ZIin Zin

bàea Tonìn. (La mano appoggiata sul tavolo, dita tese che si sollevano una ad una a partire dal pollice (bàea), poi l'indice (Tonìn), il medio (che bàeo), l’anulare (anca mi), il mignolo(zin), l’anulare (zin) encorail medio che

ha l’obbligo di alzarzi ed abbassarsi più volte, ritmicammne, mentre gli altri non si devono muovere,all’ultimo «bàea Tonìn». Esercizio per il controllo della motricità delle dita).

105. Pipino e Pipéto vano su ’l teto. Via Pipîno. Via Pipéto. Ritorna Pipìno. Ritorna Pipéto. (Un gioco fatto con duedita, Pipìno e Pipéto, fatti apparire e sparire con l'aiuto dell'altra mano). (Il successivo semplicissimo gioco si faceva utilizzando le biglie di vetro o terracotta (sdòe, baéte), o dei sassolini, oppure le conchiglie vuote de «i caragòi», le chioccioline di mare che costituivano un piatto tradizionale delle mense contadine, tra novembre e dicembre, oppure delle monetine. Gli oggetti venivano tenuti nelle mani chiuse una sull'altra e fatti tintinnare. Il bambino che gli nascondeva chiedeva:)

106. Cinciribòi

quanti ghe n'hoi? (Un bambino, tenendo le mani dietro la schiena, celava unn piccolo oggetto in una delle due. Quindi, ponendole di colpo davanti al compagno, ben chiuse a pugno, facendole ruotare chiedeva:)

107. Roda ròda quàea xe ‘a pièna quàea xe ‘a vòda? 108. Madòna Madonéta.

Madòna Madonéta fame dire ‘a verità: quaea xea questa qua? (Madonna, Madonnina, fammi dir la verità, chi è questa campagna? Era la formula per la «moscacieca». Questo gioco era chiamato tradizionalmente «Maria òrba», Maria cieca, e la formula era recitata dalla mosca, cioè dal bambino bendato, quanto toccavail viso di un compagnoe tentavadi riconoscerlo).

109. Pin pinìn. Pin pinìn San Martìn mèa quaranta quara quarèa

suchéta martèa re di scon di. 48

Poreva essere usata come conta o comegioco. I bambini stavano seduti in tondo mentre uno ‘contava’ «Tabando. Al bambino su cui cadeva l’ultimasillaba «di», toccava obbedire all'ordine «scondi», nascondi; perciò doveva nascondere uno degli arti. Vinceva o risultava sorteggiato, a seconda della funzioneattribui4 il bambino che restava con un arto scoperto).

«GIOCHI DI PAROLE E SCIOGLILINGUA» 110. Feltre.

Feltre fu fabricata forte; fémine feltrine fatemi fare felice fine. Lacaratteristica del testo è di essere composta di parole che cominciano tutte con «F», mentre la successi“a «Piéro Pitore» di averle tutte inizianti con «P»).

111. Pièro pitòre praticato per pingere pitùre par poco prèzo.

Paròn patron pàgame presto

parché patìsso pan puénta. ‘trad.; Pietro, pittore esperto nel dipingere dipinture a basso costo, Padrone, signore, pagamipresto perché ho il difetto di mangiare). («Hannolegato i galli», in dialetto suona così:)

112. I gà igà i gai.

113. Soto na quercia ghe xe ‘na quàja. Coùcia brrr cùcia quàja brrr quàja quàja cùcia. 114. Misì so. a) Mi sì so che lu va là.

b) Micesice soce chece luce vace 49

Ma lu no ’l sa che mi so che lu va là.

lace mace luce nolce sace chece mice soce chece luce vace lace.

c) Midise sidise sodise chedise ludise vadise ladise madise ludise noldise sadise chedise midise sodise chedise ludise vadise ladise. (Unafilastrocca compostadi soli monosillabi: «io sì so che lui va là/malui non sa/ che io so che lui va là». Essa viene successivamente trattata con l’aggiunta di un suffisso ad ogni sillaba. Nei casi b) e c) l’informatore aggiunge primail suf. «CE»e, quindi, il suf. «DISE», ma le variazioni possono essere moltissime, a piacere)

115. Signor Dòmino nostro. (Una sorta di preghiera in un dialetto maccheronico di fantasia, in parte intraducibile, L’informatore suggerisce queste ‘traduzioni’: reposòrio=letto; ciribimbàcola=scala; granprà=gatto;filibustèn=fuoco; dòmino nostro=fienile).

Signor Dòmino nostro vègna su da ’l reposòrio vostro; se impìra ‘e scarpe trìpole vègna zo da la ciribimbàcola che 'l granprà de ‘a campagna 7 ga portà ’l filibustèn su par dòmino nostro e se ‘a bondanza no ne jùta semo fòra la speranza tuta. (Signore Dio nostro, levatevi dal vostro letto, mettetevi le scarpe «tripole», scendete la scala perchéil gatto selvatico ha portato il fuoco nel nostro fienile e, se la fortuna non ci aiuta, abbiamo perso ogni speranza).

116. Parén paròn. Paron paron el vègna zo da ’l dormitorio el cora soto el pangatorio el se meta ‘e cantatrìîque el cora su par ‘a stufàgna; ‘a sgrinfagna ‘a ga casà el cùeo so l baricòcoeo che se no ghe jèra la bondansa ‘a se brusava el cùeo e anca “a pansa. (Puòfare il paio con la precedenteperil linguaggio fantasioso e strampalato. L'informatoreriferisce che si tratta del linguaggio di una ragazza di campagna che, prestandoservizio per il primo giorno in unacasa di

50

CPisa 1991.

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D, 1 A ih (IS LI IDR Si/ SU SÒ WS SÒ Ml UU, 1)

Tra le braci, intanto, avvolta in foglie di verza, si era cotta la pinsa, il dolce tradizionale dell’Epifania. Quella sera, dopo averne mangiata unafetta,i piccoli si sarebbero coricati. Ma prima avrebbero preparato del vino e della minestra accanto al focolare e disposto le calze (o gli zoccoli) per i doni della Befana. Durante la notte «'a Maràntega» sarebbe scesa dalla cappa del camino per portare i suoi doni.

74

Parte II

MOTIVI DELLA RELIGIOSITÀ

La casain cui ho trascorso i miei primi anni non ospitava una famiglia maunatribù. Bambini eravamo in molti e, fin da piccoli, eravamo educati non solo a frequentare la chiesa per messe e vespri ma ancheai più semplici atti di devozione: segnarsi quando si passava davanti al cimitero o ad un oratorio, fare un pensierino a Gesù prima di mettersi a tavola, dire le preghiere. Al mattino, appena alzati da letto, c’era la nonna che, mentre si affacendava per casa, non smetteva maidi borbottare tra sè giaculatorie d’ogni sorta e condiva ogni suo discorso con maccheronici «Mària Vèrgoea» e «Jèsu mei dòmine», o «Jèsu Marìse Dòmine» (la sua «Trinità»!); ci apostrofava: «Te ghèto fato ’a crose?», «Ghémo mo’ dito ’e orassiòn?». Alla sera ci pensavano le nostre madri a farci dire la preghiera per l'Angelo custode e ricordo che, una volta che proprio non mi andavadi inginocchiarmi e di recitare l’Ave Maria, mia madre micastigò fuori della porta, al buio. Ero senza dubbio un bambino biasimevole, ma l’orazione non la dissi e ciò nonostante il diavolo non mi portò via.

MA

Allora i segni della devozione erano sparsi ovunque, dentro casa, lungo le strade, nei campi. «Da testa de ’l lèto» non mancavano mai una immagine sacra, l’acquasantiera,il ramoscello d’olivo benedetto e una coroncina. Ma già sotto il portico, sulla porta della stalla e in cucina si trovavano immagini pie del Sacro Cuore o della «Madòna de Monte Berico» e di San Bòvo. Lungole strade e fra i campi, edicole, capitelli, croci delle rogazioni... Nonsi puòtrattare, in breve, della religiosità propria di quel mondo, ma le piccole preghiere create dalla devozione popolare sono uno specchio parziale di quel modo domestico e immediato di «sentire» il rapporto con Dio.

166. San Giusèpeveciarèo. La «Sacra Famiglia» era il soggetto preferito dall’iconografia popolare per i «quadri da testa» nelle camere degli sposi. Nella maggior parte dei casi, le stampe policrome raffiguravano un piccolo presepe che riassumeva quanto era idealmente richiesto all’armonia della vita domestica: la laboriosità del marito, una madre amorosa,unfiglio sano e sorridente in una ambientazione

bucolica, fiorita e serena. In altri casi si trattava della scena della «Fuga in Egitto», simbolo dell’unità familiare e della provvidenza divina che salva dai nemici e dai pericoli. Queste due scene tipiche sono riprese nel testo di questo motivo della devozione popolare nel quale si possono rilevare altre singolari presenze. In primo luogo la delicata rievocazione del sacrificio del Cristo: «Nostro Signor/ xe ’nda a ’a finestra/ co tre colombe(corone)in testa/ la pì bela si morì (ghe cadì)/ e tuto ’1 mondo scomparò». Dio, uno e trino, la morte del Figlio (colomba, corona) e l’oscurità che ne seguì. L’altra espressione da sottolineare, per la sua capacità di sintetizzare con grande semplicità e naturalezza l'impegno spirituale della fede, è «Signor nostro no’l vòl dòta/ el vòl ’n’anima divòta»: il Signore non chiede doti materiali, non tiene conto delle ricchezze, ma pretende fede e devozione. a) «San Giusèpe veciarèo còssa ghîo in chél zestèo?» «na fasséta e on panesèo par fassàre Gèsu bèo. Gèsu bèo, Gesù d'amor, par fassàre nostro Signor». El musséto caminava, ‘a Madòna se sentava col Bambinèo in brasso;

Sant'Isèpo para ia e tuti i ànzoi in compagnia.

Nostro Signor xe ‘nda a ‘a finestra co tre colombein testa.

La pì bèla si morì e tuto ’l mondo scomparì. (San Giuseppevecchierello/ cosa avete in quel cestello?/ Ho una fascia e un pannolino/ per fasciare Gesù bello./ Gesù bello, Gesù d’amore,/ per fasciare nostro Signore.// L’asinello camminava,/ la Madonnasi sedeva/ col Bambinello in braccio,/ San Giuseppeincitava l’asinello/ e tutti gli angeli stavano intorno.// Nostro Signore/ andò alla finestra/ con tre colombe in testa;/ La più bella morì/ e tutto il mondo scomparve).

b) «San Giusèpe veciarèo còssa gavèo so chél zestèo?»

«Go ‘na fassa e on panesèo par fassàre Gesù bèo. Gesù bèo xe d'amore parfassàre ’l nostro Signore. Nostro Signore va so ‘na finestra co tre corone in testa; la pì bèla gh'è cadì, tuto ’l mondo xe sparì. Tre ani quaranta* i angeli che canta in secula seculorun ame. * (in origine: «I Santi Quaranta», i martiri ricordati in una delle porte di Treviso. La chiusa di questa variante e della successiva, segnalano come la composizione fosse una vera e propria formula devozionale).

c) «San Giusèpe vechiarèlo cosa avete su quel cestèlo?»

«Ho una fassa e un panesèlo per infassare Gesù bèlo. Gesù bèlo, Gesù d'amore,

per infassare nostro Signore». Signor nostro no 'l vòl dòta, El! vòl ‘n'anima divòta. La musséta caminava,

la Madòna se sentàva, San Giusèpe paràva via e tuti i àngili in compagnia. I àngili cantava,

Maria sospirava, San Giusèpe in zenociòn, ob che bèla orassién! 167. Mùnega mùnega Santa Chiara. «San Giùsepe veciarèo», era utilizzata anche comestoriellina di intrattenimento. «Munéga munéga Santa Chiara», che pure ricalca in parte la formula di «San Giusèpe», era invece una preghiera che veniva recitata al suono della campane dell’Angelus. In altre versioni, l’invocazioneiniziale risulta «Madòna, Santa Chiara». Mònega mùnega Santa Chiara imprestème ‘a vostra scàea e pa °ndare in Paradiso 78

e pe védere ’l Bambin Gesù. E! Bambino jèra morto e nissùn se ga nincòrto.

Gli àngti cantava a Madòna suspirava, 4

n

.

el Signore in denocion, ob, che bèla orassion! (Madòna, Santa Chiara/ imprestème ’a vostra scala/ per andare in Paradiso/ per vedere chél bèl viso/ se l'è vivo o se l’è morto.// El Signore jèra morto/ e nissùn se ga inacòrto.// I angeli cantava/ so Mama sospirava/ tuti i santi in zenocion/ o che bèla ’sta orassion).

168. Ave Maria picenìna. «Ave Maria piccolina», quasi a distinguerla dall’Ave Maria «grande», la

preghiera che contiene il saluto dell’Angelo all’Annunziata. É una devozione del mattino che indica le prime pratiche e i primi pensieri di un fedele al suo risveglio: ricordarsi che si è destinati alla morte, segnarsi con l’acqua benedetta, bagnarsi occhie viso ecc., per poter essere meritevoli del Paradiso. La «colombina bianca» è l’immagine canonica dello Spirito Santo che ispira la vita del fedele e lo aiuta ad affrontare e vincere gli ostacoli (’a pièra rossa se ga smesà).

Per il contadino o la massaia che si accingono ad una dura giornatadi fatica, è di conforto sapere che «Il Paradiso è una bella cosa/ e chi ci va riposa». a) Ave Maria picenìna chi vièn su a ‘a matìna primo fare, primo dire, ricordarse de morire.

Andar su ‘a pia de l'aqua santa avàrse i òci e "l viso per andare in Paradiso. El Paradiso no ’l xe vèrto.

Còssa ghe xe drento? ‘na coeombìna bianca! Còssa ‘a ga so ’l pèto? On fògo benedéto! Casca ‘na giossa so che ‘a pièra rossa;

‘a pièra se ga Smesà... tuto el mondo inluminà. Tuti i angioli che cantava,

‘a Madòna che pregava, el Signore in zenocion: 79

ob, che bèa ‘sta orassion! b) Ave Maria picenìna lèvati su a la matina. Primo dire e primo fare, lavarsi le mani, gli occhie il viso

per andare in Paradiso. Il Paradiso è ‘na bella cosa

e chici va riposa. c) Ave Maria picinìna lèva su a la matîna. Primo dire, primo fare, ricordarse che se mòre.

Va su quéla piéta de aqua benedeta: làvite i man i viso

e pe ‘ndare in Paradiso. E in Paradiso varda în su, varda in giù.

Te vedi ‘na cocombìna co "n giosséto de aqua santa în boca. El giosséto xe cascà tuto el mondo se ga inluminà. Nomine Padre e Filio

e Spirito i Santo ame. 169. Salve Regina. Devozione della sera che comprende un’invocazine alla Madonna, per riceverne il conforto, ma soprattutto si rivolge al «Signore» esprimendo il desiderio di una completa comunione con lui: e pare di intendere cheil «Signore» invocato sia la persona del Figlio, il perdono e la redenzione. Salve Regina

Spina Rosa d'amore oscuro di notte lucente di giorno la Beatissima Vergine Maria sia sempre qua co mi. Se mi avessi dimenticato

qualche pecàto e no lo avessi confessato 80

né da preti né da frati né da vescovi né da abati né da altri confessori, Voi, Signore mio,

che siete il prete mio, mi confesserete, mi comunicherete co le Vostre Sante Mani. Io mi laverò le mani tre volte al giorno

per il Figlio di Maria che mi ba voluto a questo mondo. 170. Vaoin lèto.

Il devoto, prima dicoricarsi, si affida al suo Angelo custode, chiede al Signore la grazia di morire con i Sacramenti e si raccomandaalla Sacra Famiglia perché «so da ’ndare/ ma no so da ritornare», la sua vita è nelle mani della provvidenza e dal sonno potrebbe anche non svegliarsi più. Vao in lèto

co l'Angelo perfèto So da ‘ndare ma n0 so da ritornare.

Tre gràssie a ‘l Signor go da dimandare: confession, comunion, Òfi santi,

prima che manchiquesto giorno. Gesù, Giusèpe, Maria ve racomando il cuore e l’anima mia. 171. Vaoin lèto. Vao in lèto

co l’Angelo perfèto. Uno da testa,

uno da piè, uno che dise: «Mariéta, va in lèto,

no sta ver paura de nissùna cosa,

né de nòte né de dì che so’ sempre quaco til» 81

Parte IV

CANTI

È unascarnae diseguale rassegna, senza dubbio esigua rispetto al ricchissimo e variegato repertorio della nostra tradizione. Nonostante il rammarico per non aver potuto arricchire adeguatamentela sezione, dati i vizi otiginari annotati in premessa, ho ritenuto utile includere i pochi canti raccolti perché mi sembrava che contribuissero, come esempi, a completare il quadro ideale di questo percorso documentario. La notazione musicale è opera del professor Giuseppe Scala. 83

172. Son fumatore.

Il testo era contenuto in una intervista di Diego Pellizzato al nonno Arturo (1989). Poiché la domanda, non so se casuale o voluta, risulta funzionale, vieneriferita.

Diego: «Nòno, ma parché te fumi ‘a pipa?» Nonno: «Perché: (canta) Fumar la pipa non è peccato,

lo disse Bortolo che me l’ha dato. Fumerò sempre fumerò ancor; son fumatore son fumator. Cimparaparacimpa cimparaparacimpa umpà umpà umpa

son fumator. Fumanoi richi e li operai; soltanto pochi non fuman mai. Io non m'associo a queiSignor;

son fumatore son fumator. Cimparaparacimpa cimparaparacimpa umpà umpà umpa

son fumator.

fu- mor

Bor- to- lo

Ja

che

pi- pa

non

me l'ha

fu- me - ropen — cor

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lo dis- se

da-to, Fu-me- ro Sem- pre

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173. Le sartorèle.

Raccolta a Peseggia. È una sequenzadivillotte ottonarie a blasone (che contengono,cioè, un attributo di motteggio legato, di volta in volta, ai luoghi, ai mestieri e così via), con ribattitura dei ritornelli. In questo caso il soggetto preso di mira sono le «sartine» che, nello stereotipo popolare, sono ragazze leggere sempre a caccia di «morosi». È un tipico canto delle brigate di osteria. E le brune sartorèle / e va in malor e le va via una a una / e va in malor e le va via una a una / e va in malor

parché morosi no ‘e ghe n°ha e va in malor, va in malor, va in malorle sartorèle, e va in malor va in malor, va in malor le sartorèle e va in malor. Il canto prosegue conla sola variazione ai versi 2 e 3 di ciascuna strofa, che diventano «e le va via due a due.tre a tre, quatro...»

es0L0O

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vajita-ior + eleva

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le sar- to-

le

174. Vièn, vièn biondina d’amor. È un canto popolare, di gusto villottistico, eseguito a tempo di valzer e basato su duedistinti temi musicali. Solitamente l’allegro è cantato dal solista, cui risponde il coro nella parte «con brio». Quante caséte basse quanti palassialti quante bèle ragasse per fare l'amor. Vièn, vièn biondina d'amor, vièn soto l'ombra di questo fior. Verài biondina în bràcio a me a consolare ‘sto misero cuor. E fin che ghe xe tàleri tàleri ne le scarsèle quante ragasse bèle

per fare l'amor.

Qur-

h-

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‘sèé-te

Lo ghe xe

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se

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van.

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87

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Ve - rài bion- di- na ih

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vien

l'om- bra

bion-

di - na

40 que -sto

bra a - cia

la - re ‘Sho

d'a-

Fior.

me

mi- SL. ro

Cuor.

175. Ohi bèla machìmecòmica.

El ciòdo de ’l fèro vècio de la mecànica, de la mecànica, el ciòdo de ’l fèro vècio de la mecànica de precision. Obi bèla mechìmecòmica mechìmecòmica mechìmecòmica

ohi bèla mechimecòmica mechìmecòmica mechìmecò.

EI

cid -do del Fè-ro

cè -ni- ca, el

-sion. Ohi

vè-cio de la me-cà-ni.ca, de la me-

ve-cio de la me-cà-ni-ca de pre-ci-

ciò -do del Fe-ro

le -la me-chi- me - co «mica, me-chi-me - cò - mi-ca , me-chè- me-

-e-mi-ca, chi

bè-la me-chi-me-

cò-mi_ca,me-chi.me- vo

.

co -mi-ca

88

N

me -h'- me.



co,

EI

“cò,

176. L’impastatrice ingorda. (a) Si tratta di due versioni, con la 177, assai simili tra loro, di una canzonci-

na iterativa del repertorio infantile. Il modello è un canto burlesco conosciuto in più d’una variante in tutta la regione. Ad esempio: «La bèla impasta i gnochi/ minoti mufoti de mustacoti/ la bèla impasta i gnochi/ su la mola de’ mulin.// La impasta tanto duri/ minuri mufuri demusta curi/ che i ghe gà fato mal//» per cui si mette a letto finché torna il marito che, per curarla, leva «na gamba de "1 lèto/ e scominsia a bastona» allo scopo di «patat zo i

gnochi/ che i te gà fato ma)». In una secondaversione «la gh’in zerca sète piati/ par sentir se i xe salài// La gh’in zerca altri oto/ par sentir se i xe consài/» per cui si sente male e il marito manda a chiamare il dottore, che la «vègnaa visitan». So ‘ndà impastare i gnochi a l'alba al muìn.

I jèra massa duri mamùri papùri la mama sta cò i jèra massa duri i me gà fato mal. ‘ndarémo ciamare ’l dotore

mamore papore la mama sta cò ‘ndarémo ciamare ’l dotore

che te vègna visitar. El! dotor no gà fato ora mamora papora la mama sta cò el dotor no gà fato ora vegnérme visitar.

ndarémo ciamare el prete mamete papete

la mama sta cò

ndarémo ciamare el prete che te vègna benedir. El prete no gà fato ora mamora papora la mama sta cò el prete no ’l fa ora e intanto ‘a xe s.ciopà.

89

to ‘ijm-pa-sta res gno-chi o.

in.

I

jé-ra mas-sa

je- ra mas- sa

lal. ba

mu

du-w fua- mu-F) pa- poro la ma-ma sha

du- rio

|

me gÈ

sté-mo cia -ma-reel do- to-re ma-mo-re pa.

Fa-to

mal.

‘nda-

po-re la ma-ma St,

223

cè inda- ti-mo cia. ma-reeldo — to - re che Te -

tar. El do - fer na go fa-th

.

°

ve- gna

©- ra ma-mo-m

vi si

pa-

= ° po-ra la ma-ma cià co. Ei do- tor no gs fa-ta -

c-ra

dar. ‘nda - ré -mo tia- maree! prete ma-me-Me pu- be-Te la ma-ma cha >

cè. ‘nda- Fe- mo va - ma-reel pre-te che te

pre-te no g® Fo-t0

è

El

o-ra ma-mo-ra pu po-ra

la ma-ma

pre-te sol Fa o-rap in. tanta xe scio - pd.

177. L’impastatirce ingorda. (b) So ‘ndà impastare i gnochi

la mama papòchi la mama tacò tacò tacò so ‘ndà impastare i gnòchi par fare da disnar. 90

ve-ghag be- he dir.

I jèra massa duri

la mama papùri la mama tacò tacò tacò i jèra massa duri

i me gà fato mal. Andémo ciamare el dotore

la mama papore la mama tacò tacò tacò andémo ciamare el dotore par farte visitar. E! dotor non gà fato ora la mama papora la mama tacò tacò tacò el dotor no gà fato ora vegnérme visitar.

Andémo ciamare el prete la mama papete la mama tacò tacò tacò

andémo ciamare el prete par farte benedir. El prete no gà fato ora la mama papora la mama tacò tacò tacò el prete no ’l fa ora e ‘a pansa xe s.ciopà.

La mama so ’l balcone la mama papone la mama tacò tacò tacò la mama so Èl balcone:

«Vegnìla a sepelir!»

So ‘ndajm- pa- ifa- rei gno-chi la

gno chi par

Lre da di- snar. TU

)jè-

50 ‘ndiim pa-sta-re4

FA mas-sa

do-ri ma-mosri pa — pu-ti la mma-ma ta.rato tacco

ve À

D

po- chi la tna-ma ta - è ta-cò ta- cò

ma-ma pa-

j€- ra mas- Sq

dv-ti

è

me q

Fa- to

mal.

178. Griìlo, bè! grilo. Questa variante della canzone comica del «Grillo e la formicola», assieme a «Mi piace in vin di pergola», «La Marcelina» e «Nina, xe qual’inverno», è stata proposta dal signor Romeo Bragato (anni 78) alla nipote Costantina, in una intervista del novembre 1989. Horitenuto interessante proporre, assiemeai canti, ancheil testo della conversazione tra il nonno la nipote, in quanto testimonia di una esperienza di luoghie situazioni più significativa di tanti discorsi. C. R. C. R.

«Nòno...»' «Oho...» «Me cantito de ’e canson de ’na volta?» «Sè, te ne canto una, do...»

(Comincia a cantare «Grìlo, bèl grilo». Una voce femminile interviene in accompagnamento, appoggiandosi con grande delicatezza, nella chiusa della strofa, dopo il «larì olì olà», su «tu eri tanto bè.è.lo»). Grilo, bèl grìlo

tu eri tanto bèlo lerà larì olì olà tu eri tanto bè.è.lo. Perché portavi tre rose ne'l capèlo lerà larì olì olà tre rose nel capèè. lo. Dice la formica:

«Mivùto mi per sposa lerà larì olì olà mi vùto mi pe spo.o.sa».

Dice el griléto: «Magari ancastasera lerà larì olì olà magari anca stase.e.ra».

Dice el griléto: «Narémo tòre i anèli lerà larì olì olà narémo tòre i anè.è.li». Xe rivà ‘na nòva che ’l pòro grîlo è morto lerà

larì olì olà

che ’l pòro grìlo è mo.or.to. La povera formica la se butàva a i banchi lerà larì olì olà ‘a se butàva a i ba.an.chi. Co li suoi genòchi la se batéva i fianchi lerà larì olì olà la se batéva i fia.an.chi. Co la mano destra la se gratava ‘a testa lerà larì olì olà

la se gratava ‘a te.e.sta.

Grì - lo

bel

gr -lo

to

e- ri

tan. To

tu

s

Bè lo

€ -

le-ra

ri

la- ri

tan- to

o-

ll

be -

0-

è -

la

lo

C. «Nòno, me necàntito ’n’altra?»

R «Si! ’n’altra te ne trovo, te ne canto...» 179. La Marcelìna. Ieri sera, ieri sera ‘ndando in piassa bo trovato, ho trovato la Marcelìna; era sola, era sola poverina,

che piangeva, che piangeva per l'amor. «Còssa gastu, còssa gastu Marcelìna che tu piangi, che il tuo pianto mi fa male; prendil'ago, prendi el l'ago e po’ il ditale,

vai disopra, vai di sopra a lavorar». «Gò il lago, gò il l'ago che mi punge, gò il ditale, gò il ditale che mifa male, gò l'amore, gò l'amore che mi costringe che non posso, che non posso più lavorar». 93

Ie- ri

se- ra 27-32

ie-ri

se -ra:n- dan-doîn pias-sa

ho tro-va-to-la Marce- lina e-ra so-la

po -ve-ri-na

che piab-ge- va

piabTo mi Fa ma- a- le

pi_il di -Ta-le

€/

Ge

il

go

che

non

frendi

l'a-

la go che mi

90



cl

ta-le che im Fa

Più

pr-did la-g0?

So- pra a

la-vo- rà"

pun-ge

gpril di-

3

mi co - strinege

pos- so

pian- gi

Va-go

vai di

quil di

l'a- mor che

per Ia - mor,

vai di 50- pra

=

ta - le

e-ra so-la

ga-stu Nar. ce. li- na che tu

(ds-sa ga- sh c0s- sa

che;l tuo

che pian-qe- va

he tro. va- To

che

ma-ie go' la- mo-re

noh pes-

so

la - vo. rar.

«Nòno,senti: chi xe che le gà scrite ’ste canson? Chi xechele cantava?»

«Scolta! No ghe jèra, "na òlta, i cantautori come dèsso, che scrive,

PO

dètta ’e canson, no... ’e jèra tute canson dite da privati, cossì. I se ’e inventàain testa, ’ste canson. I se ’e tegnéa in naménte, e ora dopoi

94

’e cantava e i "ndéa vanti, i ghe zontàva, i colaborava cossì... ‘e jèra ancora quée che ghe diséa ’na òlta me pòro pupà e me pòra nòna:i cantava ’ste canson qua...» «Chi xe che cantava ’ste canson?» «Me nòna, me pare, ròbe cossì, ròbe vècie, no... Ròbe che sarà cento

D pe-

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marsu.,

ani e passa... Costantina, ma no te pensi che quando mijèra a ’a to età, che ’ndava messa bonora e dopo stéa fermo Capèa, che me mama me déa quìndase schèi, °na paeànca e mèsa, ghe digo mi, èco!, parché ’ndéssimo tòrse ’na ciopéta de pan e ’ndéssimo scaldarse par stare a dotrìna, va ben! E là gò sentùo, ghe jèra i vèci Pellizzato, «Barbòi», i ghe ciamàva «Barbòi» soranome e, come che te digo, i cantava «Mipiace il vin di pergola». E ora ’a jèra cossì: (canta) 180. Mi piaceil vin di pèrgola. E mi mipiace il vin di pèrgola e l'è dolce come on bàlsemo ‘Isemò ’Isemò, ridà

che gran felicità! Alte (2)...!

E

co-

mi mi

me on

gran Fe- li

pia cejl

bal-se-

vin di

per_go - lae l'È dol-ce

mo ‘lse-mò “lse-

ci _

ta!

meo,

H- da che

A - te!

DO

C. «Nòno, majèrea ’na ostatìa?...» R. «Nooo... ’a jèra na pìcoea casa, cossì... ’sta veciéta che fea cafè e ’a vendèa biciarìni. E ’sti òmeni vegnéa fòra da messa,veciòti, e i ’ndéa scaldarse. E ora i bevéa cafè. Parché lo fea, el cafè, co ’a pignatèa. E dunqueel biciarìn e intanto i se scaldava e i ’ndéa casa da messa. Ghèto capio come che ’a xe?» . «Nòno,jèra frédo, ’na volta?» «Madòna,se jèra fredo! Ricòrdate, tuti *ndéa messa co’l tabàro,intabarài, là; i jèra tuti quanti co ’a bròsa so ’l naso... E jèra fredo, ’na òlta! Crédito, quando che ’ndéimo a ’e noéne, da ’e feste de Nadàe, tacàimo da casa e ’ndéimopai fossi, issàndo. On quo, fredo no ghe n'è! E dopo,aténta,i gà inventà ’na canséna, «Nina xe qual’inverno» ce

C. «Càntemea!» R «Sì, dall»

181. Nina, xe qua l’inverno. Nina xe qua l'inverno / la neve vièn co ’l vento (3 volte) 96

noi s'integnarémo drento / fin che vièn l'istà. Nina xe qua la barca / co trentasìe coltriîne (3 volte) drento c'è ‘e signorine / che a lavorar no ‘e vièn. 2

Ni-na xt qua

l'in. verno, fa

ngi

he- ve

vien col

ven-

to,

A

Ni-na xe qua l'in.

vereno, la “he - ve

viento

ven- to,

vien cod.

ven-



Ni-na xe qu

lin. ver-no, la

hoi gin + te- gna. ré- mo

Ni-na xt qua LT ="

Ni-ha

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barica o heh-ta - Ste col- trr- ne, DC

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Si-gno-

t'-ne

la- vo-

rar noe vièn,

C. «Nòno,jèri altro te gò sentìo cantare qualche cansén vècia...» R «Si. Mi, ogni tanto mi sò qua che péo radici so ’ barco, che lavoro, e mevièn in mente ’e cansén vècie de ’na òlta. Ghèto capìo come che ’a xe? De ‘e òlte canto «Di qua di là de’l Piave ci stava un’osteria», «Sul Ponte di Bassano noi ci darém la mano»e de ’e òlte canto, dunque, «E

la vièn giù da la montagna compagnata da un gran signore...», e de ’e òlte «Vièn moretìna vièn, vièn so i campi voltare el fen», tute robéte cussìta, che me vièn in naménte de ’e òlte, stroféte cussì.». 182. Mipiaceil vin di pèrgola. Hoinvitato Diego Pellizzato a chiedere al nonno Arturo «Barbòi», l’esecuzione del «Mi mi piaceil vin di pèrgola» citato dal signor Romèo B.Il signor 97

Arturo ricordava il canto anche se la sua versione è notevolmente diversa e inserita in un «menestron» (minestrone) formato da motivi di canti differenti

Mi mipiace il vin di pèrgola l'è dolce come un bàlsemo se mai se maridàssimo che gran felicità. Dale Alpileva il sole da le Basse va a dormire il mio ben mi manda a dire: «Maridarse sto ano, no!»

Maridarme gò sempre tempo sassinàr la vita mia on giorno solo în alegrìa tuto il resto di passion. Obiche nòte, ohi che nòte deliziosa!

Vòisapere, vòi saper per la verdura: passegiando, passegiando per le mura la tristessa, la tristessa resterà. (passerà) Din don dèa chi gà roto ‘a campanèa? Din don da

chi l’ha rota la pagherà. Obi, Ninéta!

M

bàl. se.mo se

cdas-si-mo Mi

pia-egil vin di

pèr-go- la

l'ès

dol-ce co-me un

mai se ma-a-ri- das-si- mo se

pia-eilvin di

mai se ma-Fi-

pèr-go-la le ciel-ce co- o-meya

hil-se- mo se mai se ma-a- ri- das- Si- mo che grande fel - i- cifo)

ta,

98

Dale

Al-pr le - vail so- le, da ie

Bas-se va

a dor_

-mi-re il mio

ben mi ma-an-cha ben mi ma-an-daa 4 di- re il mio

dar-me 96

Ma-ri-

no.

-dar -Se ‘sto a- ho

tem- po sas-si- nar la vi-

a dor.

di -re “Mar:

ben mi ma-an- dan

meo

mire il

va

Bas-se

so - le da le

le-va,jl

Al- pi

di - re dal-le

sem-pre

mn apa gor-no s0-los-na- le -

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«gica tu-tgjl re-stp dii pas-sicn. Chi - che nò-Te chi che .

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nò-te

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vdi 54-

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tr - stes-sa, la

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ro-to ‘a cam-pa-

chi l'ha ro-ta la Pa-ghe - nà.

ro-te ‘a

campa nia

to-ta

la pa-ghe

- ri °

99

183. L’àlbaro piantà so ’1 prà. Cantoiterativo, per solo (S) e coro (C), che ripete l'impianto giocoso di

storielle del tipo «Petìn e Petèe»o di altri canti (Lune la fune, La campagnola

AP09

AAP

AP

Ara 209095

ecc.).

In mèso a ’l prato... Còssa ghe jèra? Ghejèra on àlbaro...

e l'àlbaro impiantà so ’l prà. E tacà l'albaro... Còssa ghe jèra? Ghejèra i rami... e i rami tacà l'àlbaro e l'àlbaro impiantà so ’l prà. E tacà i rami... Còssa ghejèra? Ghejèra ‘è fòje e fòje tacà i rami i ramitacà l'àlbaro e l'èlbaro impiantà so ’l prà. In mèso ‘e fòje... Còssa ghe jèra? Ghejèra on gnàro...

el gnaro in mèso ‘e fòje ‘e fòje tacà i rami i rami tacà l'àlbaro e l'àlbaro impiantà so ’l prà. E drento el gnaro... Cossa ghe jèra? Ghejèra i vòi... i vòvi drento el gnaro el gnaro in mèso ‘e fòje e fòje tacà i rami i rami tacà l'àlbaro

PN

e l'àlbaro impiantà so ’l prà.

100

E sora ivòtvi...

Còssa ghe jèra? Ghejèra ‘a mare... ‘a mare sora i vàvi i vòvi drento el gnaro el gnaro in mèso ‘e fòje e fòje tacà i rami

i rami tacà l'àlbaro

N20

PO

e l'àlbaro impiantà so ’l prà. E sora ‘a mare... Còssa ghejèra? Gbejèra el pare... el pare sora ‘a mare ‘a mare sora i vòvi i vòvi drento el gnaro el gnaro in mèso ‘e foje ‘e fòje tacà i rami i rami tacà l'àlbaro e l'àlbaro impiantà so ’l prà. E sora el pare... Còssa ghe jèra? Ghejèra ‘a gòba...

‘a gòbasora el pare el pare sora ‘a mare ‘a mare sora i vòvi i vòvi drento el gnaro el gnaro in mèso ‘e fòje e fòje tacà i rami i ramitacà l'àlbaro

e l'àlbaro impiantà so ’l prà. (Il testo può continuare agganciando sempre nuovi elementi. Ad esempio: «E sora ’a gòba.../ Còssa ghe jèra?/ Ghejèra *e pene.../ ‘e pene sora ’a gòba, ‘a gòba sora el pare...». Poi sopra le penne può esservi una pulce, le nubi, il sole,il cielo ecc.).

)

(coRO)

a- to. vo la mè - sog‘ pra -0.-

.

Ghe jc-rao- nbl-ba-ro...