Verità e menzogna dei simboli 8855191918

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Verità e menzogna dei simboli
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antropologia / etnografia

Ignazio E. Buttitta

Verità e menzogna dei simboli

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MELTEMI

Indice

p.

7

Premessa

11

Capitolo primo Il potere delle cose ovvero l’uomo, il sacro, i simboli

29

Capitolo secondo “Desuz un pin…”. La lunga strada dell’albero

61

Capitolo terzo Divinare il vento. Emissioni vulcaniche nelle isole Eolie

83

Capitolo quarto Tophet o dell’ambiguo statuto mondano degli infanti

99

Capitolo quinto Acque di vita, acque di morte. Il simbolismo magicoreligioso dell’acqua

119

Capitolo sesto La spirale nella panificazione cerimoniale

169

Capitolo settimo “Veicoli dell’assoluto” nella tradizione induista

231

Capitolo ottavo Verità e menzogna dei simboli. Società e festa a San Marco D’Alunzio

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Bibliografia

Premessa

Alberi, re, dei ed eroi. Aspetti del simbolismo del potere sarebbe dovuto essere il titolo del primo libro che Luisa Capelli e Marco Della Lena, allora giovani editori, avrebbero desiderato pubblicarmi. Ci eravamo incontrati, poco meno di dieci anni addietro, a Rocca Grimalda, in occasione di un convegno. Continuo a credere che, assai più della bontà della mia relazione, li sospinsero verso di me le attenzioni che io e la mia compagna, rivolgemmo alla loro figlia, Marta. Io e Monica, appena “fidanzati”, avevamo trovato molto più piacevole intrattenerci a giocare e discorrere con quella bella e brillante bambina che restare seduti al tavolo di una noiosa cena di professori e vari accoliti. Non sono mai riuscito a capire quanto del rapporto amicale ed editoriale che, a partire da allora, si sarebbe consolidato tra me, Luisa e Marco, sia stato dovuto alle mie presunte qualità umane e quanto agli ancor più presunti meriti intellettuali. Ricordo lunghe telefonate con Marco e Luisa, dove ai reiterati inviti a scrivere e alle proposte di vari contributi editoriali si frammischiavano, senza che se ne potessero afferrare i limiti, racconti, riflessioni sul quotidiano, affettuose preoccupazioni sul futuro mio e di Monica. Queste cose le ricordo e le voglio ricordare. Così come voglio ricordare che il mio percorso accademico è legato in maniera inscindibile alla Meltemi. I miei libri sono anche i loro: suggerimenti, correzioni, indicazioni molteplici hanno contribuito a che essi fossero dei “buoni” libri. Anche grazie a Marco e Luisa mi sono fatto uomo migliore e studioso più accorto. Questa è una verità che supera le nostre stesse vite.



IGNAZIO E. BUTTITTA

Alberi, re, dei ed eroi non ha mai visto la luce. Rimane un progetto incompiuto e solo noi, io, Monica, Marco e Luisa, sappiamo perché. Ne ho però voluto estrarre, in questa decennale occorrenza, alcuni saggi, che insieme ad altri, pure inediti o redatti in varie occasioni – tutti dedicati allo studio della dimensione simbolica, e più specificamente dei problemi inerenti la comprensione del simbolismo, materiale e immateriale, di carattere magico-religioso –, potessero concorrere a fare il mio discorso più organico, contribuendo alla comprensione dei tortuosi percorsi che l’uomo ha affrontato e affronta per vincere il disagio ricorrente della propria condizione nei suoi rapporti con la società e con il mondo. Un lavoro inteso cioè a contribuire alla comprensione della dinamica e della funzione sociale dei codici simbolici. Le riflessioni che seguono contribuiscono tutte a disegnare un mondo solo apparentemente “inattuale” e solo apparentemente “illogico”. All’interno di questo orizzonte la dicotomia sacro vs profano, pur conservando, a livello della organizzazione dei materiali e di una prima analisi, un preciso valore euristico, si dimostra in più d’un caso foriera di equivoci. In realtà è quasi impossibile nella fenomenologia delle culture determinare una netta distinzione tra simbolismo religioso e simbolismo profano. Il loro manifestarsi nei prodotti culturali è attraversato, infatti, costantemente da un gioco di scambi e di rimandi, ora consapevole, ora inconsapevole, di cui è impresa sempre ardua seguire le dinamiche. Come osserva Bertelli (1990, p. 9): Noi viviamo oggi in un mondo nel quale sacralità e religione sono due concetti distinti, separati dall’esperienza “laica”, che nasce dal pensiero giurisdizionalista sei-settecentesco. Ma se superiamo il profondo iato rappresentato dalla rivoluzione scientifica (base e fondamento della successiva rivoluzione industriale), allora un mondo completamente diverso dal nostro ci si svelerà, un mondo profondamente immerso in una sacralità che non conosceva distinzioni, che investiva l’immaginario collettivo dell’intera Europa medievale e della prima età moderna e che discendeva senza soluzioni di continuità dall’età tardo imperiale.

PREMESSA



L’ambiguita del simbolismo rituale mi ha affascinato sin dal momento in cui ho cominciato a occuparmi dei fenomeni di religiosità tradizionale, spero in questo lavoro di avere contribuito a dischiudere alcune delle sue verità e delle sue menzogne.

Capitolo primo Il potere delle cose ovvero l’uomo, il sacro, i simboli

Non si vive di solo pane: nella sua evidenza questo fatto segnala la cogente e tutta umana esigenza di trascendere la matericità per riempire di senso la propria esistenza. Un’esigenza antica e attuale che si radica nel mistero della vita e della morte. Già Giambattista Vico considerava tra i fondamentali caratteri di umanità la presenza del culto dei morti, indicandolo, a fronte della inquietante diversità di usi e costumi dei vari popoli, come uno dei pochi tratti comuni. Una attenzione quella rivolta ai defunti già presente fin dalle origini. Nutrizione, riproduzione e conservazione della vita individuale, in quanto garanzia della vita collettiva, sono stati per millenni gli obiettivi primi perseguiti dall’uomo. Per il loro raggiungimento egli ha sempre considerato imprescindibile un continuo rapporto con le entità immateriali che popolano e governano il mondo. L’uomo aveva coscienza che la sua esistenza era legata a una molteplicità di fattori che sfuggono al suo controllo. La capacità di generare, la malattia, l’accidente, la selvaggina e i frutti della terra, la fortuna nella caccia e nella guerra, le stagioni buone e cattive, i terremoti, le alluvioni e quant’altro “arrivavano”, da forze e luoghi invisibili. Da questa consapevolezza si costituisce in tempore primævo la sfera del sacro. Nell’impossibilità di poter identificare con sufficiente chiarezza la sostanza e la forma della religiosità preistorica, è certo comunque che: “fin dalle sue prime forme, e fino alla nostra, l’uomo ha manifestato e potenziato l’attitudine (º) a tradurre in simboli la realtà materiale del mondo circostante”. È stato il possesso del linguaggio a consentirgli di

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“creare, parallelamente al mondo esterno, un onnipotente mondo di simboli senza i quali l’intelligenza non avrebbe punti di riferimento” (cfr. Leroi-Gourhan 1964, p. 16). Lo dimostra lo sviluppo delle tecniche, poiché anche l’elementare utensile del più antico ominide presupponeva la previsione dell’opera compiuta e quindi lo svolgersi di una “complessa catena di simboli mentali” implicanti l’esistenza di una qualche forma di linguaggio (1970-76, p. 8). C’è stato un momento in cui l’uomo ha schiuso gli occhi alla percezione del mondo, dell’altro diverso da sé, riconoscendosi come creatura distinta e speciale, non solo capace di manipolare tecnicamente il reale, ma di spiegarlo e gestirlo intellettualmente. L’uomo guadagnò così una forma superiore di consapevolezza della realtà che lo pose innanzi al mistero dei fenomeni, alle forze ignote e imprevedibili contro le quali andavano garantite la sua stessa esistenza e quella della specie. Solo nell’universo dei simboli le sue inquietudini e le sue incertezze potevano trovare risposta. L’ominide primitivo, ormai Homo erectus, era dunque già Homo symbolicus, un essere che non percepiva passivamente i fenomeni che lo circondavano e lo angosciavano (cfr. Ries 1993, p. 26). Un essere cosciente della simmetria tra la vita e la morte, quale si esprime per esempio nell’uso rituale del fuoco (Buttitta I. E. 2002b). Come ha osservato Tobias (1982, p. 119): si può forse avanzare l’ipotesi che la caccia alle teste, la mutilazione dei crani e il cannibalismo rituale siano fra i più antichi indizi di psichismo nella vita di Homo erectus. Potrebbe dunque essere stato Homo erectus l’ominide che ha saputo indirizzare la cultura verso nuove vette partendo dalle più antiche e vaghe manifestazioni rituali.

Resta il fatto che poco o nulla sappiamo intorno all’orizzonte ideologico dell’uomo primitivo. Scomparse nozioni e azioni, restano soltanto manufatti. Pratiche religiose o magiche si esprimono tramite discorsi che spariscono irrimediabilmente con chi li ha pronunciati, e at-

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traverso gesti che per miracolo possono essere stati conservati, almeno in parte, nella disposizione di oggetti abbandonati a terra o in quella di figure disegnate sulle pareti. Ma anche nel caso più favorevole – quello ad es. di un cadavere inumato in una fossa ricoperta di polveri d’ocra – si coglie solo una minima parte dei riti che hanno contraddistinto l’inumazione e, per quanto riguarda il mito che avrebbe fornito la chiave di questi riti, ci si riduce a qualcosa di meno di una parvenza di spiegazione: la semplice verosimiglianza di un’idea religiosa (Leroi-Gourhan 1970-76, p. 6).

È sembrato possibile assumere i sistemi religiosi delle attuali popolazioni di interesse etnologico quale legittima chiave di lettura di quanto emerso dalle indagini archeologiche. Mai come in questo caso l’uso del metodo comparativo appare arbitrario e foriero di errori. Passato e presente non possono essere confusi senza che si ingenerino fuorvianti equivoci. Il procedimento che fa dell’uso di una tecnologia relativamente poco complessa la base di un parallelismo con forme elementari di culto, rivela tutta la sua limitatezza quando si osserva che a un determinato livello di padronanza di tecniche e strumenti, di sistemi di vita e sfruttamento dell’ambiente, non corrispondono univocamente certe idee e forme religiose (cfr. Grottanelli 1965). Non è più il tempo in cui si può parlare di “tipi culturali”, di “religione dei cacciatori”, “religione dei pastori”, “religione degli agricoltori”, così come di “arte dei” o di ”sistema familiare dei”. Un simile approccio impedisce l’analisi conducente delle forme culturali del Paleolitico, età lunghissima ed entro la quale si situa la gran parte della storia, anche religiosa dell’Homo sapiens. Non si può ignorare per altro che le attuali popolazioni a tecnologia semplice hanno spesso alle spalle una storia bio-culturale assai diversa da quella delle popolazioni preistoriche. Se è vero pertanto che non può si può comprendere un fenomeno culturale senza che sia inquadrato entro il suo contesto storico-geografico, sarà altrettanto vero che nulla permette di stabilire relazioni di corrispondenza diretta tra culti e modi di vita, tra sistemi di pensiero e forme della vita socio-economica (cfr. Fedeli 1994, p. 29).

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Se è possibile affermare con una certa sicurezza che gli uomini del Paleolitico proiettavano nelle loro immagini di bisonti o di mammut percezioni che corrispondono alla nostra concezione della religione, niente ci permette di ricostruirne con precisione le idee religiose e i riti. Il nostro pensiero, erede della filosofia classica e della speculazione cristiana, d’altronde, si è evoluto in una direzione tale che è difficile capire senza sforzo le culture “altre”, non solo quelle oggetto degli studi etnologici. A maggior ragione è impresa assai ardua cercare di ricostruire le credenze di uomini vissuti molti millenni prima della comparsa della scrittura. Non va mai dimenticato, che noi finiamo con il proiettare sul pensiero dell’uomo preistorico l’ombra del nostro pensiero e che la parola “religione”, come la parola “arte”, hanno per noi un contenuto che appartiene alle civiltà della scrittura; è un contenuto che già non si può più applicare ai concetti di religione e di arte degli ultimi sopravvissuti attuali delle culture primitive (Leroi-Gourhan 1993, pp. 305-306).

Entro una tale cornice è del tutto arbitrario operare distinzioni, peraltro ancora oggi oggetto di dibattito epistemologico, quale quella tra magia e religione. Religione e magia, sia volendole considerare aspetti di un unico fenomeno, sia fenomeni a se stanti seppur interrelati, sono “fatti” culturali, appartenenti cioè a una dimensione extragenetica; fatti e comportamenti appresi, trasmessi e vissuti all’interno di un determinato sistema sociale (Fedeli 1994, p. 19). Oggetti, frammenti ossei, confuse e incerte immagini tracciate sulla roccia assumono precisi e insospettati significati solo quando correttamente inseriti nel loro contesto, quando se ne individuano le coordinate spaziali e temporali all’interno di un sito ben definito, e ciò vale anche per i materiali folklorici (cfr. Leroi-Gourhan 1993; Buttitta 1996; Meschiari 2002-2004). Solo su queste basi si può sperare di accedere, in alcuni casi, ai percorsi intellettuali che hanno presieduto a un insieme di pratiche.

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Ciò che può dirsi senza timore di cadere in errore è che a fondamento dell’esperienza religiosa dell’uomo primitivo, da quanto può evincersi dall’uso simbolico che paiono avere certi oggetti, certe disposizioni spaziali, e certe raffigurazioni (animali, sessuali, astrali), si situa il rapporto con gli elementi e i fenomeni dell’ambiente (il fenomeno della vita e della morte innanzi tutto) e che pertanto l’essenza stessa di ogni simbolismo viene a fondarsi, innanzitutto, sulle corrispondenze e sulle analogie percepite nella natura delle cose (cfr. Guénon 1970, p. 12). Come sottolineato da de Saussure, d’altro canto, “Il simbolo, ha per carattere di non essere mai completamente arbitrario: non è vuoto, implica un rudimento di legame naturale tra il significante e il significato” (1916, p. 25). Resta il fatto che i primi testi scritti mostrano già un mondo complesso e diversificato. Testimoniano di sistemi religiosi solidi e articolati. Essi non possono che essere esito di una lunga storia. Non si può affermare che il senso del sacro sia nato già al momento iniziale del processo dell’ominazione, è certo però che nelle prime fasi della sua storia l’“uomo” si è confrontato con forme di esperienza religiosa: l’esistenza di un pensiero religioso, o almeno di un comportamento positivo nei confronti di ciò che per noi è il “sovrannaturale”, non può assolutamente essere messo in dubbio per gli ultimi cinquantamila anni della storia dell’umanità; fin dall’uomo di Neanderthal, e a maggior ragione appena compare l’Homo sapiens, abbondano le testimonianze di reazioni che non sono direttamente spiegabili come reazioni vegetative (LeroiGourhan 1993, p. 305).

Homo symbolicus. Quando si parla di simboli si è portati, in genere, a pensare a prodotti figurativi. In realtà la dimensione simbolica occupa l’intero campo della espressività dunque della comunicazione (cfr. Ortigues 1962; Barthes 1964; Ducrot, Todorov 1972; Benoist 1975; Sperber 1974; Augé 1979; Alleau 1976; Eco 1984, pp. 199 sgg.; Todorov 1977; 1978; Eliade 1959; Izard, Smith 1979; Elias 1991). Ca-

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rattere simbolico possono avere tra l’altro temi e motivi letterari, azioni rituali, oggetti d’uso, materiali sonori fortemente formalizzati (cfr. Turner 1967; Stefani 1976; Bonanzinga 1992; Buttitta 1996, pp. 94 sgg.; D’Agostino, G. 1996; D’Onofrio 2005). Con il termine “simbolo”, seguendo Cassirer (cfr. 1923-29, III, p. 124), è da intendere ogni elemento concreto o concetto astratto “materializzato” che diviene espressione di un significato. È da precisare che mentre nel segno la relazione tra significato e significante è sostanzialmente arbitraria e univoca, nel simbolo questa relazione è analogica e variabile, cioè polisemica (cfr. Jung 1964, p. 55; Barthes 1966, p. 36; Ducrot, Todorov 1972, pp. 134-135; Eliade 1959, pp. 115 sgg.). A tale proposito va rilevata una caratteristica essenziale del simbolo, segnatamente il simbolo religioso, cioè “la sua polivalenza, la sua capacità di esprimere simultaneamente un gran numero di significati il cui nesso logico non risulta evidente sul piano dell’esperienza immediata” (Eliade 1962, p. 116). Il simbolo possiede sia il carattere dell’immanenza che della trascendenza (cfr. Cassirer 1923-29, III, pp. 140 e 143). Rivela la trascendenza e manifesta l’immanenza, non potendosi esaurire nelle sue funzioni indicative. Queste sono del segno mentre la specificità del simbolo, segnatamente di quello magico-religioso, è quella di implodere un significato che va “oltre”, che contiene una carica di mistero e non risulta mai completamente interpretabile. In questa caratteristica risiedono la sua forza e la sua efficacia. Come ha sottolineato Sperber “parte dell’interesse per le credenze religiose per coloro che le hanno, deriva precisamente da questo elemento di mistero, dal fatto che non le si può mai interpretare completamente” (1990, p. 26). Il simbolo non va confuso con l’allegoria. Essa ripone il suo significato, osserva Godet, al di fuori di se stessa “nel programma concettuale che ha il compito di illustrare”. Nell’allegoria si parte da un’idea astratta per giungere a una figura, al contrario il simbolo è esso stesso una figura “sorgente di idee” (1946, p. 125; cfr. Todorov 1978, p. 14; Caprettini 1992b, pp. 44 sgg.). Osservava Creuzer (1819) che la diver-

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sità sostanziale tra una rappresentazione simbolica e una rappresentazione allegorica sta nel fatto che quest’ultima “caratterizza semplicemente un concetto generale, oppure un’idea, che è diversa da se stessa”, mentre la prima è l’idea stessa resa sensibile ed incarnata. Là avviene una sostituzione. Viene data un’immagine che, quando noi la vediamo, ci indica un concetto che poi dobbiamo cercare. Qui, è sceso il concetto stesso nel mondo materiale, e nell’immagine noi lo vediamo direttamente e immediatamente. La differenza fra le due specie è perciò da situare nell’istantaneità, di cui l’allegoria è priva. Interamente e in un istante si schiude nel simbolo un’idea, che afferra tutte le nostre forze spirituali (p. 61).

Mentre nel campo delle allegorie, significato e significante appaiono entrambi delimitati, nel caso del simbolo i due termini restano “infinitamente aperti”: il significante, unico termine concretamente conoscibile rinvia in estensione a tutte le sorte di qualità figurabili fino a giungere all’antinomia; di contro il significato, che resta nell’ambito del concepibile e del non altrimenti rappresentabile (cfr. Durand 1964, pp. 14-15). Nel simbolo l’elemento oggetto-soggetto e l’elemento significato si confondono l’uno con l’altro, perché si sostengono a vicenda avviluppandosi in una unità solidale. Ciò avviene in particolare nel passaggio dal mito al rito, cioè dalla narrazione alla memoria simbolica (Cipriani 1986, p. 107).

In particolare il simbolo “sacro” allude a “profondità inesauribili” i cui significati attraverso esso si rivelano e occultano a un tempo. Siamo di fronte a una “vaghezza di significato”, a una espressione che “per quanto dotata di proprietà precise che in qualche modo si vogliono simili alle proprietà del contenuto veicolato, rinvia a questo contenuto come a una nebulosa di proprietà possibili” (Eco 1984, p. 225). Questo contenuto, sebbene vago e indefinibile è comunque presente, se così non fosse il simbolo si dissolverebbe, avrebbe la consistenza dell’immagine riflessa del nul-

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la. Si potrebbe osservare che un’espressione a cui corrisponda “una nebulosa non codificata di contenuti può apparire la definizione di un segno imperfetto e socialmente inutile”, ma è piuttosto vero che per chi vive l’esperienza simbolica, che è sempre in qualche modo l’esperienza del contatto con una verità (trascendente o immanente che sia), imperfetto e inutile è il segno non simbolico, che rinvia sempre a qualcosa d’altro nella fuga illimitata della semiosi. L’esperienza del simbolo sembra invece, a chi la vive, diversa: è la sensazione che ciò che è veicolato dall’espressione, per nebuloso e ricco che sia, viva in quel momento nell’espressione (pp. 230-231).

Potremmo dire che il simbolo è “una figura che vale non per se stessa, ma mediante se stessa” (cfr. Godet 1946, p. 120). “Non potendo mai figurare l’infigurabile trascendenza, l’immagine simbolica diventa trasfigurazione di una rappresentazione concreta in funzione di un senso sempre astratto” (Durand 1964, p. 14). In sostanza il simbolo “sacro” appare come epifania di un significato inaccessibile, manifestazione del non-dicibile e del non-altrimenti-rappresentabile attraverso e nel significante (p. 13). Nel simbolo, peraltro, il significato e il significante si fondono in un prodotto polisemico altrimenti indefinibile. In altri termini come sintetizza Ferrari (1972, p. 492) nella rappresentazione simbolica esiste, tra figura significante e cosa significata, un rapporto concettuale immediato e diretto, che implica una loro rispondenza automatica, reversibile e, quasi una loro identificazione (...). Il simbolo consiste nella presentazione di un segno o di una immagine (significante) che fa riferimento a una realtà (significato) che è diversa dall’immagine stessa, e tuttavia, anche concepita come intrinseca a questa, al punto che finisce per identificarsi con essa: sì che quel riferimento, pur se non sempre evidente, è tuttavia diretto, immediato, e anche costante e obbligato. Il simbolo si presenta dunque come connessione naturale e non deliberata tra significante e significato ed ha un carattere quasi magico, di valore assoluto ed esclusivo, di unicità riassuntiva.

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L’idea di simbolo così declinata rinvia per certi versi all’archetipo junghiano. Gli archetipi non interpretabili come segni o come allegorie sembrano autentici simboli, proprio perché inesauribili e carichi di allusioni, spesso contraddittorie e paradossali. L’intuizione junghiana, tuttavia, perde di valore di fronte al riconoscimento degli archetipi come rappresentazioni (immagini) o forme universali (cfr. Jung 1917, pp. 147 sgg.; 1972, pp. 109-114; 1934, pp. 1-53; 1961, pp. 467469; cfr. anche Eco 1984, pp. 225 sgg.; Frankfort 1992, pp. 47-69), contenute, sin dai tempi remoti, dell’inconscio collettivo. I simboli invece, detengono e rivelano verità che affondano nell’esperienza sensibile, e si garantiscono in vita manifestandosi e proliferando nell’universo storico della cultura. Il simbolo è comunque un segno il cui contenuto, complesso, articolato, mai completamente afferrabile, sovrasta l’espressione, un segno in cui il senso sovrabbonda e risulta pertanto irriducibile a modelli formali. Traboccando al di fuori di ogni metafora e analogia ha il potere di evocare delle realtà altrimenti indicibili e inafferrabili. Esso, più che spiegare, “prelude e allude a esperienze complesse e pregnanti per l’uomo” (cfr. Filoramo, a cura, 1993). Amplia i confini della coscienza e rende, dunque, possibile un’esperienza totale della realtà. Suscettibile di rivelare una modalità del reale non evidente sul piano dell’esperienza, è mediante esso che viene attribuito un nuovo e profondo significato all’esistenza, quindi l’accesso al sacro. Il simbolo non è importante solo perché prolunga una ierofania o le si sostituisce, ma anzitutto perché può continuare il processo di ierofanizzazione, e specialmente perché, all’occorrenza è esso stesso una ierofania, cioè perché rivela una realtà sacra o cosmologica che nessun’altra “manifestazione” è capace di rivelare (Eliade 1948, p. 463).

A questo ambito problematico pare riferirsi Huizinga (1919, p. 234) quando osserva: Il simbolismo, considerato dal punto di vista dell’idea di casualità, è come un corto circuito spirituale. Il pensiero non cer-

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ca il legame tra le due cose seguendo le spirali nascoste della loro connessione causale, ma lo trova all’improvviso con un salto, non come un rapporto di causa ed effetto, ma di significato e scopo. La convinzione dell’esistenza di un siffatto rapporto si può acquisire non appena due cose abbiano in comune una proprietà essenziale, che va riferita a qualcosa di valore generale. In altre parole: ogni associazione basata su qualche somiglianza si può trasformare immediatamente nella coscienza di un rapporto essenziale e mistico. Questa, da un punto di vista psicologico, può apparire una funzione mentale molto primitiva. Il pensiero primitivo è caratterizzato da una debolezza nel percepire i confini d’identità tra le cose; incorpora nella rappresentazione di una determinata cosa tutto ciò che con essa ha un qualche rapporto di somiglianza o di appartenenza. La funzione simboleggiante vi è strettamente connessa.

A parte le osservazioni sul pensiero primitivo, eco di una letteratura ormai inattuale, Huizinga coglie elementi fondamentali della genesi dei simboli. Ha anche ragione quando osserva che: in ogni rapporto simbolico ci devono essere un termine inferiore e uno superiore: due cose di eguale valore non possono essere simbolo l’una dell’altra, ma solo rimandare entrambe a una terza, che è superiore. Nel pensiero simbolico c’è spazio per una smisurata molteplicità di rapporti tra le cose. Perché ogni cosa può, con le sue diverse qualità, essere il simbolo di molte altre, e può anche significare con la stessa qualità diverse cose; e le cose supreme hanno simboli di mille specie (p. 236).

La costituzione del significato di ogni singola unità simbolica e la formazione di sistemi simbolici è certo uno dei fenomeni più complessi che caratterizzano l’uomo in quanto tale. Si tratta, commenta Anita Seppilli (1990, p. 45), di uno dei processi più interessanti dell’ideazione umana che si esprime per simboli-metafore tutt’altro che artificiose, ma che anzi sorgono spontanee per concatenazione ideativa immediata; ogni qualità astratta è difficile da “immaginare”, mentre invece evoca nella mente un oggetto concreto, che più di ogni al-

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tro renda l’astratto accessibile alla coscienza. La linea divisoria fra identità e simbolo o metafora non è nettamente tracciabile; noi sentiamo il linguaggio figurato poetico più emozionalmente intenso di quello prosaico e soprattutto di quello scientifico, che postulano una assoluta univoca corrispondenza fra oggetto e relativa terminologia; finché lo riconosciamo quale “metafora”, esso rimane nel dominio del “poetico”, ma può giungere tuttavia a intensificarsi e sovrapporsi fino a sostituirsi all’oggetto reale stesso. Se questa identificazione avviene, ci troviamo nell’ambito della mitopoiesi, o di una pseudorealtà, o superrealtà, carica di contenuti emozionali che vi aderiscono inespugnabili.

Non è da credere che l’uomo “moderno”, ipertecnologico si sia emancipato da un simile modo di porsi innanzi al mondo, poiché “l’ideazione umana spontanea” resta nettamente simbolica: “il simbolismo valutato come accostamento immaginario, sia pur profondo, ma distinto in assoluto dalla realtà, è una conquista in fieri, e tutt’altro che completamente raggiunta dall’Homo sapiens, nella sua fase attuale” (p. 66). Come è facilmente desumibile dal dilagare di filosofie e religioni o pseudo-religioni di carattere esoterico (spesso figlie deformi e deviate della cosiddetta cultura “orientale”) e dal proliferare di santoni, maghi e “terapeuti” variamente qualificantisi (i quali pretendono paradossalmente riconoscimenti da parte della cultura “scientifica” ufficiale), l’uomo si sente ancora angosciosamente alla mercè di oscure e indefinite forze esterne, e “Solo conoscendole, solo ripetendo un’azione simbolica (dove il simbolo implica tutta la potenza che gli è riconosciuta dalla psicoanalisi, o rispettivamente dalla magia), egli affronta l’angoscia del nuovo riportandolo entro la sfera del noto e dominabile” (1977, p. 48). È forse eccessivo sostenere, come è stato detto, che i sistemi di simboli costituiscono uno “scudo contro il terrore” (Berger 1967, p. 22). Non vi è dubbio tuttavia che essi esercitano sempre una funzione stabilizzante rispetto al rischio disgregante del non essere da cui l’individuo e le società si sentono investite.

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Simboli universali? La comprensione degli apparati simbolici delle diverse civiltà è ostacolata dalle tradizioni culturali in esse variamente stratificate. Nella cultura del Medio Evo, per esempio, elementi di disparate matrici spaziali e temporali si fondono e confondono in un sincretismo i cui nessi è, talora, impossibile districare. La cosiddetta “cultura classica” sulla quale viene a impiantarsi e strutturarsi progressivamente il cristianesimo, come è noto, non è un tutto omogeneo. Al suo interno tradizioni e culti di varia origine e natura, in particolare orientali, si trovano a interagire con diversi substrati regionali. A complicare le cose intervengono gli apporti delle diverse popolazioni barbariche che attraversano e si stanziano sui territori dell’impero romano, anche prima della sua dissoluzione. La loro progressiva adesione al cristianesimo, spesso praticato solo dagli strati alti della società, non esita nella integrale cancellazione delle precedenti forme di religiosità. Questo in particolare nelle aree dove più flebile era giunta la parola evangelica; in particolare in quelle rurali dove la predicazione non era penetrata in maniera incisiva e “permanevano ben vivi e presenti costumi e tradizioni rituali certo più prossimi a una qualche forma di paganesimo che non al cristianesimo” (Montesano 1997, p. 71; cfr. Manselli 1985; Lane Fox 1986; Schmitt 1988a; 1988b; Lauwers 1988-89; Belmont 1988, pp. 53-80; Brown 1982; Kieckhefer 1989; Luck 1985). Ad esempio a metà del VII secolo, dalle parti di Benevento guerrieri longobardi battezzati seguivano ancora il rito pagano (gentilitatis ritus) di prosternarsi davanti al simulacro di una vipera, e non si astenevano, nonostante le insistenze del loro vescovo, dal culto (l’optimus cultus comandato dalla lex maiorum suorum) a un albero sacro, presso il quale misuravano la loro abilità di combattenti (Cracco 1993, p. 113).

Il simbolismo medievale traduce e manifesta in immagine e parola questo mescolarsi di culture. Testi letterari, arti

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plastiche e pittoriche, decorazioni di monili, mantelli, troni ecc., sono tutti testimoni di questa storia. A integrazione e chiarimento di quanto fin qui osservato va precisato che i simboli non sono una classe di indicatori semantici ne varietur. Sono segni che in rapporto ai sistemi ideologici e alle pratiche culturali delle diverse società storicamente date, vengono ad assumere funzione simbolica (Sperber 1974; 1990; Izard, Smith, dir., 1979). Ecco perché, come ha ricordato Uspenskij, “Ciò che è produttore di senso simbolico per un’epoca e un’area culturale, può non avere alcun significato nel sistema di rappresentazioni di un’altra area storico-culturale” (1988, p. 11). Immagini apparentemente analoghe, inoltre, possono essere portatrici di significati differenti, anche divergenti, in diversi contesti. È, tuttavia, non questionabile che alcuni simboli si presentino con significato analogo anche presso culture assai distanti sia nel tempo che nello spazio, quasi fossero realmente “prodotti naturali e spontanei” (Jung 1964, p. 55). Toporov (1973, p. 148), per esempio, attribuisce carattere universale al simbolismo dell’albero e alle sue “alloimmagini”: l’“albero universale” e le sue varianti locali – l’“albero della vita”, l’“albero celeste”, l’“albero del limite”, l’“albero sciamanico”, ecc. – sono l’immagine di una concezione universale che per un lungo periodo ha determinato il modello del mondo delle comunità umane del Vecchio e del Nuovo Mondo. (...) Vi è una serie di ragioni per considerare complessi universali l’immagine dell’albero universale e altre immagini analoghe.

Tra i motivi che Toporov porta a sostegno della sua interpretazione due sono i più rilevanti: nella traduzione intrasemiotica, all’immagine dell’“albero universale” corrispondono i più svariati sistemi segnici e, al contrario, sistemi segnici diversi e del tutto indipendenti fungono da piano d’espressione a questa immagine; i complessi segnici di cui è parte integrante l’“albero”, sorgono praticamente ovunque e nelle epoche più diverse, “benché sia verosimile che la lo-

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ro immancabile manifestazione sia legata a un determinato stadio di sviluppo della società piuttosto antico” (p. 148). Il problema dell’identità e riconoscibilità, nello spazio e nel tempo, di certi simboli, è stato occasione di ampie discussioni da parte di diverse scuole di pensiero (comparativista, diffusionista, psicoanalitica, strutturalista) che hanno proposto diverse e antitetiche soluzioni. Il comparativismo, spesso esasperato, caratteristico del pensiero positivista (tra fine Ottocento e primi del Novecento) riscontrando approssimative analogie tra miti, riti e simboli, di culture tra loro lontanissime, finiva col far perdere ai fatti osservati ogni loro specificità storica. Alle idee dei positivisti venne a fare da contraltare la posizione diffusionista che riteneva irrilevante qualsiasi affinità o analogia tra simboli in assenza di provati contatti tra le culture dove essi si presentavano (cfr. Caprettini 1992a, p. 17). L’apporto di Freud e Jung, se da un lato aprì un campo nuovo e stimolante, si svilì, nel primo, nella riduzione a una onnipresente matrice libidica e trovò un limite, nel secondo, nella supposizione di un universale e condiviso inconscio collettivo. Gli antropologi strutturalisti da parte loro si sono interessati più all’individuazione e all’analisi delle strutture comuni che articolano gli apparati simbolici, rifiutandosi pertanto di trattare i simboli come entità indipendenti prestando attenzione alle loro relazioni (cfr. Lévi-Strauss 1964, pp. 45 sgg. e 231 sgg.). Non è questa la sede per discutere le differenti tesi. È interessante, tuttavia, condurre alcune brevi osservazioni sul concetto tanto discusso di “archetipo” in relazione ad alcune ipotesi hjemsleviane. Nel rilevare, pur nel suo multiforme articolarsi la diffusione e permanenza di un simbolo quale è l’albero, non solo come immagine – il che è già di per sé un problema –, ma anche come detentore di specifici significati condivisi, non possiamo fare a meno di scontrarci, infatti, con la nozione di archetipo, così come si è definita da Jung in poi. I suoi continuatori, forzando il pensiero del Maestro – che nella sua fase più matura definiva gli archetipi come disposizione di natura inconscia a produrre rappresentazioni

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tipiche organizzandole intorno a uno specifico nucleo di significato, corrispondenti a esperienze che l’uomo ha vissuto nel corso dello sviluppo della coscienza –, vedono in essi una speciale categoria di simboli, di “modelli dotati non solo di una struttura e di interna dinamica, ma anche di contenuti simbolici ereditari che operano nella storia, orientando comportamenti individuali e collettivi”, e reificandosi in immagini rituali, iconografiche e testuali (Buttitta 1996, p. 113). È scontato che gli archetipi se pensati come forme e come sostanze di espressione e contenuto, non possono avere carattere di fissità e universalità. Gli studi di genetica hanno infatti provato che i tratti culturali sono indipendenti dai pools genetici e pertanto non possono essere trasmissibili da una generazione all’altra per via biologica. La loro trasmissione è affidata alla cultura stessa, alle spinte tanto statiche quanto dinamiche, al gioco cioè della permanenza e del mutamento, che ne costituiscono la vita solo apparentemente misteriosa (ib.).

Riguardo alla presenza degli stessi simboli presso culture distanti nel tempo e nello spazio, anche mai entrate in contatto, c’è intanto da considerare che il rapporto tra dimensione simbolica e dimensione economica è più stretto di quanto non appaia. Pur nella apparente diversità delle situazioni, una parte consistente dell’umanità per millenni è vissuta principalmente grazie allo sfruttamento della terra sia in forma di coltivazione che di pascolo. Di necessità i cicli biologici di un numero incalcolabile di uomini sono stati legati indissolubilmente a quelli delle stagioni. È in rapporto a questa comune dimensione agricolo-pastorale, a questo “macrocontesto” omogeneo, che va esaminato l’isomorfismo di certi prodotti simbolici. Taluni simboli, dunque, sembrano possedere carattere di “universalità”, anche indipendentemente dai singoli contesti storici. Questo fatto è probabilmente da riferire alla loro matrice esperienziale, se non a quella che gli illuministi chiamavano “identità della natura umana”. Se è vero che la struttura della mente è identica in tutti gli uomini ed eguali sono

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le sue procedure percettive e di elaborazione concettuale, allora a fronte di analoghe esperienze, se si vuole anche emotive, è possibile il formarsi di analoghe immagini, per il condensarsi intorno allo stesso segno di analoghi frammenti di senso. Il fuoco, l’albero, l’uovo, l’acqua, sono esempi evidenti di come alcuni momenti esperienziali nella loro concettualizzazione culturale, pur sempre soggetta alla deriva della storia, possono sfuggire al naufragio del senso, mantenendo costante e inalterato il loro valore simbolico. Graficamente possiamo rendere il processo di simbolizzazione in questo modo: ESPERIENZA SENSIBILE



CONCETTUALIZZAZIONE



RAPPRESENTAZIONE (FIGURATIVA, SONORA ECC.)

Il simbolo si definisce nell’intima unione tra il “concetto” e la “figura” e, non diversamente dagli altri segni, è in principio la traduzione culturale di una “esperienza”. Le eventuali analogie di un simbolo con altri simboli sono quindi da riferire alle esperienze cui questi sono connessi e ai loro contesti di percezione, vale a dire ai tessuti sociali e culturali, attraversando i quali una determinata esperienza sensibile, convertendosi in segno, è venuta ad assumere connotati simbolici. Va inoltre rilevato che un simbolo può essere anch’esso oggetto di esperienza sensibile dando luogo a simboli derivati (dinamica segnica). Alla universale diffusione di certi simboli e alla loro permanenza nel tempo concorrono dunque: 1) l’identità delle strutture percettive (fisiologiche e cerebrali) che danno luogo ad analoghe risposte di fronte a determinate sollecitazioni; 2) la prossimità spaziale e/o strutturale delle culture e segnatamente dei contesti economicosociali cui appartengono i soggetti percepienti; 3) i modelli culturali tradizionali detentori di forze che agiscono stabi-

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lizzando il nostro lessico e i nostri comportamenti su “un piano difficilmente avvertibile a livello macroscopico” (Seppilli 1977, p. 23). Per accertare la verità di quanto appena osservato basti riflettere sulle forme e i tempi della trasformazione realizzatasi sul piano ideologico/simbolico nel passaggio da regimi di vita fondati sulla caccia e sulla raccolta a quelli fondati sull’agricoltura e sull’allevamento. Un processo assai lento e diversificato che tuttavia determinò una profonda riorganizzazione e ricodificazione dell’immaginario magico-religioso delle culture neolitiche dando luogo a un sistema di credenze e di pratiche ancor oggi rilevabili in ambito folklorico (cfr. Lévêque 1985; Cauvin 1994; Giallombardo 1990; Buttitta 2006a). Riprendendo la questione in termini hyemsleviani osserviamo che: a livello dello schema, cioè delle strutture profonde, delle procedure logiche comuni a tutti gli uomini, si producono analoghi esiti presso tutte le culture in presenza di analoghe situazioni. I singoli fatti culturali non consistono tuttavia negli schemi. Questi ne costituiscono solo la struttura fondante, più chiaramente percepibile quando i sistemi culturali si trovano in statu nascenti. Questi schemi “comuni” si articolano a livello della norma, che è propria di ciascuna società, in figure storicamente determinate. Le strutture normative degli universi simbolici così costituiti si esprimono a loro volta a livello dell’uso, cioè della manifestazione, nei singoli contesti in dipendenza dalle diverse tradizioni culturali loro proprie (cfr. Buttitta 1996, p. 113). Il senso manifesto di uno stesso simbolo dunque non può essere mai fisso e univoco, mentre a livello delle strutture profonde si conserva costante. Quantunque ogni simbolo aspiri all’universalità il suo senso non può non essere pienamente inteso, dunque, al di fuori del contesto mitico rituale cui appartiene, cioè dalla sua storia. In altri termini seppure occasione di semiosi inesauribile, il senso di un simbolo deve essere, circoscritto e compreso attraverso i rapporti che intrattiene con gli altri elementi del proprio sistema simbolico. La realtà umana – ha osservato Kertzer (1988, p. 11) – è modellata dall’uomo

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a partire dalla cultura in cui nasce e dalle esperienze che ha, esperienze che lo mettono in contatto con gli altri e con vari aspetti della natura. (...) Le nostre percezioni sono selettive e quegli aspetti del mondo che vengono selezionati devono essere ulteriormente ridotti e riordinati nei termini di un qualche sistema di semplificazione (o di categorizzazione) che ci consente di dargli un senso.

È il sistema dei simboli che conferisce a essi questo ordine caricandoli di senso. In conclusione possiamo affermare che il simbolo è multidimensionale e carico di valenze che possono diversamente allacciarsi, o sostituirsi, o istituire trame di rapporti sotterranei, radicati nella profondità della psiche, ma diversamente atteggiati nei vari momenti storici, così come nella vita del singolo essere umano. (...) È l’ampiezza delle sue manifestazioni, è l’essenziale persistenza nel tempo che sole possono svelarci la sua reale entità psichica. In questo senso anche il folclore – inteso come sopravvivenza di un simbolo attraverso i millenni – può diventare un documento umano di intenso valore significante (Seppilli 1977, p. 17).

Se al termine “psiche” sostituiamo “ideologia”, con tutti gli esiti metodologici che questa scelta comporta, l’opinione di Anita Seppilli, appena riferita, rispetto ai problemi affrontati in queste pagine appare pienamente risolutiva.

Capitolo secondo “Desuz un pin…”. La lunga strada dell’albero

Preambolo Ho avuto un’infanzia privilegiata. Ho potuto trascorrere lunghe estati in campagna, in un grande mulino sul fiume Nocella, senza acqua corrente né luce elettrica, senza gas né telefono. In compagnia di mio fratello Emanuele, dei miei genitori e dei loro “allievi” e amici più giovani. Ricordo intensamente Gigi, Fatima, Enzo, Francesca, Mario, Nino, Alberto, Enza… e Gaetano. Lui mi ha insegnato, tra l’altro, a conoscere cosa c’era sotto la superficie del mare. C’e stato anche tanto mare nella mia infanzia. Prima Favignana, poi Scopello dove c’era Guglielmo e c’erano tanti buoni ricci e granci pilusi, poi San Vito Lo Capo. Mio padre, la sera, al Mulino, davanti al fuoco ardente al centro del cortile, raccontava episodi della sua giovinezza o leggeva. Leggeva per tutti. L’Odissea, l’Iliade, le saghe norrene, la Chanson de Roland... che belle avventure. E poi, ormai “a letto”, le fiabe, a puntate. Mia madre, pescando nel suo popoloso immaginario, le riempiva di animali parlanti, eroici “bambini” guerrieri, mostri, maghi, fate… E mio fratello e io ci andavamo “all’avventura”, armati di archi, lance di canna e coltelli, perlustravamo le montagne circostanti, le grotte, la valle del fiume. Queste cose mi hanno fatto amare la vita, diventare curioso. Dove non si infrange sui muri e non si appiattisce davanti a un televisore o un computer, la fantasia si sperimenta, si fa vita vissuta. Così, anni dopo avrei riletto quelle storie cercandovi, insieme alle antiche avventure, anche dell’altro.

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Accadde. Stavo scrivendo la mia tesi di laurea sugli usi dell’albero nelle cerimonie tradizionali siciliane e leggendo la Chanson. Notai il modo in cui ricorrevano gli alberi e ne parlai ad Antonio Pasqualino. Lui, che era un antico cavaliere, queste cose le conosceva bene.

La lunga strada dell’albero Non sappiamo precisamente in che misura e in quali peculiari forme, ma certamente gli alberi, segnatamente alcune specie, dovettero avere un posto rilevante sul piano cultuale e mitico-rituale dei popoli celto-germanici. In questo senso gli indizi sono numerosi. Le tribù celtiche non si costituirono mai in regno centralizzato, in unità politica transtribale. A partire dal VI sec. a.C., in diverse ondate, si diffusero ampiamente e stabilmente sul territorio europeo: Germania, Inghilterra e Irlanda, Francia, Spagna, fino ai Balcani e all’Asia Minore. È in questa epoca che si sviluppa la cultura “tipicamente celtica” di La Tène e appaiono le prime menzioni dei celti nelle fonti classiche. Il primo riferimento ai celti come popolo si trova in Erodoto (V sec. a.C.) a proposito del territorio dell’Iberia e dei suoi abitanti (Storie II, 33 e IV, 49). Accenni si trovano anche nei frammenti della Periéghesis di Ecateo di Mileto (540-575 a.C.), nella Geografia di Strabone, in Diodoro Siculo (II, 47 sgg.), in Pausania, in Polibio, in Dionigi di Alicarnasso. Tra le opere latine, oltre che nel De Bello Gallico di Cesare e nella Germania di Tacito, si fa riferimento ai celti in Plinio il Vecchio e in Lucano. Più tarde, ma non meno importanti, le notizie contenute nei Commenta Bernensia (IV-IX sec. d.C.) e nel Periplo Massaliota (VI sec. d.C.). A proposito dell’universo magico-religioso di queste genti non è possibile fare riferimento a un corpo di credenze organizzate, non costituendo un sistema coerente e stabile si fondava su un pantheon composito di dei tribali, di divinità locali, non di rado preceltiche, di culti privilegiati da alcuni gruppi sociali, raccolti in un sistema tutt’altro che rigido che

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ruotava intorno ad alcune divinità panceltiche (Di Nola, a cura, 1970, I, pp. 1691 sgg.). Il luogo dove amministrarne il culto era il bosco: “Il cuore della foresta era la dimora della divinità: lì essa sfoggiava il suo imperio, esigeva sacrifici e umile sottomissione” (Piggot 1984, p. 43). A uno di questi nemeton Lucano accenna nel suo poema: Lucus erat longo numquam violatus ab aevo / obscurum cingens conexis aera ramis / et gelidas alte summotis solibus umbras. / Hunc non ruricolae Panes nemorumque potentes / Silvani Nymphaeque tenent sed barbara ritu / sacra deum; structae diris altaribus arae, / omnisque humanis lustrata cruoribus arbor. / (...). Tunc plurima nigris / fontibus unda cadit, simulacraque maesta deorum / arte carent caesisque extant informia truncis. / Ipse situs putrique facit iam robore pallor / attonitos; non vulgatis sacrata figuris / numina sic metuunt: Tantum terroribus addit, / quos timeant, non nosse deos (...) (Farsaglia, III, 399-417).

In tutta l’area celtica rinveniamo culti dedicati ad alberi e a divinità degli alberi (Frazer 1900, p. 253). Secondo Toutain, questi culti erano praticati in tutta la Gallia romana. Nelle valli dei Pirenei, degli altari erano consacrati a Fagus, il dio Faggio, mentre un gruppo di sei alberi dedicato a un Sexarbor deus o Sexarbores, era venerato ad Arbas nell’Alta Garonna: Des autels anépigraphes qui proviennent de la même région portent comme décoration principale un arbre plus ou moins stylisé. Le dieu Chêne, Robur deus, était adoré dans la région d’Angoulême. Alisanus, à qui furent dédiées deux patères en bronze trouvées l’une près de dijion, l’autre aux environs d’Arnay-le-Duc, était peut-être le dieu des alisiers, dont le nom indigène paraît avoir été alisa (Toutain 1920, p. 296).

Altri monumenti privi d’epigrafe, rinvenuti in diverse regioni della Gallia, possono essere riferiti a culti analoghi. Ne è esempio un altare, la cui provenienza esatta è sconosciuta. Sulla faccia anteriore, un bassorilievo rappresenta un dio

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barbuto a capo scoperto ritto su una base quadrata con accanto un cinghiale, tiene nella mano sinistra un serpente o un pedum, e nella mano destra, diretta verso il sole, un oggetto indeterminato, forse una pigna. Alla destra del dio si leva un albero di pino a cui sta sospesa una mazza-bastone. La superficie laterale destra è decorata con un pino contro il quale si rizza una capra. La superficie sinistra è invece tutta occupata dall’immagine di un alloro. Infine la faccia anteriore si inquadra in due colonnette i cui capitelli sono costituiti da pigne (p. 297). Numerose altre testimonianze iconografiche, dove si osservano divinità antropomorfe accanto ad alberi e/o rami e a essi variamente connesse, confermano l’esistenza di dei della vegetazione e in particolare degli alberi. Tra le specie vegetali di maggior rilievo religioso, il tasso, il sorbo, la quercia. Quest’ultima, cui si accompagnava il culto di Taranis, divinità uranica, assimilabile a Zeus-Giove, divinità del tuono e del fulmine, assume particolare rilievo in quanto chiamata a rappresentare l’axis mundi, il supporto del cielo. Da essa inscindibile è il vischio che cresceva tra le sue fronde. Era considerato il centro energetico della pianta, il luogo in cui durante la stagione fredda si ritirava la forza vitale dell’albero. Era simbolo della rinascita. “I Druidi nulla consideravano di più sacro come il vischio e la quercia su cui cresceva; sceglievano boschi di quercia per farvi i loro riti solenni e non ne facevano alcuno senza foglie di quercia” (Frazer 1900, p. 277). È noto il passo della Naturalis Historia di Plinio che descrive il rituale di raccolta del vischio sul sacro albero. Un brano assai suggestivo, sul quale si possono avanzare delle riserve, ma che resta comunque una delle poche testimonianze sul mondo druidico: Nunc est omittenda in hac re et Galliarum admiratio. Nihil habent Druidae – ita suos appellant magos – visco et arbore, in qua gignatur, si modo sit, robur sacratius. Iam per se roborum eligunt lucos nec ulla sacra sine earum fronde conficiunt, ut inde appellati quoque interpretatione Graeca possint Druidae videri. Enimvero quidquid adgnascatur illis e caelo missum pu-

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tant signumque esse electae ab ipso deo arboris. Est autem id rarum admodum inventu et repertum magna religione petitur et ante omnia sexta luna, quae principia mensum annorumque his facit et saeculi post tricesimum annum, quia iam virium abunde habeat nec sit sui dimidia. Omnia sanantem appellant suo vocabulo. Sacrificio epulisque rite sub arbore comparatis duos admovet candidi colore tauros, quorum cornua tum primum vinciantur. Sacerdos candida veste cultus arborem scandit, falce aurea demetit, candido id excipitur sago. Tum deinde victimas immolant precantes, suum donum deus prosperum faciat iis quibus dederit. Fecunditatem eo poto dari cuicumque animalium sterili arbitrantur, contra venena esse omnia remedio. Tanta gentium in rebus frivolis plerumque religio est (XVI, 249-251).

Una notevole testimonianza sul culto degli alberi presso i celti è emersa dagli scavi condotti presso l’oppidum di Manching in Baviera: un alberello cultuale, alto settanta centimetri, con ornamentazione consistente in foglie di edera, frutti e bacche. Eseguito in legno e bronzo, è completamente placcato in oro. L’alberello, al momento del ritrovamento, era collocato su un’ampia, sottile lastra di legno ricoperta da una lamina d’oro riccamente ornata. Come dimostra l’analisi stilistica, l’insieme unisce, in maniera fin’ora inedita, elementi originari mediterranei ed altri indigeni. (...) L’alberello con i suoi fogliami si colloca nella lunga tradizione, trasmessaci dagli autori antichi, del cosiddetto culto degli alberi (Maier 1991, p. 530).

Anche nella religiosità degli antichi germani trovano ampio spazio boschi, alberi e in particolare la quercia. Quest’ultima pare fosse connessa al dio del fulmine, Donar o Thunar, l’equivalente del norvegese Thor. Una quercia sacra nei pressi di Geismar, nell’Assia, che Bonifacio (672/73-754) tagliò nel secolo VIII, era infatti chiamata Donares Eih, “la quercia di Donar”. Che poi il teutonico dio del fulmine, Donar, Thunar o Thor, s’identificasse con l’italico dio del fulmine, Giove, appare anche dal-

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l’inglese Thursday, il giorno di Thunar, che non è altro che la traduzione del latino dies Jovis, giovedì. Così tra gli antichi teutoni, (...) il dio della quercia era anche il dio del fulmine. (...) considerato come la grande forza fecondatrice, che manda la pioggia e fa portare i frutti alla terra (Frazer 1900, p. 253).

Plutarco, Strabone, Cesare, Plinio, Svetonio, Ammiano Marcellino ecc. riferiscono intorno ai costumi e alla vita dei germani seppur filtrandoli attraverso “i modelli culturali della loro mitologia e del loro culto” (Di Nola, a cura, 1970, II, p. 1728). Una delle testimonianze più notevoli è la Germania di Tacito. L’autore, in più luoghi, accenna a boschi sacri. I germani, egli racconta, celebrano i loro riti in onore degli dei nei boschi e non amano raffigurarli in aspetto antropomorfo: “Ceterum nec cohibere parietibus deos neque in ullam humani oris speciem assimulare ex magnitudine caelestium arbitrantur: lucos ac nemora consecrant, deorumque nominibus appellant secretum illud, quod sola reverentia vident” (IX, 2); presso la tribù dei nahanarvali vegetava un famoso bosco sacro in cui si venerava una coppia di divinità, gli Alci: “Apud Nahanarvalos antiquae religionis lucus ostenditur. Praesidet sacerdos muliebri ornatu, (...). Ea vis numini, nomen Alci” (XLIII, 3); un altro bosco era dedicato a una divinità femminile, la dea Nerthus, il cui culto era comune a tutti i germani: “Nec quicquam notabile in singulis, nisi quod in commune Nerthum, id est Terram matrem, (...). Est in insula oceani castum nemus dicatumque in eo vehiculum, veste contectum; attingere uni sacerdoti concessum” (XL, 2-3). Indicazioni fondamentali per la ricostruzione delle mitologie nordiche sono l’Edda poetica o antica, un insieme di canti mitici ed eroici raccolti per iscritto intorno al X sec. e l’Edda in prosa, compilazione di dati prevalentemente mitologici, opera di Snorri Sturluson (1198-1241). In ambedue i testi si parla del frassino Yggdrasill, l’albero cosmico reggitore del mondo. Nell’Edda poetica lo si incontra in più luoghi. Nella Volopsa, dove si racconta l’origine del mon-

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do, si parla di un “grande frassino che penetra la terra. (...) Yggdrasill lo chiamano, / alto tronco lambito da limpide acque; / di là vengono le rugiade che piovono nelle valli. / Sempre s’erge, verde, sopra la sorgente di Urdhr” (2-19; trad. Scardigli, Meli 1982). Nell’Havamal si racconta l’autosacrificio di Odino, impiccatosi a Yggdrasill per conquistare la conoscenza: “Lo so che sono stato appeso al tronco scosso dal vento nove intere notti, / da una lancia ferito e sacrificato a Odino, io a me stesso, / su quell’albero che nessuno conosce dove dalle radici s’erga” (138). Nel Grimnismal (31-33) poi è fatta l’accurata descrizione del frassino e dei suoi molteplici abitatori. Le sue tre radici toccano i tre mondi (degli uomini, dei giganti, dei morti), sulla sua cima sta l’aquila e in basso il serpente Nidhhoggr e molte altre serpi che rodono le sue radici, la sua corteccia è percorsa su e giù da Ratatosk, lo scoiattolo, che porta i messaggi di sfida tra aquila e serpente. Vi sono anche dei cervi che mordono il frassino e si cibano delle sue fronde. Yggdrasill è in tutta evidenza tanto albero axis mundi quanto albero della vita e della conoscenza. Le sue radici penetrano nelle profondità della terra dove sono il regno dei giganti e gli inferi. Presso di lui si trova la fonte miracolosa dove Odino ha lasciato in pegno un occhio, e presso la quale torna di continuo per rinfrescare e accrescere la sua sapienza (Volopsa 27-29). Un ulteriore indicatore della carica simbolica di Yggdrasill sono gli animali che lo popolano. Basti rilevare la presenza di aquila e serpente la cui posizione antagonista ripete un motivo largamente diffuso. Boyer (1981, p. 210) osserva che “la même hostilité entre aigle et serpent se rencontre aussi, d’ailleurs, dans la Grèce archaïque”. Eliade nel rilevare la diffusione dello schema cosmologico dell’albero con l’uccello sulla cima e la serpe alle radici, tra i popoli dell’Asia e i germani, lo considera di probabile origine orientale e ricorda che “di fatto un tale simbolismo appare già in vestigia preistoriche” (1951, p. 297). La lotta tra l’aquila e il serpente, scrive altrove Eliade, è un motivo diffuso “nella mitologia e nella cosmologia indiana, è un simbolo cosmologico della lotta

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tra luce e tenebre, dell’opposizione tra i due principi, quello solare e quello sotterraneo” (1948, p. 286). Yggdrasill è anche referente mitico dell’albero-palo centrale dell’assemblea germanica. La presenza dell’asse, del palo, “replica” dell’Albero cosmico mette in comunicazione col divino e legittima le decisioni dell’assemblea. Gli dei, infatti, tengono ogni giorno consiglio sotto il frassino Yggdrasill per decidere delle sorti degli uomini come in un thing, l’assemblea scandinava degli uomini liberi che sotto un albero si riuniva per prendere decisioni sulle sorti della comunità: “Allora Gangleri disse: ‘Dov’è la principale, la più santa sede degli dei?’. Har rispose: ‘È presso il frassino Yggdrasill; là gli dei ogni giorno tengono consiglio’ (...). / Ogni giorno gli Asi cavalcano verso quel luogo” (Gylfaginning 15; trad. Chiesa Isnardi 1975). Il frassino, asse cosmico, è inoltre trasposizione mitica dell’albero che si alzava nei luoghi di culto e nelle case e che “assicurava il benessere del gruppo” (Di Nola, a cura, 1970, II, p. 1765). Olao Magno, riprendendo Adamo di Brema (Gesta Hammaburgensis IV, sc. 138), riferisce di un “albero gigantesco di specie ignota” posto dinanzi le porte del tempio di Uppsala dedicato a Thor, Odino e Frigga (Historia de gentibus septentrionalibus III, 6). Vanno poi ricordati il vardträd svedese e il tuntre norvegese, alberi tutelari della comunità e dei gruppi familiari:

do da avere al centro un’enorme quercia; i rami rigogliosi dell’albero, con i loro splendidi fiori, spuntavano oltre il tetto della reggia, mentre il tronco affondava nella sala: e lo chiamarono Barnstokkr” (2; trad. Febbraro 1994). Fondamento e centro della regia, cioè del cosmos, l’albero si fa a un tempo segno inequivocabile della sovranità e della fecondità. Albero della vita-fertilità e albero axis mundi, lungi dall’escludersi si pongono come significati complementari. La reggia di Völsungr viene costruita intorno a un’enorme quercia che ne indica la natura di centro cosmico, ma la quercia stessa è rigogliosa, fiorita come a segnalare la potenza fecondatrice del luogo e di chi vi abita. Non è casuale poi che quella quercia venga indicata anche come “melo”, “albero da frutta”, e che infine il suo nome, Barnstokkr, significhi “tronco dei bambini”, auspicio evidente di florida discendenza. Vale ricordare un episodio della saga di Haraldr Bellachioma, dove Ragnhildr, futura madre del re Haraldr, vede nel sonno un immenso e rigoglioso albero uscirle dal ventre. Lo stesso tema ricorre nell’immagine veterotestamentaria dell’albero di Jesse, ma anche più esplicitamente nell’Odissea. Sul tronco di un ulivo Odisseo ha scolpito il suo letto nuziale; intorno a questo albero, solido e inamovibile, ha costruito la camera destinata a ospitarne il sonno e gli amplessi legittimi: il centro della casa e del cosmo (Odissea, XXIII, vv. 184-204):

cet arbre protecteur qui ombrage la ferme ou le domaine et dont on considéra très longtemps que la bonheur, la prospérité de la famille installée à son ombre dépendaient. Il aurait une relation comme naturelle entre le vardträd, arbitre du destin d’une famille et Yggdrasill, mesure des destinés du monde. Tant que le vardträd vit, les gens de la famille vont bien, mais malheur et maladie s’abbatent sur elle s’il dépérit (Boyer 1981, p. 212. Cfr. Werkmüller 1990, p. 478).

C’era un tronco dalle ricche fronde, d’ulivo, dentro il cortile, / florido, rigoglioso; era grosso come una colonna: / intorno a questo murai la stanza, finché la finii, / con fitte pietre, e di sopra la copersi per bene, / robuste porte ci misi, saldamente commesse. / E poi troncai la chioma dell’ulivo fronzuto, / e il fusto sul piede sgrossai, lo squadrai col bronzo / (...) / Così, cominciando da questo, polivo il letto, finché lo finii, / ornandolo d’oro, d’argento e d’avorio.

Un albero di tal fatta è certo quello che si leva al centro della reggia di Völsungr. Si legge nella Saga dei Volsunghi, che il re “si fece costruire una meravigliosa dimora, fatta in mo-

Simbolismo assiale e di fecondità tornano a riunirsi. Gli amplessi fecondi del re divino, consumati al centro dell’universo, fanno prosperare la comunità.

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Antiqua idolatria Non mancano le attestazioni medievali che documentano la persistenza di un immaginario simbolico tradizionale attraverso il perpetuarsi di pratiche rituali non cristiane, o comunque non ortodosse legate agli alberi e più in generale a elementi naturali. Testimonianze si raccolgono, oltre che nelle opere di carattere storico e letterario, anche in bolle e testi conciliari, in editti regali, in scritti e prediche di autorevoli esponenti del mondo ecclesiastico. Attraverso questi documenti si intravede una cultura legata alla terra da un sistema di credenze fin troppo radicate per poter essere cancellate da un’azione repentina e violenta. Un insieme di credenze che si conservava più facilmente nelle campagne, dove secondo Guglielmo d’Alvernia continuavano a imperversare antiqua idolatria e reliquiae superstitionis antiquae (cfr. De legibus in part. capp. IV, XIV, XXVI); una religiosità dei luoghi e delle cose che aveva i suoi modelli nel culto di fonti, grotte, alberi, monti. Questo quadro è ben sintetizzato da Claverie (1988, p. 49): Un tempo i contadini vivevano e pensavano in termini di terra e non di società, e quella terra era piena, colma del chiasso dei vivi e del mormorio dei morti, incantata e ingombra di presenze visibili e invisibili. Mai tuttavia, pur essendo prodigiose, quelle presenze furono indefinite o inidentificabili. Esse facevano parte di un sistema di riferimenti che comprendeva tanto un riconoscimento esatto degli esseri meravigliosi quanto i luoghi e le epoche di apparizione privilegiati.

Nel 573, Martino, vescovo metropolita di Braga, in Galizia, scrive il De correctione rusticorum – un’opera rivolta, come recita il titolo, contro quelle “superstizioni pagane” ampiamente diffuse nelle zone rurali della sua diocesi –, proponendo, tra l’altro questi interrogativi: Nam ad petras et ad arbores et ad fontes et per trivia cereolos incendere, quid est aliud nisi cultura diaboli? Divinationes et auguria et dies idolorum observare, quid est aliud nisi cultura

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diaboli? Vulcanalia et Kalendas observare, mensas ornare, et lauros ponere, et pedem observare, et fundere in foco super truncum frugem et vinum, et panem in fontem mittere, quid est aliud nisi cultura diaboli? (16.2).

Quanto Martino osservava in Galizia non era molto diverso da ciò che accadeva altrove. Alle popolazioni rurali nord-europee era fatto divieto di “fare dei sacrifici nei boschetti o sotto particolari alberi, di pronunziare o sciogliere dei voti, di accendere candele o di appendere agli alberi simulacri di arti malati nella speranza di una loro guarigione” come si legge in una lettera di papa Gregorio I alla regina Brunichilda nell’anno 597. Anche i missionari erano impegnati nella lotta contro il culto degli alberi. Sant’Amandus aveva tagliato nel VII sec. un albero sacro nella bassa Franconia, e allo stesso modo avevano fatto san Barbatus con un albero venerato dai lLongobardi e san Bonifacio con un robur Jovis, la quercia di Donar, presso Fritzlar in Assia (Werkmüller 1990, p. 462). Altre significative e più antiche testimonianze sono quelle contenute nel Concilio Cartaginiense del 397 (can. 58, T. II, 1300), e nelle Costituzioni del re Childeberto del 550 (T. VI, 487-488), che attestano la diffusa venerazione di boschetti sacri in cima a colline e rilievi in genere. Nei concili provinciali di Arles (452), di Tours (567), di Nantes (568) si decreta contro l’adorazione di alberi, fonti, pietre. In diversi documenti si trovano riferimenti a cosiddetti alberi sanctivi. Tra questi un Editto del 727 del re longobardo Liutprando che condanna chiunque sia stato trovato ad adorare un albero di tal genere: “Simili modo et qui ad arbore quam rustici sanctivum vocant, atque ad fontanas adoraverit, aut sacrilegium vel incantationis fecerit, similiter medietatem pretii sui componat in sacro palatio” (Liutprandi leges, c. 84, cit. in Grégoire 1990, p. 669). Carlo Magno, che aveva avuto diretta esperienza, durante la campagna militare del 772, della tribù sassone degli angari nei cui santuari si veneravano alberi e pali sacri, nel suo capitolare dell’anno 794, ordina: “de arboribus et lucis de-

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struendis observetur auctoritas” (c. 43). In quella occasione erano stati distrutti numerosi boschi e alberi sacri. Scrive Egilio: “tagliarono i boschi sacri e vi costruirono sante basiliche” (cit. in Schmitt 1979, p. 31). Tra questi, nel 772, ricorda Rodolfo di Fulda nella sua cronaca, “fanum et lucum famosum Irminsul”, un albero che era considerato una “universalis columna quasi sustinens omnia”. Quest’albero non doveva essere dissimile da quello che cresceva presso il tempio di Uppsala, descritto da Adamo di Brema: “prope templus est arbor maxime late ramos extendens, aestate et hyeme semper virens: cuius illa generis sit nemo scit, (...) ibi etiam est fons ubi sacrificia paganorum solent exerceri et homo vivo immergi” (Gesta Hammarbugensis, IV, scolio 134; cfr. Mannhardt 1875, pp. 303 sgg.). La distruzione dei boschi sacri continuò a essere prescritta fino a tutto il secolo XI da concili, sinodi regionali, editti, in particolar modo, in Germania e in Europa settentrionale (Grégoire 1990, pp. 665-666). Philpot (1897, p. 20) in proposito osserva: “The Teutons no doubt brought with them to Britain the religion of the sacred grove, and we find King Edgar condemning the idle rites in connection with the alder and other trees, and Canute fifty years later forbidding the worship entirely”. Una delle notizie più significative in tal senso è contenuta nelle Historiæ, conosciute anche come Cronache dell’anno mille, di Rodolfo il Glabro, monaco benedettino vissuto a cavallo tra X e XI sec. Questi documenta in modo esplicito un’azione volta ad assorbire un culto locale, mantenendo la sacralità del luogo, ma sostituendo l’oggetto del culto:

nuovo altare, il prelato verrà fatto oggetto di un mortale lancio di giavellotti da parte degli abitanti della regione, per nulla sodisfatti di essere stati privati dell’oggetto della loro venerazione. Lo zelante vescovo che finirà i suoi giorni il 23 aprile 997 “ictibus iaculorum ab impiis perfossus” è Adalberto, II vescovo di Praga; i suoi “empi” assassini, gli abitanti della zona baltica di Elbing, nella Prussia orientale: genti germaniche presso le quali il culto degli alberi era aspetto essenziale del patrimonio religioso. Episodi come quello dell’assassinio di Adalberto, risultato dello scontro tra evangelizzatori e popolazioni ancora radicate nelle loro arcaiche credenze, non erano infrequenti. Nel periodo in cui Atala, successore di san Colombano era abate nel monastero di Bobbio, un monaco diede fuoco a un tempio pagano fatto di tronchi sulla riva d’un fiume presso Tortona. I rustici, infuriati, si radunarono, e punirono l’empio prendendolo a bastonate e gettandolo nel fiume (Fumagalli 1994, p. 97). L’operazione condotta dal vescovo di Praga si attiene, in sostanza, alle disposizioni del Concilio Namnetense (890 c.):

Contigit enim ut die quadam, precipiente eodem episcopo, quedam profana arbor, sita iuxta fluvium, cui etiam superstitiose immolabat universum vulgus, videlicet excisa convelleretur. Constructoque ac sacrato in eodem loco altare missarum sollempnia per se episcopus explere paravit (I, 10).

All’inizio del’XI secolo, nel Decretum del vescovo Burcardo di Worms, che si rifà appunto alle decisioni di precedenti concili, leggiamo analoghe disposizioni. Egli richiama “l’attenzione dei vescovi su ‘gli alberi consacrati ai demoni, ai quali il popolo dedica un culto e venera a tal punto da non osare tagliare né fronde né rami’. Ordina di ‘scalzarli dalle radici e di bruciarli’” (P. L., CXL, 835 cit. in Schmitt 1979, p. 31).

Il tentativo di vincere questo culto pagano fallirà sul nascere. Durante la celebrazione della prima messa presso il

Summo decertare debent studio Episcopi, et eorum ministri, ut arbores daemonibus consecratae, quas vulgus colit, et in tanta veneratione habet ut nec ramum nec surculum inde audeat amputare, radicitus excidantur, atque comburantur. Lapides quoque in ruinosis locis et silvestribus, daemonum ludificationibus decepti venerantur, ubi et vota vovent et deferunt, funditus effodiantur, atque in tali loci proiciantur, ubi numquam a cultoribus suis inveniri possint (Concilio Namnetense, can. 20, T. XI, 663/664, cit. in Corrain, Zampini 1964).

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Anche l’agiografia dell’Alto Medioevo fornisce numerose testimonianze sugli “alberi sacri”, distrutti con fanatico zelo da missionari e da vescovi. Audoeno di Rouen ricorda nella Vita S. Eligii: Nam illud quale est, quod si arbores illae, ubi miseri homines vota reddunt, ceciderint, nec ex eis ligna ad focum sibi deferunt? Et videte quanta stultitia est hominum, si arbori insensibili et mortuae honorem impendunt, et Dei omnipotentis praecepta contemnunt (XV, P. L., 87, 8, 529).

Il vescovo ammonisce altrove che nessuno osi fare voti o accendere fuochi ad alberi, pietre, fonti ecc.: “Nullus christianorum ad fana vel ad petras, vel ad fontes, vel ad arbores, aut ad cellas, vel per trivia, luminaria faciat, aut vota reddere praesumat” (II, P. L., 87, 16, 479-594). Cesario d’Arles richiamava i fedeli a una osservazione più profonda della fede con queste parole: Et ideo quicumque in agro suo, aut in villa, aut iuxta villam aliquas arbores, aut aras, vel quaelibet vana habuerit, ubi miseris homines solent aliqua vota reddere; si eas non destruxerit atque succiderit, in illis sacrilegiis quae ibi facta fuerint, sine dubio particeps erit (...).

E più avanti riferiva del comportamento ribelle di chi vedeva minacciato il proprio universo cultuale, con parole che rimandano al martirio del vescovo Adalberto: “Et si aliquis Deum cogitans aut arbores fanaticos incendere aut aras diabolicas voluerit dissipare atque destruere, irascuntur et insaniunt, et furore nimio succenduntur” (Sermo LIII, 1-2). Se alcuni prelati si lamentavano nelle prediche contro coloro “qui élevaient sur les racines des sortes d’autels apportaient aux arbres des offrandes et les suppliaient avec des lamentations de conserver leurs enfants, leurs maisons, leurs champs, leurs familles et leurs biens” (Du Change, cit. in De Gubernatis 1878-82, I, p. 274), altri, se è vera la storia di san Germano, non dovevano poi essere così saldi nella fede. Si racconta infatti che il santo, nato ad Auxerre e recatosi a Ro-

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ma a studiare, era entrato nei favori dell’imperatore Onorio che lo aveva nominato governatore di Borgogna. La capitale della regione era la città natale di Germano. Al centro di questa si elevava un grande pino ai cui rami Germano usava appendere le teste degli animali da lui uccisi nelle battute di caccia. Questa sua abitudine poco ortodossa gli era spesso rimproverata dal vescovo Amatore che, esasperato, un giorno si decise a fare abbattere “l’albero sacrilego, ceppo compreso, e, affinché gli increduli non ne conservassero ricordo alcuno, li fece immediatamente bruciare” (Lecoy de la Marche, Anecdotes historiques, cit. in Schmitt 1979, p. 30). Germano, e con lui la sua scorta, si recarono dal vescovo minacciandolo di morte. Il vescovo però riuscì a riportare Germano alla ragione e a una fede più “limpida”, promettendogli, come poi accadde, che egli sarebbe stato suo successore.

La Chanson de Roland Nell’anno Mille dunque l’Europa è ancora percorsa da credenze e rituali che, pur variamente ritradotti nella nuova lingua cristiana, mostrano le proprie profonde radici. Miti e simboli antichi pervadono più o meno consapevolmente l’immaginario di tutta la società confondendosi, a tratti camuffandosi, con un complesso apparato di figure, icone, exempla, di matrice vetero e neo testamentaria, patristica e agiografica. Questo intrico simbolico è presente nella Chanson de Roland. Un luogo letterario, come si vedrà, dove ricorrono elementi mitici che piuttosto che semplici clichés sono da considerarsi elementi che “funcionan dentro una sintaxis choerente” che non consente di parlare di “fósiles del mito”, quanto piuttosto di “mito o mitos escrupolosamente estructurados”. In altre parole la Chanson, al di là e al di sotto della superficie della vicenda narrata si costituisce come “un auténtico relato mitico en el que las unidades se estructuran funcionalmente” (Ruiz Capellán, Aramburu Riera 1986-87, pp. 6-7).

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La Chanson, databile al 1070 ca., è il componimento epico-romanzo di maggior rilievo. Se ne posseggono numerose versioni delle quali la più nota è certamente quella anglo-normanna di Oxford, XII sec., che conta circa quattromila versi. Nel testo si colgono interessanti riscontri riguardo ai significati che assumono alcuni elementi del paesaggio, in particolare gli alberi. Segnatamente non pare casuale la presenza in più luoghi di elementi vegetali come complemento di specifiche figure e situazioni. L’albero (e ciò vale anche per altri elementi) è nel poema, referente topografico, luogo di adunanze, asse di riferimento e distribuzione dello spazio, ma è anche manifestamente strumento di passaggio e di comunicazione con la dimensione divina. L’albero-axis mundi, tramite attraverso il quale discende il dono divino della regalità tra gli uomini, diviene esso stesso sua rappresentazione simbolica. È simbolo di ciò che viene trasmesso, di chi lo trasmette e di chi lo riceve. In altre parole se la regalità è dono divino, essa discende al mondo attraverso un asse, mezzo di comunicazione fra trascendenza e immanenza, fra uomo e Dio, e questo viene a costituirsi come suo simbolo (cfr. Benveniste 1969, II, cap. I). L’importanza assunta nel poema dagli elementi vegetali è già stata rilevata da Curtius (1948). Questi osservava che

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do (cfr. vv. 2357 e 2375). Si è anche avanzata l’ipotesi, non priva di fondatezza nonostante qualche difficoltà, che il pino, in quanto rappresentante tipico della natura nordica, possa qualificarsi emblematicamente, nel corso dell’intero poema, come l’albero dei cristiani, in contrapposizione al meridionale ulivo, albero dei saraceni. Tale ipotesi estrema (...) può anche rivestire una forma meno radicale (il pino e l’ulivo contrassegnerebbero allora rispettivamente Carlo e Marsilio, o il luogo di adunanza dei cristiani e dei saraceni intorno a Carlo e Marsilio) (Bensi 1985, p. 101).

Curtius si limita però a sottolinarne la rilevanza come elemento dello scenario epico senza cercare di approfondirne il significato simbolico. Anche Bensi conduce analoghe osservazioni. Alla nota al v. 168 (Li empereres s’en vait desuz un pin) rileva:

Anche in questo caso ci si limita a notare la rilevanza di certi elementi senza proporre adeguate spiegazioni, in realtà facilmente rievabili allargando l’orizzonte al mondo della religiosità e del simbolismo (cfr. Ruiz Capellán, Aramburu Riera 1986-87, p. 18). Che l’albero sia in diversi contesti rappresentazione della divinità, del cosmo, e che alla figura degli dei spesso si associ quella di un vegetale è stato già rilevato. Una testimonianza assai significativa anche per la sua provenienza, è data da un poemetto anglosassone del VII sec. attribuito a Cynewulf, Il sogno della Croce. Già dai primissimi versi la croce, di per sé simbolo divino, è presentata come un albero, un “albero meraviglioso che si erge nell’aria, ammantato di luce, il più splendente dei tronchi” (vv. 4-6), “Albero della Vittoria” (v. 13), “Albero della Gloria, adorno di panni, che rifulge giocondamente ornato di oro (...) Albero della foresta” (vv. 14-17; trad. Ricci 1926). Il poema sembra rispecchiare i travagliati rapporti tra cristianesimo e paganesimo nel mondo anglosassone, caratterizzati da una certa disponibilità delle chiese locali ad assimilare elementi “barbarici”. Non sorprende quindi incontrare tracce di culti precristiani in un testo di un’epoca in cui il cristianesimo si era già affermato. Non diversamente avveniva tra le popolazioni sassoni della terraferma. Si pensi all’Heliand (sec. IX), poema didascalico di circa 6.000 versi, dove la vita di Cristo è interpretata secondo la concezione guerriera delle società germaniche. Il Cristo viene presentato

All’ombra di un pino si situeranno altri momenti decisivi della Canzone: il tradimento di Gano (cfr. v. 500), la morte di Orlan-

come un potente re nazionale circondato dai suoi gregari, da eroi che gli sono fedeli fino alla morte, ma anche come il figlio del-

Nella Canzone di Orlando è solito che si incontrino alberi e colline nelle scene di battaglia e morte; un consiglio militare ha luogo “presso un alloro, che si trova a metà di un campo” (v. 2651). Codesto stesso alloro lo troviamo in un colle che si innalza nell’accampamento descritto da Gautier de Châtillon (Alexandreis, II, 308) (p. 224).

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la pace di Dio. Lo stesso ambiente dei Vangeli viene germanizzato: le città si trasformano in castelli (perché i sassoni non conoscevano ancora le città), i pastori in scudieri, le nozze di Cana in un festino tedesco dove si beve birra ecc. (Bertholet 1964, p. 207).

D’altro canto osserva Mittner (1977, pp. 112-113): Cristo e gli apostoli non potevano essere propriamente epicizzati; Cristo è eroico non nell’agire ma nel patire. Che un re si lasci legare senza opporre resistenza, era inconcepibile per un sassone del secolo IX; tanto maggior rilievo ha la scena in cui Pietro non solo mozza l’orecchio a Malco, ma lo colpisce anche alla guancia aprendovi una ferita mortale; o la scena in cui Tommaso si dice pronto a morire per il suo maestro, perché aspira al premio paganissimo della “gloria presso i posteri.

Nel Sogno di Cynewulf la croce-albero parla, racconta la sua storia e le eroiche sofferenze patite insieme al Crocifisso. È essa stessa il Signore: “Ma io giacendo colà per lungo tempo con l’animo turbato contemplai l’Albero del Signore finché non udii che esso parlava; il migliore dei legni cominciò a profferir parole” (vv. 25-26), “mi trafissero con neri chiodi; su di me si vedono le cicatrici” (v. 46). Addirittura il Cristo-re, come l’antico sciamano, “ascende” l’albero-croce: “Io vidi il Re degli uomini affrettarsi con grande coraggio, ché egli voleva ascendermi” (vv. 33-34). Cristo è un eroe sprezzante del pericolo e del dolore: “Il giovane eroe allora si spogliò – quello era dio onnipotente – forte e risoluto; egli salì sulla croce coraggioso, alla vista di molti, quando volle redimere l’umanità” (vv. 39-41; trad. Ricci 1926). Nell’Elena altro componimento attribuito a Cynewulf, ricompare l’immagine dell’albero-croce: la croce che Costantino fa recare innanzi dalle sue truppe è “l’albero santo” (II, v. 107), “l’albero glorioso” (XV, v. 125), “il suo santo albero a forma di croce” (II, v. 137). Interessa qui evidenziare la facilità nell’assimilare la croce all’albero, suggerita anche dalla traduzione di xulon in lignum nella vulgata neotestamentaria, e il loro costituirsi a rappresentazioni stesse di Dio.

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Vi è una profonda identità, radicata nel passato celto-germanico, tra albero e divinità. L’albero è una metafora possibile, condivisa, appartenente alla coscienza di tutti. Nel poemetto il Signore è nominato spesso con il titolo di Re. Ecco comparire insieme, l’albero-croce, il Cristo-Re. Le immagini pagane della tradizione riemergono, cariche di nuovo significato, nell’immaginario del poeta.

Desuz un pin Leggiamo nella Chanson: “Desuz un pin, delez un eglenter, / Un faldestoed i out, fait tut d’or mer: / La siet li reis ki dulce France tient” (vv. 114-116). E più avanti “Li empereres s’en vait desuz un pin; / Ses baruns mandet pur sun cunseill fenir” (vv. 169-170). In questi versi, il re Carlo è presentato assiso sul trono sotto di un pino, il perché è ormai chiaro. Sono le stesse ragioni per le quali il manto del sacro romano imperatore mostrava un albero della vita fiancheggiato da due felini e il trono del patriarca di Venezia, il trono di san Marco, recava scolpito l’albero della vita (cfr. Cook 1974, p. 57). Carlo è re per volere di Dio e il suo potere discende dall’alto. Come s’è già visto gli alberi nel Medioevo sono anche i luoghi del “giudizio” sotto i quali si riunivano le assemblee presiedute dal principe. Essi sono sicuro indice di conventus, il luogo dove gli uomini “si radunavano a trattare i loro affari e a sanzionare con l’autorità della pianta sacra i loro patti”. A questa categoria apparteneva certo il Robur Berengerii, “rovere di Berengario”, “ricordato in diversi documenti modenesi dei secoli XI-XII, della corte di Baggiovara, in cui è possibile vedere anche un valore magico, connesso all’intuizione di potenza regia, dato che il nome proprio va probabilmente ascritto a uno dei due re italici” (Violi 1959, p. 118). Nota Werkmüller (1990, pp. 471-472) in proposito che per “luogo di giudizio” va inteso il luogo dove siede la Corte o il Consiglio, non quello “dove viene eseguita la sentenza” e ancora, riferendosi al territorio dell’Europa occidentale osserva:

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specialmente nei villaggi questi antichi luoghi di giudizio sono ancora oggi il centro del paese, spesso vicinissimi alla chiesa e al cimitero. Gli alberi, solitamente piantati isolati o in gruppi per proteggere l’assemblea, sono in ordine di frequenza: tigli, abeti, olmi, querce, frassini.

In Francia è l’olmo ad assolvere più di frequente a questo compito. L’olmo era detto “albero di giustizia”. Nella Francia meridionale, alla sua ombra “si riteneva che le sentenze giudiziarie fossero ispirate dalla divinità. L’olmo era piantato sul poggio del castello. Il signore o i giudici da lui incaricati amministravano la giustizia alla sua ombra. “Giudici di sotto l’olmo” erano detti i magistrati di villaggio che non avevano tribunale e sedevano sotto l’olmo di fronte alla porta del castello” (Brosse 1989, p. 162). Anche nella Penisola Iberica, precisamente in area basca, si rilevano alberi dal significato politico-religioso: Como es sabido, las juntas generales del Señorío se celebraban a la sombra de un árbol, de un roble: el de Guernica. Pero también las del Duranguesado de llevaban a cabo a la sombra de otro: el de Guerediaga. Y, en tercer lugar, ocurría lo mismo con las de las Encartaciones, que tenían lugar bajos la proteccíon del árbol de Abellaneda o Avellaneda. Estos tres no son los únicos robles significativos en el país vasco: porque la junta del valle de Orozco y la de la comunidad de Ustaritz se celebraban de la misma manera, bajo un roble, y aún se pueden recordar otros ejemplos menos conocidos (Caro Baroja 1982, pp. 155-156).

Questi alberi sono il centro della comunità, dove si fa legge e dove giurano i signori del luogo al momento della presa del potere. Pedro López nella sua Crónica de Don Enrique tercero racconta come Enrico III al momento di acquisire la signoria di Vizcaya dovette giurare, dinanzi al popolo, sotto il rovere di Arechabalaga: “que el señor ‘por su cuerpo’ debe ir allí, personalmente, para ser señor reconocido” (p. 158). Ciò perché solo dopo il giuramento “so el árbol” si diviene signori; solo amministrando giustizia “so el árbol”, si è nella legge; solo se convocato e giudicato “so el árbol” un uo-

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mo può essere accusato e condannato o assolto in modo legale (p. 163). Dunque un albero, axis mundi, simbolo della giustizia divina ed epifania stessa del dio, è il luogo intorno al quale si riuniscono in assemblea prima le tribù celto-germaniche e più tardi le comunità cittadine.

La morte di Orlando Altri alberi compariranno nella Chanson, mai casualmente e sempre come marche simboliche alla situazione descritta (ad esempio, v. 103; v. 203; vv. 406/407; v. 500; v. 501; v. 993; v. 2267; v. 2271; v. 2357; v. 2375; v.2571; v. 2651; v. 2705; v. 2883). Essi non assolvono dunque un compito puramente scenografico o riempitivo. Più in generale tutto il paesaggio della Chanson non ha meri intenti esornativi. È un paesaggio, invece, ricco di elementi simbolici – i quali, seppur filtrati dalla tradizione cristiana, lasciano trasparire un retaggio culturale più arcaico – che contribuiscono a determinare “l’atmosfera morale” dellla Chanson (Bensi 1985, p. 61). Che i pini, gli ulivi, le querce che compaiono nella Chanson, concorrano a determinare la sacralità di determinate situazioni (il consiglio regale, il trapasso ecc.), a legittimare l’azione dei protagonisti si evince, d’altronde, anche dall’analisi di altri testi. Nel Voyage de Charlemagne en Orient, breve componimento del XII sec., Carlo conduce la regina sotto un olivo al termine della messa e dà luogo alle sue vanterie che, ricusate, daranno inizio al viaggio e alle avventure del re e dei suoi pari: Un giorno il re Carlo era nella chiesa di S. Denis: / Si era rimessa la corona, si fece il segno della croce, / e ha cinto la spada dal pomo di oro purissimo. / C’erano duchi, signori e cavalieri valorosi. / L’imperatore guarda la regina sua moglie: / era incoronata in maniera splendida. / La condusse per mano sotto un olivo / e le cominciò a dire ad alta voce: / “Signora, vedeste mai alcuno al mondo / cui stesse così bene la spada o la corona in capo? / Colla mia lancia conquisterò ancora delle città!” (vv. 1-11).

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È “Desuz l’umbre d’une ente” (un albero da frutta) che Carlo farà vassallo il re di Costantinopoli Ugo il Forte suo antagonista in questo viaggio immaginario: Allora il re poté ben scendere dalla torre, / e raggiungere Carlomagno all’ombra di un albero da frutta. / “In fede, giusto imperatore, so che Dio vi ama: / voglio diventare tuo vassallo, da te avrò in feudo il mio regno, / ti darò il mio tesoro e lo porterò in Francia” (vv. 794-798; trad. Bonafin 1993).

E, nella Chanson de Guillaume (1140 ca.), il conte Guglielmo accorso in aiuto del nipote Viviano, che con pochi uomini aveva affrontato le numerose schiere degli infedeli, lo trova “sur un estane, / A la fonteine dunt li duit sunt bruiant, / Desuz la foille d’un olivier mult grant, / Ses blanches mains croisies sur le flane, / Plus suef fleereit que nule espece ne piment” (vv. 1988-1992). L’albero è, lo ripetiamo, tramite e rappresentante della regalità e della divinità. In ultima analisi nella Chanson è l’identità Cristo-pino che legittima l’autorità di Carlo come re e campione della fede. Carlo è assistito da Dio stesso che tramite san Gabriele gli invia messaggi e lo sostiene nella lotta. Al di là dell’isomorfismo tra la vicenda del poema e la vita del Cristo, isomorfismo che indubitabilmente guida la successione cronologica degli eventi e concorre a determinarne la sostanza e il valore simbolico dei personaggi e del contesto ambientale in cui operano, nel poema si rivelano in profondità tracce di una visione del mondo anteriore all’evangelizzazione. Certe associazioni di immagini non possono essere cioè né gratuite né casuali. L’episodio della morte di Orlando, in questo senso, suggerisce ulteriori motivi di riflessione. La morte dell’eroe, ha rilevato Pasqualino (1992, pp. 105106), diviene simbolo di tutto un fascio di valori politici, religiosi e militari che nelle versioni più antiche sono legati all’ideologia feudale e a quella della crociata (...). assume un valore mitico di consacrazione ed esaltazione della guerra santa, Roland di-

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viene una immagine di Cristo in armi, il suo sacrificio lo consacra a una gloria superiore a qualunque successo. (...) La gloria è il segno smaterializzato del merito, è propria di Dio, del sovrano, e viene acquistata dal cavaliere, dal vassallo solo in condizioni eccezionali, e cioè morendo in guerra contro gli infedeli. (...), perché si ritiene che il sacrificio degli eroi, equiparati a santi martiri, diviene un tesoro per la comunità dei fedeli, come il sacrificio del Cristo.

In quanto vicenda esemplare, ricapitolazione delle virtù del cristiano votato al martirio, Roland autentico miles Christi “ausiliario della Chiesa, che guadagna la salvezza compiendo nei quadri della morale cristiana i doveri del suo stato” (Duby 1988, p. 26), costituisce uno dei più potenti exempla cui si conformeranno, almeno in via teorica, i cavalieri crociati. La tradizione epica derivata da questo episodio verrà assunta a pertire dall’XI secolo quale “paradigma di martirio per la fede” (Cardini 1987, p. 89. Cfr. Flori 1998, in partic. pp. 221 sgg.). L’esempio cui conformarsi è dunque la vita di Gesù Cristo. Essa offre al guerriero-cavaliere “l’esempio più prestigioso e carico di senso” (Pasqualino 1992, p. 14). Le analogie tra i Vangeli e il poema, d’altronde si lasciano facilmente rilevare: Orlando è il Cristo, Gano il traditore è Giuda. Carlomagno è riferibile a Dio Padre: un Dio Padre che in conseguenza delle sue attitudini guerriere e di quelle di giudice spietato, ricorda il Dio d’Israele, lo Jhavé vetero-testamentario, ma anche alcune divinità guerriere della tradizione “barbarica”. Carlo “nostre emperere magnes”, re dal potere indiscusso, assomma alla funzione regale anche quella paterna. La frequente commozione, l’accorato planctus su Rolando, il desolato ricordo del barnage dotano l’imperatore di una trepida umanità. I sogni premonitori, le visioni angeliche, le richieste divine accordate alzano Carlo su tutti i personaggi conferendogli un’aura sacrale. Intermediario tra cielo e terra, Carlo è il re sacerdote la cui missione è la milizia strenua, incessante contro i nemici della fede (Limentani, Infurna 1994, p. 32).

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Nel già ricordato Voyage de Charlemagne en Orient, l’assimilazione tra il sovrano e Cristo è del tutto manifesta. Carlo con i suoi paladini, vestiti da comuni pellegrini, si trova in Gerusalemme: Entrò in una chiesa a volte di marmo policromo: / All’interno c’è un altare del Santo Paternostro: / Dio vi celebrò la messa e altrettanto fecero gli apostoli: / i dodici seggi vi sono ancora tutti, / il tredicesimo è nel mezzo, dalle commessure perfette. / Quando Carlo vi entrò il cuore gli si riempì di gioia: / come vede il seggio, si dirige da quella parte. / L’imperatore si sedette, si riposò un poco, / i dodici pari sulle altre seggiole, attorno e di lato. / Mai vi si sedette alkcuno prima, né alcuno dopo (vv. 112-122).

Ma l’identificazione tra Carlo e i dodici suoi compagni e Cristo e i dodici apostoli, ancora soltanto suggerita, si palesa del tutto poco più avanti. Un giudeo vede Carlo e i suoi seduti sui sacri seggi e ne corre a riferire al Patriarca, non senza manifestare il desiderio, a seguito di tale intensa visione, di convertirsi immediatamente: Signore, andate in chiesa per preparare i fonti battesimali: / mi farò subito immergere nell’acqua e battezzare. / Dodici conti ho appena visto entrare in quella chiesa, / il tredicesimo con loro, mai ne videsi uno così ben fatto. / È il Signore [ço est meïmes Deus] in persona, a mio parere! / Egli e i dodici apostoli vengono a farvi visita! (vv. 134-140; trad. Bonafin 1993).

Se nella Chanson di Oxford, Carlomagno “è l’esempio sublime di sovrano perfetto, la figura più alta ed eroica, superiore a quella dello stesso Roland”, nei testi epici più recenti “l’immagine della sovranità di Charlemagne ha subito una metamorfosi che deriva dal deterioramento delle ‘qualità tradizionali del suo mito, cioè la sua posizione di souverain feudale, di Eletto da Dio, di re ereditario di tutto l’Occidente’” (Pasqualino 1992, p. 19). Va inoltre rilevato che la tradizione evangelica, sottolineata dal numero eguale dei paladini e degli apostoli, dalla corrispondenza tra

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Gano e Giuda e la conseguente simbologia cristologica vanno considerate soltanto “una delle isotopie del testo” (p. 110), che si affermano nello sviluppo del racconto e soprattutto nella morte dell’eroe. Come riferisce Cardini, infatti, “Si discute da decenni circa l’originalità della Chanson de Roland, il ruolo della poesia epica e il suo rapporto con una precedente tradizione guerriera, che potrebbe appunto risalire alla stessa antichità germanica pagana”. Ciò che pare certo è che gli angeli che scendono verso il conte Rolando e lo scortano in cielo non sono travestimenti delle valchirie: sono proprio angeli cristiani, rivissuti e rivisitati tuttavia in un complesso di valori concettuali e di sensibilità che deve molto alla tradizione guerriera ancestrale, ma molto di più a una ecclesiologia ispirata al Vecchio piuttosto che non al Nuovo Testamento (Cardini 1987, p. 90).

Se tutto questo può giustamente dirsi dell’impianto e dei contenuti del poema, bisogna pur chiedersi se sia stata la Chiesa riformata dell’XI sec. a inventare l’ideale di una cavalleria, fondato sulla difesa dei deboli e l’esaltazione del martirio per la fede, in antitesi all’antica etica guerriera e feudale, basata sul coraggio, sulla fedeltà al signore e sulla coesione professionale e iniziatica del gruppo. Se in passato si è ritenuto che “le chanson de geste dovessero concettualmente e stilisticamente molto alle formule liturgiche e ai testi agiografici” esitando quasi in strumenti di propaganda ecclesiastica, oggi si pensa semmai proprio l’opposto: “cioé che le chansons siano la voce antica, magari riveduta e affinata fra XI e XII secolo (e se si vuole aggiornata a un nuovo sentire possentemente segnato dal leitmotiv dell’eroismo religioso), di una cultura laica largamente autonoma” (ib.). È dunque probabile che siano state le formule liturgiche e la letteratura agiografica ad essersi adeguate ad esse in modo da acquistare, giocando sulla loro popolarità, una più forte capacità di impiantarsi solidamente nelle coscienze e nell’immaginario collettivi. Non tanto quindi cristianizzazione della cultura cavalleresca quanto, se si vuole, mi-

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litarizzazione ed eroicizzazione di alcuni modelli di testimonianza cristiana giudicati particolarmente capaci di far presa, di commuovere, di servire insomma quale strumento di propaganda (pp. 90-91).

In sostanza, il piano ideologico immanente al testo, in particolare per quanto attiene gli aspetti religiosi, traspare come risultato di una commistione fra tradizioni diverse che, in alcuni casi e a prezzo di inevitabili forzature, finiscono con il convergere. Le vicende della Chanson, non estranee a rinvii vetero e neo-testamentarie, sono certamente anche frutto di quella interpretazione tipologica per cui ogni evento storico va proiettato sul piano del disegno provvidenziale configurandosi come l’imitazione o la prefigurazione di altri eventi, di eventi della storia sacra (Auerbach 1967, p. 135; Huizinga 1919, pp. 236-237). Tuttavia, interpretare l’albero sotto il quale si reca a morire Orlando quale simbolo del suo martirio in analogia alla croce del Cristo è interpretazione riduttiva, al pari di quella che vede gli elementi del paesaggio come complemento estetico. Il suo senso più profondo, alla luce di quanto osservato sulla funzione cultuale degli alberi è ancora una volta quello di axis mundi, di canale di comunicazione tra la dimensione terrena e quella divina. Lungo questo asse si muovono l’arcangelo Gabriele e i suoi compagni, i cherubini e san Michele, lungo questo asse l’anima di Orlando può ascendere a Dio. Orlando è disfatto dalle ferite e dallo sforzo compiuto nel suonare l’Olifante e nel vano tentativo di spezzare la sua spada Durendal, la spada piena di reliquie, reliquia essa stessa: “Co sent Rollant que la mort le tresprent, / Devers la teste sur le quer li descent. / Desuz un pin i est alét curant, / Sur l’erbe verte s’i est culchét adenz, / Desuz lui met s’espee e l’Olifan” (vv. 2355-2358); Qui, sotto l’albero “Sun destre guant en ad vers Deu tendut, / Angels del ciel i descendent a lui” (vv. 2373-2374). È naturale, quindi, che il conte si rechi a morire, di corsa, raccogliendo le forze residue, sotto un pino. Lì tende il guanto al Signore perché è lì che il Signore per mezzo dei suoi messi che, come vide Giacobbe si muovono lun-

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go una scala tra cielo e terra, può meglio raccoglierlo, in un luogo dove “Halt sunt li pui e mult sunt halt les arbres” (v. 2271). Non si può, seguendo una facile prospettiva critico-letteraria, assegnare “un altissimo quoziente di casualità a tutti quegli elementi testuali che non si vogliono attribuire (o non si possono) alle intenzioni dell’autore” (Caprettini 1986, p. 122). Tuttavia come nel caso del pino e re Carlo potrebbe restare il dubbio che tali associazioni siano frutto del caso. Altri documenti provano il contrario. Ad esempio gli ultimi versi di quanto ci resta del cantare di Gormond e Isembart, a proposito della morte del prode Isembart, così recitano: “Guarda aval, en un larriz, / e vit un olivier fuilli. / Tant se travaille qu’il i vint; / sor la fresche herbe s’est asis; / contre orient turna sun vis; / a terre vait, culpe bati; / puis se dreca un sul petit / (...)” (vv. 655-661). A questo punto il cantare si interrompe, il resto è andato perduto. Proprio sui versi che con ogni probabilità avrebbero mostrato l’anima del guerriero sollevata al cielo dagli emissari del Signore. Gli alberi dunque luoghi del trapasso o meglio del passaggio, ma anche segni di questo e dunque nella visione cristiana (ma non solo) della rinascita. Una nuova vita nell’aldilà ma anche una vita, seppur in altra forma, qui sulla terra. A questa ideologia si ricollega l’uso di piantare un albero dove è stato seppellito qualcuno: usanza sopravvissuta nei cipressi dei cimiteri. Anche in questo caso non si tratta di un motivo cristiano. Come osserva Schmitt “la crescita dell’albero sopra il cadavere simbolizzerebbe lo sgorgare della vita dalla morte. Perciò il motivo ha potuto essere facilmente cristianizzato: non è raro incontrare, nelle leggende agiografiche dell’alto Medioevo, un albero che cresce sulla tomba di un martire” (1979, p. 85; cfr. Propp 1944, pp. 5 sgg.).

Il pino degli amori A quanto precedentemente osservato va accostata una diversa, eppur convergente e interconnessa, tradizione criti-

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ca che vede nel pino la simbolizzazione dell’amore, in particolare dell’amore passionale. Interconnessa dicevamo. L’essere sempreverde se da un lato rimanda alla potenza vitale e fecondativa divina e regale, dall’altro suggerisce di amori che non potranno mai appassire. “È il topico letterario del pinus semper virens attestato dal Culex: Buphthalmusque virens, et semper florida pinus, e da Columella: semper virens pinus”. La resa amorosa dunque acquista valore di eternità “quando avviene sotto il fogliame perennemente verdeggiante del pino” (Del Monte 1958, pp. 86-87). Ripercorrendo a ritroso la tradizione letteraria dalla novella di Decameron VII.7, ai romanzi tristaniani fino a Ovidio ritroviamo vitale il tema del convegno degli amanti sotto il pino (cfr. Picone 1981; Del Monte 1958). Lo ritroviamo in testi classici, medio-latini, romanzi. In particolare a un certo punto si viene a costituire quale marca inconfondibile di Isotta e Tristano, i “tragici amanti di Cornovaglia” (Picone 1981, p. 84). Il tema del pino infatti caratterizza tutta la tradizione tristaniana francese dal Tristan di Thomas d’Angleterre, alla Folie Tristan oxfordiana, alla Tavola ritonda e ancora compare nel Roman de Tristan di Béroul e nel Tristan russinol. Non è però esclusivo dell’epopea tristaniana. Lo ritroviamo ad esempio in Marcabru e Peire Roger (ib.). Il pino è dunque il simbolo di una carica amorosa capace di infrangere le limitazioni spazio-temporali e di proiettarsi nell’infinito e nell’eterno; il suo rimanere sempreverde allude alla verdor dell’amore che non conosce l’alternarsi delle stagioni e l’avvicendarsi degli anni, e la sua caratteristica corona delimita uno spazio sacro dell’eros [e] di quest’amore-passione, di questa tensione erotica che non può essere esaurita né alterata dalla contingenza, che conduce come sua naturale conclusione alla morte, che è anzi superiore alla morte stessa; di quest’amore Tristano e Isotta sono gli exempla inimitabili, assoluti (ib.).

A questo si riconnette il tema di alberi e piante sorti sulle sepolture degli amanti, il cui intrico dei rispettivi rami ripete l’amplesso di questi (Corso 1951-52, pp. 40-41; Philpot

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1897, pp. 116 sgg.; cfr. Banateanu 1947; Propp 1944, pp. 339). Sulla tomba di Isotta crescerà un cespo di rose e su quella di Tristano un ceppo di vigna a segnalare una vita che continua e un amore che si eterna. Secondo un’altra versione dalla tomba di Tristano germoglia un “rovo verde e fronzuto, dai forti rami, dai fiori odoranti” che si insinua nella cappella dove è custodito il corpo di Isotta. Ma questo amore assoluto e passionale, seppur fuori del talamo nuziale, questo amore intenso e fedele, in ultima analisi esiziale per gli amanti è lo stesso sentimento che anima i santi martiri come anima Carlo e i suoi paladini. Il pino si costituisce dunque come marca di una fedeltà assoluta e irrinunciabile che trascende spazio e tempo, uomini e dei. Il simbolo dell’albero all’interno della Chanson è dunque connesso a una visione del mondo radicata in forme di religiosità precristiana. Questa visione del mondo non può valere naturalmente solo per l’autore del poema, ma anche per il pubblico che lo fruisce. Anche questo giustifica la fortuna goduta dal poema e dalla sua simbologia che in quanto insieme di motivi ha trovato nella successiva tradizione letteraria (cfr. Caprettini 1986, p. 122). Viene da chiedersi se l’autore/gli autori della Chanson sia consapevole e partecipi intimamente del ventaglio simbolico arcaico o se riprenda inconsapevolmente dei motivi topici dalla tradizione, così come fino a che punto i fruitori potessero apprezzare i riferimenti all’antico universo mitico-rituale. Lo stile formulare, cioè il ricorso a sintagmi cristallizzati e a repertori di formule riempitive serve certo ai compositori e ai cantori o recitatori dei testi orali per integrare, improvvisando, i vuoti della memorizzazione o della composizione. Esso però non ha nulla a che fare col sistema della ripetizione/variazione, presente del resto in tutta la letteratura, anzi l’arte, medievale (Segre 1985, p. 17).

In ogni caso alcune immagini “formulari”, seppur “prive di originalità e novità, devono esser riconosciute, appunto per

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ciò, come fide rappresentanti di una vecchia tradizione” (Rajna 1884, p. 246). Le tradizioni, considerando i due ordini strutturali che presiedono all’organizzazione di ogni testo, quello interno, reso operante dalla volontà di costruzione dell’autore e quello esterno in cui si misurano le azioni del tempo (...), agiscono soprattutto nel secondo ordine, quello esterno, configurandosi come la “riserva strutturale (Lotman) di un sistema culturale, ma sono attivamente presenti, quando pure sono stravolte o messe in discussione, anche all’interno di ogni testo e di ogni comportamento, solo che si consideri che le unità di contenuto che li compongono, e i diversi assetti di organizzazione logica delle parti, sono agganciati sotto forma di nuclei tematici e di moduli sintattici ai quadri formali propri della tradizione (Caprettini 1992a, pp. 18-19).

La presenza dell’albero non è dunque casuale, ma è una scelta, non necessariamente consapevole, del tutto coerente col contenuto del racconto e correlata agli altri simboli del poema, che concorre a determinarne l’ordine e il significato. La qualità di simbolo rivestita dall’albero si avvverte, rispetto ad altre immagini, grazie al fatto che esso differisce sotto il “profilo qualitativo” e dal punto di vista del “rendimento funzionale”. Il simbolo testuale, appare, infatti, tale, in quanto dotato di un certo “alone semantico” che lo rende disponibile a “caricarsi di un potenziale di significazione in coerenza col contenuto del discorso e del racconto” (p. 19). D’altronde la connessione fra tradizioni precristiane e letteratura d’età cristiana non si limita soltanto ai temi e ai motivi. Se la nostra ricerca è stata rivolta a rintracciare il perpetuarsi di determinate ricorrenze simboliche di matrice “pagana” in seno a prodotti letterari d’età cristiana o addirittura d’ambiente ecclesiale (Cynewulf, Heliand), anche un’indagine condotta a livello ideologico condurrebbe ad analoghe considerazioni. In realtà la cultura cristiana “si è appropriata [volente o nolente] di numerose eredità culturali (ebraismo, paganesimo greco-romano, tradizioni autoctone celtiche o germaniche ecc.)” (Schmitt 1988b, p. 59). Accade

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così di dover riscontrare, solo per fare un esempio, evidenti analogie strutturali tra la Chanson des Narbonnais (1210 c.) e la trama dell’episodio del Maha¯bha¯rata, che narra la vicenda di Yayáti (cfr. Grisward 1981). Al di là delle suggestive evidenze che possono emergere da un’analisi comparativa, tra testi così lontani nello spazio e nel tempo, limitatamente al nostro discorso, appare certo che “l’influenza delle strutture mitiche indoeuropee si è dovuta esercitare anche sulla letteratura medievale mediante le sue fonti celtiche e più particolarmente gallesi” (Schmitt 1988b, p. 61). Resta tuttavia, impossibile, e ogni eventuale certezza risulta arbitraria, districare da un gomitolo culturale tanto intricato e ancora in parte inesplorato, un filo unitario e continuo, mediante il quale ripercorrere senza sviare o perdersi in vicoli ciechi la pista storica di ciascun pattern simbolico.

Capitolo terzo Divinare il vento. Emissioni vulcaniche nelle isole Eolie

Da molti anni, ormai, i pescatori siciliani fanno riferimento ai bollettini meteorologici per conoscere l’andamento del tempo. In passato le previsioni atmosferiche erano tratte dalla osservazione dei fenomeni naturali: l’orientamento del volo degli uccelli (gabbiani, rondini, procellarie ecc.), la qualità e quantità dei loro stridii, le fasi lunari e le maree, l’intensità e la direzione del moto ondoso, la conformazione delle nubi, eventi eccezionali come l’apparizione di una stella cadente ecc. erano tutti segni che consentivano di trarre informazioni sull’andamento della pesca e sul “tempo” che avrebbe caratterizzato i giorni immediatamente successivi. Si tratta di conoscenze comuni a tutta la marineria siciliana e più in generale del Mediterraneo (Pitrè 1889, pp. 337 e 41-85; Bravetta 1908, pp. 42-49; AA.VV. 1957; Sébillot 1997, pp. 150-161). Nelle isole Eolie, però, si risentono specificità dovute alla natura vulcanica dell’arcipelago. In particolare due delle isole, Stromboli e Vulcano, le Strongyle e Thérmissa degli antichi, conservano attivi i loro crateri. Appunto la qualità (colore, densità ecc.), la forma e la quantità dei fumi emessi, oltre che la loro direzione, l’intensità e la cadenza dei boati e la luminosità delle fiammate servivano a prevedere il futuro andamento dei venti e più in generale la complessiva situazione atmosferica. Il fatto che tra i pescatori dell’arcipelago sia diffuso il proverbio Strummuli non fa marinaru (“Stromboli non fa marinaio”), segnala implicitamente la diffusa esistenza di certe opinioni e, nel caso specifico, l’abitudine di osservare il cono vulcanico dello Stromboli per trarre indicazioni sui venti.

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Nel corso di una recente ricerca alle Eolie, in particolare a Lipari, è stato possibile raccogliere diverse attestazioni sul permanere di tale patrimonio di credenze. Se alcuni pescatori hanno tenuto a precisare che il fumo viene osservato solo per rilevare la direzione del vento, altri hanno confermato di essersi serviti in passato, e in alcuni casi di servirsi ancora oggi, dell’osservazione del comportamento dei vulcani eoliani ma anche dell’Etna per trarre indicazione sui venti e sul tempo dei giorni successivi. Cito brevemente dalle interviste fatte ad alcuni pescatori: Noi lo guardiamo [il fumo che esce dal cratere di Vulcano] quando andiamo a pescare. Certe volte ce n’accorgiamo pure dalle nuvole. Quando fa l’occhi di ventu, già noi sappiamo che fra due tre giorni c’è cattivo tempo, oppure ce n’accorgiamo [del tempo che farà] quando Stromboli manda i “tappi di fuoco” (emissioni di materiale lapideo accompagnate da una fiammata e da un boato). Allora diciamo: Quando Stromboli fa fanali o è sciroccu o è maestrali… (“Quando Stromboli fa la luce di un fanale sta per arrivare lo scirocco o il maestrale”).

Similmente un secondo pescatore: Guardando il fumo uno se ne accorge di dove spira il vento, se il fumo va verso est vuol dire che è ponente, allora dietro l’isola c’è vento, c’è mare. Se devo andare a pescare dietro l’isola guardo il Vulcano, dico: no, c’è vento, non ci posso andare. Se il fumo del Vulcano è piegato vuol dire che c’è vento… Poi c’è il famoso detto Quannu Strommuli fa fanali, o è sciroccu o è maestrali. Sicuro questo: si vedono i bagliori del vulcano, l’aria è nitida, vuol dire che deve fare o scirocco o maestrale. I miei nonni anticamente si basavano sul fumo, con le nuvole anche.

Un altro ancora: Su qualsiasi cosa che poteva essere un qualcosa di naturale, si ci basava per prevedere il tempo. Lipari si basava molto su Vulcano, altri su Stromboli. Quelli di Stromboli, si basano sul loro vulcano; quando è un po’ rumoroso dicono: ma chi è mal-

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tempo in arrivo? Per esempio, mi ricordo una persona anziana, una ventina d’anni fa a Stromboli. Le ho detto: ma perché ci sono questi rumori? Cioè questi boati e scuotimenti del vulcano. Perché c’è maltempo in arrivo, dice; e poi dopo due giorni c’era la pioggia. Noi lo scirocco lo avvertiamo pure con la puzza di Vulcano, la puzza di Vulcano viene quando è proprio mezzogiorno. È sicuro che si basavano su queste cose, come no!

Questa è una significativa parte di quanto mi hanno riferito i pescatori. Numerose attestazioni bibliografiche consentono di stabilire che la credenza nella relazione tra emissioni vulcaniche e comportamento dei venti si fonda su una tradizione plurisecolare, con radici nel mito di Eolo, l’omerico re dei venti la cui dimora fu individuata nell’arcipelago. Le Eolie sono d’altronde un luogo particolarmente adatto a essere percepito in termini mitici per via della loro stessa natura. Il vulcanesimo delle isole, caratterizzato da violenti boati accompagnati da emissioni di materiali, fiumi di lave, getti di vapore e quant’altro, non poteva, in antico, che essere vissuto in una dimensione cratofanica e ierofanica. Timore e curiosità, i sentimenti che si nutrivano per queste isole suggestive e misteriose. I fenomeni vulcanici, dagli esiti non di rado disastrosi, nei tempi arcaici finivano col trovare nel mito spiegazione e giustificazione (Cicirelli 1994, pp. 495 e 498; Giustolisi 1995, pp. 22 sgg.). Divinità del fuoco e dei venti, stante anche la natura particolarmente ventosa dell’arcipelago (Reclus 1904, p. 670), qui trovavano la loro ovvia collocazione. Due miti in particolare si rincorrono tra le lave delle Lipari, quello di Eolo re dei venti e quello di Efesto-Vulcano dio del fuoco, come si evince dagli stessi antichi nomi assegnati all’arcipelago: Tucidide le chiama “Isole di Eolo” (III, 88); Diodoro indistintamente “Isole di Eolo” ed “Eolidi” (V, 6); Strabone ricorda il toponimo “Isole di Eolo” ma preferisce quello di “Isole dei Liparesi” (VI, 10); Solino le chiama “Efestie” e “Vulcanie” (Collectanea rerum memorabi-

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lium, XII, 6); Plinio nella sua Naturalis Historia ne ricorda i numerosi nomi: “A nord della Sicilia, in direzione del corso del Metauro, a 25 miglia circa dall’Italia, si trovano le sette isole chiamate Eolie o dei Liparesi, Efestiadi dai Greci, dai Latini Vulcanie o Eolie, ché ai tempi della guerra di Troia vi regnò Eolo” (III, 92) (cfr. Libertini 1921). È su Eolo, in particolare, che va concentrata l’attenzione per risalire alle radici delle attuali credenze nella possibilità di dedurre l’andamento dei venti attraverso i presagi offerti dalle emissioni vulcaniche. Eolo è una figura oscura la cui notorietà è principalmente dovuta all’Odissea attraverso il racconto che Ulisse fa delle sue peregrinazioni: E arrivammo all’isola Eolia: vi abitava / Eolo Ippotade caro agli dei immortali, / su un’isola galleggiante; un muro di bronzo infrangibile / la cinge tutta, s’eleva liscia la roccia. / Sono nati da lui nelle case dodici figli, / sei figlie e sei figli fiorenti: / ed egli ha dato in moglie ai figli le figlie (X, 1-7).

Il pio Eolo donerà a Ulisse un otre “scuoiato da un bue di nove anni”, costringendovi dentro “le rotte dei venti ululanti”. Questo prezioso dono avrebbe dovuto permettere a Ulisse di giungere, sospinto da un vento favorevole, alla sospirata Itaca. E così sarebbe stato se alcuni improvvidi e curiosi marinai, pensando che l’otre nascondesse oro e argento donati dal re, non lo avessero aperto. Le coste di Itaca che già si intravedevano scompaiono in mezzo all’uragano. Ulisse e i compagni vengono sospinti “lontano dalla terra dei padri”. La tempesta lo riporta nuovamente all’isola Eolia. Eolo, questa volta, lo caccia, poiché non è suo costume “ospitare e scortare un uomo che è in odio agli dei beati” (X, 13-75). Resta ambigua nel racconto omerico l’identità che caratterizza l’ospite di Ulisse, Aíolos Ippotádes. Eolo figlio di Ippote, guardiano e distributore dei venti, appare come un personaggio non ben definito che frequenta i mari d’Occidente. A stare all’Odissea, non ha espliciti caratteri divini. È

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solo un uomo “caro ai numi immortali” (X, 2) incaricato di custodire e amministrare i venti, “perché signore dei venti lo fece il Cronide” (X, 21); tuttavia il fatto che i suoi dodici figli, in cui si è voluta vedere la “personnification des douze vents du rhumb” (Daremberg, Saglio 1877: s.v. Æolus), siano tra loro sposati, violando una delle regole fondamentali della società degli uomini, segnala la natura “altra” della sua stirpe. L’episodio omerico è probabilmente la fonte principale cui attingono gli autori successivi che cercano di precisare la figura e la natura della relazione tra Eolo e i venti. Scrive Diodoro: Dicono che egli fosse pio e giusto ed inoltre cortese con gli stranieri; dicono ancora che egli insegnò ai naviganti l’uso delle vele; grazie alla sua lunga osservazione dei presagi offerti dal fuoco [vulcanico], prevedeva i venti locali senza mai sbagliare, per questo il mito lo designò custode dei venti; a causa della sua straordinaria devozione Eolo fu chiamato amico degli dei (Diod. Sic., V, 7).

Polibio riferisce intorno alla relazione che intercorre tra l’andamento dei venti (Noto, Borea, Zefiro) e le emissioni dei crateri dell’isola di Vulcano (fumi, lave, detonazioni); osserva che le genti di Lipari, in base alle indicazioni del vulcano traggono pronostici sull’andamento del tempo dei giorni seguenti e infine conclude che “Omero, facendo di Eolo il governatore dei venti, la qual cosa può sembrare a primo acchito una favola nel senso pieno del termine, non ci ha offerto una puro frutto di fantasia, ma piuttosto la stessa verità rivelata sotto un ingegnoso travestimento” (in Strab. VI, 2, 10). Secondo Servio, che cita Varrone, Eolo predice l’andamento dei venti dall’osservazione dei fumi di Vulcano: “sed, ut Varro dicit, rex fuit insularum [Aeolus]: ex quarum nebulis et fumo Vulcaniae insulae praedicens futura flabra ventorum, ab imperitis visus est ventos sua potestate retinere” (Servio, Ad Æn., I, 52). Altri autori fanno invece riferimento alle emissioni dello Stromboli. Plinio osserva che

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La terza isola, 6 miglia a est di Lipari, è Stromboli, sede della reggia di Eolo; differisce da Lipari solo perché le sue fiamme sono più lucenti. Dal fumo che sprigiona si dice che gli abitanti del luogo prevedano quali venti spireranno nei due giorni successivi: da questo fatto è nata la credenza che i venti obbedissero a Eolo (N. H., III, 94).

Solino (XII, 6, 3) riprende l’opinione di Plinio e del fenomeno parla anche Marziano Cappella, aggiungendo che le facoltà divinatorie degli abitanti delle Lipari sono un’eredità concessa da Eolo. La relazione tra venti e fenomeni vulcanici, che si espone in Eolo, è probabilmente suggerita anche dalla presenza, in alcune delle isole, di violenti getti di vapore, segnalati già da Diodoro: “A Stromboli e sulla Sacra [Hiera, ossia Vulcano] fuoriesce ancora molto gas dalle voragini e con forte boato; sono lanciate fuori pietre roventi in quantità e cenere, fenomeno che è possibile osservare anche sull’Etna” (Diod. Sic., V, 7). Sulle intime relazioni intercorrenti tra fuochi vulcanici e venti si sofferma Strabone: la presenza di venti costretti nel sottosuolo insieme alle lave, considera lo storico greco, può essere causa di enormi catastrofi telluriche; una di queste fu il distacco della Sicilia dal continente. E continua Dicono comunque che ora, dal momento che le bocche attraverso le quali si solleva il fuoco e si sprigionano le masse di fiamme e di acque si sono aperte, la terra vicino allo Stretto va di rado soggetta a terremoti; una volta però, quando tutte le aperture della superficie del suolo erano chiuse, il fuoco e il vento che si trovavano costretti sotto terra producevano scosse violente in modo tale che quei luoghi, continuamente in movimento, cedettero alla forza dei venti e, squarciandosi, aprirono il varco al mare dall’una e dall’altra parte e inoltre anche a quel mare che si trovava frapposto alle altre isole (Strab., VI, 6).

Alle violente emissioni di gas, che paiono dunque segnalare i venti costretti nel sottosuolo, dove “fremono urlando di rabbia”, allude Virgilio nell’Eneide:

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La Dea, volgendo tra sé tali pensieri nel cuore / infiammato di collera, giunse all’isola Eolia / patria dei nembi, terra piena di venti furiosi. / Qui il re Eolo controlla in un’immensa caverna / le sonore tempeste e i venti ribelli / che tiene prigionieri, carichi di catene. / Fremono urlando di rabbia intorno ai chiavistelli / con un alto mugghito che scuote la montagna; / Eolo, in mano lo scettro, seduto in vetta a una rupe / ne mitiga la rabbia e ne modera gli animi. / Se non facesse così i rapidi venti trascinerebbero via perdutamente nell’aria / i mari, le terre e il cielo profondo. / Temendo un tale pericolo, il Padre onnipotente / li chiuse in nere caverne, imponendovi sopra / elevate montagne, e dette loro un re / che, secondo i suoi ordini, sapesse volta a volta / trattenerli o sbrigliarli, con legge sicura (I, 50-64).

L’identità di Eolo è sostanzialmente ambigua anche in Virgilio. È detto rex ventorum (I, 52 e 137); si riferisce che Giove lo aveva fatto “potentem nemborum et tempestatum” (I, 80); è suo dovere, però, eseguire gli ordini degli dèi: “mihi iussa capessere fas est” (I, 77); gli stessi venti da lui scatenati sono ridotti all’impotenza e ricacciati indietro da Nettuno (I, 125 sgg.). Per quanto prossimo agli dei, negli Autori considerati, Eolo non sembra qualificarsi come un dio. Non è un caso, forse, che non sia menzionato da Esiodo, che pure è la fonte di gran parte delle nostre informazioni sulle divinità elleniche. Come la sua natura è incerta, così anche la sua figura è variamente nota. Diversi infatti sono gli Eolo del mito (Lübker 1882, s.v. Æolus; Grimal 1968, s.v. Eolo; Graves 1955, pp. 141 sgg.; Manni 1963, pp. 165 sgg.). Varie e complesse le vicende che li vedono protagonisti. Il lavoro dei mitografi e degli storici (Apollodoro, Strabone, Diodoro Siculo, Igino ecc.) si è adoperato invano alla ricostruzione di una coerente discendenza. Tra gli altri v’è un Eolo in Tessaglia, figlio di Elleno e della ninfa Orseide i cui discendenti furono gli Eoli (Apollodoro, Bibl., I, 7, 3)1. E il custode dei venti che, come osservato da diversi autori, “da principio non aveva alcun vincolo di sangue col capostipite degli Eoli” (Lübker 1882, s.v. Æolus), in seguito venne in vario modo con lui scambiato e

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confuso, così che l’Eolo delle Lipari verrà identificato in numerosi testi con l’Eolo omerico, custode dei venti e “caro ai numi immortali”2. I testi antichi non ne ricordano specifici luoghi di culto. Sappiamo però da Diodoro (XX, 101) che Agatocle nel 304 a.C. impose ai liparesi di “consegnare le cose che erano nel Pritaneo, recanti dediche votive a Eolo e ad Efesto” (Bernabò Brea, Cavalier 1979, p. 82). Questa notizia trova conferma in un deposito sacro portato alla luce nel 1964 sulla rocca di Lipari, contenente vasi ritualmente frammentati ed ex voto databili dalla metà del VI alla fine del V sec. a.C. dedicati al dio dei venti. Si tratta di un grandioso bóthros, probabilmente di un santuario di Eolo, come indicato dalla dedica votiva incisa sulla spalla di una brocchetta, che risulta costruito a guisa di cisterna affusolata e scendente fino alla viva roccia (con altezza di 7 m) nella quale è parzialmente intagliato (1995a, p. 36). Queste evidenze permettono di ipotizzare l’esistenza di un culto indigeno di Eolo ripreso dai coloni greci. In ogni caso questo ritrovamento dimostra inequivocabilmente “che i Greci fin dal momento della rifondazione della città sull’acropoli (580 a.C. ca) riorganizzarono il culto indigeno di Eolo e ne risistemarono il santuario” (1979, p. 91). Questi materiali sollevano ulteriori dubbi sulla natura di Eolo. A ben riflettere, però, si ritrovano interessanti indicazioni sull’identità storico-religiosa di Eolo nelle stesse lingue greca e latina. Il nome Eolo è d’incerta origine. Il greco Aíolos sembra trovare un corrispettivo in ambito miceneo: a-wo-ro aiwolos, ma come nome di un toro. Il toro, è noto, è simbolo di forza violenta. Il toro feroce e indomito che sbuffa e mugghia è il tuono e la tempesta. Aspetto taurino prendono diverse divinità uraniche del mondo antico: Enlil, El, Indra, Urano, lo stesso Zeus. Anche nel patronimico Ippotádes, attribuito a Eolo ritroviamo “le rapport souvent établi entre la rapidité du cheval et le mouvement des vents ou des flots” (Daremberg, Saglio 1877, s.v. Æolus). Ricordiamo, a tale proposito, un Poseidon Híppios, preposto alla protezione dei naviganti rappresentato arma-

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to di tridente in groppa a un cavallo (Zagami 1993, p. 30. Cfr. Grimal 1963, s.v. Poseidone). Inoltre, tutto un insieme di termini presenta delle interessanti analogie morfologiche oltre che semantiche. L’aggettivo greco aiólos cui è comunemente riferito il nome Aíolos, significa “veloce”, “agile”. Agile e veloce è per eccellenza il vento. In questo accostamento soccorrono altre evidenze. Anzitutto nel nome attribuito al vento di sud-est, personificato, E?ros (gr.)-Eurus (lat.), da connettersi allo ionico a˘ra: brezza, vento, moto, e al latino aura: soffio d’aria, venticello, brezza (cfr. anche il lituano òras, “aria”); così anche il termine greco o?ros che sta per “vento favorevole”. O?rios, appellativo di Giove, significa appunto “che dà il vento favorevole”. Può dunque supporsi che Eolo sia la personificazione del vento: una divinità arcaica, di sicuro pre-greca, familiare alle genti che scorrevano il Mediterraneo in epoca preistorica, di cui in età omerica si aveva già vaga notizia insieme a tutta una serie di personaggi e luoghi dei favolosi mari d’Occidente. Probabilmente l’autore dell’Odissea più che rifarsi a un apparato mitico-cultuale, ha “intrecciato nella sua narrazione motivi popolari tratti soprattutto dal mondo dei naviganti” (Heubeck 1983, p. 219) dell’Oriente mediterraneo. Lo suggeriscono l’immagine dell’isola natante e la funzione assegnata a Eolo di guardiano dei venti, analoga a quella dell’incantatore dei venti: motivi assai noti agli scrittori antichi e alla letteratura orale tradizionale3. Della funzione dell’incantatore resta traccia peraltro nei “moderni incantatori di venti di Creta, discendenti dei sedatori di venti corinzi e attici” (p. 220). Le isole Lipari d’altronde, frequentate già in età neolitica grazie al commercio dell’ossidiana, sono scalo delle rotte micenee sulla via dello stagno; e con lo stagno si commerciavano lo zolfo e l’allume di Vulcano4. Questa loro posizione strategica segna la fortuna e la sventura delle antiche popolazioni eoliane di probabile origine siciliana. Occupazioni, distruzioni, rinascite, si susseguiranno nei secoli. In uno stato di profonda decadenza le isole furono trovate dai co-

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loni dorici di Cnido, intorno al 580 a.C. (Tuc., III, 88; Strab., VI, 10). Narrano gli autori che i coloni, guidati da Pentatlo, approdando a Lipari, “trovarono le isole quasi deserte, popolate solo da cinquecento abitanti, che si dicevano discendenti di Eolo” (Bernabò Brea, Cavalier 1979, p. 17). Essi accolsero benevolmente i nuovi arrivati che, stanziatisi nelle isole, fondarono la città di Lipari e diedero nuova vita all’abitato del Castello. Divinità dei venti erano oggetto di culto in età micenea come si evince da alcune tavolette rinvenute a Cnosso nelle quali si menzionano offerte “per la sacerdotessa dei venti” (anemon hiereiai) (Burkert 1977, I, pp. 66-68). “In epoca successiva i venti godono in varie località di forme di culto strettamente parallele a quelle destinate agli eroi e alle potenze ctonie” (Heubeck 1983, p. 219. Cfr. Wilamowitz 1931, pp. 265 sgg.; Hampe 1967). La dimensione sacrale dei venti non è facilmente definibile. Nella stessa Odissea, talora sembrano pure forze della natura gestite genericamente dagli dei ( II, 420 sgg.; V, 291 sgg.), tal’altra appaiono personificati e in quanto divinità minori sono destinatari di sacrifici (XXIII, 193 sgg.). Come esseri antropomorfi si ritrovano nell’Iliade (XVI, 150). Nella Teogonia di Esiodo, quali figli di Eos e Astreo, si definiscono come figurazioni allegoriche di forze della natura e a essi non corrisponde un significativo sviluppo mitico o una rilevante attenzione cultuale (Di Nola, a cura, 1970, III, pp. 555). Qualsivoglia possa essere la loro definizione e dimensione mitica, in tutta la penisola ellenica per essi erano celebrati dei rituali volti a scongiurarli o a propiziarli, sia da parte degli agricoltori che dei marinai. Racconta Pausania che a Metana per proteggere le vigne dal vento sfavorevole si sacrificava un gallo tagliandolo in due parti. Due uomini avanzando da opposte direzioni ne recavano i resti sanguinanti che venivano seppelliti nel luogo del loro incontro (II, 34, 2). A Selinunte Empedocle, col sacrificio di un asino, sembra fosse riuscito nel suo intento di placare il catti-

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vo vento del Nord, catturando con la sua pelle tesa il vento sfavorevole (Burkert 1977, II, pp. 258). Gli ateniesi innalzavano preghiere a Borea, il vento che aveva distrutto la flotta persiana (Erodot., VII, 189). Gli spartani, invece, intonavano peana a Euro, il vento dell’Est, quale “salvatore di Sparta” (Burkert 1977, II, p. 259). Dai venti ci si aspettavano evidentemente degli effetti metereomagici. Non di rado lo scopo della loro evocazione viene precisato e circoscritto localmente: si esorcizza o si invoca un vento specifico, chiamato con un suo proprio nome, che può, in una certa stagione, determinare il tempo e influenzare in modo decisivo le prospettive del raccolto e quindi l’intera vita comunitaria (p. 258).

I venti, temuti o desiderati dagli agricoltori per i loro effetti meteorologici, lo erano altrettanto dai marinai. Un buon vento poteva risparmiare giorni di viaggio, uno cattivo sollevare una tempesta dalle conseguenze disastrose. Numerose dunque le pratiche magiche contro vento e pioggia. I viaggi per mare erano nell’antichità esposti a rischi incalcolabili; mai, se non in guerra, morivano contemporaneamente tanti uomini come quando affondava una nave. Anche gli antichi marinai sono superstiziosi e cercano di assicurarsi la vita con l’aiuto di pratiche magiche. Ma è sempre il ritmo di voto e sacrificio che appare in primo piano. Si sacrifica al momento dell’imbarco e a quello dello sbarco, embatéria e apobatéria, il commerciante pio ha un altare anche sulla nave (pp. 384-385).

Rituali intesi a “sciogliere”, “legare” o “tagliare” i venti si ritrovano d’altronde ampiamente diffusi in aree geografiche assai distanti e lungo un arco di tempo che giunge fino ai nostri giorni. I venti potevano addirittura essere comprati o venduti. La “vendita” del vento consisteva nel consegnare pezzi di corda o di tela su cui erano stati praticati nodi che dovevano essere sciolti con un particolare rituale per provocare il vento. Si sa

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che essa era praticata in Scandinavia, nel Nord della Germania, nel Nord della Scozia e nel Sud dell’Inghilterra (Sébillot 1908, p. 191).

Una leggenda scozzese del XVIII secolo riporta una vicenda e attesta una pratica che ricordano assai da vicino l’episodio omerico dell’otre dei venti: Nel 1738 alcuni marinai, bloccati dall’assenza di vento, si rivolsero a una famosa maga per comprarle il vento; essa consegnò loro una brocca tappata con paglia raccomandando loro di non togliere quel tappo prima di essere arrivati in porto. I marinai levarono la vela, e presto sorse un vento favorevole che li portò rapidamente in vista della località dove intendevano dirigersi, quando un marinaio che era curioso di vedere cosa contenesse la brocca tolse il tappo e lo gettò in mare. Immediatamente scoppiò un terribile uragano (p. 192).

Ma torniamo a Eolo. L’isola natante che Omero gli aveva assegnato quale dimora, pur restando indefinita, venne identificata da autori successivi con una delle Eolie: Lipara, per Strabone e Diodoro, Strongyle, Stromboli, secondo Plinio il Vecchio (Diod. Sic., V, 7; Strab., VI, 10; N. H., III, 9)5. È stata proposta anche l’ipotesi che Lipari stessa debba essere identificata con la terra raffigurata sul lato sinistro del dipinto delle navi rinvenuto ad Akrotiri, nell’isola di Thera, e ora conservato al Museo Nazionale di Atene. I dati topografici (interpretando il dipinto secondo le convenzioni che lo regolano) coincidono singolarmente. Si tratterebbe quindi della figurazione di uno dei punti estremi raggiunti dalla navigazione egea agli albori dell’età protomicenea, rientrante forse in un ciclo di leggende marinare cui il complesso delle pitture di Akrotiri sembrerebbe ispirato (Bernabò Brea, Cavalier 1995a, pp. 23-24).

Lipari, nota ai greci come Lipára o Meligunís (Callimaco, Himn. in Dian., 48; Strab., VI, 10. Cfr. N. H., III, 93), l’isola eoliana più grande e importante dal punto di vista politico, cui una lunga tradizione attribuisce terreno ferti-

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le, clima ideale, mare pescoso (né vanno dimenticate le sorgenti termali che in ogni epoca furono considerate dotate di virtù terapeutiche) è d’altronde, come già ricordato, sede dai tempi più antichi di un insediamento fortificato sulla sua inaccessibile rocca: “il roccione riolitico del Castello a pareti dirupate quasi ovunque inaccessibili e a superficie pianeggiante” costituiva “una vera fortezza naturale” ed era evidentemente questa “la ragione per cui l’uomo l’aveva scelto in tutte le età come sede dei propri abitati” (Bernabò Brea, Cavalier 1979, p. 7). Il fatto pare rispondere al racconto omerico: la reggia di Eolo è circondata da alte rupi e da mura di bronzo: “tutta un muro di bronzo, / indistruttibile, la circondava, nuda s’ergeva la roccia” (Odissea, X, 3-4). I versi omerici, adombrando forse una realtà concreta filtrata dalle bocche dei viaggiatori e sfumata nel mito dalla fantasia del poeta, paiono alludere allo Stromboli, il vulcano tonante, e alla inaccessibile rocca di Lipari; ma tutti gli elementi paesaggistici delle isole come rupi a picco, muraglie rocciose color bronzeo, eruzioni subacquee, boati e getti di vapore “rappresentano richiami geografici significativi per ipotizzare l’individuazione di questa residenza nelle isole Eolie” (Cicirelli 1994, p. 495)6. Così le evidenti testimonianze di regolari contatti con l’Egeo in epoca micenea rendono assai plausibile l’ipotesi che proprio il Castello di Lipari, con le sue altissime balze rocciose verticali, si possa connettere alla leggenda omerica dell’isola di Eolo circondata da un invalicabile muro di bronzo. Quanto gli antichi autori affermano intorno a Eolo e alla sua intimità coi venti, si ritroverà in testi a noi più prossimi nel tempo. Nell’Itinerario da Antibes a Costantinopoli finito di scrivere da Jérome Maurand nel 1572, cronaca del viaggio che egli fece nel 1544 come cappellano dell’ambasciatore francese Antoine Escalin des Aimars, baron de la Garde, al seguito della flotta di Ariadeno Barbarossa, troviamo un cenno alla tradizione che stiamo seguendo: “Srongile sive Stromboli, dove era la casa del ditto Eo-

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lo; al fumo che essie dal ditto Stromboli, li paesani circumvicini cognoscono qualli venti ano da essere infra li tre giorni, et per questo Eolo è da li poeti dito Re de li venti” (Maurand 1995). Nelle parole di Maurand probabili informazioni raccolte sul luogo si mescolano a reminiscenze letterarie. Da queste ultime prende le distanze, invece, Pietro Campis autore di un manoscritto della fine del 1694 dal titolo Disegno Historico o siano l’abbozzate historie della nobile e fidelissima città di Lipari. Vi leggiamo: Fu questo Eolo communemente onorato col titulo di Re de’ venti, non perché egli havesse veramente di quelli il dominio, come pare pretendesse darci ad intendere Virgilio (...). Ma fu detto Eolo Re de’ venti a causa che, per le osservationi da lui fatte al fuoco et al fumo, che usciva dalle tante volte nominata bocca di Vulcano, havendo appreso a conoscere, (...), quali venti doveano spirare doppo due o tre giorni, lo prediceva senza mai errare; il che notato dal volgo, credeva questo che intanto non errasse nelle preditioni, in quanto havesse il dominio de’ venti et a sua voglia li facesse spirare o in mare o in terra (...) (Campis 1980, p. 99).

Già Cluverio nel capitolo XIV della sua Sicilia antiqua, dedicato alle Eolie, nel ripercorrere le antiche fonti aveva messo in relazione i segni del vulcano con l’andamento meteorologico. Nel De rebus siculis, di Fazello, un insigne storico siciliano pressoché coevo a Cluverio, la relazione tra fumi e venti viene invertita: sono i venti che governano il comportamento del vulcano. A proposito dei crateri dell’isola di Vulcano, Fazello osserva infatti che quest’isola ha nel mezzo una grandissima voragine, fuor della quale si vede ancor’oggi uscire una grandissima nube di fumo, e secondo che soffiano i venti o d’euro, o d’africo, qualche volta manda fuori fumo, spesso n’escon faville, ed alle volte vengon fuori fuochi, e pezzi di pomice (Fazello 1817, p. 8).

E più avanti cerca di spiegarne la ragione:

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essendo quest’isole molto cavernose, e piene di zolfo, da quella parte d’onde spira il vento d’euro, e africo, vengono a essere percosse dall’onde del mare, e così percosse generano un vapore, il quale diventato raro per quel moto, si mescola con lo zolfo e s’accende, e finalmente manda fuori la fiamma (pp. 13-14).

Questi documenti più che attestare l’esistenza di una tradizione orale relativa al mito di Eolo e alla possibilità di servirsi dell’osservazione delle emissioni e dei comportamenti dei vulcani per orientarsi sul tempo venturo, si presentano da una parte come documenti di una cristallizzata tradizione letteraria, dall’altra come tentativi di spiegare in termini scientificamente accettabili un fenomeno comunque noto. Scritti d’altro genere, segnalano, tuttavia, l’esistenza di una tradizione orale, di una reale e diffusa pratica di osservazione dei fumi a fini meteorologici in ambito marinaro. Così, ad esempio, scrive a proposito dei Segni che alle volte mostra il fumo dell’Isola di Vulcano il capitano Filippo Geraci nel suo portolano della fine del XVII sec.: Quando il fuoco dell’isola suddetta fuma nebbie grosse bianche dimostra segno di buoni tempi, cioè a segno di grecali e tramontane, e con tali segni l’acque maritime per lo più si vedono basse per tutta la costiera della tramontana. Quando il fuoco comparisce con fumo lento che incline verso ponenti con puoca forza, dimostra di dovere soffiare i venti a segno di levanti bonacci. Quando il fuoco non si fa vedere, ne comparisce con essere l’aere appiscionato, è sottile segno di dover soffiare venti terrazzani a segno di menzo di, e xirocco e di menzodì, e libici. Quando il detto fuoco si vede fumare verso libici, e poscia per breve spazio fumare verso greco, e doppo s’inclina fumando verso altri venti, giocando con fumare or di qua, or di là, segno di dover soffiare i venti a segno di libici, o ponenti. Quando si vede dal detto fuoco buttar in aere nebbie a guisa di palle, segno di dover soffiare venti come sopra (Pedone 1987, p. 163).

Più che frutto di personali osservazioni quanto scrive Geraci è il risultato di notizie raccolte nel corso dei suoi viaggi

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nell’arcipelago. Testimonianza inequivocabile dell’esistenza di una vitale e vissuta tradizione orale sono poi le informazioni che il vulcanologo Spallanzani raccoglie nel 1788 dalla voce degli isolani di Stromboli: Il rimanente della giornata lo impiegai nell’interrogare quegli Isolani su i diversi accidenti del loro Vulcano, (...). Tali adunque sono le notizie che io ne trassi. Spirando tramontana, o maestrale, piccioli e bianchi sono i fumi, e moderatissimi gli strepiti del Vulcano. Questi per l’opposito sono gagliardi, e più frequenti, quegli amplamente più estesi, ed anche neri, o almeno oscuri ove soffii libeccio, scilocco, od austro. (...) Ma i densi, e copiosi fumi, ordinariamente in accordo con le più veementi e più spesse eruzioni, non solo accompagnano austro, scilocco e libeccio, ma di qualche giorno gli antivengono. E però i Terrazzani predicono i tempi al navigare favorevoli o rei. Non di rado, mi dicevano essi, è avvenuto, che qualche bastimento a Stromboli d’inverno ancorato, era sul salpare, perciocché arrideva il mare, ma dissuasine i padroni per l’indicati pronostici, si sono fermati, né l’avventurata predizione è stata fallace (Spallanzani 1792-97, p. 240).

Altre notizie sulla connessione tra andamento dei venti e moti vulcanici, Spallanzani raccoglie a Lipari: Nella guisa che i diversi marinai di Stromboli, innanzi di affidarsi al mare, han per costume di consultare i fumi e le eruzioni della loro ardente montagna, molti marinai di Lipari usano altrettanto relativamente al vicino Vulcano. Che anzi ammaestrati, siccome dicono, da lunga esperienza, avvisano essi pure di poter predire un giorno prima il tempo buono o reo, e la qualità del vento che dee soffiare (pp. 376-377).

Spallanzani ricorda inoltre un “Discorso Fisico-matematico sopra la variazione de’ venti pronosticata 24 ore prima dalle varie e diverse qualità ed effetti de’ fumi di Vulcano, del sig. Don Salvatore Paparcuri messinese”, pubblicato a Palermo nel 1761. Paparcuri riporta “nel suo Discorso uno squarcio di osservazioni comunicategli da un certo don Ignazio Rossi liparese, fatte intorno a Vulcano tra gli anni 1730 e 1740” (p. 377). Scrive il Paparcuri:

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La variazione de’ tempi viene avvisata dal monte Vulcano 24 ore prima con un certo rimbombo oltre al solito, che fa come lo scoppio de’ tuoni a noi lontani; e se con diligenza si osserva quel fumo che allora più del solito tramanda, si conoscerà ancora la qualità del vento che dovrà seguire, secondo la maggior o minor densità di quello, o dal colore più o meno oscuro che nasce dalla quantità e qualità di polvere che nel fumo rimbalza, essendo qualche volta cenericcia, qualche volta tutta bianca, qualche volta tutta nera, e qualche volta più oscura del colore che noi chiamiamo cenericcio. Io intorno a ciò ho osservato che dovendosi cambiare il vento in scirocco, o scirocco e levante, o scirocco e mezzodì, il fumo sale alto così denso e nero, ed in tanta quantità ed altezza, e si discioglie poi in polvere così nera, che ci mette spavento, e fa degli urli assai grandi, che spesso vi si unisce qualche scossa che ci fa temere daddovero, tuttoché avvezzi a’ suoi strepiti. Quando poi mutar si deve il vento in tramontana, o greco e tramontana, o tramontana e maestro, allora il fumo che va in alto, placidamente si va ergendo, è men denso, d’un colore totalmente bianco, e sciogliendosi il fumo, la polvere che ci cade addosso è bianchissima: né urli cotanto strepitosi ci fa sentire, né mai in tal caso ho intesa alcuna scossa, né mai i più antichi di quest’Isola se ne ricordano. Quando però cambiar devesi in levante, o greco e levante, allora si sente strepito nel profondo del Monte, donde mandasi poco fumo, ma di color cenericcio, e tale poi è la cenere che cade, dileguandosi quella nebbia; scoppia però interpolatamente con tal vigore, e grido, che spesso con qualche tremuoto ci fa di che paventare. E finalmente predice di dover cambiarsi in ponente, o ponente e libeccio, o ponente e maestro, con elevare alcune quasi montagne di fumo di color cenericcio oscuro, che dà nel color di piombo, ma così spesso, che per lo più dileguandosi fanno una continua pioggia di quella cenere (pp. 377-378).

Spallanzani ravvisa in queste testimonianze evidenti riferimenti al mito classico e a una tradizione antichissima, tramandatisi oralmente, e così osserva: Cotali indovinamenti però, quali che sieno, non sono il frutto delle moderne osservazioni di questi Isolani, ma li troviamo antichissimi; e però è facile, che da’ più rimoti Strombolesi di

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generazione in generazione passati sieno fino ai presenti, ed è egualmente facile, che verranno tramandati ai più tardi nipoti. Eolo stesso, che vogliono che avesse il suo soggiorno a Stromboli, dalla favola viene chiamato Re de’ venti, probabilmente perché dalla diversità dei fumi, e delle eruzioni prediceva il vento che spirare doveva, secondo che pensano alcuni Scrittori (p. 240).

Di estremo interesse, infine, quanto annota l’arciduca Luigi Salvatore d’Austria, per la profonda conoscenza che egli ebbe delle isole. Nel suo monumentale Die Liparischen Inseln, pubblicato a Praga tra il 1893 e il 1896, l’arciduca scrive: Il fumo dello Stromboli, nei giorni di quiete, è talvolta di una lunghezza indescrivibile e si estende, come una striscia sottile, nel blu zaffiro del cielo, in direzione dell’aria che spira. Ho potuto notare il fumo dello Stromboli fin sopra il Faro di Messina. Esso viene considerato dai marinai come auspicio di bel tempo. Quando spirano più venti, la direzione del fumo dello Stromboli indica quello predominante al largo, sul mare aperto. Capita sovente che a Lipari soffi lo Scirocco, mentre lo Stromboli segna leggeri venti da ovest. I boati e il fumo denso dello Stromboli, ulteriore prova della connessione tra l’attività vulcanica e le oscillazioni barometriche, sono ritenuti dai pescatori, segni premonitori di cattivo tempo. Anche l’intensa formazione di fumo sulla Fossa di Vulcano è indice sicuro di imminenti perturbazioni (Luigi Salvatore d’Austria 1893-96, I, p. 4).

La relazione tra fenomeni vulcanici e meteorologici, come si evince dalle pagine di Spallanzani, che tende a confutarla, è stata oggetto di indagini scientifiche (Zagami 1993, pp. 14-15). Seri studiosi quali Abich (1841) e Scrope (1825) sostengono l’esistenza di un nesso tra pressione atmosferica e fenomeni vulcanici. Del parere di Spallanzani sono invece Judd (1881) e de Dolomieu (1783), sebbene quest’ultimo osservi che generalmente l’attività eruttiva dello Stromboli “è maggiore in inverno, quando si avvicinano il mal tempo e le tempeste” (p. 91). Più tardi, a una nuova decisa confutazione di Mercalli (1891), farà seguito un articolo di Bergeat

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(1918) che considera reale una relazione tra eruzioni e condizioni atmosferiche. Il pennacchio di fumo e fiamme dei vulcani eoliani è stato sempre un sicuro punto di riferimento ai naviganti del Tirreno: di notte le lave incandescenti quasi faro naturale, di giorno il biancheggiare del fumo7. Di fronte a tale spettacolo non può meravigliare che il mito di Eolo, esegeta dei fumi vulcanici, riviva nella letteratura di viaggio. In Un tour en Sicile del 1883, il barone Gonzalve de Nervo, si sofferma a discorrere delle isole Eolie e in particolare di Stromboli. Il fumo del vulcano che volteggia sull’isoletta, segnala al navigante la presenza dell’arcipelago: il giorno dopo, prima del levar del sole, il fumo dello Stromboli ci annunciò che avevamo raggiunto le isole Lipari, che sono undici: Alicudi, Filicudi, Dattilo, Salina, Vulcanello, Panarea, Basiluzzo, Lisca Bianca, Lipari, Vulcano e Stromboli. Lipari, la più grande, produce in abbondanza granoturco, fichi, olive e dell’ottimo malvasia; le altre sono poco popolate. Sono tutte distribuite a nord della costa settentrionale della Sicilia. L’isola di Stromboli, sotto la quale navighiamo, è un alto cono nero, dai cui fianchi fuoriesce ininterrottamente una lunga nuvola di fumo biancastro; questo fenomeno, di un vulcano che fuma e brucia di continuo, è ritenuto il solo che esista: si sa infatti che i vulcani, e fra gli altri il Vesuvio e l’Etna, hanno spesso lunghi periodi di inattività. Il cratere rossastro dello Stromboli si apre oggi nella parte rivolta a nord; esso vomita a differenti altezze delle pietre e del fuoco che ricadono sui suoi fianchi: spettacolo che, visto dal mare aperto e nel silenzio della notte, ha qualcosa di solenne che pervade l’anima (de Nervo 1989, pp. 10-11).

Il “solenne” spettacolo di fumo, di pietre scagliate in aria e di fuoco, esercita una forte suggestione in de Nervo che immancabilmente finisce con il ricordare Omero. Al pari del viaggiatore iberico analoghe emozioni e sensazioni avevano riportato e ancora riporteranno dalle loro escursioni alle Eolie, altri celebri visitatori (cfr. Cavallaro, Cincotta

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1991). La mitica relazione tra vulcani e venti, tra aria, acqua e fuoco, come s’è visto dalle testimonianze raccolte presso i pescatori eoliani, attraversa dunque i millenni. Come per l’ardito marinaio greco le isole dell’arcipelago rappresentavano a un tempo concrete realtà geografiche, essenziali al suo navigare e immaginifiche sedi popolate di figure mitiche, non diversamente, ancora oggi, in chi vive o scrive intorno alle Eolie si avverte il riemergere insistente di un sostrato simbolico che finisce con il convertire un passato antico in un eterno presente.

1 Questo Eolo ad esempio è confuso da Igino nelle Fabulæ con l’Eolo omerico: Æolum Hellenis filium, cui ad Iove ventorum potestas fuit tradita (125, 6). Per Elleno e i suoi figli: Strab., VIII, 7, 1; Paus., VII, 1, 2; Conone, Narrat., 27; Diod. Sic., IV, 67, 2-7. 2 Un’altra questione è quella relativa all’identificazione nell’arcipelago dell’Eolia omerica. Zagami (1993, p. 31) osserva che “A localizzare la vagante Eolia nel Tirreno, contribuì molto la identificazione dello Stretto di Messina con Scilla e Cariddi, per cui le Lipari, che venivano considerate talvolta come scogli, talvolta come isole, si prestarono notevolmente, dato il loro paesaggio, ad essere identificate con la descrizione omerica”. 3 Sulle isole mobili e più in generale sulle isole fantastiche e misteriose: Arioli 1989, pp. 122 sgg.; Bravetta 1908, pp. 67-74; vale a tale proposito ricordare le “rupi erranti” delle Sirene (Od., XII, 55-65). Sull’influenza dei racconti di viaggio sull’Odissea, cfr. Kirk 1974, pp. 173-175; in particolare sulla natura leggendaria dell’episodio omerico, cfr. Strömberg 1950. 4 Gli intensi rapporti tra Eolie e mondo egeo sono attestati dal rinvenimento, sulla rocca di Lipari, di numerosissimi frammenti di ceramica micenea, riferibili in particolare all’età del Milazzese (XVI sec. a.C.) ma anche all’Ausonio I e II, età in cui i rapporti col mondo egeo, sebbene meno intensi, erano comunque attivi. 5 “Il riferimento omerico all’isola vagante può avere un supporto valido per le Eolie, in quanto anticamente si riteneva che tali isole in una prima fase fossero soggette a spostamenti sulla superficie del mare e solo in una seconda fase si fossero fermate a stabilizzarsi in un’area ben precisa” (Cicirelli 1994, p. 495). 6 Ricercare veri e propri rinvii di carattere geografico nel poema omerico è tuttavia un’operazione rischiosa. In realtà il testo si presta a numerose e fantasiose rivisitazioni a carattere geografico. Quale curiosità vanno qui ricordate le deduzioni dell’avvocato Gaetano Baglio, che nell’isola Eolia vede la Marettimo delle Egadi (Baglio 1957, pp. 48-49). Giustolisi, sulla scorta di Hennig (1934) è propenso invece a individuare la residenza di Eolo sull’isola di Vulcano.

DIVINARE IL VENTO. EMISSIONI VULCANICHE...

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7 Vale a questo proposito citare Fazello che del cratere dello Stromboli dice: “Dove c’è il cratere, emette di notte e di giorno fiamme, fuoco, pietre e pomici, con fremiti. Il suo fuoco aiuta i naviganti di notte” (1817). Notevole anche quanto riferisce in proposito Spallanzani (1792-97, p. 237): “Partito essendo da Napoli per la Sicilia li 24 di agosto del 1788, e l’entrante notte oltrepassate avendo di molto le bocche di Capri, cominciai a scorgere cotal prodigio di Stromboli, quantunque da me lontano ben cento miglia. (…) I marinai, da’ quali era condotto, guardavano con occhio di compiacimento que’ fuochi, senza cui, mi dicevano essi, nelle oscure notti fortunose correrebbero assai volte gran rischio o di andare naufraghi in alto mare, o di rompere fatalmente alle coste della vicina Calabria”.

Capitolo quarto Tophet o dell’ambiguo statuto mondano degli infanti

A dispetto degli studi più recenti l’immagine dei fenici è ancora funestata dall’idea che fosse loro pratica consueta il sacrificio rituale di infanti. Diversi i motivi dell’accreditarsi di questa opinione, tra cui: a) la superficiale lettura delle testimonianze bibliche e l’approssimazione tendenziosa delle notizie in alcune fonti classiche (cfr. Moscati 1965-66; Mazza, Ribichini, Xella, a cura, 1988; Simonetti 1983; Gras, Rouillard, Teixidor 1989, pp. 213 sgg.); b) l’ambiguità delle emergenze archeologiche; c) la scarsa conoscenza delle credenze relative al fuoco e delle connesse pratiche rituali. Ridiscuterne è un’utile verifica e conferma degli avanzamenti scientifici oggi realizzati rispetto a questo aspetto mal compreso della cultura religiosa fenicio-punica. Preliminarmente è bene ricordare che storici come Erodoto, Tucidide, Polibio, Livio, dato a torto trascurato, non fanno cenno ai sacrifici di cui discutiamo. Riguardo alle testimonianze assunte come prove, in particolare Clitarco (Scol. Plat. Rep., 337a FGH 137 F91), Diodoro Siculo (Biblioteca storica, XX, 14, 4-7), Plutarco (Sulla superstizione, 13), a un’attenta lettura risultano incerte e non fondate su una conoscenza diretta. Ne è spia quanto si dice sulla posizione delle braccia della statua del dio, rivolte in alto secondo Clitarco, in basso secondo Diodoro; o, ancora, il nome Crono dato al dio destinatario del sacrificio: segno di una conoscenza filtrata e distante del pantheon fenicio-punico (in realtà una composizione risultante di vari sincretismi) nonché della volontà di assimilarlo a quello greco (cfr. Di Nola, a cura, 1970, II, pp. 1553 e 1559). Che testimo-

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nianze di questo tipo abbiano potuto godere di credito anche nell’antichità è da riferire a due fatti ben noti. Il primo consiste negli interessi contrastanti dei fenici con greci e romani, come sempre accade, risolti in una netta contrapposizione a livello simbolico. Basti pensare che i cartaginesi vengono accusati perfino di cannibalismo (Livio, XXIII, 5, 12-13). Una rappresentazione in negativo che diventa ancora più forte negli autori cristiani (cfr. Tertulliano, Apologeticum, IX, 2-4). Il secondo fatto potrebbe essere la pratica presente presso molti popoli, anche di questa area, di uccidere ritualmente i prigionieri a conclusione di battaglie vittoriose. A dare credito a Diodoro (XX, 65) questo fecero i cartaginesi dopo la vittoria su Agatocle nel 307 a.C. Riguardo ai dati forniti dalle ricerche archeologiche, la presenza di urne con ossa calcinate di bambini nei tophet (Solanto, Cartagine, Ben Himmon-Gerusalemme) di per sé non prova, anche per l’alto numero, che si tratti di bambini immolati. Una conoscenza più ravvicinata delle pratiche religiose connesse all’uso rituale del fuoco porta, infatti, a una lettura ben diversa. Fra gli usi cultuali del fuoco in tutta l’area mediorientale e indoeuropea sono senz’altro prevalenti quelli fondati sulle credenze relative alla sua funzione rigeneratrice e purificatrice. Sul piano mitico-rituale, la molteplicità di significati del fuoco si riassume essenzialmente nella sua ambigua valenza rigeneratrice-distruttrice e nelle sue diverse personificazioni. A questa ambivalenza vanno riferiti i rituali di incinerazione che ricorrono in alcune culture. Rohde, nel sottolineare che solo dopo l’arsione del corpo l’anima può avere definitivo accesso al regno dei morti sottraendosi del tutto ai suoi vincoli terreni, osserva che lo scopo che si intendeva raggiungere era quello di separare definitivamente l’anima dal corpo (Rohde 1890-94, I, pp. 2428). Egli attribuisce ai roghi d’età omerica la funzione, attraverso la forza distruttrice del fuoco, di liberare le anime dai corpi per relegarle nelle “profondità della terra”, evitando ai vivi di entrare in contatto con esse. La cremazione quindi sarebbe stata in origine un rituale di protezione e solo successivamente il fuoco avrebbe assunto più chiaramen-

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te la valenza di rito volto a garantire una rinascita nell’aldilà (II, pp. 432-433. Cfr. Dodds 1951, p. 163, n. 1). Secondo Piganiol (1917, p. 87) l’incinerazione praticata dai romani va messa in relazione con la credenza nell’immortalità dell’anima. Egli è incline ad assimilare il fuoco purificatore al sole, fuoco di elevazione, di sublimazione di tutto ciò che si trova esposto ai suoi raggi (p. 96). È da notare in proposito che il motivo decorativo della “barca solare” si trova associato al diffondersi delle pratiche incineratorie a partire dalla tarda età del bronzo (Guidi 2000, p. 47). Va ricordato che in età omerica la cremazione era parte integrante di un rito di “eroizzazione” (Iliade, XXIII, 108259; anche VII, 77-86; XVIII, 346-353 e XXIV, 787 sgg.; Odissea, XI, 31 e XXIV, 44-46. Cfr. Graz 1965). La pratica si ritrova più tardi diffusamente attestata nel mondo greco e magnogreco soprattutto in relazione a sepolture di membri delle aristocrazie (cfr. Ferguson 1989, pp. 145-161; D’Agostino, B. 1996; Pontrandolfo 1999), capostipiti e fondatori di colonie eroizzati (cfr. Menichetti 1994, pp. 16-17; Bottini 1992, pp. 27-51, 101, 126-128 e 137). Non diversamente nel mondo latino arcaico “l’avo morto veniva incinerato per consentirgli di entrare nell’aldilà” (Carandini 1997, p. 134, n. 29). Onians ritiene che bruciare i morti o porli comunque in contatto con la fiamma abbia avuto lo scopo di accelerare il “‘prosciugamento’, l’evaporazione del liquido della vita”, cui è strettamente legata “la psiche aeriforme o anima vitale”. Che la presenza del fuoco nel rito non fosse volta all’eliminazione del corpo, ma al suo “prosciugamento”, parrebbe attestato tanto dagli ossari della Creta protominoica quanto dalle tombe di Micene dove scheletri umani sono stati rinvenuti ricoperti di ceneri (Onians 1973, pp. 307 sgg.). Non dissimile è l’opinione di Hertz. Mediante la cremazione da un lato si lascia sussistere – egli pensa – la parte più nobile del corpo, le ossa disseccate e polite, dall’altro si consente alle componenti spirituali di liberarsi per raggiungere le loro sedi: “Questo è precisamente il senso della cremazione: ben lungi dall’annientare il corpo del defunto, essa lo ricrea e lo mette in grado di accedere a una nuova vita” (Hertz 1907, p. 53).

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In India il rogo è il primo decisivo momento del complesso rituale volto alla immortalizzazione del defunto. Il fuoco opera questa trasformazione, ricrea il morto donandogli nuova vita, anzitutto attraverso il suo potere di trasportarlo verso l’alto (Malamoud 1989, pp. 63-71). Il rapporto fuoco-morte-resurrezione è presente di fatto nei riti funerari di numerose civiltà. L’uso del fuoco per “riscaldare” o “far rivivere” i morti sembra attestato anche nel Paleolitico (Seppilli 1962, p. 218). Nell’uso della cremazione, insieme al fine di liberare l’anima immortale del defunto dal peso della carne, converge l’idea che la fiamma abbia il potere, trasformando il corpo in cenere, di preservarne la parte migliore. Questa concezione potrebbe essere derivata, a partire dall’Età del Bronzo, dalla esperienza della metallurgia. Secondo Bernal “le ceneri contenevano ovviamente la parte più nobile che non poteva essere distrutta dal fuoco” (1983, p. 74). Traccia della valenza vitalistica assunta dal fuoco, oltre che nelle pratiche e nei rituali funerari, si ritrova in miti di rigenerazione, di acquisizione di immortalità e di divinizzazione. “Il fuoco purificatore d’ogni impurità – ha notato Dumézil (1924, p. 93) – è apparso come il migliore. L’unico rimedio contro la grande sozzura umana, la mortalità”. Oltre al noto mito della Fenice (Erodoto, Storie II, 73; Artemidoro, Il libro dei sogni, IV, 47; Nonno, Dionisiaca, 40, 398; Plinio, N. H., X, 3-5; Ovidio, Metamorfosi, XV 391-417; Tacito, Annali, VI, 28. Cfr. Hubaux, Leroy 1939; Zambon 2001, pp. 213-241), erede dell’uccello Bennu-Osiride del Libro dei Morti (cfr. Rundle Clark 1959, pp. 238-241; de Rachewiltz 1986, XVII, pp. 1-2 e 10-11, XLIII, XXII), si può ricordare quello di Trittolemo trattenuto tra le fiamme da Demetra per fargli acquisire l’immortalità1. Analogo episodio ricorre nelle storie di Teti e Achille2 e di Iside e Arpocrate (Plutarco, De Iside et Osiride, 16). Il motivo di purificazione ed eliminazione delle parti impure e vulnerabili del fanciullo o ragazzo destinato a divenire eroe, significativamente si ritrova anche in alcune leggende ossete appartenenti al ciclo epico dei narti, in particolare nella Nascita di Soslan

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e in Badraz tempra il suo corpo d’acciaio (Dumézil, a cura, 1996, pp. 59-60 e 190-191. Cfr. Buttitta 1996, pp. 196-205). Eracle attraverso la morte sul rogo conquista un’eterna divina giovinezza (Apollodoro, Biblioteca, II, 7, 7. Cfr. Sofocle, Trachinie, 1191 sgg.; Diodoro Siculo, Biblioteca storica, IV, 38, 3-8; Ovidio, Metamorfosi, IX 229-256)3. A proposito della metamorfosi di Eracle, ha osservato giustamente Kirk (1974, p. 209), che il fuoco come mezzo di purificazione “era da gran tempo familiare ai greci, ed è una conclusione ragionevole pensare che le parti mortali della natura di Eracle venissero consumate dal fuoco in modo che quella immortale potesse essere libera di ascendere in cielo”4. Rito di rigenerazione individuale quello di Eracle e metafora di rigenerazione cosmica. Al di là delle effettive relazioni che intercorrono tra il rito e il mito, ciò che interessa rilevare è l’idea soggiacente all’uso rituale della fiamma. Rinascita a nuova vita, rigenerazione, rinnovamento sono tutti temi correlati. In maniera evidente il fuoco come mezzo di ringiovanimento si ritrova nelle celebrazioni primaverili del Melquart di Tiro, spesso messo in relazione con l’Ercole greco-romano5 e per certi aspetti individuabile come eroe solare (Piganiol 1917, p. 101. Cfr. Cambell 1972, passim). Una sua immagine veniva data al rogo e così “avendo perduta la sua vecchiezza nel fuoco, ottiene in cambio, la sua giovinezza” (Joseph. Ant., 8, 5, 3 cit. in Seppilli 1962, p. 218. Cfr. Edsman 1949, p. 14). La cerimonia chiamata “rinascita” o “risveglio”, scrive RaoulRochette: si celebrava per mezzo di un rogo dove si riteneva che il dio, con l’aiuto del fuoco, riprendesse una nuova vita. La celebrazione di questa festa, la cui istituzione risaliva al regno di re Hiram, contemporaneo di Salomone, aveva luogo nel mese di Péritius, di cui il secondo giorno corrispondeva al 25 dicembre del calendario romano, e, per una coincidenza che non può essere fortuita, questo stesso giorno, il 25 dicembre, era anche a Roma il dies natalis Solis invicti, qualificazione sotto la quale Ercole era adorato a Tiro e altrove. Erano dunque la morte e la resurrezione del dio Sole che si celebravano a Tiro, nel solstizio d’inver-

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no, con il rogo di Ercole; e così noi percepiamo, nella sua forma primitiva e originale, uno dei tratti principali della leggenda dell’Ercole ellenico. Questa idea di un dio morente di vecchiaia nel tempo in cui la natura stessa sembra perdere tutta la sua vitalità, poi risorgente dalle proprie ceneri, era profondamente impressa nelle credenze religiose dell’Oriente; essa aveva dato origine alla favola della Fenice, che Nonno (º) comprende nella leggenda dell’Ercole Tirio (Raoul-Rochette 1848, II, pp. 25-26. Cfr. Frankfort 1992).

Nella festa di Melquart si può cogliere, pertanto, legata al fuoco l’idea “che un mortale bruciato su un rogo si congiungesse all’etere e per mezzo di esso alla divinità” (RaoulRochette 1848, II, p. 30). Al di là della complessa e controversa interpretazione dei fatti cui abbiamo accennato (cfr. Edsman 1949, pp. 11-27), appare sicuro che diversi miti e riti diffusi in area mediterranea rinviano all’idea di rigenerazione e purificazione attraverso il fuoco. La virtù purificatoria e vivificante della fiamma distrugge gli elementi corruttibili e caduchi dell’individuo, rigenerandolo e rendendolo atto all’unione con il mondo degli dei6. Il motivo della rigenerazione attraverso le fiamme, in analogia con gli astri e in particolare con il sole (cfr. Seppilli 1962, p. 220), rinvia a rituali iniziatici e a pratiche purificatorie, come i salti sul fuoco e le danze intorno ad esso, ma anche dirette a fecondare il cosmo naturale e sociale. Un rituale di purificazione (oltre che di rigenerazione) delle greggi era quello romano dei Parilia, celebrato il 21 aprile (Sabbatucci 1988, pp. 128-132). Si tratta di una tra le più antiche pratiche delle comunità pastorali del Mediterraneo, secondo l’opinione di George Dumézil (1974, pp. 335-336) e di Jean Bayet (1957, p. 85). Nei Parilia è evidente il fondamentale ruolo purificatorio svolto dal fuoco a vantaggio di uomini e animali. Di pratiche analoghe si hanno numerosi riscontri. Nell’antica Irlanda, la vigilia delle principali feste, il bestiame veniva fatto passare attraverso il fuoco per preservarlo dalle malattie. In particolare in quella di Beltene (primo maggio) al cui fuo-

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co erano attribuite specifiche virtù lustrali e rigeneratrici (cfr. De Vries 1961, pp. 281-282; Le Roux 1988, pp. 128129; MacCulloch 1911, in partic. pp. 262-265). Una pratica ancora viva alla fine dell’Ottocento (cfr. Czarnowski 1919, passim). Si ha un’ampia documentazione di usi simili in tutta l’area euro-mediterranea per il passato (cfr. Frazer 1900, II, pp. 943-987). Ancora oggi in Sardegna e in Sicilia le greggi vengono fatte passare sulle braci dei falò dedicati a sant’Antonio Abate o fatte girare intorno alle fiamme. Per le stesse ragioni i partecipanti al rito girano intorno al fuoco raccogliendone le braci e segnandosi il volto, oppure vi danzano intorno o saltano attraverso le fiamme credendo così anche di premunirsi da eventuali malanni (Buttitta 1999, pp. 50-57; 2002a, pp. 139-163). Simili comportamenti sono d’altronde attestati in tutta Italia, dove non di rado accade che i falò vengano benedetti da un sacerdote. In proposito Lupinetti (1960, pp. 52-53) riporta una interessantissima orazione preliminare alla benedizione del fuoco sacro tratta dal formulario farese7. Comportamenti rituali per certi versi accostabili a quelli appena ricordati sono le danze e le marce sulle braci ardenti, se non altro per la fede condivisa dagli esecutori nella “momentanea sospensione del potere comburente del fuoco” (de Martino 1973, p. 67). Queste pratiche sono ampiamente attestate in varie epoche e presso numerose culture, dall’India alle Figi, da Thaiti alle Penisole Balcanica e Iberica (cfr. Leroy 1931; Brewster 1962; de Martino 1973, pp. 2935 e note; Eliade 1948, p. 109; Krauskopff, Macdonald 1989; Riffard 1988, p. 243; de Hoyos Sancho 1963. Cfr. anche Dodds 1951, pp. 327 e note, 364, n. 3). Si pensi agli anastenaridi della Grecia e della Bulgaria (Romaios 1949; RossiTaibbi 1951-53; Schott-Billman 1987; De Sike 1989). Rito non dissimile si osserva nel villaggio di San Pedro Manrique, nel dipartimento di Soria in Spagna, nell’ambito dei festeggiamenti in onore della Vergine Maria (cfr. Foster 1955; Caro Baroja 1979, p. 149; Bartoli 1996, pp. 61-84)) . Di marce sulle braci ardenti si parla anche in alcune fonti classiche. Così Arrunte si rivolge ad Apollo: “Summe deum, sancti custos So-

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ractis Apollo, / quem primi colimus, quoi pineus ardor acervo / pascitur et medium freti pietate per ignem / cultores multa previmus vestigia pruna / da, pater, hoc nostris aboleri dedecus armis, / omnipotens” (Virgilio, Eneide, XI, 785-790)8. È chiaro il “passaggio per il fuoco” come atto purificatorio e profilattico. Si è già detto di Demetra e Demofonte e di miti consimili d’area mediterranea dove ricorre il tema del passaggio dei fanciulli sul fuoco come mezzo per garantire loro l’immortalità. Frazer (1995, p. 481) suppone che “L’usanza greca di correre attorno al focolare con un bimbo cinque o sette giorni dopo la nascita può aver sostituito il più antico costume di far passare i fanciulli sopra il fuoco”. Egli riporta un passo di Maimonide che a proposito degli ebrei scrive: “Vediamo ancora le levatrici avvolgere i neonati in fasce e, dopo aver messo sul fuoco dell’incenso soffocante, cullarli avanti e indietro al di sopra dell’incenso” (p. 483. Cfr. Campbell 1959, p. 122). Liebrecht (1856, p. 31, cit. in Varvaro 1994, p. 122) ricorda che in varie regioni intorno alla culla dei neonati era in uso tenere accesi fuochi e torce a scopo protettivo. Lo stesso Varvaro (pp. 122-123) in proposito rileva che “la funzione della luce accanto alla culla del neonato è chiara, perché la ritroviamo in molte culture e la finalità è sempre quella di tenere lontani dal bimbo demoni e spiriti maligni, in quanto la luce si oppone al male”. Analoga funzione sembrano avere usi come quello, rilevato a Ferrandina da de Martino (1959, p. 44), di portare “l’infante davanti alla bocca di un forno ancora tiepido, facendo l’atto di infornarlo” con l’evidente scopo di “confermare e proteggere magicamente” il neonato. Allo stesso orizzonte ideologico appartiene un antico rito popolare della campagna aurunca ricordato da Borrelli (1942, p. 72): “allorché un poppante mostrasse un anormale appetito, desse segni di eccezionale fagia (lanca), la madre lo passava tre volte dinanzi la bocca del forno ardente”. Rito che trova un riscontro in Sicilia, a Buscemi, dove i bambini piccoli afflitti da eccessivo appetito venivano fatti passare per tre volte dinanzi la bocca del forno acceso (Acquaviva, Bonanzinga, a cura, 2003, pp. 31-32). Tra i riti terapeutici che prevedono un

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contatto con il forno va anche ricordato quello sardo per la cura dell’argia (Gallini 1967, in partic. pp. 199-204; 1988. Cfr. Alziator 1957, pp. 244 sgg.; de Martino 1961, pp. 196-198), l’altrimenti nota “tarantola”. Filippo Valla (1896, cit. in Turchi 1990, p. 262) scrive: “Riscaldano convenientemente il forno, poscia vi introducono l’ammalato per un dieci minuti circa. Quando lo estraggono il poveretto, madido di sudore, viene subito ravvolto in panni caldi e trasportato nel letto, ove aspetterà fiducioso la desiderata guarigione”9. A tali pratiche può essere accostato quanto ricorda Frazer (1995, p. 193, n. 79) commentando Apollodoro: “Secondo una notizia riferita dall’umanista Leone Allacci, gli abitanti di Chio usavano ancora scottare i piedi dei bambini nati tra Natale e l’Epifania perché non diventassero kallik£nqafoj, ossia dei demoni che nello stesso periodo si aggiravano sulla terra”10. Almeno fin dall’XI secolo l’idea che il forno possedesse proprietà magico-terapeutiche era ampiamente diffusa in Europa (Marstrander 1912; Edsman 1940; D’Onofrio 1996, pp. 189 sgg.; Fabre-Vassas 1982). Nel Decretum di Burcardo di Worms si ritorna a più riprese a condannare l’uso di filium in super fornacem ponere11. Anche la narrativa tradizionale conserva tracce della credenza nelle virtù rigeneratrici del forno12. Quanto abbiamo detto consente una più attenta lettura della pratica cananea di passare i bambini sul fuoco, più volte ricordata e condannata nell’Antico Testamento come deprecabile uso pagano13 ed erroneamente intesa da autori antichi e moderni come uccisione rituale di infanti. Nelle testimonianze di Diodoro relative alla supposta pratica fenicia di sacrificare bambini troviamo una spia significativa del valore approssimativo della sua testimonianza. Diodoro infatti dice che le vittime venivano gettate in una fornace. È chiaro che si tratta della pratica appena ricordata del passaggio degli infanti in un forno a fine purificatorio, confusa con il loro effettivo bruciamento. Anche il racconto veterotestamentario del mancato sacrificio di Isacco da parte di Abramo, dai più assunto come prova decisiva della esistenza di una pratica sa-

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crificale di questo tipo in area cananea, va letto in modo diverso. Miti e leggende non rispecchiano mai vicende e usanze storiche, semmai ne costituiscono, come è noto, una rappresentazione per inversione (cfr. Buttitta 1996, pp. 168 sgg.). Il loro valore antropologico, notevole ai fini della individuazione delle assiologie delle culture studiate, è, al contrario, marginale e può anche indurre in errore ai fini della ricostruzione della loro storia. Nel nostro caso il fatto che l’Antico Testamento sottolinei ed enfatizzi il mancato sacrificio di Isacco prova che questa pratica non era consueta ma del tutto eccezionale. Non è insomma da escludere che in situazioni di particolare gravità presso alcune culture del Medio Oriente e segnatamente presso i fenici si ricorresse al sacrificio umano, in particolare di fanciulli (Gras, Rouillard, Teixidor 1989, pp. 221-222). Da qui a individuare nei tophet luoghi abituali di sacrificio di neonati il passo è lungo. Moscati e Ribichini hanno proposto giustamente, piuttosto, di interpretare il tophet come un’area sacra ove si compivano, insieme ad altre cerimonie, riti di incinerazione di cadaveri di fanciulli morti ancor prima di nascere o immediatamente dopo (per malattie o altre cause naturali). Per tale ragione venivano “offerti” a Tanit e Baal Hammon, sepolti significativamente in luogo diverso da quelli destinato ai morti comuni, e con procedure intese a garantirne un oltretomba glorioso o comunque agli “innocenti” specificamente riservato (cfr. Moscati 1987; 1991; Moscati, Ribichini 1991; Ribichini 1997, pp. 139-141; Gras, Rouillard, Teixidor 1989, pp. 205-237; Beschaouch 1993, pp. 73-80). D’altronde è stato osservato “da un lato la carenza di sepolture infantili nelle necropoli fenicie e puniche, dall’altro la presenza, seppur minoritaria, di feti nei cinerari del tofet” (Zucca 1993, p. 88). A parere di Moscati (1987, pp. 9-10) la combustione aveva una funzione purificatoria per ragioni igieniche e religiose: “igieniche perché era frequente la mortalità prenatale o immediatamente postnatale, con il conseguente pericolo di infezioni ed epidemie; religiose perché, e questo è il punto essenziale, non era ancora avvenuta l’iniziazione rituale ed era

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dunque in atto un’impurità religiosa”. La tesi è stata ribadita in un successivo lavoro dove a proposito delle stele che si rinvengono in tali aree sacre si precisa: “le stele hanno carattere votivo, dedicatorio, (º) rispetto a divinità non necessariamente legate a una funzione funeraria: anzi Tanit è detta ‘madre’ e poi corrisponde in latino a nutrix” (Moscati, Ribichini 1991, p. 5. Cfr. Ribichini 1987, p. 39). Briquel-Chatonnet (1989, pp. 74-76), pur considerando l’eventualità che effettivamente in alcuni casi si immolassero fanciulli vivi, mette in relazione l’offerta delle stele e le pratiche incineratorie e segnala con forza il ruolo del fuoco quale strumento di morte e rinascita. In un’epoca nella quale la sopravvivenza degli infanti era precaria, – osserva lo studioso – è poco probabile che i genitori sacrificassero i nuovi nati ben formati e robusti, attesi con impazienza. Le piccole vittime del tophet erano senza dubbio dei bambini gracili, malformati o prematuri, destinati in ogni caso a morire. Alcuni potevano già essere morti naturalmente, e i loro genitori erano solleciti a offrirli alla divinità per ottenere la nascita di un altro figlio in buona salute.

Anche Gras, Rouillard e Teixidor (1989, pp. 217-218) ritengono che si potesse trattare di offerte di bambini prematuramente defunti o di animali sostitutivi quale richiesta alla divinità di un nuovo nato sano. In conclusione, il tophet, era con tutta probabilità un luogo destinato a raccogliere ceneri di bambini morti in tenera età, o destinati a una ineluttabile morte precoce a causa di malformazioni, al tempo stesso un santuario nel quale si lasciavano ex voto e resti sacrificali, in onore di divinità preposte alla salvaguardia dei fanciulli viventi e alla sorte oltremondana di quelli defunti (Moscati, Ribichini 1991, p. 34). Il fuoco aveva la funzione di ridisegnare il destino di questi ultimi. La particolare condizione in cui si venivano a trovare i fanciulli, non ancora introdotti attraverso opportune cerimonie nel mondo degli uomini, imponeva per essi un ritorno tra le braccia

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di Tanit, la dea madre (Xella 1991, pp. 417-429; Gras, Rouillard, Teixidor 1989, p. 235), perché li reimmettese nel flusso della forza vitale e concedesse alla famiglia “offerente” una nuova nascita. Il carattere vitalistico del rito, che si riallaccia ai temi salvifici riservati ai morti bambini negli antichi culti misterici (cfr. Burkert 1987), può essere individuato anche nello stesso tipo di legna usata, resinosa per l’appunto, proveniente dunque da alberi il cui valore di simbolo della vita era assai netto in area medio-orientale (cfr. Benichou-Safar 1988, p. 66). Non va infine dimenticato che in numerose culture il neonato non viene considerato un membro effettivo della comunità, spesso addirittura non è riconosciuto neanche come “uomo”, finché non ha superato una serie di riti di passaggio con funzione integrativa (Van Gennep 1909, pp. 43 sgg. e 133). Quanto si è fin qui considerato, se non altro viene a ribadire la lezione di Bogatirëv (1982) e Jacobson: per la comprensione di un fatto culturale non è sufficiente limitarsi alla sua analisi. Solo considerandolo una tessera del vasto mosaico in cui consiste l’intero contesto di cui fa parte, si riesce a coglierne il reale significato. La pratica fenicia qui esaminata, osservata come elemento di un più vasto sistema culturale, si presenta infatti sotto una diversa luce che, se non ci consegna a pieno le certezze in cui si riconoscevano i loro esecutori, si approssima più persuasivamente al loro orizzonte religioso e alle sue connesse pratiche rituali.

1 “Era la mezzanotte silente nel placido sonno, / quando la dea si prese Trittolemo nel grembo, / l’accarezzò con la mano tre volte dicendo tre versi, / che non può riferire la bocca d’un mortale; / sul focolare il corpo coprì del bambino con calda / cinigia, perché il fuoco ne purghi il mortal peso” (Ovidio, Fasti, IV, 502-560). Cfr. Apollodoro, Biblioteca, I, 5, 1; Inni Omerici, II, 233-240; Igino, Fabulae, 147. Cfr. Frazer 1951, pp. 479 e note; Guidorizzi 2000, pp. 364365, n. 555. 2 “Quando Teti generò un figlio a Peleo, volendolo rendere immortale lo poneva dentro il fuoco, di notte, di nascosto dal marito e così distruggeva quanto in lui era di mortale e gli proveniva dal padre, mentre di giorno lo ungeva con ambrosia. Ma Peleo la spiò e quando vide il bambino che si di-

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menava tra le fiamme lanciò un grido: così Teti, a cui era stato impedito di compiere la sua opera, abbandonò il bambino per tornare tra le Nereidi” (Apollodoro, Biblioteca, III, 13, 6). La stessa storia è riportata, per restare in Grecia, da Apollonio Rodio: “Essa bruciava alla fiamma del fuoco le carni / mortali in piena notte: poi, durante il giorno / ungeva d’ambrosia il tenero corpo, perché divenisse / immortale e gli stesse lontana l’odiosa vecchiaia” (Argonautiche 4, 869-872). 3 Frazer riporta un passo dell’India di Al Biruni che ricorda come nel suo commentario agli apoftegmi di Ippocrate, Galeno dica: “È generalmente riconosciuto che Asclepio fu portato al cielo in una colonna di fuoco e lo stesso è detto di Dionisio, Eracle e altri che si adoperarono a beneficio dell’umanità. Si dice che Dio fece questo per distruggere la loro parte mortale e terrestre con il fuoco e poi attirare a sé la loro parte immortale e trasferirne in cielo le anime” (cit. in Frazer 1995, p. 272, n. 235). 4 Luciano sostiene che nell’ottenere l’immortalità nel rogo del monte Eta l’elemento umano che Eracle aveva ereditato dalla madre fu purgato attraverso le fiamme mentre quello divino ascese puro nell’Olimpo (Hermot., 7). Sul trattamento dei cadaveri e i roghi funebri degli eroi, cfr. Vernant 1989, pp. 71-72; Goudsblom 1992, pp. 73-74; Burkert 1977, II, pp. 280-281; Cuiseinier 1997, pp. 215-217. Sul fuoco come strumento di purificazione in Grecia, v. Burkert 1977, I, pp. 90-95 e 112-116; Durand 1963, pp. 171 sgg. 5 Osserva Delcourt (1981, p. 166): “La prova attraverso il tuffo o attraverso il fuoco significa morte e resurrezione sotto una forma più alta e più grande, come lo provano la sopravvivenza di Achille nelle Isole dei Fortunati e l’accesso di Eracle all’Olimpo. Il festeggiamento in cui Melquart riprenderà nuova vita, con l’aiuto del fuoco si chiama ancora risveglio”. Sui rapporti tra Ercole e Melquart, v. Picard, Picard 1964. 6 Nel Rmyana, si ritrovano dei passaggi che richiamano la morte volontaria sul rogo come mezzo per ottenere una forma celeste e per conseguenza l’accesso all’empireo (III, 5, 37-41; III, 74, 33-34). “Le leggende – osserva Delcourt (1981, p. 166) – ci invitano a distinguere due procedimenti di apoteosi tramite il fuoco, quello in cui la rinascita si compie attraverso la fiamma (Eracle, Demosfonte, Achille, la Fenice) e quello che risulta da una permanenza all’interno di un braciere (Pelope, Esone, Dioniso-Zagreus)”. Tema diffuso nella letteratura folklorica europea è quello degli sponsali tra un giovane uomo e una principessa. Il passaggio attraverso il fuoco dona all’eroe una natura sovrumana che gli consente di unirsi in matrimonio con la donna che già possiede tale natura (cfr. Edsman 1949, pp. 132 sgg.). Per la Sicilia si veda la fiaba Lu cavaddu ’nfatatu riportata da Pitrè (1875, I, XXXIV). 7 È qui solo il caso di ricordare una leggenda relativa a sant’Antonio che lo vede rubare il fuoco agli inferi. Questo motivo ha condotto alcuni studiosi a istituire una relazione tra il santo ed Efesto (la fucina di Efesto è infatti collocata presso l’Etna o le Lipari, cioè presso vulcani considerati tradizionalmente bocche dell’Inferno) o una sorta di Prometeo cristianizzato. Tutta la questione è riassunta da Maticetov (1968, pp. 179 sgg.). 8 Cfr. Servio, Ad Aeneid., XI, 787. La cerimonia del Soratte è ricordata da Silio Italico (Pun., V, 175-178) e da Plinio (N. H., VII, 19). Sul rito, v. Otto 1913. 9 A questa pratica accenna anche Gino Bottiglioni (1925, pp. 81-82). Va qui

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ricordato un detto di Usini che rende esplicita la sacralità di cui in antico erano investiti i forni: “chi non ha visto chiesa, adora i forni” (Turchi 1990, p. 363). A proposito della sacralità dei forni va ricordato il rituale oracolare di Trofonio in Lebadeia il quale prevedeva che i fedeli che dovevano ricevere la rivelazione mantica discendessero in una stretta grotta “dall’aspetto di un forno per pane” (Pausania, Periegesi, IX, 39, cit. in Bottini 1992, p. 118). Si può ipotizzare che insieme al potere terapeutico del fuoco nei riti che prevedono un contatto con il forno se non l’inserimento al suo interno del paziente si faccia riferimento al nesso: ritorno alla terra madre=rinascita (cfr. Neuman 1956, in partic. pp. 53 sgg.). Non a caso allora in alternativa al forno nella cura dell’argia si procede all’interramento del malato. Il forno si configurerebbe dunque come utero (all’interno del quale numerosi miti ritengono sia custodito il fuoco). 10 Frazer riprende questa notizia da Lawson (1910, p. 208) e in Appendice riporta alcune analoghe pratiche nord-europee: “Così, nelle Highlands di Scozia, ‘è accaduto che, dopo il battesimo, il padre abbia appeso un canestro con pane e formaggio al gancio sopra il fuoco nel mezzo della stanza attorno al quale siede la compagnia; e per tre volte il bambino sia stato passato sopra il fuoco, nel tentativo di rendere vani tutti gli assalti di spiriti maligni o di malocchio’ (Pennant 1808-14, III, p. 383). Nelle Ebridi era costume far girare del fuoco attorno ai bambini, tutti i giorni, di mattina e di sera, finché non fossero stati battezzati; del fuoco veniva portato anche intorno alle puerpere finché non fossero state benedette; e questo ‘cerchio di fuoco era un mezzo effettivo di preservare la madre e il bambino dal potere degli spiriti maligni, che proprio in questi momenti sono pronti per fare danni, talvolta riuscendo a portarsi via il neonato’ (Martin, in Pinkerton, a cura, 1808-14, III, p. 612). (º) Talvolta il motivo per cui i bambini venivano posti sul fuoco era differente, come risulta dalle seguenti testimonianze. Nel Nord-Est della Scozia, e in particolare nelle contee di Banff e Aberdeen, ‘se il neonato piangeva e iniziava a deperire, sorgeva subito il sospetto che potesse trattarsi di un ‘bimbo scambiato dalle fate’, e veniva messa in atto la prova del fuoco. Il focolare veniva ricoperto di torba e quando il fuoco era ben vivo il bimbo che si sospettava scambiato vi era posto davanti, lontano quel tanto che bastava per non farlo scottare, oppure veniva sospeso sopra il fuoco in un canestro. Se si trattava di un bambino scambiato, sarebbe fuggito dal camino, pronunciando parole ingiuriose mentre spariva’ (Gregor 1881, pp. 8 sgg.)” (Frazer 1995, pp. 481-482). Durand (1963) osserva che il signore del fuoco “è spesso dotato del potere di guarire, cicatrizzare, ricostruire attraverso il fuoco e il forno. Numerose leggende cristiane hanno conservato il duplice aspetto del simbolo della mutilazione, come quella di S. Nicola, di S. Eligio e di S. Pietro” (p. 309). Sui kallik£nqafoj, cfr. Dumézil 1929, pp. 165 sgg. 11 “Mulier si qua filium suum ponit supra tectum, aut in fornacem pro sanitate febrium, unum annum poeniteat” (X, 14); “Misisti filium tuum vel filiam super tectum aut super fornacem pro alique sanitate?” (XIX, 5), cit. in Edsman 1949, p. 77. De Martino ricorda che “nella Historia Sicula di Goffredo Malaterra (1604) si legge che durante l’assedio di Palermo da parte di Ruggero e Roberto il Guiscardo, l’esercito normanno accampato presso la città fu vessato dalle tarante, onde fu necessario il ricorso alla pratica del forno tiepido” (Historia Sicula, II, XXXVI, cit. in de Martino 1961, p. 229).

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12 Pitrè 1875, III, n. CXXIII. Altri racconti sottolineano invece le virtù rigeneratrici della forgia (cfr. Lo Nigro 1957, pp. 158-159; D’Onofrio 1996, pp. 189 sgg.). Una fiaba sarda Don Giuanninu infurradu, narra di un principe che, trasformato in volpe a causa di gravi colpe commesse, riacquista la sua primitiva condizione dopo essere stato decapitato e infornato. Tale genere di storie (che hanno per protagonisti il Signore o san Pietro) dove sono riportati alla giovinezza vecchi decrepiti mettendoli a bollire in pentoloni o infornandoli, sono note in altre regioni d’Europa: cfr. Dasent 1859, pp. 106 sgg.; Grimm, Grimm 188492, I, pp. 312 sgg.; Ralston 1873, pp. 57 sgg.; Crane 1885, pp. 188 sgg. 13 Tra l’altro in Lv., 18, 21; II Re, 23, 10; Gr., 7, 31-32 e 19, 3-6; Is., 30, 33; Ez., 20, 25-26 e 23, 39. Cfr. de Vaux 1960, pp. 430-432; Goudsblom 1992, pp. 54-55; Gras, Rouillard, Teixidor 1989, pp. 208-213. L’azione di “passare per il fuoco” i bambini ricordata nell’Antico Testamento, potrebbe non implicare una vera e propria immolazione, né un sacrificio sistematico di ambiente o derivazione fenici. La stessa espressione biblica “passare per il fuoco” non è immediatamente riferibile a mettere al rogo e può significare nella stessa Bibbia: far lambire dalle fiamme a scopo purificatorio (cfr. Nm., 31, 23).

Capitolo quinto Acque di vita, acque di morte. Il simbolismo magico-religioso dell’acqua

In un contributo sulla religiosità degli antichi italici, Angelo Bottini accenna alla diffusa presenza di “culti delle acque – sorgive o lacustri, salutifere o pericolose – che affondano sovente le proprie radici nella preistoria e sono spesso destinati ad una fortuna protrattasi ben oltre i limiti di queste stesse culture indigene, talora fino al Medioevo” (Bottini 1994, p. 77. Cfr. Peroni 1994, p. 309; Manselli 1980). A quanto osservato da Bottini si può aggiungere che la memoria di questi culti è ancora attestata da diverse credenze e pratiche rituali diffuse in ambito folklorico non solo italiano (cfr. Caro Baroja 1979, pp. 156-165; Dini 1989; Giacobello 1997; Tamarozzi 1999; Rousseleau 2000; Teti 1999, pp. 62 sgg.; 2003, passim; D’Onofrio 2005, pp. 82 sgg.). Tra le testimonianze di un uso dell’acqua in chiave magico-religiosa possono essere ricordate le virtù curative e apotropaiche a questa attribuite quando esposta al sereno nei giorni dell’Ascensione, la pratica di immergersi nei fiumi o in mare la notte di san Giovanni, i pellegrinaggi che prevedono il raggiungimento di una sorgente o di un pozzo ritenuti in possesso di virtù medicamentose, siti in prossimità o all’interno di un Santuario, per berne le acque o aspergersi con esse (cfr. Pitrè 1873; Lanternari 1984, pp. 165 sgg.; Petrarca 1986; Caro Baroja 1979, pp. 166-184). In particolare per la Sardegna ricordiamo quanto Gino Bottiglioni scriveva nel 1925: “oggi non è difficile imbattersi in un fiume, in un torrentello, in una sorgente, ai quali i Sardi attribuiscono delle proprietà terapeutiche straordinarie. Specialmente la vigilia della festa di San Giovan-

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ni è indicata come il giorno in cui la virtù delle acque è più efficace” (Bottiglioni 1925, pp. 78-79). Della sacralità dei pozzi, delle fonti, delle polle termali, proprio la Sardegna offre numerose e interessantissime testimonianze, tali da spingere Lanternari (1951-53, p. 108) ad asserire che: “il culto dell’acqua in Sardegna è indigeno e universale” e a ritenerlo “il più diffuso dei culti protosardi”. Tale diffusa presenza così come le sue peculiari caratteristiche furono dovute a precise ragioni contestuali (cfr. Di Nola, a cura, 1970, I, pp. 22-24): “L’acqua in Sardegna costituì nei secoli, come costituisce tutt’ora il problema fondamentale dell’economia e della vita biologica delle comunità umane: essa influenza e determina in ampia misura, come fattore limite, la vita materiale, sociale e ideologica”. Il clima e le condizioni ambientali sfavorevoli ora come allora fanno sì che le sorgenti e le acque di falda divengano “ausilio prezioso e inestimabile per la comunità” (Lanternari 1951-53, p. 109. Cfr. Delitala 2002, p. 21). Distribuiti su tutta l’isola sono noti oltre trenta pozzi sacri di età nuragica e numerose fonti anch’esse sacralmente connotate (cfr. Pettazzoni 1912, pp. 19 sgg.; Lilliu 1988, pp. 521-543; Contu 1997, II, pp. 574-605; Pallottino 1950, pp. 146-147), quali quella di Su Tempiesu in territorio di Nuoro (Fadda 2002). Tra i pozzi sacri più notevoli e tutt’oggi ben conservati, si annoverano il pozzo di Santa Cristina di Paulilatino in provincia di Oristano, il pozzo di Santa Anastasia a Sardara in provincia di Cagliari, e quello di Santa Vittoria di Serri in provincia di Nuoro. Il tempio a pozzo è centrato su un pozzo circolare ipogeo, con sezione a bottiglia, accessibile mediante una ripida gradinata. Questi pozzi sacri si dovettero costituire in origine come luoghi di culto intercomunitari come sembrano provare le adiacenti vestigia di ricoveri, probabilmente adibiti a ospitare i pellegrini, e di aree adibite a luogo di scambio, nonché il loro inserimento in più ampi contesti templari-residenziali (cfr. Zucca 1988; Fadda 2007; Laner 2004). A riprova del valore cultuale a essi attribuito, oltre alla complessità e raffinatezza delle architetture con ampio uso

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di pietra lavica, stanno le numerose e varie offerte votive rinvenute in prossimità dei pozzi o al loro interno: vasellame e statuine fittili, bronzetti di vario soggetto, non di rado di uomini e donne offerenti o comunque in atteggiamento rituale, madri con figli in grembo, asce e varie altre armi, monete, monili, amuleti. Un insieme di elementi di diverso tema che consente di poter intuire le motivazioni che sospingevano i fedeli a rivolgersi alle divinità acquoree: guarigione da malattie, protezione di uomini e armenti, risoluzione di problemi personali, economici e bellici, e più in generale fecondità, fertilità e prosperità (cfr. Lanternari 195153, pp. 114 e 116). Pur residuando incertezze in ordine alle caratteristiche delle divinità destinatarie del culto, è assai verosimile che nella gran parte, se non in tutti i casi, si trattasse di divinità femminili a carattere ctonio come sembrano provare la stessa associazione pozzo/utero, la pianta ogivale a toppa di serratura nonché la relazione con i cicli lunari. Già Taramelli, che ai primi del Novecento scopriva il pozzo di santa Vittoria, osservava la presenza di una religione connessa: “alle divinità del misterioso mondo sotterraneo, minacciose e terribili, ma pure latrici della salute” (p. 108). Non secondario il fatto che i pozzi siano stati spesso associati a nomi di sante o a titoli della Madonna, spesso anche attraverso l’edificazione di luoghi di culto cristiani a esse dedicati, a fianco o in prossimità dei pozzi, quasi a testimoniare una ininterrotta continuità cultuale, rinvenibile nelle fonti scritte e ancor più sostenuta da molteplici testimonianze archeologiche che rivelano la lunga prosecuzione del culto nei tempi punici, romani e alto medievali (Spanu 2008). In ogni caso prova della rifunzionalizzazione cristiana di luoghi di culto e cerimonialità precedenti è fornita in maniera indubitabile da casi come quello di Bosa, dove fino al 1771 presso il pozzo “de sos tres res”, ovvero dei “re magi”, il primo di marzo di ogni anno, si recava una processione con la partecipazione di tutti i canonici che si concludeva con la benedizione dell’acqua (Lanternari 1951-53, p. 115) e di Sardara, dove a metà settembre si festeggia Santa Maria ’e is acquas e che accoglie nell’abitato il san-

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tuario di Santa Anastasia e la relativa funtana ’e is dolus: acque salutifere che scaturiscono dall’antico pozzo nuragico (Camboni 2002, pp. 99-100). Memoria della antica sacralità delle acque che, come s’è detto, si presenta spesso in connessione con entità divine femminili, si ritrova nella credenza nelle figure leggendarie di sa Mama e sa funtana e di Maria Puttsu (cfr. Delitala 2002, p. 22; Turchi 1990, pp. 70 sgg. e 213 sgg.) eredi delle oscure divinità acquoree protostoriche e di ninfe e di fate molteplici (cfr. Bulteau 1982). Lo stesso può dirsi in riferimento a un storia raccolta da Bottiglioni negli anni Venti nel circondario di Villaspeciosa dove sono ricordate le virtù salutifere che la fontana del Camposanto di Uta possedeva per intercessione di Nostra Signora (Bottiglioni 1922, p. 151)1. D’altronde la fama delle virtù eccezionali delle acque termominerali sarde, fra l’altro oggetto di ordalie, è testimoniata da Solino (VI, 6), da Prisciano (Perieg., 466 sgg.), da Isidoro di Siviglia (Etym., XVI, 6, 40) (Contu 1997, II, p. 601. Cfr. Pettazzoni 1912, pp. 34 sgg.)2. Di fatto un ulteriore elemento di culto idrico è quello legato ai fontes calidi (Sardara, Benetutti, Fordongianus ecc.) (Spanu 2008). Delle virtù terapeutiche attribuite alle acque termali e a certe fonti resta memoria anche nella stessa etimologia. Troviamo infatti denominazioni quali Funtana de is dolus e de sos malàvidos. In ambito folklorico si rinvengono numerose attestazioni di fonti, sorgenti, pozzi le cui acque possiedono qualità straordinarie e terapeutiche. Nella gran parte dei casi tali poteri miracolosi sono attribuiti a vari santi o alla Madonna e facilmente si lasciano riconoscere come credenze e usi cultuali “qui vraisemblablement ont succédes à un culte plus ancien” (Sébillot 1967, p. 67). Ad esempio lo stesso Sébillot ne segnala molteplici occorrenze nell’Alta Bretagna (pp. 65-72), Caro Baroja (1979, pp. 156-165) ne attesta la diffusione nella Penisola Iberica e Pitrè nel suo Acque miracolose in Sicilia ricorda diversi casi. Tra questi quello dell’acqua santa di Santa Maria di Gesù di Castania di Naso:

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In quel medesimo luogo dove allora si fermò da sé la statua della Vergine, scaturì subitamente una polla d’acqua, che appresso si ridusse in un pozzo, il quale ha questa meravigliosa proprietà, che né cresce, né manca d’acqua, eziandio se per più giorni non se ne attingesse neppure una gocciola, o al contrario se ne cavasse fuori gran quantità. Di quest’acqua si valgono gli infermi per ottenere dalla Santa Vergine riposo e salute.

A Castroreale, rileva sempre lo studioso palermitano, “si crede dalli abitanti miracoloso un fonte chiamato di Venere, oggi di Santa Venera, perché sana li scabiosi, ma un tal effetto attribuir devesi alla natura sulfurea di detta acqua”; a Piraino si trova “una vena d’acqua resa già illustre per li molti miracolosi effetti, fatta scaturire ad intercessione di Maria Vergine” (Pitrè 1896, pp. 56 sgg.). Per quanto riguarda la Sardegna mi limiterò a ricordare due diversi casi di uso rituale delle acque, quello dell’uso rituale dell’acqua nella terapia del malocchio e quello delle acque medicamentose di San Lussorio a Romana. Nella viva tradizione e nella memoria culturale sarda, le credenze e le pratiche legate all’acqua si declinano variamente, lasciando trasparire la loro profondità diacronica. Eredità di un remoto passato ricco di acque rigeneratrici, terapeutiche e lustrali si rinvengono, variamente rifunzionalizzate e trascritte in nuovi linguaggi, nell’uso dell’acqua nelle pratiche magico-divinatorie e nelle virtù terapeutiche ascritte alle acque di pozzi e sorgenti, connessi al culto di diversi santi locali.

S’abba ’e s’ogu L’acqua trova diffuso e significativo utilizzo nella cosiddetta “medicina dell’occhio”: sa mejina de s’ogu (Quartu Sant’Elena); sa midizzina di l’occi (Sorso); sa mexina de s’ogru malu (Lanusei); lu di l’occi (Stintino); s’abba ’e s’ogu (Neoneli), rito tutt’oggi diffusamente, sebbene tacitamente, praticato3. D’altronde la credenza “nella forza malefica dell’occhio invidioso” era fino a pochi decenni fa attestata

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in percentuale amplissima (Satta 1980, p. 94). Nel Campidanese, il malocchio è detto s’ogu malu (“l’occhio malvagio”) e fare il malocchio si dice ponni ogu, oghiai, oppure iscorai de ogu (“mettere l’occhio, adocchiare o colpire al cuore con l’occhio”). Chi è colpito dal malocchio, pigau a ogu (“preso dall’occhio”), avverte vari malesseri quali nausea, dolori intestinali, febbri persistenti, svenimenti e può anche divenire vittima di una serie di accadimenti avvertiti come inspiegabili e insoliti: gli oggetti domestici e gli strumenti di lavoro si guastano e si rompono da soli, gli alberi e le piante vengono assaliti da parassiti e si seccano, gli armenti e gli animali da cortile si ammalano e muoiono d’improvviso, manca qualcosa ??? affliggono la persona. Anche problemi sentimentali e di lavoro sono, non di rado, ritenuti derivanti dal malocchio. Non potendo entrare ora nelle numerose questioni connesse a questa credenza, in primo luogo la sua collocazione nel più ampio orizzonte del magismo sardo, mi limiterò a descrivere le attuali pratiche e credenze. Così come vi sono individui che consapevolmente o inconsapevolmente procurano il malocchio, vi sono operatori e strategie consolidate demandati a fare fronte a questa “aggressione”. In ordine alla trasmissione dei saperi può essere osservato che essi sono avvolti da un’aura di segretezza. Il trasferimento di formule e gesti può avvenire, come ampiamente rilevabile in altri contesti, solo in determinate condizioni di tempo e di luogo e può interessare solo soggetti dotati di particolari virtù. Rivelare i saperi inerenti lo scioglimento del malocchio, al di fuori di questi accorgimenti e prescrizioni, determina la perdita della loro efficacia. In certi contesti si ritiene che il malocchio non può essere fatto da un consanguineo ma può ben essere portato da un componente della famiglia che non sia dello stesso sangue: mancai unu connau o una nura (“magari un cognato o una nuora”), riferisce un’anziana informatrice di Quartu. Il malocchio colpisce generalmente al di fuori delle mura domestiche, raramente quando ci s’incontra tra vicini o conoscenti. Gli uomini vengono colpiti difficilmente dal maloc-

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chio, più spesso sono le donne a esserne vittima. Le donne sono però anche i soggetti che più facilmente gettano il malocchio. Tra loro si trovano le temibili brùscie (“fattucchiere, maghe”), “capaci con un’occhiata di bruciare l’erba verde”. Particolarmente potente è ritenuto l’occhio delle persone colte e dei preti. In possesso di saperi, poteri e competenze che sfuggono al controllo dell’uomo comune essi divengono temibili anche sul piano dell’immaginario magico. Lo “iettatore” è identificabile da precise caratteristiche fisiche, morali e comportamentali. Strabismo, monoculismo, affezioni della vista come la cataratta, la presenza di puntini nella pupilla (anniaddi), l’abitudine di guardare fisso, l’essere considerato invidioso, malvagio, malizioso, sono attributi del potenziale iettatore. Non di rado lo sguardo malevolo è accompagnato da un apprezzamento per la persona o la cosa “da colpire”. Tutti e tutto possono cadere vittime del suo occhio, ma i bambini sono i soggetti tradizionalmente considerati più vulnerabili. La facoltà di contrastare gli ogus ’e brùscia (“occhi di strega”) ed eliminare il malocchio, si tramanda per linea femminile (da mamma a figlia o da nonna a nipote). Chi conosce queste pratiche non può accettare denaro per l’esecuzione del rituale, pena la sua inefficacia. La guaritrice deve essere in ogni caso una donna pia e caritatevole. Il rito ha il duplice scopo di verificare la presenza dell’occhio e di guarire la vittima. L’operatrice (sa majargia, Lanusei), generalmente una donna, dà avvio al rito pronunziando la formula: Po saludi ti servidi (“ti serva alla salute”); cui la vittima del malocchio deve rispondere: Deus ti du paghidi (“Dio te ne renda merito”). Componente essenziale del rito è l’acqua. Questa viene “incantata” attraverso una formula, ripetuta tre volte: “Eu, o acqua, ti battizzu in nomini de Deus e de Santu Giuanni Battista”. Il rito dell’incantamento è accompagnato da una precisa gestualità (con le mani si tracciano croci nell’aria, sul recipiente utilizzato, sull’affatturato aspergendone la fronte, le tempie, le ginocchia e i polsi) e dall’esecuzione di oraziones o pregadorias. Queste, come s’è detto, sono segrete; ecco

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perché anche durante il rito vanno pronunciate a bassa voce e in modo non chiaramente comprensibile. Nel Campidano si utilizza un bicchiere d’acqua, che deve essere santa oppure salata generalmente usando tre grani di sale che purificano l’acqua in sostituzione alla benedizione del prete. Esistono, tuttavia, diverse varianti di questa pratica, ad esempio: si mettono tre o più chicchi di grano (o riso) nel bicchiere colmo d’acqua, facendosi tre volte il segno della croce; se i chicchi si gonfiano o si coprono di bollicine è segno che il “paziente” è caduto vittima del malocchio. In questo caso, egli deve bere l’acqua, oppure l’“operatore” la butta alle sue spalle. In luogo del grano possono essere utilizzati anche carboni o pietre dalle particolari caratteristiche che vengono ereditati al momento del trasferimento dei saperi. Il malocchio si può togliere anche con l’ausilio di un occhio di Santa Lucia (opercolo di un mollusco marino) che viene immerso nel bicchiere. Un’altra versione prevede l’uso di olio, che viene versato tracciando una croce su un piatto o un bicchiere pieno d’acqua salata. In questo caso l’operatrice fa scivolare dall’indice destro tre gocce d’olio nell’acqua e desume la gravità del malocchio dai movimenti e dalla forma di queste. A titolo d’esempio riportiamo alcuni brani di interviste realizzate da Simone Ligas a Lanusei (1) e da Valentina Calvisi e Agostino Piras a Stintino (2)4. In ambedue i casi a parlare sono anziane signore: 1) Ero una ragazza, quando mia nonna, prima di morire mi ha trasmesso questo dono. Vengono da me tante persone, certe hanno dei malesseri fisici e certe perché all’improvviso gli affari o l’amore non vanno più tanto bene e sono convinti di essere stati colti da malocchio. (…) Faccio il segno della croce con la mano sinistra, prendo un bicchiere dove verso l’acqua che è stata benedetta. Dentro l’acqua verso tre piccoli carboni accesi e sempre con la mano sinistra, che ho usato per il segno della croce, accarezzo il bordo del bicchiere e dico le preghiere. (…) Queste non posso dirle a nessuno. Solo quando ritengo che una persona sia degna di ricevere questo dono glielo rivelerò come fece mia nonna con me. (…) Questo rito va eseguito per tre gior-

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ni di seguito prima del tramonto del sole. Il terzo giorno con quest’acqua faccio il segno della croce sul capo e sul collo della persona, poi mi giro con le spalle verso il camino e con la mano sinistra butto uno alla volta i carboni al fuoco. Faccio bere tre sorsi di quest’acqua alla persona interessata e poi la butto al fuoco. Il rito così è finito e di solito queste persone restano soddisfatte. 2) La medicina del malocchio che pratico mi è stata insegnata da un’anziana signora della Nurra e sono l’unica qui a Stintino a farla così. Il rito consiste nel prendere nove chicchi di grano e un bicchiere di vetro riempito d’acqua a metà. Inizio pensando il nome di battesimo della persona, faccio il segno della croce col chicco di grano prima su me stessa e poi sul bicchiere recitando delle preghiere e infine butto il chicco nel bicchiere. Il bicchiere deve toccare la testa dell’interessato. Questa operazione va ripetuta per tutti i nove chicchi. Si capisce dall’inizio se c’è il malocchio, se i chicchi immersi nell’acqua fanno delle bollicine. Se le bollicine sono tante c’è tanto malocchio, se sono poche ce n’è di meno, se non dovessero esserci bolle vuol dire che non c’è malocchio. Poi prendo una forchetta o comunque qualcosa di appuntito per schiacciare tutte le bollicine e i chicchi, per ammazzare il malocchio. Prendo un cucchiaino dove metto un goccio d’olio d’oliva e mi faccio il segno della croce e lo ripeto sul bicchiere. Dopo si versano tre gocce d’olio dal cucchiaino nel bicchiere: in questo modo si capisce se il malocchio è stato tolto. (…) Lo capisco se l’olio immerso nell’acqua si sparge, e in quel caso c’è ancora il malocchio, oppure se le tre gocce d’olio restano intatte significa che sono riuscita a toglierlo. Il bicchiere va poi svuotato nel lavandino con la mano sinistra, quella che ho usato nel rito.

A prescindere dai diversi “ingredienti” utilizzati (sale, grano, carbone, pietre), l’acqua resta l’elemento comune e indispensabile per compiere il rituale. Non diversamente, al di là della molteplicità dei riti e dei simboli rituali che vengono utilizzati nella “medicina dell’occhio”, la presenza dell’acqua, il suo potere di divinare la presenza del male e contribuirne alla eliminazione attraverso l’ingestione e il contatto, ne rivelano il sostanziale potere lustrale e terapeutico, lo stesso potere che viene riconosciuto alle acque benedette dei santi. In

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questo caso l’intrinseca sacralità dell’acqua non è esaltata attraverso “orazioni” e riti, ma è donata ad essa in quanto acqua “del santo”, quasi fosse sua stessa emanazione.

L’acqua di san Lussorio Un significativo esempio di “acqua santa” è quello legato al culto di san Lussorio a Romana, paese di poco più di 600 abitanti della provincia di Sassari, il cui territorio è caratterizzato dalla presenza di fenomeni carsici e di diverse sorgenti, alcune delle quali ritenute “sacre” almeno in epoca punico-romana come attestato dal ritrovamento presso queste di varie statuette votive. A circa 4 km dall’abitato sorge il santuario di san Lussorio, una chiesa campestre che ingloba nell’abside una grotta. Dalle pareti di questa trasudano per stillicidio delle acque – che si raccolgono in una cuppella scavata nel pavimento calcareo e in varie altre piccole cavità circolari –, cui è tradizionalmente ascritto un potere taumaturgico. Particolarmente efficace l’abba miraculosa di san Lussorio, era ed è ritenuta pro su dolore e sa conca (“per il mal di testa”). Essa era comunque utilizzata come rimedio per molteplici malanni: “la prendevano per portarla ai malati, e dicevano che faceva bene e guariva dai mali”. Anche i sacerdoti “la consideravano acqua santa; si bagnavano la mano e si facevano il segno della croce”. Al santo sono tutt’oggi dedicati riti pubblici. La festa, che si svolge il 21 agosto, è richiamo per i fedeli provenienti dai paesi limitrofi. Tra questi numerosi pastori che soppraggiungono in prossimità del santuario unitamente alle loro greggi e, riunitisi in una tanca, collaborano tra loro alla tosatura delle pecore. La festa dunque, oltre che un’occasione per entrare in contatto con il santo e le sue benefiche “acque”, è anche un momento di rilevante valore sociale, un luogo elettivo in cui si rinnovano rapporti di amicizia, fondati sul rispetto e la reciprocità, attraverso la condivisione del lavoro, del pasto (gnocchetti, carne di pecora al sugo, agnelli arrosto e vino) e di altri tradizionali momenti conviviali

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(canti, danze, giochi) che si susseguono nel corso della giornata. La sera è il momento delle celebrazioni religiose: la sacra funzione, la processione del simulacro accompagnato dai fedeli, dalla Confraternita della Santa Croce, da vari gruppi in costume. Senza bisogno di ricorrere ad altri esempi è facile constatare che nel caso delle acque, così come è avvenuto per altri importanti simboli sacrali, come il fuoco o l’albero (cfr. Buttitta I. E. 2002b; 2006a), miti e riti arcaici sono stati riconvertiti entro una cornice cristiana. Scrivendo nuove storie con antichi materiali la Chiesa ha operato una complessa e sistematica risignificazione e rifunzionalizzazione di culti, pratiche e credenze, garantendone, almeno a livello fenomenologico, il protrarsi nel tempo. Nel caso specifico veniva in aiuto il simbolismo delle acque già presente nell’Antico Testamento, nei Vangeli e nelle successive dotte elaborazioni della letteratura patristica. Non sorprende pertanto constatare acque battesimali, acque lustrali, acque benedette costituire componenti normalizzate del corredo liturgico ed extraliturgico. La condanna dei culti delle acque è di fatto, insieme a quella del culto degli alberi, uno dei motivi più ricorrenti nella letteratura agiografica, capitolare, conciliare e sinodale. Già Agostino osserva l’uso di offrire oggetti alle acque dei pozzi e delle fonti templari (Lettere, 47, 4) e Cesario di Arles nei suoi Sermones si scaglia ripetutamente contro l’uso di frequentare le fonti a scopi cultuali, di ad fontes orare e ad fontes adorare (XIII, 5; XIV, 4; XXXV, 4; LIII; LIV, 5). Più tardi sant’Eligio di Noyon invita i suoi fedeli ad abbandonare questa pratica idolatrica (Vita Eligii, II, 16). Così diversi Concili e Capitolari tornano a condannare tali pratiche (cfr. Spanu 2008, pp. 1034 sgg.). Tra l’altro nel XII Concilio di Toledo ritorna l’ammonizione per “excolente sacra fontium, ut agnoscant quod ipsi se spontaneae morti subiciunt” (Concilium toledanum, can. XI) e nel Capitolare de partibus Saxoniæ promulgato da Carlo Magno si sanzionano per fasce di reddito coloro che “ad fontes votum fecerit” (26, 21).

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L’antico simbolismo dell’immersione purificatoria e rigeneratrice nell’acqua fu arricchito dal cristianesimo di nuove valenze religiose attraverso la lettura del Vecchio e del Nuovo Testamento (cfr. Cabrol 1921, IV, 1, coll. 16801690). I padri della Chiesa, infatti, sfruttarono i valori del simbolismo acquoreo diffusi nei sistemi religiosi precedenti interpretandoli all’interno del mistero della Redenzione (cfr. Cocchini 1983, I, coll. 38-41). Nel rituale battesimale l’uomo muore simbolicamente per mezzo dell’immersione e rinasce purificato, rinnovato, come Cristo risuscitò dal Sepolcro. È san Paolo nell’Epistola ai romani (VI, 4) a riconoscere che se mediante il Battesimo “abbiamo partecipato, per imitazione, alla sua morte, parteciperemo egualmente alla sua resurrezione” (cit. in Eliade 1948, p. 203). Ancor più esplicitamente san Giovanni Crisostomo scrive che il Battesimo: “Rappresenta la morte e la sepoltura, la vita e la resurrezione (…). Quando immergiamo la testa nell’acqua come in un sepolcro, il vecchio uomo è sommerso e sepolto tutto intero; quando usciamo dall’acqua, l’uomo nuovo simultaneamente appare” (p. 204). E san Cipriano di Cartagine, oratore pagano convertitosi al cristianesimo, nel III secolo descrive così la sua esperienza: “Alla fine decisi di chiedere il battesimo. Scesi in quelle acque che danno la vita e tutte le macchie del mio passato furono cancellate. Affidai la mia vita al Signore; egli purificò il mio cuore, e mi riempì del suo Santo Spirito. Ero rinato. Ero un uomo nuovo” (cit. in Rees 1992, p. 67). Storici delle religioni, etnologi, studiosi della cultura folklorica si sono dedicati allo studio dei complessi mitico-rituali entro i quali la presenza dell’acqua, al di là delle manifeste connotazioni cristiane, sembra rinviare a precedenti configurazioni sacrali (cfr. Bachelard 1942, pp. 182 sgg.; Di Nola, a cura, 1970, I, pp. 22-33; Eliade 1948, pp. 193-221 e 503506; González Alcantud, Malpica Cuello, a cura, 1995; Durand 1963, pp. 170 sgg.; Seppilli 1990; Van der Leeuw 1956, pp. 38 sgg.; Hidiroglou 1994. Cfr. Krappe 1952; Raymond 1958; Rudhart 1971; Masson 1985; Heritier 1986; Satta 2002). In ordine all’interpretazione delle espressioni e delle pratiche

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magico-religiose connesse all’acqua si pone però il problema della presunta universalità di certi apparati simbolici. Se è vero infatti che simboli come l’acqua, il fuoco, l’albero della vita, la montagna, ricorrono all’interno dell’universo magicoreligioso di culture tra loro lontane nello spazio e nel tempo, è pur vero che osservandone da vicino le declinazioni mitico-rituali e le attribuzioni di significato, emerge una complessità difficilmente riducibile a una lettura univoca. Di Nola (a cura, 1970, I, pp. 22-23) ha rilevato che nei confronti dell’acqua più chiaramente di quanto non sia avvenuto per altri fatti naturali e culturali, gli studiosi di morfologia e tipologia religiosa hanno accentuato le interpretazioni di tipo irrazionalistico e simbolico che, prescindendo dalla storia dei singoli contesti etnici e religiosi ed estraniandosi dalla considerazione meramente economica e utilitaria dell’acqua, (º) presentano un’immagine cosiddetta archetipale o “struttura” dell’acqua, astratta e falsamente universale.

Una corretta analisi deve fondarsi, avverte lo studioso, sulla osservazione delle realtà storico-economiche e a partire da queste “giungere ai posteriori processi di idealizzazione simbolica che si presentano, alcune volte, nelle religioni. L’acqua, sotto tale orientamento di ricerca, è una realtà culturale complessa che assume significati peculiari in rapporto alla varietà delle forme economiche” (ib.). Accogliendo questo suggerimento cercherò qui di seguito di enucleare dall’ampio insieme di credenze e pratiche relative all’acqua, alcuni dei motivi più diffusi all’interno di un limitato contesto storico-geografico, l’area euro-mediterranea (non senza ovvi riferimenti al mondo indo-iranico) e in ambiti segnati da forme di produzione agro-pastorale. Il simbolismo dell’acqua si ritrova variamente articolato in seno a diverse culture dell’area euro-mediterranea almeno a partire dal Neolitico (cfr. Corrain, Rittatore, Zampini 1967; Seppilli 1977; Dini 1980; Caulier 1990; Loicq 2000). È certo banale asserire con Maneglier (1991, p. 7) che “se l’uomo intrattiene con l’acqua rapporti particolari, è a

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causa dell’assoluta necessità che ha di questo elemento semplicemente per mantenersi in vita”. Eppure è proprio in questa “assoluta necessità”, nella consapevolezza che la vita umana, animale e vegetale, dipende dalla presenza dell’acqua, che vanno cercate le radici della sua assunzione simbolica da parte delle società agricole e pastorali. “Fecondità e accrescimento sono i suoi benefici doni” all’uomo; egli, “vedendo il suo campo vivificato dalla pioggia, dall’acqua sorgiva o dall’inondazione coglie (…) una rivelazione della potenza divina” (Van der Leeuw 1956, p. 39). Nei miti l’acqua si confonde spesso e non a caso col seme virile. È la pioggia espressione della divinità uranica, che feconda la Terra Madre permettendo la generazione delle messi. Ricorrente è la coppia divina Cielo-Terra, dove il primo rappresenta la divinità suprema e la Terra viene raffigurata come sua divina compagna (cfr. Eliade 1948, pp. 245-247; Dini 1980, in partic. pp. 11-30). Non diversamente divinità fluviali o lacustri, basti pensare al Nilo o al Tiberinus pater, incontrano la terra in un fecondo amplesso. Una invocazione assirobabilonese recita: “Tu, fiume che hai costruito tutto, / quando i grandi dei ti scavarono, / sopra le tue sponde posero prosperità. / Nel tuo interno Ea, il re dell’abisso, costruì la sua dimora. / (...) Fiume grande, fiume sublime, fiume retto, / regalaci la ricchezza della tua acqua” (Furlani, a cura, 1991, p. 60). L’acqua, portatrice di vita, è dunque dono divino, divinità essa stessa. Non può allora sorprendere che divinità acquatiche popolino i pantheon tanto indoeuropei quanto semiti, che esseri divini o semidivini abitino fonti, fiumi, laghi, e che l’acqua, infine, ricorra in numerosissimi rituali divinatori, lustrali, sacrificali, terapeutici. Gli dei e le dee che presiedono alle acque animate sono riferibili a quella che Dumézil ha chiamato “terza funzione”, propria degli strati sociali incaricati delle attività produttive in specie agro-pastorali. Essa implode “le nozioni di fertilità e di potenza guaritrice e vi sono frequentemente invocate le dee-madri, protettrici di piccoli gruppi sociali, compassionevoli e vicine alla sensibilità popolare” (Loicq 2000, p. 27).

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Se l’acqua celeste si caratterizza spesso come elemento maschile, seme virile, le fonti, le sorgenti, i pozzi, le polle d’acqua termale che scaturiscono dalle viscere della terra sono espressione della Grande Dea, della Madre Terra (cfr. Gimbutas 1989; 1999): acque terapeutiche e fecondatrici, abitate da divinità femminili, da ninfe poi da fate, per essere infine consacrate, in una continuità millenaria a sante e madonne (Harf-Lancner 1984). Eliade (1948, pp. 206-207) sottolinea come Alla multivalenza religiosa dell’acqua corrispondono, nella storia, numerosi culti e riti accentrati intorno alle sorgenti, ai fiumi e ai corsi d’acqua; culti dovuti innanzitutto al valore sacro che l’acqua, come elemento cosmogonico, incorpora in sé, ma anche all’epifania locale, alla manifestazione della presenza sacra in un certo corso d’acqua o in una certa fonte.

Ai culti delle sorgenti e dei corsi d’acqua cui accenna Eliade devono essere connessi, almeno a partire dall’età del Bronzo, quelli delle caverne profonde intese come passaggio verso le viscere della terra, sede di divinità ctonie, e certamente connesse alla sfera della fecondità. Osserva Peroni che “nei casi in cui da queste profondità sgorga una sorgente d’acqua, la connessione con tale sfera appare più evidente” (1994, p. 311). “L’Acqua viva, le fontane di giovinezza, l’Acqua di Vita ecc. sono le formule mitiche di una stessa realtà metafisica e religiosa” (Eliade 1948, p. 199). L’acqua è “sostanza magica e medicinale per eccellenza. Guarisce, ringiovanisce, dona la vita eterna” (p. 193). Nell’Atharva Veda (II, 3, 6) si dice che “le acque, in verità, sono risanatrici; le acque espellono e guariscono tutte le malattie” (ib.). Questa linfa vitale e rigeneratrice è però spesso difficilmente accessibile. Sgorga in antri oscuri, luoghi reconditi e pericolosi. È custodita da mostri, draghi, demoni, fate. Da dove deriva questa forza vitale che pervade le acque? Nella percezione arcaica le acque sono all’origine del cosmo, esse sono matrice delle diverse possibilità di esistenza, “fon-

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damento di ogni manifestazione cosmica, ricettacolo di tutti i germi, le acque simboleggiano la sostanza primordiale da cui nascono tutte le forme e alle quali tornano per regressione o cataclisma”. Le acque dunque: “precedono ogni forma e sostengono ogni creazione” (pp. 193-194). Senza bisogno di fare ricorso alla psicoanalisi, possiamo dire che alla connotazione dell’acqua come simbolo dell’origine deve aver dato il suo contributo la elementare constatazione che è essa a circondare il feto nel ventre materno. La vita dunque si forma all’interno delle acque ed emerge da queste. Non a caso un testo della tradizione vedica recita “Acqua, tu sei la fonte di tutte le cose e di ogni esistenza” (p. 193), non a caso le antiche cosmogonie del Vicino Oriente vedono il vivente emergere da un indistinto e caotico abisso primordiale. In Egitto era il Noun, il grande oceano anteriore al creatore di tutte le cose, a essere considerato fonte primaria e condizione della vita, riserva permanente delle fonti vitali. In Akkad, secondo l’Enuma elish, il poema della creazione, alle origini, solo le acque primordiali, l’abzu, si distendevano indifferenziate. Nelll’area indo-iranica ricorrono diversi miti cosmogonici sul tema delle acque originarie (Ries 2000, p. 25). Nella speculazione filosofica antica, non diversamente, l’acqua assume un ruolo essenziale nella creazione dell’universo. Talete Milesio annunziava che l’acqua era “il principio di tutte le cose”. Per Empedocle l’acqua era uno dei quattro elementi dalla cui diversa unione avevano avuto origine tutte le cose. Egli cantava nel suo poema “degli elementi non generati, / il fuoco e l’acqua e la terra e l’immenso culmine dell’aria, / che mai non hanno inizio né hanno termine alcuno”: elementi da cui hanno origine “tutte le cose che furono e saranno, e le cose che sono”. Terra, aria, fuoco, acqua sono principio d’ogni vita. Nel corso delle feste notturne di Sabazio, il kernos, un recipiente ove si mescolavano i liquidi, veniva recato legato a una lampada a rappresentare simbolicamente “l’agire congiunto delle due forze fondamentali necessarie alla crescita d’ogni vita fisica, l’acqua e il calore” (Bachofen 1859, p. 205). Così nel-

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la terracotta la materia intrisa d’acqua viene messa in contatto col fuoco o col sole e in essa dunque alla matrice umida si aggiunge la forza del calore (p. 168). In Pausania leggiamo che secondo la comune opinione del suo tempo l’uomo doveva la sua origine al fatto che la terra umida, pregna d’acqua, fosse stata riscaldata dal sole (Periegesi, VIII, 29, 3-4). Una non dissimile concezione si ritrova in Plutarco: ogni creatura trarrebbe origine dalla duplice azione delle forze dell’acqua e del fuoco solare sulla materia terrestre, caratterizzata come elemento femminile (Quæstiones conviviales, 2, 3. Cfr. Macrobio, Saturn., VII, 16, 1-14 e Ovidio, Met., I, 442 sgg.). L’acqua è, insieme al fuoco, anche tra i principali mezzi impiegati nei riti di purificazione. Ricorderemo qui quello dei Parilia, celebrato a Roma il 21 aprile (Sabbatucci 1988, pp. 128-132. Cfr. Ovidio, Fasti, 4, 721-862; Dionigi d’Alicarnasso, Ant. Rom., I, 88, 3; Plutarco, Romulo, 2, 1-2; Plutarco, Quaestiones romanae, 97). I Parilia erano una delle due celebrazioni annuali dedicate a Pale (o alle due Pale), dea pastorum (Dumézil 1969, pp. 257-268). Alla dea venivano richiesti la protezione totale e permanente di pastori e greggi da malattie, la fecondità, l’allontanamento dei lupi e dei demoni, pascoli prosperosi, la buona qualità di lana e latticini, e “l’assoluzione dalle colpe involontarie che pastori e animali avessero commesso verso le divinità della campagna” (cfr. 1974, pp. 335-336). I mezzi di purificazione, accuratamente descritti da Ovidio, sono principalmente: l’acqua versata all’alba sulle pecore, dopo aver scopato e innaffiato il suolo dello stabbio e fuochi di legna e di paglia, attraverso i quali venivano fatti passare rapidamente gli uomini e gli animali (cfr. Ovidio, Fasti, IV, 760-775). Nella stessa Bibbia d’altronde gli oggetti impuri vengono fatti “passare per l’acqua” allo scopo di essere purificati: Eleazaro sacerdote disse ai combattenti che ritornavano dalla battaglia: “Queste sono le disposizioni di legge che il Signore ha ordinato a Mosè: solamente l’oro, l’argento, il rame, il ferro, lo stagno, il piombo, tutto ciò che può resistere al fuoco lo farete passare per il fuoco e sarà purificato, nondimeno sarà pu-

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rificato per mezzo delle acque di purificazione. Tutto ciò però che non può resistere al fuoco lo farete passare per l’acqua” (Nm., 31, 22-23).

Perché questa immersione rituale, questo sacro lavacro, monda d’ogni impurità ogni oggetto, d’ogni colpa ogni essere? Eliade (1948), recuperando un’arcaica credenza ribadita, come si è visto dal cristianesimo, chiarisce bene questo interrogativo quando scrive che L’immersione equivale, sul piano umano, alla morte, e sul piano cosmico alla catastrofe (il diluvio) che scioglie periodicamente il mondo nell’oceano primordiale. Disintegrando ogni forma, abolendo ogni storia, le acque possiedono questa virtù di purificazione, di rigenerazione e di rinascita, perché quel che viene immerso in lei “muore” e, uscendo dall’acqua è simile a un bambino senza peccati e senza “storia”, capace di ricevere una nuova rivelazione e di iniziare una nuova vita “propria” (p. 201).

Le abluzioni dunque mondano dalla colpa, da ogni impurità morale e materiale “annullando sia i peccati sia i processi di disintegrazione fisica o mentale” (ib.). Ecco dunque abluzioni, aspersioni, immersioni precedere i principali atti religiosi che preparano il contatto dell’uomo con la sfera del sacro. Prima di entrare nei luoghi sacri o di compiere i riti si procede dunque a lavare il proprio corpo mondando così simbolicamente anche lo spirito. “In Egitto, ogni tempio disponeva di un lago sacro, ricordo del Noun primordiale nelle cui acque si purificavano i sacerdoti prima di intraprendere le loro funzioni sacerdotali”; la preghiera musulmana del salat “è preceduta da abluzioni attraverso le quali il fedele si pone in stato di purità” (Ries 2000, p. 26). Non diversamente “nella cerimonia bramanica dell’upanaya, l’iniziato è asperso tre volte dal suo guru perché diventi un due volte nato” (ib.). Allo stesso modo il passaggio dalla dimensione sacra alla profana deve essere accompagnato da un rito purificatorio: “Nella legge levitica, il sacerdote che era entrato nel santuario, era tenuto a lavarsi e a togliersi gli abiti prima di riprendere i suoi contatti con gli altri, che erano

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restati estranei a una così eccezionale ed intensa esperienza di contatto con il sacro” (Lev., 16, 23 sgg.). Rituali aspersori con intenti purificatori sono conosciuti anche in relazione ai culti misterici laddove il futuro iniziato deve liberarsi dalle sue impurità prima di entrare nella nuova condizione. Il bagno rituale è veicolo di purificazione e liberazione dalle colpe nei Misteri Isiaci (Apuleio, Metam., XI), ma diviene vero e proprio rito di rigenerazione, previa la morte mistica dell’iniziando, nelle sequenze centrali dei Misteri Eleusini. Il candidato, nella cerimonia della Katharsis, si bagna, è immerso nell’acqua e riemerge con un nome nuovo, segno della sua nuova condizione (Clemente Alessandrino, Strom., V, 71, 72) (Di Nola, a cura, 1970, I, pp. 30-31).

Così il sacerdote greco che “aveva offerto un sacrificio di espiazione, doveva lavare se stesso e i propri abiti in un fiume (Porfirio, De abst., II, 44)” (p. 29). Abluzioni e lavacri rituali sono previsti in diversi contesti culturali anche nel passaggio da uno stato di impurità rituale alla vita comune: così nel caso del parto, del lutto, del contatto col cadavere, della malattia, dello spargimento di sangue. Se l’acqua è presentata in numerosi sistemi magico-religiosi come elemento rigeneratore, come sorgente d’ogni forma di vita, essa è anche ricordata come segno di dissoluzione, distruzione, morte (cfr. Saporetti 1982). L’acqua nella sua assunzione simbolica, come è per tutti i simboli, è ambivalente, veicolo e strumento tanto di prosperità quanto di morte. Se l’acqua è infatti necessaria alla vita, l’eccesso d’acqua porta alla sua fine. L’acqua si configura come un elemento aggressivo in potenza, tale che può imporre il caos sul cosmos. “Vi è – ha notato Di Nola (a cura, 1970, I, pp. 24-25) – un permanente rischio di riemersione del caos acquatico e di crollo delle strutture sociali e cosmiche, in uno status primordiale che è quello delle acque morte paludose o della piena violenta dei fiumi”. Appartengono a questo immaginario gli abissi marini, le paludi,

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il tema del diluvio universale. Per restare solo a quest’ultimo ne osserviamo la ricorrenza tanto in area semitica quanto indoeuropea. Dai poemi assiro-babilonesi, ai miti greci, dall’immaginario induista a quello giudeo-cristiano si fa presente l’idea di un’acqua mortifera, di un abisso che inghiotte senza scampo, che spegne ogni forma di vita. Da un lato dunque acque primordiali da cui la vita stessa viene creata, dall’altro acque apportatrici di morte. Ecco i miti sumeri di Utnapistim e Ziusudra, il paleo-babilonese di Atrahasis, l’antico-testamentario di Noè, il greco di Deucalione, l’induista di Manu. Il tema di un diluvio universale che distrugge tutto e che nello stesso tempo purifica dando origine a una nuova umanità, è la metafora di questa ambivalenza. Forse, più in generale, della esperienza ambigua che noi finiamo sempre con l’avere di ogni momento della realtà.

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Il tema dell’acqua miracolosa, fonte di vita, purificazione e rigenerazione ricorre peraltro in numerose fiabe e leggende (cfr. Caprettini, a cura, 2000, pp. 52 sgg.) 2 Ordalie sono attestate anche in Sicilia in relazione alle acque consacrate ai Paliki (cfr. Ciaceri 1910, pp. 30 sgg.; Lanternari 1951-53, p. 117 e note; Pettazzoni 1912, pp. 97-102). 3 Riporto qui in breve sintesi i risultati delle indagini svolte dai “miei” studenti di Etnografia della Sardegna della Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università di Sassari, negli anni accademici 2004-2005 e 2005-2006. In particolare ho fatto riferimento ai lavori di Francesca Boi, Maria Agostina Pulino, Simone Ligas, Valentina Calvisi e Agostino Piras, Francesca Bernardi, Valentina Muras e Maria Solinas. Le ricerche hanno rilevato la pratica in uso rispettivamente a: 4 Per più compiute descrizioni del rituale e per una esaustiva analisi del suo simbolismo rinvio a Satta 1980, pp. 99-104.

Capitolo sesto La spirale nella panificazione cerimoniale

Il sacro pane Il pane non solo materialmente è elemento costitutivo della mensa contadina. Che si tratti del pasto festivo, del desinare quotidiano o delle merende che scandiscono i tempi del lavoro, non può esservi un “mangiare” senza pane. I gesti che precedono e accompagnano il suo consumo sono ritualizzati e pregni di significati che trascendono il puro atto della nutrizione. Esito concreto di un ciclo stagionale di lavoro, il pane è “deputato a discretizzare il continuum temporale, a segnare permanenze e cesure, a misurare la durata delle settimane e delle stagioni” (Cusumano 1991, p. 87). Il pane è il grano, è la vita, pane spezzato, diviso, mangiato è il simbolo della comunità vivente, è veicolo di comunicazione sociale, immanenza stessa del sacro tra gli uomini. La sua manipolazione e il suo consumo sono pertanto soggetti a prescrizioni rituali sin dal momento dell’impasto. La sua produzione e il suo consumo sono accompagnati nelle società tradizionali da gesti ritualizzati, preghiere e formule di propiziazione e ringraziamento (cfr. Teti 1999, p. 61). L’impasto e la cottura sono accompagnati dalla recitazione di preghiere e segni di croce e non può essere infornato la domenica e i giorni festivi Non va posato sottosopra sulla mensa, il coltello non vi deve essere infisso permanentemente. Se cade in terra deve essere immediatamente ripreso e baciato ecc. (cfr. 1978, pp. 207; 269-270; 1999, p. 61; Cusumano 1991, pp. 70 sgg.; Buttitta 1992, p. 42; Angioni 2000, p. 103).

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Il pane dei morti Stante il fortissimo valore simbolico del pane nel mondo contadino, non sorprende che offerte e consumo ritualizzati di pane siano attestati in numerosissime occasioni cerimoniali. È un oggetto dotato di straordinaria potenza simbolica: microcosmo che accompagna gli uomini nei momenti topici del ciclo dell’anno e della vita, connettendo la vita e la morte. Non a caso pani plasticamente lavorati sono elemento caratterizzante e imprescindibile degli altari e delle mense allestiti in onore di san Giuseppe in Sicilia come in Puglia e Calabria, pani complessi artefatti cerimoniali, peraltro decorati con numerosi elementi vegetali (l’alloro, la palma, il mirto, l’arancio), destinati a ospitare gli alimenti ritualmente consumati dalla “Sacra Famiglia”, dagli “Apostoli”, dai Virgineddi, impersonati da poveri e bambini/e non di rado orfani (cfr. Buttitta 2006b; Giallombardo 1990; 2003). I pani dunque sono destinati a essere offerti e condivisi con figure che in ragione della loro “alterità”, sono demandate, nei contesti cerimoniali siciliani, e non solo, a rappresentare entità extraumane, in primo luogo i defunti (cfr. Lombardi Satriani, Meligrana 1989, pp. 135 sgg.; Buttitta 1995; Buttitta I. E. 2006a). La connessione tra bambini, poveri e morti cerimonialmente esibita in occasione della festa di san Giuseppe, si rende ancor più esplicita in occasione della celebrazione della commemorazione dei defunti. L’offerta di pani rituali ai poveri “in suffragio dei defunti” era infatti ampiamente diffusa in Sicilia (cfr. Pitrè 1913, p. 184; Uccello 1976, p. 51). Fino a poco tempo fa a Vita (Tp), il giorno della commemorazione dei defunti una lunga teoria di mendicanti si disponeva all’ingresso del cimitero e riceveva in elemosina degli speciali pani antropomorfi che, nella percezione di offerenti e riceventi, erano rappresentazione dei defunti. Anche a Vicari, venivano distribuiti ai poveri, insieme alle fave, speciali figurine antropomorfe di pane, dette armuzzi, cioè anime dei trapassati (Buttitta 1996, p. 253). Ad Avola, fino agli anni Sessanta, era diffusa la tradizione di preparare in casa i panuzzeddi rê motti, dei “piccoli pani rotondi, che, il giorno dei

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Morti, venivano distribuiti ai numerosissimi mendicanti disposti ai bordi della strada che porta al cimitero”. Tali pani si offrivano “con l’intenzione di arrifriscari l’armuzzi rê mutticeddi, cioè suffragare le anime dei parenti defunti” (Burgaretta 1988, p. 123). Cucchi si chiamano invece i pani di forma ovale con una croce incisa che le famiglie di Motta Sant’Anastasia donano ancora ai bambini il giorno della commemorazione dei defunti. Questi pani, un tempo preparati in casa, venivano distribuiti anche ai vicini e ai parenti. Chi donava riceveva in cambio la recita di una preghiera tradizionale cui veniva aggiunto il nome del parente defunto del donatore per il quale la cucchia era stata preparata: le cucchie venivano preparate per cibare i morti, perché la sera precedente la Commemorazione dei Defunti, tutti i morti scendevano in terra per fare una processione e in mano portavano ognuno la propria cucchia. Chi tra i defunti non la riceveva andava in sogno ad un familiare con un atteggiamento di rammarico (Fusto 2003-2004, p. 16).

Pani spiraliformi Ad Augusta, in suffragio delle anime dei defunti, si preparava la cùcchia, un pane realizzato dall’unione di due pani a forma di cornetto con le punte arrotondate uniti simmetricamente per il dorso. “Oltre a far celebrare numerose messe per l’anima del trapassato, i familiari commissionavano un certo quantitativo di cùcchia destinato ai poveri della città. Tante volte il pane era portato dalle Suore di S. Anna, e ancor prima presso i Conventi dei frati dei vari ordini per essere distribuito nelle mense dei poveri” (Carrabino 2003, p. 35). Il motivo della doppia spirale semplice o affiancata, rilevabile nella cùcchia di Augusta, ritorna in alcune altre panificazioni rituali. A Noto e Siracusa, per la commemorazione dei defunti, i dolcieri preparano con farina e miele i pasti ri meli che articolano in diversa maniera i motivi della spirale semplice o doppia (Uccello 1976, pp. 55 sg.). In forma di doppia spirale vengono confezionati, per i bambini, i pani di Modica e Canicattini Bagni detti uocci di Santa Lucia (p. 98).

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A Reitano, in occasione della festa di santa Lucia si preparavano, oltre che la cuccìa, degli speciali pani “attorcigliati a forma di occhio”, gli ucchidda (Falcone 1977, p. 89). Pani che dopo essere stati benedetti in chiesa venivano distribuiti tra amici e parenti. A Longi, il venerdì santo si preparano i luneddi. Si tratta di piccoli pani avvolti a spirale stretta e nel mezzo hanno un’impronta come di una mano. Il frumento con cui sono fatti i luneddi è richiesto d’estate dalle famiglie delle varie confraternite, sotto forma di questua; quelle stesse famiglie, poi si interessano a farlo macinare ed infine lo danno ai fornai. Per devozione, quelle pie famiglie distribuiscono ai fedeli i luneddi (pp. 61-62).

Ricorrenti i pani di forma spiraliforme anche nelle mense di san Giuseppe. Un pane a S le cui spire si avvolgono intorno a delle sfere anch’esse di pane ricorre nelle tavole di Santa Croce Camerina. Così a Cattolica Eraclea, dove è tradizione preparare li pucciddati, pani “a forma di ghirlanda circolare, con una lustratura prodotta dal bianco d’uovo e guarniti con semi di sesamo” (Spoto 1980, p. 111). A Mirabella Imbaccari, per la stessa occasione, si osserva invece il motivo della doppia spirale affiancata, nella cuddura destinata ad aprire la mensa del Santo falegname. Il suo taglio in due parti disuguali (la parte esterna sarà custodita dalla padrona di casa per essere successivamente ridotta in polvere e mescolata alle sementi) segna infatti l’inizio del pasto rituale (Perricone, 2005, p. 18). Nei pani cerimoniali a doppia spirale, o che si presentano comunque come unione di due elementi gemellari, si è voluta vedere una stilizzazione dell’atto sessuale, della copula, in relazione al fatto che il termine cucchia può essere inteso oltre che nel senso di “coppia”, “paio” anche in quello di “copula” e di “organo sessuale femminile” (cfr. Pitrè 1889, IV, p. 350; Uccello 1976, p. 68; cfr. Piccitto, a cura, 1977, p. 797). Se il valore di questa evidenza etimologica che conduce a una semplicistica eziologia di genere non può essere negato, più in generale può dirsi che i pani doppi, pre-

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sentandosi come unione di figure contrapposte e complementari si inseriscono in un simbolismo ampiamente attestato nel tempo e nello spazio, dalle indubbie implicazioni cosmologiche e di cui l’esempio più noto è quello dello Yin e Yang cinesi. Sulla base di queste evidenze proverò a condurre, pur consapevole dei rischi di certe facili suggestioni iconologiche, alcune riflessioni in ordine alla relazione simbolica intercorrente tra pani cerimoniali, simbolismi spiraliformi e culto dei defunti.

Portelli tombali a Castelluccio La doppia spirale affiancata presente nei pani cerimoniali siciliani richiama molto da vicino, come già aveva notato Uccello (1976, p. 56) che vedeva in essi una raffigurazione di valore apotropaico degli occhi, le decorazioni a bassorilievo di due portelli tombali provenienti da Castelluccio. Questi raffigurano il primo (tomba 31) “una composizione simmetrica composta da due spirali affiancate in alto le cui appendici terminano in basso divaricandosi e dando spazio ad un elemento a forbice la cui estremità superiore si inserisce perfettamente tra le due appendici inferiori delle spirali soprastanti”, il secondo (tomba 34) “quattro spirali simmetriche contrapposte a due a due e legate da una doppia modanatura che si restringe al centro” (Tusa 1994, pp. 131132). Motivi spiraliformi non sono d’altronde estranei alle culture isolane. Ricordiamo in proposito una pintadera fittile, proveniente dalla zona collinare tra Monte Maio e Dessueri in territorio di Gela, decorata nello stile di Serra d’Alto che presenta una doppia spirale con affiancate due spirali più piccole (Panvini 1996, p. 11). Sia che si voglia riconoscere a queste rappresentazioni una raffigurazione dell’atto sessuale e conseguentemente nella spirale una stilizzazione della vulva e/o dei seni, sia che vi si voglia vedere una rappresentazione stilizzata di divinità femminili della fertilità, sia, più genericamente, si voglia individuare in questa enigmatica immagine l’unione di principi cosmici contrapposti, al

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simbolismo delle lastre castellucciane va attribuito a nostro avviso un valore protettivo e vitalistico-propiziatorio associato al tema della fecondità e della rinascita. Esse cioè si presentano come documenti di “una ideologia religiosa basata sulla centralità della fertilità e di esseri sovrumani che a essa sovrintendevano” (Tusa 1994, p. 133). Quanto osservato sui portelli castellucciani può riferirsi ai pani cerimoniali di Mirabella Imbaccari come agli altri esempi di pani spiraliformi e, più in generale, a molteplici credenze e simboli rituali tuttora osservabili in ambito folklorico. L’ipotesi può essere sostenuta da un’analisi contestuale dei reperti (immagini/oggetti) ma può essere meglio suffragata da un ampio esame della diffusione del simbolismo della spirale e dalle relative interpretazioni che ne sono state formulate.

Forme e diffusione del motivo della spirale È stata formulata l’ipotesi che il motivo spiraliforme si sia imposto a partire da esempi “naturali”, animali, in particolare la lumaca, il nautilus ecc., o vegetali (Zervos 1956, p. 44; Boas 1927, p. 161). Le stesse ammoniti, su cui certo si era esercitata la curiosità dell’uomo preistorico, costituiscono un ottimo esempio di avvolgimento spiraliforme. C’è anche chi non ha mancato di fare riferimento a un “invisibile” DNA umano. D’altro canto alcuni autori hanno voluto accreditare alcuni motivi ricorrenti nell’arte parietale e segnatamente megalitica, come appunto quello della spirale, di una “entoptic origin” correlata a “certain altered states of cosciousness”, provocata dall’uso di sostanze allucinogene (Lewis-Williams, Dowson 1993, p. 62). È ovvio, tuttavia, che al di là di ogni più o meno fondata questione morfogenetica quanto interessa mettere in evidenza è il senso o i sensi attribuiti a queste forme nelle diverse culture e in definibili contesti d’uso. Per una più ampia comprensione di questo motivo iconico, bisogna partire dall’osservazione che raffigurazioni

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di spirali semplici, doppie, doppie affiancate e contrapposte, singole o reiterate sono ampiamente attestate, almeno a partire dal neolitico per divenire motivo assai diffuso in tutto l’areale euro-mediterraneo tra la metà del VI e la metà del IV millennio a.C., e conoscere successivamente numerose applicazioni nei millenni successivi (Gimbutas 1989, pp. 121 sgg., 279 sgg. e 293 sgg.). I motivi spiraliformi ricorrono in effetti in molteplici perimetri storico-geografici, dall’Egeo a Malta, dall’Europa atlantica alla Sardegna e alla Sicilia, dall’Anatolia occidentale e ai Balcani, al Vicino Oriente e al Nord Africa. Non di rado, in contesti templari e funerari o comunque esplicitamente riferibili a credenze e rituali magico-religiosi come nel caso dell’arte suntuaria e dei manufatti d’uso bellico. La distribuzione dei motivi a spirale nei manufatti (ceramici, metallici, lignei, cornei ecc.) nonché sulle decorazioni parietali (pitture, incisioni, bassorilievi ecc.) si presenta amplissima nella preistoria e protostoria euro-mediterranea ponendo tra l’altro il problema della individuazione di un eventuale centro di diffusione (cfr. Mackenzie 1926, pp. 47-138). Evans (1894), per esempio, a partire dall’esame dei rapporti tra i motivi a spirale di alcuni scarabei egiziani con analoghi simbolismi egeo-cretesi, osservava: Nell’attuare i primi tentativi di commercio gli stessi motivi spiraliformi erano ancora da diffondere lontano, fino al bacino danubiano, e di lì in giro dalla valle dell’Elba alla Amber Coast del Mare del Nord, per sostituire la popolazione scandinava dell’età del bronzo insieme ai loro principali disegni decorativi. Adottato dalle tribù celtiche nelle aree dell’Europa centrale, questi motivi presero un po’ più di tempo per diffondersi nelle aree a ovest, raggiungendo la Bretagna con l’invasione del Belgio, e sopravvivendo infine nell’arte irlandese. La grande importanza di queste scoperte cretesi è che loro sono alla fine l’anello mancante in questa lunga catena, e dimostra la connessione storica fra le prime forme europee di motivi a spirale e i disegni decorativi degli scarabei della dodicesima dinastia egizia. È degno di nota che nello stesso Egitto, così lontano come è possibile dedurre dai dati a nostra disposizione, questo sistema a spirale di ri-

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torno, che può essere riportato indietro alla quarta dinastia, è ovunque il primi stadi di questa evoluzione circoscritta agli scarabei. Le prime imitazioni Egee sono nello stesso modo confinate a lavori in pietra, e solo in epoca successiva questi lavori si trasferirono al metallo e altri materiali. Il peso pieno dell’evidenza archeologica in questo modo sopperisce contro le teorie generalmente ricevute sostenenti che l’ornamento a spirale, così come apparì nell’arte micenea, fosse originato da lavori in metallo: sebbene la sua tarda applicazione a questo e a altri materiali naturali avvenne nei suoi sviluppi conseguenti. Sembra non senza improbabile significato che questo primo sistema a spirale egeo nato da questo antico contatto egizio cominciò a diffondersi in direzione nord, in una data anteriore ai grandi giorni di Micene. È almeno una notevole circostanza che nei depositi dell’Età del Bronzo dell’Ungheria cominciarono a venire alla luce certi stampi d’argilla con disegnata una spirale quadrupla che può esser stata copiata direttamente dalle rappresentazioni sui sigilli in pietra delle steatiti cretesi. Non mancano indizi riguardo al segno lasciato dal sistema a spirale dell’Egeo nell’artigianato italiano (pp. 329-330).

Più di recente Wallis (1929, p. 765), rilevava: La spirale fu introdotta nell’area dell’Egeo dagli invasori giunti in Tessaglia dalla Transilvania, dalle via della Bulgaria e della Tracia, o almeno la loro cultura si diffuse lungo questa rotta. Non apparve a Creta fino agli inizi del Minoico II, donde si diffuse nell’area dell’Egeo. Da li viaggiò sulla rotta danubiana verso la Scandinavia, di là in Irlanda, e dalle coste dell’isola britannica Emerald. Nel frattempo il centro di distribuzione si spostava a nord e ovest, per la spirale non si viaggiava con la stessa facilità verso est o sud, sebbene, certo, il luogo d’origine non fu spostato. Il luogo d’origine quindi non deve rimanere il centro dell’area di distribuzione;

e, Myres (1933, pp. 283-284), ripercorrendo gli studi sulle origini della civiltà “egea”, tra l’altro, notava: A riguardo de Le Mirage Oriental di Reinach giunge il Eastern Question di Antropologia di Sir Arthur Evans. Evidenze pa-

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leolitiche supportano le argomentazioni di Sergi per il selvaggio e continuo diffondersi di una “razza mediterranea” da un punto preciso nell’Africa camitica. I filologi concedono tempo per la differenziazione delle lingue. La civiltà egea, nelle sue due fasi principali “amorgine” e “micenea”, era una esuberanza locale con dentro una grande provincia “anatolo-danubiana”, con congiunte stoffe-ceramiche dal Mondsee a Cipro, e un’osservanza religiosa su vasta scala di figure di donne nude, che entrambi Sir Arthur Evans e Reinach hanno già discusso. Anche all’interno di questa provincia, gli ornamenti a spirale generati ad Amorgine intagliati non in pietra ma in filo metallico arrotolato, come Milchhoefer e gli archeologi del Nord avevano proposto ed erano copiati in argilla a Butmir, dipinti a Lengyel, in metallo in Ungheria, da lì si diffusero lontano, in Scandinavia e anche in Irlanda. Le spirali di Hitler arrivarono comunque anche nelle culture del Mediterraneo occidentale. Origini indipendenti sembrano fuori questione, da quelle parti c’erano spirali già nell’arte paleolitica. Le spirali egizie in pietra apparvero presto, contemporaneamente alla IV Dinastia, e divennero il prototipo di Amorgine nel XII sec., quando anche Creta, analogamente, le prese in prestito; e nei “Shaft tombe” spirali di pietra sono stati copiati nei rilievi metallici. Quest’abile assimilazione di tecniche e disegni stranieri è caratteristica della cultura egea, abbraccia motivi babilonesi bene quanto quelli egizi, e li supera nella nascente arte dell’Europa centrale. Ma all’“indebitamento” non deve essere permesso oscurare il fatto che ciò che era in prestito è anche assimilato, in completo contrasto con la noiosa collocazione fenicia dei motivi estranei ed eterogenei. Infine la cultura egea ripagò il suo debito all’Egitto con la sua influenza artistica della XVIII Dinastia.

Sulla questione dell’origine egea o danubiano-balcanica del simbolismo spiraliforme diffuso in area euro-mediterranea nonché sui rapporti tra i due centri di diffusione si concentrerà ampiamente anche Gordon Childe (1930) con particolare attenzione alle culture est-europee e alla cultura di Dimini (1922). Iniziando l’esame dei materiali della stazione neolitica di Schipenitz, in Bukovina, lo studioso inglese ritornerà a osservare:

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La famosa cinta della terra nera dell’Europa sud-orientale, come la corrispondente regione Loess della valle del Danubio, fu il centro di una brillante cultura neolitica distinta da una notevole plastica dell’argilla e stoffe riccamente dipinte. Questa cultura ha acquistato sempre più rilievo negli ultimi anni. Specialmente dovuto alle connessioni che mostrano le sue caratteristiche ceramiche, o si propongono di mostrarle, con quelle dell’Egeo (1923, p. 163).

È comunque da rilevare che vari materiali, tra cui ceramiche incise, orecchini e diverse spille del periodo eneolitico danubiano (culture di Cucuteni, Gumelnitza, S?lcutza) presentano motivi a doppia spirale che ricorrono analoghi in Anatolia e sono attestati fino alla valle dell’Indo, rendendo assai difficile stabilire una cronologia assoluta tra materiali egeo-cicladici, anatolici e sud-est europei (cfr. Dumitrescu 1970; Kerényi 1966, p. 72; Campbell 1959, pp. 488 sgg.). Analogamente può dirsi per i rapporti tra Creta minoica, Penisola Balcanica ed Egitto i cui esiti restano tuttora non chiaramente definiti, alimentando un’ampia discussione sull’origine “continentale ou minoenne des certains motifs artistiques”, tra cui, appunto, quelli spiraliformi (Vercoutter 1951, p. 205). Per esempio Kantor (1947, p. 102) osserva: Abbiamo già visto che il periodo MM II fu la grande epoca dell’espansione cretese, e che nel tardo Minoico solo poche caratteristiche collegano quest’isola all’Egitto. Contrariamente all’idea predominante generalmente, adesso appare che anche agli inizi del periodo LH 1-11, gli uomini di mare del continente portarono prodotti dell’Egeo in Egitto e allo stesso tempo cominciò a svilupparsi il loro commercio con l’Asia. I cambiamenti nell’arte egiziana attribuibili all’influenza micenea sono stati discussi. In Asia, segni comparabili di influenze occidentali sono assenti lungo il XVI e XV secolo, fino agli inizi del XIV secolo. I disegni a spirale come quelli del sigillo di Ir-Mermer, re di Tunip, potrebbero riflettere possibilmente i prototipi egei, ma l’evidenza disponibile al presente non indica che elementi dello stile faunistico egeo, come il galoppo volante, fossero adottati in Asia a quei tempi.

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Non è l’individuazione di una o più aree di origine del simbolismo spiraliforme tuttavia la questione di nostro interesse, piuttosto il valore attribuito a tale simbolismo dalle diverse culture. Come hanno osservato Bianchi Bandinelli e Paribeni (1976, p. 11): La radicata abitudine di cercare l’origine di ogni forma artistica nelle influenze e derivazioni esterne è quanto mai antistorica e lontana dall’effettivo processo genetico dell’arte, assai più ricco di significati di quanto non ne veda chi la impoverisce risolvendo tutto con fenomeni di influenza. Specialmente nelle civiltà più antiche, infatti, le caratteristiche tendenze delle forme artistiche ad esse peculiari si determinano in modo chiaro ed esplicito proprio nelle fasi iniziali, le più ricche di spontaneo bisogno di esprimersi attraverso le forme sensibili.

D’altro canto, rimandando per il problema della formazione dei simboli a quanto precedentemente osservato (cfr. cap. I), ricordiamo che il processo di acquisizione di tratti culturali provenienti dall’esterno segue dei percorsi ben chiariti da Jakobson e Bogatyrëv (Jakobson 1985). Nel nostro caso la spirale e il suo valore simbolico vengono accolti ed eventualmente riformulati con nuove e diverse sfumature, in presenza di un’esigenza, diffusa e condivisa, preesistente nella cultura acquirente. Senza nessuna pretesa di esaustività, estrapolando tra i molteplici esempi possibili, mi limiterò a segnalare il ricorrere di questa iconografia in diversi contesti e varie epoche allo scopo di rilevarne l’amplissima diffusione e cercarne di comprenderne i valori simbolici. Una delle più antiche raffigurazioni della spirale proviene da una sepoltura infantile paleolitica di Mal’ta, nella zona del lago Baikal. Accanto allo scheletro di un bambino di circa quattro anni sono state, infatti, rinvenute delle collane in grani d’avorio con medaglione a forma di uccello e un medaglione recante su un lato incise tre figure ofidiche e sull’altro un disegno a spirale a sette circonvoluzioni (Campbell 1959, pp. 378-379). Si tratta di un caso isolato che tuttavia sembra suggerire la

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presenza di una relazione tra motivi spiraliformi e temi della rinascita che troveranno più esplicita associazione nelle epoche successive. Dalle località di Sesklo (V-IV millennio a.C.) e Dimini (III millennio a.C.) in Tessaglia, provengono numerose statuette femminili steatopigie e ceramiche con motivi geometrici a nastro, a meandro e a spirale che mostrano notevoli analogie con materiali macedoni, rumeni (cultura di Cucuteni), ucraini (cultura di Tripol’je) e, più in generale, con vari reperti del bacino del Dnjester (Bianchi Bandinelli, Paribeni 1976, pp. 7-8). Di fatto notevole diffusione hanno i motivi spiraliformi, sia in sequenza, “running spirals”, sia a doppia spirale contrapposta, “S-spiral”, nelle decorazioni ceramiche neolitiche dell’area Dniestrodanubiana (Ucraina, Moldavia, Transilvania, Iugoslavia, Bulgaria Ovest, Ungheria Sud-Est). In particolare dalla documentazione disponibile può dirsi che il motivo a doppia spirale contrapposta sia “uno degli elementi basilari delle decorazioni della regione dniestro-danubiana, un elemento, i cui mutabilità e cambiamenti mostrano un’evidente vitalità e una lunga evoluzione nell’arte decorativa di questa regione della civilizzazione neolitica” (Kandyba 1936, p. 246. Cfr. Campbell 1959, pp. 488-489). Spirali variamente articolate si ritrovano peraltro nei decori fittili della ceramica del tipo Cucuteni (Romania) della fine del V millennio e in molteplici espressioni apparentemente più tarde della cultura figurativa minoica (Milo, Festòs, Mallia, Hagia Triada ecc.) e segnatamente nella produzione ceramica (Platon 1975, figg. 44, 47, 82, 98, 102, 113). La spirale compare, come ricorda Kerényi (1966, p. 71), a decoro di soffitti, pareti e portali dei palazzi di Cnosso e di Tirinto e nelle tombe a tumulo di Micene e di Orcomeno. Tra l’altro una splendida tavola delle libazioni con quattro coppie di spirali contrapposte in altorilievo, ascrivibile al Minoico medio, è stata rinvenuta a Festòs (Nilsson 1949, pp. 152-153). Tra i materiali micenei merita di essere ricordata la coppa in oro a quadrupla spirale appartenente al cosiddetto “tesoro di Egina”, motivo sul quale Evans (1892-93, p. 197) osserva: “La quadrupla disposizione di questo motivo, il singolo

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manico, e proprio il generale contorno della coppa, richiamano curiosamente una classe di vasi di terracotta caratteristici dell’età del bronzo ungherese”. Diverse attestazioni di simbolismi spiraliformi si segnalano nei Balcani e segnatamente in Grecia e negli arcipelaghi. “Running spirals” e spirali singole ricorrono numerosissime nei materiali ceramici relativi a Lerna (Heat Wiencke 1998). Tra questi ricchissimi motivi, “a stampo”, a spirale semplice o in sequenza fanno parte delle decorazioni di numerosi pithoi relativi a Lerna nei livelli dell’antico elladico, tanto che questi motivi insieme a quello dei cerchi concentrici possono essere considerati come i “typical design for the entire period” (1970, p. 104). Analoghi simbolismi, “may be designs symbolic of regeneration”, si rinvengono in diversi materiali ceramici provenienti dalla necropoli di Aghios Kosmas (Mylonas 1959). Tra i materiali cicladici di questo periodo, segnatamente dell’Early Cicladic II, vanno segnalati dei particolari piatti circolari forniti di piede (spesso duplice) il cui fondo si presenta interamente decorato con vari motivi, assai spesso con sequenze di spirali e cerchi concentrici. Sebbene la funzione di questi manufatti in terracotta (più raramente in pietra e bronzo), rinvenuti oltre che nelle Cicladi anche nelle aree costiere della penisola balcanica (Attica, Eubea ecc.), resti discussa, alcuni elementi e segnatamente proprio il complesso apparato simbolico ne suggeriscono una funzione cultuale o comunque una relazione con la sfera religiosa (Coleman 1985, pp. 202 sgg. e 218 sgg.). Di particolare rilievo il fatto che ai motivi a spirale e cerchi concentrici risulti assai spesso associata, al di sopra del “piede”, una evidente raffigurazione del triangolo pubico, quasi a proporre nel complesso una stilizzazione di una feconda dea del cosmo. Il simbolismo spiraliforme di probabile derivazione egeocretese, inciso o dipinto, è ricorrente nelle produzioni ceramiche argive, laconi, protoattiche e protocorinzie dell’VIII-VII secolo a.C. Di particolare rilievo la kylix rinvenuta nella necropoli di Halieis (Porto Cheli) nel Sud dell’Argolide “associated with the grave of a child of approximately five to ten

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years of age” (Rudolph 1976, p. 240). Riferibili allo stesso orizzonte cronologico sono diversi materiali ceramici cicladici con spirali variamente articolate e le anfore di Melos. Notevole un idolo femminile relativo all’isola di Lemno che vede il torace attraversato da un’ampia fascia a spirali fino alla vita dove incontra una fascia verticale, a mo’ di cinta, anch’essa con spirali in sequenza. Della fine del VII secolo è inoltre un piatto rodio che raffigura il duello tra Menelao ed Ettore su Euforbo giacente e dove si osserva l’interno degli scudi decorato con quattro doppie spirali. A tale proposito, cioè la presenza di spirali in temi bellici, segnaliamo: la decorazione della corazza di un guerriero scolpito su un fregio in pietra del IV secolo proveniente da Bormio. Su di essa si osservano due coppie di spirali affiancate unite da un elemento centrale verticale del tutto simili nell’organizzazione dei motivi al già ricordato portello tombale castellucciano e anche sullo scudo ricorrono motivi a spirale e cerchi concentrici (Rittatore Vonwiller 1975, p. 290). Una doppia spirale orna l’elsa di una spada del periodo Piceno II e una serie di doppie spirali contrapposte si osserva anche su un elmo in bronzo proveniente dalla necropoli di Pitino di San Severino ascrivibile al periodo Piceno III. È presumibile che questi simboli rappresentati sugli strumenti del combattimento detenessero un valore apotropaico-augurale. Come ricorda Deonna (1953, p. 87), d’altronde: “Porre degli emblemi sacri, di protezione, sulle armi, sui loro pomoli, sulla loro lama, è un uso che risale alle epoche più antiche, e che si è perpetuato nei tempi moderni”. Spirali variamente articolate si ritrovano nelle produzioni orafe (bracciali, orecchini, spille) dell’VIII e del VII sec. a.C. e più in generale “for Minoan-Mycenean period to the Hellenistic” (Lee Carrol 1970, p. 38). Motivi decorativi a spirale ricorrono anche negli scarabei incisi del Medio Regno a incorniciare i nomi e i titoli dei possessori e sono probabilmente da mettere in relazione alla presenza degli Hyksôs, stante anche l’abbondante rinvenimento di analoghe produzioni in Palestina (cfr. Vercoutter 1951, pp. 206-207). Sempre in Egitto motivi a spirale, che apparentemente seguono schemi ana-

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loghi a quelli minoici, cicladici ed elladici antichi ritornano nelle produzioni ceramiche del Regno di Kerma (III-II millennio a.C.) e nelle decorazioni pittografiche delle tombe in roccia della XII dinastia riferibili a importanti nomarchi delle province del Medio Egitto (Shaw 1970, p. 25). D’altronde Kantor (1947) “Ha documentato l’adozione della spirale running come motivo dell’arte egiziana e ha mostrato che certamente nel periodo del tardo Secondo Intermedio la decorazione spiraliforme è divenuta una parte basilare del repertorio stilistico egizio” (Lacovara 1985, p. 212). Diversi pendenti a spirale quadrupla sono stati rinvenuti nel cimitero regale di Ur (III millennio a.C.) di fattura analoga a pendenti e altri monili dello stesso orizzonte cronologico provenienti da Troia II tra cui si osserva una straordinaria spilla (pin) rettangolare a motivi spiraliformi: La testa è una larga placca rettangolare divisa da due linee a croce, di sezione rettangolare, che sporge in fuori, oltre i lati della placca e finisce in spirali che girano verso l’alto. La superficie della placca è decorata con quattro pannelli verticali di filigrana a spirale a S (due in ogni pannello) che non guardano tutte nella stessa direzione. Le strisce applicate verticalmente, con incise ombreggiature a croce, dividono il pannello; la seconda e la quarta striscia sono doppie, e la striscia centrale è la schiacciata parte superiore della spilla stessa. Sei vuote miniature di boccali (le due più esterne rotte) con basi circolari, corpi biconici, colli lunghi e grossi dischi bucati come coperture sono attaccati sulla sommità delle linee a croce (Bass 1970, p. 335).

La spirale ricorre nei prodotti fittili e nelle decorazioni ipogee della cultura di San Michele di Ozieri in Sardegna (III millennio a.C.), nelle incisioni ceramiche di Cala Scizzo e Serracapriola (IV millennio a.C.), amplissimamente e in diverse composizioni nelle incisioni su roccia dei Camuni in Val Camonica e Valtellina secondo motivi non dissimili da quelle osservabili presso Monte Bego (cfr. Graziosi 1973, tavv. 94a, 97, 157c, 164b, 168b; Guilaine 1976, p. 187; Contu 1997, pp. 103 sgg.; Priuli 2006). Notevoli, in proposito, i

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massi di Ossimo e la stele litica di Caven di Teglio di Valtellina dove a una figura incisa di venere steatopigia si accompagnano due coppie sovrapposte di doppie spirali affiancate del tutto simili a certi motivi a spirale che più avanti troveremo associati a dee madri e alla maternità in altri contesti culturali. D’altro canto nella Penisola il simbolismo spiraliforme ricorre ampiamente, inciso e dipinto nelle produzioni ceramiche della cultura di Serra d’Alto (Matera) nonché, episodicamente, in altri contesti (per esempio in una pintadera della Grotta d’Erba presso Taranto, in raffigurazioni rupestri della grotta di Porto Badisco). Vari esempi di spirali semplici e doppie si osservano anche nelle culture appenniniche dell’età del Bronzo (cfr. Radmilli 1974, pp. 492-493). Splendide le châtelains a serie di spirali con pendaglio, anch’esso spesso a doppia spirale affiancata, rinvenute nella necropoli di Alfedena. Ricordiamo infine le spiralette bronzee del X-VIII sec. a.C. rinvenute in area siculosicana come Polizzello e a Cozzo San Giuseppe di Realmese (Palermo, Tanasi 2005, pp. 94-95). Anche nelle incisioni su lastre litiche tombali dei santuari-necropoli di Newgrange, Dowth e Knowth (Irlanda) e Gavr’inis (Bretagna) (IV millennio a.C.) ricorrono rappresentazioni di spirali doppie e triple in associazione con cerchi concentrici, coppelle e simbolismi di presumibile carattere solare (cfr. Dechelette 1912; Coffey 1912; Stockis 1921; Mohen 1989), analogamente si osserva nel sito di Loughcrew in Irlanda nonché in vari siti della Scandinavia (Bohuslän, Tanumshede ecc.) (cfr. Flom 1924). In particolare sulla pietra d’entrata del tumulo di Newgrange si osserva una chiara rappresentazione di una triplice spirale e sulle pietre che lo recintano sono incisi disegni a zigzag, losanghe, circoli concentrici, spine di pesce, spirali semplici e doppie. Le spirali ricorrono inoltre sulle pareti e sul soffitto del passaggio che introduce alla camera mortuaria (Campbell 1959, pp. 490-491). Diverse articolazioni del simbolismo spiraliforme si osservano nei templi maltesi di Tarxien, Hal-Saflieni, Giganteja e Hagar Quim (fine IV, inizio del III millennio) ove tra l’altro

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ricorrono spirali con senso di rotazione contrapposto, analoghe a quelle della Necropoli siciliana di Castelluccio. Questa notevole presenza di simboli a spirale incisi, scolpiti e dipinti nei siti maltesi, ha indotto già nei primi del Novecento diversi studiosi a ritenerli “a sure testimony to the influence of Egean culture” (Dukinfield Astley 1914, p. 395). Ancora motivi spiraliformi si osservano nella gioielleria dell’età del rame della Polonia (Kostrzewski 1924), nelle fibule e nelle spille a spirale doppia o contrapposta (a due e quattro spirali), databili al I millennio a.C., rinvenute nelle regioni danubiane, nella ex Iugoslavia e in tutta la penisola balcanica (Alexander 1965) nonché nella penisola italiana (per esempio Cuma preellenica II) con importanti esempi già segnalati per l’età del Bronzo (tipi Santa Caterina, Peschiera, Bacino Marina, Garda). Nello stesso periodo la spirale si ritrova in artefatti ceramici e metallici provenienti dal Bacino dei Carpazi (cultura di Bodrogkeresztúr). Interessanti i bracciali spiraliformi in rame che sembrano designare nella loro varietà e per il numero delle spire lo status, il genere e l’età del possessore: “I bracciali sono letteralmente e metaforicamente anelli di vita in cui la forma dell’artefatto è intimamente connessa al suo ruolo nel mediare gli elementi del corso strutturale della vita” (Sofaer Derevenski 2000, p. 399). È chiaro d’altronde che tali ornamenti non erano semplicemente indicatori di uno status, piuttosto “esibivano la loro originaria valenza cultuale, fusa con quella politica e sociale” (Carozzi 2005, p. 13). Questi sintetici riferimenti danno conto dell’ampia diffusione nel tempo e nello spazio del motivo della spirale semplice o multipla e del presumibile o certo rilievo simbolico che esso assume in numerosi casi, restando peraltro improponibile la sua riduzione a motivo meramente decorativo anche laddove la spirale sia chiamata a rappresentare con assoluta certezza elementi oggettivi (è questo il caso delle spirali/onde di certe raffigurazioni d’area egea) o si moltiplichi in ripetizioni lineari (come in certi reperti fittili preistorici e protostorici). Rinviando pertanto alla letteratura in precedenza segnalata per i casi più noti, Malta, Creta e le aree di

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diffusione della cultura minoica, le regioni dell’Europa atlantica, l’area danubiana, ci soffermeremo ora a illustrare con maggior dettaglio alcuni contesti d’uso e le relative articolazioni morfologiche della spirale, nella speranza di potere circoscrivere alcuni perimetri di significato. In particolare saranno illustrati e discussi qui di seguito i casi della Sardegna pre-nuragica, delle incisioni e pitture rupestri del Sahara centrale, della cultura est europea di Karanovo e di certi amuleti di area egiziana.

Le Domus de Janas Con il termine Domus de Janas si indicano in Sardegna una varietà di grotticelle artificiali ricavate dall’escavazione di blocchi e pareti rocciose (basalto, calcare, granito, tufo), generalmente adibite a sepolture collettive. Le domus, riferibili all’orizzonte cronologico del IV-III millennio a.C., vantano una presenza sull’isola ampia e diffusa. In particolare le domus decorate (dipinte con ocra rossa e gialla e antracite, incise a martellina e altre tecniche, scolpite a bassorilievo) sono maggiormente presenti nel Nord e nel Centro della Sardegna e prevalentemente ascrivibili al III millennio. Tra i motivi decorativi presenti nelle domus, insieme a quelli corniformi, ampiamente attestati e generalmente riferiti a un “Dio Toro compagno della Grande Madre” e garante di vita (Tanda 1985, p. 39), si registrano, spesso in associazione con questi ultimi e articolati secondo varie tipologie, quelli spiraliformi. Non poche infatti sono le attestazioni di decorazioni a spirali semplici, doppie (avvolte verso il basso o verso l’alto), quadruplici restituite dalle indagini archeologiche. Si tratta in massima parte di raffigurazioni su superfici lapidee rinvenute in contesti funerari e, più raramente, in aree cultuali (Lo Schiavo 1982, pp. 172 sgg. e note). Tra questi, particolarmente significativi, le evidenze rilevate nella “Domus dell’Ariete” di Perfugas (ib.), nella tomba IV di S’Elighe Entosu di Cargeghe (Tanda 1977), nelle cosiddette

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“Tomba delle Spirali” di Sa Pala Larga (Bonorva) e nella “Domus delle Doppie Spirali” di Oredda (Antona Ruju, Lo Schiavo 1989). Altre domus con motivi a spirale sono: Korongiu a Pimentel (CA); Montessu II a Santadi (CA); Su Campu Mannu, Mesu ’e Montes II e VI e Noeddale III a Ossi (SS); Mandra Antine III a Thiesi (SS); Sas Concas a Padria (SS) (cfr. Tanda 1985, passim). Generalmente la diffusione in Sardegna del motivo spiraliforme è stata associata al progressivo affermarsi della cultura di san Michele. Essa è riferita all’assunzione di motivi decorativi provenienti dall’area egea, dalla Sicilia e, soprattutto, da Malta “dove si riscontrano significative rispondenze di ordine materiale e monumentale” (p. 40), ovvero a originali elaborazioni indigene. La questione, come si vedrà più avanti, non è di poco conto. La sua soluzione contribuisce, infatti, all’interpretazione in maniera determinante.

La “Domus delle Doppie Spirali” di Oredda (SS) La necropoli di Oredda, riferibile a una fase matura della cultura di Ozieri (prima metà del III millennio), consta di diverse domus de janas ipogee con ingresso a pozzetto ricavate dallo scavo dei banchi calcarei che caratterizzano il territorio. Nel corso dell’esplorazione e ripulitura della domus 1 sono state rinvenute diverse “rappresentazioni schematiche a rilievo” di spirali doppie variamente articolate. In particolare sul pilastro al centro della cella centrale si leggono “un motivo a doppia spirale contrapposta ravvolta verso l’alto con un ingrossamento al punto di giunzione” e un “doppio motivo a doppia spirale contrapposta e ravvolta verso il basso; le due coppie sono collegate da un rilievo verticale che sembrerebbe articolato in noduli” (Antona Ruju, Lo Schiavo 1989, p. 58) e che rinvia immediatamente ad analogo motivo presente nella parete destra della tomba ipogea di Tanca dell’Uliveto (Ventura 1977). In questo come in diversi altri casi si è ritenuto opportuno mettere in relazione tale motivo con quello corniforme di bovidi (semplice o multiplo), pure ampiamente attestato in analoghi contesti e non di rado in associazione a motivi spiraliformi, e

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considerare le doppie spirali come un’evoluzione del motivo corniforme bovino o come rappresentazioni di corna ovine. Sempre nella domus 1, sulla parete d’ingresso, si osserva ad esempio un motivo a doppia spirale contrapposta e ravvolta verso il basso, con un rilievo subtriangolare centrale, al di sotto del motivo corniforme, sul lato a destra del portello. Nonostante le irregolarità della parete, si distinguono due piccole cuppelle circolari vicino alla parte interna dell’avvolgimento delle spirali ed alla base del rilievo triangolare con apice in basso, a destra del quale (guardando) si legge il profilo realizzato con un solco. Sembra dunque che si sia voluta rendere una protome di ariete o muflone con le corna ravvolte verso il basso, con gli occhi resi con cuppelle e con il muso a semplice rilievo triangolare (Antona Ruju, Lo Schiavo 1989, p. 58; corsivo mio).

Le doppie spirali, dunque, rinvierebbero (siano esse orientate verso l’alto o verso il basso) a palchi di corna. Come riferisce Lo Schiavo (1982), a proposito delle corna ad andamento spiraliforme (in specie rivolte verso il basso), sono state avanzate le seguenti ipotesi: 1) che si fosse voluto raffigurare un toro in atto di caricare, quasi contrapposto all’animale stante; 2) che si fosse voluto raffigurare un Bos primigenius o Ur, contrapposto al Bos brachyceros o ibericus; 3) che si fosse voluto raffigurare un ariete quale animale simbolico dell’attività pastorale contrapposto al toro legato al concetto dell’agricoltura; 4) sia che si siano volute raffigurare maschere o teste tagliate, si tratterebbe sempre di un’epifania animale o di una vittima sacrificale, non di un officiante-stregone; 5) per la presenza simultanea delle raffigurazioni di toro e di ariete non si esclude la possibilità che nello stesso ipogeo venissero rappresentate più divinità maschili in epifania animale; 6) non è esclusa la possibilità che le spirali rappresentino gli “occhi” della divinità (pp. 175-176).

Tuttavia, fuori da ossessioni corniformi, potrebbe dirsi, senza forzature, che il rilievo di Oredda rappresenti un sesso partoriente, cioè una rappresentazione stilizzata sul piano,

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di analogo motivo più esplicitamente e plasticamente rappresentato nella nota Dea Madre di Çatal Huiuk. In proposito va ricordata una stilizzazione “a giglio”, quasi doppia spirale in embrione, (º) presente sulla parte posteriore dell’idolo n. 10 di Cuccuru Arrius (Cabras, OR) nel quale si proporrebbe di vedere una figura femminile, forse resa nell’atto di partorire, qualora nella “protuberanza a bottone subovale” si potesse riconoscere il feto nell’istante della nascita. In questo caso, finora unico, il motivo della doppia spirale, anche se in embrione, non potrebbe essere disgiunto dal principio femminile della vita (pp. 178-179).

Più in generale può dirsi che le doppie spirali rivolte tanto verso il basso che verso l’alto rappresentino stilizzazioni di elementi femminili: i fianchi e la vulva, i seni. D’altronde si sottolinea come sia “ben evidente che nel campo della simbologia e del contenuto magico-religioso non si possono avanzare altro che ipotesi, purtroppo quasi mai suffragate da dati di scavo, e tanto vale anche per la domus 1 di Oredda” (Antona Ruju, Lo Schiavo 1989, p. 59) e altrove si invita “ad una ‘posizione esegetica, cauta e possibilista’” (Lo Schiavo 1982, p. 176). Due dati tuttavia devono sempre essere tenuti in conto: il contesto funerario dei rinvenimenti e la vocazione agricola delle culture autrici. È peraltro da sottolineare quanto osserva Gimbutas sui motivi sardi a doppia spirale (anche in riferimento alle spirali di Castelluccio): le corna dell’ariete (º) sono intercambiabili con le spire del serpente e gli occhi della Dea. L’ariete era l’animale sacro della Dea Uccello sin dall’inizio del Neolitico. Fu la somiglianza che le corna dell’Ariete avevano con le spire del Serpente a conferire loro speciali poteri di rigenerazione (Gimbutas 1988, cit. in Antona Ruju, Lo Schiavo 1989, p. 62, n. 83).

E più ancora quanto la Gimbutas (1992, p. 61) scrive successivamente:

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L’utero femminile, con le tube di Falloppio, ricorda nella sua forma la testa di un toro con le corna: questa sembra la motivazione più naturale per spiegare l’importanza attribuita a questo motivo decorativo nel simbolismo dell’Europa antica, dell’Anatolia e del Vicino Oriente. (º) La testa di toro, segno di rigenerazione, è ampiamente diffusa (º), anche negli ipogei di Sardegna. L’ingresso di alcune caverne è sistemato chiaramente in modo da riprodurre la testa di toro; altrove grandi corna sovrastano l’ingresso ad indicare simbolicamente che per entrare nel tempio sotterraneo era necessario introdursi nella sacralità dell’utero. (º) Anche le celebri “corna di consacrazione”, tipiche della cultura minoica di Creta del III e del II millennio a.C., costituiscono una continuazione del simbolismo dell’utero e della rigenerazione.

Per la studiosa rumena, in sostanza, nell’immaginario magico-religioso dei primi agricoltori esiste innanzitutto un principio femminile, restando il maschile non presente o marginale. Ne deriva che tutto il simbolismo, comprese le stesse “protomi taurine”, riflette “la profonda credenza in una dea generatrice della vita, che dalla sacra oscurità del suo grembo dà origine a tutta la creazione” (p. 49). L’apparente estremizzazione della lettura della Gimbutas è pur tuttavia suffragata da numerose evidenze archeologiche in ordine all’amplissima diffusione e al profondo radicamento dei culti femminili dell’Europa neolitica e del Bronzo e sostenuta da altri autorevoli studiosi: Bernabò Brea (1976-77, p. 59), ad esempio, vede nella doppia spirale un segno figurativo della “Dea degli occhi”, la Grande Madre mediterranea. Se pertanto la sua lettura può sembrare viziata da un qualche presupposto “femminista” ha, relativamente ai contesti sardi, sulla base delle risultanze archeologiche, almeno pari legittimità di quella tesa a vedere nelle corna simbolizzazioni del principio maschile. Ancora una volta la ricorrenza di certo simbolismo (corna, spirali, dee madri) più che essere spiegata in termini di diffusione di temi cultuali e motivi decorativi a partire da centri di avanzata civilizzazione (nel caso sardo si è pensato a un’origine egea) deve essere riferita a dinamiche e sviluppi locali a partire da un comune orizzonte ideologico di tipo neolitico.

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Considerazioni I nomi delle cose e dei luoghi nel loro asciutto declinarsi sono spesso forieri di densi significati. Domus de Janas, può tradursi come Casa delle Janas; ossia, assumendo questo nome nella sua accezione più comune e diffusa, delle “streghe” o delle “fate”. In questa necessaria duplice traduzione è insita una solo apparente contraddizione. Se le “streghe” sono esseri nefasti e malevoli e le “fate” esseri positivi e donatori di benessere, le janas sono “streghe cattive” e “fate buone” allo stesso tempo, “streghe-fate”, entità sovrannaturali e misteriose ovvero potenti entità extra-umane di sesso femminile che possono intervenire variamente tra gli uomini, ora recando morte e disgrazia, ora vita e ricchezza: tutto sta nel saperle “capire”, nel conoscere i modi e i tempi in cui poterle rendere benevolenti. Le janas, al pari delle donne siciliane, delle neráidës balcaniche, delle jinn nordafricane, sono “talvolta benevole, talaltra malevole e secondo capriccio” (Guggino 2006, p. 134). Tutti gli dei sono esigenti e “capricciosi”: pretendono il rispetto delle regole da parte degli uomini ma possono essi in ogni momento violarle proprio a sottolineare il loro essere divino, il loro agire secondo le leggi senza mai però esserne soggetti. In ogni caso, quali che siano le inclinazioni originarie di queste entità extraumane, secoli di predicazione cristiana, di demonizzazione degli antichi dei e del “femminino” hanno finito con il far prevalere una caratterizzazione negativa di entità assai più complesse, condannandole a essere considerate esclusivamente le pericolose e malvagie “figlie delle tenebre” (Lilliu 1980, p. 107). Le Domus de Janas, allora, per tornare dove eravamo partiti, sono le “Case delle Donne divine”, delle antiche divinità della Terra, divoratrici di corpi e dispensatrici di vita, le padrone assolute delle dimore e dei figli degli uomini, le case cioè di coloro che ritornano nel grembo della madre per rivivere e garantire la vita ai viventi, le dimore sacre della vita che ritorna.

Spirali incise e dipinte del Sahara centrale Molteplici motivi spiraliformi (spirali semplici, doppie, triple) si rinvengono tra i numerosi e diversificati esempi di ar-

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te rupestre incisa (e solo parzialmente dipinta) declinati sulle pareti rocciose del Tassili, del Fezzân, dell’Ahaggar, dell’Aïr settentrionale (Le Quellec 1993). Ricordiamo qui per chiarezza di esecuzione e prossimità con i motivi in esame le raffigurazioni tassiliane di spirali semplici di Wâdi Djerât, Affer, Abeïrat e Ifregh, le raffigurazioni di spirali doppie a “s” e a “occhi” di Ti-n-Tesaskot, Ti-n-Smad, Ti-n-Tulult e Rayaye, quelle di spirali triple “a triskele” di Ti-n-Tulult e I-n-Tirkert. A questi aggiungiamo gli esempi di spirale doppia a “s” e tripla “a triskele” che si rinvengono nell’Ahggar a Ahtes, Amesera, Imûtal. I motivi spiraliformi si dispongono in varie composizioni. Oltre che isolati e a gruppi, essi ricorrono non di rado in associazione con altri motivi (cerchi, meandri) e figure umane e animali (bovini, antilopi, giraffe, rinoceronti, elefanti ecc.). Esempi eccellenti in tal senso sono presenti nei siti di Ti-n-Terirt, dove si osserva un grande bovino, la “‘vache géante’, gravée sur dalle, et au corps entièrement décoré de spirales, arceaux, cupules et cercles” (Hugot, Bruggmann 1976, pp. 70-75), e di Ta-Chumfulas nei pressi di Wâdi Djerât dove spirali dipinte sono associate a temi fallici, donne a gambe divaricate, teste teromorfe (Le Quellec 1993, p. 481). In ordine alla diffusione del simbolismo spiraliforme nell’arte rupestre sahariana sono state formulate diverse ipotesi genetiche. La più diffusa le vuole derivate da analoghi motivi decorativi ben documentati in area egeo-cretese nei periodi Minoico Antico II e Minoico Medio, cioè tra il 2800 e il 1580 a.C. Tuttavia è stato dimostrato che diversi tra gli esempi sahariani sono assai anteriori a tale epoca (Zervos 1956, pp. 144-145). Lo stesso può dirsi per l’Egitto dove le spirali si osservano sui vasi dipinti del periodo Nagada II (3500-3100) e ricompaiono solo con la XII dinastia (2000-1785 a.C.) i cui rapporti col mondo egeo sono ampiamente attestati.

Magia di riproduzione e moltiplicazione Le più antiche culture produttrici di raffigurazioni rupestri abitanti l’area in esame erano costituite da gruppi di

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cacciatori. Questo dimostrano in maniera diretta gli esiti degli scavi e indirettamente la stessa arte parietale con figurazioni di animali di numerose specie. La ricorrente associazione di animali e spirali, spesso incise o dipinte sugli stessi, ha indotto autori quali Lhote (1984, p. 193) a ipotizzare che “certains animaux, ceux recouverts d’une spirale, ont été l’objet d’un rite d’envoûtement”. In altre parole, la segnatura delle spirali sarebbe stata parte di un rito magico-propiziatorio teso a favorire la cattura delle vittime. Questa ipotesi, che comunque non rende ragione della presenza dei motivi a spirale in scene non a carattere venatorio, può essere utilmente confrontata con quanto è rilevabile a livello etnologico. La presenza di simboli spiraliformi si osserva difatti tutt’oggi presso le mitologie, le ritualità e le rappresentazioni pittoriche e plastiche di alcuni gruppi tra i quali i dogon, i bambara, i fôn, gli ashanti, i senufo, gli yoruba, i luba e i lulua. Nel complesso, pertanto, può dirsi, anche sulla base dei contesti d’uso e degli stessi significati ascritti dai fruitori, che “la spirale est un commun glyphe cosmogonique exprimant la dynamique de la vie, la vibration créatrice originelle”; una immagine diffusa che rinvia, in generale e fatti salvi i casi particolari, “par une voie ou par une autre, à la méditation fondamentale sur les thèmes Vie-Mort, et Périodicité-Reinassance, avec leurs extensions cynégétiques, cosmogoniques et érotiques” (Le Quellec 1993, pp. 497-498). Sulla base di tali osservazioni può ritenersi che l’associazione di motivi spiraliformi ad animali oggetto di caccia o comunque destinati all’alimentazione, sia legata all’idea del ritorno ciclico e della moltiplicazione degli stessi e possa avere in certi casi, come quello della “vache géante” di Ti-n-Terirt, un ruolo cultuale.

Simbolismo oculare È sembrato di poter riconoscere nelle spirali del Fezzân sud-occidentale un simbolismo oculare e, conseguentemente, luminoso e/o apotropaico. L’associazione spirale e doppia spirale con gli occhi è stata peraltro avanzata, seppur limitatamente ad alcuni contesti, da diverse parti. Ba-

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sti qui ricordare quanto osservato da Gimbutas a proposito delle doppie spirali degli ipogei sardi e i pani/dolci siciliani detti “ucchiuzzi di Santa Lucia”. A ciò si aggiunga l’indiscutibile rappresentazione degli occhi in forma di spirale presente in contesti di varia provenienza: “rappelons à ce propos que, chez les Germains, le Cheval psychopompe symbolisant la source de la lumière possède lui aussi un œil spiralé” (Le Quellec 1993, p. 499). In ogni caso sulla base dell’ampia e diversificata documentazione è difficile fornire sia una identificazione sia una spiegazione univoche. Infatti sia nel caso in cui la spirale si consideri la stilizzazione di un elemento concreto (gorgo, occhio, serpente ecc.), sia nel caso in cui la spirale si consideri la rappresentazione di un’idea o concetto (labirinto, ciclicità, espansione, creazione ecc.), questo rimane di difficile identificazione. In ogni caso resta aperto il problema del senso, o dei sensi, riconosciuti nel simbolo dai fruitori nei singoli e diversi contesti d’uso.

Dee madri di terra e di pietra Tra le testimonianze plastiche dell’arte preistorica hanno da sempre colpito per numero e varietà quelle riferibili alla sfera muliebre (cfr. Neumann 1956; Lanternari 1984, pp. 120 sgg.; Lévêque 1985, pp. 8 sgg.; Ehrenberg 1989, pp. 100 sgg.; Gimbutas 1989; 1999; Ligabue, Rossi-Osmida 2006). Corpi di donne o parti di essi ricorrono nei più diversi contesti, in specie in quelli funerari, a testimoniare la potenza sacrale riconosciuta al principio generativo femminile da parte delle più antiche culture umane. Queste divinità femminili appaiono associate alle sfere della riproduzione animale e umana e della morte sin dal Paleolitico. Secondo Lanternari le caratteristiche delle figure muliebri paleolitiche denunciano apertamente “una funzione magica connessa con l’idea di fecondità” e “con il sopravvenire dell’agricoltura in era neolitica la figura muliebre può ragionevolmente essersi arricchita di nuove valenze più complesse, ed inserentisi nell’ideologia della fertilità” (Lanternari 1984, p. 123. Cfr. Lévêque 1985, pp. 31 sgg.; Cauvin 1994, pp. 37 sgg.). In genera-

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le può dirsi che la documentazione archeologica ci restituisce una realtà cultuale dove sulle divinità femminili, ora concepite come rappresentazioni di una vera e propria Madre universale, convergono le “idee di fecondità, di maternità, di regalità e di dominio sulle belve” (Cauvin 1994, p. 46). È altresì evidente che la Terra Madre, la Grande Dea dei viventi non era estranea al destino dei defunti. È notevole il fatto che una gran parte dei reperti raffiguranti figure o attributi muliebri provenga, oltre che da ambienti templari e domestici, da contesti funerari. Così è in Sardegna, nelle Cicladi, a Creta, a Malta, a Micene e Tirinto, nelle tombe megalitiche della Penisola Iberica, nei tumuli neolitici della Tracia, nella Marna. Le divinità della fecondità umana e vegetale, almeno nel Neolitico, dovettero detenere una profonda relazione con il culto dei morti. Culto che a sua volta era intimamente legato alle attività agricole. Nelle prime società di agricoltori dunque l’idea di “maternità” è strettamente correlata all’idea di una terra portatrice di frutti e sede dei morti, concorrendo così a istituire simbolicamente una relazione tra i cicli agrari e i cicli della vita umana (Lanternari 1984, p. 128). Fecondità della terra e fecondità umana, ciclo vegetale e ciclo della vita, si trovavano, in sostanza, strettamente associate nell’immaginario degli antichi agricoltori. Come riassume bene Marina Minghelli (1996, p. 69): Il trionfo della cerealicoltura modificò radicalmente la condizione esistenziale dell’umanità ed il suo universo spirituale. Alla relazione primaria con il mondo animale venne a sostituirsi una sorta di solidarietà mistica con la vegetazione o per meglio dire il ritmo della vegetazione riassunse in sé il mistero della nascita, della morte e della rinascita. Un ritmo ripetuto per sempre, un tempo circolare, un ciclo cosmico. Tutto finiva e tutto ritornava. Il seme morendo garantiva nuova nascita e moltiplicazione così come gli dei che morivano e resuscitavano.

La venere di Karanovo Una straordinaria testimonianza visuale, decisiva per la comprensione del senso più profondo del motivo della dop-

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pia spirale nei contesti funerari e cerimoniali, è una statuetta in argilla di divinità femminile proveniente dal sito dell’Età del Rame di Karanovo in Tracia databile alla metà del V millennio a.C. In questa immagine l’enfatizzazione del potere generativo, esplicitata dalla amplificazione dei fianchi, culmina nella marcatura del triangolo pubico la cui evidente fessurazione è sovrastata dal simbolo della doppia spira contrapposta (Gimbutas 1989, p. 143). In proposito osserva Neumann (1956, p. 110 e tav. 6): Il carattere di questa figura è così primordiale che, indipendentemente dalla sua datazione storica, essa deve essere assegnata a uno strato psicologico arcaico. In parte la sua tonalità misteriosa deriva dai contrasti in essa contenuti. La forma di vaso accentua il carattere elementare corporeo, mentre il denso ornamento del tatuaggio tende a una decorporeizzazione: il corpo è letteralmente coperto di simboli. I seni minuscoli, appena accennati, rafforzano la tendenza, inconscia, a trascendere la dimensione corporea elementare. Diviene particolarmente evidente il momento dell’astrazione, attraverso il quale si accentua il carattere significativo, simbolico, trasformatore del femminile: il grembo non è caratterizzato come gravido e pieno; il triangolo genitale, che perciò viene posto in rilievo, reca il simbolo della spirale, che si avvita da un capo verso l’alto e dall’altro verso il basso. Giungiamo così a un contenuto essenziale di questa tendenza all’astrazione. Una dea raffigurata in tal modo non rappresenta solo una dea della fertilità, ma anche una dea della morte e dei morti. Essa è la madre terra, la madre della vita, che domina su tutto ciò che è scaturito e nato da lei e che ritorna a lei. Per tale motivo questa dea tracia, trovata in una tomba, porta in grembo la spirale che sale e scende continuamente e che la rivela signora della vita e della morte.

Questa esplicita associazione di vulva e motivi spiraliformi è peraltro altrimenti attestata. Un sesso femminile circondato da quattro doppie spirali si osserva, per esempio, in un sigillo neolitico in argilla proveniente da Çatal Hüyük databile alla metà del VII millennio e in uno in avorio del Minoico medio (inizio II millennio) rinvenuto nella tomba a tholos Dra Kones (Gimbutas 1989, p. 102). Analoga asso-

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ciazione simbolica ricorre in una statuina di kourotrophos su cui si sofferma Gordon Childe (1922, p. 264): In tutte le stazioni dell’est Europa, come a Dimini e Sesklo, si presentano statuette di donne nude. (…) In alcuni casi il corpo è coperto con incisioni o motivi dipinti. Nella decorazione, alcune delle statuette dipinte da Rzhischchev, vicino Kiev, presentano una sorprendente somiglianza con gli idoli seduti provenienti da Sesklo – da notare specialmente il disegno spiroidale sopra i genitali – mentre due donne sedute con le braccia incrociate sui seni, provenienti dalla stessa cultura, richiamano le forme di Sesklo.

A questi esempi possono essere accostati quelli che presentano la vita della dea fasciata da una cintura a spirali. Così è nel caso di una statua-vaso del 5000 a.C. proveniente dal villaggio di Toptepe sul mare di Marmara: la figura dipinta in rosso sull’argilla presenta vari motivi a zig-zag e a chevron, a meandro e a spirale e, in particolare, una fascia orizzontale a spirali che la cinge all’altezza della vita (cfr. Gimbutas 1999, pp. 124-125), così è nel caso del già ricordato idolo femminile relativo dell’isola di Lemno dove si osserva una cintura con spirali in sequenza. Nel caso della Venere di Karanovo le rappresentazioni iconica e simbolica della Dea trovano assoluta compiutezza. Essa è sintesi, o meglio tratto di unione, tra le rappresentazioni tendenti a enfatizzare la sua relazione con la fertilità/fecondità ottenuta attraverso l’amplificazione degli attributi sessuali (seno, fianchi, vulva) e quelle stilizzazioni simboliche che mostrano più evidente la sua relazione con la ciclicità dello spazio-tempo. A partire in quest’ultimo caso dalle figurazioni circolari, ma anche dalle stesse strutture dei santuari, non di rado, appunto, a pianta circolare. Palermo (2003, p. 148; 1997) ci ricorda, a proposito delle riproduzioni di santuari dell’area sicana e in analogia con quelli cretesi, che il modellino a pianta circolare “rappresenta sì la dimora terrena della divinità ma ne costituisce nel contempo anche la metafora, surrogando la presenza della dea allorché essa, a seguito dell’alternanza scomparsa-ricomparsa del ciclo della na-

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tura, non è presente alla vista dei fedeli”. Come osservava Husserl (1900-1901, p. 237) se per l’asceta l’immagine è transitus verso il divino, per il credente la stessa immagine ne è la manifestazione stessa. Questa, più che “assomigliargli”, lo “riproduce” rendendolo realmente presente. In queste, come in altre delle sue espressioni figurative, la spirale può dunque essere considerata esattamente quello che Eliade definisce un “simbolo religioso”, cioè un simbolo che mentre si propone come icona della “realtà ultima” è “in grado di rivelare una modalità del reale o una struttura del Mondo che non risulta evidente a livello dell’esperienza immediata”, di fare manifesta alla coscienza cioè – attraverso la sua stessa polivalenza, la capacità di esprimere simultaneamente diversi significati –, una realtà più profonda e misteriosa di quella esperibile attraverso i sensi, affermando il mondo nella sua totalità e svelando il lato oscuro e inesplicabile della vita, la sua dimensione sacrale e con essa il senso stesso dell’esistere (Eliade 1959, pp. 115-116). Questo accade in quanto il simbolo religioso ha la capacità di tradurre “una situazione umana in termini cosmologici e viceversa” e più precisamente di rivelare “la continuità fra le strutture dell’esistenza umana e le strutture cosmiche” (p. 119).

Amuleti per il parto Non è a nostro avviso possibile ascrivere una valenza meramente estetica alle espressioni figurative delle culture tradizionali. È, per esempio, indubitabile che al simbolismo spiraliforme vada ascritto un valore protettivo-apotropaico, ovvero protettivo-vitalistico, nel suo ricorrere nelle produzioni orafe (spille, bracciali, orecchini ecc.) nonché in contesti come quello degli scarabei del Medio Regno. Difatti, anche a voler ritenere in linea generale l’uso dei motivi spiraliformi dettato da esigenze estetiche e sostenuto fra tradizioni iconiche non consapevolmente agite, vi sono casi ove la lettura contestuale lascia trasparire un valore simbolico assolutamente inequivocabile. L’esame del segno non isolato ma riferito all’intero oggetto, alla cultura di appartenenza e, quan-

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do possibile, al contesto del suo ritrovamento, ci consente di riconoscerlo come simbolo e di articolarne una interpretazione, cioè di circoscrivere il campo semantico del simbolo in relazione alle diverse letture fornite dalla letteratura storico-religiosa e archeologica: simbolismo oculare, solare, acquoreo, del tempo ciclico, della fertilità ecc. È questo il caso di alcuni amuleti egiziani a spirale esplicitamente utilizzati a protezione del parto che finisce con il rivelarsi correlato ad arcaiche credenze nel potere protettivo-fecondativo della Grande Dea. Le donne egiziane, per evitare i pericoli del parto, recavano un amuleto allacciato ai loro corpi in forma di doppia spirale affiancata. Questo amuleto le proteggeva da ogni rischio e assicurava inoltre al futuro bambino un’infanzia tranquilla, scevra da pericoli: “in Egypt it is always associated with pre.natal or post-natal life” (Blackman, cit. in Reich 1939, p. 32). Questo amuleto si presenta come l’esatta riproduzione del simbolo della dea madre mesopotamica Ninhursag/Nintu, la Signora delle nascite, significativamente indicata in un elenco di dei semplicemente come Utero. Questo simbolo, nel quale peraltro si è voluto vedere l’utero bicornato di una giovenca, ne rappresenta di fatto il suo potere di generare come appare chiaro in una placca di terracotta “where the goddess is associated with curious creatures in an ‘embrionic’ attitude, intended, no doubt, to depict either newly born babies or children to the born” (Frankfort 1944, p. 198). In realtà la ricorrenza di simili amuleti pare assai più ampia. Si osservano infatti esempi transcaucasici del periodo di Hallstatt (cfr. Bachatly 1938). Inoltre amuleti simili sono stati rinvenuti negli scavi di Tepe Hissar e in vari siti mesopotamici (cfr. Reich 1939). Tanto questi amuleti dal significato così esplicito quanto i numerosissimi monili a spirale semplice o doppia, segnatamente le spille, rinviano formalmente, ad esempio, al caduceo di Hermes e dunque a un probabile simbolismo ofidico di cui sono note le valenze simboliche: “il est symbole de la fertilité; il est symbole de la guérison e de la protection contre les maux” (Ferwerda 1973, p. 108); più in

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generale si può fare riferimento anche al simbolismo del nodo che esprime una potenza “apotropaïque ou prophylactique” (p. 112).

Letture Pur venendo riconosciuta, in linea generale, alle rappresentazioni spiraliformi, da parte di numerosi autori, una qualche connessione con i temi della fecondità, della rigenerazione e della ripetizione ciclica, esse sono state oggetto di diverse e spesso controverse interpretazioni. Nella spirale si è voluto tra l’altro vedere un simbolo del sole e del suo corso, un motivo legato al simbolismo acquoreo (segnatamente una rappresentazione del gorgo o dell’onda), o a forze-fenomeni atmosferici come i mulinelli e le trombe d’aria, una stilizzazione del serpente o della vulva, ossia un simbolo di rigenerazione e di fecondità inesauribile, una stilizzazione di elementi vegetali e floreali ma anche un mero motivo decorativo non riferibile a fenomeni o idee specifici; in particolare in presenza di doppie spirali è stata ipotizzata una rappresentazione dei seni o degli occhi di divinità del tipo dea madre, un simbolo della rotazione creativa e dell’unione di forze e principi contrapposti (giorno/notte, vita/morte, maschile/femminile, integrazione/disintegrazione ecc.) nonché una simbolizzazione del processo del divenire ciclico e della rinascita periodica (cfr. Guénon 1957, pp. 46 sgg.; 1970, pp. 11 sgg.; Neumann 1956, pp. 128 e 225; Durand 1963, p. 314; Gimbutas 1989, pp. 279 sgg. e 293 sgg.; Lurker 1987b, pp. 164 sgg.; Gallais 1982, pp. 1-12; Chevalier, Gheerbrant 1969, II, pp. 420-423; Coomaraswamy 2004, pp. 38-41, 48, 98-100). A nostro avviso, stante anche la diversità dei contesti di rinvenimento, l’ampia diffusione spaziale e cronologica dei motivi a spirale e le loro molteplici articolazioni, non è possibile addivenire a una lettura univoca e onnicomprensiva. Anche se, come sottolinea Kerényi (1966, pp. 90-91), bisogna tener conto “che la maggior parte delle decorazioni a spirale preistoriche ornavano tombe,

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sarcofaghi o corredi funerari” e che anche nelle più tarde rappresentazioni “era l’idea della morte naturale a dominare: quell’idea stessa, cioè, che con ogni probabilità prevaleva nelle culture preistoriche nella espressione formale identificata dalla linea a spirale: dunque come svolta nel corso della vita che indica una vita successiva”. In effetti diversi dei fatti precedentemente illustrati indurrebbero a ritenere che in certi non isolati casi, in particolare quando proveniente da contesti funerari (come per esempio nei casi di Newgrange e Knowth in Irlanda, degli ipogei maltesi, di Mandra Antine in Sardegna o di Castelluccio in Sicilia) o associata a figure femminili, segnatamente al sesso, l’immagine della spirale possa essere considerata una rappresentazione del processo di creazione e ri-creazione di matrice agricolo-ctonia, che vede la produzione agraria, la dimensione cosmologica e i cicli della vita umana intimamente connessi. Essa ambisce a rappresentare la realtà nella sua totalità di essere nel divenire, esprime l’unità profonda del reale al di sotto della sua molteplicità fenomenica, testimonia l’orditura del cosmo nella sua irrinunziabile essenza di vita e di morte. In altre parole la spirale si propone come una figurazione sintetica ed efficace dello spazio-tempo, del processo cosmologico di ripetizione nell’accrescimento che trova la sua origine nel sesso fecondo della Dea Madre, luogo di ogni arrivo e di ogni partenza, solo autentico centro del labirinto. Al di là di questa fondata ipotesi si può solo osservare che i segni scolpiti, incisi, impressi, plasmati o dipinti, nella roccia, nell’argilla, nei metalli sono sempre tracce materiali di un’idea, frutto di un progetto compreso e condiviso, manifestazioni, soprattutto per le epoche più arcaiche, dell’eterno rapporto dell’umano con il trascendente. Molti di questi simboli presentano la “coesistenza di due punti di vista: quello della successione, che si riferisce alla manifestazione in se stessa, e quello della simultaneità, che si riferisce al suo principio” (Guénon 1970, p. 15) ovvero come sintesi di concetti, rappresentazioni del divino e delle parole a esso rivolte dall’uomo: parole di fede e di speranza in una vita oltre la morte nel ciclico ripetersi del tempo.

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Annotazioni È appena il caso di osservare come la spirale si presta a offrire una rappresentazione del tempo in linea con la visione del mondo delle società tradizionali. Se infatti nella percezione diffusa sembra predominare una concezione circolare del tempo come succedersi preordinato di eventi coerentemente fondata sull’esperienza dei cicli naturali e dei ritmi del lavoro, non significa che a questa concezione sia estranea l’idea di un accrescimento, di un accumulo di storie e di esperienze, di un succedersi di vite nella conservazione di un senso complessivo dell’esistere. E questa idea si fonda anch’essa su fatti umanamente esperibili quali il divenire della vita individuale, il succedersi delle generazioni, l’accrescimento degli alberi ecc. La spirale è dunque un simbolo che riesce a proporre in intima relazione le due fondamentali, e apparentemente oppositive, forme di esperienza del tempo, reversibile/ripetibile ossia ciclico vs irreversibile/non-ripetibile ossia lineare (cfr. Leach 1966, pp. 196 sg.; Eliade 1965):Gurevicˇ 1983: in part. 29-43 e 97-162; Mazzoleni 1987; Miceli 1989a; Le Goff 2001: 115 ss.). Essa in quanto le di ogni vita. Ha osservato René Huyghe (1971, pp. 272-275): Forma curva come la circonferenza, la spirale si addice molto di più al fluido in movimento e alla vita, poiché tutti e due percorrono il tempo. In effetti, la circonferenza disegna ancora una figura ferma, dunque propria alla stabilità e divisibile in due metà eguali: il cerchio. La spirale è aperta, apre una traccia illimitata tra due infiniti: un centro mai raggiunto, una periferia mai trovata, di modo che la durata si distende tra un’origine e una fine mai fissati. Goethe ne era stato colpito e indicava in quella non solo il simbolo della vita, ma anche quella della vita spirituale e della sua ascesa sempre in divenire (…). La spirale risolve (…) perfettamente il problema posto dalla crescita. Essa si disegna da un punto allontanandosi costantemente dal suo polo di partenza, senza cessare di dipenderne, descrivendo attorno delle curve di gravitazione. Detto in altro modo, un punto si sposta costantemente verso la periferia, il che assicura l’e-

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stensione, su un raggio che ruota uniformemente attorno a un centro, il che salvaguarda il principio di unità.

Essa, dunque, sia pure in precisi contesti, è, inequivocabilmente, una rappresentazione del processo dell’essere nel divenire, dell’eterno ritorno, del movimento della vita gnoseologicamente assunto, confacente la visione del mondo di una società arcaica. In una Preistoria pervasa di cratofanie femminine, la forza dinamica che la spirale manifesta è “l’energia della dea” che in quanto ricapitolazione del processo cosmogonico influisce sulla generazione e la crescita di uomini e animali, di alberi e piante, che cioè “combatte la stasi e incoraggia la continuità e il rinnovamento incessante del ciclo cosmico” (Gimbutas 1989, p. 295, cfr. anche p. 282). Rappresentazioni del tempo, peraltro, che si trovano raffigurate già nel Neolitico. Si pensi ai circoli, ai circoli concentrici, alla successione di tratti, alle serpentine. Ecco, di tutte le idee proposte da questi simboli, la spirale è sintesi efficacissima. Ancor più pienamente quella doppia dove la compresenza dei “due sensi di rotazione esprime effettivamente la duplice azione della forza cosmica” (Guénon 1957, p. 47) e in quanto “l’opposizione tra principi antagonisti è indispensabile per ogni creazione” (Coomaraswamy 2004, p. 39). Lebasquais osservava che la doppia spirale: “offre l’immagine del ritmo alterno dell’evoluzione e dell’involuzione, della nascita e della morte, in una parola rappresenta la manifestazione sotto il suo duplice aspetto” (cit. in Guénon 1957, p. 46). Ma a ben guardare la spirale doppia esprime un’idea ancor più articolata. Essa è esplicita e immediata rappresentazione del principio, della fine e del ritorno, della vita, della morte e della rinascita, concettualizzazione iconica cioè di un principio fondamentale operante tanto a livello macrocosmico che microcosmico. Il processo cosmogonico trova dunque in questa immagine la sua più efficace simbolizzazione, più efficace di quella pur ampiamente attestata nelle ruote, nelle svastiche, nei cerchi concentrici (pp. 183 sgg.; 1931, pp. 94 sgg.; Baltrusˇaitis 1972, pp. 264 sgg.; Zimmer 1946, pp. 20 sgg.), nella sintesi sublime dell’idea

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della creazione per espansione con quella della circolarità e della ripetizione dinamiche. La spirale così intesa non può che essere un attributo proprio delle divinità del tipo Terra Madre, se non la sua stessa epifania. L’origine, che è a un tempo il luogo del ritorno, è il fecondo utero tellurico della Dea dal cui ventre tutto si genera e nel cui ventre tutto si dissolve per rinascere in una nuova forma (cfr. Campbell 1959, pp. 85 e 89 sg.). La spirale diviene così figura del viaggio del defunto e del suo ritorno all’utero della Madre concretamente figurato dagli anfratti e dalle caverne profondi (Fanelli 1997, p. 37). La risoluzione dell’universale angoscia della scomparsa è il mistero racchiuso nelle spirali, semplici o doppie, che compaiono associate a contesti funerari da Castellucio in Sicilia a Newgrange in Irlanda. Giustificano questa interpretazione le parole di Leach (1966, p. 197; cfr. anche p. 208): Le religioni variano certo sensibilmente quanto al modo di ripudiare la “realtà” della morte; uno degli espedienti più comuni al riguardo è quello che consiste nell’affermazione che morte e nascita sono la stessa cosa – cioè che la nascita segue la morte, così come la morte segue la nascita.

Danze, spirali, labirinti È questa la ragione per cui il simbolo della spirale che sintetizza in modo straordinario l’ideologia dei primi agricoltori euromediterranei, trova un’amplissima ricorrenza nel tempo e nello spazio a livello del culto e del rito. Basti mettere in relazione questa iconografia con le espressioni coreutiche di ambito cerimoniale che prevedono movimenti circolari alternati o più complessi motivi a cerchi concentrici e a spirali (D’Aronco 1962, in partic. pp. 269 sgg.; Louis 1963, in partic. pp. 301 sgg. e 346 sgg.; Toschi 1976, pp. 53 sgg.; Castagna, a cura, 1988; Gala 1992, pp. 57 sgg.). Come ricorda Sachs (1933, p. 177): “Presso i primitivi e in molte danze popolari europee il girotondo coreutico si trasforma spesso in spirale e talvolta in una serpentina”. Esempi eccellenti e par-

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ticolarmente probanti sono: il ballo della cordella di Petralia Sottana, ballo – tradizionalmente seguito per le cerimonie nuziali e per festeggiare il raccolto – che vede varie coppie di danzatori muoversi circolarmente intorno a un palo intrecciando dei nastri multicolori che da esso si dipartono (Bonanzinga 1995b, pp. 17 sg.); la danza spiraliforme intorno al fuoco che ha luogo a Sorrentini in occasione della festa patronale di san Teodoro (Buttitta 1999, pp. 141 sgg.); le processioni a direzioni alternate che vengono eseguite in vari contesti intorno a santuari e oggetti/luoghi sacri come nel caso della marcia di Bottida nel Goceano dove i fedeli percorrono tre giri in senso antiorario e tre giri in senso orario intorno al falò di sant’Antonio Abate o di Caulonia nella Locride dove il sabato santo le confraternite percorrono in lenta processione a serpentina la piazza antistante la chiesa madre prima di farvi ingresso (2002a, pp. 140 sgg. e 189 sgg.). Questi movimenti rituali, che non a caso si eseguono in occasione di precise scadenze del calendario cerimoniale o del ciclo della vita, sono in tutta evidenza un legare e uno sciogliere, uno scendere e risalire, un morire e rinascere, una traduzione performativa dell’idea del ritorno ciclico della vita umana, animale e vegetale e nello stesso tempo un’azione che sostiene questo processo, in altre parole una presentificazione del valore più manifesto del simbolo della spirale (cfr. Coomaraswamy 2004, pp. 38-41). Senza la pretesa di esaurire la materia o di fornire una interpretazione esaustiva e definitiva è però il caso di insistere sulla valenza sacrale attribuita al simbolismo spiraliforme e alle sue diverse declinazioni, che ricorre in altri ambiti rituali sotto forma di danze, marce, lotte. A tale proposito va ricordato innanzitutto quanto Plutarco scrive nelle sua Vita di Teseo (21; trad. Bettalli 2003), sulla “danza delle gru” eseguita da Teseo a Delo, di ritorno dal suo vittorioso scontro con il Minotauro: Salpato da Creta, Teseo giunse a Delo, e dopo aver eseguito i sacrifici in onore del dio [Dioniso] e collocato la statua di Afrodite che aveva ricevuto da Arianna, celebrò la danza che anco-

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ra oggi si dice che sia celebrata dai Deli, a imitazione dei meandri del Labirinto e dei movimenti di uscita compiuti secondo un ritmo alternato. Questo tipo di danza, secondo Dicearco, è chiamata dai Deli “della gru” [geranos]. Egli danzò intorno all’altare detto Cheratone, in quanto interamente composto di corna sinistre. Dicono che Teseo abbia pure istituito delle gare a Delo: ai vincitori, per la prima volta, fu dato da lui come premio un ramo di palma.

Non è possibile ricostruire con esattezza quali fossero tutti i movimenti della danza e il loro ordine. Si evince, dalle testimonianze testuali e iconografiche (segnatamente dal Vaso François custodito presso il Museo archeologico di Firenze), che i danzatori erano 14, giovani uomini e donne alternati che si tenevano per mano. In tutti i casi, – afferma Séchan (1930, pp. 120-121) – questa danza comportava molteplici ondulazioni, ripiegamenti e svolgimenti, il che ha portato a interpretare le sinuosità di questa farandola come una imitazione dei giri e rigiri di Teseo nel labirinto di Creta. La géranos aveva luogo in Hécatombéon (luglio), cioè – e questo probabilmente un ricordo della sua destinazione primitiva – nel mese in cui la terra si riveste del suo più ricco manto vegetale.

Al di là delle diverse interpretazioni è giusto ricordare con Anca Giurchescu (1973, p. 177) che la danza, al pari di tutti i simboli mitico-rituali, è “un signe ambigu, polysémique. Cette ambiguïté est due au fait qu’une performance choréique peut endosser des significations différentes par rapport aux conditions contextuelles et aux plans dans lesquels la communication est opérée” T R A D U R R E. È chiaro pertanto che un’interpretazione esaustiva della “danza delle gru” dovrebbe tenere conto oltre che dei contesti culturali dell’esecuzione anche delle relazioni con tutta la vicenda teseica e segnatamente con il superamento della prova del Labirinto da parte dell’eroe con il concorso di Arianna e del suo filo, vicenda che, in analogia al viaggio agli Inferi di Ulisse e di Enea, si propone

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come metafora dell’ingresso nella dimensione ctonia e del suo superamento in assoluta analogia con i rituali preistorici legati ai santuari delle caverne profonde. Nell’immaginazione religiosa i temi della nascita e più spesso della rinascita, osserva Campbell (1959, p. 81. Cfr. Neumann 1956, p. 178), sono estremamente importanti: in effetti, ogni passaggio capitale – non soltanto quello dall’oscurità dell’utero alla luce del sole, ma anche quello dall’infanzia alla maturità e quello dalla luce del mondo al mistero oscuro della morte – è paragonabile ad una nascita ed è stato ritualmente rappresentato, quasi dappertutto, con un’immagine di rientro nel ventre materno.

Come sottolinea anche Mario Vittorino (Arte Grammatica, I, 16) caratteristica fondamentale delle evoluzioni erano le sue inversioni di direzione. L’andare per ritornare indietro come appunto le gru nel loro migrare. È solo il caso di notare che tra le diverse interpretazioni etimologiche fornite del termine labirinto c’è quella che lo vuole derivare da labr-inda traducibile come “gioco della caverna” (Santarcangeli 1984, p. 37). Se Teseo è l’eroe che muore e rinasce, il gomitolo di Arianna, sciolto e riavvolto è la spirale della morte e della rinascita, l’inevitabile destino e allo stesso tempo la garanzia del ritorno. Il viaggio labirintico è l’ingresso nella madre, il percorrere à rebour la via della nascita reintroducendosi nel ventre materno dove alberga il principio vitale per poi rinascere a nuova esistenza. D’altro canto nelle tavolette in lineare B, il termine dapuritojo, interpretato come “labirinto” si ritrova associato a potinija, la Grande Dea ctonia (cfr. Cagiano De Azevedo 1958, p. 43), garante dei cicli cosmici e della loro ripetizione. In una tavoletta votiva in terracotta, redatta in lineare B, del XV sec. a.C. si legge: “Un vaso di miele per tutti gli dèi / un vaso di miele per la Signora del Labirinto”. Da questi elementi potrebbe ipotizzarsi che la danza riproduca ritualmente e presentifichi questo percorso proponendo sul piano mitico-rituale la risoluzione del destino del defunto.

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La danza di Delo richiama immediatamente i versi dell’Iliade dove si descrive ampiamente lo scudo forgiato per Achille dal dio Efesto. Tra le diverse figure, infatti, l’illustre storpio vi effigiò una pista da ballo, / come quella che un tempo nella vasta Cnosso / Dedalo fece per Arianna dai bei capelli. / Giovani e ragazze desiderabili danzavano, tenendosi per mano all’altezza del polso. / Le ragazze vestivano vesti sottili, i ragazzi tuniche / ben tessute, brillanti d’olio fragrante; le ragazze portavano ghirlande, i ragazzi spade / dorate, appese alle cinture d’argento. / Talvolta correvano con piedi esperti, facilmente, / come il vasaio seduto prova con mano / la ruota tornita per vedere se corre, / altre volte correvano in fila gli uni verso gli altri. / Attorno all’amabile danza si riuniva la folla / deliziata, e tra di loro due acrobati / volteggiavano al centro, dando inizio alla danza (XVIII, 590-606, trad. Paduano 2007). Doveva trattarsi – rileva in proposito Kerényi (1966, p. 57) – di un lungo corteo, perché presto accadeva che essi “danzassero fila contro fila, l’una di fronte all’altra”. E ciò accadeva necessariamente quando la schiera dei danzatori era costretta a cambiare la direzione della danza con un’inversione del movimento della spirale oppure dei cerchi all’interno della complicata figura a labirinto: chi si trovava alla testa del corteo cominciava ora a muoversi nel senso opposto, paralellamente agli altri che seguivano.

I danzatori, in ogni caso, giovani donne e uomini, si muovono ora circolarmente, ora gli uni verso gli altri tenendo le mani intrecciate e invertendo il senso di marcia. Motivi questi che si ritrovano in vari altri contesti. Uniti per le mani, infatti, i danzatori si muovono circolarmente, ora in un senso ora nell’altro, in diverse danze antiche tra cui le più note restano le parthenie, le danze delle vergini che “sotto i loro passi producono le ricchezze di tutte le stagioni” (Filostrato, cit. in Séchan 1930, p. 123; cfr. anche pp. 123 sgg.; Gasparini 1952). Molte sono rituali e simboliche, come lo sono le anfidromie e la circumambulazione; esse non formano solo un cerchio ma-

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gico, di protezione, ma imitano alcuni fenomeni naturali, il loro ritorno ciclico, il corso circolare degli astri, esercitando un’azione su di essi. (…) Esse hanno un valore simbolico e magico e, nel culto funerario, rappresentano la corsa nell’arena della vita, il trionfo sul tempo e sulla morte (Deonna 1953, p. 146. Cfr. Sachs 1933, pp. 95 sg. e 126 sgg.).

Un esempio eccellente di danza funebre circolare è quello offerto da un gruppo in terracotta della prima metà del II millennio a.C. rinvenuto all’interno della tomba a tholos di Kamilari, a Creta. Esso rappresenta una ronda eseguita esclusivamente da uomini nella quale ciascun soggetto si tiene a quelli a fianco saldamente per le spalle danzando in cerchio entro un basso peribolo. L’eventualità che possa trattarsi di una danza funebre è sostenuta dal fatto che l’effigie è stata trovata all’interno di una tomba cinta da un peribolo circolare relativamente basso e identico a quello facente parte della rappresentazione. Un esempio ancor più interessante è costituito dalla rappresentazione pittorica di danza circolare bidirezionale della cosiddetta “tomba delle Danzatrici” di Ruvo di Puglia, sepoltura di un membro dell’aristocrazia pucezia del IV sec. a.C. All’atto del ritrovamento lungo i quattro lati interni del sepolcro a semicamera si trovava raffigurata un’ininterrota teoria di danzatrici disposte su due file addossate – ciascuna di 27 unità – e saldamente intrecciate l’una all’altra per le mani, guidate ciascuna da un corifeo e accompagnate da un suonatore di lira. Ciascuna danzatrice, vestita con un lungo chitone e un ampio mantello che ricopre il capo e le spalle, tende le braccia a trattenere strettamente per le mani chi la precede e segue di due posti formando così una solida catena umana. Sembra di essere innanzi esattamente ai movimenti coreutici che si osservavano il pomeriggio della domenica di Pasqua a Gasturi, alle pendici dell’Achilleion (cfr. Kerényi 1966, p. 114) o il lunedì di Pasqua a Megara, vicino Atene: Non è solo la gravità ieratica della loro esecuzione e si potrebbe dire della loro celebrazione, l’indice delle loro origini lontane, ma vi sono anche particolarità della forma e del portamen-

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to che si ritrovano in numerosi rilievi antichi. In questa tratta le donne avanzano l’una vicinissima all’altra e si tendono le mani incrociandole: la prima passa la mano davanti alla seconda, all’altezza del seno e la dà ad una terza, la seconda fa lo stesso con la terza e dà la mano alla quarta e così via. In questa stretta catena esse si muovono sotto la direzione di una guida, uomo o donna, lentamente e dignitosamente, senza ondeggiare e con viso impassibile (Sachs 1933, p. 274).

Come rileva Todisco (2004) il motivo della danza femminile a braccia intrecciate ricorre in altri esempi apuli e, significativamente nella cosiddetta hydria della Polledrara (Vulci), vaso etrusco datato al 570 a.C., sul quale furono rappresentati gli episodi dell’uccisione del Minotauro da parte di Teseo con l’aiuto di Arianna e la danza di ringraziamento che seguì all’impresa. Da qui il collegamento instaurabile tra la pittura di Ruvo e questo specifico contesto mitico, il quale suggerisce come la catena resa salda dall’intreccio potesse rimandare alle insidie del percorso labirintico superate dall’eroe e dai giovani ateniesi da lui portati in salvo, così come l’inversione di direzione, documentata con chiarezza nel choros rubastino dalla rotazione all’indietro del tronco del primo conduttore e dall’atteggiamento delle ultime due danzatrici della seconda fila, potesse evocare il ritorno verso la salvezza da essi compiuto. (…) Che danze intrecciate – nel riferimento simbolico al mitico filo? – e alternate nella direzione fossero connesse con rituali funerari tra V e IV secolo a.C., secondo l’esempio di Ruvo, sembrano confermarlo, d’altra parte, le scene riprodotte su due vasi apuli, ovvero un cratere del Pittore De Schultess (circa 340 a.C.) e un thymiaterion (tardo IV sec. a.C.) (pp. 122-123).

Le mani intrecciate come il filo, un interrogativo suggestivo che pure trova sul piano rituale una qualche conferma, se è vero che in diverse fonti viene talora menzionato l’uso di funi o di corde a cui i danzatori si attaccavano per poter “svolgere” meglio il movimento coreografico: così avviene a Delo, dove, come

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appare da alcuni elenchi di spese, si cita una fune come indispensabile per poter compiere le feste di Artemide-Britomarte, la figura cretese paralella a Persefone (…). Similmente Livio (XXVII, 37, 14) racconta che a Roma veniva danzato, secondo il modello greco, un chorus Proserpinae, ovvero una danza eseguita in occasione della Regina degli Inferi dà delle vergini che, avanzando con il passo ritmato sul canto e svolgendo la figura coreografica tenevano in mano una corda (Fanelli 1997, p. 32. Cfr. Kerényi 1966, pp. 57 sgg.).

E qui va ricordato con Kerényi (p. 37) il mitologema di Persefone, “quell’idea della vita che si fonda sull’idea di morte; o anche, invertendo i termini, quell’idea della morte che costituisce il fondamento dell’idea di vita”. Non meno interessante stante il contesto funerario in cui era eseguito il Troiae lusus, la giostra a cavallo su percorso labirintico che conclude le celebrazioni funebri per Anchise descritto da Virgilio nell’Eneide (V, 577-603) – da mettere forse in relazione con la danza di sette giovani associata a due cavalieri e a un percorso labirintico raffigurate sulla nota brocca di Tragliatella – e che viene ricordato come eseguito intorno alla tomba di Giulia Drusilla nel 38 d.C. e intorno al rogo dell’imperatore Settimio Severo nel 211 d.C. (cfr. Dione Cassio LIV, 11, 2 e LXXVI, 15, 3), ma anche in occasione della fondazione di Albalonga (cfr. Plutarco, Vita di Romolo, 11; Virgilio, Eneide, V, 596-602). Senza ricorrere ai numerosi e significativi esempi extraeuropei, come quello della danza a spirale maro di Ceram “senza dubbio strettamente collegata alle rappresentazioni del viaggio dei morti” (Kerényi 1966, p. 42; cfr. anche 40 sgg.), tra le danze spiraliformi è poi il caso di menzionare le danze eseguite presso i Trojaburgen o Jungfrudans anglosassoni, scandinavi e baltici, tracciati labirintiformi di pietre di varia grandezza e di epoca incerta, più spesso collocati in prossimità delle rive, ma anche rinvenuti in prossimità di sepolture dell’età del Bronzo: sebbene non si sappia nulla sulla modalità del movimento, sembra verosimile vi fosse una fanciulla che poteva percorrere dan-

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zando il labirinto, oppure, posta al centro del tracciato, attendeva che un giovane, danzando lungo le spire del tracciato, la raggiungesse. Probabilmente erano danze celebrate in occasione del “ritorno della primavera”, legate a un contesto di rinascita della natura e quindi di propiziazione della fecondità (Fanelli 1997, p. 97).

Per certo nelle Isole Aaland e nelle scogliere finlandesi i giovani percorrevano di cora il tracciato spiraliforme “fino a raggiungere la “vergine” seduta al centro” (Kerényi 1966, p. 47). Naturalmente non è conducente interrogarsi sul senso ascritto dagli esecutori alle singole movenze coreutiche. Il nucleo di significato originario è destinato sempre a disperdersi nella storia spesso assumendo nuove valenze in rinnovati contesti d’uso. Eppure, come osserva Deonna (1953) a proposito del valore simbolico dell’acrobazia antica, anche quando i riti e i motivi religiosi si vanno svuotando dei loro contenuti spirituali, nel corso della loro evoluzione, “per non lasciare sussistere altro che la loro apparenza formale” bisogna sempre riconoscere che essi originariamente “avevano un senso, e questo può persistere in modo più o meno inconscio, anche quando è stato oscurato” (p. 84). Così è certamente per le danze cerimoniali, nuziali, funerarie, festive, perdurate fino ai tempi moderni. Osserva Walter Friedrich Otto, nel suo Mythos und Welt (1962): La danza, nella sua più antica e veneranda tipologia cultuale, rappresenta la verità, e insieme la giustificazione dell’essere-nelmondo: fra tutte le teodicee, è la sola inconfutabile ed eterna. Non insegna, non discute. Avanza soltanto. E con il suo incedere porta alla luce quello che sta alla base di ogni cosa: non la Volontà e il Potere, non l’Angoscia e la Cura e tutti i pesi di cui si vuol giovare l’esistenza, bensì l’Eternamente-splendido e il Divino. La danza è la verità dell’ente, di ciò che è, ma anche, nel modo più immediato, la verità di cuò che vive (…). L’essere, con la sua verità, parla attraverso la forma, il gesto, il movimento. (…) la danza è la più degna di venerazione, la più “primordia-

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le” fra tutte le forme d’arte: in essa, infatti, l’uomo non crea forgiando la materia, bensì diventa egli stesso risposta, forma, verità (cit. in Kerényi 1966, pp. 106-107).

L’atto cultuale riproduce dunque il ritmo dell’universo e “fonde l’uomo – che partecipa al rito con tutto il suo essere – con l’armonia del cosmos, ricreato e ritrovato attraverso i suoi stessi movimenti” (Fanelli 1997, p. 30). Lo stesso Deonna (1953, p. 99) rileva: “Quasi tutte le figure di danza hanno un significato originario; esse mimano gli esseri soprannaturali, le forze della natura e la loro azione, gli umani e la loro vita e, grazie alla magia di questa imitazione, tendono a riprodurli, a propiziarli o a contrastarli”. Questo è certamente il caso delle danze spiraliformi, che producono e riproducono i cicli cosmici e vitali. L’originario valore simbolico di queste danze che sembrano tradurre coreuticamente il percorso labirintico si fonda dunque, pittosto che sull’intenzione di “proteggere la persona defunta dal potere delle tenebre e invocare su di essa il potere della vita” (Rees 1992, p. 220), sulla sottolineatura della transizione da uno stato all’altro dell’esistenza. Come ha osservato Kerényi (1966, pp. 69-70): La spirale non è soltanto un “gesto” primordiale dell’uomo; è, in quanto movimento, un “avvenimento” primordiale, al quale si partecipa. La spirale-orbita solare non si costruisce geometricamente: la si riconosce invece come linea simile a quella cui ci si abbandona nel celebrare la festa, muovendosi in cerchio, per subire la morte e vincerla. (…) L’“evento” acquista un risalto ancora maggiore se individuato in un simbolo in movimento: in una danza maro sic?, dunque. Il motivo di quel movimento può essere racchiuso nel profondo dell’animo umano. In ultima analisi, che cosa esprime l’uomo involontariamente attraverso questo movimento, nella danza e nel disegno? La stessa cosa che il liquido germinale produce nell’essere vivente: l’eterno mantenimento della vita entro la morte. (…) Le spirali disegnate e danzate significano la continuazione della vita dei mortali oltre la loro morte graduale: ciò che nel plasma è funzione, qui è il significato.

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Il trapasso da uno stato all’altro dell’esistere, l’inversione di rotta nella spirale che si avvolge e svolge nuovamente si celebra sotto la protezione e nella sfera d’azione di una dea che, come già Arianna nel contesto della tradizione, è la regina degli inferi: “Quel che contava era di svoltare, di cambiare il senso della marcia, una volta giunti presso di lei: ed è questo per l’appunto il ritorno indietro dalla morte alla vita” (p. 120).

Riassumendo Dunque la spirale è anche una linea della vita, una rappresentazione del percorso individuale che, riproducendo il corso cosmico, afferma il ritorno della vita e il suo trionfo sulla morte. Con questo significato la spirale ricorre negli amuleti e nei cartigli faraonici a racchiudere il nome del Re (Lurker 1987b, pp. 165 sg.). Certo non casualmente la dea Meskhent che assisteva le partorienti e tracciava il destino del nuovo nato e a un tempo presenziava al giudizio del defunto portava un copricapo sormontato da uno stelo che terminava in due spirali. Così la dea sumera della fertilità Ninhursag aveva il suo simbolo proprio nella doppia spirale. Nella percezione arcaica d’altronde il destino del vivente è univoco, cicli della natura e cicli della vita umana non sono pertanto disgiungibili. Le divinità che a essi presiedono, assai spesso di sesso femminile, vedono enfatizzate in età storica quella o quell’altra funzione senza però mai perdere la completezza del senso originario. Se la spirale può bene essere letta come una icona della Dea Madre, come figura unica del principio e della fine e insieme rappresentazione della continuità ciclicamente progrediente, la spirale doppia esalta queste sue qualità. La spirale si avvolge e si svolge, ha un’origine e una fine e la sua fine è essa stessa un inizio à rebour. La doppia spirale manifesta con maggior forza questo processo di evoluzione-involuzione, dalla nascita alla morte e dalla morte alla nascita, essa è traduzione iconica della “grande legge elementare del cosmo: morte-rinascita, morte-fecondità, morte-nuo-

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va vita” (Morin 1976, p. 127). La spirale doppia affiancata, infine, come a Castelluccio, esalta questo simbolismo presentandoci la sintesi creativa delle forze cosmiche contrapposte, anche sotto la forma dell’opposizione maschile vs femminile, l’inizio e la fine eternamente riproducentesi nell’incontro/scontro dei principi vitali. Questo è certamente il senso racchiuso nei pani rituali a doppia spirale o in quelli a S racchiudenti uova o sfere di pane del tipo già segnalato di Santa Croce Camerina. Vale ancora citare un autore poco amato dalla scienza “ufficiale”: possiamo considerare le due spirali come l’indicazione di una forza cosmica che agisce in senso inverso nei due emisferi, i quali, nella loro più larga applicazione, sono naturalmente le due metà dell’“Uovo del Mondo” mentre i punti intorno ai quali si avvolgono le due spirali sono i due poli (Guènon 1957, p. 47. Cfr. Burckhardt 1997, p. 15).

Durand, nel ricondurre le molteplici simbolizzazioni della spirale a un paesaggio mentale fondato sui miti dell’equilibrio dei contrari, riconosce nella spirale “le signe de l’équilibre dans le déséquilibre” in quanto essa “possède cette remarquable propriété de croître d’une manière terminale sans modifier la forme de la figure totale, et d’être ainsi en permanence dans sa forme, malgré la croissance asymétrique” TRADURRE. In conseguenza di ciò la spirale è “un glifo universale della temporalità, della permanenza dell’essere attraverso le fluttuazioni del mutamento” (Durand 1963, p. 315). La spirale, estesamente è il simbolo della vita e del tempo, della vita nel tempo, dell’essere in perpetuo divenire, dell’evoluzione nella ripetizione, della rivoluzione nella tradizione, principio e fine dell’eterno ciclico e necessario ritorno, che trova piena compiutezza nel simbolo della doppia spirale. Simbolo esplicitamente ambiguo (tutti i simboli sono nel senso proprio del termine ambigui, unione di parti significanti separate che nell’unità trovano nuovo senso), dicotomico, dove trovano unità gli opposti bene vs male, notte vs giorno, vita vs morte, maschio vs femmina. La doppia

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spirale contrapposta non è altro che una amplificazione di questo messaggio. La doppia spirale è insomma il simbolo più perfetto dell’essere in perpetuo divenire, ovvero del cosmo. La spirale è il cosmo. Ogni spira si avviluppa sulle precedenti percorrendo gli stessi stadi dell’essere. È lo spazio-tempo che si accresce nella ripetizione. Il tempo cioè, trascorrendo, ri-genera lo spazio diverso eppure eguale. La contraddizione esperibile sul piano della prassi tra progredire storico e ripetizione ciclica, tra divenire ed essere, trova sul piano mitico-rituale la sua soluzione generando rappresentazioni, narrazioni, che raccontano la diacronia come il riprodursi costante di identiche relazioni sincroniche. Con il mito della rigenerazione del tempo la cultura arcaica dava all’uomo la possibilità di vincere l’irripetibilità e la fugacità della sua vita. Non distaccandosi né per i suoi pensieri né per il suo comportamento dal corpo sociale etnico, l’uomo ingannava la morte. In questo sistema di coscienza, passato, presente e futuro sono come disposti sullo stesso piano, in un certo senso sono “sincronici”. Il tempo è “spazializzato”, è vissuto come spazio; il presente non è staccato dal tempo globale, formato da passato e futuro (Gureviã 1983: 32).

La festa, d’altronde, anche la più trasgressiva, esita sempre nella riaffermazione dell’ordine pre-esistente). Questa la ragione della potente carica simbolica assunta nei contesti rituali da quei vegetali quali la lattuga, il finocchio, il carciofo che si espandono a partire da un nucleo riproducendolo. I diversi passaggi trasformazionionali, attraversati dalla natura e dall’uomo: generazione, sviluppo, degenerazione, morte trovano in questo limite ultimo la soluzione. La trasformazione si conclude infatti con un il ritorno allo stato iniziale. Nelle coscienze arcaiche in cui le esperienze elementari del mondo sono fatte di metamorfosi, sparizioni, riapparizioni e trasformazioni ogni morte annuncia una nascita, ogni nascita deriva da una morte, ogni cambiamento corrisponde a una mor-

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te-rinascita e il ciclo della vita umana è iscritto nei cicli naturali della morte-rinascita. La concezione cosmomorfica primitiva della morte è dunque quella di una morte-rinascita; secondo tale concezione il morto, prima o poi, rinasce sotto sembianze di un nuovo essere vivente, bambino o animale che sia (Morin 1976, p. 19).

Ecco le tombe-utero, le sepolture in posizione fetale, l’assegnazione al nuovo nato del nome del nonno, la struttura tripartita dei riti di passaggio. Se si può presumere sulla base di tali evidenze una stretta relazione tra sfera della fecondità e sfera della morte, non possiamo sapere se dinanzi alle tombe avessero luogo forme di culto familiare intese a celebrare i propri morti e a propiziarne l’impegno verso i vivi. Non possiamo sapere, qualora vi fossero state, la forma delle offerte e il tipo dei riti. È però possibile ipotizzare che dinanzi ai sepolcri o all’interno di essi avessero periodicamente luogo dei pasti rituali intesi a ribadire la necessaria comunione tra mondo dei vivi e mondo dei defunti. Certo questo è quanto accade oggi in occasione di cerimonie come quella delle Tavole di san Giuseppe: l pane a doppia spirale introduce alla Tavola di San Giuseppe e al banchetto che vedrà uniti i morti e i vivi così come la lastra tombale si apre sullo spazio dove i congiunti venivano a celebrare i loro morti con offerte alimentari o, come possiamo presumere, a consumare un pasto sul luogo condividendo idealmente il cibo con i propri antenati.

Capitolo settimo “Veicoli dell’assoluto” nella tradizione induista

Osservazioni preliminari Nel momento in cui si affronta il tema della rappresentazione materiale del divino nella civiltà indiana, ci si trova dinanzi a un aspetto, non secondario, del problematico rapporto tra immanenza e trascendenza così come è stato variamente articolato entro sistemi di pensiero di tradizione millenaria e, almeno in apparenza, complessivamente distanti da quel procedere logico-razionale di derivazione ellenica da cui si ritiene essere sostenuta la cultura ufficiale dell’Occidente. Si dovrebbe, pertanto, preliminarmente riconoscere “l’estraneità delle categorie mentali dell’Oriente al nostro modo di pensare” e la inevitabile falsificazione che “esse subiscono quando vengono sottoposte a una ‘lettura’ raziocinante di tipo greco” (Eco 1968, p. 62), cioè – e questo è uno tra i temi più “sensibili” e dibattuti dell’antropologia culturale contemporanea (cfr. Clifford, Marcus, a cura, 1986; de Certeau 2005) – la sostanziale inadeguatezza del pensiero occidentale a “interpretare e classificare dati e fenomeni appartenenti ad altri orizzonti culturali, portatori di visioni del mondo sovente affatto irriducibili a quelle che ci sono familiari” (Piantelli 2007, p. 3). D’altro canto, potendo in questa sede discutere solo de relato di atti performativi e procedure del pensiero vivi e operanti, andrebbe ricordata l’importanza dell’esperienza diretta ed emotivamente partecipe dei fenomeni come primo necessario momento della comprensione degli stessi.

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Le precedenti puntualizzazioni servono a delineare il limitato perimetro euristico entro il quale potrà distendersi il nostro discorso sulle immagini “sacre” nell’induismo contemporaneo; un tema complesso cui ritengo, tuttavia, di poter recare un contributo analitico – al di là di ogni sintetica e generica illustrazione “fenomenica” –, con alcune considerazioni di carattere generale rispetto al “valore” e al “significato” assunto dalle immagini sacre nei loro contesti d’uso “popolari”. A tale scopo farò riferimento da un lato ad alcune letture sul rapporto tra “espressioni artistiche” e “sentimento del sacro” e sull’arte religiosa dell’India, in particolare a quella di tradizione induista, dall’altro alle mie precedenti esperienze e riflessioni, maturate in relazione alla lunga frequentazione di contesti culturali folklorici e a sporadiche incursioni nelle pratiche religiose delle comunità di immigrati presenti nella città di Palermo, sul rapporto tra immagini, culto e rito. Una prima osservazione, che nella sua manifesta evidenza può aiutarci a penetrare la complessità del problema, è relativa alla distanza che corre tra la rappresentazione del divino nella tradizione induista e in quella, a noi assai più familiare, cristiano-cattolica. In questa direzione si può fare immediato riferimento agli “stranianti” caratteri espressivi, tanto generali che peculiari, delle divinità hindu. Come ha osservato Zimmer (1926) l’aspetto e l’effetto di queste immagini che si propongono come veri e propri simboli spirituali, conservano al fondo, anche per chi sia in possesso di adeguati riferimenti culturali, “un residuo di indecifrabilità che crea una distanza carica di tensione tra noi e le figure (...), un’inevitabile sensazione di distacco e l’impressione di entrare in un regno diverso” che può essere superata solo riuscendo a spogliarsi delle “abitudini mentali di occidentali moderni” (pp. 8-10). Le figurazioni divine della tradizione induista, infatti, – contrariamente a quanto avviene per i cristi, i santi e le madonne, la cui santità e appartenenza alla sfera del sacro è, quando lo è, per lo più evidenziata dall’aureola e da un corredo simbolico affatto “naturale” –, sono dotate di evidenti caratteristiche iconiche che ne denun-

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ziano immediatamente, almeno all’occhio occidentale, la radicale “alterità”, la assoluta distanza dall’umano, il rifiuto del mistero dell’incarnazione: figure “smisurate”, mostruose se non grottesche, i volti e le membra molteplici, la stessa pigmentazione dell’epidermide, caratteri ferini, corredo simbolico inusuale e fantastico. Eppure, nonostante questo “singolare” apparire, esse, almeno nel sentire comune dei credenti, non sono estranee all’immanenza, sono “umanamente” vicine ai loro devoti. Al di là di ogni speculazione e rappresentazione filosofica, infatti, agiscono e sentono tra gli uomini e come gli uomini. Intervengono cioè nelle loro vite e ne condizionano gli eventi, non diversamente dai santi del “pantheon” del cristianesimo popolare. Un cristianesimo “popolare”, dove, è opportuno ricordare, in variazione se non in contraddizione di ogni ortodossia, si muovono indisturbati anime ed esseri dai caratteri inquietanti (cfr. Guggino 1993; 2004; 2006). Come sia possibile frequentare con fede indefettibile la casa del Signore, accettarne e proclamarne il mistero della Resurrezione, credere nell’Inferno, nel Purgatorio e nel Paradiso, e d’altro canto ritenere che l’anima del defunto “abiti” nel suo sepolcro e/o nel luogo dell’avvenuta morte (si pensi agli mnemata e al “culto” che intorno a essi si articola), ritorni dall’aldilà o sopraggiunga da un indefinibile altrove a visitare ciclicamente i parenti (cfr. Lombardi Satriani, Meligrana 1989; Buttitta 1996; Buttitta I. E. 2006a), è fatto che impone con forza la necessità di ricredersi sull’esistenza di una coerenza logica “all’Occidentale” presso molti, moltissimi, fedeli cristiani. Nel sottolineare dunque la distanza culturale tra Oriente e Occidente a livello “ufficiale” e “speculativo” non si deve incorrere nell’errore di dimenticare la prossimità dei magmatici e brulicanti immaginari dei “credenti” d’ogni dove che, raccogliendo e riplasmando ogni giorno eredità millenarie, declinano prassi e credenze fondate sulla comune esigenza di articolare a proprio vantaggio un rapporto di scambio con il sacro. Limitandoci alla dimensione dell’immagine, si può asserire che al di là della diversità e distanza dei contesti ciò che

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appare chiara, dinanzi al proliferare di rappresentazioni bidimensionali e tridimensionali, figurative e simboliche della trascendenza, è la necessità di dare concretezza materiale al “sacro”, alle entità e ai processi, “imprigionandoli” in figure. Un’esigenza che, nel momento in cui si rivela per immagini, sussume una precedente e chiara concettualizzazione che nega ogni arbitrarietà dell’espressione segnica e ogni soggettivo compiacimento estetico. È questo un presupposto imprescindibile per ogni analisi delle espressioni artistiche a carattere “religioso”, come può essere rilevato fin dalla lontana Preistoria dell’uomo.

Preistoria delle immagini religiose In una nota pagina della Estetica, Hegel (1837-42, pp. 257258) afferma: Per il lato oggettivo, l’inizio dell’arte è molto strettamente connesso con la religione. Le prime opere d’arte sono di natura mitologica. Nella religione è l’assoluto in generale che si porta a coscienza, se pur secondo le più astratte e povere determinazioni. L’esplicazione successiva che si offre per l’assoluto, sono ora i fenomeni della natura, nella cui esistenza l’uomo presentisce l’assoluto, che egli si rende intuibile sotto forma di oggetti naturali. In questa aspirazione l’arte trova la sua prima origine. Ma anche a questo riguardo essa compare solo quando l’uomo non contempla immediatamente l’assoluto solo negli oggetti realmente esistenti, accontentandosi di questo genere di realtà del divino, ma quando la coscienza produce da se stessa sia la concezione di ciò che è per lei l’assoluto sotto forma di quel che in se stesso è esterno, sia il lato oggettivo di questa unione più o meno commisurata. All’arte infatti è intrinseco un contenuto sostanziale colto dallo spirito e che appare sì esteriore, ma in un’esteriorità che non è solo immediatamente presente, bensì appunto solo dallo spirito è prodotta come un’esistenza che in sé abbraccia ed esprime quel contenuto. La prima interprete delle rappresentazioni religiose, che più direttamente dà loro forma, è però solo l’arte, perché la considerazione prosaica del mondo oggettivo si fa valere solo quando l’uomo si è distacca-

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to, in quanto autocoscienza spirituale, dall’immediatezza, opponendosi ad essa in questa libertà in cui egli assume intellettualmente l’oggettività come semplice esteriorità.

Il filosofo tedesco recava così un autorevole contributo al quel dibattito intorno alle origini e alla natura dell’arte preistorica, alle condizioni che la determinarono, alle “motivazioni” prime che sospinsero l’uomo a esprimersi per simboli e per figure, e agli stessi criteri di definizione e valutazione di questi prodotti, che ha appassionato lungamente studiosi di varia formazione dando luogo a diverse e contrastanti ipotesi (cfr. Luquet 1926; James 1957, in partic. pp. 176 sgg. e 232 sgg.; Furon 1959, pp. 244 sgg.; Laming-Emperaire 1962; Delporte 1990, pp. 29 sgg.; Anati 1992, pp. 100 sgg.; Müller-Karpe 1974, pp. 205 sgg.; LeroiGourhan 1993, pp. 193 sgg.; Leroi-Gourhan et al. 1995; Debray 1992, pp. 21 sgg. e 30 sgg.; Lorblanchet 1999; Hauser 1953, p. I, 5 sgg. e note; Clottes 2003; Guy 2003; Gombrich 1950, pp. 15 e 39 sgg.). Clottes ha recentemente rilevato come, al momento di affrontare l’analisi delle espressioni artistiche preistoriche, e non solo, sia necessario dal presupposto che “tutta l’arte è messaggio”. Un messaggio che può essere diretto alla propria collettività, variamente estesa e composita, diversificata per caratteristiche e per competenze individuali anche in relazione all’età, al sesso, al grado di iniziazione, al ruolo sociale ecc., ma anche, e non secondariamente, a soggetti “altri”, tanto umani che soprannaturali. Il segno artistico allora può fungere da avvertimento o formulare un divieto, può raccontare una storia, sacra o profana, ovvero manifestare e affermare una presenza. Clottes (2003, pp. 2-3) prosegue osservando che Tutti questi significati sono ipotizzabili quando si prende in esame un’arte preistorica, un’arte “fossile” che non può più essere spiegata nelle sue sfumature e nella sua complessità da coloro che l’hanno creata o dai loro successori. Si può immaginare la difficoltà dell’impresa quando si devono affrontare questioni di significato millenni dopo la scomparsa delle so-

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cietà che hanno prodotto quest’arte. (...) Infatti, quando non si dispone di tradizioni orali o scritte, cioè di spiegazioni dirette, la ricerca interpretativa deve basarsi su argomenti ricavati per deduzione: dall’arte stessa, dai temi rappresentati, dalla loro frequenza e dalle loro associazioni, dalle tecniche utilizzate, o anche dalla loro evoluzione nello spazio e nel tempo; dal contesto dell’opera, si tratti dei supporti utilizzati, della topografia delle caverne o della morfologia delle pareti, o anche da tracce e resti associati a quest’arte nella misura in cui sono testimoni di azioni che ci si sforzerà di capire; dalle comparazioni etnologiche, cioè dal possibile raffronto con società tradizionali recenti che praticano (o hanno praticato fino a epoca non lontana) l’arte rupestre e su cui si possiedono informazioni precise.

Lo studioso delinea così sinteticamente i principali percorsi interpretativi esercitatisi a partire dalle prime scoperte dell’arte paleolitica nel XIX secolo, quelli cioè dell’arte per l’arte, del totemismo, della magia di caccia, di distruzione e di fecondità, di tipo socio-strutturalista e di tipo religioso-sciamanico. Da parte nostra, senza voler aderire acriticamente alle considerazioni di Hegel e consapevoli delle suggestioni dei percorsi interpretativi appena ricordati, riteniamo possibile asserire, anche sulla base di quanto prima osservato sull’umana esigenza di dare concretezza materiale al sacro, che le rappresentazioni figurative e non figurative (geometriche e astratte), tanto grafiche che plastiche, che cominciano a incontrarsi a partire dal Paleolitico superiore, sono la prima e la più evidente testimonianza della presenza nell’uomo della consapevolezza dell’esistenza di una dimensione trascendente, autonoma e potente, capace di condizionare e di regolare i cicli cosmici e vitali e di influire sui destini individuali e collettivi. Tale consapevolezza, che si trova all’incrocio tra lo sviluppo psichico e le condizioni esistenziali, altrimenti definibile come “sentimento del sacro”, sarà per millenni a fondamento della vita stessa delle civiltà umane. Come rilevato da James nel suo monumentale Prehistoric religion (1957, p. 229):

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Dal precedente esame dei dati archeologici risulta chiaro che la religione preistorica era centrata e si è sviluppata attorno alle situazioni più cruciali e più problematiche con cui l’uomo primitivo doveva confrontarsi nell’esperienza quotidiana: nascita, morte e i mezzi connessi alla sussistenza in un ambiente precario. La pressione degli eventi nel mondo esterno e nelle cose umane, la lotta permanente per l’esistenza e la sopravvivenza nell’immediato e nel futuro, le innumerevoli frustrazioni e le esperienze sconcertanti, spesso completamente al di là della sua portata, crearono, sembrerebbe, una predisposizione a cercare vie e mezzi per alleviare la tensione. Dal momento che la vita dipendeva in gran parte dalla casualità della caccia, dai capricci stagionali, da circostanze ed eventi così imprevedibili e inaspettati, la pressione emotiva doveva essere endemica. E una volta che era stata inventata una tecnica rituale per sublimare lo stress, questa si istituzionalizzò e si sviluppò indefinitamente per andare incontro a ogni nuova richiesta e per conservare l’equilibrio in una struttura sociale e in un’organizzazione religiosa in espansione.

Nelle raffigurazioni parietali e mobiliari preistoriche – pitture, bassorilievi e incisioni rupestri, oggetti in corno, osso, avorio, steatite, calcare, arenaria, argilla ecc., tra cui placchette incise e statuette di esseri umani e animali –, insieme all’uso di seppellire i defunti, si possono e si debbono vedere i segni inequivocabili della presenza di forme di autocoscienza, di spiritualità, di desiderio di esercitare un controllo sui processi vitali, dunque dell’esistenza di sistemi di credenze magico-religiose di cui sono destinate a sfuggirci per sempre, tuttavia, le peculiari e complesse articolazioni (cfr. Laming-Emperaire 1962; Leroi-Gourhan 1964, in partic. pp. 95-164; Eliade 1975, pp. 15 sgg.). In tal senso sono assai significative le osservazioni di Laming-Emperaire (1969, p. 1262), la quale, è opportuno ricordare, propone una lettura dell’arte rupestre fondata sulla considerazione che questa “poteva semplicemente essere l’espressione non di un sistema del mondo, ma di un sistema sociale”. La studiosa osserva che, in quest’ottica: potremmo rinunciare alle comparazioni etnografiche per concentrarci nello studio dei dati paleolitici e delle loro interrelazio-

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ni. Tutto lo sforzo deve allora consistere nello stabilire degli schemi in grado di avvicinarsi il più possibile alla realtà degli affreschi rupestri, e nel tentare di interpretarli a partire dalla loro logica interna. Questo metodo è intellettualmente soddisfacente, perché ricava le proprie conclusioni dai dati stessi del problema, senza estrapolazioni e senza far ricorso a documenti che gli sono estranei. Di fatto, se ne colgono presto i limiti. La mente umana e, possiamo supporlo, la mente paleolitica, segue raramente una logica rigorosa. Bisogna tener conto della fantasia dell’artista, della difficoltà a esprimere graficamente delle organizzazioni complesse, delle circostanze storiche o mitiche che possono assumere un’importanza smisurata in una specifica grotta. Le interpretazioni di opere d’arte, rupestri o no, procurate dai primitivi attuali, sono spesso estremamente complesse; in che modo potremmo cogliere il senso di opere fatte a millenni di distanza e in un contesto umano che ci è sconosciuto? E, dal momento che, in ogni caso, non possiamo capire l’altro se non attraverso noi stessi, o una società attraverso quelle che conosciamo o crediamo di conoscere, la sola ricerca possibile, fino a qualche anno fa, mi sembrava consistere in una specie di va e vieni tra il primo e il secondo metodo, tra comparazione e analisi; i risultati di questo movimento mentale sembravano destinati a restare molto limitati.

Laming-Emperaire illustra così chiaramente come in presenza di materiali, presumibilmente ascrivibili a pratiche rituali e di culto e financo a narrazioni mitiche, di fatto, nulla resti degli atti e dei pensieri, dei suoni e delle parole che li hanno sostanziati e come possa essere fuorviante procedere alla loro interpretazione a partire dalla comparazione con contesti etnologici. Ha sottolineato Eliade (1975), rilevando l’“opacità semantica” dei documenti preistorici: Non si insisterà mai abbastanza sulla ricchezza e complessità dell’ideologia religiosa dei popoli cacciatori – e sull’impossibilità pressoché totale di provarne o di negarne l’esistenza presso i Paleantropi. Come è stato ripetuto più volte: le credenze e le idee non sono suscettibili di fossilizzazione (I, pp. 18-19).

A fronte di questa situazione, tanto l’analisi contestuale, peraltro non sempre possibile, quanto ogni forma di com-

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parativismo etnologico, non sembrerebbe possano andare oltre la formulazione di ipotesi di carattere assai generale (cfr. Anati 1992, pp. 86 sg. Cfr. Furon 1959, pp. 229 sgg.; Varagnac 1969, p. 1253; Müller Karpe 1974, p. 346; LeroiGourhan 1964; Eliade 1975, in partic. I, pp. 25 sgg. e 35 sgg.). Vi sono tuttavia autori che ritengono un comparativismo prudente una possibile chiave d’accesso alla reale conoscenza della sfera immateriale dell’uomo preistorico: L’assimilazione dei “primitivi” preistorici ai “selvaggi” di contrade lontane era invitante. Benché le concezioni che si avevano sui primi fossero false quanto quelle che si avevano sui secondi, tali raffronti sembravano posare su basi apparentemente solide. Aborigeni australiani, tribù indiane o Boscimani sudafricani, come i Maddaleniani o i Solutreani, erano Homo sapiens sapiens, il che lasciava supporre delle affinità nei comportamenti, nelle credenze e nei modi di pensare tra gruppi che si collocavano a un medesimo stadio economico-sociale, quello dei cacciatori-raccoglitori. D’altro canto, queste culture tradizionali contemporanee praticavano esse stesse l’arte rupestre. È dunque ammissibile riferirsi a esse, guardandosi bene dal sovrapporre servilmente uno specifico modello moderno a una realtà fossile. Nell’uomo, la variabilità di credenze e concetti è tale che questo tipo di analogia etnografica sarebbe immancabilmente votata all’insuccesso. (...) Il comparativismo etnologico si distingue dalla mera analogia per il fatto che addita la possibile presenza di concetti e strutture sociali e mentali affini, o anche ricorrenze frequenti in determinati contesti. Non si tratta di ricercare una “presunta mentalità primitiva”, quanto piuttosto delle convergenze nei modi di pensare, di concepire il mondo e di agire su di esso – degli universali – che possano fornirci per i fatti paleolitici delle possibili chiavi interpretative. Questa pista è più logica di quella che consiste nel “lasciar parlare i fatti da sé”, cosa che evidentemente non fanno mai, o nell’interpretarli “in modo letterale”, dal momento che, in questo caso specifico, l’interpretazione è necessariamente il frutto di concetti dominanti nella società in cui viviamo. Senza tema d’errore possiamo ipotizzare che i modi di pensare dei Maddaleniani e di altri paleolitici erano più vicini a quelli dei cacciatori-raccoglitori di altri continenti che non a quelli di Occidentali materialisti che vivono alla fine del XX e all’inizio del XXI secolo in una società complessa di tipo industriale (Clottes 2003, pp. 3-4).

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La difficoltà di riferire idee definite e pratiche magico-religiose alle espressioni artistiche degli uomini del Paleolitico non può, in ogni caso, indurre ad aderire integralmente all’opinione di Hauser (1953, pp. 7-9) che ritiene i primi “artisti” paleolitici sostanzialmente “areligiosi” e privi di qualsivoglia spinta “decorativa o espressiva”, indifferenti a pratiche cultuali, a credenze in esseri divini e “potenze sacre”, nell’aldilà e in “alcun genere di sopravvivenza”, e considera pertanto le prime espressioni artistiche un mero strumento di “prassi magica” che “non aveva nulla in comune con quello che noi intendiamo per religione”. La magia paleolitica per Hauser è una tecnica senza misteri, un metodo pratico, l’uso concreto di mezzi e di procedimenti lontani da ogni carattere mistico ed esoterico (...). Le immagini facevano parte dell’apparato di questa magia; erano la “trappola” in cui la selvaggina doveva cadere, o piuttosto la trappola con l’animale già catturato: perché l’immagine era insieme rappresentazione e cosa rappresentata, desiderio e appagamento. (...) La rappresentazione figurata non era (...) che l’anticipazione dell’effetto desiderato; l’avvenimento reale doveva seguire il modello magico; o piuttosto esservi già contenuto poiché le due cose erano separate soltanto dal mezzo, ritenuto inessenziale, dello spazio e del tempo (p. 8).

Nella prospettiva evoluzionista di Hauser sarà solo il contadino o il pastore neolitico che comincerà “a sentire e a concepire la sorte come guidata da forze intelligenti, che eseguono un piano”, a credere e a tributare un culto a “spiriti e demoni” che, solo in una fase di sviluppo successiva, diverranno vere e proprie divinità (pp. 15-16). Non diversamente Benjamin rileverà: “Il modo originario di articolazione dell’opera d’arte dentro il contesto della tradizione trovava la sua espressione nel culto. Le opere d’arte sono nate, (...), al servizio di un rituale dapprima magico, poi religioso” (1955, p. 26. Cfr. Gombrich 2003, pp. 39 sgg.). La lettura “evoluzionista” hauseriana, non dissimile da quella di altri storici dell’arte e della cultura, tesa a riconoscere nelle prime espressioni artistiche paleolitiche il prodotto di una magia come “tecnica”, è debitrice di quanto l’a-

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bate Henri Breuil (1952) aveva osservato intorno all’arte paleolitica. Egli, infatti, aveva ritenuto di vedere nelle immagini delle grotte i meri esiti di rituali propiziatori della caccia fondati sul principio della magia simpatica, finendo con il proporre la visione di un’umanità profondamente “altra” e in possesso di facoltà intellettuali se non limitate da fattori biologici certamente dalle condizioni materiali di un’esistenza tutta rivolta a garantire la propria sopravvivenza e pertanto estranea a ogni forma di spiritualità e di riflessione sulla propria stessa esistenza. Basterebbe solo un riferimento all’ampiezza e varietà delle rappresentazioni non “figurative” e non “naturalistiche”, peraltro variamente interpretate in funzione mitico-rituale, per riconoscere l’esistenza, già nel Paleolitico, di capacità di analisi e di discretizzazione delle realtà interiore ed esteriore e di conseguente concettualizzazione che, sfuggendo a ogni logica fondata su un mero istinto di sopravvivenza, denunziano capacità speculative e riflessive (cfr. Durand 1963; Wunenburger 1997; Sartre 1940; Franzini 2007). L’arte rupestre, infatti, “incarna certamente una concettualità articolata e complessa. L’analisi formale delle immagini illustra tutta una serie di processi cognitivi che dimostra l’esistenza nell’uomo preistorico delle nostre stesse facoltà di astrazione e di elaborazione simbolica” (Meschiari 2002-2004, p. 69. Cfr. Müller-Karpe 1976, pp. 210-213). L’arte paleolitica, è dunque una manifestazione culturale rivelatrice di “psichismo umano” e rinvia in tutti i casi a concezioni e comportamenti formalizzati “che trascendono bisogni materiali immediati” (Facchini 2000, pp. 19, 25. Cfr. Guy 2003, p. 284). Come rileva Cassirer: “attraverso il simbolo l’uomo riconosce ed esprime in forma sacrale o rituale le potenti forze che sente intorno a sé, in questo modo le domina e le conduce al controllo sociale” (Mytischer, aestetischer und theorethischer Raum, 1931, cit. in Facchini 2000, p. 25). Attraverso le immagini, i segni incisi o dipinti, le forme scolpite o plasmate, si dà forma e si organizzano le idee e le concezioni del tempo e dello spazio, dei processi cosmici, della vita e della morte. Pertanto, anche volendosi limitare ad

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ascrivere alle espressioni artistiche della preistoria scopi prevalentemente magico-tecnici, si deve riconoscere a queste una funzione di controllo di forze e realtà esterne non “naturali”, che presuppone tanto la concettualizzazione di queste forze, quanto la rappresentazione intellettuale di un ordine complessivo del mondo esperito, in altre parole l’idea di un cosmo regolato da entità soprannaturali e trascendenti. Senza per questo necessariamente alienare all’arte paleolitica la presenza di intrinseche qualità estetiche, rifiutare cioè l’idea che l’uomo preistorico potesse trarre godimento dalla realizzazione e dall’osservazione delle figurazioni e dei manufatti da lui e per lui prodotti nel momento in cui riceveva il messaggio religioso da questi declinato. L’uomo preistorico, così come l’uomo “tradizionale”, semplicemente non distingueva il bello dall’utile, il piacevole dal necessario, il sacro dal profano. Ogni atto era iscritto in un ordinamento sacrale che lo permeava interamente conferendogli ragione e senso. D’altro canto, osserva Eliade (1975, I, 7. Cfr. 1969, p. 7), è impossibile immaginare come la coscienza potrebbe manifestarsi senza conferire un significato agli impulsi e alle esperienze dell’uomo. La coscienza di un mondo reale e dotato di significato è legata intimamente alla scoperta del sacro. Mediante l’esperienza del sacro lo spirito umano ha colto la differenza tra ciò che si rivela reale, potente, ricco e dotato di significato, e ciò che è privo di queste qualità. Il “sacro” è insomma un elemento della struttura della coscienza, e non uno stadio nella storia della coscienza stessa. Ai livelli più arcaici di cultura vivere da essere umano è in sé e per sé un atto religioso, perché l’alimentazione, la vita sessuale e il lavoro hanno valore sacrale. In altre parole, essere – o piuttosto divenire – un uomo significa essere “religioso”.

Letture dell’arte preistorica A chiarimento e supporto di quanto osservato, sembra utile ripercorrere le pagine di alcuni tra i numerosi autori che

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hanno voluto interpretare le diverse produzioni grafiche e plastiche del Paleolitico come testimonianze d’ordine estetico, e/o magico e rituale che “indicano preoccupazioni artistiche e religiose” (Kozlowski 1991, p. 58). Reinach, sulla scorta di Breuil, vede nell’esigenza di dominare magicamente il mondo una delle ragioni alla base della nascita delle espressioni artistiche. Nell’esaminare le incisioni, le pitture e i reperti d’arte mobiliare delle grotte pirenaiche e del Perigord del Paleolitico superiore (30.000/40.000 a.C.), egli osserva: È in effetti questa idea mistica dell’evocazione attraverso il disegno o il rilievo, analoga a quella dell’invocazione attraverso la parola che bisogna supporre all’origine dello sviluppo dell’arte dell’età della renna (...). Indubbiamente si esagera quando si pretende che la magia sia la fonte unica dell’arte, negando la parte che ha l’istinto di imitazione, il desiderio di ornamento, il bisogno sociale di esprimere e di comunicare il pensiero; ma la scoperta delle pitture rupestri in Francia e Spagna, completando qualla degli oggetti scolpiti e incisi raccolti nelle caverne, sembra dimostrare che il grande slancio dell’arte nell’età della renna è legato allo sviluppo della magia (Reinach 1909, pp. 36-37).

Furon (1959), a sua volta, dopo aver esaminato i principali monumenti dell’arte parietale paleolitica conclude: “tutti questi elementi ci inducono concordemente ad ammettere l’esistenza di pratiche magiche” e osserva inoltre: “nell’Aurignaciano fa la sua comparsa anche un culto della fecondità, che si manifesta sotto aspetti diversi nel corso dei secoli fino ai nostri giorni” (p. 247). In proposito Tokarev (2000, p. 269) rileva: “nel periodo aurignaziano cominciano a comparire numerosi monumenti dell’arte figurativa: sculture e pitture delle caverne. Alcuni di essi hanno evidentemente un certo rapporto con idee e cerimonie religiose”. Müller-Karpe (1974, p. 211. Cfr. pp. 344 sgg.), partendo dall’esame dell’arte parietale, osserva a sua volta: A parte pochi studiosi, che ritengono responsabili della creazione artistica paleolitica motivi fondamentalmente profani,

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cioè un’autonoma esigenza estetica, è opinione comune che in quest’arte abbia trovato espressione un mondo di esperienze e di credenze religiose. Dicendo questo non si chiarisce tuttavia in che modo una motivazione generale come questa abbia potuto dar luogo ad una genesi concreta, cioè a dire perché da un mondo di credenze e di esperienze religiose abbiano improvvisamente preso forma figure umane ed animali. Che la causa immediata sia da ricercare in un mutamento di costituzione psichica dovrebbe essere certo.

Partendo dalla contestazione della proposta di LeroiGouranh di procedere a una lettura “cosmologica” dei cicli artistici rupestri, i quali si articolerebbero sostanzialmente su un sistema bipolare di matrice sessuale (cfr. infra), Varagnac (1969, p. 1258) osserva a parziale sostegno dell’ipotesi magica avanzata per primo da Breuil: Ma esiste un argomento molto più forte per essere indotti a parlare di magia paleolitica. Per un popolo arcaico, dunque dotato di un livello tecnico minimo, la preoccupazione primaria è mangiare ancor prima che accoppiarsi: è la paura della fame la vera ossessione. Certo, non doveva manifestarsi nel modo elementare immaginato da Salomn Reinach: doveva invece ricavare da tutta una cosmogonia complessa le promesse del successo nella caccia; ma queste cosmogonie, verosimilmente, non erano dominate dall’ossessione per la vulva e per il fallo. Il pansessualismo è piuttosto un aspetto caratteristico delle nostre società moderne, ed è increscioso vederlo proiettato così lontano nel passato. I paleolitici non erano dei personaggi alla Boris Vian. Desideroso di riscoprire un intero sistema di pensiero mitico, una vasta concezione del mondo coerente come quella che Marcel Griaule rinvenne presso i Dogon, è ovvio che Leroi-Gourhan abbia minimizzato tutto ciò che aveva indotto i suoi predecessori a parlare di magia. La magia è particolare, frammentaria, accompagnata senza dubbio da raccolte di ricette intimamente legate a dei miti e a una cosmogonia, ma in ogni caso, almeno sotto certi aspetti, è parcellizzante. Per LeroiGourhan tutto è coerente e, cosa più importante, è coerente nel tempo. Avendo lasciato gran spazio all’interpretazione, non gli è difficile ritrovare i termini di questa stessa interpretazione di segni e animali dall’Aurignaziano fino all’ultimo Maddaleniano.

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In realtà l’interpretazione dell’arte preistorica avanzata da Leroi-Gourhan, si presenta assai più articolata. Nel suo fondamentale studio del 1964, Les religions de la Prehistoire, egli osservava che, in assenza di altre possibili testimonianze, per le epoche preistoriche: “a evidenziare gli elementi di un’attività psichica dal contenuto certamente religioso interviene l’arte” (Leroi-Gourhan 1964, p. 11). Per lo studioso francese l’artista è sempre creatore di un messaggio poiché le forme che egli rappresenta hanno valore simbolico: “Tale messaggio esprime il bisogno dell’individuo e del gruppo sociale, bisogno sia fisico che psichico, di agire sull’universo, di far sì che l’uomo si inserisca, attraverso l’apparato simbolico, nella mutevolezza e nell’aleatorietà che lo circondano” (p. 96). In altre parole le produzioni “artistiche” sono le sole espressioni culturali a noi pervenute “che attestano chiaramente una capacità simbolica” e sebbene non possano e non debbano essere ricondotte nella loro interezza ad attività cultuali, “sono interpretabili anche in senso religioso” consentendoci di parlare, già per la Preistoria, di Homo symbolicus o, più specificamente, di Homo religiosus (Facchini 1991, p. 13. Cfr. 2000, pp. 17-21). Di analoga opinione Clottes (2003) che, dopo aver ripercorso tutta la questione dell’interpretazione dell’arte preistorica, rileva come diversi autori abbiano ritenuto alcune figurazioni rupestri delle rappresentazioni di sciamani e dei loro spiriti tutelari, suggerendo di considerare l’arte paleolitica come il risultato di pratiche sciamaniche. D’altro canto: la cappa di religioni sciamaniche che copre tutto il nord del pianeta e una parte delle Americhe, lascia pensare che si trattasse di una religione molto antica, portata in America settentrionale e dal Nord al Sud America da quei gruppi che popolarono inizialmente il nostro continente durante il Paleolitico superiore. Inoltre, lo sciamanesimo è la religione per eccellenza dei popoli cacciatori.

Per Clottes le religioni sciamaniche possiedono di fatto alcune caratteristiche in grado di far luce sull’arte parietale. La prima è la concezione di un cosmo complesso o almeno di due

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mondi coesistenti. Esistono delle interazioni tra questo mondo (o questi mondi) e il nostro, in cui la maggior parte degli eventi è il riflesso di un’influenza dell’altro mondo (o degli altri). In secondo luogo, il gruppo crede che certe persone possano entrare, a loro piacimento e per fini pratici, in rapporto diretto con il mondo parallelo: per guarire i malati, per mantenere buoni rapporti con le forze dell’altro mondo, per restaurare un’armonia, per favorire la caccia ecc. Il contatto accade tramite la visitazione e l’aiuto di spiriti ausiliari, spesso degli animali, che vanno dallo sciamano o verso i quali lo sciamano va. Lo sciamano in trance può anche inviare la propria anima nell’altro mondo per incontrare gli spiriti e ottenere il loro aiuto. Oltre che un ruolo sociale, ricopre dunque un ruolo di mediatore tra il mondo reale e quello degli spiriti. Gli uomini moderni del Paleolitico superiore possedevano un sistema nervoso identico al nostro. Di conseguenza, alcuni di loro dovevano sperimentare degli stati alterati di coscienza, e tra questi anche delle allucinazioni. (...) Un tale stato mentale, sostenuto dall’insegnamento ricevuto, doveva necessariamente favorire il prodursi delle allucinazioni che l’ambiente sotterraneo tende a suscitare. Le grotte potevano dunque avere un duplice ruolo dagli aspetti intimamente legati: facilitare le visioni; entrare in relazione con gli spiriti attraverso la parete rocciosa. Le raffigurazioni parietali, quanto a temi, tecniche e dettagli, sono compatibili con le percezioni che si hanno durante le allucinazioni. Le immagini degli animali, individualizzate con dettagli precisi, fluttuano sulle pareti, spesso senza linea del suolo o rispetto della gravità, in assenza di ogni inquadratura o sfondo. I segni geometrici elementari richiamano molto da vicino quelli percepiti nei diversi stadi della trance. Quanto agli esseri e agli animali compositi appartengono al mondo delle visioni sciamaniche.

Clottes, infine, dopo aver ricordato che la precedente ipotesi è stata ampiamente soggetta a critiche, osserva che, tuttavia, Allo stadio attuale delle nostre conoscenze, tutto ciò che possiamo affermare è che l’ipotesi sciamanica, poggiando sui precedenti dati di studio, spiega meglio i fatti osservati a proposito dell’arte delle caverne e degli oggetti del Paleolitico superiore.

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A prescindere da una più o meno convinta adesione all’ipotesi di Clottes (cfr. Lorblanchet 2006), è indubitabile che, al di là dei contenuti delle diverse figurazioni, la loro stessa collocazione nello spazio ne denunzia la loro valenza mitico-rituale. Non a caso le complesse serie di raffigurazioni parietali in grotte profonde, come quelle di Lascaux o Altamira, hanno convinto gli studiosi a parlare di cattedrali e santuari preistorici, luoghi deputati a ospitare riti stagionali e di iniziazione. Tra gli altri Ries che, nell’esaminare i cicli pittorici delle grotte di Lascaux, Rouffignac, Altamira, Monte Castillo ecc., afferma: Possiamo dire senza la minima esitazione che l’arte maddaleniana è il riflesso della coscienza dell’homo religiosus che fa l’esperienza del sacro, ha la percezione della trascendenza e grazie a una memoria religiosa, grazie ai miti e ai simboli, fa riferimento alle origini, al cosmo e al mistero della vita. Per la prima volta l’uomo antico testimonia una storia sacra ricordata e vissuta da un clan che pare trarne modelli per una condotta di vita. Percepiamo le prime tracce della coscienza religiosa di una comunità (Ries 2007, p. 21. Cfr. Delporte 1990, in partic. pp. 240-245; Eliade 1975, I, p. 28; Gimbutas 2000, pp. 87-88).

Le prime immagini di divinità antropomorfe Si potrebbe osservare che l’arte paleolitica non presenta, al di là della presunta funzione di certe espressioni plastiche, segnatamente “le veneri”, esplicite e ricorrenti raffigurazioni di “divinità”, ma sarebbe osservazione superficiale. Il dio figurato non è necessariamente un dio antropomorfo, ogni immagine e ogni oggetto possono divenire espressione temporanea o permanente del divino, così come il dio può essere presente nella parola e nel suono. Non è peraltro possibile considerare l’aniconismo una caratteristica esclusiva di religioni “evolute”, quali per esempio l’islamismo, l’ebraismo e il vedismo di cui parleremo estesamente più avanti. L’arte paleolitica è dunque, per le ragioni avanti chiarite, sempre e comunque arte sacra.

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Se l’emergere delle espressioni artistiche nel Paleolitico superiore è segno di una coscienza simbolica e della presenza di ideologie magico-religiose, solo più avanti nel tempo, sono attestate con maggiore evidenza forme di religiosità che propongono esplicitamente la presenza di divinità “in figura”. Anche in questo caso si tratta di produzioni “artistiche”, segnatamente di statuette di diverse dimensioni e vario materiale. I contesti di ritrovamento, le dislocazioni e le associazioni spaziali con altri oggetti (per esempio figure di esseri umani adoranti), oltre che la loro stessa morfologia, inducono infatti a ritenere che nel caso delle statuette natufiane (IX-VIII millennio a.C.) e meglio ancora nel caso delle raffigurazioni anatoliche e siro-palestinesi (VII-VI millennio a.C.), ci si trovi in presenza di raffigurazioni di vere e proprie divinità. Si tratta in particolare di rappresentazioni, più spesso plastiche, di donne feconde e di tori (cfr. Cauvin 1987), rappresentazioni che sembrano per la prima volta testimoniare con inequivocabile evidenza la coscienza della necessità di relazioni dell’uomo con divinità dalle caratteristiche chiaramente definite e rappresentabili (cfr. Ries 2007, p. 24). In queste raffigurazioni femminili della maternità e della fecondità si è voluto vedere, non senza perplessità, le eredi delle cosiddette veneri del Paleolitico:

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Così, agli albori del Paleolitico superiore, figurine in osso, avorio e pietra, con gli attributi materni vistosamente esagerati, cominciarono a fare la loro comparsa nel Gravettiano come parte integrante dell’equipaggiamento domestico. I seni sono grossi e pendenti, i fianchi larghi, le anche rotonde e l’eccessiva corpulenza suggerisce la gravidanza (James 1957, p. 145).

1957, pp. 145 sgg.; Müller-Karpe 1974, pp. 243 sgg. e 355 sgg.; Graziosi 1973, pp. 15 sgg.; Eliade 1975, I, pp. 31 sgg.; Facchini 2006, pp. 189 sgg.; Ligabue, Rossi-Osmida 2006, pp. 36 sgg.). Vari autori hanno, ritenuto queste figurazioni plastiche una testimonianza di antichi culti della maternità e della fecondità, se non addirittura rappresentazioni di vere e proprie dèe della morte e della rinascita, connesse a sistemi sociali di tipo matriarcale. Seguendo tale orientamento autori come Campbell (1959) hanno potuto risolutamente asserire che “Le statuette femminili sono state i primi idoli e sono state, evidentemente, i primi oggetti di culto della specie Homo sapiens” (p. 371), ciò in ragione del fatto che “il corpo femminile fu sentito come centro di forza divina e un sistema di riti fu dedicato al suo mistero” (p. 359). Questi culti della fecondità femminile si sarebbero successivamente evoluti nel Neolitico – in particolare riferimento alla solidarietà tra fecondità femminile e fecondità della terra e tra culto della fertilità e culto dei morti (cfr. Buttitta 2006a) – nel culto della Grande Madre e in età protostorica in culti di divinità personali femminili del tipo Dea Madre (cfr. James 1957, pp. 162 sgg.; Furon 1959, pp. 247-249; Gimbutas 1989; Rodríguez 1999; Eliade 1975, I, pp. 52 sgg.). Tale rapporto di filiazione e la stessa identificazione delle statuette femminili preistoriche con divinità “della fecondità” resta comunque ipotesi discussa e non verificabile con certezza (cfr. Kozlowski 1991, pp. 69 sgg.; Müller-Karpe 1974, pp. 357 sgg.; Leroi-Gourhan 1964, pp. 145 sg.; Facchini, Magnani, a cura, 2000, pp. 351-359). Lo stesso Eliade, che pure è incline a interpretare le espressioni artistiche del Paleolitico come indicatrici della presenza dell’esperienza del sacro, osserva prudentemente:

Queste statuette in materiale lapideo, osso, corno, argilla ecc., che pur nella loro varietà, presentano una costante enfatizzazione di tratti sessuali e materni (seni voluminosi, ventri prominenti ecc.), sono state rinvenute in tutta Europa, fino alla Siberia, e sono riferibili in particolare all’epoca aurignaziana (cfr. Gimbutas 1991; Delporte 1979; James

È impossibile precisare la funzione religiosa di queste figurine. Si può presumere che rappresentino una qualche accezzione della sacralità femminile, e quindi i poteri magico religiosi delle dèe. Il mistero costituito dalla modalità di esistenza specifica delle donne ebbe notevole parte in numerose religioni, sia primitive sia storiche (1975, I, p. 32).

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Resta il fatto che diversi autori hanno ritenuto che è proprio da questo arcaico orizzonte di riferimento che sarebbero progressivamente emerse, differenziandosi sulla base delle differenti esperienze storico-culturali, le molteplici figure di dèe femminili che ricorreranno nei pantheon d’Oriente e Occidente: Inanna, Isthar, Hator, Nut, Iside, Demetra, Artemide, Anat, Thanit, Anahita, Devi-akti (Durg, Kli, Mahdevi, Prvat, Laks.hm ecc.) ecc. (cfr. Crooke 1919; Pestalozza 1954; 2001; Gimbutas 1999; Campbell 1959; Ligabue, Rossi-Osmida 2006).

Valore e uso delle immagini sacre Come rilevato, un’ampia e accreditata letteratura connette direttamente la nascita delle arti a esigenze magico-religiose e alla necessità di rendere visibile l’invisibile al fine di poterlo “adorare” e “manipolare” nonché di poter instaurare con esso una comunicazione immediata e “in presenza”. Scrive Hegel (1837-42, p. 39): “l’arte pare nascere da un impulso superiore e sembra dare soddisfazione a bisogni superiori, anzi talvolta ai bisogni supremi e assoluti, in quanto essa è legata alle concezioni del mondo più generali ed agli interessi religiosi di intere epoche e popoli”. Sulla scorta del filosofo tedesco può dirsi pertanto che gli uomini indipendentemente dal loro status e dalla loro fede religiosa, hanno in ogni tempo, più o meno consapevolmente, proiettato in particolari oggetti, il loro incancellabile bisogno del sacro (cfr. Buttitta 1982,, p. XVI). Coomaraswamy ( 1961, p. 126) ricorda che “la maggioranza degli individui di tutte le razze e in tutte le epoche, l’odierna inclusa, fatta eccezione dei protestanti, degli ebrei, e dei musulmani, si è servita di immagini in vario grado antropomorfiche ai fini della pratica religiosa”. Se però l’uso di immagini sacre è ampiamente diffuso all’interno di numerosi sistemi religiosi e, nella più parte dei casi, è costitutivo degli atti di culto, la misura in cui si pensa che le immagini venerate incarnino veramente il divino o il soprannaturale va-

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ria in maniera significativa, da cultura a cultura, se non da individuo a individuo. A ciò va aggiunto che “quel che una tradizione o un individuo può dire o pensare sulla venerazione delle immagini non sempre corrisponde a quel che veramente si fa o si sente di fronte a un’immagine reale” (Strong 1986, p. 277). L’importanza e il ruolo svolto dalle immagini sacre in seno alle diverse culture e ai diversi livelli sociali, gli atteggiamenti nei loro confronti, il valore e le funzioni a esse attribuite, non sono dunque affatto uniformi (Benjamin 1955, p. 24. Cfr. Wunenburger 1997, pp. XI e XIII; Debray 1992, pp. 17 e 50; Gombrich, Hochberg, Black 1972, passim; Kandinsky 1912, pp. 17 e 35). Rispetto all’uso, al valore, alla funzione e al significato delle immagini, segnatamente quelle di carattere religioso, alla stessa possibilità di realizzarle e di servirsene per usi concreti e per i più diversi scopi, si registrano non solo differenze tra culture lontane nello spazio ma anche all’interno di una stessa cultura in epoche successive e nei differenti contesti sociali (Goody 1997, in partic. pp. 15 e 32 sgg.). Differenti atteggiamenti nei riguardi delle immagini, coesistono, si confrontano e a volte, in particolari condizioni, si scontrano, all’interno di una stessa società. Il fenomeno è rilevabile tanto nel mondo ebreo-cristiano e musulmano, che nel mondo indiano (cfr. Séguy 1977; Besançon 1994; Halbertal, Margalit 1994; Stroumsa 2001; Salmond 2004). Come rileva Séguy (1977, p. 33), Iconoclastia, iconofobia, iconofilia, iconolatria, sono altrettanti punti fermi in un continuum in cui forse nessuna religione – in ogni caso nessuna confessione cristiana – sembra fissarsi, almeno diacronicamente, in un punto invariabile. Un continuum che riflette anche, almeno simbolicamente, dei riferimenti a regolazioni di poteri economici, politici e di politiche di prestigio acquisito o ricercato, rinviandoci così alle società globali e ai loro scontri.

Un atteggiamento ambiguo nei confronti delle immagini ricorre tra l’altro in vari momenti della storia induista che

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vede susseguirsi o coesistere, momenti di attenzione verso le immagini sacre, atteggiamenti di distacco o assenza, come in epoca vedica, periodi radicalmente iconoclasti, come quello della dominazione musulmana, che vede nella distruzione delle immagini proclamata la morte dei falsi dei. D’altronde il controllo delle procedure di fabbricazione e d’uso delle immagini “sacre”, così come il loro possesso è di fatto un potente strumento di controllo sociale e di legittimazione del potere (Davis 1997, pp. 53 sgg. Cfr. Kertzer 1988; Zanker 1987; Bahrani 1995). Davis ricorda come i sovrani indiani d’epoca medievale, secondo procedure largamente attestate già nel Vicino Oriente antico (cfr. Matthiae 1994), s’impadronissero di immagini sacre nel corso delle loro spedizioni militari sia per beneficiare delle protezioni della divinità, sia per proclamare attraverso questa presa di possesso la sottomissione del nemico. Divenuta bottino di guerra, l’immagine denuncia la supremazia del nuovo padrone e il favore del dio verso di esso (Davis 1997, in partic. pp. 54 sgg.). Le società di fatto si riconoscevano attraverso e nelle proprie divinità. Le immagini sacre, poste nelle loro naturali dimore, i templi cittadini, ne testimoniavano la presenza ed erano segno visibile della loro protezione. I simulacri divini erano di fatto percepiti come gli dei stessi. Asportare e trasferire gli dei degli sconfitti nelle capitali dei vincitori equivaleva da un lato alla cancellazione della identità dei vinti, dunque al loro annientamento, dall’altro alla acquisizione del favore degli dei. È chiaro allora come massima ragione d’orgoglio fosse per un sovrano recuperare e reintrodurre nei santuari originari, anche a distanza di secoli, le venerate immagini. Se le immagini degli dei hanno uno straordinario valore politico ciò deriva dal ruolo fondamentale da esse assolto negli atti di culto: in un certo senso esse li presumono e li sostanziano, assicurando una presenza visibile e tangibile ai devoti. Ciò è particolarmente vero nei sistemi religiosi a carattere esplicitamente iconico, cioè in quelli “che ricorrono alla rappresentazione visibile del piano divino” segnatamen-

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te attraverso figurazioni antropomorfe e/o teriomorfe (Di Nola, a cura, 1970, III, p. 816). Rispetto a queste è, tuttavia, necessario distinguere tra immagini/oggetti sacri di per sé, cioè ritenuti dotati di un’intrinseca potenza anche indipendentemente da ciò che rappresentano, e imagini/oggetti sacri perché rappresentazioni di un soggetto potente che, pur autonomo e trascendente da esse, attraverso queste si presentifica. Nel primo caso siamo di fronte a un tipo di immagine, generalmente indicata come “idolo” o, più propriamente “feticcio”, che “si pone e si impone come autosufficiente” che è termine e totalità. In esso non si dà nessun aldilà, e la sua materialità è la sua stessa esistenza. Così il culto rimane racchiuso nell’oggetto, lontano da qualunque tentazione di trascendenza: la relazione cultuale si svolge nello spazio chiuso e sicuro che lo scongiuro o l’adorazione instaurano tra l’idolo e il fedele che lo invoca o gli si rivolge (Dupront 1987, p. 113);

nel secondo caso, particolarmente evidente nelle religioni politeistiche, l’immagine del divino “corrisponde a singole Potenze o divinità o antenati o figure eroiche che vengono rappresentate con i loro attributi specifici. L’immagine, in questi casi, ha valenze molteplici e si costituisce un tramite intermediatore tra l’uomo e la Potenza” (Di Nola, a cura, 1970, III, p. 818). In altre parole le immagini/oggetti del secondo tipo sono sempre e comunque rappresentazione/rivelazione di una “potenza” e si configurano come strutture materiali in cui è operata una fissazione spaziale, un imbrigliamento, temporaneo o permanente del divino. Qualunque sia il grado di reificazione antropomorfica dell’immagine sacra, dipendente peraltro dalle diverse concettualizzazioni del mondo divino da parte delle diverse culture, la statua o la stele, il dipinto o il cippo, si configurano, dunque, di per sé come un’epifania del sacro: mentre lo presentano esso si manifesta. Sulla base di queste premesse possiamo osservare che come già le immagini, le statue, i templi e le chiese degli dei

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“pagani” e dei santi cristiani, così le raffigurazioni divine e i luoghi di culto induisti sono testimoni dell’essere e dell’essenza degli dei, attualizzazione non solo simbolica del divino. Dietro le statue il “vero” fedele avverte immancabilmente il sacro che le permea ed evoca alla vita, consentendo loro di divenire realtà esperita. Scrive Walter Friedrich Otto ( 1956, p. 40): Ecco: si erige una pietra, si innalza una colonna, si edifica un tempio. Il fatto che siano considerati sacri appare all’intelletto grossolano “feticismo”. La realtà è che, lungi dall’esser feticci, quella colonna, quella statua, quel tempio non sono nemmeno monumenti intesi a tener vivo il pensiero, il sentimento, il ricordo di qualcosa. Sono il mito stesso, cioè la manifestazione sensibile della verità che, divina, vuole, con tale sua divinità, dimorare, in concretezza di forme, nel visibile.

Non diversamente rileva Vernant (1996, p. 168): Accanto al mito in cui si narrano delle storie o si raccontano delle favole, accanto al rituale in cui si compiono sequenze organizzate di atti, ogni sistema religioso comporta un terzo elemento: le forme della raffigurazione. Tuttavia, la figura religiosa non mira soltanto a evocare, nello spirito dello spettatore che guarda, la potenza sacra a cui rimanda e che a volte rappresenta, come nel caso della statuaria antropomorfa, e altre volte evoca sotto forma simbolica. La sua ambizione, più ampia, è un’altra. Essa intende stabilire una vera e propria comunicazione, un autentico contatto con la potenza sacra, attraverso ciò che la rappresenta in un modo o nell’altro; la sua ambizione e di rendere presente questa potenza hic et nunc, per metterla a disposizione degli uomini, nelle forme richieste dal rito.

Nella prassi concreta le immagini degli dei non sono mai oggetti inerti, né il simulacro del dio, l’immagine consacrata, si limita a rinviare ed evocare qualcosa che non è presente (Gilles 1993, pp. 14 sgg.; Van der Leeuw 1956, pp. 350-351; Strong 1986, p. 283). Nel simulacro divino immagine e referente sono diluiti in un continuum che riassu-

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me e non disgiunge, impedendo ogni consapevolezza della natura metareale delle rappresentazioni. Immagine e realtà lungi dall’essere avvertite come disgiunte e contrapposte appaiono contigue e interrelate. In altre parole come ci ricorda Van der Leeuw, riprendendo le osservazioni della Völkerpsychologie (vol. 4, p. 35) di Wundt “Fra il sacro e la sua figura, c’è comunione di essenza. (...). Il significante e il significato, il mostrante e il mostrato, si svolgono insieme, sino a formare un’immagine unica. (...) L’immagine è la cosa che si rappresenta, il significante è tutt’uno col significato” (Van der Leeuw 1956, pp. 348-349). L’opposizione logica è superata dal pensiero mitico e l’immagine viene a qualificarsi come doppio, non come alterità o replica imperfetta di un originale, così che il dio trascendente e il suo simulacro terreno vengono percepiti allo stesso modo dalla mente e assumono analogo significato (Vernant 1991). Il simulacro non è dunque una riproposizione visuale, più o meno fedele e somigliante, ma è parte essa stessa, riflesso dell’originale che recupera e supplisce a ogni distanza di tempo e di luogo. L’immagine a un tempo rappresenta ed è ciò che intende rappresentare. Utilizzando le parole di Luis Marin possiamo dire che “l’immagine di marmo è dio: è il dio che rappresenta. Gli effetti attraverso i quali l’immagine, nel produrre tali effetti, si costituisce come rappresentazione, rivelano e mostrano il dio, lo fanno apparire nella sua immagine” (Marin 1993, p. 67). L’immagine sacra, per usare un termine caro a Freud, è unheimlich (1919, pp. 171-172), poiché essa è fatta con l’intento di perturbare l’animo e solo se raggiunge questo scopo essa è veramente ciò che rappresenta, lascia trasparire l’essenza di ciò che è rappresentato, consente di esperire il mysterium tremendum (Otto 1936, p. 23). L’immaginazione religiosa consente di attribuire a entità del mondo visibile proprietà nuove, rafforzandone il valore ontologico e consentendo all’immagine di assumere una funzione di tramite con il trascendente. Chi prega dinanzi a un’icona, questa soglia dell’invisibile, è la divinità che si ritrova innanzi. Come osserva Florenskij (1922, p. 65):

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Ecco, osservo l’icona e dico dentro di me: – È lei stessa – non la sua raffigurazione, ma Lei stessa, contemplata attraverso la mediazione, con l’aiuto dell’arte dell’icona. Come attraverso una finestra vedo la Madre di Dio in persona, e Lei prego, faccia a faccia, non la sua raffigurazione. Sì, è nella mia coscienza e non è una raffigurazione; è una tavola con dei colori ed è la stessa Madre del Signore.

Tra le diverse forme di arte sacra il riferimento più prossimo e immediato che può aiutarci a comprendere il valore intrinseco ed estrinseco delle immagini sacre induiste è proprio quello delle icone del cristianesimo orientale (cfr. Burckhardt 1974, in partic. pp. 62-70). Pur nella profonda diversità delle esperienze e dei contesti storico-geografici si rilevano, infatti, almeno a livello fenomenologico, tratti comuni se non elementi di continuità nel rapporto tra fedeli e immagini cultuali. Tali “similitudini” e presunte “continuità” tra forme e atteggiamenti cultuali si osservano anche in relazione ad altri simboli e al loro coerente inserimento all’interno degli iter rituali. In questa direzione, prima di affrontare lo specifico problema delle immagini in ambito induista, è interessante ripercorrere sinteticamente le vicende relative all’uso delle immagini divine nel mondo cristiano.

L’icona cristiana I cristiani, in diversi momenti della loro storia, hanno dovuto confrontarsi con problemi relativi alle loro immagini di culto (cfr. Séguy 1977, in partic. pp. 33-37; Grabar 194346; Passarelli 2002; Lingua 2006, in partic. pp. 27-120; Bernardi 2007, in partic. pp. 18-69). Nel primo cristianesimo, memore della lettera veterotestamentaria “Non ti fare scultura, né immagine alcuna delle cose che sono nel cielo in alto o sulla terra in basso o nelle acque sotto la terra, non ti prostrare davanti ad esse né servire loroº” (Es., 20, 4-5. Cfr. Deut., 5, 8-9; 7, 25 e 27, 15; Salmi, 97, 7), si registra una

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diffusa ostilità, almeno a livello ufficiale, verso la rappresentazione del sacro. Conseguentemente la produzione di immagini si afferma lentamente e non senza difficoltà. Fino agli inizi del III secolo ci si accontenta di un repertorio molto ristretto di simboli grafici: rosette, fronde, vigne, mutuate dall’arte ebraica e raramente ci si spinge alla metafora animale con il pesce e la pecora (Debray 1992, pp. 73-74. Cfr. Testa 1981; Prigent 1991). Alcuni padri della Chiesa dei primi secoli, quali Clemente Alessandrino, Origene, Tertulliano mostrano di non accettare le immagini. Altri, come Lattanzio e Arnobio esprimono dubbi sulla loro effettiva liceità. Sant’Agostino si mostra perplesso sulla legittimità di rappresentare l’immagine di Dio e rileva che le immagini “dilettano per soavità”, inducendo potenzialmente a peccare, tuttavia riconosce che queste “insegnano per necessità e spiegano per trionfare” (De doctrina christiana, IV, 12). San Basilio ammetterà, a sua volta, che un’immagine di Cristo può condurre il cristiano sulla via della virtù se congiunta all’eloquenza del predicatore e Niceforo nelle sue Confutazioni asserirà che le immagini sono della medesima natura delle scritture evangeliche. Nel II Concilio di Nicea del 787, che seguiva a un’epoca contrassegnata, almeno nei territori dell’impero Bizantino, da una dura lotta iconoclasta (cf. Brown 1982; Pelikan 1994; Wunenburger 1997, pp. 218-227), si sosterrà che: anche se il culto vero e proprio era riservato solo a Dio, era legittimo tributare onori alle immagini e che tali onori erano realmente efficaci, dal momento che venivano trasmessi alla persona raffigurata. La venerazione non doveva essere diretta all’immagine di Cristo o dei santi, ma a Cristo e ai santi nelle loro immagini (Strong 1986, pp. 277-284).

Alle figurazioni sacre veniva, d’altronde, ascritto un importante valore pedagogico e di sostegno alla predicazione nell’evangelizzazione degli illetterati in aderenza alla posizione già espressa nel VI sec. da san Gregorio Magno: “tutti gli uomini ignoranti ed incapaci di leggere vedano le sto-

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rie del vangelo, ed attraverso di esse siano condotti a glorificare ed a ricordare la dispensazione nella carne del re Signore nostro Gesù Cristo” (Reg. Epist., IX 208). Dai documenti conciliari emerge di fatto quella che resterà per secoli la posizione ufficiale della Chiesa intorno alle immagini pittoriche e, più tardi scultoree, di Dio e dei santi: ricordare, richiamare alla memoria, le vicende del Cristo, della Vergine, le storie esemplari dei santi, specialmente alle menti deboli e illetterate del volgo che di tali vicende può solo ascoltare attraverso la parola del predicatore o osservare sulle pareti del tempio. Insieme alla funzione pedagogica un altro aspetto di non poco rilievo ribadito dal Concilio, è quello riassunto nella Interpretazione del Cantico dei Cantici di san Gregorio di Nissa: “colui che guarda l’icona, una tavola riempita di colori con arte, non trae la somiglianza dalla tinta ma è condotto alla visione del prototipo” (Commentarius in Canticum Canticorum, Langerbeck, a cura, 1960, p. 28), cosicché “l’onore tributato all’icona passa al suo modello originale” (san Basilio, In Sanctum Spiritum, PG 32. 149C, cit. in Russo, a cura, 1997, p. 45). Il culto dell’icona cioè come osserva Florenskij “giunge all’archetipo” (1922, p. 62). Si apre così una strada a doppio senso: l’icona, finestra, soglia tra visibile e invisibile, consente da un lato la contemplazione del divino, dall’altro il suo manifestarsi tra gli uomini. Figure del limite le immagini sacre appartengono allo stesso tempo ai due mondi, l’aldiquà e l’aldilà, si trovano al confine tra visibile e invisibile ed è allo stesso tempo lo rappresentano; poste tra il tempo e l’eternità, in esse l’infinito, l’inconoscibile, si trasforma in qualcosa di limitato e può apparire dinanzi al fedele (Campbell 1986, pp. 81 sgg.; cfr. Florenskij 1922, p. 19). È questa un’idea delle divine figure che come vedremo ricorre esplicitamente, seppure con diverse sfaccettature, nella speculazione induista sulle immagini sacre. Il messaggio che emerge dal Concilio Niceno, ripreso senza sostanziali modifiche dal Concilio di Trento (XXV Sessione, 3-4 dic. 1563-Denzinger U, 986; cfr. Cusumano 1988, p. 16 e note; Wunenburger 1997, p. 223), è che le immagini

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sacre non sono destinate a essere venerate come dei feticci, come oggetti sacri di per se stessi, neppure come presentificazioni materiali del dio, ma a servire da richiamo alla memoria e a essere veicolo della venerazione per il santo rappresentato. “Adorando l’immagine della croce – scrive il vescovo di Neapoli di Cipro Leonzio nel Quinto discorso in difesa dei Cristiani contro i Giudei, o delle icone dei santi – non onoriamo la materialità del legno ma, vedendo l’insegna, il sigillo, la stessa immagine di Cristo, attraverso essa [la croce] accogliamo e veneriamo colui che su di essa fu crocifisso”. Che tuttavia le immagini sante non si limitino a essere veicolo e memento del santo rappresentato si intuisce dal discorso dello stesso Leonzio che, esprimendo una posizione più vicina alla concreta fruizione che le immagini hanno a livello popolare, ricorda: “Grazie alle reliquie e alle icone dei martiri, molte volte fuggono i demoni” e che “da icone e reliquie zampilla il sangue” (cit. in Russo, a cura, 1997, p. 39). Resta inoltre il fatto che le immagini dei santi, dei quali si amplificavano le virtù miracolose e i prodigi, si mostrarono per la Chiesa formidabili, e consapevoli, strumenti di penetrazione culturale, particolarmente presso quegli strati della popolazione che non avevano dimestichezza con la scrittura ed erano refrattarie a imposizioni dogmatiche. In questo modo, almeno a partire dall’anno Mille, il culto delle reliquie (Eliade 1975, pp. 63 sgg.; Brown 1981) si estese a quello delle immagini dei santi che sempre più cominciarono a essere rappresentati a tre dimensioni e a essere onorati attraverso le loro rappresentazioni plastiche (Schmitt 1988b, pp. 136-137; Vauchez 1999, pp. 83 sgg.). Tra le testimonianze di questa progressiva affermazione può ricordarsi un exemplum tratto dalla Legenda aurea di Iacopo da Varagine relativo alle offese subite da un’immagine di san Nicola. Da esso si evince “l’identificazione tra l’effigie del santo e il suo corpo; ogni offesa fatta all’immagine del servo di Dio colpisce la sua persona” (p. 85). Le immagini dei santi possono dunque agire direttamente e patire le offese, sono cioè immagini viventi, “presenza reale” (Dupront 1987). Nonostante in età medievale, a livello delle élite intellettuali, sulla base della teologia

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scolastica fosse diffusa l’idea che l’omaggio reso all’immagine non era rivolto a quest’ultima in quanto tale, ma al prototipo al quale essa rinviava, in ambito popolare, in sostanza, si attribuivano proprietà comuni al modello e alla sua riproduzione plastica o pittorica, cioè si avvertiva che “le immagini di Dio e dei santi hanno in sé una virtus latente” (Vauchez 1999, p. 93). Esiste dunque nell’universo cristiano una distanza tra la teoria e la prassi, tra ciò che si dovrebbe credere e ciò che realmente si crede, tra ciò che si predica e come si pratica. Per l’umile credente attraverso le immagini si dà corpo a chi non ha corpo rendendolo visibile e consentendo di sperimentare la sua presenza. Osserva Wunenburger (1997) che se “pensiamo a ipotetici esseri sovrasensibili, invisibili, a idee ipostatizzate o divinità, non siamo tuttavia in grado di accreditarne l’esistenza se non li vediamo uscire dalla loro ipseità e manifestarsi, in un modo o in un altro, in immagini visibili, magari in forma di doppi” (p. 138). Se per l’asceta, il sacerdote, il filosofo, l’immagine sacra è transitus verso il divino (Florenskij 1922, pp. 53 sgg.; Wunenburger 1997, p. 205), per il devoto è manifestazione del divino che al di là di ogni effettiva somiglianza lo riproduce rendendolo realmente presente. Se l’icona bizantina, almeno nell’esegesi conciliare, è una finestra sull’invisibile, mediazione d’essere, le statue dei santi divengono, in ambito popolare e in particolare nel tempo-ambiente della festa, incarnazioni d’essere. Fatte le debite differenze e considerata l’ampiezza e diversità delle tradizioni religiose induiste che vanno dai sincretismi aborigeni al tantrismo, questa stessa dicotomia tra religiosità “istituzionale” e canonica e credenza e pratica effettiva, tra cultura ufficiale e cultura popolare, può essere riscontrata, come vedremo, anche in ambito induista.

Immagini sacre nell’induismo Non è semplice delineare un percorso coerente e omogeneo all’interno delle tradizioni religiose induiste, realtà religiosa “complessa e diffusa” come ricorda Filoramo (a cu-

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ra, 2002, p. V), cui bisogna guardare come a un mosaico di religioni che raccoglie millenni di differenti storie e esperienze religiose “che – sottolinea Scognamiglio (2001, p. 292) – non ha un fondatore storico e che ha subito i cambiamenti storici e politici ed etnico-culturali di generazioni di indiani e di popoli attorno all’Indo”. D’altro canto la proliferazione di scuole e di sette diverse nel continente indiano è stata favorita dall’assenza di un’autorità centralizzata che definisse e esercitasse “un controllo sui limiti dell’ortodossia di dottrina e di disciplina”. Dietro il generico termine di induismo, vanno di fatto compresi fedeli “che hanno credenze animistiche, politeistiche, panteisiche, monistiche, monoteistiche (quando non si tratti di atei), che praticano forme tradizionali di culto o che le criticano radicalmente, gli aderenti a credenze arcaiche ma anche i seguaci del neo-hindûismo (...)” (Filoramo, a cura, 2002, p. V). Anche per tali ragioni bisogna avvicinarsi all’induismo come “a un fenomeno religioso complesso e di natura culturale e sociale che non si assoggetta a facili interpretazioni e a velleitarie ermeneutiche teologiche o a definizioni dogmatiche particolareggiate e decisamente marcate nel contenuto teologico e dottrinale” (Scognamiglio 2001, pp. 292-293). Principio ispiratore di questa complessa e articolata realtà si rivelano essere le tradizioni espresse nei sacri testi rivelati, i Veda, la cui conoscenza e interpretazione è sostanzialmente riservata alla casta sacerdotale e da questa trasmessa al popolo dei fedeli. Se in teoria i Veda si costituiscono come riferimento “unico e vero”, nella prassi concreta dei culti essi sono “trascesi e limitatamente presenti in credenze, riti, preghiere, formule divinatorie appartenenti a una tradizione anteriore o costituitasi nel lungo processo di interpretazione culturale e di integrazione sociale dei medesimi libri sacri” (pp. 293-294). Anche da qui la proliferazione di diverse tradizioni, o “sette”, poste sotto l’egida di particolari figure divine tributarie principali o esclusive del culto, le cui principali possono essere individuate: nella corrente di tradizione più squisitamente vedica, il brahamanesimo, nel vishnuismo, nello shivaismo, nello shaktismo, nell’advaita-veda¯nta, nel cosid-

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detto neo-induismo, una forma sincretistica nata alla fine dell’Ottocento che tenta di conciliare la tradizione vedica con aspetti del cristianensimo e dell’islamismo (cfr. tra gli altri, Queguiner 1958; Morgan 1987; Knott 1998; Klostermaier 2000; Dallapiccola 2002; Filoramo, a cura, 2002; Di Nola, a cura, 1970, III, pp. 1043-1116). Tuttavia, dietro questa multiforme varietà di insegnamenti, riti, culti e credenze è dato rinvenire una certa “aria di famiglia” fondata sulla certezza che il divino si possa rivelare e manifestare in forme diverse, sulla non opposizione tra materiale e spirituale, sull’appartenenza dell’uomo a una totalità cosmica, sulla reincarnazione (Filoramo, a cura, 2002, p. VII). Al di là delle diverse sfumature dottrinali e delle diverse credenze e pratiche cultuali, le diverse tradizioni conservano, infatti, dei caratteri unitari, consentendo di “formulare l’ipotesi di una sorta di unità ideale di tutti gli hindû” proprio a livello della prassi religiosa:

In effetti per secoli la religione dell’India si configura come sostanzialmente aniconica

ci sono infatti gesti, atteggiamenti, preghiere che vengono ripetuti da millenni con le medesime modalità in luoghi molto lontani l’uno dall’altro, da persone molto diverse fra loro per convinzioni e ideali. Anzi, proprio un fatto del tutto esteriore, come l’acceso ai templi e ai luoghi specialmente santi, sembra essere l’unico elemento sicuro in base al quale si possa attribuire a una persona un’identità come hindu (Piano 2002, p. 171).

Raffigurazioni plastiche e grafiche riferibili al mondo divino sono documentate presso le culture pre-arie dell’India. In particolare presso la cosiddetta “civiltà del Pañja¯ b” o “Indus Valley Culture” (Harappa, Mohenjo-daro), civiltà urbana evoluta di agricoltori e allevatori fiorita tra il III e il II millennio a.C., si osserva il ricorrere rappresentazioni di divinità maschili e femminili con fattezze umane (Delahoutre 2007, p. 12. Cfr. Salmond 2004, pp. 13 sgg.) e di animali fantastici che “semblent revêtir un caractère magico-religieux” (Loth 2003, p. 11). La massima parte delle immagini “divine” o a carattere mitico (unicorno, tigre, cobra, albero della vita ecc.) ricorre su piccoli sigilli quadrangolari la cui funzione resta tutt’ora incerta. Alcuni di questi “tipi” divini presentano dei caratteri che si ritroveranno più tardi nel pantheon induista: così è nel caso del presunto rapporto, perlomeno formale, tra le ricorrenti rappresentazioni di divinità del tipo “signori del bestiame” (personaggi maschili assisi in posizione yogi con corna che sovrastano il capo, attorniati da animali quali la tigre, l’elefante, il bufalo, il rinoceronte, la gazzella) e quella di S´iva pas´upati.

Ed, elemento costitutivo del culto templare, che riflette e trascende quello domestico, è appunto, soprattutto a livello popolare, la venerazione delle immagini divine. Come osserva Malamoud, infatti, in apertura del suo Il gemello solare, Il territorio dell’India è interamente popolato di immagini divine, e il culto indù consiste in buona parte nel rendere omaggio a queste immagini, così come la teologia dell’induismo è una riflessione sulla modalità della presenza del divino nelle effigi. Ma questo rigoglio entra a far parte dello scenario indiano soltanto a partire dai secoli immediatamente precedenti l’inizio dell’era cristiana (2002, p. 19. Cfr. 1989, pp. 261 sgg.).

le varie divinità del pantheon vedico non venivano rappresentate, almeno non in maniera antropomorfica, e i sacrifici rituali che le comprendevano sottolineavano l’importanza non della forma divina come tale, ma del suono sacro (mantra), del fuoco e dell’altare sacrificale. Solo con l’irrigidimento della tradizione sacrificale, il crescente uso di templi e la nascita di movimenti devozionali (bhakti) le immagini degli dei diventarono un tratto saliente dell’Induismo. Vis.n.u, Kr. s.na, S´iva, Ka¯li e altri dei e dee finirono tutti con l’essere rappresentati nelle loro varie forme in statue e dipinti e furono venerati in templi e case di tutta l’India (Strong 1986, p. 278. Cfr. Delahoutre 1985, pp. 73-74).

Per una storia delle immagini sacre induiste

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Vere e proprie raffigurazioni materiali degli dei non sembrano invece significativamente presenti nella prima religione vedica che sembra configurarsi come forma di culto sostanzialmente aniconica: “sull’area sacrificale, e più in generale in tutti i luoghi di culto, gli dèi sono invocati e convocati ma non raffigurati” (Malamoud 2002, p. 19-20. Cfr. Salmond 2004). Gli dei vedici “temono” di essere visti, desiderano rimanere fuori dalla vista, sono dunque presenti all’atto principale del culto, il sacrificio, ma non devono essere rappresentati per immagini: Gli dei scorgevano la fiamma di Agni che rischiarava di lontano tutti gli orizzonti, e si recavano attorno al focolare nel luogo chiuso che era stato loro preparato. Per quanto nessuno li avesse visti, nessuno osava dubitare della loro presenza: non solo, durante il sacrificio, i raggi penetranti di Agni andavano a colpire lo sguardo degli dei, ma “in qualunque lontana regione si trovassero”, la voce dell’inno risuonava nelle loro orecchie (Burnouf 1863, p. 306).

Non v’è pertanto ragione “di costruire oggetti che, occupando una parte dello spazio, avrebbero la funzione di aggiungere una visibilità artificiosa a questi esseri divini che sono lì in persona, nel momento dell’oblazione, se la formula d’invito è stata loro rivolta correttamente” (Malamoud 1989, p. 262). Tuttavia, anche se nel corpus vedico e nei testi correlati non si trovano significativi riferimenti a immagini divine, sia scolpite che dipinte, non vi sono neanche presenti espliciti divieti a raffigurare le immagini degli dei e a utilizzarle in ambito rituale. Inoltre, come ricorda Eliade (1975, I, p. 219), bisogna tener conto del fatto “che i testi vedici rappresentano il sistema religioso di un’élite sacerdotale asservita a un’aristocrazia militare; la parte restante della società – vale a dire la maggioranza, i vais´ya e i s´u¯dra – condivideva probabilmente idee e credenze analoghe a quelle che troviamo poi, duemila anni dopo, nell’induismo”. In ogni caso la questione resta non chiarita e su di essa sono state avanzate diverse ipotesi. Secondo Gopinatha Rao

“VEICOLI DELL’ASSOLUTO” NELLA TRADIZIONE INDUISTA

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(1914-16) vi sono elementi sufficienti per poter sostenere l’esistenza di forme di culto delle immagini nell’India vedica: Così, sembra che ci siano argomenti sufficienti per suggerire che il culto dell’immagine non fosse del tutto ignoto anche all’Indiano vedico; e sembra verosimile che egli adorasse almeno occasionalmente i propri dei in forma di immagini, e che continuasse a farlo anche in seguito. Questa è la testimonianza di come si possa trovare una culto dell’immagine nella più antica letteratura sanscrita. È auspicabile concentrare la nostra attenzione sulle sculture attuali e sui riferimenti alle immagini che compaiono nelle iscrizioni antiche (p. 5).

Intorno al II-I sec. a.C. la situazione sembra comunque mutare. Riferimenti testuali a rappresentazioni iconografiche del divino (cfr. Apastambiya-grhyasu¯tra, 19, 31; Maha¯bha¯ratha, 13, 25, 6; Leggi di Manu, III, 152; IV, 39 e 130 e VIII, 87) si accompagnano, infatti, al progressivo passaggio dal vedismo all’induismo. Un passaggio non contrassegnato da rotture e riforme che si configura piuttosto come evoluzione di idee precedenti. Allo sviluppo dell’induismo “monoteistico”, per cui tutti gli dei sono aspetti dell’Assoluto tradotto in immagini “definite” dai suoi adoratori, corrisponde una pluralità formale delle immagini le cui tipologie e i cui caratteri sono riconducibili “alle diverse esigenze di singoli individui o gruppi” che raccolgono tanto a livello cultuale che iconografico “tutte le forme preesistenti e locali in una più ampia sintesi teologica in cui esse vennero interpretate come modi o emanazioni (vyu¯ha) del sommo Is´vara” (Coomaraswamy 1961, p. 131). Laconico ma assai significativo rispetto al valore ascritto alle immagini divine quanto leggiamo nelle Leggi di Manu (II sec. a.C.-II sec. d.C.) nel capitolo dedicato alle cause legali presiedute dal re: “La mattina [il re], incontaminato, deve chiedere [ai testimoni] incontaminati e nati due volte, che [stanno in piedi] rivolti a nord o rivolti ad est, di dare testimonianza veritiera in presenza degli dèi e dei sacerdoti” (VIII, 87). Rilevanti anche le attestazioni di immagini templari e domestiche e di raccolte di offerte che i brahmani effettuavano recando di casa in casa effigi di divinità,

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pratikirti, in cambio della benedizione della divinità stessa fornite da Patanjali (II sec. a.C.) ma anche da Panini (V sec. a.C.) (Dallapiccola 2002, p. 117). Al di là di ogni ipotesi e di ogni testimonianza testuale le prime attestazioni materiali di imagini degli dei sono comunque realtive al I-II sec. d.C. e provengono in massima parte dalla regione di Mathur a sud di Delhi. Si tratta di un’immagine a rilievo di Vis.n.u in gres rosso, di un lingam di s´iva “magnificata dalla testa del dio”, di rappresentazioni a tutto tondo o a rilievo di varie altre divinità tra cui Skanda, Su¯rya, Indra, Agni, Laks.mı¯, Sarasvatı¯ (cfr. Loth 2003, pp. 35 sgg.). Al diffondersi dell’uso di immagini divine dovette concorrere anche l’affermarsi della pratica dello yoga che prevedeva la concentrazione della mente attraverso la fissazione di un oggetto esterno (dha¯ran.a): “il processo di fissazione della mente su qualche oggetto spazialmente determinato” (Patañjali, cit. in Gopinatha Rao 1914-16, p. 1). La progressiva affermazione dell’uso di immagini cultuali va messa, inoltre, in relazione al diffondersi della corrente teista e allo sviluppo, del bha¯kti-marga, la “via della devozione” per raggiungere il divino che prevede di “scegliersi una divinità in grado di focalizzare tutta la sensibilità. L’Assoluto trascendente è allora intravisto nella figura di un intermediario che si chiama con un Nome e al quale si concede il proprio amore devoto” (Delahoutre 2007, p. 54. Cfr. 1985, p. 73). D’altro canto, anche il buddismo nato come “filosofia mistica per i candidati al Nirvana” sostanzialmente aniconica, si “trasformerà” in una vera e propria religione “implicante un Dio (più precisamente un buddha divinizzato), un pantheon, dei santi, una mitologia e un culto” nel momento in cui uscirà dal quadro ristretto “dei conventi per espandersi attraverso tutti gli strati della popolazione” e dovrà rispondere alle “esigenze moltiplicate del sentire popolare” non ultima quella di dare rappresentazione concreta all’oggetto del loro culto (Lamotte 1958, pp. 686-705. Cfr. Coomaraswamy 1972; Schopen 1988-89; Goody 1997, pp. 54 sgg.). Di fatto il culto indù si configura come pu¯ja¯, cioè “servizio” e “adorazione” delle immagini divine. È possibile che tale forma di con-

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tatto con il divino fosse stata per lungo tempo praticata a livello domestico per affermarsi successivamente, dal VII sec. d.C., come “momento essenziale delle cerimonie pubbliche nei templi” (Malamoud 1989, p. 263).

La pu¯ja¯ Culto templare e culto domestico Kapani (1993, p. 393) ha osservato che “agli occhi degli indu il comportamento è più importante delle rappresentazioni e delle credenze”, tanto che può dirsi che “la mentalità indu riprende più da un’ortoprassia che da un’ortodossia”. È tuttavia da osservare che la straordinaria diversità delle pratiche – dotate è vero per l’osservatore esterno di una certa “aria di famiglia” –, rende difficile la perimetrazione dell’induismo come una vera e propria ortoprassi (Hulin 1996, p. 488). In ogni caso è l’esigenza di accedere a un’esperienza diretta del sacro che si traduce nell’esercizio quotidiano e/o periodico del culto alle divinità prescelte che si costituisce come tratto unificante dei diversi orientamenti “settari”. Il modello tipico della venerazione induista che ha sostituito il sacrificio vedico è il rito della pu¯ja¯ (dal radicale puj- che significa “onorare”, “rendere omaggio”, “venerare”), rito di adorazione quotidiano che non richiede l’uso del fuoco sacro. La pu¯ja¯ è rivolta all’indirizzo delle immagini consacrate, cioè animate dalla presenza del dio permanentemente (le immagini del tempio) o periodicamente nell’occasione della celebrazione (quotidiana nel caso delle immagini domestiche, periodica nel caso delle immagini processionali) (cfr. Gopinatha Rao 1914-16, pp. 9 sgg.; Barnouw 1954, pp. 75-77; Delahoutre 1985, p. 74; Strong 1986, p. 279; de Milloué 1905, pp. 118 sgg.; Kapani 1993, pp. 408-409; Zimmer 1926, pp. 50-51; Piano 2002, pp. 207-210; Dallapiccola 2002, pp. 215-216). Il rito giornaliero di adorazione, ridottosi in molti casi in una visita mattutina al tempio, è ancora ampiamente praticato da molti indu osservanti. Ma al tempio ci si può recare anche episodicamente nelle circostanze più solenni, per un incontro faccia a faccia

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col dio, per ricevere cioè il suo sguardo benedicente e partecipare ai riti e alle preghiere collettivamente. Nell’induismo la sede privilegiata e naturale delle immagini divine sono di fatto templi e santuari la cui architettura, estremamente elaborata e mai gratuita, risponde a precisi principi cosmologici (cfr. Michell 1988; Burckhardt 1997, pp. 55-61; 1974, pp. 13-40; Kramrisch 1957; 1976; Piano 2002, pp. 211 sgg.). Il suo centro ideale è appunto il sanctum, la cella che racchiude, non di rado da secoli, la mu¯rti, l’immagine o statua consacrata, “autogeneratasi” ovvero animata attraverso la recitazione di speciali mantra del “seme” divino e divenuta così “forma visibile” della divinità, suo corpo perenne (cfr. Brunner 1996, pp. 439-440; Piano 2002, pp. 219 sgg.; Dallapiccola 2002, p. 118), materializzazione in un “sito privilegiato dello spazio della presenza, altrimenti ovunque diffusa del dio” (Hulin 1996, p. 488). Per gli indu praticanti, queste immagini templari sono “vive” e possiedono l’essenza del dio che rappresentano. I templi, sono pertanto le case degli dei che vanno permanentemente accuditi come presenze viventi, attraverso attenzioni e cure specifiche, come già nel mondo greco-romano e nel vicino antico Oriente (cfr. Ries 1978, pp. 113 e 132; Dodds 1951, pp. 216 e 285) onde evitare che essi abbandonino le loro mu¯rti e cessino di dispensare la loro benevolenza verso la comunità dei fedeli. Il quotidiano rito templare officiato dai brahmani o da personale all’uopo incaricato è essenzialmente rivolto a questo scopo e di fatto riproduce i riti laici di una giornata reale. I servizi rituali possono essere fino a otto celebrati in ore fisse e secondo modalità sancite dalla tradizione. Nelle prime ore del mattino, il dio viene svegliato, lavato, unto, frizionato, vestito, nutrito. In diversi momenti della giornata gli sono offerti canti, musiche e danze. A sera, infine, la divinità è invitata al riposo e ritualmente protetta dalle influenze malefiche (Brunner 1996, pp. 440-441). Nel caso del culto templare, va segnalato che la pu¯ja¯ può variemente complicarsi e assumere forme diverse a secondo dell’affiliazione religiosa dei devoti, delle peculiari tradizioni della comunità celebrante, dell’occasione.

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Accanto al culto esercitato nei templi assai diffuse sono le forme di culto domestico corredate dalla presenza di una molteplicità di riproduzioni plastiche e pittoriche di figurazioni “classiche”. Nella gran parte delle case indu, infatti, “una stanza, o almeno un angolo del soggiorno, viene riservato esclusivamente all’adorazione, e lì sono riposte e adorate le immagini sacre” (Klostermaier 2000, p. 37). Ogni singolo fedele possiede un altare ove risiedono immagini pittoriche e statue di una o più divinità che, a seguito di opportune cerimonie di consacrazione sono considerate come entità animate. Questo rito si compie generalmente al mattino ma può anche aver luogo più volte durante la giornata. In esso simboli rituali materiali (figurativi, oggettuali ecc.) e immateriali (sonori, verbali, gestuali) concorrono a evocare e a presentificare il divino. Atto preliminare è quello della purificazione dell’officiante, il capo famiglia o chi ne fa temporaneamente le veci (che si lava accuratamente e indossa abiti puliti e acconci), dello spazio rituale (la stanza dedicata a ospitare il tabernacolo con le immagini sacre), degli oggetti necessari al rito, nonché del “risveglio” della divinità nell’immagine a due o a tre dimensioni (mu¯rti, pratima) prescelta dalla famiglia. Eseguiti questi atti si può procedere alle offerte all’indirizzo del dio presente in immagine. Esse consistono, tra l’altro, di fiori, unguenti profumati (pasta di sandalo ecc.), incenso, lampade, acqua, latte, abiti e ornamenti, cibi (riso, noci di arec) e bevande tutti accompagnati dalla recita di lodi, preghiere e formule di saluto e dall’esecuzione di peculiari atti prerformativi: offerta del seggio, lavacro dei piedi del dio, prostrazioni, inchini, circumambulazioni ecc. Atto fondamentale del rito è quello dell’“offerta” della luce, l’arati, effettuato con canfora accesa in una lampada di argilla o metallo, avvicinando la mano destra alla fiamma, poi portandola al viso (precisamente alla fronte e agli occhi), si interiorizza la luce. Se lo sposo e la sposa hanno compiuto assieme la pu¯ja¯, accompagnata da canti religiosi o dai mantra, gli altri membri della fa-

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miglia, bambini, vecchi, e tutti i presenti, si associano ai canti e si passano di mano in mano la lampada che contiene la fiamma. Dividono anche il cibo sacro (prasa¯da), quello offerto all’inizio alla divinità, e che ritorna verso gli umani, portatore della sua grazia (Kapani 1993, p. 408).

Se presupposto del rito domestico è la quotidiana discesa del dio benevolente su un piano più generale, l’immagine sacra, custodita in casa o esposta nel luogo di lavoro, come può anche osservarsi nelle tante botteghe di indu delle città europee, si configura come mezzo attraverso il quale rendere il sacro costantemente presente, e risponde all’esigenza di materializzare l’oggetto del culto, al quale poter fiduciosamente affidare le ansie, le speranze, i più reconditi desideri. L’immagine, da invocare, da pregare o semplicemente da custodire, è allora didascalica rappresentazione della potenza del dio familiare cioè, non diversamente da quanto si registra in ambito folklorico europeo, segno visibile e tangibile di un mondo invisibile e intangibile, soggetto e oggetto materiale di una realtà spirituale. (...) In quanto mediazione tra mondo umano e regno sovrumano, ovvero tra vita ordinaria e potenzialità straordinarie, l’immagine sacra materializza il bisogno degli individui di organizzare un adeguato sistema di garanzie e di difese dall’irruzione del negativo sempre incombente (Cusumano 1988, p. 9).

È l’osservazione della prassi cultuale dunque che al di là di ogni teoria impone di guardare all’induismo come un insieme di realtà religiose “intimamente connesse al culto delle immagini, che non sono per gli hindu semplici rappresentazioni artistiche di astratti concetti religiosi, bensì il veicolo della presenza fisica di Dio” (Klostermaier 2000, p. 77). Per i vishnuiti in particolare L’Essere supremo si manifesta nel mondo e si offre all’adorazione dei fedeli in cinque modi diversi: nelle sue immagini o idoli, in incarnazioni divine, in manifestazioni complete sotto forma umana, nello spirito diffuso ovunque, nello spirito interno

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che regola l’animo umano; ciascuno di questi modi corrisponde al grado di intelligenza del fedele che lo adora (de Milloué 1905, p. 132).

Se Dio è distante, l’Assoluto è inconcepibile, e con esso non può che aversi una comunione/comunicazione mediata, da un canto attraverso i suoi “intercessori”, dall’altro attraverso le sue “manifestazioni”: simboli, immagini mentali e materiali degli dei, animali, bramini. Per i fedeli, infatti, la supremazia dell’Assoluto si rivela essere più teorica che realmente avvertita consentendo alla moltitudine degli esseri divini del Pantheon tradizionale, accresciuta da quello delle divinità locali, di riprendere forza, nella pratica concreta del culto, sulle tendenze monoteistiche. È chiaro dunque che l’immagine divina non è mai una mera rappresentazione/memoria, piuttosto una rappresentazione/attualizzazione: se dal punto di vista metafisico la Realtà Ultima deborda infinitamente la forma che la evoca, per i fedeli, la statua o l’immagine, se non altro all’atto dell’esecuzione rituale, partecipa intimamente del dio che rappresenta.

Le feste Per coloro che costantemente o episodicamente attingono a una visione mitica del mondo l’immagine, dunque, è reale, la copia e l’originale sono un’unica cosa (Lurker 1987b, p. 10). Ciò non significa affatto che per essi dio è l’immagine, ma che esiste un rapporto permanente e intimo tra la divinità e la sua rappresentazione, attraverso e nella quale la divinità può e deve farsi presente in determinate circostanze. In maniera specifica in occasione del rito festivo, in quanto esso presuppone, comporta e afferma la presenza divina (Strong 1986, p. 278). Le feste rappresentano dunque per i devoti un’occasione irripetibile per godere della grazia divina, nello spazio-tempo della festa il dio “esce” in processione dalla sua casa in forma di immagine mobile (utsavamu¯rti) e si avvicina agli uomini, segnatamente a coloro cui è o era impe-

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dito per l’appartenenza a caste inferiori l’accesso al tempio (Brunner 1996, p. 441). Tutti possono finalmente godere della sua presenza infinitamente favorevole e riconoscere il dio in persona nel simulacro processionale “che passa oscillando sotto i loro occhi” (Hulin 1996, p. 490). In occasione delle grandi feste cicliche, cioè della solenne pu¯ja¯ annuale delle diverse divinità, i simulacri vengono infatti fissati su appositi fercoli e recati processionalmente:

con un ardore schiettamente religioso, le persone si aggrappano alle corde per tirare ogni carro, molto pesante, attraverso le vie di Pri: è il mezzo privilegiato per entrare in contatto con la divinità. Coloro il cui fervore va fino all’ebbrezza mistica o alla follia, cadono sotto le enormi ruote del carro nel tentativo di raggiungere la divinità. Che c’è di più auspicabile e liberatorio, che trovare la morte così, accostandosi alla divinità? Se la si tocca, e soprattutto se essa vi tocca, il suo semplice contatto vale grazia e liberazione (Kapani 1993, p. 415).

In genere, queste feste comportano processioni diurne e notturne in cui le immagini divine sono condotte su carri monumentali trainati dai fedeli, o su fercoli, con accompagnamento di musica, canti e danze che assumono quasi sempre un carattere licenzioso (de Milloué 1905, p. 120. Cfr. Di Nola, a cura, 1970, III, pp. 1043-1116; Kapani 1993, pp. 411-423; Dallapiccola 2002, pp. 83-88; Piano 2002, pp. 234-239; Delahoutre 2007, p. 64).

Le immagini, in alcuni casi, vengono realizzate per l’occasione da artigiani specializzati e animate atraverso appositi riti. Al termine della festa la divinità lascia le immagini ove si era temporaneamente istallata e queste vengono immerse nei fiumi. Così accade per la festa di Gan.es´a, il dio dalla testa d’elefante figlio di S´iva e Pa¯rvatı¯. In questo caso splendide immagini dipinte del dio o sue statue modellate nell’argilla sono recate in processione per le strade inondate di fiori, accompagnate dal suono di cembali e tamburi per più giorni. Al termine della festa le icone divine saranno immerse e consegnate alle acque del mare, dei laghi o dei fiumi. L’ultimo giorno della festa di Gan.es´a a Poona, numerose statue del dio vengono recate processionalmente per l’abitato, accompagnate da danze e musiche, fino al fiume “where they are finally thrown in with much fanfare” (Barnouw 1954, p. 74. Cfr. pp. 77-79). Non diversamente accade in altre occasioni, come per la diffusissima Durga¯-pu¯ja¯, la grande festa autunnale dei “dieci giorni” dedicata alla dea Durga¯, sposa di S´iva, che segna il termine delle piogge monsoniche. In questa occasione statue della dea, scolpite e dipinte da artigiani specializzati nel corso dei mesi precedenti, vengono recate dai fedeli su carri decorati accompagnate da canti e da danze mentre le devote, fanciulle e donne mature, lanciano su di esse riso, fiori e acqua, fino ai fiumi dove vengono immerse. A Calcutta la processione si chiude con l’immersione dei simulacri della dea nelle acque del Gange. Se la funzione principale assolta dalle immagini private, quelle con le quali il rapporto si consuma nell’ambito della

Molteplici sono le occasioni che vedono le immagini degli dei “uscire” dalla loro abituale dimora, il tempio, per attraversare in solenne processione l’abitato e il territorio e incontrare così, più da vicino, i loro fedeli, osservandone, sacralizzandone e rifondandone la vita. In alcuni casi, come quello della festa di S´iva a Trichur, nel Kerala, la mu¯rti del dio viene recata sul dorso di un elefante riccamente decorato (cfr. Piano 2002, pp. 234-235), in altri, le mu¯rti sono disposte su grandi carri processionali. Tra queste è particolarmente nota la “festa del carro” di Pur (Orissa), uno dei territori santi più importanti nella geografia sacra indiana. La festa dedicata a Vis.n.u-Jaganna¯tha, ovvero Krs.n.a, ha luogo all’inizio del monsone estivo (giugno-luglio) e vede tre grandi carri lignei scolpiti in forma di tempio e magnificamente decorati, recanti le immagini di Krs.n.a, di suo fratello Balabhadra e di sua sorella Subhadra¯ trascinati dalla folla dei fedeli lasciare il tempio di Pri per raggiungere la dimora estiva del dio, dove lo attende la sua sposa Laks.mı¯. Migliaia di pellegrini provenienti da diverse regioni dell’India, senza distinzione di casta o di rango, partecipano alla cerimonia:

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famiglia e del lavoro, è essenzialmente quella di mantenere sempre aperta una linea di contatto con il dio protettore, potendovi essere ascritte anche funzioni apotropaiche e propiziatorie, i simulacri recati in processione in occasione della festa hanno la funzione di sacralizzare e tutelare gli spazi e i tempi della vita sociale ricostituendoli in cosmos. Il rito processionale ha il compito di “ri-produrre eventi, gesti o comportamenti già altra volta e altrove verificatisi, e di riprodurli non solo nel senso in cui un’immagine riproduce un oggetto o una persona, ma anche nel senso più forte di produrre di nuovo, iterare e reiterare, far sì che si verifichi di nuovo” (Cirese 1977, p. 67; cfr. Eliade 1949). È proprio in ambito festivo che l’ambiguo statuto goduto dalle immagini sacre assume massima visibilità. Nel momento di crisi, di interruzione del fluire ordinato del tempo, costituito dalla festa e dai suoi riti, sembrano emergere sedimenti culturali profondi, che altrimenti restano mascherati e inattingibili (cfr. Ricci 1998, p. 7). Nella festa le barriere spazio-temporali che normalmente separano il fedele e la divinità si dissolvono, consentendo, in quel tempo e in quel luogo, il tempo e il luogo del rito, un contatto diretto e immediato, concreto, fisico. Il sempre incerto e ambiguo confine fra trascendente e immanente si estingue lasciando incombere la dimensione del mito entro la quale tutto e il contrario di tutto possono accadere, dove il meraviglioso e il soprannaturale si manifestano in piena libertà come realtà viventi. Se nel tempo ordinario la statua del dio, custodita e adorata nel suo tempio, è essenzialmente una “porta sull’invisibile”, figure del limite rivolgendosi alle quali si è certi che le proprie parole possano raggiungere il dio nelle sue sedi eterne, nei giorni della festa, la statua non è più simbolo di una presenza, ma presenza essa stessa, si trasfigura, si irrora di sangue e di emozioni, diviene animata, “è” il dio. Il sacro cioè diviene completamente descrivibile manifestandosi integralmente nello spazio e nel tempo, è la “ierofania” nel suo senso più completo (Ries 1978, pp. 61 sgg.). Una ierofania assoluta che può farsi redistributrice della potenza di cui è investita sacralizzando e rifondando il cosmos.

“VEICOLI DELL’ASSOLUTO” NELLA TRADIZIONE INDUISTA



La presenza delle immagini L’esigenza di dare concretezza figurativa al mondo divino va probabilmente riferita alla necessità “di realizzare la presenza fisica della divinità, di assicurarsene la protezione a mezzo dell’immagine presente, di stabilire con essa un rapporto visivo e concreto” (Di Nola, a cura, 1970, III, p. 1093). D’altronde come sottolinea Daniélou (1992) nelle pagine dedicate alla rappresentazione degli dei del pantheon induista, lo spirito umano è legato alla forma. Non è in grado di raggiungere l’informale. Non lo riesce a concepire, e ancor meno, a fissarsi su di esso. Perciò le forme e i simboli sono inevitabili intermediari nel processo per mezzo del quale viene superato il meccanismo della mente e si realizzano gli stati supramentali. Noi uomini possiamo avvicinare il non manifesto unicamente tramite la manifestazione.

Non può dunque esistere “una relazione diretta tra un’individualità umana e l’Essere non manifesto” (p. 375) se non in casi eccezionali. L’uomo comune può accedere al divino solo attraverso le sue manifestazioni sonore (suoni e parole) e materiali (immagini descrittive antropomorfe e zoomorfe e simboli): Un dio può essere rappresentato descrivendo le sue caratteristiche, facendone il ritratto con sostantivi e aggettivi oppure usando elementi sonori simbolici, cioè formule mentali (mantra) o parole magiche che corrispondono alla sua natura (...). Nello stesso modo una divinità può essere rappresentata con un’immagine antropomorfa accompagnata da diversi attributi, o ancora, possiamo esprimerla in formule grafiche e diagrammi (cioè astrazioni geometriche con significati magici) chiamati yantra (p. 376; Zimmer 1926, pp. 33 sgg.).

Le rappresentazioni divine ottenute attaraverso mantra e yantra, in quanto più astratte sono più vicine alla natura degli dei e di conseguenza più efficaci nei riti. Le raffigurazioni descrittive degli dèi hanno inve-

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ce lo scopo di facilitare la mediazione di quei fedeli che hanno bisogno di un supporto visivo per poter concentrare la mente. (...) Le immagini usano come simboli le forme più complesse, cioè più manifeste della natura e costituiscono una base di meditazione più facile per quegli spiriti che non sono in grado di afferrare facilmente un grado di astrazione più elevato (Danièlou 1992, pp. 376-377).

Questa è l’esigenza comunque presente nel culto popolare mentre nella speculazione mistica esse tendono ad essere assunte “come simboli di particolari momenti della coscienza cosmica” cioè di passeggere epifanie di una “unica realtà divina, di per sé invisibile e non rappresentabile” (Di Nola, a cura, 1970, III, p. 1094. Cfr. Zimmer 1926, pp. 30-32). L’immagine è chiamata a significare una realtà-totale o totalmente divina la cui riduzione a discrezione iconica umana è impossibile. Di qui nascono la tecnica e la dottrina di un’iconografia che esprime il divino panteico attraverso simbologie anche antropomorfizzate o teriomorfizzate, la cui lettura presume valori diversi da quelli che esibisce (Di Nola, a cura, 1970, III, p. 819).

In altre parole, la singola immagine divina circoscrive e manifesta un aspetto qualitativo della totalità divina che non può prescindere autonomamente da questa. Nell’analisi delle forme, delle espressioni e dei prodotti materiali dei diversi sistemi religiosi c’è sempre, d’altronde, da considerare la distanza che corre tra speculazione teologica in quanto fissazione dotta dei principi, dei dogmi, delle regole della credenza e del culto, e la loro applicazione a livello “popolare”, intendendo con questo termine la traduzione della religione ufficiale e ortodossa nei diversi contesti socio-culturali, ciascuno detentore di proprie tradizioni religiose e cultuali e portatore di molteplici e diverse esigenze. A livello del culto popolare – che è quello che in questa sede maggiormente ci interessa sottolineare – “all’ideologia della statua-veicolo salvifico si sovrappone, costantemente, la credenza che l’immagine contenga essa

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medesima il dio o una sua parte” (p. 1095). Di qui deriva l’esigenza di complesse cerimonie di consacrazione volta a “dare vita” all’immagine, a trasformarla cioè in mu¯rti, veicolo della presenza del dio (cfr. Klostermaier 2000, pp. 77 sg.). Queste cerimonie precedono tra l’altro le grandi cerimonie del calendario rituale induista e si propongono, come s’è detto, di “portare” la vita e “rianimare” i simulacri processionali, assicurando in esse la presenza del dio, spesso specificamente realizzati per quelle occasioni. Bisogna qui precisare che esiste nel mondo induista un’idea gerarchica delle immagini: nella setta vishnuita dei Vaikhnasa, per esempio, si ha da una parte un’immagine sakala, “che consiste in parti”, cioè composita, il che vuol dire materiale e analizzabile, p. si può trasportarla in processione, essa raffigura (e contiene) il dio Vis.n.u nella varietà delle sue manifestazioni; e, d’altra parte, un’immagine niskala, “senza parti”, cioè indivisibile e indifferenziata, che “è” il dio illimitato, onnipresente, realtà ineffabile e impossibile da percepire, un nome per l’Assoluto; questa immagine niskala è immobile, fissata per sempre nel santuario più sacro del tempio. Il culto offerto all’una e all’altra immagine non è lo stesso, richiede nel devoto qualificazioni diverse e sia accompagna a formule di preghiera appropriate ai due aspetti o ai due livelli di realtà della divinità. Mentre il dio risiede permanentemente nell’immagine fissa “senza parti”, occorrono ogni volta invocazioni e riti particolari per indurlo a insediarsi nella sua immagine “con parti”, per la durata della pu¯ja¯. Dopo che l’immagine è stata materialmente ultimata si deve compiere, infatti, il rito dell’“apertura degli occhi” allo scopo di animare la statua infondendole la vita. Solo dopo l’esecuzione di questo rito “i devoti avranno davanti a loro un corpo divino dotato di organi sensoriali, capace quindi di percepire con l’udito, il tatto, il gusto e l’olfatto ciò che i fedeli gli offrono, ma anche e soprattutto di irradiare su di loro i suoi sguardi. (...) Ma qualunque sia il suo status gerarchico, l’immagine divina è trattata come se fosse, in una forma o nell’altra, la persona stessa (una delle persone …) del dio: ciò si nota in particolare nel processo della sua fabbricazione e nello svolgimento del culto (Malamoud 1989, pp. 264-265).

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Creare un’immagine Creare un’immagine è un processo mentale piuttosto che materiale. È la concentrazione interiore, come ricorda Daniélou (1981, p. 36), che consente all’artefice di cogliere le “forme sottili” di una divinità e trasporne in termini di forma e colore le caratteristiche fondamentali. Come scrive Sukra¯carya:

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ratteristiche soprannaturali terribili” (Coomaraswamy 1961, p. 15. Cfr. 1987, p. 116). In sostanza Coomaraswamy, rispetto all’opera d’arte in quanto “oggetto d’uso religioso”, propone una lettura del processo di formazione artistica come azione, tanto speculativa quanto pratica, tesa all’imitazione non di “realtà naturali” ma dello stesso “processo operativo della natura”. Questa adesione alle forze processuali della natura, ricorda Eco riprendendo Lacombe,

L’artista dovrebbe innalzare nel tempio immagini angeliche che siano già oggetto della propria devozione, dopo aver mentalmente visualizato i loro attributi. La precisione dei lineamenti delle immagini deve ubbidire allo scopo del riuscito compimento di codesta visione yoga, sicché il creatore dell’immagine deve ricorrere al’esperienza estatica, non essendovi altro modo per raggiungere il fine richiesti, escludendo per certo il ricorso all’osservazione diretta (cit. in Coomaraswamy 1961, p. 135).

si ottiene per via di ascesi e affinamento delle capacità operative. (...) i vari trattati di estetica, nel fornire agli artisti le regole canoniche atte a realizzare il fine artistico, ricordano continuamente che l’artista deve applicare i metodi di raccoglimento tipici dello yoga, perché nello spirito purifucato e rettificato si possa produrre quella intuizione generatrice senza la quale l’abilità tecnica rimarrebbe sterile (1968, p. 64. Cfr. Lacombe 1937).

Il creatore di immagini sacre destinate al culto, è un professionista dalle precise caratteristiche morali e abilità tecniche, capace di sottrarsi a emozioni e influenze esterne facendo ricorso alle tecniche dello yoga, di identificare la propria coscienza con “la forma nella quale la divinità è concepita” e di accedere così alla visualizzazione interiore di una delle forme dell’aspetto di Dio, per riprodurla secondo le indicazioni canoniche (pp. 134-135). Più precisamente, riferendosi alle varie ingiunzioni contenute nei libri che raccolgono le prescrizioni relative alla produzione delle immagini, il fabbricante “deve, dopo aver svuotato il suo cuore di ogni interesse estraneo, visualizzare dentro di sé un’immagine intelligibile, identificarsi con essa e, mantenendo questa immagine viva per tutto il tempo necessario, soltanto allora procedere a incarnarla nella pietra, nel metallo o nel colore” (1977, p. 90. Cfr. Marchianò 1977, pp. 140 sg.). Questo processo di completa autoidentificazione deve essere pienamente realizzato quali che siano le peculiarità di ciò che vuole essere rappresentato, cioè “anche nel caso del sesso opposto o quando la divinità sia fornita di ca-

D’altronde, come già notava Hegel nelle sue Lezioni di estetica (2000, p. 162) a proposito dei “modi generali in cui l’arte indiana si manifesta”, “la rappresentazione immette il più straordinario contenuto dell’assoluto nell’immediatamente sensibile e singolo, in modo tale che questo, comunque esso sia, deve rappresentare completamente in sé un tale contenuto e, in quanto tale esistere per l’intuizione”. La capacità dell’artista di cogliere l’essenza di ciò che si intende rappresentare, attraverso la meditazione e l’identificazione, seppur garantisce una certa autonomia espressiva non dà, comunque spazio, all’arbitrio e all’invenzione individuale. Le immagini divine, tanto antropomorfe e teriomorfe quanto simboliche, dipinte o scolpite, per essere “degne di adorazione” devono essere realizzate obbedendo a precisi canoni espressivi codificati in appositi trattati (shilpasha¯stra). In questi sono tra l’altro definiti nei minimi particolari colori, materia, ornamenti, emblemi, abbigliamento, postura, attributi, numero delle membra ecc. (cfr. Dallapiccola 2002, p. XXII; Coomaraswamy 1977, in partic. pp. 85 sgg.; 1961, pp. 135 sg.; Zimmer 1926, pp. 195 sgg.; Kramrisch

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1976, in partic. pp. 361 sgg.), persino la larghezza e la lunghezza delle falangi di mani e piedi, la dimensione delle palpebre e delle narici (Daniélou 1981, p. 37). Un’immagine, pertanto, qualunque siano la materia e il metodo di realizzazione, non può divenire significante se non rispetta il dhya¯na della divinità che si vuole raffigurare. Di fatto le forme materiali del divino sono esse stesse di “origine” divina, ripetono precise epifanie e rivelazioni poiché solo il Divino può dare testimonianza del Divino. Spetta a Dio scegliere come vuole palesarsi: deviare anche in minima parte dal modo tradizionale in cui è percepito e rappresentato (il che appartiene al nucleo della sacra tradizione) è una pura assurdità poiché la tradizione, come lo attesta la sua forma letteraria, non è altro che l’automanifestazione di Dio, tramandata oralmente. In essa la divinità esprime se stessa e spiega gli aspetti sotto cui l’uomo può comprendere la sua essenza (Zimmer 1926, p. 55).

D’altro canto come si declina nell’Aitareya Bra¯hmana (VI, 27), ogni opera d’arte sulla terra che voglia trovare conveniente compimento deve essere imitazione delle “forme celesti”, riproduzione dell’arte dei deva (cfr. Coomaraswamy 1977, pp. 86 e 223 sgg.; 1961, p. 17; 2004, p. 47; Burckhardt 1974, p. 8). Ma¯ya, infatti, non è solamente il misterioso potere divino che fa sì che il mondo paia esistere al di fuori della realtà divina, per cui è da ma¯ya che proviene ogni dualità e ogni illusione; essa è anche, secondo il suo aspetto positivo, l’arte divina che produce ogni forma. In linea di principio, essa non è altro che la possibilità che ha l’Infinito di delimitarsi esso stesso, come oggetto della sua propria “visione”, senza che la sua infinità venga limitata. Così Dio si manifesta nel mondo, e tuttavia non vi si manifesta; si esprime e resta silenzioso a un tempo (ib.).

L’arte sacra degli indu, in quanto rivolta al superamento delle forme materiali attraverso l’introduzione di regole convenzionali e proporzioni ideali, sancite dallo stesso divino, è

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dunque essenzialmente un’arte simbolica: lo spazio di espressione di entità, il simboleggiato, che per sua stessa natura non ha forma definibile si presenta nel simbolo come forma compiuta senza tuttavia potersi esaurire in questa. La sua funzione è quella di “far pervenire alla nostra mente la percezione di un qualcosa che trascende la pura apparenza” attraverso un linguaggio artistico dove tutto deve apparire prossimo alla realtà ma, al contempo, “ben distinto da qualsiasi cosa si possa vedere o toccare”; dove cioè la cifra estetica diviene sempre espressione di significato, dove qualunque luogo dell’icona esprime una parola densa e pregnante che concorre alla costruzione di una narrazione figurata che in quanto frontiera tra immanenza e trascendenza, spazio dell’unità nella distinzione tra visibile e invisibile, costituisce la porta “attraverso la quale ci è dato raggiungere altri mondi” (Daniélou 1981, pp. 37-41. Cfr. Florenskij 1922).

La mu¯rti Entro questo orizzonte le rappresentazioni materiali della divinità (immagini descrittive e simboliche, statue ecc.), rivestono un ruolo rilevante, sostenendo il devoto nel processo di concentrazione verso l’Assoluto e divenendo esse stesse oggetto di adorazione. Le rappresentazioni antropomorfe e simboliche, attraverso la loro concretezza formale, aiutano cioè a superare le turbolenze del pensiero e a raggiungere un sentimento/visione spirituale dell’Assoluto, di per sé inconcepibile e senza forma. Di fatto però nella concreta pratica cultuale tale processo, fondato sul principio che “ogni forma è veicolo di una certa qualità dell’essere” (Burckhardt 1974, p. 5), si configura come una devozione preferenziale, e a volte esclusiva, di una singola divinità, S´iva Vis.n.u, Ka¯li, Ra¯ma ecc. Se dunque le immagini degli dei e delle dee induisti sono rappresentazioni, manifestazioni parziali e circoscritte ma materiali e tangibili, di “qualità” e “caratteri” di un Assoluto, discretizzazioni di un unicum continuum, indefinibile e indescrivibile, è vero anche che

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l’attribuzione di immagini corporee, dai contorni e dagli attributi definiti, produce una evidente differenziazione individuale che si traduce nel culto popolare nell’adorazione privilegiata e/o esclusiva di una singola divinità che, in certi casi (per es. Vis.n.u e S´iva), finisce con l’assumere una dimensione totalizzante. Di fatto la tradizione religiosa induista presenta una certa distanza tra le definizioni teoriche della funzione e della “natura” delle immagini, le prescrizioni sul loro uso e sui principi e criteri della loro produzione e ciò che avviene nella pratica tanto quotidiana quanto festiva del culto “popolare”. Come rileva Guénon (1965, p. 196): “In India, in particolare, una raffigurazione simbolica che presenti l’uno o l’altro degli “attributi divini”, la quale riceve il nome di pratı¯ ka, non è punto un ‘idolo’, poiché non è mai stata intesa in altro modo che come supporto di meditazione e un mezzo ausiliario di ‘realizzazione’”. D’altra parte “Di per sé, l’icona non è Dio né alcun essere divino, ma solo un aspetto (avastha¯) o ipostasi di Dio, il quale in ultima analisi è senza sembianza (amu¯rta), non determinato da forma (aru¯pa) e al di là della forma (para-ru¯pa)” (Coomaraswamy 1961, p. 128). Il Divino, infatti, come denunziato ripetutamente dai testi sacri dell’induismo è “illimitato da forma, impredicabile e inconoscibile” (p. 129). A livello teorico l’Assoluto è di per sé “non rappresentabile”, sue manifestazioni – potremmo dire con Evans-Pritchard (1956) “rifrazioni dello spirito” – sono le diverse divinità che a loro volta si presentano agli uomini, divengono per essi accessibili, attraverso forme e figure molteplici tanto antropomorfiche che simboliche. Le immagini divine sono pertanto ri-produzioni di una ma¯ya espressione dell’Assoluto. In ultima analisi esse si propongono come “veicolo” privilegiato ma non esclusivo di accesso a Dio, si propongono cioè, come già felicemente intuito da Florenskij (1922) per le icone cristiano-orientali, come “finestre sull’invisibile”. In questa direzione la mu¯rti, non è percepibile come idolo dotato di autonoma potenza, piuttosto come presenza mediata da un concreto dispositivo culturale figurativo (yan-

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tra) (cfr. Zimmer 1926, p. 34). In un certo senso essa si configura come presentificazione materiale della preghiera, come via d’accesso alla comprensione-partecipazione del divino. Da qui il possibile parallelo con l’icona ortodossa: “Noi non onoriamo affatto i colori o l’arte, ma l’archetipo di Cristo. Infatti, come dice san Basilio, la venerazione tributata all’immagine si trasferisce all’archetipo” (Hermeneia di Athos, 445, cit. in Coomaraswamy 1977, p. 94, n. 65). L’icona indiana pertanto al pari di quella cristiana “dovrebbe essere considerata una sorta di diagramma esprimente certe idee” privo di alcuna “somiglianza con alcunché di concreto sulla terra” (1961, p. 14). La somiglianza tra una cosa e la sua rappresentazione non riflette infatti una somiglianza di natura ma un rapporto di analogia, oppure in termini di esemplarità o di entrambi. Ciò che la rappresentazione di una cosa imita è l’idea della cosa stessa – la forma (species) che l’intelletto astrae dalla cosa e tramite la quale conosce quest’ultima – non la cosa nella sua materilità percepibile dai sensi (p. 21).

Più precisamente Coomaraswamy rileva che l’immagine indiana, scolpita o dipinta non è né un’immagine-memoria né una idealizzazione ma un’opera di simbolismo visivo, ideale in senso matematico. La natura di una icona “antropomorfica” è identica a quella dello yantra, rappresentazione geometrica di una divinità, o del mantra, sua riproduzione acustica. (...) Conformemente alla sua struttura in cui ogni dettaglio è parimenti chiaro ed essenziale, l’icona indiana colma all’istante l’intero campo visivo, senza che l’occhio debba spostarsi da un punto all’altro, come accade nella visione empirica, o cercare qui o lì una pregnanza di significato, come nell’arte di “effetto”. (...) Le parti che compongono l’icona non sono connesse da una relazione organica, giacché da esse non si richiede che funzionino biologicamente, bensì da un rapporto ideale; esse sono infatti i diversi elementi di un dato tipo di attività espresso attraverso un mezzo visibile e tangibile Ciò non significa che le parti non siano collegate o che l’intero non costituisca una unità, bensì che si tratta di

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un rapporto ideale invece che funzionale (pp. 34-35. Cfr. 1977, pp. 123-124).

Se a livello squisitamente speculativo la mu¯rti ha la precipua funzione di favorire e sostenere la meditazione del fedele, si configura cioè come veicolo verso il divino Assoluto, nella pratica comune, cioè nell’agire rituale, essa è concreto oggetto di venerazione. In questo caso la divinità a fronte delle offerte materiali e delle preghiere concede ai devoti protezione e benedizione. I fedeli, dunque, gli tributano un culto regolare e offerte rituali (pu¯ja¯) per trovare soddisfazione alla propria avvertita esigenza di entrare in diretto contatto con il dio, sia nel corso della quotidiana visita al tempio attraverso lo scambio di sguardi (darshan), sia nel più intimo momento di culto presso gli altari domestici. Gli dei sono dunque concretamente presenti nei loro simulacri. Di fatto ritenere che le immagini, tanto antropomorfiche che simboliche degli dei (per es. il lingam), possano essere animate dagli stessi “in permanenza” (come nel caso di certe rappresentazioni templari la cui esistenza è postulata da tempo indefinito e cioè considerate “increate” o “autogeneratesi”, svayam˙bhu¯-mu¯rti), o limitatamente a certi momenti e periodi per mezzo di specifici rituali (come nel caso delle immagini utilizzate nel culto domestico e nei riti processionali, realizzate da mano umana pur sempre sotto “ispirazione” divina), può essere definita una “hindu thelogical postulation” (Davis 1997, p. 54. Cfr. Malamoud 1989; Goody 1997). A livello della prassi concreta le immagini supportano dunque una presenza reale, “portano alla presenza qualcosa che fino a quel momento non c’era” (p. 40), ma solo dopo – tranne nel caso delle immagini “autogeneratesi” – la cerimonia di consacrazione. Infatti “quando è consacrata, l’icona diviene il Dio stesso per chi la venera, anche se la sua divinità è riconosciuta come presente e assente insieme” (p. 48). D’altronde, come si registra in altri contesti culturali, le divinità sono considerate costantemente o occasionalmente “presenti” tra gli uomini “in figura” o sotto varie forme

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(umane, animali ecc.). Sono protagoniste di varie vicende che le vedono muoversi, parlare, consumare materialmente le offerte dei fedeli, interagire con gli uomini in vario modo. Non è raro, in India, che le divinità si manifestino in modo esplicito ai loro devoti sotto le forme più svariate o attraverso il tramite di qualche prodigio la cui responsabilità è loro attribuita. È altrettanto frequente che simili manifestazioni si producano attraverso le loro immagini.

E in certi contesti induisti “queste manifestazioni erano così comuni che attiravano a malapena l’attenzione dei devoti”. Sempre Vidal ricorda che “in India, d’altro canto, esistono diversi santuari la cui fama è dovuta al modo in cui un’immagine di divinità accetta di ‘bere’ le oblazioni offerte dai devoti” e cita in proposito il caso “straordinario” del 21 settembre 1995, quando “in taluni santuari indù consacrati a Gan.es´a (il dio elefante), a S´iva e alle divinità che gli sono tradizionalmente associate (Nandi, Pa¯rvatı¯) (...) le immagini di queste divinità accettarono di bere veramente il latte che era stato loro offerto in oblazione” (p. 883). Come rileva d’altronde lo stesso Coomaraswamy (1961, p. 126) Ci imbattiamo in ogni sorta di storie i cui protagonisti sono immagini che parlano, si inchinano o piangono; ricevono offerte materiali e servizi, che si ritiene “gradiscano”; sono fatte oggetto di adorazione, e a tale scopo viene evocata in esse la presenza reale della divinità; quando l’immagine è stata approntata, i suoi occhi vengono “aperti” durante una speciale e complicata cerimonia. È dunque chiaro che l’immagine è da considerare animata dalla divinità.

In analogia con le culture antiche, nella dimensione del sacro in sostanza l’universo popolare, e talora anche non popolare, opera una identificazione tra segno e referente, non diversamente da quanto accade a livello delle popolazioni cosiddette primitive dove parola o immagine e realtà sono avvertite sulla stessa isotopia fino al punto da ritenerle coincidenti (cfr. Lévy-Bruhl 1922; Coomaraswamy 1977, pp. 227 e 235-257).

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Classificazioni iconografiche Gopinatha Rao (1914-16, pp. 17-19) segnala diverse modalità di classificare le immagini in base alla qualità, al materiale, all’aspetto: Le immagini si suddividono in tre classi: chala (mobile), achala (inamovibile) e chala¯chala mobile-inamovibile). Le immagini mobili sono quelle in metallo e sono facili da portare; di queste le kautuka¯-be¯ras sono considerate come archana; le utsava-be¯ras sono portate fuori in processione durante le occasioni festive; le balibe¯ras e le snapana-be¯ras sono utilizzate a seconda dei servizi quotidiani, rispettivamente con l’intento di offrire bali alle pariva¯ras e per il bagno. Le immagini inamovibili sono comunemente note come le mu¯la-vigrahas o dhruva-be¯ras, sono generalmente di pietra e sono fissate in modo permanente nella cappella centrale. Si tratta invariabilmente di immagini grandi e pesanti. Le Dhruva-be¯ras sono di tre tipi detti stha¯naka, a¯sana e s´ayana, cioè “in piedi”, “seduto” e “adagiato”. Nel caso delle immagini Vaishn.ava ognuno dei tre tipi di immagine è ulteriormente suddiviso nelle varietà yo¯ ga, bho¯ ga, vı¯ra e a¯bhicha¯rika. Queste varietà di immagini di Vishnu in piedi, sedute e adagiate sono venerate rispettivamente da coloro che desiderano ottenere lo yo¯ ga o “auto-realizzazione spirituale”, il bho¯ ga o “piacere” e il vı¯ra o “prodezza militare”. Vi è un’ulteriore classificazione di immagini nei tre tipi chitra, chitra¯rdha e chitra¯bha¯sa. Chitra denota immagini a tuttotondo con le membra completamente intagliate e visibili da ogni lato. Chitra¯rdha è il nome dato a figure in altorilievo, e chitra¯bha¯sa fa riferimento a immagini dipinte su pareti, tessuti e altri oggetti adeguati. (...) Vi è ancora un’altra classificazione di immagini basata sulla loro natura terribile (raudra o ugra) o pacifica (s´a¯nta o saumya). La prima classe è sempre caratterizzata da zanne e unghie lunghe e affilate e da un gran numero di mani che brandiscono armi da guerra. Le immagini di natura terribile hanno inoltre ampi occhi circolari, lingue di fuoco attorno al capo e in alcuni casi sono adorne di ossa e teschi umani. Le immagini di forma raudra sono venerate per ottenere oggetti che richiedono l’uso di violenza. Le immagini di forma s´a¯nta o saumya sono di aspetto pacifico e sono venerate per ottenere scopi e oggetti pacifici. Tra

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le immagini di Vishn.u, la Vis´varu¯pa, la N.risim´ha, la Va.tapatras´a¯yin e la Paras´ura¯ma sono considerate ugra-m rtis; e Âhiva come distruttore di Ka¯ma, dell’elefante (Gajaha¯-mu¯rti), dei tripuras e di Yama, deve essere terribile nella natura e nell’aspetto. Le immagini terribili non vanno collocate nei templi cittadini, ma devono sempre invariabilmente avere i loro templi al di fuori.

In ogni caso, a prescindere da categorie e classi, “Tutte le immagini delle deità indù sono composte come insieme di forme e attributi convenzionali intesi a rappresentare un qualche aspetto dei poteri divini. Tali forme e attributi non variano mai e costituiscono gli elementi, le parole, del codice o linguaggio simbolico” (Daniélou 1981, p. 42). La più parte delle divinità induiste si presenta in figura “apparentemente” antropomorfa. A sottolineare l’assoluta alterità della natura dei soggetti rappresentati concorrono, tuttavia, diversi elementi. In primo luogo alcune evidenti caratteristiche fisiche. Tra queste, in particolare, il numero delle membra o delle teste, la pigmentazione della pelle, la presenza di un terzo occhio e di caratteri teriomorfi. La molteplicità delle membra, rileva Malamoud (1989, p. 265), è tesa a rappresentare il movimento e il ritmo e unitamente l’ubiquità e la molteplicità degli aspetti del dio. A parere di Loth (2003), invece, “il est incontestable que la multiplication des bras est une manière allégorique de traduire une plus forte puissance des pouvoirs de la divinité, comme chacun de ses attributs est un symbole du pouvoir, ou d’une fonction, ou d’un principe” (p. 41). A questi caratteri stranianti, si aggiungono aspetti meno immediatamente percepibili ma altrettanto esplicitamente significativi: i corpi delle divinità, infatti, non producono ombre, non poggiano sul suolo e si presentano in certa misura idealizzati e sagomati senza che se ne evidenzino l’ossatura e la muscolatura. Le proporzioni tra le diverse parti del corpo, inoltre, non rispettano canoni estetici “occidentali”. Per esempio il capo è spesso sovradimensionato e le braccia e le cosce sono allungate. Va comunque rilevato, e ciò vale particolarmente per le immagini riprodotte a stam-

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pa – assai diffuse nell’uso comune –, che le rappresentazioni più recenti non rispettano più le regole canoniche e mostrano un maggiore “realismo”. Dare conto nella loro interezza della varietà e ricchezza iconografica delle divinità del “pantheon” induista è, in questa sede, impossibile. Per una illustrazione e relativa analisi dei diversi attributi divini e del loro precipuo valore simbolico, si rinvia pertanto estesamente alle opere di Gopinatha Rao (1914-16), Werner (a cura, 1990), Sivaramamurti (1974), Daniélou (1992) e Loth (2003), nonché alla efficace sintesi contenuta nel sito www.ganapati.club.fr, lavori cui ampiamente faremo riferimento nella sintesi seguente. In linea generale gli dei appaiono come esseri benevolenti o terribili. Nel primo caso sono di figura giovanile, luminosi, magnificamente adornati di vesti o monili dai colori accesi, nel secondo caso di fattezze spaventose e ripugnanti. Varie possono essere le posture del corpo. Molteplici immagini raffigurano gli dei in atteggiamento statico. Li si osserva pertanto assisi in atteggiamento pacifico e benevolente, in guisa da suggerire sia la distensione delle membra e rilassamento interiore, sia una dimensione marcatamente meditativa come nel caso della “postura del loto” o dello yogi, propria dello yoga¯sana. In altri casi le divinità sono ritte nella loro ieratica maestà come Vis.n.u samabha¯nga, cioè senza flessioni. Di contro, in altri casi, il corpo del dio è interessato da una o più flessioni, come nel caso della postura abha¯nga che lo vede con una gamba leggermente piegata e una flessione a livello del fianco. Accanto alle immagini che rappresentano gli dei in atteggiamento statico, altre li colgono in posture dinamiche, tese in vario modo a suggerire l’idea del movimento senza che però si manifesti alcuna particolare tensione del corpo. È il caso della divinità danzante o combattente. Nel primo caso l’immagine più celebre è quella di S´iva natara¯ja, per il secondo può essere ricordata la dea Durg sotto la forma di Mahishasura¯mardinı¯ che combatte contro il demone-bufalo. Accanto alle diverse posizioni assunte dai corpi divini, vanno segnalate le particolari posture delle mani (mudra¯): tra queste

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principalmente ricordiamo l’abhaya mudra¯, il gesto di pace che vede la mano destra aperta con la palma visibile, rivolta verso l’alto all’altezza del petto, ad allontanare il timore, e la arada mudra¯, il gesto benedicente e del dono, con la mano destra aperta e rivolta in avanti con le dita verso il basso (cfr. Loth 2003, p. 41). A definire lo statuto divino dei soggetti e a indicarne specifiche qualità e funzioni concorrono un vasto corredo di simboli e attributi: vari oggetti stilizzati, armi, frutti, animali ecc. Frequenti ricorrono le armi: bastoni, mazze, tridenti, lance, spade, pugnali, archi e frecce, scudi e anche funi spesso in forma di nodi scorsoi. Vis.n.u, per esempio, presenta la pelle di colore blu notte che allude allo “spazio sottile e onnipresente, ma è anche connesso con l’attuale età del mondo”; a sinistra del petto reca un neo cruciforme con un ciuffo di pelo dorato che simboleggia la sua relazione con S´rı¯, la Signora della buona sorte, sua paredra; al centro del petto porta la gemma dell’Oceano di latte; le quattro mani recano i suoi irrinunziabili attributi: il loto simbolo di dominio e conoscenza, la mazza principio dell’energia vitale, la conchiglia della dissoluzione, il disco dell’espansione che, diversamente disposti nelle quattro mani del dio concorrono a definire le 24 diverse icone del dio. Le armi divine sono per lo più destinate a combattere i demoni, figurazioni concrete delle cattive inclinazioni dell’uomo, e a rifondare i cicli cosmici. A titolo d’esempio ricordiamo che il nodo scorsoio, che correda diverse divinità, è destinato ad afferrare e imprigionare l’errore che ostacola il cammino verso la Verità, il tridente, attributo caratteristico di S´iva, è, invece, l’arma della distruzione e della ricreazione cicliche. Insieme alle armi ricorrono numerosi altri oggetti simbolici. Ricordiamo qui, senza soffermarci su loro articolato valore simbolico: la scodella per l’elemosina tipicamente associata all’ascesi; il pungolo da elefante che riccorre sovente nelle mani di Gan.es´a; il rosario (di diverso materiale) principalmente attribuito a Brahma e della sua sposa Sarasvatı¯ e ricorrente anche in certe immagini di S´iva, di Vis.n.u e di altre divinità; il cobra, tipico attributo di S´iva

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e delle divinità shivaite e delle dee tantriche; il cranio umano che ricorre con vari significati nelle figurazioni di diverse divinità, spesso, ma non esclusivamente, “terribili”; la conchiglia “sonante”, attributo tipico di Vis.n.u insieme alla ruota solare, il chakra; la campanella, emblema di S´iva e di diverse dee “terribili”; il cucchiaio, attributo della dea Annapûrna e, in forma “quadrata” pressocché esclusivamente a Brahma e Agni; il fulmine, tipico di Indra; il libro, legato a divinità della conoscenza come Brahma e Sarasvatı¯; il loto, che in varie forme ricorre in associazione a diverse divinità (Su¯rya, Vis.n.u, Laks.mı¯ ecc.); il parasole regale, associato più spesso a Gan.es´a e Pa¯rvatı¯. Accanto ai diversi simboli “oggettuali”, a caratterizzare le diverse divinità concorrono i rispettivi “veicoli”. Basti ricordare l’oca di Brahma, il cigno di Sarasvatı¯, l’aquila a testa umana Garud.a) di Vis.n.u, il pavone di Skanda, il leone di Durga¯ e di Pa¯rvatı¯, il toro di S´iva, i due elefanti di Gaja-Laks.mı¯ e l’elefante bianco-celeste di Indra; il mostro-coccodrillo di Ganga¯ e di Varun.a, l’ariete diAgni, il ratto di Gan.es´a. A fronte di un universo immaginifico così vasto e articolato sarebbe legittimo indagare sulla genesi iconografica delle divinità induiste. Capire quanto su di esse abbiano influito le tradizioni iconografiche precedenti “sopravvissute” all’aniconicità dei tempi vedici, le stesse tradizioni testuali dei Veda, le diverse tradizioni culturali non-ufficiali e tribali dell’India vedica, l’“invenzione” di individui e gruppi sacerdotali e laici, le “influenze” politiche e culturali delle civiltà viciniori e delle “occupazioni” (mogul). È un argomento complesso che si connette al problema più generale dell’“evoluzione” delle forme artistiche e architettoniche dell’India, intorno al quale è fiorito un vasto insieme di saggi in riviste specializzate (si vedano: «Art Bulletin», «Artibus Asiae», «Asian Folklore Studies» ecc.) e una ricca letteratura monografica che va dall’immenso lavoro di Gopinatha Rao (1914-16) alla sintesi di Kramrisch (1957), fino alla recente opera di Loth (2003). Lasciando necessariamente queste questioni appena accennate nelle pagine precedenti, ci limiteremo a osservare che nel momento in

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cui gli dei “prendono corpo” nelle loro immagini, tanto tridimensionali che bidimensionali, – rispondendo a una avvertita e diffusa esigenza la cui latenza e/o presenza, a fronte del silenzio dei testi, non è perimetrabile – se ne cominciano a fissare le regole e le proprietà iconografiche nei “canoni” (Shilpashashtra) che si costituiscono come principia irrinunziabili di ogni successiva rappresentazione escludendo il pericolo di rappresentazioni equivoche e inadeguate, quindi inefficaci, delle immagini divine (Halbertal, Margalit 1994, p. 48). Potremmo infine chiederci quanto la qualità, cioè il valore estetico intrinseco (pur sempre soggettivo), del manufatto artistico contribuisca a rendere un’immagine meritevole di venerazione. Il “potere” di una rappresentazione divina sembrerebbe poter dipendere anche dalla qualità dell’artista e dallo stile dell’epoca in cui è stata realizzata. Certo questi fattori non possono essere ignorati. Eppure la “bellezza-efficacia” di una mu¯rti non ha niente a che vedere con il puro godimento estetico ma, così come nelle più antiche raffigurazioni rupestri, si esprime attraverso l’aura sacrale che essa comunica al suo devoto fruitore.

Capitolo ottavo Verità e menzogna dei simboli. Società e festa a San Marco D’Alunzio

Osservazioni preliminari Per chi giunge dall’“esterno”, comprendere il senso che una festa religiosa tradizionale riveste per la comunità che la agisce, non è affatto semplice né immediato. Non solo per il turista di passaggio alla ricerca di insolite emozioni, che finirà sempre col trovare qualcosa di cui stupirsi, né per il giornalista, più o meno esperto di folklore, cui è stato affidato il compito di riempire una colonna di quotidiano, ma anche per quell’eterogeneo insieme di persone che università, istituzioni, organi di informazione hanno deciso di qualificare e/o riconoscere come etno-antropologi (o sociologi), i soli “ufficialmente” deputati, a spiegare agli altri e a noi chi veramente sono/siamo, cosa veramente pensano/pensiamo, cosa veramente fanno/facciamo e perché. La verità non si rende mai nell’evidenza sensibile delle cose e dei fatti. Molteplici sono i motivi che impediscono di cogliere con immediata chiarezza il senso di una festa, di ipotizzare una spiegazione univoca e persuasiva dei suoi significati e delle sue funzioni. Proverò a indicare i principali: 1) una comunità è composta da una pluralità di individui, che pur nella condivisione di una appartenenza culturale (la cui perimetrazione resta anch’essa complessa: sia che si proceda per “osservazione partecipante”, sia che si scelga la via del rilevamento statistico), sono diversi per età, per sesso, per livello sociale, per professione, per “competenze”, per “studi”, per “aspirazioni”: diverso è il loro grado di partecipazione, tanto fisico quanto emotivo alle cerimonie;

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2) anche se la “struttura” delle forme culturali contemporanee (che si tratti di credenze o di rituali) è “condizionata dalla matrice culturale preesistente” (Kluckhohn 1942, p. 142), ciascuna comunità si rinnova, più o meno consapevolmente, e si trova a doversi confrontare, nel tempo, con nuove istanze, non sempre e non solo di natura “esogena”, producendo “risposte attive” (Bravo 1992, p. 19). Nella prassi le feste incontrano di fatto uomini sempre nuovi e nuove idee. Sono esito dialettico di trasformazioni economiche e tensioni sociali, frutto di confronti, mediazioni, compromessi tra diverse domande, avanzate, tra l’altro – e oggi in maniera sempre più vistosa – dal “mercato”, da istituzioni civili e religiose e da gruppi di pressione di varia natura (associazioni, comitati ecc.), anche del tutto estranei ai contesti festivi. Processi questi che appaiono non privi – almeno all’“occhio antropologico” – di stridenti contraddizioni che si rendono manifeste nelle conflittualità culturali e sociali, nelle tensioni tra memoria e contingenza, e da cui non può che derivare un progressivo mutamento della forma, delle funzioni e dei significati sociali e culturali delle feste. Le feste in sostanza si trasformano, anche se il cambiamento non viene avvertito come tale dai loro attori sociali o è considerato poco significativo (cfr. Kurtz 1995, p. 100); 3) un rito festivo è un elemento non isolato, né isolabile, di un sistema rituale (il calendario cerimoniale) di cui esso costituisce solo un elemento tra gli altri (Smith 1988, pp. 136 sgg. Cfr. 1981) – “infatti, la loro essenza esige che le feste continuino, si susseguano e portino l’una all’altra” (Van der Leeuw 1956, p. 307) – e, più in generale, di un sistema culturale, pertanto va compreso all’interno e in relazione a questo sistema. Come ribadisce Caillois ogni lettura dei fatti e delle espressioni culturali perde gran parte del suo valore quando essi “restano avulsi dal loro contesto, dall’insieme delle credenze e dei comportamenti di cui fanno parte e che conferiscono loro un senso” (1950, p. 9. Cfr. Miceli 1989b, p. 123; Gellner 1987, in partic. pp. 31-61): questo perché in ogni fenomeno culturale, come insegna Bogatirëv, seguendo la nozione di struttura di Koffka, ciascun elemento “raggiunge la sua completez-

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za soltanto per mezzo degli altri e insieme con gli altri” (Solimini, in Bogatyrëv 1982, p. 57. Cfr. Buttitta 2004). 4) i calendari cerimoniali sono prodotti culturali che nella loro articolazione esprimono dinamiche economiche e politiche più o meno esplicitamente e immediatamente correlate sia alle scadenze stagionali e alla organizzazione delle attività produttive, sia alla valenza sacra a queste attribuita: fatto che si manifesta con particolare evidenza nelle culture agropastorali, nelle quali la sopravvivenza stessa delle comunità dipendeva dalla quantità e qualità del raccolto, dal benessere e dalla fecondità degli armenti. Da qui l’idea che il regolare svolgimento dei processi di generazione e accrescimento fosse dovuto all’intervento di entità divine che così manifestavano il loro potere. Il raggiungimento di una piena comprensione dei significati e delle funzioni di una cerimonia religiosa tradizionale, richiede pertanto che questa venga osservata sia in rapporto ai cicli della produzione sia alle scadenze del calendario rituale (cfr. Hubert 1909, in partic. pp. 235-236; Lanternari 1976b; Propp 1963; Buttitta 1978; 1990; Giallombardo 1990; Grimaldi 1993; Buttitta I. E. 2006a, in partic. pp. 11-45). Un fatto che converte ogni cerimonia festiva in un discorso le cui unità di significato, sistemicamente correlate, cioè le parole, i suoni, le azioni, gli oggetti, i cibi e gli spazi e i tempi all’interno dei quali questi sono detti, prodotti, agiti, utilizzati, consumati da coloro che a diverso titolo ne sono gli attori, assumono una forte tensione simbolica (cfr. Evans-Pritchard 1965; Turner 1967; Douglas 1973); 5) la fenomenologia e gli articolati simbolici di una cerimonia, rispondendo alla logica ripetitiva del rito e alla sua vocazione cosmogonica, raccontano più come si era/pensava/faceva ovvero come si dovrebbe/vorrebbe essere/pensare/fare, di quanto esplicitamente dicano su come si è/pensa e del perché si fa. Non è allora un caso se tante etnografie e antropologie, sia che siano inclini a un’analisi di tipo sincronico e/o sociologico, sia che privilegino una ricostruzione del significato fondata sulla diacronia e sull’indagine storico-religiosa, ovvero che siano capaci di cimentarsi in quelle letture “pancroniche” proposte da Cirese (1973, pp. 34 sgg.), riescano,

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più o meno felicemente, a restituire visioni ideali (non di rado idealizzanti) e generaliste, a delineare convincenti origini arcaiche, a ricostruire percorsi di significazione, a ipotizzare e rinvenire funzioni sociali e cogliere relazioni sistemiche, ma si trovino in affanno quando impegnate a illustrare cosa veramente provano e cercano, in quel preciso momento e in quel definito contesto, gli “oggetti/soggetti” delle loro indagini e riflessioni1. Queste premesse non preludono a una dichiarazione di “inconoscibilità della festa” (cfr. Jesi, a cura, 1977), piuttosto avvertono entro quali problematici limiti interpretativi debba muoversi una sua lettura che aspiri a restituire senso a fatti e a comportamenti “contemporanei”. Al di là delle qualità individuali di ogni ricercatore e degli esiti che egli si prefigge di raggiungere, resta, comunque, ineludibile nello studio delle cerimonie festive un approccio contestuale, fondato su una solida e reiterata pratica etnografica, che parta dal presupposto che “ogni festa assolve una funzione precisa in un ambiente preciso” (Caillois 1950, p. 10) e che “nessuna struttura sistemica può perciò essere compresa senza riferimento all’ambiente” (Luhmann 1982, p. 26). Come ha recentemente ribadito Faeta (2005, p. 160) “Senza contesto locale, senza radicamento spaziale e sociale, la festa è realmente inconoscibile e la sua lettura oscilla tra esercizio classificatorio, astrazione filosofica, metafisica dei sentimenti per approdare poi, esausta, sul solido terreno della rimasticazione neofunzionalista”. Partirò dunque da questi presupposti nell’accingermi all’analisi della festa di san Basilio a San Marco d’Alunzio, cercando di illustrare, sia pur brevemente, chi sono gli uomini di San Marco, come vivono, entro quale perimetro spazio-temporale articolano le loro esistenze, quali ne sono i sistemi di attese e i valori condivisi.

Il contesto San Marco è un paese relativamente piccolo (conta una popolazione residente di circa 2.200 unità)2, di mezza-mon-

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tagna (550 m s.l.m.), distante dal capoluogo di Provincia (Messina) circa 130 km. L’economia di San Marco, come quella di molti dei piccoli centri dell’area, è caratterizzata dallo sfruttamento delle risorse agricole (agrumi, vigne, ulivi, nocciole e castagne), dall’allevamento a conduzione familiare (suino, bovino, ovino e caprino), da qualche attività artigianale, soprattutto di tipo tessile, e da una modesta attività turistica che si concentra nei mesi estivi. Peculiarità aluntina è l’attività di estrazione e di lavorazione del marmo, un tempo vitale, oggi sostanzialmente in crisi. Il tasso di disoccupazione al 2001 era del 12,5 per cento, tra i più bassi della Provincia: 757 risultavano gli individui che si dichiaravano regolarmente occupati. Tra questi, in particolare: 278 in attività agricole, 110 nel settore delle costruzioni, 75 in attività manifatturiere, 82 nella Pubblica Amministrazione, 44 in altri servizi pubblici e sociali, 18 in ambito sanitario, 55 in attività commerciali, 33 nel settore dell’istruzione, 17 in attività alberghiere e di ristorazione, 9 in attività estrattive. A questi soggetti vanno aggiunti i non pochi residenti occupati fuori paese: 336 sono coloro che nel 2001 dichiaravano di spostarsi giornalmente, per ragioni di studio, lavoro ecc. al di fuori del territorio comunale. Va, infine, rilevato che la gran parte degli occupati riveste una posizione dipendente o subordinata: 272 nel settore “agricolo” (prevalentemente donne), 162 nel settore “industriale” (prevalentemente uomini), 199 in altre attività. I centri più vicini di una certa consistenza, dove insistono attività produttive e un’offerta di beni e servizi di qualche rilievo, sono Sant’Agata di Militello, centro turistico-commerciale di circa 13.000 abitanti, caratterizzato da attività agricole (agrumeti, frutteti) e da una consistente attività piscatoria e, secondariamente, Capo d’Orlando (circa 12.000 ab.), centro di turismo balneare “popolare” dove pure resiste una significativa economia agricola (agrumi, ulivi). Intorno al centro storico di San Marco, di impianto medievale e caratterizzato da alcune fabbriche religiose e civili di qualche pregio, che si distende alle pendici dei ruderi del

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castello normanno, sorgono moderni palazzetti e villette che, estranei alle tipologie architettoniche tradizionali, infliggono una ferita a un paesaggio peraltro di rara bellezza. Vivere a San Marco, non è una “scelta” piuttosto una “condizione”, per alcuni ineluttabile, cui spesso si vorrebbe sfuggire, in particolar modo da parte delle generazioni più giovani. Eppure San Marco non è “inerte” di fronte al mondo. Anzi, è un paese/comunità vivace e reattivo, teso verso la ricerca di soluzioni esistenziali compatibili con la sua condizione, che recupera e valorizza storia, memoria e patrimonio culturale. Basti osservare lo sforzo di promozione delle attività artigianali tradizionali in quanto momento di sviluppo socio-economico e, al contempo, di recupero della propria memoria culturale, ma anche la significativa attenzione rivolta verso i fenomeni di religiosità popolare e l’ampia partecipazione che essi registrano3. Un’analisi puntuale della realtà economica e sociale non può ignorare, d’altronde, l’articolarsi delle dinamiche religiose e gli effetti antropologici di un “cattolicesimo diffuso” che non contempla una molteplicità di espressioni religiose (cfr. Cipriani 1988; 1993; Garelli 1991; Canta 1995; Cesareo et al. 1995). Anche e soprattutto attraverso la pratica pubblica del culto “cattolico” (gestita direttamente dalla Chiesa locale o da gruppi, comitati, confraternite più o meno esplicitamente delegati), infatti, si controllano e si trasmettono – più o meno consapevolmente – alle generazioni successive, contenuti e valori fondanti la realtà socialmente costruita e l’identità comunitaria (cfr. Parsons 1951; Berger, Luckman 1966) entro un ordine sacro posto “al di fuori e al di sopra” dell’ordine stesso, espressione di una volontà “sovrumana e sovraordinata” alle singole volontà umane (cfr. Boyer 1992, p. 8; Caillois 1950, in partic. pp. 19 sg.; Pace 2007, p. 9); un ordine sacro, cioè, la cui legittimità deriva proprio dall’essere esperito all’interno della dimensione religiosa, sancito dalla stessa incontestabile “autorità morale” della religione (Durkheim 1912, pp. 228-229. Cfr. Cipriani 1986; 1992, p. 341; Kertzer 1989; Terrin 1999, p. 71). I valori espressi attraverso l’e-

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sercizio rituale detengono pertanto, almeno in potenza, una funzione normativa, illustrando modalità comportamentali e declinando contenuti ideologici precisi e inderogabili in quanto derivati, in ultima analisi, da Dio. Di fatto, anticipando quanto discuteremo più avanti, nelle cerimonie pubbliche a carattere religioso, nel simbolismo rituale (Turner 1967), da esse esibito, viene proposto un ben definito sistema di “costrutti etici” condivisi (Weber 1922), che illustrando “il preferibile” e il “desiderabile” (cfr. Beattie 1964, p. 109; Kluckhohn 1951), contribuisce significativamente a orientare l’azione sociale, cioè le scelte e i comportamenti individuali e collettivi. Non è allora un caso se il calendario cerimoniale di San Marco si presenta articolato e funzionale. A partire da gennaio le sue principali occorrenze sono: la festa invernale di san Basilio Magno, il 2 gennaio; la festa epifanica dei Re Magi che vede realizzati, presso le abitazioni, alcuni presepi viventi; la festa di sant’Antonio Abate (il 17 gennaio o la domenica successiva), caratterizzata dalla benedizione degli animali; la festa del Crocifisso di Aracœli, celebrata l’ultimo venerdì di marzo e animata dalla presenza dei Babbaluti; il Venerdì Santo, segnato dalla processione dell’urna del Cristo morto accompagnato dalle Virgineddi (bambine di 6-7 anni vestite di bianco) e dagli “Angioletti” (bambini della stessa età vestiti di rosso e celeste); la festa di san Marco, il 25 aprile; la festa della Madonna Annunziata, la seconda domenica di maggio; il Corpus Domini in giugno, occasione per la quale il paese viene adornato con i tradizionali altarini; la festa di sant’Antonio da Padova, l’ultima domenica di giugno; la festa dei compatroni san Marco e san Nicola e di san Basilio, dal 29 luglio al 2 agosto; la festa della Madonna della Catena, l’ultima domenica di settembre; la festa di san Francesco, il 4 ottobre; la festa dell’Immacolata, processionata insieme a san Giuseppe e Gesù Bambino, l’8 dicembre; il Natale, segnato dal canto delle novene (U cantu di li pasturi, dal 16 al 24 dicembre) e, a partire dal 26, dal rito del Bamminu e casi casi, occasione nella quale un simulacro di Gesù bambino am-

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mantato d’un velluto purpureo e annunziato dal suono del tamburo, viene rapidamente recato da ragazzi a benedire le abitazioni aluntine. Tra le tante scadenze del calendario cerimoniale aluntino, un cenno più esteso merita la festa del Crocifisso, meglio nota come i Babbaluti; momento di raccoglimento penitenziale e di attesa primaverile, che si oppone simbolicamente alla gioiosa festa patronale del ringraziamento per l’avvenuto raccolto. In questa occasione 33 incappucciati rivestiti di un saio blu-violaceo, con i piedi rivestiti dai piruna, pesanti calze di lana e cotone tradizionalmente realizzate a mano, recano per le vie dell’abitato la pesante vara del Crocifisso, in Sicilia vero e proprio “Signore delle Spighe” (Buttitta 2006a, pp. 225 sgg.). La cerimonia ha inizio nella tarda mattinata dell’ultimo venerdì di marzo, quando i devoti che si sono votati al trasporto della Croce, si ritrovano presso la chiesa di Santa Maria dei Poveri per indossare il loro caratteristici abiti processionali. Da qui raggiungono la chiesa dell’Aracœli dove è stato approntato il fercolo processionale che oltre al Crocifisso reca un quadro della Madonna Addolorata. All’ingresso del tempio i Babbaluti, in coppie, si inginocchiano a baciare il primo gradino della scalinata ed entrano poi in chiesa dalla Porta Falsa. Organizzatosi il corteo, la processione, preceduta dalla Confraternita dei Santi Quaranta Martiri, si avvia per le vie dell’abitato, accompagnato dalla sommessa invocazione dei Babbaluti: “Signuri, misericordia e pietà”. La processione si conclude a sera con il rientro del Crocifisso presso la chiesa dell’Aracœli e il rito dei Sepolcri. San Marco è dunque uno dei tanti piccoli paesi che si distendono sul versante tirrenico dei Nebrodi: paesi dove l’animazione recata da qualche turista nel breve periodo estivo non riesce a rompere il lunghi silenzi del periodo autunno-inverno, dove l’ordine del tempo sembra ripetersi sempre eguale, scandito dalle cerimonie religiose che attraverso la loro eccezionalità, la loro sacralità, ciclicamente ripropongono un ordine della società e un sistema di valori fondanti e rispondono alle richieste di aiuto e al biso-

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gno di “senso” dei fedeli; dove, al contrario di quanto accade nei grandi aggregati urbani, l’appartenenza, la solidarietà, il rispetto non sono parole prive di significato, dilatandosi la vita individuale in quella familiare e sociale della quale anche i santi sono attori, sempre pronti ad ascoltare e risolvere angosce e sofferenze. Questo, in necessaria sintesi, il quadro di riferimento, il contesto/ambiente che ospita la grande festa dedicata ai santi patroni, san Marco e san Nicola, e a san Basilio. Una festa che immediatamente si dispone, attraverso il suo simbolismo rituale e per relazione alle altre scadenze festive, a essere letta come una cerimonia di natura agraria, una grande festa di ringraziamento per l’anno trascorso e insieme di auspicio per l’annata a venire. Per quanto si possa riconoscere il retroterra agrario della cerimonia e pure la rilevanza economica che il lavoro rurale riveste per l’economia aluntina, risulta tuttavia semplicistico risolvere l’interpretazione del rito entro questo orizzonte. I simboli del pane, della danza, dell’alloro, del basilico – che vedremo variamente articolati nella festa – così immediati e scandalosi, occultano una realtà più complessa, mentono mentre si manifestano come “sopravvivenze” di un passato remoto, meccanicamente e inconsapevolmente agite da una comunità incapace di trovare nuovi e più efficaci linguaggi per rappresentare la sua condizione e le sue aspirazioni. Proviamo, partendo da queste osservazioni, a raccontare la festa. Scopriremo, tra l’altro, con Mircea Eliade (1965, p. 88) che la struttura dei simboli non può venire radicalmente “distrutta dal continuo apporto di nuovi significati storici”; scopriremo anche, come spiegò una vecchia abitante di un remoto borgo alpino a un giovane ricercatore, che “la memoria serve a vivere”, che i riti festivi cioè accompagnano e sostengono “la circolazione simbolica e materiale della cultura marcandone la presenza, rendendola visibile e palpabile, attribuendole una forma e delimitandone temporaneamente i confini” (Navarini 2003, p. 16. Cfr. Crespi 1996). Riaffermando e rigenerando la cultura comunitaria, i riti festivi si propongono pertanto come di-

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spositivi “irrinunziabili” e “insostituibili” di trasmissione di una memoria necessaria per riconoscersi e per trovare il senso del proprio esserci nel mondo; più estesamente, per dare senso e intendere in un sistema coerente la “realtà ultima delle cose” (Eliade 1949, p. 13). Vedremo così che i simboli rituali della festa dei santi Basilio, Marco e Nicola, non mentono, piuttosto denunziano e ripetono con forza alcune verità altrimenti “indicibili” e sempre attuali: dalla terra pervasa di sacralità derivano e in essa si ricompongono il principio e la fine della vita, individuale e sociale, ecco perché la comunità vive per i sui santi e in essi si riconosce, il resto è solo contingenza transeunte.

La festa di san Basilio Magno I santi patroni di San Marco d’Alunzio, ufficialmente riconosciuti dalla Congregazione dei Riti, sono san Marco e san Nicola di Bari, festeggiati il 31 luglio. I fedeli, tuttavia, si rivolgono con maggiore e partecipata devozione a san Basilio, Sammasili, i cui festeggiamenti maggiori si declinano il 2 agosto. Il santo è celebrato inoltre il 2 gennaio e il 14 giugno. Le cerimonie dedicate ai tre santi si intersecano comunque tra loro. Il 30 luglio si assiste alla processione delle reliquie di san Marco e san Nicola. La mattina del 31, dopo la messa, ha luogo la processione dei due santi patroni. In questa occasione i due simulacri vengono recati in processione affiancati su un unico fercolo addobbato con mazzetti di basilico, nastri multicolori e composizioni di cudduri (pani di forma circolare). Inoltre nel pomeriggio del 31 luglio un corteo di dendrofori attraversa il paese aprendo i festeggiamenti in onore di san Basilio: i fedeli portano grossi rami di alloro e di altre specie vegetali, raccolti nelle campagne circostanti e addobbati con fiocchi, nastrini e cuddureddi. I fedeli si raccolgono presso la chiesetta del santo; di qui, intorno alle ore 18.00, seguiti dalla banda musicale e dalla folla dei fedeli, i devoti (adulti, ragazzi, bambini), ciascuno con il suo ramo più o me-

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no grande, attraversano il paese, discendendo fino alla piazza antistante la chiesa di san Teodoro, detta Bbata picciola. Qui attorniati dai fedeli, alcuni anziani lauriferi seguiti da alcuni bambini, eseguono vari balli al suono della banda, cercando di non far cadere il proprio ramo. Terminato il ballo tutti si avventano sui rami che, secondo la tradizione locale, devono essere distrutti. Bambini e anziani si affannano con singolare accanimento e, in breve, una catasta di fronde verdi rimane abbandonata al centro del piazzale. Solo adesso vengono distribuite ai presenti i cuddureddi, precedentemente benedette. La sera del 31 luglio si svolge, poi, la prima processione di san Basilio Magno. In questo caso, intorno alle 19.00, il simulacro del santo viene traslato dalla tempio a lui dedicato alla chiesa madre. Prima di essere deposto al suo interno, il simulacro ripercorre il breve tragitto tra i due edifici per tre volte consecutive. La sera del primo agosto vengono recate in processione le reliquie di san Basilio. Il 2 agosto si svolge poi la processione della vara del santo, durante la quale i fedeli portano in processione i tôrci (ceri votivi) interamente ricoperte di basilico, fiori, spighe e nastri multicolori. Sin dalle prime ore del mattino due bande musicali attraversano l’abitato chiamando a raccolta le fedeli. Le donne, che hanno preparato gli artefatti cerimoniali nelle ore appena precedenti, si accodano processionalmente dietro le due bande avviandosi disgiuntamente verso la chiesa madre. I cortei si incontrano dinanzi al tempio e discendono, ora congiunti, verso il sagrato. Entrate in chiesa le fedeli si dispongono su due file al centro della navata e ricevono la benedizione dal sacerdote. Poi, sempre con la propria torcia, si recano a rendere omaggio al santo carezzandone il simulacro. Infine, sostano nel tempio in attesa dell’inizio della processione. Il corteo processionale prende finalmente avvio alle 12.00. Lo apre una banda musicale alle cui spalle si dispongono le fedeli con le torce. Poi la pesante vara di san Basilio, addobbata con mazzi di spighe e cudduri, mazzetti di basilico e fiori variopinti. Dietro di essa si dispongono altre fedeli con le loro torri di basilico profumato e un’altra banda musicale. La

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processione, accompagnata dalle reiterate acclamazioni dei portatori e dei fedeli, percorre la parte alta del paese, per fare infine ritorno, verso le 14.30, alla chiesa madre. La sera, intorno alle 19.00, la processione riprende con nuove modalità. In questa occasione, infatti, “il simulacro viene trasportato con un movimento oscillatorio e al grido di canciamu facci (cambiamo faccia), i due anziani che guidano il fercolo invertono la direzione della vara. Questi cambiamenti repentini e improvvisi della direzione di marcia vengono detti i miraculi (i miracoli)” (Perricone 2005, p. 27). Il devoto corteo percorrerà lungamente le vie del paese fino a notte, alla luce dei ceri. Premesso che la presenza del monachesimo basiliano in quest’area della Sicilia, attestata sin dal periodo bizantino (cfr. Rizzo 2007), può avere favorito usi rituali di alloro o di altri vegetali sempreverdi (agrumi, mortella ecc.) (Buttitta 2002a, pp. 65 sgg.), evinciamo da precise testimonianze documentarie che le attuali modalità delle celebrazioni aluntine si ripetono, con alcune variazioni, da almeno un secolo o forse più. In particolare la festa di san Basilio ha finito col prevalere, per partecipazione di fedeli e per notorietà esterna, sulle celebrazioni dei patroni di San Marco assumendone molti dei caratteri rituali. Sulla festa dei santi Marco e Nicola si sofferma Pitrè, nel suo Feste patronali in Sicilia: L’entrata d’addauru il dì 29 segna il principio della festa. I contadini in buon numero si riuniscono l’antivigilia nella piazza principale del paese e di conserva si avviano in processione al monastero del Santissimo Salvatore, portanti ciascuno un ramo di alloro. Quivi l’alloro si distribuisce a chiunque ne faccia richiesta, e si ricevono, mangiandole o conservandole per divozione, le cudduri, ciambeline, già preparate il giorno innanzi e benedette. I due Santi, che non hanno nulla di comune tra loro, posano entrambi sopra una medesima macchina, e la macchina è ornata di garofani e di basilico (…). Bambini guariti per grazia o che attendono una grazia, stanno al solito seduti nei gradini inferiori presso ai giovani che hanno l’onore di trasportarla. I quali son

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ventiquattro, non in mutande né a piedi nudi come in altre processioni, ma vestiti chi di velluto, chi di panno, e i men fortunati, di albagio, e tutti calzati. Se non che, molti di essi mettono sotto l’asta per voto o per penitenza la nuda spalla; e non si riposano mai, né cercano ristoro di vino o di sostituzione, anche breve, di compagni, giacché dalla uscita al ritorno non abbandonano per cosa al mondo il loro posto. (…) La processione cammina cammina, un anno per la parte superiore, (…), un anno per la parte inferiore; e al suo passaggio le chiese si aprono e, come dappertutto, suonano a festa; dai balconi e dalle finestre si getta del grano sui Santi e si grida: Viva san Marco! Viva san Nicola! traendosi dal getto e dal grido buon augurio per l’annata. Nella parrocchia del rione i Santi entrano ricevuti da splendida illuminazione e dal canto del secondo vespro dei preti locali. Escono poco dopo, e l’arciprete della parrocchia medesima esibisce al bacio de’ devoti le reliquie dei Santi medesimi, bacio col quale si intende ottenere il perdono dei peccati commessi. I Santi son entrati nel Duomo e principiano le corse. Un certo numero di contadini si fanno legare le gambe e al segno di un petardo si partono, accompagnati nella corsa dal suono della banda musicale ed anche de’ tamburi. La scena di tanti giovani impastoiati che saltano per giungere alla meta è comica: ed il pubblico vi assiste con infinita ilarità, pago di veder conseguire il premio al primo che giunga, p. premio di un fazzoletto, o berretto, o una canna di mussolina. (…) Il 31 Luglio, ultimo del festino è l’antivigilia di un’altra festa in onore di San Basilio, la quale si prolunga fino al 2 agosto, con una nuova entrata d’addauru, una nuova distribuzione di cuddure ecc. (Pitrè 1900, pp. 189-192).

Sulle celebrazioni di san Basilio possediamo anche delle informazioni relative alla fine degli anni Quaranta. Scrive Teresa Esposito (1949-50, pp. 106 sgg.): Carattere particolarmente locale assume la manifestazione che dà inizio alla festa e che prende il nome di “entrata addauru” (entrata dell’alloro). Numerosi giovani, seguiti dal popolo muovono in corteo dal monastero minore, ove si sono dati convegno, portando in mano dei rami di alberi vari, che oggi si sogliono adornare con fazzoletti variopinti di seta e strisce di car-

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ta leggera colorata. La banda, naturalmente in testa, dà il suo contributo di armonia alla processione, che si dirige intanto ai relitti del Monastero maggiore. Qui mentre tutti si dispongono in cerchio nello spiazzale, si inizia una specie di danza tra alcuni giovani, che ballano per lo più tarantelle; si procede quindi alla premiazione in denaro del possessore del ramo più vistoso, ed alla distribuzione di certi pani azzimi benedetti, “i cuddureddi”, che il comitato della festa ha fatto preparare. Questi pani conservati per devozione, vengono all’occasione lanciati in aria per placare la tempesta.

Prime osservazioni Soffermandosi a riflettere sul ricco simbolismo cerimoniale che caratterizzava/caratterizza le feste dei tre santi ne ricaviamo immediatamente l’originario carattere agrario. Vediamo infatti declinata variamente una serie di elementi diffusi in molteplici cerimonie festive e riferibili a un complesso cultuale omogeneo, a una koiné culturale mediterranea pre-ellenica nel quale questi elementi simbolici detenevano un preciso e più esplicito significato (cfr. Brelich 1953-54, p. 59). Entro questo orizzonte possono essere ricondotti, sulla base di una infinità di elementi tanto storico-religiosi che folklorici: l’alloro e il basilico esibiti in processione e posti sulle “torce” e sui simulacri, auspicio quanto mai esplicito del rinnovamento vegetale; le danze e i salti agonistici, stimolatori della terra e dell’accrescimento vegetale; il riso che si accompagna alle gare dei salti, catartico e augurale, che risolve la crisi del tempo consumato e ne saluta il suo rinnovamento; la stessa prova del salto, giovanile esibizione agonistica con valore iniziatico; il grano e il pane lanciati e/o esposti sulle vare e distribuiti tra i fedeli, esemplare sintesi del processo alimentare e gesto tradizionale a un tempo orgiastico e offertorio-augurale. Mentre si saluta l’avvento dell’abbondanza, ringraziando i santi per l’avvenuto raccolto, si producono pertanto ritualmente le condizioni perché il ciclo si ripeta, introducendo i simboli della vita vegetale che eternamente si rin-

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nova: l’alloro e il basilico. È un dato questo inconfutabile alla luce dell’articolazione simbolica dei riti aluntini e ulteriormente avvalorato dall’ampia varietà dell’uso cerimoniale di questi due elementi. Nei Nebrodi l’alloro ricorre, infatti, estesamente nell’iter rituale delle feste patronali (cfr. Buttitta 2006b). Così accade, a gennaio, a Tortorici per san Sebastiano, a maggio, a Troina per san Silvestro, ad agosto, a Regalbuto per san Vito, a Gagliano Casteferrato per san Cataldo e a Cerami per san Sebastiano. Sempre nei Nebrodi l’alloro si manifesta variamente nelle feste mariane di Ficarra, il 25 marzo, di Rodì Milici, il Lunedì dell’Angelo, di Naso, il primo sabato dopo Pasqua, di Cerami, il 7 settembre. Non si tratta comunque di un uso arealmente limitato, spiegabile solo con precise ragioni di carattere storico o riferibile a dinamiche di assimilazione. In quanto simbolo della vita vegetale che si rinnova, l’alloro persiste in altri ambiti territoriali. Così nell’agrigentino nelle feste patronali di Calamonaci (san Vincenzo Ferrer), Villafranca Sicula (Madonna del Mirto), Ribera (san Giuseppe) e della Settimana Santa (Burgio, Villafranca Sicula, Caltabellotta, Lucca Sicula). Così anche a Forza d’Agrò per il Lunedì dell’Angelo e ancora, in altre molteplici occasioni del calendario cerimoniale siciliano (basti pensare al ricorrere dell’alloro nell’addobbo natalizio delle edicole votive e in quello degli “altari” di san Giuseppe). Lo stesso uso del basilico non era/è affatto limitato nei contesti rituali. Pitrè, nel parlare della festa dei santi Pietro e Paolo a Calascibetta, accenna alle vare (fercoli): “Vengono ciascuna dalla propria chiesa, trasportate da contadini; e son cariche di frutta, di fiori e del caratteristico basilico” (Pitrè 1900, p. 538). Non diversamente ad Adrano, dove, almeno fino agli anni Trenta, era tradizione adornare la vara di san Nicolò Politi con del basilico e delle primizie di frutta e verdura donati per devozione dagli ortolani. I portatori del santo, giovani e ragazzi in camice bianco ne tenevano, inoltre, un rametto precedentemente benedetto sull’orecchio. Il basilico, d’altronde, osserva Bonanzinga “è ampiamente utilizzato come offerta votiva nei rituali festivi” (1995a, p. 10) e in

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questa forma si ritrova oggi, oltre che nella festa dei santi Nicola, Marco e Basilio a San Marco D’Alunzio, nelle feste di san Teodoro a Sorrentini, di san Sebastiano a Ferla, di san Rocco a Butera, cerimonie, peraltro, dove, seppur secondo diverse modalità, sono spesso presenti momenti di danza o corsa rituali. Ricorda Pitrè, che il basilico in Sicilia è “simbolo d’amore ricambiato. Vasi di basilico si scambiano il giorno di san Giovanni tra ragazze e donne che vogliono contrarre il comparatico” (Pitrè 1889, III, p. 250. Cfr. II, p. 278). Il valore vitalistico ed “erotico” della pianta è d’altronde suggerito dalla celebre novella di Boccaccio e ampiamente illustrato dallo studio di Tommaso Cannizzaro, Il lamento di Lisabetta da Messina e la leggenda del vaso di basilico (1902). Il motivo del basilico è, inoltre, significativamente ricorrente in testi popolari di varia natura. Una ninna-nanna raccolta a Calamonaci da Giovanni Moroni ci presenta il Bambino Gesù intento a “piantare” e “seminare” basilico sotto un arbusto di rosmarino (anche il rosmarino, peraltro, ricorre in numerosi contesti cerimoniali; spesso lo si trova significativamente associato a pani circolari, i cudduri, e all’alloro. Così è nel decoro degli archi pasquali di Casteltermini, così in quello della straula di San Giuseppe a Ribera): “Sutta un pedi di rrosamarina / ca cc’è Ggesuzzu ca cchianta e ssimina. / Chianta e ssimina lu bbasilicò / stu figghiu beddu s’addormentò” (Bonanzinga 1995a, p. 10). Significativamente, in alcune varianti, il Bambin Gesù semina frumento, fruminteddu: “Sutta ’n pedi di rosamarina / c’è Gesuzzu ca simina. / e simina lu frumminteddu / pi accattarisi lu cappeddu” (Castorina 1990, p. 122. Cfr. Buttitta 2006a, p. 221). Il motivo si ritrova anche in alcuni canti a tema amoroso: “Quantu basilicò simini ogni annu! / Tu mi n’ha’ dari ‘na cima a lu jornu. / A si vo’ lu me’ curuzzu, ti lu mannu; / Lu to’ mi l’ha’a mannari a lu ritornu. / A li to’ carnuzzi ciavura fannu. / Cu ti li ciara, ci passa lu sonnu. / A beddu, siddu t’avissi a me’ cumannu, / dumani mi susissi a mezzijornu” (Favara 1957, p. 54, n. 90; cfr. p. 143, n. 242). Particolarmente rilevante un breve testo proveniente da Maz-

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zarino dedicato a Gesù Bambino e che risulta, con alcune varianti, ampiamente attestato (Vigo 1870-74, n. 2318; Favara 1957, p. 385, n. 654 e 423, n. 720. Cfr. Buttitta 2006a, p. 193). Presentato dall’autore della raccolta (Turone 2002) come “preghiera”, la sua cadenza ritmica induce piuttosto a presumere si tratti di una filastrocca infantile, forse parte integrante di un gioco. Vigo lo inserisce, infatti, nella sezione XXVII della sua Raccolta amplissima, dedicata a Canti e giuochi fanciulleschi (Vigo 1870-74, pp. 405 sgg.). Questi i versi raccolti da Turone: “Balla, balla Bammineddu, / ca lu chianu è tuttu tó, / unni posa u tó piduzzu / nasci gigghia e basilicò;/ ti ni cugghi ’na schucchidda / e la purti a mamma tó, / si la minta ntu pittuzzu, / balla, balla miu Gesuzzu! [Balla, balla Bambinello, / che il campo è tutto tuo, / dovunque posi il tuo piedino / nascono gigli e basilico; / ne cogli un mazzetto / e lo porti alla tua mamma, / [che] se lo metta nel petto, / balla, balla mio Gesù]” (Turone 2002, p. 22). Assai simile la variante proveniente dalla zona di Giarre: “Bammineddu balla, balla / cca lu chianu è tuttu’u tó, / unni posunu i tó piduzzi / nasci ’n pedi di bascilicò. / Ni scippi ’na ramuzza / ci la potti a tò mammuzza, / ci la metti ’nta lu pettu, / oh cchi sciauru cca ci fa” (Castorina 1990, p. 124). Il Divino Fanciullo danza sul campo e dove posa il piede sorgono gigli e basilico. La danza, è vita, è il ritmo pulsante del cuore. Battere la terra, calpestarla vigorosamente equivale d’altronde ad ararla e lavorare la terra significa possederla attivando il processo di generazione (Jung 1912, p. 309. Cfr. Sachs 1933, pp. 109 sg.). La danza di Gesuzzu, dunque, “è un atto di creazione. (…) Ha funzione cosmogonica, poiché risveglia le energie latenti che possono dar forma al mondo” (Zimmer 1946, p. 139). Non è certo casuale che i simboli rituali del basilico, dell’alloro, della danza “dei giovani”, si ritrovino interconnessi in vari contesti festivi. Esemplare il caso di Caltabellotta dove la mattina di Pasqua san Michele Arcangelo, acclamato come u Gigliu e u Santu di li picciotti schietti è protagonista di un rito “orgiastico”. Il “Principe dei Gigli”, rappresentazione della forza virile, che reca alle sue spalle un grande albero

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di alloro e la cui lancia è ammantata di violacciocche, viene infatti fatto volteggiare, sobbalzare, correre a suon di musica tra il tripudio generale, per tutto il giorno, da suoi invasati portatori, ragazzi non più che ventenni (cfr. Buttitta 2002a, pp. 97 sgg.). Di questo ampio universo simbolico legato a una Weltanschaung “contadina”, seppur contratto e depotenziato, rimane una vivida traccia nei riti odierni. Queste persistenze, che coinvolgono massicciamente la comunità in tutte le sue componenti – largamente e significativamente quella femminile a San Marco – e che si sono prima sospettate “sopravvivenze” afunzionali, sono, invece, certamente funzionali al sistema sociale e religioso aluntino e non possono essere ignorate o classificate come residui inerzialmente tradottisi di una passato, comunque prossimo. Come ha ribadito J.-C. Schmitt (1976, p. 946)) : “Rien n’est survécu dans une culture, tout est vécu ou n’est pas. Une croyance ou un rite ne sont pas la combinaison de reliquats et d’innovations hétérogènes, mais une expérience n’ayant de sens que dans sa cohésion présente” T R A D U R R E. Tutte le tradizioni popolari – ha scritto con grande lucidità Giuseppe Cocchiara (1980, pp. 8-9. Cfr. 1978) – trovano nel popolo che le elabora una piena libertà; che esprime indipendenza di vita spirituale, ma anche consapevolezza di un particolare significato umano. Il popolo si sente, in fondo, il depositario di una verità che si obiettiva nelle immagini della sua mente. Il fatto, però, che questa verità abbia spesso dietro di sé un proprio passato, spinge alcuni folkloristi a considerare le tradizioni popolari, almeno nella loro maggioranza, come vere e proprie sopravvivenze. Da qui, a loro avviso, il carattere che esse assumono di preistoria contemporanea. In realtà le tradizioni popolari, anche quando riecheggiano antiche esperienze religiose e sociali, sono pur sempre per il popolo storia contemporanea, in cui le medesime sopravvivenze si stemperano in continue rielaborazioni, che possono anche avere una loro particolare organicità. Nessuna tradizione avrebbe senso e valore, se essa non fosse pienamente accolta dal popolo e con significati che possono cambiare da un’epoca all’altra.

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Feste agrarie? È fuor di dubbio, come ha osservato Antonino Buttitta (1990), che in Sicilia come altrove la funzione delle feste quali tecniche magico-rituali di propiziazione di una armonica vicenda stagionale e di protezione dalle calamità incombenti sui raccolti, sia diventata sempre più marginale. Da fatto collettivamente agito esse tendono perciò a trasformarsi in occasioni di spettacolo in cui la partecipazione della collettività è semplicemente passiva (p. 17).

Questa, tuttavia, non è “tutta la realtà”. L’apparente disgregazione della religione della terra, a ben guardare, non è così profonda. Basta uscire dai circuiti festaioli proposti dalle riviste di promozione turistica e da un’infinità di siti internet per vedere come nelle cerimonie tradizionali si rifletta, non solo idealmente, l’andamento dell’annata agraria e che ai ritmi di quest’ultima corrispondano precise occorrenze rituali. Processioni di rami di alloro, offerte primiziali, processioni per scongiurare calamità naturali, falò cerimoniali, mascheramenti demoniaci e animali, questue, distribuzione e consumo di cibi ritualmente formalizzati, balli e corse di fercoli recanti statue o reliquie di santi, canti, musiche e danze cerimoniali non sono in Sicilia solo eventi spettacolari di interesse turistico, come testimoniano gli esiti delle numerose ricerche condotte, a partire dalla fine dagli anni Sessanta e fino ai giorni nostri, dal Folkstudio di Palermo, dall’Istituto di Scienze antropologiche e geografiche dell’Università di Palermo (oggi Dipartimento di Beni Culturali), dall’Associazione per la conservazione delle tradizioni popolari, dal Centro Internazionale di Etnostoria, dal Centro per l’Inventario, la Catalogazione e la Documentazione dei Beni culturali della Regione Siciliana. Dinanzi a un panorama così ricco e articolato; di fronte all’uso di simboli che sembrano immediatamente rinviare a precise istanze materiali, il desiderio di abbondanza, ma anche ideologiche, lo scontro tra cosmos e caos; di fronte a fe-

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nomeni come quello delle processioni per impetrare la pioggia celebratesi diffusamente in Sicilia nel 1999 e rinnovatesi nel 2007 a fronte di straordinari episodi di siccità, è necessario e urgente assumere un autentico atteggiamento di ascolto, sforzarsi di comprendere che non ci si trova di fronte a “riproposte” e “invenzioni”, a iniziative coordinate, sostenute e controllate dagli assessorati comunali al Turismo e alla Cultura, dalle Pro-Loco e dalle associazioni di “amanti” della tradizione né, tanto meno, che si possa intendere il significato della cerimonialità tradizionale facendo esclusivo riferimento a un intramontabile passato agro-pastorale, considerando pertanto le feste solo come richieste di aiuto ai propri santi protettori per regolarizzare i cicli naturali, ottenere buoni raccolti e moltiplicazioni di armenti, per superare malattie e disagi esistenziali. Certo è che nel lungo periodo, in assenza di sostanziali trasformazioni nei tempi e nei modi della produzione agropastorale, si è potuta determinare a livello cerimoniale, pur all’interno delle complesse dinamiche storiche che hanno interessato le diverse aree, la trasmissione nel tempo e nello spazio di credenze e di riti e dei connessi apparati simbolici. D’altronde le ideologie, le credenze e i sistemi di pratiche a queste interconnesse, si trasformano più lentamente dell’evolversi economico e sociale consentendo spesso a riti festivi – ai simboli rituali e ai principi etici e cosmologici in questi implicitamente contenuti – connessi a cicli produttivi ormai scomparsi, di reiterarsi “a través los siglos en la misma forma” (Widegren 1945, p. 190), assumendo nuovi significati e funzioni o amplificandone alcuni prima latenti e secondari (cfr. pp. 189 sgg.; Bogatyrëv 1982; Buttitta 1996, pp. 31-43). È vero, inoltre, che dopo la parcellizzazione del latifondo e lo spopolamento delle campagne, le rapide trasformazioni economiche e il parallelo disgregarsi delle strutture sociali tradizionali, l’“industrializzazione” e la “terziarizzazione”, per gli abitanti delle comunità della Sicilia interna possedere un appezzamento di terra costituisce ancora oggi, almeno sul piano emotivo, un valore sociale essenziale da custodire ed esibire. Anche per que-

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ste ragioni le feste, contrariamente alle antiche tecniche, ai racconti, ai canti tradizionali che rapidamente e inesorabilmente si dissolvono, mantengono una sorprendente vitalità e dimostrano la non conseguenzialità tra mutamenti delle strutture produttive e mutamenti delle strutture ideologiche (cfr. Mazzacane 1985, pp. 22 sgg.), presentandosi in moltissimi casi come inespugnabili baluardi di una tradizione contadina che se non continua a vivere nella prassi certamente insiste a livello ideologico. Resta il fatto, tuttavia, che il richiamo alle radici agropastorali non è da solo sufficiente a dare ragione della persistenza di forme di religiosità “arcaica”. Occorre chiedersi allora quale logica tenga insieme nuovi stili di vita e forme tradizionali del farsi festivo e interrogarsi se i primi corrispondano a regimi di esistenza realmente diversi da quelli del passato. In realtà all’affrancamento dalla terra, dalla fatica e dal rischio, sono seguite altre e forse più temibili forme di precarietà a condannare il Sud alla miseria e all’incertezza del domani. L’assenza di un’economia forte e vitale, di prodotti competitivi da immettere sul mercato, la disoccupazione sempre crescente, un terziario gonfiato dalle politiche clientelari, la carenza e lo stato di abbandono delle opere pubbliche, l’inadeguatezza delle strutture e dell’assistenza sanitarie, le disfunzioni e le lentezze dell’amministrazione, il dilagare dell’associazionismo malavitoso, questi e altri elementi, tra loro concatenati, contribuiscono ad abbassare il livello della qualità della vita fino a minacciarne il suo stesso senso. A questa drammatica condizione la comunità risponde secondo un linguaggio antico e noto, ri-cercando certezze e riferimenti valoriali, un ordine e un senso, in simboli il cui rinvio al lavoro contadino non è, in alcuni casi, immediatamente presente alla coscienza dei fedeli, ma che rispondono “secondo tradizione” a bisogni ancora attuali e vivissimi. Anticipando quanto di seguito più ampiamente discusso possiamo dunque osservare che tra le ragioni della persistenza di forme rituali tradizionali sembra esservi anche il loro “potere” di dare soddisfacimento a immutate e immutabili esigenze di

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ordine psicologico (Scheff 1977, pp. 488-489) e sociale e la capacità di proporre “visioni complessive e totalizzanti del reale” in grado di fornire “contemporaneamente risposte a più esigenze talvolta anche contraddittorie tra loro” (Ciattini 1997, p. 12).

Religione e riti festivi Nei precedenti paragrafi, oltre a fornire una “descrizione” della festa aluntina di san Basilio, si è cercato di delineare il contesto/ambiente socio-culturale all’interno del quale essa si inserisce e di indicare alcune essenziali coordinate ideologiche e storico-religiose utili a comprenderne la lunga durata. Restano da approfondire alcune questioni relative alle ragioni e al senso del suo farsi/protrarsi nel presente. È utile pertanto ripercorrere, seppur entro necessari limiti, alcuni tra i più solidi e diffusi approcci socio-antropologici alla religione e all’agire rituale, a partire da una definizione operativamente minimale e descrittiva della festa. Una festa religiosa tradizionale – religiosa in quanto correlata alla credenza in entità extra-umane “attive”; tradizionale in quanto “tramandata da generazioni” (cioè non frutto di recupero colto o re-invenzione) – è un insieme di riti pubblicamente agiti e sistemicamente coordinati in una sequenza coerente e significativa. La festa tradizionale è di fatto un complesso rituale perfettamente programmato per cui si sa che in un momento definito, in un determinato luogo, alcuni partecipanti, assumendo i ruoli previsti, eseguiranno, come hanno già fatto, un certo numero di compiti e adotteranno certi comportamenti seguendo uno schema dato e all’interno di un’atmosfera pure egualmente prevedibile, malgrado la sua apparente spontaneità (Smith 1981, p. 212).

Le attività festive dunque si incentrano su pre-determinati comportamenti/oggetti rituali, i quali ne costituiscono i momenti culminanti e qualificanti e insieme ne denuncia-

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no l’alterità rispetto al vissuto quotidiano e la peculiarità rispetto agli altri momenti del calendario cerimoniale (Van der Leeuw 1956, p. 305). La festa si configura così come uno spazio-tempo “speciale”, deputato a ospitare il dialogo tra uomini e dei secondo un “linguaggio” pre-scritto dalla tradizione. Inoltre, in quanto fatto collettivamente agito, essa è il luogo dell’incontro e del riconoscimento comunitario. Nelle sue regole pre-stabilite e idealmente immutabili la società sembra ricomporsi e riconoscersi, ritrovando ordine e restituendo senso alla propria esistenza: “Con la regolarità del loro ricorrere, le feste e i riti provvedono alla comunicazione e trasmissione del sapere garante dell’identità, e quindi alla riproduzione dell’identità culturale: la ripetizione rituale assicura la coerenza del gruppo nello spazio e nel tempo” (Assmann 1992, p. 31) cioè “preserva l’identità e la regolarità della comunità” (Wach 1969, p. 58) esercitando “una azione di controllo sul comportamento sociale” (Douglas 1973, p. 39). Sembra valere ancora la prospettiva già presente in Fustel de Coulanges (1900) e ancor più in Robertson-Smith (1889), ampiamente sviluppata da Durkheim (1912) e poi variamente ripresa dal funzionalismo anglosassone, che considerava le attività cultuali, in quanto azioni collettivamente agite, un dispositivo funzionale alla riproduzione della “solidarietà morale”, all’espressione dei valori fondanti del gruppo, alla regolazione e legittimazione dei rapporti sociali quindi al rafforzamento del senso di appartenenza. Secondo questa impostazione la funzione delle attività rituali si risolve essenzialmente nella loro dimensione coesiva rendendole necessarie ab origine alla continuità e solidità sociali. La ragione stessa dell’esistenza dei rituali religiosi risiede dunque nella fondamentale funzione sociale da essa assolta (cfr. Zadra 1969, pp. 13 sgg.; Miceli 1989b, pp. 120-122; Ciattini 1997, pp. 53 sgg. e 75 sgg.; Scarduelli 2000, pp. 15 sgg.; Navarini 2003, pp. 33 sgg.). Durkheim definiva la religione come “un sistema solidale di credenze e di pratiche relative a cose sacre, cioè separate e interdette, le quali uniscono in un’unica comunità mo-

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rale, chiamata chiesa, tutti quelli che vi aderiscono” (1912, p. 50)4, e i riti come “regole di condotta che prescrivono come l’uomo debba comportarsi con le cose sacre” (p. 43). Ritenendo che l’oggetto del culto (le cose sacre e potenti, gli dei) fosse l’ipostasi inconsapevole della società stessa, determinata dal trascendimento della dimensione individuale in quella collettiva, il sociologo francese, a partire dall’analisi dei culti totemici australiani, osservava, infatti, come la venerazione collettiva di elementi oggettuali dalla forte carica simbolica, gli “emblemi”, concorre in maniera determinante a riprodurre e rafforzare la coesione interindividuale, cioè il senso di appartenenza a un gruppo definito. Gli “emblemi”, mostrati e agiti in occasione delle occorrenze rituali, in quanto agenti di “rappresentazioni collettive”, nel riprodurre ciclicamente i valori, gli ideali e le coordinate essenziali a orientarsi nel mondo, contribuiscono significativamente alla conservazione dell’equilibrio sociale. L’emblema costituisce, per ogni specie di gruppo, un utile centro di collegamento. Esprimendo l’unità sociale in una forma materiale, esso la rende percepibile a tutti. L’idea di utilizzare dei simboli emblematici scaturisce dalle stesse condizioni di vita comune perché l’emblema non è soltanto un procedimento comodo che rende più chiaro il sentimento che la società ha di sé: esso serve a produrre questo sentimento e ne è anzi un elemento costitutivo. Infatti le coscienze individuali sono di per sé chiuse le une alle altre; esse possono comunicare soltanto per mezzo di segni in cui si traducono i loro stati interiori. Perché il rapporto che si stabilisce tra loro possa sfociare in una comunione, cioè in una fusione di tutti i sentimenti particolari in un sentimento comune, occorre dunque che i segni che li manifestano si fondano anch’essi in una sola ed unica risultante. L’apparizione di questa risultante avverte gli individui di essere all’unisono, e li conduce ad assumere coscienza della loro unità morale: lanciando uno stesso grido, pronunciando una stessa parola, eseguendo uno stesso gesto concernente uno stesso oggetto essi si mettono e si sentono d’accordo (pp. 253-254).

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Secondo queste idee, la solidarietà e la sopravvivenza stessa di una comunità, in quanto insieme di individui che si riconoscono in una comune appartenenza, si fondano dunque sulla condivisione di simboli, di valori e di credenze, legittimati da una dimensione sacra prodotta e riprodotta dalla società stessa e concepita come assolutamente autonoma. Tra vita associata e rappresentazioni religiose si osservano relazioni sia causali che funzionali: da un lato è lo stesso vivere in società che, anche attraverso la riproduzione periodica di stati di “effervescenza collettiva” (cfr. Mauss, Beuchat 1904-1905; Isambert 1982, pp. 126 sgg.; Caillois 1950, pp. 89 sgg.), causa la nascita del sentimento del sacro e della religione; dall’altro credenze, comportamenti e oggetti rituali, agiti e condivisi, rappresentano e al contempo ribadiscono con forza significati sociali imponendo indirizzi e confini ai rapporti inter-individuali, cioè riproducendo la coesione sociale (Valeri 1981, pp. 213-214. Cfr. Pace 2007, pp. 31 sg.). Da un’angolazione diversa, partendo cioè dal presupposto che la religione come “forma culturale oggettivata” derivi da una umana predisposizione emozionale al mistero religioso (cfr. Navarini 2003, pp. 55 sgg.), anche Georg Simmel (1905) riconosce alle attività religiose il potere di sostenere la coesione sociale: L’unità delle cose e degli interessi che subito ci colpisce nel campo sociale trova la sua rappresentazione più elevata – e, per così dire, separata da ogni considerazione materiale- nell’idea del divino; nel modo più completo, naturalmente, nelle religioni monoteistiche, ma relativamente anche in quelle inferiori”. In particolare le feste “oggettivizzano l’unione di coloro che sono mossi dalle stesse emozioni religiose”. La religione dunque “rappresenta in sostanza ciò che, come forma e funzione, regola la vita del gruppo. (…) rappresenta la forma più pura dell’unità della società, elevata ben al di sopra di tutte le individualità concrete” (pp. 77-79. Cfr. 1989).

A partire da questi assunti si è affermata definitivamente, nelle scienze sociali del Novecento, un’interpretazione

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socio-funzionalista della religione che, ponendo i fenomeni religiosi a fondamento del “meccanismo” della vita in società, guarderà alle credenze religiose come a trascrizioni della realtà sociale e dei suoi fondamenti etici e alle pratiche rituali come momento di celebrazione e oggettivazione simbolica degli stessi (cfr. Cantoni 1971, pp. XXII-XXIII). Questa è la prospettiva che guiderà Radcliffe-Brown (1952) per il quale, appunto, la religione è una “importante” ed “efficace” componente, al pari delle leggi e dell’etica, del “meccanismo sociale”, una parte fondamentale del “complesso sistema grazie al quale gli esseri umani possono vivere insieme in una ordinata organizzazione di rapporti sociali” (p. 164). Essa esercita la sua funzione di coesione anche attraverso l’attività rituale con il preciso compito di dare “espressione ordinata” ai sentimenti umani producendo, di rimando, un’“influenza” sul comportamento individuale e rendendo possibile il “permanere di una vita sociale ordinata” (p. 170). “I riti positivi e negativi dei selvaggi – scrive Radcliffe-Brown – esistono e continuano ad esistere, in quanto sono parte del meccanismo attraverso il quale una società ordinata si mantiene in vita, contribuendo, come in realtà fanno, a fissare certi valori sociali fondamentali” (p. 1961), inoltre, i riti in quanto espressioni simboliche regolate hanno “una precisa funzione sociale quando, e nella misura in cui, hanno l’effetto di regolare, mantenere e trasmettere di generazione in generazione i sentimenti su cui si basa l’edificio sociale” (p. 167). In sostanza per Radcliffe-Brown e i suoi numerosi “allievi” (cfr. Fortes, EvansPritchard, a cura, 1940; Gluckman 1965; Leach 1954): “il rituale è una forma di comunicazione e di espressione che coordina e integra i membri del gruppo, svolgendo, di conseguenza, un’azione di controllo il cui scopo principale è il mantenimento del sistema delle relazioni sociali, delle istituzioni e della gerarchia degli status” (Scarduelli 2000, p. 22. Cfr. 2007, pp. 45 sgg.). Una idea questa già proposta da un classico della scuola confuciana, il Libro dei Riti (Li Chi, IV-I sec. a.C.), ripreso appunto da Radcliffe-Brown (1952, p. 168): “lo scopo delle cerimonie, della musica, delle pu-

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nizioni e delle leggi è uno solo: essi sono strumenti intesi a uniformare il pensiero degli uomini e a portare ordine nel governo”. In particolare “le cerimonie sono il legame che tiene unite le moltitudini; se si rimuove questo legame le moltitudini cadono nella confusione”. Lo stato di “confusione” è determinato dal venir meno dei valori e delle norme fondanti, sedimentatisi nella memoria dei gruppi ed espressi nel rito, che orientano nel mondo e vi danno senso, dalla crisi cioè dei sistemi simbolici che ogni società si è dati per rappresentare e riempire di senso la realtà terrena e ultra-terrena e orientarsi all’interno di questa. Gli apparati simbolici che si articolano nelle cerimonie pubbliche materializzano di fatto le “figure del ricordo”, della memoria collettiva, in un determinato spazio e le attualizzano in un determinato tempo. Le figure del ricordo “sont, en même temps, des modèles, des exemples, et comme des enseignements. En eux s’exprime l’attitude générale du groupe; ils ne reproduisent pas seulement son histoire, mais ils définissent sa nature, ses qualités et ses faiblesses” T R A D U R R E (Halbwachs 1952, p. 151). I riti religiosi dunque, non rispondono, come si chiarirà più avanti, solo agli interrogativi ultimi trovando soluzione sul piano mitico a problemi altrimenti irresolubili, ma in quanto “tra gli elementi più forti di trasmissione culturale” (Burkert 1979, p. 80), fungono da potente veicolo di significati sociali, ciclicamente riproducendo e sostenendo l’identità del gruppo nell’avvicendarsi delle generazioni. È proprio questa loro potenza sacrale/comunicativa che ne consente e richiede la ripetizione: “un evento, per continuare a vivere nella memoria del gruppo, deve arricchirsi della pienezza di senso di una verità significativa” (Assmann 1992, p. 13. Cfr. Halbwachs 1952, pp. 16 sgg.). Le feste tradizionali, pertanto, configurandosi come il luogo privilegiato di trasmissione della memoria culturale, cioè di riproduzione dell’identità, servono ad attualizzare il “passato fondante”: Nel ricordo della propria storia e con l’attualizzazione delle figure di ricordo fondanti, il gruppo si sincera della sua identità.

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Questa non è un’identità di tutti i giorni. All’identità collettiva inserisce qualcosa di festivo, di extraquotidiano: essa è in un certo senso “maggiore del vero”, oltrepassa l’orizzonte della quotidianità e costituisce l’oggetto di una comunicazione cerimoniale, non quotidiana. Tale cerimonialità della comunicazione è già di per sé una sorta di processo formativo; esso viene proseguito nella formazione del ricordo, il quale si coagula in testi, danze, immagini e riti (Assmann 1992, p. 27. Cfr. Navarini 2003, p. 17; Fabietti, Matera 1999, pp. 9-32).

La comunicazione festiva è d’altronde comunicazione diretta, “orale” (cfr. Havelock 1963); è partecipazione personale e coinvolgimento totale. Le grandi feste periodiche richiedono nel loro farsi l’attivazione di tutte le componenti sociali, mobilitano l’energia e le attenzioni di tutta la comunità per una parte considerevole del loro tempo e senza esclusioni, non tradizionalmente/ritualmente sancite, di categorie e/o individui. La festa non è solo “il giorno di festa”, la processione del santo, il banchetto comunitario, il giuoco ritualizzato, ma anche e soprattutto la sua organizzazione: preparazione di cibi e artefatti, cura dell’abbigliamento, dei simulacri, dei paramenti ecc. Ogni gesto volto, insomma, a generare il cosiddetto “clima di festa”. In questo “teatro sociale”, dove il gioco di faccia, l’“ordine” delle espressioni, assume una sua peculiare dimensione (Goffman 1967, in partic. pp. 7-50. Cfr. Douglas 1973, pp. 15 e 29) e in tutto ciò che a esso afferisce, sono coinvolti, seppur su piani e in gradi diversi, tutti gli individui delle comunità. Sono coinvolti, se non altro, nel segnare il loro grado di partecipazione alla vita comunitaria, il ruolo e la rispettabilità sociale. La festa religiosa tradizionale non distingue, di fatto, tra “attori” e “spettatori”, ma ruoli in un’unica globale celebrazione. Tutti i componenti la comunità, pur nella differenza di status, genere, classe d’età fanno parte dello scenario, sono materialmente ed emotivamente coinvolti, seppur in forme e gradi diversi, nella rappresentazione rituale (Gadamer 1972, p. 157; Lotman 1993, pp. 194-195). È questo coinvolgimento, l’assistere/partecipare direttamente, che consente a tutti gli indi-

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vidui di essere collettivamente coinvolti nella riproduzione della “memoria culturale”. Sistemi di valori, strategie relazionali, partizioni sociali, credenze si declinano, nello spazio-tempo della festa e nei riti che a questa sono direttamente correlati. Il discorso intessuto dai simboli rituali è dunque, sebbene non di rado implicitamente, riflesso della ideale visione del mondo delle comunità. La festa può essere pertanto considerata come una delle principali forme di organizzazione della memoria nelle società che fondano la trasmissione della tradizione sull’oralità e l’imitazione. D’altronde Se la cultura è, fondamentalmente, un complesso sistema di segni (…) la persistenza della cultura tra individui mortali necessita di metodi di trasmissione che superino il salto generazionale. I sistemi più stabili sono evidentemente quelli che non si basano sull’imitazione fortuita, ma organizzano la loro perpetuazione imponendo al giovane le regole del gioco mediante l’educazione nel senso più ampio, e offrendo occasioni di prova dimostrativa. Questo sembra essere propriamente lo spazio per il rituale, la ragione per cui è assurto a un grado di notevole importanza nella società umana originaria, come una pratica conformista che conservasse la stabilità del sistema (Burkert 1979, p. 79).

Questo necessario processo è messo in evidenza da Platone nelle Leggi, al momento di affrontare il tema dell’educazione dei bambini e dei giovani (cfr. Miceli 1989b, p. 131; Assmann 1992, pp. 31-32). ATENIESE:

(…) Denomino educazione quella virtù che per la prima volta si insedia nei fanciulli: (…) E poiché l’educazione, che consiste in quel corretto orientamento verso i piaceri e i dolori, si allenta e si corrompe in molte circostanze della vita, gli dei, provando pietà per il genere umano che è destinato a vivere in mezzo ai travagli, stabilirono, per gli uomini come delle pause fra questi travagli, che sono rappresentate dall’alternarsi delle feste in onore degli dei, e diedero loro le Muse, e Apollo signore delle Muse, e Dionisio perché, celebrandole con loro, fossero resi migliori, e la loro educazione

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fosse seguita nelle feste dagli dei stessi. (…) Si dice che ogni giovane essere vivente, per così dire, non riesca mai a stare quieto con il corpo e con la voce, ma cerchi sempre di muoversi e di parlare forte, e alcuni saltano e balzano, come se danzassero con piacere e giocassero, altri emettono ogni sorta di suoni. E mentre gli altri esseri viventi non hanno percezione dell’ordine e del disordine che si verifica in questi movimenti e a cui diamo il nome di “ritmo” ed “armonia”, a noi invece quegli dei che, abbiamo detto prima, ci furono dati come compagni di danza, fecero anche dono della percezione del ritmo e dell’armonia accompagnati al piacere, con cui ci muovono e guidano i nostri cori, legandoci gli uni agli altri con canti e danze, e li hanno chiamati “cori” per quel senso di gioia che in essi è connaturato (II, 653-654).

E più avanti: ATENIESE:

(…) si consacra ogni danza e ogni canto, stabilendo dapprima le feste e calcolando, anno per anno, quali feste e in quali tempi bisogna celebrarle, e a quali dei e figli di dei, e demoni devono essere dedicate. Dopo di che bisogna stabilire i canti che devono essere intonati in occasione dei singoli sacrifici in onore degli dei, e vedere con quali danze bisogna celebrare i vari sacrifici. Alcuni dovranno stabilire tutto ciò, e una volta stabilito, tutti i cittadini, dopo aver celebrato sacrifici in onore delle Moire e di tutti gli altri dei, e facendo libazioni, consacrino ciascun canto ai singoli dei e agli altri esseri: se qualcuno introdurrà altri inni o canti contrari a questi già stabiliti, i sacerdoti e le sacerdotesse insieme ai custodi delle leggi glielo proibiscano, e tale proibizione sia dovuta a motivi di santità e sia conforme alle leggi, e se chi è stato impedito non accetta volontariamente questa proibizione, chiunque voglia potrà accusarlo di empietà per tutto il corso della sua esistenza (VII, 799).

Dunque alle feste, volute dagli dei e operate dagli uomini, è demandato esplicitamente il compito – attraverso i canti e le danze, il “ritmo” e l’“armonia” –, di ravvivare e di regolare i costumi tradizionali, di educare all’ordine del corpo come principio dell’ordine morale e di quello socia-

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le in quanto riflessi dell’ordine divino, cosmico (cfr. Douglas 1973, in partic. pp. 99-122; Hertz 1928, pp. 137-163; Havelock 1963, p. 68). Sempre Platone ricorda che l’utilità della musica sta nel dono dell’harmonía, che in quanto dotata di “movimenti” affini alla nostra anima, può essere d’aiuto nel ricondurre all’ordine e all’accordo il ciclo dell’anima stessa divenuto discordante (Timeo, 47d). Anche Plutarco, nel suo trattato Perì mousikhé, non manca di rilevare che i greci, sin dal “tempo antico” – un tempo in cui “la musica aveva la sua dimora nei templi, dove veniva impiegata per rendere onore agli dei e lode agli uomini di valore” (27) –, “avevano a cuore più di tutto l’educazione musicale. Credevano, infatti, che si dovesse plasmare e improntare all’equilibrio l’animo dei giovani attraverso la musica, in quanto essa si rivelava utile in ogni circostanza e in ogni impresa che richiedesse impegno, specialmente nei pericoli di guerra” (26); e può così concludere il suo trattato ribadendo: “È vero, infatti, che il primo e più nobile compito della musica è quello di rendere grazie agli dei e quello che viene subito dopo questo, in secondo luogo è dare armonia, equilibrio e serenità al nostro animo” (42). Il rito dunque impegna e imbriglia materialmente il corpo entro forme paradigmatiche di espressione sensorio-motoria e impone all’individuo, a livello tanto fisico che intellettuale, un “rapporto con la realtà” che sospinge la rinnovata identità sociale e culturale all’“incontro con il trascendente” (Zeusse 1994, pp. 483 e 487). L’azione rituale, prescritta e sancita da regole “sacre” dunque immutabili, in qualche modo guida le emozioni e costringere il pensiero (cfr. Terrin 1999, p. 14). Come osserva Susanne Langer un rito eseguito regolarmente “is the constant reiteration of sentiments toward ‘first and last things’; it is not a free expression of emotions, but a disciplined rehearsal of ‘right attitudes’” (1957, p. 153). Attraverso i riti si realizza un apprendimento senza che gli apprendisti ne abbiano sempre piena coscienza. Essi si configurano come una “forma di indottrinamento” inconscio dell’ordine, dei principi, delle formule e delle regole,

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che, “sotto l’aspetto della spontaneità, costituiscono altrettanti esercizi strutturali”, cioè instaurano “la relazione dialettica che conduce all’incorporazione” di uno spazio e di un tempo, e da qui di tutta una cosmologia, di tutto un sistema di valori, strutturati secondo le opposizioni miticorituali (Bourdieu 1972, pp. 235 sgg. e 266 sgg.). È questo un messaggio contenuto nella stessa etimologia della parola rito. Come ci ricorda Benveniste (1969) il sanscrito ⁄ta ritus designa l’“ordine” che regola sia l’ordinamento dell’universo, il movimento degli astri, la periodicità delle stagioni e degli anni, sia i rapporti degli uomini e degli dei, infine i rapporti degli uomini tra di loro. (…) È dunque il fondamento sia religioso che morale di ogni società; senza questo principio tutto tornerebbe nel caos (II, pp. 357-358; cfr. Caillois 1950, pp. 19 sg.).

I cosiddetti riti “di trasgressione” (come sono certi momenti di festa e di pellegrinaggio) –quello in cui prevalgono forme di indifferenziata communitas, il momento di sospensione o sovversione delle regole che reprimono istinti e sentimenti, di ritorno a una supposta anarchia delle origini, di espressione di conflittualità –, non mettono in discussione i principi, li sospendono piuttosto offrendo temporaneo e circoscritto sfogo tanto alle tensioni sociali che alle pulsioni individuali e, soprattutto, mostrano come si vivrebbe senza di essi (cfr. Turner 1969; Gluckman 1965; Burke 1978, in partic. pp. 194 sgg.; Lincoln 1989, in partic. pp. 53-74; Turner, Turner 1978, in partic. pp. 49 sgg.; Isambert 1982, pp. 133 sgg.; Caillois 1950, in partic. pp. 89 sgg.): la rappresentazione stessa del caos, attraverso l’inversione e/o l’indifferenziazione dei ruoli e delle norme, impone il ritorno al cosmos in maniera ancor più forte; la norma temporaneamente sospesa e violata si riafferma con la sua ineludibile necessità e rifonda entro una cornice sacrale l’ordine “originario” e il consenso sociale. Quando diciamo che le regole che ordinano il cosmo e la società provengono dalla tradizione, asseriamo implicitamente che esse derivano dagli dei. Sono essi

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che hanno dettato in illo tempore i principi e i valori e le loro modalità di declinazione. Si tratta dunque di una forma di “legittimazione degli atti umani per mezzo di un modello extraumano” (Eliade 1949, p. 35). Come osserva lucidamente Assmann (1992, p. 32), commentando il precedente brano di Platone, non esistono due tipi di ordine – uno per la festa e uno per la vita quotidiana, uno per il sacro e uno per il profano – i quali convivano senza legami: piuttosto, all’origine esiste un solo ordine che in quanto tale è festivo e sacro, e influisce sulla vita quotidiana, orientandola. La funzione originaria delle feste è di articolare il tempo in generale, e non di istituire un “tempo sacro” diverso e contrapposto rispetto al “tempo quotidiano”. Strutturando e ritmando il flusso del tempo, le feste istituiscono l’ordine temporale generale, entro il quale soltanto il quotidiano ottiene anch’esso un suo posto (cfr. Brelich 1966, pp. 50-52; Caillois 1950, pp. 13 sgg.; Kolakowski 2006, p. 25).

Sia che i riti festivi vengano assunti come una “creazione” necessaria della società stessa, come funzionali ed essenziali alla sua preservazione, ovvero come consolidate strategie di comunicazione con un divino trascendente comunque garante dell’ordine cosmico e sociale, sia che, cioè, la sacralità dei riti si riproduca nella sua stessa ripetizione puntuale e obbligatoria ovvero derivi dall’essere riferiti alla divinità se non da essa stessa istituiti, si finisce con il cogliere, tuttavia, solo una parte, sia pure essenziale, delle loro funzioni. In ogni caso costituisce un errore “ridurre il religioso alle funzioni sociali che esso esercita in una certa società”; questo, come rileva Willaime (2006, p. 182), è “un modo utilitaristico di cogliere il religioso, come se si potessero ridurre i sistemi simbolici alla loro funzionalità. Ma il religioso è forse ciò che eccede ogni funzionalità, gestendo la mancanza, l’incertezza, l’alterità”. Alle precedenti osservazioni, dunque, pena la caduta in una sorta di riduzionismo socio-funzionalista teso a sottovalutare o “ignorare le motivazioni ed altre variabili psicologiche” (Spiro 1966, p. 296), va affiancata una lettura del rituale festivo come sistema simbolico capace non solo di ri-

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produrre i principi etici fondanti e la coesione e l’ordine sociali, di mantenere vivo il senso dell’appartenenza e dell’identità collettiva, ma anche di fornire risposte e certezze individuali sulla vita e sul suo senso e di soddisfare desideri e bisogni tanto biologici che psicologici (cfr. pp. 284 sgg.; Kluckhohn 1942, pp. 150 sg.; Malinowski 1925). Va cioè prestata attenzione alla dimensione soggettiva del sacro, una dimensione che sfugge a ogni analisi quantitativa e si rende esplicita e “comprensibile” attraverso l’osservazione diretta, “partecipante”, attenta a “guardare i gesti compiuti ed ascoltare le parole pronunciate” (Dewitte 2006, p. 38), quasi “emotivamente coinvolta” (nel senso più prudente dell’Erlebnis diltheyano), della vita religiosa tradizionale. Qualunque soddisfacente analisi del simbolismo religioso deve, infatti, prevedere una “partecipazione” personale alle attività rituali e al loro farsi nel prima e nel dopo. Come dire che la “pesantezza” del simbolismo rituale deve essere direttamente sostenuta, vissuta, partecipata, presuppone un “farsi l’altro” mai interamente possibile ma necessariamente da perseguire, nell’illusione di poter cogliere i sistemi di pensiero, la visione del mondo, i principi etici e sociali, soggiacenti agli apparati simbolici e denunciati attraverso questi. I simboli rituali non sono sempre (non lo sono quasi mai) immediatamente comprensibili, riferibili a realtà empiricamente osservabili. Come ha efficacemente rilevato Bellah (1970, cit. in Hervieu-Legér 1993, p. 33) Le regole della scienza empirica si applicano anzitutto ai simboli che cercano di esprimere la natura degli oggetti. Ma ci sono anche simboli non oggettivi che esprimono i sentimenti, i valori e le speranze degli individui, o che organizzano e regolano il flusso delle interazioni fra i soggetti e gli oggetti, o che tentano di riassumere nella sua totalità il complesso delle relazioni soggetto-oggetto, oppure che designano il contesto e i fondamenti di questo insieme. Questi simboli esprimono anche la realtà e non possono essere ridotti a enunciati empirici.

L’individuo di fatto ricerca nella dimensione del sacro sì un riconoscimento di sé e degli altri, ma anche un con-

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tatto diretto con il trascendente, il “totalmente altro” (Otto 1936), la “potenza” (Van der Leeuw 1956) che lo gratifica nel presente e ne soddisfa bisogni e attese future (cfr. Spiro 1966, pp. 284 sgg.), che lo salva “dal rischio vitale di non esserci nella esistenza storica” (De Martino 1995a, p. 63). Nei riti e per mezzo dei riti “viene riconosciuta la presenza del numen. Il contatto con le fonti creatrici della vita rinvigorisce e stimola l’uomo all’azione” (Wach 1969, p. 53). I simboli esibiti nel rito agiscono, infatti, profondamente sulla dimensione psichica, orientano e riordinano le pulsioni emotive, rispondono all’esigenza escatologica strutturale all’esistenza umana (Tillich 1947, p. 23). Riti e miti cioè “ripetono l’eterna domanda: Perché? Perché siamo qui? Da dove veniamo? Perché ci comportiamo in un certo modo? Perché si muore? – domande che la risvegliata curiosità intellettuale dell’uomo è pronta a porre e alle quali è pronta a rispondere in un linguaggio immaginativo, cioè simbolico” (Wach 1969, pp. 50-51). Le festa, dunque, in quanto rito religioso, si configura come lo spaziotempo elettivo in cui gli uomini, la comunità e il singolo fedele, comunicano con il trascendente, esprimendo la loro fragilità e la loro assoluta dipendenza dal sacro, richiedendo protezioni e garanzie. Le feste nel ricorrere ai santi e nell’iterazione della loro struttura offrono risposte forti, tanto alla comunità quanto all’individuo, proponendo soluzioni positive a problemi irresolubili nella prassi, rispondendo, cioè, in maniera comprensibile, alle ansie, alle inquietudini, ai dilemmi fondamentali dell’esistere (cfr. Kligman 1981, p. XIII; Kurtz 1995, p. 15). Alla radice della festa religiosa tradizionale permane, dunque, l’esigenza dell’uomo di accostarsi al sacro ed esperirlo in una dimensione collettiva e condivisa, in un tempo e in un luogo deputati e segnati, autentici in quanto vissuti con e in simboli capaci di captare la potenza del divino (Meslin 1972, p. 5), di offrirsi come “porte reali” (Florenskij 1922) di una visione autentica della realtà. La festa, infatti, è una forma espressiva della religiosità dove si trovano riunite le condizioni che consentono a oggetti e a gesti, a suoni e a

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parole di esprimere sacralità: immagini, simulacri, acclamazioni, preghiere ecc., assunti e vissuti in quanto simboli rendono possibile un accesso diretto, tattile, con la potenza del sacro, consentono il manifestarsi sensibile e percepibile della presenza del divino (cfr. Isambert 1982, p. 25). La dimensione del sacro altrove indicibile, inaccessibile, inosservabile diviene così nel rito festivo parola, comunione, presenza. I riti festivi si fondano dunque sulla verità dei simboli. Simboli che trascendono la dimensione del linguaggio verbale e parlano di ciò che non può essere detto, consentono immediato e pieno accesso a una realtà altra da quella quotidiana ma non per questo vissuta come meno reale. Il rito si presenta, da questo punto di vista, “un momento di espressione di un “tutto” a livello comunitario, un atto di culto (…) capace di unificare in maniera profonda l’esperienza del reale” (Terrin 1999, p. 37). Potrebbe dirsi che nella partecipazione festiva “si sperimenta la certezza soggettiva di aver colto la dimensione soggiacente alla realtà apparente, sentita quasi come più reale della realtà stessa” (Ciattini 1997, p. 23. Cfr. Meslin 1972, p. 5; Needham 1981, p. 88; Isambert 1982, pp. 14 sg.). Nella festa si viene periodicamente a ricostituire, in altre parole, “lo scenario augurale che consente il recupero delle origini fondanti dei gruppi” (Giallombardo 2000, p. 193; cfr. Kurtz 1995, p. 94), “si è innalzati a un piano dove tutto è ‘come il primo giorno’, splendente, nuovo, e ‘primigenio’” (Kerényi 1970, p. 58). La festa è pertanto sempre un nuovo inizio, un momento di restituzione, di ricapitolazione e di rifondazione, è “il compimento della creazione, il caos ritrovato e rimodellato daccapo” (Van der Leeuw 1956, p. 307); “Rinascendo e ritemprandosi in quell’eternità sempre attuale come in una fontana della giovinezza dalle acque sempre vive, il mondo ha dunque la possibilità di ringiovanire e di ritrovare la pienezza di vita e di forza che gli permetterà di affrontare il tempo di un nuovo ciclo” (Caillois 1950, p. 99; cfr. pp. 94 sgg.). L’atto festivo, viene così a configurarsi come la più completa manifestazione dell’esperienza religiosa.

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Sacro e sistemi simbolici L’approccio funzionalista alla religione e al rituale, nelle sue molteplici sfaccettature dalla indubbia efficacia euristica, fondamentalmente non è interessato o rifiuta una definizione del sacro (essenzialista o fenomenologica) come “essenza” esterna, come “una realtà che sta dietro al mondo delle apparenze ed è completamente differente da esso” (Russel 1949, p. 10), avvertita come qualcosa di “totalmente altro” e che si esplica nel mondo per “ierofanie” (cfr. Van der Leeuw 1956, p. 29; Eliade 1948; Ries 1978, pp. 35 sgg.; Vidal 1990; Otto 1936; James 1902; Caillois 2001, in partic. pp. 30-32), cioè di una realtà trascendente, la realtà “autentica” e originaria degli dei, all’interno della quale e solo all’interno della quale, fenomeni, accadimenti, esperienze possono e devono trovare un senso. Senza tuttavia dover riconoscere la reale “esistenza” dell’Altro assoluto, si può e si deve riconoscere il valore della “credenza”, della “dichiarazione di fede”, espressa e professata dagli individui (Kolakowski 2006; Dewitte 2006); riconoscere cioè l’esistenza “per chi è religiosamente impegnato” di “un mistero che non si può spiegare”, di “una potenza che si manifesta” (de Martino 1953-54a, p. 53), di una “fede” che accetta la presenza “al di là delle realtà della vita quotidiana” di “realtà più ampie che la correggono e la completano” (Geertz 1973, p. 142. Cfr. Lowie 1924, in partic. capp. XIIXVII). Il sacro, in ogni caso, che lo si voglia assumere come esperienza reale del divino (la “ierofania”, la “potenza”, il “mysterium tremendum”), ovvero come immagine psichica, o ancora come ipostasi della società, si presenta come una dimensione ambigua, irriducibile e fondamentalmente inesplicabile e solo la sua “attualizzazione”, la religione appunto con il suo contenuto di istituti, dogmi, credenze e riti può essere oggetto di analisi e di ricostruzioni storiche. Non si tratta di sostenere un’irriducibilità “alla scienza” dei fatti religiosi che, in quanto fatti, sono gnoseologicamente osservabili e sperimentabili, quanto la difficoltà di produrre una soddisfacente e organica concettualizzazione

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dell’esperienza del “sacro” che sta a monte di questi e resta propria della dimensione soggettiva e inconscia (pur sempre culturalmente “orientata”). A fronte della difficoltà di circoscrivere una definizione transculturale del sacro, come una “categoria” del pensiero (Hubert, Mauss 1909, p. XXI. Cfr. Ries 1978, pp. 17 sgg.) “pensée telle quelle dans tous le contextes culturels” (Isambert 1982, p. 246), si può solo riconoscere che “quelle que soit l’acception sous laquelle on veut envisager le mot, le Sacré est, pour l’être humain, une incontestable réalité” (Boyer 1992, p. 7), resta cioè “una forza con cui l’uomo deve fare i conti” (Caillois 1950, p. 16), una “realtà ultima” da cui la vita trae potenza e forza (Eliade 1948). Non è d’altronde l’esperienza a-storica del sacro, che può anche considerarsi, nella sua molteplicità, comune a tutte le religioni e a tutti gli uomini, ma i suoi effetti/fatti derivati e le loro articolazioni e interpretazioni, molteplici e diverse in ogni cultura in ragione di ambienti e storie differenti, l’oggetto dell’indagine storica e socio-antropologica; e non è decisivo alla comprensione dei fatti, ovvero della storia del loro farsi fenomenico, delle esigenze esistenziali cui rispondono e delle funzioni che essi detengono all’interno della società – prima d’ogni altra a quella di produzione e riproduzione della struttura sociale – giungere a una comprensione o a una definizione dell’esperire soggettivo e della dimensione fenomenologica originaria del vissuto (cfr. Filoramo, Prandi 1987, pp. 31 sgg.). Solo attraverso lo studio dei sistemi simbolici che si producono e ri-producono nella società e che la governano si può risalire alle ragioni storiche e operative del loro farsi. Lo studio della cultura si fonda cioè sullo studio diretto, “in azione” (Radcliffe-Brown 1952, p. 184) delle produzioni sociali: se infatti la cultura e il simbolico possono essere intesi come una rete di significati – miti, rappresentazioni, credenze, valori, idee, modi di pensare ecc. – prodotta dagli attori e che attraversa la struttura sociale, è anche vero come tale rete sia sfuggente e, in molti casi, non sia di fatto granché visibile, cioè osservabile

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fino a che non viene incarnata in qualche forma di azione (Navarini 2003, p. 14. Cfr. Swidler 1986).

Vi sono studiosi che hanno posto maggiore attenzione all’esplicito significato religioso dei simbolismi rituali e hanno fatto notare “che gli atti rituali conferiscono a concezioni e valori cosmologici culturalmente importanti una forza emotiva persuasiva, unificando in tal modo i partecipanti in una comunità autentica”. Anche in questo caso “il rito è considerato indubbiamente da un punto di vista sociologico, ma nei termini del suo valore esistenziale e dei suoi significati espliciti più che nella sua grammatica puramente conoscitiva, delle sue dinamiche psicologiche o dei suoi riferimenti puramente sociali” (Zuesse 1994, p. 483). Tra questi Kluckhohn (1942) che, partendo dall’analisi del rapporto intercorrente tra mito e rito, giunge a osservare: “Il mito è un sistema di simboli espressi in parole, mentre il rito è un sistema di simboli espresso in oggetti e atti. Entrambi sono processi simbolici per affrontare lo stesso tipo di situazione secondo le stesse modalità affettive” (pp. 145-146). Tanto il mito che il rituale “soddisfano un gruppo di bisogni individuali identici o strettamente connessi”. Essi sono adattivi dal punto di vista della società, poiché promuovono la solidarietà sociale, stimolano l’integrazione della società offrendo una espressione formalizzata dei suoi atteggiamenti-valori fondamentali, e forniscono uno strumento per la trasmissione di gran parte della cultura con modesta perdita di contenuto – proteggendo in tal modo la continuità sociale e stabilizzando la società.

Allo stesso tempo essi forniscono soluzioni culturali a problemi che tutti gli esseri umani affrontano. (…) Di fronte al bisogno, alla morte e alla distruzione tutti gli esseri umani provano un senso di fondamentale insicurezza. In una certa misura, ogni cultura è uno sforzo gigantesco per mascherare tutto ciò, per dare al futuro l’appa-

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renza della sicurezza rendendo l’attività ripetitiva, prefigurabile – “rendere il futuro prevedibile facendolo conforme al passato (Burke 1961)” (Kluckhohn 1942, pp. 150-151).

Dello stesso avviso Kurtz (1995, p. 97) che osserva: I riti risolvono i problemi della vita comunitaria in maniera consolidata, identificando il male, segnando confini ideologici e sociali, e rafforzando le istituzioni che li promuovono. In particolare i riti legano l’esperienza della vita ordinaria al sacro e pongono il dolore e la gioia nel contesto di una visione del mondo che struttura la vita dell’uomo e le conferisce un senso.

A prescindere dall’enfasi con la quale si vuole sottolineare la dimensione collettiva o soggettiva dell’esperienza religiosa, con tutto ciò che ne consegue dal punto di vista della funzione e del senso dell’atto rituale, emerge dunque con forza l’esigenza di accostarsi allo studio delle diverse forme della religiosità assumendole come un coerente “insieme di forme ed atti simbolici che riferiscono l’uomo alle ultime condizioni della sua esistenza” (Bellah 1964, p. 359). È questa dimensione simbolica che diviene chiave di accesso alla comprensione della religione per Clifford Geertz. Questa si configura per l’antropologo americano “come un sistema simbolico e come un meccanismo generale di integrazione delle idee e delle motivazioni entro un sistema di azione” (Zadra 1969, p. 35), un sistema che consente agli individui di iscrivere eventi ed esperienze in un certo ordine nel mondo dotandoli di senso (cfr. Willaime 2006, p. 181; Scheff 1977, p. 484). Geertz ( 1973, p. 115) definisce, infatti, la religione come un sistema di simboli che opera (o funziona), stabilendo profondi, diffusi e durevoli stati d’animo e motivazioni negli uomini per mezzo della formulazione di concetti di un ordine generale dell’esistenza e del rivestimento di questi concetti di un’aura di concretezza tale che gli stati d’animo e le motivazioni sembrano assolutamente realistici.

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I simboli sacri, intendendo con questo termine qualsiasi oggetto, atto, evento, qualità o relazione che serve da veicolo per una concezione, servono a sintetizzare l’ethos di un popolo – il tono, il carattere e la qualità della sua vita, il suo stile e il suo sentimento morale ed estetico, nonché la sua visione del mondo, l’immagine che ha di come sono effettivamente, le sue idee più generali dell’ordine. (…) I simboli religiosi esprimono una coerenza di base tra un particolare stile di vita e una metafisica specifica (anche se molto spesso implicita) e in tal modo si sostengono a vicenda con l’autorità presa a prestito l’uno dall’altro (p. 114).

I sistemi o complessi di simboli, in quanto modelli culturali, “sono fonti estrinseche di informazione” cioè costituiscono dei programmi per “l’istituzione dei processi sociali e psicologici che danno forma al comportamento collettivo” (p. 117). Essi si propongono come “modelli di realtà”: conferiscono significato, cioè forma concettuale oggettiva, a realtà sociali e psicologiche sia conformandosi ad esse sia plasmandole. (…) Modellano il mondo inducendo nel devoto una qualche serie specifica di disposizioni (tendenze, capacità, propensioni, abilità, abitudini, inclinazioni) che conferiscono un carattere definitivo al flusso della sua attività ed alla qualità della sua esperienza (pp. 119-121).

Attraverso i simboli religiosi, l’uomo, “mentre raggiunge il senso di una rivelazione definisce il senso di una direzione” (p. 120. Cfr. Lowie 1924). Se i simboli sacri inducono negli esseri umani delle disposizioni e, allo stesso tempo, formulano, per quanto indirettamente e in maniera non sistematica, delle idee generali di ordine tanto sociale quanto cosmico, può dirsi che “l’uomo dipende dai simboli e dai sistemi simbolici” (Geertz 1973, p. 126) in forma così rilevante da essere decisiva per le sue stesse possibilità esistenziali. Ancora una volta la dimensione rituale appare decisiva. Osserva infatti Geertz che è il fatto di

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impregnare un certo complesso specifico di simboli – la metafisica che formulano e lo stile di vita che raccomandano – di un’autorità persuasiva: questa è, da un punto di vista analitico, l’essenza dell’azione religiosa. Il che ci porta finalmente al rituale. È infatti nel rituale – cioè nella condotta consacrata – che si genera in qualche modo questa convinzione che le concezioni religiose sono veritiere e le direttive religiose sono valide. È in una specie di forma cerimoniale, (…) che gli stati d’animo e le motivazioni che i simboli sacri inducono negli uomini si incontrano e si rafforzano con le concetti generali sull’ordine dell’esistenza che essi formulano per gli uomini. In un rituale, il mondo come è vissuto e il mondo come è immaginato, fusi insieme sotto l’azione di un unico complesso di forme simboliche, si rivelano essere lo stesso mondo (…).

producendo una “trasformazione idiosincratica del senso della realtà” (pp. 142-143) nei termini proposti da Santayana che ritiene che il potere della religione consista: nel suo messaggio speciale e sorprendente e nella direzione che questa rivelazione imprime alla vita. Le prospettive che apre e i misteri che propone sono un altro mondo in cui vivere: e un altro mondo in cui vivere – che ci aspettiamo di entrarci interamente oppure no – è ciò che intendiamo con avere una religione (Santayana 1906, cit. in Geertz 1973, p. 111).

Esegesi Se il rito nasce come un “discorso” per simboli, che si articola in “paragrafi”, “frasi” e “parole” seguendo una logica priva di arbitrarietà (Leach 1971, p. 242. Cfr. Burkert 1979, pp. 78 sg.; Zuesse 1994, p. 490; Tambiah 1985, pp. 130-131), dove ogni oggetto, ogni gesto, ogni parola sono significativi (Miceli 1989b, p. 126) e tesi a trasmettere da una generazione all’altra conoscenze “necessarie” alla sopravvivenza, insieme a nozioni relative ai “rapporti tra gli individui, la natura dei gruppi sociali, le regole e le proibizioni” (Leach 1971, pp. 244-246, cit. in Scarduelli 2000,

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p. 38), è lecito domandarsi a quale livello agisca l’apparato simbolico, cioè quanta e quale consapevolezza di questo processo comunicativo, dei “valori” e delle “nozioni” trasmesse dai simboli rituali, risieda negli attori/fruitori del rito. In questo senso illuminanti restano le analisi di Turner (1967; 1986; 1986, in partic. pp.145 sgg.). Mi limiterò qui a ricordare che Turner ascrive una polivalenza semantica al simbolo e ne individua almeno tre livelli di significato: quello “esegetico”, quello “operazionale”, quello “posizionale”. Dove il primo deriva dalle interpretazioni indigene, il secondo si definisce nel rapporto con il contesto rituale (e sociale), il terzo si costruisce nel rapporto tra il singolo simbolo e gli altri simboli del sistema rituale (1967, pp. 43 sgg.). Particolarmente rilevante è il riconoscimento a livello del significato esegetico di due livelli, uno sensoriale e uno ideologico che, almeno parzialmente, consentono un recupero della dimensione emotivo-soggettiva. Il rito cioè, in quanto “sequenza complessa di atti simbolici” (p. 149), che comporta “un riferimento a credenze in entità o poteri mistici” (p. 43. Cfr. Zuesse 1994, p. 483), manipola in funzione sociale le emozioni individuali consentendo un passaggio dal livello sensoriale-soggettivo al livello ideologico-collettivo: “Mediante il processo stesso della performance ciò che in condizioni normali è sigillato ermeticamente, inaccessibile all’osservazione e al ragionamento quotidiani, sepolto nelle profondità della vita socioculturale, è tratto alla luce” (Turner 1982, p. 36. Cfr. Dilthey 1982). Il rito dunque presenta un livello di “consapevolezza” oggetto delle interpretazioni “indigene” (gli attori rituali sanno fornire delle spiegazioni di ciò che fanno) e uno “inconsapevole” desumibile dallo studioso di scienze sociali attraverso l’analisi di tutto il contesto socio-culturale (cfr. Rappaport 1968). La “verità” cui possono accedere gli agenti, al prezzo di un ritorno teorico su di essa, non sempre è “possibile”, è cioè “un modo di conoscenza pratico che non racchiude la conoscenza dei propri principi” (Bourdieu 1972, p. 253). Solo prestando la dovuta attenzione alle “con-

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dizioni sociali”, ovvero ai contesti di riproduzione dei “beni simbolici” (testi mitici e rituali, racconti, codici), alle forme della loro circolazione e del loro utilizzo, cioè “alla genesi e alla funzione”, si può raggiungere una interpretazione soddisfacente di questi (cfr. pp. 257-258). Da questo punto di vista solo l’antropologo – diversamente dalla maggioranza dei partecipanti – è in grado di collocare i riti e i simboli che osserva in un complessivo contesto sociale e culturale: in questo modo, può riconoscere i diversi significati che uno stesso simbolo possiede per le stesse persone in contesti e tempi diversi (nonché i significati simili di simboli differenti) (Beattie 1998, p. 123. Cfr. Evans-Pritchard 1956, pp. 123-143).

Senza arrivare a sostenere che “Il significato effettivo che i partecipanti attribuiscono al rito può considerarsi irrilevante” (Zuesse 1994, p. 490), è certo che la comprensione del rito non può limitarsi all’assunzione delle esegesi indigene che pure contribuiscono a restituirne quelle dimensioni narrativa ed emotiva e restano irrinunciabili per una piena comprensione di una cultura. D’altronde, osserva acutamente Bourdieu (1972, p. 189), “Ritenere che la scienza possa essere solo una concettualizzazione dell’esperienza comune, (…) significa identificare la scienza della società con una registrazione di quanto è dato così come si dà”. In contrapposizione “all’evidenza del senso comune”, l’oggetto scientifico va “conquistato attraverso un’operazione di costruzione che è anche indissolubilmente una rottura rispetto a tutte le rappresentazioni ‘precostruite’, come classificazioni prestabilite e definizioni ufficiali” (p. 187). Ogni “manifestazione” non esaurisce il suo senso nell’atto stesso del suo manifestarsi, il rito dice assai più di quanto ci mostra. Il senso, le ragioni, le funzioni delle azioni rituali vanno ricercate oltre “l’immagine” che immediatamente esse offrono di sé e oltre le letture (differenti, molteplici, contraddittorie, “politicamente orientate” e, a volte, “scandalosamente” assenti) che gli stessi partecipanti ne danno, con

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buona pace dei detrattori dell’ideologia del senso (cfr. Fabre 2001, p. 115). I simboli rituali non “rivelano” verità esplicite ma propongono verità “velate”. Lo “svelamento” richiede un’analisi paziente che partendo dall’osservazione e dall’ascolto dei contesti (degli uomini!), attinge a saperi costruiti in ambito scientifico distinguendo tra funzioni “manifeste” e “latenti”, “reali” e “apparenti”, tra modus operandi e opus operatum, tra finalità “estrinseche” e “intrinseche” (cfr. Merton 1957; Spiro 1966, pp. 287 sgg.; Valeri 1981, pp. 222 sgg.; Bourdieu 1972, pp. 206, 221-222, 274 sgg.; Dewitte 2006, pp. 38 sgg.). Come ricordano Marcus e Fischer (1986), per larga parte degli antropologi i rituali, in quanto eventi pubblici, sono come testi prodotti da una certa cultura che gli etnografi sono in grado di leggere sistematicamente. Quindi sono molto di più empiricamente accessibili come ciò che viene “detto” collettivamente e pubblicamente, in contrasto con il “non detto”, del sottinteso, dei taciti significati della vita di tutti i giorni (p. 125).

Occorre dunque cimentarsi in “un’analisi del sistema di significati incarnati nei simboli che formano la religione vera e propria, e quindi [inferire] il collegamento di questo sistema ai processi sociali, culturali e psicologici” (Geertz 1973, p. 158), poiché le cerimonie pubbliche a carattere religioso “rappresentano non solo il punto in cui per il credente convergono gli aspetti disposizionali e concettuali della vita religiosa, ma anche il punto dove l’osservatore distaccato può cogliere più prontamente l’interazione tra di essi” (p. 143), il luogo dove “al di sotto dei messaggi superficiali” può essere colta “l’ideologia profonda del gruppo e quindi, ancora, il sistema socio-economico con cui quest’ultima si correla” (Miceli 1989b, p. 123). Proprio perché il rito agisce a livello “inconsapevole”, mostrandosi allo studioso di scienze sociali come uno specchio dove si riflettono la storia e il vissuto degli uomini e delle comunità (cfr. Terrin 1999, p. 11), la sua interpreta-

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zione non può essere limitata all’assunzione delle credenze e delle elaborazioni coscienti dei soggetti interessati, è necessaria un’analisi delle pratiche festive e del loro simbolismo che da un lato assuma i risultati dello strutturalfunzionalismo mentre dall’altro sviluppi una ricerca storico-comparativa e storico-religiosa, dove storicizzare significa cercare di ricostruire il come e il perché “si generarono nel quadro di una civiltà religiosa proprio quel nume e proprio quel rapporto” (de Martino 1953-54b, p. 77). A questo fine occorre prestare costante attenzione alle dinamiche che consentono il passaggio dalla dimensione soggettiva a quella collettiva cioè al processo della “messa in forma” in immagini e simboli sociali dell’esperienza. Si tratta, cioè, “di rispettare la maniera in cui l’esperienza si dà e si dice e di considerare che il linguaggio che essa parla per dirsi, e che si è data nel corso dei secoli, costituisce una modalità privilegiata di accesso alla realtà (all’oggetto) a cui essa costitutivamente si rapporta e senza la quale non potrebbe apprenderlo” (Dewitte 2006, pp. 51 sgg.). In altre parole solo affiancando all’analisi sociale una prospettiva diacronico-comparativa si può raggiungere una persuasiva lettura dei rapporti intercorrenti tra vicende storiche, vita sociale e pratica rituale. Come rileva Willaime (2006, p. 188): certo, una cultura religiosa non esiste senza organizzazioni che la regolino e senza individui che la esprimano, ma questa non è una ragione per ridurre l’analisi di una religione a quella delle sue organizzazioni o a quella dei suoi attori: un universo religioso è anche un lavoro permanente di rilettura e reinvenzione a partire da un materiale simbolico ereditato. Nella religione c’è dunque una consistenza simbolica e una profondità storica. Una sociologia delle religioni che si limitasse a una sociologia della partecipazione religiosa – e cioè che prestasse attenzione unicamente all’evoluzione attuale delle pratiche e delle opinioni religiose individuali- sarebbe assai povera. Parimenti, una sociologia delle religioni che si limitasse all’analisi delle funzioni sociali assolte da una certa religione sarebbe fortemente riduttrice del proprio oggetto.

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Il rito festivo: memoria e contingenza Sulla base di quanto precedentemente osservato può dirsi che il rito festivo è un, se non il “luogo culturale” per eccellenza di affermazione individuale e sociale in un quadro di rifondazione cosmica, di partecipazione e di relazione, di risoluzione di conflitti (emotivi e/o sociali), di sospensione/sovversione e a un tempo di riproposizione di ruoli, rapporti e gerarchie, di soddisfacimento di esigenze economiche, sociali e culturali, di produzione e ri-produzione di sensi (individuali e collettivi) in una dimensione spazio-temporale percepita come “altra” da quella quotidiana. Mentre appaga la sete di sacro e di garanzie di benessere e continuità, ribadisce i principi normativi e i valori etici che regolano e animano la comunità; riafferma le regole cui tutti “dovrebbero” aderire e conformarsi, riattualizza la memoria storica della comunità, restituendo senso a una quotidianità precaria e conflittuale e ribadendo un’immaginaria identità culturale costantemente minacciata. Attraverso i riti festivi, infatti, si ri-creano, si ri-nominano e si ri-ordinano lo spazio e il tempo come prodotti culturali e si ri-propongono le coordinate etiche e relazionali avvertite come costitutive della propria identità individuale e comunitaria, si scandiscono i passaggi della vita individuale e collettiva entro una cornice cosmica che contribuisce ad amplificarne il senso e a ricondurre mutamenti e trasformazioni entro un ordine generale dell’esistere (cfr. Van Gennep 1909; Turner 1969; Wall, Ferguson 1998). Assunto come “testo”, come espressione coerente e non arbitraria di un sistema culturale, e confrontata con la prassi quotidiana, la festa consente pertanto di intendere a livello profondo la vita sociale di una comunità e le relazioni tra le sue componenti, di leggerne le attese e le contraddizioni, di coglierne i segni del passato, di comprenderne il presente e, in certa misura, di prefigurarne il futuro. Lo scarto tra rappresentazione di sé, comportamento rituale e vita d’ogni giorno è evidente, particolarmente evidente nella società contemporanea. Le tradizioni legittimate e “na-

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turalizzate” dal e nel rito, ribadendo il modello cui la società dovrebbe conformarsi pena la sua stessa dissoluzione, mettono in chiara evidenza, per l’osservatore esterno, le contraddizioni che l’azione sociale e individuale continuamente produce nel quotidiano. Altrettanto evidente è il fatto che la distanza tra l’ordine tradizionale espresso dal rito e la prassi concreta non è sempre immediatamente rilevata dai fedeli/attori sociali. Essi spesso tendono a ricondurre scelte e comportamenti, che appaiono devianti e contraddittori all’osservatore esterno, alle norme e alla morale tradizionali, producendo così una trasformazione dall’interno che tende a tradursi essa stessa, nel lungo periodo e nel trapasso generazionale, in tradizione (cfr. Hobsbawm, Ranger 1983). Non può essere altrimenti. In assenza di una morale “tradizionale”, di un termine di paragone solido e chiaro, di un indirizzo sancito dalla “pratica secolare”, ogni scarto, ogni devianza, infatti, non sarebbe più tale, finendo con l’autolegittimarsi. Le “contraddizioni”, segnalate in apertura, tra memoria e contingenza, tra volontà e possibilità, tra aspettative ideali e prospettive reali ecc., che si registrano all’interno della società aluntina, tanto a livello della festa che in quello della vita quotidiana, non sono diverse da quelle che hanno progressivamente inquietato la società meridionale nel suo complesso, almeno a partire dagli anni Sessanta. Si tratta di una dialettica evidente, direttamente osservabile, tuttavia non facilmente e immediatamente perimetrabile e misurabile (cfr. Pace 2007, pp. 69 sgg.), che richiede l’abbandono del “terrain de statistiques de pratique, voir de sondages, pour se consacrer entièrement à l’analyse qualitative de faits jugés significatifs” (Isambert 1982, p. 12), fatti che vedono come agenti-pazienti, non secondariamente, le generazioni più giovani, quelle che non hanno direttamente conosciuto gli stili di vita antecedenti e immediatamente successivi al secondo conflitto mondiale. Stili di vita che ancor più felicemente della saggistica antropologica, ci vengono restituiti alla memoria – al di là di certi atteggiamenti nostalgici che pure, a volte la caratterizzano – da un’ampia serie di prodotti letterari (cfr. Buttitta 2005; Paulis 2006).

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Di fatto a partire dal dopoguerra e con maggior forza dagli anni Sessanta, come ha rilevato tra gli altri Lanternari, “nel nome della tecnologia, del consumismo, del cosiddetto ‘progresso industriale’” (1976a, p. 12), si è avviato in Italia un processo di “sviluppo economico” che ha avuto tra i suoi effetti il livellamento e l’appiattimento, e in certe aree una vera e propria cancellazione, delle culture locali. A fronte della progressiva affermazione di una “cultura di massa”, particolarmente sostenuta dai mass-media, si sono tuttavia registrate sin da subito, con maggior enfasi e partecipazione locale in questi ultimi anni, iniziative tese alla salvaguardia e valorizzazione delle peculiarità (o presunte tali) socio-culturali: dai costumi ai prodotti tipici, dai riti festivi alle musiche “tradizionali” (cfr. Lanternari 1980, p. 10; 1976a, pp. 14-15). Allo spontaneo processo di riaffermazione e riscoperta di usi e costumi, scomparsi o avvertiti a rischio di scomparsa, da parte delle comunità locali variamente organizzate in associazioni, comitati, congreghe (non di rado guidate da “intellettuali” localmente radicati) (cfr. Bravo 2001, pp. 189 sgg.; 2005, pp. 21-80), si sono presto affiancati (finendo spesso con il prevalere), vari interessi economici e istituzionali diretti a manipolare a proprio vantaggio le manifestazioni culturali tradizionali, a sostenere “il revival folkloristico dando vesti turistiche ai fenomeni popolari” e “la moda del folk e del rustico”, a esaltare acriticamente “i valori associativi della cultura tradizionale” (Lattanzi 1983, p. 89). Una rinascita quindi di tradizioni religiose popolari dai connotati ambigui che ha assunto aspetti “inconsapevolmente oppositivi” e “decisamente alienanti” (Lanternari 1976a, p. 31). Il recupero, il sostegno e la valorizzazione dei riti festivi –avvertiti come contenitori di identità, dell’ordine e dell’etica tradizionali, dalle comunità che li agiscono e li promuovono – sono divenuti precocemente oggetto di intervento “borghese”: per il “mercato” che li ha visti come una merce, come un momento di esibizione del tipico e del folkloristico potenzialmente vendibile quando accompagnato da adeguate strategie comunicative e di marketing; e, conseguentemente, per le istitu-

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zioni che hanno voluto vedere nelle feste, in primo luogo, un bene “culturale” (?) per turisti, capace di produrre effetti di crescita sulle economie locali. Così, accanto alle iniziative di salvaguardia, localmente promosse e agite, protese verso la riaffermazione della propria identità culturale e delle sue espressioni materiali e immateriali (e tra queste, appunto, le feste avvertite come “necessarie” al soddisfacimento di esigenze e bisogni altrimenti inappagabili), si sono imposte con la loro oscena volgarità forme molteplici di snaturamento e di recupero consumistico di tradizioni e simbologie folkloriche destinate alla fruizione di soggetti estranei ai contesti d’uso (p. 32. Cfr. Lombardi Satriani 1973; Palumbo 2003; Rami Ceci, a cura, 2005). In sostanza i processi appena delineati hanno finito con il determinare la ripresa e la invenzione delle feste, in un quadro complessivo di stravolgimento dei significati “sia per il ripensamento attuale della tradizione, in esse manifestato, sia per il cambiamento del contesto storico e sociale della manifestazione” (Ciattini 1997, p. 287), producendo una sorta di ritorno caricaturale della festa del passato (Isambert 1982, p. 125). Se quanto detto risulta ampiamente sperimentabile, non è possibile, invece, partendo dall’analisi di larga parte dei contesti festivi siciliani, aderire integralmente a quanto Ciattini (1997, p. 287) afferma, proseguendo: anche nei casi in cui le feste sono state celebrate con continuità e con attaccamento alla tradizione, spesso hanno perduto il loro particolare smalto, la loro magnificenza e la loro capacità di coinvolgimento, proprio per il fatto che sono riproposte in un contesto sociale del tutto diverso e, talvolta, addirittura loro estraneo.

Di fatto l’intensità pervadente dei processi prima segnalati non ha investito – o non è riuscita a investire per l’opposizione di forze endogene (e tra queste anche le Chiese locali) e in ragione della “natura” e delle “motivazioni” che le sostengono –, nella loro interezza, le feste religiose

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tradizionali. È questo, indubitabilmente, il caso di numerose occorrenze (feste patronali, pellegrinaggi), non solo siciliane, che hanno mantenuto sostanzialmente immutati i loro iter rituali: così, per esempio, ad Accettura per la festa di san Giuliano, che prevede il trasporto dal bosco e l’erezione di un albero al centro dell’abitato (Bronzini 1979) e a Sonnino per la festa della Madonna delle Grazie, che consiste in una processione di torce lungo i confini comunali (Lattanzi 1983). Lanternari ha scritto, relativamente alla festa del Maggio di Accettura, che perso ogni legame con la vita agraria, gli abitanti del paese, “con questo rituale esplicitamente non fanno altro che ripetere una tradizione che li contraddistingue da tutti gli altri paesi vicini. In questo complesso cerimoniale trovano una grande occasione per riconoscersi dunque dagli “altri”. Lo celebrano perché lo celebravano i loro antenati. E oggi sarebbe per loro una rinunzia a se stessi se dovessero spegnere la tradizione in oggetto. Dunque il tema centrale, oggi l’unico immediatamente consapevole e funzionale, di una celebrazione siffatta è quello del suo valore socializzante: essa fornisce il collaudo della identità etico-sociale e culturale degli accetturesi” (Lanternari 1976a, p. 118). Non diversamente Lattanzi, analizzando la processione delle torce di Sonnino e nel sottolinearne la funzione “delimitatrice”, osserva che nel rito: “attualità e tradizione si fondono, per rinvigorire un’istituzione culturale di estrema importanza per il comune, e la cui funzione non ha niente di anacronistico, niente che possa suscitare l’idea di avere a che fare con un ‘relitto folklorico’”, che la festa sonninese si configura come “processo di produzione di valori che vede la comunità come soggetto di azione e la realtà come spazio cui attingere gli elementi per definirsi culturalmente” (Lattanzi 1983, p. 68). I due autori, dunque, sembrano concordare sul fatto che il rito festivo vive perché continua a essere “buono per il gruppo” (Burkert 1979, p. 79), cioè che tra i principali motivi/effetti che ne garantiscono la sua perpetuazione, vi è la costituzione di una forte identità comunitaria attraverso la segnalazione di una

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differenza dagli “altri”, di una delimitazione verso l’esterno, attraverso la costituzione di confini simbolici che la distinguono da un’altra, e verso l’interno, attraverso la marcatura dello spazio sociale in base a competenze e differenze specifiche e l’individuazione dei diversi ruoli (Pace 2007, p. 11). Come accade nella festa dell’albero di Accettura e in quella delle torce di Sonnino, anche a San Marco d’Alunzio, attraverso la grande festa di san Basilio, gli aluntini propongono a se stessi uno spazio-tempo per una comunicazione inter-personale regolata, definendo confini e ponendo un argine al sempre incombente processo di dissoluzione culturale e disgregamento sociale. Uno spazio-tempo che si ricapitola nel “simbolo” della festa, nel micro-cosmo della tôrc’i Sammasili, quasi “emblema” durkheimiano per la società aluntina e strumento di espressione della devozione e di comunicazione con la divinità. Mentre ribadiscono a se stessi come si dovrebbe/vorrebbe essere, propongono verso “l’esterno” un modello, uno “stile di vita” coerente e alternativo a quelli che essi rinvengono nella stessa vita di ogni giorno, nei rapporti inter-comunitari e istituzionali, nei mezzi di comunicazione di massa. Contro i rischi connessi a un assorbimento in un sistema avvertito come disfunzionale e alienante, contro il rischio di vedere nullificato e svilito il proprio mondo, di veder naufragare il proprio universo di certezze e di principi etici, si ricorre a “comportamenti culturalmente definiti” che mettono in evidenza i problemi posti dall’attuale vita quotidiana, cioè a “una rivalutazione in chiave culturale-esistenziale del patrimonio tradizionale, di comportamenti ed istituzioni ritenuti più efficaci per il controllo del quotidiano” (Lattanzi 1983, pp. 88-90. Cfr. Clemente, Mugnaini, acura, 2001, p. 192; cfr. Di Nola 1976, p. 57). Nel richiamare, tuttavia, l’evidente e necessario valore di socializzazione e di ri-produzione e ri-affermazione dell’identità dei riti festivi, si rischia, ancora una volta, di trascurare quegli aspetti di soddisfacimento emotivo, di dialogo con il sacro, di “irrazionalità” che pure nella festa tradizionale sussistono evidenti; di dimenticare cioè la potenza del rito, co-

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me si è precedentemente cercato di chiarire, di orientare entro percorsi leggittimi e condivisi pulsioni altrimenti incontrollabili che finirebbero con il determinare il disfacimento psichico, prima che della comunità, dell’individuo. Come riassume Tullio-Altan (1998, p. 80): sul piano della prassi, mentre la razionalità si esprime nel lavoro che produce beni economici e servizi di ogni genere e tipo, che fanno dell’ambiente naturale un oikos accogliente e vivibile, l’esperienza simbolica si esprime come rito, inteso in senso lato, il quale non produce cose ma stati d’animo che favoriscono tanto la coesione e la solidarietà comunitaria, quanto la fruizione di forme estetiche molteplici, linguistiche, musicali e sceniche e coreografiche, così come l’esperienza del sacro.

Ad Accettura, come a Sonnino, come a San Marco, come ancora oggi in molti altri luoghi di Sicilia e non solo, nelle grandi feste pubbliche, “in cui sono coinvolti una vasta gamma di stati d’animo e di motivazioni da un lato, e di concezioni metafisiche dall’altro, che plasmano la coscienza spirituale di un popolo” (Geertz 1973, p. 143), si trovano soluzione alle angosce esistenziali, si ritrovano ordine e senso all’esistenza, si dimenticano frustrazioni e disagi, si supera il senso di irrilevanza e impotenza individuali, si riconquistano ruoli e pertinenze, si diviene padroni di sé e del mondo, si mette ordine, si classifica, si stabiliscono priorità, si attinge il senso di ciò che è importante e di ciò che è secondario, permettendoci “di vivere in un mondo ordinato e non caotico, (…) di sentirci a casa nostra in un mondo che altrimenti si presenterebbe ostile, violento, impossibile” (Terrin 1999, p. 21). Come sottolinea Pace (2007, pp. 39-40. Cfr. Luhmann 1982) la funzione specifica della religione è quella di essere un medium della comunicazione che rende determinato un mondo di senso indeterminato, riuscendo, in tal modo, a ridurre la contingenza dell’ambiente in cui gli individui vivono, a livelli più tollerabili. La religione sembra essere così l’unico subsistema capace di rispondere a domande, esigenze, problemi di senso

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soggettivo che nessun altro sistema è in grado di elaborare con analoga efficacia. Insomma, il codice di comunicazione della religione permette di parlare della società differenziata e del mondo diviso come se fosse unito e fosse un tutto fondato sull’idea di un dio inteso come perfezione ed eternità in un mondo dominato dalla contingenza e dall’infinita variabilità. La funzione, allora, che la religione svolge, non è più integrativa, ma interpretativa. Cioè, per gli individui essa rappresenta una risorsa di significati che consentono di immaginare unito ciò che in realtà e diviso, assoluto ciò che è relativo.

Attraverso quanto detto non ho voluto declinare un elogio della tradizione, proporre un panegirico dell’identità perduta, perorare la causa di un necessario ritorno al sacro e alla festa, come momento di rifiuto di ogni impegno politico e sociale. Né vorrei incorrere nel rimprovero che Robert levava dalle pagine di Témoignage chrétien: “Vous voulez laisser au peuple ses fêtes. Mais de quelles fêtes e de quel peuple s’agit-il? Ce langage vous met en curieuse compagnie: avant Hitler et Pinochet, (…), Voltaire, Napoléon et les grands carnassiers du XIXe siècle l’ont déjà prétendu” T R A D U R R E (1974, p. 15, cit. in Isambert 1982, p. 143). Nessuna paura della diversità, dell’alterità, della novità e del sincretismo culturale e religioso anima queste pagine e il mio quotidiano operare, tutt’altro. Mi limito piuttosto a registrare che in assenza di modelli coerenti, omogenei, misurati sulle reali esigenze e prospettive degli individui, l’unica strada percorribile, forse disperatamente percorribile in assenza di scelte possibili, resta l’adesione ai modelli proposti dalla tradizione e dai suoi riti religiosi, i soli, che configurandosi come principi di coerenza, sembrano ancora contenere nel loro sacrale ordinamento “un programa, un dogma, una visión del mundo” (Widegren 1945, p. 190). Oggi più che mai, mi sento di dire con Kolakowski (2006, pp. 20-23): Si pone la questione se la società sia capace di sopravvivere e rendere tollerabile la vita ai suoi membri nel caso in cui il sentimento del sacro e il fenomeno del sacro fossero eliminati ovunque. Si pone la questione se certi valori, la cui forza è ne-

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cessaria per la durata stessa della cultura, possano sopravvivere senza radicarsi nel regno del sacro, nel senso proprio del termine. (…) Quale che ne sia stata l’origine, il sacro ha fornito alla società un sistema di segni destinato non solo a identificare i fenomeni, ma anche a conferire ad essi un valore – un valore proprio di ognuno di questi fenomeni – legandoli tutti a un ordine diverso, inaccessibile alla percezione diretta. I segni del sacro aggiungevano, per così dire, il peso dell’ineffabile a ogni forma data della vita sociale. Non c’è dubbio che il sacro abbia così svolto un ruolo conservatore. L’ordine sacro, inglobando realtà profane, non aveva cessato di produrre, implicitamente o esplicitamente, il messaggio che dichiarava: “È così, e non può essere altrimenti”. Semplicemente affermava e stabilizzava la struttura della società, le sue articolazioni, il suo sistema di forme, dunque necessariamente le sue ingiustizie, i suoi privilegi, i suoi strumenti istituzionali di oppressione. È vano chiedersi come l’ordine sacro imposto alla vita profana possa essere mantenuto senza che ne sia mantenuta la forza conservatrice. Questa forza non gli sarà mai sottratta. Il punto è sapere piuttosto come la società umana possa sopravvivere senza la presenza di forze conservatrici, cioè senza la tensione perpetua tra la struttura e lo sviluppo.

1 Quanto osservato in ordine ai rituali festivi è solo una, forse neanche la più cogente, tra le tante questioni che animano l’attuale dibattito demo-antropologico sulle riviste e sui libri, nei convegni e nelle stesse aule universitarie: titoli come Oltre il folklore. Tradizioni popolari e antropologia nella società contemporanea (Clemente, Mugnaini, a cura, 2001) e Beethoven e le mondine: ripensare la cultura popolare (Dei 2002), possono bastare da soli a dare la misura di discipline (la Demologia, la Antropologia, la Sociologia) sempre più incerte, volte alla ricerca di strumenti teorico-metodologici nuovi o rinnovati, che si mostrino adeguati al confronto con una modernità sempre più “liquida” (cfr. Bauman 2000), frammentata in sub-sistemi e priva di centri propulsivi di produzione del senso chiaramente circoscrivibili e identificabili (cfr. Luhmann 1982). 2 Tutti i dati sono desunti dal rilevamenti ISTAT 2001. 3 L’ampia partecipazione della popolazione aluntina alle pubbliche pratiche di culto è fenomeno “direttamente osservato”. In assenza di dati statistici sul Comune possiamo fare comunque riferimento, con le debite cautele, ai risultati dell’indagine sulle “Tipologie religiose e culturali in Italia” promossa nel 1994 dall’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano. Dal questionario somministrato a 875 soggetti residenti in 21 Comuni siciliani la adesione all’insegnamento proposto della Chiesa cattolica risultava una essenziale compo-

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nente culturale: il 64 per cento dichiarava, infatti, di credere “in Gesù Cristo e negli insegnamenti della Chiesa cattolica” e il 25,5 per cento “in Gesù Cristo e solo parzialmente negli insegnamenti della Chiesa cattolica” (Canta 1995, p. 55). Dati questi ultimi che aumentano, peraltro, in percentuale nei comuni tra i 2.000 e i 5.000 abitanti. Rilevante però è il fatto che a fronte di un 92 per cento degli intervistati dichiarante che “Gesù Cristo è il figlio di Dio” e di un 86 per cento concorde sul fatto che “la Parola di Dio è rivelata nella Scrittura”, solo il 71,4 per cento afferma di ritenere la Chiesa cattolica sia una organizzazione voluta e assistita da Dio (p. 62), lasciando così trasparire, a mio avviso, la presenza di un esercizio dell’autorità sacerdotale che spesso confligge con le esigenze e le aspettative dei fedeli. Va inoltre segnalato il fatto che un’ampia percentuale degli intervistati, anche di coloro che si possono definire in possesso di un alto indice di religiosità, denunzia una serie di credenze contraddittorie: il 31,9 per cento crede nel malocchio e nella maledizione, il 30 per cento nella possibilità di mettersi in contatto con i morti, il 27,5 per cento negli influssi degli astri, il 25 per cento nell’esistenza di spiriti e “potenze” in grado di influenzare la vita individuale e collettiva (pp. 100 e 106). Ulteriore conferma questa dell’ampia diffusione in Sicilia di “superstizioni” e credenze magiche (Guggino 1978; 1986; 1993; 2004, pp. 278-330, 354-367; 2006). 4 Definizione questa di Durkheim, variamente ripresa sviluppata e/o sintetizzata dalla letteratura successiva. Per esempio: “una religione è un sistema più o meno coerente di credenze e pratiche riguardanti un ordine soprannaturale di esseri, forze, luoghi o altre entità: un sistema che per i suoi aderenti ha implicazioni attinenti il comportamento e il benessere, che essi, in gradi e modi diversi, prendono sul serio nella vita privata e collettiva” (JJohnson 1970, p. 505); la religione è “un sistema sociale i cui partecipanti affermano di credere in uno o più agenti soprannaturali di cui bisogna cercare l’approvazione” (Dennet 2006, p. 9). Più articolata e condivisibile mi pare la definizione di Spiro (1966): “La religione ha una funzione (reale) nel ridurre l’ansia per il raggiungimento di scopi (specialmente nei casi in cui non siano disponibili capacità tecniche adeguate): fornendo un livello minimo di sicurezza psicologica, essa serve a liberare energie per affrontare i reali problemi della società. (…) Per il fatto di fornire mezzi culturalmente approvati per la risoluzione di conflitti interiori (tra desideri personali e norme culturali), la religione a) riduce la possibilità di distorsioni psicotiche dei desideri, assicurando così alla società membri psicologicamente sani; b) protegge la società dalle conseguenze socialmente dirompenti della diretta gratificazione di questi desideri proibiti; c) promuove l’integrazione sociale fornendo un fine comune (gli esseri super-umani) e un mezzo comune (il rituale) attraverso i quali esaudire i desideri” (pp. 299-300). Più in generale sulle definizioni e sulla stessa definibilità della religione v. Horton 1960; Goody 1961; Bell 1997; Spiro 1966; Lambert 1991; Platvoet, Molendijk 1999; Willaime 1995, pp. 125 sgg. Anche Augé 1980; Anspach et al. 2006).

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Nel testo, l’anno che accompagna i rinvii bibliografici secondo il sistema autore-data è sempre quello dell’edizione in lingua originale, mentre i rimandi ai numeri di pagina si riferiscono sempre alla traduzione italiana, qualora negli estremi bibliografici qui sotto riportati vi si faccia esplicito riferimento.

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