Vite minuscole

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Pierre Michon

Vite minuscole

ADELPHI

Vite minuscole esce in Francia nel 1984. È il primo libro di uno scrittore ignoto al milieu letterario, ma è subito chiaro che si tratta di un esordio folgorante. E audace: recuperando una tradizione che risale a Plutarco, a Suetonio, all’agiografìa, Michon ci racconta le vite di dieci personaggi non già illustri o esemplari, ma, appunto, mi­ nuscoli·. e dunque votati all’oblio se non intervenisse a riscattarli una lingua son­ tuosa, di inusitata e abbagliante bellezza, capace di «trasformare la carne morta in testo e la sconfitta in oro». Vite come quel­ la dell’antenato Alain Dufourneau, l’orfa­ no che vuole «fare il salto nel colore e nel­ la violenza», in Africa, convinto che solo laggiù un contadino diventa un Bianco e, fosse anche «l’ultimo dei figli malnati, deformi e ripudiati della lingua madre», può sentirsi più vicino alla sua sottana di un Nero; o come quella, lacerante, di Eu­ gène e Clara, i nonni paterni, inchiodati nel ruolo di «tramite di un dio assentato» il padre, il «comandante guercio», che ha preso il largo e da allora scandisce la vi­ ta del figlio come la stampella di Long John Silver, nell’/soZe del tesoro, «percorre il ponte di una goletta piena di sotterfu­ gi»; o come quella dei fratelli Roland e Rèmi Bakroot, i compagni di collegio, tor­ vamente sprofondati nel passato remoto dei libri il primo, nell’invincibile presen­ te il secondo, e uniti da una rabbia ostina­ ta non meno che da un folle amore. Santi o losers, paradigmi o catastrofici avatar del narratore, ciascuno di questi personag­ gi ha in qualche modo ordito il suo desti­ no, istigato un’irreparabile lontananza, fo­ mentato la convinzione che solo nella più inattingibile letteratura c’è salvezza.

«Dall’inverno venivano. E il loro cogno­ me fangoso e testardo non mentiva: ve­ nivano anche, forse attraverso una lon­ tana ascendenza di cui poco mi importa, ma molto più nel ceffo e nell’anima che in quel cognome sono inscritti, venivano anche profondamente dalle Fiandre. I fratelli Bakroot erano i rampolli dispersi di una specie di mistero medioevale, ter­ rigno, insomma fiammingo; verso quel Nord la mia memoria li scaglia; lassù ar­ rancano senza fine, l’uno incontro all’al­ tro, in una landa di torbiere, di distese brulle e assediate dal mare, di polder e patate nane, sotto un cielo immensa­ mente grigio alla maniera del primo van Gogh...». Pierre Michon è nato a Les Cards, nella Creuse, nel 1945. Solo nel 1984 è apparso il suo primo libro, Vite minuscole, elaborato fra il 1977 e il 1983. E autore, fra l’altro, di Maîtres et servi­ teurs (1990), Rimbaud lefils (1991), La Grande Benne (1996) e Les Onze (2009), quest’ultimo di prossima pubblicazione presso Adelphi. Del 2007 è Le roi vient quand il veut, che ra­ duna trenta conversazioni sulla letteratura.

In copertina: Domenico Fetti, Ragazza che dorme (1621-1622). Szépmuvészeti Mùzeum, Budapest. © FINE ART IMAGES/ARCHIVI ALINARI, FIRENZE

J

FABULA 308

Pierre Michon

Vite minuscole TRADUZIONE DI LEOPOLDO CARRA

ADELPHI EDIZIONI

TITOLO originale:

Vies minuscules

© 1984 ÉDITIONS GALLIMARD PARIS © 2016 ADELPHI EDIZIONI S.P.A. MILANO www.adelphi.it ISBN 978-88-459-3088-1

Anno

2019 2018 2017 2016

Edizione

1

2

3

4

5

6

7

INDICE

Vita di André Dufourneau

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Vita di Antoine Peluchet

31

Vite di Eugène e di Clara

61

Vite dei fratelli Bakroot

77

Vita di père Foucault

113

Vita di Georges Bandy

133

Vita di Claudette

175

Vita della bambina morta

183

« Vite minuscole», o la superfluità delle note al piede di Leopoldo Carra

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a Andrée Gayaudon

Ritiene, purtroppo, che la gen­ te umile sia quella più vera. ANDRÉ SUARÈS

VITA DI ANDRÉ DUFOURNEAU

Inoltriamoci nella genesi delle mie pretese. C’è forse tra i miei antenati un bel capitano, un gio­ vane guardiamarina insolente o un negriero selvaggia­ mente taciturno? Uno zio, a oriente di Suez, regredito alla barbarie con il suo casco di sughero, i jodhpurs fino ai piedi e l’amarezza sulle labbra, personaggio ste­ reotipato che volentieri si accollano i rami cadetti, i poeti apostati, tutti quei disonorati carichi di onore, di ombra e di memoria che sono la perla nera degli alberi genealogici? Un qualsiasi avo coloniale o marinaio? La provincia di cui parlo non ha coste, spiagge né scogliere; nessun ebbro navigante di Saint-Malo, nes­ sun altero provenzale vi ha mai udito il richiamo del mare quando i venti di ponente lo riversano sui casta­ gni, purificato dal sale nel suo lungo cammino. Eppure, due uomini che conobbero quei castagni, che lì sotto probabilmente si ripararono da un acquazzone, forse amarono e comunque sognarono, sono poi andati sot­ to alberi assai diversi a lavorare e a soffrire, a non realiz­ zare il loro sogno, forse ad amare ancora, o semplicemente a morire. Di uno dei due mi hanno parlato; dell’altro, mi sembra, conservo il ricordo.

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Un giorno, durante l’estate del 1947, mia madre sta passando con me in braccio sotto il grande ippocastano di Les Cards, nel punto in cui alPimprowiso si vede sbucare la strada comunale, fino a lì nascosta dal muro della porcilaia, dai nocciòli, dalle ombre; il tempo è bello, mia madre indossa presumibilmente un vestito leggero, io farfuglio qualcosa; lungo la strada, un uomo che lei non conosce è preceduto dalla propria ombra; lui si ferma; guarda; è commosso; mia madre ha un lie­ ve tremito, l’insolito, al culmine, prolunga la sua nota nel fresco brusio del giorno. Finalmente l’uomo fa un passo, si presenta. Era André Dufourneau. In seguito, disse che gli era sembrato di riconoscere in me la bimba che mia madre era, ugualmente infanse ancora inerme, al momento della sua partenza. Trent’anni, e lo stesso albero che era lo stesso, lo stesso bam­ bino che era un altro. Tanto tempo prima, i genitori di mia nonna avevano chiesto al brefotrofio di affidare loro un orfano che li aiutasse nei lavori della fattoria, come si usava a quell’e­ poca, quando ancora non era stato messo a punto il compiacente e astuto inganno che, con la scusa di pro­ teggere il figlio, porge ai genitori uno specchio lusin­ ghiero, edulcorato, voluttuario; allora bastava che il piccolo mangiasse, avesse un tetto e imparasse a con­ tatto con i ragazzi più grandi i pochi gesti necessari a quel sopravvivere che per lui sarebbe stato un vivere; quanto al resto, si riteneva che la tenera età supplisse alla tenerezza, ovviasse al freddo, alla fatica e al duro lavoro che le focacce di grano saraceno, l’incanto del­ le sere, l’aria buona come il pane contribuivano a miti­ gare. Gli mandarono André Dufourneau. Mi piace pensa­ re che arrivasse una sera di ottobre o di dicembre, in­ zuppato di pioggia o con le orecchie arrossate dal gelo pungente; per la prima volta i suoi piedi calcarono quella strada che non avrebbero calcato più; guardò l’albero, la stalla, il modo in cui l’orizzonte di qui si sta16

gliava contro il cielo, la porta; guardò i volti nuovi nella luce della lampada, sorpresi o emozionati, sorridenti o incuranti; pensò qualcosa che non sapremo mai. Si se­ dette e mangiò la minestra. Restò dieci anni. Mia nonna, che si è sposata nel 1910, era ancora ra­ gazza. Si affezionò al bambino, colmandolo certamen­ te di quella delicata gentilezza che ho avuto modo di conoscere e grazie alla quale attenuò la rude bonarietà degli uomini che il piccolo accompagnava nei campi. André Dufourneau non conosceva la scuola, né mai la conobbe. Lei gli insegnò a leggere, a scrivere. (Mi im­ magino una sera d’inverno; una giovane contadina ve­ stita di nero fa cigolare l’anta della credenza, ne estrae un quadernetto appoggiato in alto in alto, « il quader­ no di André », si siede accanto al bambino che si è lava­ to le mani. Tra le chiacchiere in dialetto una voce si affina, si innalza di tono, si sforza con più ricche sono­ rità di adattare la lingua alle parole più preziose. Lui ascolta e ripete, dapprima intimidito, poi conciliante. Non sa ancora che a quelli del suo ceto o della sua spe­ cie, nati più vicino alla terra e più lesti nello sprofon­ darvi di nuovo, la Bella Lingua non dà la grandezza, ma la nostalgia e il desiderio della grandezza. Smette di appartenere all’attimo, il sale delle ore si discioglie, e nell’agonia del passato che sempre incomincia, sor­ ge il domani e subito si mette a correre. Il vento sferza la finestra con un ramo spoglio di glicine; lo sguardo spaurito del piccolo vaga su una carta geografica). Non era privo di intelligenza, forse dicevano che « im­ parava in fretta »; e, con il buon senso lucido e intimo­ rito dei contadini di una volta che riconducevano le gerarchie intellettuali a quelle sociali, per giustificare qualità così incongrue in un bambino della sua condi­ zione i miei bisnonni si inventarono, sulla scorta di va­ ghi indizi, una storia più rispondente a ciò che consi­ deravano il vero: Dufourneau divenne il figlio naturale di un signorotto del luogo, e tutto tornò nell’ordine delle cose.

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Nessuno sa più se fu reso edotto di questa ascenden­ za fantasmatica, scaturita dall’incrollabile realismo so­ ciale degli umili. Ma tant’è: se sì, ne andò fiero e si pro­ pose di riconquistare ciò di cui, senza mai averlo posse­ duto, era stato defraudato dalla condizione di bastar­ do; in caso contrario, una forma di vanità si impadronì di quel contadino orfano, allevato forse con un vago senso di rispetto, sicuramente con riguardi inconsueti, che gli sembrarono tanto più meritati in quanto ne igno­ rava la causa. Mia nonna si sposò; aveva solo dieci anni più di lui, e forse l’adolescente che Dufourneau era divenuto ne patì. Ma mio nonno, devo dire, era allegro, ospitale, buon diavolo e mediocre contadino; quanto al ragazzo, mi pare di aver sentito da mia nonna che fosse simpati­ co. Probabilmente i due giovani si vollero bene, il lieto vincitore del momento con i suoi baffi biondicci, e l’al­ tro, l’imberbe, il taciturno, il segretamente chiamato che aspettava la sua ora; l’eletto dalla donna, con la sua impazienza, e l’eletto da un destino più grande della donna, con la sua calma contratta; quello che scherzava e quello che aspettava che la vita gli permettesse di scherzare; l’uomo di terra e l’uomo di ferro, a non con­ tare le rispettive forze. Li vedo andare a caccia; lo sbuf­ fo ritmico dei loro respiri, dopo un po’, svanisce in­ ghiottito dalla nebbia, le loro sagome sfumano al limi­ tare del bosco; li sento affilare le falci, in piedi nell’alba primaverile, poi iniziano a camminare e l’erba si piega, e il suo profumo si fa più intenso con la luce, più pun­ gente con il sole; so che si fermano quando suona mez­ zogiorno. Conosco gli alberi alla cui ombra mangiano e parlano, sento le loro voci ma non le capisco. Poi nacque una bambina, scoppiò la guerra, mio nonno partì. Passarono quattro anni, durante i quali Dufourneau divenne un uomo fatto; prese in braccio la bambina; corse ad avvertire Elise che il postino stava imboccando la strada della fattoria per portare una del­ le lettere, puntuali e diligenti, di Félix; giunta sera, al

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lume della lampada, pensò alle lontane province dove il tumulto delle battaglie radeva al suolo villaggi cui as­ segnava nomi gloriosi, dove c’erano vincitori e vinti, ge­ nerali e soldati, cavalli morti e città inespugnabili. Nel 1918 Félix ritornò con alcune armi tedesche, una pipa di schiuma, qualche ruga e un vocabolario più ricco di quando era partito. Dufoumeau fece appena in tempo ad ascoltarlo: lo chiamavano al servizio militare. Vide una città; vide le mogli degli ufficiali salire in car­ rozza scoprendo le caviglie; udì giovani uomini che con i baffi sfioravano l’orecchio a deliziose creature fatte di risa e di seta: era la lingua che aveva imparato da Elise, ma pareva un’altra talmente i suoi nativi ne conosceva­ no le piste, gli echi, le astuzie. Capì di essere un contadi­ no. Non sapremo mai quanto soffrì, in quali circostanze si rese ridicolo, il nome del caffè dove si ubriacò. Volle studiare, compatibilmente con le costrizioni del­ la vita di soldato, e sembra che ci riuscisse, perché era un bravo giovane, con delle qualità, diceva mia nonna. Si imbattè in manuali di aritmetica, di geografia; li ripose nel suo zaino che sapeva di tabacco e di ragazzo povero; li sfogliò e conobbe lo sconforto di chi non capisce, la ri­ bellione che va oltre e, al termine di una tenebrosa tra­ sformazione alchemica, il puro diamante di orgoglio con cui l’intelletto rischiara, per il tempo di un respiro, la mente sempre buia. Fu un uomo, un libro, o più poeti­ camente un manifesto di propaganda della fanteria co­ loniale a rivelargli l’Africa? Quale gradasso di provincia, quale romanzetto impantanato nelle sabbie mobili o sperduto in una foresta su fiumi interminabili, quale in­ cisione del « Magasin pittoresque », in cui lucidi cappelli a cilindro passavano trionfalmente tra lucide facce, non meno nere e prodigiose, fece balenare ai suoi oc­ chi l’oscuro continente? La sua vocazione fu quel paese dove i patti infantili che si stringono con se stessi pote­ vano ancora sperare, all’epoca, di ottenere brillanti ri­ vincite purché si accettasse di affidarsi al dio altero e sbrigativo del « tutto o nulla »; era laggiù che Lui gioca­

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va agli aliossi, spazzava via i birilli indigeni e sventrava le foreste sotto la palla di piombo di un sole immenso, scommetteva e perdeva cento teste di ambiziosi rico­ perte di mosche sui bastioni d’argilla delle cittadelle sahariane, tirava fuori dalla manica, a effetto, un tris di re bianchi, e mettendosi in tasca i Suoi dadi truccati di ebano e avorio, avvolti in pelle di bufalo, si dileguava nelle savane in pantaloni rossi e casco bianco, mentre mille bambini si perdevano lungo la sua scia. La sua vocazione fu ΓAfrica. E per un attimo oso pen­ sare, sapendo che non fu così, che ad attrarlo là non fosse tanto la volgare lusinga della fortuna da accumu­ lare quanto una resa incondizionata tra le mani dell’intransitiva Fortuna; che fosse troppo orfano, irrimedia­ bilmente rozzo e senza nascita per fare sue quelle devo­ te scempiaggini che sono la scalata sociale, il noviziato che si supera con la forza del carattere, il successo che si conquista solo grazie al merito; che partisse come un ubriaco bestemmia, emigrasse come un ubriaco ruzzo­ la a terra. Oso pensarlo. Ma parlando di lui parlo di me; e non posso disconoscere più a lungo quello che fu, suppongo, il motivo essenziale della sua partenza: la certezza che laggiù un contadino diventava un Bianco, e fosse anche l’ultimo dei figli malnati, deformi e ripu­ diati della lingua madre, era più vicino alla sua sottana di un Peul o di un Baulé; l’avrebbe pronunciata ad alta voce e lei si sarebbe riconosciuta in lui, l’avrebbe sposa­ ta « dalle parti dei giardini di palme, presso un popolo mitissimo » ridotto a una stirpe di schiavi su cui fondare quelle nozze; lei gli avrebbe conferito, insieme a tutti gli altri poteri, l’unico che conti: quello che strozza ogni voce in gola quando si leva la voce del Buon Par­ latore. Terminato il servizio militare Dufourneau tornò a Les Cards - forse era dicembre, forse c’era la neve, alta sui muri del forno, e mio nonno, che stava sgombrando la strada con il badile, lo vide arrivare da lontano, alzò la testa sorridendo, canticchiando tra sé finché lui gli

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fu davanti - e comunicò la sua decisione di andare via, oltremare, come si diceva allora, nel repentino azzurro e nella lontananza irreparabile: fare il salto nel colore e nella violenza, lasciare il passato al di qua dell’oceano. La meta dichiarata era la Costa d’Avorio; non meno manifesta Pavidità: quante volte ho sentito mia nonna ricordare l’alterigia con la quale Dufourneau avrebbe affermato che « laggiù sarebbe diventato ricco, o sareb­ be morto», e oggi immagino - mentre rievoco il qua­ dro che la mia sognante nonna aveva disegnato soltan­ to per sé, risistemando i dati della sua memoria secon­ do linee più nobili e senz’altro più appassionanti ri­ spetto a una realtà modesta la cui grettezza, se ammes­ sa, l’avrebbe ferita, quadro che probabilmente perdurò in lei fino alla morte e si abbellì di colori tanto più pre­ ziosi quanto più la scena originale, con il tempo e i ri­ tocchi apportati dal ricordo, stava svanendo -, immagi­ no una composizione alla maniera di Greuze, una sorta di « partenza del figlio avido » intento a recitare il pro­ prio dramma nella grande cucina di campagna che il fumo scurisce come una velatura, e dove, in un forte afflato di emozione che scompiglia gli scialli delle don­ ne e innalza le mani di uomini rozzi in un muto gestico­ lare, André Dufourneau, fieramente piantato contro una madia, il polpaccio tornito nelle mollettiere attilla­ te e bianche come calze del Settecento, protende con enfasi un palmo aperto verso la finestra traboccante di un impasto blu oltremare. Ma io, da bambino, mi raffi­ guravo quella partenza in modo assai diverso. « Tornerò ricco, o morirò laggiù»: ho già detto che mia nonna aveva riesumato mille volte dalle rovine del tempo que­ sta frase, peraltro indegna di essere ricordata, aveva di­ spiegato daccapo il suo breve vessillo sonoro, sempre nuovo, sempre di ieri; ero io a chiederglielo, però, io a voler riascoltare questo ritornello della gente che par­ te: la bandiera che tali parole facevano sventolare ai miei occhi, esplicita come il simbolo con le tibie incro­ ciate dei Fratelli della Costa, annunciava l’inevitabile

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secondo termine della morte e la brama fittizia di ric­ chezze che alla morte opponiamo soltanto per acco­ glierla meglio, l’eterno futuro, il trionfo dei destini che affrettiamo mentre ci ribelliamo a loro. Provavo allora lo stesso brivido che mi turbava alla lettura delle poesie dense di echi e di massacri, delle prose abbaglianti. Lo sapevo: mi trovavo di fronte a qualcosa di simile. E forse quelle parole, proferite non senza compiacimento da una persona desiderosa di sottolineare la gravità dell’o­ ra, ma troppo poco istruita per saperla accentuare fa­ cendo finta di minimizzarla con un motto di spirito, e quindi costretta, per dimostrarne l’eccezionaiità, ad at­ tingere a un repertorio che riteneva nobile, erano per questo «letterarie», d’accordo; ma c’era molto di più: c’era la formulazione ridondante, essenziale, vagamen­ te comica - e tra le prime volte nella mia vita, se ben ri­ cordo - di uno di quei destini che furono le sirene della mia infanzia, e al cui canto alla fine mi abbandonai sen­ za riserve appena raggiunta l’età della ragione; quelle parole erano per me un’Annunciazione, e come un’Annunziata trepidavo senza coglierne appieno il senso; il mio futuro si incarnava e io non lo riconoscevo; non sapevo che la scrittura era un continente più tenebro­ so, più ammaliante e deludente dell’Africa, lo scrittore una specie bramosa di perdersi ancor più dell’esplora­ tore; e che, sebbene esplorasse la memoria e le memoriose biblioteche anziché dune e foreste, tornarne cari­ co di parole come altri di oro oppure morirvi più pove­ ro di prima - morirne - era l’alternativa offerta anche allo scribacchino. Eccolo dunque partito, André Dufoumeau. « La mia giornata è finita; lascio l’Europa ». L’aria di mare aggre­ disce già i polmoni di quest’uomo del continente. Lui guarda l’oceano. Ci vede i vecchi di campagna nascosti sotto i loro berretti, donne nerissime e nude che gli si offrono, il lavoro che sporca le mani di terra e gli enor­

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mi anelli alle dita degli avventurieri, la parola « bunga­ low » e le parole « mai più »; ci vede ciò che si desidera e ciò che si rimpiange; ci vede la luce scintillare all’infinito. E appoggiato con i gomiti all’impavesata, di sicu­ ro: immobile, con gli occhi sognanti, posati su quell’o­ rizzonte di visioni e di chiarore, mentre il vento marino, come la mano di un pittore romantico, gli scompiglia i capelli, gli drappeggia alla maniera antica la giacca di cotone nero. L’occasione è propizia per delineare il suo ritratto fisico che finora ho differito: il museo di fami­ glia ha conservato una fotografia nella quale è raffi­ gurato in piedi, nel grigiazzurro della fanteria; le mollettiere che gli fanno da ghette mi hanno permesso po­ co sopra di immaginarlo con delle calze alla Luigi XV; i pollici sono infilati nel cinturone, il petto sporge in fuo­ ri, e la posa è quella fiera, mento alzato, che prediligono gli uomini bassi. Diciamolo, sembra proprio uno scritto­ re: esiste una foto del giovane Faulkner, che come lui era piccolo di statura, in cui riconosco quell’aria insie­ me altera e sonnacchiosa, l’occhio appesantito ma di un’austerità fulminante e cupa, e sotto un paio di baffi neri come la pece, che nascosero un tempo i contorni netti delle labbra ancora vive e il subbuglio taciuto sotto la parola detta, la stessa bocca amareggiata che preferi­ sce sorridere. Si allontana dal ponte, va a coricarsi sulla cuccetta, lì disteso compone i mille romanzi dei quali è fatto il futuro e che il futuro distrugge; vive i giorni più intensi della sua vita; l’orologio del rollio imita quello delle ore, passa il tempo, lo spazio si trasforma, Dufoumeau è vivo come ciò che sogna; è morto da un pez­ zo; ancora non lascio la sua ombra. Lo sguardo che trent’anni dopo si poserà su di me ac­ carezza la costa africana. Si intravede Abidjan in fondo alla sua laguna stremata dalle piogge. La barra sabbiosa di Grand-Bassam, che Gide vide e descrisse, è un’illu­ strazione del vecchio «Magasin pittoresque»; ragione­ volmente, l’autore di Paludi attribuisce al cielo il suo tradizionale aspetto plumbeo; ma grazie alla sua penna 23

il mare si fa immagine, color del tè. Insieme ad altri viaggiatori che la storia ha dimenticato, Dufourneau, per superare il mascheretto, deve innalzarsi sui flutti a bordo di una pedana sospesa a una gru. Poi i lucertolo­ ni grigi, le caprette e i funzionari di Grand-Bassam; le formalità portuali e, attraversata la laguna, la pista ver­ so l’interno dove hanno origine, nella stessa incertezza, le piccole come le grandi anabasi, i desideri radiosi nel cuore della scialba realtà: le palme dum su cui dormo­ no serpenti dorati e vischiosi, l’acquazzone grigio sopra gli alberi grigi, le piante irte di spine minacciose e di nomi opulenti, gli orridi marabutti, con la loro fama di saggezza, e la palma mallarméana troppo concisa per riparare dal sole, dalle piogge. Infine la foresta si ri­ chiude come un libro: l’eroe viene lasciato alla fortuna, il suo biografo alla precarietà delle ipotesi. Dopo un lungo silenzio, negli anni Trenta arrivò a Les Cards una lettera. La portò lo stesso goffo postino che Dufourneau, un tempo, aspettava impaziente in fondo al prato, durante la guerra e la sua infanzia. (Anch’io l’ho conosciuto, pensionato, in una casetta bianca vicino al cimitero del paese; chiacchierava volen­ tieri e ad alta voce, con la sua allegra parlata gutturale, mentre potava cespugli di rose in un minuscolo giardi­ no). E forse era primavera, le lenzuola che oggi sono polvere fumavano al sole, le carni decomposte sorride­ vano nel tripudio di maggio; e sotto i grappoli chiassosa­ mente delicati dei lillà, mia madre quindicenne fanta­ sticava su un’infanzia già svanita. L’autore della lettera non evocava in lei alcun ricordo; vide i suoi genitori commossi fino alle lacrime; lei stessa, nel profumo e nell’ombra violacei, sacrali come il passato, fu pervasa da un’emozione densa, letteraria, dolcissima. Arrivarono altre lettere, una all’anno o ogni due, che ripercorrevano, di una vita, ciò che il suo protagonista voleva dirne, e che forse credeva di aver vissuto: era sta­ to impiegato della forestale, taglialegna, poi finalmen­ te aveva avuto una piantagione sua; era ricco. Quelle

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lettere dai francobolli e timbri rari - Kokombo, Malamalasso, Grand-Lahou -, delle quali non resta traccia, non mi hanno mai fatto sognare; è come se riuscissi a leggere ciò che non ho mai letto: in esse Dufourneau parlava di futili eventi e di felicità minime, della stagio­ ne delle piogge e delle minacce di guerra, di un fiore europeo che era riuscito a innestare; della pigrizia dei Neri, degli splendidi colori degli uccelli, di quanto fos­ se caro il pane; era volgare e nobile; mandava i suoi mi­ gliori saluti. Penso anche a quello di cui non parlava: qualche se­ greto insignificante e mai svelato - forse non per pudo­ re ma, il che è lo stesso, perché il materiale linguistico a sua disposizione era troppo limitato per riferire l’essen­ ziale, e il suo orgoglio troppo irriducibile per permette­ re all’essenziale di incarnarsi in parole umilmente ap­ prossimative -, una sbandata della mente per un fasto irrisorio, un vergognoso vagheggiamento di tutto quan­ to gli mancava. Lo sappiamo, giacché la legge è questa: non ebbe ciò che voleva; ma era troppo tardi per con­ fessare: a che scopo ricorrere in appello quando si sa che la pena sarà per sempre, che non ci saranno altre sentenze né seconde occasioni?

E poi quel giorno del 1947: di nuovo la strada, l’albe­ ro, il cielo di qui e le piante che si stagliano su questo orizzonte, il giardinetto con le violacciocche. L’eroe e il suo biografo si incontrano sotto l’ippocastano, ma l’ab­ boccamento, come sempre accade, si rivela fallimenta­ re: il biografo è in fasce e non serberà alcun ricordo dell’eroe; l’eroe vede nel bambino soltanto un’imma­ gine del proprio passato. Se avessi avuto dieci anni, l’a­ vrei visto probabilmente avvolto nella porpora come uno dei re magi, nell’atto di posare sul tavolo di cucina, con sussiegoso riserbo, le merci rare e prodigiose: caffè, cacao, indaco; se ne avessi avuti quindici, sarebbe stato « il crudele infermo reduce dai paesi caldi », amato dalle 25

donne e dai poeti adolescenti, con gli occhi di fuoco nella pelle brunita, la mano ferrea e la loquela veemen­ te; ancora ieri, se solo fosse stato un poco calvo, avrei pensato che « le terre selvagge gli avevano accarezzato la testa», come al più brutale dei coloniali di Conrad; og­ gi, comunque egli fosse e parlasse, penserei di lui quello che dico qui, nulla più, e alla fine sarebbe lo stesso. Posso ovviamente indugiare su quel giorno, di cui fui testimone e di cui niente ho visto. So che Félix sturò di­ verse bottiglie - la sua mano, all’epoca ancora sicura, impugnava il cavatappi con forza, con destrezza suscita­ va il delizioso schiocco -, che fu felice tra i fumi del vino, dell’amicizia e dell’estate; che parlò molto, in francese per interrogare il suo ospite sui paesi lontani, in dialetto per evocare ricordi; che il suo occhietto azzurro brillò di sentimentalismo beffardo, che a tratti l’emozione e il sa­ pore del passato gli spezzarono in gola una parola. Im­ magino che Elise ascoltasse tenendo le mani in grembo nell’incavo del grembiule, che guardasse insistente­ mente, con uno stupore mai sopito, quell’uomo fatto sotto i cui lineamenti cercava un bambino che le veniva restituito, a sprazzi, da una fuggevole espressione, da un certo modo di tagliare il pane, di iniziare una frase, di seguire con gli occhi oltre la finestra il repentino vo­ lo degli uccelli, il bagliore di un raggio. So che le espres­ sioni in dialetto, senza che lui se ne accorgesse, torna­ rono ad aderire ai pensieri di Dufoumeau (cosa che forse non aveva mai smesso di accadere) e a rivelarli nella luce sonora (cosa che da molto non accadeva più). Parlarono degli anziani deceduti, degli insuccessi di Félix come agronomo e, con imbarazzo, di mio pa­ dre che si era dileguato; il glicine sulla facciata della ca­ sa era fiorito, il sole tramontò come sempre; alla sera si scambiarono un arrivederci che non si sarebbe mai av­ verato. Qualche giorno dopo Dufoumeau ripartì per l’Africa. Arrivò un’altra lettera, accompagnata dalla spedizio­ ne di alcuni pacchetti di caffè verde - da bambino ho

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toccato a lungo quei chicchi, assorto, facendoli spesso scivolare fuori dalla rozza confezione di carta scura; non furono mai tostati. Mia nonna, quando metteva in ordine la mensola meno accessibile della credenza dov’era riposto, diceva talvolta: « Guarda, il caffè di Dufourneau»; indugiava a osservarlo, e i suoi occhi non erano più gli stessi, poi aggiungeva: « Dev’essere ancora buono», ma aveva il tono con cui avrebbe detto: «Nes­ suno mai lo assaggerà »; era la preziosa giustificazione di quel ricordo e di quella frase; era immagine devota o epitaffio, richiamo all’ordine per il pensiero troppo le­ sto all’oblio, stordito e distratto dallo strepito dei vivi; ar­ so e consumabile, sarebbe decaduto a profana, odorosa presenza; verde per sempre, precocemente fissato in un punto della propria evoluzione, apparteneva ogni gior­ no di più al passato, all’aldilà, all’oltremare; apparteneva alle cose che trasformano il timbro della voce quando se ne parla: era davvero diventato il regalo di uno dei magi. Quel caffè e quella lettera furono gli ultimi indizi del­ la vita di Dufourneau. Seguì un silenzio definitivo, che posso e voglio interpretare soltanto con la morte. Quanto al modo in cui la Matrigna colpì, le ipotesi sarebbero infinite; penso a una Land Rover ribaltata su una pista di laterite color sangue, dove il sangue non lascia molte tracce; a un missionario, preceduto da un chierichetto con il volto nero come carbone messo in gradevole risalto dalla cotta bianca, che entra nella ca­ panna in cui il padrone esala gli ultimi sussulti di una lunga febbre; vedo una piena che trascina via i suoi an­ negati, un compagno di Ulisse che nel sonno scivola da un tetto e si sfracella senza svegliarsi del tutto, un orri­ do serpente dal manto di cenere che il dito sfiora appe­ na e subito la mano si gonfia, poi il braccio. Mi chiedo se pensò, nell’ora estrema, a quella casa di Les Cards a cui adesso sto pensando io. L’ipotesi più romanzesca - e anche, vorrei poter di­ re, la più probabile - mi è stata suggerita da mia nonna. Elise, in proposito, « si era fatta la sua idea », che non ha 27

mai svelato del tutto ma che lasciava volentieri intende­ re; eludeva le mie domande incalzanti sulla morte del figliol prodigo, ricordando però con quanta preoccu­ pazione Dufourneau avesse parlato del clima di rivolta che regnava allora nelle piantagioni - è infatti probabi­ le che all’epoca le prime ideologie nazionaliste indige­ ne scuotessero quegli uomini miserabili, chini sotto il giogo dei bianchi verso una terra dei cui frutti non go­ devano; in modo puerile, forse, ma non senza una cer­ ta verosimiglianza, Elise pensava in segreto che Dufour­ neau fosse perito per mano di braccianti neri, che si raffigurava con le sembianze di schiavi di altri tempi in­ crociati con pirati giamaicani da etichetta del rum, troppo vistosi per essere pacifici, sanguigni come i faz­ zoletti annodati sulle loro teste, barbari come i loro gioielli. Ingenuo com’ero, ho condiviso da bambino le opi­ nioni di mia nonna; oggi non le sconfesserò. Élise, che aveva creato le premesse del dramma insegnando a Dufourneau l’ortografia e amandolo come una madre benché si considerasse una possibile moglie, che aveva ordito il destino del piccolo plebeo lasciandogli inten­ dere che le sue origini erano forse diverse da quelle che sembravano e che le apparenze potevano quindi essere capovolte, Élise che alla partenza era stata la confidente della sua orgogliosa sfida e la sibilla che la ripeteva all’orecchio delle generazioni future, Élise doveva an­ che scrivere l’epilogo del dramma; e assolse il compito con scrupolo. Éa fine che aveva decretato non strideva con la coerenza psicologica del suo eroe: mia nonna sapeva che, come tutti i « parvenu » che vengono così chiamati solo perché non riescono a far dimenticare le proprie origini né agli altri né a se stessi, e che tra i ric­ chi sono poveri in esilio senza speranza di ritorno, Dufourneau probabilmente era stato tanto più spietato con gli umili quanto più si rifiutava di riconoscere in loro l’immagine di ciò che non aveva mai smesso di es­ sere; quei lavori da negro che sprofonda insieme al se-

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me e arranca insieme alla linfa verso il frutto, quelle zolle di fango che il vomere ti attacca addosso, quello sguardo impensierito quando arriva il temporale o l’uo­ mo incravattato, tutto questo un tempo gli era toccato in sorte, e forse gli piaceva, come può piacere ciò che si conosce; aveva provato l’incertezza di un linguaggio mutilato che serve solo a negare le accuse e a parare i colpi; per sottrarsi a quei lavori che gli piacevano e a quel linguaggio che lo avviliva era fuggito così lontano; per negare di avere mai gradito o temuto ciò che quei negri gradivano e temevano rovesciava la frusta sulle lo­ ro schiene, l’insulto nelle loro orecchie; e i negri, desi­ derosi di ristabilire l’equilibrio dei destini, gli procura­ rono un estremo terrore che equivaleva alle loro mille paure, gli inflissero un’ultima piaga che valeva tutte le loro piaghe, e spegnendo per sempre quello sguardo inorridito nell’attimo stesso in cui si dichiarava final­ mente simile ai loro, lo ammazzarono. Questo modo di immaginare il suo trapasso si accor­ da ancora più sottilmente con il poco che so della sua vita; dalla versione di Élise risultava non tanto una coe­ renza di comportamento, ma una consonanza più cu­ pa, pressoché metafisica, per così dire classica. Èra l’e­ co beffarda e distorta di una frase, come la vita lo è di un desiderio: « Laggiù diventerò ricco, o morirò »; quel borioso dilemma era stato ridotto nel libro degli dèi a un solo enunciato: laggiù Dufourneau era morto pro­ prio per mano di coloro il cui lavoro lo arricchiva; anzi, si era arricchito di una morte fastosa, cruenta come quella di un re immolato dai suoi sudditi; conquistò sol­ tanto oro, e di questo perì. Ancora ieri, forse, un’anziana donna seduta sulla so­ glia della sua capanna a Grand-Bassam ricordava lo sguardo terrorizzato di un Bianco quando le lame scin­ tillarono, l’esiguo peso del suo cadavere da cui estrasse­ ro quelle lame ormai opache; la donna oggi è morta; ed è morta anche Élise, che si ricordava del primo sorriso di un bambino quando gli porsero una mela rossa ros­

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sa, lucidata sul grembiule; una vita senza importanza è trascorsa fra mela e machete, attenuando ogni giorno di più il sapore dell’una, affilando il taglio dell’altro; chi, se non ne prendessi qui atto, si ricorderebbe di André Dufourneau, finto nobile e agricoltore snatura­ to, che fu un bravo bambino, forse un uomo crudele, ebbe desideri impetuosi e lasciò traccia soltanto nella storia inventata da una vecchia contadina che non c’è più?

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VITA DI ANTOINE PELUCHET

aJean-Benoît Puech

Durante la mia infanzia a Mourioux, quando ero ammalato o anche solo irrequieto, capitava che mia nonna, per distrarmi, andasse a prendere i Tesori. Chiamavo così due scatole di latta ingenuamente di­ pinte e ammaccate che un tempo avevano contenuto biscotti, ma che a quell’epoca custodivano ben altri nutrimenti: mia nonna ne estraeva certi oggetti cosid­ detti preziosi, ognuno con la sua storia, esemplari di quei gioielli tramandati che per la gente semplice so­ no memorie. Complicate genealogie pendevano insie­ me ai ciondoli dalle catenine di rame; orologi erano fermi sull’ultima ora di un antenato; tra gli aneddoti che si snodavano lungo i grani di un rosario, alcune monete recavano, insieme al profilo di un re, il rac­ conto di un dono e il nome plebeo del donatore. Il mito inesauribile autenticava il suo esiguo pegno; il pegno luccicava fiocamente nel cavo della mano di Elise, nel suo grembiule nero, ametista scalfita o anel­ lo senza gemma; il mito languidamente effuso dalla sua bocca sostituiva la gemma degli anelli e purificava l’acqua delle pietre preziose, prodigava tutta la gioiel­ leria verbale che scintilla negli strani nomi propri de-

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gli avi, nell’ennesima variante di una storia già nota, negli oscuri motivi dei matrimoni, delle morti. In fondo a una di quelle scatole, per me, per Elise, per i nostri segreti colloqui, c’era la Reliquia dei Peluchet. Era il tesoro più scialbo e più prezioso. Raramente Elise tralasciava di mostrarlo dopo tutti gli altri, come il più amato dei Lari; e in quanto tale era più degli altri arcaico, rudimentale, di un’arte rozza e spoglia. La sua apparizione provocava in me, oltre a un’attesa inquie­ ta, una specie di malessere e una struggente compassio­ ne. Per quanto mi soffermassi a guardarlo, non era all’altezza del copioso racconto che ispirava a Elise; ma la sua inconsistenza lo rendeva lacerante, come quel racconto: nell’uno e nell’altro l’inadeguatezza del mon­ do si faceva intollerabile. C’era qualcosa in esso che mi sfuggiva di continuo, che non riuscivo a intuire, e mi rammaricavo della mia carente intuizione: un mistero che svaniva in un baleno rivelando la sottomissione di­ vina a ciò che trascorre, si affievolisce e tace. Io mi ribel­ lavo; la mia mano lasciava timorosamente la reliquia, si rannicchiava tra le mani di Elise; con un groppo in go­ la, implorante, cercavo i suoi occhi. Tutto inutile: lei parlava, con lo sguardo calamitato da qualcosa di igno­ to e lontano che avevo paura di vedere; e parlava anche di abbandoni, dei corpi che si dissolvono e delle nostre anime sempre in fuga, di quelle assenze visibili con cui rimediamo all’assenteismo dei nostri cari, alla loro de­ fezione nella morte, nell’indifferenza e nelle separazio­ ni; il vuoto che lasciano, Elise lo fecondava con le paro­ le urgenti, gaudiose e tragiche che il vuoto risucchia come il foro di un’amia attrae lo sciame, e che nel vuo­ to proliferano; per se stessa, per il suo piccolo testimo­ ne e per un dio riparatore che forse porgeva l’orecchio, ma anche per tutti coloro che tra le lacrime avevano custodito quell’oggetto fino allora, ricreava, legittima­ va e consacrava in eterno, come avevano fatto le sue progenitrici prima di lei e come farò io un’ultima volta in queste pagine, la sempiterna reliquia.

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I Peluchet sono scomparsi insieme al secolo scorso; l’ultimo, per quanto ne so, fu Antoine Peluchet, figlio per sempre e per sempre irrealizzato, che portò lontano il suo nome e là lo perse. Quel nome caduto in disuso, la reliquia l’ha ricondotto fino a me: oggetto femminile, testimone trasmesso dall’una all’altra, rimedia all’inadeguatezza degli uomini e conferisce al più sterile di loro una sorta di immortalità, che un’indigente discen­ denza contadina, nella fretta di morire e di dimentica­ re, non gli avrebbe certo assicurato. Antoine si dileguò e divenne un sogno, vedremo poi quale. Aveva una sorella maggiore, di cui il mio raccon­ to non parlerà giacché Elise non ne parlava; non cono­ sco il nome di quella sorella sacrificata, così come non conosco il cognome del bifolco al quale andò in mo­ glie; ma so che la coppia ebbe solo una bambina, che fu chiamata Marie e sposò un Pallade. Questi Pallade ge­ nerarono a loro volta due figlie: una, Catherine (ante­ nata che ho conosciuto), morì senza discendenza; l’al­ tra, Philomène, sposò Paul Mouricaud, di Les Cards, con cui concepì unicamente Elise, mia nonna; la quale, nel suo commercio con Félix Gayaudon, mise al mon­ do solo mia madre, che partorì una bambina, morta poco dopo, e me. Insomma, in questa lunga teoria di eredi femmine, figlie uniche e giudiziose con i loro ca­ miciotti e le loro cuffiette, mi colpisce il fatto di essere il primo uomo a possedere la reliquia dai tempi di An­ toine che se ne liberò, ma il cui nome essa conserva; fra tante carni di donna, sono io l’ombra di quell’ombra; in tutti questi anni - è passato un secolo - sono io il più vicino a essere suo figlio. E magari, sovrastando tante spose partorienti e antenate sepolte, noi due ci stiamo scambiando un cenno: i nostri destini si assomigliano, le nostre volontà non hanno lasciato traccia, la nostra opera non esiste. La reliquia è una Madonna con Bambino in biscuit, sommamente inespressiva nella teca di vetro e di seta che custodisce, in un doppiofondo sigillato, gli sparuti

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resti di un santo. L’oggetto seguì fino a me la trafila che ho ricordato, adattandosi a tutti quei nomi; e tutti i no­ mi che ho ricordato sono attestati qua e là dalle lapidi dei cimiteri di Chatelus, Saint-Goussaud, Mourioux, inalterabili sotto il sole splendente e nel gelo delle not­ ti; e tutte le alterabili carni che abitarono quei nomi fe­ cero appello alla reliquia quando dovettero misurarsi con l’essenziale, quando nel suo nido vivente l’essere si scontra con se stesso e in tale scontro appare o scompa­ re, quando bisogna nascere e morire. Perché la reliquia è un talismano. Fu portata presso il loro letto di morte (mentre fuori imperversava l’arsura indaffarata della mietitura, con gli uomini in maniche di camicia, sudati, che tornavano per piangere un attimo accanto al mori­ bondo, poi uscivano di nuovo a faticare sotto il cielo, nella paglia e nella polvere, e il troppo vino moltiplica­ va le lacrime; oppure regnava il triste inverno, quando la morte è banale, spoglia e sciapa), fu portata prima che il nulla avesse la meglio, e loro la contemplarono prima di sprofondare con occhi sgomenti o sereni, la baciarono o la maledissero, Marie che rese l’anima sen­ za dire una parola ed Elise che sotto i miei occhi tergi­ versò tre notti, e i mariti di tutte loro, tremebondi e irri­ verenti, che pur senza fiato non smisero di chiacchierare per negare che l’ora fosse giunta; le mani, che stringe­ vano ormai solo pallore e spasmi, riuscivano ugualmen­ te a stringerla; e già la ghermivano le brutte grinfie dell’aldilà, subdole e inerti come il chiodo nascosto, ma ancora di quaggiù come le ultime parole e la spe­ ranza inesorabile. E lo stesso intrepido oggetto li aveva accolti quando, non meno terrorizzati, recalcitrando con tutte le loro forze, erano usciti dal grembo della madre (quando divampa la mietitura, in agosto, o du­ rante il triste inverno) ; la reliquia infatti aiutava le don­ ne nel travaglio, allorché con forti grida il nome si per­ petua. E non ci fu stridulo grido di creatura venuta alla luce nello stordimento e nel tremore, nel segreto di ca­ merette con la biancheria inzuppata dove una ragazza,

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ancora una volta, smetteva di essere tale, su cui la reli­ quia non vegliasse, brancicata dalla madre e lordata dal bambino, bambola sempre vergine e madida di sudore, enigmatica e rincuorante. Marie la strinse e gridò (e sua madre Juliette prima di lei) finché a gridare non fu la piccola Philomène, espulsa ancora senza nome e sen­ za volto; e vent’anni dopo Philomène la strinse e lanciò un grido non molto diverso, e quella che stava per di­ ventare Elise gridò; e poi Elise vent’anni dopo, e la pic­ cola Andrée, e quest’ultima di nuovo, passato un quar­ to di secolo, e alla fine io, che non farò ripartire la gio­ stra.

Non la fece ripartire nemmeno Antoine, figlio di Toussaint Peluchet e di Juliette, che lo partorì tra le la­ crime verso il 1850. Antoine nacque a Le Châtain, contrada selvosa ma ricca di sassi, vipere, digitali e grano saraceno, dove le felci crescono altissime sotto archi di ombra azzurra. Il bambino, non appena fu in grado di vedere, vide dalle finestre del casolare il tozzo campanile di Saint-Goussaud, che il muschio corrode e ravviva, e nel cui atrio un santo munifico in legno dipinto fa la guardia, men­ tre la sua ingenua pianeta di antico diacono sfiora i lombi neri di un toro accucciato che la gente di qui, ve­ nerandolo, chiama il Manzo: il diacono è il buon Goussaud, eremita intorno all’anno Mille, pastore invasato o scoliaste intransigente, fondatore; il manto del toro è trapunto di mille spilli che le ragazze giulive, sconsola­ te, maldestre, configgono esprimendo il desiderio di trovare l’amore, e le donne, con mano più sicura e già stanca, sperando di procreare. Come me, Antoine bam­ bino fu condotto davanti a quei Lari; la sua manina te­ nera, ardita, spariva nel pugno enorme del padre; e il padre abbassava la voce, spiegava sussurrando il mon­ do inspiegabile, come le mandrie dal fiato caldo dipen­ dano da idoli di legno freddo, come le cose dipinte e

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impavide nelle tenebre regnino segretamente sui vasti campi dell’estate, con un colpo d’ala più imperioso del­ le volute di un nibbio, più perentorio dello scatto di un’allodola. Nella chiesa oscurata dalle vetrate musco­ se, regnava la notte; finalmente il padre sfregò l’acciarino. I mille spilli brillarono a un tempo nella luce del cero; la pianeta fremette, le mani d’ocra, lassù, si schiu­ sero; e rivelato, interminabile, lo sguardo del santo, iro­ nico e candido, sovrastò il bambino. (Successivamente, quando ebbe sedici o diciotto anni, Antoine andò forse a congedarsi da quel gruppo tarlato e irto dei modesti e puntuali desideri delle donne, a cercarvi la conferma di ciò che da bambino l’aveva a sua insaputa conquistato; e a verificare che quanto per lui contava - voglia pazza di scappare, san­ tità o brigantaggio, non importa che nome avesse la fuga, in ogni caso rifiuto e inerzia - fosse la prerogati­ va non di tutti, non delle secolari punture di spillo in cui ciascuno lasciava la sua traccia esigua e il suo circoscritto desiderio, ma di uno solo, dal desiderio pos­ sente, fondatore sterile e solipsista, il santo dallo sguardo di legno. Come un tempo a quel monaco Goussaud, forse iracondo e smodatamente altero, che si ritirò in queste foreste nella stizzita speranza che ve­ nissero qui a implorarlo gli stessi che l’avevano scac­ ciato dalle città tra i fischi, e la cui effigie adesso deci­ deva la mietitura in cinque parrocchie, colmava di ar­ dore le ragazze e fecondava le donne, e infine rivelava ai figliol prodighi la violenza delle strade, come a quel monaco e come a tutti coloro che ravvivano le loro braci con la stessa cenere che usano per soffocarle, era anche a lui necessario, prima di avere una possibi­ lità di conquistare tutto, che tutto gli venisse negato. Lo immagino, volto indimenticabile in quell’attimo e che nessuno ricorda, mentre riscopre quella splendi­ da icona; lo immagino, Antoine ancora imberbe, mentre esce per sempre da quella chiesa perennemente notturna, con la bocca contratta dal furore e

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dal riso, ma entrando nella luce come nella sua gloria futura). Che dire di un’infanzia a Le Châtain? Ginocchia sbucciate, bacchette di nocciòlo per ammazzare il tem­ po e far piegare l’erba, «vestiti puzzolenti di sciolta» e frusti, soliloqui in dialetto nell’ombra lussureggiante, capriole su sparuti covoni, pozzi; le mandrie non cam­ biano, gli orizzonti restano gli stessi. D’estate, il pome­ riggio indugia nell’occhio dorato delle galline, i carret­ ti in bonaccia proiettano la meridiana del loro timone; d’inverno, l’adunata dei corvi si impadronisce della contrada, regna sul vento e le serate purpuree: il bam­ bino, tra focolari e scricchiolanti gelate, si lascia andare al torpore; i pesanti uccelli, appesantito, fa alzare in vo­ lo, stupendosi che le sue grida si trasformino in vapore nell’aria diaccia; poi arriva un’altra estate. I genitori, presumo, volevano bene a quel figlio giunto tardi. Juliette di quando in quando è taciturna; con un pane sottobraccio si ferma, posa un secchio sulla soglia di casa e la pietra più grigia assorbe l’acqua fresca, oppu­ re, ravvivando il fuoco, gira la testa e una guancia si illu­ mina mentre l’altra si abbuia, guarda il gesù bambino, il piccolo ladrone, l’ultimo dei Peluchet. Il padre è alto: lo intravedono piccolo piccolo nei campi e un attimo dopo è lì, nel vano della porta, alto come il sole e nero in con­ troluce, un giogo sulla spalla o un fucile a pietra focaia, porge al figlio un colombaccio, un fascio di ginestre. E affettuoso: un giorno fa ad Antoine degli zufoli di cortec­ cia fresca, ontano o pioppo; il coltellaccio sa essere preci­ so come un ago, la linfa imperla il legno vivo, nella mano callosa lo zufolo è leggero come una piuma, fragile co­ me un uccello: il bambino, serio serio, con grande impe­ gno comincia a soffiare, il padre ha il cuore colmo di gioia. Insomma, è un uomo brutale. A Saint-Goussaud c’è un maestro elementare, o un parroco con qualche rudimento di cultura, dispensato­ re del proprio sapere. A partire da novembre, nei rigori di gennaio e fino ai pantani di marzo, il bambino parte

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all’alba con il suo ciocco, prende posto nel sentore di tonaca e in quello, rognoso, dei marmocchi di campa­ gna, anno dopo anno impara alcune bazzecole: che le parole sono ampie, e che sono ambigue; che l’erba dei cenciosi si chiama anche clematide, che le cinque erbe di san Giovanni, con cui si fanno croci da appendere alle porte delle stalle, oltre che erba di san Rocco, di san Martino, di santa Barbara o di san Fiacre hanno no­ mi come verbasco, scabiosa, cirsio; che il dialetto non è coestensivo all’universo, e il francese nemmeno; che il latino non è soltanto il violino degli angeli: veicola pre­ senze, designa la contentezza che si prova nel dormire e quella che si assapora al risveglio, evoca l’albero e la radura come le piaghe del Salvatore, e anch’esso è ina­ deguato; e infine, ma forse è la stessa cosa, che esistono altri oggetti d’oro oltre alle pissidi, alle fedi, ai luigi. Non sto inventando nulla: nella soffitta di Les Cards c’è - e in questo momento qualche animale ciecamen­ te lo rosicchia, gufi errabondi, di notte, lo ricoprono di escrementi - c’è un baule che Elise chiamava « la cassa di Le Châtain » e dove giacciono dimenticate le sparute vestigia di Casa Peluchet: fra numeri dell’« Almanacco dei Pastori », menu di nozze e vecchie fatture nelle qua­ li si fa menzione di barili, di un feretro, di quisquilie, tre libri mi sono testimoni, tre libri incongrui e meravi­ gliosamente appropriati in cui l’universo è quasi rac­ chiuso nella sua interezza, tre libri impensabili che re­ cano la sigla maldestra, fin troppo leggibile e in mezzo alla pagina, di Antoine Peluchet. Sono, in edizioni po­ polari, Manon Lescaut, una malconcia Regola di san Be­ nedetto e un atlantino. Il bambino cresce, ormai è adolescente. Poco impor­ ta se i volumi sono già in suo possesso oppure no; i vesti­ ti che indossa puzzano ancora di sciolta; sotto il berret­ to ha due occhioni scuri, sfuggenti, e probabilmente un’anima eccessiva, vorace, e non avendo nulla da di­ vorare se non se stessa, subito avvilita. E alto e forte co­ me il padre, ma le braccia non gli servono a niente, non

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stringono, vorrebbero spezzare e ricadono; nella chie­ setta sepolta e impregnata del suo sentore di tomba, il Santo, l’Inutile, il Beato sta allerta e rovina il raccolto, con le mani perentoriamente aperte, imprevedibili. Si dovrà quindi immaginare che un giorno Toussaint cogliesse nel figlio qualcosa - gesto, frase o più proba­ bilmente silenzio - che non gli piacque e che da allora non smise più di cogliere: una pressione troppo legge­ ra sulle stegole dell’aratro, un’accidia, uno sguardo che restava ostinatamente uguale, si posasse su campi di segale perfetti o su una distesa di frumento in cui si era rotolato l’uragano, uno sguardo simile alla terra in­ numerevole e sempre uguale. Ma il padre amava il suo campicello: vale a dire che quel campicello era il suo peggior nemico, e che Toussaint, nato in quella lotta mortale che lo teneva in piedi, gli fungeva da vita e lo ammazzava lentamente, nella complicità di un duello interminabile e iniziato molto prima di lui, scambiava per amore un odio implacabile, costitutivo. E forse il figlio deponeva le armi, non vedendo nella terra un ne­ mico mortale: il suo, di nemico, era magari l’allodola che vola troppo in alto e con troppa leggiadria, o la va­ sta notte sterile, o le parole che aleggiano intorno alle cose come abiti usati comprati alla fiera; con che cosa poteva dunque misurarsi? Poi venne quella notte tremenda, e non ho dubbi che fosse in primavera, senza luna, sotto l’incantesimo greve della fienagione e di un cielo di usignoli. Gli uo­ mini (giacché anche Antoine è un uomo, adesso), gli uomini sono rincasati tardi, con le ascelle irritate dal manico della falce, mentre un sole gigantesco allunga le loro ombre che si toccano sui sassi infidi del sentiero; l’osservatore fittizio, aggirandosi di sera nel profumo del grande sambuco di fronte alla porta, li vede entra­ re, due sagome uguali con lo stesso berretto intriso di sudore, le stesse nuche scottate, vagamente mitologici come lo sono sempre padre e figlio, duplice tempo che si accavalla nello spazio di quaggiù. Il padre torna sui

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suoi passi e va a pisciare sotto il sambuco: ha uno sguar­ do terreo e sembra rimestare brutti pensieri. La porta si richiude, cala la notte paziente. La candela si accende, attraverso la finestra si vedono tutti e tre chini sul piatto; il mestolo, in mano a Juliette, va e viene, una grande farfalla sbatte smarrita contro i vetri; il vino è versato, tanto vino, solamente nel bicchiere del padre. Tous­ saint all’improvviso guarda Antoine, volto di pece nella penombra; un filo di vento scuote le timide infiore­ scenze del sambuco, che si chinano sfiorando il vetro, dalla candela guizza una fiamma più chiara: nello sguar­ do di Antoine si svela quell’alterigia, quella fierezza sen­ za ragione, esacerbata e indifferente. Allora in cucina si leva un grido, un’enorme ombra gesticolante balza fino alle travi e poi serpeggia; un paio di sedie, urtate, rovi­ nano a terra. Chi tende invano l’orecchio sotto il sam­ buco? Dai muri massicci trapela soltanto un rimbombo di temporale, di tamburi, quel rumore assurdo come di ciottoli cavi rimescolati che fa piangere i bambini e in­ nervosisce i cani, la voce di antica e disastrosa insania della famiglia, al suo grado estremo. Il padre è in piedi, brandisce qualcosa che maledice e butta a terra, un bic­ chiere pieno, magari un libro, e i grossi pugni colpisco­ no pesantemente il tavolo con una scarica di verità in­ comprensibili, le uniche verità, le verità stolide, atterrite e stravolte che parlano di antenati, morti vane e persi­ stenza della sfortuna. E lì in quell’angolino, misero cor­ po raggomitolato di fianco alla misera credenza, ombra anelante a più ombra, cosa fa la madre, che ha rinuncia­ to a raccogliere i cocci delle infime maioliche? Forse singhiozza o tace o prega, sa qualcosa, è colpevole. Alla fine la vecchia arroganza patriarcale ritrova il suo gesto antico, decisivo, la destra del padre addita la porta, la candela vacilla, il figlio è in piedi; la porta si apre come una pietra tombale ricade, la luce raggiunge il sambu­ co che oscilla piano, interminabilmente. Per un attimo Antoine campeggia scuro sulla soglia, in controluce, e nessuno sa, né sambuco né padre né madre, quali siano

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adesso i suoi lineamenti; gli usignoli lassù dilatano la notte, accennano le vie del mondo: che quelle strade muscose sotto i suoi piedi siano di bronzo, di ferro so­ pra il suo capo quei cieli canori. Antoine parte, non è più di qui. E forse si sta ancora tramando, lì, fra il padre che continua a sbraitare o si è di colpo ammutolito con la testa tra le mani, il figlio già scomparso alla vista il cui passo morente non si udrà mai più, e l’osservatore si­ lenzioso, spettrale, inesistente, confuso con i fiori del sambuco e sambuco egli stesso, più evanescente di un profumo nella notte, più illusorio della breve fioritura dell’anno 1867, si sta dunque tramando una vaga real­ tà, brutale e greve, come in un vecchio quadro o in un capitello romanico, una realtà che intuisco parzialmen­ te e non capisco. La candela si spegne, un usignolo spicca il volo dal sambuco; forse, dalle parti di Saint-Goussaud, si sente cigolare la porta tarlata della chiesa - ma può anche es­ sere quella di una stalla, o lo scricchiolare di due rami ostili in un folto d’alberi. Stelle guizzano, o salamandre dorate quando viene sfregato Γ acciarino dietro le ve­ trate sommerse dall’erba. Di che altro si lamenta la not­ te in cui i cani si stremano, ciechi e roboanti? Quale antico dramma familiare è rinnovato nella strozza dei galli? Le ombre a pastorale delle felci si infittiscono lun­ go il clivo. I sentieri sono sbarrati da Spade di luce, a meno che non sia la luna, finalmente sorta sopra le be­ tulle. Lasciamo questo fogliame; il sambuco è morto, credo, intorno al 1930.

Mi resta Toussaint. Spunta un altro giorno. Bisogna ancora falciare, per esempio, il pré du Clerc, che è soltanto un pendio, una conca di nebbia tra le ventate cupe delle abetaie, verso il passo di Lalléger; si ode un’unica falce; qualche tor­ do stanato trafigge la foschia, rudi imprecazioni si leva­ no da terra, la falce invisibile, per un attimo sospesa,

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subito ricade. Quando la nebbia si alza, i Jacquemin, i Décembre, i ragazzi Jouanhaut, anch’essi intenti a fare il fieno dalle parti di Lalléger, vedono il padre da solo: sta falciando in salita. Mezzogiorno non lo placa, il sole a picco del pomeriggio lo esaspera come un tafano; fal­ cia fino a notte inoltrata. I ragazzi Jouanhaut, andati via per ultimi tra risa e scherzi, sono seduti da tempo da­ vanti alla minestra; unici testimoni rimangono gli alti abeti, irraggiungibili e vicini, in se stessi e solo per sé mormoranti, sordi a tutto ciò che non è il loro lutto: fra i denti, il padre invoca su quegli alberi il fuoco di Dio, poi torna a casa. Immaginiamolo sul sentiero buio. Nessun dagherro­ tipo lo immortala, ma ora il destino gli procuri un volto - o il caso: la notte è propizia ai falsari. In fin dei conti il suo ritratto non è più fallace di quello, così preciso, del suo rivale con l’aureola, là nella chiesetta. Il volto che s’indovina è tozzo, ma con lineamenti marcati: la curva del naso, cotto dal sole e lucido, attira a sé gli zigomi alti e le nitide sopracciglia; un aspetto signorile, insomma; i baffi sottostanti sono quelli dei morti di allora, quelli di Bloy e dei generali sudisti: stereotipati e possenti, conso­ ni alla divisa e al patriarcato, alle pose impettite. Ogni tanto si ferma e alza la testa verso le stelle: assapora così il momento ormai vicino in cui, alla luce della lampada, vedrà Antoine ritornato, il bambino con gli zufoli di on­ tano che gli sorride; si vedono allora i suoi occhi arden­ ti, furbi e quasi fanciulleschi. Poi riparte più in fretta, il berretto lo nasconde e rimane soltanto la mascella di legno, brutalmente disperata. E un vecchio. Quando imbocca il sentiero di Le Châtain e lo guardiamo arriva­ re, somiglia molto a colui che fu Toussaint Peluchet: ma non ci tragga in inganno la sua andatura greve da conta­ dino; regge infatti sulle spalle un oggetto sfavillante e magico, perentorio come l’arpa di un re caduco inven­ tore di salmi, o il roncone di un lanzichenecco attempa­ to che vede nella notte cose inesistenti, coma improvvi­ se in testa alle siepi o piedi biforcuti nelle impronte scol­

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pite dei buoi: una falce, che la mano tremante di Tous­ saint, nel posarla davanti alla porta, fa cadere sulla so­ glia con fragore. Antoine non c’è. Juliette - la cui spoglia mortale, nella mia mente e in queste pagine, è quasi del tutto consunta, come presu­ mibilmente fu anche in vita, celata sotto le molteplici imbottiture, la cuffia alla Chardin e i fronzoli sgraziati da madonna scialba o da vecchia, ma che dovrò pur im­ maginare già incurvita, logorata dagli anni e ancora con due occhi grandi e belli -, Juliette è in piedi, con una mano stringe forse lo schienale di una sedia, il bor­ do del tavolo, e nel cavo dell’altra tiene, come un uccel­ lo raccolto dopo la pioggia, la reliquia. Eppure nessuno è morto, nessuno a quanto pare sta per nascere. Il pa­ dre la guarda implorante, muto; possiamo anche pen­ sare che si arrabbi: perché mai Antoine doveva pren­ derlo alla lettera? Anche lui si afferra a un mobile, a uno schienale; rimane seduto a lungo, si rialza e resta in piedi: allora è lei, probabilmente, a sedersi. Si sento­ no solo i rintocchi sempre uguali della pendola, e fuo­ ri, confusamente, gli stessi uccelli di ieri; Juliette si alza: così per tutta la notte, mentre la candela si consuma fino in fondo (ma spunta ormai un’alba di giugno), i due depositari del figlio supplicano il futuro opaco e vuoto, ripercorrono la loro povera memoria inesauribi­ le, e l’attimo grava su di essi con il suo peso di cielo not­ turno. O forse tutto ciò, questa consapevolezza di un tempo ormai spezzato in cui il passato crescerà a dismi­ sura, deve ancora venire: aspettano Antoine trepidan­ do, rassicurandosi, tormentandosi l’un l’altra, e intan­ to la passione della speranza li afferra nel suo vortice, li rigetta, li lascia come morti infondendo in loro la vita, un po’ di vita che quella passione riafferra, getta fuori ai cani, servizievolmente riporta insieme al lampo di un ricordo, a un breve oblio, al riflesso puntuale di un ba­ tacchio d’orologio. Il padre aspettò uno, due, forse dieci anni. La cupa tenacia delle opere e dei giorni riempì quel periodo,

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che io tralascerò. Il padre nel frattempo diventò vec­ chio, il seme dell’assenza germogliò in lui, mentre si po­ teva credere semplicemente che in lui languisse la spe­ ranza; un giorno, infine, dobbiamo pensare che chiu­ desse i conti con la realtà.

Avvennero alcuni fatti. Trainato da due cavalli, un ca­ lesse che sapeva di città, di studio notarile o di cancelle­ ria, si fermò una sera davanti a casa loro: ci fu appena il tempo per vederne scendere di schiena, sagoma bassa ed estranea da romanzo russo sullo sfondo dei campi fangosi, un giovane in abito nero e cilindro, che entrò di fretta nella porta buia. Toussaint si tolse il berretto, portò la mano ai baffi; Juliette versò al forestiero un bic­ chiere di vino; lui bevve oppure no; guardò il focolare, si sedette e parlò loro; nessuno sa di cosa. Poi, una di quelle mattine di Pentecoste in cui il san­ to affiancato dal manzo, issato su una portantina, pove­ ramente sfarzoso tra ruvide mani, esce all’aperto diri­ gendosi verso i sentieri, si rinfresca tra le tenere foglie, con le braccia chiama a sé i morti e libera dal male i vivi, e, in mezzo alla pretaglia e al fasto contadino, sorride impassibile lassù, dorato contro il cielo azzurro o il tem­ porale, si vide questo: simile all’antico Patrono dalle mani aperte e non meno di lui assente, immagine di un’ombra o di un voto, immortalando qualcosa che forse mai era stato, Toussaint Peluchet il taciturno sor­ rideva. Alla lanterna dei morti il santo come sempre si fermò, con un’occhiata uniforme controllò ancora una volta le vallate profonde, i boschi, i casolari e i loro cuo­ ri dolenti, l’ampio orizzonte delle sue parrocchie; un paio di contadinelli con la cotta diedero una scampa­ nellata, un vento pungente soffiò in un attimo di silen­ zio, frasi in latino si dispersero, uomini e donne delle campagne si inginocchiarono; un po’ appartato, in pie­ di, «magnifico, totale e solitario» come l’Immagine ferma, con l’alterigia di un diacono e la pazienza di un

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manzo, il padre ancora assorto teneva nella mano cion­ dolante qualcosa che non si vedeva, così come si tiene una piuma o la mano di un bimbo. Un’altra volta - e questo nessuno lo vide, soltanto i muri della vecchia casa dalla facciata cieca, ritta, violen­ ta e muta -, aprì tremante uno dei tre libri nella camera di Antoine. Forse il linguaggio, oscuro per troppa lim­ pidezza, e il meccanismo incomprensibile delle passio­ ni che, sbalordito, capiva in Manon Lescaut, lo stupiro­ no più di qualunque cosa avesse sentito fino allora, più di quanto lo stupissero, in quelle stesse pagine, le lo­ cande e le fughe notturne in carrozza coperta, la ragaz­ za perduta e il ragazzo rovinato, le molteplici cause del pianto, la morte scritta. Forse un vecchio monaco (uno di quelli, o poco ci mancava, che un tempo avevano tra­ sportato la reliquia su un asino tempestato di colpi, cur­ vo sotto il peso degli scrigni, spettro nella spettrale co­ lonna dei chierici terrorizzati che si voltavano a guarda­ re l’eremo in fiamme, durante una scorreria di Saraceni o di Avari - la reliquia che Juliette, giù in cucina, non lasciava più), forse quel vecchio monaco chiosatore di Benedetto gli suggerì, nella prima pagina aperta a caso, che « se uno dei fratelli si dimostra attaccato ad alcun bene, è importante che ne sia privato senza indugio », e che se egli volontariamente se ne spoglia, la sua salvez­ za, in quanto più ardua, sarà più certa. Forse l’atìante gli insegnò, con una rigida simbologia che sulle prime non colse appieno, che tutti i punti della terra, coltiva­ bile o meno, se indicati dagli stessi segni si equivaleva­ no, come agli occhi di un santo di legno tre o quattro cenciosi circondari; ma è più facile che il libro gli rive­ lasse i percorsi del figlio, tutti i possibili approdi di un’erranza iniziata una sera di fienagione e della quale lui, Toussaint, era lo strumento, tutti i possibili percorsi salvo la morte: il figlio era lì, da qualche parte sotto i suoi occhi, o non era più. Calava la sera; rialzando il ca­ po, Toussaint vide attraverso la finestra ciò che Antoine bambino aveva sempre visto: il campanile laggiù, l’im­

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palpabile distanza che porta l’angelus, l’allodola sospe­ sa o un corvo simile a uno straccio nero; sotto l’allodo­ la, qualche ara della terra dei Peluchet: il suo sguardo sfiorò quei campi come se fossero stati dipinti, e di nuo­ vo si posò sull’allodola festosa, sull’azzurro del campa­ nile. (E anche possibile, ma poco probabile, che non ci capisse un bel niente; richiuse il libro con violenza e, tra le imprecazioni, bevve rabbiosamente fino a ubria­ carsi: era, come sappiamo, un contadino ormai vec­ chio). Un anno, finalmente, Fiéfié della famiglia dei Décem­ bre lo aiutò nell’aratura; tornò la primavera seguente, l’estate, e sempre più spesso. Era un sempliciotto e gli piaceva alzare il gomito; forse parlava troppo e troppo in fretta; doveva essere assai magro e di mano tremula, con l’occhio lacrimoso nell’agitazione di una faccia di­ sperata, color mattone. Dimorava in un sottotetto che già all’epoca era abbandonato e di cui oggi conosco i ruderi, fra i rovi, lontano da tutti per necessità più che per scelta, dalle parti di La Croix-du-Sud. A poco a po­ co si era staccato dai Décembre, suo padre e i suoi fra­ telli, e aveva sceso la china blanda e inconsapevole dei braccianti beoni: viveva di nulla ma trincava per quat­ tro, avendo stemperato in quel filtro l’emulazione de­ gli antenati e il desiderio di una discendenza, i futili ri­ serbi e gli sciocchi e segreti vanti, che sono l’onore de­ gli umili; guardava le cose come chiunque altro, senza che si capisse quello che ci vedeva; non era né un uomo maturo né un giovane invecchiato, ma semplicemente un ubriacone; dovunque andasse lo prendevano un po’ in giro, e i più cattivi lo angariavano, ma veniva ac­ colto a tavola perché aveva due braccia che doveva pur adoperare durante la settimana, se voleva tramortirle la domenica con del pessimo alcol, liberarsene come si era liberato di tutto. Quei giorni, uscendo con la testa vorticante dalle bettole di Chatelus, Saint-Goussaud, Mourioux, si stravaccava per la notte nel primo fienile

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che trovava, tra i docili covoni, e nel buio parlava a lun­ go con se stesso tra ghignate orgogliose, sentenze e ac­ cessi d’ira finché i bambini del villaggio arrivavano con passo furtivo e, gettandogli in faccia una secchiata d’ac­ qua o nella camicia il lampo gelido di un orbettino, portavano via la sua fragile, confusionaria regalità in un coro di risate che svanivano lontano. Li videro dunque insieme, con Fiéfié che zampettava claudicando nell’ombra del vecchio ancora dritto, do­ minatore, distante. Aggiogavano i buoi sull’aia e si av­ viavano solennemente, Fiéfié al timone apostrofava le tozze fronti ricciute, le dileggiava con sonore urlate, e intanto salterellava deforme come un fantaccino o un buffone elisabettiano, e anche il vecchio, in piedi sul cassone del tombarello, impettito e con i baffi ormai canuti, le ruote che cigolavano sotto di lui, evocava im­ magini di re sconfitti o attempati, ma comunque scon­ fitti, di signorotti deliranti e inetti, abdicatari. La sua voce robusta e secca, ogni tanto, si abbatteva sul garrese ottuso dei buoi e su Fiéfié, riempiendolo di insulti; ma forse era allegro e sorrideva, e questo l’hanno saputo solo Fiéfié e le strade. Tornavano; Fiéfié portava su dal­ la cantina un’altra bottiglia, si sedeva, si perdeva; la ma­ dre, informe e perennemente lagnosa nella roccaforte cadente delle sottane nere, bofonchiava, preparava chis­ sà cosa, non c’era; e in mezzo a loro il vecchio, che non beveva né si lagnava, magari assorto, nostalgico o sicuro di sé, il vecchio probabilmente parlava. Più o meno a quell’epoca, nelle bettole di Chatelus, Saint-Goussaud, Mourioux, nelle asserzioni nate dal vi­ no e dilatate dalla stanchezza, nelle chiacchiere dei brac­ cianti, e da lì nelle case dove gli uomini le riferivano con la loquacità litigiosa, ostile alla donna, passatista e inesorabile delle serate di sbronza, Antoine risuscitò. Era, diceva Fiéfié, in America. Fiéfié, è vero, non go­ deva di alcun credito, e la gente lo avrebbe preso parec­ chio in giro se non avesse saputo che attraverso la sua bocca, e per quanto tradito, decaduto, era l’altro a par-

lare, il vecchio esiliatore, l’enigmatico, il perentorio. Gli prestarono così l’orecchio circospetto, segretamen­ te invasato e livoroso che si presta ai profeti, dei quali, voglio credere, Fiéfié aveva il timbro stridulo, l’aspetto cencioso e il rifugio in mezzo ai rovi. Si parlò dunque dell’America, dell’ombra di Antoine laggiù; agli occhi di Fiéfié e di chi lo ascoltava l’America era un paese non dissimile dai distretti limitrofi, quelli che si cono­ scono per sentito dire ma dove non si va mai, oltre Lamière o Sauviat, sull’altro versante del Mont Jouet ο del Puy des Trois-Cornes: un paese ricco eppure insi­ dioso, scannatoio e caravanserraglio, dove ci sono sinai di rovi e canaan di feste campestri; pieno di donne per­ dute che però ti amano e di destini gloriosi o nefasti, o tutt’e due, come sono i destini nei paesi di cui si è solo sentito dire. Si immaginavano Antoine laggiù, il giovane Antoine, con i lineamenti quasi infantili che avevano vi­ sto in lui dieci anni prima e che non sarebbero mai in­ vecchiati, e gli attribuivano forse qualche occupazione equivoca o fatale che si addicesse alla sua alterigia, alla sua cocciuta mitezza, ai suoi silenzi: pappone o macchi­ nista, con un berretto canagliesco sulle ventitré o alla guida di una locomotiva lanciata a folle velocità, e in tal caso gli occhi, nel viso fuligginoso, mostravano la stessa fierezza ardita, indolente. (A quei tempi, forse, il regno domenicale di Fiéfié - e mi chiedo cosa potesse mai capire lui in tutto ciò, come potesse essere all’altezza del suo incarico di araldo del padre, di anello della catena nella storia del figlio, sem­ pliciotto com’era e sicuramente incapace di mettere uno in fila all’altro due pensieri sensati, ma fedele a Toussaint e ormai padrone della parola «America» ri­ petuta senza fine dalle sue labbra, quella parola che significava per il padre ciò che per la madre significava la reliquia, quindi altrettanto tramandabile, e capace di riassumere in sé tutte le leggende possibili e l’idea stes­ sa di leggenda, vale a dire ciò che lui, Fiéfié, non avreb­ be mai avuto, ciò che non esisteva ma che misteriosa-

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mente veniva nominato -, di certo il regno domenicale di Fiéfié, quel trono di umile paglia e quello scettro di ubriachezza, quella regalità magniloquente votata ai ragni, vilipesa da secchiate d’acqua e perfidie di bambi­ ni, divenne l’inconcepibile regno su una sola e misera parola). Antoine aveva scritto, dal Mississippi o dal Nuovo Messico, barbaro paese oltre Limoges: e in fondo nulla, a stretto rigore, mi permette di affermare che quelle lettere, che nessuno vide, non siano mai esistite. Forse chi le aveva firmate guidava davvero nere locomotive sotto il sole giallo della lontana El Paso; forse la secon­ da febbre dell’oro in California aveva trascinato questo briciolo d’anima di Le Châtain nel suo fiume di carri, risse, brutali cercatori d’oro e innocenze perdute; forse incedeva avvolto in un corredo mitico, poderosamen­ te virile, con lo Stetson dei confederati e la Colt degli yankee, dedito ai peggiori traffici e ladro di cavalli: e allora, mentre spronava la notte delle cornute moltitu­ dini razziate alla frontiera, un’impassibile figura di san­ to gli ricordava un docile manzo; oppure, « prodigiosa­ mente sobrio», grazie a un mestiere artigianale faceva vita borghese in una casetta di legno ai margini del de­ serto, insieme a una donna che scambiavano per sua legittima sposa e andava a messa in guanti bianchi nella chiesa battista, ma che lui aveva vinto ai dadi in un po­ stribolo di Galveston o di Baton Rouge. O ancora, ri­ nunciando a lidi più lontani, sarebbe approdato, su uno sfondo viola spento, nel grembo di una pupa delle Antille, sempre che non fosse entrato nei benedettini alle Azzorre, come quel marinaio di Memorie d’oltretom­ ba che Antoine non aveva letto. Questo è ciò che pense­ rei io. Ma lui, Toussaint, non disponeva del materiale necessario per pensare le stesse cose: nozioni linguisti­ che, immagini di Epinal e di Hollywood; dell’America, fatalmente, non poteva raffigurarsi nulla; sapeva però che il figlio aveva due gambe, alle quali un piroscafo, in mare, aveva forse dato il cambio; sapeva cos’erano una

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locomotiva, la brama dell’oro e un bordello, e riusciva a immaginare Antoine in uno di quei tre luoghi o di quelle tre condizioni: gli elementi a noi ignoti che com­ binava alla bell’e meglio per rappresentarsi verosimil­ mente il figlio americano erano diversi dai miei, senz’al­ tro più limitati, ma passibili di una concatenazione più varia, più libera, più sorprendente; insomma, aveva let­ to sull’atlantino quei nomi: El Paso, Galveston, Baton Rouge. Li aveva letti. L’atlante si apre oggi spontaneamente alla pagina più ingiallita dell’America Settentrionale. I nomi che ho detto delle città che ho detto sono sottoli­ neati da una matita impacciata, con un tratto spesso e pastoso come i segni del falegname. Dobbiamo forse dire che il padre a poco a poco tra­ scurò il suo campicello, quegli otto o dieci ettari di gra­ no saraceno strappato agli sterpi, alla ghiaia, quel tetro reliquiario dei giorni perduti e dei vani sudori di trenta generazioni di Peluchet, dal quale l’indifferenza del figlio l’aveva estromesso la sera in cui tutto questo, irri­ ducibile ghiaia e sudori sotterrati, si era sollevato nella destra del padre e l’aveva scacciato con tutto il proprio peso di pietre e di fascine, di antenati sepolti? Il vecchio adesso combatteva con ben altro. Fiéfié confusamente zappettava qua e là, gesticolava, lanciando pietre ai cor­ vi, sbeffeggiando i buoi; i rovi, come se dal suo tugurio ne avesse furtivamente portato il seme o, nelle sue ma­ ni sanguinanti delle sere di sbronza, le talee, conquista­ vano terreno; nel pré du Clerc le ginestre erano alte come un uomo; i sambuchi crescevano in mezzo ai campi, bianca polvere impaurita da flebili respiri, da battiti d’ali. Il padre, autore della vita del figlio e Autore adesso della sua parte notturna, con la falce inconsape­ volmente posata sulla spalla ma oziosa e superba quan­ to l’arpa del re salmista, se ne andava lento su e giù per i sentieri, parlava con le cornacchie, si figurava El Paso. Stava piantato davanti a Fiéfié e lo guardava fare, bef­ fardo ma impassibile, vagamente complice: con ridan­

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ciana diligenza il pagliaccio gesticolava più in fretta, saltava da una zolla all’altra e tormentava i buoi, recita­ va il suo copione; il padre soddisfatto si lisciava i baffi, si ritirava all’ombra d’una radura e si sedeva pomposa­ mente contro un tronco; il sole tramontava sulla sua terra in malora: intanto il figlio disperso, il glorioso cor­ po americano, trovava l’oro in California. Loro due nei campi, quindi, ma inconcludenti, im­ pegnati a celebrare chissà che, quasi fossero stati in una chiesa, a una fiera o sulla scena di un teatro; laggiù in­ vece, nella casa scura che si intuisce oltre le siepi, la ma­ dre, dalle cui labbra non uscì mai la parola America, reliquia alla mano biascicava i nomi di santa Barbara, santa Flora, san Fiacre.

La realtà, o ciò che vuole presentarsi come tale, ri­ comparve. Immaginiamoli, Fiéfié e Toussaint, mentre in un’al­ ba brumosa si incamminano verso la fiera dei suini a Mourioux. Hanno perle di nebbia ai baffi. Attraversano i boschi e sono felici, padroni del proprio ruolo, poiché bastano a se stessi e non chiedono a nessuno la ratifica della loro gioia modesta, modestamente concepita; spro­ nano con una certa enfasi qualche maiale riottoso; scherzano: che approfittino di quest’attimo in cui li sento ridere sulla salita di Les Cinq-Routes. Eccoli a Mourioux. E qui, tra la chiesa immutabile e diritta, le targhe dorate nascoste dal glicine, fiorito o meno, sulla facciata del notaio, e la finestra dietro la quale potrei scrivere queste righe, proviamo a collocare il luogo, che forse fu questo oppure un altro del tutto simile, in cui la verità secondo Toussaint Peluchet vacillò, finita la fiera, andarono a bere da Marie Jabely con dei sensali di cavalli. Probabilmente Fiéfié fu subito sbronzo, la­ sciò perdere le contrattazioni e si mise a dire la sua con trasporto: l’America prese corpo tra gli avventori, e An­ toine incedeva intrepido su quella terra santa, facendo

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da laggiù ampi gesti verso la gente di qui. Il vecchio, in­ fagottato nella cravatta nera e nel colletto inamidato dei giorni di fiera, di nozze, negli stracci rigidi e leggen­ dari del secolo scorso, assurdamente impiccati alle spal­ le legnose dei contadini, il vecchio non fiatava e, fiero, taciturno, indulgente come un Autore che delega al suo negro il compito ingrato e subalterno dei dialoghi, la­ sciava che l’altro concionasse. In quel mentre, da una combriccola di giovani si levò di colpo una voce beffar­ da e categorica, la voce di uno dei ragazzi Jouanhaut che, l’aria da bellimbusto, presumo, e spocchiosa, le scarpe di vernice o magari le vistose spalline da sergente ancora addosso, tornava dal servizio militare a Roche­ fort; la voce, categorica, spocchiosa e vanesia come la realtà stessa che entra con gli stivali lucidi in una betto­ la di campagna, dichiarò quanto segue: il figlio non era in America, l’avevano visto da questa parte del mare. In fila per due insieme ad altri detenuti incatenati, tra gli schemi delle pescivendole, si stava imbarcando al por­ to per i lavori forzati all’Ile de Ré. Il padre non batté ciglio: guardava fisso davanti a sé, come inebetito. Con un gesto impacciato si mise il cap­ pello, pagò la consumazione, salutò ad alta voce e uscì. Fiéfié montò in collera, ma non l’ascoltavano più, tutti facevano cerchio intorno all’iconoclasta; il suo eloquio attonito fu di nuovo quello, senza alcuna risonanza, di un ubriacone un po’ scemo. Barcollando sotto il peso di uno sdegno troppo forte, che lo stordiva, uscì a sua volta: con mestizia, con un dolore cocente e tanto più sbalorditivo giacché non poteva imputarlo alla man­ canza di vino né alle risate dei bambini, il pagliaccio vi­ de il vecchio che l’aspettava in piedi accanto all’abbeve­ ratoio, appoggiato con la schiena dritta al mormorio perenne e cristallino della fontanella, sotto il glicine. Mentre la notte a poco a poco li stringe a sé nel suo manto di castagni, lasciamoli tornare a Le Châtain sot­ to la pioggia, Fiéfié che uggiola come una volpe in calo­ re, e le solitarie, pesanti scarpe chiodate del vecchio.

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Il nuovo episodio della storia di Antoine fece il giro dei villaggi limitrofi, accreditato dalla sua fosca logica. I ferrati pettegolezzi, che danno risalto ai crolli clamorosi e amplificano il fasto tramite la sua rovina, si appropria­ rono dei lavori forzati come già avevano fatto con le Americhe, ma come se gli uni fossero il compimento delle altre, il loro seguito, scritto da una mano diversa e più truce, ma degno del suo antefatto e alla fin fine ne­ cessario. Il vecchio aveva pensato di risparmiarsi la cro­ ce: la sua storia ne risultava forse affrettata, e di sicuro incompleta. A un’Ascensione prematuramente gloriosa il bellimbusto, il giuda offriva la manna di un Ecce homo. Come siano andate davvero le cose, nessuno lo sa; po­ trebbero averlo saputo i vecchi (non lo do per certo), dopo la visita inopinata del messaggero con il cilindro: ma nulla ci rivelerà l’identità di quest’ultimo, e quale fu il suo messaggio. Forse Antoine fu felice e americano; oppure, ergastolano, con la sovrana investitura del ber­ retto a righe, sfacchinava nel porto di Rochefort « dove i forzati muoiono come mosche »; o magari fu entram­ be le cose, nell’ordine che preferiamo: chissà che non l’abbiano imbarcato a suon di frustate da Saint-Martinde-Ré verso la Caienna, in America, per realizzare vaga­ mente le leggende paterne, nonché le profezie carce­ rarie disseminate nel Manon Lescaut di piccolo formato che aveva letto con amore. Ma è altrettanto possibile che si fosse rintanato nella solitudine mediocre di un indicibile impiego da commesso o da contabile, affit­ tando una stanzetta sbiadita, ignorata dalla luce, nella periferia di Lille o di El Paso; la sua alterigia infruttuosa non sarebbe svanita. Oppure, per concludere, scrittore fallito prima ancora di diventarlo, le cui misere pagine nessuno mai leggerà, aveva fatto la fine che avrebbe fat­ to il giovane Lucien Chardon se la presa di Vautrin non l’avesse salvato dalle acque: di nuovo ergastolano. Pen­ so infatti, per quanto mi riguarda, che avesse tutto o quasi per essere un autore irriducibile: l’infanzia piena di amore e rovinosamente spezzata, l’orgoglio implaca-

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bile, un santo patrono oscuramente inflessibile, poche letture appassionate e canoniche, Mallarmé e tanti altri come contemporanei, la cacciata e il padre rifiutato; e che al solito ci mancò un pelo, cioè un’infanzia diversa, più cittadina o più agiata, nutrita di romanzi inglesi e di mostre impressioniste in cui una madre bella e inguan­ tata ti tiene per mano, affinché il nome di Antoine Peluchet echeggiasse nella nostra memoria come quello di Arthur Rimbaud.

Juliette si arrese; morì. Gli altri due restarono vivi sen­ za desistere. Quanto al padre, non sembrava per nulla cambiato: rivelazione mancata, o eresia che avrebbe po­ tuto respingere, il racconto del ragazzo Jouanhaut non lo scalfì. Non entrò in polemica: i suoi passi nei campi si fecero solo più spediti, come se una segreta urgenza lo spronasse, e più squillanti, più imperiosi i nomi delle città lontane che lanciava alle cornacchie; chiamava i suoi morti e loro forse gli sorridevano, premurosi come tutti i morti; portava semplicemente la sua falce; e le sere in cui dalle parti di Chatelus si festeggiano san Giovanni o l’Assunzione con grandi falò che svelano la linea dell’orizzonte, guardava fisso quei chiarori e ci ve­ deva Juliette, graziosa come a vent’anni, salire nella notte verso il figlio. Trafficava nella leggenda; e invece Fiéfié, che lo se­ guiva come un’ombra, che era stato la sua voce ed era adesso la sua ombra, Fiéfié rimaneva sulla terra e soffri­ va. Tutte le domeniche, instancabilmente riviveva l’e­ sperienza della disfatta nelle bettole di Chatelus, SaintGoussaud, Mourioux, dove il vino ormai sapeva solo di vino, e dove lo scherno era ridiventato la sua sorte intol­ lerabile: giacché una volta era stato ascoltato, e avendo assaporato il consenso degli altri al verbo sovrano di cui per un attimo era stato investito, non poteva sopportare la leggerezza del suo pubblico e quel disinteresse im­ provviso, totale e irreparabile. Si sedeva senza aprir boc­

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ca ai tavoli sbilenchi sui quali la prima bottiglia si incli­ nava nel mattino, e piagnucolante, allibito, lo sguardo dolente, beveva solitario fino a sera. Allora un burlone faceva cadere la parola America: Fiéfié se ne appropria­ va; la sua faccia buffonesca e profetica, tesa, si rialzava con una maschera beata; lì per lì esitava, ma le perfide occhiate e il pungolo del vino gli facevano rompere gli indugi e rubicondo, affannato, convinto, infervorando­ si a mano a mano nel discorso, alzandosi sempre più con il busto fino a ergersi in piedi, proclamava l’inno­ cenza del figlio, il regno lontano del figlio, la gloria del figlio. L’improvviso scoppio di risate gli toglieva il respi­ ro, e come laggiù tra le bastonate dei secondini, il gio­ vane Antoine veniva buttato lì, nella bettola, con le cavi­ glie e i polsi legati. Poi gli insulti, le botte, le sedie rove­ sciate e, a Mourioux tra gli effluvi di glicine, vicino al cimitero ventoso di Saint-Goussaud dove Juliette lan­ guiva nel suo riposo, a Chatelus sulla piazza in declivio piantata a olmi, e un po’ ovunque nella notte buia, Fié­ fié maestosamente crollava continuando a inveire, a ri­ mestare l’America insieme a sangue e calcinacci fino al sonno pieno di scosse in cui vedeva Toussaint e Juliette, lui fiero e lei felice come una sposina, trasportati di gran carriera su un calesse che Antoine in cilindro, rag­ giante e ritto a cassetta, guidava a briglia sciolta sulla discesa di Lalléger lungo la strada per Limoges, per le Americhe e per l’aldilà. Fiéfié li seguiva di corsa, e non li raggiungeva. Durante la settimana, d’inverno come d’estate, il tempo passava per loro due come passa quando non c’è più una donna: caotico, indefinito, infantile pur senza la grazia e l’ebbrezza dell’infanzia. Fiéfié arrivava presto da La Croix-du-Sud per compiere un lavoro che ormai era solo un pellegrinaggio, e da pellegrino era la sua bisaccia, piena di ogni genere di cianfrusaglie: parti di utensili arrugginite, tozzi di pane e pezzi di spago, magari zufoli di legno fresco. Per la loro scialba presta­ zione andavano un po’ in giro, senza più buoi, nei po­ 55

chi campi che il maggese disdegnava, piantavano i ca­ voli di cui vivevano, portavano a casa il grano saraceno in un fazzoletto. Mangiavano a lungo, in orari strampa­ lati; e forse le poche vecchie che per curiosità o buon cuore avevano ancora contatti con loro, come le donne Jacquemin o la vetusta Marie Barnouille, li hanno visti in quei momenti, mentre gli allungavano dalla finestra avanzi di prosciutto, formaggio fresco, un po’ di insala­ ta: nella lunga cucina indescrivibilmente lurida e stipa­ ta, chinando la testa scorgevano Toussaint a capotavo­ la, impassibile sullo sfondo della finestra opposta, tem­ pestosamente indistinto e aureolato quale un Cristo pantocratore, e Fiéfié che trotterellava senza posa da un capo all’altro di quello spazio devastato facendosi in quattro, beveva dalla bottiglia, girava lo spezzatino, spa­ recchiava la tavola solo per ingombrare le panche o il fornello, e sempre bevendo tagliava il pane e rievocava qualcuno. Le vecchie, che sulla via del ritorno sorride­ vano impietosite, non potrebbero dirci null’altro: giac­ ché se mai il dubbio si insinuò in essi, i due uomini lo tennero per sé, senza per questo sentirsi inferiori a nes­ suno, e se invece trionfarono tennero anche questo per sé, per la loro cucina e le loro ombre, in quel luogo cali­ ginoso che non li offendeva, per quegli spettri inoffen­ sivi, lontani da un mondo popolato di orecchie incre­ dule e bocche piene di offese. Alle cinque Fiéfié molla­ va la sua bottiglia, barcollava, si assopiva su una panca o per terra, la testa posata su una pila di sacchi, e Tous­ saint, chinandosi un po’, lo guardava dormire con in­ differenza, forse, o con tenerezza. Ma un bel giorno il pagliaccio non arrivò. Immagino che fosse estate. Sì, diciamo in agosto. Un bel cielo inconsapevole si chinò sulle messi e le bru­ ghiere, proiettò ombre decise sulla casa dei Peluchet. Le vecchie rimaste al villaggio, nere sentinelle sulle so­ glie, pazienti come il giorno e augurali, videro Tous­ saint sostare a tratti nel vano della sua porta buia; lui interrogò, nel vasto azzurro, il volo ancor più blu dei

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corvi; entrò nella stalla, spinto da chissà quale incom­ benza o pensiero, guardò i buoi ormai decrepiti, inuti­ li, destinati alla penombra; li chiamò per nome; si ricor­ dò di come Fiéfié, in altri tempi, salterellasse contento al timone del carro. Tornò sull’aia e andò a piazzarsi accanto al pozzo gelido: insieme alle vecchie contem­ pliamo ancora una volta, ma rischiarato dal sole, il ber­ retto proletario, araldico, che incombe su quei baffi color avorio da vecchio sopravvissuto. A mezzogiorno la sua attesa gli ricordò, con una stretta al cuore, un’al­ tra attesa che aveva dimenticato: perché lui probabil­ mente voleva bene a Fiéfié, sebbene lo insultasse quasi sempre, Fiéfié che lo chiamava padrone, che con lui aveva bevuto caffè scadente, vegliato la salma di Juliette e affermato con ostinazione le metamorfosi del figlio; che tutte le domeniche pativa per dei morti e per un quasi morto, nell’abbrutimento e nel vino, sotto dure percosse, cioè tra i vivi; che aveva avuto un’infanzia sventurata e una vita anche peggio, ma che attingendo alla memoria altrui si era tanto nobilitato da intratte­ nersi ormai solo con gli angeli e le ombre, nello scom­ piglio di una storia fondatrice che lo trascinava via ug­ giolante, burlandosi della sua misera vita fino a impor­ gli un necessario martirio; Fiéfié Décembre, che lungo disteso sotto il sole opprimente, riverso tra i rovi di La Croix-du-Sud, era morto. Una vecchia lo rinvenne nella canicola pomeridiana, a due passi dal suo tugurio, con la faccia schiacciata a terra in un ronzio di vespe. Insieme alle more sangui­ navano le ferite alla testa; « i prati tinti di farfalle e fiori » profumavano la sera, lo accarezzavano; un lembo della giacca, saldamente impigliatosi nella caduta a certe spi­ ne irriducibili e come inamidato, gli ombreggiava la nu­ ca inerte. Forse lo avevano preso a botte, ma è anche possibile che, sbronzo, fosse inciampato nei fitti rovi di qui, crudeli come liane del Nuovo Mondo, fracassando­ si trionfalmente la fronte sul pietrisco: non si seppe mai. La vecchia, che stava scendendo a Chatelus, avvisò i gen­

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darmi; quando i cappelli bordati arrivarono, mentre il sole al tramonto proiettava lontano le loro lunghe om­ bre bicornute e accavallate di lanzichenecchi o demoni, videro nella notte incipiente il vecchio in ginocchio, senza berretto, con la cintura di flanella slacciata e pen­ zolante sui calzoni, che stringeva tra le braccia il fantoc­ cio morto e piangendo ripeteva incredulo, cocciuto, fra la gratitudine e il rimprovero: «Toine. Toine ». Qualcu­ no buttò sul cadavere una mantella da cavalleria; gli oc­ chi spalancati che non avrebbero più lacrimato scom­ parvero, un gingillo dozzinale ornò i capelli mal coper­ ti del pezzente; il vecchio, a voce bassa, invocò suo figlio fino alla sepoltura nel cimitero di Saint-Goussaud, su cui soffiava il vento. Il resto è detto in poche parole. Toussaint non invo­ cò più nessuno. Sopravvisse a Fiéfié come agli altri; for­ se li mise tutti insieme, modellando e rimodellando le loro ombre per accrescere la grande ombra che lo face­ va vivere, lo avvolgeva e gli dava forza; vi aggiunse quel­ la lenta e bonacciona dei buoi, giacché anche loro mo­ rirono. Cos’è allora qualche anno di vita davanti a sé, quando uno è ricco di tante perdite? Gli restava la falce, il lusso sfrenato della sua cucina, il pozzo, l’orizzonte sempre uguale. Non si parlò più di Antoine; quanto a Fiéfié, chi ne aveva mai parlato? Due o tre fra le vecchie, le più umane nel bene o nel male, resero visita fino all’ultimo al pantocratore crol­ lato, che nella sua cucina fredda come una cripta si sta­ gliava ritto contro la finestra sul retro, bizantina e mu­ scosa, luminosa e verde: ogni tanto la sfiorava il rintocco purpureo di una digitale. Le Marie posavano sul tavolo lercio le more, le marmellate di sambuco, il pane inevi­ tabile. Gli raccontavano sempiterne storie di cattivi rac­ colti, ragazze gravide e sbronze tumultuose; il vecchio ciondolava leggermente; dava l’impressione di ascolta­ re, serio come un gendarme e dignitoso, con i suoi baf-

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fi, come il generale Lee ad Appomattox dopo la resa. All’improvviso sembrava ricordarsi di qualcosa; rabbri­ vidiva, i baffi rivelati dalla luce avevano un tremito lieve e, protendendosi verso Marie Barnouille, sbatteva le palpebre con aria sorniona e diceva orgoglioso e confi­ denziale, un po’ impettito: « Quand’ero a Baton Rouge, nel Settantacinque... ». Si era ricongiunto con il figlio. Non appena ebbe la certezza di averlo tra le braccia, lo caricò con sé sul pa­ rapetto marcio del pozzo dove si gettarono impetuosa­ mente, indivisibili come il santo e il suo manzo, avvin­ ghiati, gli occhi ridenti, e l’indiscernibile caduta spazzò via scolopendre e piante amare, destò l’acqua trionfan­ te sollevandola come una ragazza; il padre gridò spez­ zandosi le gambe, o fu il figlio; uno trattenne l’altro sot­ to la nera superficie, fino alla morte. Annegarono alla maniera dei gatti, innocenti, maldestri, consustanziali come due della stessa cucciolata. La terra li accolse sot­ to un cielo fuggente, assieme in una sola bara, nel mese di gennaio del 1902. Soffia il vento sopra Saint-Goussaud; il mondo usa violenza, è vero. Ma quante violenze ha dovuto subire? Le felci misericordiose nascondono la terra malata, do­ ve crescono grano scadente, storie insulse, famiglie in­ crinate; dal vento spunta il sole come un gigante, come un pazzo. Poi si estingue, come si è estinta la famiglia Peluchet: si dice così, quando il cognome non viene più associato ad alcun vivo. Lo pronunciano ancora so­ lo bocche senza lingua. Chi mente ostinato nel vento? Fiéfié uggiola nella bufera, il padre tuona, in uno sbal­ zo improvviso d’umore si pente, si riscatta quando il vento gira, il figlio fugge per sempre verso ovest, la ma­ dre geme sopra le brughiere autunnali, in un sentore di lacrime. Tutti loro sono morti da un pezzo. Nel cimitero di Saint-Goussaud il posto di Antoine è vuoto, ed è l’ulti­ mo: se riposasse lì, io verrei sepolto dovunque mi capi­ tasse di morire. Il posto lo ha lasciato a me. Qui giacerò, ultimo della mia stirpe e ultimo a ricordarmi di lui: allo59

ra forse sarà morto davvero, le mie ossa saranno chissà chi e perché no Antoine Peluchet, vicino a Toussaint suo padre. Quel luogo spazzato dal vento mi aspetta. Quel padre diventerà il mio. Dubito che sulla lapide ci sarà mai il mio nome: ci sarà l’arco dei castagni, qualche vecchio inamovibile con il suo berretto, piccole cose di cui la mia gioia si ricorda. Ci sarà, nella lontana bottega di un robivecchi, una reliquia da quattro soldi. Ci saran­ no cattivi raccolti di grano saraceno; un santo ingenuo e abbandonato; degli spilli che vi confissero, trepidanti, ragazze morte centocinquant’anni fa; i miei, dissemi­ nati dentro legno marcio; i villaggi e i loro nomi; e an­ cora vento.

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VITE DI EUGÈNE E DI CLARA

A mio padre, inaccessibile e nascosto al pari di un dio, riesco a pensare solo in modo indiretto. Come un fedele - cui magari la fede mancasse -, ho bisogno del conforto dei suoi intermediari, angeli o ecclesiastici; e mi viene in mente anzitutto la visita annuale (in pre­ cedenza, forse, era stata semestrale, e all’inizio perfino mensile) che mi facevano i nonni paterni quand’ero bambino, il cui immancabile effetto, direi, consisteva nel rammentarmi ogni volta la sparizione del padre. La loro intrusione era protocollare, accorata, con ef­ fusioni accennate e subito rattenute - rivedo quei due vecchi nella sala da pranzo dell’abitazione annessa al­ la scuola: Clara, mia nonna, donna pallida e filiforme con le guance smunte, immagine della morte inquie­ ta, rassegnata ma ardente, singolare mescolanza di espressioni vivaci, vitali, e della maschera funerea sul­ la quale si riverberavano; le sue mani lunghe e gracili contratte sulle ginocchia ossute; le labbra, il cui pro­ filo pur assottigliato dagli anni era ancora perfetta­ mente definito, si distendevano, quando mi guardava, in un sorriso di ineffabile e nostalgica vaghezza, ma al tempo stesso intenso, seducente, da ragazzina. Io te­

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mevo l’intensità di quei grandi occhi azzurrissimi, di struggente bellezza, che si posavano a lungo su di me e mi scrutavano come per fissare, in maniera indelebi­ le, i miei lineamenti nella sua vecchia memoria; da­ vanti a simile sguardo, il mio disagio era forse accre­ sciuto da ciò che vi intuivo: la sua tenerezza non si ri­ volgeva a me soltanto, scandagliava il mio viso di bam­ bino cercandovi i lineamenti del finto morto, mio pa­ dre - sguardo vampiresco e materno, la cui ambiva­ lenza mi turbava, come mi turbava la finezza di giudi­ zio che a torto o a ragione attribuivo a quella persona imponente, temibile e affascinante, conoscitrice dei misteri ai quali la destinavano il nome insolito e il ma­ gico appellativo del suo mestiere di levatrice, sage-femme, il cui significato lì a Mourioux ignoravo nel modo più assoluto, e che mi pareva riservato a lei sola. Clara metteva quasi completamente in ombra la figu­ ra del nonno Eugène, senza per questo contrapporgli quella barriera di loquacità e acida sufficienza con cui certe mogli circondano il marito negandogli la parola, poi qualunque pensiero e alla fin fine la vita stessa - no, a imporre l’uno e l’altra ai miei occhi, ritengo, era l’ef­ fettivo e imbarazzante squilibrio tra la vivacità mentale di lei e la goffaggine bonaria, sorridente e cortesemen­ te ottusa del nonno; a questo si aggiungevano una fisio­ nomia quanto mai plebea e un faccione rubicondo, gioviale, che mal si accompagnavano - malgrado l’ef­ fetto assai divertente - con la finezza clericale della consorte. Di lui non avevo paura; non mi impressiona­ va più di quanto facessero Félix e i suoi compagni di bi­ sboccia con le loro tavolate, con il loro vinaccio. « Gli ero affezionato»; eppure, se mai ho voluto bene a uno dei due, credo sia a Clara, i cui occhi mesti e trasognati, che lambivano appena le cose ma se ne appropriavano in una carezza, con pause grevi di rimpianti subito argi­ nati, mi stringevano il cuore. Devo notare, a questo proposito, che durante l’infan­ zia ho avuto occasione di ammirare solo donne, perlo­

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meno nella mia famiglia, dove non c’era nessun « pa­ dre » a rappresentare per me un modello - e anche i padri fittizi che sostituivo al mio erano scialbe figure: un maestro troppo verboso, un amico di casa troppo taci­ turno, su cui ritornerò. Ma non avrei forse potuto, sal­ tando indietro di una generazione e diventando figlio del secolo scorso, del passato, trasferire l’immagine pa­ tema sul gradino precedente, quello dei nonni? Pro­ babilmente l’ho fatto, e non ne cerco ulteriore prova all’infuori di queste pagine, che dal passato, una dopo l’altra, tentano di prendere corpo, probabilmente l’ho desiderato, senza per questo avere alcun motivo per compiacermi di un simile, artificioso invecchiamento; sul piano intellettuale, in effetti, nel ramo materno co­ me in quello paterno, la donna era di gran lunga supe­ riore all’uomo. Sebbene in forma molto attenuata, il di­ vario tra Clara e Eugène si ripresentava tra Elise e Félix; per quanto la relativa ottusità di Félix fosse dovuta so­ prattutto a un’impulsività disordinata, a una sensibilità a fior di pelle, un po’ egoista e pasticciona, che gli offu­ scavano il giudizio, e non a una sostanziale inadeguatez­ za del giudizio stesso - come succedeva invece, credo, con il nonno di Mazirat -, sta di fatto che i suoi ragiona­ menti prolissi e subito impantanati non potevano avere la meglio, ai miei occhi, sulle arguzie (a volte notevol­ mente lapidarie, benché nei confronti di Félix rifuggis­ se dai giudizi definitivi e sferzanti) di cui era capace Elise. Va poi detto che qualcosa di aristocratico, di no­ stalgico e meditativo, seppure meno evidente, meno in­ tatto che nella figura alta ed eretta di Clara, persisteva in Elise al di là di qualsiasi decadimento fisico. E inoltre parole portentose e incomprensibili - Dio, destino, fu­ turo - affioravano alle labbra dell’una come dell’altra; ho forse la certezza che l’intonazione e il timbro di que­ ste parole, ancora oggi - per un orecchio interiore che le sente echeggiare nel più profondo di me -, non siano gli stessi che entrambe vi hanno impresso? Insomma, le ascoltavo « con un orecchio diverso »; sapevano parlare:

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la prima con una vaga affettazione (aveva fama di essere un po’ bigotta), Elise invece con quell’ostinazione deli­ ziosamente contadina, pudica anche nel pianto, a non voler parlare «di certe cose», cose di cui comunque si parla e che paiono così temibili soltanto perché sono universali, cose che appartengono al pensiero. Poesia e metafìsica le ho ereditate dalle donne: gli alessandrini raciniani sulla bocca di mia madre, da lei citati come semplici ricordi di liceo, e i misteri di grandi astrazioni tramandati, nella loro fede approssimativa, dai vocaboli premurosi, goffamente solenni delle mie nonne. Qualche parola ancora su Eugène, quel vecchio roz­ zo, sincero, distratto, per tutti trasparente, la cui presen­ za era subito dimenticata. Mi sembra - ma anche di que­ sto la mia memoria non è certa: i ricordi sono vaghi, mentre vi appaiono nitide come un’ombra ben delinea­ ta le fattezze delicatamente spigolose di Clara -, mi sem­ bra che fosse un po’ curvo, al modo di quegli uomini che in gioventù ebbero spalle robuste, e la cui sfrontata virilità di una volta si riduce con gli anni a un afflosciamento scapolare da orangotango, « lavoratori manuali » troppo vecchi, che delle loro mani non sanno più cosa fare e portano goffamente un corpo tanto più pesante quanto più fu efficiente ed energico nella sua pura fun­ zione di strumento. Era stato muratore, e magari un operaio sveglio, di quelli che non danno problemi. Non avrebbe avuto problemi nemmeno lui, in base al poco che so sul suo conto, se non fosse stato vittima di una debolezza di carattere che probabilmente gli fu fatale e lo condusse, tra smacchi e umiliazioni, a quella vaga ebetudine finale, sorridente e spesso alticcia in cui l’ho conosciuto io. Ma all’epoca non pensavo a questo, quan­ do lo vedevo: il faccione rubicondo e desolato a un tem­ po - da Re Lear dopo il disastro, da mercenario con la schiena rotta e senza più vergogna più che da clown -, il grande naso rosso, le mani non meno rosse e grandi, le incredibili rughe sulle palpebre da cane e infine la voce gracchiante, tutto ciò, semmai, mi faceva venir voglia di

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ridere - ma era il riso di un bambino nervoso, una ma­ niera per allentare la tensione, per negare il disagio. Mi rimproveravo quella segreta voglia di ridere; posare uno sguardo perplesso, o addirittura ironico, su «una perso­ na a cui dovevo voler bene», nascondere lo scabroso pensiero: mio nonno è proprio brutto, mi pareva una colpa gravissima; sicuramente, l’attitudine a tanto em­ pie speculazioni era prerogativa dei « mostri », e non di altri; ero dunque un mostro? Subito mi ripromettevo di volergli più bene; e a questa promessa - giacché il dram­ ma interiore nel quale si recitano tutti i ruoli è il grande lievito affettivo di quella che chiamiamo tenera età sentivo rinascere in me slanci di affetto per quel vecchio povero diavolo; i miei occhi si velavano delle dolci lacri­ me del riscatto, che avrei voluto completare con eviden­ ti manifestazioni di gentilezza; non mi sentirei di dire che ne avessi il coraggio. Devo aggiungere che il buon Eugène era un senti­ mentale: ma mentre non mi stupivo nel vedere spesso Clara con i lucciconi (il pianto delle donne mi sembra­ va rientrare nell’ordine delle cose, concepibile né più né meno della pioggia o dell’influenza, ma sempre giu­ stificato) , il singhiozzo violento e pesante di mio nonno quando alla sera, presumibilmente sbronzo, saliva di nuovo sul catorcio foriero dell’odore un po’ stantio di casa loro a Mazirat, quel pianto mi sbigottiva. Eppure ero abituato a Félix, che piangeva in quel modo quan­ do una sincera emozione di colpo gli spezzava la voce, o quando aveva bevuto troppo: era lo stesso singhiozzo brusco, rapido, subito soffocato; era e non era un pian­ to. Forse sapevo già che i miei due nonni, quei giorni, avevano alzato il gomito insieme - e come si svolgeva allora, davanti a una bottiglia, il faccia a faccia tra quei due uomini costretti al mutismo sulle cose essenziali? Con l’aiuto di quali espedienti, di quali parole poco convinte evitavano in mia presenza, e probabilmente non solo, di nominare il «disperso», colui che in quel melodramma era il traditore e il deus ex machina insie­

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me, e le cui tracce erano confermate dalla mia presen­ za, il regista disertore senza il quale, però, non si sareb­ bero ritrovati davanti a quella bottiglia a cercare frasi stentate, attori senza regia né suggeritore che hanno dimenticato la loro parte? Quali silenzi scongiuravano o rinvigorivano la fuga delle loro antiche speranze, il naufragio di quel giorno retrospettivamente vano in cui avevano sposato i loro figli e avevano pianto come oggi, ma per un’emozione diversa? Mi sembra di senti­ re quelle conversazioni artificiose, imbarazzate eppure piene di buona volontà. Qualcuno mi ha raccontato - penso sia stata Élise che ai tempi della loro giovinezza Clara aveva rotto con Eugène, forse convinta che fosse finita per sempre; poi, all’epoca in cui « la maschera e il coltello » diventano inutili accessori, in cui l’unica maschera è quella delle rughe, e soltanto il ricordo affila i suoi lunghi coltelli dentro le vecchie teste, si erano messi di nuovo insie­ me. Non so se mio padre sia con certezza figlio del vec­ chio muratore; non so quanti anni avesse quando Eu­ gène ritornò, o fu riaccolto all’ovile; ma probabilmente quest’ultimo fu per l’altro un padre così inetto da risul­ tare assente; e anche se qualche volta fu presente, era un modello intellettualmente inaccettabile per un ra­ gazzo in cui certe qualità mentali furono probabilmen­ te un tratto essenziale - stando all’insistenza su questo punto di tutti coloro che, avendolo conosciuto, me ne parlarono, e tenendo conto che questi testimoni erano persone modeste, di quelle che usano la parola « intelli­ genza » per rendere conto di ciò che pensano non pos­ sedere affatto. Su Aimé, credo, l’influenza di questo pa­ dre cui volle bene, o che invece odiò come uno spec­ chio deformante di continuo posato davanti a lui sul desco familiare, fu indirettamente negativa; come me, dovette sentire con dolore una carenza del ramo ma­ schile, una promessa non mantenuta, un nulla sposato alla madre; intorno a questo nulla, a questo svuotamen­ to del cuore che chiama le lacrime, si plasmò il senti­

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mentalismo femminile di Aimé, di cui ho tante prove; e in questo nulla si radicò il suo apparente cinismo; forse dissipò la sua esistenza cercando pezzi di spago con cui legare la catena cui mancava un anello; e forse fu anche per colmare quel vuoto che l’alcol entrò nel suo corpo e nella sua vita - occupandovi lo spazio che sappiamo, quello della pienezza sempre d’accatto e sempre svani­ ta, lo spazio tirannico dell’oro liquido che nella pancia delle bottiglie racchiude tutti i padri, le madri, le mogli e i figli che vogliamo. Ma sono propenso a credere che bevesse anche per affrancare la sua volontà, per sfuggi­ re all’amore per una madre purtroppo indimenticabile. Penso alle domeniche un po’ tristi che Clara e Eugène passavano a Mourioux: giornate tronche, che compri­ mevano tra le undici del mattino e le cinque del pome­ riggio, per non dover viaggiare di notte, nonostante Mazirat fosse solo a un centinaio di chilometri. Penso soprattutto all’immancabile scatolone stipato di regali eterogenei, impacchettati con cura eccessiva da vec­ chie mani trepidanti: dagli innumerevoli involti di carta di giornale sgualcita, che ne avevano preservato l’inte­ grità, saltavano fuori antiquate stoviglie, specchi, gio­ cattoli d’anteguerra in mezzo ai quali ogni tanto spun­ tava, incongruo e grazioso, un portacipria, un acciarino senza pietra focaia, un salvadanaio a forma di animale cui mancava una zampa, tutti oggetti che i nonni non avrebbero potuto comprare, poveri e isolati dal mondo com’erano, ma dei quali si privavano per me. Un tacito rituale fissava la procedura da seguire con lo scatolone: appena arrivati, Clara e Eugène lo tiravano giù dalla macchina e lo deponevano in un angolo della sala da pranzo; io lo sbirciavo a lungo con la coda dell’occhio, oppure, dopo averlo dimenticato per un attimo, il mio sguardo lo ritrovava e mi ricordava deliziosamente la sua presenza: il più delle volte, infatti, veniva aperto so­ lo dopo mangiato; era Clara a incaricarsene, con una lentezza un po’ teatrale, un senso della suspense, un’at­ tenzione agli effetti che nei suoi intenti - considerato

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lo scarso valore degli oggetti - erano destinati unica­ mente alla mia smaniosa impazienza di bambino: cre­ do che mi trovasse divertente, e perfino un po’ zotico; era quello il solo momento della giornata in cui i suoi occhi brillavano di una malizia infinita e un po’ altera. Lei sapeva meglio di chiunque quanto fossero insigni­ ficanti quelle cianfrusaglie, e non se ne scusava: augu­ sta e dimessa, le enumerava brevemente, presentava con pochi e appropriati gesti le sue maioliche sbeccate come se stesse regalando antiche porcellane di Sasso­ nia, e, aprendo con cautela un portagioie sciupato, ci porgeva con fare da mercante di diamanti uno di que­ gli orrendi anelli di alluminio che un tempo facevano i soldati. Nessuno, va da sé, parlava mai dell’assente; era un’in­ tesa più o meno tacita tra le due famiglie? Avevano deli­ berato prima che io, imputato preliminarmente assol­ to, comparissi in giudizio, e si erano accordati sull’ellis­ si dell’essenziale, così come i giudici dell’affare Dreyfus avevano decretato, prima ancora di entrare in camera di consiglio, che « non si poneva nemmeno il proble­ ma»? Non so; ma so, oggi, a cosa mi fanno pensare quell’atmosfera ovattata e piena di imbarazzo, quasi sa­ crale con la sua parte di non detto, il sapore di quelle domeniche in cui avevo due nonni e due nonne: veglia­ vano un morto. Il cadavere nascosto era l’unico prete­ sto per una simile proliferazione familiare; si erano riu­ niti soltanto per quel lutto; e quando i due miseri vec­ chi risalivano sulla loro macchina, altrettanto vecchia e ridicola, non sapevo a chi si rivolgessero la mia tristezza e la mia compassione: probabilmente a loro, che tanto più sparivano nel freddo, nelle lacrime e nella notte quanto meno conoscevo la casa dove avrebbero ritrova­ to il caldo e il riposo; al morto enigmatico; a me stesso, infine, ingenuo e spaesato, che non osavo indagare sull’identità del disperso e cercavo il cadavere nelle om­ bre sempre più lunghe, negli occhi nostalgici di mia madre, nel mio stesso corpo dalle ginocchia arrossate

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per il freddo. Mi stupivo di non essere morto, ma solo ignorante, addolorato e incompleto, infinitamente. Quando andai al liceo le visite si diradarono; i nonni invecchiavano, Clara non poteva più guidare; vennero ancora qualche volta alla fine degli anni Cinquanta, ma il rituale si era interrotto. Ormai « sapevo »; al loro arri­ vo il cielo non si copriva più di un velo nero, non udivo più l’intera natura intenta a inchiodare una bara; non c’era nessuno da piangere. E poi non venivano più da soli; approfittavano delle soste a Mazirat di loro figlio Paul, mio zio; la macchina era un’altra - una Renault Juva, mi sembra, comunque vecchiotta per l’epoca -, mentre il macinino sommamente ridicolo e funereo di un tempo era stato rottamaio, o dormiva sotto le ragna­ tele di un fienile come un feretro in una tomba. Dal ri­ tuale scatolone le stesse vecchie mani, più tremanti, estraevano gli stessi cucù, più sbeccati, ma sapevo che erano fondi di cassetto, e Clara sapeva che non mi emo­ zionavano più; avevo altro per la testa, insciocchito dai miei successi scolastici, cui attribuivo maggiore impor­ tanza che a quei due strampalati vegliardi: la vita sareb­ be stata bella, io sarei stato ricco e non sarei mai invec­ chiato.

A Mazirat sono andato tre volte, due delle quali men­ tre i nonni erano ancora vivi; poi non li ho più rivisti. La casa, scialba e intonacata, fiancheggiava la dimessa strada maestra, di fronte alla scuola, nascosta tra le al­ tre nel centro del paese; lì ritrovai l’odore che avevo percepito un tempo sui sedili della Rosalie, quando alla sera Clara e Eugène ci salivano di nuovo, vacillanti e desolati; lì respirai il sentore acre, la polvere, l’informe indigenza cui l’età avanzata non può neppure più con­ cedere l’estrema civetteria di sembrare linda. Lì consta­ tai il candore dei loro sentimenti e l’irreparabilità della

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loro solitudine; erano miti, e sarebbero morti nello sconforto; la responsabilità, mi resi conto, ricadeva an­ che su di me. Lì potei toccare le assenze che minavano quei muri, il passato incolmabile e i figli ingrati del tem­ po ingrato, mio padre, io stesso, e alla fine il mondo in­ tero del quale avevamo preso il posto, tutti spettri per i due vecchi spettri, tutte assenze che un tempo si porta­ vano dietro fino a Mourioux, e che formavano intorno a loro come un’aura che nemmeno la troppo breve e spo­ radica presenza dei cari lontani bastava più a dissipare: a Mazirat era il cuore di quell’« assenza compatta », qua­ si palpabile; solo i morti ne varcavano la soglia; e i vec­ chi si alzavano con gli occhi sgranati, barcollando, ti stringevano fra le braccia come per riscaldare coloro che ormai più nulla avrebbe potuto riscaldare. Non mi rimproveravano niente; in fondo ero un bambino. Eppure avevo quasi vent’anni la mattina in cui, non senza qualche resistenza, cedetti finalmente alle esorta­ zioni pressanti che da anni le loro lettere mi trasmette­ vano e presi il treno per Mazirat; la stazione distava cir­ ca cinque chilometri dal paese, che raggiunsi a piedi; era una bella giornata d’estate, e provai un certo piace­ re a camminare sotto le fronde ombrose; strada facen­ do componevo mentalmente una lettera destinata alla bruna troppo alta alla quale dedicavo allora il mio tem­ po, saccente di buona famiglia con cui intrattenevo, a margine dei nostri banali amori, una corrispondenza che credevamo di grande levatura ma che in realtà, al­ meno da parte mia, era pedante e ridicola; stavo già manipolando il racconto che le avrei fatto di quella visi­ ta ancora da venire; sarebbe stato necessario travisare parecchio e mentire un po’, sottacere l’indigenza, lo sconforto e l’assenza irreparabile (io e lei eravamo se­ guaci della Presenza), tralasciare il naso di Eugène, le lacrime e il vino rosso, tiri mancini intollerabili per il culto platonico del bello che professava la mia ragazza. E affinché l’immagine dei nonni incontrasse il favore della fatua ellenizzante, truccavo i loro vecchi volti che

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non ce la facevano più, guarivo i loro tremiti e riempivo i loro silenzi. Li stavo dunque tradendo in questo modo quando arrivai a Mazirat. Della casa ho già parlato; sopra un mobile, una cornice conteneva fotografie che raffigura­ vano me a età diverse: e Clara mi disse che mio padre, vedendole, si metteva a piangere; ne guardavo un’altra, simmetrica, con delle foto di Aimé. Un assente ne pian­ geva un altro, in quella casa di assenze, dei dispersi co­ municavano come sensitivi attraverso ritratti, tavoli tar­ lati, emanazioni; su quella cassapanca, le nostre effigi si rivolgevano messaggi ostentati e privi di realtà come quelli, orditi su una tomba, che si scambiano due lapidi funerarie; e probabilmente, lontano da tale faccia a fac­ cia commovente e lugubre, vivevamo entrambi; ma vi­ vevamo separati per sempre; e il nostro spettrale conve­ gno a Mazirat, come un amuleto magico, ci ricordava ovunque fossimo che ognuno di noi portava in sé lo spettro dell’altro, e che per l’altro era spettro; eravamo uno per l’altro sia cadavere sia manifesto. Il sole, forse, baluginò sul legno dorato di una cornice; alzai la testa; attraverso la finestra si vedevano, nell’imminenza del 14 luglio, i tre squillanti colori di una bandiera appesa al timpano del municipio; i galli cantavano sull’aia vici­ na; i grandi occhi amorevoli di Clara, in piedi, emaciata e come morta, erano posati su di me. Poi mio nonno mi portò al bar; rivedo ancora la sua goffa sagoma ballonzolare lungo la strada nel tripudio dell’estate, sento la sua mano sulla spalla e «il vecchio braccio allacciato al mio »; fu orgoglioso e come sbalor­ dito di bere insieme a me, che presentava a destra e a manca come « suo nipote », accarezzando quella paro­ la che ripeteva all’infinito, ottusamente e delicatamen­ te, biascicandola ancora mentre portava il bicchiere al­ le labbra, assaporandola insieme al vino; non riusciva infatti a convincersi di un simile, fenomenale legame di parentela, e vedeva che nemmeno io ci credevo, o forse che non me ne importava più di tanto; non potevo esse-

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re al tempo stesso la cornice di luttuosi ritratti e quella presenza insulsamente ridanciana, già un po’ brilla, di giovanotto spocchioso e inconsistente; così, con la sua sommessa litania, prendeva atto della gioia che doveva pur provare se voleva poi ricordarsene e, nei giorni suc­ cessivi, entrando nel bar e rammentandosi che poco prima ero stato lì e adesso non c’ero più, dire: « L’avete visto? Era mio nipote », sostituendo il garbo dell’imper­ fetto a un presente che sempre defrauda e delude. But­ tammo giù svariati cicchetti appoggiandoci al bancone di rame ossidato, ma sfavillante nella mia memoria co­ me ogni cosa di quel giorno d’estate; all’uscita da lì, un’oscura ebbrezza mi abbacinò insieme al sole fulgido. Non ricordo granché della serata. Le mie mani furo­ no tenute da altre mani, gli occhi si velarono di cordo­ glio e di affetto. Forse Eugène ed io andammo a bere il bicchiere della staffa, e forse Clara brontolò tra il serio e il faceto contro quell’uomo al quale dava apertamen­ te del «vecchio spaventapasseri»; i nostri passi fecero volare via gli ultimi uccelli, le stelle brillarono sopra le nostre teste, proiettarono le nostre ombre fugaci che un passante vide e dimenticò. Mi misero a dormire in una cameretta che odorava di muffa, con un copriletto bianco, un piumino rosa tenue e una stretta finestra, un po’ fredda come quella di van Gogh ad Arles; vi era­ no anche appesi, come nella descrizione di Artaud, «dei vecchi talismani contadini», salviette ruvide e ra­ moscelli di bosso benedetto; mia nonna aveva sistema­ to dei fiori, forse delle zinnie, in un bicchiere sbeccato - tutti i vasi decenti erano andati a finire, uno dopo l’al­ tro, anno dopo anno, nell’insaziabile scatolone delle cianfrusaglie destinato a me. La mattina, Clara venne a svegliarmi; avevo appena aperto gli occhi quando mi fece scivolare in mano una banconota da cento franchi, porgendomi insieme al giorno ciò di cui mi sapeva, in quanto studente, quasi sempre sprovvisto; sorrideva; accadde allora qualcosa che fu molto simile a un even­ to, e che la mia memoria come tale riporta: avevo fatto

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sogni di gloria, di amori squisitamente appagati? Un raggio di sole mi mise allegria? L’incertezza del risve­ glio mi portò forse a scambiare il ricordo pittorico di un’altra stanza con la delizia di ritrovarmi in quella? Una luce penetrò la mia mente, uno slancio inspiegabi­ le mi pervase; inebriato protesi le braccia; e diedi il buongiorno a mia nonna con una sincerità che mi sconvolse. Dopo tanti anni so che in quell’unico atti­ mo, aurorale e incontaminato, l’ho gioiosamente ama­ ta; in quell’attimo di esultanza mi apparve nella sempli­ ce affermazione della sua presenza, non spettrale né luttuosa, ma permeata di dolore e di felicità, come me, come chiunque; in quell’attimo di veggenza cancellai raffronto che me la faceva sentire oppressa e svuotata dall’assenza di mio padre: più che il tramite di un dio assentato e l’altare su cui ardeva la fiamma che ne per­ petuava l’assenza, era una donna invecchiata, che aveva lottato e concepito, era caduta e si era rialzata; mi vole­ va bene, e con assoluta naturalezza. Avrei voluto prolungare quell’ebbrezza; mentre mi vestivo, avvertivo ogni cosa intorno a me con fervore: anche le zinnie che erano lì, colori immediati e petali duri, vitali, volitivi e come eterni; attraverso la finestra aperta il mondo mi veniva incontro verde di ombre e azzurro, visibile sull’orizzonte dorato come un’icona bizantina; nessuno avrebbe messo in dubbio la magi­ strale presenza del sole. Ma giù, nella stanza dai ritratti ingialliti, quell’illusione di un mondo eucaristico svanì: gli angeli erano volati via nelle dorate lontananze, noi restavamo tra mortali, due dei quali si avvicinavano alla fine; mio padre non c’era; me ne andai la sera stessa. Tornai un pomeriggio di un’altra estate, probabil­ mente l’anno dopo; anche stavolta c’era bel tempo; guidavo una macchina e mia madre era accanto a me; ricordo il piacevole viaggio che facemmo chiacchieran­ do, la veste austera di una chiesa romanica nel cuore della campagna illanguidita sotto il peso delle messi, un ponte della ferrovia nascosto nel verde che sembra­ 73

va l’illustrazione di un romanzo che avevo letto da bam­ bino; per superarlo, la strada descriveva un’ampia cur­ va; non ricordo nulla, invece, del pomeriggio che pas­ sammo a Mazirat. Non so se rividi la cameretta, o i ri­ tratti; i due vecchi avrebbero potuto anche non esserci. I loro gesti, che per me furono gli ultimi, li ho visti e non rammento quali fossero; le loro ultime parole mi sono sottratte per sempre, spazzati via i loro addii die­ tro una cortina di vento violento; né mai ricorderò la duplice sagoma, vacillante e desolata, che i nonni tutta­ via mostrarono sulla soglia di casa alla mia ingrata me­ moria: già calati nella tomba, continuavano ad agitare le mani garbatamente, eroicamente, finché la macchi­ na del nipote non sparì, offuscata dalle lacrime ben pri­ ma che il bosco la inghiottisse all’ultima curva.

Eugène morì alla fine degli anni Sessanta; non saprei precisare né il modo né la data del suo trapasso, ma propendo a credere che fosse nella primavera del 1968. Allora avevo ben altri pensieri, più urgenti e più nobili, che non la fine corsa di una vecchia spugna: su un pal­ coscenico che imitava il castello di prua della corazzata Potemkin, dove dei bambini sognatori facevano la parte degli infelici (e alcuni, da grandi, avrebbero scoperto di esserlo davvero), recitavo da protagonista; la fervida dolcezza di quel Maggio, l’ardore che infondeva alle ra­ gazze, sollecite ad appagare i nostri desideri quanto i titoloni compiacenti dei giornali lo erano a blandire la nostra vanità, tutto ciò mi emozionava più del decesso di un vecchio; d’altronde odiavamo la famiglia, secon­ do il ben noto ritornello; e forse, truccato da Bruto, stavo declamando con la massima serietà qualche stereotipo libertario il giorno in cui il sangue del vecchio pagliac­ cio si ingorgò, gli impresse una maschera di trionfo e quanto mai rubiconda, ancor più vinosa nell’ubriaca­ tura della morte - che di mille vini è fatta -, e infine ri­ fluì al suo cuore dopo l’inimitabile prestazione dell’a-

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gonia. Clara seppellì da sola, a parte qualche vicino, il corpo del buffone. Eugène è morto come un cane; mi conforta il pensiero che io non morirò diversamente. Pochi anni dopo venni a sapere che Clara era stata ricoverata in ospedale: la affliggevano malattie senili, e non voleva restare nella casetta intonacata con l’unica compagnia dei suoi fantasmi; probabilmente portò con sé, nella valigia consunta che mani altrui caricarono sul retro di un’ambulanza, soltanto un po’ di biancheria, l’odore che ho respirato da bambino sul trabiccolo e di cui ho serbato il ricordo, e la provvista di assenza delle foto; scrisse a mia madre; supplicava che andassi da lei; non andai. Spedì qualche altra lettera, sempre a mia madre, finché non mandò l’ultima; ma sapevamo che era ancora viva. A me non scrisse: non ero più un bam­ bino, non mi ero degnato di accompagnare le ceneri di Eugène, la lasciavo morire e restavo in silenzio. A quei tempi rinnegavo la mia infanzia; smaniavo di colmare il vuoto che tante assenze vi avevano scavato, e appellan­ domi alle sciocche teorie allora in voga lo rinfacciavo a chi più di me ne aveva sofferto. Avrei voluto popolare di parole il deserto che ero, tessere un velo di scrittura per nascondere le orbite infossate del mio volto; non ci riuscivo; e il bianco ostinato della pagina contagiava il mondo cancellando ogni cosa: il demone dell’Assenza aveva la meglio, negandomi, insieme a molti altri affet­ ti, quello di una vecchia cui volevo bene. Non le ho scritto, da me non ricevette nulla; non le arrivò nessuna confezione di dolciumi a evocare gli scatoloni che un tempo aveva portato dal trabiccolo alla sala da pranzo con tanta pazienza, tanta caparbietà. Alla fine morì; e voglio credere che durante gli ultimi giorni si ricordas­ se una volta, per un attimo, che un giovanotto accarez­ zato dal sole le aveva dato il buongiorno con slancio, una mattina luminosa, in una cameretta dove splende­ va un mazzo di zinnie. Ritornai un’ultima volta a Mazirat con mia madre, che voleva raccogliersi sulla tomba dei suoi suoceri;

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non so perché andai con lei; allora ero incapace del mi­ nimo desiderio. Stavo andando a picco; per ragioni che si capiranno in seguito, accusavo enfaticamente il mon­ do intero di avermi defraudato, e completavo la sua opera; mi bruciavo i ponti alle spalle, annegavo in un fiume di alcol che avvelenavo sciogliendoci dentro un mucchio di farmaci inebrianti; stavo morendo; ero vi­ vo. Fu durante uno di quei bagni in un simile caldero­ ne da strega che mi trovai, assente, di fronte a una tom­ ba nella quale, come al solito, non c’era nessuno. Ah, poveri spettri! Il principe di Danimarca non era più in­ sulsamente perso nella sua follia simulata di quanto lo fossi io nella mia finta morte, in piedi davanti al fazzo­ letto di terra dove riposavate. Mi nascosi dietro un albe­ ro di tasso e trangugiai una dose di Mandrax; sgoccio­ lando dai rami fradici, l’acqua piovana inzuppava la mia testa ciondolante; mi sedetti su una lapide di mar­ mo per asciugarmi con mano incerta, un sorriso ebete sulle labbra; non ho altri ricordi di quel giorno in cui venni a salutare le vostre spoglie. Non è vero: un altro ce l’ho. Passammo dal bar dove mio nonno era stato felice, affinché mia madre potesse scambiare, al caldo, qualche parola con una lontana parente che avevamo incontrato; le accompagnai, bar­ collante e ilare; di ciò che disse quella donna, volgare di eloquio e di abbigliamento, ho serbato nella memo­ ria quanto segue: mio padre, a sentire lei, era precipita­ to all’ultimo stadio dell’alcolismo, e inoltre girava la voce che si drogasse. Nessun altro udì la risata atterrita che sconvolse solo la mia mente: l’Assente era lì, abita­ va il mio corpo devastato, le sue mani afferravano il ta­ volo insieme alle mie, e sussultava in me per avermi finalmente ritrovato; era lui che si alzava e andava a vo­ mitare. È lui, forse, che ha finito di raccontare la storia insignificante di Eugène e di Clara.

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VITE DEI FRATELLI BAKROOT

Mia madre mi mandò in collegio ancora in tenera età; non per vessarmi: il liceo era lontano, rari i treni, i trasporti costosi, e così si usava; e poi, agli occhi di colo­ ro cui aria aperta e libertà insegnano solo pochi gesti essenziali, presto spossanti e monotoni fin dalla gioven­ tù, sembrava legittimo che il compito glorioso, sempre nuovo e in continuo progresso, di imparare il perché di ogni cosa si accompagnasse, e forse si pagasse, con una clausura quasi monacale, romana. Io stesso vi fui prepa­ rato già molto tempo prima. «Quando sarai in colle­ gio... »: si trattava, certo, di uno stato transitivo verso l’età adulta, la felicità e la pura gloria di vivere che mi sarebbero toccati, se appena lo avessi voluto; ma non era solo una fase di passaggio: era un intenso periodo di sette anni durante i quali il latino sarebbe divenuto il mio bene, il sapere la mia natura, gli altri la mia lotta e di sicuro la mia vittoria, gli autori i miei pari; mi sarei accostato a quel Racine di cui mia madre, se glielo chie­ devo, recitava frasi incomprensibili, diverse ma uguali, inusitate, che si sovrapponevano con regolarità l’una all’altra, come i movimenti del bilanciere di un orolo­ gio, per concorrere a uno scopo lontano che non era la 77

fine del giorno; avrei saputo qual è quello scopo, la riva cui tendono quelle onde; avrei avuto amici presentabi­ li; avrei parlato in modo che io stesso e gli altri, io per mio piacere e gli altri con rispetto, sapessimo che abita­ vo il cuore del linguaggio mentre loro erravano nei suoi dintorni; il prezzo da pagare era la reclusione. Era, soprattutto, rinunciare a vedere mia madre ogni gior­ no, a errare con lei nella tenerezza dei dintorni del lin­ guaggio. Il destino teneva in serbo un’altra più cupa prebenda, inconfessata ma ai miei occhi certa, che mi faceva tremare; bisogna sapere che un giorno di tanti anni prima avevo fatto un sogno: in cima a un ciliegio e sotto un cielo perfetto, mio nonno coglieva ciliegie; canticchiava, ed io ai piedi dell’albero concupivo i bei frutti; lo chiamai: girò la testa e chinandola un po’ mi sorrise, nel sorridere mise un piede in fallo, cadde lenta­ mente in uno schianto di rami, in un’orgia di frutti sal­ tellanti. Si disarticolò sotto i miei occhi. Eppure mi ave­ va sorriso; quella tenerezza non l’aveva dunque salvato? Singhiozzai, chiamai, mia madre accorse. Quando, le dissi, quand’è che moriranno quelli di cui non posso fa­ re a meno e che sono vecchi? Lei eluse la domanda, poi, volendo dormire e pensando di rassicurarmi con una scadenza tanto lontana che un bambino l’avrebbe cre­ duta infinita: quando sarai al liceo, mi disse. Non me n’ero dimenticato. Entrare al liceo significava entrare nel tempo, il solo tempo che, foriero com’è di scompar­ se definitive, si possa demarcare; affrontavo l’epoca in cui le immunità non valgono più, gli incubi sono veri e la morte esiste; la mia brama di sapere sarebbe passata su molti cadaveri: l’uno presupponeva gli altri. I nonni morirono molto tempo dopo che ebbi finito le scuole; ma in qualche modo ero ancora «in collegio»: separar­ mi da mia madre non mi aveva insegnato il perché delle cose; il linguaggio restava un segreto, non me n’ero im­ padronito e non regnavo su nulla; il mondo era una ca­ meretta di bimbo, nella quale ogni mattina dovevo « ini­ ziare gli studi » senza nutrire ormai particolari aspetta-

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tive. Avevo imparato, purtroppo, solo questo atteggia­ mento. Mia madre dunque, un giorno di ottobre, mi condus­ se in quella casa magica da cui pensavo che sarei uscito farfalla. La collinetta dominata dal liceo è coperta di castagni che perdevano le foglie; l’alto edificio, dove mattoni sbiaditi si alternano con il granito, stemperava sontuosamente il nero delle sue lastre d’aisdesianel cie­ lo nero. Mi parve molteplice, ortògono e fatale, caver­ noso come un tempio, una caserma di lancieri o di cen­ tauri; non mi avrebbe stupito che il Pantheon o il Partenone, di cui conoscevo soltanto i nomi e che confon­ devo tra loro, gli somigliassero. Perché anche lì si ac­ quattava il Sapere, antico animale, inesistente eppure ingordo, che ti strappa da tua madre e ti consegna, a dieci anni, a un simulacro del mondo; se ne commuo­ veva il vento che squassava i castagni. Il pomeriggio trascorse tra le formalità per la sistema­ zione; mia madre si affaccendava nella stireria, nelle camerate, in sala studio; il mio nome faceva la sua com­ parsa sugli armadietti, su un letto. Non mi ci riconosce­ vo; la mia identità era in quella sottana che seguivo, im­ paurito e vergognoso di quella paura, mentre la pre­ senza di quei ragazzi maldestri ma indiscreti mi impedi­ va di gettarmi verso di lei, di tornare piccolo, di rinun­ ciare alle assurde prerogative il cui godimento mi spa­ ventava. Giunse la sera, ci separammo; il mio cuore si precipitava insieme a colei che partiva, prendeva il tre­ nino Michelin e affranto arrivava a Mourioux dove io non c’ero; che ci faceva qui il mio corpo di piombo? La ricreazione serale mi gettò fuori: il forte vento sollevava nel cortile buio strane carte sgualcite, lunari ma oscu­ re, giornali aperti che di colpo volavano via e bucavano la notte, bianchissimi e spettrali come gufi, in balìa di un nulla; volteggiando si dileguavano. Io sprofondavo in quelle insignificanti scomparse; piangevo e nascon­ devo il mio pianto. Altri pivelli del primo anno, piantati lì come me sotto i lunghi portici, guardavano con occhi 79

sgranati quel pozzo d’ombra in cui fragili cose cadeva­ no; la luce gialla del portico, posandosi di sbieco sulle loro teste, li rimpiccioliva, li isolava, non osavano che minimi gesti, toccavano in tasca un coltellino, indugia­ vano a guardare insulsamente l’orologio nuovo, abboz­ zavano un passo subito interrotto, furtivamente si chi­ navano e raccoglievano una castagna di cui non sapeva­ no poi che fare, ne tastavano un po’ l’enigmatica scor­ za, la castagna spariva nella tasca del grembiule, non ci pensavano più. Alcuni si annullavano sotto il basco; al­ tri, con un grembiule troppo lungo, ci ballavano den­ tro come vecchietti; si sentivano ebeti, avvertivano che ogni loro gesto era segnato dalla stupidità; avevano il cuore gonfio. Un galoppo di centauri, ogni tanto, arrivava da lonta­ no nel buio attraversando il cortile dissestato, spuntava un gruppo di alunni più grandi. Il grembiule aperto, al­ le loro spalle, ondeggiava come il mantello di un cava­ liere, il basco sulle ventitré li faceva spavaldi; avevano imparato come, accentuando la sconvenienza degli abi­ ti frusti e rivendicando come un tratto di eleganza una bruttezza inflitta, si possa farne sfoggio, gloriarsene, ap­ parire diversi: se appena lo sa portare, ogni scolaro na­ sconde sotto il suo grembiule il gilet da marchese del grande Meaulnes. Quegli zerbinotti incutevano sogge­ zione. Facevano cerchio intorno a uno dei piccoli, il cui smarrimento aumentava di fronte a domande volgar­ mente melliflue e a risate, secondo un procedimento perverso e subito prevedibile al termine del quale il malcapitato poteva solo ribellarsi o scoppiare in lacri­ me; in un caso e nell’altro le prendeva, sia che i grandi facessero finta di stizzirsi per una protesta fuori luogo e 10 punissero, sia che il suo indecoroso cedimento meri­ tasse la qualifica di femminuccia e, di conseguenza, le sberle. I sorveglianti chiudevano un occhio: era tutto nell’ordine delle cose. Quando gli aguzzini se n’erano andati, il piccolo tirava un po’ su col naso, si risistemava 11 basco con lo sguardo fisso a terra, ritrovava in tasca la

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castagna; l’impenetrabile scorza bruna ancora una vol­ ta lo stupiva, la massa liscia e senza incrinature lo appa­ gava e, teso verso quella pienezza, dolorosamente vi si perdeva. Giacché tale era ogni cosa: opaca, chiusa in se stessa, sottoposta a cause imperscrutabili e possenti: il vento cieco ghermisce con passione le foglie, strappa i ricci e scagliandoli a terra li rompe, li denuda, li mette al mondo, sotto i tuoi occhi, senz’occhi, la castagna cor­ re un po’, si ferma. Venne il mio turno, provai l’una e l’altra difesa, ribel­ lione e lacrime, e capii a che cosa dovevo attenermi. L’immenso porticato, che cingeva il cortile su tre lati, si offrì alla mia pena; i miei passi, e un cupo diletto, mi portarono verso l’estremità più ventosa e desolata: l’a­ ria che veniva da fuori vi si riversava senza ostacoli sca­ valcando un muro più alto di noi dietro il quale si intui­ vano, nella notte buia, i rovi e la gramigna che infesta­ vano a quei tempi il declivio retrostante il liceo. Una porta a vetri che si apriva su una scala spoglia, assai lar­ ga ma fatiscente, coperta da una polvere invincibile, sbatteva a ogni minimo refolo; l’unica luce proveniva dalla lampadina appesa sopra la prima rampa di gradi­ ni, i cui raggi, filtrati dai vetri della porta, si perdevano prima del limite del porticato; cadeva adesso una piog­ gia fredda e sottile; i giornali appesantiti non volteggia­ vano più, inerti si inzuppavano, diventavano terra; un altro dei nuovi arrivati era lì, nella luce gialla e nel ven­ to, le braccia conserte. Lui, in testa, non aveva nulla. (Ma i baschi che metto addosso a questi mocciosi risalgono davvero alla mia in­ fanzia? Non coprivano il capo di ragazzetti più poveri, più nascosti, più disastrosamente allocchi in antiche letture attraverso le quali li invecchio e mi invecchio a capriccio, seppellisco me e loro insieme? Non saprei di­ re). I suoi capelli, che spuntavano sulla fronte in un ciuffo ricciuto, folto e ispido, di un colore spento tra il biondo e il rosso, erano rasati a zero sulle tempie e sulla nuca; il fioco bagliore che ravvivava quelle ciocche non

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rivelava altro del viso inghiottito dalla notte che la mac­ chia chiara di un mento pronunciato e sporgente; dal suo contegno si intuiva la strana risolutezza di uno sguardo fisso che nell’ombra, con ogni probabilità, era puntato su di me. Portava sul grembiule una giacca finto scamosciata con le maniche troppo corte, anch’essa rossiccia, le cui tasche sformate erano rigonfie di un contenuto enigmatico: con cupidigia vi indovinai il pa­ ziente ciarpame e i talismani che certi marmocchi accu­ mulano in composite collezioni rette da leggi non me­ no inesorabili, ermetiche e aberranti di quelle che ven­ gono dette di natura, ma che, con gli anni, diventano per noi tanto dubbie quanto le leggi di natura appaio­ no manifeste, benché le une come le altre restino in­ sondabili. Non ebbi il tempo di osservarlo a lungo: i grandi ci erano addosso; a me avevano già inflitto il supplizio, e ricordandosene mi lasciarono perdere. Si gettarono sul piccolo tenebroso. La monotona prova iniziò; il ragazzino si era un po’ defilato, e i più vecchi l’avevano raggiunto sotto la piog­ gia che circondava il gruppo di un alone azzurrognolo; mi tenni prudentemente a distanza. Ma presto tesi l’o­ recchio: c’era qualcosa che non andava. Una delle voci, non più sarcastica o artefatta, ma volgarmente colleri­ ca, ringhiante ed esasperata si staccava dalle altre, che d’altronde presto si zittirono, come sconvolte o soggio­ gate, e io non sentii che quel vocione isolato di bambi­ no. Le sue parole non avevano un significato diverso da quelle che avevano già strappato le lacrime a me: stesse domande capziose e strampalate, stessi cavilli polizie­ schi, stesse ingiunzioni impossibili da soddisfare; ma ogni sadico diletto, ogni supremazia esercitata quasi con disinvoltura e proprio da quell’esercizio, da quella disinvoltura accresciuta, aveva abbandonato quel di­ scorso: non c’era il cuore, che, solo, rende giusto il to­ no, o forse ce n’era troppo. Ciò che quel cuore espri­ meva era una furia impotente e appassionata, come il singhiozzo di chi, un tempo vittima, tiene ora in pugno

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il carnefice e, immaginando in un deliquio da innamo­ rato di usare per vendicarsi i ceppi e gli schiacciapollici che così a lungo hanno provocato i suoi gemiti, non rie­ sce invece a servirsene, le mani gli tremano frenetiche e in quell’agitazione gli strumenti cadono, si sparpaglia­ no, invano s’infuria e strepita sotto lo sguardo dell’impassibile carnefice. Il piccolo, però, non era impassibi­ le: vedevo fremere il suo mento pronunciato; ma un al­ tro mento pronunciato fremeva e gli si parava di fronte, sovrastandolo di un po’; la stessa pioggia o le stesse la­ crime scorrevano sull’uno e sull’altro; e al di sopra dei due volti usurpati con violenza dall’ombra, ma che a sprazzi rivelavano l’identico colorito gessoso, il vento drizzava due zazzere uguali. In quel gioco di specchi soffrivano entrambi i bambini. Si assomigliavano come fratelli. Il più grande strepitava sempre di più e prendeva a colpire sferrando piccoli pugni vigorosi, cattivi. La cam­ panella della sala studio non lo placò: la suoneria elettri­ ca non voleva tacere, ma in quello stridore intonato alla pioggia e al vento, monotono e panico come una mete­ ora, lui persisteva nel suo dire senza costrutto, zitto per tutti e strepitante per sé solo, cupamente beandosi di quel mutismo tempestoso che lo sgolava, che lo invali­ dava. C’era, in quanto stava accadendo, qualcosa di per­ fetto. Rispondemmo all’appello, il piccolo riuscì a se­ guirci; il più grande, mentre noi ci allontanavamo, restò un attimo fermo dov’era senza più aprir bocca, ormai afflosciato nel suo astioso gesticolare, lo sguardo confu­ so con la pioggia che grondava sui pilastri della notte vicina; ci disponemmo in varie file davanti alla porta della sala studio, nell’odore dei grembiuli, poi lo vidi avviarsi, dapprima lentamente, e ormai non lo vedevo più quando lo sentii correre nel buio, con falcate che il terreno inzuppato attutiva, verso la sala studio degli alunni del terzo anno.

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Non riuscirei, oggi, a scindere i fratelli Bakroot da quella pioggia che me li rivelò, da quel vento che una lampadina estenuata tingeva di giallo. Rivedo il più pic­ colo primeggiare in un gioco sciocco che ci piaceva tan­ to, una specie di torneo in cui ognuno aveva come pala­ dino una castagna, forata e attraversata da uno spago, che doveva spaccare le altre congegnate nello stesso modo; rivedo i gesti circospetti con cui metteva in mo­ stra nella sala studio le sue misere collezioni, soldatini sciancati, noci dipinte, enormi chiavi, e in seguito foto­ grafie di donne; saprei riconoscere la sua voce morta, carpita dalla sua voce d’uomo. Penso al maggiore, nel cortile principale rischiarato dal sole di maggio, men­ tre gioca a pallacorda con i denti stretti, ossuto, goffo ed efficace; appoggia le spalle a un castagno il cui muto torpore delicatamente culla il suo, si passa la punta del­ la lingua su un dente scheggiato, il suo grembiule gri­ gio si dissolve nel grigio della corteccia, non è più lì; poi fa una sfuriata e io mi ritrovo a terra, dove mi ha gettato uno dei suoi accessi di cieca rabbia. Vedo l’uno e l’altro accapigliarsi in diversi luoghi, a diverse età, e forse, a quello dei due che è rimasto quaggiù, capita ancora di sentire sul volto un respiro, una morsa d’aria alla vita, e di nuovo alza la guardia di fronte al fratello evanescente che le nuvole si portano via. Ma l’emblema di entrambi e come il loro mantello araldico resta quel­ la notte fradicia, notte d’inizio dove il meglio dell’in­ fanzia aveva fine, quell’autunno che precipitava nell’in­ verno dove i loro tratti gessosi sono per sempre fissati. Dall’inverno venivano. E il loro cognome fangoso e testardo non mentiva: venivano anche, forse attraverso una lontana ascendenza di cui poco mi importa, ma molto più nel ceffo e nell’anima che in quel cognome sono inscritti, venivano anche profondamente dalle Fiandre. I fratelli Bakroot erano i rampolli dispersi di una specie di mistero medioevale, terrigno, insomma fiammingo; verso quel Nord la mia memoria li scaglia; lassù arrancano senza fine, l’uno incontro all’altro, in

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una landa di torbiere, di distese brulle e assediate dal mare, di polder e patate nane, sotto un cielo immensa­ mente grigio alla maniera del primo van Gogh, uno di loro magari è un lebbroso annunciato da una raganel­ la, o un contadino intento ad arare in primo piano, con le sue brache marroni, in una Caduta di Icaro, e l’altro, il più giovane, il più dirozzato, porta secondo la moda ba­ iava, cioè provinciale, uggiosa e come di seconda ma­ no, la gorgiera alla spagnola e la spada di Toledo. Ho già detto che il loro viso era di calce; in quella friabile carnagione affiorava un mento di pietra; al loro pallore puritano si sarebbe attagliato l’alto copricapo patibola­ re dei protestanti di Haarlem; lì sotto, la cupa dissenna­ tezza di un occhio azzurro come una maiolica di Delft, che non perde di vista i ghiacci infernali e li trasferisce in tutto ciò che vede. Le sopracciglia bionde, cespuglio­ se e ribelli non esprimono nulla, troppo slavate per di­ re la rabbia, troppo caparbiamente folte per dire la gio­ ia; dal tremito delle labbra carnose, però, si capisce che trattengono le lacrime. Ma lasciamo questo Brabante leggendario, lasciamoli azzuffarsi e tornare bambini. Rèmi Bakroot, il minore, era in classe con me. Era al­ legramente scorbutico, ma quell’allegria a volte si in­ crinava e svelava un fondo di balzana indifferenza, una disperazione perentoria che faceva paura. Mi ricordo una sera di primavera, in sala studio; vedevo chiara­ mente Bakroot, seduto davanti a me accanto alla fine­ stra aperta da cui, insieme al tramonto, entrava il respi­ ro dei castagni inondando la sua zazzera ardente, vio­ lenta come il profumo dei fiori. La collezione di Rèmi, all’epoca (giacché le cambiava di continuo, ripudiando l’una per l’altra oppure combinandole insieme secon­ do imponderabili criteri), era composta di carabattole per la pesca con la lenza, galleggianti, mosche, cucchia­ ini, piume dai colori vivaci fissate ad ami difettosi; tirato fuori quel campionario, l’aveva sistemato sul banco die­ tro il simbolico riparo di un classificatore, e lo contem­ plava modificandone ogni tanto la disposizione, con

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l’aria pensosa e i gesti dapprima esitanti, ma via via più sicuri nella loro lentezza, che si vedono nei giocatori di scacchi. Il sorvegliante se ne accorse e requisì il tutto. Il bambino mise il broncio, poi dalla giacca finto scamo­ sciata dai mille recessi apparve, miracolosamente salva, una splendida mosca dalle piume cangianti; la studiò con attenzione tenendola nell’incavo di una mano, ne fece mutare le sfumature alla luce del crepuscolo: il suo volto impietrito si irrigidiva ancor di più. D’improvviso, con una risata che tutti sentirono, breve e roca come un singhiozzo, non provocatoria o stizzosa ma come in­ vasata e sacrificale, scagliò quell’esile dardo di luce at­ traverso la finestra, verso le fronde già notturne. Il sor­ vegliante non colpì altro che un viso impenetrabile, così come lungo una strada dissestata un carretto fa ro­ tolare un sasso. A quei tempi insegnava al liceo di G. un professore di latino le cui lezioni si svolgevano sempre in una tre­ menda cagnara, e che forse per antifrasi chiamavamo Achille. Non c’era in lui nulla di guerresco né d’impe­ tuoso; dell’antico eroe mirandone aveva solo la statura e la padronanza della lingua di Omero; era un uomo in là con gli anni, gigantesco e sgraziato. Non so quale ma­ lattia lo avesse privato di capelli, barba e sopracciglia; portava una parrucca, ma nessuna pezza avrebbe potu­ to mascherare la dolorosa nudità dello sguardo in quel volto completamente glabro; una faccia di quelle che non si possono nascondere, e anzi imponente, patrizia, massiccia, di una sensualità cadente, con un naso magi­ strale e labbra piene, di un rosa ancora fresco: il poco che mancava a quell’architettura la rendeva quanto mai comica, malsana e teatrale, come un personaggio di vecchio castrato dalla voce fessa. Camminava con il busto eretto, si vestiva in modo elegante e amava gli ele­ giaci minori. Virgilio, declamato da lui, faceva sbellica­ re; tempeste di ilarità lo accoglievano quando entrava, perfino gli alunni del primo anno lo bistrattavano, e lui si rassegnava all’idea che non ci fosse niente da fare:

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superava i limiti concessi al ridicolo, e lo sapeva, come sapeva che la forza della mente e la bontà del cuore, di cui, per colmo di ironia, era dotato, non valgono a nul­ la se il corpo fa difetto. Achille non aveva persecutore più spietato del picco­ lo Bakroot. Gli affronti più spropositati, le risate più perfide uscivano dalla bocca del bambino, sfigurandolo. Achille, imperterrito, restava assorto nei suoi autori, nelle sue declinazioni, tracciava alla lavagna i sette colli o il golfo di Cartagine: alle sue spalle, rime oscene de­ formavano i nomi degli dèi e degli eroi, gli elefanti di Annibaie diventavano animali da circo, Seneca un ciar­ latano, e più nulla veniva preso sul serio. Va pur detto che Achille ci era abituato: è così tanto tempo che i bar­ bari hanno conquistato l’Urbe, che Cesare ha ricono­ sciuto gli occhi del figlio dietro il pugnale, e quante Euridici abbiamo già perso - tra meno di un’ora la le­ zione sarà finita. Talvolta, esacerbato ma disperatamen­ te calmo, scendeva nell’arena e mestamente mollava un ceffone al primo che gli capitava a tiro. Le sberle, però, sortivano solo l’effetto di incoraggiarci. Tutti noi partecipavamo a quel massacro; ma il colpo mortale, la battuta decisiva che con certezza arrivava a segno, che faceva contrarre le labbra di Achille o gli mozzava il re­ spiro in un attimo di inebetito silenzio mentre stava de­ clamando un verso, quasi sempre era Rèmi Bakroot a infliggerla. Era Rèmi Bakroot che orchestrava quella triste beffa; lui che a tale scopo si prodigava senza ri­ sparmiarsi, con tutta la forza pestifera della sua piccola strozza, con tutte le parole non capite, rozze e scurrili, orecchiate in famiglia alla fattoria o sulla porta di betto­ le fumose nelle sere invernali, di domenica, quando un bambino impaurito senza varcare la soglia dice al pa­ dre ubriaco che è ora di tornare. Il fatto è che lui, Rèmi, aveva le sue buone ragioni: Achille mostrava un debole per Roland Bakroot, il maggiore. Era completamente diverso, Roland, eppure così si­ mile; altrettanto dissennato, certo, ma la sua dissenna-



tezza non aveva nulla della grinta canagliesca, del dileg­ gio un po’ cupo, sciroccato, che garantiva a Rèmi l’am­ mirazione dei compagni; la sua stravaganza era più pura, rude e come ridotta all’osso: niente fronzoli, pit­ toresche collezioni o bravate sovversive; niente di quan­ tificabile nella valuta dei ragazzini, niente di cui potesse andare orgoglioso, crearsi un pubblico, coprire di ridi­ colo il proprio avversario per il divertimento di tutti. Roland leggeva dei libri. Leggendo aggrottava una fron­ te da piccolo energumeno, serrava le mascelle ed esibi­ va una smorfia di disgusto, come se un perenne e inelut­ tabile voltastomaco lo inchiodasse di necessità alla pagi­ na che magari aborriva, ma che appassionatamente svi­ scerava, come un libertino settecentesco smembra le carni di una nuova vittima, con meticolosità ma senza piacere, soltanto per farlo. Perseverava in quella nause­ ante incombenza ben oltre le ore di studio, fino in refet­ torio e nel cortile della ricreazione, dove, raggomitolato tra le radici di un castagno, nell’angolo chiassoso di un portico, si immergeva stoicamente, tormentandosi, in qualche Quo uadù ? o altro polpettone storico da collana per ragazzi. Aveva la mano pesante; al minimo sospetto di offesa usciva dai gangheri, e non meno nauseato ma più allegro pestava: furtive, quindi, erano le risate che il suo buffo vizio e la sua eterna smorfia suscitavano. Leg­ geva, insomma; si avviava verso la bibliotechina in fondo al portico, non lontano da quell’angolo d’ombra dove per la prima volta l’avevo visto digrignare i denti; se in­ contrava il fratello si soffiavano come due gatti, immo­ bili, infidi e brutalmente sordi al mondo; poi tiravano dritto, oppure di nuovo si accapigliavano scambiandosi amorosi cazzotti. Mi chiedevo come potessero essere le loro domeniche insieme, laggiù a Saint-Priest-Palus da cui a fatica erano usciti, sull’altopiano roccioso verso Gentioux, sotto il tetto di una misera fattoria, in quella terra brulla dove l’erica e le sorgenti graffiano appena di rosa e di frescura la corazza arcigna dell’avaro grani­ to: leggere lì Salambò aveva un che di inspiegabilmente

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comico; e quale collezione, addirittura quale idea di collezione poteva mai nascere lì se non la serie non tesaurizzabile e sempre uguale delle stagioni che ti piom­ bano addosso, delle bestemmie stracche di tuo padre, delle teste di un gregge? Ma li vedevo senza sforzo alcu­ no, una sera di inverno verso le sei, lasciate alla rinfusa sul grande tavolo le loro cianfrusaglie, trottole e libri schizzati dal latte fresco del grande secchio sotto i mi­ raggi della lampada, li vedevo come poteva vederli la madre dalla finestra, nella landa al calar della notte mentre senza tregua si cercavano, si raggiungevano, si riconoscevano e si allacciavano, votandosi ancora una volta l’uno all’altro ceffone dopo ceffone, offrendo le loro scazzottate ai neri abeti, al primo frullo delle civet­ te, ai cani che inchiodati a terra ululano a quelle ali che spiccano il volo, piccoli immolatori dal labbro spaccato, dalle lacrime amare, devoti e malconci. E a chi dei due il vecchio vento, con la sua fluttuante barba d’abeti, rivol­ ge uno sguardo propizio? Qualcuno forse sceglie l’uno e distrugge l’altro, oppure ne sceglie uno per distrug­ gerlo meglio, ma ancora non sappiamo quale. Achille dunque, cedendo a uno di quei capricci tristi e stravaganti che ispirano un po’ di ardore e come un punto d’onore nelle vite sfasciate, si era affezionato al maggiore dei Bakroot. Quando la campanella strappava il vecchio e stanco letterato alla sua ora di personale ge­ enna, quando, insensibile agli strali dei demonietti che gli sgattaiolavano tra le gambe, attraversava il grande cortile con il suo passo dignitoso, sempre lento e come intorpidito da qualche pacioso sogno, capitava spesso che per una studiata coincidenza Roland di punto in bianco fosse lì, non davanti, ma a qualche metro da quella sognante traiettoria, che insomma s’incontrasse­ ro e, sebbene si fossero subito intravisti con la coda dell’occhio, il vecchio all’uscita di classe (dissimulando magari un sorriso malandrino e deliziato) e il ragazzo al di sopra delle pagine del nauseante mattone di tur­ no, sebbene vedersi non fosse certo una sorpresa, solo

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all’ultimo fingevano di riconoscersi e di stupirsi della fortuna inaspettata che li metteva l’uno di fronte all’al­ tro. Achille si fermava di colpo, poi si avvicinava facen­ do risuonare il suo vocione di colpo allegro, posava una mano greve sulla spalla del bambino che arrossiva, lo strapazzava con tenerezza; paziente e burbero lo inter­ rogava, si informava sulla lettura in corso; il piccolo far­ fugliava qualcosa e goffamente, non senza un po’ di vergogna, mostrava il titolo dell’opera; allora Achille gli lasciava la spalla con gesto teatrale, indietreggiava, contemplava Roland sgranando gli occhi sbalordito, esibiva un’incredula ammirazione che dispiegava co­ me una bandiera il suo volto da vecchio castrato; e in tono acuto, con quella voce forbita, avvezza alle folgo­ ranti ellissi delle lingue classiche, ma vibrante e forte per essersi tante volte dispiegata sopra i marosi della cagnara, non diverso da Nettuno che esclama Qmoä ego, diceva qualcosa come: « Perbacco, qui non si scherza! Leggiamo già Flaubert? Davvero sorprendente! ». Il vol­ to del piccolo si accendeva come la sua zazzera, il men­ to pronunciato esitava tra il riso e le lacrime, il libro co­ sì prezioso, il libro terribile e duplice pesava nella ma­ no impacciata: ma sì, leggere era bello, per quell’atti­ mo valeva la pena di vivere tante ore di assiduo sconfor­ to. Il vecchio calvo e il piccolo irsuto percorrevano un tratto insieme, si incamminavano verso il buio corrido­ io che tra gli odori di cucina supera il refettorio e rag­ giunge il cortile principale, e ogni tanto si vedeva anco­ ra Achille fermarsi, fare due passi indietro per inqua­ drare meglio il marmocchio con lo sguardo di magi­ strale approvazione dei suoi occhi glabri. Poi spariva tra gli effluvi di minestra, rimuginando reminiscenze flaubertiane, sentimenti di affetto o chissà che, e il pic­ colo lasciato alla sua ebbrezza perplessa gironzolava un po’ lì intorno, si sedeva e riapriva il libro, non capiva. Con gli anni quella singolare amicizia non venne me­ no. Achille diventò in seguito il tutore di Roland, il che vuol dire che passava a prenderlo al liceo tutti i giovedì

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e le domeniche verso le due e il bambino trascorreva il pomeriggio insieme a lui, nella sua casa senza figli, ac­ canto a una moglie che non ho mai visto, ma che intui­ sco, almeno così mi pare, brava a fare i dolci e paziente, sostegno indefettibile di un uomo ridicolo la cui gof­ faggine la contagiava, e che forse un tempo lei gli ave­ va, in segreto, amaramente rinfacciata; ma con l’età, che tutti contagia con il suo egualitario ridicolo, doveva averla trasformata in una gioviale compassione verso ogni cosa, e perfino in allegria, sì, quell’allegria un po’ pazza di chi ha subito troppe offensive riscontrabile nelle suore vetuste e nelle vecchie ubriacone. Ben più degli autori e dei destini romani, era probabilmente quell’allegria, che si era riverberata su di lui di rimando e che sembrava a volte trapelare, in classe, durante le peggiori cagnare, a tener vivo Achille. Non so in che modo l’uomo e il ragazzo impiegassero il tempo quan­ do si incontravano; ma un giovedì che eravamo «di escursione » sulla strada di Pommeil - una di quelle te­ tre passeggiate tutti in fila, inquadrati da un sorveglian­ te, gite da cui traevano giovamento, pareva, i nostri pol­ moni - li ho visti incamminarsi lentamente lungo un viottolo nel bosco, con l’alta arcata dei rami che creava sopra di loro una sorta di paradiso dipinto, e « sotto gli alberi gonfi di una musica dolce » discutere con fervore come due dotti, Achille facendo ampi gesti, il giovane puritano accigliato interrompendolo, fornendogli un nuovo spunto, mentre il vento autunnale che agitava i loro cappotti portava via quelle sapienti parole, quella metafisica un po’ ridicola, ma con tale bonarietà che le fronde premurose si chinavano verso di loro, sorde e amichevoli; dalle nostre file lo sguardo di Rèmi saettava dolorosamente, correva lungo la pista per i cavalli fino a quei due puntini laggiù, e forse il suo cuore si univa a loro quando la bocca esacerbata, sogghignando, tenta­ va battute sarcastiche. Ma ciò accadeva durante gli ultimi anni di scuola, os­ sia quando i Bakroot furono già grandicelli. Prima c’e-

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rano stati i libri, quelli che Achille si mise a regalare a Roland sempre più spesso, estraendoli dall’enorme tra­ colla dove, fra mesti ed estenuati Plutarchi consunti con i fogli che volavano via, esegesi sgualcite e vetuste, sbucavano all’improvviso incartati di fresco, magari in­ fiocchettati, poco in tono con le vecchie zampe del lati­ nista. Ecco allora dei Jules Verne, naturalmente un Salambò, un Michelet espurgato e illustrato in cui si ve­ deva Luigi XI, con il suo taccagno cappellino, curvarsi sulle voluminose cronache che i monaci di Saint-Denis, alteri e deferenti, gli presentavano sotto gli occhi bef­ fardi del barbiere malvagio che il re teneva in gran con­ siderazione; poche pagine più in là un’immagine not­ turna raffigurava, sullo sfondo di una foresta spettrale popolata da uomini smunti e animali raminghi, il pove­ ro Temerario di Borgogna che il taccagno odiò a mor­ te, il Don Chisciotte dello Charolais, l’elegante, il pro­ digo, l’impetuoso, all’indomani dell’ultima battaglia persa dopo tante altre, cadavere tra i cadaveri « tutti nu­ di e diacci » e i vessilli borgognoni e brabantini abbattu­ ti con i loro motti smargiassi, l’ex duca e conte a pancia in giù nel ghiaccio che trattenne nella sua morsa quella carne ducale, naso, bocca e guance allorché provarono a staccarla, mentre i lupi della vecchia Lorena, a piene fauci, portavano via brandelli di quella polpa sfatta, vo­ litiva, che così caparbiamente aveva desiderato l’Impe­ ro e la catastrofe, e a tale scopo aveva tanto cavalcato, ordito, assediato e sacrificato moltitudini, guerreggiato invano e disperato, che negli ultimi tempi si era anne­ gata nel vino, e giaceva lì da due giorni quando lo cer­ carono e lo trovarono in un tremendo freddo da tempi andati, da Epifania del 1477, e quando un altro barbie­ re, ma stavolta umile e in lacrime, abituato a fare la bar­ ba a Carlo e non la sua politica, chino su quel quarto di macelleria esclamò, come si poteva leggere nella dida­ scalia deH’immagine, come gli antichi cronisti ci riferi­ scono che abbia detto quel giorno, e dunque lo ha vera­ mente detto ed è un miracolo che noi lo sentiamo, il

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barbiere dunque esclamò, mentre il suo respiro preca­ rio formava una nuvoletta subito svanita: «Ahimè lasso, è il mio nobile signore», poi lo fece portare con gran decoro, « avvolto fra eleganti drappi, in una stanza ap­ partata della casa di Georges Marquiez », a Nancy, dove i re finalmente sbarazzatisi di quel fratello abusivo, la caccia al quale era stata così a lungo la loro ragion d’es­ sere, venivano a contemplare ciò che ne restava e pian­ gevano composti, morta, la loro parte migliore. A che pensava, Roland, davanti a queU’immagine di perfetta rovina? La guardava spesso. Una volta gli chiesi di mo­ strarmela, e del tutto inaspettatamente, lui che aveva letto il brano relativo e conosceva quindi la storia, ac­ consentì non senza una certa sufficienza e si degnò ad­ dirittura di commentarla con qualche parola lì per lì reticente, scorbutica e aggressiva, rivelandomi la fanta­ siosa interpretazione secondo cui, in base a minimi dettagli che considerava voluti e che Γ illustratore di si­ curo non così aveva inteso, riteneva di poter dire quali fossero i seguaci del Temerario, quali i cittadini di Nan­ cy, quali i borgognoni e quali i fiamminghi; il gran ro­ stro sul bacinetto del tale faceva di lui un duca, l’elmo meno vistoso indicava nell’altro un semplice barone; e tutte quelle forme tenebrose sullo sfondo, lancieri o neri salici che la nevicata e la notte indefinivano, quelle parvenze di cavalli misti a uomini da cui spuntavano picche e oriflamme erano l’ultimo quadrato del Signo­ re di Borgogna e lo stesso Signore di Borgogna, ivi raf­ figurato quindi due volte, in primo piano carogna e laggiù etereo, mentre tutti quei morti di avantieri aspet­ tavano tremanti alla porta del cielo che un san Giorgio in alta uniforme, con la visiera abbassata, l’aureola in­ torno al cimiero e il collare del Toson d’oro, li acco­ gliesse e, stringendoseli al petto fra le lacrime, li invitas­ se a sedersi alla tavola rotonda, la tavola eterna che sa di vino caldo. Queste sorprendenti elucubrazioni, questa esaustione dissennata e quasi divinatoria rabbuiavano Roland: sapeva tutto questo, certo, ma tutto questo lo

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faceva soffrire, malgrado i vani sforzi non riusciva ad andarne fiero. Nella sua accanita esegesi c’era come un panico interpretativo, un dolore a priori, la terribile certezza di sbagliare o di omettere e la convinzione ama­ ra, che inutilmente cercava di dissimulare, della propria indegnità: un volgare fantaccino svizzero, uno di quegli oscuri subalterni che diedero la morte al Temerario, tanto sicuro del suo destino infernale da volersi confon­ dere tra le gloriose ombre borgognone che aspettavano il loro celeste compenso, ecco che cosa pensava di esse­ re Roland tra i libri. Ed ecco perché sottaceva abitual­ mente le sue letture, vale a dire imposture; oggi penso che se acconsentì a parlarmi di quell’immagine, di quel­ la storia di un «insigne gentiluomo» massacrato che non sarà più oggetto di invidia e che viene compianto da un uomo modesto mentre il fratello fellone, il letto­ re di cronache religiose, là nella solitudine di Plessislèz-Tours, sente abbattersi su di sé l’ombra immensa di un torrione che è rimorso e cupa esultanza, se Roland insomma mi svelò qualcosa a tale proposito fu perché c’era in tutto questo, limpida e inscritta in titoli nobilia­ ri, una costellazione essenziale della vita stessa, quando i libri non bastano più, della passione stessa, celata, anal­ fabeta e antichissima di Roland Bakroot. Poi fu la volta del Kipling. Fu durante il mio secondo anno: lo ricordo con pre­ cisione giacché a quell’epoca anch’io, che non avevo per le mie letture un mentore o un mecenate all’altez­ za di Achille, avevo appena scoperto II libro della giungla. Roland, che allora doveva essere al quarto anno, rice­ vette in dono un volume dello stesso autore, cosa che mi incoraggiò a immergermi nella lettura - non era uno scrittore solo per piccoli come Curwood o Verne, di cui cominciavo a vergognarmi ma che proprio per questo mi piacevano ancora di più - e al tempo stesso mi rese assai invidioso. Era una splendida edizione, an­ che questa illustrata, non da epici chiaroscuri alla ma­ niera degli emuli di Gustave Doré che abbuiavano il

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Michelet, ma da fini acquarelli, cesellati come templi barbarici, con montagne himalayane laggiù, i frutti av­ velenati delle pagode che sbocciano nelle foreste tropi­ cali; più in qua risciò al traino portavano verso chissà quali piaceri belle vittoriane con l’ombrellino deposi­ tandole accanto alle zampe di elefanti bardati e monta­ ti da maragià di rosa, mandorla e tiglio, mentre in pri­ mo piano, assorti, rasati di fresco, garbati e rapaci, gentlemen e mascalzoni, gallonati, indistinguibili gli uni dagli altri sotto la stessa giubba scarlatta e l’impeccabile casco del leggendario esercito delle Indie, contempla­ vano pacatamente quel mondo, montagne himalayane, re barbuti e prosperose ladies con l’ombrellino, quel mondo che era il loro pascolo. (Povero Achille, dato in pascolo al mondo, che cosa poteva mai dirgli tutto que­ sto? E al giovane Bakroot, di Saint-Priest-Palus?). L’oro, l’oro vile e fastoso, l’oro che qualunque aggettivo, indif­ ferentemente, può qualificare, vi scorreva « come il se­ go nella polpa»; come il sangue indocile nella carne greve, preziosa, delle querule in crinolina; come le am­ bizioni sfrenate, piene di whisky, di cavalcate travolgenti e di oltraggiose bestemmie, negli occhi impassibili dei bei capitani all’ora scialba e civile del tè. Tutta quella la­ sciva e inarrivabile dovizia, probabilmente, infiammava Roland, ma invano; e, con una rassegnazione quasi alle­ gra, indugiava forse sulle immagini che riteneva più vici­ ne a lui, più conformi a quel che sarebbe stato un gior­ no, le fraterne immagini di rovina come quella in cui si intuiva, dentro un sacco lercio che un matto trasporta per giungle e risaie fra i lazzi delle scimmie, la testa mummificata di un uomo che un tempo volle farsi re. Io quelle immagini le ho viste, a spizzichi e bocconi, certo, da sopra la spalla di Roland che non voleva con­ dividerle, ma soprattutto in un’altra occasione e con agio. Fu sempre in sala studio, dove, come ho già detto, durante i primi anni di collegio ero seduto dietro Rèmi Bakroot, non lontano da lui. Da una tasca della giacca rossiccia (la fece durare almeno fino in quarta, sempre

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più sgualcita, striminzita, sformata), estrasse certi fogli rigidi, piegati alla meno peggio, in quattro o anche in otto, lacerati lungo le pieghe, che lisciò con noncuran­ za e osservò con la stessa attenzione vagamente ironica, intensa e stizzosa che dedicava a un problema di mate­ matica: stupefatto riconobbi gli highlander con il casco coloniale, i dolman con gli alamari, gli elefanti e i re. Rèmi non fu avaro; il sorvegliante di turno era un buon diavolo, le immagini degradate passarono di mano in mano. Eravamo pieni di meraviglia, anche un po’ spa­ ventati, e avidamente ci immergevamo in quella dovi­ zia, in quella lontananza, in quella immobile potenza. Rèmi, il mento pronunciato e arrogante proteso, osser­ vava con ansiosa soddisfazione tutti quei piccoli con­ tendersi le spoglie di Roland, così come un capo sepoy, dalla groppa di un elefante, acclamato dai suoi uomini, dirige con gesti precisi la lenta morte di ufficiali di Sua Graziosa Maestà. All’uscita della sala studio, Roland l’a­ spettava. Era di un pallore cereo, un pallore fulvo mi verrebbe da dire, da puritano fiammingo che si accinge a sciabo­ lare l’iconolatra; non aprì bocca, solo i pugni fremen­ ti, solo gli occhi invasati che la passione accecava vive­ vano. Il piccolo sogghignò, ma il suo disprezzo era snervato e lamentoso, e lui stesso era sfigurato, come offeso: « Quel libro era per me » gridò mentre scappa­ va via. «Ladro, ladro! ». Roland lo avvinghiò in mezzo al cortile; si abbracciarono, capitombolarono sulla ter­ ra battuta, con la polvere che si impastava al loro pian­ to, alle loro bocche, rotolarono l’uno sull’altro come amanti, ardentemente aggrovigliandosi, sgrovigliando­ si, furore breve e sporadico, fuoco di paglia sotto i ca­ stagni pensosi, costanti e distratti. Quando il grande alla fine si rialzò, brandendo le figure insozzate, ricon­ quistate dopo aspra lotta ma per sempre perdute, gli sanguinava la bocca: fu da quel giorno che portò, fin nei suoi rari sorrisi, il marchio del fratello minore, quell’incisivo rotto che tutti d’ora in poi avrebbero no­

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tato, e che lui amorosamente, nervosamente, tormen­ tava con la punta della lingua durante le sue brusche fantasticherie, ravvivando così la sua passione, forse, o placandola.

Diventarono grandi. La gravosa avventura della cresci­ ta stava finendo, ed era strano che non durasse in eter­ no. Roland non si era rasserenato: i libri lo avevano per­ duto, come dice la gente semplice, come un po’ più tar­ di mi disse la nonna. Perduto? Lo era, sì - lo era sempre stato -, in questo mondo di cui vedeva ben poco, così come nei libri che ne avevano preso il posto, ma che era un luogo di rifiuto, di suppliche perennemente respinte e di cattiveria insondabile come, sotto le fitte cuciture delle righe caparbiamente uncinate l’una all’altra, la malia infernale di una donna corazzata di piombo, che è lì, e che desideri fino al punto di uccidere: il difetto nell’armatura, chissà dove tra due righe, che tremante presumi e cerchi, che ti aspetta in fondo alla pagina, al­ la fine del capoverso, è eternamente introvabile, vici­ nissimo e sfuggente; e il giorno dopo la bracchi di nuo­ vo, quell’asola sottile, stai per scoprirla, tutto sarà rive­ lato e una buona volta potrai smettere di leggere, ma giunge la sera e richiudi la pagina di inespugnabile piombo, sei divenuto piombo tu stesso. Non sapeva pe­ netrare il segreto degli autori, il bell’abito che ne rive­ ste la scrittura era troppo abbottonato perché lui, Ro­ land Bakroot di Saint-Priest-Palus, non solo riuscisse a sollevarlo, ma addirittura intuisse se sotto c’era carne o vento: come mi sembrava di capirlo, l’imbronciato, il baccelliere dalla Triste figura, io con la cretineria lirica che più o meno nello stesso periodo stava prendendo una piega irreparabile, una via merlata di piombo, un cammino di ronda dove la vertigine mi travolge, dove insieme ai Bakroot di nuovo volteggio verso chissà qua­ le ultima frase su cui mi toccherà pur chiudere, rima­ nendo con un palmo di naso.

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F

Quanto a Rémi, lui lo sapeva, e fin dal quinto anno, che sotto il vestito delle ragazze c’era qualcosa, certe minuzie che si potevano appassionatamente indagare. Le sue collezioni - continuiamo pure a chiamarle così, giacché a guidarlo era ancora, come da bambino, il gu­ sto di accumulare e vivificare ciò che procura piacere -, le sue collezioni consistevano adesso in fotografìe di donne o di ragazze: a volte le ritagliava da riviste com­ prate alla chetichella, divette scollacciate, abbaglianti, o licenziose brune in giarrettiera di certe immagini li­ bertine, a volte invece le collegiali dell’altro liceo, il leg­ gendario, il proibito dove frusciavano sottane plissetta­ te, le sorelline insomma, non insensibili al suo cupo appetito da piccolo rapace, ai capelli di paglia gelata e all’aria da teppista, gli regalavano un mediocre ritratto di se stesse, una foto scattata l’anno prima laggiù in giardino col vestito azzurro, e che fingendo una grande esitazione e facendosi pregare finalmente gli cedeva­ no, tra parole sussurrate e maldestri sfioramenti con la punta delle dita, quando insieme alla notte, in una do­ menica di novembre, arriva l’ora di lasciarsi e una ra­ gazzina è innamorata. Anche quelle romantiche, quel­ le graziose creature che non erano ancora né licenzio­ se né abbaglianti ma avevano una carne sorprendente, di cui per prime si sorprendevano dietro i modi sdolci­ nati, permettevano che la mano di Rèmi, sotto le gon­ ne, le scoprisse; e benché lui non ne parlasse molto, se non in presenza di amici di suo fratello o di suo fratello stesso e con l’unico scopo di fargli cogliere appieno il divario tra la vita appagata di Rèmi Bakroot e quella, scialba e insignificante, di Roland Bakroot, non c’era­ no dubbi in proposito, poiché al giovedì, appena uscito dal liceo, si dileguava sottraendosi alla vista dei compa­ gni, e se ci capitava di incontrarlo era solo di nascosto, in un giardino pubblico un po’ buio dove una testa si chinava su di lui, o in fondo a un caffè deserto mentre si sbaciucchiava con una fanciulla. Eppure non era pro­ priamente un bel ragazzo; già conosciamo il suo mento

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rozzo e il colorito da vecchio strofinaccio; si può immagi­ nare come il suo abbigliamento, che pure rivelava qual­ che ambizione di eleganza, avesse quell’aspetto strimin­ zito e rustico, quella pochezza che ho definito batava: riusciva ancora a farsi andar bene la giacca finto scamo­ sciata; perché anche lui era di Saint-Priest-Palus. Ma le concupiva con tale brama, quelle veroniche, quelle pic­ cole prede in fiore, che certamente provavano un brivi­ do di fronte all’inusitato desiderio che mostrava per lo­ ro, per le loro gonnelline, le lacrime e il profondo tur­ bamento; si lasciavano stropicciare la gonna, cavare le lacrime, lo vagheggiavano e lo temevano, e, in balìa di sentimenti contraddittori il cui bruciante conflitto le sconvolgeva, vacillavano e finivano per cadere a corpo morto verso di lui. Tornava dunque la domenica sera, o il giovedì, con in bocca quel sapore, con quel bruciore alle labbra che le piccole orchesse avevano divorato, e capitava che nell’ampio viale che pomposamente conduce al porto­ ne del liceo incontrasse il fratello, ostentasse un’aria di superiorità e magari lo disprezzasse o per un attimo l’invidiasse (chissà quale dei due si sforzava di essere pari all’altro, quello la cui inflessibile amante indossava sottane di piombo che in piombo gli trasformavano le mani, o l’altro, le cui mani eccellenti conoscevano a memoria ogni piega della biancheria?); alla stessa ora, infatti, anche Roland tornava, con un libro sottobrac­ cio e le labbra brucianti solo per il freddo, il più delle volte intralciato dalla goffa sollecitudine di Achille, e doveva regolare il suo passo di giovanotto comunque focoso, comunque ricolmo di una certa linfa che non trovava sfogo, sull’incedere maestoso, lento e ritmato come un alessandrino, dell’imponente vecchio profes­ sore. All’ingresso, nella luce viva che filtrava dalla guar­ diola del portinaio, i commiati non finivano più; e Ro­ land, che continuamente cercava di porvi termine ma riusciva solo a tirarsi addosso qualche altro fervido con­ siglio, qualche esegesi ripetuta all’infinito, qualche elo-

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gio inopportuno, Roland, stoico ma sulle spine, intuiva, posati ironicamente su di lui e sul suo poco decorativo amico, gli sguardi divertiti e beffardi di tutti i ragazzini che tornavano. Finalmente Achille gli dava un bacio e lentamente risaliva il viale sotto i lampioni, scandendo con i passi i versi che la mente recitava, e ad un tratto una cesura lo bloccava, un piede sospeso per aria, poi si lasciava andare verso l’emistichio successivo e, ripreso il cammino, cadenzava chissà quali insensate strofe, men­ tre le collegiali ritardatane, che avevano riaccompagna­ to lo spasimante e si affrettavano verso il loro serraglio di bambole, allorché incrociavano quella specie di paracarro scoppiavano in fresche risate e si dileguavano, contente di completare i bei ricordi di una giornata che alla sera, addormentandosi, avrebbero ancora una volta rievocato con delizia, di rallegrare le immagini dei baci e quelle altre cui non si può quasi pensare tanto sono inebrianti e infiammano le guance, di spezzare tutto ciò, che ha comunque un risvolto drammatico, con l’in­ nocente ridarella che ti ha presa e di nuovo ti prende se torni con la mente a quel vecchio professore suonato, spennacchiato e appollaiato su una zampa sola come un airone. Il fatto è, in sostanza, che Achille iniziava a dare i nu­ meri. Capitava che la parrucca fosse un po’ fuori po­ sto, di traverso e tristemente malandrina, la moglie era morta, l’allegra fiammella non ardeva più, a volte una cagnara lo stroncava e lui senza aprir bocca aspettava la fine, con quei grandi occhi nudi che guardavano qual­ cosa laggiù, magari un corpo discinto di sposa, in tempi lontani. Le malelingue, che hanno scarsa inventiva, di­ cevano che si era messo a bere; è pur vero che una vol­ ta, in place Bonnyaud, sotto la pioggia a dirotto di una nottataccia, lo vidi uscire male in arnese dal Café SaintFrançois, scendere marzialmente, gesticolando, la ram­ pata di rue des Pommes, mentre l’impermeabile trop­ po largo sfarfallava tra i suoi passi che quel giorno si ci­ mentavano più con la canzonetta che con l’alessandri-

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no, e sbottare in una fiera invettiva come un Verlaine alticcio, mantella o tabarro veleggiami nel vento della sbronza. Simili eccessi, però, erano sporadici e di sicu­ ro inessenziali: era un mite, gli mancava quel granello di violenza che i beoni per vocazione coltivano e fanno mostruosamente germogliare in ogni sbornia; soprat­ tutto lo commuoveva il dono, non il circuito chiuso che va dalla mano alla bocca e in questo andirivieni egoisti­ camente si esalta e odia se stesso, bensì la mano che si apre verso un’altra che prende. Continuava quindi a regalare libri a Roland, ma sempre più spesso capitava che quei regali, ridotti in un certo senso alla mera fun­ zione di dono, indipendentemente dal contenuto spe­ cifico e dall’adeguatezza al destinatario, partissero per la tangente, mancassero l’obiettivo e facessero arrossi­ re Roland fornendo materia al suo eterno imbarazzo; così, era già all’ultimo anno e attingeva probabilmente al pot-pourri di celebrità dei « tascabili », dove a quell’e­ tà non si sa bene se scegliere Huysmans o Sartre - ma l’indecisione in fondo ti lusinga e ti consacra nel desi­ derio di essere adulto -, quando Achille lo omaggiò con un ingenuo Rosny « delle ere selvagge » e un Barone di Münchhausen illustrato: non l’aveva visto crescere, quel bambino. L’autunno seguente, mentre Roland ini­ ziava l’anno preparatorio al baccalaureato e io il quin­ to, non ci fu una pioggia di castagne e di cori fanciulle­ schi ad accogliere la prima prestazione stagionale del lento patrizio imparruccato: era andato in pensione. Morì quello stesso anno; ed è tremendo pensare come Roland, che ottenne un permesso speciale di uscita per andare a seppellirlo, che al mattino presto, in camera­ ta, indossò appositamente la smorta cravatta e l’abito striminzito, si pettinò con cura e rase un’ombra di bar­ ba, che pianse di sicuro con sincerità l’unica persona da cui riteneva di essere stato amato, si sentisse anche sgravato dal non doversi più confrontare con quel tri­ ste specchio, trascinare quella palla al piede che faceva ridere le ragazze, sostenere quel padre decaduto che 101

non era padre di suo fratello Rèmi, ma che con il fratel­ lo aveva in qualche modo condiviso a lungo, giacché l’uno e l’altro gli erano stati a fianco in funzioni ideal­ mente opposte, un po’ come, nelle sculture delle catte­ drali, il diavoletto che fa cagnara e l’angelo buono ma troppo compassato si contendono l’anima di un pove­ retto. Lo seppellì dunque, lo rimpianse e se ne liberò. Nel villino lungo la strada per Courtille dove tante volte Roland aveva mangiato i dolci della consorte di Achille, la pazzerella, sotto l’occhio bonario e sentenzioso del vecchio maestro, mi chiedo che fine abbia fatto l’unica proprietà cui Achille tenesse, tutti quei libri senza ere­ de; mi chiedo in quale sala d’aste, in quale solaio a sbri­ ciolarsi o in quale cantina a marcire riposino ora come dei morti, che qualsiasi mano amica può tuttavia risu­ scitare, i libri insulsi che ancora riservava a Roland e non fece in tempo a regalargli, e gli altri libri, ampollo­ si, ingenuamente umanistici e tautologici, con cui si ri­ prometteva di allietare i suoi ultimi anni. Ma forse Las­ sù gli autori antichi, quelli veri dei quali sempre siamo indegni, insieme ai loro intercessori, i leziosi esegeti con barbetta inizio secolo, gli recitano di persona i pro­ pri testi, con più viva voce della voce dei vivi. Quanto a Roland, non pensava certo che gli autori parlassero a viva voce; restava nel loro interminabile si­ lenzio; s’immergeva vieppiù nel vortice di quei passati che nessuno ha mai vissuto, di quelle avventure che sembrano successe ad altri ma a nessuno sono mai suc­ cesse. Da piccolo aveva appreso un giorno, con delizia o inquietudine, che a Megara, nei suoi giardini liberty, Amilcare aveva dato un banchetto; sulle orme di due nemici quasi gemelli, uno nero e l’altro bruno, che bra­ mano la stessa principessa, si era perso per sempre in quel paese « dove si crocifiggono i leoni » al passato re­ moto, quel paese che non esisteva e tuttavia portava lo stesso nome di Cartagine, nome vero e citato in Tito Livio. Da allora la sua vita si era sviata nei passati remoti - io lo so, perché sono lui. Imparava adesso che Emma 102

ingurgita a due mani il fraterno veleno color di zucche­ ro, che Pécuchet a una certa età adotta un sembiante di fratello per volergli bene e rivaleggiare con lui in sem­ bianti di studi, che il diavolo assume tutte le parvenze del fratello per mettersi sotto i piedi sant’Antonio. Quan­ do alzava la testa, quando i bei passati remoti sprofonda­ vano in ciò che l’occhio vede immediatamente, tra le foglie che stormiscono e il sole che di nuovo spunta, il presente invincibile era sempre lì davanti con l’aspetto di Rèmi, il contemporaneo delle cose, quello che soffri­ va per il tramite delle cose stesse, Rèmi che era pieno di ragazze e le guardava ridendo: e in quel presente ridan­ ciano che sapeva affrontare solo con i pugni e il dente scheggiato, Roland si gettava, si concedeva una zuffa in più; tanto bastava, forse, alla sua vera vita. Dopo l’anno preparatorio andò a finire in una facoltà di lettere, cre­ do a Poitiers. Rèmi rimase dunque altri due anni al liceo di G., libe­ ro da Roland o vagamente vedovo: in quei corridoi ven­ tosi, in quel porticato spettrale dove i bambini erano diventati grandi nel lampo di sette anni, in quel preten­ zioso viale di lampioni della domenica sera, probabil­ mente incontrava spesso un altro piccolo rosso con il vestito striminzito, ma che non menava più; forse an­ che Achille, qualche volta. Suppergiù nello stesso pe­ riodo Bakroot e Rivai, Jean Auclair, il più vecchio dei Métraux ed io formavamo una combriccola. Avevamo in comune il fatto di dare peso alle apparenze e la se­ greta vergogna di apparire esattamente come eravamo, millantavamo chissà che; i giovedì ci gettavamo verso le piccole millantataci ignorando che erano come noi, fragili e affamate, ma così ridanciane! Nessuno di noi ebbe tanti successi galanti - voglio dire strette tremanti e voraci di selvatiche manine, dolorosi desideri senza sbocco per ore congiunti a un altro desiderio in sotta­ na, pretesti per deliziose pene d’amore e pessime poe­ sie scarabocchiate in sala studio -, nessuno ebbe tanti occhi stralunati sotto i suoi come il piccolo Bakroot.

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Noi esageravamo l’importanza di quelle bazzecole, in tono salace o sentimentale secondo l’umore; Rèmi, in­ vece, non ne parlava più, poiché l’unico pubblico de­ gno di lui, o il dedicatario dei suoi piaceri, era ormai troppo lontano per sentirlo o per ricevere la sua offer­ ta. Certo, aveva ancora la sua collezione di fotografie, anzi accresciuta; ma ne stilava l’inventario malinconi­ camente e già con un po’ di nostalgia, come un re scal­ pitante, costretto alla pace da un clima quietista, che passa in rassegna per la centesima volta le proprie trup­ pe equipaggiate fino all’ultimo bottone delle ghette, ma a che pro se i nemici hanno smobilitato e baciano le loro donne, sgabelli e sgobbate, lontano dalle trombe. Ma quando, una domenica su quattro, prendeva la cor­ riera rossa e blu che attraverso luoghi di grosse pietre crollate nell’erba bassa, attraverso Saint-Pardoux, Fauxla-Montagne, Gentioux, sballotta il suo carico di conta­ dine e studentelli fino a Saint-Priest-Palus, Saint-Priest dove forse avrebbe trovato l’altro, quello che con noi chiamava ormai solo «il Cretino», Rèmi smaniava co­ me per un appuntamento galante. Sui banchi del liceo il piccolo Bakroot brillava - è pur vero che anche il fratello, in quel suo modo più opaco e per così dire assente, aveva mostrato buone attitudini. Rèmi non aveva paura del mondo, che è una collezione indefinitamente espandibile di parole dai collegamen­ ti imprevisti, con le quali le discipline scolastiche com­ pongono chissà perché un ventaglio anziché un altro, le paroline che crescono rasoterra per la botanica, l’am­ mirabile lucentezza delle parole cadute dalle stelle per l’ottica, e le parole dell’ottica sospese su quelle della botanica per la letteratura francese: così in passato Rèmi sceglieva un giorno le trottole, il giorno dopo i galleggianti da pesca, e il giorno dopo ancora, accorto­ si che galleggianti e trottole, avendo la stessa forma, possono costituire un’unica serie nonostante le diverse funzioni, li metteva insieme. Conosceva tutte le regole strambe e tiranniche che conferiscono la padronanza

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del presente: sapeva anche usare i passati remoti, tra i quali il povero Roland era sprofondato, ma non intra­ vedeva in essi altra virtù oltre a quella di impressionare un insegnante purista. Si arrangiava benissimo con il latino e la matematica; era capace di maneggiare, va­ riandoli astutamente, i seducenti artifici che in un te­ ma di francese allettano e conquistano i professori stan­ chi, quei poveri creduloni: faceva colpo anche su di lo­ ro. E poi, lo sappiamo, gli piacevano i gingilli, i piccoli, dolorosi feticci in cui la cosa intera appare perfino in assenza; lui non era Roland, che con tracotanza pensa­ va di raggiungere direttamente un’essenza sempre in­ verificabile; aveva paura di essere vestito male; lo sciaccò fuori moda e le spalline scarlatte lo affascinarono: preparò il concorso di ammissione all’accademia mili­ tare di Saint-Cyr, e fu ammesso. Da lassù mi scrisse alcune lettere, come agli altri della nostra combriccola dispersa. Ma lo rividi in alta unifor­ me solo una volta, ed era morto. Fu durante le vacanze di Natale. In una facoltà di let­ tere dove non avevo incontrato Roland, esitavo ancora tra i passati remoti e il non remoto presente, e di sicuro preferivo quest’ultimo benché sapessi già che il mio ap­ petito troppo vorace nei suoi confronti mi destinasse all’altro, lo smunto, l’imbronciato, l’anoressico. Stavo passando quelle vacanze di Natale a Mourioux; uno della combriccola mi informò che Rèmi era mancato; il più vecchio dei Métraux venne a prendermi con la sua Due Cavalli per andare alle esequie. Ignorava quale de­ stino avesse incontrato e fermato Rèmi, facendo sì che entrambi, sballottati sulla Due Cavalli, stessimo dirigen­ doci verso Saint-Priest-Palus. Quell’anno era caduta parecchia neve; adesso non nevicava più, ma grevi cumuli, livellando ed erodendo come il tempo, e come il tempo grigiastri, sfumavano i declivi di quel declive paese. Nei pressi di Faux-la-Mon-

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tagne, quando ci inoltrammo nell’altopiano di sfasciu­ mi rocciosi e abeti schiantati su cui le nubi veloci sem­ pre fomentano perdite, quell’altopiano desolato in con­ fronto al quale anche il vecchio Saint-Goussaud sembra ridente, i cumuli di neve si ispessirono ulteriormente: le rocce ne avevano la base coperta, la loro rabbia anti­ ca vi deponeva le armi, e, immusonite sotto la massa dei licheni, ancor più naufraghe di prima, le loro chiglie scuffiate galleggiavano su un mare sporco e immutabi­ le sotto un cielo sporco. La nostra macchina ansimante procedeva beccheggiando tra quei mostri decaduti co­ me una baleniera in Melville; ma niente fuochi di sant’Elmo sui nostri alberi, né, sulla capote della Due Cavalli, un dio parsi spietato ma forse accomodante. All’interno ci abbandonammo ai ricordi, Métraux ac­ cennò una canzone della combriccola (era passato un secolo), evitammo di parlare della piega che le nostre vite avevano preso. Poi rimanemmo zitti. Arrivammo a Saint-Priest-Palus in anticipo. La fattoria dei Bakroot, che ci facemmo indicare, era un po’ fuori dal paese, quasi tra i boschi, in una località chiamata Camp des Merles: una dimora nana da man­ giatori di patate sotto il perenne colosso grigio; la neve sui tetti si scioglieva goccia a goccia; dall’altra parte del­ la strada una modesta pensilina in muratura, di un gri­ gio sconsolante, con manifesti che invitavano a feste da ballo in posti sperduti dai nomi impossibili, segnalava una fermata d’autobus. Era lì, pensai, che si fermava la corriera rossa e blu della domenica, e che un ragazzo dal mento beffardo saltava giù per andare a darsele di santa ragione con la sua vecchia storia, la primogenita delle sue avventure; pensai anche che probabilmente erano spesso andati insieme, a piedi, il sabato dopo mangiato, al ballo di Soubrebost, di Le Monteil-au-Vicomte, avviandosi lungo quella strada e camminando fianco a fianco, con i loro abiti striminziti, le brutte cra­ vatte, gomito a gomito e sfiorandosi a tratti ma senza guardarsi, il passo rabbioso, a scatti, fino alla saletta in­ 106

terna di una bettola tetramente civettuola e addobbata, scossa, come in un delirio da febbre, da un ottone e una fisarmonica, dove entrambi si stagliavano nel vano della porta, stesso mento e colorito batavo, stessa follia fiam­ minga, stessa corta capigliatura trasandata da selvaggio, ma non le stesse occhiate alle fanciulle né la stessa mano sotto le loro gonne, non la stessa lingua, e nella sala su­ daticcia, stordita, festante, il piccolo dongiovanni ri­ morchiava pastorelle sotto lo sguardo dell’altro, per l’altro che faceva tappezzeria, nervosamente, fino al mattino; poi, tornando nel buio a Camp des Merles, il piccolo con sentori di ragazza sulle dita e il grande, for­ se, con il marchio delle proprie unghie sui palmi, anco­ ra gomito a gomito, ancora con passo convulso, si fer­ mavano all’improvviso come un sol uomo e senza met­ tersi d’accordo iniziavano a pestarsi, solo per quella notte. Sul lungo tavolo della cucina fumosa, tra il bricco del caffè e la bottiglia di vino, i nobili e gagliardi beveraggi con cui i contadini ritengono di dover sancire, grazie al calore che dalla bocca si trasmette al corpo per il godi­ mento dell’anima, l’ingenua fede nella propria vita di chi è venuto a rendere omaggio ai morti che non han­ no più sete, era posata una serie di sciaccò, copricapi da ulani o da soldatini di Andersen in altre disfatte inver­ nali. Non c’era nessuno, un fuoco crepitava; aprimmo una seconda porta che dava su una stanza interna umi­ da e gelida, dove ardevano delle candele. Era lì; appog­ giata a due sedie, la bara aperta lo aspettava, ma lui se la prendeva comoda come aveva sempre fatto, esaminan­ do le sue cianfrusaglie o circuendo le ragazze, perché tutti quei perdigiorno dovevano pur vederlo in divisa. Eppure, a giudicare da quella definitiva rigidità che è un’uniforme di diversa perfezione, da quell’anonimo manichino senza più anima, portamento e stile, senza nemmeno il breve gesto con la punta delle dita che ri­ mette a posto un polsino e le lievissime inarcature di cui ci si pavoneggia, avrei scommesso che Rèmi non l’a­ 107

veva portata bene, la sua divisa: via, era pur sempre un galoppino fiammingo intralciato dallo spadino da hi­ dalgo. Sull’attenti, il mento pronunciato era stato pro­ babilmente un po’ ridicolo e inasprito dalla consapevo­ lezza, pétainista, pronto a buttar male: perciò era me­ glio, forse, che i pantaloni scarlatti giacessero lì, sulla grezza trapunta campagnola, e che la giubba di fuliggi­ ne ardente, quella tenebra baluginante nella fiamma delle candele, esistesse ormai soltanto per ricordarmi la nera armatura del Temerario finalmente innocuo, lungo disteso a Nancy. Chissà se ci stava pensando anche Roland, Roland a cui quella divisa era stata in particolare dedicata, il Cretino, che nessuno avrebbe più chiamato così, sedu­ to lì, aspetto spettrale e mento arcigno, a tormentarsi accanitamente con la lingua il dente che quella cosa sdraiata lì aveva un tempo scheggiato. Mi chiedevo se si fossero mai riconciliati, magari anche a mezza voce, se si fossero detti qualcosa all’infuori del loro folle amore, della rabbia ostinata che non riuscivano a trasformare in parole, e che quindi non si erano mai detti, come tut­ to il resto. Roland guardava quel pallore un tempo così vivo e ora così smorto, lo leggeva come un libro, sbalor­ dito e accigliato: d’altronde Rèmi era un libro, adesso. Intorno a quel faccia a faccia, semplici comparse, erano riuniti alcuni allievi ufficiali impacciati il cui incongruo armamentario tintinnava di quando in quando nell’om­ bra, qualche parente dai paesi vicini, i genitori, il padre calvo e fiammingo, la madre inebetita con gli occhioni slavati e fiamminga, entrambi afflitti, disarmati, ma or­ gogliosi di seppellire un cadetto di Saint-Cyr. Non ave­ vano niente di speciale: eppure era lì, tra le gambe in­ daffarate di una coppia di contadini come mille altri, che si era innescata chissà in che modo quella rivalità esclusiva, quel torneo all’antica che aveva innalzato i due fratelli così al di sopra di se stessi, ne aveva fatto dei bambini portati per gli studi, aveva suscitato l’amore di un vecchio professore derelitto per l’uno e l’attrazione 108

per l’altro di tante ragazze, terminando infine, come si conviene, con la morte di uno dei due. L’ora si avvicinava, Rèmi non l’avrebbe sentita suona­ re, ma qualcuno ci stava pensando per lui; gli misero lo sciaccò, sulla cui cupola azzurra il pennacchio ebbe un fremito lieve, di fragile anima che vola via; due commi­ litoni lo presero per le ascelle e per i piedi deponendo­ lo là dentro adagio adagio, con gesti deferenti, come si seppellisce un conte di Orgaz in abito guerriero - ma questo qui, santo cielo, portava la gorgiera davvero ma­ le. Non fu facile sistemare lo spadino: uno voleva met­ terglielo di fianco, ma era più decoroso, sussurrò l’al­ tro, posarglielo tra le mani giunte: cosa che fecero alla meno peggio. Il falegname di Saint-Priest onorò gli ul­ timi termini del contratto, il coperchio opaco raggiun­ se la corretta posizione e lì sotto, quando Roland, leg­ germente chino, smise di vederne la cara ombra, Rèmi scomparve. La madre piangeva, i cadetti, alzandosi in piedi, fecero fremere le loro catenelle; fuori, goccia a goccia, la neve ridiventava pioggia. Non c’è un cimitero a Saint-Priest-Palus, è un posto troppo piccolo; dovemmo trasferirci fino a Saint-AmandJartoudeix, paesino gemello le cui casupole naufraghe navigavano anch’esse tra le rocce; in mezzo al cimitero, sommersa da un cappuccio di neve, c’era una chiesetta come immagino se ne vedano nel Borinage, nella Dren­ the o a Nuenen, paese dei dipinti e della torba. Lì, men­ tre le campane suonavano a morto nel vento pungente, aspettavano in parecchi: tra loro, Jean Auclair, già un po’ impinguato, già esausto dopo solo due anni che fa­ ceva il sensale di cavalli come suo padre; Rivat, il più fe­ dele, il discepolo, che aveva tentato anche lui il concor­ so per Saint-Cyr, gli era andata male e non ne era rima­ sto sorpreso, ma forse ne era sorpreso adesso, per la prima volta: vedeva biancheggiare tutti quei pennac­ chi, quei guanti da comunicande su mani virili, e col pennacchio e in guanti bianchi tipi che non erano più seducenti di lui, e probabilmente neppure più furbi,

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che portavano gli occhiali e celavano mediocri pene d’amore. Nella folla anonima delle contadine con i cappelli neri, i fazzoletti, i ricciolini da capoluogo cir­ condariale, cerimoniose e tutte vecchiotte, dalle nonne che l’avevano visto alto così alle fanciulle che una volta Rèmi rimorchiava al suono di una fisarmonica, come una fiamma sopra quella cenere si stagliava, a busto eretto e aggressiva, una bellissima ragazza dai capelli sciolti, dai capelli, anche lei, di paglia gelata, dalla car­ nagione vittoriana, una rossa da pittore o da canzone sentimentale. La conoscevo, l’avevo vista nei dintorni dell’università, a Clermont; non le avevo mai parlato. I nostri sguardi si attrassero, le feci un vago cenno di sa­ luto e non riuscii a capire se mi rispondesse: tra di noi passavano lentamente quattro cadetti con il loro carico di uomo morto. Roland, che li seguiva, era il più grava­ to. La chiesetta da Borinage si richiuse su tutti noi, sul latino, sulle sedie spostate quando ci si alza e di nuovo ci si siede, sulle strane deambulazioni, sul freddo tre­ mendo e i piccoli oggetti dorati, sul Dies Irae che è ogni giorno. I Bakroot non avevano una cappella di famiglia, la tomba era appena stata scavata: quella fossa e quell’ar­ gine di bella terra fresca, in mezzo alla vecchia neve gri­ gia e alle lapidi dai crocifissi arrugginiti, dai fiori marci, erano primaverili e rincuoranti. Gli stradini, con le loro corde, fecero scendere piano in quelle zolle arate l’o­ pera del falegname, con dentro ciò che non si vedeva. Era un funerale come tutti gli altri, come in Courbet, o in El Greco, a Saint-Amandjartoudeix: il respiro mette­ va sulle labbra agli allievi ufficiali un secondo, piccolo pennacchio; il disotto dei pantaloni scarlatti era inzac­ cherato; le contadine avevano tirato fuori il fazzoletto, la rossa con il busto troppo eretto e un po’ in disparte guardava l’albero impalpabile delle azzurre volute che, laggiù verso il paese, salivano dai tetti, si gonfiavano e svanivano. Due pioppi mischiavano i rami con il vento; un corvo solitario, solcando il cielo da una parte all’al­

no

tra, passò senza un verso. Caddero le prime palate; ai margini della fossa Roland si chinò lestamente, rabbio­ samente, la sua mano lasciò andare qualcosa; Métraux, che gli era di fianco, guardava intensamente ora lui ora ciò che la terra ricopriva; non si sentì più il rumore echeggiante che fa sul legno cavo, ma solo terra su ter­ ra. Era tutto finito. Fummo subito in macchina, dopo i saluti di cortesia fuori dal cancello; mentre ci avviava­ mo, vidi che Roland era tornato laggiù da solo, sulla tomba, postumo, ma diritto e ben piantato come uno che sta picchiando: romanzescamente, scioccamente, pensai a un capitano visibile per l’ultima volta sulla sua balena bianca, già inabissata sotto di lui. Durante il ritorno, tra le baleniere scuffiate e i mostri senza vita, Métraux mi disse d’un tratto con voce stra­ na: « Ti ricordi le illustrazioni che Rèmi aveva strappato dal Kipling, tanto tempo fa? ». Altroché se me le ricor­ davo!... «Roland, poco fa, le ha gettate nella fossa». Prima che superassimo l’altopiano la neve ricominciò a cadere, dapprima avaramente, poi ben presto a fiocchi grandi e fitti: il mondo scomparve. Sono scampato io solo che ti racconto questo.

Ili

VITA DI PÈRE FOUCAULT

Eravamo all’inizio dell’estate, nei primi anni Settan­ ta, a Clermont-Ferrand. La mia breve permanenza nel mondo del teatro si stava concludendo; la compagnia si era sciolta, alcuni erano stati scritturati altrove, altri, co­ me me, aspettavano da chissà quale cambio di vento un balzo a piè pari nel proprio destino. Marianne ed io eravamo rimasti, da soli, nella grande casa che chiama­ vamo « la Villa » e in cui fino a poco tempo prima abita­ vamo tutti insieme, sulla collina, in fondo al lungo giar­ dino; le ciliegie erano ormai vizze; l’ombra calda e ra­ mata del grande ciliegio invadeva gli abbaini del primo piano, dove vivevamo; in quell’ombra ardente spoglia­ vo Marianne lentamente, nella fornace la esploravo, la gettavo sull’impiantito biondo cotto dal torpore dei giorni; fra quei riverberi intrecciati, i chiaroscuri trop­ po rosei delle sue cosce assumevano le tinte di certi Renoir in cui, violentemente esibito nello splendore di un sole ma ancora prigioniero di una mezza luce pa­ glierina da covone, il modellato color malva delle carni spicca più nudo per le ombreggiature dorate, di grano purpureo; la veemenza delle mie mani, il giubilo delle sue contorsioni e la sfrenatezza della sua bocca faceva­

no

no fremere infinitamente quella carne e quelle sfuma­ ture, l’una e le altre opulente: le grida di Marianne dal­ la gonna sollevata, il sudore e la penombra densa sono quanto mi è rimasto impresso di quell’estate, prima dell’episodio che sto per raccontare. Marianne aveva accettato non so più quale lavoro temporaneo sottopagato, per tutta l’estate; così aveva­ mo un po’ di soldi. Forse stanchi di mescolare i nostri sudori, una sera uscimmo; forse Marianne si ricorda quel pomeriggio declinante e le esili forme che il tem­ po vi assumeva, il mio volto cangiante, in cui ombra e luce si alternavano mentre passavamo sotto i tigli della piazza principale, una frase che dissi, la mia occhiata verso l’eminente presenza del Puy de Dòme, che col crepuscolo si fa violacea; ho dimenticato tutto; ma mi ricordo, e anche lei di certo si ricorda, che avevo in ma­ no un libro comprato proprio quel giorno, il Gilles de Rais di un grande autore, e si ricorda la copertina di un rosso scuro, di sobrio splendore da strenna. Cenammo in un ristorante di rue des Minimes, che la sera si popo­ la di presenze truccate, sguardi ombrosi che filtrano dall’ombra di un androne, tacchi duri e sonori. Bevvi parecchio; portai a termine l’operazione con l’ausilio di numerosi bicchieri di verbena del Velay, liquore da frati, verde come una fontana di Chassériau, febbrile, vischioso, e dagli effetti subdoli. Uscii ubriaco nella notte; Marianne era preoccupata, l’occhio indifferente delle prostitute ci seguì fino in fondo alla via buia; la luce dei viali del centro mi irritò. Vagabondammo da un bar all’altro, mentre la stizza cresceva in me con l’impedimento dell’eloquio, sempre più vischioso, per­ duto nell’ombra, sonoro; mettevo me stesso alla gogna: se nemmeno la mia lingua riusciva più a padroneggiare le parole, come avrei mai potuto scriverle? Via, meglio il puro abbrutimento, gin fizz e birra, meglio tornare sui «sentieri di qui, chino sotto il mio vizio»: se biso­ gnava morire senza averne scritto, che fosse almeno nella più ottusa esuberanza, nella caricatura delle in-

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sulse funzioni vitali, nell’ebbrezza. Marianne mi ascol­ tava costernata, e il suo sguardo immenso mi serrava la bocca. Al bar La Lune, i neon di un rosa da biancheria inti­ ma che facevano bruscamente risaltare i volti con colo­ ri piatti da maschera mortuaria, le sedie orrende e i po­ sacenere straripanti portarono all’estremo la mia rab­ bia; stavo scappando; ero, malferma, quella sedia di formica e, vivo, quel cadavere, quando aprii la porta della Brasserie de Strasbourg; avevo ancora il Gilles de Rais. All’interno, passando con smorfie da giullare da un tavolo di sghignazzanti parrucchiere a un altro di compiacenti operaie in posa da odalisca, uno spaccone dava spettacolo; era giovane, aitante, e sfoggiava in ci­ ma al completo uno sguardo vanesio da sciupafemmine; la sua boria era innocua. I frizzi laboriosi da dongio­ vanni di bassa lega, il favore del pubblico femminile, che con quei visi truccati e quei risolini sfrenati mi ecci­ tava e irritava insieme, la conclone che teneva, ostenta­ tamente maliziosa e troppo malcelata sotto una grosso­ lana astuzia perché non ne venisse smascherata l’oppri­ mente miseria, tutto questo deviò il corso della mia collera. Sorrisi; l’ira si rallegrava di poter finalmente distogliersi da me per concentrarsi, meno violenta e co­ me impietosita, su un altro bersaglio: presi la parola. Ero seduto in fondo alla sala, in una lieve penombra; il bellimbusto si esibiva vicino al bar, in piena luce; par­ lavamo entrambi, uno dopo l’altro, a voce molto alta e teatrale, in una complicità astiosa. A denti stretti e fa­ cendo finta di non sentirmi, lui continuava imperterri­ to il suo numero; ma lo continuava senza rete, e ormai parlava solo per porgere la gola alla mia censura: non c’era infatti suo strafalcione che io, impettito come un sorvegliante di collegio, non correggessi con qualche esclamazione; non una delle sue frasi in sospeso che io non completassi in senso grevemente cinico; non una delle sue allusioni di cui non rendessi espliciti gli an­ nessi - l’appetito per la carne grassa delle parrucchie-

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re - e i connessi - l’auspicato possesso di quella carne. Probabilmente ero ubriaco, e le mie parole avevano as­ sunto il tono adeguato, pastosamente intempestivo e pieno di sé; eppure colpivo nel segno; sapevo benissi­ mo in che modo ferire il chiacchierone e il suo deside­ rio poiché quei rudimentali appetiti erano anche i miei, e mio quell’abuso del linguaggio sviato da se stes­ so e avvinto dalla carne come dal sole il tropismo dei fiori, abuso che forse è il suo uso vero e proprio. Gli uomini si assomigliano un po’ tutti. Come me, quello avrebbe voluto piacere grazie al dono delle parole e, ispirato dal vermiglio di una bocca e dal bianco di una spalla messi in risalto dai neon, scriveva una maldestra lettera d’amore, improvvisava il madrigale con cui si turba la donna indifferente; e forse la turbava, o l’a­ vrebbe turbata, se io non avessi guastato quell’innocen­ te festa, se non fossi incongruamente entrato in scena con la mia puntigliosa ubriachezza e il mio libro chic, e non avessi recitato una parte piena di acredine, arro­ ganza, dispotico furore; aveva trovato in me colui che smonta qualunque discorso fingendo di sovrastarlo, che confuta l’opera innalzando capziosamente bocca e mente al di sopra della bocca e della mente che per l’o­ pera faticano: voglio dire il lettore esigente. E, come a volte accade, proprio a questo lettore or­ mai si dedicava, inanemente; per quell’ombra detesta­ bile lasciava scappare le sue belle prede; era come il re di una tragedia classica che, a causa di un errore nel copione, avesse sentito il corifeo raccontare su quali odiose ceneri, su quale trono d’argilla era fondata la sua precaria sovranità - e intanto anche le suddite udi­ vano l’inopportuna voce fuori campo. Le ragazze, che mi lanciavano sguardi irati e sprezzanti, sembravano ancora sue complici, certo: ma non erano più la sua corte, lui era decaduto, aveva bisogno del loro soste­ gno, il sultanesco incantesimo si era spezzato. Avrei scoperto solo a sbornia passata che gli dèi non mi aveva­ no affatto assegnato un ruolo tanto prestigioso: un cori-

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feo che entri in scena e apostrofi il re, mostri la fragilità della corona per meglio posarla sulla propria testa e si­ muli l’onniscienza per usurpare il posto dell’usurpatore, cessa di essere un corifeo per diventare un antagoni­ sta, e del tipo più comune. Ma l’ubriachezza mi dava un facile vantaggio; ero immerso in uno stato di acida bea­ titudine. Quella beatitudine non durò molto; continuai a bere e ciò che sopravviveva della mia mente sarebbe appena bastato a piantare ancora qualche banderilla. Del resto, il nostro uomo si dileguò nell’afosa notte estiva: non lo vidi uscire, ma solo la folata di buio fitto nel vano della porta che si richiudeva. Rimasi inebetito; presto anche le ragazze si precipitarono nella notte. Una di loro, con lunghi capelli di un bel castano e gioielli di strass, aveva sulla bocca un residuo di infanzia sotto la marcata volga­ rità del trucco; tornò dentro per prendere una borsetta o un guanto dimenticati: i gesti bruschi rivelavano la bassa estrazione, e la vistosa disinvoltura il vano sforzo di affrancarsene; poteva essere cresciuta tra un pozzo e un folto di nocciòli, come se ne vedono a Les Cards, e qual­ cuno, in campagna, adesso pensava a lei; evitò il mio sguardo. Probabilmente non era poi così spregevole: quella carne aveva dei ricordi, avrebbe pianto dei mor­ ti, visto infrangersi i suoi sogni; e non mi sarebbe mai appartenuta. La sbornia si fece meno cattiva, sprofon­ dai deliziato nell’indulgenza. Quando gli altri furono usciti, mi sembra che restassi­ mo ancora a lungo in quella brasserie, Marianne era stremata e io sentimentale. La mia ebbrezza di prima era ormai una solenne sbronza, di quelle che spianano qualsiasi caratteristica individuale a vantaggio di una cupa metafisica comune a tutti gli uomini, e che avevo visto trasformare in fantocci mugugnanti, la domenica sera, i braccianti di Mourioux. Avevo dimenticato l’in­ cidente; o meglio ne conservavo, appeso nei recessi del mio stordimento, solo un fondale di rimorso e di igno­ minia, uno scenario da segreta o da Bocca dell’Inferno

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in cartapesta sul cartone dipinto della notte. Marianne aveva il difetto di ascoltarmi troppo; e forse fu per lei, testimone e giudice pronto ad assolvermi preliminar­ mente, che mi impegolai in una complicata palinodia, indulgente e scaltra, proclamando la mia innocenza; volevo che lei me ne desse conferma: non avevo aggre­ dito quell’uomo; non sentivo anzi, per lui come per me, una compassione infinita? E quella compassione non era stata l’unica ispiratrice delle mie astiose repli­ che? Non eravamo allo stesso modo sventurati utenti delle parole, parole che maneggiavamo con troppa im­ perizia perché diventassero a nostro uso l’arma eccelsa che colpisce sempre il bersaglio, per lui la capitolazio­ ne della carne e per me la chiusura di un libro? A lui sfuggiva la bianca carne, a me sfuggivano, non meno, i fogli ancora bianchi del mio libro ahimè inarrivabile; né lui né io avremmo coperto l’una e gli altri nottetem­ po, roca voluttà o parole scritte: non conoscevamo le parole d’ordine. La memoria non è in grado di restituire fedelmente i torbidi capricci dell’ubriachezza, e nello sforzarsi si stan­ ca. La faccio breve. Uno sbalzo d’umore improvviso mi portò ad attaccar briga con il barista, che mi cacciò con ruvidezza ma senza arrabbiarsi. Camminammo, forse verso un altro bar; ero madido di sudore, inappagato sotto il cielo di pece. A un centinaio di metri da lì l’uo­ mo mi stava aspettando. Senza dar segni di livore, il vol­ to di marmo, mi intimò con voce sorda di « fornire spie­ gazioni»; ne ero ben contento; indicai beffardo il caffè più vicino, dove avremmo potuto parlare più comoda­ mente: il Commendatore gradiva un bicchierino? Offri­ vo io. Un pugno di pietra mi colpì in faccia. Non battei ciglio; l’alcol, del resto, mi rendeva insensibile. Ma par­ lai: non so quali parole udisse, ricacciandomele in boc­ ca l’una dopo l’altra; i suoi pugni erano per me un bal­ samo, le mie parole e le mie risate, credevo, erano per lui una graticola; esultavo: lo schiavo si riconosceva ta­ le, dava una muta rappresentazione dell’impotenza del 118

suo verbo; per asservirmi doveva far entrare in scena l’opacità del corpo; ammetteva la sua sudditanza nello stesso modo in cui un contadino accoppa il suo re. Cad­ di a terra; il sangue sprizzò attraverso le parole; a calci, infierì sul mio volto contorto dal dolore e dalle risate: immagino che mi avrebbe ucciso, e forse volevo che lo facesse per sancire la nostra comune vittoria, la nostra comune sconfitta. Prima di svenire vidi il volto sgomen­ to, il volto afflitto di Marianne, rannicchiata contro il muro nel suo vestitino di tela malva che mi piaceva tan­ to: non ero un re più di quanto il mio aggressore fosse un maiale; pativamo insieme sotto uno sguardo soffe­ rente; avevamo paura. Non mi uccise. Ma con il tacco mi stava colpendo an­ cora la faccia insensibile e finalmente muta, quando passò una provvidenziale pattuglia di polizia (il mio corpo è sempre stato fortunato, e la sopravvivenza ga­ rantita, sfortunata è invece la mia vita come la descri­ vo). Ripresi conoscenza tra i tavolini all’aperto, deserti e spettrali a quell’ora, del bar più vicino; ero aggrap­ pato a Marianne; la luce spiovente dall’alto dissolveva nell’ombra i volti degli agenti sotto la visiera affilata dei képi; le catenelle e i galloni luccicavano, le facce d’om­ bra mi offrivano tratti indecifrabili. Un barista, diavo­ letto bianco e nero, mi stava facendo bere del cognac; un po’ del mio sangue gli macchiava il tovagliolo; i lam­ pioni della piazza tendevano verso le stelle alte braccia­ te di foglie di tiglio, dorate e verdi come l’erba e il pa­ ne, di una grande dolcezza. Ero in pace, non capivo niente e non me ne preoccupavo più di tanto, bramavo il sonno; godevo dell’usufrutto sulla mia morte. Mi pro­ posero di sporgere denuncia; rifiutai senza acredine: probabilmente non ero ferito in modo grave, l’indo­ lenzimento del volto, sommato all’ubriachezza, mi con­ feriva una maschera estatica; e poi addussi il pretesto che conoscevo quell’uomo, che eravamo più o meno amici. I poliziotti non insistettero. Un taxi ci portò alla Villa. 119

Al mio risveglio vidi Marianne china su di me; pian­ geva; aveva l’espressione, incredula e inorridita più di quanto si possa esprimere, con cui un torturato guarda il suo corpo dopo il supplizio della ruota, dopo le maz­ zate. La giornata fu insopportabile, avevo un tremendo mal di testa. Un lampo di terrore mi raggelò: chi avevo ammazzato? Rimasi fermo, impietrito, mentre Marian­ ne cullava sopra di me il suo dolore. Poi mi tornarono in mente i cazzotti della sera prima; rassicurato mi al­ zai, arrivai barcollando fino a uno specchio. Dal vetro mi guardava un eteroclito capriccio, una semifaccia da cretino: la parte sinistra del volto era un otre, panciuto e violaceo, abominevolmente percorso dallo squarcio dilatato, purulento, della palpebra. La guancia e l’oc­ chio destro erano intatti, come se tutto il male - « i miei peccati » - fosse affluito verso il lato sinistro con il deli­ rante proposito di incarnare la confessione, in una tumescenza da diavolo di architrave romanico. E romani­ ca era quella pia ferita, manichea, rozzamente simboli­ ca, di una logica grottesca: rubate a un uomo le sue parole, gliele avevo restituite snaturate; in cambio lui aveva snaturato il mio corpo, ed eravamo pari. La rice­ vuta l’avevo stampata in faccia. Mi buttai sul letto chiedendo scusa a Marianne, ac­ carezzando tremante quel caro volto che le nostre ri­ spettive sofferenze mi rendevano più caro. Avevo vo­ mitato sul cuscino, su cui mi ricoricai; poco importa­ va: lei mi parlava come a un bimbo, mi dava una pace che non è di questo mondo (riuscirei mai a spiegare che i suoi gesti erano così teneri da risultare malde­ stri?); tutto, nella sua bocca e nelle sue mani, si tra­ sformava in rose, come accade alle pietà italiane e ai magnaccia di Jean Genet. Quel pomeriggio fui ricove­ rato in ospedale; orbita e zigomo avevano subito una frattura. L’occhio, miracolosamente integro, poteva es­ sere salvato. Mi mancava qualcosa. Pollicino supponente ed eru­ dito, avevo seminato strada facendo il Gilles de Rais. 120

Un beato stordimento avvolse i primi giorni di ospe­ dale. In quello stato semicomatoso sembrava che la mia ebbrezza non dovesse finire mai; stavo smaltendo la più lunga delle sbronze, ed era un bene. Mi operarono; pro­ babilmente non mi anestetizzarono abbastanza, dato che avvertii l’azione dei trapani sull’osso della guancia; il tutto però senza dolore, come nel mezzo di un labile sogno in cui avessi presenziato alla mia stessa autopsia, benigna e reversibile, per mia edificazione; mi aprivano come un libro e come tale io mi leggevo, a voce alta e confusa, per somma gioia degli studenti di medicina di cui sentivo le risate. Ero nel Bardo Thödol, sotto i denti e gli artigli delle dee che si pascono di teschi; e come al « nobile figlio » del Bardo, benevole voci mi sussurrava­ no che era tutto illusione, che l’impalpabile estate là fuori aveva più consistenza del mio corpo, il mio corpo reso meno illusorio solo dall’ubriachezza, dal moltepli­ ce corpo dei libri, dalla carne eucaristica di Marianne. Mi misero in una corsia, aperta su un cortile interno in cui c’erano ancora dei tigli in fiore, come nella piaz­ za in cui ero stato pestato; la luce dorata si moltiplicava in un filtro dorato. Le api prediligono quegli alberi suc­ culenti; e il loro possente ronzio, amplificato dalla sera, pareva la voce stessa dell’albero, la sua aura di podero­ so splendore: così doveva essere il brusio degli angeli di fronte a Ezechiele prosternato. Anche l’obitorio dava sul cortile: ogni tanto, coperta da un lenzuolo, transita­ va una figura stesa, su cui i barellieri scherzavano con i degenti attraverso la finestra spalancata; non c’ero io sotto quel lenzuolo, i miei occhi vedevano l’estate, po­ tevo parlare dei morti a piacimento. Ho serbato di quei giorni un ricordo di profondo incanto. Leggevo il Gilles de Rais, che Marianne aveva rintracciato - proprio il ba­ rista da cui ero stato messo alla porta me l’aveva gentil­ mente custodito. Pensavo all’estate della Vandea, che in quel momento surriscaldava le rovine del castello di Tiffauges, all’erba alta non diversa da quella che l’Or­ co, un tempo, aveva calpestato, ai rivi argentei costeg­ 121

giati da giovani alberi sotto i quali aveva versato lacri­ me, di pentimento e di orrore. Nulla, per la lettura di una simile storia, era adatto quanto la vicinanza delle carni sofferenti tra le lenzuola sbiadite, sotto il riso vit­ torioso di luglio: la stupidità trionfante delle infermie­ re mi faceva assolvere Gilles; l’angelica pazienza di al­ cuni moribondi me lo faceva dannare. In Marianne china su di me piangevano tutti i bambini sgozzati, e quelli sopravvissuti gioivano nel suo riso; dentro di me orchi indefiniti, velleitari, espiavano mediocri festini. Marianne veniva ogni pomeriggio. Voltava le spalle alla corsia e si sedeva accanto al letto, in modo che sotto la gonna leggera la mia mano potesse a lungo contur­ barla, all’insaputa dei vicini, e che il mio sguardo man­ tenesse aperte le sue gambe, socchiuse le sue ciglia: in quel piacere protratto continuava, per così dire, la mia lettura. Ma non c’era solo ardore; parlavamo allegra­ mente, anche, e dovevamo sembrare due spensierati piccioncini, i cui trastulli distraevano o irritavano i miei fortuiti compagni, tutti più vecchi di noi. Un giorno uno di loro, avvicinatosi al mio letto, rivolse a Marianne qualche parola che non riuscimmo a capire, con una vo­ ce impacciata e precipitosa da uomo timido, che una malattia alla gola rendeva ancor più flebile; ripetè, in­ coraggiato dal garbo di Marianne. Finalmente capim­ mo: aveva bisogno di contattare il principale; non sape­ va usare il telefono: poteva Marianne dargli una mano facendo lei la chiamata? Li guardai allontanarsi, la giovane chiacchierina che prendeva sotto la sua ala il vecchio impedito. Quest’ul­ timo mi aveva incuriosito fin dal primo giorno, ma non avevo mai osato rivolgergli la parola: la sua mite tacitur­ nità mi metteva soggezione. Per quel suo desiderio di non essere notato, comunque, risultava fra tutti l’unico notevole. Non si univa alle insipide conversazioni della camerata; ma se gli facevano una domanda rispondeva di buon grado, con una premura e una stringatezza in­ variate, disarmanti. Non rideva più di tanto agli scherzi; 122

ma nemmeno li disdegnava: semplicemente se ne tene­ va in disparte, senza ostentazione, come se non fosse una questione di volontà e qualcosa di ignoto, di più forte o più antico di lui lo separasse dal comune degli uomini. Quando lo distoglievo dal libro, era a lui che rivolge­ vo lo sguardo; di nuovo a lui, se prima mi capitava di se­ guire con gli occhi la figura, vistosa e desiderabile, di un’infermiera. Occupava il letto vicino alla finestra; in­ cantato dalla luce, o dai ricordi che per lui solo nella luce fluttuavano, rimaneva seduto ore intere con la fac­ cia rivolta al sole. Per lui, forse, brusivano gli angeli, e lui tendeva le orecchie alla loro musica; ma la bocca non commentava le parole d’oro e di miele, la mano non trascriveva alcun verbo di abbagliante notte. I tigli proiettavano ombre rapide, frementi, sulla sua testa calva e sempre attonita; studiava le mani rozze, il cielo, ancora le mani, e finalmente la notte; si coricava stordi­ to. L’uomo seduto di van Gogh non è più grevemente oppresso dal dolore; ma è più compiacente, patetico, certamente meno discreto. (Van Gogh? Certi dotti letterati di Rembrandt, parimenti infinestrati, inchiodati al loro scanno d’ombra ma con il volto inondato dalle lacrime del giorno, e pa­ rimenti sbigottiti dal proprio impotere, gli somigliano di più; ma sono dei letterati; il vecchio, a giudicare dai pantaloni di velluto e la giacca di bigello, e anche dalla mimica impacciata, apparteneva al popolino). Si chiamava Foucault, e le infermiere, con la familiari­ tà indelicata, condiscendente ma forse pure caritatevo­ le che è tipica del loro tratto, lo chiamavano «père Foucault». Con il cognome di un filosofo alla moda e di un illustre missionario - anche lui « padre » - appiccica­ to addosso, il vecchio sembrava ancora più oscuro, e in­ duceva al sorriso. Non ho mai conosciuto il suo nome di battesimo. Proprio da quelle infermiere (ero entrato nelle loro grazie; mi parlavano senza alcuna diffidenza: utilizzavo probabilmente le stesse ciance brillanti, se­ 123

ducenti e vuote dei potenti che sono abituate a riverire senza pudore; non immaginavano che un tale eloquio può mettersi al servizio del rifiuto verso ciò che idolatra­ no, dell’assenza colpevole, del dissolvimento in una stiz­ zosa negligenza; non avevo bisogno, del resto, di essere così duplice; anch’io, forse, avevo un debole per loro: se non ne tolleravo l’acerbo conformismo, la loro carne e le loro debolezze mi piacevano; e sarebbero state per­ fino brave ragazze, non fosse per quel ruolo di sbirre che tanto più le faceva chinare, deferenti, di fronte ai luminari in camice bianco quanto più erano viperine, protettive e beffarde con i più umili malati), da quelle ragazze, insomma, venni a sapere che père Foucault aveva un cancro alla gola. Non si trattava di una forma fatale, per il momento; ma inspiegabilmente il malato si rifiutava di essere portato a Villejuif, dove avrebbero potuto salvarlo: impuntandosi a rimanere in quell’o­ spedale di provincia, dove le attrezzature erano inade­ guate, firmava la sua condanna a morte. Nonostante i numerosi ammonimenti, aveva tutta l’intenzione di ri­ manere lì seduto, girando le spalle alla morte che si ad­ densava negli angoli d’ombra, rivolto verso i grandi al­ beri chiari. In quel rifiuto c’era qualcosa che mi incuriosiva; la resistenza del vecchio, necessariamente, doveva fon­ darsi su una strenua volontà, e su profondi motivi: oc­ corre ostinazione per sottrarre il proprio corpo agli im­ perativi medici, a pressioni molteplici e insidiose, sicu­ re di avere la meglio. Ma io pensavo a ragioni banali, come il desiderio di non allontanarsi dai suoi, o a un sentimentale, ottuso radicamento da contadino, atteg­ giamenti tutti che negli ospedali sono assai frequenti. Invece cominciò presto a trapelare dell’altro; Marian­ ne, grazie alla conversazione telefonica, cui a breve ne seguirono diverse altre durante le quali fece di nuovo da tramite a père Foucault, aveva carpito certi dettagli: pareva che il malato non avesse legami familiari stretti, ma anche che il suo principale, giovane proprietario di

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un mulino nella vicina campagna, gli volesse un gran bene; questi sembrava soprattutto ansioso di rassicurare il vecchio su un punto a prima vista irrilevante: « aveva debitamente compilato i documenti», e insisteva, nel caso ci fossero da riempire altri moduli, affinché lo av­ vertissero, in modo da poter essere a Clermont in tem­ po utile. Poi, dopo che il favore reso ebbe creato tra noi un inizio di dimestichezza (ma da parte sua tanto esitan­ te e parsimoniosa quanto premurosa, intimidita da par­ te mia), venni a sapere dalla bocca stessa del vecchio che aveva preso moglie quando forse lo chiamavano an­ cora « il ragazzo Foucault », ma era rimasto vedovo mol­ to giovane, e non aveva figli. Né aveva maggiori legami con un paese d’origine immaginario: nativo della Lore­ na, garzone di mugnaio in qualche angolo del Midi, al­ la fine era capitato lì, forse per via di quella smania di muoversi indotta nel popolino da dicerie allettanti e inverificabili, o da una parentela tra datori di lavoro, o da un fortuito caso domestico. Perché dunque, se non era il trasferimento a spaven­ tarlo, si rifiutava di esser curato con tutti i crismi? Rima­ neva dov’era, esile figura appartata che sembrava anti­ cipare la propria scomparsa, e che sarebbe risultata insignificante se non le avessero conferito statura l’in­ disponente segreto, la nobile assurdità di quella fer­ mezza, la fatalità della scadenza - ciò che il vecchio con­ templava era l’arcano schiudersi della morte, popolata o meno di angeli, e gli oggetti del suo sguardo stupito erano colti da un analogo stupore: il profuso cortile con i tigli vibranti, su cui si apriva l’obitorio dai lindi smalti, fuori luogo quanto un lavandino in una sala di rappresentanza, si mutava in un paesaggio esemplare nel quale anch’io sprofondavo. Tutto, perfino il libro che leggevo, era popolato da tanti pére Foucault che con sguardo enigmatico, togliendosi il cappello, si face­ vano ributtare come stracci senza valore ai margini di un viottolo dal «bada, villano! » di un cavaliere borioso e triste, lanciato al galoppo in direzione di Tiffauges 125

con un fanciullo terrorizzato di traverso alla sella; e fra loro uno solo, quello che sembrava il più rassegnato, restava in mezzo al sentiero, il cappello tra le mani umi­ li, guardava il cavaliere avventarsi su di lui bestemmian­ do e si accasciava per sempre nell’erba, con un sangui­ nante ferro di cavallo stampato sulla tempia. Anche lui sbarrava la strada ai dottori, non meno deferente dei suoi avi quando passava il tenebroso squartatore vande­ ano; ai nuovi vivisettori, ma senza piacere o rimorso, questi ultimi, senza rogo all’orizzonte né speranza di riscatto, opponeva un’umile e sorridente protesta; in maniera garbata eppure inflessibile, disdegnava di es­ sere portato dove « il suo bene » imponeva che andasse: di quel « bene », lui era troppo poca cosa per possedere la chiave che altri detenevano, e il cui uso gli additava­ no come un autentico dovere; eppure non mollava, si sottraeva a quel dovere, si abbandonava corpo e beni a quel peccato capitale, lo spregio per il corpo ed i suoi beni, che per il dogma medico è peggio di un’eresia. Voleva render conto solo alla morte, e declinava cortesemente le profferte del suo clero. I chierici, così, lo assillavano tutti i giorni. Una matti­ na fui strappato alla mia lettura dall’ingresso, teatrale come quello dei comandanti di una ronda di notte con relativa soldataglia, di una delegazione più cospicua del solito, che puntò direttamente verso il letto di père Foucault: un dottore dai lineamenti affilati, magistrale e sussiegoso come un grande inquisitore, un altro più giovane e atìetico ma un po’ molliccio con quella sua barbetta, un codazzo di interni, uno sciame di infer­ miere pigolanti; avevano mandato la congrega al com­ pleto per convertire il vecchio relapso; eravamo ormai all’ultimo interrogatorio, alla tortura. Père Foucault se ne stava seduto al solito posto; si era alzato, l’avevano fatto sedere di nuovo; e il sole, mentre lasciava nella pe­ nombra i volti ciancianti dei medici rimasti in piedi, ir­ raggiava la sua testa dura e la bocca ostinatamente sigil­ lata: pareva che i dottori della Lezione di anatomia si fos­

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sero trasferiti su un’altra tela, accalcandosi nell’ombra dietro V Alchimista alla finestra e occupando lo spazio consueto del suo raccoglimento con le loro possenti presenze inamidate e bianche, con il vocio del loro sa­ pere; lui, intimorito da quell’attenzione inusuale che gli veniva accordata e imbarazzato di non poterla ri­ cambiare, non si azzardava a guardarli più di tanto, e con rapide, nervose occhiate sembrava chiedere consi­ glio ancora una volta ai tigli, all’ombra calda, alla fresca porticina, familiari immagini che lo rasserenavano. Nel­ lo stesso modo, forse, sant’Antonio guardava il croci­ fisso e la brocca della sua capanna; giacché probabil­ mente erano quasi riusciti a turbarlo, se non a convin­ cerlo, quei tentatori che gli parlavano di ospedali pari­ gini splendidi come palazzi, di guarigione, delle perso­ ne ragionevoli e delle altre che per pura ignoranza non lo sono; del resto il primario era sincero, aveva cuore, malgrado la professionale sufficienza e la maschera da capitano di ventura, e il vecchio testardo gli era simpati­ co. Più che agli argomenti della ragione, mi piace pen­ sare che père Foucault si sentisse in dovere di risponde­ re appunto a questa simpatia. Già, perché rispose; e la sua risposta, per quanto breve, fu più illuminante e de­ finitiva di un lungo discorso; alzò gli occhi verso il suo torturatore, sembrò vacillare sotto il peso di uno stupo­ re perennemente rinnovato e accresciuto dal fardello di ciò che stava per dire, e, con lo stesso movimento di entrambe le spalle che forse faceva per scaricare un sac­ co di farina, disse in tono afflitto, ma con voce così stra­ namente limpida che tutta la corsia lo sentì: «Sono analfabeta». Mi lasciai andare sul cuscino; una gioia e un dolore inebrianti mi avvinsero; fui pervaso da un sentimento infinitamente fraterno: in quell’universo di sapienti e di parolai c’era qualcuno, forse qualcuno come me, che personalmente riteneva di non sapere nulla, e che 127

di questo voleva morire. Nella corsia d’ospedale echeg­ giarono canti gregoriani. I dottori si dispersero come un volo di passeri entrato per errore o stoltezza sotto le volte, e messo in fuga dal­ la monodia; umile cantore da navata laterale, io non osavo levare lo sguardo sul maestro di cappella inflessibile, misconoscente e misconosciuto, il cui canto era reso più puro dall’ignoranza dei neumi. I tigli fruscia­ vano; all’ombra delle loro floride colonne, tra due ilari portantini, un cadavere si spostava sotto il drappo fune­ bre verso l’altare maggiore della camera mortuaria. Père Foucault non sarebbe andato a Parigi. Già quel­ la città di provincia, e probabilmente il suo stesso villag­ gio, gli sembravano popolati da eruditi, fini conoscitori dell’animo umano e fruitori della sua moneta corren­ te, che si scrive; maestri, venditori porta a porta, medi­ ci, addirittura contadini, tutti sapevano, firmavano e decidevano, a gradi diversi di millanteria; e tale sapere, che gli altri possedevano in maniera così lampante, lui non lo metteva in dubbio. Può darsi che chi è capace di scrivere la parola « morte » conosca, della propria mor­ te, perfino la data. Soltanto lui non ci capiva niente, e poco decideva; quell’imperizia vagamente mostruosa gli pesava, e forse non aveva tutti i torti: di certo, la vita e i suoi glossatori autorizzati gli avevano rivelato con chiarezza che essere analfabeti oggi è in qualche modo una mostruosità, mostruosa anche solo da confessare. Come sarebbe andata a Parigi, dove ogni giorno avreb­ be dovuto ripetere quella confessione, senza nemmeno accanto un giovane principale premuroso che compi­ lasse i famigerati, temibili « documenti »? Quali nuove mortificazioni sarebbe stato costretto a mandar giù, lui, incolto come nessuno, e vecchio, e malato, in quella cit­ tà dove perfino i muri erano dotti, i ponti carichi di sto­ ria e incomprensibili le insegne e le merci dei negozi, quella capitale dove gli ospedali erano parlamenti, i medici luminari agli occhi dei luminari di qui, e l’ulti­ ma delle infermiere Marie Curie? Che fine avrebbe fat-

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to in tali mani, lui che non riusciva neppure a leggere il giornale? Sarebbe rimasto qui, e ne sarebbe morto; forse lag­ giù l’avrebbero guarito, ma a prezzo della sua vergo­ gna; soprattutto non avrebbe espiato, sontuosamente pagato con la morte, il delitto di non sapere. Una simi­ le visione delle cose non era poi così ingenua; mi illu­ minava. Anch’io avevo ipostatizzato il sapere e la lettera in categorie mitologiche da cui ero escluso: ero l’anal­ fabeta solitario ai piedi di un Olimpo sul quale tutti gli altri, Grandi Autori e Lettori esigenti, leggevano e crea­ vano con disinvoltura ineguagliabili pagine; e la lingua divina era inaccessibile al mio birignao. Anche a me dicevano che a Parigi mi aspettava forse una sorta di guarigione; ma mi rendevo conto, ahimè, che se vi fossi andato a proporre i miei immodesti e stri­ minziti scritti ne avrebbero immediatamente smasche­ rato la spocchia, avrebbero capito che ero in qualche modo «illetterato»; gli editori sarebbero stati, per me, ciò che sarebbero state per père Foucault le inflessibili impiegate con il dito di marmo puntato sui vertiginosi spazi bianchi di un modulo: custodi di porte, Anubi on­ niscienti dai lunghi denti, editori e impiegate ci avreb­ bero svergognati entrambi prima di divorarci. Dietro l’imperfetto trompe-l’œil della lettera, avrebbero intui­ to che ero colmo di insipienza, caos, analfabetismo pro­ fondo, iceberg di fuliggine la cui punta era solo uno specchietto per le allodole; e avrebbero fustigato il ciar­ latano. Sarebbe stato necessario, affinché mi ritenessi degno di affrontare Anubi, che la parte immersa fosse anch’essa levigata di parole, perfettamente ghiacciata come l’inalterabile diamante di un dizionario. Ma ero vivo; e poiché la mia vita non era un verbario, poiché an­ cora non afferravo la lettera di cui avrei voluto essere co­ stituito da capo a piedi, mentivo fingendo di essere uno scrittore; e punivo quell’impostura, disintegravo le mie poche parole nell’incoerenza dell’ubriachezza, aspiravo al mutismo o alla follia, e scimmiottando « l’orrenda ri-

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sata del demente» mi dedicavo, nuova menzogna, ai mille simulacri del trapasso. Père Foucault era più scrittore di me: all’assenza del­ la lettera preferiva la morte. Io, invece, a malapena scrivevo; né osavo morire; abita­ vo la lettera imperfetta, la perfezione della morte mi ter­ rorizzava. Eppure, come père Foucault, sapevo di non possedere nulla; ma, come il mio aggressore, avrei volu­ to piacere, vivere ingordamente di quel nulla, sempre che ne celassi il vuoto dietro una nube di parole. Il mio posto era proprio accanto a quello smargiasso di cui tanto a proposito mi ero riconosciuto rivale, e che pe­ standomi aveva sancito la nostra uguaglianza. Lasciai l’ospedale poco tempo dopo. Non ricordo se ci siamo salutati; sfuggivamo entrambi: lui si vergogna­ va della sua confessione pubblica, sebbene non avesse molto da aspettare prima che il cancro gli spezzasse in gola, insieme alle corde vocali, qualunque confessione; 10 mi vergognavo di non confessare niente, fosse pub­ blicando, morendo o rassegnandomi al silenzio. Quel­ l’ultimo giorno, inoltre, il mio volto era ancora defor­ me per la ferita, e temevo di restare sfigurato; maltrat­ tai Marianne che tentava con amore di rassicurarmi; vagamente adirato me ne andai portando con me il Gilles de Rais, un’ultima immagine dei grandi alberi, e 11 silenzio di père Foucault.

La malattia avrà fatto il suo lavoro; sarà diventato mu­ to in autunno, davanti ai tigli rossicci: in quel rame offu­ scato dalla sera, sottrattagli ogni parola dalla morte in arrivo, sarà stato più che mai somigliante ai vecchi, dotti relitti di Rembrandt; nessuno scritto irrisorio, nessuna povera richiesta scarabocchiata su un pezzo di carta avrà turbato la sua perfetta contemplazione. Né sarà scema­ to il suo stupore. Sarà morto alle prime nevi; con un ulti­ mo sguardo si sarà raccomandato agli angeli grandi e bianchissimi in cortile; qualcuno gli avrà tirato il len­ 130

zuolo sulla faccia, meravigliata per la pochezza della morte quanto forse lo era stata per la pochezza della vi­ ta; sarà per sempre chiusa quella bocca che così rara­ mente si era aperta; e per sempre immobile, vergine d’opera, serrata sul nulla della lenta metamorfosi in cui oggi è sparita, quella mano che non tracciò mai una lettera.

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VITA DI GEORGES BANDY

a Louis-René des Forêts

Nell’autunno del 1972 Marianne mi lasciò. Stava provando un modesto Otello al teatro di Bour­ ges; io ero a casa di mia madre da diversi mesi e stolta­ mente aspiravo alla grazia dello Scritto, senza ricever­ la: restavo a letto come un infermo o mi inebriavo con l’aiuto di svariate droghe, sempre e comunque distolto dal mondo, indolente, collerico, inchiodato alla pagi­ na infeconda da una dissennata ebetudine che mi ap­ pagava senza che dovessi scrivere una sola parola. Co­ me avrei potuto scrivere, del resto, se non sapevo più leggere: il mio unico alimento erano nel peggiore dei casi ignobili traduzioni di fantascienza, nel migliore i testi mellifluamente scandalosi degli americani anni Sessanta e quelli, grevemente sperimentali, dei france­ si anni Settanta; ma per quanto in basso tali letture sprofondassero, rimanevano per me modelli troppo alti che non ero in grado di imitare. M’incallivo nella sconfìtta, nella trasognata abulia; e nell’impostura: le lettere che quotidianamente spedivo a Marianne men­ tivano sfacciatamente; parlavo di pagine strepitose sca­ turite come per miracolo, ero l’Opera Favolosa e ogni notte era per me pascaliana, il cielo guidava la mia pen-

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na, riempiva la mia pagina. Simili vanterie trasudavano un misto di rozzo lirismo e astuzie sentimentali. Non riuscivo a rileggerle senza ridere, e nutrivo per me stes­ so un veemente disprezzo; mi chiedo se il mio stile è cambiato, dopo quelle lettere inaugurali a un lettore irretito. Marianne non era lettore da romanzo; non c’era no­ biltà nell’irretirla: mi mandava ogni giorno lettere ap­ passionate, credeva in me, e aveva accondisceso a quella separazione, per lei così dolorosa, perché io potessi scri­ vere. Mi aveva sostenuto nella decisione di lasciare An­ necy, dove non scrivevo nulla (non sapeva, se ben capi­ vo, che a Mourioux mi aspettava una pagina ugualmen­ te bianca, pagina che nessun viaggio, nessun pretenzio­ so ritiro bastano a riempire) e dove avevo passato un inverno funesto; in quell’amena città, propizia alle effu­ sioni romantiche e alla variopinta corvée degli sport in­ vernali, schiumavo di rabbia più che in una grande cit­ tà, dove la miseria è meno penosa perché di continuo la tocchi con mano, e la condividi. Poi, siccome Ma­ rianne recitava in una compagnia locale, avevo sconsi­ deratamente accettato un piccolo impiego alla Maison de la Culture: non sopportavo di dover vivere in promi­ scuità con bravi apostoli forti della loro missione civiliz­ zatrice e dipendenti pubblici dai mille hobby, in una continua escalation di creatività bigotta. Ricordo certe serate letterarie: di sopra parlavano di poesia e deside­ rio, del piacere ineffabile che si prova, dicono, a scrivere libri; di sotto, avendo trovato la chiave della cantina do­ ve venivano conservate le birre del baretto interno, mi sbronzavo senza ritegno. Ricordo la neve, tutta fiori leg­ geri nell’alone dei lampioni, e pesante e scura intorno all’edificio, calcata da tanti passi e tante ruote, dove sa­ rei voluto cadere. Ricordo con le lacrime agli occhi il sorriso strozzato del pittore Bram van Velde, smarrito ospite durante una di quelle serate, ricordo il suo vetu­ sto gabardine troppo lungo, il cappello floscio, che ten­ ne fra le mani, impacciato, per tutto il tempo che restò

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seduto sotto il tiro dei briosi ammiratori, vecchio bene­ volo e mansueto, interdetto come uno stilita ai piedi di un albero della cuccagna, mortificato dalle insulse do­ mande che gli rivolgevano, mortificato di riuscire a ri­ spondere solo a monosillabi di finto assenso, mortifi­ cato dalla propria opera e dalla sorte che il mondo ri­ serva a tutti, dalla parlantina grottesca con cui affligge i loquaci, dal grottesco silenzio con cui cancella i muti, dalla vanità comune a loquaci e muti, per loro comune sfortuna. Questo fu per me Annecy, che lasciai una mattina di gennaio o di febbraio. Il giorno non era ancora spunta­ to, il gelo mordeva; abitavamo lontanissimo dalla sta­ zione, avevo diverse valigie stupidamente ingombranti, grevi dei libri che mi seguono come la palla di ferro se­ gue un ergastolano. Marianne ed io avevamo un Solex per ciascuno. Vi sistemammo sopra le valigie alla meno peggio; ero infelice e pieno di rabbia, avevo freddo, i li­ neamenti di Marianne erano imbruttiti dal sonno: do­ po pochi metri, i bagagli che trasportava lei finirono a terra. Provai disgusto per la mia indigenza, per le no­ stre manopole e i passamontagna, per lo spago da pove­ retti che segava il cartone scadente delle valigie, per la nostra goffaggine in quella desolante banalità; ero un personaggio di Céline in partenza per le vacanze. Get­ tai il Solex nel fosso, le valigie sparpagliate si aprirono, l’odiata letteratura se la diede a gambe nel fango; sotto gli alberi neri in riva al lago nero, la mia sagoma prese a gesticolare, infima e dissennata; gridai durante il Chri­ stus venit, insultai la mia compagna come un operaio che esce di casa senza aver smaltito la sbronza della sera prima, e a cui la moglie ha scordato di preparare la ga­ vetta; avrei voluto essere uno di quei libri rovesciati e insensibili che calpestavo. Marianne cominciò a pian­ gere, cercando di risistemare il gravoso basto cartaceo, ma i singhiozzi glielo impedivano: deturpato dal passa­ montagna, dal freddo e dal dolore, il suo povero viso mi straziò: piansi anch’io, ci baciammo, scambiammo

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tenerezze da bambini. In stazione, lei corse per un buon tratto sulla banchina inseguendo il treno che mi portava via, maldestra e appariscente, mimando pa­ gliacceschi messaggi così svenevolmente graziosi nono­ stante il groppo che probabilmente le serrava la gola, così ridicolmente sgambettante e ammirevole nella sua speranza, che piansi ancora a lungo nel vagone surri­ scaldato.

Per tutto il viaggio in treno fui in preda al terrore; adesso avrei dovuto scrivere, e non ne sarei stato capa­ ce: mi ero messo con le spalle al muro, peccato che non fossi un muratore. A Mourioux il mio inferno divenne un altro; ed è a quest’ultimo che da allora mi sono attenuto. Ogni mat­ tina posavo la pagina sulla scrivania, e aspettavo inutil­ mente che un dono divino la riempisse; accedevo all’al­ tare di Dio, gli strumenti del rituale erano al loro posto, la macchina per scrivere a sinistra e i fogli a destra, dal­ la finestra l’astratto inverno dava un nome alle cose con maggiore sicurezza di quanto avrebbe fatto l’estate pro­ fusa; le cince svolazzavano qua e là aspettando solo di essere dette, i cieli erano mutevoli, e quella mutevolez­ za avrebbe potuto ridursi a due frasi; via, il mondo non sarebbe stato ostile, incastonato nella vetrata di un capitolo. Mi attorniavano libri benevoli e assorti, che avrebbero intercesso in mio favore; la Grazia non poteva certo resistere a tanta buona volontà; ne prepa­ ravo la venuta con tali mortificazioni (non ero forse po­ vero, spregevole, dedito a minare la mia salute con ecci­ tanti di ogni sorta?), tali preghiere (non leggevo forse tutto ciò che può essere letto?), tali pose (non avevo forse l’aria dello scrittore, la sua impercettibile unifor­ me?), tali picaresche Imitazioni della vita dei Grandi Autori che non avrebbe tardato ad arrivare. Non arrivò. Il fatto è che, orgogliosamente giansenista, solo nella Grazia credevo; non mi era toccata; e io disdegnavo di 136

accondiscendere alle Opere, persuaso che il lavoro ri­ chiesto dalla loro esecuzione, per quanto accanito, non mi avrebbe mai elevato al di sopra della condizione di oscuro converso di bassa manovalanza. Ciò che invano pretendevo, in una rabbia e una disperazione crescen­ ti, era hic et nunc una via di Damasco o la scoperta prou­ stiana di François le Champi nella biblioteca dei Guermantes, che è l’inizio della Recherche e insieme la sua fine, giacché preannuncia tutta l’opera in un lampo degno del Sinai. (Ho capito, forse troppo tardi, che an­ dare alla Grazia passando per le Opere, come a Guer­ man tes passando per Méséglise, è «la strada più bella», l’unica, comunque, che permetta di intravedere il por­ to; allo stesso modo un viaggiatore, dopo aver cammi­ nato tutta la notte, sente all’alba la campana di una chiesa che invita un villaggio ancora lontano a una mes­ sa alla quale lui, il viaggiatore che si affretta nella rugia­ da dei trifogli, non arriverà in tempo, poiché attraver­ serà il portale nell’ora gioconda in cui i chierichetti, toltasi la cotta, mettono a posto le ampolline ridendo nella sagrestia. Ma l’ho davvero capito? A me non piace camminare di notte). Avendo assunto come dogma, al pari di tanti sventurati allocchi, le spacconate giovanili della Lettera del Veggente, « lavoravo » a rendermi veggen­ te pure io, e aspettavo gli effetti miracolosi che mi veni­ vano promessi; aspettavo che un bell’angelo bizantino, disceso solo per me in tutta la sua gloria, mi porgesse la feconda penna strappata alle sue remiganti, e nel con­ tempo, dispiegando interamente le ali, mi facesse leg­ gere inscritta sul loro rovescio la mia opera compiuta, abbagliante e indiscutibile, definitiva, insuperabile. Tale ingenuità aveva il suo rovescio di scaltra avidità: volevo le piaghe del martirio e la relativa salvezza, la vi­ sione della santa, ma volevo anche il pastorale e la mi­ tra che impongono il silenzio, la parola episcopale che copre perfino quella dei re. Se lo Scritto mi fosse con­ cesso, pensavo, lui mi concederebbe tutto. Rimbecillito da una simile fede, assentato nell’assenza del mio Dio,

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sprofondavo ogni giorno di più nell’impotere e nella rabbia, le due ganasce della tenaglia nella cui morsa ur­ lano i dannati. Ed ecco, giro di vite che raddoppia la stretta, necessa­ ria comparsa e voyeur delle piaghe infernali, anche il dubbio arrivava, mi sottraeva alla tortura della fede va­ na per consegnarmi a un più nero supplizio, dicendo­ mi: Se lo Scritto ti è concesso, nulla ti concederà. Rapito in queste devote sciocchezze, sapevo di sagre­ stia (un odore che, temo, mi porto ancora addosso) ; le cose sbiadivano; avevo dimenticato le creature, il ca­ gnolino che con occhi leali guarda san Girolamo inten­ to a scrivere in un quadro del Carpaccio, le nuvole e gli uomini, Marianne con il passamontagna mentre inse­ gue un treno. Certo, la teoria letteraria mi ripeteva fino alla nausea che la scrittura è dove il mondo non è; ma io rimanevo gabbato: avevo perso il mondo, e la scrittu­ ra non c’era. Quelle stagioni a Mourioux scivolarono via come in sogno, e di esse non vidi se non un raggio di sole che talora mi infastidiva allorché si spostava sul bianco della pagina abbagliandomi; non mi accorsi del­ la primavera, e seppi che era estate, durante i miei ba­ nali diversivi, solo perché la birra diventa più fresca e per così dire naturale, più gradevolmente inebriante. In quei mesi funesti in cui cercavo la Grazia ho perso la grazia delle parole, del parlare semplice che scalda il cuore che parla e quello che ascolta; ho disimparato a parlare con la gente umile tra cui sono nato, cui ancora voglio bene e che devo evitare; la grottesca teologia che ho descritto è la mia unica passione, e ha bandito qua­ lunque altro linguaggio; i miei parenti di campagna po­ trebbero soltanto prendersi gioco di me o tacere imba­ razzati se parlassi, temermi se tacessi. Sfuggivo a Mourioux solo quando mi concedevo, in varie città, licenze che acuivano la mia assenza dal mon­ do ma indulgentemente la drammatizzavano; uscito dalla stazione, mi precipitavo nel primo caffè e comin­ ciavo a bere in maniera sistematica, avanzando di bar in 138

bar fino al centro; mi sottraevo a quel dovere solo per comprare libri o rimorchiare a caso donne compiacen­ ti. Ogni sbornia era per me una prova generale, un va­ neggiamento delle forme corrotte della Grazia: pensa­ vo infatti che lo Scritto, alla sua ora, sarebbe arrivato nello stesso modo, esogeno e straordinario, inconfuta­ bile e transustanziale, mutando il mio corpo in parole come l’ubriachezza lo mutava in puro amore di sé, sen­ za che tenere la penna in mano mi costasse più di alza­ re il gomito; il piacere della prima pagina sarebbe stato per me come il leggero brivido del primo bicchiere; la vastità sinfonica dell’opera conclusa sarebbe risuonata come gli ottoni e i piatti della sbronza pesante, quando bicchieri e pagine non si contano più. Arcaico strata­ gemma, grossolano trucco da sciamano contadino! Im­ magino che i bipedi terrorizzati delle Cicladi, dell’Eufrate o delle Ande, millenni prima della Rivelazione, si inciuccassero in modo simile, inutilmente, per simula­ re la Sua venuta; e non è poi tanto tempo che i grandi indiani delle Pianure ne sono morti tutti uno dopo l’al­ tro, aspettando forse che l’acqua di fuoco procurasse loro un Messia o ispirasse al più ignavo un'Iliade e un’ Odissea. Marianne venne a Mourioux una volta, proprio all’i­ nizio del mio soggiorno, in marzo, e c’era bel tempo. Devo essere giusto con me stesso: sebbene poco toccato dalla Grazia, ne serbavo la speranza, e avevo d’altronde scritto qualche capitolo di un breve testo esaltato e de­ votamente moderno, dove un’ingombrante «ricerca» formale rivestiva cavalieri in armatura usciti da Froissart o da Béroul; ma ne ero soddisfatto, volevo che lei lo leg­ gesse, e il ricordo di Marianne in quel sole invernale mi delizia ancora. Scese dal taxi più bella che mai, radiosa e loquace, truccata; in corridoio l’accarezzai: rammento, con la stessa emozione dell’attimo in cui un gesto bru­ tale la rese mia, la sua carne pallida nelle calze nere, le parole che la mia mano fece tremare. Abbiamo passeg­ giato tra le rocce muscose, tra l’erba che è una leccor-

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nia quando il gelo, con delicatezza, ne glassa ogni filo; una volta abbiamo visto il sole del mattino sbucare dal­ la foschia, svegliare i boschi, aggiungere il riso di Ma­ rianne alle mille risa di cui è fatto, secondo il salmo, il carro di Dio; il suo viso rosato, il suo alito nel freddo, i suoi occhi raggianti mi sono ancora di fronte; mai più vivemmo insieme simili ore; e ho già detto che per tutto quell’anno, tranne quei pochi giorni di inverno che Marianne mi regalò, le stagioni mi sfuggirono. I nostri incontri successivi potrebbero essere raccon­ tati da uno di quei dolenti idioti faulkneriani ossessio­ nati dalla perdita e dal desiderio di perdere, poi dalla drammatizzazione e dal vaneggiamento della perdita: a Lione (la raggiungevo nei luoghi delle sue tournée), dove mi bevvi - o persi - in un giorno i pochi soldi dell’intero soggiorno; salii verso Fourvière con le gam­ be di piombo; non avevo nemmeno più voglia di posar­ le le mani addosso: mi sdraiavo sulla schiena, nudo, e aspettavo che si mettesse a cavalcioni sopra di me, co­ me un bambino coricato si lascia rimboccare le coper­ te. A Tolosa, dove sotto i suoi occhi feci la corte a un’a­ mica d’infanzia lì ritrovata, guastandomene il ricordo. Infine a Bourges, dove c’è un chiosco nei giardini del vescovado; Bourges, vicino alla quale si trova Sancerre, dove mi aveva portato Marianne, sollecita nel distrarmi dai miei cupi pensieri, lei la fervente che sperava anco­ ra, ed io che la costrinsi a quella triste giornata, inveen­ do fra un sorso e l’altro, apostrofando i turisti interdet­ ti, e intanto l’immenso anfiteatro della valle che scende fino alla splendida Loira mi dava la ridicola illusione di rappresentare Aiace ebbro o Penteo, quando invece ero un mediocre Falstaff. Assidua e stanca platea, Ma­ rianne cominciava a sapere fin troppo bene che inter­ pretavo orribilmente, perennemente, quei ruoli. Venne un’altra volta a Mourioux, e fu l’ultima. Allora ero al culmine della disgrazia; all’alcol si aggiungevano 140

barbiturici presi a qualunque ora del giorno; barcolla­ vo vitreo sin dal mattino e avevo a malapena la forza re­ sidua per farfugliare all’infinito le mie poesie feticcio o, sbavando, certi abracadabra joyciani che gli angeli sentivano ridendo a crepapelle e, invisibili, abbando­ nandomi al mio limbo; in assenza dello Scritto non vo­ levo più vivere se non strafatto, letargico ed ebete, e il gesto cruento che mi avrebbe definitivamente assenta­ to mi sembrava una sorte leziosa, la puntura di spillo che si riservano i palloni gonfiati di onore, mentre io sono senza onore e gonfio soltanto di vanità. Marianne mi trovò nel pieno di una tale, interminabile bamboc­ ciata; alla fine dovette arrendersi all’evidenza: la mia verità era quella, e le mie lettere dicevano il falso. All’epoca aveva qualche scrittura, delle parti: si era comprata una piccola automobile. Un giorno siamo an­ dati a Les Cards. Spalancata la porta, non riconobbi la casa in cui sentimentalmente ho il ricordo di essere na­ to, ma un tugurio dove cadevano i calcinacci e che odo­ rava di cantina; tra altri attrezzi in cima alla scala, una scure mi parve degna delle mani di un boia; una robusta corda di quelle che si usano per legare il fieno sui carri contribuiva all’atmosfera grandguignolesca. Marianne con i tacchi alti, Marianne di cui conoscevo la raffinata biancheria, sembrava una regina in fuga alla mercé di un bifolco; eppure l’amavo, ed essere quel bifolco dalle mani rudi, dallo sguardo biecamente inappagato, mi fa­ ceva sanguinare il cuore; pensavo, sollevandole la bella gonna, alla veste bianca e alla cintura dorata della can­ zone per bambini. Nuda, le imposi folli posture nella stanza polverosa. Era esausta, ma sensibile, e il suo go­ dimento fu acre come la polvere che mordeva; tanto più mi inturgidivo quanto più il mio essere di allora, che stava affondando, si rifugiava tutto nel turgore del rostro aggressivo con cui speronavo quella regina, o quella bimba, affinché naufragasse insieme a me: ano­ nimi tra le ragnatele, eravamo insetti che si divoravano a vicenda, feroci, precisi e rapidi, e ormai solo questo ci 141

univa. Quando tornammo, la notte era calata; Marianne guidava soprappensiero, in silenzio; una bottiglia vuo­ ta di Martini mi rotolava tra i piedi; sbucato fuori all’improvviso, un coniglio iniziò a correre lungo la traiettoria dei fari, come a questi animali spesso acca­ de, e non si capisce se sono in preda al panico o tre­ mendamente affascinati. Io, crudele, lo guardavo inse­ guire quella luce ingannevole e mortale. Marianne stava attenta a schivarlo; afferrai di soppiatto il volante con la sinistra, la macchina sbandò quanto bastava per la morte di un coniglio; scesi e lo raccolsi: il buffo don­ giovanni dalle lunghe orecchie era quel pelame fradi­ cio, appiccicoso; palpitava ancora, lo finii in macchina stringendolo nel pugno. Era fratello del coniglietto che saltella tra i mille fiori degli arazzi, il conigliolo della Dama e l’unicorno, e avrebbe mangiato dalla mano di un santo: tali sciocchezze, forse, mi frullavano in te­ sta mentre lo ammazzavo. La lucidità tornò in me d’un tratto, insieme a un sentimentalismo timoroso, e fui soverchiato dalla vergogna: avrei anche potuto far de­ ragliare la locomotiva per stritolare Marianne con il peso di un intero treno, alla stazione di Annecy. Non osavo guardarla, sarei voluto sparire: dolore e disgusto erano in lei così grandi che gemeva senza riuscire a spiccicar parola.

La lettera non tardò ad arrivare: Marianne vi dichia­ rava la sua volontà di rompere con me, e che non avreb­ be cambiato idea. L’unico testo importante che il Cielo mi avesse mandato quell’anno era lì, fra le mie mani tremanti, certo indubitabile e a modo suo prodigioso, ma non era di mio pugno e mi trasformava in terra; i miei enfatici propositi d’alchimia del verbo avevano sortito l’effetto opposto. Continuavo a rileggere quelle parole miracolose e mortali come, per un coniglio, i fa­ ri di una macchina nella notte; era la fine di ottobre, fuori il vecchio sole suscitava un forte vento: io ero le

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fronde che il vento sconquassa, sollevandole in alto per poi seppellirle. Non c’è nella mia memoria giorno più intollerabil­ mente intenso di questo; constatai come le parole pos­ sano svanire, e come lascino, del corpo che hanno ab­ bandonato, una pozza insanguinata, infestata e ronzan­ te di mosche: una volta che se ne sono andate, non re­ stano che demenza e urla. Aboliti ogni discorso e ogni pianto, gridavo come un infermo di mente strattonato, grugnivo: forse, mentre nella stanza di Les Cards posse­ devo Marianne come un maiale copre la contadina che lo porta a mangiare le ghiande, avevo emesso simili grugniti; ma questi erano ancora più commossi, pre­ sentivano il mattatoio. Quando per un attimo mi stac­ cavo dal mio dolore, gli davo un nome e mi guardavo viverlo, potevo soltanto riderne, così come ti viene da ridere alle parole « pisciare sangue » se ti capita di pi­ sciare sangue davvero. Allarmata dalle grida, sopraffatta dall’ansia, mia ma­ dre pensò che fossi impazzito; la povera donna mi scon­ giurava di parlarle, di ritornare in me. Sotto gli occhi di quel testimone affettuoso e disperatamente impietosi­ to, il grottesco egoismo della mia sofferenza si accen­ tuò. Mia madre alla fine mi lasciò solo. Riacquistai la parola: avevo perduto Marianne, esistevo; aprii la fine­ stra, mi sporsi verso il grande, freddo sfavillio: come al solito, e come è scritto nel salmo, i cieli narravano la gloria di Dio; non avrei mai scritto e sarei stato per sem­ pre quel poppante che aspettava che i cieli gli cambias­ sero il pannolino, gli offrissero una manna scritta che ostinatamente gli negavano; di fronte all’insolente ric­ chezza del mondo il mio vorace desiderio non sarebbe venuto meno, così come l’inappagamento; morivo di fame ai piedi della matrigna: che mi importava se le co­ se esultavano, dato che mancavo di Grandi Parole per dirle e che nessuno mi ascoltava? Non avrei avuto letto­ ri, e non avevo più una donna che, amandomi, ne pren­ desse il posto. 143

Non riuscivo a tollerare la perdita di quel lettore fittizio che simulava, e con quali dolci attenzioni, di ritener­ mi gravido di scritti a venire: io per primo non ci crede­ vo più da molto tempo, e solo in lei persisteva una par­ venza di fede; lei era in qualche modo, sotto i miei occhi e tra le mie mani, tutto ciò che avevo scritto e che avrei mai potuto scrivere; oserei dire: la mia opera, se non fos­ se grottesco - ed è fin troppo vero. Senza di lei io smet­ tevo, anche mendacemente, di essere credibile a me stesso. Ma forse c’era di peggio: nella mia derelizione, nel mio vano isolamento, lei aveva finito per soppianta­ re ogni altra creatura; per rappresentarmi il mondo mi rimettevo a lei; lei era quella che sistema i mazzi nei vasi in modo da far risaltare i fiori impercepiti, che addita gli orizzonti degni di nota, e corrisponde alle cose cui dà nome; dal passamontagna alle calze nere, occupava tutto lo spettro di ciò che vive, dalle prede più misere­ voli alle belve più ambite; era il cagnolino di san Giro­ lamo. E, scappando per colpa mia, la bestiola aveva por­ tato con sé i libri, i leggìi e il necessario per scrivere, aveva spogliato dell’altera porpora e della mozzetta ne­ ra l’erudito patriarca, lasciando al suo posto, nel qua­ dro combusto, soltanto un Giuda nudo, ignorante e imperdonato ai piedi della croce di cui è colpevole. La muta universale, adesso che non c’era più il ca­ gnolino mio complice a sviarla su false piste, mi era ad­ dosso; mi sentivo un cervo senza scampo. Dovevo sot­ trarmi a quel mondo spaventoso: la novena alcolica cui all’inizio avevo ovviamente pensato mi parve un inter­ minabile vicolo cieco, che avrei dovuto attraversare tra i bracchieri; optai per una soluzione più vile, ma sicura. Andai a La Ceylette. Lì, nei mesi precedenti, avevo bazzicato uno di que­ gli ospedali psichiatrici new look, costruiti in aperta campagna e senza muri di recinzione, non privi di una loro attrattiva; vi andavo a farmi visitare dal dottor C., giovanotto alto e indolente, un po’ spocchioso e non privo di un certo garbo. Dalle enormi finestre del suo

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studio lo sguardo spaziava su una distesa di boschi; alle pareti era appesa una grande mappa dell’Isola Miste­ riosa di Jules Verne, che non esiste in nessun mare, in­ sieme a fotografie di poeti morti due volte, prima di fol­ lia e poi di morte vera. Aveva una certa cultura, ne trovò in me, e grazie a questo legammo: conversavamo di ar­ gomenti alla moda, dell’intramontabile luogo comune che stabilisce una relazione tra demenza e letteratura, di Louis Lambert, Artaud o Hölderlin. (Ricordo però con commozione che raccontò come suo nonno, uo­ mo di condizione modesta, gli avesse fatto leggere Cé­ line quando era adolescente). Ma io, da lui, ci andavo pur sempre per farmi curare, e non senza doppiezza: se forse non mi aspettavo granché da quelle chiacchierate terapeutiche, dal miracolo anamnestico o dall’apriti se­ samo della libera associazione, in compenso mi aspetta­ vo tutto dalle pilloline che lui credeva di prescrivermi e che subdolamente gli estorcevo; se insomma lo asse­ condavo, se battevo senza eccessiva goffaggine sul tasto letterario, se soprattutto lo instradavo al momento giu­ sto verso i romantici tedeschi, il suo passatempo prefe­ rito, a proposito dei quali il suo eloquio brillava, avevo la garanzia che in capo a un’ora avrebbe giovialmente tirato fuori il provvidenziale ricettario e, di slancio, mi avrebbe prescritto senza batter ciglio dosi rinnovabili di sonniferi da stroncare un cavallo, ma che a me avreb­ bero permesso di defilarmi tutto pimpante dal suo stu­ dio con la garanzia di vedere il mondo, per lunghi giorni, unicamente attraverso una deliziosa, lieve nebbiolina. Quel giorno limpido e terribile di ottobre, però, nes­ suna nebbiolina poteva nascondermelo; ci sarebbe riu­ scita solo l’oscura profondità del mare che avrei voluto si rovesciasse sulla mia testa; avrei voluto essere un len­ to pesce degli abissi, un otre insensibile e vorace, volevo una cura del sonno: sapevo che il dottor C. non me l’a­ vrebbe negata, e infatti non si fece pregare a lungo. Sapientemente zavorrato dallo scafandro chimico, di­ 145

scesi dolcemente nelle acque prive di retorica dove il passato si calcifica, dove la morte dei pesci si scrive in gigantesche pagine di calcare - una varietà del quale è il marmo -, dove lo stampo della perdita si riempie di piombo. Quando la mia lanterna per brevi tratti si riac­ cendeva, materni infermieri mi nutrivano, mi davano da fumare sigarette che la mia mano tremante non era in grado di tenere: YEurypharynx pelecanoides, il Gargamagna degli abissi, è una creatura dalla bocca grande, senza testimoni, e soddisfatta. Dovetti risalire. Nessuna delle metafore di cui ho ap­ pena abusato potrebbe dare un’idea di quel ritorno do­ loroso ma limpido. Portata a termine la cura del sonno, rimasi a La Ceylette per due mesi. Lì, forse, ripresi contatto con l’inver­ no, con il mio nuovo lutto, con la vecchia grazia differi­ ta; ma soprattutto vidi uomini impegnati nel loro com­ pito, ridotti al flagrante delitto di parola o di silenzio. Perché in manicomio, ancor più che altrove, il mondo è un teatro: chi simula? chi è nel vero? chi imita il grugni­ to dell’animale affinché sgorghi purissimo il canto so­ spirato dell’angelo? chi grugnisce per sempre, pensan­ do di cantare, finalmente? E magari simulano tutti, se ammettiamo che la follia assoluta, quella dei matti da legare, quella che non ha più parole per esprimersi, è una simulazione che è andata oltre il suo scopo. A La Ceylette c’erano esempi di quei malati di città, istruiti, cui i media e i best seller di narrativa hanno in­ segnato come la depressione colpisca le anime belle, e che la praticano con zelo. Costoro blateravano come avrebbero fatto altrove: il conformismo dell’infermità mentale, il senso di appartenenza a una vasta élite vale­ tudinaria, un certo trionfalismo della maledizione con­ divisa, tutto ciò rendeva quegli eletti, in fondo in fon­ do, contenti della propria sorte. Eppure non era solo una posa, soffrivano sul serio; ma io, poco a mio agio

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insieme a loro, giacché non potevo che abbozzare e portar mellifluamente acqua al loro mulino, li evitavo; preferivo la compagnia degli idioti del contado, la cui stramberia aveva un che di maldestramente sentimen­ tale, e che non erano guastati da altre frasi fatte se non quelle delle canzoni d’amore da balera, da juke-box. In seguito, forse, il pensiero era sopraggiunto in loro con il delirio, senza stadi intermedi; e senza stadi intermedi il pensiero si era bloccato in quel lampo. Riparlerò di costoro, che sono cari alla mia memoria, un piromane innamorato degli alberi, un contadino vedovo della madre, altri ancora; ma innanzitutto parlerò di Jojo. Era - lo chiamavano così - un aristocratico affetto da un’acuta, progressiva demenza senile. Che nome aveva prima di rispondere a quel diminutivo infamante, sem­ pre accompagnato da grasse risate o da minacce? Non sarebbe stato in grado di dirlo, visto che non parlava più, ma urlava e farfugliava quasi senza tregua. Magari Georges, o Joseph? Non è da escludere che quel nomi­ gnolo gli fosse stato dato una volta, teneramente, scher­ zosamente, da una donna ancora schiusa, quando ci si sorride tra le lenzuola placate e si fuma nudi, gloriosi e umili. Di sicuro aveva avuto delle donne, e forse aveva letto dei libri. Jojo era ripugnante; l’andatura sgangherata era quel­ la di una marionetta; l’inappagamento in lui era co­ stante e abominevole: le sue brame non potevano più contare sulla parola, che permette di soddisfarle edul­ corandole, e nemmeno sulla precisione del gesto, at­ traverso la quale ci si impadronisce con grazia di un og­ getto rozzamente bramato; per queste inadeguatezze schiumava di rabbia. Qui o là, nel parlatorio dove veni­ va accolto da sghignazzi, nel parco dove le cose silen­ ziose permanevano, faceva la sua comparsa, pura massa di rabbia fremente, giaculatoria, così come possiamo immaginarci si manifestassero gli dèi aztechi al meglio di sé; come loro posava per un attimo il suo sguardo minaccioso su un mondo da distruggere; poi alzava i 147

tacchi e spariva, come loro saturo di massacri e di sin­ ghiozzi, scorticato ma terreo, camminando come una scure abbatte un albero. Gli servivano il vitto nel vestibolo del refettorio, a un tavolo appositamente predisposto, dove era fissata un’in­ salatiera che lo aspettava con pappe varie; legata la schiena alla sedia, gli mettevano, a mo’ di tovagliolo, un lenzuolo intorno al collo; come posate aveva una specie di mestolo: malgrado queste precauzioni, la mancanza di coordinazione dei suoi movimenti era tale, e tale, nondimeno, la foga del suo disgraziato appetito, che dopo il pasto in quel trogolo il cibo schizzato gli imbrat­ tava tutto il corpo, e il pavimento intorno a lui. Lo vede­ vo dal mio posto, in refettorio; morbosamente lo osser­ vavo ridendo di sottecchi della nostra fraternità. Una volta, mentre meccanicamente rialzavo la testa tra un piatto e l’altro, anziché il mostro vidi una figura di schiena vicinissima a lui, e su di lui china, che sembrava parlargli; lo sconosciuto, piuttosto alto, indossava dei brutti jeans da fiera di paese e massicci stivali da conta­ dino coperti di fango. Lo strano discorso, che prosegui­ va con voce troppo bassa perché potessi distinguerlo dai gemiti del demente, sarebbe bastato a incuriosirmi; ma in quella nuca solida dai capelli folti, in quella ma­ no parsimoniosa che teneva una sigaretta bionda non senza grazia e tuttavia con un’ombra di altera riluttan­ za, mi colpì anche un non so che di noto. Uscimmo dal refettorio; vidi il volto di Jojo: era più umano, estatico o furioso, come se avesse finalmente individuato un ber­ saglio per la sua rabbia o si ricordasse di qualcosa che un tempo era stato capace di nominare, stringere, tene­ re con mano ferma; emetteva una specie di gorgoglio lontano e ininterrotto, che non gli avevo mai sentito. L’uomo era ancora chino su di lui; malvolentieri si fece da parte per lasciarci passare: il cibo vagabondo del de­ mente gli impiastricciava la giacca; ci trovammo l’uno di fronte all’altro; i nostri sguardi si incrociarono, esita­ rono, si sfuggirono. Riconobbi padre Bandy.

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Eppure era quasi irriconoscibile. Gli anni l’avevano imbifolchito; il contado l’aveva unto dalla testa ai piedi con il suo olio denso, grevemente odoroso. E su tutto ciò un’altra unzione, più penetrante e cattiva, cui dap­ prima non fui in grado di dare un nome: un’acne rosa­ cea gli devastava il viso, gli occhi erano velati, assenti; al loro interno lo sguardo era neve in fondo a una buca, nella stagione del disgelo. Era di una magrezza profon­ da ma poco interessante né spettacolare, sulla quale l’incarnato spiccava come un belletto; nonostante un lieve tremito alla mano mostrava ancora la stessa fred­ dezza, non tanto sprezzante quanto inflessibile, nel te­ nere la costosa sigaretta, come se tenerla tra le dita fosse la maniera migliore per ometterla. Mi riconobbe benis­ simo, e come me fece finta di niente, e non aprì bocca. Dalla finestra della mia stanza, poco dopo, vidi il reli­ gioso uscire, piantarsi davanti al freddo, tirare la cer­ niera lampo della giacca, gettar via il mozzicone: cono­ scevo bene anche quei gesti. Inforcò un motorino, se ne andò scoppiettando per la campagna acerba da cui Marianne era assente, come ogni perdono, come l’esta­ te lontana. Mi tornò in mente un altro uomo. Allora avevo l’età del catechismo, e non aspettavo al­ tra salvezza se non quella che avrei ricevuto da me stesso in età adulta, quando sarei stato esperto, e forte, se so­ lo lo avessi voluto: ero un bambino, ero giudizioso. La scarsità dei sacerdoti aveva già compromesso l’unità ter­ ritoriale e spirituale della parrocchia; la chiesa di Mourioux, insieme a qualche altra cappelletta di paese abi­ tata da antichi santi, faceva capo al parroco di SaintGoussaud; tale ministero, all’epoca, era esercitato da padre Lherbier, un vecchio bonaccione con la passio­ ne dell’archeologia; morì; si venne a sapere che avreb­ be preso il suo posto padre Bandy. Fu preceduto dalle dicerie: era di buona famiglia, magari di Limoges o di Moulins; era, soprattutto, e i parrocchiani ne provaro­ no un vago orgoglio venato di diffidenza, un giovane teologo dal brillante avvenire, ma contestatore, e la

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diocesi aveva ritenuto opportuno metterne alla prova la vocazione mandandolo a pascere le più umili peco­ relle contadine ad Arrènes, Saint-Goussaud, Mourioux, ossia in partibus infidelium. Si insediò a primavera, e, stando ai miei ricordi di mazzi di lillà che inondano i piedi di gesso di una Madonna, credo celebrasse in maggio la sua prima messa a Mourioux: fu allora che scoprii, insieme all’aroma del tabacco biondo, che la Bibbia è composta di parole e che un sacerdote, miste­ riosamente, può essere invidiabile. Attraverso le vetrate un sole magnifico si riversava sui gradini del coro; fuori mille uccelli cantavano, il profu­ mo denso dei lillà sembrava quello, intenso e policro­ mo, delle vetrate; nella pozza d’oro sulla pietra grigia, Bandy, sfarzosamente agghindato, accedè all’altare di Dio. L’uomo era bello, innegabilmente, e benediceva i fedeli con gesto così misurato che il braccio teso li tene­ va ancor più a distanza. Avrei voluto piangere, e riuscii solo a estasiarmi, giacché d’improvviso eruppero le pa­ role, ardenti contro le volte fresche, come biglie di ra­ me gettate in un catino di piombo; l’incomprensibile testo latino era di una chiarezza sconvolgente; sulla lingua di Bandy le sillabe si moltiplicavano, le parole schioccavano come fruste che intimassero al mondo di arrendersi al Verbo; l’ampiezza delle sillabe finali, cul­ minante al Dominus vobiscum, con il puntuale ritorno del sacerdote, nello slancio dorato della pianeta, era un insidioso basso di tam-tam che stregava il nemico, il numeroso, il profuso, il creato. E il mondo strisciava, si arrendeva: in fondo a quella navata d’improvviso vana­ mente illuminata dal sole, nel cuore di quella campa­ gna così verde, tra i profumi e i colori, c’era qualcuno dal verbo di fiamma che sapeva fare a meno delle crea­ ture. Defilata tra i banchi, forse in deliquio e con la carne purpurea delle labbra palpitante nei responsori bisbigliati come promesse, Marie-Georgette in crespo chiaro sotto la veletta bianca, gli occhi spalancati, gra­ tificava Bandy dello sguardo di cui una levriera gratifica

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il canattiere, o un’orsolina bianca, a Loudun tanto tem­ po fa, Urbain Grandier. Non ricordo la predica di quel giorno; ma immagino che fosse, come tutte le oscure e rutilanti prediche di Bandy, un fuoco d’artificio di nomi propri in cui le sil­ labe acute parlavano di onnipotenza crollata, di angeli terribili e antichi massacri. Forse era incentrata su Da­ vid (Bandy faceva schioccare la sillaba finale contro il palato, quasi a raddoppiare o a sancire, richiudendola su di sé, la maiuscola iniziale, regale), che in tarda età ebbe bisogno di una giovane serva come di un catapla­ sma sul suo cuore arido di vecchio re assassino mori­ bondo; su Tobia (Tobie, che lui pronunciava Tobi-e, stra­ scicando e nobilitando con uno iod quella parola vaga­ mente ridicola che il bambino che ero poteva associare soltanto a un cane), il quale sulla riva di un fiume in­ contrò un angelo e un pesce; su Acab, il cui destino fu caotico come il suo nome di ascia e di affanno, e che perì; su Assalonne, Absalon, le cui viperine consonanti sibilano come la malvagità di quel figlio indegno o le zagaglie che lo trafissero, appeso per i capelli a un gran­ de albero, pesante e costretto come la sua plumbea sil­ laba finale. Perché Bandy amava vibrare nomi propri, spettri regali o ritornelli di vecchi canti sanguinari, che lasciava aleggiare su un mondo nostalgico o atterrito, senza altra alternativa. Ma le parole portano troppo lontano anche me: la mia imperizia non autorizzi a pensare che Bandy fosse un torvo predicatore, di quelli che il romanzo gotico e le sue derivazioni hanno reso popolari; sarebbe un er­ rore. Non atterriva nessuno, e del resto non era quello lo scopo che si prefiggeva, posto che la sua etica conci­ liante invitava più ai giardini d’indulgenza papisti che alla mediocre galera luterana; non minacciava alcuna calamità, e le Sette Piaghe d’Egitto, in bocca a lui, era­ no più un fatto di cronaca clamoroso, enigmatico e re­ moto, come gli Enervati di Jumièges o la Morte di Sardanapalo, che un giusto castigo del cielo. Se voleva do­

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mare il mondo era a proprio uso e senza recare danno a nessuno, grazie alla sola potenza di una perfetta dizio­ ne, alla sola forma compiuta delle parole, a prescinde­ re dal loro significato morale; e probabilmente pensava che questo mondo non fosse cattivo, ma anzi insolentemente ricco e prodigo, e che a tale ricchezza si potesse rispondere solo opponendole, o associandole, una ma­ gnificenza verbale estenuante e assoluta, in una sfida sempre rinnovata il cui unico motore era l’orgoglio. « Si ascolta parlare » diceva mia nonna, che aveva su­ perato l’età del crespo bianco e delle velette; in effetti lui si inebriava degli echi del proprio verbo, si emozio­ nava dell’emozione che suscitava nella carne delle don­ ne e nei cuori dei bambini; insomma, cercava di fare colpo. La sua messa inappuntabile era una danza di se­ duzione; i nomi splendevano come la livrea di un uccel­ lo in parata nuziale; l’iridescente perfezione delle so­ norità latine era il complemento della pianeta dai colo­ ri ciclici, bianca per il Cristo e rossa per i martiri, e di solito timidamente verde come i prati assolati, era il complemento della bellezza virile, tersa e bruna, di cui la natura lo aveva gratificato. Chi tentava di sedurre? Dio, le donne, se stesso? Senz’altro amava le donne; forse anche Dio, forse nella convinzione che la Grazia fosse accordata solo ai ricchi, ai buoni parlatori; di sicu­ ro se stesso, carico di pianete sotto le volte e di una grossa moto sotto il sole, di belle amanti e di teologia. La messa finì. L’ultima benedizione fu pacata e magi­ strale quanto la prima; Marie-Georgette, che sapeva quel che voleva e sapeva volere senza por tempo in mezzo, il rumore secco dei tacchi che copriva quello delle seggiole spostate, si incamminò con passo deciso verso la sagrestia, munita di un pretesto qualsiasi, che ignoro. Noi bambini ci sedemmo sotto il portale, in ci­ ma alla scalinata il cui ultimo gradino reggeva il peso di un’enorme moto nera, come non ne avevamo mai vi­ ste: credo che fosse una delle prime bmw da esportazio­ ne. Presto Marie-Georgette uscì, sfiorandoci la testa 152

con la gonna, e nell’atmosfera estiva il suo profumo e il suo sorriso mi pervasero; non fece in tempo ad attraver­ sare la piazza che apparve anche il religioso. Lei si voltò e lo guardò; lui non la vedeva e strizzava leggermente gli occhi per seguire, con meraviglia, il volo di un uccel­ lo tra le foglie e sui tetti. Accese una sigaretta bionda: Mourioux non conosceva quel lusso, quell’aroma quasi liturgico, femmina, clericale; diede qualche tiro, la get­ tò, si chiuse il giubbotto e, con gesto ineffabile, degno di un alto dignitario durante un’antica caccia, afferrò energicamente la tonaca spostandone tutto il peso sul­ la gamba d’appoggio, dopodiché inforcò l’enorme mo­ tocicletta e sparì. Marie-Georgette si girò, il glicine del­ la sua porta le danzò per un attimo, viola, sul vestito, quindi sparì anche lei; sulla vasta piazza assolata resta­ vano tre o quattro contadinelli basiti, che non si capaci­ tavano di essersi fatti assestare tanti miti in un sol colpo: sulla moto di una canzone della Piaf era passato un ve­ scovo con un profilo da Apollo, con la bocca d’oro. Restò a Saint-Goussaud quasi dieci anni; quando se ne andò, io ero adolescente e bramavo a mia volta, timi­ damente, ciò che piaceva a lui. Non fu appassionato di archeologia, ma di ragazze e delle Scritture: forse, tra il Padre che è invisibile, che un tempo scrisse il Libro, e le sue creature superlative, le più visibili e presenti, le don­ ne, vedeva spazio in questo mondo soltanto per se stes­ so, figlio ammaliatore e retore che celebrava l’assenza dell’uno neH’immanenza delle altre; fece un viaggio in Terra Santa, di cui ci mostrò le diapositive, ed ebbe qual­ che dissapore con il vescovo; ma su di lui non trapelò nulla di grave. Non confessò. Forse Marie-Georgette, o qualcun’altra delle amanti di allora (tutte quelle che nelle sue cinque parrocchie erano belle, amavano gli uomini e si vestivano in città, ossia alla fin fine non mol­ te più di quante si contino sulle dita di una mano), loro forse potrebbero svelare qualcosa: ma la vecchiaia le ha prese, insieme all’oblio o al ricordo ciarliero, la campa­ gna le ricopre piano piano con la sua coltre di stagioni.

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Fu tra i primi a dismettere l’abito talare (e io non vidi più il gesto ineffabile, da vescovo che monta in sella di­ retto alle crociate, cui seguiva il fragore della moto), quando la Santa Sede lo consentì; svariava con elegan­ za sui toni del grigio, un foulard annodato sul colletto rigido, o bardato da capo a piedi per la moto: mai, pe­ rò, eluse l’avvicendarsi inesorabile delle pianete, il loro codice stagionale invariabile e complicato: quella rossa che sfavilla a Pentecoste, come la fiamma indubitabile che ricevettero gli Apostoli e che invece Bandy non rice­ veva; quella viola indossata sul finire dell’inverno, che chiama i primi crochi e promette i lillà dei quali, forse, lui non coglieva il profumo; e quella rosa della terza do­ menica di Quaresima, satinata e goffrata come bianche­ ria femminile. Né mai rinunciò, per dire messa, alla pre­ cisione sonora delle parole, alla pienezza declamatoria da prelato e al decoro gestuale sommamente austero di cui ho parlato; la sua dizione troppo perfetta, infiorata di parole incomprensibili, echeggiò per dieci anni sotto le volte abitate da santi rozzi, guaritori di bestiame, di Arrènes, Saint-Goussaud, Mourioux; e immagino quale rabbia segreta covasse mentre ammanniva le sue altiso­ nanti prediche a contadini riverenti che non ci capiva­ no un’acca e a contadine affascinate, come un povero Mallarmé che incanta la platea di una manifestazione proletaria. Fuori dalla messa, Bandy smetteva di fare l’angelo. Né taciturno né invasato, si sforzava di essere semplice e affabile, e ci riusciva, ma sempre con un che di segre­ tamente irriducibile: teneva a debita distanza da sé le sue stesse parole, così come faceva con la sigaretta stret­ ta fra le dita; forse un che di brutale, e di brutalmente contenuto, anche, ad esempio quando rabbiosamente dava di tacco sull’avviamento della moto. (Seppellì dei contadini morti; ne vide che soffrivano, con candore o con astio, ma sempre goffamente; sentì usignoli nelle notti di maggio, e il cuculo in mezzo al grano verde; sentì le lunghe campane, le campane fes-

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se, come a Ceyroux, e quelle gravi, come a Mourioux, le campane delle sue parrocchie; lo salutarono i mietitori nei campi mentre camminava, vestito di bianco, tra la croce e il feretro: allora era un uomo che passa, un’esi­ gua massa di carne nella mano immensa dell’estate, e sudava sotto la cotta come i portantini sotto la bara. Si commosse? Credo di sì). Rammento con piacere il catechismo, durante la ri­ creazione di mezzogiorno nella frescura della sagrestia, dove non imparavamo niente; Bandy si mostrava bene­ volo, orgogliosamente e inesorabilmente benevolo; di fronte ai grezzi contadinelli che eravamo, non si faceva illusioni: non era un curato alla Bernanos. Rivedo, se avevo detto una sciocchezza, il suo sguardo posato su di me, uno sguardo ceruleo freddamente indulgente, ma­ gari un po’ impietosito, che si aspettava il peggio. Ho un ricordo di piena estate; era giugno, mi pare, quando le vacanze si avvicinano e le cattiverie infantili sono impazienti di un vago desiderio, si inebriano di sé come fanno in quel periodo le api che sprofondano nei pollini dei tigli, delle ginestre. Lucette Scudéry veniva a catechismo insieme a noi, i bambini rabbiosi e ridancia­ ni, i bambini sani: era una miseranda creatura che a die­ ci anni sapeva appena esprimersi, con esili mani capaci solo di alzarsi ad ogni istante per parare colpi troppo di rado immaginari e un viso disperato che distoglieva dal­ le lacrime unicamente un sorriso estatico, insopportabi­ le; ma quel viso dalla carnagione diafana aveva una sor­ ta di incongrua leggiadria, che ci irritava: che tale leg­ giadria fosse accompagnata da insufficienza mentale ed epilessia ci sembrava una beffarda autorizzazione del cielo a dare libero corso alle nostre intemperanze. Quel giorno, caldissimo, il reverendo tardava; lo aspettava­ mo sulla scalinata della chiesa, e il fresco della pietra contro l’interno delle ginocchia non placava in noi il desiderio più di quanto le male parole, i gestacci non mitigassero la rabbia; presto il nostro furore si riversò su Lucette. Miseranda quasi come lei, la madre le aveva

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fatto due trecce delicate, trattenute da nastri azzurri di cui a modo suo andava fiera, toccandoli di continuo e lanciando acuti gridolini. Noi li sciogliemmo, o meglio li strappammo, riempiendola di botte; corremmo nel­ l’erba sventolando gli esili trofei azzurri, tra le risate: Lucette agitava le braccia e gemeva, vacillante sui gradi­ ni ombrosi; d’improvviso aprì la bocca, il suo sguardo si dilatò, fisso e come fuggevolmente dotato della ragio­ ne che le mancava. Cadde, la bava alle labbra. Stava dibattendosi in quella crisi tremenda, che sa­ pevamo riconoscere per avervi già assistito, quando ar­ rivò il reverendo. La sua sagoma dolente ci fu addosso in due falcate; il bel volto impassibile ci sovrastò: in piedi, osservò con infantile stupore quel viso contratto da una necessità più forte della parola, quel balbettio di schiuma agli angoli delle labbra, quell’occhio bian­ co sotto il sole a picco; si riebbe, distrattamente cercò nelle tasche un fazzoletto senza trovarlo, e mi prese dalla mano il nastro azzurro del quale non avevo prov­ veduto a disfarmi; si accovacciò, e con le dita macchia­ te di nicotina, patina ambrata che ancora mi richiama alla mente espressioni come «sacro crisma», «balsa­ mo» e «unzione sacra», deterse le labbra tremanti: sembrava che srotolasse un cartiglio color del cielo da­ vanti alla bocca loquace di un santo. Tra i fiori bianchi delle ortiche, accanto alla testa della bimba che a poco a poco si calmava, svolazzava una farfalla giallo oro; il nastro insalivato restò sull’erba verde quando il reve­ rendo se ne andò, portando in braccio da sua madre la bimba quietata, spezzata. Finito il catechismo, tornai da solo in sagrestia: avevo dimenticato di riferire un messaggio del maestro, o di far firmare il registro. Il reverendo non mi sentì arriva­ re; era appoggiato con entrambe le mani alla finestra bassa, un po’ curvo, come per contemplare la campa­ gna in lontananza; stava parlando, con una voce disar­ mata, forse implorante o sbigottita, che mi lasciò di stuc­ co. Si accorse della mia presenza nel bel mezzo di una

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frase, si voltò verso di me e per nulla sorpreso, guardan­ domi come se fossi stato un albero nella campagna o una sedia in chiesa, portò a termine la frase con lo stes­ so tono. Ripensandoci oggi, mi sembra di avere udito queste parole: « Osservate i gigli del campo: non lavora­ no e non filano. Eppure io vi dico che neanche Salomo­ ne, con tutta la sua gloria, vestiva come uno di loro». Firmò il registro e mi congedò. Venni a sapere che Bandy era parroco di un piccolo comune, Saint-Rémy, da cui l’ospedale dipendeva; quan­ to a Lucette Scudéry, l’avevo vista tra quelle mura, a La Ceylette; era lì da tempo, e per sempre; non mi rico­ nobbe. Il volto dai grandi occhi sofferenti e dalle lab­ bra pendule aveva perso ogni leggiadria: anche per lei, l’immemoriosa su cui il tempo, ridotto all’intervallo tra una crisi e l’altra, difficilmente infieriva con ricordi di nastri e di giugni infantili, gli anni erano passati. Della piccola parrocchia di una volta, c’eravamo tutti e tre: il giovane sacerdote promesso all’episcopato, il vivace ra­ gazzo dal brillante futuro e la minorata senza domani; il futuro era lì e il presente ci riuniva, uguali o quasi. Un pomeriggio di fine novembre andai a Saint-Rémy: avendo trovato nel retrobottega della tabaccheria una giacenza di polizieschi della «Série noire» invenduti da lustri, sgualciti, coperti da escrementi di mosca, mi rifornivo lì tutte le settimane. Il paese era a pochi chilo­ metri e la passeggiata, con il bel tempo, presentava qualche attrattiva; il sentiero serpeggiava tra castagneti e massi di granito, sui fianchi di un piccolo monte in cima al quale tre boschetti davano l’impressione di una triplice cima, e il cui nome di « Puy des Trois-Cornes », dato dalla gente di qui, mi faceva pensare a un dio cervide, dipinto e sepolto durante l’Età della Renna, che avesse come unico testimone le radici dei grandi alberi ciecamente intrecciate ai suoi palchi; sulla strada, un cartello raffigurante il balzo di un cervo segnalava la

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presenza di una selvaggina immaginaria, fossile o divi­ nizzata. Non ero ancora uscito dalla foresta che alle mie spalle una voce mi chiamò; vidi Jean venirmi in­ contro con passo pesante, sotto i castagni. Lo aspettai di malavoglia. Eppure mi era simpatico; ma non sopportavo l’idea di compromettermi in paese apparendo in compagnia di quei miserabili: avrebbe significato ammettere la de­ cadenza, la rovina. Jean, che ormai mi stava raggiun­ gendo, non era tra loro il peggiore: era abbastanza mi­ te, e ostinatamente, cupamente fedele a chi lo trattava con un po’ di riguardo. Mi disse che a Saint-Rémy un amico l’aspettava; avremmo potuto fare la strada insie­ me, anche al ritorno, se mi andava di passare a pren­ derlo al caffè del paese; non me la sentii di rifiutare. Mentre camminavamo fianco a fianco, lui, muto, la te­ sta spigolosa incassata nelle spalle tozze, bofonchiava di tanto in tanto stringendo i pugni, e io lo sbirciavo con la coda dell’occhio. Conoscevo la natura di quella rab­ bia: aveva appena perso la madre, con la quale era vis­ suto fino allora da scapolo, e su quel lutto aveva inne­ stato un’arcaica disputa contadina; reputava un fatto assodato che certi vicini di podere, in rotta con lui da sempre, dissotterrassero nottetempo la madre e andas­ sero a gettare Γindistruttibile cadavere nel suo pozzo, a seppellirlo sotto il suo letame, a rovesciarlo come pasto­ ne nei trogoli della sua porcilaia, oppure a stenderlo, coperto di fieno, sotto il muso delle vacche: sobbalzava fino all’alba per queU’orribile lavorio notturno che fa­ ceva cigolare le porte, abbaiare i cani, soffiare il vento; al chiarore rosato del primo sole vedeva dappertutto il fantasma di lei, lordato, a brandelli, con un gallo in te­ sta o un’edera malvagiamente attorcigliata intorno agli arti, un forcone nella mandibola; aveva scambiato i gendarmi che erano venuti a prenderlo per becchini corrotti, prezzolati dall’eterno nemico. E contro quei profanatori impuniti, finti gendarmi e finti vicini, tutti strambi beccamorti, tutti settatori della tomba, cammi­ 158

nando alzava il pugno al cielo, sordamente apostrofava gli alberi, lo spazio irreprensibile; io provavo compas­ sione, e potevo deriderlo solo in segreto: due mesi pri­ ma, a Sancerre, me l’ero presa allo stesso modo con i turisti, con la Loira, sicuramente colpevoli di impedir­ mi di scrivere, con l’universale istigatore della pagina bianca. Persi tempo a cercare in tabaccheria gli ultimi titoli leggibili in quella « Série noire » che avevo già saccheg­ giato; quando uscii, la repentina notte invernale stava calando, la prima stella brillava nel cielo limpidissimo. Mi colse un’orgogliosa vertigine, il mio cuore traboccò; nella soprannaturale assenza celeste, la defezione di quella Grazia che tanto invano avevo preteso mi parve di un intollerabile candore: se mi avesse toccato l’avrei macchiata. Marianne se n’era andata via, più nulla mi separava dalla dolorosa vacuità dei cieli in una bella se­ rata di gelo: ero quel freddo, quello spoglio nitore. Un bambino sporco e fischiettante lanciò, passando, un’oc­ chiata beffarda a quell’adulto deficiente e letterato che se ne stava lì col naso all’insù; la vergogna e la realtà riaffiorarono. Avrei voluto toccare una donna, e che lei mi guardasse, avrei voluto vedere i fiori bianchi dei campi in estate, essere il porpora e i verdi dorati di un quadro veneziano; attraversai in fretta l’abitato buio, con i miei libercoli sottobraccio. La fioca luce dell’Hòtel des Touristes, unico caffè del paese, tremolava in fondo alla piazza. Entrai nella sala triste dai tavoli di formica, l’impiantito smorto lavato a secchiate; nessun esotismo riscattava il greve odore di letame che aleggia­ va intorno a un livido juke-box, a un bancone degno delle peggiori periferie e all’occhio di un televisore al di sopra di una proprietaria corpulenta, sfiancata. Gli avventori infangati e taciturni alzarono la testa; Jean, l’occhio acceso, era seduto a un tavolo insieme a padre Bandy. Tra loro, un litro di vino rosso, vuoto per tre quarti; un identico colorito tingeva in modo malsano i volti 159

stanchi dei due dissoluti compari; immaginai che non fossero alle prime libagioni. Mi avvicinai al tavolo. Jean chiese: « Conosci Pierrot? ». Senza rispondere, il reverendo mi porse la mano di­ stratta. Di nuovo mi guardava: non faceva finta di rico­ noscermi; e neanche di non avermi mai visto. Sempli­ cemente, e forse scientemente, mi disconosceva; ormai per lui chiunque era albero nel bosco o sedia da bar, fiore di campo, irresponsabile oggetto davanti al suo occhio irresponsabile: tutti inutili e necessari, compar­ se sfinite eppure istrioniche di un dramma recitato troppo a lungo, nate dalla terra e a lei ritornanti; osser­ vandoti scrutava quel percorso, e non ciò che ognuno, bazzecole, ne aveva fatto. Reggendo il mio sguardo, nondimeno, e pur rifiu­ tandosi di discernervi un destino particolare, voglio cre­ dere che vi vedesse per un attimo, come una vetrata che un raggio ridesta, un giovane e luminoso sacerdote che un bambino guardava abbagliato attraverso le lacrime, colpito da parole danzanti, incantate, araldiche; che vi vedesse lo sguardo di tutte quelle persone per le quali era stato e rimaneva, professorale o ubriacone, retore o irrisoriamente caritatevole, «il reverendo padre». Di­ stolse l’attenzione per riportarla sulla bottiglia; servì Jean, poi se stesso; di nuovo il piombo coprì la vetrata. Daccapo lo sguardo sprofondò nella sua neve: il reve­ rendo padre era il giovane Georges Bandy invecchiato. «Alla tua» disse Jean con aspra giovialità. Bandy bevve tutto d’un fiato, tenendo il grande bicchiere con ferma delicatezza, come se fosse d’oro. Io aspettavo imbarazzato, senza sedermi, impostore che un altro impostore, o un santo, non si degnava nemmeno di smascherare; timidamente cercavo di con­ vincere Jean a seguirmi: non dovevamo essere di ritor­ no entro l’ora di cena? Del resto la bottiglia era vuota, si alzarono. Il reverendo andò a pagare al bancone: sopra i brutti jeans cascanti in vita, indossava gli stivali terrosi come un eminente missionario un paio di jodhpurs; il

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busto si manteneva ostinatamente eretto in una di quel­ le giacche da caccia in panno di lana a coste, munite di tasche sulla schiena e bottoni metallici con la figura sbalzata di un corno, che i contadini di qui ordinano alla manifattura di Saint-Etienne; camminava a stento, con la rigidità degli ubriaconi per i quali tutto è abisso, e che, funamboli, fingono di non accorgersene. Jean, indicando furtivamente il reverendo cui la mesta pro­ prietaria stava dando il resto, fece un gesto divertito e insieme ammirato: non l’avevo mai visto così naturale, quasi fiero, stornato qualsiasi lutto. L’impassibile reve­ rendo strinse mani tutt’intorno, ci precedette fuori dal­ la porta; uno sfavillio di stelle gli fece alzare la testa: Caeli enarrant gloriarti Dei. La bocca altera, su cui era sbocciata una sigaretta Virginia, non citò nulla; pensai che certo aveva anche smesso di baciare il seno nudo di una Marie-Georgette pazza d’amore, o di qualche altra Danae di paese schiusa alla sua pioggia d’oro. Del ver­ bo e del bacio, della ricchezza orale tanto amata un tempo, gli rimaneva solo quel vestigio subito ridotto in cenere, una sigaretta a grana bionda con il filtro dora­ to, dall’odore di donna. Spiaccicò il mozzicone con lo stivale, ci salutò. Il suo motorino era appoggiato all’intonaco scrostato della facciata; afferrò deciso il manubrio, si mise a cavalcioni del veicolo e, volgendo la testa all’insù come se conti­ nuasse a guardare le stelle e si rifiutasse di abbassarsi sotto quell’occhio cieco e molteplice, quasi umano in definitiva, pedalò per avviare il motore; la motoretta descrisse un lieve zigzag, lui cadde. Jean fece una risati­ na meravigliata. Le mani a terra, il reverendo rialzò la testa: le stelle, le stelle limpide e fredde, create in Prin­ cipio, guida ai Magi, le stelle che portano il nome delle creature, cigni, scorpioni e cerve insieme ai loro cer­ biatti, le stelle dipinte sulle volte tra fiori naïf, ricama­ te sulle pianete, e quelle che i bambini ritagliano nella carta stagnola, le stelle non avevano vacillato; la caduta di un ubriacone non rientra nel loro infinito racconto.

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Faticosamente il reverendo si rimise in piedi; non resi­ stette più al beccheggio di quella terra sbronza: spin­ gendo il suo macinino di fianco a lui, se ne andò via nella notte con passo legnoso, in quel vicolo di paese in capo al mondo. « Barcollerà la terra davanti al Signore, come un ubriaco»: lui era lo sguardo del Signore, lui era il tumulto della terra, e forse, dopo tanti anni, final­ mente un uomo. Era scomparso, sentimmo di nuovo nel buio un rumore di ferraglia; forse aveva fallito un secondo tentativo. Sulla strada del ritorno camminavamo in fretta; Jean, tutto pimpante, parlava della sua casa natale; non c’era nessun fantasma: ma andiamo, solo i dottori potevano credere a quella brutta storia di beccamorti che di con­ tinuo risuscitavano una matrigna dalla tomba; avrebbe­ ro finito per convincerlo; i morti erano morti, gliel’aveva detto, il reverendo, che di certe cose se ne intendeva. Lui stava guarendo, sarebbe stato a casa per la festa di San Giovanni Battista, e noi saremmo andati lì a man­ giare il prosciutto, con il reverendo, con tutti gli amici, a bere per un bel po’ nella cucina fresca. Mentre attra­ versavamo il bosco, restò in silenzio; la luna era sorta, danzava nella fustaia, destava qua e là lo spettro di una betulla; sui cartelli freddi, le figure dei cervi saltavano senza posa nella notte. Pensai al centauro tonacato che un tempo balzava sulla sua moto; a quell’epoca aveva occhi soltanto per le creature graziose, profumate, e ogni carne era docile al suo verbo; poi, un giorno che io non sapevo, aveva perso la fede nelle creature, che for­ se è la certezza di piacere alle belle creature: nessuno ebbe più fede di Don Giovanni. Con sorpresa allora, forse con terrore, con la stessa meraviglia che gli provo­ cavano il volo di un uccello o un’epilettica, aveva impa­ rato che esistevano altre creature; aveva saputo che l’e­ tà ci rende ogni giorno più simili a queste, a un albero o a un matto; quando aveva smesso di essere un prete bel­ lo, quando le ridenti si erano allontanate dal vecchio parroco, aveva chiamato a sé gli altri, i disgraziati, quelli 162

che non hanno più parole, ben poca anima e neppure carne, e che tanto più, si dice, la Grazia può toccare, con una miracolosa deviazione; ma nonostante tutti gli sforzi da lui fatti, nella sua orgogliosa risolutezza, per amare quelle anime da poco e rendersi disperatamente uguale a loro, non credevo che ci fosse riuscito. Forse mi sbagliavo; rimaneva ciò che i miei occhi avevano vi­ sto: l’enfant terrible della diocesi, il teologo affascinan­ te e spregiudicato era divenuto un contadino alcolista che confessava degli svitati. Non era successo niente, a parte quello che succede a tutti: l’età, l’andar del tempo. Lui non era cambiato granché - aveva solo cambiato tattica; in passato aveva invano invocato la Grazia dimostrando quanto fosse degno di riceverla, bello come lei e come lei fatale; ap­ passionatamente mimetico, faceva l’angelo così come certi insetti si fanno fuscelli per sorprendere la preda: dentro il suo nido di parole pure, aspettava il divino uc­ cellino. Probabilmente oggi non pensava più che la Grazia, duttile e metonimica, toccasse un bell’orante risalendo fino in cielo la catena delle sue calzanti paro­ le intrecciate, ma anzi che scegliesse solo il balzo vigo­ roso della metafora, la folgorazione beffarda dell’antifrasi: il figlio era morto sulla croce. Munito di questa certezza, Bandy, ebete e avvinazzato, pressoché muto, perseguiva il proprio annientamento, era il vuoto che l’ineffabile Presenza avrebbe un giorno colmato: gli ubriaconi credono volentieri che Dio, o lo Scritto, sia­ no dietro il banco del prossimo bar. Indagai presso il dottor C., senza dirgli nulla del Ban­ dy che avevo conosciuto io. Fece un sorriso indulgente: il reverendo era un uomo totalmente inetto, ma inno­ cuo; e poi ai malati piaceva, apparteneva allo stesso am­ biente e aveva le stesse tare, forse le stesse qualità; era ignorante come loro, ma offriva pacchetti di tabacco trinciato; poteva essere interessante, da un punto di vista terapeutico, incoraggiare quella frequentazione. Non insistetti, e attaccammo con Novalis. C. ricordò riden-

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do che il tetto della chiesa, a Saint-Rémy, stava cadendo in rovina, e che l’incuria del reverendo lo lasciava crol­ lare: ormai solo alcuni ospiti della clinica, cui serviva una scusa per uscire, andavano a messa nella chiesa ge­ lida, piena d’acqua, dove gli uccelli facevano il nido; e, come se Γ evocazione di una chiesa di campagna avesse innescato in lui un irreprimibile meccanismo, citò i pri­ mi versi della poesia di Hölderlin in cui si parla dell’amabile azzurro di un campanile, e del garrire azzurro delle rondini. Pensai con amarezza che nella stessa po­ esia si dice che l’uomo può imitare la Gioia dei Celesti, e « misurarsi non infelicemente con la divinità »; pensai con gioia che erroneamente, « ma poeticamente, l’uo­ mo dimora su questa terra»; e, con tristezza, che anche in me un reverendo afflitto e un campanile innescava­ no meccanismi, citazioni, chiacchiere: sotto il vessillo del Pathos, cavalcavo insieme al dottor C. Mi avvio al termine di questa storia. In refettorio pranzavo di solito vicino a una finestra, di fronte a Thomas. Fino allora, di quell’ometto assai contemplativo e candido avevo notato solo il riserbo te­ nace, sorridente; avevo anche notato che era vestito be­ ne, ma alla maniera degli impiegatucci che preferisco­ no non attirare l’attenzione o, come si suol dire, restare al loro posto. Pieno di riguardi per i suoi commensali, passava i piatti con un garbo per nulla artefatto o fretto­ loso, che mi piaceva; inoltre, e malgrado non sembrasse del tutto ignorante, le delizie e il tormento dell’infer­ mità mentale non gli fornivano il pretesto per assume­ re certe pose; avevamo scambiato due parole su politi­ ca, personalità dei medici curanti, programmi televisi­ vi, sciocchezze varie. Un giorno, la forchetta sospesa a mezz’aria, lo sguardo perso, guardò fuori ostinatamen­ te, per diversi interminabili secondi; fuori non c’era nessuno; il mento di Thomas tremava, era sconvolto. «Vede come soffrono?» disse. Gli si spezzò la voce.

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Guardai nella stessa direzione: al soffio di un’esile tra­ montana invernale, gli acerbi pini dondolavano appe­ na. Un merlo. Qualche cincia vagabonda, da un albero all’altro, e il grande cielo neutro. Ero sbalordito: quale mistero, che io non vedevo, mi volevano additare? Gli alberi, dice Saint-Pol-Roux, si scambiano uccelli come parole; mi ricordai di questa amabile metafora, e mi prese un’incresciosa voglia di ridere: anch’io, picchian­ do sul piatto, avrei potuto cantare quella sofferenza a squarciagola, quella sofferenza - di chi? Mi sembrava di essere in un romanzo di Gombrowicz; ma no: ero tra i matti, e stavamo rispettando le regole del genere. AH’improwiso, così come si era infervorato, Thomas si calmò. Mangiò, senza una parola né uno sguardo per la sofferenza diffusa con cui aveva colpito quell’angolo di inverno. Da quella terra guasta non riuscivo, io, a staccare gli occhi; era successo qualcosa, gli alberi non avevano più un nome, più un nome gli uccelli, la confu­ sione delle specie mi sbalordiva; allo stesso modo, cre­ do, percepirebbe il mondo un animale cui fosse donata la parola, o un uomo che la perde insieme alla ragione. Jojo, sciolto dal suo trogolo e più insaziato che mai do­ po il suo simulacro di pranzo rovinato, si inoltrò in quel deserto e ristabilì Γequilibrio; le sue povere braccia re­ marono per un attimo nel mio campo visivo; i passeri, mentre lui si avvicinava tonante, saltarono fuori da un sorbo; ancora una volta i suoi pugni intorpiditi boxaro­ no sul ring universale: dagli alberi che colpiva qua e là, schizzi d’acqua lo investivano. « Il Dio » pensai « dello Specchio Fumante, che è storpio, e ha due porte che gli sbattono fragorosamente sul petto». Il barbaro dio va­ cillò al limitare di un campo arato, sparì in un bosco; ero sollevato, la voglia di ridere mi era passata, mangiai: Jojo camminava su due piedi, si poteva farne un dio, ma era un uomo. Gli infermieri, giovanotti ottimisti con cui giocavo a carte, mi piacevano; da loro seppi quale fosse la passio­ ne di Thomas. Era piromane, e ce l’aveva con gli alberi; 165

spesso, in periodi di siccità, i nostri giovanotti dovevano correre qua e là nel parco con gli estintori. D’altronde la prendevano con filosofia; erano tipi allegri che non si stupivano più di niente, e credo che, malgrado le risa­ te, fossero davvero caritatevoli; l’intreccio di tanti di­ scorsi deliranti, infinitamente relativi, li aveva purificati, al contrario dei medici che su quei discorsi si arrogava­ no un insindacabile diritto di sguardo; e stavano agli psichiatri come un film dei Fratelli Marx starebbe alle pagine culturali di un settimanale: poco seri, screanzati e soccorrevoli, dritti all’essenziale. Con loro risi delle peripezie di Thomas, fratello Marx munito di cerini che sgattaiolava nella notte, con le mani umidicce co­ me un innamorato o un assassino, e che i suoi soci inse­ guivano nel parco, d’estate, morti dal ridere dietro una lancia antincendio. Eppure sapevamo che la faccenda era più complicata: forse Thomas aveva un’infinita pie­ tà di tutti e di tutto; quando la sua pietà lo soffocava al punto che nessun pianto e nessuna angoscia riusciva più a esprimerla, lui se ne liberava passando, per il tem­ po di un fiammeggiante simulacro, nel campo dei car­ nefici. Me lo immaginavo di fronte all’esorcismo crepi­ tante, mentre dilatava le narici all’odore degli abeti in­ candescenti come un dio fiuta un sacrificio, la faccia da impiegatuccio violentemente rischiarata in tutta la glo­ ria di un Portatore di Folgore; era il coniglio stregato da un faro, era il tedoforo che lo ammazza, e spiazzato tra questi due ruoli intercambiabili, terrorizzato che lo fossero, tremava quando i ragazzi lo riportavano nella sua stanza, burloni e materni. Comunque sì, aveva pie­ tà; forse avrebbe voluto che questo mondo, privo di grazia fin dall’origine delle specie mortali, fosse pacifi­ cato, fuori dal melodramma, scomparso; ai suoi occhi l’intero creato meritava compassione: la Natura Natu­ rata aveva fatto un buco nell’acqua. Ecco come vedeva, lui, i gigli del campo. Una domenica di gennaio l’alba luminosa alla mia finestra mi fece alzare presto; sotto lo stesso sole nascen­ 166

te, schizofrenici e simulatori, e tutti quelli che erano l’u­ no e l’altro, si incrociavano nel refettorio con la loro scodella fumante e, seduti, vi portavano a lungo la boc­ ca, prostrati dal nulla del giorno; molti erano vestiti a festa. Thomas era tra questi. Scherzando, insistette per­ ché lo accompagnassi a messa. Svicolai: non ci andavo da anni; ero e tuttora sono un ateo poco convinto; a messa del resto mi annoierei. Sottacevo il principale motivo di esitazione: la vergogna di mostrarmi in paese insieme all’orda scatenata. Lui allora, avendo capito e guardandomi fisso negli occhi, con dolente umiltà: « Oh, può venire: ci siamo solo noi in chiesa ». Noi, i pic­ chiatelli e gli impostori, gli scansafatiche di ogni risma. Arrossii, feci un salto a cambiarmi e raggiunsi Thomas. Percorremmo l’ameno tragitto inquadrati da un in­ fermiere come i galeotti dall’aguzzino: erano in tanti, tutti quegli ossessi e quegli eresiarchi che si trascinava­ no, con la palla al piede e la mitra gialla in testa, verso la Vera Croce. Davanti, alcuni idioti gravi camminavano più in fretta, troppo in fretta, come fanno tutti nell’an­ sia di arrivare a una meta che sempre sfugge; i loro re­ spiri danzanti si allontanavano, sparivano dietro una curva, il loro chiacchiericcio si attutiva in un folto d’al­ beri, s’intonava al pigolio delle creature più puro nel gelo; poi frulli d’uccelli, e di nuovo il branco zoppican­ te, le insulse invettive, le risate e le sconcertanti parole quando l’infermiere trafelato lo riconduceva verso di noi. In coda al miserabile corteo, camminavo trajean e Thomas: tra un settatore bislacco dell’eterna risurre­ zione della Madre e un fosco cataro che imputava il fal­ limento della creazione a un qualche nonnino Sabaoth ubriaco fradicio, io, postulante di Grazia diffusa, figlio perpetuo nell’onniassenza del padre e nella fuga delle donne, stavo andando a celebrare l’eterno ritorno del figlio in seno al Padre e la sua eterna, sanguinosa diffu­ sione in seno alle creature. Insomma un bel terzetto per il rogo, in epoche meno clementi. Tutto ciò sotto il riso flebile, di argento freddo, d’un sole di gennaio. 167

Eravamo quasi arrivati; i tetti luccicarono, ci apparve il paese nel suo valloncello; attraverso lo spazio dilatato la piccola campana suonava. Il dottor C. e Thomas ave­ vano detto il vero: i rintocchi allegri e tristi non invitava­ no nessuno alla tristezza del sacrificio, all’allegria delle rinascite; nessuno nella piazza, né sugli scalini della chiesa; dall’azzurra vastità che invano scuoteva, la cam­ pana di Saint-Rémy, ogni domenica mattina, non riusci­ va a chiamare altre pecorelle all’infuori di quell’incerto gregge che urtandosi, inciampando su ogni sasso e su ogni parola, scendeva goffamente i vicoli, faceva echeg­ giare la piazza delle sue futili corse, si riversava nell’atrio mugolando. Il bronzo vuoto, il bronzo raggiante e alte­ ro suonò finché non varcammo la porta: sotto il campa­ nile, con la pianeta di tutti i giorni, il reverendo si libra­ va insieme alla corda, indaffarato, serio, danzante. Rumorosamente ci sistemammo; la campana ebbe ancora qualche sussulto, tacque. Solo per noi Bandy aveva ballato con lenta cadenza insieme alla sua corda e, incaricata quella voce divina di salutarci, la quietava; non era prudente, del resto, sottoporre a una vibrazio­ ne così intensa la navata, già ampiamente danneggia­ ta: la semplicissima ossatura era scoperchiata al di so­ pra del coro, su cui dall’alto grondava la luce; una tra­ ve nera galleggiava nel cielo immacolato; i calcinacci caduti avevano ostruito la porta della sagrestia; e die­ tro l’altare, una crepa profonda si schiudeva sull’azzur­ ro commovente del cielo. I santi di gesso indossavano un cappuccio per superare l’umidità notturna che re­ gnava sotto le volte come in un bosco; l’altare era rico­ perto da uno spesso telone in stoffa da tenda, di un verde stinto. Con la stessa serietà, la stessa lenta caden­ za, il reverendo scoprì il capo a qualche santo, san Rocco il guaritore in brache e camiciotto di bigello, che indica sulla coscia la piaga carbonchiosa condivisa con i buoi, le pecore, san Remigio vescovo, il dotto con­ fessore dei vecchi carolingi, altri ancora; fece un sorri­ so, forse di modestia, pieno d’insondabile humour, at168

toccando la spina di una stufetta, inutile in quel vascel­ lo aperto a tutti i venti. Quando alla fine prese un an­ golo del telone e lanciò uno sguardo all’assemblea, Jean, officiando un rito che si rinnovava ogni domeni­ ca, si precipitò, afferrò l’altra estremità e insieme lo srotolarono: allo stesso modo, al momento della sosto, Mosè chiamava il più stupido cammelliere delle tribù di Israele e insieme, complici per un attimo, piantava­ no la tenda dell’arca. In quel deserto il tabernacolo ap­ parve. Bandy salì i gradini e iniziò. Come tanti anni prima, riuscii solo a estasiarmi amara­ mente; ero attonito, ero rassicurato. Ogni cosa affonda­ va, ma il naufragio si svolgeva in un irriducibile decoro: l’enfasi sovrana del gesto e del verbo si era sovranamente sgonfiato, la mediocrità della dizione era perfetto, la lin­ gua estenuato non toccava niente e nessuno; le parole esangui soffocavano tra le macerie, si eclissavano nelle crepe; come Demostene ma perseguendo effetti oppo­ sti, Bandy si era in qualche modo riempito la bocca di sassolini. D’accordo, diceva messa in francese, secondo la riforma liturgica del Concilio; ma io sapevo che un tempo Bandy avrebbe fatto in modo che la propria lin­ gua, passato al setaccio di una dizione turbinosa e fata­ le, risultasse incomprensibile; adesso ne faceva un idio­ ma inadeguato, limpido e meccanico, nemmeno un dia­ letto, il vano e monotono straripamento espletivo di un Essere irreperibile, un’interminabile formula di corte­ sia appiattito da secoli di usura: celebrava la messa co­ me un disco graffiato continua a girare in una sala vuo­ to, come un maitre chiede ai clienti se la cena era di lo­ ro gradimento. Tutto ciò senza affettazione e senza ironia, senza par­ venze di umiltà né di unzione, con un’efferato mode­ stia. La maschera era perfetto, e patetico lo sforzo per non avere altro volto che quella maschera: la pianeta gli conferiva un’aria impacciato, la stola lo intralciava, baciava la tovaglia dell’altare con il maldestro ritegno di un paggetto campagnolo che bacia una sposa di cit­

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tà, truccata e scollata; i santi elencati nel Confiteor sem­ bravano di gesso dipinto, la Madonna era la Madre Mi­ sericordiosa che aveva venerato mia nonna; le allusioni alle tre persone della Trinità, al loro strano e oscuro commercio reciproco, venivano sbrigate frettolosamen­ te e con una specie di imbarazzo, quasi si scusasse di dover tediare l’assemblea con un’astrusa formalità. In quella navata sventrata e per il pubblico che abbiamo visto, si sforzava di animarsi un laborioso contadino tonacato per caso, uno scorticatore di parole consapevo­ le di esserlo e a stento capace di porvi rimedio, giusto capace, a forza di abitudine e perseveranza, di dire una messa corretta. Gli idioti non stavano fermi un attimo - eppure, cu­ riosamente, a modo loro seguivano. Laggiù, dalle parti di Bandy, c’era qualcosa che li interessava: quella messa infinitamente relativa non li intimoriva più di un nugo­ lo di cavallette nei campi, del mormorio indistinto de­ gli alberi, delle mosche intorno a un frutto guasto; si avvicinavano con circospezione al coro, artigliavano la bassa inferriata con le mani evanescenti e rapaci, allun­ gavano il collo per meglio veder fremere le elitre, senti­ re il vento divulgare le foglie; uno di loro prese corag­ gio tanto da toccare con la punta delle dita la pianeta frusciarne. Tornò di corsa, ridendo sotto i baffi, spaven­ tato dalla propria audacia ma fiero della prodezza; l’in­ fermiere burlone lo redarguì a voce alta: il miserabile fece il ghigno tronfio della peste che è anche il primo della classe. Nello smacco del verbo, il reverendo, imperturbabi­ le, benediceva quelle creature svelate, indomite, dispo­ tiche. Con lenta cadenza venne verso di noi, il suo occhio di neve ci sfiorò, l’omelia cominciò. Era la messa dell’Epi­ fania, che commemora da sempre l’adorazione dei Ma­ gi; mi ricordai di altre prediche in cui l’orazione di Ban­ dy, triplamente regale e seguendo una stella, si era dif­ fusa sull’erranza dei Re carovanieri e sulla brillantezza

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dei cieli notturni che li indirizza lungo il cammino, sul­ la presunzione di quei portatori di mirra asserviti all’ar­ roganza divina del Verbo fatto bambino. Non parlò dei Magi: la resa dei Re alla Parola incarnata non riguarda­ va più lui, che con la sua parola d’oro non aveva saputo piegare il muto, l’impassibile Dispensatore di ogni pa­ rola. Parlò dell’inverno, delle cose nella brina, del fred­ do nella chiesa e lungo i sentieri; al mattino aveva rac­ colto nell’abside un uccello assiderato; e, come avreb­ be fatto una zitella o un pensionato sentimentale, com­ misero i passeri stecchiti dal gelo, i vecchi cinghiali consumati dall’inedia e impauriti che grugniscono do­ lorosamente nella neve, il leggiadro zucchero bianco che affama; parlò dell’erranza delle creature che non hanno stelle, del volo ottuso dei corvi e dell’eterna fuga in avanti delle lepri, dei ragni che vagano senza fine nei fienili, di notte. La Provvidenza fu menzionata a titolo informativo, forse per antifrasi. Ogni stile era venuto meno; la predica del tutto atona era alleggerita di ogni nome proprio; niente più David, niente più Tobia, nes­ sun leggendario Melchiorre; frasi slegate e termini pro­ fani, il pudore un po’ insulso dei luoghi comuni, del senso svelato, della scrittura bianca. Come un Grande Autore che un tempo avesse fatto ballare invano i suoi lettori « sulla padella della propria lingua » senza gua­ dagnarsi, tramite loro, l’approvazione del Gran Lettore di lassù, Bandy si rivolgeva ormai ai più diseredati, quel­ li che qualsiasi lettura intimorisce, con parole di ogni giorno e motivi di canzonette; Dio non era per forza un Lettore Esigente: il suo ascolto poteva modellarsi sull’o­ recchio incerto di un idiota. Forse il reverendo avrebbe voluto, come Francesco d’Assisi, parlare solo agli uccel­ li, ai lupi; perché se quelle creature senza linguaggio l’avessero capito, allora ne sarebbe stato sicuro: era toc­ cato dalla Grazia. Corvi e cinghiali turbarono i dementi: si sbellicavano dalle risa, si impadronivano di questa o quella parola del reverendo, la riproponevano nei toni più disparati; 171

l’infermiere li strapazzava; nel trambusto, qualche im­ pavido schizofrenico si raccoglieva come sempre, se­ polto nei suoi attributi angelici, l’assenza e l’enigma. Accanto a me Thomas, il volto tormentosamente esta­ siato, guardava l’angolo di cielo appeso alla trave nera: l’angelo di un’Adorazione di Dürer piombava da lonta­ no su di lui, o le larve abiette di una Tentazione con il volo arruffato dei passeri. Su tutto ciò qualcosa di vaga­ mente vergognoso, inconfessabile, prossimo al peggio. Il reverendo riprese la sua messa; consacrò il pane, il figlio apparve, gli svitati si agitarono; la porta della chie­ sa si aprì con fragore: sulla soglia, ansante, un dio azte­ co contemplava il Vero Corpo. L’infermiere accorse, senza tanti riguardi cacciò fuo­ ri il meschino; fuori di sé ma spaventato, Jojo uggiolava sommessamente come un cane bastonato mentre lo portavano via. Il reverendo si era voltato: sorrideva. Alla fine del soffocante agosto del 1976 mi trovavo di passaggio nella cittadina di G., in cerca di libri; nessuna Grazia mi era arrivata e, febbrilmente, compulsavo inva­ no ogni Scrittura per scoprirne la formula. Incontrai un infermiere di La Ceylette; mi parlò di quelli che avevo conosciuto lì: Jojo era morto, e morta Lucette Scudéry; Jean era probabilmente imprigionato a vita; Thomas, che di tanto in tanto veniva restituito alla vita civile, ri­ spondeva puntualmente al richiamo degli alberi, li libe­ rava con il fuoco, e si ritrovava di nuovo in gabbia. « E il reverendo?». L’infermiere rise senza allegria; mi rac­ contò quello che segue, risalente alla settimana prima: Sabato Bandy aveva bevuto con dei braccianti reduci dalla trebbiatura; chiuso l’Hôtel des Touristes, le liba­ gioni erano continuate in canonica; i compari, parec­ chio brilli, si erano separati all’alba, facendo un gran baccano per Saint-Rémy. Domenica mattina, il solito corteo partì da La Ceylette; nel folto della fustaia del Puy des Trois-Cornes gli ospiti della clinica riconobbe172

ro, appoggiato al cartello stradale in cui una figura mu­ nita di corna spiccava un balzo, il motorino del reve­ rendo. Jean si precipitò nel bosco, con l’infermiere alle calcagna; al margine di una vicina radura, ricoperto dall’ombra ecclesiale di un faggio contro il quale sem­ brava seduto, accasciato nel biancospino e nell’edera gualcita, abbarbicato alle felci, la camicia di grezzo co­ tone azzurro aperta sul petto d’avorio, il reverendo li guardava a occhi spalancati: era morto. Nel giorno nascente, nitido nel cielo radioso e legge­ ro come il canto di un ubriaco, il Puy frondoso l’ha chiamato. E entrato nel bosco; gli stivali ai suoi piedi hanno suscitato profumi, l’ombra verde gli si è posata sulla fronte; stava fumando; il vino bevuto lo cullava, le tenere foglie lo accarezzavano; ha articolato con stupo­ re qualche sillaba che non sappiamo. Gli ha risposto qualcosa, che somigliava all’eterno, nella fortuita ver­ bosità di un uccello. Lo sbuffo improvviso di un cervo lì vicino non l’ha sorpreso; ha visto una femmina di cin­ ghiale venire verso di lui piano piano; i canti che udiva, quei canti così ragionevoli, si sono fatti più intensi in­ sieme alla luce. La schiarita all’orizzonte ha svelato un sottobosco di upupe, di ghiandaie, piumaggi ocra e ro­ sa come fiori, becchi attenti e occhi tondi pieni di intel­ ligenza. Ha accarezzato serpentelli mitissimi; continua­ va a parlare. Il mozzicone gli scottava le dita; ha dato l’ultimo tiro. E stato trafitto dal primo sole, ha barcolla­ to, si è avvinghiato a mantelli fulvi, ciuffi di menta; ha ricordato carni di donna, sguardi di bambini, il delirio degli innocenti: nel canto degli uccelli parlava tutto questo; è caduto in ginocchio nella sconvolgente significanza del Verbo universale. Ha rialzato la testa, ha rin­ graziato Qualcuno, ogni cosa ha preso un senso, è rica­ duto, morto. Oppure è stato alla falsa aurora, quando i galli straniti cantano una volta, si stupiscono nell’isolamento del loro grido, si riassopiscono; come è ancora nera la notte. Mezzogiorno è lontano: perfetto geroglifico e forma

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compiuta, adorno della sua vita irrevocabile, padre Ban­ dy tace e dorme nell’immensa pianeta verde dei boschi dove passano lentamente i grandi cervi finti, una croce tra le corna.

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VITA DI CLAUDETTE

A Parigi, dove andavo per elemosinare dal cielo una seconda occasione cui non credevo, l’assenza di Ma­ rianne si deteriorò in me definitivamente. Vi trascorsi due anni bercianti, insulsi, come in sogno: imploravo aiuti a gran voce per concedermi il lusso di rifiutarli; ingigantivo il mio sconforto, tormentando le poche anime caritatevoli o miserande che ero riuscito a com­ muovere con suppliche sempre più assillanti. Cam­ biavo casa a rimorchio di quelle povere ragazze, nell’in­ differenza, nella rabbia: in rue Vaneau sfasciavo porte di notte e il giorno dopo tremavo davanti al portinaio; in rue du Dragon, reclutato da pignoli relitti umani del mio calibro, fui promosso a spinellato e dormivo sotto un acquaio; a Montrouge mi assentai per un inte­ ro inverno: la ragazzina che martirizzavo all’epoca an­ dava in giro per Parigi, le tasche piene di ricette medi­ che false, e mi portava caterve di barbiturici; i suoi oc­ chi verdissimi e indulgenti mi guardavano, la sua ma­ no di bimba mi porgeva gentile quell’oscura profenda, ogni cosa ondeggiava, la veglia era sonno; la mano mi tremava così forte che le innumerevoli pagine scritte in quel coma sono misericordiosamente illeggibili: il 775

Cielo fa bene ciò che fa. Una volta vidi dalla finestra un lillà in fiore, era primavera. Non conosco il nome del sobborgo chic in cui una notte d’inverno scappai, o venni mandato via, da un atelier nel sottotetto di un villino liberty: tra le fredde siepi di bosso ghignavano stucchi, fauni, fauci aperte sotto la luna; insultavo qualcuno; le mie mani spellate cercavano cancelli, fe­ rite, vie d’uscita. Né il cammino né il gelo mi aiutaro­ no a smaltire la sbronza: ruderi della mia coscienza allora devastata e del ricordo che oggi si eclissa, rivedo l’acqua plumbea del canal Saint-Martin, un torvo bi­ strot dalle parti della Bastiglia, e neH’illuminazione a giorno dei neon la defezione di volti promessi alla notte. I grandi treni che sfacchinavano sulle traversi­ ne vibranti fecero spuntare l’alba; un popolo di spet­ tri stremati e mitissimi arrivava dalle periferie, brac­ cato dal giorno: ero al quai d’Austerlitz, e non stavo partendo. Eppure fuggii, salvato dai fasti della capitale dall’acce­ camento di una donna che mi prese per un autore; con­ cludemmo l’affare nel giro di una notte, in un bar di Montparnasse dove un cameriere beffardo mi versava vino bianco dentro un bicchiere da birra: spinsi il com­ piacimento fino alle lacrime. La bella mi ascoltava sor­ seggiando gazzose; mi trovò simpatico, mi portò con sé. Era bionda in modo grazioso, senza malanimo, adepta della psicoanalisi. Claudette veniva dalla Normandia, e in Normandia andai: le sole leggi di un’estrosa esogamia sono abba­ stanza forti per farmi trasferire. A Caen fui alloggiato al primo piano di un villino uso foresteria, tra i libri e gli al­ beri di un parco che si agitavano alle finestre, gravidi di pioggia atlantica. Uno di questi, ovviamente una quer­ cia, benché sottoposto al comune acquazzone, era più eloquente degli altri; aveva un passato, il che significa in qualche modo avere un nome e un linguaggio: ai suoi piedi, mi disse Claudette, Charlotte Corday aveva giurato un giorno di uccidere l’uccisore di re prima di

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partire con il suo fichu nell’alba umida dell’Auge, ver­ so la morte di un altro e la propria, verso la ghigliottina e la salvezza. Trassi a me Claudette, la baciai, le toccai la gola; intanto mi immaginavo Charlotte, folle e ragio­ natrice, con il suo misero fagotto annodato come un fazzoletto, ottusa, mentre rimasticava l’ottusa scorza di storie sconnesse di regine profanate, di massacri a set­ tembre, di pugnali e di mandati divini: come un autore, pensavo, che non sa di cosa parla né per chi, ma accam­ pa il proferimento di parole vuote per pretendere dal cielo uno statuto unico, e l’assunzione, nella morte ro­ vinosa, di un nome memorabile. L’albero cieco gron­ dava. Nonostante quel modello illustre e il suo frondoso pubblico non scrissi nulla. Stavo uscendo dal lungo so­ gno dei barbiturici, giacché fin dal primo giorno avevo stracciato le ricette, forse per sfida e gusto del gesto, oppure, più banalmente, per adeguarmi alla ridicola chimera della seconda nascita; e la sollecitudine di Claudette faceva in modo che i miei occhi non incon­ trassero bottiglie. Ma sognavo che stavo scrivendo: mi aiutavano in questa finzione bagordi di anfetamine, al­ le quali mi aveva convertito, senza difficoltà, un’amica di Claudette meno giudiziosa di lei. Attraverso il prisma acuto di quella droga fredda, Caen fu per me un deserto: ero luminoso, ero teso, lu­ minose tensioni laceravano, al mio avvicinarmi, lo spa­ zio massificato intorno a spigoli duri; sfumature e pro­ fondità mi sfuggivano, e mi sfuggiva la prodigiosa quie­ te delle ombre graduali, quelle azzurre e quelle brune e quelle in cui gli azzurri dorati a poco a poco si disfa­ no, l’umile rivolta e l’ultimo rifugio delle cose di fronte all’adamantina lucidità del cielo; arcigni cubi da anti­ chi maestri senesi spezzavano la città, i suoi orizzonti e i suoi climi, e nel gelo l’aria impalpabile si rapprendeva in grandi poliedri freddi: su quella banchisa esultavo, con una mano intirizzita attorno al cuore, occhi di ve­ tro polito e l’intelligenza livida di un dannato dell’ulti-

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mo girone. Invano i placidi campanili di Caen, cari a Proust nei loro boschetti umidi e nel loro nimbo di aria piovosa, mi ammiccavano; soltanto la verticalità batta­ gliera dell’Abbaye aux Hommes che affronta la violen­ za del cielo trovava un’eco nella mia mente: l’intera mia mente contratta in un pugno di neve, come una facciata abbacinante colpita da un duro raggio - immu­ tabile, senza speranze in un notturno spegnitoio - di sole pietrificato. Su quella facciata scrivevo, in sogno. Mi sistemavo fin dalle prime ore al mio tavolo da lavo­ ro, sotto l’occhio ogni giorno più perplesso di Clau­ dette; prima ero sparito qualche secondo in bagno per ingurgitare una tripla o quadrupla dose, e la bella bion­ da non si faceva ingannare da quel nascondino da cui tornavo l’occhio gaio e le mani rigide, magari vergo­ gnandomi ma radioso di abietta allegria. Alla fine, scon­ solata, si dirigeva verso il suo studio, dove l’aspettavano soggetti da recuperare e ritardati ai quali prodigava uno zelo forse scemante da quando celava tra le pro­ prie mura un caso con la c maiuscola, poco ornamenta­ le e perso in partenza; io sghignazzavo. Che cosa c’en­ travo con quelle sciocchezze, io, consacrato quotidia­ namente Grande Autore da un pizzico di polvere bian­ ca? Una mattina sovreccitata, infeconda e funebre, ma ripeto, allegra, stava cominciando; ero fiamma e fuoco freddo, ero ghiaccio che viene spezzato e le cui schegge sfavillano, belle e variopinte; frasi troppo affrettate, profuse e torvamente pimpanti, mi attraversavano sen­ za posa la mente, in un attimo si trasformavano, si arric­ chivano della loro volatilità, e sbocciavano sulle mie labbra che le gettavano nello spazio trionfale della stan­ za; nessun tema o struttura, nessun pensiero intralciava il loro prodigioso chiacchiericcio; nascosta in tutti gli angoli, teneramente china su di me e bevendo alle mie labbra, una grande Madre abbagliata, benevola e tutta orecchie prendeva ogni mia minima parola come oro colato; e come oro ogni minima parola suonava alle 178

mie orecchie, mi si moltiplicava nella mente, oro rifuso scaturiva dalla mia bocca: avaro, non ne affidavo nem­ meno un’oncia alla carta. Eppure mi dicevo: come avrei scritto bene!; non bastava forse che la mia penna pa­ droneggiasse un centesimo di questa favolosa materia? Purtroppo era tale solo perché non aveva né tollerava padroni, si trattasse anche della mia stessa mano. Se l’a­ vessi scritta non avrebbe lasciato sulla pagina che cene­ re, come un ceppo dopo la fiammata o una donna do­ po il piacere. Ma no, avrei scritto comunque, questione di poco; non c’era fretta. Alle cinque del pomeriggio mi battevano i denti. Con l’esaurirsi dell’artificio che l’aveva creato, il mio occhio solare si eclissava dietro una notte fosca che ottenebrava l’universo: guardavo sul tavolo una risma di carta bianca intonsa; nessuna eco nella stanza muta celebrava la memoria dell’opera impotente ancora una volta proferita, elusa. Così passa­ va il tempo: attraverso la finestra lo storico albero si am­ mantava di foglie ogni giorno più chiacchierone che nulla dovevano alla loquacità di una donna un tempo ispirata, morta. Le anfetamine mi distruggevano; ma oggi, con la stretta al cuore e il rimpianto che mi darebbe una don­ na un tempo mia e per sempre perduta, credo che mi abbiano regalato momenti della più pura felicità, e in qualche modo letteraria. Quando le prendevo, ero per­ fettamente solo; ero re di un popolo di parole, loro schiavo e loro pari; ero presente; il mondo si assentava, i neri stormi del concetto ricoprivano tutto; allora, su quei ruderi di mica riverberanti mille soli, la mia scrit­ tura posticcia, virtuale e sovrana, spettrale ma unica sopravvissuta, aleggiava e scendeva a picco, svolgendo un’interminabile benda con cui fasciavo il cadavere del mondo. E su quella tomba il cui epitaffio declamavo in­ stancabilmente, sola bocca a sciorinare l’infinito carti­ glio, io trionfavo: stavo passando dalla parte del padro­ ne, dalla parte del manico, dalla parte della morte. Tale felicità nulla doveva alla forza dell’anima, ma forse era, 179

al più alto grado, felicità di uomo; come l’esultanza de­ gli animali deriva dal fatto che non sono distinti dalla natura di cui partecipano, la mia derivava dalla perfetta corrispondenza con ciò che per l’uomo, dicono, è na­ tura: parole e tempo, parole vanamente date in pasto al tempo, qualsiasi parola, mendace e veritiera, sentita e insensibile, l’oro e il piombo, precipitati di peso nella corrente sempre integra, insaziabile, spalancata e pla­ cida. Da Claudette mi aspettavo approvvigionamenti di ve­ leno; si rifiutò. La possedevo senza riguardi, rudemen­ te: avrei voluto che la sua carne fosse labile e sottomessa come lo erano, per me, le parole; e invece no, lei appar­ teneva al mondo, esisteva anche senza di me, voleva e resisteva, ed io mi vendicavo dandole piacere: delle sue grida, almeno, mi ritenevo la causa, erano parole cui la costringevo. Nonostante le mie vaghe smentite e i miei mattutini simulacri, sapeva benissimo che non scrivevo: l’autore fanfarone di Montparnasse era quel relitto umano sovreccitato, quel maniaco seduto a un tavolo davanti a fogli immacolati; inoltre avevo respinto con sdegnati sarcasmi le occasioni di lavoro che i suoi con­ tatti le permettevano di propormi; mi manteneva; si sta­ va perdendo d’animo, giacché le mie risate avevano co­ perto di ridicolo le povere passioni da libro per ragazzi, o considerate tali dalla mia presunzione, che le offriva­ no di se stessa un’immagine non troppo insignificante: il tennis, il pianoforte, la psicoanalisi e i voli charter. Eppure non mancava di una certa nobiltà. Mi ricor­ do il suo sguardo un giorno d’inverno, in riva al mare; ormai iniziava a smontarsi, ma non aveva perso ogni speranza: non ero un autore, d’accordo, ero pigro e un po’ bugiardo; be’, si sarebbe abituata, avrebbe fatto del suo meglio purché, per favore, fossi misericordioso con lei e le consentissi di vivere in quel mondo come lei per­ metteva che io ne vivessi al di fuori: quello sguardo po­ sato su di me diceva tutto ciò senza insistenze e senza pianti, con dignità, con amore. Portava un berrettino 180

di lana lavorato a maglia, stivali di gomma gialli, fan­ ciulleschi e allegri sulla sabbia cupa; il freddo la impor­ porava, il grido brusco dei gabbiani accentuava la sua malinconia; i miei occhi si staccarono da lei, fecero il giro deU’immenso orizzonte, delle spiagge condannate dall’inverno alla violenza neutra, al lamento, all’ebetudine di sempre; vidi una Volkswagen bianca che si era fermata laggiù tra le dune, un cielo carico, grigio ferro con rabbiose pennellate a guazzo, e la grande reptazio­ ne marina corrucciata, gonfia, eternamente solerte: il mondo, e nient’affatto futile ma semmai irrinunciabi­ le. E là sotto Claudette, piccola piccola sulla sabbia con le sue scarpe gialle, piena di buona volontà, che si fer­ ma un attimo nella mia memoria, coraggiosamente cam­ mina in quel verde e quel grigio che la cancellano, qualche passo ancora, ancora un po’ di giallo, gli spruz­ zi la portano via, sparisce. L’ho delusa, Claudette, per non dire di peggio; l’ulti­ mo sentimento che ebbe per me, l’ultimo sguardo che su di me posò fu forse di disgusto, di paura e compas­ sione insieme. E fuggita da ciò che la spogliava di sé, e nel corso delle cose ha forse ritrovato se stessa. Avrà sposato un accademico, sportivo e brillante, con idee anticonformiste o un futuro da pezzo grosso; adesso corre sul verde di un campo da golf, saltella in gonna da tennis dall’ombra alla luce, il gradevole suono della pallina si ripete puntuale, le morbide cosce si fermano, ripartono, il morbido tessuto le danza intorno alla vita; avrà finito la tesi e si sarà imporporata per gli elogi del­ la commissione; ride sotto una piccola vela nel mare al­ legro, le mani che la stringono le mozzano il fiato, il mondo inesauribile è fatto di distanze chilometriche, di alte moschee e di vegetazioni trionfanti chine su spiagge infinite, di orari di volo e di uomini premurosi, che si pavoneggiano in giardini d’estate con i loro no­ mi importanti, i loro abiti da sera, volitivi e sereni come

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statue, fieri come patriarchi, focosi come giovincelli, e impegnati a farle la corte. La sua interminabile analisi è gravida di sviluppi imprevisti che, se non le offrono una vita diversa, le offrono comunque una vita; Γ affliggono perdite, abbandoni, la felicità non arriva; o forse è mor­ ta e avrebbe meritato una più ampia Vita Minuscola. Possa non ricordarsi di me. Me ne andai da Caen in circostanze vergognose. Alla stazione, dove Claudette mi lasciò, eravamo tutti e due affranti, le mani sfuggenti, timorosamente insediati in ciò che è senza rimedio. Mi ricordai che era rimasta lì ad aspettarmi una notte intera, vestita in lungo e truc­ cata, esposta alla rude bramosia dei ferrovieri, alla tor­ ma sfiancata di uomini dagli occhi brutali, le mani avi­ de e nere, distrutti da lavori lontani e che di rimando insulta, fresca bellezza tra biglietti sgualciti e militari ubriachi, il lusso di una donna in décolleté. A quella torma venivo restituito, non le avrei più slacciato il reg­ giseno; lei scappò; la sera di fine estate scivolava via sui binari scintillanti, i treni arroventati sfavillavano. Esitai trasognato fra varie destinazioni; a trarre i dadi fu una sorte burlona o cinica, saltai su una carrozza, gli scambi fecero il resto: raggiunsi Auxanges. Lì incontrai Laurette de Luy.

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VITA DELLA BAMBINA MORTA

Devo concludere. Siamo in inverno; è mezzogiorno; il cielo si è appena coperto di una coltre bassa e omoge­ nea di nuvole nere; un cane poco distante emette a in­ tervalli regolari quel latrato lento, subdolo e come da conchiglia marina, che fa pensare stia ululando alla morte; forse nevicherà. Penso agli allegri uggiolìi degli stessi cani, le sere d’estate, quando riportavano le greg­ gi tra pozzanghere di chiarore; ero bambino, anche la luce lo era. Forse il mio sforzo è inutile: non saprò mai che cosa si dileguò scavando un solco in me. Immagi­ niamoci, ancora una volta, che le cose siano andate co­ me sto per dire. Nei miei primissimi ricordi d’infanzia sono spesso ammalato. Mia madre mi accoglieva accanto a sé nella sua stanza; venivo accudito devotamente; irreali strilli di bambini salivano dal cortile della ricreazione, volteg­ giavano e svanivano tra voli di rondini; si gettavano ciocchi nel camino, tutto scoppiettava; oppure tutto si spegneva e nell’ultima vampata vermiglia apparivano fantasmi dapprima teatrali e distinguibili al punto che ci potevi giocare, poi così densi che stentavi a dar loro un nome, e alla fine anonimi e omogenei come il buio 183

appollaiato su un bambino. Il giorno tornava, e una nuova fiammata scaturiva dalla sottana nera di Elise che, curva, la ordiva soffiando sulla cenere, poi mi sor­ rideva con tenerezza nel sopraggiunto chiarore. Spero di averle sorriso anch’io. Se ne andava; allora scoprivo ogni cosa; scoprivo lo spazio al di là della finestra, il pe­ so del cielo in lontananza sulla strada di Ceyroux, il cie­ lo vasto e altrettanto pesante su Ceyroux che io non ve­ devo, ma che a quell’ora ribadiva ostinatamente la sua insignificante volontà di tetti e di vivi dietro l’orizzonte tenebroso dei boschi. Evocavo luoghi invisibili e dotati di un nome. Scoprivo i libri, in cui ci si può nascondere così come fra le sottane trionfali del cielo. Imparavo che il cielo e i libri fanno male e seducono. Alieno ai giochi pedissequi, scoprivo che si può non imitare il mondo, non immischiarvisi, con la coda dell’occhio guardarlo farsi e disfarsi, e in un dolore reversibile in piacere gioire di non prendervi parte: all’intersezione tra lo spazio e i libri, nasceva un corpo immobile che ero ancora io e che fremeva interminabilmente nell’im­ possibile desiderio di conformare ciò che leggiamo alla vertigine del visibile. Le cose del passato sono vertigi­ nose come lo spazio, e la loro traccia nella memoria è inadeguata come le parole: scoprivo che abbiamo ri­ cordi. Ma poco importa; l’enfasi non mi aveva ancora gua­ stato. Avevo un salvadanaio, uno di quei classici maiali­ ni rosa commoventi e ridicoli, con cui giocavo a lungo sulle lenzuola, stregato e come diffidente. Ci avevano messo dentro qualche monetina: quell’invisibile ric­ chezza, conferitami in virtù di chissà quali oscure leggi, ma inutilizzabile, che facevo tintinnare contro i fianchi cavi di maiolica, aveva qualcosa di irrisorio e forse di brutale. A maggior ragione mi sentivo deluso poiché nell’armadio c’era un altro salvadanaio, infinitamente più degno di attenzione, proibito e strabiliante: un pe­ sciolino di un blu intenso d’ardesia o di giaggiolo, vispo e guizzante, dalle corpose squame che le mie dita tasta­

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vano quando di nascosto riuscivo a prenderlo. Nelle Mille e una notte ci sono pesci astuti e scostanti che parla­ no, che si trasformano in oro e hanno barbigli magici; dalla sua penombra di ruvide lenzuola, questo mi chia­ mava lungamente a bassa voce come un altro, sul blu di Persia dove l’onda scaraventa dei geni che i ciottoli ur­ tano, chiama un piccolo pescatore col turbante. Non dovevo toccarlo. Apparteneva alla mia sorellina. La mia sorellina era morta. Una volta - non so se fossi più ammalato, più melli­ fluo e insistente, o se mia madre, esausta, avesse deciso di darmi fiducia - ebbi il diritto di giocare anche con il pesce. Alla gioia di tale concessione subentrò ben pre­ sto un turbamento crescente: quel salvadanaio era di­ verso dal mio. Insomma, mia sorella era diventata un angioletto e mi aveva abbandonato quaggiù, in questo mondo poco utilizzabile; esisteva solo su labbra com­ mosse e in un’unica foto, inespressiva e freddamente paffuta come un putto, mentre a me toccava tirare avanti. Fuori regnava il cielo limpido, mi distrassi, una delle mie mani si aprì; il pesciolino finì in mille pezzi sull’impiantito. Mia madre piangeva spazzando i cocci di maiolica blu che non avrebbero mai più avuto una forma se non nella sua memoria, e nella mia. Tempo dopo, di nuovo nella stanza di mia madre du­ rante un’altra malattia, e stavolta di sicuro in inverno, all’ora in cui dentro di sé si dibatte se si debba accende­ re la luce, incalzare se stessi o lasciarsi andare, conce­ dersi un altro rinvio, feci la conoscenza di Arthur Rim­ baud. Mi sembra, giuro, che fosse sull’« Almanach Vermot», che Félix si procurava ogni anno e che a quell’e­ poca proponeva, sotto le misere vignette umoristiche alle quali doveva la sua fama, frivole cronache letterarie o politiche, curiosità geografiche, tutte cose che di lì a poco, fin dentro i casolari di campagna, sarebbero state chiamate cultura. L’articolo era illustrato da una brutta fotografia di tarda infanzia in cui Rimbaud tanto per cambiare tiene il broncio, ma appare se possibile anco­

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ra più impenetrabile, ottuso e impenitente, bardato e in disordine come lo erano nelle foto di gruppo i miei compagni di scuola arrivati straccamente, di mattina, dalla notte delle frazioni più lontane, da Leychameau o da Sarrazine, quei luoghi favolosamente sperduti dove il lutto è più improduttivo, lo spazio più vuoto e il gelo addirittura più pungente su mani sempre arrossate, in­ tirizzite. Conoscevo quella stupida mitezza e quei neri tic, sedevamo allo stesso banco. Fui attratto anche dal titolo, che sbagliandomi lessi: «Arthur Rimbaud, l’eter­ no infante», mentre era «l’eterno errante»; corressi il lapsus solo molto tempo dopo; ma passiamo oltre. No, quella carne musona non mi era meno familiare del­ l’impacciata infanzia ardennese che il giornalistucolo romanzava. Io avevo altre Ardenne al di là della fine­ stra, e mio padre, pur non essendo capitano, era scap­ pato via come il capitano Frédéric Rimbaud; al mulino di Mourioux, più isolato di quelli della Mosa, avevo la­ sciato andare fragili battelli a maggio, e forse già lascia­ to andare la miavita; l’aria immobile mi strappava lacri­ me, le mie passioni sorelle erano pietà e vergogna. Su altri punti dell’articolo rimasi perplesso, ma esaltato all’idea di risolvere un giorno tali enigmi, rendermi de­ gno dell’impervio modello che mi era appena stato ri­ velato: cos’era dunque quella poesia feroce poco in to­ no con i domestici componimenti recitati malamente all’inizio delle mattine di scuola, quando si accendeva la stufa, quella poesia per la quale, a quanto sembrava, abbandonavi con gran danno la famiglia, il mondo, in definitiva te stesso, e che per amor suo non esitavi a get­ tar via, che ti rendeva simile ai morti e superlativamen­ te vivo? Inoltre Rimbaud aveva una sorella che nono­ stante tutto l’aveva amato, da lontano sostenuto, tute­ larmente accudito così lontano da Charleville negli ul­ timi sudori e le ultime abiure, eppure l’angelo era lui, proprio lui. Solo a lui, ragazzo cresciuto benché ampu­ tato di tutto, un oscuro giornalistucolo accordava, lì, il più angelico degli epiteti, che fino allora mi era sem­

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brato appannaggio dei bambini morti - delle bambine morte -, di una foto seppia sbiadita, di una cosa stra­ ziante e tremenda sottoterra che dei fiori lenivano, lag­ giù a Chatelus. Insomma, bisognava proprio che facessi l’angelo, un giorno, per essere amato come lo sono i morti. Ma se tardavo troppo chi mi avrebbe amato? Guardavo il fuo­ co piangendo, chiamavo mia madre, le facevo giurare che i nonni non sarebbero morti. Vecchi cadaveri, oggi sono tranquillamente distesi accanto all’angelo nella sua piccola cassa, un po’ sotto Chatelus, non hanno più occhi per vedere che mi spuntano le ali; pochissimi fiori dalla mia mano li acquietano, le stagioni che disfa­ no le loro vecchie ossa fiaccano la mia volontà, scrivo componimenti da scuola elementare e so che una sera d’inverno, in una stanza il cui ricordo stinge, tra le pa­ gine sottili dell’«Almanach Vermot» che anche loro leggevano, mi sono teso una trappola la cui morsa si sta richiudendo.

Da bambino sapevo che altri bambini morivano; ma quelli non mi avevano preceduto in un magistrale li­ brarsi, non erano solo leggenda, li avevo frequentati e sapevo che eravamo fatti della stessa creta; dubitavo che diventassero, come mi veniva assicurato, angeli a pieno diritto. Riguardo a loro tutto cambiava, però, nel momento in cui stavano ineluttabilmente per morire. Nell’agonia, in ciò che arriva per sempre, si trasforma­ vano dall’oggi al domani, ancora vivi, in spaventose di­ cerie; Elise e Andrée li nominavano bisbigliando, con tono dolente, io facevo finta di giocare, origliavo: cos’e­ ra quell’improvviso rispetto di cui, insignificanti fino a ieri, adesso godevano, cos’erano quelle voci che si smorzavano al mio arrivo, come quando si parlava di donne leggere, di debiti inespiabili, di mio padre leg­ gero e inespiabile? Poi un vicino entrava in cucina più lentamente o più teatralmente del solito, lo sguardo 187

che la diceva lunga, oppure Félix, investito di una fuga­ ce grandezza, recava dalla bettola la notizia assoluta, l’inverno era più vasto o l’estate più azzurra, il bambino non c’era più. Nell’azzurro tremolio dei lillà, nella ne­ ve che miracolosamente cade dal nulla, cercavo voli in­ contestabili. A Sarrazine ne morì uno di difterite. Era davvero sor­ prendente che quel pel di carota mite e arcaico, pieno del sonno rurale in cui era immersa quella località, quello zuccone che avevo disgraziatamente preso a sberle, facesse parte d’ora in avanti della schiera alata, dotato di un corpo d’aria densa. Per prendere il volo, se già eri fregato, bastava allora che la morte ti fregasse per sempre? La piccola Bernadette, mia cugina di Les Forgettes, venne colpita da una terribile malattia; avevo spesso giocato con lei e sua sorella sotto l’amplissimo albero il cui fogliame crivellava di luci danzanti i loro volti indistinti e i loro vestiti chiari, sull’aia dell’enorme fattoria dirimpetto agli ampi boschi, e la contraffazione del ricordo me le rende oggi simili alle cuginette, ora allegre ora austere, che nella Porta stretta appaiono e si dileguano come a nascondino. Nessuna ombra estiva l’avrebbe più acquietata; sanguinava, implorava, sape­ va di dover morire. Elise, che faceva la strada a piedi per vegliarla e tollerava che quello sguardo terrorizzato l’assillasse, che quella mano nuova e già inesistente ri­ corresse, per scomparire, a una vecchia mano viva, Elise tornava al mattino ferita e muta, rassegnata. Si giunse al fatale epilogo, la bambina era una piaga in­ sopportabile che bisognava ridurre al silenzio; una sera Elise ci pregò di lasciare la cucina e di andare subito a letto, lei aveva da fare: conosceva infatti antichi rimedi stregoneschi, risalenti a chissà quando, per fermare il sangue delle donne o arrestare la nube che con la fol­ gore imperversa sui covoni, tenere in scacco gli dèi cor­ nuti che abbattono i buoi a decine e fanno girare le pecore su se stesse fino alla morte, per dilazionare l’i­ nevitabile, fare qualcosa, insomma, in ogni circostanza

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fatale, come si dice quando non c’è più niente da fare; tutto questo, che le donne si erano tramandate per se­ coli e che Elise saggiamente non tramandò, consisteva in qualche preghiera ingenua e inefficace, qualche aspersione d’acqua di Lourdes e una rudimentale pan­ tomima che non ho mai visto, ma nella quale mi sem­ bra di veder lottare la buona volontà di Elise tutta curva e caparbia, fragile, incredula. Per scongiurare le emor­ ragie, e in un intento forse mimetico, so che a mia non­ na serviva molta acqua, il cui flusso controllava poco convinta che il flusso vermiglio più in basso le obbedis­ se, ma la cui metafora reiterava lealmente, come si com­ pie un dovere; quella sera dunque, tra il rubinetto della cucina e il tavolo di formica, offrì misteriose libagioni a santi desueti e imbranati. Alla leucemia non la si fa, lei non è una fattucchiera, Elise lo sapeva bene: a Les Forgettes la bambina morì una mattina che il sole dan­ zava sulla facciata enorme, fra alte grida. Angelo diven­ ne, anche lei, oppure ceppo infine muto nel cimitero di Saint-Pardoux, dove in estate sfavillano, cespugli di pioggia d’oro, le ginestre. « La povera piccola » dicono ormai di lei, così come dicevano « la tua povera sorellina ». A Mourioux infatti, come forse più in generale tra la gente modesta che queste pagine compiacenti snaturano, si aborriscono parole quali morto, defunto, scomparso; anche il fu Tal dei tali è raro; no, i morti sono tutti « poveri », tremanti chissà dove di freddo, di fame indefinita e di estrema solitudine, « i morti, i poveri morti », più al verde di un barbone e più perplessi di un idiota, basiti, impegolati senza poter parlare in un assillo da brutto sogno, e che sembrano così tremendi nelle vecchie fotografie quan­ do invece sono così miti, benevoli e smarriti nel buio come tanti pollicini, gli ultimi degli ultimi per sempre, la più umile tra la gente umile. Tutto questo me lo raffiguravo spesso e volentieri: quando andavamo al ci­ mitero di Chatelus, l’aria afflitta delle donne, la pro­ fonda deplorazione di Félix mentre si toglieva il berret189

to mi dicevano che qualcuno lì sotto soffriva davvero; qualcuno che avrebbe voluto essere presente e non po­ teva, pervicacemente trattenuto da qualcosa, come quei lontani cugini che tutti gli anni ti scrivono quanta vo­ glia hanno di rivederti, ma il viaggio è così lungo, la mancanza di soldi li paralizza, la macina della vita li blocca sempre più saldamente e li stritola, cosicché alla fine non si fanno più sentire per la vergogna e se ne perdono le tracce. Mi tenevo occupato; andavo a pren­ dere l’acqua per i fiori, con le mani mettevo buona ter­ ra dentro i vasi, di soppiatto affondavo la faccia nella polvere d’eternità dei crisantemi; spesso era inverno; la chiesa si stagliava alta sull’alta collina del cimitero, il campanile e il cielo di un identico grigio svettavano nel mio cuore, e come apparivano ricche le valli, quanto spedite le corse che sognavo di fare fin laggiù, e frago­ rosi lo schianto secco di un ramo calpestato, la risata del visibile moltiplicato nelle pozzanghere; avrei pro­ prio voluto vivere. Quando tornavo portando la mia brocca d’acqua a braccia tese per non schizzare i panta­ loni della festa, ciò che era vissuto e scomparso mi salu­ tava, e mi richiamavano all’ordine il fazzoletto di ghiaia che lente mani ornavano di fiori, i pugni di sale gettati come su una città morta, e nello strepito di un corvo la dolorosa invocazione là sotto, più in basso del sale e dei fiori di cui tenebrosamente si nutriva, della bambina muta, l’oscura, la sepolta, mia sorella. Ma come, anche lei era un angelo? Sì, la vita dell’angelo era quella di­ sgrazia. Ed era disgrazia il miracolo. Poi a malincuore camminavamo tra le tombe, scen­ devamo la rampata. In basso l’intero paese si offriva ai miei occhi, la bella Chatelus tutta in pendenza, con le sue grandi e vecchie case, le ombre tranquille, i mu­ schi; ma quella Chatelus era un inganno, la vera stava alle nostre spalle; la vera era quella cui anelava Félix a Mourioux, stanco e sfaccendato, mitemente deluso, quando diceva: « Quando sarò a Chatelus ». Io gli pren­ devo la mano, l’odore di velluto pesante mi rassicurava, 190

e se si chinava sentivo sulla guancia il suo respiro greve. Mia madre, mia nonna, mi indicavano ogni volta la scuola dove impararono a leggere; evocavano ricordi, parole, e insieme a questi i morti, le bambine morte cui tirarono le trecce e i morti giocosi che le corteggiaro­ no, gli straordinari morti che vissero; anche quelli si erano offuscati alle nostre spalle. Spesso andavamo a Les Cards in giornata, e se faceva bello a piedi, attraver­ so i castagneti scompigliati dall’autunno o dalle vampa­ te d’oro estive, lungo sentieri d’uccelli. Inaspettata­ mente giungevamo nelle terre più sante, le terre di Les Cards che un giorno sarebbero state mie, come mi ga­ rantivano con amore e con una sorta di fuggevole pie­ tà, e l’emozione di Félix mi confermava che quei campi erano di una natura diversa, in cui si doveva avvertire più vivo lo splendore delle ginestre, più urgente l’impa­ zienza dell’erba. Allora una musica vivace danzava den­ tro di me, la mia ombra mi inebriava, la casa spuntava nel suo boschetto, fra i lillà, nel racconto del passato, la casa che già sprofondava lentamente sotto inutili sta­ gioni senza raccolto e racchiudeva ormai tra le mura vuote soltanto il tempo che consuma; poco importava. Sarei diventato grande e avrei avuto i soldi per risiste­ marla; avrei potato il glicine; nel giardinetto dove Elise si lamentava dei rovi, mi leggevano un futuro di violac­ ciocche e ortensie; qui avrebbero giocato dei figli e il futuro trionfava: ci sarei venuto in vacanza orgoglioso di rallegrare i vecchi morti. Félix non mentiva: è davve­ ro a Chatelus; a un incrocio dalle parti di Séjoux, in prossimità di un casolare addormentato, nessuno indi­ ca più la terra dei Gayaudon, dove l’erba è paziente: il podere è stato svenduto per garantire la mia insigni­ ficante esistenza. Mi resta la casa; il mio amore per lei non è venuto meno. C’è un glicine morto che si dispe­ ra; le intemperie e la mia incuria hanno mandato tutto in rovina; le essenze rare che Félix aveva piantato per me crollano a una a una sui fienili, tra scricchiolìi im­ provvisi e lente erosioni; i forti venti scagliano lastre 191

d’ardesia ubriache contro gli ippocastani, l’acqua mor­ ta si accumula dove i vivi dormivano, cadono fotografie e in fondo agli armadi altre sorridono nel buio all’oblio che le ricopre, schiattano topi e altri arrivano, pazientemente tutto si disfa. Su, va tutto bene; gli angeli miseri­ cordiosi passano in un volo d’ardesia, si spezzano e ri­ sorgono nell’aria azzurra; di notte scostano le ragnate­ le, vicino alle finestre rotte guardano luna dopo luna immagini di antenati di cui conoscono i nomi, bisbi­ gliano soavemente tra loro e forse ridono, blu come la notte e profondi, ma cristallini come una stella; che go­ dano della mia inabitabile eredità; il miracolo è consu­ mato. Mia sorella nacque nel 1941, credo in autunno, a Marsac, dove mio padre e mia madre erano di ruolo. A Marsac ci sono una piccola stazione e un grande muli­ no, l’Ardour l’attraversa a valle di Mourioux, ci abitano degli Chatendeau, dei Sénéjoux, deijacquemin, che re­ galano mele e invecchiano nei giardinetti; ci andavo in bici con mia madre, da piccolo: lei era ancora molto giovane, o forse sono io a ricordarmela così, mentre pe­ dala aggraziatamente una mattina vestita di chiaro, nel­ le macchie dorate della piena estate - e com’è sola, con quel figlio chiacchierone che va troppo veloce. In quel luogo dunque concepirono, lui, l’uomo con l’occhio di vetro, l’uomo creato fallibile che come tale si accettava, l’enigmatico e guercio comandante di infinite schiere d’oblio, che forse vive ancora o forse non vive più, e lei, la contadina di Les Cards in altro modo fallibile e che non riteneva le fosse dovuto alcunché, impaurita e alle­ gra, bambina da sempre e per sempre. C’era la guerra, in fondo alle strade passavano lentamente colonne te­ desche terribili e cupe, che gli abitanti dei casolari guar­ davano con gli stessi occhi che avevano i loro antenati davanti alle masnade a cavallo, le milizie del Principe Nero, occhi antichi, creduli e fabulatori; la resistenza

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era alla macchia con i suoi giovani spettri, manometteva gli scambi ferroviari, faceva saltare i convogli e suona­ re gli allarmi, scuoteva la notte dalle parti di Marsac. Mia madre aveva ben altre preoccupazioni che non quella guerra incomprensibile e chiassosa, in cui non si sape­ va chi fosse a mentire: il comandante guercio correva dietro alle sottane, mentiva ma probabilmente l’amava, alzava il gomito; lei aspettava un primo figlio e quasi non le sembrava vero, lei che si sentiva ancora a Les Cards bambina intenta a mietere, a commuoversi e gioire delle piccole cose di cui laggiù è intessuto il lin­ guaggio e fatta la vita: un paio di baffi disegnati con il carboncino su un musetto e nessuno ti riconosce più, se la merenda la fai d’estate in un bel prato accanto a una sorgente il cioccolato è molto più buono, o ancora la giumenta cagnola e infaticabile del vecchio Léonard che lo riporta a casa da una fiera ubriaco, e santo cielo com’è buffo, barcollante sotto il pastrano foderato di capra, cose così. Il termine si avvicinò e a Les Cards, sulla vecchia soglia, la vecchia si mise in cammino con il suo bastone, tagliando per i boschi da Le Châtain, dove la pronipote di Antoine piena di anni e di sorrisi le aprì delle sardine, poi attraversò Saint-Goussaud e il pendio ombreggiato di Arrènes, e in tasca aveva la reliquia, l’inusurpabile lascito dei Peluchet, il loro fardello d’impo­ tenza, il loro talismano ostetrico; e giacché era autunno Elise calpestava erica fresca, altere digitali, violacee e munite di pastorale come tanti vescovi, e giacché era al­ legra e senza illusioni, sorrideva appena. La bambina nacque nella scuola di Marsac, tra Elise, la reliquia e un medico di campagna da Francia di una volta. Le diedero nome Madeleine. Aveva grandi occhi di un azzurro intenso - presi sicu­ ramente da Clara, Clara Michon nata Jumeau - e si di­ ceva, come si dice sempre, che sarebbe stata bella. Fu tenuta in braccio a Marsac in giardinetti dove i piselli odorosi allietavano i meli, l’attrasse il pennacchio delle locomotive che passavano, le manine erano tese verso

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ciò che è lontano e non sapevano cogliere ciò che è vi­ cino; fu tenuta in braccio a Les Cards, il buio fitto l’av­ volse sotto l’ippocastano, la posarono per un attimo sulla vecchia soglia e sopra la sua testa un’oscura parla­ ta dialettale mescolata con il celeste chiarore del glici­ ne offrì al suo stupore una lingua angelica riecheggiata in lontananza dalle ombre cézanniane, terse, popolate di richiami, dei boschi chiari alle cinque del pomerig­ gio; le scene cosiddette primitive che la sfiorarono non fecero in tempo a intaccare quella meravigliosa armo­ nia. Forse passò una volta da Mourioux, ma era addor­ mentata sulla corriera, oppure la sua guancina rideva contro la guancia di nostra madre, non vide l’irto cam­ panile, le targhe dorate e l’eterno tiglio, l’infanzia ine­ spiabile e qui sepolta del rivale che non avrebbe cono­ sciuto, il fratello. Le mani di Félix erano troppo grandi e impacciate, lei si spaventava, e sul suo viso persisteva quel greve respiro affettuoso; Eugène ansava nello stes­ so modo e anche lui aveva mani grosse; Aimé prenden­ dola rideva con un occhio, ma l’altro era oscuro, di­ stante e implacabile, celeste: ebbe forse il tempo di constatare che i maschi non hanno forza, con il loro pugno di ferro stringono solo ciò che è lontano, non i pannolini ma il nome, e che la carne li infastidisce pro­ fondamente, la carne sempre inquieta che pure osser­ vano e cercano in tutta onestà di amare, invischiati co­ me sono nel compito di conformare il visibile ai sogni e di trarre infine da quell’adeguamento un’ebbrezza, ma la sbronza immancabilmente passa, il pargolo frigna e la madre si innervosisce, loro escono chiudendo piano la porta, sulla soglia ormai sobri si consolano con una misera iattanza, olimpici e assorti guardano il loro cielo e i loro boschi, una volta di più fanno l’angelo, vanno a bere. E quando tornano il piccolo dorme. Lei non conosceva il suo nome e quel mostro di ina­ deguatezza che è un nome, e la propria immagine non le aveva ancora sottratto il mondo, che per noi non è altro che il guardaroba in cui vestire la nostra immagi194

ne; all’improwiso sentì male e non fu in grado di dirlo: perfino quel dolore non le sembrò distinto dall’univer­ sale armonia di cui lei stessa era una delle note culmi­ nanti come il cielo troppo azzurro, la madre che ritor­ na o la notte tutta nera, solo più vibrante, più acuto e vicino a un’insopportabile fonte, nella febbre di un lat­ tante il cui delirio senza parole e bollente di lacrime ci è per sempre incomprensibile, tanto precluso, e forse miracoloso, quanto l’ultimo ordine dei cori che cingo­ no il trono del Padre. Successe in giugno durante un gran caldo; una torpedo di quei tempi arrivò da Bénévent e ne scese il dottor Jean Desaix, scarpe bicolori e completo chiaro, inutile e bello come un prete; pater­ no, da Francia di una volta, inclinò il papillon verso la culla, palpò quella carne inquieta e in tutta onestà la in­ terrogò, nulla gli rispose tranne il vecchio nemico im­ perscrutabile, indifferente; prescrisse qualcosa pro for­ ma; nel cuore affranto di mia madre, la torpedo ruti­ lante fece un’inversione a U sulla ghiaia del cortile, ri­ partì veloce. La nota culminante tenuta per tanto tem­ po si spezzò, forse ci fu un singhiozzo o un librarsi di occhi morti, nel giubilo o in un terrore inimmaginabile privo di pensiero la carne si ritirò dall’estate, qualcosa all’estate più strettamente si legò: Madeleine morì la mattina del 24 giugno 1942, giorno di San Giovanni, nel caldo immenso che cominciava a incombere su Marsac, quando il puro etere tiranneggia nella strozza dei galli, si sparge in lacrime radiose, ribolle nel cuore dorato dei gigli e da lì zampilla verso il sole tre volte santo. Allora i vecchi arrivarono di nuovo da Les Cards, e da Mazirat gli altri vecchi, i primi con il carretto e i secondi con la Rosalie; e forse si chiedevano tra sé quale nero sangue si fosse dentro di lei ribellato, quale giusta ven­ detta avesse fatto di quel corpicino un sol boccone, qua­ le figlia di un Atreo contadino fosse stata mangiata. Sul ripido pendio di Villemomy Félix, redini in mano e cappello nero in testa, caparbio, pensava insultando il 195

cavallo che erano i Gayaudon che così espiavano, e lui con la sua leggerezza, il gusto da ex dragone per il facile sfoggio, le cavalle saure, le buffetterie, le rose, e quella strampalata agronomia che già mandava in rovina Les Cards; e i vecchi Mouricaud rivivevano in Elise, l’ante­ nato Léonard si ergeva sotto le fronde, spariva in un sobbalzo, in uno sciame di mosche dorate borbottava vendicativo, lui, il fondatore dal cuore duro che soldo dopo soldo aveva comprato Les Cards, l’uomo che nell’unica fotografia teneva in mano un portafoglio, se­ duto come un’iguana paziente, baffuta, tra Paul-Alexis e Marie Cancian, il figlio e la moglie in piedi ai suoi fian­ chi, in posa per la sola gloria del tiranno, sorridenti, in­ certi e sfocati, Léonard che amava l’oro e la sua giumen­ ta e detestava gli uomini; e da altre fronde spuntavano di colpo nella luce i figli prodighi e mascalzoni, Dufourneau il taciturno e Peluchet il parricida, scarmigliati co­ me dei Giovanni Battista, e le verdi erinni del sottobo­ sco soffiavano tra i loro capelli d’oltretomba. Laggiù, dalla parte opposta, nell’arrancare già spolmonato del trabiccolo che ho conosciuto, passando vicino a Chambon nel cui portico i vegliardi dell’Apocalisse reggono bellamente microscopiche arpe, Clara sapeva che il vec­ chio Jumeau, l’inflessibile padrone delle ferriere di Commentry che affamò più di un uomo e tuttavia andò in rovina, il vegliardo da apocalisse e da fonderia che aveva già preso un occhio al figlio, riceveva come debi­ to postumo quel cadaverino per ottenebrare ancor più l’inferno dove da un quarto di secolo urlava; e di Eu­ gène che piangeva ed era il più sbalordito ignoro i pen­ sieri: circa i precari abitanti del cognome che porto non so nulla che risalga a prima di lui, se non che erano poveri e sgobbavano, che le sonnamboliche donne fa­ cevano le pulizie in casa d’altri e nella loro facevano scenate, e che gli uomini inabili si dileguavano nella iattanza e nelle bettole, si dileguavano per davvero. In­ somnia Eugène, avvinazzato e mite, guardava dal fine­ strino il grano sempre più giallo, ricordava, e scopriva

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che anche la sua stirpe era abbastanza ricca da produr­ re quel morto in erba. Tutti quei vecchi figli di Adamo sbarcarono così a Marsac, e forse contemporaneamen­ te, vacillanti e afflitti si abbracciarono, velluto grezzo contro velluto grezzo, l’occhietto azzurro e umido di Félix contro l’occhio azzurro, ardente e asciutto di Cla­ ra, sotto le spesse suole scricchiolò la ghiaia calda del cortile, ecco, hanno varcato la porta, che si richiude sui loro segreti di Pulcinella e i loro maldestri dispiaceri, magi inetti intorno a un bambino morto. L’estate ride tra i tigli, l’ombra si china sulla porta chiusa, tutto pia­ no piano sta cambiando. Poi, in quella stagione di gigli, le corone di gigli in­ trecciate dai bambini della scuola, e nella chiesa di Mar­ sac l’irrespirabile odore bianco, dissoluto come l’esta­ te, l’apoteosi d’organo dei calici ripugnanti, e soavi, clericali, misti alla muffa ricca dei vecchi muri; la picco­ la bara che naviga su quell’unda maris, la giovane conta­ dina che sviene sottobraccio al comandante guercio; Elise tutta ingobbita; i gesti del parroco, l’uditorio di mangiatori di rape, tutte cose già dette; e il piccolo spettro che ornato di gigli, di nuovo sul carretto, arran­ ca lungo viottoli sperduti per raggiungere i suoi pari, e l’estate gli sorride, sciami di mosche dorate gli presta­ no la voce, e risalendo sotto le fronde fitte verso Arrènes, Saint-Goussaud, ancora la schiera dei fondatori, dei sabotatori, quelli che furono incarnati e lavoraro­ no, Léonard tranquillamente seduto sotto la quercia di Lavaux a contare qualcosa senza alzare gli occhi, i Peluchet trasformati in pietre e pietre anche da vivi all’in­ crocio di Le Châtain, tutti gli altri, celesti come il glici­ ne, radunati a Les Cards, che si vede laggiù davanti a una casa linda, e alla fine Chatelus, dove ogni strada porta. Se in qualche modo Léonard, per il solo fatto che ne scrivo il nome, percorre i sentieri notturni, borsa so­ nante dentro il pastrano foderato di capra, tra la quer­ cia di Lavaux e i poderi di Planchât; se ha commercio 197

con i Belli Impassibili che folleggiano tra i ruderi di Les Cards, che sanno tutto e di tutto si rallegrano fino a cantare; se gentilmente getta loro qualche luigi che tin­ tinna sulla soglia, come io adesso getto loro queste ri­ ghe; se sopravvisse un po’ in me, così come ci fanno credere i racconti genealogici, sa ciò che segue: tre an­ ni dopo quell’orgia di gigli, Andrée ed Aimé mi procre­ arono; due anni più tardi il comandante guercio come un pirata prese il largo, e da allora, nell’assenza, più lontano di quelli di cui « a Chatelus » si constata il falli­ mento, celeste, magistralmente paterno, regnò senza rivali, scandendo la mia vita vana come la stampella di Long John Silver, nell’/so/a del tesoro, percorre il ponte di una goletta piena di sotterfugi; nel 1948 la porta di Les Cards si richiuse dietro Félix in rotta, la vecchia na­ ve cominciò a marcire, a popolarsi di fruscii; Élise e Félix scomparvero verso il 1970: la tomba di Chatelus è piena, la lapide muscosa si aprirà alla luce solo nel gior­ no del Giudizio, e voglio credere che ne uscirà una Elise giovane e senza gobba, con una bimba appena na­ ta in braccio; alla stessa ora forse a Saint-Goussaud, al­ zandomi ringiovanito tra i Pallade, i Peluchet e altri anonimi spettri, saprò in che modo, da vivo, avrei dovu­ to scrivere affinché attraverso l’enfasi che invano esibi­ sco si mostrasse un po’ di verità. Intanto ho più o meno l’esperienza di un bambino morto senza linguaggio: ma non ho commercio con gli angeli. Eppure una volta l’ho vista, a Palaiseau, nel luglio del 1963. Stavo partendo per l’Inghilterra dove mi aspetta­ vano un amico, ragazze che immaginavo notevoli e oriz­ zonti ancora più stimolanti che su questa riva. Ero ospi­ te nella villetta di certi lontani e allegri cugini, stoici, che facevano colazione sull’erba fra le autostrade e i decolli assordanti della vicina Orly; ero speranzoso; vo­ levo abbracciare tutto. Un pomeriggio, da solo nel giar­ dinetto, mi stavo inebriando di cose radiose: la giovi­

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nezza iniziata e ancora incommensurabile, l’emozione nuovissima del vino e delle donne, il cielo estivo aperto al mio desiderio e come lui ardente, e gli oggetti stessi di quel desiderio sicuramente veri, profumati, profusi e a capriccio gualcitali quanto i fiori di periferia che la mia mano strappava; quel cielo avrei voluto afferrarlo da un lembo e tirarlo tutto verso di me, con i suoi fiori freschi e il miraggio dei palazzoni, gli azzurri cangianti, gli aerei lassù e la polpa di nube che lasciano dietro di sé per giocare con la sera negli occhi dei vivi, quel cielo, dalle colline di Massy fino all’Yvette dove sprofonda, mi sarebbe piaciuto arrotolarlo come una pergamena, co­ me l’arrotola di persona l’angelo bibliofilo del Giudizio quando tutto è ormai scritto, quando l’opera universa­ le è conclusa e ognuno viene giudicato sulle proprie, di opere: assaporare tutto eppure tutto scrivere, questo volevo, questo avrei potuto. Passavano rondini. Mentre ero preso in quel vortice di ebbrezza, il mio sguardo si fermò: dal giardino accanto, così vicina che tendendo la mano avrei potuto toccarla, gli occhi fissi sui miei, at­ tenta e decisa ma in balìa di un respiro, ferma ai confini dell’ombra fra le violacciocche e i piselli odorosi, eppu­ re lontanissima da Chatelus, lei mi osservava. Sì, era lei, « la bambina morta, dietro i rosai ». Era lì, davanti a me. Con estrema naturalezza, si godeva il sole. Aveva dieci anni di età terrena, era cresciuta, meno in fretta di me, d’accordo, ma i morti possono prendersela comoda, nessun desiderio sfrenato della fine li pungola più. Con passione la trattenni nel mio sguardo, che il suo per un attimo resse; poi girò i tacchi e il vestitino danzò nella luce, se ne andò tranquillamente, a passettini decisi, verso una villetta con veranda; i giudiziosi piedini sfer­ zarono la sabbia del viottolo, si dileguarono senza che potessi sentire lo scalpiccio delle espadrille nel tremen­ do fragore di un boeing che decollava, mentre tutte le pareti dell’aria vacillavano sotto di lui, e l’estate gli cin­ geva i fianchi d’argento, e i fili invisibili e appassionati del macchinario celeste lo sollevavano impetuosamen199

te verso il paradiso altissimo e vago, oltre i casermoni popolari. Durante quel grande tuono lei chiuse la por­ ta dietro di sé. I rosai infuocati non si muovevano. Presi il volo per Manchester; di notevole non ci fu nulla; cominciai a tenere un diario, e per prima cosa annotai l’episodio che ho raccontato. La gioventù è piena di fanfaronate, ma questa non lo era affatto: mia sorella, sì, quella bambina mi parve lei nel momento stesso in cui la vidi; la riconobbi e le diedi un nome con la stessa tranquilla certezza con cui davo un nome alle violacciocche sotto i suoi piedi e alla luce intorno a lei; e in virtù di non so quale aberrazione, che ai miei occhi di allora fu una realtà incontestabile, la figlia di due operai di periferia con il suo vestitino estivo incarnò il paradigma di tutte le sparizioni, il loro sorgere, a volte, nell’aria che addensano, nei cuori che feriscono, sulla pagina dove ostinate e sempre ingannate sbattono le ali e bussano alle porte, stanno per entrare, stanno per es­ sere e ridere, trattengono il respiro e seguono treman­ do ogni frase in fondo alla quale forse c’è il loro corpo, ma ecco che le ali sono ancora troppo leggere, un ag­ gettivo grossolano le spaventa, un ritmo zoppicante le tradisce, prostrate cadono all’infinito e non sono in nessun luogo, ritornare pressoché per l’eternità le di­ strugge, si affliggono e si ritirano, di nuovo sono meno di cose, nulla. Possa uno stile appropriato aver rallentato la loro ca­ duta: la mia sarà forse più lenta; possa la mia mano aver dato loro la facoltà di aderire nell’aria a una fugacissi­ ma forma dalla mia sola tensione creata; possano pro­ strandomi aver vissuto, in modo più autentico di come viviamo noi, quelli che a malapena furono e così poco tornano ad essere. Possano, forse, essersi manifestati, sorprendentemente. Nulla mi appassiona quanto il mi­ racolo. Ma è avvenuto davvero? Lo ammetto: questa tenden­ za all’arcaismo, questi soprusi sentimentali quando lo stile non ce la fa, quest’antiquata ricerca dell’eufonia,

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F non è così che si esprimono i morti quando hanno ali, quando ritornano nel puro verbo e nella luce. Temo si siano ancor più offuscati. Il Principe delle Tenebre, si sa, è anche il Principe delle Potenze dell’aria; e fare l’an­ gelo fa il suo gioco. Va bene; un giorno proverò diversamente. Se di nuovo li rincorrerò, dismetterò questa lin­ gua morta nella quale forse non si riconoscono. Eppure la loro ricerca, la loro conversazione, che non è silenzio, mi hanno dato felicità, e forse anche a loro ne hanno data; dalla loro rinascita abortita spesso sono stato lì lì per nascere, e sempre lì lì per morire in­ sieme a loro; avrei voluto scrivere dall’alto di quell’attimo vertiginoso, di quella trepidazione, giubilo o incon­ cepibile terrore, scrivere così come un bambino senza parole muore, si dissolve nell’estate: con un’enorme, quasi indicibile emozione. Nessuna potenza stabilirà che non ci sono per niente riuscito. Nessuna potenza stabilirà che la mia emozione non è per niente esplosa nel loro cuore. Quando il riso dell’ultima mattina sor­ prende Bandy ubriaco, quando in un balzo i cervi finti lo portano via, di sicuro io c’ero, e allora perché non dovrebbe in cambio manifestarsi eternamente, fossero pure sepolte per sempre queste pagine, nel pane che anche qui lo vediamo consacrare, nel gesto perentorio con cui anche qui si tira su la tonaca prima di inforcare una motocicletta, sconsolato ma sorridente, scoppiet­ tando sotto un grande sole, scarmigliato nel vento della strada maestra, preso dai ricordi? Credo che i benevoli tigli bianchi di neve si siano chinati nell’ultimo sguardo del vecchio Foucault più che mai muto, lo credo e forse lui lo vuole. Possa a Marsac nascere sempre una bambi­ na. Possa la morte di Dufoumeau essere meno defi­ nitiva poiché Elise si ricordò di lui o lo inventò; e quella di Élise essere alleviata da queste righe. Possa, nelle mie finte estati, il loro inverno indugiare. E nel conclave alato che si svolge a Les Cards sui ruderi di ciò che avrebbe potuto essere, tutti loro siano. 201

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« VITE MINUSCOLE », O LA SUPERFLUITÀ DELLE NOTE AL PIEDE

di Leopoldo Carra

Qualunque testo letterario contiene rimandi, implici­ ti o espliciti, consapevoli oppure no, ad altre opere d’ar­ te, innanzitutto scritte. Secondo le epoche e le tenden­ ze culturali, si parla allora di citazioni, omaggi, remini­ scenze, intertestualità, riuso... Tutte parole che forse non funzionano per Vite minuscole. Non si tratta di un discorso quantitativo. E vero che questo libro, a volte dichiarandolo e addirittura virgo­ lettando, è particolarmente ricco di richiami vivifici ad altri libri, e arriva perfino a evocare l’iconografia foto­ grafica di alcuni autori. Nelle sue pagine non c’è sol­ tanto un centralissimo Rimbaud o il romanzo francese del Sette e Ottocento, non solo Artaud o Céline, ma anche i grandi romanzieri di mare e di avventura in lin­ gua inglese, anche la Bibbia, e poi tanta pittura (El Greco, van Gogh...). Eppure no, il punto non è la quantità: riguarda piut­ tosto l’alchimia, e al tempo stesso la straordinaria natu­ ralezza con le quali Michon fa entrare queste opere nel proprio testo, in esso le rifonde ottenendone una lega senza scorie, cioè un racconto intensamente personale in cui il narratore, proustianamente, ripercorre la sto­

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ria di una vocazione alla scrittura, con i relativi dubbi sulle proprie capacità. E alla fine, forse, ci lascia inten­ dere che il libro della cui gestazione ha tanto parlato è proprio questo. Come il narratore della Recherche, an­ che quello di Vies minuscules si tormenta perché ha del suo compito un’idea assoluta: sa bene, cioè, che la scrit­ tura è altro dalla realtà, ma che ciononostante - oltre a inseguire la perfezione formale - può farsi carne, quin­ di sede di dolore, di momentanea gioia, di vita, di mor­ te e di rinascita. La scelta di non mettere note al piede, nemmeno per spiegare quei rimandi, non esplicitati dall’Autore, che al lettore francese potrebbero essere più familiari che a quello italiano, procede quindi da un motivo preciso. Non il desiderio, frequentemente invocato, « di non in­ terrompere la scorrevolezza del testo». Semmai l’aspi­ razione a non interrompere, a non diluire la densità di una simile scrittura, affinché ne risulti appunto il carat­ tere assoluto, di rara capacità evocativa, di rara potenza nel raccontare. Il tentativo di rendere in italiano un tale linguaggio è stato arduo. Grazie a Giorgio Pinotti e a Giancarlo Maggiulli per i preziosissimi consigli.

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STAMPATO DAL CONSORZIO ARTIGIANO « L.V.G. » - AZZATE NEL LUGLIO

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