Vita liquida
 9788842085706

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Economica Laterza 455

Zygmunt Bauman

Vita liquida Traduzione di Marco Cupellaro

Editori Laterza

Titolo dell’edizione originale Liquid Life Pubblicato nel 2005 in prima edizione da Polity Press, Cambridge © 2005, Zygmunt Bauman Il diritto di Zygmunt Bauman a essere riconosciuto come autore di questa opera viene affermato in accordo con il U.K. Copyright, Designs and Patents Act 1988 La presente traduzione viene pubblicata secondo gli accordi presi con Polity Press Ltd, Cambridge Edizioni precedenti: «i Robinson/Letture» 2006 Nella «Economica Laterza» Prima edizione 2008 www.laterza.it 9

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Edizione 13 14

Anno 2013 2014 2015 2016 2017 2018

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Proprietà letteraria riservata Gius. Laterza & Figli Spa, Roma-Bari Questo libro è stampato su carta amica delle foreste Stampato da SEDIT - Bari (Italy) per conto della Gius. Laterza & Figli Spa ISBN 978-88-420-8570-6

Indice

Introduzione Vivere in un mondo liquido-moderno 1. L’individuo sotto assedio

VII

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2. Da martire a eroe, da eroe a celebrità

33

3. La cultura: ribelle, ingestibile

49

4. Rifugiarsi nel vaso di Pandora. Ovvero: paura, sicurezza «and the city»

69

5. Il consumatore nella società liquido-moderna

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6. Imparare a camminare sulle sabbie mobili

131

7. Pensare in tempi oscuri (rileggendo Arendt e Adorno)

147

Note

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Indice analitico

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Introduzione

Vivere in un mondo liquido-moderno

Pattinando sopra il ghiaccio sottile, la nostra speranza di salvezza sta nella velocità Ralph Waldo Emerson Prudenza

«Vita liquida» e «modernità liquida» sono profondamente connesse tra loro. «Liquido» è il tipo di vita che si tende a vivere nella società liquido-moderna. Una società può essere definita «liquido-moderna» se le situazioni in cui agiscono gli uomini si modificano prima che i loro modi di agire riescano a consolidarsi in abitudini e procedure. Il carattere liquido della vita e quello della società si alimentano e si rafforzano a vicenda. La vita liquida, come la società liquido-moderna, non è in grado di conservare la propria forma o di tenersi in rotta a lungo. In una società liquido-moderna gli individui non possono concretizzare i propri risultati in beni duraturi: in un attimo, infatti, le attività si traducono in passività e le capacità in incapacità. Le condizioni in cui si opera e le strategie formulate in risposta a tali condizioni invecchiano rapidamente e diventano obsolete prima che gli attori abbiano avuto una qualche possibilità di apprenderle correttamente. È incauto dunque trarre lezioni dall’esperienza e fare affidamento sulle strategie e le tattiche utilizzate con successo in passato: anche se qualcosa ha funzionato, le circostanze cambiano in fretta e in modo imprevisto (e, forse, imprevedibile). Provare a capiVII

re come andrà in futuro sulla base di esperienze pregresse diventa sempre più azzardato e sin troppo fuorviante. Fare ipotesi attendibili diventa via via più difficile, e le previsioni infallibili ormai sono fuori dal mondo: le variabili dell’equazione sono tutte, o quasi, incognite e non esistono stime delle loro tendenze future che si possano considerare completamente e realmente affidabili. La vita liquida è, insomma, una vita precaria, vissuta in condizioni di continua incertezza. Le preoccupazioni più acute e ostinate che l’affliggono nascono dal timore di esser colti alla sprovvista, di non riuscire a tenere il passo di avvenimenti che si muovono velocemente, di rimanere indietro, di non accorgersi delle «date di scadenza», di appesantirsi con il possesso di qualcosa che non è più desiderabile, di perdere il momento in cui occorre voltare pagina prima di superare il punto di non ritorno. La vita liquida è una successione di nuovi inizi: ma è proprio perciò che le fini rapide e indolori, senza cui nuovi inizi sarebbero impensabili, tendono a rappresentare i momenti di massima contestazione e a procurare i mal di testa più insopportabili. Tra le arti del vivere liquido-moderno e le abilità che esse richiedono, sapersi sbarazzare delle cose diventa più importante che non acquisirle. Per dirla con il cartoonist dell’«Observer», Andy Riley, è irritante «leggere sui giornali quanto è bello ‘rallentare’ prima ancora di aver potuto ‘accelerare’»1. Bisogna affrettarsi ad ‘accelerare’ se si vogliono godere le delizie del ‘rallentare’. ‘Accelerare’ ha senso solo come preparazione al ‘rallentare’, che ne è il principale scopo; la qualità dell’‘accelerazione’, in ultima analisi, verrà valutata in base al sollievo di un ‘rallentamento’ dolce e indolore... Come porre termine, come chiudere: è su questo, e non certo su come iniziare o aprire qualcosa, che chi vive la vita liquido-moderna ha bisogno urgente d’istruzioni, e questo è ciò che offrono, nella maggior parte dei casi, i consulenti nelle arti del vivere. Un altro collaboratore dell’«Observer», tra il serio e il faceto, elenca le regole aggiornate per «riuscire a VIII

chiudere» una relazione: senza dubbio la più difficile delle situazioni da «chiudere», ma anche quella che più di ogni altra i partner sperano, e cercano, di chiudere, e per la quale si riscontra, ovviamente, una richiesta particolarmente pressante di assistenza tecnica. L’elenco delle regole inizia con «Ricordati dei momenti brutti e dimentica quelli belli» e termina con «Fa’ nuovi incontri», passando dall’ordine «Cancella tutta la corrispondenza elettronica». Ovunque l’accento cade su atti come dimenticare, cancellare, mollare, sostituire. Forse la descrizione della vita liquido-moderna come una serie di nuovi inizi è l’appendice involontaria di una sorta di complotto, e riproducendo un’illusione condivisa da tanti contribuisce a proteggerne il segreto meglio nascosto (in quanto disonorevole, sebbene solo in parte). Forse un modo più adeguato di raccontare la vita liquido-moderna è snocciolare la storia di fini successive. E forse l’apoteosi della vita liquida di successo emerge meglio se le tombe di cui è lastricato il suo cammino si notano poco, invece di sfoggiare lapidi commemorative. In una società liquido-moderna l’industria di smaltimento dei rifiuti assume un ruolo dominante nell’ambito dell’economia della vita liquida. La sopravvivenza di tale società e il benessere di coloro che ne fanno parte dipendono dalla rapidità con cui i prodotti vengono conferiti alla discarica e dalla velocità e dall’efficienza con cui gli scarti vengono rimossi. In una società simile nulla si può sottrarre alla legge universale della esitabilità e a nulla può essere concesso di restare più dello stretto necessario. La costanza, la resistenza e la vischiosità delle cose, inanimate e animate, costituiscono il più sinistro e grave dei pericoli, sono la fonte delle peggiori paure e il bersaglio delle aggressioni più violente. La vita nella società liquido-moderna non può mai fermarsi. Deve modernizzarsi (leggi: continuare a spogliarsi quotidianamente di attributi giunti alla propria data di scadenza, e a smontare/togliere le identità di volta in volta montate/indossate) o perire. Spinta dall’orrore della scadenza, IX

non richiede più di essere trainata dai sogni delle meraviglie immaginate come esito estremo dei travagli della modernizzazione. Ciò che bisogna fare è correre con tutte le forze semplicemente per rimanere allo stesso posto, a debita distanza dalla pattumiera dove altri sono destinati a finire. La «distruzione creatrice» è il modo tipico di procedere della vita liquida, ma quell’espressione sorvola, passandolo sotto silenzio, sul fatto che la creazione distrugge altre forme di vita e, incidentalmente, anche esseri umani. La vita nella società liquido-moderna è una versione sinistra, ma seria, del gioco delle sedie. La vera posta in gioco è la salvezza (temporanea) dall’eliminazione, che comporterebbe il ritrovarsi tra gli scarti. E poiché la concorrenza diviene globale, anche la pista su cui si gareggia è ormai globale. Le maggiori possibilità di successo le hanno coloro che si trovano più vicini al vertice della piramide globale del potere, coloro per cui lo spazio non conta e la distanza non è un fastidio: chi è di casa in tanti luoghi, e in nessuno in particolare. Persone leggere, briose e volatili come l’industria e la finanza, ormai sempre più globali ed extraterritoriali, che costoro hanno visto nascere e su cui basano la propria esistenza nomade. Secondo la descrizione di Jacques Attali, essi «non hanno né fabbriche, né terre, né incarichi amministrativi. La loro ricchezza deriva da un asset che portano con sé: la conoscenza delle leggi del labirinto». Individui simili «amano creare, godere, muoversi»; vivono in una società «dai valori volatili, incurante dell’avvenire, egoista e edonista»; in loro «prevale l’accettazione del nuovo come buona novella, della precarietà come valore, dell’instabilità come imperativo, del meticciato come ricchezza»2. Tutti costoro, in vario grado, conoscono e praticano l’arte della «vita liquida»: sopportano l’assenza di orientamento, non soffrono di vertigini e sanno adattarsi alle situazioni confuse, alla mancanza di itinerario e di direzione e alla durata indefinita del tragitto. X

Il modello che essi tentano di imitare con tutte le forze, sebbene con esiti diseguali, è Bill Gates, quel prodigio di successo negli affari contraddistinto, secondo Richard Sennett, dalla «facilità con cui distrugge ciò che ha creato» e dalla capacità di «tolleranza nei confronti della frammentazione» – una «persona abbastanza sicura di sé da trovarsi a proprio agio nel disordine, che prospera mentre tutto viene rimescolato», da muoversi «all’interno di una rete di possibilità» come alternativa alla «paralisi nell’esecuzione di un lavoro particolare»3. L’orizzonte ideale di questi suoi seguaci somiglia forse a Eutropia, una delle Città invisibili di Italo Calvino, i cui abitanti, nel giorno in cui si sentono assalire dalla stanchezza, e nessuno sopporta più il suo mestiere, i suoi parenti, la sua casa e la sua via, i debiti, la gente da salutare o che saluta, [... decidono] di spostarsi nella città vicina [... dove] ognuno prenderà un altro mestiere, un’altra moglie, vedrà un altro paesaggio aprendo la finestra, passerà le sere in altri passatempi amicizie maldicenze4.

Libertà di affetti e revocabilità di impegni sono i precetti che ispirano questo genere di persone, quali che siano i loro impegni e affetti. È a costoro che probabilmente si rivolgeva l’anonimo collaboratore dell’«Observer» che si celava dietro lo pseudonimo di «dottore scalzo» (Barefoot Doctor) quando consigliava ai suoi lettori di fare tutto «con grazia». Prendendo spunto dagli insegnamenti di Lao Tse, profeta del distacco e della serenità, così egli descriveva l’atteggiamento di vita più adatto per conseguire quel risultato: Scorrendo come l’acqua [...] ci spostiamo rapidamente, senza mai contrastare la corrente, né fermarci abbastanza da ristagnare o aggrapparci agli argini o alle rocce – gli averi, le situazioni o le persone che attraversano la nostra vita –, e nemmeno tentando di restare fedeli alle nostre opinioni o visioni del mondo; semplicemente, attaccandoci, con leggerezza e intelligenza, a ciò che ci si preXI

senta mentre passiamo, che lasceremo poi andare, con grazia e senza avidità [...]5.

Di fronte a simili concorrenti gli altri, e soprattutto coloro che sono coinvolti nel gioco contro la propria volontà, che non «amano [...] essere in movimento», né possono permetterselo, hanno ben poche possibilità di successo. Partecipare alla gara non è per loro una scelta realistica, ma ad essi non è nemmeno consentito tenersene fuori. Volteggiare di fiore in fiore, alla ricerca del profumo più gradevole, non è nelle loro possibilità: essi possono solo restare aggrappati a luoghi dove i fiori – profumati o meno – sono pochi e anche quei pochi si dissolvono o marciscono davanti al loro sguardo infelice. Il suggerimento di «attaccarsi con leggerezza a ciò che ci si presenta» e «lasciarlo poi andare, con grazia» suona alle loro orecchie, nel migliore dei casi, come uno scherzo crudele ma soprattutto come un ghigno spietato. E tuttavia, tocca anche a loro «attaccarsi con leggerezza» a «beni, situazioni e persone» che continueranno a scivolare via e scomparire a velocità vertiginosa, qualsiasi cosa essi facciano; e a nulla vale che cerchino di rallentarne la corsa. Dovranno «lasciarli andare» (senza grande soddisfazione, a differenza di Bill Gates) ed è irrilevante che lo facciano «con grazia» o tra grandi pianti e stridor di denti. E li si potrebbe perdonare per aver sospettato che esista un qualche collegamento tra la piacevole leggerezza e grazia ostentate da chi volteggia dinanzi al loro sguardo e il torpore e l’immobilità, sgradevoli ma involontari, che li caratterizzano. L’indolenza, in effetti, non è una loro scelta. Leggerezza e grazia vanno di pari passo con la libertà – libertà di spostarsi, di scegliere, di smettere di essere ciò che si è, di diventare ciò che ancora non si è. Chi deve subire la nuova mobilità planetaria non ha una simile libertà. Non può contare sulla pazienza di coloro da cui vorrebbe tenere le distanze, né sulla tolleranza di coloro cui desidererebbe avvicinarsi. Per lui non ci sono uscite incustodite, né porte d’accesso aperte e accoXII

glienti. La sua condizione è l’appartenenza: coloro ai quali appartiene e dei quali fa parte vedono tale condizione come dovere non negoziabile e incontrovertibile (sia pure sotto le sembianze di un diritto inalienabile), mentre coloro cui desidererebbe unirsi la vedono piuttosto come destino, altrettanto insuperabile, irreversibile e irredimibile. I primi non lo lasciano andar via, mentre i secondi non lo lasciano entrare. Tra la partenza e l’arrivo (quanto mai improbabile) si apre un deserto, un vuoto, una regione selvaggia, un abisso gigantesco in cui ben pochi troverebbero il coraggio di gettarsi volontariamente se non vi fossero spinti. Forze centripete e centrifughe, attrazione e repulsione si combinano in modo tale da tenere al suo posto chi si agita e da bloccare chi è scontento prima ancora che si agiti. Le teste calde e i disperati che cercano di sfidare la sorte avversa rischiano di fare la fine dei banditi e dei reietti, e di pagare la propria audacia con la moneta sonante della miseria fisica e dei traumi psichici: un prezzo che ben pochi accetterebbero di pagare spontaneamente. Andrzej Szahaj, uno dei più attenti studiosi delle grandi disuguaglianze nei giochi d’identità odierni, si spinge a sostenere che la decisione di abbandonare la propria comunità di appartenenza sia, in moltissimi casi, assolutamente inconcepibile, e prosegue ricordando agli increduli lettori occidentali che nel passato remoto europeo – nell’antica Grecia – l’esilio dalla polis di appartenenza era considerato il castigo peggiore, pari addirittura alla pena capitale6. Ma gli antichi almeno erano imperturbabili e preferivano parlare con franchezza: i milioni di sans papiers, apolidi, profughi, esiliati – coloro che due millenni dopo, nella nostra epoca, chiedono asilo, o pane e acqua – non avrebbero difficoltà a riconoscersi in quei discorsi. Chiunque si trovi ai due estremi della gerarchia (e nella parte centrale della piramide, connessa ai due estremi da un doppio legame) è ossessionato dal problema dell’identità. Chi sta in alto dovrà scegliere il modello migliore fra i tanti disponibili sul mercato, assemblare le parti del kit vendute seXIII

paratamente e riunirle in un modo che non sia troppo lasco (per evitare che le parti brutte, vecchie e superate che si cerca di nascondere s’intravedano dalle giunzioni), ma nemmeno troppo stretto (per poter rapidamente smontare il tutto quando verrà il momento, e verrà di certo). Per chi sta in basso il problema è quello di tenersi ben stretta l’unica identità disponibile e mettere insieme i vari pezzi, cercando di rintuzzare le forze erosive e le pressioni dirompenti cui è sottoposta, di riparare i muri che si sgretolano costantemente e di predisporre trincee più profonde possibile. Per tutti gli altri, sospesi tra i due estremi, il problema è mescolare opportunamente questi due approcci. Traendo spunto dal quadro tracciato da Iosif Brodskij – in cui i contemporanei, materialmente benestanti ma immiseriti e affamati sul piano spirituale, sono stanchi (come i cittadini di Eutropia) di tutto ciò di cui hanno goduto fino a quel momento (dallo yoga al buddismo, dallo zen alla contemplazione a Mao) e per questo prendono a buttarsi a capofitto (con l’aiuto delle tecnologie più avanzate, inutile dirlo) sui misteri del sufismo, della cabala o del sunnismo per rinvigorire il loro desiderio di desiderare, ultimamente un po’ in calo – Andrzej Stasiuk, uno dei più acuti studiosi delle culture contemporanee e del loro disagio, ha definito il tipo del «sottoproletariato dello spirito», avanzando l’ipotesi che le sue file si ingrossano rapidamente e che i suoi tormenti scolano a profusione permeando strati sempre più ampi della piramide sociale7. Chi ha il morbo del «sottoproletariato dello spirito» vive nel presente e grazie al presente. Vive per sopravvivere (finché è possibile) e per ricavare gratificazione (per quanto possibile). Poiché il mondo non è il suo campo da gioco, e non è nemmeno di sua proprietà (alleggerito del fardello dell’eredità egli si sente sì libero, ma in qualche modo diseredato, defraudato di qualcosa, tradito da qualcuno), non trova nulla di XIV

male nello sfruttarlo a piacimento: lo sfruttamento non sembra più esecrabile di un furto per riappropriarsi di ciò che gli è stato rubato. Appiattito in un eterno presente e colmo di ansie di sopravvivenza e di gratificazione (gratificazione per una sopravvivenza il cui scopo è ulteriore gratificazione), il mondo abitato dai «sottoproletari dello spirito» non lascia spazio che a preoccupazioni riguardo a ciò che si può, almeno in linea di principio, consumare e degustare subito, qui e ora. L’eternità è ovviamente messa al bando. L’eternità, ma non l’infinito: finché dura, infatti, il presente può essere esteso oltre ogni limite, e contenere tutto ciò di cui, un tempo, si sperava di poter fare esperienza quando fosse giunta l’ora: «è altamente probabile», osserva Stasiuk, «che il numero di esseri digitali, di celluloide e analogici incontrati nel corso di una vita normale si avvicini a quello che potevano offrire solo la vita eterna e la resurrezione della carne». Grazie al numero infinito di esperienze terrene che si spera di poter fare, non si sente la mancanza dell’eternità: anzi la sua perdita può persino passare inosservata. Ciò che conta è la velocità, non la durata. Andando alla giusta velocità si può consumare tutta l’eternità nell’ambito del presente continuo della vita terrena. O, quanto meno, è questo l’obiettivo – e la speranza – del «sottoproletariato dello spirito». Il trucco sta nel comprimere tutta l’eternità fino a contenerla nell’arco della vita di un individuo. Il problema della mortalità dell’esistenza in un universo immortale è stato finalmente risolto: non ci si deve più preoccupare di ciò che è eterno, non si perde nessuna delle meraviglie dell’eternità e, anzi, nell’arco di una vita mortale diventa possibile esaurire tutto ciò che l’eternità abbia da offrire. Forse non è possibile liberare dal tempo la vita mortale, ma sicuramente si può (almeno tentare di) rimuovere qualsiasi limite alla quantità di gratificazioni da provare prima di aver raggiunto quel confine inamovibile. In un mondo che ormai non esiste più, in cui il tempo si XV

muoveva assai più lentamente e resisteva all’accelerazione, le persone cercavano di superare il penoso divario tra la pochezza di una vita breve e mortale e la ricchezza infinita dell’universo eterno attraverso le speranze di reincarnazione o di resurrezione. Nel nostro mondo, che non conosce né ammette limiti all’accelerazione, si può pure rinunciare a quelle speranze. Se ci si muove abbastanza in fretta, senza fermarsi a guardare indietro e a contare profitti e perdite, è possibile comprimere nell’arco di una vita mortale un numero sempre maggiore di esistenze, forse tutte quelle che ne potrebbe offrire l’eternità. A che cosa servirebbe altrimenti, se non ad agire su quell’idea, tale irrefrenabile, compulsivo e ossessivo rigenerare, ristrutturare, riciclare, revisionare e ricostituire l’identità? L’«identità», in fin dei conti, ha a che fare (proprio come la reincarnazione e la resurrezione di un tempo) con la possibilità di «rinascere», di smettere di essere ciò che si è per diventare chi non si è ancora. La buona notizia è che questa sostituzione delle ansie sull’eternità con il riciclaggio continuo delle identità viene offerta completa di strumenti fai-da-te, brevettati e pronti per l’uso, che promettono un intervento rapido ed efficace, senza difficoltà o complicazioni, anche a chi è privo di particolari abilità. Non occorre più sacrificarsi e immolarsi, addestrarsi e allenarsi per un periodo intollerabilmente e inesorabilmente lungo, attendere indefinitamente prima della gratificazione, esercitare virtù fino al limite delle proprie capacità di resistenza: basta con tutte quelle vecchie terapie che costavano uno sproposito. Seguire nuove diete più efficaci, tenersi in forma con gli ultimissimi gadget, cambiare la carta da parati, mettere il parquet là dove c’erano sempre stati dei tappeti (o viceversa), sostituire l’utilitaria con il gippone (o il contrario), la t-shirt con la camicia, il copridivano e l’abito a tinta unita con uno colorato, farsi aumentare o ridurre il seno, cambiare scarpe da ginnastica, scegliere marche di liquore e abitudini quotidiane in linea con le ultime tendenze, confessare pubblicamente i propri moti dell’animo usando un XVI

lessico assolutamente originale... tutto ciò andrà benissimo. E poi, come ultima spiaggia, si profilano all’orizzonte, ancora fastidiosamente lontane, le meraviglie della manipolazione genetica. Qualsiasi cosa accada, non occorre disperare. Se anche nessuna di queste bacchette magiche si dimostrasse adeguata o se, nonostante la loro facilità d’uso, fossero tutte troppo scomode o lente, esistono farmaci che promettono una visita istantanea, seppur breve, all’eternità (e altri farmaci che garantiscono, o almeno si spera, di farne ritorno). La vita liquida è una vita di consumi. Essa marchia il mondo e ogni suo frammento, animato e inanimato, come oggetti di consumo: vale a dire oggetti che perdono la propria utilità (e con essa il lustro, l’attrazione, il potere di seduzione, e dunque il valore) man mano che vengono usati. La vita liquida modella secondo i canoni degli oggetti di consumo il giudizio e la valutazione di tutti i frammenti, animati e inanimati, del mondo. Gli oggetti di consumo hanno una limitata aspettativa di vita utile, e una volta superato tale limite diventano inadatti al consumo; e, poiché «poter essere consumati» è la sola caratteristica che ne definisca la funzione, essi diventano inadatti a qualsiasi cosa: inutili, insomma. A questo punto andrebbero eliminati (biodegradandoli, incenerendoli, affidandoli alle cure delle agenzie di smaltimento dei rifiuti) dal luogo dove si svolge la vita di consumi, per far posto ad altri oggetti di consumo ancora inutilizzati. Per sottrarsi al disagio di restare indietro, di restare attaccati a qualcosa con cui nessuno vorrebbe farsi vedere, di esser colti alla sprovvista, di perdere il treno del progresso invece di saltarci sopra, occorre tenere a mente che è nella natura delle cose esigere vigilanza, ma non fedeltà. Nel mondo liquido-moderno la fedeltà è causa di vergogna, non di orgoglio. Basta collegarsi al proprio fornitore di connessione internet – la prima cosa da fare al mattino – e tale sobria verità XVII

ci verrà ricordata in cima all’elenco delle notizie del giorno: «Ti vergogni del tuo cellulare? È così vecchio che sei a disagio quando rispondi? Cambialo con un modello di cui tu possa andar fiero». Il rovescio della medaglia del comandamento di «cambiare modello» di cellulare con un altro allineato al consumatore ideale è, naturalmente, il divieto di farsi vedere con quello «cambiato» in precedenza. I rifiuti sono il prodotto principale, e probabilmente il più abbondante, della società dei consumi liquido-moderna; tra tutte le industrie della società dei consumi, la produzione di rifiuti è la più massiccia e non conosce crisi. Lo smaltimento dei rifiuti è perciò una delle due principali sfide che la vita liquida ha di fronte; l’altra riguarda il rischio di finire tra i rifiuti. In un mondo affollato di consumatori e di oggetti di consumo, la vita è pericolosamente in bilico tra le gioie dei consumi e gli orrori dei cumuli di rifiuti. La vita può essere sempre un vivere-per-la-morte, ma in una società liquidomoderna vivere-per-la-discarica può essere una prospettiva e una preoccupazione più immediata e che assorbe più energie e sforzi. Per chi vive nella società liquido-moderna, ogni cena – a differenza di quella cui fa riferimento Amleto nella sua risposta al re che gli chiede dov’è Polonio – è un’occasione «per mangiare» e «per essere mangiati»8. I due atti non sono più disgiunti, l’e ha sostituito l’o. Nella società dei consumi nessuno può scampare all’essere oggetto di consumo – e non solo da parte dei vermi una volta esaurita la propria vita di consumi. Nell’epoca liquido-moderna Amleto probabilmente cambierebbe la regola amletica di Shakespeare, negando il ruolo privilegiato dei vermi nel consumare i consumatori. Egli probabilmente inizierebbe, come l’Amleto originale, stabilendo che «ingrassiamo tutte le altre creature per ingrassarci, e ingrassiamo noi stessi [...]», questa la nuova conclusione, «per altre creature». «Consumatori» e «oggetti di consumo» sono i poli concettuali di un continuum lungo cui si collocano e si muovono XVIII

avanti e indietro, quotidianamente, tutti coloro che fanno parte della società dei consumi. Alcuni possono trovarsi la maggior parte del tempo particolarmente vicini all’estremo della merce, ma nessuno può avere la garanzia certa e assoluta di non farcisi trascinare troppo vicino (una vicinanza assai poco confortevole). Solo in quanto merci, in grado di provare il proprio valore d’uso, i consumatori hanno accesso alla vita di consumi. Nella vita liquida la distinzione tra consumatori e oggetti di consumo è sin troppo provvisoria ed effimera, e sempre al condizionale. Si potrebbe dire che il ribaltamento dei ruoli diventi la regola, ma persino tale affermazione distorce la realtà della vita liquida, in cui i due ruoli s’intrecciano, si mescolano e si fondono. Non è chiaro quale dei due fattori (l’attrazione del polo ‘consumatore’ o la repulsione del polo ‘rifiuto’) animi di più la vita liquida. Sicuramente contribuiscono entrambi a dar forma alla logica quotidiana e, pezzo dopo pezzo, episodio dopo episodio, all’itinerario di tale vita. La paura rafforza il desiderio. Per quanto il desiderio si concentri con attenzione sui suoi oggetti immediati, non può che mantenere la consapevolezza – cosciente, semi-incosciente o subcosciente – di quell’altra tremenda posta in gioco che incombe sul suo vigore, sulla sua determinazione e sulla sua intraprendenza. Per quanto intensamente concentrato sull’oggetto del desiderio, l’occhio del consumatore non può che considerare marginalmente anche il valore commerciale del soggetto del desiderio. Vita liquida significa autoesame, autocritica e autocensura costanti. La vita liquida si alimenta dell’insoddisfazione dell’io rispetto a se stesso. La critica è autoreferenziale e diretta all’interno, e lo stesso vale per la riforma che tale autocritica esige e sollecita. È in nome di una simile riforma, che guarda e mira all’interno, che il mondo esterno viene depredato, saccheggiato e devastato. La vita liquida dota il mondo esterno, e tutto ciò che nel mondo non faccia parte dell’io, di un valore essenzialmente strumentale; tale mondo, una volta che si è visto sottrarre o neXIX

gare valore di per sé, trae tutto il proprio valore dal servizio che rende alla causa dell’autoriforma, ed è in base a tale contributo che il mondo, e ciascuno dei suoi elementi, vengono giudicati. Le parti del mondo inadatte a (o non più capaci di) servire a tal fine vengono lasciate fuori dall’ambito della pertinenza e abbandonate a se stesse, oppure scartate appositamente e spazzate via. Tali parti non sono altro che i rifiuti della tensione all’autoriforma, e la loro destinazione naturale è la discarica. Dal punto di vista della vita liquida la loro conservazione sarebbe irrazionale: il loro diritto a essere conservate per se stesse non è facilmente sostenibile, e tanto meno dimostrabile, nella logica della vita liquida. È per questo che l’avvento della società liquido-moderna ha segnato la fine delle utopie incentrate sulla società e, più in generale, il tramonto dell’idea di «società buona». Se mai la vita liquida possa ispirare un interesse per la riforma della società, tale riforma postulata mirerà soprattutto a spingere ancor più la società ad abbandonare, una dopo l’altra, tutte le rivendicazioni di un valore proprio che non sia quello di una forza di polizia che vigili sulla sicurezza degli io che si autoriformano, e ad accettare e consolidare il principio di compensazione (la versione politica della garanzia «soddisfatti o rimborsati») qualora l’azione di polizia fallisca o venga reputata inadeguata. Persino le nuove sollecitudini per la tutela dell’ambiente devono la propria popolarità alla percezione dell’esistenza di un legame tra l’abuso predatorio degli spazi comuni del pianeta e le minacce al regolare corso delle egocentriche occupazioni della vita liquida. Questa tendenza si alimenta e si rinforza da sé. La concentrazione sull’autoriforma si autoperpetua, e lo stesso vale per il disinteresse e la disattenzione per gli aspetti della vita collettiva che non si lasciano tradurre completamente e immediatamente negli obiettivi correnti dell’autoriforma. La mancanza di attenzione per le condizioni della vita collettiva preclude la possibilità di rimettere in discussione lo scenario che rende liquida la vita individuale. Al successo della ricerXX

ca della felicità – fine apparente e motivazione predominante della vita individuale – si oppone continuamente il modo stesso in cui avviene tale ricerca (l’unico modo in cui può avvenire nel contesto liquido-moderno). L’infelicità che ne risulta conferisce maggior ragione e forza ad una life politics, una politica di vita egocentrica: il suo effetto ultimo è il perpetuarsi della liquidità della vita. Società liquido-moderna e vita liquida sono incastrate in un vero e proprio perpetuum mobile. Una volta avviato, un moto perpetuo non smetterà di girare da sé. E le prospettive di arrestarlo, già incerte data la natura del congegno, vengono ulteriormente ridotte dalla sorprendente capacità che questa particolare versione del meccanismo autoalimentato dimostra di assorbire e assimilare le tensioni e le frizioni che esso stesso genera, per utilizzarle a proprio favore. Esso riesce in effetti a volgere a proprio vantaggio la domanda di soccorso o di cura generata da tali tensioni, sfruttandola come una sorta di carburante ad alto rendimento che ne mantiene a regime i motori. Una risposta abituale a un tipo di comportamento sbagliato, a una condotta inadeguata a perseguire uno scopo accettato o che conduce a esiti indesiderabili, è l’educazione, o la rieducazione: indurre nell’allievo nuovi tipi di motivazioni, sviluppare nuove propensioni e allenarlo a impiegare nuove abilità. Il senso dell’educazione, in questi casi, sta nel mettere in questione il portato dell’esperienza quotidiana, nel controbattere e in fondo rifiutare le pressioni provenienti dal contesto sociale in cui agiscono gli allievi. Ma saranno, educazione e educatori, all’altezza? Riusciranno a resistere alle pressioni? Sapranno evitare di farsi mettere al servizio proprio delle pressioni che dovrebbero rifiutare? Questa domanda è stata posta fin dall’antichità, e ha più volte avuto risposte negative dalla vita sociale nelle sue varie reincarnazioni: eppure, dopo ogni disastro essa è riemersa con forza imXXI

mutata. Le speranze di utilizzare l’educazione come una leva abbastanza potente da scombussolare e, in ultima analisi, rimuovere le pressioni dei «fatti sociali» sembrano essere tanto vulnerabili quanto immortali... Ad ogni modo, le speranze sono vive e vegete. Henry A. Giroux ha dedicato anni di studio assiduo alle possibilità di una «pedagogia critica» in una società rassegnata al potere soverchiante del mercato. La conclusione cui è recentemente pervenuto in collaborazione con Susan Searls Giroux è la riaffermazione di un auspicio secolare: In opposizione alla mercificazione, alla privatizzazione e alla commercializzazione di tutto ciò che ha a che vedere con l’educazione, gli educatori devono definire la istruzione superiore come risorsa vitale per la vita democratica e civile della nazione. La sfida che si pone dunque ai docenti, ai lavoratori della cultura, agli studenti e alle organizzazioni del lavoro è quella di unirsi nell’opposizione alla trasformazione dell’istruzione superiore in un settore commerciale [...]9.

Nel 1989 Richard Rorty indicava come finalità auspicabili e possibili degli educatori i compiti di «sobillare i ragazzini» e di insinuare «dubbi negli studenti sulla loro stessa immagine di sé e sulla società di cui fanno parte»10. È chiaro che difficilmente tutti coloro che operano come educatori accetteranno la sfida e faranno proprie tali finalità. Le stanze e i corridoi del mondo accademico sono popolati da due tipi di persone: alcune «impegnate a conformarsi a criteri ben definiti per fornire contributi alla conoscenza», le altre preoccupate soprattutto di «espandere la propria immaginazione morale» e di leggere libri «al fine di ampliare la propria percezione di ciò che è possibile e importante, per se stessi come individui o per la società di cui fanno parte». L’appello di Rorty si rivolge a questo secondo genere di persone, le uniche in cui riponga le proprie speranze. Egli è ben consapevole che i docenti che risponderanno a questi squilli di tromXXII

ba si troveranno a combattere una battaglia che non ha certo il favore dei pronostici. «Non possiamo dire ai consigli di amministrazione, alle commissioni governative e simili che la nostra funzione è di smuovere le acque, di far sentire in colpa la nostra società, di minarne gli equilibri», o (come scrive altrove) che l’istruzione superiore «non punta a inculcare o a far emergere la verità, ma punta piuttosto a stimolare il dubbio e spronare l’immaginazione, contestando così l’opinione prevalente»11. Esiste una tensione tra la retorica pubblica e il senso di missione degli intellettuali: essa «rende l’accademia, in generale, e in particolare chi ha una formazione umanistica, estremamente vulnerabili ai cacciatori di eresie». Poiché i messaggi di chi promuove il conformismo sono sostenuti con forza dall’opinione dominante e dai quotidiani riscontri dell’esperienza di senso comune, quella tensione, possiamo aggiungere, rende gli «intellettuali umanistici» facili bersagli per gli assertori della fine della storia, delle scelte razionali, delle policies di vita secondo cui «non esiste alternativa» e di altre formule che tentano di cogliere e di esprimere lo slancio, effettivo o presunto, di una dinamica societaria che appare invincibile. Essa incoraggia dosi di irrealismo, utopia, pie illusioni, sogni a occhi aperti e (il danno dopo la beffa, in un odioso capovolgimento della verità etica) irresponsabilità. Per quanto schiaccianti possano essere le forze contrarie, una società democratica (o, come direbbe Cornelius Castoriadis, autonoma) non conosce alternative all’impiego dell’educazione e dell’autoeducazione come mezzi per influenzare il corso di eventi che possono essere riconciliati con la sua natura, la quale dal canto suo non si può conservare a lungo senza «pedagogia critica»: senza un’educazione, cioè, che affili le armi della critica, «faccia sentire in colpa la nostra società» e «smuova le acque» agitando le coscienze umane. I destini della libertà, della democrazia che la rende possibile (e ne è resa possibile) e dell’educazione che produce insoddisfazione per il livello di libertà e di democrazia raggiunto sino a quel momento sono inestricabilmente collegati e non vanno XXIII

disgiunti. Questa strettissima connessione può apparire come un altro caso di circolo vizioso – ma è all’interno di tale circolo che sono inscritte le speranze e le possibilità del genere umano, né può essere altrimenti. Questo volume è una raccolta di intuizioni su vari aspetti della vita liquida, ossia della vita nella società liquido-moderna: raccolta che non ha pretesa di completezza. La speranza è, tuttavia, che ciascuno degli aspetti analizzati offra uno squarcio sulla nostra attuale condizione comune e sulle minacce e opportunità che tale condizione comporta per la prospettiva di rendere il mondo umano un po’ più ospitale per l’umanità.

Vita liquida

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L’individuo sotto assedio

L’eroe eponimo del film dei Monty Python Brian di Nazareth, furibondo per esser stato proclamato Messia contro la sua volontà e seguito ovunque da un’orda di adepti, cerca in tutti i modi, ma invano, di convincerli a non comportarsi come un gregge di pecore e ad andarsene. Grida loro: «Siete tutti degli individui!». E il coro dei devoti gli risponde prontamente all’unisono: «Sì, siamo tutti degli individui!». Solo una voce, flebile e solitaria, replica: «Io no...». Brian allora fa un altro tentativo: «Ognuno di voi è diverso!». «Sì, ognuno di noi è diverso!», approva entusiasticamente l’assembramento di fedeli. E, di nuovo, quell’unica vocina obietta: «Io no...». A quel punto la folla inviperita si guarda intorno per linciare il dissidente, se soltanto riuscisse a trovarlo, confuso nella massa indistinta. In questa piccola gemma della satira è racchiuso tutto l’esasperante paradosso – o meglio l’aporia – dell’individualità. Alla domanda che cosa significhi essere individui, chiunque – dai filosofi fino a coloro che non si sono mai chiesti che mestiere faccia il filosofo – darebbe più o meno una risposta del genere: essere individui significa essere diversi da chiunque altro. Un’eco remota del modo in cui Dio si presenta a Mosè si può cogliere nella risposta «Io sono colui che sono», che significa: sono un essere unico, una creatura unica, fatta – o fattasi, come Dio – in modo talmente peculiare e unico che è impossibile descrivere tale unicità con parole che possano avere più di un referente. Il guaio è che sono gli stessi ‘altri’ (dai quali non si può fa3

re a meno di essere diversi) a pungolarci, spingerci, costringerci a essere diversi. È quella compagnia che si chiama ‘società’, di cui non si è che uno dei tanti, di quei tanti in giro e che sono più o meno familiari, ad attendersi (da me, da te, da chiunque altro si conosca o di cui si conosca l’esistenza) la prova risolutiva di come si sia un ‘individuo’ fatto, o fattosi, ‘diverso dagli altri’. Quando si tratta dell’obbligo di dissentire e distinguersi, nessuno può osare dissentire o distinguersi. In una società di individui ciascuno deve essere un individuo: almeno in questo senso, chi fa parte di una simile società è tutto fuorché un individuo diverso dagli altri, o addirittura unico. Al contrario, ciascuno è incredibilmente uguale agli altri, in quanto deve seguire la stessa strategia di vita e deve utilizzare segni condivisi – ossia comunemente riconoscibili e intelligibili – per convincere gli altri che lo stanno facendo. In materia di individualità non esistono scelte individuali. In questo caso il dilemma «essere o non essere» non si pone affatto. Paradossalmente, l’‘individualità’ è legata allo «spirito della folla»: è quest’ultima ad imporla. Essere un individuo significa essere uguale, anzi identico, a chiunque altro faccia parte della folla. In tale situazione, in cui l’individualità è un «obbligo universale» e la difficoltà in cui ognuno si dibatte, l’unico atto che farebbe veramente di me un individuo, un soggetto diverso dagli altri, sarebbe cercare – in modo sconcertante, sorprendente – di non essere un individuo: ammesso di potercela fare, e comunque rassegnandomi alle conseguenze (molto spiacevoli) di tale scelta... Un rompicapo terribile, dunque. Non sorprende che la tremenda esigenza di individualità ci tenga occupati di giorno e svegli di notte... E in realtà non è nemmeno un semplice rompicapo, una mera contraddizione logica (possedimento esclusivo e preoccupazione privata dei filosofi, che, si sa, sono sempre pronti a scendere in guerra contro assurdità e contraddizioni, anche quando chi non si interessa di filosofia riesce a convivere pacificamente, e quasi senza accorgersene, 4

con esse). Il rompicapo di cui parliamo esprime un compito assolutamente pratico, per completare il quale serve tutta la vita, per così dire ‘dalla culla alla bara’. In una società di individui come la nostra «società individualizzata», a ciascuno di noi è richiesto di essere un individuo, e tutti noi desideriamo ardentemente esserlo e ci impegniamo profondamente a tal fine. Poiché «essere un individuo» viene normalmente tradotto come «essere diverso dagli altri», e poiché è a ‘me’, al mio io, che si rivolgono l’invito e l’aspettativa a emergere e a distinguersi dagli altri, il compito appare intrinsecamente autoreferenziale. Non sembra esserci altra possibilità se non quella di farsi consigliare sul modo migliore per addentrarsi sempre più profondamente all’‘interno’ di se stessi, in quella che è certamente la nicchia più privata e protetta di un mondo di esperienza che per il resto somiglia a un affollato e rumoroso bazar. Cerco il «vero me stesso», che suppongo nascosto da qualche parte nell’oscurità del mio essere originario, non condizionato (non inquinato, né soffocato, né deformato) dalle pressioni esterne. E libero dal suo involucro l’ideale dell’‘individualità’ intesa come autenticità, come «essere vero verso me stesso», il «vero me stesso». Mi cimento in una sorta di «introspezione fenomenologica» alla Husserl (per quanto spesso casareccia e frettolosa) nella mia ‘soggettività’ autentica e non contraffatta, realmente «trascendentale», attraverso una penosa opera di «riduzione fenomenologica» con cui «metto in epoché», ossia metto fra parentesi, sospendo, recido ed elimino qualsiasi elemento ‘estraneo’ che riconosco di aver importato dall’esterno. Ecco quindi che prestiamo speciale ascolto alle emozioni e ai sentimenti che si agitano dentro di noi: ci appare, questo, un modo sensato di procedere, dal momento che le sensazioni – a differenza della distaccata e imparziale ragione, universalmente condivisa, o almeno ‘condivisibile’ – non sono ‘impersonali’, ma mie, e mie soltanto. Esse, dal momento che non possono essere comunicate con un linguaggio ‘oggetti5

vo’ (o almeno non possono esserlo completamente in modo soddisfacente per noi e per chi ci ascolta), né condivise totalmente e senza residui, ci appaiono come l’habitat naturale di tutto ciò che è realmente privato e individuale. I sentimenti intrinsecamente soggettivi sono l’epitome stessa della ‘unicità’. Diligentemente restiamo in ascolto delle voci «di dentro»: eppure difficilmente saremo mai convinti del tutto e al di là di ogni ragionevole dubbio che le voci non siano state fraintese, che le abbiamo ascoltate a sufficienza da poter prendere una decisione o pronunciare una sentenza. È evidente che non possiamo fare a meno di qualcuno che ci aiuti a interpretare ciò che udiamo, anche solo per rassicurarci sulla fondatezza delle nostre ipotesi. Quando si vuole, un modo si trova sempre, e quando c’è una domanda l’offerta non si fa mai attendere troppo. Nella nostra società di individui disperatamente in cerca della propria individualità non manca chi, sulla base della propria qualifica, o magari di una semplice autocertificazione, ci offre il suo aiuto (naturalmente al giusto prezzo) per farci da guida nelle oscure segrete della nostra anima, dove si troverebbe imprigionato il nostro io che lotta per uscire alla luce. Ma anche quando troviamo simili soccorritori e ricorriamo ai loro servizi (a pagamento), le ansie non finiscono, sembrano anzi crescere e farsi più gravose. Così Charles Guignon ha sintetizzato di recente le gioie e i dolori delle visite guidate alla scoperta di sé: Programmi ideati per aiutarci a entrare in contatto con il nostro vero io, e apparentemente motivati da ideali di emancipazione, hanno spesso l’effetto d’indurre a pensare in modo da confermare l’ideologia di chi li ha promossi. Il risultato è che molti di coloro che partono pensando di avere una vita vuota o priva di senso finiscono per smarrirsi nell’approccio mentale di uno specifico programma, o per avere, qualsiasi cosa facciano, la sensazione di ‘non essere abbastanza in gamba’1. 6

Molto spesso il viaggio alla scoperta di sé si perde in una fiera globale in cui le ricette per l’individualità vengono offerte a buon mercato («non ne troverete una migliore») e in cui qualsiasi kit di montaggio esposto in vetrina è in realtà un prodotto industriale di massa all’ultimo grido. Ed è allora deludente vedere come il valore delle caratteristiche meno comuni – quelle veramente individuali – del proprio io possa essere riconosciuto solamente dopo che esse sono state convertite nella valuta più comune e più largamente usata. In breve l’individualità, in quanto atto di emancipazione personale e di autoaffermazione, appare gravata da una aporia congenita, da una contraddizione insanabile. Essa ha bisogno della società sia come culla che come punto d’arrivo. Chiunque cerchi la propria individualità dimenticando, respingendo o sottovalutando tale sobria/oscura verità si candida a una condizione di frustrazione. L’individualità è un compito che la società degli individui assegna ai suoi membri – un compito individuale, da svolgere individualmente, sulla base delle proprie risorse individuali. E tuttavia questo compito è autocontraddittorio e votato alla sconfitta: anzi, impossibile da svolgere. La società degli individui, però, oltre a porre i suoi membri dinanzi alla sfida dell’individualità, fornisce loro anche i mezzi per convivere con quella impossibilità: in altri termini, per tollerare la sostanziale e inesorabile impossibilità di svolgere il compito nonostante il continuo ripetersi e accumularsi dei tentativi falliti. Il termine ‘individuo’ affiorò alla consapevolezza della società (occidentale) nel XVII secolo, agli albori dell’età moderna. Esso esprimeva un compito, non immediatamente intuibile dal nome datogli fin dall’inizio: il termine, di derivazione latina, implica in primo luogo e principalmente – come il greco a-tom – l’attributo dell’indivisibilità. Esso faceva dunque riferimento soltanto al fatto, in sé banale, che se si suddivide la totalità della popolazione umana in elementi costitutivi sempre più piccoli, tale operazione si dovrà arrestare quando si 7

arriva al livello di una singola persona: l’individuo è infatti l’unità più piccola cui sia ancora possibile attribuire la qualità dell’‘umanità’, esattamente come l’atomo di ossigeno è l’unità più piccola dotata delle caratteristiche di quell’elemento chimico. In sé il nome non definiva l’unicità del suo titolare (gli atomi dello stesso elemento sono indistinguibili gli uni dagli altri). La caratteristica dell’‘unicità’, l’«essere diversi dagli altri» (l’ipséité di Paul Ricoeur) fu certamente aggiunto al campo semantico del termine come una sorta di ripensamento, a seguito dell’interpretazione e della riflessione sui contesti in cui i suoi usi sociali erano collocati e rimanevano chiusi. Tali aggiunte sopraggiunsero in un secondo tempo, ma presero ben presto il sopravvento, colonizzando tutto lo spazio semantico del termine ed emarginando, se non addirittura espellendo totalmente, i significati preesistenti. Quando oggi si sente pronunciare la parola ‘individuo’ difficilmente si pensa all’‘indivisibilità’; al contrario, l’‘individuo’ (proprio come l’atomo della chimica fisica) fa riferimento a una struttura complessa ed eterogenea fatta di elementi altamente separabili, raccolti in unità precaria e fragile da una combinazione di attrazione e repulsione, di forze centripete e centrifughe, in un equilibrio dinamico, mobile e costantemente instabile. L’accento cade soprattutto sull’autocontenimento di quest’aggregato complesso, e sul compito di attenuare i continui scontri tra elementi eteronomi e introdurre una qualche armonia nella loro sconcertante varietà. E cade anche sulla necessità di realizzare tale compito dentro quell’aggregato, con gli strumenti disponibili al suo interno. ‘Individualità’ significa oggi, prima di qualsiasi altra cosa, autonomia della persona, dove la prima viene percepita come diritto e dovere della seconda. Prima di qualsiasi altra cosa, l’affermazione «sono un individuo» implica che io sono responsabile dei miei pregi e dei miei difetti e che è mio compito sviluppare quelli e rammaricarmi per questi, cercando di porvi rimedio. In quanto compito, l’individualità è un prodotto finale della trasformazione societaria, camuffato da scoperta personale. 8

Nella fase iniziale di tale trasformazione lo studente Karl Marx osservava che quando il sole tramonta le falene cercano la luce delle lampade, la cui attrazione cresce man mano che sul mondo esterno cala l’oscurità. L’ascesa dell’individualità è stata la spia del progressivo indebolimento – per disintegrazione o distruzione – della fitta rete di legami sociali che avviluppava strettamente la totalità delle attività della vita. Essa esprimeva il fatto che la comunità era sempre meno capace e/o interessata a regolare normativamente la vita dei suoi membri. Più esattamente, quell’ascesa segnalava che la comunità, non essendo più an sich (come avrebbe detto Hegel) o zuhanden (nei termini di Heidegger), aveva perso l’antica capacità di assicurare tale regolazione in maniera ordinaria, nei fatti e senza coinvolgere l’autocoscienza, e che la perdita di tale capacità trasformava esplicitamente il compito di modellare e coordinare le attività umane in un problema, in qualcosa su cui riflettere e di cui preoccuparsi, oggetto di scelta, decisione e sforzo finalizzato. Il numero dei modelli di routine quotidiana che restavano incontestati ed evidenti di per sé diminuiva sempre più; il mondo della vita quotidiana perdeva l’ovvietà e la ‘trasparenza’ di cui aveva goduto fino allora, finché i percorsi della vita erano stati privi d’incroci e non ancora irti di ostacoli da evitare, contrattare o rimuovere a forza dal proprio cammino. Gli zatterieri che trasportano tronchi d’albero lungo il fiume seguono la corrente: non gli serve la bussola, a differenza dei marinai che non possono farne a meno, una volta preso il largo. Gli zatterieri si lasciano trasportare dal corso delle acque, assecondando i movimenti della propria imbarcazione con un colpo di pagaia di tanto in tanto, per seguire la corrente, e tenendola a debita distanza dagli scogli e dalle rapide, dalle secche e dagli scogli sulle rive. I marinai, invece, sarebbero perduti se la propria rotta fosse affidata esclusivamente ai capricci dei venti e delle correnti mutevoli. Essi non possono 9

che farsi carico dei movimenti della barca: hanno bisogno di decidere dove andare, e perciò gli occorre una bussola che dica loro quando e da che parte andare per poterci arrivare. L’idea dell’‘individuo’ autocostruito fu espressione di tale bisogno, allorché i moderni marinai succedettero agli zatterieri premoderni. La comunità era in fase di ripiegamento e il suo sistema immunitario, nato per evitare che essa venisse contaminata dai problemi, si trasformava a sua volta in un problema: non si poteva più restare sordi e ciechi di fronte alla scelta della direzione e alla necessità di tenere la rotta. Se un tempo le cose ‘andavano’ così, ora ‘andavano fatte’ così. La società – quella «comunità immaginata», subentrata al posto di quella che era invisibile nella propria stessa luce abbagliante, oppure di un contesto sociale che non richiedeva l’impiego dell’immaginazione al servizio dell’autoanalisi e non avrebbe potuto sopravvivere ad essa – assurgeva a nuova necessità (non scelta), in quanto diritto dell’uomo (conquistato a caro prezzo). Diversamente dalla ‘comunità’ (una totalità cui fu dato quel nome a posteriori, nel momento stesso in cui un nuovo contesto col nome di ‘società’ lottava per riempire il vuoto normativo creato dalla sua ritirata), nella ‘società’ i nuovi poteri normativi si limitavano, in linea di massima, a regolare lo spazio sociale che si poteva abbracciare unicamente grazie all’immaginazione. Tale spazio si disinteressava della sfera delle relazioni interpersonali, il microspazio della prossimità e i rapporti de visu, in cui gli strumenti che si potevano adoperare con efficacia per l’interazione personale potevano ormai essere impiegati liberamente nell’attività di ‘socializzazione’: ossia nelle interazioni quotidiane fra esseri umani, nella definizione e nella revoca degli impegni personali, nella creazione e nello scioglimento di legami individuali e nella scelta della strategia per questi fini. Nella sfera dei rapporti de visu l’individualità viene affermata e rinegoziata ogni giorno attraverso una interazione costante. Essere ‘individuo’ equivale ad accettare una respon10

sabilità inalienabile per l’andamento e le conseguenze di tale interazione: responsabilità che non può essere assunta seriamente se gli attori non sono liberi di scegliere il modo di procedere. La ‘libera scelta’ può anche essere una finzione (come i sociologi hanno sostenuto instancabilmente fin dagli albori della loro scienza), ma la presunzione del diritto di libera scelta trasforma tale finzione nella realtà della Lebenswelt, in un «fatto sociale» in senso durkheimiano, ‘reale’ in quanto sostenuto dalla pressione schiacciante di sanzioni irresistibili: una pressione di cui non si può nemmeno concepire o desiderare l’assenza, e che tanto meno è possibile contrastare efficacemente o ignorare impunemente. Per quanto libera possa essere (o no) la scelta individuale, sicuramente il precetto di scegliere liberamente e di definire qualsiasi azione come esito di tale libertà non è a sua volta materia di scelta individuale. Nella società degli individui tutti noi siamo individui, ciascuno di noi lo è. Individui de jure, per legge: in base alla legge scritta, ma anche alle sue numerose varianti non scritte, ma non per questo meno forti: alla pressione – diffusa ma incessante, travolgente e irresistibile – dei «fatti sociali». Il diritto e il dovere di libera scelta – premessa, tacita o/e esplicita, dell’individualità – non sono sufficienti a garantire che l’esercizio di quel diritto sia praticabile, e dunque che la prassi dell’individualità sia all’altezza dei modelli imposti da quel dovere. L’esercizio della libera scelta è quasi sempre fuori della portata di molti, uomini e donne, e per altri ancora lo è in determinate occasioni (più o meno numerose). Jeremy Seabrook ha descritto in maniera molto efficace la condizione dei poveri globali dei nostri giorni, tanto spesso sfrattati dalla propria terra e costretti a cercare la sopravvivenza negli slum in rapida crescita della megalopoli più vicina: La povertà globale è in fuga: non è stata cacciata dalla ricchezza, ma sfrattata da un hinterland esaurito, stravolto. [...] La terra 11

che hanno coltivato, assuefatta a fertilizzanti e pesticidi, non produce più un’eccedenza da vendere sul mercato. L’acqua è contaminata, i canali d’irrigazione ostruiti; i pozzi sono inquinati e non danno più acqua potabile [...]. La terra è stata presa dal governo per farne complessi turistici sul mare o campi da golf o – sotto la pressione di piani di sviluppo delle strutture – per accrescere le esportazioni agricole [...]. Gli edifici scolastici non vengono riparati. I centri sanitari sono chiusi. Le foreste, in cui la gente raccoglieva da sempre combustibile, frutta e bambù per riparare le case, sono ormai zone proibite, sorvegliate da uomini che indossano l’uniforme di qualche azienda privata semimilitare2.

Gli eroi della vicenda narrata da Seabrook sono confinati alla fine della scala lungo cui si dispongono tutti gli esseri umani nella nostra società sempre più individualizzata. Essi formano una «classe inferiore globale» [global underclass], sono «giunti con i loro fardelli nelle inospitali città dell’Asia, dell’Africa e dell’America Latina» e, con buona pace delle nostre coscienze, restano a distanza psicologicamente sicura sia dalla nostra attenzione, tutta concentrata sui profughi che sbarcano di nascosto sulle nostre coste, sia dalle telecamere che inquadrano valorosi poliziotti impegnati in retate di ‘clandestini’ e sans papiers, rinchiusi poi nel campo profughi più vicino. Costoro sono la feccia, i rifiuti e gli scarti del libero scambio e del progresso economico globali che a una estremità della scala (dove ci troviamo anche noi) accumulano i piaceri di un’opulenza senza precedenti, mentre all’estremità opposta scaricano miseria e umiliazione indescrivibili, spargendo su tutti, a qualsiasi livello siano collocati, paure e premonizioni terribili. Se a quei poveri si chiedesse a che punto sono arrivati con la loro ‘individualizzazione’, se si dicesse loro che essa è un compito anche per loro, ciò verrebbe preso, probabilmente, come un modo crudele di prenderli in giro. Se dovessero porsi il problema di dare un significato allo strano termine ‘individualità’, non potrebbero associarlo ad altre esperienze di vita che allo strazio della solitudine e dell’ab12

bandono, alla mancanza di una casa, all’ostilità dei vicini, alla scomparsa di amici di cui potevano fidarsi e sul cui aiuto potevano contare, all’esilio da luoghi dove altri uomini oggi si aggirano, godendone e ammirandone a volontà la bellezza. Sicuramente alla maggior parte di noi queste persone potrebbero sembrare magari degli extraterrestri. La loro sorte non è una prospettiva proprio dietro l’angolo, non rientra nei nostri itinerari normali. Ciò non significa, però, che la loro condizione di emarginati sia priva di qualsiasi nesso con l’esistenza di quei fortunati che sono riusciti a evitare analogo destino. Potremmo immaginare la «classe inferiore globale» come la feccia che rimane al fondo di una soluzione chimica saturata da sostanze di cui essa non è che il residuo condensatosi nel corso della reazione. Tale soluzione è la «società individualizzata» di cui tutti facciamo parte; le sostanze in essa disciolte sono gli ostacoli che si accumulano sulla via che porta dall’individualità de jure all’individualità de facto; e il catalizzatore che induce la sedimentazione è il precetto di individualizzazione, rivolto a tutti noi e come tale vincolante. Chiunque faccia parte della società individualizzata incontra diversi ostacoli nel proprio percorso verso l’individualità de facto. Quest’ultima non è facile da realizzare ed è ancor più difficile da mantenere; la tensione verso l’individualità implica una lotta perenne tra i segni d’identità usati di solito, che si avvicendano vorticosamente, e la cronica instabilità delle scelte che caldeggiano quegli stessi segni. Siamo tutti ormai come Alice, che Lewis Carroll avverte: «Qui, invece, vedi, devi correre più che puoi, per restare nello stesso posto. Se vuoi andare da qualche altra parte devi correre almeno il doppio»3. La ricerca dell’elusiva individualità lascia ben poco tempo per altre attività. Nuovi segni di distinzione in offerta promettono di condurti alla mèta e di convincere chiunque incontri per strada, o venga a casa tua, che ci sei arrivato davvero, ma al tempo stesso invalidano i segni che ci avevano fatto la stessa promessa un mese, o un giorno, prima. La corsa all’individualità non dà requie. 13

I dilemmi e i rompicapo che le società pongono a chi ne fa parte vengono di solito forniti con tanto di strategie e strumenti di risoluzione, approvati e caldeggiati dalla società stessa. Il consumismo è una di queste risposte – complete di «istruzioni per l’uso» – alle sfide poste dalla società degli individui. La logica del consumismo è finalizzata ai bisogni di uomini e donne che lottano per costruire, mantenere e rinnovare la loro individualità, e specialmente per tener testa alla suddetta contraddizione dell’individualità. Forse era facile (ma non agevole, né tanto meno sicuro) manifestare la propria unicità in una società con canoni rigidi e routine monotone, ma certo non può esserlo in una società che impegna tutti e ciascuno dei suoi membri a essere unici; in un singolare ribaltamento delle regole pragmatiche, è solo seguendo la norma cui obbedisce la generalità che si può pensare di soddisfare le richieste d’individualità. Il conformismo, un tempo accusato di soffocare l’individualità, viene esaltato come il migliore amico dell’individuo: in realtà, l’unico di cui ci si possa fidare. I meccanismi del mercato dei consumi sfidano la logica, ma non quella della lotta per l’individualità, già intrinsecamente contraddittoria. In uno slogan pubblicitario come «Sii te stesso: scegli Pepsi» tale aporia risuona con una sincerità che la maggior parte dei clienti potenziali della Pepsi non può che accogliere con gratitudine. La contesa per l’unicità è ormai il principale motore della produzione e del consumo di massa. Tuttavia, se il desiderio di unicità dev’essere al servizio di un mercato di consumi di massa (e viceversa), è necessario che l’economia dei consumi sia un’economia di oggetti che invecchiano rapidamente, di obsolescenza quasi istantanea e rapida rotazione dei prodotti, e perciò anche di eccesso e di scarto. L’unicità è ormai segnata e misurata dalla differenza tra ciò che è ‘aggiornato’ e ciò che è ‘superato’, o piuttosto tra le merci di oggi e quelle di ieri che sono ancora ‘aggiornate’ e che perciò si trovano ancora esposte nei negozi. Il successo e il fallimento, nella corsa all’unicità, dipendono 14

dalla velocità di chi è impegnato nella gara, ossia dalla loro bravura nello sbarazzarsi in fretta di oggetti retrocessi in serie B – sebbene coloro che progettano prodotti di consumo nuovi e migliori siano fin troppo disposti a promettere un’altra occasione agli sfortunati concorrenti eliminati nella gara precedente. Questi erano i consigli – adattissimi a coloro la cui principale preoccupazione è precedere di qualche centimetro il prossimo – che un giornalista dell’«Observer» offriva loro per restare in serie A: «Se proprio non avete denaro da sperperare» acquistando tappeti, divani, carte da parati o calici tutti assolutamente griffati, «non disperate!». Gli stilisti londinesi Clements Ribeiro hanno creato «una collezione per la vostra casa» che comprende fra l’altro un tappeto al prezzo di 199 sterline, un paravento di legno a onde per 499 sterline e una «sedia incredibilmente cool» per 949 sterline4: proposte che non si rivolgono certo a chi è a corto di contante o senza carta di credito. Buone notizie, dunque, per chi gode di ampio credito, ma cattive per gli altri, pericolosamente vicini alla retrocessione nella categoria residuale dei ‘consumatori difettosi’ e a rischio di caduta nel buco nero della classe inferiore. Il biglietto per essere traghettati dalla sponda dell’‘individuo de jure’ a quella dell’‘individuo de facto’ costa caro, e ancor più caro è affittare un posto per piantare la tenda una volta sbarcati. La maratona in cerca dell’individualità, diretta dal mercato dei consumi, trae urgenza ed energia dal terrore dei concorrenti di essere raggiunti, assorbiti e sommersi dalla folla degli inseguitori che gli alita sul collo. Ma, se davvero si vuol partecipare alla corsa e arrivare fino in fondo, occorre per prima cosa munirsi delle «scarpe speciali per maratona» che – guarda caso – anche gli altri corridori possiedono o ritengono di dover acquistare. Per essere individui, nella società degli individui, bisogna tirar fuori i soldi, un sacco di soldi; la corsa all’individualizzazione non è aperta a tutti, e seleziona i concorrenti in base alle loro credenziali. E, come nel 15

Grande Fratello televisivo, a ogni puntata cresce il numero dei concorrenti eliminati. Non sorprende che l’individualizzazione crei disagio e disagiati. Accanto alla linea di produzione che sforna consumatori felici ce n’è un’altra, meno pubblicizzata ma non per questo meno efficiente, che fabbrica persone squalificate ed escluse sia dalla festa dei consumi che dalla corsa all’individualizzazione. Ogni singola società, anche la più opulenta, ne è influenzata (ma attenzione: su un pianeta che si sta rapidamente globalizzando il concetto di ‘singola società’ dev’essere usato con molto più di un granello di sale). Richard Rorty, riflettendo sulla recente trasformazione della società americana, afferma che alla «borghesizzazione del proletariato» è seguita la proletarizzazione della borghesia: sono infatti sempre più numerose le famiglie della classe media cui il reddito consente «solo un’esistenza umiliante e vissuta alla giornata [...] tormentata da paure di regressioni salariali e di ridimensionamenti delle imprese, e dalle disastrose conseguenze di una malattia anche breve»5. Ma la polarizzazione indotta dalla privatizzazione e individualizzazione forzate degli obiettivi di vita ha anch’essa dimensioni planetarie. Le possibilità di colmare il divario tra individualità de jure e de facto sono estremamente diseguali a livello mondiale. I governi dell’Occidente opulento spendono 350 miliardi di dollari l’anno in sussidi all’agricoltura dei propri paesi, e ciò fa sì che i bovini europei se la passino molto meglio di metà degli abitanti del pianeta. Londra occupa una superficie di 1500 chilometri quadrati ma, come ha calcolato l’International Institute for Environment and Development, per produrre ciò che i suoi abitanti consumano e per smaltire i loro stessi rifiuti ha bisogno di un territorio equivalente al totale delle terre utilizzabili della Gran Bretagna6. Gli abitanti delle città negli Stati Uniti utilizzano in media, per il proprio sostentamento, 4,7 ettari di terra a testa, mentre chi vive in India deve accontentarsi di appena 0,4 ettari. Quanto migliore è la qualità della vita, tan16

to maggiore è l’«impronta ecologica» che una città lascia sul nostro pianeta. Londra utilizza un territorio 120 volte maggiore della propria estensione, mentre questo rapporto tra la propria superficie e quella del proprio Lebensraum arriva a 180 nel caso di Vancouver, che si trova ai vertici della classifica della qualità della vita. La polarizzazione è ormai troppo avanzata perché sia ancora possibile elevare la qualità della vita della popolazione del pianeta a quella dei paesi privilegiati dell’Occidente. Come nota John Reader, «se ogni abitante della Terra vivesse con gli stessi agi del cittadino medio nordamericano, non basterebbe un solo pianeta, ma ne servirebbero tre per provvedere alle esigenze di tutti»7. Non è poi così probabile riuscire a trovare altri due pianeti, in aggiunta a quello che abbiamo già, e dunque non è plausibile riuscire a equiparare, migliorandole per tutti, le opportunità dei residenti sul pianeta nell’ambito della società individualizzata. Se le cose stanno così, l’individualità è, e resterà presumibilmente per un bel po’, un privilegio. Resta un privilegio all’interno di ogni società singola e quasi-autonoma, nella quale il gioco dell’autoaffermazione si svolge attraverso la secessione dei consumatori a pieno titolo, quelli ‘emancipati’ – che si sforzano di comporre e ricomporre la propria individualità unica utilizzando i modelli più ‘esclusivi’ dell’haute couture – dalla massa senza volto di coloro che sono ‘bloccati’ e ‘definiti’ nella loro identità, che non hanno scelto né messo in questione, ma che è stata loro assegnata o imposta, e comunque ‘predeterminata’. E resta un privilegio anche su scala planetaria, in un pianeta che tende a dividersi tra enclave in cui al fitto tessuto di legami, di diritti e doveri fortemente radicati e non negoziabili subentrano velocemente reti che offrono a richiesta connessioni facili da stabilire (ma fragili e superficiali) e disconnessioni istantanee alla semplice pressione di un tasto e, dall’altra parte, vasti territori in cui l’avvento dell’individualità preannuncia, ben più che libertà di movimento e di scelta, la scomparsa dei collaudati dispositivi di sicurezza. 17

Le prospettive di estendere all’intero pianeta lo stile di vita di cui godono le enclave privilegiate sono – per le ragioni già dette – irrealistiche. La forma consumistica assunta dall’attuale «emancipazione verso l’individualità» sembra singolarmente riluttante a estendersi; ci si può chiedere fino a che punto la condizione sine qua non dell’individualità di alcuni sia di ostacolo all’individualità di molti altri, e se l’individualità, nella sua attuale versione, possa essere qualcosa di diverso da un privilegio. È perciò quasi scontato che tutti coloro i quali (e sono legioni) hanno probabilità remote (se non addirittura nulle) di saltare sul carro dell’individualizzazione vedano in una disperata resistenza all’‘individualità’ e a tutto ciò che essa rappresenta l’opzione più ragionevole, e addirittura l’esito ‘naturale’ della propria condizione. Il ‘fondamentalismo’, che sceglie di tenersi strettamente aggrappato all’identità ereditata e/o attribuita, è un prodotto naturale e legittimo dell’individualizzazione imposta a livello planetario. Nelle parole di William T. Cavanaugh, «le convinzioni dei Jim Jones e degli Osama bin Laden del mondo sono una parte significativa del problema della violenza nel ventunesimo secolo. E almeno altrettanto significativo, in tal senso, è il fervore evangelico con cui il ‘libero scambio’, la democrazia liberale e l’egemonia americana vengono offerti, o imposti, a un mondo affamato»8. L’identità per l’identità è un po’ sospetta. O comunque, questo è ciò che Charles Clarke probabilmente direbbe se con il prossimo rimpasto governativo dovesse trasferirsi dal ministero per l’istruzione a un ministero per l’identità. Dietro questa sua affermazione sull’istruzione c’è l’idea che (come ha osservato causticamente Richard Ingram) «le scuole e le università servano sostanzialmente ad accrescere il tasso di sviluppo economico e ad aiutarci a competere con i nostri partner europei», e in tal modo (si può aggiungere) ad aiutare il governo a vincere nelle prossime elezioni. Storia antica, 18

musica, filosofia e così via, se pretendono di favorire lo sviluppo personale anziché generare vantaggi economici e politici, difficilmente daranno un contributo ai numeri della crescita e agli indici di competitività. In questo mondo affaristico e pratico – un mondo che punta al profitto immediato, a gestire le crisi e a limitare i danni – di qualsiasi cosa non sia in grado di provare la propria redditività strumentale si può dire che è un po’ sospetta. I docenti, universitari e non, si unirebbero probabilmente a Richard Ingram nel dileggiare e disprezzare l’atteggiamento prosaico e filisteo di Clarke. Molti, forse la maggioranza, sottolineerebbero che è proprio «l’istruzione fine a se stessa» quella che dà il meglio di sé, e che qualsiasi tentativo di finalizzarla a qualcos’altro è destinato a svilirla. Eppure, così com’è probabile che gli insegnanti condividano il disprezzo di Ingram per la formazione in quanto strumento, è improbabile che la maggioranza degli studenti si associ a tale disprezzo. Per la maggior parte di questi ultimi l’istruzione è prima di tutto e soprattutto una via d’accesso al lavoro: tanto meglio quindi, se il varco è più ampio e se i premi alla fine della sfacchinata sono più attraenti. Come probabilmente avrebbe detto Karl Marx, adattando ai nostri tempi di life politics le sue osservazioni che si riferivano a un’epoca ormai lontana, costoro fanno la loro vita (e noi la nostra), e con ciò fanno anche la loro (e nostra) comune storia – ma le condizioni in cui ciò avviene non sono scelte da loro (o da noi). E sono proprio tali condizioni ad avere l’ultima parola quando sono in gioco gli utilizzi della istruzione. Il significato della istruzione non è il solo caso in cui le percezioni delle «classi docenti» [teaching classes] (o, più in generale, di coloro che sono ben informati, ne sanno più degli altri) divergano da quelle delle «classi discenti» [taught classes] (dette anche, a seconda dei casi, «la gente» o «le masse»). Questa divergenza non sorprende, data la differenza di contesto in cui si svolgono le rispettive esistenze, e dell’esperienza di vita su cui le une e le altre riflettono (ammesso che ci ri19

flettano). Marx, che era un teorico, avrebbe molte occasioni per deplorare il divario paralizzante tra teoria e pratica, mentre Lenin, che si professava suo allievo ed era uomo d’azione, avrebbe ottimi motivi per censurare l’alienante e disonorevole distacco dell’intellighenzia dalle ‘masse’. E una grande occasione sarebbe certamente costituita, per entrambi, dal discorso sull’identità e dalla realtà dei conflitti per il riconoscimento dell’identità. Sull’identità le ‘classi del sapere’, che oggigiorno vengono a formare anche il nucleo articolato e autoriflessivo dell’élite globale extraterritoriale emergente, tendono al lirismo. Coloro che ne fanno parte sono tutti presi a comporre, scomporre e ricomporre la propria identità e non possono che essere piacevolmente colpiti dalla facilità e relativa economicità con cui è possibile assolvere quotidianamente a tale compito. Gli studiosi della cultura tendono a chiamare ‘ibridazione’ [hybridization] quest’attività e ‘ibridi culturali’ coloro che la praticano. Liberate dai loro legami locali e in grado di viaggiare facilmente connettendosi alle reti cibernetiche, le classi del sapere si chiedono perché mai gli altri non facciano altrettanto e si indignano quando costoro sembrano riluttanti a farlo. Ma al di là di tutto il disorientamento e l’irritazione, non è forse proprio il fatto che ‘gli altri’ non seguano, né possano seguire tale esempio a rendere più attraente l’‘ibridismo’ [hybridity] e ad accrescere la soddisfazione e l’autostima di coloro che vogliono e possono metterlo in atto? A prima vista l’ibridazione sembra aver a che fare con il mescolare, ma la sua funzione latente, e forse determinante – quella che ne fa un modo di essere-nel-mondo tanto apprezzabile e ambìto –, consiste nel separare. L’ibridazione recide l’ibrido da ogni e qualsiasi linea di parentela monozigotica. Nessuna stirpe può rivendicare diritti esclusivi di proprietà sul prodotto, nessun gruppo di consanguineità può esercitare il proprio rigoroso e tedioso controllo sul rispetto degli standard, e nessun rampollo si sente costretto a giurare fe20

deltà alle tradizioni ereditarie. L’ibridazione è una dichiarazione di autonomia, anzi d’indipendenza, nella speranza che ad essa segua la sovranità delle prassi. Il fatto che ‘gli altri’ restino indietro, bloccati ai loro genotipi monozigoti, conferisce maggior convinzione a questa dichiarazione e aiuta a perseguirne le prassi. L’immagine di una ‘cultura ibrida’ è la patina ideologica che ricopre l’ottenimento o la rivendicazione dell’extraterritorialità. La posta in gioco consiste essenzialmente nella libertà – conquistata a caro prezzo e serbata gelosamente – di accesso e di uscita, all’interno di un mondo attraversato da steccati e tagliato a fette da sovranità definite su base territoriale. Così come la nuova élite globale si sposta su reti extraterritoriali e abita in nowherevilles, la ‘cultura ibrida’ cerca la propria identità nella non appartenenza: nella libertà di sfidare e ignorare le frontiere che vincolano i movimenti e le scelte delle persone inferiori e di minore importanza, i ‘locali’ [locals]. Gli ‘ibridi culturali’ desiderano sentirsi ovunque chez soi, per essere immuni ai perfidi batteri della vita domestica. Chi resta fedele al significato ortodosso di ‘identità’ sarebbe perplesso di fronte a quest’idea. Come può un’identità essere eterogenea, effimera, volatile, incoerente, altamente mutevole? Chi è cresciuto facendo propria la classica nozione moderna d’identità, quella di Sartre e di Ricoeur, non potrebbe vedere in quell’idea altro che una contraddizione in termini. Per Sartre l’identità era un progetto a vita; per Ricoeur si trattava di una combinazione tra l’ipséité (che presuppone coerenza e consistenza) e la mêmeté (che sta per continuità): proprio le due caratteristiche che l’idea di una ‘identità ibrida’ respinge con decisione. Ma il significato ortodosso era tagliato a misura dello Stato-nazione e della costruzione della nazione, e lo stesso valeva per l’autodefinizione delle classi del sapere e per il ruolo sociale che esse svolgevano e/o rivendicavano, e che ormai hanno abbandonato totalmente. 21

In effetti, a ogni sua apparizione l’idea di ‘identità’ era dilaniata da una contraddizione interna: evocava una sorta di distinzione che nel corso della sua affermazione tendeva a essere soffocata, e puntava a un’identicità [sameness] che poteva essere costruita soltanto mettendo in comune le differenze... In termini heideggeriani l’‘identità’ si trasforma da uno zuhanden a un vorhanden; essa richiama l’attenzione (o, come direbbe Alfred Schütz, viene messa a fuoco come «rilevanza tematica») nel momento in cui vengono poste in questione l’individualità o, in alternativa, l’appartenenza. L’identità si trova perciò a dover scegliere tra due possibilità: porsi al servizio del tentativo di emancipazione dell’individuo, oppure essere parte di una collettività sovraordinata alle idiosincrasie individuali. La ricerca d’identità è costantemente strattonata in direzioni antitetiche, spinta com’è sotto il fuoco incrociato e costretta a procedere sotto la pressione di due forze contrapposte. Ogni identità rivendicata e/o ricercata (come problema e come compito) è impaniata in un doppio legame da cui non può far altro che tentare, invano, di liberarsi. Essa naviga tra i due poli dell’individualità senza compromessi e dell’appartenenza totale: la prima è irraggiungibile, mentre la seconda risucchia e inghiotte, come un buco nero, qualsiasi cosa le passi vicino. Ogni volta che viene scelta come mèta, l’identità provocherà inevitabilmente dei movimenti di oscillazione tra queste due direzioni. Per tale ragione l’‘identità’ porta con sé rischi potenzialmente letali sia per l’individualità che per la collettività, sebbene entrambe ricorrano ad essa come arma di autoaffermazione. La strada che porta all’identità è una battaglia senza fine e un interminabile conflitto tra il desiderio di libertà e il bisogno di sicurezza, ossessionato dalla paura della solitudine e dal terrore dell’esautorazione [incapacitation]. Per questo motivo le ‘guerre d’identità’ non sono quasi mai definitive, e altrettanto impossibili da vincere: esse continueranno a usare la ‘causa dell’identità’ come strumento, pur spacciandolo come proprio obiettivo. 22

Nelle manovre dell’eterogenea élite colta (globale) l’‘ibridazione’ ha sostituito – per adattarsi alle mutate circostanze dell’era liquido-moderna e postgerarchica – le vecchie strategie di ‘assimilazione’. Essa viene offerta in un’unica confezione con il ‘multiculturalismo’ – dichiarazione di equivalenza tra culture e postulato di eguaglianza tra di esse –, mentre la strategia di ‘assimilazione’ si collegava a una visione dell’evoluzione culturale e a una gerarchia tra le culture. La modernità liquida è ‘liquida’ anche in quanto postgerarchica. Gli assetti (veri o postulati) di superiorità/inferiorità, che una volta si presumevano strutturati senza ambiguità dalla logica inarrestabile del progresso, sono stati erosi e disciolti, e quelli nuovi sono troppo fluidi ed effimeri per consolidarsi in una forma riconoscibile e per mantenere tale forma abbastanza a lungo da poter essere adottati come sicura cornice di riferimento per la composizione dell’identità. Ne risulta che l’‘identità’ è divenuta generalmente qualcosa che si colloca e si ascrive tutta da sé, l’esito di sforzi che tocca agli individui compiere: un esito dichiaratamente temporaneo, la cui aspettativa di vita è indefinita e, con ogni probabilità, breve. Come ha affermato di recente Dany-Robert Dufour, tutti i ‘grandi riferimenti’ del passato sono tuttora utilizzabili, ma nessuno di loro ha, rispetto agli altri, autorità sufficiente da imporsi a chi cerca dei punti di riferimento9. Confusi e smarriti tra tante voci che rivendicano autorità in concorrenza reciproca (nessuna delle quali è abbastanza forte o si riesce a sentire abbastanza a lungo da emergere dalla cacofonia e offrire un filo conduttore), gli abitanti del mondo liquido-moderno non trovano, per quanto lo cerchino, un «enunciatore collettivo credibile» (un soggetto che «sostenga per noi ciò che non possiamo sostenere da soli» e «ci assicuri, nonostante il caos che abbiamo di fronte, la certezza di una qualche stabilità – di origini, di scopo e di ordine»)10. Invece si devono accontentare di surrogati notoriamente inaffidabili. Le allettanti proposte alternative di autorità – notorietà anziché regolazione normativa, celebrità e idoli23

del-giorno effimeri, con temi-del-giorno altrettanto volatili, che emergono dall’oscurità e dal silenzio grazie alla luce di un riflettore o al microfono di un cronista televisivo, per dileguarsi dalla ribalta e dai titoli di testa in modo altrettanto fulmineo – fungono da indicatori mobili in un mondo che non ne ha di stabili. In ultima analisi, l’‘ibridazione’ costituisce il movimento verso un’identità costantemente ‘non definita’ [unfixed], né mai ‘definibile’. All’orizzonte del processo s’intravede una identità, irraggiungibile in quanto indietreggia costantemente, che si definisce unicamente distinguendosi da qualsiasi altra identità dotata di nome, nota e riconosciuta, e perciò apparentemente definita. L’identità degli ‘ibridatori’ resta tuttavia irrimediabilmente dipendente da tutte le ‘altre’. Essa non ha un proprio modello determinato da seguire ed emulare. È soprattutto un impianto di rigenerazione e riciclaggio, vive a credito e si alimenta di prestiti. È in grado di costruire/sostenere la propria originalità solo con uno sforzo continuo e incessante per compensare i limiti di un prestito con altri prestiti. La mancanza di un obiettivo preselezionato può essere bilanciata soltanto da un eccesso di marcatori culturali e dallo sforzo costante di scommettere su tutti gli esiti possibili e tenersi aperte tutte le opzioni. Dal momento che chi s’inerpica sulle vette sovraculturali dell’‘ibridismo’ considera le ‘culture’ che definiscono i contesti di vita degli ‘altri’ come realtà solide, resistenti e inaccessibili, in grado di ‘definire’ e ‘vincolare’, totalità in sé conchiuse, che si autosostengono e autopropagano, la ‘cultura ibrida’ è extraculturale sia in termini programmatici che sul piano pratico. Quasi in aperta sfida alla tesi di Pierre Bourdieu secondo cui la distinzione sociale poggia le sue pretese di superiorità sul rigore di un gusto e di una scelta culturalmente circoscritti, la ‘cultura ibrida’ è chiaramente onnivora – evasiva, di facili gusti, imparziale, ben disposta e desiderosa di assaggiare qualsiasi proposta e d’ingerire e digerire il cibo di qualsiasi cucina. 24

Ribadisco: l’immagine della ‘cultura ibrida’ è la patina ideologica che copre un’extraterritorialità conquistata o rivendicata. Affrancata – proprio come le reti extraterritoriali che costituiscono la dimora dell’élite globale – dalla sovranità di unità politiche territorialmente circoscritte, la ‘cultura ibrida’ ricerca la propria identità nella libertà da identità assegnate e statiche, nella licenza di sfidare e ignorare quei tipi di marcatori, etichette o stigmi culturali che circoscrivono e limitano i movimenti e le scelte degli altri, dei ‘locali’, vincolati a un luogo specifico. Coloro che praticano e si godono la nuova condizione di ‘indefinitezza’ [unfixedness] dell’io tendono a farvi riferimento con il termine ‘libertà’. Si può ribattere, però, che avere un’identità che non è fissa ma contraddistinta soprattutto dall’essere valida «fino a nuovo avviso» non è una condizione di libertà, ma una coscrizione obbligatoria e interminabile in una guerra di liberazione che non si potrà mai vincere una volta per tutte: una lotta quotidiana, senza requie, per liberarsi di qualcosa, classificarlo tra le pratiche evase, dimenticarlo. Una volta che l’‘identità’ ha cessato di essere un’eredità ingombrante (in quanto inseparabile da noi) ma confortevole (in quanto impossibile da perdere) e non è più l’atto di un impegno valido per sempre in qualcosa che potrebbe e dovrebbe durare da qui all’eternità, ma è diventata piuttosto il compito a vita di individui orfani di eredità non negoziabili e privati di approdi credibili e fidati, l’identità stessa non può che trasformarsi, come di fatto avviene, in un tentativo inutile, esasperante nella sua ambivalenza, di lavarsi le mani dei propri impegni precedenti e di sottrarsi al rischio di restare impaniati in un qualche impegno di cui altri sarebbero ben lieti e desiderosi di lavarsi a loro volta le mani. La libertà di chi è in cerca d’identità somiglia a quella di chi va in bicicletta: la punizione, se si smette di pedalare, consiste nel cadere in terra, e dunque bisogna continuare anche solamente per rimanere dritti. Continuare ad affaticarsi è una necessità, una condizione che non lascia scelta, poiché l’alterna25

tiva fa troppa paura per poterla anche solo prendere in considerazione. Alla deriva da un episodio all’altro, vivendo ogni episodio senza la consapevolezza delle sue conseguenze, né tanto meno della mèta, guidati dallo stimolo a cancellare la storia passata più che dal desiderio di disegnare la mappa del futuro, l’identità resta costantemente inchiodata a un presente ormai privo di qualsiasi significato durevole come fondamento del futuro. Essa si sforza di accettare oggi cose «senza le quali non si può stare, né ci si può far vedere», pur sapendo che domani quasi certamente diventeranno cose «con le quali non si può stare, né ci si può far vedere». Il passato di ogni identità è disseminato di immondezzai in cui ogni giorno è stato lasciato, pezzo dopo pezzo, tutto ciò che fino a ieri l’altro era indispensabile, e che già ieri si è trasformato in un ingombrante fardello. L’unico ‘nucleo d’identità’ destinato sicuramente a emergere illeso, e forse persino rafforzato, dal cambiamento continuo è quello dell’homo eligens – l’«uomo che sceglie», ma non «che ha scelto»! –, di un io stabilmente instabile, completamente incompleto, definitamente indefinito e autenticamente inautentico. Come ha scritto Richard Sennett a proposito delle aziende liquido-moderne: «Iniziative perfettamente produttive vengono chiuse o abbandonate, e dipendenti di buon livello vengono lasciati allo sbando piuttosto che compensati, semplicemente perché l’azienda madre deve dimostrare al mercato di essere capace di trasformarsi»11. Se scriviamo ‘identità’ al posto di ‘iniziative’, ‘averi e partner’ al posto di ‘dipendenti’, e ‘io’ al posto di ‘azienda’, avremo una fedele descrizione della condizione che definisce l’homo eligens. L’homo eligens e il mercato dei beni di consumo vivono in perfetta simbiosi: essi non potrebbero sopravvivere se non sostenuti e alimentati l’uno dall’esistenza dell’altro. Il mercato non vivrebbe se i consumatori si tenessero stretto ciò che hanno. Esso non può tollerare, pena la propria sopravvivenza, clienti fedeli e impegnati, o semplicemente capaci di mantenere un percorso coerente e coeso, senza lasciarsi distrarre 26

o fare giri inutili – ben diversi, dunque, da coloro che riservano la propria dedizione allo shopping e seguono fedelmente i percorsi previsti nei centri commerciali. Il mercato subirebbe un colpo mortale se lo status degli individui non si sentisse a rischio, se le loro conquiste e i loro averi fossero al sicuro, i loro progetti definiti e la fine delle loro difficili imprese all’orizzonte. L’arte del marketing è concentrata sull’obiettivo di impedire che le opzioni si chiudano e i desideri siano finalmente appagati. Contrariamente alle apparenze e alle dichiarazioni ufficiali, nonché al senso comune fedele alle une e alle altre, l’accento non cade sull’obiettivo di suscitare nuovi desideri, ma su quello di offuscare i ‘vecchi’ (leggasi: quelli di un minuto prima) per preparare il terreno a nuove scorribande tra le vetrine. L’orizzonte ideale del marketing consiste nell’irrilevanza dei desideri ai fini del comportamento dei clienti potenziali. I desideri, in fin dei conti, hanno bisogno di essere coltivati in modo attento e, spesso, dispendioso; e una volta pienamente sviluppati perdono del tutto, o quasi, la loro iniziale flessibilità e vanno bene solo per utilizzi specifici, di solito molto circoscritti, che non si prestano né all’estensione né al trasferimento. I desideri e i capricci momentanei, invece, non richiedono una prolungata incubazione e preparazione, e possono pertanto fare a meno di forti investimenti. Chi vive nel mondo liquido-moderno non ha bisogno di ulteriori motivazioni per esplorare ossessivamente le vetrine alla ricerca di tesserini d’identità già pronti, facili da usare e leggibili ovunque. Vaga per i meandri dei centri commerciali, spinto e guidato dalla speranza semiconsapevole d’imbattersi proprio nel badge o segno di riconoscimento che gli occorre per tenere aggiornato il proprio io, roso dal timore di venir colto alla sprovvista nel momento in cui un marchio da portare con orgoglio si trasforma in un marchio di disonore. Per tenerne sempre viva la motivazione, i manager dei centri commerciali devono limitarsi a seguire il principio scoperto da Percival Bartlebooth, uno degli eroi del monumentale ro27

manzo di Georges Perec La vita istruzioni per l’uso, e accertarsi che l’ultima tessera disponibile non combaci mai con le altre da cui è composto il puzzle dell’identità, in modo che si debba ricominciare a comporlo da zero e che nessun nuovo inizio abbia una fine. La vita di Bartlebooth si concludeva incompiuta, e così l’ossessiva vicenda narrata da Perec: Seduto al suo puzzle, Bartlebooth è morto. Sul panno del tavolo, chissà dove nel cielo crepuscolare del quattrocentotrentanovesimo puzzle, lo spazio nero dell’unico pezzo non ancora posato disegna la sagoma quasi perfetta di una X. Ma il pezzo che il morto tiene fra le dita ha la forma, da molto tempo prevedibile nella stessa ironia, di una W12.

Finché i puzzle dell’identità verranno forniti solamente sotto forma di beni di consumo e reperibili soltanto nei centri commerciali, il futuro del mercato (a differenza dei futuri offerti sul mercato) è al sicuro... Chi di noi è stato istruito a preparare cocktail d’identità e allenato al piacere di assaporarli, e sa procurarsi tutti gli ingredienti del cocktail di volta in volta raccomandati (leggi: di moda) si sentirà di casa nella società dei consumi. Sono, dopo tutto, i consumatori come lui a fare di questa società quello che è: una società concepita, e fatta, per i loro consumi. Non altrettanto può dirsi per gli altri, per «noi gente comune»: per chi è stato estromesso, dichiarato in esubero, dall’azienda appena ristrutturata, che ha cambiato ragione sociale (il nuovo nome è «noi consumatori») e management, e non ha più posto per lui. Dato che gli è precluso l’accesso alle prelibatezze e agli ingredienti speciali, rari e cari, che servono per preparare i cocktail gustosi in voga al momento, gli altri (che, guarda caso, sono assai numerosi) non hanno altra scelta che bere le miscele d’identità così come arrivano: grossolane, volgari e insulse. Sarebbe insensato e crudele rimproverare ‘gli altri’ perché trangugiano intrugli che agli esperti più sofisticati e ai palati più fini appaiono pessimi, grezzi e privi di valore. Nessu28

no ha proposto loro una scelta, né si offriva un’alternativa. E se, nonostante ciò, essi provassero a esprimere e seguire le proprie preferenze verrebbero subito fermati, radunati e rispediti «ai loro luoghi di provenienza»: all’identità fissa che sarà loro imposta da altri se essi stessi non l’accetteranno, sottomessi e sereni, come destino ineluttabile. In sintesi, nell’attuale discorso sull’identità converge il bisogno di due valori – libertà e sicurezza –, entrambi fortemente ambìti in quanto indispensabili a condurre una vita dignitosa e felice. Si sa che è difficile coordinare queste due linee di azione, in quanto ciascuna tende ad andare oltre il punto in cui l’altra rischia di essere ostacolata, bloccata o addirittura rovesciata nel proprio opposto. Pur non essendo concepibile una vita umana dignitosa o gratificante senza una miscela di libertà e di sicurezza, è raro raggiungere un equilibrio del tutto soddisfacente tra i due elementi che, a giudicare dagli innumerevoli tentativi del passato invariabilmente falliti, sembrerebbe irraggiungibile. Una mancanza di sicurezza si riflette nell’incertezza e nell’agorafobia inevitabilmente alimentate dall’‘eccesso di libertà’ quando sconfina nel «tutto va bene». La mancanza di libertà, d’altra parte, viene vissuta come sicurezza invalidante (‘dipendenza’ è il nome in codice affibbiatogli da chi ne soffre). Il problema è che, quando manca la sicurezza, gli attori sono liberi, ma privi della fiducia senza cui è difficile esercitare la libertà. Se manca una seconda linea difensiva solo gli avventurieri più temerari riusciranno a mettere insieme coraggio sufficiente ad affrontare i rischi di un futuro ignoto e incerto; senza una rete di sicurezza la maggior parte delle persone rifiuterà di camminare in equilibrio su una fune e, se costretta a farlo, si sentirà profondamente infelice. Dall’altra parte, quando è la libertà a mancare, la sicurezza somiglia alla schiavitù o al carcere. E, quel che è peggio, il carcere, quando vi si resta rinchiusi per molto tempo ininterrottamente, senza poter provare un modo di essere alternativo, può addirittura spegnere il desiderio di libertà, e le capacità 29

necessarie per esercitarla, finendo per essere avvertito non più come luogo oppressivo, ma come l’unico naturale ambiente di vita. Nella versione dell’avventura di Odisseo proposta da Lion Feuchtwanger13 i marinai, trasformati in porci dall’incantesimo di Circe, rifiutano di tornare alla forma umana quando viene loro offerta l’opportunità: le razioni di cibo, magre ma regolari ed elargite senza condizioni, e il riparo del porcile, sudicio e maleodorante ma gratuito, li pongono confortevolmente al riparo dalle preoccupazioni, e per questo essi non hanno voglia di scegliere un’alternativa sicuramente più emozionante, ma precaria e rischiosa. Si tratta di un’esperienza che, sottolineo, si ripete all’infinito – con o senza i buoni uffici di una maga –, ogni qual volta si spezzino abitudini antiche, per quanto monotone o oppressive (un esempio recente è quello dei soldati dell’esercito iracheno che, frettolosamente allontanati dalle loro solite corvè, tutt’altro che gradevoli, e privati così di una regolare busta paga, hanno immediatamente rivolto le armi contro i propri liberatori). Qualsiasi incremento di libertà può essere letto come diminuzione di sicurezza, e viceversa. Entrambe le interpretazioni sono giustificate, e quale sia destinata a finire al centro della preoccupazione pubblica in un determinato momento non dipende dall’eleganza degli argomenti addotti a sostegno della scelta. Le probabilità che a seguito del cambiamento si ricrei un equilibrio tra libertà e sicurezza sarebbero maggiori se la scelta stessa rappresentasse un esercizio di libertà; l’apertura di nuove prospettive che comporta un aumento di libertà difficilmente può essere considerata un buon affare se il loro aumento deriva da una mancanza di libertà, se cioè è stato imposto o prodotto senza aver consultato gli interessati. Molti studi confermano questa regola: quando le persone disapprovano dei cambiamenti nelle loro condizioni di vita o nelle regole del gioco dell’esistenza, ciò accade non tanto per un’ostilità alle nuove realtà che ne derivano, quanto per il modo in cui i cambiamenti si sono prodotti – e cioè perché non è stato chiesto loro se erano d’accordo. 30

L’attuale discorso sull’identità si muove in bilico tra tutte queste contraddizioni, ambiguità e trappole nascoste. Praticamente ogni sua affermazione, vista da coloro che lo utilizzano e da coloro cui si rivolge, è pane per alcuni e veleno per altri; e si trasforma da pane in veleno, o viceversa, a seconda delle condizioni delle parti, soggette a cambiamenti rapidi e imprevedibili. Molto sommariamente, coloro che cercano sicurezza esponendosi ai rischi e agli incerti della libera scelta tendono a porre l’accento sui vantaggi di un’identità poco determinata e definita – instabile, incompleta, aperta e, soprattutto, facile da scartare o da modificare; chi, invece, si trova a subire le guerre d’identità e l’imposizione di stereotipi, è escluso dalle scelte più attraenti ed è troppo insicuro e intimorito per poter seriamente pensare di discutere le regole del gioco, opta per l’identità come diritto di nascita, come marchio indelebile e bene inalienabile. Il fatto che entrambe le parti in lizza ricorrano alla stessa espressione per designare aspirazioni tanto diverse tra loro non garantisce che tra esse possa svolgersi un dialogo dotato di qualche senso. Si parla d’identità, ma ciò non impedisce di restare reciprocamente sordi, come effettivamente fanno spesso. Se per gli uni il termine ‘identità’ indica un passaporto per l’avventura, per gli altri evoca la difesa dagli avventurieri. Per alcuni l’identità è un’imbarcazione che sfida le onde, per altri un frangiflutti che protegge le barche dal flusso continuo dell’alta marea. In nessuno dei due casi l’identità viene invocata in quanto tale. E le finalità per cui viene invocata differiscono nettamente tra loro: sono radicate saldamente nelle attività umane, in ciò da cui gli uomini cercano di difendersi e in ciò contro cui combattono per realizzare il proprio destino. Finché tali attività restano differenti, le cariche semantiche investite nelle ansie per l’identità continueranno a loro volta a differire. La realtà, come sottolineava Karl Marx, va vista «come at31

tività umana sensibile, come attività pratica», poiché «la vita sociale è essenzialmente pratica». In questi giorni si tende a chiedere, in nome dell’autonomia individuale e della libertà di autoaffermazione, una resa alle pressioni della globalizzazione; ma ai caduti e alle vittime collaterali della globalizzazione una maggior libertà non appare come la cura dei loro mali, che ricollegherebbero piuttosto alla disgregazione e allo smantellamento forzato delle routine di vita e delle reti di vincoli e reciproci impegni che li sostenevano e li rassicuravano. Gli appelli per una maggiore libertà, spacciata come cura universale di tutti i mali presenti e futuri, e le richieste di smantellare e rimuovere qualsiasi vincolo residuo ai movimenti di coloro che prevedono di fare buon uso della mobilità appaiono sempre più sospetti, come ideologia dell’élite globale emergente. Essi cadono nel vuoto presso gran parte della popolazione del pianeta e si stanno rapidamente trasformando in un grave impedimento alla nascita di un polilogo planetario. Semplificando un po’ (ma non troppo) la realtà possiamo dire che, mentre i beneficiari della nostra globalizzazione pericolosamente squilibrata, mal distribuita e iniqua vedono nella propria libertà senza freni il mezzo migliore per guadagnare sicurezza, le loro vittime intenzionali o collaterali sospettano che proprio nella terribile e dolorosa insicurezza risieda il principale ostacolo alla propria liberazione (e alla possibilità di utilizzare, in assoluto, la libertà eventualmente concessa). Parafrasando Jean Anouilh, si può dire che tutti gli uomini pensano che la causa della libertà sia dalla loro parte, ma solo chi è ricco e potente sa che lo è. Tra le due parti si svolge un dialogo tra sordi. Ciò che è pane per qualcuno diventa veleno per chi si trova dall’altra parte del tavolo o, come accade sempre più spesso, del campo di battaglia.

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Da martire a eroe, da eroe a celebrità

Alcuni detrattori dell’idea di un’Europa unita ci scherzano sopra: «Chi è disposto a morire per Romano Prodi o per Xavier Solana?». È una buona battuta, che ci fa ridere tutti. E rappresenterebbe un argomento molto forte, addirittura decisivo, contro l’unificazione, se fosse più facile trovare qualcuno disposto a dare la vita per George Bush senior o junior, Jacques Chirac, Tony Blair, Gerhard Schröder, Silvio Berlusconi – o magari per tipi come Umberto Bossi, Jean-Marie Le Pen o Pia Kiersgaard. In realtà, questo genere di disponibilità è a dir poco difficile da trovare. Ma, come spero apparirà chiaramente più avanti, proprio questa evidente assenza dalla nostra parte del mondo è il motivo per cui, per la prima volta nella lunga storia europea, una «Europa unita» è qualcosa di più di una vana speranza o di un parto della fantasia... Di questi tempi, tuttavia, a scarseggiare non sono solo le persone che desiderano più di ogni altra cosa ‘morire per qualcuno’ o che accetterebbero di farlo se esortate o supplicate. Nella nostra parte del mondo (qualunque cosa significhi ‘nostra’) troviamo ormai difficile, forse impossibile, comprendere come altrove ci possa essere qualcuno che sacrifichi la propria vita per una ‘causa’, che scelga di morire se il suo sacrificio contribuisce alla sopravvivenza e, possibilmente, al trionfo della ‘causa’ (è questa anzi una delle ragioni per cui le parti del mondo dove vivono persone tanto difficili da comprendere ci sembrano ‘altre’). Quando sentiamo parlare di «attentatori suicidi» cerchiamo di nascondere perplessità e disagio sentenziando che si tratta di «fanatismo religioso» o 33

di «lavaggio del cervello»: espressioni che, più che svelare il mistero, segnalano la nostra incapacità di comprendere. Oppure mettiamo a tacere (almeno per un po’) lo sconcerto e il disagio attribuendo a chi compie una missione suicida moventi più facili da capire ai nostri occhi: si tratta – ci diciamo – di gente ingenua, di illusi che prestano fede a false promesse, sperando di ricavarne vantaggi e piaceri a livello personale, come i lauti e squisiti banchetti e le delizie erotiche che attendono i martiri in cielo; esattamente gli obiettivi che generalmente vogliamo e sappiamo perseguire nelle nostre attività su questa terra. René Girard ha recentemente osservato come l’idea del martirio sia stata introdotta soltanto dalla Bibbia e si sia radicata solidamente nella nostra tradizione culturale a partire dai Vangeli: in fin dei conti nell’ambito della storia umana il martirio è stato confinato alle religioni abramitiche1. Il martirologio sostituì ed estromise gradualmente la mitologia dell’«omicidio originale», comune nella religione arcaica. Esso ribaltò anche il messaggio di tale mitologia, raccontando la storia dell’atto di violenza primordiale non più dal punto di vista degli assassini – nel modo cioè in cui una «banda di assassini incalliti» poteva raccontare la propria azione iniqua –, ma delle vittime. Anziché – come facevano i miti arcaici – giustificare e nobilitare la violenza contro un nemico empio (rappresentato generalmente come un essere malvagio, fisicamente imperfetto ed estraneo) come sacrificio necessario a salvare la comunità dalla perdizione, le storie di martirio tramandate nelle culture abramitiche condannavano il presunto sacrificio come atrocità abominevole. Entrambi i tipi di racconto rievocavano un’uccisione commessa, incoraggiata o plaudita dalla folla; ma mentre i miti arcaici condannavano le vittime e lodavano la vociante folla omicida, le narrazioni del martirio denunciavano ed esecravano le intenzioni malvagie e la cecità della moltitudine, celebrando invece la rettitudine e la probità della vittima: essi ponevano così sotto accusa la massa per aver perseguitato delle vittime innocenti. Il Dio 34

della religione abramitica non vedeva più in quegli omicidi una manifestazione di pietà; egli, per bocca del suo profeta Osea (Osea, 6, 6), dichiarava: «Io amo la pietà e non i sacrifizi»2. Come spiega Girard, la letteratura profetica è una lunga marcia di allontanamento da questo fenomeno sociale violento che doveva rivestire un ruolo fondamentale nelle civiltà umane prima, ma anche dopo l’avvento dei sistemi giudiziari [...] La letteratura profetica della Bibbia ebraica e i Vangeli si oppongono radicalmente alla mentalità mitica e sacrificale della religione arcaica [...] La verità del sacrificio che verrà rivelata con la crocifissione finirà per distruggere una volta per tutte l’efficacia di tutti i sacrifici.

Si può dire che la verità del sacrificio rivelato nella crocifissione è che «la ragione non è del più forte», che la forza non è garanzia di ragione. Contrariamente a quanto suggerito dal vecchio adagio inglese secondo cui conviene «correre con la lepre e cacciare con i cani», i martiri non tengono il piede in due staffe e si rifiutano ostinatamente di stare dalla parte del cacciatore, prendendo le difese della lepre. I cani, come si sa, cacciano in branco: tale circostanza lascia poche possibilità di salvezza alla lepre, ma non per questo conferisce saggezza o virtù all’atto feroce della muta, nel cui numero non c’è saggezza, né tanto meno virtù. Le accuse che si riversano sulla vittima non acquistano verità se urlate in coro: la verità era, e resta, dalla sua parte. I martiri sono vittime consapevoli di ciò, e hanno preferito la morte alla menzogna, facendo della prima la testimonianza del fatto che esistono verità il cui suono non può essere sovrastato nemmeno dalle urla e dalle volgarità della moltitudine più estesa. Mattatia, il patriarca dei Maccabei, rifiuta di fingere obbedienza nei confronti dei soldati di Antioco Epifane che gli hanno ordinato di compiere un atto «abominevole, immondo ed empio» come mangiare carne di maiale: eppure non dubita che il castigo della sua disobbedienza sarà la morte3. E Gesù, sapendo che la «folla 35

con spade e bastoni» sarebbe salita di lì a poco sul Monte degli Olivi per condurlo a morire, mentre la fede sarebbe vacillata nei suoi discepoli, che sarebbero fuggiti abbandonandolo, si decide: «Si adempiano dunque le scritture»4. I martiri sono persone che vanno contro tutte le aspettative: non solo perché la loro morte è praticamente certa, ma perché difficilmente il loro sacrificio supremo verrà apprezzato, e tanto meno otterrà dagli osservatori il rispetto che merita; e forse dovrà attendere molto a lungo prima di essere riconosciuto come sacrificio per una buona causa. Girard ha coniato il termine «contagio mimetico» per designare il probabile comportamento degli spettatori e dei partecipanti, volontari o meno, all’evento. «I Vangeli», dice, «mostrano chiaramente come tutti i testimoni della crocifissione si comportino mimeticamente»: una folla inferocita è contagiosa, pochi ne restano immuni, e nel parapiglia tutti si uniscono al branco; nel migliore dei casi c’è chi, come Pilato o Pietro, se ne lava le mani, ma nessuno alzerà un dito per sedarne la rabbia, e ancor meno per contrastarla. Il martirio costituisce un atto di solidarietà nei confronti di un gruppo minoritario e debole che viene discriminato, umiliato, schernito, odiato e perseguitato dalla maggioranza; ma è essenzialmente un sacrificio solitario, anche quando è dettato dalla fedeltà alla causa e al gruppo che la sostiene. Accettando il martirio, le probabili vittime non sono certe che la propria morte serva realmente a promuovere la causa e renda inevitabile il trionfo finale. Nei termini concreti e pragmatici più consoni alla nostra versione moderna della razionalità, la loro morte è pressoché inutile, e forse persino controproducente, perché quanto più numerosi sono i fedeli che muoiono da martiri, tanto minore sarà il numero di coloro che rimarranno a combattere per la causa. Acconsentendo al martirio, le potenziali vittime della folla inferocita pongono la lealtà alla verità sopra qualsiasi calcolo terreno (materiale, tangibile, razionale e pragmatico) di benefici e profitti veri o presunti, individuali o collettivi. 36

Questo è ciò che distingue il martire dall’eroe moderno. Tutto ciò cui i martiri potevano aspirare era la prova definitiva della loro probità morale, la remissione dei peccati, la redenzione delle anime; gli eroi, invece, sono moderni: calcolano profitti e perdite, vogliono che i loro sacrifici siano ricompensati. Non esiste, né può esistere, qualcosa come un «martirio inutile». Invece disapproviamo, deploriamo, liquidiamo con una battuta i casi di «eroismo inutile», i sacrifici che non producono guadagno... Quando dico ‘guadagni’ non voglio intendere un profitto monetario: alla stessa stregua dei martiri, gli eroi non possono essere accusati di avidità o di altre motivazioni egoistiche, mondane. Di solito essi non compiono le loro gesta perché si attendono di essere compensati per i loro servizi, o risarciti per i loro sforzi. Non badano alle cose gradevoli o a quelle spiacevoli; pur di produrre come effetto qualcosa che non potrebbe ottenersi altrimenti, sono disposti al sacrificio supremo, un sacrificio per un fine altrimenti difficile da conseguire. Avvicinare tale mèta è ciò che rende la loro morte meritevole. Per convalidare la perdita della sua vita, l’obiettivo che l’eroe persegue con la propria morte deve valere di più di tutte le gioie che potrebbe avere continuando a vivere sulla terra. Un valore simile deve trascendere l’esistenza individuale, ineluttabilmente breve, dell’eroe e la morte di quest’ultimo deve contribuire a tale sopravvivenza. Il martirio ha senso indipendentemente da ciò che accadrà in seguito nel mondo, l’eroismo no. Perdere la vita senza effetti tangibili, sprecando così l’opportunità di dare importanza alla propria morte, non sarebbe un atto di eroismo, ma il segno di un errore di calcolo o di un atto di follia, o addirittura la prova di una deplorevole negligenza nei confronti del proprio dovere. Nella sua incarnazione moderna, l’‘eroe’ nasce – o forse dovremmo dire ri-nasce, se ricordiamo l’invocazione/ripresa dell’antica formula romana pro patria nella Francia repubblicana, dopo secoli in cui la nozione cristiana di ‘martire’ ave37

va prevalso sulla morte dei crociati e di altri combattenti della ‘guerra santa’ – alle soglie dell’era della costruzione delle nazioni. La reincarnazione moderna dell’‘eroe’ – colui che muore per assicurare la sopravvivenza della nazione – fu un effetto collaterale di quella che George L. Mosse ha definito la «nazionalizzazione della morte»5. Alle soglie dell’era moderna l’Europa, divisa in regni dinastici, era un mosaico di gruppi etnici e linguistici, ciascuno dei quali aspirava allo status di Stato-nazione (e cioè di nazione dotata di sovranità statale piena e indivisa sul territorio che rivendicava, e di Stato che giustificava le proprie richieste di obbedienza con l’unità degli interessi della nazione); ma solo pochi di questi gruppi avevano dimensione e risorse sufficienti a garantire probabilità di successo realistiche. Quest’ultimo era un esito tutt’altro che scontato, perché troppi erano i concorrenti che perseguivano lo stesso fine vanificando così qualsiasi disegno di supremazia, troppe erano le ‘minoranze’ che resistevano e non erano disposte ad abbandonare le loro tradizioni per dissolversi nella cultura vincente, troppi gli ‘stranieri’ che non volevano o non potevano assimilarsi, né sarebbero stati graditi. Per costruire e consolidare uno Stato-nazione occorreva cancellare usanze, dialetti e calendari locali, o legati a un elemento etnico, per sostituirli con schemi uniformi posti sotto la supervisione dei ministeri statali degli interni, dell’istruzione o della cultura. Occorreva vigilare costantemente sugli Stati confinanti, anche quelli palesemente amichevoli, pacifici e innocui, per evitare che diventassero arroganti e si mettessero a nutrire ambizioni offensive dicendo che da tempo non gonfiavano i muscoli e non davano convincenti dimostrazioni della loro forza (si vis pacem para bellum era la massima preferita dagli statisti moderni). Occorreva poi mettere a tacere, isolare e rendere inoffensivi tutti coloro che erano stati marchiati come futuri cittadini di quello Stato-nazione, i miscredenti, gli infedeli, i presunti doppiogiochisti, e semplicemente i meno entusiasti nei confronti della nazione. 38

Le nazioni appena nate avevano bisogno, per sentirsi sicure, del potere statale e lo Stato nascente aveva bisogno, per sentirsi forte, del patriottismo nazionale. Nazione e Stato dipendevano l’una dall’altro per la rispettiva sopravvivenza, ed entrambi avevano bisogno di sudditi/membri disposti a dare la vita per tale sopravvivenza. L’era in cui si formavano gli Stati-nazione doveva essere un’epoca di eroismo o, per essere più precisi, di patriottismo eroico. La modernità viene perlopiù presentata come un’epoca di secolarizzazione e di disincanto («ogni cosa sacra viene sconsacrata», come suona la memorabile osservazione dei giovani Marx ed Engels). Più raramente si nota, come invece sarebbe opportuno, che l’epoca moderna elevò a divinità la ‘nazione’ e si lasciò incantare da questa nuova autorità, e per estensione dalle istituzioni, create dall’uomo, che affermavano di parlare e di agire in suo nome. Il ‘sacro’ non fu rinnegato, ma fu piuttosto oggetto di una ‘scalata ostile’, trasferito alle dipendenze di un diverso management e posto al servizio dell’emergente Stato-nazione. Lo stesso si può dire per il martire, che venne anch’egli arruolato dallo Stato-nazione, sotto la nuova denominazione di eroe. Come nota Mosse, «la morte in guerra di un fratello, di un marito o di un amico» – esattamente come un tempo la morte di un martire – era letta come sacrificio; ma «almeno in pubblico si sosteneva che il guadagno era superiore alla perdita personale». La morte dell’eroe veniva trascesa, proprio come la morte del martire, ma non nella salvezza dell’anima immortale di coloro che s’immolavano, bensì nell’immortalità materiale della nazione. Gli Heldenhaine, i jardins funèbres e i «parchi della rimembranza» sorti in tutta Europa ricordavano ai visitatori che la nazione riconoscente ripagava il sacrificio dei suoi figli con il perenne ricordo dei loro servigi. Lo stesso facevano i memoriali eretti nelle capitali europee per celebrare il sacrificio dei militi ignoti e per inculcare l’idea che né il grado militare, né la vita vissuta fino al momento dell’estremo sacrificio erano importanti per apprezzare un atto di eroismo: 39

per far sapere ai vivi che il momento della morte sul campo di battaglia era l’unico che contasse davvero e che definisse retrospettivamente il significato della vita. Molta acqua è passata sotto i ponti d’Europa dallo Sturm und Drang della formazione dello Stato-nazione moderno. Ciò che era stato assemblato con cura ormai va in rovina, o viene demolito. La sovranità dello Stato, un tempo indivisibile, è ormai affettata in strati sempre più sottili o dispersa ovunque nello spazio continentale, anzi planetario. Non esiste più uno Stato che osi o intenda rivendicare un’autorità indivisa sulla propria capacità di difesa, sul proprio ordinamento giuridico o sulla vita economica e culturale della popolazione residente sul suo territorio. La sovranità dello Stato-nazione, un tempo piena e integrale, evapora nella sfera autonoma delle forze globali che si sottraggono alla lealtà e all’impegno territoriale, defluisce lateralmente nei terreni di caccia dei mercati economici e finanziari, sempre meno regolamentati e gestibili, e filtra anche verso il basso, nelle officine private della life politics che si appropriano, o si fanno carico, di compiti e preoccupazioni la cui gestione era un tempo rivendicata da uno Stato che prometteva (e cercava) di prendersene cura. Lo Stato, ormai privo di competenza esclusiva sull’economia, sulla sicurezza o sulla cultura, non è in grado di promettere ai propri cittadini la tutela a vita – dalla culla alla bara – che intendeva offrir loro sino a non molto tempo fa. Meno promesse significano, però, minore bisogno di patriottismo e di mobilitazione spirituale dei cittadini. Difficilmente il patriottismo eroico potrà crescere sul terreno di aspettative depotenziate, non più fecondate da promesse e speranze; e d’altra parte, nell’epoca dei piccoli eserciti professionali, lo Stato non ha più bisogno di eroi. Per i consumatori soddisfatti, tutti presi dai propri affari, va benissimo così: arrivederci e grazie... 40

In tempi di eserciti professionali, i primi ministri non hanno più bisogno di cittadini disposti a morire per loro ma – diversamente dall’era del servizio militare universale e degli eserciti di leva – possono scendere in guerra senza chiedere l’assenso ai cittadini, e persino a dispetto delle loro proteste (almeno finché è soddisfatto il consumatore che è nel cittadino). Gli istinti e le spinte patriottiche, di cui i governi della nostra epoca non hanno più bisogno, possono fare la stessa fine dei beni statali di una volta, svenduti al miglior offerente privato (non necessariamente locale): proprietari di catene di ristoranti, organizzatori di incontri sportivi, responsabili di agenzie turistiche e, naturalmente, esperti di marketing ben lieti di offrire i propri servigi a chiunque sia interessato all’acquisto. Nella società dei consumi liquido-moderna radicata nella parte opulenta del pianeta non c’è più spazio per martiri ed eroi, dal momento che essa mina, denigra e si oppone ai due valori che ne stimolavano domanda e offerta. In primo luogo, infatti, tale società si oppone a sacrificare le soddisfazioni di oggi in vista di finalità remote, e dunque ad accettare sofferenze prolungate in cambio della salvezza dopo la morte – o, per dirlo nella versione secolare, a differire le gratificazioni disponibili adesso in nome di maggiori profitti in futuro. In secondo luogo, essa pone in discussione il valore del sacrificio delle gratificazioni individuali in nome del benessere di un gruppo o di una ‘causa’ (negando, in effetti, che esistano gruppi «maggiori della somma delle loro parti» e cause più importanti della soddisfazione individuale). In sintesi, la società dei consumi liquido-moderna svilisce gli ideali del ‘lungo periodo’ e della ‘totalità’. In un ambiente liquido-moderno che promuove gli interessi dei consumatori e ne è sorretto, nessuno di tali ideali conserva la forza d’attrazione di un tempo, trova riscontro nell’esperienza quotidiana, è in linea con le risposte collaudate o si accorda con le intuizioni del senso comune. Al posto di quegli ideali subentrano i valori della gratificazione istantanea e della felicità individuale. 41

Con l’avanzata della società liquido-moderna e del suo consumismo endemico, martiri ed eroi battono in ritirata. Ai nostri giorni essi trovano un ultimo rifugio tra i popoli che ancora combattono quella che a molti (forse alla maggioranza) degli abitanti del pianeta appare una guerra contro tutti i pronostici, persa in partenza: una guerra contro le gigantesche potenze finanziarie e militari globali che, ovunque vadano, assediano i pochi territori ancora vergini per trapiantarvi il loro genere di ‘vita nuova’ – un tipo di vita che comporta, per i suoi destinatari, la fine della vita che conoscono, e forse persino della vita tout court. Agli assediati più avviliti e disperati restano ben poche opzioni, se non ricorrere all’argomento estremo: il sacrificio volontario della vita, nella speranza di rendere testimonianza (sia pur in modo tragicamente contorto) del valore di un modo di vivere che è stato reso impossibile e sta per essere loro sottratto per sempre. Morire con onore appare loro l’ultima possibilità per conquistare quella dignità negata loro in vita. Queste persone sono materiale duttile nelle mani di manipolatori abili e scaltri, risoluti e spietati. È dalle loro file che si reclutano i terroristi di oggi: versioni mutanti, e orribilmente snaturate, dei martiri vecchia maniera, su cui sono stati innestati simulacri, altrettanto deformi, di eroi vecchia maniera. I martiri di un tempo erano disposti a soffrire, ma non a far soffrire altri, poiché l’efficacia del martirio volontario risiedeva nel valore immortale – di cui il martirio doveva essere la prova – della fede in difesa della quale s’immolavano i martiri; l’‘eroismo’, invece, era misurato di solito dal numero di nemici annientati dall’eroe suicida. I martiri della fede non erano eroi, mentre gli eroi delle guerre nazionali avrebbero sfuggito l’appellativo di martiri, in quanto agli occhi loro e di chi li esaltava la morte dei martiri era desolatamente priva di efficacia. Per quanto virtuose potessero definirsi, ed essere definite, le caratteristiche rispettive dei martiri e degli eroi, una volta mescolate esse producono una combinazione incongrua e davvero diabolica... 42

La società dei consumi liquido-moderna rende assolutamente incomprensibili e irrazionali, e pertanto scandalose e inaccettabili, le gesta dei martiri, degli eroi e di tutti i loro ibridi. Tale società promette una felicità a portata di mano, raggiungibile con mezzi assai poco eroici, che appare perciò allettante e gratificante, alla portata di chiunque (leggi: di qualsiasi consumatore). Essa rappresenta il martirio e, più in generale, qualsiasi tipo di sofferenza ‘per’ una causa, come risultato di un misfatto commesso da altri o di una infrazione da parte dello stesso soggetto, spiegabile solamente con la premeditazione (nel qual caso andrebbero individuati e puniti i colpevoli) o come disfunzione psicologica (che bisognerebbe tentare di curare con una terapia adeguata). Diversamente dagli altri tipi di società, vecchi e nuovi, la società in questione può essere descritta senza dover ricorrere alle categorie del ‘martirio’ e dell’‘eroismo’. Tale descrizione richiede però due categorie relativamente nuove, che la società ha collocato al centro della coscienza pubblica: quelle della vittima e della celebrità. Nella società attuale nessuno dovrebbe soffrire, a meno che si tratti di una pena inflitta dalle autorità preposte, come castigo meritato a fronte di un comportamento sbagliato. Spesso si discute animatamente su quanto tale pena sia adeguata all’entità e alla gravità di quel comportamento, e possa pertanto essere considerata realmente e veramente meritata; il diritto di decidere al riguardo è una delle principali poste in gioco nella lotta per il potere, e le decisioni che riflettono la gerarchia di forze esistente restano vincolanti (ma non necessariamente incontestate) finché vige quella gerarchia. Una pena che non sia la punizione correttamente dosata per un crimine o un’infrazione è vista come qualcosa di evitabile e di ingiustificato: se nonostante tutto si verifica, qualcuno ne sarà colpevole e occorre trovare un reo. Ogni caso di sofferenza è dunque potenzialmente, fino a prova contraria, un caso di 43

vittimizzazione – e chiunque la subisca è (almeno potenzialmente) una vittima. La naturalezza con cui la sofferenza è spiegata dalla presunzione di vittimizzazione può avere un effetto terapeutico su chi soffre, rendendo il dolore, in qualche modo, più sopportabile sul piano psicologico. Ma essa può anche distogliere la sua attenzione dalla vera causa della sofferenza, col risultato di prolungare e intensificare il dolore stesso, anziché abbreviarlo e alleviarlo (presentando ad esempio un insuccesso individuale come il risultato accidentale delle cattive intenzioni di qualcun altro, anziché spiegarlo con un’organizzazione sociale che consente sistematicamente di assestare colpi contro vittime scelte a caso, fino a farli apparire onnipresenti, normali e inevitabili, mantenendo così quell’organizzazione al riparo dalle critiche). Tale ‘naturalezza’, inoltre, genera la tentazione di rubricare come casi di sofferenza (ingiustificata) qualsiasi situazione di disagio o di ambizione frustrata. Individuare e indicare con precisione un presunto colpevole per una determinata sofferenza presenta anche un altro vantaggio: può essere la premessa di una richiesta di risarcimento. Diventa possibile chiamare in causa un individuo o una persona giuridica, e non mancano certo i consulenti legali ben lieti di intentare causa per conto di chi soffre; una sentenza ufficiale a loro favorevole non solo procurerà a chi soffre, e al suo avvocato, benefici materiali, ma confermerà in modo inoppugnabile la presunzione di vittimizzazione, rafforzando l’effetto terapeutico della spiegazione-del-dolorein-termini-di-vittimizzazione, ma lasciando intatte le cause del dolore. La cultura della vittimizzazione-e-relativo-risarcimento si rifà all’antica tradizione della vendetta, che la modernità ha fatto di tutto per mettere fuorilegge e sotto terra, ma che in tempi liquido-moderni sembra reincarnarsi risorgendo dalla fossa non molto profonda in cui era stata cacciata. Tale tradizione era già stata individuata con precisione, e fatta oggetto di considerazione pubblica, all’inizio della lun44

ga, complicata e turbolenta storia d’Europa, come documenta la trilogia «Orestea» di Eschilo. In una di queste tragedie il coro esorta Elettra – il cui padre è stato ucciso dall’amante della madre – a cercare vendetta («Morte a compenso di morte. [...] Di compensare chi ti odia col male? Dubiti?») e chiede al fratello Oreste di uccidere gli assassini: «Chi diede la morte, sconti il giusto castigo, la morte! Questo io metto al centro del mio buono scongiuro, e contro di quelli pronuncio il mio brutto scongiuro». Il coro non trattiene l’entusiasmo: «È già legge: sangue che goccia, chiazza la terra, è richiamo di sangue. Delitto strepitando attira vendetta [...]‘Ferita assassina, per assassina ferita si paghi. Colpi a chi colpì’». Puntualmente segue un nuovo massacro, che risarcisce i torti commessi con altri torti. Alla fine della tragedia il coro, confuso e affranto, si lamenta: «Potrà mai maturare, mai declinare – e dove – quieto di sonno rancore di Perdizione?». Non c’è più nessuno a rispondere... La risposta arriverà soltanto nell’opera successiva, da Atena, dea della saggezza: «Non siete disfatte. Uscì verdetto in equilibrio: per onorare il vero, non per umiliarvi. [...] Non siate spietate, non sfogatevi contro questo suolo, non fatelo inerte allo sforzo dell’uomo»6. Si dà il caso che la nostra società, incentrata sul mercato, abbia trovato un’altra soluzione che Atena, nonostante la sua indiscussa saggezza, non aveva anticipato. Nell’era liquidomoderna anche la vittimizzazione, come tutto il resto in tale società, può e deve avere il suo cartellino con il prezzo: il risarcimento monetario per i torti subiti sembra soddisfare le esigenze di entrambi i mondi. Esso dà sfogo all’atavica sete di vendetta, arrestandola però prima che lo spargimento di sangue evochi nuovi spargimenti. Ma, soprattutto, toglie la vendetta dalle mani di chi la cerca. Nel cast dei personaggi liquido-moderni, le ‘celebrità’ hanno un ruolo altrettanto importante. Secondo la definizione arguta fornita nel 1961 da Daniel J. Boorstin, «una celebrità 45

è un uomo noto per la sua notorietà» (vent’anni dopo, Boorstin avrebbe certamente declinato la battuta anche al femminile). Diversamente dai martiri o dagli eroi, la cui fama derivava dalle loro gesta – commemorate da un fuoco sempre acceso che ne rinnovava e riaffermava l’attualità –, le ragioni che hanno portato alla ribalta le celebrità non sono le cause principali della loro ‘notorietà’. Il fattore decisivo di quest’ultima è la visibilità, l’onnipresenza della loro immagine e la frequenza con cui il loro nome viene menzionato nelle trasmissioni televisive e nelle successive conversazioni private. Le celebrità sono sulla bocca di tutti: sono il personaggio che non manca mai in nessuna famiglia. Come i martiri e gli eroi, esse forniscono una sorta di collante che raccoglie e unisce aggregati di persone altrimenti labili e dispersi; si potrebbe anzi quasi dire che sono i principali fattori che generano oggi comunità, se tali comunità non fossero solo immaginate, come nella società dell’era solido-moderna, ma anche immaginarie, simili ad apparizioni – e, soprattutto, prive di coesione, fragili, volatili, dichiaratamente effimere. È soprattutto per questo motivo che le celebrità si sentono tanto di casa nell’ambiente liquido-moderno: la modernità liquida è la loro naturale nicchia ecologica. A differenza della fama, la notorietà è episodica, come la vita stessa nel contesto liquido-moderno; la sfilata di celebrità, ognuna della quali balza fuori dal nulla per ripiombarvi poco dopo, contraddistingue più di ogni altra cosa la sequenza di episodi in cui è suddivisa l’esistenza. E a differenza delle comunità dell’era solido-moderna che, una volta «immaginate», tendevano a coagularsi in realtà salde, e a tal fine avevano bisogno del ricordo perenne dei propri martiri ed eroi, le comunità immaginarie, raccolte attorno a celebrità eminentemente irrequiete che non abusano quasi mai dell’ospitalità concessa dal pubblico, non richiedono alcun impegno, e tanto meno un impegno durevole o ‘permanente’. Per quanto possa essere diffuso il culto di una celebrità, rumoro46

so l’entusiasmo dei suoi fan e sincera l’adorazione di cui è fatta oggetto, sul futuro dei suoi cultori non sono iscritte ipoteche: le opzioni restano aperte per tutti, e la congrega dei devoti può dissolversi e disperdersi in qualsiasi momento, lasciando libero ognuno di loro di unirsi al culto di una nuova celebrità di suo gradimento. Inoltre, il culto che circonda una celebrità (diversamente dalla venerazione dei martiri e degli eroi, che limita la libertà di scelta dei loro adepti) non aspira al monopolio. Per quanto competitive possano essere le celebrità, esse non sono realmente rivali tra loro. Il culto nei confronti di una non esclude, e tanto meno vieta, di unirsi al seguito di un’altra. Qualsiasi combinazione è permessa, anzi incoraggiata: ciascuna di esse, e soprattutto la loro sovrabbondanza complessiva, va ad accrescere l’attrattiva del culto in quanto tale. La loro disponibilità è virtualmente infinita, e così il numero di combinazioni possibili. Ne risulta che, per quanto folto sia il gruppo dei loro seguaci, ognuno di questi può mantenere un gratificante senso dell’individualità – se non addirittura dell’unicità – che ha scelto per sé. Ancora una volta, è possibile avere la botte piena e la moglie ubriaca: il genere di rassicurazione che solo un culto di massa può fornire viene offerto in un pacchetto che contiene anche la soddisfazione di sentirsi all’altezza degli standard che la società degli individui definisce per coloro che ne fanno parte. Dunque, ecco dove ci troviamo. Quanto ci rimarremo? Presumo che coloro che vissero nel mondo che si genufletteva davanti ai martiri e ne ammirava il sacrificio non avrebbero mai potuto immaginare l’avvento di un’era in cui si sarebbero venerati eroi moderni – e difficilmente, a sua volta, questo mondo non immaginato avrebbe potuto prefigurare l’avvento dell’era delle vittime e delle celebrità. Quindi conviene resistere alla tentazione di facili estrapolazioni e di risposte affrettate alla domanda appena posta. Di una cosa, tuttavia, possiamo esser certi: la lunga marcia dai martiri alle celebrità non va vista come l’affermazione di leggi ferree e 47

della tendenza irreversibile della storia, e ancor meno come una nuova dichiarazione di «fine della storia», ma come tappa di un processo che non si è affatto concluso, ma che anzi si trova chiaramente in statu nascendi.

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La cultura: ribelle, ingestibile

Il concetto di ‘cultura’ fu coniato, dopo il 1750, per esprimere sinteticamente l’idea di una gestione del pensiero e del comportamento umano. All’origine la parola ‘cultura’ non intendeva descrivere e sintetizzare regolarità esistenti, osservate e documentate nel comportamento collettivo; solamente un secolo dopo (allorché i gestori della cultura si volsero indietro a guardare ciò che ormai già consideravano loro creatura e, come Dio al momento della creazione, videro che era buono) la ‘cultura’ prese a significare ciò che rendeva un determinato tipo di condotta umana, costante e «regolata normativamente», differente da un altro tipo, organizzato in un altro modo. L’idea di ‘cultura’ nacque come dichiarazione di intenti. Il termine entrò a far parte del dizionario per designare un’attività finalizzata. Alle soglie dell’era moderna si smise di accettare gli esseri umani come «dati in modo non problematico», anelli preordinati della catena della creazione divina (dove «divina» stava per immodificabile e intoccabile), indispensabili seppure umili, mediocri e ben lontani dalla perfezione, e si iniziò a vederli come elemento duttile, ma anche urgentemente bisognoso di restauro e/o miglioria. Il termine ‘cultura’ fu concepito nell’ambito di quella stessa famiglia di concetti che comprendeva termini come ‘coltivare’, ‘agricoltura’, ‘allevamento’, tutti collegati a un’idea di miglioramento, come prevenzione o come arresto e riduzione del deterioramento. La stessa attenta cura che l’agricoltore dedicava alle sementi, persino dopo che si erano trasformate in germo49

gli o in raccolto, poteva e doveva essere dedicata agli esseri umani allo stato incipiente, attraverso la formazione e l’addestramento. Gli uomini non nascevano, ma si facevano. Essi dovevano ancora diventare umani – e in tale percorso (una traiettoria irta di ostacoli e trabocchetti che, se abbandonati a se stessi, non sarebbero stati in grado di evitare, né di superare) dovevano essere guidati da altri uomini, a loro volta formati e addestrati all’arte di formare e addestrare uomini. La parola ‘cultura’ fece la sua comparsa nel vocabolario meno di cent’anni dopo un altro fondamentale concetto moderno (quello espresso dal verbo to manage [gestire, dirigere] che, secondo l’Oxford English Dictionary, significa «sottoporre persone, animali ecc. al proprio controllo», «agire su», «realizzare con successo») e oltre un secolo prima che ne emergesse un’altra importante accezione: «far sì che; riuscire a; farcela». Gestire, in sintesi, significava far fare qualcosa diversamente da come le persone l’avrebbero fatto se lasciate a se stesse. Significava re-indirizzare gli eventi secondo il proprio progetto e la propria volontà. In altre parole, ‘gestire’ (controllare il flusso degli eventi) venne a indicare la manipolazione delle probabilità: intervenire a rendere determinati comportamenti (o possibilità o risposte) da parte di «persone, animali ecc.» più probabili di quanto non sarebbero stati altrimenti, riducendo al tempo stesso (o possibilmente azzerando quasi del tutto) la probabilità di altre azioni. In ultima analisi, ‘gestire’ significa limitare la libertà di chi viene gestito. Se l’‘agricoltura’ è la visione del campo di grano che ha il contadino, l’idea di ‘cultura’ metaforicamente applicata agli esseri umani era la visione del mondo sociale da parte dei ‘coltivatori di uomini’: i gestori, coloro che dirigono [managers]. Il postulato o la presunzione della gestione [management] non costituì un’aggiunta successiva, né un’intrusione esterna: fin dall’inizio, e per tutta la sua storia, è stato parte integrante del concetto di cultura umana. Il presentimento, o la tacita accettazione, di una relazione sociale diseguale e asimmetrica sono profondamente radicati nel concetto di 50

‘cultura’: la separazione tra attore e destinatario (o paziente) dell’azione, tra esercitare quell’azione e sopportarne l’impatto, tra gestore e gestito, tra chi sa e chi ignora, tra chi è raffinato e chi è grezzo. Theodor Wiesengrund Adorno sottolineava che «la sussunzione [...] dello spirito oggettivo di un’epoca, sotto l’unico termine ‘cultura’, rivela a priori lo sguardo amministrativo, che, dall’alto, raccoglie, suddivide, soppesa, organizza tutto ciò»1. E presentava così le caratteristiche che definiscono quello spirito: «La richiesta che l’amministrazione pone alla cultura è sostanzialmente eteronoma: essa deve misurare il culturale, quale che possa essere, secondo norme che non gli sono immanenti, che non hanno nulla a che fare con la qualità dell’oggetto, ma soltanto con certi criteri esteriori e astratti [...]»2. Come accade di solito in un rapporto sociale asimmetrico, una veduta molto diversa si dischiude agli occhi di chi osserva tale relazione dalla parte opposta, dal lato di chi subisce l’azione amministrativa (vale a dire del ‘gestito’): costui percepisce una repressione ingiustificata e gratuita, che comporta una sentenza di illegittimità e ingiustizia. In quest’altra versione della storia della relazione, la cultura appare «opposta alla amministrazione», dal momento che – come ha affermato (provocatoriamente, secondo Adorno) Oscar Wilde – la cultura è inutile (o, quanto meno, questo ci viene detto finché i gestori hanno una posizione di monopolio nel tracciare la linea che separa l’utilizzo dallo spreco). La cultura dà voce alle rivendicazioni del particolare contro le pressioni omogeneizzanti del generale, e «contiene necessariamente un momento critico nei confronti di ogni esistente, di tutte le istituzioni»3. Lo scontro tra i due modi di vedere è ineluttabile. Esso non può essere evitato, né sanato una volta che si è manifestato apertamente. La relazione gestore-gestito è intrinsecamente antagonistica: le due parti perseguono finalità opposte e sono in grado di coabitare solamente in modo conflittuale, combattivo e sempre pronto allo scontro. Adorno riconosce che un simile conflitto è inevitabile. Ma 51

egli sottolinea anche che le parti antagoniste hanno bisogno l’una dell’altra; per quanto scomoda e spiacevole la condizione di inimicizia aperta, strisciante o clandestina, la peggior disgrazia per la cultura sarebbe riportare una vittoria piena e definitiva sulla controparte: «la cultura risente danno, se viene pianificata e amministrata; ma se è abbandonata a se stessa, tutto ciò che è cultura rischia di perdere non solo la possibilità di esercitare un’influenza, ma la stessa esistenza»4. Con queste parole Adorno conferma la mesta conclusione cui era arrivato, con Max Horkheimer, nella Dialettica dell’Illuminismo: a suo avviso «la storia di quelle antiche religioni e scuole, come quella dei partiti e delle rivoluzioni moderne, insegna [...] che il prezzo della sopravvivenza è [...] la metamorfosi dell’idea in dominio»5. Questa lezione della storia andrebbe attentamente studiata, recepita e messa in pratica da «creatori di cultura» di professione che si facciano carico dell’orientamento trasgressivo della cultura e l’abbraccino coscientemente come propria vocazione, facendo della critica e della trasgressione il proprio modo di essere: L’appello ai creatori di cultura affinché si sottraggano al processo dell’amministrazione e se ne tengano fuori suona vuoto. Se ciò accadesse, non verrebbe tolta loro solo la possibilità di guadagnarsi il pane, ma anche di esercitare una qualsiasi influenza, la possibilità di un contatto tra opera e la società, a cui non può rinunciare neanche l’opera più integra, se non vuole inaridire6.

Si tratta di un autentico paradosso, o di un circolo vizioso: la cultura non può convivere pacificamente con la gestione, specialmente se invadente o subdola, e soprattutto se intende costringere l’impulso esplorativo/sperimentale a adattarsi al quadro razionale tracciato dai dirigenti [managers]. Le trame della gestione contro l’endemica libertà della cultura sono un casus belli perenne. D’altra parte, chi crea cultura ha bisogno di chi dirige il processo se vuole essere visto, udito e ascoltato (cosa cui di solito tiene, dal momento che ha 52

l’aspirazione di «migliorare il mondo») e avere qualche probabilità di vedere portato a compimento il suo progetto: in caso contrario rischia l’emarginazione, l’impotenza e l’oblio. Ai creatori di cultura non resta che convivere con questo paradosso. Per quanto rumorose siano le loro proteste contro le pretese e le interferenze dei dirigenti, essi sono costretti a cercare un modus co-vivendi con l’amministrazione, per non precipitare nell’irrilevanza. Possono scegliere tra gestioni differenti, che perseguano finalità differenti e adattino la libertà della creazione culturale a progetti diversi. Ma certo non possono, almeno realisticamente, scegliere se accettare o rifiutare l’amministrazione in quanto tale. Il paradosso deriva dal fatto che, nonostante le reciproche denigrazioni, creativi e dirigenti sono destinati a convivere sotto lo stesso tetto e a partecipare alla stessa impresa. La loro è una rivalità tra fratelli. Essi perseguono lo stesso obiettivo e condividono lo stesso fine: spronare gli esseri umani a comportarsi in modo diverso, e rendere così il mondo diverso da quello che è in quel momento, e/o da ciò in cui probabilmente si trasformerebbe se venisse abbandonato a se stesso. Gli uni e gli altri traggono la propria raison d’être da una critica dell’esistente, anche quando i loro scopi dichiarati sono di conservarlo o di riportarlo allo status quo ante. Se si scontrano, non è sulla questione se il mondo debba essere oggetto di costante intervento o debba essere piuttosto lasciato alle sue tendenze interne, ma sulla direzione che l’intervento deve assumere. Nella maggior parte dei casi essi si azzuffano unicamente per il comando: per decidere chi abbia, o a chi tocchi, il diritto di decidere la direzione, a chi spetti la prerogativa di utilizzare gli strumenti occorrenti per tenere sotto controllo i progressi e scegliere le misure con cui valutarli. Hannah Arendt ha definito in maniera impeccabile il nocciolo di questo conflitto: Un oggetto può dirsi culturale nella misura in cui resiste al tempo; la sua durevolezza è in proporzione inversa alla funzionalità. 53

Quest’ultima è la caratteristica che fa di nuovo sparire l’oggetto dal mondo fenomenico attraverso l’uso e la consumazione. [...] Quando tutti gli oggetti e le cose di questo mondo, prodotti oggi o nel passato, diventano mere funzioni del processo vitale della società, quasi la loro esistenza fosse giustificata solo dalla soddisfazione di qualche bisogno, la cultura è minacciata, e importa poco se i bisogni invocati per questa funzionalizzazione siano di ordine superiore o inferiore7.

La cultura punta, se così si può dire, «più in alto» di qualunque cosa passi, in un determinato momento, per ‘realtà’. Non si cura di ciò che è stato inserito all’ordine del giorno e definito l’imperativo del momento, e fa di tutto per trascendere l’effetto limitante della ‘attualità’ [topicality] così definita e per affrancarsi dalle sue esigenze. I prodotti culturali non sono fatti per essere usati/consumati sul momento o per dissolversi in un processo di consumo istantaneo, né ciò costituisce il criterio per stabilirne il valore. Hannah Arendt direbbe che la cultura persegue la bellezza, e penso che la scelta di tale nome sia dovuta al fatto che l’idea di «bellezza» è l’epitome stessa di un bersaglio elusivo che sfida la spiegazione razionale/causale, che è privo di finalità e di utilizzo apparente, che non serve a nulla e non può essere legittimato da una qualsiasi esigenza precedentemente avvertita e definita che attenda di essere soddisfatta. Un oggetto è culturale in quanto sopravvive a qualsiasi utilizzo abbia potuto presiedere alla sua creazione. Una simile immagine della cultura si discosta nettamente dall’opinione comune, che fino a poco tempo fa prevaleva anche nella letteratura accademica: opinione secondo cui la cultura sarebbe uno dei dispositivi omeostatici che assicurano la riproduzione uniforme della realtà sociale, la sua mêmeté – apparecchi finalizzati alla protezione e prosecuzione della sua identicità nel tempo. Il concetto di cultura comune a vari scritti rubricati sotto le scienze sociali vedeva in essa un meccanismo stabilizzante, che genera routine e ripetitività, uno 54

strumento d’inerzia, e non certo un fermento che impedisse alla realtà sociale di fermarsi e la costringesse ad autotrascendersi continuamente, come chiedevano Adorno e Arendt. Nelle visioni antropologiche ortodosse (una società = una cultura) la ‘cultura’ era presentata come ‘ancella’ della ‘struttura sociale’, efficiente strumento per la «gestione delle tensioni» e per il «mantenimento dei modelli»; essa lasciava intatta la distribuzione esistente delle probabilità comportamentali che servono a mantenere immodificata la forma «del sistema», e respingeva qualsiasi violazione occasionale della norma, qualsiasi perturbazione e deviazione che minacciasse di sganciare il ‘sistema’ dal proprio ‘equilibrio’. Un simile ‘eterno ritorno’ alla identicità era l’orizzonte utopistico di una totalità sociale gestita bene (mediante una funzione di «coordinamento principale», secondo un’espressione di Talcott Parsons un tempo molto in voga); era diffusa la convinzione che una stabile distribuzione delle probabilità – controllata strettamente da una serie di congegni omeostatici, primo fra tutti la ‘cultura’ – fosse una condizione necessaria per qualsiasi sforzo di avanzamento verso quell’orizzonte. Un sistema sociale ‘gestito bene’ era visto come una totalità all’interno della quale qualsiasi comportamento deviante delle unità umane sarebbe stato prontamente rilevato, isolato prima che producesse danni irreparabili e rapidamente neutralizzato o eliminato. All’interno di tale visione della società come sistema in grado di riequilibrarsi (ossia di restare tenacemente uguale a se stesso nonostante le pressioni esercitate dalle forze le une sulle altre), la ‘cultura’ rappresenta per i dirigenti il sogno che si avvera: un’efficace resistenza al cambiamento. E questo era il modo in cui il ruolo della cultura era percepito, generalmente, fino a non più di venti o trent’anni fa. Ma nel frattempo sono accadute molte cose. Tanto per cominciare, si è verificata la «rivoluzione manageriale, fase due», surrettiziamente condotta all’insegna del 55

‘neoliberalismo’: i dirigenti sono passati dalla ‘regolazione normativa’ alla ‘seduzione’, dal controllo quotidiano alle pubbliche relazioni, dall’imperturbabile, iperregolato e routinario modello di potere panoptico, al dominio esercitato attraverso l’incertezza diffusa e sfocata, attraverso la précarité e uno sconvolgimento incessante e scombinato delle routine. Sono allora sopraggiunti il graduale smantellamento del quadro, in precedenza a carico dello Stato, entro cui generalmente si esercitavano gli aspetti fondamentali della life politics, e lo slittamento/deriva di quest’ultima verso l’ambito presidiato da un mercato dei consumi che prospera sull’irreparabile fragilità e sull’avvicendamento delle routine: rapido quanto basta per impedire qualsiasi consolidamento in abitudini e norme. In questo nuovo contesto c’è poca richiesta di frenare, neutralizzare o domare quello stimolo fastidiosamente trasgressivo e quella sperimentazione compulsiva che vanno sotto il nome di ‘cultura’, con la prospettiva di metterli al servizio dell’autoregolazione e della continuità. O, quanto meno, i vettori canonici di quella domanda – i dirigenti degli Stati nazionalisti [nation-building states] – hanno perso qualsiasi interesse a imbrigliare tali elementi, mentre l’ultima cosa che i nuovi sceneggiatori e registi del dramma culturale possano desiderare è che il comportamento degli uomini venga sottomesso, normalizzato, ricondotto a routine monotone e rigide, ora che gli uomini sono stati riconvertiti in consumatori e null’altro. Mentre i protagonisti del dramma della ‘modernità solida’ sono usciti di scena in massa o si riducono al ruolo di comparse più o meno mute, e i loro sostituti tardano a entrare in scena, chi vive nel nostro tempo si trova a dover recitare in quelli che, seguendo Hannah Arendt e con lei Bertolt Brecht, potrebbero ben definirsi «tempi oscuri»8. L’allontanamento dalla politica e dalla sfera pubblica diventa, come Arendt scrisse profeticamente, l’«atteggiamento fondamentale dell’individuo moderno, che nella sua alienazione dal mondo rivela davvero se stesso solo nella sfera privata e nell’intimità degli incontri faccia a faccia»9. 56

Questa sfera privata, conquistata e affermatasi di recente, e «l’intimità degli incontri faccia a faccia» sono le inseparabili compagne dei ‘tempi oscuri’, alimentate dal mercato dei consumi, che promuove la contingenza universale della vita di consumi su cui prospera, e si avvantaggia della fluidità delle posizioni sociali, della fragilità dei legami umani e dello status controverso, instabile e imprevedibile, dei diritti, degli obblighi e degli impegni individuali, nell’ambito di un presente indecifrabile per chi lo vive e di un futuro ostinatamente e irriducibilmente opaco e oscuro. Stressati e impotenti, ma senza molta resistenza, i governi statali e i loro dirigenti abbandonano le ambizioni di regolazione normativa su cui si era basato l’atto di accusa di Adorno e di altri critici dell’emergente «società di massa amministrata in toto», per mettersi invece nella posizione di ‘agenti’, assumendo il ruolo di ‘onesti mediatori’ delle esigenze (leggi: delle irresistibili pressioni) del mercato. I creatori di cultura possono anche risentirsi, come a volte accade, per l’invadenza dei dirigenti, che continuano – com’è tipico per loro – a misurare i risultati culturali in base a criteri estrinseci, estranei al flusso irrazionale della creatività culturale, e a usare il potere e le risorse di cui dispongono per imporre obbedienza alle regole che essi stessi hanno definito. Se questa è la principale obiezione alla loro ingerenza, non si tratta, tuttavia, come si è già visto, di un fenomeno nuovo, ma solo dell’ennesimo capitolo di una lunga vicenda di ‘rivalità tra fratelli’ di cui non s’intravede la fine. Bene o male – anzi, bene e male – le creazioni culturali hanno bisogno di dirigenti per non morire nella stessa torre d’avorio in cui sono state concepite... La reale novità, d’altra parte, è costituita dai criteri che i dirigenti di oggi, nel loro nuovo ruolo di agenti delle forze del mercato invece che dei poteri dello Stato nazionale, utilizzano per effettuare ‘valutazioni’, ‘auditing’ e ‘monitoraggi’, esprimere giudizi e censure, comminare premi e punizioni nei confronti dei loro protetti. I criteri adottati sono natural57

mente quelli tipici del mercato dei consumi, che privilegiano l’immediatezza del consumo, della gratificazione e del profitto. Un mercato dei consumi che si facesse carico di esigenze di lungo termine, se non addirittura dell’eternità, sarebbe una contraddizione in termini. Esso favorisce invece la rapidità di circolazione, l’accorciamento della distanza tra uso, scarto e smaltimento e l’immediata sostituzione dei prodotti non più redditizi: tutte cose che contrastano in maniera stridente con la natura della creazione culturale. Dunque la novità è che le vie dei due fratelli tuttora rivali si sono separate. La posta in gioco nella fase attuale dell’annoso tiro alla fune non sta unicamente nella risposta all’interrogativo su ‘chi comanda’, ma è l’essenza stessa del ‘comandare’: la sua finalità e le sue conseguenze. Facendo un altro (piccolo) passo avanti possiamo dire che è in gioco la sopravvivenza della cultura come l’abbiamo conosciuta a partire dai giorni in cui qualcuno dipinse le pareti delle grotte di Altamira. Può la cultura sopravvivere alla morte della durata, dell’eternità, dell’infinito, prime «vittime collaterali» del trionfo del mercato dei consumi? Non abbiamo risposta a questa domanda, pur avendo valide ragioni per sospettare che sia un «no», e per riporre maggior fiducia – come consigliato da Hans Jonas agli uomini dell’«età dell’incertezza» – negli oracoli dei «profeti di sventura»... Subordinare la creatività culturale ai criteri del mercato dei consumi significa chiedere alle creazioni culturali di rispettare il prerequisito di quelli che un tempo erano onesti prodotti di consumo: e cioè legittimarsi in termini di valore di mercato (valore di mercato attuale, per l’esattezza) o perire. La prima richiesta che viene posta a offerte culturali che rivendichino validità e riconoscimento riguarda la dimensione della domanda, e se questa sia sostenuta da un’adeguata capacità di pagare. Eppure, a causa del carattere notoriamente volubile, bizzarro e volatile della domanda dei consumatori, la storia del dominio del mercato sulla cultura è costellata di pronostici sbagliati, valutazioni decisamente fuori misura, deci58

sioni clamorosamente erronee. La strategia e la prassi di tale dominio si riducono in sostanza a cercare di compensare l’assenza di valutazione di qualità con la tendenza a sparare molto alto sopra il bersaglio e a cautelarsi contro scommesse sballate – in altri termini, a sprecare l’eccesso e a eccedere nello spreco (George Bernard Shaw, appassionato fotografo dilettante oltre che celebre drammaturgo, consigliava a chi volesse fare fotografie di seguire l’esempio del merluzzo, di cui ogni esemplare deve deporre un migliaio di uova affinché un solo individuo possa arrivare a maturità: e l’industria dei consumi sembra seguire il consiglio di Shaw, come gli uomini di marketing che la tengono in vita). Una simile strategia può essere talvolta utile per cautelarsi contro le perdite esorbitanti dovute a errori nell’analisi dei costi e dei benefici, ma ben poco potrà fare per dare ai prodotti culturali la possibilità di rivelare la propria qualità autentica se non è in vista (una vista miope, cronicamente focalizzata sul ‘breve termine’) un’adeguata domanda di mercato nei loro confronti. È ormai sui clienti previsti – sul loro numero e sulla loro disponibilità di denaro – che si decide (quantunque più spesso in modo automatico che intenzionale) il destino delle creazioni culturali. La linea che divide i prodotti culturali ‘di successo’ (che s’impongono perciò all’attenzione pubblica) da quelli fallimentari (ossia incapaci di farsi strada sino alla notorietà) viene tracciata dalle vendite, dagli indici di gradimento e dai ricavi al botteghino (in base a un’altra spiritosa definizione di Daniel J. Boorstin, un best seller è un libro che ha venduto bene «semplicemente perché si vendeva bene»). Ma i teorici e i critici dell’arte contemporanea non sono riusciti a stabilire alcuna correlazione tra i meriti di una creazione culturale e il suo livello di celebrità. Se correlazione si trova, è piuttosto tra la celebrità e il potere del marchio, il logo che eleva l’incipiente objet d’art dall’oscurità alle luci della ribalta. L’equivalente contemporaneo della buona sorte, o del colpo di fortuna, è Charles Saatchi che ferma l’auto su una stra59

da secondaria, proprio davanti a un oscuro negozio che vende un qualche bric à brac realizzato su quella stessa strada secondaria da oscure persone che sognavano e desideravano che quell’oggetto venisse proclamato opera d’arte. Un oggetto si trasforma da un giorno all’altro in un’opera d’arte, una volta esposto in una galleria le cui porte separano l’arte buona (da ammirare, acquistare e vantare) dall’arte cattiva (con cui non si deve avere nulla a che spartire, e che ci si vergogna ad acquistare), nonché l’arte dalla non-arte. Il nome della galleria riflette il proprio lustro sui nomi degli artisti che espone. Nel mondo sgradevolmente confuso delle norme flessibili e dei valori fluttuanti, ciò rappresenta – la cosa non sorprende – una tendenza universale. Come ha sintetizzato Naomi Klein, «molte tra le aziende attualmente più note non si occupano più di produrre e reclamizzare le merci, ma piuttosto le acquistano e vi appongono il proprio marchio»10. È lo shopper con il nome della galleria stampato sopra a dare significato a ciò che vi è stato acquistato e contiene: il marchio e il logo di un prodotto non aggiungono valore a quel prodotto, ma ne sono il valore, il valore di mercato – e dunque il solo valore che conti, il valore in quanto tale. Non sono soltanto le grandi aziende a investire valore nei prodotti attraverso il proprio marchio, o a sottrarre valore ai prodotti ritirando il proprio logo. I marchi più forti sono forse gli eventi, quando vengono lanciati e promossi adeguatamente: eventi-celebrità che richiamano un’affluenza massiccia, noti per la propria notorietà – secondo il criterio enunciato da Boorstin – e in grado di far vendere un sacco di biglietti perché si vendono bene. Gli ‘eventi’ hanno un vantaggio sui brand aziendali, costretti a fare affidamento sulla fedeltà nel tempo di clienti affezionati: essi sono più in sintonia con la durata – notoriamente breve – della memoria pubblica e con la concorrenza all’arma bianca tra seduzioni che si contendono l’attenzione dei consumatori. Gli eventi, come tutti i veri prodotti di consumo, recano una data di scadenza; i loro progettisti e responsabili possono disinteressarsi, nei pro60

pri calcoli, di considerazioni di lungo periodo (con il doppio vantaggio di enormi risparmi e di una consonanza con lo spirito del tempo che ispira sicurezza), programmando e attrezzandosi per ottenere «il massimo effetto e un’obsolescenza immediata» (per ricordare la calzante espressione di George Steiner). Il successo spettacolare (sia in senso letterale che metaforico) degli eventi a data stabilita, divenuti la forma più efficace e più ampiamente utilizzata di branding, è in linea con la tendenza universale del contesto liquido-moderno. In quest’ultimo ogni prodotto culturale – che si tratti di un oggetto inanimato o di un essere umano colto – tende a essere arruolato al servizio di ‘progetti’, qualificati come iniziative una tantum e a breve termine. E, come ha riscontrato un team di ricerca citato da Naomi Klein, «si può apporre il marchio non solo alla sabbia, ma anche alla farina, alla carne di manzo, ai mattoni, ai metalli, al cemento, ai prodotti chimici, alle granaglie e a un’infinita varietà di prodotti solitamente considerati non interessanti per questo processo»11 e considerati finora (a torto, evidentemente) in grado di fare affidamento sui propri intrinseci pregi e di dimostrare il proprio valore semplicemente dispiegando ed esprimendo la propria eccellenza. La ‘sindrome consumista’, cui la cultura contemporanea si abbandona sempre più, è incentrata su un netto rifiuto del valore della dilazione, del ‘rinvio della soddisfazione’, su cui si fondava la ‘società dei produttori’ o ‘produttivista’. Nella gerarchia ereditata dei valori autorizzati la ‘sindrome consumista’ ha detronizzato la durata in favore della transitorietà e ha posto il valore della novità al di sopra di quello della durata. Sarebbe naturalmente ingiusto e imprudente attribuire la responsabilità della situazione in cui si trova oggi la creazione culturale solo ed esclusivamente all’industria dei consumi. Quell’industria è ben inserita nella forma di vita che chiamo ‘modernità liquida’. Entrambe si trovano in sintonia recipro61

ca e rafforzano vicendevolmente la presa sulle scelte che gli uomini e le donne del nostro tempo possono realisticamente fare. La cultura liquido-moderna non si considera più una cultura dell’apprendimento e dell’accumulazione, come le culture descritte negli studi storici ed etnografici. Essa appare piuttosto una cultura del disimpegno, della discontinuità e dell’oblio. Quest’ultima frase non è forse una contraddizione in termini? Questa è la grande questione, forse la questione-di-vita-e-di-morte per la cultura. Per secoli quest’ultima ha vissuto in irrequieta simbiosi con la gestione, divincolandosi nell’abbraccio scomodo, e a volte soffocante, dei dirigenti – ma anche accorrendo da loro in cerca di riparo ed emergendo dall’incontro ritemprata e rafforzata. Potrà la cultura sopravvivere al cambio di gestione? Potrà ancora permettersi qualcosa di più di un’esistenza effimera come quella di una farfalla? La nuova gestione, fedele all’impostazione del nuovo stile, limiterà il proprio potere a scorporare attività? La nuova metafora per rappresentare la cultura, al posto della lenta ascesa alla vetta, sarà il cimitero degli ‘eventi culturali’ deceduti o abortiti? Willem de Kooning ha affermato che in questo nostro mondo «il contenuto è un’occhiata fugace», una visione fuggevole, uno sguardo en passant12. E uno dei più acuti studiosi delle vicende alterne della cultura postmoderna e post-postmoderna, Yves Michaud, sostiene che l’estetica, l’obiettivo costantemente elusivo che la cultura ha ostinatamente perseguito, si consuma e si celebra ai nostri giorni in un mondo svuotato, e privo, di opere d’arte13 – di ciò che si presume costituisca per il mondo un arricchimento duraturo... Riflettendo sulle condizioni e prospettive dell’arte contemporanea Tom Wolfe osservava che ci siamo sbarazzati delle opere figurative, della terza dimensione, di colori, tecnica, cornici e tele... e che dire della parete? L’immagine dell’opera d’arte come qualcosa che si trova sulla parete non è forse premoderna?14 62

Jacques Villeglé, artista in attività, appassionato fotografo e autore di enormi tele appese alle pareti di tutti i più prestigiosi salons parigini, pensa a un diverso tipo di parete: un congegno completamente postmoderno, rivolto verso la strada in cui si dispiega l’azione, finestra anziché parte della gabbia/rifugio che secondo i canoni modernisti definiva la differenza tra ‘dentro’ e ‘fuori’ nell’arte. Le pareti che si aprono dalle tele di Villeglé, incollate alle pareti della galleria, sono nella città, testimonianze vive, perennemente incompiute e continuamente aggiornate, dell’arte moderna per eccellenza: l’arte del vivere moderno. Queste pareti sono i veri luoghi dove si trova la fatica di vivere, evidente o surrettizia, ma pur sempre ineluttabile, rivelata e registrata affinché possa essere successivamente trasferita sulle pareti di un museo per reincarnarsi sotto forma di objets d’art. Gli oggetti di Villeglé sono i cartelloni fatti per portare avvisi e annunci pubblici, manifesti e pubblicità; o semplicemente i tratti di muro che separano e nascondono residenze private e file di edifici commerciali – quelle serie di mattoni la cui originaria inespressività ha costituito una sfida e una tentazione per chi stampa, distribuisce e affigge manifesti, una tentazione cui è impossibile resistere in una città postmoderna piena fino all’orlo di vedute e suoni che si contendono attenzione. (Non somigliano, i manifesti, alle erbacce della società dell’informazione, che invadono ogni palmo di terreno libero da radici? Non sono essi le erbe infestanti dei giardini della comunicazione? Non sono le pareti vuote, e tutte le superfici piatte prive di messaggi, la versione aggiornata liquido-moderna di quel ‘vuoto’ che tutta la natura, in questo caso la natura della società dell’informazione, aborre?) Che si tratti di appositi cartelloni o di muri invasi, conquistati e assorbiti dalle truppe che avanzano dell’impero dell’informazione, non è questo il punto. Una volta fissati sulle tele di Villeglé, sia gli uni che gli altri difficilmente rivelano le differenze nel proprio passato. Si somigliano tutti in maniera sconvolgente, incollati come sono gli uni sugli altri lun63

go il boulevard de la Chapelle o lungo Hausmann, Malesherbes o rue Littré; o ancora su boulevard Marne o rue des Écoles; o su Saint Lazare, Faubourg St. Martin o all’incrocio tra Sèvres e Montparnasse. Ognuno di questi luoghi è una accozzaglia inquietante di cimiteri e di cantieri; un punto d’incontro tra cose che stanno per morire e altre che stanno per nascere, per morire a loro volta poco tempo dopo. Il profumo della colla fresca è in lizza con l’odore di cadaveri in decomposizione. Affiches lacérées... brandelli di carta strappata svolazzano su potenziali brandelli, che attendono solo di essere strappati. Un mezzo sorriso su un mezzo viso salvatosi chissà come; un occhio o un orecchio solitari, privi del loro gemello; ginocchia e gomiti a cui manca un nesso che li tenga insieme. Grida ammutolite prima di essere comprese, messaggi che si dissolvono e svaniscono in una frazione di frase, arrestati e garrotati molto prima di aver raggiunto il luogo in cui nasce il significato; chiamate interrotte e frasi prive dell’inizio. Eppure questi ammassi di rimasugli sono pieni di vita. Niente qui resta immobile: ogni cosa è in licenza temporanea da – o verso – un altrove. Ogni casa non è che una locanda in cui sostare a metà strada. Quei cartelloni e quelle pareti, sovraffollati di strati su strati di significati di cose che furono, sarebbero state o potrebbero essere ancora, sono istantanee di storia nel suo farsi, storia che procede facendo a brandelli le proprie tracce: storia come fabbrica di rifiuti, di scarti. Né creazione, né distruzione, né apprendimento né autentico oblio: soltanto livida evidenza della futilità, anzi della totale inutilità di simili distinzioni. Nulla, qui, nasce per vivere a lungo, e nulla muore definitivamente. Anche le tele di Manolo Valdes sono molto grandi, e si somigliano straordinariamente tra loro. Qualsiasi messaggio trasmettano, esse lo ripetono, con viscida ma appassionata ostinazione, e ancora una volta e poi un’altra, tela dopo tela. Valdes dipinge/collaziona/compone/incolla volti. O meglio un unico volto – il volto di una sola donna. Ogni tela è la pro64

va materiale di un nuovo inizio, di una nuova partenza, di un nuovo tentativo di ultimare il ritratto. O è piuttosto la testimonianza di un lavoro completato tempo addietro, ma subito dichiarato obsoleto e condannato? La tela è stata congelata, certo, nel momento in cui è stata appesa alla parete della galleria – ma in su o in giù? Aller o retour? Chi può dirlo... Nemmeno dietro lauta ricompensa qualcuno riuscirà a distinguere la direzione ‘in avanti’ da quella ‘all’indietro’. Questa distinzione, proprio come quella tra creazione e distruzione, ha perso significato – o forse non ne ha mai avuto. Quel vuoto lasciato là dove si presumeva vi fosse del significato era un segreto ben protetto da tutti coloro che sostenevano che ‘avanti’ fosse il nome giusto per il luogo cui essi – coloro che guardano avanti – guardavano. Erano loro ad affermare che ‘creazione’ era il nome appropriato della distruzione che essi – i creativi – realizzavano. O almeno è questo il messaggio che recitano, all’unisono, le tele di Valdes: forse il loro unico messaggio. I collage di Valdes sono stati messi insieme laboriosamente, strato dopo strato, a partire da brandelli e pezzi di tela da sacchi: alcuni tinti, altri lasciati così, senza alcun pudore per l’originaria inespressività della iuta o della canapa, altri con una sola mano di colore, altri ancora da cui la vernice ormai secca si va sfaldando. O forse sono stati semplicemente strappati da una tela già completa, priva di cuciture, intera e integra? I pezzi sono incollati male – con estremità staccate e penzolanti – ma, ancora una volta, non è affatto chiaro se stiano per essere applicati sugli altri pezzi sotto di essi, o se stiano per scollarsi e staccarsi. Questi collage sono stati colti nel processo di creazione, o sono invece in stato di avanzata decomposizione? Questi pezzi e frammenti di tela devono ancora essere attaccati o si sono già staccati? Sono freschi e immaturi, o strausati e deteriorati? Il messaggio è: non importa, ed è impossibile sapere che cosa sia stato cosa, anche se lo fosse stato davvero. Herman Braun-Vega ha esposto al quinto Art-Paris Salon 65

nel Carousel del Louvre, e si può dire ritragga incontri impossibili: un nudo di Velázquez in compagnia delle bagnanti di Avignone di Picasso, osservati da un poliziotto parigino in perfetta tenuta da ventunesimo secolo; il pontefice Pio IX mentre legge il quotidiano che dà notizia di una recente dichiarazione di Giovanni Paolo II; i contadini festosi di Bruegel che saltellano in un ristorante alla moda nouvelle cuisine. Incontri davvero impossibili? In un mondo di vita morente e di morti non morti, l’improbabile si è trasformato in ineluttabile, lo straordinario è routine. Tutto è possibile, anzi inevitabile, una volta che la vita e la morte hanno perso la distinzione che conferisce loro significato, e sono entrambe ugualmente revocabili, ‘fino a nuovo avviso’. Era, in fondo, quella distinzione a dotare il tempo della linearità che distingueva la transitorietà dalla durata e infondeva senso all’idea di progresso, di degenerazione e di punti di non ritorno. Una volta che tale distinzione è andata perduta, nessuno di questi contrasti, costitutivi dell’ordine moderno, mantiene più alcuna consistenza. Villeglé, Valdes e Braun-Vega sono tre artisti rappresentativi dell’epoca liquido-moderna. Di un’epoca che ha perso la fiducia in se stessa, e con questa il coraggio d’immaginare e tratteggiare (e tanto meno di perseguire) modelli di perfezione: una situazione che non richiede, né consente ulteriori miglioramenti, e in cui ogni nuovo cambiamento può solo essere in peggio. A differenza dell’epoca precedente della modernità ‘solida’, che viveva verso l’‘eternità’ (abbreviazione per indicare uno stato di perenne, uniforme e irrevocabile identicità), la modernità liquida non si pone alcun obiettivo e non traccia alcuna linea conclusiva; più precisamente, essa attribuisce il carattere della permanenza unicamente allo stato di transitorietà. Il tempo scorre, ha smesso di ‘avanzare’. Esiste il cambiamento – un cambiamento continuo, sempre nuovo – ma non esiste una destinazione, un punto conclusivo, l’aspettativa di una missione da compiere. Ogni momen66

to di sopravvivenza è carico di un nuovo inizio e della fine: un tempo nemici giurati, adesso fratelli siamesi. Gli artisti citati qui riproducono nelle loro opere le caratteristiche che definiscono l’esperienza liquido-moderna. La cancellazione della contrapposizione tra atti creativi e distruttivi, l’apprendere e il dimenticare, i passi avanti e indietro, l’aver spuntato la freccia del tempo: sono questi i segni di realtà vissuta che Villeglé, Valdes e Braun-Vega riciclano in tele adatte a essere appese sulle pareti delle gallerie. Non sono loro gli unici artisti: metabolizzare quelle caratteristiche innovative della Lebenswelt e articolare la propria esperienza è forse la principale preoccupazione delle arti, che ormai si trovano gettate in un mondo in cui non ci sono più modelli che si lascino ritrarre: un mondo che non è più nemmeno possibile sperare si fermi in posa per il tempo occorrente all’artista per ultimare la sua raffigurazione. Ciò si esprime in continuazione: nella tendenza a ridurre la vita dei prodotti delle arti a una performance, a un happening, a qualcosa che non va oltre la durata di una mostra temporanea; nella scelta, per realizzare gli oggetti d’arte, di materiali fragili o friabili, altamente degradabili e deperibili; nelle opere fatte con la terra, che difficilmente saranno viste da molti o sopravvivranno a lungo ai capricci del clima ostile; insomma nell’incorporare, nella presenza materiale della creazione artistica, il deterioramento e la scomparsa che incombono. Come ha postulato Kooning: «il contenuto è un’occhiata fugace». E, stando alla sintesi di Yves Michaud, lo spazio in cui l’estetica celebra il suo definitivo trionfo è stato privato delle ‘opere d’arte’ – almeno «così come le conoscevamo», vale a dire degli oggetti preziosi e rari, ‘auratici’, che innescano un’esperienza unica, sublime e raffinata, in occasioni uniche e in luoghi unici, per lunghi – forse infiniti – periodi di tempo15. Sul pendio di una collina che domina la strada per Saltdal (cittadina del Nørland, la provincia più settentrionale della Norvegia) l’artista Gediminas Urbonas ha inserito quattro container, ciascuno dei quali contiene un’opera d’arte. La vi67

sione è piuttosto inattesa in un paesaggio altrimenti desolatamente uniforme, non lontano dal permafrost del Circolo Polare Artico: perciò quasi tutte le auto che passano si fermano lì e i passeggeri salgono sulla collina per contemplare ciò che è stato collocato all’interno dei container, qualsiasi cosa sia. In tre dei quattro container si trovano rispettivamente un normale objet d’art, un oggetto comune e uno che si può ritenere eccentrico. Infine si scopre che il quarto container è vuoto o, più esattamente, che il suo contenuto non consiste in un oggetto materiale, eppure (o forse proprio perciò) è denso di significato. Ogni visitatore casuale, immancabilmente, trascorre quasi tutta la sosta in contemplazione del foro vuoto... Rauschenberg, in un’occasione, cancellò alcuni disegni del suo amico de Kooning, e poi li espose – fogli bianchi, anche se macchiati – insieme ad altri disegni non cancellati... Quella su cui ci siamo soffermati in queste pagine è arte figurativa, e Villeglé, Valdes e Braun-Vega, Urbonas e Rauschenberg sono artisti figurativi a tutti gli effetti – gli artisti più figurativi che sia possibile concepire nel mondo che essi raffigurano: il mondo liquido-moderno.

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Rifugiarsi nel vaso di Pandora. Ovvero: paura, sicurezza «and the city»

«In mancanza di conforto esistenziale ci accontentiamo ormai della sicurezza, o del simulacro della sicurezza», si legge nell’editoriale che apre il numero speciale di «Hedgehog Review» sul tema della paura1. Dobbiamo riconoscere che il terreno su cui presumiamo si fondino le nostre prospettive di vita è malfermo – come lo sono il nostro lavoro, le aziende che ce lo offrono, i nostri partner, la nostra rete di amicizie, la reputazione di cui godiamo in una cerchia sociale più ampia o l’autostima e la fiducia in noi stessi che si accompagnano a tale reputazione. Il ‘progresso’, che un tempo costituiva la manifestazione più estrema di ottimismo radicale e una promessa di felicità universalmente condivisa e durevole, si è decisamente spostato verso il polo opposto delle aspettative, distopico e fatalista. Esso ora rappresenta la minaccia del cambiamento inarrestabile e inevitabile, che non porta pace e sollievo, ma crisi e tensione costanti, senza neanche un attimo di pausa, in una sorta di gioco delle sedie in cui un attimo di disattenzione si trasforma in sconfitta senza appello e nell’esclusione definitiva. Anziché grandi speranze e sogni d’oro, il ‘progresso’ evoca ormai notti insonni, popolate dagli incubi di ‘restare indietro’, di perdere il treno o di essere catapultati fuori del finestrino di un veicolo che accelera sempre più. Incapaci di rallentare il cambiamento vertiginoso o di prevederne e controllarne la direzione, ci concentriamo su ciò che possiamo (o crediamo di potere, o ci assicurano che possiamo) influenzare: tentiamo di calcolare e minimizzare il ri69

schio, per noi o per chi oggi ci è più vicino e più caro, di soccombere ai pericoli incommensurabili e indefinibili che questo mondo così opaco tiene in serbo nel suo incerto futuro. Siamo tutti intenti a scoprire ‘i sette indizi del cancro’ o ‘i cinque sintomi della depressione’, a esorcizzare lo spettro della pressione alta o del colesterolo eccessivo, dello stress o dell’obesità. Cerchiamo insomma dei bersagli sostitutivi su cui scaricare l’eccesso di paura che non trova ormai le sue naturali vie di sfogo, e ripieghiamo sull’adozione di elaborate precauzioni contro il fumo, l’obesità, il fast food, il sesso senza protezione o l’esposizione al sole. Chi se lo può permettere si protegge contro tutti i pericoli visibili e invisibili, noti o ancora inconsueti, soffusi ma ubiqui, chiudendosi a chiave entro le proprie mura, inzeppando di telecamere le vie d’accesso agli ambienti in cui vive, ingaggiando guardie armate, guidando vetture corazzate (come i famigerati Suv) e indossando indumenti protettivi (ad esempio scarpe dalla suola pesante) o andando a lezione di arti marziali. «Il problema», come osserva David L. Altheide, «è che queste attività confermano e rafforzano il senso di disordine prodotto dalle nostre azioni»2. Ogni ulteriore giro della chiave nella serratura come reazione alla sequenza di voci secondo cui delinquenti apparentemente estranei fanno quello che vogliono, ogni messa a punto della dieta dopo un nuovo attacco di ‘panico da cibo’ fanno sì che il mondo appaia più infido e pauroso, e ispira ulteriori azioni di difesa – che, purtroppo, a loro volta produrranno lo stesso effetto. Le nostre paure sono ormai in grado di autoconservarsi e autoalimentarsi. Esse hanno una propria forza d’inerzia. L’insicurezza e la paura aprono ottime opportunità d’affari, che puntualmente qualcuno coglie. «I pubblicitari», commenta Stephen Graham, «hanno sfruttato deliberatamente i timori di azioni catastrofiche da parte dei terroristi per aumentare le vendite di Suv, che hanno elevati margini di profitto»3. Questi mostri assetati di benzina, rozzamente denominati sport utility vehicles, hanno già raggiunto il 45 per 70

cento del totale delle vendite d’auto negli Stati Uniti e vengono impiegati nella vita quotidiana delle città come «capsule difensive». I Suv sono un significante di sicurezza, come i complessi residenziali in cui perlopiù entrano, e sono presentati dalla pubblicità come luoghi protetti dalla vita urbana rischiosa e imprevedibile che si trova là fuori [...]. Questi veicoli sembrano sedare la paura avvertita dai ceti medi urbani, quando ci si sposta o si fa la fila nel traffico della ‘propria’ città.

Come il denaro liquido, pronto per qualsiasi tipo d’investimento, il capitale di paura può essere impiegato per qualsiasi genere di profitto economico o politico. E così è. La sicurezza personale è diventata uno dei principali, forse il principale argomento di vendita in tutti i tipi di strategie di marketing. ‘Legge e ordine’, sempre più ridotti alla promessa di incolumità personale, sono ormai tra i principali, forse il principale argomento di vendita nei manifesti politici e nelle campagne elettorali. Evidenziare le minacce all’incolumità personale è diventato uno dei principali, forse il principale punto di forza nelle battaglie per gli indici d’ascolto da parte dei mass media (contribuendo ulteriormente al successo del capitale di paura sia nel marketing che in politica). Come scrive Ray Surette, il mondo visto attraverso la Tv somiglia a una situazione in cui la ‘polizia-cane pastore’ protegge i ‘cittadini-pecore’ dagli attacchi dei ‘criminali-lupi’4. Tutto ciò non può non influenzare, se non addirittura rivoluzionare, le condizioni della vita urbana, la nostra percezione di come si vive nelle città e le speranze e le ansie che tendiamo ad associare all’ambiente urbano. E quando parliamo delle condizioni della vita urbana, parliamo in effetti delle condizioni di vita dell’umanità. Stando alle attuali proiezioni, fra una ventina d’anni ben due terzi dell’umanità abiteranno in città, e nomi pressoché sconosciuti come Chongking, Shenyan, Pune (Poona), Ahmadabad, Surat o Yangon 71

(Rangoon) indicheranno conurbazioni di oltre cinque milioni di abitanti, come altri – Kinshasa, Abidjan o Belo Horizonte – oggi associati più alle vacanze esotiche che alla linea del fronte della modernizzazione. I centri da poco ascesi alla serie A degli agglomerati urbani già oggi si trovano in seria crisi, ma dovranno «affrontare fra vent’anni lo stesso genere di problemi che Londra o New York hanno impiegato ben centocinquant’anni a gestire con grande difficoltà»5. È possibile che le preoccupazioni e le paure che notoriamente tormentano le metropoli più antiche siano destinate a impallidire rispetto ai problemi che si troveranno di fronte i nuovi giganti. Il nostro pianeta ha una lunga via da percorrere per diventare il ‘villaggio globale’ di Marshall McLuhan, ma i tanti villaggi di cui è disseminato si globalizzano rapidamente. Molti anni fa Robert Redfield, nella sua indagine su ciò che sopravviveva del mondo rurale premoderno, concludeva che la ‘cultura contadina’, incompleta e non autosufficiente, non poteva essere adeguatamente descritta, e tanto meno compresa, se non nel quadro del territorio più ampio di cui faceva parte, che comprendeva un centro urbano a cui gli abitanti del contado erano legati dallo scambio di servizi e da forme di dipendenza reciproca. Cent’anni dopo la ricerca di Redfield, si può dire che l’unico contesto più ampio all’interno del quale sia possibile descrivere e spiegare adeguatamente tutto ciò che è rurale è l’intero pianeta. Prendere in considerazione una città vicina, per quanto grande, non è più sufficiente. Sia il villaggio che la città sono infatti contesti in cui agiscono forze di portata ben più ampia, che innescano processi che nessuno – non solo gli abitanti di quel villaggio e di quella città, ma gli stessi soggetti che li hanno innescati – è in grado di comprendere e tanto meno di controllare. Si può riformulare il vecchio detto secondo cui sono gli uomini a sparare, ma è Dio a decidere dove indirizzare le loro pallottole: contadini e cittadini lancino pure i loro missili – saranno i mercati globali a portarli a destinazione. 72

Nella rubrica intitolata Countryside commentary il «Corner Post» del 24 maggio 2002 pubblicava un articolo di Elbert van Donkersgoed (consigliere per le strategie politiche della federazione degli agricoltori cristiani dell’Ontario, Canada) il cui titolo era significativamente dedicato ai «danni collaterali della globalizzazione»6. «Ogni anno produciamo sempre più cibo impiegando meno personale e utilizzando in modo più avveduto le risorse», osservava van Donkersgoed. «Gli agricoltori lavorano in modo sempre più intelligente, investono in tecnologie che fanno risparmiare lavoro e in una gestione sempre più sofisticata per ottenere un prodotto di qualità». Per far ciò occorrono sempre meno lavoratori. Nei quattro anni precedenti il febbraio 2002 le statistiche dell’Ontario hanno registrato una riduzione di 35.000 addetti, resi superflui dal ‘progresso tecnologico’ e sostituiti da tecnologie nuove e migliori (ossia che fanno risparmiare lavoro). Il punto è però che, stando ai libri di testo dell’economia e alla logica comune, un progresso così spettacolare nella produttività avrebbe dovuto accrescere la ricchezza dell’agricoltura dell’Ontario, e con essa i profitti degli agricoltori locali: invece, non si è visto alcun segno di aumento del benessere. Van Donkersgoed pronuncia l’unica conclusione che viene in mente: «I benefici della produttività agricola si stanno accumulando in un altro settore dell’economia. Perché? È la globalizzazione». Quest’ultima, osserva, ha prodotto una tendenza alle fusioni e alle scalate da parte delle aziende fornitrici dell’agricoltura [...]. La spiegazione secondo cui «ciò è necessario per essere competitivi a livello internazionale» sarà probabilmente valida, ma tali fusioni hanno anche favorito il sorgere di un potere monopolistico [... che] si appropria dei benefici degli aumenti della produttività agraria. [...] Le grandi aziende diventano giganti rapaci che dominano i mercati. Esse possono impiegare – e puntualmente impiegano – il proprio potere economico per ottenere dagli agricoltori esattamente ciò che vogliono. Gli scambi vo73

lontari e il commercio tra pari stanno lasciando spazio a un’economia rurale di comando-e-controllo.

Spostiamoci ora a qualche migliaio di chilometri dall’Ontario, in direzione sud-est: in Namibia, uno degli Stati più floridi dell’Africa secondo le statistiche. In questo paese, finora prevalentemente contadino, nell’ultimo decennio la percentuale della popolazione rurale è diminuita nettamente, mentre il numero degli abitanti di Windhoek, la capitale, è raddoppiato, come ci riferisce Keane Shore7. La popolazione eccedente e superflua delle aree rurali si è trasferita nelle baraccopoli sorte tutt’attorno alla città (relativamente agiata), spinti da «speranze, non realtà», visto che «ci sono ormai meno lavori che gente in cerca di lavoro». «Lo stesso numero di persone in arrivo, paragonato alla dimensione dell’economia urbana di Windhoek, indica la presenza di un numero enorme di abitanti privi di qualsiasi fonte di reddito», nota Bruce Frayne, urbanista della Namibia, i cui studi sono stati premiati dalla Queens University del Canada. La forza lavoro in eccesso defluisce costantemente dalla Namibia rurale, ma il capitale nella Namibia urbana cresce in misura troppo modesta per poter offrire una sistemazione a chi è di troppo. In ogni caso i sovraprofitti resi possibili dall’aumento della produttività agricola non sono mai rimasti nelle campagne, né hanno raggiunto le città. Sulle orme di van Donkersgoed, potremmo chiederci come ciò sia possibile, e dare la sua stessa risposta: è la globalizzazione. Nelle aree del pianeta che subiscono le pressioni globalizzanti, osserva Jeremy Seabrook, «le città sono diventate dei campi profughi per chi è stato sfrattato dalla vita rurale». E con ogni probabilità la vita urbana che attende costoro si può descrivere così: Nessuno offre lavoro. Molti fanno i guidatori di risciò o i domestici, comprano un po’ di banane e le piazzano sul marciapiede per venderle, o si offrono come facchini o manovali. Questo è il set74

tore informale dell’economia. In India meno del 10 per cento della popolazione attiva lavora nell’economia formale, e questa quota si sta riducendo a causa della privatizzazione delle imprese statali8.

Nan Ellin, uno degli studiosi più acuti e attenti delle tendenze urbane contemporanee, sottolinea come la protezione dal pericolo sia stata «uno dei principali incentivi alla costruzione delle città, i cui confini – nelle antiche città della Mesopotamia come nelle città medievali o negli insediamenti indigeni in America – erano perlopiù marcati da grandi recinzioni o cinte murarie»9. Le mura, i fossati o gli steccati segnavano il confine tra ‘noi’ e ‘loro’, tra l’ordine e la natura selvaggia, tra la pace e la guerra: i nemici erano coloro che si trovavano fuori di quel perimetro e non potevano varcarlo. «Da spazio relativamente sicuro», tuttavia, la città, soprattutto nel corso dell’ultimo secolo, ha finito per essere associata «più al pericolo che alla sicurezza». Oggi le nostre città, con un singolare capovolgimento del proprio ruolo storico e contro le intenzioni e le aspettative originarie, si stanno rapidamente trasformando da riparo contro i pericoli in principale fonte di pericolo. Diken e Laustsen si spingono ad affermare che il «collegamento» millenario «tra civiltà e barbarie si è invertito. La vita urbana si trasforma in uno stato di natura caratterizzato dal dominio del terrore e accompagnato da una paura onnipresente»10. Si può dire che le fonti di pericolo si siano spostate nel cuore stesso delle città. Amici, nemici, e soprattutto estranei inafferrabili e misteriosi che oscillano pericolosamente tra i due estremi si mescolano ormai, e si associano, nelle strade cittadine. La guerra all’insicurezza, ai pericoli e ai rischi si combatte ormai dentro la città, ed è qui che si delimitano campi di battaglia e si tracciano fronti. Trincee e bunker abbondantemente corazzati, intesi a separare gli estranei, a tenerli lontani e a impedir loro l’accesso stanno diventando rapidamente uno degli aspetti più visibili delle città contemporanee, nonostante le molte forme che essi possono assumere 75

e i grandi sforzi che i loro progettisti compiono per fonderli al paesaggio urbano, ‘normalizzando’ in tal modo lo stato d’emergenza in cui vivono gli abitanti delle città, maniaci della sicurezza. Le forme più comuni di fortificazione difensiva sono le gated communities, i centri residenziali ad accesso riservato, sempre più popolari, che le agenzie immobiliari promuovono, e i residenti vivono, molto più come luoghi protetti (da guardie private, monitor delle telecamere e così via) che come ‘comunità’. Il numero di questi complessi supera ormai i 20.000 negli Stati Uniti, e coloro che vi abitano sono più di otto milioni. Il significato di gate diventa, col passare del tempo, sempre più elaborato: un condominio californiano chiamato Desert Island, ad esempio, è protetto da un fossato che circonda un’area di ben dieci ettari. Brian Murphy ha costruito a Venice, in California, una casa per Dennis Hopper la cui facciata, in metallo ondulato e senza finestre, somiglia a un bunker. Lo stesso architetto ha costruito, sempre a Venice, un’altra residenza di lusso nelle mura di una vecchia struttura fatiscente, ricoprendola di graffiti e mimetizzandola in un contesto anch’esso uniformemente deturpato. Il deliberato e intenzionale sforzo di non dare nell’occhio è una delle principali tendenze dell’architettura urbana guidata dalla paura; un’altra è l’intimidazione, che si realizza attraverso l’ostilità degli esterni, il cui aspetto arroccato è reso ancora più scostante e umiliante dall’ostentata sovrabbondanza di check points e guardiani in uniforme, o da un’arrogante e supponente profusione di eleganza provocatoriamente opulenta, vistosa ed elaborata. L’architettura della paura e dell’intimidazione trabocca negli spazi pubblici delle città, trasformandoli indefessamente, seppur surrettiziamente, in aree strettamente sorvegliate ventiquattr’ore su ventiquattro. In questo campo l’inventiva è sconfinata. Nan Ellin cita alcuni ritrovati – perlopiù di origine americana ma diffusamente emulati – come le panchine a forma di botte (‘a prova di barbone’), munite di getti d’ac76

qua, installate nei parchi cittadini di Los Angeles (Copenhagen è andata un passo più avanti, togliendo tutte le panchine pubbliche dalla stazione centrale e multando i passeggeri che si siedano in terra mentre aspettano il treno), o i sistemi composti da spruzzatori e da altoparlanti che emettono un assordante frastuono di musica techno al fine di tenere oziosi e vagabondi il più possibile lontano dai negozi. Quanto alle sedi delle aziende e ai centri commerciali, che fino a non molto tempo fa erano tra i principali fornitori di spazi pubblici urbani, di cui essi costituivano il punto focale e la calamita, fanno di tutto per allontanarsi dal centro cittadino, risistemandosi in contesti artificiali progettati dal nulla, con tutto il corredo fintamente urbano di negozi, ristoranti e qualche punto di sosta, al fine di nascondere il fatto che i principali motivi d’attrazione delle città – la spontaneità, la flessibilità, la capacità di sorprendere, le occasioni d’avventura, insomma tutte le ragioni per cui si diceva che la Stadtluft, l’‘aria della città’, macht frei, rende liberi – sono stati accuratamente espunti ed esorcizzati. Esempio di una tendenza così carica di simbolismo è la schiera di uffici direzionali situati sul litorale di Copenhagen, imponenti ma decisamente scostanti, abbondantemente fortificati e scrupolosamente recintati, fatti per essere ammirati a distanza come i muri ciechi della Defense di Parigi, tanto spesso ammirata quanto raramente visitata. Il loro messaggio è chiaro e inequivocabile: chi lavora nelle aziende ospitate all’interno di quegli edifici abita il ciberspazio globale e il suo collegamento fisico allo spazio cittadino è frettoloso, contingente e debole; la grandiosità superba e tronfia della monolitica facciata, nella quale i pochi punti d’accesso sono ben mimetizzati, non fa che sottolinearlo. Chi si trova lì dentro è nel luogo (ma non del luogo) in cui quegli uffici sono stati costruiti. Egli non è più portatore di interessi costituiti nella città in cui ha accidentalmente piantato le tende per un po’, e ai maggiorenti cittadini chiede un solo servizio: quello di lasciarlo in pace. Chiede poco, e non si sente impegnato a dare molto in cambio. 77

Durante un convegno di urbanistica svoltosi a Berlino nel 1990 Richard Rogers, uno dei maggiori e più acclamati architetti britannici, avvertiva: Se proponiamo un progetto a un investitore, ci chiederà subito: «A che servono gli alberi, e perché mettere dei portici?». Agli investitori interessa solo lo spazio destinato agli uffici. Se non riusciamo a garantire che l’edificio sarà ammortizzato entro dieci anni, è inutile fargli proposte11.

Rogers descrive Londra, la città in cui ha appreso quest’amara lezione, come una «città politicamente paralizzata, quasi totalmente in mano alle società immobiliari». Quando sono in gioco interventi rilevanti di ammodernamento dello spazio urbano, come la ricostruzione degli arsenali londinesi (i maggiori d’Europa), il progetto viene vagliato in modo meno approfondito di quanto non si faccia per la «domanda di poter installare un’insegna luminosa su un negozio di fish and chips di East India Dock Road». Lo spazio pubblico è stato la prima vittima collaterale di una città che sta perdendo la sua difficile battaglia per arrestare, o almeno frenare, l’inesorabile avanzata del moloch globale. E così, conclude Rogers, «ciò che occorre, fondamentalmente, è un’istituzione che tuteli lo spazio pubblico». Più facile a dirsi che a farsi... Dove andare a cercare una simile istituzione? E se anche la si trovasse, come attrezzarla perché sia all’altezza del compito? I precedenti dell’urbanistica, più o meno recente, non sono molto incoraggianti. Il destino toccato alla pianificazione urbana a Londra è stato efficacemente narrato da John Reader, che ha scritto: L’ordine sociale e la distribuzione della popolazione di Londra stavano cambiando, in modi che non avevano alcuna relazione con 78

le previsioni degli urbanisti e con quella che essi indicavano come la soluzione ideale. Si tratta di un classico esempio di come il flusso dell’economia, della società e della cultura possa contraddire – e persino smentire – le idee e le teorie propugnate dagli urbanisti12.

Nei primi tre decenni dopo la guerra Stoccolma – una città che approvò e fece sua senza riserve la convinzione dei grandi visionari moderni e modernisti, secondo cui rimodellando lo spazio urbano occupato dagli uomini era possibile migliorare la forma e la natura della loro società – si avvicinò forse più di ogni altra grande città alla realizzazione di una ‘utopia socialdemocratica’. Le autorità municipali fornivano a ciascuno degli abitanti non soltanto un alloggio adeguato, ma tutto il catalogo delle comodità che valorizzano la vita, e un’esistenza totalmente protetta. Eppure nell’arco di tre soli decenni gli umori pubblici si modificarono in un modo che i pianificatori non avevano previsto. Le delizie dell’ordine pianificato vennero messe in dubbio, paradossalmente, dalle giovani generazioni, nate in quello spazio che era stato rimodellato proprio per offrire una vita più felice ai suoi abitanti. I cittadini di Stoccolma, in particolare i più giovani, rifiutarono gli alloggi offerti dalla collettività, in cui tutto era stato previsto, ogni cosa era stata presa in considerazione e si era provveduto a tutto, e si buttarono a capofitto nelle acque tempestose del mercato privato degli alloggi. Il risultato di questa fuga in massa, come scrive Peter Hall, non fu, nel suo insieme, molto attraente: «le case in fitte schiere, disposte in modo monotono e senza la minima immaginazione, richiamavano alla mente il peggior genere di sobborgo americano [...], ma la domanda era enorme ed esse furono vendute facilmente»13. L’insicurezza alimenta la paura, e non sorprende che la guerra all’insicurezza sia in cima all’elenco delle priorità degli urbanisti – o, quanto meno, questo è ciò che essi pensano e affermano se glielo si chiede. Il guaio è che quando l’insicurezza viene meno, anche la spontaneità, la flessibilità, la sorpresa 79

e l’avventura sono destinate a scomparire dalle strade cittadine. L’alternativa all’insicurezza non è il dono della quiete, ma la condanna alla noia. È possibile debellare la paura senza cadere nel tedio? Forse questa è la principale difficoltà in cui si dibattono urbanisti e architetti: un dilemma che non ha ancora trovato una soluzione convincente, soddisfacente e incontestata, una domanda cui è forse impossibile dare una risposta che soddisfi appieno, ma che (forse per la stessa ragione) continuerà a stimolare le sperimentazioni più accanite e le invenzioni più ardite da parte di architetti e urbanisti. Fin dall’inizio le città sono state luoghi nei quali degli estranei vivono molto vicini tra loro pur rimanendo estranei. La compagnia di estranei è sempre inquietante (sebbene non sempre temuta), poiché è insito nella natura degli estranei (in quanto diversa da quella di amici e nemici) che le loro intenzioni, i loro modi di pensare e le loro reazioni nelle situazioni collettive non siano noti, o comunque non lo siano abbastanza da poter prevedere come si comporteranno. Un luogo dove si radunano estranei è un luogo di endemica e irriducibile imprevedibilità. Detto altrimenti, gli estranei incarnano il rischio. Non esiste rischio senza un qualche timore di danno o d’insuccesso, ma senza rischi non esiste alcuna possibilità di vantaggio o di successo; perciò gli ambienti rischiosi non possono che esser visti come luoghi intrinsecamente ambigui, che evocano a loro volta atteggiamenti e reazioni anch’essi ambivalenti. Gli scenari carichi di rischio tendono ad attrarre e respingere allo stesso tempo, e il punto in cui una reazione si trasforma nel suo opposto è estremamente variabile e mobile, virtualmente impossibile da individuare e tanto meno da fissare. Uno spazio è ‘pubblico’ in quanto coloro cui è consentito accedervi non sono predefiniti. Non occorrono permessi di accesso, né vengono registrati i nomi di chi entra ed esce. La presenza nello spazio pubblico è dunque anonima; inevita80

bilmente, perciò, coloro che sono presenti nello spazio pubblico tendono a essere estranei sia tra loro, sia per coloro alla cui responsabilità è affidato quello spazio. Gli spazi pubblici sono luoghi in cui s’incontrano degli estranei, e che condensano e incapsulano le caratteristiche che definiscono la vita urbana. È nei luoghi pubblici che la vita urbana, in ciò che la distingue da altre forme di comunanza [togetherness] tra gli uomini, raggiunge la sua espressione più piena, con tutte le gioie e i dolori, le premonizioni e le speranze che la contraddistinguono. Gli spazi pubblici, per queste ragioni, sono luoghi dove attrazione e repulsione si trovano a confronto, con risultati che cambiano costantemente e rapidamente. Essi sono pertanto luoghi vulnerabili, soggetti ad attacchi maniaco-depressivi o schizofrenici; ma sono anche gli unici luoghi nei quali l’attrazione abbia una qualche possibilità di vincere o eguagliare la repulsione. Essi sono, in altri termini, i luoghi dove è possibile scoprire, apprendere e praticare, prima che altrove, i modi e i mezzi di una vita urbana gratificante. È proprio nei luoghi pubblici che il futuro della vita urbana (e con esso, visto che la maggioranza crescente della popolazione umana abita in città, il futuro della coabitazione planetaria) si decide, esattamente ora. Per la precisione, quanto sopra non vale per qualsiasi spazio pubblico, ma solo per quegli spazi pubblici che rinunciano sia all’ambizione modernista di annullare e livellare le differenze, sia alla deriva postmoderna verso la fossilizzazione delle differenze attraverso la reciproca separazione ed estraniazione. Le considerazioni di cui sopra valgono per quei luoghi pubblici che riconoscano il valore della diversità dal punto di vista della creatività e dell’arricchimento di vita, incoraggiando al tempo stesso le differenze a impegnarsi in un dialogo dotato di significato. Per citare nuovamente Nan Ellin, «consentendo alla diversità (di persone, di attività e d’idee) di prosperare» lo spazio pubblico rende possibile l’integrazione (o la reintegrazione) «senza annullare le differen81

ze, ma anzi esaltandole. La paura e l’insicurezza vengono attenuate dalla conservazione della differenza, e dalla possibilità di spostarsi liberamente per la città». La tendenza ad allontanarsi dagli spazi pubblici per ritirarsi in isole di identicità [sameness] diventa, col passare del tempo, il principale ostacolo al convivere con le differenze, in quanto fa sì che le capacità di dialogo e di negoziato appassiscano e muoiano. È l’esposizione alla differenza a costituire, nel tempo, il principale fattore di una felice convivenza, in quanto fa sì che le radici urbane della paura appassiscano e muoiano. Poiché le cose procedono ormai per forza propria, si avverte il crescente pericolo che la sfera pubblica si riduca (come si è espresso icasticamente Jonathan Manning, della South African Ikemeleng Architects) allo «spazio inutilizzabile fra sacche di spazio privato». In questo spazio sterile, l’interazione umana è limitata al conflitto tra chi è in auto e chi va a piedi, tra chi ha e chi non ha (e chiede l’elemosina o vende oggetti ai semafori), agli incidenti d’auto, al pericolo d’investire chi attraversa imprudentemente la strada, ai furti con scasso, agli scippi. Le interfacce tra sfera pubblica e spazi privati [...] sono costituite solo dalle vetrine dei negozi o dai complessi meccanismi difensivi per tenere a distanza il prossimo – portinerie, muri, filo spinato, recinzioni elettriche14.

Manning conclude la sua analisi con un appello affinché «l’attenzione nella progettazione si sposti dagli spazi privati a una sfera pubblica più ampia che sia utilizzabile e al tempo stesso stimolante [...]. Quest’ultima deve servire diversi usi alternativi e fungere da catalizzatore, anziché da ostacolo, dell’interazione umana». Nan Ellin chiude il suo studio affermando la necessità di un’«urbanistica integrale», di un approccio cioè che valorizzi «la connessione, la comunicazione e la celebrazione». E aggiunge: «Abbiamo il compito di costruire città in modo tale da sviluppare le comunità e l’ambiente che in ultima analisi sostiene tutti noi. Non è un compito facile. Ma è essenziale». 82

Non ci possono essere dubbi sulla ragionevolezza e l’urgenza di simili appelli. Non resta che affrontare quello che è chiaramente un compito ‘non facile’, ma fondamentale. Esso è in effetti uno dei compiti meno facili tra quelli che si pongono nel pianeta in rapida globalizzazione, ma va affrontato in modo diretto e con la massima urgenza. In gioco non sono solamente gli agi di chi vive nelle città. Come scrisse molto tempo fa Lewis H. Morgan, l’architettura illustra in modo completo il progresso dallo stato selvaggio alla civiltà15. Un ‘progresso’ verso la ‘civiltà’, vorrei aggiungere, che come ormai comprendiamo non è una conquista fatta una volta per tutte, ma una lotta quotidiana e continua – una lotta che non è mai pienamente vittoriosa e che difficilmente avrà una fine, ma che si potrà sempre combattere con speranze di successo.

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Il consumatore nella società liquido-moderna

La società dei consumi basa le proprie fortune sulla promessa di soddisfare i desideri umani in un modo impossibile e inimmaginabile per qualsiasi altra società precedente. La promessa di gratificazione è però allettante soltanto finché il desiderio non è stato soddisfatto, o meglio finché sussiste il sospetto che il desiderio non sia stato realmente e pienamente soddisfatto. Stabilire obiettivi più modesti, assicurare facile accesso a prodotti in grado di centrare tali obiettivi, convincersi che i desideri ‘genuini’ e ‘realistici’ abbiano dei limiti oggettivi, suonerebbero a morto per la società dei consumi e per l’industria e i mercati dei beni di consumo. È la mancata soddisfazione dei desideri, la convinzione ferma e costante secondo cui ogni atto per soddisfarli lasci ancora molto da desiderare e da migliorare, a far volare l’economia che si rivolge ai consumatori. La società dei consumi riesce a rendere permanente la non-soddisfazione. Uno dei modi per ottenere tale effetto è denigrare e svalutare i prodotti di consumo poco dopo averli lanciati, con la massima enfasi possibile, nell’universo dei desideri dei consumatori. Ma un altro sistema, ancor più efficace, agisce lontano dalla ribalta, e consiste nel soddisfare ogni necessità/desiderio/bisogno in modo tale da non poter fare altro che dar vita a nuove necessità/desideri/bisogni. Ciò che inizia come necessità deve concludersi come coazione o dipendenza. E accade proprio questo, poiché l’impulso a cercare nei negozi, e solamente lì, la soluzione ai problemi e il sollievo alla sofferenza e all’ansia è un aspetto del comporta84

mento al quale non solamente si consente di consolidarsi in abitudine, ma che anzi si incoraggia fortemente in tal senso. Ma ciò avviene anche per un’altra ragione. Come ha mostrato nelle sue ultime opere Ivan Illich, la maggior parte dei disturbi attuali che richiedono cure mediche sono i mali «iatrogeni», vale a dire le situazioni patologiche provocate da precedenti terapie, che costituiscono, per così dire, gli ‘scarti’ dell’industria sanitaria. Ma è facile cogliere la medesima tendenza nel complesso dell’industria dei consumi. Hazel Curry ha recentemente proposto un esempio magnifico di una tendenza universale: i medici hanno riscontrato che la sindrome della ‘pelle irritabile’ è all’origine di una diffusione epidemica e fulminea di disturbi che sinora hanno colpito il 53 per cento degli occidentali, solamente una parte dei quali sono riconducibili al fenomeno della ‘pelle sensibile’, che è determinato geneticamente. Nella maggior parte dei casi, tuttavia, si tratta di pelle sensibilizzata, e cioè divenuta sensibile «in conseguenza di un regime dermatologico troppo duro». In una società dei consumi la diffusione dell’acne presso la popolazione adulta non può che significare, a sua volta, una diffusione della relativa domanda da parte dei consumatori e la nascita di un mercato di prodotti di consumo. «Negli ultimi anni i marchi che propongono prodotti contro le irritazioni della pelle [...] hanno avuto grande successo. Ne è conseguito che anche i marchi più grandi e affermati [...] hanno lanciato una gamma di prodotti dello stesso tipo»1. Susan Harmsforth, fra i maggiori esperti nel campo, che ha a sua volta lanciato un proprio brand, consiglia ora alle vittime di queste epidemie «di fare uso, per un mese, di uno o due prodotti facenti parte di una linea più leggera», e successivamente «applicare un prodotto o effettuare un trattamento al mese, dietro indicazione medica». Ci si può solo attendere che nuove gamme di prodotti, insieme a nuovi consigli (non molto diversi da questi), verranno offerte in capo a pochi anni, quando gli effetti delle terapie impiegate oggi per risolvere i problemi ereditati dalle terapie precedenti saranno ormai 85

divenuti visibili e gli specialisti avranno dichiarato l’arrivo di nuove epidemie. Se si vuole che la ricerca di appagamento continui e che le nuove promesse siano seducenti e allettanti, le promesse fatte devono essere disattese e le aspettative di soddisfazione deluse. L’esistenza di uno spazio d’ipocrisia situato tra le convinzioni diffuse e le realtà della vita dei consumatori diventa conditio sine qua non di una società dei consumi che funzioni correttamente. Se si vuole che la ricerca prosegua, ognuna delle promesse deve essere ingannevole, o quanto meno esagerata. Senza la reiterata frustrazione dei desideri la domanda dei consumatori potrebbe esaurirsi rapidamente e l’economia che si rivolge loro perderebbe forza propulsiva. È l’eccesso della somma di promesse a neutralizzare la frustrazione provocata dall’esagerazione di ciascuna di esse, e a impedire che l’accumularsi di esperienze deludenti logori la fiducia nell’efficacia finale della ricerca. Per tale ragione il consumismo è un’economia basata sull’inganno, sull’esagerazione e sullo spreco; inganno, esagerazione e spreco non sono segnali del malfunzionamento di tale economia, ma garanzie della sua salute, e l’unico regime nel quale la società dei consumi può assicurarsi la propria sopravvivenza. L’accumularsi di aspettative deluse è accompagnato dalle masse crescenti di offerte scartate, da cui i consumatori si attendevano (in base alle promesse) soddisfazione per i propri bisogni. Il tasso di mortalità delle aspettative è elevato e in una società dei consumi correttamente funzionante deve crescere costantemente. L’aspettativa di vita delle speranze è ridicola, e solo un tasso di fertilità curiosamente elevato può salvarle dall’assottigliarsi fino a estinguersi. Affinché le aspettative restino vive e nuove speranze riempiano prontamente il vuoto lasciato da quelle già disattese e scartate, la via che conduce dal punto vendita alla pattumiera dev’essere breve e il passaggio rapido. 86

La vita che consuma Tutti gli esseri umani sono, e sono sempre stati, dei consumatori, e l’interesse dell’uomo per il consumo non è una novità. Di sicuro precede l’avvento della modernità in versione ‘liquida’. I suoi precedenti possono essere facilmente rintracciati in epoche piuttosto distanti dalla nascita del consumismo contemporaneo. È perciò gravemente insufficiente, e in ultima analisi fuorviante, limitarsi ad analizzare la logica del consumo (che è sempre un’attività totalmente individuale e solitaria, anche quando si effettua in compagnia) per comprendere il fenomeno del consumatore attuale. Occorre invece concentrarsi su un’unica, effettiva novità, di carattere essenzialmente sociale, e solo subordinatamente psicologica o comportamentale: il fatto cioè che il consumo individuale avviene nel contesto di una società di consumatori. Una ‘società di consumatori’ non è costituita solo dall’insieme dei consumatori stessi ma è, come direbbe Émile Durkheim, una totalità «maggiore della somma delle sue parti». È una società che (per utilizzare un vecchio concetto che divenne popolare, a suo tempo, per l’influenza di Althusser) «interpella» coloro che ne fanno parte principalmente, o forse soltanto, in quanto consumatori; una società che giudica e valuta i propri membri soprattutto in base alle loro capacità e ai loro comportamenti relativamente al consumo. Dire ‘società di consumatori’ significa più, molto più che verbalizzare la banale osservazione secondo cui chi vive in tale società, trovando piacevole consumare, dedica gran parte del proprio tempo e dei propri sforzi al tentativo di accrescere i propri piaceri. Equivale anche ad affermare che la percezione e il trattamento di praticamente tutte le parti del contesto sociale e delle azioni che esse evocano e inquadrano tendono a essere dettate dalla ‘sindrome consumista’ delle predisposizioni cognitive e valutative. La life politics, che comprende sia la politica ‘con la p maiuscola’ sia la natura dei rap87

porti interpersonali, tende a rimodellarsi a somiglianza dei mezzi e degli oggetti di consumo e lungo le linee indicate dalla sindrome consumista. Tale sindrome, è bene ribadire, implica molto più che la seduzione delle gioie dell’ingerire e del digerire, delle piacevoli sensazioni del ‘divertirsi’ o dello ‘star bene’. Essa è una vera e propria sindrome, un complesso di atteggiamenti e strategie variegati ma strettamente interconnessi, disposizioni cognitive, giudizi e pregiudizi di valore, assunzioni sia esplicite che tacite sul mondo, e sul modo di stare al mondo, visioni di felicità e modi per perseguirle, preferenze di valore e (richiamando il termine di Alfred Schütz), di «rilevanze tematiche». L’elemento fondamentale che separa nel modo più netto possibile la sindrome consumista dalla sua precedente versione produttivista e ne tiene unito il vasto complesso di impulsi, intuizioni e propensioni elevandolo allo status di un programma coerente di vita sembra essere il rovesciamento dei valori connessi rispettivamente alla durata e alla transitorietà. La sindrome consumista consiste soprattutto nel negare in maniera smaccata l’aspetto virtuoso della dilazione, nonché il fatto che sia giusto e auspicabile rinviare il soddisfacimento – si tratta dunque della negazione di due pilastri assiologici della società dei produttori retta dalla sindrome produttivista. Nella gerarchia tramandata di valori riconosciuti la sindrome consumista ha declassato la durata in favore della transitorietà. Ha posto il valore della novità sopra quello della durevolezza. Ha enormemente abbreviato il lasso di tempo che separa non soltanto il volere qualcosa dall’ottenerlo (come hanno sostenuto molti osservatori, ispirati o fuorviati dalle agenzie di credito), ma anche la nascita del volere dalla sua cessazione, e ha ridotto il divario che separa l’utilità e desiderabilità di ciò che si possiede dalla sua inutilità e conseguente rifiuto. Ha sostituito tra gli oggetti del desiderio umano il possesso e godimento duraturo con l’appropriazione rapidamente seguita dallo smaltimento del rifiuto. 88

La sindrome consumista ha inserito nel novero delle preoccupazioni umane gli accorgimenti per evitare che le cose (animate e inanimate) si trattengano oltre il dovuto, in luogo della tecnica per afferrarle rapidamente, dell’attaccamento e dell’impegno a lungo termine (o addirittura per sempre). La «sindrome consumista» si basa sulla velocità, sull’eccesso e sullo scarto. I consumatori a pieno titolo non fanno storie al momento di collocare le cose tra gli scarti; ils (et elles, bien sûr) ne regrettent rien, e accettano con serenità, e talora perfino con malcelato piacere, che esse abbiano vita breve e che il loro benservito sia già preordinato. Gli adepti più abili e scaltri dell’arte consumista sanno gioire quando si liberano di qualcosa che ha superato la data di scadenza (leggi: di godimento). Per chi eccelle in tale arte il valore di qualsiasi oggetto non risiede soltanto nei suoi pregi, ma anche nei suoi limiti: i difetti già noti e quelli (inevitabilmente) ancora da rivelare promettono, tra non molto, rinnovamento e ringiovanimento, nuove avventure, sensazioni e gioie. In una società di consumatori la perfezione (ammesso che tale nozione regga ancora) può essere soltanto nella qualità collettiva dell’insieme, di una moltitudine di oggetti di desiderio; qualsiasi spinta nostalgica alla perfezione richiede ormai, più che il miglioramento, la profusione delle cose. Pertanto, sottolineo nuovamente, la società dei consumi non può che essere una società di eccesso e di sperpero – e per ciò stesso di ridondanza e scarto a piene mani. Quanto più fluidi sono gli scenari in cui si agisce, tanto maggiore sarà il numero degli attori che hanno bisogno di tanti oggetti di consumo potenziale per poter tenere il piede in più staffe e assicurarsi contro gli scherzi del destino (ribattezzati, in gergo sociologico, «conseguenze impreviste»). Tale eccesso, tuttavia, acuisce l’incertezza delle scelte, che si sperava grazie ad esso, se non di risolvere, almeno di attenuare o disinnescare, e dunque non è mai abbastanza eccessivo. La vita dei consumatori è una sequenza infinita di prove ed errori. La loro è 89

un’esistenza di sperimentazione continua: ma nessun experimentum crucis può introdurli in una regione di certezze della quale esistano mappe e segnalazioni affidabili. Tieni il piede in più staffe: ecco la regola aurea della razionalità del consumatore. In queste equazioni della vita ci sono quasi soltanto variabili, mentre le costanti sono pressoché assenti; e le variabili, per giunta, si modificano troppo spesso, e troppo rapidamente, per poter tener dietro a tali cambiamenti o per poterne indovinare le future giravolte. La vita da consumatore è come il gioco «scale e serpenti»: i percorsi dal basso in alto, e ancor più quelli dall’alto in basso, sono terribilmente brevi – si sale e si scende alla velocità con cui si lancia il dado, senza preavviso o quasi. La gloria fa presto a raggiungere il punto di ebollizione nel quale inizia immediatamente a evaporare: gli esploratori dalla vista acuta possono scorgere una bellezza senza fissa dimora a dormicchiare sotto un ponte, ma non c’è modo di dire quanto sia davvero bella finché non parlano; l’abbigliamento ‘d’obbligo’ diventa ‘da evitare’ in un tempo più breve di quello occorrente per rivedere il guardaroba o per mettere un parquet al posto del tappeto. Nelle riviste che ‘fanno tendenza’ lo spazio dedicato alle ‘novità’ dello stile di vita, a ciò che è in (ossia alle cose che è bene avere o fare, ed essere visti mentre le abbiamo o le facciamo) appare a fianco dello spazio su ciò che è out (ciò che non si deve avere né fare, e con cui nessuno ci dovrà vedere). L’informazione sugli ultimi arrivi si trova insieme a quella su ciò che va gettato nel cestino – e lo spazio di quest’ultima cresce costantemente da un numero all’altro della rivista. Come ha notato Andy Fisher la logica della futura ‘svolta consumista’ era stata impeccabilmente prevista, già negli anni della ricostruzione postbellica, da un osservatore del commercio al dettaglio, Victor Leblow: «Abbiamo bisogno che le cose si consumino, si brucino, si logorino, si sostituiscano e si scartino a ritmo crescente»2.

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Alcuni esempi della «logica consumista» Nel suo recente «manuale sugli spazi» Charlotte Abrahams, collaboratrice del «Guardian», offre consigli ai suoi affezionati lettori: «Che cosa fate lì con quel rotolo di carta da parati a fiori? Mettetelo subito giù»3. Boccioli di rosa e margherite sono ormai passé, superati, fuori moda, brutti e inguardabili: «la ruota inarrestabile della moda» ha fatto un altro giro. È proprio ora – si dirà chi legge – di staccare la carta da parati vecchia (dell’anno scorso). «Il look verso cui andiamo» è del tutto diverso: siamo alla grafica floreale. «Fidatevi», sintetizza l’esperta: «l’ho messa, ed è favolosa». Bisogna ammetterlo: è molto più pratico e vantaggioso stare al passo con il cambiamento frenetico di questi anni mettendo qualcosa sul nostro corpo che facendo qualcosa ad esso. Le cose che indossiamo (e che naturalmente toglieremo e butteremo via molto presto) riescono effettivamente a susseguirsi/scalzarsi/sostituirsi a ritmo vertiginoso, con velocità e frequenza ben superiori rispetto (per fare solo qualche esempio) alle protesi al seno, alla liposuzione, alla chirurgia estetica o alla vasta gamma di tonalità delle tinture per i capelli. Per utilizzare pienamente questo potenziale occorrono moltissime informazioni costantemente aggiornate, e antenne sempre molto sensibili, naturalmente oltre a un conto in banca e varie carte di credito. Enorme è la massa di conoscenze necessarie anche solo per essere uno fra i tanti: la vertiginosa varietà di nomi, marchi e loghi che occorre memorizzare, per poi essere pronti a dimenticarli non appena le nuove schiere di celebrità-idoli, di guru del design e negozi alla moda irrompono dal nulla sulla scena, marciando a passo di fanfara per svanire subito dopo. «Vi sarete accorti che quando vanno a una prima, o in altre occasioni del genere, le celebrità non indossano il cappotto», avverte Jess Cartner-Morley4. «Ciò non dipende dal fatto che nella zona di Leicester Square regni un qualche microclima segreto, tipo Corrente del Golfo, ma accade soltanto perché i cappotti non vanno più di moda». L’avvertimento è seguito da rassicuranti consigli: «L’autunno-inverno è stato dominato dal blu e dal color senape dell’assortimento di Marni. Ora è la volta di Raf Simon, 91

con i suoi colori pesca e menta». In un supplemento speciale Capodanno 2004, Tamsin Blanchard, Dee O’Connell e Polly Vernon mettono in guardia i propri lettori: «Il parrucchiere delle modelle, James Brown, spera che il 2004 porti con sé la fine delle pettinature omogenee e stirate, di quelli che lui chiama ‘capelli alla idolo pop’... Lo stile che introdurrà per i Vip di cui si prende cura sarà tipo quello di ‘Glenn Close in Attrazione fatale. Adoro lo scompiglio’. Evviva!»5. Nemmeno all’altro sesso è consentito di prender fiato. «Diciamo addio al ciuffo alla Beckham... Tagliamolo di netto, teniamo i capelli lisci e corti, o lasciamoli scendere come Justin Hawkins dei Darkness». «Prepariamoci al ritorno dell’eleganza anni Cinquanta con un twist – pensiamo al Jude Law del Talento di Mr Ripley e ai suoi calzoni bianchi immacolati... Salutiamo i combattimenti e lo stile militare del 2003. Meglio i caffettani, le tuniche ricamate, i pantaloni ampi e lo strano disegno Paisley». Ed ecco il colpo finale: «Per finire: buttate via il blu navy» ed «esplorate una gamma di colori più ampia». Appena scocca l’ora in cui dobbiamo essere da un’altra parte, dunque, ci occorre sapere che succede, dove siamo e cosa dobbiamo fare. Si tratta di una conoscenza che richiede di essere aggiornata ogni settimana; altrimenti gli altri, coloro che ci guardano, non riusciranno più a valutare «chi siamo», e noi stessi non avremo idea di quali ingredienti utilizzare per ricomporre la nostra immagine esterna di conseguenza. La risposta alla domanda sulla nostra identità non è più «sono ingegnere alla Fiat (o alla Pirelli)» o «faccio l’impiegato statale» o «il minatore» o «il gestore di un negozio Benetton», ma – in base al metodo usato di recente da uno spot pubblicitario per descrivere la persona che avrebbe indossato quella marca prestigiosa – sono uno che «ama i film dell’orrore, beve tequila, possiede un kilt, tifa per il Dundee United, ama la musica anni Ottanta e gli arredi anni Settanta, va pazzo per i Simpson, coltiva girasoli, preferisce il grigio scuro e parla con le piante». Nel numero successivo della rivista viene presentata un’altra persona che preferisce la stessa marca di abbigliamento: «suona le cornamuse, tiene un serpente in casa, ama i film di Hitchcock, possiede quindici paia di jeans, usa ancora la macchina per scrivere, legge libri di fan92

tascienza». Entrambi i «certificati d’identità» portano alla stessa conclusione: «I dettagli sono tutto». E, nemmeno a dirlo, tutti i dettagli nominati nello spot, e qualsiasi altra cosa nominabile, si possono trovare in commercio. I territori dell’identità che si fa e si disfa continuamente non sono gli unici che la sindrome del consumatore ha conquistato al di fuori del proprio mondo fatto di vie dello shopping e centri commerciali. Gradualmente, ma inesorabilmente, quella sindrome assume il controllo anche sui rapporti e legami interpersonali. Perché le relazioni dovrebbero fare eccezione rispetto alle regole che valgono nel resto della vita? Per funzionare bene e dare la gratificazione promessa e attesa, una relazione richiede attenzione costante ed estrema dedizione, e quanto più essa dura, tanto più cresce la difficoltà di mantenere alta l’attenzione e offrire la necessaria disponibilità quotidiana. Ai consumatori, avvezzi a beni di consumo che invecchiano in fretta e vengono velocemente rimpiazzati, tutto ciò finirà per apparire come una scomoda perdita di tempo, e se pure decidono di continuare si troveranno a corto delle abilità e delle abitudini necessarie a tal fine. I matrimoni, scrive Phil Hogan, hanno sempre conosciuto periodi no e fasi critiche più o meno gravi; ma la questione ormai è «per quanto resisteremo. La soglia dei sette anni, di cui si parlava una volta, è ormai lontana. Secondo gli ultimi dati, la durata ottimale prima di staccare la spina al matrimonio è ormai scesa a diciotto mesi-due anni»6. E aggiunge: «È difficile rimanere davvero scioccati da queste notizie. Non solo esse appaiono in linea con le moderne nozioni d’impegno e abnegazione (è difficile attendersi che una nazione esortata ad accettare le novità infinite del mercato del lavoro flessibile sia poi disposta a lavorare a lungo su una relazione), ma rendono anche l’idea di quale sia ormai la nostra nozione di pazienza». La drastica riduzione della durata della pazienza conduce ormai a preferire una conclusione rapida e radicale delle relazioni incriminate. Ma neanche ciò è esente da problemi: per la maggior parte di noi dire a un partner di andarsene perché non ci fornisce più i beni che vogliamo o perché essi non ci interessano più, può rivelarsi, in ultima analisi, molto più straziante che sbarazzarsi di una vecchia auto o di un computer obsoleto. Alla mag93

gior parte dei consumatori, ben istruiti nell’arte di passare indenni tra turbini di acconciature colorate, tuniche e pantaloni, le istruzioni che chi trova faticoso e tormentoso rompere una relazione riceverà da qualche consigliere spirituale appariranno come insperate cinture di salvataggio. Relate (un ente non profit che offre assistenza nelle relazioni sentimentali) propone un corso della durata di una giornata su «ciò che non ha funzionato nella relazione e come evitare di ripetere gli stessi errori [...]. Si pone l’accento soprattutto su come trasformare un’esperienza negativa in qualcosa che segni un nuovo, positivo inizio». Come essere sorpresi se una delle maggiori catene di supermercati vende dei «kit fai-da-te per la separazione» al prezzo scontato di 7 sterline e 49 pence?

Il diffondersi di modelli di consumo talmente ampi da abbracciare ogni aspetto e attività dell’esistenza può essere un effetto collaterale – non intenzionale, né previsto – dell’ubiqua e invadente «mercificazione» [marketization] dei processi della vita. Il mercato penetra in settori della vita rimasti, fino a poco tempo fa, al di fuori della sfera dello scambio monetario e non contemplati dalle statistiche del prodotto nazionale lordo, e una volta che raggiunge dei territori vergini rimuove da essi qualsiasi elemento e criterio di scelta «estraneo allo spirito del mercato dei beni di consumo». Come ha scritto Naomi Klein, il mercato alimenta il proprio «insaziabile bisogno di crescita [...] ridefinendo come ‘prodotti’ interi settori che in precedenza erano considerati parte integrante del ‘patrimonio comune’ e non in vendita»7. Le faticose attività di stabilire e interrompere relazioni interpersonali, di unire e separare persone, di connetterle e disconnetterle, di darsi appuntamento con qualcuno e cancellare qualcun altro dalla rubrica del cellulare, sono ormai mediate dal mercato. Esso impronta le relazioni umane, al lavoro e a casa, in pubblico e negli ambiti più intimi del priva94

to. Riformula e ricompone le destinazioni e i percorsi degli obiettivi personali in modo che ciascuno di essi passi per un centro commerciale. Descrive il processo della vita come una sequenza di problemi sostanzialmente «risolvibili», che tuttavia devono e possono essere risolti unicamente con mezzi disponibili soltanto sugli scaffali dei negozi. Mette in vendita scorciatoie tecnologiche per quel genere di obiettivi un tempo raggiungibili soprattutto sulla base della propria personalità e delle proprie abilità individuali, sulla base di una collaborazione amichevole e di una dialettica cameratesca. Fornisce gadget e servizi senza i quali, in assenza di abilità sociali, la vita-in-società, la vita-con-gli-altri, il «rapportarsi con» altri e trovare un modus co-vivendi durevole sarebbero per un numero sempre maggiore di persone dei compiti scoraggianti, difficili e forse impossibili da assolvere. Proietta l’ombra gigantesca del consumismo sull’intera Lebenswelt. Batte e ribatte inesorabilmente il messaggio secondo cui qualsiasi cosa è, o potrebbe essere, una merce [commodity] – e se ancora non lo è, bisogna fare come se già lo fosse –, insinua che le cose dovrebbero essere «come merci», e se faticano a rientrare negli schemi tipici degli oggetti di consumo andrebbero considerate con sospetto, o meglio ancora rifiutate ed evitate. I prodotti di consumo oggi ci promettono di non essere invadenti né noiosi. Ci assicurano che ci devono tutto e non vogliono nulla in cambio. Ci promettono di essere subito pronti per l’uso, di offrirci una soddisfazione immediata che non richiede né lungo apprendistato, né un risparmio prolungato: essi ci gratificano senza indugi. Ci giurano con la mano sul cuore che sapranno accettare il momento in cui perderanno i nostri favori e che quando il loro tempo sarà finito ci lasceranno tranquillamente senza proteste, astio o rancore. Ne consegue un altro attributo che un ‘oggetto di consumo’ deve avere: una postilla al suo certificato di nascita – stampata in caratteri piccoli ma leggibili, chiara e rassicurante – che dichiara ‘destinazione finale: pattumiera’. Lo scarto 95

è il prodotto finale di qualsiasi azione di consumo. La percezione dell’ordine delle cose nell’attuale società dei consumi è un diretto capovolgimento di quello che caratterizzava la società dei produttori, ormai superata. Ciò che in quest’ultima era solido e duraturo era la parte utile, estratta da materie prime correttamente rielaborate, mentre a venir destinati allo smaltimento immediato e all’oblio erano i residui superflui e i rifiuti. Ora è invece la parte utile ad avere vita breve, volatile ed effimera, lasciando campo libero, di volta in volta, alla nuova generazione di prodotti utili. Solo lo scarto tende a essere (ahimè) solido e durevole. ‘Solidità’ è ormai sinonimo di ‘scarto’. Il mercato dei consumi è il sogno di re Mida che si avvera, in una versione da ventunesimo secolo (decisamente mutante). Qualsiasi cosa questo mercato tocchi si trasforma in una merce di consumo, anche le cose che cercano di sottrarsi ad esso, e persino i modi e mezzi che esse impiegano nei loro tentativi di fuga. Il corpo che consuma In una trasmissione del suo famoso programma Letter from America Alistair Cooke notava di recente che, sebbene l’elenco dei best seller negli Stati Uniti cambi più o meno ogni settimana, due sono i generi di pubblicazioni che vi figurano costantemente: libri di cucina, che offrono ricette per preparare piatti sempre più sofisticati, deliziosi e allettanti, e manuali di nutrizione che offrono sistemi sempre più efficaci per ottenere un corpo privo di adipe, snello e grazioso. Il resto di questo paragrafo non è che un vasto commento sulla scissione della personalità evidenziata tanto clamorosamente da questa combinazione di esigenze del pubblico in netto contrasto reciproco. «Possiamo immaginare il corpo», ha scritto Bryan Turner8, riprendendo un’idea di Oliver Sacks9, «come una po96

tenzialità elaborata dalla cultura e sviluppata attraverso relazioni sociali». Si tratta di un’affermazione di validità universale, che aspira a essere (ed è effettivamente) applicabile a qualsiasi cultura e società. Nella nostra cultura e società liquido-moderna l’«elaborazione» e lo «sviluppo» del «corpo come potenzialità» hanno tuttavia compiuto una nuova svolta. Come osserva Chris Shilling, essa è il risultato della convergenza di due tendenze apparentemente contraddittorie: «Abbiamo ormai i mezzi per esercitare un grado di controllo senza precedenti sul corpo, eppure viviamo in un’epoca che ha messo radicalmente in dubbio la nostra conoscenza su cosa sia il nostro corpo e su come si debba controllarlo»10. Questa, a sua volta, è l’affermazione di una verità assolutamente ovvia e lapalissiana, cui viene conferita ulteriore credibilità da promemoria quotidiani e ubiqui, anzi invadenti e persino impertinenti. Il consenso, o quasi-consenso, su cui poggia la fiducia pubblica nella veridicità di quest’affermazione dovrebbe metterci in guardia, suggerirci attenzione e una verifica rigorosa. Di regola le credenze difficilmente suscitano un’approvazione che rasenti il consenso generale, a meno che quest’ultima non sia stata separata dal test di verifica e trasferita in un discorso che la renda indipendente dai risultati di tale test. Chiediamoci dunque: è vero che siamo in grado di controllare il nostro corpo in modo più completo di prima? Oppure si tratta solo del fatto che tale controllo sul nostro corpo, una volta impresso su di noi come impegno ineludibile, inevitabile e inalienabile, occupa nelle nostre preoccupazioni un posto più importante, e consuma una quantità più rilevante delle nostre energie, di quanto mai fosse accaduto prima? Ed è vero che siamo ormai più incerti che in passato su «che cosa sia il nostro corpo» e «come si debba controllarlo», così come siamo incerti sui criteri su cui debba essere valutata la condizione fisica del nostro corpo e sui passi necessari per avvicinarlo a «ciò che dovrebbe essere»? Spingiamoci ancora un po’ più in là: la nuova situazione 97

ha davvero accresciuto gli spazi di libertà individuale aprendo davanti a «noi», e a ciascuno di «noi», uno spettro più ampio di scelte e indebolendo il tessuto di legami in cui il corpo era impigliato dalle convenzioni sociali, oppure questo ampliamento è soltanto apparente e i vecchi legami sono stati semplicemente sostituiti da altri, nuovi di zecca ma non per questo meno oppressivi? Forse la sensazione che la libertà si sia ampliata è solo una vernice che nasconde in realtà un diverso insieme di esigenze? Non sarà che il fare continue scelte, mai stabilite e mai irrevocabili, il rivedere e rigettare costantemente le scelte già effettuate e la necessità di rimuoverne gli effetti facendone altre, siano divenuti obbligatori e inevitabili, e non più trascurabili, né tanto meno eludibili? In breve, come si bilanciano la libertà e i vincoli nel diritto/dovere al controllo individuale di un corpo individuale? Tutto, o quasi tutto, ciò che la società dei produttori classificava come un pregio nel corpo di un produttore apparirebbe alla società dei consumatori come qualcosa di assolutamente controproducente, e dunque deplorevole, nel corpo di un consumatore, nel corpo che consuma. Quest’ultimo ha caratteristiche nettamente diverse dal precedente, in quanto ha un valore finale, o di destinazione, anziché meramente strumentale. Il corpo del consumatore/che consuma è ‘autotelico’, è il fine di se stesso e costituisce un valore in quanto tale: nella società dei consumatori esso è anzi il primo dei valori. Il suo benessere è il principale obiettivo di ogni e qualsiasi progetto personale e il metro e criterio ultimo dell’utilità, raccomandabilità e desiderabilità del resto del mondo umano e di ciascuno degli elementi che lo compongono. Nel momento in cui l’arricchimento delle sensazioni corporee (delle beatitudini, dei piaceri e delle gioie fisiche) diventa punto focale e fine ultimo della life politics, il corpo si viene a trovare in una posizione unica, non assimilabile ad alcun’altra entità della Lebenswelt. Esso infatti combina diver98

si aspetti che quasi da nessun’altra parte appaiono insieme: in altri casi tendono di solito a restare separati, e perciò raramente affrontano la verifica di compatibilità e il compito complesso di riconciliarsi tra loro. Il corpo del consumatore tende perciò a essere una fonte prolifica e perenne di ansia, aggravata dall’assenza di vie d’uscita ben definite e affidabili, in grado di alleviarla e tanto meno di neutralizzarla o diradarla. Non sorprende che per gli esperti di marketing l’ansia che circonda la cura del corpo sia fonte inesauribile di profitti. La promessa di ridurre o eliminare tale ansia è l’offerta più seducente, largamente ricercata e assolutamente gradita tra quelle presenti sul mercato dei consumi, in risposta alla fonte più duratura e affidabile della domanda diffusa di prodotti di consumo. Affinché la società dei consumi non si trovi mai a corto di consumatori, tale ansia – in contrasto stridente con le promesse esplicite e sbandierate del mercato – dev’essere però sostenuta costantemente, ravvivata regolarmente, montata o comunque stimolata. I mercati dei consumi si alimentano dell’ansia che essi stessi evocano, e fanno il possibile per accrescere, nei consumatori potenziali. Come già segnalato, il consumismo – in contrasto con la promessa dichiarata (e ampiamente accreditata) degli spot – non riguarda il soddisfacimento dei desideri, ma l’evocazione di un numero sempre maggiore di desideri: di preferenza proprio quei generi di desideri che, in linea di principio, non possono essere esauditi. Per il consumatore un desiderio esaudito non sarebbe più piacevole o eccitante di un fiore appassito o di una bottiglia di plastica vuota, e per il mercato dei consumi esso sarebbe anche il presagio di un’imminente catastrofe. Il tipo di ‘consumatore ideale’ di cui il mercato dei consumi ha bisogno può essere meglio compreso se visto come una fabbrica che lavora a pieno ritmo, ventiquattr’ore al giorno e sette giorni su sette, per assicurare una sequenza ininterrotta di desideri dalla vita breve, esclusivi e soprattutto smaltibili. Il mercato rende disponibile un volume sempre 99

crescente di know how, con tutti i congegni che occorrono per farlo funzionare, al fine di assicurare al ‘ciclo del desiderio’ avvicendamenti sempre più rapidi. Come ha consigliato Chris St. George, autorevole consulente di fitness di uno dei più noti centri di benessere di Londra, a chi lamentava l’incompatibilità tra l’amore per la buona tavola e il controllo del peso: basta andare più spesso in palestra e accelerare il proprio metabolismo. Per immaginare un consumatore totalmente assorbito e affascinato dal proprio corpo potrà servire un paragone con un musicista che suoni uno strumento per il proprio piacere privato ed esclusivo, e che sia dunque l’unico ascoltatore dei suoni dolci e suadenti, o emozionanti e inebrianti, che fluiscono dallo strumento. È una situazione facile da immaginare, poiché corrisponde a un’esperienza che molti hanno vissuto, attivamente o da semplici spettatori. Il guaio, però, è che la sfida per i consumatori preparati a dovere non si ferma qui. Gli strumenti che costoro vengono esortati a suonare per trarne le gradevoli melodie loro promesse sono... essi stessi. Per produrre e consumare le sensazioni piacevoli che il loro corpo dovrebbe metterli in condizione di godere essi sono preparati a comparire simultaneamente in tre diversi ruoli: di musicista, di ascoltatore e anche di strumento musicale. Ai consumatori viene chiesto di sincronizzare, fondere e mescolare questi tre ruoli, ma gli oggetti dei loro sforzi rifiutano ostinatamente di farsi collocare e mantenere, anche solo per breve tempo, in un equilibrio reciproco che sia davvero pienamente soddisfacente e fluido. La più sconcertante e ossessiva delle molte sfide è il regime tutt’altro-che-piacevole cui il nostro corpo – lo strumento cui tocca produrre le sensazioni gradevoli – si deve sottoporre per rendere continua tale produzione. Non resta che pregare e sperare che il corpo, dopo essere stato sottoposto, in quanto strumento di produzione del piacere, a una mas100

siccia dose di tale regime, possa essere ancora utilizzato – stavolta in quanto esperto di sensazioni – come bonario, abile, efficiente e riconoscente contenitore dei piaceri prodotti. Nel linguaggio comune tale capacità del corpo di produrre i piaceri che potrebbe essere in grado di godere è sussunta sotto la voce fitness ma, purtroppo, portare il corpo a tale condizione di ‘adeguatezza’ fa a pugni con la finalità che essa doveva aiutare a perseguire... Nella società dei consumatori la fitness sta al consumatore come la ‘salute’ stava al produttore nella società dei produttori. Essa certifica il fatto di «essere in», l’appartenenza, l’inclusione, il diritto di residenza. La fitness, come la «salute», fa riferimento alla condizione del corpo, di cui tuttavia le due nozioni evocano aspetti estremamente diversi. L’ideale della fitness cerca di cogliere le funzioni del corpo innanzitutto, e soprattutto, come ricevitore/trasmettitore di sensazioni. Si riferisce alla sua capacità di assorbimento; al modo in cui il corpo si sintonizza con le delizie che sono, o che potrebbero essere, offerte: a piaceri noti, o anche ignoti, non ancora inventati, nemmeno immaginati, e inimmaginabili allo stato attuale, ma destinati prima o poi a essere escogitati. Come tale, la fitness non ha un limite massimo: essa è anzi definita proprio dall’assenza di limite, o più precisamente dall’inammissibilità del limite. Per quanto fit sia il tuo corpo, potresti renderlo ancor più ‘fit’. Per quanto fit possa essere al momento, a tale condizione si mescola sempre, fastidiosamente, una parziale assenza di fitness, che affiora o si intuisce ogni volta che confronti ciò che hai già sperimentato ai piaceri suggeriti dal sentire e dal vedere le gioie altrui che finora non hai potuto provare e che puoi solo immaginare e sognare di vivere in te stesso. Nella ricerca della fitness, diversamente da quella della salute, non esiste un punto in cui si possa dire: ora che sono arrivato fin qui posso fermarmi, per tenermi stretto e godermi ciò che ho. Non esiste una ‘norma’ 101

di fitness cui tendere fino al momento in cui la si raggiunge. La lotta per la fitness è una pulsione che si trasforma presto in un vizio. In quanto tale, essa non ha mai fine. Ogni dose dev’essere seguita da un’altra maggiore. Ogni obiettivo non è che un passo all’interno di una lunga sequenza di passi, già fatti o da fare. A rendere la situazione ancor più ingarbugliata, il problema non consiste solo nell’eccessiva voglia di fitness e/o nell’ignoranza di quale debba essere il ‘livello adatto di fitness’. Se così fosse, con i dovuti sforzi sarebbe possibile domare e regolare qualsiasi voglia, acquisire qualsiasi elemento di conoscenza mancante. Se però l’idea di «fitness» si riferisce alle sensazioni del corpo (Erlebnisse, non Erfahrungen!), a conquiste provate e vissute soggettivamente, non è possibile rendersi conto se il corpo ha realmente raggiunto un livello di fitness soddisfacente, in quanto non esiste (né può esistere) uno standard ‘oggettivo’, stabilito dall’esterno e comunicabile sul piano interpersonale, per misurare quel livello. Lottare per la fitness significa scendere in guerra senza alcuna possibilità di combattere una battaglia decisiva e di ottenere una vittoria definitiva, seguita dall’armistizio, dalla smobilitazione e dai ‘dividendi della pace’. Quando l’obiettivo non è stato fissato, evidentemente non c’è modo di sapere quanto se ne è ancora lontani e quanto tempo si dovrà ancora lottare per raggiungerlo. Tale incertezza è ineliminabile. Essa non scomparirà, a meno di voler gettare la spugna abbandonando ogni speranza di vittoria. Forse frequentare i ‘fitness-dipendenti anonimi’ è l’unica via di scampo... Lottare per la fitness significa non aver mai pace – o, comunque, non poter mai avere la sensazione di poter riposare con la coscienza tranquilla e senza apprensioni, dato che l’ideale della fitness offre soltanto vaghe e incerte istruzioni pratiche sulle cose da fare e da evitare, e non si può mai avere la certezza che le istruzioni non cambino o non vengano revocate prima di averle potute eseguire completamente. Chi è dedito alla causa della fitness fisica è sempre in movimento. De102

ve cambiare sempre, e tenersi pronto a cambiare ancora. Lo slogan dei nostri tempi è la ‘flessibilità’: qualsiasi forma deve essere duttile, qualsiasi situazione temporanea, qualsiasi configurazione suscettibile di riconfigurazione. Ri-formarsi è un’ossessione e una dipendenza, un dovere e una necessità. Per la società dei consumatori – e per il mercato dei consumi, suo fondamento e volano – si tratta di una circostanza fortunata, anzi, la sua garanzia di sopravvivenza. Il jihad a vita, impossibile da vincere, per la fitness del corpo rifiuta il mondo esterno al corpo stesso, in quanto sede di pericoli tremendi e terrificanti, indicibili e sostanzialmente inconoscibili. Anche se non arreca alcun danno diretto, qualsiasi cosa venga ingerita o inalata, o attraversi la pelle non richiesta, o riesca comunque a penetrare all’interno del sé in carne ed ossa potrebbe interferire con il regime assegnato al proprio corpo nell’intento di assicurare ad esso una fitness duratura, o potrebbe riportarlo indietro di settimane, mesi o anni, azzerando lunghi e coscienziosi sforzi di autoallenamento e autosacrificio. Il mondo là fuori, se non costituisse l’indispensabile terreno di pascolo per chi è in cerca di sensazioni (un terreno che il suo corpo è destinato comunque a percorrere ed esplorare, in quanto non ne esiste un altro al suo posto), sarebbe un puro e semplice territorio ostile. Le aperture di cui è costellata l’interfaccia tra il corpo e il resto del mondo forse possono essere sorvegliate con attenzione, fortificate e protette, ma non possono essere sprangate, né sigillate ermeticamente. Il traffico transfrontaliero non solo è inevitabile, ma ha bisogno anzi di essere attivamente incrementato: spegnersi per aver finito la benzina, o ancor più bloccarsi, non è meno pericoloso che crescere eccessivamente e sfuggire al controllo. Quale che sia l’opzione prescelta, i rischi sono altrettanto grandi; eppure il corpo del consumatore/che consuma non può che seguire il precetto di Chris St. George e impegnarsi in un’intensa interazione me103

tabolica con il mondo sull’altro lato della frontiera: uno sforzo gravido di dolci speranze, ma anche di rischi tremendi. La superficie del corpo e le sue aperture, tutti i punti vulnerabili nel confine/interfaccia che separa/collega il corpo da/con il mondo esterno, sono dunque destinati a diventare luoghi di ambivalenza acuta e irriducibile. Quest’ultima, immune a qualsiasi terapia, rimane fonte prolifica delle varianti più strazianti e seccanti del trauma psicologico che ossessiona coloro che vivono nella società dei consumi, nonché delle note tendenze paranoiche e schizofreniche di tale società. Si pensi, ad esempio, all’anoressia e alla bulimia, i due disturbi gemelli dell’alimentazione che costituiscono un marchio di fabbrica della società dei consumi. Si pensi al tabagismo – esporsi ai fumi del tabacco che brucia –, indicato dai francesi come uno dei tre crimini da cui si sentono maggiormente minacciati (gli altri due sono la velocità eccessiva alla guida e i reati sessuali). Si pensi alle carezze erotiche, sempre più spesso viste come qualcosa di sospeso in modo incerto sulla soglia del più odioso dei crimini contro l’integrità personale, e proclivi ad avvelenare le relazioni erotiche con il sospetto della violenza carnale. Mi sono chiesto se l’osservazione fatta pochi anni fa da Alistair Cooke a proposito della lista dei best seller sia ancora vera, e ho riscontrato che si conferma tale ogni anno di più. Nel luglio 2004 una ricerca effettuata su internet con Google aveva individuato 109.000 siti web contenenti informazioni o proposte relative a libri di cucina; per i libri di alimentazione il numero di siti saliva a 308.000, e sull’arte di dimagrire a 719.000. Infine, ben 32 milioni di siti avevano attinenza con il tema del grasso (e 3.690.000 siti si occupavano di obesità)... In uno dei siti (ben 1.830.000) che parlavano dell’eccesso di peso ho trovato la seguente statistica riferita agli Stati Uniti: – adulti di età uguale o superiore a 20 anni sovrappeso od obesi: 64 per cento; – adulti di età uguale o superiore a 20 anni obesi: 30 per cento; 104

– adolescenti di età tra 12 e 19 anni sovrappeso: 15 per cento; – bambini di età tra 6 e 11 anni sovrappeso: 15 per cento. Più di qualsiasi altro fenomeno il grasso racchiude, condensa e fonde in sé i timori che emanano dalla «terra di frontiera», scarsamente descritta dalle carte geografiche, che si estende tra il corpo del consumatore e un mondo esterno affollato di minacce paralizzanti e, al tempo stesso, stracolmo di tentazioni irresistibili. Dato questo status unico, un’indagine fenomenologica, sia pure rapida e superficiale, del ‘fenomeno grasso’ può fornire un’utile comprensione dell’ambivalenza insita nella condizione del consumatore. Il grasso corporeo rappresenta in effetti l’incubo che si avvera. Quando il peso o la misura del girovita aumentano, ciò segnala il fatto terribile che tutto il lavoro di laboriosa fortificazione del confine/interfaccia tra il mondo e il nostro corpo è stato inutile; che forze ostili hanno aperto una breccia nelle linee difensive e invaso il nostro territorio protetto. Ancora peggio, le forze d’invasione si sono insediate nel territorio conquistato, vi hanno stabilito proprie basi e ne hanno assunto l’amministrazione. Il ‘grasso corporeo’ rappresenta l’occupazione straniera, o la ‘quinta colonna’ nella sua più recente reincarnazione: le cellule terroristiche. Il grasso corporeo equivale agli agenti nemici penetrati nel nostro territorio che si preparano a lanciare un attacco dall’interno, quando, e dove, meno ce lo aspettiamo: gli sleepers che, camuffati da vicini della porta accanto, innocui, gioviali, amichevoli, attendono solo il momento propizio, racimolando dai rifiuti delle nostre feste gli ingredienti per fabbricare ‘bombe sporche’ in attesa che giunga l’ora di gettare la maschera, tirare la bomba fuori della cantina o del solaio, e colpire. Sappiamo che colpiranno e duramente, ma non sappiamo né quando né dove, e nemmeno le autorità più informate riescono a dirci qualcosa al riguardo: esse non sanno nulla di certo, e tutto ciò che è a conoscenza dell’una differisce da ciò che l’altra dice di sapere... 105

Il parallelismo tra il grasso e i terroristi o gli agenti in incognito – tanto più ingannevoli in quanto indistinguibili dalla comune gente perbene – è ancor più calzante se si pensa ai segnali estremamente confusi e perlopiù contraddittori sugli effetti ‘benefici’ o ‘dannosi’ dei vari alimenti disponibili. Difficile riconoscere i grassi ‘saturi’ da quelli ‘insaturi’, i grassi ‘naturali’ da quelli ‘idrogenati’, i grassi di cui il corpo ha bisogno per il suo normale funzionamento da quelli che glielo impediscono. Tutto ciò che riguardi il grasso, ogni e qualsiasi grasso – il grasso che si trova ancora fuori del corpo (nel cibo esposto sugli scaffali dei supermercati o servito nei bar e nei ristoranti) e il grasso che è già all’interno dei tessuti corporei – è ambiguo e sgradevole. Gli esperti ammoniscono contro i pericoli dell’eccesso di cibo, ma anche contro i rischi della dieta troppo stretta: dove tracciare la linea di confine tra norma ed eccesso, e a chi credere che possa tracciarla correttamente? All’epoca dell’allarme terroristico negli Stati Uniti il segretario americano alla salute, Tommy Thompson, dichiarava di fronte a un comitato del Senato che «nel nostro paese l’obesità è un problema cruciale di salute pubblica, a causa del quale milioni di americani soffrono di problemi di salute non necessari e muoiono prematuramente». La stessa formulazione della dichiarazione seguiva lo schema utilizzato correntemente dai colleghi di Thompson a capo degli altri uffici governativi in prima linea nella guerra contro il terrorismo. Il grasso è al centro dell’incertezza che assilla la maggioranza degli americani (il «New York Times» ha definito la battaglia contro l’obesità «una guerra culturale del nuovo secolo»): e non mancano certo le forze ben contente di trarre vantaggio dal desiderio degli americani di alleviare le paure derivanti dal senso d’insicurezza prodotto da tale incertezza. Da una parte ci sono gli avvocati con il fiuto per i complotti, freschi dei successi riportati contro i giganti del tabacco, che non vedono l’ora di gettarsi di nuovo nella mischia. Dall’altra stanno i grandi produttori di cibi pronti e i proprietari delle catene di fast food, che, come già le aziende del tabacco, si 106

nascondono dietro i sacrosanti diritti costituzionali del cittadino e la libertà di scelta del consumatore. Gli avvocati hanno già intentato cause contro McDonald’s, Wendy’s, Kentucky Fried Chicken, Burger King e altre catene di fast food. Essi rappresentano ‘vittime’ come un tale Gregory Rhymes, un quindicenne alto 165 centimetri, del peso di oltre 180 chili. Rhymes dichiara che andava da McDonald’s varie volte al giorno, consumando di solito Big Mac maxi, patate fritte e frappè al cioccolato. Il suo avvocato, Samuel Hirsch, ha detto che Rhymes e altri clienti venivano intenzionalmente ingannati dalle aziende alimentari, che approfittavano astutamente della loro ignoranza su «ciò che è bene per loro». Le aziende hanno obiettato, per bocca e mano di personaggi pubblici altrettanto agguerriti e influenti, presentando la ‘libertà di mangiare’ come banco di prova della libertà individuale tout court. Thomas J. DiLorenzo, nel suo best seller su «come il capitalismo ha salvato l’America», citando un classico della letteratura liberista come Human Action di Ludwig von Mises, ha scritto: una volta stabilito il principio secondo cui è dovere del governo proteggere l’individuo dalla sua stupidità, viene meno ogni obiezione seria a ulteriori violazioni. Si può fondatamente sostenere il divieto di alcool e nicotina. E allora perché limitare la benefica previdenza del governo alla tutela del corpo dell’individuo? Il danno che un uomo può arrecare alla propria mente e alla propria anima non è forse ancora più disastroso di qualsiasi male fisico? Perché non impedirgli anche di leggere cattivi libri e assistere a cattivi spettacoli, o evitare che guardi brutti quadri e statue e ascolti cattiva musica? Il danno arrecato da cattive ideologie è certo maggiore, sia per l’individuo che per la società nel suo insieme, di quello procurato dagli stupefacenti11.

Il grasso è diventato uno dei principali slogan, e il casus belli, della «guerra culturale per il nuovo secolo»: guerra che è semplicemente l’ennesima versione aggiornata della perenne contesa tra libertà e sicurezza, le due indispensabili e am107

bite caratteristiche (notoriamente difficili da conciliare) di qualsiasi vita umana sopportabile o desiderabile. L’ascesa della ‘questione grasso’ segue a stretto giro, e in modo scontato, la promozione del corpo del consumatore a obiettivo centrale di marketing, e della cura del corpo a principale argomento di vendita dei prodotti di consumo. La «guerra culturale del nuovo secolo» trae animus e slancio dalla fondamentale ambivalenza che caratterizza la condizione umana nell’emergente società di consumatori. La risoluzione di tale ambivalenza non s’intravede. I consulenti più sobri e navigati suggeriscono a chi è in cerca di orientamento di adattarsi all’inevitabile: l’ambiguità c’è e resterà, sostengono; le gioie e i dolori, nell’ingerire ciò che il mondo ci offre e ci invita a metabolizzare, sono inseparabili. Gioie e dolori arrivano insieme, sono in offerta in confezione unica, ed è sempre più vano sperare in una gioia pura cui non sia mescolato anche l’orrore. A chi è in cerca di una guida resta solamente una via, che invece di risolvere il problema lo aggira: accelerare il ritmo del proprio metabolismo fino a ottenere – almeno questa è la speranza – la quadratura del cerchio, che renda possibile avere la botte piena e la moglie ubriaca. È quello che consiglia, ad esempio, il sito http:// www.fatlosstips.com: Per perdere il grasso bisogna mangiare! NON affamatevi. Il nostro corpo è fatto per sopravvivere, e questo meccanismo di sopravvivenza implica fra l’altro che il grasso venga immagazzinato e trattenuto per utilizzarlo nei periodi in cui il cibo manca. Se ci si abitua a non mangiare o ad assumere solo una piccola quantità giornaliera di calorie, il corpo finirà per pensare che sia un’epoca di carestia e inizierà a rallentare il metabolismo. Esso sta solamente cercando di conservare energia (calorie) dato che riceve scarso nutrimento. È il metabolismo a determinare il ritmo con cui il corpo brucia calorie: perciò, se avete un metabolismo rapido, brucerete molte calorie senza troppo sforzo. Se il vostro metabolismo, invece, è lento, sarà molto difficile bruciare calorie – specialmente le calorie del 108

grasso. In reazione a una dieta ipocalorica il corpo rallenterà sempre il metabolismo. Per evitare tutto ciò, occorre semplicemente mangiare. Sfortunatamente consumare tre pasti al giorno non risolverà il problema, in quanto non fornirà al corpo il flusso costante di sostanze nutritive e di energia di cui ha bisogno per aumentare il proprio metabolismo e bruciare grassi. Idealmente, bisognerebbe cercare di consumare 5-6 pasti, distribuiti uniformemente lungo tutta la giornata.

In poche parole, per scongiurare gli effetti collaterali e le conseguenze sgradevoli e impreviste del fatto che si mangia occorre mangiare di più. Come dice un proverbio inglese, «se non puoi sconfiggerli, alleati con loro». Se non si riesce a eliminare questa sgradevole ambiguità conviene accettarla, trasformando il destino in strategia di vita. Un simile consiglio, se accettato da tutti, farebbe girare più rapidamente gli ingranaggi della produzione, del ricambio e dello smaltimento dei prodotti, suscitando l’entusiasmo sia dei produttori che dei loro nemici giurati. In quale situazione si trova, dunque, il corpo? Oggi esso non è meno ‘socialmente regolato’ di quanto fosse un tempo: sono soltanto cambiate le agenzie che presiedono alla sua regolazione, il che ha conseguenze profonde per la condizione degli individui in carne e ossa, incaricati di gestire il corpo che essi possiedono e il corpo che essi sono. L’antica prerogativa di esenzione ed esclusione, esercitata dagli Stati-nazione sovrani per tutta la fase ‘solida’ della modernità, non è del tutto scomparsa. Ma ormai essa tende a essere dispiegata soprattutto per tenere a distanza di sicurezza e lontano dai guai quelle categorie marginali che non possono essere (o non si desidera siano) raggiunte dalle ‘forze del mercato’ che le hanno ormai definitivamente iscritte a bilancio come casi di insolvenza senza rimedio. La cosa più importante, tuttavia, è che la funzione di selezionare, tenere in 109

disparte ed espellere l’homo sacer (escluso dalla legge umana e da quella divina) non è più monopolio dell’autorità statale. Nella maggior parte dei casi, ormai lo Stato si limita a confermare con la propria autorità un allontanamento che è già diventato un ‘fatto della vita’ in conseguenza di processi tutt’altro che politici, e a rendere quell’esclusione efficace e duratura. Invece di gonfiare i muscoli nello sforzo di tener dentro i detenuti, il potere post-panoptico dello Stato sviluppa le proprie capacità di tener fuori gli indesiderabili (intrusi, o detenuti trasformati in intrusi). Il capitale politico che può essere estratto dalla guerra contro gli ‘estranei’ o gli ‘estraniati’ è ingente. Il ministro degli interni francese Nicolas Sarkozy è balzato di recente in testa nei sondaggi sulla popolarità dei politici per aver seguito l’esempio dei popolarissimi circoli Weightwatchers che fissano obiettivi settimanali di dimagrimento ai propri partecipanti: egli ha assegnato a ogni municipalità degli «obiettivi di espulsione» e inviato ai prefetti dei «manuali di espulsione»12. Gli elettori – ha detto – devono «poter vedere e misurare» il fatto che il governo è deciso ad attuare la politica che aveva promesso: una politica che – osserviamo – consiste nel bruciare in effigie il fantasma ossessivo dell’esclusione, uno spettacolo che mira a trasformare in consenso politico l’ansia che trasuda da ogni angolo del contesto liquido-moderno. La nuova categoria di homines sacri specifica della società liquido-moderna dei consumatori cresce rapidamente ed è composta, nemmeno a dirlo, da consumatori ‘difettosi’ o falliti. A differenza degli oziosi nella società dei produttori, i falliti, secondo gli standard correnti della bios (la vita intesa in un’accezione diversa da quella, puramente animale, di zoe) non sono ‘casi clinici’, candidati alla cura e alla riabilitazione, temporaneamente infortunati ma destinati prima o poi alla riassimilazione e alla riammissione nella comunità. Essi sono inutili nel significato più reale e completo del termine – residui ridondanti e in soprannumero di una società che si sta ricostituendo come società dei consumi; all’economia orienta110

ta ai consumi essi non hanno nulla da offrire, né ora né in un futuro prevedibile; non aggiungeranno alcunché a tutte le meraviglie dei consumi, non «tireranno il paese fuori della depressione» puntando a carte di credito che non hanno o prosciugando conti in banca che non possiedono – e dunque per la ‘comunità’ sarebbe molto meglio che scomparissero... Coloro contro i quali è rivolto l’ordine di deportazione di Sarkozy sono esclusi dalla società per decreto, sebbene nel loro caso la preselezione sia stata attuata da forze non politiche, poste fuori del controllo dello Stato: infatti sia la concessione di permessi di residenza che l’ordine di deportazione sono estremamente selettivi, e quegli ‘estranei’ che possono oliare le ruote dell’economia sono generalmente esentati dall’esenzione. Gli esclusi del nuovo tipo liquido-moderno non sono stati accusati in tribunale, né contro di loro sono state emanate sentenze. Non è nemmeno esatto dire che siano stati gettati in mare: sono loro a essere caduti fuori bordo, a non essere stati al passo. Essi formano la ‘classe inferiore’ di una società che si vanta di aver cancellato le divisioni di classe e che ne conserva il ricordo soltanto nella separazione tra coloro che, avendo perso al gioco dei consumi, sono usciti dal casinò (o ne sono stati buttati fuori) e i vincitori, giocatori d’azzardo incalliti e dotati di un’adeguata provvista di contante che li rende degni di credito. Poiché i governi attuali hanno smesso di progettare l’ordine sociale perfetto, essi non hanno più interesse né motivo di decidere chi si salverà e chi sarà dannato, e di predisporre elenchi degli esclusi. Ad essi è rimasto solo il compito di sbarazzarsi dei tanti che sono già stati esclusi con altri mezzi (automaticamente più che intenzionalmente) dal gioco dei consumi. Essi devono affrontare la terribile sfida dello ‘smaltimento degli scarti umani’ su un pianeta gremito che non offre più luoghi remoti da adibire a discarica dei rifiuti. Nella società dei consumi l’‘industria di smaltimento’ degli esseri umani 111

scartati è uno dei pochi settori della produzione che non risentono degli alti e bassi del ciclo economico. Ciò che accomuna chi viene eliminato nell’era liquido-moderna agli homines sacri di un tempo è la ‘nudità sociale’ del corpo, l’indelebile marchio dell’esclusione da quella parte di umanità soggetta alle norme e al diritto alla bios. Ma diversi, rispetto a un tempo, sono i modi in cui si precipita in tale condizione e le ragioni per cui tale destino appare inesorabile e irreparabile. Se gli homines sacri erano (e sono) ‘vittime collaterali’ del fervore vòlto a ‘istituire l’ordine’ da parte degli Stati, i nuovi ‘scarti umani’ di oggi vengono esclusi dal gioco dei consumi, e la possibilità loro negata è quella di vivere in base alle regole di quel gioco. I primi venivano privati a forza del proprio ‘abito sociale’ e costretti a rimanere nudi dalla revoca della Legge. I secondi rimangono ‘socialmente nudi’ perché sono stati privati, dalla revoca della Norma, della possibilità di tessere il proprio ‘abito sociale’ in quello che ormai si presume sia un compito individuale, dopo essersi visti negare l’accesso al filo di cui dovrebbero essere intessuti gli abbigliamenti socialmente approvati nella società dei consumi. L’infanzia che consuma «I bambini sono meravigliosi», ammette Barbara Ellen, che si affretta ad aggiungere: «ma occuparsi di loro è a volte incredibilmente noioso, ed è ridicolo, e persino pericoloso, fingere che non lo sia»13. Era tanto che Ellen la pensava così, e quando ha scoperto che questa sensazione non dipendeva da una sua qualche colpa o inadeguatezza si è sentita molto sollevata: anche altri, infatti, avevano cercato di tenere nascosta questa loro sensazione per timore di schierarsi contro l’umore prevalente, o almeno contro la sua versione ufficiale e socialmente obbligatoria, ‘politicamente corretta’. 112

Mi fa ridere questa nuova mania di sottolineare il «fardello» della maternità. Un nuovo libro, The Mommy Myth, sta facendo scalpore negli Stati Uniti, e ovunque le donne lamentano che essere mamme non sia affatto quella meraviglia che si dice, e a volte si chiedono (sottovoce) se ne valga la pena.

Seguendo la diffusa abitudine di voler trovare un cattivo per ogni cosa accada, nonché un colpevole per ogni scomodità della vita, l’autrice afferma: «Non si può fare a meno di chiedersi chi ci sia dietro questa nuova esplosione globale di risentimento contro il mito della mamma». La sua scelta cade su una risposta facile: la responsabilità sarebbe delle ‘donne in carriera’ che pur di non starsene a casa rinviano la maternità abbastanza a lungo da iniziare a preoccuparsi più del frigo dell’ufficio che di sorbirsi i rimbrotti sulla coperta troppo corta, quando decidessero di diventare madri. Figli contro carriera; il confino in casa contro il mondo dell’avventura perenne; le noie che procurano i bambini contro i grandi spazi ‘là fuori’, inesplorati e perciò così attraenti. È vero, la scelta è davvero netta e sofferta; per molte donne la prospettiva di un simile scambio può essere certo una valida ragione per avanzare lamentele. Ma siamo sicuri che la verità sia tutta qui? Amelia Hill, in un articolo (nello stesso giornale della Ellen) il cui titolo dice già tutto («Pensavate che i bambini vi rendessero felici? No: solo più poveri»), cita Emma Flack, una donna di trentun anni che lavora come manager presso un’azienda della City londinese: «Non pensavo proprio che un figlio fosse un tale salasso finanziario»14. Emma e suo marito devono affrontare un compito insolito e tremendo: come «accettare questo nuovo stile di vita in cui dobbiamo fare attenzione a ogni centesimo che spendiamo». Quest’obbligo improvviso di spaccare il centesimo, e la necessità di pensarci su due volte prima di concedersi qualche soddisfazione, costituiscono un’esperienza totalmente insolita per Emma e il suo partner. Essi ammettono di avvertire «un certo risenti113

mento per lo stile di vita e il benessere materiale dei loro amici che, non avendo figli, hanno tempo e denaro per socializzare e viaggiare». Per gli amici, che sono esseri razionali e acuti osservatori, questo risentimento ha l’effetto di un monito: non sorprende che Caroline Harding, 34 anni, che dirige un’azienda della City, si dichiari «fermamente decisa a fare determinate cose prima di avere dei figli, perché, una volta che questi arrivano, la vita indipendente è bell’e finita». Non sorprende nemmeno che l’ultima indagine della World Values Survey abbia riscontrato come siano sempre più numerosi coloro che non guardano ai bambini come a qualcosa che li possa far sentire realizzati. Alla domanda «Pensa che una donna debba avere figli per realizzarsi?» rispondono affermativamente, in Gran Bretagna, meno del 12 per cento delle donne e il 20 per cento degli uomini. Avere figli costa, e molto. Fare un figlio implica (almeno per la madre) una notevole perdita di reddito e, al tempo stesso, un notevole aumento della spesa familiare (a differenza dal passato, infatti, un figlio è un puro e semplice consumatore e non fornirà alcun contributo al reddito familiare). L’ente assistenziale Daycare Trust calcola che il prezzo medio di un asilo per bambini di età inferiore ai due anni era cresciuto, alla fine del 2002, a 134 sterline alla settimana, mentre il reddito medio delle famiglie era di 562 sterline alla settimana15. La remunerazione media di una baby sitter per il giorno avrebbe ridotto di ben 18.546 sterline l’anno il budget di spesa di una famiglia residente in campagna, e quello di una famiglia residente a Londra addirittura di 27.320 sterline l’anno. Come concludeva Brendan Bernard, segretario generale del Trades Union Congress, «l’impossibilità di lavorare, a causa dei costi dell’assistenza all’infanzia decisamente inarrivabili per il bilancio di una famiglia, sta condannando a una vita di povertà centinaia di migliaia di famiglie numerose». Centinaia di migliaia di famiglie sono già condannate a una vita di povertà: altre centinaia di migliaia osservano tutto ciò e ne prendono atto. 114

Nella nostra società dominata dal mercato, ogni esigenza, desiderio o necessità reca attaccato un cartellino con l’indicazione del prezzo. Le cose non si possono avere se non acquistandole, e acquistarle implica che altri bisogni e desideri debbano attendere. I figli non fanno eccezione (del resto, ci si potrebbe chiedere, perché dovrebbero?). Al contrario, il loro arrivo costringerebbe altre esigenze e desideri ad attendere, e nessuno può dire quanti e per quanto tempo. Avere un figlio è come precipitarsi a giocare d’azzardo in una bisca, lasciando che il destino ci prenda in ostaggio o ipotecando il proprio futuro senza avere la minima idea del tempo che ci vorrà per riscattarlo. È come firmare un assegno in bianco, o prendersi la responsabilità di fare cose che non si conoscono né sono prevedibili. Il prezzo totale non è fissato, gli impegni non sono stati precedentemente descritti, e se il prodotto non ci piace non c’è alcuna garanzia «soddisfatti o rimborsati». Nella nostra società di acquirenti e venditori questi ragionamenti suonano come una spiegazione credibile del timore di fare figli. Ma, ancora una volta, se questo è vero, siamo sicuri che la verità sia tutta qui? Ancora una volta vi sono ragioni per dubitarne. Se l’inquadratura si allarga, aumentano le ragioni per sospettare che sotto vi sia qualcos’altro. Il dottor John Marsden, esperto nei comportamenti prodotti dalla dipendenza, commenta l’ultima scoperta della medicina, secondo cui quello che noi profani di cose scientifiche chiamiamo ‘innamoramento’ si riduce alla secrezione di ossitocina, una sostanza chimica che «ci fa godere del sesso»16. «Il cervello», spiega, «ha al proprio interno delle fabbriche di farmaci17. L’attrazione fisica fa sì che vengano rilasciati dei cocktail chimici in grado di attivare a loro volta la dopamina, che ci manda in estasi» quando stiamo insieme alla persona che amiamo. Il guaio è, però, che questo farmaco viene prodotto solo per un tempo limitato – come se la natura l’avesse destinato «a tenere le persone insieme per il tempo necessa115

rio a fare un sacco di sesso, avere un bambino e farlo crescere fino a livelli di sicurezza». Dunque, quanto tempo dura la produzione di questa sostanza? «Circa due anni»... Questa – commenta il giornalista che riporta l’ultima scoperta scientifica e il parere dello specialista – «è stata più o meno la durata di tutte le mie relazioni serie». Il lettore forse penserà con soddisfazione: dunque non devo preoccuparmi se non sono stato capace di tenermi stretto il partner ed evitare che il nostro rapporto andasse in pezzi, perché ciò non è dipeso, come avevo pensato ingenuamente o stupidamente, da un mio difetto di carattere. Posso finalmente smettere di colpevolizzarmi e di prendermela con me stesso. È solo chimica, stupido. L’amore è un farmaco. Speriamo che ne arrivi presto in farmacia un altro (magari rimborsabile dal servizio sanitario nazionale) che mi aiuti a compensare i deficit produttivi delle fabbriche cerebrali o, al contrario, a neutralizzarne gli effetti quando mi stancherò del mio partner, in modo da chiudere la storia in modo indolore, istantaneo e non traumatico... In questi giorni è praticamente impossibile sfogliare le pagine patinate di una rivista senza trovarvi entusiastici riferimenti a un best seller sul «peccato capitale» della lussuria, il cui autore, Simon Blackburn, viene presentato da più parti come «filosofo di Cambridge». Come osserva ad esempio Mark Honigsbaum, «riusciamo a comprendere sempre più chiaramente» quello che sulla scorta dell’alta autorità filosofica di Cambridge è stato definito «il desiderio che fa sì che il corpo si appassioni all’attività sessuale e ai suoi piaceri fini a se stessi»18. Ecco il punto: «fini a se stessi». Quando vi sentirete pronti a tentare, non preoccupatevi. Il sesso senza amore, senza impegno, senza restrizioni e senza preoccuparsi delle conseguenze (ad esempio quella di aggiungere al mondo un altro essere umano nuovo di zecca) non va considerato un peccato, o qualcosa per cui ci si debba sentire a disagio. A differenza degli altri presunti peccati capitali, la lussuria non è poi così male, né in fin dei conti è qualcosa di cui vergognar116

si o da condannare – anzi non va proprio vista come un peccato. È difficile, se non addirittura impossibile, stabilire se il filosofo di Cambridge abbia torto o meno. In fondo è una questione valutativa, dipende dalle preferenze di valore di ciascuno, e nessun argomento, per quanto raffinato ed elegante, può dimostrare, o confutare, la ‘verità’ di un valore; i valori non sono né veri né falsi – possono solo essere accettati o rifiutati. Che ci si innamori quando l’ossitocina scorre in abbondanza, e che l’amore cessi quando tale sostanza si esaurisce, è un altro paio di maniche: la verità di questo fatto può essere provata, o comunque è credibile fino a prova contraria. Non c’è spazio, qui, per i dubbi: quando si parla di verità, è la scienza ad avere l’ultima parola e non ha senso obiettare alle sue affermazioni. Di Simon Blackburn si può dire che si adegua semplicemente agli umori del momento, offrendo il visto dell’erudizione sui bisogni diffusi del momento; di John Marsden non si può dire lo stesso, e se anche si potesse, il suo giudizio non sarebbe per questo meno vero. Chiarito ciò, esiste comunque una caratteristica che unisce le due affermazioni, al di là del loro diverso fondamento: il vivo interesse che entrambe destano presso il pubblico dei lettori, e l’avido entusiasmo con cui sono state accolte e fatte proprie (destino non comune per le scoperte scientifiche e per le opinioni degli studiosi). Per un sociologo una simile risposta pubblica, insolitamente partecipe e diffusa, è forse il fenomeno più intrigante di tutta la vicenda, l’enigma che richiede riflessione e spiegazione. E la spiegazione che se ne può dare è una sola: poiché di regola le persone tendono ad ascoltare con maggiore attenzione i messaggi che risultano loro più graditi, l’accoglienza che si tende a riservare oggi ad affermazioni come quelle di Blackburn o Marsden ha senso se esse collimano con determinati desideri, espliciti o semiconsapevoli, diffusi tra coloro che ascoltano. Possiamo cercare di analizzare quali tipi di desideri possano essere avvertiti collettivamente in 117

modo tanto profondo da rendere comprensibile una simile ‘apertura’ selettiva e mirata delle menti. La mia ipotesi è che i messaggi descritti qui sopra, e molti altri dello stesso tipo, tendano a essere accolti con favore e a riscuotere un credito senza riserve in quanto promettono di mitigare e placare i tormenti dello spirito che affliggono tante persone, che tentano invano di allontanarli o tacitarli. Ma l’angoscia è autentica e non scomparirà senza uno sforzo che la maggioranza delle persone si sente inadeguata o riluttante a compiere. Una delle forme assunte da tale angoscia è un effetto collaterale del fatto di vivere in una società dei consumi. In una simile società le strade sono numerose e variegate, ma tutte passano per le vetrine dei negozi. Qualsiasi obiettivo di vita – e, quel che più conta, la ricerca di dignità, di autostima e felicità – richiede la mediazione del mercato; e il mondo in cui si colloca tale ricerca è fatto di merci – oggetti che vengono giudicati, apprezzati o rifiutati in base alla soddisfazione che recano ai loro clienti. Ci si attende che tali oggetti siano facili da usare, che producano soddisfazione immediata e che il loro utilizzo non richieda sforzi rilevanti e tanto meno sacrifici. Se essi non mantengono la promessa, o se la soddisfazione è incompleta o inferiore alle attese, i clienti li riporteranno in negozio e si aspetteranno di essere rimborsati; e se questo non è possibile, cercheranno sugli scaffali che traboccano di prodotti qualcosa di adatto per sostituirli. In un modo o nell’altro, l’oggetto incriminato (perché non all’altezza della sua promessa, perché troppo scomodo per essere usato senza problemi, o perché ne sono stati spremuti ormai tutti i piaceri che poteva arrecare) verrà smaltito. Non si giura fedeltà a cose il cui unico scopo è soddisfare una necessità, un desiderio o un bisogno. I rischi sono inevitabili, ma se si evita d’impegnarsi il pericolo appare meno temibile. Quest’ultima è un’idea confortante, ma anche estremamente 118

angosciosa quando le ‘cose’ destinate al consumo sono altri esseri umani. Quando tocca agli esseri umani è difficile evitare l’impegno, anche se non scritto, né formalmente sottoscritto. Gli atti di consumo hanno scadenze precise, durano solo finché queste non siano state raggiunte e non un momento di più; ma lo stesso non si può dire delle interazioni umane, dal momento che ogni incontro lascia dietro di sé un sedimento di legame umano: un sedimento che si ispessisce nel tempo, via via che si arricchisce di ricordi dei momenti passati assieme. Ogni incontro è al tempo stesso conclusione e nuovo inizio, dal momento che l’interazione non ha una ‘scadenza naturale’. La fine può essere architettata solo artificialmente, e a chi tocchi decidere il momento è una decisione tutt’altro che ovvia, poiché nell’interazione umana entrambe le parti (per applicare termini propri del mondo dei consumi) sono contemporaneamente consumatore e oggetto di consumo, e possono rivendicare entrambi la ‘sovranità del consumatore’. È possibile spezzare il legame e rifiutare di proseguire l’interazione, ma non senza un retrogusto amaro e un senso di colpa. È difficile ingannare la coscienza morale. Lawrence Grossberg spiega il recente «rifiuto dell’infanzia» (il fatto che nel discorso pubblico l’infanzia sia rappresentata come ‘problema’ e la gioventù come qualcosa di pericoloso, insensato, socialmente irresponsabile e stupidamente immaturo) con l’esigenza degli adulti di alleggerire le proprie responsabilità19. Henry A. Giroux osserva che il soidisant disincanto dell’infanzia è riconducibile al fatto che «gli adulti operano nella logica di un sistema di mercato che si presume puro, ma che in realtà si limita a riconoscere la libertà individuale a livello puramente verbale, mentre mina i vincoli della vita sociale e degli obblighi sociali»20. Forse i tormenti morali non ci assalirebbero tanto spesso, e perciò non dovremmo ricorrere tanto spesso all’illusione, se il mondo fosse meno ‘liquido’ del nostro, fosse cioè un mondo che cambia meno rapidamente, in cui gli oggetti del desi119

derio non invecchiano e perdono le proprie attrattive a velocità tanto forsennata, e in cui la vita umana, che virtualmente dura più della vita di ogni altro oggetto, non debba essere suddivisa in una sequenza di episodi autonomi e di nuovi inizi. Un mondo simile, tuttavia, non è disponibile – e le previsioni non lasciano sperare che i legami fra gli esseri umani possano sfuggire ai modelli consumisti, che sono cognitivi, ma anche comportamentali. Il risultato è che le relazioni si stanno trasformando nella fonte principale, apparentemente inesauribile, di ambiguità e di ansia. In un contesto liquido che si muove rapidamente e in modo imprevedibile abbiamo bisogno, mai come prima d’ora, di legami d’amicizia e di fiducia reciproca che siano solidi e affidabili. Gli amici, in fin dei conti, sono persone sulla cui comprensione e sul cui aiuto possiamo contare se dovessimo inciampare e cadere, e nel mondo in cui viviamo nemmeno i surfisti più abili e gli skater più brillanti sono assicurati contro tale eventualità. D’altra parte, però, quegli stessi ambienti liquidi e rapidamente mutevoli privilegiano chi riesce a viaggiare leggero: se nuove circostanze dovessero richiedere rapidi spostamenti, e di ripartire da zero, impegni a lungo termine e legami difficili da sciogliere potrebbero rivelarsi uno scomodo fardello, una zavorra da gettare subito in mare. Non esiste, dunque, la scelta migliore. Non si possono avere la botte piena e la moglie ubriaca: ma questa è esattamente l’esigenza posta in modo pressante dall’ambiente in cui si cerca di dare un assetto alla propria vita. Qualsiasi scelta si faccia, i problemi si accumulano. Forse è per questo che sono in tanti coloro che ascoltano, e apprezzano, i messaggi dei vari Blackburn e Marsden, e quelli di tenore analogo che persino in casa ci martellano costantemente, in particolare attraverso i popolarissimi reality shows televisivi. Alcuni messaggi offrono infatti l’assoluzione dai peccati: non è colpa tua, non sei tu che sbagli, ciascuno di noi condivide la stessa sorte, affronta le stesse scelte e fa le stesse cose. Altri messaggi ci consentono di tapparci le orec120

chie per non dare ascolto alla voce della coscienza: se non riuscirai a ‘nominare’ chi esce dal gioco, il ‘nominato’ sarai tu. Di solito i ‘nominati’ sono i romantici incorreggibili e infelici, e sono i più assennati a ‘nominarli’. La vita è un gioco a somma zero e Dio aiuta chi si aiuta. È in questo mondo che nascono e crescono i figli, e in questo mondo che essi dovranno farsi largo una volta cresciuti. I bambini osservano. E apprendono. Come ha sintetizzato Charles Schwarzbeck, «i nostri figli prendono profondamente a cuore ciò che vedono e ascoltano nella relazione con noi. Contrariamente a ciò che potremmo immaginare, essi non accendono e spengono l’interruttore di continuo. Sono sempre accanto a noi, interagendo o semplicemente assistendo al modo in cui conduciamo la nostra esistenza»21. I bambini prendono a cuore ciò che facciamo noi adulti. Dopo tutto, siamo noi l’autorità. E rappresentiamo il mondo. Tuttavia Jean-François Lyotard, indiscusso padre spirituale della svolta postmoderna nella nostra percezione del mondo umano, sottolineava che è sorte (privilegio?) del bambino rappresentare l’umanità nel modo più pieno: Senza parola, incapace di posizione eretta, esitante sugli oggetti di suo interesse, inadatto al calcolo del proprio vantaggio, insensibile alla ragione comune, il bambino è in modo eminente l’umano poiché la sua destrezza annuncia e promette i possibili22.

Quest’affermazione precede Lyotard e non costituisce una sua scoperta. Egli si limitava a riproporre un’opinione molto diffusa tra i pensatori e gli studiosi fin dall’inizio dei tempi moderni, di fronte sia al crescente divario tra l’immaginazione e l’innocenza dei bambini e la gelida routine e la corruzione prevalenti nella vita adulta, sia la noncuranza con cui la forza spirituale e il potenziale creativo dei bambini venivano sconsideratamente dispersi durante la loro ‘matura121

zione’. Come ha osservato Kiku Adatto, quegli osservatori trovavano intrigante che il periodo in cui la vita è più indifesa e dipendente – vale a dire l’infanzia – sia associato alla condizione in cui l’anima è più ricca di energie, allo stato più puro della coscienza morale, alla fase più naturale e creativa dell’esistenza umana. Dostoevskij dichiarava che «l’anima guarisce stando coi bambini». In Oliver Twist, in Piccola Dorritt e in altri romanzi di Dickens il bambino rappresenta la bontà e la virtù contro la corruzione, le ingiustizie e le vanità della società23.

Lyotard notava poi mestamente come tutti gli sforzi della ‘società’, tutte le pressioni socializzanti – prodotte intenzionalmente o involontariamente – sul corpo e sulla mente, mirino a spingere il processo di ‘maturazione’ in direzione opposta alle caratteristiche umane, troppo umane dell’infanzia. È come se la logica della società umana fosse di fuggire dall’umanità dei suoi membri... Decisamente la società non è ospitale né amichevole verso chi è «insensibile alla ragione comune», e del tutto ostile a chi è «inadatto al calcolo del proprio vantaggio». La società non si lascia andare facilmente al carattere infinito delle possibilità: che cos’altro è un qualsiasi ordine sociale, se non la riduzione del numero delle possibilità consentite e la soppressione delle altre? L’essenza di qualsiasi socializzazione consiste in lezioni di ‘realismo’: gli ultimi arrivati alla vita, appena nati, vengono accolti dalla società a condizione che accettino il diritto della realtà di tracciare una linea che separi le possibilità selezionate (che vengono normalizzate come probabilità servoassistite) da tutte le altre, classificate d’autorità come illegittime, inutili, disdicevoli o peccaminose e in generale «antisociali», che costituiscono dunque non una semplice perdita di tempo, ma un invito a combinare guai. A partire dalla scoperta – avvenuta all’inizio della modernità – dell’‘infanzia’ come fase separata, e per molti versi uni122

ca, della vita dell’uomo, la società ha ammirato nei bambini la capacità di intrattenere buoni rapporti e di giocare liberamente, cose di cui gli adulti avvertivano fortemente la mancanza, ma che al tempo stesso, e per le stesse ragioni, guardavano con profondo sospetto. In fondo, la vita degli adulti richiedeva che il gioco venisse evitato tout court, o almeno relegato al ‘tempo libero’, per essere sostituito, in ogni altra situazione, dalla disciplina e dalla routine, mentre l’impulso all’amicizia veniva strettamente avviluppato nella camicia di forza dei diritti e doveri contrattuali. Ai bambini non si poteva dare fiducia, essi andavano seguiti da una vigile supervisione; l’‘infanzia grezza’ doveva essere rielaborata e ‘disintossicata’, vale a dire depurata dei suoi ingredienti naturali, che la società non desiderava ingerire, né era in grado di digerire. In pratica, se non in teoria, l’infanzia era trattata non come approdo o rifugio, ma come simulacro della vita adulta. Il genere di prodotto finito che la rielaborazione del bambino punta a ottenere dipende dal ruolo in cui chi è parte della società viene chiamato a prestare servizio attivo. Per gran parte della storia moderna (la parte contrassegnata da impianti industriali giganteschi e grandi eserciti di leva) la società ha plasmato e preparato i suoi membri a lavorare nell’industria e a servire sotto le armi. L’obbedienza, l’arrendevolezza e la capacità di sopportare le fatiche e la routine erano, di conseguenza, virtù da trapiantare e coltivare, mentre la fantasia, la passione, lo spirito ribelle e la riluttanza ad allinearsi erano vizi da sradicare. Ciò che contava era il corpo del potenziale lavoratore o soldato; ciò che andava messo a tacere era lo spirito che, una volta ridotto al silenzio, poteva essere ignorato, in quanto privo d’importanza. La società dei produttori e dei soldati concentrava la sua ‘rielaborazione dell’infanzia’ sulla gestione del corpo, che andava reso adatto a vivere nel suo futuro habitat naturale, costituito dalla fabbrica e dal campo di battaglia. L’era della società dei produttori, almeno nella nostra parte di mondo, si è ormai pressoché conclusa, sebbene il ricor123

do ne sopravviva nei pregiudizi di molti, in netto contrasto con le loro stesse prassi (Priscilla Anderson, nella sua vasta indagine sulla letteratura attuale sull’«educazione dei figli», giunge alla conclusione secondo cui «le vecchie convinzioni circa l’ignoranza, l’inesperienza, l’inconsapevolezza, la mancanza di realismo e l’egocentrismo dei bambini piccoli continuano a farla da padrone»)24. Viviamo ormai in una società di consumatori. L’habitat naturale dei consumatori è il mercato, il luogo dove si compra e si vende. Nei consumatori futuri le principali virtù da piantare e coltivare sono la pronta e convinta risposta alle attrattive e al fascino delle merci e una spinta irrefrenabile all’acquisto che sconfina nella dipendenza; essere indifferenti alle seduzioni controllate dal mercato o privi delle risorse necessarie per rispondere correttamente alla seduzione equivale a un peccato capitale che dev’essere sradicato o sanzionato con la messa al bando. La società dei consumatori concentra invece la sua «rielaborazione dell’infanzia» sulla gestione dello spirito, in modo da rendere i propri membri capaci di adattarsi al loro habitat naturale, che in questo caso è costituito dai centri commerciali, nonché dalla strada, nella quale i prodotti con marchio vengono pubblicamente esibiti affinché possano dotare di valore commerciale chi ne è portatore. Addestrare il corpo è cosa vecchia e non riveste più importanza; la «grande novità», come afferma Dany-Robert Dufour, è la conquista e il riutilizzo dell’anima25. O, per citare Daniel Thomas Cook, dell’università dell’Illinois: le battaglie ingaggiate a proposito, e in tema, di cultura dei consumi dei bambini non sono altro che battaglie sulla natura della persona e sulla portata della personalità nel quadro del raggio d’azione sempre più ampio del commercio. Il coinvolgimento dei bambini nei materiali, nei media, nelle immagini e nei significati derivanti dal mondo del commercio, che a questo fanno riferimento e con questo s’intrecciano, ha un posto centrale nella formazione delle persone e delle posizioni morali nella vita contemporanea26. 124

Proprio vero: ha «un posto centrale», fin dalla più tenera età. Non appena un bambino impara a parlare, o forse ancor prima, s’instaura la sua «dipendenza da negozi». Bombardato in ogni modo da suggerimenti secondo cui non può fare a meno di questo o di quel prodotto in commercio se vuol essere il tipo giusto di persona, capace di compiere il suo dovere sociale e percepito così dagli altri, egli si sente inadeguato, carente e al di sotto dello standard se non risponde prontamente all’appello. La necessità avvertita come più imperativa e urgente di ogni altra è quella di correggere o nascondere i difetti, veri o presunti, del proprio corpo e del proprio viso, al fine di rafforzare gli argomenti di vendita a proprio favore. Owen Bowcott elenca le riviste patinate ad alta tiratura rivolte al mercato degli adolescenti che allegano di settimana in settimana, «in omaggio» o «in offerta esclusiva», uno «splendido mascara», un «fantastico lucidalabbra» o un «meraviglioso spray abbronzante»27. Una recente indagine in Gran Bretagna ha evidenziato che il 90 per cento delle quattordicenni si trucca abitualmente, mentre il 63,5 per cento delle bambine tra sette e dieci anni di età mette il rossetto e il 44,5 per cento usa l’ombretto o la matita per gli occhi. Eppure, nota Bowcott, l’azienda che ha effettuato la ricerca – la Mintel, «una delle organizzazioni leader nelle indagini sui consumatori in Gran Bretagna» – assicura che «le aziende di cosmetici potrebbero spingersi molto più in là nella loro offensiva per indurre le ragazzine ad acquistare i propri prodotti», e avanza vari suggerimenti in tal senso, tra cui quello di installare distributori automatici di cosmetici nelle scuole e nei cinema. I bambini sono sempre stati considerati «il futuro della nazione» e il modo in cui essi venivano preparati al loro futuro e a quello del paese dipendeva da ciò che era considerato il benessere di quest’ultimo. Se Daniel Thomas Cook avesse scritto cento o anche solo cinquant’anni fa il passo riportato 125

sopra, probabilmente avrebbe parlato di ‘etica del lavoro’ anziché di ‘cultura dei consumi’ e di ‘industria’ anziché di ‘commercio’. Le cose invece ormai si pongono in modo tale che i bambini di oggi sono i primi e principali consumatori di domani: e ciò non sorprende, visto che la forza di un paese viene misurata sulla base del Pil, che a sua volta corrisponde alla quantità di denaro che passa di mano. È bene dunque che i bambini si preparino prima possibile – preferibilmente fin dalla nascita – al ruolo di acquirenti/consumatori entusiasti e informati. Nemmeno un centesimo del denaro speso per formarli dovrà andare sprecato. In un libro dal titolo già eloquente, «Che cosa comprano i bambini e perché: la psicologia del marketing per l’infanzia», Dan Acuff illustra una strategia articolata per invadere e conquistare, e successivamente gestire, il «mercato dei bambini»: terreno in precedenza incolto, o coltivato solo marginalmente, nonostante il suo potenziale di redditività pressoché infinito. Acuff ha spiegato ai futuri conquistatori come fare per creare, sviluppare e vendere prodotti e programmi «mirati ai ragazzini di oggi, dalla nascita fino ai dieci anni di età»28. E aggiunge: quei ‘prodotti’ («potenzialmente qualsiasi cosa si rivolga commercialmente ai più giovani») e ‘programmi’ (quali «film, animazione per la TV e giochi elettronici») sono per loro natura dedicati alle «menti e ai cuori, preziosi e sacri, dei bambini di ogni luogo». Convertendo i bambini allo spirito e alla prassi del consumismo Acuff, come probabilmente la maggior parte dei suoi destinatari, crede di assolvere un compito morale, proprio come i pionieri dell’industria capitalistica che due secoli fa si ritenevano dei missionari morali perché riempivano di bambini-operai le proprie miniere e fabbriche. Quei pionieri pagavano ai ragazzini dei salari talmente bassi che vendere la propria forza lavoro, con orari massacranti, sarebbe divenuta una necessità per tutta la vita. I loro successori, gli uomini di marketing, cercano invece (come sottolinea Beryl Langer) di generare «uno stato di perenne insoddisfazione» nei bam126

bini «stimolando il loro desiderio di novità e ridefinendo come inutile spazzatura ciò che esisteva in precedenza»29, con il fine ultimo di «riprodurre il ciclo del desiderio continuo in cui è integrata l’infanzia del capitalismo consumista»; e tuttavia seguire a tal fine la strada raccomandata viene presentato di solito come un atto profondamente morale e abilitante, che consiste (come riferisce Daniel Thomas Cook) nel rifondare la sacralità del bambino non già sul concetto (romantico) di innocenza, ma su «un diverso genere di santità», quella di «un sé che conosce e che sceglie». Cionondimeno, come nota lo stesso Cook, «il mondo in cui prevale il giudizio tra coetanei, basato sulle merci, sui personaggi dei media e sulla conoscenza del prodotto [...], sta diventando sempre più la norma cui bambini e genitori si devono conformare per avere una vita sociale ‘sana’»30. Questo è quanto, per quel che riguarda la «conoscenza» e la «scelta» da parte dell’io e l’effetto abilitante del marketing rivolto all’infanzia. È difficile tuttavia dubitare che negli ultimi due decenni, come sostiene Juliet B. Schor, «il mercato dell’infanzia abbia conosciuto un’espansione enorme sia in termini di spesa direttamente effettuata dai bambini sia influenzando gli acquisti effettuati dai genitori»31. La stessa autrice osserva il fenomeno della «mercificazione [commodification] dell’infanzia», che consiste nel ruolo dominante dei mercati di beni di consumo [commodity markets] nella crescita, nell’educazione e nella formazione [shaping] dei bambini, e nel fatto che l’attività di marketing è rivolta agli stessi bambini. I due sviluppi si rafforzano a vicenda. I bambini sono visti dai loro genitori come veri e propri ‘decisori informati’, dotati di conoscenze, di cui gli stessi genitori fanno drammaticamente difetto, riguardo ciò che ‘va’ in un determinato momento e ciò che invece è ormai «superato» e non più di moda. I bambini, per questa ragione, sono sempre più consultati quando i genitori devono prendere una decisione d’acquisto: questi, infatti, non si fidano più del proprio giudizio su 127

«ciò che è buono per il bambino», e dunque delle proprie decisioni. Secondo una ricerca commissionata dall’azienda di successo Nickelodeon, l’89 per cento dei genitori di bambini di età fra otto e quattordici anni riferisce di chiedere il parere dei propri figli sui prodotti prima di acquistarli. Secondo James U. McNeal, nel 2002 i ragazzini fra i quattro e i dodici anni di età hanno influenzato direttamente spese degli adulti per un valore di circa 300 miliardi di dollari (tale mercato «influenzato dai bambini» cresce di circa il 20 per cento l’anno), e hanno acquistato direttamente con proprio denaro prodotti per un valore totale di 30 miliardi di dollari (si stima che il valore corrispondente appena tredici anni fa ammonti a soli 6,1 miliardi di dollari)32.

Lo stesso McNeal riferisce che un bambino su quattro visita negozi per proprio conto durante gli anni in cui frequenta la scuola elementare, mentre l’età mediana in cui si cominciano a fare gli acquisti da soli è di otto anni. «L’anima del bambino è sotto assedio», afferma Kiku Adatto. Le pressioni finanziarie di un mercato dei consumi in espansione e invasivo hanno reso insufficiente un unico stipendio per il sostentamento di una famiglia con bambini; il 67 per cento dei bambini, in America, cresce in famiglie dove entrambi i genitori lavorano: si tratta di bambini «con le chiavi di casa appese al collo» che trascorrono la maggior parte del proprio tempo libero da soli o in compagnia dei propri coetanei. I legami familiari durante la «giornata feriale tipo» si allentano. Essi sono ulteriormente indeboliti e svuotati dal rovesciamento della struttura di autorità e di controllo derivante dal fatto che i ragazzini stanno conquistando lo scettro della competenza in fatto di acquisti e il diritto di prendere decisioni in merito: d’altra parte lo shopping, ricordiamolo, è un’attività che si interpone virtualmente in ogni spazio della famiglia e della vita di ogni suo componente. Come afferma Joseph E. Davis, il consumismo e i proces128

si di mercificazione hanno destabilizzato «le più antiche istituzioni di formazione dell’identità (famiglia, scuola, chiesa, ecc.)» creando così un vuoto che si sono poi affrettati a riempire33. Davis cita l’«esperto di branding» Scott Bedbury, che attribuisce ai «grandi marchi» il ruolo di «punti di connessione emotiva», consentendo a chi li utilizza di «collocarsi nell’ambito di un’esperienza più ampia». Non spaventatevi per il gergo da consiglio d’amministrazione: queste affermazioni da esperto diventano piuttosto chiare una volta squarciata la spessa cortina di parole: ciò che si intende dire è che i bisogni senza fissa dimora e liberamente fluttuanti vengono imbrigliati dai «grandi marchi» e che la fedeltà al marchio si sostituisce ai legami umani nel plasmare le aspettative e capacità di vita dei consumatori del futuro. Secondo Tori de Angelis la ricerca documenta ampiamente come «l’insicurezza – finanziaria ed emotiva – sia alla base dei desideri dei consumatori»34. Per comprendere «come nasce un consumatore» occorre che «la psicologia, anziché focalizzarsi solo sull’individuo», comprenda il contesto sociale in cui si realizza la trasformazione di un bambino in un acquirente/consumatore compulsivo e assuefatto. De Angelis cita Allen Kanner, psicoterapista di Berkeley: Il consumismo promosso dalle imprese sta producendo massicci effetti psicologici non solo sulle persone, ma anche sul pianeta [...]. Troppo spesso la psicologia eccede nella considerazione individuale di problemi sociali. Nel far ciò essa finisce per prendersela con la vittima, per esempio individuando il materialismo soprattutto sulla persona, e ignorando al tempo stesso la smisurata cultura aziendale che sta invadendo tanta parte della nostra vita.

La spiritualità sarà anche la dote con cui nasce il bambino, ma è stata comunque confiscata dai mercati dei consumi e riutilizzata per oliare gli ingranaggi dell’economia dei con129

sumi. L’infanzia, come afferma Kiku Adatto, si trasforma in un periodo di «preparazione alla vendita di sé», poiché i bambini vengono addestrati a «vedere tutti i rapporti in termini di mercato» e a considerare gli altri esseri umani, compresi i propri amici e familiari, attraverso il prisma delle percezioni e valutazioni generate dal mercato.

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Imparare a camminare sulle sabbie mobili

Sono occorsi più di duemila anni perché il termine paideia – coniato dai saggi dell’antica Grecia per esprimere l’idea della «educazione permanente» [lifelong education] – diventasse, da ossimoro (contraddizione in termini), pleonasmo (tipo ‘burro burroso’ o ‘ferro metallico’...). Quest’importante trasformazione è avvenuta solo negli ultimi decenni, per effetto della radicale accelerazione del cambiamento del contesto sociale in cui erano costretti a operare i principali attori dell’istruzione (docenti e discenti). Nel momento in cui un’arma balistica spara un proiettile, la direzione e la distanza che questo percorrerà sono già determinate dalla forma e dalla posizione dell’arma e dalla quantità di polvere da sparo che si trova nel bossolo; in base a questi dati è possibile calcolare con margine d’errore nullo o ridotto il punto in cui il missile balistico toccherà terra; per cambiare tale punto basterà spostare la canna o modificare la quantità di polvere da sparo. Queste caratteristiche facevano dei missili le armi ideali nella guerra di posizione, in cui i bersagli si trovavano protetti nelle trincee o nei bunker e i missili erano gli unici corpi in movimento. I missili diventano tuttavia inutili, per le loro stesse caratteristiche, in una situazione in cui dei bersagli invisibili a colui che spara si spostino – soprattutto se si spostano più velocemente dei missili, e ancor più se si muovono in modo erratico e imprevedibile, mandando a monte qualsiasi calcolo 131

preliminare della traiettoria voluta. In questo caso occorre un missile intelligente, capace di cambiare direzione durante il volo a seconda dei cambiamenti delle circostanze, di percepire istantaneamente i movimenti dei bersagli, di ricavarne la maggior quantità possibile di informazioni utili riguardo alla direzione ultima e alla velocità dei bersagli, e di estrapolare dalle informazioni raccolte il punto esatto dove le rispettive traiettorie s’incroceranno. Durante il percorso questi missili intelligenti non possono mai interrompere, e tanto meno smettere, di raccogliere ed elaborare informazioni: i bersagli infatti non smettono mai di spostarsi e di modificare direzione e velocità, e perciò il tracciamento del punto d’incontro dev’essere costantemente aggiornato e corretto. Possiamo dire che i missili intelligenti seguono una strategia di ‘razionalità strumentale’, sia pure in una versione che si potrebbe definire liquefatta, fluida, vale a dire abbandonando il presupposto secondo cui il fine è dato, costante e immodificabile per tutto il tempo e, di conseguenza, le previsioni e gli interventi riguarderanno solo i mezzi. I missili particolarmente intelligenti, dunque, non saranno costretti a dare la caccia a un bersaglio preselezionato, ma sceglieranno i bersagli una volta lanciati. Ciò che li guiderà sarà la valutazione del massimo risultato possibile sulla base delle proprie capacità tecniche e dei bersagli potenziali che hanno maggior probabilità di centrare. Si tratterebbe di un caso di ‘razionalità strumentale’ al rovescio: i bersagli vengono selezionati mentre il missile viaggia – saranno i mezzi disponibili a decidere quale ‘fine’ verrà prescelto. In questo caso l’‘intelligenza’ del missile in volo e la sua efficacia si avvarrebbero del fatto che esso sia dotato di un equipaggiamento sostanzialmente ‘generalista’ e ‘non dedicato’, e cioè non orientato a una specifica categoria di fini, né eccessivamente concentrato sulla finalità di colpire un particolare tipo di bersaglio. I missili intelligenti, diversamente dai loro predecessori, apprendono mentre si spostano. Essi devono essere dotati fin dall’inizio della capacità di apprendere, e di farlo velocemen132

te. Ciò è evidente. Meno visibile, tuttavia, ma non meno cruciale della capacità di imparare rapidamente, è l’abilità che essi hanno di dimenticare istantaneamente ciò che avevano appreso. I missili intelligenti non sarebbero tali se non fossero in grado di ‘cambiare idea’ o di annullare le loro ‘decisioni’ precedenti senza riserve mentali e senza rimpianti... Essi non devono attribuire importanza eccessiva alle informazioni acquisite e devono assolutamente evitare di abituarsi ai comportamenti che quelle informazioni raccomandano. Tutte le informazioni acquisite invecchiano rapidamente, e se non vengono prontamente eliminate possono essere fuorvianti, invece di fornire un orientamento affidabile. Il ‘cervello’ dei missili intelligenti non deve mai dimenticare che le conoscenze acquisite sono altamente deperibili, che hanno validità fino a nuovo avviso e utilità meramente temporanea, e che la garanzia di successo risiede nell’accorgersi del momento in cui le conoscenze di cui si dispone non servono più e devono essere gettate via, dimenticate e sostituite. I filosofi della formazione [education] nell’era solido-moderna vedevano negli insegnanti dei lanciatori di missili balistici e li istruivano affinché i loro prodotti restassero rigorosamente sulla rotta predefinita dall’accelerazione iniziale. Ciò non stupisce: nelle prime fasi dell’era moderna i missili balistici erano i risultati più alti della capacità d’invenzione tecnica. Essi offrivano un servizio impeccabile a chiunque volesse conquistare e dominare il mondo; come affermava baldanzosamente Hilaire Belloc riferendosi alle popolazioni indigene dell’Africa: «Qualunque cosa accada, noi abbiamo il Maxim e loro no» (il Maxim era un cannone in grado di sparare un gran numero di proiettili in poco tempo, ma era efficace soltanto se c’era ampia disponibilità di proiettili). In realtà la visione del compito dell’insegnante e del destino dell’allievo era molto più antica di quanto non fosse l’idea del ‘missile balistico’, e aveva preceduto l’era moderna, in cui era stato inventato quel tipo di missile: un antico proverbio cinese, formulato due millenni prima dell’avvento della moder133

nità ma citato ancora, agli albori del terzo millennio, dalla Commissione delle Comunità Europee a sostegno del suo programma a favore del «Lifelong Learning»: «Quando fai piani per un anno, semina grano. Se fai piani per un decennio, pianta alberi. Se fai piani per la vita, forma e educa le persone». È solo con l’avvento dell’epoca liquido-moderna che questa antica saggezza ha perso il suo valore pragmatico e le persone interessate all’apprendimento, e a quella forma di sviluppo dell’apprendimento nota con il termine ‘formazione’, hanno dovuto spostare la propria attenzione dai missili balistici ai missili intelligenti. Ancor più precisamente: nell’ambiente liquido-moderno la formazione e l’apprendimento, perché siano utili, devono essere continui, anzi permanenti, cioè protrarsi per tutta la vita. Non è più concepibile un altro tipo di formazione e/o apprendimento: la ‘costituzione’ dei sé o delle personalità è impensabile in qualsiasi altro modo che non sia quello di una riformazione costante e perennemente incompiuta. Secondo una lucida e concisa definizione di Leszek Ko¢akowski, la libertà che trasforma ogni passo in una scelta, potenzialmente fatidica, «ci è data con l’umanità, ed è a fondamento di quell’umanità, ed è essa che fa della nostra esistenza qualcosa di unico»1. In nessun’altra epoca, si può dire, la necessità di compiere scelte è stata avvertita in modo così profondo. In nessun’altra epoca come nell’attuale l’atto di scegliere è stato tanto acutamente consapevole di sé, ed è stato mai compiuto in simili condizioni di dolorosa e insanabile incertezza, sotto la costante minaccia di ‘restare indietro’ e di essere esclusi irrevocabilmente dal gioco per non aver tenuto testa alle nuove esigenze. Ciò che distingue l’attuale sofferenza nello scegliere dai disagi che hanno sempre tormentato l’homo eligens è la scoperta, o forse il sospetto, che non esistano regole preordinate né obiettivi universalmente approvati che possano essere 134

perseguiti fermamente, qualsiasi cosa accada, sollevando così chi compie tale scelta dalla responsabilità di qualsiasi conseguenza avversa. Nulla impedisce che quei punti di riferimento e quelle linee-guida che oggi appaiono degni di fede vengano sfatati e condannati domani (e retrospettivamente!) come fuorvianti o corrotti. Aziende ritenute da tutti solide come la roccia vengono smascherate come finzioni, frutto di fantasie contabili. Qualsiasi cosa oggi sia un ‘bene per me’ può domani essere riclassificata come un male. Impegni apparentemente saldi e accordi firmati solennemente possono essere rovesciati dalla sera alla mattina. E le promesse, o la maggior parte di esse, sembrano essere fatte solo per essere violate o negate, confidando sul fatto che la memoria pubblica è breve. In mezzo alle onde del mare sembra mancare un’isola stabile e sicura. Che ne è dunque delle prospettive e dei compiti della formazione? Jacek Wojciechowski, direttore di una rivista polacca dedicata all’insegnamento universitario, osserva che una volta la laurea offriva un salvacondotto per esercitare la professione fino all’età della pensione: ma questa ormai è storia. Al giorno d’oggi la conoscenza deve essere continuamente rinnovata e anche le professioni devono cambiare, poiché in caso contrario qualsiasi sforzo per guadagnarsi da vivere non approda a nulla2.

In altri termini, la crescita impetuosa delle nuove conoscenze e il non meno rapido invecchiamento del sapere preesistente agiscono congiuntamente nel produrre ignoranza umana su vasta scala, rigenerandone costantemente le riserve, o addirittura accrescendole. Come avverte Wojciechowski, ovunque esista un problema che qualcuno cerca di risolvere, prontamente in suo soccorso accorrerà il mercato. Ma naturalmente ci sarà un prez135

zo da pagare. In questo caso, il problema è costituito dall’ignoranza delle persone: un colpo di fortuna per chi vende, ma una pessima notizia per chi acquista. Per i dirigenti scolastici più abili si tratta di un’opportunità da non perdere per raccogliere finanziamenti straordinari, raffazzonando corsi sulle abilità di volta in volta più richieste persino quando i docenti davvero capaci d’insegnarle brillano per assenza. Il mercato è dominato dall’offerta, visto che i clienti potenziali, per definizione, non sono in grado di giudicare la qualità dei prodotti offerti, e se anche arrischiassero un giudizio non hanno la possibilità di fare i difficili. È facile vendere conoscenze di cattiva qualità o inutili, non di rado superate o addirittura fuorvianti, e quante più se ne vendono, tanto meno è probabile che i clienti ingannati vedano il bluff dei fornitori. Wojciechowski propone scherzosamente che gli unici programmi di ‘formazione continua’ che sia consentito offrire anche da parte di un’istituzione priva di credenziali adeguate siano corsi di odontoiatria: a condizione, però, che i docenti si iscrivano come pazienti negli ambulatori dei loro allievi. L’ignoranza e la credulità dell’uomo promettono rendimenti rapidi e sicuri, e gli avventurieri pronti ad approfittarne non mancano mai! Ma anche lasciando da parte il reale, diffuso e crescente rischio di commercio sleale, la velocità con cui le abilità acquisite perdono di valore e le richieste dei mercati del lavoro mutano consente persino a fornitori onestissimi di contribuire (nonostante le migliori intenzioni) ad aggravare gli spiacevoli effetti sociali della nuova e massiccia dipendenza dalla conoscenza. Come ha osservato recentemente Liz Thomas, la commercializzazione di un aggiornamento professionale ormai indispensabile sta amplificando ovunque le divisioni economiche e sociali tra l’élite professionale con livello di istruzione e di qualificazione elevato e la restante forza lavoro, nonché tra manodopera specializzata e non, erigendo nuove barriere alla mobilità sociale che si rivelano difficilmente superabili e contribuendo ad accrescere disoccupazione e povertà. Una volta sorte, tali divi136

sioni tendono inoltre ad autoconfermarsi e autoalimentarsi3. Negli Stati Uniti, ad esempio, solo il 19 per cento delle persone con basso reddito che necessitano di formazione professionale riesce a completare il corso di studi, mentre per chi fa parte delle fasce di reddito più elevato tale percentuale sale al 76 per cento. In un paese relativamente piccolo come la Finlandia ci si è resi conto recentemente che il numero degli adulti occupati che necessitano di formazione ma non possono permettersela è di quasi mezzo milione. Emerge sempre più chiaramente come il ‘mercato dell’insegnamento’, se lasciato funzionare in base alle proprie logiche, sia destinato ad accrescere le ingiustizie, anziché ridurle, e a moltiplicarne le conseguenze sociali e gli effetti collaterali potenzialmente catastrofici. Se si vuole evitare la rovina è inevitabile un intervento politico. Tutto ciò è stato condiviso dalla Commissione delle Comunità Europee e confermato nella già ricordata comunicazione del 21 novembre 2001, Realizzare uno spazio europeo dell’apprendimento permanente, sebbene non sia affatto certo che la preoccupazione per le conseguenze sociali di una crescente commercializzazione della formazione permanente sia stata la principale ragione ispiratrice dell’iniziativa. Il tema dominante lungo tutto il documento è piuttosto il timore che una formazione continua regolata dal mercato non sia in grado di fornire ciò di cui l’‘economia’ ha realmente bisogno, influenzando così negativamente l’efficienza e la competitività dell’Unione europea e dei suoi Stati membri4. Gli autori del documento temono che l’avvento della ‘società della conoscenza’ porti con sé, oltre ai potenziali benefici, anche enormi rischi; essa porta con sé «il rischio di livelli più gravi di disuguaglianza ed esclusione sociale», dal momento che solamente il 60,3 per cento degli abitanti dell’Ue nella fascia d’età tra i 25 e i 64 anni ha conseguito almeno un titolo di studio secondario superiore: quasi 150 milioni di persone, dunque, sono prive di tale livello d’istruzione di base e «sono esposte a un alto rischio di emarginazione». Ma la 137

necessità di espandere la formazione/apprendimento permanente è argomentata, fin dall’inizio del documento, in termini di «vantaggio competitivo», che «dipende sempre di più dall’investimento nel capitale umano» e dal fatto che la conoscenza e le competenze diventano «un importante motore della crescita economica». Secondo la Commissione l’importanza e la necessità dell’apprendimento permanente risiedono nel ruolo che esso svolge nel «promuovere una forza lavoro qualificata, formata e adattabile». Il compito di realizzare una società «più inclusiva, tollerante e democratica» contrassegnata da «maggior partecipazione civica, da un maggior senso di benessere e da una minore criminalità» rientra nel ragionamento quasi a posteriori, e viene presentato come effetto collaterale: in altre parole, si auspica che ciò avvenga come conseguenza naturale di un aumento del numero di coloro che, grazie a un miglior livello di formazione, «accederanno al mercato del lavoro». Il documento reca tutti i segni del ‘prodotto di una commissione’, che collaziona preoccupazioni la cui origine eterogenea e i cui nessi conflittuali possono essere nascosti solo grazie a un faticoso lavoro di redazione. Ma a più riprese il principale interesse e l’argumentum crucis attorno cui è confezionato il testo trapela chiaramente. Viviane Reding, allora commissario europeo per l’istruzione e la cultura, afferma nella prefazione che il suo scopo è quello di «adattare il nostro sistema formativo ai requisiti dell’economia e della società della conoscenza», mentre nel commento Cedefop/Eurydice pubblicato l’anno successivo si legge che l’«identificazione delle capacità che occorrono al mercato del lavoro [... deve diventare un] aspetto altamente significativo della produzione di curriculum». Come osserva Kenneth Wain in una comunicazione alla National Consultation Conference on Lifelong Learning tenutasi a Malta nel 2001, il documento della Commissione può indurre a credere «che si attribuisca valore esclusivamente a questo tipo di apprendimento, ossia alla formazione professionale finalizzata alle esigenze dell’e138

conomia e del mercato del lavoro». Analogamente, Carmel Borg e Peter Mayo concludono la loro esauriente analisi dello stesso documento sottolineando come «i messaggi del memorandum andrebbero letti in un contesto economico caratterizzato da una definizione di social viability orientata al mercato. Un cambiamento della formazione viene sempre più collegato al discorso sull’efficienza, sulla competitività, sul rapporto costi-efficacia e sulla affidabilità», e il suo scopo dichiarato è di conferire alla ‘forza lavoro’ le virtù della flessibilità, della mobilità e delle «capacità di base legate all’occupazione»5. Queste apprensioni sono fondate. È facile, infatti, cogliere una notevole affinità tra l’approccio seguito dalla Commissione Europea e le intenzioni e le richieste espresse da autori che scrivono dichiaratamente a nome e beneficio dei dirigenti d’azienda. Costoro applicano, con minime variazioni, lo schema di ragionamento esemplificato da uno dei più popolari e influenti compendi del pensiero che guida le grandi imprese, secondo cui la formazione mira a «sviluppare nei dipendenti la capacità di migliorare la loro attuale prestazione lavorativa e prepararli a operare nelle posizioni in cui essi potranno trovarsi in futuro»; gli scopi di tale sviluppo devono essere sempre definiti attraverso «l’individuazione delle abilità che occorrono e la gestione attiva dell’apprendimento del dipendente nel lungo periodo, in relazione alle esplicite strategie aziendali e di business»6. Raili Moilanen, dopo aver analizzato i contenuti delle relazioni presentate alla terza International Conference on Research Work and Learning che erano espressione del punto di vista datoriale, notava che «l’apprendimento e lo sviluppo appaiono importanti per le organizzazioni soprattutto per ragioni di efficacia e di competitività», mentre «il punto di vista dell’essere umano in quanto tale non appare rilevante»7. Era difficile aspettarsi conclusioni diverse... Vorrei aggiungere che, per quanti dubbi l’approccio seguito dal documento della Commissione possa suscitare in 139

chi è preoccupato per le conseguenze etiche e sociali della priorità indiscussa accordata alle considerazioni economiche, e in ultima analisi al profitto (Borg e Mayo sottolineano infatti come con la crescita della capacità di profitto delle aziende «si intensifichino ulteriormente le ineguaglianze socioeconomiche e i corrispondenti rapporti di potere asimmetrici»), quell’approccio appare viziato anche in termini semplicemente pragmatici. Gli appelli al ruolo-guida dello ‘sviluppo delle risorse umane’ basato sulla «identificazione delle abilità che occorrono al mercato del lavoro» si sono ripetuti, con coerenza esemplare, innumerevoli volte in passato; e tuttavia, altrettanto regolarmente, i gestori delle risorse umane non sono stati in grado di anticipare ciò che ‘occorreva’ al ‘mercato del lavoro’ una volta che la ‘forza lavoro’ avesse opportunamente completato la propria formazione e fosse stata pronta all’impiego. Non è facile prevedere eventuali svolte nelle richieste poste dal mercato, nonostante la bravura di chi formula le previsioni e la raffinatezza delle metodologie impiegate. Gli errori sono un difetto noto, e probabilmente incurabile, di qualsiasi ‘previsione scientifica’ delle tendenze sociali, ma in questo caso, quando sono in gioco le prospettive di vita delle persone, i giudizi sbagliati sono enormemente dannosi. Se gli sforzi umani di autoaffermazione e di automiglioramento cedono il passo a visioni sostanzialmente imprevedibili e notoriamente inaffidabili delle future esigenze di mercati volatili e caotici, ciò comporta per l’uomo grandi sofferenze: frustrazione, speranze deluse e vite di scarto. Le stime dei fabbisogni del cosiddetto human power si arrogano un’autorità che non possiedono, fanno promesse che non sono in grado di mantenere e di conseguenza si assumono responsabilità cui non possono far fronte. Questo è probabilmente il motivo per cui i programmi di ‘formazione permanente’ tendono a trasformarsi, inavvertitamente e senza alcuna motivazione esplicita, in esortazioni all’‘apprendimento permanente’, ‘sussidiarizzando’ così su 140

coloro che subiscono ‘mercati del lavoro’ notoriamente fluidi e volubili la responsabilità di selezionare le abilità, di farle acquisire e di sopportare le conseguenze di scelte sbagliate. Borg e Mayo colgono nel segno quando concludono che «in questi tempi difficili di neoliberalismo la nozione di apprendimento autodirettivo si presta a un discorso che consente allo Stato di abdicare alle sue responsabilità nel fornire una formazione di qualità che in una società democratica rappresenta un diritto di ogni cittadino». Va sottolineato che questa non è la prima, né l’ultima funzione che lo Stato sarebbe felice di cancellare dall’ambito della politica e di conseguenza dalle proprie responsabilità. Aggiungerei anche che lo spostamento di accento dalla ‘formazione’ all’‘apprendimento’ ben si ricollega all’altra propensione diffusa tra i dirigenti del nostro tempo: quella a ‘sussidiarizzare’, trasferendola sulle spalle dei dipendenti, la responsabilità per qualsiasi conseguenza delle scelte effettuate, soprattutto se negative, e, più in generale, la responsabilità di ‘non essere all’altezza della sfida’. Data la perdurante convergenza tra le due tendenze di gran lunga prevalenti nel modellare le relazioni di potere e la strategia di dominio nei tempi liquido-moderni, la probabilità che l’itinerario tortuoso ed erratico dell’evoluzione del mercato si regolarizzi e che le previsioni sui fabbisogni di ‘risorse umane’ diventino più realistiche è, per ben che vada, scarsa, e molto probabilmente nulla. In un contesto liquido-moderno l’‘incertezza fabbricata’ è il principale strumento di dominio, mentre la politica di précarisation, per usare il termine di Pierre Bourdieu (un concetto che fa riferimento alle attività che generano una situazione in cui i cittadini sono più insicuri e vulnerabili, e dunque ancor meno prevedibili e controllabili), è divenuta quasi il nocciolo duro della strategia di dominio. ‘Pianificazione dell’esistenza’ e mercati sono agli antipodi, e se la ex politica statale si arrende al primato dell’‘economia’, intesa come libero gioco delle forze del mer141

cato, l’equilibrio di potere si sposta in modo decisivo a vantaggio dei mercati. Ciò non è di buon auspicio per l’idea di ‘dare pieni poteri [empower] ai cittadini’, che la Commissione Europea indica come obiettivo primario dell’apprendimento permanente. Esiste un consenso diffuso sull’idea che l’empowerment – termine intercambiabile con quello di enablement nei dibattiti correnti – si realizza quando gli individui ottengono la capacità di controllare, o almeno di influenzare in modo significativo, le forze personali, politiche, economiche e sociali che in caso contrario costituirebbero altrettanti ostacoli nella loro traiettoria di vita; in altri termini, essere empowered significa essere in grado di fare scelte e di agire efficacemente in base alle scelte fatte, ed esprime la capacità concreta di influenzare il ventaglio delle scelte disponibili e i contesti sociali in cui si compiono e si attuano le scelte. Per dirla più francamente, un autentico empowerment richiede che si acquisiscano non solo le abilità necessarie per giocare con successo un gioco progettato da altri, ma anche dei poteri per influenzare gli obiettivi, le poste e le regole del gioco: non solo le abilità personali, ma anche i poteri sociali. L’empowerment richiede la costruzione e ricostruzione dei legami interumani, la volontà e la capacità di impegnarsi con altri in uno sforzo costante per fare della coabitazione tra gli uomini il contesto ospitale e amichevole di una collaborazione che arricchisca reciprocamente coloro che lottano per l’autostima, per lo sviluppo del proprio potenziale e per il corretto utilizzo delle proprie capacità. In breve, una delle scommesse decisive della formazione continua finalizzata all’empowerment è la ricostruzione dello spazio pubblico, progressivamente abbandonato, in cui gli uomini e le donne possano impegnarsi in una continua traduzione tra ciò che è individuale e ciò che è comune, tra interessi, diritti e doveri privati e pubblici. «Alla luce dei processi di frammentazione e segmentazione e della crescente diversità individuale e sociale – scrive 142

Dominique Simone Rychen – il rafforzamento della coesione sociale e lo sviluppo di un senso di consapevolezza e responsabilità sociale sono diventati importanti obiettivi della società e della politica»8. Sul posto di lavoro, nel luogo dove viviamo e per la strada ci mescoliamo ogni giorno con persone che, sottolinea la stessa autrice, «non necessariamente parlano la stessa lingua (in senso letterale o metaforico) o condividono la stessa memoria o la stessa storia». In tali circostanze le abilità di cui abbiamo più bisogno al fine di offrire alla sfera pubblica una ragionevole possibilità di rinascita sono quelle dell’interazione con gli altri – di dialogo, di negoziato, di raggiungimento della comprensione reciproca e di gestione o risoluzione dei conflitti, inevitabili in ogni situazione della vita collettiva. Ritornando a quanto affermato all’inizio di questo capitolo, nell’ambiente liquido-moderno la formazione e l’apprendimento, per avere una qualche utilità, devono essere continui e, anzi, permanenti. Ora spero si possa comprendere che una ragione, forse quella decisiva, per cui essi devono essere continui e permanenti è la natura del compito che abbiamo di fronte lungo la comune via verso l’empowerment – compito che ha esattamente le stesse caratteristiche che la formazione dovrebbe avere: continuo, infinito, permanente. La formazione dovrebbe essere tale affinché gli uomini e le donne del mondo liquido-moderno possano perseguire i propri obiettivi di vita con un minimo di intraprendenza e fiducia in se stessi, e con una speranza di successo. Ma c’è un’altra ragione, presa in considerazione meno frequentemente, ma più potente dell’altra fin qui analizzata: essa non ha nulla a che fare con l’adattamento delle abilità dell’uomo al ritmo rapido del cambiamento del mondo, ma con il rendere il mondo, che cambia rapidamente, un luogo più ospitale per l’umanità. Anche questo compito richiede una for143

mazione continua e permanente. Come ci hanno ricordato di recente Henry A. Giroux e Susan Sears Giroux, la democrazia è a repentaglio quando gli individui non sono in grado di tradurre la propria miseria privata e di condividerla a un livello più ampio, sotto forma di preoccupazioni pubbliche e di azione collettiva. Man mano che le imprese multinazionali plasmano in misura sempre maggiore i contenuti della maggior parte dei media tradizionali, privatizzando lo spazio pubblico, l’impegno civile appare sempre più impotente e i valori pubblici risultano invisibili. Per molte persone, oggi, la cittadinanza si è ridotta all’atto di comprare e vendere merci (tra cui i candidati), anziché mirare ad ampliare il raggio delle loro libertà e dei loro diritti in modo da espandere il funzionamento di una democrazia sostanziale9.

Il consumatore è nemico del cittadino... Ovunque, nella parte ‘sviluppata’ e opulenta del pianeta, si moltiplicano i sintomi dell’allontanamento delle persone dalla politica, della crescita dell’apatia politica e del calo d’interesse per il funzionamento del processo politico. Ma la politica democratica non può sopravvivere a lungo di fronte alla passività dei cittadini che si alimenta dell’ignoranza e dell’indifferenza politica. Le libertà dei cittadini non sono beni acquisiti una volta per tutte, non sono al sicuro se rinchiuse in casseforti private. Esse sono piantate e radicate in un suolo sociopolitico che richiede di essere concimato quotidianamente ed è destinato a inaridirsi e sbriciolarsi se non viene coltivato giorno dopo giorno dalle azioni informate di un pubblico competente e impegnato. Non sono soltanto le abilità tecniche a dover essere aggiornate continuamente, non è soltanto la formazione orientata al lavoro a dover essere permanente. Ne ha bisogno, e con urgenza ancora maggiore, anche la formazione alla cittadinanza. La maggior parte delle persone concorderebbe oggi, senza troppi dubbi, sulla necessità di aggiornare le proprie conoscenze professionali e di assimilare nuove informazioni tec144

niche, se si vuole evitare di ‘rimanere indietro’ e di essere sbalzati fuori dal ‘progresso tecnologico’ in rapida accelerazione. Eppure un simile senso di urgenza è clamorosamente assente quando si tratta di stare al passo con l’impetuosa corrente degli sviluppi tecnologici e delle regole del gioco politico in rapido cambiamento. I Giroux hanno raccolto i risultati di varie indagini che evidenziano come il divario che separa l’opinione pubblica dai fatti fondamentali della vita politica stia velocemente crescendo: Poco dopo l’invasione dell’Iraq il «New York Times» pubblicava i dati di un sondaggio secondo cui il 42 per cento degli americani riteneva Saddam Hussein direttamente responsabile degli attacchi dell’11 settembre al World Trade Center e al Pentagono. Anche la Cbs rendeva pubblica un’indagine da cui emergeva come il 55 per cento del pubblico era convinto che Saddam Hussein sostenesse direttamente l’organizzazione terroristica al Qa‘ida. Un’indagine Knight Ridder/Princeton Research riscontrava che «per il 44 per cento di coloro che avevano risposto, ‘la maggior parte’ o ‘alcuni’ dei dirottatori dell’11 settembre 2001 erano iracheni». La maggioranza degli americani riteneva anche che Saddam Hussein disponesse di armi di distruzione di massa, che tali armi fossero già state trovate, che egli si accingeva a costruire un ordigno nucleare e che avrebbe finito per lanciarlo contro un pubblico di americani ignari. Nessuna di queste affermazioni aveva in effetti il minimo fondamento, dato che non esisteva alcun indizio che confermasse, nemmeno alla lontana, tali affermazioni. Un sondaggio effettuato per il «Washington Post» nei giorni del secondo anniversario della tragedia dell’11 settembre segnalava come il 70 per cento degli americani credesse ancora che l’Iraq aveva svolto un ruolo diretto nella pianificazione degli attacchi.

In un simile scenario d’ignoranza è facile sentirsi smarriti e disperati, e ancor più non rendersi conto di esserlo. Secondo una memorabile osservazione di Pierre Bourdieu, colui che non comprende il presente non può pensare di controllare il futuro; e la maggioranza degli americani deve avere una 145

visione molto nebulosa di ciò che è contenuto nel presente. Questo sospetto è ampiamente confermato da alcuni osservatori attenti e penetranti. «Molti americani – osserva Brian Knowlton dell’‘International Herald Tribune’ – hanno dichiarato che il recente susseguirsi di falsi allarmi, simile a una doccia scozzese, li ha resi incerti sull’urgenza e sull’entità di una loro reazione»10. L’ignoranza produce la paralisi della volontà. Non si sa cosa si prepara e non c’è modo di stimare l’entità dei rischi. Per le autorità insofferenti dei vincoli posti da una democrazia vivace e flessibile ai detentori del potere, questa sorta d’impotenza dell’elettorato prodotta dall’ignoranza, il diffuso scetticismo sull’efficacia del dissenso e l’indisponibilità a un coinvolgimento politico sono fonti molto richieste e gradite di capitale politico: il dominio attraverso l’ignoranza e l’incertezza deliberatamente coltivate è più affidabile e facile che non il governo fondato sul dibattimento esauriente dei fatti e sullo sforzo prolungato per trovare un accordo sulla verità in materia e sui modi meno rischiosi di procedere. L’ignoranza politica si autoperpetua e per soffocare la voce della democrazia o legare a questa le mani torna comodo servirsi di una corda in cui si intrecciano ignoranza e inerzia. Abbiamo bisogno della formazione permanente per darci un’alternativa. Ma ne abbiamo bisogno ancora di più per salvare le condizioni che ci rendono disponibile, e in nostro potere, quell’alternativa.

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Pensare in tempi oscuri (rileggendo Arendt e Adorno)*

Viviamo in tempi che – sulla scorta di Hannah Arendt e di Bertolt Brecht – si possono ben definire «oscuri». Ecco come la Arendt descrive la natura e le cause di tale oscurità: La funzione della sfera pubblica consiste nel far luce sugli affari umani, offrendo uno spazio in cui gli uomini possano mostrare, con fatti e parole, chi siano e che cosa possano fare, nel bene e nel male. Dunque, l’oscurità è scesa quando questa luce è stata eclissata da una «carenza di credibilità» e da un «governo invisibile», dal discorso che non svela ciò che è ma lo occulta, da esortazioni morali o di altro genere che, con il pretesto di confermare antiche verità, degradano ciascuna di queste a insignificante banalità1.

Ed ecco come, nella stessa opera, sono descritte le conseguenze di quell’oscurità: la sfera pubblica ha perso la capacità d’illuminazione che faceva parte della sua natura originaria. Nei paesi del mondo occidentale, in cui la libertà dalla politica è stata inclusa costantemente, dal tramonto del mondo antico in poi, tra le libertà fondamentali, diventano sempre più numerosi coloro che fanno uso di tale libertà e si sono allontanati dal mondo e dagli obblighi che hanno al suo interno [...]. Ma ad ognuno di questi arretramenti si verifica una perdita, quasi comprovabile, verso il mondo: ciò che si perde è la me* Una versione di questo capitolo è stata pubblicata in Moshe Zuckerman (a cura di), Theodor W. Adorno, Philosoph des beschädigten Lebens, Wallstein, Göttingen 2004.

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diazione, specifica e in genere insostituibile, che si sarebbe dovuta formare tra l’individuo e i suoi simili2.

L’allontanamento dalla politica e dalla sfera pubblica diventa dunque, per la stessa Arendt, l’«atteggiamento fondamentale dell’individuo moderno, che nella sua alienazione dal mondo rivela davvero se stesso solo nella sfera privata e nell’intimità degli incontri faccia a faccia»3. «Nel secolo dell’Illuminismo» – scrive Peter Gay nel suo ampio compendio delle idee che hanno partecipato alla nascita di quel nostro stravagante modo di vivere che chiamiamo ‘modernità’ – «la paura del cambiamento, fino allora pressoché universale, cedette il passo al timore della stasi; la parola innovazione, di solito efficacemente utilizzata come ingiuria, assunse un significato opposto»4. Non si doveva aver paura del cambiamento: si aveva infatti la sensazione (almeno nei salotti di Parigi e nei caffè di Londra, luoghi di ritrovo dei cittadini della repubblica delle lettere) che «nella lotta dell’uomo contro la natura l’equilibrio delle forze si stesse spostando a favore del primo». Il ‘nuovo’, anziché annunciare l’ennesima tempesta di un destino imprevedibile, prometteva un ulteriore avanzamento lungo il cammino che avrebbe condotto l’umanità a controllare il proprio destino. L’umore prevalente non era «la millanteria che cerca di coprire l’impotenza», ma «una fede razionale nel valore dell’azione energica». Il gioco si chiamava ‘azione’: e dove esisteva la volontà d’agire, le cognizioni e gli strumenti necessari sarebbero prontamente seguiti. Si sentiva (almeno tra coloro che sapevano e pensavano) che, con il necessario sforzo, sarebbe stato senz’altro possibile abbreviare e accelerare il passaggio «dall’esperienza al programma» (come lo definisce Gay) o, in altri termini, dalla contemplazione all’azione, dalla teoria alla prassi, dal progresso della conoscenza al progresso del mondo, dalla lettura dei disegni della natura al disegno di una natura nuova e migliore. 148

L’Illuminismo fu il luogo di nascita di quelle che David Hume chiamò «scienze morali» – sociologia, psicologia, economia politica, pedagogia moderna –, tutte ben disposte a prestar servizio nell’incipiente «età dell’amministrazione» in cui i «funzionari pubblici riformatori» si «contrapponevano alle istituzioni esistenti e alle prassi tradizionali» e «dietro le truppe del laissez faire marciavano gli impiegati addetti alla regolamentazione governativa». La medicina divenne «strategica ai fini di qualsiasi vera conoscenza» e definì un modello di procedimento per qualsiasi azione, a prescindere dalla finalità che avesse: dalla diagnosi del problema alla definizione della terapia fino alla sua applicazione, risanando così l’organismo, o addirittura rendendolo ancora più sano o resistente alla malattia di quanto non fosse stato in precedenza. «La medicina» – così ancora Peter Gay – «era filosofia in azione, e la filosofia era medicina per l’individuo e la società»5. Poco più di due secoli dopo, in un’epoca che molti osservatori definiscono ‘tarda modernità’, Daniel Galvin, presentato da Laura Barton come «decano della tintura dei capelli», ci informa che «tingere i capelli è ormai diventato parte essenziale della routine con cui una donna cura la propria bellezza: una chioma senza tinta è ormai come un volto senza trucco»6. «Un giorno abbiamo capelli color caramello, il giorno dopo color mogano; e ci esaminiamo con ansia le radici, per controllare che il colore naturale non riaffiori come se fosse una muffa», aggiunge Laura Barton, che confessa di tingersi i capelli castano anche se il castano è il suo colore naturale: «Naturalmente, sono più che convinta che la tinta che scelgo dia ai miei capelli una sfumatura di castano più bella». E i capelli sono solo una delle tante parti visibili del nostro corpo, costrette a inseguire i criteri di eccellenza che di volta in volta vengono lanciati. Negli ultimi dieci anni negli Stati Uniti il numero di saloni per la cura delle unghie è triplicato e il numero di interventi di chirurgia estetica è più che raddoppiato, toccando la vetta di 6,2 milioni nel solo 2002. Secondo Apostolos Gaitanas, chirurgo plastico a Londra, il nu149

mero di interventi a fini cosmetici in Gran Bretagna cresce tra il 10 e il 20 per cento l’anno. Nulla ne viene risparmiato: pelle, naso, mento, seno... A proposito di quest’irrefrenabile ossessione alla ‘reingegnerizzazione’ Richard Sennett scrive: «Iniziative perfettamente produttive vengono chiuse o abbandonate, e dipendenti di buon livello vengono lasciati allo sbando piuttosto che compensati, semplicemente perché l’azienda madre deve dimostrare al mercato di essere capace di trasformarsi»7. Sennett cita Michael Piore e Charles Sabel a proposito di un’altra delle ossessioni di oggi, quella della ‘specializzazione flessibile’, una «strategia d’innovazione permanente: adattarsi al cambiamento incessante, anziché cercare di controllarlo»8. Basta, del resto, ascoltare i nostri ministri, attuali o in pectore, e i loro portavoce. Tante voci, ma il ritornello è sempre lo stesso: modernizzarsi, modernizzarsi e cambiare – oppure scomparire. Tertium non datur. Esiste una stupefacente rassomiglianza tra i protagonisti di queste due vicende, ambientate in epoche distanti oltre due secoli l’una dall’altra. Gli eroi di entrambe sono persone irrequiete. Non sanno stare fermi. Non sono soddisfatti dell’esistente, o non abbastanza da accettare tutto così com’è, e tollerare che rimanga identico a lungo. Vorrebbero che ciò che esiste fosse diverso; e lo vorrebbero anche se fosse più soddisfacente di com’è: poiché ciò che conta davvero è rendere le cose diverse, tenerle in movimento; la loro speranza di soddisfazione è tenuta in vita dal cambiamento, e ancor più dalla fiducia e dalla determinazione nella possibilità di cambiare le cose. Essi nutrono una duplice fiducia: credono che le cose possano esser rese diverse, e sono sicuri che essi possano renderle diverse. Detto questo, notiamo anche alcune sorprendenti differenze – tre in particolare – tra i due gruppi di protagonisti. In primo luogo, gli eroi della prima storia erano intenti a far funzionare le cose. Miravano ad amministrare, governare, gestire. Cercavano modi più efficienti per assicurarsi il moni150

toraggio e la supervisione sul mondo, che andava utilizzato per condurre gli uomini, tutti gli uomini, a uno stato di maggiore felicità. La felicità, pensavano, sarebbe stata il prodotto di un mondo ben gestito: un prodotto, dunque, sia della natura non umana (trasformata per renderla maggiormente utilizzabile da parte dell’uomo e più orientata alla felicità umana) che di quella umana (depurata da tutto ciò che potesse contrastare o non adattarsi a tale condizione di felicità). Gli eroi della seconda storia, invece, non si preoccupano particolarmente dello stato del mondo. Essi sembrano osservare l’antico precetto hic Rhodus, hic salta, e partono dal presupposto secondo cui non esiste (né può esistere) per chi salta un posto più accogliente di Rodi, e certamente non potrà esistere un posto dove non sia necessario saltare se si vogliono dimostrare la propria credibilità e il proprio merito. Costoro ritengono la felicità una condizione indipendente dallo stato in cui si trova il mondo, in quanto è un esito scontato, oppure un’impossibilità. La fuoriuscita da una condizione di infelicità può avvenire dunque solo attraverso un’operazione che i tanti che cercano la felicità affidano a se stessi, ciascuno per proprio conto, invece di mettere insieme i propri ingegni nel progettare la forma di un mondo migliore, per poi unirsi nel collaborare per renderlo migliore. In breve (anche se è una lunga storia), se la ricerca della felicità è finalizzata a rendere felici gli individui, per gli eroi della prima storia essa doveva essere un’impresa collettiva, mentre i protagonisti della seconda la considerano un compito totalmente privato, un’operazione da intraprendere e portare a termine, dal principio alla fine, in forma individuale. Una seconda differenza tra i personaggi delle due storie è la seguente. Per i protagonisti della prima storia riformare il mondo esistente, o costruirne uno nuovo e migliore, era un progetto destinato a giungere a una conclusione, prima o poi; si doveva trascendere la condizione del mondo attuale, in modo da sostituirlo con un mondo diverso dal precedente – non un ‘altro mondo’ qualsiasi, ma un mondo che rendesse 151

superflua e indesiderabile qualsiasi ulteriore trascendenza. Un mondo perfetto, in altre parole. In uno stato di perfezione, come notava Leon Battista Alberti, qualsiasi cambiamento può essere soltanto in peggio. L’operazione che gli eroi della prima storia avevano in mente aveva un limite temporale: un’accelerazione non avrebbe avuto senso, a meno che il suo scopo fosse stato quello di avvicinare il momento di rallentare e fermarsi. Gli eroi della seconda vicenda, al contrario, rifiutano l’idea che in un qualche momento sia possibile fermarsi e restare nel punto in cui ci si trova, o comunque non dedicano la minima attenzione alla linea del traguardo: il loro interesse e i loro sforzi si concentrano sulla prossima azione da compiere; essi sanno fin troppo bene che non possono sapere né immaginare quale azione dovranno o vorranno svolgere immediatamente dopo. Per loro stare in movimento non rappresenta un impegno temporaneo che un giorno avrà raggiunto il suo scopo, eliminando così la propria stessa necessità. Muoversi ha come unico scopo quello di restare in movimento. Se per gli eroi della prima storia il cambiamento era un’operazione una tantum, un mezzo per un fine, per i protagonisti della seconda esso è fine a se stesso, che è probabile venga perseguito perennemente. Una terza differenza è la seguente. Il primo gruppo di protagonisti erano pronti a spingere, pungolare e tormentare gli uomini per farli cambiare. Costernati per l’indolenza e la mancanza di fantasia umane, essi ritenevano o sospettavano che fosse necessario spingere e tirare gli uomini per costringerli a scuotersi e accettare il cambiamento, esortarli a unirsi allo sforzo per cambiare il mondo. Per gli eroi dell’epoca successiva, invece, l’indifferenza, l’inerzia e la ‘stasi’ non costituiscono una prospettiva che possa essere seriamente presa in considerazione. Non è necessario predicare, né costringere al cambiamento. Non sarebbe comunque possibile restare seduti con le mani in mano. Persino il rifiuto del cambiamento costringe all’azione. Ci si muove perché non si può fare altrimenti; perché non è data la possibilità di fermarsi. Come quando 152

si va in bicicletta, si deve pedalare per non cadere, come obbedendo al consiglio di Lewis Carroll: «Qui, invece, vedi, devi correre più che puoi, per restare nello stesso posto». A tale proposito si può aggiungere ancora un’osservazione. Il ruolo di eroi è affidato, nelle due storie, a personaggi di tipo diverso. Gli eroi della prima storia erano sceneggiatori, registi, direttori d’orchestra, istruttori, direttori di scena. (Come spiega Gay, «il nuovo stile di pensiero era riservato, in linea generale, a chi era di buona famiglia o a chi sapeva esprimersi bene o, ancora, a chi aveva avuto fortuna; nel nuovo ordine le masse rurali e urbane avevano un ruolo marginale»)9. Nella seconda storia – la storia della trascendenza umana nella forma che tende a (e dovrebbe?) essere narrata oggi – gli eroi sono gli stessi attori, tutti: quelli sotto la luce dei riflettori e quelli che rimangono nell’ombra, le comparse mute e coloro che recitano lunghe parti. Nel passaggio dalla prima alla seconda storia sceneggiatori e registi sono diventati invisibili, mentre i direttori di scena lo sono più che mai. Perché è accaduto tutto ciò? Perché nella seconda storia gli eroi della prima non hanno trovato spazio? Sono stati essi stessi causa della propria disoccupazione? Siamo di fronte a un caso di missione compiuta, per quanto imprevisti fossero i suoi risultati? O, forse, gli eroi di un tempo hanno raggiunto il disincanto, abbandonando i loro avamposti per dedicarsi a nuovi, più promettenti passatempi? O, piuttosto, essi si sono fusi e mescolati alla folla che calca le scene, e non è più possibile distinguerli dal resto del cast, né tanto meno collocarli al centro della vicenda? La vita di Theodor Wiesengrund Adorno si snoda tra le due epoche in cui sono ambientate le rispettive storie sopra richiamate – separate nel tempo, ma riunificate nella sua opera. L’opera di Adorno unifica davvero tali storie. La tesi di Adorno è che la seconda, per quanto apparentemente diversa dalla prima, possa essere compresa solo se la prima viene 153

assorbita e metabolizzata completamente. Il mondo descritto nella seconda storia può essere interpretato soltanto come séguito del mondo descritto nella prima. Ciò non significa, tuttavia, che la prima determini necessariamente la seconda. Di per sé la seconda vicenda non si può dedurre dalla prima, che avrebbe ben potuto avere altri seguiti. La storia non doveva necessariamente imboccare quella direzione, né seguire quel percorso. Ma il mondo della seconda vicenda, una volta che questa è stata narrata, chiede a gran voce una rivisitazione e riconsiderazione della prima. La seconda storia rende non solo plausibile, ma assolutamente necessaria una revisione della prima. Esse hanno senso solo nell’ambito di un dialogo reciproco. L’opera di Adorno è questo dialogo. Nei suoi scritti Adorno separa le due storie nell’atto stesso in cui le unifica: il mondo descritto nella seconda è in radicale opposizione a quello della prima, e anzi ne costituisce la negazione – ma tale opposizione è il prodotto finito di quella prima autodistruzione del mondo. Quanto più radicale è l’opposizione, tanto più chiaro diventa il potenziale distruttivo (o, meglio, autodistruttivo) del mondo cui tale opposizione è rivolta. Compito di quest’ultima, nelle parole di Adorno, «non è di conservare il passato, ma di realizzare le sue speranze», ormai abbandonate, dimenticate e forse perdute; e questa è forse la necessaria implicazione di qualsiasi resistenza, dal momento che, nel mondo ritratto nella seconda storia, «il passato continua come distruzione del passato»10. Il passato tende a essere inesorabilmente e sistematicamente distrutto, rendendo pressoché impossibile la realizzazione delle speranze una volta che gli individui «si riducono alla pura successione di presenti puntuali, che non lasciano traccia, o le cui tracce sono per loro oggetto di odio, come irrazionali, superflue e ‘superate’ nel senso più letterale»11. Sottoposti a tale riduzione, difficilmente gli individui cercheranno sicurezza nella speranza: in una causa, cioè, che deve ancora consolidarsi in realtà. Come Pierre Bourdieu avrebbe no154

tato alcuni decenni dopo, chi è privo di qualsiasi contatto con il proprio presente (come in effetti noi siamo, date la volatilità e la destrutturazione che ben conosciamo dell’esperienza, nel momento in cui questa si suddivide e frammenta in una fitta sequenza di brevi episodi) non avrà il coraggio che occorre per restare in contatto con il futuro12. Difficilmente considererà il futuro, impenetrabile e notoriamente capriccioso, come una cassetta di sicurezza sufficientemente solida e durevole da potervi immagazzinare e conservare il proprio salvacondotto... Lo stato di «precarietà», come lo chiamerebbe Bourdieu, «rende tutto il futuro incerto, impedisce qualsiasi forma di anticipazione razionale e, in particolare, quel minimo di fede e di speranza nel futuro che è necessario per ribellarsi». Continuando a percorrere episodi che non paiono incastrarsi in una sequenza significativa né tanto meno prevedibile, l’individuo propenderà, come scrive Adorno, a «cedere se medesimo alla collettività; in compenso che egli salta nel crogiuolo, gli viene promessa la predestinazione, che si vuole faccia tutt’uno con l’appartenenza. I deboli, gli impauriti, si sentono forti se, correndo, si tengono per mano»13. Umiliato e frustrato quotidianamente, l’individuo porterà in salvo il proprio narcisismo personale nel ‘narcisismo collettivo’: promessa di sicurezza che, ai fini della salvezza di quell’individualità malamente ferita, non può che essere ingannevole: la speranza di riscatto è destinata a essere frustrata, poiché la promessa di autostima ‘per procura’ proviene da quella stessa collettività che condiziona l’ammissione alla sospensione o all’abbandono dell’individualità14. Eppure gli individui, data la loro personale impotenza, sarebbero ancora «esposti a un livello insostenibile di offesa narcisistica se non cercassero identificazione, a titolo di compensazione, nel potere e nella gloria della collettività»15. Un abbandono (continuamente rinnovato e reiterato) dell’individualità è in effetti l’atto (ripetitivo) di cui sono co155

struite (e ricostruite in continuazione) le mura dei dormitori pubblici che offrono ricovero (per una o due notti al massimo) al narcisismo individuale vagabondo e senza fissa dimora. Ed è solo il gran numero di individualità dismesse e abbandonate all’ingresso che fa apparire queste mura abbastanza collaudate nella loro solidità e sicurezza da indurre a presentarsi all’ingresso. I rifugi sono immaginati; ma poiché è noto che l’immaginazione è una facoltà volubile e capricciosa, è difficile che uno qualsiasi di essi resti a lungo in voga e richiesto. I rifugi immaginati sono tutt’altro che ‘naturali’, o ‘dati’. La loro esistenza è poco più che una successione di momenti di rinascita: un miracolo quotidiano che non è mai certo possa continuare. Essi, come coloro che vi cercano sicurezza, vivono di episodi. La fragilità e lo status incerto delle loro promesse di sicurezza (che ha tra le proprie caratteristiche definitorie la durata, ed è dunque necessariamente una condizione di lungo periodo) sono celati soltanto dalla velocità e dall’opportunismo con cui la folla di coloro che cercano e chiedono riparo passa di ospizio in ospizio, di episodio in episodio: oggi faccio parte di coloro che hanno i capelli color caramello, ma ben presto entrerò a far parte del gruppo color mogano; oggi partecipo a una veglia notturna per protestare contro il rientro ‘in comunità’ di un pedofilo appena scarcerato, domani sarò tra i dimostranti che si oppongono all’apertura di un campo profughi troppo vicino a casa. La communis opinio è avvertita come un dono del cielo da individui che personalmente controllano e gestiscono risorse troppo inferiori rispetto a quelle occorrenti per separare con un minimo di affidabilità la verità dalla ‘mera opinione’. Essa solleva gli individui dall’onere di decisioni che essi non sono comunque in grado di prendere, risparmiando loro la beffa oltre al danno ed evitando di spargere il sale nella ferita. «Che cosa sia verità o mera opinione», afferma Adorno, viene deciso «dal potere della società, che denuncia come mero arbitrio tutto ciò che non concorda col suo arbitrio. Il confi156

ne tra l’opinione sana e quella patogenica è tracciato in praxi dall’autorità dominante, non dal giudizio informato»16. Finalmente un confine... Appena avvistato, ogni esitazione o timore si placa e può essere messo da parte; diventa facile trovare e distinguere il dentro e il fuori, cercare di tenersi alla larga dalla vigilanza delle guardie di frontiera. Forse – ma non è certo – restare entro i confini basterà a supplire a quella sicurezza tanto ardentemente desiderata (del resto chi perde non ha molta scelta), mentre agli spiriti avventurosi la vista di un confine offrirà, a lungo andare, una possibilità di trasgressione. I confini tracciati dall’autorità servono in egual misura a chi cerca sicurezza e a chi ha sete di avventura. Non sorprende che i due gruppi si trovino a lavorare entrambi per rafforzare quei confini: ecco un compito su cui concordano e collaborano nonostante i loro molteplici antagonismi. Del resto, chi si accorgerebbe del confine o renderebbe omaggio alla sua serena e adamantina solidità, se non fosse per gli sforzi complementari – reciprocamente contraddittori ma anche indispensabili – di questi due gruppi? Qualche decennio dopo la pubblicazione dei Minima Moralia da parte di Adorno, il grande poeta polacco Czes¢aw Mi¢osz affermava che gli intellettuali e gli artisti che scelgono (forzatamente o no) l’esilio – quel grande spazio ignoto oltre i confini – hanno la possibilità di cogliere la condizione dell’uomo contemporaneo come mai avrebbero potuto se fossero rimasti dentro i confini stessi, se avessero condiviso la sorte di coloro la cui vita si sforzavano di comprendere17. Joyce avrebbe forse scritto l’Ulisse se fosse rimasto per tutta la vita a Dublino? E Isaac Bashevis Singer avrebbe mai rievocato il mondo dello shtetl se quel mondo non fosse stato scagliato a grande distanza da ogni sua speranza di ritorno? Domande retoriche, certo, cui è ovvio rispondere di no. Occorre tempo per comprendere che «esilio non significa semplicemente attraversamento dei confini: l’esilio cresce e matura nell’esiliato, lo trasforma e diventa il suo destino». Non tutto il male oscuro e scoraggiante della solitudine, dell’abbandono e 157

dell’alienazione viene per nuocere. La stessa perdita di un’inclusione confortevole, armoniosa e non problematica nello spazio circostante, l’impossibilità di sentirsi a casa in tale spazio, così vicino eppure così lontano, tanto diverso dalla topografia che si ricorda delle terre che ci si è lasciati alle spalle e che tormentano l’esiliato o il profugo, consentono a chi vive questa condizione di penetrare a fondo la logica e il significato universale della vita in un genere di mondo (il nostro mondo liquido-moderno, potremmo dire) in cui ciascuno – inconsapevolmente, di solito – condivide la condizione di esiliato: «ciò che è accaduto nella vita di ognuno si trasforma continuamente nel ricordo e acquisisce di solito i connotati di un paradiso sempre più singolare ed estraneo». Tutto o quasi ciò che si può dire per tentare di esprimere la condizione amorfa e vagamente minacciosa di chi si trova in esilio vale anche a proposito di tutti coloro che sono esposti al nuovo paesaggio metropolitano della modernità liquida. Duplice fedeltà, duplice rischio, duplice possibilità di comprendere se stessi... «L’esilio è una prova di libertà», conclude Mi¢osz, «e questa libertà fa paura [...] L’esilio distrugge: ma se si resiste alla distruzione si uscirà dalla prova più forti». Ai nostri giorni le prospettive di emancipazione umana appaiono molto diverse da quelle che a Marx apparivano tanto evidenti, eppure le accuse dello stesso Marx verso un mondo imperdonabilmente ostile all’umanità non hanno perso nulla della loro importanza e urgenza, e la difficoltà nel trovare una giuria competente dotata dei poteri per pronunciare e far affiggere una sentenza, punire i colpevoli e risarcire le vittime non prova in modo definitivo che l’aspirazione originaria all’emancipazione è irrealistica. Non sono state addotte ragioni sufficienti per cancellare quest’obiettivo dalla lista delle cose da fare (semmai, è vero il contrario: l’ostinata resistenza dei mali è una ragione in più per ritentare con maggior forza di estirparli). Su questo punto Adorno è adamantino: 158

«La presenza non diminuita della sofferenza, della paura e della minaccia impone di non scartare il pensiero che non può essere realizzato». Oggi come allora, «la filosofia deve arrivare a comprendere, senza alcuna attenuazione, per quale motivo il mondo – che potrebbe essere un paradiso qui e ora – può diventare un inferno fin da domani». La differenza tra le condizioni di ‘ora’ e di ‘allora’ va cercata altrove. A Marx il mondo sembrava pronto a trasformarsi in un paradiso ‘qui e ora’. Sembrava prepararsi una svolta repentina, «la possibilità di cambiare il mondo ‘da cima a fondo’ era immediatamente presente»18. Ora non è più così, ammesso che mai lo sia stato, e «solo con ostinazione si può ancora sostenere questa tesi così come Marx l’aveva formulata». La possibile scorciatoia verso un mondo più accogliente per l’umanità è andata persa. Si potrebbe dire che non si vedono più ponti, veri o presunti, che colleghino il mondo hic et nunc a quell’altro mondo, user friendly e accogliente per l’umanità. E se anche si sapesse qual è il ponte, non ci sono folle impazienti di attraversarlo, né veicoli in grado di condurre sani e salvi sull’altra sponda. Nessuno può sapere con certezza come potrebbe essere progettato un ponte utilizzabile, né in quale punto della riva convenga collocare la testa di ponte per rendere il traffico più scorrevole e comodo. Non esistono, occorre concludere, possibilità immediate in tal senso. Nei termini di Adorno, lo ‘spirito’ e l’‘entità concreta’ hanno preso strade diverse, e se lo spirito aderisce alle diverse realtà lo fa a proprio rischio e, in ultima analisi, a rischio della stessa realtà. Solo un pensiero privo di santuari mentali, d’illusioni sull’esistenza di una sfera interiore, un pensiero che abbia riconosciuto la propria mancanza di funzione e di potere, può forse cogliere di sfuggita un ordine del possibile e del non esistente in cui uomini e cose si trovino al posto che spetta loro di diritto19. Il pensiero filosofico ha inizio soltanto nel momento in cui non ci si accontenta più delle conoscenze acquisibili in un limitato rag159

gio visivo, dalle quali non si cava niente più di quanto già in esse era stato introdotto20. Il pensiero non è la riproduzione intellettuale di ciò che comunque esiste. Finché non s’interrompe, il pensiero ha salda presa sul possibile. Il suo carattere incontentabile e la sua indisponibilità a farsi soddisfare rapidamente e facilmente respingono la saggezza stolta costituita dalla rassegnazione. Il momento utopico del pensiero è tanto più forte quanto meno esso [...] si reifichi in un’utopia, sabotando così la propria stessa realizzazione. Il pensiero aperto punta oltre se stesso21.

La filosofia, insiste Adorno, esprime la «decisione della libertà intellettuale e reale», e solo a tale condizione può, e deve, «resistere alla suggestione dello status quo esistente»22. Non so se Adorno abbia letto Franz Rosenzweig, ma chi ha letto entrambi noterà certamente l’affinità (sebbene solo elettiva) delle conclusioni dei due pensatori, che emerge distintamente in un ginepraio di differenze – di lessico, di fonti d’ispirazione, di accenti e di ‘rilevanze tematiche’. Rosenzweig, come Adorno, ritiene che «per la filosofia essere mal compresa dal senso comune sia un privilegio, e persino un dovere»23. L’alternativa può essere soltanto l’«apoplexia philosophica acuta» che regna sovrana negli uffici accademici, sebbene – o, meglio, proprio perché – la vocazione ultima della filosofia è di elevare la Lebenswelt umana fino a un livello in cui tale incomprensione non sarà più il suo destino24. «La teoria», ribadisce Adorno, si schiera in favore di «tutto ciò che non è limitato»25, e il senso comune con ogni probabilità lo è, per tutte le ragioni già elencate e per tante altre, che sono sottolineate in tutta la sua vasta opera. La prassi, e soprattutto la praticità, è di solito una scusa o un autoinganno dei ‘furbi’, come nel caso di quel «parlamentare idiota della caricatura di Doré» che si vantava di «non scorgere alcunché al di là dei propri compiti immediati». Adorno nega alla prassi l’apprezzamento che di solito i portavoce della scienza ‘positiva’ e quei professionisti che costituiscono la stragran160

de maggioranza della filosofia accademica, e che si arrendono al loro terrore, generosamente profondono verso di essa. La prassi non è una prova della verità, tanto meno decisiva e definitiva: essa è anzi un ostacolo – o, per ben che vada, una via traversa – verso la verità. La prassi e l’immediatezza di effetti di un’azione non costituiscono legittimamente una misura della forza portante di una teoria, né una verifica credibile della sua qualità. La prassi ha perso tale autorità nel momento in cui ha messo da parte le speranze e le promesse inesaudite del passato, lasciando sola la teoria sul campo dove si combatte la battaglia per conservare e realizzare quelle speranze, che alla fine potrebbero realizzarsi. Non penso che Adorno si ripromettesse dal dialogo con la materia molti vantaggi per lo spirito – e gli uomini, una volta spogliati della loro soggettività e schiacciati in una folla dispersa, sbandata e sottomessa, sono effettivamente ridotti allo stato di materia. Egli mise in guardia il suo amico Walter Benjamin, appena più anziano, contro quelli che chiamava «motivi brechtiani», ossia contro la speranza che gli «autentici lavoratori» salvassero l’arte dalla perdita della sua aura o fossero riscattati dall’«immediatezza di effetto estetico combinato» dell’arte rivoluzionaria26. Questi ultimi, sottolineava, da questo punto di vista «di fatto non hanno alcun vantaggio sui loro omologhi borghesi», e «recano tutti i segni della mutilazione tipica del carattere borghese». Ecco allora il taglio netto: attenzione a «fare della nostra necessità» (la necessità degli intellettuali che «hanno bisogno dei proletari per fare la rivoluzione») «una virtù del proletariato, come siamo continuamente tentati di fare». «Il mondo vuole essere ingannato»: il brusco verdetto di Adorno fa quasi da commento alla dolorosa storia di Odisseo e dei maiali, narrata da Feuchtwanger, o – nella stessa ottica – alla «fuga dalla libertà» di Erich Fromm, o all’archetipo stesso di questo genere di storie, la mesta riflessione di Platone sul destino tragico dei filosofi che cercano di condividere con gli abitanti della caverna le buone notizie provenienti dal mondo 161

esterno. «Gli uomini, come afferma il detto comune, amano essere imbrogliati [...]»; essi «avvertono che la loro vita sarebbe assolutamente insopportabile nel momento in cui smettessero di restare attaccati a soddisfazioni che non sono tali»27. Egli approva senza riserve la tesi sostenuta da Sigmund Freud nel saggio sulla psicologia di gruppo: il gruppo «desidera essere governato con forza priva di restrizioni; esso nutre una passione estrema nei confronti dell’autorità: con le parole di Le Bon, ha sete di obbedienza. Il padre primordiale è l’ideale del gruppo che governa l’io anziché l’ideale dell’io»28. Adorno ascrive lo straordinario successo e il dominio indiscusso dell’«industria culturale di massa» alla sua abilità nello sfruttare quell’ideale: «Quest’aspirazione a ‘sentirsi su un terreno sicuro’, che riflette un bisogno infantile di protezione, piuttosto che un desiderio di brividi, viene alimentata. L’elemento dell’eccitazione si conserva solamente in forma ironica [...]. Tutto, in qualche modo, appare ‘predestinato’»29. Se l’‘emancipazione’, obiettivo ultimo della critica sociale, punta a «sviluppare individui autonomi e indipendenti, capaci di giudicare e decidere consapevolmente per proprio conto»30, essa si oppone alla gigantesca ‘industria culturale’, ma anche alla spinta della moltitudine che quell’industria promette di gratificare, e più o meno illusoriamente gratifica, nelle sue aspirazioni. Che ne è dunque degli intellettuali, custodi delle speranze e promesse disattese del passato e critici di un presente colpevole di aver dimenticato e soppresso tali aspirazioni? È opinione comune – formulata probabilmente da Jürgen Habermas per la prima volta, e contestata solo in anni recenti da qualche studioso di Adorno – che la risposta di quest’ultimo a domande del genere trovi la sua migliore espressione nell’immagine del ‘messaggio nella bottiglia’. Chiunque abbia scritto quel messaggio e lo abbia inserito in una bottiglia, chiudendola e gettandola in mare, non poteva certo sapere se 162

e quando essa sarebbe stata avvistata, quale marinaio l’avrebbe recuperata, e se quel marinaio, una volta stappata la bottiglia ed estrattone il pezzo di carta, avrebbe voluto e saputo leggerne il testo, comprendere il messaggio, accettarne il contenuto e farne il tipo di utilizzo auspicato dall’autore. L’equazione è composta quasi esclusivamente da incognite, e l’autore del ‘messaggio nella bottiglia’ non ha modo di risolverla, ma può dire tutt’al più, come Marx: Dixi et salvavi animam meam. Egli ha compiuto la sua missione e fatto tutto ciò che era in suo potere per salvare dalla scomparsa il messaggio. Le speranze e promesse di cui è a conoscenza, ignote o dimenticate dalla maggioranza dei suoi contemporanei, non raggiungeranno il punto di non ritorno nell’oblio, ma avranno la sia pur minima possibilità di una seconda giovinezza. Esse non moriranno con l’autore del messaggio, o almeno la loro morte non sarà certa come lo sarebbe stata se il pensatore stesso, invece di metterle in una bottiglia ermeticamente chiusa, le avesse affidate alla mercé delle onde. Come ripete Adorno, «non c’è pensiero che sia immune dalla sua comunicazione, e basta formularlo nella falsa sede e in un senso equivocabile per minare la sua verità»31. E dunque, quando si tratta di comunicare con gli attori, veri, presunti, falliti o riluttanti a partecipare all’azione del proprio tempo, «per l’intellettuale, la solitudine più scrupolosa è la sola forma in cui può conservare un’ombra di solidarietà» verso gli umili e gli emarginati. Infliggersi una simile segregazione non costituisce, per Adorno, un atto di tradimento – e nemmeno un atto di ritirata o di condiscendenza (posizioni collegate tra loro: «condiscendenza e mancanza di presunzione sono in realtà la stessa cosa», precisa lo stesso Adorno). Tenersi a distanza è, paradossalmente, un atto d’impegno: la sola forma che può assumere l’impegno per la causa delle speranze inattuate o tradite. «Chi si tiene in disparte non è meno invischiato dell’attivo e affaccendato: nei cui confronti non ha che il vantaggio di conoscere il proprio irretimento e la felicità di quel tanto di libertà che è insito nel conoscere in quanto tale»32. 163

L’allegoria del ‘messaggio nella bottiglia’ implica due presupposti: che esista un messaggio che sia possibile scrivere e meriti di essere affidato alle acque all’interno di una bottiglia, e che il messaggio, quando (in un momento non prevedibile) sarà stato trovato e letto, meriterà ancora lo sforzo, da parte di chi lo ha trovato, di estrarlo, assorbirlo e adottarlo. In casi come quello di Adorno, affidare il messaggio a un lettore sconosciuto in un futuro indefinito appare preferibile ad associarsi a dei contemporanei ritenuti impreparati e disinteressati ad ascoltare, e ancor più a comprendere e assimilare il messaggio. In casi simili l’invio del messaggio in uno spazio e in un tempo privi di riferimenti è ispirato alla speranza che la sua potenzialità sopravviva all’indifferenza del presente e alle condizioni (transitorie) che sono causa di tale indifferenza. L’espediente del ‘messaggio nella bottiglia’ ha senso se (e soltanto se) chi vi ricorre confida che i valori siano eterni, che le verità siano universali, e sospetta che le preoccupazioni che in quel momento hanno innescato la ricerca di libertà e l’appello in difesa dei valori siano destinate a persistere. Il messaggio nella bottiglia è testimone del fatto che la frustrazione è transitoria e la speranza duratura, che le possibilità sono indistruttibili e le avversità che ne impediscono l’attuazione superabili. Nella versione di Adorno, la teoria critica offre tale testimonianza, e ciò giustifica la metafora del messaggio nella bottiglia. Si può notare, a tale proposito, che è proprio tale testimonianza a distinguere nettamente la critica di Adorno dal ‘pensiero radicale’ della corrente nichilista del pensiero postmoderno con cui troppo spesso viene confusa. Concordo con Jean Baudrillard, principale esponente di quella corrente, sull’affermazione secondo cui il ‘pensiero radicale’ non è dialettico, né rappresenta una ‘critica’; e sostengo che ciò dipende dal fatto che tale pensiero rifiuta entrambi i presupposti accettati da Adorno, come testimonia efficacemente la teoria critica. Nei manifesti programmatici di Baudrillard33 il 164

‘pensiero radicale’ rifiuta di scendere nel negoziato sui significati che è la sostanza della teorizzazione critica; la principale posta in gioco, per il ‘pensiero radicale’, non risiede nella reinterpretazione o spiegazione degli eventi, ma nella sfida al loro carattere reale e alla validità del pensiero che mira alla loro interpretazione, il cui ridimensionamento e declassamento è una mera replica ideale della ‘distruzione simbolica’ perpetuata dall’‘evento’. Il ‘pensiero radicale’ non è figlio del dubbio filosofico o dell’utopia frustrata. Esso punta direttamente alla messa in questione del mondo, ivi comprese la sua critica utopistica e la filosofia che sorge dallo spazio vuoto situato tra quella critica e il mondo. Coloro che praticano il pensiero radicale nella versione di Baudrillard «sognano un mondo in cui ciascuno rida spontaneamente quando sente dire ‘questo è vero’, ‘questo è reale’». In un mondo simile, possiamo aggiungere, il tempo è sospeso e non ha alcun significato interrogarsi sulla durata e sulla transitorietà, come non lo ha il gesto di affidare al mare una bottiglia. La questione se la metafora del ‘messaggio nella bottiglia’ sia una descrizione sintetica delle intenzioni fattuali e delle azioni di Adorno, o piuttosto un tentativo di catturare il senso delle sue riflessioni programmatiche sparse, è controversa. Ancor più lo è la valutazione del ruolo svolto dalla scuola di Francoforte e dal suo indiscusso leader spirituale dopo il ‘ritorno a casa’, il passaggio dall’oscura periferia dell’establishment accademico americano ai riflettori della vita intellettuale tedesca ed europea: fu questo il solo periodo della vita di Adorno in cui gli esponenti della teoria critica ebbero a disposizione posizioni di potere e risorse materiali tali da poter mettere in pratica le principali raccomandazioni di tale teoria. Come Adorno e Horkheimer riflettevano durante l’esilio americano, «la storia di quelle antiche religioni e scuole, come quella dei partiti e delle rivoluzioni moderne, insegna [...] che il prezzo della sopravvivenza è [...] la metamorfosi dell’idea in dominio». Sia a Horkheimer, in veste di rettore dell’università di Friburgo, che a Adorno, alla testa del risor165

to istituto francofortese, fu data l’opportunità di una simile trasformazione. Alcuni autorevoli studi, confermando a posteriori il verdetto emesso dagli studenti del 1968, notano che Adorno sembrò adattarsi facilmente alla nuova situazione, dedicando maggiore attenzione al dominio e ai suoi strumenti amministrativi che al recupero e alla conservazione della purezza ideale. Sia lui che Horkheimer sarebbero confluiti nell’‘establishment’ (quale che sia il significato di questo nome troppo spesso utilizzato, anche a sproposito) senza grandi difficoltà, rimorsi o riserve mentali, confermando in tal modo, sia pure involontariamente, i propri ripetuti moniti sulle capacità dell’amministrazione di assorbire e rimodellare a propria immagine anche la più risoluta delle opposizioni. Di recente, tuttavia, tra gli studiosi di Adorno si è fatta strada un’altra lettura del ruolo svolto dai due pensatori nella Germania postbellica, che si sarebbero impegnati in una sorta di «lunga marcia nelle istituzioni» in versione teorico-critica, in uno sforzo risoluto, metodico e coerente per utilizzare il prestigio e l’autorità che essi avevano da poco acquisito, al fine di scuotere dal torpore conservatore le istituzioni accademiche esistenti, e il milieu intellettuale in genere, e aprirli al pensiero critico e alle azioni di lungo termine raccomandate dalla teoria critica. Non ho competenze sufficienti per schierarmi in questa disputa, che tocca agli storici affrontare e risolvere. Vorrei invece soffermarmi sui contenuti del ‘messaggio nella bottiglia’: sulle raccomandazioni che gli intellettuali della nostra generazione (contigua, ricordiamolo, all’epoca narrata dalla seconda delle nostre storie) possono recuperare dagli scritti di Adorno e sulla loro rilevanza rispetto alle sfide e ai compiti con cui questa generazione e i suoi intellettuali si trovano a confrontarsi. Vorrei osservare, innanzitutto, che né l’una né l’altra delle accuse che Karl Marx, quasi due secoli fa, muoveva al capitale (relativamente ai suoi sprechi e alla conseguente ingiu166

stizia morale) hanno perso rilevanza. Solo la dimensione di quegli sprechi e di quell’ingiustizia è cambiata, ed è diventata ormai planetaria. Lo stesso vale per il formidabile compito dell’emancipazione, il cui senso d’urgenza ha ispirato oltre mezzo secolo fa l’establishment della scuola di Francoforte, e tuttora continua a guidarne il lavoro. Nel suo studio storico, pubblicato di recente, sulla «svolta culturale» e gli intellettuali americani e britannici Michael Denning cita il giudizio di Terry Eagleton, secondo cui «se la sinistra [ossia gli intellettuali di sinistra] degli anni Trenta aveva svenduto la cultura, la sinistra postmoderna l’ha sopravvalutata», obiettando che alle origini della ‘svolta culturale’ non fu una reazione a quella ‘sottovalutazione’, né è la reazione a questa ‘sopravvalutazione’ a ispirare l’attuale svolta degli ‘studi postculturali’, ma piuttosto il fatto che il ‘momento storico’ della scissione del pianeta in tre parti (momento che aveva reso plausibile la ‘cultura’ degli ‘studi culturali’) è ormai concluso34. È il mondo ad essere cambiato: all’epoca del primo, secondo e terzo mondo è subentrato il «momento della globalizzazione»; e il riorientamento dell’attenzione degli studiosi (con il mutamento teorico che ne è derivato) non sono che conseguenze di tale nuovo momento. È di quest’ultimo, secondo Denning, la principale responsabilità se la domanda «quanti popoli» (nazioni, etnie, razze, ecc.) «vengono prodotti» ha perso d’interesse, e se si è passati dalla critica degli «apparati ideologici di Stato» e delle «industrie culturali» alla consapevolezza dell’«emergere di una cultura globale», alla «critica culturale transnazionale» e al nuovo vocabolario dell’«ibridazione», del «creolo» e della «diaspora». Vorrei notare tuttavia che è l’élite sempre più ‘transnazionale’ della conoscenza – la classe, sempre più risolutamente e manifestamente extraterritoriale, dei creatori e manipolatori di simboli – a porsi all’avanguardia della ‘globalizzazione’, ovvero di quel segno stenografico che indica il graduale ma inesorabile venir meno (vero o presunto) della maggior parte delle distinzioni facenti riferimento a un terri167

torio, e la sostituzione di gruppi e associazioni definiti su base territoriale con ‘reti’ elettronicamente mediate, che ignorano lo spazio fisico e perdono contatto con i luoghi e le sovranità localmente circoscritte. E aggiungerei che è innanzitutto, e soprattutto, l’élite del sapere a vivere la propria condizione come ‘transnazionale’, e che è questo tipo di esperienza a puntare a una rielaborazione di sé nell’idea di ‘cultura globale’, la cui tendenza prevalente è l’‘ibridazione’: un’immagine che il resto dell’umanità, non altrettanto mobile, troverà difficile adottare come adeguata rappresentazione della propria realtà quotidiana. Si tratta indubbiamente di una cesura fondamentale, che tuttavia riguarda soprattutto la posizione sociale, l’ambizione e la funzione dell’élite del sapere. Per quanto queste siano cambiate, nel cammino che ha condotto dal «pianeta dei tre mondi» al «momento della globalizzazione», l’attuale riallineamento dell’attenzione allo studio della cultura è stato tutt’altro che repentino; la sua preparazione e maturazione precedono di molto l’avvento della globalizzazione. Le sue radici si possono cogliere nella Nuova Sinistra degli anni Sessanta, i cui interessi si concentravano, per citare la felice espressione di Denning, sul modo di «inventare un marxismo senza classe». Un marxismo – aggiungerei – senza soggetto storico; un marxismo senza la più marxista delle convinzioni marxiste, e cioè che ogni era storica alleva un soggetto promotore della propria trasformazione rivoluzionaria. Non si trattava solamente di derubricare il proletariato tra le cause perse e dirgli addio. In tal modo, infatti, il discorso intellettualistico è rimasto da solo, insieme a ciò che restava dell’‘intellettuale generale’ su cui gravava un tempo il compito di individuare, illuminare e guidare gli agenti del cambiamento storico: compito che quegli ‘intellettuali parziali’ che Michel Foucault e tanti suoi seguaci esortavano a farsi avanti non sono mai stati né desiderosi né indotti a svolgere. Il patto degli ‘intellettuali’ con il ‘popolo’ che essi stessi si erano incaricati di ele168

vare e guidare nella storia è stato infranto, o meglio revocato, unilateralmente così com’era stato proclamato agli albori dell’era moderna. Succeduta agli intellettuali di un tempo, l’élite del sapere, dopo aver condiviso la ‘secessione di chi è soddisfatto’, si muove ormai in un mondo nettamente diverso e privo di sovrapposizioni con i tanti e svariati mondi in cui sono collocate e rinchiuse la vita e le prospettive (o l’assenza di prospettive) del ‘popolo’. Eppure... La critica marxiana sugli esorbitanti costi umani che la liberazione del capitale da vincoli politici ed etici comportava fu lanciata agli albori dell’era della formazione dello Stato-nazione. Fino allora la subordinazione dell’attività economica a uno spettro più ampio di esigenze umane e di criteri comunemente accettati di correttezza e di fair play avveniva al livello della comunità locale e si appoggiava a istituzioni anch’esse locali, come i comuni, i feudi, le comunità rurali e le corporazioni artigiane. Entro la fine del XVIII secolo tutti quegli elementi del régime che ben presto sarebbe stato definito ancien erano ormai sottoposti a tensioni che non erano né preparati né atti a sopportare. Essi erano ormai in uno stato di avanzato declino e non potevano più esercitare alcun controllo efficace. Sopra il livello locale e le sue istituzioni sempre più impotenti emergeva dall’ambito delle autorità locali un nuovo spazio «socialmente extraterritoriale», in assenza di un’altra autorità che intendesse e potesse assumere la supervisione sui modelli di relazione e sull’equanimità degli scambi tra gli uomini. Le conseguenze immediate di tale emancipazione dell’attività economica da qualsiasi criterio diverso dalla redditività e da qualsiasi finalità diversa dalla moltiplicazione dei profitti furono una crescita della produzione e un’accumulazione della ricchezza senza precedenti, ma anche una polarizzazione marcata e violenta degli standard di vita, la formazione di una massa in rapida crescita di ‘scarti umani’ (ridondanti, superflui e privi di funzione, e pertanto esclusi dalla comitiva dei titolari di diritti umani e pri169

vati della dignità umana), la perdita accelerata di valore, e infine l’estinzione, dei consueti modi di guadagnarsi la vita: il tutto coronato dalla rapida e inesorabile disintegrazione delle tradizionali reti di sicurezza intessute di vincoli, obblighi e impegni tra persone. Lo smantellamento e l’esautorazione dei meccanismi sociali esistenti di regolazione normativa fu salutata dagli imprenditori come trionfo della libertà su restrizioni economicamente prive di senso, e dunque ‘retrograde’. Coloro che dovettero subire la «grande trasformazione» la percepirono in primo luogo, e soprattutto, come perdita di sicurezza. Quello che Marx (e non solo lui) aveva interpretato come presagio e annuncio di un ordine postcapitalistico (un ordine che avrebbe reso la libertà, da privilegio di pochi, bene universale) e come segnale di un’imminente ribellione delle masse sfruttate contro la forma specificamente capitalistica di illibertà si può considerare, retrospettivamente, come un tentativo serio e disperato, ma inadeguato e votato al fallimento, di «arginare la marea» e «fermare lo sfacelo», come una manifestazione diffusa e confusa di resistenza contro la negazione delle abituali sicurezze, la nuova precarietà della condizione sociale e delle prospettive di sopravvivenza, l’espulsione forzata dalla rete di legami umani che aveva generalmente garantito una vita soddisfacente secondo gli standard correnti – in breve, la «doppia disgrazia» della minaccia alla sopravvivenza e della negazione della dignità. L’agitazione fu alimentata dalla perdita di sicurezza, non fu un balzo fallito verso la libertà. Fu la sicurezza mancante, e dolorosamente rimpianta, a ispirare l’invenzione e la proliferazione dei sindacati, delle società di mutuo soccorso e delle cooperative di consumo: e fu sulla promessa di ristabilire con mezzi diversi da quelli tradizionali la sicurezza perduta che si fondò la rivendicazione di legittimità e di obbedienza avanzata dallo Stato-nazione emergente. La lunga, e in ultima analisi vittoriosa, avanzata dello Stato nazionale moderno fu scandita da leggi industria170

li che fissavano limiti a una libertà di profitto fino allora priva di freni: leggi che culminarono nella nascita dello ‘Stato sociale’, ossia dell’assicurazione collettiva contro le disgrazie individuali o di categoria. Questo capitolo della storia moderna è ormai concluso, almeno in quella parte del pianeta dove sono stati redatti, e messi in bottiglia, i progetti di emancipazione che fanno parte del lascito di Adorno. In questa parte del mondo il metodo con cui lo ‘Stato-nazione’ risolveva i problemi generati dalla produzione irrefrenabile di rifiuti, ineguaglianza e umiliazione – tendenza endemica e marchio di fabbrica di un’economia di mercato capitalistica – ha ormai fatto il suo tempo. I mercati dei capitali e dei prodotti si sono trasferiti in un nuovo spazio socialmente extraterritoriale che si colloca ben al di sopra della sovranità dello Stato-nazione, e dunque ben oltre la capacità di questo di sovrintendere/riequilibrare/ridurre. Tocca ora agli Stati-nazione, improvvisamente, trovarsi a subire il processo di globalizzazione del capitale, in una posizione simile a quella in cui si trovavano le autorità locali quando essi iniziarono a formarsi. Sono essi a dover fronteggiare l’accusa d’imporre all’attività economica vincoli «economicamente privi di senso» e dunque retrogradi, a stare sotto pressione e a dover rinunciare a qualsiasi diritto e intenzione d’interferire politicamente in questioni che abbiano a che fare con il flusso globale dei capitali e delle merci. Le conseguenze sociali di questa seconda emancipazione, che si verifica stavolta al livello emergente del pianeta, sono sorprendentemente simili a quelle registrate al livello, allora emergente, degli Stati-nazione due secoli fa, durante il periodo di passaggio dall’emancipazione dell’economia dai vincoli locali/collettivi al suo reinquadramento nel nuovo contesto regolatorio gestito e controllato dalle istituzioni politiche dello Stato-nazione. Per la grande maggioranza di coloro che abitano sul pianeta la somma delle trasformazioni in corso (nome in codice: ‘globalizzazione’) si traduce in un netto peggioramento delle proprie condizioni di vita, ma soprattutto 171

nell’avvento di un’inconsueta insicurezza dell’esistenza, o di un’insicurezza che assume forma nuova e inconsueta, privata di tutele e rimedi in precedenza normali. Per riutilizzare la calzante espressione di Pierre Bourdieu, la globalizzazione unilaterale limitata agli affari viene percepita da coloro che la subiscono innanzitutto, e soprattutto, come perdita di contatto col presente e impossibilità di prevedere ciò che il futuro può portare con sé, e dunque come incapacità d’immaginare i mezzi per porre sotto controllo il futuro. Gli appelli in favore di una maggiore libertà, la presentazione di questa come cura universale di tutti i mali presenti e futuri e la richiesta di smantellare e rimuovere i vincoli restanti che ostacolano i movimenti di chi confida di poter volgere a proprio vantaggio il cambiamento appaiono sempre più sospetti come ideologia dell’élite globale emergente. Presso il resto della popolazione del pianeta essi cadono nel vuoto e stanno rapidamente divenendo uno degli ostacoli principali a un polilogo planetario. Ci si può chiedere che cosa sarebbe del messaggio di Adorno se la bottiglia che lo contiene dovesse essere sospinta dalle onde fino ai mari del Sud, per approdare alle coste dell’Africa subsahariana o ai lidi asiatici... Sarebbe in grado, chi legge il messaggio, di comprenderlo? E in tal caso, non gli apparirebbe come un’ulteriore offesa, o magari come un indizio della preparazione di un nuovo attacco nemico? Avrebbe, il lettore del messaggio, capacità, tempo e pazienza per separarlo da tutti gli altri messaggi che piovono quotidianamente dai satelliti di comunicazione – i messaggi cui si riferiva Osama Siblani, editore di «The Arab American News», quando, nell’ottobre del 2001, scriveva che «gli Stati Uniti [leggasi: la minoranza opulenta del pianeta] hanno perso già molto tempo fa la guerra delle pubbliche relazioni presso il mondo musulmano [leggasi: la maggioranza oppressa del pianeta] [...] Nemmeno se le loro pubbliche relazioni fossero state affidate al profeta Maometto sarebbe servito a nulla»35. I portavoce del mondo ricco non si stancano di lamen172

tare che non riescono «a far arrivare il messaggio». Difficilmente ci riusciranno, visto che la massiccia privatizzazione e deregolamentazione che essi hanno promosso sotto l’egida di quel messaggio ha creato – per riprendere l’efficace sintesi di Naomi Klein – «eserciti di esclusi, i cui servizi non sono più necessari, i cui stili di vita sono liquidati come ‘arretrati’, i cui bisogni di base non vengono soddisfatti»36. Tutto ciò non solleva solo la questione della responsabilità etica nei confronti della maggioranza meno fortunata della specie umana, ma impone all’‘agenda dell’emancipazione’ una convergenza nuova e senza precedenti tra precetti etici e interesse alla sopravvivenza – la sopravvivenza, comune e condivisa, dell’associazione universale del genere umano, l’allgemeine Vereinigung der Menschheit di Kant. Le condizioni necessarie ad assicurare la sopravvivenza dell’uomo (o almeno per renderla più probabile) non sono più divisibili, né ‘localizzabili’. La nostra sofferenza e i nostri problemi, nelle tante forme e sfumature che assumono oggi, hanno sempre origini planetarie e richiedono (se esistono) soluzioni planetarie. Poiché non esiste un’isola – per quanto grande al punto da rivendicare il rango di continente – che possa aspirare a vera autonomia in un pianeta gremito, i messaggi di emancipazione, per avere la possibilità di produrre un effetto radicale, devono essere leggibili da parte dei marinai che solcano tutti gli oceani e i mari del pianeta. Proprio come la causa dell’emancipazione umana non può essere efficacemente perseguita e difesa in un solo paese o gruppo di paesi, dimentichi e indifferenti verso ciò che accade fuori dei loro confini tanto severamente (ma inefficacemente) sorvegliati, così il messaggio non può essere indirizzato a un pubblico selezionato e ristretto. Eppure esso appare indirizzato in tal modo: non perché tenuto segreto agli altri potenziali lettori (nessun messaggio può restare a lungo segreto su un pianeta attraversato in lungo e in largo da autostrade informative), ma perché tende a 173

ignorare che, se il trionfo su scala mondiale dello ‘stile di vita moderno’ rende possibile una spinta universale e planetaria a definire le cose da fare, i temi che invocano una priorità elevata in agenda restano, come e forse più di prima, territorialmente differenziati, come lo sono le conseguenze della globalizzazione. Sebbene tutti gli abitanti del pianeta siano, per così dire, sulla stessa barca dal punto di vista delle prospettive di sopravvivenza (e non abbiano altra scelta che navigare o affondare insieme), i loro compiti immediati e, con essi, le loro destinazioni preferite differiscono nettamente tra loro, rendendo le azioni (e le finalità che le ispirano) chiaramente scoordinate e sviluppando antagonismi laddove l’imperativo del giorno è la solidarietà. Il precetto di Adorno secondo cui compito del pensiero critico «non è conservare del passato, ma realizzare le sue speranze» non ha perso nulla della sua attualità; ma proprio ciò rende necessario un costante ripensamento del pensiero critico, affinché resti all’altezza del suo compito. Al centro di questo ripensamento, dev’essere, come in precedenza, la speranza di raggiungere un equilibrio accettabile tra libertà e sicurezza: le due condizioni sine qua non della società umana, entrambe cruciali ma non immediatamente compatibili tra loro. Tra le speranze del passato che chiedono con maggior urgenza di essere realizzate, quelle conservate nella Idee zu einer allgemeinen Geschichte in weltbürgerlicher Absicht di Kant possono giustamente rivendicare uno status di metasperanza, in quanto rendono possibile ogni altra speranza. È sufficiente guardarsi attorno sul pianeta per comprendere quanto sia arduo il compito, e quanto sia alta la vetta che sarà necessario scalare nelle lotte a venire. Ma noi esseri umani, armati (nel bene e nel male) del linguaggio – di quella strana particella, ‘no’ (dichiarazione di negazione, rifiuto e diniego che eleva noi esseri umani al di sopra dell’evidenza dei sensi e separa le apparenze dalla verità) e di quel tempo futuro (anch’esso peculiare, a ben vedere) 174

che ci conduce oltre l’immediatezza di ciò che è dato – non possiamo astenerci dall’immaginare come le cose possano essere diverse da come sono. Non possiamo accontentarci di ‘ciò che è’, perché non possiamo comprenderlo senza andar oltre. Poniamo le domande scomode su ciò che ‘è’, quelle che esigono spiegazione e scuse. Ci aspettiamo che le cose cambino, e decidiamo di cambiarle. Le piccole come le grandi. Noi esseri umani, armati (per fortuna o per disgrazia) della conoscenza del bene e del male, veniamo giudicati e giudichiamo in base a ciò che è accaduto e a ciò che abbiamo fatto o omesso di fare. Collochiamo sui banchi della giuria ciò che ‘dovrebbe essere’ e al posto degli avvocati difensori ciò che ‘è’. Portiamo con noi (dentro di noi), ovunque andiamo e qualsiasi cosa facciamo, il presidente del tribunale comunemente chiamato ‘coscienza’. E crediamo che pervenire a un giudizio abbia senso: che abbia il potere di cambiare noi e il mondo che ci circonda – per il meglio, o per il meno peggio. Come l’ossigeno e l’idrogeno ogni volta che s’incontrano formano acqua, altrettanto inevitabilmente l’immaginazione e il senso morale puntualmente concepiscono la speranza. Per citare la memorabile affermazione di Ernst Bloch, prima ancora di essere homo sapiens, creatura che pensa, l’uomo è una creatura che spera. Sarebbe facile dimostrare che Emmanuel Lévinas intendeva esprimere lo stesso concetto quando affermava che l’etica è nata prima dell’ontologia. Così come è il mondo là fuori a dover dimostrare la propria innocenza di fronte al tribunale dell’etica, e non viceversa, la speranza non riconosce, e non deve riconoscere, la giurisdizione di ‘ciò che semplicemente esiste’. È la realtà a dover spiegare per quale motivo non si sia elevata ai criteri di dignità definiti dalla speranza. Disegnare le mappe dell’utopia che ha accompagnato la nascita dell’era moderna fu facile per coloro che le abbozzarono per primi: essi non dovevano far altro che riempire i vuoti o riverniciare le parti sgradevoli della griglia di spazi pubblici la cui presenza era, per ottime ragioni, considerata 175

scontata e non problematica. Le utopie, immagini di vita buona, erano sociali nei fatti, poiché il significato del ‘sociale’ non era mai posto in dubbio, non era ancora il tema essentially contested che sarebbe divenuto ai nostri giorni a seguito del colpo di Stato neoliberale. A chi spettasse realizzare il modello e presiedere alla trasformazione non era un problema: dispotismo o repubblica, re o popolo. Uno o l’altro erano saldamente al proprio posto, e parevano aspettare solo che si accendessero le luci e si desse il via. Non sorprende dunque che l’utopia pubblica o sociale sia stata una delle prime vittime del drammatico cambiamento della sfera pubblica dei nostri tempi. Come tutte le altre cose che un tempo si collocavano con certezza in quella sfera, l’utopia è divenuta selvaggina e preda per guardaboschi e cacciatori solitari – uno dei molti bottini della conquista e annessione del pubblico da parte del privato. La grandiosa visione sociale si è frammentata in una moltitudine di portmanteaux privati, straordinariamente simili ma tutt’altro che complementari. Ciascuno è fatto a misura della felicità del consumatore: destinato, come ogni altro piacere rivolto a quest’ultimo, a un godimento affatto individuale e solitario, anche quando ci si trova in compagnia. Può lo spazio pubblico tornare a essere luogo d’impegno duraturo, anziché d’incontri casuali e fugaci? Spazio di dialogo, di discussione, di confronto e di accordo? Sì e no. Se per ‘spazio pubblico’ s’intende, com’è stato per gran parte della storia moderna, la sfera pubblica completamente avvolta e sorretta dalle istituzioni rappresentative dello Stato-nazione, la risposta probabilmente è no. Quella particolare variante di scena pubblica è stata ormai spogliata di gran parte degli strumenti e delle risorse che le consentivano di inscenare i drammi in passato; e anche se il vecchio armamentario fosse rimasto intatto, difficilmente risulterebbe adeguato alle nuove, sempre più imponenti e complesse produzioni con milioni di personaggi e miliardi di comparse e di spettatori. Quelle scene pubbliche, originariamente costruite per le fi176

nalità politiche della nazione e dello Stato, rimangono irriducibilmente locali, mentre il dramma contemporaneo è vasto come l’umanità, clamorosamente e decisamente globale. La risposta ‘sì’, per essere credibile, richiede un nuovo spazio pubblico globale: una politica autenticamente planetaria (altra cosa rispetto alla politica ‘internazionale’) e un’adeguata scena planetaria. E, ancora, una responsabilità che sia anch’essa realmente planetaria, a riconoscimento del fatto che tutti noi che viviamo su questo pianeta dipendiamo gli uni dagli altri per il nostro presente e il nostro futuro; che nulla di ciò che facciamo, o omettiamo di fare, può essere indifferente per il destino di chiunque altro; e che nessuno di noi può più cercare e trovare un riparo privato dalle tempeste che possono nascere in qualsiasi parte del globo. La logica della responsabilità planetaria mira, almeno in linea di principio, ad affrontare i problemi che sorgono sul piano globale direttamente a tale livello. Essa deriva dal presupposto secondo cui soluzioni durature e veramente efficaci ai problemi planetari possono essere individuate e attuate soltanto attraverso la messa in questione e la riforma della rete di interdipendenze e interazioni globali. Invece di puntare, a livello locale, a limitare i danni e accrescere i benefici derivanti dai movimenti volubili e accidentali delle forze economiche globali, occorre ricercare un nuovo tipo di cornice globale in cui i percorsi delle iniziative economiche, in qualsiasi luogo del pianeta, cessino di essere capricciosi e orientati a vantaggi momentanei, di ignorare totalmente effetti secondari e ‘danni collaterali’ e di trascurare le dimensioni sociali dell’equilibrio tra costi e risultati. In breve, tale logica punta, come scrive Habermas, allo sviluppo di una «politica che si rimetta al passo con i mercati globalizzati»37. Noi avvertiamo, intuiamo, sospettiamo ciò che occorre fare. Ma non possiamo conoscere i contorni e la forma che assumerà. E, tuttavia, possiamo esser certi che la forma non ci apparirà familiare. Essa sarà diversa da tutto ciò che è per noi consueto. 177

Note

Introduzione. Vivere in un mondo liquido-moderno «Observer Magazine», 3 ottobre 2004. Jacques Attali, Chemins de sagesse. Traité du labyrinthe, Fayard, Paris 1996, pp. 79-80, 109 [trad. it., Trattato del labirinto, Spirali, Milano 2003, pp. 92-94]. 3 Richard Sennett, The Corrosion of Character: The Personal Consequences of Work in the New Capitalism, W.W. Norton, New York 1998, p. 62 [trad. it., L’uomo flessibile. Le conseguenze del nuovo capitalismo sulla vita personale, Feltrinelli, Milano 1999, pp. 61-62]. 4 Italo Calvino, Le città invisibili, Einaudi, Torino 1972, p. 70. 5 Grace under pressure, «Observer Magazine», 30 novembre 2003, p. 95. 6 Andrzej Szahaj, E Pluribus Unum? Dylematy wielokulturowos ´ci i politycznej poprawnos´ci, Universitas, Kraków 2004, p. 81. 7 Andrzej Stasiuk, Duchowy lumpenproletariat [Sottoproletariato spirituale] e Rewolucja czyli zag¢ ada [Rivoluzione o annientamento], in Tekturowy samolot, Wydawnictwo Czarne, Wo¢owiec 2002. 8 W. Shakespeare, Amleto, atto IV, scena III, trad. it. in Tutte le opere, a cura di Mario Praz, Sansoni, Firenze 1964, p. 710. 9 Henry A. Giroux e Susan Searls Giroux, Take Back Higher Education, Palgrave Macmillan, New York 2004, pp. 119-120. 10 Richard Rorty, The humanistic intellectual: eleven theses, in Id., Philosophy and Social Hope, Penguin, New York 1999, pp. 127-128. 11 Id., Education as socialization and individualization, ivi, p. 118. 1 2

1. L’individuo sotto assedio 1 Charles Guignon, On Being Authentic, Routledge, London-New York 2004, p. 9. 2 Jeremy Seabrook, Powder keg in the slums, «Guardian», 1 settembre 2004, p. 10, tratto da Id., Consuming Cultures: Globalization and Local Lives, «New Internationalist», 2004.

179

3 Lewis Carroll, Attraverso lo specchio, Mondadori 1978 [ed. or. 1871], p. 162 (N.d.T.). 4 «Observer Magazine», 29 agosto 2004, p. 35. 5 Richard Rorty, Achieving Our Country, Harvard University Press, Cambridge 1997, pp. 83 sgg. [trad. it., Una sinistra per il prossimo secolo: l’eredità dei movimenti progressisti americani del Novecento, Garzanti, Milano 1999, pp. 85 sgg.]. 6 Cfr. N. Chambers, C. Simmons, M. Wackernagel, Sharing Nature’s Interest: Ecological Footprint as an Indicator of Sustainability, Earthscan, London-Sterling 2000 [trad. it., Il manuale delle impronte ecologiche. Principi, applicazioni, esempi, Edizioni Ambiente, Milano 2002]. 7 John Reader, Cities, Heinemann, London 2004, p. 303, che cita Mathis Wackernagel e William E. Reeves, Our Ecological Footprint: Reducing Human Impact on Earth, New Society Publishers, Gabriola Island-Philadelphia 1996, pp. 13-14 [trad. it., L’impronta ecologica: come ridurre l’impatto dell’uomo sulla terra, a cura di G. Bologna e P. Lombardi, Edizioni Ambiente, Milano 1996]. 8 William T. Cavanaugh, Sins of omission: what «religion and violence» arguments ignore, «Hedgehog Review», primavera 2004, p. 50. 9 Dany-Robert Dufour, L’Art de réduire les têtes. Sur la nouvelle servitude de l’homme libéré à l’ère du capitalisme total, Denoël, Paris 2003, p. 69. 10 Ivi, p. 44. 11 Richard Sennett, The Corrosion of Character: The Personal Consequences of Work in the New Capitalism, W.W. Norton, New York 1998, p. 51 [trad. it., L’uomo flessibile. Le conseguenze del nuovo capitalismo sulla vita personale, Feltrinelli, Milano 1999, p. 50]. 12 Georges Perec, La Vie mode d’emploi, Hachette, Paris 1978 [trad. it., La vita istruzioni per l’uso, Rizzoli, Milano 1989, p. 503]. 13 Lion Feuchtwanger, Odysseus and the Swine, and other Stories, trad. ingl. di B. Mussey, Hutchinson, London 1949 [ed. tedesca 1950].

2. Da martire a eroe, da eroe a celebrità 1 René Girard, Violence and religion: cause or effect?, «Hedgehog Review», primavera 2004, pp. 8-20. 2 Per coerenza col resto dell’argomentazione, la citazione è tratta da La sacra Bibbia, versione riveduta da Giovanni Luzzi, Società Biblica Britannica e Forestiera, Roma 1990, p. 871 (N.d.T.). 3 Maccabei I, 2. 4 Marco, 14, 43 e 49. 5 George L. Mosse, Fallen Soldiers, Oxford University Press, Oxford 1990, pp. 34 sgg. 6 Eschilo, Orestea, trad. it. di E. Savino, Garzanti, Milano 1989: Coefore, pp. 131, 133, 149, 195, ed Eumenidi, pp. 249, 251.

180

3. La cultura: ribelle, ingestibile 1 Theodor W. Adorno, Culture and administration, in Id., Culture Industry. Selected Essays, trad. ingl. di W. Blomster, a cura di J. Bernstein, Routledge, London-New York 1991, p. 93 [ed. ted., Kultur und Verwaltung (1960), in Id., Gesammelte Schriften, vol. VIII, Soziologische Schriften, I, Suhrkamp, Frankfurt a.M. 1972, pp. 122-146; trad. it. parziale, Cultura e amministrazione, in Id., Scritti sociologici, Torino, Einaudi 1976, pp. 115-139, qui p. 115]. ‘Gestione’ [management] esprime meglio di ‘amministrazione’ il senso del termine Verwaltung utilizzato nel testo originale. 2 Ivi, p. 98 [trad. it. cit., p. 121]. 3 Ivi, pp. 93, 98, 100 [trad. it. cit., pp. 115, 121, 124]. 4 Ivi, p. 94 [trad. it. cit., p. 116]. 5 Id. e Max Horkheimer, Dialectic of Enlightenment, trad. ingl. di J. Cumming, Verso, London 1979, pp. 216-217 [ed. or., Dialektik der Aufklärung. Philosophische Fragmente (1944), Fischer, Frankfurt a.M. 1969; trad. it., Dialettica dell’illuminismo, Einaudi, Torino 1997, pp. 232-233]. 6 Id., Culture and administration, cit., p. 103 [trad. it., p. 127]. 7 Hannah Arendt, La Crise de la culture, Gallimard, Paris 1968, pp. 266267 [ed. or., Society and Culture, in «Daedalus», LXXXII, 1960, n. 2, pp. 278287, poi in Id., Between Past and Future. Six Exercises in Political Thought, The Viking Press, New York 1961; trad. it., La crisi della cultura: nella società e nella politica, in Id., Tra passato e futuro, Vallecchi, Firenze 1970, pp. 215-245, qui p. 226]. 8 Hannah Arendt, Men in Dark Times, Harcourt Brace, New York 1983 (ed. or. 1968), p. VIII. 9 Ivi, p. 24. 10 Naomi Klein, No Logo, Flamingo, London 2001, p. 5 [trad. it., No Logo. Economia globale nuova contestazione, Baldini & Castoldi, Milano 2001, p. 27]. 11 Ivi, p. 25 [trad. it. cit., p. 47]. 12 Willem de Kooning, Écrits et propos, Éditions de l’École nationale supérieure des Beaux-Arts, Paris 1992, pp. 90 sgg. 13 Yves Michaud, L’Art à l’état gazeux, Stock, Paris 2003, p. 9. 14 Cit. da Patrick Barrer, (Tout) l’art contemporain est-il-mal?, Fauvre, Paris 2000, p. 67. 15 Michaud, L’Art à l’état gazeux, cit.

4. Rifugiarsi nel vaso di Pandora. Ovvero: paura, sicurezza «and the city» 1 2

«Hedgehog Review», V, n. 3 (autunno 2003), pp. 5-7. David L. Altheide, Mass media, crime, and the discourse of fear, ivi, pp.

9-25.

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3 Stephen Graham, Postmortem city: towards an urban geopolitics, «City», 2 (2004), pp. 165-196. 4 Ray Surette, Media, Crime and Criminal Justice. Images and Realities, Brooks/Cole, Pacific Grove (CA) 1992, p. 43. 5 Si veda l’articolo di John Vidal, Beyond the city limits, in «Online», supplemento al «Guardian» del 9 settembre 2004, pp. 4-6. 6 Elbert van Donkersgoed, The collateral damage from globalization, archiviato in http://www.christianfarmers.org. 7 Keane Shore, Survival of the Poorest: Urban Migration and Food Security in Namibia, consultabile all’indirizzo internet http://web.idrc.ca/en/ev5376-201-1-DO_TOPIC.html. 8 Jeremy Seabrook, Powder keg in the slums, «Guardian», 1 settembre 2004, p. 10, tratto da Id., Consuming Cultures: Globalization and Local Lives, «New Internationalist», 2004. 9 Nan Ellin, Fear and city building, «Hedgehog Review», V, n. 3 (autunno 2003), pp. 43-61. 10 B. Diken e C. Laustsen, Security, terror and bare life, «Space and Culture», 2 (2002), pp. 290-307. 11 Cit. da John Reader, Cities, Heinemann, London 2004, p. 282. 12 Ivi, p. 267. 13 Peter Hall, Cities in Civilization: Culture, Innovation and Urban Order, Weidenfeld and Nicholson, London 1998, pp. 875-876. 14 Jonathan Manning, Racism in three dimensions: South African architecture and the ideology of white superiority, «Social Identities», 4 (2004), pp. 527-536. 15 Lewis H. Morgan, Ancient Society, H. Holt, New York 1878, p. 1 [cfr. trad. it., La società antica: le linee del progresso umano dallo stato selvaggio alla civiltà, Feltrinelli, Milano 1970].

5. Il consumatore nella società liquido-moderna 1 Si veda Irritable Skin Sindrome, «Guardian Weekend», 9 ottobre 2004, p. 57. 2 Andy Fisher, Radical Ecopsychology: Psychology in the Service of Life, SUNY Press, Albany 2003, p. 167. 3 Sunflower sermon: how to do florals, «Guardian Weekend», 25 ottobre 2003, p. 60. 4 Jess Cartner-Morley, How to wear clothes, «Guardian Weekend», 17 gennaio 2004, p. 47. 5 Cfr. 21 ways to be better in 2004, «Observer Magazine», 4 gennaio 2004, pp. 22 sgg. 6 Nell’«Observer Magazine» del 4 luglio 2004, p. 59. 7 Naomi Klein, Fences and Windows, Flamingo, London 2002, p. XX

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[trad. it., Recinti e finestre. Dispacci dalle prime linee del dibattito sulla globalizzazione, Baldini & Castoldi, Milano 2002, p. 15]. 8 Bryan S. Turner, Regulating Bodies: Essays in Medical Sociology, Routledge, London 1992, p. 16. 9 Oliver Sacks, Migraine, Evolution of a Common Disorder, Pan Books, London 1981 [trad. it., Emicrania, Adelphi, Milano 1992]. 10 Chris Shilling, The Body and Social Theory, Sage, London 1993, p. 3. 11 Thomas J. DiLorenzo, How Capitalism Saved America. The Untold History of Our Country, from the Pilgrims to the Present, Crown Forum, New York 2004; Ludwig von Mises, Human Action. The Scholar’s Edition, Mises Institute, Auburn (AL) 1998 [ed. or. 1949], pp. 728-729 [cfr. trad. it., L’azione umana. Trattato di economia, UTET, Torino 1959]. 12 Cfr. John Henley, France sets targets for expelling migrants, «Guardian», 28 ottobre 2003. 13 Barbara Ellen, Bored, dirty, exhausted: who ever said there was anything yummy about being Mummy?, «Observer Magazine», 7 marzo 2004, p. 7. 14 Amelia Hill, You thought children would make you happy? Not really – just poorer, «Observer», 16 novembre 2003, p. 19. 15 Si veda Childcare rises to 25 per cent of income, «Guardian», 26 gennaio 2004. 16 Si veda Kate Spicer, Love is the drug, «Observer Magazine», 9 maggio 2004. 17 In inglese drug significa sia «farmaco, medicina» sia «droga, sostanza stupefacente» (N.d.T.). 18 Simon Blackburn, Lust – The Seven Deadly Sins, Oxford University Press, Oxford 2004; si veda Don’t you want me baby?, «Observer Magazine», 8 febbraio 2004. 19 Lawrence Grossberg, Why does neo-liberalism hate kids?, «Review of Education/Pedagogy/Cultural Studies», 2 (2001), p. 133. 20 Henry A. Giroux, The Abandoned Generation, Palgrave, Basingstoke 2003, p. XV. 21 Charles Schwarzbeck, Paying attention to a child’s moral development, disponibile all’indirizzo internet http://www.simplyfamily.com/display.cfm? articleID=991215childsmoral.cfm. 22 Cfr. Jean-François Lyotard, L’inhumain. Causeries sur le temps, Galilée, Paris 1988 [trad. it., L’inumano: divagazioni sul tempo, Lanfranchi, Milano 2001, p. 20]. 23 Kiku Adatto, Selling out childhood, «Hedgehog Review», estate 2003, p. 36. 24 Priscilla Anderson, Young Children’s Rights, Jessica Kingsley, London 2000, p. 57. 25 Dany-Robert Dufour, L’Art de réduire les têtes. Sur la nouvelle servitude de l’homme libéré à l’ère du capitalisme total, Denoël, Paris 2003, p. 10. 26 Daniel Thomas Cook, Beyond either/or, «Journal of Consumer Culture», 2 (2004), p. 149.

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27 Owen Bowcott, Makeup and marketing: welcome to the world of tenyear-old girls, «Guardian», 8 settembre 2004, p. 3. 28 Dan Acuff, What Kids Buy and Why: The Psychology of Marketing to the Kids, Free Press, New York 1997. 29 Beryl Langer, The business of branded enchantment, «Journal of Consumer Culture», 2 (2004), p. 255. Cfr. anche il capitolo 4 del mio Wasted Lives, Polity, Cambridge 2004 [trad. it., Vite di scarto, Laterza, Roma-Bari 2005]. 30 Cook, Beyond either/or, cit., p. 150. 31 Juliet B. Schor, The commodification of childhood: tales from the advertising front lines, «Hedgehog Review», estate 2003, pp. 7 sgg. 32 James U. McNeal, The Kids Market: Myths and Realities, Paramount Market, Ithaca 1999. 33 Joseph E. Davis, The commodification of self, «Hedgehog Review», estate 2003, pp. 44 sgg. 34 Tori de Angelis, Consumerism and its discontents, disponibile sul sito dell’American Psychological Association, http://www.apa.org/monitor/ jun04/discontents.html.

6. Imparare a camminare sulle sabbie mobili 1 Leszek Ko¢akowski, Freedom, Fame, Lying and Betrayal: Essays in Everyday Life, Penguin, Harmondsworth 1999. 2 Jacek Wojciechowski, Studia podyplomowe, «Forum Akademickie», 5 (2004). 3 Vedi alla pagina internet http://www.staffs.ac.uk/journal/Volume6(1)/editor.htm. 4 Il documento è disponibile liberamente in undici lingue sul sito della Comunità Europea all’indirizzo http://europa.eu.int/comm/education/policies/lll/life/index_en.html. Alcune delle frasi riportate da Bauman non sono comprese nella versione italiana (N.d.T.). 5 Carmel Borg e Peter Mayo, Diluted wine in new bottles: the key messages of the Memorandum, «LLinE: Lifelong Learning in Europe», 1 (2004), pp. 15-23. 6 C.J. Fombrun, N.M. Tichy e M.A. Devanna, Strategic Human Resource Management, John Wiley, New York 1984, pp. 41, 159. 7 Raili Molainen, HRD and learning – for whose well-being?, «LLinE: Lifelong Learning in Europe», 1 (2004), pp. 34-39. 8 Dominique Simone Rychen, Lifelong learning – but learning for what?, ivi, pp. 26-33. 9 Henry A. Giroux e Susan Sears Giroux, Take back higher education: toward a democratic common, «Tikkun», novembre-dicembre 2003. 10 Brian Knowlton, Hot-cold-hot: terror alert left America uncertain, «International Herald Tribune», 5 agosto 2004.

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7. Pensare in tempi oscuri (rileggendo Arendt e Adorno) 1 Hannah Arendt, Men in Dark Times, Harcourt Brace, New York 1983 (ed. or. 1968), p. VIII. 2 Ivi, pp. 4-5. 3 Ivi, p. 24. 4 Peter Gay, The Enlightenment: An Interpretation, vol. II, Science of Freedom, Wildwood House, London 1973, pp. 3 sgg. 5 Ivi, pp. 56, 8, 15-17. 6 Laura Barton, Flight from reality, «Guardian Weekend», 16 agosto 2003, pp. 14-19. 7 Richard Sennett, The Corrosion of Character. The Personal Consequences of Work in the New Capitalism, W.W. Norton, New York 1998, p. 51 [trad. it., L’uomo flessibile. Le conseguenze del nuovo capitalismo sulla vita personale, Feltrinelli, Milano 1999, p. 50]. 8 Michael J. Piore e Charles F. Sabel, The Second Industrial Divide, Basic Books, New York 1974, p. 17. 9 Gay, The Enlightenment, cit., p. 4. 10 Theodor W. Adorno e Max Horkheimer, Dialectic of Enlightenment, trad. ingl. di J. Cumming, Verso, London 1979, p. XV [ed. or., Dialektik der Aufklärung. Philosophische Fragmente (1944), Fischer, Frankfurt a.M. 1969; trad. it., Dialettica dell’illuminismo, Einaudi, Torino 1997, p. 7]. 11 Ivi, p. 216 [trad. it. cit., pp. 233-234]. 12 Pierre Bourdieu, La précarité est aujourd’hui partout, in Contrefeux, Raison d’Agir, Paris 1998, pp. 96-97 [trad. it., Oggi la precarietà è dappertutto, in Controfuochi. Argomenti per resistere all’invasione neoliberista, Reset, Milano 1999, p. 96]. 13 Theodor W. Adorno, Critical Models: Interventions and Catchwords, trad. ingl. di Henry W. Pickford, Columbia University Press, New York 1998, p. 276 [ed. or., Stichworte. Kritische Modelle, Suhrkamp, Frankfurt a.M. 1969; trad. it. parziale, Parole chiave. Modelli critici, SugarCo, Milano 1974, p. 259]. Adorno impiega qui il termine «crogiuolo» in un senso diverso da quello prevalente. Egli fa riferimento piuttosto alla sua accezione originaria di contenitore in cui ogni ingrediente si dissolve, si mescola e si fonde, perdendo la propria individualità e diventando indistinguibile dagli altri. 14 Ivi, p. 118. 15 Ivi, p. 111. 16 Ivi, p. 109. 17 Czes¢aw Mi¢osz, Szukanie ojczyzny, Znak, Kraków 1992, pp. 180 sgg. 18 Adorno, Critical Models, cit., p. 14. 19 Ivi, p. 15. 20 Ivi, p. 128. 21 Ivi, pp. 292-293. 22 Adorno e Horkheimer, Dialectic of Enlightenment, cit., p. 243 [trad. it. cit., p. 261]. 23 Franz Rosenzweig, Understanding the Sick and the Healthy: A View of World, Man and God, Harvard University Press, Cambridge 1999, pp. 39,

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59 [ed. or., Das Büchlein vom gesunden und kranken Menschenverstand, Metzler, Stuttgart 1964; cfr. trad. it., Dell’intelletto comune sano e malato, Reverdito, Trento 1987]. 24 Al di là di quest’aspetto su cui essi concordano, tuttavia, le strade di Rosenzweig e Adorno sono divergenti. Se per Adorno ostentare arroganza filosofica (che si liberava, e anzi interrompeva la comunicazione con un senso comune cristallizzato nella gabbia delle circostanze) è condizione sine qua non del servizio reso dalla filosofia all’emancipazione umana, per Rosenzweig la strada per una destinazione molto simile a quella di Adorno passa per l’umiltà filosofica: la scelta e la pratica del discorso, del dialogo (con il senso comune: con cosa altrimenti?), piuttosto che il «pensiero astratto» è la strategia principale da seguire: «Il ‘pensatore parlante’ non può anticipare alcunché: egli deve saper aspettare poiché dipende dalla parola dell’altro: egli ha bisogno di tempo [...]. Il ‘pensatore parlante’ parla a qualcuno e pensa per qualcuno: qualcuno dotato non solo di orecchie, ma anche di bocca». 25 Adorno, Critical Models, cit., p. 263 [trad. it. cit., p. 237]. 26 Si veda la lettera di Adorno a Benjamin del 18 marzo 1936, in Theodor W. Adorno e Walter Benjamin, Correspondence 1928-1940, Harvard University Press, Cambridge 1999, pp. 127-133. 27 Theodor W. Adorno, Culture Industry. Selected Essays, trad. ingl. di W. Blomster, a cura di J. Bernstein, Routledge, London-New York 1991, p. 89 [ed. ted., Kultur und Verwaltung (1960), in Id., Gesammelte Schriften, vol. VIII, Soziologische Schriften, I, Suhrkamp, Frankfurt a.M. 1972, pp. 122-146]. 28 Ivi, p. 119. 29 Ivi, p. 138. 30 Ivi, p. 92. 31 Theodor W. Adorno, Minima Moralia, trad. ingl. di E.F.N. Jephcott, Verso, London 1974, p. 25 [ed. or., Reflexionen aus dem beschädigten Leben, Suhrkamp, Frankfurt a.M. 1954; trad. it., Minima moralia, Einaudi, Torino 1954, p. 17]. 32 Ivi, p. 26 [trad. it. cit., p. 18]. 33 Si veda Jean Baudrillard, Power Inferno, Galilée, Paris 2002, pp. 2425 [trad. it., Power Inferno. Requiem per le Twin Towers. Ipotesi sul terrorismo. La violenza globale, Cortina, Milano 2003] e Id., La Pensée radicale, Sens & Tonka, Paris 2001, pp. 8-9. 34 Cfr. Michael Denning, Culture in the Age of the Three Worlds, Verso, London-New York 2004. 35 Cit. da Sheldon Rampton e John Stauber, Trading on fear, «Guardian Weekend», 12 luglio 2003. 36 Naomi Klein, Fences and Windows, Flamingo, London 2002, p. XXI [trad. it., Recinti e finestre. Dispacci dalle prime linee del dibattito sulla globalizzazione, Baldini & Castoldi, Milano 2002, p. 16]. 37 Jürgen Habermas, The Postnational Constellation. Political Essays, trad. ingl. di Max Pensky, Polity, Cambridge 2001, p. 109 [ed. or., Die postnationale Konstellation. Politische Essays, Suhrkamp, Frankfurt a.M. 1998; trad. it. parziale, La costellazione postnazionale. Mercato globale, nazioni e democrazia, a cura di L. Ceppa, Feltrinelli, Milano 20023, p. 90].

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Indice analitico

Calvino, Italo, XI. Carroll, Lewis, 13, 153. Cartner-Morley, Jess, 91. Castoriadis, Cornelius, XXIII. celebrità, 47. Clarke, Charles, 18-19. classe inferiore, 13-15. comunità immaginaria, 46. consumatore, corpo del, 97-98, 103104, 149. consumi, mercato dei, 14, 26, 5658, 99-102, 119, 124. consumista, sindrome, 13, 18, 62, 87-88, 93, 100, 118-119, 129, 176. Cook, Daniel Thomas, 124-125, 127. Cooke, Alistair, 96, 104. cultura, 49-54. Curry, Hazel, 85.

Abrahams, Charlotte, 91. Acuff, Dan, 126. Adatto, Kiku, 122, 128, 130. Adorno, Theodor W., 51-52, 55, 57, 153-166, 171-172, 174. Alberti, Leon Battista, 152. Altheide, David L., 70. amicizia, 120-122. Anderson, Priscilla, 124. Anouilh, Jean, 32. appartenenza, XIII, 22. apprendimento, VII-VIII, 62, 67, 140141, 157-158. Arendt, Hannah, 53-56, 147-148. Attali, Jacques, X. autenticità, 5. autonomia, 8, 21, 32. Barton, Laura, 149. Baudrillard, Jean, 164-165. Bedbury, Scott, 129. Belloc, Hilaire, 133. Benjamin, Walter, 161. Bernard, Brendan, 114. Blackburn, Simon, 116-117, 120. Bloch, Ernst, 175. Boorstin, Daniel, 45-46, 59-60. Borg, Carmel, 139-141. Bourdieu, Pierre, 24, 141, 145, 154155, 172. Bowcott, Owen, 125. Braun-Vega, Herman, 65-68. Brecht, Bertolt, 56, 147. Brodskij, Iosif, XIV.

Davis, Joseph E., 128-129. de Angelis, Tori, 129. Denning, Michael, 167-168. Diken, Bulent, 75. DiLorenzo, Thomas J., 107. dimenticare, IX, 25, 62, 67. Donkersgoed, Elbert van, 73-74. Dufour, Dany-Robert, 23, 124. durata e transitorietà, 88. Durkheim, Émile, 87. Eagleton, Terry, 167. eccesso, 89.

187

educazione permanente, 131-133, 139-140. élite della conoscenza, 167-168. Ellen, Barbara, 112-113. Ellin, Nan, 75-76, 81-82. emancipazione, 158, 162, 171. empowerment, 140-143. eroi, 39-41, 46-47. Eschilo, 45. esclusione, 109. esilio, 157-158. eternità, XV, XVII, 66.

homo sacer, 110-112. Honigsbaum, Mark, 116. Horkheimer, Max, 52, 165-166. Hume, David, 149. ibridazione, ibridismo, 20-24. identità, XIV-XVI, 17-28, 92-93. Illich, Ivan, 85. Illuminismo, 148-149. incertezza, VIII, 30, 55. individualità, individualizzazione, 318, 155. infanzia, 122-128. Ingram, Richard, 18-19. insicurezza, 81-82. intellettuali, XXIII, 161-166.

felicità, XXI, 151. Feuchtwanger, Lion, 30, 161. Fisher, Andy, 90. fitness, 101-103. fondamentalismo, 18. Foucault, Michel, 168. Frayne, Bruce, 74. Freud, Sigmund, 162. Fromm, Erich, 161.

Jonas, Hans, 58. Joyce, James, 157. Kanner, Allen, 129. Kant, Immanuel, 173-174. Klein, Naomi, 60-61, 94, 173. Knowlton, Brian, 146. Ko¢akowski, Leszek, 134. Kooning, Willem de, 62, 67-68.

Gaitanas, Apostolos, 149. Galvin, Daniel, 149. gated communities, 76. Gates, Bill, XI-XII. Gay, Peter, 148-149, 153. Girard, René, 34-36. Giroux, Henry A., XXII, 119, 144145. Giroux, Susan S., XXII, 144-145. Graham, Stephen, 70. grasso, 104-106. Grossberg, Lawrence, 119. Guignon, Charles, 6.

Langer, Beryl, 126. Leblow, Victor, 90. legami tra persone, 93, 120, 128129. Lévinas, Emmanuel, 175. libertà e sicurezza, XII, 32, 170. Lyotard, Jean-François, 121-122. Manning, Jonathan, 82. Marsden, John, 115, 117, 120. màrtiri, 34-47. maternità, 112-114. Mayo, Peter, 139-141. McLuhan, Marshall, 72. McNeal, James U., 128. mercificazione, 95. Michaud, Yves, 62, 67. Mi¢osz, Czes¢aw, 157-158.

Habermas, Jürgen, 162, 177. Hall, Peter, 79. Harmsforth, Susan, 85. Hegel, Georg W.F., 9. Heidegger, Martin, 9. Hill, Amelia, 113. Hirsch, Samuel, 107. Hogan, Phil, 93. homo eligens, 26.

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Mises, Ludwig von, 107. modernità liquida, VII, IX, XVII, XXIXXII, 40-43, 62, 67-68, 87, 111, 120, 157-158. Moilanen, Raili, 139. Morgan, Lewis H., 83. Mosse, George, 38-39. multiculturalismo, 23. Murphy, Brian, 76. narcisismo personale e collettivo, 155. notorietà, 46. nuovi inizi, VIII, 67. Parsons, Talcott, 55. patriottismo, 39-40. Perec, Georges, 28. Piore, Michael, 150. Platone, 161. prassi e teoria, 162-164. progresso, 69. Reader, John, 17, 78. Redfield, Robert, 72. Reding, Viviane, 138. Ricoeur, Paul, 8, 21. rifiuti, IX, XVIII, XX, 12. Riley, Andy, VIII. rinvio della soddisfazione, 88. rivoluzione manageriale, 55. Rogers, Richard, 78. Rorty, Richard, XXII, 16. Rosenzweig, Franz, 160. Rychen, Dominique S., 143. Saatchi, Charles, 59. Sabel, Charles, 150. Sarkozy, Nicolas, 110-111. Sartre, Jean-Paul, 21. scarti, 12, 14, 85, 95, 169. Schor, Juliet B., 127. Schütz, Alfred, 22, 88.

Schwarzbeck, Charles, 121. Seabrook, Jeremy, 11-12, 74. Sennett, Richard, XI, 26, 150. Shaw, George B., 59. Shilling, Chris, 97. Shore, Keane, 74. Siblani, Osama, 172. sicurezza, 30-32, 69-71, 75, 155157. Singer, Isaac B., 157. società autonoma, XXIII. società buona, XX. società dei consumatori, 84-88, 98101, 118, 124. società individualizzata, 13. società dei produttori, 123. soggetto storico, 168. spazio pubblico, 80-81, 147-148, 177. Stasiuk, Andrzej, XIV-XV. Steiner, George, 61. St. George, Chris, 100, 103. Surette, Ray, 71. Szahaj, Andrzej, XIII. terrorismo, 42, 104-106. Thomas, Liz, 136. Thompson, Tommy, 106. Turner, Bryan, 96. Urbonas, Gediminas, 67-68. utopia, XXIII, 175-176. Valdes, Manolo, 64-68. velocità, XV-XVI. vendetta, 45. Villeglé, Jacques, 63, 66-68. vittime, 43-44, 47. Wain, Kenneth, 138. Wilde, Oscar, 51. Wojciechowski, Jacek, 135-136. Wolfe, Tom, 62.

DIECI LIBRI PER CAPIRE LA MODERNITÀ LIQUIDA

Zygmunt Bauman | PAURA LIQUIDA | i Robinson/Letture «La paura più temibile è la paura diffusa, sparsa, indistinta, libera, disancorata, fluttuante, priva di un indirizzo o di una causa chiari; la paura che ci perseguita senza una ragione, la minaccia che dovremmo temere e che si intravede ovunque, ma non si mostra mai chiaramente. ‘Paura’ è il nome che diamo alla nostra incertezza: alla nostra ignoranza della minaccia, o di ciò che c’è da fare.» Zygmunt Bauman | MODUS VIVENDI. Inferno e utopia del mondo liquido | Economica Laterza Se vogliamo capire in che mondo viviamo e non sbagliare le mosse, interpretandolo con le categorie che abbiamo utilizzato in passato e che oggi non servono più, è opportuno leggere Modus vivendi. Inferno e utopia del mondo liquido di Zygmunt Bauman. Il libro è bellissimo. La condizione umana, dipinta come un inferno, invoca un’utopia che la possa riscattare. Umberto Galimberti Zygmunt Bauman | MODERNITÀ LIQUIDA | Sagittari Laterza Come palombari, come sommozzatori, come pesci viviamo in un mondo liquido. Non lo sappiamo ma è così. Semplicemente perché la vita odierna ha perso negli ultimi anni il suo stato solido per farsi leggera, mobile, fluida. Lo sostiene Bauman, il teorico della globalizzazione, lo studioso dell’imprevedibilità del domani. Aldo Grasso, “Corriere della Sera”

Zygmunt Bauman | L’EUROPA E UN’AVVENTURA | Sagittari Laterza Oggi l’Europa sembra aver perso la sicurezza in se stessa. Presa nelle spire di un mondo che si trasforma, si è smarrita nelle conseguenze di una globalizzazione indiscriminata che ha acuito il malessere e l’insicurezza collettiva. Eppure mai come adesso questo pianeta ha avuto bisogno di un’Europa disposta a giocare un ruolo vitale e a guardare oltre le proprie frontiere. Zygmunt Bauman | INTERVISTA SULL’IDENTITÀ | a cura di Benedetto Vecchi | Saggi Tascabili Laterza L’identità è oggi come un vestito che si usa finché serve. Sessuale o politica, religiosa o nazionale, è precaria come tutto della nostra vita. Questo libro è un lucido e accessibile breviario alla contemporaneità. Pochi altri pensatori possono dire d’aver fornito così utili chiavi per l’interpretazione del presente. Corrado Augias Zygmunt Bauman | AMORE LIQUIDO | Sulla fragilità dei legami affettivi | Economica Laterza «La solitudine genera insicurezza, ma altrettanto fa la relazione sentimentale. In una relazione puoi sentirti insicuro quanto saresti senza di essa, o anche peggio. Cambiano solo i nomi che dai alla tua ansia.» Zygmunt Bauman: anche nell’amore, ma non solo, la sua analisi è come sempre efficace. E feroce. Lelio Demichelis, “Tuttolibri” Zygmunt Bauman | DENTRO LA GLOBALIZZAZIONE | Le conseguenze sulle persone | Economica Laterza La globalizzazione tocca la vita quotidiana e il destino di miliardi di individui. Perciò questi devono avere la possibilità di dire la loro... Zygmunt Bauman coglie con non comune acutezza come il globale finisca sempre per diventare locale e individuale. Luciano Gallino Domande radicali nel bellissimo libro di Zygmunt Bauman. Gad Lerner, “la Repubblica”

Zygmunt Bauman | LA SOCIETÀ SOTTO ASSEDIO | Economica Laterza Il potere ha messo sotto assedio la società: per controllarci, ha rotto i legami che ci tenevano uniti, rendendoci tutti più soli e più insicuri. Una foto cruda delle metropoli contemporanee. “Corriere della Sera” Zygmunt Bauman | VITE DI SCARTO | Economica Laterza Bauman non dà tregua, smonta le nostre illusioni e le nostre perversioni, pagina dopo pagina. Un libro da leggere. Lelio Demichelis, “Tuttolibri” L’analogia tra i rifiuti materiali dei processi di produzione e consumo e i rifiuti umani generati dai processi storici, si rivela in questo saggio una potente chiave di interpretazione della storia. Guido Viale, “la Repubblica” Zygmunt Bauman | VOGLIA DI COMUNITÀ | Economica Laterza Un libro breve, compatto, intriso di passione intellettuale e politica. Il bel libro di Bauman, già noto in Italia come acuto interprete della società e dell’etica postmoderna, offre un mezzo per riconsiderare le motivazioni profonde della resistenza alla globalizzazione. Gianni Vattimo, “L’Espresso”