Viaggi e viaggiatori dell'antichità

Questo libro è il primo che tratti specificamente dei viaggi nel mondo antico sotto ogni aspetto. Cronologicamente, abbr

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Viaggi e viaggiatori dell'antichità

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Viaggi, esplorazioni e scoperte

Lionel Casson

VIAGGI E VIAGGIATORI DELL’ANTICHITÀ

Con 21 illustrazioni fuori testo e 4 cartine

Mursia

Titolo originale dell’opera:

Travet in thè Ancient World Tradizione dall’inglese di Antonio Aloni

PREFAZIONE

© Copyright 1974 George Alien & Unwin Ltd © Copyright 1978 U. Mursia editore S.p.A. per la traduzione italiana Tutti i diritti riservati - Printed in ltaly 2094/AC - U. Mursia editore - Via Tadino, 29 - Milano

Questo libro è il primo che tratti specificamente dei viaggi nel mondo antico sotto ogni aspetto. Cronologicamente, abbraccia un periodo che va dai viaggi regi­ strati nelle iscrizioni egizie dell’Antico Regno fino ai pellegrinaggi cristiani del IV /V I secolo d.C. In quanto all’argomento, esso copre tutti gli aspetti piu rilevanti: i motivi dei viaggi, in particolare quelli diversi dal commercio e dagli affari di stato; le condizioni dei viaggi per mare e per terra; locande, taverne, ristoranti e altri servizi a di­ sposizione del viaggiatore; e, in modo speciale, la natura dell’antico turismo, i normali itinerari, i luoghi e i panorami preferiti, musei, « ciceroni », guide, comportamento dei turisti. Il periodo dell’Impero Romano, che è quello che noi conosciamo di piu, è stato trattato in maniera esauriente da Ludwig Friedlander, nelle sezioni intitolate Verkehrwesen e Die Reisen der Touristen, della sua magistrale opera: Darstellungen aus der Sittengeschichte Roms. L ’ultima edizione di questo libro però risale al 1922, e gli anni trascorsi non hanno solo ampliato le nostre conoscenze in tutti i campi, ma hanno anche alterato dati significativi, sui quali Fried­ lander si basava. Per periodi diversi da quello dell’Impero Romano non esiste un’opera complessiva, neppure sorpassata. Esistono studi più o meno utili dedicati ad aspetti particolari, dispersi in volumi di argomento vario o in riviste, ma nulla di carattere generale. Le con­ dizioni dei viaggi per mare, i « souvenir », la posta dei turisti, per esempio, e un gran numero di altri argomenti non sono stati finora menzionati altro che casualmente. Ho scritto tenendo presente sia lo studioso del mondo antico, sia il lettore comune. Per aiutare quest’ultimo ho incluso brevi intro­ duzioni storiche ai periodi trattati e ho evitato di appesantire le pa­ gine con un gran numero di note. Tuttavia, poiché la nostra cono-

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Prefazione

scema dell’antichità è cosi imperfetta che la fonte della citazione da noi utilizzata è altrettanto importante quanto la citazione stessa, ho fatto seguire al testo una completa documentazione, citando ogni qual volta era possibile opere generali che raccogliessero le fonti let­ terarie, archeologiche, epigrafiche, papirologiche e numismatiche più importanti; quando ciò non era possibile, ho citato le fonti stesse. I toponimi pongono sempre dei problemi; talvolta ho usato le forme antiche, talvolta quelle moderne. Il principio che ho seguito è stato quello di facilitare il riconoscimento; di conseguenza parlo di Milano e Lione piuttosto che di Mediolanum e di Lugdunum, di Nicea e di Sidone, piuttosto che di Iznik e di Saida. Quando vi era solo una piccola differenza, ho preferito la forma antica. Anche questa volta ringrazio mia moglie per la preziosa collaborazione, che va dall’avermi indicato con infallibile spirito critico le parti che andavano riscritte, all’aver con pazienza battuto a mac­ china il manoscritto, cartella su cartella. Devo un particolare ringra­ ziamento a Bluma Trell che, con la sua sicura conoscenza dell’Oriente romano, mi ha indicato mólte fruttuose strade da seguire. Altri an­ cora mi hanno fornito un graditissimo aiuto: Bianche Brown circa i problemi di storia dell’arte, Annalina e Mario Attilio Levi circa il servizio di posta in epoca imperiale romana, Naphtali Lewis per pro­ blemi papirologici, Arthur Schiller per tutto ciò che concerne la legi­ slazione antica, Richard Scheuer e Joy Ungerleider per i viaggi in Terrasanta. Ernest Nash, direttore della E ototeca Unione presso VAme­ rican Academy di Roma, mi ha fornito la sua abituale competente assistenza nella scelta e raccolta delle illustrazioni; Moshe Dothan, vicedirettore dell’Israel’s Department of Antiquities and Museums, mi ha gentilmente fornito la fotografia che compare nella figura 20 a. L.C.

PARTE PRIMA

IL M ED IO O R IEN TE E L A G RECIA

CAPITOLO PRIMO

G L I IN IZ I: 3000-1200 a.C.

Gli uomini costruirono i primi agglomerati urbani nelle terre comprese tra il Tigri e l’Eufrate, e diedero vita alla prima nazione unita lungo le rive del Nilo. Inevitabilmente il nuovo modello di vita portò con sé nuovi modelli di spostamento. I corrieri comin­ ciarono a fare la spola da centro a centro, gli amministratori a spo­ starsi all’interno dei territori di loro competenza, i commercianti a seguire i circuiti dei mercanti, le folle a spostarsi dalle loro residenze e ad affluire nei santuari nei giorni festivi. Dapprincipio questi spostamenti dovevano essere abbastanza li­ mitati: lungo i tre grandi fiumi, attraverso i monti, le valli e le pianu­ re della Siria e della Palestina, lungo le loro coste. Gli orizzonti si ampliarono in modo eccezionale poco dopo il 3000 a.C., quando i co­ struttori di navi impararono a disegnare imbarcazioni capaci di na­ vigare in modo relativamente sicuro e confortevole in mare aperto. Queste trasportavano carichi attraverso il Mediterraneo orientale tra l’Egitto ed il Medio Oriente, su e giu per il Mar Rosso tra l’Egitto e l’Arabia, sul Golfo Persico e l’Oceano Indiano tra la Mesopotamia e le coste nord-occidentali dell’India. Non sappiamo esattamente chi fu il primo a costruire una vera e propria flotta. Potrebbero benissimo essere stati gli Egizi dato che, raccolti lungo un fiume navigabile per eccellenza, si rivolsero all’acqua assai presto nel corso della loro civiltà. « Quando il Nilo inonda la campagna... » scrive Erodoto, « l’intero Egitto diviene un mare, e solo le città spuntano sulla superficie delle acque. Quando questo avviene, la gente usa le barche proprio nel bel mezzo del pae­ se e non solo lungo il corso del fiume. Chiunque vada da Naucratis a Menfi passa navigando sotto le piramidi. » Egli racconta ciò che vide in una sua visita del 450 a.C. circa, ma potrebbe aver scritto le stesse parole anche se fosse stato là duemilacinquecento anni pri­ ma. Il Nilo e i suoi affluenti e canali hanno sempre offerto agli

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Egizi la via piu semplice e piu veloce per andare ovunque e, in certe zone come le paludi del delta, quasi l’unica. Gli Egizi erano persino capaci di veleggiare controcorrente, dato che per fortuna il vento sof­ fia prevalentemente dal nord. Nella prima metà del quarto millennio a.C. essi viaggiavano in canoe e zattere costruite con fasci di canne di papiro, pianta che cresceva a profusione lungo le rive: fatta di canne di papiro era anche la famosa cesta in cui fu abbandonato Mosè bambino. Intorno al 2700 a.C. utilizzavano già robuste imbarcazioni di legno. Mezzo secolo dopo abbiamo notizie di una flottiglia di qua­ ranta navi che effettuò la traversata dalla costa libanese alle foci del Nilo. La Mesopotamia ha due grandi fiumi, ma nessuno è utilizzabile quanto il Nilo; benché siano ambedue navigabili, non c’è nessun vento favorevole che prevalga per spingere le imbarcazioni controcorrente. Intorno al terzo millennio a.C. venivano comunemente usa­ te piccole barche fluviali in legno; quando le stesse ritornavano da un viaggio fatto seguendo la corrente, venivano rimorchiate con­ trocorrente da un cavo trainato da terra da una fila di persone. I battellieri armeni, che partivano dal lontano nord e di là si allonta­ navano un bel tratto, facilitavano il loro lungo ritorno usando zat­ tere leggere sostenute da numerosi otri di pelle gonfiati; come rac­ conta Erodoto, ciascuna zattera aveva « a bordo un asino vivo, le piu grandi piu di uno. Una volta arrivati a Babilonia e venduto il carico, mettono all’asta le strutture della barca, caricano le pelli sugli asini e ritornano a piedi in Armenia ». La zattera sostenuta da otri, come naturale, era la piu adatta per superare le rapide che si in­ contrano quando il Tigri attraversa le montagne del Kurdistan; se urtava contro una roccia, il peggio che potesse capitarle era il pro­ dursi di alcune falle, che venivano riparate in breve tempo. Gli abi­ tanti della Mesopotamia, nei loro bassi e calmi canali, preferivano usare, specialmente per i trasporti da riva a riva, larghe e rotonde imbarcazioni fatte di pelle impermeabile cucita intorno a un’intelaia­ tura di vimini. Queste imbarcazioni erano abbastanza grandi per tra­ sportare carri e persino pesanti carichi di pietre da costruzione. Dove i trasporti per via d’acqua non erano possibili, come in Palestina e in Siria che avevano pochi corsi d’acqua navigabili, i viag­ giatori dapprincipio andavano a piedi o a dorso d’asino. Dal 3000 a.C. circa comparvero i primi veicoli. Gli esempi più antichi sono ritrovabili presso i Sumeri, il geniale popolo della Mesopotamia set­ tentrionale che divide con gli Egizi l’onore di aver offerto i primi grandi contributi al sorgere della civiltà. Si tratta di pesanti carri

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consistenti in un cassone a forma di parallelepipedo montato su quat­ tro ruote massicce e tirato da gruppi di buoi o di onagri — un tipo di asino selvatico. Alcuni reperti portati alla luce che datano intorno al 2500 a.C. appartengono tutti a carri abbastanza piccoli, il cui cassone misurava solo 50 cm circa di larghezza e le ruote avevano un diametro variabile tra 50 cm e 1 m. Questa potrebbe essere la misura dei carri trainati dagli onagri, poiché un carro piu largo, di fattura cosi massiccia, sarebbe stato troppo pesante per essi; in effetti molto spesso i dipinti dell’epoca mostrano dei tiri formati da gruppi di quattro animali piuttosto che di due. Il carro a due ruote sembra essere comparso poco dopo quello a quattro; si trattava però sempre di una costruzione pesante montata su ruote massicce. Intorno al 2300 a.C. in Medio Oriente fu introdotto il cavallo come animale da tiro, e nel giro di pochi secoli venne in uso un tipo di carro piu leggero trainato da cavalli o da muli: un mezzo di trasporto rapido e comodo per re, principi, alti dignitari e simili. Poi, intorno al 1 6 0 0 a.C. re, principi e dignitari ebbero a dispo­ sizione un nuovo strumento: il cocchio. Il cocchio era in effetti un carro trainato da cavalli, ideato per essere utilizzato in guerra. Le sue misure e il suo peso furono perciò ridotti al minimo e, dal mo­ mento che era un mezzo riservato alla nobiltà, nel costruirlo non si badava a spese. Nella prima metà del secondo millennio i carpentieri impararono la tecnica di piegare il legno con l’uso del calore. Questo permise loro di sostituire le ruote massicce a disco, ormai sorpas­ sate, con ruote nelle quali i raggi - di norma quattro, a volte sei erano circondati da un cerchione formato da gavelli ricurvi, accurata­ mente connessi; questo permise anche di sostituire ai pesanti cassoni di legno massiccio altri costituiti da un telaio di legno curvato, rico­ perto con strisce di pelle o con canne di vimini. Un cocchio trovato nella tomba di Tutankhamon ( 1 3 5 2 C . - 1 3 4 4 c. a.C.) conserva ancora un leggerissimo fondo di strisce di cuoio intrecciate. I cocchi erano cosi leggeri che l’eroe omerico Diomede, quando si trova a sot­ trarne uno al nemico, è incerto se trainarlo oppure caricarselo sulle spalle e portarlo via. La nuova scoperta ebbe una diffusione mondiale. Due o tre secoli dopo la sua apparizione in Medio Oriente, era già penetrata verso ovest fino in Grecia, a Creta e nell’Europa setten­ trionale, verso est fino in India e in Cina. Il Medio Oriente conobbe un solo modo di attacco, e lo applicò in maniera indiscriminata sia per i carri pesanti, sia per i leggerissimi cocchi: il giogo. Ogni veicolo aveva, a partire dal centro della sua parte anteriore, un timone sulla cui estremità era inserita una barra

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orizzontale. Il sistema era stato ovviamente previsto per attaccare una coppia di buoi, con un animale per ogni lato del timone, mentre la barra, cioè il giogo, era posto sulle loro spalle. Quando onagri e cavalli assunsero il ruolo di animali da tiro, nessuna modifica fu apportata per loro: senza che si facesse alcuno sforzo di immagina­ zione, essi furono usati a coppie con il medesimo attacco. Tuttavia, non avendo le poderose spalle dei buoi, dovettero essere legati al giogo con una cinghia che passava sopra il petto (Fig. 1). Questa, quando i cavalli erano impegnati a tirare, comprimeva loro la tra­ chea, e rendeva vano ogni tentativo di sfruttarne appieno la forza. Dovunque il cocchio si diffuse, portò con sé questo inefficiente at­ tacco: in Europa verso nord, fino alla lontana Cina verso est. I Greci e i Romani, come vedremo (v. pag. 147), fecero veramente poco per rimediare alla cosa. L ’Estremo Oriente, per caso, inventò un attacco adatto ai cavalli, ma lo utilizzò solo in modo raro e irregolare. L unico modo corretto per attaccare un cavallo a un veicolo è inse­ rirlo tra le stanghe (Fig. 11). In India, in giacimenti archeologici che datano attorno all’inizio del secondo millennio a.C., sono stati ritro­ vati parecchi modelli in bronzo di carri leggeri con qualcosa che ri­ corda le stanghe. Anche se queste ne sono senza dubbio un esempio, di stanghe non si riscontra la minima traccia fino a millecinque­ cento anni dopo, in Cina, attorno al IV secolo a.C. I Cinesi fu­ rono, a questa tarda data, il primo popolo ad apprezzare fino in fondo l’utilità delle stanghe; le adottarono sistematicamente, rinun­ ziando al giogo che avevano preso a prestito dall’Occidente e usato fino a quel momento. I carri coperti risalgono come minimo al 2500 a.C., a giudicare da alcuni modelli fittili che sono stati trovati. Provvisti di una co­ pertura montata su archi, assomigliano ai famosi carrozzoni dei pio­ nieri americani (i Conestoga wagons) del X V III secolo, e senza dub­ bio, come quelli, servivano a trasportare intere famiglie con tutto ciò che esse possedevano al mondo. Il faraone che aveva assunto Giuseppe deve aver avuto in mente veicoli di questo genere quando gli consigliò di dire ai suoi fratelli di prendere « dalla terra d ’Egitto carri per i vostri piccoli, per le vostre mogli e... vostro padre », al fine di condurli tutti da Canaan in Egitto. I viaggiatori in buone condizioni fisiche evitavano in generale i mezzi di trasporto e andavano a piedi o, se potevano permetterselo, a dorso d’asino. Non cavalcavano invece mai cavalli: lo sviluppo di questa tecnica doveva attendere ancora molti secoli (v. pag. 36), Per qualche ragione le lettighe non sono menzionate fino a una data

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abbastanza tarda, ma erano certamente conosciute nei tempi piu antichi. Per un viaggiatore a piedi o un animale è sufficiente un sentiero. Un veicolo ha invece bisogno di una strada, e questa può essere stata una delle principali ragioni per cui i mercanti non si sposta­ vano regolarmente con carri o carrozzoni: in questo periodo dell’an­ tichità non c’erano molte strade che potessero sopportare un traffico su ruote. In un inno sumero attribuito a Shulgi, re di Ur (Uru) dal 2100 circa al 2050 a.C., questi si vanta di essere andato da Nippur a Ur - una distanza di circa 160 km - e di essere ritornato in un solo giorno, nonostante una furiosa tempesta di grandine al ritorno. Se dietro le sue parole esiste un nocciolo di verità, dobbiamo ammet­ tere che fece tra le due città un viaggio rapido, e ciò implica l’esi­ stenza di una carrareccia. Sicuramente ce n’era una, e molto buona, tra Babilonia e Larsa ai tempi di Hammurabi, signore dell’impero babilonese dal 1792 c. al 1750 c. a.C. In una lettera a un suo ufficiale a Larsa, egli ordina che gli siano mandati il piu rapidamente possi­ bile certi impiegati, specificando che debbono « viaggiare giorno e notte, in modo da essere a Babilonia entro due giorni ». Le due città distano tra loro circa 190 km; se noi supponiamo da trentasei a qua­ rantotto ore di viaggio, ciò significa che Hammurabi calcolava una velocità media di circa 5 km /ora, e questa è a un dipresso la ve­ locità che si poteva tenere con un carro trainato da muli due millenni dopo, sulle molto battute strade romane (v. pag. 153). La « strada del paese dei Filistei », che gli Israeliti evitarono con tanta cura durante l’Esodo, che seguiva la costa dalle bocche del Nilo fino a Tiro, Sidone, Beirut e oltre (v. pagg. 154-7) e che serviva da principale collegamento tra l’Egitto e il Medio Oriente, era essa pure in grado di sopportare un traffico di veicoli, almeno per buona parte. I carri di Giuseppe la seguirono senza dubbio quando portarono la sua gente in Egitto. Tuttavia anche la migliore di queste strade offriva solo il minimo indispensabile. La pavimentazione era pressoché inesistente. Gli Ittiti, la potente popolazione che dominò l’Asia Minore dal 1800 circa al 1200 a.C., grazie soprattutto alle loro ben addestrate truppe mon­ tate su carri, pavimentarono gli oltre 2 km di strada che andavano dalla loro capitale a un vicino santuario per reggere i pesanti veicoli usati nelle processioni dei giorni di festa; i loro carri da guerra però correvano per il paese su strade sterrate. Anche i ponti erano una ve­ ra rarità; praticamente non esistevano in Egitto e in Mesopotamia,

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dove le alluvioni ponevano problemi praticamente insolubili per gli ingegneri del tempo. I veicoli passavano a guado, oppure venivano traghettati, operazione che a quei tempi poteva comportare la ne­ cessità di smantellarli per poterli caricare su imbarcazioni di modeste dimensioni, fatte di giunco o di vimini. Inoltre c’erano problemi di manutenzione. « Io ampliai i sentieri, riassestai le strade del mio paese », dichiara Shulgi in quell’inno che descrive il suo fulmineo viaggio; ma non tutti i sovrani della Mesopotamia erano come Shulgi, e ci devono essere stati lunghi periodi durante i quali nessuno si preoccupava di « riassestare » le strade. Sembra che le cose andassero meglio nell’isola di Creta, dove la straordinaria civiltà minoica fiori tra il 2000 e il 1500 a.C., e nella penisola greca, dove dal 1600 al 1200 a.C. prosperò la parimenti ec­ cezionale civiltà micenea. Entrambi i popoli diedero un particolare impulso alla costruzione di strade. A Creta gli archeologi hanno rin­ tracciato i resti di una vera « superstrada » che correva da un porto della costa meridionale verso nord fino alla capitale Cnosso; per tutta la sua lunghezza comprendeva due corsie, con una larghezza media di 4 m e, dove necessario, era rinforzata da muraglie terrazzate di pietra squadrata; per di piu, un monumentale viadotto in pietra squadrata la sosteneva nel tratto finale fino al palazzo di Cnosso. Strade di epoca micenea sono state identificate in Grecia, non solo intorno a Micene stessa, ma a Pilo, in Beozia e perfino nel sud della Tessaglia. Di norma erano a una sola corsia, ma alcune, con una larghezza media di 3,5 m, erano fatte per il traffico nei due sensi. Ponti e canali di scolo le rendevano transitabili durante la cattiva stagione e nelle vicinanze delle città potevano anche avere una discre­ ta pavimentazione; ve n’è un tratto, per esempio, che sale fino alla Porta dei Leoni a Micene. In definitiva, nel X III secolo a.C., la Gre­ cia aveva probabilmente un sistema stradale migliore che non nel III. L ’interesse dei Micenei per le strade derivava con ogni probabilità dal loro amore per i viaggi in cocchio. In Medio Oriente il cocchio serviva solo per la guerra e la caccia. I ricchi Micenei pare abbiano aggiunto un terzo uso: il viaggio. Un affresco trovato a Tirinto, uno dei grandi centri micenei, raffigura un elegante cocchio con cassa cremisi, finiture bianche, ruote gialle, timone bianco legato con stri­ sce di cuoio nere e redini rosse. In esso il conducente non è raffigurato accompagnato da un guerriero o da un cacciatore, ma da due viag­ giatrici; lo sfondo stilizzato rivela che si tratta di una gita in cam­ pagna. L ’ovvia conclusione è che la nobiltà usasse il cocchio per spostarsi —e sarebbe stato davvero difficile spostarsi con veicoli cosi

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leggeri, se non si avessero avute a disposizione strade perlomeno decenti. Questo, per quanto concerne strade e mezzi di trasporto ai loro albori; rivolgiamo ora la nostra attenzione alle persone che viaggiavano. In Egitto i viaggiatori erano praticamente tutte persone facenti parte dell’amministrazione dello Stato. Intorno al 3200 a.C. la valle del Nilo, dalla prima cateratta fino alla costa settentrionale, era sotto il dominio di un solo sovrano. Dalla sua capitale in Menfi, proprio sotto l’apice del Delta, il faraone inviava suoi amministratori, agenti e messaggeri su e giu per il fiume. Nel sacro recinto di Osiride ad Abido, dove ogni Egizio desiderava lasciare una testimonianza del proprio passaggio, gli archeologi ne hanno trovate numerose la­ sciate da funzionari che si trovavano a passare per la città, in seguito a qualche incarico governativo. « Mi recai a Elefantina [presso la pri­ ma cateratta] », si legge su una lapide lasciata da un dignitario di Amenemhat II (1929-1895 a.C.) «com e mi era stato ordinato... Ritornai per la strada che avevo percorso [cioè discese il fiume navi­ gando], Gettai l’ancora ad Abido. Lasciai il mio nome nel recinto del dio Osiride ». Gli uomini del faraone non si limitavano a fare la spo­ la su e giù per il fiume, ma si spingevano verso est nel deserto del Sinai, dove per lo meno dal 3000 a.C. gli Egizi avevano miniere di ra­ me e estraevano la turchese: deve esserci stato un interminabile flusso di operai, bestie da soma, portatori, funzionari e simili che andavano avanti e indietro attraverso il deserto. A volte i rappresentanti del­ l ’Egitto si avventuravano oltre le frontiere del paese, verso il Medio Oriente, o a sud, verso il Sudan. Un certo principe Harkhuf, che visse pressappoco tra il 2300 e il 2200 a.C., fece tre viaggi nel Sudan, come apprendiamo da una breve autobiografia che egli fece incidere sulla sua tomba. Il primo fu: « per aprire la strada verso quella terra. Lo feci in sette mesi e ne ri­ portai ogni genere di splendidi e rari doni... Sua Maestà mi inviò una seconda volta... Mi misi in viaggio [dalla prima cateratta]... e ritornai... nel giro di otto mesi. Ritornai e portai doni da quella contrada in gran­ dissima quantità... Sua Maestà mi mandò una terza volta... Ritornai con trecento asini carichi di incenso, ebano, olio, pelli di leopardo, zanne di elefante, boomerang e ogni genere di ottimi prodotti ».

Era stato, a quanto pare, incaricato di una serie di missioni commerciali. Ma Harkhuf non penetrò nel cuore dell’Africa nera; non si spinse oltre i territori compresi tra la seconda e la terza cateratta.

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L à deve esserci stata una stazione commerciale posta al termine di una carovaniera che toccava a sud gli altopiani e la giungla. Pochi secoli dopo, intorno al 2000 a.C., gli Egizi impararono a evitare gli spostamenti via terra e gli intermediari che questi inevitabilmente implicavano, per darsi agli spostamenti via acqua inviando navi lungo il Mar Rosso, direttamente fino alle coste dell’Etiopia e forse anche della Somalia. Anche in Mesopotamia c’era molto movimento di emissari go­ vernativi: esso iniziò poco tempo dopo che in Egitto. I Sumeri, che in quella zona erano il popolo di piu antica civiltà, diedero vita a singole città-stato, prima che a una nazione unificata, e solo dopo il 2700 a.C. la più potente fra esse cominciò a provare il gusto di soggiogare le città vicine. L ’aggressività di numerosi monarchi creò imperi di considerevoli dimensioni; in questo modo, intorno al XXI secolo a.C., il traffico ufficiale tra la capitale e le città ad essa sotto­ poste era abbastanza intenso da giustificare la creazione di un servizio di comunicazioni statale (v. pag. 21). Nell’antico Egitto il commercio era nelle mani del faraone; viaggi d ’affari, come quello di Harkhuf, non erano che un’altra forma di mis­ sione ufficiale. Mercanti di altre terre passavano a volte per la valle del Nilo, come il gruppo di levantini, che conducono asini carichi di merci, raffigurato su un dipinto scoperto in una tomba del XX secolo a.C. Gli Egizi, non certo famosi per la loro modestia, li de­ scrivono come un’ambasceria straniera recante doni, ma è senz’altro possibile che si tratti di mercanti, in viaggio per proprio conto. Imprese commerciali private avevano invece una forte diffusione in Mesopotamia. Le carovane erano uno spettacolo comune lungo le strade, come lungo il fiume le barche cariche di merci. « Trent’anni fa », si legge in una lettera scritta intorno al 2000 a.C. da due soci in affari di Assur a tre clienti in arretrato con i pagamenti, « voi lasciaste la città di Assur. Da allora non avete mai fatto un solo versamento e noi non abbiamo ricevuto da voi un solo siclo d ’argento, ma noi non vi abbiamo mai fatto questioni per questo. Nostre tavo­ lette vi sono state inviate con ogni carovana, ma non abbiamo mai ricevuto risposta da voi. » Assur era nell’Iraq settentrionale, i de­ stinatari della lettera vivevano in una città situata nel cuore delΓAnatolia orientale; tra le due città delle carovane facevano fre­ quentemente la spola e fornivano un servizio di posta non ufficiale. Lettere di questo genere e altri documenti relativi ad attività commerciali - scritti su tavolette di argilla, che se rimangono invio­

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late si conservano per secoli —sono stati ritrovati a migliaia nel suolo della Mesopotamia. Essi mostrano non solo la diffusione del traffico commerciale a quell’epoca, ma anche il livello di sofisticazione a cui era giunto. I mercanti delle carovane lavoravano a credito, usando danaro o beni affidati loro da un mercante-banchiere, di norma sulla base di una sorta di partecipazione agli utili. Obbligatoria era la conservazione di accurate registrazioni, inoltre si sviluppò un intero corpo di leggi per far fronte ai diversi problemi che si fossero pre­ sentati. Apprendiamo dal famoso codice di Hammurabi che il mer­ cante che perdeva le sue merci per un attacco nemico — presumibil­ mente nemici del re o veri e propri briganti di strada - non aveva il dovere di rifondere i danni; ma se esso tornava senza aver rea­ lizzato alcun guadagno, doveva rimborsare al banchiere il doppio di quanto gli era stato anticipato; evidentemente, tornare senza alcun guadagno era considerato o una flagrante rottura del contratto o una sicura prova di frode. Anche quanti si dedicavano al commercio ma­ rittimo lavoravano a credito, ma senza alcuna compartecipazione. Il banchiere forniva un prestito gravato del normale interesse, tutto il profitto spettava al mercante, e il banchiere era al riparo da ogni rischio; anche se la nave affondava, egli aveva ancora diritto al suo capitale e agli interessi. La rete del commercio marittimo era ecce­ zionalmente estesa: dalla seconda metà del terzo millennio, le navi percorrevano le rotte del Golfo Persico fino all’odierna Arabia Sau­ dita e lungo le coste degli attuali Iran e Afghanistan, fino alle regioni settentrionali dell’India. Corrieri governativi, funzionari con il loro seguito, mercanti con giare e balle di mercanzie: questa era la gente che si poteva vedere ogni giorno lungo le strade e i fiumi. Ma in certi periodi dell’anno questo traffico diveniva insignificante di fronte al massiccio afflusso di fedeli diretti ai luoghi sacri, in occasione delle feste delle divinità. In Egitto, dove la religione superava qualsiasi altro interesse e dove un fiume provvidenziale rendeva abbastanza facili i viaggi in qual­ siasi parte del paese, avvenimenti di questo genere mettevano in mo­ vimento grandi folle. Erodoto, descrivendo ciò che sicuramente avve­ niva già da centinaia d’anni prima di lui, narra che: « ... gli Egizi si riuniscono per celebrare feste non solo una volta al­ l’anno, ma parecchie volte. La piu grande e popolare è quella di Bubasti... poi quella a Busiri... la terza a Sais... la quarta a Eliopoli... la quinta a Buto... la sesta a Papremis... Ecco ciò che accade quando si riuniscono a Bubasti. Essi si spostano sul fiume, uomini e donne assieme; si affol­ lano in massa su ciascuna imbarcazione. Mentre sono in navigazione, al­

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cune donne suonano i crotali, alcuni uomini il flauto, gli altri, uomini e donne assieme, cantano e battono il tempo con le mani. Ogni volta che passano per una città, accostano a riva le barche e si comportano cosi: una parte delle donne continua a fare ciò che ho descritto, ma altre si mettono a gridare e a prendersi gioco delle donne della città, altre an­ cora ballano, altre infine si alzano in piedi e si mettono in mostra. E si comportano cosi ad ogni città lungo il fiume. Quando giungono a Bubasti, celebrano la festa con grandi sacrifici, e durante quella sola festa viene consumato piu vino che nel corso di tutto l’anno. Secondo gli abitanti del luogo, vi si riuniscono piu di settecentomila persone, contando solo uo­ mini e donne e non i bambini ».

Il numero delle presenze riferito da Erodoto è senza dubbio esa­ gerato ma, per quanto lo si ridimensioni, ci troviamo pur sempre di fronte a una folla enorme che si sposta contemporaneamente. Infine, dal 1500 a.C. circa, possiamo scorgere in Egitto sicuri segni di turismo, cioè di viaggi fatti per semplice curiosità o diverti­ mento. Il turismo si sviluppò in Egitto e non in Mesopotamia poi­ ché la valle del Nilo è costellata da una quantità di splendidi edifici in pietra, che i faraoni, fin dal 2700 a.C., incominciarono a far costruire per sé come grandiose tombe e come templi. D i conseguenza, gli Egizi dell’antichità si trovarono a vivere in un vero e proprio museo, circondati da monumenti di veneranda antichità. Nei grandi giorni del Nuovo Regno, dal 1600 al 1200 a.C., quando regnavano Thutmose, Ekhnaton, Ramsete e altri sovrani altrettanto celebri, la piramide « a gradoni » di Geser a Sakhara, la Sfinge e le tre grandi piramidi di Gizah, le piramidi di Abu Sir (l’antica Busiri) ecc., erano già vec­ chie di oltre un millennio. Sui muri troviamo messaggi lasciati da persone che si erano messe in viaggio appositamente per ammirare queste splendide testimonianze della potenza del loro passato. Ogni monumento era un luogo sacro, e i visitatori vi sostavano alcuni mo­ menti in preghiera; la motivazione principale era però la curiosità e il puro diletto, non la religione. « Hadnakhte, scriba della tesoreria », dice uno di questi messaggi, datato 1244 a.C., e scritto sul muro di una cappella collegata con la piramide di Geser, « si mise in cammino per compiere un viaggio per proprio diletto a occidente di Mentì, as­ sieme a suo fratello Panakhti, scriba del Visir. » Su un muro della cappella dedicata alla dea Sekhmet, nel complesso monumentale di Abu Sir, sta scritto che nel 1261 a.C. uno scriba di nome Ptah-Emwe, suo padre, lui pure scriba, e forse anche un terzo scriba « vennero ad ammirare l’ombra della piramide, dopo aver fatto delle offerte a Sekhmet ». Essi erano turisti cosi come quei visitatori che oggi, in certe famose cattedrali, si fermano per accendere una candela.

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Gli scribi erano a tal punto regolari visitatori di questi luoghi che elaborarono una formula fissa per registrare la loro presenza; dal momento poi che si trattava di gente metodica e di scarsa imma­ ginazione la stessa formula fu usata con minime variazioni per cen­ tinaia di anni. « Lo scriba Taldeitali », dice la formula, « dalle abili dita venne a visitare il tempio del beato re Taldeitali ». Una di que­ ste, scritta nel X III secolo a.C. nel complesso monumentale di Ge­ ser, aggiunge che fu tracciata « a nome di tutti i membri della Scuo­ la... delle Muse »: in altre parole, si trattava di una scuola di scribi impegnata in una visita di gruppo, proprio come le comitive di stu­ denti che oggi vediamo fare il giro dei monumenti. Queste reiterate e ingenue scritte attestano non solo l’esistenza dei turisti, ma pure che talune caratteristiche del loro comportamento erano già chiaramente delineate fin dall’antichità. La principale ragio­ ne di questi messaggi sembra essere stata l’atavico desiderio di la­ sciare il proprio nome nei luoghi in cui si è stati, di lasciare insomma il proprio biglietto da visita. I nomi non sono regolarmente incisi sulla pietra, ma frettolosamente tracciati con pennello e pittura, op­ pure graffiati con qualche punta affilata. Alcuni visitatori non ave­ vano voglia di perdere tempo con la formula completa, cosi anda­ vano al nocciolo e scrivevano solo il proprio nome: « Lo scriba Pennewet », « Lo scriba Wia », ecc. Non c ’è nulla di strano che la mag­ gioranza di queste firme appartengano a scribi: essi erano gli unici che sapessero scrivere. Ma, nonostante il presuntuoso riferimento alle loro « abili dita », cioè alla loro perizia, le loro esibizioni erano spesso tutt’altro che perfette - e ciò avveniva tanto spesso che un esponente di questa categoria fu mosso a redigere un irato atto d’ac­ cusa su un muro della cappella, nel complesso monumentale di Geser: « Lo scriba dalle abili dita venne, uno scriba senza eguali fra tutti gli uomini di Menfi, lo scriba Amenemhet. Io dico: spiegami queste parole [probabilmente alcuni graffiti pieni di errori]. Il cuore mi fa male, quando vedo l’opera delle loro mani... Essa è simile all’opera di una donna senza cervello; qualcuno dovrebbe denunciarli, prima che giungano in vista del tempio. È una vergogna; essi non sono scribi quali Thoth [il dio protettore degli scribi] ha prescritto ».

Un’altra caratteristica tipica del comportamento dei turisti che si manifesta già in quest’epoca antichissima, è quella di riportare a casa ricordi, esotici o tipici, dai luoghi visitati. Harkhuf, preposto dal faraone a condurre missioni commerciali nel Sudan (v. pag. 15), al ritorno dal suo quarto e ultimo viaggio, acquistò per il suo sovrano

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il souvenir piu tipico dell’Africa: un Pigmeo esperto nelle danze del suo paese natale. Fu una scelta felice poiché, avendo egli inviato un messaggero a preannunciare ciò che recava con sé, il faraone fu completamente elettrizzato alla notizia. « Affrettati », gli fece rispon­ dere, « e reca con te questo nano... Prendi uomini valorosi, che stiano attorno a lui a tavola, fai attenzione che non cada in acqua. Prendi anche uomini valorosi, che passino la notte attorno a lui nella sua tenda. Fai ispezioni dieci volte per notte. » Alla preistoria dei viaggi risale non solo l’abitudine di riportare souvenir, ma anche di acquistare all’estero merci convenienti o spe­ cialità, per soddisfare le richieste di amici o parenti. C’è una lettera che un certo Azalum, intorno al 1800 a.C., ricevette da parte di Adadabum, un suo giovane amico, oppure, se la parola « padre » va presa alla lettera, un figlio già adulto; Adad-abum stava probabilmente a Eshnunna, a nord di Bagdad, Azalum era invece in viaggio in una città fra quelle sottoposte all’autorità di Bagdad: « Finora non ti ho mai scritto per chiederti qualche oggetto pre­ zioso, da me desiderato. Ma se tu vuoi essere per me come un padre, comprami un’elegante fascia di perline, di quelle da annodare intorno alla testa. Sigillala con il tuo sigillo, e consegnala al latore di questa tavo­ letta, in modo che egli possa portarla a me. Nel caso tu non ne abbia a portata di mano, cerca di scoprire dove [simili oggetti] sono [reperi­ bili], e mandamela. Io la desidero moltissimo, non rifiutarmi questo favore. In ciò vedrò se tu mi ami davvero come un vero padre. Dimmi na­ turalmente il prezzo e comunicamelo scrivendolo su una tavoletta. Il gio­ vane che è venuto da te non deve vedere la fascia di perline. Sigillala [in un pacchetto] e dagliela. Non deve vedere la fascia di perline, quella da annodare intorno alla testa, che tu mi manderai. Deve essere comple­ tamente piena [di perline] e deve essere bella. Se quando la vedrò, non mi [piacerà], te la rimanderò indietro! Mandami anche il mantello, di cui ti parlai ». Quando una folla di Egizi in festa si dirigeva a Busiri, o verso uno qualsiasi degli altri luoghi citati da Erodoto, essi non trovavano servizi organizzati per il cibo e l’alloggio. Come le centinaia di mi­ gliaia di giovani che ai nostri giorni si riuniscono per i festival po­ polari, questi Egizi dormivano all’aperto e si nutrivano come pote­ vano, lasciando poi ai locali il compito di ripulire tutto dopo la loro partenza. Completamente opposta era invece la condizione di quanti si tro­ vavano in missione governativa, i quali erano provvisti di tutto. Il faraone, nella risposta al messaggio di Harkhuf concernente il Pig­

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meo, ricorda al suo inviato che « ordini sono stati fatti pervenire al Comandante delle Città Nuove... affinché ogni emporio e ogni tempio metta a tua disposizione quanto necessario al sostentamento, senza limite ». In altre parole, i templi e i depositi governativi dispo­ sti lungo la strada dovevano provvedere ai bisogni di Harkhuf e del suo seguito. Probabilmente questa era la normale prassi per quanti in Egitto viaggiavano in missione ufficiale. In Mesopotamia, alcune cit­ tà disponevano di un perfetto servizio di posta governativo. Nel suo inno Shulgi afferma: « Io ampliai i sentieri, riassestai le strade del mio paese, Resi sicuri i viaggi, costruii le “grandi case”, Le circondai di giardini, stabilii stazioni di sosta, Vi posi uomini ospitali, [In modo che] chi giunge dall’alto, chi giunge dal basso, Può trovare ristoro e frescura, Il viandante che percorre di notte le strade, Può trovarvi rifugio, come in una vera città ». In parole povere, Shulgi pose lungo le strade principali delle po­ stazioni fortificate, il cui scopo era il mantenimento di locande per il personale governativo abbastanza grandi e anche abbastanza gra­ devoli, se dobbiamo credere alle sue parole. Questi luoghi di ristoro erano al servizio di tutte le classi di viaggiatori: quella superiore, in larga parte composta da funzionari in missione, e quella inferiore, in maggioranza mercanti. Fu probabilmente organizzato lo stesso tipo di servizio che funzionava a Lagash, pressappoco alla stessa epoca; questo assicurava efficienza agli spostamenti di amministratori, cor­ rieri, personale militare fra la capitale e le città dipendenti, la mag­ gior parte delle quali distava dai 160 ai 400 km, e una perfino piu di 600. Il permesso di viaggio di ogni persona comprendeva un buono per le razioni di cibo, sufficienti per una giornata di marcia; al ter­ mine di questa è probabile che il viaggiatore giungesse a un’altra locanda governativa, dove passava la notte e riceveva il cibo per il giorno seguente. Quantità e qualità delle razioni erano proporzionali al rango: i funzionari, ad esempio, mangiavano notevolmente meglio dei normali corrieri. I viaggiatori andavano a piedi, eccettuati gli ufficiali di piu alto grado, la cui indennità di viaggio comprendeva anche il cibo per gli animali; ed è molto probabile che a ogni sta­ zione trovassero un cambio di animali freschi. Nessuna traccia di queste locande della Mesopotamia è giunta fino a noi. La più antica conosciuta si trova a Creta, dove fu costruita

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intorno al 1500 a.C. Era una piccola ed elegante costruzione, situata lungo la strada proveniente dalla costa meridionale, nei pressi del palazzo di Cnosso; i viaggiatori, dopo il lungo viaggio attraverso risola, potevano rinfrescarsi prima di entrare nel palazzo. Al piu basso livello si trovavano dei locali con i resti di giare per conser­ vare gli alimenti e recipienti per il grano; questi locali dovevano essere collegati con la cucina. Al livello superiore vi era una bella loggia, di 5,5 X 6 m circa, decorata lungo tutto il soffitto con un brillante fregio affrescato con fiori e uccelli; doveva trattarsi di una sala da pranzo. Lungo un lato della stanza vi era un piccolo padi­ glione, altrettanto grazioso, che conteneva una vasca per lavarsi i piedi. La vasca misurava approssimativamente 1,80 X 1,20 m ed era abbastanza profonda da permettere ai Cretesi (che erano abba­ stanza piccoli: raggiungevano appena il metro e sessanta) di farsi un mezzo bagno; la vasca era circondata da una delicata pavimen­ tazione di lastre di pietra levigata. Al di là di questa, c’era un’altra stanza nella quale furono trovate delle tinozze; qui gli ospiti pote­ vano probabilmente farsi un bagno completo. A giudicare dalle parole di Shulgi, fra le locande statali disposte lungo le strade della Mesopotamia ve ne erano alcune che accoglie­ vano anche viaggiatori privati. Nelle città essi si fermavano nell’al­ bergo del luogo, perché da quelle parti l’ospitalità privata non sem­ bra essere stata in grande uso. I locali pubblici invece in Mesopota­ mia sono attestati a partire almeno dalla prima metà del terzo millen­ nio a.C.; per essi, tuttavia, fornire alloggio a stranieri era quanto­ meno un fatto occasionale, dal momento che la principale attività consisteva nel fornire bevande e donne. Gli osti stessi erano in mag­ gioranza donne; locandiera e tenutaria sembrano essere state, in ordine cronologico, la seconda e la terza piu antica professione fem­ minile. Si beveva vino di palma e birra d’orzo, e vi era una precisa legislazione contro chi tentava di annacquarli; il codice di Hammurabi prevede, per chi ha annacquato la birra, con pena appropriata al delitto, la morte per annegamento. Le persone perbene non fre­ quentavano taverne. Se, per esempio, una donna ritiratasi dal sa­ cerdozio era sorpresa mentre entrava in una taverna, veniva bruciata viva; si supponeva, infatti, che vi si fosse recata per peccare. Esi­ steva una disposizione secondo la quale ogni taverniere, sotto pena di morte, doveva segnalare i delinquenti fra i propri avventori: ciò dà un’idea del livello della clientela, che non era certo molto raffi­ nata; cosi come non doveva esserlo l’ambiente. Un documento della prima metà del secondo millennio a.C. precisa: « Se un uomo orina

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nella taverna in presenza della moglie, egli non sarà fortunato... Qua­ lora sparga la sua urina a destra e a sinistra degli stipiti della porta della taverna, allora sarà fortunato ». Le locande statali facevano parte, in un certo senso, di un pri­ mitivo sistema postale: contribuivano alla rapidità dei viaggi dei corrieri ufficiali. Questi corrieri tuttavia trasportavano solo posta ufficiale —o qualsiasi altra cosa che fossero persuasi, o corrotti, a in­ filare tra i dispacci ufficiali. La corrispondenza privata viaggiava nella maniera in cui è sempre viaggiata durante tutta l’antichità: nelle mani cioè di qualsiasi viaggiatore che andasse nella direzione giusta. Gli uomini d’affari assiri che, come abbiamo visto, scrissero ai loro soci in Asia Minore (v. pag. 16) affidarono le loro lettere a una carovana che faceva la spola tra le due località. La lettera succitata, in cui si richiede a un viaggiatore l’invio di una fascia di perline da annodare alla testa (v. pag. 20), fa riferimento al « giovane che è venuto da te ». Il « giovane » in questione può essere stato un amico della stessa città che, per un caso fortunato, doveva fare un rapido viaggio di andata e ritorno fino alla città ove si trovava il destinatario, ed era cosi in grado di consegnare la lettera e riportare l’acquisto. Un uomo di Larsa che, nel 2000 a.C. circa, scrive a sua sorella, conclude la lettera con queste parole: « Ti invio ora un uo­ mo [che viaggia via terra] con il carro sacro del dio Adad. Per mezzo* suo mandami cento locuste e cibo per un ammontare d ’un sesto di siclo d’argento ». Anche qui sembra che la lettera sia affi­ data a qualcuno che per caso doveva fare un viaggio di andata e ri­ torno nella città dove viveva il destinatario. I viaggi via terra erano, a quell’epoca, difficili e pericolosi. Biso­ gnava seguire strade che erano praticamente sentieri per muli; biso­ gnava guadare i fiumi o, se il viaggiatore era abbastanza fortunato da trovare un traghetto, occorreva aspettare il battelliere. Viaggiare voleva soprattutto dire sfiancarsi sotto il sole, il vento o la pioggia, tutte cose che in Medio Oriente possono essere terribili. A questo proposito c’è la testimonianza di un funzionario egizio, guardasigilli del faraone; egli fu mandato in missione attraverso il deserto fino al Sinai (v. pag. 15) nell’anno 1830 a.C. circa e lasciò là un’iscrizione molto eloquente: « Questa terra è stata raggiunta nel terzo mese della seconda stagione, benché non fosse affatto la stagione adatta per arrivare a questa zona mineraria [e difatti non lo era perché la stagione favorevole terminava con

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il principio di giugno]. Questo il custode del sigillo... dice ai funzionari che abbiano la ventura di capitare in questa zona mineraria in questa stagione: non lasciate che il viso vi si dissecchi per questo... Io sono arrivato dall’Egitto con la faccia avvizzita. Nel mio caso fu difficile adat­ tare la pelle al clima, dal momento che in pianura regnava un calore soffocante, sugli altipiani l’estate imperversava e sui monti la pelle si copriva di vesciche ». Ancora peggiori delle difficoltà erano i pericoli, soprattutto il bri­ gantaggio, talmente diffuso che il codice di Hammurabi, come s’è già detto, esimeva i mercanti dal rimborsare i prestiti, se i loro beni ve­ nivano rubati. Uno dei sistemi che Hammurabi escogitò per risol­ vere il problema consisteva nell'indirizzare i derubati alle autorità locali: comandò che queste rifondessero i danni alle vittime di furti perpetrati sul loro territorio. Quando poi la legge e l’ordine decad­ dero, la situazione divenne quasi disperata. « Si nascondono nei ce­ spugli », lamenta un Egizio che scrive tra il 2200 e il 2100 a.C., un periodo di crisi per la valle del Nilo, « finché giunge un viaggia­ tore sorpreso dalla notte: allora lo derubano di tutto il suo carico. Il ladro è un possessore di ricchezze. » Le parole di Shulgi a lode del proprio sistema viario (v. pag. 21) mettono l’accento sulla si­ curezza che esso forniva, e una delle caratteristiche piu notevoli della strada che in Creta univa Cnosso alla costa meridionale è una serie di postazioni fortificate per le guardie viarie. Intorno al 1130 a.C., un sacerdote egizio di nome Wenamon scrisse una relazione su un viaggio d ’affari da lui compiuto. Per un miracoloso colpo di fortuna, ne è giunta una copia fino a noi in un logoro rotolo di papiro, che un gruppo di contadini egiziani aveva raccolto per accendere il fuoco. Si tratta del piu antico resoconto det­ tagliato di un viaggio che esista; la prosa spoglia, molto personale con cui è compilato getta un colpo di luce nell’oscurità e ci mette in grado di capire cosa volesse dire viaggiare dodici secoli prima della nascita di Cristo. Wenamon era addetto al tempio di Amon in Tebe, nell’Alto Egit­ to. Il sommo sacerdote lo incaricò di recarsi in Libano per acquistare un carico del famoso legno di cedro, necessario per costruire l’imbar­ cazione da cerimonia usata nella festività annuale del dio. La prima mossa di Wenamon fu di discendere verso il Delta, qui rendere omag­ gio al monarca locale e accaparrarsi i suoi favori. Gli presentò una lettera del sommo sacerdote, le sue credenziali o il lasciapassare, e fu accolto benevolmente. Gli fu procurato un passaggio su una nave

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diretta in Siria. Il 20 aprile, quindici giorni dopo la sua partenza da Tebe, la nave salpò, fece vela oltre il Delta e, come dice Wenamon, « si inoltrò nel gran mare siriaco ». Sinora le cose erano andate molto bene e al primo scalo sem­ brava che la fortuna di Wenamon dovesse continuare: la sua nave giunse alla città di Dor, un poco a sud del monte Carmelo, dove una tribù di pirati — i Tjeker — aveva fondato una colonia, poco meno di un secolo prima. Il signore locale, Beder, si affrettò a far perve­ nire al viaggiatore appena arrivato « cinquanta forme di pane, una giara di vino e un grosso pezzo di carne di manzo ». Wenamon, il quale, come la narrazione mostra chiaramente, aveva un’alta opinione della propria importanza, accolse benignamente i doni, consideran­ doli né piu né meno che dovuti. Ma questa fu l’ultima volta che la fortuna gli sorrise; il racconto che segue è la prova di una tremenda sfortuna. Come dice lui stesso, col suo linguaggio da uomo d ’affari, « un uomo della mia nave se la svignò, dopo aver rubato un vaso d ’oro del peso di cinque deben [circa 550 g ], quattro vasi d’argento del peso di venti deben, un sacco d’argento del valore di undici de­ ben. Totale del furto: cinque deben d ’oro, trentun deben [circa 3,4 kg] d’argento ». Tutti i soldi che il poveretto aveva portato con sé erano svaniti, sia quelli per le spese di viaggio, sia quelli che gli erano stati dati per pagare il legname. Wenamon fece, in quella circostanza, l’unica cosa possibile. « Al mattino sbarcai », egli riferisce, « e, recatomi dal principe, gli dissi: “ Sono stato derubato nel tuo porto e, poiché tu sei il principe di questa terra, devi avviare un’indagine per trovare il mio argento” . Beder non era tipo da farsi invischiare in un simile gioco; allo stesso tempo era abbastanza per bene da offrire il suo aiuto. “ A me non interessa che tu sia una persona importante” replicò, “ io mi rifiuto di accogliere la protesta che mi hai presentato. Se sulla tua nave fosse salito un ladro della mia terra e ti avesse rubato l’argento, te l’avrei rifuso prendendolo dal mio tesoro personale, finché non si fosse trovato il ladro, chiunque egli fosse. Ma il ladro che ti ha de­ rubato, appartiene a te! Fa parte della tua nave! Se vuoi, puoi tra­ scorrere qualche giorno presso di me, cosi che io possa cercarlo.” » Dopo nove giorni di attesa Wenamon divenne impaziente; a que­ sto punto il papiro è spezzato, e noi possiamo solo tentare di con­ getturare ciò che accadde sulla base di frammenti di frasi rimasti. Lasciata Dor, Wenamon continuò nel suo viaggio e, da qualche parte fra Tiro e Biblo, forse nel porto di Sidone, risolse il suo problema disperato con un disperato rimedio: compì un furto in proprio.

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Assali alcuni Tjeker e si impadronì di trenta deben d’argento. A questo punto il papiro è ancora mutilo, ma il seguito conferma che qualcosa di simile dovette accadere. Wenamon non provava rimorsi: il suo danaro era stato rubato in un porto dei Tjeker, e quelli erano soldi dei Tjeker. « Io sto prendendo il vostro argento » disse alle sue vittime « e me lo terrò finché voi non troverete il mio o il ladro che me lo rubò. Anche se voi non mi avete derubato, io me lo prendo lo stesso. » Se Wenamon pensava che a questo punto i suoi guai fossero fi­ niti, non poteva commettere errore piu grande. Appena ebbe gettato l’ancora nel porto di Biblo, dove contava di comprare il legname, il comandante del porto andò da lui con un breve ma chiarissimo mes­ saggio da parte di Zakar-Baal, il principe regnante, che intimava: « Vattene dal mio porto! ». La spiegazione piu ragionevole per que­ st’ordine inatteso è che l’arrivo di Wenamon fosse stato preannun­ ciato da un messaggio dei Tjeker, nel quale si denunciava il suo furto; dal momento che i Tjeker erano i suoi vicini meridionali e go­ devano di una terribile fama come predoni, il principe non aveva nessun desiderio di mettersi nei guai con loro. Un uomo della tem­ pra di Wenamon tuttavia, che era appena uscito da un vicolo cieco grazie a una fortunata rapina a mano armata, non era certo tipo da farsi fermare da una simile piccolezza. Per ventinove giorni gironzolò intorno al porto, benché ogni mattina il comandante gli facesse de­ bitamente pervenire lo stesso messaggio. Abbastanza curiosamente, Zakar-Baal non andò oltre le parole. Doveva mantenere buoni rap­ porti con vicini pericolosi, nello stesso tempo però, se appena avesse potuto, non voleva perdere un affare vantaggioso. Escogitò cosi il ge­ niale espediente di emanare un ordine e di non fare nient’altro per ottenere che fosse rispettato. Alla fine il principe concesse al povero inviato un colloquio e We­ namon si trovò di fronte un tenace negoziatore. Poiché il danaro ru­ bato non era sufficiente per coprire il costo del legname, Zakar-Baal lo convinse a farsi inviare dall’Egitto una nave carica di merci per colmare la differenza. Passarono otto mesi, prima che giungesse la nave, e che il legname fosse tagliato, trasportato e caricato. Alla fine di tutto ciò, Wenamon ricevette il permesso di salpare con il suo prezioso carico - e proprio quel giorno, al mattino, come se fossero stati mandati dal dio vendicatore, undici navi da guerra dei Tjeker entrarono nel porto per chiedere giustizia a causa dei trenta deben d’argento rubati loro un anno prima. A questo punto, ce lo

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dice lo stesso Wenamon, egli si sedette sulla spiaggia e si mise a piangere. Zakar-Baal fu all’altezza della situazione. Aveva degli obblighi verso Wenamon, ma nello stesso tempo non aveva alcuna intenzione di guastare i suoi rapporti con i Tjeker. La sua soluzione fu un ori­ ginalissimo compromesso: « Non posso arrestare un messaggero di Amon sul mio territorio » disse ai Tjeker; « lasciate che io lo allon­ tani, e poi voi inseguitelo per arrestarlo ». In altre parole, Wenamon poteva partire un po’ prima dei suoi nemici in modo da avere, per cosi dire, una possibilità almeno formale di successo. Indubbiamente egli doveva avere una personale opinione sulle possibilità di suc­ cesso di una nave affittata per il trasporto del legname contro una selezionata squadra di navi pirata. L ’ultima parte del racconto è terribilmente succinta. « Mi fecero salire a bordo » scrive Wenamon « e mi spedirono via. Il vento mi spinse nel territorio di Alashiya [Cipro o la costa dell’Asia Minore a nord dell’Ìsola]. » Questo vento, che lo spinse in una direzione completamente opposta a quella desiderata, dev’essere stata una di quelle burrasche provenienti da sud-est che capitano spesso lungo le coste siriache. Forse Wenamon la considerò un’altra delle sue tribola­ zioni, ma di fatto essa molto probabilmente gli assicurò la salvezza: i Tjeker, sia per la leggerezza delle loro navi, sia per il fatto che pensarono che la tempesta avrebbe loro risparmiato la fatica, non si presero il fastidio di dargli la caccia. Quando la nave toccò terra, indubbiamente molto malridotta per le peripezie, un gruppo di indigeni la assali immediatamente e catturò Wenamon per ucciderlo. I loro villaggi dovevano, con ogni probabi­ lità, aver subito parecchie incursioni piratesche, e questo costituiva una buona opportunità per regolare i conti. A questo punto, tutta­ via, la stella di Wenamon cambiò finalmente di faccia; egli si diresse al palazzo della regina e « la trovai proprio mentre, uscita da una delle sue dimore, stava per entrare in un’altra. La salutai e chiesi alle persone del suo seguito: “ C ’è qualcuno tra voi che parli egizio?” . Un tizio rispose: “ Io lo parlo” e io a lui: “ D i’ alla tua signora...” » ma il discorso è privo d ’importanza e forse non è altro che quanto, anni dopo seduto alla sua scrivania in Tebe, Wenamon pensava che avrebbe dovuto dire, in luogo di quanto aveva effettivamente detto un viaggiatore bagnato fradicio, esausto e spaventato. Il fatto impor­ tante è che la regina lo ascoltò. « Fece chiamare il popolo » scrive ancora Wenamon « e quando esso fu radunato intorno a lei mi disse: “ Pernotta qui...” » e a questo punto il papiro si interrompe brusca-

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mente. Noi non sappiamo - e forse non sapremo mai, a meno che per un altro miracoloso colpo di fortuna non si scopra il resto del papiro - quando egli tornò a casa e se il legname arrivò felicemente. Sappiamo solo che Wenamon tornò, in caso contrario la relazione non sarebbe mai stata scritta.

CAPITOLO SECONDO

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Intorno al 1200 a.C. le civiltà del Mediterraneo orientale subirono un profondo cambiamento. Orde di invasori di oscura origine, i « Po­ poli del Mare » come li chiamano gli storici, le travolsero lentamente ma inesorabilmente, lasciandosi dietro solo rovine. Quando la pol­ vere delle loro devastazioni si diradò, l’Età del Bronzo era finita, co­ minciava quella del Ferro, e nuovi attori assumevano il ruolo di pro­ tagonisti nel dramma della storia antica. Gli Egizi riuscirono a sconfiggere gli invasori proprio alle porte di casa, alle bocche del Nilo. Ma lo sforzo, unito ad altri fattori, esaurì anche quel poco di energia che era loro rimasta; presto scivolarono in una sorta di lungo crepuscolo, durante il quale, vivendo nel ri­ flesso del passato, fossilizzarono il loro paese, e ne fecero il primo luogo di attrazione turistica dell’antichità. In Asia Minore, i nuovi arrivati distrussero la potenza degli Ittiti. Siria e Palestina, che fino allora erano state praticamente divise tra le sfere d ’influenza degli Egizi e degli Ittiti, si trovarono prive di guida; ciò permise a nu­ merosi popoli di importanza relativamente minore, come Cananei, Israeliti e Fenici, di far sentire la loro presenza. La fine dei disor­ dini portò alla ribalta in Mesopotamia un popolo che doveva in poco tempo fondare il più grande impero che il Medio Oriente avesse mai visto: quello degli Assiri. M a il cambiamento che alla lunga avrebbe avuto piu influenza sul corso della storia avvenne nella penisola greca. Gli invasori provenivano da nord, e la Grecia si trovava esatta­ mente sulla loro strada. Quando quelli giunsero, travolsero l’ancor fiorente civiltà micenea: la civiltà greca dell’Età del Bronzo che dal 1500 a.C. circa dominava i commerci del Mediterraneo orientale (v. pag. 14), i cui re abitavano in grandi palazzi e si facevano seppellire in splendide tombe. L ’invasione cancellò tutto questo a tal punto che la Grecia scomparve, visse un’età buia per tre o quattro secoli.

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L ’oscurità si dissolse infine, per illuminare gli antenati di quel po­ polo ricco di splendide doti che noi conosciamo dalla storia. Agli inizi questi nuovi Greci conducevano una vita povera e pri­ mitiva, ben diversa da quella dei loro predecessori, i potenti e organizzatissimi Micenei. I grandi re di un tempo erano ora ridotti al rango di signorotti locali, poco piu potenti dell’aristocrazia che li circondava, le grandiose città con i relativi palazzi reali erano ridotte a semplici villaggi, dove nobili e contadini vivevano in modo affine nelle fattorie. Armi e attrezzi in ferro, piu economici e durevoli, so­ stituirono quelli di bronzo. Questa è l’epoca rappresentata nei poemi omerici, soprattutto nzWOdissea. Benché Omero sostenga di can­ tare le gesta di Agamennone, di Nestore e di altri ricchi e splendidi signori dei tempi precedenti l’invasione, e benché il racconto descriva molti oggetti risalenti a quella civiltà — carri da guerra, costose ar­ mature, preziosi doni in oro e argento —il panorama generale è quel­ lo di un’epoca non molto distante da quella in cui il poema stesso nacque: la fine dell’V III o il principio del V II secolo a.C. In questo mondo i viaggi per mare rappresentano ancora il siste­ ma piu rapido per spostarsi da un luogo all’altro; ma le grandi potenze marinare del precedente millennio - minoica, micenea, egizia sono ora tutte rimpiazzate da un nuovo popolo di commercianti, i Fe­ nici. Per circa quattrocento anni, a partire pressappoco dal 1 1 0 0 a.C., i Fenici monopolizzarono il Mediterraneo, finché i Greci non diven­ tarono marinai abbastanza esperti da poter competere con loro. Sa­ lomone { 9 6 5 C . - 9 2 2 c. a.C.) utilizzò marinai fenici per riprendere il commercio con l’India, riattando rotte commerciali che erano state aperte centinaia di anni prima (v. pag. 1 7 ) . Poco piu di un secolo dopo i marinai fenici, spingendosi sempre più a ovest, fondarono una colonia a Cartagine e forse, passando per lo stretto di Gibilterra, si spinsero nell’Atlantico e fondarono Cadice. Intorno al 6 0 0 a.C. avevano già circumnavigato l’Africa (v. pag. 44). « Un giorno Fe­ nici vennero, navigatori famosi », dice il porcaro di Ulisse, Eumeo, quando narra come divenne schiavo, « furfanti, cianfrusaglie infinite sulla nave nera portando ». A quel tempo egli era un bambino, figlio del re del luogo; i nuovi arrivati, pronti a qualsiasi affare, lecito o il­ lecito che fosse, lo attirarono a bordo, lo rapirono e lo rivendettero poi a Laerte, il padre di Ulisse. Nei versi di Omero si parla molto di viaggi, sia per terra sia per mare, ma si tratta solo di viaggi di re e principi. Valgano questi due significativi esempi: i Feaci riportano Ulisse alla sua Itaca

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con una splendida galera a cinquanta remi, e lo fanno sdraiare per dormire sul ponte di poppa, assieme agli ufficiali della nave. Quando Telemaco, il figlio di Ulisse, parte per cercare notizie del padre as­ sente da molto tempo, ha ai suoi ordini una nave con venti rema­ tori; durante il viaggio di andata egli divide il ponte con Atena, al ri­ torno con un principe fuggiasco da lui accolto con generoso spirito di amicizia. Via terra gli eroi omerici viaggiavano con i cocchi. In cocchio Telemaco va da Pilo a Sparta, e la figlia di Elena percorre con que­ sto mezzo tutta la strada da Sparta a Ftia, la città tessalica dove nac­ que Achille. Nel medioevo ellenico, in realta, i cocchi erano praticamente scomparsi dall’uso e sopravvivevano solo per le corse. Questi viaggi sono dunque un anacronismo, un ricordo dei tempi micenei, quando i nobili e le loro donne viaggiavano per il paese con simili mezzi di trasporto (v. pag. 14). Oltre che anacronistici, sono anche leggendari: il primo avrebbe implicato due giornate ininterrotte di viaggio attraverso un territorio montagnoso, il secondo ancora di piu, inoltre i Micenei non avevano strade carreggiabili fra le località in questione, e di certo non ce n’erano nei secoli bui, come pure per gran parte della storia greca. I trasporti erano affidati soprattutto agli animali da soma, in par­ ticolare ai muli. Dove il terreno lo permetteva venivano usati veicoli a ruote; cosi Priamo trasportò il riscatto per il cadavere di Ettore nella pianura fra Troia e il campo greco con un « carro dalle forti ruote, trainato da muli »; e a Scheria, l’idillica isola dei Feaci, Nausicaa trasportava al fiume il bucato con: « l’eccelso carro dalle lievi ruote ... e i forti muli vi miser sotto e gli accoppiaro... » Omero ricorda solo carri a quattro ruote, ma anche quelli a due ruote erano conosciuti sicuramente. Le accoglienze di cui godevano gli eroi non erano meno lussuose del loro modo di viaggiare: quando si recavano alla casa di qualcun altro venivano generosamente ristorati con vino e cibo, e alla par­ tenza erano caricati di doni. Telemaco, dopo la sua permanenza a Spar­ ta nresso Menelao ed Elena, parti con una tazza d argento e una veste tessuta dalla regina in persona. I sovrani di Sparta erano a loro volta stati ospiti del re e della regina di Tebe in Egitto; alla loro partenza il re regalò a Menelao due vasche d’argento, due tripodi e dieci

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pezzi d’oro, mentre la regina donò a Elena una conocchia d’oro e un cesto d’argento con orli dorati per tenervi la lana. Vi era un prezzo da pagare per tutto ciò: quando l’ospite restituiva la visita si aspet­ tava uno stesso tipo di ospitalità e doni di egual valore. Gli oggetti d ’oro e d’argento di cui parla tanto spesso Omero sono essi pure ana­ cronismi, lussi di cui avevano goduto i Micenei ormai da tempo scom­ parsi. Possiamo farci un’idea del reale stato delle cose a quell’epoca quando Omero descrive dove la gente andava a dormire: un signo­ rotto del medioevo ellenico abitava una semplice fattoria nella quale c era posto solo per la sua famiglia; al cader della notte lui e sua mo­ glie si sarebbero ritirati nella loro camera da letto, ma l’ospite, per quanto importante fosse, doveva andare a dormire sotto il porticato che si apriva sulla facciata della casa. Entrare nella casa di qualche importante personaggio implicava molto di piu che non il semplice cibo e asilo per la notte: signifi­ cava che il viaggiatore poteva contare sul braccio del suo ospite per difendersi dall’istintiva diffidenza di una piccola comunità e dalla xenofobia. Altrimenti, in quest’epoca che non conosceva alcuna au­ torità centrale, l’unica protezione per il viandante stava nel senso religioso della popolazione e nella sua propensione a conformarsi alle leggi divine, le quali in modo chiaro e indiscutibile imponevano l’o­ spitalità. Eumeo, il porcaro di Ulisse, dice al mendico, nel quale non ha ancora riconosciuto il suo padrone: « Buon vecchio, a me non lice uno straniero, fosse di te men degno, avere a scherno; ché gli stranieri tutti ed i mendichi vengon da Giove... ». Omero era perfettamente consapevole che non tutti obbedivano cosi di buon grado alla volontà divina, e difatti ci mostra l’altro lato della medaglia nelle disavventure di Ulisse con i Ciclopi che: « L ’Egidarmato di Saturno figlio [Zeus] non temono... o gli altri Iddìi: » e che vedono negli ospiti solo un’aggiunta di cibo per i loro pranzi. Omero raramente canta la gente comune; solo nelle avventure di Ulisse travestito da mendico c’è un accenno a ciò che poteva ca­ pitare ai viaggiatori normali. Il primo incontro di Ulisse-mendico avvenne con il suo porcaro che, da uomo timorato di dio qual era,

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onorò le leggi dell’ospitalità. Non altrettanto bene fu accolto a casa sua: « Ospite miserabile, tu sei un uomo, io credo, di cervello usci­ to, » lo scherni una schiava di Penelope, quando egli insisteva per re­ stare nella sala a curare rilluminazione, dicendogli che avrebbe do­ vuto: « andar nell’officina d’un fabbro a coricarti, o in vile taverna ». Se nessuno accoglieva uno straniero a casa sua, il meglio in cui questi potesse sperare era di dormire sotto una loggia pubblica o, me­ glio ancora, una bottega di fabbro dove il caldo della fucina poteva proteggerlo dal freddo della notte. Condizioni simili esistevano a quel tempo in alcune parti del Me­ dio Oriente, come veniamo a sapere dai primi libri del Vecchio Te­ stamento che sono, grosso modo, contemporanei ai poemi di Omero. I due angeli inviati in incognito a Sodoma per mettere alla prova quel­ la gentaglia avrebbero passato la notte nella piazza della città, se Lot non avesse insistito perché si fermassero in casa sua. Lot, che non era nativo del luogo, era una persona perbene; gli abitanti della città, che « erano perversi e peccavano molto contro il Signore », appena ebbero sentore della presenza degli stranieri, assediarono in massa la casa, e solo l’intervento divino prevenne la violenza. Un capitolo del Libro dei Giudici riferisce un episodio simile. Un Levita, che stava conducendo una concubina dalla città di lei a casa propria, si trovò al cader della notte a Gàbaa, abitata da membri della tribù di Beniamino; poiché nessuno gli aveva offerto ospitalità, si accam­ pò in una piazza finché un vecchio, anche lui come Lot non nativo del luogo, passò di li e lo invitò a casa sua. Durante la cena una ma­ snada di fuorilegge circondò la casa e cominciò a minacciare i viag­ giatori; il Levita riuscì a cavarsela solamente dando loro la sua concubina, perché ne abusassero. Ciò accadde, come fa notare l’inizio , del capitolo, « quando non c’era un re in Israele », cioè quando nel paese, come nella Grecia omerica, non esisteva un forte potere cen­ trale. In questo periodo il movimento di viaggiatori era troppo scarso per giustificare l’esistenza delle locande e il viandante doveva con­ tare sulla occasionale ospitalità privata sperando di riuscire a evitare le molestie. La gente andava a piedi e da sola, come Giacobbe quando si recò a trovare Labano. Ciò che bisognava fare, soprattutto quando si viag­ giava con donne, era circondarsi di servi e muli: l’uomo e la sua con­ cubina, di cui si parla nel Libro dei Giudici, erano abbastanza ricchi da viaggiare in questo modo, come lo era la Sunammita aiutata da Eliseo. Re e principi viaggiavano a dorso di mulo; i cocchi erano ri­ servati solo alla guerra, non se ne parla mai a proposito dei viaggi,

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quantunque in alcuni luoghi ci fossero strade di cui essi avrebbero po­ tuto servirsi. I Filistei, ad esempio, quando restituirono l’arca da loro catturata, la trasportarono da Ekron su un carro tirato da due vacche le quali, dirigendosi sotto la guida di dio in direzione di BetSemes, « andavano diritte per la grande strada ». Mentre David e Salomone costruivano un piccolo ed effimero re­ gno in Palestina, a nord-est, intorno al medio corso del Tigri, gli As­ siri stavano gettando le fondamenta di un grande impero. Esso durò circa tre secoli, dal 900 circa al 612 a.C., quando i Medi di Classare, uniti alla risorta Babilonia, ne distrussero la capitale Ninive in maniera cosi radicale che, un paio di secoli dopo, i Greci di Se­ nofonte passarono tra le sue rovine senza avere la minima idea di ciò che avevano sotto gli occhi. Gli Assiri furono grandi per il loro senso della disciplina e del­ l’organizzazione: furono i « Romani » del loro tempo. Ciò permise loro di creare una potenza militare in grado di conquistare e difen­ dere gran parte del Medio Oriente, e una burocrazia capace di ammi­ nistrare ciò che era stato conquistato con spietata efficienza. Per permettere alle truppe di muoversi con velocità in ogni direzione, e per facilitare rapide comunicazioni fra la capitale e i territori circo­ stanti, i sovrani assiri costruirono una rete di strade. « Io presi i miei cocchi », disse Tiglatpileser I, descrivendo una spedizione militare con la quale, intorno al 1115 a.C., si spinse in profondità nei territori roc­ ciosi del Kurdistan, « e i miei guerrieri, e sopra le ripide montagne e attraverso faticosi sentieri mi aprii una strada a colpi d’ascia di bronzo, e resi transitabile una strada per il passaggio del mio coc­ chio e delle mie truppe. » Le strade militari degli Assiri non erano semplici piste. Potevano accogliere non solo i cocchi (e i cocchi assiri erano veicoli particolarmente pesanti, provvisti di ruote a otto raggi e capaci di trasportare quattro uomini), ma anche gli arieti da guerra, simili a primitivi carri armati e talmente pesanti da dover es­ sere, talvolta, montati su tre coppie di ruote. Le strade principali erano mantenute con cura, provviste di se­ gnalazioni poste a una data distanza, e ogni 10 km circa c’era un posto di guardia che offriva non solo protezione, ma anche la possibilità di comunicare con il successivo attraverso un sistema di segnali lumi­ nosi. Lungo le strade che attraversavano i deserti si trovavano sor­ genti e piccoli fortilizi a intervalli regolari. Come nell’età precedente (v. pag. 13), le strade erano in terra battuta, mentre la pavimenta­ zione era riservata solo per le zone prossime ai templi e ai santuari

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dove, nei giorni di festa, dovevano passare i veicoli delle processioni. In questi tratti, la tecnica di pavimentazione si rivela abbastanza simile a quella dei Romani. Una via sacra risalente pressappoco al 600 a.C., che si trova a Babilonia, si fonda su uno strato di mattoni in asfalto, ricoperti da pesanti lastre di calcare, ciascuna delle quali ha una superficie di circa 0,25 m2, congiunte fra loro con asfalto. Opere di cosi alta qualità costavano molto: persino le ricche finanze dell’Assiria e della Babilonia potevano permettersele raramente. Lo stesso valeva per i solidi ponti in pietra: esistevano solo do­ ve erano assolutamente necessari, come quello sull’Eufrate a Babilo­ nia, costruito probabilmente sotto Nabucodonosor (605-562 a.C.), e tanto ammirato da Erodoto. Ne restano ancora sette piloni, o me­ glio le loro anime in cotto, che originariamente erano all’esterno rive­ stite di pietra: ogni pilone è alto 20 m, per 9 di larghezza. Erodoto racconta che gli ingegneri del tempo deviarono il corso del fiume per costruirli: questo infatti era l’unico metodo possibile dal momento che le malte idrauliche non furono conosciute fino all’epoca romana. Tavole mobili collegavano fra loro i piloni del ponte, che, in questo modo, diventava un vero e proprio ponte levatoio. Di questo fatto, comunque, Erodoto dà una spiegazione piu pittoresca: le tavole ve­ nivano tolte ogni notte per impedire che gli abitanti di un settore della città andassero di notte nell’altro per rubare. Le strade dell’Assiria erano usate regolarmente dai messaggeri reali e dalle truppe: il governo inoltre manteneva un efficiente servi­ zio di posta. Ciò richiedeva una rete di « funzionari preposti all’inol­ tro della corrispondenza reale », situati nei centri-chiave; ufficiali po­ stali, insomma, che presiedevano allo spostamento dei corrieri e della posta. Fra i documenti scritti trovati in Assiria vi sono numerosi elenchi delle località prossime a una certa strada, con relative distan­ ze tra luna e l’altra. Tali elenchi probabilmente erano usati soprat­ tutto per scopi militari, ma potevano anche essere stati compilati per i corrieri; sono i prototipi degli itineraria romani (v. pag. 151), una prima forma di guida turistica. Negli anni in cui la potenza assira andava crescendo, gli uomini impararono definitivamente a cavalcare. Il cavallo, come abbiamo visto (v. pag. 11), fu usato dapprima come animale da tiro, sostituendo l’asino o il mulo nel normale traino dei carri; trovò poi un’utilizzazione piu idonea, divenendo l’animale da tiro ideale per la forma piu ricercata di carro: il coc­ chio. Questo passaggio avvenne intorno al 1600 a.C. Per il passaggio

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successivo, l’utilizzarlo cioè come cavalcatura, dovettero passare an­ cora più di cinquecento anni. Certo, poteva capitare che, in mancanza d ’altro, un fuggiasco balzasse su un cavallo che trovava disponibile, o che i servi riportassero, cavalcandoli, i cavalli smarriti alla stalla, o ancora che dei ladri di cavalli si dessero alla fuga sulle loro prede: quando Diomede e Ulisse, per esempio, rubarono, sotto gli occhi dei Troiani, i famosi destrieri di Reso, Diomede: « ... Ratto ascese Su l’uno de’ corsier, su l’altro Ulisse, Che via coll’arco li tempesta, e quelli Alle navi volavano veloci ». Ma si tratta sempre di casi eccezionali. Un rilievo egiziano raffi­ gura Amenofi III ( 1 3 9 8 C . - 1 3 6 7 c. a.C.) sul suo cocchio, mentre i prigionieri seguono ignominiosamente montati su cavalli. Le prime raffigurazioni di guerrieri a cavallo compaiono poco pri­ ma dell’inizio del primo millennio. L ’equitazione nacque probabil­ mente fra le popolazioni nomadi, che abitavano le pianure steppose della Russia meridionale, dell’Asia Minore e dell’Iran, e da li si diffuse nelle aree circostanti. L ’accoglienza fu buona, ma non entu­ siastica: per molti anni ancora, infatti, il cocchio continuò ad essere preferito come arma bellica: ne sono prova i racconti biblici sulla guerra fra Filistei e Israeliti, come pure i rilievi raffiguranti l’eser­ cito assiro in azione. Nell’875 a.C. all’incirca, gli Assiri si decisero a formare un corpo di cavalleria, pur sempre restando fedeli al coc­ chio. In seguito gli eserciti diedero sempre piu importanza alla caval­ leria finché, nel V secolo a.C., il cocchio divenne un’arma decisa­ mente antiquata per tutti gli eserciti dell’occidente (diverso è il caso dell’Estremo Oriente, dove ebbe piu lunga vita). Durante quasi tutta l’antichità l’equipaggiamento del cavaliere fu ridotto al minimo: il cavaliere guidava il cavallo con un semplice morso snodato, e lo montava a pelo, oppure stando seduto su una coperta o su una sorta di sella primitiva (Fig. 3). Gli speroni non ap­ paiono fino al V secolo a.C. e dovette trascorrere piu di un secolo prima che facessero la loro comparsa staffe e ferri da cavallo (v. pag. 146). Come animale da tiro, il cavallo era usato quasi solo in guerra; come cavalcatura trovò anche altre utilizzazioni, ma non molte: comprarlo e mantenerlo era estremamente costoso, alla portata solo di chi militava in cavalleria, di chi era corriere governativo o un ricco

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appassionato di sport. I viaggiatori preferivano andare a dorso d’asi­ no o su carri trainati da muli. L ’ingresso dei Medi sulla scena del Medio Oriente fu spettaco­ lare: nel 612 a.C. distrussero la capitale degli Assiri; mezzo secolo dopo, Ciro il Grande, re di Persia (559-530 a.C.), grazie all’unione del suo popolo con i Medi, diede vita a un impero ancora piu potente di quello assiro. Tra i suoi successori, Dario il Grande (521-486 a.C.), rafforzò le conquiste di Ciro, mise a punto un efficace apparato am­ ministrativo che, nonostante talune carenze, permise ai Persiani di dominare con successo un conglomerato di territori soggetti, estesi dall’Iran fino all’Egitto. Uno dei segreti di tale successo fu il sistema di comunicazioni rapide e sicure creato tra la capitale e i centri piu lontani. Per rea­ lizzare ciò i Persiani ripresero, ampliandoli e perfezionandoli, la rete stradale e il servizio postale governativo creati dagli Assiri. La co­ siddetta « Strada Reale », destinata in primo luogo ai corrieri gover­ nativi, ma aperta a tutti, corre da Sardi, prossima alla costa orientale del Mediterraneo, per quasi 3000 km fino a Susa, la capitale dell’im­ pero persiano situata non lontano dal vertice del Golfo Persico. Sono rimasti i ruderi di case e locande per i membri della famiglia reale e altri notabili, costruite a intervalli regolari di 15-25 km, a seconda della natura del terreno, di fortilizi nei punti strategici, di traghetti per passare i fiumi. Un normale viaggiatore poteva percorrere tappe giornaliere di circa 29 km, e percorrerla cosi tutta in tre mesi; at­ traverso un efficiente sistema di stazioni di posta, il servizio postale ufficiale persiano poteva probabilmente percorrere la medesima di­ stanza in un quinto del tempo. Le cavalcature erano fornite direttamente dal re, i corrieri formavano un corpo molto unito, mentre il funzionario posto a capo del servizio era uno dei piu alti dignitari del regno. Erodoto, benché non abbia mai visto questi uomini in azione e si basasse soprattutto su informazioni orali, ne rimase for­ temente impressionato. Cosi racconta: « Nierìt’altro esiste al mondo che arrivi piu veloce di questi corrieri. Tale servizio è stato inventato dai Persiani, e funziona cosi, secondo quan­ to mi è stato detto: uomini e cavalli sono distribuiti a un giorno di viaggio di distanza, un uomo e un cavallo per ogni giorno necessario a compiere tutto il viaggio. Né neve, né pioggia, né vampa di sole, né buio della notte impedisce loro di compiere nel modo piu veloce il tratto loro affidato: il primo corriere, conclusa la sua tappa, consegna il messaggio al secondo, il secondo al terzo e cosi il messaggio, passando dall’uno al­ l’altro, compie tutto il percorso ».

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Le strade percorse dai corrieri erano costruite per essere usate non solo da cavalli e bestie da soma, ma anche da veicoli montati su ruote; quel che è certo è che vi poteva transitare anche un vei­ colo assai delicato, molto amato dai Persiani: si tratta di un carro « di lusso· » a quattro ruote e coperto. I Greci lo chiamavano harmamaxa, « cocchio-carro », poiché univa l’eleganza e la rapidità del cocchio con la spaziosità del carro. Gli aristocratici persiani lo usava­ no, fra le altre cose, per trasportare i propri harem: aveva tetto e « la­ terali » che potevano essere completamente chiusi con tende, in modo da nascondere alla vista gli occupanti. Aristofane, attaccando i diplo­ matici ateniesi che, adducendo come scusanti le fatiche del loro incari­ co, tentavano di giustificare i loro alti emolumenti, fa dire a uno di essi, che era stato inviato in Persia: « Be’, dapprima dovemmo attra­ versare le pianure: fu estenuante. Ad ogni modo viaggiavamo in harmamaxai, sdraiati a nostro agio all’ombra delle tende: fummo proprio fortunatissimi ». La vera regina delle harmamaxai fu quella costrui­ ta, a prezzo di due anni di lavoro, apposta per trasportare il cadavere di Alessandro da Babilonia, dove era morto, alla sua tomba in Ales­ sandria. Era costruita a imitazione di un tempio greco, circondato da colonne, ricoperta di lamine d’oro, fastosamente decorata, e — caso unico tra i mezzi di trasporto dell’antichità — era anche fornita di qualcosa che assomigliava agli ammortizzatori (v. pag. 289). Almeno sessantaquattro muli erano necessari per trainarla. Non c’è dubbio che all’epoca la strada fra la Mesopotamia e l’Egitto fosse di prima qualità. Ma forse il maggior contributo alla diffusione dei viaggi da parte di queste nazioni che già conoscevano le strade, fu dato proprio là dove le strade non esistevano affatto. I Persiani, anche se non furono i primi a usare le carovane di cammelli attraverso il deserto, furono responsabili del ruolo fondamentale che tali carovane giocarono nei commerci del Medio Oriente. Quando si parla di cammelli occorre per prima cosa distinguere il cammello vero e proprio, con due gobbe, originario della Battriana, dal dromedario con una sola gobba. Il primo è peloso e fatto deci­ samente per i climi piu rigidi, scala le montagne senza difficoltà e serve solo come animale da soma; l’altro, diffuso nelle zone calde e inutilizzabile in montagna, serve tanto per i trasporti quanto come cavalcatura. Cammelli e dromedari nascono in regioni diverse e han­ no storie diverse. I cammelli a due gobbe erano originari dell’Asia Centrale, furo­

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no addomesticati per lo meno dal 2000 a.C., e in quell’epoca si diffusero verso occidente fino alla Persia; di qui proseguirono ancora verso l’Asia Minore e la Mesopotamia. Forse gli Assiri, sempre al­ l’avanguardia per tutto ciò che concerneva i trasporti, lo introdussero in Mesopotamia intorno agli inizi del primo millennio a.C. La storia del dromedario è piu complicata e rassomiglia un po’ a un rompicapo; probabilmente fu dapprima addomesticato e allevato in Arabia; al 3000 a.C. (e forse ad ancor prima) risalgono alcune raffigurazioni di dromedari trovate in Egitto, dove dunque era co­ nosciuto fin da tempi antichissimi; ciononostante le fonti egizie non fanno mai cenno al cammello usato come mezzo di trasporto almeno per un altro millennio. Gli Ebrei devono aver conosciuto il dromedario già fin dall’epoca dei Patriarchi, intorno al 1800 a.C., poiché esso viene menzionato nel Genesi; tuttavia, poiché era visto come animale «im p u ro », ovviamente non lo prendevano neppure in considerazione. I Babilonesi conobbero il dromedario intorno al XIV secolo a.C.: tuttavia, in tutto il corso della loro storia, usa­ rono sempre l’asino come animale da tiro. Queste contraddizioni si possono risolvere, se si ammette che il dromedario fu noto fin dal 3000 a.C. fra i popoli che abitavano i deserti ai margini del mondo civilizzato, e che fu da quelli usato non solo come mezzo di trasporto, cavalcatura e arma da guerra, ma anche per il latte, la lana, la pelle e il concime, come anche oggi. Ciò spiegherebbe come mai Egizi, Ebrei, Babilonesi e quanti erano a contatto con queste genti cono­ scessero l’animale; ma, non vivendo nel deserto, non avessero alcuna necessità di usarlo. Finalmente il dromedario si diffuse in Mesopotamia nel IX secolo, o anche piu tardi, grazie agli Assiri. Seduci da numerose campagne contro popoli che usavano cavalcare i cammelli, gli eserciti assiri ne riconobbero il valore e iniziarono a includerli nelle carovane delle loro salmerie. Il dromedario divenne cosi un sussidio degli eserciti. Tuttavia non era ancora l’animale da soma per eccellenza. Questo avvenne quando i Persiani crearono il loro grande impero, cosa che rap­ presentò un rivolgimento politico senza precedenti: per la prima volta nella storia, tutto il Medio Oriente fu riunito sotto un unico e bene organizzato potere statale. Fino a quel momento i trasporti di­ retti dalla Mesopotamia verso il Mediterraneo avevano dovuto de­ scrivere un ampio arco per evitare il deserto siriaco, vera e propria terra di nessuno. Ora, invece, eliminata ogni barriera doganale, con un governo abbastanza forte da tenere a bada i predoni del deserto, e abbastanza ricco da istituire e mantenere una serie di punti di riforni­

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mento d ’acqua, fu finalmente possibile praticare una strada che attra­ versasse il deserto. I Persiani avevano appreso dagli Assiri l’uso del dromedario come mezzo di trasporto; inoltre la sua particolare pre­ disposizione per venir utilizzato nel deserto era ben nota da migliaia di anni: fu perciò naturale che la scelta ricadesse su di esso come animale da soma per la nuova strada. Le carovane di cammelli co­ minciavano cosi la loro lunga storia. L ’anno 500 a.C., per usare una data convenzionale, segna il mo­ mento in cui il Medio Oriente, per tanto tempo punto focale della storia antica, cede il passo all’Occidente, cioè ai Greci e ai Romani. In quell’epoca, le caratteristiche generali del sistema di viaggiare nell’antichità erano ormai stabilite. Per mare le navi mercantili col­ legavano tra loro i maggiori porti del Mediterraneo Orientale; per terra i centri piu importanti erano collegati da strade carrozzabili, le migliori delle quali erano dotate di ponti, traghetti, segnali indica­ tori, stazioni di sosta e posti di guardia. Le tecniche di pavimenta­ zione, ancorché poco usate, si erano ben perfezionate. I viaggiatori potevano scegliere tra carri, cocchi, asini, cavalli o cammelli. Lungo le strade piu importanti c ’erano locande e nelle città locande e ta­ verne. Inoltre, in mezzo ai consueti viaggiatori in cammino per la­ voro per terra e per mare, commercianti o funzionari governativi, cominciamo a scorgere i primissimi viaggiatori che si spostano per il gusto di viaggiare: i turisti.

CAPITOLO TERZO

PIO VASTI ORIZZONTI

Nel 500 a.C., la Persia di Dario il Grande dominava il mondo antico come un colosso. Dario riunì le declinanti potenze del Medio Oriente - Lidia, Assiria, Babilonia, Egitto - in un vastissimo impero. Il lungo braccio del suo potere giunse fino a controllare le città gre­ che della costa occidentale dell’Asia Minore. Solo alcuni minuscoli stati della Grecia continentale resistevano al suo dominio, e quando uno di essi, Atene, osò sfidarlo, Dario decise di assoggettare anche questi. Ne seguirono le famose guerre combattute fra il 498 e il 448 a.C., durante le quali i Greci strabiliarono se stessi non meno dei Persiani, sconfiggendo il gigantesco nemico e divenendo cosi i nuo­ vi protagonisti della storia antica. I Persiani avevano creato e governato un impero smisurato. Ciò rappresentava un assurdo per i Greci, i quali preferivano vivere, co­ me avevano fatto nei secoli passati, in città che erano al contempo degli stati indipendenti, ciascuno, quale che fosse la sua grandezza, con la propria costituzione, la propria giustizia, la propria organizzazione militare, la propria monetazione e ogni altro elemento connesso con l ’autonomia. Non ci fu mai un nazione unica che chiamasse se stessa « Grecia »; ci furono Atene, Sparta, Corinto, Tebe e cosi via. E questi erano gli stati piu grandi, mentre altri si riducevano a un sem­ plice villaggio. Quando Atene, nella seconda metà del V secolo a.C., raggiunse il massimo della sua potenza, riunì ciò che noi siamo soliti chiamare un impero, in cui però mancava totalmente un’organizza­ zione centralizzata simile a quella dei Persiani; si trattava di una federazione di città-stato che tali rimanevano, con l’unica differenza che pagavano un tributo ad Atene e accettavano le sue imposizioni nel campo della politica estera. II mondo, al cui interno i Greci si muovevano, andava dalle co­ ste orientali del Mar Nero fino alla lontana Marsiglia; e sarebbe stato ancora più vasto se non fosse stato per i Fenici, o meglio per Carta­

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gine, la colonia fenicia situata sulle coste della Tunisia, che a poco a poco era diventata piu potente della madrepatria. Gli avidi mer­ canti cartaginesi si erano da tempo installati su entrambe le sponde del Mediterraneo Occidentale, e non volevano concorrenti. Dal 535 a.C., per alcune decine d ’anni, i Greci che avevano fondato Marsiglia ingaggiarono una serie di terribili battaglie navali contro Cartagine, ma tutto ciò che ottennero fu di restare dov’erano: i Cartaginesi continuarono a dominare le acque fra la Spagna e il Marocco e a bloc­ care lo Stretto di Gibilterra. A est di Marsiglia, però, il mare era libero ed era battuto da una moltitudine di navigli mercantili cartaginesi, fenici, egizi e, soprat­ tutto, greci. Le navi facevano regolarmente la spola fra Marsiglia e i porti della Sicilia e dell’Italia meridionale, da dove poi altre navi partivano numerose alla volta della Grecia e dell’Asia Minore. Da Atene a Corinto, in Grecia, le rotte commerciali si dirigevano verso sud per il Levante e l’Egitto, verso est per l’Asia Minore; verso nord per l’Ellesponto e il Bosforo, attraverso il quale le navi entravano nel Mar Nero; qui esse potevano seguire la costa meridionale fino all’estremità orientale, oppure quella settentrionale spingendosi sino alla Crimea. I viaggiatori che avessero voluto spingersi ancora piu a est, potevano seguire le ottime strade persiane (v. pag. 37) fino alla Mesopotamia o alla Persia stessa; cosi come, chi avesse navi­ gato dalla Grecia all’Egitto, poteva poi risalire il corso del Nilo fino alla prima cateratta. Omero aveva una conoscenza solo parziale del Mediterraneo: la Sicilia a ovest, l’Ellesponto a est ne erano i limiti; oltre questi confini per lui esisteva solo un mondo leggendario, popolato da Loto­ fagi, Ciclopi e simili prodigi. Nel V secolo a.C., invece, un Greco colto, o che avesse viaggiato, conosceva tutto il Mediterraneo e il Mar Nero e aveva un’idea abbastanza precisa delle distanze e delle posizioni geografiche. Grazie alle informazioni diffusesi prima che i Cartaginesi impedissero il passo agli stranieri, si sapeva che il Me­ diterraneo era delimitato a ovest dallo Stretto di Gibilterra, al di là del quale si stendeva un vasto oceano; si aveva inoltre notizia dell’e­ sistenza delle Isole britanniche; si sapeva invece pochissimo delle zone interne le quali, come per Omero, erano ancora in larga parte terra incognita. Non era chiaro dove abitassero quelli che venivano chiamati Celti, mentre si pensava che il Danubio nascesse nei Pi­ renei. Riguardo le regioni nordorientali, i Greci avevano precise no­ zioni sulle tribù degli Sciti della Russia meridionale e sui territori

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che essi abitavano; sapevano inoltre che il Caspio era un mare inter­ no, ma le loro conoscenze si fermavano qui. A proposito della Russia a nord del Mar Nero, Erodoto riferisce notizie — senza peraltro cre­ derci - di uomini con piedi caprini, di persone che dormono per sei mesi all’anno, di grifoni e meraviglie simili. Ancora piu a nord sa­ rebbero esistiti, sempre secondo Erodoto, popoli cannibali e altri che credevano nel lupo mannaro; ancora piu lontano si stendeva in­ fine un deserto di ghiaccio. I viaggi attraverso la Persia avevano fatto conoscere ai Greci l’E ­ stremo Oriente sino alla valle dell’Indo (Pakistan Occidentale). Da­ rio, dopo aver annesso quest’ultima al suo impero nel 515 a.C., in­ viò una spedizione lungo il corso dell’Indo fino all’Oceano Indiano; da qui i suoi uomini, costeggiando verso occidente, superarono l’im­ boccatura del Golfo Persico, la costa meridionale dell’Arabia e in­ fine, entrati nel Mar Rosso, conclusero il loro viaggio in un porto vicino all’odierna Suez. Le notizie raccolte durante quest’impresa fecero rientrare questa parte del mondo nell’orizzonte delle conoscen­ ze geografiche dei Greci, in modo però molto impreciso. Erodoto, per esempio, sa che in Arabia esistono boschi di alberi dell’incenso, ma pensa che di là provenga anche la cassia —corteccia di cinnamomo — senza rendersi conto che, come i teneri ramoscelli o i germogli del cinnamomo, anche la cassia era originaria dell’India e che l’Ara­ bia fungeva semplicemente da intermediaria nel traffico di questi prodotti. Erodoto aggiunge anche dettagli molto coloriti sui serpenti volanti che stanno a guardia delle piante di incenso, sugli animali simili a pipistrelli che vivevano nelle paludi, in cui credeva crescesse la cassia, di come infine il cinnamomo si ricavi grazie agli uccelli che trasportano i ramoscelli, per costruirsi i nidi. Egli ha notizie sulla immensa quantità di linguaggi delle popolazioni indiane, sul bambù, sulle popolazioni primitive dei Dravida, ma ci racconta anche favole su tribù cannibali dell’India che uccidono e mangiano i vecchi e i malati, di formiche indiane più grosse di una volpe, di miniere d’oro. Nessuna notizia invece sulle terre che si stendono a est dell’India; Erodoto pensa che non vi sia altro che deserto inospitale. In altre parole la Cina era completamente al di fuori delle sue conoscenze. Nel V secolo a.C., dunque, la conoscenza che i Greci avevano dell’Asia comprendeva l’Arabia e le terre a oriente fino alla valle dell’Indo. Riguardo l’Africa, invece, non erano andati molto più avan­ ti di Omero; Erodoto parla fuggevolmente del deserto del Sudan, ma non sa localizzare le sorgenti del Nilo e per lui, come per tutti quelli prima di lui, gli « Etiopi » restano una razza di superuomini

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(v. pag. 8 6 ). I Greci sanno che l’Africa è circondata dal mare, e in effetti, se crediamo a un racconto raccolto da Erodoto in Egitto, i Fenici riuscirono a circumnavigare il continente in una data attorno al 600 a.C. Ecco ciò che egli narra (i nomi geografici moderni sosti­ tuiscono quelli usati dallo storico): « L ’Africa, eccetto là dove tocca l ’Asia, è chiaramente circondata da acque. Necho, faraone d’Egitto, fu il primo, a quanto sappiamo, a dimo­ strarlo. Quando fini di scavare il canale tra il N ilo e il Mar Rosso, mandò una spedizione navale composta da Fenici, dando loro ordine di ritornare in patria passando nel Mediterraneo attraverso lo Stretto di Gi­ bilterra e di qui proseguire ritornando in Egitto. I Fenici dunque, par­ tendo dal Mar Rosso, navigarono nell’Oceano Indiano. Ad ogni autunno approdavano in un punto dell’Africa, seminavano la terra, attendevano la mietitura, tagliavano il grano e si rimettevano in viaggio; cosi passa­ rono due anni e solo al terzo doppiarono le Colonne d ’Èrcole e ritornarono in Egitto. E riferirono cose che altre persone possono credere se lo vo­ gliono, ma io no: che cioè circumnavigando l ’Africa avevano il sole a destra ».

Su questo scarno paragrafo sono state scritte centinaia di pagine, in cui si discute la veridicità del racconto, e ci si chiede se a quei tempi fosse possibile compiere un’impresa tanto difficile. Su un solo punto è necessario concordare: un viaggio nei termini descritti da Erodoto era fattibile. Un equipaggio di Fenici poteva senza dubbio compierlo nei tempi e con le modalità riferite dallo storico. Ma, se anche avessero ragione gli scettici, e le navi di Necho non avessero fatto il giro completo dell’Africa, una spedizione del genere deve es­ sere stata comunque tentata e, a giudicare dai particolari citati da Erodoto sulle soste per piantare e mietere il grano, si trattò di una spedizione accuratamente organizzata. Inoltre, la spedizione deve aver superato il tropico, spingendosi fino a un punto da dove gli equi­ paggi poterono osservare il sole alla loro destra, cioè a settentrione rispetto a loro, mentre essi erano convinti di navigare in direzione sud-ovest e ovest. Il fatto che Erodoto non creda a questo parti­ colare, è la prova piu convincente della veridicità del racconto. Circa centocinquant’anni dopo, ci fu un altro tentativo di navi­ gare intorno all’Africa, ma in senso opposto da ovest a est, e non c’è dubbio che si concluse con un fallimento. Il comandante di questa spedizione riferì di essersi spinto abbastanza lontano da vedere « un popolo di nani vestiti di foglie di palma » e di essere giunto infine in un luogo ove « le navi si arrestarono, senza che ci fosse mezzo di proseguire ». D a queste parole si può dedurre che egli navigò oltre

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il Sahara fino al Senegai o alla Guinea, dove forse potè vedere i Bo­ scimani, che allora vivevano molto piu a nord di oggi, e che infine si trovò in mezzo alle calme - o addirittura ai venti ostili - e alle correnti contrarie del Golfo di Guinea. È comunque un dato di fatto che venti e correnti rendono molto piu facile la circumnavigazione dell’Africa da est verso ovest, come fu il caso della spedizione di Necho; nonostante i numerosi tentativi, la circumnavigazione da ovest a est non fu mai portata a termine dai marinai dell’antichità finché, proprio sul finire del XV secolo d.C., l’impresa riuscì a Vasco da Gama. Queste due spedizioni rappresentano probabilmente dei limitati viaggi esplorativi, fatti allo scopo di aprire la strada a nuove rotte commerciali. Nel 500 a.C., o qualche decennio dopo, una grandio­ sa spedizione passò lo Stretto di Gibilterra, con lo scopo di installare colonie sulle coste occidentali dell’Africa. Questo è l’unico viaggio di scoperta fatto dagli antichi, sul quale abbiamo notizie di prima mano, poiché abbiamo addirittura le esatte parole di un rapporto compilato dal comandante della spedizione, il cartaginese Annone. Egli lo fece incidere su bronzo e lo pose nella sua città natale. Anni dopo uno studioso greco ne trascrisse una copia giunta fino a noi. « I Cartaginesi incaricarono Annone di navigare_ oltre le Colonne d’Èr­ cole e di fondare la città dei Libofenici [Fenici residenti in Africa], Egli partì con 60 navi da 50 remi e con un gran numero di donne e uomini, circa 30.000, provvigioni ed altro equipaggiamento. » Così inizia il rapporto di Annone, un documento di meno di 650 parole che, nei secoli, ha suscitato un’infinità di spiegazioni, com­ menti e interpretazioni. All’inizio la rotta di Annone è chiara: per prima cosa passò lo Stretto di Gibilterra e si diresse a sud-ovest, lungo le coste del Ma­ rocco, dove si fermò per far sbarcare un certo numero di futuri co­ loni. Alla foce del fiume Dra, Annone fece amicizia con una tribù di nomadi, forse Beduini, che avevano familiarità con le coste che si stendevano a sud: per questo ne prese alcuni con sé come guide e in­ terpreti. Poco dopo, la spedizione giunse a un grande fiume, diviso in due rami allo sbocco, che era « profondo, largo e infestato da coc­ codrilli e ippopotami ». Il primo fiume lungo la costa africana che avrebbe potuto corrispondere a questa descrizione è il Senegai, a nord di Capo Verde. In seguito giunsero a un grande golfo e, dopo aver circumnavigato un’alta montagna, a un secondo golfo nel quale c’era

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un’isola, dove essi videro uomini e donne « con corpi pelosi ». Riu­ scirono a catturare tre femmine; le guide le chiamavano gorilla, ma è improbabile che gli uomini di Annone abbiano potuto catturare vivi dei gorilla: è piu probabile che si sia trattato di scimpanzé o bab­ buini. A questo punto, esaurite le provviste, la spedizione tornò indietro. Fin dove si spinse Annone? La teoria piu moderata (che è proba­ bilmente quella giusta) afferma che egli non oltrepassò la Sierra Leone poiché fu fermato dalle calme e dal caldo torrido del Golfo di Guinea. Il primo golfo, dunque, sarebbe la Baia Bijagos nella Guinea ex portoghese, la montagna il Kakoulima (per quanto un po’ troppo bassa per essere definita « alta »), il secondo golfo, infine, quello formato dalla foce del Sherbro nella Sierra Leone. La teoria piu radicale, invece, fa concludere il viaggio di Annone nel Camerun o addirittura nel Gabon, identificando il fiume nel Niger, e la montagna del monte Camerun, la cima piu alta dell’Africa Occiden­ tale. Per ciò che riguarda la storia dei viaggi, la disputa è puramente accademica; questo viaggio, che pure fu una delle più importanti realizzazioni del mondo antico nel campo delle esplorazioni, non pro­ dusse effetti veramente importanti: non attirò l’Africa Occidentale nell’orbita delle civiltà antiche, e non ottenne neppure un amplia­ mento duraturo negli orizzonti delle conoscenze geografiche. Claudio Tolomeo, che nel II secolo d.C. tirò le somme della geografia del mondo antico, disegna la costa africana colonizzata dai Cartaginesi orientandola nella direzione sbagliata: partendo da Gibilterra essa pare volgersi verso sud-ovest, invece che verso sud-est. La verità non fu conosciuta fino ai tempi di Enrico il Navigatore.

CAPITOLO QUARTO

COMM ERCIO E V IA G G I N ELLA G RECIA CLASSICA: 500-300 a.C.

Quando il centro di gravità del mondo antico si spostò verso occidente, dalla Persia e dal Medio Oriente alla Grecia, il Mediter­ raneo assunse un ruolo fondamentale, mantenuto poi nei secoli per il commercio e i viaggi dei Greci e dei Romani. Lungo le sue coste erano situate quasi tutte le città-stato, che, come dice Platone, si raggruppavano intorno alle sue rive, « come rane intorno a uno sta­ gno ». Benché alcuni importanti centri si trovassero nelle regioni in­ terne, tutte le città piu potenti, come Atene, Corinto, Siracusa, Mileto, erano anche dei porti. E ciò non deve assolutamente stupire: un mercante greco di olio, che ogni estate dovesse trasportare due­ cento o trecento giare da venti litri, pesanti ciascuna una quarantina di chili, a un mercato lontano centinaia di chilometri, poteva caricare tutto su una sola nave di modeste dimensioni; avrebbe invece avuto bisogno di una fila interminabile di asini o di carri trainati da buoi per effettuare lo stesso trasporto via terra. Fino all’avvento della ferrovia, l’acqua rimase sempre l’unico mezzo comodo per i trasporti pesanti, e anche il piu conveniente per i lunghi viaggi. E cosi i mercanti greci cominciarono a percorrere in lungo e in largo il Mediterraneo; li si vedeva nei porti della Russia meridionale impegnati ad acquistare grano per rifornire Atene, tra i magazzini del Pireo a imbarcare olio d’oliva per le colonie greche del Mar Nero, a Beirut a comprare il prezioso legname ricavato dai cedri del Li­ bano, a Mileto, sulle coste dell’Asia Minore, a contrattare il prezzo di partite di tessuti di lana che, sui mercati di Atene e di Siracusa, rendevano due o tre volte tanto il prezzo d ’acquisto. Le loro navi, lunghe una trentina di metri, potevano portare fino a cento tonnel­ late; ma ce n’erano anche di molto piu grosse, superiori almeno alle cinquecento tonnellate di stazza, mentre venivano usate imbarcazioni piu piccole per brevi trasporti costieri. Le linee degli scafi erano confortevoli e molto arrotondate, l’attrezzatura si riduceva a un solo

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albero con una vela quadra bassa e larga: doti principali di queste navi erano insomma la capacità e la sicurezza, non certo la velocità. A poppa si trovava di solito un piccolo spazio coperto con alcune cabine per il comandante e il proprietario della nave o per il mercan­ te che l ’aveva affittata. Le cabine, che si riducevano a delle tughe, non offrivano molte comodità, solo lo spazio strettamente necessario per dormire o per permettere all’occupante di ripararsi dalla pioggia, dal freddo o dall’eccessivo caldo. Gli schiavi al seguito, come pure tutti gli eventuali passeggeri, dormivano sul ponte; sulle navi di piccolo cabotaggio, dove non c’era posto per le cabine, anche i mer­ canti dovevano probabilmente dividere il ponte con tutti gli altri. Sulle navi, piccole o grandi che fossero, ognuno portava il proprio cibo, e gli schiavi attendevano il loro turno per cucinarlo nel fo­ cone, cioè il luogo della nave dove si accendeva il braciere; il cibo veniva poi consumato sul ponte senza alcuna cerimonia. Le cose andavano meglio con le bevande, soprattutto se il mercante aveva fatto stivare alcune anfore — grosse giare d ’argilla — del suo vino preferito al fresco, nella sabbia umida che sul fondo della stiva ser­ viva da zavorra. Giunto in porto, e dopo aver convenientemente sistemato il carico presso un magazzino, il primo atto del mercante era di recarsi al tempio di Poseidone e deporvi delle offerte in segno di gratitudine per la buona navigazione (Fig. 6). Ammesso di aver fortuna con il tempo, viaggiare per mare poteva essere un’esperienza piacevole; una volta che il viaggiatore aveva comperato viveri e vino e li aveva stivati assieme al suo bagaglio, egli non doveva fare piu nulla; la nave diventava il suo albergo, men­ tre vento e remi lavoravano per lui. I viaggi per terra, al contrario, a quell’epoca erano faticosissimi. La gente di solito andava a piedi, e chi viaggiava con poco bagaglio portava con sé uno o due schiavi addetti al servizio personale e al trasporto dei sacchi stipati di vestiti, coperte e cibarie. Spedizioni piu importanti comprendevano un buon numero di servi e molte be­ stie da soma per i bagagli. Per questo venivano usati, tranne rare eccezioni, asini e muli, mentre i cavalli, come già osservato prima (v. pag. 36), servivano soltanto per le corse, la caccia e la guerra. Di solito per prevenire ulcerazioni, si gettava sul dorso degli animali una pelle di pecora o di capra e, sopra quella, un basto di legno al quale spesso erano legate due ceste. Quelli che potevano per­ metterselo andavano a dorso di mulo o d ’asino. I Greci guardavano invece con sospetto le lettighe e le portantine, pareva loro che fos­

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sero un’ostentazione e le ammettevano solo per i malati e le donne. Demostene, per esempio, lasciò di stucco quando fu visto su una lettiga lungo la strada da Atene al Pireo. Dove le strade lo permettevano, si potevano usare dei veicoli, soprattutto quando c’erano delle donne; il normale mezzo di tra­ sporto per passeggeri era un piccolo carro scoperto, che portava non piu di quattro persone, e aveva una cassa molto leggera di legno o di vimini intrecciati; era trainato da una coppia di muli (Fig. 1). Per i lunghi viaggi c’erano i carri coperti, con la tradi­ zionale copertura montata su archi (Fig. 4). Fino al V secolo, assai più comune della ruota a raggi fu una ruota particolare, munita di una grossa traversa diametrale e di due sbarre piu sottili parallele tra loro e perpendicolare alla prima (Fig. 1). Questo tipo di ruota per­ feziona, alleggerendola, la ruota massiccia usata nei tempi piu an­ tichi (v. pag. 11); benché non sia leggera come la successiva ruota a raggh questo tipo offre il vantaggio di essere piu semplice da co­ struire e di non richiedere necessariamente l’intervento di un carra­ dore specializzato. Per questi motivi essa ebbe larga diffusione anche fuori della Grecia, in Macedonia, a Cipro, in Italia e in Etruria. Solo nel V secolo a.C., questa ruota fu soppiantata dall’uso di quella a raggi, al tempo stesso piu robusta e più leggera. Per i trasporti pesanti si usavano particolari calessi rinforzati, oppure carri a quattro ruote trainati da coppie di buoi; i Greci però preferirono sempre i veicoli a due ruote. La parola greca apene indi­ ca, alla lettera, un leggero calesse per passeggeri, mentre hamaxa indica un calesse pesante o un carro; come noi però, anche i Greci non badavano troppo al significato letterale delle parole, che erano molto spesso intercambiabili. Chi viaggiava in Grecia, nel V e nel IV secolo a.C,, doveva pen­ sarci due volte prima di usare un qualsiasi mezzo di trasporto, leg­ gero o pesante che fosse, poiché non dappertutto c’erano strade car­ rozzabili. Del resto non è per nulla strano che mancasse una rete completa di strade in un paese diviso in tanti piccolissimi stati, ognu­ no fiero della propria indipendenza. Per di piu, ben pochi erano ab­ bastanza ricchi da potersi permettere di costruire strade, anche solo all’interno dei propri confini; ad Atene, per esempio, le spese di costruzione e manutenzione delle strade sembrano essere state so­ stenute dalle persone piu ricche tramite speciali tasse imposte occa­ sionalmente. Del resto, la Grecia ha un terreno talmente roccioso e montuoso che i costi di costruzione di un buon sistema stradale sa­ rebbero stati proibitivi per qualsiasi stato, ricco o povero che fosse.

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Pausania, l’autore di una guida di viaggio sulla Grecia antica che percorse il paese in lungo e in largo nel II secolo d.C., riferisce che la piu importante strada per Delfi era, in prossimità del santuario, difficilmente praticabile anche per chi viaggiava a piedi. La strada da lui percorsa fra le colline dietro Sicione era « impraticabile da vei­ coli per la sua strettezza »; e doveva essere lo stesso per la maggio­ ranza delle altre strade di montagna. Ancora Pausania racconta di un passo, nel Peloponneso, chiamato « La Scala », poiché i viaggiatori per risalirne una parte dovevano fare una serie di gradini scavati nella roccia. La strada che da Corinto portava ad Argo, via Micene, era chiamata « la strada del bastone », forse perché le sue asperità erano tali, che rendevano necessario di continuo l’aiuto di un bastone. La strada principale che collegava Corinto con Megara e Atene, corre­ va lungo le cime delle dirupate montagne che sovrastano le coste del Golfo Saronico; qui, come si narra nella leggenda di Teseo, stava in agguato Scirone che fermava chiunque passasse, lo derubava e in­ fine, dopo averlo costretto a lavargli i piedi, con un calcio lo faceva precipitare nel dirupo, mentre il malcapitato era chino alla bisogna. « Per circa 10 km correva lungo una gola un sentiero dai cigli fra­ nosi sopra una falesia a picco... Il sentiero era cosi stretto che poteva percorrerlo, con una certa sicurezza, soltanto una bestia da soma ben allenata per volta. Con tempo cattivo e ventoso era pericolosissimo poiché un solo sbaglio poteva risultare fatale. »

Cosi descriveva quella strada un viaggiatore del secolo scorso, ma venticinque secoli prima essa non doveva essere molto diversa. Proprio essa attirò a un certo punto l’attenzione dell’imperatore Adriano e, grazie alle risorse dell’ingegneria romana, da sentiero ven­ ne trasformata in una buona carrozzabile, in grado di consentire il passaggio a due cocchi affiancati. Ma fatti del genere si verificarono solo fintanto che le finanze romane furono in grado di curare la manu­ tenzione delle strade. I Greci rivolsero invece la loro attenzione alle strade che condu­ cevano ai luoghi sacri, soprattutto a quelli in cui si svolgevano le grandi festività. Dovunque possibile, le resero in grado di accogliere mezzi di trasporto su ruote. I viaggiatori provenienti dal Pelopon­ neso, per esempio, potevano percorrere buona parte della strada per Delfi su carri o carrozzoni abbastanza grandi perché una famiglia potesse dormirvi. In alcuni casi si ricorse alla più economica e piu spiccia costruzione di « strade a rotaia », una sorta di lontano ante­ nato dei binari ferroviari (Fig. 8). Invece di livellare la strada in

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tutta la sua larghezza, ci si limitava a scavare un paio di rotaie, pro­ fonde 8-10 cm ciascuna, larghe poco piu di 20 cm e distanti fra loro 140-145 cm. Le rotaie erano squadrate e levigate con cura e i carri, che dovevano avere uno scartamento pressoché fisso, correvano su di quelle come un treno sui binari. Dal momento che ciò che contava erano solo le rotaie, il resto della strada non abbisognava di alcun lavoro; quando avevano le rotaie scavate nella roccia, cosa abbastanza usuale in Grecia, le strade erano praticamente in grado di sfidare qualsiasi carico e qualsiasi tempo. C ’era una strada a rotaie fra Atene e il santuario di Demetra a Eieusi, distante quattro ore di cammino; ce n’era una tra Sparta e la città santa di Amicle, distante circa 5 km, e anche lungo certi tratti delle vie sacre da Elide a Olim­ pia e da Atene a Delfi. Avevano rotaie anche le strade sulle quali passava un traffico particolarmente pesante; la strada fra Atene e le cave di marmo del monte Pentelikon, lungo la quale scorreva una corrente continua di grossi carri trainati da buoi e di tregge cari­ che di pesi enormi, era pavimentata con lastre di pietra per una lar­ ghezza di 5 m e fornita di una doppia serie di rotaie, per permettere il traffico nelle due direzioni. A un certo punto di una delle strade a rotaia scavate nelle montagne a nord di Atene, c’è uno spuntone di roccia che non fu tagliato, ma lasciato sporgere, e contro di esso si arrestano bruscamente i binari della strada. Probabilmente una simi­ le, invalicabile barriera era collegata con un casello daziario. Anche le normali strade maestre che, come la strada fra Atene e Delfi o quella tra Sparta e Olimpia, erano sottoposte a un traffico pesante erano in certi tratti a doppia corsia; le strade a una sola corsia avevano, a intervalli, delle deviazioni per permettere ai mezzi avviati in direzioni opposte di scorrere. Senza dubbio però c’erano molti rettilinei dove, se due carri s’incontravano, era necessario che uno affrontasse una lunga ad estenuante retromarcia. Uno dei piu fa­ mosi delitti di cui parla la letteratura fu molto probabilmente causato da un incontro del genere. La leggenda di Edipo racconta come egli uccise suo padre, ognuno ignorando l’identità dell’altro, dopo averlo incontrato lungo la strada scavata nella roccia che corre tra Delfi e Tebe. Il padre veniva da Tebe e procedeva su un cocchio tirato da un cavallo, come si addiceva a quei tempi alla sua condizione regale; Edipo veniva invece a piedi da Delfi; ciò che segui è egregiamente descritto dalle parole che Sofocle mette in bocca a Edipo stesso: « ... Quando fui

non lungi da quel triplice sentiero,

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un araldo ed un uomo, come quello di cui parlavi, ch’era sopra un carro trainato da puledri, mi si fecero incontro, e tanto chi guidava quanto il vecchio, mi volevano a ogni costo fuori di quella strada. Pieno d’ira io percuoto l’auriga, che cercava spingermi altrove. A quella vista il [vecchio, scorgendomi passare presso il carro, con un doppio staffile in mezzo al capo mi coglie. Ma non s’ebbe ugual moneta: prontamente con un bastone agli ordini di questa mano, piombo sopra lui, lo rovescio in un attimo dal carro, 10 stendo a terra, e uccido tutti gli altri ». Edipo montò in collera, per quello che aveva considerato un trat­ tamento umiliante e insolente; suo padre, però, può aver sostenuto 11 proprio diritto di passare, non per arroganza reale, ma perché le ruote del suo cocchio erano bloccate nei solchi di una strada a binari. Le strade greche offrivano pochissime comodità; poche piante crescevano lungo i bordi e un viaggiatore doveva portarsi un para­ sole, oppure affrontare senza alcun riparo il sole cocente. Mancavano veri e propri segnali stradali, però almeno agli incroci delle strade o nei punti di confine c’erano degli utili sostituti: le erme, cioè i « cippi sacri a Hermes »; questi, messaggero degli dei, divenne per ovvi motivi anche il dio protettore delle strade. Nella loro forma più antica, questi cippi posti lungo le strade si riducevano a un mucchio di sassi, e il passante, come segno di devozione, poteva aggiungerne uno al mucchio. Col tempo, le erme divennero piu sofi­ sticate: in alcuni luoghi i semplici mucchi di sassi furono sostituiti da pietre scolpite; Strabone, il geografo greco che scrive nel I secolo d.C., ricorda di aver visto in Egitto alcune erme straordinarie, co­ struite con macigni di diametro non inferiore ai 2 m, mentre alcune raggiungevano persino i 4 m. Talvolta avevano una forma oblunga e spesso in cima riportavano scolpite le fattezze di Hermes. I passanti, in segno di devozione, spargevano libagioni d ’olio. Il greco Teofrasto, che scrisse un libro in cui sono descritti i vari tipi di carattere, de­ finisce il superstizioso come colui che « quando passa davanti a quei cippi scolpiti che si trovano agli incroci delle strade, versa su di essi dell’olio tratto dalla sua fiasca, si getta in ginocchio e se ne va solo dopo aver fatto l’atto di sottomissione ». Un’antica descrizione di una strada turistica che, partendo da Atene, attraversava la Beozia, ci dà un’idea abbastanza precisa dei

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viaggi sulle strade greche. Benché il resoconto risalga alla fine del II secolo a.C., o anche all’inizio del I, la situazione, duecento anni pri­ ma, non doveva essere molto diversa. La prima tappa era a Oropos, a 50 km circa dalla città o, come dice l’autore, « proprio a una giornata di marcia, per un buon camminatore »; la strada si sno­ dava in gran parte tra le montagne, ma « molte locande, che offri­ vano possibilità di sosta e di ristoro, aiutavano il viaggiatore a vin­ cere la fatica ». Il secondo giorno si giungeva a Tanagra attraver­ sando uliveti e boschi, lungo una strada « assolutamente sicura da attacchi di banditi ». Veniamo anche informati che Tanagra è « la città piu sicura, in Beozia, per gli stranieri »; entrambe le afferma­ zioni vanno probabilmente prese con beneficio d’inventario. Si pro­ cedeva poi verso Platea, lungo « una strada desolata e pietrosa, ma non troppo ripida »; si seguivano le pendici del Citerone, la mon­ tagna proibita dove fu abbandonato Edipo bambino. Da Platea in avanti il viaggio diventava agevole, fino ad Anthedon infatti la stra­ da si snodava tra i campi ed era carrozzabile. Ogni volta che una persona si metteva in viaggio, sia per mare sia per terra, doveva sempre considerare attentamente i pericoli che esso comportava. Per chi sceglieva il mare c’era l’onnipresente rischio di venir catturati dai pirati o dalla flotta di un paese nemico se, come accadeva spesso, era in corso una guerra. La flotta ateniese, la migliore che solcasse i mari durante il V e IV secolo a.C,, offriva la maggior protezione possibile, ma questo non serviva a risolvere il problema. Una delle cause affidate a Demostene, per esempio, con­ cerneva un uomo d’affari che era stato rapito da una nave da guerra e aveva dovuto pagare ventisei mine per essere liberato. Un altro pro­ cesso riguardava la proprietà di un mercante ucciso da una freccia du­ rante un assalto dei pirati alla nave che lo trasportava. Uno degli in­ trecci preferiti dai comici dell’epoca parlava di una ragazza rapita dai pirati quando era ancora bambina, venduta poi come schiava, che restava in questa infelice situazione fino all’ultimo atto, quando un miracoloso concorso di circostanze la restituiva al suo giusto stato. Teofrasto, descrivendo il codardo, dice che « è colui che, quando viaggia su una nave, immagina che ogni promontorio sia una nave pirata ». Non c’è dubbio che i pirati rappresentassero il timore prin­ cipale di chiunque facesse un viaggio per mare. Le nostre scarse fonti d’informazione non parlano quasi mai di banditi sulle strade, ma non c’è ragione di dubitare che essi fossero un flagello pari a quello dei pirati. Il corpo di vigilanza, che ogni

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città-stato manteneva, curava l’ordine all’interno delle mura delle città stesse; la campagna, invece, per qualunque proposito o decisione, era una terra di nessuno. La sola risorsa per i viandanti era di muo­ versi in gruppo, o portare con sé numerosi schiavi che fungevano al tempo stesso da servi e da guardie del corpo. In uno degli imma­ ginari dialoghi satirici scritti da Luciano e che si svolgono agli Inferi, un gruppo di spiriti discute sul modo in cui i morti giungono là sotto; viene citato un ricco ateniese che: « fu ucciso da un bandito da strada, credo mentre viaggiava sul monte Citerone in direzione di Eieusi. Arrivò gemendo e tenendo la sua ferita con entrambe le mani... Biasimava se stesso per la propria temerarietà: aveva voluto attraversare il Citerone e la zona di Eleutera, che era spo­ polata a causa della guerra, accompagnato da due soli schiavi; lui, un uo­ mo che trasportava quattro coppe e cinque tazze d’oro massiccio! ». D i conseguenza, quelli che si mettevano in viaggio cercavano di portare con sé il minimo indispensabile in danaro e oggetti di va­ lore. Ciò comportava però un altro problema: cosa fare di ciò che si lasciava a casa. Non c’era nulla che assomigliasse a una moderna cassetta di sicurezza, ma esistevano tuttavia soluzioni equivalenti. C ’erano i templi, che, avendo sempre dei locali attrezzati per serbare i doni votivi, fungevano spesso da tesoreria pubblica ricevendo in de­ posito il danaro dello stato e, in certi casi, anche oggetti e capitali dei privati cittadini. C’erano poi i banchieri che potevano accettare valori da custodire; un’orazione di Demostene, per esempio, tratta proprio del guaio causato dall’errore di un impiegato, il quale re­ stituì a un cliente due preziose tazze che erano state depositate da un altro. Problemi infinitamente più complessi comportava il danaro li­ quido, che, non esistendo alcun valido sistema di credito, doveva sempre essere trasportato' in contanti. Gli uomini d’affari potevano verosimilmente portare con sé somme limitate e fare poi affidamento, per rimpinguare i propri fondi, sui soci o colleghi all’estero; gli ari­ stocratici, da parte loro, avevano senz’altro stabilito accordi reciproci con i vari amici e parenti che avrebbero incontrato nelle località visitate. Anche loro dovevano comunque portare dei contanti con sé, mentre la folla di gente qualunque che si recava a qualcuna delle grandi feste annuali, doveva portare con sé abbastanza danaro per sostenere tutte le spese durante l’assenza da casa. I banditi greci erano dunque tranquillamente sicuri che i loro sforzi sarebbero stati

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coronati da successo poiché ogni viaggiatore doveva essere provvisto di un borsellino piuttosto ben fornito. C’era poi un’altra difficoltà connessa col danaro: di che tipo do­ veva essere? Dal momento che ogni città-stato pretendeva di battere una propria moneta, i cambiavalute diventavano figure indispensabili ai viaggi, allora ancor piu che oggi. Li si poteva vedere, in ogni città commerciale, seduti di fronte al loro piccolo banco nel porto, 0 nel mercato, oppure di fronte a qualche tempio posto in luogo stra­ tegico: difatti la parola greca che indica il cambiavalute, trapezites, significa appunto: « l’uomo del banco ». Essi pesavano con una bi­ lancia tutte le monete loro offerte, per essere sicuri del peso, soppe­ savano, fiutavano e controllavano la forma di quelle che suscitavano 1 loro sospetti, o addirittura le scalfivano con la pietra di paragone, una particolare qualità di diaspro nero che si trovava solamente nel letto di alcuni fiumi della Lidia. In Occidente e nella Grecia propria­ mente detta, le monete erano in maggioranza d’argento; in Oriente invece erano comunemente d’oro o d’elettro, una lega naturale d ’oro e argento. Nel periodo della massima potenza ateniese, cioè nel V e IV secolo a.C., la moneta di Atene aveva corso dappertutto, e chiun­ que si mettesse in viaggio trovava molto utile fare scorta di « ci­ vette », la tipica moneta battuta con l’effigie dell’uccello « dagli occhi bovini », sacro ad Atena. Per chi si incamminava verso est, andavano altrettanto bene gli stateri di elettro di Cizico, una fiorente città-stato sul Mar di Marmara o i darici d ’oro persiani, introdotti, come dice il nome, da Dario il Grande. Queste tre valute (Fig. 2) erano accettate in tutto il mondo, e ciò era per il viaggiatore non solo una gran co­ modità, ma anche un risparmio, dal momento che il ricarico dei cambiavalute di allora non era paragonabile all’irrilevante tasso di og­ gi ma ammontava fino al cinque o addirittura al sei per cento della somma cambiata. C’era invece un problema che veniva risparmiato al viaggiatore greco: la tormentosa scelta di come vestirsi. A giudicare dalle scene con cui sono decorati i vasi di questo periodo possiamo dedurre che il loro guardaroba era relativamente semplice. L ’abito usuale degli uomini era il chiton, un’ampia tunica di lino o di lana, senza mani­ che e lunga fino al ginocchio o fino al polpaccio, trattenuta in vita da una cintura, la zone. Durante i viaggi, la gente aveva l’abitudine di accorciare il chiton, ripiegandolo in su nella cintura, in modo da salvare l’orlo dalla polvere e dal fango e avere le gambe libere. « Per quanto riguarda la durata del viaggio » dice Erodoto « un uomo ben cinto (euzonos) può impiegarci cinque giorni »; lo storico si ri-

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ferisce a una persona con il chiton succinto, pronto cioè a una lun­ ga marcia, non a una passeggiata. Per coprirsi ulteriormente, il viag­ giatore usava la clamys, un rettangolo di stoffa che poteva essere in­ dossato come un corto mantello (Fig. 3); ai piedi calzava sandali legati con corregge di cuoio attorno al polpaccio; non portava invece calze 0 calzini, che erano quasi sconosciuti nell’antichità. In testa aveva il petasos, un cappello a larghe tese fornito di un sottogola (Fig. 3); col caldo, il viandante poteva scoprirsi, semplicemente facendo sci­ volare dietro le spalle il cappello che restava appeso al sottogola, mentre se faceva freddo, poteva stringere quest’ultimo in modo che le tese si chiudessero fino a coprire le orecchie. Il viaggiatore doveva portare con sé il necessario per dormire, uso, questo, che è durato fino al secolo scorso; di solito si trattava di un himation o di una claina, grandi rettangoli di lana usati sia come coperte, la notte, sia piegati doppi, come mantelli nei giorni freddi o di tempesta. Le donne portavano tuniche simili a quelle degli uomini e, come copricapo, una versione raffinata del petasos-, alcune avevano anche un parasole. Non esistevano abiti corti da donna, ma la solita larga veste di lana, che poteva essere drappeggiata come un mantello attorno al corpo. Tutto ciò che non si portava addosso, era sistemato in sacchi di cuoio e affidato alle cure degli schiavi al seguito. Solo gli esiliati, 1 fuggiaschi e simili viaggiavano da soli; tutti i viaggiatori si face­ vano di norma accompagnare da almeno uno schiavo. Le persone disposte ad accettare tutte le difficoltà e i rischi che i viaggi in quell’epoca comportavano, rientravano in alcune ben pre­ cise categorie. In quella dei mercanti, che anno dopo anno viaggiavano con re­ golarità sia per mare, sia per terra, rientrava senz’altro la maggior parte. Ma, in alcuni periodi dell’anno, lungo certe strade e certe rotte marittime, i mercanti e tutti gli altri viaggiatori occasionali si trova­ vano a far parte della senza dubbio più grande massa in spostamento dell’epoca: ci riferiamo alle folle che accorrevano ad assistere alle grandi feste religiose panelleniche. Abbiamo letto in Erodoto (v. pag. 17) dell’incredibile numero di partecipanti alle festività egi­ zie: anche quelle greche richiamavano folle simili. L ’idea di organizzare cerimonie religiose comuni si sviluppò pre­ sto nel mondo greco: gruppi di città-stato vicine tra loro presero l’a­ bitudine di riunirsi in determinate località per celebrare una divinità che essi onoravano in comune. A poco a poco, per ragioni ancor oggi non molto chiare, quattro di queste celebrazioni crebbero d ’impor­

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tanza fino ad assurgere al grado di vere e proprie feste nazionali, alle quali partecipavano Greci provenienti da tutte le contrade. Si tratta dei Giochi Olimpici, dei Giochi Pitici, dei Giochi Istmici e di quelli Nemei; ciascuna di queste feste era dedicata a un dio e comprendeva naturalmente anche delle preghiere e dei sacrifici: venivano però co­ munemente chiamate « giochi » poiché uno dei modi preferiti dai Greci per onorare la divinità consisteva nel dedicarle prestazioni atle­ tiche e artistiche di altissimo livello. Queste feste offrivano in un’uni­ ca occasione il campionario completo delle attrazioni che, in ogni tempo e in ogni luogo, hanno richiamato i turisti: la sensazione di partecipare a un grande avvenimento e a un’esperienza eccezionale; un’allegra sensazione di festa accompagnata da momenti di esalta­ zione religiosa; un apparato sfarzosamente elaborato; l’eccitazione di gare disputate fra partecipanti di eccezionale calibro; e, oltre a tutto questo, la possibilità di ammirare costruzioni e opere d ’arte famo­ sissime. Se uno provasse a pensare a una moderna Olimpiade, che si svolga a Roma in occasione della Pasqua in concomitanza con tutta una serie di cerimonie religiose in San Pietro, potrebbe forse avere un’idea delle ragioni che spingevano, da tutte le località vicine o lon­ tane, coloro che non erano Greci al pari dei Greci, ad affrontare qua­ lunque fatica per poter essere presenti. I piu antichi e i piu importanti dei quattro erano i Giochi Olim­ pici. Si tenevano ogni quattro anni in onore di Zeus a Olimpia, una amena località lungo le rive del fiume Alfeo, nella parte nord-occi­ dentale del Peloponneso. Il luogo non era né centrale, né facilmente accessibile. La stagione in cui si svolgevano i giochi — il cuore della torrida e asciutta estate greca —presumibilmente affliggeva sia i par­ tecipanti sia gli spettatori, i quali in compenso erano però sicuri di non dover affrontare i disagi causati dalla pioggia. Le città-stato, che erano praticamente sempre in guerra tra loro, sospendevano le osti­ lità in occasione dei Giochi Olimpici. Infatti questa, come anche le tre altre feste panelleniche, godeva dei benefici di una « tregua sa­ cra ». Al primo plenilunio dopo il 22 giugno, la città-stato di Elide — situata presso la sede dei Giochi Olimpici, che rappresentavano anche la sua piu grossa fonte di guadagno — inviava per tutta la Grecia degli araldi che annunziavano l’inizio della « tregua sacra »: questo significava che per il mese successivo era vietata ogni guerra. Anche i peggiori nemici, fino a quel momento impegnati in una lotta mortale, deponevano le armi. Se qualcuno la violava, veniva pesan­ temente multato: due mine per ogni componente dell’esercito tra­ sgressore. Durante i Giochi Olimpici del 420 a.C., Sparta impiegò

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mille uomini per un’operazione militare: Elide la multò per duemila mine. Poiché i Giochi duravano ben cinque giorni, i visitatori avevano tutto il tempo di arrivare e godersi lo spettacolo senza preoccuparsi del modo con cui avrebbero dovuto far ritorno a casa. Noi non abbiamo idea di quale fosse il numero complessivo dei partecipanti, ma deve essersi aggirato sulle decine di migliaia. In cima alla scala sociale c’erano le ambascerie inviate a spese pubbliche dalle singole città-stato: ricchi e potenti cittadini che presenziavano a tutte le manifestazioni in sontuose vesti da cerimonia pubblica. Anche i rappresentanti delle classi agiate facevano bella mostra di sé, con ostentazione uguale o addirittura superiore, anche se non in forma ufficiale. C ’erano poi i partecipanti alle gare, ciascuno· con il suo seguito (e il seguito di un partecipante, per esempio, alla gara delle quadrighe, composto di palafrenieri, stallieri e simili, faceva sicura­ mente una notevole impressione). Alcibiade, che era maestro nell’arte di mettersi in mostra, partecipò a una Olimpiade con ben sette cocchi, e trovò anche dei finanziatori che gli pagarono le spese: Efeso gli donò una splendida tenda per il suo alloggio, Chio procurò il fo­ raggio per i suoi ventotto cavalli e infine Lesbo gli forni cibi e vino per i suoi invitati (e Alcibiade non era certo un ospite avaro). E poi c’era l’enorme folla costituita dagli spettatori a cui vanno aggiunti quanti, attirati da una simile concentrazione umana, erano interessati a fornire i servizi necessari, e anche non necessari: venditori di cibi e bevande, guide, maneggioni, prostitute, venditori di souvenir. Il solo rifornimento d ’acqua deve aver impegnato centinaia di persone, che giravano con giare o con asini carichi di giare; le cose continua­ rono cosi ancora per piu di cinquecento anni, finché nel II secolo d.C. l ’ingegneria romana e la filantropia di un uomo ricchissimo non si unirono per costruire un acquedotto che rifornisse la località d ’ac­ qua corrente. Nelle antiche Olimpiadi, come nelle moderne, il ruolo chiave era svolto dalle gare di atletica; infatti, se si risale ai primordi di tali feste, le prime gare furono le corse a piedi: la corsa dello « stadio », lunga cioè quanto la dirittura dello stadio ove si svolgevano le gare, vale a dire circa 190 m; la corsa del « doppio stadio », pari a due volte la lunghezza dello stadio e la « corsa lunga », corrispondente a 24 stadi (circa 4.500 m): una corsa estenuante. C ’erano anche gare di pentathlon (articolato in cinque prove: salto in lungo, disco, cor­ sa, giavellotto, lotta), di pugilato, di pancrazio (uno sport brutale, in cui si univano il pugilato a pugni nudi e la lotta libera), di corse di carri e di cavalli. Prima e dopo le gare, gli spettatori potevano pas­

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seggiare nella zona e visitare i monumenti, compreso il grandioso tempio di Zeus, dove era conservata la gigantesca statua del dio fatta da Fidia: un’opera famosa, destinata a far parte delle Sette Mera­ viglie del mondo antico (v. pag. 189). Potevano fermarsi ad ascoltare i migliori autori del tempo, che davano pubblica lettura delle proprie opere, oppure i piu famosi oratori impegnati nel declamare su argo­ menti di vitale importanza; potevano infine osservare le opere d ’arte esposte dai numerosi pittori e scultori contemporanei. L ’attrattiva per tutte queste manifestazioni collaterali, unita a quella ancor mag­ giore per le gare atletiche, doveva assorbire completamente l’interesse dei visitatori, fino al punto da far loro dimenticare, in mancanza di servizi organizzati, i disagi dell’affollamento e, soprattutto, del caldo. Essi passavano le giornate nello stadio pigiati come sardine, a capo scoperto (i Greci portavano di solito il cappello solo in viaggio: a questo proposito v. pag. 56), e privi del tutto di un riparo nel caso si fosse scatenato un temporale estivo. « Ti sei tutto scottato? » domanda Epitteto. « Siete pigiati uno contro l’altro? È quasi impos­ sibile fare un bagno? Ti sei infradiciato tutto quando piove? Non ne puoi piu del baccano, delle spinte e dei fastidi di ogni genere? » Le condizioni degli spettatori erano cosi cattive, che si raccontava la storia di un padrone che rimise in riga uno schiavo riottoso sempli­ cemente minacciandolo di condurlo con sé ai Giochi Olimpici. I Giochi Pitici, dedicati ad Apollo e celebrati presso l’oracolo del dio a Delfi, offrivano attrattive in una certa misura diverse. C ’erano, come al solito, gare di atletica, ma l’accento era posto so­ prattutto sulla musica e la danza; la manifestazione era molto simile a quei festival musicali che ancor oggi attirano tanti turisti. Si tene­ vano competizioni di danza collettive, gare di canto con accompagna­ mento della lira, di recitazione dei poemi omerici con accompagna­ mento musicale; vi era anche una gara di « melodia pitica »: un pezzo di musica strumentale in cui si descriveva la mitica lotta tra Apollo e un drago che abitava proprio in quei luoghi (la melodia si divideva in cinque movimenti: preludio, inizio della lotta, lotta, vittoria del dio, morte del drago). In altre feste musicali erano compresi anche i canti con accompagnamento di flauto, che erano però vietati nei Giochi Pitici per la ragione che questi canti e lamenti funebri erano giudicati troppo tristi per l’occasione. I Giochi Pitici rappresentavano il massimo che un amante della musica potesse desiderare: un’oppor­ tunità unica di vedere i piu grandi strumentisti e vocalisti dell’epoca cimentarsi l’uno a fianco dell’altro. C’era spazio anche per gli amanti

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dell’arte: il programma infatti comprendeva mostre di pittura e scul­ tura. La festa si svolgeva ogni quattro anni in primavera, in modo da non sovrapporsi mai alle Olimpiadi. A Corinto, sull’istmo che divide la Grecia propriamente detta dal Peloponneso, venivano celebrati i Giochi Istmici dedicati a Poseidone; si svolgevano ogni due anni, una volta in primavera e una volta in estate. Le gare di atletica vi giocavano il ruolo principale, ma vi erano anche gare musicali e di danza. I Giochi Istmici erano meno impor­ tanti delle Olimpiadi ma probabilmente attiravano altrettanta gente poiché Corinto era il luogo piu accessibile della Grecia: con un porto su entrambi i lati dell’istmo, era raggiungibile per mare sia da est che da ovest. I Giochi Nemei, infine, erano celebrati in onore di Zeus; come gli Istmici, si svolgevano ogni due anni, alternativamente in inverno e in estate, e comprendevano gare musicali ed atletiche, con maggiore importanza per queste ultime. La tregua sacra, di cui godevano le feste panelleniche, garantiva una larga partecipazione. Le feste locali non usufruivano di questo vantaggio, alcune tuttavia offrivano attrattive talmente eccezionali da richiamare un considerevole numero di spettatori da lontano a dispet­ to dei pericoli del viaggio. Era il caso delle Grandi Dionisie ad Atene, l ’annuale festa, in onore di Dioniso, che aveva luogo nel mese di marzo. Il programma era interamente dedicato alla musica e alla let­ teratura — non c’erano competizioni atletiche — e la manifestazione piu importante consisteva in una serie di gare fra poeti comici e tra­ gici. A questa festa si deve la nascita del teatro. Il dramma nacque co­ me parte dei riti connessi con il culto di Dioniso - l’origine precisa è oscura ed è stata oggetto di accese dispute - e divenne un elemento fisso in tutte le cerimonie collegate alla celebrazione della sua festa. Durante le Grandi Dionisie del 534 a.C., un attore di nome Tespi mise in scena un dramma di sua composizione: fu questo l’atto di nascita della tragedia. La nuova arte si sviluppò poi molto rapida­ mente: nel 499, trentacinque anni dopo la prima messa in scena di Tespi, Eschilo presentò la sua prima tragedia e nel 458 scrisse la trilogia nota come YOrestiade, una pietra miliare nella letteratura drammatica occidentale. Durante l’età aurea del teatro greco, la se­ conda metà del V secolo a.C., tre giorni delle Grandi Dionisie erano dedicati alla rappresentazione di drammi. Al mattino i tragediografi mettevano in scena le opere composte per l’occasione, al pome­ riggio era la volta dei commediografi. Ad ogni rappresentazione assistevano numerosi ospiti d ’oltremare; non sappiamo quanti fos­

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sero, ma erano abbastanza perché una volta Aristofane, che era un gran dissacratore, fosse denunciato da uno dei capi del partito popolare, per aver parlato male del governo alla presenza di stra­ nieri. Questi giungevano da ogni luogo a dispetto delle difficoltà di una navigazione agli inizi della primavera o di un viaggio lungo stra­ de fangose. Il richiamo esercitato da un capolavoro di Euripide, di Sofocle o di Aristofane era più forte di ogni rischio e disagio. In se­ guito compagnie vaganti di attori professionisti portavano i drammi da Atene alle altre città-stato. Il teatro di Atene era una vasta area a cielo aperto, situata lungo il fianco di una collina, con una capienza di circa quattordicimila po­ sti; i pendìi situati sopra e sui lati del teatro fornivano ulteriore spazio per molti altri spettatori. Tutti i teatri greci erano grandi, alcuni ancora piu grandi di quello di Atene: essi erano l’equivalente, piu che dei nostri teatri, degli odierni stadi sportivi. Eppure l’en­ tusiasmo per i drammi era tale, che spesso la capienza del teatro non era sufficiente. Le rappresentazioni, ad Atene come nelle altre loca­ lità, erano riservate soprattutto ai cittadini residenti; come dire che tutti gli altri dovevano arrangiarsi. Ad Atene il posto migliore, cioè il sedile di centro della prima fila in mezzo, era riservato al sacerdote di Dioniso, e quello accanto all’araldo che faceva gli annunci. Gli altri posti migliori, cioè i restanti della fila centrale e quelli limitrofi, erano riservati ai sacerdoti, ai magistrati cittadini, a ospiti d ’onore stranie­ ri, ai membri delle ambascerie e a numerosi pubblici benefattori, sia cittadini che non. Inoltre alcuni settori erano riservati a categorie specifiche: uno per gli efebi, forse uno anche per ciascuna delle dieci tribù in cui si divideva la popolazione. I biglietti d ’entrata, di metallo e simili a una moneta, indicavano solo il settore e la fila, ma non il singolo posto, cosicché il personale addetto al servizio era spesso chiamato per sedare le liti che inevitabilmente sorgevano quando degli intrusi cercavano di prender posto in file già completamente occupate. Teofrasto cita, come esempio di sfacciata impudenza, l’uo­ mo che, avendo comprato un’intera fila di posti per un gruppo di amici di fuori città, entra senza essere fornito di biglietto per sé e che, alla rappresentazione del giorno dopo, cerca di far entrare anche tutti i suoi figli con relativo tutore. Se un cittadino ateniese era trop­ po povero per pagarsi il prezzo d’ingresso, per lui provvedeva lo stato tramite uno speciale fondo, il theoricon. Gli stranieri, privi di una ragione ufficiale per entrare nel teatro, dovevano ricorrere a qualche amico della città come nel caso narrato da Teofrasto, oppure siste­ marsi in qualche modo sui pendìi che circondavano il teatro.

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Quanto a numerosità, nessuna categoria di viaggiatori poteva uguagliare le folle che si mettevano in marcia per partecipare alle grandi feste. Si trattava tuttavia di viaggiatori occasionali che si muovevano solamente in certi periodi di determinati anni. Una grossa categoria di viandanti che poteva invece esser vista sulle strade tutti i giorni era quella dei malati diretti ai vari santuari degli dei guari­ tori, soprattutto a quello di Asclepio. Questi luoghi erano general­ mente situati in località scelte oculatamente per la purezza dell’aria e dell’acqua e per le bellezze naturali; sovente erano vicini anche a delle sorgenti minerali. Qui i malati non trovavano soltanto delle cure, ma anche facilitazioni di soggiorno e divertimento, che la mente perspicace dei Greci aveva riconosciuto come elemento essenziale nella cura delle malattie. Il santuario di Epidauro, per esempio, collocato dove si credeva fosse nato Asclepio, e forse il piu venerato tra quelli del mondo greco, era immerso in un vasto e tranquillo bosco. Gli edifici comprendevano il tempio di Asclepio, con una fa­ mosa statua del dio e altre celebri sculture, altri templi che conte­ nevano notevoli opere d ’arte, porticati per passeggiare all’ombra, uno stadio per le manifestazioni sportive e un teatro che, con i suoi diciassettemila posti, era il secondo in tutta la Grecia; quest’ultimo ha resistito lungo i secoli ed è oggi una delle piu eccezionali attrat­ tive che offra il paese. Accanto al tempio di Asclepio c’era un altro edificio importan­ tissimo, Γenkoimeterion, o « dormitorio »: qui e nel tempio ave­ vano luogo le cure. Tutti i visitatori che lo desideravano - ed erano la maggioranza — potevano passare una notte in quei luoghi e, dor­ mendo sul pavimento fra i cani e i serpenti addomesticati sacri ad Asclepio, venir visitati in sogno dal dio che comunicava loro una cura o addirittura li curava in modo magico. Ovviamente i sacerdoti del santuario non erano contrari a unire alle loro risorse mediche an­ che l’aiuto divino. Sui muri del « dormitorio » vi erano moltissime tavolette sulle quali erano incise entusiastiche testimonianze della potenza del dio. « Su queste tavolette », scrive Pausania che visitò Epidauro nel II secolo d.C., « sono incisi i nomi degli uomini o delle donne guariti da Asclepio e inoltre la malattia di cui soffrivano e il tipo di cura che li guari. » Gli archeologi hanno portato alla luce durante gli scavi parecchie di queste tavolette. Ecco alcune delle piu eccezionali guarigioni che esse registrano: 1. Un uomo, molto sofferente per un’ulcera a un dito del piede, fu portato all’aperto dagli assistenti e posto a sedere su un sedile.

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Mentre dormiva, un serpente usci dal dormitorio e guari l’ulcera con la lingua, ritornando poi nel dormitorio. Al suo risveglio, l’uomo era guarito e dichiarò di aver avuto una visione: gli era sembrato che un giovane di bell’aspetto spalmasse un unguento sul suo dito. 2. Lyson, un ragazzo cieco di Ermione, guari dopo che gli ven­ nero leccati gli occhi da uno dei cani del tempio. 3. Gorgia di Eraclea durante una battaglia era stato ferito da una freccia che lo aveva colpito a un polmone. In diciotto mesi la ferita aveva prodotto tanto pus da riempire sessantasette tazze. Egli dormi nel tempio e in sogno gli parve che il dio gli estraesse dal polmone la punta della freccia: al mattino si alzò guarito, con la punta della freccia in mano. Le offerte votive erano un altro modo con cui i pazienti potevano manifestare la propria gratitudine; gli scavi hanno portato alla luce centinaia di riproduzioni in argilla, di solito rozzamente eseguite, di piedi, mani, gambe, orecchie, occhi, intestini, ecc. dedicati al dio da parte di quanti erano stati guariti da una malattia o da una ferita nella parte del corpo rappresentata. Oltre al « dormitorio » dove i pazienti passavano una sola notte per ricevervi le cure, c’era una grossa locanda dove i visitatori, sani o malati che fossero, potevano fermarsi tutto il tempo che volevano. Era costituita da quattro edifici quadrati uguali fra loro, posti uno vicino all’altro a formare un quadrato di circa 80 m di lato. Ogni edificio era costruito nel tipico modo (come vedremo a pag. 66) delle locande greche: un cortile centrale circondato da una costru­ zione a due piani; su ogni cortile si affacciavano venti camere per piano, per un totale dunque di centosessanta camere. Le camere non erano affatto piccole: la maggior parte era formata da locali quadrati di 4,5 m di lato, mentre agli angoli c’erano delle camere doppie di circa 4,5 per 9 m. Anche i santuari degli oracoli avevano un vasto pubblico di visi­ tatori, per quanto certamente minore di quello del santuario di Ascle­ pio. I due piu importanti erano quello di Zeus a Dodona, nella Grecia nord-occidentale, e quello di Apollo a Delfi; un altro oracolo di Apol­ lo, a Didima presso Mileto, era molto famoso e venerato in Asia Minore. Gli oracoli erano soprattutto al servizio di governi, uomini di stato, generali e simili, che li consultavano regolarmente prima di prendere una qualsiasi importante decisione. Vi si recava però an­ che chiunque volesse sottoporre al dio un problema personale; forse la piu famosa richiesta fu quella di Cherofonte, un discepolo di So-

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crate, che interrogò l’oracolo di Delfi sulla sapienza del suo maestro. Vi erano moltissimi altri oracoli di minore importanza, a cui molto probabilmente la gente comune sottoponeva i propri problemi, re­ candosi nel santuario di quello che era piu vicino. Al riguardo, par­ ticolarmente fortunati erano i Beoti i quali, per una serie di motivi, avevano una mezza dozzina di oracoli di Apollo nella propria regione. Commercianti in viaggio per affari, partecipanti alle pubbliche feste, ammalati o pellegrini diretti ai santuari degli oracoli: queste in sintesi le categorie di viaggiatori del V e IV secolo a.C. Occorre però ricordarne un’altra, anche se estremamente piu esigua delle altre: quella dei turisti puri e semplici. Scrive Erodoto: « Molti Greci andarono in Egitto: alcuni, come è logico, per commerciare, al­ tri per combattere, e altri ancora semplicemente per visitare il paese ». Egli stesso apparteneva a quest’ultima categoria, benché sia possibile (v. pag. 76) che, oltre che per turismo, viaggiasse anche per affari. Noi sappiamo con sicurezza che Solone uni le due cose quando, dopo avere retto faticosamente Atene nel corso di una crisi, si riposò facendo un viaggio all’estero. Atene stessa divenne un’attrazione tu­ ristica dalla seconda metà del V secolo, dopo che l’Acropoli fu arric­ chita del Partenone e altre splendide costruzioni. Ecco quanto dice un commediografo dell’epoca:

nazione con la luce del giorno. In un’epoca che non conosceva l’il­ luminazione domestica, per non parlare di fari o boe luminose, nessun marinaio si sarebbe arrischiato a entrare in porto col buio. Anche chi viaggiava a piedi o a cavallo evitava in tutti i modi di trovarsi di notte su strade non segnate, sterrate, prive di illuminazione, nell’im­ possibilità di vedere dove mettere i piedi o dove saltare quando risuonava il ben noto « Attenti! », e una secchiata di spazzatura volava da una finestra. Mancavano ancora molti secoli all’invenzione delle lampade stradali, mentre la pavimentazione delle strade non solo era rara, ma anche quando c’era si riduceva a uno strato, quasi privo di drenaggio, di pietre piantate nel suolo. Ad aumentare la confusione, non erano ancora state inventate le due cose piu utili: cioè le targhe stradali e la numerazione delle case. Un personaggio di una commedia di Plauto arriva sulla scena cercando appunto un indirizzo e mormo­ ra: « Il mio padrone mi ha detto che è la settima casa, a cominciare dalla porta della città ». Pochi versi dopo riferisce di essersi « fer­ mato alla terza locanda fuori della porta della città ». Queste erano le indicazioni piu precise che uno potesse dare. Solo raramente le strade avevano un nome, e ciò in pratica accadeva solo per le strade piu importanti. Cosi viene data un’indicazione stradale in una com­ media di Terenzio:

« Se non hai mai visto Atene, il tuo cervello è una palude; se l’hai vista e non ci sei entrato, sei un asino; se l’hai lasciata senza rimpianti, la tua testa è dura come bronzo! ».

« Conosci quella casa, che appartiene a Cratino, il milionario? Bene, quando l’hai sorpassata, va’ giu fino in fondo alla via, poi a sinistra e, quando sei arrivato al tempio di Diana, a destra. Poi poco prima di arri­ vare alla porta della città, proprio accanto a un laghetto, c’è un piccolo forno e, di fronte, il negozio di un carpentiere. Ecco, lui è là ».

Viaggiare per diletto richiedeva tempo libero e danaro, e che po­ tesse godere di questi privilegi nel V e nel IV secolo a.C. era solo una ristrettissima cerchia di persone nell’ambito della società greca. Ma il loro numero, come vedremo, crebbe di continuo nei secoli successivi. Torniamo ora a esaminare ciò che attendeva un viaggiatore al suo arrivo a destinazione. La risposta non può che essere generica e carente di dettagli, dal momento che nessun autore antico ha mai trattato in modo specifico di esperienze di viaggio. Dobbiamo accontentarci di casuali notizie riportate dagli storici, di versi sparsi nelle commedie antiche, di pit­ ture di soggetto vario sui vasi, ecc.; possiamo aggiungere alcune in­ formazioni ricavabili dai secoli successivi e infine una buona dose di intuizione da parte nostra. Per cominciare, i viaggiatori cercavano sempre di arrivare a desti­

Arrivando di giorno, invece, uno straniero poteva almeno evitare le pozzanghere e i mucchi di rifiuti, cercare dove rifugiarsi al grido di avviso da parte di qualcuno che stava gettando la spazzatura dalla finestra, trovare un passante a cui chiedere l’ubicazione di una strada e avere qualche possibilità di seguire, con successo, le sue indica­ zioni. Nei tempi piu antichi, come abbiamo osservato (v. pag. 32), i viandanti spesso non avevano altra possibilità che ricorrere all’ospi­ talità dei privati. Questa continuò a giocare un ruolo importante anche dopo che l’accresciuto numero dei viaggiatori aveva fatto sor­ gere locande in tutto il paese. I mercanti alloggiavano presso i rispet­ tivi soci, i nobili e i ricchi presso i loro influenti amici, e la povera gente presso chiunque fosse disposto ad accoglierla. Famiglie di città

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diverse, unite da un legame di amicÌ2Ìa, si scambiavano ospitalità re­ ciproca persino da una generazione all’altra. Non c’era bisogno che i legami fossero particolarmente stretti; infatti vi erano famiglie carat­ terizzate dalla generosa tradizione di accogliere tutti i cittadini di una certa località, senza badare se erano conosciuti personalmente o me­ no. Le abitazioni della gente benestante comprendevano sempre al­ meno uno xenon o camera degli ospiti; di solito questa era provvista di un’entrata privata e, a volte, era un vero e proprio alloggio separato. Il visitatore veniva invitato alla tavola del suo ospite il giorno dopo il suo arrivo; dopodiché venivano inviate provviste allo xenon, oppure l’ospite stesso se le comprava ed i suoi servi prov­ vedevano a cucinare per lui. Alla partenza il padrone di casa e l’o­ spite si scambiavano dei doni. Quelli che non potevano avere ospitalità privata, dovevano ri­ correre a una locanda, un pandokeion: « luogo per ospitare tutti ». Nel V secolo si trovavano locande lungo le strade piu impor­ tanti, in moltissime città e in un considerevole numero di porti e grossi centri. Il guaio era che, nella stragrande maggioranza, esse non erano assolutamente accoglienti, a dir poco. La commedia Le rane di Aristofane si apre con una scena nella quale Dioniso decide di scendere agli Inferi. Prima di fare questo egli consulta Eracle — l’eroe era molto esperto in proposito da quando una delle sue dodici fatiche era consistita nel catturare Cerbero, il cane custode dell’Ade - e una delle prime cose che vuol sapere da lui è un elenco di « albergatrici con meno pulci possibile »; come ai primordi dei viaggi (v. pag. 22) gestire una locanda era ancora una tipica pro­ fessione femminile. La locanda nell’Ade, dove Dioniso infine si reca, è condotta da una donna di spaventose maniere nei confronti degli ospiti che non pagano —un’antenata della comare Quickly del Falstaff e di altre terribili locandiere della letteratura inglese. Se esistesse qualche locanda tranquilla e confortevole, noi non ne sappiamo nulla. Noi conosciamo la pianta solo delle locande di campagna e di quelle costruite dove non c’erano problemi di spazio; si tratta di edifici simili all’ostello di Epidauro: un largo cortile centrale, qua­ drato o rettangolare, circondato da un basso edificio, di solito a due piani. Lo spazio interno era suddiviso in una serie di piccole camere, ciascuna delle quali si apriva sul cortile o su un porticato coperto che lo circondava. Sulla facciata principale, una porta carraia immet­ teva nel cortile. Le locande di città invece erano molto piu anguste, come vedremo in epoca romana (v. pag. 168). Al suo arrivo, il viag­ giatore lasciava la vettura o le bestie nel cortile e da qui veniva poi

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condotto nella sua stanza, che in certi casi, a seconda del traffico, doveva dividere con altri ospiti; in camera trovava solo un pagliericcio, mentre, come coperta, doveva usare il suo mantello. Le camere erano sempre molto buie con finestre piccolissime, o addirittura sen­ za finestre, il che permetteva di mantenere le stanze fresche d ’estate, stagione preferita dai viaggiatori. Se per caso faceva talmente fresco da rendersi necessario riscaldare la stanza, il viaggiatore poteva chie­ dere all’albergatore di portargli un braciere a carbone. Non c’erano servizi — non ce n’erano neppure nelle piu eleganti case cittadine — ma solo delle seggette, che c’era da sperare i servi vuotassero fre­ quentemente. Nelle città dove c’era un mercato, il viaggiatore affit­ tava solo la camera; il cibo doveva comprarlo al mercato e affidarlo per la cottura ai suoi servi o alla cucina della locanda. Negli ostelli di campagna si faceva un accordo separato con l’albergatore per ogni singola voce: letto, bevande, cibi (v. pag. 168). Prezzi di pensione completa erano una cosa eccezionale, e usavano solo in regioni dove il cibo era cosi abbondante da essere quasi gettato via. Nel V secolo a.C. all’interno dei recinti dei templi, come vedre­ mo fra breve (v. pag. 68), c’erano locande di proprietà dei templi stessi. Qualche tempo dopo, anche le città, forse seguendo l’esem­ pio dei templi, cominciarono a gestire le locande: ne è stato scoperto un imponente esempio in una remota zona dell’Epiro, nella Grecia occidentale. La facciata principale era decorata con un colonnato, il cortile misurava m 14 per 11,5 e le camere che su esso si affac­ ciavano — probabilmente diciotto a pianterreno e dodici al primo piano - erano fornite di letti e di tavoli. Le città curavano anche la manutenzione delle lescai, pubbliche logge dove il popolino poteva trascorrere il giorno oziando, al riparo dal sole e dalla pioggia. Le lescai, benché non offrissero altro che un tetto sopra la testa, erano il rifugio di tutti coloro che non potevano permettersi di pagare una locanda e non trovavano alcun ospite generoso che li accogliesse nel proprio xenon. In definitiva le locande greche, almeno quelle situate nelle città, offrivano al viaggiatore piu o meno soltanto un riparo per la notte; il cibo, come si è detto, doveva essere acquistato altrove. E chi voleva lavarsi dalla polvere del viaggio doveva ritornare in strada e recarsi al piu vicino bagno pubblico, portando con sé l’asciuga­ mano e la fiasca dell’olio per potersi ungere dopo il bagno poiché i luoghi pubblici fornivano solo una specie di detersivo, di solito lisciva di calce, cenere di legno o argilla smeltica (il sapone era a quei tempi ancora sconosciuto). L ’avventore lasciava i propri vestiti in uno

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spogliatoio, dove si assicurava che ci fosse qualcuno a curarli mentre egli faceva il bagno: il furto di abiti negli spogliatoi era allora divenuto addirittura una professione e la direzione non si assumeva al­ cuna responsabilità. Il bagno vero e proprio, come lo possiamo veder riprodotto su molti vasi dell’epoca, consisteva in una grande tinozza nella quale si sedeva il cliente, mentre un inserviente gli versava ad­ dosso dell’acqua. Occasionalmente troviamo riprodotta anche una doccia molto simile a quelle odierne, non sappiamo però che dif­ fusione avesse. Le case signorili erano talvolta fornite di un bagno privato - un’altra fra le molte comodità godute da quanti potevano contare sull’ospitalità degli amici. Le locande risultavano poco confortevoli anche perché erano usa­ te soprattutto da ospiti di passaggio; i viaggiatori che dovevano fer­ marsi per qualche tempo in una località cercavano di affittare una camera in una casa privata. Di camere in affitto ce n’erano molte nei porti come il Pireo, Corinto, Bisanzio (la città greca che fu poi chia­ mata Costantinopoli); a Bisanzio, per esempio, erano cosi diffuse da far sorgere la storiella che gli uomini passavano tanto tempo a oziare e bere nelle taverne, da non avere alcun bisogno delle pro­ prie case che difatti affittavano, corredate di moglie, ai viaggiatori. Templi e santuari di qualche importanza erano solitamente at­ trezzati con alloggi e sale da pranzo per ricevere ospiti. Il tempio di Era a Platea in Beozia, per esempio, vantava nel V secolo a.C. una locanda a due piani: un edificio quadrato di 60 m di lato con piu di centocinquanta camere. Nel santuario di Ippolito a Trezene, nel Peloponneso orientale, gli archeologi hanno scoperto una sala per banchetti con i posti per cinquantasei commensali e in quello di Era ad Argo una serie di tre piccole sale da pranzo che potevano accogliere dodici persone ciascuna. A Olimpia, nel IV secolo a.C., un filantropo fece erigere a sue spese una elegante locanda che mi­ surava m 72,5 per 78,5 disposta su due piani. Era costruita secondo 10 schema usuale nella Grecia antica (v. pag. 66): un cortile che dava accesso a una serie di camere disposte lungo tutt’e quattro i lati. 11 cortile era molto spazioso, circondato da un portico di colonne doriche. Per ogni piano c’erano piu di venti camere che erano ab­ bastanza spaziose poiché anche le più piccole misuravano circa 5 m per 10, mentre le più grandi, quelle d’angolo, erano ampie camere quadrate di 10 m per ogni lato. Una imponente fila di co­ lonne ioniche (centotrentotto in tutto) correva tutto intorno al muro esterno. In tempi normali le stanze erano disponibili per tutti i visitatori in grado di pagarne l’affitto e le entrate servivano a rim­

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pinguare le casse del tempio. Durante i Giochi esse erano probabil­ mente riservate a ospiti di rango, poiché non erano assolutamente in grado di contenere le migliaia di persone accorse. Alloggiare le folle che si riunivano per i Giochi panellenici co­ stituiva un gigantesco problema. I ricchi di solito arrivavano comple­ tamente equipaggiati, portando con sé tende, masserizie e una schiera di servi. Per la gente comune invece, che arrivava munita più o meno del solo cambio d ’abiti, le autorità locali provvedevano alcuni ripari temporanei. Chi non riusciva a pigiarsi dentro a quelli, dormiva sotto qualsiasi altro luogo coperto che potesse trovare - portici, logge, porticati dei templi — o addirittura all’aperto nella speranza che non piovesse. Alle feste c’erano manifestazioni, ufficiali e non ufficiali, ad ogni momento, sicché la gente sapeva sempre come passare il tempo. In tutte le città i visitatori potevano divertirsi nei capeleia o potisteria, « osterie », « botteghe del vino », che non offrivano solo vino, ma anche cibi, gioco e danzatrici. Questi locali erano di solito molto modesti e non facevano grandi affari; i ricchi infatti si intrattenevano con i propri ospiti in casa. Non mancavano tuttavia eccezioni, come mostrano gli scavi di Corinto, uno dei più importanti e attivi porti della Grecia finché Roma non la distrusse nel 146 a.C. I Corinzi co­ struirono, nella seconda metà del IV secolo a.C., un lungo ed ele­ gante edificio a due piani anticipato da un altrettanto lungo ed elegante portico. Il pianterreno ospitava una serie di trentun taver­ ne, ciascuna con un proprio accesso dal portico, mentre alle estre­ mità due scale conducevano a un corridoio sul quale si apriva una serie di appartamentini a due stanze. Ogni taverna era costituita da un locale quadrato di 4,5 m e più di lato, e un retro di uguali di­ mensioni da cui si accedeva, tramite una porticina, a un piccolo am­ biente accuratamente pavimentato, dotato di una latrina. Inoltre, in mezzo al locale principale di ogni taverna si trovava quanto di più simile a un frigorifero il mondo antico potesse offrire: un pozzo, cioè, che finiva in un canale artificiale collegato con delle sorgenti fredde. Qui, immersi nell’acqua gelida e appesi a una lunga corda, venivano conservati contenitori per i cibi e anfore di vino. Gli scavi nei pozzi hanno portato alla luce una quantità di rifiuti provenienti dalle ta­ verne: anfore rotte, flauti spezzati, aliossi e coppe. Alcune di queste ultime sono state ritrovate intatte e numerose erano quelle che, usate per le libagioni, recavano scritto il nome del dio onorato. Sono tutti nomi ben noti - per es.: « Dioniso », « Amore », — tranne uno: Pausicraipalos, « colui che fa cessare l’ebbrezza ». Gli appartamentini

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situati sopra le taverne erano altrettanto ben rifiniti; in essi, come nei moderni alberghi, si entrava da una porta che dava sul corridoio. La porta dava su una piccola anticamera che tramite una scaletta di due gradini, fiancheggiata da due colonne, conduceva alla stanza principale. L ’anticamera, che di notte poteva essere facilmente isola­ ta, era probabilmente riservata agli schiavi. Ci dev’essere stato un motivo particolare perché Corinto fruisse, a quei tempi, di attrezzature alberghiere cosi lussuose. Dal 338 a.C., anno in cui Filippo di Macedonia divenne il padrone della Grecia, fino alla morte di suo figlio Alessandro, nel 323 a.C., la città fu sede della Confederazione degli Stati Greci creata da Filippo. Tutti i membri mandavano a Corinto i propri delegati ogni volta che veniva convocata una riunione. Probabilmente gli appartamenti erano occupati da questi delegati che si servivano poi delle taverne per mangiare e passare il tempo libero. Se un delegato cercava passatempi piu interessanti di quelli of­ ferti dall’elegante taverna, poteva trascorrere la serata con una cor­ tigiana, una bella ragazza esperta in tutte le arti - musica, danza, conversazione, e, naturalmente, amore - una delizia per l’uomo! Ma le cortigiane costavano care e rappresentavano un lusso che solo persone come i delegati e i ricchi uomini d’affari potevano permet­ tersi. Alcuni facoltosi mercanti mantenevano, nei porti in cui face­ vano tappa regolarmente, delle ragazze pagando cifre esorbitanti per il godimento esclusivo delle loro grazie. Luciano, in una pagina molto divertente, rappresenta un marinaio della flotta ateniese adirato con una cortigiana che gli ha preferito un vecchio mercante cinquanten­ ne, sdentato e calvo; la ragazza gli rinfaccia gelidamente che, al posto delle solite cipolle, formaggi e scarpine da quattro soldi, il nuovo cliente le ha regalato « questi orecchini, e un tappeto, e l’altro gior­ no 2 mine... e ha pagato anche l’affitto ». Il turista che oggi si trovi nei guai all’estero - perché o gli man­ cano i soldi o ha un incidente o è coinvolto in qualche episodio di violenza - può rivolgersi al console del suo paese. Gli antichi Greci avevano il loro proxenos. Benché si tratti di due figure diverse sotto molti aspetti, esse presentano caratteristiche comuni. Il proxenos era una persona che abitava in una città-stato, come cittadino o come semplice residente, ed era ufficialmente incaricato da un’altra città-stato di curare i suoi interessi, ne era insomma il rappresentante ufficiale. Necessariamente si trattava di un uomo ricco e con una ragguardevole posizione; la famiglia di Alcibiade fu, per

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generazioni, proxenos di Sparta ad Atene, Demostene lo fu di Tebe e Nicia, il successore di Pericle, lo fu di Siracusa. Abbiamo fin qui parlato di cittadini ateniesi che fungevano da proxenos per città stra­ niere; si tratta però di casi rari; piu spesso accadeva che il proxenos fosse un residente straniero, scelto dalla città in cui abitava a rap­ presentare gl’interessi della sua città d ’origine. Primo dovere di un proxenos era quello di assistere in tutti i modi i suoi compatrioti che si trovassero nella città dove lui risiedeva, in particolare quelli che vi giungessero in missione ufficiale. Nel 325 a.C., per esempio, gli ateniesi decretarono la prossenia per un certo Eraclide di Salamina, una città-stato dell’isola di Cipro. Da quel momento Eraclide fu obbligato a fornire ospitalità a ogni rappresentante del governo di Salamina inviato ad Atene, ad assicurargli la partecipazione alle riu­ nioni dell’Assemblea, a procurargli i biglietti per il teatro e cosi via. A lui poteva chiedere aiuto ogni abitante di Salamina che si tro­ vasse coinvolto in un processo ad Atene, mentre chi si trovasse a corto di denaro poteva rivolgersi a lui per un prestito. Se un abi­ tante di Salamina moriva ad Atene, gli eredi potevano contare su lui per la liquidazione di affari anche di grande importanza. A sua volta, se Atene per qualsiasi motivo avesse dovuto inviare un messo a Salamina per richiedere un favore o per trattare qualche delicato problema, la scelta sarebbe naturalmente caduta su Eraclide. Un proxenos non veniva pagato dallo stato che lo sceglieva, ma godeva di determinati privilegi e indubbiamente la sua posizione gli per­ metteva utili contatti e opportunità negli affari; il principale movente sembra però essere stato l’onore che la carica implicava, la piu grande ricompensa veder riconosciuta l’opera del proxenos in un de­ creto ufficiale inciso su pietra ed esposto in un luogo pubblico - a volte addirittura in due esemplari, uno nello stato che l’aveva prescelto e dove prestava la sua attività, l’altro nello stato da lui rappresentato. Dobbiamo dunque concludere che, anche alla fine del IV se­ colo a.C., i viaggi in Grecia non erano né facili né piacevoli. Chi viaggiava per mare dipendeva dalle navi mercantili, sulle quali tro­ vava sistemazioni di fortuna, sempre col timore di un assalto dei pirati. Chi viaggiava per terra trovava strade scadenti, cattive locande e doveva stare sempre all’erta dai banditi. I ricchi si trovavano meglio solo perché avevano i soldi per affittare una cabina sulle navi che ne fossero eventualmente fornite, amici che li accoglievano nelle

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loro case e l’autorità di assicurarsi l’aiuto del proprio proxenos, se si trovavano in difficoltà. I viaggiatori erano dunque in maggioranza persone che si spo­ stavano solo per ragioni ben precise: rappresentanti dei governi, uo­ mini d’affari, mercanti, attori girovaghi, malati diretti a un san­ tuario; folle richiamate dai grandi giochi panellenici o da altri mol­ to famosi. Ma restava una minoranza che, nonostante tutte le diffi­ coltà, viaggiava soltanto per il piacere di farlo. Fra costoro ci fu un uomo che si distinse come il primo scrittore di viaggi del mondo.

CAPITOLO QUINTO

IL PRIM O SCRITTO RE D I V IA G G I

Nel 490 a.C. Dario re di Persia sbarcò in Grecia per attaccare Atene: cominciava cosi la Prima Guerra Persiana. Era Golia con­ tro Davide, un Davide privo di armi segrete, ma con il coraggio e la sagacia tradizionali del combattente greco. Atene respinse l’invasione praticamente con una mano sola. Bruciato da una sconfitta cosi inat­ tesa, Serse, figlio di Dario, ritentò la prova dieci anni dopo, alla testa di una gigantesca spedizione in parte via terra e in parte via mare. Le città-stato della Grecia — o quanto meno la grande maggioranza di esse — furono, per una volta, talmente allarmate da interrompere le reciproche ostilità e unirsi a combattere contro il comune nemico; sconfissero cosi la flotta di Serse a Salamina e il suo esercito a Pla­ tea. Queste due sbalorditive vittorie innalzarono immediatamente i Greci al ruolo di più importante popolo del Mediterraneo orien­ tale e segnarono l ’inizio della splendida egemonia politica e cultu­ rale di Atene. Noi conosciamo con molta precisione i particolari di queste guer­ re, grazie a un Greco acuto di occhi e di mente, che aveva molto viaggiato e che con la sua opera si guadagnò il titolo di « padre della storia ». La Storia delle Guerre Persiane di Erodoto rappresentò qualcosa di completamente nuovo nella letteratura. Egli non fu certa­ mente il primo che scrisse per registrare i fatti del passato. Per oltre duemila anni i monarchi del Medio Oriente avevano fatto erigere stele e monumenti con incisi i resoconti delle loro eroiche imprese, e gli Ebrei già da lungo tempo avevano scritto la storia delle loro pe­ ripezie in qualità di popolo eletto da Jahvé. Tuttavia scopo fondamentale di tutti questi scritti era quello di testimoniare il felice compimento della volontà divina. Erodoto invece per primo pose l’accento sulle azioni umane ed ebbe l’idea e l’intelligenza di racco­ gliere una vasta massa di notizie componendole in una narrazione che esponesse le ragioni e i fatti che portarono i Greci e i Persiani

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alla guerra, e che diedero all’uno la vittoria e all’altro la sconfitta. Inoltre, per presentare correttamente i protagonisti al suo pubblico, iniziò con una ricca descrizione del grandissimo impero persiano, abitato da popoli che parlavano lingue diverse, e delle zone circostanti che ebbero un ruolo importante nella sua storia; per fare questo riporto una quantità di informazioni raccolte attraverso osservazioni personali e ricerche effettuate nel corso dei suoi lunghi e molteplici viaggi· Erodoto ha cosi l’onore di essere, oltre che il primo storico, anche il primo scrittore di viaggi. Noi sappiamo pochissimo attorno a quest’uomo che passò viag­ giando la maggior parte della sua vita e fece cosi buon uso delle proprie esperienze. Gli scrittori greci sono molto riservati: erano convinti che il lettore volesse trovare nel libro informazioni relative all argomento trattato e non all’autore. Non c’è in Erodoto quasi neppure una parola a proposito di ciò che egli mangiava, dove si fer­ mava, quali erano i suoi incontri e le sue avventure. In verità, non dice neppure molto su dove realmente avvenivano i suoi viaggi. Dal­ l’incidentale ricordo di aver visto un certo vaso in « una località fra 1 Ipani [oggi Bug] e il Boristene [oggi Dnepr] », possiamo de­ durre che si reco anche nella Russia meridionale. Sappiamo che visitò 1 Egitto fino alla prima cateratta, poiché in un passaggio afferma di descrivere il paese « come un testimone oculare fino a Elefanti­ na ». Deduciamo che andò a Babilonia poiché, descrivendo una sta­ tua d oro alta piu di 5 m, aggiunge, « io non la vidi, ma riferisco ciò che mi dissero i Babilonesi ». Erodoto nacque ad Alicarnasso, una città greca della costa sud­ occidentale dell’Asia Minore, nei primi decenni del V secolo a.C. Alicarnasso era in quei tempi tributaria della Persia e forni una squa­ dra navale alla flotta riunita da Serse per attaccare la Grecia. Erodoto andava probabilmente a scuola quando Artemisia, la regina di Ali­ carnasso, riuscì in qualche modo a ricondurre in patria le sue navi da Salamina; anni dopo egli la immortalò descrivendo questa amaz­ zone navale al diretto comando delle sue navi che si guadagnò sul campo l’ammirazione di Serse per il coraggio e l’astuzia dimostrati. Ancora in giovane età Erodoto lasciò Alicarnasso; leggiamo alcune vaghe allusioni a un disaccordo con il successore di Artemisia, e forse l ’esilio fu la causa di tutti i suoi viaggi. Trascorse il resto della vita lontano dalla patria, esplorando la Grecia e la Persia in lungo e in largo; visito Atene piu di una volta, forse vi risiedette anche per breve tempo; quando infine, nel 443 a.C., Atene inviò a Turii nel­ l ’Italia Meridionale una spedizione molto « reclamizzata » per fon­

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darvi una colonia, Erodoto si uni agli emigranti, o li raggiunse poco dopo. E a Turii mori tra il 430 e il 425 a.C. Erodoto apparteneva a una famiglia nobile, fu educato con cura ed era molto ricco: solo una persona senza problemi economici, in­ fatti, avrebbe potuto permettersi i viaggi di piacere che fece lui. I suoi interessi erano quelli di un raffinato intellettuale, particolar­ mente interessato allo studio delle varie religioni: alla base di molti suoi viaggi sembra infatti esserci stato il desiderio di confrontare divinità e pratiche rituali straniere con quelle dei Greci, e di stabi­ lire quali fossero le migliori. Fu anche un serio studioso di geografia fisica che formulò teorie molto precise, cosi come le sappiamo ora: ad esempio, che l’Egitto era in origine un braccio di mare; fra le al­ tre dimostrazioni addotte a sostegno di tale tesi, vengono ricordate anche le « conchiglie di mare che si trovano sulle montagne », in altre parole dei fossili marini che non sfuggirono al suo occhio acuto. Prende in considerazione anche le varie ipotesi fatte per spiegare le piene annuali del Nilo, e noi dobbiamo perdonargli di aver bollato come « di gran lunga la più inesatta » la teoria che spiegava il fe­ nomeno come conseguenza dello scioglimento delle nevi; alcuni suoi contemporanei avevano conoscenze migliori, che però andarono pre­ sto perdute, e non furono riscoperte fino a che gli esploratori del XIX secolo penetrarono tra le altissime cime del Ruwenzori e consta­ tarono che sono le sue nevi a provocare le piene del Nilo Bianco. Si­ mili ricerche erano possibili in quei tempi solo a un intellettuale gre­ co: egli era sempre in cerca della causa delle cose. Sorprende piutto­ sto trovare in Erodoto un’altrettanto forte curiosità per argomenti che avrebbero dovuto interessare soprattutto un uomo d ’affari; egli è interessato ai mezzi di trasporto e descrive accuratamente delle zat­ tere rotonde particolarmente strane, di grandezza superiore al nor­ male, da lui viste sull’Eufrate nei pressi di Babilonia (dove esistono tuttora), oppure la curiosa tecnica con cui venivano costruite le im­ barcazioni del Nilo utilizzando tavole molto corte (tecnica ancor oggi usata, almeno a sud della seconda cateratta). Erodoto ricorda i prodotti locali: i grandi pesci delle bocche del Dnepr, che « sono ottimi da mettere sotto sale » (noi lo storione lo preferiamo affumi­ cato); gli speciali tessuti di lino prodotti in Egitto; gli abiti di canapa della Russia meridionale, cosi simili al lino da ingannare chiunque non conosca la canapa; il miele, fabbricato coi fiori di tamarisco e col grano, che era una specialità di una cittadina dell’Asia Minore. Rife­

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risce anche strani sistemi per trattare gli affari, come quelli usati dai Cartaginesi con le popolazioni della costa dell’Africa occidentale: « Scaricate le merci e dispostele in bell’ordine lungo la spiaggia, essi risalgono a bordo e alzano dei segnali col fumo. Gli indigeni vedendo il fumo accorrono sulla riva e, in luogo delle merci, depongono oro e poi si ritirano. I Cartaginesi, sbarcati, esaminano l’oro e se esso sembra loro corrispondere al valore delle merci, lo raccolgono e s’allontanano; in caso contrario, risalgono a bordo e attendono; allora gli indigeni ritor­ nano e depongono altro oro, finché i Cartaginesi sono soddisfatti ».

I compagni di viaggio di Erodoto erano quasi sempre mercanti o agenti commerciali, e con loro egli trascorse sicuramente molte ore di navigazione o di marcia a dorso d ’asino discorrendo di affari; evidentemente anche questo lo interessava. Era forse anch’egli un mercante, oltre che un turista? Sarebbe stata una cosa fuori del comune per un Greco del suo rango, ma Erodoto era un Greco fuori del comune. Egli ci racconta cosi poco di se stesso, che noi non siamo in gra­ do di ricostruire la successione dei suoi viaggi; probabilmente non fece un solo lungo viaggio, ma una serie di escursioni in località ben precise. Senz’altro visitò a fondo la Grecia e le isole dell’Egeo, si recò almeno una volta a Cirene, nell’Africa settentrionale, un porto facilmente raggiungibile. Verso occidente visitò bene l’Italia meri­ dionale e la Sicilia —probabilmente esplorò queste zone durante la sua permanenza a Turii - senza però spingersi mai oltre. Il suo viaggio piu singolare si svolse in Oriente: una volta andò da Efeso, sulla costa occidentale dell’Asia Minore, a Sardi, e di qui percorse una parte della Strada Reale persiana (v. pag. 37). Visitò gran parte del Mar Nero, comprese le coste settentrionali, dove ebbe la possi­ bilità di visitare le colonie greche nella zona di Odessa e di far ri­ cerche sugli Sciti e su altre tribù che vivevano nei territori interni, al di fuori dei confini della civiltà. Ai tempi di Erodoto, l’Impero Persiano era al culmine della pro­ pria potenza e comprendeva anche la parte meridionale dell’Asia Mi­ nore fino alla Siria, la Palestina fino a Babilonia, e l’Egitto. Ciò rap­ presentava un vantaggio per il viaggiatore che non doveva passare tanti confini di stato e poteva spostarsi rapidamente — compati­ bilmente con quell’epoca - grazie alla buona rete stradale persiana. Erodoto si spinse a est fino a Babilonia, ma secondo quale itinerario nessuno lo sa. Molto probabilmente andò per mare fino in Siria, sbar­ cò in un porto nei pressi dell’odierna Antiochia (che fu fondata solo

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nel 300 a.C.), in uno dei punti della costa, cioè, meno lontani dall ’Eufrate, e penetrò nell’interno fino a raggiungere il fiume, per im­ mettersi infine su una carovaniera che ne seguiva il corso. Tante setti­ mane di viaggio molto difficoltoso furono ricompensate dalla visione di una città straordinaria: « Giace in una vasta pianura di forma quadrata, ogni lato è lungo 22,5 km, per un perimetro totale di 90 km. Ma Babilonia non è solo grandissima, essa è anche di una bellezza senza uguali in tutte le altre città che io ho visto... Il muro che circonda la città è largo 25 m e alto 100... Nel muro di cinta ci sono cento porte tutte di bronzo, con battenti e architravi uguali... La città è piena di case a tre o quattro piani ed è tagliata da strade perfettamente dritte, non solo quelle trasversali che scendono al fiume ma anche le altre ». Il nostro studioso di religioni fu naturalmente stupito alla vista degli « ziggurat », i tipici templi babilonesi costituiti da elementi cubici sovrapposti, simili a quelle costruzioni di blocchetti di legno che i bambini fanno per gioco: « in mezzo al recinto sacro si erge una torre massiccia, che misura 200 m sia di lunghezza che di lar­ ghezza, e su questa torre ne sorge un’altra e su quest’ultima un’altra ancora, e cosi via fino a otto torri sovrapposte ». La vista di quella città deve aver riempito di stupore un uomo abituato alle semplici città greche, con gli edifici a due piani, le strade strette e tortuose, i templi bassi e aggraziati. Ed è difficile per noi biasimarlo per le metrature spropositate che egli attribuisce a molte cose; tali cifre gli venivano probabilmente fornite dalle guide, ed egli non era in grado di verificare tutto ciò che quelli gli citavano con assoluta serietà. Per ragioni che non sappiamo, parte delle descrizioni erodotee relative alla Siria e alla Mesopotamia non ci sono pervenute; per fortuna possediamo tutta la parte dedicata all’Egitto, un resoconto dovuto in massima parte all’osservazione personale, che occupa una delle piu ampie sezioni della sua opera. Erodoto visitò l’Egitto, ma la sua curiosità non era affatto rivolta alle bellezze che attirano i tu­ risti di oggi, e neppure tanto a quelle che avrebbero interessato gli stranieri pochi secoli dopo di lui. Non aveva il minimo interesse per l’arte egizia: « I muri sono coperti di figure incise », è il suo unico sbrigativo accenno a centinaia di metri quadrati di bassorilievi, elegantemente scolpiti e dipinti. Si interessava poco anche all’archi­ tettura egizia; entrato in un cortile del gigantesco tempio di Karnak egli nota solo che « era largo » per poi affrettarsi a passare all’ar­

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gomento che gli interessa: in questo caso, il numero delle statue dei sommi sacerdoti e la possibilità di calcolare, grazie a queste, l’antichità dell’Egitto. In verità l’alta qualità dell’arte e dell’archi­ tettura egizia è piu o meno una scoperta della nostra epoca. Ma Ero­ doto era altrettanto poco interessato anche alla massima attrattiva egizia di tutti i tempi cioè le grandiose testimonianze di quello che fu un potente impero. Qualcuna di queste risvegliava la sua ammi­ razione —ed è umano che lo facesse —ma in quanto capolavori d ’in­ gegneria piuttosto che per altro. Per esempio, in occasione della sua visita alle piramidi, egli osservò che la rampa costruita per traspor­ tare i blocchi di pietra squadrata dal fiume alla Grande Piramide e poi lungo i suoi ripidi fianchi era « un’opera di valore non inferiore alla piramide ». Nel descrivere il monumento egli indugia sulle squadre di operai e sui loro turni di lavoro, sulla grandezza dei blocchi squadrati e sul relativo taglio e messa in opera, sulla tec­ nica di lavorazione del monumento (a partire dall’alto) e sul tempo (dieci anni per la rampa e venti per la piramide) e infine sul costo in denaro. Per quest’ultimo problema le indicazioni erano minime, ma Erodoto cercò di interpretarle: « È indicato in caratteri egizi e sulla piramide quanto fu speso in rafano, cipolle e aglio per gli operai; e ricordo benissimo che l’interprete, leggendo l’iscrizione, mi diceva che furono spesi 1.600 talenti d’argento. Se le cose stanno davvero cosi, quanto altro si sarà speso per gli attrezzi di ferro con cui lavoravano, per il cibo e i vestiti degli operai...? ». Qualsiasi cosa l’iscrizione dicesse, una guida del V secolo a.C. non era in grado di leggere i geroglifici dell’Antico Regno piu delle guide che oggi conducono i turisti a visitare le piramidi. La guida di Erodoto o stava raccontando frottole piu grosse del solito, oppure si stava prendendo gioco di lui; tuttavia, la misura della lunghezza del lato della Grande Piramide ricordata da Erodoto è cosi vicina alla realta (240 m invece di 228) da indurre il sospetto che egli l’abbia controllata di persona; forse la guida aveva a che fare con un cliente scettico che non credeva alle sue parole. Erodoto descrive con altrettanta precisione solo un altro edificio, il cosiddetto « Labirinto », che suscitò la sua curiosità per la parti­ colare forma: « Le stanze superiori le ho viste io stesso, e posso dire che sono opere straordinarie: i passaggi da una stanza all’altra e i rigiri attraverso i cortili, che sono intricatissimi, mi procuravano infinito stupore; passa­

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vamo da un cortile alle stanze, e dalle stanze a porticati, e dai porticati in altre stanze, e dalle stanze in altri cortili ». Erodoto pensava che il Labirinto fosse il monumento funebre di un gruppo di re di data relativamente recente, il V II secolo a.C. Noi sappiamo invece che era la tomba-tempio fatta costruire da Amenemhat I II nel XIX secolo a.C., e gli scavi hanno mostrato che aveva un pianterreno intricatissimo e stranamente complicato. Il monu­ mento sorge presso l’antico lago Merida, che a Erodoto sembrò ancor piu eccezionale del Labirinto, dal momento che lo credeva un lago artificiale con una circonferenza di 676 km —un’opera di inge­ gneria gigantesca in qualsiasi epoca. In realtà il lago era molto piu piccolo, meno della metà di quella grandezza (e ciò che oggi rimane, Birket-Qarun, misura appena 48 X 10 km circa), ed era un bacino naturale, benché agli ingegneri dei faraoni vada il merito di alcune eccezionali opere di sistemazione che permisero di usare il lago come riserva delle acque in eccesso delle piene del Nilo. Ciò che spinse in Egitto Erodoto, piu di ogni altra attrattiva, fu­ rono i suoi interessi di studioso delle religioni. In uno di quei rari momenti in cui ci parla di se stesso egli dà un’idea della misura coni cui questi interessi determinarono i suoi movimenti. Durante il suo soggiorno in Egitto fece ricerche sull’antichità di un dio che chia­ ma Eracle egizio; è difficile stabilire con precisione di quale divinità si trattasse. Egli non fu del tutto soddisfatto e perciò, scrive, « vo­ lendo saper qualcosa di chiaro su questi argomenti da quelli che po­ tevano saperlo, navigai anche fino a Tiro in Fenicia, poiché sapevo che li c’era un tempio dedicato a Eracle ». Qui egli avrebbe iden­ tificato Eracle con il fenicio Melkart, il Baal della Bibbia. Laggiù, continua, « venuto a colloquio con i sacerdoti del dio, chiedevo quan­ to tempo era passato da quando era sorto quel loro tempio... Rispo­ sero che contemporaneamente alla fondazione di Tiro era stato eretto anche il tempio del dio... Vidi poi a Tiro anche un altro tempio dedi­ cato a Eracle, che si chiama Eracle di Taso. Perciò andai anche a Taso... Queste mie ricerche dunque dimostrano chiaramente che il culto di Eracle è antichissimo ». Le sue ricerche spaziavano ampia­ mente: dall’antichità del culto di Eracle a quante volte al giorno si lavavano i sacerdoti egizi. A quel tempo l’Egitto era, per eccellen­ za, la culla della religione e della superstizione; Erodoto aveva per­ ciò uno splendido terreno di ricerca. Esaminò a fondo i procedimenti per la scelta e il sacrificio del toro Api sacro a Ptah, il modo con cui i tori venivano sacrificati a Iside, l’atteggiamento rituale verso i maia­

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li (erano considerati impuri e di conseguenza i porcari non potevano entrare nei templi), i cibi tabù per i sacerdoti (pesci e fave), gli aspetti tradizionali delle feste egizie (grandi bevute, ecc., v. pag. 18), i di­ versi animali sacri, e i differenti metodi di imbalsamazione (di lusso, medio, economico), e decine di altri argomenti. Identificò gli dei egi­ zi con quelli greci —Amon con Zeus, Iside con Demetra, Osiride con Dioniso, Bast con Artemide e cosi via - e spese molto tempo per dimostrare che gli dei greci derivano da quelli egizi - dal nostro punto di vista una bella perdita di tempo poiché infatti noi sappiamo, ma Erodoto non lo poteva sapere, che i due gruppi di divinità sono completamente distinti. Religione, costumi, geografia fisica: questi i principali motivi dei viaggi di Erodoto in Egitto e altrove; ma non sempre egli era cosi impegnato. Parte del suo tempo lo dedicò a fare semplicemente il turista. In Egitto, come già detto, visitò il Labirinto e le piramidi, a Delfi ammirò le famose offerte di Creso al santuario, che compren­ devano un leone d ’oro massiccio pesante in origine 260 kg e un cratere d’argento con una capacità di circa 20.000 litri. Nel tempio di Era a Samo vide i due ritratti su legno raffiguranti il faraone Amasi, che li aveva donati. A Tegea, appese nel tempio locale, vide le catene che gli Spartani avevano portate con sé quando invasero Tegea e con le quali furono a loro volta legati quando, sconfitti, furono presi pri­ gionieri. Nei dintorni di Sardi visitò la tomba monumentale di Aliat­ te, padre di Creso. Ispezionò molti campi di battaglia: non solo Ma­ ratona e le Termopili, che gli interessavano come storico, ma tutti quelli presso i quali si trovò a passare, come quello su cui si svolse lo scontro decisivo tra Egizi e Persiani. Rese visita anche al discen­ dente di un famoso eroe spartano, che si era guadagnato fama im­ mortale con una eroica morte in battaglia. Come la maggior parte dei viaggiatori dell’antichità, Erodoto an­ dava per via acqua fin dove possibile; per questo leggiamo cosi so­ vente descrizioni di porti e di città fluviali. Arrivò in Egitto via mai e - notò che, alla distanza di un giorno di navigazione da terra, lo scandaglio gettato in mare raccoglieva, a una profondità di undici braccia, fango di fiume - e fu abbastanza fortunato da arrivarvi du­ rante la piena del Nilo (fra agosto e novembre), in modo da poter risalire il fiume fino alle piramidi (v. pag. 9). Da Menfi, situata all’apice del delta, egli risali ancora il fiume di­ retto a Tebe, tralasciando però di visitare alcune interessanti loca­ lità - ad esempio Abido, la città sacra, mai menzionata da Erodoto.

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In Asia Minore, Siria e Mesopotamia viaggiò quasi sempre per via terra, a causa della mancanza di fiumi navigabili. Per terra e per mare Erodoto fu sempre un semplice turista, in viaggio senza alcun inca­ rico ufficiale e senza alcuna speciale presentazione. In Grecia poteva senz’altro contare di frequente sull’ospitalità di privati cittadini e sull’aiuto delle persone cui era raccomandato, ma altrove doveva contare solo su se stesso. C’era poi il problema della lingua: il greco certamente lo aiutò dall’Italia alla costa occidentale dell’Asia Mi­ nore. Da qui, però, erano necessari o il persiano o l’aramaico, lingua franca del Medio Oriente, oppure l’egizio. Come ogni buon turista, Erodoto si procurò un’infarinatura di lingue straniere. Ogni tanto cita alcune parole persiane (artaba, misura di capacità persiana, e parasanga, misura per le distanze), numerose egizie (una tipica forma di pane era chiamata cyllestis, la tunica calasiris, la barca nilotica baris, un coccodrillo era un champsa), e perfino alcune parole scite {arima significa « uno », spu significa « occhio », e aschy era la be­ vanda nazionale di una di quelle remote tribù); sicuramente ne co­ nosceva molte di più, almeno in aramaico ed egizio, compresa l’in­ dispensabile frase: « c’è qualcuno che parli greco? ». Nel visitare i monumenti, egli sicuramente dipendeva da guide che parlavano gre­ co. Visitando i templi era condotto da persone che egli definisce sa­ cerdoti, ma che più prohabilmente erano sacrestani o qualcosa di si­ mile (gli alti prelati egizi non facevano da guide ai turisti nel grande tempio di Karnak: sarebbe come se un cardinale o un arcivescovo facesse da guida in Vaticano). La conversazione si svolgeva attraver­ so la guida o un interprete, e alcuni degli errori di Erodoto possono dipendere dal fatto che non poteva controllare ciò che quelli gli di­ cevano. Consideriamo, per esempio, la notizia secondo cui « gli Egi­ zi sono stati i primi a dire che l’anima dell’uomo è immortale e che, dissoltosi il corpo, essa entra in un altro animale che di volta in volta viene a nascere. Quando poi sia passata attraverso tutti gli animali terrestri, marini e alati, penetra di nuovo nel corpo nascente di un uomo ». Grazie alle scoperte degli egittologi, noi sappiamo che Erodoto sbaglia completamente. La metempsicosi è ignota al pen­ siero egizio; ai tempi di Erodoto gli Egizi erano ancora strettamente attaccati all’antica credenza secondo la quale tutti gli uomini buoni alla loro morte diventavano Osiride, il dio che era stato ucciso da un fratello malvagio, ma viveva in eterno in un altro mondo. Molto probabilmente l’interprete di Erodoto, al quale erano estranei argo­ menti cosi profondi, pose la domanda in modo confuso. È anche pos­ sibile che Erodoto, sempre convinto della priorità dell’Egitto in mol­

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tissime cose, abbia domandato: « È vero che l’anima ecc.? » e che l ’interlocutore abbia dato per gentilezza la risposta che da lui ci si aspettava. Oltre che dalle guide, Erodoto raccolse probabilmente informa­ zioni da tutte le persone che in genere entrano in contatto con i tu­ risti, cioè facchini, carrettieri, camerieri, serve e cosi via, ben pochi dei quali potevano conoscere un po’ di greco. Una conversazione con­ dotta per metà in un greco o in un egizio approssimativo, oppure in entrambe le lingue, e per metà a gesti, può essere benissimo stata la fonte della strana descrizione erodotea dell’ippopotamo; nes­ suno infatti potrebbe paragonare il suddetto animale a un bue per grandezza, per non parlare del fatto di attribuirgli piedi caprini, una criniera e una coda da cavallo. Ma perfino gli acuti occhi di Erodoto potevano ingannarlo; tutti gli Egizi, egli scrive, mangiano sulla so­ glia di casa. Forse, mentre passava per le strade di qualche villaggio all’ora di pranzo, vide tutte le famiglie far cucina, come avviene an­ cora, davanti a casa: ma se fosse stato invitato a pranzo in una qual­ che casa signorile avrebbe potuto imparare che vi erano anche altre usanze. Le donne egizie, ci informa, portano un solo vestito: ciò era vero per le serve o per le donne di campagna, ma altre donne egizie di quel tempo portavano due o anche tre abiti. Anche se tal­ volta commette degli errori, Erodoto non è un credulone. Riferisce ciò che gli vien detto sul favoloso uccello chiamato « fenice », ma si premura di aggiungere di non averlo mai visto con i propri occhi. Gli fu indicata un’isola che avrebbe avuto la straordinaria particola­ rità di galleggiare: « io però » commenta « non la vidi mai galleg­ giare e neppure muoversi ». Informatori babilonesi gli dissero che il loro dio si coricava a dormire in un letto posto nel tempio ed Ero­ doto osserva: « Cosi mi dissero, ma io non ci credo ». Vide anche al­ cune statue prive di mani e, di fronte ad alcune esoteriche spiegazioni del fatto, nota: « Erano assurdità, anch’io vidi che le mani erano ca­ dute a causa del tempo ». Erodoto non scrisse solo per informare, ma anche per diver­ tire. Egli ha la tecnica di un abile conversatore che passa facilmente da un argomento all’altro riuscendo ad essere scorrevole e vario, ab­ bandonando un tema e passando subito a un altro, appena si ac­ corge che il suo pubblico comincia a stancarsi. In questo modo Erodo­ to spazia senza sforzo dalla storia all’antropologia, alla geografia e ritorno. Esaminiamo la sezione dedicata a Babilonia. All’inizio egli descrive le mura e i templi, poi ricorda quanto fecero per la città due

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intelligentissime regine: Semiramide fece costruire argini per regolare le piene, Nitocri fece deviare il fiume e costruire il famoso ponte (pro­ babilmente il merito di quest’impresa spetta a Nabucodonosor: v. pag. 35). Ciò gli ricorda un’atroce beffa giocata da Nitocri: fece scolpire sulla sua tomba che ogni suo successore sul trono di Babi­ lonia, il quale avesse avuto assoluta necessità di denaro, poteva apri­ re la tomba e prendere le ricchezze che vi erano contenute. Natural­ mente uno dei successori cadde nella trappola e... trovò solo una se­ conda iscrizione che lo scherniva per la sua avidità e il sacrilegio. Il figlio di Nitocri era sul trono proprio quando i Persiani di Ciro il Grande attaccarono Babilonia; a questo punto Erodoto passa a narrare la spedizione e inizia raccontando come Ciro, durante la mar­ cia verso Babilonia, punì un fiume che gli aveva fatto annegare un prezioso cavallo: i suoi soldati trascorsero un’estate scavando canali di deflusso, sicché il fiume fu ridotto a un misero ruscello. Infine passa a trattare di Babilonia, e fornisce alcuni dati sulle ricchezze e le risorse della regione, quindi fa una digressione per descrivere « la piu grande meraviglia, subito dopo la città stessa », e cioè le strane zattere rotonde usate per trasportare uomini e merci lungo l’Eufrate. Termina il racconto descrivendo alcune delle più inusitate particolarità dei Babilonesi. Essi, dice Erodoto, sfoggiano lunghi ca­ pelli, portano il turbante, si profumano tutto il corpo e recano in mano bastoni da passeggio. Egli ricorda che, fino a poco prima del suo arrivo, i Babilonesi avevano un particolarissimo modo di maritare le ragazze, che a lui pare molto pratico e della cui scomparsa si ram­ marica: annualmente ogni villaggio era solito riunire tutte le ragazze da marito e metterle all’asta; le alte cifre pagate per le piu belle ser­ vivano a formare la dote che aiutava le più brutte a trovar marito. G li piace anche il modo in cui i Babilonesi curano i malati: « por­ tano gli ammalati in piazza dal momento che non esistono medici. I passanti si avvicinano al malato e gli danno consigli sulla malattia o perché ne hanno sofferto essi stessi o perché conoscono un altro che ne soffriva. Passare in silenzio davanti a un malato senza chiedergli da che malattia è affetto non è loro permesso ». Una pratica religio­ sa da lui recisamente disapprovata è quella che obbliga ogni donna almeno una volta nella vita, a recarsi al tempio della dea dell’amore e della fertilità e unirsi con qualsiasi straniero che la desideri: « quel­ le alte e benfatte tornano presto a casa, ma le brutte vi passano molto tempo... alcune anche tre o quattro anni ». Passiamo ora alla sezione dedicata agli Sciti. Una volta Dario fece un’incursione contro questo insieme di tribù stanziate lungo

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le coste settentrionali del Mar Nero e all’interno della Crimea; per questo motivo Erodoto li comprende nel suo racconto. È la prima volta che nella letteratura occidentale vengono descritti popoli abi­ tanti oltre i confini della civiltà. La sezione dedicata a questo argo­ mento è tre volte piu estesa di quella babilonese; Erodoto aveva visi­ tato la regione ed era rimasto cosi affascinato dalle cose viste, che non volle tralasciarne alcuna. Inizia, come giusto, con il problema delle origini. Personalmente egli è convinto che gli Sciti siano stanziati in Russia per la pura e semplice ragione che vi giunsero dall’Asia spinti dalla migrazione di altre potenti tribù; tuttavia offre altre due alternative, la versione degli Sciti stessi, e quella dei coloni greci della zona. Gli Sciti erano convinti di discendere dai figli del dio locale, i Greci pensavano che essi non fossero altro che la progenie di Eracle, di passaggio da quelle parti di ritorno da una delle sue fatiche, e di un mostro locale, mezzo donna e mezzo serpente. Erodoto cita poi la fonte di alcune sue in­ formazioni: il poema di un certo Aristea; a questo punto si abbando­ na a una divagazione: una curiosa storia riguardante Aristea il quale mori nella bottega di un follatore, ma subito il suo corpo spari, per riapparire solo sette anni dopo nella sua città natale e ancora dopo duecentoquarant’anni in una città dell’Italia meridionale. Ritornan­ do quindi all’argomento, Erodoto descrive le diverse tribù: come vivessero (di agricoltura, allevamento o caccia), come fossero duri i loro inverni, come ciò facesse soffrire poco i cavalli e moltissimo asini e muli; e a questo punto non riesce a resistere alla tentazione di fare una nuova digressione e dirci che in Elide i muli erano asso­ lutamente incapaci di generare. « Sto divagando » ammette a questo punto « ma fin dall’inizio questo racconto ha richiesto divagazioni. » Oltre gli Sciti, dice Erodoto, vivono gli Iperborei, le « genti che abitano al di là del vento del nord », dei quali nessuno sa nulla... tranne naturalmente i sacerdoti del tempio di Apollo a Deio. Ciò accade poiché gli Iperborei inviano ogni anno a Deio un’offerta accu­ ratamente avvolta in paglia di grano che affidano al popolo che abita più vicino a loro, che lo passa a sua volta al proprio vicino e cosi via fino a Deio (il nocciolo di questa tradizione può essere il com­ mercio dell’ambra che veniva dal nord e passava di popolo in popolo, fino a giungere al Mediterraneo). Gli Iperborei richiamano alla mente di Erodoto i vari tentativi di disegnare la carta delle lontane terre set­ tentrionali da essi abitate e i tentativi di rappresentare tutto il mon­ do. Da qui egli passa a parlare della circumnavigazione dell’Africa (v. pag. 44) e dell’esplorazione dell’Oceano Indiano voluta da Da­

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rio (v. pag. 43), a commentare la bizzarria di chi divide un’unica distesa di terre in tre continenti di dimensioni diverse tra loro (egli pensa infatti che l’Europa sia molto più grande di Asia e Africa), e a chiedersi infine con meraviglia da dove mai derivino i nomi di Europa, Libia (il nome con cui egli chiama l ’Africa) e Asia. A que­ sto punto s’interrompe: « Basti, su questi argomenti, quanto ho detto sin qui », e ritorna decisamente agli Sciti. Essi sono perfettamente organizzati per l’autodifesa, afferma Ero­ doto, poiché nessuno può sorprenderli: vivono infatti su carri, si nutrono dei propri armenti e cacciano a cavallo con arco e frecce. Egli passa poi a lodare - cosa naturale per un abitante dell’arida Grecia - la loro terra ricca di acque, con i grandi fiumi navigabili (guidati dai nomi antichi possiamo riconoscere il Danubio, il Dnepr, il Bug, il Don). Tratta poi della religione, argomento sempre da lui prediletto; il principale dio degli Sciti, egli c’informa, è di sesso fem­ minile. Essi compiono sacrifici in modo completamente diverso dai Greci (che usano arrostire sullo spiedo le carni delle vittime): gli Sciti bollono le carni in un pentolone o, se non hanno un pentolone, le cuociono nel ventre stesso della vittima. I prigionieri vengono tru­ cidati in onore del dio della guerra. In generale risulta chiaro che gli Sciti sono un popolo sanguinario: un giovane non ha diritti finché non ha ucciso il suo primo nemico e non ne ha bevuto il sangue, mentre i nemici uccisi in battaglia vengono decapitati e privati dello scalpo; i crani dei nemici piu odiati vengono trasformati in coppe. Gli scalpi erano conservati e dal loro numero dipendeva la reputazione di un guerriero. Quando il re degli Sciti cadeva malato, egli chiamava a con­ sulto tre dei migliori indovini per indagare le cause della malattia; di solito essi finivano con l’accusare qualcuno di aver falsamente giurato « per il focolare del re » (la loro formula di giuramento più solenne). Se però l’accusato era in grado di dimostrare la propria innocenza, i tre indovini venivano immediatamente arsi vivi. Quando il re mo­ riva si celebrava un elaboratissimo funerale che comprendeva l’espo­ sizione del corpo per tutto il territorio, l’auto-mutilazione di quanti seguivano il funerale, l’esposizione di un ricco corredo funerario d ’oro, e infine un’uccisione in massa di servi e cavalli che venivano sepolti con il cadavere del re o abbandonati intorno alla sua tomba. Dopo ogni funerale gli Sciti avevano uno speciale rituale per puri­ ficarsi: per prima cosa si lavavano i capelli, poi passavano a ciò che Erodoto chiama una immersione nel « vapore caldo » e che sembra non essere altro che un « viaggio » con l’hashish. Per far ciò essi co­ struivano una tenda simile ad un teepee indiano, vi ponevano un

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braciere pieno di pietre bollenti e poi vi strisciavano dentro tenendo in mano dei semi di canapa che gettavano sopra le pietre: annusavano il vapore e, come dice Erodoto, ne ricavavano un tale piacere che gridavano di gioia. Gli Sciti non volevano avere nulla a che fare con le abitudini straniere. A prova di ciò, egli ci racconta la triste storia del re Scila figlio di madre greca e fatalmente portato a preferire le abitudini greche. Segretamente Scila si prese una casa, completa di moglie, nella città greca piu vicina, dove si rifugiava talvolta per tra­ scorrere un mese vivendo, in incognito, alla greca. Giunse perfino a ubriacarsi e a partecipare ai deliranti cortei bacchici: questo fu troppo per gli Sciti; qualche testimone andò a riferirlo ai suoi sud­ diti i quali lo fecero immediatamente uccidere. Erodoto passa da un argomento all’altro, dando forma a un rac­ conto costantemente ricco di interesse, con indiscutibili grazia e buo­ numore. Potrebbe derivarne uno zibaldone, invece il tutto —o quasi - è ben connesso in un lavoro di cui egli ha studiato la struttura. Per aumentarne il gusto, Erodoto provvede a insaporire astutamente il suo racconto con ricche notizie sulle meraviglie delle terre che, come quelle degli Iperborei, sono poste al di là delle zone cono­ sciute dai geografi. L ’Etiopia, dove gli uomini sono altissimi, bellis­ simi e molto longevi, non conta: è sempre stata una specie di Shangrila per i Greci fin dai tempi di Omero. Egli racconta piuttosto un raffinato aneddoto su certe tribù indiane dell’Hindu Kush che estrae­ vano l’oro dalla sabbia scavata da « formiche piu grandi di una vol­ pe »; gli Indiani dovevano lavorare alla svelta e poi fuggire caval­ cando femmine di cammello, poiché solo queste correvano abbastan­ za veloci per non farsi raggiungere dalle « formiche » e solo se ave­ vano avuto un buon vantaggio iniziale. Erodoto è talvolta in dubbio sulla veridicità di tutte queste notizie e si premura di avvertire i let­ tori che egli non ha visto personalmente simili « formiche », ma che tutta la storia gli è stata raccontata dai Persiani. Parla ancora di un’i­ sola della costa dell’Africa occidentale dove la polvere d ’oro è estratta dal fondo di un lago; considera ciò alla stregua di una favola... ma potrebbe anche non esserlo. Racconta di asini con le corna, uomini con teste di cane, uomini senza testa con gli occhi in mezzo al petto, uomini con un occhio solo, uomini con piedi caprini, uomini che ca­ dono in letargo per sei mesi. Si tratta di pure assurdità, ci assicura, ma le racconta lo stesso. Lo scrittore di libri di viaggi non deve limitarsi a fornire delle informazioni: questo è compito dei sobri compilatori di guide turi­

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stiche sul tipo di Karl Baedeker. Lo scrittore di libri di viaggi deve invece essere il perfetto compagno del turista: vario, ben informato, arguto; deve includere, in ciò che dice, una gradevole quantità di notizie insolite e un pizzico di esotico; infine, deve raccontare tutto con inesauribile entusiasmo. Erodoto non solo apri la strada, ma forni anche un modello.

PARTE SECONDA

I V IA G G I A I TEM PI D E I ROMANI

CAPITOLO PRIMO

UN UNICO IM PERO

Quando Erodoto lasciò le città-stato greche della costa dell’Asia Minore, per addentrarsi all’interno verso est e verso sud, si preparava ad entrare in un mondo totalmente diverso. Là si parlava una babele di lingue strane, si viveva secondo costumi ereditati da antenati vissuti centinaia di anni prima, si conosceva soltanto il sistema mo­ narchico. In quelle terre i Greci erano tutti, come lui, passanti occa­ sionali. Poco piu di un secolo dopo Alessandro Magno abbatteva l’im­ pero Persiano spingendosi fino ai confini dell’India: tutto doveva cambiare dal giorno alla notte. Nel corso della sua marcia verso oriente Alessandro lasciava in­ dietro alcuni contingenti di soldati per fondare delle colonie; ciascuna di esse divenne, per cosi dire, un’iniezione di mondo greco nel grande corpo dell’antico Oriente. La febbre stroncò Alessandro nel 323 a.C., prima che avesse potuto portare ad effetto quello che sembra essere stato il suo grande progetto, la fusione cioè tra la Grecia e l’Oriente. Nei decenni immediatamente successivi, i suoi generali si sbranarono come iene sul corpo del suo impero; alla fine, intorno al 270 a.C., esso risultò diviso in tre parti. La stirpe degli Antigonidi ebbe il tro­ no di Macedonia e il controllo su tutti gli stati della madre-patria gre­ ca; i Seleucidi dominarono su un vasto mosaico di territori compren­ dente parte dell’Asia Minore, della Siria, della Palestina e della Mesopotamia. Il meglio infine, la ricca valle del Nilo, toccò ai Tolomei. Il sogno del grande conquistatore - un mondo in cui convivessero Greci e Orientali - fu abbandonato; i suoi successori, per quanto abili, non erano sognatori. Ma lo spostamento dei Greci verso i nuovi oriz­ zonti orientali procedeva rapidamente. I Seleucidi e i Tolomei, due isole di dominatori greci in un immenso mare di sudditi non greci, si circondarono di un esercito fidato composto da soldati greci, situato in pianta stabile sul territorio straniero. Inoltre essi reclutavano di continuo tecnici e amministratori greci per formare la propria buro­ crazia e per far ciò naturalmente aprivano le porte a tutti i Greci

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I viaggi ai tempi dei Romani

che lo desiderassero: mercanti, artigiani e contadini. « A est, giovani, a est » era la parola d’ordine del III secolo a.C. E cosi, a partire dal 300 a.C., il Medio Oriente si andò gradual­ mente trasformando. A fianco delle case e dei luoghi di culto tipici dell’antico Oriente sorsero templi e teatri greci, porticati e tutte le caratteristiche costruzioni delle città-stato. Uomini con vesti e tur­ banti all’uso locale si mescolavano per le strade ai Greci vestiti con leggere tuniche: divenne uno spettacolo sempre più abituale vedere giovani Greci esercitarsi nudi nei ginnasi appena costruiti, udire Greci piu anziani accapigliarsi in violente discussioni durante le assemblee cittadine riunite nelle nuove sale da riunioni e ascoltare Greci di ogni tipo ed età chiacchierare come gazze nella nuova piazza pubblica, l ’agorà. L ’Oriente ellenizzato divenne parte integrante del mondo greco che gravitava sul Mediterraneo. Nell’estremo ovest, occorre ricor­ darlo, la potente città di Cartagine continuava a dominare intoccabile e nessuno, Greco o non Greco che fosse, poteva oltrepassare la linea ideale che congiunge Cartagine (presso l’odierna Tunisi) alle Baleari. Ma a est di Cartagine il mondo era stato ellenizzato fino a Babilonia. I problemi linguistici di Erodoto erano ormai un lontano ricordo, il greco era compreso dovunque e, per semplificare ancora piu le cose, si sviluppò una lingua comune, la koiné appunto, che o sostituì la tradizionale confusione dei dialetti o che comunque fu universalmen­ te diffusa. Nuovi porti sorsero per accogliere gli accresciuti traffici marittimi. In quest’epoca, proprio nel 300 a.C., dai Seleucidi fu fon­ data Antiochia. Alessandria, come dice anche il nome, era stata fon­ data poco prima (331 a.C.); i Tolomei vi stabilirono la loro capitale e la trasformarono nel più grande centro commerciale del mondo an­ tico. Da questi due porti si poteva trovare un passaggio sui grandi bastimenti mercantili diretti oltremare a Siracusa e da li a Marsiglia. Il mondo mediterraneo, unito come non mai dalla lingua, dal commercio e dai costumi comuni, sviluppò una cultura internazionale e cosmopolita. Dopo che ad Alessandria i Tolomei ebbero fondato e finanziato con generosità un centro di studi - la Biblioteca e il Museo (v. pag. 211) — letterati, studiosi e scienziati famosi vi con­ vennero da ogni parte del mondo: da Cirene venne Eratostene, il geografo che calcolò la circonferenza della terra con quasi assoluta precisione; da Nicea giunse Ipparco, l’astronomo che concepì la teo­ ria, valida fino a Copernico, che poneva la terra al centro dell’uni­ verso; Teocrito, forse il piu grande poeta di quell’età, venne da Si­ racusa. Anche nell’arte si formò uno stile internazionale. Un Greco

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agiato che abitasse nel Fayum, non lontano dall’antico Labirinto, po­ teva assumere artisti egizi per decorare le pareti di casa sua, ma i dipinti sarebbero stati una mera ripetizione di quelli dipinti ad Atene o a Siracusa o ad Antiochia, secondo un identico stile. La spinta che portò i Greci a cercare gloria e fortuna in Oriente indusse alcuni a fare dei viaggi ancora piu lontani, a diventare esplo­ ratori che allargarono in modo eccezionale i confini del mondo co­ nosciuto. Il piu spettacolare fra questi viaggi di esplorazione penetrò dove la tenebra dell’ignoto era piu oscura, cioè nel nord. Intorno al 300 a.C. un certo Pitea salpò da Marsiglia, riuscì in qualche modo a pas­ sare il blocco cartaginese e si inoltrò attraverso lo stretto di Gibil­ terra nelle acque dell’Atlantico, diretto a nord. Non abbiamo idea di ciò che lo spinse: forse curiosità scientifica, forse il desiderio di vio­ lare il segreto, gelosamente custodito dai Cartaginesi, sull’origine dello stagno che essi trasportarono nel Mediterraneo. Nel corso della sua spedizione fece entrambe le cose: compì numerose osservazioni sul sole che permisero ai geografi posteriori di calcolare molti pa­ ralleli di latitudine, determinò l’esatta posizione della stella polare, e infine localizzò e fece conoscere le miniere della Cornovaglia. Non solo visitò la Gran Bretagna, ma la circumnavigò e stabili la posi­ zione dell’Irlanda. Dalle isole britanniche si diresse verso una certa « isola di Thule », sei giorni di navigazione a nord della Gran Bre­ tagna, un giorno a sud del mare « di ghiaccio », dove il sole tramon­ tava solo per due o tre ore al giorno. Ci sono state accanite dispute sull’esatta localizzazione della remota Thule. Pitea raggiunse l’attuale Islanda oppure vide solo una parte della Norvegia, che considerò erro­ neamente un’isola? Dal punto piu settentrionale raggiunto dalla sua spedizione Pitea tornò in Gran Bretagna, riattraversò la Manica giungendo in Breta­ gna e voltò a sinistra per esplorare, verso est, le coste dell’Europa settentrionale. Qui passò davanti a un gigantesco estuario e giunse a un’isola dove l’ambra era così abbondante, che gli indigeni la usa­ vano come combustibile. Anche qui l’interpretazione è dibattutissi­ ma: alcuni affermano che Pitea navigò intorno alla Danimarca e entrò nel Mar Baltico, zona di produzione dell’ambra; la maggioranza invece ritiene che egli non usci dal Mare del Nord, che il gigantesco estuario fosse quello dell’Elba e l’isola fosse quella di Helgoland, una stazione di transito dell’ambra. Due secoli dopo, proprio all’altra estremità del mondo antico, fu

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intrapreso un altro importante viaggio di esplorazione. Ne fu ispira­ tore un certo Eudosso, nativo di Cizico sul Mar di Marmara. Sulle sue intenzioni non ci sono dubbi: sia lui sia il suo finanziatore, Tolo­ meo V i l i Evergete detto Fiscone (cioè il « pancione »), erano esclu­ sivamente interessati a interrompere il ricco commercio che dall’India e dall’Arabia si faceva verso il mondo greco. Tutte le spezie indiane e l’incenso arabo giungevano nel Mediterraneo dopo esser stati tra­ sportati via mare su navi indiane o arabe fino al Mar Rosso e poi su navi arabe da li in avanti, e i marinai arabi e indiani avevano tutte le intenzioni di continuare cosi. Eudosso si trovava ad Alessandria —sia­ mo intorno al 120 a.C. —quando fu condotto a corte un marinaio semi­ annegato. Dopo che si fu rimesso in salute ed ebbe imparato il greco raccontò di essere indiano, il solo sopravvissuto di un equipaggio colato a picco, e si offri di mostrare la strada che conduceva al suo paese a chiunque ne fosse incaricato dal re. Doveva trattarsi di un nativo1dell’India meridionale, dove i Greci si spingevano raramente, che parlava la lingua tamil; se fosse stato originario del nord, infatti, ci sarebbe stato senz’altro qualcuno in grado di fare da interprete, dopo che Alessandro aveva portato anche la valle dell’Indo nell’or­ bita del mondo greco. Certamente l’India nord-occidentale era a quei tempi abbastanza familiare per i Greci. Dopo la conquista del Punjab da parte di Ales­ sandro, i suoi successori rimasero signori di alcuni piccoli reami per un certo tempo e da li fecero delle spedizioni spingendosi a sud fino a Bombay, e a est fino a Patna. I Greci a quell’epoca conoscevano l’e­ sistenza del fiume Gange, dell’Himalaia, dell’isola di Ceylon. Sape­ vano che l’India era delimitata a est non già da un deserto, come aveva riferito Erodoto, ma da una distesa d ’acqua. Tuttavia l’unica strada che conoscevano per andare in India era quella percorsa da Alessandro: un cammino lungo e arduo alla fine del quale c’era da affrontare l’estenuante scalata delle montagne che circondano com­ pletamente la parte nord-occidentale dell’India. Gli arabi controlla­ vano le coste dell’Oceano Indiano e gran parte di quelle del Mar Rosso, e bloccavano i Greci esattamente come i Cartaginesi facevano nel Mediterraneo occidentale. Per di piu Arabi e Indiani conserva­ vano gelosamente il segreto dei monsoni. Da maggio a settembre i venti spirano costanti da sud-ovest; una nave può uscire dalla « bocca del Mar Rosso », costeggiare la parte meridionale dell’Ara­ bia, e poi, penetrata coraggiosamente in mare aperto, sarà spinta di­ rettamente in India dal tempestoso monsone di sud-ovest, che spira regolarmente dal giardinetto di dritta, quasi da poppa. Ripartendo poi

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tra novembre e marzo, quando il monsone è orientato in direzione esattamente contraria, e soffia costante e deciso da nord-est, la nave farà altrettanto rapidamente il viaggio di ritorno. Indiani e Arabi percorrevano questa rotta da secoli, trasportando pepe, cassia, cin­ namomo, nardo e altre spezie indiane. Avevano mantenuto un mo­ nopolio cosi severo, che i Greci credevano che alcuni prodotti fos­ sero di origine araba (v. pag. 43), senza sapere invece che l’Arabia rappresentava solo un punto di transito. Eudosso, in compagnia dell’Indiano salvato, esperto della rotta dei monsoni e disposto a guidarlo sul mare aperto al sicuro dagli attacchi degli Arabi, fece due viaggi esplorativi dal Mar Rosso al­ l’India, ritornando ogni volta sano e salvo, ma ogni volta il suo prezioso carico di spezie gli fu confiscato dai doganieri di Tolomeo. Egli decise perciò di raggiungere l’India circumnavigando l’Africa, onde evitare gli indiscreti e accaparratori agenti del re. Preparò con cura la sua spedizione (a bordo c’erano persino alcune danzatrici, forse destinate agli harem dei rajah indiani, o forse a ingannare il tempo durante il lungo viaggio: non lo possiamo sapere), ma non po­ tè andare oltre la costa atlantica del Marocco, poco lontano dal luogo in cui era giunto Annone (v. pagg. 44-5) poiché un ammutinamento lo costrinse a tornare. Senza perdersi d’animo preparò una seconda spedizione, salpò e nessuno ne senti più parlare. Al ritorno dal suo secondo viaggio in India, Eudosso navigò con il vento esattamente in poppa invece che al giardinetto (al gran lasco) e di conseguenza toccò terra molto a sud lungo le coste orientali dell’Africa. Qui, seguendo la miglior tradizione degli esploratori, fece amicizia con gli indigeni colmandoli di doni inusitati (pane, fichi sec­ chi, vino e quest’ultimo, sembra, fu decisivo). Ma egli non visi­ tava terre completamente sconosciute. Il commercio di incenso e mir­ ra dall’Etiopia e dalla Somalia era antico quasi quanto l’Egitto (v. pag. 16). Ai tempi di Eudosso esso era, come il traffico dall’India, in gran parte in mano agli Arabi. I Tolomei, piu con lo scopo di cat­ turare elefanti per il proprio esercito che per aprire nuove vie com­ merciali, inviarono numerose spedizioni lungo la costa orientale del­ l’Africa e i Greci acquistarono a poco a poco una buona conoscenza della costa fino a capo Guardafui, il punto piu orientale dell’Africa. Eudosso deve essere sbarcato in qualche remota spiaggia sotto il succitato capo, non però abbastanza a sud da fornire informazioni precise circa l’orientamento della costa. Difatti per piu di due secoli

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ancora i cartografi la rappresentarono, subito a sud di capo Guarda­ fili, piegata verso ovest con un angolo retto. Ciò che era stato iniziato da Alessandro e dai suoi successori fu portato al suo logico compimento da Roma. Nell’ultimo atto di Cesare e Cleopatra di G.B. Shaw, Apollodoro, un greco colto e artista, dice con aria di superiorità a Cesare che Ro­ ma non sarà mai in grado di sviluppare una propria arte. « Come! » risponde Cesare. « Roma non produce arte? E la pace non è un’arte? E la guerra non è un’arte? » Disciplina, organizzazione e naturali capacità amministrative: que­ ste furono le qualità romane per eccellenza che conquistarono a Ro­ ma spettacolari trionfi, prima in guerra e poi in pace. I contadini ro­ mani, direttamente provenienti dalle campagne, una volta addestrati e disciplinati, costituirono in poco tempo quelle perfette unità belli­ che - le legioni - che, nel giro di tre secoli dal 500 al 200 a.C., avrebbero fatto di Roma, oscuro villaggio sulle rive del Tevere, la signora dapprima di tutta la penisola italiana, poi, dopo la sconfitta di Cartagine, di tutto il Mediterraneo occidentale. Nel corso di altri due secoli fu conquistato anche l’Oriente, e quando, nel 30 a.C., Marco Antonio mori di propria mano e Cleopatra si fece mordere dall’aspide, Augusto, comandante delle legioni vittoriose, divenne il padrone di un solo impero che si estendeva dalla Spagna alla Siria. Per la prima - e ultima - volta nella storia, il Mediterraneo fu unito non solo culturalmente ma anche politicamente. Con l ’unifica­ zione, dopo secoli di sanguinose guerre, si ebbe il raro e prezioso dono della pace che durò per almeno due secoli. Gli imperatori ro­ mani, con le entrate e la manodopera fornite dal loro vasto regno, furono in grado di circondare tutto l’impero, in difesa dai barbari, con una protezione di forti e di guarnigioni, e in certi luoghi perfino con mura continue. Fu fondata una flotta, formata da unità distri­ buite in varie basi strategiche nel Mediterraneo, che liberò le acque dal sempre ricorrente pericolo dei pirati. E cosi i primi due secoli dell’era cristiana furono tempi ideali per i viaggiatori. Essi potevano spostarsi dalle rive dell’Eufrate fino ai confini tra l’Inghilterra e la Scozia senza passare una sola fron­ tiera, sempre sotto la giurisdizione di un solo stato. Una riserva di monete romane era il solo tipo di danaro che dovessero portare con sé poiché esso veniva accettato o cambiato dappertutto. Grazie al controllo esercitato dalle flotte dell’imperatore destinate alla vigilanza i naviganti potevano spingersi in ogni dove senza timore dei pirati.

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Un sistema efficiente di buone strade consentiva ai viandanti di rag­ giungere tutti i maggiori centri, mentre un valido servizio di vigilan­ za rendeva le strade sufficientemente libere dal pericolo dei banditi. Solo due lingue erano necessarie: il greco dalla Mesopotamia alla Ju ­ goslavia e il latino dalla Jugoslavia alla Britannia. Dovunque andasse, il viaggiatore era sotto la protezione di un organizzatissimo ed effi­ ciente sistema giudiziario. Se un cittadino romano aveva guai con la giustizia, poteva chiedere, come fece san Paolo, di essere giudicato a Roma; coloro che non erano cittadini romani avevano il diritto di essere giudicati secondo le leggi del loro paese, ed esistevano appositi tribunali per giudicare casi sottoposti ai diversi codici locali. Commercio e viaggi non si fermavano alle frontiere dell’impero, ma raggiunsero e dilagarono in quelle zone che erano terra incognita anche ai tempi dei successori di Alessandro. Il mondo conosciuto si estese a nord fino alla Scozia, a ovest fino alle Canarie, a sud fino a Zanzibar, e a est fino all’Indonesia. -Questa volta però il merito dell’espansione non va a degli appas­ sionati esploratori: non ci furono, tra i Romani, né un Pitea né un Eudosso a tentare la sorte sui mari o lungo sentieri inesplorati. In Eu­ ropa furono le legioni a spostare regolarmente le frontiere di Roma sempre piu a nord; sulla loro scia poi giungevano a frotte i mercanti che portavano sempre piu lontano le proprie merci e tornavano ca­ richi di preziose informazioni. Nell’Estremo Oriente e in Africa fe­ cero tutto da soli i mercanti che tenacemente si aprirono la strada verso le fonti dell’avorio e delle spezie, della seta e di altri generi di lusso provenienti da lontano per i quali, grazie alla crescente opu­ lenza della società romana, l’offerta era sempre inferiore alla do­ manda. L ’Europa settentrionale aveva perduto gran parte del mistero che la circondava ai tempi in cui Pitea compì il suo viaggio; l’In­ ghilterra divenne in quest’epoca una provincia romana e i mercanti riportavano molte notizie dalle loro spedizioni in Scozia e Irlanda, dove si spinsero talvolta anche le legioni. Non altrettanto ben cono­ sciuta era la Germania, che non fu mai del tutto conquistata né mai fece parte dell’Impero. Ancora piu scarse erano le conoscenze rela­ tive alle terre site a nord della Germania: si credeva che la Danimar­ ca fosse molto piu larga di quanto sia in realtà, che la Scandinavia fosse molto più piccola e che entrambe fossero delle isole. Sull’estre­ mo nord si continuavano a raccontare le solite storie favolose: cinque giorni di navigazione a ovest della Gran Bretagna ci sarebbe stata l’isola dove Zeus aveva esiliato il padre Cronos, e circa 800 km al

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di là ci sarebbe stato un grande continente i cui fiumi versavano tanto fango nell’Atlantico da rendere quasi impossibile la navigazione e dove gli abitanti consideravano il mondo conosciuto come una semplice isola, e cosi via fantasticando. La Russia era quasi totalmente al di fuori dell’orbita dei viaggi. Rispetto ai tempi di Erodoto si conoscevano ora un po’ meglio le ter­ re a nord del Mar Nero, ma, tranne ciò, tutto era ancora praticamen­ te sconosciuto. Persino un geografo della serietà di Claudio Tolomeo pensava che laggiù abitassero le Amazzoni e una tribù di « mangiapidocchi ». In modo assolutamente eccezionale crebbero invece le conoscen­ ze relative all’Estremo Oriente; finalmente le due più grandi civiltà del mondo antico, la greco-romana e la cinese, si incontrarono. Qual­ che tempo dopo la morte di Alessandro la seta cinese, trasportata da carovane attraverso l’Asia centrale, tramite innumerevoli interme­ diari cominciò a giungere al Mediterraneo dove risultò subito evi­ dente la sua superiorità di fronte alla stoffa che più le assomigliava, prodotta da una specie di baco da seta selvatico dell’Asia Minore. Nella seconda metà del II secolo a.C. la Cina incrementò sempre più questo commercio, inviando carovane a intervalli regolari. Que­ ste partivano da Pao Chi, punto di raccordo di un complesso di stra­ de e si dirigevano, lungo la Grande Muraglia, verso Tien Shui, Lan Chou e Wu Wei; oltrepassavano poi il limite occidentale del muro per penetrare nel Turkestan cinese. Intorno al 118-114 a.C. questo viaggio era compiuto da una decina di carovane all’anno. Ad An Hsi, fra il deserto di Gobi e le montagne del Nan Shan, la strada si divideva in tre diramazioni per evitare le paludi salate del bacino del Tarim: due passavano a nord e una a sud. Quella meridionale e una di quelle settentrionali si riunivano a Kashgar, e di nuovo si biforcavano per infilarsi nei difficili passaggi attraverso le montagne del Pamir: a questo punto erano pressappoco a metà strada tra la Cina e il Mediterraneo. Tutte e tre si riunivano infine presso Merv (Mary) e, attraversato il deserto, si immettevano sulle piste che pas­ sando per la Persia e la Mesopotamia conducevano al mare. Nessuna carovana percorreva tutto il cammino. Fra Kashgar e Balkh c’era un posto chiamato Torre di Pietra dove i Cinesi passavano il loro carico ai mercanti locali o Indiani. Questi ultimi si dirigevano con la loro merce a sud verso l’India, da dove compivano il resto del viaggio via mare; i locali invece si spingevano faticosamente fino in Persia, dove incontravano Greci e Siriani che s’incaricavano di compiere l’ul­ tima tappa.

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Gli occidentali raggiunsero la Cina anche via mare, ma si trattò di contatti sporadici. Da che Eudosso ebbe infranto il monopolio ara­ bo del commercio con l’India, questa regione venne sempre più as­ sorbita nella rete commerciale greco-romana e dal principio del I se­ colo d.C., ogni anno, alla stagione dei monsoni, intere flotte mercan­ tili navigavano non solo alla volta della valle dell’Indo, ma più a sud lungo la costa fino all’estremità della penisola. Agenti di compagnie commerciali greco-romane si stabilirono in India abitando, secondo un uso antichissimo, in piccoli quartieri separati riservati agli stra­ nieri. Essi esportavano numerosi prodotti indiani - cinnamomo, nar­ do, cotone e soprattutto pepe — e anche alcuni prodotti cinesi, in particolare la seta. Benché una certa quantità di seta giungesse, co­ me abbiamo visto, attraverso le carovaniere, la quantità più notevole viaggiava nelle stive delle navi indiane o malesi (i Cinesi si sareb­ bero dedicati alla navigazione d ’alto mare solo alcuni secoli dopo). Fu inevitabile che gli occidentali cercassero di impadronirsi anche di questa porzione di commercio, e alla fine del II secolo d.C, le loro navi si avventurarono nelle acque a est dell’India, lasciando alla pro­ pria sinistra il Golfo del Bengala, per commerciare con Malacca, Su­ matra e Giava. Qui scoprirono l’esistenza dei chiodi di garofano, originari delle Molucche, che aggiunsero alla lista delle spezie da im­ portare. Soprattutto li spingeva il desiderio di avvicinarsi sempre più alla fonte della seta. Una cronaca cinese riferisce che « nel nono anno del periodo Yenhsi, durante il regno dell’imperatore Huan-ti (166 d.C.), una ambasceria del re di Ta-ts’in, An-tun, giunse dalle frontiere del Jih-nan (Annam) recando in dono avorio, corna di rinoceronte e gusci di tartaruga. In quella data iniziarono i rapporti con quella terra ». Ta-ts’in è il nome cinese dell’Impero Romano e An-tun sta per Antonino, il cognomen di Marco Aurelio. La cronaca continua commentando i doni certamente non straordinari portati dall’amba­ sceria; non c’era, per esempio, neppure un gioiello. Con ogni pro­ babilità non si trattava però di una spedizione ufficiale, ma solo di un gruppo di mercanti che tentavano di battere la concorrenza compran­ do la seta direttamente in Cina, senza ricorrere a intermediari. Sfortunatamente i contatti fra le due culture, sia per mare sia per terra, furono sempre molto limitati. Anno dopo anno giungevano al Mediterraneo carichi di merci cinesi —foglie di cinnamomo, canfora, giada e altri articoli oltre alla seta - mentre statuette, gioielli e va­ sellame di produzione greco-romana facevano il cammino inverso, ma raramente vi fu uno scambio diretto; in mezzo si trovavano mer­ canti di altri paesi (in particolare, dell’India) che non solo controlla­

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vano le rotte marittime, ma anche avevano saldamente in pugno le varie diramazioni della via della seta. Questi intermediari pote­ vano fornire informazioni molto precise - a loro dobbiamo moki to­ ponimi dell’Asia centrale e i nomi delle isole indonesiane oggi usati dai geografi — ma erano pur sempre mercanti e non cronisti. Alla gente comune in Cina o a Roma giungevano solo dei « sentito dire » molto fantasiosi. I Romani credevano che tutti i Cinesi fossero estre­ mamente virtuosi, e a loro volta i Cinesi erano convinti che tutti gii occidentali fossero particolarmente onesti. Kan Ying, inviato in mis­ sione in Mesopotamia nel 97 d.C., descrive quella gente come « one­ sta nelle relazioni commerciali e del tutto aliena dal fare doppi prez­ zi »: probabilmente è questa la prima e ultima volta che fu fatto un simile giudizio sui mercanti del Medio Oriente. Kan Ying, l’ambasce­ ria di An-tun: possiamo contare sulle dita di una mano le volte che Cinesi e occidentali si incontrarono a faccia a faccia. In Africa, l’esplorazione della costa orientale andò ben oltre il Capo Guardafui. I mercanti, portando vesti di poco prezzo e nin­ noli da scambiare con gusci di tartaruga, avorio e incenso, giunge­ vano regolarmente fino a Zanzibar, e sembra che uno si sia spinto fino a Capo Delgado, undici gradi a sud dell’equatore. Di conseguenza i cartografi non rappresentarono piu la costa diretta a ovest, bensì estesa verso sud, dove si perdeva in una vasta terra incognita. C ’era anche qualche nuova informazione relativa alle zone interne, ma di poco conto. Cacciatori e mercanti avevano già esplorato gli altopiani etiopici caratterizzati dalle grandi piogge e vi avevano scoperto il lago Tana, permettendo cosi ai geografi di dedurre, correttamente, che li si trovavano le sorgenti del Nilo Azzurro. L ’imperatore Ne­ rone inviò anche una spedizione nel Sudan che raggiunse il luogo dove una grande massa di vegetazione acquatica bloccava il Nilo, cir­ ca nove gradi a nord dell’equatore, una latitudine mai piu raggiunta fino al 1839. Un mercante che era stato spinto dal vento fino all’al­ tezza di Zanzibar vide, o piu probabilmente udì descrivere dagli in­ digeni, un poderoso sistema di altissime montagne le cui nevi fonden­ dosi formavano due laghi dai quali nasceva il Nilo. E fu questa l’ipo­ tesi relativa alle sorgenti del Nilo Bianco piu vicina alla verità, fin­ ché le sorgenti stesse non furono raggiunte a metà del XIX secolo. Altri mercanti africani riportavano racconti su « tribù di uomini sen­ za naso, la cui faccia era perfettamente piatta, altri privi del labbro superiore e altri ancora senza lingua. Un gruppo ha la bocca serrata ed è privo di naso; hanno un solo orifizio attraverso il quale respirano e succhiano i liquidi con una paglia d’avena, usano i grani d ’avena

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anche come cibo »: certamente la storia si ispira alla descrizione di certi lineamenti negroidi, ma il nocciolo di verità è quasi comple­ tamente sepolto sotto l’elaborazione fantastica. Il mondo che gravitava sul Mediterraneo, dunque, nei primi due secoli d.C. era piu grande di quanto non fosse mai stato. Lo stesso dicasi per il volume dei traffici. Le strade e il mare erano percorsi da un numero di mercanti superiore a quello mai conosciuto dal mon­ do greco; c ’erano poi gli eserciti, i burocrati, i corrieri della posta governativa; infine i semplici turisti, dai pochi che viaggiavano in lungo e in largo per visitare i monumenti, alle migliaia che ogni anno fuggivano dalle città e dal caldo diretti verso le vicine spiagge o campagne. Su questi viaggiatori ci forniscono molte informazioni le locande portate alla luce dagli scavi archeologici e le perfette de­ scrizioni dei luoghi visitati lasciateci dai poeti latini. Cosi noi siamo in grado di conoscere i viaggiatori di quest’epoca molto meglio che non i loro predecessori greci e possiamo indagare con maggior pre­ cisione sulle ragioni per cui essi si mettevano in viaggio, le strade che percorrevano, dove passavano le notti, quali luoghi visitavano e come li visitavano.

Una quantità di viaggiatori

CAPITOLO SECONDO

UNA QUANTITÀ D I V IA G G IA TO RI

« Feci costruire cinque navi, le caricai di vino - a quel tempo valeva come oro - e le spedii a Roma. Affondarono tutte e cinque, questa è la verità sacrosanta; in un giorno Nettuno s’ingoiò trenta milioni di sesterzi... Ne feci delle altre, piu grandi piu forti e piu belle... Le caricai ancora di vino, vi aggiunsi lardo, fave, profumi e schiavi... la donna fece un bel gesto: vendette tutti i suoi gioielli e i suoi abiti e mi mise in mano cento pezzi d’oro... in un solo viaggio guadagnai dieci milioni di sesterzi tondi tondi. » L ’epoca è il I secolo d.C., chi parla è Trimalcione, il famoso per­ sonaggio del Satyricon di Petronio, un ex schiavo divenuto miliona­ rio. La figura di Trimalcione è tratta dalla vita, ispirata alle migliaia che avevano fatto fortuna grazie al fiorire delle attività commerciali. Un certo Flavio Zeuxis, in una iscrizione sulla propria tomba a Ierapoli nell’Asia Minore, ricorda che egli « come mercante doppiò settantadue volte capo Maléa [in Grecia] nel corso di viaggi in Ita­ lia ». Probabilmente egli faceva due viaggi ogni estate. Ireneo, un uomo d ’affari di Alessandria, scrive da Roma a un fratello residente in Egitto nel II ο III secolo d.C.: « Io sto bene. Ti comunico che ho toccato terra il sesto giorno del mese di Epeiph [30 giugno] e che abbiamo scaricato la nave il diciotte­ simo giorno dello stesso mese. Venni quindi a Roma [dal porto alla foce del Tevere, distante circa 25 Km] il venticinquesimo giorno dello stesso mese [19 luglio]... Aspettiamo di giorno in giorno il permesso di navi­ gazione: fino ad oggi nessun carico di grano è stato sdoganato. Ricordami a tua moglie e ai tuoi cari ». La flotta era in grado di trasportare ogni anno 150.000 t di gra­ no egizio. Durante il I secolo d.C., prima che fosse costruito il por­ to di Roma, le navi da carico erano solite attraccare a Pozzuoli, il porto un po’ a ovest di Napoli; quando arrivavano, scrive un con­

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temporaneo, « tutto il popolo di Pozzuoli scendeva ai magazzini; la gente era in grado di distinguere una nave proveniente da Alessandria anche in mezzo a molte altre, grazie alle sue vele ». Grano dall’Egit­ to, olio d ’oliva dalla Spagna, vino dalla Francia, arche di pietra arti­ sticamente scolpite da Atene - questi e dozzine di altri prodotti erano trasportati per ogni dove nel Mediterraneo dalla marina mercantile piu numerosa che l’Europa abbia conosciuto fino al X V III secolo. Alcune linee di traffico, come abbiamo visto (v. pagg. 98-101), si spin­ gevano ben oltre il Mediterraneo. Gli armatori alessandrini giun­ gevano con la loro influenza commerciale, lungo la costa orientale del­ l’Africa, fino a Zanzibar e, al di là dell’Oceano, fino in India. I traffici erano cosi attivi che alcune città mantenevano degli uffici ap­ positi nei maggiori centri commerciali del mondo per aiutare quelli, tra i propri cittadini, che vi si recassero per affari o per turismo. Tarso, Traile, Tiberiade e numerose altre città, per esempio, avevano stationes (cosi erano chiamati tali uffici) a Roma proprio in mezzo al Foro. Si trattava di veri e propri consolati, che fornivano gli stessi servizi dei proxenoi delle città greche dei tempi antichi (v. pag. 70). E cosi uno stuolo senza fine di mercanti, armatori, banchieri, compratori e agenti, brulicava per i porti e sulle rotte marittime del­ l’Impero Romano. Gli uomini d’affari potevano trovarsi anche sulle strade, ma in numero limitato. I trasporti via terra, come abbiamo già osservato (v. pag. 47), erano terribilmente costosi e quasi tutto Il commercio su larga scala, particolarmente per le merci voluminose, avveniva via mare. Le strade erano state costruite soprattutto per le esigenze dello stato, ed era soprattutto lo stato a servirsene con rego­ larità. Lungo le strade c’era un costante andirivieni di personale go­ vernativo: corrieri del servizio postale statale (v. pag. 147), esat­ tori, giudici itineranti, funzionari distrettuali, governatori delle pro­ vince (cosi erano chiamate le unità amministrative in cui era suddi­ viso l’Impero Romano), talvolta gli imperatori stessi. Quando un go­ vernatore si metteva in viaggio, il suo seguito di funzionari e di schiavi formava un notevole gruppo, e quando viaggiava un impe­ ratore, si poteva assistere ad una vera parata. Questo tuttavia non era nulla in confronto alla massa di persone che occupavano la strada quando si mettevano in marcia le unità dell’esercito. Una sola legione, formata da seicento uomini con un seguito di moltissimi animali e veicoli, procedendo in fila indiana al passo delle bestie che tiravano i carri delle catapulte, poteva fermare il traffico per lunghe ore; un esercito poteva fermarlo per giorni.

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Il commercio e il governo facevano la parte del leone nei viag­ gi, ma non era tutto qui. Rimaneva ancora moltissima gente che si spostava per altre ragioni. Innanzi tutto, c’erano quelli che viaggiavano per motivi di salute. I dottori dell’antichità per primi ebbero l’idea di prescrivere lunghi viaggi per mare. « In caso di tubercolosi... » scrive nel I secolo d.C. Celso, il piu famoso medico romano « se il paziente ne ha la forza, si raccomanda un lungo viaggio per mare e un cambio d’aria... a questo scopo l’ideale sarebbe il viaggio dall’Italia ad Alessandria. » Celso pensava ovviamente a dei pazienti ricchi. Fra quanti infatti si mettevano in viaggio per motivi di salute, poveri, benestanti e ric­ chi, la grande maggioranza era diretta non già su una nave, ma a uno dei vari santuari di Asclepio. Ne abbiamo già parlato (v. pag. 62). I piu antichi furono fon­ dati in Grecia nel VI e V secolo a.C. e nel IV se ne trovavano per tutto il paese, su molte isole del Mediterraneo orientale, nelle città greche lungo la costa dell’Asia Minore, e in quelle dell’Italia meri­ dionale. Asclepio fu una delle prime divinità straniere accolte a Roma dove sorse un culto a lui dedicato a cominciare dal 291 a.C. Ai tempi dell’Impero Romano tre santuari superavano in impor­ tanza tutti gli altri. Uno era quello di Epidauro che consegui quasi subito grande fama (v. pag. 62) e non la perse mai. Un secondo si trovava nell’isola di Cos (v. pag. 220), patria di Ippocrate e della sua scuola di medicina. Il terzo era a Pergamo e raggiunse il massimo della sua fama alla metà del II secolo d.C. quando Galeno, il piu famoso medico dell’epoca, vi esercitò la professione, a intervalli, per molti anni. Oltre ad aumentare di numero, i santuari divennero sem­ pre piu imponenti. Nel momento del suo maggiore splendore, il san­ tuario di Pergamo si articolava intorno a un grande cortile rettango­ lare, di 108 m per 130, cui si accedeva attraverso una porta monu­ mentale. Lungo tre dei suoi lati correva un colonnato per riparare dalla pioggia e dal sole i pazienti che potevano a loro piacimento pas­ seggiare o restarsene seduti. In uno degli angoli si trovava una bi­ blioteca, in un altro un teatro con 3.500 posti e in un altro ancora una grande piscina circolare (26 m di diametro) per le cure termali. All’interno del cortile si trovavano molti templi tra i quali quello di Asclepio. I sistemi di cura erano gli stessi di sempre (v. pag. 62). Il pa­ ziente faceva il suo ingresso nel santuario, faceva un bagno purificatorio, entrava nel tempio di Asclepio, pregava, stendeva un giaciglio e si disponeva a passarvi la notte. Attraverso il sogno riceveva l ’aiuto

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sperato. Alcuni santuari avevano un’area apposita per il sonno, ma in altri, come a Pergamo, la gente si sdraiava dappertutto nel tempio e forse anche in altri edifici all’interno del recinto. In alcuni casi, rari ed eccezionali, la cura era miracolosa: il paziente si svegliava la mattina seguente sano e robusto. Piu sovente riceveva nel sogno delle prescrizioni, di solito in forma chiara, talvolta anche enigmati­ che. In queste prescrizioni raramente c’era alcunché di strano: per lo piu si diceva di prendere - o non prendere - certi bagni o certi cibi, oppure di fare determinati esercizi; poteva venire anche pre­ scritta l’applicazione di unguenti o di pomate o particolari compo­ sizioni di speciali droghe. Quale ne sia stata la ragione - e una molto probabile deve essere stata la suggestione — queste cure conseguivano un’alta percentuale di successi; in caso contrario i santuari non avrebbero goduto di cosi largo favore per tanto tempo. Citiamo, a titolo d’esempio, la testi­ monianza di un greco riconoscente che, nel I o al principio del II secolo d.C., visitò il santuario che Asclepio divideva con il dio egi­ zio Imhotep a Menfi: « Era notte, quando ogni vivente che non sia afflitto da qualche male dorme, il momento nel quale la divinità è solita manifestarsi in tutta la sua potenza. Io bruciavo dalla febbre ed ero affetto da convulsioni con mancanza di respiro e tosse a causa di un dolore al fianco. La mia testa era pesante per le sofferenze ed ero scivolato quasi privo di coscienza nel sonno. Mia madre... stava seduta senza poter godere di un solo attimo di riposo, turbata per le mie sofferenze. ÀU’improvviso scorse - e non dormiva né sognava ma i suoi occhi, benché non potesse vedere chiara­ mente, erano bene aperti e attenti - un’apparizione divina. Entrò, spa­ ventandola e impedendole senza fatica di vedere il dio in persona o i suoi servi, di chiunque si trattasse. Tutto ciò che ella potè riferire fu che c’era qualcuno piu alto di un essere umano, splendidamente abbigliato, con un libro nella mano sinistra; egli si limitò a guardarmi dalla testa ai piedi due o tre volte e poi scomparve. Appena si fu un po’ riavuta, ancora tutta tremante, gridò per svegliarmi. Io ero completamente fradicio di sudore, ma la febbre era sparita e allora ella si inginocchiò per adorare la divina apparizione... Quando io potei parlarle, ella voleva descrivermi l’eccezionale potenza del dio, ma io, prevenendola, le raccontai ogni cosa. Tutto ciò a cui lei aveva assistito con i suoi occhi, io lo avevo visto in sogno. Poiché i miei dolori al fianco sono cessati e il dio mi ha prestato la migliore delle cure, io proclamo di fronte a tutti i suoi benefici ». Non solo le plebi incolte si recavano a chiedere l’aiuto di Asclepio e ne tornavano guarite - o convinte di esserlo, il che è la stessa cosa. I pazienti appartenevano a tutte le classi sociali; l’autore del ringra­ ziamento appena citato, come si deduce dallo stile con cui egli scrive,

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era persona di considerevole cultura. Aristide, di cui parleremo piu ampiamente in seguito (v. pag. 156), uomo di ottima famiglia, fornito della migliore educazione, e inoltre il piu grande oratore della sua epoca, era convinto di dovere la vita all’assistenza di Asclepio. In­ torno al 142 d.C. egli si ammalò e da quel momento divenne un as­ siduo frequentatore dei santuari, in particolare di quello di Asclepio a Pergamo. All’inizio della sua malattia, che sembra essere stata un tipo di affezione respiratoria, vi passò due interi anni pregando, sa­ crificando, prendendo parte a tutte le cerimonie e, naturalmente, so­ gnando. Alcune delle prescrizioni ricevute sono, senza dubbio, vere as­ surdità. Una volta, mal ridotto com’era, fu costretto nel cuore dell’in­ verno a fare un tuffo in mare; un’altra volta, durante un attacco di febbre, gli fu detto di bagnarsi in acqua gelata; un’altra volta ancora, in piena estate, si senti ordinare di recarsi a piedi in una località distante 80 km: per fortuna in quel momento si sentiva abbastanza bene. Nessuna di queste cure, piu o meno lo ammette lo stesso Aristide, ottenne il minimo risultato positivo. Il dio però lo spinse anche a proseguire la sua attività oratoria - e questo è il punto piu importante. Inoltre, nel santuario Aristide era circondato da una schie­ ra di pazienti della sua stessa levatura, uomini di cultura ed eruditi che si trovavano là per farsi curare (viene spontaneo l’accostamento con le persone ricoverate nei sanatori svizzeri prima della seconda guerra mondiale), i quali lo incoraggiavano a seguire l’ordine del dio. Grazie a ciò avvenne il miracolo: Aristide recuperò fiducia nella vita e usci dal santuario, non completamente in salute - non lo fu mai ma in grado di seguire una carriera segnata da continui successi e di giungere fino ai sessant’anni. Aristide si recava sovente, dalla sua residenza di Cizico o dalla casa natale di Smirne, a Pergamo (v. pag. 156). Le strade vedevano ogni anno migliaia e migliaia di persone che, come lui, avevano ab­ bandonato il letto dove giacevano ammalate per recarsi al piu vicino santuario del dio della medicina. Le folle affluirono costantemente per secoli finché, nel corso del IV secolo d.C., Asclepio dovette, co­ me tutte le altre divinità pagane, cedere le armi di fronte al cri­ stianesimo. L ’intervento di Asclepio era diretto a quanti erano seriamente malati. Quelli che invece erano solo indisposti, e fra questi gli ipo­ condriaci, e che volevano rendere piu piacevoli le cure, potevano re­ carsi dove c’erano le aquae, sorgenti di acque minerali. In epoca ro­ mana esse godevano dello stesso favore di cui godono oggi le cure

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termali — del resto, nella maggioranza dei casi queste derivano di­ rettamente da quelle. Aquae Calidae, per esempio, si chiama ora Vichy, Aquae Sextiae Aix-en-Provence, Aquae Sulis Bath, Aquae Mattiacae Wiesbaden, eccetera. L ’Italia ne era particolarmente fornita; presso Roma c’erano le fonti di Vicarello sul lago di Bracciano. Dalle rovine sono stati estratti quattro vasi a forma di pietra miliare su cui è incisa la strada da Cadice a Roma; furono donati al dio delle fonti da alcuni spagnoli riconoscenti che, in visita a Roma, avevano tratto vantaggio dalla cura di quelle acque. Piu di millecinquecento monete sono state trovate sul fondo delle fonti: i viaggiatori antichi, né piu né meno che noi, attribuivano superstiziosamente un benefico effet­ to all’atto di gettare una monetina in una fontana. Grandi quantità di monete sono state trovate anche in altre fonti. In Sicilia c’erano località termali a Segesta, Selinunte, Imera e una, beh nota, anche nell’isola di Lipari. Scrive infatti Diodoro, un contemporaneo di Cesare e Augusto: « Molte persone in tutta la Sicilia che siano af­ flitte da una qualche malattia si recano [a Lipari]... e grazie ai bagni guariscono in modo incredibile ». Il golfo di Napoli, un luogo ideale per le vacanze a causa della sua bellezza e del clima, è tutto circon­ dato da sorgenti calde. Perciò tutta la costa era costellata di stazioni termali che divennero le piu celebri nel mondo romano (v. pag. 113). Per risolvere problemi di qualunque genere, non soltanto di sa­ lute, c’erano gli oracoli. Benché esistessero da sempre, in quest’epoca contrassegnata da una superstizione incredibilmente diffusa, essi di­ vennero molto piu di moda che non nel passato, svolgendo talvolta lo stesso ruolo rivestito oggi da coloro che predicono gli oroscopi oppu­ re leggono le foglie di tè o la mano. Apollo, come sempre, era il dio fatidico per eccellenza e i suoi oracoli a Delfi in Grecia, a Deio nel­ l’Egeo, a Claro e Didima in Asia Minore rispondevano ogni anno a mi­ gliaia di quesiti. In Beozia, presso Lebadea, c’era l’oracolo di Trofonio dove, per interrogare la divinità, bisognava calarsi in fondo a un pozzo, e insinuarsi poi, attraverso un’apertura, in un’enorme ca­ verna. A Preneste, sulle colline che circondano Roma, si trovava il tempio della Fortuna: le sue risposte erano segnate su una tavolet­ ta, estratta a caso da un bambino, sulla quale erano tracciate alcune enigmatiche parole (ecco un esempio di responso di un oracolo simile a questo: « È un cavallo bello a vedersi, ma tu non lo puoi caval­ care »). C ’era l’oracolo di Eracle in Grecia dove l’interrogante get­ tava quattro dadi: l’interpretazione delle figure che apparivano de­ terminava la risposta. Tutti questi e numerosissimi altri potevano al­

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meno vantare una veneranda antichità, essendo stati fondati per la maggior parte in tempi remotissimi. La superstizione di quell’epoca tuttavia favoriva anche la nascita di nuovi oracoli. Un intrapren­ dente imbroglione di nome Alessandro installò un oracolo presso una palude sulla costa meridionale del Mar Nero. Qui, a prezzi molto salati, un serpente parlante da lui stesso preparato, rispondeva alle domande, dei villici locali; la cosa ebbe tanto successo che « ... la fama dell’oracolo giunse fino in Italia e si diffuse per Roma. Qui tutù, l’uno sulle orme dell’altro, si affrettavano ad andarci di persona 0 a mandare un inviato, soprattutto i personaggi piu importanti ed in­ fluenti della città. Il piu infervorato era Rutiliano [un importante personaggio]... appena senti parlare dell’oracolo, abbandonò praticamente tutti 1 suoi impegni ufficiali per correre a Abonoteicos; e poi non faceva che mandare un inviato dopo l’altro. Mise in tal stato di eccitazione tutta la corte imperiale, che la maggior parte si recò subito a chiedere un responso sul proprio futuro ». Luciano, autore di queste righe, era uno scrittore satirico e ine­ vitabilmente esagera nel descrivere gli effetti di questo stregone, ma, anche eliminando l’esagerazione, Alessandro deve aver provocato un netto incremento del traffico sulle strade per Abonoteicos. Gli antichi Giochi panellenici, come quelli Olimpici in onore di Zeus, o i Pitici per Apollo (v. pag. 57) continuarono a celebrarsi pressappoco fino alla fine dell’Impero Romano. Nel I e II secolo d.C., grazie alla pace ed alla prosperità imperanti, i giochi furono fiorenti come non mai e attirarono da ogni parte non solo spettatori ma anche ogni altro genere di persone. Ai Giochi Istmici in onore di Poseidone, per esempio: « Uno può udire folle di miserabili sofisti che gridano e si insultano l’un l’altro intorno al tempio di Poseidone... scrittori che leggono ad alta voce le loro stupide opere, gruppi di poeti che recitano i loro poemi men­ tre gli altri li applaudono, giocolieri che eseguono i loro esercizi, indovini che predicono il futuro, innumerevoli avvocati che stravolgono la giustizia e non mancano venditori ambulanti che vendono oggetti di ogni tipo ». I Giochi panellenici erano solo i piu antichi e meglio conosciuti; ma ve ne erano anche di meno importanti, diffusi in tutto l ’Impero. In una lettera (v. pag. 110) Cicerone comunica la propria intenzio­ ne di recarsi ad Anzio poiché sua figlia desiderava assistere ai giochi che si sarebbero svolti colà. Nerone debuttò come musicista ad una pubblica rappresentazione durante i giochi che si svolgevano a Na­

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poli: si trattava di una prova generale per l’esibizione che egli con­ tava di fornire ai grandi Giochi in Grecia. C’erano poi manifesta­ zioni come la festa spartana in onore di Artemide, dove il pezzo forte consisteva in una prova di resistenza alle frustate sostenuta dai ra­ gazzi spartani. Questa feroce cerimonia, la cui origine risaliva alla fondazione della città, fu eseguita per oltre un millennio, e in epoca romana il piacere sadico che essa suscitava attirava spettatori da mol­ tissimi luoghi. Cicerone vi assistette nel I secolo a.C., Plutarco nel II d.C. (ed entrambi parlano di ragazzi morti sotto le percosse), Li­ barne nel IV. Ma le manifestazioni che attraevano le piu grandi folle in que­ st’epoca erano i grandiosi spettacoli organizzati a Roma dagli impe­ ratori. Nel II secolo d.C. c’erano ben centotrenta giorni di festa in un anno dedicati ai pubblici spettacoli, comprendenti corse di carri, pugilato, rappresentazioni teatrali e simili. Per celebrare le grandi oc­ casioni si dava libero sfogo al gusto dei Romani per il sangue con le lotte dei gladiatori. Augusto, in un documento che riassume tutto ciò che egli fece per il paese durante il suo regno, enumera le rap­ presentazioni pubbliche organizzate a proprie spese: « Tre volte organizzai lotte di gladiatori a mio nome, e cinque volte a nome dei miei figli e dei miei nipoti; in queste combatterono circa 10.000 uomini. Organizzai competizioni sportive con atleti venuti da ogni dove, due volte a mio nome e una terza volta a nome di mio nipote. In­ dissi feste quattro volte a mio nome e ventitré a nome dei funzionari pre­ posti... organizzai cacce di fiere africane nel circo, nel foro e negli anfi­ teatri a mio nome e a nome dei miei figli e nipoti ventisei volte; in questi furono uccisi circa 3.500 animali ».

Il Colosseo fu inaugurato da Tito con cento giorni di spetta­ coli. Nel 107 d.C. Traiano celebrò le proprie vittorie militari fa­ cendo combattere, nello spazio di quattro mesi, 10.000 gladiatori. Tutto ciò, occorre dirlo, era diretto soprattutto alla plebe cittadina, faceva parte della politica imperiale basata sul panem et circenses. Ma nessun aficionado, che pur non abitando a Roma potesse per­ mettersi le spese del viaggio, avrebbe perso l’occasione di godersi i piu spettacolari giochi gladiatorii che l’epoca potesse offrire. C ’erano infine le persone in viaggio per vacanza; ma esse meri­ tano un capitolo a parte.

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CAPITOLO TERZO

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« Ho intenzione » scriveva Cicerone a un amico nell’aprile del 59 a.C., « di essere a Formia, nella mia villa, per le feste Palilie [21 aprile]... Lascero Formia al primo di maggio per essere ad Anzio il tre. Dal quattro al sei ad Anzio ci sono i gladiatori, e Tullia [figlia di Cicerone] desidera vederli. Penso poi di andare a Tuscolo e di li ad Arpino, in modo da essere a Roma per il primo di giugno ». Non solo Cicerone, ma tutti i suoi sodali facevano piani simili. L ’ini­ zio della primavera era, per l’alta società romana, il segnale di « via » per 1 annuale peregrinatici, come la chiamavano allora, il muoversi cioè dalle citta per spostarsi dall’una all’altra delle proprie ville. La lettera di Cicerone cita i nomi di tre località dove egli posse­ deva una villa; durante la sua vita egli ne accumulò non meno di sei, per non parlare degli alloggiamenti lungo le strade per pernotta­ re durante i viaggi di trasferimento dall’una all’altra. La villa di For­ mia, una stazione climatica marina a circa due terzi della strada tra Roma e Napoli, fu uno dei suoi primi acquisti. (Fu anche, come so­ vente capita, lo scenario della sua morte: mentre i suoi servi cerca­ vano di farlo fuggire su una lettiga, i soldati di Antonio lo raggiun­ sero.) Poco prima del 60 a.C. comprò la sua prima villa nel golfo di Napoli, dov era praticamente di rigore possederne una per chiun­ que avesse ambizioni sociali. Questa risultò poi essere un po’ fuori manose cosi, pochi anni dopo, se ne comprò un’altra a Cuma, un po­ co piu a ovest. Questa era la località alla moda, e Cicerone fu molto contento di potervi traslocare (per tutta la vita Cicerone fu tormen­ tato dalla freddezza che i colleghi e i vicini appartenenti all’aristo­ crazia ostentavano nei suoi confronti, poiché era un homo novus, una persona cioè che doveva l’eccellente condizione politica e sociale alla propria abilità, non già a privilegi di nascita). Nel 45 a.C., sol­ tanto pochi anni prima della sua morte, un amico gli lasciò in eredità un’altra villa pressappoco a mezza strada tra Cuma e Napoli, molto

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comoda perché egli potesse seguire gli affari che aveva a Pozzuoli, un attivo porto e centro commerciale, oltre che una località di villeg­ giatura. Le altre due ville ricordate nella lettera non si trovano sul mare. A Tuscolo, sui colli Albani a sud-est di Roma, Cicerone aveva un elegante e ben arredato ritiro campestre, ad Arpino infine, la cit­ tà di montagna dove era nato, conservava le proprietà paterne. Il desiderio di Cicerone di avere residenze in campagna o in riva al mare non rappresentava affatto una cosa eccezionale. Tutta l’alta società romana possedeva questi due tipi di ville: al mare per i tie­ pidi giorni primaverili, in collina per la stagione estiva, quando il sole del Mediterraneo rendeva le coste infuocate... e possederne piu d ’una di ciascun genere serviva ad evitare la monotonia di andare sempre nello stesso posto. Comunque, non soltanto i piu ricchi potevano af­ frontare le spese per vacanze cosi « sibaritiche ». Cicerone, ad esem­ pio, rispetto ai livelli economici dell’epoca, era solo un benestante. E cosi, di una villa dopo l’altra si andavano costellando i colli intorno a Roma e la costa sottostante fino a Napoli e oltre. La zona di gran lunga preferita era la meravigliosa costa del golfo di Napoli, da Cuma e capo Miseno a ovest, fino alla penisola sorrentina, appe­ na oltre il Vesuvio, a est. Qui le ville eleganti erano costruite cosi fittamente, con relativi terrazze e moli cosi tanto protesi nel mare (v. Fig. 5), che Orazio fini col dire che i pesci si sentivano stretti. L ’aristocrazia cominciò a costruire nel II secolo a.C. in questa zona che non perse mai popolarità. Fra i compagni di vacanza di Cicerone c’erano i piu grandi nomi della repubblica romana: il suo solo rivale in oratoria, Ortensio, il famoso e raffinato Lucullo, Cesare, Pompeo, Marco Antonio. Le loro residenze erano tutte sontuose e a volte erano addirittura veri e propri palazzi. Il patrigno di Augusto, L. Marcio Filippo, ospitò una volta nella sua villa non solo Augusto, ma anche tutto il suo seguito composto di duemila persone. La piu bella villa del litorale era quella di Lucullo presso Napoli (ne posse­ deva anche un’altra, un po’ piu piccola, a circa 20 km a ovest presso capo Miseno); essa offriva un esempio chiarissimo di come le ric­ chezze vi fossero state profuse senza risparmio: un lungo tunnel sca­ vato nella roccia portava acqua salata per alimentare i vivai di pesci. « Serse in toga », cosi fu descritto Lucullo da un acidulo visitatore della sua villa. Con l’avvento dell’Impero, l’imperatore e i suoi parenti sosti­ tuirono i maggiorenti della repubblica. Augusto aveva almeno quattro residenze nei dintorni; Tiberio passò la maggior parte degli ultimi dieci anni di sua vita nel monumentale palazzo di Capri; Nerone

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soggiornava nella villa di Baia quando, una notte, tentò di far anne­ gare sua madre; riuscì infine a farla uccidere nel bagno di una villa che ella possedeva poche miglia lontano, a Bauli. Come vicini, gli im­ peratori avevano una nuova classe di villeggianti, costituita da co­ loro che avevano saputo sfruttare la grande prosperità dell’Ìnizio del­ l ’Impero: i nuovi ricchi, insomma. Vedio Pollione, un ex-schiavo pas­ sato dagli stracci ai milioni, si fece costruire sui colli tra Napoli e Pozzuoli una villa che chiamò Pausilypon, « Sans-Souci ». La villa era talmente nota che diede nome al colle, ancor oggi chiamato Posillipo, dove si trovava. Persone come questo Pollione fornirono a Pe­ tronio il modello per il suo Trimalcione (v. pag. 102): il narratore ambienta la pantagruelica cena del suo personaggio proprio in una lussuosa villa presso Napoli. Alcuni preferivano le ville costruite proprio in riva al mare (Fig. 5), cosi vicine che bastava calare la lenza da una finestra per pesca­ re; ad altri piacevano di piu quelle annidate fra le balze a picco sul mare. Nell’entroterra, dove c’era più spazio disponibile, le ville sor­ gevano abbastanza distanti tra loro, ma lungo il mare dove lo spazio era assai ridotto si addossavano l’una all’altra — come succede anche ora. In entrambi i casi, a determinare la posizione e la pianta della casa era la vista sul mare. Preferite furono sempre le case con porti­ co: si trattava di un lungo porticato rivolto al mare sul quale si aprivano le varie stanze poste l’una di fianco all’altra; in questo modo ogni stanza godeva di una propria vista sul mare. Una grande villa poteva contare anche quattro o cinque piani di portici sovrap­ posti (Fig. 5 in basso). Le stanze non erano mai molto grandi e anche le finestre erano piccole per impedire alla luce solare troppo forte di entrare in casa. I muri erano dipinti, in un primo tempo secondo modelli semplici e regolari, in seguito, a partire dal 90-80 a.C., con decorazioni sem­ pre piu elaborate e fantasiose che univano a cornici architettoni­ che raffigurazioni di fatti mitologici, scenari vari, paesaggi campe­ stri e marini. Intorno alle ville crescevano splendidi filari di platani, mirti, bossi e simili. Le ville piu sontuose possedevano piscinae, cioè vivai dove venivano allevati per la tavola del padrone pesci par­ ticolari, soprattutto murene, una sorta di anguilla d’acqua salata molto apprezzata dai ghiottoni romani. Si trattava di un vero status Symbol: solo i miliardari erano piscinarii, per usare il termine co­ niato per loro da Cicerone. Si dice che il parvenu Vedio Pollione nu­ trisse le sue murene di carne umana. I proprietari di ville trascorrevano il tempo scambiandosi piacevoli

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visite, solitamente concluse da cene sontuose. Agli ospiti di riguardo i piscinarii potevano offrire murene provenienti dai propri vivai per­ sonali. Altro piatto molto raffinato erano le ostriche del lago Lucri­ no, uno stagno salato nella parte occidentale del golfo di Napoli; erano allevate secondo un metodo ancor oggi in uso in certe località, legate cioè a grappoli intorno a funi che pendevano da telai di legno sistemati orizzontalmente rispetto all’acqua (Fig. 19). Durante la du­ rissima guerra tra Augusto e il figlio di Pompeo, Sesto, il lago fu trasformato in una base navale. Cessate le ostilità, Augusto trasferì la flotta a capo Miseno; non è impossibile che ciò sia avvenuto in seguito alle richieste degli allevatori di ostriche, appoggiati dai loro importanti clienti. Le visite si alternavano alle gite in lettiga lungo la costa, con escursioni sul lago o lungo il golfo a bordo di imbarcazioni da di­ porto a remi. « Quando [la gente alla moda] naviga dal lago Averno [presso il lago Lucrino] a Pozzuoli sulle barche gaiamente dipinte » osserva con asprezza uno storico « sembra veramente la ricerca del Vello d’Oro, soprattutto quando esce in mare durante la stagione calda. Se una mosca si infila fra le tendine dorate con le frange di seta o un piccolo raggio di sole penetra attraverso un foro nei baldacchi­ ni di protezione, subito ne escono cori di lamenti neanche fossero nati nella terra degli Esquimesi. » La brillante società che popolava queste ville era solo una parte della gente che, durante la stagione, passava una vacanza attorno al golfo di Napoli. Soprattutto nel corso dei primi due secoli d.C., contrassegnati da un’economia molto fiorente, persone di tutte le clas­ si sociali potevano fuggire la calura cittadina e affittare una stanza in una casa sulla riva del mare a Baia, a Pozzuoli o a Napoli. Come passare piacevolmente il tempo non rappresentava un problema: lun­ go la costa del golfo sgorgavano innumerevoli sorgenti calde, e le città erano al tempo stesso località termali e marine. I villeggianti po­ tevano dividere le loro giornate tra la spiaggia e i fanghi, oppure, se lo desideravano, affittare una barca e uscire in mare. Pozzuoli ave­ va due anfiteatri dove per la gioia degli appassionati si svolgevano frequenti spettacoli gladiatorii. Era anche possibile visitare i vivai, aperti al pubblico, della villa dell’imperatore, oppure le culture di ostriche, passeggiare nella stiva di Baia o nei giardini ombrosi, scen­ dere fino al molo di Pozzuoli per vedere le navi entrare in porto; vi erano ristoranti per pranzare in riva al mare e negozi per comprare ogni genere di souvenir (v. pag. 234); infine ci si poteva dedicare al puro piacere del « dolce far niente » mediterraneo.

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Fra tutte le località turistiche della costa, Baia era la piu famo­ sa; sita a circa 16 km a ovest di Napoli e soltanto a poco piu di 1,5 km dal lago Lucrino, fu il primo luogo di villeggiatura estiva dei Romani, e rimase sempre il piu popolare. Strabone, scrivendo in­ torno alla fine del I secolo a.C., riferisce che qui « grazie ai lussuosi palazzi sorti l’uno accanto all’altro, è nata un’altra città grande come Pozzuoli ». Ben fornita di sorgenti di acque calde, Baia divenne anche la località termale piu frequentata. Essa attirava chiunque cercasse di divertirsi e si fece la reputazione di luogo di piaceri sia leciti che illeciti. I rispettabili rappresentanti della buona società navigavano tranquillamente sul lago durante il giorno; la notte invitavano sulle proprie barche donne di dubbia onestà, facevano il bagno nudi e « riempivano il lago con lo strepito dei loro canti ». « Le ragazze nu­ bili erano proprietà comune, i vecchi si comportavano come ragazzi e moltissimi ragazzi come se fossero ragazze », dice con asprezza Varrone, il colto contemporaneo di Cicerone. « Perché devo vedere gli ubriachi barcollare lungo la spiaggia o essere disturbato dal rumore delle feste che si tengono sulle barche? » si lamenta il moralista Se­ neca un secolo dopo. « Chi ha voglia di sentire » si lamenta, « le grida di quelli che fanno serenate notturne? ». Cicerone descrive in una sua orazione una donna dissoluta enumerando « le sue per­ versioni, le sue relazioni amorose, il suo adulterio, la sua Baia »... il nome stesso diceva tutto. Piu avanti egli tuona contro la sua viziosa abitudine di andare alle feste con uomini che le erano totalmente sconosciuti non solo in Roma, non solo nei giardini della sua villa, ma « fra le folle di Baia ». Marziale, il poeta satirico, compose uno sferzante epigramma intorno a una certa coppia: « La moglie, ancor peggio del suo sdegnoso consorte, non usci mai dal sentiero della virtù, finché non venne al lago Lucrino e non si scaldò ai bagni di Baia. Allora divenne tutta un fuoco e lo piantò in asso per correre via con un ragazzo; giunse a Baia Penelope, se ne andò Elena di Troia ». L ’inflessibile Augusto, per quanto passasse sovente le sue va­ canze nei dintorni, non si fece mai vedere in città e aveva una pessi­ ma opinione di quelli che lo facevano. La processione di ville andava da Baia oltre Pozzuoli e Napoli a Pompei e Stabia e ancora piu in là lungo la penisola sorrentina.

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Ognuna di queste città aveva una propria caratteristica: Baia era stazione termale e località marina al tempo stesso, e luogo di ritrovo per quanti volevano divertirsi. Pozzuoli era piu seria in quanto il luo­ go di villeggiatura era a stretto contatto con uno dei piu importanti porti commerciali d’Italia; mentre i villeggianti brulicavano lungo le sPlagge; mercanti e armatori contrattavano e gli stivatori sudavano lungo i moli. Napoli richiamava gli intellettuali. Come molte delle grandi città dell’Italia meridionale, Napoli era stata fondata dai Gre­ ci e ancora ai tempi dell’Impero, anche dopo centinaia d ’anni di do­ minazione romana, si respirava in casa un’atmosfera che sapeva di greco. L ’idioma greco era parlato dappertutto nelle strade, sopravvi­ vevano le istituzioni e le abitudini dei Greci, e i romani in visita abbandonavano le toghe per passeggiare con il pallio o la clamys (v. pag. 56). La tradizione greca continuava anche nelle gare indette per poeti e musicisti, che attiravano folle di persone colte; qui, come abbiamo ricordato, debuttò Nerone in qualità di musicista. Questa particolare atmosfera indusse molti uomini di cultura, sia stranieri sia romani, a fissare a Napoli la propria residenza e a promuovervi il sorgere di una brillante colonia letteraria. I professori trovarono il luogo adatto per fondarvi le proprie accademie e gli anziani per pas­ sarvi i loro ultimi anni. Anno dopo anno, attraverso tutti gli eventi della storia, il golfo di Napoli continuò a servire da rifugio. Romolo Augustolo, ultimo imperatore romano d ’Occidente, dopo che fu esiliato dalla capitale nel 476 d.C., fu inviato a trascorrere gli ultimi giorni della sua vita in una delle ville di Lucullo; questa era ancora in piedi dopo oltre cinquecento anni dalla morte del suo costruttore. Benché l’eruzione del Vesuvio che distrusse Pompei avesse investito e travolto le co­ struzioni che sorgevano sulle pendici del monte, e benché le varie crisi economiche che colpirono l’Impero per buona parte del III se­ colo d.C. avessero ridotto il numero delle ville, la vita procedeva pressappoco alla stessa maniera; i privilegiati continuavano a fare gi­ te turistiche o a trascorrere notti brave a Baia. La succitata descri­ zione di quanti si dilettavano navigando sul lago fu scritta a metà del IV secolo d.C. Poche decine d’anni dopo, nel 391 d.C., l’aristo­ cratico romano Simmaco, che da queste parti possedeva non meno di sei ville, scriveva a un amico: « H o passato qualche giorno su questa spiaggia... dove l’aria salubre e le acque tiepide inducono irresistibilmente a oziare... Ora, grazie a uno scambio di inviti, ci trasferiremo a Bauli o nella villa di Nicomaco [presso

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Pozzuoli, di proprietà del genero di Simmaco]. Ho sempre intorno a me una schiera di amici. Non temo che tu pensi che io passi il mio tempo a non far nulla in questi luoghi meravigliosi, circondato da tante cose allettanti. Dovunque sia, io vivo come un console romano; sono serio per­ sino sul lago Lucrino. Niente feste sulle barche, niente banchetti son­ tuosi, non vado ai bagni, non partecipo a quelle feste durante le quali i giovani fanno il bagno nudi ». Plus ςα change, plus c’est la mème chose. Nella lettera di Cicerone prima citata, in cui apprendiamo il piano dei suoi spostamenti all’inizio della primavera, leggiamo che la prima meta era Formia per il tradizionale soggiorno marino di aprile. In se­ guito egli intendeva recarsi a Tuscolo, la sua villa sui colli romani: anche questa era una tradizione. Gli uomini di cultura potevano an­ che restare a Napoli per tutta l’estate, e la gente comune fermarsi nelle località balneari: non cosi i rappresentanti dell’alta società. A maggio, con l’arrivo della calura, essi lasciavano le loro lussuose ville nelle mani del personale di servizio e si trasferivano al fresco sulle colline. I colli Albani e Sabini che circondano Roma a est e a sud-est sono abbastanza alti da assicurare sollievo dal caldo estivo e nello stesso tempo abbastanza vicini alla capitale da permettere a un senatore di lasciare il soffocante edificio del senato e di passare uno o due giorni al fresco con un viaggio brevissimo. In conseguenza di ciò, a partire dal I secolo a.C., i colli si riempirono di residenze di cam­ pagna. Solo nei dintorni di Tuscolo ne furono costruite quattro ap­ partenenti a diversi imperatori, e almeno una quarantina di proprie­ tà di privati cittadini. La scena delle Tusculanae disputationes di Ci­ cerone è posta nella sua elegante villa; l’oratore spese tempo, ener­ gie e danaro non solo per farla costruire, ma anche per assicurarsi le opere d’arte piu adatte ad abbellirla. Nelle ville in collina l’accento era posto sulla tranquillità, il fresco e l’ombra. I proprietari preferi­ vano che le camere da letto si trovassero nella parte interna della casa, in alcuni casi del tutto al riparo dalla luce naturale, i passaggi ad arcate per le occasionali passeggiate erano spesso parzialmente scavati nel suolo e i cortili erano ornati con fontane, in modo che il mormorio dell’acqua facesse da costante sottofondo. La piu grande di queste ville fu quella dell’imperatore Adriano. Per ragioni che non sappiamo esattamente, egli la fece costruire nella calda pianura pres­ so Tivoli, invece che sui colli vicini, piu freschi. Essa ricopre un’area

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di oltre 70 ettari, e comprende due teatri, tre impianti di bagni, bi­ blioteche, innumerevoli portici: una vera città con i locali e i ser­ vizi per ospitare migliaia di persone. L ’architettura era ardita, d ’a­ vanguardia: sui contemporanei deve aver fatto lo stesso effetto che a noi fanno le costruzioni realizzate per le Esposizioni Mondiali. La decorazione comprendeva non solo mosaici e affreschi, ma anche mi­ gliaia di statue, soprattutto copie di famosissimi capolavori greci. Tutto il complesso era percorso da passaggi sotterranei, cosicché l’e­ sercito di schiavi addetto ai servizi potesse spostarsi senza mai cadere sotto gli occhi degli ospiti. Benché site nel cuore della campagna, queste erano in primo luo­ go residenze di lusso. La produzione agricola perciò era una cosa del tutto secondaria; molti proprietari dovevano far portare dalla città le provviste necessarie per il soggiorno. Marziale descrive uno di co­ storo mentre percorre la Via Appia su un carro carico fino all’inve­ rosimile di cavoli, porri, lattughe, rape, polli, lepri e porchette: « Sta forse tornando a casa dalla campagna? È proprio il contrario egli sta andando in campagna! ». Nel corso dei primi due secoli dell’Impero Romano, grazie alla prosperità economica, anche gli appartenenti alla classe media posse­ devano residenze di campagna. La fattoria sui colli Sabini donata da Mecenate a Orazio, nella quale il poeta era felice di rifugiarsi ogni qual volta gli era possibile, era probabilmente una costruzione rela­ tivamente modesta. Marziale, che all’inizio della sua carriera viveva in una soffitta al terzo piano, riuscì alla fine ad avere un villino cir­ condato da un poco di terra in prossimità di Nomento, a circa 20 km in linea d’aria dalla villa di Orazio. Marziale scrisse anche un epi­ gramma dedicato a un avvocato male in arnese che aveva condotto un’esistenza modesta, ma sicura grazie a una clientela di contadini che lo pagava in natura; in seguito si era comprato una piccola proprietà agricola dove si era ritirato a vivere; a quel punto le cose per lui erano cambiate: « Dunque, Pannuchio, ti sei comprato un po’ di terra, con una baracca cadente il cui tetto ha bisogno di sostegni, con vista sul cimitero e sita lungo la strada, e hai abbandonato la tua residenza cittadina, il tribunale. La tua vecchia toga almeno ti rendeva sempre, seppur non molto...

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I viaggi ai tempi dei Romani almeno il miglio, l’orzo, il grano e la segale quando facevi l’avvocato [eri tu che li vendevi, adesso che sei contadino, te li dovrai comprare! ».

Gli spostamenti di questi proprietari di ville, con il loro seguito di servitori, provviste e familiari dovevano formare lungo le strade una lunga teoria di calessi, carretti e lettighe, in primavera quando il flusso si dirigeva verso la spiaggia e la campagna, e in autunno quando rifluiva di nuovo in città. Intorno a Roma, dove erano con­ centrate le ricchezze della nazione, il traffico doveva essere partico­ larmente intenso, tale da riempire la Via Appia che portava a sud verso le località marine, e poi anche la Tiburtina, la Prenestina e la Tuscolana che portavano rispettivamente a Tivoli e Preneste sui colli Sabini e a Tuscolo sui colli Albani. All’epoca delle città-stato greche avevamo osservato che vi erano fondamentalmente cinque ragioni per mettersi in viaggio: la gente si muoveva per affari, sia privati sia pubblici, per motivi di salute, per recarsi in pellegrinaggio agli oracoli e ai santuari, per presenziare alle famose feste e, in casi molto rari, per vedere il mondo. I Romani, come abbiamo appena visto, ne aggiunsero un’altra, le vacanze: un viaggio di andata e, di conseguenza, uno di ritorno che si ripetevano ogni anno sulle vie che conducevano al mare o in montagna. Ma, come vedremo, il contributo dei Romani all’incremento del volume dei viaggi fu molto piu significativo. Durante i primi tre se­ coli d.C., dopo che il Mediterraneo era diventato un’unica entità dal punto di vista politico e culturale, i succitati motivi spinsero sui percorsi via terra e via mare un numero infinitamente maggiore di persone, i cui spostamenti si estesero moltissimo in ogni direzione. Uomini d ’affari e funzionari statali si spostavano ora dalla Britannia all’India, ai santuari di Asclepio affluiva una clientela internazionale, i Giochi attiravano spettatori da ogni parte. Coloro che potevano per­ mettersi di viaggiare per turismo erano divenuti cosi numerosi che l’argomento merita una trattazione particolare.

CAPITOLO QUARTO

SU L MARE

Quando Plinio il Vecchio, che scrisse la sua Naturalis Historia nel­ la seconda metà del I secolo d.C., arriva a parlare del lino assume un tono lirico. « Quale piu grande miracolo » scrive « di questa pian­ ticella che ha talmente avvicinato l’Italia all’Egitto che Galerio è giunto ad Alessandria appena sette giorni dopo aver lasciato lo stretto di Messina... che ha posto Cadice a soli sette giorni di distanza da Ostia e la piu vicina costa spagnola a soli quattro giorni? ». Va detto che gli antichi usavano vele di lino (il cotone, un prodotto esotico importato dall’India, serviva soprattutto per vesti di lusso), e Plinio si riferisce ai primati stabiliti dalle veloci navi a vela del suo tempo. Per andare dall’Italia alla Spagna via terra ci voleva invece un mese, e almeno due per giungere ad Alessandria. Inoltre, quand’anche la durata del viaggio fosse stata la stessa per terra e per mare, era in­ finitamente meno faticoso trascorrere le giornate oziando su un pon­ te di nave piuttosto che marciare, cavalcare una mula o farsi portare da un carro. D ’altra parte, la maggior comodità era controbilanciata dai maggiori pericoli. L ’efficiente amministrazione romana aveva, al­ meno per i primi due secoli dell’Impero, liberato i mari dai pirati e spazzato i banditi dalle strade principali. Non aveva però potuto eliminare i pericoli che derivavano da una tempesta; per quanto ac­ curatamente il comandante della nave scegliesse la stagione e il vento adatti alla partenza, l’imprevisto poteva sempre capitare. Coloro che viaggiavano per terra erano sottoposti a marce faticose, o venivano sballottati sopra mezzi che avanzavano a passo di lumaca, ma almeno era loro risparmiato il terrore di colare a picco da un momento all’altro. I Romani, in maggioranza un popolo terricolo, erano par­ ticolarmente preoccupati ogni volta che dovevano mettersi in viaggio per mare. Molto spesso i loro scrittori richiamano, pieni di timore, l’attenzione sulla minima distanza —pari allo spessore del fasciame — che separa il marinaio dalla morte, mentre le poesie di commiato per

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gli amici che partono per un viaggio oltremare suonano spesso come compianti per una morte certa. C ’era un altro fattore di cui doveva tener conto chiunque avesse da scegliere tra mare e terra: i passaggi marittimi non erano dispo­ nibili tutto l ’anno. Nell’antichità la stagione della navigazione era limitata pressappoco al periodo che andava da maggio a ottobre. Ciò dipendeva in parte dalle tempeste invernali, ma soprattutto dal­ l ’aumento della nuvolosità tipico dei mesi compresi tra l’autunno e la primavera. Prima dell’invenzione della bussola, i marinai impo­ stavano la rotta in base a rilevamenti costieri, oppure orientandosi con il sole di giorno e le stelle di notte: puntavano sul tempo buono e le probabilità erano a loro favore solo nella buona stagione. Il traffico marittimo tra ottobre e maggio non cessava completamente, ma rap­ presentava comunque un fatto eccezionale - trasporti di truppe per far fronte a un’emergenza, carichi di derrate per alleviare una grave carestia - e quindi non ci si poteva far conto nel predisporre un itinerario. Roma, Antiochia, Cesarea, Alessandria, Cartagine, Cadice, Cartagena, Tarragona, Narbona, Marsiglia, Arles: questi i principali cen­ tri commerciali che si affacciavano sul Mediterraneo. Essi erano col­ legati fra loro mediante rotte in mare aperto mentre erano uniti con i vicini porti minori mediante rotte costiere. Roma, la capitale posta al centro del Mediterraneo, era inevitabilmente la meglio servita, con rotte che si irradiavano in tutte le direzioni. I viaggiatori provenienti da una qualsiasi località della parte occidentale dell’Impero e diretti al Mediterraneo orientale trovavano in Roma un punto di partenza ideale. Per l’Egitto c’era la possibilità di viaggi rapidi offerta dalla flotta che effettuava il trasporto di grano da Alessandria a Roma (v. pag. 127). Per recarsi in Grecia c’erano due possibilità alternative. Vi si poteva andare soltanto via acqua par­ tendo da Roma (o Napoli), attraversando lo stretto di Messina e aggi­ rando il Peloponneso fino a Corinto e Atene. Oppure, chi era di­ sposto a fare una parte del tragitto via terra, poteva seguire la strada fino a Brindisi e li imbarcarsi su una nave che, attraverso l’Adriatico e il golfo di Corinto, l’avrebbe portato al porto di Corinto nella parte occidentale dell’istmo; se poi doveva proseguire fino ad Atene, ba­ stava che si recasse all’altro capo dell’istmo e da li continuare via ma­ re. Sia da Atene sia da Corinto era facile trovare un passaggio at­ traverso l’Egeo fino a Efeso o a Smirne, i piu importanti porti del­ l’Asia Minore, da dove altre navi costeggiavano regolarmente dirette

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sia a nord sia a sud. Quelli che da Roma volevano andare direttamente in Asia Minore, senza passare dalla Grecia, potevano servirsi di collegamenti diretti con Rodi o i porti dell’Asia Minore. La durata di un viaggio dipendeva dai venti e dal tipo di imbar­ cazione scelta: una nave robusta in grado di affrontare il mare aperto, piuttosto che un’imbarcazione piu piccola obbligata a seguire le coste. A volte i funzionari governativi di rango viaggiavano su legni da guer­ ra messi a loro disposizione dalla marina militare; questi erano poco piu grandi di una delle nostre normali imbarcazioni da regata ed erano perciò obbligati a navigare lungo costa e a ripararsi in un porto ogni sera. Quando Cicerone lasciò Atene alla volta di Efeso, nel 51 a.C., diretto verso la parte meridionale dell’Asia Minore della quale era stato nominato governatore, si imbarcò su una piccola unità che faceva parte della flottiglia che lo scortava. Le navi salparono il 6 giugno, seguirono con tappe giornaliere la rotta delle isole egee (Ceo — Ghiaro — Siro — Deio — Samo), e giunsero finalmente a destina­ zione il 22, piu di due settimane dopo la partenza. Il ritorno ad Ate­ ne, ancora una volta sotto la scorta di una flottiglia, richiese altre due settimane. La distanza da coprire non superava le duecento miglia marine, e qualsiasi legno predisposto per la navigazione d ’alto ma­ re, per quanto lento, le avrebbe percorse in tre o quattro giorni al massimo. In compenso, Cicerone potè ogni sera gustare un pranzo preparato a terra e trascorrere la notte coricato su un letto ben stabile. La velocità di navigazione e talvolta anche la rotta erano deter­ minate in Mediterraneo soprattutto da quei venti estivi costanti che gli antichi chiamavano etesii, cioè « venti annuali ». Questi spirano regolarmente e con forza dai quadranti settentrionali. Perciò una na­ vigazione da Roma ad Alessandria poteva rappresentare un viaggio stupendo; con i venti dominanti sempre in poppa, si poteva sperare in una veloce tappa di dieci giorni o tre settimane al massimo. Al ri­ torno però si pagava lo scotto, la navigazione poteva durare anche due mesi e piu. Gli stessi venti, spiranti stavolta in senso contra­ rio, obbligavano la nave a una rotta indiretta passante per la costa sud dell’Asia Minore, Creta, Malta, la Sicilia, che in gran parte doveva essere coperta viaggiando contro vento. Il viaggio da Roma a Corinto o viceversa incontrava venti sia favorevoli, sia contrari e poteva perciò durare da una a due settimane. Quando Plinio il Giovane, nipote del famoso enciclopedista, lasciò la capitale per as­ sumere la carica di governatore della provincia di Bitinia sulla costa occidentale dell’Asia Minore, navigò direttamente da Roma a Efeso

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ma, di qui in avanti, fu obbligato a compiere buona parte del viaggio via terra poiché gli etesii spiravano contrari e impedivano di far rotta da Efeso verso nord. Le navi antiche non ebbero mai molti tipi di vele. La spinta era principalmente fornita da una grande vela maestra quadra (Fig. 6). In epoca romana fu aggiunta una piccola vela di gabbia triangolare, che era utile per sfruttare i refoli alti in caso di venti leggeri o di cal­ me. A prua vi era una piccola vela quadra, molto simile alle vele di bompresso del X V III secolo e dei secoli precedenti e che serviva allo stesso scopo, cioè aiutare la nave nella manovra. Le navi più grandi avevano anche una mezzana di dimensioni modeste. Le navi non era­ no in grado di raggiungere alte velocità, soprattutto a causa degli enormi scafi panciuti tipici di Greci e Romani. Anche sotto una brezza tesa al giardinetto le navi superavano raramente i sei nodi. Cosi un viaggio, ad esempio, da Gibilterra a Roma o a Cartagine du­ rava non meno di un settimana. Narbona si trovava a tre giorni al­ meno di distanza da Roma, Corinto a cinque, Rodi a sette, Alessan­ dria a dieci. D a Bisanzio (Costantinopoli) a Rodi c’erano come mini­ mo cinque giorni di mare e nove fino ad Alessandria. Questi, occorre ricordarlo, erano viaggi ottimali; se al ritorno si doveva navigare da sud-est a nord-ovest, cioè in direzione contraria ai venti settentrio­ nali prevalenti, ci si poteva impiegare il doppio1del tempo o anche piu. Le navi passeggeri non esistevano nell’antichità, e i viaggiatori si arrangiavano come sempre dovettero fare fino al XIX secolo, fino a quando cioè non fecero la loro comparsa le navi postali: anda­ vano al porto e cercavano una nave in procinto di partire per la destinazione che interessava loro. « A Costantinopoli » riferi­ sce Libanio descrivendo i suoi viaggi intorno all’anno 340 d.C., « scesi al Porto Grande e feci il giro chiedendo quale nave sal­ passe per Atene. » Quando san Paolo fu mandato da Cesarea in Palestina a Roma per essere processato, s’imbarcò su una nave che costeggiava la parte meridionale dell’Asia Minore e che ca­ sualmente navigava proprio secondo il suo itinerario; arrivato al porto di Myra, ebbe la fortuna di trovare un legno che andava ad Alessan­ dria e poi a Roma. Per i viaggiatori Roma offriva un utile servizio che risparmiava loro molte faticose passeggiate lungo il porto. Que­ st’ultimo era situato alla foce del Tevere e nella vicina città di Ostia c’era una grande piazza circondata da uffici, molti dei quali appartenevano agli armatori di vari porti stranieri: gli armatori di

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Narbona ne avevano uno, un altro quelli di Cartagine, gli armatori di Carales (Cagliari) ne avevano ancora un altro, e cosi via. Chi cercava d’imbarcarsi doveva solo rivolgersi all’ufficio delle città che si trovavano lungo la sua rotta. Poiché le navi erano innanzitutto da trasporto e imbarcavano passeggeri solo occasionalmente, esse non fornivano né cibo né ser­ vizi. Le ciurme erano addette esclusivamente alla manovra della nave; non c’erano camerieri incaricati di preparare i pranzi e rassettare le cabine. Come nei tempi piu antichi (v. pag. 48) i passeggeri salivano a bordo con i propri servi che accudivano alle necessità personali del padrone, e con scorte di cibo e vino (le navi fornivano l’acqua) suffi­ cienti fino al primo scalo dove fosse possibile fare un nuovo riforni­ mento. Dopo aver scelto la nave che faceva al caso suo, il passeggero pre­ notava un passaggio presso il magister navis, cioè colui che si occupa­ va dell’aspetto commerciale del viaggio, della manutenzione della na­ ve e altre faccende simili; sulle navi piu piccole poteva trattarsi del proprietario stesso, su quelle grandi era piu spesso un rappresen­ tante del proprietario o dell’affittuario. La guida effettiva dell’unità in navigazione era lasciata al nocchiero, il gubernator o kybernetes com’era rispettivamente chiamato in latino e in greco. Il passaggio raramente dava diritto a una cabina, poiché lo spazio per le cabine era molto ridotto (Fig. 6) e il magister e il gubernator erano di solito gli unici a usufruirne; solo sulle grosse unità d’alto mare alcune ca­ bine erano a disposizione di passeggeri importanti o ricchissimi; la maggioranza invece poteva fruire solo di passaggi sul ponte. I pas­ seggeri dormivano all’aperto o sotto un piccolo riparo simile a una tenda montata dai servi alla sera e smontata la mattina successiva. Le navi, anche le piu piccole, avevano quasi sempre un focone, un luogo cioè dove era posto un braciere per cucinare. La ciurma aveva probabilmente diritto di precedenza, ma vi erano senz’altro alcune ore riservate, durante le quali era concesso ai passeggeri di mandare i propri servi a cucinare il cibo. Una volta procuratosi un passaggio, il viaggiatore doveva darsi da fare per ottenere il visto d’imbarco — questo perlomeno accadeva in alcuni porti, non siamo però sicuri che il visto fosse richiesto dapper­ tutto. Era sicuramente necessario per recarsi in Egitto, ma l’Egitto, a causa della sua importanza vitale come fonte di grano e di entrate fiscali, sottostava a una regolamentazione per molti aspetti piu rigida delle altre province dell’Impero. Chi voleva partire da Alessandria per esempio, doveva presentare domanda al governatore il quale, se deci­

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deva di concedere l’autorizzazione, demandava a un funzionario il compito di rilasciare il documento di permesso. Ciò implicava il pa­ gamento di una tassa, che variava a seconda della persona del richie­ dente. A noi è fortunatamente giunto un elenco delle tasse cui erano sottoposti i visti rilasciati per partire da Alessandria alla volta del Mar Rosso nel 90 d.C. Tale lettura riserva non poche sorprese: il comandante di una nave mercantile pagava otto dracme, i militari im­ barcati dieci, ogni marinaio e il carpentiere cinque. Un operaio spe­ cializzato otto dracme, come il comandante. Sembra che l’ammini­ strazione intendesse scoraggiare le donne che intendevano partire poi­ ché le mogli dei soldati erano tassate per venti dracme e le prostitute per la stupefacente cifra di centotto dracme. Con ravvicinarsi del giorno della partenza il viaggiatore prepa­ rava i bagagli (viduli, manticae) che, come capitava ancora fino al se­ colo scorso, comprendevano oltre agli abiti anche tutto quanto era necessario per cucinare, mangiare, fare il bagno, dormire: da pentole e padelle a materassi e coperte. Doveva poi trovare spazio per le provviste che, in occasione di certi viaggi - per andare da Roma ad Alessandria, ad esempio, si restava in mare almeno dieci giorni occupavano moltissimo posto. Infine si trasferiva con bagagli e servitù in una locanda nelle vicinanze del porto, oppure nella casa di qualche amico. E qui egli si metteva ad attendere l’annuncio della partenza della sua nave, dato da un araldo. Nessuna nave infatti partiva a una data fissa, sia perché doveva attendere l’arrivo del vento ad un qua­ drante opportuno, sia perché bisognava sempre fare i conti con gli auspici. Il diffondersi della superstizione, come si è già accennato (v. pag. 107), caratterizzò tutta quanta l’epoca imperiale romana; inoltre la gente di mare era particolarmente superstiziosa. In moltissimi gior­ ni dell’anno il calendario religioso proibiva qualsiasi genere di affari, compresa la partenza delle navi. Cosi come oggi si ritiene che « ve­ nerdì 13 » sia un giorno sfortunato, cosi nessun marinaio romano sarebbe salpato il 24 agosto, il 5 ottobre ο Γ8 novembre, che erano considerati giorni nefasti. Lo stesso dicasi per l’ultimo giorno di ogni mese, durante il quale era opportuno non trovarsi affatto in mare. Ammesso che il vento fosse favorevole e la data opportuna, i re­ sponsabili della nave provvedevano a compiere un sacrificio prima del­ la partenza (una pecora o un toro: Poseidone preferiva i tori) e, se i pronostici non erano favorevoli, questa veniva rinviata. Se il vento era favorevole, la data opportuna e il sacrificio si concludeva positi­ vamente, la superstizione avanzava ancora tutta una serie di cattivi presagi: uno starnuto mentre si saliva la passerella era un cattivo

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segno (buon segno invece uno starnuto a destra durante il sacrifi­ cio), un corvo o una gazza che si posassero gracchiando sull’albera­ tura erano anch’essi di cattivo presagio, come pure l’apparizione di qualche relitto sulla spiaggia e l’uso di certe parole ed espressioni. Una navigazione poteva anche venir condizionata dai sogni, sempre che i viaggiatori o gli ufficiali di bordo ci credessero, cosa normalis­ sima a quei tempi. Secondo un antico manuale dedicato a questo argomento, sognare acque torbide o una chiave o un’ancora rappre­ sentavano un avvertimento di non partire assolutamente per un viag­ gio per mare. I capri presagivano mare mosso o tempesta - parti­ colarmente violenta se l’animale era nero. I cinghiali indicavano vio­ lente tempeste. Lo stesso valeva per i tori che, se per caso erano sognati mentre incornavano qualcuno, indicavano l’affondamento del­ la nave. Le civette e gli altri uccelli notturni erano segno di tempesta o di attacco dei pirati, i. gabbiani e gli altri uccelli marini signifi­ cavano pericolo, ma non morte. In generale sembra che i sogni favo­ revoli siano stati di numero assai minore rispetto agli altri. I presagi non riguardavano solo il momento dell’imbarco, ma continuavano ad aver valore anche durante il viaggio. I sogni finora ricordati, ad esempio, avevano lo stesso significato sia che fossero stati sognati in una locanda presso il porto, sia sul ponte della nave. Gli uccelli che si posavano sull’alberatura durante il viaggio erano di buon augurio: indicavano che la terra era vicina, e molti comandanti che avevano perduto l’orientamento riuscivano spesso a rimettersi in rotta seguendo il volo degli uccelli. Se il tempo era buono non biso­ gnava assolutamente tagliarsi né le unghie né i capelli; ma se diven­ tava cattivo, unghie e riccioli potevano essere offerti alle onde perché si placassero. Non era lecita la bestemmia, che era un cattivo segno anche se scritta su una lettera ricevuta a bordo. Era proibito ballare. Se durante il viaggio qualcuno moriva, il suo corpo veniva immedia­ tamente gettato in mare, poiché la morte a bordo era il peggiore fra tutti i presagi. I passeggeri trascorrevano il tempo come meglio potevano. Si fa­ cevano compagnia a vicenda anche perché le grandi navi, come quelle che facevano servizio tra Roma e Alessandria, potevano portarne pa­ recchi. Giuseppe Flavio andò una volta a Roma su una nave che portava seicento passeggeri. Alle persone importanti era concesso un posto a poppa dove potevano chiacchierare con il comandante - l’equi­ valente insomma di chi pranza al tavolo del comandante sui mo­ derni transatlantici di linea. Leggere, per passare il tempo, era riser­ vato a quanti potevano permettersi il prezzo di un libro, che era allo­

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ra molto alto essendo i libri manoscritti; i viaggiatori preferivano i co­ dici in pergamena, molto simili ai moderni libri, piuttosto che i ro­ toli i quali erano non solo piu ingombranti (erano scritti solo da una parte del foglio), ma anche piu scomodi perché bisognava reg­ gerli con due mani. Il gioco come passatempo non era sconosciuto e deve aver aiutato ad ammazzare molte ore. Restava poi sempre la possibilità di osservare le manovre della nave: il nocchiero che non si serviva, come oggi, di una ruota collegata a un timone a poppa, ma che manovrava una barra collegata a due enormi remi di gover­ no, sistemati lateralmente alla poppa (Fig. 6), un sistema altrettanto efficiente quanto il timone a ruota; i marinai che tesavano le scotte della grande vela maestra o della gabbia triangolare o della trinchetti­ na; i mozzi che gettavano fuori bordo l’acqua di sentina camminando su una ruota da mulino che attivava una pompa; gli altri marinai che dal cassero passavano sulla barchetta di servizio, che veniva rimor­ chiata a poppa, le razioni al compagno che da solo vi stava di guar­ dia; il carpentiere (Fig. 6) che a prua, sul ponte, preparava remi di rispetto, bozzelli, caviglie ed altro; in breve, tutti quei lavori che, giorno dopo giorno, hanno sempre animato la vita di un veliero in qualsiasi epoca. Il problema di come trascorrere le ore scompariva non appena il tempo diventava cattivo. In tal caso tutti gli uomini a bordo, passeggeri o marinai che fossero, dovevano mettersi al lavoro. Quando una tempesta colpi la nave di san Paolo, egli e gli altri passeggeri aiutarono dapprima a gettare fuori bordo il paranco posto sul ponte. Sotto le raffiche del vento il pennone, un’enorme antenna lunga quasi quanto la nave stessa, doveva essere ammainato e solida­ mente rizzato al ponte oppure gettato fuori bordo; questi erano la­ vori che richiedevano gli sforzi riuniti di tutti. In seguito, quando il pericolo divenne ancor piu grave, Paolo e gli altri si affrettarono a gettare in mare tutto il carico di grano. A quell’epoca o si man­ teneva la nave a galla o l’unica alternativa era la morte, dal momento che le navi antiche non possedevano lance di salvataggio; la barchetta che veniva rimorchiata poteva contenere al massimo una dozzina di persone ed era destinata all’utilizzo nel porto, non certo a salvare i naufraghi. Appena la nave si presentava all’entrata del porto d ’arrivo, il co­ mandante compiva un sacrifìcio di ringraziamento a poppa (Fig. 6). Un « rimorchiatore » - specie di pesante lancia condotta da robusti re­ matori che manovravano remi lunghissimi - le usciva incontro e, pren­ dendo una cima lanciata dalla nave, rimorchiava quest’ultima fino ai moli di discarica, dove veniva infine solidamente ormeggiata a una

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grossa bitta di pietra infissa nella banchina. Veniva abbassata la passe­ rella, gli scaricatori sciamavano a bordo per iniziare lo sbarco delle mer­ ci, e finalmente il passeggero, tirando un sospiro di sollievo, poteva mettere piede sulla terraferma: diciamo un sospiro di sollievo anche perché la tensione nervosa era diventata sempre piu forte dal mo­ mento in cui il porto era stato avvistato: da quel momento in poi, infatti, era fondamentale non pronunciare una sola parola, non fare un solo gesto che fossero di cattivo auspicio. Le comodità e la velocità di un viaggio per mare dipendevano molto dalla nave; ce n’erano di tutti i tipi, dalle pesanti unità mer­ cantili d ’alto mare ai piccoli legni per il traffico costiero. Quando Agrippa I re di Giudea dovette organizzare il suo viag­ gio da Roma alla Palestina, l’imperatore Caligola gli consigliò di non seguire la rotta costiera « da Brindisi alla Siria, che e lunga e fati­ cosa, ma di attendere i venti etesii e puntare direttamente su Ales­ sandria ». Aggiunse anche che « le navi sono le migliori e i marinai i più esperti che esistano; pilotano le loro navi come cavalli da corsa su una rotta perfettamente dritta come il getto di un dado ». Caligola pensava alle grandi navi che facevano spola tra Roma e Alessandria trasportando il grano egizio necessario al nutrimento della capitale. Per una fortunata coincidenza noi sappiamo com’erano fatte: intorno alla metà del II secolo, infatti, una di queste navi incappò in una tem­ pesta tanto violenta che fu gettata fuori rotta e dovette rifugiarsi nel Pireo, il porto di Atene. L ’arrivo di una delle unità della famosa flotta del grano fu un avvenimento per quel porto ormai fuori dalle grandi rotte commerciali. Tutta la città accorse a vedere lo spettacolo, com­ preso, per nostra fortuna, Luciano. Egli e i suoi amici percorsero gli 8 km che separano Atene dal mare per vedere l’oggetto di tanta eccitazione. Anch’egli ne rimase stupefatto e cosi ce lo descrive: « Com’era grande la nave! Il carpentiere [di questa nave] mi disse che era lunga 55 m, larga piu di un quarto di tale misura e alta 13 m e^mez­ zo dal punto piu basso della stiva al ponte. E che dire dell altezza dell albe­ ro, e del pennone e dello strallo che dovevano usare per tenerlo su! E il modo come la poppa si ergeva in una lenta curva terminante in una testa zoomorfa dorata, contrapposta all’altra estremità, la prua, dalla linea più affinata con le rappresentazioni di Iside, la dea di cui la nave portava il nome su ogni lato! Tutto era incredibile: il resto delle decorazioni, le pitture, la vela rossa principale e ancor di più le ancore con gli argani e i verricelli e le cabine nella parte posteriore. L ’equipaggio era come un esercito: mi dissero che la nave portava sufficiente grano da sfamare tutti ad Atene, per un anno. Ed essa dipende per la sua sicurezza da un piccolo,

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vecchio uomo che manovra quei grandi remi di governo con una barra che non è più grande di un comune bastone! Essi me lo indicarono: un piccoletto, dai capelli crespi, mezzo pelato: Heron era il suo nome, almeno credo ». t Lunga piu di 55 m, larga piu di 13, con una stiva profonda anch essa 13 m: era veramente una nave poderosa, probabilmente in grado di portare piu di 1.000 tonnellate di grano, circa il triplo del carico trasportato dai mercantili che facevano la spola tra l’Europa e 1 America prima del 1820. Probabilmente poteva imbarcare anche un migliaio di passeggeri. « Sulla nave eravamo in tutto duecentosettantasei » dice Luca della nave che, sulla stessa rotta, prese assie­ me a Paolo al porto di Myra; ma si trattava di un viaggio fuori stagione. L Isis stava al sommo della scala, era l’ammiraglia della flotta mercantile romana, la nave piu grande e perfezionata sulla quale un passeggero potesse acquistare un passaggio. Non stupisce che l’im­ peratore Vespasiano preferisse queste navi alle galee di cui avrebbe potuto disporre. All’altro estremo della scala c’erano le modeste im­ barcazioni che svolgevano servizio costiero. Noi possiamo averne una idea grazie alle descrizioni di Sinesio, un intellettuale greco conver­ tito al cristianesimo e che divenne anche vescovo di Tolemaide. Egli, nel 404 d.C., si imbarcò su uno di questi legni per un viaggio da Alessandria fino a Cirene, lungo la costa egizia e libica, e descrisse le sue esperienze in una lettera, molto amabile e simpatica, indirizzata a suo fratello ad Alessandria. Benché molto di quello che egli rac­ conta vada preso con beneficio d ’inventario - Sinesio infatti mira molto piu a divertire il lettore che non a informarlo - la sua nar­ razione ci fornisce un quadro divertente e illuminato di che cosa significava un viaggio su quelle povere imbarcazioni: « Il nostro armatore era oberato da un mare di debiti. Dodici erano i marinai, tredici con il comandante. Piu della metà, capitano compreso, erano giudei, gente strana, convinta di fare cosa pia nell’adoperarsi per uccidere quanti piu Greci possibile. Gli altri erano contadini che dall’anno prima non toccavano il remo. L ’unica cosa comune a tutti era l’avere qual­ che difetto fisico. E cosi, quando non si era in pericolo, essi si prendevano in giro a vicenda e usavano chiamarsi non già per nome, ma per sopran­ nomi d infortunio: Storpio, Ernioso, Monco, Strabico. Ognuno aveva un soprannome^ del genere, cosa che ci divertiva assai. Nel momento del pericolo però non c’era di che ridere, anzi a causa di questi difetti avemmo occasione di gemere, noi passeggeri che eravamo piu di cinquanta, dei quali circa un terzo donne, molte anche giovani e belle. Ma non hai da invidiarci. Infatti una cortina ci separava, e fittissima, un pezzo di una

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vela che si era da poco lacerata, un vero muro di Semiramide posto di fronte agli occhi di uomini onesti e temperanti. Perfino Priapo sarebbe stato onesto e temperante se avesse viaggiato sulla nave di Amarante. Non ci fu un solo momento di sollievo dal terrore di un pericolo mortale. « Appena oltrepassato [il capo] che è dalle vostre parti con il tem­ pio di Poseidone, egli decide di dirigersi a tutte vele verso Taposiride e di mettersi nei guai intorno a Scilla, quella che, dicono i libri, ci getta nel panico. Appena ce ne rendemmo conto, a un pelo dal disastro, ci abbandonammo a un grido e riuscimmo a stento a convincerlo a non dare battaglia contro gli scogli. Allora egli invertì la rotta come se avesse cam­ biato idea, diresse la nave verso il mare aperto, sempre contrastando il mare come meglio poteva, ma dopo un po’ fummo aiutati da un buon vento favorevole da sud ». Se Sinesio avesse capito qualcosa di navigazione, avrebbe meglio compreso che cosa stava succedendo. Il comandante era partito fa­ cendo un lungo bordo verso terra, prolungandolo quanto piu possi­ bile, come qualsiasi buon timoniere farebbe. « Egli invertì la rot­ ta », ma non perché avesse cambiato idea; mise invece la nave sul­ l ’altro bordo dove, come lo stesso Sinesio deve ammettere, fu aiutato da un vento favorevole che spirava verso il largo. Proseguendo su questo bordo, si allontanò sempre piu da terra e Sinesio, preoccupato per l’incompetenza dell’equipaggio e di minuto in minuto sempre piu nervoso, cominciò a lamentarsi amaramente. Amarante spiegò con pazienza che cosa intendeva fare, ma Sinesio si lasciò convincere solo a metà. Verso sera il vento rinforzò e a mezzanotte si trovarono nel cuo­ re di una tempesta: « Gli uomini piangevano, le donne urlavano. Tutti imploravano aiuto, invocavano la protezione degii dei, ricordavano i loro cari. Solo Amarante era di buon umore pensando che stava defraudando i suoi creditori... Vidi poi i soldati [buona parte dei passeggeri erano componenti di un’unità di cavalleria araba] che avevano estratte le spade. Chiesi loro perché e mi risposero che preferivano offrire le proprie anime all’aria aperta, sul ponte, piuttosto che perire tra le onde. Autentici discendenti degli eroi di Omero, pensai, e li approvai. Uno cominciò a gridare di appenderci al collo tutto l’oro che avevamo. Chi ne aveva se lo mise al collo, e non solo l’oro, ma tutto ciò che aveva un prezzo in oro. Perfino le donne, adornan­ dosi, davano parte dei propri ornamenti a quelli che ne avevano bisogno. Questa è una usanza che risale a tempi antichissimi, perché i naufraghi devono poter pagare il proprio funerale in modo che, chiunque li trovi, ne tragga guadagno e perciò presti loro qualche attenzione... « La nave procedeva con tutte le vele spiegate perché non si poteva ammainarle. Molte volte ci demmo da fare intorno alle drizze, ma ci af­ faticammo inutilmente poiché erano bloccate nei bozzelli. E dentro di noi

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I viaggi ai tempi dei Romani

cominciammo anche a temere, sempre ammesso che sfuggissimo alla tem­ pesta, di avvicinarci a terra nel cuor della notte in quelle disperate con­ dizioni. Ma il sole sorse prima che ciò potesse accadere - e mai con piu gran piacere da parte nostra. Con l’aumentare della temperatura il vento co­ minciò a diminuire e, avendo finalmente le cime asciutte, fummo in grado di farle scorrere e manovrare cosi le vele. Rimpiazzare la grande vela con una da tempesta era impossibile, infatti quest’ultima era stata pignorata. Ripiegammo perciò parte della vela come si fa con una tunica e nel giro di quattro ore, dopo esser stati tanto vicini alla morte, sbarcammo in una landa remota e deserta: non c’era una città, non una fattoria nel raggio di una quindicina di miglia. La nave era ancora al largo (in quel luogo non c’era porto), trattenuta da una sola ancora - la seconda era stata venduta e Amarante non ne possedeva una terza. Appena toccammo l’agognata terra, ci buttammo a baciarla come avremmo fatto con una madre ».

CAPITOLO QUINTO

L E STRADE ROMANE

La rete di strade intessuta dai Romani su tutta l’estensione dei territori da loro dominati rappresentò una realizzazione non solo splen­ dida, ma anche profondamente significativa. Grazie ad essa i Romani poterono infatti creare e conservare il piu duraturo Impero della storia europea: tracciare i solchi lungo i quali mercanti, religiosi e soldati avrebbero sparso il seme del cambiamento nel mondo occi­ dentale; determinare dove sarebbero sorti molti grandi centri urbani dell’Europa. Solo uno stato ricco e potente, la cui autorità domi­ nava incontrastata su territori vastissimi, avrebbe potuto portare a compimento un’impresa simile: costruire migliaia di chilometri di grandi strade, tenerle sempre o quasi in perfetta efficienza, fornirle dei necessari servizi e di un’adeguata protezione e vigilanza. Quando l ’Impero Romano si spezzò in numerosi stati indipendenti, si frantu­ mò anche il suo grandioso sistema stradale e, a causa della mancanza di organizzazione e di danaro che caratterizzò gli stati medievali, a poco a poco i frammenti decaddero. Carrozze spagnole, francesi e in­ glesi sobbalzavano penosamente o s’impantanavano su strade su cui, quindici secoli prima, le raedae e le carrucae romane correvano veloci su un fondo levigato e resistente a qualsiasi tempo. I Romani appresero l’arte di costruire le strade da eccellenti mae­ stri, gli Etruschi. Questo misterioso popolo, che si stabili nell’attuale Toscana nel IX secolo a.C, e vi prosperò per cinquecento anni, ha la­ sciato eccezionali testimonianze della propria abilità nel campo del­ l ’ingegneria, soprattutto dell’ingegneria idraulica. Insegnarono a Ro­ ma come costruire canali, acquedotti, ponti e, per l’argomento che c ’interessa, strade perfettamente drenate. Gli Etruschi tuttavia si era­ no limitati a costruire strade ben livellate, drenate e perfettamente levigate, ma sterrate. I Romani fecero un decisivo passo avanti: vi aggiunsero la pavimentazione. La tecnica era ben nota e in Medio Oriente era già impiegata da secoli, ma solo per brevi distanze e

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in località particolari (v. pagg. 34-5). I Romani la utilizzarono per miglia e miglia su tutte le loro strade piu importanti. Prima fra le grandi arterie romane fu la Via Appia, la regina viarum, messa in cantiere nel 312 a.C., anno in cui era censore —e quin­ di responsabile delle opere pubbliche - Appio Claudio. In origine giungeva sino a Capua, poi fu prolungata fino a Brindisi che era il por­ to di partenza per i viaggi diretti in Oriente (v. pag. 120). Un secolo dopo furono messe in opera due grandi strade che conducevano alle estremità settentrionali della penisola. La Via Flaminia, che prese il nome da Gaio Flaminio censore nel 220 a.C., va da Roma a Rimini sulla costa adriatica valicando gli Appennini in punti cosi ben protetti che era molto difficile potesse venir bloccata in inverno dalla neve; alcuni decenni dopo il console Marco Emilio Lepido aggiunse la Via Emilia da Rimini a Piacenza (in età imperiale fu prolungata fino a Milano e ad Atene da un lato, ad Aquileia dall’altro). L ’altra, la Via Aurelia i cui lavori furono iniziati nel 144 a.C. o anche prima, rac­ coglieva il traffico diretto a nord lungo la costa occidentale e arri­ vava fino a Genova. In questo modo, intorno alla fine del II secolo a.C., la penisola italiana era percorsa in tutta la sua lunghezza da strade di prima ca­ tegoria. Il passo successivo, quando Roma cominciò a estendersi fuori dell’Italia, fu di prolungare queste strade per permettere un flusso ininterrotto di soldati e messaggeri dalla capitale fino ai limiti estremi dei paesi dove giungeva l’autorità di Roma. Occorre ricor­ dare che queste splendide arterie di grande traffico, per quanto usate da folle di mercanti e viaggiatori, erano in primo luogo costruite dall’esercito per l’esercito. Dapprima i costruttori di strade concentrarono l’attenzione sul­ l’Oriente. Al di là dell’Adriatico, di fronte a Brindisi, dove terminava la Via Appia, c’era la città di Durazzo. Di qui, pochi anni dopo il 148 a.C., fu iniziata la costruzione della Via Egnazia che, attraverso la Macedonia, giungeva a Tessalonica (l’odierna Salonicco) e si col­ legava con le strade che portavano alle città-stato greche. Fu poi pro­ lungata fino a Bisanzio (poi Costantinopoli, oggi Istanbul); da qui in avanti gli ingegneri romani non dovettero far altro che migliorare e rafforzare quanto Assiri, Persiani e Greci avevano già costruito da se­ coli. Nel I secolo d.C. un viaggiatore poteva prendere la Via Egnazia fino a Bisanzio, farsi traghettare attraverso il Bosforo, e quindi affi­ darsi alle ottime strade che intersecavano tutta l’Asia Minore verso est e verso sud fino alla Siria e Alessandria d ’Egitto. L ’Occidente invece era percorso soltanto dai sentieri usati dalle

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tribù galliche e fu necessario molto lavoro per portarli al livello delle strade romane. Da Genova lungo la costa fu aperta poco alla volta una strada che convogliava tutto il traffico diretto a Marsiglia, Narbona, Tarragona e infine Cadice, sulla costa atlantica della Spagna. Oltre una dozzina di strade scavalcavano le Alpi (Fig. 8): i passi del Monginevro, del Piccolo e Gran S. Bernardo, dello Spluga, lo Julier Pass collegavano l’Italia con la Francia e la Svizzera, mentre Aqui­ leia era unita alla valle del Danubio grazie a numerosi passi abba­ stanza agevoli data la limitata altitudine. Per qualche ignota ragione gli ingegneri romani trascurarono molti dei passi che oggi sono i pre­ feriti: non vi fu una carrozzabile sul Brennero fino al II secolo d.C., né vi furono per tutta l’antichità strade attraverso il Moncenisio, il Sempione o il S. Gottardo. Nel Nordafrica un lungo nastro stradale si stendeva da Alessan­ dria fino in Algeria. Cosi nel I secolo d.C. tutto il Mediterraneo era circondato da un anello pressoché ininterrotto di strade. Da queste si dipartivano altre vie e diramazioni che penetravano profondamente nell’interno dell’Europa, dell’Asia e, in misura minore, dell’Africa settentrionale. In ogni provincia romana due o tre città fungevano da nodi stradali e molte hanno continuato anche in epoca moderna a svolgere tale funzione. Nei pressi di queste città capita spesso di trovare sotto il manto d’asfalto o i binari ferroviari ancora la pavimentazione romana. In Spagna v ’erano Saragozza, Cordoba e Mérida; di queste solo Mérida è decaduta fino a diventare una località di puro interesse archeologico. In Francia c’erano Lione e Reims ed entrambe sono ancor oggi attivi nodi stradali e ferroviari. In Inghilterra c’era Londra e in Italia Roma, Milano e Aquileia. Solo quest’ultima, dopo la ca­ duta dell’Impero, fu oscurata dalla nascente potenza della vicina Ve­ nezia. Fra le città greche dell’Asia Minore i Romani scelsero Per­ gamo, Efeso ed Apamea quali perni del sistema stradale, mentre nel­ l’Africa settentrionale la scelta cadde su Cartagine in Tunisia, Tebessa e Costantina (Bona) in Algeria. Il declino della civiltà sia in Asia Mi­ nore sia in Africa ridusse molti di questi luoghi al rango di città fantasma o di sperduti villaggi quali oggi sono. « Le strade vennero tracciate ben dritte attraverso la campagna, senza curve e la loro pavimentazione era fatta di pietre squadrate, il fondo di sabbia compatta. Ogni avvallamento veniva riempito. I torrenti e i fossati che attraversavano la strada venivano valicati da ponti; i due lati erano alla stessa altezza e correvano paralleli. Dap­

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pertutto l’opera si presentava omogenea e bella a vedersi. » Cosi Plutarco descriveva le strade realizzate da Caio Gracco tra il 123 e il 121 a.C. Il tono di Plutarco è forse un po’ grandioso, ma in verità 10 storico non esagera: le strade di grande importanza venivano co­ struite proprio nel modo da lui riferito. Caratteristica delle strade romane è il tracciato rettilineo: in pianura esse corrono in linea per­ fettamente retta e anche là dove il terreno non è perfettamente piano, come in Inghilterra, vi sono dei rettifili che si prolungano per decine di chilometri perdendo solo poche centinaia di metri per le curve. Ancor oggi in Europa si può essere quasi certi di seguire l’antico tracciato di una strada romana, quando si percorrono chilometri e chi­ lometri di strada senza una curva. Il principale obiettivo dei Romani era di avere strade utilizza­ bili in ogni stagione dell’anno e con qualsiasi tempo. In altre parole, esse dovevano avere un fondo solido, essere ben drenate e, dove 11 traffico risultava molto pesante, essere ricoperte da una pavimen­ tazione duratura. Tutto ciò non costituiva impresa di poco conto per gli ingegneri romani i quali disponevano di una limitata manodopera — i lavori di molte grandi strade furono eseguiti dall’esercito che non sempre poteva impiegare truppe per lavori a tempi lunghi come richiedeva la costruzione di una strada - e di attrezzi molto elemen­ tari: piccone, martello, zappa e badile. Le rocce che ostacolavano il percorso venivano faticosamente rimosse a colpi di piccone, i cu­ muli di terra erano spalati via e i materiali di scavo, in entrambi i casi, venivano asportati per mezzo di ceste: la carriola, utilissimo stru­ mento già da secoli impiegato in Cina, giunse in Europa soltanto nel Medio Evo. I risultati conseguiti con queste primitive attrezzature sono sbalorditivi (Fig. 8). Vi è un punto della costa presso Terracina dove da una falesia a picco fu rimosso un enorme spuntone di roccia alto 126 piedi (38 m circa) per far passare la Via Appia tra la scogliera e il mare; noi ne conosciamo l’altezza poiché i costruttori incisero dei numeri nella roccia, a cominciare dall’alto, per registrare quanti piedi erano stati scavati in essa, e la strada correva appunto all’altezza del CXXVI segno. La strada che oggi segue il tracciato della Via Flaminia utilizza un tunnel lungo circa 40 m scavato nel 77 d.C., e vi sono anche altri tunnel (per quanto non piu in uso) che raggiungono la lunghezza di un chilometro. I Romani però affronta­ vano opere cosi impegnative solo quando era assolutamente indispen­ sabile. Il loro usuale criterio era di trarre vantaggio dal terreno e non di contrastarlo, e in questo erano molto abili. Quando le strade si trovavano in pianura, nella Val Padana ad

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esempio, venivano costruite perfettamente dritte, talvolta leggermen­ te sopraelevate rispetto al terreno. Ciò non solo era d’aiuto al dre­ naggio, ma nelle zone dove nevicava sovente, permetteva di ricono­ scere la strada anche dopo una forte nevicata. Se il terreno diventava collinoso, invece di costruire le strade sul fondovalle, i Romani pre­ ferivano collocarle lungo i fianchi, anche se ciò comportava piu curve e quindi maggior lunghezza. Laddove oggi una moderna superstrada seguirebbe il fondovalle, i Romani invece la costruivano in alto, seguendo i giri e i rigiri dei pendìi. Loro scopo era evitare di passare sopra le paludi o i terreni acquitrinosi, allontanare il pericolo delle piene primaverili e attraversare i fiumi nella parte alta del loro corso dove li si poteva comunque guadare, piuttosto che nella parte piu profonda dove sarebbe stato necessario costruire dei ponti. Inoltre non dobbiamo scordare che queste strade erano destinate soprattutto a scopi militari e un pendio lungo il fianco di una strada garantiva le truppe in marcia da possibili attacchi da quella direzione. Per i pro­ gettisti romani le curve supplementari rappresentavano un prezzo mi­ nimo da pagare rispetto ai grandi vantaggi. Dopo aver stabilito la direzione di una strada, gli ingegneri ne progettavano il tracciato, operazione che spesso superava le possibi­ lità dei loro primitivi strumenti. Le strade erano costruite a segmenti e sovente, a causa di una misurazione imprecisa o di un errato calcolo delle pendenze, i segmenti si univano in modo irregolare o addirit­ tura si trovavano a livelli diversi. L ’operazione successiva era di stu­ diare accuratamente la natura del terreno per stabilire che tipo di fondo occorresse impiegare. Siamo soliti leggere nei manuali che i Romani per costruire le strade piu importanti scavavano per una profondità di 70 cm-1 m e poi ponevano un fondo composto di tre differenti strati, uno dei quali era impermeabilizzato con cemento. Si trae anche la sensazione che tutte le strade fossero costruite cosi per tutta o quasi tutta la loro lunghezza. Niente di piu sbagliato! L ’errore risale a una serie di errate conclusioni a cui giunse, nel XV II secolo, uno studioso francese e che sono state riportate acriticamente da ogni scrittore fino a oggi. Negli ultimi decenni altri studiosi hanno compiuto esami sui resti delle strade romane in molte località deH’Europa occidentale, so­ prattutto in Italia e in Francia, e hanno cosi potuto fare due scoperte sensazionali. Per prima cosa i Romani non usavano mai cemento nella costruzione delle strade. In secondo luogo non si limitarono mai ad un solo tipo di fondo, ma utilizzarono ogni volta quello che meglio si adattava alla natura del terreno.

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Una strada importante doveva avere una superficie resistente a tutte le variazioni meteorologiche. Dove il traffico era leggero, come nelle province, gli ingegneri si accontentavano di stendere una su­ perficie di ghiaietto; ma di questo riparleremo piu avanti. Dove in­ vece il traffico era pesante, come lungo la Via Appia, la Flaminia o le altre grosse arterie che si dipartivano da Roma, essi dovevano co­ struire una strada di prima qualità, una via silice sfrata, « strada pavimentata con silice », con una pavimentazione cioè di pietre poli­ gonali di roccia ignea resistente come il basalto (silice), il granito o il porfido. Le pietre erano massicce, non di rado misuravano 1/2 m di larghezza e 20 cm di spessore, in certi casi anche molto di più, ed erano commesse con grande abilità, come i pezzi di un rompi­ capo, fino a formare una superficie assolutamente liscia. Poiché la roc­ cia ignea può essere tagliata in blocchi perfettamente poligonali, si potevano realizzare perfette commessure semplicemente col porre i blocchi cosi com’erano uno accanto all’altro sul fondo della strada; è probabile che i pezzi contigui fossero già precedentemente segnati nelle cave e messi in opera in un unico lotto. La chiave di tutto il problema stava nel preparare un fondo tale per cui le pietre non si muovessero e non formassero delle depressioni. Queste erano asso­ lutamente da evitare poiché, oltre a sottoporre il traffico a continue scosse, trattenevano l’acqua che poteva poi filtrare in profondità e mi­ nare le fondamenta della strada. Game disse un poeta romano dopo aver osservato i lavori di costruzione di una strada tracciata su un soffice terreno sabbioso a ovest di Napoli, gli ingegneri dovevano « preparare le fondamenta per la pavimentazione in modo che il suolo non cedesse, il fondo non diventasse traditore e gli strati sottostanti non diventassero instabili quando le lastre di pavimentazione avrebbe­ ro gravato su di essi [quando cioè sarebbero passati dei carichi pe­ santi] ». A volte una strada correva su una superficie cosi solida che non era necessario nessun tipo di fondo e il lavoro si limitava a un livellamento del tracciato e alla posa dei lastroni di pietra direttamente sopra il terreno; c’è un tratto perfettamente conservato della strada tra Antiochia e Calcis in Siria (Fig. 7) che è stato costruito in questo modo. Dove il terreno non era tanto resistente gli onerai sba­ vavano finché non giungevano a uno strato abbastanza solido. Nella fossa che ne risultava ponevano il fondo, fatto di pietre arrotondate mescolate a una massa di argilla o di terra argillosa; lo spessore del fondo dipendeva esclusivamente dalla profondità della fossa scavata. Quando la strada era sopraelevata ed esigeva un fondo, cosa che ca­ pitava spesso, questo veniva innalzato sul terreno fino a raggiungere

Le strade romane

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il livello di altezza desiderato. Sembra che gli ingegneri romani fos­ sero pignoli su una sola cosa: la terra o l’argilla usate come legante dovevano provenire da un’altra località, non potevano provenire dai lavori di sbancamento già eseguiti per la strada. Affinché le sponde dei terrapieni non fossero corrose dalle acque si costruivano dei ter­ razzamenti fatti con pietre che venivano squadrate nel caso si vo­ lesse creare anche un effetto decorativo. A volte i progettisti non potevano evitare di far passare la strada attraverso paludi o terreni sabbiosi; in tal caso gli operai dovevano scavare molto in profondità per apprestare un fondo adatto. Di solito si scavava un profondo fossato dentro il quale venivano scaricate pie­ tre fino a che l’enorme peso non garantiva la stabilità del fondo. Quando non era possibile adottare questo sistema, venivano gettati dei pontili preparati dai carpentieri alla maniera di griglie di legno, sulle quali veniva steso uno strato di ghiaietto. Quando il fondo era steso, bisognava provvedere a ricoprirlo con le lastre di pavimentazione che venivano disposte in modo che la strada non risultasse perfettamente piatta, bensì a dorso d’asino, vale a dire piu alta nel mezzo che sui lati per permettere alle acque di de­ fluire. Sulle strade tracciate lungo il fianco delle montagne lo stesso risultato veniva ottenuto imponendo alla strada una leggera inclina­ zione verso il fondovalle. Infine — almeno sulle vie principali — ve­ niva costruita su ogni lato della strada una sponda di pietra legger­ mente rialzata; al di là di questa veniva tracciato un sentiero non pavimentato, largo poco piu di 1 /2 m, che serviva per i pedoni e gli animali da soma. Lungo le sponde venivano sistemate a intervalli delle pietre piu alte che servivano ad aiutare chi doveva montare a ca­ vallo — ed erano senz’altro utilissime in un’epoca in cui non si usa­ vano le staffe (v. pag. 146) — o a salire su carri dalle ruote molto alte. Lungo tutte le strade piu importanti, anche quelle non fornite di sponde di pietra né di sentieri laterali, correvano dei canali (fossae) su uno o entrambi i lati per favorire il deflusso dell’acqua pio­ vana. Non solo il fondo, ma anche la superficie variava a seconda del tipo di terreno. Nel Nordafrica anche le strade piu importanti erano semplici piste segnate attraverso la sabbia. In montagna e nelle zone rocciose le strade venivano spesso costruite livellando la roccia per la larghezza necessaria (Fig. 8); in certi luoghi venivano scavate rotaie artificiali, simili a quelle che Greci ed Etruschi usavano secoli prima, per permettere ai carri di viaggiare con sicurezza, senza correre il ri­ schio di scivolare fuori strada (Fig. 8). In molti casi la costruzione

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di una strada dipendeva piu da eventi esterni che da fatti tecnici. Di quando in quando, per esempio, troviamo che a un tratto di stra­ da di ottima fattura segue un altro lungo tratto sterrato e assai me­ diocre; ciò significa probabilmente che un esperto ingegnere militare costruì la prima parte e poi, allontanatosi per qualche ragione, affidò la prosecuzione dell’opera agli abitanti del luogo. La larghezza delle strade era variabile. La Via Appia, la prima grande arteria progettata dai Romani, è larga in certi punti fino a 10 piedi romani (un piede romano corrisponde a 29,56 cm); in altre pa­ role una confortevole strada a due corsie dove i carri potevano facilmente sfilare l’uno in fianco all’altro. Talvolta misura 8 piedi, che era il minimo consentito per le strade a due corsie. Le strade che collegavano le località piu importanti erano talvolta a tre corsie, per una larghezza di 14-18 piedi. Molte fra le strade che conducevano a Roma si allargavano, nei pressi delle porte, fino a 30 piedi o anche piu. Queste misure si riferiscono solo alla strada vera e propria, cioè alla parte usata dai cavalieri e dai veicoli. Sponde e sentieri laterali aggiungevano almeno altri 5 piedi. Nelle zone di montagna, dove la costruzione di una strada era un lavoro lento e faticoso e il traffico per lo piu scarso, la larghezza era ridotta al minimo. In corrispondenza dei passi piu stretti le stra­ de si riducevano a una sola corsia larga circa 6 piedi e solo di tanto in tanto si allargavano per permettere il passaggio ai veicoli prove­ nienti dalla direzione opposta. Dove non era possibile né sbancare la roccia né scavare un tunnel, i costruttori ricorrevano a impalca­ ture di legno che sostenevano viadotti in legno: una soluzione piut­ tosto pericolosa poiché richiedeva sorveglianza e manutenzione con­ tinue. La pendenza della strade in salita veniva graduata con molta cura, ma restava sempre molto ripida rispetto a quella che usiamo noi, aggirandosi su un valore del 15 per cento. Ad esempio, sul passo del Maloja, tra l’Italia e la Svizzera, la strada moderna ha ventidue curve su un tratto in cui quella romana ne aveva solo tre. I Romani facevano passare le loro strade nei fondivalle allo sco­ po, tra l’altro, di poter guadare i corsi d’acqua... e non avevano nes­ sun imbarazzo a ricorrere ai guadi. In certi casi giungevano al punto di pavimentare il letto del corso d’acqua con lastre di pietra. Se ne­ cessario però costruivano anche i ponti che nelle località fuori mano erano in legno, mentre lungo le strade principali venivano edificati con solide strutture di pietra o di calcestruzzo ricoperto di pietra; i ponti erano solitamente ad arco o a serie di arcate poggianti su massicci piloni. La Via Flaminia attraversava un fiume presso Narni

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con un ponte (Fig. 9) la cui arcata centrale si elevava a piu di 18 m sull’acqua ed aveva una « luce » superiore ai 30 m. Un ponte romano costruito sotto Traiano viene ancor oggi usato per attraversare il Tago, presso Mérida nella Spagna meridionale; le sue sei arcate si ele­ vano a circa 73 m sopra il livello delle acque. Gli ingegneri romani progettavano i ponti con lunghe rampe d ’accesso per ciascun lato in modo da affrontare l’ingresso del ponte il piu orizzontalmente pos­ sibile. Quando una strada passava da una zona popolosa e attiva a un’al­ tra periferica, gradualmente perdeva le rifiniture, i sentieri pedonali, le bordure e infine l’elegante manto di pietre poligonali. In questi ca­ si le strade venivano pavimentate solo nei pressi delle città, nei cro­ cevia o in altri punti di una certa importanza; tutto il resto non era piu una via silice strafa bensì una via glarea sfrata, « strada ricoperta di ghiaia ». Il fondo era invece sempre approntato con la tipica cura dei Romani, scavando fino a raggiungere uno strato solido di terre­ no e stendendo uno spesso strato di pietre arrotondate legate con argilla o terra argillosa; dove necessario, il fondo dello scavo veniva rinforzato con uno strato di lastre di pietra. La parte superiore del fondo, appianata e conformata a dorso d’asino, costituiva la super­ ficie della strada; i canali di scolo aiutavano il deflusso delle acque. Tutte le strade secondarie erano costruite cosi o anche in modo piu primitivo fino a giungere alla via terrena, la semplice strada sterrata. Gli stanziamenti statali per il mantenimento delle strade erano predisposti in modo da favorire l’Italia a discapito delle province. In Italia ogni strada di una certa importanza aveva un curator, un commissario incaricato di provvedere alle riparazioni e a un ade­ guato servizio di guardia. Nelle province il governatore aveva, tra le altre, la responsabilità delle strade e perciò si limitava a disporre affinché vi provvedessero le comunità locali: esse dovevano pensare a riparare le strade costruite dall’esercito e a costruire dal nulla tutte le nuove strade che si rendessero necessarie. Come e con quale rapidità questi ordini venissero eseguiti è un altro discorso; molto spesso le comunità erano oppresse dalle tasse e dalla necessità di prestare altri servizi e non avevano né modo né voglia di pensare alle strade. L ’ultimo atto della costruzione di una strada era la posa in opera dei miliaria, le pietre miliari. Esse erano poste alla distanza di un mi­ glio romano ( 1.000 passi, ogni passo è fatto di 5 piedi romani, quin­ di 1.478 m) l’una dall’altra. In Italia ognuna portava scritta la distan­

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za da Roma o dalla città da cui aveva inizio la strada (Fig. 10). Nelle province esse a volte indicavano la distanza dalle città, a volte dal­ l’inizio della strada —per esempio lungo le strade che si dipartivano da Lione era indicata la distanza da quella città. In certi casi erano fornite anche altre informazioni, la distanza dal termine della strada o da alcune località importanti disposte lungo la strada. A Roma, ad una estremità del Foro, si trovava il miliarium aureum sul quale, in lettere d ’oro, erano indicate le distanze da Roma ai punti chiave dell’Impero. I nodi stradali nelle province avevano una pietra miliare simile. Per un viaggiatore che si spostasse a piedi o su un lento calesse, e volesse sapere quando avrebbe potuto trovare un piatto di cibo, un letto o un cambio di animali, le pietre miliari erano una tale benedizione che molte località presero addirittura il nome dalla pie­ tra che si trovava piu vicina. Sulla strada da Marsiglia a Aix, al quarto miglio romano da Marsiglia c’è un villaggio, un quartiere del quale si chiama Cars o Carts, denominazione sicuramente derivata da quartum·. in epoca romana la località veniva certo indicata come ad quartum lapidem, « presso la quarta pietra » ; al terzo miglio piu oltre, e quindi a 7 miglia romane da Marsiglia, c’è il villaggio di Septèmes, da septimum·, al nono miglio dalla città esisteva, nel Me­ dio Evo, una villa de nono·, e a quattordici miglia c’è il piccolo centro di Les Milles, che probabilmente deve il suo nome al miliarium che vi sorgeva. Oltre che dalle pietre miliari le strade erano fiancheggiate anche da monumenti sacri, soprattutto in onore di Mercurio, o del suo equi­ valente greco Hermes (v. pag. 52), protettore dei viaggiatori. Questi monumenti potevano essere veri e propri santuari costruiti lungo la strada oppure singole statue, spesso semplici e rozze, fino a semplici mucchi di sassi che in qualche modo simboleggiavano la divinità alla quale i viaggiatori passando rendevano omaggio aggiungendo, come nei tempi remoti, una pietra al mucchio. Naturalmente i Romani non furono gli unici a costruire strade nell’antichità. A ll’altro capo del mondo, i potenti signori della dina­ stia Han (200 a.C.-200 d.C.) dominarono in Cina su un impero altrettanto esteso che essi dotarono di una fitta rete di strade. I loro ingegneri, al pari di quelli romani, tracciarono le strade piu diritte possibile, attraverso foreste e fiumi, e furono persino superiori ai Romani nell’incidere le strade attraverso le montagne o nel farle passare su viadotti di altezza vertiginosa. Le loro strade erano piu larghe di quelle romane: per le maggiori si parla di 15 m, una lar­

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ghezza sufficiente per il passaggio di nove carri affiancati. Tale cifra però non può essere documentata poiché i cinesi non usarono mai la pavimentazione — si accontentavano di superfici ricoperte di ghiaia — di conseguenza quasi nessuna traccia delle loro strade è giunta sino a noi. Noi possediamo solo testimonianze contemporanee o quasi, e queste non possono sempre essere prese come oro colato. Nel Medio Evo il traffico scorreva in Europa, dovunque fosse pos­ sibile, sulle strade costruite dai Romani. Con l’invenzione del collare per i cavalli (v. pag. 147) i veicoli furono in grado di trasportare pesi molto maggiori. Ciò sottopose le strade a carichi che non erano stati mal previsti e fece si che le superfici si rovinassero a poco a poco. Le nuove strade erano ricoperte con pietre diseguali tenute assieme solo dalla sporcizia che il traffico faceva affondare tra le commessure. Sol­ tanto in un campo i costruttori di strade medievali superarono i Ro­ mani: grazie forse all’esperienza acquisita nell’innalzare le cattedrali gotiche, essi costruirono eccellenti ponti, ma li fornirono di rampe cosi ripide che l’accesso era quasi impossibile. Il Rinascimento perfezionò gli strumenti di misura, il XV II secolo introdusse l’uso degli argini in terra (anziché in pietre miste a terra come facevano i Romani), ma le realizzazioni romane non furono real­ mente superate fino al XIX secolo, quando J.L . McAdam introdusse la tecnica rivoluzionaria di ridurre al minimo il fondo e di ricoprirlo con un manto di pietrisco frantumato e pressato.

Sulle strade

CAPITOLO SESTO

SU LLE STRADE

I viaggi sulla terraferma richiedevano molto piu tempo di quelli via mare ed erano infinitamente piu faticosi, ma presentavano, come abbiamo visto, anche molti aspetti positivi. Qui raramente le tem­ peste rappresentavano un rischio mortale, e le stagioni condizionava­ no i viaggi solo relativamente. Nessuna stagione era d ’ostacolo a un viaggio lungo le strade dell’area mediterranea. Anche nelle zone montuose i viaggi diventavano solo piu radi durante i mesi inver­ nali e si interrompevano esclusivamente in caso di lunghe e violente nevicate. Un viaggio via terra comportava una maggior quantità di baga­ gli che non per mare. Oltre agli inevitabili utensili per cucinare e man­ giare, agli asciugamani e alle coperte, il viandante doveva proba­ bilmente portare con sé numerosi cambi d ’abito e tutta una serie di particolari effetti personali a seconda delle difficoltà della strada: scarpe o sandali pesanti, un cappello a larghe tese (v. pag. 56), e una serie di mantelli, uno corto e leggero per la stagione tiepida (la clamys greca o la lacerna romana), un altro per i giorni di pioggia (per esempio la paenula romana, di lana o pelle, munita di cappuccio e lunga fino alle ginocchia), un altro ancora per i giorni freddi (per esempio il birrus, un lungo mantello di lana con cappuccio, molto simile al burnous arabo). Danaro e oggetti di valore si portavano in una borsa legata alla cintura (zona) oppure in un sacchetto appeso al collo (crumina, ballantion). I viaggiatori che volevano a tutti i costi conoscere l ’ora esatta potevano munirsi di una meridiana da tasca, un oggettino rotondo di bronzo (ne sono stati trovati con un diame­ tro variabile tra i 3,5 e i 6 cm), alcune delle quali erano state studiate per essere usate in tutto l’Impero, altre solo in aree limitate. Le donne usavano in viaggio piu o meno gli stessi abiti degli uomini, soltanto lunghi fino alle caviglie. « Porta con te tutti i tuoi gioielli, ma non

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metterteli addosso! » raccomanda un soldato alla moglie che doveva raggiungerlo alla sua guarnigione. La fortuna ha voluto che giungessero fino a noi, conservati dalle sabbie del deserto egiziano, i libri dei conti tenuti da un ufficiale ro­ mano di nome Teofane nel corso di un viaggio tra l’alto Egitto e An­ tiochia, avvenuto tra il 317 e il 323 d.C. Teofane portò con sé una casa in miniatura. L ’inventario dei suoi effetti personali enumera tre tipi di tuniche (leggera, normale e con maniche), cappe leggere e pe­ santi, mantelli e cappucci vari, una mantellina da pioggia, scarpe leg­ gere di feltro e sandali pesanti, numerosi cambi di biancheria perso­ nale e diverse paia di brache per cavalcare. C ’era anche una batteria da cucina: pentolame, stoviglie, vasellame e biancheria da tavola; e ancora lampade a olio, sia da tavolo che pensili. Per lavarsi e farsi il bagno egli portava con sé olio d’oliva, allume e natron (carbonato idrato naturale di sodio che abbonda in Egitto), e mirra come lozione dopo bagno: una scorta di panni per asciugarsi le mani, per la faccia e per il corpo. Per dormire aveva materassi, lenzuola, coperte, guan­ ciali, tappeti e tutta una serie di cuscini. Poiché un viaggiatore poteva alloggiare presso amici o parenti dovunque volesse, era inevitabile che tra i bagagli occorresse infilare anche i regali o le cose acquistate per conto di quelli. « Quando ver­ rai » ricorda il soldato di prima alla moglie « portami dieci velli di pecora, sei giare di olive, quattro giare di miele, il mio scudo, quello nuovo, e il mio elmo. Portami anche le lance e tutta quanta l’attrez­ zatura per la tenda. » Il viaggio, per fortuna di quella povera donna, doveva svolgersi lungo il corso del Nilo, a bordo di una comoda bar­ ca. Se un viaggiatore era diretto verso una zona dove le locande erano rare e mal attrezzate, doveva far posto tra i bagagli anche a una scorta di cibi e bevande. La spedizione di Teofane attraverso il de­ serto tra Palestina ed Egitto, per esempio, portava, oltre a tutto il resto, anche una provvista di pane, uova e vino; la sola scorta di vino era di 150 o piu litri. Maggior bagaglio voleva inevitabilmente dire anche maggior numero di servi, per controllarli, imballarli e sballar­ li; Teofane ne aveva cosi tanti che il loro mantenimento impegnava un terzo delle sue spese giornaliere. In Italia o lungo le strade piu importanti era possibile trasportare il bagaglio con calessi o carri oppure con animali da soma; tra questi, in Medio Oriente era compreso il cammello (v. pag. 38), in aggiunta agli onnipresenti asini e muli. Fuori dalle grandi strade occorreva in­ vece affidarsi agli animali da soma o ai portatori, questi ultimi pre­ feriti in montagna e nelle zone coperte da fitta vegetazione.

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Con l’avvicinarsi del giorno della partenza, chi era superstizioso cominciava anche a tener ansiosamente conto dei propri sogni. Un viaggio per terra, cosi come uno per mare, era soggetto a tutta una serie di presagi. Sognare una quaglia indicava una truffa o un in­ contro coi banditi lungo la strada. Le civette significavano tempesta o banditi, i cinghiali tempesta. Una gazzella prediceva un viaggio fa­ cile o difficile, a seconda delle condizioni fisiche dell’animale. Gli asini erano presaghi di un viaggio sicuro ma lento e, mentre sognare una ghirlanda di narcisi o una palude era di cattivo augurio, sognare un cielo limpido o delle stelle era di buon auspicio. Alcuni dèi come Hermes o Afrodite auguravano un buon viaggio, altri come Dioniso e i Dioscuri un viaggio sfortunato. Un sogno in cui le statue degli dei parevano muoversi era ritenuto di buon auspicio. Se il sogno era dunque favorevole, o il viaggiatore era di quelli che non ne teneva conto, restava solo da trasferirsi con i bagagli da casa o dalla locanda fino ai sobborghi della città. Poiché in molte città non era consentita la circolazione dei carri entro le mura nelle ore diurne (v. pag. 216), ciò si risolveva in un lungo corteo di servi, fac­ chini e animali da soma, tutti quanti carichi di masserizie. Chi ne ave­ va la possibilità economica affittava lettighe o portantine per sé e chi altro si metteva in viaggio con lui. Giunto alle porte della città al viaggiatore si presentavano molte possibilità. Se era solo poteva decidere di andare a piedi — se era povero non aveva alternative —affrontando con calma una lunga cam­ minata; le migliori strade romane avevano appositi marciapiedi a di­ sposizione dei pedoni. Una volta in viaggio egli poteva anche trovare un occasionale passaggio su un plaustrum, carro agricolo o da tra­ sporto. Questi mezzi procedevano a passo di lumaca trainati da una coppia di buoi e annunciati da lontano dall’insopportabile stridore di ruote; gli unici lubrificanti, infatti, erano la sansa di oliva o il grasso di animale, usati con molta parsimonia a causa dell’alto prezzo. Per quanti potevano permettersi di affittare un mezzo di trasporto c’era­ no, nei pressi delle porte delle città, stalle che offrivano un’ampia scelta di carri in affitto. Chi viaggiava da solo o in coppia con poco bagaglio poteva prendere una birota, carretto a due ruote per pas­ seggeri (Fig. 15), o anche un essedum, ampio e ben rifinito, per que­ sto preferito dagli imperatori e dalle persone di rango, oppure un covinnus o un cisium, entrambi piu leggeri e piu semplici e di conse­ guenza piu diffusi. Tutti questi erano tirati non da uno, ma da una coppia di cavalli o di muli; piu avanti spiegheremo perché gli ani­ mali venivano quasi sempre usati in coppia. Ognuno di questi mezzi

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di trasporto poteva accogliere due o tre passeggeri. Un gruppo piu numeroso, oppure chi doveva percorrere delle strade secondarie, po­ teva noleggiare una raeda (Fig. 13), cioè un robusto carro scoperto a quattro ruote tirato da una o due coppie di muli. Il covinnus era talmente leggero e maneggevole che poteva essere guidato da uno dei passeggeri; gli altri carri e carretti invece avevano bisogno non solo di un conducente (mulio), ma anche di un uomo (cursor) che camminava conducendo i cavalli per le briglie a passo di marcia (Fig. 15). Piu comoda e adatta agli spostamenti di una famiglia era la carruca, ver­ sione romana dell’antico carro coperto (v. pag. 12) con un tendone di pelle o tela montato su archi (Fig. 12); certi tipi erano attrezzati anche per dormire (carruca dormitoria). Le persone ricche, soprattut­ to le dame di corte, erano solite usare il carpentum. Si trattava di un mezzo pesante e lussuoso munito di un solido tetto sostenuto da co­ lonne, chiuso tutt’intorno con tendine mobili, spesso colorate o di­ pinte, fatte di tessuti molto preziosi come la seta. La differenza tra una semplice raeda e un elegante carpentum risiedeva esclusivamente nell’aspetto esteriore, le caratteristiche tecniche dei due mezzi es­ sendo assolutamente identiche. Entrambe erano munite di ruote di legno cerchiate di ferro ed erano prive di molleggio; perciò i viaggia­ tori sobbalzavano ad ogni asperità della strada. Per evitare questa scomodità occorreva ricorrere alle lettighe (lectica); contro le quali non esisteva piu alcun pregiudizio (v. pagg. 48-9) e che era possibile noleggiare presso le porte delle città. La lettiga da viaggio consisteva in un letto circondato da un baldacchino e da tendine mobili; il viag­ giatore se ne stava comodamente sdraiato mentre sei od otto robusti schiavi lo trasportavano sulle spalle. Per i lunghi viaggi gli uomini potevano essere sostituiti da due muli attaccati alle due estremità delle stanghe. Una lettiga portata a braccia era il modo meno faticoso per viaggiare, ma era inevitabilmente anche il piu lento. L ’imperatore, la nobiltà e gli esponenti delle classi piu ricche si ponevano in viaggio con un apparato estremamente sfarzoso. Li se­ guiva l’attrezzatura per una casa vera e propria, per evitare loro il disdoro o la scomodità di fermarsi in una locanda qualsiasi (tranne le poche che erano in grado di ospitare degnamente un corteo re­ gale). Questa attrezzatura comprendeva tende e seggette oltre al con­ sueto materiale per cucinare, dormire, e pranzare. Le stoviglie e il va­ sellame erano a volte cosi preziosi e fragili da dover essere trasportati a mano e non su un sobbalzante carro. Un vero esercito di servi era di rigore. Orazio prende in giro un ricco romano che, solo per spo­ starsi da Roma alla sua villa nella vicina Tivoli, portava con sé non

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meno di cinque schiavi anche quando da trasportare c’erano le due uni­ che cose dalle quali non voleva separarsi: l ’anfora del vino e la seggetta. Il seguito di chi poteva spendere con larghezza non compren­ deva solo i soliti servi, valletti, cuochi, sguatteri eccetera, ma anche esotici mori o Numidi vestiti con costumi appariscenti, cui era affidato l’incarico di precedere il corteo e assicurare che nessuno ne impe­ disse il passaggio; oppure paggi affettati con il volto ricoperto da una maschera per riparare la pelle delicata dal sole o dal freddo. Cop­ pie ben affiatate di muli o di cavalli, coperti da ricche stoffe ricamate o purpuree e da gualdrappe trapunte d ’oro, tiravano i veicoli che erano anch’essi fastosamente adorni di sculture d’argento e d ’oro e interna­ mente tappezzati in seta. L ’imperatore Claudio, che amava il gioco dei dadi, viaggiava su un carro attrezzato come una stanza da gioco. Commodo possedeva un veicolo con sedile girevole che gli permet­ teva di sistemarsi a suo piacimento per prendere il sole nelle giornate tiepide o la brezza in quelle calde; sempre Commodo aveva altri carri forniti di un piccolo strumento che registrava le miglia per­ corse. Plinio il Vecchio, scrittore assai alacre, portava sempre con sé uno stenografo fornito di stilo e tavolette. Alcuni viaggiatori si spostavano a dorso di mulo o in groppa a un robusto cavallino, mentre i servi seguivano faticosamente a pie­ di. Pochi però montavano veloci cavalli da sella poiché questi, come in passato (v. pag. 35) erano usati soprattutto per la guerra, la caccia e il servizio postale. I costi molto alti erano una ragione di ciò, ma non l’unica. Nei tempi antichi, infatti, cavalcare, soprattutto su lunghe distanze, era una faccenda faticosa: le staffe erano sconosciute - questo fondamentale accessorio non fu usato in Europa fino al IX secolo —e le selle erano rudimentali: spesso si riducevano a una semplice coperta gettata in groppa al cavallo. In effetti, come ab­ biamo avuto già modo di constatare, gli antichi non sfruttarono fino in fondo le capacità del cavallo come animale sia da sella che da tiro. Come animale da sella l’uso ne era limitato dalla mancanza non solo delle staffe e della sella, ma anche di una ferratura appropriata. Esi­ stevano delle specie di sandali in metallo, pelle o paglia che venivano infilati sullo zoccolo, ma, usati per i muli e i cammelli come per i cavalli, servivano solo in casi particolari per proteggere uno zoccolo malato o per aiutare l ’animale su un terreno scivoloso. I ferri di ca­ vallo inchiodati allo zoccolo entrarono nell’uso comune solo a co­ minciare dall’V III secolo. Per utilizzare i cavalli come animali da tiro, gli antichi continuarono a servirsi dell’attacco progettato principalmen­ te per i buoi, ponendo un cavallo a destra e uno a sinistra del timone

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del carro e legandoli al giogo per mezzo di una cinghia pettorale (Figg. 12, 13, 15). Tale cinghia aveva la spiacevole tendenza a salire verso la gola e a premere sulla trachea; piu forte era lo sforzo esercitato dal­ l’animale e piu difficile diventava la respirazione. Il collare imbottito, che preme sulle spalle invece che sul collo, non entrò in uso fino al Medio Evo. Dall’inizio del II secolo d.C. troviamo i primi esempi di carri forniti di stanghe (Fig. 11) che permettevano di attaccare un solo cavallo, ma sembra che fossero accolti con molta freddezza, nonostante i vantaggi del costo minore e di una maggior possibilità d ’impiego soprattutto sulle strade secondarie piu strette. Il viaggiatore, dopo aver scelto un mezzo di trasporto o una ca­ valcatura e degli animali da soma, dopo aver caricato tutte le proprie cose ed essersi messo in viaggio, aveva da risolvere il problema di dove fermarsi la notte e, se viaggiava con un mezzo noleggiato, di dove trovare un cambio di animali e di veicolo. Le sue scelte in auesto campo erano spesso condizionate dalla rete di locande e ostelli ap­ partenenti al cursus publicus, il servizio postale di stato. Il cursus publicus romano fu creato da Augusto, ma l’invenzione di tale servizio non spetta certamente a lui; si tratta infatti di una delle strutture essenziali in qualsiasi stato abbastanza esteso. Sap­ piamo che gli esempi piu antichi risalgono al terzo millennio a.C., quando le città-stato della Mesopotamia iniziarono a costruire un im­ pero (v. pag. 16). Cinque secoli prima di Augusto i Persiani ave­ vano sviluppato in questo senso un servizio perfezionatissimo, molto ammirato anche da Erodoto (v. pag. 37); all’altro capo dell’Asia, pressappoco nella stessa epoca, la dinastia cinese dei Chou possedeva un’organizzazione altrettanto efficiente. Nel I I I secolo a.C., infine, la dinastia degli Han e la centralizzatissima amministrazione dei Tolomei in Egitto avevano contemporaneamente realizzato quanto di piu simile al moderno servizio postale esistesse nel mondo antico. I cor­ rieri viaggiavano tutti a cavallo. In Cina le stazioni di posta dista­ vano circa 18 km l’una dall’altra, con due o più stazioni minori lungo il percorso. In Egitto le stazioni erano piu rade, distanti sei ore di cavallo o una cinquantina di chilometri l’una dall’altra. I documenti di una di queste stazioni sono stati ritrovati dagli archeologi e ci forniscono una discreta conoscenza della loro organizzazione. Grazie alla geografia dell’Egitto, la posta viaggiava solo lungo la direttrice nord-sud, cioè lungo la striscia di terre densamente abitate prospi­ cienti il Nilo. Gli uffici effettuavano almeno quattro consegne al gior­

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no, due per ciascuna direzione. Per i pacchi e gli oggetti pesanti c’era un servizio ausiliario, svolto a dorso di cammello. Quando Augusto conquistò e annesse l’Egitto, nel 30 a.C., prese a modello quel sistema. A lui tuttavia non interessavano né la velo­ cità né la regolarità delle consegne; gli importava invece avere a di­ sposizione una struttura che provvedesse a inoltrare i messaggi quan­ do era necessario, e gli permettesse non solo di ricevere i messaggi, ma anche di interrogare i messaggeri che glieli portavano. Il servizio fu cosi organizzato senza cambi: ogni messaggero copriva tutto il percorso viaggiando, dal momento che la rapidità non era essenziale, non a cavallo bensì su un carro. A mano a mano che il servizio si svi­ luppava, i corrieri vennero sempre piu frequentemente scelti nell’e­ sercito, da una unità selezionata di speculatores, esploratori che, in­ vece di esplorare le postazioni nemiche, indagavano sulla situazione delle postazioni militari alle quali recapitavano i messaggi. È giunta sino a noi la pietra tombale di uno speculator sulla quale si vede raf­ figurata la « buonanima » mentre compie il suo lavoro (Fig. 13). Ve­ diamo una raeda, un carro scoperto con quattro ruote, tirato da tre cavalli, due aggiogati e uno alle tirelle. A cassetta c’è il guidatore che, agitando la frusta, incita gli animali a procedere di buon passo. Sul sedile dietro a lui si trova il corriere, vestito con un mantello da viaggio con cappuccio, che tiene in mano qualcosa di simile a un frustino. Nella parte posteriore del carro, rivolto aH’indietro, un ser­ vo siede sopra i bagagli, stringendo in mano una lancia con distin­ tivo, una speciale insegna per indicare che il .corriere dipendeva di­ rettamente dal governatore locale. In Egitto i Romani mantennero probabilmente il servizio creato dai Tolomei, dato che colà esso era facilmente attuabile. Ma in ogni altro luogo la posta romana agi come Augusto aveva stabilito, facen­ do sporadiche consegne a seconda dei bisogni —o meglio —dei bisogni dell’imperatore, poiché ufficialmente solo quanti portavano messag­ gi da parte sua o destinati a lui erano autorizzati a fruire dei pri­ vilegi del cursus publicus. Per fare ciò occorreva un diploma: cosi era chiamata l’autorizzazione, firmata dall’imperatore o, in sua assen­ za, da un suo rappresentante autorizzato; anche i governatori delle province potevano rilasciare le autorizzazioni, ma solo per un nume­ ro limitato stabilito dall’imperatore. Un diploma che autorizzasse a viaggiare servendosi dei servizi statali era molto prezioso; inevita­ bilmente alcuni andarono a finire in mani indegne (v. pag. 152). Quando l’imperatore Otone fu sconfitto in battaglia nel 69 d.C., con la logica conseguenza che le sue autorizzazioni non sarebbero piu

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state valide, alcune persone interessate nascosero la notizia e sparsero la voce di una vittoria per poter continuare ad usare i preziosi do­ cumenti. A ll’inizio del I I I secolo d.C. Settimio Severo mutò radicalmente l’organizzazione: istituì il 'cursus clabularius, un servizio di trasporto degli approvvigionamenti per l ’esercito. Rapidamente l’organizzazio­ ne si ingrandì e divenne piu complicata. Il personale amministrati­ vo dovette venire aumentato, ci fu un uso intensivo di tutti i servizi, si ebbe probabilmente un incremento nelle dimensioni e nel numero delle stazioni di posta, carri e possenti animali da tiro dovettero esser aggiunti ai carri leggeri e ai tiri veloci dei corrieri. Esistevano ora due modelli di diploma·, l’autorizzazione parziale che dava solo facoltà di viaggiare con i cavalli di posta (evectio), e quella generale (tractoria) che autorizzava il viaggio e assicurava il mantenimento. Noi conosciamo il funzionamento del cursus soprattutto nella sua forma piu sviluppata raggiunta nella seconda metà del IV secolo d.C., quando da lungo tempo era usata sia per il trasporto sia per la corrispondenza. Disposte ad intervalli strategici lungo tutte le strade vi erano locande piu o meno ben attrezzate (v. pag. 163) chiamate mansiones o stationes-, il primo termine si applicava in origine agli esercizi in grado di accogliere l’imperatore, il secondo alle stazioni di posta affidate alle guardie stradali, ma in quest’epoca le due cose si erano gradualmente andate assimilando. Fra le mansiones e le sta­ tiones vi erano degli ostelli molto semplici (v. pag. 164), le mutationes, cioè « posti di cambio », come erano talvolta chiamati, che po­ tevano fornire ad un viaggiatore lo stretto necessario: qualcosa da mangiare, un letto e, come dice il nome, un cambio di animali o di veicolo. La distanza tra una mansio e la successiva dipendeva dal terreno e dalla densità della popolazione della zona, ma in generale si cercava di tenerle alla distanza massima di 40-50 km, cioè il per­ corso medio di un giorno di viaggio. Nelle zone densamente abitate, come pure intorno alla capitale, esse erano molto piu frequenti. Fra due mansiones potevano esserci uno o due ostelli, sempre a seconda del terreno. Per esempio un viaggiatore che da Aquileia, all’estremo nord dell’Adriatico, si dirigesse attraverso le Alpi verso la Iugosla­ via, cioè lungo la principale strada che dall’Italia settentrionale por­ tava a oriente, trovava dopo 11 miglia un modesto ostello, e un altro dopo altre 12 miglia e infine, dopo ancora 12 miglia, giungeva a una locanda {mansio). Il giorno seguente saliva per 12 miglia fino alla sommità del passo dove trovava un ostello; dopo 10 miglia sull’altro versante c’era una locanda.

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Le locande erano molto diverse a seconda del tipo e della qualità di ciò che potevano offrire: dalle cosiddette praetoriae con servizi per alloggiare l’imperatore, fino a modesti esercizi appena al di sopra degli ostelli. Una locanda perfettamente attrezzata offriva praticamen­ te tutto ciò che un viaggiatore poteva desiderare: cibo e camere per dormire; cambio d ’abiti per guidatori e postiglioni; cambio di ani­ mali (le stazioni piu grandi potevano tenere nelle stalle fino a qua­ ranta cavalli o muli) di carri e di vetturali (muliones); scudieri (stratores)\ cavallari (hippocomi) addetti a riportare animali e veicoli alla stazione precedente; facchini (bastagarii, catabolenses)·, veterinari (mulomedici) per curare gli animali ammalati; carrozzai (carpentarii) per riparare i veicoli. Le locande e gli ostelli del cursus publicus non erano costruite specificamente per questo scopo e neppure erano a disposizione esclusiva di quanti viaggiassero in veste ufficiale, benché questi vi avessero l’assoluta priorità. La posta, nonostante fosse al servizio del governo centrale, era in larga parte finanziata dalle comunità lo­ cali. Gli imperatori si limitavano a scegliere, fra quelle esistenti, le locande che avessero le qualità richieste e le incorporavano nel ser­ vizio, imponendo loro di alloggiare senza pretesa di compenso chiun­ que fosse in possesso di un’autorizzazione {diploma). Solo nelle zone sperdute, sui passi di montagna o lungo strade che passavano per zone disabitate, si dovettero costruire le locande ex novo (v. pag. 164); anche queste, per ridurre le spese, accoglievano tutti i viag­ giatori sia privati sia ufficiali. Veicoli, animali, conducenti, stallieri erano tutti scelti, se possibile, fra gli abitanti della zona. Con il pas­ sare del tempo costoro trovarono sempre piu gravoso il mantenimen­ to del servizio postale, dal momento che le richieste che lo riguar­ davano aumentavano continuamente, e non solo quelle legittime, ma anche quelle dei funzionari senza scrupoli che pretendevano di con­ fiscare arbitrariamente cavalli e materiali o di far accogliere nelle lo­ cande viaggiatori senza alcun diritto. In molte occasioni gli impera­ tori tentarono di rimediare a questa situazione. Severo, per esem­ pio, trasferì buona parte di tali spese sul bilancio statale; tuttavia all’epoca di Costantino le spese tornarono a gravare sulle spalle del­ le comunità locali. Quasi tutti gli imperatori emanarono leggi ben precise per eliminare gli abusi e mantenere il servizio all’altezza dei suoi compiti. Vi erano regolamenti ufficiali che precisavano il nume­ ro dei carri e di animali che potevano essere requisiti, la grandezza dei carri, il carico massimo permesso, il numero di conducenti da impiegare, le strade da seguire, il peso delle selle e delle bisacce

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da cavallo, perfino le dimensioni e il tipo delle fruste. Un regola­ mento stabiliva che « nessuno deve pagare vetturali, carrozzai o ve­ terinari addetti alla posta pubblica, poiché... ad essi viene fornito di che vivere e vestirsi nella misura che si ritiene sufficiente per es­ si ». In altre parole era vietata la mancia. Raramente però le leggi contro la mancia hanno trovato applicazione, e tutto fa pensare che né questo né molti altri benintenzionati regolamenti scritti sui libri, fossero fatti rispettare con la dovuta decisione. Chiunque usasse il cursus publicus doveva sapere esattamente dove si trovavano le varie locande ed ostelli che ne facevano parte. Erano in circolazione dei cataloghi, chiamati itineraria, che segnala­ vano dettagliatamente i luoghi dove ci si poteva fermare lungo una determinata strada, e le relative distanze. C ’erano apposite carte stra­ dali che mostravano non solo dove erano siti questi luoghi, ma an­ che ciò che potevano offrire. Per fortuna ci è pervenuta una copia medievale di una di queste carte, la cosiddetta Tabula Peutingeriana (Fig. 14). Disegnata su una lunga pergamena larga non piu di 33 cm ma lunga piu di 6 m e mezzo, essa offre una rappresentazione distor­ ta dell’Impero Romano, come se fosse visto in uno specchio defor­ mante. Ciò veniva fatto di proposito: l’unico scopo che si prefiggeva l’autore era di dare un quadro schematico e di facile consultazione del sistema stradale romano. Infatti vi sono stati inseriti piu o meno proprio gli stessi dati che troveremmo su una moderna carta autostradale: delle linee indicanti le strade; i nomi delle città, piccole e grandi, e di altri luoghi ove fermarsi con relative distanze indicate in miglia romane. Inoltre, particolare interessante, a fianco di molti nomi si trovano dei piccoli simboli colorati, i quali hanno lo stesso scopo dei simboli, sorprendentemente simili, usati dalla Guida Michelin o da altre moderne guide, per indicare in maniera chiara e sin­ tetica il genere di possibilità che il luogo offriva per passarvi la notte. Il disegnino schematico di una costruzione a quattro lati con cortile centrale indicava una locanda, di città o di campagna, di una certa importanza, che poteva offrire molti servizi. Il disegnino di una casa vista di fronte con un tetto a due punte indicava una locanda di campagna di minori pretese. Se invece di due punte sul tetto c’erano due cupole, significava che la locanda era dello stesso livello ma con ampia disponibilità d ’acqua. Il disegnino di una casa quadrata col tetto a una sola punta indicava una locanda molto modesta. I nomi accanto ai quali non compariva alcun simbolo probabilmente indicavano la forma piu semplice di ostello, luoghi cioè che pote­ vano appena offrire acqua, riparo, cibo e un cambio di animali. Per

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esempio, un viaggiatore che si mettesse in viaggio da Roma sulla Via Aurelia diretto a nord lungo la costa occidentale, poteva vedere dalla cartina (Fig. 14) che il primo luogo adatto per fermarsi sarebbe stato Alsium, 18 miglia (X II piu V I) dalla capitale, che offriva il minimo (senza simbolo) e che da li c’erano 10 miglia fino a Pyrgi, altro luogo dalle minime possibilità; poi 6 miglia sino a Punicum che offriva il minimo ma era vicino ad Aquae Apollinares fornita di servizi di prim’ordine (costruzione a quattro lati); poi 10 miglia fino a Castrum Novum, con possibilità piuttosto buone (costruzione con due punte); poi 4 miglia fino ad Aquae Tauri, con le stesse comodità di Aquae Apollinares, e cosi via. I corrieri governativi correvano di stazione in stazione a una velocità media di 5 miglia all’ora, per un totale di 50 miglia per ogni giorno di viaggio normale. Un dispaccio da Roma sarebbe giunto a Brindisi in 7 giorni circa, a Bisanzio (dove piu tardi fu fondata Co­ stantinopoli) in 25, ad Antiochia in 40, ad Alessandria in 55 giorni circa. In casi di emergenza, viaggiando notte e giorno, questa velo­ cità poteva venir triplicata. Quando le legioni si ammutinarono a Mainz sul Reno nel 69 d.C., la notizia giunse a Roma in 8 o 9 giorni circa; il messaggero aveva viaggiato a una media di piu di 150 miglia al giorno. Chi viaggiava per conto dello stato, e quindi con quanto il cursus publicus metteva a sua disposizione, aveva pochi problemi: presenta­ va il suo diploma alla locanda autorizzata piu vicina e gli veniva ri­ lasciato un mezzo di trasporto appropriato. Consultava il catalogo o la cartina per sapere i luoghi ove poteva fermarsi lungo la strada, e in quelli mangiava, dormiva, cambiava animali e mezzo finché giun­ geva a destinazione. Chi viaggiava per conto proprio era ufficialmente escluso dal cursus publicus, ma, dato che la natura umana è quella che è, le eccezioni erano inevitabili. « Mio signore » scriveva Plinio, governatore di una provincia settentrionale dell’Asia Minore nel 109111 d.C., all’imperatore Traiano « finora non ho concesso il diploma a nessuno... Tuttavia mia moglie ha saputo che è morto suo nonno e, poiché ella desiderava accorrere presso sua zia, mi è sembrato ec­ cessivo negarle il diploma. » Libanio, discendente di una delle prin­ cipali famiglie di Antiochia, rimase contrariato quando, arrivando a Costantinopoli nel 336 d.C. sui suoi muli esausti, scopri che « l’uo­ mo che io speravo mi avrebbe fatto proseguire fino ad Atene con un mezzo della posta imperiale... aveva perduto l’incarico, e..., mi disse, questa era l’unica cosa che non poteva fare ». L ’aristocratico

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Sidonio Apollinare, che andò dalla sua città natale, nella Francia me­ ridionale, a Roma nel 467 d.C., racconta che, appena uscito dalle porte della città, « trovai la posta statale al mio servizio, come se fossi stato un personaggio convocato da una lettera dell’imperatore ». Questi casi sono dovuti al fatto che le regole sono sempre state piut­ tosto elastiche in favore degli altolocati; piu serie e frequenti ancora erano le eccezioni dovute all’influenza politica, alla corruzione e per­ sino alla ostentata vendita delle autorizzazioni. Sulla carta le misure contro l’uso illegittimo del cursus publicus si inasprivano costantemente e le pene si facevano maggiori (chi era scoperto a vendere un diploma veniva punito con la morte), ma in che misura esse venisse­ ro effettivamente attuate sarebbe da verificarsi. Il privato viaggiatore che non aveva accesso, né legittimo né ille­ gittimo, al servizio di posta statale, poteva lo stesso appoggiarsi sulle locande e gli ostelli che ne facevano parte, poiché in molte zone questi erano gli unici disponibili ed in altre erano il meglio che ci fosse. Inoltre, se non viaggiava con mezzi di sua proprietà, egli si rivolgeva li per il noleggio. Lungo la strada, se aveva la sfortuna di giungere a una stazione dopo che una spedizione ufficiale aveva requisito tutto il disponibile, egli non poteva far altro che aspettare. In ogni modo il viaggiatore privato si spostava molto piu lentamente dei corrieri governativi. Su terreni normali, senza faticosi pendìi da superare, copriva da 15 a 20 miglia al giorno a piedi e da 25 a 30 su un carro. Poteva toccare anche le 40-55 miglia, ma in tal caso si trattava di una estenuante e durissima giornata di viaggio. I luoghi di sosta lungo le strade pubbliche erano distanziati pressappoco se­ condo queste velocità. Per esempio, un itinerario del IV secolo ad uso dei pellegrini che da Bordeaux si recavano a Gerusalemme regi­ stra sul tratto di strada di 62 miglia romane da Tolosa a Carcassonne: 9 miglia fino a una mutatio (ostello) a Nonum, 11 miglia per giungere a una mutatio (ostello) a Vicesimum, altre 9 miglia fino ad una mansio (locanda) a Elusione, 9 miglia fino ad una mutatio a Sostomagus, 10 miglia per giungere a Vicus Hebromago (un vil­ laggio), 6 miglia fino a una mutatio a Cedros, e infine 8 miglia fino a Carcassonne. I carri, in altre parole, potevano compiere il viaggio in due giorni, coprendo 29 miglia il primo giorno e pas­ sando la notte a Elusione, e 33 miglia il secondo giorno. Le mutationes, cioè le piccole stazioni intermedie, erano poste 8-10 miglia pri­ ma e dopo i previsti luoghi di tappa. Su terreni difficili, naturalmen­ te, le tappe erano molto piu brevi. Fra Arles e Milano, per esem­

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pio, dovendosi attraversare le Alpi, le percorrenze medie previste per un giorno di viaggio diminuivano a 6 miglia. Per farci un’idea di che cosa significasse viaggiare via terra in epoca romana, e di quali fossero le esperienze quotidiane dei viaggia­ tori, proveremo a seguire tre personaggi del tutto diversi mentre compiono tre viaggi di genere affatto differente. Il primo è l’ammini­ stratore romano Teofane, già altrove ricordato, che compì un viaggio di andata e ritorno tra il Basso Egitto e Antiochia per incarico uffi­ ciale della posta statale. Il secondo è l’intellettuale greco Aristide, un privato cittadino che viaggiava per conto proprio lungo strade piu o meno secondarie dell’Asia Minore. Il terzo è il poeta Orazio, che accompagnò uno dei piu importanti funzionari di Augusto in un viag­ gio lungo la Via Appia, quando l’imperatore non aveva ancora orga­ nizzato il servizio postale. Il 12 aprile di un anno compreso tra il 317 e il 323 d.C. Teofane lasciò Pelusio (non lontano dall’odierna Porto Said), ultima città del­ l’Egitto vero e proprio. Lo accompagnavano almeno due funzionari di grado inferiore, un domestico personale, uno scrivano e una schiera di servi. Noi abbiamo la possibilità di farci un’idea di questo viag­ gio, non tramite una descrizione esplicita, ma dalle registrazioni gior­ naliere delle tappe percorse e delle spese sostenute, effettuate dallo scriba di Teofane sul libro mastro. Non compaiono spese per l’al­ loggio e per l’affitto degli animali: possiamo perciò dedurne che Teofane e il suo seguito godessero dei privilegi della posta statale. D ’altra parte le spese quotidiane per il cibo indicano che egli non possedeva un’autorizzazione completa come i corrieri, ma solo una re­ lativa al trasporto e all’alloggio. Ci mancano dettagli particolareggiati relativi al viaggio: possiamo solo ricostruirne l’itinerario e la velocità. La comitiva impiegò quattro giorni per attraversare il deserto tra l’Egitto e la Palestina, percor­ rendo mai piu di 26 miglia romane al giorno e limitandosi, una sola volta, a 16. Una volta raggiunta la Palestina, poterono finalmente ac­ celerare il passo fino a coprire, per sei giorni, una media di 40 mi­ glia al giorno, il che li portò fino a Tiro. Da qui essi rallentarono un poco fino a Laodicea, che raggiunsero in otto giorni a una media di 30 miglia giornaliere. Il tratto finale, da Laodicea ad Antiochia, era di 64 miglia abbondanti ma, come i cavalli che accelerano quando sentono l’odore della stalla, anch’essi si affrettarono e le percorsero

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in un solo giorno. Arrivarono il 30 aprile, dopo diciotto giorni di viaggio. Il 19 luglio Teofane preparò tutto per ripartire alla volta del­ l’Egitto la mattina del giorno seguente. Le provviste consistevano in pane di lusso per Teofane e quanti dividevano la sua tavola, pane di poco prezzo per gli schiavi, alcune giare di vino locale, 4 kg di carne di vitello per il pranzo di Teofane, frutta (uva, albicocche, cocomeri), cavoli, olio di oliva, una salsa molto forte chiamata Gamm, miele per dolcificare, legna per accendere il fuoco. Il giorno seguente, dopo aver ancora acquistato salsicce e mele, la spedizione si mise in marcia; probabilmente quando partirono si era già fatto tardi, perché si arrestarono per la notte in un villaggio distante solo 14 miglia. Il 21 luglio, in compenso, percorsero tutte le 50 miglia che li separavano da Laodicea. In questa città Teofane aveva forse degli affari da sbrigare, poiché vi passò tutto il giorno seguente, approfittando anche per comprare altri viveri: i soliti due tipi di pane, poco piu di 1/2 kg di carne per sé, ancora frutta e vino. A Teofane doveva piacere particolarmente il vino: il vino che a Lao­ dicea egli comprò per la sua cena costava da solo quanto tutto quello che acquistò per il suo numeroso seguito. Il 23 ripresero il viaggio e il 25 giunsero a Biblo, dopo aver co­ perto la rispettabile distanza di 140 miglia in tre giorni. Da quel buon­ gustaio che era, Teofane si concesse a Biblo un vino particolarmente pregiato: il libro mastro registra un’uscita per comprare della ne­ ve, forse proveniente dalle montagne del Libano che circondano la città, usata per mantenere fresco il vino. Una simile raffinatezza non era nemmeno troppo costosa, considerata la fatica di procurarsi la neve: il vino per la cena costò 700 dracme, la neve solo 100. A Bei­ rut, distante 26 miglia, giunsero il 26 luglio; qui poterono far prov­ viste di frutta (uva, fichi, pesche, albicocche) e ricostituire le scorte di tutto quanto serviva per lavarsi (natron, olio da bagno, sapone). Il giorno dopo fecero tappa a Sidone, 44 miglia lontana, dove furono comprate uova per la cena del padrone (con il caldo estivo le uova erano certamente piu sicure della carne). Le registrazioni relative ai giorni seguenti sono frammentarie, e noi possiamo solo seguire gli spostamenti della comitiva: 36 miglia fino a Tiro, dove giunsero il 28 luglio, 45 fino a Tolemaide, dove giunsero il 29, 44 fino a Cesarea, dove giunsero il 30 e dove si fermarono a pranzo in una mutatio lun­ go la strada. Anche il giorno seguente pranzarono in una mutatio, nella quale probabilmente si era macellata una bestia per loro: vie­ ne infatti registrato un acquisto di oltre 2 kg di carne di vitello.

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Si fermarono per la notte a Antipatride dopo aver percorso 33 mi­ glia. Il giorno dopo (1 agosto) pranzarono a Gebala e il menu com­ prendeva agnello e maiale; mancava, come mostra il costo ridotto, la carne di vitello. A sera avevano coperto le 43 miglia che li se­ paravano da Ascalona dove Teofane cenò con uova e tutti poterono gustare un’ampia scelta di frutta locale: pesche, susine, uva, fichi, mele. Le 39 miglia percorse il 2 agosto li condussero a Rafia dove tro­ varono formaggio, carne di montone e, come frutta, uva, meloni e more. Ancora 38 miglia il 3 agosto e giunsero a Rhinocoloura, punto di partenza per l’attraversamento del deserto. Qui fecero rifornimen­ to. Teofane acquistò uova per la cena e ne conservò una scorta per il giorno seguente. Comprarono pane in quantità tripla del normale e, dato che nel deserto si ha molta sete, non meno di 140-160 litri di vino locale. Il padrone preparò se stesso e i suoi ospiti all’au­ sterità che li aspettava offrendo a pranzo un vino che costava esat­ tamente la metà della spesa totale. Il 4 agosto poterono, in una lo­ canda in mezzo al deserto, comprare un po’ di formaggio e alcuni cocomeri. Il giorno dopo però si fermarono per pranzare in una lo­ canda che non aveva evidentemente nulla da offrire. Al cader della notte giunsero a Pelusio e tornarono, per cosi dire, alla civiltà. Ce­ lebrarono l’avvenimento comprando non solo uova e formaggio, ma anche pesce secco, mentre alcuni membri della spedizione mangiaro­ no lumache. Il giorno seguente, per la prima volta da che, diciotto giorni prima, avevano lasciata Antiochia, trovarono del pesce fresco. Nell’estate del 165 d.C. (o forse qualche anno dopo) Aristide, il noto oratore (v. pag. 106), fu colpito da un nuovo attacco della sua malattia, dopo un breve intervallo di salute discreta, e decise perciò di lasciare il suo letto di Smirne e recarsi al famoso santuario di Asclepio a Pergamo, dove era stato miracolosamente curato altre volte in precedenza. In una sua opera descrive accuratamente questo viag­ gio. Il mattino del giorno della partenza egli fece caricare tutti i ba­ gagli su carri o carriaggi che, con gli schiavi, lo avrebbero preceduto a Mirina, una città lungo il percorso. Quando tutti i preparativi eb­ bero finalmente termine, faceva troppo caldo per mettersi in marcia. Aristide attese perciò che il sole cominciasse a declinare e, intorno alle tre del pomeriggio, lui e il suo seguito montarono sui carri e partirono. Alle sette di sera avevano percorso 17 miglia romane ed erano giunti a una locanda poco distante dal punto dove la strada attraversava il fiume Ermo. Discussero se fermarsi per la notte, ma fu deciso il contrario: i bagagli non c’erano, la locanda era piuttosto

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brutta e, con il giungere delle ombre della sera, si era levato un certo venticello. Passarono il fiume e, alle dieci di sera, avevano coperto 10 miglia fino alla città di Larissa. Anche qui la locanda non incoraggia­ va a fermarsi e non c’era traccia dei bagagli sicché fu giocoforza pro­ seguire. A mezzanotte, o poco dopo, Aristide giunse a Cyme, solo per trovare tutto chiuso. Egli non era però scontento: la comitiva aveva percorso 35 miglia; dopo il fresco della sera era arrivato il freddo notturno e tutti propendevano per fermarsi, ma Aristide mor­ deva il freno. Inoltre, con la locanda chiusa non c’era modo di per­ nottare. Intorno alle quattro di mattina le ruote dei carri risuo­ navano sull’acciottolato delle strade di Mirina: li, seduti di fronte a una locanda, c’erano i servi con i bagagli ancora tutti imballati. Era­ no arrivati cosi tardi che avevano trovato già tutto chiuso per la not­ te. Con 42 miglia di strada e almeno ventiquattr’ore di veglia sulle spalle, tutti erano allo stremo delle forze. Nel vestibolo della locanda c’era un pagliericcio e persero tempo a cercare un posto dove metter­ lo, ma non ci fu niente da fare, la situazione era sempre scomodissi­ ma. La sola cosa da fare era bussare alla porta; ci provarono, ma non riuscirono a svegliare nessuno. Alla fine risolsero di recarsi nella ca­ sa di un amico; uno dei servi però aveva fatto cadere la fiaccola per­ ciò si sarebbe dovuto cercare la casa brancolando nel buio. Quando infine riuscirono ad accendere un fuoco, era già l ’alba. A questo pun­ to Aristide rifiutò di fermarsi e perdere la giornata dormendo; in­ flessibile, svegliò tutti quanti e li spinse a proseguire. Dopo una sosta per offrire un sacrificio ad Apollo in un tempio lungo la strada, si fermarono finalmente a dormire a Elea, 12 miglia oltre Mirina. Il giorno seguente percorsero l’ultima tappa di 16 miglia fino a Pergamo. Il viaggio sarebbe stato già estenuante per una persona sana, figuria­ moci per un malato che andava a ricoverarsi. Nel 38 o 37 a.C. Orazio andò da Roma a Brindisi come membro di una missione diplomatica guidata dal consigliere di Augusto, Me­ cenate. Al suo ritorno descrisse l’esperienza in versi eleganti e spi­ ritosi. Era partito con un amico — gli altri li avrebbe incontrati in seguito — lungo la Via Appia, molto probabilmente in carrozza. Il primo giorno percorsero 16 miglia e si fermarono in una « modesta locanda » ad Aricela, il secondo ne percorsero 27 fino a Forappio. « Suddividemmo in due giorni » dice Orazio « il percorso che un viaggiatore piu solerte di noi avrebbe compiuto in uno; la Via Appia è piu facile per quelli che non l’affrontano con fretta. » Forappio era « piena di marinai e tavernieri imbroglioni », e ciò dipendeva dal

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fatto che di li partiva un servizio di chiatte: i viaggiatori potevano imbarcarsi la sera su una piccola chiatta che, tirata da un mulo lungo un canale attraverso le paludi Pontine, li avrebbe portati mentre dormivano fin quasi a Terracina, facendo loro risparmiare un giorno di viaggio. A Forappio cominciarono i guai di Orazio: « A causa dell’acqua, che era pessima, dichiarai guerra alla mia pancia e, di malumore, attesi che il mio compagno di viaggio finisse di cenare. Già la notte si preparava a stendere le ombre sulla terra e a disseminare il cielo di stelle, quando i marinai cominciarono a insolentire i nostri servi e questi a loro volta i marinai: “Vieni qui con la barca” “Ne imbarchi trecento... ehi, è già troppo! ”. Mentre si paga il prezzo del viaggio e si legano i muli, passa un’intera ora. Poi nessuno poteva dormire a causa delle maligne zanzare, delle rane nella palude, del marinaio e di un pas­ seggero che, innaffiati di molto vinello, facevano a gara la serenata alle loro amiche assenti. Finalmente il passeggero stanco comincia a dormire, e il nostro pigro battelliere lega la mula a un sasso sull’alzaia per farla pascolare, e poi si sdraia supino. Quando fu giorno, ci accorgemmo che la barca era ancora ferma. Uno di testa calda salta a terra e spiana la testa e i fianchi del battelliere e della mula con un ramo di salice; infine intorno alle dieci del mattino sbarchiamo ». I due pernottarono a Terracina; qui si incontrarono con Mecenate e con buona parte del suo seguito, Orazio trovò anche il tempo di spalmarsi gli occhi con un certo collirio nero che si era procurato. Il giorno dopo andarono sino a Formia (una tappa di 26 miglia), dove un aristocratico del luogo accordò loro ospitalità nella propria villa. Al mattino furono raggiunti dagli altri, fra cui Virgilio: a questo pun­ to la spedizione era al completo. Dopo aver percorso altre 27 miglia, passarono la notte in una modesta locanda e « partiti di qui i muli scaricarono per tempo i bagagli a Capua. Mecenate se ne va a gio­ care a palla, Virgilio e io a dormire ». Erano arrivati presto a Capua poiché il percorso era di sole 17 miglia. 21 miglia oltre Capua, dove fecero tappa il giorno seguente, trovarono la migliore sistemazione di tutto il viaggio, in una splendida villa appartenente a uno dei per­ sonaggi piu eminenti della comitiva. La cena si protrasse a lungo, rallegrata da una forma di spettacolo antichissima e sempre nuova: una coppia di buffoni impegnati a scambiarsi insulti (« Ti dico che assomigli a un cavallo, con le corna! » « Tu che parli tanto... E quella cicatrice? Che è successo, qualcuno ne ha tagliato via uno dalla tua fronte? »). Probabilmente dormirono pure a lungo, considerato che il giorno dopo riuscirono a percorrere solo 11 miglia fino a Be­ nevento. Qui l ’oste era tanto ansioso di far bella figura con ospiti

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di tal rango, che quasi diede fuoco alla cucina, nel cercare di arrostire alcuni magri tordi per la cena. Quindi dovettero superare la catena appenninica, e infatti passarono la notte seguente in un piccolo ostello posto in mezzo alle montagne. Qui Orazio ebbe una serata sfortu­ nata. Prima la legna da ardere era troppo umida e gli fece lagrimare gli occhi malconci, poi « rimasi in piedi come uno sciocco fino a mez­ zanotte, aspettando una ragazza bugiarda », che evidentemente non si fece vedere. Partirono la mattina successiva e percorsero rapida­ mente su alcuni carri (raedae) 24 miglia; si fermarono in un’altra cittadina di montagna dove l’acqua era la peggiore del mondo, ma il pane era ottimo. I viaggiatori accorti, nota Orazio, ne fanno una buona scorta poiché il pane di Canosa — la tappa seguente — è duro come il sasso. Da Canosa arrivarono a Ruvo stanchi morti; 24 miglia erano state percorse sotto la pioggia battente. Il giorno successivo andarono da Ruvo a Bari: il tempo era piu clemente, ma la strada ancora peggiore. A questo punto si trovavano sulla costa pianeggiante e la meta era quasi in vista; affrettarono perciò il passo « divorando » 37 miglia fino a Egnazia il penultimo giorno (e qui non poterono trattenersi dal ridere quando fu loro mostrata la meraviglia locale, un altare sul quale l’incenso bruciava senza fiamma), e le rimanenti 39 l’ultimo giorno fino a Brindisi, « la fine di un lungo viaggio cosi come del rotolare » scherza Orazio nell’ultimo verso della satira. Aveva impiegato due settimane per percorrere circa 375 miglia e ave­ va potuto sperimentare tutti i tipici alti e bassi che caratterizzano un viaggio: giornate assolate, spostamenti veloci sulle strade piu importanti, sistemazioni di lusso, divertimenti; ma anche pioggia, lenti trasferimenti lungo strade impossibili, alberghi (si fa per dire!) privi di tutto, stomaco in disordine, notti insonni e perfino un ap­ puntamento mancato con una ragazza.

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CAPITOLO SETTIMO

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Dove alloggiare? Questa era la prima domanda che doveva porsi chi era appena sbarcato dalla nave, o si stava avvicinando alle porte della citta, oppure, quando il cielo cominciava a imbrunire, si tro­ vava ancora in aperta campagna. Se costui era al servizio dello stato, poteva recarsi al piu vicino esercizio appartenente al cursus publicus·, se era ricco o nobile, o entrambe le cose assieme, aveva numerose alternative, tutte altret­ tanto semplici: poteva, per esempio, possedere una casa o una pro­ prietà nel luogo in cui era diretto (v. pag. 158) e, in tal caso, aveva solo bisogno di preavvertire la servitù del suo arrivo. Quello che se­ gue e il testo di una lettera inviata, nel 256 d.C., da un ricco proprie­ tario terriero al guardiano di una sua proprietà: «D io volendo, aspettaci per il giorno 23. Appena ricevuta questa lettera datti da fare, in modo che la stanza da bagno sia ben riscaldata, compra molta legna e riunisci paglia da ogni luogo affinché noi possiamo fare il bagno anche se è inverno... Accertati che ci sia tutto ciò di cui possiamo aver bisogno, soprattutto un bel maiale per i miei ospiti - ma guarda che sia davvero bello, non come quello dell’ultima volta, tutto pelle e cattivo. Comunica anche ai pescatori di procurarci del pesce ». Lo scrivente abitava in Egitto e la proprietà che intendeva visi­ tare si trovava nel Fayum; lettere simili a questa dovevano giungere spesso ai fattori e ai custodi in tutte le località dell’Impero Romano. I proprietari delle ville che si trovavano a piu di un giorno di viaggio dalla città possedevano spesso anche dei padiglioni situati in punti strategici da usare come riparo per la notte durante i viaggi di an­ data e ritorno (v. pag. 110). Comunque le persone nobili o ricche, anche quando non possedevano una casa propria in cui alloggiare, po­ tevano sempre ricorrere ad altre ottime soluzioni, come farsi osnitare da amici, parenti, soci d ’affari o altri conoscenti. Le case dei

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ricchi disponevano spesso di un appartamento per gli ospiti, comple­ tamente indipendente, con accesso alla strada, camere da letto e sala da pranzo. Dove non esistesse neppure questa possibilità, come pote­ va accadere nel corso di viaggi in zone un po’ remote, i ricchi ag­ giungevano al loro bagaglio anche una tenda per potersi accampare (in modo però molto raffinato, con una schiera di schiavi che si pren­ devano cura di ogni cosa). Infine, se fosse anche mancato tutto ciò, potevano sempre rivolgersi alle autorità locali. Quando Catone l’Uticense, dopo aver compiuto il servizio militare, viaggiava attraverso l ’Asia Minore era solito, come dice Plutarco: « organizzare il viaggio nel modo seguente. Fin dal mattino mandava innanzi il panettiere e il cuoco nella località dove intendeva far tappa. Essi entravano nella città indicata con grande riservatezza e modestia; se Catone non vi contava alcun amico di famiglia o conoscente, gli appresta­ vano l’alloggio in una locanda pubblica, senza importunare alcuno. Se non esisteva una locanda, si rivolgevano alle autorità del posto e accetta­ vano volentieri il primo alloggio che veniva loro assegnato ». Catone, che amava dare di sé un’immagine di uomo di gusti sem­ plici e non chiedeva per sé nulla in piu del suo seguito, rappresen­ tava un’eccezione. Era invece normale che un romano altolocato quand’era in viaggio si aspettasse di venir ricevuto con il tappeto di porpora. Un esempio di ciò è fornito dalla lettera seguente, trovata nelle sabbie dell’Egitto e sicuramente scritta da un funzionario del « ministero degli esteri » dei Tolomei. Datata 112 a.C., è indirizzata a un funzionario nella città capoluogo del Fayum, Arsinoe o Crocodilopoli, « città del coccodrillo », come era anche chiamata a causa della presenza di un coccodrillo sacro, che era il dio locale: « Lucio Memmio, un senatore romano molto importante e degno di tutti gli onori sta navigando [lungo il Nilo] da Alessandria al distretto di cui Arsinoe è capoluogo in visita turistica. Ricevilo nel migliore dei modi e provvedi affinché, nei soliti posti, gli siano messi a disposizione gli alloggi e gli vengano fornite tutte le possibilità di sbarco... e anche che, dove decide di sbarcare, gli siano offerti i regali, di cui segue un elenco. Rifornisci bene gli alloggi, provvedi al cibo speciale per nutrire Petesouchos [il dio coccodrillo] e i coccodrilli, e a tutto ciò che gli sarà necessario per visitare il Labirinto: offerte, sacrifìci... In generale ricordati di fare il possibile per compiacerlo; fai ogni sforzo per questo ». Memmio, in altre parole, poteva contare su alloggi appositamen­ te predisposti, doni e visite guidate ai due piu importanti monumenti dei dintorni: il santuario dei coccodrilli sacri e il Labirinto (v.

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pag. 78). Un’altra lettera ancora, che riguarda una visita avvenuta un secolo prima, mostra quanto faticosi potevano essere questi pre­ parativi. Lo scrivente è un funzionario locale al quale era stato co­ mandato di predisporre ogni cosa per l’arrivo di un notabile: « In accordo con quanto diceva la tua lettera, noi abbiamo preparato ogni cosa per la visita di Crisippo, “segretario alle finanze” e coman­ dante della guardia del corpo: 10 polli dalla testa bianca, 5 oche dome­ stiche, 50 polli; come selvaggina 50 oche, 200 uccelletti, 100 piccioni. Ci siamo fatti prestare 5 asini da cavalcare e abbiamo preparato 40 asini da soma. Ci stiamo dando da fare per ricostruire la strada ». Sembra che Crisippo e i suoi compagni di viaggio fossero in tutto cinque (esclusi i servi che andavano a piedi), e che il loro bagaglio avesse bisogno di non meno di quaranta animali da soma; è certo che non viaggiavano leggeri. Essi avrebbero percorso la strada prove­ niente dalle rive del Nilo e i poveri locali, per permettere alle bestie di portare la comitiva fino alla loro città, dovettero rinforzare la stra­ da per porla in grado di sopportare una simile processione. Gli ospiti avrebbero poi mangiato bene e lautamente - sempre che piacesse lo­ ro il pollame. Un altro documento rileva che, in occasione della visita a Ermopoli del governatore dell’Egitto (circa 145 d.C.), si dovette far ricorso alle risorse riunite di una dozzina di ricchi cittadini per preparare un pranzo appropriato che, oltre al pollame e alla sel­ vaggina offerti a Crisippo, comprendeva vitello, maiale, pesce fresco e secco, formaggio, olive, lenticchie e verdure. Ovviamente l’obbligo di procurare un’ospitalità di cosi alto livello poteva diventare assai pesante. In una delle sue lettere piu famose, Plinio il Giovane rac­ conta di una città di mare che fu costretta a prendere drastiche misure quando si trovò all’improvviso al centro dell’attrazione turistica gra­ zie a un delfino che, avvicinatosi un giorno a un bambino che nuo­ tava presso la spiaggia, aveva preso l’abitudine di giocare con lui. « Tutti i funzionari statali accorrevano ad ammirare lo spettacolo e le spese impreviste che il loro arrivo e soggiorno comportavano per la città avevano rovinato quella modesta comunità. Oltre a ciò, il po­ sto stava perdendo pace e tranquillità. Cosi fu deciso di uccidere di nascosto la causa di tutto quell’affiusso. » Se invece il viaggiatore era un personaggio comune, senza diritto all’ospitalità ufficiale, senza amici benestanti che lo ospitassero nelle proprie case o gli fornissero una lettera di presentazione per assicu­ rargli una decorosa sistemazione, e senza un seguito di servi e animali

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da soma che gli trasportassero un elegante equipaggiamento per ac­ camparsi, non aveva alternative: doveva alloggiare in una locanda. Chi viaggiava lungo le strade principali o nelle zone piu popo­ lose non aveva problemi: poteva scegliere dove fermarsi fra parec­ chie locande. Se lasciava Roma e si avviava lungo la Via Appia po­ teva, come fece Orazio (v. pag. 157), fermarsi ad Ariccia, oppure limitare il suo viaggio a Boville, 4 miglia prima, e fermarsi nella lo­ canda dove, ferito a una gamba, fu catturato e infine ucciso Clodio, il peggiore nemico di Cicerone. Dopo 17 miglia c’era Tres Tabernae, dove i discepoli incontrarono san Paolo che si dirigeva verso Roma: il nome derivava sicuramente dalla presenza in quel luogo di « tre locande ». Forappio distava di qui 10 miglia ed era, come dice Orazio, « piena di... tavernieri imbroglioni » (v. pag. 157), e molte ta­ verne avevano camere per ospitare i viaggiatori. Chi invece viaggiava in zone meno frequentate doveva cercare di dormire nel primo solitario riparo che riusciva a raggiungere prima di notte. Ne esistevano, come abbiamo visto (v. pag. 153) lungo la maggior parte delle strade, disposti strategicamente al termine pre­ vedibile di una giornata di viaggio. Spesso, con il passare del tempo, queste solitarie locande diedero origine a un villaggio che prese il nome della locanda stessa. Cosi si spiegano i nomi di molte località: Rufini Taberna, un villaggio romano nel Nordafrica, è « la taverna di Rufino »; un villaggio presso Narbona, nel sud della Francia, si chiamava Ad Stabulum, cioè « presso la locanda di campagna »; è ancora il caso di Tres Tabernae sulla Via Appia e di molte altre località. Anche taluni moderni toponimi si possono far risalire a nomi di antichi villaggi sorti in questo modo. Zabern, nome di una località fra Metz e Strasburgo, è una corruzione di Tabernae; ancora da questa parola derivano toponimi come Saverne, Tavers, Tavernières, Tavernolles. Nell’Europa occidentale gli archeologi hanno riportato alla luce alcune isolate locande di campagna (Fig. 15), appartenenti alla rete della posta statale. In Stiria, una regione austriaca, è stata portata alla luce quella che, con ogni probabilità, era una tipica mansio romana (v. pag. 149); costruita sotto Augusto, fu usata ininterrotta­ mente per i tre secoli seguenti. Si tratta di un edificio rettangolare a due piani di 12 m per 21, con un lato corto disposto frontalmente alla strada. Parallelo a uno dei lati lunghi c’era un cortile per accogliere carri e carrozze. Al pianterreno si trovavano una stalla sufficiente per una dozzina di bestie, un’officina di riparazioni, completa di fucina

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da fabbro, un ufficio, una cucina di circa 2 m per 6 e una sala da pranzo pressappoco delle stesse dimensioni. Ufficio, cucina e sala da pranzo erano tutte disposte a sud e la sala da pranzo aveva anche un condotto d’aria calda sotto il pavimento, l’usuale forma di riscal­ damento delle case romane. Al piano superiore, che è andato com­ pletamente perduto, probabilmente perché costruito in legno, si tro­ vavano le camere da letto (Fig. 15). Una mansio piu elaborata, anch’essa costruita nel I secolo d.C. e usata fino al IV, si trovava proprio in cima al passo del Piccolo S. Bernardo, dove passava una delle principali strade di collegamento fra l’Italia e la Francia. Il complesso delle stalle, dei cortili e degli edifici copriva un’area di circa 18 m per 65; metà di questo ret­ tangolo era occupato da un cortile di 15 m per 22,5 circondato su tre lati da due piani di camere; fra quelle conservate, molte misurano approssimativamente 5 m per 5, altre sono molto piu lunghe. Le ca­ mere del primo piano si aprivano su un corridoio aggettante il cortile. In questo modo lo spazio sottostante risultava coperto. Al pianterre­ no si trovavano le sale comuni e alcune camere da letto, a quelli su­ periori solo camere da letto. Il resto dell’edificio era occupato dalle stalle, dall’officina per le riparazioni, eccetera. Non vi sono tracce di condotti di riscaldamento, le stanze perciò erano fornite di un ca­ minetto o di bracieri. Un probabile esempio di mutatio (v. pag. 149) è stato trovato quasi alla sommità del passo alpino raggiunto dalla strada che da Aquileia porta in Iugoslavia. L ’edificio è sempre rettangolare, anche se molto piu piccolo dei due precedenti, misura solo circa 14,5 m di lunghezza per 6,5 di larghezza. Internamente era diviso in tre lo­ cali, una camera centrale affiancata da un cucina e una stanza da letto. La cucina era piuttosto piccola (1,5 m per 3,75), la camera da letto piu che mai (0,90 m per 2,25), mentre tutto lo spazio disponibile era accaparrato dalla sala centrale. Le tre stanze erano ben riscaldate, come è logico aspettarsi in una casa di montagna: la cucina con il suo focolare, la camera da letto con un caminetto e la sala con un condotto d’aria calda sotto il pavimento. La camera da letto era forse usata dal proprietario e veniva occasionalmente affit­ tata a viaggiatori di rango o comunque ben forniti di danaro; per i clienti normali c’era la stanza centrale, usata di giorno come refet­ torio e attrezzata per dormirci la notte. Stalle, fucina e altri annessi si trovavano sotto una tettoia sul retro o lungo l’edificio. Nel mondo greco la locanda tradizionale (v. pag. 66) era costi­ tuita da un cortile centrale quadrato o rettangolare dove trovavano

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posto i veicoli e gli animali, circondato su tutti i lati da una serie di camere pressappoco tutte eguali riservate ai viaggiatori. Nella metà orientale dell’Impero Romano, dove si parlava greco, questo modello pare sopravvivere fino a trasformarsi nei caravanserragli, costruiti in questo stesso modo. NeH’arida regione che si stende a est del Mar Morto vi sono ancora le imponenti rovine di un edificio costruito in epoca romana o bizantina, che è perfettamente simile a un cara­ vanserraglio e ne ha le stesse notevoli dimensioni. È quadrato, di 45 m per lato, al centro si trova un cortile di circa 30 m di lato dove c’è tutto lo spazio necessario per scaricare, foraggiare e mettere al riparo gli animali. Le camere disposte lungo i lati erano altrettanto spaziose, grandi circa 6 m per 3,5 o anche piu; c’erano anche alcuni appartamenti di due stanze. L ’unico altro tipo di locanda conosciuto nell’Oriente greco è rap­ presentato da due edifici, costruiti a Olimpia per alloggiare l’élite de­ gli spettatori dei Giochi; il primo risale alla prima metà del II se­ colo d.C. ma, essendo poi stato destinato ad altri scopi, fu sostituito dal secondo nella seconda metà dello stesso secolo. Come la locanda costruita allo stesso scopo cinque secoli prima (v. pag. 68), anche queste consistevano in un grazioso cortile circondato da sale comuni e camere da letto piuttosto ampie; nel piu antico dei due edifici, per esempio, la camera più piccola misurava 3,5 m per lato; le altre erano quasi tutte piu grandi, molte anche in modo notevole. Le locande site nella zona occidentale dell’Impero sono molto meglio conosciute. Come abbiamo appena constatato, gli scavi hanno rivelato molti esempi di locande isolate appartenenti al cursus publicus\ numerose altre locande, portate alla luce dagli scavi di Ostia, Ercolano e Pompei sono ancora piu interessanti, in quanto ci fanno capire come erano fatte le locande di città. Oltre a questi resti ma­ teriali, gli scrittori romani, in particolar modo i giuristi, trattano spes­ so dei servizi e del personale delle locande. Le locande di campagna offrivano al viaggiatore il minimo indi­ spensabile: cibo, alloggio per una notte e, se egli usava veicoli o ani­ mali affittati, il cambio per entrambi. Anche in un centro di maggiori dimensioni non si poteva avere molto di piu. Sappiamo che una serie di alberghi o locali notturni si allineavano lungo il canale che univa Alessandria a Canopo. Forse Roma o altre grandi metropoli offrivano possibilità del genere. Resta il fatto che impianti simili erano rare eccezioni. In città l’albergo medio era sem­ plicemente un qualunque e prosaico luogo fatto per permettere alla massa dei viaggiatori di pernottare: l’equivalente dei nostri « alberghi

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della stazione ». Chi doveva trascorrere in un luogo qualche giorno e piu e non aveva amici o soci che gli offrissero ospitalità, prendeva in affìtto un alloggio, come fece san Paolo durante il suo soggiorno a Roma. Chi possedeva una casa spesso affittava delle stanze, pro­ prio come accade al giorno d ’oggi — ed i problemi dovevano essere gli stessi, a giudicare da un cartello esposto da un rassegnato padro­ ne di casa; in latino diceva: « Se sei pulito e ordinato, allora qui c’è una casa pronta che ti aspetta. Se sei sporco... Beh, mi vergogno a dirlo ma sei lo stesso il benvenuto ». Chi era solo di passaggio sostava solitamente in una locanda, e anche quelle rispettabili, quelle che i Romani indicavano coi termini generici di hospitium, « luogo per l’ospitalità », o di deversorium, « luogo per sostare », includevano nei servizi offerti le prostitute, mentre il tipo chiamato caupona era decisamente di infima categoria: raccoglieva marinai, carrettieri e schiavi; il luogo ove si mangiava aveva l’aria piu di una bettola che non di un moderno ristorante, e il caupo (o copo), come era chiamato chi teneva una caupona, era dello stesso livello morale e sociale del suo esercizio. I caupones infatti, assieme ai capitani di nave e ai proprietari degli stallaggi, erano oggetto di una speciale legislazione in quanto il viaggiatore si tro­ vava alla loro completa mercè, e i legislatori sapevano bene che in genere costoro non erano famosi per la loro onestà. Di solito la legge romana consentiva a chi veniva derubato di chiedere soddisfazione sol­ tanto al ladro - cosa alquanto difficile perché prima un ladro doveva essere catturato. L ’ospite di una locanda o il passeggero di una nave cui venisse rubato il bagaglio aveva invece il diritto di procedere legalmente contro il locandiere o il capitano; questi erano legalmente responsabili l’uno dei suoi servi, l’altro dei suoi marinai. Ci doveva essere però qualche limite alla loro responsabilità: se infatti il deru­ bato fosse stato per caso un corriere con una borsa di gemme, per il povero caupo ciò avrebbe significato il disastro economico, quando la sua unica colpa era stata di aver assegnato le pulizie della stanza a uno schiavo disonesto. La legge romana permetteva ai proprietari dei magazzini di affìggere cartelli di avviso che essi non rispondevano « di oro, argento o perle »; probabilmente, allora come adesso, i ge­ stori di locanda potevano fare lo stesso. Dovendo passare la notte in una locanda, la città - o almeno una città abbastanza grande - offriva rispetto alla campagna un solo

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grande vantaggio: la possibilità di scegliere fra diverse sistemazioni e, come vedremo tra poco, fra una vasta gamma di divertimenti. Il viaggiatore giungeva alle locande ancora prima di giungere alla città vera e propria; infatti, alcune erano disposte lungo la strada fuori delle mura della città, proprio come i motel di oggigiorno. Per lo piu si trattava del genere chiamato dai Romani stabulum, un eser­ cizio che, come l’equivalente campagnolo, aveva un cortile per i veicoli e una stalla per gli animali. Appena dentro le porte era pos­ sibile trovare diverse locande, alcune molto prossime al centro della città, altre piu periferiche. Le locande di città non erano diffìcili da riconoscere. Anche chi arrivava di notte poteva distinguerle grazie alla lampada che era tenuta accesa sopra la porta. Di giorno le si riconosceva dai cartelli che pubblicizzavano i loro piatti caratteristici o dalle insegne che, con un disegno, illustravano il nome dell’esercizio. Tali nomi ci suonano familiari, poiché appartengono a una tradizione che in Europa è giun­ ta sino ai nostri giorni: c’erano locande con nomi di animali (L ’Ele­ fante, Il Cammello, L ’Aquilotto, Il Cervo, Il Gallo, I Serpenti), di cose (La Ruota, La Spada), di dei (Diana, Mercurio, Apollo). Spesso la facciata era decorata con affreschi appropriati, come botti di vino o, a seconda del tipo di viaggiatore cui si rivolgeva, scene erotiche. Oltre alla decorazione, esternamente c’erano degli avvisi affissi che aiutavano il potenziale cliente a fare la sua scelta. Un’iscrizione che un tempo stava fuori del Mercurio e Apollo di Lione dice: « Qui Mercurio ti promette abbondanza, Apollo salute e Septumanus [il gestore] vitto e alloggio. Chiunque entri ne trarrà giovamento. Viag­ giatore... da’ un’occhiata a dove alloggerai! ». Un’altra iscrizione sco­ perta ad Antibes annuncia: « Viaggiatore, ascolta. Se ti piace, entra; c’è una piastra di bronzo· che ti dirà ogni cosa », in altre parole, una lista dei prezzi affissa (i prezzi dovevano essere abbastanza stabili se potevano venir incisi nel bronzo). Ci è pervenuto anche un avviso piu complesso, scolpito in greco sul portico di una locanda egizia. Scritto in versi eroici sullo stile di Omero, proclama: « Le mura di Tebe sono state rase al suolo e distrutte. Ma questo muro non ha mai conosciuto Ares, che con l’odio solleva lo strepito della guerra, né le azioni e le grida dei nemici. Qui prosperano banchetti e nobili discorsi, e folle di giovani si raccolgono da ogni dove; qui s’ode il richiamo del flauto, non della tromba; qui il suolo gronda sangue di animali

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I viaggi ai tempi dei Romani macellati, non di uomini; qui ci vestiamo di bianco e non di armature. Non la spada ma la coppa è l’arma dei convitati. Tutta la notte in allegria innalziamo preghiere al Dio-Sole, col capo inghirlandato ».

Senza dubbio in molti esercizi il proprietario o gestore stava sulla porta a faceva del suo meglio per richiamare i clienti. In un vivace poemetto attribuito a Virgilio (la Copa) una locandiera, per attirare un viaggiatore stanco e annoiato, decanta la bellezza e il fresco della sua locanda, gli snocciola i « piatti del giorno » e gli assicura che troverà non solo Cerere e Bromio (Bacco), cioè il pane e il vino, ma anche Amore. Un rilievo trovato in una città dell’Italia meridio­ nale riassume in modo divertente tutti i servizi forniti da una antica locanda. Raffigura una locandiera, donna appunto, come nel poema appena menzionato, che parla con un ospite in partenza, e sopra le figure sta scritto il dialogo fra i due: « “Signora, facciamo il conto.” “Un sestario di vino [circa mezzo litro] e pane: un asse. Cibo: due assi.” “ Giusto.” “Ragazza: otto assi.” “Giusto anche questo.” “Fieno per il mulo: due assi.” “Quel mulo sarà la mia morte!” ». Il vino, cosi a buon mercato e conteggiato insieme con il pane, era certamente un prodotto locale. Non si parla della stanza ma, dato che difficilmente l’ospite avrebbe potuto aver la ragazza senza una stanza, probabilmente gli otto assi comprendevano tutto. Uno stabulum, locanda fuori le mura della città con ricovero per veicoli ed animali, non aveva la disponibilità di spazio di quelle in campagna. Una di esse, trovata a Pompei, aveva al pianterreno ap­ pena entrati un’anticamera, fiancheggiata su due lati da locali di dimensioni modeste che servivano da cucina, da sala da pranzo, da reception e, stretta in un angolo, la latrina. Attraversata l’antica­ mera si usciva sul retro in un cortile dove i carri potevano venir staccati e lasciati; in fondo c’era un riparo che serviva da stalla. Il primo piano era per le stanze da letto; ce n’erano però anche al pianterreno che davano sul cortile. Le locande di città, che fornivano solo l’alloggio, mancavano dell’anticamera e del cortile; al pianterre­ no c’erano la cucina, la sala da pranzo, la reception, la latrina e forse

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alcune stanze, al primo piano le camere da letto. Le sale da pranzo avevano una loro entrata separata, dalla strada, dato che, come ve­ dremo fra poco, non servivano solo i clienti della locanda, ma chiunque, come i ristoranti dei moderni alberghi. Le locande trovate a Pompei sono piccole, raramente con piu di una dozzina di stanze da affittare. Ma Pompei era solo una cittadina di provincia, mentre centri più grossi e piu attivi avranno senz’altro avuto, almeno quelli in località amene, esercizi piu capaci. Nel cuore di Roma, a pochi passi dal Foro, è stata scoperta una costruzione che aveva piu di trenta stanze quasi identiche, piccole celle senza finestra - misuravano a malapena m 1,80 per 1,50/1,90 - accessi­ bili da un corridoio basso e stretto. Si trattava di una casa dove si affittavano camere a basso prezzo o di un bordello. Essa rimase in quella posizione privilegiata finché, come tutte le case intorno, venne abbattuta per far posto al grandioso parco con cui Nerone circondò il suo nuovo palazzo, la Domus Aurea. Locande e taverne, come si usava fin dai primordi dei viaggi, anche in epoca romana erano tenute prevalentemente da donne (v. pag. 22). La donna che possedeva una caupona era chiamata copa, che ha anche il suo equivalente maschile in copo. Il gestore di un hospitium o di un deversorium era chiamato hospes, « ospite ». Era frequente il caso di proprietari di locande che, invece di gestirle per­ sonalmente, ricorressero a un institor, un gestore che poteva essere sia un liberto sia uno schiavo. Il resto del personale — il portiere {atriarius o ianitor), fattorini, facchini e camerieri (ministri, pueri), bariste ( vinariae, Fig. 16), ragazze addette alle pulizie (ministrae, ancillae) — era di solito composto da schiavi. Quando arrivava un ospite, un cameriere o una cameriera gli portava il bagaglio in ca­ mera {cella), molto spesso di dimensioni minuscole e da dividere con tutti gli altri viaggiatori che il proprietario riusciva a farci stare. L ’arredamento era ridotto al minimo: letto (lectus o lectulus, « bran­ da »), vaso da notte (matella), un candeliere {candelabrum). I viag­ giatori esperti controllavano accuratamente i loro materassi poiché le pulci erano cosi comuni da essere chiamate cauponarum aestiva animalia, « animali estivi delle locande ». Gli apocrifi Atti di Giovanni raccontano che l’apostolo fu tormentato da questi animali durante un viaggio da Laodicea a Efeso. Egli e i suoi compagni passavano la not­ te in una locanda abbandonata: forse era stata abbandonata proprio perché le pulci l’avevano invasa al di là del sopportabile. Durante la notte Giovanni, al quale era stato dato l’unico letto, fu udito escla­ mare: « Vi scongiuro, o pulci, state buone, tutte quante, lasciate

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la vostra casa per questa sola notte e mettetevi tranquille da qualche parte, e state lontano dal servo di dio. » G li altri che, sdraiati sul pavimento, non erano tormentati dai parassiti, risero al turbamento della loro guida — da quel momento però l’apostolo dormi in pace e il mattino seguente essi trovarono le pulci ordinatamente allineate fuori della porta. Le decorazioni di una normale locanda erano ridotte al minimo, ma non era infrequente che ad esse contribuissero gli ospiti che da­ vano libero sfogo ai loro sentimenti tracciando scritte sui muri delle camere da letto. « Vibio Restituto ha dormito qui da solo e si strug­ geva al pensiero della sua Urbana », cosi scrisse un innamorato o un marito fedele che passò la notte in una locanda di Pompei. « Lo­ candiere, ho pisciato nel letto. Ho fatto male, lo so. Ma vuoi sape­ re perché? Non c’era materasso! » è la lamentela lasciata da un altro. Un viaggiatore afflitto dalla nostalgia di casa scarabocchiò sul muro appassionati saluti alla sua città, Pozzuoli. Alcuni, secondo la migliore tradizione, si limitavano a scrivere il proprio nome. Dopo aver deposto il bagaglio in camera, il viaggiatore poteva aver voglia di rinfrescarsi. Raramente questo era un problema: nes­ suna vera città era priva di una caratteristica struttura sempre pre­ sente nella vita romana: uno stabilimento bene organizzato di terme. Qui si trovava una piscina e tutto quello che oggi è fornito da un bagno turco — il quale d ’altra parte deve il suo nome ad alcuni viaggiatori inglesi che, trovandosi a Costantinopoli, videro le antiche terme e ne dedussero che si trattasse di una invenzione dei Turchi. In questo luogo il viaggiatore poteva passare in ozio lunghe ore, in quanto le terme romane offrivano di norma assai piu che la sem­ plice possibilità di fare un bagno. C’erano al suo interno anche un ginnasio, luoghi per cure di bellezza, concerti, esposizioni d ’arte, pub­ bliche letture, zone per passeggiare, senza dimenticare la possibilità di incontrarsi e chiacchierare con praticamente tutti gli abitanti della città. Chi aveva fame poteva comprare qualcosa da mangiare presso un venditore di cibi o presso uno degli spacci che si trovavano al­ l ’interno. C’erano di solito alcune locande nelle immediate vicinanze delle terme, ma non erano adatte agli ospiti che cercavano pace e tran­ quillità. Il filosofo romano Seneca alloggiò una volta sopra le terme e la sua descrizione di quell’esperienza fa drizzare i capelli in testa: « Abito proprio sopra le terme. Immagina tutti i possibili suoni in­ ventati in odio alle nostre orecchie! Quando quei tipi pieni di muscoli si

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allenano e gettano il peso di piombo, quando sono sotto sforzo (o fanno credere di esserlo) io li sento grugnire; ogni volta che emettono il fiato che avevano trattenuto, si sente sibilare e ansimare a tutta forza. Ma anche i tipi oziosi mi fanno stare sveglio; se qualcuno ama quella specie di massaggio che si pratica qui, mi tocca sentire il rumore delle mani battute sulle spalle e il diverso suono dei massaggi praticati con le mani distese e con le mani piegate a coppa. Ma se sulla scena si presenta un giocatore di palla e comincia a contare i colpi, allora sono finito. Aggiungi i banditi in attesa di preda, i ladri colti in flagrante e le persone cui piace cantare dentro alla vasca. Aggiungi ancora la gente che si getta in piscina con un tuffo assordante. E oltre a tutti questi che almeno sono rumori naturali, non dimenticarti l’esperto nella depilazione che continua a lanciare il suo grido sgradevole per rendere noti i suoi servizi e che la smette solo quando sta depilando le ascelle di un cliente, e allora ci pensa qualcun altro a gridare per lui. E poi ci sono le grida diverse dei venditori di bevande, di salsicce e di dolci, e ancora i gestori dei ristoranti che vantano la bontà delle loro merci con una speciale intonazione ». Al calar della notte nessuna locanda all’interno dei limiti della città poteva assicurare ai clienti tranquillità, poiché al tramonto co­ minciavano a farsi sentire il cigolio delle ruote dei carri, il sibilo delle fruste, le imprecazioni dei conduttori di muli. Ciò dipendeva dal fatto che molte città, tra cui Roma, escludevano quasi tutto il traf­ fico rotabile dalle strade durante il giorno, e che perciò i trasporti pesanti venivano effettuati tra il tramonto e l’alba. Se il viaggiatore, dopo aver provato tutto ciò che le terme gli potevano offrire, aveva ancora voglia di un diversivo, poteva recarsi in un bordello; anche chi era appena arrivato in città lo riconosceva facilmente dalla lanterna che giorno e notte stava accesa sopra la por­ ta. Ma se preferiva un ambiente piu tranquillo, poteva far salire in camera sua una delle cameriere che fungevano anche da prostitute; questa era l’unica possibilità di divertimento nelle locande isolate in campagna. All’ora di cena i servi preparavano la cena e la servi­ vano in camera. C ’era anche la possibilità di farsi portare in camera i cibi preparati dalla cucina dell’albergo, oppure, se al cliente non garbava l ’atmosfera, era possibile mangiare in un ristoro - e questo ci porta a parlare dei « ristoranti » dell’antichità. Il viaggiatore che avesse deciso di mangiare fuori doveva metter­ si alla ricerca di un buon capeleion o potisterion, come si diceva nelle città greche, o di una popina o taberna, come si diceva in quelle ro­ mane. Anche se voleva qualcosa di più e di diverso da quello che offrivano' la sua locanda o quelle vicine, non aveva che l’imbarazzo della scelta tra i numerosi ristoranti sparsi per quasi tutta la città:

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presso le porte, intorno alle terme, al teatro, alle caserme dei gladia­ tori, al Foro, eccetera. La strada principale di Pompei, ad esempio, era lunga circa 600 m e offriva almeno venti ristoranti di ogni tipo e classe, una media di uno ogni 30 m. Chi aveva fretta e voleva solo mangiare un boccone, ma qualcosa di piu di quanto era offerto dai venditori lungo la strada, si fermava al tipo piu semplice di taberna, che era l’equivalente antico delle mo­ derne tavole calde (Fig. 17). Si riduceva a un banco coperto di marmo che si affacciava sulla strada, disposto tra il muro laterale e la porta d ’ingresso, lungo in genere da m 1,80 a m 2,40. Spesso il banco, all’altezza della porta, piegava ad angolo retto verso l’interno del negozio in modo che fosse disponibile ancora qualche metro di spazio. A Pompei la superficie del marmo era interrotta a brevi in­ tervalli da fori dai quali spuntava la bocca delle giare fittili da vino incastrate nella struttura muraria che sosteneva il banco; ad una estremità c’era anche lo spazio per un piccolo fornello a carbone sul quale era sempre tenuto a sobbollire un bricco d ’acqua calda. Contro il muro dove terminava il bancone si trovava una serie di strette mensole ricoperte in marmo, disposte a gradini come una scala in miniatura sulle quali erano ordinati i bicchieri, le stoviglie, eccetera. Il negozio vero e proprio era un minuscolo locale dove stavano l’ad­ detto al banco —che di solito era anche il padrone — i suoi aiutanti — di norma la moglie e i figli adulti o gli schiavi — una scorta di giare per riempire quelle del bancone; una bacinella per lavare le stoviglie; una scala stretta che conduceva a un mezzanino dove dor­ miva la famiglia. Il cliente restava in strada e le ordinazioni veni­ vano messe sul bancone di fronte a lui: vino tratto dalle giare, pane, un pezzo di salsiccia e cose del genere. Un antico romano appoggiato al banco di una taberna di questo genere, che mangia un pezzo di salsiccia e tracanna un bicchiere di vino è l’antenato dei clienti delle moderne tavole calde. Se un viaggiatore era stanco di stare in piedi e voleva sedersi, oppure desiderava altri svaghi in aggiunta al cibo, poteva recarsi in una popina (Fig. 16). Vista dalla strada essa differiva di poco dalla taberna, aveva lo stesso banco e le stesse serie di mensole. Tuttavia era attrezzata con almeno altre due stanze, una cucina con un focolare a carbone e una sala da pranzo arredata con tavoli e sedie. Popinae piu grandi avevano numerose sale da pranzo, alcune stanze piu piccole riservate ai convegni amorosi oltre che ai pasti, e una latrina. Le dimensioni erano sempre modeste. In una tipica popina a Pompei, la sala da pranzo principale misura m 2 per 4,5,

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mentre le due salette private erano quadrate e misuravano circa 2 m per lato. Alcune popinae disponevano di un cortile per pran­ zare al fresco, dove lo spazio disponibile era maggiore. Presso l’an­ fiteatro di Pompei c’era una popina con un pergolato a vite lungo 18 m e largo 9; nei giorni in cui erano in programma i giochi e il tempo era bello, i clienti potevano accomodarsi sotto i tralci e sor­ seggiare un bicchiere di vino godendosi il fresco e l’ombra. Gli antichi preferivano mangiare sdraiati piuttosto che seduti, e nelle città si trovavano alcune popinae di categoria elevata nelle quali il tavolo da pranzo era circondato da tre triclini. Mangiare se­ duti era una cosa da poveri e da frettolosi, piu o meno come oggi lo è mangiare appollaiati sullo sgabello di un bar. In tutti questi locali, dalla tavola calda aperta sulla strada al ri­ storante di lusso con triclinio, l’accento era posto tanto sulle bevande quanto sui cibi: oltre che per mangiare, vi si andava anche per bere un bicchiere. Il « vino della casa » era comunemente un vino locale di basso prezzo, ma anche gli esercizi piu modesti erano di solito in grado di soddisfare quei clienti che desiderassero qualcosa di piu raffinato. In una popina di Pompei è raffigurato un servo intento a versare il vino e la didascalia dice: « Ancora un bicchiere di Seziano! », di vino cioè di Sezia, città sui colli a settentrione di Terracina che produceva un vino di buona qualità. In un altro caso è raffigurata una ragazza identificata come Vinaria Hedone, Hedone la vinaia, con una didascalia che precisa: « Vino a partire da un asse; per un prezzo doppio berrai meglio, se paghi il quadruplo ber­ rai Falerno »; il Falerno, famoso anche per le entusiastiche men­ zioni di Orazio, era il miglior vino d ’Italia. Nelle popinae si trova­ vano anche vini d’importazione provenienti da Spagna, Francia e Grecia; con ogni probabilità i vini italiani e delle altre province oc­ cidentali venivano esportati nella parte orientale dell’Impero. Inoltre al nord, in Gallia per esempio, le taverne servivano birra. Gli antichi non bevevano mai vino puro; vi aggiungevano sem­ pre acqua. Questa è la principale ragione per la quale la brocca del­ l’acqua sempre bollente faceva parte dell’arredamento normale di tutte le taverne: i clienti spesso ordinavano bevande alcoliche calde, perlopiù a base di vino e acqua calda. (Nei quartieri poveri inoltre il bricco dell’acqua calda delle taverne svolgeva un’ulteriore fun­ zione: ad esso ricorrevano quanti, a causa della modestia dei loro appartamenti, non avevano modo di scaldarsi l’acqua.) Le bevande fresche erano invece in vendita in quelle tabernae e vopinae che di­ sponevano di un pozzo dove, assicurate con una corda, venivano ca­

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late le anfore di vino (v. pag. 69) e nelle locande di campagna presso i ruscelli, dove il vino veniva messo a rinfrescare nell’acqua corrente. Ai banchetti dell’alta società {v. pag. 155) veniva a volte servito del vino tenuto al freddo nella neve, ma un sistema cosi dispendioso non era certo alla portata delle locande e dei ristoranti comuni. Esistevano anche bevande di composizione piu raffinata della solita mistura di vino e acqua, ad esempio vino variamente speziato e addolcito con miele (lo zucchero era praticamente sconosciuto nell’antichità). Le bevande erano servite in ampie coppe, spesso adorne di iscrizioni il cui scopo era forse quello di stuzzicare la fan­ tasia del cliente: « Dammi da bere! », « Riempi bene la coppa, oste! », « Un altro ancora! », oppure in modo più specifico: « Dam­ mi qualcosa di caldo, oste! » o ancora, piu precisamente: « Rispar­ miami la robaccia resinata! Dammi l’Aminèo! » (l’Aminèo era un vino italiano di ottima qualità). L ’acqua veniva mescolata al vino secondo precise proporzioni che dipendevano dal tipo di vino: piu era forte il vino, piu acqua si ag­ giungeva. Proprio come capita oggi, anche gli antichi si lamentavano di quei locandieri o tavernieri imbroglioni che adulteravano il vino. Un cliente scontento scribacchiò la sua protesta sui muri di una ta­ verna a Pompei (dopo aver trovato anche il tempo di mettere il suo accesso di collera in versi quasi perfetti): « Possa tu presto, oste imbroglione, provare la collera divina, tu che vendi alla gente acqua ma offri a te stesso vino ». Gli osti che annacquavano il vino, cioè che annacquavano quella cosa che pretendevano di far passare come vino non ancora tagliato, fecero la loro comparsa nella letteratura almeno a partire dal II seco­ lo a.C.: « Il tuo vino è annacquato », accusa il profeta Isaia rivolto alla città di Gerusalemme. Il poeta satirico Marziale, che passò buo­ na parte della sua vita nelle taverne di Roma e altre località, indiriz­ zò questa frecciata contro un oste imbroglione: « Quest’anno per le continue piogge i grappoli erano tutti fradici non puoi, oste, benché tenti di farlo credere, vendere vino schietto ». A Ravenna poi Marziale sperimentò il rovescio della medaglia. In quella zona paludosa la buona acqua potabile era preziosa quanto il vino, e Marziale cosi si lamenta:

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« A Ravenna un oste scaltro mi ha imbrogliato, chiesi una mistura e mi diede vino puro ». Oltre che nelle bevande, le frodi venivano consumate anche nella preparazione dei cibi, anche se qui il fenomeno era di proporzioni molto minori. Il medico Galeno, ad esempio, afferma che la carne umana ha un gusto molto simile a quella di maiale, e aggiunge di conoscere « molti osti e macellai che hanno venduto, come maiale, la carne umana a clienti che non si accorsero affatto della differenza ». Simili frodi erano senza dubbio facilitate dal fatto che nelle popinae veniva servita carne di tagli molto scadenti, ben arrostita o stufata e probabilmente abbondantemente drogata. Le estrose creazioni della gastronomia romana, di cui sentiamo cosi spesso parlare, erano solo per l’alta società, non per la clientela dei ristoranti. Fornire da mangiare e da bere rappresentava solo una delle funzioni svolte dalla popina·, questa offriva anche gli svaghi dei moderni locali notturni, delle bische e dei bordelli. Ci si andava per passarvi tutta la sera o, se si era degli affezionati clienti, per passarvi anche il giorno, dato che le popinae aprivano intorno alle undici del mattino o poco prima. Molte offrivano musica e danze; nel poemetto Copa attribuito a Virgilio ricordato poco fa (v. pag. 168), la locandiera, una ragazza siriana, indossava per i clienti i co­ stumi del suo paese natale. Per lo piu vi si trovavano prostitute. Le rovine delle popinae di Pompei rivelano che spesso una o piu stanze venivano decorate con il phallus erectus o con scene erotiche, indica­ zione abbastanza chiara dell’uso a cui erano destinate; alcuni clienti hanno scarabocchiato sul muro di aver « avuto rapporti con la stessa proprietaria ». Dappertutto si praticava il gioco d’azzardo. « Servigli il vino e i dadi », dice la locandiera siriana nel precitato poemetto Copa attribuito a Virgilio; le due cose andavano di pari passo, na­ turalmente. Una popina di Pompei ha i muri decorati con scene, complete di didascalie, che danno un’idea delle attività che li si svolgevano. In una vediamo una cameriera intenta a offrire una brocca e un bicchie­ re a due commensali. « Da questa parte! » dice uno dei due. « No, è mio! » dice l’altro. E la ragazza, esasperata, replica: « Chi lo vuo­ le, se lo prenda! Ehi Oceano [rivolta a un terzo personaggio imma­ ginario cui dà un nome appropriato], vieni qui e bevi! » In un’al­ tra scena sono raffigurati due episodi: nel primo due giocatori sono seduti a un tavolo e quello che ha appena tirato i dadi esclama trionfante: « Sono fuori! », l’altro replica: « Non è vero, sono tre

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2 ». Nell’episodio seguente il primo dei giocatori dice all’altro: « Mi venga un accidente! Lo giuro, ho vinto! », l’altro replica chiaman­ dolo con un nome osceno e aggiunse: « Ho vinto io! ». Un terzo, il proprietario, spinge i due fuori della porta e dice: « Andate fuori a picchiarvi ». Da quanto abbiamo finora detto si deduce che i ristoranti del­ l’antichità attiravano una clientela tutt’altro che qualificata. Si man­ giava a fianco a fianco con mulattieri, marinai, venditori ambulanti e gente del genere. Giovenale, autore di tante satire mordaci, si fa beffe di un ricco aristocratico che era solito frequentare una popina di Ostia, il porto di Roma: « Lo potrai trovare seduto a tavola con qualche delinquente, fra marinai, ladri e fuggiaschi, assieme a carne­ fici, aiutanti di becchini e sacerdoti castrati troppo ubriachi per bat­ tere sui loro tamburelli ». Anche molte altre popinae dovevano es­ sere di cosi basso livello: quelle, ad esempio, che Marco Antonio, stando alle accuse di Cicerone, era solito frequentare, o quelle dove, secondo i biografi di Nerone, l’imperatore si aggirava al calar della notte. Al livello infimo doveva trovarsi una popina del I secolo d.C. scoperta a Catania. Sulle pareti di quella che doveva essere la sala da pranzo sono incise una serie di scritte che permettono l’iden­ tificazione del locale; una di queste dice: « 16 agosto, festività di Cerere. Qui tre giovani compagni - ecco i loro nomi: Onesimo, Lu­ cio Valerio Ersiano, Filumeno - si sono dati al buon tempo, l’ultimo con una donna », gli altri due evidentemente tra loro. La precisa­ zione della data è importante: essa mostra infatti che la cosa avven­ ne proprio durante quella festività solenne nella quale si supponeva che le donne osservassero nove giorni di castità. Due dei tre uomini erano schiavi, come indicano i loro nomi, il terzo era un liberto; non si menziona il nome della donna che era stata ingaggiata proprio per quell’occasione. Contro locali di tal risma gli edili, cioè i magistrati cittadini in­ caricati, fra l’altro, delle locande e dei ristoranti, dovevano intervenire molto spesso. Nel I secolo d.C. gli imperatori erano ancora interes­ sati al tentativo di migliorare il tono morale della capitale, e una delle loro trovate ricorrenti consisteva nel cercare di arginare l’atti­ vità delle popinae, limitando il numero dei cibi che in esse si pote­ vano servire. Tiberio vietò il pane e i dolci, Claudio proibì la car­ ne cotta e l’acqua calda e fece chiudere quei locali che vendevano solo vino, Nerone permise la vendita solo di piatti di verdura, Ve­ spasiano solo di piselli e fagioli. Il fatto che ogni imperatore abbia dovuto emanare un nuovo decreto dimostra che i regolamenti erano

Locande e ristoranti

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regolarmente disattesi, e difatti dopo Vespasiano non abbiamo piu notizia di alcun tentativo del genere. Le popinae, che erano frequentate dalla peggior feccia della so­ cietà, non potevano non riflettere il livello della loro clientela. Le pitture sui muri tendevano alla scatologia oppure alla pornografia. A Ostia, una stanza è decorata con una serie di ritratti di uomini dallo sguardo solenne, opera di primordine di un pittore professio­ nista. Rappresentano i « Sette Savi » e a ciascun ritratto segue un motto che pretende di riassumere l’insegnamento del filosofo, natu­ ralmente sempre in rapporto alle funzioni intestinali: « Per andare bene di corpo Solone era solito fregarsi la pancia », « Talete racco­ manda agli stirici di spingere forte », « L ’ingegnoso Chilone insegnò l ’arte di scoreggiare senza far rumore ». Sotto i ritratti appare una se­ rie di uomini che occupano i sedili di una latrina, e ogni figura è accompagnata da una didascalia adatta: « Sforzati un po’ e vedrai che farai prima », « Faccio il possibile », « Amico, tu dimentichi il pro­ verbio “ Buon caeatore, frega il dottore” ». Fu inevitabile che la Chiesa, una volta che fu divenuta potente, emanasse una legge che vietava ai preti di mangiare nei ristoranti, a meno che fossero in viaggio e non esistessero alternative. Cosi un viaggiatore, dopo aver passato piacevolmente le ore del giorno nelle terme, poteva egualmente divertirsi la sera in una po­ pina, parlando o tentando, a caso, qualche mano di dadi, o ancora, se ne aveva voglia, sollazzandosi con una ragazza. Se ciò, poi, lo spingeva a proseguire in questo piacevole passatempo, non doveva fare altro che recarsi in qualche ben fornito bordello.

La posta

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in fretta e furia poche righe per approfittare del corriere. Cicerone si lamenta con un corrispondente che:

CAPITOLO OTTAVO

« Hai dei corrieri un po’ strani... reclamano a gran voce una lettera quando partono, ma quando arrivano non ne portano nessuna. Mi fareb­ bero comunque un favore se soltanto mi lasciassero due minuti per scri­ vere, mentre invece entrano, senza togliersi il cappello, e mi dicono che i loro compagni li stanno attendendo alla porta ».

LA POSTA Quando, durante l’Impero, la posta statale funzionava, anche

i ricchi trovavano piu conveniente « ungere qualche ruota » e far Già dal terzo millennio a.C. le città-stato della Mesopotamia ave­ vano creato un sistema postale governativo (v. pag. 23). L ’Assiria ne elaborò una forma piu ampia per far fronte alle necessità del suo estesissimo impero, e la Persia lo perfezionò ulteriormente fino a creare quel servizio che tanto impressionò Erodoto (v. pag. 37). Persino i minuscoli vicini della Persia, le città-stato della Grecia, avevano propri sistemi di comunicazione organizzati, gruppi di « cor­ rieri » o « araldi » che, macinando senza posa chilometri su chilo­ metri a passo costante, portavano i messaggi ufficiali da uno stato all’altro. E , naturalmente, dai tempi di Augusto c’era il perfezionato cursus publicus dell’Impero Romano. Tutti questi sistemi però erano per esclusivo uso governativo - o ad uso dei pochi che, per mezzo della corruzione o del potere, face­ vano in modo da potersene servire. I privati cittadini non ebbero a disposizione un servizio che funzionasse specificatamente per loro fino alla fine del XVII secolo, quando Carlo II d’Inghilterra istituì la London Penny Post. Prima di allora non c’era altro da fare che ar­ rangiarsi. Anche qui, come in molti altri campi, i benestanti greci e romani se la cavavano meglio: infatti si servirono di postini personali. Fra i loro schiavi ce n’erano alcuni il cui compito principale era quello di fare da corrieri, grammatoforoi « portatori di lettere » come erano chiamati in greco, tabellarii o « portatori di tavolette » in latino. I gruppi familiari e gli amici che abitavano vicini avevano in genere dei corrieri in comune per aumentare le possibilità di ricevere o spe­ dire posta. Ma in definitiva era tutto all’insegna del « come-vieneviene »; i corrieri non erano mai sufficienti e i ritardi erano inevita­ bili. « Mi è rimasta qui una lettera per giorni e giorni in attesa di un corriere » si lamenta Cicerone in uno scritto a suo fratello. L ’altro aspetto negativo era la fretta con cui si dovevano buttar giu

viaggiare la propria corrispondenza a spese dello stato. Naturalmente la maggioranza di chi scriveva non poteva avvalersi né di corrieri né della borsa dello stato. L ’unica risorsa era trovare qualche viaggiatore che andasse nella giusta direzione. Cosi facevano sia nel secondo millennio a.C., sia nel II secolo d.C. « Dato che ho trovato qualcuno che da Cirene viene dalle tue parti, ho sentito il bi­ sogno di farti sapere che sono sano e salvo », scrive un giovane greco in viaggio da Roma per l’Egitto nel II secolo d.C. « Sono stato molto felice di ricevere la tua lettera » scrive un greco che abita in Egitto nel 3 d.C. « che mi è stata consegnata dal fabbro; quella che hai detto di avermi mandata per mezzo di Platone, il figlio della danzatrice, non l’ho ancora ricevuta. » « Ti ho mandato altre due lettere » scrive un altro, nel 41 d.C. « una tramite Nedymos e una per mezzo di Kronios, la guardia armata. Ho ricevuta quella che tu mi hai mandata con l’Arabo. » Anche Cicerone a volte faceva lo stesso. « Manda Acasto [un servo] tutti i giorni al porto » scrive, mentre era in viaggio per l’Italia, al suo segretario che si trovava a Patrasso « perché ci sa­ rà un mucchio di gente a cui puoi affidare delle lettere e che sa­ ranno felici di recapitarmele. Da parte mia non mi lascerò sfuggire nessuno di quelli diretti a Patrasso. » Se ne deduce che i viaggia­ tori normalmente non facevano obiezioni ad assumere il ruolo di po­ stini — e dopotutto era per loro anche l’unico modo per mettersi in contatto con qualcuno. Non solo spedire ma anche scrivere una lettera era una faccenda assai piu complicata di ora. Non c’erano né matite né penne. L ’unico strumento per scrivere era una cannuccia, e l’inchiostro era una mi­ scela di nerofumo, gomma e acqua. Greci e Romani scrivevano gene­ ralmente le loro lettere su papiro, un tipo di carta ottenuto dal mi­ dollo del giunco di papiro, che valeva i piu robusti tipi di carta d ’oggigiorno. Ma costava molto di piu; di regola perciò le missive erano brevi. Non c’erano buste: quando il mittente aveva terminato di

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scrivere, arrotolava il foglio o lo ripiegava lasciando lo scritto all’interno, ci scriveva l’indirizzo, lo legava e, per sigillare, fissava alla cordicella una goccia di argilla o di cera e vi imprimeva il proprio sigillo. L ’indirizzo era generalmente molto semplice, per esempio: « Ad Apollinario da suo fratello Ireneo »; non c’era bisogno di ag­ giungere altro perché la persona che accettava di portare il messag­ gio andava nella stessa città o villaggio del destinatario, e la strada e la casa dove andare venivano indicate a voce dal mittente. La posta era abbastanza veloce su brevi distanze. Cicerone soli­ tamente riceveva nelle sue ville di Napoli le lettere da Roma nel giro di quattro o cinque giorni in media; la posta italiana oggi non funziona molto meglio. Sulle lunghe distanze, soprattutto quando bisognava attraversare il mare, la faccenda diventava diversa. Il cor­ riere andava al porto per vedere se c’erano navi in partenza per la direzione desiderata e, se non ce n’erano, tutto quello che poteva fare era aspettare e sperare. Una lettera di Cicerone a suo figlio ci mise piu di sette settimane da Roma ad Atene, mentre un’altra sem­ pre da Roma ad Atene ce ne mise tre. Nel primo caso chi la portava dovette aspettare la nave, nel secondo questi ebbe la fortuna di tro­ varne una in partenza - cosa che doveva essere insolita, dato che Cicerone, in questo secondo caso, commenta che la lettera arrivò sane strenue, terribilmente in fretta. Il suo segretario gli scrisse una volta da Patrasso, e la lettera arrivò a Brindisi quindici giorni dopo, anche se la distanza avrebbe potuto essere coperta, nelle medesime condizioni, in tre giorni. Dall’Africa a Roma il viaggio durava tre giorni, eppure una volta una lettera ce ne mise venti per arrivare a Cicerone. Dalla Siria a Roma alcune lettere ci mettevano quindici giorni, altre il doppio. Ci sono giunte alcune lettere che viaggiatori casuali o turisti scri­ vevano a casa. Erano tutte indirizzate a gente che viveva in Egitto, dove sono state dissotterrate in questi ultimi cent’anni; chi le rice­ vette le gettò poi tra i rifiuti e, dato che in alcuni luoghi della valle del Nilo non piove praticamente mai, là esse sono rimaste intatte, o quasi, finché gli archeologi non le riportarono alla luce. Sono scritte in greco, la lingua delle classi alte e medie che vivevano in Egitto ai tempi dell’Impero Romano. La maggior parte è del tipo che ogni viaggiatore scriverebbe in ogni epoca: informa che si è arrivati bene. « Arrivato in Italia » scrive uno nel II secolo d.C., « ho creduto necessario farti sapere che io, e gli altri con me, stiamo bene. Il nostro viaggio è stato lento ma non spiacevole. » « Cara mamma », scrive una giovane recluta della marina sempre nel II se­

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colo d.C., « salve! Spero che tu stia bene. Io sto bene... sappi che so­ no arrivato bene a Roma il 25 Pachon [20 Maggio] e mi hanno messo al[la base navale di] Miseno, ma non so ancora il nome della mia nave... Ti prego, mamma, riguardati e non preoccuparti per me; sono in un bel posto. Per favore scrivimi che stai bene, dimmi come stanno i miei fratelli e l ’intera famiglia. E tutte le volte che troverò qualcuno [che viene dalle tue parti] ti scriverò... non smetterò di scriverti. Ricordami a... » e qui segue una lunga lista di nomi di amici e familiari. Un’altra recluta, raccontando che è arrivata sana e salva, menziona il suo « ringraziamento al dio Serapide che è subito venuto al mio soccorso quando ero in pericolo sul mare ». Abbiamo già citato (v. pag. 102) la lettera di un uomo d ’affari di Alessandria che informa il fratello del proprio arrivo a Roma. Qualche volta le lettere riferivano di arrivi che avevano corso il rischio di non avvenire affatto. Verso la fine del I I I secolo d.C., quando il lungo periodo della pax romana stava per finire e l’Impero soffriva di frequenti periodi di disordine, un certo Psois appena tor­ nato da un viaggio scrive a un amico a Ermopoli: « Quando già cominciavamo a gioire al pensiero di essere vicini a casa, siamo caduti in una imboscata dei banditi presso il monte Maro e alcuni di noi sono stati uccisi... Grazie a dio, me la sono cavata venendo ripulito di tutto. Avrei voluto venire da te a raccontarti l’accaduto, -ma non ho potuto e venni direttamente a Ossirinco... Con l’aiuto degli dei conto di venire da te per la festa del mese di Phaophi. Spero che tu stia bene ». Ancora al I I I secolo d.C. risale la lettera di una donna che non incappò nei banditi, ma nei tipici guai dei viaggiatori - per­ dita di coincidenze, esaurimento del danaro - e che perciò non arrivò mai a destinazione: « Cara madre, innanzitutto e soprattutto prego gli dei che tu sia in buona salute. Voglio che tu sappia che il 13 Tybi [8 gennaio] io giunsi a Tyrannis, ma non riuscii a venire da te poiché i cammellieri si rifiu­ tavano di andare a Ossirinco. Mi recai allora ad Antinoe per prendere un battello, ma non ne trovai nessuno. Allora ho pensato che la cosa migliore fosse far proseguire i bagagli da Antinoe e aspettare qui finché troverò un battello su cui imbarcarmi. Ti prego di consegnare ai latori della pre­ sente lettera 2 talenti e 300 dracme in restituzione di quanto ho ricevuto da loro per pagare le spese di trasporto. Non farli aspettare neppure un’ora... Se pensi di non avere abbastanza denaro fattelo prestare... e pagali subito poiché non possono aspettare neppure un’ora. Non delu­ dermi e non far perdere tempo a questa gente che è stata cosi gentile con me. I miei rispetti a... [segue una serie di nomi] ».

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I viaggi ai tempi dei 'Romani

Molte lettere rivelano nei viaggiatori la tradizionale fame di no­ tizie da casa. « Cara madre » scrive nel I II o nel IV secolo d.C. un figlio particolarmente ansioso « ti scrivo per mezzo del nostro Eliodoro [lo schiavo incaricato di por­ tare la lettera] da Cesarea, di dove intendo proseguire per la Cappadocia, in buona salute e pregando che anche tu stia bene e in buona salute. Io vi ho scritto molte volte interessandomi della vostra salute e voi non avete mai ritenuto che valesse la pena di rispondermi. Se voi mi mandaste solo una riga per dirmi come state e come vanno le cose, io smetterei di preoccuparmi. Sinora mi ha preoccupato il fatto di non avere ricevuto nemmeno un lettera da voi. Mie nuove vi sono giunte dai nostri servi, da Neilos e Eudaimon e da quelli che sono venuti alla vostra volta. Molti saluti alla mia cara sorella Taesis, a mio fratello Zoillos e a tutti i miei amici. Possano tutti stare bene per lungo tempo! ». G li antichi viaggiatori, come i moderni, non sapevano resistere alla tentazione di mandare un fiume di istruzioni a casa sul come dovevano essere portati avanti gli affari in loro assenza. « Caro Zeno­ ne » scrive un socio di questi nel 252 a.C. « ti scrivo subito dopo il mio arrivo a Sidone... Prendi cura di te stesso e scrivimi se c’è qualcosa che io posso fare per te. T i prego di comprare per il mio ritorno 3 giare del miglior miele, 600 staia di orzo per le bestie... e prenditi cura della mia casa di Filadelfia in modo che al mio arrivo il tetto sia a posto. Tieni d ’occhio meglio che puoi i buoi, le oche, i maiali e tutto il resto... e cerca di fare in modo che il raccolto sia immagazzinato; se ci sono delle spese non esitare ad anticiparle per me. » Assieme a molte lettere scritte -da chi era in viaggio, l’Egitto ne ha conservate parecchie altre scritte ai viaggiatori. Una moglie in­ namorata, per esempio, scrive al marito per dirgli quanto egli le man­ chi: « Mandami a chiamare, altrimenti io morirò se non ti potrò ve­ dere ogni giorno. Come vorrei avere le ali e volare fino a te... Non vederti è una tortura per me ». Un’altra moglie, il cui marito l’aveva evidentemente abbandonata per un lungo soggiorno ad Alessandria, gli scrive con uno spirito abbastanza diverso: « Sono offesa poiché tu non ritorni quando tutti gli altri l’hanno fatto. Ho mantenuto me stessa e i figli per tutto questo tempo, ma ora sono alla fine delle mie risorse a causa del prezzo dei cibi e quando già pensavo che avrei ricevuto un qualche sollievo dal tuo ritorno, tu non ti sei dato pensiero di tornare, non hai considerato la nostra situazione, di come io non avessi niente quando tu eri ancora qui, per non parlare di quanto tempo è passato e di come, con tutti questi guai, tu non hai

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mai mandato nulla. Per di piu Horus che mi ha portato la tua lettera mi riferisce che il tuo soggiorno è finito e che sei stato autorizzato a tornare, e perciò io sono del tutto offesa ». Sicuramente molti fra noi proveranno una complice simpatia per questo Teone che, intorno alla fine del II secolo d.C., ricevette que­ sta lettera dal figlio, anch’egli di nome Teone: « Mi hai fatto proprio un bel regalo! Non mi hai portato con te in città! Se tu non mi porti con te ad Alessandria, io non voglio piu scri­ verti, non voglio piu parlarti e neppure mai piu salutarti. Se tu vai ad Alessandria [senza di me] in futuro non ti stringerò piu la mano né ti rivolgerò il saluto. Se non mi porti con te, ecco che cosa accadrà. La mamma ha detto ad Archelao [probabilmente il maestro del ragazzo] “Quello mi disturba, portalo via!” Mi hai proprio reso un bel servizio, davvero. Mi mandasti grandi regali, ma non vogliono dire nulla! Sono stati solo un trucco per ingannarmi quando, il giorno 12, te ne sei an­ dato. Mandami a chiamare, ti prego. Se non lo farai io, qui, non mangerò né berrò piu ».

PARTE TERZA

TU R IST I E TURISM O IN EPOCA ROMANA

CAPITOLO PRIMO

I LU O G H I D A V ISITA R E

Sul finire dell’estate del 167 a.C. Emilio Paolo, comandante su­ premo degli eserciti romani, soggiornava nella Grecia settentrionale per godersi gli onori della vittoria dopo un’aspra lotta contro i Ma­ cedoni. Lo storico Livio racconta che allora « decise di visitare la Grecia per vedere quelle cose che, grazie alla loro fama e alla loro rinomanza, erano state magnificate alle sue orecchie come qualcosa di superiore a quanto l’occhio umano potesse contempla­ re... Senza un grande seguito... attraversò la Tessaglia e giunse a Delfi, il famoso oracolo. Qui sacrificò ad Apollo... Poi si recò al tempio di Zeus Trofonio e vide la bocca della caverna dove gli interroganti entrano per sottoporre le loro domande agli dei. Andò poi a Calcide per vedere l’Èuripo e l’Eubea, un’isola di enormi dimensioni ora unita al continente con un ponte. Da Calcide passò ad Aulide, tre miglia distante, il famoso porto dove una volta si raccolsero le mille navi della flotta di Agamennone e dove si trova il tempio nel quale il re dei re implorò un vento favorevole per andare a Troia, sacrificando la figlia sull’altare della dea. Di qui andò a Oropos in Attica dove un antico vate [Anfiloco] è onorato piu di qual­ siasi divinità; il santuario è antichissimo e situato in un luogo delizioso per le sorgenti e i ruscelli che lo circondano. Andò poi ad Atene, famosa per la sua veneranda antichità e piena di molte cose importanti da vedere: l’Acropoli, la città portuale, le mura che uniscono il Pireo alla città, la base navale... le statue sia di dei sia di uomini scolpite in molti stili e materiali. Lasciò la città dopo aver sacrificato ad Atena, la dea protet­ trice dell’Acropoli, e si diresse a Corinto dove arrivò il giorno seguente. La città era allora splendida, ciò infatti accadeva prima che fosse di­ strutta. L ’Acropoli e l’Istmo erano i luoghi da visitare: l’Acropoli cinta da mura e disseminata di sorgenti, posta su un rilievo altissimo; l’Istmo che con una stretta lingua di terra divide il mare orientale da quello occidentale. Visitò poi le splendide città di Sicione e di Argo, in se­ guito Epidauro, città molto meno importante, ma celebre per lo splendido tempio di Asclepio; esso dista cinque miglia dalla città ed ora restano solo le tracce dei doni votivi che furono rubati nel corso di un sac­ cheggio; un tempo la città era ricca per quei doni offerti dai malati al dio in pagamento delle cure prestate. Andò a Sparta, priva di monumenti notevoli, ma degna di memoria per le sue istituzioni e Ì metodi educa-

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Turisti e turismo in epoca romana

tivi, e poi a Pallantio. Passò per Megalopoli mentre si recava ad Olimpia. Qui vide molte cose notevoli, ma ciò che lo toccò profondamente fu la statua di Zeus: gli sembrava di vedere il dio in persona ». L ’itinerario di Emilio Paolo preannunzia fin nei particolari gli interessi dei turisti che vennero dopo di lui. Egli non era Erodoto, che ficcava il naso nella vita e nei costumi della gente e che attaccava discorso con i servitori dei templi ed i mercanti. Emilio Paolo era quasi esclusivamente interessato al passato; fra i monumenti del pas­ sato dava la preferenza a quelli che ricordavano la presenza degli dei e poi a quelli che si ricollegavano alla mitologia o alla storia. Per questo visitò i grandi templi e i santuari a Delfi, Atene, Oropos, Epidauro; visitò anche il porto dove Agamennone radunò la flot­ ta per la leggendaria spedizione contro Troia e la base di quella flotta che, due secoli e mezzo prima, aveva reso grande il nome di Atene. Ammirò anche la statua di Zeus a Olimpia, scolpita da Fidia, ma non tanto per le qualità artistiche, quanto per la fama di cui godeva e per la grande impressione che provocava nello spettatore (la sua reazione, si racconta, fu: « Fidia ha scolpito lo Zeus di Omero! »). Visitò anche una delle meraviglie della natura: l ’Euripo, lo stretto canale (largo solo 40 m) tra il continente greco e l’isola di Eubea, percorso da una corrente che ha una velocità di una decina di chilo­ metri all’ora e che sembra cambiare direzione con stupefacente ir­ regolarità. Emilio Paolo visitò una sola località famosa per le caratteristi­ che naturali, il canale dell’Euripo: vi si recò non per ragioni este­ tiche o emozionali, ma solo per vedere una curiosità. Noi oggi fac­ ciamo lunghi viaggi per il piacere di ammirare un paesaggio diverso, ci sobbarchiamo faticose ascensioni per godere di un superbo pano­ rama e amiamo soprattutto i luoghi selvaggi non toccati dalla mano dell’uomo. Gli antichi affrontavano la scalata di una montagna solo per ragioni ben precise, per verificare la possibilità di costruire una strada o in cerca di qualche meraviglia naturale sulla cima. Non era­ no minimamente interessati ad ammirare un’infinita distesa di picchi coperti di neve e non erano commossi dall’austera bellezza delle va­ stità senza confini. L ’unico piacere che essi trovavano in un paesag­ gio era in generale la sua amoenitas, cioè la sua « grazia ». Per quan­ to riguarda la natura essi erano soprattutto interessati a quei luo­ ghi in cui si sentiva la presenza della divinità — non le zone mon­ tuose o i deserti, come capita a noi, ma piuttosto i luoghi raccolti.

I luoghi da visitare

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Visitavano le sorgenti e, nell’inesplicabile e continuo gorgoglio delle acque, essi vedevano l’opera di un dio; presso le sorgenti erigevano sacelli e cappelle e onoravano la divinità gettando nelle acque una monetina come offerta (v. pag. 107), dando con ciò inizio a una lunga tradizione. Penetravano nelle grotte e, udendo nelle tenebre solo suoni remoti e misteriosi come il rimbombo attutito delle ac­ que sotterranee, immaginavano di trovarsi vicini a esseri sopranna­ turali. Visitavano boschi e foreste dove le ombre e la pace davano loro la stessa sensazione. Talune bellezze naturali divennero un’attrazione grazie alla fa­ ma letteraria che le circondava. Emblematico in questo senso e il caso della Valle di 'Tempe, nella Grecia settentrionale, cantata da un numero infinito di poeti e riprodotta in miniatura, con un vero capolavoro di ingegneria, tra le meraviglie della villa Adriana a Ti­ voli. Allo stesso modo i turisti dell’antichità amavano percorrere i fiumi che avessero lasciato un ricordo nella letteratura: il Nilo, il Danubio, il Reno, il sinuoso Meandro in Asia Minore. All’ultimo posto venivano le curiosità offerte dalla natura: l’Eu­ ripo ne è un esempio. La sola montagna che gli antichi scalassero per il piacere di farlo era l’Etna - giunti in cima sbalordivano di■' nanzi allo spettacolo del cratere di un vulcano attivo. Le sorgenti calde di Icrapoli in Asia Minore erano famose non soltanto per le acque ma anche perché da una fessura del suolo, larga quanto il pugno di un uomo, fuoruscivano gas venefici cosi potenti da uccidere gli uccelli che vi volavano attorno e persino i tori che fossero stati costretti a respirarli. Il luogo era completamente recintato e nelle sue vicinanze si trovava un posto di osservazione per i turisti. An­ che il lago Averno, presso Napoli, emetteva simili esalazioni (lo stesso accade oggi nella vicina solfatara) e per questo divenne, nella fantasia di Virgilio, un ingresso del mondo sotterraneo. Nel III secolo a.C. un ignoto studioso, che viveva probabilmente ad Alessandria, elaborò l’elenco delle sette meraviglie del mondo. Non erano certo tappe di assoluto obbligo per il turista, ma servono tuttavia a dare un’idea abbastanza precisa di ciò che gli antichi con­ sideravano degno di attenzione. Tutte e sette erano opera dell’uomo e per la maggior parte risalivano al passato: le Piramidi, i Giardini Pensili di Babilonia, la statua di Zeus a Olimpia scolpita da Fidia (quella che commosse cosi profondamente Emilio Paolo), il tempio di Artemide a Efeso, il Mausoleo. A queste si aggiungevano le sole due opere di recente costruzione: il Colosso di Rodi e il Faro di Alessandria.

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Turisti e turismo in epoca romana

Nella preferenza accordata al passato, l’antico turista non diffe­ riva in molto da quanti oggi girano il mondo per vedere le glorie della Grecia, la magnificenza di Roma, le venerande cattedrali del Medio Evo, eccetera. La differenza fondamentale sta nel fatto che gli anti­ chi non distinguevano con chiarezza tra passato storico e passato leggendario; per loro la storia iniziava nelle epoche remotissime che facevano da sfondo alle saghe mitiche. E cosi tra le località turistiche erano compresi i luoghi in cui c’erano dei ricordi di quei tempi antichissimi. A Salamina si poteva ammirare la pietra sulla quale un tempo sedette il vecchio Telamone, in attesa del ritorno dei figli Aiace e Teucro salpati alla volta di Troia; presso Sparta c’era il luogo dove Penelope prese la decisione di sposare Ulisse; a Trezene c’era il punto d ’osservazione usato da Fedra per spiare Ippolito mentre nudo si esercitava nella ginnastica; non lontano dalle foci del Tevere c’era la località dove Enea pose il suo campo (e ancora nel V I secolo d.C. a Roma era esposta una « nave di Enea », il cui legname era probabilmente vecchio di centinaia d ’an­ ni); a Panope, nella Grecia centrale, esistevano gli avanzi dell’argilla con cui Prometeo modellò il primo essere umano; chi poi era abba­ stanza coraggioso da affrontare un viaggio tra le montagne del Cau­ caso poteva vedere il picco al quale Zeus aveva un tempo incatenato Titano. A Troia veniva mostrata al turista la pietra squadrata alla quale era stata legata Cassandra (e la leggenda diceva che se la pietra veniva toccata o strofinata nella parte anteriore stillava latte, nella parte posteriore stillava sangue); in Frigia (Asia Minore) c’era il pla­ tano al quale Apollo sospese Marsia per scorticarlo; a Trezene c’era l ’ulivo contro il quale si fracassò il cocchio di Ippolito, e ad Argo un altro ulivo sotto cui si pose Argo mentre faceva la guardia a Io; a Creta c’era la grotta dove nacque Zeus e sul Pelio quella di Chirone. Ad Agirio, in Sicilia, si potevano vedere, profondamente incise nella roccia, le orme lasciate dalle mandrie di Gerione, il mostro tricorpore ucciso da Eracle. Ad Atene, da un certo punto dell’Acro­ poli da cui si vede il mare, si diceva che Egeo si fosse gettato uccidendosi quando vide la nave di Teseo avvicinarsi con le vele nere (Teseo aveva dimenticato di issare quelle bianche, il segnale conve­ nuto per annunciare che tornava sano e salvo). C ’erano, e la cosa non deve stupire, moltissime tombe di eroi ed eroine: quella di Elena a Rodi, di Achille e Aiace a Troia, di Ifige­ nia a Megara, di Nestore a Pilo, di Fedra a Trezene, di Oreste a Sparta, di Edipo ad Atene, dei figli di Medea a Corinto. A complicare le cose capitava che in due o tre località diverse si conservasse la

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tomba dello stesso personaggio. Sia Trezene sia Atene rivendicavano il sepolcro di Ippolito, Argo e Cipro quello di Ariadne, Paro e Crebrene quello di Paride, Micene e Amicle quelli di Agamennone e Cas­ sandra. Oltre alle tombe, si potevano visitare anche le dimore degli eroi mitici: la casa di Menelao a Sparta (in piedi e sicuramente an­ cora usata 1500 anni dopo), il palazzo di Nestore a Pilo (come pure la grotta dove custodiva i suoi armenti), la casa di Ippolito e la ca­ panna di Oreste a Trezene, il sito del palazzo di Egeo ad Atene e le rovine della casa di Anfitrione a Tebe (le guide erano in grado per­ fino di indicare il talamo di Alcmena). Per quanto fosse la mitologia a costituire la -piu grande attrazione turistica, neppure la storia era trascurata. A Scillo, cittadina presso Olimpia dove Senofonte si era ritirato a trascorrere molti anni della sua vita, si mostrava la sua tomba, mentre quella di Temistocle si trovava nella piazza del mercato a Magnesia, in Asia Minore. A Tebe si faceva visita alla tomba di Pindaro, a Atene a quella di So­ lone, a Calaurea a quella di Demostene (Calaurea è l’isola presso Trezene dove l’oratore si suicidò), a nord di Napoli a quella di Vir­ gilio. Fra i monumenti significativi di Roma c’erano le tombe degli imperatori: il mausoleo a forma di tumulo dove furono sepolti Au­ gusto, Tiberio e Claudio; la Colonna Traiana la cui base racchiude­ va un’urna d ’oro contenente le ceneri dell’imperatore; la grandiosa Mole Adriana, cosi grande e massiccia che fu trasformata nella for­ tezza di Castel sant’Angelo. Ad Atene erano visibili la casa di So­ crate, quella di Demostene, con la camera sotterranea dove l’oratore era solito rinchiudersi per molti mesi consecutivi per esercitarsi nel­ l’oratoria, la casa dove Alcibiade aveva messo in scena scandalose parodie di riti sacri, la tomba di un Indiano che si fece bruciar vivo, secondo l’usanza del suo paese, dagli uomini del seguito di Augusto. A Tebe si conservava la casa di Pindaro, l’unica salvata da Alessandro Magno quando rase al suolo la città. Presso il Cairo, a Eliopoli, si tro­ vava la casa dove si riteneva che Platone avesse dimorato durante il suo soggiorno in Egitto dedicato ad apprendere dai sacerdoti i princi­ pi della loro antichissima sapienza; a Metaponto la casa dove visse e mori Pitagora; a Capri si indicava la scogliera dalla quale Tiberio faceva gettare in mare le persone sospette di tradimento; a Roma, una cappella sul Campidoglio era costruita dove era nato Augusto e c’era anche la « piccola e oscura stanza di una povera casa » dove era nato Tito; a Babilonia la casa dove mori Alessandro Magno. In realtà Alessandro era quasi oggetto di un culto: Traiano potè visitare la sua casa di Babilonia quasi quattro secoli dopo la sua

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morte. Alessandria, la piu importante fra le moltissime città che da lui presero nome, conservava il suo corpo in una sontuosa tomba, rinchiuso in un sarcofago d ’oro (quando, nel I secolo a.C., l’Egitto entro in un periodo di difficilissima crisi, un re fuggì con la preziosa cassa e le spoglie furono ricomposte in una bara di vetro o alabastro). Una volta Mitridate passò la notte sotto un portico solo perché anche Alessandro aveva dormito in quel luogo; in una città della Macedonia veniva mostrata la scuola dove Aristotele aveva educato il reale pupillo; a Cheronea i turisti venivano condotti alla « quercia di Alessandro », presso la quale era stata piantata la sua tenda in occasione della battaglia decisiva con la quale e vii e suo padre Fi­ lippo avevano posto termine all’indipendenza delle città greche. Le quattro statue usate per sorreggere la tenda furono alla fine portate a Roma, due di fronte al tempio di Marte Ultore, due di fronte a un edificio del Foro. Un manuale usato dai marinai greci che com­ merciavano con la Valle dell’Indo ricorda « i segni in quella zona del passaggio dell esercito di Alessandro: antichi altari, fondamenta di campi militari, enormi muraglie ». Altri segni della storia passata che attiravano i turisti erano i ri­ cordi delle grandi battaglie. Chi visitava Atene spesso includeva nel programma una visita a Maratona, a 35 km dalla città, dove si com­ batte la battaglia che segnò la strepitosa vittoria ateniese nella prima guerra persiana. Ai turisti veniva additato, tra le altre cose, il tumulo che copriva la tomba comune dei 192 ateniesi morti nella battaglia (le perdite persiane ammontarono a 6.400 uomini). C’era anche il luogo della battaglia di Cheronea, di cui abbiamo appena parlato: qui un tumulo sormontato da un leone di pietra ricordava il luogo dove i 500 soldati della guardia scelta tebana caddero uno a fianco dell altro e furono sepolti; ancora oggi i visitatori possono ammirare il leone che fu dissepolto nel secolo scorso e rimesso al suo posto. Le cave di Siracusa erano fra gli spettacoli piu interessanti che la citta offrisse; molto probabilmente la maggioranza dei visitatori era attirata dalle gelide Latomie nelle quali perirono 7.000 prigionieri ateniesi, ivi rinchiusi dopo la disastrosa sconfitta del 413 a.C. Anche l’arte, come oggi d’altronde, rientrava nei programmi del turista. La visita compiuta da Emilio Paolo allo « Zeus » di Olimpia fu uno dei momenti fondamentali del suo giro, e la cosa non sorpren­ de se si pensa che la statua era stata compresa fra le sette meravi­ glie e contendeva all’« Afrodite » di Prassitele l’onore di costituire la piu famosa opera d’arte del mondo antico. L ’« Afrodite » si trovava a Cnido, una città della costa sud occidentale dell’Asia Minore, e si

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racconta che una volta un ricchissimo monarca di quelle terre si of­ fri di pagare l’intero debito pubblico della città in cambio della statua. Gli Cnidi declinarono l’offerta e la decisione, oltre che dal senti­ mento, sembra essere stata influenzata da un ben preciso calcolo: la statua, esposta in un padiglione speciale in modo che gli spettatori la potessero vedere da ogni lato, attirava ogni anno folle di visitatori sull’isola. Un’altra famosissima scultura era una vacca in bronzo, ope­ ra di Mirone, che stava sull’Acropoli di Atene; alcuni poeti scrissero versi estasiati per il realismo con cui era realizzata tanto che riusciva a ingannare non solo i mandriani, ma persino i vitelli ed i tori. Cice­ rone, in un suo discorso scritto nel 70 a.C., menziona di sfuggita una dozzina di opere d ’arte tanto famose che la gente si metteva in viag­ gio per andarle a vedere. Fra queste, oltre all’« Afrodite » di Prassitele ed alla vacca di Mirone, una statua di Europa in groppa al toro che si trovava a Taranto, opera di Pitagora di Reggio; un « Eros » di marmo, a Tespie in Grecia, di Prassitele; a Cos un dipinto raffi­ gurante Afrodite che sorge dal mare, fatto da Apèlle che dagli an­ tichi era considerato il massimo pittore (i Romani non dovettero viaggiare per vedere questo capolavoro perché, circa mezzo secolo dopo lo scritto di Cicerone, l’imperatore Augusto lo comprò e lo installò in un tempio dedicato a Cesare nel Foro); un ritratto di Ales­ sandro a Efeso, sempre opera di Apelle; un dipinto raffigurante Ialisa, il leggendario fondatore di Rodi, a Rodi (ma trasferito a Roma dopo l ’epoca di Cicerone) e uno raffigurante la Paralos, una delle navi am­ miraglie di Atene, nei Propilei dell’Acropoli di Atene, ambedue ope­ ra di Protogene, un contemporaneo di Apelle. L ’elenco di Cicerone è assai illuminante su un punto: tutte queste opere risalivano a due­ cento o quattrocento anni prima (Pitagora, Mirone, Fidia vissero nel V secolo a.C., e Prassitele, Apelle e Protogene nel IV). In altre parole nell’antichità chi amava l’arte appuntava il suo interesse so­ prattutto sugli antichi maestri. Non era però possibile ammirare le opere d ’arte convenientemen­ te raccolte in una sorta di « Louvre » o di « Uffizi »; tutto quello che si poteva fare era viaggiare da un tempio all’altro. Come il tempio nell’antichità servisse da museo e galleria d ’arte sarà materia del prossimo capitolo.

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CAPITOLO SECONDO

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Il turista moderno gira in Europa di cattedrale in cattedrale, il turista deH’anticliità girava di tempio in tempio. Come la cattedrale, il tempio era molto piu che un semplice esempio di architettura: era innanzitutto la casa di un dio, il che lo poneva al di sopra di ogni altra opera umana e gli dava un carattere tutto particolare, ricco del fascino del passato tanto apprezzato dal turista sia greco sia romano. Infatti i templi che la gente andava a vedere, come le chiese che visi­ tiamo noi oggi, erano da secoli essenzialmente luoghi di culto e quin­ di raccoglievano tali e tante testimonianze del passato, da rappre­ sentare nell’antichità quanto di piu simile a un moderno museo si possa immaginare. Nel 1160 a.C. Shutruk-Nahhunte, re di Elam, condusse trionfal­ mente una campagna militare contro Akkad, Sippar, Eshnunna ed altre città babilonesi. Tornò alla capitale, Susa, con un ricco bottino che offri al dio che lo aveva guidato alla vittoria (questo compren­ deva fra l ’altro due preziosissime cose che gli archeologi dissotter­ rarono in loco tremila anni dopo, cioè la stele di Naram-Sin, un ca­ polavoro dell’arte medio-orientale, ed il monumento su cui è inciso il codice legislativo di Hammurabi). Molto probabilmente altri mo­ narchi vincitori avevano fatto altrettanto prima di lui: era un gesto significativo che infatti divenne più tardi una consuetudine. L ’esempio di Shutruk-Nahhunte è importante perché è il primo di cui abbiamo sicura notizia: antichi resoconti dicono che egli dedicò il suo bottino al dio elamita In-Shushinak e lo lasciò in mostra nel suo tempio. Come affermano le nostre fonti, anche gli Assiri (popolo di guer­ rieri per eccellenza) solevano esporre simili trofei: nel IX secolo a.C. esisteva nella porta occidentale di Assur un locale dove venivano raccolte le mazze e le armi catturate ai nemici e dedicate al dio della guerra Nergal. Due secoli dopo, alcuni documenti relativi ad Assurbanipal fanno cenno a statue, sottratte da Susa prima che la città

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fosse distrutta, e a obelischi conquistati durante la campagna in Egit­ to. Assurbanipal dedicò agli dei tutte queste cose, esponendole in un certo luogo, che noi non conosciamo, della sua capitale. Dal momento che per definizione è « museo » qualsiasi « luogo, costruzione o locale dove si esponga una collezione di oggetti », le zo­ ne di esposizione nel tempio di In-Shushinak a Susa o la porta di Assur — sempre che fosse aperta al pubblico —erano musei, ma solo in modo parziale. Per trovare qualcosa che si avvicini al nostro con­ cetto di museo bisogna attendere la prima metà del VI secolo a.C. e il regno di Nabucodonosor II di Babilonia. Egli e il suo successore mostrarono un particolare interesse per il passato: studiarono le iscri­ zioni arcaiche, restaurarono antichi edifici, promossero perfino scavi archeologici per localizzare le fondamenta in pietra di antichi tem­ pli. Non sorprende perciò lo scoprire che Nabucodonosor II riservò un’intera ala del proprio palazzo a una collezione di oggetti del pas­ sato. Abbiamo un’idea piuttosto precisa di questa collezione parzial­ mente ritrovata dagli archeologi. Il pezzo piu antico risale a oltre millecinquecento anni prima, ed era un’iscrizione proveniente da Ur, databile al 2400 a.C, C ’era una statua di un principe di Mari (Mesopotamia superiore) del 2300 a.C., una spiga fittile proveniente da Isin (bassa Mesopotamia) del 2100 a.C., una mazza del 1650 a.C. appartenuta a un guerriero cassita, di quel popolo cioè che dominò Babilonia prima di essere sopraffatto dagli Elamiti. C’erano pezzi as­ siri che datavano dal 900 circa al 650 a.C.: iscrizioni, rilievi, stele, sigilli cilindrici d’argilla. C’erano alcuni pezzi aramaici - una statua del dio del tempo e alcune tazze di pietra - databili dal 700 circa al 600 a.C. C’erano infine anche alcuni pezzi contemporanei: sigilli ci­ lindrici fittili dello stesso Nabucodonosor. La collezione fu prose­ guita anche dai successori e alla fine comprendeva anche sigilli di Nabonido e una stele dell’epoca di Dario il Grande di Persia, che represse una rivolta di Babilonia intorno al 520 a.C. Nabucodonosor segui l’esempio di Shutruk-Nahhunte e degli altri prima di lui e am­ massò una serie di trofei bellici; la sua collezione però, per quanto acquisita in massima parte nello stesso modo, indica il deliberato in­ tento del re di ricordare un vasto arco storico attraverso la grande varietà dei reperti. Egli chiamò la sua raccolta « Stanza delle mera­ viglie dell’umanità » e la apri al pubblico: si trattava sotto tutti i punti di vista di un museo di antichità storiche. Se i musei nacquero in Medio Oriente, essi « divennero adulti »

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fra i Greci. Alcuni importanti santuari, come quello di Apollo a Delfi o di Zeus a Olimpia, accumularono a poco a poco oggetti di grande valore donati in riconoscimento dei servizi ricevuti — o come pegno per servizi che si sperava sarebbero stati resi. Alcuni di questi doni avevano un valore storico, come le inevitabili spoglie belliche, altri avevano invece un valore intrinseco, sia per il costo sia per la bel­ lezza, per i materiali preziosi o la maestria con cui erano foggiati. G li dei greci godevano di una considerevole fama anche tra coloro che non erano Greci, e molti fra questi ultimi si mostrarono parti­ colarmente generosi. Delfi, ad esempio, era un vero « forziere » dell’an­ tichità, grazie alla reputazione goduta presso i re di Frigia e di Lidia, terre che avevano la fortuna di possedere giacimenti auriferi addirit­ tura favolosi. Quando, nel V secolo a.C., Erodoto fece visita all’ora­ colo, nell’edificio chiamato Tesoro dei Corinzi vide un trono dedi­ cato a Mida di Frigia (700 circa a.C.) di cui basta il nome a evocare fantastiche visioni del prezioso metallo; sei crateri aurei donati da Gige di Lidia (678-652 a.C.) che pesavano in tutto qualcosa come 701 kg, e un leone d ’oro di Creso, ultimo re di Lidia (560-546 a.C.), che pesava 170 kg (in origine erano 260 kg, ma un incendio ro­ vinoso lo aveva considerevolmente ridotto). Erodoto riteneva questi oggetti degni di menzione soprattutto per il loro valore venale, dato lo scarso pregio artistico. La qualità estetica va piuttosto ricercata nelle offerte dei Greci, abitanti di una terra povera di metalli preziosi, ma ricca di artisti. Il tempio di Era a Olimpia può efficacemente servire da esempio: durante il V II e il V I secolo a.C. si accumularono in esso, tra le altre cose, uno scrigno di cedro vecchio di duecento anni, fittamente scolpito con scene mitologiche, e una ventina di statue delle divinità maggiori e mi­ nori, figure maestose realizzate nello stile arcaico dell’epoca. Col passare degli anni a questi pezzi venerandi altri se ne aggiunsero, opera dei migliori artisti della Grecia contemporanea. Nel IV secolo a.C. il tempio ricevette una donazione di particolare valore: una sta­ tua marmorea di Hermes che regge Dioniso infante, opera di Prassitele; ritrovata nel 1877, essa è ancora oggi una delle maggiori attra­ zioni di Olimpia. Fra le offerte vi erano altre opere notevoli come un bronzo di Cleone e due figure in oro e avorio realizzate da Leocare: entrambi erano contemporanei di Prassi tele e famosi quasi quan­ to lui. Nel I I I secolo si aggiunse una statua dorata di un bambino nudo, opera di Boeto, un famoso scultore dell’epoca. In breve, arazie a secoli di offerte continue, chiunque si recasse al tempio di Era

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poteva ammirarvi una collezione di sculture di grande importanza e qualità. Il tempio di Era non costituiva un’eccezione; in tutto il mondo greco, grazie alle generose donazioni, i templi divennero gallerie d ’arte oltre che luoghi di culto —esattamente ciò che accadde, grazie alle offerte e ai monumenti funerari dei cristiani, alle cattedrali e alle chiese europee. I visitatori accorrevano proprio come nelle nostre chiese dotate di un ricco patrimonio artistico: per ammirare i tesori e solo incidentalmente per mormorare una preghiera. Un mimiambo di Eronda, poeta del I I I secolo a.C. famoso per le sue divertenti scene di genere, ritrae due donne in visita al tempio di Asclepio a Cos. L ’autore descrive come esse deponessero frettolosamente le pro­ prie offerte al dio per poi dedicarsi al reale scopo della loro visita, cioè osservare attentamente una meravigliosa collezione di pitture e scul­ ture per cui il luogo andava famoso. I templi greci divennero musei d’arte piuttosto che collezioni di trofei guerreschi, soprattutto per l’abitudine dei Greci di non offrire direttamente le spoglie dei nemici, ma di acquistare con esse statue da dedicare nei templi. All’entrata principale del santuario di Delfi, per esempio, il visitatore passava davanti a una serie di statue erette da Tegea con le spoglie di una vittoria su Sparta, e poi ad altre erette da Sparta con le spoglie di una vittoria ottenuta su Atene, ed ancora a statue che gli Ateniesi dedicarono con le spoglie della batta­ glia di Maratona. Ciò non significa che i Greci bandirono i trofei di guerra dai san­ tuari; anch’essi, al pari dei popoli del Medio Oriente, avevano le loro collezioni di antichità storiche. Gli Ateniesi ornarono un colonnato a Delfi con le polene delle navi e gli scudi conquistati nelle battaglie navali della guerra del Peloponneso, mentre ad Atene, nell’Eretteo sull’Acropoli, era conservata la spada di Mardonio, comandante in capo delle forze di terra persiane nel corso della seconda Guerra Per­ siana, e la corazza di un ufficiale che comandò la cavalleria persiana in uno scontro cruciale. Oltre ai ricordi di guerra, i Greci curavano con appassionata dedizione i ricordi dei grandi nomi del passato. Alcuni di questi risalivano al passato storico: a Delfi, per esempio, era conservato il seggio in ferro del poeta Pindaro, in un tempio di Rodi i gioielli del re persiano Artaserse e il corsaletto di lino del faraone Amasi, un tempio in Arcadia custodiva la corazza e la lancia di Alessandro Magno. Altri risalivano al passato mitico: gli antichi infatti non distinguevano tra storia e mitologia (v. pag. 190). È un dato di fatto che gli eroi mitici, essendo piu numerosi e potenti di

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quelli storici, offrivano maggiori occasioni, e piu sentite, di dediche commemorative. Un inventario del contenuto di un famoso tempio di Atena a Lindo, nell’isola di Rodi, è giunto sino a noi; da esso appare che l’edificio era un vero magazzino di reliquie. C ’erano un paio di braccialetti che un tempo avevano ornato le bianche braccia di Elena di Troia, la coppa dalla quale ella beveva (aveva la forma di uno dei suoi seni); numerose coppe appartenute un tempo a Minosse, Cadmo, Telefo e altri eroi mitici; armi e armature di Me­ nelao, Teucro, Merione ed Eracle; nove armature complete dedicate dal contingente rodio alla guerra di Troia; una serie di barre di ti­ mone lasciate dal timoniere della nave di Menelao. Tutto ciò restò esposto fino al IV secolo a.C., quando un disastroso incendio distrus­ se buona parte della collezione. Paccottiglia mitologica di questo genere si trovava in moltissimi altri luoghi del mondo greco. I ricordi di Elena, per esempio, non erano certo limitati alla sola Rodi. Delfi aveva una collana e uno sgabello sul quale ella si era seduta, uno dei suoi sandali si trovava invece nell’Italia meridionale. Zeus si era unito alla madre di Elena sotto forma di cigno, e il mito narrava che ella era nata da un uovo: l ’uovo si trovava in un tempio di Sparta, appeso al soffitto con una corda. I visitatori potevano ammirare lo scudo di Enea nell’isola di Samotracia, quello di Menelao in un tempio di Atena dell’Italia meridionale, quello di Diomede nel tempio di Atena ad Argo (il resto dell’armatura invece si trovava nel tempio della dea a Luceria - oggi Lucerà —nell’Italia meridionale); la lancia di Achille era nel tempio di Atena a Faselide in Asia Minore, mentre gli attrezzi usati da Epeo per costruire il cavallo di Troia, erano in un tempio dell’Italia meridionale. La lira di Orfeo era in un tempio di Apollo a Lesbo, il flauto di Marsia — l’unico che osò sfidare Apollo in una gara musi­ cale —nel tempio del dio a Sidone. Ovviamente Marsia fu sconfitto e per punizione della sua insolenza fu scorticato: la pelle era esposta nella città dell’Asia Minore dove Apollo l’aveva appesa. I ricordi dei vagabondaggi di Ulisse erano conservati non soltanto nel mondo greco: una remota città della Spagna, per esempio, possedeva uno scudo e la prua di una nave; Circeo, sulla costa italiana dove si ri­ teneva che Circe avesse vissuto, aveva un boccale; Djerba, l’isola tunisina che si vantava di essere la terra dei Lotofagi, offriva come prova un altare costruito dall’eroe; perfino la lontana Scozia con­ servava un ricordo, un altare con iscrizioni greche che si supponeva fosse stato dedicato da Ulisse. Inevitabilmente, come accade anche oggi, la stessa reliquia ve­

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niva a volte.conservata in piu luoghi. Tebe, al pari di Delfi, offriva al visitatore il seggio di Elena. La chioma che Iside si strappò per il dolore alla morte di Osiride poteva essere ammirata sia a Coptos sia a Menfi. E un paio di città dell’Asia Minore esponevano la spada con la quale Ifigenia sacrificava le vittime, nel periodo in cui fu obbli­ gata a prestare servizio come sacerdotessa di Artemide fra i barbari Tauri in Crimea; quando suo fratello Oreste la salvò, rubò e portò con sé una famosa immagine della dea: Atene, Sparta, Ariccia e molte altre località pretendevano di conservarla nei propri santuari di Arte­ mide (un antico scrittore, preso dalla disperazione, giunse a supporre che Oreste abbia potuto rubarne, piu di una copia). Il Palladio, l’im­ magine di Atena che protesse Troia finché Ulisse non la rubò, era conservato ad Argo, a Roma e in tre altre città italiane. I templi conservavano non solo ricordi degli eroi mitici, ma an­ che le loro reliquie, come le chiese conservano quelle dei santi. Men­ tre l’ombra di Tantalo tentava vanamente negli Inferi di bere l’ac­ qua che gli scorreva ai piedi e mangiare i frutti che gli pendevano sopra la testa e che non poteva raggiungere, le sue ossa, o ciò che passava per esse, erano conservate in un vaso di bronzo ad Argo. Quelle di suo figlio Pelope erano in una cassa di bronzo a Olimpia, quelle di Orfeo in un vaso di pietra in una piccola città della Grecia settentrionale, la testa della Gorgone Medusa si trovava in un tu­ mulo di terra ad Argo e le ossa dei Giganti erano esposte in nume­ rosissimi templi. Tebe per esempio si vantava di conservare le ossa di Gerione, il mostro tricorpore ucciso da Eracle. Le ossa dei Giganti ci conducono a parlare di un altro scopo cui servivano i templi greci: oltre ad oggetti di interesse artistico e storico, o pseudostorico, i templi ospitavano anche curiosità di ogni genere. Le ossa in questione, come è facile arguire, erano in realtà ossa di mammut, che non eccezionalmente si possono trovare in Gre­ cia. Similmente, l’uovo di Elena poteva essere un uovo di struzzo. Un tempio a Tegea, nel Peloponneso, esponeva la pelle e le zanne del cinghiale calidonio ucciso da Meleagro, e un tempio presso Napoli le zanne del cinghiale di Erimanto, la cui uccisione costituì una delle fatiche di Ercole; entrambi i reperti appartenevano probabilmente ai resti di cinghiali eccezionalmente grossi. In tutti questi casi gli oggetti si erano imposti grazie ai racconti mitici cui venivano associati. Ve n’erano tuttavia moltissimi altri conservati esclusivamente come curiosità. Una costa o una mascella di balena era esposta in un tempio di Asclepio a Sicione. Finché Cartagine non fu distrutta, nel 146 a.C., si potevano ammirare nel

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locale tempio di Astarte le pelli delle « tre donne con corpi pelosi », gli scimpanzè o i babbuini riportati da Annone dal suo celebre viaggio lungo le coste occidentali dell’Africa (v. pag. 46). Alcuni templi avevano zanne di elefante e uno, presso Napoli, uno scheletro completo. Questi provenivano piu probabilmente dall’India che non dall Africa, dal momento che l’India forniva tutta una serie di curiosita molto ammirate. Un tempio in Asia Minore esponeva un’arma­ tura e dell ambra indiana assieme ad alcune zanne di elefante. Plinio riferisce che i « giunchi indiani », grossi come un tronco d ’albero, erano una visione usuale nei templi: probabilmente si trattava di canne di bambù. Le noci indiane, esse pure ricordate da Plinio, erano probabilmente noci di cocco. Plinio ci ricorda anche quella che certa­ mente era la piu notevole curiosità indiana: le antenne di una delle gigantesche formiche cercatrici d ’oro (v. pag. 86), che, egli c’in­ forma, erano visibili in un tempio di Eracle a Eritre, in Grecia. An­ che alcune curiosità tecnologiche erano messe in mostra: tra l’altro un flauto arcaico con solo quattro buchi, uno specchio che rifletteva un’immagine distorta, una speciale pinza da dentista fatta di piombo per provare quali denti fossero estraibili (il dentista interveniva solo su quelli che potevano essere estratti con questo strumento relativa­ mente debole). La lista degli oggetti serbati nei templi rivela un assortimento del tutto occasionale, eppure essi furono un inizio si­ gnificativo, il seme da cui sarebbero nati i nostri musei di storia naturale, etnologica e geografica. Anche la paccottiglia mitologica vi ebbe la sua parte. I diversi oggetti attribuiti ad Achille, Ulisse e altri erano indubbiamente genuini esempi di armi, armature, utensili e ornamenti strani e obsoleti: noi li chiameremmo « pezzi da museo ». E naturalmente i templi stessi avevano da offrire meraviglie. C ’era un tempio con un altare che consumava le vittime poste su di esso senza fuoco, e un altro con un candelabro posto all’aperto, le cui candele non si spegnevano mai. Un santuario di Zeus aveva una fon­ tana o una fonte con il potere di riaccendere le torce che erano state spente in essa, mentre in un santuario di Dioniso un’altra fonte zam­ pillava vino durante i sette giorni della festa annuale del dio (il vino doveva essere consumato sul posto, poiché ridiventava acqua se ve­ niva trasportato fuori della vista del tempio). Due statue della dea Artemide in due citta vicine, benché in luogo aperto, non venivano mai toccate né dal vento né dalla pioggia. Un tempio di Pergamo, per proteggere una serie di pregevoli affreschi di Apelle, pagò una bella sommetta per la pelle di un basilisco che aveva il potere di te­ nere lontani ragni e uccelli.

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Quando dalle piccole città-stato si passò ai grandi imperi che se­ guirono alla morte di Alessandro (v. pag. 91), alcuni dei nuovi monarchi si rivelarono uomini di cultura disposti a profondere per l ’arte tutte le ricchezze di cui una corona può disporre. Ad Alessan­ dria, la capitale dell’Egitto di recente fondazione, Tolomeo I diede vita a un centro di studi superiori (v. pag. 211). A Pergamo gli Attalidi, e soprattutto Aitalo II (160-139 a.C.), raccolsero oggetti ar­ tistici per ornare i nuovi ed eccezionali edifici che stavano facendo costruire. Tutto ciò che il mercato offriva, essi lo acquistarono; ciò che non poterono acquistare, lo fecero riprodurre. Fra le loro scul­ ture c’era, per esempio, una copia dell’« Atena » di Fidia che si tro­ vava nel Partenone. Mandarono a Delfi un’intera squadra di pittori a copiare una serie di famosi dipinti che vi erano conservati. I loro sforzi portarono alla creazione di una gigantesca galleria privata d ’ar­ te, la prima derivata da precise scelte e non dal caso. Mentre gli Attalidi facevano acquisti per la loro raccolta con gusto e capacità di scelta, a occidente la nazione che avrebbe creato quanto di più simile a un pubblico museo il mondo antico conobbe raccoglieva ogni cosa senza discriminazione, come fa un pescatore con la rete. Roma, prima delle guerre puniche del I I I secolo a.C., era una città rozza, per nulla ingentilita dalla presenza di una qualsiasi for­ ma di arte greca. Nel 211 a.C., nel corso della seconda guerra puni­ ca, il generale romano Marcello si impadronì della ricca città di Si­ racusa e, fra le altre spoglie di guerra, portò a Roma un gran numero di statue e dipinti che dedicò in vari luoghi della capitale. Fu come l ’apertura di una diga: nei centocinquant’anni seguenti, a mano a mano che le legioni avanzavano attraverso la Grecia e l’Asia Minore, la città fu letteralmente sommersa dall’arte greca. Marco Fulvio Nobiliore ritornò nel 189 a.C. da Ambracia, un capoluogo della Grecia occidentale da lui conquistato, con non meno di 285 statue di bronzo e 230 di marmo. Nel trionfo riportato nel 167 da Emilio Paolo per la vittoria su Perseo, la processione delle statue e dei dipinti raz­ ziati occupò un’intera giornata. Il culmine si toccò con il saccheggio di Corinto operato nel 146 a.C. da Mummio; il bottino comprende­ va, per usare le parole di Strabone che visitò la città un secolo dopo, « la maggior parte e i più belli fra i pubblici monumenti di Roma »; tutto ciò che i conquistatori portavano via serviva a ornare Roma, non le loro città natali o le loro case private. E non si può negare che alcuni, come Mummio, avevano poco gusto per le opere d ’arte. Si narra che egli capi il valore di un dipinto di cui si era appropriato

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solo quando Attalo II, sempre a caccia di capolavori, offri una som­ ma favolosa per venirne in possesso. Nel secolo seguente, al saccheggio delle opere d ’arte si uni l’estor­ sione, ma in questo caso i raccoglitori agivano piu a proprio fa­ vore che non per la propria città. Verre, l’infame governatore romano della Sicilia dal 73 al 71 a.C., che fu da Cicerone vinto in giudizio, superò perfino Hermann Goering. Per alcune opere d ’arte ricorse all’estorsione, come per l’« Eros » di Prassitele che si fece vendere dal proprietario per un misero pugno di monete. Ciò che egli non poteva estorcere lo confiscava, e ciò che non poteva confiscare lo fa­ ceva rubare. Altri, come lo stesso Cicerone, operavano in modo piu legale; nelle sue lettere si parla molto spesso di accanite ricerche di opere d’arte da comprare per ornare le sue numerose ville di cam­ pagna. La mania di collezionare opere d ’arte crebbe talmente fra i Romani piu ricchi e potenti, che divenne di rigore includere nella pianta di ogni villa alcune stanze riservate esclusivamente ai quadri, e particolari zone per l’esposizione delle sculture. Con la fine della Repubblica e la fondazione dell’Impero, le ope­ re d ’arte non furono piu, come afferma Plinio, « esiliate nelle case di campagna » ma tornarono ancora una volta nei templi e negli altri edifici della città. Cesare prima, Augusto poi, seguiti dalla maggio­ ranza degli imperatori del I e del II secolo, resero Roma sempre piu ricca di opere dell’arte greca. In poco tempo in città ci furono molti templi che potevano vantarsi di possedere i maggiori capolavori del­ l’arte del passato. Le collezioni infatti ponevano soprattutto l’accento sui maestri del passato. Un imperatore ricorreva senza difficoltà a un artista contemporaneo per decorare un edificio pubblico o per farsi fare un ritratto, preferiva però esporre al pubblico opere che aves­ sero anche il pregio dell’antichità: sculture di Policleto, Mirone, Fi­ dia, Prassitele, Scopa e Lisiopo, dipinti di Poiignoto, Zeusi e Apelle - in breve, dei grandi dal V I al II I secolo a.C. I loro capolavori ootevano essere ammirati in tutta la città: un visitatore -poteva vedere lo « Zeus » di Mirone sul Capitolino, un « Eracle » dello stesso mae­ stro nel Circo Massimo. Il Tempio della Fortuna possedeva quattro opere di Fidia, il « Clavigero », un’« Atena » e due statue di perso­ naggi in abito greco. Il « Kairos » e la « Tyche » di Prassitele si tro­ vavano sul Campidoglio, un suo « Eros » era nel Portico di Ottavia. Scopa era rappresentato da un « Ares » e una « Afrodite » nel Circo Flaminio, da un « Apollo » in un tempio di Apollo, mentre in un altro tempio del dio si trovavano i « Niobidi ». L ’« Apoxyomenos » di Lisippo era collocato di fronte alle terme fatte costruire da Agrippa,

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un « Eracle » era sul Campidoglio, nel Portico di Ottavia erano espo­ ste 25 statue di bronzo raffiguranti i comandanti di Alessandro. Al­ cuni dipinti di Apelle facevano mostra di sé nel tempio di Diana, nel tempio del Divo Giulio e in quello di Marte Ultore; le opere di Zeusi si trovavano nel Portico di Filippo e nel tempio della Con­ cordia. In quest’ultimo si aprivano larghe finestre e questa partico­ larità, inusuale per un tempio, può essere spiegata proprio con la necessità di permettere ai visitatori ima più agevole visione delle opere esposte. La collocazione di molte fra le opere appena menzionate mostra che i Romani, nel desiderio di ornare la propria città, non si limi­ tarono ai soli templi. Con statue e dipinti furono abbelliti edifici pubblici di ogni tipo: i portici, i teatri, le monumentali terme. Accad­ de cosi che nel I II secolo, dopo che numerosi incendi (come quello durante il regno di Nerone) avevano distrutto moltissime splendide collezioni nei templi, le terme di Caracalla divennero uno dei prin­ cipali musei di Roma. I Romani non si limitarono certo a raccogliere solo oggetti d’arte. Ebbero sempre, come i Greci, molta reverenza per le reliquie mitolo­ giche, furono ancora piu attenti a raccogliere testimonianze storiche e, grazie a una vera propensione a conservare qualsiasi oggetto parti­ colarmente interessante, finirono per riempire i loro templi con ogni sorta di curiosità. La spada di Giulio Cesare si trovava in un tempio di Marte, nel tempio di Giove c’era il pugnale di uno dei presunti assassini di Nerone, nel tempio della Fortuna c’era la toga regale del­ l’antico re Servio Tullio, mentre il famoso anello di Policrate — che egli gettò in mare per vederselo tornare nel ventre di un pesce a lui portato in dono - si trovava nel tempio della Concordia. L ’impera­ tore Adriano donò al tempio di Eros a Tespie in Grecia un’orsa da lui uccisa e al tempio di Zeus ad Atene un serpente indiano. Durante la prima guerra punica i soldati romani che combattevano in Tunisia uccisero con un colpo di catapulta un serpente lungo 36 m; la pelle e le mascelle furono esposte in un tempio a Roma. Un secolo e mezzo dopo, durante una spedizione militare negli stessi luoghi, si imbat­ terono in animali somiglianti a caproni selvatici, che furono chiamati « gorgoni »: si diceva infatti che il loro sguardo potesse uccidere; dopo che molti uomini perirono nel tentativo di avvicinarsi abbastan­ za da poterli colpire con la spada, alla fine un gruppo di cacciatori a cavallo riuscì ad ucciderne con un preciso lancio di giavellotti al­ cuni esemplari le cui pelli furono deposte nel tempio di Ercole (Eracle). C ’era un coccodrillo imbalsamato nel tempio di Iside a Ce­

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sarea (Nordafrica), una grossa radice di cinnamomo — proveniente con ogni probabilità dall’India — si trovava, conservata in una ba­ cinella d’oro, in un tempio del Palatino: uno straordinario frammen­ to di cristallo pesante piu di 45 kg era collocato in un tempio del Campidoglio, mentre un tempio del Foro di Cesare conservava una corazza adorna di perle inglesi. I Romani furono i primi ad esporre al pubblico le pietre preziose. Pompeo, dopo aver sconfitto Mitridate, si impadronì della sua collezione e la dedicò sul Campidoglio; Cesare fece dono al prediletto tempio di Venere Genitrice di non meno di sei collezioni diverse. Con statue e dipinti acquisiti in maniera casuale grazie ai sac­ cheggi dei conquistatori e ai capricci degli imperatori, e accogliendo indiscriminatamente oggetti esotici provenienti da ogni dove, un tem­ pio romano correva il rischio di assomigliare al magazzino di un ri­ gattiere; tuttavia non sempre era cosi. Grazie a una descrizione scritta nel 95 d.C. noi conosciamo la disposizione delle opere contenute nel tempio del Divo Augusto, presso il Foro (Fig. 18). Era un modello di accuratezza nelle scelte e di buon gusto. Le opere d’arte erano espo­ ste nel portico anteriore dell’edificio, sotto un tetto aggettante. Ap­ pena il visitatore, salita una scala, giungeva al livello del portico ve­ deva sul muro alla sua sinistra un dipinto raffigurante Giacinto e un rilievo marmoreo di un Ermafrodito. Sul muro di fronte vedeva, a si­ nistra della porta, una raffigurazione di Danae, mentre a destra era raffigurata Europa; un rilievo marmoreo di Leandro si trovava sul muro di destra. Procedendo attraverso il portico in direzione della porta, si potevano ammirare due serie di statue disposte sui lati. La fila di sinistra comprendeva una statua in oro di una Vittoria, una statuetta fittile raffigurante un ragazzo, e infine un « Apollo » bronzeo opera di Prassitele, il pezzo forte della collezione. A destra c’erano una statua d ’argento di Atena, una statuetta di terracotta di Eracle, e un altro « Eracle », un bronzo raffigurante l’eroe bambino che stroz­ zava i due serpenti. La disposizione delle opere era molto accurata: un rilievo marmoreo su ognuno dei muri laterali; a una statua d ’oro sulla sinistra corrispondeva una d ’argento sulla destra; al di là di queste, sia a destra sia a sinistra, si trovavano due statuette fittili, a cui facevano seguito due bronzi. Benché piccola, la collezione era molto ben assortita, comprendeva le tre forme piu importanti di arte figurativa: la pittura, la scultura monumentale e il bassorilievo. Vi era anche una discreta varietà di materiali: metalli preziosi, bronzo, argilla, pietra. E ancora, almeno tre periodi della storia dell’arte vi erano rappresentati: il bronzo di Prassitele e i dipinti appartenevano

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allo stile maturo del IV secolo a.C., l’« Eracle » fanciullo era un esempio dell’arte « baroccheggiante » dei due secoli successivi, i due rilievi marmorei, infine, erano « moderni ». Statue, dipinti, armature, pelli di semente, pinze dentistiche tutto ciò era a disposizione degli amatori d’arte e dei cercatori di cu­ riosità, tuttavia si trovavano sempre in edifici la cui destinazione pri­ maria era un’altra, molto spesso in luoghi destinati al culto. Erano musei, ma solo per caso, e in quanto tali si limitavano a ospitare oggetti che si riteneva suscitassero la meraviglia della gente, e niente altro. Le cose andarono in questo modo per quasi un millennio dono la caduta di Roma. I prodotti delle arti minori cosi diffuse nel Medio­ evo — smalti, incisioni lignee, avori, tessuti - trovarono posto nelle cattedrali e nelle chiese, assieme ai vetri arabi, alle armature e ai tappeti che invasero l’Europa sull’onda delle Crociate. Le chiese ere­ ditarono dai templi pagani la funzione di magazzini di curiosità: la cattedrale di Arezzo conservava la mascella di una balena, S. Stefano a Vienna alcune ossa di mammut, S. Giovarmi a Lìineburg le ossa della spalla di un mostro marino, una chiesa di Ensisheim in Alsa­ zia un meteorite, la cattedrale di Merseburg un grande guscio di tar­ taruga, la cattedrale di Siviglia un coccodrillo imbalsamato, alcune zanne di elefante e le briglie usate dal Cid. Col passare del tempo si diffuse tra le classi dominanti il gusto di raccogliere collezioni pri­ vate di simili curiosità. Il fratello di Carlo V I di Francia possedeva, all’inizio del XV secolo, una « stanza delle meraviglie » in cui erano raccolte uova di struzzo, pelli di serpente, aculei di porcospino, zanne di cinghiale, ossa di balena, pelli di orso polare, ossa di mammut e noci di cocco. Era un embrione di museo di storia naturale — pero riservato esclusivamente a lui e ai suoi amici. Infine il 15 dicembre 1471 papa Sisto IV compì un atto di por­ tata storica: riservò alcune stanze del Palazzo dei Conservatori sul Campidoglio all’esposizione di antiche sculture, e incaricò un gruppo di quattro persone di averne cura. Con questo atto fu sancita la na­ scita del primo museo d’arte del mondo. Ben presto, a fianco dei col­ lezionisti dilettanti con le loro occasionali raccolte di curiosità, com­ parve una nuova figura, lo studioso di professione. Georg Agricola di Sassonia (1494-1555), per esempio, un medico che esercitava nelle zone minerarie della sua regione, raccolse campioni di minerali, ne pubblicò una descrizione ragionata e indusse con la sua opera il so­ vrano, Augusto I di Sassonia, a fondare a Dresda una « Camera di

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arte e storia naturale » che si trasformò poi negli splendidi musei della città. Andrea Cesalpino (1519-1603) fu un appassionato botani­ co e fondò l’orto botanico di Pisa; un suo discepolo, Michele Merca­ ti (1541-1593), diresse l’orto botanico di papa Pio V e fondò nel Vaticano la piu ricca collezione di minerali e fossili d’Italia. Questi non sono che alcuni nomi tra tanti. Nel XVI secolo l ’era dei moderni musei era definitivamente iniziata.

CAPITOLO TERZO

ITIN ER A R I

« Noi viaggiammo per strade e mari al fine di vedere ciò che^ non degniamo di uno sguardo quando si trova sotto i nostri occhi. Ciò ac­ cadde perché la natura ha cosi fatto le cose: che noi prediligiamo ciò che è lontano e restiamo indifferenti a ciò che è vicino, oppure perche ogni desiderio perde di intensità quando è facile soddisfarlo^ o perché ci disinteressiamo di ciò che possiamo vedere quando ci piace, sicuri che ben presto avremo l’occasione di capitarci davanti. Quale che sia la ragione, vi è una infinità di cose in questa nostra città e nd suoi dintorni di cui noi non abbiamo mai sentito parlare e ancora di piu che non ab­ biamo mai visto; se si fossero invece trovate in Grecia o in Egitto o Asia, noi avremmo saputo tutto di esse, letto tutto su di esse, visto tutto quello che c’era da vedere. » Cosi scriveva Plinio il Giovane all’inizio circa del I I secolo d.C. Come i cittadini di New York che sono saliti sulla Tour Eiffel ma mai sull’Empire State Building, il turista dell’antichità desiderava e cerca­ va l’esotico e il remoto. E per trovarlo, ci rivela Plinio, egli andava principalmente in tre luoghi: in Grecia, in Asia Minore e in Egitto. Nel V secolo a.C. Erodoto era andato fino in Mesopotamia; nel II secolo d.C. Pausania, che passò la sua vita viaggiando (v. pagg. 240-46), scrive di non aver mai visto le mura di Babilonia, né di aver mai incontrato qualcuno che le avesse viste. La sua passione per il pas­ sato aveva chiaramente alcuni limiti. Persino la Siria e la Palestina non erano incluse nei suoi itinerari, anche se non era lontano il tempo in cui le località della Terrasanta avrebbero rappresentato un’attra­ zione senza pari. I viaggi verso regioni ancora piu lontane, come l’Africa o l’India, erano riservati ai mercanti. Se i Romani prediligevano dirigersi verso est per visitare ciò che per essi era il vecchio mondo, a loro volta gli abitanti delle province affluivano verso Roma. Erano cosi numerosi che le città, come ab­ biamo visto (v. pag. 103), avevano appositi uffici nel Foro per aiutare i propri cittadini che visitavano o raggiungevano per affari la capi­

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ro ». Dopo il saccheggio, Troia era rimasta per lungo tempo un am­ masso di rovine dimenticate. Approssimativamente intorno al 700 a.C. alcuni coloni greci fondarono in quei luoghi una nuova città, una seconda Ilio che rimase una località relativamente poco importante finché su di essa non si appuntarono gli interessi dei Romani. La leggenda narrava che Roma era stata fondata da un manipolo di Troia­ ni sfuggiti all’incendio della città e rifugiatisi, sotto la guida di Enea, in Italia. Giulio Cesare, la cui famiglia si vantava di discendere da Ve­ nere, madre di Enea, si senti personalmente implicato nella leggenda e considerò quei luoghi come una sorta di santuario nazionale. In conseguenza, copri la piccola città di onori, le assegnò un territorio più ampio, concesse l’indipendenza e l’esenzione dalle tasse; i suoi successori confermarono tutti questi favori e ne aggiunsero di nuovi. Grazie a questa situazione privilegiata, ben presto Ilio si trasformò in un centro fiorente, ufficialmente addetto alla custodia della « terra di Omero ». La città metteva a disposizione guide in grado di indi­ care ogni luogo significativo e ogni costruzione menzionati nell’Iliade. Al turista veniva cosi mostrata la striscia di spiaggia dove erano state tirate in secco le navi dei Greci, la pianura dove si era com­ battuto, i due fiumi cosi spesso ricordati nel poema, il fico presso le Porte Scee, le tombe di Achille, Patroclo e Aiace (Protesilao, il primo greco a mettere piede a terra e ad essere ucciso fu invece tumu­ lato proprio presso l’Ellesponto), la grotta dove Paride diede il giudi­ zio fatale, perfino il luogo dal quale l’aquila di Zeus rapi il princi­ pino troiano Ganimede. In un tempio, le guide mostravano la lira appartenuta, dicevano, a Paride e l’armatura di un eroe omerico. L ’Asia Minore aveva altri luoghi interessanti da offrire ai visitatori — Cnido, con la famosissima statua di Afrodite opera di Prassitele, città fiorenti come Efeso e Smirne, i venerandi oracoli di Apollo a Colofone e a Didima —nessuno però aveva il fascino dei luoghi della guerra troiana che costituivano il vero pezzo forte della regione. Veniva poi l’Egitto, e recarvisi dall’Asia Minore non era affatto un problema. Quanti in Asia Minore si accontentavano di visitare so­ lo i luoghi omerici potevano percorrere una trentina di chilometri fino ad Alexandria Troas (Alessandria nella Troade) e imbarcarsi su una nave diretta ad Alessandria d’Egitto. Quelli che si spingevano fino a Smirne o a Efeso potevano imbarcarsi in una di quelle città. L ’Egitto era il vero paradiso del turista. Offriva un paesaggio esotico, un modo di vivere esotico, monumenti esotici e, soprattutto, una relativa facilità di spostamenti. Quasi tutti vi giungevano per mare, e chi veniva direttamente da Roma compiva la traversata sulle

Itinerari

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grandi e confortevoli n«vi granarie che facevano la spola tra Alessan­ dria e Roma (v. pag. 127). Una volta giunto in Egitto, il visitatore poteva proseguire il suo viaggio sempre per nave, dal momento che le zone abitate si trovavano lungo le rive del fiume. A render le cose ancora piu semplici, il Nilo era un corso d ’acqua particolarmente adatto alla navigazione; è infatti spazzato da un vento che spira pre­ valentemente in senso contrario alla corrente: il navigante può cosi discenderlo agevolmente (aiutandosi, se ha fretta, con i remi), mentre per tornare indietro non deve far altro che alzare le vele. Un viag­ giatore tutto particolare, Apollonio di Tiana, un guaritore e veg­ gente del I secolo d.C., preferiva viaggiare per terra e visitare tutti i villaggi; la gente come lui percorreva in groppa ai cammelli gli ar­ gini del fiume da Alessandria alle piramidi. Le meraviglie per il visitatore cominciavano ancor prima che giun­ gesse a terra: mentre era ancora a una cinquantina di chilometri dal­ la costa poteva scorgere la sommità del Faro di Alessandria, una delle sette meraviglie del mondo. La città stessa offriva praticamente di tutto. C ’erano famosi monumenti come la tomba di Alessandro, il tempio di Serapide, il santuario di Pan (costruito alla sommità di una collina artificiale permetteva di ammirare il panorama dell’intera cit­ tà) e il Museo. Quest’ultimo era un « museo » nel senso che alla pa­ rola attribuivano gli antichi; noi lo definiremmo piuttosto un istituto di ricerca o di istruzione superiore. Comprendeva quattro « facol­ tà »: letteratura, matematica, astronomia, medicina. Vi era una gran­ de sala che serviva da mensa, dove tutti i membri mangiavano in comune, un chiostro per leggere e passeggiare, una sala per le pub­ bliche conferenze, studi e appartamenti per i professori, una bibliote­ ca, un giardino botanico e un serraglio. C’era poi l’attività quotidiana della città. Alessandria era il piu grande porto del Mediterraneo, aperto ai traffici con l’India e l’Africa, come pure a quelli con la mag­ gioranza delle province dell’Impero e aveva tutte le caratteristiche di uno scalo in pieno rigoglio: nel suo porto si aggiravano marinai non solo mediterranei, ma anche arabi, persiani, etiopi e indiani; v ’erano anche parecchi quartieri per gli stranieri e un quartiere dei diverti­ menti pieno di locali notturni. Unus illis deus Nummus est: « Essi adorano un solo dio: il Danaro », si lagnò una volta un tale. Ciò non era però del tutto vero. Se Alessandria era « la Marsiglia » del­ l’antichità, ne era anche « la Vienna », una città cioè di appassionati di musica; si diceva che ai concerti per cetra, ad esempio, anche i piu umili fra gli ascoltatori, persone che non sapevano né leggere né

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scrivere, fossero in grado di accorgersi del minimo errore dell’esecu­ tore. Alessandria era una città greca dove si respirava un’atmosfera cosmopolita. Per trovare l’Egitto vero il turista doveva risalire il Nilo; bastava imbarcarsi e navigare lungo il ramo canopico fino a giungere al luogo dove ora sorge II Cairo, presso l’apice del delta. Qui il turista sbarcava per visitare Eliopoli, dove si trovava il piu antico tempio di Ra. Al tempo dei Romani Eliopoli era una citta fantasma, il tempio era parzialmente in rovina (intorno al 10 a.C. Augusto aveva portato due dei suoi obelischi a Roma, dove ancora si trovano), della folla di sapientissimi sacerdoti di un tempo resta­ vano solo pochi epigoni incaricati di compiere gli usuali sacrifici e di guidare le visite dei turisti. Ma gli edifici erano ancora imponenti e circondati da un alone di leggenda. Le guide si preoccupavano di mostrare dove Platone ed Eudosso, un famoso astronomo greco, vissero ritirati tredici anni per apprendere dai sacerdoti i segreti dei corpi celesti. Risalendo ancora un poco il fiume si giungeva a Menfi, il mag­ gior motivo di richiamo dell’Egitto. Qui si trovava il venerato tem­ pio di Ptah e gli edifici che ospitavano il sacro toro Api: i turisti potevano gettare uno sguardo nella stalla attraverso una finestrella o, a ore prefissate, avere la fortuna di vederlo mentre faceva la pas­ seggiata quotidiana in un cortile interno —bisogna dire che le ore de­ dicate alla passeggiata erano in buona parte a esclusivo beneficio dei turisti. Queste erano già attrattive notevoli, ma Menfi aveva qualcosa di meglio da offrire: essa era il punto di partenza per le visite alle grandi piramidi. Noi stupiamo di fronte alle loro dimen­ sioni, il turista di quei tempi poteva stupirsi anche dell’alto grado di rifinitura: infatti egli poteva vederle ancora coperte del levigato rivestimento originario e ornate di numerose iscrizioni geroglifiche. D i tutto il rivestimento resta oggi solo una piccola zona intorno al­ l’apice della piramide di Chefren. Di nuovo salito in barca, il turista faceva vela alla volta del lago Merida; qui si visitava un monumento che gli antichi mettevano sullo stesso piano delle piramidi: il Labirinto (v. pag. 78). Nelle vicinanze si trovava Crocodilopoli, dove i turisti potevano offrire del cibo al coc­ codrillo sacro, un’incarnazione del dio Souchos (v. pagg. 161 e 222). Fino al 27 a.C., anno in cui Tebe (come vedremo fra poco) conquistò il primato, questi luoghi costituirono la maggiore attrazione turi­ stica dell’Egitto - cosi almeno sembra, a giudicare dalla cura posta dai Tolomei nell’inviarvi in visita i viaggiatori di riguardo. Abbiamo

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già citato (v. pag. 161) una lettera che preavvisava i magistrati di Crocodilopoli dell’arrivo di un dignitario romano. Ve ne è un’altra, risalente a molti anni prima (254 a.C.), che contiene istruzioni per un funzionario del « ministro delle finanze » affinché « al ricevimento di questa lettera invii i cocchi leggeri, altri mezzi di trasporto e gli animali da soma a Tolemaide, a disposizione degli amba­ sciatori di Perisade e degli inviati di Argo, che il re ha inviato a visitare i monumenti dell’Arsmoitide... In questo momento, essi stanno già ri­ salendo il fiume ». Perisade era un principe di un lontano regno nella Crimea russa, Argo è la famosa città greca e il re di cui si parla è Tolomeo II (285-246 a.C.). La comitiva parti probabilmente da Alessandria e sbarcò nel porto fluviale di Tolemaide, un comodo punto di partenza per quanti intendono visitare l’Arsinoitide. Era questo il distretto dì cui Arsinoe era capoluogo, e Arsinoe era il nuovo nome di Crocodi­ lopoli, imposto da Tolomeo II in onore della regina che tanto aveva contribuito alle fortune del suo regno. Da questa città il Labirinto non distava piu di 12 km. Terminata la visita di questa zona, il turista tornava nuovamente al fiume, questa volta per una lunga navigazione fino ad Abido dove si trovava il tempio di Seti. Risalendo ancor piu verso sud si giunge­ va a Tebe. Tebe era già famosa tra i Greci ai tempi di Omero che canta i suoi ricchi palazzi e le cento porte. Per molti secoli i turisti vi si recarono, come fanno ancora oggi, per visitare le tombe sotter­ ranee della Valle dei Re (v. pag. 228). Dopo il 27 a.C. la città divenne il centro del turismo in Egitto quando la cosiddetta statua di Meni­ none, che se ne stava tranquilla al suo posto dal 1400 a.C. circa, si mise improvvisamente a « parlare »: questa sua straordinaria perfor­ mance divenne la principale attrazione di ogni visita alla regione (v. pag. 223). Chi voleva vedere veramente tutto continuava a risalire il fiume fino a Syene (Assuan), presso la prima cateratta, che per centinaia di anni segnò il confine meridionale dell’Egitto. Avvicinatisi in barca quanto piu possibile alla cateratta, si poteva poi proseguire lungo gli argini per alcuni chilometri fino oltre le rapide; di qui fragili canoe portavano al tempio sull’isola di File. Per la maggioranza dei turisti il viaggio finiva a questo punto. Solo i piu appassionati si avventura­ vano oltre, lungo le aride piste del Sudan, e neppure questi andavano molto più lontano.

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Riassumendo, possiamo dire che, all’epoca dell’Impero Romano, le principali mete turistiche erano: Roma; alcune zone della Sicilia; Grecia; Deio; Samotracia; Rodi e forse poche altre isole del Mediterraneo orientale; Asia Minore, soprattutto Troia e dintorni; Egitto. CAPITOLO QUARTO

V ISIT E A I MONUMENTI

Da quando la barca a vela, lo zoccolo del cavallo e il piede umano sono stati rimpiazzati da aereo, treno e auto è radicalmente mu­ tato l’aspetto di uno dei principali problemi del viaggiare: come, cioè, raggiungere una destinazione. Le cose stanno altrimenti per quanto riguarda invece un altro problema, altrettanto importante, del viaggiare: che cosa fa il turista una volta arrivato. In questo campo le cose, per molti aspetti, non sono cambiate. Un antico Romano, giunto in Grecia per una vacanza, non cercava allora cose molto diverse da quelle di cui vanno in cerca le migliaia di persone che vi si recano oggi. Se il viaggiatore arrivava a Olimpia, a Delfi o ad Atene, probabil­ mente si comportava come hanno fatto i turisti in ogni tempo: ini­ ziava al piu presto un giro di ricognizione. A Olimpia e a Delfi, se arrivava di sera, doveva aspettare fino al mattino seguente — come capita ancora oggi. Ad Atene, come in ogni altra città di una certa dimensione, poteva, se voleva, fare un giretto già alla sera. Lungo la strada principale l’illuminazione non era un problema, infatti le lam­ pade a olio sulla facciata dei negozi fornivano una luce piu che suf­ ficiente. Gli scavi di Pompei, per esempio, hanno rivelato che lungo una strada importante lunga circa 500 m, si trovavano 45 negozi di­ stribuiti sui due lati; ognuno di questi esponeva una lampada a olio e quindi vi era un lume ogni 10 m circa. Un’altra via, lunga pres­ sappoco 700 m, aveva in totale 170 negozi e perciò le lampade era­ no ancora piu frequenti. Le luci stradali - distinte dalle lampade dei negozi —si trovavano solo agli incroci piu importanti e la tendenza era di dare importanza non tanto all’illuminazione quanto all’effetto. Per questo le lampade erano inserite, ad esempio, in maschere di pietra con buchi in corrispondenza degli occhi e della bocca. Le stra­ de laterali erano immerse nell’oscurità piu totale e chi voleva passar­ vi doveva assumere uno schiavo che gli illuminasse il cammino

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0 con una torcia, appena sufficiente a rischiarargli la via, o con una lanterna a olio che, se costruita con sottilissimi fogli di corno o di mica, era in grado di diffondere un bel fascio di luce. Bisognava poi essere sicuri di conoscere la strada del ritorno. Tabelle stradali e numeri civici erano sconosciuti ai romani quanto ai greci (v. pag. 65) e l’unica risorsa per uno straniero era fermare un abitante del luogo e chiedergli informazioni; ma la cosa era abbastanza difficile da realizzare nel cuore della notte. Oltre a ciò, i pedoni che si avventuravano per le strade durante la notte dovevano stare ben attenti al traffico. Gran parte delle città antiche ebbero il buon senso di vietare quasi completamente il traf­ fico su ruote durante il giorno, permettendolo solo fra il tramonto e l’alba. I passanti erano perciò spesso obbligati a rifugiarsi nei vani delle porte per non venir arrotati da qualche massiccio e traballante carro tirato da buoi. Ma anche le ore del giorno non erano prive di pericoli per chi passeggiava per le strade. Benché non vi fosse bisogno di guardarsi dal traffico rotabile, a un passante sbadato poteva capitare di venir travolto da una lettiga sorretta da una pariglia che procedeva a trotto serrato e che quindi non poteva frenare bruscamente. C ’erano poi 1 pericoli che in ogni epoca affliggono gli stranieri. « Vi sono deali imbroglioni » avverte uno scrittore di viaggi della fine del II secolo a.C. « che girano per la città e truffano i ricchi stranieri che vi giun­ gono. Quando le autorità li prendono, sono costretti a pagare pesanti multe... bisogna però che tu stia in guardia soprattutto dalle prosti­ tute; sono un modo piacevole per andare in rovina senza accorger­ sene. » Quando era giunto il momento di iniziare sul serio le esplora­ zioni, il turista antico si metteva in viaggio con un equipaggiamento leggero; a portare il cibo e quanto altro gli era necessario pensavano i suoi servi. Non doveva portarsi neanche una Guida. Ciò non vuol dire che questo utilissimo genere di letteratura non esistesse a quei tempi, infatti, almeno a partire dal IV secolo a.C., sappiamo che erano disponibili Guide dedicate a determinate località o a specifici monumenti, mentre, fra il 160 ed il 180 d.C., periodo nel quale il tu­ rismo era molto diffuso, Pausania pubblicò il suo eccellente Itinerario della Grecia (v. pag. 240). Ma queste erano opere da leggere prima di mettersi in viaggio, non da usare in loco, come le nostre. Per di piu i libri antichi, scritti .a mano su papiri abbastanza pesanti o su fogli di pergamena, erano troppo ingombranti da portare abitualmente in giro, per non parlare del fatto che erano oggetti di grande valore.

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Molti turisti dell’antichità desideravano, non diversamente da quelli odierni che girano con la macchina fotografica, conservare un ricordo visivo dei luoghi visitati. Cosi, se avevano attitudine al dise­ gno, potevano portare con sé papiro, penna e inchiostro, o forse piu semplicemente tavolette di cera e stilo, proprio come i viagsiatori dei secoli scorsi che si portavano dietro la scatola degli acquerelli. In caso contrario erano quasi sicuri di trovare, pronti sul luogo in attesa di clienti, numerosi rapidi miniaturisti che potevano schizzare un ritratto improvvisato del turista sullo sfondo del Partenone ad Atene, del tempio di Apollo a Delfi, di quello di Zeus a Olimpia e cosi via. Visitando una località, il primo problema del turista era lo stes­ so di oggigiorno: sfuggire alle grinfie delle guide locali che stavano in agguato, i perieghetai o exeghetai, come venivano chiamati in greco. « Stavo girando attorno alle colonne nel santuario di Dioni­ so » fa dire Luciano a un personaggio di una sua opera « esaminando ad uno ad uno i dipinti... ed ecco che saltano fuori due o tre persone le quali mi vogliono spiegare tutto per una modica spesa. » Molti di noi, volenti o nolenti, si assoggettano a questi tiranni che ci rispar­ miano la fatica di portare con noi carte, mappe e Guide turistiche e di perdere tempo a consultarle. Gli antichi, privi di tali sussidi, non avevano neppure questa alternativa. Ad ogni buon conto va detto che le guide locali non sono di molto migliorate nel corso di duemi­ la anni. Innanzi tutto queste si trovavano dappertutto e il visitatore non poteva evitarle neppure a volerlo. Ce n’erano non solo nelle località di gran turismo, come Atene o Troia, ma anche nelle piccole città che vantavano solo poche attrazioni di secondaria importanza. Lu­ ciano, in una parodia dei narratori di viaggi mirabolanti, suoi con­ temporanei, ci parla di un gruppo di viaggiatori impegnati in un giro che comprendeva una visita agli Inferi. Là, una volta giunti in una specie di Purgatorio, « alcune guide ci condussero in visita e, per ciascuno di anelli che li scontavano la pena, fornivano dati biografici e ragioni della punizione ». Un altro scrittore satirico fa dire al personaggio di una sua commedia la seguente fervida preghiera: « O Zeus, salvami dalle tue guide a Olimpia e tu, o Atena, dalle tue ad Atene ». Le guide dell’antichità, inoltre, come quelle moderne, una volta che avevano cominciato a parlare non si fermavano piu. « Le guide andavano avanti con il loro discorso » si lamenta uno dei personaggi di un’operetta che Plutarco scrisse su una comitiva in visita a Delfi, « senza prestare la minima attenzione alle nostre suppliche di tagliar

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corto e lasciar perdere tutte le spiegazioni sulle iscrizioni e gli epi­ taffi ». Quando i componenti della comitiva riuscivano a trovare un momento per discutere fra loro su qualcosa che li interessava in mo­ do particolare, ad esempio la patina di una certa statua di bronzo, flell’attimo stesso in cui finivano di parlare, le guide ricominciavano ad assordarli. Il problema non stava solo nel fatto che le guide non smette­ vano mai di parlare, ma anche in ciò che esse dicevano. Le loro no­ tizie, naturalmente, erano per lo piu utili,'talvolta addirittura essen­ ziali. L e guide conducevano il turista in un luogo, lo aiutavano a riconoscere e a collocare nel giusto contesto storico i monumenti, gli edifici e le statue, spiegavano il contenuto dei dipinti, descrive­ vano i riti e i costumi locali. In luoghi come Olimpia, dove c’era una vera foresta di statue e offerte votive dedicate nel corso di cen­ tinaia di anni da o in onore di vincitori nelle gare di corsa, lotta, salto, ecc., il turista era perduto senza l’aiuto di una guida. Pur­ troppo quest’ultima non si limitava alle informazioni utili. Le gui­ de, per esempio, amavano parlare non solo dei monumenti esistenti, ma anche di quelli che non c’erano piu. A Delfi si soffermavano su alcuni spiedi per cucinare sulla brace che un tempo erano stati offerti da una famosa cortigiana, ma che erano già da molti anni scomparsi; a Siracusa ricordavano le numerose opere d ’arte (v. pag. 202) rubate da Verre (Cicerone, nell’orazione contro questo furfante, osserva che le guide di Siracusa non hanno cambiato « i loro itinerari. Prima, erano soliti mostrare i luoghi dove le singole opere si tro­ vavano. Ora indicano i luoghi da dove furono rubate »). Ancor peg­ gio, esse amavano lavorare di fantasia intorno a tutto ciò che dice­ vano, sapendo benissimo che la maggioranza degli ascoltatori non aveva possibilità di controbatterli. « La tua guida » nota l’oratore Aristide già piu volte citato « fa un gesto verso resti quasi cancellati e dice: “ Qui c’è il talamo di Semele, qui quello di Armonia, qui quello di Leda” e altre cose di questo genere ». La guida che condusse Erodoto alle piramidi gli propinò un’incredibile storia circa le favo­ lose spese affrontate per nutrire gli operai con rafano, cipolle e aglio (v. pag. 78); sei secoli dopo i successori di quella guida raccontavano ad Aristide che ogni piramide affondava nel suolo per una profon­ dità pari alla sua altezza. Il sacerdote che guidava i turisti a visi­ tare un certo tempio di Efeso, giunto in prossimità di una statua scolpita in un marmo particolarmente luminoso, faceva arrestare la co­ mitiva e costringeva tutti a coprirsi gli occhi: potevano essere offesi, li avvertiva, dall’intenso riflesso della pietra. Quando una piccola

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città dell’Asia Minore fu investita da una violenta tempesta, la piog­ gia e il vento portarono alla luce uno scheletro su una collina dei dintorni; le guide del posto cominciarono subito a farlo passare per quello di Gerione, il mitico mostro tricorpore ucciso da Eracle. In occasione di una sua visita in quei luoghi, Pausania non potè fare a meno di osservare che Gerione visse, mori e fu sepolto a Cadice, all’altra estremità del Mediterraneo. Ad Argo le guide gli dissero che tra i tesori della loro città c’era anche la famosa immagine di Atena, un tempo sacro possesso della città di Troia. « Ma » com­ menta esasperato Pausania « tutti sanno che il Palladio, come è chia­ mata questa statua, fu portato in Italia da Enea. » Aggiunge poi con aria afflitta: « Le guide di Argo sanno benissimo che non tutte le storie che raccontano sono vere, ma le raccontano egualmente ». Gli abbellimenti della realtà derivavano soprattutto dalla passione delle guide di stabilire sempre dei collegamenti con le leggende miti­ che, una passione indubbiamente nutrita anche dalla gioia con la quale i loro ascoltatori accoglievano simili sciocchezze. « Vieta in Grecia i racconti favolosi » scherzava Luciano « e vedrai tutte le guide mo­ rire di inedia. Nessun turista vuole sentire la pura verità, neppure gratuitamente ». Scelta la guida, il visitatore iniziava a seguirla nel suo giro. I tu­ risti intelligenti ammiravano con calma ciò che li interessava tentan­ do, come la comitiva descritta da Plutarco a Delfi, di far tacere le guide, o, come Pausania, di impedire loro di lanciarsi in voli d ’im­ maginazione troppo audaci. I creduloni seguivano passo passo la gui­ da, bevendo avidamente ogni parola, come quel Caio Licinio Mu­ dano, di cui Plinio parla cosi spesso. Mudano visse lungamente in Medio Oriente — fu governatore della Siria nel 68 d.C. — e viaggiò ampiamente. Per quanto statista e soldato di valore, egli beveva, al­ meno in apparenza, qualsiasi cosa gli dicessero; fu da lui che Plinio apprese la storia di una fonte che, in un tempio di Dioniso, zampilla­ va vino (v. pag. 200); di un tempio di Licia che conservava una let­ tera scritta da un eroe della guerra troiana; di un popolo del monte Tmolo, in Asia Minore, che viveva fino a centocinquant’anni; di un elefante che imparò a leggere il greco e scrisse persino: « Proprio io scrissi ciò e dedicai queste spoglie conquistate contro i Celti ». I turisti non erano di solito né particolarmente bene informati, né soltanto dei creduloni, ma venivano debitamente impressionati da quanto vedevano. Prova evidente di ciò è il mimiambo di Eronda già ricordato (v. pag. 197). Ne è protagonista un trio tratto dal mondo dei turisti: File, una donna che si entusiasma di fronte a tutto ciò

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che vede; Chinno, sua amica, piu meditativa e abbastanza colta da poter fare da guida; e un untuoso sacrestano. Le due donne erano andate a fare un’offerta al famoso tempio di Asclepio a Cos, sede dell’altrettanto famosa scuola fondata da Ippocrate, padre della me­ dicina. Il luogo era anche sede di un museo celebre poiché i muri erano stati decorati da Apelle, forse il piu grande pittore dell’anti­ chità, e fra le offerte votive sparse dappertutto si trovavano numerose sculture famose (una, ad opera di Boeto, rappresentava un bambino che combatte con un’oca: era talmente popolare che se ne fecero numerosissime copie, quattro almeno delle quali giunte sino a noi). Mentre attendevano che il sacrestano riferisse se il dio aveva gradito la loro offerta — si trattava solo di un gallo, tutto ciò che le povere donne potevano permettersi —decisero di dare un’occhiata alle opere d ’arte li esposte. Immediatamente File si mette in agitazione: f il e Chinno, mia cara! Che meravigliose statue! Chi le ha scolpite? Quanto sono costate? chinno I figli di Prassitele. Non vedi l’iscrizione alla base? E Eutie, figlio di Praxon, le ha dedicate. f il e Possano gli dei ricompensare loro e Eutie per queste opere meravigliose! chinno Guarda, File, la statua di quella ragazza, quella che alza gli occhi verso una mela. f il e Non sembra che stia per venir meno se non riuscirà a pren­ dere la mela? E quel vecchio, Chinno... e, in nome degli dei, quel fan­ ciullo che strozza un’oca! Se non fossero di pietra, diresti che possono parlare. chinno Te lo dico io, uno di questi giorni riusciranno a far vivere persino la pietra. fil e Hai proprio ragione, Chinno. Guarda che aria ha, quell’imper­ tinente Baiale, la figlia di quel ruffiano [si trattava probabilmente di un ritratto dedicato da qualche personaggio locale in onore del dio che lo aveva curato]. Chi non la conoscesse, una volta vista quest’immagine, non avrebbe piu bisogno di quella vera. chinno Seguimi, cara, e ti mostrerò qualcosa del quale in vita tua non hai mai visto l’eguale. (Rivolta alla sua schiava) Chidilla! Vai a chia­ mare il sacrestano. Ehi tu, che mi guardi con quell’aria da stupida, sto parlando con te! (Rivolta a File) Guarda questa! Non presta nessuna at­ tenzione a ciò che le dico. Se ne sta li a guardarmi peggio di un gran­ chio! (Rivolta alla schiava) Mi hai sentita? Vai dal sacrestano!... Chidilla, gli dei mi sono testimoni, io non voglio perdere la calma, ma tu mi fai diventare furente. Ti dico, e gli dei mi sono testimoni, che verrà il giorno che dovrai fregarti quella maledetta testa! f il e Non prendertela tanto per ogni cosa, Chinno; è solo una schia­ va e la poltroneria tappa le orecchie degli schiavi, lo sai. chinno Sì , ma il tempo passa e la folla aumenta. {Rivolta alla schia­

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va che -finalmente si è avviata) Ehi, aspetta! La porta si è aperta, possiamo entrare nella sacrestia. f il e Chinno! Mia cara! Guarda! Non ti sembrano onera di Ate­ na in persona? {Si gira e vede all’improvviso una statua della dea) Oh, salve mia signora! {Si volge poi a un dipinto raffigurante il sacrificio di un bue) E quel bambino nudo, Chinno, se io lo graffiassi quasi si metterebbe a sanguinare! Le sue carni sono dipinte in modo da sembrare calde, in quel quadro pulsa la vita. E quel paio di tenaglie d’argento: se un ladro le vedesse, gli uscirebbero gli occhi dalle orbite. Penserebbe che si tratta proprio d’argento. E il bue, e l’uomo che lo conduce, e la schiavetta, e quel tizio col nasone e quell’altro con i capelli ritti in testa... sembrano o non sembrano vivi? Se non fosse una cosa indecorosa per una signora, mi sarei messa a gridare forte per paura che quel bue mi facesse del male. In che modo guarda dalla mia parte, con che occhi, Chinno! chinno File, la mano di Apelle non si smentisce in tutto ciò che dipinge. Tu non puoi mai dire di lui: « Ecco una persona che si è preoc­ cupata di una cosa e non ha badato a un’altra ». No, qualsiasi cosa gli veniva in mente, subito si metteva all’opera per realizzarla. Chiunque guardasse lui o una sua opera senza sentirsi commosso, meriterebbe di essere appeso per i piedi in una lavanderia [cioè, in un luogo dove per definizione si strizza, si torce e si batte]! sacrestano {Avanzando verso le donne) Donne, la vostra offerta è perfetta; sembra che per voi si prepari il meglio. Nessuno piu di voi ha compiaciuto il mio signore. {Pregando) O dio, per le belle offerte di queste donne, la tua benedizione scenda su loro e sui loro sposi e parenti. Àmen. chinno Amen, potente dio, e garantiamo che torneremo in buona salute per portarti una migliore offerta, assieme ai nostri mariti e ai nostri figli. {Rivolta a un’altra schiava) Coccale, non ti dimenticare di tagliare una bella coscia del gallo e darla al sacrestano. Visitare la collezione di un tempio era piu facile che non, per esempio, visitare quella di una chiesa oggi; molte opere si trovavano all’esterno e non erano tenute sottochiave. I trofei di guerra, come gli scudi, erano spesso appesi agli architravi o lungo i fregi. Le statue di marmo o di bronzo erano collocate sotto i portici delle due facciate o fra le colonne lungo i lati (Fig. 18). Venivano anche variamente disposte all’interno del recinto del santuario, soprattutto sotto i colonnati o in nicchie del muro perimetrale. Gli oggetti di va­ lore intrinseco, fatti in oro o argento, o quelli che non sopportavano di venir esposti agli agenti atmosferici, come le statue in legno, oro o avorio, si trovavano in genere dentro le mura del tempio. Per ve­ derle si poneva allora lo stesso problema che tormenta da secoli i turi­ sti, conoscere cioè gli orari di apertura o trovare qualcuno in grado di aprire le porte. Nella scenetta di Eronda, File e Chinno iniziano dalle statue, che si trovavano all’esterno del santuario, ma per i di-

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pinti, che si trovavano all’interno, devono* aspettare che il sacrestano apra loro le porte. Il capolavoro di Prassitele, l ’« Afrodite » di Cnido, era in un particolare edificio che permetteva ai visitatori di ammirare la statua da tutti i lati; per poterla però vedere di spalle, bisognava passare da un’entrata posteriore, per cui occorreva trovare la persona che aveva la chiave. I templi erano senza dubbio chiusi a chiave, ma in essi i furti erano altrettanto frequenti quanto oggi nelle nostre chiese. A Roma i ladri rubarono una gran quantità d’oro dal tempio di Giove sul Campidoglio; dal tempio di Marte Ultore rubarono la spada di Cesare, e perfino l’elmo del dio. Le cose anda­ rono col tempo cosi peggiorando che le autorità di Roma resero i guardiani dei templi responsabili della sicurezza di alcune opere di particolare valore, a prezzo persino della loro vita. I turisti erano attratti in un certo luogo dalla possibilità di am­ mirare opere d arte particolarmente belle, o famosi edifici o monu­ menti. Tuttavia, una volta sul posto, il turista gradiva godere di qualche diversivo; anche un accanito estimatore dell’arte e delle an­ tichità vede il suo interesse scemare dopo aver girato a piedi per ore, particolarmente durante la torrida estate mediterranea. E cosi, nel1 antichità come oggi, gli indigeni usavano organizzare speciali fuori programma che costituivano per il turista affaticato un graditissimo momento di pausa. Una delle principali attrattive della visita alle pi­ ramidi, ad esempio, era lo spettacolo offerto dagli uomini del vicino villaggio di Busiri che avevano una speciale abilità nell’arrampicarsi fino in cima alle piramidi - e dovevano essere di una agilità ecce­ zionale dal momento che le superfici, con il rivestimento ancora in­ tatto, erano allora liscissime. Piu a sud, lungo il Nilo, c’erano i coc­ codrilli sacri; i sacerdoti avevano insegnato loro ad avvicinarsi quan­ do erano chiamati e, a comando, ad aprire le fauci e lasciarsi lavare i denti, che venivano poi asciugati con un panno. Ad Arsinoe, dove viveva il coccodrillo che incarnava il dio Souchos, al turista si of­ friva uno spettacolo ancora migliore. Se giungeva al tempio ben for­ nito di cibi adatti da offrire al dio —un tipo di dolce, carne arrostita e vino addolcito con miele — poteva godersi lo spettacolo dei sacer­ doti che chiamavano il coccodrillo, gli aprivano la bocca e vi gettavano il dolce e la carne, annaffiando il tutto con vino. Souchos era sicu­ ramente molto ben nutrito poiché, se arrivava un secondo turista con nuove offerte, i sacerdoti replicavano lo spettacolo. A Syene (Assuan), presso la prima cateratta, i barcaioli del posto si esibivano in un esercizio speciale: risalivano oltre la cateratta, facevano girare le bar­

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che e le lasciavano andare alla deriva sul filo della corrente e infine superavano le rapide. Questo però era uno spettacolo offerto solo a visitatori particolarmente importanti. Ma lo spettacolo sicuramente piu famoso, che attirava turisti da tutto il mondo, era offerto non dall’uomo ma dalla natura. A Tebe d ’Egitto, non lontano dalla Valle dei Re, sorgevano due colossali sta­ tue, ognuna consistente in una base e un trono sul quale stava seduto un uomo. Erano alte come un edificio di sei piani; un piede era lungo da solo 3 m. Ma ciò che attirava le folle non erano le gigantesche di­ mensioni: il fatto era che una delle statue « parlava ». Oggi sappiamo che questa statua cosi singolarmente dotata rap­ presentava Amenofi III, che regnò intorno al 1400 a.C. e fu uno dei piu grandi faraoni egizi. Ma i Greci e i Romani erano convinti che si trattasse di un’immagine di Memnone, figlio dell’Aurora, un personaggio che compare nel ciclo troiano; era re degli Etiopi e mori prematuramente per mano di Achille dopo che aveva condotto un esercito dalla sua terra attraverso l’Egitto fino a Troia in aiuto degli assediati. A un certo momento, probabilmente intorno al 27 a.C., un terremoto spezzò la statua lungo il torso e la parte superiore cadde al suolo. Ciò che rimaneva di essa sviluppò una particolarità unica: emetteva suoni. All’alba - in nessun altro momento del giorno, solo all’alba — ne usciva un acuto rumore che in qualche modo ricordava il risuonare della corda di uno strumento musicale. Si diffuse la con­ vinzione, senz’altro abilmente alimentata dalle guide locali, che con quei suoni Memnone parlasse a sua madre. Il primo a descrivere il fenomeno fu il coltissimo geografo Strabone che scrisse nell’ultimo decennio del I secolo a.C., non molto dopo, quindi, che la statua aveva iniziato a « parlare ». Strabone non era convinto. Egli ricorda che la parte superiore della statua è crol­ lata a causa di un terremoto e prosegue: « Si crede che, una volta al giorno, un rumore simile a un sibilo non troppo intenso venga emesso dalla parte di statua che resta sul trono. Io stesso mi recai sul luogo assieme a Elio Gallo [governatore dell’Egit­ to] e a un gruppo di suoi amici e soldati. Un’ora dopo l’alba udii il suo­ no; non posso dire con sicurezza se provenisse dalla base della statua o fosse emesso a bella posta da qualcuno che stava intorno o presso la base. È però certo che, dal momento che non si riesce a determinarne l’origine, qualsiasi spiegazione logica è piu facile da credere, piuttosto che pensare che il suono sia emesso da quelle pietre ». Quando, intorno alla metà del I I secolo d.C., Pausania compilò

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il suo Itinerario della Grecia, la statua parlava ancora. Pausania de­ scrive il fenomeno, e per quanto non sia totalmente scettico come Strabone, è molto circospetto: . n· 1249· «Unico...», n. 602. Januarius, nn. 468, 1504, Hoz’ *620. Voltano, nn. 283, 588, 2003-4. Amsouphi, XI. Anagrammi, nn. 424, * i °P· c*t·’ 175. Lamento di Burichio, Baillet, J., op. cit π·14°5. Ermogene, n 1283. Eraclio, n. 1732. « Ma la mamma... », nn. 1222 1986 e ctr. lod m «Journal of Egyptian Archaeology », 11 (1925) 256 Epi­ fanio, n. 1613. Dioscurammone n. 1550. Cristiani, LXII-LXXVIII. Graffiti con la croce, nn. 82U, 2017; con 1 abbreviazione del nome di Cristo, nn. 206, 706. 232-234 Signora romana, Bucheler, F., Carmina latina epigraphica I (Lipsia 1895), t I t 7° i / Arpocrazione, Ermia, Corpus inscriptionum graecorum, .a .Fl*e> Bernard, A. e E., Les inscriptions grecques di Philae (Parigi 1969). I visitatori, I, 53-4; II, 22-6. Eliodoro, n. 170. Viag­ giatori coraggiosi, vedi il papiro citato a pag. 297. Senatori e ambascerie su­ danesi, Bernard, A. e E., op. cit. in questa nota, nn. 147, 180-1. Catilio, nn. 142-4. Ammonio, n. 150. Demetrio, n. 130. Tempio di Platscepsut, Bataille, À Les ™%npttons grecques du tempie de Hatscepsut à Deir-el-Bahari (Cairo 1951), XXVIL Abido, Pednzet, P. e Lefebvre, G., op. cit., XIV. Ira di Plutarco, Moralia, 520e. Le firme dei viaggiatori^ non furono certamente gli unici graffiti dell antichità. Allora, come oggi, le scritte sui muri spaziavano dalle considera­ zioni filosofiche allo scherzo, al semplice scarabocchio. Un buontempone si firmo su un muro del tempio di Hatscepsut come « Amun, figlio del Nilo coccodrillo » (Preisigke, F e Bilabel, F., op. cit., 151). Un tale Plcnis scrisse su un fianco dei monti tra Deir-el-Bahari e la Valle dei Re: «Amore che pensa non e amore», poco dopo, senza nessuna ragione, scrisse l’alfabeto gre-o una volta da alfa a omega (con due errori), un’altra cominciando dalle due estremità _(come se fosse AZBVCU ecc.) e altre tre volte nel modo normale senza mal andare oltre la settima lettera; vedi Bulletin de llnstitut francais darcheologie orientale, 38 (1939), 133, 150. Scrivere l’alfabeto era, a quanto pare, una maniera diffusa di far passare il tempo. Decine di esempi sono stati trovati sui muri delle case di Pompei ed Ercolano (Corpus inscriptionum la­ tinorum, IV, 2514-48, suppl. 10707-17). Per graffiti al Clitumno, cfr. Plinio il Giovane, op. cit., 8,8. 234-237 Acqua del Nilo,^ Giovenale, op. cit., 6,526-9. Copie in miniatura: se ne trovano esposte in molti musei. Per le copie, ad esempio, della famosa Atena Parthenos, cfr. Frazer, J., op. cit., II 313-5 ed Enciclopedia dell’Arte Antica, trii V aj Yoce: Fidia (III, 656); per copie della Tyche di Antiochia, vedi oltre. Villa Adriana, oltre a quelli menzionati, fra i luoghi riprodotti si trovavano anche il Liceo, 1Accademia, il Pritaneo e il Portico Dipinto di Atene (Scriptores Historiae Augustae, Adriano, 26). Sulle opere d’arte nella villa, vedi Winnefeld J inai u · desrTH